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pl.it rassegna italiana di argomenti polacchi 7 2016 ISSN: 2384-9266 pl.it rassegna italiana di argomenti polacchi (VII) 7, 2016 pubblicazione annuale ISSN: 2384-9266 Gli articoli della rivista sono sottoposti a valutazione di double blind peer review. sito internet: www.plit-aip.com/plit e-mail segreteria: [email protected] e-mail direzione: [email protected] EDITORE Associazione Italiana Polonisti (AIP) COORDINATORI Giovanna Brogi Bercoff Alessandro Amenta COMITATO DI REDAZIONE Alessandro Amenta, Luca Bernardini, Giovanna Brogi Bercoff, Andrea Ceccherelli, Marina Ciccarini, Grzegorz Franczak, Krystyna Jaworska, Irena Putka, Laura Quercioli Mincer, Emiliano Ranocchi, Giovanna Tomassucci COMITATO SCIENTIFICO Małgorzata Czermińska (Uniwersytet Gdański), Rolf Fieguth (Universität Freiburg, Schweiz), Lucyna Gebert (Sapienza Università di Roma), Sante Graciotti (Sapienza Università di Roma), Elżbieta Jamrozik (Uniwersytet Warszawski), Roman Krzywy (Uniwersytet Warszawski), Luigi Marinelli (Sapienza Università di Roma), Władysław Miodunka (Uniwersytet Jagielloński), Jadwiga Miszalska (Uniwersytet Jagielloński), Sergej Nikolaev (Sankt-Petersburgskij Gosudarstvennyj Universitet), Joanna Niżyńska (Indiana University, Bloomington), Stanisław Obirek (Uniwersytet Warszawski), Antony Polonsky (Brandeis University), Anton Maria Raffo (Università di Firenze), Piotr Salwa (Uniwersytet Warszawski), Nina Taylor (University of Oxford) GRAFICA Alessia Covato PATROCINIO E CONTRIBUTI Il presente numero è stato realizzato grazie al contributo dell’Ambasciata della Repubblica di Polonia in Roma Ambasciata della Repubblica di Polonia in Roma Le opinioni espresse nei testi pubblicati impegnano soltanto la responsabilità dei singoli autori. Le immagini tratte da internet sono da considerarsi di pubblico dominio; qualora la loro pubblicazione violasse eventuali diritti d’autore si prega di comunicarlo via e-mail alla redazione. INDICE Il futurismo in polonia. Bilanci e nuove prospettive A cura di Emiliano Ranocchi 7 Grzegor Gazda La storia chiusa del Futurismo polacco 15 Krzysztof Jaworski „Najmłodsi futuryści warszawscy”, czyli o peryferiach polskiego futuryzmu – próba rekonesansu 27 Przemysław Strożek Panorama di collaborazioni internazionali. Enrico Prampolini e i suoi contatti con gli ambienti dell’avanguardia polacca 39 Emiliano Ranocchi The Polish Cyborg. A Reflection on the Relationship between Man and Machine in Early Polish Modernism 61 Andrea De Carlo Il futurismo polacco nella critica letteraria dell’epoca 77 Paweł Graf „Na skrzyżowaniu dwóch wrogich epok stoję, cynicznie gryząc papieros”. O tekstowych projekcjach twórczości futurystów w relacji do ich postaci multimedialnych na przykładzie Marsza Bruno Jasieńskiego 93 Monika Gurgul Mount Everest 1924 di Jalu Kurek 103 Emiliano Ranocchi Manifesti del futurismo polacco 141 Giovanna Tomassucci Anatol Stern e Bruno Jasieński 155 Bibliografia sul futurismo polacco in lingue occidentali Articoli 161 Marina Ciccarini Tra senso e suono: il caso di Ewa Lipska Barbara Minczewa Il desiderio di utopia. Elementi per definire la costruzione delle distopie teatrali polacche 171 187 Sławomir Jacek Żurek The Shoah in Contemporary Polish Fiction (after 1989) Recensioni 199 200 Walenty Neothebel, Acrostichis własnego wyobrażenia kniaża wielkiego moskiewskiego (Viviana Nosilia) Drogi duchowe katolicyzmu polskiego XVII wieku, a cura di Alina Nowicka-Jeżowa (Giovanna Brogi) 203 Lena Seauve, Labyrinthe des Erzählens. Jean Potockis Manuscrit trouvé à Saragosse 207 Alessandro Amenta, Le parole e il silenzio. La poesia di Zuzanna Ginczanka e Krystyna Krahelska (Andrea F. De Carlo) 211 Stefan GrabiŃski, Il demone del moto. Racconti fantaferroviari (Andrea F. De Carlo) 214 Szymborska, la gioia di leggere. Lettori, poeti, critici, a cura di Donatella Bremer (Emiliano Ranocchi) e Giovanna Tomassucci (Emiliano Ranocchi) 219 Gli autori di questo numero IL FUTURISMO IN POLONIA BILANCI E NUOVE PROSPETTIVE A cura di Emiliano Ranocchi Grzegorz Gazda La storia chiusa del Futurismo polacco P er questo schizzo critico-letterario prenderò l’avvio da alcuni dati ben noti1. In Polonia le prime notizie sul Futurismo ebbero come fonte principale il numero del 20 febbraio 1909 di «Le Figaro» dove erano apparsi Fondation et Manifeste du Futurisme di Filippo Tommaso Marinetti. Il termine Futurismo comparve invece agli inizi del maggio dello stesso anno, in un resoconto anonimo del giornale cracoviano «Nowa Reforma», sorta di résumé assai soggettivo e critico della conferenza marinettiana di Parigi. In ottobre, sulle pagine del settimanale «Świat», che veniva pubblicato sia a Varsavia che a Cracovia, Ignacy Grabowski presentò le principali caratteristiche del Futurismo italiano, dell’opera di Marinetti e della rivista «Poesia». Sebbene esprimesse opinioni in qualche modo attinenti, riportando gli undici punti del manifesto in una propria traduzione, le sue osservazioni furono nel complesso superficiali, demagogiche e devianti. Fino al 1921, accanto alla sua traduzione, sarebbero apparse anche altre tre diverse versioni dei punti salienti del manifesto. Potremmo dire che entrambe le traduzioni di «Nowa Reforma» e «Świat», che avevano dato inizio alla fortuna del Futurismo in Polonia, erano in un certo modo già rappresentative di alcuni aspetti tipici della ricezione del movimento nell’intero periodo tra le due guerre. Benché all’inizio il Futurismo costituisse in Polonia soprattutto una vaga etichetta, un tema di attualità che suscitava lazzi sulla stampa quotidiana (vari parodisti e debuttanti cercavano in questo modo di attirare attenzione su di sé), nei decenni successivi esso riuscì tuttavia a penetrare – se è lecito usare una simile metafora – attraverso i fili spinati di un’ostilità generale e le trincee del tradizionalismo. In molti paesi dell’Europa centrale e orientale il Futurismo doveva rappresentare una potenziale aspirazione verso la modernità, una liberazione “dalle angustie del provincialismo”. Dopo la catastrofe della Grande guerra, dopo la riconquista dell’indipendenza da parte di molti popoli europei che cominciavano non solo a cercare una nuova identità, ma anche a costruire nuovi legami culturali e internazionali, i programmi dell’avanguardia prima o poi erano destinati a trovare un terreno fertile nella nuova civiltà postbellica. Il Futurismo colpiva nel cuore di quelle 1 Con questo mio intervento mi propongo di offrire un quadro sintetico sul Futurismo polacco. Mi limito a presentare alcune delle opere che a me paiono più significative non solo perché offrono molti e importanti dati conoscitivi e interpretativi ma anche perché sono caratterizzate, a mio avviso, da un taglio metodologico e una visione critica interessanti. Non ho dunque la pretesa di offrire un quadro completo dello status quaestionis, né di sottoporre a giudizio critico i molti libri e articoli che sono stati pubblicati in epoca anche recente: in ognuno di essi si trovano opinioni illuminanti e spunti di riflessione stimolanti. Non posso tacere d’altra parte che sul Futurismo polacco è stato detto molto e non è facile oggi individuare vere novità nella “futurismologia”. Non mi pare che la brevità dell’articolo previsto in questa sede consenta l’inserimento di lunghe serie di citazioni bibliografiche riferite alla grande quantità di lavori pubblicati a cominciare dall’inizio del XX secolo: chi desidera avere una bibliografia ricca e dettagliata sul Futurismo polacco troverà tutte le informazioni necessarie nell’eccellente monografia di Krzysztof Jaworski, di cui scrivo alla fine del mio articolo e che giustamente è stata proposta per il prestigioso Premio intitolato a Tadeusz Kotarbiński. 7 Grzegorz Gazda 8 tendenze, i suoi slogan venivano fatti propri da molte culture letterarie, non solo in Europa, in Cecoslovacchia, in Romania o tra gli slavi meridionali, ma anche nei remoti continenti, quali l’America del Sud. Nella Polonia che stava riconquistando l’indipendenza, ma in cui si cercavano di tutelare le tradizioni e il retaggio culturale, ci si attendeva un “neofuturismo tranquillo e assai più profondo” (S. Ronin, in «Echo Literacko-Artystyczne», fasc. 9, 1914): a causa delle sue comprensibili arretratezze e ritardi si evitavano certi slogan apologetici sulla civiltà e tecnica moderna, ponendo soprattutto l’accento su un “ampliamento della gamma dei temi e dell’espressione nell’arte” (C. Jellenta, in «Rydwan», fasc. 5, 1912). Era un’epoca in cui si poneva la necessità di organizzare dalle sue fondamenta lo Stato sconvolto dai cambiamenti radicali dalla Grande guerra e questo non orientava certo verso i radicali rivolgimenti proposti da Marinetti e dai suoi manifesti italiani. In Polonia, di fronte ai piani della ricostruzione della cultura nazionale e della vita letteraria, gli slogan radicali della distruzione della tradizione non potevano trovare un terreno fertile né tantomeno suscitare consensi. Critici e pubblicisti del tempo descrivevano quasi all’unisono gli slogan dei futuristi italiani e gli eventi di cui erano stati protagonisti (si scriveva soprattutto delle performance di gruppo di Marinetti e delle esposizioni artistiche futuriste a Parigi e Londra: la poesia del fondatore del Futurismo non era né poteva ancora esser nota), intravedendovi soprattutto ciò che poteva apparire come scandalo, stranezza, auto-réclame, baruffa e provocazione di costume, esagerazione o radicale brutalismo. In questo coro di opinioni unanimemente critiche e sbeffeggianti non mancavano però posizioni ponderate, anche se critiche, di autorità letterarie più anziane quali Stefan Żeromski e Wilhelm Feldman. Negli articoli che sembravano gareggiare tra loro per presentare in maniera più efficace e divertente certe “folli correnti artistiche”, comparvero anche certe prime e superficiali notizie sui russi (si noti bene, dal tono assai simile a quelle già citate), e sulle serate poetiche con Vladimir Majakovskij e David Burljuk a Tver’, Mosca, Minsk: venne anche citata in traduzione una delle poesie di Igor Severjanin. Nella pubblicistica del tempo in genere non ci si curava di differenziare i diversi programmi artistici che a quel tempo si diffondevano in Europa: si confondevano tra di loro l’Espressionismo, il Futurismo e il locale movimento del Formismo. In quei primi anni a queste tempestose dichiarazioni della stampa quotidiana e letteraria non si affiancarono le voci dei poeti, ad eccezione di quella di Julian Tuwim. Un’analisi delle componenti futuriste della sua poesia meriterebbe una trattazione a sé stante. Mi limito in questa sede a rilevare che era allora l’epoca della nascita del gruppo letterario “Skamander”: verso la fine del 1915, il giovane poeta, ancora sconosciuto ma destinato al successo (come lasciava intendere la stampa), tenne una conferenza sul “Futurismo italiano e russo” da cui prese le distanze con ironici bon mot. Questo fatto non gli impedì in seguito, dopo la pubblicazione della raccolta poetica Czyhanie na Boga [Agguato a Dio, 1918] e l’inaugurazione del caffè letterario Pod Pikadorem [All’insegna del Picador, 1919] in cui si esibiva con il suo gruppo di “Picadoristi” (che la stampa non a caso definiva “Neofuturista”), di proporsi proprio come Futurista, divenendo tema di alcune sue conferenze (1919). Si era del resto già proclamato Futurista anche nella sua programmatica Poezja (Poesia): Będę ja pierwszym w Polsce futurystą, A to nie znaczy, bym się stał głuptasem. Co sport z poezji czyni i z hałasem. Udaje maga, a jest tylko glistą; La storia chiusa del Futurismo polacco Io sarò in Polonia il primo Futurista E non vuol dire che farò l’allocco Che della poesia fa sport in bella vista Si crede mago ma è solo un pidocchio. Del resto ancor prima che si costituisse il gruppo “Skamander”, Tuwim aveva già ripetutamente partecipato a “serate futuriste”. Va notato che proprio in quegli stessi anni (19171921), egli andava appassionandosi ad Arthur Rimbaud, traducendolo, e si proponeva anche come ambasciatore dell’opera di Walt Whitman, cui attribuiva un carattere prefuturista. Del resto l’intera Europa letteraria, da Parigi a Mosca, andava allora scoprendo la produzione poetica ottocentesca del poeta americano, come fonte della ricerca della modernità in Europa. Tuwim tenne proprio su questo tema alcune conferenze a Łódź, Cracovia e Varsavia2. Si può considerare come un dato acquisito il fatto che solo alla fine della seconda decade del XX secolo il Futurismo in Polonia iniziò ad assumere forme più precise e programmaticamente credibili. Nel 1919 Anatol Stern e Aleksander Wat, insieme ai membri del gruppo “Pod Pikadorem”, organizzarono a Varsavia serate futuriste e “neofuturiste”. Al Futurismo si interessava allora anche il poeta e pittore cracoviano Tytus Czyżewski, cofondatore del movimento del Formismo, che si esibiva come espressionista anche in vari incontri artistici. Verso la fine del 1919 un poeta di Vilna, Jerzy Jankowski, diede alle stampe Tram wpopszek ulicy [Il tram attraverso la strada]: nella raccolta – composta nella caratteristica scrittura non ortografica che i Futuristi in seguito avrebbero fatto propria, segno di rottura con la tradizione – si trovavano anche alcuni testi risalenti al 1914, in cui erano presenti motivi di provenienza futurista. Questi pochi ma fondamentali fatti ci permettono di delineare una mappa del Futurismo polacco, mappa dalla quale oggi è stato cancellato il mitico volantino Tak, a suo tempo considerato reale ma perduto, attribuito a Stern e Wat che però nessuno ha mai visto, forse perché non è esistito. Di una ricezione relativamente tarda del Futurismo testimonia anche To są niebieskie pięty które trzeba pomalować [Questi sono i talloni blu da pitturare], un evento editoriale che comincerà a venire ricordato solo dopo alcune decine di anni, visto che a suo tempo non aveva attirato l’attenzione di nessuno (ad eccezione di un’anonima nota satirica sulla «Gospoda Poetów», 1, 1920, p. 16). Anche se non vale la pena di soffermarvisi a lungo, ricordiamo le primizie dei cosiddetti “Giovanissimi Futuristi di Varsavia”, che negli anni 1921-1924 pubblicarono oltre una dozzina di volantini dai titoli spassosi, spesso citati in nota in certe minuziose ricostruzioni della cultura letteraria dell’epoca. Si chiamavano Pam Bam, Pijany Parasol [L’ombrello Ubriaco], Trrr, Lejek w Mózgu [Un imbuto nel Cervello], Wiatr w Rosole [Vento nel Brodo] e simili, e contenevano testi di autori per noi assolutamente anonimi. In mezzo a questo plancton d’avanguardia, spesso definito “il più giovane Futurismo”, che veniva pubblicato allora, è degno di attenzione soprattutto l’almanacco Gga (1920), in cui, come indicano sottotitoli e slogan, il Futurismo si batteva per aggiudicarsi un primato sul primitivismo. Gga costituisce d’altra parte anche un fondamentale punto di partenza per chi si occupa di ricostruire la nascita del dadaismo in Polonia e quel “plancton d’avanguardia”, di cui esso faceva parte, è oggi oggetto di nuovi studi ancora in corso. Vale la pena di rivolgere la nostra attenzione ai due autori e editori di Gga, Anatol Stern e Aleksander Wat, che presto avrebbero 2 Sul ruolo del Futurismo nel primo Tuwim si veda in italiano: G. Tomassucci, Julian Tuwim: il primo futurista? in Gli altri Futurismi. Il Futurismo in Polonia, Russia, Cecoslovacchia, Bulgaria e Romania, Atti del Convegno Internazionale, Pisa, 5 giugno 2009, a cura di G. Tomassucci e M. Tria, Edizioni Plus, Pisa 2010, pp. 93-112 [N.d.R.]. 9 Grzegorz Gazda 10 costituito “l’ala varsaviana” del Futurismo polacco. Gga conteneva tra l’altro i loro esordi poetici, che preannunciavano le future raccolte: Nagi człowiek w śródmieściu [Un uomo nudo in centro città] e Fruwające kiecki [Gonnelle volanti] di Stern, accanto alla prosa poetica di Wat Ja z jednej strony i ja z drugiej strony mego mopsożelaznego piecyka [Io da una parte e io dall’altra parte della mia carlinoferrea stufetta, 1920]. Questo testo non sarebbe stato riedito per decenni interi, fino al 1968, quando fu inserito dal poeta nella raccolta Ciemne świecidło [Lume oscuro], pubblicata dalle edizioni dell’emigrazione polacca a Parigi, Kultura. Com’è noto (e come io stesso ho scritto già nel 1972), La stufetta costituisce un discorso intertestuale à rebours, una primitivistica reazione repulsiva nei confronti delle Illuminazioni e di Una stagione all’inferno di Arthur Rimbaud. Se esso abbia anche qualcosa in comune con l’idea del Futurismo è una questione che rimane aperta! In Polonia il Futurismo cominciava a manifestarsi chiaramente a Cracovia e – se così si può dire – ad acquisire forza programmatica grazie agli interventi di Bruno Jasieński e Stanisław Młodożeniec e alla collaborazione di Tytus Czyżewski e Tadeusz Peiper. Dopo alcuni anni trascorsi a Mosca – dove entrambi avevano ottenuto il diploma di maturità – i primi due erano rientrati in Polonia nel 1918. Purtroppo, nonostante gli studi di Edward Balcerzan e Janina Dziarnowska, non sappiamo quasi niente delle loro esperienze in Russia: ci è ignoto cosa avessero visto e letto, quanto si orientassero e pensassero della vita letteraria di allora. Del resto essi si sarebbero conosciuti solo nel 1919, dopo il loro ritorno in patria; da allora, con l’aiuto di Tytus Czyżewski e grazie al sostegno di Tadeusz Peiper, avevano iniziato a Cracovia un’intensa attività, fondando i club futuristi Katarynka [L’organetto] e Gałka Muszkatołowa [La noce moscata], e esibendosi pubblicamente in varie città. Negli anni 1920-1923 avrebbero pubblicato le proprie opere su fogli volanti (Jednodńuwka futurystuw [Volantino dei Futuristi], Nuż w bżuhu [Il coltello in pancia]), riviste («Formiści», «Zwrotnica» e la stampa quotidiana) e singoli volumetti. Ricordiamo But w butonierce [La scarpa all’occhiello], Pieśń o głodzie [Canto sulla fame], Nogi Izoldy Morgan [Le gambe di Izolda Morgan] di Bruno Jasieński; Kreski i futureski [Schizzi e futurizzi] di Młodożeniec; Zielone oko. Poezje formistyczne [L’occhio verde. Poesie formiste], Noc-dzień [Notte-giorno], Mechaniczny instynkt elektryczny [L’istinto elettrico meccanico] di Tytus Czyżewski. A quell’epoca erano già stati pubblicati i più importanti manifesti del Futurismo polacco: W sprawie futuryzacji życia [Sulla questione della futurizzazione della vita], W sprawie poezji futurystycznej [Sulla questione della poesia futurista], W sprawie ortografij fonetycznej [Sulla questione dell’ortografia fonetica] e W sprawie krytyki artystycznej [Sulla questione della critica artistica]: anche se li aveva stilati tutti Jasieński, erano rappresentativi dell’intera formazione che aveva riunito le forze di Varsavia e Cracovia. Malgrado le incessanti critiche e gli attacchi della stampa e dei gruppi concorrenti che li mettevano alla berlina, i Futuristi riuscirono a dar vita a un insieme originale di fenomeni artisticoculturali, ben visibili nel contesto della vita letteraria del tempo. Questo conferiva loro un evidente marchio di alterità, innovazione, coraggio, con un avanguardistico rifiuto dei compromessi, soprattutto in poesia, ma a volte anche in prosa ( Jasieński, Wat). Riuscirono ad aprire – se così si può dire – degli spazi culturali e delle brecce estetiche in cui trovarono una propria collocazione anche altre formazioni letterarie, con i loro poeti e prosatori e i loro individuali idioletti artistici. Non starò qui a ricordare i confini della loro attività, i vari esempi di un’osmosi artistica e programmatica, con le più varie forme di collaborazione con gli altri gruppi letterari. A partire dagli anni Venti, soprattutto verso la fine del secondo e nel terzo decennio il Futurismo perse progressivamente importanza. Nel VI numero di «Zwrotnica» (1923, pp. 177184), la rivista fondata da Tadeusz Peiper che fiancheggiava i Futuristi, comparvero articoli che La storia chiusa del Futurismo polacco “chiudevano” e stilavano un bilancio del Futurismo polacco, soprattutto Futuryzm polski. Bilans [Il Futurismo polacco. Un bilancio] di Jasieński. Sicuramente questo accadde perché varie prove di espansione (come le effimere riviste «Nowa Sztuka» e in seguito «Almanach Nowej Sztuki» e «Awangarda») non avevano portato a risultati effettivi e i volumi di poesia dei singoli poeti si erano scontrati con un’universale ostilità e con opinioni demagogiche. Nel 1924 Karol Irzykowski, critico e pubblicista influente, ne proclamò la “liquidazione”: anche se il suo testo suscitò polemiche (gli accoliti del movimento erano ancora attivi e se ne erano aggiunti nuovi che tentavano di riformulare le poetiche d’avanguardia: Jalu Kurek, Adam Ważyk, Mieczysław Braun, Stanisław Brucz e Stefan Konrad Gacki), in un modo o nell’altro le idee delle poetiche futuriste polacche furono comunque fatte traghettare verso il passato. Nel 1925 Bruno Jasieński dovrà partire per motivi politici alla volta di Parigi, successivamente per l’Unione Sovietica: nel 1937, all’epoca delle purghe staliniane, verrà fucilato perché (ingiustamente) accusato di spionaggio. Le idee di sinistra e comuniste condurranno anche Aleksander Wat verso valori ben diversi dal Futurismo (lavorerà nella rivista «Miesięcznik Literacki», vicina al Partito comunista polacco). Durante la Seconda guerra mondiale verrà a trovarsi in URSS anche Wat: accusato di trozkismo, verrà imprigionato e deportato in Kazakhstan. Młodożeniec farà ancora in tempo a pubblicare due volumetti di versi, in cui gli esperimenti linguistici si legavano a certe immagini folcloristiche, “volgendosi – come ebbe a scrivere – verso l’arte contadina”. Stern continuò a pubblicare, ma in forme molto distanti dal Futurismo, cominciò a scrivere per il cinema componendo sceneggiature anche per film di terz’ordine. Czyżewski iniziò a lavorare come impiegato presso l’ambasciata polacca a Parigi, occupandosi di pubblicistica artistica. La visita del “pontefice del Futurismo” Marinetti, che nel marzo 1933 trascorse una settimana tra Varsavia, Leopoli e Cracovia, partecipando a un banchetto del PEN Club polacco e tenendo varie conferenze in cui declamava le proprie opere, destò appena flebili echi degli slogan e discussioni di un tempo, malgrado varie decine di articoli che apparvero sulla stampa. Fino alla fine del 1939 su riviste e volumi di carattere letterario sarebbero ancora apparse alcune serie valutazioni, dichiarazioni e note sul Futurismo, in genere critiche: tra i loro autori ricordiamo Kazimierz Czachowski, Jerzy Stempowski, Karol Irzykowski, Aleksander Kołtoński, Ignacy Fik, Leon Chwistek. Sarà questo l’ultimo capitolo della storia dell’avanguardia futurista polacca nel periodo tra le due guerre. Nel secondo dopoguerra, solo con la svolta dell’ottobre del 1956, quando si attenueranno i rigori della censura insieme a una revisione dei programmi statali del Realismo socialista, la cultura letteraria e pubblicistica inizierà ad affrontare anche la questione della letteratura tra le due guerre, fino ad allora praticamente assente dalla cultura ufficiale, o trattata in maniera assai selettiva. I tempi erano ormai maturi per una riattivazione storica del Futurismo che ebbe luogo nel 1957, grazie alla pubblicazione su vari settimanali di articoli di Anatol Stern, e di alcune opere di Jasieński (il poema Pieśń o głodzie [Canto sulla fame] e il romanzo Palę Paryż [Brucio Parigi]). Dagli anni Sessanta avrà inizio un periodo di sistematico ritorno sul mercato editoriale delle opere dei futuristi polacchi, con pubblicazioni scientifiche e critico-letterarie. In questo ebbero un ruolo pioneristico O nową sztukę. Polskie programy artystyczne lat 1917-1922 [Per una nuova arte. Programmi artistici polacchi degli anni 1917-1922, Warszawa 1962] di Helena Zaworska, in cui i programmi del Futurismo polacco venivano presentati nel contesto dei rivolgimenti delle avanguardie, e l’opera più divulgativa Poezja zbuntowana. Szkice o poezji dwudziestolecia międzywojennego [Poesia ribellata. Schizzi sulla poesia del Ventennio tra le due guerre, Warszawa 11 Grzegorz Gazda 12 1964] di A. Stern. A completamento di questi primi passi del secondo dopoguerra occorrerà ricordare anche i materiali apparsi nel 1968 nel già citato volume di A. Wat Ciemne świecidło: vi vennero inseriti due namopaniki (genere letterario creato dallo stesso Wat) risalenti al periodo futurista, e la citata leggendaria prosa poetica, Ja z jednej strony i ja z drugiej strony mego mopsożelaznego piecyka, che non era mai stata ristampata dal 1919, e venne allora corredata da un commento dello stesso autore (Coś niecoś o Piecyku [Qualche cosetta sulla Stufetta]). Tra i più importanti testi critico-letterari del tempo non possiamo dimenticare Styl i poetyka twórczości dwujęzycznej Brunona Jasieńskiego [Stile e poetica dell’opera bilingue di Bruno Jasieński, 1968] e i due volumi della Polska awangarda poetycka. Programy lat 1917-1923 [L’avanguardia poetica polacca. Programmi degli anni 1917-1923, 1969] di Edward Balcerzan, l’antologia di poesie e testi programmatici curata da Andrzej Lam, oltre alla prima monografia sul movimento, il mio Futuryzm w Polsce [Il Futurismo in Polonia, Wrocław 1974]. Fra i testi apparsi posteriormente, ma senza considerare la numerosa memorialistica, si dovrebbero rammentare anche i volumi di Alina Kowalczykowa, Stanisław Jaworski, Paweł Majerski, Joanna Pollakówna, Agnieszka Smaga, Janusz Stradecki, Maciej Tramer, Maria Tarnogórska, Andrzej K. Waśkiewicz, Przemysław Strożek3 e Krzysztof Jaworski (in vari suoi libri ha narrato le vicende biografiche di Jasieński, con la ricostruzione della sua vita a Parigi e in URSS). Ricorderò anche il mio Słownik europejskich kierunków i grup literackich XX w. [Dizionario delle correnti e dei gruppi letterari del XX secolo], Warszawa 2000, 2a ed. aggiornata, 2009), in cui le formazioni del Futurismo polacco sono state per la prima volta presentate nel contesto comparatistico della letteratura europea. Una menzione meritano anche gli ottimi libri di Beata Śniecikowska, Słowo-obraz-dźwięk. Literatura i sztuki wizualne w koncepcjach polskiej awangardy 1918-1929 [Parola-immagine-suono. Letteratura e arti visive nelle concezioni dell’avanguardia polacca 1918-1929, Kraków 2005] e in particolare la sua vasta monografia Nuż w uhu? Koncepcje dźwiękowe w poezji polskiego futuryzmu [Un coltello nell’orecchio? Concezioni sonore nella poesia del Futurismo polacco, Kraków 2008]. Nelle oltre quattrocento pagine di Agnieszka Przybyszewska Liberackość dzieła literackiego [Liberarietà dell’opera letteraria, 2015], si parla del Futurismo come di una tappa essenziale rispetto alla liberatura e agli esperimenti tipografici nella letteratura del XX sec. In tutti questi libri il Futurismo viene analizzato sia nel contesto letterario delle altre correnti e avanguardie del XX sec., sia come tema a sé stante. Dagli anni Settanta, fatto non privo di conseguenze, la casa editrice Ossolineum ha inserito nella sua prestigiosa collana Biblioteka Narodowa – in cui compaiono “le opere più eccellenti della letteratura polacca e straniera” – anche le edizioni degli autori futuristi. Vi sono state pubblicate le opere (perché sì, noi oggi, a distanza di anni, possiamo definire tali i testi dei futuristi!) di Bruno Jasieński (Utwory poetyckie. Manifesty, Szkice [Opere poetiche. Manifesti, Schizzi], Wrocław 1972, cura e introduzione di Edward Balcerzan); Antologia polskiego futuryzmu i Nowej Sztuki [Antologia del Futurismo polacco e di Nowa Sztuka], Wrocław 1978, a cura di Helena Zaworska e Zbigniew Jarosiński); di Tytus Czyżewski (Poezje i utwory dramatyczne [Poesie e opere teatrali], Wrocław 1992, a cura di Jacek Baluch), oltre a quelle di Aleksander Wat, con la prosa poetica del già citato Ja z jednej strony e ja z drugiej strony mego mopsożelaznego piecyka (in Wybór wierszy [Versi scelti], Wrocław 2008, a cura di Adam Dziadek). 3 Di P. Strożek merita una menzione la monografia: Marinetti i futuryzm w Polsce 1909-1939. Obecność – kontakty – wydarzenia, Instytut Sztuki PAN, Warszawa 2012 [N.d.R.]. La storia chiusa del Futurismo polacco Negli ultimi decenni sono inoltre comparse edizioni critiche complete edite con grande cura dell’opera poetica di Stanisław Młodożeniec (Utwory poetyckie [Opere poetiche], Warszawa 1973, a cura di Tomasz Burek), Anatol Stern (Wiersze zebrane [Tutte le poesie], 2 voll., Kraków 1985, a cura di A.K. Waśkiewicz), Aleksander Wat (Poezje zebrane, [Tutte le poesie], a cura di Anna Micińska e Jan Zieliński, Kraków 1992)4, Bruno Jasieński (Poezje zebrane [Tutte le poesie], cura e introduzione di Beata Lentas, Gdańsk 2008), Tytus Czyżewski (Wiersze i utwory teatralne [Poesie e opere teatrali], a cura di Jerzy Kryszak e A.K. Waśkiewicz, Gdańsk 2009). Lasciando da parte altri “piccoli” volumi dei futuristi, apparsi in maniera occasionale, oggi si può parlare di una loro attiva presenza nel circuito editoriale. Nel 2015, il già menzionato Krzysztof Jaworski aveva pubblicato le oltre settecento pagine della sua Kronika polskiego Futuryzmu [Cronaca del Futurismo polacco] che, con grande competenza, una quantità imponente di particolari e con tutta la ricchezza del suo inventario bibliografico, ricostruisce date, fatti, opinioni e fenomeni del Futurismo polacco negli anni 1909-1939. È davvero un paradosso che questa ottima monografia bibliografica, opera che avrebbe dovuto inaugurare le ricerche storico-letterarie sul Futurismo polacco, sia giunta invece come una loro conclusione. Si può leggere e studiare la Kronika come un’appassionante mappa di territori letterari, continenti e isole della storia letteraria polacca nel periodo tra le due guerre, in passato appena delineati. Citazioni, riferimenti, biografie, fatti sono collegati dall’autore in glosse e commenti con una perfetta conoscenza della realtà dell’epoca. Vi troviamo soprattutto il Futurismo anticipato nel titolo, ma anche i contesti di una trentennale vita letteraria e culturale, dal periodo antecedente al primo conflitto mondiale fino all’intero periodo tra le due guerre. Dopo la sua pubblicazione, che in qualche modo sintetizza la produzione critico-letteraria sul Futurismo polacco nella seconda metà del XX sec., si può tranquillamente dichiarare che sul movimento è già stato scritto tutto e che se ne potrebbe chiudere la storia. Vorrei terminare questo mio schizzo bibliografico con un breve accenno alla recezione internazionale di questa radicale avanguardia letteraria polacca. Varrà la pena di ricordare qualche titolo. Tra le sintesi dell’intero periodo occorre citare almeno il saggio di Bogdana Carpenter (Poetic Avant-garde in Poland 1918-1939, Seattle-Washington 1983) e la monografia di Maria Delaperrière (Les avant-gardes polonaises et la poésie européenne, Paris 1991) e negli ultimi anni il libro di Alessandro Ajres (Avanguardie in movimento. Polonia 1917-1923, Melfi 2013), prima monografia in lingua italiana dedicata alle prime avanguardie polacche. Su Bruno Jasieński hanno scritto a suo tempo Nina Kolesnikoff (Bruno Jasieński: his evolution from futurism to social realism, s.l. 1982) e più recentemente Agata Krzychylkiewicz (The grotesque in the works of Bruno Jasieński, Bern 2007). Sul rapporto di Tytus Czyżewski con la prima Avanguardia si può consultare Markus Eberharter (Der poetische Formismus Tytus Czyżewskis: Ein literarischer Ansatz der frühen polnischen Avantgarde und sein mitteleuropäischer Kontext, München 2004)5. 4 Più recentemente è stata pubblicata la raccolta completa delle opere in 5 voll. Pisma zebrane, a cura di A. Micińska e J. Zieliński, Warszawa 1997-2008 [N.d.R.]. 5 In Italia, negli atti succitati del convegno Gli altri Futurismi è apparsa la bibliografia sul Futurismo italiano in Polonia (P. Strożek, M. Gurgul, Bibliografia del Futurismo italiano in Polonia, in Gli altri Futurismi, cit., pp. 149-159). Più recente è invece l’intervento di L. Marinelli, La fine e l’inizio. Intorno al futurismo polacco, in L’Europa futurista. Simultaneità, costruttivismo, montaggio, a cura di M. Ponzi, A. Mastropasqua, Milano 2015, pp. 137-155 [N.d.R.]. 13 Grzegorz Gazda Abstract Grzegorz Gazda Closed-down History of Polish Futurism News of Italian futuristic manifestos reached Poland soon after the first publications by F.T. Marinetti and his group in Italy and France. On the verge of regaining their independence, the Poles recognized that futurism presented them with an opportunity to renew and modernize their literature. Thus futurism inspired Polish journalists, critics, artists and poets for a whole century. This process reached its peak between 1918 and 1939. Thereafter, and for decades, it became an object of analyses and interpretations by literary historians. Today — and this article is devoted precisely to this problem — a hundred years later, Polish literary scholars seem to be closing down this avant-garde movement — perhaps definitively? — and assessing its merits in the history of Polish literature. Keywords: Polish Futurism, Literary criticism «pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», (VII) 7, 2016, pp. 7-14 14 Krzysztof Jaworski „Najmłodsi futuryści warszawscy”, czyli o peryferiach polskiego futuryzmu – próba rekonesansu W spółcześnie polski futuryzm, w chwili, gdy mija niemal sto lat od momentu jego narodzin, to zjawisko uznawane za powszechne zbadane, bogate w opracowania i zasługujące na należne sobie miejsce w polskiej historii literatury. Prace nad dokonaniami tego kierunku prowadzono w Polsce skrupulatnie od lat 60. XX wieku, a bibliografia dzieł jest znacząca i uznana. Nie sposób w tym krótkim artykule wymienić wszystkich badaczy, ale na trwale do historii naukowego dyskursu weszły chociażby prace Edwarda Balcerzana, Grzegorza Gazdy, Zbigniewa Jarosińskiego, Andrzeja Lama czy Heleny Zaworskiej1. W kolejnych latach pisano o polskim futuryzmie, przypominając sylwetki literatów mniej popularnych, odkrywając przed odbiorcą coraz to nowe nazwiska twórców z nim związanych, o tego typu „drugoplanowych” autorach pisał chociażby Sergiusz Sterna-Wachowiak2. Wiek XXI przyniósł także wypowiedzi kolejnych badaczy, dość wspomnieć książki Beaty Śniecikowskiej, Moniki Gurgul, Przemysława Strożka czy Tomasza Kireńczuka3. Jednak pisząc o polskim futuryzmie, dość rzadko porusza się zagadnienie tzw. jego „peryferii”, czyli futurystów, którzy określali się mianem „najmłodszych”, a których nazwiska niewiele już dziś mówią współczesnemu odbiorcy. Jako jeden z pierwszych przywołał ich sylwetki i publikacje Andrzej K. Waśkiewicz4 – już w latach 80. XX wieku w artykule na łamach «Pamiętnika Literackiego», w dodatku opierając swe badania o cenne źródło – a mianowicie o korespondencję, jaką prowadził on w latach 70. XX wieku z poetą Włodzimierzem Słobodnikiem (1900-1991), który studiując wówczas polonistykę na Uniwersytecie Warszawskim (od roku19215), pamiętał jeszcze zapoznane sylwetki swoich szkolnych kolegów6. 1 E. Balcerzan, Styl i poetyka twórczości dwujęzycznej Brunona Jasieńskiego, Wrocław 1968; Idem, Wstęp, [w:] B. Jasieński, Utwory poetyckie, manifesty, szkice, Wrocław 1972; G. Gazda, Futuryzm w Polsce, Wrocław 1974; Idem, Awangarda – nowoczesność i tradycja. W kręgu europejskich kierunków literackich pierwszych dziesięcioleci XX wieku, Łódź 1987; Antologia polskiego futuryzmu i Nowej Sztuki, wstęp i komentarz Z. Jarosiński, wybór i oprac. H. Zaworska, Wrocław 1978; A. Lam, Polska awangarda poetycka. Programy lat 1917-1923, t. 1. Instynkt i ład; t. 2. Manifesty i protesty: Antologia, Kraków 1969; H. Zaworska, O nową sztukę. Polskie programy artystyczne lat 1917-1922, Warszawa 1963 i wiele innych ważkich opracowań. 2 S. Sterna-Wachowiak, Miąższ zakazanych owoców. Jankowski – Jasieński – Grędziński (szkice o futuryzmie), Bydgoszcz 1985. 3 B. Śniecikowska, Słowo – obraz – dźwięk. Literatura i sztuki wizualne w koncepcjach polskiej awangardy 1918-1939, Kraków 2005; Eadem, „Nuż w uhu”? Koncepcje dźwięku w poezji polskiego futuryzmu, Wrocław 2008; P. Strożek, Marinetti i futuryzm w Polsce 1909-1939. Obecność – kontakty – wydarzenia, Warszawa 2012; M. Gurgul, W drodze do gwiazd. O teatrze i dramacie włoskiego futuryzmu, Kraków 2009; T. Kireńczuk, Od sztuki w działaniu do działania w sztuce. Filippo Tommaso Marinetti i teatr włoskich futurystów, Kraków 2008. 4 A.K. Waśkiewicz, Czasopisma i publikacje zbiorowe polskich futurystów, [w:] «Pamiętnik Literacki», 1, 1983; przedruk w publikacji książkowej: Idem, W kręgu futuryzmu i awangardy, Wrocław 2003. 5 Choć słowniki biograficzne traktują tę wzmiankę jako „informację poety”, ponieważ w aktach Uniwersytetu Warszawskiego nie znalazła ona jak dotąd potwierdzenia. 6 Włodzimierz Słobodnik debiutował wierszami w końcu lipca 1921 r. (Noce oraz Gwiazdośpiew) właśnie w drugiej 15 Krzysztof Jaworski 16 Zainspirowany niegdyś tą właśnie publikacją A.K. Waśkiewicza postanowiłem kontynuować temat „drugorzędnych” futurystów7. Sądziłem, że tak jak uznany futuryzm polski reprezentuje ważne dziedzictwo naszego narodowego piśmiennictwa, tak ten „nieuznany”, stanowiąc w pewnym sensie jego karykaturalne odbicie, jest przecież także ważnym głosem w dyskusji o rodzimej literaturze, także na swój sposób próbującym dać odpowiedź na pytanie, jaką rolę w społeczeństwie powinna spełniać najnowsza literatura i jakie miejsce powinien zajmować jej twórca – artysta, który mógł wypowiadać się wreszcie nie tylko w warunkach narodowej niewoli, ale powinien starać się znaleźć nowoczesną formułę odrodzonej sztuki polskiej. Temat „peryferii” futuryzmu kusił tym bardziej, że sam Waśkiewicz wskazywał na niemałe luki, jeśli chodzi o dostępność do wydawanych przez poetów publikacji (niektóre uchodziły za zaginione), stąd naturalną wydawała się próba poszerzenia wiedzy faktograficznej, dotarcia do źródeł, opisania i uszczegółowienia tego zjawiska, być może drugorzędnego, ale właśnie jako takiego oświetlającego z właściwej perspektywy polski futuryzm pierwszorzędny, ten uznany. To jednak stało się możliwe dopiero z chwilą ukończenia mojej pracy nad Kroniką polskiego futuryzmu (2015), w której starałem się zgromadzić i uporządkować w układzie chronologicznym wydarzenia zarówno z obszaru artystycznego (literatury, teatru, filmu, plastyki, muzyki i innych), jak i działalności pozaliterackiej czy życia publicznego lat 1909-1939. Wówczas „nieuznany” futuryzm zaprezentował swoje pełne oblicze. Dziś już wiadomo, że polski futuryzm nie był nurtem jednolitym, że między lutym 1919 r. a marcem roku 1921 w Polsce funkcjonowało tak naprawdę około czterech konkurencyjnych wobec siebie grup – futuryści tzw. „warszawscy” (z poetami Anatolem Sternem i Aleksandrem Watem) oraz futuryści „krakowscy” (z poetami Tytusem Czyżewskim, Brunonem Jasieńskim i Stanisławem Młodożeńcem)8; na ten „uznany krajobraz” nakładała się ponadto działalność tzw. „najmłodszych futurystów warszawskich” (przez futurystów z Krakowa i Warszawy nigdy nie uznanych za twórców godnych tego miana) – jedna z tych „drugorzędnych” grup skupiona była wokół Kazimierza Brzeskiego, który w kwietniu 1921 r. założył organizację młodzieży futurystycznej „Gong”, a następnie przemianował ją na „Katarynkę Warszawską”9, druga zgromadziła się wokół Henryka Sela i w marcu 1922 r. zadeklarowała utworzenie klubu futurystów warszawskich „Homunculus”10 – rzecz jasna grupy najmłodsze także były ze sobą skłócone. Początkom futuryzmu patronowali różni twórcy, między innymi: Jerzy Jankowski („tragiczny zwiastun i Jan Chrzciciel futuryzmu polskiego” – jak określił poetę B. Jasieński11 ), oraz tzw. grupa jednodniówce „najmłodszych futurystów warszawskich” grupy K. Brzeskiego zatytułowanej Pam-Bam; dokładniej o tym w dalszej części artykułu. 7 Patrz: K. Jaworski, Niechciani futuryści. Najmłodsza awangarda literacka dwudziestolecia międzywojennego, [w:] Między retoryką manifestów a nowoczesnością. Literatura – sztuka – film, pod red. K. Jaworskiego i P. Rosińskiego, Kielce 2011, s. 219-244. 8 Dopiero 10 i 11 marca 1921 r. połączyły ich wspólne „poezokoncerty” w Łodzi. 9 Informację taką K. Brzeski podał w styczniu 1922 w jednodniówce Błękitne spodnie: „W początkach kwietnia [1921] powstała 1-sza organizacja w świecie młodzieży futurystycznej pn. Gong. Zadaniem tej organizacji było dokładne poznawanie futuryzmu, szerzenie go i rozpowszechnianie. Z biegiem czasu organizacja zmieniła się w grono poetów skupiających się koło wydawnictwa jednodniówek pn. Katarynka Warszawska”. 10 Deklaracja ta pojawiła się w jednodniówce Pijany Parasol (1922). 11 Jerzy Jankowski (podpisujący się wkrótce na znak swego akcesu do futuryzmu nieortograficzną „pisownią futurystyczną” Yeży Yankowski) po opublikowaniu w maju i czerwcu 1914 r. wierszy Spłon lotnika oraz Maggi w piśmie «Widnokrąg» zastał uznany za prekursora polskiego futuryzmu, około 1919 r. powołał także do życia tzw. „Wydawnictwo Futuryzm Polski pod wodzą Yeżego Yankowskiego” i w październiku 1919 r. (z datą 1920) opublikował jedyną książkę poetycką zatytułowaną Tram wpopszek ulicy. Słowa B. Jasieńskiego o poecie patrz: B. Jasieński, Futuryzm polski (bilans), [w:] «Zwrotnica», 6, 1923, „Najmłodsi futuryści warszawscy” „drugiego Picadora” (na czas chwilowej współpracy z warszawskimi futurystami przemianowana na „Cech Poetów”12 ) – w lutym i marcu 1919 r. występująca wspólnie chociażby z Jarosławem Iwaszkiewiczem, Janem Lechoniem, Antonim Słonimskim i Julianem Tuwimem – ten ostatni przez jakiś czas uchodził w dodatku wśród krytyków za „pierwszego polskiego futurystę̨”13. Te paradoksy można mnożyć, bo o ile na przykład uznane grupy „warszawska” i „krakowska” wydały wspólne dwie jednodniówki, to grupa K. Brzeskiego wydała ich osiem, a grupa H. Sela – pięć. W dodatku słynna i kodyfikująca polski futuryzm Jednodńuwka futurystuw. Mańifesty futuryzmu polskiego. Wydańe nadzwyczajne na całą Żeczpospolitą Polską14 pod redakcją B. Jasieńskiego ukazała się formalnie 10 czerwca 1921 r., a tymczasem „najmłodsi futuryści” wydali swoją pierwszą jednodniówkę (właściwie, jak głosił podtytuł: „jednonockę”) – o ironio – wcześniej, bo już 1 czerwca 1921 r., nadając jej zresztą tytuł KATARYNKA | ?„GONG”?15. Ten szczegół o chronologicznym pierwszeństwie drugorzędnej publikacji, to jedynie ciekawostka, ponieważ oczywiście manifesty pióra B. Jasieńskiego (opublikowane 10 czerwca 1921) powstały znacznie wcześniej, bo 1 i 25 marca oraz 3 i 20 kwietnia 1921 r., ale świadczy dobrze o „przedsiębiorczości” najmłodszych adeptów sztuki futurystycznej, którzy od tego momentu zaczęli niestrudzenie zasypywać rynek czytelniczy swoimi: „jednonockami”, „jednorankami”, „rykami bulwarowego niedźwiedzia” czy też „najgenialniejszymi genialnościami geniuszów” i „bombami futurystycznymi”. Ogólny bilans dokonań grup futurystycznych, jeśli chodzi o jednodniówki, uwzględniając chronologię ich pierwodruków, dobrze zilustruje poniższa tabela: Jednodniówki grup futurystycznych (tytuły skrócone)16 futuryści „warszawscy” i „krakowscy” 1 czerwca 1921 grupa K. Brzeskiego grupa H. Sela Katarynka | ?„Gong”? pod red. K. Brzeskiego s. 180. 12 Powstanie „Klubu Futurystów Polskich – Cech poetów” zaanonsował po raz pierwszy «Kurier Polski» (38, 1919, s. 3). Krótkotrwała współpraca trwała od lutego 1919 r. i obejmowała wspólne wieczory artystyczne, które odbywały się między 9-11 wieczorem w lokalu „róg Czystej i Placu Saskiego, podziemia Sklepu Kubina” («Pro Arte», 2, 1919, s. 31). 13 Pierwszy odczyt o futuryzmie włoskim i rosyjskim J. Tuwim wygłosił w Łodzi w grudniu 1915 r. (recenzja odczytu patrz: «Gazeta Łódzka», 334, 1915, s. 5), podobne odczyty wygłaszał także w Krakowie w marcu 1920 r. (patrz recenzja: «Goniec Krakowski», 77, 1920, s. 7), kiedy w zbiorze wierszy Czyhanie na boga (1918) poeta opublikował w utworze Poezja słynną frazę „Będę ja pierwszym w Polsce futurystą” wielu polskich recenzentów zaczęło go określać takim właśnie mianem (m.in. Emil Haecker), budziło to zdecydowany sprzeciw futurystów (patrz: T. Czyżewski, Pierwszy polski futurysta?! [w:] «Goniec Krakowski», 96, 1919, s. 2). 14 W tytułach publikacji polskich futurystów oraz fragmentach tekstów w nich zamieszczanych zachowuję oryginalną pisownię, którą się posługiwali (niezgodną z obowiązującymi normami ortograficznymi). 15 Datę druku ustalono na podstawie reklamy opublikowanej w piśmie «Trubadur Polski» (9, 1921, s. 1), która namawiała „do nabycia” jednodniówki pod red. K. Brzeskiego dostępnej „we wszystkich księgarniach i kioskach oraz na stacjach kolejowych”. 16 Pomijam w tym zestawieniu uchodzący za chronologicznie pierwszy druk futurystyczny – „ulotkę” Tak (1918? 1919?) pod red. A. Sterna i A. Wata (nie zachowała się) oraz publikację To są Niebieskie pięty, które trzeba pomalować (1920) pod „kierownictwem głównym” S.K. Gackiego, a także „almanach poezji futurystycznej” gga (1920) pod red. A. Sterna i A. Wata, czyli druki grupy futurystów „warszawskich”, ponieważ w tym kontekście interesują mnie jedynie te jednodniówki, które powstały po połączeniu z grupą „krakowską”, a takie nastąpiło dopiero 10 marca 1921 r. 17 Krzysztof Jaworski 10 czerwca 1921 Jednodńuwka futurystuw pod red. B. Jasieńskiego koniec lipca 1921 Pam-Bam pod red. K. Brzeskiego koniec sierpnia 1921 Czyk-Czyk pod red. K. Brzeskiego 13 listopada 1921 listopad 1921 Nuż w bżuhu pod red. B. Jasieńskiego i A. Sterna Futurysta pod red. K. Brzeskiego i Z. Halickiego grudzień 1921 Trr… pod red. H. Sela styczeń 1922 Gwiazdy w garnku pod red. H. Sela styczeń 1922 Błękitne spodnie pod red. K. Brzeskiego i Z. Halickiego luty 1922 Lejek w mózgu pod red. K. Brzeskiego i Z. Halickiego Pijany parasol pod red. H. Sela i A. Hala koniec marca 1922 marzec 1922 18 Fioletowe płuca pod red. K. Brzeskiego i Z. Halickiego lipiec 1922 Zielony Murzyn pod red. H. Sela i S. Drzewożyckiego 11 grudnia 1922 „futurystyczne bomby” H. Sela [nie zachowała się] wrzesień 1924 Wiatr w rosole pod red. K. Brzeskiego i R. Elskiego W reakcji na ukazanie się Pam-Bam – a więc zaledwie drugiej z kolei jednodniówki grupy K. Brzeskiego – dziennikarze zaczęli ostrzegać przed natłokiem publikacji futurystycznych dostępnych na rynku wydawniczym: „futuryzacje tego rodzaju rozmnożyły się już tak dalece, że w każdym koszyku gazeciarskim pełno jest tej tandety” – obwieszczał «Kurier Polski» (212, 1921, s. 3) – a przecież (patrząc na powyższe zestawienie), był to dopiero początek „zabawy” w futuryzm w wydaniu najmłodszych, samozwańczych jego przedstawicieli. Lekturą wspomnianego już PamBam przygnębiony był także Stanisław I. Witkiewicz, pełen gorzkich refleksji pisał: W lecie w r. 1921 wpadł mi w ręce numer Pam-Bam. Muszę się przyznać, że sam wpadłem w rozpacz. Nie wiem, czy to było pisane na serio, czy „na farsę”, i w tym jest cała okropność tej rzeczy. Przyjdzie czas, że nie będzie wiadomym […], co jest wynikiem artystycznej konieczności, a co przypadkiem czysto mechanicznym lub co gorsza – świadomą blagą. […] I wydał mi się bardzo bliskim ten czas, w którym istotna praca naprawdę nic nie będzie warta i wyniki długoletnich wysiłków w kierunku stworzenia rzeczy pięknych przez ludzi szczerych nie dadzą się̨ odróżnić od destruktywnej roboty szakali dadaizmu […]17. W styczniu 1922 r. redakcje warszawskich gazet donosiły już wręcz o „epidemii futurystycznej w Polsce”, nadmieniając mimo wszystko o pewnych „pokładach humoru” tych publikacji, a nawet „przebijającym się talencie” niektórych autorów: 17 St.I. Witkiewicz, O skutkach działalności naszych futurystów [tekst datowany: „4 lutego 1922”], [w:] Idem, Teatr, Kraków „Najmłodsi futuryści warszawscy” Ostatnio na wyróżnienie zasługuje żółtodziób, niby to literacko-futurystyczny niejaki p. Kazimierz Brzeski, w którym pobłyskują iskry talentu, a które jednakże mogą wkrótce zagasnąć zmoczone w gnojówce futurystycznych pomysłów. Każdą myśl zrealizowaną dla dobra ojczyzny, dla dobra ducha poprzemy, nie możemy jednakże być protektorami takiego świństwa i brudu, jakiemu hołdują niektórzy futuryści. Tworki i Kulparków byłby dla tych panów najlepszym lekarstwem18. Z kronikarskiego obowiązku wypada również wymienić nazwiska młodych autorów, przewijających się przez wszystkie odnalezione publikacje, a byli nimi (w kolejności alfabetycznej; niektórych pseudonimów nie da się dziś rozszyfrować): Stefan Brühll (także jako: Bryl; st. br.), Kazimierz Brzeski (właśc. Kazimierz Fliderbaum), Jan Drwęski, Stefan Drzewożycki, Elkar, Radosław Elski (właśc. Eliasz Chryzman), F. Y., Fenix, Szymon Gern, Zdzisław Gryzoń, H.S.G., Habej, Hace, Adam Hal, Zygmunt Halicki, Bronisław Hermelin, Kael, Kazimierz Kokowski, Ludwik Krr, Jan Krupicki, Marceli Lipiec, Jerzy Malinowski, Mieczysław Salcstein (także jako: Salczstein; Salcsztein), Henryk Sel, Jerzy Sławski, Józef Słobodnik, Włodzimierz Słobodnik, W. Z., Emil Wilski. Jeśli przyjąć, że podpisy typu: „F. Y.”, „H.S.G.” czy „W. Z.” reprezentują różne osoby (a nie na przykład jednego autora, posługującego się kilkoma pseudonimami), to na łamach jednodniówek najmłodszych futurystów warszawskich (grup K. Brzeskiego i H. Sela) publikowało około trzydziestu osób. Obok bloku tekstów nazwanych manifestami, bądź odezwami (autorstwa K. Brzeskiego, B. Hermelina oraz H. Sela i S. Drzewożyckiego), publikowano głównie wiersze – najwięcej swoich wierszowanych tekstów zamieścił K. Brzeski (36), po 16 wierszy opublikowali B. Hermelin i H. Sel, następnie kolejno: Z. Halicki (15), Hace (12), R. Elski (10) i tak dalej. Większość z wymienionych wyżej zaistniała zaledwie kilkoma (często dwoma czy jednym) tekstem. Nie wiadomo czy poza publikacjami najmłodsi futuryści warszawscy udzielali się publicznie, tak jak robili to ich starsi koledzy, nie udało się odnaleźć jak dotąd żadnych prasowych wzmianek na temat ich ewentualnych działań artystycznych przed widownią. Jednak pewne światło na tego typu chęć zaistnienia twórczego rzuca uwaga, którą najbardziej aktywny z „niechcianych futurystów” – K. Brzeski – zamieścił pod swoim wierszem Wiosna: „Wiersz recytowany dnia [22.05.1921] r., na recitalu prywatnym u pp. K., przy akompaniamencie wyrazów oburzenia ze strony obecnej płci pięknej”19. Więc wydaje się, że jedynie na „recitale w mieszkaniach prywatnych” mogli liczyć najmłodsi futuryści. Co zresztą nie było niczym niezwykłym, spotkania takie odbywali i futuryści uznani – na przykład 6 czerwca 1921 r. podobny wieczór (z udziałem B. Jasieńskiego i S. Młodożeńca) miał miejsce w Krakowie, w mieszkaniu prywatnym Emilii Stożkowej (siostry Leona Chwistka)20. Nie ulega natomiast wątpliwości, że publikacje najmłodszych futurystów warszawskich cechowało jak najdalej posunięte naśladownictwo oraz wtórność widoczna właściwie na każdym poziomie zapożyczenia: od układu graficznego jednodniówek począwszy, na powielaniu 1923, s. 238-239. Wcześniej St.I. Witkiewicz wykpił działalność futurystów w wydanej anonimowo jednodniówce Papierek lakmusowy (1921). 18 (P.), Epidemia futurystyczna w Polsce, [w:] «Przegląd Światowy», 1, 1922, s. 26. W Tworkach i Kulparkowie mieściły się wówczas znane zakłady psychiatryczne. 19 Patrz: Czyk-Czyk. Pam-Bam. 3-cia jednodniówka najmłodszych futurystów polskich pod redakcją Kazimierza Brzeskiego, Warszawa 1921, s. 5-6. 20 Patrz: K. Estreicher, Leon Chwistek, Kraków 1971, s. 362. 19 Krzysztof Jaworski chwytów i motywów poetyckich skończywszy. O ile na początku tego wywodu wspomniano, że najmłodsi futuryści zdecydowanie wygrywali ze starszymi kolegami ilością futurystycznych produkcji, to wypada podkreślić, że ta „ilość” niewiele miała wspólnego z „jakością”. Oto kilka charakterystycznych przykładów, które oddają skalę zjawiska. Przede wszystkim zapożyczenia nazewnicze: popularny klub futurystów krakowskich „Katarynka”21 powstał już 13 marca 1920 r. i nazwa ta zapadła w świadomość odbiorców, powszechnie kojarzyła się ze środowiskiem krakowskich poetów, tymczasem wspomnianą pierwszą jednodniówkę z 1 czerwca 1921 r. K. Brzeski również nazwał Katarynką (a swoją grupę „Katarynką Warszawską”), zapewne świadomie pragnąc wykorzystać zdobycze poprzedników. Kiedy futuryści krakowscy przyjechali na gościnne występy do Warszawy i 3 marca 1921 r. dali w sali Towarzystwa Higienicznego na ul. Karowej jeden ze swoich najsłynniejszych „poezokoncertów” (notabene przerwany przez policję) zatytułowali go Pam-Bam – kolejna jednodniówka najmłodszych futurystów warszawskich ukazała się w końcu lipca 1921 r. i zatytułowano ją właśnie – Pam-Pam, następna zaś z końca sierpnia tegoż roku nosiła tytuł Czyk-Czyk również z podtytułem: PamBam. Taką litanię nazewniczych zapożyczeń można ciągnąć w nieskończoność. Podobnie na obszarze poetyki. Młodzi futuryści najchętniej kopiowali wiersze B. Jasieńskiego i S. Młodożeńca. Zwłaszcza dwa z nich były wówczas rozpoznawalne dla publiczności i weszły do powszechnego obiegu, kolejno: Marsz i Futurobnia, oba teksty poeci odczytywali z estrad, by później opublikować je w debiutanckich książkach. W lutym 1921 r. B. Jasieński ogłosił zbiór But w butonierce, a charakterystyczne frazy Marsza brzmiały: BRUNO JASIEŃSKI, Marsz Tra-ta-ta-ta-tam. Tra-ta-ta-ta-tam. Tutaj. I tu. I tu. I tam. Jeden. Siedm. Czterysta-cztery. Panie. Na głowach. Mają. Rajery. Damy. Damy. Tyle tych. Dam. Tam. Ta. To tu. To tu. To tam. […] 20 Natychmiast oryginalną budowę wiersza zaczęli wykorzystywać najmłodsi futuryści – już w pierwszej jednodniówce grupy K. Brzeskiego Katarynka z czerwca 1921 r. pojawił się tekst Ludwika Krr pt. Sąd: LUDWIK KRR, Sąd Sala. Półmrok. Trzech sędziów. Prokurator. Obrona. Dwóch więźniów. Ławki. Publiczność. Rodzina. Lampy. Krucyfiks. Godzina. […] Grupa skupiona wokół H. Sela również chętnie skorzystała z gotowego wzoru, w ich pierwszej jednodniówce zatytułowanej Trr… z grudnia 1921 r. znalazł się tekst pt. Burza autorstwa Hace (pseudonim nierozpoznany): 21 Pełna nazwa: Niezalegalizowany Klub Futurystów „Pod Katarynką”. „Najmłodsi futuryści warszawscy” HACE, Burza Morze. Bałwany. Głębiny. Fale. Okręt. Podróżni. Cylindry. Szale. Pokład. Rozmowy. Przechadzka. Buty. Fortepian. Karty. Gracze. Nuty. […] W kolejnej jednodniówce tej grupy Gwiazdy w garnku22 ze stycznia 1922 podobną kalkę popełnił Kael (pseudonim nierozpoznany) w tekście Maskarada: KAEL, Maskarada Barwy. Stroje. Kostiumy. Uśmiechy. Okrzyki. Tłumy. Czereda. Tańce. Maseczki. Fraki. Wachlarze. Laseczki. […] Z kolei Futurobnia S. Młodożeńca, wiersz, który stał się niemal synonimem polskiego futuryzmu, wizytówką poety, a także był najchętniej i najczęściej parodiowanym utworem futurystycznym w ówczesnej prasie23, rozpoczynający się słynnym już dziś dwuwersem: „uchodzone umyślenia upapierzam poemacę / i miesięczę kaszkietując księgodajcom by zdruczyli” – stanowił pożywkę dla nieokiełznanego naśladownictwa – oto najbardziej charakterystyczne: K. KOKOWSKI, Futuropróba Biletuję przed ogonkiem Główny Dworzec Milanówek, Adzio, Lolek, Pani Genia, Anda, Wanda, doktor Twardy. Homary, Żaby, Kraby, Indyki, Pulardy […] Pam-Bam (1921) FENIX, Przeznaczenie Hymnobrzmiące. Wiecznotrwałe. Bezkrańcowe. Twórczobrzmiałe. Życie. [...] Pijany parasol (1922) Te kilka przykładów to zaledwie – by pozwolić sobie na eufemizm – czubek góry lodowej poetyckiego naśladowania (plagiatowania?) dokonań starszych kolegów, bo najmłodsi futuryści równie ochoczo przetwarzali postulaty manifestów. Szczególnie w pierwszej fazie swojej działalności służył im za wzór manifest A. Sterna i A. Wata pt. Prymitywiści do narodów świata i do polski, bo był on opublikowany już w grudniu 1920 r. To zapewne jego lektura stała się podstawą licznych haseł-wezwań, absurdalnych zawołań ozdabiających jednodniówki najmłodszych: „Niech żyje FUTURYZM!!! Chodźcie do góry nogami!!!”, „Poliż gorące szkiełko od lampy!!”, 22 Zresztą sam tytuł jednodniówki ewidentnie przywoływał na myśl frazę z wiersza A. Sterna zatytułowanego Słońce w brzuchu: „gdy niebiosa dano mi na półmisku / nie dziw, że słońce mam w brzuchu” z 1919 r. 23 Opisuję to szczegółowo w: K. Jaworski, Kronika polskiego futuryzmu, Kielce 2015, s. 197-200. 21 Krzysztof Jaworski „PRECZ Z NIEZDROWĄ MASTURBACJĄ LITERATURY ZACHOWAWCZEJ! NIECH ŻYJE NOWA SZTUKA!”, „Niech żyje sens w nonsensie!”, „WYMIOTUJEMY przezroczystymi ślinami na zwiędłe fiołki granatowych marzeń przekwitłych nieaktualnych ekwilibrystów!!!”, „NIECH ŻYJĄ SKARPETKI W POMIDOROWYM SOSIE”, „Pluń sobie we własne usta!!!”, „Niech żyje tarcie pleców o podłogę!!” – i tym podobnych24. Ale też porównanie literackich możliwości najmłodszych futurystów warszawskich z możliwościami uznanych przedstawicieli tego kierunku zawsze wypadać będzie na korzyść tych ostatnich czy – pisząc brutalnie – bądź co bądź utalentowanych twórców. Niewiele natomiast powie o fenomenie kulturowym, jakim był wówczas futuryzm. Wspominano również, że grupa futurystów najmłodszych nie była grupą poetycką czy programowo-literacką w rozumieniu artystycznym, lecz raczej towarzysko-nieformalną, eksponującą przede wszystkim relacje osobiste. Widać to wyraźnie choćby w dedykacjach jakimi się hojnie obdarzali w publikowanych tekstach, i tak na przykład: B. Hermelin – „Kazimierzowi Brzeskiemu w dowód szczerej i wiecznej przyjaźni ofiaruję”; Hace – „H. Selowi, w dniu jego urodzin”; H. Sel – „K. Brzeskiemu poświęcam”, „Koledze Szymonowi Gern”. Podział na „grupę K. Brzeskiego” i „grupę H. Sela” był dość płynny – dochodziło do częstych niesnasek, animozji, przechodzenia z obozu do obozu. Ślady tych „wojenek osobistoliterackich” również widoczne są w jednodniówkach, lektura działu „Kronika” trzeciej z kolei publikacji K. Brzeskiego pt. Czyk-Czyk (sierpień 1921) przynosi taką oto informację: Zdrajcy futuryzmu. Po długich i ciężkich cierpieniach „Katarynka Warszawska” pozbyła się pp. Stefana Brühlla i Włodzimierza Słobodnika. Zaiste postąpili niezwykle logicznie, jakże można było pracować obok tak niedorozwiniętych ludzi jak Hermelin i Brzeski. […] Zrozumieli to doskonale nasi b. koledzy […] i uwolnili nas od swoich osób […]. P. Stefan Brühll25 stał się dlatego „literatem”, żeby się ubierać jak Julian Tuwim […]. 22 K. Brzeski raz przyjmował do druku, innym razem znów odrzucał teksty kolegów – w rubryce „Odpowiedzi od redakcji” jednodniówki Futurysta (listopad 1921) oznajmił: P. Elskiemu Radosławowi. Listu Sz. P. z przyczyn od nas niezależnych umieścić nie możemy. Jak się wydaje nam, społeczeństwo postara się przeboleć stratę po panu26. P. Wilskiemu Emilowi. Wiersze słabe, prosimy jednak o dalsze27. Jak wspomniano, to właśnie K. Brzeski był inicjatorem i najbardziej prężnym animatorem działań najmłodszych futurystów warszawskich, od czerwca do listopada 1921 r. zredagował i wydał cztery jednodniówki (dla przypomnienia: Katarynkę, Pam-Bam, Czyk-Czyk i Futurystę), więc kiedy w grudniu 1921 r. na rynku pojawiły się produkcje H. Sela – jednodniówka Trr…– i w styczniu 1922 r. jednodniówka Gwiazdy w garnku (być może była to konsekwencja rozłamu 24 Kwestia naśladowania manifestów wymagałaby dokładniejszego omówienia, na co w tym krótkim wywodzie brak miejsca. 25 Nazwisko S. Brühlla rzeczywiście zniknęło z czterech następnych publikacji grupy K. Brzeskiego; Brühll powrócił dopiero w jednodniówce ostatniej Wiatr w rosole (1924) z recenzją o książce A. Sterna pt. Anielski cham. 26 Wiersze R. Elskiego pojawiły się jednak w siódmej z kolei jednodniówce Fioletowe płuca (1922), został także współredaktorem (obok K. Brzeskiego) ostatniej jednodniówki grupy pt. Wiatr w rosole (1924). 27 E. Wilski nadesłał kolejne utwory, jednak również zostały odrzucone z komentarzem: „B. kiepskie” (Fioletowe płuca, 1922). „Najmłodsi futuryści warszawscy” w grupie) – K. Brzeski natychmiast skomentował ten fakt w swojej kolejnej publikacji Błękitne spodnie (styczeń 1922): Zjednoczenie zdegenerowanych wyrostków wyznania mojżeszowego, z powodu wczesnego zamykania „Saskiego ogrodu” postanowiło zabić jakoś czas i rezultatem postanowienia są brukowe broszurki pn. „Trr…”, „Gwiazdy w garnku” itp. Smarkateria ta, parafrazując i plugawiąc nasze jednodniówki, podszywa się bezkarnie pod nazwę futurystów. Zaznaczamy, że nic wspólnego z wykolejonymi sztubakami nie mamy i postaramy się uskramiać szkodliwe ekscesy nalewkowskich młodzieniaszków. Być może brutalny ton wypowiedzi miał być jedynie kolejną prowokacją? Elementem reklamy („jarmarcznej”, jak ją wówczas określała prasa) oraz świadomej strategii gry ze zdezorientowanym czytelnikiem? Czy rzeczywiście ich autor chciał zdyskredytować konkurencję i czy była to rzeczywiście konkurencja? Trudno dziś odpowiedzieć na te pytania. Tym niemniej wykrystalizowały się dwie odrębne grupy najmłodszych futurystów, skupione wokół wydawanych przez siebie jednodniówek – pierwsza, liczniejsza grupa K. Brzeskiego, która zaczęła publikować od czerwca 1921, w której najaktywniej działali B. Hermelin, Z. Halicki i E. Chryzman oraz grupa H. Sela, z najaktywniejszymi przedstawicielami: S. Gernem, A. Halem i S. Drzewożyckm (ich publikacje zaczęły pojawiać się od grudnia 1921 r.). Od początku swojej działalności najmłodsi futuryści usilnie zabiegali przede wszystkim o uznanie w oczach starszych kolegów, szczególnie A. Sterna i A. Wata, którzy tak ja oni, mieszkali w Warszawie. Po latach W. Słobodnik (wówczas należący do kręgu K. Brzeskiego) w listach wspominał: „Pamiętam jedno posiedzenie grupy, na którym patronowali nam Anatol Stern i Aleksander Wat” oraz „patronujący młodym poetom Anatol Stern i Aleksander Wat za najciekawszego i najzdolniejszego spośród nich uważali Hermelina”28. Kiedy na początku lutego 1921 r. T. Czyżewski, B. Jasieński i S. Młodożeniec przybyli z Krakowa do Warszawy z zamiarem zaprezentowania swoich dokonań poetyckich29, traktowali A. Sterna i A. Wata jako konkurencyjną grupę twórców, lecz mimo wszystko miało dojść do spotkania. A. Wat wspominał po latach, że kiedy miało odbyć się jego pierwsze spotkanie z B. Jasieńskim zjawił się w umówionym miejscu, lecz oto: Był tam jeszcze jeden młody człowiek […] który Jasieńskiemu podawał się̨ za Aleksandra Wata. Przyłączył się do Jasieńskiego i przyjechał właśnie na ten wieczór jako Aleksander Wat. W kawiarni nastąpiło moje spotkanie z Jasieńskim. Jasieński zaczerwieniony, zarumieniony: „Jak to śmie się pan nazywać Aleksandrem Watem, kiedy Aleksander Wat tu przyjechał z nami?” I pokazuje mi bardzo młodego, szalenie sympatycznego, nieśmiałego człowieka, który z kolei się zaczerwienił i zaczął coś pomrukiwać, że właściwie, no, że on tak czasem czuje się innym człowiekiem, że jemu się jakoś spodobało tak wystąpić. Oczywiście Jasieński wylał go wtedy na pysk30. Być może „młodym sympatycznym człowiekiem” był wówczas właśnie K. Brzeski? W sierpniu 1921 r. swój wiersz Futurocacka opatrzył wszak dedykacją – „Tobie Panie Bruno 28 Fragmenty listów W. Słobodnika cytuję za: A.K. Waśkiewicz, W kręgu futuryzmu i awangardy. Studia i szkice, Wrocław 2003, s. 92. B. Hermelin, o czym była już mowa, opublikował w ośmiu jednodniówkach grupy 16 tekstów poetyckich. 29 Pierwszy „poezokoncert” futurystów krakowskich w Warszawie w sali Filharmonii miał miejsce 9 lutego 1921 r. 30 A. Wat, Mój wiek, Warszawa 1990, s. 25. 23 Krzysztof Jaworski Jasieński, w dowód minionego nieporozumienia, płód swój poroniony poświęcam”31. W kontekście wspomnień A. Wata dedykacja ta byłaby wówczas zrozumiała. O ile więc A. Wat i A. Stern utrzymywali jakieś sporadyczne kontakty z najmłodszymi futurystami, o tyle po spotkaniu z futurystami krakowskimi, połączeniu sił, wydawaniu wspólnych już jednodniówek i wspólnych występach takie kontakty zupełnie ustały. W dodatku futuryści postanowili zdecydowanie odciąć się od „młodzieży futurystycznej” i w listopadzie 1921 r. w jednodniówce Nuż w bżuhu wyjaśniali (zachowana pisownia „futurystyczna”): SPROSTOWAŃE. Od pewnego czasu w kioskah warszawskih systematyczńe pojawiają śę świstki noszące po kolei tytuły „katarynka”, to znów „Pam-Bam”, „Czyk-Czyk” „zapożyczone” od b. krakowskiego klubu futurystów, dźęki czemu udało śę im istotńe wprowadźić w błąd wielu ńeświadomyh i zahęćić do ih kupowańa. Zapytywańi w tej sprawie już kilkakrotńe, zamieszczamy w tym miejscu parę słuw wyjaśńeńa. Cała ta afera, przypominająca nam brudne geszefty z podrabiańem ma- rek fabrycznyh, określa dostateczńe gatunek młodźeńcuw poetyzującyh w owyh erzatz-katarynkah pod mianem „najmłodszyh polskih futurystów”. Wydaje się, że to właśnie oświadczenie futurystów przelało czarę goryczy. W styczniu 1922 r. w piątej z kolei jednodniówce Błękitne spodnie K. Brzeski z pewnym rozżaleniem pisał: „Futuryści” warszawscy pp. Anatol Stern i Aleksander Wat, twierdzili, że z radością witają powstanie organizacji, udzielali nam z początku pseudo-cennych wskazówek i „żywo” interesowali się rozwojem organizacji. Lecz „sielankowa idylla” nie trwała długo. PP. „futuryści” ujrzawszy, że „Katarynka Warszawska” zasypuje rynek księgarski jednodniówkami, almanachami itp. elementem konkurencyjnym, zaczęli chłodnąć (co jest zupełnie zrozumiałe) i starać się nas zupełnie ignorować. Specjalistą od ignorowania nas, jest bezwzględnie wymuskany „krakowski hrabia Lolo” p. Bruno Jasieński, który zdaje się przewyższać głupotą But w butonierce. 24 Dużo ostrzej w dalszej części tej samej publikacji potraktowano A. Wata: Prośba do wydziału zdrowia. Duchowa organizacja futurystyczna „Katarynka Warszawska” zwraca się z prośbą do wydziału zdrowia w sprawie internowania „generalnego stręczyciela małokrwistych dziewczynek” p. Aleksandra Wata jako człowieka umysłowo chorego. Z powodu braku miejsca w szpitalu obłąkanych proponujemy na schronisko mopso-żelazny piecyk. Pretekstem tak agresywnej wypowiedzi K. Brzeskiego stało się rzecz jasna zdanie z książki A. Wata (Ja z jednej strony i Ja z drugiej strony mego mopsożelaznego piecyka, 1920) które brzmiało: „Zresztą dość już gwałciłem brązowe ciała samic na wzdętej glebie afrykańskich płaskowzgórzy”. Kiedy w lutym 1922 r. w 2 numerze pisma «Nowa Sztuka» A. Wat opublikował tekst pt. Powieść, jedno ze zdań brzmiało podobnie: „I, gdy dusza moja gwałciła chudą dziewczynkę, JA, blady, wyprostowany, przemówiłem do wszystkich: dziokonda a kuku”32. K. Brzeski zareagował błyskawicznie, komentując w Fioletowych płucach (marzec 1922): „Wat w dalszym ciągu gwałci chude dziewczynki, co jest zupełnie zrozumiałe, gdyż do okazów należałaby ta kobieta, która by się dobrowolnie mu oddała”. Ani B. Jasieński, ani A. Wat nie zareagowali na te słowne inwektywy, nie podjęli polemiki 31 Tekst znalazł się w jednodniówce Czyk-Czyk (1921). A. Wat, Powieść, [w:] «Nowa Sztuka», 2, 1922, s. 17-21. 32 „Najmłodsi futuryści warszawscy” z najmłodszymi futurystami. A ci ostatni, porzuciwszy ostatecznie nadzieję na dostąpienie zaszczytu tworzenia głównego nurtu polskiego futuryzmu, snuli dalej swoje literackie plany – jako książki mające się niebawem ukazać, zapowiadali: „K. Brzeski, Futuremy; J. Drwęski, Romans na Olimpie (poemat); Z. Halicki, Pijany Apollo; B. Hermelin, Kwitnąca łąka (sonet); R. Elski, Twarz Boga; M. Salcstein, Dla idei (dramat w trzech aktach)”. Nie ukazał się żaden z zapowiadanych tytułów. Ostatnią, ósmą w swoim dorobku jednodniówkę pt. Wiatr w rosole, K. Brzeski opublikował we wrześniu 1924 r. z obietnicą: „Futuryzm zmartwychwstał!!!”. Obietnica okazała się gołosłowna, grupa się rozpadła33 – „najmłodsi futuryści warszawscy” stawali się coraz starsi i porzucili przygodę z literaturą. Kazimierz Brzeski pisał dalej, własne książki udało się także opublikować Z. Halickiemu i H. Selowi. Wszystkie przeszły bez echa. Ale to temat na inną historię. Abstract Krzysztof Jaworski “The youngest Warsaw futurists”. A Reconnaissance of the Periphery of Polish Futurism The article discusses the so-called periphery of Polish Futurism, especially the activities of those known as the “Youngest Warsaw futurists”, who to this day are considered only as imitators or even plagiarists of writers such as Bruno Jasieński and Aleksander Wat, the artists who represent the mainstream of this literary movement. These groups (“Warsaw Katarynka”, “Homunkulus”) were active in literary field in the years 1921-1924, but most of their ephemera (“jednodniówki” – once-lived publications) have so far been considered missing . The article attempts for the first time to sort out the chronology of these publications and to show them in the broader context of “recognised” Futurist publications. Keywords: Polish avant-garde, Futurism, inter-war period «pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», (VII) 7, 2016, pp. 15-25 33 Grupa H. Sela przestała istnieć z końcem 1922 r. 25 Przemysław Strożek Panorama di collaborazioni internazionali. Enrico Prampolini e i suoi contatti con gli ambienti dell’avanguardia polacca N egli ultimi anni sono stati pubblicati due importanti lavori dedicati all’opera di Prampolini. Nel 2013 è apparsa la monografia di Giovanni Lista dal titolo Enrico Prampolini futurista europeo, due anni dopo quella di Andrea Baffoni, dal titolo Contro ogni reazione. Enrico Prampolini teorico e promotore artistico1. In ambedue i casi si evidenzia il ruolo di Prampolini come propagatore del futurismo al di fuori dell’Italia e come grande visionario del nuovo teatro. Nei due libri si evidenzia il suo ruolo di organizzatore della vita artistica e curatore di importanti mostre dedicate all’avanguardia internazionale, piuttosto che quello di autore di concrete opere letterarie. I due studiosi sottolineano la fondamentale importanza del cosiddetto networking, ossia la strategia di elaborazione di un’utile rete di contatti reciprochi con i creatori dell’arte nuova. Questo tipo di rete fu particolarmente significativo e ampio nel caso di Prampolini: egli collaborò con dadaisti, costruttivisti, artisti della Cecoslovacchia, dell’Austria, della Svizzera, della Francia e della Germania. Non a caso Lista definisce Prampolini un “futurista europeo” e lo considera l’ambasciatore europeo del futurismo. I due libri che ho menzionato sono opere di alto valore scientifico che hanno aperto nuovi orizzonti sull’importanza che il futurista italiano ha avuto per l’avanguardia europea. Vale tuttavia la pena rilevare che, al pari di tutte le precedenti monografie dedicate a Prampolini, essi hanno ignorato i suoi stretti contatti con artisti e letterati polacchi2. In realtà, questi contatti sono stati molto vivaci e sono durati fino alla fine degli anni Trenta, il che rende ancora più evidente l’ampiezza dell’attività di networking esercitata dal futurista italiano. Da quando, nel 1923, a Roma, Prampolini rinnovò la rivista «Noi» e si mise in contatto con la rivista «Zwrotnica» di Cracovia e con Jalu Kurek, e più tardi, nel 1930, con Jan Brzękowski, le sue relazioni con gli ambienti polacchi s’intensificarono costantemente. Ciò ebbe grande significato per la recezione della sua opera in quella parte d’Europa. Fra l’altro, è grazie a quei contatti, che Prampolini donò al Museo di Łódź il quadro La Tarantella, un atto che testimonia l’importanza della collaborazione fra il futurista italiano e l’avanguardia polacca. 1 G. Lista, Enrico Prampolini futurista europeo, Roma 2013; A. Baffoni, Contro ogni reazione. Enrico Prampolini teoretico e promotore artistico, Roma 2015. Cfr. anche: G. Lista, Prampolini futurista europeo, in: Prampolini futurista. Disegni, dipinti, progetti per il teatro 1913-1931, Milano 2006, pp. 73-84. Per i rapporti col futurismo ceco cfr. anche: M. Tria, Marinetti e Prampolini a Praga: contatti futuristi con l’avanguardia cecoslovacca fra le due guerre, in: Gli altri futurismi. Futurismi e movimenti d’avanguardia in Russia, Polonia, Cecoslovacchia, Bulgaria, Romania, Atti del Convegno Internazionale Pisa, 5 giugno 2009, a cura di G. Tomassucci e M. Tria, Edizioni Plus, Pisa 2010, pp. 37-54. 2 Solo alcune lettere di artisti polacchi a Prampolini e di Prampolini a Jalu Kurek sono state stampate in: E. Prampolini, Carteggio 1916-1956, a cura di R. Siligato, Roma 1992, e E. Prampolini, Carteggio futurista, a cura di G. Lista, Roma 1992. 27 Przemysław Strożek Gli anni Venti: «Noi», «Zwrotnica» e Jalu Kurek 28 L’idea di una collaborazione sovranazionale fra artisti dell’avanguardia iniziò a svilupparsi su ampia scala a partire dal ben noto Congresso di Düsseldorf del 1922, al quale Prampolini prese parte in qualità di rappresentante del futurismo italiano3. Al congresso partecipavano rappresentanti di vari paesi del calibro di El Lisickij per la Russia, Hans Richter per la Germania, Theo van Dowesburg per l’Olanda, Henryk Berlewi per la Polonia: aspiravano tutti all’elaborazione delle basi di uno stile collettivo e progressivo nell’arte contemporanea. Sostanziale corollario di questo evento fu il rafforzamento delle aspirazioni all’internazionalizzazione degli scambi fra i vari raggruppamenti. Acquistò importanza il ruolo delle riviste che funzionavano da organi dei raggruppamenti nei vari paesi. E furono le riviste che divennero piattaforme per le proclamazioni programmatiche e le discussioni, strumenti di diffusione delle nuove idee, mezzi di comunicazione e dibattito col pubblico e di confronto con i fruitori dell’arte. Soprattutto si creò qualcosa di simile alla “rete”, ossia quello scambio di concezioni artistiche e di idee che costituiva il più rapido mezzo di acquisizione delle informazioni sulle più recenti sperimentazioni dell’avanguardia nel circuito internazionale4. La nascita delle riviste costituiva una specie di passaporto degli ambienti dell’avanguardia internazionale, offrendo anche la possibilità di figurare nella lista internazionale delle riviste del modernismo. Di questo testimoniava in Italia il rinnovamento di «Noi» (seconda serie, 1923-1925), e in Polonia la fondazione di «Zwrotnica» (prima serie, 1922-1923) ad opera di Tadeusz Peiper. Come redattore capo di «Noi», Prampolini ambiva a fare della rivista una piattaforma d’informazione sul futurismo e sull’arte internazionale. Dell’inizio della collaborazione con la Polonia testimonia la regolare presenza di informazioni concernenti la rivista italiana in «Zwrotnica», e viceversa. I redattori Prampolini e Peiper si scambiavano numeri delle due riviste e davano notizie sull’attività degli artisti legati ai due periodici. Questa strategia non solo contribuiva allo sviluppo del networking internazionale, ma favoriva la reciproca conoscenza della creatività degli artisti d’avanguardia nei due paesi. Spesso ignorata dalle istituzioni governative ufficiali, l’arte nuova poteva diffondersi nei circuiti internazionali grazie alla “rete” di scambio avanguardista. Nel numero 6 di «Zwrotnica» del 1923 si poteva dunque leggere: Nella nuova rivista futurista italiana «Noi», che si preannuncia come una delle più importanti pubblicazioni europee dedicate all’arte nuova, compare in prima posizione il manifesto dei futuristi italiani rivolto al governo fascista […]5. 3 Cfr. A. Baffoni, Contro ogni reazione, cit., pp. 135-141. Negli ultimi anni si usa con sempre maggiore frequenza il termine “rete” – “network”. Timothy O. Benson e Éva Forgács se ne sono serviti in relazione alla creazione dei contatti reciproci fra i vari centri dell’avanguardia (T. O. Benson, É. Forgács, Introduction, in: Between worlds. A Sourcebook of Central European Avant-gardes, a cura di T. O. Benson, É. Forgács, Cambridge 2002, p. 22). Peter Brooker, redattore di uno studio in tre volumi dedicato alla storia delle riviste del modernismo, si è soffermato sull’idea di “rete” in relazione alle pubblicazioni periodiche, idea che caratterizzava tutto il modernismo europeo: “The resulting series of constellated studies will, it is hoped, prove both the diversity and networked exchange across borders characterizing European modernisms and the role of magazines in articulating and mobilizing these” (P. Brooker, General Introduction, in: The Oxford Critical and Cultural History of Modernist Magazines, vol. 3, a cura di P. Brooker et. al., Oxford 2013, p. 21). 5 W “Noi”…, in «Zwrotnica», 6, 1923, p. 194. Questa breve nota si riferiva al manifesto I diritti artistici propugnati dai futuristi italiani. Manifesto al governo fascista («Noi», 1, 1923), pubblicato sulla prima pagina della rivista. 4 Panorama di collaborazioni internazionali Da parte sua, nella rivista italiana si leggeva la seguente informazione su «Zwrotnica»: «Zwrotnica», direttore T. Peiper, Cracovia. I gruppi dell’avanguardia polacca si schierano a favore di questa dignitosa e seria rivista. Essi non hanno ancora trovato la loro via o brancolano tra l’espressionismo, il futurismo e il costruttivismo. [...]” VAS [Ruggero Vasari]6. Vale la pena ricordare anche che «Noi» pubblicava una rubrica regolare dal titolo Bollettino futurista, che forniva informazioni di attualità su quello che accadeva nel mondo internazionale dell’arte. Nell’annata successiva, la rivista italiana rendeva nota in quella rubrica la comparsa del più recente numero di «Zwrotnica»: L’ultimo numero di «Zwrotnica» rivista futurista di Cracovia diretta da Peiper, è interamente dedicato al movimento futurista italiano. Contiene, oltre a un appello di Marinetti ai futuristi polacchi, studi sulla letteratura, teatro ed arti figurative futuriste7. L’interruzione delle pubblicazioni di «Zwrotnica» nella seconda metà del 1923 portò, per forza di cose, alla fine della collaborazione di Peiper con «Noi». Tuttavia, lo scambio d’informazioni che si era verificato fra la rivista romana e quella cracoviana rese possibile lo sviluppo di quegli stretti contatti dei futuristi italiani con Jalu Kurek che avrebbero dato i loro frutti in seguito. Il diciannovenne poeta cracoviano debuttò sulle colonne di «Zwrotnica» del 1923 (n. 6) proprio con la traduzione di poesie di F.T. Marinetti. Allo stesso tempo, nella rubrica Bollettino futurista, «Noi» informava che a Cracovia e in altre città polacche venivano tenute delle conferenze sul futurismo italiano8. L’attività di divulgazione svolta dal giovane collaboratore di «Zwrotnica» non poteva sfuggire all’attenzione degli artisti italiani, che videro in lui una personalità significativa e la possibilità di instaurare un prezioso contatto per gli scambi d’informazione fra gli ambienti dell’avanguradia italiana e polacca. Fin dalla giovinezza Kurek era affascinato non solo dalla poesia futurista, ma anche da tutta l’attività teatrale di Prampolini9. Mentre raccoglieva informazioni sul teatro polacco, Kurek si mise in contatto col fratello di Prampolini, Vittorio Orazi, co-redattore di «Noi». In una lettera del 7 aprile 1924 Orazi promise a Kurek di inviargli il numero di «Noi» (1924, n. 6-9), interamente dedicato alle nuove soluzioni sceniche dell’avanguardia internazionale10. Nel numero comparivano schizzi di scenografie di futuristi italiani, dell’avanguardia teatrale ceca, francese, olandese, tedesca, austriaca e lettone, nonché uno dei più importanti manifesti del teatro futurista, ossia L’Atmosfera scenica futurista firmata da Prampolini. Era desiderio di Kurek pubblicare un proprio scritto sul teatro di Prampolini sulle colonne 6 Zwrotnica, direttore: T. Peiper, Cracovia..., in «Noi», 3-4, 1923, p. 22. L’ultimo numero...., in «Noi», 6-9, 1924, p. 23. 8 Il futurista Kurek tiene una serie di conferenze sul futurismo italiano, a Cracovia e in altre città di Polonia, in «Noi», 6-9, 1924, p. 24. 9 Dell’ammirazione per il teatro di Prampolini testimoniava già il dramma giovanile Gołębie Winicji Claudel del 1924, nel quale compaiono indicazioni di scena che prescrivono di far uso delle sperimentazioni di Prampolini nella scenografia del dramma. Sul dramma di Kurek cfr.: P. Strożek, Applausi esclusi. Jalu Kurek e Teatro Futurista Italiano, traduzione di Giovanna Tomassucci, in: Gli altri futurismi, cit., pp. 113-123, 125-132. 10 Lettera di V. Orazi a J. Kurek, 7.4.1924, Biblioteka IBL PAN, Archiwum «Linii», segn. 89. Cfr. anche: G. Carpi, Il teatro di Prampolini nella rivista “Noi”, in: Prampolini futurista. Disegni, dipinti, progetti per il teatro 1913-1931, Milano 2006, pp. 23-28. 7 29 Przemysław Strożek di una rivista dell’avanguardia polacca, ma «Zwrotnica» cessò la sua attività. Al suo posto comparve a Varsavia nel 1924-1925 il periodico «F24. Almanach Nowej Sztuki», concepito come continuazione del precedente organo dell’avanguardia letteraria polacca. Nel giugno del 1924, il direttore del periodico Stefan Kordian Gacki chiese a Kurek di preparare per il terzo numero un testo sintetico sulle più recenti conquiste del teatro futurista11. L’articolo di Kurek, tuttavia, non venne stampato su «F24», ma vide la luce solo più di un anno dopo, nell’ottobre 1925 su «Wiadomości Literackie». Nel frattempo Kurek aveva ricevuto non solo le ultime pubblicazioni di Prampolini sul teatro pubblicate in «Noi», ma aveva anche conosciuto il futurista italiano personalmente. Nel 1924, grazie ad una borsa di studio, era infatti andato a Napoli ed aveva avuto la possibilità di incontrare Prampolini. Nell’articolo A Capri, in visita da Marinetti, stampato su «Głos Narodu» del 6 ottobre 1924, scriveva di aver visitato il futurista italiano e di aver visto i suoi lavori a Roma: Il maggior contributo al rinnovamento della scenografia teatrale viene oggi da Enrico Prampolini, pittore e scenografo futurista di grande talento. I suoi progetti, che ho avuto modo di vedere a Roma, sono veramente splendidi. Basta vederli per immaginare quali straordinari effetti di colore e dinamismo si possono raggiungere se si guarda alle cose da un punto di vista più ampio. Ho parlato con Prampolini di arte, in particolare della sua amata scenografia. Mi è bastato osservare nel suo laboratorio gli schizzi e i progetti nei quali egli a volte dedica vari disegni ad un unico movimento dell’abito del protagonista, oppure dove si sforza di studiare su vari piani le pieghe del costume di un’attrice che solleva una gamba, per avere la sensazione che proprio qui, a Roma, si trova uno dei più originali riformatori della scenografia odierna12. 30 Nelle sue memorie avrebbe poi descritto come il futurista italiano lo aveva accompagnato nei vari angoli della Città Eterna: In Piazza Venezia a Roma ci sediamo la sera a cielo aperto in un caffè, suona la musica, une feerie di luci. Di fronte a noi le accecanti scale bianche che portano al Campidoglio, al centro la statua equestre di Vittorio Emanuele. – Ecco un Gran Pissoir d’Italia – dice Prampolini, eccellente pittore, indicando quel “miracolo” dorato innalzato in mezzo ai marmi davanti ai nostri occhi13. Tutti e due poi s’incontrarono a Capri da Marinetti: Ricordo benissimo la mia visita a Capri a casa del leader del futurismo, Filippo Tommaso Marinetti. Mi aveva mandato un telegramma da Napoli dicendomi di andare da lui […]. Presso il proprietario dell’abergo Pagano a Capri, dove mi ha portato Marinetti, vedo quadri dei futuristi: G. Severini, G. Balla, C. Carrà. – E invece la mia Grotta Azzurra si trova nella collezione Gwynn a Londra – butta lì con fierezza Prampolini. È una personalità notevole. Zoppicava leggermente a una gamba14. 