IL FALLIMENTO SU ISTANZA DEL P.M. - NICOLA PIACENTE

Transcript

IL FALLIMENTO SU ISTANZA DEL P.M. - NICOLA PIACENTE
LA GESTIONE DELLA CRISI DI IMPRESA
IL FALLIMENTO SU ISTANZA DEL P.M.
E IL RUOLO DEL P.M. NELLE ALTRE PROCEDURE
GENOVA 14 MARZO 2014
Nicola Piacente *
Volendo abbandonare per un momento definizioni codicistiche e rammentare nozioni di
insiemistica, si può dare inizio alla disamina della tematica assegnatami dicendo che il ruolo del
pubblico ministero nel settore della crisi di impresa corrisponde ad una intersezione di quattro
insiemi: 1) diritto civile – fallimentare, 2) diritto penale, 3) misure di prevenzione, 4) responsabilità
degli enti ex d.lvo 231/2001. L’intersezione e quindi il ruolo del P.M. hanno un senso nel momento
in cui fungono da cinghia di trasmissione di dati e conoscenze tra le varie macroaree. Il valore
sotteso a tale intersezione è la multidisciplinarietà.
I risultati dell’indagine della Confindustria regionale, confermati da quelli del sondaggio
congiunturale condotto dalla Banca d’Italia presso le imprese industriali con almeno 20 addetti
dicono che nei primi nove mesi del 2013 il fatturato ha subito un calo nel 40 per cento delle aziende
liguri, mentre ha conseguito un aumento nel solo 12 per cento.
Con riferimento alle Imprese attive, iscritte e cessate, nel primo semestre 2012 risultavano iscritte
6.452 nuove aziende, cessate 6.346 aziende, attive in Liguria 142.466.
Nel primo semestre 2013 il dato è peggiorato: 5.777 aziende iscritte, 6.210 cessate, 140.178
operanti sul territorio.
Secondo i dati Cerved Group, nel 2012 hanno dichiarato fallimento in Italia oltre 12.000 imprese, il
9,3 per cento in più della media 2009-2011. Tra il 2009 e il 2012 l’incidenza dei fallimenti è stata
superiore nell’industria manifatturiera, in particolare nei settori tradizionali, e nelle costruzioni.
Sono aumentate anche le liquidazioni delle società di capitale, nel 2012 quasi 43.000, il 14 per
cento in più rispetto alla media 2009-2011
In base a elaborazioni su dati Cerved Group e Infocamere, nel 2012 sono state aperte in Liguria 271
procedure fallimentari a carico delle imprese, il 5,9 per cento in più rispetto all’anno precedente. A
partire dal 2009 i fallimenti sono aumentati con continuità e a un ritmo sostenuto; nel confronto con
il 2008, le istanze di fallimento presentate nel 2012 erano più che raddoppiate.
Nel valutare l’andamento dei fallimenti nell’ultimo decennio occorre considerare gli effetti prodotti
da due interventi normativi, entrati in vigore rispettivamente nel luglio 2006 e nel gennaio 2008.
Tali interventi hanno introdotto criteri dimensionali che, nel complesso, hanno ristretto rispetto al
passato la platea delle imprese potenzialmente interessate dalla procedura fallimentare. Per questa
ragione, il numero dei fallimenti intervenuti tra il 2008 e il 2012 non è immediatamente
confrontabile con quello del periodo precedente. Il ricorso alle procedure fallimentari riguarda
principalmente le società di capitali, forma giuridica cui si riferiscono quasi i tre quarti delle
procedure aperte nel 2012. La quota restante dei fallimenti si ripartisce in maniera sostanzialmente
omogenea tra imprese individuali e società di persone
Da gennaio 2012 a febbraio 2014 alla Procura della Repubblica di Genova sono state comunicate
approssimativamente poco più di 80 procedure di concordato preventivo e 340 sentenze di
fallimento, con significativi aumenti tra il 2012 e 2013. Sono stati instaurati 193 procedimenti
penali per reati fallimentari a carico di persone note nel medesimo periodo. Questo comporta una
incidenza piuttosto alta di incriminazioni per reati fallimentari rispetto alle sentenze di fallimento.
Ancora, tra il 2012 ed il 28.2.2014 sono state avanzate dalla procura della Repubblica oltre 20
istanze di fallimento
Il PM può assumere, rispetto ai procedimenti ex rd 267/1942 il ruolo di richiedente, interventore o
anche un ruolo di mero recettore di comunicazioni. Devono quindi essere chiarite le specifiche
modalità dell'iniziativa (legittimazione, competenza territoriale, onere della prova) che il PM
assuma motu proprio, ma anche di quella che sia chiamato ad assumere quando l'iniziativa privata
desista. Non meno importante è stabilire quale debba essere la condotta del PM dopo la
dichiarazione di fallimento, specialmente con riferimento alle ricadute della procedura concorsuale
sul procedimento penale (comunicazione della sentenza di fallimento, eventuale revoca della stessa,
rapporto con il curatore).
Il P.M. è titolare del potere di iniziativa per richiedere il fallimento (con una richiesta) mentre le
parti private promuovono la procedura del fallimento con un ricorso.
Nell’ambito delle procedure fallimentari il pubblico ministero ha quindi poteri di iniziativa,
legittimati da presupposti e fonti di conoscenza indicati principalmente dalla fallimentare, nonché
dall’art. 63 d.lv 159/2011 (in materia di misure di prevenzione) ma non limitati a tale normativa.
Con riferimento alla legge fallimentare presupposto legittimante l’iniziativa del P.M. è uno stato di
insolvenza (così come determinato ai sensi dell’art. 5 rd 267/1942) risultante:
-
-
nel corso di un procedimento penale, ovvero dalla fuga, dalla irreperibilità o dalla latitanza
dell'imprenditore, dalla chiusura dei locali dell'impresa, dal trafugamento, dalla sostituzione
o dalla diminuzione fraudolenta dell'attivo da parte dell'imprenditore;
dalla segnalazione proveniente dal giudice che l'abbia rilevata nel corso di un procedimento
civile.
L’art.7 rd 267/1942 non prevede l’iniziativa del p.m. nell’ambito del procedimento per
l’applicazione delle misure di prevenzione che non può essere assimilato ad un procedimento civile
o penale (tale ipotesi viene espressamente prevista dal d.lvo 159/2011), né nell’ambito di un
procedimento per l’accertamento dela responsabilità ex d.lvo 231/2001.
Una segnalazione di un privato ovvero di una amministrazione pubblica (ad es. l’amministrazione
finanziaria, al di fuori dalle denunce di reato per reati tributari) o la notizia proveniente da organi di
stampa non legittimano la iniziativa del P.M., in base alla legge fallimentare, salvo che non
riguardino la fuga, irreperibilità, latitanza dell'imprenditore, la chiusura dei locali dell'impresa, il
trafugamento, sostituzione o diminuzione fraudolenta dell'attivo da parte dell'imprenditore.
La fuga, irreperibilità, latitanza dell'imprenditore, la chiusura dei locali dell'impresa, il
trafugamento, sostituzione o diminuzione fraudolenta dell'attivo da parte dell'imprenditore non
devono risultare necessariamente ed esclusivamente da un procedimento penale
Infatti, In tema di iniziativa del P.M. per la dichiarazione di fallimento, ai sensi dell'art.7, n. 1,
legge fall., la doverosità della sua richiesta può fondarsi dalla risultanza dell'insolvenza,
alternativamente, sia dalle notizie proprie di un procedimento penale pendente, sia dalle condotte,
del tutto autonome indicate in tal modo dalla congiunzione "ovvero" di cui alla norma che non
sono necessariamente esemplificative nè di fatti costituenti reato nè della pendenza di un
procedimento penale, che può anche mancare. (massima ufficiale) - Cassazione civile, sez. I 21
aprile 2011.
In base a tale sentenza molteplici sono le fonti (diverse da un procedimento penale) da cui può
desumersi
lo
stato
di
insolvenza.
Con riferimento al procedimento penale da cui desumere lo stato di insolvenza, non deve trattarsi di
procedimento penale nei confronti dell’imprenditore insolvente. Nulla osta a ritenere che
l’insolvenza possa emergere da procedimenti iscritti nei confronti di persone diverse
dall'imprenditore e persino da procedimenti iscritti contro ignoti. La notizia d’insolvenza che
legittima il PM può emergere nell’ambito di un procedimento iscritto per le più disparate tipologie
criminose (quali reati tributari, ipotesi di appropriazione indebita poste in essere dagli
amministratori ai danni della società).
Ad oggi si ritiene ormai negletta una interpretazione assolutamente restrittiva che limitava
l’istanza di fallimento del P.M. ai procedimenti instaurati ai sensi dell’art. 238 l.f.1
A sostegno di tale ipotesi, si fa presente che la norma dell’art. 7 individua comportamenti
sintomatici d’insolvenza facendo esclusivamente riferimento alla persona dell’imprenditore;
la stessa norma esemplifica alcune condotte (quali la diminuzione fraudolenta dell'attivo) che
sostanzialmente integrano la bancarotta fraudolenta patrimoniale; l’art. 238, comma 2, l. fall.
facoltizza il PM ad iscrivere il reato di bancarotta anche prima che venga accertato lo stato di
insolvenza e quando già sia stata presentata richiesta di fallimento. Sulla base di questi
riferimenti normativi si è prospettata un’interpretazione riduttiva della legittimazione del PM,
che sussisterebbe nella sola ipotesi che proceda per il reato fallimentare nei confronti del
debitore ai sensi appunto dell’art. 238 comma 2 l.f.
Ancora, si è ritenuto che “il PM legittimato a presentare l’istanza sia quello che sta
procedendo contro l’imprenditore. Questa interpretazione è stata fatta propria dalla Corte di
Appello di Milano che in più occasioni ha avuto modo di statuire che solo una notizia
d’insolvenza che emerga da un procedimento penale per reati fallimentari nei confronti
dell’indagato debitore può legittimare il P.M. a presentare istanza di fallimento. Così C. App.
1
Art. 238 (Esercizio dell'azione penale per reati in materia di fallimento): Per reati previsti negli artt. 216, 217, 223 e
224, l'azione penale è esercitata dopo la comunicazione della sentenza dichiarativa di fallimento di cui all'art. 17.
E' iniziata anche prima del caso previsto dall'art. 7 e in ogni altro in cui concorrano gravi motivi e già esista o sia
contemporaneamente presentata domanda per ottenere la dichiarazione suddetta.
Milano 2 dicembre 2010 ha ritenuto che il PM non fosse legittimato dall’avere acquisito la
notizia d’insolvenza nel corso di indagini condotte nei confronti di persone fisiche o legali
rappresentanti di società diverse da quella della quale chiedeva il fallimento. Analogamente la
Corte di Appello di Milano 22 settembre 2011 ha annullato il fallimento dichiarato dal
Tribunale, perché “il richiamo contenuto nella norma alle condizioni di “irreperibilità” o
“latitanza” dell’imprenditore devono essere intese in senso tecnico e quindi riferite a
fattispecie processuali le quali non possono non riguardare che la persona sottoposta ad
indagini”.
La citata sentenza della Corte di Cassazione non si è limitata a rilevare che il P.M. è legittimato
alternativamente dalla notizia d’insolvenza che emerga da un procedimento penale, nonché dalla
notizia che emerga dalla condotta fraudolenta del debitore, ma ha chiarito che questa seconda
ipotesi può venire a conoscenza del PM anche al di fuori di un procedimento penale.
