1 SCARFONE Marianna La psichiatria coloniale: il caso della Libia
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1 SCARFONE Marianna La psichiatria coloniale: il caso della Libia
SCARFONE Marianna [email protected] La psichiatria coloniale: il caso della Libia Testo per il Seminario Dottorandi, Canazei 21-23 giugno 2012 Scuola superiore di studi storici, geografici, antropologici 1. Introduzione Il mio lavoro di ricerca si propone di indagare qual è stato il posto della psichiatria nell’ambito della penetrazione coloniale operata dall’Italia in Africa. Il mio interesse verte sulla nascita e gli sviluppi della disciplina psichiatrica, con le relative scuole e dottrine, istituzioni e apparati amministrativi, non solo nelle colonie italiane, Libia e territori del Corno d’Africa, ma anche nelle colonie francesi – protettorati e dipartimenti – del Maghreb. In questo senso l’approccio comparativo giocherà un ruolo significativo, secondo due modalità di applicazione di tale approccio: classicamente, esso permetterà di confrontare le problematiche e le soluzioni messe in campo dalle amministrazioni coloniali francesi e italiane e dai medici attivi nei territori d’oltremare relativamente alla questione della gestione sanitaria e dell’assistenza psichiatrica, mettendone in luce analogie, differenze ed eventuali filiazioni. Inoltre tale approccio sarà utile per indagare transfer nella storia della psichiatria e della sua peculiare declinazione coloniale e per rilevare network scientifici all’interno dei quali medici psichiatri di diverse provenienze interagivano. L’arco temporale che la ricerca copre va dall’ultimo decennio del XIX secolo – quando amministratori e medici francesi percepiscono quello dei “folli” nelle colonie come un problema da trattare e risolvere – sino alla decolonizzazione, quando le strutture di cura psichiatrica nelle colonie passano sotto la giurisdizione e la gestione di Stati nuovi e la disciplina definita negli anni Trenta “psichiatria coloniale” assume dei connotati e delle motivazioni diverse, sotto il nome di etnopsichiatria. Per ciascuna realtà coloniale, le date significative che tracceranno i confini temporali di ogni singola trattazione e si intrecceranno a costituire una griglia cronologica che farà da sfondo all’intera storia che qui ci interessa, sono diverse. Nella presente relazione verranno esposti i passaggi più significativi della storia della psichiatria coloniale nella colonia Libica. 1 La ricerca intende mettere a tema l’incontro di alcune specifiche forme di sapere – all’interno del vasto e composito orizzonte delle scienze coloniali che spazia dall’antropologia al diritto, dalla cartografia alla sociologia, dall’urbanistica alla medicina – con la concezione di una “pénétration scientifique” e per ciò stesso “pacifique”, nonché di una “mise en valeur”1 di uomini e terre, analizzando lo sviluppo delle istituzioni coloniali – di assistenza sanitaria e psichiatrica in particolare – presenti a livello di società civile nelle terre d’oltremare che costituiscono il corollario pratico di questa concezione. In questo senso, una certa attenzione merita anche il rapporto che lega la disciplina e la pratica psichiatrica alla creazione di un’egemonia e all’esercizio di un controllo sulle popolazioni sottomesse in “situazione coloniale”2. A proposito dei rapporti di forza e delle relazioni di potere che nei contesti coloniali si tende a “naturalizzare”, con il supporto delle fonti mi propongo di verificare o smentire, avvalorare o attenuare, l’ipotesi dell’etnopsichiatra Roberto Beneduce, secondo cui “il tipo di rapporti che si stabilirono in epoca coloniale tra coloni e colonizzati” caratterizzati da violenza simbolica – intesa à la Bourdieu come il potere di imporre significati, “il potere di agire sul mondo agendo sulla rappresentazione del mondo”3, dissimulando i rapporti di forza – “conobbero proprio nelle scienze del corpo e nei discorsi sulla salute mentale espressioni esemplari”4. 2. La storiografia relativa alla psichiatria coloniale Negli ultimi anni la questione della psichiatria coloniale è stata problematizzata, la storia della psichiatria e la storia del colonialismo si sono intrecciate, facendo irrompere nel campo della storiografia una nuova alterità, portatrice di una doppia differenza: si tratta dell’alienato nelle colonie, in cui una generica eppur canonizzata alterità (la subalternità derivante dalla razza) si somma all’alienità (lo stigma del disturbo psichico)5. Si tratta di termini ricorrenti nella propaganda francese a favore delle colonie, nonché nei testi di amministratori e “savants” coloniali. 2 Cfr. G. Balandier, La situation coloniale: approche théorique, “Cahiers internationaux de sociologie”, 11, 1951, pp. 44-79. 3 P. Bourdieu, L. Wacquant, Réponses. Pour une anthropologie réflexive, Seuil, Parigi 1992, p. 123. 4 R. Beneduce, Etnopsichiatria. Sofferenza mentale e alterità fra Storia, dominio e cultura, Carocci, Roma 2007, p. 29. 