INTERVISTA A LUIGI TESSAROLLO ( integrale) di MAURIZIO

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INTERVISTA A LUIGI TESSAROLLO ( integrale) di MAURIZIO
INTERVISTA A LUIGI TESSAROLLO ( integrale) di MAURIZIO FRANCO
Apparsa sul mensile nazionale MUSICA JAZZ a settembre 2014
Tu sei un chitarrista che si è sempre distinto per la varietà progettuale, portando il tuo
strumento all'interno di svariati contesti. Ti ritieni un musicista eclettico?
Ho sempre avuto una propensione per l'eclettismo e nel tempo ho realizzato progetti molto diversi
anche sul piano estetico, alcuni dei quali proseguono e si evolvono ancora oggi, mantenendo una
freschezza espressiva che li rende attuali. Forse il motivo risiede nel fatto che sono nati da precise
esigenze artistiche e quindi non hanno subito i vincoli delle mode che governano il mercato della
musica.
In sostanza, cerchi di proseguire quello che hai costruito operando una specie di work-inprogress.
Infatti è così. A me non interessa realizzare progetti effimeri legati a situazioni posticce, motivate
solo del fatto di trovare qualche concerto in più; cerco invece di mantenere coerenza nel mio
percorso e conferire a quello che faccio un carattere e un obiettivo preciso che si conservino nel
tempo. Tra l'altro agisco in due situazioni timbricamente diverse perché in una uso la chitarra
classica, nell'altra la “classica” chitarra jazz, senza effetti, processori e quant'altro.
Non trovi che mentre il suono della chitarra classica è atemporale, quello della chitarra del
jazz genericamente definibile come moderno sia alquanto vincolato al linguaggio di una fase
artistica che appartiene più alla storia e meno all'attualità?
Credo che questa sensazione sia riferibile alla sola chitarra amplificata; la chitarra non elettrica,
quindi classica e anche folk, non ha infatti subito nel tempo cambiamenti strutturali e sonori tali da
contestualizzarla in un immaginario collettivo, in precisi e significativi momenti storici come
avviene per lo strumento elettrico del jazz moderno. Chiaramente il sound chitarristico utilizzato
nella musica pop e nel rock, così come quello delle tastiere, è storicamente più attuale perché prima
degli anni sessanta non esisteva. Come mi insegni, il suono nel jazz è elemento strutturale del
linguaggio ed è questo, a mio avviso, che supporta l’idea comune di identificare la chitarra jazz con
una fase storica meno attuale o anche, ad esempio, percepire Zawinul più vicino a noi di Jarrett.
Non ritieni quindi che il sound vincoli il linguaggio?
Certo, lo vincola, ma se il fraseggio può venir condizionato dal suono predominante di una fase
artistica storicizzata, l’artista deve sapere uscire da quella gabbia, non suonare in carattere. Invece
è interessante impiegare una sonorità inusuale in contesti stilistici e fraseologici legati alla storia del
jazz, oppure nel portare la chitarra jazz all’interno di situazioni contemporanee. Io cerco di farlo
sempre.
Con la chitarra classica ti muovi in duo, cioè in situazioni prettamente cameristiche e in parte
caratterizzate dall'uso di materiali non propriamente jazzistici, come nel sodalizio con il
trombettista Fulvio Chiara.
Quel progetto risale a molto tempo fa e si basa su rielaborazioni jazzistiche originali di materiale
compositivo mutuato dalla storia della canzone piemontese e ha dato origine a un Cd, oggi riedito e
arricchito dagli spartiti dei brani in pdf, oltre che da scritti di Gambarotta, Farassino, Culicchia e
della Littizzetto. Ci tengo a precisare che, a mia conoscenza, si tratta del primo lavoro interamente
realizzato con tromba e chitarra classica, ben precedente ai duetti di Bosso con Irio De Paula e di
Fresu con Ralph Towner.
Con Roberto Taufic costruisci invece una piccola orchestra a due chitarre, che si allontana
dalla formula del duo inteso come successione di assoli di una chitarra accompagnata
dall’altra.
L’obiettivo era quello di realizzare un duo alla Joaquin Rodrigo, dove le due chitarre si devono
fondere, diventare un unico strumento. Inizialmente rischiavamo che uno di noi prevalesse sull’altro
e allora abbiamo lavorato con molta perizia e attenzione all’equilibrio complessivo della musica
attraverso la scrittura, la gestione degli spazi e la cura dei volumi sonori. Il risultato è sempre molto
apprezzato dal pubblico e non solo in situazioni raccolte, ma anche quando suoniamo in grandi
palcoscenici all’aperto.
La tua chitarra elettrica tradizionale ti accompagna invece in una serie di situazioni più
chiaramente legate alla storia del jazz, anche di quello linguisticamente più aperto.
La uso in situazioni più “straight ahead”, come nei quartetti con Jay Azzolina, con Fulvio Albano,
nel Christmas Jazz con Claudio Chiara, nel Tribute To Charlie Parker e nella ormai lunga
collaborazione con Rachel Gould, ma anche in situazioni più moderne, con un repertorio basato su
mie composizioni. Per esempio l’hammond trio con Gurrisi e Nussbaum, oppure il sempre vitale
Mediterranean Trio, il rinnovato quartetto con George Garzone, sino al nuovo gruppo nato
dall’incontro del sax di Mattia Cigalini e del mio trio, con Dalla Porta e Manhù Roche, con il quale
nel 2010 abbiamo realizzato il Cd « Italian Melodies In jazz». Con questa formazione abbiamo
appena registrato un nuovo album di brani originali per l’Abeat.