11 13 14 12 Lettera di S. K. Gacki a J. Kurek, 26.6.1924, in: T. Kłak, Materiały do dziejów awangardy, Wrocław-Warszawa 1975, p. 229. J. Kurek, U Marinettiego na Capri, in «Głos Narodu», 228, 1924, p. 6. Idem, Mój Kraków, Kraków 1978, pp. 109-110. Ivi, p. 112. Panorama di collaborazioni internazionali Fu questa visita sull’isola italiana che, a cavallo tra settembre e ottobre 1924, offrì a Kurek l’occasione di scrivere il già menzionato articolo della «Voce del popolo». Kurek vi precisava esplicitamente che negli anni Venti il volto del futurismo era mutato, non era più il futurismo dei poeti e dei pittori Aldo Palazzeschi e Umberto Boccioni, ma quello delle nuove sperimentazioni teatrali di Marinetti e Prampolini. Egli sottolineava anche che l’avanguardia italiana si concentrava soprattutto sul rinnovamento del teatro. Ne scrisse più ampiamente in Il teatro futurista. Enrico Prampolini, interamente dedicato agli esperimenti scenici del futurista italiano. Kurek menzionava il successo ottenuto dai suoi progetti scenografici all’Esposizione Internazionale del Teatro che si svolse a Vienna nel 1924, in particolare rilevò l’approvazione che il pubblico aveva manifestato per la messa in scena del Tamburo di fuoco che il futurista italiano aveva realizzato insieme agli artisti cechi15. Nel suo articolo Kurek inserì la riproduzione degli schizzi fatti per le scene delle pièce Psychologia Maszyny [Psicologia della Macchina], e Odrodzenie Ducha [La rinascita dello Spirito]. Per l’analisi delle più rilevanti sperimentazioni sceniche di Prampolini Kurek si servì delle informazioni contenute nel numero di «Noi» (1924, n. 6-9) che gli aveva inviato Orazi: Secondo Prampolini, la scenografia dominante, concepita come descrizione di una realtà inventata, come finzione realistica del mondo visibile, deve essere condannata, poiché costituisce un compromesso statico che si contrappone al dinamismo scenico che è l’essenza dell’azione tetrale […], la tecnica teatrale si indirizza verso il dinamismo plastico della vita contemporanea, ossia dell’azione. I principi fondamentali della nuova estetica teatrale sono il dinamismo, la simultaneità e l’unità di azione dell’uomo e del luogo. Mentre la tecnica del teatro tradizionale ha portato al dualismo del principio dinamico, ossia dell’uomo, e del principio statico, ossia il luogo, i futuristi hanno riportato all’unitarietà e alla contemporaneità scenica i principi dell’uomo e del luogo, incrociandoli l’uno con l’altro in una sintesi scenica vivente […]. È sulla base di questi presupposti che Prampolini crea la scena dinamica. Giungendo alla scenografia (descrizione pittorica degli elementi realistici) attraverso la scenosintesi (assemblamento architettonico di superfici colorate) e la scenoplastica (costruzione tridimensionale di elementi plastici sulla scena), fino alla scenodinamica (architettura spaziale-coloristica di elementi dinamici nell’atmosfera prodotta dalla luce di scena. […] Ogni rappresentazione sarà uno strumento meccanico dell’eterno fluire della materia, sarà una magica rivelazione del mistero – sintesi panoramicaa dell’azione concepita come celebrazione mistica del dinamismo spirituale – centro di astrazione siprituale della nuova religione del futuro16. Il 10 ottobre 1925 Prampolini scrisse personalmente una lettera in cui ringraziava Kurek per l’articolo che aveva scritto17. Grazie a quell’articolo, il nome del futurista italiano acquistò notorietà negli influenti ambienti della rivista «Wiadomości Literackie», che avrebbe poi pubblicato ancora due lavori sui suoi successivi esperimenti teatrali, ossia sul cosiddetto Teatro Futurista della Pantomima18. Non c’è dubbio tuttavia che il primo a far conoscere l’opera di Prampolini in Polonia negli anni Venti fu Kurek: egli aveva preso contatto con lui, dando seguito alla collaborazione iniziata 15 Questo dramma doveva essere rappresentato anche a Varsavia, ma non si giunse mai alla realizzazione del progetto, nel quale Kurek si era impegnato personalmente. Cfr. P. Strożek, Marinetti i futuryzm w Polsce (1909-1939). Obecność – kontakty – wydarzenia, Warszawa 2012, pp. 174-179. 16 J. Kurek, Teatr Futurystyczny. Henryk Prampolini, in «Wiadomości Literackie», 41, 1925, p. 2. 17 Lettera di E. Prampolini a J. Kurek, 10.10.1925, Biblioteka IBL PAN, Archiwum «Linii», sygn. 89. 18 A. Wyleżyńska, Włoska pantomima futurystyczna, in «Wiadomości Literackie», 35, 1927, p. 2; Z. Tonecki, Aliterackie eksperymenty teatralne. Oskar Schlemmer i Enrico Prampolini, in «Wiadomości Literackie», 31, 1930, p. 2. 31 Przemysław Strożek nel 1923 da «Zwrotnica» e «Noi». Grazie all’iniziativa di organizzare scambi d’informazione fra le avanguardie, Prampolini e gli altri futuristi italiani poterono contare su una più ampia ricezione in Polonia, e Kurek e i futuristi polacchi divennero noti in Italia. I contatti di Prampolini con la Polonia continuarono negli anni Trenta, solo che allora il vero punto di riferimento non era più Kurek, ma l’altro rappresentante dell’Avanguardia di Cracovia, già collaboratore della seconda serie di «Zwrotnica», Jan Brzękowski. I contatti degli anni Trenta. Brzękowski, Pronaszko e la Triennale di Milano 32 In seguito agli sconvolgimenti dello scenario politico e alla presa di potere dei governi totalitari, che sostenevano tendenze artistiche classicizzanti, ed anche in seguito all’esaurimento delle idee del costruttivismo internazionale che aveva il suo centro propellente a Berlino, all’inizio degli anni Trenta Parigi divenne di nuovo la capitale dell’avanguardia europea. Qui si aggregavano i gruppi dell’astrattismo internazionale, qui vivevano i futuristi italiani Prampolini e Luigi Russolo. A Parigi viveva anche, dal 1928, Brzękowski che ambiva ad assumere il ruolo di rappresentante dell’avanguardia polacca nel nuovo centro dell’avanguardia internazionale, diffondendo la conoscenza della nuova poesia e dell’arte polacca. Nel contesto parigino, i suoi legami con i raggruppamenti dell’astrattismo e la posizione di redattore della rivista bilingue «L’Art Contemporain – Sztuka Współczesna» (19291930) favorirono la formazione di importanti contatti anche con i futuristi italiani. La rivista non era l’organo di un gruppo e aveva piuttosto la funzione di diffondere la letteratura e l’arte d’avanguardia. Tutti i numeri del periodico francese-polacco si aprivano con un ciclo di saggi di Brzękowski intitolato Kilométrage/Kilometraże: questi saggi procurarono all’autore una notevole fama nell’ambiente parigino. Prampolini, che in quel tempo viveva nella capitale francese, rimase impressionato dai saggi scritti dal poeta polacco e si propose di pubblicare i Kilométrage in traduzione italiana sulla rivista «La Città futurista» (1928-1929). Il 13 aprile 1929 i due s’incontrarono in un caffè parigino per discutere del progetto19, dando così inizio ad un’importante relazione letteraria. Prampolini aveva per l’autore di Kilométrage la stessa stima che il redattore della rivista «L’Art Contemporain – Sztuka Współczesna» aveva per la sua pittura, tanto che ben presto si adoperò per assicurare uno dei suoi quadri alla collezione del Museo dell’Arte contemporanea di Łódź. La creazione di questa raccolta di opere d’arte fu un’idea del gruppo polacco “a.r.”, fondato dagli ex collaboratori della cracoviana «Zwrotnica» ( Julian Przyboś, Jan Brzękowski) e da alcuni ex membri del gruppo Praesens (Władysław Strzemiński e altri). I membri del gruppo “a.r.” pubblicarono il loro programma artistico nella forma di quelli che essi chiamavano Komunikaty [Comunicati] e avevano anch’essi come finalità primaria la divulgazione di conoscenze sull’arte contemporanea. La creazione di una raccolta internazionale di opere d’arte dell’avanguardia per il Museo della Città di Łódź fu l’iniziativa più rilevante del gruppo e Brzękowski, che abitava a Parigi, ebbe il ruolo più significativo nell’acquisizione di opere di pittori stranieri. Grazie alla sua conoscenza personale con Prampolini riuscì a far giungere a Łódź una delle sue prime opere, la Tarantella, del 1920-22 (olio su tela, 80x80 cm), che era stata messa in mostra a Parigi ancora 19 Lettera di J. Brzękowski a J. Przyboś, 14.4.1929, in: T. Kłak, Źródła do historii awangardy, Ossolineum, Wrocław 1981, p. 44. Panorama di collaborazioni internazionali nel giugno del 192920. Prampolini fu uno dei primi artisti a donare un quadro al nuovo museo21, l’opera giunse in Polonia già nell’agosto di quello stesso anno ed entrò a far parte dei 27 quadri installati nel Museo Cittadino di Storia dell’Arte, secondo l’accordo del 15 febbraio 193122. I contatti di Brzękowski con Prampolini furono continui e fruttuosi, sempre all’insegna della diffusione di conoscenze sul futurista italiano a Parigi e in Polonia e, dall’altra parte, sulla produzione artistica dell’avanguardia polacca in Italia. Ancora nel 1930 Brzękowski comunicava a Julian Przyboś che aveva fatto vedere a Prampolini e Fillia il primo Comunicato a.r.23. Poco dopo scriveva che su «L’Art Contemporain – Sztuka Współczesna» del 1930 intendeva pubblicare una riproduzione delle opere del futurista italiano24. Realizzò questo progetto nel saggio Kilométrage 3, in cui discettava sui fondamenti della pittura d’avanguardia, inserendo l’opera giovanile di Prampolini Donna e ambiente, del 1915, nonché uno degli ultimi quadri, ossia la tela Maternità cosmica (1929-30). Brzękowski definiva il primo servendosi delle categorie di “deformazione e costruzione”, mentre al secondo applicava le categorie di “espressione letteraria”25. Secondo il poeta polacco questi concetti definivano le basi della pittura d’avanguardia che egli credeva di scoprire proprio nella creazione del futurista italiano. La pubblicazione delle opere di Prampolini nella rivista «L’Art Contemporain – Sztuka Współczesna» del 1930 (n. 3) e le discussioni che le accompagnarono erano senza dubbio testimonanzia eloquente di gratitudine per il dono che Prampolini aveva fatto alla collezione di Łódź. Da parte sua Prampolini non mancò di manifestare il suo apprezzamento per l’opera dei futuristi polacchi. In una lettera a Kurek26, Brzękowski comunicava che la rivista italiana «Oggi e Domani» aveva pubblicato un articolo sul terzo numero di «L’Art Contemporain – Sztuka Wpółczesna», e già l’anno seguente, su «Futurismo», comparve una nota di Brzękowski dal titolo Un museo d’arte contemporanea in Polonia (Il Futurismo rappresentato da Prampolini)27. Nel marzo del 1933 chiedeva ancora se Brzękowski avesse ricevuto un ritaglio di questo secondo articolo e lo informava che aveva l’intenzione di pubblicare un’informazione sul suo nuovo libro e su Kilométrage28. Brzękowski tuttavia non aveva ricevuto la lettera con l’articolo29. Due anni dopo, nel 20 G. Lista, Enrico Prampolini, cit., p. 190. Lettera di W. Strzemiński a J. Przyboś, 24.4.1930, in: Listy Władysława Strzemińskiego do Juliana Przybosia, a cura di A. Turowski, in «Rocznik Historii Sztuki», 1973, p. 243. 22 Z. Karnicka, Enrico Prampolini. Tarantella, in: 111 dzieł z kolekcji Muzeum Sztuki, a cura di J.A. Ojrzyński, Muzeum Sztuki, Łódź 2004, p. 72. Per la storia del Museo dell’Arte, cfr. Muzeum Sztuki w Łodzi. Monografia, vol. 1, a cura di A. Jach, K. Słoboda, J. Sokołowska, M. Ziółkowska, Łódź 2015. 23 Lettera di J. Brzękowski a J. Przyboś, 2.4.1930, in: T. Kłak, Źródła, cit., p. 60. 24 Lettera di J. Brzękowski a J. Przyboś, 13.5.1930, Ivi, p. 62. 25 J. Brzękowski, Kilométrage 3, in «L’Art Contemporain – Sztuka Współczesna», 3, 1930, pp. 82-92. 26 Lettera di J. Brzękowski a J. Kurek, 27.4.1931, in T. Kłak, Materiały, cit., p. 63. Dell’evento scriveva anche la Redazione di «Linia»: “La collezione di arte nuova a Łódź [...] ha suscitato grande interesse all’estero (serie di note nella stampa e articoli assai lunghi in riviste come «Comoedia», «Liberté», «Oggi e domani»”. Kolekcja Nowej Sztuki w Łodzi, in «Linia», 4, 1932, p. 103. 27 J. Brzękowski, Un museo d’arte contemporanea in Polonia (Il Futurismo rappresentato da Prampolini), in «Futurismo», 6, 1932, p. 2. 28 “Avez-vous réçu Futurisme avec votre article? Dans le prochain numéro j’ai fait annoncer votre livre. Je publierai aussi une note sur le kilométrage”. Lettera di E. Prampolini a J. Brzękowski, 25.3.1933, Biblioteka Polska w Paryżu, Archiwum Brzękowskiego, cit. in: T. Kłak, Materiały, cit., p. 63. 29 J. Brękowski, Futuryści, in: Idem, W Krakowie i w Paryżu. Wspomnienia i szkice, Kraków 1975, p. 150. 21 33 Przemysław Strożek 1935, quasi certamente su richiesta di Prampolini, egli scrisse in francese l’articolo Le Futurisme Italien en Pologne per la nuova rivista «Stile futurista» (1934-35), che veniva stampata a Torino sotto la direzione del futurista italiano. L’autore rilevava che il futurismo italiano aveva esercitato una grande influenza sul processo di formazione delle nuove correnti artistiche in Polonia e descriveva brevemente l’attività dei futuristi di Cracovia e Varsavia. Non mancò di presentare le critiche indirizzate al futurismo da Peiper, come anche le traduzioni fatte da Kurek. Dava anche la notizia della creazione del Museo d’Arte di Łódź, attirando l’attenzione del lettore sul quadro La Tarantella donato da Prampolini30. Nel 1936 i contatti fra Brzękowski e Prampolini si rinsaldarono grazie alla presenza di artisti polacchi alla VI Triennale di Milano. Prampolini curava la sezione dedicata alle tecniche teatrali dell’avanguardia a livello internazionale e si rivolse a Brzękowski chiedendogli, in una lettera, quali fossero i migliori artisti sperimentali nel campo della scenografia. Brzękowski gli rispose, consigliandogli di contattare Szymon Syrkus e Andrzej Pronaszko, che a suo tempo avevano fatto parte del gruppo “Praesens”, e che cercasse anche di ottenere informazioni sui lavori degli scenografi del Teatro Polacco di Varsavia Karol Frycz, Wincenty Drabik, Władysław Daszewski e Stanisław Śliwiński31. Prampolini s’interessò dei lavori di Pronaszko, che gli mandò personalmente le fotografie di alcuni suoi progetti in una lettera dell’aprile 193632. Quelle fotografie vennero poi pubblicate nel libro Scenotecnica di Prampolini pubblicato nella serie dei quaderni della Triennale di Milano del 1940: Pronaszko vi figurava come unico rappresentante della scenografia polacca. Nell’introduzione al libro il futurista italiano lo menzionava come uno dei migliori decoratori di scena degli ultimi anni: 34 La scenografia [...] ha ceduto il passo alla scenotecnica sintetica, plastica, costruttivista, futurista, tridimensionale, dinamica. È l’epoca dei Matisse e dei Picasso e di altri ancora, qui presenti con le loro sensibili audacie pittoriche. Derain e Léger, Maria Laurencin e Braque, la Gontcharowa e Larionoff, Juan Gris e Survage, Pruna e Christian Berard, Touchagues e Barasacq, Sima e Valentine Hugo, Pronaszko e Tchelitchew. La lista potrebbe continure. Anche in Germania, prima del Nazismo, e attualmente nella Boemia, nella Polonia e nel Belgio si sono avvicendate molteplici esperienze per opera dei più appassionati scenotecnici33. In una nota dedicata allo scenografo polacco, egli sottolineava che, insieme a Szymon Syrkus, Pronaszko aveva creato il “teatro mobile”34. Prampolini sicuramente intendeva il progetto di Teatro Simultaneo che era stato pubblicato sulla rivita «Praesens» nel 1930 e di cui in Italia si discusse anche due anni dopo sul periodico «Quadrante»35. Il progetto di Teatro Simultaneo ideato da Szymon e Helena Syrkus e Pronaszko prevedeva la mobilità della scena e la collocazione della platea al centro dello spazio teatrale, attorno al quale si snodava la scena suddivisa in una dozzina di parti minori. In questa forma si poteva far girare rapidamente la scena attorno alla platea36. 30 32 33 34 35 36 31 Idem, Le Futurisme italien en Pologne, in «Stile Futurista», 6-7, 1935, p. 27. Lettera di J. Brzękowski a E. Prampolini, 15.4.1936, macro-crdav, Archivio Prampolini, Roma. Lettera di A. Pronaszki a E. Prampolini, 24.4.1936, macro-crdav, Archivio Prampolini, Roma. E. Prampolini, Introduzione, in: Idem, Scenotecnica, Milano 1940, p. 7. Ivi, p. 31. S. Syrkus, Nuova teoria di Teatro, in «Quadrante», 11, 1932. B. Frankowska, Architektura teatralna Pronaszki, in «Pamiętnik Teatralny», 1964, p. 160. Panorama di collaborazioni internazionali Il libro di Prampolini vide la luce nel 1940 quando i futuristi, insieme a Marinetti, si impegnarono attivamente nella propaganda visuale delle gesta dei fascisti sui fronti della Seconda Guerra Mondiale. Va detto tuttavia che, nonostante gli sconvolgimenti portati dalla guerra, Prampolini continuava a credere nella grandezza dell’idea di un’avanguardia internazionale. Ne sono testimonianza non solo il libro dedicato alle tecniche scenografiche sperimentali dell’Europa, ma anche il fatto che ancora nel 1944 egli progettava di pubblicare un’antologia intitolata Artisti d’avanguardia. Essa era pensata come un omaggio agli artisti dei raggruppamenti delle varie nazioni e doveva presentare anche figure quali George Grosz, Hans Arp, Kazimir Malevič e Fernand Léger, che erano notoriamente convinti antifascisti. Nonostante le condizioni difficili degli anni di guerra, quando i fascisti strinsero alleanza con i nazisti, Prampolini non perse la fede nella potenza dell’arte d’avanguardia creata da artisti di vari paesi. Questo atteggiamento veniva non solo dalle idee di sperimentazione ininterrotta, ma anche dai legami d’amicizia che aveva stretto durante gli anni della sua attività artistica. Fra i testi che Prampolini preparava per pubblicarli nella sua antologia Artisti d’avanguardia (1944) si trovava una lettera di Arp a Brzękowski, in cui il primo spiegava che cosa egli intendesse per dadaismo37. Il testo era inserito in un numero del 1930 di «L’Art Contemporain – Sztuka Współczesna» che Prampolini sicuramente ebbe fra le mani38. La decisione di stampare questa lettera rispondeva certamente al desiderio di quest’ultimo di sottolineare l’importanza della rivista di Brzękowski, ma rifletteva anche la sua simpatia per il poeta polacco. Da parte sua, nelle memorie pubblicate nel 1975 Brzękowski avrebbe scritto: Durante una riunione di “Cercle et Carré”, venne una volta Prampolini e mi chiese se potessi metterlo in contatto con l’autore di Kilométrage, […]. Fu questo l’inizio della mia conoscenza con Prampolini, e ne ero particolarmente felice perché apprezzavo la sua pittura. […] Prampolini, uno dei più significativi rappresentanti della pittura futurista, visse a lungo a Parigi, poi tornò in Italia dove morì più di una decina d’anni dopo la guerra. Lo venni a sapere perché mi era stato mandato il catalogo di una mostra organizzata dopo la morte, il quale conteneva una bibliografia dettagliata degli articoli dedicati a lui. Mi meravigliai non poco di trovare nella lista anche il mio Kilométrage de la peinture contemporaine […]39. Un quadro della collaborazione internazionale Negli anni Venti e Trenta i contatti di Prampolini con gli ambienti polacchi si basavano soprattutto sul fatto che conosceva Kurek, Brzękowski e, sia pure in misura minore, Andrzej Pronaszko. L’inizio e il consolidamento di quei contatti fu reso possibile dallo scambio delle riviste «Zwrotnica» e «L’Art Contemporain – Sztuka Współczesna» con «Futurismo» e «Stile Futurista». Il risultato di quegli scambi fu la creazione di legami fra artisti d’avanguardia di vari paesi e il reciproco sostegno dato ai progetti d’avanguardia, accompagnati dalla diffusione della conoscenza degli ambienti dell’arte nuova al di fuori dei canali ufficiali. Gli artisti sperimentali per lo più non potevano contare sull’appoggio delle autorità o su aiuti finanziari dello Stato. Nel caso degli artisti italiani la situazione cambiò alla metà degli anni Trenta, quando il futurismo si piegò 37 [Manoscritto] Traduzioni fatte preparare da Prampolini per un progettato volume su “Artisti d’avanguardia”, [1944], macro-crdav, Archivio Prampolini, Roma. 38 H. Arp, Cher Monsieur Brzekowski, in «L’Art Contemporain – Sztuka Współczesna», 3, 1930, p. 102. 39 J. Brzękowski, Futuryści, in: Idem, W Krakowie, cit., pp. 150-152. 35 Przemysław Strożek 36 alle esigenze della propaganda fascista. Di questo rende evidenza la Triennale di Milano e il fatto che la cura della sezione teatrale venne affidata a Prampolini che, grazie ai suoi numerosi contatti, nel 1936 riuscì a creare una delle più importanti e insieme una delle ultime mostre di scenografia d’avanguardia del periodo interbellico. I contatti inizialmente creati grazie alle riviste furono dunque estremamente importanti per i progetti di mostre internazionali. Nel caso delle relazioni con gli artisti polacchi questo era l’unico modo, dal momento che un futurista italiano aveva scarse possibilità di incontrare i colleghi polacchi nelle mostre di arte contemporanea. Nessun artista polacco d’avanguardia partecipò all’Esposizione Internazionale delle Tecniche Teatrali di Vienna del 1924, né all’Esposizione di Parigi del 1925. Quest’ultima venne boicottata dall’avanguardia polacca40. Ambedue queste esposizioni furono invece estremamente importanti per la carriera di Prampolini che nella capitale francese ottenne persino il Grand Prix per il progetto del Teatro Magnetico. Non a caso venne considerato anche in Polonia come uno dei più importanti rappresentanti della tecnica scenografica d’avanguardia. Come si è visto da quanto detto sopra, Kurek e Brzękowski avevano grande stima anche della sua pittura. Fu solo molto tardi, alla metà degli anni Trenta, che l’avanguardia teatrale polacca ebbe la possibilità di incontrare Prampolini grazie alla sua nomina a curatore della sezione internazionale di scenografia alla Triennale di Milano. Non esistevano più a quell’epoca né «Zwrotnica», né «Blok» né «Praesens», e l’unica possibilità di contatto era quella offerta da “a.r.” e Pronaszko. Anche se Brzękowski incoraggiava Prampolini a contattare molti artisti polacchi, fu solo Pronaszko ad attrarre l’attenzione del futurista italiano che lo stimava grandemente. La storia dei contatti di Prampolini con gli ambienti polacchi testimonia dell’importanza che ebbe l’idea della collaborazione internazionale iniziata dall’avanguardia negli anni Venti. Le molte conoscenze che egli aveva fra gli artefici delle nuove tendenze artistiche danno la misura del ruolo fondamentale svolto dal networking per lo sviluppo dell’arte nuova. Grazie a lui l’avanguardia divenne un fenomeno più eclettico e le differenze fra futurismo, costruttivismo e astrattismo si fecero sempre più sfumate. L’attività di Prampolini negli anni Venti e Trenta dimostra che, per tutto quel periodo, il futurismo godette di ottima salute ed ebbe la possibilità di iniziare la collaborazione con gli artisti polacchi. Pur essendo meno dinamica che con gli artisti cechi o tedeschi, quella collaborazione costituisce tuttavia un episodio importante nella storia degli scambi artistici fra Polonia e Italia. Il risultato più duraturo è costituito dal Museo d’Arte di Łódź che ebbe modo di arrichirsi di una delle tele più importanti del futurismo italiano, ancora oggi conservata nella sua collezione permanente. 40 J.M. Sosnowska, Dlaczego w Paryżu nie było awangardy?, in: Wystawa Paryska 1925. Materiały z sesji naukowej Instytutu Sztuki PAN. Warszawa, 16-17 listopada 2005 roku, a cura di J. M. Sosnowska, Warszawa 2007, pp. 121-128. Panorama di collaborazioni internazionali Abstract PrzemysŁaw StroŻek An Overview of International Cooperation. Enrico Prampolini and His Contacts with Polish Avant-garde The article focuses on the reception of Enrico Prampolini’s work in Polish Avant-garde circles in the1920s and 1930s. It shows Prampolini as a central figure in “networking” between artists and illustrates how such “networking” phenomena resulted in the popularisation of Italian Futurism in Poland and Polish Avant-garde in Italy. It highlights the range of Prampolini’s contacts with Poland, especially with the «Zwrotnica» circle, Jalu Kurek and Jan Brzękowski, who promoted his theatrical productions and paintings. The outcome of these contacts was most of all a good knowledge of Futurist scenography in Poland, an invitation for Polish scenographers to take part in the “Triennale” which Prampolini organized in 1936 in Milan, and his cooperation with the “a.r.” collection of Modern Art in Łódź. The painting entitled Tarantella (1920), which Prampolini offered to Brzękowski and was installed in Łódź in 1931, testifies to this important collaboration. Keywords: Futurism, Prampolini, networking, avant-garde Magazines, avant-garde scenography «pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», (VII) 7, 2016, pp. 27-37 37 Emiliano Ranocchi The Polish Cyborg. A Reflection on the Relationship between Man and Machine in Early Polish Modernism O ne of the commonplaces about Polish Futurism that scholars like to repeat is that of its ambivalent relationship to modernity. It may sometimes be difficult to understand that the representatives of the first Polish avant-garde movement were not necessarily blind enthusiasts of machine civilization. The reasons for this ambivalence have been partly analysed1, but we still lack a comprehensive study and my contribution will not fill the gap either. One reason may have been the experience of the war – the first of many technological wars to come. After WWI, literature was forced to take a critical look at the experience of modernity, also by reflecting on the relationship between man and machine. This critical confrontation with modern civilization, the day after the war ended, involved almost all national European cultures, in various different ways. Poland, which had regained independence after 123 years of foreign colonization and slavery, was an extremely backward and undeveloped country, ill prepared to face the challenges of modernity. Since it had not actually experienced any real fascination with the opportunities provided by technology before the war, when the country was still divided into three parts belonging to different States and at different degrees of development, so after the war it was at once attracted by and afraid of the processes of modernization. In particular, some representatives of the Polish futurist movement, who had received part of their education in Russia, may well have been influenced by their Russian counterparts. Russian Futurism was oriented toward a primordial past of protolanguage and primitive images and, until Majakovskij, scarcely interested in problems of modernity. My paper aims to present the salient theoretical reflections and literary visions concerning the cyborg and the man-machine in the Polish avant-garde milieu of the early Twenties. They are worth remembering, not only because of their limited accessibility to the non-Polish speaking public, but also because they have not lost their relevance. The Polish Cyborg – a Utopian Approach Indeed, for early avant-garde theorists, the theme of the machine becomes a sort of synecdoche of modernity, the litmus paper which shows the attitude of the artist toward it. In a seminal essay by Tadeusz Peiper, published in July 1922 in «Zwrotnica», the journal of the so called Cracow Avant-garde, with the alliterating title Miasto, Masa, Maszyna (Metropolis, Mass, Machine), the machine is considered to be one of the three chief components of modern life. Even if in this extensive text – one of the paramount theoretical pronouncements of interwar 1 H. Zaworska, O Nową Sztukę. Polskie programy artystyczne lat 1917-1922, Państwowy Instytut Wydawniczy, Warszawa 1963, pp. 212-226; G. Gazda, Futuryzm w Polsce, Ossolineum, Wrocław-Warszawa-Kraków-Gdańsk 1974, pp. 89-100; K. Wyka, Czyżewski poeta, in: Idem, Rzecz wyobraźni, Państwowy Instytut Wydawniczy, Warszawa 1977, pp. 17-22. 39 Emiliano Ranocchi Polish avant-garde – we could scarcely find anything which could even remotely anticipate the topics of the present issue, it is interesting to quote it here. Indeed, it casts some light on the animated discussion between the leaders of the two different wings of Polish avant-garde (Peiper and Jasieński), as we will see later, and on the common premises of their different views. The utopianism of Peiper’s proposal probably deserves a separate consideration. As indicated by the title, the essay focuses on the three major moments of modern life: the city, the masses and the machine. In the third part, which deals with the problematic relationship between man and machine, Peiper poses the question of why machines have so far remained extraneous to man – why they have not been assimilated like the tools whose beauty was evident to the eyes of primitive man (he brings the example of the ornamentally engraved obsidian blades or arrowheads he saw once in Copenhagen’s Ethnography museum). Peiper ascribes this “foreignness” to the division of work: the manufacturer of the machine (or of its parts) is not the same worker who will eventually use it. So, he sees no close relationship between the construction of the machine and its function. As a consequence, machines have not only remained foreign to modern man, but even appear ugly to him. This passage of Peiper’s argumentation shows a very close relationship with the first theoretical essay by Charles-Edouard Jeanneret (later Le Corbusier), published together with his colleague Amédée Ozenfant in 1918 and entitled Après le cubisme2, the manifesto of French purism. Le Corbusier (to whom the passage has to be ascribed) derives this situation from modern Taylorism, nevertheless he does not understand it in a negative way: Autrefois, chaque homme créant son œuvre de toutes pièces s’y attachait et l’aimait comme sa créature; il aimait son travail. Aujourd'hui, il faut le reconnaître, le travail en série imposé par la machine voile plus ou moins à l'ouvrier l’aboutissement de ses efforts. Pourtant, grâce au programme rigoureux de l'usine moderne, les produits fabriqués sont d'une telle perfection qu'ils donnent aux équipes ouvrières une fierté collective. L’ouvrier qui n’a exécuté qu’une pièce détachée saisit alors l’intérêt de son labeur; les machines couvrant le sol des usines lui font percevoir la puissance, la clarté et le rendent solidaire d'une œuvre de perfection à laquelle son simple esprit n'aurait osé aspirer. Cette fierté collective remplace l'antique esprit de l'artisan en l'élevant à des idées plus générales. Cette transformation nous paraît un progrès ; elle est l'un des facteurs importants de la vie moderne3. 40 The closeness of argumentation is not a coincidence. Peiper was familiar with L’Esprit Nouveau, he published an issue in «Zwrotnica» about Jeanneret and Ozenfant4, although the role and inspiration of French purism in his early reflection still has to be examined5. In Peiper’s opinion, the reasons for this negative approach to machines are similar to those which prevent modern men from seeing the beauty of the modern city6. Peiper writes expressly of a conflict with inherited ideas. The machine was a new thing and produced new things. It developed by rules which were immanent to its essence, it constantly changed the surrounding world, but the human psyche changed more 2 Ch.-E. Jeanneret Gris, A. Ozefant, Après le cubisme, édition des commentaires, Paris 1918. Idem, Après le Cubisme, Paris, Altamira, 1999, pp. 42-43. 4 T. Peiper, Ozenfant i Jeanneret, in «Zwrotnica», lipiec 1922, pp. 39-43, reprinted in: Idem, O wszystkim i jeszcze o czyms artykuły, eseje, wywiady (1918-1939), Wydawnictwo Literackie, Kraków 1974, p. 93. 5 About the relationships between French and Polish avant-gardes see: M. Delaperrière, La poésie polonaise face à l’avantgarde française: fascinations et réticences, in «Revue de littérature comparée», 307, 2003, pp. 355-368. 6 See : E. Ranocchi, Tadeusz Peiper i idea miasta jako dzieło sztuki, on print. 3 The Polish Cyborg slowly, so it followed the machine with the steps of an old paralytic7. The second reason for this refusal was the social connotation of the machine which was supposed to be one of the means for exploiting the proletarian class. This negative approach was not to last forever. Several factors concurred in changing man’s approach to the modern tool. The most relevant among them is the emergence of a new – so to speak – psychical situation. Machines annoyed man for as long as their impact on human life was limited. They were no longer considered a nuisance, when they began to transform the whole of human life. For as long as they ruled only partially, they were treated like tolerated intruders; when they took over, they became objects of worship, like monarchs8. That “new psychical situation”, as it is called, was a quite obvious and popular topic, especially in Italian futurist theoretical literature, namely, that of the close relationship between the unprecedented development of technology and industry and culture (ethics, aesthetics, vision of the world). One can find similar statements by Filippo Tommaso Marinetti, Umberto Boccioni or Ardengo Soffici dealing with the consequences which the acceleration of means of transport and the development of what we call the media today have in our perception of the world, what Italian futurists called “sensibility”9. Peiper even enumerated them, like Marinetti did in one of his seminal manifestos of 191310: “the railway, the tram, the autobus, the telegraph, the telephone, electric light etc.”11. Only when its benefits started to spread all over the world, did 7 “Maszyna była rzeczą nową i tworzyła rzeczy nowe. Rozwijała się na podstawie praw immanentnych swojej istocie, zmieniała nieustannie świat otaczający, a psychika ludzka, zmieniająca się powoli, podążała za nią krokiem paralitycznego starca”. T. Peiper, Miasto, Masa, Maszyna, in: Idem, Pisma wybrane, ed. by S. Jaworski, Ossolineum 1979, p. 29 8 Ten negatywny stosunek do maszyny nie mógł trwać wiecznie. Wiele okoliczności wpłynęło na zmianę stosunku człowieka do nowoczesnego narzędzia. Najważniejszą z nich wydaje mi się wyłonienie się nowej sytuacji – że tak powiem, psychicznej. Maszyna raziła człowieka, jak długo wpływami swoimi obejmowała tylko część życia ludzkiego; przestała go razić, kiedy całkowicie przekształciła życie ludzkie. Jak długo panowała tylko częściowo, była tolerowanym intruzem; kiedy zapanowała całkowicie, stała się adorowanym suwerenem”. Ivi, p. 30 [bold of the author]. 9 F. T. Marinetti, Distruzione della sintassi Immaginazione senza fili Parole in libertà, in: Idem, Teoria e invenzione futurista, a cura di L. De Maria, Mondadori, Milano 2005, pp. 65-66.; U. Boccioni, Pittura e scultura futuriste, a cura di Z. Birolli, Abscondita, Milano 2006, pp. 19-25; A. Soffici, Primi principi di un’estetica futurista, in: M. Drudi Gambillo, T. Fiori, Archivi del futurismo, intr. G.C. Argan, vol. I, De Luca editore, Roma 1958, p. 582. About the concept of “sensibility” see: S. Milan, The ‘Futurist Sensibility’: An Anti-philosophy for the Age of Technology, in: Futurism and the Technological Imagination, ed. by Günter Berghaus, Rodopi, Amsterdam 2011, pp. 63-76. 10 “Il Futurismo si fonda sul completo rinnovamento della sensibilità umana avvenuto per effetto delle grandi scoperte scientifiche. Coloro che usano oggi del telegrafo, del telefono e del grammofono, del treno, della bicicletta, della motocicletta, dell’automobile, del transatlantico, del dirigibile, dell’aeroplano, del cinematografo, del grande quotidiano (sintesi di una giornata del mondo) non pensano che queste diverse forme di comunicazione, di trasporto e d’informazione esercitano sulla loro psiche una decisiva influenza”. [Futurism is based on the complete renewal of human sensibility brought about by the great discoveries made by science. Anyone who today uses the telegraph, the telephone, and the gramophone, the train, the bicycle, the motorcycle, the automobile, the ocean liner, the airship, the airplane, the film theater, the great daily newspaper (which synthesizes the daily events of the whole world), fails to recognize that these different forms of communication, of transport and information, have a far-reaching effect on their psyche], F. T. Marinetti, Distruzione della sintassi, cit., p. 30. [English Translation: Destruction of Syntax – Untrammeled Imagination – Words in Freedom, in: Idem, Critical Writings, ed. by G. Berghaus, Farrar, Straus and Giroux, New York 2006, p. 120.] 11 “[…] kolej żelazna, tramwaj elektryczny, autobus, telegraf, telefon, światło elektryczne etc.”. T. Peiper, Miasto, Masa, Maszyna, Ivi, p. 30-31. 41 Emiliano Ranocchi the machine begin to be perceived as a blessing. If in the past the mediator between tool and man was production, now the mediator between machine and man is going to be consumption. Then the machine was introduced into the domain of art. Peiper describes two different approaches to the machine: the futurist and the purist one. A year before «Zwrotnica»’s October 1923 edition, to which we will come back below, entirely dedicated to Futurism, Peiper characterizes here the futurist approach to the machine already as fetishist. Just as in the later essay about Italian Futurism, published in the aforementioned October issue of 1923, he would write: For Marinetti the motor is a deity. It is a sort of Egyptian Apis, a sort of divine beast independent from man, squandering barrels of graces, hence captivating idolatrous adoration. This attitude is false. The machine is the continuation of man. It is the slave of man. We control it as we control our hand or the knife we hold in it. We have no reason to cense it with the scent of sacred incense. We ask only one question: what does the machine give to man for his life and art and what can man still get from the machine for his life and art. For this reason, Marinetti’s shift from the adoration of the motor to the adoration of matter inevitably seems shallow to us. What is interesting for us in the motor is not matter, but man – powerful man who invented it and happy man who enjoys it12. 42 The second approach is that of the purist movement of Jeanneret and Ozenfant. The purists, according to Peiper, see in the machine “a product of perfect beauty which art ought to take as the aim of its efforts”13. We recognize here the echo of an idea which appeared earlier in two of Jasieński’s futurist manifestos. In the Manifesto to the Polish Nation: a Manifesto Concerning the Immediate Futurization of Life (Cracow 1921) Jasieński had written: Technology is as much an art as are painting, sculpture or architecture. A good machine is the model for and the culmination of a work of art by virtue of the perfect combination of economy, expediency and dynamics. The telegraphic apparatus of Morse is a 1000 times more of a masterpiece than Byron’s Don Juan14. The ectypal topic of the machine which is better than …. (clearly borrowed from Marinetti’s 12 “Dla Marinettiego motor jest bóstwem. Jest jakiś egipski Apis, jakaś boska bestia, niezależna od człowieka, szafująca beczkami łask i dlatego właśnie zniewalająca do bałwochwalczej adoracji. Stanowisko fałszywe. Maszyna jest dalszym ciągiem człowieka. Jest sługą człowieka. Panujemy nad nią, jak nad naszym ramieniem lub nad nożem, który trzymamy w dłoni. Nie mamy żadnego powodu chuchać w nią wonią świątynnych kadzideł. Pytamy jedynie: co maszyna daje człowiekowi dla życia i sztuki i co człowiek może z niej jeszcze dla życia i sztuki wydobyć. I dlatego także powierzchownym musi nam się wydać przejście Marinettiego od adoracji motoru do adoracji materii. W motorze interesują nas nie materia, lecz człowiek. Potężny człowiek, który go wymyślił i szczęśliwy człowiek, który z niego korzysta”. T. Peiper, Futuryzm, in: Idem, cit., pp. 109-110. (Translation mine). 13 T. Peiper, Miasto, Masa, Maszyna, in: Idem, op. cit., p. 31. 14 “Tehńika jest tak samo sztuką jak malarstwo, żeźba i arhitektura. Dobra maszyna jest wzorem i szczytem dźeła sztuki pszez doskonałe połączeńe ekonomicznośći, celowośći i dynamiki. Aparat telegraficzny Morsego jest 1000 razy większym arcydźełem sztuki niż Don Juan Byrona”. B. Jasieński, Do Narodu Polskiego. Mańifest w sprawie natyhmiastowej futuryzacji żyća, in: Antologia polskiego futuryzmu i Nowej Sztuki, red. Z. Jarosiński, H. Zaworska, Ossolineum, Wrocław-Warszawa-Krakow-Gdańsk 1978, p. 13 (bold and graphic layout of the author). English translation by Klara Kemp Welch in: Between Worlds. A Sourcebook of Central European Avant-gardes, 19101930, ed. by Timothy O. Benson and Éva Forgács, the MIT Press, Cambridge, Massachusetts and London, England 2002, p. 189. The Polish Cyborg Foundation Manifesto of Futurism, the second term is any synecdoche of the past) ought not to divert our attention from the substantially different role reserved here for the machine compared to that of Italian Futurism. We may understand it better by quoting a fragment from another manifesto of the same year: We consider a work of art to be a fait accompli, concrete and physical. Its form is conditioned by strictly internal need. As such, it answers for itself with the whole complex of the forces creating it, thanks to which it is in this way and not another – i.e. under internal pressure, that its individual parts are coordinated in relation to one another and to the whole. We call this mutual relationship composition. We call an excellent composition, i.e. one which is economical and firm – with a minimum of material to a maximum of dynamics achieved – a Futurist composition15. It is true that in this second quote we have no direct reference to machines, but the idea that, to be perfect, a work of art has to be based on the well-pondered balance of its parts, on their mutual relation and on the relation to the whole, is directly modelled on the idea of the machine, as it is presented in the former quote. It is also evident that, in Jasieński’s conception, the idea of machine is closer to that of the purists (following Peiper’s description), who longed for a work of art as a machine à émouver, than to that of the Italian futurists. So, the machine starts its career as a regulative idea, as it does in the same years and later on in Le Corbusier’s work and in the aesthetics of constructivism. To be good, a work of art, of architecture, a piece of urban space has to function like a machine. We will find this regulative idea (among many others) in the urbanistic conception of Szymon Syrkus16 (who was influenced by Le Corbusier and later involved with CIAM) and (in the Soviet Union) of Nicolai A. Miljutin17. Then, according to Peiper, both approaches are inadequate. In the futurist approach: […] the machine is introduced into the world of art like a divine being, independently of its artistic values; in the second case it is introduced into art as a powerful master worthy of being imitated. In the first case, it is the consumer of the machine, who is not yet an artist, who expresses himself. In the second case it is the producer of the machine, who cannot be the artist, who is emphasized. In both cases the aesthetical question of the machine has been posed inappropriately. If the machine were merely a deity, it would still not deserve the attention of art. If it were supreme beauty, 15 “Dźeło sztuki uważamy za żecz dokonaną, konkretną I fizyczną. Kształt jego uwarunkowany jest śćiśle wewnętszną potszebą. Jako takie odpowiada ono za śebie całym kompleksem sił go składającyh, zawdźęczając kturym tak, a ńe inaczej – t. j. z wewnętsznym pszymusem skoordynowane są jego poszczegulne zęśći w stosunku do śebie i do całośći. Ten wzajemny stosunek nazywamy kompozycją. Kompozycję doskonałą, t. j. ekonomiczną i żelazną – minimum materjału pszy maximum ośągńętej dynamiki – nazywamy kompozycją futurystyczną”. Ivi, pp. 18-19 (bold of the author). English translation by K. Kemp Welch in: Between Worlds, cit., pp. 191192. Recently, an interesting interpretation of this passage has been proposed, aiming at emphasizing the connection in Jasieński’s text between the aesthetic of economy of a work of art and the necessity of economy of time in today’s civilization. See: M. Kłosiński, Ekonomia i polityka w polskiej poezji lat dwudziestych, in: Papież awangardy. Tadeusz Peiper w Hiszpanii, Polsce i Europie, red. P. Rypson, Muzeum Narodowe w Warszawie, Warszawa 2015, pp. 396-419. 16 In 1926 the Polish architect wrote: “Dzięki standaryzacji i centralizacji wielkiego przemysłu możemy mieć: Mebelmaszynę / Mieszkanie-maszynę / Miasto-maszynę”. (Thanks to the standardization and centralization of heavy industry we can have furniture-machines, / flat-machines / city-machines, translation mine). Sz. Syrkus, Preliminarz architektury, «Praesens» 1, 1926, p. 8. See further in the present text. 17 Miljutin in his fundamental theoretical work Sotsgorod indeed compares the soviet city to a factory, not to a machine, but it is just another variant of the same idea. 43 Emiliano Ranocchi it would not need art. […] Neither a deity, nor a master. It’s a slave! It ought to become the slave of art. It ought to serve the aims emerging from inside art itself, from inside its essence. It is not a question of worshipping or imitating the machine, but of exploitating it18. 44 Peiper understands this exploitation in a very concrete way. Up until now – he writes – only the world of the tenth muse (cinema) was based completely on the machine. One can imagine, how the use of the machine in other fields of art could change and renovate it: sculpture, theatre, music, even poetry could be regenerated by the possibilities given by it. In his argumentation Peiper evokes Majakovskij’s subjugating attitude toward the machine that Jasieński would quote a year later in his essay, but he transposes it from politics into the domain of art by a shift which is highly characteristic of his socialist orientation. Peiper, unlike Jasieński, the leader of Polish futurists, believes not in revolution, but in reform. He is the heir of an alternative tradition of Polish political thought, in Polish historiography known as “work at the grass roots”, which has its ideal beginning in the Enlightenment and then an important continuation in the age of positivism. Peiper believed that art could exert a positive influence on the evolution of society. His utopia was an aesthetic one, opposed to that of the futurists which increasingly drifted to social revolution. Unlike Italian Futurism, Polish Futurism lasted only a few years; historiographers are not unanimous in establishing its extremes, but generally they assume the year 1919 as the beginning and 1923 as the end. That year, in October, as we already mentioned, «Zwrotnica» came out with an entire issue devoted to a critical review of Futurism. Marinetti himself wrote a short letter in French to the editors of «Zwrotnica», published together with the other texts. Besides Peiper’s essay about Italian Futurism, there was an extensive essay by Bruno Jasieński, leader of the Polish futurists; it was considered the funeral speech of Polish Futurism, as the author himself declared that he was no longer a futurist. However, what is interesting for us here is not a matter of the history of literature, but the fact that even in this text, which was supposed to be the final pronouncement on the position of Polish Futurism in relation to its predecessors, the theme of the machine was given a central place. It is the approach to the machine which makes the difference between Polish Futurism and its predecessors. Jasieński opened with the following statement: There is no doubt that the huge and rapid growth of forms of technology and industry has laid the foundations and forms the backbone of our society in this particular moment in time. It has generated new ethics, new aesthetics and a new reality. The introduction of machines as indispensable, complementary elements of our lives necessarily involved radically reshaping our psyche, creating our own equivalents in the same way as introducing a foreign body into a living 18 “W pierwszym wypadku maszynę wprowadza się w świat sztuki jako istotę boską, niezależnie od jej wartości artystycznych; w drugim wypadku wprowadza się ją w sztukę jako mistrza zniewalającego do naśladowania. Wpierwszym wypadku wyraża się konsument maszyny, który jeszcze nie jest artystą; w drugim wypadku wskazuje się na producenta maszyny, którym nie może być artysta. W obu wypadkach estetyczne zagadnienie maszyny postawiono niewłaściwie. Gdyby maszyna była tylko bóstwem, nie zasługiwałaby jeszcze na względy sztuki; gdyby była najdoskonalszym pięknem, nie potrzeba byłoby sztuki. […] Ani bóstwo, ani mistrz. Sługa! Maszyna powinna stać się sługą sztuki. Powinna służyć celom, które wyłaniają się z wnętrza samej sztuki, z jej własnej istoty. Nie o uwielbienie lub naśladowanie maszyny chodzi, lecz o jej wyzyskanie”. T. Peiper, Miasto, Masa, Maszyna, cit., pp. 31-32 (translation mine). The Polish Cyborg organism forces it to secrete special antibodies which turn antigens into bodies capable of being assimilated or excreted. If a human or a social organism does not produce enough of this energy, what ensues is intoxication, infection by the foreign body. To produce those psychical antibodies, in other terms, to create forms which could subordinate machines to man – that is the very task of contemporary art19. Here we are talking once again about the change in sensibility due to the unprecedented growth of technical civilization which we already found in Peiper’s essay. Jasieński does not mention transport or the media, but in general, technology and industry, anyway, what is important is that the advent of the machine has created “new ethics, new aesthetics and a new reality”, and has changed the human psyche (Peiper, we remember, wrote of “a new psychical situation”). Even more interesting is 1. that modernity is compared to a virus (elsewhere he refers to “the bacillus of modernity”); 2. that this virus is the machine, an artificial body which can trigger a process of rejection in the human body, lest the latter is able to produce “antibodies”. It is up to art to enable it to secrete those antibodies. The whole conceptual apparatus of cyborg literature is already in place here (although Jasieński, of course, does not have this word at his disposal yet): the hybridization of man and machine, the fusion of an organic body and an artificial one, the potential inherent in crossing the boundaries between one and the other, which inevitably carries the risk of rejection. The birth of Futurism, writes Jasieński, was the realization that the task of art was to create those psychical antibodies, i.e. new forms which could subordinate machines to human beings. This is followed by the most significant passage from the point of view of argumentation, wherein Jasieński outlines three different reactions to the introduction of machines. We can easily recognize Peiper’s structure here, but with a different distribution of content and arguments. The order is significant: What we read is a narration, a sort of Hegelian triad in which Polish Futurism is, of course, assigned the place of synthesis. Again it is the relationship to the machine which makes the difference. First comes Italian Futurism, whose followers glorified the machine. By means of a brilliant anthropological analysis, Jasieński quickly dismisses this idea: worship is the reaction of primitive man to the unknown element20. At the next stage adoration changes into rebellion. The second stage is that of Russian Futurism. Its reaction – we read – was ambivalent from the beginning. Jasieński quotes two passages from two plays by Majakovskij: Vladimir Majakovskij. A tragedy and Mistery-Bouffe respectively. Between love and hatred of things, represented by the first quotation, the definitive answer of Russian Futurism is to be found in the second quotation from Mistery-Bouffe. 19 “Gigantyczny i szybki rozrost form techniki i industrii jest niewątpliwie najbardziej istotną podstawą i kręgosłupem momentu współczesnego. Wytworzył on nową etykę, nową estetykę i nową realność. Wprowadzenie maszyny w życie człowieka jako elementu nieodzownego, dopełniającego, musiało pociągnąć za sobą przebudowanie gruntowne jego psychiki, wytworzenie własnych równoważników podobnie jak wprowadzenie do organizmu żywego – obcego ciała zmusza organizm do wydzielania specjalnych przeciwciał, które zmieniają dopiero antygeny w ciała zdolne do przyswajania lub możliwe do wydalenia. Jeżeli organizm ludzki czy społeczny energii tej w dostatecznej ilości nie wytworzy, następuje intoksykacja”. B. Jasieński, Futuryzm polski (bilans), in: Antologia polskiego futuryzmu, cit., pp. 50-51. 20 1923 is also the year the Manifesto of the Mechanic Art was published (L’arte meccanica – Manifesto futurista), signed by Prampolini, Pannaggi and Paladini. The distance between Polish and Italian futurism has never been so huge. 45 Emiliano Ranocchi In present-day awareness this answer, borrowed from socialism, assigns machines to the place which in capitalist society is reserved for workers21 […] Russian Futurism saw the machine as a product and a servant of man. Its relation to machines was reduced to the merely economic relation of the worker to his employer22. This apparently simple statement hides a number of questions. First, it presupposes the Marxist interpretation of Hegel’s master – slave dialectics, but it goes a step further: the machine is supposed to be the means to escape from this dialectic. In a classless society, machines could help prevent workers from being alienated. At the same time (I anticipate here a motif that I shall develop later), by assigning the place of workers to the machine we remain within a model which is not neutral. Machines start to look like slaves and enter man’s guilty conscience. They will come back as robots, tailor’s dummies or theriomorphic machines in a number of dystopian fictions, one of which shall be the object of the next section. But let’s get back to Jasieński. So what was the answer of Polish Futurism? The machine is not a product of man – it is his superstructure, his new organ, indispensable to him at the present phase of development. The relationship of man to machine is the relationship of an organism to its new organ. It is the slave of man only insofar as it is his own hands, which obey the instructions of the same brain headquarters. To divest him of both means to disable him23. 46 Once again we recognize the Marxist philosophy jargon (superstructure, Überbau, nadbudowa) which is not surprising at this stage, as with this essay Jasieński concludes his experience of Futurism. A few years later he moved to the Soviet Union, where his creative output was required to comply with the canons of socialist realism. During one of Stalin’s purges, he was accused of being a Polish spy24 and was interned in a gulag, where he eventually died. Fetishizing machines (here Jasieński does agree with Peiper) is not a way for art to introduce the machine into collective consciousness, neither is it “introducing the real machine into art”. The latter had been Peiper’s proposal. The recipe of Polish Futurism is different: art should create “new organisms of its own according to the rules of the machine: economy, functionality and dynamics” – a position which coherently reassumes similar pronouncements we already quoted above and situates Jasieński again in close relation to the “purist” approach25. At this point Jasieński draws a surprising parallel between Polish Futurism and the Renaissance: 21 “Odpowiedź ta, zaczerpnięta od socjalizmu, wyznacza maszynie w świadomości współzesnej miejsce, jaki robotnikowi wyznacza w swym obrębie społeczeństwo kapitalistyczne”. B. Jasieński, Futuryzm polski, cit., p. 53. 22 “Futuryzm rosyjski ujmował maszynę jako produkt i sługę człowieka. Stosunek jej do człowieka sprowadzał do czysto ekonomicznego stosunku robotnika do swego pracodawcy”. Ivi, p. 60. 23 “Maszyna nie jest produktem człowieka – jest jego nadbudową, jego nowym organem, niezbędnym mu na obecnym szczeblu rozwoju. Stosunek człowieka do maszyny jest stosunkiem organizmu do swego nowego organu. Jest ona niewolnikiem człowieka o tyle tylko, o ile niewolnikiem jego jest jego własna ręka, podlegająca rozkazom jednej i tej samej centrali mózgowej. Pozbawienie tak jednej, jak i drugiej przyprawiłoby człowieka współczesnego o kalectwo”. Ibidem. 24 For the most up-to-date biography of Jasieński see: K. Jaworski, Dandys. Słowo o Brunonie Jasieńskim, ISKRY, Warszawa 2009. 25 That Jasieński’s view was perceived as the position of the whole group is testified by the answer Stern gave to Irzykowski’s accusation of disengagement. See: A. Stern, Maszyna jako ideał sztuki dzisiejszej a przesądy estetyczne, in «Głos Polski», 196, 1924, p. 4. The Polish Cyborg The Renaissance first taught people to see the beauty of their own body. It elevated the human body from the status of “matter”, the case of the immaterial “spirit”, to that of an equal organ. […] Polish Futurism taught contemporary man to see the beauty of his own augmented body in the objective forms of civilization26. In contemporary idiom we could summarize Jasieński’s reflections by saying that the future of man is the cyborg. Of course, when I use this word I refer not only to the first definition of Clynes and Kline27, but also to the philosophical and anthropological conception of Donna Haraway28. At the basis of Haraway’s conception of cyborg is the breakdown of boundaries between human and animal, animal-human and machine, and the physical and non-physical. The latter is the breakdown which we identify with cybernetics, the one we most commonly focus on, but the philosophical potential of this idea has also turned out to be useful when applied to the past, as is evident in, for example, Allison Muri’s essay about the Enlightenment cyborg29. We must leave open the question to what degree Jasieński could have been aware that the idea of the multiplied man (today we would say “augmented”) was already present in Marinetti’s theoretical œuvre, chiefly in his text L’uomo moltiplicato e il regno della macchina [The multiplied man and the reign of the machine, 1915], from which Marinetti drew extensively in the letter sent to the editors of «Zwrotnica». Some sentences of the letter are almost literal quotes from that manifesto. It is, however, also true that without some prior knowledge of that text, the real content of the letter may remain unclear. For the leader of Italian Futurism, the mechanization of individual life (hence, the mechanization of men and the humanization of machines) and the idea of the cyborg were distinct, but not contradictory aspects of the same vision. The idea of the multiplied man was a direct consequence of the conviction that the human race was doomed to extinction and to be substituted by a new race, namely a fusion of man and machine30. So, on closer examination, the difference between Marinetti and Jasieński is not in the idea of the cyborg, but in its ethical implications. Marinetti’s multiplied man, even if sometimes opposed to Nietzsche’s Übermensch, still had many features in common with his predecessor, especially in a vision of ethics markedly contrary to the Christian and Western humanist tradition. For Jasieński the idea of the cyborg is not contrary to humanism, indeed, it is a new stage of the aesthetic education of man after the Renaissance. It has to be understood as the Polish recipe for the sustainable development of contemporary civilization, equally distant both from the Italian fetishism of machines and from Russian utilitarianism (still, at the time of writing, Jasieński already considered that recipe to be 26 “Renesans pierwszy nauczył człowieka widzieć piękno swego własnego ciała. Podniósł ciało ludzkie z roli ‘materii’, futerału dla niematerialnego ‘ducha’, do roli współrzędnego organu. […] Futuryzm polski nauczył człowieka współczesnego widzieć w przedmiotowych formach cywilizacji piękno swego własnego wzbogaconego ciała”. B. Jasieński, Futuryzm polski, cit., p. 61. 27 M. E. Clynes And N. S. Kline, Cyborgs and Space, in «Astronautics», September 1960, pp. 26-27, 74-75. Reprinted in: The Cyborg Handbook, red. Ch. Hables Gray, Routledge, New York 1995, pp. 29-34. 28 D.J. Haraway, A Cyborg Manifesto: Science, Technology, and Socialist-Feminism in the Late Twentieth Century, in: Eadem, Simians, Cyborgs and Women: The Reinvention of Nature, Routledge, New York 1991. 29 A. Muri, The Enlightenment Cyborg. A History of Communications and Control in the Human Machine, 1660-1830, University of Toronto Press, Toronto Buffalo London 2007. 30 About the philosophical implication of Marinetti’s conception of the multiplied man in the context of Neo-Lamarckism and occultistic suggestions see: B. Hjartarson, Visionen des Neuen. Eine diskurshistorische Analyse des frühen avantgardistischen Manifests, Winter Verlag, Heidelberg 2013, pp. 239-242; 328-341. 47 Emiliano Ranocchi out-of-date). Perhaps an echo of Jasieński’s words is still to be found three years later in the seminal essay by Szymon Syrkus which opens the first issue of «Praesens», the review of the Polish constructivists, published in 1926. We find here condensed the topics of the new civilization creating a new sensibility, technology as a means of transcending human boundaries and the cyborg as augmented man: In the materialistic inventions, art and philosophy acquire enormous power letting them penetrate the secrets of nature. We can define modern human creativity as the most economic instrument of work in the realization of the audacious and modernist aims of nature. With its mysterious generosity, already at the beginning of human work, the fullness of life, far from narrow utilitarianism, comes close to the boundaries exceeding human capability, stimulates and extends it. […] A peculiar rhythm is created, unknown until now, a disinterested composition and the pathos of calculus, glaring evidence of LIFE. The present man, thanks to the new inventions, has been made similar to a serial standardized apparatus: to help his eyes he has glasses, binoculars, microscopes, telescopes; to help his ears – radio and telephone; to help his hands – cranes and buckets; to help his arms – the propellers of an aircraft; to help his legs – cars. Such a man must live differently and must live in different interiors than the man of the past centuries, than the man of the two decades before the war31. The Polish Cyborg – a Dystopian Approach At the very beginning of his essay, Polish Futurism. A Balance, Jasieński writes that: 48 As a matter of fact, I have already written a history of Polish futurism. The public and the critics have overlooked it because it is labelled as a “novel” and bears the odd title of “Izolda Morgan’s legs”32. This is a very mysterious statement, it is not clear how to understand it, but if this novel is to be read as the real history of Polish Futurism, we are struck while reading by the fact that it contains none of the utopian vision of the future that we would legitimately expect, if only because of the name of the movement. Instead, we find a gloomy and obsessive vision of a world intoxicated by man-hating machines, afraid that man will take the initiative and destroy them. This is indeed what the protagonist does in one of the final scenes of the novella, a sort of polemical answer to Marinetti’s love of machines. The process of assimilating machines and producing enough energy 31 “Sztuka i filozofja zyskują w materjalistycznych wynalazkach ogromną potęgę, która pozwala im wydrzeć tajemnice przyrody. Dzisiejszą twórczość ludzką określić możemy jako najekonomiczniejszy środek pracy w realizowaniu śmiałych i modernistycznych zamierzeń przyrody A przy jej tajemniczej szczodrobliwości już u samych początków pracy człowieka pełnia życia, daleka od wąskiego utylitaryzmu, dochodzi do granic, przerastających ludzką możliwość ujęcia, pobudza je więc i rozszerza. [...] Stwarza się swoisty, a dotąd nieznany rytm, kompozycja bezinteresowna i patos rachunku — bijące w oczy dowody ŻYCIA. Człowiek dzisiejszy, który dzięki nowym wynalazkom upodobniony jest do seryjnego standaryzowanego aparatu, który oczom ku pomocy ma okulary, lornety, mikroskopy, teleskopy; uszom — radio i telefon; rękom — dźwigary i żórawie; ramionom — śmigi aeroplanu; nogom — samochody — taki człowiek musi żyć inaczej i musi mieszkać w innych pomieszczeniach, niż człowiek wieków minionych, niż człowiek przedwojennego dwudzíestolecia”. Sz. Syrkus, op. cit, pp. 13-14. 32 “Właściwie historia futuryzmu została już przeze mnie napisana. Publiczność i krytyka przeoczyły ją, ponieważ nosi na sobie etykietkę ‘powieść’ i niesamowity tytuł Nogi Izoldy Morgan”. B. Jasieński, Futuryzm polski, cit., p. 49 (translation mine). The Polish Cyborg to avoid “intoxication” has failed. As I already wrote, far from solving the problem of the machine’s position towards man, the master – slave dialectic applied to machines arouses atavistic myths and figures of the Western tradition such as that of the Golem or the sorcerer’s apprentice. Traces of animistic fear of the inanimate and a guilty conscience transferred from the slave to the machine generate the modern motif of the rebellion of machines. And because behind the machines there was always the memory of slaves, it was possible to give this motif an additional political subtext. The first modernist literary work and perhaps still the most popular one, which put this modern myth on the stage, is of course Karel Čapek’s R.U.R. (1920). In Polish modernist literature, however, there is another work for which we cannot exclude Čapek’s inspiration, a completely forgotten novel of the completely forgotten writer Jerzy Sosnkowski. The novel is entitled A Car, You and Me. Love of Machines and was published in 1925. The futurist association suggested by the subtitle is, of course, intentional. The novel has to be read as a sort of narrative pamphlet against a Futurism which is not so much the Italian or the Polish one, but a sort of pars pro toto of modernity. The author reproaches Futurism for having sacrificed feelings to reason and rationality. It is not enough that the reproach does not fit Polish Futurism, but it does not even fit the Italian one. He seems not to have understood the amount of irrationality which distinguished both Italian and Polish Futurism. It is not the place here to speculate about what he could know about Italian Futurism based on the few translations available in Polish in the Twenties33. Neither it is so important to establish to what degree he understood it. Futurism in Sosnkowski is a sort of metonymy for modernity, defined as rational, cynical and pragmatic. This unusual coming-of-age and road trip novel is set in Poland, although the name of the country is not mentioned, the main protagonist, Pol, a young engineer, travels in his car with a young actress Iza, whom he has invited to join him for the pure pleasure of her company. Thus, the car becomes an opportunity and a pretext for starting a relationship; it is also an icon, the most famous icon of modernity, and therefore a clear reference to the very founding act of the futurist mythology marked by Marinetti’s manifesto. Pol, being an architect, as Sosnkowski himself was, is the personification of rationality and intellect, while Iza is that of the heart and emotions. They visit a town in which there are electrification installations and there is a lot of equipment lying about. In a sort of early post-industrial landscape, which we may see as a vision of the end of modernity, they make a tour around the old inoperative power station which is situated on a cliff and is filled with machines withdrawn from circulation. The power station itself is a figure of modernity (we cannot help mentioning Antonio di Sant’Elia’s famous study for a power station of 1914 from his cycle La città nuova)34. Pol goes out onto a dilapidated balcony which then collapses, rendering him unconscious. The local fishermen lay him down on a blanket in a room with a disturbing anthropomorphic dynamo-machine. The most interesting passage of the novel is chapter 8, wherein the protagonist, lying in a fever, has a nightmare: the machines come alive and take over the world. There are already more machines than men – humankind is doomed to extinction. Of course, the new race that shall inherit the earth is not the superior, mechanical type of man, whose advent Marinetti was preconizing, but 33 For the utmost up-to-date reference about the reception of Italian futurism in Poland see: P. Strożek, Marinetti i futuryzm w Polsce. Obecność, kontakty, wydarzenia, Instytut Sztuki Polskiej Akademii Nauk, Warszawa 2012. 34 Sosnkowski, himself an architect and engineer, was most probably acquainted with Sant’Elia’s work, as testified by his short story Mad Cathedral, wherein we find traces of Sant’Elia’s Manifesto of Architecture. See: E. Ranocchi, Szalona katedra, in «Autoportret», 4 [47], 2014, pp. 62-67. 49 Emiliano Ranocchi a terrifying species of gigantic theriomorphous machines. So far as I know, this is perhaps one of the first modernist visions in which the boundaries between animal and machine are to break down. The black character of the novel, Lebelt, who personifies the hypertrophy of reason, takes the word in the dream: Simply, we were putting our mind into the machine. The machine, the machine! It was everyone’s slogan and faith! And even those who subconsciously kept their souls – the artists – even those were hypnotized by the machine! O, Marinetti, Picasso, Matisse – they have greatly contributed to our disaster. We created the machines then, we, the scholars and engineers, put reason into them, and the artists the soul. Until finally – do you understand it, Mr. Pol? They did it! They handed their reason over, they breathed their reason, will and soul into cold machines. On the other hand, they themselves started resembling machines! They, if I may say so, have interchanged. And this is how the machines became alive! The machines started to have a will, one day they started to rule. They became organisms endowed with the same qualities as human beings. Only their bones are so far made of iron and steel, and their blood – of water, oil, petrol. In the fever of creation we didn’t notice that the machines we were creating started resembling animals. Please, try to recall the appearance of the most recent machines. Weren’t they similar to huge insects, or didn’t they resemble the skeletons of some dead monsters? Wasn’t an airplane like a bird, wasn’t a submarine like a fish, wasn’t a paddle steamer just like a big duck? And the train was similar to a legendary dragon, a radio station – to a horrible beetle, a telegraphic network – to a spider’s web etc. Yes, the machines became alive and declared war on us – a war in which we cannot participate because we cannot fight them with our bare hands. To rely on their mercy – utopia! They have no feelings! They know no emotions. They are “mechanical animals” – intelligent and cunning35. 50 The opposition between man and machine in Sosnkowski’s novel is decidedly more sharp and static than in Čapek’s pièce, also because the machines in Pol’s dreams are described as huge animals. Nevertheless, they retain certain key features in common with them, such as sexual desire. In his novel Sosnkowski, like Čapek, drew one of the first visions of an organized death civilization, as if he had a foreboding of where the consequent realization of Marinetti’s postulates could lead: the combination of the most perfect organization, being the fruit of highly developed reason, with the lack of something which at the time was called feelings and today we would rather call empathy. To this we should add the psychic constitution of the servant, being one of the chief 35 “Po prostu rozum swój wkładaliśmy w maszyny. Maszyna, maszyna! Oto, co było hasłem i wiarą wszystkich! I ci nawet, co jeszcze ducha podświadomie w sobie utrzymali – artyści – i ci zostali zahypnotyzowani przez maszynę! Och, Marinetti, Picasso, Matisse – przyczynili się oni niemało do naszego nieszczęścia. Tworzyliśmy więc maszyny, kładliśmy w nie rozum, my, uczeni i inżynierowie, a artyści ducha. Aż wreszcie, pan to rozumie, panie Polu? Włożyli! Oddali, tchnęli rozum, wolę, duszę w zimne maszyny. Na odwrót, sami upodobnili się do nich! Zaszła, że się tak wyrażę, zmiana miejsc. I oto maszyny ożyły! Maszyny poczęły mieć wolę, poczęły rządzić się pewnego pięknego dnia same. Stały się organizmami, obdarzonemi temi samemi właściwościami, co ludzie. Tylko kości ich dotąd są z żelaza i stali, a ich krew – to woda, oliwa, benzyna. Nie widzieliśmy w gorączce tworzenia, że maszyny przez nas robione upodabniają się do zwierząt. Proszę sobie przypomnieć wygląd ostatnich machin. Czy nie były podobne do ogromnych robaków, czy nie przypominały szkieletów jakichś zmarłych potworów? Czy aeroplan to nie był ptak, czy łódź podwodna nie była rybą, czy okręt kołowy nie był wielką kaczką? A pociąg był podobny do legendarnego smoka, stacja radio do potwornego żuka, sieci telegraficzne do sieci pająka i tak dalej. Tak, maszyny ożyły, i wypowiedziały nam walkę, walkę, której przyjąć nie możemy, bo nie sposób walczyć z niemi gołemi rękami. Liczyć na ich litość – utopia – przecież one nie mają uczucia! One uczucia nie znają. Są to “mechaniczne zwierzęta” inteligentne i sprytne”. J. Sosnkowski, Auto, Ty i Ja (Miłość maszyn), Wydawnictwo Biblioteki Dzieł Wyborowych, Warszawa 1925, pp. 105-106. The Polish Cyborg features of the machine and the very reason behind its hatred of men, as the relationship between machine and man reproduces the one between the slave and his master. It is no coincidence that Čapek’s vision of a robotic civilization also had political implications, as it would have for Wiener (R.U.R. was read as an allusion to a communist revolution: “there’s nothing more terrible than giving everyone Heaven on Earth!”)36. Sosnkowski also interprets the close relation between the degeneration of machines and the degeneration of man as a consequence of futurist ideology. What Sosnkowski’s novel explicitly refers to as futurist ideology is interpreted as a hypertrophy of reason released from sentiment and emotions. Extreme functionalism was to lead humanity to a catastrophe. Perhaps the most striking image of this mechanized world, reminiscent of early modern representations of a wellgoverned state as a mechanism, e.g. a clock37, is the description of the road full of machines: The road was completely choked with wandering machines. There was formal congestion. The incessant stream of monsters crawled in two directions without stopping for a moment. The middle of the road was left empty to allow overtaking. Here you could see precisely the excellent, machinelike organization and an amazing precision of movement calculation. The colossi passed each other with a millimeter’s distance between them and they never collided with one another despite the high speed of some machines. On the sides you could see industrial machines crawling slowly and smoothly, while cars, locomobiles, locomotives, motorcycles and tractors sped along in the middle of the road. You could hear the monotonous drone of traffic – huge as the roaring waves of many stormy seas, but it was regular and rhythmical – I would say – depicting phonetically the dynamics of this mechanical river. The machines’ bodies had different shapes and all of them resembled the antediluvian monsters of various races and species. They all stuck to the road persistently, as if the route was prescribed through the intellect and the law of reason. Even the airplanes, which whizzed through the air and acquired the shapes of massive bats, followed the air route precisely. […] The spirit of the invincible organization and force was hovering over the cloud. It was an avalanche which was impossible to resist, an avalanche roaring like one thousand waterfalls, like millions of stones rolling down – and its voice weighed us down, it depressed us, it pressed on the brain like a painful weight resonating in the head with the echo of disturbing blows, hurting the eyes. It is strange that this devilish movement gave an impression of emptiness. The moving mass gave off the feeling of cold and the lack of life. Methodicalness was rolling down the road. The life of nature possesses many kinds of movement and uncoordinated, unexpected vibrations, but that place was oozing with routine, regularity, and lifelessness. This combination of lifelessness and movement was truly disturbing. Involuntarily, our imagination made us think of a galvanized corpse38. This nightmare vision shows that, when transposed to machines, the idea of a powerful self-regulating system becomes uneasy. In both cases (Čapek and Sosnkowski) the question is 36 “Nic není strašnějšího než dát lidem ráj na zemi!”. K. Čapek, R.U.R. Rossum’s Universal Robots, Artur, Praha 2008, p. 43 (English translation by David Wyllie, The University of Adelaide, 2016, available from: https://ebooks.adelaide.edu.au/c/ capek/karel/rur/index.html). 37 See: O. Mayr, Authority, Liberty & Automatic Machinery in Early Modern Europe, The John Hopkins University Press, London & Baltimore 1986. 38 “Droga całkowicie zapchana była wędrującemi maszynami. Panował formalny tłok. Nieustanny wąż potworów pełzał w dwu kierunkach, nie przerywając się ani na chwilę. Środek drogi zostawiony był do wyminięć. Widać tu było dokładnie znakomitą, maszynową organizację i niesłychaną precyzyjność w obliczeniu ruchów. Kolosy mijały się o milimetr, o włos, nie zawadzając o siebie nawzajem, mimo wielkiej szybkości, z którą posuwały się niektóre z nich. Po bokach równomiernie pełzły 51 Emiliano Ranocchi whether such an intelligent system should be allowed to own itself (so to be potentially treated as a moral subject). It is already the question about the boundaries between human and non-human, even if yet not expressed in the later terms of cybernetics. In order to discredit what is already perceived as a disturbing self-regulating system, machines are described as precise and methodical, but also as not alive (hence the comparison with a galvanized corpse). What we are confronted with is the image of a machine that Wiener would call “rigid”, the opposite of a good machine which ought to be not only a computing machine, but also a control machine, a machine with an automatic feedback control apparatus. The scene quoted could also depict a state of increasing entropy, according to Wiener’s understanding of it, “a universe in which all distributions are in their most probable state and in which universal homogeneity prevails”39. “The dominance of machines presupposes a society in the last stages of increasing entropy, where probability is negligible and where the statistical differences among individuals are nil”40. This quote from Wiener’s Cybernetics fits Čapek’s robots well, represented as lacking in individuality: the first generation robots all have the same features. Only when “suffering” (because “feeling”), do the robots reveal a personality. Violence turns out to be a direct consequence of this lack of feeling. In fact Sosnkowski too, like Čapek, seems to suggest another possibility: an intelligent machine (in the novel represented by the main character’s car) which empathetically understands and realizes what the man is thinking and feeling. 52 Pol was astonished that the car perfectly felt his intentions, it really understood him. He had the impression as if a supernatural intellect were driving the machine, in a mysterious way establishing contact with his thoughts, reading them, before he could express them in movements and executing them more quickly and efficiently than if things went the usual way41. Feelings, according to Wiener, are not “merely a useless epiphenomenon of nervous actions”42, but can play a significant role in learning. A feeling machine is one which is capable wolno maszyny przemysłowe, środkiem mknęły auta, lokomobile, lokomotywy, motocykle, traktory. Panował jednostajny szum, potężny niby ryk fal wielu wzburzonych mórz, ale regularny, rytmiczny, – rzekłbym, – ilustrujący fonetycznie dynamikę tej mechanicznej rzeki. Ciała maszyn miały przeróżne kształty, wszystkie zbliżone do poczwar przedpotopowych różnych ras i rodzin. Trzymało się to wszystko uporczywie drogi, jako przepisanego rozumem i ustawą racji, szlaku. Nawet aeroplany z poświstem przeszywające powietrze, otulone w formy olbrzymich nietoperzy, ściśle trzymały się powietrznej linii, idealnie odpowiadającej biegowi trasy. […] Unosił się nad nią duch niezmożonej organizacji i siły. Była to lawina, której próżnem byłoby chcieć stawić opór, lawina hucząca jak tysiąc wodospadów, jak miliony zsypywanych fur kamieni, – a głos ten przygniatał, przygnębiał, kładł się na mózg jak bolesny ciężar, odzywając się w głowie echem uderzeń dokuczliwych, pod naporem których bolały oczy. Rzecz dziwna, że szatański ruch – sprawiał wrażenie pustki. Oschłością jakąś wiało od ciągnących mas, nie było w tem życia. Drogą toczyła się metodyczność. Życie przyrody posiada cały szereg ruchów i drgnień nieskoordynowanych, niespodzianych, – stamtąd ziało szematem i regularnością, – ziało martwotą. To zespolenie martwoty z ruchem było nad wyraz przykre. Mimo woli nasuwało się wyobraźni pojęcie zgalwanizowanego trupa”. J. Sosnkowski, op. cit., p. 121-123. 39 N.K. Hayles, How We Became Posthuman. Virtual Bodies in Cybernetics, Literature, and Informatics, University of Chicago Press, Chicago 1999, p. 103. 40 N. Wiener, The Human Use of Human Beings. Cybernetics and Society, 2nd edn., Doubleday, Garden City, New York 1954, p. 181. 41 “Ku zdziwieniu Pola auto jednak doskonale wyczuwało jego intencje, rozumiało go po prostu. Pol miał wrażenie, że jakiś nadprzyrodzony rozum, kierujący machiną, nawiązywał tajemniczy kontakt z jego myślami, odczytywał, zanim człowiek zdążył sprecyzować je w ruchach wykonawczych i spełniał prędzej i sprawniej, niż gdyby rzeczy szły zwykłym trybem”. J. Sosnkowski, op. cit., p. 118. 42 N. Wiener, The Human Use, cit., p. 72. The Polish Cyborg of feedback, so which can learn. Pol’s car and Čapek’s second generation robots are, from this perspective, cybernetic machines. The paradox lies in the fact that what was meant to be a solution for the danger of machines taking over the human world is in fact the anticipation of the cyborg – that is a machine so connected with man through a feedback relation that it makes the boundaries between them permeable. Both texts precede the age of cybernetic anxiety – that is, they still operate with a solid vision of the liberal self, of what is supposed to be a human being and what a machine. Indeed, from this very contraposition there originates the drama and the subject of both works – the uncanny appearance of the machine is due to the fact that it merely resembles a human being, while not being human, because of its lack of empathy. If we take a closer look at this problem, however, we will discover that certain premises are already in place. In both works the opposition between the machine and the human being is not a binary one, on the contrary it evolves into a more nuanced vision, where beside bad, inflexible machines without feelings and feeling humans there intervenes a third one: the good feeling / learning machine. This one is not represented as uncanny anymore. So from the gruesome dystopian vision of mankind doomed to extinction there emerges a utopia: it is again the vision of the cyborgisation of man. And this utopia, with all its affirmativeness, is deeply entrenched in the time in which it arose – that of early modernism. The Polish Man a Machine As I already mentioned, the master-slave dialectic applied to machines could have a political subtext in which the machine stood for the working class. This is especially evident in Aleksej Tolstoj’s remake of Čapek’s R.U.R. and this is also the case of a late play by Jasieński, entitled The Mannequins’ Ball (1931)43. To be precise, in the play the place of the machine is taken by tailor’s dummies which are in addition a metaphor of the working class. The author of the play is not the futurist Jasieński, but his last reincarnation, the communist Jasieński. With this text we have shifted slightly further from the theme of the machine, as in a strict sense the mannequin is not of course a machine, but only a simulacrum of man, even if not without some mechanical elements. The motif of the mannequin was introduced into painting by Giorgio De Chirico before the war already and then became distinctive of Italian metafisica from which it spread all over Europe, especially in the surrealist milieu44. Its close relationship to the robot (neither are generated in a natural way and have replaceable limbs) is particularly evident in the figurative arts, where sometimes it is difficult to distinguish one from another. The mannequin is just another visual incarnation of the artificial man. Jasieński’s play is a quite late token of the popularity of this theme in Stalinist Russia. It is useful to recall it here not only because of its high literary quality (this is not socialist realism yet) and of the motif of the rebellion of things against man, but also because in this new incarnation of the comedy of errors, masterfully exploiting the motif of the mix up of roles, we find the positions being reversed: the mannequins see themselves as models and men as failed imitations: 43 See: P. Buoncristiano, Un cuore meccanico. Bambole e automi nella letteratura russa moderna, Carocci, Roma 2011, pp. 230-238. 