Intorno agli Statuti di Roma del 1363

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Intorno agli Statuti di Roma del 1363
Paola Pavan
Intorno agli Statuti di Roma del 1363
Gli Statuti della città di Roma pubblicati dal prof. avv. Camillo
Re per cura dell’Accademia di Conferenze Storico-Giuridiche vedono
la luce nel 1880, frutto in qualche modo anch’essi di quel rinnovato
interesse per la storia della città che il trasferimento della capitale a
Roma e l’ambizioso programma di « trasferirne la missione universale
nel campo della scienza e della tecnica » avevano innegabilmente
comportato 1.
Se ne coglie una eco già nella prefazione, ove l’autore accenna
alle aspettative createsi tra gli studiosi alla notizia dell’individuazione
di manoscritti inediti contenenti il corpus statutario trecentesco:
La novità dell’obbietto, il ritrovamento inaspettato d’inediti manoscritti,
e la esibizione cortese di altri, dei quali non credevamo poter disporre;
sarebbero state di per sé sole, ragioni validissime per differire la pubblicazione di un lavoro, che per la natura del periodico, e più ancora pel decoro
della città cui si riferiva, avrebbe richiesto maturo e ponderato consiglio.
Ma il desiderio di adempiere con sollecitudine ad una delle più solenni
nostre promesse, e di soddisfare insieme ad un voto dei dotti, le tante volte
fatto, ed in questi ultimi tempi con vivace insistenza ripetuto, ci persuasero
a non protrarre altrimenti la pubblicazione di questo monumento insigne e
sconosciuto, che è il vecchio Statuto di Roma 2.
1
Per l’ampio dibattito apertosi all’indomani del 1870, non solo a livello nazionale, sul ruolo della neonata nazione italiana e sulla “missione universale” di Roma,
v. F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Bari, Laterza, 1990,
pp. 179-323; per il nuovo clima culturale ed il conseguente impulso agli studi sulla
storia della città nel Medioevo, v. R. Morghen, Il Rinnovamento degli studi storici in
Roma dopo il 1870, in Il Centenario della Società, in « Archivio della società romana di
storia patria », C (1977), pp. 31-48 e, nello stesso numero della rivista, i contributi di
R. Manselli, La storiografia romantica e Roma medievale, pp. 49-66; G. Martina, L’apertura dell’Archivio Vaticano: clima generale romano e problemi, pp. 101-112.
2
Statuti della città di Roma, a cura di C. Re, Roma, Tipografia della Pace, 1880
(Biblioteca dell’Accademia storico-giuridica, 1), p. V.
Bollettino della Deputazione di storia patria per l’Umbria,
CXII
(2015), fasc. I-II
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In realtà, procedendo nella lettura dell’Introduzione, si intuiscono
non solo le aspettative, ma anche le rivalità, i contrasti e, non ultimo,
il timore che « un monumento solennissimo di storia patria non fosse
pubblicato, come troppo spesso suole avvenire dai dotti stranieri » 3,
che agitavano sull’una e sull’altra sponda del Tevere la comunità di
storici, dotti e giuristi.
L’attenzione sulla legislazione statutaria romana era stata richiamata dallo studio pionieristico di Vito La Mantia, che nel 1877
aveva pubblicato il saggio Statuti di Roma, dando notizia e un’ampia
descrizione del codice vaticano, già appartenuto a Pietro Millini,
contenente il testo degli statuti trecenteschi della città di Roma 4 e di
un frammento di statuto trovato presso l’Archivio di Stato di Roma.
Di un ulteriore manoscritto vaticano, l’Ottoboniano 1880, l’autore dichiarava di non potere dare una descrizione, in quanto la Biblioteca
Vaticana era in chiusura estiva.
Prontamente, nel recensire il lavoro del La Mantia, la Società
romana di storia patria esprimeva il proposito « di far presto uno
studio comparativo e una ricerca delle fonti » 5.
Nel frattempo, più accurate ricerche avevano portato all’individuazione nella Biblioteca Vaticana di altri tre codici contenenti i
medesimi statuti 6 e la Società romana, nella riunione del 3 dicembre
1878, deliberava di invitare il socio Camillo Re « a preparare una
edizione degli Statuti di Roma » 7.
Poco dopo è l’Accademia di conferenze storico-giuridiche, l’istituzione culturale nata dalle ceneri della così detta Università Vaticana
chiusa nel 1876 8, a proporre al Re la pubblicazione dei medesimi
3
Ivi, p. XV.
V. La Mantia, Statuti di Roma. Cenni Storici, in « La Legge », XVII (1877), pp. 339362. Il manoscritto milliniano all’epoca era conservato nell’Archivio Segreto Vaticano,
con la segnatura Misc. Arm. VI, 96. Fu poi trasferito nella Biblioteca Vaticana, nel fondo
Vat. Lat. 11923. Sull’argomento, il La Mantia tornerà più tardi con un articolo di più
ampio respiro, Idem, Origini e vicende degli Statuti di Roma, in « Rivista Europea », X
(1879), vol. XII, fasc. III, pp. 429-462.
5
In « Archivio della società romana di storia patria », I (1878), p. 503.
6
Si tratta dell’Ottoboniano lat. 1880, di cui aveva già dato notizia il La Mantia
che non aveva potuto però consultarlo, del Vat. lat. 7308 e dell’Ottoboniano lat. 741,
descritti da Camillo Re in Statuti della città di Roma, pp. XVII-XXXII.
7
Atti della Società, in « Archivio della società romana di storia patria », II (1878),
p. 383.
8
C. Fantappiè, Chiesa romana e modernità giuridica, Milano, Giuffrè, 2008,
pp. 131, 232-235.
4
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statuti « nelle prime dispense del periodico che l’Accademia divisava
di fondare ». È lo stesso Camillo Re che ce ne dà notizia, aggiungendo:
Accettai di buon grado, in quanto che parendomi da un lato più probabile il buon successo dell’opera, per gli aiuti onde poteva giovarmi in seno
dell’Accademia, mi confortava dall’altro lato il pensiero che alla illustre Società, che per prima me ne avea fatto l’invito, stava principalmente a cuore
che un monumento solennissimo di storia patria non fosse pubblicato, come
spesso avviene, dai dotti stranieri 9.
In realtà, nel clima ancora acceso di quegli anni, che conobbero
la forte contrapposizione tra laici e clericali, la scelta di campo dovette essere tutt’altro che indolore se, negli atti della Società romana
di storia patria, troviamo che nella riunione del consiglio del 13
dicembre del 1879 il segretario legge la « lettera scritta dal prof. Re
per presentare le sue dimissioni non parendo a lui conciliabili i suoi
doveri di socio con l’ufficio di direttore del nuovo periodico dell’Accademia storico-giuridica. Le dimissioni sono accettate » 10.
