SERRA l`insostenibile leggerezza dell`acciaio

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SERRA l`insostenibile leggerezza dell`acciaio
06 Agosto 2007
SERRA
l’insostenibile leggerezza dell'acciaio
New York Al MoMa le installazioni
del maestro americano che piega in forme
flessuose gigantesche lastre di metallo
FIAMMA ARDITI
NEW YORK
IO sono lo spettatore del mio lavoro. Quello che faccio, lo faccio per me stesso». Ha le idee chiare e definite come
le sue opere, Richard Serra, a sessantasette anni. Il Museum of Modern Art (MoMA) gli dedica una retrospettiva con
una selezione di ventisette opere. Durerà fino ai primi di settembre e non viaggerà da nessun altra parte. Del resto
quale museo sarebbe in grado di installare nelle sue sale queste sculture di quasi duecento tonnellate? «Le ultime
tre le ho create apposta per il MoMA», spiega vestito di nero come un guru, capelli bianchi rasati, occhi chiari
perforanti. «Non hanno niente a che fare con quelle del Guggenheim di Bilbao perché ogni contesto ha il suo
complesso ideologico, ogni museo ha la sua autorità». Se qualcuno osa dire che Sequence (2006), fatta di due
spirali connesse, lunghe venti metri l'una suggerisce l'idea di un labirinto, si irrita. «Non avevo affatto quello in
mente», reagisce. «I pezzi, è inevitabile, stimolano il pubblico a interagire, ma non li costruisco per questo».
Chiaro?
Cosa interessa, allora, a Richard Serra? «Quello che mi attrae è lo spazio, vale a dire il contenuto. L’acciaio è solo
la pelle». Se poi al professore di Islamismo, che si aggira al secondo piano del museo tra le linee flessuose di Band,
Sequence, Torqued Torus viene in mente direttamente l'Islam, a Philip Glass la musicalità o a un bambino di sei anni
l'ingresso di una tenda indiana o la prua di una nave, poco importa. Secondo le intenzioni di Serra ognuno ha il
diritto di rintracciare nelle sue forme, anzi nei suoi spazi, il significato che vuole. «Non costruisco le mie opere per
stupire o provocare sensazioni, ma per dare forma allo spazio. Al massimo mi auguro che stimolino pensieri mai
avuti prima».
Lo scopo sembra ambizioso come le loro dimensioni. Per Serra vedere e' un modo di pensare. È convinto, che tutto
quello che esce dalla sue mani ha la forza sufficiente a stimolare anche il più sprovveduto e inerte degli spettatori.
Il primo passo nella creazione di una scultura non è più il disegno, come poteva essere negli anni sessanta,
all'inizio della sua carriera. «Disegnare è avere un'idea», usava dire al tempo, oppure «la scultura è come disegnare
nello spazio». Da anni a questa parte, invece, il primo gesto di ogni sua creazione è un modello di piombo, che
plasma direttamente con le sue mani. Tutto quello che segue fino all'installazione dell'opera nel luogo a cui è
destinata è una serie infinita di passaggi, di cui - ecco finalmente un atto di umanità in tanta rigidezza - lo scultore è
grato ad ognuno, a cominciare dalla moglie che lo assiste («in studio siamo solo in quattro»), per continuare con chi
forgia le forme di acciaio in Germania, fino a Glenn Lowry, direttore del MoMA, che con tutto il suo staff ha reso
possibile questo omaggio direttamente proporzionale alla stima che Serra ha di se stesso.
Più che una mostra questa del MoMA è un evento continuo. Ci sono le dei film relizzati dallo stesso Serra, che
usava la macchina da presa come taccuino d'appunti del viaggio per realizzare le sue opere. Aggirarsi tra le sue
forme, tra questi percorsi suggeriti, ma non obbligati è una esperienza unica nel suo genere. Queste sculture
monumentali sembrano presenze silenziose arrivate da un altro pianeta. Potrebbero respingere, spaventare, invece
nella loro flessuosità invitano a camminarci dentro, fermarsi, stare. Se qualcuno, però, tende una mano a sfiorare
una delle superfici, viene subito respinto dalla raschiosità della ruggine, che continua a dare vita all'acciaio e a
modificarlo nel tempo. Il contrasto tra la morbidezza delle curve e la rigidezza di questa materia quasi ostile crea
una tensione, che rende ognuna di queste forme unica.
Alle superfici concave e convesse Serra era arrivato a metà degli anni novanta con la serie delle Torqued Ellipses di
cui le prime quattro furono realizzate per la DIA, la fondazione creata nel 1974 da Heiner e Philippa de Menil. Dai
suoi modellini di piombo era stato elaborato un programma digitale, CATIA, di cui Serra si serve ancora oggi, per
torcere lastre d'acciaio spesse anche cinque centimetri. Le superfici che ne risultano, invece di essere incombenti,
si snodano verso l'alto o verso l'orizzonte, a suggerire movimento, continuità, apertura all'ignoto, a superare le
barriere tra figurazione e astrazione. Uno stacco netto rispetto ai lavori dei primi anni, selezionati e messi in mostra
al sesto piano del museo. Era l'epoca in cui Serra si esprimeva con spigoli più che curve, forme chiuse e definite,
più che fluttuanti. Usava la gomma, i tubi al neon, la vetroresina, contagiato forse dal lavoro di Dan Flavin e Joseph
Beuys per opere come Plynts o To Lift del 1967. L'acciaio all'epoca gli serviva per creare cubi, lastre, triangoli
(Lead, Delineator, Circuit II), invece che come strumento per dare forma allo spazio. Chi sono stati i suoi maestri?
«Impari da tutta la storia dell'arte», dice, «Quando ho vissuto a Firenze durante gli anni dell'Università, per esempio,
Donatello era il mio maestro, ma lo sono stati anche Goya, Tiziano, Cezanne, Picasso». L'idea-chiave di torcere agli
estremi le lastre di acciaio spesse cinque centimetri, quasi a dissolvere la rigidezza della materia per suggerirne la
continuità nel tempo e nello spazio gli era venuta camminando tra le navate della chiesa di San Carlo, a Roma,
progettata dal Borromini.
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