44 About the prehistory of the motive and its (possible) filiation from Apollinaire see: W. Bohn, Apollinaire and De Chirico: the Making of the Mannequins, in «Comparative Literature», 27/2, 1975, pp. 153-165. 53 Emiliano Ranocchi I don’t believe there’s anything to be learned from humans. I’ve seen more than enough of all those dandies who frequent our workshops. They’re all only worthless copies made in our image! I feel like bursting out laughing when I look at those twisted monstrosities. […] They desperately want the clothes that suit us to perfection to look equally good on them. And so they’re irritated when everything that fits us like a glove puckers and wrinkles on them. These freaks force the apprentices to slave away at night and use cotton padding for what they naturally lack, vainly attempting to make their figures look like ours. I simply can’t understand why our clothes should be given to them? No matter what you do, on them everything will always look ghastly45. 54 This introduces the final theme with which I would like to end my statement, that of the man a machine, a model of representation of the human body dating back at least to the 18th century46. To rethink the human body in terms of a machine represents the other side of the research into creating artificial life. The relation between man and machine has always been a biunique one: the human body has always constituted the model of a well-functioning machine, while the machine has been a conceptual grid, a framework helping to understand (or imagine) how the human body works, this – of course – up to the present day, when we see a real renaissance of the man a machine idea with all the ethical, epistemological and philosophical problems this idea entails. It is precisely the uneasiness we feel when we think of our body in terms of a machine that we find in one of the most popular poems by Tytus Czyżewski. Czyżewski was both a painter and a poet, moving always at the border between literature and figurative arts. It is precisely the uneasiness we feel when we think of our body in terms of a machine that we find in one of the most popular poems by Tytus Czyżewski. Czyżewski was both a painter and a poet, moving always at the border between literature and figurative arts47. A testimony to his skills is also the poem Hymn to the Machine of my Body of 1920. This poem draws on the metaphor of the machine applied to the human body in a way which recalls Tobias Cohn’s House of the Body (from Ma’aseh Toviyyah, 1707) or – in more recent times the famous Fritz Kahn’s Man as Industrial Palace. The painter Czyżewski, however, writes his picture with words, apparently in the spirit of the avant-garde, in fact revitalizing the tradition of visual poetry (of course there is no contradiction therein, as Apollinaire taught). The spatial disposition of the words referring to the different organs as if to mechanical elements48 reproduces in an iconic way the basically 45 “Nie wierzę, aby się można było czegoś nauczyć od ludzi. Napatrzyłem się trochę tym przyjeżdżającym do nas snobom. Przecież to tylko nędzne nasze kopie. Śmiać mi się chce, kiedy patrzę na tych pokręconych idiotów. [...] Chcą za wszelką cenę, aby garnitury leżały na nich tak samo idealnie jak na nas. I jak grymaszą, ile pretensji, że garnitury, które na nas leżą jak ulał, na nich marszczą się i garbią. Te homunkulusy każą krawcom spędzać bezsenne noce i wypychać watą to, czego im brak, byle tylko upodobnić się do nas. Nie pojmuję doprawdy, po co im właściwie oddają nasze ubrania? I tak będą w nich wyglądali jak półtora nieszczęścia”. B. Jasieński, Bal manekinów, Jirafa Roja, Warszawa 2006, p. 24 (English translation: The Mannequins’ Ball, translated by Daniel Gerould, Routledge, London & New York 2000, p. 11). 46 The main reference is of course the work of the French philosopher and physician Julien Offray de La Mettrie L’homme machine (1747). 47 B. Śniecikowska, Tekst i obraz w twórczości Tytusa Czyżewskiego – o artystycznej „unii personalnej”, in: Eadem, Słowo – obraz – dźwięk. Literatura i sztuki wizualne w koncepcjach polskiej awangardy 1918-1939, Universitas, Kraków 2005, pp. 35-172; A. Soczyńska, Tytus Czyżewski. Malarz, poeta, Neriton, Warszawa 2006; A. Smaga, Formizm w poezji Tytusa Czyżewskiego, Wydawnictwo Uniwersytetu Kardynała Wyszyńskiego, Warszawa 2010. 48 Still, Czyżewski’s operation was not completely unprecedented in Polish futurist poetry, since already 1914 the Baptist of the movement, Jerzy Jankowski, in his poem Spłon lotnika [The Burning Aviator] used a close metaphor: “Listen the pulse The Polish Cyborg symmetrical structure of the body. So the metaphors of mechanical provenance join the iconic representation of the body creating an indivisible whole. The body as a machine has changed into something alien and disturbing, at the same time endowed with power, so that the poet addresses to it the prayers he used to address to God. This prayer is literally the liturgical Kyrie eleison, “Lord, have mercy”. The place of God has been substituted by the body, an extremely frail and unpredictable mechanism. The new deity is no less frightening and disturbing than the old ones. 55 rate, / Listen the heart, / How swiftly the little engin works” (translation mine), in: Antologia polskiego futuryzmu, cit., p. 78. Emiliano Ranocchi HYMN TO THE MACHINE OF MY BODY blood pepsin blood stomach heart blood pulsate beat concentrated coils of my gut brain 56 cables to my veins kinky wire duct to my heart accumulator have mercy of me my heart dynamo-heart electric lungs magnetic diaphragm one two three beats my heart at one electric heart one conveyor belt of my gut two two two have mercy of me one two telephone of my brain dynamo-brain three three three one two three machine of my body function spin live Emiliano Ranocchi 57 Ṭoviyah Kats (Tobias Cohn), Ma’a’seh Toviyah, Venice 1708. Woodcut. Houghton Library, Harvard University. The Polish Cyborg 58 Fritz Kahn, Der Mensch als Industriepalast (Man as Industrial Palace), Stuttgart 1926. Chromolithograph. National Library of Medicine. Emiliano Ranocchi Tytus Czyżewski, Hymn do maszyny mego ciała, from Jednodńuwka futurystuw, June 1921, p. 3 59 The Polish Cyborg Abstract Emiliano Ranocchi The Polish Cyborg. A Reflection on the Relationship between Man and Machine in Early Polish Modernism Far from being enthusiastic “modernolatry” of Italian futurism, Polish futurism demonstrates an attitude of ambivalence toward modernity. This is particularly evident in the Polish approach to that very synecdoche of modernity which is the machine. In his essay of 1923, the leader of the group, Bruno Jasieński, compares the fetishistic cult of the machine, which characterizes the Italian approach, with the utilitarian one of the Russians, exemplified by a quote from Majakovskij. To these two propositions, as a sort of Hegelian synthesis, he adds a Polish one consisting in the conception of the machine as a prosthesis, a continuation of the human body. Thereby he introduces an idea later known as “cyborg”. The category of cyborg is also useful to understand the work of another today almost forgotten Polish writer of the Twenties, Jerzy Sosnkowski. He was the author of a short novel, A Car, You and Me (Love of Machines), in which a whole chapter concerns the chief character’s dystopian nightmare wherein machines take control over the world. The third section of the essay deals with the idea of man a machine – an old, 18th century conception, which became actual anew in the 20th century and whose traces we can find among others in a well-known poem by Tytus Czyżewski. Thirty years before N. Wiener, Polish modernists seem to have sensed the social, political and anthropological implications of the mechanization of work. Keywords: Machine, Futurism, Cyborg, Poland, Utopia «pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», (VII) 7, 2016, pp. 39-60 60 Andrea F. De Carlo Il futurismo polacco nella critica letteraria dell’epoca 1. L a pubblicazione del primo manifesto del futurismo italiano sul quotidiano francese «Le Figaro» del 20 febbraio 1909 ebbe subito risonanza anche negli ambienti intellettuali e artistici polacchi. Infatti, otto mesi dopo l’uscita del grido di Filippo Tommaso Marinetti – “Ritti sulla cima del mondo, noi scagliamo, una volta ancora, la nostra sfida alle stelle!...” –, il drammaturgo e prosatore Ignacy Grabowski pubblicò un ampio resoconto sulla fondazione di questa nuova corrente artistico-letteraria1. A questo articolo ne seguirono molti altri sulla stampa polacca a opera di intellettuali che per un certo tempo si sarebbero interessati agli sviluppi del futurismo, commentandone – talvolta non senza un certo imbarazzo – le varie tematiche man mano trattate nei manifesti stranieri e criticando in maniera caustica il lavoro sia degli artisti promotori sia di quanti, scrittori, letterati e pittori avrebbero rafforzato le file del movimento in patria2. Nonostante fossero diverse le voci critiche che si levarono contro la prima avanguardia futurista, nei limiti di questo contributo mi concentrerò su due rappresentanti autorevoli della generazione precedente: Karol Irzykowski (1873-1944), uno dei critici più rispettati del Ventennio interbellico, e in particolare Stefan Żeromski (1864-1925), uno degli scrittori più insigni della sua epoca. Essi, invero, più di tutti lasciarono un segno profondo sulle generazioni successive, avvalorando con i loro pregiudizi una distorta ricezione del futurismo, che è stata confutata dalla critica più recente. Con la fine della guerra e la riacquistata indipendenza della Polonia nel 1918 gli intellettuali presero finalmente parte alla riflessione e alla discussione internazionali sulla nuova sensibilità artistica e letteraria, che mirava a incidere profondamente su tutte le attività creative. In un ambiente vivace e indipendente, quale risultava essere la Polonia degli anni Venti, vi erano i presupposti favorevoli affinché i poeti della giovane generazione aderissero con grande entusiasmo alle sperimentazioni proposte dalle avanguardie europee e affrancassero la letteratura nazionale da alcuni gravami della tradizione. Diverse furono le risposte a questa urgenza di innovazione e di modernità, che andavano dal totale rifiuto del passato, proposto dai futuristi, al felice connubio di vecchio e nuovo avanzato dai poeti facenti capo alla rivista «Skamander». I prosatori, al contrario, restarono fedeli alla tradizionale idea di letteratura engagée. Fra questi vi erano alcuni scrittori legati all’epoca precedente, ma ancora in piena attività, come Stefan Żeromski e Juliusz Kaden1 I. Grabowski, Najnowsze prądy w literaturze europejskiej. Futuryzm, in «Świat», 40, 2 ottobre 1909, pp. 5-7; 41, 9 ottobre 1909, pp. 2-5. 2 Per una bibliografia sul futurismo italiano in Polonia (1909-1939), cfr. M. Gurgul, P. Strożek, Bibliografia sul Futurismo italiano in Polonia (1909-1939), in: Gli altri futurismi. Futurismi e movimenti d’avanguardia in Russia, Polonia, Cecoslovacchia, Bulgaria e Romania, a cura di G. Tomassucci, M. Tria, Edizioni Plus – Pisa University Press, Pisa 2010, pp. 149-159. 61 Andrea F. De Carlo 62 Bandrowski. Nel frattempo alcune tematiche della Giovane Polonia vicine all’espressionismo furono riprese e sviluppate dal gruppo Bunt, che vide la luce a Poznań nel 1918 e che si raccoglieva attorno alla rivista «Zdrój»3, oppure sopravvivevano ancora stilemi dell’epoca precedente quali le visioni grottesche di Roman Jaworski o i singolari esperimenti filosofico-psicologici di Karol Irzykowski. Benché in Polonia venissero date alle stampe le prime poesie futuriste già nel 19144, una vera e propria adesione da parte di alcuni giovani intellettuali al verbo futurista si sarebbe avuta solo a partire dal 1918, allorché Anatol Stern e Aleksander Wat pubblicarono il manifestovolantino Tak [Sì]5. Si dovette attendere il 1920 per avere un altro tentativo di manifesto futurista: To są NIEBIESKIE PIĘTY które trzeba pomalować [Questi sono i talloni azzurri da pitturare]6, che più tardi Wat considerò non riuscito. Nel dicembre dello stesso anno fu edito, sempre su iniziativa dei due poeti, l’almanacco letterario Gga su cui comparve quello che oggi la critica unanimemente considera il primo vero manifesto dei futuristi polacchi: Prymitywiści do narodów świata i do Polski [I primitivisti alle nazioni del mondo e alla Polonia]. Il programma era articolato in dieci punti: in sintesi si proponeva di cancellare la storia e la modernità, di demolire le città e di ricostituire uno stile di vita primitivo. La critica più tarda sminuì l’importanza di questo manifesto, dacché lo considerò un semplice divertissement, infarcito di slogan ridicoli e caratterizzato da una caotica e contraddittoria dichiarazione dei futuristi sotto il segno della degenerazione7. Lo studioso Andrzej Lam definì questa pubblicazione come “mistificazione […] al quadrato” e il manifesto come una sconclusionata confusione di intenti8. Quello che la critica percepì come poco chiaro e disorganico era probabilmente da ascrivere a scelte formali e tematiche che risentivano degli influssi di una corrente letteraria anziché di un’altra. Invero, il manifesto dei primitivisti nelle intenzioni si allontanava dai formisti9, all’epoca attivi a Cracovia, per avvicinarsi più ai proponimenti futuristi, anche se nel programma vi erano già elementi di matrice dadaista10. Nel frattempo Gga, a causa dei suoi contenuti provocatori, si scontrò con la censura. Un anno dopo furono pubblicati i quattro famosi manifesti di Bruno Jasieński (pseudonimo di Wiktor Zysman), raccolti in Jednodńuwka futurystuw [Efemeride dei futuristi, 1921]11 iniziative 3 Riguardo all’espressionismo in Polonia, si rimanda al saggio di K. Szewczyk-Haake, Poezja Emila Zegadłowicza wobec światopoglądowego i estetycznego projektu ekspresjonizmu, Universitas, Kraków 2008. 4 Si pensi, per esempio, al componimento Spłon lotnika [Il rogo dell’aviatore] di Jerzy Jankowski (1887-1941), pubblicato sulla rivista «Widnokrąg». 5 Di questo scrive A. Wat in Wspomnienia o futuryzmie, in «Miesięcznik Literacki», 2, 1930, p. 71. Anche Stern menziona questo volantino in Poezja zbuntowana, PIW, Warszawa 1964, p. 51. Purtroppo non ci è pervenuto nessun esemplare di questo primo manifesto (tanto che alcuni dubitano della sua esistenza), ma la critica ipotizza che uscì nell’ultimo trimestre dell’anno 1918 e che molto probabilmente mostrava ancora un influsso espressionista (cfr. A.K. Waśkiewicz, Czasopisma i publikacje zbiorowe polskich futurystów, in «Pamiętnik Literacki», LXXIV, 1, 1983, pp. 33; 38). 6 Cfr. A. Wat, Wspomnienia o futuryzmie, cit., p. 73. 7 Cfr. Antologia polskiego futuryzmu i nowej sztuki, wstęp i komentarz Z. Jarosiński; wybór i przygotowanie tekstów H. Zaworska, Zakład Narodowy im. Ossolińskich, Wrocław 1978, p. XV. 8 A. Lam, Instynkt i ład. Polska awangarda poetycka. Programy lat 1917-1923, Wyd. Literackie, Kraków 1969, pp. 164-165. 9 Il formismo è un movimento d’avanguardia che fu attivo in Polonia negli anni 1917-1922 e che mise in relazione le conquiste cubiste, espressioniste e futuriste con l’arte popolare. 10 A. K. Waśkiewicz, op. cit., p. 43. 11 I quattro manifesti sono: Do narodu polskiego. Manifest w sprawie natyhmiastowej futuryzacji żyća [Al popolo polacco: manifesto per l’immediata futurizzazione della vita]; Manifest w sprawie poezji futurystycznej [Manifesto sulla poesia futurista]; Manifest w sprawie krytyki artystycznej [Manifesto sulla critica artistica]; Manifest w sprawie ortografii fonetycznej [Manifesto Il futurismo polacco nella critica letteraria dell’epoca assieme alle famose serate futuriste che, al pari dei manifesti Nuż w bżuhu [Il coltello nella pancia, 1921] o Fioletowe płuca [I polmoni violacei, 1922], avrebbero scandalizzato l’opinione pubblica e provocato, talvolta, l’intervento delle forze dell’ordine. In terra polacca, negli anni 1911-1914, soltanto un esiguo numero di critici, fra gli altri Cezary Jellenta, Jerzy Hulewicz, Aleksander Kołtoński, Tadeusz Nalepiński, manifestò un timido interesse per l’attività dei futuristi italiani. Il gruppo "Bunt" fu certamente influenzato dalla prima avanguardia italiana, malgrado il loro rappresentante Hulewicz non ne condividesse le idee troppo legate alla sfera materiale a scapito di quella emozionale e spirituale, che così importante era invece per gli espressionisti12. Tuttavia, se negli altri paesi il movimento futurista aveva già raggiunto il suo apice, in Polonia si trovava ancora in una fase embrionale13. Per tale ragione, negli anni Venti, benché in molte opere le derivazioni, gli influssi, i riferimenti agli italiani fossero evidenti, vi era già un forte desiderio d’indipendenza14. Nel Manifest w sprawie poezji futurystycznej [Manifesto sulla poesia futurista] del 3 aprile 1921, Jasieński annunciò che non si aveva alcuna intenzione di imitare gli italiani, il che rispondeva all’impellente necessità di rinnovare l’arte polacca: “Non è nostra intenzione, nel 1921, ripetere ciò che essi realizzarono già nel 1908. […] Ciò che in loro era solo un presentimento, un’affrettata proiezione di nuove prospettive, in noi deve diventare uno sforzo strenuo, consapevole e creativo”15. I futuristi polacchi sicuramente riconoscevano ai colleghi italiani di essere stati i precursori di un rinnovamento culturale senza precedenti, poiché esso aveva interessato tutti gli aspetti della creazione umana (dalla letteratura alle arti figurative, dal teatro al cinema), anche se il loro intento era quello di spingersi oltre e di far sorgere un futurismo a carattere esclusivamente nazionale16. Sicché, attraverso la manifestazione della propria identità e dei propri valori, i futuristi in Polonia apportarono un contributo di valore forse non eccelso, ma assai originale volto a riformare le arti. E ciò a prescindere dal fatto che buona parte della critica dell’epoca non riuscì a coglierne gli elementi di novità e credette di ravvisare nel loro lavoro essenzialmente una diretta riproduzione di opere nate in terra russa. A grandi linee si può affermare che l’avanguardia futurista polacca seguì gli italiani negli intenti innovatori, sebbene talvolta se ne discostasse per le tematiche scelte, mentre nella pratica creativa trasse ispirazione principalmente dalle avanguardie russe (egofuturisti, cubofuturisti e in parte i costruttivisti e i formalisti), dal primitivismo, dai dadaisti francesi e, in misura minore, dagli espressionisti tedeschi. Ciò era riconoscibile in particolar modo nelle diverse tendenze che sull’ortografia fonetica]. 12 P. Strożek, Marinetti is foreign to us. Polish responses to Italian Futurism (1917-1923), in: International Yearbook of Futurism Studies, vol. 1, ed. by G. Berghaus, De Gruyter, Berlin-New York 2011, p. 92. 13 In Italia, nel frattempo, negli anni 1914-1915 si era accentuata la frattura tra i futuristi fiorentini, che si raccoglievano attorno alla rivista «Lacerba», e il futurismo ufficiale, mentre in Russia la distanza tra “marinettismo” e cubofuturisti si era acuita con l’arrivo di Marinetti a Mosca il 26 gennaio 1914. A partire da questo evento, in seno al movimento d’avanguardia russo si innescarono processi di disgregazione che avrebbero portato alle successive fasi della sperimentazione artistica novecentesca (cfr. S. Vitale, Introduzione, in: Per conoscere l’Avanguardia russa, a cura di S. Vitale, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1979, p. XXVIII). Sulla rottura interna tra egofuturisti e cubofuturisti cfr. V. Markov, Storia del futurismo russo, Einaudi, Torino 1973, p. 200. 14 M. Gurgul, La divulgazione del futurismo italiano sulla stampa polacca dell’epoca, in: Gli altri futurismi, cit., p. 88. 15 B. Jasieński, Manifesto sulla poesia futurista, trad. it. Lidia Mafrica, cfr. in questo numero, pp. 115. 16 Cfr. F. Miele, Boccioni e il futurismo in Russia, in: Boccioni. Cento anni, a cura di L. Tallarico, Giovanni Volpe Editore, Roma 1982, p. 248. 63 Andrea F. De Carlo caratterizzavano i due centri culturali di riferimento: Cracovia e Varsavia. Il gruppo di Cracovia, che fra i suoi esponenti annoverò artisti del calibro di Jasieński, Tytus Czyżewski e Stanisław Młodożeniec, manifestava un orientamento di matrice costruttivistica17 e formista. A Varsavia, invece, Stern e Wat intrapresero una ricerca che nelle sue sperimentazioni ricordava quelle teorizzate dal dadaismo18. 2. 64 Il futurismo polacco produsse opere i cui titoli sovente destavano un certo sconcerto nell’opinione pubblica, quali per esempio But w butonierce [La scarpa all’occhiello19, 1921], nonché numeri unici di riviste, dette in polacco jednodniówki20, dai nomi e contenuti provocatori come il già summenzionato Nuż w bżuhu oppure Pieśń o głodźe [Canto della fame21,1922] di Jasieński22. A scandalizzare fu in primo luogo la valenza dissacratoria dell’ortografia adottata dai futuristi. Essi fecero ricorso invero alla scrittura pseudofonetica in base al precetto generale formulato da Marinetti secondo cui l’ortografia doveva essere “libera espressiva”. Le regole dell’ortografia fonetica in terra polacca furono formulate in Manifest w sprawie ortografii fonetycznej [Manifesto sull’ortografia fonetica], in cui si proponeva l’uso di un alfabeto semplificato, sintetico e limitato solo a indicare la pronuncia delle parole. A titolo di esempio si pensi ai caratteri ó, rz e ch che furono uniformati da Jasieński rispettivamente a u, ż e h oppure alla palatalizzazione che veniva sempre indicata con l’ausilio dei segni diacritici, per esempio: ćeń in luogo di cień (ombra), śito anziché sito (crivello)23. L’almanacco letterario Nuż w bżuhu, nato dalla collaborazione di Jasieński e Stern, pubblicato il 13 novembre del 1921 a Cracovia e poco tempo dopo fatto circolare anche a Varsavia, suscitò particolare biasimo e un certo scompiglio nella critica e nell’opinione pubblica, tanto da spingere le autorità a bandirne la vendita e finanche la stampa24. In esso a destare scandalo non fu solo l’ortografia fonetica adoperata, ma soprattutto l’humour nero della poesia Mięso kobiet [La carne delle donne] di Jasieński: Pożerajcie kobiety z octem i na suho! Pszestańće z ńimi robić swoje nudne świństwa! 17 In Polonia intenti costruttivistici, cubisti e suprematisti erano presenti nel gruppo artistico d’avanguardia Blok, fondato a Varsavia e attivo negli anni 1923-1926. 18 J. Żurawska, Il futurismo italiano in Polonia negli anni Venti, in «Strumenti Critici», 1, 1986, p. 137. 19 Il testo, sempre di Jasieński, è stato parzialmente tradotto in italiano da Luigi Marinelli e pubblicato su «Inventario», nn. 5-6, 1982, pp. 40-54. 20 La critica affermò che queste pubblicazioni potevano essere indicate anche con il nome di almanacco: oltre ai componimenti poetici, infatti riportavano una pagina con notizie sulle nuove tendenze o le ultime pubblicazioni in campo letterario (cfr. A. K. Waśkiewicz, op. cit., pp. 38-39). 21 Il Canto della fame di Jasieński nella traduzione italiana di Simone Guagnelli è consultabile su «eSamizdat» I, 2003, pp. 127-136 <http://www.esamizdat.it/guagnelli_trad_eS_2003_(I).pdf>. 22 K. Jaworski, Stefan Żeromski i futuryści, in: Żeromski. Piękno i wolność, idea i układ J. Ławski, red. A. Janicka, I. E. Rusek, G. Czerwiński, Wyd. Prymat, Białystok-Rapperswil 2014-2015, p. 123. 23 A. K. Waśkiewicz, op. cit., p. 51. 24 K. Jaworski, op. cit., p. 124. Il futurismo polacco nella critica letteraria dell’epoca Kohankowie, noszący swe kohanki w bżuhu, nadhodźi wasza era nowe maćeżyństwo25. A causa di questi versi, a Lublino, su «Gazeta Wieczorna» i futuristi si guadagnarono l’appellativo di fanatici antropofagi e apostoli della perversione e della pornografia. Secondo lo stesso articolo, si erano aperti nuovi percorsi di “stupidità umana” che esortavano la gente a danzare in folli baccanali. Cui bono? – si chiedeva l’autore dell’articolo –, a chi serve una tale frenesia demolitrice che invitava le folle a un’orgia di nihilismo e incoraggiava a impiccare i filosofi, a dare fuoco alle biblioteche e a banchettare sulle loro ceneri e rovine?26 Karol Irzykowski accolse la poesia Mięso kobiet con sprezzante sarcasmo. Una poesia – scrisse il critico – che invita a degustare le donne “con aceto e cipolle”27: le bionde si devono infarcire, le brune vanno aromatizzate “alla cacciatora”, ecc. Il signor Jasieński ha nella sua biblioteca futuristica una bella collezione di menu della Polinesia […]. Al tempo stesso sta per uscire a Poznań il romanzo del sig. Bojanowski dal titolo Pasztet z dziewczęcego serca [Paté di cuore di fanciulla]28. Certamente […] si deve supporre che le marinate del sig. Jasieński saranno preparate con altre donne rispetto ai paté del sig. Bojanowski […]. Coraggio! Avanti così, signori! E soprattutto: buon appetito! 29 È verosimile che in Mięso kobiet Jasieński si sia ispirato al Manifesto della lussuria (1913) della prima femme futuriste Valentine de Saint-Point o agli interventi di Italo Tavolato su «Lacerba», fra gli altri il celebre Elogio della prostituzione (1913). È possibile anche che abbia preso spunto dalla pubblicazione del Come si seducono le donne (1917) di Marinetti. In questi scritti, la donna, ridotta a un mero oggetto procreativo, risulta tanto più pericolosa quanto più capace di infiacchire con inutili sentimentalismi la forza virile dell’uomo30. Per i futuristi italiani la lussuria, in quanto espressione dell’energia vitale, deve restare scevra di ogni legame sentimentale e contribuire soltanto all’incremento demografico31. Va detto altresì che in Polonia in queste idee si possono certamente cogliere rimandi alla propaganda di pansessualismo e immoralismo dell’epoca precedente la prima avanguardia, riconducibili soprattutto alle teorie avanzate da Stanisław Przybyszewski, ma anche alla lingua triviale e alle immagini demistificatorie introdotte nella poesia polacca da Julian Tuwim con il poema Wiosna. Dytyramb [Primavera. Ditirambo, 1918], dove la tradizionale rappresentazione sublimata e idealizzata dell’amore viene sostituita dal desiderio sessuale nella forma più primitiva e biologica. A fronte delle stravaganti proposte avanzate dai novatori polacchi si levarono nei confronti 25 “Divorate le donne con aceto e a secco! / Smettete di far con loro noiose sconcezze! / Innamorati, che avete le vostre amanti in grembo, / giunge la vostra era nuova maternità” [Qui e successivamente, le traduzioni dal polacco, dove non diversamente indicato, sono mie – ADC]. 26 Cfr. «Gazeta Wieczorna», 6151, 29 novembre 1921, p. 3. 27 K. Irzykowski, Kultura murzyńska w Polsce, in «Ilustrowany Kurier Codzienny», 37, 6 febbraio 1922, p. 3. 28 Si tratta dello scrittore Gustaw Bojanowski (1901-1957). In Polonia a partire dagli anni Cinquanta le sue opere furono soggette a censura. 29 K. Irzykowski, op. cit., p. 3. 30 Cfr. E. Ranocchi, Žena a stroj. Představy modernity a sexuální utopie v evropské avantgardě dvacátých let. Vybrané příklady, in «Acta Universitatis Carolinae. Philologica», 3, 2014 slavica pragensia, vol. XLII, 2015, pp. 223-231; Idem, La donna e la macchina nelle avanguardie europee degli anni Venti, in «Agalma», vol. 30, 2015, pp. 47-53. 31 M. C. Papini, L’esperienza dell’“Italia futurista”, in: Futurismo, Libreria Tullio Pironti, Napoli 1976, p. 22. 65 Andrea F. De Carlo 66 del nascente futurismo diverse voci critiche. Molti intellettuali considerarono queste nuove tendenze come forme d’arte effimere32, “morboso delirio”33, “epigonismo modernista”34, arte rivoluzionaria, proletaria e bolscevica35. In generale, le critiche rivolte al futurismo polacco si concentravano attorno a tre aspetti essenziali: la mancanza di originalità e la passiva imitazione di modelli stranieri; il ripudio del passato e della tradizione nazionali; il futurismo come espressione di ideologie quali il fascismo in Italia e il bolscevismo in Russia. Il futurismo non fu risparmiato dagli attacchi di natura politica nemmeno in Polonia, come lo fu in altri paesi quali l’Italia e la Russia. Si pensi, per esempio, al presidente della società “Rozwój”, Tadeusz Dymowski, appartenente al movimento politico Democrazia Nazionale, che – a quanto pare – strappava personalmente dai muri della capitale i manifesti dei futuristi non solo per evitare che le loro sperimentazioni ortografiche pervertissero la lingua polacca, ma soprattutto per scongiurare la diffusione del morbo bolscevico in patria36. Anche lo scrittore e giornalista Maciej Wierzbiński, nel suo articolo dal titolo Głupota i zbrodnia [Stupidità e crimine], pubblicato il 13 dicembre 1921 su «Rzeczpospolita», a proposito dei manifesti futuristi affissi sui muri di Varsavia, scrisse che erano frutto di tendenze bolsceviche. In effetti, alcuni critici polacchi erano convinti che l’opera deliberatamente demolitrice dell’avanguardia futurista servisse a porre in Polonia le basi per una rivoluzione proletaria. Questo pregiudizio della critica ebbe effetti anche sulle diverse motivazioni che vennero addotte dalle autorità al fine di giustificare la censura della produzione letteraria e delle attività dei futuristi. Se le prime condanne e confische venivano imputate soprattutto all’amoralità dei testi, si pensi al summenzionato Mięso kobiet di Jasieński oppure Płodzeńe [Procreazione] di Wat, quelle successive, come nel caso dell’arresto di Stern, erano da ascrivere piuttosto a ragioni di carattere ideologico e politico. Stern, infatti, fu arrestato l’11 dicembre 1920 con l’accusa di “blasfemia”, per aver letto il suo componimento poetico Uśmiech primavery [Il sorriso della primavera] nelle serate letterarie di Vilnius del 15 e 16 novembre37. Più tardi, anche in Italia la critica scorse un rapporto congeniale tra futurismo e comunismo rivoluzionario. Lo scrittore Giuseppe Prezzolini, in un articolo intitolato Fascismo e futurismo, pubblicato il 3 luglio del 1923 su «Il Secolo», avanzava l’ipotesi che tra bolscevismo e futurismo molto probabilmente vi fosse una comunanza d’intenti più intensa di quanta ve ne fosse con il fascismo, dal momento che la nuova corrente artistico-letteraria aveva attecchito in maniera così naturale in Russia38. Nella patria del futurismo come anche all’estero la maggior parte della critica si concentrò principalmente ad analizzare il legame esistente tra il movimento di Marinetti e 32 K. Chłędowski, Futuryzm – zjawiskiem przemijającym!, in «Gazeta Wieczorna», 4276, 1918, p. 4. A. Schröder, Chorobliwe majaczenie, a nie życiodajny prąd, in «Gazeta Wieczorna», 4276, 1918, pp. 7-8. 34 K. Błeszyński, Nowość czy ciąg dalszy?, in «Skamander», 5-6, 1921, pp. 176-179. 35 I. Jokielowa, Jak jest zbudowany Snobizm i postęp Stefana Żeromskiego, in «Prace Naukowe Wyższej Szkoły Pedagogicznej w Częstochowie», fasc. IV, 1994, p. 85. 36 Krzystof Jaworski, op. cit., p. 130. 37 In sua difesa si levarono, fra le altre, le voci di Stefan Żeromski, Leopold Staff, Wacław Berent, Juliusz Kaden-Bandrowski e i poeti scamandriti (cfr. «Skamander», vol. 1, fasc. 1-3, 1920, p. 60). 38 Come giustamente osserva C.G. De Michelis nella sua introduzione Futuristi & footballisti, in: Idem, L’avanguardia trasversale. Il futurismo tra Italia e Russia, Marsilio Editori, Venezia 2009, pp. 35-39, la situazione in Russia era invero molto più complessa e non mancarono all’epoca discussioni e prese di posizione alquanto discordanti fra loro. 33 Il futurismo polacco nella critica letteraria dell’epoca quello mussoliniano, riconoscendone certe convergenze e affinità39. Sicuramente, fermi restando alcuni punti di contatto fra la prima avanguardia e l’ideologia littoria, il futurismo ebbe il suo periodo d’oro prima del fascismo e in seguito, privato della sua carica sovvertitrice e libertaria, fu strumentalizzato da Mussolini. Eppure, per la critica, il futurismo continuò a rappresentare la fonte dell’ideologia fascista40. Benedetto Croce su «La Stampa» (15 maggio 1924) affermò: “Per chi abbia senso delle connessioni storiche, l’origine ideale del fascismo si ritrova nel futurismo”. Anche Prezzolini nell’articolo summenzionato non poté esimersi dal riconoscere rapporti di interdipendenza e corresponsabilità fra i due movimenti: Evidentemente nel Fascismo c’è stato del Futurismo e lo dico senza alcuna intenzione. […] Il culto della velocità, l’amore per le soluzioni violente, il disprezzo per le masse e nello stesso tempo l’appello fascinatore alle medesime, la tendenza al dominio ipnotico delle folle, l’esaltazione di un sentimento nazionale esclusivista, l’antipatia per la burocrazia, sono tutte tendenze sentimentali passate senza tara nel fascismo dal futurismo. Lo scrittore, tuttavia, già nello stesso articolo intravide una naturale scissione tra il movimento di Marinetti e quello di Mussolini che era da attribuire alle susseguenti fasi di sviluppo del partito fascista: “Se il fascismo vuol segnare una traccia in Italia deve espellere ormai tutto ciò che vi rimane di futurista, ossia di indisciplinato e anticlassico”. Negli anni Sessanta Eugenio Montale, in occasione della seconda ristampa del romanzo Le serate futuriste del napoletano Francesco Cangiullo, risalente agli anni Venti, ma dato alle stampe negli anni Trenta, asserì: “Leggendo questo libro ci si rende conto che se un filo unisce il futurismo al primo fascismo, la connessione non deve essere esagerata. Gli ismi artistici non sono responsabili delle grandi crisi sociali: ne sono, semmai, un effetto stranamente anticipato”41. Al dibattito sui legami tra l’avanguardia futurista e il fascismo anche in Polonia fu dedicata una serie di articoli42. Per esempio, lo storico della letteratura polacca Stefan Kawyn, nell’ascoltare l’intervento sui rapporti tra i due movimenti italiani tenuto dal poeta Marian Piechal a Leopoli, riferì che la sensazione era quella che i due concetti non avessero niente in comune, a parte la 39 A supporto di ciò resta la lettera autografa di Mussolini indirizzata a Paolo Buzzi, direttore de «Il Popolo d’Italia», in cui il futuro Duce menziona il suo incontro con Umberto Boccioni e manifesta piena simpatia per i futuristi, che definisce “novatori e demolitori” (L. Caruso, S. M. Martini, La rivoluzione futurista, in: Futurismo, cit., p. 8). Questa lettera venne riprodotta in facsimile per la prima volta su «Il Nuovo Milanese», 4, 15 e 21 ottobre 1976. In seguito il testo mussoliniano fu ristampato, senza citare la fonte, nel volume Futurismo e Fascismo a cura di A. Schiavo (Giovanni Volpe, Roma 1981), e presentato erroneamente come inedito. La lettera non riporta alcuna data, ma un’annotazione autografa di Buzzi apposta sul margine sinistro la fa risalire a “Prima della guerra, quando si staccò dal socialismo ufficiale e fondò il Giornale nuovo” (C. Belloli, Boccioni e gli inediti (opere, epistolario, iconografia), in: Boccioni, cit., pp. 219-220). 40 Sull’argomento cfr. anche G. Berghaus, Futurism and Politics: Between Anarchist Rebellion and Fascist Reaction, 1909-1944, Berghahn Books, Providence – Rhode Island – Oxford 1996; J. W. Borejsza, Il fascismo e l’Europa orientale. Dalla propaganda all’aggressione, Laterza, Bari 1981. 41 E. Montale, Buzzi, Cangiullo, Onofri, in «Corriere della sera», 11 aprile1961, p. 3; altresì in: Idem, Sulla poesia, a cura di G. Zampa, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1976, pp. 317-318. 42 J. Kurek, Futuryzm a faszyzm, in «Głos Narodu», 143, 1924, pp. 4-5; 145, pp. 3-4; 146, pp. 4-5; in seguito pubblicato con il titolo Futuryzm i faszyzm (Impresja historyczna), in «Przegląd Współczesny», 100-101, 1930, pp. 298-337. Jalu Kurek, uno dei più attivi divulgatori del futurismo italiano in Polonia, nel recensire la raccolta di manifesti di Marinetti, Futurismo e fascismo (Campitelli, Foligno 1924), menziona il rapporto di stima e amicizia che legava il padre del futurismo italiano a Mussolini. Inoltre, egli scrive che è lo stesso Marinetti a chiarire nella sua introduzione i rapporti fra i due movimenti. In particolare, l’autore italiano considerava il fascismo come il risultato del futurismo e dell’interventismo. 67 Andrea F. De Carlo terra d’origine. Kawyn, comunque, avvalorò la tesi espressa dal conferenziere secondo la quale il vate del fascismo in campo letterario era Marinetti, l’autore del famoso manifesto in cui invitava a bruciare i teatri, i musei e le biblioteche, a ritenere le macchine superiori all’uomo ed esortava a sputare sulla tradizione43. Ed è proprio questa sconfessione della tradizione che creò una separazione ideologica fra il fascismo e il futurismo e che in seguito spinse Marinetti a rifiutare la restaurazione retorica e culturale che il fascismo avrebbe operato in Italia. In Polonia, come fu documentato in diversi numeri di riviste e quotidiani, nonché in raccolte di manifesti e saggi di autorevoli critici, la rottura con la tradizione proposta dal futurismo italiano, approdata in Polonia tra confuse citazioni e traduzioni approssimative44, stimolò una querelle particolarmente vivace, cui presero parte intellettuali del calibro di Stefan Żeromski e di Karol Irzykowski. 3. 68 Sia Żeromski sia Irzykowski ritenevano che la passiva riproduzione di modelli stranieri, la mancanza di indipendenza e originalità di pensiero nell’arte conducessero ineluttabilmente alla mistificazione artistica. Entrambi consideravano la nuova sensibilità futurista come il frutto di un’automatica e insensata imitazione delle correnti letterarie europee, basata sulla negazione del passato nazionale e sulla riproduzione di concetti nati su un terreno culturalmente estraneo a quello polacco45. Nel suo saggio Snobizm i postęp [Snobismo e progresso], scritto molto probabilmente tra la fine di maggio e l’inizio di novembre 1922, e mandato in stampa nel dicembre del 192346, Żeromski osservava: Le più recenti correnti artistiche in Italia, […] in Francia, in Russia hanno assorbito la vita politica di quei paesi, e l’insieme degli sconvolgimenti e delle vicissitudini ha conferito alle opere dei futuristi […] in ogni luogo un colorito diverso, particolare, originale. Queste tendenze sono invero nuove pagine della letteratura italiana, francese e russa. Nel nostro paese sono purtroppo “torsoli” estranei, incolori, inintelligibili, segni concreti di snobismo47. 43 S. Kawyn, Futuryzm i Faszyzm. Odczyt Mariana Piechala w Zawodowym Związku Literatów we Lwowie, in «Gazeta Lwowska», 318, 18 novembre 1933, p. 5. 44 Si veda a tal proposito, J. Żurawska, op. cit. 45 Cfr. I. Jokielowa, op. cit., p. 85. 46 In questo saggio l’autore contrappone l’imitazione snobistica del futurismo polacco alla nobiltà della cultura e della tradizione nazionali. Al concetto di snobismo (termine che si riteneva erroneamente proveniente dall’accorciamento di sine nobilitate (s. nob.), che nei registri di Cambridge veniva apposto accanto al nome di coloro che avevano origine plebea), la riproduzione dogmatica e sterile di correnti letterarie straniere, l’autore contrappone quello di nobilitas, l’autorevole passato culturale della Polonia, senza il quale non si può aspirare a un vero e proprio progresso. La studiosa Irena Jokielowa osserva che Żeromski nel corso dell’argomentazione non si limita soltanto a definire questi due concetti, ma fa uso persino di registri linguistici differenti: adotta quello basso e colloquiale per esporre l’atteggiamento snobistico delle avanguardie, mentre fa uso dello stile solenne per riferirsi alla tradizione letteraria polacca (Ivi, pp. 76-77). A quanto pare, per definire il concetto di snobismo, Żeromski si consultò anche con lo scrittore Józef Wittlin. Ciò è attestato, in particolare, da una lettera che l’autore di Sól ziemi [Il sale della terra] aveva inviato a Żeromski in data 17 giugno 1922 (S. Żeromski, Listy 1913-1918, oprac. Z. J. Adamczyk, in: Idem, Pisma zebrane, t. 38, red. Z. Goliński, Czytelnik, Warszawa 2008, p. 319). 47 S. Żeromski, Snobizm i postęp, Wyd. J. Mortkowicza, Towarzystwo Wydawnicze w Warszawie, Warszawa-Kraków 1929, Il futurismo polacco nella critica letteraria dell’epoca Ancora secondo l’autore di Ludzie bezdomni [I senzatetto], i giovani poeti polacchi non potevano attingere più nulla dal futurismo, dal momento che l’opera dei futuristi italiani e in particolare quella dei russi – definita dall’autore in modo spregiativo kacapizm48 – si potevano già considerare soppiantate dall’attività delle nuove avanguardie letterarie49: ciò nonostante, il “natio snobismo” presentava come novità soluzioni del futurismo russo ormai superate. Żeromski nel suo saggio fornì a titolo di esempio Pieśń o głodźe di Jasieński, in cui tutto, dalle trovate formali alle immagini, rimandava ai poeti russi, in particolare all’opera di Majakovskij50. Riguardo a ciò, lo scrittore polacco asseriva: Questa “novità”, che, a quanto pare – “batte già con i calci dei moschetti” contro tutte le finestre e le porte –, è un’innovazione snobistica, una formuletta letteraria trasferita dai libri russi ai libri polacchi assieme a tutto l’apparato di indispensabili accessori puramente stranieri, è dunque una “tendenza” letteraria, ormai letta e riletta, esaurita, abbandonata dallo snobismo russo e superata dalle nuove correnti, immaginismo, misticismo e dal nuovissimo ululato nella notte di Mariengof 51. Proprio sul rapporto tra Pieśń o głodźe di Jasieński e Oblako v štanach [La nuvola in calzoni, 1914-1915] di Majakovskij la critica coeva incappò in valutazioni approssimative e tutta una serie di giudizi negativi che probabilmente erano dettati più da un preconcetto che da un’attenta disamina di ambedue le opere. Jasieński fu tacciato di plagio sia dai critici a lui contemporanei sia da quelli della generazione successiva. Essi arrivarono a considerare Pieśń o głodźe addirittura una semplice parafrasi o una criptotraduzione del poema majakovskiano52. Attraverso un puntuale raffronto dei due testi la critica odierna ha dimostrato che se da una parte è evidente nel testo l’ascendente del poeta russo, dall’altra vi sono differenze sostanziali nei contenuti e negli intenti dei due autori, inevitabili vista anche la distanza temporale che separa i due componimenti53. Żeromski non comprese nemmeno la scelta ortografica fatta da Jasieński, che considerò una semplice riproduzione in terra polacca della nuova scrittura adottata nei testi russi in seguito alla riforma ortografica del 1918. L’autore di Ludzie bezdomni infatti si chiedeva: “Come mai il talentuoso poeta Bruno Jasieński pubblica i suoi libri nel nostro paese in modo diverso rispetto agli altri, con una scrittura sconosciuta a tutti, inventata dalla sua testa? La spiegazione è soltanto una: imitare un modello preordinato”54. Analogamente Irzykowski in un articolo intitolato Plagiatowy charakter przełomów literackich w Polsce55 [Il carattere plagiario delle innovazioni letterarie in Polonia], apparso su pp. 72-73 [la nuova edizione è Idem, Snobizm i postęp oraz inne utwory publicystyczne, wstęp i opracowanie A. Lubaszewska, Universitas, Kraków 2003]. 48 Da kacap, termine dall’etimologia incerta con cui si indicavano spregiativamente i russi. 49 S. Żeromski, Snobizm i postęp, cit., p. 43. 50 Ivi, p. 44. 51 Ibidem. 52 Cfr. E. Balcerzan, Styl i poetyka twórczości dwujęzycznej Brunona Jasieńskiego. Z zagadnień poetyki i przekładu, Ossolineum, Wrocław 1968. 53 Una breve analisi è fornita da S. Guagnelli nel testo introduttivo alla sua traduzione Canto della fame di Jasieński su «eSamizdat», cit., p. 128. 54 S. Żeromski, Snobizm i postęp, cit., pp. 44-45. 55 Lo stesso articolo uscì contemporaneamente su «Robotnik», 29, 1922, e «Naprzód», 26, 1 febbraio 1922. In seguito verrà incluso nella raccolta di saggi Słoń wśród porcelany. Studia nad nowszą myślą literacką w Polsce, Rój, Warszawa 1934, pp. 27-59. 69 Andrea F. De Carlo «Kurier Lwowski» (n. 25, 29 gennaio 1922, pp. 3-4), accusava il futurismo polacco di riproporre in patria in modo identico tutto ciò che era stato già detto e fatto negli altri paesi56: Quello che da noi oggi è apparso da ogni parte al pari dei coleotteri in primavera si avvertiva già da lontano come un plagio. Queste opere sono arrivate in modo alquanto inatteso, senza una motivazione né un bisogno di sviluppo, anzi presentavano subito un grado tale di raffinatezza che non si può raggiungere senza interminabili tentativi né ricerche. […] Le persone che non aderissero spontaneamente al dadaismo né al futurismo, non avrebbero diritto a imitare, ma piuttosto dovrebbero essere soltanto traduttori e fedeli mediatori di novità straniere57. 70 A questo proposito, la studiosa Nina Kolesnikoff, nel suo saggio dedicato a Jasieński, afferma che le accuse di non originalità mosse ai futuristi erano in gran parte giustificate, dal momento che non è ravvisabile alcuna novità di particolare rilievo nella produzione letteraria del primo movimento avanguardista polacco. Tuttavia, la stessa Kolesnikoff ammette che all’interno dell’eredità futurista è possibile scorgere una serie di proposte interessanti che successivamente furono riprese e sviluppate dall’avanguardia di Cracovia che si raccoglieva attorno alla rivista «Zwrotnica»58. A differenza di Irzykowski, Żeromski riconobbe il talento poetico dei poeti futuristi, sebbene non li reputasse in grado di rinnovare le arti. Infatti, lo scrittore era convinto che lo sviluppo della letteratura nella Polonia indipendente sarebbe stato possibile soltanto mantenendo la continuità culturale con il passato, da cui sarebbe scaturita l’unica forza capace di generare veri valori progressisti. L’autodeterminazione dello Stato polacco non si sarebbe ottenuta soltanto con la ricostituzione dei confini, ma anche attraverso lo sviluppo di una letteratura nazionale autonoma. Quest’ultima, tenendo conto delle fonti della tradizione, avrebbe dovuto mantenere saldo il naturale legame con il passato e al tempo stesso, senza perdere il suo carattere nazionale, intrecciare suggestioni universali e sovratemporali nella trama di motivi squisitamente polacchi59. Su questo aspetto non si può convenire con lo scrittore, poiché se da una parte i protagonisti del movimento futurista polacco seguirono teoricamente le sperimentazioni formali della prima avanguardia europea, dall’altra, in essi prevalse la programmatica contaminazione di valori tradizionali come la riscoperta del mondo della religiosità rurale e del folclore. Il testo poetico divenne così una commistione di istanze propagandistiche, rivoluzionarie, impeti sentimentali e misticheggianti, toni catastrofistici e timori irrazionalistici. Żeromski, nel suo Snobizm i postęp, condusse una lunga argomentazione in cui immaginava un rinnovamento della letteratura polacca secondo il principio formulato dal poeta romantico Kazimierz Brodziński: “myślmy bogato i po swojemu” [pensiamo in grande e a modo nostro]60. L’autore di Ludzie bezdomni considerava la libertà creativa come condizione indispensabile per 56 In risposta alla polemica intavolata da Irzykowski apparvero sulla stampa dell’epoca i seguenti articoli: A. Stern, Emeryt merytoryzmu. Z powodu ostatniego artykułu Irzykowskiego p.t. ‘Plagiatowy charakter przełomów literackich w Polsce’, czyli jeszcze o wiatrologii, in «Skamander», 17, 1922, pp. 106-111; B. Jasieński, Kieszeń od kamizelski źródłem plagiatu. Rewelacyjne odkrycia p. Irzykowskiego, in «Ilustrowany Kurier Codzienny», 37, 6 febbraio 1922, p. 2; a cui segue una lunga e sarcastica risposta dello stesso Irzykowski, Kultura murzyńska w Polsce, cit., pp. 2-3. 57 Ivi, p. 3. 58 N. Kolesnikoff, Bruno Jasieński. His evolution from Futurism to Socialist Realism, Wilfrid Laurier University Press, Waterloo (Ontario, Canada) 1982, p. 22. 59 I. Jokielowa, op. cit., p. 87. 60 Ivi, p. 88. Il futurismo polacco nella critica letteraria dell’epoca produrre un’arte indipendente, individuale e soprattutto nazionale, che esprimesse il carattere polacco attraverso un rapporto organico con la ricchezza culturale e linguistica del paese61. Soltanto la letteratura che nasceva all’interno dei confini nazionali poteva aspirare a consolidare il sentimento patriottico del popolo, affrancandolo da quei modelli culturali stranieri che per due secoli gli sarebbero stati imposti. Anche su questo punto Żeromski non riuscì a comprendere che in realtà da parte dei futuristi del suo paese vi era una presa di distanza su molte delle tematiche proposte dagli italiani e dai russi, al fine di introdurne di nuove e originali62. I futuristi polacchi, per esempio, rifiutarono il bellicismo marinettiano, preferendo di solito attestarsi su posizioni, sia ideologiche che creative, inconciliabili con la guerra. Un altro tema caro ai futuristi italiani era la macchina, che per i polacchi non era più oggetto di celebrazione, emblema del progresso tecnologico e della moderna civiltà, ma un mero prodotto della “sovrastruttura” umana. Inoltre, per i primi avanguardisti polacchi, il mondo tecnologico avrebbe dato vita a una nuova forma poetica, che al tempo stesso avrebbe affondato le sue radici nella tradizione umanistica e romantica63. È significativo il fatto che lo stesso Jasieński, all’atto pratico, si misurò nelle sue sperimentazioni poetiche con la metrica di Adam Mickiewicz64. Si pensi poi anche a Stern che, riprendendo lo spirito dell’umanesimo rinascimentale, considerò la macchina e la tecnologia soltanto come tramite per esaltare le virtù umane. L’uomo indomito e invincibile dei futuristi italiani acquisì dunque in Polonia una sfumatura spirituale, in base alla quale l’individuo attraverso il suo atto creativo avrebbe trasformato la materia e fortificato se stesso. Si era distanti dallo slancio demolitore del futurismo italiano e si era più vicini a una dimensione in cui il futurismo avrebbe creato un dialogo sotterraneo con il passato65. Il proposito di creare una letteratura nazionale indipendente era stato già espresso da Żeromski anni prima in una conferenza dal titolo Literatura a życie polskie66 [La letteratura e la vita polacca], tenuta a Zakopane il 28 agosto 1915. L’autore esprimeva la convinzione che le funzioni della letteratura cambiassero in base ai processi e alle esigenze sociopolitiche di un paese, dunque che un ruolo consolatorio e divulgatore di idee positive fosse possibile soltanto in un’entità statale autonoma. In Polonia, a partire dalle Spartizioni, la tradizione letteraria si era concentrata essenzialmente sulla questione nazionale e sulle problematiche dello spirito polacco. Ciò avrebbe favorito un certo isolamento dal contesto europeo. D’altro canto, – continua Żeromski – solo in uno Stato libero sarebbe stato possibile svincolare la letteratura dalla zavorra dei problemi sociali e da un eccesso di sentimento patriottico, al fine di aprirsi anche alle novità degli altri paesi. Ciò non significava tuttavia che la letteratura avrebbe smesso di occuparsi di problematiche sociopolitiche. Al contrario, nella sua conferenza lo scrittore polemizzò con un articolo di Papini apparso su 61 Cfr. Ivi, pp. 86-87. Jasieński fece riferimento proprio a queste tematiche nel momento in cui annunciò la fine in Polonia dell’avventura futurista (cfr. Futuryzm polski. Bilans, in «Zwrotnica», 6, 1923, pp. 177-184). 63 J. Żurawska, op. cit., p. 146. 64 Cfr. M. Gurgul, op. cit., p. 89. 65 Cfr. J. Żurawska, op. cit., pp. 147-148. 66 Faceva parte di una serie di conferenze dal titolo Zadania i potrzeby gospodarcze, organizzate dal prof. Franciszek Bujak. L’anno seguente l’intervento di Żeromski fu edito nel libro S. Żeromski, Sen o szpadzie i sen o chlebie (Zakopane 1916, pp. 48-75); cfr. M. Popiel, Żeromski a Witkiewiczowie. O estetyce w powiewach wiatru halnego, in: Żeromski. Tradycja i eksperyment, idea i układ J. Ławski, red. A. Janicka, A. Kowalczykowa, G. Kowalski, Wyd. Alter Studio, Białystok-Rapperswil 2013, p. 238. 62 71 Andrea F. De Carlo 72 «Lacerba» che propugnava il disimpegno politico degli scrittori67; Żeromski invece sottolineava il ruolo importante della responsabilità sociale e politica che la letteratura rivestiva, menzionando proprio alcuni insigni rappresentanti della letteratura italiana impegnati per la causa del loro paese: “Alfieri, Leopardi, Foscolo, Carducci – forse gli unici compagni dei nostri grandi romantici sulle spinose vie della creazione […]”; e ancora: “[…] gli scrittori […] Leopardi, Carducci […] Pascoli ci sono vicini, consanguinei, quasi nostri compatrioti”68. Il disimpegno politico era dunque assolutamente incomprensibile per uno scrittore come Żeromski, poiché egli aveva fondato tutta la sua arte a sostegno della causa sociale, dando voce agli umiliati, i più poveri e gli sfruttati della società dell’epoca, e della questione nazionale, che era espressa dal poeta attraverso la nostalgia della libertà e l’afflizione per le sorti del popolo polacco69. Secondo l’autore, qualsiasi tentativo di liberare l’arte dal suo impegno sociopolitico, non avrebbe favorito una nuova letteratura nazionale. Nella sua conferenza ribadì che diverse volte in passato l’arte polacca aveva tentato di affrancarsi dalle responsabilità sociali, derivate dalla condizione di schiavitù nazionale, con l’obiettivo di mettersi alla pari con l’arte europea e diventare pura creazione, arte per l’arte70. Ma dopo aver ricordato i tentativi fatti da Przybyszewski («Życie»), Zenon Przesmycki («Chimera») e Stanisław Witkiewicz («Wędrowiec») per emancipare l’arte dalle sue implicazioni sociali e politiche, egli constatò che questi esperimenti non erano serviti a far nascere una produzione polacca indipendente e duratura. Nel caso del futurismo, Żeromski non riuscì a comprendere che si trattava di una sorta di paradosso di letterarietà e non letterarietà, di un’arte che aspirava non tanto a essere autotelica, quanto a diventare costume, vita. Dunque non era solo una questione formale, ma anche etica e soprattutto politica. Alle soglie della Grande Guerra la stessa rivista «Lacerba» avrebbe assunto un taglio più politico che letterario con una chiara presa di posizione antigiolittiana. In Polonia, invece si assistette a una crescente radicalizzazione politica degli autori, le serate di Jasieński erano organizzate in collaborazione con il Partito Comunista Polacco (KPP) e avevano assunto una posizione sempre più conflittuale nei confronti del governo di Wincenty Witos. Sul recto di Nuż w bżuhu fu pubblicata una lettera aperta indirizzata all’allora ministro degli Interni in cui si protestava contro gli interventi delle forze dell’ordine alle serate futuriste e contro le ingerenze da parte delle autorità per la pubblicazione dei manifesti. Sul verso, invece, furono pubblicati attacchi rivolti ai teatri di Varsavia, soprattutto all’espressionista Zbigniew Pronaszko, considerato un adulatore del governo, e ai critici dai “cervelli tabici”. Molti dei testi pubblicati aspiravano a una rivoluzione sociale dal carattere anarchico come Rewolucja ćała [La rivoluzione del corpo] di Stern oppure esprimevano simpatie comuniste come lo Psalm powojenny [Salmo postbellico] di Jasieński. Quest’ultimo, su esempio del futurismo italiano, aveva manifestato l’intenzione di unire il movimento artistico 67 Si tratta di un articolo scritto in seguito alle elezioni alla Camera dei deputati italiana, in cui Papini manifestava il suo disinteresse alle questioni politiche e sociali, in quanto questo era compito dei ministeri preposti a tali funzioni (G. Papini, Freghiamoci della politica, «Lacerba», 19, 1 ottobre 1913, pp. 212-214; 216). 68 S. Żeromski, Literatura a życie polskie, cit., pp. 51 e 55; la traduzione è di B. Biliński, Ispirazioni italiane di Stefan Żeromski, in: J.Z. Jakubowski, B. Biliński, A. Zieliński, Stefan Żeromski nel centenario della nascita (1864-1925), Zakład Narodowy im. Ossolińskich, Wyd. PAN, Wrocław-Warszawa-Kraków, p. 47; cfr. anche G. Tomassucci, Cinguettii e sferragliare satanico. Julian Tuwim e la poesia italiana fra Otto e Novecento, in: Avanguardie e tradizioni nel XX e XXI secolo fra Polonia, Italia e Europa. Atti del Convegno dei Polonisti italiani 22-23 aprile 2010, a cura di M. Ciccarini, L. Kuk, L. Marinelli, Accademia Polacca delle Scienze, Biblioteca e Centro di Studi di Roma, Roma 2013, p. 126. 69 E. Lo Gatto, Stefano Żeromski. Studio critico, Anonima Romana Editoriale, Roma 1926, p. 7. 70 Cfr. Ivi, p. 9. Il futurismo polacco nella critica letteraria dell’epoca con quello sociale. A ciò contribuì la collaborazione dei futuristi con la rivista di orientamento comunista «Nowa Sztuka»71. Il giudizio di Żeromski sull’attività “sediziosa” dei futuristi italiani rimase tuttavia sempre negativo. Egli ne aveva incontrati vari personalmente a Firenze, come attestato da una lettera inviata alla moglie nel mese di dicembre del 191372, e fu sempre critico nei confronti di «Lacerba», che considerava piena di “stramberie, istrionismi e pagliacciate”73 , e nel suo carteggio definiva persino “decadente”, o meglio “particolarmente ottusa” al pari della vecchia rivista di Cracovia «Życie», organo della Giovane Polonia74. Questa posizione così dura nei confronti di «Lacerba» molto probabilmente scaturiva anche da circostanze assai più banali, ossia dal fatto che la proposta di pubblicare sulle pagine della rivista italiana il suo dramma antimimetico Róża [Rosa, 1909], ispirato ai fatti della rivoluzione del 1905, era stata disattesa75. 4. Un’eco letteraria dell’atteggiamento critico e dei toni sarcastici nei confronti delle invenzioni e stranezze del futurismo italiano, elaborati nella pubblicistica dell’autore, sono ravvisabili altresì nel romanzo di Żeromski Nawracanie Judasza [La conversione di Giuda, 1912]76: il protagonista, Ryszard Nienaski, racconta che a Firenze si era recato a pranzo nel famoso caffè “Giubbe Rosse”, dove erano soliti incontrarsi i futuristi; qui, in un clamore assordante, essi millantavano innovazioni e scrivevano sul posto articoli destinati alla loro rivista «Lacerba»77. Sulla base di questo riferimento letterario, lo studioso Krzysztof Jaworski, in un suo recente articolo intitolato Stefan Żeromski i futuryści78 [Stefan Żeromski e i futuristi], congettura che lo scrittore polacco abbia visitato personalmente il celebre “Giubbe Rosse” in Piazza della Repubblica a Firenze (all’epoca Piazza Vittorio Emanuele II), verosimilmente indotto a questo passo dallo scrittore e giornalista Fernando Agnoletti (1875-1933), che in quel periodo era intento a revisionare la traduzione italiana di Wierna rzeka (Fiume fedele 1912) curata da Janina Gromska79. È vero anche che lo stesso Żeromski, in Snobizm i postęp, dà testimonianza di quella celebre serata futurista, passata alla storia come “battaglia di Firenze”, che si tenne il 15 dicembre 1913 presso il Teatro Verdi e vide la partecipazione dello stesso Marinetti. Secondo fonti dell’epoca nel 71 A.K. Waśkiewicz, op. cit, p. 48. Żeromski scrive: “Qui ho conosciuto i futuristi italiani: Tavolato, Palazzeschi, Papini”; e aggiunse: “Tutti si lamentano del fatto che non ci siano traduzioni dal polacco a parte il Quo Vadis. Tutti credono anche che in polacco scriva solo Sienkiewicz” (S. Żeromski, Listy 1913-1918, cit., pp. 189-190). 73 Idem, Literatura a życie polskie, cit., p. 48. 74 Idem, Listy 1913-1918, cit., p. 56. 75 Cfr. P. Strożek, “Marinetti is foreign to us”, cit., p. 87. 76 Si tratta del primo volume della trilogia Walka z Szatanem [La lotta con Satana, 1910-1920]. Gli altri romanzi della trilogia sono Zamieć [La tormenta di neve, 1916] e Charitas (1919). 77 S. Żeromski, Nawracanie Judasza, Wyd. J. Mortkowicza, Towarzystwo Wydawnicze w Warszawie, Warszawa-Kraków 1928 p. 136. 78 K. Jaworski, op. cit., pp. 117-130. 79 S. Żeromski, Fiume fedele, trad. di G. Gromska, Fratelli Treves, Milano 1926. Cfr. S. Żeromski, Listy 1913-1918, cit., pp. 184-185; cfr. anche A. Zieliński, Pod urokiem Italii. O Stefanie Żeromskim, PWN, Warszawa 1973, pp. 238-239; K. Jaworski, op. cit., p. 121. 72 73 Andrea F. De Carlo teatro erano stipati dai duemila ai settemila spettatori80. Lo scrittore così descrive nel suo saggio quello che si presentò ai suoi occhi81: Ai tempi del mio soggiorno a Firenze, mi capitò di assistere a una serata futurista al Teatro Verdi, chiamata Grande serata futurista, che ospitava all’incirca cinquemila spettatori. L’enorme teatro era pieno da cima a fondo e tutta quella folla urlava, ululava, imprecava, fischiava e agitava le braccia. Faceva risuonare ovunque sirene di automobili, provocava uno stridio penetrante con delle trombette e bersagliava di patate, cipolle, uova marce e castagne il gruppo dei futuristi che, decisamente osteggiato, provava a leggere qualcosa sul palco. […] Il capo del movimento, F. T. Marinetti, […] dotato di una voce possente, a un certo punto riuscì a sovrastare quella massa di cinquemila antagonisti con un grido allora in voga in Italia: “Evviva Libia!”. Era il grido più importante di questo movimento, il grido dell’anima dei futuristi italiani82. Żeromski quindi ebbe una conoscenza diretta del futurismo italiano e delle reazioni che esso provocava. Egli non se ne lasciò influenzare, ma tracce della sua conoscenza del movimento sono evidenti non solo nella sua pubblicistica, ma anche – come abbiamo già accennato sopra – nelle sue opere83. Alcuni protagonisti di Nawracanie Judasza discutono di futurismo, menzionano persino alcuni personaggi a esso legati: Helena Żwirska, al fine di evadere dalla soffocante e sterile vita di provincia, legge le poesie di Papini e Soffici pubblicate su «Lacerba»; durante il dialogo tra Nienaski e la signorina Xenia Granowska viene ricordato il celebre Elogio alla prostituzione di Tavolato84: 74 – Lo scorso anno abbiamo letto sia Misteri di Hamsun che Annie Vivanti. Quest’anno, da quello che sento, sono attuali un certo Ardengo Soffici e un tale Tavolato. Ma temo di scandalizzarLa. – Non si tratta forse di Inno alla prostituzione?... – chiese Nienaski85. A parte questi brevi cenni letterari, sembra tuttavia che lo scrittore considerasse il futurismo italiano alla stregua di una mera moda letteraria. Dopo la pubblicazione di Snobizm i postęp, non tornò più sull’argomento86, nemmeno quando fu attaccato pubblicamente da Jasieński con due 80 «La Nazione» (13 dicembre 1913) riferisce di circa duemila presenti, mentre su «Lacerba» (Grande serata futurista, 15 dicembre 1913) si riporta il numero di cinquemila spettatori (cfr. anche F. Cangiullo, Le serate futuriste, Ceschina, Milano 1961, p. 102; A. Soffici, Fine di un mondo, Vallecchi, Firenze 1955, p. 328; A. Viviani, Giubbe rosse. Il caffè fiorentino dei futuristi negli anni incendiari 1913-1915, a cura di P. Perrone Burali d’Arezzo, Vallecchi, Firenze 1983, p. 66). Il «Corriere della sera» (Serata di baccano a Firenze, 13 dicembre 1913) parla persino di settemila partecipanti. Oggi, a parte le testimonianze contrastanti apparse sulla stampa dell’epoca, non abbiamo alcuna possibilità di verificare queste informazioni, dal momento che l’archivio del Teatro Verdi è andato distrutto durante l’alluvione dell’Arno del 1966. 81 B. Biliński, op. cit., p. 47. 82 S. Żeromski, Snobizm i postęp, cit., pp. 27-28. 83 K. Jaworski, op. cit., p. 122. 84 «Lacerba», 9, 1 maggio 1913, pp. 89-92. 85 S. Żeromski, Nawracanie Judasza, cit., p. 239. Nel testo polacco elogio (in polacco, pochwała), viene reso da Żeromski con hymn (inno). 86 K. Jaworski, op. cit., p. 123. Diverso fu il caso di Irzykowski che continuò invece a mantenere un atteggiamento polemico verso il futurismo fino al suo epilogo. Si pensi al suo articolo Likwidacja futuryzmu, apparso nel 1924 su «Wiadomości Literackie» (5, 3 febbraio 1924, p. 1), a cui risposero il poeta futurista Stefan Kordian Gacki con il testo Likwidacja likwidatora su Awangarda (16 febbraio 1924) e Stern su «Głos Polski» (19 luglio 1924) con l’articolo Maszyna jako ideał sztuki dzisiejszej a przesądy estetyczne. Irzykowski replicò nuovamente sia a Gacki con il testo Awangardzistom – utarcie nosa su «Wiadomości Il futurismo polacco nella critica letteraria dell’epoca conferenze sotto il titolo comune di Trybunał poezji [Il tribunale della poesia]: la prima si tenne a Cracovia il 6 marzo 1923, la seconda a Leopoli il 26 marzo dello stesso anno87. 5. Concludendo, si è cercato di dimostrare nel corso dell’esposizione che gli argomenti avanzati dai critici dell’epoca per avversare i futuristi (la mancanza di originalità e la passiva imitazione di modelli stranieri; il ripudio del passato; il futurismo come espressione ideologica del fascismo o del bolscevismo) in realtà non erano supportati da un’analisi attenta delle loro opere né dalla volontà di comprendere i loro sforzi programmatici volti a riformare l’arte e la letteratura polacche. In particolare, l’atteggiamento preconcetto di Irzykowski e Żeromski nei confronti del movimento futurista scaturiva soprattutto da una visione molto diversa che i due intellettuali avevano della letteratura e della sua funzione nella società. Per il primo, la cultura letteraria serviva a mantenere vivo il sentimento patriottico e, in un paese rimasto troppo a lungo diviso, a fare da collante socioculturale, ossia a contribuire a rinvigorire il senso di appartenenza e di unità nazionale dei polacchi. Per il secondo, invece, attraverso di essa si dovevano esprimere in primo luogo i valori intellettuali e l’originalità di pensiero. Sia la concezione nazionale di Żeromski sia quella intellettuale, proposta da Irzykowski, escludevano a priori l’avvilente riproduzione di modelli letterari stranieri. La prima esigeva dalla letteratura quella dignità che si ottiene unicamente facendo rivivere la tradizione patria; la seconda, invece, reclamava quella rispettabilità che si poteva conseguire solo attraverso ricerche autonome e conseguenti frutti intellettuali88. Per certi aspetti, quindi, alcuni elementi del pensiero dei due autorevoli letterati trovavano delle consonanze anche nella pratica poetica di molti futuristi polacchi. Occorre inoltre chiarire che, nonostante l’attaccamento della maggior parte degli scrittori polacchi agli ideali tradizionali di impegno politico e di continuazione del discorso patriottico, le contraddizioni fra futurismo e letteratura “istituzionale” non erano così profonde come potrebbe sembrare. Da un’analisi delle opere futuriste si evince infatti che il loro rifiuto dell’eredità del passato restava solo nelle enunciazioni programmatiche, ma che la realtà era ben più complessa e sfumata di quello che sia i critici, da una parte, sia gli stessi futuristi, dall’altra, andavano asserendo. Infatti, per quel che concerne il dibattito sul retaggio culturale nella Polonia del primo Ventennio del XX secolo, si deve tener conto del fatto che non è possibile considerare queste correnti “rivoluzionarie” – il futurismo e l’Avanguardia di Cracovia – nettamente recise dalla tradizione. Al di là di tutti i pregiudizi e pareri negativi – talora contraddittori – espressi nei confronti della prima avanguardia polacca, alla luce di quanto detto, oggi resta inconfutabile il fatto che il futurismo in Polonia, seppure fenomeno di breve durata e dal percorso complesso, ebbe un ruolo fondamentale per lo sviluppo culturale del paese. Infatti, rielaborando in modo innovativo e talvolta originale stilemi e linguaggi artistici europei in voga all’epoca, traendo nuova linfa dalla tradizione letteraria neoromantica, dal folclore e dalla cultura popolare nazionali, e fugando così ogni rischio di epigonismo impropriamente avanzato dalla critica, i futuristi prepararono il Literackie», 10, 9 marzo 1924, p. 2, sia a Stern con l’articolo Fabrykowanie przeciwników, in «Wiadomości Literackie», 36, 7 settembre 1924, p. 3. 87 K. Jaworski, op. cit., p. 129. 88 Cfr. Ivi, pp. 85-86. 75 Andrea F. De Carlo terreno alle successive sperimentazioni avanguardistiche novecentesche. Abstract Andrea F. De Carlo Polish Futurism in Literary Criticism of the Early Twentieth Century The article analyses the critical voices raised against the young poets and artists who promoted Futurism in Poland during the first half of the Twentieth century. Futurist manifestos influenced the new Polish poetry, stimulating a lively debate among intellectuals of the calibre of Stefan Żeromski and Karol Irzykowski. In general, the coeval criticism of Polish Futurism focused on three main points: the lack of originality and servile imitation of foreign literary models; the repudiation of the past and national traditions; Futurism as an expression of ideologies such as Fascism in Italy and Bolshevism in Russia. In this article, specific attention is devoted to an analysis of the essay Snobizm i postęp (Snobbery and Progress, 1923) by Żeromski. The writer, criticising Polish imitators of Russian Futurism, affirmed that Polish literature and culture, in the context of national reconstruction after three partitions of Poland, needed to maintain its natural connection with the past and at the same time, without losing its national nature, to weave some universal suggestions into the plot of purely Polish themes. The goal of this article is to reveal that Żeromski and Irzykowski’s critical stance towards the Polish Futurists, which influenced the critics of the next generation, was dictated by a shallow analysis of Futuristic works and by their inability to understand Futuristic efforts to modernise Polish art and literature. Keywords: Polish Futurism, Literary criticism, Stefan Żeromski, Snobbery and Progress, Karol Irzykowski 76 «pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», (VII) 7, 2016, pp. 61-76 Paweł Graf „Na skrzyżowaniu dwóch wrogich epok stoję, cynicznie gryząc papieros”. O tekstowych projekcjach twórczości futurystów w relacji do ich postaci multimedialnych na przykładzie Marsza Bruno Jasieńskiego Stworzę wam sztukę nową, sztukę czarnych miast. Będzie mocna jak wódka, i dobra, jak piernik. Zdziwicie się, że tyle jest na niebie gwiazd, których żaden wam przedtem nie odkrył Kopernik. B. Jasieński, But w Butonierce1 Kochamy maszyny elektryczne i nie robimy im krzywdy. T. Czyżewski, Od maszyny do zwierząt Rozumieć to móc sprawę przedstawić graficznie G. Bachelard, Czas i co ludzkie Zafascynowani postępem technologicznym futuryści wreszcie się doczekali! Może to jeszcze nie róg obfitości, niemniej – po okresie słabszej, niekiedy bardzo słabej, recepcji ich dorobku2 – w świadomości współczesnych odbiorców mają oni szansę zaistnieć ponownie, tym razem za sprawą multimediów. Można bez większego ryzyka postawić tu tezę, że dzisiejsza, multimedialna postać ich wierszy zostałaby, przez samych futurystów, przyjęta z uznaniem i radością; wszak niemal zawsze byli oni piewcami nowoczesności, w jej najróżniejszych przejawach. Poszukiwali, jak pamiętamy, dla swej sztuki naukowo-technologicznego kontekstu i marzyli o nowoczesnym czytelniku, który zrozumie ich literacko-techniczną rewolucję. Wyrażał to choćby Tytus Czyżewski słowami: : nie ma w przyrodzie żadnych praw jest tylko wielki 1 Cytowany fragment pochodzi z wiersza [Zmęczył mnie język...] – patrz B. Jasieński, Utwory poetyckie, manifesty, szkice, red. E. Balcerzan, Wrocław 1972; inny tytuł – Bruno Jasieński: „But w butonierce” znajdujemy w Poezjach zebranych, red. B. Lentas, Gdańsk 2008. 2 Uwaga ta odnosi się do obecności/nieobecności twórczości futurystycznej w polskim doświadczeniu czytelniczym i krytycznym po 1945 roku. W porównaniu z innymi zjawiskami literackimi dwudziestolecia obecność ta nigdy nie była imponująca i futuryzm pozostawał w cieniu Awangardy Krakowskiej, Skamandra czy Leśmiana. Zmieniło się to w ostatnim piętnastoleciu, w którym futuryzmem zainteresowała się spora grupa badaczy (wyszły również zbiory zebrane poezji Bruno Jasieńskiego i Tytusa Czyżewskiego oraz edycja krytyczna tekstów Aleksandra Wata). Z moich, pobieżnych, obserwacji wynika, że we Włoszech sytuacja była podobna i futuryzm nie był przez lata zbyt ważnym punktem na literaturoznawczej mapie, na co miały wpływ również przyczyny polityczne. 77 Paweł Graf mechaniczny jeden elektryczny instynkt ha ha ha ha Słońce Słońce Słońce3 78 Końcowy śmiech, konotuje tu rozpoznania Nietzscheańskie4 – w mniemaniu bowiem tego filozofa beztrosko śmieje się jedynie ten, kto przekroczył granicę niewiedzy i zrozumiał sens swego istnienia w bycie, co – wraz z końcową pochwałą Słońca – staje się tutaj znakiem przezwyciężonego i odrzuconego resentymentu, znakiem nowej „elektrycznej” epoki. Przede wszystkim zaś śmiech jest reakcją tego, który – zanurzony w teraźniejszości – doświadcza, nakładających się nieustannie na siebie, nieskończonych sił przeszłości i przyszłości. A sformułowane przez Czyżewskiego prawo „mechanicznego elektrycznego instynktu” określa równocześnie zjawiska czy zdarzenia tak odwieczne, jak i dopiero nadchodzące; literatura zaś jest, jedynym być może, medium zdolnym to wszystko wyrazić. W ostatnim czasie pojawiły się w przestrzeni wirtualnej dwa interesujące projekty związane z twórczością polskiej awangardy futurystycznej. Pierwszy, który nie jest przedmiotem zainteresowania tego artykułu, autorstwa Urszuli Pawlickiej i Łukasza Podgórniego, zatytułowany Cyfrowe zielone oko5, poświęcony został utworom Tytusa Czyżewskiego. Czytelnik/widz tej cyfrowej adaptacji uzyskuje tu pewną swobodę „twórczą” – sam decyduje w jakiej kolejności ukażą mu się słowa czytanego/oglądanego/słuchanego tekstu, od niego zależy, które elementy ukażą się lub nie na ekranie monitora, samodzielnie dobiera muzyczny podkład, zwalnia i przyspiesza animację, etc. Jest, jednym słowem, zaproszony do współudziału w procesie wytwarzania wirtualnej postaci tekstu. Jednocześnie, zawsze może dokonać aktu „klasycznej” lektury i, w zgodzie ze swymi przekonaniami teoretycznymi oraz estetycznymi, wybrać albo tekst papierowy, albo cyfrowy lub też dokonać „nieklasycznej” interpretacji przekładu jednego kodu na drugi. Przekład taki pozwala przede wszystkim dowartościować wielozmysłowość odbioru – właściwie spośród podstawowych receptorów zmysłowych tylko smak i zapach nie biorą tu udziału – co być może, na dalszym etapie rozwoju mediów, stanie się możliwe6 . Gdyby tak się stało, nowe media pozwoliłyby stworzyć postulowaną przez futurystów syntezę sztuk, realizowaną dotąd jedynie w postaci futurystycznych uczt kulinarnych, podczas których rozpylane wonie przeczyły obrazom podawanych potraw, wrażenia smakowe były potęgowane dźwiękami i dotykiem różnorodnych faktur – jedzono wyłącznie ustami, trzymając ręce na, intensywnie dotykanych, nogach sąsiadów, ubranych w stroje wykonane z rozmaitych materiałów: korka, papieru ściernego etc. 3 T. Czyżewski, Poezje i próby dramatyczne, red. A. Baluchowa, Wrocław 1992, s. 103. Patrz: H. Buczyńska-Garewicz, Metafizyczne rozważania o czasie. Idea czasu w filozofii i literaturze, Kraków 2003. 5 Patrz: ha.art.pl/czyzewski/. O projekcie tym szczegółowo pisałem w swoim artykule poświęconym cyfrowej postaci poezji futurystycznej – zob.: P. Graf, Tytus Czyżewski sto lat później, http://jbc.bj.uj.edu.pl/Content/303020/Oz000494. pdf. Przywołać należy też doświadczenie teatralne czy raczej post-teatralne (użycie hologramów, projekcji multimedialnych, laserów) – spektakl pt. Jasieński grany w Teatrze Starym w Krakowie w sezonie 2015/16; zaprezentowano w nim w sposób multimedialny utwory Jasieńskiego, w tym interesujący mnie tutaj Marsz. Na gruncie włoskim warto wspomnieć o cyfrowej wizualizacji rysunków Antonio Sant’Elii – La Metropoli Futurista [Film documentario sull’architettura futurista], Art Media Editori 2006. 6 Ostatnie doniesienia technologiczne są właśnie związane z możliwością wydrukowania sobie zapachu, towarzyszącemu oglądanej wizualizacji – patrz: ladnydom.pl/wnetrza/1,124115,13257005,Wydrukuj_ sobie_zapach.html. 4 „Na skrzyżowaniu dwóch wrogich epok stoję, cynicznie gryząc papieros” Jak o swoim projekcie piszą sami jego autorzy: Nerw rzeczywistości początku XX wieku oddany mógł być tylko za pomocą nowej ekspresji formalnej i uczuciowej. Uliczny zgiełk tramwajów, brzęczący telefon, trzeszczące radio, kolorowe reklamy i sensacyjna prasa – wszystko to wymagało języka multimedialnego, symultanicznego i przestrzennego7. I, w innym miejscu, analizując sytuację komputerowej poezji: W tradycyjnej poezji wizualnej tekst rozmieszczony był na przestrzeni kartki, liczył się [...] układ i organizacja. Tekst mógł tworzyć obraz (jak np. w poezji figuralnej) bądź być w obraz wpisany (wiersze wplecione). W cyfrowej odmianie relacja między tekstem a obrazem jest zmienna, gdyż każdorazowo przekształca się i jest generowana przez mechanizm. Obiekt nowych mediów składa się z wielu wariacji, które należy odkryć, aby w pełni go odczytać i zrozumieć. Utwór skonstruowany jest z warstw, połączonych ze sobą na zasadzie kinetycznej (obiekt sam zmienia swą strukturę) bądź łączy (konkretne słowa lub ikony pełnią funkcję odsyłaczy, które należy uruchomić, aby przejść do kolejnej wersji). Ruch jest elementem scalającym tekst z obrazem i tym samym pełni funkcje strukturalne i semantyczne. Działanie strukturalne polega na: konstruowaniu kompozycji (mechanizm odkrywa kolejne elementy obiektu), modyfikacji (zmienia układ w ramach tej samej postaci) oraz redukcji (usuwanie pewnych fragmentów). W funkcji semantycznej, określającej zależności między tekstem, a obrazem, wyróżnić należy rolę ilustrującą (ruch jest wizualizacją kodu językowego), interpretacyjną (wspomaga wyjaśnić znaczenie tekstu) czy wzmacniającą (ruch potęguje znaczenie składników). W cyfrowej poezji wizualnej istotny jest zatem związek między warstwą odkrytą a jeszcze nie odkrytą, między tekstem-obrazem źródłowym a docelowym. Działanie odpowiada za odsłonięcie jego warstw, które następnie należy skomponować w całość, aby odczytać znaczenie utworu8. Znacznie wcześniej, w tymże duchu, w Manifeście w sprawie natychmiastowej futuryzacji życia, wypowiadał się, przy pomocy zapisu fonetycznego, współtwórca polskiego futuryzmu, Bruno Jasieński, który, uznając, że „Sztuka musi być niespodzianą, wszechprzenikającą i nóg walącą” z przekonaniem twierdził, iż „Każdy może być artystą. […]. Scena się przekręca. Trzeba zmienić dekoracje. […] Technika jest tak samo sztuką, jak malarstwo, rzeźba i architektura”9. Czy uczestnicząc w Cyfrowym Zielonym Oku Czyżewskiego rzeczywiście jesteśmy autorami, czy przeciwnie – realizujemy jedynie algorytm zaproponowany przez twórców konceptu, to już inna kwestia, łatwa chyba do ustalenia. Projekt drugi, na którym koncentruję swoją uwagę – stworzony przez Grupę Twożywo10 – 7 Patrz: www.ha.art.pl/prezentacje/poezja/2585-tytus-czyzewski-oczy-tygrysa-cyfrowa-adaptacja-urszuli-pawlickiej-i-lukaszapodgorniego. 8 Zob. www.ha.art.pl/prezentacje/42-slownik-gatunkow-literatury-cyfrowej/2220-slownik-gatunkow-literatury-cyfrowejcyfrowa-poezja-wizualna.html. 9 B. Jasieński, Manifest o natychmiastowej futuryzacji życia, [w:] Manifesty programowe futurystów polskich, red. A. Zawada, W. Floryan, Wrocław 1984. Pisownia zmieniona przeze mnie na ortograficzną, z zachowaniem pozostałych ówczesnych reguł poprawnościowych. Niemniej warto tu podkreślić, że fonetyczny zapis futurystyczny nie był jedynie ozdobnikiem czy udziwnieniem; przeciwnie pełnił istotne funkcje tekstotwórcze. 10 Nazwa grupy świadomie jest nieortograficzna. Projekt ten należy koniecznie obejrzeć i skonfrontować z tezami powyższego artykułu, który bez odniesienia multimedialnego może być częściowo niezrozumiały! Znajdziemy go na stronie: www.twozywo.art.pl/twzw.php?4czs. 79 Paweł Graf nie próbuje uczynić odbiorcy artystą. Z jednej strony jest on adaptacją wręcz klasyczną – w miejsce: czytam pojawia się: oglądam; z drugiej – nowa forma wyrazu modyfikuje znacząco dotychczasową sytuację prezentowanego tekstu (w tym przypadku Marsza Jasieńskiego). Jednocześnie zamysł ten jest bliski wielu futurystycznym postulatom: Internet, rozumiany jako współczesna postać ulicy, jest przestrzenią pojawiania się sztuki głośnej, agresywnej, aktualnej i dostępnej szerokiemu gronu odbiorców. Mottem tej, świadomie nawiązującej do futuryzmu, grupy artystycznej, mogłyby być inne słowa z cytowanego już Manifestu Jasieńskiego: Sztuka gnieżdżąca się w kilkuset, a nawet kilkutysięcznoosobowych salach koncertowych, wystawach, pałacach sztuki itp. jest śmiesznym anemicznym dziwolągiem, ponieważ korzysta z niej 1 /100 000 000 wszystkich ludzi. Człowiek współczesny niema czasu na chodzenie na koncerty i wystawy, ¾ ludzi niema po temu możliwości. Dlatego sztukę muszą znajdować wszędzie11. 80 Nim odpowiemy sobie na pytanie jaką sztuką jest Marsz Jasieńskiego, a jaką Marsz multimedialny Grupy Twożywo – zatrzymajmy się przez chwilę na dźwiękowych i graficznych aspektach sztuki słowa12. Niewątpliwie futuryzm lubił słowo samo w sobie, być może nawet był ostatnim przejawem poezji, która domagała się głośnej lektury; futuryści urządzali poezjokoncerty, deklamowali, improwizowali, uwalniali słowa, próbowali zapisywać odgłosy ptaków czy śmiechu lub też dźwięki nieistniejących języków. Głośna lektura – oczywista w dawnych czasach – mniej więcej od doby oświecenia, stawała się coraz rzadszą; wpłynęło to na postać wiersza (jego przechodzenie z postaci metrycznej do wolnej, pojawienie się tzw. rymu dla oka oraz tekstów koniecznie wymagających zobaczenia, zminimalizowanie melodyki wersów, docelowo wyłonienie się poezji konkretnej), na jego interpretację oraz społeczny odbiór (spotęgowanie intymności lektury czy ufilozoficznienie poezji, tworzonej przez artystę, o którym można od teraz powiedzieć poeta doctus). Wszystkie te zabiegi były elementami powolnego procesu, który nigdy nie został zakończony (a współcześnie został zahamowany, o ile nie zawrócony). Możemy wskazać dwie zasadnicze tego przyczyny. Po pierwsze – poezja nie chciała całkowicie wyrzec się ani ucha, ani oka: cytowany wcześniej fragment wiersza Czyżewskiego należy nie tylko usłyszeć, ale też zobaczyć, jest on bowiem poprzedzony niemym dwukropkiem, wiele wyrazów jest w nim wytłuszczonych, światło między wersami i słowami nie ma klasycznego charakteru... W innym tekście tego poety, w którym czytamy: „wszystko można zrozumieć”13 widzimy nieoczekiwanie zapis wertykalny – słowa/wersy są tu obrócone o 90 stopni i „spływają” w dół kartki. Można zrozumieć... zobaczywszy, bowiem rzeczony fragment dotyczy deszczu, który przecież horyzontalnie nie pada, nie można natomiast tego usłyszeć w najlepszej nawet aktorskiej recytacji. Wiersz futurystyczny wymaga zatem lektury podwójnej, głośnej i cichej, wykonania estradowego i odtworzenia w sobie... Po drugie – jak dowodzi między innymi Walter Ong, zajmujący się badaniem styku: oralne-piśmienne14 – od początku wieku XX znajdujemy się w okresie tzw. wtórnej oralności i 11 Tamże. Interesujące uwagi na ten temat przynosi praca J. Donguy’a, Poezja eksperymentalna. Epoka cyfrowa (1953-2007), tłum. M. Madej, Gdańsk 2014. Autor omawia tu również „prehistorię” cyfrowości w poezji wskazując właśnie na doświadczenie futurystów, którzy wyprzedzali swój czas zwłaszcza w obszarze poezji fonicznej. Futurystyczny deklamator – jak głosił jeden z manifestów – miał obowiązek dehumanizować swój głos, metalizować go i elektryzować, wzbogacać odgłosami uderzeń młotków, klaksonów itd. (s. 124-125). 13 T. Czyżewski, Poznanie, [w]: Poezje, dz. cyt., s. 55-56. 14 Zob. W.J. Ong, Oralność i piśmienność. Słowo poddane technologii, tłum. J. Japola, Warszawa 2011. 12 „Na skrzyżowaniu dwóch wrogich epok stoję, cynicznie gryząc papieros” wypowiadany dźwięk ponownie staje się istotnym, o ile nie najistotniejszym, naszym medium. Maurice Merleau-Ponty, zwalczający fantom „języka bez głosu”, został „przez Paula Ricoeura uznany za głównego inicjatora powrotu do osobnika mówiącego”15. W tej interpretacji: Fenomen mowy – jej niezwykłość [dowodzi Merleau-Ponty] polega na tym właśnie, że poprzez jej stosowanie zdolni jesteśmy do wykraczania nie tylko poza czyste znaczenia, ale i poza pułap wszelkich znaczeń zastanych, gotowych. [...]