Significativamente la citata sentenza della Corte di Cassazione ha parlato di doverosità della
richiesta di fallimento del P.M. Un problema è l’individuazione, nel silenzio della norma, del
momento in cui il P.M. possa/debba formulare detta richiesta. Il P.M. è infatti tenuto a rispettare
una doppia esigenza: l’applicazione dell’art. 7 l.f. e l’efficacia dell’indagine. Una richiesta di
fallimento può infatti comportare , da parte del P.M., l’esigenza di mettere a disposizione del
Tribunale fallimentare gli atti di indagine da cui si desuma lo stato di insolvenza dell’imprenditore,
con la conseguente divulgazione di tali atti di indagine nei confronti del destinatario della richiesta
di fallimento. Tale esigenza può confliggere con quella di tenere il più possibile segreta l’esistenza
di un procedimento penale, soprattutto se coinvolge altre persone, oltre a quella destinataria della
richiesta di fallimento ovvero se la notizia dell’insolvenza si desume da intercettazioni tuttora in
corso. Né vi sono disposizioni di legge (analogamente ad es. a quanto invece previsto dall’art. 23
d.lvo 74/2000) che con riferimento alle procedure fallimentari prevedono deroghe all’obbligo del
segreto sugli atti di indagine preliminare previsto dall’art. 329 cpp
Tale esigenza di segretezza svanisce nel momento dell’esercizio del deposito degli atti ex art. 415
bis cpp, alla fine delle indagini preliminari, o prima ancora tutte le volte che nel corso delle indagini
preliminari vi sia stata una discovery degli atti e questi siano divenuti accessibili (ad es. attraverso
un deposito ex artt. 309 ss cpp presso il Tribunale del riesame).
Vi è da domandarsi se la notizia dello stato di insolvenza di un imprenditore/azienda possa
desumersi da un procedimento penale straniero, ad es. nell’ambito dell’ormai istituzionalizzato
scambio di informazioni spontanee tra autorità giudiziarie, sancito da diversi strumenti
internazionali, ovvero nell’ambito di una richiesta di assistenza giudiziaria proveniente da
un’Autorità Giudiziaria straniera contenente dati sullo stato di insolvenza di un imprenditore che
esercita in Italia, ovvero nell’ambito delle informazioni e documenti forniti da una Autorità
Giudiziaria straniera in adempimento ad una richiesta di assistenza giudiziaria proveniente dalla
Autorità giudiziaria italiana. La ratifica da parte dell’Italia di alcune convenzioni-tutte successive
all’entrata in vigore del codice di procedura penale vigente (quali la Convenzione Europea sul
Riciclaggio dell’8.11.1990-art. 10, la Convenzione ONU sul crimine organizzato transnazionale del
2000-art. 18, la convenzione ONU sulla corruzione- art. 46; la creazione ed operatività di organismi
di indagine quali l’Ufficio Europeo Antifrode (OLAF)2 ovvero di coordinamento sopranazionale
2
OLAF e la DNA hanno stipulato in data 17 febbraio 2000 un protocollo con il quale vengono concordate le modalità
di cooperazione tra i due uffici per rafforzare la lotta contro le attività illegali nei settori economici e
degli uffici requirenti quali Eurojust hanno ampliato considerevolmente il novero dei canali
attraverso i quali possono acquisirsi non solo prove utili per i processi, notizie di reato ed elementi
indiziari (sotto forma di cc.dd. “informazioni”) suscettibili di indagini ed approfondimenti e talvolta
anche la notizia dell’insolvenza di un imprenditore o di una società.
In base a Sez. 6, Sentenza n. 6346 del 09/11/2012 Ud. (dep. 08/02/2013 ) Rv. 254889
Sono utilizzabili dal giudice italiano le informative redatte dalla polizia estera e da questa
consegnate direttamente ad autorità di polizia italiane, al di fuori di procedure formali di
rogatoria, attese l'assenza di divieti di legge e la conformità di tale prassi alla consuetudine
internazionale. (Fattispecie relativa ad informative consegnate presso la sede di Eurojust all'Aja ed
utilizzate in giudizio abbreviato).
Si ritiene non vi siano dubbi in ordine all’utilizzabilità di dati e notizie relative allo stato di
insolvenza di un imprenditore/società per promuovere una richiesta ex art. 7 l.f. laddove vi sia
l’espresso consenso dell’autorità straniera.
Non è vietato al P.M., una volta avuta notizia dell’insolvenza di una società, soprattutto al di fuori
di un procedimenti civile o penale, svolgere autonomi accertamenti (quali ad es. sulla sussistenza
dei presupposti legittimanti una sentenza di fallimento ex art. 1 lf.) delegandoli alla polizia
giudiziaria.
Il P.M. può agire con tutti i poteri che sono propri dell'indagine preliminare: assunzione di prove
dichiarative; acquisizione coattiva di documenti; accertamenti tecnici contabili. Su questo versante,
si è richiesto di verificare se via siano limiti di legge alla allegazione alla richiesta di fallimento di
elementi di prova acquisiti nel corso delle indagini. La Corte d'Appello di Milano 4 giugno 2010,
ha statuito che i documenti acquisiti dal PM nell'ambito delle indagini preliminari in seguito a
perquisizione e prodotti con l'istanza di fallimento possono essere acquisiti al procedimento civile,
finanziari.
In particolare, hanno stabilito di sviluppare i loro rapporti come segue:
1) disponibilità a comunicarsi reciprocamente informazioni e dati utili ai fini della prevenzione, della ricerca della
constatazione e del seguito da dare, delle attività illegali nei settori economici e finanziari, nonché utili ai fini della
individuazione e del recupero dei prodotti che derivano dalle attività illecite indicate; 2) disponibilità a comunicarsi
reciprocamente informazioni e dati utili alla conoscenza e all’analisi delle manifestazioni delle attività illegali in
questione, con la specificazione che essi possono riguardare le strutture operative delle organizzazioni implicate in
queste attività nonché i legami esistenti tra tali organizzazioni stabilite all’interno e all’esterno dell’Unione Europea; le
strategie e le tecniche utilizzate da queste organizzazioni; le strategie, le tecniche e i flussi di finanziamento realizzati da
queste organizzazioni;
3) disponibilità a comunicarsi le informazioni e i dati, ottenuti in applicazione dei punti 1 e 2, alle autorità competenti
degli Stati membri dell’Unione europea e a quelle dei paesi terzi ai fini della constatazione e della repressione delle
attività illegali interessate da queste comunicazioni;
4) cooperazione in previsione della raccolta e del trattamento informatico delle informazioni e dei dati ai punti 1 e 2;
5) cooperazione all’organizzazione di azioni di formazione specializzata su temi di interesse comune in relazione con
l’azione di lotta contro le attività illegali nei settori economici e finanziari.
al pari dei documenti prodotti dalle altre parti, laddove – come nella specie – non sia emerso alcun
vizio processuale del provvedimento di sequestro penale.
Spetta verosimilmente al P.M., laddove eserciti le prerogative ex art. 7 l.f. stabilire quali atti del
procedimento penale mettere a disposizione del Tribunale sez. fallimentare.
Ci si è chiesti se la segnalazione del giudice civile ex art. 7 possa provenire dal giudice fallimentare
in caso di desistenza di un creditore dalla sua istanza di fallimento
Il venir meno della possibilità per il tribunale fallimentare di dichiarare d’ufficio il fallimento
non esclude che il medesimo tribunale segnali al pubblico ministero l’eventuale sussistenza delle
condizioni per la dichiarazione di fallimento, costituendo detta attività, in presenza di un quadro
indiziario di decozione, un vero e proprio potere-dovere del giudice e ciò anche nel caso di
intervenuta desistenza dell’unico creditore istante. (fb) Appello Brescia 07 ottobre 2009
Si è rilevato (in App. Brescia, 7/10/2009 cit. sopra citata) che nella Relazione illustrativa dello
schema di decreto legislativo sulla riforma, si legge espressamente che "la soppressione della
dichiarazione di fallimento d'ufficio risulta controbilanciata dall'affidamento al pubblico ministero
del potere di dare corso all'istanza di fallimento su segnalazione qualificata proveniente dal giudice
al quale, nel corso di un qualsiasi procedimento civile, risulti l'insolvenza di un imprenditore.
Quindi, anche nei casi di rinuncia (Cd desistenza) al ricorso per dichiarazione di fallimento da parte
dei creditori istanti", la predetta segnalazione "appare essere l'espressione non di una facoltà, ma di
un vero e proprio potere - dovere del giudice, in presenza di un quadro indiziario di decozione,
senza che, tuttavia, con ciò il Tribunale esprima alcuna propria valutazione, a cagione dell'assenza
di una specifica, diversa previsione normativa al riguardo". Pertanto "Vi è un'abissale differenza tra
iniziativa per sollecitare l'iniziativa del P.M.", il quale resta libero di valutare "se vi siano o meno i
presupposti per proporre l'istanza di fallimento e l'esercizio della diretta iniziativa d'ufficio da parte
del giudice fallimentare, essendo palese che solo e soltanto in tale ultima ipotesi è carente la terzietà
ed imparzialità del giudice". Ed ancora, si è affermato (Trib.. Mantova, 12 marzo 2009 cit.) che "la
legittimazione alla segnalazione da parte del giudice civile non puo’ dipendere dall'oggetto e/o
dall'iniziativa svolta nello specifico giudizio", essendo, peraltro, "irrilevante la distinzione, operata
dalla Suprema Corte, tra l'ipotesi in cui l'insolvenza riguardi il debitore in cui la legittimazione alla
segnalazione sarebbe negata rispetto a quella in cui riguardi un soggetto diverso da quello
destinatario dell'iniziativa per la dichiarazione di fallimento - in cui la segnalazione sarebbe
consentila - posto che in entrambi i casi l'eventuale dichiarazione di fallimento sarebbe poi
pronunciata dal medesimo Tribunale, sicché i paventati dubbi di terzietà si riproporrebbero
nell'identica maniera".
Quanto, poi, ai poteri valutativi del pubblico ministero di fronte a tale segnalazione, la Corte di
Cassazione evidenzia l’autonomia di iniziativa del P.M., nel contesto di una sorta di funzione di
filtro, potendo egli sia istruirla, sia archiviarla (subito o in esito a quell'istruttoria), con
determinazione insindacabile e senza necessità di alcun riscontro rispetto al giudice che ha
effettuato la segnalazione, anche se ciò non comporta alcun potere "dispositivo" sull'azione stessa,
una volta proposta.
In sostanza, il pubblico ministero, pur dovendo dare atto della esistenza di opinioni dei tutto
dissonanti al riguardo, non può rinunciare all'istanza, non avendo egli la disponibilità degli interessi
di indole generale la cui tutela gli è affidata ex lege e non essendo egli parificabile in toto alle parti
private. A Genova si ritiene invece possibile la revoca della richiesta di fallimento da parte del P.M.
e
quindi
la
desistenza
da
parte
del
P.M.
Tra i procedimenti civili da cui può emergere una situazione di insolvenza possono essere
annoverati i procedimenti prefallimentari
La formulazione di carattere generale della norma di cui all'articolo 7, L.F., nella parte in cui
prevede il potere di iniziativa del pubblico ministero per la dichiarazione di fallimento anche
nell'ipotesi in cui l'insolvenza risulti dalla segnalazione proveniente dal giudice che l’abbia
rilevata nel corso di un procedimento civile, riconduce il potere di iniziativa del pubblico
ministero alla detta segnalazione senza la previsione di eccezioni nè limiti di sorta e non
consente dunque di escludere dalla relativa previsione le eventuali segnalazioni effettuate
nell'ambito di procedure prefallimentari, le quali certamente rientrano nel novero dei
procedimenti
civili.
Cassazione
Sez.
Un.