Negli stessi anni in cui il dibattito su Roma capitale del Regno
andava risvegliando l’interesse storico sulle istituzioni municipali
in età medievale, il comune di Roma poneva mano al progetto di
riunificazione delle serie archivistiche già appartenenti al Comune,
istituendo nel giugno del 1878 una prima commissione per il riordino
degli archivi comunali 11 e, nel 1883, una seconda commissione, composta da studiosi di prestigio come Terenzio Mamiani, Gaspare Finali, Oreste Tommasini, Giovanni Battista de Rossi, Michele Amadei
e Camillo Re 12. Nella relazione programmatica presentata al Consiglio
comunale dalla commissione leggiamo:
Riordinati i documenti con nuovi metodi di classificazione [...], i nostri
archivi [...] non saranno ancora veramente degni di un’antica e gloriosa
città. Perché [...] sia integro e ordinato il patrimonio delle memorie che i
posteri hanno diritto di ricevere da noi, è d’uopo che l’Amministrazione
comunale faccia fare sapienti e accurate investigazioni negli Archivi di Stato
9
Statuti della città di Roma, p. XV.
Atti della Società, in « Archivio della società romana di storia patria », III (1879),
p. 517.
11
Archivio Storico Capitolino (ASC), Verbali delle deliberazioni del Consiglio,
seduta del 7 giugno 1878.
12
Ivi, seduta del 17 luglio 1883.
10
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e dei Comuni, in quelli dei notari, in quelli delle vicine nazioni, e quando
abbia un elenco di documenti riguardanti la nostra vita comunale altrove
dispersi, con volontà pertinace, con energia duratura, chieda e torni a chiedere gli originali che può ottenere ad acquistare, o le copie di quelli che
non si possono avere [...] 13.
A distanza di poco meno di un anno, quasi a voler dare una
prima risposta concreta a questo voto, la Giunta Comunale autorizzava l’acquisto dall’avv. Francesco Zava di Oderzo, per la somma
di 2.000 lire, di un codice manoscritto contenente gli antichi statuti
cittadini del 1363, da aggiungere alle serie documentarie dell’Archivio
Capitolino 14, ove, non senza una certa disinvoltura dal punto di vista
archivistico, il manoscritto fu inserito tra i documenti della Camera
Capitolina con la segnatura cred. XV, tomo 45 15.
Il codice capitolino
Il codice, di grande formato, dalla pergamena di fine qualità,
scritto sicuramente a Roma intorno al 1430 in una semigotica libraria
di particolare eleganza, presenta un frontespizio riccamente decorato: una cornice, formata da un nastrino d’oro intorno al quale si
avvolge un tralcio di foglie e boccioli dai vivaci colori accompagnati
da dischetti d’oro, racchiude il testo del prologo che inizia con una
grande O; in basso è raffigurata la lupa nell’atto di allattare i gemelli
(fig. 1). I titolo e i numeri dei capitoli sono rubricati ed ogni capitolo è introdotto da un’iniziale calligrafica, alternativamente di colore
rosso o blu. Ognuno dei tre libri si apriva con una iniziale decorata,
di cui oggi rimane solo la grande I al f. 30, mentre il motivo della
13
La relazione è allegata al verbale della proposta di deliberazione n. 155 del 20
giugno 1884. Ivi, seduta del 20 giugno 1884. Per l’attività delle Commissioni, v. G. Scano, L’Archivio Capitolino, in « Archivio della società romana di storia patria », CXI (1988),
pp. 385-386; M. Franceschini, L’Archivio storico capitolino e il problema degli strumenti
di ricerca, in Archivi e archivistica a Roma dopo l’unità. Genesi storica, ordinamenti,
interrelazioni, Atti del convegno Roma, 12-14 marzo 1990, Roma 1994 (Pubblicazioni
degli Archivi di Stato, Saggi 30), pp. 280-288; P. Pavan, L’Archivio Storico Capitolino
e la Società romana di storia patria, in « Archivio della società romana di storia patria »,
CXXX (2007), pp. 17-27.
14
ASC, Verbali della Giunta Municipale, seduta del 30 maggio 1885.
15
Per l’Archivio della Camera Capitolina, cfr. Scano, L’Archivio Capitolino,
pp. 397-410; Franceschini, L’Archivio storico capitolino, pp. 278-293.
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cornice, presente nel frontespizio, si ripete all’inizio del III libro degli
statuti. La O dell’incipit, i gemelli al disotto della lupa e l’iniziale
decorata del terzo libro degli statuti 16 sono stati asportati da ignoti
prima dell’acquisto del codice da parte del Comune. Dell’originale
legatura in pelle, si sono conservati in quella moderna di restauro
solo gli otto cantonali metallici polilobati, ciascuno decorato a sbalzo
con due rosette e due Agnus Dei, ed un tenione con motivo floreale
centrato da una raggiera che contiene il monogramma IHS.
Nel testo, agli Statuti del 1363 17, suddivisi in tre libri, preceduto
ciascuno dalla relativa rubrica, fanno seguito nell’ordine, tutti della
stessa mano, riforme statutarie datate al 1429, la bolla di Martino V
del primo febbraio 1425 contenente l’approvazione degli statuti ad
eccezione di un capitolo del libro I, per il quale si dispone l’abrogazione e la sostituzione con un nuovo testo 18, gli Statuti delle gabelle,
i Capitula et ordinamenta Ripe et Ripecte. La mano cambia con i
ff. 113-116, ove sono trascritte, sempre in semigotica libraria, ma dal
corpo più piccolo, tre costituzioni del vescovo di Benevento, Astorgio
Agnesi, vicario e governatore di Roma, del 1442. Infine, ai ff. 117r124v, due mani più tarde, in umanistica corsiva, hanno aggiunto l’una
un gruppo di letture agiografiche per l’Ufficio dei santi Ermagora e
Fortunato, l’altra, più corsiveggiante, l’Ufficio delle festività liturgiche
della Trasfigurazione e della Presentazione di Maria.
Mi sono soffermata sulla descrizione del codice perché fin dai
caratteri estrinseci appare evidente che ci troviamo di fronte ad un
manoscritto statutario che riveste caratteri di ufficialità, certamente
non destinato ad un uso privato ma all’esposizione.
16
Camera Capitolina, cred. XV, t. 45, f. 65v.
A partire dalla pubblicazione di C. Carbonetti Vendittelli, La curia dei magistri
edificiorum Urbis nei secoli XIII-XIV, in Roma nei secoli XIII e XIV. Cinque saggi, a cura di
É. Hubert, Roma, Viella, 1993, p. 16, che segnala una lettera dei Reformatores Urbis
al comune di Terracina del novembre 1360 nella quale si fa riferimento alla « forma
statutorum novorum », la tradizionale datazione degli statuti al 1363, proposta ed argomentata da Camillo Re alle pp. XXXIII-LIX del saggio introduttivo all’edizione degli Statuti
della città di Roma, è stata pressoché unanimemente anticipata, nei vari studi storici, al
1360. Personalmente, preferisco attenermi alla datazione tradizionale, che trova conferma
nel capitolo CLIII del libro I del codice capitolino di cui stiamo trattando, che riporta
in modo esplicito la data di approvazione. Per il testo del capitolo, v. di seguito, in
corrispondenza della nota 36.