5 La storia della psichiatria coloniale si colloca in un più vasto filone di studi sulla medicina nelle colonie. Cfr. ad es.: D. Arnold, Colonizing the Body: State Medicine and Epidemic Disease in Nineteenth Century India, University of California Press, Berkley 1996; L. Mounnais-Rousselot, Médecine et Colonisation: l’Aventure Indochinoise, 18601939, CNRS, Paris 1999 ; P. Pellitteri, Igea in colonia: biomedicina, istituzioni sanitarie e professioni mediche a Tripoli (1880-1940), Phd thesis, EUI 2009. Vasta è anche la letteratura sulle scienze nelle colonie, ad. es.: J. C. 1 2 I primi contributi e i primi interrogativi in questo senso vengono dalla storica inglese Megan Vaughan, che nel 1983 pubblica l’articolo Idioms of Madness: Zomba Lunatic Asylum, Nyasaland, in the Colonial Period (“Journal of Southern African Studies”, 9, 1983, pp. 218-238). L’autrice mostra come attraverso lo studio delle dinamiche di funzionamento e di internamento in una struttura di custodia e cura psichiatrica si possano osservare i conflitti di ordine politico, sociale e culturale che caratterizzano la situazione coloniale. Se la ricerca successiva di Vaughan si colloca nella cornice degli studi sulla pratica medica più in generale in ambito coloniale (cfr. il suo Curing their Ills. Colonial Power and African Illness, Polity Press, Cambridge 1991), saranno altri studiosi, sempre anglofoni, a proseguire nella direzione indicata da Vaughan – secondo cui la psichiatria può essere ritenuta un sito privilegiato per indagare il rapporto tra sapere e potere durante il colonialismo – ampliando lo sguardo verso realtà diverse, ma sempre afferenti l’ampio impero della corona britannica. Esempi di storiografia sulla psichiatria coloniale sono i seguenti: Mad Tales from the Raj: the European Insane in British India, 1800-1858 (Routledge, New York 1991) di Ernst Waltraud, Colonial Psychiatry and the African Mind (Cambridge University Press, 1995) di Jock McCullock, Imperial Bedlam. Institution of Madness in Colonial Southwest Nigeria (University of California Press, 1999) di Jonathan Sadowsky. Anche per quanto riguarda le colonie francesi, i primi studi significativi si sviluppano negli anni Novanta. Si concentrano sullo sviluppo della psichiatria nel Nord Africa, mentre non esistono studi sulla disciplina, la pratica e le istituzioni psichiatriche nelle colonie francesi dell’Estremo Oriente. La tesi dello psichiatra Jean-Michel Bégué Un siècle de psychaitrie française en Algérie 1830-1939 (Paris 1989) inaugura questo filone di studi; seguono L’homme maghrebin dans la littérature psychiatrique di Robert Berthelier (L’Harmattan, Paris 1991), La Psychanalyse au pays des Saints. Les débuts de la psychanalyse et de la psychiatrie au Maroc di Jalil Bennani (Le Fennec, Casablanca 1996). Nei tre casi, gli autori sono psichiatri che esercitano la professione e contemporaneamente si dedicano alla ricerca storica, mossi da forti motivazioni personali. Negli anni successivi l’antropologo francese René Collignon pubblica diversi articoli: Riflessioni sulla storia della psichiatria in Africa occidentale (“I fogli di ORISS”, 5, 1996, pp. 9-28), Pour une histoire de la psychiatrie coloniale française. A partir de Vatin, (a cura di), Connaissances du Maghreb. Sciences sociales et colonisation, CNRS, Paris 1984 ; R. Bates, V. Y. Mudimbe, J. O’Barr (a cura di), Africa and the Disciplines: the contributions of Research in Africa to the Social Sciences and the Humanities, University of Chicago Press, Chicago 1993; M. Osborne, Nature and the Exotic and the Science of French Colonialism, Indiana University Press, Bloomington 1993; L. Pyneson, Civilizing Mission: Exact Sciences and French Overseas Expansion, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1993; D. J. Sherman, The Arts and Sciences of Colonialism, “French Historical Studies”, 23, 2000, pp. 707-729; E. Sibeud, Une science impériale pour l’Afrique? La construction des savoirs africanistes en France, 1878-1930, Editions de l’EHESS, Paris 2002. 3 l’example du Sénégal, (“L’autre”, 3, 2002, pp. 455-480) e La psychiatrie coloniale française en Algérie et au Sénégal (“Revue Tiers Monde”, 187, 2006, pp. 527-546). Infine, il lavoro più recente e più completo sulla psichiatria nel Maghreb francese è invece scritto da uno storico (americano): si tratta di Colonial Madness: Psychiatry in French North Africa (University of Chicago Press, 2007), di Richard Keller, che nel corso degli anni 2000 aveva giù pubblicato diversi contributi (Madness and Colonization. Psychiatry in the British and French Empires 1800-1962, “Journal of Social History”, 35, 2001, pp. 295-326; Pinel in the Maghreb: Liberation, Confinement and Reform in French North Africa, “Bulletin of the History of Medicine”, 79, 2005, pp. 459-499). Per quanto concerne le colonie italiane l’interesse è decisamente recente. Nel 2010 lo psichiatra Luigi Benevelli ha pubblicato La psichiatria coloniale italiana negli anni dell’Impero 1936-1941 (Argo, Lecce 2010), volume preannunciato dall’articolo La psichiatria coloniale italiana negli