La macchina che ha cambiato il mondo
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La macchina che ha cambiato il mondo
Paolo Bonifazi * La macchina che ha cambiato il mondo In questa relazione parlerò del mio ambito di interesse, l’organizzazione produttiva, parlerò anche di automobile, di come si è evoluta la sua fabbricazione, volendo porre l’accento non tanto sul confronto tra modelli organizzativi, quanto sul fatto che nel XX secolo la produzione di massa delle automobili ha cambiato il mondo, e che l’industria dell’automobile è stata in ogni momento punto di riferimento, germe di sviluppo e interprete del pensiero organizzativo. Il titolo “La macchina che ha cambiato il mondo” trae spunto da un volume presentato negli anni ‘90 da tre studiosi americani del MIT che mostravano all’occidente il carattere innovativo dell’organizzazione produttiva giapponese, coniando il termine “lean production”. L’idea di un carro in grado di muoversi senza ricorrere alla forza animale ha attraversato i secoli; un importante prototipo che segna l’inizio di un concreto interesse verso le macchine semoventi è il carro a vapore di Cugnot del 1769 (vedi foto a lato), ancora conservato al museo nazionale delle arti e dei mestieri di Parigi. Ma è durante il XIX secolo, il secolo delle invenzioni, che si mettono a punto idee e prototipi che poi porteranno al moderno concetto di automobile: nel 1802 lo svizzero Isaac de Rivaz mette a punto la prima vettura con motore a combustione interna; il 1839 fu l'anno della prima auto elettrica, introdotta da Robert Anderson ad Aberdeen; nel 1860 il belga Étienne Lenoir fu in grado di sperimentare un propulsore alimentato a gas, che venne applicato ad alcuni tricicli denominati Hippomobile. Nell’ultimo trentennio del secolo le esperienze sono mature, esistono già varie fabbriche di automobili, Nikolaus August Otto ha messo a punto il motore quatto tempi; le automobili però non sono ancora strumenti di uso comune, sono per quei pochi che se le possono permettere e che ne fanno simbolo di distinzione nella vita di società o nelle prime gare. Siamo ormai a fine ‘800 inizi ‘900, la seconda rivoluzione industriale, è nel vivo; quelle dell’acciaio e dell’energia elettrica sono le tecnologie che innescano il cambiamento, America e Germania contendono il primato all’Inghilterra. È proprio agli Stati Uniti che bisogna guardare per capire come si evolve il pensiero in relazione all’organizzazione produttiva e all’organizzazione aziendale in generale. In particolare si fa strada l’idea che occorre ampliare le potenzialità produttive e tecnologiche, superando i metodi arcaici di conduzione delle aziende improntati soltanto sullo ‘stile’ individuale e sulle capacità pseudo artigianali dell’imprenditore. Suscitano interesse lo studio dei criteri organizzativi introdotto da Frederick Taylor (lo scientific management), nonché i “principi di direzione” di Henri Fayol. Linea di produzione Ford Motor Company 1913 Per Taylor ampliare le potenzialità produttive significa ragionare di efficienza del lavoro: esiste un metodo migliore (one best way) per realizzare una attività. Così introduce concetti nuovi come lo studio di tempi e metodi. Queste idee trovano un’importante sintesi nell’esperienza di Henry Ford che nel 1913, a Highland Park (Michigan), mise a punto la prima linea di montaggio di automobili (vedi foto a lato), che riuscì immediatamente a aumentare di otto volte la velocità di assemblaggio. Il modo di produrre auto di Ford aveva cambiato il modo di concepire la produzione, nel 1915 la Ford Motor Company era il primo fabbricante ad aver prodotto un milione di esemplari di un singolo modello. Il fordismo diede vita ad un nuovo modello industriale caratterizzato da una supposta illimitatezza dei potenziali acquirenti, esisteva una serie infinita di prodotti da lanciare in un mercato ancora vergine, l’unico limite sembrava essere rappresentato dalla capacità di fabbricare: economia di scala e standardizzazione dei prodotti neutralizzavano i costi, il taylorismo era la filosofia produttiva. L’industria assumeva un ruolo centrale nella società, si andava affermando un modello di razionalità pianificatrice che si estendeva dalla fabbrica stessa alla società: la razionalità tecnica come modello nella razionalità sociale. che essa introdusse. Ford stesso cercò di individuare dei rimedi introducendo la settimana corta e l’orario di lavoro ridotto a otto ore giornaliere. Nel 1927 Ford celebra il primato delle quindici milioni di vetture prodotte Qualcuno pensa a Ford come all’inventore dell’automobile, in realtà egli contribuì alla sua diffusione di massa, diede sintesi ad una sua convinzione: “C'è vero progresso solo quando i vantaggi di una nuova tecnologia diventano per tutti”. È così che tra il 1915 e il 1920 la metà delle automobili nel mondo erano di marca Ford, e nel 1927 Ford celebrava la produzione di