Civili
18
aprile
2013
Ed ancora, la trasmissione degli atti al pubblico ministero della "notitia decoctionis" effettuata
dal giudice fallimentare non ha alcun contenuto decisorio (ndr ANALOGAMENTE ALLA
SEGNALAZIONE OPERATA DAL GIUDICE NELL’AMBITO DI ALTRI PROCEDIMENTI
CIVILI), nemmeno come esito di una deliberazione sommaria, il che esclude qualsiasi
coincidenza tra il contenuto della segnalazione al pubblico ministero e l'oggetto della successiva
istruttoria conseguente all'iniziativa di quest'ultimo. In tale ipotesi, non è, quindi, neppure
astrattamente configurabile una violazione dei principi di terzietà e imparzialità del giudice,
intesi come sua equidistanza dall'oggetto del giudizio e dalle parti, anche perché l'iniziativa del
pubblico ministero è del tutto autonoma ed è conseguente alla sua libera determinazione ed
altrettanto libero ed autonomo risulta il successivo giudizio del tribunale immesso in un nuovo e
diverso procedimento. Cassazione Sez. Un. Civili 18 aprile 2013
La ratio della disposizione di cui all'articolo 7, n. 2 L.F., la quale prevede il potere del pubblico
ministero di proporre istanza di fallimento quando l'insolvenza risulti dalla segnalazione del
giudice che l'abbia rilevata nel corso di un procedimento civile, deve essere individuata
nell'intento di favorire quanto più possibile un ampio flusso informativo alla Procura della
Repubblica in ragione dell'interesse pubblico alla tempestiva instaurazione di una procedura
concorsuale. Ved. Cassazione Sez. Un. Civili 18 aprile 2013
La presa di posizione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione ha risaltato il ruolo del P.M.
come intersezione tra procedimenti penali e procedimenti civili/fallimentari, subordinando tale
ruolo alla acquisizione di informazioni e quindi di conoscenze. Il flusso di informazioni di cui
parla la S.C. è finalizzato ad investire il P.M. di iniziative che non spetta più al Tribunale civile
adottare ex officio. La sentenza delle sezioni unite ha sovvertito un orientamento molto più
conservatore, limitativo di quelle che sono le fonti di conoscenza del P.M., riassunto in una
massima della Cassazione del 2009
Il tribunale investito di un’istanza di fallimento non può procedere alla segnalazione
dell’insolvenza del debitore al Pubblico Ministero – parte del procedimento, ai sensi dell’art. 7 n. 2
legge fall. -, ponendosi tale iniziativa in contrasto con la posizione di imparzialità e terzietà che il
giudice deve assumere e che perderebbe ove tale sollecitazione si traducesse nella richiesta di
fallimento del medesimo Pubblico Ministero; ne consegue che, in caso di rinuncia del creditore
all’istanza presentata, l’abrogazione dell’iniziativa d’ufficio, disposta dal d.lgs. n. 5 del 2006 ed
estesa a tutti gli istituti concorsuali dal d.lgs. n. 169 del 2007, comporta l’estinzione del
procedimento, divenuto a pieno titolo processo di parti. (fonte: CED – Corte di Cassazione).
Cassazione civile 26 febbraio 2009
Ben più ampi sono i poteri del P.M. per l’acquisizione di notizie di reato, ai sensi dell’art. 330 c.p.p.
La giurisprudenza di merito ha individuato nell’iniziativa del P.M. ex art. 173 lf una altra, autonoma
ipotesi legittimante la richiesta di fallimento La facoltà, prevista dall'articolo 173, legge
fallimentare, per il pubblico ministero di chiedere il fallimento nell'ambito del procedimento di
revoca dell'ammissione al concordato preventivo è autonoma e distinta dall'atto d'impulso previsto
dagli articoli 6 e 7 della medesima legge e prescinde dalla sussistenza dei requisiti da dette norme
richiesti.
Ved.
Tribunale
Bassano
del
Grappa
07
ottobre
2011
L’area di intersezione riguardante l’iniziativa del P.M. nella richiesta di fallimento coinvolge però
altri due insiemi : le misure di prevenzione ed i procedimenti ex d.lvo 231/2001, in materia di
responsabilità (di natura amministrativa) dell’ente per i fatti reato perpetrati nell’interesse dell’ente
stesso.
Una ulteriore autonoma possibilità del P.M. di chiedere la dichiarazione di fallimento deriva infatti
dal d.lvo 159/2011 in materia di misure di prevenzione. In tal caso è l’amministratore giudiziario
dell’impresa sottoposta a sequestro da misura di prevenzione a segnalare al P.M. i presupposti ex
art. 1 l.f. per l’imprenditore i cui beni siano sottoposti a sequestro o confisca. Si tenga conto In
particolare che il D.Lgs. n. 159/2011 disciplina le due ipotesi (tutt’altro che marginali) della
dichiarazione di fallimento, successiva o antecedente all’amministrazione giudiziaria, dell’impresa
che in modo concomitante risulta sottoposta a custodia ed è in stato di insolvenza.
L’art. 63 del codice antimafia, denominato ‘‘dichiarazione di fallimento successiva al sequestro’’
attribuisce al pubblico ministero, anche su segnalazione dell’amministratore giudiziario che ne
ravvisi i presupposti (soggettivi ed oggettivi) durante la propria gestione, il potere di chiedere al
tribunale competente che venga dichiarato il fallimento dell’imprenditore le cui attività aziendali
3
risultano
sottoposte
a
sequestro
o
a
confisca
.
3 Art. 63
Dichiarazione di fallimento successiva al sequestro
1. Salva l'iniziativa per la dichiarazione di fallimento assunta dal debitore o da uno o piu' creditori, il pubblico
ministero, anche su segnalazione dell'amministratore giudiziario che ne rilevi i presupposti, chiede al tribunale
competente che venga dichiarato il fallimento dell'imprenditore i cui beni aziendali siano sottoposti a sequestro o a
confisca.
2. Nel caso in cui l'imprenditore di cui al comma 1 sia soggetto alla procedura di liquidazione coatta amministrativa
con esclusione del fallimento, il pubblico ministero chiede al tribunale competente l'emissione del provvedimento di
cui all'articolo 195 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 e successive modificazioni.
L’amministratore giudiziario potrebbe a sua volta proporre istanza di fallimento “in proprio”, nel
caso in cui lo stesso sia anche il legale rappresentante dell’impresa insolvente oggetto di sequestro.
La possibilità di iniziativa diretta è, invece, preclusa ove l’amministratore giudiziario sia un mero
custode di quote sociali, con permanenza dei pregressi organi societari, che detengono il potere di
iniziativa
.
Nel comma 4 dell’art. 63 in commento, si individua la piena prevalenza della procedura delle
misure di prevenzione su quella fallimentare disponendosi che, quando viene dichiarato il
fallimento, sono esclusi dalla massa attiva fallimentare i beni (già) sottoposti a sequestro o confisca.
Se il fallito possiede anche ulteriori beni diversi da quelli sottoposti a misura cautelare nella
procedura per l’applicazione della misura di prevenzione, al giudice delegato del fallimento
compete l’intera procedura di verifica dei crediti e di accertamento dei diritti dei terzi; in particolare
il giudice delegato deve anche verificare che il credito di cui si è chiesta l’ammissione non sia
strumentale all’attività illecita o a quella che ne costituisce il frutto o il reimpiego .
Potrebbe inoltre accadere che il fallito possieda anche altri beni diversi da quelli sottoposti a misura
cautelare e che la procedura fallimentare intervenga successivamente alla verifica dei crediti
effettuata dal giudice della prevenzione (ex artt. 57 ss. codice antimafia), verifica già compiuta che,
ricordiamo, ha effetto solo nei confronti dell’Erario (art. 59, comma 4) e non già verso i creditori
Ai sensi dell’art. 63 comma 7 d.lvo 159/2011, in caso di revoca del sequestro o della confisca, il
curatore procede all’apprensione dei beni secondo le norme fallimentari. Se la revoca interviene
3. Il pubblico ministero segnala alla Banca d'Italia la sussistenza del procedimento di prevenzione su beni
appartenenti ad istituti bancari o creditizi ai fini dell'adozione dei provvedimenti di cui al titolo IV del decreto
legislativo 1° settembre 1993, n. 385.
4. Quando viene dichiarato il fallimento, i beni assoggettati a sequestro o confisca sono esclusi dalla massa attiva
fallimentare.
5. Nel caso di cui al comma 4, il giudice delegato al fallimento provvede all'accertamento del passivo e dei diritti dei
terzi nelle forme degli articoli 92 e seguenti del regio decreto 16 marzo 1942,
n. 267, verificando altresi', anche con riferimento ai rapporti relativi ai beni sottoposti a sequestro, la
sussistenza delle condizioni di cui all'articolo 52, comma 1, lettere b), c) e d) e comma 3 del presente decreto.
6. Se nella massa attiva del fallimento sono ricompresi esclusivamente beni gia' sottoposti a sequestro, il
tribunale, sentito il curatore ed il comitato dei creditori, dichiara chiuso il fallimento con decreto ai sensi dell'articolo
119 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267. Si applicano in tal caso le disposizioni degli articoli 52 e seguenti del
presente decreto.
7. In caso di revoca del sequestro o della confisca, il curatore procede all'apprensione dei beni ai sensi del capo IV
del titolo II del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267. Se la revoca interviene dopo la chiusura del fallimento, il
tribunale provvede ai sensi dell'articolo 121 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 anche su iniziativa del
pubblico ministero.
8. L'amministratore giudiziario propone le azioni disciplinate dalla sezione III del capo III del titolo II del regio
decreto 16 marzo 1942, n. 267, con gli effetti di cui all'articolo 70 del medesimo decreto, ove siano relative ad atti,
pagamenti o garanzie concernenti i beni oggetto di sequestro. Gli effetti del sequestro e della confisca si estendono ai
beni oggetto dell'atto dichiarato inefficace.
dopo la chiusura del fallimento, il tribunale fallimentare, senza limiti di tempo, può ordinare la
riapertura del fallimento, anche su iniziativa del pubblico ministero, laddove risulti che nel
patrimonio del soggetto fallito esistano attività in misura tale da rendere utile la riapertura della
procedura concorsuale.
Le disposizioni dell’art. 63 d.lvo 159/2011 che legittimano il P.M. a chiedere la dichiarazione
ovvero la riapertura del fallimento dovranno coordinarsi con le disposizioni di cui all’art. 9 rd
267/1942. Spesso le aziende sottoposte a sequestro e/o confisca si trovano in circoscrizioni e/o
distretti diversi rispetto a quelli del P.M. o del Tribunale che procedono per l’applicazione della
misura di prevenzione. Sarebbe auspicabile una segnalazione di insolvenza dall’amministratore
giudiziale al P.M. della msiura di prevenzione e da questi al P.M. competente ex art. 9 rd 267/1942
L’art. 63, comma 2, D. Lgs. 159/2011 stabilisce che nel caso in cui l’impresa, oggetto di
sequestro o di confisca, sia soggetta alla procedura di liquidazione coatta amministrativa, il
pubblico ministero può chiedere al tribunale competente, l’accertamento dello stato d’insolvenza
(ai sensi dell’art. 195 l. fall).
La notizia dello stato di insolvenza, si ritiene, può essere legittimamente desunta anche da un
procedimento inerente la responsabilità amministrativa dell’ente per fatti-reato commessi dai
suoi amministratori
In effetti, il d.lgs. 231/2001 omette di disciplinare il fallimento dell'ente nei cui confronti sia
in corso di accertamento la commissione di un illecito derivante da reato, ovvero sia stata già
irrogata una sanzione, pecuniaria od interdittiva: occorre pertanto necessariamente fare
riferimento ai principi ispiratori del sistema sanzionatorio del decreto stesso. Molteplici sono
tuttavia i problemi che sorgono in concreto, al fine di adeguare la disciplina generale in tema
di responsabilità degli enti, rispetto ad una vicenda - il fallimento - che inevitabilmente
comporta una cesura tra la gestione affidata al curatore e la precedente amministrazione
societaria che aveva consentito la realizzazione degli illeciti dipendenti da reato
Si tenga conto che la responsabilità da reato dell’ente è di natura amministrativa (da ultimo
Cassazione sez. Unite (sentenza 1/2014). Il procedimento a carico dell’ente si instaura dinanzi alla
Autorità giudiziaria penale e può avere come destinatario solo l’ente, che può essere sottoposto ad
indagini e procedimento separatamente rispetto alle persone fisiche responsabili dei reati cc.dd.
presupposto, allorquando ad es l'autore del reato non e' stato identificato o non è imputabile
In effetti, Per la responsabilità amministrativa dell’ente ex D.Lgs. 231/01 è necessario che
venga commesso un reato da parte del soggetto riconducibile alla società; non è, invece,
altrettanto necessario che tale reato venga accertato con individuazione e condanna del
responsabile (cass. Cass., Sez. V penale, n. 20060/13).