18
Si tratta del libro I, capitolo XX, f. 13 del codice capitolino, De diffidato pro crimine et diffidato civiliter, capitolo XII dell’edizione Re: Statuti della città di Roma, p. 10.
17
ASC,
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Ignoriamo cosa fosse rappresentato all’interno della grande O
asportata dall’incipit del prologo, forse una città turrita con lo stendardo col motto SPQR, o, come è stato ipotizzato, lo stemma del
comune di Roma 19, certo, comunque eloquente è l’immagine della
lupa, se pur mutila dei gemelli, inserita come simbolo della città 20.
Il riferimento iconografico, infatti, si discosta dal modello della lupa
bronzea che, priva di gemelli, all’epoca della stesura del codice era
collocata sulla torre degli Annibaldi, nel lato nord della piazza del
Laterano, davanti al transetto della basilica, ove presiedeva alle punizioni e alle esecuzioni capitali, come simbolo della giustizia papale 21.
L’immagine del codice capitolino sembra invece avvicinarsi piuttosto al simbolo della lupa mater Romanorum, il cui antecedente
iconografico potrebbe essere individuato, come suggerisce Parisi Presicce, nel denario di Sesto Pompeio Fostulo del 137 a.C., all’epoca
già noto ai collezionisti 22. Essa poggia su una zolla erbosa, mostrando
il suo lato destro, con la coda dritta staccata dalle zampe posteriori,
le zampe anteriori leggermente divaricate e la testa rivolta in basso,
verso i gemelli. Una lupa del tutto simile doveva essere raffigurata in
primo piano nella veduta di Roma, con la quale si apriva il registro
19
Il Salimei, che per primo ha studiato il codice ritenendolo copia ufficiale degli
statuti del 1363 redatta ad uso del Senato Romano, ipotizza che vi fosse rappresentato
lo stemma del comune di Roma. A. Salimei, I più antichi “Statuta Urbis” in un codice
capitolino, in « Capitolium », IX (1933), p. 636. L’ ipotesi è avanzata anche da C. Parisi
Presicce, Il recupero filologico dei gemelli, il trasferimento della Lupa dal Laterano in
Campidoglio e il ripristino dell’integrità virtuale, in La Lupa Capitolina, a cura di C. Parisi Presicce, Milano, 2000, p. 109, basandosi sull’analogia con le copie degli Statuta
Urbis emanati da Paolo II nel 1469 ed editi a Roma da Ulrich Han nel 1471.
20
È stato notato come la lupa del Laterano (poi Lupa Capitolina), simboleggiasse
soprattutto la giurisdizione del papa, mentre il simbolo di giustizia del Comune era il
leone. Il frammento scultoreo del leone che sbrana un cavallo era infatti collocato in
Campidoglio, in prossimità del luogo ove veniva esercitata la giustizia e venivano eseguite le condanne da parte del Comune. « Nella contrapposizione tra i due animali come
emblemi si è voluta vedere un’espressione del contrasto tra Guelfi e Ghibellini, nella
Roma medievale »: A. Nesselrath, Simboli di Roma, in Da Pisanello alla nascita dei Musei
Capitolini. L’antico a Roma alla vigilia del Rinascimento. Catalogo della mostra a cura di
A. Cavallaro e E. Parlato, Milano, A. Mondadori - Roma, De Luca, 1988, pp. 195-205.
Per le valenze politiche dell’impiego dei simboli del leone e della lupa v. M. Miglio,
Il leone e la lupa. Dal simbolo al pasticcio alla francese, in « Studi Romani », XXX, 2
(aprile-giugno 1982), pp.177-186.
21
R. Magrì, La lupa Capitolina dal Laterano al Campidoglio, in Da Pisanello alla
nascita dei Musei Capitolini, pp. 207-230, in particolare pp. 207-208.
22
Parisi Presicce, Il recupero filologico dei gemelli, pp. 95-107 e scheda n. 26
p. 109.
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della sesta età del mondo nel ciclo di affreschi della sala theatri di
palazzo Orsini a Monte Giordano.
Eseguito da Masolino da Panicale per il cardinale Giordano
Orsini con ogni probabilità tra il 1430 ed il 1432, il ciclo di affreschi, raffigurante le sei età della storia dell’umanità attraverso le
immagini degli uomini più illustri da Adamo a Tamerlano, secondo
uno schema riconducibile allo Speculum historiale di Vincenzo di
Beauvais, andò distrutto probabilmente nel 1485, quando « palatium
Ursinorum in Monte Iordano captum, combustum disrobatumque
pro aliqua parte fuit » 23, ma ne restano testimonianze tanto scritte che
figurative in una serie di codici che ne hanno consentito la ricostruzione iconografica e artistica 24. In uno di questi, noto come Codice
Morbiano della collezione Crespi di Milano, opera di Leonardo di
Besozzo, databile al quarto decennio del XV secolo, troviamo, nella
grande pianta di Roma che introduce la sesta età del mondo, in
basso a sinistra, a raffigurare le origini mitiche della città, una lupa
praticamente identica a quella del codice capitolino, mentre, in posizione simmetrica, all’interno della cerchia muraria, in alto a destra,
23
Diario della città di Roma di Stefano Infessura scribasenato, nuova edizione a cura
di O. Tommasini, Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo, 1890 (Fonti per la
Storia d’Italia, 5), p. 189.
24
Due manoscritti, l’uno quattrocentesco che inizia « In Pallacio Rome cardinalis
de Ursinis subscriptae etates depictae sunt », conservato nella Württenbergische Landesbibliothek di Stoccarda, l’altro copia cinquecentesca, conservato nella biblioteca della
Fraternità di S. Maria di Arezzo (pubblicati da W. A. Simpson, Cardinal Giordano Orsini
(d. 1438) as a prince of the church and a patron of the arts: a contemporary panegyric
and two descriptions of the lost frescoes in Monte Giordano, in « Journal of Warburg and
Courtauld Institutes », XXIX (1966), pp. 135-159), descrivono l’intero ciclo, consentendo
di identificare negli affreschi di Monte Giordano il modello cui ha attinto un gruppo
di codici quattrocenteschi, raffiguranti serie di “uomini illustri” delle sei età del mondo.