. Mówienie nie sprowadza się wówczas do wyrażania myśli, staje się raczej zajęciem pozycji podmiotu w świecie znaczeń, dokonującym się poprzez pewną strukturację przeżycia, pewną modulację istnienia16 . Ergon – domena porządku i energeia17 – działanie połączone z innowacją, są zdaniem francuskiego fenomenologa połączeniem koniecznym dla konstytucji podmiotu, połączeniem – dodajmy – doskonale znanym futurystom, w działaniu właśnie widzącym nowatorski sens poezji. Wiedza ta, znana kierunkom awangardowym, dociera dziś do nas w swej nowej postaci i znaczeniu – co jednocześnie modyfikuje sensy wcześniejsze – zarówno w formie dyskursu teoretycznego, jak i ruchów neofuturystycznych oraz neoawangardowych. Jednym z nich jest postdadaistyczny Fluxus18, a w jego obrębie twórczość Dicka Higginsa, prekursora wykorzystywania komputera w sztuce, w tym do przypadkowego generowania tekstów. Definiował on swoje dokonania artystyczne terminem intermedia, oznaczającym działania podejmowane na styku różnych dostępnych twórcy mediów, co pozwala sproblematyzować same granice wytyczone pomiędzy zmediatyzowanymi doświadczeniami. Artyści tej grupy potęgowali spontaniczność i przypadek, wzmacniali rolę odbiorcy-współtwórcy, wykorzystywali jako swoiste ars-przedmioty czy przestrzeń dla artystycznej ekspresji dowolne fragmenty rzeczywistości (przykładowo jajka, drogowe znaki, uliczne ściany); a także, co dla nas najważniejsze, niwelowali różnicę między okiem i uchem – bawiąc się dźwiękiem czy zapisem, co w punkcie wyjścia miało dadaistyczne podłoże, by w rezultacie objawić nieoczekiwanie odsłaniany/odsłaniający się sens. Ciekawym przykładem takich działań Fluxusu i, jednocześnie, Higginsa jest jego Telefon translatoryczny do Daniela Naborowskiego19, będący intermediacją pomiędzy przekładem fonicznym a semantycznym – zaś to, czy przekład powinien nade wszystko przetransponować w nowy język sens utworu, czy jednak bardziej pamiętać o jego kształcie formalnym, także instrumentacyjno-dźwiękowym – to jeden z nierozstrzygalników teorii translacji. W tekście Higginsa widzimy próbę – składa się ona z szeregu kolejnych uzupełniających się doświadczeń20 – pogodzenia obydwu sprzecznych jakby się wydawało możliwości. Marsz Jasieńskiego21 to utwór dla współczesnego czytelnika zaskakujący. Niemal stuletni 15 Zob. G. Godlewski, Słowo – pismo – sztuka słowa. Perspektywy antropologiczne, Warszawa 2008, s. 93. Tamże, s. 94. 17 Tamże, s. 97. 18 Łac. „płynący”. 19 D. Higgins, Fourteen Telephone Translations, red. P. Rypson, Kłodzko 1987, s. 10. 20 Polski wers z poezji Naborowskiego zostaje oddany w kilkunastu próbach fonicznych, by, w rezultacie, stać się literalnym przekładem semantycznym przy zaniku podobieństwa brzmieniowego. 21 Zob. B. Jasieński, Marsz (Całość wiersza została podana w aneksie). Tekst wiersza jest dostępny m.in. w zbiorach: Utwory poetyckie, dz. cyt.; [w:] Poezje zebrane..., dz. cyt. [tu mamy dwie różne wersje tego utworu]; interesujący jest też przekład rosyjski W. Korniłowa Marsz, [w:] B. Jasieński, Słowo o Jakubie Szele. Poemy i stichotworienija, Moskwa 1962. Pojawiają się w nim słowa nieobecne w oryginale, jak – przykładowo – kapelusze, welocypedy, które osłabiają rewolucyjną wymowę utworu; niemniej podkreślają one mimochodem poczynione w tym artykule rozpoznania. 16 81 Paweł Graf a jednak niezmiernie świeży, wręcz współczesny. Wymykający się satysfakcjonującej interpretacji. Problem z Marszem zaczyna się od samego początku percepcji wiersza. Przyzwyczajeni do cichej lektury odczuwamy jakąś immanentną dziwność wpisaną w ten tekst. Studenci, i nie tylko oni, poproszeni o głośną lekturę, mimo instruktażowego tytułu, najczęściej nie potrafią dokonać brzmieniowej eksplikacji i efekt recytacyjny bywa nieudany, wyrazista marszowość wiersza częstokroć zupełnie znika. Niełatwo bowiem dokonać interpretacji głosowej tekstu, który żąda od nas odczucia osobliwego rytmu i wpisania się w ów rytm naszą czytelniczą cielesnością. Niewiadomo, czy czytając należy stać, czy chodzić (marszowo?), a może wystukiwać obcasem rytm recytowanej frazy? Jak odtworzyć pulsowanie słowa w niemarszowych – na szczęście – czasach? Sam „marsz” to forma o rodowodzie XVII-wiecznym22, choć niektórzy badacze utwory muzyczne, pełniące funkcję marsza, odnajdują nawet w starożytnym Rzymie – jak zatem oddać głosowo jej autorską, XX-wieczną, do tego futurystyczną postać? Jak ją oddać dziś, po doświadczeniach poprzednich wieków? Czym są załamania rytmu, wydłużonego w tekście Jasieńskiego z czterech do pięciu kroków? Może brzmieniową prowokacją, a może własną, Jasieńskiego, reinterpretacją gatunku?... Wiersz ten, co może zaskakiwać, interpretowany bywał rzadko – w zasadzie można przywołać jedynie nieliczne świadectwa jego recepcji. Jednym z nich była zjadliwa parodia zamieszczona w «Szczutku», w 1924 roku. Anonimowy autor, odwołując się do życia i twórczości poety, marszowym, dziarskim krokiem literacko „przeszedł” po Jasieńskim: Tra-ta-ta-tam. Tra-ta-ta-tam. Tutaj. I tu. I tu. I tam. Lwów. Kraków. Moskwa. Warszawa. Zgniłe. Jaja. Publiczność. Sława. Młody. Zdrowy. Jak. Syfilityk. Często. Gęsto. Ze chrzęstem. Bity. Pisał. Wiersze. Przycinki. Kropki. W Szczutku. Smutne. Nagrobki. Szopki. W głowie. Nogi. Izoldy. Morgan. W mózgu. Dziura. Mózg. W butonierce. Skaleczony. Jeden miał. Organ. Który? Który? Serce tak. Serce. Tra-ta-ta-tam. 82 W sali. Wielkiej. Autorski. Wieczór. Śmiech. Na sali. Duszno. W powietrzu. Pani. Biała. Słuchała. Poszła. Powiedziała. Dość. Tego. Osła. Poszli. Rzygać. Ostre. Poezje. Zawołali. Niech to. Pies zje. Futurysta. Oprawić. W ramki. Fuj. Futurysta. Od świętej. Samki. Powie. Teraz. Najnowszą. Bajkę. Potem. Koniec. Potem. W łeb jajkiem23. 22 Zob.: pl.wikipedia.org/wiki/Marsz_(muzyka); Mała encyklopedia muzyki, red. St. Śledziński, Warszawa 1981. Zob.: B. Jasieński, Poezje zebrane, dz. cyt., s. 419. 23 „Na skrzyżowaniu dwóch wrogich epok stoję, cynicznie gryząc papieros” Emocje bywały silne – jak wspominał malarz Roman Turyna, podczas jednego z publicznych autorskich odczytań Marsza: Gdy padło pierwsze mocne słowo [...] zgorszona i bardzo szanująca się publiczność [Tarnopolska] zaczęła opuszczać salę. Nobliwe damy czym prędzej wypychały podekscytowane córki, a co gorliwsi panowie biegli po policję i... straż pożarną. Ktoś krzyczał: To nie Marsz – to Arsz!24. Więcej estymy mieli przyjaciele poety i badacze futuryzmu. Dla Anatola Sterna Marsz to utwór antymieszczański i antywojenny jednocześnie, oddający „sugestywnie marsz idących na wojnę żołnierzy”; a zarazem majstersztyk recytacyjny25. Jadwiga Sawicka26 przeciwnie – podkreślała trudności z deklamacją utworu, należącego do tych wierszy Jasieńskiego, w których mamy nagromadzenie szczególnie zgrzytliwych, trudnych do wymówienia wyrazów, preferowanie twardych spółgłosek – czyli to wszystko, co czyni tekst poetycki czymś kakofonicznym, ostrym, szokującym dźwiękowo. Wynikiem tego – w jej przekonaniu – jest ogólny wyraz dysharmonii i postawa negacji. Interpretatorka wskazuje na zapis segmentujący tekst: Normalne zdania rozbija [poeta] znakiem kropki na poszczególne wyrazy, tak jak normalny tok myślenia gwałcony jest przez łomot tupiących w marszu butów. Sawicka dla analizowanej poezji bezproblemowo odnajduje referencję – wojnę 1920 roku; jej zdaniem nieokreślony obserwator przemarszu wojsk relacjonuje dla nas „natłok dźwięków, kolorów i wrażeń ogarniających go różnych stron”. Sam wiersz, będący obrazem „zdynamizowanego tłumu, wśród którego rozgrywa się jakaś ludzka jednostkowa tragedia, ludzki protest”, kończy się niejednoznaczną ironią, typową dla Jasieńskiego. Edward Balcerzan, który spośród krytyków poświęcił Jasieńskiemu dotychczas najwięcej rewerencji, pisał o tym wierszu, „że może być, z uwagi na swą lapidarność modelem poglądowym poetyckiego zapisu katastrofy”; mamy w nim tłum i krew, a raczej ślad po krwi; opozycję potoku: ludzi, słów, zdarzeń i dźwięków; oraz krwotoku: kapiącą krew, kapiące liście. Gazeta (Chłopak z redakcji) po raz kolejny informuje nas o życiu i umieraniu świata. Na gruncie poetyki badacz rozpoznaje tu chwyt „zapisu poetyckiego”, chwyt przynależny do strategii reportażowej: W tym terminie słowo zapis odsyła nas do Wejść reporterskich. Słowo poetycki wskazuje, iż na Wyjściu otrzymaliśmy tekst, który nie jest już ani reportażem, ani nawet prostą stylizacją na reportaż. Jest natomiast przekazem rządzonym prawami języka poetyckiego27. Tym samym referencjalna wartość Marsza (inaczej i ciekawiej niż w rozpoznaniach Sawickiej) staje się „umowna”, utwór zaś w to miejsce potęguje własną literackość. 24 Cyt. za: B. Jasieński, Poezje zebrane, dz. cyt., s. 420. „Arsz” prawdopodobnie z niemieckiego: Arsch – wulg.: „dupa”. A. Stern, Bruno Jasieński, Warszawa 1969, s. 28. 26 J. Sawicka, „Na skrzyżowaniu dwóch wrogich epok” – Bruno Jasieński, [w:] Poeci dwudziestolecia międzywojennego, red. I. Maciejewska, Warszawa 1982, s. 380-383. 27 E. Balcerzan, Styl i poetyka twórczości dwujęzycznej Brunona Jasieńskiego, Wrocław 1968, s. 153. 25 83 Paweł Graf Marsz powrócił do czytelniczego i krytycznego obiegu w roku 2010, za sprawą Grupy Twożywo, która nadała mu nową, multimedialną postać28 . O tej adaptacji/remaku pisała w bardzo obszernej analizie Pawlicka. Przeczytajmy kilka wyimków: Utwór [...] został podwójnie ożywiony: przez ruch oraz muzykę. Z napięcia między pierwotnym, statycznym wierszem, a nowym medium powstał poemat animacyjny, którego dynamika zasadza się na czterech komponentach: obrazie, ruchu, kolorze oraz dźwięku. Artyści nawiązują do praktyk poetów wizualnych i konkretnych, z tym że poszli o krok dalej, wykorzystując współczesne możliwości technologiczne [...]. Animacja prezentuje Marsz od początku do końca, nie pomijając ani jednego słowa. Artyści ponadto dosłownie zinterpretowali wiersz, sprawiając, że poemat skupia się nie na znaczeniu, lecz na graficznym, literalnym przedstawieniu danego słowa czy frazy [...]. Dostrzec można tylko jeden element dodany przez grupę Twożywo, będący efektem ich interpretacji. W wizualizacji słowa „przystojne”, litera „J” ułożona została w kształt karabinu, który przez moment rytmicznie wystrzeliwuje. Animacja, która z założenia ma być dynamiczna, wyklucza proces czytania utworu. Artyści wprowadzili zatem własny głos odtwarzający tekst. Odbiorca skupiający się wyłącznie na efektach graficznych, ma możliwość audialnego słuchania utworu – w ten sposób wytworzona została komunikacja między pierwotnym tekstem, animacją, a odbiorcą. Odczytywanie utworu na głos wprowadza także pierwiastek ludyczny, gdyż widz oglądając reprodukcję tego, co jest mówione, nie może się nadziwić nad humorystyczną i dosłowną wizualizacją [...]. Tekst czytany jest przez kilka osób, dzięki czemu uzyskuje się efekt różnorodności postaci i ich kondensacji. Symultaniczne występowanie głosu twórców i dźwięków o zabarwieniu wojennym wywołuje ponownie odczucie dynamiczności, natłoku i chaosu, ale chaosu kontrolowanego i zamierzonego [...]. Animacja ma znaczenie wyłącznie ludyczne, nie jest zajmująca ani wymagająca – nie jest konieczne odczytywanie, bo artyści czytają za nas, nie jest wymagana wyobraźnia, bo dosłowne zaprezentowanie jest wystarczające. Po prostu należy oglądać, jak telewizję czy film, a w tym przecież każdy odbiorca jest dobry29. 84 Dokonawszy tradycyjnej lektury papierowej postaci tekstu oraz obejrzawszy jego cyfrową animację30 zachowajmy tę kolejność i zacznijmy analizę od wiersza napisanego. Marsz Jasieńskiego możemy najlepiej zinterpretować poprzez wyobrażenie, jakie buduje w nas jego lektura; samo zaś wyobrażenie chciałbym tu rozumieć w duchu Sartrowskim. Wszelkie podobieństwo między przedmiotem a rzeczywistością unosi się w tym ujęciu pomiędzy „brzegami 28 Adaptacja jest dostępna na stronie: www.twozywo.art.pl/twzw.php?4cy0. O Grupie Twożywo inspirującej się dokonaniami awangardy z pierwszej połowy XX w. zob. m.in.: https://pl.wikipedia.org/ wiki/Grupa_Two%C5%BCywo; raster.art.pl/galeria/podprojekty/leichte_arbeit/twozywo.html. 29 www.techsty.art.pl/magazyn/magazyn7/rec/marsz_jasienskiego.html; zobacz też inne jej słowa: „Cyberpoeci to zrecyklingowani futuryści, to neofuturyści, dla których Sieć, labirynt, baza danych to najbardziej udane ortografie, [w:] śćch.pl/neofuturyzm-czyli-co-ma-jasienski-do-ipada/. Zauważmy, że analizy dokonywane przez Pawlicką pozostają w planie opisu i nie zmierzają w stronę interpretacji. To „niedokończenie interpretacyjne” jest często zauważalne również w wielu innych tekstach krytycznych badaczy nowych mediów, tym samym one, jak i tekst Pawlickiej pozostawiają nas z odczuciem „braku”, niedointerpretowania zastąpionego nadmiarem opisu i dlatego trudno oceniać je w pełni pozytywnie. 30 W tym przypadku należy też zwrócić uwagę na kategorie „szumu”. Sam efekt zakłócenia czy raczej zakłócania przekazu był oczywiście projektowany przez futurystów i pożądany sam w sobie, niemniej przekaz cyfrowy inaczej niż deklamacja generuje rozmaite szumu. Na ten temat – patrz: R. Bromboszcz, Estetyka zakłóceń, Poznań 2010. Wielozmysłowość przekazu wytycza linie rozwojową pomiędzy doświadczeniem futuryzmu a zjawiskiem tzw. liberatury – patrz: A. Przybyszewska, Liberackość dzieła literackiego (część III), Łódź 2015. „Na skrzyżowaniu dwóch wrogich epok stoję, cynicznie gryząc papieros” postrzeżenia, znaku i wyobrażenia, nie przystając do żadnego z nich”31. Możemy (w duchu wskazanej Sartrowskiej niepełnej tożsamości) zapytać: co przedstawia Marsz? Jaki obraz, jakie wyobrażenie chce w nas zbudować, jakie buduje i jakie wynikają stąd sensy? Te jakości wiersza, które w głośnej lekturze pozwalają uzyskać efekty brzmieniowe, podkreślające marszowość utworu, jego wyczuwalny rytm kolejnych kroków – w lekturze cichej stają się przeszkodą epistemologiczną. Dla Gastona Bachelarda przeszkodą czy też inaczej barierą epistemologiczną jest wszystko to, co sprawia, że nasze poznanie staje się nieciągłe, w konsekwencji niespójne. Wśród przejawów tej bariery można wymienić między innymi: przeszkodę pierwszego doświadczenia przedmiotu, które to doświadczenie nadbudowuje się nad dalszym poznaniem, przeszkodę językową, kiedy język sam generuje sensy nieobecne w przedmiocie czy przeszkodę pragmatyczną, związaną z apriorycznym dowartościowaniem pytania: „do czego to służy?”32 . W tym kontekście wiedza, którą dysponujemy o marszu (gatunku muzycznym oraz, silniej, przedmiocie kulturowo-społecznym) zamienia się w odczucie konkretnego doświadczenia, będącego silnym wyobrażeniem – duża grupa upodobnionych wizualnie osób, podąża w tym samym rytmie, w tym samym kierunku; obserwowany z zewnątrz ruch jest dynamiczny, naznaczony siłą i pewnością. Odgłos towarzyszący idącym (stukot butów, muzyka) jest jednolity i płynny. Monolityczność tej grupy podkreślają gapie uosabiający sobą przypadkowość i doraźność, czego znakiem jest dowolność ich strojów i zachowań. Jednocześnie obu stronom towarzyszy skupienie uwagi nakierowanej na sam pochód. Zakłócenia – przykładowo: lot ptaka – są zminimalizowane percepcyjne i tracą na ważności. Od razu widzimy, że Marsz Jasieńskiego jest utworem (celowo) „chybionym”; wbrew pozorom nie naśladuje on bowiem marszu, a nasze wyobrażenie napotyka na szereg barier niszczących zarysowany wyżej obraz. Uzyskany w akcie oralizacji efekt muzyczny (marsza) zostaje przekreślony grafią – nagromadzenie kropek sprawia, że ruch idących jest w pewnym sensie niespójny, jakby ich krok co chwilę się rwał i rozpoczynał od nowa. I jeśli w pierwszej chwili słyszymy kolejne następujące po sobie kroki, a kropki oddzielające kolejne słowa wzmacniają ten efekt, to po chwili zaczynamy odczuwać ich znaczenie syntaktyczne – są one przecież znakiem końca i początku, przerwy, postoju, pauzy zakłócającej ruch do przodu. Można odnieść wrażenie, że idący woleliby stać w miejscu niż marszowo kroczyć przed siebie. Miast być jednolitym przedmiotem woli i tak ukazywać się gapiom/czytelnikom widzimy zbiór rozsypany: Tutaj. I tu. I tu. I tam. Maszerujący, wraz z narratorem pragnącym, jedynie pozornie, jak się okazuje, dać wyraz ich sile i jednorodności, zamiast koncentrować się na demonstrowaniu widzom efektu spójności, rozpraszają swą uwagę, kierując nieustannie spojrzenie w stronę patrzących – panien w rajerach, zebranych dam... Nie tylko wzrok, ale i myśl nie chce być marszowa – Skriabin, który, na prawie rymu, jest złączony konotacją ze słowem karabin, staje się znakiem á rebour, znakiem antymarszu. Jest to bowiem twórca kojarzony z pacyfistycznym ekspresjonizmem oraz – co więcej –, z syntezą i synestezją sztuki, nastawionej na łączenie kolorów, zapachów, tańca etc. czyli z tym, co w marszu jest właśnie zakłóceniem. Dodatkowo ważnym jego dziełem tego religijnego mistyka uznającego się za „Mesjasza Sztuki” jest Prometeusz – buntownik przeciwko ustalonemu porządkowi. Nie dziwi nas zatem mocno wyrażone pragnienie ucieczki: Do bram. I mimo, że okrzyk: Ludzie. Ludzie. Ludzie. Do bram – może mieć podwójne znaczenie, być, po pierwsze, zachętą, by przybiec i patrzeć na pochód oraz drugie – ukryć się (a wiersz kapitalnie gra obydwoma sprzecznościami) silniejsze wydaje się to drugie. Co dzieje się w umyśle idących 31 J.P. Sartre, Wyobrażenie. Fenomenologiczna psychologia wyobraźni, tłum. P. Beylin, Warszawa 1970, s. 54. Zob. G. Bachelard, Kształtowanie się umysłu naukowego, tłum. D. Leszczyński, Gdańsk 2002. 32 85 Paweł Graf 86 nie jest widoczne dla tłumu obserwatorów – naznaczeni epistemologicznymi przeszkodami widzą jedynie jurnych, zdrowych, silnych jak byki chłopców, których, zgodnie z tradycją, żegna się płaczem i kwiatami. Są to chryzantemy, chryzantema zaś, zwana też różą jesieni, konotuje w naszej kulturze śmierć i pogrzeb, inne jej alegoryczne znaczenie to: prawda; symbolizuje też sobą pragnienie miłości. Nie powinno nas przeto dziwić, że maszerujący pozwolili rzucanym kwiatom upaść na ziemię, jakby nieświadomie nie chcieli dotykać kwiatów-znaków własnej śmierci. Ich młodzieńcze miłosne pragnienia, ważniejsze od mitu bohaterskiej śmierci, zostały odczytane jedynie przez kurtyzanę, która pojawiła się we właściwym miejscu i czasie; naznaczona jednak społecznym odium, wydaje się ona tłumowi uzurpatorką. Jedynie poeta widzi, że przelicytowała ona rzucających chryzantemową śmierć tym, którzy oczekiwali miłości. Dla większości patrzących gapiów te słowa z wiersza fałszywie znaczą coś innego – przelicytowała, czyli przesadziła, pojawiając się w tak patetycznym momencie. Maszerujący przechodzą w swe nieistnienie, a świat powraca do przewidywalnej codzienności – tym samym owa codzienność staje się marszowym upodobnieniem (stały, powtarzalny ciąg zdarzeń), a raczej stałaby się, gdyby nie była rozrywana przez nieoczekiwane, najlepiej tragiczne, wypadki. Sam marsz też zresztą jest zakłócony w swym rytmie – w miejsce kropek pojawiają się emocjonalne wykrzykniki oraz dystansujące myślniki i trzykropki; miara czterotaktowa jest przerywana pięciotaktem; pojawiają się nawet zupełnie obce poetyce marszu pytajniki. A poeta zauważa kolejne zakłócenie – ktoś poza miejscem i czasem podnosi pomięty kwiatek... Całkowicie osobny nie wie gdzie iść, pogrążony w żałobie wpatruje się w liście... I on właśnie koncentruje w sobie sens utworu – Marsz bowiem nie naśladuje marsza muzycznie ani marszu33 mimetycznie, przeciwnie – jest parodią czy może lepiej powiedzieć ironią społeczeństwa „zmarszowionego”. Ironią, gdyż jedynym wartościowym wyborem pozostaje porcja mazagranu wypita w miłym towarzystwie, mazagran jednak nie jest prawdziwym alkoholem – to kawa z alkoholowym dodatkiem – znak społeczeństwa nieautentycznego, naznaczonego konwencjonalnymi i fałszywymi obrazami oraz zachowaniami, społeczeństwa, nad którym słońce świeci mdło. Poeta i jego tekstowy reprezentant, podnoszący zdeptany kwiatek, nie naśladują społecznych marszowych wyobrażeń, wchodząc tym samym w przestrzeń wolności postrzeżeniowej, bowiem - to już Sartre – „naśladowca jest kimś zawładniętym przez innego. Być może, iż tym tłumaczy się idea naśladownictwa w obrzędowych tańcach ludów pierwotnych”34 Ponieważ jednak mamy do czynienia z ironią i autoironią tekstu raz jeszcze posłużmy się Sartrem, pytającym: czy można odróżnić wiedzę od ruchu? [...] z naszej wiedzy zdajemy sobie sprawę odgrywając ją, ściślej mówiąc, wiedza ta, w formie pantomimy, uświadamia sobie samą siebie. Nie ma dwóch rzeczywistości: wiedzy i ruchów - istnieje tylko jedna: ruch symboliczny [...]. Wiedza uświadamia sobie samą siebie jedynie w postaci wyobrażenia; świadomość wyobrażająca jest zdegradowaną świadomością wiedzy35. Tym samym wiersz kończy się nierozstrzygalnym problematem – jak połączyć w jedno doświadczenie przeciwstawne sobie ekstatyczne uczestnictwo w marszu oraz rozumiejącą krytyczną obserwację i samoobserwację? A jaką wiedzę przynosi nam Marsz multimedialny? Z jednej strony wyraża on ducha 33 Gramatyka pozwala tu różnicować formę muzyczną – marsza, od formy spektaklu ruchowego – marszu. J.P. Sartre, dz. cyt., s. 62. 35 Tamże, s. 72. 34 „Na skrzyżowaniu dwóch wrogich epok stoję, cynicznie gryząc papieros” naszych, nolens volens cyfrowych, czasów – oczywiste bowiem wydaje się dziś stwierdzenie Hansa Beltinga: Żyjemy z obrazami i rozumiemy świat w obrazach. To życiowe odniesienie do obrazu znajduje swoje przedłużenie w realizowanej przez nas w przestrzeni społecznej fizycznej produkcji obrazów, która tak się ma do mentalnych obrazów jak – by użyć prowizorycznego sformułowania – pytanie ma się do odpowiedzi36. Niewątpliwie zarysowane wyżej rozpoznania, wynikające z analizy tekstu, zostały w Marszu cyfrowym w dużym stopniu utracone; w to miejsce lepiej został uchwycony ruch i jego falowanie (zwolnienia, przyspieszenia, zmiany kierunku). Wiersz medialny w wyrazistszy sposób ujawnia powtarzalność elementów, z których jest zbudowany. Zmienia się układ brzmieniowy – w miejsce marsza mamy wiele różnych, przypadkowych niekiedy, rytmów. Jednocześnie oscylacja pomiędzy powagą i niepowagą, stanowiąca chyba wizualny naddatek w stosunku do postaci tekstowej, pozwala zachować istotną dla tego utworu ironię i autoironię. Samo medium zmienia naszą uważność percepcji – skoro w wersji „papierowej” opozycja, również semantyczna, uchooko powodowała subtelne wymykanie się sensu; w wersji multimedialnej widz musi nieustannie dokonywać rekonstrukcji schematów postaci i rzeczy, pod którymi kryją się słowa – są to jednak słowa poezji konkretnej, zwracające uwagę swą materialnością nie sensem. Końcowe napisy37 (pojawiające się po cyfrowej adaptacji na wzór napisów ukazujących się po projekcji filmu) przenoszące nas w płaszczyznę kina sprawiają, że warstwa obrazowo-fabularna dominuje w odbiorze tego utworu – tym samym uczestnictwo w spektaklu okazuje się ważniejsze od jego interpretacji i zrozumienia, performatywność staje się istotniejsza od hermeneutyki. Jeśli jednak w przypadku literatury percypowanej tradycyjnie jej uwikłanie w świat – mimo wszelakich trudności wyznaczanych słowami: mimesis. referencja, reprezentacja, symulacrum, fikcja – jest niezbywalne; to w świecie wirtualnym mamy do czynienia – jak twierdzi przykładowo Michał Ostrowicki – ze sztucznością: Formowanie medialnego obrazu jakby samym sobą potwierdzało jego sztuczność. Kontekst technologiczny odwołuje się raczej do siły tworzenia, która przezwycięża materię fizyczną i której geneza może się odwoływać do innej rzeczywistości niż realność38. Wirtualność – jak chce Slavoj Žižek – to „tajemnica zdarzenia”39 . Czy słowo sztuczność, użyte przez Ostrowickiego, jest najlepszym wyborem do opisu medialnego świata - nie wiem; przekonujące natomiast wydaje mi się twierdzenie, że obrazy kierują nas w stronę świata, teksty natomiast w stronę samych siebie. Lambert Wiesing – teoretyk obrazu – definiując swój przedmiot, sięga po metaforę renesansową, zaczerpniętą z pism Albertiego: Materialny obraz na ścianie przypomina okno, ponieważ oglądający w obydwu przypadkach patrzy przez medium, nie czyniąc tego medium tematem. Zarówno spojrzenie na obraz, jak spojrzenie przez okno kieruje uwagę patrzącego na rzeczy i zdarzenia, które nie znajdują się w tej samej przestrzeni. 36 38 39 37 H. Belting, Antropologia obrazu. Szkice do nauki o obrazie, tłum M. Bryl, Kraków 2007, s. 13. W pewien sposób odpowiednik okładki książki. M. Ostrowicki, Wirtualne realis. Estetyka w epoce elektroniki, Kraków 2006, s. 45. Tamże, p. 46. 87 Paweł Graf Przez okno patrzymy zazwyczaj na zewnątrz domu; za pośrednictwem obrazu postrzegamy obrazobiekt w wyobrażonej przestrzeni. Obrazy i okna pozwalają spojrzeć na coś innego niż na siebie40. Czy multimedialna postać wiersza, wyrwanie go z papierowego istnienia to zysk czy przeciwnie, semantyczna i estetyczna strata – to pytanie indywidualne do każdego z nas, na które odpowiadamy każdorazowo w akcie własnej lektury, preferując jej postać tradycyjną, multimedialną lub sięgając po obydwie formy. Zresztą, jak pisał, zainspirowany poetyką futuryzmu, Paweł Kozioł, żyjemy w czasach, w których sens jest rezultatem doskonałego odwrócenia: Ekran u źródeł, a u ujścia futurystyczny papier, zapełniany tym samym kodem, co namopanik barwistanu Aleksandra Wata41. 88 40 L. Wiesing, Sztuczna obecność. Studia z filozofii obrazu, tłum. K. Krzemieniowa, Warszawa 2012, s. 113. P. Kozioł, Druk i światło, cyt. za E. Dąbrowska, Pejzaż stylowy nowej literatury polskiej. Artystyczne języki, formy i gatunki, Opole 2012, s. 231. 41 „Na skrzyżowaniu dwóch wrogich epok stoję, cynicznie gryząc papieros” Aneks Bruno Jasieński Marsz Siostrom od św. Samki Tra-ta-ta-ta-tam. Tra-ta-ta-ta-tam. Tutaj. I tu. I tu. I tam. Jeden. Siedm. Czterysta-cztery. Panie. Na głowach. Mają. Rajery. Damy. Damy. Tyle tych. Dam. Tam. Ta. To tu. To tu. To tam. W willi. Nad morzem. Płacze. Skriabin. Obcas. Karabin. Obcas. Karabin. Ludzie. Ludzie. Ludzie. Do bram. Tra-ta-ta-ta-tam. Tra-ta-ta-ta-tam. Tam. Tam. Dalej. Za kantem. Pani. Biała. Z pękiem. Chryzantem. Pani. Biała. Czekała. W oknie. Kwiat. Spadł. Kapnie. Na stopnie. Szli. Szli. Rzędem. Po rzędzie. Tam. I tam. I dalej. I wszędzie. Młodzi. Zdrowi. Silni. Jak byki. Wozy. Wiozły. W kozły. Koszyki. W tłumie. Dziewczyna. Uliczna. Stała. Szybko. Podbiegła. Pocałowała. Ach! Krzyk. Tylko. To jedno. Kwiaty. W pęku. Na ręku. Więdną. Wolno. Cicho. Padają. Płatki. W dół. Na bruk. Na konfederatki. Eh! Pani. Pani. Biała. Kurwa. Prosta. Przelicytowała! Nam. Nam. Dajcie. I nam! Tra-ta-ta-ta-tam. Tra-ta-ta-ta-tam. Panie. Panny. Panowie. Konie. Jedzie. Dzwoni. Auto. W melonie. Praczki. Szwaczki. Okrzyki. Kwiatki. — Chodźmy. Panna. Do. Separatki. — Panna. Płacze: — Idą. Na wojnę. Takie. Młode. Takie. Przystojne. — Rzędem. Za rzędem. Z rzędem. Rząd. Wszyscy. Wszyscy. Wszyscy. Na front. 89 Paweł Graf Ech by. Było. Młodych. Mam! Tra-ta-ta-ta-tam. Tra-ta-ta-ta-tam. Ktoś się. Rozpłakał. Ktoś. Bez czapki. Liście. Kapią. Jak gęsie. Łapki. W parku. Żółknie. Gliniany. Heros. Chłopak. Z redakcji. Pali. Papieros. Ktoś. Ktoś. Upadł. Nagły. Krwotok. Ludzie. Ludzie. Skłębienie. Potok. Co?… Co?… Leży… Krew… Łapią… Kapią. Liście. Z drzew. — Puśćcie! Puśćcie! Puśćcie! Ja nieechcę! Kurz. Kłębem. W zębach. Łechce. Krzyk. Popłoch. Włosy. Drżą. Krew… W krwi… Pachnie. Krwią… Tam. Tam. Poszli. Pobiegły. Duszno. Pusto. Usta. O cegły. Tu. I tu. I na rękach. Krew. Bydło! Dranie! Ścierwy! Psia krew! Ech tam! Gdzie już. Nam! Tra-ta-ta-ta-tam. Tra-ta-ta-ta-tam. 90 Poszli. Przeszli. Ile tu. Kobiet. Panie. Idą. Gotować. Obiad. Ktoś. W żałobie. Nie wie. Gdzie. Iść. Stanął. Stoi. Ogląda. Liść. Podniósł. Z drogi. Pomięty. Kwiatek. Tyle. Panien. Tyle. Mężatek. Tyle. Przeszło. Tyle ich. Szło… Słońce. Świeci. Żółto. I mdło. Zaraz… Zaraz… Zaraz wam… Zagram… Panie. W kawiarni. Piją. Mazagran. Wieczorem. W domach. U Św. Samki. Przed. Matką Boską. Paliły się. Lampki. „Na skrzyżowaniu dwóch wrogich epok stoję, cynicznie gryząc papieros” Abstract Paweł Graf “I am standing at the intersection of two hostile eras, cynically chewing my cigarette”. Multimedia projects of futuristic literary works: Bruno Jasieński’s poem ‘March’ as a case study The article focuses on the media transformation of literary works. B. Jasieński’s futurist poem Marsz, published in the interwar period in printed form, recently underwent a multimedia adaptation. The author analyzes the mutations the literary text underwent in interpretation and significance when expressed in the new creative forms of contemporary multimedia “language”. The analysis of the formal structure and of several, sometimes small semantic elements, shows the different way of understanding the poem as expressed through new multimedia means. The futurist poem Marsz has been read as an ironical poem, totally contradicting its original literal meaning. The second part of the article examines a digital version of the poem, which again changes its original meaning. At this moment in time, the relationship between the textuality and virtuality of poetry (and literature in general) constitutes the main space where art “happens” and manifests itself. Thus, the discussion over the digital version of Jasieński’s poem leads to some general considerations about contemporary theory of image and its anthropological expressions. Keywords: Bruno Jasieński, Futurism, digital poetry, new media, inter-semiotic translation «pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», (VII) 7, 2016, pp. 77-91 91 Monika Gurgul Mount Everest 1924 di Jalu Kurek 1. I l libro di Kurek narra una storia realmente accaduta, quella della spedizione britannica sul Monte Everest organizzata nel 1924 e conclusasi, senza successo, con la morte dei due scalatori: George Leigh Mallory e Andrew Irvine. Il viaggio degli alpinisti verso l’Asia era iniziato il primo febbraio dello stesso anno, ma Kurek nel suo racconto parte dalle ultime giornate di gennaio situandovi due scene di commiato, quella di Mallory con la moglie e quella di Irvine con la fidanzata. Evocando atmosfere da romanzo d’appendice, punta sulla drammaticità e sull’inevitabilità esistenziale della loro decisione di affrontare la montagna. La relazione che segue racconta le tappe dell’itinerario che va da Londra in India e in Tibet, dove il 18 aprile, davanti agli occhi degli scalatori, compare la Madre dell’Universo1. Il gruppo si installa a Rongbuk ed è lì che comincia la vera e propria lotta: d’ora in poi il percorso è scandito da raggiungimenti di quote sempre più alte e dall’allestimento dei campi. La relazione che racconta il procedere del gruppo s’intreccia con le descrizioni delle condizioni meteorologiche e delle caratteristiche del terreno. Arrivati all’altezza di 8.169 metri, raggiunta dalla spedizione precedente del 1922, Norton intraprende il primo attacco alla vetta, ma è costretto ad arrendersi. Il secondo attacco, di Mallory e Irvine, finisce tragicamente. La spedizione celebra i suoi morti e l’11 giugno si ritira. In questo momento la narrazione si spacca in due parti. La prima, composta della relazione riassunta sopra e basata su documenti, sembra essere solo un’introduzione a quella seguente, più breve, che riprende il secondo attacco da una prospettiva diversa, cioè celebrando i suoi due protagonisti. Nell’apertura del libro Kurek specifica chi sono i suoi eroi e sottolinea il proprio rapporto con le loro gesta: Desidero che, tra i pochi uomini intrepidi affascinati dalle parole magiche: Mount Everest, questi due siano responsabili nel mio libro di tutto ciò che è successo e che loro due rimangano per sempre una testimonianza delle straordinarie passioni umane. A loro va tutta la mia ammirazione. Sono loro che canto.2 Così la relazione riparte il 6 giugno. La “bellissima mattinata” ben presto si trasforma in una giornata agghiacciante. Il giorno dopo, raggiunta la quota di 8.100 metri, gli scalatori rimandano 1 Il Chomolungma in tibetano. “Z tych paru nieustraszeńców, których urzekło magiczne słowo: Mount Everest, chcę, ażeby oni dwaj ponieśli w tej książce odpowiedzialność za to, co się stało, i aby oni zostali na zawsze dokumentem wspaniałych ludzkich namiętności. W nich złożyłem bezmiar mojego podziwu. To ich sławę opiewam właśnie”. J. Kurek, Mount Everest 1924, Główna Księgarnia Wojskowa, Warszawa 1933, p. 9. Tutte le traduzioni dal polacco citate in questo articolo sono mie. 2 93 Monika Gurgul indietro gli ultimi portatori-testimoni dell’ascensione. D’ora in poi tutto ciò che apparirà nel testo è pura finzione: la crescente debolezza e la disperazione di Irvine provocata da problemi fisici e coronata da un attacco di pazzia, diverse emorragie e una gamba rotta di Mallory, la sua tenacia e, alla fine, l’abbraccio della morte. Ma prima che questo avvenga, nonostante le estreme condizioni dell’ascensione, i due continuano a parlarsi. Mallory, spinto in avanti da una forza superiore, non perde mai il controllo e trova un modo per incoraggiare il compagno. Non si lascia sopraffare dalle emozioni, nonostante debba essere commosso giacché, “iniziato al silenzio e alla saggezza delle vette”3, sta realizzando il suo obiettivo ed è pienamente consapevole di quale sarà il prezzo da pagare. Ecco come Kurek s’immagina gli ultimi istanti di vita di Mallory: “Non invocava aiuto. Piangeva di dolore e di pena – guardiano di un cammino incompiuto, chiuso lì in alto senza speranza, smarrito totalmente su un sentiero non battuto”4. Nella parte finale dell’opera il narratore riappare davanti al lettore, mentre si rivolge agli scalatori e alle montagne: A che cosa paragonare il tuo dolore? Come scrutare il tuo cuore? Come misurare il tuo pensiero smisurato? [...] Non posso dimenticarvi. Ho cantato un elogio dell’Himalaya e dell’instancabile genialità dell’uomo. Ho cantato voi, montagne coperte di neve, le più alte montagne del mondo, io – un amaro cronista della contemporaneità. [...] E ho parlato di voi, magnifici eroi [...] la terra non è misera se vi ha dato la vita. I nostri cuori sono con voi. Fiorite nella nostra memoria5. 94 e le sue parole diventano un monumento inalzato alla forza spirituale e alla vita fedele a un’idea, alla nobile lotta contro i propri limiti, a una passione più forte dell’istinto di sopravvivenza. 2. Il libro piacque al pubblico. Marian Czuchnowski sottolineò il carattere “forte ed effervescente” di questa prosa6, e diversi decenni dopo Elżbieta Cichla-Czarniawska lo definì giustamente “un atto artistico e sociale”7. Piacque il suo taglio giornalistico8, il ritmo dinamico, lo stile sintetico, dovuto tra l’altro all’esperienza poetica dell’autore nell’ambito dell’Avanguardia Cracoviana. Nel periodo in cui lavorava al libro, Kurek scrisse più volte su «Linia», rivista d’avanguardia che aveva fondato nel 1931 a Cracovia, dell’importanza di una lingua “suggestiva, esatta, densa, economica, disciplinata e concisa”9. Le sue osservazioni concernevano la poesia, nell’ambito della quale non sempre riusciva a realizzare il suo programma teorico, mentre lo 3 “Wtajemniczony w ciszę i mądrość wierzchołków”. Ivi, p. 80. “Nie wołał ratunku. Płakał z boleści i żalu – strażnik niedokonanej drogi, zamknięty w górze bez nadziei, zagubiony bez reszty na niewydeptanym szlaku”. Ivi, p. 89. 5 “Z czym porównam twój ból? Jak zbadam twoje serce? Czym zmierzę twoje przepastne myślenie. […] Nie mogę zapomnieć o was. Śpiewałem pochwałę Himalajów i niezmordowany geniusz człowieka. Was śpiewałem śnieżyste góry, najwyższe góry ziemi, ja – gorzki kronikarz współczesności. […] I o was mówiłem wspaniali bohaterzy […], ziemia nie jest marna skoro was urodziła. Sercem jesteśmy przy was. Kwitniecie w naszej pamięci”. Ivi, p. 93. 6 J. Kurek, Mój Kraków, Wydawnictwo Literackie, Kraków 1978, p. 222. 7 E. Cichla-Czarniawska, Heretyk awangardy – Jalu Kurek, Wydawnictwo Lubelskie, Lublin 1987, p. 146. 8 Nel 1933 Kurek era un giornalista maturo. Dall’inizio degli anni ‘20 aveva lavorato per varie testate cracoviane, tra cui «Głos Narodu» o «Ilustrowany Kurier Codzienny», e tra gli anni 1931-1933 pubblicò cinque numeri della rivista d’avanguardia «Linia». Queste esperienze lo avvicinarono decisamente sia alla tematica sociale che a quella culturale. 9 J. Kurek, Świadome pisarstwo, in «Linia», 5, 1933, in: Artykuły programowe Awangardy Krakowskiej, II. Julian Przyboś, Jan 4 Mount Everest 1924 di Jalu Kurek realizzò pienamente nei romanzi reportage dove “la velocità e l’economia”, “l’estetica dell’ordine” e “una liricità telegrafica”10 organizzarono sia le parti dedicate alla relazione che quelle descrittive. Il discorso stringato e rigoroso deve molto anche all’interesse di Kurek per il linguaggio filmico11. Nell’autobiografico Mój Kraków l’autore ricordava che nel processo di scrittura aveva spesso adoperato uno “sguardo cinematografico” scorgendo nell’arte cinematografica “poesia di alto rango” e “grandi possibilità formali”12. Infatti, il cinema offriva nuovi modelli compositivi (tecniche di montaggio, mescolanza di verità e finzione, giustapposizione di diverse tecniche narrative), invitava ad abbandonare un approfondito background psicologico dei personaggi e a puntare su una narrazione fredda, concreta e oggettiva. Mount Everest 1924 è costruito sulla base di questi principi compositivi e Kurek evita a lungo effusioni liriche narrando i fatti in modo trasparente. Eppure, come nelle poesie e nei romanzi sociali scritti in questo stesso periodo, non vuole rinunciare totalmente né alla liricità, né al moralismo, presenti quando decide di parlare direttamente ai propri lettori e di esprimere l’ammirazione per la sublime pazzia, l’immensità di passione e di eroismo e la genialità tenace. In questi casi non ha nemmeno paura del pathos. Il coinvolgimento emotivo dell’autore viene trasmesso anche attraverso una forte sensorialità – considerata un elemento imprescindibile del buon reportage – presente soprattutto nelle descrizioni della natura. Infatti, dall’inizio la natura è molto presente: affascina gli esploratori inebriando i loro sensi con “orti di tè e di ananas”, “gigantesche felci alte otto piani, coperte, nella parte inferiore, di orchidee”, “sconosciuti fiori bianchi che assomigliano a enormi trombe luccicanti, fosforescenti nel buio e esalanti forti aromi”, “farfalle variopinte”, gazzelle, rondini, allodole e “fagiani animosi”13. Con il passar del tempo l’esuberanza fiabesca lascia spazio a paesaggi montuosi: nudi e venati di rupi scoscese e precipizi “freddi e deprimenti” che diventano minacciosi e preannunziano la catastrofe. Ma anche ora la bellezza delle montagne incanta, mentre i contatti con la ritualità buddista fanno percepire meglio il carattere spirituale di questi luoghi. Questo entourage, animato e antropomorfizzato, non si limita quindi a costituire uno sfondo esotico. Lo spazio assurge a ruolo di simbolo, la natura irrompe nella vita dell’uomo, diventa un tramite con un’altra dimensione, ma contemporaneamente diventa un “quasi-avversario”14 e come tale richiede un sacrificio, anche quello supremo. Il dramma viene intensificato dall’aspetto fisiologico della lotta contro la propria debolezza. Bisogna notare, però, che, considerando lo sforzo intrapreso in condizioni così estreme, Kurek non lo espone eccessivamente, riservandolo piuttosto a contesti in cui il materiale s’incontra con lo spirituale. Brzękowski, Jalu Kurek, Uniwersytet Wrocławski, Wrocław 1977, p. 77. 10 Termini che appaiono in alcuni scritti teorici di Kurek pubblicati su «Linia». 11 Dal 1925 Kurek pubblica su «Głos Narodu» articoli dedicati all’arte cinematografica (sono articoli teorici sul cinema sperimentale e recensioni di film). Cfr. anche J. Kurek, Mój Kraków, cit., pp. 201-202, sui suoi scritti sul cinema e sul suo cortometraggio sperimentale. 12 Ivi, p. 200. 13 “Gaje herbaty i ananasów”, “olbrzymie ośmiopiętrowe paprocie obrośnięte z dołu orchideami”, “jakieś nieznane białe kwiaty o kształtach olbrzymich trąb błyszczały w ciemności, fosforyzując i wydając silną woń”, “wielobarwne motyle”, “nielękliwe bażanty”. Ivi, pp. 14-15. 14 A. Matuszyk, Humanistyczne podstawy teorii sportów przestrzeni (na przykładzie alpinizmu), AWF Kraków, Kraków 1998, pp. 14-16. 95 Monika Gurgul 3. 96 Nonostante la buona accoglienza di Mount Everest 1924, non mancarono critiche. La rivista dedicata all’alpinismo «Taternik»15 sferrò un attacco frontale definendo il testo un “totale equivoco” e rinfacciando all’autore una “assoluta ignoranza” nel campo dell’alpinismo, da cui erano scaturiti errori e incongruenze di ogni tipo: l’elenco degli esempi non è lungo, ma abbraccia varie discipline: geografia, fisiologia, fisica. Il recensore attacca pure il brano in cui si parla della morte degli scalatori: “Non sappiamo e non sapremo mai come sono andate le cose, ma di sicuro non così come ha voluto presentarle Kurek. La sua relazione è assurda sia dal punto di vista oggettivo che da quello psicologico”. Di conseguenza il critico considera il libro “privo di autenticità e di verità” che “alcune descrizioni gustose non salveranno”. Un altro attacco arriva da parte di Stanisław Dobrzycki16 che punta sulle somiglianze tra il testo polacco e le memorie del colonello Edward F. Norton, apparse nel 1927 in francese col titolo La dernière expédition au Mont Everest. Il testo di Kurek sarebbe quindi “in parte una traduzione e in parte un adattamento”. Per confermarlo l’autore mette a confronto due frammenti estrapolati dall’“originale” e dal libro polacco. Infatti, l’unica modifica riguarda la persona del narratore (l’io nortoniano diventa “lui”). Dobrzycki precisa che gli unici brani la cui proprietà artistica può essere attribuita a Kurek sono la parte introduttiva (pp. 1-13) e quella dedicata all’ascensione e alla morte dei due protagonisti (pp. 67-93). Sono gli stessi frammenti contro cui, tra l’altro, si era scagliato il polemista precedente. Kurek accetta la sfida di Dobrzycki, difende le sue posizioni e la sua autodifesa fa capire la complessità della situazione: “Questo romanzo – come spiegava il sottotitolo eliminato in corso di stampa – è un reportage documentario, il che sottolinea doppiamente il fatto che è stato composto sulla base di un documento cioè un rapporto ufficiale steso nel 1924 dai membri della spedizione”17. L’autore conferma di aver utilizzato vari documenti e – considerando il carattere storico dei fatti narrati – di essere rimasto fedele alle descrizioni di Norton-testimone oculare. Si considera “obbligato” a essere fedele ai minimi dettagli tecnici concernenti il percorso, l’organizzazione delle tappe, lo stato di salute degli scalatori. Sottolinea che il suo “reportage documentario” (nella parte centrale) è apposta privo di “aneddoto letterario” e – concepito come relazione – sfrutta le precise parole degli alpinisti presenti sul posto. Con ciò difende e sottolinea l’autenticità della storia. Infatti, il suo testo attinge a piene mani dalla poetica del reportage; accanto all’autenticità possiede tutta una serie di caratteristiche di questo genere, quali attualità, prevalenza della relazione sulla descrizione, o la presenza del narratore che manifesta un rapporto personale con la storia raccontata. Il reportage, diffuso già negli anni ‘20-‘30 nella pratica giornalistica e teorizzato come testimonianza autentica, lascia aperta la questione dei limiti della libertà dell’autore e della soggettività del testo. Lo dimostra la comparsa dei termini reportage narrativo e romanzo 15 J. K. Dor[awski], Jalu Kurek: Mount Everest 1924, in «Taternik», fasc. 2, 1933, p. 46. St. Dobrzycki Jr, Mount Everest 1924. Do Redaktora „Wiadomości Literackich”, in «Wiadomości Literackie», 37, 1933, p. 6. Dobrzycki, figlio di un professore di letteratura, diventerà professore di matematica e sarà legato all’università di Lublino. 17 J. Kurek, O charakter Mount Everest 1924, in «Wiadomości Literackie», 39, p. 4. La risposta di Kurek comporta un nuovo attacco da parte del collaboratore di «Taternik», con cui conferma le sue accuse riguardanti l’imprecisione linguistica dell’autore – frutto dell’ignoranza nel campo dell’alpinismo; di conseguenza “la più autentica delle relazioni approntata in questo modo perde tutta la sua autenticità”, cfr. «Taternik», fasc. 5-6, 1933, p. 132. 16 Mount Everest 1924 di Jalu Kurek reportage18, il che lascia presupporre che Kurek considerasse la sua opera un romanzo reportage. In ogni caso si tratta di un testo di carattere storico19, in cui si raccontano fatti cui l’autore non ha potuto partecipare, utilizzando di conseguenza testimonianze altrui. In tal caso, però, sarebbe stato opportuno corredare il testo con l’elenco delle fonti. Invece, nel testo di Kurek non troviamo riferimenti alle inevitabili letture che hanno preceduto la stesura del libro. Forse si è trattato di negligenza, superficialità e pigrizia intellettuale? Di poco rispetto per gli autori citati e i lettori? Forse perché i fatti erano di dominio pubblico? O era un indizio in più che ogni opera letteraria è in fin dei conti indipendente da tutto il sostrato nonostante ogni gioco intertestuale?20 Kurek, che da tempo sottolinea nel contesto poetico che “bisogna costruire il nuovo”21 anche in riferimento alla prosa, dimostra una predilezione per il libero intreccio dei fatti e della fiction. Sensibile alla dimensione sociale della letteratura, con un approccio moralistico ben visibile nei romanzi scritti in quel periodo, fedele al principio di autenticità, si sente comunque indipendente dalle esigenze del realismo. Il critico di Kurek ha ragione quando sottolinea l’inverosimiglianza delle ultime scene di vita di Mallory e Irvine. Non c’è bisogno di conoscere personalmente la realtà della scalata sull’Himalaya per capire che le conversazioni e le azioni dei due sono poco credibili. Kurek, però, ostenta questa inverosimiglianza, perché in realtà nel suo “romanzo” si sovrappongono un reportage-documento (che gli permette di lavorare vicino alle fonti e, di conseguenza, citare interi frammenti di testimonianze dirette senza apportare modifiche) e un inno alla grandezza dell’uomo. L’autore è consapevole di questa fusione, per esempio quando sottolinea la straordinarietà della situazione rivolgendosi ai lettori: Perdonatemi, lettori – gli alpinisti non possono parlare mentre s’arrampicano. Lo so. Più in alto si trovano, meno parlano. A queste altezze terribili, dove aspirare una boccata d’aria diventa uno sforzo enorme, e fare un passo è un travaglio fisico, non è possibile parlare. Ma come faccio a descrivervi questa immensità di passione e di eroismo, se non li faccio parlare? Lasciateli parlare allora22. Nella dedica che apre il volume leggiamo: Dedico questa descrizione della lotta dell’uomo alle nuove generazioni, che si allontanano dalla letteratura, perché conoscano il valore delle grandi gesta. Non è un romanzo sulla montagna. Fate 18 Il reportage e il romanzo reportage sono discussi sulla stampa, cfr. A. Wat, Reportaż, in «Miesięcznik Literacki», 7, 1930, pp. 330-334; M. Promiński, Powieść i nowela reportażowa, in «Skamander», fasc. 58, 1935, pp. 151-153. Cfr. anche I. Adamczewska, Powieść reportażowa czy dziennikarska? Uwagi o międzywojennej twórczości prozatorskiej Jalu Kurka, in «Acta Universitatis Lodziensis. Folia Litteraria Polonica», 28 (2), 2015, pp. 263-282. 19 Il carattere storico del reportage potrebbe essere un motivo in più per cui la relazione del viaggio è così sintetica. Essere fedeli al vero senza aver partecipato agli eventi probabilmente non rende prolissi. Lo stesso motivo può aver determinato la scelta di una narrazione condotta al passato, evitando il praesens historicus e la sua capacità di rendere il discorso più dinamico ed emozionante per il lettore. 20 Nel corso della polemica nata in seguito alla pubblicazione del romanzo di Kurek Grypa szaleje w Naprawie [L’influenza infierisce a Naprawa, 1934] lo scrittore ribadisce: “La verità si sublima inavvertitamente con i fatti nudi […]. Non riproduco, ma creo”. J. Kurek, Wiersze dla parobków, in «Wiadomości Literackie», 20, 1935, p. 6. 21 J. Kurek, Świadome pisarstwo, in «Linia», 5, 1933, ora in: Artykuły programowe Awangardy Krakowskiej, cit., p. 77. 22 “Darujcie mi, czytelnicy – alpiniści nie mogą mówić podczas marszu w górę. Wiem o tym. Im wyżej idą, tym mniej mówią. Na tych straszliwych wysokościach gdzie zaczerpnięcie oddechu jest niezwykłym wysiłkiem, a uczynienie kroku – męką fizyczną, mowa jest niemożliwa. Ale jakże opiszę wam ten bezmiar namiętności i bohaterstwa, jeśli zamknę im usta? Pozwólcie im mówić”. J. Kurek, Mount Everest, cit., p. 71. 97 Monika Gurgul attenzione alle non frequentate colline di eroismo che vi appaiono davanti. È per voi che semplifico la realtà23. Il fatto è che la realtà Kurek non solo la semplifica, ma soprattutto l’idealizza. In questo libro troveremo la forza e la nobiltà d’animo oppure lo spirito di collaborazione e di solidarietà, non vi troveremo invece né rivalità, né scoraggiamento, né dubbio, né tantomeno timore o rancore. Il materiale documentario fu attentamente selezionato e ne nacque un testo fortemente soggettivo e ideologizzato che, comunque, continua a situarsi nell’ambito del romanzo reportage24 , cucito di stilistiche diverse e distanti tra loro. 4. Negli anni ‘20-‘30 del Novecento la letteratura alpinistica si sviluppava in modo spettacolare: venivano pubblicati libri-documenti, fiction e saggistica, scritti sia dagli stessi alpinisti che da osservatori del fenomeno. Nella produzione letteraria di Kurek Mount Everest 1924 fu considerato “un intermezzo nella sua attività letteraria postbellica”25. Perciò vale la pena chiedersi quali cause, accanto alla moda editoriale, condussero l’autore a dedicarsi all’argomento. Lui stesso rende più facile la risposta. Sulle pagine di Mój Kraków, ritornando all’infanzia e alla prima giovinezza, constata apertamente: A scuola scalavamo sempre più in alto, mentre i nostri genitori invecchiavano. Finalmente, dopo un periodo di faticoso strascicare al buio, ci siamo inerpicati verso un chiarore. Dal basso verso l’aria, lo spazio e il sole davanti agli occhi. Credo che ciò costituisse l’essenza della mia vita sia in senso concreto che in quello metaforico: arrampicarsi. Forse da lì, chissà, nacque l’amore per i Tatra. [...] Mi sento continuamente attratto dalle montagne, proprio perché vengo dal basso26. 98 Kurek non fu l’unico ad associare l’idea dell’alpinismo con l’ascesa sociale. Dopo la Prima guerra mondiale molti giovani, frustrati nelle loro aspettative sociali, “fuggivano in montagna per realizzarvi i propri desideri”27. Ma in questo caso fu senz’altro determinante la personalità dello scrittore, in cui il rapporto molto intimo con le montagne svolse un ruolo importante – sia nella sua vita che in tutto l’ulteriore percorso letterario28. In Mój Kraków scrisse: 23 “Poświęcam ten opis człowieczych zmagań młodemu pokoleniu, oddalającemu się od literatury, aby poznało wartość wielkich czynów. To nie jest powieść o górach. Zwróćcie uwagę na niewydeptane wzgórza bohaterstwa, rosnące przed waszymi krokami. Dla was upraszczam rzeczywistość”. Ivi, p. 7. 24 Nel 1930 Wat dedica a questo aspetto del reportage un intero testo, Reportaż, citato nella nota 19, concentrandosi comunque su contesti strettamente politici. Cfr. anche Z. Bauer, Problem intermedialności reportażu międzywojennego, in: Reportaż w dwudziestoleciu międzywojennym, a cura di K. Stępnik, M. Piechota, Wydawnictwo UMCS, Lublin 2004, pp. 44. 25 E. Cichla-Czarniawska, op. cit., p. 68. 26 “Wspinaliśmy się w szkołach coraz wyżej, rodzicom coraz bardziej siwiały włosy. Nareszcie po mozolnym okresie pełzania w ciemności wydrapaliśmy się na jasność. Z dołu na pierwsze piętro, na front opłynięty powietrzem. Przestrzeń i słońce przed oczami. Chyba to było istotną treścią mojego życia w sensie zarówno konkretnym, jak i metaforycznym: wspinać się do góry. Może i stąd, kto wie – poszło ukochanie Tatr. […] Dlatego mnie ciągnie w góry, że pochodzę z dołu”. J. Kurek, Mój Kraków, cit., p. 43. Tralascio l’aspetto archetipico dell’ascensione valutato tradizionalmente come esperienza positiva. 27 Cfr. E. Roszkowska, Alpinizm europejski 1919-1939. Ludzie–tendencje–osiągnięcia, AWF Kraków, Kraków 2007, p. 78. 28 Kurek, alpinista amatoriale, rimase fedele al tema montano per lunghi decenni, riproponendolo in vari volumi di poesie: Wiersze wybrane (1956), Strumień goryczy (1957), Posągi z wiatru (1966), Wysoka Gierlachowska (1970), Ludowa lutnia (1975), Boże mojego serca (1983), Najkamienniejsze; Wiersze tatrzańskie (1984), nelle prose: Janosik (1945), Księga Tatr (1955), Księga Mount Everest 1924 di Jalu Kurek Non ho mai rispecchiato nelle mie opere emozioni né esperienze personali nate dal contatto con le montagne. I Tatra costituiscono una delle passioni più profonde della mia vita. Sono cose tanto intime da provare vergogna; tanto private che sarebbe un’indelicatezza renderle oggetto di narrazione in una forma o in un’altra. In tal caso sarebbero senz’altro deformate e svalutate, esposte sulla superficie della letteratura e screditate. Le passioni personali non si dovrebbero riprodurre ed esibire [...]. Percorsi i Tatra in lungo e in largo, cosa che hanno fatto pochi, e ogni volta di fronte alle montagne provo una gioia grande e disinteressata. [...] L’alpinismo non ce l’hai nelle gambe, ma nel cuore. […] È questa l’essenza dell’alpinismo, che solo in parte è uno sport, e in parte – quella più importante – è una passione profondamente radicata nella sfera psichica. Per questo motivo sono in conflitto con alcuni alpinisti polacchi della mia generazione che accuso di una consapevole degenerazione dell’alpinismo che li conduce verso la mania del primato, l’acrobazia e il circo29. La citazione mette in evidenza due aspetti. Primo, il bisogno di rimanere vicino alla propria passione scrivendone comunque in modo universale, senza esibizionismo emozionale; secondo, il bisogno di prendere posizione di fronte alle polemiche sullo sviluppo dell’alpinismo. Nella rivalità tra l’alpinismo classico (legato al desiderio di contatto con la natura e di crescita spirituale) e quello eroico (intrappolato nella filosofia del primato, nell’autodisciplina e l’autoperfezione, nella rivalità e il desiderio di riconoscenza)30 Kurek evidentemente si schiera dalla parte del primo. Mount Everest 1924 fu composto in occasione dei giochi olimpici del 1932 di Los Angeles31 e il contesto di promozione dell’idea dell’olimpismo (vicina agli ideali “romantici” dell’autore) costituì un’idonea cornice per il suo discorso. Ma considerando il contesto generale in cui si trovava allora l’alpinismo, il discorso di Kurek sembra muoversi controcorrente: l’alpinismo era stato riconosciuto come disciplina sportiva generando altri valori, e nell’ambiente degli scalatori si parlava ormai apertamente del bisogno di rinunciare alle vecchie mitologie, di decostruire il discorso “romantico” considerato genuino e, di conseguenza, falso. In questo dibattito il libro di Kurek si situa come una voce sorpassata che cerca di difendere l’indifendibile. 5. Quando Jalu Kurek si accingeva a scrivere Mount Everest 1924, l’alpinismo, con diversi suoi condizionamenti, s’era inscritto perfettamente nel complesso clima del Modernismo in cui, accanto alle filosofie vitalistiche, che promuovevano la forza di volontà dell’uomo, si sentivano Tatr wtóra (1978), Uważaj, żmija (1965), Świnia Skała (1970) e in numerosi articoli giornalistici di taglio diverso. In vari testi ritorna il tentativo di mitizzare le montagne. 29 “Nigdy też nie odbiłem w twórczości osobistych wzruszeń i doznań tatrzańskich. Tatry stanowią jedną z najgłębszych pasji mojego życia. Albowiem są to sprawy tak intymnie bliskie i ściśle wewnętrzne, że aż wstydliwe; tak bezwzględnie prywatne, że byłoby nietaktem czynić je obiektem opisu w tej czy innej formie. Musiałyby poza tym z pewnością ulec zniekształceniu, zdeprecjonowaniu; wywleczone na powierzchnię literatury – zostałyby skalane. Namiętności osobistej nie godzi się odtwarzać, poddawać ekshibicjonizmowi. […] Schodziłem Tatry niemal doszczętnie, co jest chyba udziałem niewielu, a za każdym razem przeżywam w obliczu gór radość bezinteresowną i ogromną. […] Taternictwo siedzi nie w nogach, lecz w sercu […]. Oto istota taternictwa, które w połowie tylko jest sportem, zaś z drugiej – ważniejszej – namiętnością drążącą głęboko w sferę psychiczną. Na tym tle jestem poróżniony całkowicie z niektórymi taternikami mojego pokolenia, których oskarżam o świadomą degenerację taternictwa w kierunku rekordomanii, akrobatyki i cyrku”. J. Kurek, Mój Kraków, cit., pp. 258-259. 30 Cfr. E. Roszkowska, op. cit., p. 258. 31 Il testo si trovò tra i cinque lavori premiati al concorso preolimpico polacco bandito dal Ministero della Religione e della Pubblica Istruzione per celebrare l’evento. 99 Monika Gurgul 100 toni crepuscolari e catastrofici. Come forma di atteggiamento positivo, nel paesaggio culturale europeo l’alpinismo stava diventando un fenomeno che superava di gran lunga l’ambito puramente sportivo. Nato nell’Ottocento dall’inquietudine britannica di conoscere e dall’indomabile desiderio di conquistare nuovi obiettivi, all’inizio del Novecento aveva fatto un salto di qualità e, con l’aumentare dei vari nazionalismi europei, stava diventando simbolo di prestigio nazionale32, destando negli alpinisti orgoglio e soddisfazione, in crescita grazie alle sponsorizzazioni ufficiali e all’introduzione di onorificenze nazionali e medaglie come segno di riconoscimento. L’alpinismo, come altre discipline sportive (o forse più di esse), si collocava pienamente nell’ideologia della conquista, il cui obiettivo era la creazione dell’uomo nuovo – oggetto dei dibattiti dei nazionalisti, gli entusiasti di Nietzsche, i seguaci del pragmatismo o gli estimatori delle correnti occultistiche del tempo. L’uomo nuovo doveva essere attivo e determinato, consapevole della propria potenza, dedito all’idea della Patria. Kurek, sensibile ai richiami del patriottismo (evidente anche nella dedica sopraccitata), senza dubbio non rimase indifferente di fronte a questa dimensione dell’alpinismo. Su queste idee era stato fondato anche il movimento futurista italiano, che il giovane poeta aveva promosso in Polonia e con cui aveva avuto contatti durante il suo soggiorno in Italia negli anni ‘20. Ma proprio l’analisi del discorso artistico del futurismo fa vedere che l’apologia della volontà e l’entusiastico sguardo verso il futuro hanno l’intento di bilanciare il clima decadente, radicato nella cultura europea del primo Novecento, da cui non sono liberi neanche gli stessi futuristi33. I toni crepuscolari apparvero più volte nelle opere di Kurek negli anni ‘20-‘3034, dimostrando una chiara inclinazione verso una visione del mondo più complessa e dolorosa, e spiegando in un certo senso un suo incompleto immedesimarsi con i postulati teorici dell’Avanguardia Cracoviana, cui volle legare le sue sorti artistiche all’epoca, superato il periodo futurista. Una simile incrinatura apparve evidente nell’idea dell’alpinismo in cui la lotta contro le forze naturali e l’intensità di esperienze estreme comportano un rischio continuo di morte. Nella pubblicistica del tempo si sentono voci come questa: Tutti questi ragazzi che sprizzano energia, dubitano, senza saperlo naturalmente, della vita odierna e delle loro possibilità. Sembrano avere troppe forze, troppa vitalità animalesca che vuole manifestarsi, vuole vivere. Ma in fondo all’anima si nasconde la morte che desidera l’autodistruzione. Questa scalata che possiamo osservare è l’effetto di una lotta invisibile di questa personalità divisa. Cercano 32 Negli anni ‘20 e ‘30 in vari Paesi (non solo quelli in cui si sviluppavano regimi totalitari) l’alpinismo e le idee ad esso legate si utilizzavano a scopo propagandistico e in Italia venne addirittura subordinato agli obiettivi militari: agli alpinisti fu affidato il compito di addestrare gli alpini, destinati a svolgere attività militari sul terreno montuoso. Cfr. E. Roszkowska, op. cit., pp. 47-100. 33 Il mainstream futurista deve essere trattato come espressione del programma positivo, ma nello stesso tempo il timore e la diffidenza nei confronti del mondo moderno, tipici del decadentismo, sono facilmente riscontrabili per es. nella drammaturgia futurista, cfr. M. Gurgul, W drodze do gwiazd. O teatrze i dramacie włoskiego futuryzmu, Wydawnictwo Uniwersytetu Jagiellońskiego, Kraków 2009. 34 Cfr. per es. i romanzi scritti da Kurek negli anni ‘20: in Kim był Andrzej Panik? Andrzej Panik zamordował Amundsena e SOS si notano ansia e inquietudine esistenziale, opposizione e contrasto tra civiltà e natura e un evidente timore nei confronti della nuova realtà industrializzata e urbana corredato da immagini tetre e brutali. Questo rapporto con la realtà frutterà una liricità sempre più drammatica in poesia, per es. nel volume Mohiganges. Mount Everest 1924 di Jalu Kurek la morte e non lo sanno – continuano a lottare per la vita senza credere di farcela. Affascinati dalle ette e dalla vittoria [...] sono pronti a cadere e morire35. In effetti, analizzando il problema nello spirito della teoria dei giochi, esposta da Roger Caillois nel libro Les jeux et les hommes, non è possibile prescindere, nell’analisi delle esperienze spaziali dell’alpinista, dalla presenza delle categorie quali ilinx (la vertigine, vista come una forma di autoprovocazione di fronte al rischio, che porta sull’orlo della trasgressione) e alea (l’azzardo, un abbandonarsi passivo alla sorte). In un’apostrofe alle montagne in Mój Kraków Kurek scrisse: “Un professore di geografia vedrà in voi una struttura verticale del terreno, e io ci vedo un mondo che mi tormenta di notte, per cui vale la pena morire”36. In Mount Everest 1924 il carattere crepuscolare del discorso si manifesta inevitabilmente nei momenti in cui il cammino terrestre dei due scalatori sta per finire, ma una sorta di presentimento, un soffio agghiacciante li accompagna per tutto il viaggio. La morte s’avvicina gradualmente37. La natura affascina, attirando in trappola (“Il sole scottava. Si faceva sentire un venticello proveniente dall’est, tiepido e delicato. Il ghiacciaio prendeva le forme più fantasiose. E da tanto che aveva smesso di essere un bosco; ora era una città. Possedeva chiese grandiose, torri di cristallo e altri miracoli di ghiaccio”, mentre “il ghiaccio era scivoloso e nascondeva crepacci insidiosi”38), e alla fine reclama le vite dei giovani temerari: Andavano avanti con la forza delle gambe, delle mani, dei polmoni e del cuore. Sconfiggevano le montagne con il pensiero, l’ambizione, la volontà, la nostalgia – con lo spirito. [...] Si muovevano quasi carponi aggrappandosi alle pietre e soccorrendo in questo modo le gambe vacillanti. Così viaggiavano le due anime verso Dio tra le più pure illuminazioni e l’estasi. Era un viaggio verso la grandezza dell’uomo39. 35 “Wszyscy ci tryskający siłą chłopcy są – oni o tym naturalnie nie wiedzą – ludźmi wątpiącymi w dzisiejsze życie i jego możliwości. Mają jakby za wiele siły, zwierzęcej witalności, która chce się przebić, chce żyć. Ale w głębi duszy drzemie śmierć, która chce samounicestwienia. Ta widoczna dla nas wspinaczka jest efektem niewidocznej walki tej podzielonej osobowości. Szukają śmierci, nie wiedzą o tym – walczą wciąż, zrezygnowani, o życie… Rozkoszują się szczytem i zwycięstwem… i są gotowi spaść i umrzeć”. H. Hoek, Das „Warum” des Alpinismus, in «Bergsteiger», 1933, p. 1-2 (cit. in: E. Roszkowska, op. cit., p. 97). 36 “Profesor geografii zobaczy w was tzw. ukształtowanie pionowe, a ja widzę świat męczący mnie po nocach, dla którego warto zginąć”. J. Kurek, Mount Everest, cit., p. 93. 37 “L’itinerario che partiva dal campo III su Czang La era una delle tappe più difficili di tutte le spedizioni. Mallory, che non lo stava percorrendo per la prima volta, si fermava ogni tanto origliando il muoversi della neve. Proprio lì, nel 1922, erano stati travolti dalla valanga che aveva ucciso i sette portatori”. (Droga z obozu III na Czang La była jednym z najcięższych etapów wszystkich wypraw. Mallory, który szedł tędy nie po raz pierwszy, zatrzymywał się co chwilę, nasłuchując ruchu śniegów. Na tym bowiem odcinku w r. 1922 zmiotła ich lawina, która zabiła siedmiu kulisów, p. 30); a questo evento Kurek ritorna a pp. 34-35. “La notte era terribile. Il vento sbatacchiava le tende, infuriava tirando neve dentro. All’una di notte la furia della bufera raggiunse il suo apice. Gli alpinisti videro la morte negli occhi. Eppure resistettero”. (Noc była okropna. Wiatr trząsł namiotami, zawiewał zimnym śniegiem do środka. O 1-ej w nocy wściekłość żywiołu osiągnęła swój szczyt; śmierć zaglądała w oczy alpinistom. Mimo to przetrwali, p. 51). 38 “Słońce dogrzewało mocno. Zawiewał lekko wiatr wschodni, ciepły i delikatny. W drodze lodowiec przybierał najfantastyczniejsze kształty. Już dawno przestał być lasem; był miastem. Posiadał wspaniałe kościoły, wieże krystaliczne i inne cuda lodowe”. “Lód był śliski i krył w sobie zdradzieckie rozpadliny”. Ivi, p. 26 e p. 30. 39 “Posuwali się nogami, rękami, płucami, sercem – ciałem. Pokonywali górę myślą, ambicją, wolą, tęsknotą – duchem”. “Szli niemal na czworakach, czepiając się rękami kamieni i wspomagając chwiejące się nogi. Tak wędrowały dwie dusze do Boga na granicy najczystszych olśnień i zachwytów. Była to podróż ludzkiej wzniosłości”. IVI, p. 79 e p. 86. 101 Monika Gurgul La morte è un motivo decadente, ma la morte per un’idea è tutta un’altra cosa. La sovrapposizione delle due idee fa toccare l’essenza del Modernismo, costruito sia dalle immagini della straordinarietà del superuomo che da quelle della debolezza dell’individuo inerme di fronte all’orrore esistenziale. 6. Considerando tutto ciò pare che il libro possa essere considerato solo apparentemente “un intermezzo” nel percorso letterario di Kurek. A pensarci bene sembra piuttosto un suo elemento necessario. Con quest’opera Kurek realizza una serie di bisogni personali, si inscrive nel complesso clima del Modernismo, sperimenta con lo stile e con la lingua cercando una forma d’espressione originale tra fiction e non fiction. E ancora dopo vent’anni sentirà il desiderio di tornare a questo tipo di esperienza artistica misurandosi con un tema simile: nel 1953 verrà pubblicato Węzeł Garmo, dove l’autore presenterà le sorti della spedizione russa intrapresa nel 1933 sulle montagne del Pamir, in cui i lettori ritroveranno inevitabilmente echi del Mount Everest 1924. Abstract 102 Monika Gurgul Mount Everest 1924 by Jalu Kurek The article is devoted to the non-fiction novel by Jalu Kurek Mount Everest 1924 published in 1933. We argue against the point of view expressed by critics who claimed that this book has to be seen only as a kind of “intermezzo” in the writer’s career. The book’s various aspects are connected with contemporary market trends, formal experiments, specific topics (the passion for climbing and the position taken in the discussion about the future of Alpinism) and ideological contexts (the fundamental aporias of modernism: faith in progress and in the post-Nietzschean new man versus existential anxiety of an attentive observer of the world). All this makes it an important element of the artistic journey of this Cracovian poet and prose writer. Keywords: Jalu Kurek, Mount Everest, alpinism, reportage, non-fiction novel, modernism «pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», (VII) 7, 2016, pp. 93-102 Emiliano Ranocchi Manifesti del futurismo polacco L a presente raccolta è stata pensata in primo luogo per permettere al lettore non padrone della lingua polacca di accostarsi ai principali testi teorici del futurismo polacco. Essa implica però anche qualche riflessione di carattere teorico e critico-letterario. Già sull’aggettivo “teorici” occorre operare delle distinzioni. Ormai da qualche decennio è in atto una riflessione approfondita, volta a determinare se il manifesto vada o meno considerato un genere letterario autonomo e, in caso di risposta positiva, indicare i tratti peculiari e irrinunciabili che lo descrivono. Il problema del manifesto, infatti, è la sua sostanza ibrida, in bilico tra letteratura e azione, che ha portato alcuni studiosi1 a descriverlo facendo uso della teoria degli atti linguistici di John L. Austin2, trasportando così un genere, fino a quel momento visto perlopiù come teorico e pertanto analizzato in termini di semantica, nell’orbita della pragmatica. In quest’ultima, com’è noto, l’interpretazione dell’atto linguistico è inseparabile dal suo contesto e una funzione fondamentale viene attribuita alla categoria dell’intenzionalità. Secondo questa linea di ricerca nella definizione di manifesto non potrebbe mancare la funzione pragmatica di “comunicare delle intenzioni”3. Il manifesto dunque, definito tale in virtù del suo carattere illocutivo, perde la sua determinatezza formale in termini di teoria tradizionale dei generi letterari, dal momento che qualsivoglia testo può essere definito manifesto se comunica delle intenzioni. Peraltro una definizione del manifesto che prenda le mosse dal suo carattere di atto performativo è andata incontro da subito a una serie di difficoltà per via del carattere razionale che quella stessa performatività riveste nella teoria di Austin. Una performatività così concepita non appare adeguata a descrivere testi letterari che spesso giocano consapevolmente con la categoria di intenzionalità, quando non la rifiutano del tutto, come accade con i manifesti dadaisti (nella nostra raccolta è il caso del primo manifesto del futurismo di Varsavia, I primitivisti alle nazioni del mondo, contenuto nell’almanacco Gga). È d’altronde indubbiamente vero che in quest’ultimo caso i fautori dell’ermeneutica in chiave intenzionale possono comunque leggere l’anti-intenzionalità dei manifesti dadaisti come una intenzionalità à rebours (anche dare ad intendere di non avere intenzioni da comunicare è una comunicazione di intenzioni). Nella critica alla definizione del manifesto in categorie pragmatiche ha portato un contributo fondamentale il dibattito iniziato dalla scuola poststrutturalista, in particolare da Jacques Derrida, 1 L. Somigli, Legitimizing the Artist. Manifesto Writing and European Modernism, 1885-1915, University of Toronto Press, Toronto 2003; Martin Puchner, Poetry of the Revolution. Marx, Manifestos and the Avant-gardes, Princeton University Press, Princeton Oxford 2006; B. Wagner, Auslöschen, vernichten, gründen, schaffen. Zu den performativen Funktionen der Manifeste, in: Die ganze Welt ist eine Manifestation. Die Europäische Avantgarde und ihre Manifeste, a cura di Wolfgang Asholt e Walter Fähnders, WBG, Darmstadt 1997, pp. 39-57. 2 J.L. Austin, How to Do Things with Words, Harvard University Press, Cambridge 1975. 3 W. Asholt, Intentionale Strategien in futuristischen, dadaistischen und surrealistischen Manifesten, in: Manifeste: Intentionalität, a cura di H. van den Berg e R. Grüttemeier, Rodopi, Amsterdam-Atlanta 1998, p. 17. 103 Emiliano Ranocchi 104 che ha posto in discussione i presupposti della teoria di Austin, mettendo in evidenza il ruolo “costruttivo” di ogni analisi pragmatica. Quest’ultima, piuttosto che mettere in luce le intenzioni obiettivamente inerenti a un determinato atto linguistico, non farebbe che riattivarle, non sarebbe dunque mai esterna al testo analizzato. La critica che si è occupata dei manifesti tuttavia, salvo qualche caso marginale, non sembra aver tenuto in gran conto questa discussione e tende a tutt’ora a prendere sul serio l’intenzionalità del manifesto d’avanguardia e pertanto a interpretarlo facendo uso, in maniera più o meno rigida, delle categorie mutuate dalla teoria di Austin e dei suoi seguaci. In questo modo, come fa notare Hjartarson, “tutti gli aspetti irrazionali, ludici e mitografici che sono parte costitutiva della retorica delle avanguardie e travalicano la cornice teorica di una interpretazione fondata sull’analisi linguistica, scompaiono dalla vista” o quanto meno “possono assumere solo una posizione marginale all’interno di una definizione pragmatica del genere manifesto”4. Sintomatica a questo proposito è stata la sottovalutazione da parte della critica polacca del primo manifesto del futurismo di Varsavia proprio come atto performativo. Fin dal suo apparire, infatti, è stata ripetutamente messa in evidenza la sua scarsa originalità, la sua contraddittorietà e la nebulosità dei suoi intenti. Ciò ha paradossalmente impedito di cogliere che il valore performativo di questo manifesto, a differenza dei successivi manifesti di Jasieński, stava proprio nella sua anti-intenzionalità, e dunque la sua valutazione in termini di originalità e coerenza di contenuti va considerata un malinteso5. La poetica di Prymitywiści do narodów świata i do Polski infatti non è quella del manifesto futurista, alla quale possono essere ricollegati i manifesti di Jasieński, bensì quella dell’antimanifesto dadaista (cosa peraltro colta dalla critica, senza tuttavia trarne le dovute conclusioni). Non è nostra intenzione in questa sede (né sarebbe probabilmente opportuno in generale) cercare di superare la dicotomia tra manifesto come testo secondario il cui scopo è quello di spiegare al pubblico le intenzioni dell’autore o del gruppo che rappresenta, quando queste siano reputate come non più intelligibili o direttamente ricavabili dall’operato artistico, e manifesto come genere letterario autonomo e parificato ad altri consacrati dalla tradizione. Una lunga tradizione editoriale convalidata, se non addirittura iniziata, dal futurismo italiano ha imposto ormai da un secolo al pubblico dei lettori una lettura parallela dei manifesti e delle opere poetiche e narrative, consacrando l’autoriflessione a elemento costitutivo del discorso estetico del modernismo. Va inoltre ricordato che, se gli enunciati performativi contenuti in una parte considerevole dei manifesti delle prime avanguardie vanno giustamente individuati e analizzati, nella maggior parte dei casi sarebbe ingenuo e fuorviante attribuire loro una valenza politica, ovvero prenderli alla lettera come espressioni di intenti immediatamente realizzabili nella realtà. La poetica della metafora, ingrediente costitutivo del genere manifesto alla pari di altri generi letterari, a dispetto di tutte le dichiarazioni in esso contenute, ne sposta di nuovo il campo d’appartenenza verso la letteratura. Del resto il flirt del manifesto artistico con la politica è all’origine stessa del manifesto come genere letterario, dal momento che esso fin dagli esordi della sua storia come genere autonomo (nella seconda metà dell’Ottocento) prende a modello il manifesto politico (un esempio straordinario di pastiche stilistico basato sui proclami politici sono il Manifesto al popolo polacco in relazione a un’immediata futurizzazione della vita e il Manifesto della poesia futurista che qui pubblichiamo in traduzione). 4 B. Hjartarson, Visionen des Neuen. Eine diskurshistorische Analyse des frühen avantgardistischen Manifests, Winter Verlag, Heidelberg 2013, p. 27. 5 Cfr. A. Lam, Polska awangarda poetycka. Programy lat 1917-1923, t. 1, Wydawnictwo Literackie, Kraków 1969, p. 167. Manifesti del futurismo polacco Ed è proprio la natura anfibia del manifesto tra letteratura e impegno politico una delle aporie più interessanti della breve parabola del futurismo polacco, riscontrabile pienamente già nei testi che qui mettiamo per la prima volta a disposizione del lettore italiano. Per questo motivo includiamo non solo i primi manifesti propriamente detti, cioè quelli che si autodefiniscono come tali, pubblicati nell’almanacco Gga e nella prima Jednodńuwka, e l’ultimo, molto meno noto, pubblicato nel primo e ultimo numero di «Awangarda» (1924), ma anche un testo autoriflessivo di fondamentale rilevanza per la comprensione dell’immagine che l’ideologo del movimento, Bruno Jasieński, aveva dello stesso, ovvero il vasto articolo pubblicato nel sesto numero di «Zwrotnica» del 1923 e intitolato Il futurismo polacco (un bilancio), nel quale Jasieński spiegava ai lettori perché il futurismo polacco fosse finito. Con qualche semplificazione si può dire che il futurismo polacco finisca nel momento in cui la metafora cessa di soddisfare Jasieński come arma politica. Di questa svolta è testimonianza significativa l’introduzione alla raccolta poetica di Stern e Jasieński del 1924, recante un titolo che non lasciava dubbi quanto alla direzione politica che gli ex futuristi avevano intrapreso, La terra a sinistra. In fondo proprio la meteora del futurismo polacco smaschera al meglio l’equivoco sulla performatività del manifesto come atto linguistico, una performatività talmente metaforica che a uno scrittore come Jasieński, il quale ambiva fattualmente a cambiare il mondo, non bastava più. La rivoluzione doveva prendere il posto dello happening. I testi selezionati per questa piccola antologia, da quelli entrati fin dall’inizio nel canone del futurismo polacco a quelli presentati qui per la prima volta (e non solo per il lettore italiano), vogliono essere anche testimonianza di una realtà che, pur nella brevità della sua durata, fu ben più complessa dell’immagine semplificata tramandataci dalla vulgata manualistica. È infatti invalsa una lettura triadica (il cui sostrato ideologico non sfugge a nessuno6) dell’evoluzione del futurismo polacco: da una prima fase anarchico-individualistica, identificata nel gruppo di Varsavia e qui rappresentata dal manifesto Prymitywiści do narodów świata i do Polski, attraverso la fase utopica, sopravvenuta dopo la riunione dei due gruppi sotto la guida di Jasieński, all’insegna di un ideale artistico già orientato verso modelli di carattere costruttivistico, fino alla fase finale, coincidente con lo scioglimento del gruppo e il diretto impegno politico di alcuni dei suoi rappresentanti. La critica più recente ha giustamente avvertito la necessità di scorporare questa struttura schematica in narrazioni minori, individuali, che tengano conto anche di personalità originali e non facilmente riconducibili a una narrazione unitaria, come quella del pittore-poeta Tytus Czyżewski, di cui traduciamo due brevi e rappresentativi manifesti, il cui legame con l’esperienza del Formismo non si interruppe mai, o quella dei futuristi “minori”, non appartenenti al gruppo ufficiale, opportunamente ricordati da Krzysztof Jaworski nella parte critica di questa pubblicazione. Presentiamo infine in traduzione per la prima volta dalla sua uscita nel 1924 un testo di difficile reperimento, non un manifesto in senso stretto, ma una risposta di Stern a Irzykowski che si inserisce all’interno della polemica sul carattere plagiario del futurismo polacco, di cui parla l’articolo di Andrea De Carlo, e che ritorna sul tema cruciale della macchina dimostrando come le posizioni espresse da Jasieński nei suoi manifesti e nel suo saggio Il futurismo polacco (un bilancio) fossero condivise come programma ideologico del movimento. Un’ultima precisazione. Dopo un’attenta riflessione abbiamo rinunciato al tentativo di rendere in italiano la grafia riformata utilizzata da Jasieński nei testi pubblicati nelle due 6 Cfr. H. Zaworska, O nową sztukę. Polskie programy artystyczne lat 1917-1922, Państwowy Instytut Wydawniczy, Warszawa 1963, p. 180. 105 Emiliano Ranocchi jednodńuwki (qui in particolare si tratta dei quattro manifesti fondamentali Al popolo polacco in relazione a un’immediata futurizzazione della vita, Manifesto sulla critica artistica, Manifesto sulla poesia futurista e Manifesto sull’ortografia fonetica che appunto ne rende conto). Siamo consapevoli che con ciò va perduto un elemento fondamentale della facies testuale, tutt’altro che accessorio rispetto al contenuto ideologico, ma le possibilità fonetiche e ortografiche dell’italiano si sono rivelate estremamente limitate per poter efficacemente far fronte all’operazione proposta da Jasieński per il polacco. La riforma ortografica attende ancora uno studio approfondito che ne metta in evidenza, al di là dell’aspetto dissacratorio di facciata, la sua profonda consonanza con le coeve riflessioni sulla fonologia di linguisti come Jan Baudouin de Courtenay. In compenso abbiamo posto particolare attenzione alla resa grafica, un aspetto troppo spesso trascurato nelle edizioni polacche di questi testi. Soprattutto per quelli in cui l’aspetto grafico dell’originale è marcato (ciò vale in particolare per il manifesto dei futuristi di Varsavia che apre l’antologia e per una parte dei testi tratti dalla prima jednodńuwka) ci siamo sforzati il più possibile che anche la traduzione fosse rispettosa dell’originale nell’uso del grassetto, delle spaziature e delle svariate dimensioni dei caratteri. 106 Manifesti del futurismo polacco Anatol Stern, Aleksander Wat I PRIMITIVISTI ALLE NAZIONI DEL MONDO E ALLA POLONIA 7 la grande scimmia arcobaleno chiamata Dioniso è crepata ormai da tempo. gettiamo via la sua putrida eredità proclamiamo: I. LA CIVILTÀ, LA CULTURA, CON LA LORO MORBOSITÀ – NELL’IMMONDEZZAIO. scegliamo la semplicità, la rozzezza, l’allegria, la salute, la trivialità, il riso. il riso ingrassa l’anima e le fa venire i polpacci forti e grossi. rinunciamo liberamente al decoro, alla serietà, al pietismo. le foglie d’alloro con cui cingete i nostri capi le useremo come erbe aromatiche. II. CANCELLIAMO LA STORIA E LA POSTERITÀ. nonché roma tolstoj, la critica i cappelli le indie la baviera e cracovia. la polonia deve ricusare la tradizione, la mummia del principe giuseppe e il teatro. la città la distruggiamo. ogni meccanismo – gli aeroplani, i tramvai, le invenzioni il telefono. al loro posto mezzi primitivi di comunicazione. l’apoteosi del cavallo. case soltanto pieghevoli e portatili. un linguaggio urlato e rimato. III. il sistema sociale lo intendiamo come potere di autentici imbecilli e capitalisti, è il terreno più fertile per il riso e per la rivoluzione. IV. le guerre si dovrebbero fare a scazzottate. l’omicidio è antiigienico. le donne bisogna cambiarle spesso il valore di una donna consiste nella sua fertilità. V. IL PRIMITIVO. VI. arte è solo ciò che dà salute e riso. L’ESSENZA DELL’ARTE STA NEL SUO CARATTERE DI SPETTACOLO CIRCENSE PER LE GRANDI MASSE. sue caratteristiche sono esteriorità ordinarietà e pornografia non celata. l’arte è scienza. spazziamo via dalla losca taverna dell’infinito, quelle misere isteriche creature chiamate poeti, schiacciate dall’inappagamento dal dolore dalla gioia di vivere, dall’estasi dall’estetica, dall’ispirazione, dall’eternità. invece dell’estetica l’antigrazioso. invece dell’estasi - l’intelletto. creazione consapevole e intenzionale. 7 A. Wat, A. Stern, Prymitywiści do narodów świata i do Polski, in: Idem, Gga. Pierwszy polski almanach poezji futurystycznej, Warszawa 1920. Una traduzione italiana, incompleta e non scevra da refusi, era già uscita in: Wl. Krysinski, Un'automobile, una mitragliatrice, uno schiaffo, una scimmia crepata. Confronto tra Futurismo italiano e Futurismi slavi, in «Avanguardia Rivista di letteratura contemporanea», I/2, 1996, pp. 108-118. Una seconda traduzione, anch’essa incompleta e in qualche punto lievemente discordante dall’originale (perché basata sulla citazione orale), è contenuta in: A. Wat, Il mio secolo. Memorie e discorsi con Czesław Miłosz, a cura di L. Marinelli, Sellerio Editore, Palermo 2013, pp. 54-55. Ove non indicato diversamente, tutte le note vanno intese come note del traduttore. 