anni dell’Impero (1936-1941): prime acquisizioni (“I sentieri della ricerca”, 2009, pp. 317-328) e seguìto da Dopo la perdita delle colonie: una psichiatria post-coloniale italiana? I casi della Libia e della Somalia (“I sentieri della ricerca”, 2010, pp. 179-206), nonchè da Il fascino dell’Oriente. Una grande passione d’amore e una grande passione professionale nella vita e nell’opera di Angelo Bravi (in Orientalismi italiani, a cura di Gabriele Proglio, Antares, Alba 2012, pp. 134-149). Nelle parole di Benevelli, “la storia della psichiatria coloniale italiana attende ulteriori nuovi contributi che potranno derivare dalla consultazione e dallo studio delle cartelle cliniche dei pazienti trasferiti dalle colonie agli ospedali psichiatrici civili e giudiziari del Regno e dalle ricerche presso gli archivi dell’amministrazione civile e sanitaria ospedaliera italiane”6 nelle colonie. La metodologia comparativa, che a partire dagli anni Novanta ha investito il campo della ricerca storica, è stata declinata, per ciò che concerne la storia della scienza e della medicina, anche nel senso di transfer di conoscenze, di tecniche e teorie in un contesto internazionale allargato. I casi di studio privilegiati non sembrano più essere più la singola nazione o la singola istituzione, ma si cerca di articolare più realtà, distinte e comparabili, analizzandole sulla base delle reciproche influenze similarità differenze, ricercando rimandi e connessioni, contrasti e discontinuità. Nella storia della psichiatria i primi lavori “comparativi”, in genere volumi collettanei, giustapponevano studi di casi commensurabili, 6 L. Benevelli, La psichiatria coloniale italiana negli anni dell’Impero (1936-1941), Argo, Lecce 2010, p. 136. 4 spesso relativi a una medesima area geografica7. Lavori più recenti forniscono panoramiche storiografiche e spesso interdisciplinari sulla psichiatria e la salute mentale che abbracciano paesi diversi, europei ed extraeuropei8. È il caso di Psychiatry and Empire9, la prima raccolta di saggi che affrontano la questione psichiatrica in realtà coloniali diverse. Waltraud Ernst, storica della psichiatria nelle propaggini imperiali della Gran Bretagna, curatrice di Transnational Psychiatries10, suggerisce altre direzioni di ricerca. Invita a concentrare l’analisi sulla “circolazione di idee e ideologie tra le diverse realtà coloniali, a costituire una rete, che è ad un tempo struttura e processo” 11; a riporre la propria attenzione “non solo su transfer in sé, ma anche su pratiche che per ragioni diverse non subirono questo processo di implementazione nelle diverse realtà prese in considerazione”12. 3. Quesiti che attraversano e motivano la ricerca La mia ricerca si colloca dunque nel quadro bibliografico appena tracciato, all’interno di un campo di studi non eccessivamente battuto e che “attende contributi”; essa si pone l’obiettivo di ricostruire le vicende di creazione ed esistenza delle istituzioni asilari, nonché le traiettorie dei protagonisti della psichiatria coloniale: medici psichiatri e pazienti. Gli apparati clinici e istituzionali della psichiatria in ambito coloniale, le sue teorie e i suoi protagonisti, possono essere studiati prendendo in esame da un lato le forme della disciplina psichiatrica, dall’altro, quelle della governamentalità coloniale. L’articolazione di questi aspetti può essere analizzata secondo i seguenti assi: il funzionamento delle istituzioni sanitarie nella colonia nei suoi rapporti con la “politica sociale” delle amministrazioni coloniali; il processo di elaborazione teorica e clinica e la sua incorporazione al progetto coloniale; le “traiettorie” dei medici operanti nella colonie, come sintomatiche dei legami e W. F. Bynum, R. Porter Roy, M. Shepherd (a cura di), The Anatomy of Madness. Essays in the History of Psychiatry, Tavistock, Londra e New York 1988; B. Forsythe, J. Melling (a cura di), Insanity Institutions and Sociaty, 18001914: A Social History of Madness in Comparative Perspective, Routledge, Londra e New York 1999. 8 R. Porter, D. Wright, The Confinement of the Insane: International Perspectives, 1800-1965, Cambridge University Press, Cambridge 2003; M. Gijswijt-Hofstra et alii (a cura di), Psychiatric Cultures compared: Psychiatry and Mental Care in the XXth Century: Comparisons and Approaches, Amsterdam University Press, Amsterdam 2005. 9 S. Mahone, M. Vaughan (a cura di), Psychiatry and Empire, Cambridge University Press, Cambridge 2007. 10 W. Ernst, T. Mueller (a cura di), Transnational Psychiatries: Social and Cultural Histories of Psychiatry in Comparative Perspective, 1800-2000, Cambridge Scholars Publishing, Cambridge 2010. 11 W. Ernst, Practising ‘Colonial’ or ‘Modern’ Psychiatry in Modern India?, in W. Ernst e T. Mueller (a cura di), Transnational Psychiatries…, cit., pp. 80-114 (82). 12 Ivi, p. 88. 