Si tratta della Cronaca della collezione Crespi di Milano (già codice morbiano), miniata
dal lombardo Leonardo di Besozzo, del Libro degli uomini illustri del Fondo Corsini
del Gabinetto Nazionale delle Stampe di Roma, che riproduce in forma esclusivamente
grafica alcune parti del ciclo, del codice Cockerell, oggi smembrato, e del manoscritto
Varia 102 della Biblioteca Reale di Torino. Sul tema degli affreschi di Monte Giordano e dei codici sopra menzionati esiste una vasta bibliografia, per la quale si rinvia a
A. M. Mignosi Tantillo, “Uomini famosi”: committenze Orsini nel Lazio durante il ’400,
in Bracciano e gli Orsini. Tramonto di un progetto feudale. Catalogo della mostra a cura
di A. Cavallaro, A. M. Mignosi Tantillo, R. Siligato, Roma, De Luca, 1981, pp. 13-27;
L. Scalabroni, Masolino a Montegiordano: un ciclo perduto di “uomini illustri”, in Da Pisanello alla nascita dei Musei Capitolini, pp. 63-72; S. Maddalo, In figura Romae. Immagini
di Roma nel libro medievale, Roma, Viella, 1990, pp. 170-183.
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sulla meta Romuli sventola col suo rosso acceso lo stendardo con il
motto del comune romano 25 (fig. 2).
Una identità e una sincronia di temi iconografici che, se da un
lato conferma l’importanza del ciclo pittorico di Monte Giordano,
con il suo esplicito riferimento alla funzione provvidenziale di Roma
nello sviluppo della storia dell’umanità (e non è un caso che la
sesta età, iniziata con la lupa, termini con i due pontefici romani
Niccolò III e Bonifacio VIII), dall’altro rinvia a quel particolare clima
politico istituzionale che l’avvento del pontificato di Martino V aveva
determinato nella Roma del primo Quattrocento.
Ci troviamo, infatti, di fronte ad un raro momento di coincidenza
di interessi e di collaborazione tra i ceti dirigenti cittadini, che, superata la tradizionale divisione tra le classi dei milites e dei pedites,
dei nobiles e dei populares, avevano ormai costituito una nuova oligarchia di censo capace di controllare le istituzioni municipali 26, e il
papato, che, reduce dal Grande Scisma e dal Concilio di Costanza,
si trovava nella necessità di rinsaldare la propria autorità. Tanto la
nuova classe dirigente, infatti, che il pontefice condividono l’esigenza
di pacificazione ma, soprattutto, quella di legittimazione, sia all’interno della città che nel più ampio scenario politico internazionale,
legittimazione che trova nella dimensione ideale della “romanità” il
suo strumento più efficace 27.
Eloquenti, a questo proposito, sono il risorgere del mito del
principe giusto, del pater patriae, del restaurator Urbis, utilizzato
dalla pubblicistica umanistica e curiale sulla traccia svetoniana della
25
Anche l’immagine di Roma che compare nel foglio della Cronaca Cockerell
conservato nel Metopolitan Museum di New York presenta, nella stessa posizione, una
lupa che allatta i gemelli assolutamente simile. L’immagine, pubblicata da C. Westfall,
L’invenzione della città, Roma, Carocci, 1984, p. 174, è anche consultabile sul sito internet del Metropolitan Museum.
26
Per la composizione sociale della classe dirigente municipale nel periodo esaminato, v. M. Franceschini, “Populares, cavallarocti, milites vel doctores”. Consorterie, fazioni e
magistrature cittadine, in Alle origini della nuova Roma. Martino V (1417-1431). Atti del
Convegno Roma 2-5 marzo 1992, a cura di M. Chiabò, G. D’Alessandro, P. Piacentini,
C. Ranieri, Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo, 1992 (Nuovi Studi Storici,
20), pp. 290-300 e bibliografia citata; A. Modigliani, Continuità e trasformazione dell’aristocrazia municipale romana nel XV secolo, in Roma medievale. Aggiornamenti, a cura di
P. Delogu, Firenze, All’insegna del Giglio, 1998, pp. 267-269.
27
P. Pavan, “Inclitae urbis Romae iura, iurisdictiones et honores”: un caso di damnatio memoriae?, in Alle origini della nuova Roma, pp. 301-309.
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biografia di Augusto 28, per esaltare il papa Colonna, ma anche la riaffermata consapevolezza, in ambito municipale, che la potestà di legiferare risiede direttamente nel popolo Romano, come esplicitamente
ricorda Niccolò Signorili, secretarius incliti Magistratus almae Urbis,
nel suo De iuribus et excellentiis urbis Romae, scritto nel 1425 per
incarico dei conservatori della Camera Capitolina e dedicato a Martino v, il quale, come si evince dallo stessa proemio dell’autore, era
in realtà il vero committente dell’opera 29. E se da un lato il Signorili
tiene a precisare l’assoluta peculiarità della città di Roma, « Respublica civitatis Romae in territorio urbis habet omnia privilegia fiscalia
que ante imperii traslationem habebat in toto orbe et in hoc differt
a re publica [...] aliarum civitatum et a re publica imperii », dall’altra
fornisce la piena legittimazione del potere pontificio « Bene quidem
concluditur ex premissis, [...] totum orbem terrarum esse Romanae
iurisditioni subiectum, tam in spiritualibus quam in temporalibus » 30.
È in questo quadro di reciproca legittimazione e di pacificazione,
in un contesto ideologico e giuridico che fonde diritto romano e consuetudine, diritto canonico ed erudizione umanistica, storia romana e
tradizione municipale, che va inserita l’iniziativa presa da Martino v
nel 1425 di por mano alla legislazione statutaria romana, emendando
« adiecta debita moderatione », il capitolo del libro i De diffidato pro
crimine et diffidato civiliter 31 e riconoscendo, al tempo stesso, la legittimità giuridica dei vigenti statuti comunali: « in ceteris vero prefati
28
M. G. Blasio, Radici di un mito storiografico: il ritratto umanistico di Martino,
ivi, pp. 11-124.
29
Del testo del Signorili, parzialmente edito da R. Valentini-G. Zucchetti, Codice
topografico della città di Roma iv, Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo, 1963
(Fonti per la Storia d’Italia, 91), pp. 102-208, la maggior parte dei manoscritti del xvi
e xvii secolo, alcuni dei quali recano il titolo Descriptio urbis Romae eiusque ecellentiae, riportano solo la parte riguardante la descrizione di Roma e la silloge epigrafica.
Letto nella sua interezza, il testo completo è di grande interesse per cogliere umori e
aspettative della classe dirigente romana durante il pontificato di Martino v nonché i
presupposti giuridici dell’ideologia municipale. In proposito si vedano M. Franceschini,
“Populares, cavallarocti, milites vel doctores”, pp. 290-292; P. Pavan, I fondamenti del
potere: la legislazione statutaria del Comune di Roma dal xv secolo alla Restaurazione, in
Il Comune di Roma. Istituzioni locali e potere centrale nella capitale dello Stato Pontificio,
a cura di P. Pavan, in « Roma moderna e contemporanea », iv (1996), pp. 322-323.