107 Manifesti del futurismo polacco VII. oggetti vorticanti come materiale d’arte. trasformare i teatri in edifici circensi. musica è l’urtarsi reciproco di due o più corpi. tutto il resto è frastuono. combattiamo il violino anti-futurista e tutte le voci della natura. risse di strada con i beethoveniani. bisogna strappare dalle pareti quei pezzi di tela chiamati quadri. dipingere le facce i vestiti la biancheria. la gente, le case i marciapiedi. la scultura non esiste. VIII. la poesia. manteniamo rima e ritmo poiché sono primari e fecondi. distruzione delle regole che limitano la creatività il pregio della goffaggine. arbitrarietà di forme grammaticali, di ortografia e punteggiatura, a discrezione dell’autore. mickiewicz è limitato. słowacki è un farnetico incomprensibile. LE PAROLE hanno un proprio peso, un suono, un colore, un proprio contorno, OCCUPANO POSTO NELLO SPAZIO. questi sono i valori decisivi della parola, le parole più brevi (il suono) e le parole più lunghe (il libro). il significato di una parola è un fattore secondario e non dipende dall’idea attribuitale bisogna trattarla come materiale sonoro USATO IN MODO NON ONOMATOPEICO. IX. i principali valori di un libro sono il formato e il suo carattere solo dopo di questi - la trama. pertanto il poeta deve essere al contempo addetto alla composizione e rilegatura del proprio libro deve lui stesso urlarlo ovunque, non declamarlo, per diffonderlo - usare il grammofono e il cinema, i giornali. grammofoni ambulanti, la tela dello schermo, oppure la parete come pagina di un libro letto collettivamente, giornali redatti esclusivamente da poeti. X. esaltiamo la ragione e per questo rigettiamo anche la logica, 108 limitazione e vigliaccheria dell’intelletto. il nonsense è meraviglioso per il suo contenuto intraducibile che accentua la nostra ampiezza e forza creativa. parimenti l’arte rende esplicito il nostro amore per gli esseri umani e per tutte le cose. spiriamo amore apriamo gli occhi. allora un maiale ci sembrerà più affascinante di un usignolo, e il gga di un papero ci incanterà più del canto di un cigno. gga. gga signori, è sceso sull’arena del mondo, sventolando la sua doppia g, a grida, a – è la bocca di questa bestia meravigliosa e volgare. anzi il suo muso, ceffo o grugno. [Traduzione Lidia Mafrica] Manifesti del futurismo polacco Bruno Jasieński AL POPOLO POLACCO IN RELAZIONE A UN’IMMEDIATA FUTURIZZAZIONE DELLA VITA 8 Avendo ben chiaro che una riforma sporadica e isolata dell’arte a prescindere dal suo legame con la vita stessa, della quale ogni arte è battito e funzione organica, deve necessariamente risultare vuota, sterile e inutile, non avendo contemporaneamente il tempo per compiere necessari passi preliminari e propedeutici in codesta direzione – la vita e l’arte polacche minacciano di morire soffocate e l’unico mezzo possibile ed efficace in tale caso è una tempestiva tracheotomia – noi, futuristi polacchi, ci accingiamo oggi a una grande e radicale ristrutturazione e riorganizzazione della vita polacca e chiamiamo tutti gli abitanti della libera Repubblica Polacca a un’azione comune organizzata e al soccorso. La guerra mondiale con l’immenso spostamento di interi stati, classi e nazioni ha causato un grande spostamento di valori. Il risultato è la crisi della cultura che sta davanti agli occhi di tutta l’Europa occidentale e orientale. Da noi questa crisi si manifesta in forma particolarmente acuta e specifica. Un secolo e mezzo di servitù politica hanno impresso su tutta la nostra fisionomia, psiche e produzione un marchio duro e indelebile. La nostra consapevolezza culturale non ha potuto svilupparsi con la libertà di cui godevano gli stati occidentali. Era giocoforza che tutta la nostra energia nazionale si sfogasse nell’esercizio della massima resistenza, in una estenuante e laboriosa lotta per la sopravvivenza della lingua, della vita e delle organizzazioni nostre. In questa stessa lotta per la sopravvivenza del nostro “io” nazionale e per la costruzione di una psiche nazionale dura, infrangibile, resistente a tutto e capace di vivere si è sfogata anche l’arte polacca. Noi, futuristi polacchi, vogliamo qui rendere omaggio alla poesia romantica polacca del tempo di cattività, i cui fantasmi oggi rincorreremo e a cui daremo il colpo di grazia senza pietà – omaggio perché in tempi, nei quali il Popolo Polacco si ripiegava in se stesso e lentamente maturava, essa non fu arte “pura”, bensì profondamente nazionale, perché fu scritta con la linfa e il sangue della vita che scorre tumultuosa, perché fu battito e grido del proprio giorno, quale in generale ed esclusivamente ogni arte può e deve essere. Per questi stessi motivi oggi, quando con la riconquista dell’autonomia politica la vita polacca è entrata in una fase completamente nuova e si è ritrovata davanti milioni di problemi che stavano in agguato alle sue porte, ai quali ancora ieri non v’era neppure il tempo di pensare, e ai quali oggi occorre dare già una risposta immediata e categorica, se non vogliamo che le onde incombenti di nuovo ci travolgano, gridiamo a voi: Basta essere un popolo-panottico che produce solo mummie e reliquie. Un presente matto e irrefrenabile picchia a tutte le nostre porte e finestre, grida, attira su di sé l’attenzione, avanza pretese. Se non siamo in grado di dar vita a nuove categorie, nelle quali possa trovar posto, se non siamo in grado di creare una nuova arte, nella quale esso possa esprimersi fino in fondo in forma di canto – non sopravvivremo. 8 B. Jasieński, Do narodu polskiego w sprawie natyhmiastowej futuryzacji żyća, in: Jednodńuwka futurystuw. Mańifesty futuryzmu polskiego, wydańe nadzwyczajne na całą żeczpospolitą polską, Kraków, giugno 1921, pp. 1-2. 109 Manifesti del futurismo polacco Occorre spalancare tutte le porte e le finestre, svanisca il tanfo di cantine e di incenso da chiesa, che vi hanno educato a respirare fin da piccoli. Con gli occhi fissi su giganteschi respiratori vi veniamo incontro. Sulla scia di St. Brzozowski annunciamo una grande svendita di vecchie cianfrusaglie. Vendiamo a prezzi stracciati vecchie tradizioni, categorie, abitudini, uova pasquali decorate e feticci. Il gran panottico nazionale del Wawel. Da piazze, giardinetti e vie trascineremo via con le carriole le mummie rinsecchite dei mickiewicz e degli słowacki. È ora di liberare i piedistalli, ripulire le piazze, preparare il posto a quelli che vengono. Noi, uomini dai vasti polmoni e dalle spalle robuste, starnutiamo ai nauseanti odori del vostro messianismo di ieri e vi proponiamo un messianismo nuovo, unico, contemporaneo e pazzo. Se non volete essere l’ultima nazione in Europa, ma se al contrario volete essere la prima, finitela una buona volta di cibarvi di vecchi avanzi dalla cucina dell’Occidente (ci possiamo permettere un menù tutto nostro), e nella grande gara per il record della civiltà affrettatevi alla meta a passi brevi e sintetici. 110 Ci accingiamo a costruire una nuova casa per il Popolo Polacco allargato che nella vecchia ormai non ci entrava più. Da soli non ce la facciamo. Invitiamo tutti i vivi, tutti coloro cui la vecchia casa va stretta e tutti i volenterosi ad aiutarci. Dichiariamo: Il grande spostamento delle classi a Oriente e ad Occidente continua. Prende la parola una nuova forza – il proletariato consapevole. Ha inizio la grande trasvalutazione dei valori. Si misurano tutte le giustizie e le ingiustizie di una cultura millenaria, creata alle sue spalle e a suo costo. Si misurano con l’unico criterio della vita militante: il lavoro duro, ferreo, organico. Segue una grande revisione delle tessere. Chi non è in grado di render conto della parte da lui svolta nella vita con quest’unica moneta – non la passerà. Sottolineiamo i tre momenti fondamentali della vita contemporanea: la macchina, la democrazia e la folla. La vita delle classi intellettuali sta attraversando un lento periodo di degenerazione e nevrastenia. Le categorie di un tempo hanno ormai perso la loro attualità e si sono consunte. Di nuove non ve ne sono ancora. È un momento di crisi generale. La vita stessa, invece di essere per principio gioia e ditirambo, assume sempre più distintamente il carattere di un duro obbligo imposto dall’esterno. L’uomo moderno non è più capace di gioire in maniera organica della vita. L’epidemia di suicidi, di deragliamenti, di esaurimenti e ipertragedizzazioni non è che la logica conclusione del fenomeno in questione. Questo stato di cose non può più rimanere a lungo immutato. Occorre intraprendere una terapia di cura immediata ed energica. Come uno dei fattori decisivi proponiamo: Più sole. Manifesti del futurismo polacco Un proverbio della saggezza dell’antica Cina: “Prendi con te l’ombrello anche quando splende il sole” è divenuto da noi qualcosa di stabilito e organico. Rigettiamo gli ombrelli, i cappelli, le bombette, andremo in giro a testa scoperta. I colli nudi. Occorre che ciascuno si abbronzi il più possibile. Si devono costruire le case con le pareti di vetro sul lato sud. Più luce, aria e spazio. Se il Parlamento polacco tenesse le sue sedute all’aperto, avremmo senza dubbio una costituzione ben più soleggiata. L’uomo contemporaneo, la cui energia è per ¾ assorbita dalla professione, ha bisogno di un cibo sano e forte, di emozioni nuove, aspre e sintetiche. Tali emozioni gli può dare solo l’arte. L’arte dovrebbe essere il succo e la gioia della vita e non la sua prefica né la sua consolatrice. Rompiamo una volta per tutte con le finzioni della cosiddetta “arte pura”, “arte per l’arte”, “arte per l’assoluto”. L’arte deve essere esclusivamente e innanzitutto umana, cioè per gli uomini, di massa, democratica e universale. Consapevoli del compito che l’arte ha da svolgere nei confronti dell’oggi e dei suoi problemi, gridiamo: Artisti, scendete in strada! L’arte che si annida in sale da concerto, mostre, palazzi dell’arte etc. con qualche centinaio, foss’anche con qualche migliaio di posti non è che una ridicola anemica stramberia, poiché ne usufruisce un 1/100.000.000 di tutti gli uomini. L’uomo contemporaneo non ha il tempo di andare ai concerti e alle mostre, i ¾ della gente non ne hanno la possibilità. Per questo debbono poter trovare l’arte ovunque: Poesioconcerti volanti e concerti nei treni, nei tramvai, nelle mense, nelle fabbriche, nei caffè, nelle stazioni, nelle hall, nei passaggi, nei parchi, dai balconi delle case, etc. etc. etc. a qualunque ora del giorno e della notte. L’arte deve essere una sorpresa, deve penetrare tutto e travolgere. L’uomo contemporaneo ha cessato ormai da tempo di commuoversi e di avere delle aspettative. I codici legali hanno sottoposto a norme e classificato una volta per tutte ogni sorpresa. La vita che in ciò si differenzia da una macchina moderna, che ammette favolose imprevedibilità, comincia sempre meno a differenziarsi da quella. Le eterne categorie della logica, secondo le quali al concetto A deve immancabilmente far seguito il concetto B, ed entrambi sommati danno senza meno C – sono divenute insopportabili. La moltiplicazione matematica 2 x 2 = 4 si ingrandisce fino a raggiungere le dimensioni di uno spaventoso polipo che ha disteso su ogni cosa i suoi tentacoli. Tutte le possibilità della logica fino all’ultima si sono esaurite. Sopravviene il momento dell’eterno ruminare in tondo fino a perdere conoscenza. La vita con la sua logica è divenuta terrificante e illogica. Noi, futuristi, vogliamo indicarvi una via d’uscita da questo ghetto della logicità. L’uomo ha smesso di gioire, poiché ha smesso di attendersi qualcosa. Solo una vita intesa come balletto di 111 Manifesti del futurismo polacco possibilità e sorprese gli può restituire questa gioia. Nella giostra delle cose ovvie abbiamo capito, che non c’è nulla di ovvio e che oltre quella logica esiste un mare intero di illogicità, ciascuna delle quali può dar luogo alla propria logica autonoma, nella quale A+B=F e 2 x 2 fa 777. Un diluvio di meraviglie e sorprese. Nonsense che danzano per le strade. L’arte è la massa. Ciascuno può essere artista. I teatri, i circhi, le rappresentazioni per le strade, messe in scena dal pubblico stesso. Invitiamo tutti i poeti, i pittori, gli scultori, gli architetti, i musicisti, gli attori, affinché scendano in strada. La scena gira. Bisogna cambiare gli sfondi. Quadri come pareti di singoli edifici. Case sfaccettate, tonde e a forma di cono. L’orchestra suona una marcia. La gente vuol marciare al ritmo. 112 Invitiamo tutti gli artigiani, i sarti, i calzolai, i fabbri, i parrucchieri affinché creino nuovi abiti, nuove capigliature e nuovi costumi, finora mai visti. Invitiamo i tecnici, gli ingegneri, i chimici a scoprire nuove, sensazionali invenzioni. La tecnica è altrettanto arte quanto la pittura, la scultura e l’architettura. Una buona macchina è modello e sommo raggiungimento dell’arte per via della perfetta unione di economicità, funzionalità e dinamica. Il telegrafo Morse è un capolavoro 1000 volte più grande del Don Giovanni di Byron. Tra le opere di architettura, scultura e tecnica distinguiamo – la macchina per la riproduzione. donna – come perfetta La donna costituisce una forza imprevedibile e non ancora sfruttata per via del suo potere di influsso che non ha paragoni. Pretendiamo l’assoluta parità delle donne in tutte le sfere della vita privata e pubblica. In primo luogo la parità nei rapporti erotici e familiari. Il numero di matrimoni tra persone che non vivono insieme, che si separano ufficialmente o non ufficialmente attinge livelli inquietanti per l’ordine sociale. Riteniamo che la tempestiva introduzione dei divorzi sia l’unico mezzo per prevenire e frenare questo processo. Manifesti del futurismo polacco Sottolineiamo il momento erotico come una delle più fondamentali funzioni della vita in generale. Esso è una delle fonti elementari ed estremamente importanti della gioia di vivere a condizione che l’approccio ad esso sia semplice, chiaro e solare. Le tragedie sessuali alla Przybyszewski sono di cattivo gusto e dimostrano solo che gli uomini di oggi sono privi di spina dorsale e impotenti. Invitiamo le donne in quanto più sane e più forti nel fisico a prendere per prime l’iniziativa in questo campo. Per il conseguimento dei suddetti scopi la società polacca deve essa stessa assumersi la responsabilità di sorvegliare e controllare l’interezza della vita sociale fino ad oggi e ogni tipo di produzione, senza permettere che si producano cose in disaccordo con quegli stessi scopi, superflue o addirittura nocive. Come primo passo necessario – il controllo di ogni produzione artistica. Non permettete che vi rovescino addosso ogni giorno secchi di letteratura stagnante, senile e snob, che non è in grado neppure di eccitare i vostri istinti sessuali. Il pubblico organizzato è una forza alla quale nulla resiste. Nessun libro inutile potrà essere stampato, visto che nessuno ne ha bisogno. Invitiamo tutti i cittadini dello Stato Polacco a un’azione organizzata di autodifesa. Il pubblico polacco ha superato i suoi autori. Lo spettatore di oggi sbadiglia già apertamente davanti al Macbeth e percepisce un dolore indefinito nelle vicinanze dell’intestino cieco nel guardare gli Aquilotti9 morenti. La produzione polacca d’altro canto non è in grado di offrirgli cibo nuovo, nutriente. Quale unica efficace lotta contro la mancanza di creatività – il sabotaggio concorde e organizzato della letteratura senile e dell’arte. Non andare a teatro, non comprare libri, non leggere giornali etc. etc. etc. Allo scopo di organizzare la società polacca in vista del comune e fecondo sforzo in direzione di una immediata, profonda, radicale, fondamentale e permanente futurizzazione della vita fondiamo un gigantesco partito futurista a livello nazionale. Può diventare membro attivo del partito ciascun cittadino che lavori, che soffra istintivamente in conseguenza dell’attuale crisi generale della cultura e che cerchi una via di uscita da questa situazione. Abbiamo oggi una società intera di tali nevrastenici e martiri della vita contemporanea. A loro vogliamo porgere la mano. Ci rivolgiamo ai cosiddetti uomini nuovi, cioè a quelli che non sono stati ancora contaminati dalla tabe della civiltà, che la guerra mondiale ha fatto venire a galla e che la vecchia società continua ingiustamente a considerare dei bastardi. Noi, futuristi, per primi porgiamo la mano fraterna agli “uomini nuovi”. Essi saranno la linfa nuova e vivificatrice che rinfrescherà la vecchia, degenerata razza degli uomini di ieri, essa sarà il doloroso, ma necessario vaccino che il grande cataclisma della storia ha iniettato in tutta quell’Europa d’anteguerra che andava già in putrefazione e cominciava a puzzare. Il nostro partito, composto di gente che irrompe nel domani, non avrà pari, sarà onnicomprensivo e folle. Ciascuno può essere un condottiero e nessuno può esserlo. La maggiore decentralizzazione possibile. Non conosciamo né leader né soldati di fila, ciascuno è pari operaio della vita militante. Sottolineiamo il grande momento nella storia dell’umanità. 9 Allusione al dramma di Edmond Rostand L’Aiglon (1900). 113 Manifesti del futurismo polacco Il destino è invecchiato ed è morto. Ciascuno può d’ora in avanti divenire il creatore della propria vita e della vita comune. Noi futuristi veniamo in aiuto alla società polacca in questa azione. Con singoli proclami forniremo concrete indicazioni e istruzioni in tutti i campi secondo l’intento del presente manifesto. Alla nostra chiamata ogni anonimo membro del partito futurista (non abbiamo bisogno di cognomi – esistono solamente i pari, i consapevoli e gli uomini qualunque), ciascuno deve rispondere dal posto in cui si trova. Affinché qualsivoglia azione da parte nostra risulti possibile, pretendiamo dal Parlamento della Repubblica Costituzionale Polacca l’immediata dichiarazione dell’immunità dell’artista a somiglianza del deputato. L’artista è un rappresentante della Nazione non meno del deputato, ha solo un ambito d’azione differente e altre competenze. 114 In questo momento grande e decisivo noi, futuristi, dimentichiamo le antiche offese, non vogliamo ricordare che tutte le nostre iniziative, orientate in un’unica direzione, sono state accolte fino ad ora dalla società polacca con ostilità, insensatezza e scherno. Sappiamo bene che si trattò di un malinteso causato da falsi informatori e commentatori, come pure dalla mancanza di un fronte coeso e di una confessione di fede chiara e fisica da parte nostra. Ora tutti questi malintesi vengono meno da sé. Con la purpurea fede nel domani e nelle sue inesauribili possibilità con un solo tratto energico barriamo tutto ciò che v’era di malvagio, di superfluo e di senile al di fuori di noi e in noi stessi e porgiamo la mano alla società polacca. Se siete una nazione viva, e non una nazioncina, se un secolo e mezzo di cattività non vi ha succhiato via il midollo, se siete veramente la nazione del domani, e non una nazione di sopravvissuti, seguiteci! Con la proclamazione del presente manifesto chiamiamo tutti a metter mano immediatamente a un’azione futuristica concorde, di massa. Cracovia, 20 aprile 1921 [Traduzione Emiliano Ranocchi] Manifesti del futurismo polacco Bruno Jasieński MANIFESTO SULLA POESIA FUTURISTA 10 1. Il cubismo, l’espressionismo, il primitivismo, il dadaismo hanno superato tutti gli altri ismi. L’unica corrente che non è stata ancora sfruttata nell’arte è l’onanismo. Proponiamo di usare questo termine come definizione collettiva per tutti i nostri avversari. Per motivare ciò mettiamo in evidenza i momenti fondamentali dell’arte anti-futurista: l’asessualità, l’incapacità di fecondare le masse con la propria arte, il placido autoerotismo passatista all’ombra di melanconici atelier. 2. In un periodo di enormi realizzazioni riteniamo l’introduzione di nuove denominazioni superflua e in contrasto coi tempi. In luogo di un vessillo innalziamo il nome di quel manipolo che una quindicina di anni or sono per primo lanciò il grido della battaglia che noi oggi portiamo a termine, e ancora una volta ci appelliamo futuristi. 3. Non è nostra intenzione, nel 1921, ripetere ciò che essi realizzarono già nel 1908. Sappiamo di essere più vecchi di loro di altrettanti anni. Ciò che in loro era solo un presentimento, un’affrettata proiezione di nuove prospettive, in noi deve diventare uno sforzo strenuo, consapevole e creativo. In quanto eredi dell’immensa potenza della forma, annunciamo una grande unificazione monetaria. Sostituiremo tutte le banconote cubiste, espressioniste, dadaiste, primitiviste, con gli unici talenti che non possono essere contraffatti dal tempo dei greci. A tal scopo deliberiamo: 4. Non sia lecito a nessuno, nel 1921, creare e costruire così come si faceva già in passato. La vita va avanti e non si ripete. Ogni autore è tenuto a rispettare tutto quello che ha ricevuto in eredità + quel miracoloso nuovo salto che ogni artista deve fare nel vuoto dell’universo. L’arte è creazione di cose nuove. L’artista che non crea cose nuove e mai viste prima, ma rumina soltanto ciò che è stato fatto prima di lui per diverse centinaia di volte, non è un artista e deve rispondere di fronte alla legge dell’uso di questo titolo, così come avviene per l’uso di qualsiasi altro titolo senza una qualifica corrispondente. Invitiamo la società al boicottaggio organizzato di simili individui. 5. Ciascun artista ha l’obbligo di creare un’arte completamente nuova e senza precedenti che ha il diritto di chiamare con il proprio nome. 6. Consideriamo l’opera d’arte qualcosa di compiuto, concreto e fisico. La sua forma è condizionata da una rigida necessità interna. In quanto tale essa risponde di sé attraverso l’intero complesso di forze che la compongono, grazie alle quali le sue singole parti sono coordinate in rapporto a sé e all’insieme così e non in altro modo, ovvero in virtù di una necessità interiore. Chiamiamo codesto rapporto reciproco composizione. Chiamiamo una composizione perfetta, ovvero economica e ferrea – il minimo in termini di materiale e il massimo in termini di efficienza raggiunta –composizione futurista. D’ora in poi solo in questo modo sarà lecito comporre. Quali 10 B. Jasieński, Mańifest w sprawie poezji futurystycznej, in: Jednodńuwka futurystuw, cit. p. 2. 115 Manifesti del futurismo polacco motivi decisivi adduciamo in primo luogo: il rincaro generale: a) dei materiali di stampa, che rende la pubblicazione di cose inutili non opportuna e persino dannosa per la situazione economica del paese; b) il rincaro del tempo. Il lavoro specializzato occupa l’uomo contemporaneo per 8 ore. Le restanti 4 ore gli servono per mangiare, sbrigare le faccende quotidiane, fare sport, svagarsi, mantenere le relazioni sociali, per l’amore e l’arte. Per l’arte in particolare all’uomo medio contemporaneo rimangono dai 5 ai 15 minuti al giorno. Pertanto l’arte gli deve essere somministrata in pillole preparate appositamente dagli artisti, ripulita in anticipo da tutto il superfluo e servitagli già pronta, in forma sintetica. L’opera d’arte è un estratto. Diluita nel bicchiere della quotidianità, deve tingerlo tutto quanto del proprio colore. 116 Prima di pubblicare un’opera d’arte l’artista è tenuto a spremerne tutto il resto d’acqua. Gli artisti che si rifiutino di mettere in atto la presente delibera verranno chiamati a risponderne dinnanzi alla società al pari dei ladri comuni, con l’accusa di furto di tempo. 7. Eliminiamo la logica in quanto forma mentis della classe borghese. Ciascun artista ha il diritto e il dovere di creare una propria autologica. Consideriamo caratteristiche fondamentali di ogni logica individuale: l’associazione fulminea di cose apparentemente distanti l’una dall’altra secondo la logica borghese; per accorciare la distanza tra due cime: il salto nel vuoto e il salto mortale. 8 La poesia opera sul piano della parola così come l’arte figurativa sul piano delle forme, la musica su quello dei suoni. La parola è un materiale complesso. Oltre al contenuto sonoro ne possiede un’altro, quello simbolico, che essa rappresenta e che non bisogna uccidere se non si vuol correre il rischio di creare una terza arte che non è già più poesia e non è ancora musica (dadaismo). La poesia è quella composizione di parole che, senza uccidere l’altra anima concreta della parola, permette di tirarne fuori la massima risonanza. Rompiamo una volta per tutte con qualsiasi descrizione (pittura), ma d’altra parte anche con qualsiasi onomatopeizzazione, con l’imitazione delle voci della natura e con tutti gli insipidi requisiti del neorealismo pseudofuturizzante. Eliminiamo la frase come stramberia antipoetica. La frase è una composizione casuale, tenuta insieme soltanto dalla debole colla della logica piccoloborghese. Al suo posto pregnanti, aspre e coerenti composizioni di parole, non impastoiate da alcuna norma di sintassi, logica o correttezza grammaticale, bensì solo da una inflessibile necessità interna, che dopo il la esige il sol, dopo il do il fa, etc. 9. D’ora in poi eliminiamo il libro come forma di somministrazione di poesia al ricevente. La poesia, in quanto arte che opera mediante valori acustici, può essere trasmessa unicamente tramite la parola. Il libro può svolgere tuttalpiù il ruolo di partitura, in base alla quale una certa categoria di persone particolarmente dotate (i virtuosi) può ricostruire l’insieme originario. Nell’istante in cui sarà inventato il telefonografo, ovvero l’unione del fonografo con il telefono, il libro come ponte tra autore e pubblico risulterà del tutto inutile e superfluo. 10. L’arte nostra non è né riflesso e anatomia dell’anima (psicologia), né espressione del nostro anelito all’oltretomba divino (religione), né riflessione su problematiche esistenziali (filosofia). A queste accuse oggi probabilmente non abbiamo bisogno di ribattere. L’arte non è neppure un diario delle esperienze, peraltro forse anche interessanti, e delle vicissitudini interiori dell’artista. I nostri nonni hanno annoiato quanto basta i loro pazienti contemporanei con le Manifesti del futurismo polacco loro nostalgie, i loro dolori e l’erotomania. Le esperienze di un artista sono una sua proprietà privata, senza dubbio avvincente per parenti prossimi e ammiratrici, ma per nessun altro. Al fine di indirizzare e sfogare le proprie emozioni nella direzione giusta, si consiglia agli artisti di fare più sport, fare più all’amore e dilettarsi di scienze esatte. 11. Strappiamo via dall’organismo della vita quei presuntuosi parassiti che gli stanno attaccati come sanguisughe, si definiscono poeti e si pascono del lavoro altrui senza produrre nulla in cambio, giacché la vita, così com’è, non riesce a stare al passo con la loro psiche prometeica. Esaltiamo la vita, eterno, faticoso divenire – il movimento, la gentaglia, le fognature e la Città. La poesia deve essere quotidiana, profondamente attuale e universale. La romantica malinconia delle rose e degli usignoli ha da tempo smesso di farci effetto. Ci esalta la massa, intesa come l’onda gigantesca di una turbina rotante. Nell’eterno lavoro e nella lotta della vita per creare il domani, vogliamo essere nel nostro settore impiegati leali e consapevoli. 12. Rompiamo una volta per tutte con il pathos dell’eternità dell’opera d’arte. Il valore assoluto di un’opera d’arte varia dalle 24 ore ad un mese. In un paese in cui tutto viene vissuto così lentamente – da noi – proroghiamo questo termine fino a un anno. Trascorso questo tempo, tutti i libri rimasti invenduti debbono essere ritirati dal commercio librario. È vietata qualsiasi seconda e terza edizione. Coloro che non rispetteranno la presente delibera saranno ritenuti responsabili dinnanzi alla società che si pronuncerà in prima persona suoi singoli casi mediante plebiscito. Cracovia, 3 aprile 1921 [Traduzione Lidia Mafrica] 117 Manifesti del futurismo polacco Bruno Jasieński MANIFESTO SULLA CRITICA ARTISTICA 118 11 Poiché il fatto che la Polonia non possieda affatto critici, ovvero persone che in maniera più o meno onesta la informino e la preparino ad accogliere i nuovi libri in uscita e le nuove questioni emergenti, è cosa universalmente nota e riconosciuta, ma in compenso possediamo un’intera collezione di sigg. Pieńkowski, Żyznowski, Rabski, Słonimski e Pierzyński, talmente tanti che ce li può invidiare tutta l’Europa; poiché, d’altra parte, il pubblico non è abbastanza maturo da potersela cavare senza le cosiddette recensioni e valutare e digerire da solo qualsiasi cosa che si discosti anche solo un po’ dai modelli comuni, considerando che il lamentarsi all’infinito di questo stato di cose è vano e infruttuoso, desiderando altresì venire in soccorso al pubblico offeso – sfidiamo tutti gli autori a partire da oggi a scrivere recensioni solo su se stessi. Dal momento che sono i più vicini al merito della questione e, comunque la si voglia vedere, sono anche i più competenti, essi possono dire a tale riguardo qualche cosa interessante e ciò, in confronto allo sterile farfugliare dei cosiddetti “critici di professione”, sarà già un tesoro incommensurabile. Il pubblico avrà le recensioni che lo interessano, e questo direttamente dalla fonte, mentre i tipografi non saranno più costretti a comporre lunghe colonne di idiozie e cose inutili, cosa che per riguardo alla loro coscienza di classe non dovrebbe essere assolutamente consentito. Per quanto concerne la cosiddetta “faziosità dell’autore”, ovvero il pregiudizio in base al quale ogni autore scriverà sul proprio libro esclusivamente cose lusinghiere, questa faziosità, paragonata a quella dei cosiddetti “critici di professione”, è ovviamente del tutto innocua. Peraltro prima della guerra, quando il prezzo di una cena era ancora relativamente basso, ogni autore mediamente benestante si poteva permettere una recensione lusinghiera. Tuttavia oggi una cena appagante non ripaga assolutamente una critica ingiusta. Partendo da questi presupposti, si invitano tutti gli autori al sabotaggio organizzato. Mai più una cena, mai più un pranzo! La nostra arte non ha bisogno di intermediari. Possiamo esserne al contempo i creatori, i divulgatori e i discepoli. Da leggere presso tutte le associazioni artistiche, i club, le riunioni e le organizzazioni futuriste. Varsavia, 1 marzo 1921 [Traduzione Lidia Mafrica] 11 B. Jasieński, Mańifest w sprawie krytyki artystycznej, in: Jednodńuwka futurystuw, cit. p. 3. Manifesti del futurismo polacco Bruno Jasieński MANIFESTO SULL'ORTOGRAFIA FONETICA 12 1. Partendo dal presupposto che il linguaggio dell'uomo è l'insieme di una determinata gamma di suoni combinati tra loro a creare suoni composti con un determinato significato prestabilito = le parole, riteniamo che il compito più importante di ogni ortografia sia la resa nel modo più perfetto possibile di segni organici (i suoni) mediante segni simbolici (le lettere). L'ortografia ideale sarà pertanto un'ortografia assolutamente semplice e strettamente fonetica. Tutto ciò che offusca questo scopo o che non lo persegue direttamente è di conseguenza inutile, ridondante e dannoso. 2. D'altra parte compito e scopo di ogni scrittura è quello di riprodurre mediante la minor quantità possibile di segni prestabiliti la maggior quantità possibile di suoni-parole e suoni-frasi. Pertanto qui, come in ogni altro ambito, nella misura in cui il materiale aumenta, l'ortografia nel corso del suo sviluppo deve tendere in maniera consapevole e coerente al massimo della sintesi e della brevità. L’ideale di ogni ortografia è la stenografia. A partire da questi due presupposti fondamentali, che riteniamo giusti e oltre ai quali non riteniamo esservene altri, applicandoli all'attuale ortografia polacca senza esitare a trarne tutte le conseguenze – proclamiamo: 3. L'uso di due segni (lettere) differenti per esprimere lo stesso identico suono è un’assurdità. Per questo, in quanto superflue, eliminiamo una volta per tutte dall'alfabeto polacco le lettere ó e rz, giacché nella pronuncia non si differenziano in alcun modo dalle lettere u e ż o sz, e potranno essere da queste sostituite senza arrecare danno. Più complicata è la questione che riguarda le lettere ch e h, nell'articolazione fonetica delle quali si viene difatti a creare una differenza molto sottile. Poiché, tuttavia, l'espressione di un suono mediante due segni (c e h) che non hanno nulla in comune e la combinazione dei quali non porta in nessun caso al suono h così come lo pronunciamo, è in linea di principio un’assurdità, anche in questo caso eliminiamo dall'alfabeto polacco la combinazione di lettere ch. Per segnalare questa sottile differenza col tempo si potrà apporre alla lettera h un determinato segno convenzionale. Non lo introduciamo perché per il momento ci asteniamo dal creare lettere nuove. Compito di questa riforma elementare è esclusivamente quello di ripulire l'ortografia polacca da tutta una zavorra di segni superflui nonché dannosi. Pertanto lasciamo invariate le combinazioni di lettere sz, cz (nonché dz, dź), giacché l'alfabeto polacco non possiede altri segni per designare i suoni sza e cze. Si potrebbero sostituire, sul modello dell'alfabeto ceco, con segni convenzionali sulle lettere s e c, cosa dalla quale tuttavia ci asteniamo, giacché la sostituzione di lettere con altre non è per il momento il nostro compito. Consideriamo quindi i segni sz e cz (altresì dz e dź) semplicemente come nuove lettere composte, nate dalla combinazione di due vecchie lettere, e le chiamiamo lettera sza e lettera cze. 4. Dal momento che l'alfabeto predispone di un segno convenzionale ad esprimere un dato suono, è un’assurdità che in alcuni casi ingiustificati esso venga sostituito da due altri segni che sommati non danno assolutamente quel suono. Poiché l'alfabeto polacco dispone di lettere che simbolizzano i suoni molli ń, ć, ś, ź, non ha 12 B. Jasieński, Mańifest w sprawie ortografii fonetycznej, in: Jednodńuwka futurystuw, cit. p. 3. 119 Manifesti del futurismo polacco 120 senso in luogo di queste usare davanti alle vocali ni, ci, si, zi – tutte combinazioni che con le prime non hanno niente a che fare (sieć al posto di śeć, nie al posto di ńe, cień al posto di ćeń, ziele al posto di źele). Parimenti, non ha senso l'uso delle lettere dure (n, s, c, z) laddove queste vengano chiaramente pronunciate come molli (ń, ć, ś, ź), e di conseguenza anche queste devono essere eliminate (sito al posto di śito, cisza al posto di ćisza, zimno al posto di źimno). Laddove l'alfabeto polacco non dispone di simboli appropriati per esprimere la palatalizzazione, per il momento lasciamo il vecchio metodo di scrittura. Col tempo, sul modello delle consonanti molli ń, ś, etc., nasceranno delle ḿ, ṕ, ẃ, che semplificheranno e unificheranno notevolmente l'ortografia polacca. Per il momento, tuttavia, per ragioni puramente tecniche e per non creare troppo caos, ci limitiamo esclusivamente ai segni che ci fornisce l'alfabeto polacco. Una volta rotto il ghiaccio della tradizione e dell'abitudine, la riforma potrà spingersi oltre e occuparsi del completamento dell'alfabeto stesso. 5. In luogo di tutte queste superfluità e stramberie ortografiche ovunque si percepisca chiaramente un suono e nella declinazione dei casi obliqui non vi sia un suono prossimo ad un altro (łyżka-łyżek), viene stabilita un'ortografia strettamente fonetica. Per questo d'ora in avanti la parola tszy verrà scritta sempre con la sz, giacché questo suono qui è perfettamente chiaro e non vi è motivo che ne giustifichi la sostituzione con un altro. Parimenti, il prefisso psze, pszed e tutte le parole sue derivate continueremo a scriverli alla stessa maniera, poiché pur con le migliori intenzioni tra le parole pszeńicować e pszeńica non riusciamo a cogliere differenze di suono tali da costringerci a scrivere la prima in modo differente. 6. Nella convinzione che la nostra riforma dell'ortografia polacca fondata su principi fonetici sia l’unica giusta, fondata e comoda – invitiamo tutti i cittadini polacchi ad introdurla nella vita quotidiana a partire dalla promulgazione del presente manifesto. Ci rivolgiamo ai direttori delle scuole, agli insegnanti delle prime classi e dei ginnasi, nonché al Ministero delle Confessioni Religiose e dell'Istruzione pubblica con la richiesta che essa venga immediatamente introdotta nelle scuole elementari, medie e superiori. Nei pressi di Sandomierz, 25 marzo 1921 [Traduzione Lidia Mafrica] Manifesti del futurismo polacco DALLA REDAZIONE 13 In un momento di grandi compromessi e di piccoli compromessi, di consapevoli e ignari travisamenti, di dolorosi snaturamenti e fratture, quando il libro futurista che adorna le vetrine delle librerie costa 180 marchi polacchi e dopo avere ascoltato una poesia futurista si va alla Filarmonica, quando ogni azione e intenzione viene guardata filtrata attraverso il prisma delle azioni degli altri, come riflessa in uno specchio deformante – le parole si riempiono sole di una smorfia pierrottesca e di doloroso rigore. Volendo finalmente staccarci dal circolo vizioso dell’ozio e della retorica, lanciamo nei mercati, nelle piazze, nelle strade di tutte le città polacche questo primo volantino futurista. Vogliamo che coloro i quali come noi vivono dolorosamente tutta la spaventosa illogicità d’oggigiorno e attendono l’aiuto di qualcuno sappiano che ci siamo, che sentiamo e che soltanto migliaia di imbarazzanti circostanze non ci hanno concesso finora di esprimerci appieno. Ci rendiamo perfettamente conto che la nostra precedente azione poetica a Varsavia, Cracovia e Łódź è stata un buffo palliativo cui ci siamo dovuti aggrappare per non avere la bocca del tutto tappata. Questo volantino contenente manifesti, proteste e bombe è il primo tentativo di dimostrare che i nostri slogan sulla democratizzazione dell'arte e il suo renderla quotidiana, attuale e universale, cosicché col tempo essa sia capace di reggere persino la concorrenza dei giornali, non sono sterile retorica, e che riusciremo a metterli in pratica. Rilasceremo d'ora in poi ogni tanto, a seconda dell'accumulo di energia che necessita di essere scaricata, dei volantini il cui scopo sarà fornire la nostra risposta a tutte le più scottanti questioni del giorno, senza escludere le tematiche più attuali e spinose. Altresì, sulla stessa scia stamperemo, per informare le più ampie fasce di popolazione, le di noi, futuristi polacchi, più nuove rivelazioni nell'ambito della poesia, del teatro e via dicendo. In questo modo saremo in contatto costante con gli strati più ampi della società polacca, potremo sostenerli, guidarli e aiutarli nella loro campagna futurista. Concludiamo con l'invitare tutti a creare e istituire il prima possibile organizzazioni futuriste su tutto il territorio della Repubblica di Polonia, con l’obiettivo di un'immediata e universale futurizzazione della vita conformemente a quanto annunciato nel suddetto manifesto. [Traduzione Lidia Mafrica] 13 Od redakcji; in: Jednodńuwka futurystuw, cit., p. 4. 121 Manifesti del futurismo polacco Tytus Czyżewski IL FUNERALE DEL ROMANTICISMO – LA DEMENZA SENILE DEL SIMBOLISMO – LA MORTE DEL PROGRAMMISMO 14 122 Da noi è cominciato il tempo della lotta per nuovi valori e per una forma nuova. Un tempo tanto più tumultuoso che capita su un terreno non preparato – e ciononostante fertile – su un’arte e soprattutto su una poesia abbandonate a se stesse. Cosa è mai stata fino ad ora da noi la poesia? La poesia polacca finora non è stata altro che poesia romantica, contraddistinta da forma e stati d’animo assolutamente romantici. La forma di Mickiewicz, Krasiński e Słowacki è stata e rimane fino ad oggi il prodotto di quella cultura che poté osare l’epoca di ieri e d’avantieri della nazione. La nazione era oppressa, senza una propria volontà né possibilità di esprimersi liberamente. L’arte dunque, nella fattispecie quella prodotta dopo le spartizioni, si proponeva di ritrarre la martirologia della nazione, quinci i poeti traevano ispirazione. Quella che da noi viene chiamata l’epoca del simbolismo, la cui ultima espressione sono Tuwim e i suoi satelliti (non si capisce del resto perché mai si appellino futuristi) fu l’ultimo riflesso di quella coda di romanticismo che si è trascinata da noi per tanti anni come un serpente marino. Finalmente però è giunto il momento per la nazione di tornare alla vita fisiologica. E cominciamo a vivere non con l’odore di cadavere e di bara, bensì con il corpo, i nervi, il sangue, il desiderio e la passione di organismi normali e sani, capaci di guardare avanti e nel futuro. La nazione in quanto creatura fisiologicamente viva deve scoprire a se stessa il suo proprio robusto organismo e la vita contemporanea che più le si addice. La nazione polacca non può continuare a vivere delle ceneri di re e fantasmi15 La nazione polacca non può narcotizzarsi con gli incubi de “Le nozze”16, deve invece sentire in sé l’arte e la poesia della rinascita contemporanea. La Polonia ha conseguito la propria indipendenza politica in un momento e in circostanze così felici che, in concomitanza a questo suo risveglio alla vita, in tutta Europa si sono risvegliati e sono sbocciati nuovi valori sociali ed estetici. Chissà che non sia stata la stessa Nemesi a imporre alla Polonia quell’impegno del destino che sono i rari casi della storia. Noi, senza avere un programma, desideriamo fondare una nuova era di valori estetici, cioè di valori dell’arte. Il tempio del romanticismo perpetuamente gemebondo è divenuto per noi come quei piatti ripetitivi che servono ogni giorno ai ragazzi nei collegi fino alla noia e alla nausea. Tutti desiderano cambiamenti, cose nuove, anche a costo di irritare i sensi. La poesia e l’arte polacche di oggi debbono usare abbreviazioni e i necessari arrotondamenti sintetici – deve essere modernista. La poesia contemporanea deve dar luogo a una nuova forma individuale, adatta agli uomini . 14 T. Czyżewski, Pogrzeb romantyzmu – Uwiąd starczy symbolizmu –Śmierć programizmu, in «Formiści», 4, 1921, pp. 12-13. Nell’orig. dziady. 16 Opera teatrale di Stanisław Wyspiański. 15 Manifesti del futurismo polacco contemporanei, affamati di emozioni nervose sintetiche. Le associazioni dei sensi saranno rare, inattese e impreviste – la forma vivace – il verso il più libero possibile – i contrasti tra pensieri i più distanti che ci siano. Gli artisti faranno il minor uso possibile del tema, piuttosto costruiranno il più possibile. Gli artisti si faranno guidare dall’istinto. Questi non sono programmi, non sono canoni della produzione artistica, ma i tratti generali dell’arte sintetica contemporanea. Se vi aggiungiamo la lingua che spesso deve servirsi di segni e parole non generalmente accolte come concetti logici, bensì di segni e parole sensibili e uditive – otteniamo il modo in cui ci esprimiamo e la nostra forma. Ed è questa la poesia contemporanea, l’arte sintetica dell’uomo del XX e del XXI secolo. Tuttavia non è su questi emblemi dell’arte nuova che si gettano i famelici mastini, gli eunuchi della critica – bensì su quella corrente primaverile di vita che è la nostra arte vincitrice. Morte al romanticismo, al simbolismo e al programmismo! Viva l’istinto meccanico. [Traduzione di Emiliano Ranocchi] 123 Manifesti del futurismo polacco Tytus Czyżewski DALLA MACCHINA AGLI ANIMALI 124 17 Gli epigoni sentimentali del romanticismo e del simbolismo si stanno estinguendo – sta per arrivare una nuova era di valori nuovi – senza le ingenue illusioni dell’ingenuo naturalismo. Forza vitale – dal meccanismo generale all’istinto degli animali – saremo fratelli degli animali e impareremo da loro l’arte istintiva, ameremo le macchine, perché esse sono le nostre sorelle, e gli animali, perché essi sono i nostri insegnanti e fratelli. Purché senza primitivismi programmatici ==== istinto Uccidiamo l’”estetismo” che è in noi! Signore e signori, animali domestici e selvaggi, ==== istinto elettrico (macchina e forza vitale) …………………………………………………………………………………………………………………………… …………………………………………....................................................................................................................... ............ Amiamo le macchine elettriche e non facciamo loro torto. …………………………………………………………………………………………………………………………… ………………………………………….……............................................................................................................... .............. Impariamo la musica dagli uccelli. – L’architettura, la pittura e la scultura di nidi degli animali. Istinto di meccanismo ==== “ciascuno scriva, scolpisca e dipinga come gli detta il suo istinto”! Cerchiamo l’istinto che abbiamo perso mentre per tutti questi secoli ci perfezionavamo nell’arte e nella scienza. Viva l’istinto elettrico l’arte istintiva degli animali l’istinto elettrico dell’universo dei minerali delle piante degli animali degli uomini il medium della vita interiore. [Traduzione Emiliano Ranocchi] 17 T. Czyżewski, Od maszyny do zwierząt, in: Idem, Noc-dzień, Kraków 1922, pp. 40-41. Manifesti del futurismo polacco Tytus Czyżewski AWANGARDA AI SUOI AMICI 18 amico! conducente del tram n. 7 amico! presidente della repubblica amico! studente universitario amico! macellaio della p.s.p.19 amico! pappone amico! intellettuale amico! massimiliano amico! stella del cinema di hertz20 è a voi, è a tutti che parliamo, lingue del giorno d’oggi, non alla parola blasé, insozzata dalle sporche dita dei poeti: LA FOLLA. la folla siete voi: conducente, presidente, massimiliano, intellettuale, prostituta. è per voi che noi battiamo, cuore rivoluzionario della folla! abbiamo fame attraverso le vostre bocche! siamo il grido squillante dei vostri polmoni che fremono al vento! pappone! intellettuale! conducente! stella del cinema! troppo a lungo avete venduto per pochi soldi le vostre mani, la vostra abilità, il vostro acume, il vostro cervello, il vostro corpo! nessuna paga, nessuna cena in un privé , nessun furto, nessun omaggio non varrà tutto questo! qui ci vuole una nuova forma di vita, non ancora incancrenita, totalmente fresca! noi, sinistra letteraria, chiamati fino a poco fa futuristi, abbiamo deposto questo onorevole appellativo nella convinzione di essere oramai riusciti a forgiare in Polonia una sensibilità nuova, non usurata, e nuovi confini di una realtà non annacquata col lievito del volgare estetismo. riconosciamo di esserci sbagliati. oggi proprio come 5 anni fa la Polonia soffoca sotto la coltre di radicata sazietà in cui sono sprofondati i nostri viviferi proiettili senza scalfire la sua epidermide. torniamo a riprendere da capo il lavoro interrotto per breve tempo; questa volta non mediante l’aiuto di orazioni liriche e spontanee, bensì quello dell’avanguardia organizzata diamo inizio in maniera sistematica e con metodo all’assedio delle trincee dell’elaborata menzogna sociale. amici – tirate un sospiro di sollievo con voi c’è l’avanguardia naprzód en avant vorwärts vperëd avanti [Traduzione Lidia Mafrica] 18 T. Czyżewski, Awangarda do swoich przyjaciół, in «Awangarda. Dwutygodnik lewicy literackiej», 16 febbraio 1924. Probabilmente abbreviazione di Polska Policja Państwowa (Polizia di Stato Polacca). Normalmente veniva usato l’acronimo PP. 20 Aleksander Hertz (1879-1928), regista cinematografico, fondatore della prima casa cinematografica polacca Sfinks. 19 125 Manifesti del futurismo polacco Anatol Stern, Bruno Jasieński [INTRODUZIONE A “LA TERRA A SINISTRA”] 126 21 Ci sono due tipologie di poeti in Polonia: i primi, garbatucci, viziati impiegano la massima cura a mettere in piega i propri versi; i secondi “fanno” i profeti. Ce ne sono altri ancora, che non si lasciano ridurre a nessuna categoria. Quelli per cui la poesia non è né una pasticceria né un tempio, bensì una palestra di vita ripulita dal volgare estetismo. Questi ultimi siamo noi, gli ex futuristi. Poeti, scegliete. Il salotto della cultura borghese foderato dagli esotici cuscini sgualciti del sentimento oppure la nuda strada, scossa dalle doglie del parto. Ma sono gli stessi storici della cultura borghese ad annunciarne il declino. Siamo sensibili. E mossi da misericordia desideriamo affrettare la sua morte, onde, una volta fatta piazza pulita, gettare al suo posto le fondamenta di una cultura nuova. Odiamo il borghese, non solo quello che oggi ci copre la vista del mondo con la lacera banconota del suo muso, ma il borghese come astrazione, la sua visione del mondo e ogni cosa che gli appartiene. Desideriamo una nuova Polonia, non una nuova botteguccia. La terra a sinistra è il primo volume di poesie dedicato all’uomo della folla, all’eroe occulto della storia, nel nostro paese. Non intendiamo minimamente mettere ai nostri versi le scarpe di una forma primitivizzata a suo uso e consumo; soltanto la forma che diamo è in grado di scoprire e cantare le inaspettate americhe della sua florida anima complessa. La poesia è stata fino ad ora una cocotte borghese, una gattina, una signorina Mimi. Indubbiamente, il borghese cercherà di stimmatizzare e insozzare col suo tocco anche questo volumetto. Anch’esso verrà empiamente abbandonato sui vecchi mobili rococò di vari saloni e boudoir. La nuova poesia è dopotutto “alla moda”. Che dire? Lasciatecelo pure. Abbandonate voi stessi queste granate della nuova realtà avvolte in copertine di carta nei ripostigli delle vostre abitazioni traboccanti di costoso vecchiume. Possiate voi, mentre proverete ad appisolarvi beati sulla poltrona del verso che dondola melodiosa, vomitare una buona volta di sgomento, ustionati dalle lingue taglienti della parola viva che esplode. [Traduzione Lidia Mafrica] 21 A. Stern, B. Jasieński, Introduzione a Ziemia na lewo, Warszawa 1924. Manifesti del futurismo polacco Bruno Jasieński IL FUTURISMO POLACCO (UN BILANCIO) 22 Il Futurismo è una forma di coscienza collettiva che è necessario superare. Io, mentre tutti voi continuate ad essere futuristi, già non lo sono più. Il manifesto è una barriera che bisogna oltrepassare. La macchina non è un prodotto dell’uomo ma è la sua sovrastruttura. Le forme oggettive della civiltà come bellezza fisica dell’uomo contemporaneo. La storia del mio Futurismo. Contro il Futurismo. A dire il vero una storia del futurismo l’ho già scritta. Il pubblico e la critica non se ne sono resi conto dal momento che portava l’etichetta di “romanzo” e l’insolito titolo Le gambe di Izolda Morgan. Oggi senza dubbio lo riscriverei in maniera leggermente diversa. I minatori che scavano gallerie nelle rocce della coscienza collettiva contemporanea fanno difficoltà ad abbracciare con lo sguardo la bellezza della prospettiva che spalancherà la galleria da essi scavata. Faranno ciò per noi gli oziosi turisti della storia. Il futurismo è senza dubbio una forma di coscienza collettiva. Per poterne parlare bisogna dapprima averlo superato in se stessi. Ma la lotta, nella quale sfocia per necessità ogni superamento, ha le proprie prospettive brevi e accecanti, e sulle cose che si trovano nel suo campo visivo cade la sua luce particolare. Per questo ogni volta che si parla di futurismo ho sempre l’impressione di affrontare una questione alquanto privata e personale. Qui in Polonia, l’appellativo “futurista” ha acquisito un certo significato specificatamente locale e offensivo che oscura il suo contenuto primigenio. È divenuto un’offesa. La ricerca della causa di questo fenomeno impiegherebbe troppo tempo. Tutta la nostra colpa consisteva nel fatto che abbiamo colto un certo momento della coscienza sociale comune a noi tutti, non lo abbiamo rinnegato e abbiamo cercato di strutturarlo in determinate nuove forme artistiche. Solamente nell’istante in cui queste forme saranno state create, si potrà dire che quel momento è stato superato. Mettendolo a tacere non avanziamo nemmeno di un centimetro, non solo: ci precludiamo la possibilità di qualsiasi avanzamento. Ciò è fonte di una moltitudine di ribaltamenti molto divertenti. La situazione attuale ad es. si presenta in maniera del tutto opposta rispetto a quanto il pubblico pensi. Io già non sono “futurista”, mentre voi tutti, signori, continuate ad esserlo. Ciò può sembrare un paradosso, eppure è così. Quando nel 1918, dopo il mio ritorno in Polonia, incontrai per la prima volta Tytus Czyżewski, sapevamo chiaramente una cosa: La ribollente ed esuberante vita contemporanea ha rotto le chiuse delle trincee e dei fili spinati ed è penetrata nel mare della psiche polacca con una forza inaudita. Questa vita non ha precedenti nella coscienza polacca. La coscienza della società è la sua arte, intesa come vita organizzata. Ogni nuova fase della 22 B. Jasieński, Futuryzm polski (bilans), in «Zwrotnica», 6, 1923, p. 177. 127 Manifesti del futurismo polacco vita esige nuove forme nell’arte. Soltanto attraverso la creazione di queste forme il momento contemporaneo entra nella coscienza collettiva, diventa il suo momento organico e quindi creativo. Una società che non crea in tempo nuove forme di organizzazione viene al contrario vinta, superata, domata proprio da quel momento della vita contemporanea che non è capace di dirigere. 128 Il gigantesco e rapido sviluppo delle forme della tecnica e dell’industria senza dubbio costituisce la base fondamentale e la spina dorsale del momento contemporaneo. Esso ha dato luogo a una nuova etica, una nuova estetica e una nuova realtà. L’introduzione della macchina come elemento indispensabile e complementare nella vita dell’uomo ha dovuto necessariamente comportare una profonda ristrutturazione della sua psiche, la creazione di equivalenti propri, così come l’introduzione di un corpo estraneo in un organismo vivo costringe l’organismo a sviluppare specifici anticorpi. Solo allora questi ultimi trasformano gli antigeni in corpi capaci di assimilare ovvero in corpi da espellere. Se l’organismo umano o sociale non crea una quantità sufficiente di questa energia, sopraggiunge l’intossicazione, l’infezione causata da un corpo estraneo. Sviluppare questi anticorpi psichici, ossia creare delle forme che possano subordinare la macchina all’uomo, ecco il compito prossimo dell’arte contemporanea. Nel momento della presa di coscienza di questa verità, nacque il futurismo. Molto prima della guerra era stato il futurismo italiano a rispondere a questa verità, poco dopo fu quello russo, entrambi in modo diametralmente opposto. La risposta del Futurismo italiano era semplice e si lascia racchiudere nella frase: L’arte deve innalzare la macchina al livello di ideale erotico dell’umanità. (Posizione che in Polonia per lungo tempo venne difesa con sforzo e coerenza dal grande artista Tytus Czyżewski). Adorare tuttavia non significa superare, al contrario significa assoggettarsi all’oggetto adorato. Generalmente l’adorazione interviene come forma di coscienza al livello più basso dell’evoluzione ed è una delle forme più primitive di reazione della stessa coscienza ai fenomeni esterni. L’uomo primitivo idolatrava gli elementi, dal momento che si sentiva completamente inerme nei loro confronti. A uno stadio successivo questo rapporto si tramutò in rivolta contro l’ignoto detronizzato, per poi, una volta vintolo, inserirlo nella cornice di una tranquillità sicura della propria potenza. La risposta del futurismo russo sin dall’inizio fu bifronte: Le cose sono il nemico forza capitelo. Le cose andrebbero tagliate a pezzi! O forse piuttosto bisogna amarle? O forse le cose hanno un’anima diversa?23 Tutto il futurismo russo degli anni 1913-1919 oscilla proprio tra queste due verità, propendendo ora da una, ora dall’altra parte. Soltanto nel 1919 Mistero buffo del medesimo Majakovskij fornisce la risposta definitiva del futurismo russo: Compagne cose 23 Majakovskij, Vladimir Majakovskij, tragedija, 1913 [nota dell’autore]. Manifesti del futurismo polacco Sapete cosa? smettiamola di torcere il naso a vicenda. Proviamoci: noi vi faremo e voi ci nutrirete. Questa risposta, mutuata dal socialismo, assegna alla macchina nella coscienza contemporanea il posto che la società capitalistica riserva nel suo seno all’operaio. L’arte polacca che, dopo la guerra, si destava da un letargo nazional-patriottico, trovò nel futurismo italiano una risposta pronta - una risposta falsa. Occorreva sottometterla a critica, accettarla o rifiutarla, ma in caso di rifiuto, occorreva fornire al suo posto una risposta propria. Nel momento in cui le lame del pensiero polacco postbellico si incrociarono con quelle del pensiero europeo, nacque il futurismo polacco. Nacque in un momento strano e singolare. Davanti al pensiero polacco, lavato in un bagno di sangue quadriennale, si spalancarono improvvisamente le porte dell’Occidente. La questione della cultura europea moderna, nella quale fino ad ora la Polonia non aveva preso parte diretta, occupata com’era dai propri problemi nazionali, si aspettava ora da lei una soluzione. Il bacillo della modernità irruppe nell’organismo polacco, non protetto da una vaccinazione preventiva. Iniziò la lotta dell’organismo contro il bacillo, lotta per la morte o per la vita, una produzione accelerata e febbrile di antitossine proprie. L’organismo polacco si trovò ad attraversare una crisi e si agitava nelle convulsioni della febbre. Questa febbre, scatenata nell’organismo polacco dal bacillo della modernità, questo periodo di lotta e di dolorosa trasformazione dell’organismo entrerà nella storia della cultura moderna con il nome di futurismo polacco. Dall’esterno sembrava semplicemente una guerra dichiarata da un gruppo di artisti alla società del loro paese. La “società” si rinchiuse nei bastioni delle chiese e delle redazioni, donde venivano rovesciati sui partigiani secchi di acqua sporca e corrosiva, si gridava durante le serate di poesia, si lanciavano uova e pietre. Nessuno si rendeva chiaramente conto in nome di cosa si lottasse e quale fosse esattamente il senso di questa lotta. La psiche polacca si sentì minacciata nelle sue abitudini tradizionali e nei suoi vizi e si difendeva con un’energia che nessuno avrebbe mai sospettato. Inizialmente l’opinione pubblica, rappresentata dalla stampa, provò a minimizzare il processo, a presentarlo come una semplice “corrente” importata dall’estero. Addirittura trasse dal suo seno un’intera generazione di pescatori che con la canna dell’accademismo pescavano dall’onda tempestosa ghiozzi di echi e di plagi immaginari e li portavano in trionfo innanzi al pubblico a riprova del fatto che il processo che la inquietava non era affatto un suo processo interno, bensì un tentativo di imporle certe strambe idee “straniere”. Il pubblico non ci credette. Allora l’opinione pubblica cambiò metodo. Suonò l’allarme. Si tirò fuori lo spauracchio del bolscevismo e di una superpotenza anonima. Cominciarono le repressioni amministrative. Confische di libri e riviste, complicazioni con la polizia e interruzione delle serate di poesia, espulsione amministrativa degli artisti dai distretti. Tutti questi fatti, totalmente incomprensibili 129 Manifesti del futurismo polacco per un artista straniero, diffondevano all’estero la fama della “barbarie polacca” e non erano che ulteriori tappe successive della medesima lotta. Ricordo una delle nostre prime grandi serate alla Filarmonica di Varsavia, il 9 febbraio del 1921, alla quale accorsero 2000 persone. La gente si accalcava lungo i corridoi e circondava il palco. Qualcuno del pubblico aveva portato un serpente, una donna era venuta con una scimmia. Varsavia mostrava così che si stava futurizzando. Leggemmo dei versi. La gente saliva sulle sedie e tentava di interromperci a forza di grida. Non erano buoni versi, ma al pubblico questo non interessava minimamente. Ricordo come la signora Irena Solska, artista dotata di un’audacia fuori dal comune e di geniale intuito, senza risposta alcuna da parte del pubblico, lanciava in sala le sue migliori concezioni recitative, circondata dal grugnito ostile dei babbei. Un’altra volta, durante una serata a Zakopane, lo stesso pubblico voleva linciare il poeta Aleksander Wat che stava leggendo i suoi namopaniki, poesie di parole liberate dal giogo del contenuto logico. Oggi, quando alle mie serate si grida sempre meno (soltanto la polizia, in quanto istituzione per principio conservatrice, ancora a lungo probabilmente non riuscirà a rinunciare ai suoi provati metodi), quando i nostri libri si diffondono in una quantità sempre maggiore di copie e addirittura (!) trovano degli editori, quando la nostra produzione artistica sta lentamente diventando una borsa, nella quale infilano le mani anche quegli artisti che negano con zelo qualsiasi tipo di rapporto con noi, 130 oggi quando possiamo ritenere la crisi ormai superata, sebbene il processo stesso non sia affatto terminato, si può rivolgere uno sguardo tranquillo ai cinque anni trascorsi e redigere un bilancio sommario. Abbiamo scritto molti versi brutti, abbiamo dipinto molti quadri brutti. La storia ce lo perdonerà. Fu un tempo strano e bello, un tempo in cui ogni strofa era una spinta in avanti, ogni verso una difesa, un tempo in cui si facevano poesie come si fa la dinamite, e la parola diventava una capsula detonante, tempo di un’eterna vigilanza e di una veglia ininterrotta, tempo in cui si aguzzava lo sguardo cercando il posto in cui si potesse attaccare nella maniera più efficace possibile. Ancora oggi che di versi brutti ne scrivo sempre meno, guardo con vero rimpianto a quegli anni febbrili, pieni di presentimenti e di parole inespresse, anni vergini di germoglianti valori. Per gli “amanti degli anniversari”24, ecco alcune date. Il tutto iniziò lentamente, annunciato di tanto in tanto da qualche strana e inquietante eco come il tuono prima della tempesta. Ancora non molto prima della guerra, nel 1914, il tragico annunciatore e Giovanni Battista del futurismo polacco, Jerzy Jankowski (autore di “Tram wpopszek ulicy”), spaventò il pubblico polacco con versi pubblicati alla rinfusa in varie riviste – primo futurista polacco nel senso italiano 24 Espressione del futurista russo Majakovskij. Manifesti del futurismo polacco del termine. Le poesi scomparvero senza lasciare nessuna risonanza. Il libro arrivò troppo tardi. La malattia lo strappò alle fila dei combattenti prima che facesse in tempo a venirci arruolato. E malgrado Jankowski, con la sua opera, non abbia pesato sul piatto del movimento, rimarrà per sempre nella nostra letteratura il simbolo della nuova e rinascente psiche polacca, come primo annunciatore dei nuovi giorni, quando: Il riverbero vermiglio ha avuto la meglio sull’acqua un colpo secco di salve di carabina nell’antica navata del tempio condusse l’alba del futurismo25. Contemporaneamente, nell’altra capitale polacca, Cracovia, un grande artista solitario, Tytus Czyżewski, in una bottega appartata forgiava nel crogiolo della sua intuizione forme sempre più stravaganti e misteriose. Quando tornai in Polonia, dopo una lunga assenza, attorno a lui era raggruppato un manipolo di pittori al di fuori di Cracovia noti sotto il nome di formisti, i quali con questo titolo cominciavano allora a pubblicare una piccola rivista redatta da Czyżewski e da Leon Chwistek. I formisti mi fecero l’impressione di una gilda medievale di ricercatori di una forma nuova. Separati dalla strada dalla lastra di vetro delle loro botteghe, risolvevano uno dopo l’alto i problemi pittorici che si presentavano, come si risolve un’equazione matematica, con ferrea pertinacia e con la sicurezza di avere ragione. Nel frattempo, al di là del vetro, la vita polacca scorreva tumultuosa, si agitava nella febbre post bellica, sbatteva con la testa contro il muro costretta in un labirinto di vicoli ciechi - una vita scompigliata, variopinta, senza lingua. Per il lavoro di preparazione era troppo tardi. Il momento richiedeva un’azione radicale. Fu allora che incontrai per la prima volta anche Stanisław Młodożeniec, giovane e promettente artista, dal quale tutti ci aspettavamo molto (non conosco i motivi per cui ultimamente abbia smesso di scrivere). Nacque così la prima organizzazione polacca futurista, il cosiddetto “Organetto”. Il nome non era né così scherzoso, né così casuale, come potrebbe sembrare di primo acchito. Esso rappresentava un momento decisivo per il futurismo polacco, il momento in cui la nuova arte polacca usciva in strada, il primo atto della lotta che si stava iniziando. Piovevano manifesti, con i manifesti le serate. Che fosse Cracovia ad attraversare per prima la crisi del futurismo - Cracovia, la città mausoleo, nella quale ogni mattone è un mattone del Wawel e ogni abitante è un custode di museo - Cracovia, la Firenze polacca, panottico delle mummie nazionali - era un sintomo di assoluta sanità e un segno della vitalità dell’organismo polacco. Non rimaneva altro che attaccare il borghese polacco nella sua tana: Varsavia. Adempirono a questo compito quattro grandi serate, che si succedettero l’una all’altra senza interruzione, precedute da una monstr-serata alla Filarmonica. Nel febbraio del 1921 Varsavia si ammalò. A Varsavia mi incontrai per la prima volta con Anatol Stern e Aleksander Wat. Il primo 25 Da Tram wpopszek ulicy, cit. a memoria, non esatta. 131 Manifesti del futurismo polacco appello da loro firmato che mi cadde tra le mani era intitolato “Tak”. Era ancora tutto impregnato dello spirito dell’espressionismo tedesco che annunciava qualcuno che deve venire. Era per me qualcosa di totalmente estraneo. L’almanacco Gga, pubblicato nel periodo delle serate di Varsavia, che promuoveva il primitivismo come risposta del futurismo polacco, era un anacronismo. Fortunatamente i versi non avevano nulla a che fare con il “primitivistico” manifesto. Dopo lunghe discussioni venne costituito a Varsavia il fronte omogeneo del futurismo polacco. Le serate di Łódź, nel marzo del 1921, ne costituirono il primo documento. Il risultato ne fu: l’edizione speciale26 dei futuristi, i manifesti del futurismo polacco, Cracovia, giugno 1921, distribuita in migliaia di copie in tutte le città della Polonia. Nei “Manifesti del futurismo polacco”, misi a fuoco tutta una serie di idee che ci stavano allora a cuore ed erano particolarmente attuali. I “Manifesti” non erano un programma discusso in precedenza, votato dal congresso dei futuristi polacchi. L’azione era incominciata. Il pubblico pretendeva da parte nostra un passaporto ideologico, cosa cui aveva peraltro pieno diritto. Nei manifesti abbozzai quel piano alquanto generale, nel quale tutti potevamo ritrovarci senza incorrere in amputazioni individuali. 132 Nei “Manifesti” si disegnava per la prima volta in maniera assolutamente chiara la faccia del futurismo polacco che lo distingueva con una linea fin troppo marcata dal futurismo italiano e russo, nonostante determinati indiscutibili parallelismi. Analizzare e mettere in luce questi elementi sarà compito degli storici futuri del futurismo. Non possiedo i benché minimi requisiti per adempiere a questo ruolo. Come dicevo, la questione del futurismo è per me una questione personale. Ogni giorno consapevolmente vissuto diventa materiale esanime, per il quale non provo altro che odio. Io sono tutto il giorno in cui vivo. Non comprendo il passato. Gli manca sempre un ”adesso”. Ogni “ieri”, considerato in maniera isolata, perde senso. Glielo restituisce solo ogni nuovo “oggi”. I “Manifesti” lo sapevano, quando lottavano per l’attualità dell’opera d’arte e per la sua validità di ventiquattr’ore. I manifesti del futurismo polacco sono la formulazione di ciò che, in linea di principio, era soltanto un fermento organico. Per la verità ogni movimento finisce con il proprio manifesto. È un processo totalmente opposto a quello che il pubblico si immagina. Non importa se talvolta, per una serie di anni anche piuttosto lunga dopo aver fatto pubblica professione di fede, un certo gruppo di persone si comporta come se adempiesse alle promesse in essa professate. Questa è una illusione comune. Un movimento espresso nei limiti di una formula è già un movimento morto, una barriera che bisogna superare. Vivi sono gli uomini, e propriamente quelli che non creano secondo i dettami del proprio manifesto. Peraltro ciò non ha nulla in comune con la cosiddetta assenza di programma, così diffusa in Polonia, che considero sinonimo di assenza di pensiero, e con la rinuncia ad ogni “programma” soprattutto nel campo dell’arte. Chi non ha mai avuto il proprio manifesto, chi non ha mai abbandonato nulla, non ha nulla da dire nella vita. “I manifesti del futurismo polacco” rappresentano la sua fine. Il canto del cigno fu Il coltello in pancia, la più bella pubblicazione spazzatura del futurismo europeo. 26 Traduciamo così il polacco jednodńuwka che indica una pubblicazione non periodica (non un settimanale, né un mensile). Manifesti del futurismo polacco La risposta collettiva del futurismo polacco era stata trovata. Fu proprio in quel momento che il futurismo cessò di esistere. Tutto quanto è seguito, è già percorso e ricerca di risposte individuali. Quale fu la risposta del futurismo polacco? Davanti alla psiche polacca, romantica fino al midollo, era nato un intero mare di nuove forme oggettive della civiltà, nella produzione delle quali essa non aveva avuto la benché minima parte. Con queste forme essa iniziava ad entrare in un certo rapporto. Occorreva creare tempestivamente le forme atte a permetterle di accogliere l’eredità della civiltà della macchina non come un bagaglio morto, bensì come un prodotto interno proprio, in altre parole creare delle forme in grado di assoggettarle la macchina. Il futurismo italiano le aveva insegnato a vedere nella macchina il modello e l’ideale di organismo. Attraverso la continua celebrazione della macchina il futurismo italiano sperava di introdurla nella coscienza comune come uno dei momenti erotici. Il futurismo russo intendeva la macchina come prodotto e servitore dell’uomo. Riconduceva il suo rapporto con l’uomo a quello puramente economico del lavoratore con il proprio datore di lavoro. La risposta del futurismo polacco fu radicalmente diversa: L’uomo nella propria continua espansione verso l’esterno deve creare sempre nuove forme di percezione, cioè ristrutturare costantemente se stesso in relazione ai nuovi problemi che si stagliano dinnanzi a lui e ai quali deve contrapporsi. Una di queste forme è proprio la macchina. La macchina non è un prodotto dell’uomo, è la sua sovrastruttura, il suo nuovo organo, indispensabile a lui nell’attuale stadio dell’evoluzione. Il rapporto dell’uomo con la macchina equivale al rapporto dell’organismo con un proprio nuovo organo. Essa è tanto schiava dell’uomo quanto può esserlo la sua stessa mano, soggetta agli ordini di quella stessa unica centrale cerebrale. La privazione sia dell’una, come dell’altra farebbe dell’uomo contemporaneo un menomato. Il compito dell’arte contemporanea è introdurre questo momento assolutamente fondamentale per la moderna idea di cultura nella coscienza collettiva, renderlo suo sangue e suo sentimento istintivo. L’arte tuttavia può fare ciò non attraverso la celebrazione della bellezza della macchina (questo è un argomento come un altro)27 né attraverso l’introduzione della macchina reale nell’arte (ciò che peraltro può costituire uno dei suoi tanti metodi)28, bensì attraverso la costruzione di nuovi organismi propri sulla base delle leggi della macchina: leggi di economia, funzionalità e dinamica. Per questo, nonostante il futurismo polacco rispetto a quello italiano si sia occupato pochissimo del tema della macchina (Czyżewski, Jasieński), ha raggiunto per questa via risultati molto più significativi. Il merito del futurismo polacco sta nel fatto di aver insegnato a cogliere l’uomo contemporaneo proprio in questa profondità e di aver creato per quest’uomo un’arte. In questo 27 Jasieński fa ancora una volta riferimento al feticismo della macchina proprio del futurismo italiano, ma probabilmente anche all’idea della macchina come modello estetico predicata da Le Corbusier sulle pagine di «L’Esprit Nouveau». 28 Jasieński allude qui alla proposta contenuta nel saggio di T. Peiper, Miasto, Masa, Maszyna, in «Zwrotnica», luglio 1922 (cfr. Tadeusz Peiper, Pisma wybrane, a cura di Stanisław Jaworski, Ossolineum, Wrocław-Warszawa-Kraków-Gdańsk 1979, 133 Manifesti del futurismo polacco consiste il parallelo che possiamo tracciare tra futurismo e Rinascimento, parallelo che si pone in maniera del tutto evidente e naturale. Il Rinascimento per primo insegnò all’uomo a vedere la bellezza del proprio corpo. Innalzò il corpo umano dal ruolo di “materia”, di involucro dell’“anima” immateriale, a quello di organo paritario. Da allora l’uomo, in una lotta indefessa per il suo essere, ha educato in sé e sviluppato un complesso innumerevole di nuovi organi, con i quali ha abbracciato il mondo, come un polipo con i suoi tentacoli. Il futurismo polacco ha insegnato all’uomo contemporaneo a vedere nelle forme oggettive della civiltà la bellezza del proprio corpo arricchito. Lo ha guarito dal feticismo che domina l’intero pensiero futuristico contemporaneo. In questo consiste il suo significato imperituro. 134 Forse qualcuno mi accuserà di tentare di piegare il Futurismo a una mia personale teoria e che la produzione dei miei compagni non conferma la linea di sviluppo da me tracciata in questa sede. Sarebbe un malinteso. Il futurismo non è una scuola, è una determinata forma di coscienza, uno stato psichico, per il quale oggi ogni individuo consapevole deve passare prima di superarlo. La battaglia è una, i suoi percorsi e risultati sono svariati. Non ho scritto la storia del futurismo, ho scritto la storia del mio futurismo. Il fatto poi che, per qualche tempo, io sia trovato alla guida del gruppo chiamato “futurismo polacco” conferisce alle mie parole un certo valore obiettivo. Del resto la linea che ho qui tracciata attraversa, in maniera più o meno chiara, la produzione di tutti i futuristi polacchi e, fino a un certo punto, è l’aria che in maniera istintiva ha visto nascere quelle poesie. Un tentativo di transumanare la città contemporanea è “Il canto della fame” e, salvo qualche eccezione, tutta la mia produzione fino ad oggi. Sullo stesso fuoco di un’autocoscienza dolente e sconfinata ardono le costruzioni in acciaio e calcestruzzo di Tytus Czyżewski (L’occhio verde, Notte-giorno). I Namopaniki di Aleksander Wat, poesie di parole scomposte nelle loro componenti elementari, sono l’eco della medesima battaglia con l’oggetto, trasportata nel campo della parola - una battaglia per sottrarre all’oggetto il suo contenuto autonomo. Di essa parlano le parole deformate della poesia di Młodożeniec. Sotto il suo caldo respiro si è formata infine la teoria del nonsense di Anatol Stern. Il cerchio sempre più soffocante che le forme oggettive della civiltà contemporanea stringono attorno all’uomo a mano a mano che crescono, portando inevitabilmente alla completa meccanizzazione pp. 31-34). In generale tutto il passaggio è una risposta (in parte polemica) alle tesi contenute nel saggio di Peiper. In realtà la proposta di Jasieński ha più di un aspetto in comune con quella di Le Corbusier (la macchina come modello di economia, funzionalità e dinamica), resta da vedere se e quanto il poeta polacco ne fosse consapevole. Manifesti del futurismo polacco della vita dell’individuo che non riconosce in esse solamente i propri organi perfezionati, lo costringe alla ricerca di una via d’uscita. Codesta via d’uscita, per Stern, è l’arte. Un’arte basata sul nonsense può diventare per l’uomo moderno infettato dalla macchina un’aria artificiale in grado di sottrarlo per un istante al ghetto della logica e della costruzione e di trovare in esso il suo sbocco e riposo. Non condivido questa posizione. Il nonsense è una dinamite. Potrebbe diventare materiale per l’anarchizzazione delle masse (anarchia intellettuale). Nel momento in cui il collettivo ha appena cominciato a deliberare esso non ha ragion d’essere. Lo Stern teorico rappresenta, in Polonia, un importante capitolo del pensiero futurista (da Apollinaire a Dada) che non può essere passato sotto silenzio nella storia del futurismo. Oggi, quando il periodo della lotta collettiva per una forma nuova può già essere considerato finito, le differenze tra i singoli autori si delineano in maniera così netta che a colui che getti uno sguardo indietro viene fatto di porsi la domanda se sia mai veramente esistito un futurismo polacco come unità, o se non sia stato solo un gruppo di persone legate da una comunità di espansione che oggi stanno ritrovando la propria vera strada. Questa impressione è una comune illusione ottica causata dalla mancanza di prospettiva storica. Ci fu una città della coscienza polacca e ci fu un manipolo di partigiani che volevano conquistarla. Erano come persone che si siano raccolte in piazza per contare le proprie forze, armarsi e architettare un piano. Chiamarono la piazza futurismo polacco. E adesso si sparpagliano per la città, ognuno per la sua via. Per un’unica idea – per la vittoria. Ognuno per la sua via. Nera e inaccessibile è la città della coscienza polacca. Vi sono molte vie laterali, vicoli e strade cieche. Quelli che non conoscono bene la strada - si perderanno. La città si è chiusa alle loro spalle. Nessuna lampada faceva loro luce. Entrarono nella notte. Ognuno per la sua via. [Traduzione Emiliano Ranocchi] 135 Manifesti del futurismo polacco Anatol Stern LA MACCHINA COME IDEALE DELL’ARTE D’OGGI E I PREGIUDIZI ESTETICI 29 136 Non c’è niente di più vitale di un pregiudizio, quale che sia, filosofico, scientifico o estetico. La quantità più cospicua di quei massi che facciamo rotolare dalla via maestra della vita per la quale avanziamo non impedisce di incontrarne sempre di nuovi, e addirittura, nello stesso smantellare taluni pregiudizi, di crearne altri. Eppure la filosofia, accessibile per il suo carattere esoterico esclusivamente ad una cerchia eletta di persone, se la cava benissimo coi propri pregiudizi in casa sua, così da imporre facilmente il proprio punto di vista ad una maggioranza di profani. Di una simile “extraterritorialità” godono le scienze esatte, separate dalla massa da un muro di termini latini, formule matematiche, di strumenti da laboratorio, etc. Inerme è invece l’arte. Un nuovo Einstein confuterà un giorno il vecchio Einstein, come quest’ultimo fece con Copernico, oppure, più esattamente, introdurrà un’emenda che suonerà del tutto assurda, ma il comune mortale l’accoglierà con tutta l’ammirazione dovuta all’insondabile sapienza dello studioso. E non gli provocherà turbamento alcuno il fatto che qualche nuovo Bergson inficerà in due cospicui tomi il nuovo Einstein (come accade oggi). Non arriverà mai, però, il momento in cui la recensione di un giornale potrà influire sul parere del lettore riguardo a un’opera d’arte, e un comune mortale non crederà mai che anche l’arte ha i suoi segreti, le sue formule, inaccessibili senza previa preparazione. L’arte è il frutto più democratico dell’immaginazione umana, e in essa si celano sia i suoi maggiori pregi, come pure difetti impossibili da estirpare. Ed ecco perché così ingrata è la lotta contro il pregiudizio estetico. L’uomo della strada – e non soltanto lui –s a fatica abbandona gli ideali artistici coronati dai primi moti della sua sensibilità estetica. Fedele nel proprio intimo all’assoluto, alla più comoda delle dottrine, senza la quale così tante sono le cose che si riescono a spiegare solamente con un certo sforzo, egli crede altresì nell’indistruttibilità, nella stabilità e nel valore assoluto di ciò che ritiene essere il concetto di bellezza artistica. Si tratta di una fede diffusa. Può contare parecchi secoli e non ne sono immuni neppure le persone intellettualmente dotate. Si estende persino ai dettagli più minuti, e con ostinazione difende palmo a palmo le sue opinioni. È lei che fa dire a Boileau che se Omero usò nella sua poesia la parola “cane”, è soltanto perché suona bene in greco, sempre lei fece chiamare i sonetti di Crimea “poesia tatara” dall’élite dell’intellighenzia dell’epoca e paragonare le ballate di Mickiewicz a fantasticherie di garzoni di stalla e ragazze di fattoria. Sempre lei fece sì che Tolstoj in Russia, Nordau30 in Germania e Jeske-Choiński in Polonia ritenessero il periodo del decadentismo e del simbolismo europeo con in testa Baudelaire, Ibsen e Maeterlinck una psicosi diffusa e delirio degenere di nevrotici, e che lo dichiarassero in tre libri universalmente noti. La lista di casi in cui un pregiudizio artistico si è impadronito completamente delle proprie vittime potrebbe non finire mai. Questo stato di cose arriva allo zenit nei momenti di violenti sconvolgimenti culturali e intellettuali. Oggi è possibile osservarlo in maniera particolarmente chiara. Generalmente non mi sembra di sentire qualcuno insorgere sdegnato contro la rivoluzione che Einstein ha compiuto 29 A. Stern, Maszyna jako ideał sztuki dzisiejszej a przesądy estetyczne, in «Głos Polski», 196, 1924, p. 4. Max Nordau (1849-1923). Nell’originale il cognome viene erroneamente scritto Norden. 30 Manifesti del futurismo polacco nelle nostre idee fisico-astronomiche, non sento minacce indirizzate al signore che ha posto le fondamenta della logica contemporanea introducendo il concetto di identità nel concetto di giudizio, e ho l’impressione che nessuno intenda pestare Freud per avere esteso la copula sessuale a pressoché ogni manifestazione della vita spirituale. Sento invece spesso minacce indirizzate alla mia persona e ai miei amici, e so che molte signore volentieri proverebbero la forza dei loro dentini e delle loro unghiette sul viso di molti artisti dell’arte nuova. La macchina, che gli artisti contemporanei considerano “leva del progresso che dissoda la psiche dell’uomo d’oggi”, desta soprattutto svariate proteste quando diventa materiale dell’opera d’arte. È risaputo che essa svolge nell’arte d’oggigiorno un ruolo primario. Non solo in quanto artefice di determinati generi artistici (“mamma del cinema”, la chiama sempre l’ottimo Tadeusz Peiper), ma altresì in quanto essa è una di quelle rappresentazioni, per le quali che la nuova arte europea nutre una predilezione particolare. Ciononostante, pare che ai classici e agli pseudoclassici fosse permesso cantare i propri dei, che ai romantici fosse permesso bramare rusalche, ondine ed elfi, ai decadenti - una carogna, agli esteti - un usignolo, ma l’artista contemporaneo stia alla larga dalla macchina che pure sembrerebbe potere aspirare al trono nelle sue visioni con maggiore fondatezza rispetto all’antico Olimpo. Come spiegare questo odio nei confronti della macchina? Indubbiamente col suo ruolo schiacciante nei confronti della parte lavoratrice del genere umano che nella situazione attuale sta subendo una cocente sconfitta. In Polonia Irzykowski è uno di questi nemici della macchina. Soffermiamoci sulle sue obiezioni, premettendo tuttavia che nel difendere la macchina la trattiamo come pars pro toto dell’arte nuova. Irzykowski dice: “Non si può scrivere della macchina senza prendere in considerazione al contempo il problema del lavoro dell’uomo. I nostri futuristi, persone agiate, non sentono questo problema”. Ma domanderò a Irzykowski, paladino di “persone di carta”, di persone irreali, abiologiche, perché mai non possano esistere alla stessa stregua “macchine di carta”? Solo due persone in Polonia avrebbero potuto sollevare tale obiezione ai futuristi in questi termini, Brzozowski e appresso a lui Breiter. Una simile obiezione da parte di Irzykowski stupisce, e palesa casualmente l’enorme tallone d’Achille dello scrittore, che i suoi ragguardevoli meriti critici impedivano di scorgere: la mancanza, in questo scrittore, di criteri estetici fissi; il modo assai arbitrario di prendere una posizione critica, il suo saltellare burlone da un punto di vista all’altro. È un po’ come giocare a palla estetica avvelenata, in cui è possibile a priori scegliere l’esecuzione o accogliere con entusiasmo l’opera oggetto di indagine, a seconda del ruolo assegnato. Tralasciando però questo falso metodo di indagine e limitandoci esclusivamente all’obiezione in sé secondo la quale “non si può scrivere della macchina senza citare al contempo il problema del lavoro dell’uomo”, occorre dire che la forma di tale obiezione tradisce una concezione del ruolo della poesia estremamente limitata e utilitaristica, è una forma di “attivismo sociale” nel campo dell’estetica e non già estetica. E se Irzykowski spara a zero contro gli artisti dell’arte nuova su basi non tanto estetiche, quanto sociologiche, in fin dei conti gli si potrebbe persino rispondere in totale franchezza: la questione del lavoro non deve mica riguardare per forza gli artisti. Non è nostra intenzione essere sociologi dell’arte. Non sono lo sfruttamento dell’operaio o il valore della produzione meccanica a destare nei futuristi l’interesse per la macchina, ma le sue nuove proprietà grazie alle quali la tecnica contemporanea forgia la sensibilità e la psiche dell’uomo d’oggi. I futuristi possono pure (ma non devono per forza) esprimersi sulla questione della macchina e dell’operaio, ma lo scopo ideale della loro poesia, derivante dalla loro cognizione della macchina, consisterà nell’elaborazione del materiale artistico mediante la dinamica, l’economia 137 Manifesti del futurismo polacco 138 dei mezzi, la funzionalità immediata, caratteristiche principali del lavoro meccanico. E proprio in questo lavoro interno alla stessa opera d’arte, quello maggiormente produttivo, nell’invaghirsi della multiformità materiale dei suoi elementi, nel loro sintetico approfondimento - ecco dove sta l’influsso della cultura meccanica. Il problema del lavoro in senso utilitaristico di cui parla Irzykowski ci è caro, tuttavia esso ha a che vedere principalmente con il metodo di tale lavoro. Nel problema del motore non ci interessano né il lavoratore, né tantomeno, come vorrebbe Peiper, “l’uomo potente che lo ha ideato e l’uomo fortunato che lo adopera”; ci interessa piuttosto il motore in sé, questa nuova forma di espressione di cui esso è la manifestazione. L’errore di Irzykowski consiste nell’aver posto la questione del futurismo sull’ingenuo piano della sociologia, sorvolando le profondità dell’estetica del futurismo. L’arte nuova europea e in particolare, bisogna ammetterlo, quella polacca, ha dato e dà tuttora opere allo stato di ebollizione. Dal punto di vista estetico essa non è (forse per fortuna) un organismo definitivamente cristallizzato, ma anzi, si sta appena formando. Ci vuole qui un occhio estremamente aguzzo e non ottenebrato dalle lenti di alcuno dei criteri estetici finora esistenti per scorgere (se non le si percepisce emotivamente) le radici mediante le quali essa ha attecchito nella nostra cultura. Un occhio del genere non ce l’ha avuto nessuno dei nostri critici, quantunque alcuni si siano sforzati di tracciarne lealmente lo sviluppo. E infine le invettive mosse da Irzykowski nei confronti del futurismo si sono rivelate un’arma quanto meno debole (ad es. il ripetere con comica caparbietà l’accusa che “il futurismo è stato trapiantato dall’estero”. Cosa direbbe allora Irzykowski dell’umanesimo polacco, di Kochanowski e di Górnicki?). Lungi da me accusare questi critici di malafede. Sono semplicemente convinto, in base alle precedenti esperienze, della loro riluttanza a comprendere l’essenza del futurismo e i suoi principi fondamentali. Irzykowski, suppongo, risente in maniera alquanto dolorosa della brutale distruzione dei precedenti templi estetici operata dal futurismo, e il discepolo dell’estetica idealistica e il metafisico d’arte nascosto in lui si ribellano. Egli è la stessa persona che persino il nudo naturalismo senza pretese (ne “Gli incanti del naturalismo”) concepisce in chiave metaforica: “Sconfiggere la Medusa con la sua stessa immagine! Chiamare l’innominato per nome! Quanta astuzia, quanta ironia, quanta vendetta nel naturalismo!”