7 5 degli scambi sia tra il centro metropolitano e tra le periferie dell’oltremare, sia tra le differenti periferie. La ricerca esplora dunque i passaggi che portano all’identificazione della questione psichiatrica come campo d’azione della tecnocrazia coloniale, nonché le fasi di progettazione degli ospedali e dei reparti psichiatrici, di attivazione degli stessi e di “confronto” della “macchina sanitaria” con la popolazione. Essa mira inoltre a delineare le relazioni degli psichiatri presenti in Libia e nel Corno d’Africa con l’establishment accademico metropolitano, con le amministrazioni coloniali e le rispettive scelte di politica coloniale, nonché con gli altri rappresentanti della medesima disciplina impegnati in analoghe missioni civilizzatrici nei territori oltremare di altre potenze13, le quali spesso – come Francia e Inghilterra – vantavano più solida esperienza nelle “imprese egemoniche” in campo coloniale. Altro obiettivo è quello di evidenziare i legami tra la psichiatria coloniale italiana e la psichiatria coloniale francese, documentando scambi e relazioni tra le due realtà, a supporto dell’ipotesi di una certa trasversalità periferica, di scambio di paradigmi ed esperienze ai margini degli imperi tra rappresentanti dei diversi progetti coloniali. Parallelamente a ciò andrebbe verificata o smentita un’unidirezionalità nella relazione tra metropoli e territori d’oltremare14, in base alla quale la colonia farebbe propri paradigmi elaborati in patria e pratiche ivi in uso, apportando raramente contributi di innovazione o comunque di sperimentazione. Si inserisce in questa riflessione l’ipotesi da diversi studiosi avanzata, e nella mia ricerca da verificare, del territorio oltremare come laboratorio “per testare, mettere a punto e perfezionare una serie di progetti medici, scientifici e sociali prima della loro implementazione nei contesti europei”15. Nel caso della psichiatria infatti “le colonie hanno offerto un quadro di sperimentazione decisivo per stabilire una forma 'biocratica' di igiene mentale, in cui le scienze dello spirito potessero apportare il loro contributo alla 'missione civilizzatrice' ” 16 diretta verso “popolazioni di costituzione fisica e mentale diversa”17. La mia attenzione, come già enunciato, è rivolta al Maghreb francese, ma non sono esclusi riferimenti all’imperialismo britannico e alle sue politiche sanitarie. 14 Nel caso francese l’unidirezionalità della relazione nel senso madrepatria-colonia è stata smentita dalla ricerca di Keller. 15 Keller osserva a questo proposito che la “global expansion was by this logic a constitutive factor in the development of modern science rather than its mere by-product”, Colonial Madness: Psychiatry in French North Africa, University of Chicago Press, Chicago 2007. 16 Ivi, p. 6. 17 L. Lallement, Essai sur la mission de la France, Seuil, Parigi 1944, p. 183, citato in F. Jacob, La psychiatrie française face au monde colonial au XIXème siècle, “Sources, Travaux historiques”, 34-35, 1994, pp. 365-373. 13 6 Un’altra questione a mio avviso rilevante riguarda il contributo apportato dalla psichiatria a sostegno dei paradigmi che l’antropologia andava elaborando per declinarli poi in chiave razzistica18. Ritengo perciò proficuo verificare in che misura l’antropologia, impegnata a “trovare una scala unica e vera su cui misurare le differenze […] che avesse al suo culmine nell’uomo bianco, adulto e di classe abbiente”19, cercasse conferme nella psichiatria (nella biologia, nella medicina), indagando i contatti reali tra le due discipline in ambito coloniale, ossia come l’una si appoggiasse all’altra. Senza trascurare il caso francese, anzi utilizzando quanto è già stato studiato come stimolo per leggere le vicende italiane, il mio obiettivo è dunque quello problematizzare e di apportare un contributo rispetto a un tema sinora poco approfondito negli studi italiani di storia coloniale e in quelli di storia della psichiatria. Indagando il corpus di saperi che a partire dagli anni Trenta del Novecento costituisce la “psichiatria coloniale” (nosografie, studi sulle cause delle malattie, aspetti clinici e trattamenti dei disturbi) e l’organizzazione di un sistema di cura o internamento afferente in maniera specifica alla “situazione coloniale” (luoghi di cura, competenze mediche e infermieristiche), metterò in luce gli intrecci tra il côté teorico e quello pratico della psichiatria coloniale. È noto infatti che alla base dell’assistenza e del trattamento psichiatrico vi è un sistema di idee sulla malattia mentale, al cui interno si operano continui aggiustamenti, legati alla ricerca scientifica e al contesto storico-culturale che ospita e costruisce questo sistema; oltre il sistema di idee (la teoria, la dottrina o ancora il discorso psichiatrico) vi è l’organizzazione pratica, la parte operativa: la valutazione politica dell’opportunità di implementare o smantellare centri di cura (ospedali, manicomi, dispensari, consultori), la decisione di utilizzare certi trattamenti piuttosto che altri. Esempi di questa interrelazione tra aspetti teorici e aspetti applicativi, in cui uno alimenta l’altro, uno pone questioni cui l’altro risponde, si ritrovano nella