30
Pavan, “Inclitae urbis Romae iura, iurisdictiones et honores”, pp. 304-305.
31
Nel codice capitolino, al libro i, la rubrica reca il numero 20 asc, Camera Capitolina, cred. xv, t. 42, f. 97; nell’edizione di C. Re, il numero xii: Statuti della città
di Roma, p. 10.
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Statuti clausulis et particulis per presentes in aliquo derogare minime
intendimus, sed eas in sui roburis firmitate permanere » 32.
In questo stesso quadro e nello stesso torno di anni viene eseguito, con i caratteri di solennità ed ufficialità che abbiamo visto, il
manoscritto degli Statuta Urbis dell’Archivio Capitolino, che non a
torto il Salimei ipotizza come redatto ad uso del Senato Romano 33.
Le varianti testuali tra questo codice ed i manoscritti, tutti ad uso
privato, utilizzati da Camillo Re per la sua edizione, non sono molte
e sono per lo più di carattere ortografico e lessicale, ma in alcuni casi
sono sostanziali e mostrano che per esemplare il codice capitolino ci
si è serviti di una copia diversa, con buona probabilità più vicina al
testo ufficiale della redazione statutaria del 1363. In particolare, mi
riferisco al passo del prologo che ci dà la preziosissima notizia della
prassi seguita per la nomina della commissione incaricata di redigere
e approvare i Nova Statuta e a quello del cap. CLIII del libro I, ove
si afferma che la loro pubblicazione è avvenuta nel maggio del 1363.
È solo il codice capitolino, infatti, a riportare che il gruppo dei riformatori statutari, composto dai tre dottori in legge Paolo Vaiani,
Francesco Casali e Cioffuto Cioffuti e da quindici cittadini romani,
in prevalenza giudici e notai 34 , è stato designato « ex deliberatione
privati et generalis Consilii Urbis » 35. Allo stesso modo, nel citato capitolo del libro I De civibus Romanis missis ad regimen alicuius terre,
leggiamo nella sua interezza la clausola finale, riportata solo mutila e
quindi pressoché incomprensibile, negli altri manoscritti:
Additum est et declaratum quod suprascripta tria capitula proxime
precedentia tam ex verbis quam ex mente in futuris dumtaxat negotiis tradant formam. Ad preteritas autem represalias concessas ante publicationem
presentium statutorum novorum que fuit anno millesimo III c LXIII de mense
32
La bolla di Martino V del 1 febbraio 1425 è pubblicata da A. Theiner, Codex
Diplomaticus dominii temporalis S. Sedis. Recueil de documents pour servir à l’histoire
du gouvernement temporel des états du Saint-Siège, Roma, Imprimerie du Vatican, 1862,
III, pp. 289-290. Nel codice della Camera Capitolina, cred. XV, t. 45, è trascritta ai
ff. 97v-98r.
33
Salimei, I più antichi “Statuta Urbis”, pp. 628-636.
34
Il gruppo dei reformatores è esaminato nella sua estrazione sociale e politica da
A. Modigliani, L’eredità di Cola di Rienzo. Gli statuti del Comune di popolo e la riforma
di Paolo II, in A. Rehberg, A. Modigliani, Cola di Rienzo e il Comune di Roma, Roma,
Roma nel Rinascimento, 2004, II, pp. 87-91.
35
ASC, Camera Capitolina, Cred. XV, t. 45, f. 1r.
INTORNO AGLI STATUTI DI ROMA DEL 1363
377
maii citra quo tempore etiam hec forma servabatur non extenduntur cum
de preteritis non sit in eis facta mentio specialis 36.
Altri capitoli, tutti indistamenti comuni tanto ai codici utilizzati
da Camillo Re che al manoscritto capitolino, recano l’impronta e
sembrano conservare l’orgoglio dell’età d’oro del governo popolare,
con le loro disposizioni antimagnatizie e la gelosa difesa delle autonomie comunali, spinta fino al punto di vietare « qualsiasi forma di
conferimento delle cariche comunali da parte di papi, imperatori, e
del popolo stesso (dove mi sembra evidente il richiamo all’investitura
popolare di Cola), che avvenga al di fuori delle complesse procedure
stabilite » dagli Statuti 37.
Stupisce, tuttavia, che se da un lato si siano conservati l’affermazione tutta laica del prologo « expedit Reipublice Romanorum
nova statuta condere et antiqua secundum varietatem temporum et
presentis popularis status in melius reformare » e la prescrizione del
carattere di festività del 20 maggio, « festum de inchoatione presentis status », chiaro riferimento commemorativo della data della presa
del potere di Cola di Rienzo 38, dall’altro non vi siano negli statuti
che poche e incerte tracce di quegli organismi popolari « che pure
sappiamo partecipare attivamente e con un ruolo di predominio
all’ordinamento comunale » 39.
36
Ivi, f. 22v, il corsivo è di chi scrive. Nell’edizione di Camillo Re degli Statuti
della città di Roma, pp. 68-69, il capitolo reca il numero CV e la clausola finale recita:
« Additum est et declaratum quod suprascripta tria capitula proxime precedentia tam
ex verbis quam ex mente in futurum dumtaxat negotiis traddent formam predictam
a. MCCCLXIII de mense maii citra quo tempore hec forma servabatur ». Nella nota al testo,
il Re avverte che la clausola è corrotta nei codici esaminati mentre nell’Introduzione,
alle pp. LI-LV, affrontando il problema della datazione del testo degli Statuti, ne mutua
il senso completo ricorrendo all’analogo capitolo contenuto negli Statuti promulgati da
Paolo II nel 1469.
37
Modigliani, L’eredità di Cola di Rienzo, pp. 97-98.
38
ASC, Camera Capitolina, cred. I, t. 45, libro I, cap. LXXXXVII, De feriis, f. 17v;
Statuti della città di Roma, libro I, cap. LXV, p. 43. Nel libro III, inoltre, si stabilisce
« quod quolibet anno in die XX mensis maii ob memoriam et rememorationem presentis
pacifici status popularis celebretur sollempniter missa Spititus Sancti in ecclesia Sancte
Marie de Araceli »: cap. CLXXIII, f. 90 del citato codice capitolino e cap. CXLIX, p. 283
dell’edizione di Camillo Re. Per l’aperto riferimento al tribunato di Cola di Rienzo e
l’affermazione di continuità tra tale esperienza politica ed il presens pacificus popularis
status, v. Modigliani, L’eredità di Cola di Rienzo, pp. 93-97.