Ci si chiede se sulla base della sola pendenza di un procedimento ex dlvo 231/2001 da cui
risulti lo stato di insolvenza di una impresa (non necessariamente quella indagata) il P.M.
possa attivarsi ai sensi dell’art. 7 l.f.
Uno dei principali aspetti problematici riguarda l'applicabilità delle misure cautelari
interdittive nei confronti di società la cui attività imprenditoriale, nonostante la dichiarazione
di fallimento, prosegua in regime di esercizio provvisorio, ovvero tramite l'affitto d'azienda.
Infatti, solo in queste ultime ipotesi si porrà concretamente il rischio di reiterazione di illeciti,
mentre, nel caso in cui alla dichiarazione di fallimento consegua direttamente la fase
liquidatoria, dovrà escludersi la sussistenza del periculum in mora richiesto per disporre le
misure
cautelari
interdittive
previste
dal
d.lgs.
231/2001.
Ulteriore questione riguarda la sorte della condanna pecuniaria pronunciata nei confronti di
società fallita. Poiché il fallimento non priva della proprietà dei beni la società, ma determina
unicamente lo spossessamento e la destinazione del patrimonio al soddisfacimento delle
pretese creditorie nella procedura concorsuale, deve ritenersi che il credito che lo Stato vanta
a titolo di sanzione vada a concorrere con i restanti creditori. In tal senso, del resto, depone
l'art. 27 d.lgs. 231/2001, lì dove stabilisce che per la sanzione pecuniaria è responsabile
esclusivamente l'ente con il proprio patrimonio.
Si tenga conto che Le sanzioni amministrative comminate alla società per reato commesso dal
dipendente o amministratore a vantaggio di essa ai sensi del Dlgs 231/2001 si applicano anche alla
società fallita.
Lo ha ricordato la Corte di Cassazione nella sentenza 15 novembre 2012, n. 44824. I Giudici hanno
annullato la decisione di merito che aveva equiparato il caso di fallimento della società alla morte
del reo che estingue il reato (articolo 150, Codice penale). In realtà, parole della Cassazione, ai sensi
della legge fallimentare (Rd 267/1942) più che "morta" la società fallita è paragonata a un "malato
grave". Finché non interviene la "morte" della società, cioè la sua cancellazione dal Registro delle
imprese chiesta dal curatore fallimentare, non si determina l'effetto estintivo delle sanzioni disposte
nei suoi confronti ai sensi del Dlgs 231/2001.
Aggiungono i Giudici, inoltre, che il Dlgs 231/2001 non contempla il fallimento come causa
estintiva delle sanzioni amministrative comminate alla società, includendovi invece la prescrizione
per decorso del termine di legge e prevedendo altresì l'improcedibilità nei confronti dell'ente quando
sia intervenuta amnistia in relazione al reato presupposto.
E’ pur vero che Le sanzioni pecuniarie previste dal d.lgs. 231/2001 appaiono idonee a provocare un
pregiudizio già nei confronti dei creditori della società in bonis in quanto, incidendo sulla
consistenza del patrimonio dell’ente, quantomeno ne diminuiscono la funzione di garanzia (16). Ed
alla medesima conclusione si deve giungere nelle ipotesi di confisca -sempre obbligatoria- ex art.
19 d.lgs. 231/2001, specialmente nel caso di confisca per equivalente, dal momento che la citata
norma fa salvi solamente i diritti del danneggiato. La sussistenza di un pregiudizio per i creditori
dell’ente sembra pertanto connaturata alla fisiologia sanzionatoria del d.lgs. 231/2001,
indipendentemente dalla situazione di solvibilità -o accertata insolvenza- della persona giuridica
condannata.
Solo con la cancellazione dell’impresa fallita dal relativo registro si determina effettivamente la
cessazione della ‘vita’ dell’ente (19), anche se residua la teorica possibilità di una riapertura del
fallimento (art. 121 l.f.). Del resto, a ben vedere, l’inequiparabilità del fallimento della persona
giuridica alla morte della persona fisica era stata sostenuta anche nella decisione la cui
impugnazione ha dato luogo alla sentenza in esame.
Il dato normativo – segnatamente l’art. 27 d.lgs. 231/2001 – non consentirebbe di affermare che il
legislatore non abbia disciplinato l’ipotesi di fallimento dell’ente imputato, dato che la predetta
disposizione attribuisce allo Stato un privilegio per i crediti relativi alle sanzioni pecuniarie irrogate
ex d.lgs. 231/2001 e che simile privilegio può essere esercitato solamente in sede esecutiva, anche
concorsuale.
Non è prevista la richiesta del P.M. di fallimento del socio illimitatamente responsabile scoperto
successivamente al fallimento della società. L’art. 147 l. fall. non menziona il PM quale legittimato,
in ciò innovando rispetto alla giurisprudenza maturata sotto la previgente disciplina.
Si tenga conto che nell’ambito delle holding, l’accertamento dello stato di insolvenza deve
riguardare solo la società nei cui confronti è avanzata la richiesta di fallimento.
Ai fini della dichiarazione di fallimento di una società, che sia inserita in un gruppo, cioè in una
pluralità di società collegate ovvero controllate da un'unica società "holding", l'accertamento dello
stato di insolvenza deve essere effettuato con esclusivo riferimento alla situazione economica della
società medesima, poichè, nonostante tale collegamento o controllo, ciascuna di dette società
conserva propria personalità giuridica ed autonoma qualità di imprenditore, rispondendo con il
proprio patrimonio soltanto dei propri debiti
Non può essere avanzata richiesta di fallimento di un'impresa la cui insolvenza si sia
manifestata oltre un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese (art. 10, comma 1, l.
fall.), salvo che il PM fornisca la prova che l'imprenditore individuale o quello collettivo
cancellato d'ufficio dal detto registro abbiano effettivamente proseguito l'attività nonostante la
cancellazione.
Dalla legittimazione del P.M. a proporre richiesta di fallimento deriva la possibilità/onere di
dimostrare il momento dell'effettiva cessazione dell'attività da cui decorre il termine del primo
comma dell’art. 10 legge fallimentare (in caso di impresa individuale o di cancellazione di ufficio
degli imprenditori collettivi). Di fatto, tenuto conto del fatto che il P.M. è informato della
evoluzione della procedura successiva alla presentazione dell’istanza di fallimento solo in caso di
presentazione della propria richiesta, l’esercizio della possibilità/onore di dimostrare il momento
dell'effettiva cessazione dell'attività da cui decorre il termine del primo comma dell’art. 10 legge
fallimentare sarà ancorata al solo caso di presentazione di una propria richiesta
LA RICHIESTA DI FALLIMENTO DEL P.M. NELLA PROCEDURA
CONCORDATARIA
La richiesta di fallimento del P.M. può intervenire in una fase di procedura concordataria
prefallimentare:
-una volta che la domanda di concordato preventivo è comunicata al p.m., che con tale iniziativa
può contrastare quella dell’imprenditore in crisi;
- quando il commissario giudiziale, dopo la presentazione del ricorso del debitore e prima del
provvedimento di ammissione al concordato preventivo, accerta che il debitore ha posto in essere
una delle condotte previste dall'articolo 173;
- quando il commissario giudiziale, dopo la ammissione al concordato preventivo, accerta che il
debitore ha posto in essere una delle condotte previste dall'articolo 173;
-in caso di mancata omologa del concordato preventivo
Anche in tale caso si profila il problema dell’utilizzo di dati e informazioni provenienti da un
procedimento penale, laddove non via stata una piena discovery dello stesso.
La stessa richiesta può essere accolta pur in pendenza della procedura concordataria ovvero del
termine concesso ex art. 161, sesto comma, l.fall.
In caso di contemporanea pendenza di procedura di concordato prefallimentare e di richiesta di
fallimento, i Tribunali tendono a decidere con precedenza sulla domanda di concordato
prefallimentare.
Possono valutarsi elementi che impongono l’esercizio del potere/dovere del tribunale di
procedere all’esame dell’istanza di fallimento, pur in pendenza di procedura concordataria: la
durata della procedura prefallimentare, l’allegazione da parte del Pubblico ministero di
condotte distrattive addebitate agli amministratori, la cancellazione della società eseguita in
presenza di rimanenze attive (es. immobili non liquidati) e la prossimità del compimento del
termine di cui all’art. 10 l.fall.. ved. Tribunale Cuneo 22 novembre 2013
Viceversa
La facoltà per il debitore di proporre una procedura concorsuale alternativa al suo fallimento
non rappresenta un fatto impeditivo alla relativa dichiarazione, ma una semplice esplicazione
del diritto di difesa del debitore, che non potrebbe comunque "disporre unilateralmente e
potestativamente dei tempi del procedimento fallimentare", venendo così a paralizzare le
iniziative recuperatorie del curatore e ad incidere negativamente sul principio costituzionale
della ragionevole durata del processo.
Per qualche Tribunale sono gli assetti organizzativi interni ai Tribunali fallimentari a regolare
la trattazione delle domande di concordato prefallimentare e le richieste di fallimento. Per
qualche Tribunale la trattazione della domanda di ammissione al concordato deve essere
trattata prima dell’istanza/richiesta di fallimento. Per altri giudici di merito la trattazione deve
essere simultanea.
Il procedimento per la dichiarazione di fallimento non può essere sospeso a causa della
pendenza di una domanda di concordato preventivo in quanto tra le due procedure esiste un
rapporto di consequenzialità logica e non procedimentale, che determina una mera esigenza di
coordinamento tra i due procedimenti. Appello Reggio Calabria 11 aprile 2013
Nell'ipotesi di contemporanea pendenza dei procedimenti per dichiarazione di fallimento e di
ammissione al concordato preventivo, il tribunale provvederà alla trattazione congiunta dei due
procedimenti e vaglierà la sussistenza dei requisiti di ammissibilità della domanda di
concordato anche alla luce del materiale proveniente dal creditore istante per la dichiarazione
di fallimento decidendo prima sulla domanda di concordato; in caso di inammissibilità o di
mancata omologazione della stessa, valuterà la sussistenza dei presupposti per la dichiarazione
di
fallimento.
Tribunale
Novara
20
marzo
2013
Il principio adottato dalla Corte di appello di Reggio Calabria è coerente con quanto previsto
dalla Corte di Cassazione (ord.) n. 3059/011, che si è limitata ad affermare che il procedimento
per la dichiarazione di fallimento non può essere sospeso, ai sensi dell'art. 295 c.p.c., in
pendenza di una domanda del debitore (non ancora delibata) di ammissione al concordato
preventivo, in quanto fra le due procedure non v'è rapporto di pregiudizialità, ma un rapporto
riconducibile, al contempo, ai fenomeni della consequenzialità e dell'assorbimento, che
determina una mera esigenza di coordinamento, sostanzialmente affidata alle tecniche
organizzative del singolo ufficio giudiziario.
La Corte di Cassazione statuisce però che non è concepibile una concomitante attività istruttoria e
decisoria su due fronti giudiziari strettamente connessi ma aventi presupposti ed esiti totalmente
divergenti, e dovendosi, pertanto, ritenere che, in caso di ammissione del debitore alla procedura
minore e di contestuale presentazione di un'istanza di fallimento, l'unica soluzione alternativa alla
ed. sospensione impropria sia quella di dichiarare detta domanda improcedibile, ai sensi della L.
Fall., art. 168
Qualche pronuncia di merito ha persino elaborato ipotesi (per lo più legate alla perpetrazione di
condotte di abuso dello strumento concordatario, anche attraverso distrazioni,
distruzione/occultamento di scritture contabili, presentazione d documentazione falsa o
incompleta delle scritture a supporto dell’istanza di concordato) in cui il Tribunale può esercitare
forme di interdizione nei confronti del debitore che a fronte di una istanza di fallimento presenti
una istanza di concordato, in tal caso ponendo a carico del P.M. istante (ovvero del creditore)
l’onere della prova dell’abuso.