. Gli strumenti critici di Irzykowski sono piuttosto astratti, ambigui e sfuggenti. Il metodo di studio piuttosto sofistico. Lo studio del futurismo mediante questo metodo e questi strumenti, questo passare al setaccio un complicato meccanismo di ferro, ha tutta l’aria d’essere uno sforzo inutile. E ancora una cosa. Irzykowski rimprovera i futuristi di non sapere nulla della questione del lavoro, giacché non ne hanno percezione in quanto “persone agiate” (?!). In altre parole: non siete mai stati né minatori né fonditori, come potrete mai diventare futuristi? Ebbene questa singolare argomentazione sulla superficialità della nuova arte polacca preferirei non confutarla, e vorrei lasciare a Irzykowski la piacevole illusione che si tratti di un’obiezione del tutto pertinente; e se l’ho già confutata, allora mi rincresce. Perché mai? Ammetto persino spudoratamente che l’accusa di “agiatezza” un poco mi lusinga. [Traduzione Lidia Mafrica] Manifesti del futurismo polacco Abstract Emiliano Ranocchi The Author presents the most significant Manifestos of Polish Futurism in Italian translation. They follow the original Polish text, also maintaining the graphic aspects. Keywords: Polish Futurism, Manifestos «pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», (VII) 7, 2016, pp. 103-139 139 Giovanna Tomassucci Anatol Stern e Bruno Jasieński I l saggio che qui presentiamo e pubblichiamo nella mia traduzione è dedicato a Bruno Jasieński, figura centrale del Futurismo polacco, ed è stato scritto da un altro protagonista e fondatore del movimento, Anatol Stern (1899-1968). Autore, assieme ad Aleksander Wat, dell’almanacco poetico Gga (1920), del numero unico Nuż w bżuhu [Il coltello nella pancia] e di To są niebieskie pięty, które trzeba pomalować [Sono talloni azzurri che vanno ridipinti, 1920], Stern fu anche critico letterario e cinematografico, sceneggiatore e traduttore. Noto per la sua apertura alle innovative tendenze della nuova poesia europea, tradusse intensamente dal russo e dal francese, collaborando a «Nowa Sztuka» (1921-1923), rivista fiancheggiatrice dei movimenti d’avanguardia, fondata a Varsavia assieme a Jarosław Iwaszkiewicz, «Zwrotnica» e «Wiadomości Literackie». Tra le sue oltre trenta sceneggiature, ricordiamo Der Dybuk [Il Dibbuk, 1937], scritta in collaborazione con Andrzej Marek e Alter Kacyzne. La stretta collaborazione con Bruno Jasieński – proveniente dalla formazione futurista creata a Cracovia assieme a Stanisław Młodożeniec e Tytus Czyżewski – fu una delle più produttive nella storia del movimento e si protrasse ben oltre la partenza per la Francia di quest’ultimo nel 1925. I due condividevano la propensione verso una poesia dalla ritmica allitterante, piena di nuove metafore, oltre a un profondo interesse per le sperimentazioni dei futuristi russi, che il bilingue Jasieński conosceva bene dall’adolescenza, trascorsa in Russia con la famiglia. Quest’intensa ricerca comune sarebbe confluita nella pioneristica opera di traduzione delle Avanguardie russe, l’Antologia Nowej Poezji Rosyjskiej [Antologia della nuova poesia russa, 1927], fondamentale esperienza ripresa da Stern a metà degli anni Cinquanta, quando, grazie al Disgelo, poté tornare a tradurre l’autore della Nuvola in calzoni. Le opere risalenti al Ventennio tra le due guerre, Nagi człowiek w śródmieściu [Un uomo nudo in città, 1919], il poema Romans w Peru [Un flirt in Perù, 1920], Futuryzje [Futuresie, 1920], Anielski cham [Uno zotico angelico, 1924], Bieg do bieguna [Corsa al polo 1927], oltre ai due poemi Europa (1929, composto prima del 1925) e Piłsudski (1934), suscitarono accese polemiche e censure: accusato di blasfemia, il loro autore fu incarcerato subito dopo la pubblicazione di Uśmiech Primavery [Il sorriso di Primavera, 1919], una poesia in cui, accanto a una vezzosa Vergine Maria, compariva Dio stesso, visto nell’atto di servire del vino al poeta. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, anche a causa delle sue origini ebraiche, Stern cercò rifugio nella Leopoli occupata dai sovietici, ma nel gennaio 1940 venne arrestato dall’NKVD, condividendo così la sorte di altri scrittori polacchi considerati antisovietici, come Aleksander Wat e Tadeusz Peiper. Riacquistata la libertà nel 1942, si arruolò nell’Armata del generale Anders, composta da prigionieri politici e di guerra, senza tuttavia proseguire fino alla fine la campagna militare: si fermò per alcuni anni in Palestina dove tradusse in ebraico la propria opera poetica e in prosa. Tornato in patria, solo dopo il 1956 potrà finalmente contribuire alla riabilitazione delle 141 Giovanna Tomassucci 142 Avanguardie storiche, in particolare della figura di Bruno Jasieński, tragicamente scomparso nelle purghe staliniane. A lui dedicherà la poesia Do przyjaciela [A un amico, 1956] e soprattutto ricordi e saggi, tra cui un intero capitolo di Poezja zbuntowana (Szkice XX rocznicy poezji międzywojennej [Poesia in rivolta (Schizzi del XX anniversario della poesia del Ventennio tra le due guerre, 1964)], che contiene il saggio qui presentato. Fu con la sua prefazione che nel 1957 apparvero la prima antologia poetica postbellica e il romanzo Palę Paryż [Brucio Parigi] di Jasieński. Coronamento di questa attività decennale fu la monografia, uscita postuma nel 1969, Bruno Jasieński, in cui furono raccolte anche varie testimonianze di amici, collaboratori e familiari polacchi e sovietici. Nella non facile riscoperta del Futurismo polacco, che ancora oggi non gode della stessa attenzione riservata ad altri protagonisti delle Avanguardie storiche europee, il contributo di Stern, uno dei primi ad apparire nella Polonia del dopoguerra, ha rivestito un ruolo di primaria importanza, aprendo la strada agli studi su Jasieński, tra cui la monografia di Edward Balcerzan, Styl i poetyka twórczości dwujęzycznej Brunona Jasieńskiego [Lo stile e la poetica dell’opera bilingue di Bruno Jasieński] (1968). La testimonianza qui presentata non ricostruisce infatti solo l’intensa collaborazione con l’autore del Ballo dei manichini e gli altri esponenti del movimento (basti confrontarla a quella, assai meno sistematica, di Aleksander Wat nell’intervista fiume rilasciata a Cz. Miłosz, Il mio secolo), ma anche per la sua capacità di analisi della poetica del primo Jasieński, da lui considerata pienamente originale e non dipendente dal Futurismo russo, nonostante la lettura intensa del poeta delle opere di Majakovskij. Un’antologia in due volumi dei testi poetici sterniani è apparsa in Polonia nel 1985. In Italia alcune sue poesie sono state tradotte da Carlo Verdiani (Poeti polacchi contemporanei, Silva Editore, Milano 1961, pp. 117-124) e da Monika Woźniak («Avanguardia. Rivista di letteratura contemporanea», I/2, 1996, pp. 144-145). La sua pièce Fabrykant torped albo ucieczka serca [Il fabbricante di torpedini ovvero la fuga del cuore, 1920, edita solo nel 1976] è leggibile in Gli altri futurismi. Futurismi e movimenti d’avanguardia in Russia, Polonia, Cecoslovacchia, Bulgaria, Romania, Edizioni Plus, Pisa 2010, trad. Giovanna Tomassucci, mentre la sua prefazione a Brucio Parigi è apparsa recentemente in inglese (Bruno Jasieński, I Burn Paris, Twisted Spoon Press, Praga 2012). Anatol Stern Bruno Jasieński Nella storia della nostra letteratura il nome di Jasieński si associa costantemente con le vicende del Futurismo polacco, movimento di cui è uno dei fondatori. Ma anche la sua produzione successiva è impensabile senza gli arditi esperimenti della sua giovinezza e questo forse non riguarda solo la sua opera poetica. Che cosa era il Futurismo polacco al momento del mio incontro con Jasieński? La nostra poesia era alla ricerca di una strada che dinamizzasse il mondo. Se Marinetti aveva proclamato il culto della forza, tentando di metter fine al letargo del suo popolo, i Futuristi polacchi lanciavano invece lo slogan della ribellione in nome della giustizia sociale. Jasieński lo fece scrivendo la sua Pieśń o głodzie [Canto sulla fame]. Il soggiorno in Russia forse poté influire sulla coscienza sociale del suo futuro autore? Non ne abbiamo delle prove, se non quelle letterarie, ma è indubbio che il giovane diciassettenne vissuto quattro anni a Mosca proprio nel periodo del più intenso Sturm und Drang della poesia russa non poteva rimanere indifferente alle tempeste poetiche che imperversavano sopra il suo capo. Se nelle sue prime opere cercheremmo invano tracce dirette di quelle esperienze, già in But w butonierce [La scarpa all’occhiello, raccolta d’esordio del 1921] sono evidenti i primi tentativi di trovare un corrispondente poetico della polifonia della strada: in Miasto [La città] e soprattutto nell’antimilitarista e antiborghese Marsz [Marcia], tentativo allora così clamoroso di una rottura con la sintassi poetica precedente. Il suo primo poema, Canto sulla fame, di un anno dopo, è il sintomo della ribellione che Jasieński celava nel suo intimo. Non c’è il minimo dubbio che quella ribellione aumentava man mano con la sua progressiva consapevolezza della realtà politica circonstante, di anno in anno sempre più evidente. Canto sulla fame reca un exergue tratto da Apollinaire: “Libres de tous liens donnonsnous la main”1. Niente però vi indica che proprio l’autore di Alcools abbia ispirato Jasieński. Se Canto sulla fame è tanto blasfemo quanto alcune opere del poeta francese, lo è però in maniera diversa: qui il tragico si contrappone al grottesco e all’apocrifo. Quando la folla in rivolta acciuffa per strada Cristo che fugge dalla “città nera e folle” compiendo su di lui un terribile linciaggio, dentro a un cinematografo all’improvviso si spezza la pellicola di un film poliziesco italiano: i na płótnie wśród śmiertelnej ciszy ukazała się ta sama scena. krzyk powstał na sali i panika. rzucili się w popłochu do drzwi. mężczyźni tratowali kobiety. próżno ciskał się przy aparacie mechanik, a gdy wreszcie zapalono kinkiety, na ekranie zostały czarne plamy krwi. … e sulla tela nel silenzio mortale 1 In francese nel testo. Il verso di Guillaume Apollinaire è tratto da Liens, in: Idem, Calligrammes, poèmes de la paix et de la guerre 1913-1916, Mercure de France, Paris 1918. [Tutte le note sono mie – GT]. 143 Anatol Stern, Bruno Jasieński tornò la stessa scena. un grido in sala, panico. atterriti si gettarono alle porte. gli uomini calpestavano le donne. invano si sbatteva il cineoperatore. e quando infine s’accesero le appliques nere macchie di sangue sullo schermo. 144 L’idea di questa scena non ricorda forse assai da vicino la novella di Apollinaire L’Amphion falso messia, dalla raccolta L’eresiarca & C.? Con un’unica differenza: ciò che nello scrittore francese è libero gioco dell’immaginazione, in Jasieński è tragedia. E proprio questo lo avvicina a Majakovskij, autore che ha esercitato una notevole influenza sul Canto sulla fame. Non vi è il minimo dubbio che questa influenza si spinga assai lontano e abbia qualcosa della fascinazione. La potente individualità dell’autore della Nuvola in calzoni domina Jasieński, imponendogli di parlare con le immagini del poeta sovietico, dentro cui finisce a volte per annegare come dentro un oceano. Dobbiamo però constatare che perfino laddove si è fatto ghermire dalla grandissima individualità dell’autore di 150.000.000, non lo ha mai imitato automaticamente, ma lo ha trasformato, dando alla propria poesia una forma originale. Una caratteristica peculiare del Canto sulla fame è il suo urbanismo. Majakovskij ci fornisce la visione di una città lebbrosario, in cui risuona l’“ardente inno-strepito della fabbrica e del laboratorio” e “un chiodo nel mio stivale / è più raccapricciante della fantasia di Goethe”2. Una città quasi ricreata da un genio che si inebria del suo stupendo avvenire, un avvenire sinora mai presagito. Ma che a un tempo, per maggiore contrasto, viene anche rappresentata nella sua atroce, attuale decadenza, come una camera di tortura. La città di Jasieński è invece opera di un poeta-reporter: W wielotysięcznych, stuulicych miastach wychodzą codziennie tysiące gazet, długie, czarne kolumny słów, wykrzykiwane głośno po wszystkich bulwarach. piszą je mali, starsi ludzie w okularach. nieprawda, pisze je Miasto stenografią tysiąca wypadków. rytmem, tętnem, krwią […] to jest prawdziwa gigantyczna poezja. jedyna. dwudziestoczterogodzinna wiecznie nowa. która działa na mnie, jak silny elektryczny prąd jak śmieszne są wobec niej wszystkie poezje. poeci, jesteście niepotrzebni! ja nie czytam strinberga, ani norwida nie przyznaję się do żadnego spadku. czytam świeże, pachnące farbą dzienniki, bijącym sercem przeglądam rubryki wypadków, 2 V. Majakovskij, La nuvola in calzoni, trad. R. Faccani, Einaudi, Torino 2012, p. 23. Anatol Stern, Bruno Jasieński które mnie kłują, jak ostre pilniki. In centomila città-centostrade escono ogni giorno mille giornali, lunghe, nere colonne di parole, urlate a squarciagola per tutti i boulevard scritte da bassi, vecchi omini cogli occhiali. macché, li scrive la Città stenografia di mille incidenti. con il ritmo, il battito, il sangue. [….] questa è la vera gigantesca, unica poesia. ventiquattrore, in eterno nuova. agisce su di me come alta tensione. quanto ridicole sono rispetto a lei tutte le poesie. poeti, siete inutili! io non leggo strindberg o norwid non riconosco eredità alcuna. leggo giornali freschi, odorosi di inchiostro, col cuore in gola guardo la rubrica degli incidenti, mi pungono come limette aguzze. A ispirare l’autore del Canto della fame è la cronaca di vita quotidiana, da lui quasi lasciata così com’è e presentata su piani diversi ma sincronizzati. Le città di Majakovskij e Jasieński sono espressioni di due temperamenti creativi assolutamente diversi, di due diverse poetiche. Non c’è bisogno di ripetere l’ovvia verità che il poeta sovietico è uno dei geni della poesia mondiale, ambito in cui la lirica di Jasieński non è collocabile. Si tratta invece di qualcos’altro: affascinato dal genio di Majakovskij, il poeta polacco è riuscito a dar vita a una propria visione artistica anche quando le analogie lo avrebbero potuto spingere verso un’altra direzione. Da questo punto di vista è molto caratteristico il Canto dei macchinisti: słońce przygniótłszy kolanem, skóry dymiące się połcie długo do mięsa obdzierał nasz okrwawiony scyzoryk. w noce bezgwiezdne majtkom na świata płonącym drednoucie twarz wylizały do krwi nam zorzy czerwone ozory. premuto il ginocchio sul sole, lombi fumosi di pelle scortica fino alla carne cruento il nostro coltello. arde nel buio la Dreadnought del mondo, alla sua ciurma leccano a sangue i volti rosse lingue dell’alba. Questa poesia, ricordiamolo, è stata scritta ancora nel 1922: non sarebbe stato possibile se Jasieński non fosse passato dalla scuola artistica di Majakovskij. Appunto da quella scuola derivano sia il gigantismo delle immagini ipertrofiche, sia il loro tecnicismo (“arde nel buio la Dreadnought 145 Anatol Stern, Bruno Jasieński 146 del mondo” e in seguito “l’enorme propellente della terra”, l’aereo3). Da quella medesima scuola deriva qui anche la terribile volgarità del linguaggio (con un apartitico Dio che “piange su noi pioggia e smoccica sangue”). Ma allo stesso tempo tutte queste immagini sono nel loro complesso una creazione assolutamente originale del poeta polacco: Gacki4 sostiene giustamente che alcune di esse sono delle “deformazioni alla Picasso”. Sì, non c’è dubbio che nella nostra storia della letteratura il poema di Jasieński non sia stato sufficientemente apprezzato quanto meritava. Esso costituisce infatti – nonostante certi suoi passi falsi – una svolta innegabile nella nostra poesia di quell’epoca. La sua filosofia, pienamente materialistica, così estranea all’idealismo della maggior parte delle opere del periodo, la sua corrente rivoluzionaria, il suo ritmo ansante, che rappresenta la dinamica della strada in rivolta: ecco cos’è il cuore del Canto della fame. In quest’occasione vale la pena di notare l’evoluzione seguita da Jasieński nei primi anni del suo lavoro, quando andava pubblicando su «Nowa Sztuka», «Almanach Nowej Sztuki» e «Zwrotnica», riviste che davano il la all’Avanguardia polacca negli anni 1921-24. Ho già detto come la sua poetica assuma accenti sempre chiari, come vada ispirandosi a un metodo consapevole, come miri chiaramente a un superamento degli estetismi e delle armonie ritmiche troppo facili, pastoie che lo avevano vincolato all’inizio del suo percorso. Occorre porre l’accento sul fatto che gli esperimenti verbali fini a se stessi, quali si erano manifestati nelle prime opere del Futurismo russo, soprattutto in Chlebnikov e Kručënych, poi successivamente nelle opere dei dadaisti e perfino degli espressionisti (la cosiddetta poesia transmentale nelle sue molteplici varianti) non avevano mai interessato Jasieński più di un solo attimo. Forse non apprezzava la grande portata di quel genere di esperimenti? Non credo. Le sue opere di questo tenore non sono state tuttavia più di due o tre: Na rzece [Sul fiume] e Wiosenno [Primaverilmente], quasi solo a dimostrare le proprie capacità in questo campo, il proprio virtuosistico dominio sulla parola. Questo è accaduto perché fin dai primi esordi la sua opera aveva imboccato una direzione totalmente diversa: lo straniamento e la disautomatizzazione, ottenuta grazie a una rappresentazione a tinte accese e a metafore o similitudini forti e imprevedibili. Così in Egzotyka [Esotismo]: WISI NAD WAMI W GÓRZE I Z NIEBA SPOGLĄDA KRWAWE SAPIĄCE SŁOŃCE, WIELKIE JAK PARASOL SU IN CIELO ANSIMANTE E SANGUIGNO ALTO VI GUARDA IL SOLE, GRANDE QUANTO UN OMBRELLO E in Zwiastowanie [Annunciazione], dello stesso periodo: 3 Il termine, che ebbe diffusione anche nel Futurismo russo, è probabilmente stato ispirato a Jasieński dal Manifesto dei pittori futuristi (1910), che lo usarono ancor prima di Marinetti in un contesto simile: “Noi dobbiamo ispirarci ai tangibili miracoli della vita contemporanea, alla ferrea rete di velocità che avvolge la Terra, ai transatlantici, alle Dreadnought, ai voli meravigliosi che solcano i cieli […]”, Manifesti del futurismo, a cura di V. Birolli, Milano 2008, p. 27. 4 Stefan Kordian Gacki (1901-1984): poeta e critico letterario polacco, fiancheggiatore del Futurismo polacco e direttore del periodico futurista «Almanach Nowej Sztuki». Anatol Stern, Bruno Jasieński pytały się raz ciszy rogówki5 z twarzą modrą: “dlaczego nocy czarny dyszel włazi nam wciąż między biodra?” e poi chiesero al silenzio lucciole visi di piombo: “perché mai o notte una stanga nera ci insinui tra i lombi?” Il mondo della sua immaginazione si trasformò quando cambiarono certe gerarchie consolidate, quando venne rifiutata la realtà quale era apparsa fino allora e si formarono suoi nuovi aspetti: ecco perché allora essa cominciò a entrare in fermento come un formicaio dentro cui si rovista violentemente con un ciocco di legno. Al tempo stesso risulta evidente come quella protesta contro una realtà concepita in maniera naturalistica portasse a risultati sempre più concreti, man mano che il poeta diventava più consapevole dell’obiettivo del proprio attacco. L’obiettivo di quella sua offensiva era la realtà ai suoi più alti livelli: in primo luogo il mondo ultrasensibile, canonizzato dai credenti, la religione, Dio... Ciò si manifestava non solo nelle sue brevi liriche, quali Le madri o L’annunciazione, ma anche in quelle opere più ampie, destinate a confluire nel poema, mai portato a termine, che reca l’eloquente titolo Futbal Wszystkich Świętych [Il football di Tutti i Santi]. Non era più la protesta contro l’ordine sociale, come nel quasi-anderseniano I fiammiferi o nelle pessimistiche strofe di Morse. Il prologo al Football di Tutti i Santi è una sorta di anatema da moderno profeta, di un Isaia del Ventesimo secolo. Nel suo ritmo c’è al tempo stesso qualcosa dell’Esenin di Inonia o di Radunica. Del ritmo, non del suo contenuto, in realtà tradizionale, perché moderno solo formalmente: domy skaczą w konwulsjach sklepień. krew bulgoce ustami rynien. ręce moje wyciągam ślepe: oddaj oddaj cóżeś nam winien! salti di case in spasmodiche volte. sangue che in bocca ribolle alle gronde. e io che cieche le braccia protendo: rendici rendici tutto il maltolto! Quella ribellione si fa sempre più violenta fino a che si affronta direttamente ciò che il poeta considera il responsabile del male nel mondo, responsabile perché non impiega tutto il proprio potere per liberarlo da tormenti e sofferenze gratuiti: zejdź już! zejdź już! nie każ się prosić! 5 Rogówka, termine arcaico con cui si indicava una prostituta che stazionava agli angoli della strada (cfr. http://sjp.pwn.pl/ doroszewski/rogowka;5490359.html), viene qui reso con lucciola. 147 Anatol Stern, Bruno Jasieński dokąd każesz daremnie grzmieć mi? krwi twej ofiar mamy już dosyć! ciesz się z nami twoimi dziećmi! scendi! dai scendi e non farti pregare! fin quando invano mi farai tuonare? di questo sangue ce n’è abbastanza! quando coi figli tuoi farai alleanza? In Prologo la ribellione ha un aspetto ancora metafisico: si rivolge – come ho già ricordato – unicamente contro l’astratto mondo di concetti. Ma già in Psalm powojenny [Salmo postbellico], in cui si fa più concreto il terreno della battaglia che il poeta combatte contro lo “Zar del mondo”6, il tono cambia completamente: już się zakończył wielki raut na którym były ludów scysje w ubranych w kwiaty kebach aut już odjechały wszystkie misje conclusosi è ormai il grande festino che vide tra i popoli grandi scissioni. in cab fioriti o in ricche limousine lontane ormai son le delegazioni 148 Questa immagine non ci rammenta forse qualcosa che conosciamo bene? Ma sì, è proprio una raffigurazione quasi visionaria della Lega delle Nazioni, con la sua commovente speranza (ancora in Salmo postbellico), che non “ci sarà più strepito dei cannoni”, quando tutt’attorno per l’orrore “alla folla sale il sangue nelle vene”. Tutto questo è ancora una sorta di anticamera al Canto sulla fame, chissà se non ancora più coinvolgente e artisticamente originale. E quanto l’immagine di questo mondo cui il buon Dio abbandona tutti i dilemmi da lui insoluti per partirsene per le vacanze risuona di amaro e dolente sarcasmo! Un mondo in cui “tutti hanno ragione” e tutti si perdonano con spirito evangelico: odpuszczajmy swoje nieprawności! całujmy w usta jedni drugim! rimettiamo le nostre malefatte! baciamoci tutti sulle bocche! Jasieński ancora non intravede una via d’uscita dall’impasse in cui è stato spinto il mondo. Solo nel suo poema rivoluzionario riuscirà a vederla: qui ha solo una piccola porta, attraverso cui 6 Anatol Stern, come Bruno Jasieński stesso, allude al dramma romantico Dziady [Gli avi] di Adam Mickiewicz, nella cui III parte (1832) il patriota Konrad, rinchiuso in un carcere zarista, rivolge un’accesa accusa a Dio, indifferente al dolore e alle ingiustizie del mondo. Anatol Stern, Bruno Jasieński fuggire dal mondo degli incubi. Quella porticina è il grottesco: na zielonych karuzelach bladzi policjanci gonili złodziejów na drewnianych koniach panowie! zatrzymajcie się! przestańcie! panowie! zapomnijcie o nich! pallidi sbirri inseguivan furfanti in sella a verdi destrieri di giostra. fermi signori! non più un passo avanti! signori! dimenticateli e basta! In Canto sulla fame invece tutte le porticine spariranno, quelle del mondo del grottesco, come quelle del mondo dei miracoli. E in Zarażeni [Contagiati], di due anni successivo, poco prima di Ziemia na lewo [Terra a sinistra], troveremo solo la beffarda consapevolezza dei contagiati: modlitwy naszej bez dezynfekcji nie przyjmie żaden Bóg senza disinfezione la nostra preghiera mai verrà accolta da alcun Dio Ci avviciniamo al momento in cui gli eventi politici del suo tempo eserciteranno sul poeta un’evidente influenza e il loro trauma sarà decisivo per una definitiva cristallizzazione della sua concezione del mondo e della sua poesia. Ma diamo la voce direttamente ad un suo schizzo autobiografico: Quel trauma fu la rivolta di Cracovia del 1923. L’occupazione di Cracovia da parte degli operai armati, la sconfitta del reggimento di ulani chiamato a soffocare la rivolta, il rifiuto di sparare sugli operai da parte della fanteria, l’affratellamento dei soldati e degli insorti con la consegna a questi ultimi delle armi: tutti questi accadimenti tempestosi, episodi traboccanti di eroismo delle lotte per strada, sembravano un preannuncio di enormi eventi. Ventiquattr’ore trascorse in una città ripulita dalla polizia e dall’esercito avevano scosso le fondamenta del mio mondo, non ancora fino in fondo stabile… Nel 1924 apparve Terra a sinistra, la pubblicazione poetica di Jasieński e del sottoscritto, nella veste grafica di Mieczysław Szczuka e la copertina di quello stesso grande artista rivoluzionario. Non c’è alcun dubbio che gli avvenimenti cui abbiamo appena fatto cenno avevano impresso un segno sulla nostra introduzione. Si spiega così la nostra frase sulla “via nuda, scossa dalle doglie del parto”. L’introduzione diceva: Odiamo il borghese, non solo quello che dietro una logora banconota ci cela il suo muso, ma il borghese come astrazione: la sua visione del mondo e di ogni cosa che gli appartiene. Ambiamo a 149 Anatol Stern, Bruno Jasieński una nuova Polonia, non a un nuovo negozietto. Terra a sinistra è il primo volume di poesia che da noi sia stato dedicato all’uomo di massa, a quell’eroe occulto della storia… Parlava poi del declino della cultura borghese e di quanto importasse “accelerarne la morte per edificare dalle fondamenta, in un luogo totalmente risistemato, una cultura nuova”. Definiva la nuova poesia le “granate di una nuova realtà”. Quando neanche un anno dopo Jasieński si mise a pubblicare sulla rivista «Szczutek» il ciclo delle sue poesie più velenose, Wycieczki osobiste. Podręcznik dla poetów (III) [Invettive. Manuale per i poeti (III)], ripeterà quasi esattamente quelle stesse parole sul “negozietto polacco”: Niech ruinie gmach ten i przysypie tynk was Ojczyzna nie jest dochodową karczmą W której trzymacie swój rentowy szynkwas Crolli il palazzo, vi copra in eterno Patria non è una redditizia taverna In cui tener per voi un lucroso banco 150 Ritengo che non solo Canto sulla fame, Terra a sinistra e soprattutto naturalmente Słowo o Jakubie Szeli [Canto su Jakub Szela], ma anche simili testi abbiano contribuito a creare l’immagine di un poeta “in lotta contro il governo”, come aveva scritto Barbusse7, sicuramente messo al corrente sul suo comportamento da gente che valutava e con sobrietà oggettiva la situazione letteraria dell’epoca. Molto significativa è la selezione di testi da lui effettuata per Terra a sinistra, in gran parte già pubblicati in precedenza. Vi si trovavano sia frammenti di Football di tutti i Santi e altri, sia nuovi testi, quali Marsylianka [La Marsigliese] e Bajka o kelnerze [Fiaba sul cameriere]. Questa sua selezione denota un atteggiamento sociale ormai completamente cristallizzato: l’accento decisivo è dato dalla ripubblicazione del Canto dei macchinisti (tratto dal Canto sulla fame), mentre nella Marsigliese c’è una sorta di premonizione della sua imminente partenza verso la Francia: śni mi się gorzki morskiej wody smak gdzie przepływ w portach liże barki barek i mam pod czaszką wieczny trzepot flag i serce w piersi skacze jak zegarek io sogno amari sorsi di mare leccan nei porti le anche alle barche nel cranio eterni garrir di bandiere e il cuore che in petto salta puntuale “Finché il mio grido si riversa attraverso la vetta, scuotendo la città come enorme gru…”. 7 Stern si riferisce a una lettera di protesta di Henri Barbusse contro l’espulsione di Jasieński dalla Francia. Barbusse, che nel 1928 aveva pubblicato a puntate la traduzione francese di Palę Paryż [Brucio Parigi] sull’«Humanité», di cui era caporedattore, scrisse anche un’introduzione al romanzo (Je brûle Paris, Flammarion, Paris 1929). Anatol Stern, Bruno Jasieński Ogni scrittore, ogni poeta cela dentro di sé simili fantasie, fantasie che davvero raramente si realizzano. Qui invece doveva accadere qualcosa di diverso: il grido del poeta avrebbe davvero scosso quella “strana città mai vista” di cui aveva scritto. La fantasia portava il nome di Palę Paryż [Brucio Parigi]. Come nella Fiaba sul cameriere, anche in quest’opera si presenta una visione che spezza brutalmente la realtà, pur condensandone al tempo stesso gli aspetti salienti. Nella Fiaba sul cameriere essa si era trasformata in un incubo simile a quelli dei disegni di George Grosz, con il cameriere che serviva i clienti e all’improvviso intravedeva “dentro al frac un grugno di porco”, “un pingue collo” e un “guizzante baratro di mascelle”. Se Jasieński in genere non ha modificato i testi meno recenti, un cambiamento caratteristico per la sua evoluzione poetica e sociale si presenta invece in Canto dei macchinisti (dal Canto sulla fame). Nella sua prima versione aveva scritto: krwi naszej twardych jambów słuchało stare słońce łyse, jak łeb bismarka del nostro sangue i duri giambi ascoltava un vecchio sole, calvo come il grugno di bismarck. Nella versione successiva, in Terra a sinistra, leggiamo invece : słuchało stare słońce, łysy płomienny żandarm ascoltava un vecchio sole, calvo rovente gendarme. Bisognava sentirsi molto assediati da un mondo di nemici e da fantasie ostili, perché perfino il sole potesse apparire come un gendarme che sorveglia l’uomo. La pubblicazione successiva di Jasieński sarà solo il Canto su Jakub Szela. Ma prima di passare a questo poema, mi pare necessario parlare del rapporto che il poeta aveva allora con il Futurismo, di cui era uno dei protagonisti. La storia della Giovane Polonia e del gruppo di Skamander è stata narrata ampiamente dalla nostra storia della letteratura e anche le opere di altri poeti più prestigiosi estranei a quella formazione è stata analizzata in varie monografie. Diversa è invece la situazione della fase letteraria successiva, quella che può essere definita avanguardia futurista. In questo campo non abbiamo nessun testo critico più ampio, come è accaduto nell’Europa occidentale, Francia in testa (penso a De Baudelaire au Surréalisme di M. Raymond, alla Histoire du Surréalisme di M. Nadeau, a L’aventure Dada di G. Hugnet), senza parlare delle serie editoriali che, accanto alle opere e ai compendi biografici, ricostruiscono ampiamente il contesto letterario e culturale dell’epoca. Mi riferisco qui a Écrivains de toujours e a Poètes d’aujourd’hui, pubblicati entrambi da Seghers. L’immagine che di quella nostra avanguardia fornisce la Storia della Letteratura di K. Czachowski8 è senza dubbio onesta, anche se fondamentalmente eclettica, mentre i contributi 8 Stern allude all’Obraz współczesnej literatury polskiej 1884-1933 [Immagine della letteratura contemporanea polacca (19341936)], dello storico della letteratura Kazimierz Stanisław Czachowski (1890-1948). 151 Anatol Stern, Bruno Jasieński 152 di alcuni singoli aderenti al movimento – quali Jan Brzękowski9 – sono assai di parte. E per me non v’è alcun dubbio che la funzione artistica e sociale della nostra arte, tanto positivamente apprezzata da Ignacy Fik nei suoi Vent’anni di Letteratura polacca10, troverà presto più di un critico obiettivo e una collocazione adeguata nella storia della nostra letteratura. Che davvero il movimento fosse ispirato da autori stranieri? Certo non in misura maggiore del nostro Romanticismo, della poesia della Giovane Polonia o di quella dello Skamander. Da dove nascono quindi le battaglie condotte proprio dai Futuristi contro Karol Irzykowski11, quando questi attaccò la giovane poesia polacca? Com’è noto, Irzykowski aveva polemizzato sia con i Futuristi che con i poeti dello Skamander. Assediato dalle generazioni più giovani, era ricorso a una mossa magistrale. In questo modo non solo parava i colpi, ma al tempo stesso poteva ricorrere allo stesso metodo che aveva appreso dai suoi maestri nella sua Arte di condurre le polemiche: il metodo di diffondere le calunnie. Del resto, quando si riusciva a farglielo ammettere, lui stesso lo definiva un metodo di “insinuazione”. Lo sappiamo bene quale contenuto abbia il concetto di insinuazione: è la messa in circolo di sospetti ingiustificati. Attaccati da lui, i poeti dello Skamander ne passarono sotto silenzio le accuse. Noi invece ricorrevamo alla tattica tipica degli ingenui: gli rispondevamo. Proprio per questo l’interesse degli osservatori di quel duello, in cui entrambe gli avversari si ricoprivano di contumelie, si concentrò sui componenti dell’Avanguardia. Del resto nell’introduzione al suo L’elefante in una cristalleria Irzykowski stesso si riconoscerà onestamente afflitto dal peccato di rissosità e di “amore per le cause perse”. Anche Jasieński attaccava senza pietà il suo avversario. La prima volta con un testo in prosa (e quindi con minore efficacia), la seconda in questo modo, nel già citato Invettive. Manuale per i poeti (III): Przyzna to nawet Irzykowski Karol Z krytyków moich najzjadliwszy tetryk Co już od dawna zagiął na mnie parol I wierszom moim wglądać chciał do metryk Trudem dziś w Polsce szukać Sawonarol Lo ammette anche Irzykowski Karol Lui certo fra i miei critici il più tetro Che si è dato da un po’ la sua parola D’usar coi versi miei l’età per metro Dove lo trovi da noi un Savonarola 9 Jan Brzękowski (1903-1983) poeta e critico polacco, fu in stretto contatto con varie formazioni dell’avanguardia europea, dal Cubismo e Futurismo al Dadaismo e Surrealismo. In Polonia nei primi anni Venti collaborò attivamente alle riviste d’avanguardia «Zwrotnica» e «Linia» mentre a Parigi nel biennio 1929-1930 diresse la rivista bilingue «L’Art Contemporain – Sztuka Współczesna». Scrisse testi poetici anche in francese, che furono illustrati da Hans Arp, Max Ernst e Fernand Léger. 10 Ignacy Fik (1904-1942) noto critico letterario polacco, militante della Resistenza comunista durante la Seconda guerra mondiale, fucilato dai nazisti durante l’occupazione. Il suo libro Dwadzieścia lat literatury polskiej 1918-1938 [Vent’anni di letteratura polacca 1918-1938] fu pubblicato (e subito confiscato) nel 1939 (II ed. 1949). 11 Karol Franciszek Irzykowski (1873-1944): importante critico letterario e teatrale, e scrittore, fiancheggiatore del Partito Socialista polacco. La raccolta dei suoi scritti polemici Słoń wsród porcelany [L’elefante in una cristalleria], cui si riferisce Stern, apparve nel 1934. Anatol Stern, Bruno Jasieński Io non lodo certamente queste sue asserzioni, anche se ricordo bene le invettive di Irzykowski e sono persuaso che, se Jasieński avesse potuto prevedere che in seguito sarebbero state ripetutamente usate da editorialisti di quart’ordine contro la poesia della Nuova Arte, probabilmente non vi avrebbe fatto ricorso. Ed è altrettanto probabile che neanche loro si sarebbero serviti di quell’arma, se avessero potuto conoscere l’intimidatoria quanto ingiusta generalizzazione enunciata da Irzykowski in Literatura a socjalizm [La letteratura e il socialismo]: Ale ja nie zmienię charakteru polskiej literatury i nie zmieni jej nikt w Polsce. Tu można być co najwięcej tylko prekursorem, ale nigdy pionierem. Przyszłość literatury, tak samo jak całej kultury polskiej, przygotowuje się poza jej granicami, na Zachodzie i Wschodzie, tam gdzie zapadają główne rozstrzygnięcia kulturalne, które my otrzymujemy już gotowe. Ma neanche io cambierò il carattere della letteratura polacca, come nessuno mai riuscirà a farlo in Polonia. Da noi al massimo si può essere un precursore, mai un pioniere. Il futuro della letteratura, quanto quello di tutta la cultura polacca, viene allestito al di là dei suoi confini, a Ovest e a Est, dove vengono prese le principali decisioni culturali che a noi giungono già pronte. Con il tempo, dimenticammo tutti quelle nostre polemiche e lo dimostrammo in più di un caso nelle nostre successive dichiarazioni. In quello stesso 1924, in cui apparve l’Invettiva contro Irzykowski, Jasieński dirà addio al Futurismo. Lo aveva fatto già in precedenza, nel 1923, in una dichiarazione rilasciata alla rivista «Zwrotnica», come al solito in modo incomparabilmente più suggestivo, perché in versi: Idziemy wydrzeć z lawy metafor twarz rysującą się świata. Andiamo a strappar via dalla lava di metafore il volto che si delinea del mondo. Dalla lava di metafore occhieggiava il volto del capo della rivolta contadina, Jakub Szela. Jasieński si lasciò dietro quel Futurismo che aveva creato insieme a noi, la rivista «Nowa Sztuka», cui aveva preso attivamente parte, e un’avanguardia di cui nel 1924 avevamo lanciato il nome proprio noi due, con la pubblicazione di un numero unico che portava quel titolo. Nel suo cammino portò con sé le proprie conquiste e risultati formali, quelli che in seguito lo avrebbero aiutato a esprimere l’ideologia rivoluzionaria che professava fin dai suoi esordi. Come ebbe a ripetere spesso a voce e a scrivere nelle sue opere posteriori, il sentimento con cui abbandonò quel movimento cui aveva dato vita, fu quello di un uomo che dice addio alla propria giovinezza12. 12 Anatol Stern, Poezja zbuntowana. Szkice o poezji dwudziestolecia międzywojennego, Państwowy Instytut Wydawniczy, Warszawa 19702, pp. 120-134 (la prima edizione era del 1964). I testi poetici in polacco citati all’interno del saggio sono stati 153 Anatol Stern, Bruno Jasieński Abstract Giovanna Tomassucci The Author presents her first Italian translation of Anatol Stern’s article (excerpted from his monograph on Polish Avantgarde Rebelled Poetry. Sketches on Interwar Period Poetry [1964, 2nd issue 1970]) about another prominent initiator and ideologist of Polish futurism, Bruno Jasieński. After the Thaw, Stern first contributed to Jasieński’s rehabilitation, publishing his poetry and the novel I burn Paris and writing several essays about his work. The article presented also offers a choice of translated fragments of Jasieński’s poetry, just a few known in Italy, and an artistic profile of Stern. Keywords: Futurism in Poland, Anatol Stern, Bruno Jasieński. «pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», (VII) 7, 2016, pp. 141-154 154 A. Stern, B. Jasieński, Ziemia na lewo, Warszawa 1924. Copertina e grafica di Mieczysław Szczuka. uniformati all’edizione delle opere poetiche delle poesie di Bruno Jasieński, Poezje zebrane, a cura di Beata Lentas, Słowo/ obraz terytoria, Gdańsk 2008. Bibliografia sul futurismo polacco in lingue occidentali OPERE Janokowski Jerzy, Jasieński Bruno, Stern Anatol, Czyżewski Tytus, Młodożeniec Stanisław, Wat Aleksander, [Poesie], trad. it. Monika Woźniak, in «Avanguardia. Rivista di letteratura contemporanea», 2, 1996, pp. 140-152 Jasieński Bruno, La scarpa all’occhiello, trad. it. Luigi Marinelli, in «Inventario», 5-6, 1982, pp. 40-43 Jasieński Bruno, Il ballo dei manichini, in: Teatro polacco del ‘900, a cura di Giovanni Pampiglione, E/O, Roma 1987, pp. 41-85 Jasieński Bruno, To the Polish Nation: a Manifesto Concerning the Immediate Futurization of Life, Manifesto Concerning Futurist Poetry, transl. by Klara Kemp Welch, in: Between Worlds. A Sourcebook of Central European Avant-gardes, 1910-1930, ed. by Timothy O. Benson, Éva Forgács, the MIT Press, Cambridge, MA-London 2002, pp.187-194 Jasieński Bruno, Canto della fame, trad. it. Simone Guagnelli, in «eSamizdat», I, 2003, pp. 127-136 Jasieński Bruno, The Mannequin’s Ball, transl. by Daniel Gerould, Routledge, London & New York 2013 Kurek Jalu, Le colombe di Winicja Claudel. Dramma antisimbolico = poema cinematografico 7 atti = 50 minuti, trad. it. Giovanna Tomassucci, in: Gli altri futurismi. Futurismi e movimenti d’avanguardia in Russia, Polonia, Cecoslovacchia, Bulgaria, Romania, Atti del Convegno Internazionale, Pisa, 5 giugno 2009, a cura di Giovanna Tomassucci, Massimo Tria, Edizioni Plus, Pisa 2010, pp. 125-132 Stern Anatol, Il fabbricante di torpedini ovvero la fuga del cuore. Buffonata in quattro atti, trad. it. Giovanna Tomassucci, in: Gli altri futurismi. Futurismi e movimenti d’avanguardia in Russia, Polonia, Cecoslovacchia, Bulgaria, Romania, Atti del Convegno Internazionale, Pisa, 5 giugno 2009, a cura di Giovanna Tomassucci, Massimo Tria, Edizioni Plus, Pisa 2010, pp. 133-147 Wat Aleksander, Stern Anatol, Czyżewski Tytus, Jasieński Bruno, [Poesie], in Carlo Verdiani, Poeti polacchi contemporanei, Silva Editore, Milano 1961, pp. 21-26, 117-124, 135-144, 149-152 TESTI CRITICI E BIBLIOGRAFIE Ajres Alessandro, Avanguardie in movimento. Polonia 1917-1923, Libria, Melfi 2013 Bartelik Marek, Early Polish Modern Art. 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Futurismi e movimenti d’avanguardia in Russia, Polonia, Cecoslovacchia, Bulgaria, Romania, Atti del Convegno Internazionale, Pisa, 5 giugno 2009, a cura di Giovanna Tomassucci, Massimo Tria, Edizioni Plus, Pisa 2010, pp. 149-159 Gurgul Monika, Italian Futurism in the Polish Press, in «Studia Litteraria Universitatis Iagellonicae Cracoviensis», 4, 2015, pp. 369-385 (www.ejournals.eu/Studia-Litteraria) De Simone Rosario, Polonia, in: Dizionario del futurismo, a cura di Ezio Godoli, Vallecchi, Firenze 2001, pp. 903-908 Gerould Daniel, Jasienski, Lunacharsky, Moor, and “The Mannequins’ Ball”, in: Jasieński Bruno, The Mannequin’s Ball, Routledge, New York 2014, pp. XVII-XXVI Heistein Józef, Bruno Jasieński: Scrittore polacco e russo. Dal futurismo al realismo socialista, in: Studi in onore di Sante Graciotti, a cura di Giovanna Brogi Bercoff et al., Carucci, Roma 1990, pp. 179-188 156 Kolesnikoff Nina, Bruno Jasienski: his evolution from futurism to social realism, Bibliothèque de la «Revue Canadienne de Littérature Comparée» / Library of the «Canadian Review of Comparative Literature», vol. 6, Wilfrid Laurier University Press, Waterloo, Ont. 1982 Krzychylkiewicz Agata, The Grotesque in the Works of Bruno Jasienski, Peter Lang, Bern 2007 Krysinski Wladimir, Un’automobile, una mitragliatrice, uno schiaffo, una scimmia crepata. Confronto tra Futurismo italiano e Futurismi slavi, in «Avanguardia Rivista di letteratura contemporanea», 2, 1996, pp. 108-118 Marinelli Luigi, La fine e l’inizio. Intorno al futurismo polacco, in: L’Europa futurista. 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Un bon chansonnier qui a publié, il y a quelques années d’assez mauvais poèmes, a résolu la question en écrivant dans son avant propos: Le poème en prose, c’est de la prose poétique… Un académicien de son côté répondait vers la même question à une enquête: Faire du beau style pour ne rien dire, cela ne vaut rien, c’est faire du poème en prose… Et voilà! On peut donc être académicien (ou chansonnier) sans savoir ce qu’est le poème en prose1. S ono queste le parole con le quali il poeta Louis Guillaume, in una conferenza tenuta alla Sorbona il 27 febbraio del 1960, introduceva il suo discorso su L’évolution du poème en prose d’Aloysius Bertrand à nos jours. Da allora, negli ultimi cinquant’anni, numerosi studi sono stati dedicati in Europa e in America al problema della prosa poetica e della poesia in prosa2, nel tentativo di racchiudere in una definizione plausibile e possibilmente definitiva due categorie letterarie altamente sfuggenti. Nel 2014, con parole rivelatrici della complessità dell’argomento preso in analisi, Agnieszka Kluba chiude così la sua monografia di oltre cinquecento pagine dedicata alla brillante e puntigliosa ricostruzione, definizione e spiegazione della poesia in prosa3: La poesia in prosa è una forma elitaria e, come testimoniano le conseguenze della popolarità della poesia in prosa negli Stati Uniti, non è necessariamente il caso di augurarle la massificazione. Per apprezzare il suo fascino sottile si deve però essere in grado di distinguerlo dagli altri generi letterari. Questo non è facile, la poesia in prosa è diventata un fenomeno straordinariamente enigmatico e non si presta a facile diagnosi. Per fortuna, accanto alle astrazioni teoriche abbiamo a disposizione le formule degli scrittori: la poesia in prosa è “un concentrato di letteratura, l’olio essenziale dell’arte”, “un gioiello”, “un’improvvisa espansione del mondo”4. La preoccupazione principale della studiosa, subito in apertura del primo capitolo, è quello di precisare e differenziare la nozione di “poesia in prosa” (poemat prozą) da quella di “prosa poetica” (proza poetycka), argomento complesso su cui si soffermerà più volte nel corso della sua trattazione. Il compito è infatti arduo: la prosa poetica – a detta della stessa autrice – appare come 1 Per la lettura completa della conferenza qui citata si rimanda a: <http://www.louis-guillaume.com/spip.php?article43> (ultimo accesso: 13 settembre 2016). 2 È opportuno tradurre “poème en prose” con “poesia in prosa” perché, di norma, per “poema” in italiano si intende un componimento poetico lungo. Cfr. P. Giovannetti, Al ritmo dell’ossimoro. Note sulla poesia in prosa, in «Allegoria», X, 28, 1998, pp. 19-40 (qui p. 22), poi in Idem, Dalla poesia in prosa al rap. Tradizioni e canoni metrici nella poesia italiana contemporanea, Interlinea, Novara 2008, pp. 19-45. 3 A. Kluba, Poemat prozą w Polsce, Fundacja na rzecz Nauki Polskiej, Warszawa-Toruń 2014. Si rimanda in particolare alla ricca bibliografia di testi critici in polacco e nelle principali lingue europee presenti alle pp. 519-543. 4 Ivi, p. 518. Cfr. inoltre, della stessa autrice, Poemat prozą: rozważania genologiczne, in «Pamiętnik literacki», 2, 2010, pp. 5-29. 161 Marina Ciccarini un “mare tenebrarum” che raccoglie in sé espressioni letterarie eterogenee, dalle traduzioni di testi biblici e dell’antichità classica alla prosa retorica e didattica, a quella ritmica, al linguaggio di alcune opere romantiche o moderniste5. Proprio per un’evidente versatilità e onnicomprensività, la prosa poetica è alla fine considerata dagli studiosi uno stile di scrittura piuttosto che un genere letterario a sé stante6. Non meno impegnativa appare la definizione di poesia in prosa, “sentita come ossimorica, ancipite e anfibia: e infatti questa condizione di ‘mediatezza’, questa ambiguità esibita, questo rinvio a codici complessi, polivoci, è il carattere in qualche modo fondante della poesia in prosa in quanto genere”7, anche se gli studiosi sono perlomeno concordi nell’attribuire la paternità di tale fenomeno letterario ibrido, affermatosi nel momento della crisi del sistema dei linguaggi letterari, all’opera di Aloysius Bertrand e di Charles Baudelaire8. Sembra esserci, infatti, un momento di svolta nello sviluppo del genere9: dai Poems of Ossian che sono esempio, tra la fine del Settecento e i primi dell’Ottocento, di una prosa ritmica che allude a un precedente originale in versi, si arriva a Le Spleen de Paris. Les Petits poèmes en prose di Baudelaire (scritti fra il 1855 ed il 1864), nei quali si sferra un vero e proprio attacco nei confronti del romanzo, di cui il nuovo genere vuole essere lo sgretolamento in unità minori. Nella notissima lettera prefatoria all’opera, scritta da Baudelaire al suo editore Arsène Houssaye, si legge: Mio caro amico, vi mando un’operetta di cui solo ingiustamente si potrebbe dire che non ha né capo né coda, poiché, al contrario, tutto in essa è, nello stesso tempo, e testa e coda, alternativamente e reciprocamente. Considerate, vi prego, quali mirabili comodità questa combinazione offre a noi tutti, a voi, a me e al lettore. Possiamo tagliare dove vogliamo: io la mia fantasticheria, voi il manoscritto, il lettore la sua lettura […]. Devo farvi una piccola confessione. È sfogliando almeno per la ventesima volta il famoso Gaspard de la Nuit di Aloysius Bertrand (un libro conosciuto da voi, da me e da qualcuno dei nostri amici, non ha tutto il diritto di essere definito famoso?), che mi è venuta l’idea di tentare qualcosa di analogo, e di applicare alla descrizione della vita moderna – o piuttosto di una vita moderna e più astratta – lo stesso procedimento che egli aveva applicato alla rappresentazione della vita di un tempo, così stranamente pittoresca. Chi di noi non ha sognato, in quest’epoca di ambizioni, una prosa poetica, musicale ma senza rima e senza ritmo costante, abbastanza flessibile e spezzata da adattarsi ai movimenti lirici dell’anima, alle oscillazioni del fantasticare, ai soprassalti della coscienza?10 162 5 Cfr. A. Kluba, Poemat prozą, cit., p. 15. Ivi, p. 113, nota 1. Cfr. anche S. Lebon, Vers une poétique du poème en prose dans la littérature française moderne, in «Revista de Lenguas Modernas», 13, 2010, pp. 95-109 (in particolare p. 97). 7 A. Cortellessa, La prosa come forma del limite, in «L’Ulisse. Rivista di poesia, arti e scritture», 13, aprile 2010, p. 10. Lo studioso cita espressamente P. Giovannetti, Al ritmo dell’ossimoro, cit., p. 25, il quale, in aggiunta, scrive: “Così, l’interessante lettura esplicitamente postmodern della poesia in prosa fatta da Margueritte S. Murphy mette in primo piano l’‘utopian impulse’ che fondativamente deriva da tale ‘ageneric genre’ […]. E Hermine Riffaterre […] dichiara che un tale ‘oxymoronic name’ riflette ‘the self-contradictory, paradoxical nature of genre’”, cfr. P. Giovannetti, Al ritmo dell’ossimoro, cit., p. 23. 8 Convenzionalmente si considera Gaspard de la Nuit il testo, scritto da Aloysius Bertrand e pubblicato postumo nel 1842, quale libro fondatore della poesia in prosa moderna. 9 Si fa risalire l’idea della poesia in prosa a Seneca il Vecchio (Controversiae, 2.2.8) e Ovidio (Tristia, 4.10.23-26). Cfr. The Princeton Encyclopedia of Poetry and Poetics, 4 ed., a cura di R. Greene et al., Princeton University Press, Princeton 2012, p. 1512, sub voce “Free Verse and Prose Poetry”. Cfr. anche P. Giovannetti, La poesia senza verso, in «L’Ulisse. Rivista di poesia, arti e scritture», 13, aprile 2010, pp. 13-17. 10 C. Baudelaire, Lo spleen di Parigi. Poemetti in prosa, testo originale a fronte, introduzione, traduzione e note di Alfonso Berardinelli, Garzanti, Milano 1999, pp. 4-7. 6 Tra senso e suono: il caso di Ewa Lipska Come si vede, è lo stesso Baudelaire ad intitolare Petits poèmes en prose qualcosa che egli stesso definisce “prose poétique”, accrescendo in tal modo l’ambivalenza tra i due termini11. Il “nuovo” genere di poesia in prosa inaugura una tradizione poetica che, con le ovvie varianti e specifiche, troverà adepti nelle letterature nazionali di Europa, Russia e America. La funzione sociale, ideologica ed estetica di questo genere è racchiusa nel suo potenziale “sovversivo”: si tratta infatti di ribaltare la rigida tradizione prosodica del neoclassicismo ottocentesco (in primo luogo e soprattutto francese) e inserire nel testo poetico il linguaggio della prosa non letteraria, di strada, della vita reale. Nell’ossimoricità della sua stessa definizione, nel suo collocarsi ai margini della prosa (T.S. Eliot la definisce un genere “borderline della prosa”12), la poesia in prosa nasce da un bisogno di rivolta, dalla necessità di trovare un nuovo percorso per esprimere la disarmonia, la disperazione, la nuova sensibilità dell’uomo moderno, con una scrittura che vada contro la narrativa convenzionale, contro una prosa descrittiva e contemplativa. La poesia in prosa è un genere “contro”, un genere ibrido, “un genere di rivolta e di libertà, molto più che un semplice tentativo di rinnovare la forma poetica, è una rivendicazione dello spirito, un aspetto della lotta incessante dell’uomo contro il suo destino”13. Dal punto di vista formale, la poesia in prosa non è scritta in versi, dunque viene meno l’equivalenza tra versificazione e poetica; la funzione poetica del suo linguaggio obbedisce tuttavia a delle regole, e gli elementi distintivi di questo genere sembrano essere la brevità e la concisione della scrittura, la totale autonomia e unità logica della narrazione, la densità delle immagini creata in genere da ritmi pronunciati, da effetti sonori capaci di sostenere la tensione del racconto poetico libero nel tono e nell’espressione14. Non ultima appare la categoria della “gratuità”, come suggerito da Suzanne Bernard che sottolinea come lo scopo di tale genere polimorfico non sia trasmettere una informazione o raccontare una storia, ma ricercare un effetto poetico in uno spazio senza tempo15. 11 Del resto, ad una vera e propria estetica dell’ambiguità Baudelaire è, com’è noto, molto sensibile: cfr. P. Giovannetti, La poesia senza verso, cit., p. 13. 12 Cito dalla pagina 3 di uno dei testi chiave per lo studio della poesia in prosa che, pur analizzando la fortuna e la tradizione del “prose poem” in Inghilterra e nella poesia americana, dedica nell’introduzione un ampio saggio alla discussione del genere, sottolineandone il carattere sociale e la funzione rivoluzionaria: M.S. Murphy, A tradition of subversion: The Prose Poem in English from Wilde to Ashbery, University of Massachusetts Press, Amherst 1992, pp. 246. 13 Cfr. L. Guillame, op. cit., in chiusura del suo trattato. La studiosa M.S. Murphy specifica: “Terdiman and Monroe both make powerful arguments for the prose poem as a ‘counter-discourse’ to the dominant discourses of nine-teenth-century France. Terdiman explains: ‘At just the historical moment when the term ‘prosaic’ was mutating into a pejorative, the prose poem sought to reevaluate the expressive possibilities, and the social functionality, of prose itself. Nothing in the second half of the century situates this institution more acutely, nor puts it into crisis more decisively, than its reinscription in the project of the poème en prose’”, M.S. Murphy, op. cit., p. 5. 14 “In a collection of articles on the prose poem appearing in 1983, The Prose Poem in France: Theory and Practise, Hermine Riffaterre, one of the editors and contributors, summarized the various approaches in her introduction: ‘Despite the diversity of approaches evident in this volume, or perhaps because of that very diversity, a clear consensus emerge as to what traits will define a genre too often thought undefinable: brevity, closure, inner ‘deconventionalized’ motivation of forms, relationship between representation-space and the poem’s spatial features, one shaping the other, and so forth’”, cit. in M.S. Murphy, op. cit., p. 62. Sul tema cfr. anche M. Delville, The American Prose Poem: poetic form and the boundaries of genre, University Press of Florida, Gainesville FL 1998, in particolare il primo capitolo intitolato The Prose Poem and the Ideology of Genre, pp. 1-19. 15 “Le poème en prose suppose une volonté consciente d’organisation en poème; il doit être un tout organique, autonome, ce qui permet de le distinguer de la prose poétique […]; ceci nous amènera à admettre le critère de l’unité organique: si complexe soit-il, et si libre en apparence, le poème doit former un tout, un univers fermé, sous peine de perdre sa qualité de poème […]. Admettons cependant que d’une façon générale un poème ne se propose aucun fin en dehors de lui-même, pas 163 Marina Ciccarini Per definire nelle sue linee generali il difficile problema della distinzione tra poesia e prosa, può essere utile una specie di doppia equazione quantitativa, tipica dello strutturalismo, utilizzata da Barthes ne Il grado zero della scrittura, nel quale lo studioso utilizza le lettere A, B e C per rappresentare alcuni attributi del linguaggio, a sua detta decorativi, e che stanno a significare, rispettivamente, A il metro, B il ritmo e C il “rituale delle immagini”, cioè la sonorità e la forza di queste ultime16. Costituisce, così, una formula secondo la quale: poesia = prosa +A+B+C prosa = poesia -A-B-C Al medesimo gioco di rimbalzi tra forma e contenuto, a maggior ragione, sono sottoposte la poesia in prosa e la prosa poetica. Utilizzando lo schema barthesiano si potrebbe tentare di sintetizzare la differenza tra le due categorie nel modo seguente: poesia in prosa = prosa -A+B+C prosa poetica = poesia -A-B+C 164 La poesia in prosa, insomma, come la prosa poetica, non ha metro ma, al contrario di quest’ultima, ha ritmo (B) e una particolare densità (C) che endiadicamente – come vedremo – si sostengono a vicenda. Per chiarire tale affermazione e stemperare un eccesso, forse, di razionalizzazione e classificazione, è opportuno affrontare l’analisi di un testo di poesia in prosa per cercare di definire al meglio la questione del “ritmo”. Tra i poeti contemporanei che hanno scelto di scrivere prose poetiche e poesie in prosa17, un posto a sé stante merita senz’altro Ewa Lipska, poetessa di Cracovia, molto nota e tradotta in numerose lingue. Nel 2012 e nel 2013 Lipska ha pubblicato due volumi di cosiddette “prose poetiche”, rispettivamente intitolate Cara signora Schubert… e L’amore, cara signora Schubert...18 Queste due raccolte sono tematicamente ben definite: a parlare è infatti un io lirico al maschile che si rivolge ad una fantomatica “signora Schubert”, referente esistenziale e interlocutrice “intelligente e sensibile” alla quale indirizza tutte le sue “missive” che trattano dei grandi temi della vita e della morte, del destino, della memoria, del caso, della paura, intessuti da trame di ricordi condivisi, plus narrative que démonstrative; s’il peut utiliser des éléments narratifs, descriptifs…, c’est à condition de la transcender et de la faire ‘travailler’ dans un ensemble et à des fins uniquement poétiques: nous avons là un critère de gratuité. […] L’idée de la gratuité peut être précisée par celle d’‘intemporalité’, en ce sens que le poème ne progresse pas vers un but, ne déroule pas une succession d’action ou d’idées mais se propose au lecteur comme un 'objet', un bloc intemporel”, S. Bernard, Le Poème en prose: de Baudelaire jusqu’à nos jours, Nizet, Paris 1959, pp. 14-15. 16 R. Barthes, Esiste una scrittura poetica?, in Idem, Il grado zero della scrittura, PBE, Milano 1982, p. 31. Cfr. anche M. Delville, op. cit., p. 3. 17 Non è questa la sede per affrontare un discorso più articolato che riguardi nel suo insieme la poesia in prosa contemporanea. Si rimanda, però, almeno a P. Zublena, Esiste (ancora) la poesia in prosa?, in «L’Ulisse. Rivista di poesia, arti e scritture», 13, aprile 2010, pp. 43-47, e A. Kluba, Poemat prozą, cit., pp. 127-512, la quale riserva la seconda parte del suo volume all’analisi di numerose poesie in prosa, a partire dal periodo della Giovane Polonia fino a quello del secondo dopoguerra. 18 E. Lipska, Droga pani Schubert…, Wydawnictwo Literackie, Kraków 2012; Eadem, Miłość, droga pani Schubert, Wydawnictwo a5, Kraków 2013. Entrambe le raccolte sono state tradotte dalla scrivente con il titolo L’occhio incrinato del tempo, a cura di M. Ciccarini, Armando, Roma 2013. A tale raccolta bilingue (polacco-italiana) si farà riferimento in seguito. Tra senso e suono: il caso di Ewa Lipska da momenti di vita vissuta insieme19. Sbaglierebbe, tuttavia, chi pensasse di trovarsi di fronte ad un racconto che si sviluppa nel nostro consueto spazio-tempo o che segue un percorso di causaeffetto. Attraverso un gioco di metafore, paradossi e analogie la poetessa crea, infatti, un universo mosso da una logica interna che non si serve delle categorie abituali della narrazione e che sembra invece voler sottolineare il paradosso della complessità dell’esistenza costruendo un universo di simmetrie surreali e inattese20. Contrassegnate da brevità di scrittura e da un’originale quanto elegante e compatta tessitura del racconto, le due raccolte hanno tuttavia delle caratteristiche formali diverse su cui vale la pena soffermarsi per tentare di definire meglio il genere a cui appartengono. Nella seconda raccolta, L’amore, cara signora Schubert…, con ogni evidenza si ha a che fare con prose poetiche, veri a propri cammei, brevi miniature composte di poche righe di lucida prosa nella quale l’effetto poetico è raggiunto grazie a singole immagini che hanno in sé la forza dirompente del discorso continuo, in una maniera serrata e intensa che mette in luce la verticalità dello stile rispetto al piano orizzontale della parola21. Un solo esempio: Nadmiar pamięci Droga pani Schubert, co zrobić z nadmiarem pamięci? Włóczyłem się z nią po nieznanych miastach i kontynentach. Zostawiałem w przechowalniach bagażu i w miejskich bibliotekach. Ale zawsze odnajdywała mnie w porzuconych wspomnieniach, w listach, w snach. Kiedyś została napadnięta przez lęk, który zażądał, aby oddała mu całą biżuterię. Pamięć stawiała opór, ale lęk wyrwał jej kilka diamentowych lat. Czy byłaby pani gotowa przyjąć część mojej pamięci do swojego przeznaczenia? Niech pani nie ignoruje tej propozycji, która przecież nie przyznaje się jeszcze do klęski. L’eccesso di memoria Cara signora Schubert, che fare dell’eccesso di memoria? Ci ho vagabondato insieme per città e continenti sconosciuti. L’ho lasciata nei depositi bagagli e nelle biblioteche comunali. Ma mi ha sempre ritrovato nei ricordi abbandonati, nelle lettere, nei sogni. Una volta è stata assalita dalla paura, che le ha chiesto di darle tutti i suoi gioielli. La memoria ha opposto resistenza, ma la paura le ha strappato alcuni anni di diamante. Lei sarebbe pronta ad accogliere una parte della mia memoria nel suo destino? Non ignori questa proposta, che ancora non ammette sconfitta 22 . Invece, nel volumetto precedente, Cara signora Schubert…, si nota il frequente ricorso – oltre che a cesure particolarmente significative – all’enjambement, e ciò, accettando l’efficace definizione di Giorgio Agamben, certifica l’identità della poesia rispetto alla prosa poiché “è senz’altro poesia quel discorso in cui è possibile opporre un limite metrico a un limite sintattico […], prosa quel discorso in cui ciò non è possibile”23. La sconnessione, l’evidente e ripetuta spezzatura tra suono e senso, potenzia la tensione lirica del dettato, creando effetti di senso 19 Cfr. M. Ciccarini, Le dissonanze ineluttabili della “signora Schubert“, in Kesarevo Kesarju. Scritti in onore di Cesare G. De Michelis, a cura di M. Ciccarini, N. Marcialis, G. Ziffer, FUP, Firenze 2014, pp. 71-79. 20 Per un’analisi del contenuto delle due raccolte mi permetto di rimandare a M. Ciccarini, Universi reversibili, in E. Lipska, L’occhio incrinato, cit., pp. 120-126. 21 Cfr. R. Barthes, op. cit., pp. 10-11. 22 E. Lipska, L’occhio incrinato, cit., pp. 68-69. 23 “È un fatto sul quale non si rifletterà mai abbastanza che nessuna definizione del verso sia perfettamente soddisfacente, tranne quella che ne certifica l’identità rispetto alla prosa attraverso la possibilità dell’enjambement. Né la quantità, né il ritmo, 165 Marina Ciccarini aggiuntivi che inducono il lettore a fermarsi, a sospendere il giudizio, salvo riprendere l’esperienza di attesa e risoluzione della medesima con la ricongiunzione del nesso sintattico-logico. Come suggerisce ancora Agamben: In questo gettarsi a capofitto sull’abisso del senso, l’unità puramente sonora del verso trasgredisce, con la propria misura, anche la propria identità. L’enjambement porta così alla luce l’originaria andatura, né poetica né prosastica, ma, per così dire, bustrofedica della poesia, l’essenziale prosimetricità di ogni discorso umano […]. Questa pendenza, questa sublime esitazione fra il verso e il suono è l’eredità poetica, di cui il pensiero deve venire a capo24 . In Cara signora Schubert…, l’esistenza di cesure ripetute, anche se non precedute da uno schema di accenti riconoscibile, costituisce una regolarità dall’efficacia inattesa. Gli enjambement e gli accapo possono avere la funzione di generare un’unità di senso conclusa e indipendente da quella generata dai segni di interpunzione, ma anche di enfatizzare il punto di cesura che si comporta come un vero e proprio accento, creando una sottesa regolarità ritmico-semantica, mettendo in evidenza, in particolare, l’ultima parola del “verso”, parola chiave posta in posizione forte25. Vediamo un esempio: 166 Dom Droga pani Schubert, czasami czuję się jak wystawiony na sprzedaż dom. Jest we mnie sześć pokoi, są dwie kuchnie, trzy łazienki i jeden przygarbiony strych. Teoretycznie mam dwa wyjścia, ale od podwórza wiecznie zamknięte. Stoję we wszystkich oknach i patrzę na drzewo, które, jak fragment nie napisanej prozy, szumi, aby zagadać strach. La casa Cara signora Schubert, a volte mi sento come una casa messa in vendita. Dentro di me ci sono sei stanze, due cucine, tre bagni ed una soffitta ingobbita. In teoria ho due uscite, ma quella sul cortile è sempre chiusa. Sto in piedi davanti a tutte le finestre e guardo l’albero che, come il frammento di una prosa mai scritta, stormisce, ciarlando per distrarre la paura26 . né il numero delle sillabe – tutti elementi che possono occorrere anche nella prosa – forniscono, da questo punto di vista, un discrimine sufficiente”, G. Agamben, Idea della prosa, Feltrinelli, Milano 1985, p. 21. Altrove Agamben ribadisce lo stesso postulato: “È la consapevolezza del rango eminente di questa opposizione [fra suono e senso, fra segmentazione metrica e segmentazione sintattica] che ha condotto gli studiosi moderni a identificare nella poesia dell’enjambement l’unico certo criterio distintivo della poesia rispetto alla prosa (si definirà allora poesia quel discorso in cui è possibile opporre un limite metrico a un limite sintattico, prosa il discorso in cui ciò non è possibile)”, Idem, Categorie italiane. Studi di poetica e di letteratura, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 37. 24 Idem, Idea della prosa, cit., p. 22. 25 È ovvio che il ragionamento che segue si fonda sull’assunzione, altamente verosimile, che l’accapo non sia posizionato in modo casuale, benché forse il poeta non sia del tutto conscio del senso “nascosto” della cesura. 26 E. Lipska, L’occhio incrinato, cit., pp. 38-39. Tra senso e suono: il caso di Ewa Lipska Qui gli enjambement della prima parte e gli accapo degli ultimi quattro versi sembrano in qualche modo fare da controcanto alla secca descrizione della “casa”, creano quella sospensione che costringe il lettore ad essere vigile perché il depotenziamento degli abituali schemi di riferimento può attivare associazioni e meccanismi insoliti. Se proviamo ad analizzare infatti la successione delle ultime parole di ogni verso abbiamo una sequenza che, per quanto surreale, ha una sua logica indipendente. L’ultima parola del primo verso è jak, “come”, e stabilisce subito una corrispondenza, un paragone, un confronto tra due termini (qualcosa assomiglia a qualcos’altro), mentre la sequenza numerica irregolare che segue stabilisce un ritmo discendente-ascendente (“sei”, “uno”, “due”), e crea una piccola vertigine, come quella di una pallina che cade dall’alto e rimbalza appena, cui segue la visione di una porta sempre “chiusa” (una delle due porte virtuali dell’iocasa), che sembra bloccare ogni movimento e alimentare un senso di oppressione. Terminata la descrizione dell’io-casa, e dunque di un luogo interno, gli accapo successivi ci portano in un luogo esterno, però altrettanto angoscioso, nel quale un “albero” “stormisce”, “per distrarre la paura”. La sequenza, quindi, sembra avere un suo senso interno che non ha apparentemente alcun legame logico con la “casa messa in vendita”, ma contribuisce a rafforzare il senso e il pericolo dell’ignoto sotteso all’“essere in vendita”. Si tratta, in sostanza, di un’immagine nascosta che rafforza l’atmosfera dell’immagine palese. Un secondo breve esempio: Pamięc Droga pani Schubert, pisze pani, że zapomina o nas pamięć. Tak, to prawda. Pod jej nieobecność wycofałem nasze papiery wartościowe, sprzedałem obligacje i futro z czarnego lisa, w którym przeżyliśmy burzę. Nie wiem, dlaczego omija szerokim łukiem miejsca naszych łakomych spotkań i nie poznaje adresów, pod którymi mieszkała. Ktoś widział ją, jak otoczona kamiennymi pomnikami, rozsypywała nas przez roztargnienie. La memoria Cara signora Schubert, lei scrive che la memoria si dimentica di noi. Sì, è vero. In sua assenza ho ritirato le nostre carte valori, ho venduto le obbligazioni e la pelliccia di volpe nera con cui abbiamo superato la tempesta. Non so perché si tiene alla larga dai luoghi dei nostri incontri agognati e non riconosce gli indirizzi dove ha abitato. Qualcuno l’ha vista mentre, attorniata da monumenti di pietra, ci spargeva in giro per distrazione.27 L’ultima parola del primo verso è zapomina, “si dimentica”; la seconda, nieobecność, “assenza”; 27 Ivi, pp. 58-59. 167 Marina Ciccarini 168 poi, sprzedałem, “ho venduto”; w którym, “con cui”; omija, “si tiene alla larga”; łakomych, “agognati”; pod którymi, “dove”; otoczona, “attorniata”, nas, “noi”; roztargnienie, “distrazione”. La sequenza è, dunque: “si dimentica, assenza, ho venduto, con cui, si tiene alla larga, agognati, dove, attorniata, noi, distrazione”. Il senso che viene qui enfatizzato è quello di una perdita irreversibile (“si dimentica, assenza, ho venduto”) che determina uno stare lontani dalle cose desiderate dalle quali siamo attorniati (“con cui, si tiene alla larga, agognati, attorniati”), e di tale perdita proprio noi siamo colpevoli per noncuranza (“dove, noi, distrazione”). In questi due brevi esempi tratti dalla raccolta Cara signora Schubert…, la struttura “versificata” (nel senso di cui si è detto sopra) non è un vezzo grafico, ma costituisce una regolarità che ha un suo preciso significato poetico che rafforza le immagini contenute nel testo. Più in generale, le due poesie in prosa qui presentate – come del resto tutte le altre che compongono la raccolta – hanno strutture chiuse e concluse in sé: il racconto è scritto in prima persona da un narratore intradiegetico e autodiegetico che si rivolge non al lettore reale ma a un narratario fittizio (la signora Schubert), mentre il discorso è strutturato utilizzando una struttura “simmetrica” realizzata attraverso un processo surreale di reificazione degli esseri umani (il narratore si presenta come un oggetto, una casa messa in vendita), e di personificazione di esseri animati o inanimati, concetti o sentimenti (l’albero e la paura possiedono connotazioni e reazioni umane, come la memoria). Il flusso di coscienza del narratore è incorniciato dalla struttura simil-epistolare, in un dialogo di cui si conosce solo un punto di vista (la signora Schubert non è mai presente in maniera attiva). La densità delle immagini è ottenuta anche grazie all’utilizzo di figure retoriche, qui “ancelle” del gioco simmetrico, quali l’apostrofe, l’anafora (con valore intertestuale), la similitudine, l’ellissi, la prosopopea, e da significative inversioni del normale ordine delle parole, incisi e frasi nominali, caratteristiche del registro colloquiale. La brevità, invece, è raggiunta grazie a una contrazione della prosa discorsiva che non si sviluppa poco a poco, ma si realizza – come detto – in forme espressive fulminanti e paradossali nelle quali ritmo e significato si scontrano e producono un impatto, un’alterazione, una convulsa e tesa condensazione del contenuto poetico. In conclusione, mettendo a confronto le poesie in prosa di Cara signora Schubert… con le prose di L’amore, cara signora Schubert…, si può rimarcare una consapevolezza e un’espansione, un respiro differenti. Nell’universo della poesia in prosa il legame tra i due protagonisti è raccontato con attese ed esitazioni, pause e intervalli poi risolti, quasi a voler indurre il lettore a seguire una trama musicale, breve ed intensa, laddove nelle prose poetiche il passo rallenta, il senso e il suono fluiscono in un microracconto che, per quanto paradossale possa essere, ha un suo scorrere, compatto e continuo. Proprio nella diversa modulazione di senso e suono si gioca la partita di queste due forme originali di scrittura, si condensano o si stemperano l’immediatezza sensibile e istintiva e il significato, il fine, tra ritmi e sonorità rivelatrici. Tra senso e suono: il caso di Ewa Lipska Abstract Marina Ciccarini Between Sense and Sound. The Case of Ewa Lipska In the last fifty years, many studies in Europe and America have addressed the problem of poetic prose and of prose poetry, in an attempt to enclose two very elusive literary categories, if possible, in an ultimate definition. Retracing the evolutionary lines of the debate on the issue, the article focuses on the analysis of two recent collections of Ewa Lipska’s poetry, classified by critics as “poetic prose”. While such a definition is useful for the collection Miłość, Droga Pani Schubert… (2013), it is less accurate for the volume Droga Pani Schubert… (2012). In the latter, the presence of frequent enjambments and the repeated ruptures with keywords in strong positions form an original rhythmic-semantic regularity and effectiveness typical of prose poetry. Keywords: Polish Literature, Ewa Lipska, Prose poetry, Poetic prose, Enjambments «pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», (VII) 7, 2016, pp. 161-169 169 Barbara Minczewa Il desiderio di utopia. Elementi per definire la costruzione delle distopie teatrali polacche 1. La morte del “bell’animale” e il desiderio di utopia T ic/-/tac. Per la nostra percezione, anche il ticchettio dell’orologio è una piccola drammatizzazione del tempo: inizio-centro-fine; genesi-percorso del mondo-apocalisse; nascita-vita-morte. Siamo abituati alla tripartizione del tempo in cui viviamo, a un tempo con una finalità, con un punto verso cui intendiamo giungere, o verso cui ci spinge il moto della natura e della storia. Quello che ci spinge a ricercare sempre lo stesso schema, anche negli stimoli più piccoli, è un “desiderio del dramma”1, un impulso che vuole dare ordine anche alle narrazioni più caotiche. Secondo il principio della tripartizione, grossomodo, viene organizzato il modello della drammaturgia aristotelica, il “bell’animale”2 che ha stabilito la struttura della narrazione drammatica per secoli. Tuttavia, nel teatro e nella drammaturgia contemporanei – in Polonia in particolare nel periodo a partire dall’inizio del XXI secolo – la struttura del tempo è cambiata radicalmente rispetto a questo modello tradizionale. Andando ad analizzare in maniera approfondita alcuni degli spettacoli più significativi del teatro polacco degli ultimi anni, scopriremo che la temporalità viene costruita secondo concetti insoliti. In questa sede prendiamo come spunto di riflessione uno degli spettacoli più importanti degli ultimi quindici anni, significativo soprattutto per la definizione della sensibilità e delle linee del pensiero del teatro critico in Polonia: H., un’interpretazione dell’Amleto shakespeariano per la regia di Jan Klata, messa in scena nell’estate del 2004 nei cantieri navali di Danzica. Jan Klata è stato, nel teatro polacco più recente, probabilmente il primo regista di teatro che abbia rivolto così tanta attenzione alla questione della storia e della memoria, in questo caso in particolare alla memoria dell’epoca finita con la cesura storica del 1989. A cavallo tra il XX e il XXI secolo – e H. è uno degli esempi più importanti in questo contesto, non solo perché il più noto – nasce una corrente critica del teatro che ci ricorda spesso che uno dei drammi della “nuova Polonia” è il fatto che non si sia formata una società civile, ovvero una comunità dotata proprio di quei valori (in primis la solidarietà, dalla quale prende nome il movimento “Solidarność”) che hanno portato alla vittoria un progetto prima sindacale, e poi socio-politico. Klata, come dopo di lui altri registi teatrali (particolarmente interessanti per il recupero critico della memoria del passato più recente sono gli spettacoli di Michał Zadara e di Monika Strzępka), di fronte ai dogmi a 1 Cfr. H.-T. Lehmann, Cosa significa teatro postdrammatico?, in «Prove di drammaturgia», 1, 2010, p. 7. Mi riferisco alla metafora usata nel capitolo VII della Poetica, con cui Aristotele esplicita l’idea dell’unità d’azione: l’azione, come qualsiasi creatura vivente, non deve essere né eccessivamente grande né troppo piccola, e deve avere tutte le parti ordinate e al loro posto. Ordine ed estensione dunque sono alla base della costruzione della fabula, necessariamente composta da un inizio, un mezzo e una fine e della giusta lunghezza. 2 171 Barbara Minczewa 172 senso unico della narrazione dominante3 del potere, ha cominciato a rivendicare lo spazio per l’esercizio della critica e del dubbio, per la comunità e, soprattutto, per l’utopia. Quello di Klata è un teatro critico, impegnato o – servendoci dell’importante distinzione compiuta nel saggio Polityka sztuki4 da Paweł Mościcki – impegnante5 in quanto rievoca le zone di esclusione sociale e i personaggi più deboli; l’intento è quello di ricordare che la democrazia non è una cosa data per sempre, bisogna piuttosto lavorarci costantemente, scorgere e denunciare (questo è il maggior compito di artisti e intellettuali) le falle del sistema e i problemi ancora appena visibili, prima che diventino un’epidemia di “rinocerontite”, come nel celebre dramma di Eugène Ionesco6. Così, l’indagine sui motivi del fallimento dell’ultima utopia polacca, inteso anche in senso più ampio come il fallimento dell’intero progetto di democratizzazione della vita comune e della sfera pubblica, è probabilmente uno dei grandi temi del teatro polacco contemporaneo. In apertura dello spettacolo H., sullo sfondo delle gru fatiscenti dei cantieri navali abbandonati, vediamo avvicinarsi al pubblico due giovani amici, Amleto (Marcin Czarnik) e Orazio (Cezary Rybiński); i loro discorsi sono come ripresi a metà, ci introducono bruscamente nella storia, senza alcun prologo, senza l’introduzione di personaggi atti a esporre le vicende narrate (come i due soldati che si interrogano sulla comparsa dello spirito del defunto re). Non vi è neanche un chiaro inizio: si ha l’impressione di subentrare in un certo momento dell’azione, quando gli attori hanno già dato inizio alla “narrazione”. I due amici sono entrambi vestiti di bianco, in costumi da scherma, come del resto tutti i personaggi di questo spettacolo: sono in assetto di guerra, pronti già per lo scontro finale. Amleto ha una benda nera sul braccio – probabilmente in segno di lutto per la morte del padre – e Orazio ha in mano una radio portatile. Sentiamo la canzone Seven Nation Army, singolo del 2003 del gruppo The White Stripes, una canzone rock dal ritmo semplice, che fa da sfondo al gioco di turbogolf 7 in cui si cimentano i due attori; l’inesorabile catastrofe è preannunciata, 3 Userò la nozione “narrazione dominante” nel senso in cui viene oggi definito un sistema di convinzioni, di ideologia, di politica storica e di condizioni che creano il diktat generale nella vita pubblica; ne ha dato una definizione esaustiva Riccardo Petrella nel libro-intervista: R. Petrella, Una nuova narrazione del mondo. Umanità, beni comuni, vivere insieme, a cura di R. Bosio, EMI, Bologna 2006. Nell’introduzione a questo saggio, Petrella scrive: “Nessun sistema, gruppo sociale o essere umano può esistere in assenza di una sua narrazione. […] La narrazione è ideologia e qualcosa in più: è il vissuto di emozioni, gioie, sofferenze, realizzazioni. La narrazione comprende necessariamente il passato, il presente, il futuro” (p. 3). La narrazione dominante di oggi è ispirata, secondo Petrella, da tre forze maggiori: la fede nella tecnologia, la fede nel capitalismo e la convinzione dell’impossibilità di alternative al sistema attuale. 4 P. Mościcki, Polityka teatru. Eseje o sztuce angażującej, Wydawnictwo Krytyki Politycznej, Warszawa 2007. 5 In questa distinzione, l’arte impegnata va intesa come integrata con la sfera pubblica, è caratterizzata da un radicale rifiuto del concetto di ars gratia artis, al quale viene contrapposta l’idea dell’arte come strumento per comunicare idee e raggiungere obiettivi che si trovano al di fuori dell’arte. L’arte impegnante, a differenza dall’arte impegnata, si basa su un concetto fondamentale dell’arte avanguardista del dopoguerra, e cioè sul fatto che esiste un’omologia strutturale fra il campo dell’arte e il campo della politica; compiendo una rivoluzione artistica si otterrebbero dunque sempre degli effetti politici. Questo riguarda anche la parte formale dell’opera (o dello spettacolo), perché rivoluzionando un linguaggio artistico si effettua un cambiamento, una riconfigurazione e una destrutturazione della generale percezione della realtà, e di conseguenza si possono ottenere dei cambiamenti a livello della vita sociale. La prima dunque si collega al concetto di engagement, sviluppato in particolare da J.P. Sartre in Che cos’è la letteratura? (1947), mentre la seconda ha come riferimento la categoria della “moralità della forma” sviluppata da R. Barthes soprattutto in Il grado zero della letteratura (1953). 6 Cfr. E. Ionesco, Il rinoceronte, Einaudi, Torino 1981. 7 Turbogolf: una versione "sovversiva" e aggressiva del golf che si svolge in tutti posti non convenzionali, come luoghi abbandonati o parchi, e consiste nel colpire la pallina, ma più che arrivare a una destinazione (il buco) è importante il percorso a ostacoli (i giocatori si sfidano a chi riesce a rompere una finestra, a colpire un punto preciso ecc.). Il desiderio di utopia ma il protagonista di questa storia non sembra esserne molto preoccupato. Quando nell’ultima scena Fortebraccio (Maciej Konopiński) irrompe nello scenario di morte e di massacro appena compiuto insieme ai suoi uomini, non abbiamo la sensazione che questa storia sia finita. Sin dall’inizio, in questo spettacolo, il tempo scorre secondo principi diversi da quelli tradizionali, mosso da una logica inusuale. Forse scorre a spirale, o piuttosto seguendo il principio del nastro di Möbius: non esiste un inizio e una fine, esiste una superficie unica, un solo lato e un solo bordo; una volta percorso il giro, ci si trova dalla parte opposta, ma percorrendo due giri ci ritroviamo al lato iniziale. Comunque vada, il finale è già prestabilito, già vissuto, lo conoscono tutti. Lo scorrere del tempo così insolito non si manifesta solamente in H. di Jan Klata; molte rappresentazioni contemporanee8, in risposta al cambiamento generale dell’organizzazione e della percezione dei ritmi del tempo sociale e lavorativo, costruiscono dei mondi teatrali in cui il tempo della rappresentazione/narrazione non scorre in maniera lineare. Nel 1960 Kingsley Amis scriveva: “Il capitalismo provoca una storica rottura epistemologica, attraverso cui il tempo scandito dall’orologio diviene lo spazio dello sviluppo umano perché esso è lo spazio della produzione industriale capitalistica”9; il tempo sostituisce quindi lo spazio dello sviluppo umano, ma nella versione moderna – se vogliamo, postfordista10 – del capitalismo, la questione si complica ulteriormente, in quanto il tempo perde la sua logica, si dilata, si riavvolge su sé stesso e diventa inafferrabile, virtuale. Queste mutazioni non potevano lasciare indifferenti il teatro e la drammaturgia che, con gli albori del capitalismo iniziano a vivere una crisi che porta all’agonia del “bell’animale” aristotelico, cioè al progressivo smantellamento della forma drammatica e della fabula. Com’è noto, la crisi del “dramma assoluto” è stata teorizzata da Peter Szondi nel saggio Teoria del dramma moderno11; 8 In realtà una simile tendenza è da ricercare almeno sin dal teatro dell’assurdo, se non ancora prima, nelle varie forme del teatro d’avanguardia e nelle sperimentazioni che vengono riassunte sotto il segno comune della Grande Riforma del teatro a cavallo fra XIX e XX secolo. 