Come riesci a conciliare uno spettro di situazioni cosi vario, qual è il filo rosso che lega tutti
questi progetti ma ti consente di non essere dispersivo o troppo camaleontico?
Per me si tratta di una sorta di forma mentis dovuta alla mia propensione alla frequentazione di
situazioni eterogenee, da cui derivano i miei molteplici percorsi formativi e professionali. Quando
affronto un mondo musicale per me esiste solo quello, si consolida nel corpo e nella mente e
cancella in automatico e totalmente i mondi adiacenti. Comunque, cerco di circoscrivere in periodi
precisi ciascuna delle varie situazioni e dedicarmi per tutto il tempo, breve o lungo che sia, solo
all’estetica di quel progetto. Ho sempre subito il fascino di artisti come Jack De Johnette, che
mentre era in tournee con Jarrett si occupava del suo Special Edition, o di John Scofield, che
suonava con Billy Cobham e George Duke e intanto faceva date di bebop nei club
Nei tuoi repertori sono presenti molte melodie provenienti dalla musica popolare, dalla
canzone, dal mondo brasiliano e persino dai canti natalizi che si aggiungono ai brani
prettamente jazz e alle tue composizioni. Cosa comporta affrontare materiali così diversi? E’
vero che da sempre si dice che conta come si suona, ma per me è determinante, sotto diversi
punti di vista, anche quello che si suona.
Concordo assolutamente, quello che si suona è determinante e fa la differenza, ma a me non importa
se i materiali sono così diversi, ciò che conta è che mi appartengano e questo dipende dal mio
percorso di vita musicale, dalle esperienze maturate nei diversi periodi della vita: professionali,
artistici, di formazione e di studio. Quando ero giovane ho studiato sitar al conservatorio di
Varanasi, in India, ho scritto e registrato due long playing di musica greca per il mercato greco, ho
studiato Hadjidakis e imparato la tecnica del bouzouki, mi sono diplomato in chitarra classica, ho
registrato e suonato con gli Arti e Mestieri e partecipato a dischi d’avanguardia con George
Garzone, frequentato e suonato con decine di grandi e vecchi musicisti che mi hanno influenzato
attraverso la trasmissione orale del sapere.
Un percorso così ampio marchia a fondo la personalità.
Passare una settimana a fianco di Jim Hall ti lascia ovviamente qualcosa e, in generale, tutto quello
che ho fatto confluisce in scelte di scrittura, di sonorità, di poetica che riflettono i miei diversi modi
di vedere e sentire. Da qui nascono i repertori, l’hardware imprescindibile per fare bella musica,
importante come il bel suono, l’intonazione, la dinamica e l’agogica, elementi sovrani del “ come”.
In passato ho fatto concerti improvvisando su una o due tonalità, completamente aperti, ma adesso
cerco anche un contenuto melodico e armonico chiaro e definito.
Un didatta jazz, non solo di chitarra, per te cosa deve assolutamente comunicare ai propri
allievi, come li può far crescere sul piano artistico?
Deve infondere agli allievi l’esigenza di due distinte necessità: la prima è la conoscenza della
storia e dei linguaggi jazzistici nella loro varietà e nei loro sviluppi. Un lavoro che va fatto
seriamente, non solo per presa visione su you tube o accumulo di mp3. E’ la conditio sine qua non
per potersi permettere una crescita che abbia un peso sul piano artistico. Questa fase di formazione
dovrebbe da subito contemplare anche la scelta di un “modus vivendi” dell’allievo basato su
esperienze di vita: frequentazione di ambienti e persone “formative”, ricerca di
esperienze
musicali in cui si è costretti a sviluppare varie competenze, come quella di suonare a orecchio. La
seconda è la conoscenza della sensibilità contemporanea attraverso l’analisi e l’ascolto di ciò che ti
circonda.
Quanto conta la trasmissione della propria esperienza?
Molto, ma certamente un didatta non deve plagiare i propri allievi, bensì esortarli a trovare e capire
se stessi per poter sapere cosa comunicare a chi vuole ascoltarlo. Io credo che si debba scrutare
dentro di se, con onestà intellettuale e artistica, e capire come inserire la propria idea del bello nella
società attuale, che è poi l’onere del vero artista, per poter condividere la propria personalità
artistica con la sensibilità del mondo esterno ed eventualmente influenzarla.
Cosa ti aspetti dai prossimi anni di vita musicale in Italia?
Mi piacerebbe si invertissero alcune curve, oggi inversamente proporzionali, che riguardano
l’aspetto culturale della vita musicale e si intersecano fra loro. Per esempio, aumentare l’importanza
del valore artistico della musica che si suona e ridurre il valore preponderante dello sviluppo della
propria immagine, per seguire una vita musicale che non costringa a preoccuparsi
incessantemente della propria promozione. Per raggiungere questo obbiettivo occorre un tessuto
socioculturale che valorizzi l’impegno artistico e riconosca non solo il fatto di dover essere "molto
bravo", ma soprattutto di saper fare cose "belle," che non è per niente la stessa cosa. Vorrei anche
più attenzione da parte degli addetti ai lavori ai contenuti delle proposte artistiche e non soltanto ai
nomi che attirano molto pubblico. Ci vorrebbero organizzatori competenti e capaci, il cui numero è
sempre più ridotto, un’auspicabile maggior domanda e soprattutto spazi adeguati e un offerta da
parte dei musicisti meno "selvaggia”, conseguenza anche di una sovrabbondante attività didattica
che determina negli studenti l’inevitabile esigenza di avere al più presto un riscontro "sul campo".
SEGUE ESTRATTO APPARSO SUL MENSILE NAZIONALE
MUSICA JAZZ A SETTEMBRE 2014 :