In tema di rapporti tra procedimento per dichiarazione di fallimento e di concordato preventivo,
va osservato che il tribunale può precludere al debitore la facoltà (ampiamente riconosciuta - ed
oggi anzi incentivata - dall’ordinamento) di coltivare l’ammissione al concordato preventivo,
dando invece la precedenza all’istanza di fallimento proposta dal creditore (o dal p.m.), solo
laddove la domanda di ammissione a concordato preventivo, alternativamente: i) non sia rituale
e completa, ai sensi degli artt. 160 e 161 L.Fall.; ii) configuri una evidente forma di abuso dello
strumento concordatario, anche attraverso condotte penalmente sanzionabili (ad es. bancarotta
fraudolenta per distrazione, ex art. 216 n. 1 L.Fall., ovvero bancarotta semplice ex art. 217 n. 3
e 4 L.Fall., per aver compiuto operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento, ovvero
aggravato il proprio dissesto astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio
fallimento); iii) pregiudichi, definitivamente e in concreto, una più proficua liquidazione
fallimentare, in danno della massa dei creditori (ad es. per il consolidamento di un’ipoteca, o la
maturazione medio tempore della prescrizione di eventuali azioni di massa esperibili dal
curatore).
Ved.
Tribunale
Terni
26
febbraio
2013
In caso di contemporanea pendenza della procedura di concordato preventivo e di quella per
dichiarazione di fallimento, così come, ai sensi dell’art. 15, legge fallimentare, deve essere data
al debitore la possibilità di difendersi in ordine alla sussistenza dei presupposti di cui agli artt. 1
e 5, allo stesso modo dovrà
essere concessa ai creditori istanti o al pubblico ministero la possibilità di interloquire sulla
domanda di concordato per dedurne eventuali ragioni di inammissibilità; solo in tal modo potrà
essere attuato - secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata (artt. 24 e 11 Cost.) un pieno contraddittorio tra le parti che fanno valere contrapposte pretese, fermo restando che
al debitore spetterà comunque l’ultima difesa prima della decisione. Ved. Tribunale Roma 20
aprile
2010
L’EMISSIONE DI PROVVEDIMENTI CAUTELARI
Il PM, quale parte del procedimento prefallimentare, può richiedere al tribunale civile, prima della
sentenza dichiarativa del fallimento, l'emissione di provvedimenti cautelari o conservativi finalizzati
a prevenire alterazioni del patrimonio del debitore ai sensi dell’art. 15 comma 8 legge fallimentare4.
Si tratta di uno strumento straordinariamente importante che si accompagna ai poteri di iniziativa
del P.M. nell’ambito del procedimento penale per quanto riguarda il sequestro preventivo.
L’adozione di misure cautelari è soggetta a determinati presupposti
Le misure cautelari previste dall’articolo 15, legge fallimentare richiedono la contestuale
presenza (e la relativa dimostrazione) di due presupposti, vale a dire: 1) il fumus boni iuris,
da intendersi come la probabile sussistenza dei presupposti soggettivi ed oggettivi necessari
per la dichiarazione di fallimento a norma degli artt. 1 e 15 legge fallimentare; 2) il
periculum in mora, vale a dire il rischio che, nelle more del procedimento prefallimentare,
possa essere lesa la capacità produttiva (“... a tutela... dell’impresa...”) oppure l’integrità
fisica e/o giuridica (e quindi, il valore) dell’azienda (“... a tutela del patrimonio...”) del
debitore resistente, a mezzo, se del caso, di atti di distrazione dell’attivo ovvero di assunzione
di nuovi debiti, e che, per l’effetto, in caso di successivo fallimento, sia impedita o resa più
difficile, incerta o lunga o dispendiosa la liquidazione concorsuale e, quindi, l’an e/o il
quantum di soddisfazione delle ragioni creditorie insinuate al passivo. Tali misure, peraltro,
non essendo tipizzate dalla legge, possono assumere il contenuto più vario, da modulare in
base alle esigenze del caso concreto, e consistere, tra l’altro, nel sequestro conservativo dei
beni o dell’azienda del debitore, al fine di rendere inopponibili (mediante conferma della
misura nella sentenza di fallimento) alla massa dei creditori gli eventuali atti di disposizione
successivamente compiuti dallo stesso prima del fallimento, ovvero nel sequestro giudiziario
dei beni o dell’azienda del debitore, al fine di evitarne (fino alla probabile apprensione del
curatore) la dispersione materiale, ovvero ancora nella pronuncia di provvedimenti quali la
sostituzione dell’imprenditore con un amministratore di tipo giudiziale o l’affiancamento
dell’imprenditore con un custode, cui ogni decisione di straordinaria amministrazione debba
4
La pendenza della procedura concordataria, anche nella forma di concordato con riserva, non rappresenta però
un ostacolo assoluto alla dichiarazione di fallimento, che pertanto non è impedita dal divieto generale di cui all’art.
168, primo comma, l. fall., quand'anche tale eventualità deve ritenersi assolutamente eccezionale, per le ipotesi in
cui la domanda di concordato alternativamente: i) non sia rituale e completa, ai sensi degli artt. 160 e 161 L.Fall.;
ii) configuri una evidente forma di abuso dello strumento concordatario, anche attraverso condotte penalmente
sanzionabili; iii) pregiudichi, definitivamente e in concreto, una più proficua liquidazione fallimentare, in danno
della massa dei creditori.
essere sottoposta per l’approvazione, ovvero la semplice inibizione di compiere atti di
straordinaria amministrazione o la necessità per l’imprenditore di munirsi di autorizzazione
del tribunale per compiere determinate attività. Ved. Tribunale Napoli 30 marzo 2012
PROCEDIMENTO PER DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO – MISURE
CAUTELARI – PRESUPPOSTI.
La circostanza che l'imprenditore abbia posto in essere atti quali vendite immobiliari, costituzione
di trust o, tramite iniziative di terzi, iscrizioni di ipoteche giudiziali, non è sufficiente, qualora tali
atti siano già stati compiuti, a dimostrare un contegno in atto tale da far concretamente presumere
che la sua prosecuzione o attuazione possa pregiudicare la concreta fruttuosità della invocata
sentenza di fallimento, tanto più se si considera che, al fine di prevenire il pericolo in questione,
(cioè la possibilità che vengono poste in essere attività distruttive o depauperative del patrimonio
dell'impresa per il tempo necessario alla pronuncia di fallimento) possono senz'altro essere
utilizzate
le
comuni
misure
cautelari.
Nel corso della procedura fallimentare il P.M. può trovarsi ad adottare iniziative configgenti con
quelle dei creditori e dello stesso curatore del fallimento, ad esempio chiedendo sequestro
preventivo e confisca di beni di società fallita
In base a Cass. V sezione penale 48804 del 5.12.2013, Il curatore del fallimento deve essere
ritenuto rappresentante di interessi qualificabili come diritti di terzi in buona fede sui beni oggetto
di confisca; la posizione dei quali deve pertanto essere valutata dal giudice, secondo i principi
richiamati al punto precedente, nella prospettiva della prevalenza o meno, rispetto agli stessi, delle
esigenze cautelari sottese alla confisca
Sez. 5, Sentenza n. 33425 del 08/07/2008 Cc. (dep. 13/08/2008 ) Rv. 240559
In tema di responsabilità da reato degli enti, è ammissibile il sequestro preventivo a fini di confisca
di beni in misura equivalente al profitto derivante dal reato anche quando la società cui gli stessi
appartengono sia fallita, ma spetta al giudice dare conto della prevalenza delle ragioni sottese alla
confisca rispetto a quelle che implicano la tutela dei legittimi interessi dei creditori nella procedura
fallimentare.
LA COMUNICAZIONE DELLA SENTENZA DI FALLIMENTO
AI sensi dell’art. 17 l.f. la sentenza di fallimento va comunicata al P.M. anche laddove questi non
abbia avanzato la richiesta di fallimento.
Solo il P.M. richiedente è invece legittimato a proporre reclamo avverso la sentenza che rigetta la
sua richiesta di fallimento.
La corte d'appello, adita in sede di reclamo avverso il provvedimento del tribunale che
respinge la domanda di fallimento, può disporre accertamenti officiosi volti ad accertare
l'esistenza dello stato di insolvenza ed il superamento del limite di euro 30.000 di cui
all'articolo
15,
comma
9,
L.F.
ved.
Appello
Torino
02
agosto
2013
Analoghi poteri si ritiene spettino al P.M. richiedente per corroborare il suo reclamo avveso una
decisione di non accoglimento della richiesta di fallimento.
Il reclamo ex art 18 l. fall. ha carattere devolutivo pieno (ved. Cassazione civile, sez. I 24 maggio
2012) e non trovano dunque applicazione i limiti previsti dagli artt. 342 e 345 c.p.c. per l’appello,
con la conseguenza che è possibile, in tale sede, per il creditore, introdurre questioni nuove, non
già proposte con l’atto di opposizione all’omologazione. Analoghe nuove questioni possono essere
presentate dal P.M. legittimato a proporre reclamo (ved. Appello Milano 21 febbraio 2013 ).
Il reclamo ex art 18 l. fall. ha carattere devolutivo pieno e non trovano dunque applicazione i
limiti previsti dagli artt. 342 e 345 c.p.c. per l’appello, con la conseguenza che è possibile, in
tale sede, per il creditore, introdurre questioni nuove, non già proposte con l’atto di opposizione
all’omologazione.
Ved.
Cassazione
civile,
sez.
I
06
novembre.
2013
Attesa la non applicabilità nel reclamo di preclusioni probatorie previste in tema di giudizio di
appello, anche il P.M. potrà addurre nuove prove.
Il P.M. non può invece proporre reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, non
ritenendosi sia titolare di un interesse che lo legittimi in tal senso
Il primo comma dell’art. 18 l. fall. prevede che il reclamo avverso la sentenza dichiarativa del
fallimento possa essere proposto – oltre che dal debitore dichiarato fallito (salvo, verosimilmente,
il caso in cui abbia chiesto la dichiarazione del proprio fallimento) – «da qualunque interessato»
(come, d’altronde, era in precedenza stabilito per l’opposizione e per l’appello avverso detta
sentenza previsti dal medesimo articolo nel testo anteriore alle modifiche apportatevi dal d.lgs. 9
gennaio 2006, n. 5, e, rispettivamente, nel testo risultante da tali modifiche, poi ulteriormente
modificato dal d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169), per tale dovendo intendersi non già chi è titolare
di un generico interesse economico od anche solo morale alla revoca della dichiarazione di
fallimento, bensì soltanto chi è titolare di situazioni giuridiche in qualche misura in concreto
modificate o suscettibili di essere modificate, anche indirettamente, da tale dichiarazione e dalla
contestuale apertura della procedura concorsuale (Appello Napoli 18 luglio 2013)
La lettura combinata di tale principio con il testo della legge fallimentare induce a ritenere che il
P.M. non possa essere ricompreso tra quanti “abbiano interesse” in termini di reclami,
impugnazioni
(ved.
Artt.
26,
67,
90
l.f.).
Il reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento deve essere necessariamente notificato al
P.M. presso il Tribunale, mentre spetta al P.G. presenziare all’udienza
L'appello avverso la sentenza dichiarativa di fallimento va notificato al procuratore della
Repubblica presso il tribunale, al quale spetta la legittimazione all'impugnazione, in qualità di
ufficio del P.M. funzionante presso il giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, mentre
l'esercizio delle funzioni di P.M. nel giudizio di appello spetta al P.G., ai sensi dell'art. 70 del
r.d. n. 12 del 1941. Peraltro, la costituzione in appello del procuratore della Repubblica, in
luogo del P.G., non determina la nullità della sentenza di secondo grado, ma soltanto la nullità
della costituzione del P.M., della quale può dolersi esclusivamente il soggetto che avrebbe
dovuto presenziare al giudizio, con la conseguente carenza di interesse dell'appellante a far
valere il predetto vizio. (fonte CED – Corte di Cassazione) Cassazione civile 04 settembre 2009
Con riferimento alla liquidazione coatta amministrativa (artt. 191 ss rd 267/1942), l’art. 202 rd
267/19425 prevede l’iniziativa del P.M. perchè venga accertato lo stato di insolvenza della
società, che ai sensi dell’art. 237 rd 267/1942 è equiparato alla dichiarazione di fallimento ai fini
dell'applicazione delle sanzioni penali ex artt. 216 ss l.f.