quindici milioni di vetture del “modello T”; l’automobile era ormai tecnologia a disposizione di tutti, le macchine avevano cambiato il mondo, il modo di vivere nelle città e nelle campagne, ed erano ormai strumento di svago e di lavoro. Parlando di catena di montaggio occorre non trascurare anche gli effetti negativi legati alla parcellizzazione del lavoro, ai ritmi incalzanti, alla monotonia e mancanza di autonomia Il film “Tempi moderni” rappresentava il disagio del lavoro nella catena di montaggio. Già negli anni ’30 si cominciò a sviluppare attenzione in relazione ai parametri psico-fisiologici e alla dimensione sociale del lavoro. Le teorie comportamentistiche introdussero nell’organizzazione aziendale i concetti delle “scienze del comportamento umano” (psicologia, sociologia, antropologia). I primi studi sono quelli della scuola delle relazioni umane di Elton Mayo (1927-1932) e della scuola motivazionale con le opere di Abraham Harold Maslow e Frederick Hezberg sulla motivazione individuale e collettiva al lavoro. Importanti anche gli assunti sull’uomo e sul suo comportamento lavorativo di Douglas McGregor (1940-1965). Negli anni ’50 si andava incrinando un altro dei paradigmi con cui si era sviluppata l’esperienza produttiva di automobili d’inizio secolo: l’illimitatezza del mercato. Non era più l’offerta di beni che creava la domanda. La diffusione del prodotto, la varietà dei modelli, delle case costruttrici, mercati non più nazionali ma globali e la concorrenza evidenziano l’opportunità di inseguire le richieste della clientela. Ed anche l’organizzazione produttiva si andava adeguando a queste necessità. Per capire come il mondo dell’organizzazione si adatterà a questi cambiamenti occorre spostarsi in Giappone, dove la dinastia Toyoda sta sviluppando ormai da due generazioni il metodo giapponese di costruire automobili, tramandando dei valori e concetti che diventeranno i pilastri della casa Toyota, lo spirito aziendale (il cosiddetto “Toyota way”) che poi darà vita all’universalmente noto TPS (Toyota production systems) detto anche “lean thinking”. Non più il concetto tayloriano dell’operaio parte della macchina, che esegue movimenti ritmici, non più il concetto di indifferenziazione del fattore lavoro, ma quello di “jidoka”, macchina pensante: l’uomo rende la macchina pensante, è parte attiva dei processi di miglioramento. Questi aspetti sono ben sintetizzati dalle parole di Taiichi Ohno "Lo stile Toyota non consiste nel creare risul- tati col duro lavoro. Il nostro è un sistema che afferma che non ci sono limiti alla creatività delle persone. Le persone non vanno in Toyota per lavorare, vanno in Toyota per pensare". L’industria Giapponese del dopoguerra aveva scarsi mezzi a disposizione, non vi si potevano trovare le economie di scala della produzione americana. Kiichiro Toyoda pose allora la propria attenzione ai vantaggi che si potevano ricavare dallo sviluppo delle attività logistiche. Al fine di rendere essenziale il flusso produttivo nasceva il “just in time”, quello che serve quando serve. Vengono sviluppati e trasformati in principi organizzativi; nascono i concetti di “produzione pull” (tirata dalle vendite), di “tack time” (ovvero di produzione che segue il ritmo del mercato), di “one piece flow” (produzione impegnata a realizzare flussi flessibili di pezzi singoli anziché di lotti), di “kaizen” (miglioramento continuo). L’idea di “lean production” si contrappone all’idea di produzione di massa, centrata su grandi volumi, sulla standardizzazione spinta e sulla indifferenziazione del fattore lavoro. Si articola invece sulla flessibilità, sulla agilità delle strutture, sull’apporto creativo dei singoli che partecipano al processo produttivo; per dirlo ancora con le parole di Taiichi Ohno, il padre del metodo: “Tutto quello che dobbiamo fare è concentrarci sulle tempistiche, dal momento in cui riceviamo un ordine fino a quando incassiamo il pagamento, e fare di tutto per ridurle, eliminando le attività prive di valore aggiunto”. I principi del metodo Toyoda vengono spesso rappresentato con diagrammi simili a quello sopra esemplificato Negli anni ’90 Giovanni Agnelli in prefazione al volume “La macchina che ha cambiato il mondo” scriveva queste parole “…l’esperienza giapponese è fondata sulla diversità di metodi e strumenti, e non su insormontabili differenze di mentalità; e può essere un utile stimolo a ricercare e perseguire senza pedisseque imitazioni vie di successo competitivo conformi alla nostra cultura e alla nostra tradizione industriale”. Le parole di Agnelli testimoniano come ancora una volta l’industria automobilistica sia stata motore di cambiamento delle logiche e dei modi di interpretare il problema della produzione e l’organizzazione in generale, in questo senso si può affermare che la macchina ha cambiato il mondo. Riunione tenuta il 3 aprile 2014 * Socio del Club dal 24.01.2013