39
M. Franceschini, Dal Consiglio pubblico e segreto alla Congregazione economica: la
crisi delle istituzioni comunali tra XVI e XVII secolo, in Il Comune di Roma, pp. 337-362:
pp. 346-347. Fondamentali a questo proposito sono le osservazioni dell’autore che, ana-
378
PAOLA PAVAN
Anche il gruppo di disposizioni relative alla moderazione delle
esequie, delle doti e dei matrimoni, alla rimozione delle cause e
delle occasioni « odii et inimicitiarum civium romanorum » e allo
sviluppo dell’arte della lana, aggiunte dalla stessa mano in calce agli
statuti trecenteschi, vengono formalmente emanate nel 1418 dai due
Consigli privato e generale del Comune, riuniti alla presenza dei tre
conservatori reggenti per il senatore e dei caporioni 40, e, in quanto
tali, verranno ricompresi nella conferma statutaria di Martino v del
1425 41.
Più tardi, una seconda mano aggiunge al codice capitolino tre
costituzioni del vescovo di Benevento Astorgio Agnesi, vicecamerario
di Eugenio iv, vicario generale e governatore di Roma, emanate nel
1442 a conferma del precedente corpus statutario, ivi comprese le
norme suntuarie del 1418, e a riforma di alcuni capitoli relativi alla
giurisdizione civile e alle norme carcerarie 42. Provvedimenti presi perché troppo spesso le norme statutarie venivano disattese, come « pluries et sepius nobis extiterit querelatum », rendendo necessario « dicte
abusioni perverseque consuetudini obviare et ipsorum statutorum
observantie [...] de oportuno iuris remedio obviare », ma comunque
presi al di fuori della corretta prassi costituzionale. Certo, si dispone
che tali provvedimenti vengano registrati « de verbo ad verbum in
volumine Statutorum Urbis », e che ad essi venga data la massima
lizzando gli organi rappresentativi cittadini a partire dal senatorato di Brancaleone degli
Andalò, giunge a formulare l’ipotesi che a Roma esistesse una entità populus distinta
dal Comune, con propri ordinamenti e magistrature. Per considerazioni e aggiornamenti
bibliografici sul tema, v. S. Notari, Sullo “statuto antico” e le consuetudini scritte del
Comune di Roma. Note storico-giurdiche, in “Honos alit artes”. Studi per il settantesimo
compleanno di Mario Ascheri, ii, Gli universi particolari. Città e territori dal medioevo
all’età moderna, a cura di P. Maffei, G. M. Varanini, Firenze, Firenze University Press,
2014, pp. 107-117.
40
asc, Camera Capitolina, Cred. xv, t. 45, ff. 92r-97r; i conservatori, in carica nel
primo trimestre del 1418, sono Giovanni Baroncelli, Egidio Sansa e Lorenzo Ognisanti.
Per questo gruppo di ordinamenti, v. M. Miglio, Cortesia romana, in Alle origini della
nuova Roma, pp. 311-328: p. 322-326; per gli ordinamenti relativi alle esequie, v. I. Lori
Sanfilippo, Morire a Roma, in Alle origini della nuova Roma, pp. 603-623: pp. 620-623
e A. Esposito, La normativa suntuaria Romana tra Quattro e Cinquecento, in Economia
e società a Roma tra Medioevo e Rinascimento. Studi dedicati ad Arnold Esch, Roma,
Viella, 2005, pp. 147-179.
41
Non a caso le norme suntuarie sono spesso definite sinteticamente Leggi di
Martino v: ivi, p. 150, nota 9.
42
asc, Camera Capitolina, Cred. xv, t. 45, ff. 112r-115.
INTORNO AGLI STATUTI DI ROMA DEL 1363
379
pubblicità 43 mentre, per quanto riguarda le norme suntuarie, per facilitarne la comprensione, si usa il volgare, ma il clima di intesa tra
le istituzioni cittadine e il governo centrale appare ormai incrinato.
Scrive Isa Lori Sanfilippo: « Il camerario si rivolge al senatore, ai
conservatori della Camera e agli ufficiali comunali: siamo ben lontani
dal momento in cui erano i due consigli a regolamentare i funerali,
anche se sono passati solo ventiquattro anni » 44.
Ventisette anni più tardi, nel 1469, Paolo II, prendendo atto
dell’evoluzione avvenuta all’interno della società romana e della
confusione ingenerata dallo stratificarsi di vecchie e nuove norme
all’interno del corpus statutario, promuoverà una nuova redazione
degli statuti (fig. 3).
La procedura adottata per i nuovi statuti è ampiamente descritta
nel prologo: il pontefice, dopo aver sottoposto gli antichi statuti
all’esame della Camera Apostolica, ha incaricato una commissione,
formata dai tre conservatori, dal priore dei caporioni, da tre famosissimis doctoribus, da due prelati e da cinque cittadini romani, di
procedere alla necessaria revisione. La commissione, al termine dei
lavori, sottopone il nuovo testo all’esame del protonotaro apostolico e
dei vescovi Angelo Fasolo, Pietro de Urrea e Giovan Battista Millini,
che riferiscono direttamente al pontefice. Ottenuta l’approvazione, i
nuovi statuti vengono deliberati dal consiglio del popolo Romano ed
infine ratificati da Paolo II 45.
43
« Et presens nostrum decretum registrari mandamus in libris vestri officii et in
statutis Urbis et affigi in valvis dicte cancellarie ibidem perpetuo manendo et per aliquem exinde non removendo sub pena amputazionis manus », ivi, f. 114r.
44
Lori Sanfilippo, Morire a Roma, p. 623.
45
ASC, Camera Capitolina, cred. IV, t. 88, Statuta alme Urbis Rome edita sanctissimo
domino nostro Paulo II pontifice maximo imperante, f. 1. Il codice, descritto da A. Lanconelli, Manoscritti statutari Romani. Contributo per una bibliografia delle fonti statutarie
dell’età medievale, in Scrittura, biblioteche e stampa a Roma nel Quattrocento. Atti del 2°
seminario 6-8 maggio 1992, Città del Vaticano, Scuola Vaticana di Paleografia, Diplomatica, Archivistica, pp. 305-321: pp. 311-316, è l’unico esemplare manoscritto noto degli
Statuti del 1469. Come risulta dall’explicit al f. 175v, fu esemplato nel 1486 da Oddo
de Beka alamannus de Bragantia probabilmente su incarico del Comune, per essere
utilizzato come copia ufficiale, come si evince sia dal frontespizio, finemente decorato
a bianchi girari e recante in alto gli stemmi del senatore, del pontefice e del Comune,
e, in basso, dei tre conservatori, che dalle annotazioni di esibizione in giudizio, che si
protraggono fino al 1519. Il codice presenta una lezione più corretta di quella contenuta
negli incunaboli stampati probabilmente a Roma da Hulrich Han nel 1471, del quale
sono noti attualmente una decina di esemplari.