9 K. Amis, Nuove mappe dell’inferno (1960), trad. it. M. Valente, Bompiani, Milano 1962, p. 97. 10 Cfr. U. Fadini, A. Zanini, Lessico del postfordismo. Dizionario di idee della mutazione, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 1112: “Postfordismo: un modello sociale in cui il modo di produzione non è più dominato dalle forme di accumulazione verticalmente integrate e di distribuzione della ricchezza contrattate tra rappresentanze collettive e supervisionate dallo stato, bensì da forme di accumulazione flessibili, capaci di integrare, di mettere in rete, modi, tempi e luoghi di produzione tra di loro molto diversi: dalla fabbrica robotizzata alla cascina Hi Tech, dal distretto industriale alle maquilladoras messicane, ai templi della finanza globale. […] Nei processi lavorativi contemporanei, ci sono pensieri e linguaggi che funzionano di per sé come “macchine” produttive, senza dover adottare un corpo fisico, meccanico o elettronico. Tali pensieri appartengono – anche, non solo – all’esperienza degli indIvidui. Ed è appunto nella progressiva difformità e nello scarto tra l’intelligenza collettiva diffusa e il “cervello sociale” sussunto negli stessi processi lavorativi che si può scorgere la matrice conflittuale, complessa e contraddittoria della produzione postfordista e, nello stesso tempo, i processi che definiscono in termini di biopolitica le modalità di controllo, di regolazione e di riproduzione della forza-lavoro e della soggettività su scala planetaria”. 11 Il “dramma assoluto”, dal quale parte l’analisi di P. Szondi, Teoria del dramma moderno 1880-1950, trad. it. di C. Cases, Einaudi, Torino 1962, è un modello post-rinascimentale del dramma che non “conosce nulla al di fuori di sé” (p. 7). I suoi concetti fondamentali si potrebbero riassumere come l’“accadere (1) presente (2) e intersoggettivo (3)” (p. 10). L’autore nella sua definizione del dramma, in parte ispirata a quella hegeliana, con particolare attenzione rivolta al concetto dialettico del genere, elenca anche altri elementi fondamentali: uno di essi è l’idea del dramma puro e primario che rappresenta sempre sé stesso, crea mondi nuovi e non conosce ispirazioni esterne, né citazioni. Le conseguenze formali dell’assolutezza del dramma come genere letterario si possono vedere su tutti i piani, in primis nell’assenza e nel silenzio dell’autore, concepito solamente come l’inventore di un mondo che non gli appartiene. Anche lo spettatore risulta passivo, fermo restando che il mondo rappresentato lo dovrebbe coinvolgere emotivamente attraverso il processo di riconoscimento e identificazione. Il rapporto dell’attore con il ruolo non deve essere mai visibile, bensì l’attore dovrebbe fondersi con il personaggio in un essere 173 Barbara Minczewa 174 come risposta alle vecchie strutture drammaturgiche, morte alla fine dell’Ottocento insieme alla convenzionalità della pièce bien faite, Szondi proponeva il concetto di teatro epico che per molti versi continua a essere un importante punto di riferimento per le pratiche teatrali contemporanee, non essendo però in grado di esprimere in pieno la complessità delle tendenze del teatro e del dramma della fine del XX e dell’inizio del XXI secolo. Lo studioso tedesco Hans-Thies Lehmann propone dunque la nozione di teatro postdrammatico, dove il prefisso “post-” indica una relazione, seppur conflittuale o polemica, con il precedente modello predominante del teatro drammatico. Lehmann sostiene che le nuove forme ed estetiche teatrali (eredi della lotta che il teatro ha compiuto agli inizi del XX secolo per confermare la propria autonomia rispetto alla letteratura, nonché della crisi del dramma diagnosticata da Szondi) hanno in comune la qualità di non focalizzarsi più sul testo drammatico. Il nuovo teatro preferisce forme incompiute, frammentate, disordinate, usa il montaggio, la decostruzione, il collage, e altre forme che trasmettono la crisi dell’unità aristotelica e della concezione del tempo. “Il teatro drammatico finisce nel momento in cui questi elementi [l’illusione, la mimesis e il testo – B.M.] non si costituiscono come principi regolatori, ma si dimostrano come uno delle tante possibili varianti dell’arte del teatro”12, scrive Lehmann. Un concetto cruciale diventa la comunicazione, perché nel mondo mediatico della contemporaneità, l’aspetto dominante diventa il rapporto tra osservatore e oggetto, la situazione in atto, l’accadimento del teatro; l’arte del teatro si disinteressa dunque al concetto aristotelico di unità, l’opera conclusa perde di importanza per assegnare il privilegio all’esecuzione/spettacolo. Però – sottolinea Lehmann – “si può anche paradossalmente dire che il dramma è stato superato, nonostante esista un certo desiderio del dramma”13; laddove manca il finale, la nostra percezione lo ricercherà disperatamente, cercherà di dare ordine al caos degli impulsi ricevuti. D’altro canto, Jean-Pierre Sarrazac propone di sostituire la figura del drammaturgo tradizionale, il demiurgo dei “begli animali”, con l’autore-rapsodo14, un soggetto drammatico e lirico nello stesso tempo che, guidato appunto da una “pulsione rapsodica”, assembla quello che ha precedentemente scomposto lui stesso. Il teorico francese mette in evidenza una peculiare “poetica dell’unione nella discordanza”15 che sarebbe caratteristica per gli autori di teatro contemporanei, e che porterebbe allo […] smembramento del corpo del dramma – come quello di Dioniso – smembrato e ricomposto all’infinito. La pulsione rapsodica interrompe incessantemente il corso dell’opera; taglia nel vivo e lì dove, nella forma aristotelico-hegeliana e nel suo prodotto, la “pièce bien faite”, aveva uno svolgimento organico, crea un ritaglio, quasi una scarnificazione. […] L’autore-rapsodo taglia e assembla il tutto, lasciando vedere chiaramente le cuciture, ciò che va a stracciare, a fare a pezzi16. drammatico autonomo. Il dramma così concepito si svolge sempre in un presente immanente, “non conosce il concetto di tempo” (p. 61) e sia l’ambiente temporale che quello spaziale devono essere estranei alla conoscenza dello spettatore. 12 In mancanza di una traduzione italiana dello studio di Lehmann (ed. or. H.-T. Lehamann, Postdramatisches Theater, Verlag der Autoren, Frankfurt am Main 1999) mi servo della traduzione polacca: Idem, Teatr postdramatyczny, trad. pol. D. Sajewska, M. Sugiera, Księgarnia Akademicka, Kraków 2004, p. 18. (“Teatr dramatyczny kończy się w tym miejscu, gdzie te elementy nie stanowią już zasady regulującej, lecz okazują się tylko jednym z możliwych wariantów sztuki teatru”). 13 H.-T. Lehamann, Cosa significa teatro postdrammatico?, cit., p. 7. 14 Il termine è stato proposto per la prima volta in J.-P. Sarrazac, L’Avenir du drame, Editiond de L’aire, Lausanne 1981. 15 J.-P. Sarrazac, Il Nuovo corpo del dramma, in «Prove di drammaturgia», 1, 2010, p. 21. 16 Ibidem. Il desiderio di utopia Al posto del bell’animale nasce dunque una specie nuova che Sarrazac paragona all’ibrido kafkiano, la bizzarra bestia a cui sta stretta la propria pelle, il mezzo gatto, mezzo agnello17: un ibrido, un incrocio improbabile, prodotto di un’infinità di possibilità di riproduzioni e di incroci. Un essere in eterno divenire e, potenzialmente, mutabile fino all’infinito. Nel taglia e cuci dell’autore rapsodo, il racconto può assumere quindi varie forme e nella sua composizione frammentaria, decomponibile, in realtà manca il principio dell’ordine della costruzione di una fabula: non c’è un vero inizio, uno sviluppo e, soprattutto, non c’è la fine. Il desiderio del dramma può anche trovare appagamento nelle forme più scomposte, basta solo accettare la trasformazione del “bell’animale” in un ibrido grottesco. Postdrammatico o rapsodico, il nuovo teatro ci presenta dunque, in risposta al radicale cambiamento del tempo della vita umana, una concezione del mondo senza fine, frammentario, scomposto, dalla sostanza impervia, con delle trame fatte di ingranaggi di voci, materiali e personaggi che nel loro insieme provocano un effetto di eccesso e di sovraffollamento. La nostra percezione continua a ricercare spontaneamente negli impulsi ricevuti una forma conclusa, desidera sentire quel “tac” dell’orologio, come anche desidera avere un fine da raggiungere. In un certo senso, il desiderio di unità del tempo si unisce con il desiderio di finalità e con il desiderio di utopia. Infatti, anche la logica della costruzione delle utopie richiede una finalità: si mira a raggiungere un orizzonte (concetto molto importante per la riflessione sull’utopia18), cioè il sistema di valori, il progetto politico immaginato; è questo il moto del progresso, alimentato da quel principio speranza19 senza il quale l’utopia non ha ragione d’esistere. Anche se, come si diceva, Jan Klata è un regista che nel teatro polacco più recente ha cominciato a rivendicare lo spazio per l’utopia, il mondo di H. non è utopico, non può esserlo: è un mondo distopico. In un mondo senza finalità, un mondo cioè in cui non è più possibile il dramma, come non è possibile l’utopia, H. è probabilmente il primo spettacolo nella Polonia post-1989 che grida il suo desiderio di utopia, dimostrato all’inverso, attraverso le strutture della distopia. Sembrerebbe una contraddizione, ma non è così: bisogna ricordare che l’utopia e la distopia non andrebbero necessariamente viste come concetti opposti. Se è vero, come scrive Silvia Rota 17 Si tratta del racconto Un ibrido di F. Kafka, in Racconti, Mondadori, Milano 1983, pp. 422-423. Cfr. Słownik dramatu nowoczesnego i najnowszego, a cura di J.-P. Sarrazac, Księgarnia Akademicka, Kraków 2007, voce: Piękne zwierzę (śmierć pięknego zwierzęcia), pp. 123-124. 18 Darko Suvin nel suo saggio in Nuovissime Mappe dell’Inferno (D. Suvin, Trenta tesi sulla distopia 2001: o è un trattarello?, in Nuovissime mappe dell’inferno. Distopia oggi, a cura di G. Maniscalco Basile, S. Suvin, Monolite, Roma 2004, pp. 13-34) spiega che il luogo dove viene collocata l’utopia sia importante (per es. un’isola), ma questa collocazione è meno importante dell’orientamento dello sguardo verso un luogo e del movimento che viene attuato per raggiungerlo. “Il luogo, pertanto, è situato in uno spazio immaginario che è insieme misura e misurato; ma lo è come valore (qualità) piuttosto che come distanza (quantità)” (Ibidem, p. 17). Pertanto, gli aspetti legati al movimento dell’individuo e allo spazio sono: “a) il luogo (locus) in cui l’agente si muove; b) l’orizzonte verso il quale l’agente si muove; c) l’orientamento, il vettore che congiunge locus e orizzonte” (Ibidem, p. 18). 19 Cfr. E. Bloch, Il principio speranza, (1959), trad. it. E. De Angelis, T. Cavallo, Garzanti, Milano 1994. Nello studio di Bloch viene sviluppata la tesi che utopia e speranza sono due forze essenziali del pensare e dello sviluppo dell’uomo; secondo Bloch, l’uomo è dotato di una coscienza anticipante e di una capacità di mettere in moto lo sviluppo storico, il progresso e le rivoluzioni grazie appunto alla speranza, elemento e meccanismo fondamentale e oggettivo che fa parte di un reale e concreto sviluppo dell’essere, è la forza insita dell’uomo di voler costruire la realtà. 175 Barbara Minczewa Ghibaudi20, che in ogni utopia c’è un elemento distopico, sia espresso che tacito, come in ogni distopia c’è un elemento utopico, sia espresso che tacito, e che in entrambi i casi è la realtà ad essere, almeno in parte, distopica e a richiedere un nuovo progetto, l’analisi deve necessariamente abbracciare sia l’utopia che la distopia come strettamente collegate e appartenenti ad un comune orizzonte di pensiero. Inoltre, proprio attraverso la dimostrazione del suo inverso speculare, la mancanza di un orizzonte utopico si palesa ancor più dolorosa. 2. Il teatro della non-morte 176 Se sin dall’inizio dello spettacolo i protagonisti di H. sono preparati per la catastrofe finale, allora noi, spettatori, guidati da Orazio che ci porta negli angoli più remoti degli storici cantieri navali, accompagniamo i personaggi in questa strada verso la morte; ma in un mondo senza fine, la morte ha ragione d’esistere? In effetti, nella storia architettata da Klata Amleto non muore, viene sostituito. Qui tutti possono essere il nuovo Amleto; viene addirittura organizzato un casting, durante il quale, in un gesto dissacrante verso il verbo shakespeariano, il celebre monologo “Essere o non essere…” viene declamato da attori non professionisti. Un Amleto, un H. (iniziale di Hamlet, dunque un Amleto qualsiasi, privato di individualità, ma forse anche iniziale di historia, la Storia che è padrona di questo mondo rappresentato) non può mai mancare, sostituito in continuazione da un nuovo attore. In chiusura – che è appunto anche un’apertura – Fortebraccio si siede accanto al cadavere di Amleto e chiede, con tono di rassegnazione, forse a se stesso, o forse al pubblico: “I gdzież to wszystko?”21. È lui il nuovo Amleto, ma non è il vincitore di questa storia, è solo un doppio, un sostituto destinato a ripetere tutta la storia. È vestito allo stesso modo di Amleto, di bianco, in costume da scherma, con la benda nera sul braccio. Lo spirito del padre intanto, come un brutto presagio, passa dietro le sue spalle sul cavallo bianco, vestito da ussaro alato. Da questo mondo la morte viene bandita, perché la mancanza della finalità delle cose è, in un’ottica più estesa, collegata anche ad un rifiuto dell’idea di morte; tant’è che nello spettacolo di Klata viene completamente cancellata la celebre scena nel cimitero, conosciuta nel testo originale di Shakespeare. Nell’analisi radicale di Jean Baudrillard si arriva alla conclusione che nella società moderna in cui i cimiteri sono spostati fuori dalle città, lontano dagli sguardi dei vivi, “l’evoluzione è irreversibile: a poco a poco i morti cessano di esistere. Sono respinti fuori dalla circolazione simbolica del gruppo”22. Poco dopo leggiamo: “Essere morto è un’anomalia impensabile, rispetto alla quale tutte le altre sono inoffensive. La morte è una delinquenza, una devianza incurabile. Non più uno spazio/tempo destinato ai morti, la loro dimora è irreperibile, eccoli respinti nell’utopia radicale – nemmeno più parcheggiati: volatilizzati”23. Secondo Baudrillard, se il cimitero non esiste più nella città, è perché la città stessa ne assume la funzione; e “se la grande metropoli operativa è la forma perfetta di un’intera cultura, 20 S.R. Ghibaudi, Metodi di analisi dell’utopia, in Per una definizione dell’utopia. Metodi e discipline a confronto, a cura di N. Minerva, Longo Editore, Ravenna 1992, pp. 161-172. 21 W. Shakespeare, Hamlet, książę Danii, trad. pol. S. Barańczak, W Drodze, Poznań 1990, p. 204. La frase è difficile da tradurre in italiano; in originale: “Where is this sight?”, che si potrebbe tradurre liberamente come “Che vista è questa?”. Agostino Lombardo traduce questa frase in italiano: “Dov’è questo spettacolo?” (W. Shakespeare, Amleto, trad. it A. Lombardo, Feltrinelli, Milano 2014, p. 281), ma nella traduzione di S. Barańczak Amleto chiede piuttosto “Dov’è finito tutto?”. 22 J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte , trad. it. G. Mancuso, Feltrinelli, Milano 2009, p. 139. 23 Ibidem. Il desiderio di utopia allora la nostra cultura è semplicemente una cultura di morte”24. In H. infatti il cimitero non c’è, ma lo spazio della rappresentazione pullula di non-morti, di “morti viventi”: sono i protagonisti della storia, destinati a morire e risorgere per ripresentarla sempre daccapo. Tutto ci indica che lo spettacolo sta per ricominciare: il vestito di Fortebraccio è ancora di un bianco immacolato, come quello di Amleto nella prima scena, e lo spirito del padre sta probabilmente preparandosi a rientrare al galoppo per avvertire il figlio dei pericoli che incombono sul suo regno. Ci ritroviamo di nuovo nella paradossale spirale del tempo, in cui la morte non c’è, anche se tutto è intriso di morte. Joanna Derkaczew scriveva che “il ritratto della Polonia è un ritratto funebre”25, pieno di fantasmi, morti e spazi lugubri. Questa tendenza della cultura polacca può essere interpretata anche come proprietà peculiare del teatro che, secondo Marvin Carlson26, va inteso come una vera “macchina della memoria”, perché la sua caratteristica è quella di “ripetere sempre le stesse storie che hanno per il pubblico un concreto significato religioso, sociale o politico”27. Una sorta di infestazione di spettri del passato è anche, come ricordiamo, una generale caratteristica dell’arte performativa e visiva del XX secolo: i vari ready-made e object trouvé, resuscitati nel gesto di creazione dell’opera d’arte, sono anch’essi delle forme fisiche che riportano la memoria nel presente. Nel teatro polacco ritroviamo un gesto simile, per esempio, in Tadeusz Kantor che riutilizzava gli oggetti appartenenti alla “realtà di rango minore” e, naturalmente, nel “teatro della morte”28. Questo è anche il caso del teatro contemporaneo che utilizza il riciclaggio culturale, le citazioni, la decomposizione e ricomposizione o il riemergere degli artefatti e delle immagini del trauma: la pulsazione rapsodica è un continuo richiamo degli spiriti. I giovani registi polacchi ci ricordano che gli incubi della storia non se ne sono andati, bisogna saper dialogare con i morti, liberare le narrazioni in cui viviamo, esorcizzare gli spettri, altrimenti continueranno a infestare la sfera delle nostre rappresentazioni, e la sfera della vita comune. Riscrivere il passato, confrontarsi con i suoi capitoli più dolorosi, ammettere le proprie colpe e – soprattutto – distruggere il linguaggio anacronistico e dominante che ci ha abituato a certe forme di narrazione storica: questi sono alcuni dei bisogni formulati dal teatro polacco contemporaneo. Jan Klata, con H., ha aperto proprio la riflessione su cosa è rimasto degli ideali della “rivoluzione di velluto” polacca, ma l’attenzione del teatro polacco per la questione del passato, del trauma non rielaborato e della memoria – in particolare la memoria dell’Olocausto e della Seconda guerra mondiale – è particolarmente significativa e si estende sulle pratiche teatrali di registi più disparati29. In questa sede tratto nello specifico le distopie teatrali, nate in risposta al fallimento 24 Ibidem. J. Derkaczew, Nie-polska komedia, http://wyborcza.pl/1,75475,7933993,Nie_Polska_komedia.html#ixzz3n151uIeI; “portret Polski jest portretem trumiennym”. 26 M. Carloson, The haunted stage. The theatre as Memory Machine, The University of Michigan Press, Ann Arbor 2003. 27 Ivi, p. 8; citato da: M. Sugiera, Upiory i inne powroty, Księgarnia Akademicka, Kraków 2006, p. 17; “[…] opowiadania tych samych historii, które mają określone religijne, społeczne czy polityczne znaczenie dla publiczności”. 28 Il “teatro della morte” è stata l’ultima (e la più famosa) tappa del percorso artistico di Tadeusz Kantor, iniziata nel 1975 con il manifesto dallo stesso titolo; nel “teatro della morte” Kantor rivolge una particolare attenzione al tema della memoria, il passare del tempo. Questo periodo artistico comprende cinque spettacoli: La classe morta, Wielopole, Wielopole, Crepino gli artisti, Qui non ci torno più e Oggi è il mio compleanno. Cfr. T. Kantor, Il teatro della morte, a cura di D. Bablet, Ubulibri, Milano 2000. 29 A questo tema è stato dedicato un interessante volume: Zła pamięć. Przeciw-historie w polskim teatrze i dramacie, a cura di M. Kwaśniewska, G. Niziołek, Instytut im. Jerzego Grotowskiego, Wrocław 2012. 25 177 Barbara Minczewa delle utopie, o, per essere più concreti, dell’ultima utopia tipicamente polacca: la lezione fallita di comunità e solidarietà di “Solidarność”. Per mantenere la semantic hygiene30 postulata dallo studioso Darko Suvin, precisiamo che proprio di distopie si tratta, e non di antiutopie, poiché se l’antiutopia combatte una possibile utopia (e il contesto, storicamente parlando, è stata solitamente l’utopia socialista), la distopia lotta contro le tensioni del presente, in quanto il contesto prevalente potrebbe essere – in primo luogo – il capitalismo e le sue varie forme, oppure in termini più generali, la società urbana contemporanea e le sue catene di produzione e consumo31 . Come altri spettacoli che hanno trattato in modo critico il periodo delle proteste di “Solidarność” nell’agosto del 1980, con tutte le sue conseguenze per la storia recente32, H. è nato dunque non dal bisogno di fare ricostruzioni storiche o criticare le decisioni e gli sviluppi delle vicende di quel periodo; nasce dal bisogno di parlare del presente segnato dal fallimento di un’utopia che viene da questi artisti identificata – in un senso puramente concettuale, non storico – con “Solidarność”. Si parla dunque del presente infestato dagli spiriti del passato e Derkaczew ha certamente colto bene questa particolare peculiarità “funeraria” della cultura polacca, ma parlando delle visioni teatrali distopiche degli ultimi anni bisognerebbe forse apportare una piccola correzione: non essendoci né una fine, né la morte, i veri abitanti di questi mondi sono i non-morti, intrappolati nelle narrazioni che rappresentano. In un certo senso quindi, una naturale continuazione del teatro della morte è il “teatro della non-morte”. 3. L’estetica delle rovine 178 Uno dei testi teatrali più cupi e più politici di Heiner Müller, Hamletmaschine [La macchina Amleto, 1977] inizia con le parole: “Io ero Amleto. Me ne stavo sulla costa a parlare alle onde BLA BLA BLA, dando le spalle alle rovine d’Europa”33 . Questo breve e difficile testo per il teatro è costruito su pezzi di ricordi personali e di traumi comuni in un soliloquio frenetico e claustrofobico. Come non ricordare, in questo contesto, la lezione di Walter Benjamin, con la sua visione dell’Angelo della Storia, cui si associa la necessità di rivolgere lo sguardo al passato, alle catastrofi che accumulano senza tregua rovine su rovine, mentre il vento del progresso ci spinge nel futuro34. Il succitato frammento di Hamletmaschine è stato di ispirazione per il regista Michał Zadara che con queste parole ha espresso il dubbio di molti registi polacchi ( Jan Klata in primis) che hanno voluto rivolgere lo sguardo alle macerie del passato: “La Polonia è nella situazione di un paese che si regge sulle rovine. Faccio teatro dalla posizione di qualcuno che vive sulle rovine 30 D. Suvin, Defined by a Hollow. Essays on Utopia, Science Fiction and Political Epistemology, Peter Lang, Bern 2010, p. 236. Cfr. D. Suvin, Trenta tesi sulla distopia 2001, cit., in particolare pp. 10-11. 32 Fra i vari spettacoli che hanno analizzato l’eredità di Solidarność, ricordiamo: Wałęsa. Historia wesoła, a ogromnie przez to smutna, testo di P. Demirski, regia di M. Zadara, Teatr Wybrzeże, Danzica 2005; Był sobie Andrzej, Andrzej, Andrzej i Andrzej, testo di P. Demirski, regia di M. Strzępka, Teatr Dramatyczny, Wałbrzych 2010; i due testi drammatici di Julia Holewińska, Rewolucja balonowa (2011, messo in scena da S. Batyra nel Teatr Powszechny a Varsavia) e Ciała obce (2011, messo in scena da K. Kowalski nel Teatr Wybrzeże, Danzica 2012); Sprawa operacyjnego rozpoznania, regia di Z. Brzoza, Teatr Wybrzeże, Danzica 2011; Jak nie teraz to kiedy, jak nie my to kto?, testo di M. Głuchowska, J. Lipko-Konieczna, regia di M. Głuchowska, Teatr Ludowy-Łaźnia Nowa, Cracovia 2011; Zrozumieć H., regia di P. Palcat, Teatr Dramatyczny, Legnica 2011. 33 H. Müller, La macchina Amleto. Die Hamletmaschine, trad. it. S. Vertone, in Idem, Germania morte a Berlino, Ubulibri, Milano 1991, p. 81. 34 W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Idem, Angelus Novus. Saggi e frammenti, trad. it. R. Solmi, Einaudi, Torino, pp. 75-86. 31 Il desiderio di utopia delle culture che sono state distrutte dai barbari. In La macchina Amleto Amleto l’eroe dice: ‘Io ero Amleto. Dietro di me le rovine d’Europa’. Per me è un punto di partenza: cosa fare con queste rovine?”35. L’immagine della rovina è cruciale per capire il senso più profondo delle distopie teatrali polacche36. La dimensione temporale non-lineare è, come si diceva, una delle strategie per narrare la realtà del capitalismo, logicamente preso di mira con una certa distanza dal 1989, quando hanno cominciato a venire alla luce non solo gli effetti positivi immediati del nuovo sistema, ma anche quelli negativi. Da un punto di vista scenografico, della scelta e della gestione dello spazio della rappresentazione, ci troviamo invece di fronte ad un paradigma estetico che ha nel teatro polacco una tradizione più lunga, anche se negli ultimi anni ha assunto delle sfumature diverse: si tratta di un insieme di codici visivi raggruppato in quello che chiamerò “l’estetica delle rovine”. L’accumulo, l’eccesso, il deterioramento dei cantieri navali di Danzica e di altri spazi teatrali presentati dal nuovo teatro polacco, come gli edifici abbandonati, le stazioni ferroviarie in disuso, le scenografie che ricostruiscono un mondo in degrado, i quartieri popolari, le province dimenticate con il loro “tipico stile antiestetico polacco”37: questa è la materialità e le dimensioni spaziali che popolano l’immaginario teatrale degli ultimi anni, coesistendo naturalmente a fianco alla controtendenza a rappresentare il contemporaneo attraverso immagini sterili, tecnologiche e moderne. Una traccia visuale simile è da ricercare nella tradizione del teatro polacco evocando i suoi nomi di spicco. Di fronte alla violenza del XX secolo, le rovine, insieme alle parole e concetti che vi sono spesso accostati – come rifiuti, residui, macerie – diventano materia indispensabile delle rappresentazioni e delle riflessioni critiche sul contemporaneo. Il teatro polacco ha fatto ampio uso di questo motivo rendendolo, nelle scenografie create sin dall’immediato dopoguerra, un motivo dominante del paradigma estetico dell’arte performativa polacca. Temi del saggio di Katarzyna Fazan Ruina – alternacje teatralnego obrazu38 sono proprio le diverse sfaccettature della rovina, a partire dalle sue rappresentazioni nella storia del teatro, per arrivare al suo ruolo negli spettacoli che nascono come forma di protesta contro la diffusa iper-estetizzazione 35 A.R. Burzyńska, Koliste ruiny, intervista con Michał Zadara, in «Tygodnik Powszechny», 7, 2006, http://www.eteatr.pl/pl/artykuly/22053.html?josso_assertion_id=F045E0168D4B9F26; “To jest sytuacja Polski, która jest państwem stojącym na ruinach. Robię teatr z pozycji kogoś, kto żyje na ruinach kultur zniszczonych przez barbarzyńców. W HamlecieMaszynie bohater mówi: ‘Byłem Hamletem. Za mną ruiny Europy’. To jest dla mnie punkt wyjścia – co zrobić z tymi ruinami?”. 36 In questa sede vengono approfonditi gli aspetti distopici dell’immagine della rovina, non si analizzano dunque tutte le sfaccettature della ricca tradizione di questo topos culturale, presente nel dibattito intellettuale e nell’immaginario occidentale (anche polacco) a partire soprattutto dall’arte e dalla scrittura barocca, romantica e modernista (in cui la contemplazione delle rovine era soprattutto simbolo di recupero del rapporto con il passato). Alle questioni sollevate in questo articolo sono sicuramente più vicine (seppur non identiche e non create dagli stessi impulsi) le rappresentazioni della produzione artistica e letteraria postbellica, dove la rovina diventa un’incarnazione perturbante delle violenze della storia più recente. Per quanto interessante, non ci si sofferma neanche sulle suggestioni suscitate, su piano estetico ed etico, dalle rovine, così come analizzato nel saggio di G. Simmel, Le Rovine in: Saggi sul paesaggio, a cura di M. Sassatelli, Armando Editore, 2006, pp. 70-81. Cfr. anche Semantica delle rovine, a cura di G. Tortora, Manifestolibri, Roma 2006 e Ricomporre la rovina, a cura di A. Ugolini, Alinea Editrice, Firenze 2010. 37 J. Derkaczew, Wujaszek Wania oskarża transformację, in «Gazeta Wyborcza», 5 giugno 2008, http://www.e-teatr.pl/pl/ artykuly/56324.html (“typowy polski styl antyestetyczny”). 38 K. Fazan, Ruina – alternacje teatralnego obrazu. Od krajobrazu po bitwie do śmietnika odzyskanej wolności, in «Didaskalia», 123, 2014, pp. 44-52.; la stessa autrice propone delle analisi dei cambiamenti nell’estetica del teatro polacco dopo il 1989 nell’articolo K. Fazan, Tandeta w złym czy dobrym gatunku? Antyestetyka w polskim teatrze 20-lecia, in: 20-lecie. Teatr polski po 1989, a cura di D. Jarząbek, M. Kościelniak, G. Niziołek, Korporacja Ha!art, Kraków 2010, pp. 347-367. 179 Barbara Minczewa 180 della realtà e la possibile deriva psicanalitica, in cui la rovina serve per compiere il processo di inversione del meccanismo psicologico della repressione. L’autrice ripercorre questa tendenza e indica i suoi maggiori esponenti nell’ambito dell’arte scenografica: Tadeusz Kantor, Józef Szajna, Krystyna Zachwatowicz, Andrzej Majewski, Jerzy Grzegorzewski, e – nel teatro più recente – Justyna Łagowska, Katarzyna Borkowska, Małgorzata Maciejewska, Małgorzata Bulanda, Michał Korchowiec. Secondo l’autrice questa non è tanto una tendenza, quanto un’ossessione39 che si esprime nel prediligere spazi lugubri, consunti dal tempo, degradati, in cui vige un’aura di morte e distruzione; stando alle testimonianze delle rappresentanze polacche alla Quadriennale di Praga, la più grande mostra internazionale d’arte teatrale organizzata dal 1967, questa tendenza era ben visibile e spesso, prima ancora che questo termine si affermasse con Kantor nel 1975, il teatro polacco veniva definito dai critici e commentatori come “il teatro della morte”. Tralasciando i riflessi molteplici e le varie interpretazioni che il motivo delle rovine ha avuto nelle scenografie del dopoguerra, vorrei sottolineare quanto questo idioma, caratteristico del linguaggio artistico del teatro polacco, sia vivo anche oggi. Se le rovine appartenevano all’esperienza comune dopo la Seconda guerra mondiale, cosa esprimono oggi? Perché rappresentare il contemporaneo attraverso un’estetica delle rovine? La questione è complessa e le risposte possono essere molteplici. Il motivo della rovina è stato per alcuni studiosi del teatro polacco un punto di partenza per interessanti dibattiti e approfondimenti. Nel saggio Ruiny Europy40 di Grzegorz Niziołek le rovine sarebbero, secondo l’autore, un paesaggio “reale e mentale contemporaneamente – fanno parte dell’ordine della storia, della memoria e dell’immaginazione”41. In primo luogo esse rappresenterebbero il residuo del trauma negato, di quel passato doloroso che non riusciamo a integrare con il presente, o, in alternativa, a rinnegare e disintegrare, e quindi viene lasciato lontano dalla vista, dietro le spalle. In secondo luogo, le rovine esprimerebbero la distruzione di un ordine simbolico in riferimento al quale si legittimano le narrazioni storiche dominanti e monolitiche. Entrambe le interpretazioni ci riportano a quanto detto precedentemente: il teatro polacco contemporaneo, in particolare la sua corrente critica, manifesta una forte tendenza a ripensare la storia e il passato doloroso, ma soprattutto – nelle distopie teatrali – tende a scavare nel presente per scoprire le rovine, o gli spettri, che lo popolano. Secondo Niziołek apparteniamo ancora, nonostante la cesura del 1989, al “panorama esteso e complesso del dopoguerra”42, ed è in relazione alle “rovine” prodotte dalla II Guerra Mondiale che l’autore poi procede nella sua analisi. Oltre a tutti questi contesti, in uno spettacolo come H., dunque nella rappresentazione di un mondo distopico (seppur intriso del desiderio di utopia), è sottinteso – come in tutte le utopie e distopie – l’intento critico. Negli ultimi anni è diventato una costante di un teatro critico, impegnante, il richiamo a rievocare zone di esclusione sociale, di disoccupazione e di realtà ancora lontane dai processi di “europeizzazione”, per ridare voce a personaggi secondari, più deboli, frustrati, agli abitanti delle provincie colpite dalla disoccupazione, a coloro che non sono riusciti a salire sul treno del capitalismo. Il critico Bartosz Frackowiak ha scritto: “Proviamo a definire la topografia dell’ombra, creiamo la mappa dei luoghi impercettibili e non definiti, situati fuori dall’area dei linguaggi formali con i quali spieghiamo la realtà. […] Il teatro ha il potere di 39 Ivi, p. 44. G. Nizołek, Ruiny Europy, cit., pp. 35-50. 41 Ivi, p. 35. “Ruiny Europy pojawiają się tutaj jako krajobraz rzeczywisty i mentalny równocześnie – należą zarówno do porządku historii, jak pamięci i wyobraźni”. 42 Ivi, p. 37. “Wciąż należymy […] do roległego i zróżnicowanego krajobrazu powojnia”. 40 Il desiderio di utopia estrapolare questi elementi dalla sfera dell’invisibile”43. Il recupero di queste zone d’ombra è quindi anche parte di un ideale di democratizzazione della sfera della rappresentazione, di un richiamo alla rivalorizzazione dell’utopia come concetto generale, e di un’utopia concreta della solidarietà e della comunità. In questo senso, un’“estetica delle rovine” serve, oltre che come commento e visualizzazione dei traumi, della memoria, delle macerie distopiche di un’utopia fallita, anche come dimostrazione della condizione umana. Le varie storie umane e l’attenzione, in particolare, per la condizione sociale, è centrale in questo teatro. Jan Klata ha descritto così il suo H.: “Questo è uno spettacolo che racconta di quelli che ci hanno lavorato, e di quelli che non ci hanno lavorato, e di quelli che non ce l’hanno fatta a sfruttare quello che lì è accaduto. […] Anche Amleto non ce l’ha fatta”44. Amleto è dunque un giovane cresciuto con il mito dei padri che hanno fatto la rivoluzione, e che non può – anzi, anche avendone la possibilità, non potrebbe – fare gesti altrettanto eroici. Privo di ogni voglia di agire, è infantile e pieno di pretese, perché è arrivato all’età adulta, non essendo mai stato costretto a lottare per niente, con la convinzione, trasmessagli da quello che gli hanno raccontato sulle meraviglie che offre il sistema, quel sistema cambiato dalle lotte dei padri, che tutto gli sarà dato. La realtà con la quale si deve scontrare è molto diversa da quello che gli hanno raccontato: i migliori posti di lavoro sono stati presi proprio da chi “ce l’ha fatta”, come dice Klata, mentre ad Amleto non resta altro che constatare una mancanza di futuro. Vive dunque nell’ombra del mito, frustrato perché profondamente deluso: si sente tradito. Il protagonista di H. apre la galleria dei personaggi deboli del nuovo teatro polacco, vittime di un sistema sul quale non può influire (o che non ha la forza di cambiare); questi personaggi saranno particolarmente presenti poi nelle messe in scena del duo formato dalla regista Monika Strzępka e dal drammaturgo Paweł Demirski. Amleto si trova dunque in uno stallo caratterizzato dall’infermità, dalla delusione e dall’impotenza. Una delle vittime di questo sistema immobile è anche Laerte (Maciej Brzoska), il fratello di Ofelia (Marta Kalmus) che però decide di emigrare in Inghilterra (particolare che costituisce una chiara allusione alla situazione dei giovani polacchi laureati). Lo vediamo, rassegnato, in una scena dove viene accompagnato dalla sorella e dal padre che non manca di dargli consigli su come comportarsi all’estero. Amleto non parte, anche perché in questa storia è un personaggio distopico: a differenza degli altri personaggi, e in linea con le grandi distopie, ha la consapevolezza della propria condizione, ma si rende anche conto che lottare con il sistema è una lotta senza speranza. Vede chiaramente che la rivoluzione non ha portato i frutti desiderati; non crede più nelle storie vittoriose delle quali pullula la narrazione ufficiale che gli è stata raccontata. Rimane intrappolato in questo luogo in cui aleggiano gli spiriti dei padri, in cui si cerca di trasformare le autentiche esperienze, la memoria viva, in una struttura storica rigida e priva di alternative, e vede chiaramente quello che gli altri cercano di negare: che qui sono rimaste solo le rovine. Prima della sua morte/non-morte, in cui sotto gli occhi del re e di tutto l’entourage reale 43 B. Frąckowiak, Polityczny potencjał teatralnej wyobraźni, in: P. Demirski, Śmierć podatnika, czyli demokracja musi odejść, bo jak nie, to wycofuję swoje oszczędności, Wydawnictwo Krytyki Politycznej, Warszawa 2007, p. 141: “Zadać musimy sobie pytanie o warunki możliwości twórczości, o to, co ją blokuje; sproblematyzować sposób, w jaki nauczyliśmy się patrzeć na świat, poddać refleksji to, co w tym spojrzeniu rozpoznajemy i zauważamy; spróbować określić topografię cienia, czyli stworzyć mapę miejsc niezauważalnych i nienazwanych, poza obszarem obowiązujących języków wyjaśniania rzeczywistości”. 44 P. Gruszczyński, Wawel na mnie nie działa. Z Janem Klatą rozmawia Piotr Gruszczyński, in: Zła pamięć., cit., p. 238. “[…] To jest spektakl o tych, którzy tu pracują, i o tych, którzy tu nie pracują, i o tych, którzy się na to, co tu się zdarzyło, nie załapali. […] Hamlet też się nie załapał”. 181 Barbara Minczewa si scontra con Laerte, vediamo gli avversari con delle corde attaccate dietro la schiena, come se fossero delle marionette inconsapevoli, guidate da forze maggiori. Per Klata infatti, Amleto è un “uomo dotato di una coscienza eccezionale del fatto che la lotta non ha assolutamente alcun senso. L’insurrezione muore, tutto viene bagnato dal sangue, un’assurdità completa. Nonostante tutto, si mette in prima linea, prolunga il tutto ancora un po’, combatte, affronta la morte. Questo è Amleto, questa è la Polonia”45. 4. La rovina dell’utopia 182 Lo spazio della rappresentazione in H. certamente non è casuale. I cantieri navali di Danzica, luogo del compiersi di uno degli eventi storici più importanti per la storia recente della Polonia, e cioè della rivoluzione pacifica di “Solidarność”, assume nell’immaginario comune delle qualità simboliche e potrebbe essere visto come il luogo dell’ultima utopia polacca. Non bisogna dimenticare un importante contesto che sicuramente ha influenzato la scelta di Klata di rappresentare proprio Amleto in un luogo così significativo per la storia polacca più recente: si tratta di Hamlet, più noto come Studium o Hamlecie46 di Stanisław Wyspiański. In Studium o Hamlecie l’autore riflette sui compiti e sulle possibilità che il teatro deve necessariamente affrontare, e crea un modello di eroe che sarà destinato ad essere più volte ricordato: l’Amleto polacco, l’eroe epico della storia passata e del presente. Questo eroe andrebbe rappresentato, secondo Wyspiański, in un luogo speciale: il Castello Reale di Wawel, sede simbolica del potere e dello “spirito nazionale” in Polonia, che anche qui – come in un’importante parte dell’opera wyspiańskiana47 – ritorna come luogo teatrale e drammatico. “Lo vedete: –, scrive Wyspiański di Amleto, – cammina con un libro in mano nella galleria superiore del palazzo reale degli Jagelloni”48. Questa idea di un’unione quasi fisiologica del testo con il luogo in cui viene rappresentato, ha ispirato del resto non solo Klata, ma anche altri registi prima di lui49. Il regista di H. senza dubbio condivide con il grande drammaturgo dell’inizio del XX secolo la scelta di rappresentare Amleto in un luogo non teatrale, ma simbolico per la vita collettiva e 45 Ivi, p. 245. “Facet obdarzony genialną świadomością tego, że walka nie ma absolutnie sensu. Powstanie umiera, wszystko zostaje utopione we krwi, kompletna bzdura. Mimo to staje na czele, jeszcze to przedłuża, walczy, idzie na śmierć. To Hamlet, to Polska”. 46 Il termine “studium” è stato introdotto dal primo commentatore del testo, Stanisław Lack, e significa “studio”, lo studio sull’opera che successivamente porta alla creazione; l’importanza di questa precisazione risiede proprio nel fatto di sottolineare il peso della ricerca: può non esserci l’opera finale, è la strada che conduce all’opera ad essere la più importante (cfr. E. Miodońska-Brookes, “Hamlet” Szekspira i Wyspiańskiego in: Eadem, “Mam ten dar bowiem: patrzę się inaczej”. Szkice o twórczości Stanisława Wyspiańskiego, Universitas, Kraków 1997, p. 206). Questo concetto è fondamentale per i successivi teatri sperimentali, come il Reduta e il Teatro Laboratorium di Jerzy Grotowski. 47 Il Wawel ha un ruolo particolare in Wyzwolenie (1903) e in Akropolis (1905), ma compare anche in Bolesław Śmiały, Legenda, Legenda II, Samuel Zborowski, e perfino in Wesele [Le Nozze]. Per approfondimenti sul ruolo del Wawel nell’opera di Wyspiański rimando all’articolo di L. Bernardini, L’Acropoli polacca: il Wawel nell’opera di Stanisław Wyspiański, in: Pensare per immagini. Stanisław Wyspiański drammaturgo e pittore. Convegno internazionale nel centenario della morte dell’artista 19-20 dicembre 2007, a cura di A. Ceccherelli, E. Jastrzębowska, M. Piacentini, A.M. Raffo, Accademia Polacca delle Scienze, Roma 2008, pp. 9-26. 48 S. Wyspiański, Hamlet, cit., p. 14. “Widzicie go: jak idzie z książką w ręku w górnej galerii królewskiego pałacu Jagiellonów”. 49 Per esempio, Jerzy Grotowski mette in scena Studium o Hamlecie di Wyspiański nel 1964 a Opole, e inserisce la storia nel contesto della campagna polacca. Il desiderio di utopia nazionale. Per Klata, i cantieri navali di Danzica erano l’unico posto dove poter inserire la tragedia del principe di Danimarca. In un’intervista, intitolata significativamente Wawel na mnie nie działa [Il Wawel non mi fa alcun effetto] il regista dice: Dal momento in cui ho visto i Cantieri Navali di Danzica sapevo che questa è Elsinore. […] Ho visto le navi che stanno arrugginendo, ho visto cosa sta succedendo a questo posto. Il giorno precedente ho visto la mostra Drogi do wolności [Le strade verso la libertà – B.M.], dove ho pianto. E allora ho pensato che avrei realizzato Amleto. Il libro preferito di mia madre è Studium o Hamlecie. Lì c’è scritta una cosa molto saggia: che è enormemente importante l’aspetto di Elsinore. Wyspiański propone il Wawel, ma questo non mi suggerisce niente. Il Wawel non mi fa alcun effetto50. Il nuovo Elsinore si trova per Klata quindi proprio nei cantieri navali di Danzica, “il luogo dove è avvenuto il cambiamento del futuro del mondo, della Polonia e dell’Europa, dall’incredibile energia”51. Per assistere alla messa in scena di H. gli spettatori hanno dovuto varcare i cancelli dei cantieri navali, dei quali in particolare il cancello numero 2 – durante lo sciopero di agosto 1980 addobbato di fiori e candele – evoca delle immagini storiche concrete, sulle quali è stata poi costruita una narrazione sulla trasformazione politica polacca. Questo cancello, nel 1980, fu la porta che divideva quel non-luogo felice dal mondo esterno: divideva l’utopia dalla distopia vissuta quotidianamente. Una netta divisione addobbata come un altare, un passaggio nell’altro mondo. I cantieri navali erano il luogo dove avveniva il cambiamento, e questa immagine, assieme ai fiori, alle candele e alle centinaia di persone davanti al cancello, sono rimaste stampate nella memoria di chi ha vissuto quei tempi in prima persona, ma anche nelle generazioni successive: secondo il principio teorizzato da Marianne Hirsch, la postmemory, la memoria indiretta di chi conserva i ricordi traumatici altrui. Questo tipo di memoria, la post-memoria, è in un certo senso una memoria falsa, perché non riguarda direttamente l’esperienza dell’individuo. Nonostante ciò, la post-memoria è così fortemente radicata nella coscienza e nell’immaginario, sia quello individuale che quello comune, che viene esperita come propria. Questa solida relazione con il passato viene ulteriormente rafforzata – più di quanto accada nel caso della memoria “normale” – da artefatti, proprio come registrazioni o foto, e certamente attraverso la memoria di chi ha veramente vissuto gli eventi in questione. In un certo senso quindi la postmemory52, la memoria indiretta di chi conserva i ricordi traumatici altrui sarà sempre un racconto manipolato, soggettivo, quasi sicuramente diverso dalla narrazione ufficiale della storia. Hirsch ha costruito la sua teoria in riferimento al trauma dell’Olocausto, ma questo termine è applicabile anche a tutte le comunità o nazioni che hanno subito un trauma collettivo, ovvero tutti quei gruppi di persone che hanno perso la loro soggettività in seguito all’oppressione subita da un sistema qualsiasi. 50 P. Gruszczyński, Wawel na mnie nie działa…, cit., p. 238. “Od razu, jak zobaczyłem Stocznię Gdańską, wiedziałem, że to Elsynor. […] Zobaczyłem rdzewiejące statki, zobaczyłem, co się dzieje z tym miejscem. Poprzedniego dnia byłem na wystawie Drogi do wolności, gdzie się poryczałem. I wtedy pomyślałem, że wystawię Hamleta. Ulubiona książka mojej matki to Studium o Hamlecie. Tam jest napisane coś bardzo mądrego: że ogromnie ważne jest, jak wygląda Elsynor. Wyspiański proponuje Wawel, co mnie zupełnie nie otwiera. Wawel na mnie nie działa”. 51 Ibidem. “Stocznia, miejsce, w którym zmieniały się losy świata, Polski i Europy, które buzowało nieprawdopodobną energią […]”. 52 Cfr. M. Hirsch, Family Frames: Photography, Narrative and Postmemory, Harvard University Press, Cambridge 1997; Eadem, The Generation of Postmemory: Writing and Visual Culture after the Holocaust, Columbia University Press, New York 2012. 183 Barbara Minczewa 184 Far passare il cancello e introdurre lo spettatore all’interno dei cantieri navali di Danzica è stato da parte di Klata una strategia di gioco con la memoria del pubblico, con le immagini prodotte nel tempo dalla narrazione storica ufficiale di forte e immediato impatto. In un certo senso, H. è una performance site-specific, in quanto si struttura e si definisce in virtù degli spazi che occupa; ma va anche molto oltre questa definizione: è un lieux de memoire53, luogo dove si cristallizza e si concretizza la memoria, dove, in tempi in cui l’identità non è ancora solida, ci si sente rassicurati perché si ha l’impressione di una continuità storica. Klata gioca con premeditazione con le immagini impresse nella memoria degli spettatori; quello che si trovano davanti è molto diverso dai fotogrammi storici creati dalla narrazione sulla nascita della democrazia in Polonia. I cantieri navali di Danzica, nel 2004, rappresentano un panorama che assomiglia più allo scenario di un film post-apocalittico che all’isola felice dove si è compiuto il miracolo democratico polacco. Ridotti in uno stato disastroso, sono piuttosto “la culla della libertà, quel ricordo che ha un qualcosa di involuto e di imbarazzante”54, poiché pochi posti hanno un impatto simbolico così forte e, nello stesso tempo, raramente luoghi storici di questa importanza vengono così trascurati. Il motivo non è difficile da indovinare: questo, alla fine, è solo uno dei tanti luoghi – tra fabbriche, miniere, altri cantieri navali – che non ha retto l’inflazione e il mercato libero, è stato sull’orlo del fallimento diverse volte, in parte è caduto in rovina, ed è quindi un altro silenzioso testimone di quei lati oscuri della trasformazione del sistema in Polonia dei quali si preferisce nascondere le rovine. Lo spettatore si trova dunque davanti a un panorama inquietante, vagamente simile a quello di Pryp’jat’, la città ucraina abbandonata dopo il disastro nucleare di Černobyl’; sembra abbandonato da un momento all’altro, da qualche parte c’è addirittura ancora appeso un manifesto storico di “Solidarność”. Il lento deterioramento degli edifici, l’intonaco che si stacca e la hall 42, dove si svolge la maggior parte dello spettacolo e dove lavorava Anna Walentynowicz: tutto letteralmente cade a pezzi, rendendo questo posto un testimone silenzioso di “Una storia assai gioiosa, e perciò triste enormemente”55 , per citare Stanisław Wyspiański e uno dei suoi drammi più famosi, Le Nozze. In questo modo, i cantieri navali di Danzica diventano un paesaggio di rovine sia nel senso simbolico della parola sia in senso letterale: rappresentano l’ordine simbolico utopico distrutto, dal quale si volta lo sguardo, come fece l’Amleto di Müller, per non doversi confrontare con la falsità della narrazione storica dominante che vorrebbe vedere il racconto sulla trasformazione del sistema polacco solo ed esclusivamente come vittorioso. I cantieri diventano, nella loro degradata materialità, una denuncia della morte dei valori, quei valori che erano vivi finché anche il ricordo di “Solidarność” era vivo. Scontrarsi con il degrado di questo posto è stato certamente di grande impatto per il pubblico, abituato ad un’altra immagine, quella storica e ideale, dei cantieri, e non credo che qualcuno sia rimasto indifferente a questo spazio. Qui non poteva esserci la scena nel cimitero perché, sin dall’inizio, tutto è un cimitero, e sin dall’inizio questo spettacolo è stato concepito come un funerale ai valori che una volta erano rappresentati da “Solidarność” e dalla 53 Cfr. P. Nora, Les lieux de mémoire, Quarto Gallimard, Paris 1997; ho consultato la traduzione dei frammenti nella traduzione di M. Borowski e M. Sugiera, Między pamięcią a historią: les lieux de mémoire, pubblicata in «Didaskalia», 105, 2011, pp. 20-27. 54 J. Targoń, “H.” W.S. i J.K., in «Didaskalia», 63, 2004, p. 13. 55 S. Wyspiański, Le nozze, trad. it. S. De Fanti, CSEO, Bologna 1983, p. 103. (In polacco: “Historia wesoła, a ogromnie przez to smutna”.) Il desiderio di utopia sua lotta. “H. di Jan Klata è un lamento (requiem) per la signorina S.”56, ha scritto Jan Ciechowicz. I cantieri navali sono “un monumentale rimorso di tutta la Terza Repubblica”57. Quando gli spettatori uscivano attraverso i cancelli dopo lo spettacolo, portavano con sé non solo il desiderio del dramma inappagato, ma anche l’immagine della rovina dell’utopia. Quei cancelli non erano più la divisione simbolica tra la distopia e l’utopia; il cupo avvertimento della distopia si estendeva, avvolgendo tutta la realtà, le vite comuni del qui ed oggi. Ma, in un certo senso, proprio in questo sentimento inquietante risiede la speranza che una distopia teatrale potrebbe portare; la scossa che uno spettacolo del genere potrebbe provocare diventa un’esperienza comune di tutti gli spettatori. Il teatro impegnante, con il suo progetto di cambiare la realtà partendo dal cambiamento della forma, oltrepassando i confini dell’immaginazione, ritrova nella distopia un valido strumento cognitivo. Il pubblico, attivato nel progetto comune di evadere dalle strutture autoritarie della distopia, riacquista anche la capacità di reintrodurre il “possibile” come irrinunciabile elemento costitutivo del “reale”. Il nostro desiderio del dramma ci richiede di porre un fine a questa struttura distopica. Lo spettacolo diventa così un incontro di idee, pensieri, speranze, è un momento di creazione di comunità, seppur aleatoria e limitata alla durata della messa in scena. Tuttavia, anche un tempo così limitato, presenta la possibilità di contagiare il pubblico con quello che spinge il regista a creare uno spettacolo distopico: con il desiderio di utopia. Abstract 185 Barbara Minczewa Longing for Utopia: the Construction of Polish Distopic Theatre. Some Considerations The paper concerns some elements of the construction of worlds represented on stage in recent Polish theatre. This may be seen as a comment on the state of democratic Poland after 1989 and, more generally, as an analysis of the peculiarities of the contemporary world. However, a deeper analysis shows recent theatre staging as structurally similar to the construction of dystopias. The worlds represented on stage are characterized by the presence of a nonlinear construction of time, by the absence of ending, of a horizon and of death, by the presence of ruins (intended literally, as an aesthetic paradigm, and metaphorically) and by the construction of dystopian characters. The analysis focuses on one of the most important performances for the Polish political theatre of the last two decades, H. (2004), a version of Hamlet directed by Jan Klata, performed in the historic and derelict Gdańsk Shipyard, a symbolic stage set which becomes at the same time the place of fulfilment of dystopia and of the emergence of the desire for utopia. Keywords: Jan Klata, Polish theatre, engaged theatre, political theatre, dystopia, utopia, Solidarność «pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», (VII) 7, 2016, pp. 171-185 56 J. Ciechowicz, Przestrzenie depresyjne i zdegradowane w teatrze polskim po roku 1989 (na wybranych przykładach), in: Idem, Teatr i okolice, słowo/obraz terytoria, Gdańsk 2010, p. 124. “H. Jana Klaty to był tren (requiem) dla panny S.”. 57 Ivi, p. 125. “Stocznia Gdańska staje się w ten sposób potężnym wyrzutem sumienia całej III Rzeczpospolitej”. Sławomir Jacek Żurek The Shoah in Contemporary Polish Fiction (after 1989) T his article takes a look at contemporary Polish prose dealing with theme of the Shoah. “Contemporary,” in this case, means fiction published in the 1990s and after the year 2000, thus already in the twenty-first century. It therefore comprises the last twenty five years. The fundamental categories used here in the analyses of texts, are the memory and postmemory of the Shoah1. The authors who have published works over the last twenty five years are either witnesses of these events (i.e. Children of the Holocaust)2, or – more often – representatives of the second or third generation after the Shoah. For the latter, the Holocaust is only a historical event and a cultural artefact3. They are Polish writers either with or without Jewish roots. The Jewish origin, however, is in this case hardly significant. The most interesting issues are the new aspects these authors introduce to reflections on the Shoah in literature. Theoretical and descriptive secondary literature about the issue I intend to discuss is fairly abundant4. Holocaust fiction is a subject of interest to many literary scholars, who have published numerous monographs5 and articles (reviews)6 about it. 187 1 Cf. M. Hirsch, The Generation of Post-memory. Writing and Visual Culture after the Holocaust, New York 2012; Idem, Family Frames. Photography, Narrative and Postmemory, Cambridge 2002; B. Dąbrowski, Postpamięć, zależność, trauma, in: Kultura po przejściach, osoby z przeszłością, ed. by R. Nycz, Kraków 2011; Narracja i tożsamość. Narracje w kulturze, t. 1, ed. by W. Bolecki, R. Nycz, Warszawa 2004. 2 Cf. J. Kowalska-Leder, Doświadczenie Zagłady z perspektywy dziecka w polskiej literaturze dokumentu osobistego, Wrocław 2009. 3 Cf. B. Kwieciński, Obrazy i klisze. Między biegunami wizualnej pamięci Zagłady, Kraków 2012. 4 Cf. S. Buryła, Tematy (nie)opisane, Kraków 2013; M. Cuber, Metonimie Zagłady. O polskiej prozie lat 1987-2012, Katowice 2013; P. Czapliński, Odzyskiwanie Zagłady, in «Przegląd Polityczny», 61, 2003; Idem, Zagłada jak wyzwanie dla refleksji o literaturze, in «Teksty Drugie», 5, 2004; B. Krupa, Opowiedzieć Zagładę. Polska proza i historiografia wobec Holokaustu (19872003), Kraków 2013; Memory of the Shoah. Contemporary representations, ed. by A. Zeidler-Janiszewska, Warszawa 2003; G. Nizołek, Polski teatr Zagłady, Warszawa 2013; Stosowność i forma. Jak opowiadać o Zagładzie?, ed. by K. Chmielewska, M. Głowiński, K. Makurak, A. Molisak, T. Żukowski, Kraków 2006; A. Ubertowska, Świadectwo – trauma – głos. Literackie reprezentacje Holokaustu, Kraków 2007; Zagłada. Współczesne problemy rozumienia i przedstawiania, ed. by E. Romańska, P. Czapliński, Poznań 2009; M. Zaleski, Formy pamięci. O przedstawianiu przeszłości w polskiej literaturze współczesnej, Warszawa 1996. 5 Cf. S. Buryła, Opisać Zagładę. Holocaust w twórczości Henryka Grynberga, Wrocław 2006; Idem, Wokół Zagłady. Szkice o literaturze Holokaustu, Kraków 2016; D. Krawczyńska, Własna historia Holokaustu. O pisarstwie Henryka Grynberga, Łódź 2005; A. Molisak, Judaizm jako los. Rzecz o Bogdanie Wojdowskim, Warszawa 2004; A. Morawiec, Literatura w lagrze, lager w literaturze. Fakt, temat, metafora, Łódź 2009; Idem, Polityczne, prywatne, metafizyczne. Szkice o literaturze polskiej ostatnich dziesięcioleci, Toruń 2014; A. Ubertowska, Holokaust. Auto(tanato)grafie, Warszawa 2014; S.J. Żurek, Synowie księżyca. Zapisy poetyckie Aleksandra Wata i Henryka Grynberga w świetle tradycji i teologii żydowskiej, Lublin 2004. 6 Cf. M. Bernacki, O trylogii powieściowej Piotra Szewca. Jak możliwa jest kontemplacja świata po „Zagładzie”, in «Przegląd Powszechny», 5, 2007, pp. 124-134; K. Bojarska, Historia Zagłady i literatura (nie)piękna. „Tworki” Marka Bieńczyka w kontekście kultury posttraumatycznej, in «Pamiętnik Literacki», 2, 2008, pp. 89-106; Eadem, Czas na realizm – (post) traumatyczny, in «Teksty Drugie», 4, 2012, pp. 8-14; P. Czapliński, Zagłada i profanacje, in «Teksty Drugie», 4 (118), Sławomir Jacek Żurek 188 Following suggestions offered by the works mentioned, I will analyse some of the most important new texts introducing the theme of the Holocaust. The list of recent fiction on the Shoah published in Polish after 1989 is very long. It could start with the volumes of Henryk Grynberg’s prose, which reappeared in Poland after the years of silence that followed the author’s exile in 19677. Bogdan Wojdowski and Hanna Krall also wrote about the Holocaust in the early 1990s. One of the first younger authors, born already after World War II, to take up this matter was Paweł Huelle (born in 1957). He broke the silence surrounding the Shoah with his now legendary novel – Weiser Dawidek (1987). In the 1990s the stream of narrative texts really flooded the editorial market. Many of them dealt with the Holocaust and it is impossible to present them all. Thus, in this article, I would like to focus on the major trends of contemporary fiction, which have not diminished over the last few years. For instance, just after the year 2000, several key prose works were published. Their authors belong to the generation known as the Children of the Holocaust8. They seldom use fictional elements, concentrating rather on non-fiction. The most important examples are: Magdalenka z razowego chleba [The Cake of Whole-Wheat Bread, 2001] by Michał Głowiński (a renowned Polish literary scholar who “came out” as a Jew in 1999, publishing his autobiographical volume Czarne sezony [The Black Seasons], in which he wrote about his experience as a Jewish boy hiding on the so-called “Aryan side”); Lekcja angielskiego [English Lesson, 2010] by Wilhelm Dichter and also his earlier prose: Koń Pana Boga [The Horse of the Lord, 1996] and Szkoła bezbożników [The School of the Godless, 1999]; and Księżyc nad Taorminą [The Moon over Taormina, 2011] by Roma Ligocka, who is also the author of several other important books, most of which are connected with the theme of the Shoah9. The children’s novel Szlemiel (the name of a dog, 2010), by Ryszard Marek Groński (born 1939) stands out sharply against this background. Groński’s work is an example of an incipient trend of fictional tell-tales about the Shoah which appear in Polish popular literature for children 2009, pp. 199-213; O. Danek, „Trzecie oko” Wilhelma Dichtera, in «Cwiszn», 4, 2010, pp. 112-113; K. Dzika-Jurek, „Setka szarych palt” – (nie)świadomość Zagłady w powieści „Skaza” Magdaleny Tulli, in «Teksty Drugie», 5 (143), 2013, pp. 25-41; M. Fuzowski, Pogodzenie, in «Twórczość», 2, 2009, pp. 109-110; P. Huelle, Jakubowa drabina, in «Zeszyty Literackie», 4, 2009, pp. 193-196; M. Jentys, Żywioły buntu. O twórczości Mariusza Sieniewicza, in «Twórczość», 3, 2008, pp. 79-90. J. KowalskaLeder, Literatura polska ostatniego dziesięciolecia wobec Zagłady – próby odpowiedzi na nowe wyzwania, in «Zagłada Żydów. Studia i Materiały», 10/1, 2014, pp. 768-802; D. Krawczyńska, Empatia? Substytucja? Identyfikacja?: jak czytać teksty o Zagładzie?, in «Teksty Drugie», 5 (89), 2004, pp. 179-189; A. Morawiec, Holokaust i postmodernizm. O „Tworkach” Marka Bieńczyka, in «Ruch Literacki», 2, 2005, pp. 193-209; M. Olszewski, W gabinecie figur woskowych, in «Akcent», 4, 2010, pp. 113-116; E. Ryczowska, Szochen tow, in «Akcent», 4, 2008, pp. 117-120; M. Sawa, Zamojszczyzna w opowiadaniach wspomnieniowych Michała Głowińskiego, in: Żydzi w Zamościu i na Zamojszczyźnie. Historia – kultura – literatura, ed. W. Litwin, M. Szabłowska-Zaremba, S.J. Żurek, Lublin 2012, pp. 205-215; A. Ubertowska, Krzepiąca moc kiczu. Literatura Holokaustu na (estetycznych) manowcach, in «Zagłada Żydów. Studia i Materiały», 6, 2010, pp. 23-40; T. Żukowski, Świadkowie Zagłady, in «Teksty Drugie», 5 (70), 2001, pp. 139-145; Idem, Antysemityzm jako modyfikator znaczeń, in «Teksty Drugie», 1-2 (73-74), 2002, pp. 254-258. 7 Cf. S. Buryła, Opisać Zagładę, cit.; D. Krawczyńska, Własna historia, cit.; S.J. Żurek, op. cit. 8 Of course, many of them were very active in literature also before 1989. Cf. Literatura Polska wobec Zagłady (1939-1968), ed. by S. Buryła, D. Krawczyńska, J. Leociak, Warszawa 2013. 9 Cf. R. Ligocka, Dziewczynka w czerwonym płaszczyku [The Girl in Red Coat] (2001), Kobieta w podróży [The Woman on the Way] (2002), Tylko ja sama [Only Me Myself ] (2005), Znajoma z lustra [An Acquaintance from the Mirror] (2006), Wszystko z miłości [Everything Out of Love] (2007), Czułość i obojętność [Affection and Indifference] (2009), Róża [Rose] (2010), Księżyc nad Taorminą [Moon over Taormina] (2011), Dobre dziecko [Good Child] (2012), Wolna miłość [Free Love] (2013), Droga Romo [Dear Roma] (2014). The Shoah in Contemporary Polish Fiction and young adults. Similarly, a pop-culture novel Pingpongista [The Ping-Pong Player, 2008] by Józef Hen is an attempt to come to terms with the matter of Jedwabne (the burning of Jewish inhabitants of a village by their Polish neighbours in July 1941) and a gesture of shifting this very important social discourse into the literary language of contemporary mass-readers. In what follows we will be interested only in the most recent Polish fiction (published by the authors belonging to the second and third generation after the Holocaust), and exemplified by the novels by Marek Bieńczyk (born in 1956) – Tworki (Tworki is the name of a big psychiatric hospital; 1999); Piotr Szewc (born in 1961) – and his series of books Zagłada [Annihilation, 1987], Zmierzchy i poranki [Evenings and Mornings, 2001] and Bociany nad powiatem [Storks over the District, 2005]; Igor Ostachowicz (born in 1968) – Noc żywych Żydów [The Night of the Living Jews, 2012]; Mariusz Sieniewicz (born in 1972) – Żydówek nie obsługujemy [We Don’t Serve Jewesses, 2006]; and Piotr Paziński (born in 1973) – Pensjonat [The Boarding House, 2009]. My analysis uses four categories which structure both the world represented and the form of the novels: transgression, pop-culture, history and metonymy. This typology will – I hope – serve readers as a sort of a guide into the complexities of representing the Shoah in contemporary Polish fiction. Transgression The first category, which covers the way the world presented in the novels about the Shoah is organised, is transgression. You can see it first of all in the collection of short stories Żydówek nie obsługujemy by Mariusz Sieniewicz10 whose plot is set in a contemporary supermarket, where the Shoah is still ongoing and where the same laws enforced in the Nazi world are still observed. Transgression – understood as the deliberate crossing of existing social, symbolic and material boundaries11 – informs not only the construction of the represented world, but also the characters, their dialogues and the use of language. Transgression can also be seen in the novel by Igor Ostachowicz. In his Noc żywych Żydów the main character lives in the present-day Muranów district of Warsaw – the quarter that enclosed Europe’s largest ghetto during the Second World War12. One day the protagonist, Glazurnik, (whose nickname reflecting his profession can be translated into English as “a tiler”) discovers the entrance to a closed Jewish district in Warsaw (as the Germans used to call the ghetto) in his cellar. As a result of different adventures, the Jewish characters ( Jewish Zombies) living below the foundations of the building move into contemporary Warsaw. First they come into contact with the present-day inhabitants of this district, who do not belong to high society and in many cases are very anti-Semitic. The language of the novel is vulgar, obscene and brutal. Its main events and characters are grotesque, larger-than-life and improbable. Thus, the aesthetic effect of this novel is ambivalent and far from pleasant – despite its undeniable 10 Mariusz Sieniewicz is the author of the following novels: Prababka [A Great-Grandmother] (1999), Czwarte niebo [The Fourth Heaven] (2003), Żydówek nie obsługujemy [We Don’t Serve Jewesses] (2005), Rebelia [Insurgency] (2007), Miasto szklanych słoni [The Town of Glass Elephants] (2010), Spowiedź Śpiącej Królewny [ The Confession of Sleeping Beauty] (2012). 11 Cf. J. Kozielecki, Transgresja i kultura, Warszawa 1997; B. Grodzki, Tradycja i transgresja. Od dyskursu do autokreacji w eseistyce i „formach pojemnych” Czesława Miłosza, Lublin 2002; B. Bogołęnska, Od tradycji do nowatorstwa, od transgresji do adaptacji na wybranych przykładach literackich i publicystycznych, Łódź 2013; Transgresja w kulturze, ed. by T. Paleczny, J. TalewiczKwiatkowska, Kraków 2014. 12 See: B. Engelking, J. Leociak, The Warsaw ghetto. A guide to the perished city, New Haven 2009; J. Leociak, Tekst wobec Zagłady. O relacjach z getta warszawskiego, Wrocław 1997. 189 Sławomir Jacek Żurek 190 humour, the text highlights disturbing and serious truths about both contemporary characters and those dating back to the time of the Shoah, about both our and their worlds. Recent prose makes use of various kinds of transgression. It is clear that both Sieniewicz and Ostachowicz write about the Holocaust in a postmodernist way – they use cultural categories mixing them with religious language referring to Judaism and Christianity. In the case of Ostachowicz, whose protagonist is following a mysterious light, the motif of the Last Judgment appears, while the main character visits Auschwitz like Christ descending into Hell or the figure of the devil which embodies the Nazis. Religious echoes also reverberate in the last chapter of the novel, which may be interpreted as introducing eschatological issues – in this part, the reader is exposed to the ominous silence in the narrative and an overwhelming atmosphere of dignity. The main character in this part of the novel is the Cleaner, who brings peace and leads Glazurnik (“the Tiler”) to a new life. Looking for a key to help us understand the Żydówek nie obsługujemy story, we can turn to concepts familiar to the Jewish world, where transgression plays a very important role. One of the possible interpretations may link the presence of the Jewish context in the novel to the tradition of Judaism and the Jewish feast of Purim. This religious holiday unites two orders: transgression and religion, allowing orthodox Jews to breach all the principles that they normally observe closely every day. For instance, during Purim, orthodox Jews can take part in theatrical performances, men can dress as women and vice versa. Gambling games are permitted and so are all entertainments. The Hasidim traditionally drink themselves into a stupor on this occasion. Sieniewicz and Ostachowicz cross all kinds of boundaries, leading to the final breakdown of the worlds presented. Characters start to deliver senseless dialogues and the texts create a reality which is completely devoid of sense. In some of these transgressions, as in the Purim feast, the convention of the grotesque dominates, expressed in a kind of carnivalisation and clowning – the narrator presents serious events (the annihilation of all nations) using a comic convention. One of the possible explanations for the humour may be the fact that all these conventions are haunted by the sense that everything that takes place within the world of the text (even the execution of a Jewish woman in a supermarket) is a computer game keeping up an imaginary convention and is only momentary. Transgression does not operate solely in terms of the fictional narrative but also in terms of the aesthetics, ethics and ontology. It shows how contemporary people perceive reality and history – as if they were only a game or a dream. Pop-culture The second category identified in the novels in question is pop-culture. The worlds represented: Noc żywych Żydów and Żydówek nie obsługujemy are deeply embedded in the conventions of horror, cult movies about Zombies and the poetics of the macabre, which is very popular in mass culture. The Holocaust arouses emotions and, just as in classic literary works of pop-culture, all these devices are not simply art for art’s sake. Ostachowicz deliberately uses pop-cultural conventions, thus turning life into a farce. He shows how all spaces and spheres of life have been commercialized, a fact emphatically underlined by the corpses. He points to certain negative consequences of modernity, which led, among other things, to the annihilation of the Jews in Poland and still destroy human beings and their interpersonal relationships today. Then – following Zygmunt Bauman’s train of thought – the reader realizes that the author’s main aim is to draw attention to the fact that even seventy years The Shoah in Contemporary Polish Fiction after the Holocaust, we are still living in the rationale of the Shoah13. This rationale is manifested no longer in the industrial killing of people but in the industrialisation of human life which makes it completely shallow. The main character of the story, a conformist tiler-, suddenly becomes aware of the vanity of human existence as society becomes submerged in consumerism and apathy, which crush values such as compassion and solidarity. The tiler manages to change his attitude and his life, although he does so reluctantly, only after learning about the fate of the dead Jews and when he himself, in a quasi-fantastic twist in the plot, is exposed to a sample of their hellish suffering in Auschwitz. He begins to notice good and evil and to act according to his conscience. In this way,– in spite of the creation of a broken world – the novel surprisingly manages to attain an ethical dimension. The pop-culture convention of horror-cum-black comedy appears to be used as a way of transfixing the readers and raising their awareness. Ostachowicz satirises popcultural conventions because they trivialise evil, death, its memory and all that is most important and most valuable in human life. The effect is, of course, stupefying – mainly, perhaps, in the way he juxtaposes the dead children of the Holocaust with the world of modern gadgetry and the lifestyles of contemporary teenagers. Writing about the Shoah using the pop-cultural conventions of modern literature certainly appears to help reach a wide circle of recipients – mass-readers. So what new peculiarities and narrative strategies do these young writers representing the Shoah in contemporary Polish fiction introduce? The novelty of their texts does not rely on any unusual psychological depth in their characters or on any kind of mission designed to enlighten their readers. Rather these works seem to emphasise that we still need to talk about the influence of the Holocaust on human social and cultural behaviour, about how an individual could be intimidated, how his or her otherness could be destroyed14, how people were hierarchised and divided. Yet, the authors are fully aware that it is necessary to do so in a modern, culturally attuned way. The novelists, therefore, consciously use the conventions of the grotesque as well as deep provocation, widespread in popular culture, and the young generations of readers seem to love it , judging by the wide circulation and popularity of these works. History In this analysis of contemporary Polish fiction about the Shoah, the third key category is history and how it is now perceived15. Ostachowicz diagnoses contemporary reality, which appears to be a palimpsest of various pasts. New lives have been built in Poland on the bones and wreckage of its former inhabitants, never mourned by anybody. In his novel, history, first of all the most difficult history of Polish-Jewish relationships16, moves into the present and intertwines with the lives of people born twenty, thirty and even forty years after the Shoah. This novel raises awareness of the history that is apparent in everyday items and that we know absolutely nothing 13 Cf. Z. Bauman, Modernity and the Holocaust, Ithaca (N.Y) 1989; Idem, Postmodernity and its discontents, New York 1999. See: A. Fiut, Spotkania z Innym, Kraków 2006. 15 This perception is very individual. See: B. Engelking, Holocaust and memory. The experience of the Holocaust and its consequences. An investigation based on personal narratives, London 2001. 16 Cf. F. Tych, Długi cień Zagłady. Szkice historyczne, Warszawa 1999; J.T. Gross, Sąsiedzi. Historia zagłady żydowskiego miasteczka, Sejny 2000; Tam był kiedyś mój dom… Księgi pamięci gmin żydowskich, ed. by M. Adamczyk-Garbowska, A. Kopciowski, A. Trzciński, Lublin 2009; M. Cobel-Tokarska, Bezludna wyspa, nora grób. Wojenne kryjówki Żydów w okupowanej Polsce, Warszawa 2012; R. Kuwałek, Zagłada sztetl. Żydzi w Izbicy pod okupacją nazistowską, in: Żydzi w Zamościu, cit., pp. 255-277. 14 191 Sławomir Jacek Żurek about. Thus conceptualised by Ostachowicz or Sieniewicz, the Shoah is cut out of its historical context. It is still taking place; it is something present and alive for modern people. The Holocaust has an impact on people, even on those who have no awareness and no sensibility or historical knowledge: […] evil can’t be covered by wreckage or dust, suffering must be respected and appraised, and blood, if it is not swept up in time and just allowed to sink indifferently into the ground, will – combined with clay – come to light together with a horde of golems […]; they will be glued together by the power of sub-biology forming two-footed nightmares knowing only pain, and they will share this pain with us, running crunched from door to door of our calm homes17. 192 In Warsaw after the Second World War the Jews were indeed covered by subsequent layers of earth, rubble and concrete. They did not disappear; they – paradoxically – lived on in isolation, without being mourned. At last in the represented world of Ostachowicz’s prose, on an impulse, Jews start to come up to the surface. They want to be noticed and to have access to their lost world. Symbolically changed directions are very characteristic in this novel. In the text, these are not living people that come down to the world of the dead (which could be interpreted as an allegory of the contemplation of the past), but the dead that rise up to the world of the living. This situation shows not only the inability of the living to accept the history of the Jewish persecution but, more damagingly, their aversion to their tragedy. The writer’s gesture reflects the struggle of contemporary Polish fiction for the memory of the murdered Jewish people. Of course, you could say that it is a utopian struggle. But, on the other hand, you could equally point out that it is an act of mercy – not towards dead Jews, but towards live Poles. Ostachowicz wants his readers to shake off their lethargy – their lack of respect and atonement for Jewish suffering. He has probably found the only effective language able to force the contemporary generation to really reflect on the evil that took place in Poland. This language is grotesque, brutal and horrible, but only in this way can readers experience a refreshing return to health. From an eschatological point of view, the Jews of Ostachowicz’s novel cannot achieve everlasting life, because they have not experienced the love and mercy of their non-Jewish neighbours. Many Poles failed to see Jews as human beings. This was the effect of Nazi propaganda – but not only. According to the Talmud, man is still alive as long as somebody takes care of him. Memory or, more precisely, post-memory – as none of the characters in the novel actually witnessed the Shoah – becomes the superior value, for which one must fight. The main character of Noc żywych Żydów undertakes this kind of struggle, the struggle for memory. In the great “Arcadia” shopping mall, in a contemporary commercial temple built on the rubble of the Warsaw ghetto, once the site of the murder of countless Jewish people, Jews come in to play with modern people and achieve their goal. They start to fight together against historical amnesia and thoughtless consumerism. It is a true revolt. Another important category connected with the representation of history is the “empty place”. A Polish contemporary writer, Piotr Paziński, is the author of the novel Pensjonat. In essence, the novel is precisely a historical treatise about an empty place. This empty place is, of course, Poland after the Holocaust. Likewise, in the collection Żydówek nie obsługujemy, the 17 I. Ostachowicz, Noc żywych Żydów, Warszawa 2012, p. 14. The Shoah in Contemporary Polish Fiction empty place is a key category. In these narratives empty places are breaks in the story line (twoor three-page pauses which divide longer parts of stories). All of them – there are five – try to answer the question of the identity of the eponymous female Jewesses that appear in the novel. The clues suggest a young woman, an officer, a Moomin and a dog. It is impossible to find a common denominator for these senseless options. Sieniewicz seems to be trying to show that in contemporary Poland the word “Jew” is only an empty place, a sinister language sign, without any given historical sense. After the Second World War there were many empty places in Poland – and many empty words such as “Jew” or “Jewish”. These words used to define people and items which no longer exist because they were annihilated in the majesty of the law. In popular mentality they were punished, and so they had had to be guilty. But their guilt was merely their Jewish blood, nothing else. That is why the words “Jew” or “Jewish” in contemporary Polish are still negative categories; likewise – as contemporary literature stresses – they are so in the Poles’ collective memory and post-memory. Where do the visions of the Shoah, as reflected in the texts written by the post-Holocaust generations of writers, come from? They are cultural artefacts, images formed and transmitted by culture and its conventions rather than by genuine personal memory, impossible in the case of the second and third post-Shoah generation. One can see it especially in last story of the collection Żydówek nie obsługujemy by Sieniewicz. The supermarket, which is an enclosed area of consumerism, seems to be a ghetto or a concentration camp. Each customer has a card with their own assigned number. The main character is a Jewish woman whom nobody wants to serve because it is not clear if she is alive. If she wants to be served she must lose her identity, she must become another person. She decides to stay her Jewish self – and that means death. She is executed – paradoxically – in a consumerist way: pelted with bread. Sieniewicz describes the supermarket almost as if it were an enclosed space under Nazi orders: Behind the rubbish dump you stop for a moment to give the supermarket a farewell look. In the doorways bonfires are burning, the Gestapo division has completely cordoned off the area; dogs are barking fiercely, saliva leaking from their muzzles. Bodyguards are beating their hands together; they are standing at the trucks, staring bleakly at the captives being rounded up. One important Fritz is explaining something to an even more important Fritz, maybe to captain Schitke. Gestapo officers are catching the surviving customers; confiscating their goods, cash and jewellery. They are packing part of the people into trucks while the others are made to stand against the wall! “Hände hoch! Hände hoch! Raus, hipermarkttisheschweine!”, an officer shouts through the megaphone, maybe Citke. With their hands raised and without even the slightest protest, people are letting the Gestapo place black bands over their eyes. Black! Not yellow, not Jewish – wide death-rags. “Feuer! Feuer!” –machine-gunfire mows people down like flowers. Crows fly up into the sky18. It is as if this picture came from a popular TV war-series. This fragment of a description of the hypermarket is full of elements characteristic of the memories or witness accounts of Nazi crimes, but at the same time it links us to the modern world and its popular culture. 18 M. Sieniewicz, Żydówek nie obsługujemy, Warszawa 2005, p. 236. 193 Sławomir Jacek Żurek Metonymy In conclusion, the last of the four categories analysed here, which may be said to organise contemporary Polish fiction of the Shoah, is metonymy. One can see this category first of all in the works of Piotr Szewc and Marek Bieńczyk. The former uses the setting of the interwar city of Zamość as a canvas for his story. The latter sets the action of his novel in a psychiatric hospital near Warsaw during the time of the Holocaust. In both cases the narrator and characters do not refer directly to the Shoah, although Bieńczyk depicts Warsaw and its surroundings during the Second World War, which can potentially suggest connotations with the Shoah. Szewc points to the Holocaust via a system of allusions which pulse through the narrative: The flowers enriched the world with their heady scents and colours, but behind the overblown lilac bush, behind Icchak Safian’s hovel, behind the stairs of the city hall and in the gate of the house at the Salt Market – stood Nothingness. It showed its expressionless face and hunting for wagtails and cocks, goats, roe-deer, dogs and calves; it searched for geraniums in windows, and peonies and lupines in the gardens19. 194 The novel uses an original narrative device: to explain the sense of the future, it focuses on the past. In the Arcadian area of the pre-war Polish-Jewish Zamość there appear some eschatological signs. They appear and slowly build a compelling impression of the forthcoming end of this mythical space. It is literally the end of summer, but symbolically it suggests the approaching cataclysm. This catastrophe was, of course, the war and accompanying it the annihilation of the Jews. Novels by Piotr Szewc represent the Shoah of the Jewish Zamość, and as a result, the irreparable dissolution of the Polish-Jewish world.20 When interpreting these novels the metonymy category, introduced into literary studies in the context of the Shoah by Marta Cuber-Tomczok21, can be helpful. Szewc uses metonymy perfectly. He contemplates a particular moment in time, which in a second will pass away. In a paradoxical gesture, on the one hand the author saves the Polish-Jewish world, but on the other, he annihilates it. The same situation takes place in Paziński’s story, in which the author invites his readers to the land of Nothingness. This land is a metonymically created vacuum, in which the narrator begins his very secret narration without a story line, as in the book of Genesis. He says: “Na początku były tory kolejowe” (“In the beginning there were railway tracks” – yet, the word “tory”, which in Polish, of course, means “railway tracks”; he also elicits an involuntary association with the plural form of the noun Torah – in Polish “Tory”). The Jews were transported to gas chambers precisely by “tory” (railway tracks). This is the beginning of a new mythology and a new world – of “Poland without Jews”. Moreover, "In the beginning" are also the first words of Torah - in Hebrew “Bereshit”. 