Anche in questo caso si ritiene che il pubblico ministero possa mettere a disposizione del
Tribunale le fonti di conoscenza che lo legittimerebbero a chiedere la sentenza di fallimento.
IL CONCORDATO PREFALLIMENTARE
Le riforme introdotte dal 2006 ad oggi mirano tutte a ridurre i poteri dell’autorità giudiziaria
andando, al contrario, a sostenere il carattere privatistico della procedura. Un’importante decisione
in merito a questi poteri è quella espressa dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione riunitesi il
20 novembre 2012 proprio per stabilire se possa esserci un controllo del tribunale nelle varie fasi
della procedura e quanto penetrante esso possa essere, anche alla luce delle recenti modifiche. Le
Sezioni Unite con la sentenza n. 1521 del 2013 hanno stabilito che l’aspetto economico della
proposta non rientra nel controllo del giudice; sarà, invece, onere dei creditori valutare questo
aspetto attraverso il loro voto. All’autorità giudiziaria è affidato un controllo di legalità sulla
fattibilità giuridica e, pertanto, sul rispetto delle disposizioni dettate dalla legge; il giudice è tenuto,
inoltre, a verificare l’effettiva realizzazione del duplice scopo della procedura rappresentato, da un
lato, dal superamento della crisi d’impresa e, dall’altro, dall’individuare una qualche forma di
soddisfacimento per i creditori. Il debitore dotato ora di un’ampia di autonomia e flessibilità, da un
lato, e i creditori, dall’altro, hanno acquistato un ruolo centrale all’interno della procedura. I
creditori, in particolare, con il radicale mutamento della regola per l’approvazione del concordato,
attualmente rappresentata dal “silenzio-assenso”, diventano una parte fondamentale, in quanto con
il loro voto determinano l’approvazione o meno del concordato.
Per consentire un aumento ponderoso del novero dei soggetti ammessi a fruire del beneficio del
concordato, la riforma elimina tutte le condizioni di ammissibilità che sotto il vigore della
precedente legge attenevano a qualità soggettive del debitore, cioè l’iscrizione al registro delle
imprese da almeno un biennio, l’assenza di procedure concorsuali collegate all’insolvenza nei
cinque anni antecedenti, la mancanza di condanne per reati fallimentari o contro il patrimonio, la
fede pubblica, l’economia pubblica, l’industria e il commercio.
5
Art. 202 (Accertamento giudiziario dello stato d'insolvenza)
Se l'impresa al tempo in cui è stata ordinata la liquidazione, si trovava in stato d'insolvenza e questa non è stata
preventivamente dichiarata a norma dell'art. 195, il tribunale del luogo dove l'impresa ha la sede principale, su
ricorso del commissario liquidatore o su istanza del pubblico ministero, accerta tale stato con sentenza in camera
Le novità introdotte con riguardo all’elemento soggettivo legittimano alla presentazione della
domanda di concordato qualunque imprenditore che non sia sottratto alle procedure concorsuali,
perché privo dei requisiti dimensionali risultanti dal testo di cui all’art. 1 l. fall., indipendentemente
dalla sua condotta anteatta e da qualsivoglia aspetto, formale e sostanziale, attinente alla sua
moralità.
Viene altresì eliminata la condizione di ammissibilità integrata dall’impegno, da un lato a pagare
integralmente i creditori assistiti da una causa di prelazione, dall’altro a garantire il soddisfacimento
del ceto creditorio chirografario nella percentuale minima del 40%, per cui oggi il contenuto del cd.
piano concordatario è svincolato da tali requisiti minimi di soddisfacimento.
Il nuovo testo dell’art. 180 l. fall., inoltre, non contempla il requisito della “meritevolezza”, della
cui sussistenza il tribunale si preoccupava, in via di prassi, già nella fase dell’ammissione al
concordato e non soltanto all’esito del giudizio di omologazione. Da ciò va desunto, non soltanto
che oggi il concordato non è più quello che una volta veniva definito: la procedura
dell’imprenditore “onesto ma sfortunato”, ma altresì che non ha più ragion d’essere il parere del
pubblico ministero, cui ora la domanda va semplicemente comunicata, secondo quanto previsto dal
quinto comma dell’art. 161 l. fall.
La previsione dell'obbligo della mera comunicazione della domanda al p.m. integra una scelta
intermedia, da parte del legislatore del correttivo, tra la tesi che sosteneva la sopravvivenza
dell'obbligo di acquisire il parere del p.m., stante che l'art. 162 l. fall. Era rimasto inalterato dopo il
d.l. n. 35/05, e quella opposta che muoveva dall'abrogazione implicita della norma di cui all'art.
1626, abrogazione riconducibile alla scomparsa di tutte le condizioni di ammissibilità inerenti a
requisiti di natura etica del debitore. Vien ora da chiedersi quale sia la ratio del previsto obbligo di
comunicazione al p.m. della domanda di concordato.
Nel vigore dell'originaria legge fallimentare, si riteneva che l'intervento del pubblico ministero fosse
previsto a pena di nullità, rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio, essendo posto a
presidio degli interessi pubblici coinvolti nella vicenda.
Invero, secondo Cass., 16/4/1992, n. 4699, l'intervento del pubblico ministero e(ra) obbligatorio sia
al fine della pronunzia sull'ammissibilità, sia nelle successive fasi della procedura. Da ultimo,
secondo Cass., 24/7/2007, n. 16396, al pubblico ministero è (ra) segnato il compito del controllo
della regolarità del procedimento, teso ad impedire che il beneficio del concordato sia
indebitamente concesso o che la liberazione dell'impresa dalle più gravi conseguenze del fallimento
penalizzi la massa concorsuale. Con la riforma del concordato, l'art. 162 l.f., è stato modificato,
6
Il Tribunale può concedere al debitore un termine non superiore a quindici giorni per apportare integrazioni al piano e
produrre
nuovi
documenti.
Il Tribunale, se all’esito del procedimento verifica che non ricorrono i presupposti di cui agli articoli 160, commi primo
e secondo, e 161, sentito il debitore in camera di consiglio, con decreto non soggetto a reclamo dichiara inammissibile
la proposta di concordato. In tali casi il Tribunale, su istanza del creditore o su richiesta del pubblico ministero, accertati
i
presupposti
di
cui
agli
articoli
1
e
5
dichiara
il
fallimento
del
debitore.
Contro la sentenza che dichiara il fallimento è proponibile reclamo a norma dell’ articolo 18. Con il reclamo possono
farsi valere anche motivi attinenti all’ammissibilità della proposta di concordato.
atteso che la norma prevede che il tribunale dichiara inammissibile la domanda dopo aver sentito il
debitore, ed è stato espunto il riferimento al P.M., contenuto nel testo anteriore.
Pertanto, il profilo riguardante il ruolo di tale organo nel procedimento ha dato luogo a contrasti
interpretativi.
Secondo l'opinione prevalente, non poteva obliterarsi il tenore testuale dell'art. 162 l.f. Inoltre, era
ritenuto ancora sussistente un interesse pubblico rimesso alla cura del pubblico ministero: quello
sotteso ad una corretta gestione delle crisi di impresa.
in giurisprudenza: Trib. Como, 2432005; Trib. Salerno, 3.6.2005, DF, 2006, II, 145; Trib. Sulmona,
6.6.2005, cit.; Trib. Palermo, 17.2.2006, cit.). Secondo altri, il principio, per il quale il pubblico
ministero doveva obbligatoriamente partecipare, sarebbe venuto meno, in quanto l'interesse
pubblicistico è ormai estraneo alla procedura e l'individuazione della soluzione migliore è rimessa
all'accordo tra debitore e creditori (in giurisprudenza, in tal senso, cfr. Trib. Pescara, 23.03.2005;
nonché Trib. Milano, 12.12.2005, Fa, 2006, 576 SS., con riguardo alla partecipazione del pubblico
ministero in sede di omologazione). Altri ancora hanno segnalato che l'eliminazione, per effetto
della riforma della legge fallimentare, dell'intervento del pubblico ministero nel concordato
fallimentare - prima previsto dall'abrogato art. 132 l.f. - indurrebbe a ritenere soppresso detto
intervento anche nel concordato preventivo.
Per la verità, specie a seguito della soppressione dell'iniziativa officiosa del tribunale (operata dal
dgt n. 5/2006), la partecipazione del pubblico ministero ha assunto una valenza ancora maggiore,
posto che questi è divenuto l'unico titolare di una sorta di iniziativa pubblica per la dichiarazione di
fallimento e deve essere messo in condizione di esercitare tale potere in tutti i casi in cui sia
possibile la c.d. conversione del concordato in fallimento. A seguito del c.d. decreto correttivo, l'art.
161, 5° co., l.f., prevede ora che la domanda di concordato venga comunicata al pubblico ministero,
ma è stata eliminata la previsione (di cui al previgente art. 162 l.f.) dell'audizione del pubblico
ministero in sede di declaratoria di inammissibilità.
Considerato che il procedimento de quo è volto alla composizione di molteplici interessi, anche
pubblici, e alla tutela di diritti, sia pure secondo il rito: c.d. camerale, lo scopo della comunicazione
non è tanto quello di acquisire un doveroso parere (ex art. 738, 2° co., c.p.c.), bensì quello di
mettere in grado l'organo pubblico di partecipare al processo (cfr. art. 71 c.p.c.) e di esercitare i
poteri previsti dalla legge (cfr. art. 72, 2° comma, c.p.c.). Secondo alcuni, peraltro, l'intervento del
P.M. non può più qualificarsi obbligatorio, ex art. 70, n. 5). c.p.c., in mancanza di una espressa
previsione di legge.
Secondo questa prospettazione, la comunicazione della domanda di concordato al P.M. varrebbe
quale segnalazione al fine di allertare l'organo pubblico, in ordine al possibile stato di insolvenza
del debitore e di consentirgli di richiedere il fallimento, nell'ipotesi di inammissibilità della
proposta.
Detta impostazione viene avversata da altri, i quali evidenziano: - che la comunicazione al P.M. ex
art. 161, ultimo comma, l.f., è doverosa (come quelle cui si riferisce l'art. 71, 1° comma, c.p.c.): che, ove non si ammetta che il P.M. sia parte necessaria del procedimento, non si vede come possa
giustificarsi l'attività di monitoraggio sulla procedura e l'acquisizione degli atti del processo (ex artt.
1 e 76 disp. att. c.p.c.) e che la comunicazione ex art. 161 cit., non equivale alla segnalazione di cui
all'art. 7 della legge fallimentare. Ciò posto, rileva questa Corte che - qualunque opzione
interpretativa si segua in ordine al ruolo del P.M. nella procedura di concordato preventivo - una
volta che la proposta concordataria sia stata comunicata al P.M., detto organo è legittimato a
proporre istanza di fallimento e detta legittimazione l deriva, non già dall'art. 7 l.f., bensì dagli artt.
161, 162 e 179 l.f. citati.
Se così è, balza evidente la profonda differenza tra la fattispecie decisa dalla sentenza n. 4632/2009,
in cui il Tribunale, a fronte della desistenza dei creditori, faccia la segnalazione al P.M. ex art. 7 l.f.,
e al di fuori delle ipotesi di cui alla predetta norma, invece che limitarsi a dichiarare estinta la
procedura, e quella qui in esame, in cui il P.M. - già edotto della esistenza della procedura
concordataria - agisce per la dichiarazione di fallimento, in base ad un. potere - dovere che la legge
gli riconosce esplicitamente. Invero, la legittimazione del P.M. ex artt. 161, 162 e 179 l.f, è del tutto
diversa da quella di cui all'art. 7.