psichiatria coloniale. Ad esempio, se il colono europeo trasferitosi in Algeria presenta forme insolite di disturbo mentale, la disciplina che si colloca tra la patologia tropicale e la psichiatria tradizionale dovrà cercare delle risposte, dei modelli esplicativi. O ancora, se non è opportuno per il decorso della malattia far compiere agli alienati lunghi viaggi via nave dal Nord Africa a Marsiglia o a Palermo, diventa necessario costruire degli ospedali psichiatrici nelle colonie o nei protettorati francesi del Nord Africa (Algeria, Tunisia e Marocco), nonché nella Libia italiana. Sempre nelle parole di Keller, “the most novel element that colonial psychiatrists brought to their field was the development of an empirically based sub-speciality within the psychiatric discipline for the study of the relationship between race and mind”, Colonial Madness, cit., p. 7. 19 P. V. Babini, M. Cotti, F, Minuz, A. Tagliavini, Tra sapere e potere. La psichiatria italiana nella seconda metà dell’Ottocento, il Mulino, Bologna 1982. 18 7 Infine, ad esempio, se negli ospedali è ritenuta una misura utile distribuire i pazienti secondo criteri etnico-religiosi, anche nelle scelte inerenti la costruzione delle strutture di cura e internamento dei malati psichiatrici, bisognerà dare seguito a questa istanza di separazione. 4. Avanzamento della ricerca Attualmente la mia ricerca procede soprattutto su due fronti: la situazione della psichiatria in Libia negli anni che vanno dal 1912 al 1952, nonché le traiettorie di medici e pazienti in questo ambito; la parallela teorizzazione di una “psichiatria coloniale”, che pur assumendo i caratteri di fondo della disciplina psichiatrica metropolitana, se ne differenzia negli anni Trenta. Rimangono invece sostanzialmente inesplorati altri due aspetti: lo sviluppo della psichiatria nel corno d’Africa durante il periodo della colonizzazione italiana; l’analisi tramite documentazione archivistica dell’organizzazione psichiatrica del Maghreb francese. 4.1 Il caso della Libia Ho scelto di concentrarmi sulla Libia innanzitutto perché è proprio qui che gli sforzi coloniali dell’Italia si raccolgono nei primi del Novecento, quando le pressioni nazionaliste interne e il timore di iniziative di altre potenze confluiscono nell’obiettivo di perfezionare la posizione navale e strategica dell’Italia nel Mediterraneo centrale20. Nel 1911 l’Italia dichiara guerra alla Turchia; dopo le prime facili vittorie, gli scontri si protraggono per anni, sino agli episodi della repressione della rivolta senussita e dell’internamento nei campi di concentramento. A partire dal governatorato di Balbo (1934), l’immigrazione oltremare e la colonizzazione delle terre vengono incentivate, con un conseguente investimento in opere pubbliche e servizi alla popolazione. La sanità e l’assistenza agli abitanti, italiani e indigeni, assumono, in questa fase, una rinnovata importanza tra le priorità dell’amministrazione coloniale. Ritengo utile, dopo questa minima contestualizzazione storica, ripercorrere altrettanto brevemente le tappe dell’identificazione della questione psichiatrica come rilevante nell’ambito della colonia libica, nonché dell’organizzazione di un sistema di cura e internamento, prima a cavallo tra la colonia stessa e l’Italia ed in seguito sul territorio libico. 20 Cfr. N. Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, il Mulino, Bologna 2002, pp. 108-115. 8 Nel 1914, l’amministrazione del Municipio di Tripoli rende noto nella relazione su I servizi sanitari che “al nostro giungere a Tripoli furono trovati e nell’ospedale e liberi non pochi affetti da psicopatie. […] con l’attenta osservazione o con la maggiore conoscenza dell’ambiente il numero dei riconosciuti folli aumentò in proporzione notevole […] così che venne in discussione un grave problema: se creare in Tripoli un manicomio od una sezione manicomiale come dipendenza dell’Ospedale. In attesa di una decisione, i folli raccolti nella casa anzidetta furono inviati al manicomio di Palermo. Furono inoltre costruiti due ambienti nell’ospedale, e per custodire separatamente gli altri alienati, che dovessero venire osservati, in attesa dell’invio al manicomio anzidetto” 21. Angelo Bravi, psichiatra attivo in Libia tra il 1935 e il 1943, nei suoi Frammenti di Psichiatria coloniale fornisce la medesima informazione: “Non avendo un proprio ospedale psichiatrico, ma solo un Reparto di osservazione psichiatrica dell’ospedale Coloniale Vittorio Emanuele III di Tripoli, il governo della Libia invia all’Ospedale di Palermo i malati riconosciuti come manicomiabili” 22. La relazione sui servizi sanitari attivi a Tripoli informa inoltre che “Il reparto alienati nei mesi di settembre ed ottobre 1912 funzionò come vero e proprio reparto a sé; dopo questo periodo, gli infermi di questo furono trasferiti nel manicomio di Palermo ed al reparto fu costituita una sezione per osservazione temporanea di tali psicopatici, in attesa del trasferimento”23. Il primo cospicuo invio al manicomio di Palermo di