19 P. Szewc, Bociany nad powiatem, Kraków 2005, p. 95. The Polish-Jewish world is first of all a cultural and literary category. Cf. W. Panas, The Writing and Wound. On Polish-Jewish Literature, trans. Ch. Garbowski, in: Jewish Writing in Poland, «Polin. Studies in Polish Jewry», vol. 28, ed. by M. AdamczykGarbowska, E. Prokop-Janiec, A. Polonsky, S.J. Żurek, Oxford - Portland 2016, pp. 17-30. 21 Cf. M. Cuber, op. cit 20 The Shoah in Contemporary Polish Fiction * The four categories of transgression, pop-culture, history and metonymy have a completely different provenance. The first two come from aesthetics, the third one from historical discourse, and the last from literary studies. All of them, however, are useful when interpreting the world of contemporary Polish fiction about the Shoah. To be sure, awareness of the Holocaust in the case of all the writers discussed here is mediated; they strongly build on artefacts and archival sources rather than on their own experiences. Yet, as you can see, they try to understand the meaning of the Shoah and give it a new artistic shape. Abstract Sławomir Jacek Żurek The Shoah in Contemporary Polish Fiction (after 1989) This article takes a look at contemporary Polish prose dealing with theme of the Shoah. “Contemporary”, in this case, means fiction published in the 1990s and after the year 2000, thus already in the twenty-first century. It therefore comprises the last twenty-five years. The fundamental categories used here in the analyses of texts, are the memory and post-memory of the Shoah. The authors who have published works over the last twenty five years have either been witnesses of these events (i.e. Children of the Holocaust), or – more often – representatives of the second or third generation after the Shoah. In this article, contemporary Polish fiction will be exemplified by the prose of Marek Bieńczyk, Piotr Szewc, Igor Ostachowicz, Mariusz Sieniewicz and Piotr Paziński. Analysis contains four categories which structure both the world represented and the form of the prose: transgression, pop-culture, history and metonymy. Keywords: Contemporary Polish prose, Shoah, Transgression, Pop-culture, History, Metonymy, Memory, Post-memory «pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», (VII) 7, 2016, pp. 187-195 195 RECENSIONI Walenty Neothebel, Acrostichis własnego wyobrażenia kniaża wielkiego moskiewskiego, cura e redazione di Grzegorz Franczak, Biblioteka Dawnej Literatury Popularnej i Okolicznościowej, t. XXV, Wydawnictwo Naukowe Sub Lupa, Warszawa 2016 La collana “Biblioteka Dawnej Literatury Popularnej i Okolicznościowej” [Biblioteca della Letteratura Antica Popolare e d’Occasione], recensita da Jacek Głażewski sul numero passato di questa rivista (6, 2015, pp. 199-204), si è arricchita di un nuovo volume. Si tratta di un componimento in versi scritto dal pastore luterano Walenty Neothebel, stampata nel 1581 presso l’editore Melchior Nehring. Il titolo comincia con Acrostichis, appunto perché i versi iniziali e quelli finali contengono un acrostico (rispettivamente il nome dell’autore e quello di re Stefan Batory). L’opera è significativa anche dal punto di vista della storia del libro in Polonia, in quanto fu il primo volume in polacco stampato a Toruń, città che risentiva di influenze sia tedesche sia polacche. Acrostichis è un’opera poetica di 890 versi, preceduta da un prologo in prosa contro Ivan il Terribile. Il curatore, Grzegorz Franczak, nel lungo saggio introduttivo colloca questo componimento nel contesto della propaganda antimoscovita che accompagnò le campagne militari dei tempi di Stefan Batory contro la Moscovia. Il poemetto intendeva infondere coraggio alle truppe, ma anche influenzare l’opinione pubblica, in particolare per convincere la szlachta ad accettare gli oneri derivanti da questi conflitti. L’opera si inserisce nell’ampio dibattito rinascimentale svoltosi attorno al concetto di “guerra giusta”, nel caso specifico particolarmente rilevante, in quanto si trattava di combattere contro un paese cristiano, ancorché, per usare la terminologia dell’epoca, “scismatico”. Alla luce di queste circostanze la demonizzazione del nemico diventava parte importante delle strategie di combattimento. Nella retorica della Polonia dell’epoca, l’accusa di tendenza alla tirannide si rivelava un argomento particolarmente efficace e sfruttato nelle polemiche di ambiti diversi (da quelle politiche a quelle religiose), soprattutto da parte dei protestanti. Franczak illustra con un’accurata verifica delle fonti il modo in cui era costruita dall’autore l’immagine dell’avversario, richiamando l’attenzione sull’uso di testi preesistenti. In particolare, viene sottolineata la dipendenza dalla celeberrima Sarmatiae Europeae descriptio del veronese polonizzato Alessandro Guagnino, pubblicata per la prima volta nel 1574, fonte considerata all’epoca fra le più autorevoli e attendibili sulla Moscovia. Il curatore però evidenzia il rapporto spesso dimenticato fra il libro di Guagnino e la relazione approntata da Albert Schlichting, un tedesco di Pomerania che aveva trascorso a Mosca gli anni dal 1564 al 1570. Proprio questa relazione sarebbe stata una delle fonti sfruttate da Guagnino. Il complesso intrico intertestuale delineato da Franczak offre un quadro esaustivo dei modelli di costruzione della narrazione storica e geografica dell’epoca, delle modalità di creazione dell’immagine dell’Altro e dell’atteggiamento piuttosto libero di quel periodo verso le fonti utilizzate. A dispetto di ogni assicurazione, Neothebel è molto lontano da una narrazione originale e storicamente esatta: attinge ai lavori altrui a piene mani e acriticamente, confondendo le date e le circostanze degli eventi narrati, attribuendo a Ivan IV episodi che in realtà erano da ricondursi ad altri. Del resto, la ricerca della verità non rientrava fra gli obiettivi dell’autore, che desiderava invece creare l’immagine di uno zar che fosse il concentrato della barbarie. E vi riuscì benissimo: Ivan il Terribile è rappresentato come una figura monolitica, sempre circondata da diavoli, impegnata con sadismo a escogitare sempre nuovi supplizi a cui 199 PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI / (VII) 7 / 2016 200 sottoporre gli oppositori, uno stupratore, un sanguinario e bestiale assassino attorniato da una masnada di truppe speciali (gli opričniki) simili a lui. Il trattamento dei personaggi come figure monolitiche, la presenza di concetti astratti personificati (per esempio la Coscienza) e l’introduzione di monologhi recitati da soggetti diversi hanno fatto ravvisare al curatore una somiglianza col genere medievale della “moralità”; egli conia così la definizione di “moralità politica” per definire quest’opera, che, in effetti, contiene sì l’esortazione a comportarsi da buoni cristiani ascoltando la voce della coscienza, ma principalmente mira a suscitare indignazione contro il crudele tiranno combattuto dall’eroico re Stefan. L’altro genere a cui attinge questo singolare componimento è la pasquinata. Dal punto di vista artistico, certamente Acrostichis non è un capolavoro, ma è perfettamente in linea con il carattere della collana, che si propone di rendere accessibili scritti che non rappresentino i vertici della produzione artistica, bensì la mediocrità che rifletteva la mentalità dell’epoca e che poteva dare un’idea dell’opinione pubblica del periodo. L’edizione curata da Franczak è pregevole per diversi motivi. Il testo è edito con rigore scientifico e accompagnato da un apparato di note che consente di ricostruire gli eventi e i testi presi a modello e che aiuta, come il glossario finale, a comprendere il significato di diverse parole ed espressioni fraseologiche che caratterizzano la lingua ostica di Neothebel, talvolta di difficile comprensione anche per chi ha dimestichezza con il polacco dell’epoca. È presente anche un’appendice in cui sono pubblicati altri due testi: un epitalamio scritto da Neothebel e un componimento poetico in onore del suo compleanno. Entrambi i testi sono in latino con a fronte un’ottima traduzione in polacco fatta dal curatore. Il saggio introduttivo, già menzionato, oltre a contestualizzare l’opera, rettifica anche le conoscenze pregresse già scarse sull’autore, puntualizzando, per esempio, con prove documentali il suo luogo di nascita (Lipsia). Non resta che auspicare che giunga presto a compimento anche l’edizione della citata relazione di Schlichting, sempre ad opera di Franczak, per la stessa collana, col testo polacco e latino. Senz’altro fornirà materiale utile per comprendere meglio le peculiari caratteristiche di quella che possiamo deifinire come una specifica “intertestualità” dell’epoca trattata. [Viviana Nosilia] Drogi duchowe katolicyzmu polskiego XVII wieku, a cura di Alina Nowicka-Jeżowa, Seria “Kultura Pierwszej Rzeczpospolitej w dialogu z Europą” – Hermeneutyka wartości, t. VII, Wydawnictwa Uniwersytetu Warszawskiego, Warszawa 2016 Con esemplare regolarità appaiono i volumi di questa Seconda Serie di studi sulla storia e la cultura della Repubblica delle Due Nazioni, ossia quella Federazione polacco-lituana che dominò la scena politica e culturale dell’Europa orientale fino al Settecento e che in realtà – come appare da molti articoli e interi volumi dedicati da questa collana all’argomento – comprese anche le vastissime regioni che oggi fanno parte di Ucraina, Lituania e Bielorussia. Una lettura anche superficiale dei titoli della Prima e di questa Seconda Serie fa comprendere quanto il termine “cultura” vada inteso nel senso più ampio e nelle accezioni di intertestualità e pluralismo concettuale che gli hanno conferito le più moderne impostazioni metodologiche venute da ogni area geografica, dalla RECENSIONI Francia al mondo anglosassone, dalla Germania all’Italia, alla Polonia e agli altri paesi dell’Est europeo. Nella Seconda Serie della Collana, il volume VII qui presentato approfondisce le varie forme e manifestazioni che caratterizzarono il cattolicesimo polacco in epoca post-tridentina. Lo studio introduttivo della curatrice è seguito da un saggio dedicato alle correnti che esprimevano atteggiamenti di scetticismo e negazione (M. Hanusiewicz-Lavallee), al giansenismo e cartesianesimo (M. Chodyko), alle forme di meditazione dei gesuiti e di devozione dei francescani (A. Kapuścińska), ai modelli di “vita attiva” di oratoriani e ordini di S. Vincenzo (P. Urbański, B. Puchalska-Dąbrowska), alla produzione letteraria degli ordini carmelitani, in particolare alla loro scrittura femminile (A. Nowicka-Struska, J. Gwioździk), e a due personaggi profondamente diversi fra di loro ma di analoga dimensione europea come St. Papczyński (W. Pawlak) e St. H. Lubomirski ( J. Dąbkowska-Kujko). Questa pubblicazione, interamente dedicata all’approfondimento della religiosità e del pensiero cattolici, va però considerato all’interno di tutta la Serie, prevista in 12 volumi. Essa è stata infatti preceduta da tomi dedicati ai rapporti culturali della Rzeczpospolita con i paesi del Nord e del Sud (vol. I-II), alle più importanti forme di pensiero e di pratica politica (vol. III), al monachesimo, alla teologia e all’attività pastorale (vol. IV-V), alle caratteristiche storiche e culturali dell’epoca che segue il Concilio di Trento (vol. VI). Certamente si riflette in questo tomo e in quelli precedenti già pubblicati l’interesse ben noto alla critica che la curatrice dell’intera serie ha sempre manifestato per l’approfondimento degli studi sulla religione e la spiritualità (ricordiamo i seminali studi che A. Nowicka-Jeżowa dedicò alle espressioni letterarie e filosofiche della morte, del platonismo, della meditazione spirituale negli anni ’80 del XX secolo quando questi temi erano decisamente meno favoriti dal regime e dal mondo accademico nazionale polacco, ma anche internazionale). Tuttavia, come già in quegli anni, A. Nowicka-Jeżowa non finisce di sorprendere per l’ampiezza della sua curiosità intellettuale e per l’onestà e l’equilibrio che dimostra affrontando lo studio di tutte le correnti e gli aspetti della letteratura e della cultura premoderna. Ciò risulta evidente anche dalla lista dei volumi che sono già perfettamente programmati e vedranno la luce con rapida successione, l’VIII, il IX e il X dedicati rispettivamente al Luteranesimo, alle altre correnti evangeliche e all’Antitrinitarismo polacco. Significativamente l’intero volume XI sarà dedicato alla storia e cultura religiosa delle popolazioni ortodosse e grecocattoliche, e l’ultimo affronterà il complesso e delicato problema del passaggio dalla tradizione premoderna a quella moderna iniziata dall’Illuminismo settecentesco. Come si vede da questo elenco, la pubblicazione dedicata alle varie strade percorse dal cattolicesimo nella ricerca di quei “valori spirituali” che danno il titolo a tutta la Serie (Hermeneutyka wartości, Ermeneutica dei valori), si inserisce in una visione ampia che non perde di vista il più vasto contesto di tutta l’Europa, le varie manifestazioni della cultura spirituale ed ecclesiastica, della cultura politica, della diversità conflittuale fra religioni e tendenze, della crisi della modernità. L’ampiezza degli orizzonti ermeneutici della curatrice e dei suoi collaboratori (in particolare va menzionata M. Hanusiewicz-Lavallee, che ha affiancato Nowicka-Jeżowa in tutto il percorso di queste serie e senza la quale forse il progetto non poteva giungere alle attuali proporzioni e qualità) risulta più evidente tenendo conto che questa Seconda Serie rappresenta una continuazione e approfondimento degli argomenti trattati dalla Prima. Del contenuto e della portata intellettuale, ermeneutica ed interpretativa della Prima Serie danno testimonianza già i primi due volumi programmatici, stampati nel 2009-2010 a Varsavia col titolo Humanitas. Projekty antropologij humanistycznej [Humanitas. Progetti di antropologia umanistica]. La 201 PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI / (VII) 7 / 2016 202 prima parte (vol. I), che porta il sottotitolo “Paradygmaty – Tradycje – Profile historyczne” [Paradigmi – Tradizioni – Profili storici] crea la cornice destinata a inquadrare gli approfondimenti e i contributi specialistici sui più significativi fenomeni, personaggi ed episodi della cultura polacca premoderna: A. Nowicka-Jeżowa (pp. 11-135) espone le scelte metodologiche sulle quali si basa il progetto, le principali linee di studi precedenti e il piano generale, articolato in tre sezioni (“Le sintesi”, “Inedita” e “Polonika” [sic!] in edizioni critiche); J. Domański, W. Pawłak e M. Lenart presentano alcuni concetti chiave della cultura del XV-XVII sec. (la Paideia e la humanitas di Cicerone, l’evoluzione del concetto di humanitas) e “figure-mito” come il cavaliere, il pellegrino, il re, l’amore e la perfezione, il piacere e la virtù (pp. 137-253). Alla dialettica fra l’ampio contesto della respublica litterarum e la specificità della latinitas nobiliare polacca dedicano i loro studi specialisti del calibro di S. Graciotti e J. Axer (pp. 255-286). L’ultima sezione (pp. 287-613) è affidata alla penna della curatrice e di ben noti specialisti (K. Ziemba, M. Hanusiewicz-Lavallee, M. Cieński, M. Kalinowska, M. Masłowski, E. Paczowska, P. Dybeł) che si soffermano sulla declinazione della humanitas, quale essa risulta in varie epoche da Kochanowski al Romanticismo e al Positivismo, fino alla decostruzione fattane dal Modernismo e nel XX secolo. Più precisamente all’articolazione e allo sviluppo delle correnti filosofiche è dedicata la seconda parte (vol. II), nella quale il lettore trova delle sintesi preziose sull’aristotelismo e il neoplatonismo, lo stoicismo e l’epicureismo seguiti nella loro evoluzione dal Rinascimento polacco fino al momento della sua (reale o solo supposta?) crisi nel XX secolo. Di questa seconda parte sono autori D. Facca, M.M. Kacprzak, M. Eder e M. Wojtowska-Maksymik, P. Urbański, J. Dąbkowska-Kujko, E. Lasocińska, E. Kiślak, U. Kowalczuk, P. Dybeł. Mi sono soffermata su questi due volumi che a suo tempo inaugurarono la Prima Serie della collana, e su un elenco di nomi e di temi in essi affrontati, pur essendo ben conscia che essi non sono sufficienti a rendere giustizia alla varietà degli argomenti e delle diverse angolature della materia trattata tanto negli altri volumi della Prima Serie, quanto in quelli della Seconda che è stata stimolo a scrivere questa recensione. Ogni articolo ed ogni parte o sezione offre una visione d’insieme delle principali idee, dei conflitti, degli orientamenti filosofici e religiosi, del pensiero politico e sociale, della cultura e dei miti che costituiscono le varie tessere del complicato mosaico chiamato “Respublica delle Due Nazioni”, con le sue propaggini evolutive che portano alla contemporaneità. In tutti i contributi si trovano però anche informazioni importanti su singoli personaggi, che costituiscono esemplificazioni concrete e furono portatori delle idee e delle formanti della suddetta visione d’insieme. Al vol. VII della Seconda Serie qui brevemente descritto si renderà quindi giustizia considerandolo all’interno della complessità del quadro generale che risulta dall’attuazione del progetto ideato e guidato con instancabile energia e mano ferrea da Nowicka-Jeżowa. L’opera nel suo complesso non è una storia della letteratura o della cultura, non è un’enciclopedia, non è una semplice raccolta di studi dedicati agli argomenti cui abbiamo accennato. È qualcosa di profondamente nuovo perché applica a una messe di dati estremamente ampia delle griglie strutturali e delle metodologie interpretative molto moderne e attuali, sfruttate non in maniera pedissequa ma con grande flessibilità e intelligenza, adattate alla realtà culturale, socio-politica e filosofica della Polonia, per meglio dire della Federazione polaccolituana, caratterizzata da una varietà etnica, linguistica, confessionale e culturale che, nonostante la pressione cattolica post-tridentina e polonocentrica, sopravvisse fino alle Spartizioni (e parzialmente fino al 1939). Dai volumi delle due serie della collana risulta un quadro poliedrico ma strutturalmente organizzato di idee, opere e scrittori che hanno creato una realtà “polacca” RECENSIONI ricca e varia, profondamente originale e specifica, ma anche totalmente “europea”. Un unico rammarico: quest’opera meriterebbe di comparire nelle sale di consultazione di ogni biblioteca ampiamente umanistica del mondo. Com’è ovvio e naturale essa è scritta in polacco: per questo esiste il serio rischio che essa resti inaccessibile al maggior numero di potenziali lettori. Ci auguriamo ciò nonostante che riesca a circolare nel mondo scientifico internazionale e a fornire a studiosi e lettori di ogni paese informazioni utili per inserire la conoscenza della ricchezza della humanitas polacca in quella della tradizione umanistica rinascimentale di tutto il mondo occidentale a cui la cultura polacca appartiene e al cui sviluppo ha dato un contributo fondamentale, troppo spesso ignorato dagli studiosi della tradizione rinascimentale d’Europa e d’America. I mezzi d’informazione bibliografica oggi non mancano e “cliccando” alcuni dei nomi che ho appositamente citato si può risalire a molti altri e ai contributi dei rispettivi specialisti. Sarebbe forse utile, tuttavia, se un prospetto e una breve sintesi illustrativa dell’intero progetto venisse inserito, in inglese e altre lingue occidentali, in uno dei grandi data base cui oggi ogni studioso fa riferimento: questo forse favorirebbe una più ampia diffusione delle amplissime conoscenze veicolate dai volumi che abbiamo qui sommariamente e purtroppo solo parzialmente descritto. [Giovanna Brogi] Lena Seauve, Labyrinthe des Erzählens. Jean Potockis Manuscrit trouvé à Saragosse,Winter Verlag, Heidelberg 2015 Sono trascorsi dodici anni dalla pubblicazione dei primi tre volumi delle opere di Jan Potocki per i tipi di Peeters e della biografia dello stesso, uscita per Flammarion, entrambi frutto delle ricerche congiunte di una coppia formidabile di studiosi, François Rosset e Dominique Triaire. Ai primi tre volumi, contenenti i Voyages (i primi due) e il teatro, gli scritti storici e politici (il terzo), hanno fatto seguito nel 2006 altri due titoli, il romanzo Manuscrit trouvé à Saragosse, pubblicato in due versioni, quella incompleta del 1804 e quella del 1810 (volumi IV, 1 e IV, 2) e infine il quinto volume contenente la corrispondenza. L’edizione critica delle opere (la prima nella storia) e la biografia di quello che senza dubbio va considerato come uno dei massimi scrittori della letteratura europea, oltre ad essere uno dei più grandi viaggiatori nella storia umana, ingegno multiforme e uomo di somma erudizione, è un evento di dimensioni storiche che ha cambiato irreversibilmente la nostra immagine del panorama letterario dell’epoca di passaggio tra tardo illuminismo e primo romanticismo. La scoperta, fatta dai due studiosi, di manoscritti finora ignoti del romanzo conservati negli archivi di stato di Poznań, assieme a un’attenta opera di collazione di tutti i documenti, autografi e non, del romanzo, ha permesso di stabilire ben tre tappe di formazione del Manuscrit (1794, 1804 e 1810), con la conseguente pubblicazione delle due ultime versioni come varianti d’autore di pari valore letterario. Questa edizione in due varianti ha definitivamente squalificato le precedenti, quella incompleta di Roger Caillois (1958) e quella “completa” di René Raddrizzani (1989), quest’ultima integrata per le parti di cui mancava l’originale francese con la traduzione polacca profondamente rimaneggiata di Edmund Chojecki. La nuova edizione ha dunque costretto il pubblico degli studiosi e dei lettori a rileggere il romanzo come fosse un’opera nuova. Fortunatamente per Potocki e per tutti noi la pubblicazione di questi testi fondamentali 203 PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI / (VII) 7 / 2016 204 (mi riferisco ovviamente sia ai testi primari che a quelli secondari, mai come in questo caso di pari importanza e dignità) invece di porre fine, come spesso accade, a un’epoca di ricerche durata almeno tre lustri, ha richiamato al contrario una nuova generazione di studiosi, inaugurando così, senza soluzione di continuità con il primo, un secondo rinascimento di studi potockiani. Questa seconda stagione di studi ha portato ulteriori sensazionali scoperte ed è a tutt’ora in piena fioritura. Sono stati ritrovati interi nuovi blocchi di corrispondenza, scritti di contenuto politico, saggi di geologia. Il genio di Jan Potocki è come un vulcano che si riattiva dopo due secoli e riprende ad eruttare. Molto probabilmente altre sorprese ci aspettano. A tutto ciò si accompagna, come era inevitabile, un rinnovato interesse critico e storiografico di dimensioni veramente europee che dai paesi francofoni passa per l’Italia e la Polonia per raggiungere la Norvegia e la Germania. Nell’ultimo decennio infatti sono usciti vari studi sul Manuscrit, che per forza di cose sono anche i primi saggi critici a tener conto della nuova situazione editoriale del romanzo. Tra questi non posso non citare: Luc Fraisse, Potocki et l’imaginaire de la création, Presses de l’Université Paris-Sorbonne, Paris 2006; Marius Warholm Haugen, Jean Potocki. Esthétique et philosophie de l’errance, Peeters, Leuwen 2012; Isabella Mattazzi, Il labirinto cannibale. Viaggio all’interno del Manoscritto trovato a Saragozza di Jean Potocki, Arcipelago ed., Milano 2007. Infine sette convegni hanno riunito il team internazionale degli studiosi di Potocki, rispettivamente nel 2007 (Montpellier), nel 2008 (Cracovia), nel 2009 (Kiev), nel 2012 (Toulouse) e nel 2015, anno del bicentenario della morte (Łańcut, Francoforte sul Meno, Parigi). Gli atti dei rispettivi convegni (solo quelli di Kiev hanno avuto vicende editoriali sfavorevoli e stanno infine per uscire assieme agli atti di una delle conferenze del 2015) sono altrettante raccolte di studi: Jean Potocki ou le dédale des Lumières, a cura di François Rosset e Dominique Triaire, Presses universitaires de la Méditerranée, Montpellier 2010; Jean Potocki à Nouveau, a cura di Émilie Klene, Rodopi, Amsterdam 2010; Jean Potocki. Pérégrinations, a cura di Kinga Miodońska-Joucaviel, Presses universitaires du Mirail, Toulouse 2013. Oltre alle comunicazioni degli studiosi, essi hanno avuto il merito di rendere accessibili quasi in tempo reale le scoperte di nuovi testi che nel frattempo erano venuti alla luce. Sono infine in preparazione gli atti delle tre conferenze tenutesi lo scorso anno in occasione del bicentenario della morte dello scrittore (le comunicazioni di Łańcut e di Parigi usciranno in un unico volume). In questo imponente panorama editoriale non esisteva ancora una monografia sul Manuscrit in lingua tedesca (l’unica era una tesi di dottorato del 1982). Questa è infine arrivata alla fine dell’anno del bicentenario. Labyrinthe des Erzählens di Lena Seauve, francesista alla Humboldt-Universität di Berlino, il saggio che qui presentiamo, vuole essere un tentativo innovativo di abbandonare il tradizionale approccio intertestuale al romanzo, che aveva avuto in René Raddrizzani uno dei suoi principali rappresentanti e ne aveva favorito una lettura in chiave postmoderna, a favore di un metodo che si avvale di strumenti concettuali mutuati dalla teoria della letteratura quale il concetto di modello e di citazione di modello (Modellzitat) nonché di entrelacement, ques’ultimo evidentemente inteso come termine tecnico ben noto ai medievisti di area romanza, ma anche agli italianisti studiosi dei poemi cavallereschi, ad indicare l’intreccio delle trame, continuamente sospese e riprese, ed adattato alla peculiare struttura narrativa del Manuscrit. Come scrive la studiosa (p. 19): “Rispetto alle ricerche intraprese sinora intorno all’intertestualità del Manuscrit, il metodo cui aspiriamo presenta il vantaggio di puntare meno al rinvenimento di singole referenze testuali, cosa che – come si mostrerà più avanti – nel caso di Potocki è spesso difficilmente realizzabile. Il Manuscrit trouvé à Saragosse, questa è la tesi di RECENSIONI partenza della presente ricerca, si richiama meno a singoli testi o a tradizioni di genere letterario, quanto a schemi narrativi ricorrenti che qui verranno definiti modelli letterari”. Il concetto di modello letterario dunque, cruciale per la comprensione del metodo qui impiegato, è anche lo strumento meno perspicuo al lettore non avvezzo ai territori specialistici della teoria letteraria e quello che più richiede di essere definito, anche perché nell’accezione qui proposta esso costituisce una novità. Ciò avviene all’inizio del capitolo IV, dove viene riconosciuta la filiazione architettonica del concetto di modello inteso sia come riproduzione semplificata di una realtà preesistente che come modellino (francese maquette) di un edificio da costruire. Dal momento che la sua applicazione alla letteratura è una novità, esso va inteso in questo senso come un neologismo. L’obiezione che facilmente si può avanzare è che il modello è un concetto estraneo alla poetica dell’epoca in cui Potocki si trovò a operare. Tuttavia Seauve premette fin dall’inizio che il modello va inteso come una costruzione euristica trasversale ai generi letterari, pertanto, come in ogni teoria scientifica, va giudicato solo in base alla sua maggiore o minore efficacia ai fini della descrizione dell’oggetto di studio. Secondo la studiosa dunque i modelli (Modelle) riproducono oggetti, processi o stati esistenti e costituiscono a loro volta i prototipi (Vorbilder) per nuove realizzazioni. Il modello si troverebbe così a mediare tra la realtà e l’opera letteraria. Questa infatti non imiterebbe più la realtà bensì il suo modello. Ciò che essi rappresentano non è la realtà, bensì strutture, forme e contenuti di testi letterari. A titolo di esemplificazione la studiosa riporta il modello del giovane che parte in cerca di avventure, un motivo rinvenibile sia nel romanzo cavalleresco, che in quello picaresco, di formazione ecc. “Il modello letterario […] costituisce un momento di passaggio tra un gruppo di singoli testi storicamente preesistenti e un nuovo singolo testo, nel quale esso trova nuova realizzazione, ovvero viene individualmente formato per mezzo di diverse trasformazioni” (p. 98). Il modello però, “a differenza del testo/dei testi di partenza e della sua attuale realizzazione non possiede alcuna concreta forma fenomenica letteraria, bensì può assumere forme diverse in quanto parte costitutiva di un metadiscorso: da un costrutto immaginario, non fissato per iscritto, prodotto dall’autore e/o dal lettore, fino a una poetica normativa come quella della doctrine classique sono pensabili innumerevoli varianti, nelle quali intervengono modelli” (p. 99). Svincolando così il modello da un genere letterario preciso l’autrice ritiene di rendere meglio ragione della fitta trama di riferimenti testuali che da sempre hanno suscitato l’interesse degli studiosi. Il vantaggio inoltre di incentrare l’analisi sui modelli deriva anche dalla loro maggiore stabilità rispetto ai generi letterari i cui confini sono spesso labili e tendono a mutare col tempo. In particolare nei tre capitoli centrali del saggio vengono prese in analisi tre tradizioni narrative che hanno prodotto modelli peculiari sia dal punto di vista del contenuto che della forma e della struttura: la novellistica, il romanzo picaresco e il romanzo gotico. Nel capitolo sulla novellistica l’autrice si interroga sul valore edificante (e dunque sulla funzione parenetica) dei racconti. In quello sul romanzo picaresco indaga il racconto menzognero, cioè lo statuto del narratore inaffidabile e come la consapevolezza dell’inganno possa o meno influire sulla ricezione della narrazione (nel patto tra narratore e destinatario della narrazione possono essere altri i criteri di valutazione di una storia, non necessariamente solo quello della sua verità). Il tema del capitolo sul romanzo gotico infine verte sull’inspiegabile e sul sovrannaturale. Alla domanda sullo statuto dell’inspiegabile si avrà una risposta alla fine del romanzo che, in piena sintonia con il razionalismo settecentesco, smaschererà la finzione, senza peraltro metterne in discussione il valore. La scelta di questi tre modelli è evidentemente parziale, ma non arbitraria, dal momento che numerosi modelli rinvenibili in altri generi possono essere ricondotti a questi tre. 205 PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI / (VII) 7 / 2016 206 Richiamandosi alla riflessione di Andreas Böhn, al concetto di modello viene affiancato quello di citazione, citazione di un modello, il cui scopo non è quello di riprendere una forma del passato, ma al contrario di sottolineare una differenza, di dar luogo a una riflessione critica sulle stesse. Il confine tra la realizzazione di un modello e la sua citazione è labile. In questa prospettiva il riutilizzo del concetto di entrelacement in riferimento al romanzo di Potocki viene ad assumere una valenza nuova rispetto al contesto medievistico da cui è stato mutuato, quella appunto di entrelacement di modelli e di citazioni su cui si fonderebbe la struttura del Manuscrit. A questo aggiungiamo la funzione della cornice narrativa che nel romanzo di Potocki non si limita a quella di introduzione, come avveniva ad esempio nella novellistica del passato (basti pensare al Boccaccio), bensì interviene nel cuore stesso delle narrazioni per effetto della moltiplicazione dei narratori ai vari livelli e per il fatto che ogni racconto viene sempre fatto per un concreto destinatario che spesso interviene interrompendo per commentare o, se non lui, altri ascoltatori. Dalla combinazione di citazioni, entrelacement e cornice nasce una rete di molteplici riferimenti che permettono di organizzare il testo a vari livelli. Inoltre in questo modo la ricezione delle storie narrate viene ulteriormente messa in scena, visto che i narratori e gli ascoltatori portano avanti un discorso di carattere metatestuale che mima e influenza la ricezione del lettore esterno. Questi è invitato a una notevole autonomia nell’interpretazione che si fonda tutta sulla capacità di combinazione. Non esiste una sola interpretazione giusta nel senso di intentio auctoris. L’analisi della funzione dei modelli e dell’entrelacement, che occupa il cuore dello studio, è preceduta da due capitoli introduttivi (il secondo e il terzo), ma di fondamentale importanza, nei quali vengono trattati rispettivamente il rapporto di Potocki e del suo Manuscrit (la distinzione allude ai concetti di intentio auctoris e intentio operis di echiana memoria) con il genere del romanzo e la tematizzazione dell’atto del narrare. È qui che l’autrice si pone la domanda cui darà piena risposta solo alla fine dello studio, cioè: se e come Potocki nella scrittura del Manuscrit abbia tenuto conto della coeva poetica del romanzo. Significativa è in questo senso l’analisi di come vengano presentati i personaggi che leggono romanzi nel Manuscrit. Con sottile e ironica allusione a opinioni correnti nel XVIII secolo si gioca con la presunta nocività del genere romanzesco e allo stesso tempo il Manuscrit è strutturalmente disseminato di procedimenti volti ad impedire l’identificazione con i personaggi caratteristica dello stereotipo romanzesco e a favorire il distacco critico nei confronti delle vicende narrate. Anche il capitolo dedicato alla tematizzazione del narrare affronta il ruolo che svolgono i vari livelli della narrazione per favorire questo complesso procedimento di straniamento e distaccamento del lettore: la comunità dei narratori, i narratori interni, i commentatori e infine il lettore implicito, un concetto mutuato da uno studio di Wolfgang Iser, che nel romanzo di Potocki è strettamente legato ai commentatori (in particolare Rébecca e Velasquez). Questi infatti sono dei lettori fittizi che in più di un’occasione incarnano ricezioni stereotipate delle storie narrate. La loro funzione non è quella di guidare la ricezione del lettore, ma al contrario di renderlo vigile e di stimolarlo a prendere una posizione propria, distinta dalla loro. Nell’accattivante interpretazione di Lena Seauve i Gomelez sono una comunità di narratori, il processo di iniziazione di Alfonso è un’iniziazione alla lettura e alla capacità di riconoscere i confini tra realtà e finzione, il metallo che viene estratto nella miniera dei Gomelez e sul quale si fonda la loro potenza “sono le storie che possono essere intrecciate in sempre nuove combinazioni a partire dai modelli delle tradizioni narrative europee ed extraeuropee. Alfonso viene introdotto nell’arte del racconto e come erede di narratori di storie fonda una nuova, inesauribile tradizione narrativa, la cui base alla fine del romanzo depone in forma di manoscritto nella cassette de fer RECENSIONI presso la famiglia di banchieri Moro” (p. 243). Rimane forse solo il rimpianto che l’autrice non abbia sfruttato di più nella sua interpretazione le differenze strutturali tre le due versioni del romanzo, quella del 1804 e quella del 1810. È vero che questa decisione viene annunciata e adeguatamente motivata all’inizio del libro (del resto in più di un’occasione la studiosa non manca di fare riferimento alle differenze tra l’una o l’altra versione) e tuttavia in questa scelta di basarsi sostanzialmente sulla versione del 1810 si ha l’impressione che si sia persa un’occasione per provare a capire meglio cosa muti con il nuovo riordinamento della narrazione nella seconda versione, dato che uno dei cambiamenti più macroscopici di questa è proprio una notevole semplificazione dell’entrelacement. Ma forse questo può essere il tema per un prossimo studio. [Emiliano Ranocchi] Alessandro Amenta, Le parole e il silenzio. La poesia di Zuzanna Ginczanka e Krystyna Krahelska, Aracne Editrice, Roma 2016 Nel libro Le parole e il silenzio. La poesia di Zuzanna Ginczanka e Krystyna Krahelska, pubblicato recentemente nella nuova e promettente collana “Polonica”, edita da Aracne Editrice, Alessandro Amenta analizza in chiave comparativa la produzione poetica di due poetesse polacche di talento: Zuzanna Ginczanka (1917-1944) e Krystyna Krahelska (1914-1944). Benché in Italia il nome di Krystyna Krahelska risulti ancora pressoché sconosciuto, quello di Zuzanna Ginczanka non è del tutto nuovo. Nel 2011, infatti, è uscita in lingua italiana una raccolta di poesie di Ginczanka dal titolo Krzątanina mglistych pozorów / Un viavai di brumose apparenze (Austeria, Cracovia-Budapest 2011), nella traduzione di Amenta. E ancora nel 2014 è stato dedicato alla poetessa il film documentario La poesia spezzata. Zuzanna Ginczanka 19171944, regia di Mary Mirka Milo, sceneggiatura di Amenta e Milo. Tragicamente scomparse in giovane età durante il secondo conflitto mondiale, le due poetesse sono divenute in patria figure emblematiche: Ginczanka è stata innalzata a simbolo dell’Olocausto e del tragico destino del popolo ebraico, mentre Krahelska è passata a personificare il sacrificio patriottico dei figli della Polonia durante la Seconda guerra mondiale. Ancora oggi le due poetesse funzionano nell’immaginario polacco come simboli di segno opposto: Ginczanka è percepita come la “bella ebrea”, estranea alla cultura polacca, oggetto di venerazione e al tempo stesso di ostilità; Krahelska, invece, è vista come eroina della patria in linea con la tradizione romantico-martirologica. Attorno alle loro vite si è venuto a creare un vero e proprio mito che per molto tempo ne ha eclissato l’opera, anche se, come nota l’autore nell’introduzione: “Da un lato questo mito ha garantito la sopravvivenza del loro ricordo nella memoria collettiva, dall’altro ha ostacolato o persino impedito una reale comprensione della loro opera poetica” (p. 15). Nel caso di Krahelska, per esempio, la maggior parte dei testi critici a lei dedicati presentano un carattere prettamente memorialistico e biografico, forniscono talvolta nuove notizie sulla sua vita, ma non sulla sua opera. Il saggio di Amenta si propone, dunque, da un lato di colmare questa lacuna e dall’altro di approfondire in un’ottica comparativa le due produzioni liriche, vagliando alcuni topoi ricorrenti nella poetica di entrambe le poetesse: urbanesimo e antiurbanesimo, mitologia e folclore, desiderio e soggettività femminile, religione e spiritualità, politica e storia. 207 PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI / (VII) 7 / 2016 208 In tal modo l’autore rivela interessanti analogie e sostanziali discrepanze, nonché le profonde connessioni esistenti tra l’opera delle due autrici e il contesto culturale dell’epoca. Ginczanka è autrice sia di satire sociopolitiche sia di un’opera poetica che inizialmente è influenzata da Bolesław Leśmian, dai poeti skamandriti e in seguito, dopo un breve periodo di sperimentazioni futuriste e dadaiste, è approdata al catastrofismo. Gli scritti di Krahelska includono i componimenti poetici, che sono ispirati al folclore popolare e all’universo fiabesco, e le canzoni patriottiche, che all’epoca riscossero grande popolarità tra i soldati della resistenza polacca. Alla guerra sono sopravvissuti circa centosettanta componimenti di Ginczanka: le poesie manoscritte contenute in due quaderni risalenti agli anni 1932-1934, che attualmente sono conservati presso il Museo della Letteratura di Varsavia, le liriche e le satire date alle stampe sulle riviste del tempo, i componimenti raccolti nel volume O centaurach [Sui centauri] e l’ultima poesia manoscritta [Non omnis moriar] composta durante la guerra. Negli anni 1991-1994, in Polonia è uscita l’edizione critica delle opere di Ginczanka a cura di Izolda Kiec, di cui nel 2014 è stata data alle stampe una nuova edizione. Della produzione poetica di Krahelska ci sono pervenute circa duecentocinquanta poesie contenute in alcuni quaderni e fogli manoscritti che sono custoditi nell’archivio privato di famiglia. La poetessa riuscì a far pubblicare solo due liriche sulla rivista «Droga pracy» nel 1938, mentre altre poesie uscirono postume in antologie e riviste. A decretare il successo di Krahelska fu la sua canzone patriottica Hej chłopcy, bagnet na broń! [Ehi ragazzi, baionetta in canna!, 1942], il cui scopo era quello di mantenere alto il morale fra i partigiani, ricordare lo scopo della battaglia e riaffermare il sentimento patriottico. La canzone riprende stilemi tipici dei canti legionari: il senso d’incertezza verso il futuro che non deve avvilire o suscitare paura, ma che invece deve essere accolto come un incoraggiamento a combattere. Quasi tutte le canzoni riprendono questo motivo popolare secondo cui, superato il torpore e la sofferenza, bisogna avere speranza nel futuro e impugnare in mano le armi e lottare. In tutte le sue canzoni Krahelska si ispira ai canti e alle musiche tradizionali, come nel caso delle liriche Kujawiak (1941) e Kołysanka [Ninnananna, 1941]. In esse la poetessa ricorre spesso a metafore e similitudini naturalistiche per menzionare la guerra. Lo stesso modus operandi è ravvisabile nella poesia di Ginczanka, dove il conflitto è trasfigurato sempre in modo metaforico e allegorico, mediante visioni apocalittiche in linea con le rappresentazioni del mondo dei catastrofisti. In diversi componimenti le sorti del paese e il suo destino personale incerto vengono raffigurati con l’allegoria romantica di una nave in mezzo a un mare in tempesta. Questa immagine, molto probabilmente di ascendenza mickiewiczana, compare per la prima volta nella poesia Żegluga [Navigazione, 1936], contenuta nella raccolta O centaurach, in cui un novello Noè “su una nera ermetica arca” si trova in balia di uno spaventoso diluvio. Il pericolo avvertito all’orizzonte desta negli animi sgomento, anche se persiste ancora una fievole speranza di salvezza, un approdo in una terra edenica di meli in fiore. Il motivo della primavera associata alla guerra compare anche in una poesia di Krahelska, Wiosna zawiedzionych [La primavera dei delusi, 1940], in cui l’angoscia e la disillusione scaturiscono da una stagione primaverile – ossia la fine dei combattimenti – che non accenna ad arrivare. Questo topos fonda le sue radici nell’ammirazione che le due poetesse nutrono per la natura, che diventa specchio dei loro stati d’animo, delle loro emozioni, dei loro amori, della loro gioia di vivere, ma anche delle loro angosce, dei loro turbamenti e delle loro delusioni. Al contrario della grigia e alienante metropoli, la natura costituisce uno spazio familiare, rassicurante e un universo sereno, umano e pieno di vitalità. Al motivo bucolico viene affiancato RECENSIONI il recupero delle tradizioni, della storia, del folclore e delle radici rurali polacche. Benché la natura venga rappresentata in modo diverso dalle due poetesse, in maniera simbolica in Ginczanka e descrittiva e metaforica in Krahelska, per entrambe l’ambiente naturale si carica di significati metafisici o di fascinazione sensuale. Il sensualismo di stampo leśmianiano, soprattutto di W malinowym chróśniaku [Nella macchia di lamponi, 1920], affiora in Wiśnie i słowa [Ciliegie e parole] e [Kalinowym mostem chodziłam] [Su un ponte di viburno camminavo] di Krahelska e nell’immagine dell’ovario inturgidito dei fiori ravvisabile in Bunt piętnastolatek [La rivolta delle quindicenni, 1933] di Ginczanka. Nella poesia di quest’ultima il frutto che matura è un’immagine particolarmente ricorrente, si pensi a La-lita szuka serca [La-lita cerca un cuore, 1932] e Powieść dla młodzieży [Romanzo per ragazzi, 1933]. Nella produzione lirica di Ginczanka madri feconde sono in intima comunione con l’essenza fertile del creato. Anche nelle liriche giovanili di Krahelska, accanto alla percezione sensuale della natura (Miłość, L’amore; Przedwiośnie, Preannuncio di primavera), emergono desideri inconsci di maternità come in Kołysanka jesienna [Ninananna autunnale] e Kołysanka klonowa [Ninananna dell’acero]. Tuttavia, la rappresentazione della soggettività femminile nelle due poetesse diverge moltissimo: la donna di Krahelska appare stereotipata, impersonale, dedita alla cura della famiglia, in attesa che l’amato ritorni dal campo di battaglia (Wiersz o nas i chłopcach, Poesia su noi e i ragazzi; Do Stacha, A Stach; Modlitwa o Stacha, Preghiera per Stach). A differenza dell’immagine muliebre convenzionale di Krahelska, la donna di Ginczanka è una figura moderna e anticonformista, rifiuta gli stilemi tradizionali e gli stereotipi culturali (Przypadek, Un caso), manifesta il proprio pensiero liberamente, affronta il tema del desiderio e del corpo. Quest’ultimo è legato sia all’autodeterminazione (Kobieta, Donna; Wyjaśnienie na marginesie, Nota a margine) sia alla sofferenza e alla malinconia dell’autrice, in cui la rappresentazione del sé appare frantumata e distorta (Fizjologia, Fisiologia; Futro, Pelliccia). Se a rendere famosa Krahelska è la sua ultima canzone Hej chłopcy, bagnet na broń!, anche Ginczanka deve la sua popolarità in particolare al suo ultimo componimento senza titolo che inizia con le parole “non omnis moriar”. Questa lirica è il testamento della poetessa, scritta a matita nel 1942, dopo essere stata denunciata alle autorità naziste, e pubblicata postuma nel 1946 sul numero 12 della rivista «Odrodzenie». È ispirata al poema Testament mój [Il mio testamento, 1839-1840] di Juliusz Słowacki, anche se Ginczanka ne riformula i motivi principali. Se nel testo słowackiano il liuto è il simbolo della poesia, nel componimento dell’autrice gli oggetti posseduti assumono la funzione di muta testimonianza, diventano simbolo del tragico destino sia personale sia di tutto il popolo ebraico: “Non omnis moriar, i miei possedimenti, / Prati di tovaglie, roccaforti di armadi, / Distese di lenzuola, preziosa biancheria / E vesti, vesti chiare mi sopravviveranno” (p. 188). Tuttavia, mentre Słowacki credeva nella forza salvifica e demiurgica della poesia, Ginczanka reputava la parola poetica in grado di descrivere la realtà, ma non di crearla. Nella visione poetica dell’autrice, dunque, non è la parola (ossia Dio) a creare il mondo, ma è quest’ultimo che dà vita alla parola. Il divino permea l’universo materiale, mentre l’individuo funge da canale di comunicazione tra la dimensione terrena e quella spirituale. Ginczanka ricorre sì a motivi veterotestamentari e neotestamentari nei suoi componimenti, come in Proces [Processo], Canticum Canticorum, Poznanie [La conoscenza], ma li sottopone a radicali rielaborazioni. A dominare, soprattutto nella produzione giovanile, è una visione vicina al neoplatonismo e al panteismo, come in Piosenka o przygodzie [Canzone sul tempo], Celowość [Finalità], Panteistyczne [Panteistico]. Da questo punto di vista sono riconoscibili diversi elementi di contatto con alcune liriche di Krahelska, dove è possibile scorgere motivi pagani e animistici 209 PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI / (VII) 7 / 2016 210 in linea con il suo interesse per i miti e le credenze popolari (si veda Cząber, Santoreggia; Olcha, L’ontano). Nella lirica di Ginczanka il tema del divino e della religione assumono un tono pessimistico come nel caso del componimento Świętokradztwo [Sacrilegio, 1938], in cui emerge la ricerca del senso ultimo delle cose in un mondo che si avvia alla sua ineluttabile catastrofe. Krahelska, mantenendo sempre la speranza, nelle sue liriche intrise di retorica patriottica ricorre spesso alla supplica mariana per avere un supporto spirituale e un aiuto concreto in un momento drammatico per l’intero paese. In Krahelska la fede cattolica è sempre legata alla tradizione e alla dimensione familiare. Fonti d’ispirazione della poetessa sono il folclore locale e i costumi non solo nazionali, ma anche ucraini, russi, bielorussi e soprattutto delle terre polacche di confine (i cosiddetti “Kresy”). Krahelska, studiosa di etnografia, attinge soprattutto alle tradizioni popolari, alle leggende e alla mitologia slava (per esempio, come la poesia dedicata al demone meridiano Południca), alle fiabe e ai canti bielorussi e ucraini, soprattutto alle ballate e alle nenie, come nel caso di Ballada o szaleju [La ballata sulla cicuta], Ballada o księżniczce [La ballata sulla principessa] e molti altri componimenti. In Ginczanka svolgono un ruolo rilevante la mitologia, la cultura e la storia greco-romane, affiancate da un interesse giovanile per l’esotismo. La poetessa spazia dalla mitologia grecoromana, Mitologia radosna [Mitologia gioiosa], Agonia, O centaurach, Powrót [Il ritorno], alla mitologia norrena Zygfryd [Sigfrido], dalla cultura orientale nel ciclo dedicato alla figura di Lalita al folclore russo in Żar-Ptak [L’Uccello di Fuoco]. La mitologia e il folclore nell’opera di entrambe le poetesse, pur avendo un ruolo importante, non danno vita a un universo mitico e complesso come nel caso di Leśmian. Questi miti vengono raccontati rispettandone la fabula originale, anche se spesso sono sottoposti a un procedimento di reinterpretazione in cui vengono riletti o adattati alle esigenze della realtà contemporanea per esprimere in maniera allegorica il proprio mondo interiore e la propria identità. Nel suo volume l’autore, svincolando l’opera dalla “biografia simbolica” delle due poetesse, analizza in chiave comparativa la ricchezza di motivi, linguaggi e ispirazioni presenti in entrambe le produzioni poetiche alla luce dei legami con la letteratura e la storia della Polonia del periodo interbellico. Alessandro Amenta consegna alla comunità scientifica una monografia preziosa sull’opera di due poetesse che, al di fuori degli addetti ai lavori, restano quasi o del tutto sconosciute in Italia. Si tratta di un contributo critico avvincente che mette in luce convergenze e divergenze tra le due poetiche, nonché aspetti dell’opera di Ginczanka e di Krahelska poco indagati dalla stessa critica polacca. Le voci poetiche di Zuzanna Ginczanka e di Krystyna Krahelska, che raccontano di una Polonia sconvolta dal dramma della guerra e dall’occupazione, restano oggi di fondamentale importanza non solo perché hanno assunto il valore di testimonianza storica e hanno rappresentato un tentativo di resistenza, ma anche perché restituiscono il giusto rapporto tra le parole e il silenzio di uno degli episodi più tragici della storia europea. [Andrea F. De Carlo] RECENSIONI Stefan GrabiŃski, Il demone del moto. Racconti fantaferroviari, traduzione e cura di Mariagrazia Pelaia, Stampa Alternativa, Viterbo 2015 Negli ultimi anni si assiste a un interesse sempre maggiore nei confronti dell’opera di Stefan Grabiński (1887-1936) sia in patria sia all’estero. Nel 2011, in occasione del settantacinquesimo anniversario della morte, e nel 2012, nel centoventicinquesimo anniversario della nascita, sono uscite molte pubblicazioni dedicate allo scrittore polacco. Si tratta di studi che analizzano la complessità e la profondità della produzione novellistica di Grabiński in chiave psicoanalitica o addirittura parapsicologica. L’opera grabińskiana è dunque riletta secondo nuove interpretazioni che arricchiscono e aggiornano le problematiche e le ispirazioni messe in evidenza dalla critica precedente. Grabiński è autore di originali racconti fantastici a sfondo metafisico, insoliti sia per l’epoca sia per la tradizione letteraria del suo paese. Infatti, ciò che attrasse ed entusiasmò la maggior parte dei critici letterari a lui coevi fu innanzitutto la singolarità della sua opera. L’universo grabińskiano non solo riesce a proiettare i fantasmi dell’irrealtà in immagini reali, ma consente ai personaggi di entrare in un altro mondo, un aldilà segreto, inquietante e oscuro. L’amico Karol Irzykowski lo definì il “Poe polacco”, mentre Stanisław Lem lo paragonò a Lovecraft. Tuttavia, quest’opera così complessa e originale, che la critica odierna annovera nel genere del weird, del noir oppure semplicemente dell’orrore, è difficilmente catalogabile e ogni accostamento risulta essere riduttivo. Ma in che cosa consiste in concreto questa unicità della produzione grabińskiana? A detta dell’insigne critico polacco Artur Hutnikiewicz, fra l’altro il primo a dedicare un ampio saggio allo scrittore, il carattere originale dei racconti di Grabiński è dato da tre presupposti essenziali: la convinzione della superiorità dello spirito sulla materia; la concezione pluralistica del mondo, ispirata alle teorie espresse in A Pluralistic Universe di William James; il dinamismo nell’esistenza, che si concretizza nel ciclo continuo di morte e rinascita, concetto desunto dalle speculazioni filosofiche di Eraclito, Nietzsche e Bergson. A queste tre premesse vanno aggiunti altri interessi dell’autore quali la parapsicologia, la psicopatologia, le scienze occulte, i miti e le leggende popolari. La raccolta Demon ruchu [Il demone del moto, 1919] è la più famosa della sua produzione novellistica, poiché riscosse un consenso unanime di critica e di pubblico. Nell’opinione comune di Karol Irzykowski, Artur Hutnikiewicz, Stanisław Lem, Krzysztof Varga e Wojciech Tomasik, Grabiński resta essenzialmente uno scrittore di racconti ferroviari. Nonostante ciò, Il demone del moto non è solo il frutto del fascino che la tecnologia e la civiltà umana esercitano sullo scrittore polacco, ma si tratta di testi in cui Grabiński sviluppa il tema fondamentale di una realtà parallela diversa, altra, rispetto a quella conosciuta dall’uomo. Per tale motivo, considerare Grabiński solo come un appassionato dei trasporti ferroviari o semplicemente etichettarlo come un autore di letteratura fantastica impoverisce significativamente il valore della sua opera. Irzykowski afferma che Grabiński appartiene all’ultima generazione della Giovane Polonia (1890-1918). Un aspetto importante di questo movimento letterario è il sincretismo non solo tra correnti e stili diversi, ma anche tra tendenze filosofiche e letterarie europee che vengono arricchite di motivi esotici. A tutto ciò anche lo scrittore non si sottrae: dalle concezioni filosofiche delle religioni orientali, di cui aveva subito il fascino, attinge l’elemento del dinamismo, l’incessante 211 PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI / (VII) 7 / 2016 212 moto evolutivo, che è il cuore di tutti i sistemi metafisici del pensiero braminico e buddista. Grabiński scrive nel periodo in cui sono ancora vivi i motivi del modernismo, dell’espressionismo, dell’intuizionismo di Bergson e della psicoanalisi di Freud. Gli intellettuali europei dell’epoca riscoprono la metafisica, nonché la misteriosa e inquietante profondità del subconscio. Se nel romanticismo l’aspetto irrazionale è solo un elemento decorativo, un mero divertissement della fantasia oppure simbolo o allegoria, nel modernismo esso si alimenta di tutti gli esiti delle scoperte scientifiche dell’epoca, della psichiatria e della psicopatologia, come anche della tradizione mistica. Dall’età romantica viene ereditato anche il satanismo, i cui rappresentanti nel modernismo polacco sono Stanisław Przybyszewski e Tadeusz Miciński. Di quest’ultimo Hutnikiewicz scrive che era un poeta esoterico unico nel suo genere, un mistagogo e visionario, la cui erudizione comprendeva quasi tutte le filosofie, le religioni, i sistemi occulti e teosofici di tutti i tempi e di tutti i popoli. Przybyszewski invece rivolge la sua attenzione in particolare alla psicologia dell’individuo, soprattutto a quegli stati di coscienza alterati in cui l’io viene meno e l’anima può manifestarsi nella sua “nudità”. Dal misticismo egli attinge il concetto di naga dusza (anima nuda) e lo reinterpreta in chiave psicoanalitica: liberandosi della parte “civilizzata”, l’anima esprime la sua essenza istintuale, primigenia e universale. Al pari dei suoi contemporanei, dunque, Grabiński è affascinato dal mondo irrazionale, e può contare su un’erudizione eclettica che include campi sia umanistici sia scientifici, fra cui le ricerche della psicoanalisi e le nuove scoperte della fisica. Ciò che colpisce subito della prosa grabińskiana è l’estremo realismo dell’ambientazione. L’elemento fantastico affiora dalla quotidianità più ordinaria. La banale e indolente vita di provincia viene turbata da eventi inspiegabili e talvolta raccapriccianti. Nel primo racconto, La zona morta (Ballata ferroviaria), un’entità inquietante si manifesta in una stazione abbandonata e dismessa, affidata a un controllore in pensione. Oppure come accade ne Il treno fantasma (Leggenda ferroviaria) l’improvvisa apparizione di un misterioso convoglio ferroviario crea allarmismo tra la popolazione. Enrico Damiani, in Novellieri slavi (De Carlo Editore, Roma 1946, p. 379), asseriva che si tratta di “morbose possibilità di contagio d’un fenomeno di suggestione collettiva”. Queste storie “fantaferroviarie” sembrano rivelare la potenza demoniaca e distruttiva della macchina. Ancora strani fenomeni sono ravvisabili nella storia raccontata in Binario morto o nel racconto che dà il titolo all’intera raccolta, Il demone del moto. L’eroe principale Tadeusz Szygoń periodicamente viene posseduto da un’entità inspiegabile che lo spinge a viaggiare per l’Europa a bordo di un treno. In Ultima Thule un uomo solitario ed eccentrico, che lavora in una remota stazione di confine, ha premonizioni oniriche: in particolare una casa diroccata gli consente di vedere affacciato alle finestre chi è in procinto di lasciare la sua esistenza terrena. La terza edizione – mai realizzata – del Demone del moto prevedeva l’inserimento di un altro racconto dal titolo L’engramma di Szatera (tradotto in italiano dalla versione inglese e inserito nell’antologia Il villaggio nero. Racconti fantastici, introduzione e traduzione di Andrea Bonazzi, presentazione di China Miéville, Edizioni Hypnos, Segrate 2012), e come epilogo La parabola della talpa di galleria, pubblicato sulla rivista «Polonia», 141 (pp.11-12), 147 (p. 12), 154 (pp. 11-12 ), 161 (p.12) e ristampato nel 2013, a cura di Adrian Mianecki, su «Litteraria Copernicana», 1/11, pp. 249-281. Secondo il curatore polacco, nelle intenzioni di Grabiński questo racconto voleva essere un congedo dalla tematica ferroviaria. Secondo Pelaia, invece, si tratterebbe piuttosto di un’agnizione: “mostra la fonte a cui attingono i suoi strani treni fantasma, i suoi binari morti e il suo bizzarro corteo umano fantastico-ferroviario: […] Un mondo in cui l’umano, il bestiale e il vegetale si uniscono e comunicano, cercando di difendersi dal mondo della tecnica, della guerra, della distruzione […]” (p. 253). RECENSIONI Non tutti i racconti inclusi nella scelta antologica curata da Pelaia riguardano le ferrovie, ne L’amante di Szamota è invece presente la tematica del doppio. Il protagonista è innamorato di un’aristocratica bella e irraggiungibile, Jadwiga Kalergis, che, dopo esser sparita dalla città per qualche tempo, ritorna in circostanze misteriose. Tra questa donna enigmatica e Jerzy Szamota iniziano degli incontri passionali, durante i quali il protagonista si rende man mano conto che in realtà l’amante è solo una sua proiezione, il frutto di uno sdoppiamento psicologico. In Italia Stefan Grabiński fu scoperto e tradotto ancora in vita. I racconti Il treno fantasma e Segnali, entrambi tratti da Demon ruchu, comparvero già nel 1928 a Torino sulle pagine de «La Stampa», nella versione dello slavista Enrico Damiani. Nello stesso anno alcuni estratti di questi racconti furono inclusi nel volumetto I narratori della Polonia d’oggi (Roma 1928). Stefania Kalinowska, attiva nell’ambiente culturale italiano come traduttrice dal polacco, dopo aver conosciuto personalmente Grabiński a Venezia, tradusse un altro racconto, La chiamata, pubblicato nel 1929 su «La Gazzetta di Venezia» e, nello stesso anno, sul numero di ottobre della rivista «Tutto». Da allora l’autore è rimasto pressoché dimenticato fino al 2011, quando sulle pagine della rivista «Hypnos» vennero pubblicati i racconti L’area e Nello scompartimento, nella traduzione di Andrea Bonazzi. L’anno successivo per le Edizioni Hypnos, sempre nella versione dello stesso traduttore, usciva la summenzionata antologia Il villaggio nero, che presentava sia racconti provenienti dalle raccolte Demon ruchu (quest’ultimo racconto che dà il nome alla raccolta, assieme a L’engramma di Szatera); Szalony pątnik [Il pellegrino folle] (La stanza grigia, Saturnin sektor, L’area); Niesamowita opowieść [Storie incredibili] (Lo sguardo, L’amante di Szamota, A casa di Sara); Księga ognia [Il libro del fuoco] (Il bianco lemure, La vendetta degli elementali), sia racconti singoli apparsi sulla stampa dell’epoca: Czarna wólka (Il villaggio nero, su «Wiadomości Literackie», 28, 1924), Opowieść o grabarzu (La storia del becchino, «Tygodnik Ilustrowany», 25-26, 1922). Con una scelta metodologica ed editoriale decisamente inadeguata alla moderna teoria e pratica traduttologica, la traduzione italiana del volume curato da Bonazzi era stata eseguita sull’edizione in lingua inglese: S. Grabiński, The Dark Domain, traduzione e introduzione di Mirosław Lipiński, postfazione di Madeleine Johnson, Dedalus, Sawtry 2004. Assai più correttamente, la raccolta proposta da Mariagrazia Pelaia, pubblicata dalla casa editrice Stampa Alternativa, è stata tradotta dall’originale polacco, più precisamente dal primo dei tre volumi delle Utwory wybrane [Opere scelte] di Grabiński, curato e commentato da Hutnikiewicz, edito da Wydawnictwo Literackie a Cracovia nel 1980. Questa antologia ci offre racconti derivati in gran parte da Demon ruchu e quindi, oltre all’omonimo racconto, comprende: La zona morta (Ballata ferroviaria), Una strana stazione (Fantasia futurista), Binario morto e Ultima Thule. Inoltre, Pelaia include nella sua scelta di racconti la versione ormai obliata di Enrico Damiani de Il treno fantasma e un frammento di Segnali. Aggiunge un racconto di recente riscoperta, La parabola della talpa di galleria, e racconti appartenenti ad altre raccolte: Un caso (da Namiętność [Passione], 1930) e L’amante di Szamota (da Niesamowita opowieść [Storie incredibili], 1922). Per la sua traduzione del titolo della raccolta di Grabiński, nella postfazione (pp. 234-270), Pelaia spiega le ragioni per cui ha scelto di tradurre ruch con “moto” anziché “movimento” come è in uso nelle storie della letteratura polacche e in altre edizioni italiane: la scelta è stata motivata da una parte del fatto che si tratta “non solo di movimento terrestre di un treno in velocità, ma anche di movimento in rapporto agli spostamenti del nostro pianeta nello spazio siderale”, dall’altra dal fatto che sul frontespizio della seconda edizione di Demon ruchu si trova un’epigrafe tratta da 213 PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI / (VII) 7 / 2016 un anonimo Tractatus de motu: “Motus est enimspiritus quidam immanens mundi”. La scelta della traduttrice si fonda sulle osservazioni a suo tempo fatte da Hutnikiewicz nel suo famoso saggio sull’opera di Grabiński, Twórczość literacka Stefana Grabińskiego (1887-1936) del 1959: lo studioso affermava, riportando le parole dello scrittore stesso, che la ferrovia è una grande metafora, simbolo dell’eterna aspirazione dell’uomo a voler imitare, pur con le sue limitazioni, l’infinita libertà di movimento e il potente moto che muove i pianeti nel cosmo (p. 149). Mariagrazia Pelaia vanta ormai una consolidata esperienza nel campo della traduzione non solo dall’inglese ma anche dal polacco: in particolare, è traduttrice di una scelta di racconti di Cyprian Kamil Norwid (Quid, Santa Marinella 1994) e di alcuni saggi di Stanisław Barańczak comparsi su riviste scientifiche. Siamo dunque grati a Pelaia per aver finalmente consegnato al lettore italiano non solo la prima traduzione dell’originale polacco di Demon ruchu, ma anche una versione che conserva la musicalità cadenzata e la pregnanza lessicale distintive della prosa grabińskiana. [Andrea F. De Carlo] Szymborska, la gioia di leggere. Lettori, poeti, critici, a cura di Donatella Bremer e Giovanna Tomassucci, Pisa University Press, Pisa 2016 214 La popolarità di cui gode la poesia di Wisława Szymborska in Italia è un fenomeno senza precedenti. In un paese come il nostro, in cui la letteratura polacca continua ad essere considerata di nicchia, l’opera poetica della poetessa di Cracovia è stata tradotta nella sua interezza, la si può acquistare non solo in libreria, ma anche al supermercato. È un trattamento questo che non è ancora mai toccato a nessuno scrittore o poeta polacco. La Szymborska è citata in ogni possibile occasione, a proposito e a sproposito, da personalità della cultura e dello spettacolo, sui suoi versi si scrivono canzoni. In breve è diventata un fenomeno di cultura popolare. I polonisti italiani si sono trovati impreparati ad affrontarlo. Non è una questione di snobismo, ma vera e propria preoccupazione la nostra quando si sente parlare (come è capitato a chi scrive) di Wisława Szymborska come di una “poetessa pop”. Purtroppo bisogna aggiungere che la popolarità della Szymborska non ha aiutato ad uscire dall’ombra anche altri grandi poeti polacchi come Miłosz, Herbert o Różewicz, anch’essi tradotti in italiano, eppure ristampati di rado e senza dubbio non altrettanto noti al pubblico dei lettori italiani. È questo sicuramente un tema degno di analisi sociologica. Certamente al successo della Szymborska hanno contribuito in parte le splendide traduzioni di Pietro Marchesani (che cominciò a tradurla ben prima che le fosse assegnato il Nobel e ne tradusse tutte le poesie, eccezion fatta per l’ultima raccolta postuma), ma vi ha contribuito anche il talento della poetessa polacca nel riuscire a raggiungere la sensibilità di ogni lettore, indipendentemente dalla sua cultura letteraria, e decisamente senza bisogno di alcuna previa conoscenza della cultura polacca. Un altro elemento problematico della ricezione della poesia della Szymborska in Italia era fino a poco fa la pressoché totale mancanza di qualsivoglia pubblicazione critica sulla poetessa, ad eccezione degli articoli scientifici che però, come si sa, non escono dalla cerchia degli specialisti. Recentemente si registrano delle novità anche in questo campo, e merita una particolare menzione il recente Szymborska. Un alfabeto del mondo, di A. Ceccherelli, L. Marinelli e M. Piacentini RECENSIONI (Donzelli Editore, Roma 2016), scritto da tre grossi nomi della polonistica italiana e destinato a rendere accessibile ad ogni lettore la poetica della poetessa di Cracovia. Più specifica è l’angolatura proposta dalla pubblicazione che qui presentiamo, che non solo contribuisce a riempire la lacuna di cui si diceva prima, ma offre un punto di vista diverso, quello di alcuni studiosi e noti intellettuali non “addetti ai lavori”. Il volume nasce originariamente come raccolta di atti del convegno tenutosi all’università di Pisa nel febbraio del 2014. A differenza di quanto di solito accade con gli atti dei congressi, la presente raccolta si distingue per la molteplicità di approcci al tema. Il volume è infatti suddiviso in quattro sezioni: una traduttologica, una memoriale-istituzionale, una poetica e una critica. La sezione traduttologica è costituita da due testi: un intervento fino ad ora inedito di Pietro Marchesani, pronunciato in occasione di un convegno dedicato alla traduzione poetica, nel quale il traduttore della Szymborska mette a parte l’ascoltatore (ora anche il lettore) del suo misurarsi con la poesia apparentemente “semplice” del premio Nobel, e un saggio di Laura Novati, consulente e custode dell’archivio Scheiwiller, che da vent’anni promuove la poesia della poetessa polacca. Il saggio di Laura Novati è dedicato alle relazioni tra Pietro Marchesani e il primo editore italiano della Szymborska, Vanni Scheiwiller, sposato con l’artista polacca Alina Kalczyńska. A questa dobbiamo elegantissime edizioni di varie raccolte poetiche della poetessa. La sezione intitolata “Ricordi e progetti” è costituita da piccole miniature memorialistiche di due amici della poetessa, poeti a loro volta, Jarosław Mikołajewski e Ewa Lipska, e da un testo del segretario di Szymborska, Michał Rusinek, nel quale per la prima volta viene presentata al lettore italiano l’attività della Fondazione Wisława Szymborska, il premio di poesia che porta il suo nome, il premio Adam Włodek, il fondo di sostegno e la borsa di studio Adam Włodek, destinati agli scrittori e ai traduttori, nonché altri progetti organizzati dalla fondazione. Una novità, non solo per il pubblico italiano, è la sezione, nella quale tre poeti italiani contemporanei condividono le proprie impressioni dalla lettura della Szymborska: Anna Maria Carpi, Paolo Febbraro e Alba Donati. Quest’ultima si pone la domanda perché la Szymborska fosse così necessaria alla letteratura italiana, in particolare alla poesia, nella quale – secondo l’autrice del saggio – la peculiare intonazione della sua poesia non trova corrispondenza, ad eccezione forse della prosa di Elsa Morante che però appunto è prosa. La Donati si sofferma sulla peculiarità dell’ironia di Szymborska, la confronta con quella di Gozzano e di Montale. Mentre però l’ironia di Montale serviva a mettere distanza tra il poeta e la realtà, quella di Szymborska al contrario la ricongiunge con il mondo. Forse però il più interessante tra i tre è il saggio di Paolo Febbraro che esprime qui i propri dubbi in merito alla poesia di Szymborska. Febbraro infatti non appartiene alla schiera dei suoi ammiratori. Al massimo nutre nei suoi confronti della stima, ma non sempre e non incondizionatamente. Di Szymborska gli danno fastidio quel carattere illuminista della sua poesia, il suo tratto filosofico (per la Szymborska il poeta è qualcuno che, come Socrate, ripete senza sosta “non so”, mentre per Febbraro, al contrario, il poeta è tenuto a “sapere”, giacché “la poesia è un’azione della lingua che crea il proprio bersaglio nel momento esatto in cui lo coglie”, p. 78), infine la sua tanto decantata democraticità: Szymborska “garantisce al lettore la poesia con un grande risparmio di energia” (ibidem). In altre parole gli dà fastidio la sua accessibilità. La poesia è “troppo ampia per i cuori semplici o gli spiriti pratici […], ma anche orgogliosa e un po’ chiusa. La Szymborska dice al lettore che siamo tutti sulla stessa barca, piccoli e un po’ ridicoli” (ibidem). Benché la parola non venga usata, si ha la netta impressione che la poesia di Szymborska per Febbraro sia non tanto troppo semplice, quanto troppo facile. La sezione più ricca e più preziosa del libro rimane comunque senza dubbio quella critico- 215 PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI / (VII) 7 / 2016 216 letteraria che da sola occupa quasi metà del volume e consta di quattro saggi. Nel primo Alfonso Berardinelli, noto e stimato critico letterario, dal 2007 al 2009 direttore della collana “Prosa e poesia” presso l’editore Scheiwiller, sostiene anche lui, come Alba Donati, che la letteratura italiana avesse molto bisogno della poesia della poetessa di Cracovia. Questo non perché alcuni suoi tratti caratteristici come “immaginazione sfrenata e occasioni di vita quotidiana, inclinazione umoristica e perfino comica […]” mancassero del tutto ai poeti italiani, ma, se anche c’erano, “erano isolate l’una dall’altra e quindi non si rafforzavano a vicenda” (p. 88). Berardinelli vede, caso mai, determinate analogie con la poesia di alcune poetesse italiane, da questa constatazione non trae tuttavia conclusioni di genere, giacché paradossalmente la poesia di queste poetesse si contraddistingue per tratti tradizionalmente attribuiti alla scrittura maschile: “lucidità intellettuale, spregiudicatezza, coraggio, mancanza di sentimentalismo, distacco ironico, libertà di pensiero, energia espressiva e comunicativa, indipendenza da modelli” (ibidem). È una novità anche la proposta contenuta nel saggio di Roberto Galaverni che per la prima volta opera un sorprendente parallelo tra la poesia di Szymborska e la poetica dell’ultimo Montale. Mostra il ruolo della “diversione, dell’antifrasi, della tautologia, del rovesciamento”, il cozzare del “cosmico con il quotidiano, la dimensione metafisica con l’esistenza ordinaria, l’irregolare con il comune, la differenza con l’indifferenziato, l’individuo singolo con il grande numero” (p. 95). Entrambi amano trarre le conclusioni da fenomeni o avvenimenti concreti, di qui in entrambi “la predilezione per l’apologo, il raccontino filosofico a carattere dimostrativo, le clausole gnomiche, i procedimenti epigrammatici o anaforici” (p. 96). Li unisce anche l’uso di una lingua semplice, quotidiana, comune, non “poetica”. E tuttavia gli stessi, o quasi, procedimenti poetici servono nei due poeti a scopi differenti. Tra i due c’è infatti una differenza di tono: la poesia di Montale è “la poesia di qualcuno che tenta di sopravvivere, mentre il qualcuno che parla e per cui si parla nei versi della Szymborska cerca ancora di vivere” (p. 100). Galaverni pertanto si sofferma sul fondamento del fenomeno di qualcosa che potremmo chiamare la “positività” della Szymborska, ciò che ne costituisce la cifra, ma che proviene anche da una decisione etica, dalla scelta di un determinato modo di stare al mondo. Tale atteggiamento infatti non è mai dato una volta per tutte, va bensì conquistato ogni giorno e in letteratura raggiunto tramite un ferreo controllo della lingua poetica. Al saggio della germanista Donatella Bremer, coredattrice del volume, sul ruolo e sulla funzione dei nomi propri nella poesia di Szymborska, chiude il libro un vasto saggio della redattrice principale, Giovanna Tomassucci, docente di letteratura polacca all’università di Pisa e organizzatrice del convegno. Il saggio tratta la poetica della tautologia, ovvero per certi aspetti il metodo filosofico di Szymborska. L’autrice del saggio prende le mosse dall’immagine cinematografica di Chaplin che taglia con le forbici gli abiti che spuntano fuori da una valigia pigiata. Szymborska aveva ripreso questa immagine durante il suo discorso in occasione della consegna del premio Goethe e ne aveva fatto una metafora dello scrittore nella morsa dell’ideologia. Anche Bertold Brecht nella sua polemica con György Lukács aveva ripreso quell’immagine. L’autrice del saggio non sviluppa ulteriormente questo motivo, ma questo parallelo appena delineato mi pare degno di approfondimento. Se è vero quello che scrive Tomassucci, e cioè che la poesia di Szymborska ha “aspetti comuni con quella del poeta tedesco: l’impianto logico-raziocinante, dal sottofondo civile, il didascalismo persuasivo, la propensione per una filosofia ironica, per il paradosso e l’aforisma” (p. 123), proprio quel sottofondo civile, in Brecht dichiarato, ci fa riflettere sul potenziale politico di una poesia apparentemente tanto apolitica come di solito viene considerata quella della Szymborska. A mano a mano che proseguiamo nella lettura del saggio di RECENSIONI Giovanna Tomassucci, che si occupa solo di poetica, con tanta più insistenza si presenta la domanda sulla potenziale utilità politica del “metodo” di Wisława Szymborska. La poetessa polacca infatti, sottoponendoci con ogni componimento a un nuovo esercizio di pensiero, ci insegna a guardare il mondo da prospettive sempre diverse, mette in discussione i cliché, ci ricolloca nel mondo. Questo tipo di esercizio – non facciamo finta di non saperlo – non è un’attività sicura e non può rimanere rinchiuso tra le quattro mura dello studio del critico e dello storico della letteratura. Alla fine del libro ci costringe dunque a interrogarci se la grandissima popolarità della poetessa non sia per caso anche un malinteso, un travisamento del potenziale sovversivo che questa poesia, come ogni grande poesia, in sé contiene. [Emiliano Ranocchi] 217 Gli autori di questo numero Marina Ciccarini È professore ordinario di Lingua e Letteratura polacca presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”. Tra le sue pubblicazioni: Il richiamo ambivalente. Immagini del Turco nella memorialistica polacca del Cinquecento, 1991; Żart, inność, zbawienie. Studia z literatury i kultury polskiej [La facezia, l’alterità, la salvezza], 2008, raccolta di saggi di letteratura polacca dal Cinquecento al Novecento; Ultimi roghi. Fede e tolleranza alla fine del Seicento. Il caso di A. Ch. Belobockij, 2008. Ha inoltre curato il volume di liriche di Ewa Lipska, L’occhio incrinato del tempo, 2013. Andrea F. De Carlo È professore a contratto di Lingua e Letteratura polacca presso l'Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. Nel 2010 ha conseguito il dottorato di ricerca presso l’Università del Salento con una tesi sulla ricezione della Divina Commedia nella Polonia del XIX secolo. I suoi ambiti di ricerca comprendono la letteratura polacca, i rapporti culturali fra Italia e Polonia e la traduzione poetica. Ha pubblicato vari articoli su Sienkiewicz, Kraszewski e Kapuściński e curato l’edizione critica della traduzione polacca della Divina Commedia a opera di J. I. Kraszewski (in corso di stampa). Grzegorz Gazda Professore emerito dell’Università di Łódź, teorico e storico della letteratura, comparatista e studioso dei generi letterari, ha pubblicato vari libri dedicati al futurismo e all’avanguardia: Futuryzm w Polsce [Il futurismo in Polonia], 1974; Awangarda – nowoczesność i tradycja [L’avanguardia – Contemporaneità e tradizione], 1987; Słownik europejskich kierunków i grup literackich XX wieku [Dizionario europeo delle correnti e dei gruppi letterari nel XX secolo], 2000, 2009; Słownik rodzajów i gatunków literackich [Dizionario dei generi letterari], 2006, 2012. Paweł Graf Docente di Teoria della letteratura e di Traduzione presso l’Istituto di Filologia Polacca dell’Università di Poznań, si occupa di teoria della letteratura, avanguardia letteraria e storia della scienza. È autore del libro Świat utkany z prawdy i zmyślenia. O świadomości twórczej Andrzeja Kuśniewicza [Un mondo intessuto di verità e poesia. La coscienza creativa di Andrzej Kuśniewicz], 2005, e di vari articoli dedicati al futurismo. Sta lavorando a una nuova monografia sull’antropologia del futurismo polacco. Monika Gurgul Insegna presso il Dipartimento d’Italianistica dell’Università Jagellonica di Cracovia. Si occupa di storia del teatro e del dramma italiano, del futurismo e della letteratura non-fiction; ha dedicato numerose ricerche ai contatti culturali italo-polacchi. Tra i suoi libri: Teatr Dario Fo [Il teatro di Dario Fo], 1997; Echa włoskie w prasie polskiej 1960-1939 [Echi italiani nella stampa polacca 219 negli anni 1860-1939], 2006; Historia teatru i dramatu włoskiego od XIX do XXI wieku [Storia del teatro e del dramma italiano dal XIX al XXI secolo], 2008; W drodze do gwiazd. O teatrze i dramacie włoskiego futuryzmu [Verso le stelle. Sul teatro e sul dramma futurista italiano], 2009. È coautrice di 5 libri nati da progetti bibliografici dedicati alle traduzioni dal polacco in italiano dagli inizi della letteratura polacca fino ai nostri giorni, tra cui Od Dantego do Fo [Da Dante a Fo], 2007; Od Boccaccia do Eco [Da Boccaccio a Eco], 2011. Krzysztof Jaworski Professore presso l’Università “Jan Kochanowski” di Kielce, storico della letteratura, ha pubblicato vari libri sul futurismo polacco e ricostruito la biografia di Bruno Jasieński, di cui molte pagine rimanevano oscure. Ricordiamo i titoli: Bruno Jasieński w sowieckim więzieniu: aresztowanie, wyrok, śmierć [Bruno Jasieński nelle prigioni sovietiche: l’arresto, la sentenza, la morte], 1995; Bruno Jasieński w Paryżu (1925-1929) [Bruno Jasieński a Parigi (1925-1929)], 2003; Dandys. Słowo o Brunonie Jasieńskim [Il dandy. A proposito di Bruno Jasieński], 2009; Kronika polskiego futuryzmu [Cronaca del futurismo polacco], 2015. 220 Barbara Minczewa Ha conseguito il dottorato di ricerca in Slavistica nel 2016 presso la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, con una tesi dal titolo Il teatro della delusione: fra paesaggi distopici e sogni utopici del teatro polacco contemporaneo. Il progetto di ricerca è stato realizzato in collaborazione con l’Università Jagellonica di Cracovia, dove si è laureata in teatro e drammaturgia nel 2010. I suoi interessi vertono principalmente intorno al teatro contemporaneo, con particolare attenzione al teatro politico e alle sue varie forme di espressione. Emiliano Ranocchi Ha studiato slavistica e germanistica all’università di Urbino, ha ottenuto il dottorato all’Università di Roma “La Sapienza” con una tesi in letteratura polacca. Attualmente è Ricercatore presso l’Università di Udine. Settecentista e mitteleuropeista si occupa da anni di Jan Potocki di cui, nel corso di ricerche in Russia, Polonia, Ucraina e Lituania, ha ritrovato svariati manoscritti: lettere, mémoires segreti e testi inediti. In particolare ha studiato il corpus geologico di Jan Potocki, composto in gran parte da testi finora ignoti. Ha anche ricostruito l’incontro tra Jan Potocki, Goethe e Herder a Karlsbad nell’estate del 1785 (Karlsbad. Estate 1785, in: Archeologia, letteratura, collezionismo, 2008). Sta preparando per l’editore Peeters il sesto volume dell’edizione critica delle opere di Jan Potocki. Da qualche tempo si occupa anche di modernismo, in particolare dell’opera di uno scrittore dimenticato, Jerzy Sosnkowski. Przemysław Strożek Professore presso l’Istituto dell’Arte dell’Accademia delle Scienze, è specializzato nello studio dell’avanguardia storica e del modernismo. Autore di molte pubblicazioni di rilievo internazionale, ha scritto la prima monografia dedicata alla ricezione del futurismo italiano in Polonia (Marinetti i futuryzm w Polsce (1909-1939). Obecność – kontakty – wydarzenia [Marinetti e il futurismo in Polonia (1909-1939). Presenza – contatti– eventi], 2012) e un libro sul dadaismo (Nic, to znaczy wszystko. Interpretacje niemieckiego dada [Niente, ossia tutto. Interpretazioni del dadaismo tedesco], 2016). Attualmente si occupa del rapporto fra la cultura di massa e le avanguardie dell’Europa centrale e orientale. Presso il Museo d’Arte di Łódź sta organizzando una mostra su Enrico Prampolini che si terrà nel 2017. Giovanna Tomassucci Professore associato di Lingua e Letteratura polacca presso il Dipartimento di Letteratura, Filologia e Linguistica dell’Università di Pisa. Ama esplorare i campi ai confini tra culture diverse, tra cui la complessa civiltà del mondo ebraico polacco nel Novecento: la sua attività di ricerca ha affrontato i temi della cultura di Rinascimento, Barocco e Romanticismo, della letteratura tra le due guerre e del secondo Novecento in Polonia. Sławomir Jacek Żurek Professore presso l’Università Cattolica di Lublino, dirige il Centro Internazionale di Ricerche sulla Storia e il Retaggio Culturale degli Ebrei dell’Europa Centro-Orientale. È direttore dell’Istituto di Didattica della Letteratura, Lingua e Letteratura polacca. Fra le numerose pubblicazioni ricordiamo: „...lotny trud półistnienia”. O motywach judaistycznych w poezji Arnolda Słuckiego [“…l’eterea fatica della semiesistenza”. Motivi ebraici nella poesia di Arnold Słucki], 1999; Synowie księżyca. Zapisy poetyckie Aleksandra Wata i Henryka Grynberga w świetle tradycji i teologii żydowskiej [Figli della luna. Annotazioni poetiche di Aleksander Wat e Henryk Grynberg alla luce della tradizione e della teologia ebraica], 2004; Z pogranicza. Szkice o literaturze polsko-żydowskiej [Zona di frontiera. Schizzi di letteratura polacco-ebraica], 2008; Zastygłe w polszczyźnie. Szkice o świętach w poezji polsko-żydowskiej dwudziestolecia międzywojennego [Congelati nella lingua. Schizzi sulle feste nella poesia polacco-ebraica del ventennio interbellico, 2011; (in collaborazione con K. Famulska-Ciesielska) Literatura polska w Izraelu [Letteratura polacca in Israele], 2012. 221