La giurisprudenza di merito (e la dottrina, come si è visto con riferimento al ruolo dei P.M. nella
procedura concordataria), ritiene che "Poiché nell'ambito della procedura di concordato preventivo
il pubblico ministero è parte necessaria ai sensi dell'art. 162 legge fall., sussiste la sua
legittimazione a richiedere la declaratoria di fallimento del soggetto proponente il concordato,
essendo tale iniziativa del tutto svincolata dai limiti imposti dal non richiamato art. 7 legge fall.. "
(Appello Bologna 01 giugno 2009, rinvenibile sul sito web: "ILCASO.it").
Pertanto, mentre nel caso deciso dalla sentenza n. 4632 cit., il P.M. ha agito sulla base di una
segnalazione effettuata, al di fuori delle ipotesi di cui all'art. 7 dal Tribunale che - invece - non
doveva far altro che dichiarare estinta la procedura, nella presente fattispecie, il P.M. ha agito in
forza delle norme più volte citate, che - per contro - prevedono la dichiarazione di fallimento, in
caso di declaratoria di inammissibilità della proposta concordataria, su istanza (anche) del P.M.
Si ritiene quindi che il legislatore vuole garantire la possibilità che il p.m. intervenga nella fase
dell'apertura del concordato, per consentirgli l'interlocuzione in merito alla sussistenza dei
presupposti di ammissibilità della procedura. In tale ottica, deve ritenersi ammissibile che l'organo
inquirente svolga sue indagini, le cui risultanze potranno ben essere palesate al tribunale per
invocare l'eventuale decreto di inammissibilità della domanda.
La valutazione sulla fattibilità del piano compete in via esclusiva ai creditori che la esprimono
tramite il voto e si fonda da un lato sulla relazione attestativa del professionista e dall'altro lato sui
rilievi del commissario giudiziale, sì che il tribunale non può effettuare una valutazione di merito
sulla fattibilità nel procedimento ai sensi dell'art.173, R.D. n.267/1942 (legge fallimentare).
2) Le condotte del debitore anteriori alla presentazione della domanda di concordato vengono in
evidenza ai fini della revoca dell'ammissione alla procedura solo se rivestano una valenza decettiva,
tali da potere PREGIUDICARE LA FORMAZIONE DI UN CONSENSO INFORMATO e non
quando si tratti di comportamenti chiaramente individuati e resi noti ai creditori.
3) IL GIUDIZIO IN ORDINE ALLA FATTIBILITÀ DEL PIANO DI CONCORDATO SPETTA
AI CREDITORI, sicché il tribunale non può procedere alla revoca dell'ammissione alla procedura
sul ravvisato presupposto dell'assenza di detta fattibilità, né su tali basi può rifiutare l'omologazione,
salvo che siano state proposte ed accolte opposizioni aventi specificamente ad oggetto questo
profilo.
4) Nella proposta di concordato preventivo con cessione dei beni, salva diversa volontà delle parti,
la misura del soddisfacimento dei creditori costituisce mera indicazione idonea a consentire ai
creditori di esprimere il voto, ma non assurge a obbligazione contrattuale.
5) In tema di revoca dell'ammissione al concordato preventivo, secondo il procedimento
disciplinato dall'art.173 legge fallimentare, DOPO LA RIFORMA di cui al d.lgs. 12 settembre
2007, n.169, LA NOZIONE DI ATTO IN FRODE, che opera - ai sensi del primo comma della
disposizione fallimentare cit. - quale presupposto per detta revoca, ESIGE - alla luce del criterio
ermeneutico letterale, ex art.12 Preleggi - che LA CONDOTTA DEL DEBITORE SIA STATA
VOLTA AD OCCULTARE SITUAZIONI DI FATTO IDONEE AD INFLUIRE SUL GIUDIZIO
DEI CREDITORI, cioè tali che, se conosciute, avrebbero presumibilmente comportato una
valutazione diversa e negativa della proposta e, dunque, che esse siano state "accertate" dal
commissario giudiziale, cioè da lui "scoperte", essendo prima ignorate dagli organi della procedura
o dai creditori; pertanto, nel concetto di "frode" non rientra qualunque comportamento volontario
idoneo a pregiudicare le aspettative di soddisfacimento del ceto creditorio e, quindi, risulta estraneo
a tale qualificazione il comportamento del debitore che, già nel ricorso, abbia indicato gli atti di
disposizione del patrimonio, stipulati anteriormente, implicanti la concessione di diritti di
godimento a terzi e che, successivamente esaminati dal commissario giudiziale, siano ritenuti
suscettibili di depauperare il detto patrimonio, così da scoraggiare l'acquisto degli immobili oggetto
della cessione ai creditori, pregiudicando la fattibilità della proposta concordataria.
IL P.M., una volta informato dell’istanza di ammissione al concordato prefallimentare, ha la
facoltà di opporsi e contraddire tale domanda
Tribunale Milano 28 ottobre 2011 - - Pres., est. Lamanna.
Il pubblico ministero, in quanto parte del procedimento concordatario ai sensi dell'articolo
161, ultimo comma, legge fallimentare, ha piena facoltà di contraddire sulla domanda di
concordato preventivo, soprattutto nel caso in cui detto organo si sia fatto promotore, ai
sensi dell'articolo 7, legge fallimentare, della richiesta di fallimento o della dichiarazione di
insolvenza.
La domanda di concordato preventivo deve essere esaminata per prima rispetto al
procedimento per dichiarazione di fallimento già pendente e ciò in quanto la prima
procedura ha funzione alternativa e preventiva rispetto alla seconda.
Una situazione di potenziale conflitto di interessi tra chi propone il concordato e chi vi
partecipa in veste di finanziatore e di investitore può dar luogo a dubbi e perplessità che
debbono essere tenuti in debito conto ma che possono assumere concreto rilievo solo qualora
si tramutino in fatti rilevanti per l'attivazione del procedimento di revoca dell'ammissione al
concordato
di
cui
all'articolo
173,
legge
fallimentare.
Il concordato preventivo non tutela il debitore da atti di sequestro penale
Sez. 3, Sentenza n. 13996 del 08/02/2012 Cc. (dep. 13/04/2012 ) Rv. 252618
È legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente dei beni mobili ed
immobili nella disponibilità dell'unico socio di una società ammessa al concordato preventivo,
atteso che il debitore conserva l'amministrazione e la disponibilità dei beni nell'ambito della
procedura. La vicenda riguardava il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente
dei beni mobili ed immobili nella disponibilità dell'unico socio di una società ammessa al
concordato preventivo, per la quale era stato disposto un fondi di ammortamento per il pagamenti
dei debiti tributari Nella specie era emerso che il fondo di ammortamento realizzato in quell'ambito
concerne i debiti tributari della società e non garantisce certo la futura confisca per equivalente di
beni nella disponibilità dell’imputato stesso per una sua personale penale responsabilità.La
previsione di un fondo di ammortamento per tali debiti non è in alcun modo equiparabile al
sequestro penale ed alle finalità da esso perseguite soprattutto sotto il profilo della strumentalità
dell'apprensione del bene rispetto alla confisca. Va considerato, infatti, che, come più volte
affermato dalla Corte, il debitore ammesso al concordato preventivo subisce in realtà uno
"spossessamento attenuato", in quanto conserva, oltre ovviamente alla proprietà (come nel
fallimento), l'amministrazione e la disponibilità dei propri beni, salve le limitazioni connesse alla
natura stessa della procedura, la quale impone che ogni atto sia comunque funzionale all'esecuzione
del concordato (Sez. 5, n. 4728 del 25/02/2008 Rv. 602013); che il concordato preventivo è
suscettibile di risoluzione per inadempimento, senza considerare poi la possibilità successiva di
accertamento della dissimulazione di parte dell'attivo, di omessa dolosa denuncia di uno o più
crediti o di esposizione di passività inesistenti, che può condurre alla revoca del concordato stesso
travolgendo qualsiasi ipotesi di accordo iniziale con i creditori. Nè vale opporre a garanzia
dell'adempimento l'intervenuta omologazione da parte del tribunale posto che, come affermato dalla
Corte nei perimetro di controllo (di legittimità anche sostanziale) demandato al tribunale non rientra
il potere-dovere di accertare la fattibilità dell'accordo intervenuto tra il debitore proponente ed i
creditori (Sez. 1, n. 18987 del 16/09/2011 Rv. 619727).
L’ART. 173 L.F.
Il corso normale della procedura di concordato preventivo può essere interrotto allorquando si
verifichino fatti o situazioni che ne precludano la prosecuzione. Nel sistema previgente era previsto
all’art. 173 l. fall., una iniziativa di ufficio del Tribunale nella dichiarazione di fallimento
dell’imprenditore ammesso a concordato laddove
- il commissario giudiziale avesse accertato che il debitore aveva occultato o dissimulato
parte dell’attivo, dolosamente omesso di denunciare uno o più crediti, esposto passività
insussistenti o commesso altri atti di frode,
- fosse stato accertato che il debitore aveva compiuto atti non autorizzati ex art. 167 l. fall. o
comunque diretti a frodare le ragioni dei creditori
- fosse stata accertata la mancanza delle condizioni per l’ammissibilità del concordato
Tale disposizione era coerente con il sistema complessivo della disciplina del concordato
preventivo.
Presupposto del concordato era la meritevolezza dell’imprenditore e quindi venendo meno tale
requisito nel corso della procedura il beneficio doveva essere immediatamente revocato con la
conseguente
dichiarazione
di
fallimento.
Con il decreto 169/2007 (che all'art. 173, comma 2, che subordina la declaratoria di fallimento
all'istanza del creditore o alla richiesta del P.M.), si consolida un sistema improntato alla terzietà del
giudice fallimentare in tutte le procedure fallimentari ed alla conseguente natura antitetica a tale
filosofia di tutte le iniziative officiose volte alla dichiarazione di fallimento. E’ venuta meno
l’automaticità del passaggio dal concordato al fallimento, passaggio che è oggi possibile soltanto a
condizione che vi sia l’espressa domanda dei soggetti “parti” legittimati, che si espleti una regolare
istruttoria prefallimentare, ai sensi dell’art. 15 l. fall., e che, all’esito di quest’ultima, il Tribunale,
sulla base di quanto dedotto dalle parti verifichi se l’imprenditore versi in stato d’insolvenza.
L’accertamento delle ipotesi fraudolente spetta al commissario giudiziale. L’art. 173 l. fall. riserva
al commissario giudiziale la denuncia delle ipotesi di atti fraudolenti da parte del debitore. La
norma in esame prevede espressamente il potere di iniziativa del commissario giudiziale e,
comunque, deve ritenersi che l’accertamento delle ipotesi fraudolente spetti allo stesso
commissario, che deve subito riferire in merito al tribunale. I Tribunale può operare ulteriori
accertamenti, si ritiene ed aprire all’esito degli stessi la procedura di revoca dell’ammissione.
In questo caso non è prevista una vera e propria domanda di apertura del procedimento di revoca
del decreto di ammissione al concordato prefallimentare, ma si ritiene necessaria, comunque, una
denuncia-dichiarazione da parte del commissario di fatti fraudolenti, in ragione dei quali il tribunale
d’ufficio possa iniziare il procedimento di revoca di un pregresso provvedimento di ammissione.
Si tenga conto con il commissario giudiziale è come il curatore fallimentare pubblico ufficiale (art.
165 l.f.)
La norma dell’art. 173 l.f. va letta in stretto coordinamento con gli artt. 165 l.f. e 331 cpp, (e non in
deroga a questi. L’art. 331 cpp impone al pubblico ufficiale la redazione di una denuncia di reato
laddove ravvisi gli elementi di una notitia criminis, indipendentemente dai tempi della relazione ex
art. 173 rd 267/1942.