pazienti provenienti dalla Libia ha luogo infatti nel novembre del 1912, a un anno dall’invasione della Tripolitania e della Cirenaica. Il reparto di osservazione psichiatrica resta l’unica struttura per malati psichiatrici esistente in Libia sino al 1939, quando viene inaugurato l’Ospedale psichiatrico per libici. I progetti e le consultazioni per creare un manicomio a Tripoli avevano avuto inizio nel 1934; la costruzione è ultimata nel 1936 ma il decreto governatoriale per istituirne il funzionamento risale al giugno del 1939. L’ospedale, secondo Angelo Bravi che ne promuove la concezione e la realizzazione, deve “offrire ai malati nativi, musulmani e israeliti, la sede sicura per uno studio accurato, per una terapia congrua, per un’assistenza proporzionata alle [loro] esigenze di prassi coranica e religiosa”. Nell’ordine Bravi pone dunque l’utilità scientifica: “studiare i malati mentali nell’ambiente nel quale vivono” può apportare un contributo diretto “all’etnopsicografia dell’Africa Italiana” e all’ “etnopsicopatologia nordafricana”; l’utilità politica: “dimostrare la cura che pone il governo fascista nell’assistere e curare questi malati […] e documentare in maniera concreta che possono guarire”; l’opportunità tecnica ed umana A. Ilvento, P. Tria, G. Casapinta, I servizi sanitari del municipio di Tripoli. Relazione compilata a cura della Commissione per l'amministrazione del Municipio di Tripoli, Roma 1914. 22 A. Bravi, Frammenti di Psichiatria Coloniale, Pio Luogo Orfani, Brescia 1937. 23 A. Ilvento, P. Tria, G. Casapinta, I servizi sanitari…, cit., p. 43. 21 9 di “conservare durante la degenza: costumi, consuetudini religiose, tradizioni”, ma anche di “non separare con il mare (difficilmente superabile per i modesti mezzi di questi nativi) i parenti dai loro congiunti ammalati” 24. 4.2 Le cartelle cliniche e le traiettorie dei pazienti All’interno del quadro della psichiatria coloniale libica, è interessante soffermarsi sui suoi protagonisti. Su di essi ho potuto raccogliere un buon numero di fonti e mettere in pratica due strategie di analisi, particolarmente pertinenti anche in relazione al materiale rinvenuto: ossia la ricostruzione delle traiettorie dei pazienti, i loro spostamenti fisici da un lato; la ricostruzione delle traiettorie dei medici, le loro biografie e le loro carriere dall’altro. Attraverso le cartelle cliniche degli uomini e delle donne trasferiti a Palermo si può abbozzare un quadro delle traiettorie dei pazienti. Tali cartelle permettono infatti di ricostruire gli spostamenti fisici dei pazienti, conseguenti a una diagnosi di malattia mentale operata dai medici (non sempre psichiatri) che li visitano negli ambulatori o nei reparti degli ospedali coloniali. Prima che fosse attivato un quadro assistenziale efficiente nelle colonie, come già ribadito, i malati mentali venivano inviati negli ospedali psichiatrici della madrepatria; per questo parlo di “spostamenti fisici”: i viaggi dei pazienti, scortati da un paio di infermieri e accompagnati da un certificato e da una diagnosi del medico coloniale, duravano più giorni e avvenivano su navi con destinazione Sicilia. Il materiale rinvenuto mi ha permesso di confermare la periodizzazione ipotizzata relativa agli invii da Tripoli a Palermo (1912-1939), fornendo altresì nuovi dati, di carattere non solo numerico o statistico (il numero di pazienti trasferiti, la loro età, il loro sesso; la frequenza e la consistenza degli invii, il numero di morti, di rimpatriati etc.) ma anche qualitativo (le diagnosi, le problematiche che si presentavano in relazione a ciascun paziente e problematiche più ampie che coinvolgevano la maggior parte della popolazione di provenienza libica curata nel manicomio siciliano). Nelle cartelle cliniche emergono, in controluce, altri dati che meritano di essere menzionati, come il legame con i luoghi e con abitudini precedenti, o l’emergere di credenze locali relative all’origine e al trattamento delle malattie mentali. Il disorientamento spaziotemporale è molto diffuso e spesso affiora, dalle espressioni, dalle attitudini o dalle parole delle pazienti, il desiderio di tornare a casa. H. ad esempio “implora di andare a casa; fa capire con gesti che vorrebbe scrivere al padre. Piange spesso dirottamente perché insiste per 24 A. Bravi, L’Ospedale psichiatrico per Libici. Nota d’igiene mentale, Maggi, Tripoli 1941. 