380
PAOLA PAVAN
Con grande cautela quindi, « paucis notorie reipublice evidenter
utilibus additis et declaratis et aliquibus tempori non convenientibus
amotis », rispettando formalmente quanto più possibile il dettato
e la struttura degli antichi statuti, di cui si riporta quasi letteralmente l’inizio del prologo, con il suo incipit « Omnis etas » 46, vengono limate dal testo le allusioni più esplicite allo stato popolare,
come ad esempio la festa del 20 maggio che si converte in festa di
s. Bernardino da Siena, e vengono apportate innovazioni sostanziali
all’ordinamento comunale, come lo svuotamento di potere politico e
decisionale del Senatore, che vede restringere le proprie competenze
quasi esclusivamente all’ambito giudiziario, a tutto vantaggio del
ruolo dei conservatori, esponenti dei ceti sociali giunti al potere, e
dei loro diretti collaboratori, i caporioni 47.
Evidente è la preoccupazione di di non rompere quella continuità ideale con il passato, che si è dimostrata indispensabile per la
legittimazione reciproca tanto dei ceti emergenti in ambito municipale che dei pontefici in ambito “internazionale”. Ne discende, come
giustamente osserva Anna Modigliani, che
[...] la situazione politica consolidatasi nel Quattrocento non va considerata come il risultato della volontà unilaterale dei pontefici, affermatasi in
seguito alla vittoria sulla municipalità romana, ma più dialetticamente come
il frutto dei patteggiamenti e dei compromessi tra il gruppo dirigente cittadino (che ereditava comportamenti economici, costumi e riadattate ideologie
dei populares trecenteschi) e i “nuovi” signori di Roma 48.
Per gli Statuta Urbis di Paolo II si mobilitano anche i torchi
della neonata arte della stampa e una rara edizione viene realizzata a
Roma, probabilmente da Ulrich Han (Uldaricum Gallum) nel 1471 49.
46
Per un raffronto delle principali varianti tra gli statuti del 1363 e quelli di
Paolo II, v. Modigliani, L’eredità di Cola di Rienzo, pp. 159-163.
47
Per alcuni esempi su come la commissione statutaria nominata da Paolo II,
composta dai tre conservatori, dal priore dei caporioni, da otto giuristi e avvocati
romani e da due prelati, abbia tecnicamente provveduto ad introdurre sostanziali
riforme senza modificare apparentemente alcuni capitoli, v. Pavan, I fondamenti del
potere, pp. 324-327.
48
Modigliani, L’eredità di Cola di Rienzo, pp. 113-114.
49
Per la datazione e l’attribuzione dell’edizione dell’incunabolo, privo di note
tipografiche, a Ulrich Han, v. G. B. Audiffredi, Catalogus historico-criticus romanorum
editionum saeculi XV, Romae, ex Thipographio Paleariano, 1783, p. 70; L. F. T. Hain,
Repertorium bibliographicum in quo libros omnes ab arte typographica inventa usque ad
INTORNO AGLI STATUTI DI ROMA DEL 1363
381
Uno dei pochissimi esemplari che se ne sono conservati, acquistato nel 1892 dalla Biblioteca del Senato 50, presenta un raffinato
frontespizio con la grande O dell’incipit inserita in un quadrato di
rosso, oro e azzurro, sormontato dalla lupa che allatta i gemelli.
All’interno della lettera O campeggia lo stemma del comune di Roma
in rosso e oro, con la scritta spqr sullo scudo coronato. Lungo il lato
sinistro, un elegante fregio a motivi floreali completa la miniatura
(fig. 4).
È evidente che anche la decorazione del codice sembra voler riaffermare la continuità con la tradizione precedente e rassicurare, in
qualche modo, che i nuovi statuti sono in assoluta continuità con gli
antichi. Nel patto di reciproca legittimazione, ormai quasi indissolubile, stretto tra la nuova classe dirigente romana e il potere centrale,
il punto di incontro avviene proprio sul terreno statutario: da un lato
il pontefice, nell’introdurre nuove norme, si impegna a riconoscere la
legittimità delle antiche consuetudini municipali, dall’altro, le autorità
cittadine, nell’ordinare la trascrizione nel corpus statutario delle disposizioni pontificie, assicurano il loro consenso e l’osservanza delle
norme da parte del popolo romano 51.
Eppure, un piccolo dettaglio tradisce il nuovo clima politico e il
profondo mutamento in atto: la lupa che è rappresentata ad introdurre, come simbolo di municipalità, gli Statuti emanati da Paolo ii
non è più, come la lupa Romanorum miniata nel frontespizio del
codice capitolino, il simbolo tutto laico dell’età repubblicana, ma
è la lupa capitolina, l’antico simbolo della giustizia pontificia, che
traslato dal Laterano al Campidoglio insieme ad altre statue antiche
come dono del pontefice Sisto iv alla città, proprio dal 1471 viene
esposta sulla facciata del palazzo dei Conservatori in Campidoglio 52.
Basta osservare alcuni particolari: l’animale mostra il suo lato sinistro,
la schiena è dritta, la coda, appena incurvata, si distanzia di poco
annum md typis impressi ... recenserunt, Stuttgartiae-Lutetiae Parisiorum, sumptibus J. C.
Cottae et Jules Renouard, ii, 1838, n. 15019.
50
Si tratta dell’incunabolo n. 26 della collezione di Statuti della Biblioteca del Senato, descritto nel Catalogo della raccolta di statuti posseduti dalla Biblioteca del Senato,
a cura di C. Chelazzi, G. Pierangeli e S. Bulgarelli, Roma, 1942, vi, pp. 121-124. Per
la trattativa d’acquisto con la casa d’aste di Giuseppe Sangiorgi, vedi M. T. Bonadonna
Russo, Storia della Biblioteca del Senato (1848-1950), Roma, Senato della Repubblica,
2005, p. 98.
51
Pavan, I fondamenti del potere, pp. 325-328.
52
Nesselrath, Simboli di Roma, pp. 200-202; La Lupa capitolina, p. 304.
382
PAOLA PAVAN
dalle zampe posteriori, in una postura del tutto simile a quella della
lupa bronzea.
Mentre i torchi di Ulrich Han erano intenti a stampare gli Statuta
Almae Urbis Romae di Paolo II, con buone probabilità il manoscritto
capitolino contenente gli Statuti del 1363 stava prendendo la via del
nord.
Benché, come abbiamo visto, si trattasse di una copia ufficiale,
nessuna nota in calce presenta annotazioni di esibizioni in giudizio,
come invece notiamo in un altro manoscritto capitolino, quello contenente gli statuti di Paolo II del 1469, che continuò ad essere esibito
fino al 1519 53.
Il nostro codice degli Statuta Urbis del 1363, invece, benché
copia ufficiale, non reca tracce di esibizioni e nei fogli membranacei
restati in bianco presenta aggiunte inusuali: il Lezionario dei SS. Ermagora e Fortunato 54, festività che ricorreva il 12 luglio, seguito dal
testo in forma integrale o per incipit dell’Ufficio di due altre festività
liturgiche, la Trasfigurazione (6 agosto) 55 e la Presentazione di Maria
al Tempio (21 novembre) 56.