Si tenga conto che l’art. 173 legge fallimentare richiama le condotte delittuose ex art. 236 comma 1
rd 267/1942. Ci si chiede se la denuncia, obbligatoria ex art. 331 cpp, su tali condotte corrisponda
alla relazione ex art. 173 rd 267/1942.
L’art. 173 l.f. stabilisce una interlocuzione tra commissario giudiziale e tribunale fallimentare. Tale
interlocuzione induce a ritenere 1) che nell’abito de concordato prefallimentare si sia voluto
instaurare un circuito di interlocuzione analogo a quello nella procedura di fallimento (art. 33 rd
267/1942)7.
2) che nella nozione di “altri atti di frode” non siano compresi tutti i comportamenti penalmente
rilevanti e questo indurrebbe a ritenere che denuncia ex art. 331 cpp non corrisponde sempre alla
relazione ex art. 173 rd 267/1942
Infatti, gli atti di frode, presupposto della revoca dell'ammissione al concordato preventivo ai sensi
dell'art. 173 legge fall., non possono più essere individuati semplicemente negli atti in frode ai
creditori, di cui agli artt. 64 e ss. legge fall., ovvero comunque in comportamenti volontari idonei a
pregiudicare le aspettative di soddisfacimento del ceto creditorio, ma esigono che la condotta del
debitore sia stata finalizzata ad occultare situazioni idonee ad influire sul giudizio dei creditori.
Deve trattarsi di un nascondimento di dati e circostanze che, se conosciute, avrebbero
presumibilmente comportato una valutazione diversa e negativa della proposta e che siano state
"accertate" dal commissario giudiziale, cioè da lui "scoperte", essendo prima ignorate dagli organi
della procedura o dai creditori. Ne consegue che, ai fini della revoca dell'ammissione al concordato,
rilevano solo comportamenti dell’imprenditore non espressamente indicati nella proposta che
abbiano una valenza decettiva tale da pregiudicare il consenso informato dei creditori ancorché
annotati nelle scritture contabili. Ai fini della revoca dell'ammissione, il silenzio del debitore nella
proposta di concordato e nei suoi allegati e l'accertamento del commissario devono riguardare non
una qualsiasi operazione risultante dalle scritture contabili, ma solo quelle suscettibili di assumere
rilievo per soddisfacimento dei creditori in caso di fallimento ed in caso di concordato preventivo,
come i pagamenti preferenziali nei sei mesi anteriori alla domanda di concordato.
Nella disciplina concorsuale riformata, essendo venuto meno il presupposto soggettivo della
meritevolezza, non ogni atto di frode può costituire ragione di arresto della procedura, ma soltanto
quelli che abbiano l’attitudine ad ingannare i creditori sulle reali prospettive di soddisfacimento in
caso di liquidazione, sottacendo, in particolare, l’esistenza di parte dell’attivo o aumentando
7
Il curatore, entro sessanta giorni dalla dichiarazione di fallimento, deve presentare al giudice delegato una relazione
particolareggiata sulle cause e circostanze del fallimento, sulla diligenza spiegata dal fallito nell'esercizio dell'impresa,
sulla responsabilità del fallito o di altri e su quanto può interessare anche ai fini delle indagini preliminari in sede
penale.
artatamente il passivo in modo da far apparire la proposta maggiormente conveniente rispetto alla
liquidazione fallimentare.
Dopo la riforma di cui al d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, la nozione di “atto in frode”, che opera ai sensi del primo comma della disposizione fallimentare citata - esige - alla luce del criterio
ermeneutico letterale, ex art. 12 Preleggi che la condotta del debitore sia stata volta ad occultare
situazioni di fatto idonee ad influire sul giudizio dei creditori, cioè tali che se conosciute, avrebbero
presumibilmente comportato una valutazione diversa e negativa della proposta e, dunque, che esse
siano state “accertate” dal commissario giudiziale, cioè da lui “scoperte”, essendo prima ignorate
dagli organi della procedura o dai creditori (ved. rivista EX PARTE CREDITORIS, commento alla
sentenza Cassazione civile, sezione prima - 23 Giugno 2011 - n° 13817).
Alla stregua di detto principio, la Corte di Cassazione con la sentenza n. 3543 del 14 febbraio 2014
ha ritenuto non ricompreso nell’ipotesi di “ATTO DI FRODE” ex art. 173 rd 267/1942 il
comportamento del debitore che, già nel ricorso, aveva indicato gli atti di disposizione del
patrimonio, stipulati anteriormente, implicanti la concessione di diritti di godimento a terzi e che,
successivamente esaminati dal commissario giudiziale, erano stati suscettibili di depauperare il
detto patrimonio.
In base ad una precedente sentenza (v. Cass. 13817/2013), l’atto di frode, per avere rilievo per la
revoca dell’ammissione deve essere “accertato” dal commissario giudiziale e quindi dallo stesso
scoperto. Gli atti di depauperamento del patrimonio già esposti nell’stanza di ammissione al
concordato, se non suscettibili di legittimare una procedura ex art. 173 rd 278/1942, possono
comunque essere valutati dal P.M. come autonoma notizia di reato per iniziare un procedimento
penale contro l’imprenditore, ad es ai sensi dell’art. 236 l.f.
In particolare, sia nell’art. 33 l.f. che nell’art. 173 è previsto un obbligo di segnalazione di fatti
anche penalmente rilevanti in capo rispettivamente al curatore ed al commissario giudiziale, che
deve essere però indirizzata rispettivamente al giudice delegato ed al Tribunale e non direttamente
al P.M. (come prevede l’art. 331 cpp)
Si fa presente che comunque la relazione ex art. 33 l.f. viene trasmessa al P.M. dal Tribunale
fallimentare. Non così avviene invece per la relazione del commissario giudiziale. Spesso il
Tribunale si limita a comunicare al P.M. l’apertura del procedimento per la revoca dell’ammissione
al concordato, dando atto di quanto rilevato dal commissario giudiziale, ma senza trasmettere la sua
relazione.
La mancata trasmissione al P.M. della relazione del commissario giudiziale può comportare delle
conseguenze sul potere dovere del .M. di intervenire per richiedere il fallimento e per iniziare una
autonoma indagine su specifici reati così ì come segnalati dal commissario liquidatore nella
relazione ex art. 173 rd 267/1942 (appropriazione indebita ai danni della azienda, falsi in bilancio)
Analogamente non viene solitamente trasmessa la relazione del commissario liquidatore ex art. 172
l.f. Tale mancata trasmissione compromette la possibilità per il P.M. di rilevare, anche combinando
il contenuto della relazione ex art. 172 rd 267/1942 con quanto emerge da altri procedimenti penali,
la sussistenza di reati nella condotta dell’imprenditore che abbia presentato istanza di concordato.
Tale mancata trasmissione impedisce altresì al P.M. di rilevare di ufficio/accertare condotte
rientranti nell’ambito dell’art. 173 l.f. che il commissario giudiziale non abbia rilevato.
Si può ritenere comunque che il commissario giudiziale sia tenuto a seguire la procedura ex art. 173
l.f. laddove ravvisi le ipotesi ivi contemplate. Laddove rilevi altre ipotesi di reato (ad es. in materia
tributaria) il commissario giudiziale dovrà riferire direttamente al P.M. ex art. 331 cpp.
In presenza di specifiche ipotesi di reato, che impongano ad es. interventi urgenti da parte del P.M.
(sequestri, perquisizioni) il curatore informa solitamente il P.M. anche prima della presentazione
della relazione ex art. 33 l.f. Analoghi accorgimenti dovrebbe adottare il commissario giudiziale
prima ed indipendentemente dalla presentazione delle relazioni ex art. 172 e 173 rd 267/1942
Altro interrogativo riguarda il ruolo del P.M. nell’ambito delle procedure per gli accordi di
ristrutturazione. Il caso è stato affrontato dalla Corte di appello di Roma Nella decisione del
15.8.2012 In quella decisione si è stabilito tra l‘altro che
- è onere del tribunale verificare, anche al fine di accertare la decorrenza del termine per proporre
l’opposizione, l’avvenuta pubblicazione dell’accordo di ristrutturazione nel registro delle imprese;
- laddove non siano presentate opposizioni all’omologa non è necessario realizzare il contraddittorio
con la fissazione dell’udienza camerale;
- l’attestazione della veridicità dei dati aziendali di cui all’art. 161, terzo comma, l. fall., non è
richiesta dalla previsione di cui all’art. 182-bis l. fall (vigente, ratione temporis, ante introduzione
delle modifiche di cui al d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla Legge 7
agosto 2012, n. 134, c.d. “Decreto Sviluppo”), il quale si limita(va) a statuire che la relazione del
professionista deve riferire sull’attuabilità dell’accordo di ristrutturazione, con particolare
riferimento alla sua idoneità ad assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei;
- nel caso in cui non siano state formulate opposizioni all’omologa dell’accordo di ristrutturazione,
il sindacato del tribunale deve limitarsi ad un controllo di legittimità formale.
Il Legislatore ha omesso di disciplinare il procedimento di omologazione dell’accordo di
ristrutturazione e di opposizione all’omologa, essendo solamente previsto dalla norma che “il
Tribunale, decise le opposizioni, procede all’omologazione in camera di consiglio con decreto
motivato”. Nel silenzio della norma si sono registrati orientamenti contrastanti circa la necessità che
il tribunale, anche in assenza di opposizioni, proceda alla fissazione di un’udienza camerale.
Secondo alcuni, laddove non pervengano opposizioni, il tribunale può procedere immediatamente
alla valutazione dei presupposti per l’omologazione, senza la necessità di instaurare il
contraddittorio e garantire il diritto di replica al proponente.
Vi è un opposto orientamento, per il quale è invece sempre necessaria la fissazione di un’apposita
udienza camerale in applicazione dei principi generali e delle regole dettate dal codice di procedura
civile in tema di procedimenti in camera di consiglio di cui agli artt. 738 e ss. c.p.c.. Tale soluzione
era stata adottata da Trib. Palermo, 27 marzo 2009, con nota di Fischetti, Osservazioni in tema di
accordi di ristrutturazione dei debiti, in Dir. Fall., 2010, 2, 503).
Si tenga conto che in caso di fissazione di un’udienza per l’omologazione il ricorrente ha la
possibilità di fornire chiarimenti od integrazioni documentali, il Tribunale può acquisire mezzi
istruttori anche d’ufficio (in un precedente il tribunale ha deciso di nominare un consulente tecnico
per la verifica dei requisiti ex art. 182-bis l. fall.: Trib. Rimini, 20 marzo 2009, in ilcaso.it) ed il
pubblico ministero (al quale il ricorso dovrebbe essere comunicato) ha la facoltà di intervenire nel
procedimento di omologa.
Tale secondo orientamento appare preferibile, quantomeno nell’ipotesi in cui il tribunale sia
orientato verso una dichiarazione d’inammissibilità e/o rigetto della domanda: in siffatta ipotesi, la
convocazione del debitore appare dovuta, vuoi in relazione a principi generali di rango
costituzionale (giusto processo e diritto di difesa), vuoi in forza di un’applicazione analogica della
disciplina del concordato preventivo.
La disamina degli strumenti a disposizione del P.M. per essere un interlocutore attivo del giudice e
delle altre parti private nelle procedure fallimentari induce a ritenere che il ruolo del P.M. possa
essere incisivo solo nel momento in cui quest’ultimo sfrutti gli strumenti giuridici a sua
disposizione e le conoscenze che l’analisi di procedimenti penali, di misure di prevenzione, possono
mettere a sua disposizione
Si può concludere con due citazioni che verosimilmente riassumono le condizioni in base alle quali
il P.M. possa svolgere al meglio il suo ruolo:
"Non c'è sostitutivo della conoscenza" (Deming William Edwards - guru della qualità).
“Un investimento nel campo della conoscenza paga i migliori interessi" (Benjamin Franklin)
* Procuratore Aggiunto della Repubblica – Genova