10 andare via e per scrivere alla famiglia”. Dalle cartelle cliniche esaminate traspare anche qualche dato interessante relativo alle terapie in uso nelle società e nelle comunità di provenienze dei malati psichiatrici inviati a Palermo: G. ad esempio “riteneva di essere posseduta dal diavolo, pertanto ricorse ad un medico del suo paese il quale applicandole delle barre di ferro rovente sul capo riuscì a liberarla da ogni malanno sicché ora ritiene che il diavolo sia ritornato sotto terra e più non la molesti”. Rispetto a questo punto – la clinica e la terapeutica locali – mi sarei augurata di trovare maggiore materiale, invece i riferimenti rinvenuti sono sporadici e filtrati dalla cultura medica occidentale, sia nelle cartelle cliniche, sia nella letteratura psichiatrica. All’interno di quest’ultima sono sempre i Frammenti di psichiatria coloniale di Angelo Bravi a informare che: “i musulmani attribuiscono ad alcuni santoni (marabutti) la facoltà di liberare il corpo dallo spirito del male (procedimento che ricorda gli esorcismi dell’evo medio) e questo avviene in particolari fosse […] di cui gli arabi sono gelosi, e le testimonianze indigene non mancano […] ed appaiono concordemente scettiche circa il valore pratico di tali mezzi. Un teste dichiara a proposito di un demente precoce che ‘dopo quaranta giorni di fossa era uscito più folle di prima’. È innegabile tuttavia – prosegue Bravi – che tali metodi, per quanto curiosi possano sembrare alla nostra sensibilità europea, siano fortemente radicati negli usi e nella mentalità locali, senza distinzioni sociali”25. 4.3 Le traiettorie degli psichiatri e gli scambi scientifici Attraverso la letteratura psichiatrica del tempo – articoli di riviste specialistiche, ricchi di riferimenti incrociati al loro interno, atti di congressi, volumi e pamphlet – è possibile indagare i transfer di ordine culturale-scientifico tra diverse situazioni coloniali, in particolare tra la Libia e il Maghreb francese. Trattando le figure di psichiatri che furono vettori di questi scambi di metodi e di pratiche, di idee e di ideologie, ho tracciato alcune connessioni significative all’interno dei network scientifici da cui i medici traevano ispirazione26. Se nel discorso pronunciato da Emilio Padovani, segretario della società italiana di psichiatria, al congresso napoletano del 1937, il raffronto della situazione della psichiatria in Libia e nel Maghreb francese trova spazio all’interno di una retorica nazionalistica (egli rileva infatti più le manchevolezze dei francesi che i successi, più i ritardi nelle realizzazioni che la novità che A. Bravi, Frammenti di psichiatria coloniale, cit., p. 13. Sui network scientifici e l’indagine dei transfer nella storia della psichiatria coloniale cfr. W. Ernst, Practising ‘Colonial’ or ‘Modern’ Psychiatry in Modern India?, in W. Ernst e T. Mueller (a cura di), Transnational Psychiatries, cit. pp. 80-114. 25 26 11 esse racchiudono27), nelle riflessioni di Angelo Bravi compare invece un marcato debito verso la psichiatria francese del Maghreb e una profonda riconoscenza verso il suo massimo rappresentante, Antoine Porot. Questi, che “ha trattato personalmente e attraverso la sua Scuola argomenti svariatissimi di psichiatria coloniale, che vanno dalla semeiologia comparata all’igiene mentale, alla medicina legale”28, è il primo professore che Bravi ringrazia in apertura dei suoi Frammenti, per avergli “fornito tutti i suoi lavori di psichiatria mussulmana ed i suggerimenti saggissimi della sua esperienza”. Oltre a indicazioni utili all’organizzazione pratica dei servizi, Bravi mutua da Porot anche spunti teorici che sviluppa in uno dei suoi “frammenti”. Riprendendo le caratteristiche attribuite da Porot ai musulmani29 – suggestionabilità, impulsività, anaffettività – compara quella che chiama l’etnopersonalità musulmana all’israelita, caratterizzando gli ebrei del nord Africa come irrequieti, ansiosi, affettivi. È dunque nello studio comparato della fenomenologia psicologica e psicopatologica delle etnie che abitano il Maghreb, che Bravi segue il collega che opera in Algeria, ed è su questo che lo invita a una più stretta cooperazione. Nelle ultime pagine dei suoi Frammenti lancia infatti “un appello a quanti si occupano di Psichiatria Coloniale, soprattutto nell’Africa del Nord francese affinché gli sforzi clinici statistici e profilattici siano coordinati, per organizzare le ricerche e i risultati in un insieme armonico”. E questa “coordinazione [sarà] molto utile per la comprensione di questa parte di Psichiatria – prosegue Bravi – oggi ancora poco studiata”30 che è la psichiatria coloniale. 5. Argomenti non ancora esplorati Nella mia ricerca non ho ancora avuto modo di affrontare in maniera approfondita la storia della psichiatria nelle colonie italiane del Corno d’Africa durante il periodo della colonizzazione italiana, nonché l’organizzazione concreta della psichiatria del Maghreb francese attraverso fonti d’archivio. Per quanto riguarda la psichiatria in Eritrea, Etiopia e Somalia non vi è pressoché letteratura. Il primo passo da compiere per avere un quadro della situazione dei malati Con espressioni come le seguenti: “Non sono tutte rose quelle che colà fioriscono”, “Il sistema si è dimostrato assolutamente insufficiente e noi dobbiamo fare tesoro della esperienza francese per non ripeterne gli errori”. Emilio Padovani, Malattie mentali e assistenza psichiatrica nelle colonie italiane d’Africa, in Atti del XXI congresso della società italiana di psichiatria, Napoli 22-25 aprile 1937, Poligrafia reggiana, Reggio Emilia 1938, pp. 621623. 