Si tratta di testi agiografici che ci portano in un’area geografica
ben precisa e circoscritta, quella del Patriarcato di Aquileia, città
di cui i santi martiri Ermagora e Fortunato sono patroni e di cui,
secondo la tradizione, Ermagora fu protovescovo 57. La scrittura, una
umanistica corsiva di due diverse mani, è databile alla fine del XV primi del XVI secolo, epoca nella quale il manoscritto doveva aver già
lasciato Roma e trovarsi nel territorio aquilegiense.
Forse, vi fu portato da quello stesso Angelo Fasolo, nel 1468
vecovo di Feltre e presidente della Camera Apostolica, che troviamo
tra i reverendi patres incaricati da Paolo II dell’approvazione finale
del testo degli Statuti del 1469. Il Fasolo, infatti, dal 1472 al 1476
governò il patriarcato di Aquileia in sostituzione di Marco Barbo,
occupandosi sia della riforma spirituale della sua diocesi, sia di una
53
Per tale manoscritto, che reca la segnatura ASC, Camera Capitolina, cred. IV, t. 88,
v. sopra, n. 45.
54
ASC, Camera Capitolina, cred. XV, t. 45, ff. 117r-120r.
55
Ivi, ff. 120v-122r.
56
Ivi, ff. 122v-124v.
57
Bibliotheca hagiographica latina antiquae et mediae aetatis, ediderunt Socii Bollandiani, Bruxellis, [Société des Bollandistes] 1898-1899, pp. 571-572.
INTORNO AGLI STATUTI DI ROMA DEL 1363
383
serie di incombenze relative all’organizzazione finanziaria e politica,
sanando anche conflitti di competenze con i comuni del territorio 58.
Nel 1885, dopo oltre quattrocento anni, il manoscritto contenente Gli Statuta Urbis del 1363 torna a Roma, venduto al Comune
dall’avv. Francesco Zava di Oderzo, che si era occupato della liquidazione della biblioteca dei signori Amalteo di Oderzo, della quale
probabilmente faceva parte il nostro codice 59.
Alla comunità scientifica fu data prontamente notizia dell’acquisto del manoscritto degli Statuti trecenteschi di Roma dal periodico
della Società Romana di Storia Patria, che ne sottolineava il pregio e
la completezza del testo 60, mentre una prima descrizione del codice
venne pubblicata da Sigismondo Malatesta, nell’introduzione agli Statuti delle Gabelle di Roma, edito nel 1886 per cura dell’Accademia
di Conferenze storico-giuridiche:
Recentemente poi il comune di Roma ha acquistato un bellissimo
codice membranaceo, legato in pelle, proveniente da Oderzo e posseduto
dalla famiglia Porcia. Contiene la legislazione civile del secolo XIV sino
alle riforme edite da Eugenio IV. Infatti principia coll’antico statuto della
città (ff. 1-91); seguono gli ordinamenti e le prescrizioni sulle esequie,
sulle contestazioni fra cittadini, sull’arte della lana, sulle parentele, editi
sotto Martino V (ff. 92-97), lo statuto del Gabelliere (ff. 97-105); gli statuti
di Ripa e Ripetta (ff. 106-111), e le riforme degli statuti civili e criminali
dei tempi di Eugenio IV (ff. 112-115). La scrittura è bellissima e propria
dell’epoca; solo in ultimo si trovano con carattere molto posteriore aggiunte, completamente estranee agli statuti, che trattano di cose liturgiche.
58
Su questo prelato, amico di umanisti e possessore di una biblioteca molto lodata
dai contemporanei, v. P. Cherubini, Fasolo, Angelo, in Dizionario biografico degli italiani,
Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, XLV, 1995, pp. 249-254.
59
Scrive in proposito R. Lepido, Motta di Livenza e i suoi dintorni. Studio storico,
Treviso, Tip. Lit. Sociale, 1897, rist. anast. Sala Bolognese, Forni, 1976, p. 342, n. 2:
« La importantissima biblioteca Amalteana cominciò ad andare dispersa da vent’anni
fa. “Codici, cimelii, incunabili e pergamene – ci scrive gentilmente il chiarissimo cav.
Francesco Zava di Oderzo – furono venduti al celebre bibliofilo Piot di Parigi fin dal
1874. Un codice preziosissimo, Statuta almae Urbis, fu venduto nel 1887 (sic) al comune
di Roma [...]” ».
60
« La Giunta comunale di Roma ha acquistato [...] un codice pregevolissimo del
secolo XV contenente gli Statuti di Roma, con maggior numero di rubriche che non si
contenga nel testo già edito [...] L’uniformità e bellezza della scrittura, l’eleganza delle
miniature e lo stato di conservazione in cui si trova fanno riguardare il manoscritto
come altamente pregevole »: in « Archivio della R. Società romana di storia patria », VIII
(1885), p. 633.
384
PAOLA PAVAN
Rapporto a questo esemplare dello statuto (C), la lezione ne è più corretta
che in quello da noi posseduto. La divisione dei capitoli è la medesima, ma
questi non sono numerati, e la prima lettera di ciascuno è per la maggior
parte ornata da un segno alternativamente rosso o turchino [...] 61.
Nonostante tali considerazioni, gli studi successivi continuarono a
prendere in considerazione la sola edizione a stampa di Camillo Re,
anche dopo la pubblicazione, nel 1933, dello studio del Salimei che
lo indicava come l’esemplare più vicino alla lezione dell’originale 62.
Forse, a distanza di tanto tempo, nell’ipotesi di una edizione critica degli Statuti del 1363, sarebbe il caso di tenere nella giusta considerazione anche la lezione del codice capitolino Cred. XV, tomo 45.
61
S. Malatesta, Statuti delle Gabelle di Roma, Roma, Tipografia della Pace di
F. Cuggiani, 1885, pp. 14-15.
62
Salimei, I più antichi “Statuta Urbis”, pp. 628-636.
385
INTORNO AGLI STATUTI DI ROMA DEL 1363
Fig. 1
Statuta Urbis Romae del 1363, Prologo
Roma, Archivio Storico Capitolino, Camera Capitolina, cred.
XV,
t. 45, f. 4r
386
PAOLA PAVAN
Fig. 2
Leonardo di Besozzo, Pianta prospettica di Roma
da Cronaca universale da Adamo a Tamerlano
Milano, Collezione Crespi, f. 6r
INTORNO AGLI STATUTI DI ROMA DEL 1363
Fig. 3
Statuta almae Urbis Romae edita ... Paulo secundo pontifice maximo imperante
Roma, Archivio Storico Capitolino, Camera Capitolina, cred. IV, t. 88, f. 1r
387
388
PAOLA PAVAN
Fig. 4
Statuta Urbis Romae (1471), Biblioteca del Senato, Statuti, inc. 26, c. 9r