28 A. Bravi, Avvertimento, in Frammenti di psichiatria coloniale, cit., p. viii. 29 A. Porot, Notes de psychiatrie musulmane, “Annales médico-psychologiques”, 76, 1918, pp. 377-384. 30 A. Bravi, Frammenti di psichiatria coloniale, cit. 27 12 psichiatrici in queste aree durante l’occupazione italiana è la consultazione dell’archivio dell’ex Ospedale psichiatrico di Napoli: i “manicomiabili” del Corno d’Africa venivano infatti inviati presso quell’ospedale (anche se per il momento non si conoscono gli anni durante i quali questa pratica fu seguita). Così procedendo, potrò delineare un quadro dei trasferimenti in Italia di pazienti italiani e indigeni provenienti dal Corno d’Africa, che mi permetterà sia di avere dei numeri, sia di capire quali fossero le istituzioni di partenza, ossia gli elementi di un’organizzazione medico-psichiatrica attivi sul territorio. Grazie al lavoro fin qui svolto sulla situazione libica e sui trasferimenti di pazienti libici a Palermo, l’analisi parallela del Corno d’Africa potrebbe risultare agevolata. Per quanto riguarda il Maghreb francese ho deciso di restringere la mia ricerca ad alcuni aspetti della psichiatria in quest’area: non effettuerò un’analisi dell’organizzazione sanitaria-psichiatrica nel territorio del Maghreb francese (Algeria, Tunisia, Marocco) a partire da fondi archivistici di ospedali psichiatrici. Si tratterebbe infatti di una ricerca sul campo troppo ampia, che comprenderebbe una decina di manicomi del sud della Francia (dove i malati psichiatrici venivano inviati prima che sui territori d’oltremare venissero inaugurati degli ospedali o dei reparti psichiatrici) nonché un numero lievemente inferiore di manicomi e strutture minori sul territorio maghrebino. Il Maghreb francese resta comunque utile per un’analisi comparata che, tralasciando l’organizzazione pratica della psichiatria sul territorio, si concentri sul corpus teorico che si va formando nella prima metà del XX secolo e prende il nome di “psichiatria coloniale”. Come accennato precedentemente, la letteratura psichiatrica della prima metà del XX secolo, francese, italiana e non solo, che si interfaccia a situazioni coloniali, costituisce materiale prezioso per ricostruire i contorni del dibattito teorico che si costituisce alla confluenza della patologia tropicale e della psichiatria, della propaganda coloniale e della scienza amministrativa. Grazie a questi testi intendo fornire un quadro della disciplina psichiatrica così come essa si sviluppa nelle colonie italiane e francesi, sottolineando aspetti comuni, scambi, riprese e ispirazioni che legano le due situazioni, nonché una sintesi degli aspetti teorici che caratterizzano questa elaborazione e la differenziano la psichiatria classica metropolitana. 13 6. Struttura della tesi Si tratta di un indice del tutto provvisorio: non entra nei dettagli nell’articolazione dei capitoli e presenta lacune per la sezione della ricerca che non è ancora stata approfondita “sul campo”. Introduzione (Motivazione, quesiti di fondo, metodologia) 1. L’incontro tra colonialismo e psichiatria 1.1. La disciplina psichiatrica a cavallo tra Otto e Novecento: prospettiva biologista, antropometria e questione della razza 1.2. Il colonialismo come atto civilizzatore, educativo, sanificante: tra mise en valeur, pénétration pacifique et scientifique 1.3. Il ruolo della medicina in colonia e la figura del medico 2. La Francia in Nord Africa: Algeria, Tunisia, Marocco 2.1. Prime soluzioni del problema della psicopatologia nelle colonie 2.2. Manuali e riviste di patologia tropicale, psichiatria, psicopatologia militare 2.3. Denunce di situazioni di custodia inaccettabili e disumane: Algeria,Tunisia,Marocco 2.4. Il Congresso di Tunisi del 1912 e la nascita della psichiatria coloniale nel Maghreb francese 2.5. Nuove soluzioni del problema sul territorio coloniale: Algeria, Tunisia, Marocco 2.6. Antoine Porot e l’Ecole d’Alger 3. L’Italia in Africa: Libia e Corno d’Africa 3.1. La psichiatria nelle colonie italiane: il caso della Libia 1912-1952 3.1.1. La Libia nell’Oltremare italiano 3.1.2. Il problema dei folli e le prime soluzioni 3.1.3. Smantellamento delle istituzioni turche e ipotesi di nuove strutture di cura e custodia psichiatrica 3.1.4. I trasferimenti dei “manicomiabili” dalla Libia a Palermo: viaggi e cartelle cliniche 3.1.5. Gli anni Trenta: progetto e realizzazione di una “psichiatria coloniale” 3.1.6. L’Ospedale psichiatrico per Libici di Tripoli 14 3.2. La psichiatria nelle colonie italiane: Eritrea, Somalia, Etiopia … 3.2.3. I trasferimenti dei “manicomiabili” dal Corno d’Africa a Napoli: viaggi e cartelle cliniche … 4. Protagonisti della psichiatria coloniale 4.1 Traiettorie dei pazienti Il valore delle cartelle cliniche: 4.1.1. osservazione 4.1.2. rilievi antropometrici 4.1.3. usi “indigeni” 4.2 Traiettorie dei medici Network scientifici “periferici” 4.2.1. La Libia italiana e il Maghreb: il valore dell’esperienza francese 4.2.2. Angelo Bravi e Antoine Porot: due psichiatri innovatori in Nord Africa 4.2.3. La psichiatria coloniale come etnopsichiatria 15