CIRPIT REVIEW - Centro Interculturale Raimon Panikkar

Transcript

CIRPIT REVIEW - Centro Interculturale Raimon Panikkar
CIRPIT REVIEW
Rivista Internazionale On-line
n. 2 - Marzo 2011
Atti del 1° Colloquium Internazionale Cirpit
Napoli, 2-3 Dicembre 2010
“LA DIMORA DELLA SAGGEZZA: L’ECOSOFIA TRA FILOSOFIA
INTERCULTURALE E PENSIERO DELLA COMPLESSITÀ”
Omaggio a Raimon Panikkar
n. 2 - March 2011
Ist Cirpit International Colloquium
Naples, 2-3 December 2010
BETWEEN INTERCULTURAL PHILOSOPHY AND COMPLEXITY:
ECOSOPHY, THE WISDOM OF DWELLING.
Dedicated to Raimon Panikkar
Proceedings
Centro Interculturale dedicato a - Intercultural Center dedicated to
Raimon Panikkar
www.cirpit.raimonpanikkar.it
CIRPIT REVIEW PUBBLICATION
Editorial Board
Editorial Staff
Alessandro Calabrese, Intercultural Page
Paolo Calabrò, Epistemological Page
Marcello Ghilardi, Aesthetics Page
Victorino Perez, Philosophical Page
Gianni Vacchelli, Literary Page
Editorial Director
Anna Maria Natalini
Intercultural Center dedicated to Raimon Panikkar
President: M. Roberta Cappellini
Vice President: Giuseppe Cognetti
www.cirpit.raimonpanikkar.it
[email protected]
Indice / Index
3
Indice/Index
5
Editoriale
7
Editorial
9
M. Roberta Cappellini
PRESENTAZIONE
I°Colloquium Internazionale Cirpit - Omaggio a Raimon Panikkar
“LA DIMORA DELLA SAGGEZZA: L’ECOSOFIA TRA FILOSOFIA INTERCULTURALE
E PENSIERO DELLA COMPLESSITÀ”
14
Giuseppe Cognetti
INTRODUZIONE AI LAVORI DEL COLLOQUIUM
SESSIONE INTERCULTURA / INTERCULTURAL SESSION
16
Giuseppe Cacciatore
CITTADINANZA INTERCULTURALE
27
Francis D’Sa
THE SIGNIFICANCE OF PANIKKAR’S COSMOTHEANDRIC VISION
35
Achille Rossi
MITO CHE MUORE, MITO CHE NASCE
SESSIONE COMPLESSITÀ / COMPLEXITY SESSION
39
Piero Bevilacqua
NOVECENTO DIVISO: TRA RIDUZIONISMO TECNICO-SCIENTIFICO E SAPERE
DELLE CONNESSIONI
45
Giuseppe Gembillo
PERCHÉ LA COMPLESSITÀ
52
Gabriele Piana
BUDDISMO, SCIENZA E INTERDIPENDENZA
3
Indice / Index
TAVOLA ROTONDA / ROUND TABLE
Per un incontro tra Scienza, Religione e Filosofia
59
Paolo Calabrò
RAIMON PANIKKAR E LA SCIENZA MODERNA
65
Alessandro Calabrese
LA FILOSOFIA TEORETICA TRA INTERCULTURALITA’ E COMPLESSITA’
NEL PENSIERO DI RAIMON PANIKKAR
69
Marcello Ghilardi
APPUNTI PER UN INTERVENTO IN CHIUSURA DELLA PRIMA GIORNATA DEL CONVEGNO
IN ONORE DI RAIMON PANIKKAR
SESSIONE RAIMON PANIKKAR / RAIMON PANIKKAR SESSION
76
Fred Dallmayr
A SECULAR AGE? REFLECTIONS ON TAYLOR AND PANIKKAR
93
Fulvio C. Manara
LA FILOSOFIA “INTERCULTURALE”. NOTE E RIFLESSIONI
110
Michiko Yusa
ECOSOPHY, RAIMON PANIKKAR, AND BASHŌ’S NATURE-AESTHETICS
122
Victorino Pérez Prieto
THE COSMOTHEANDRIC STRUCTURE OF REALITY: THE PART AND THE WHOLE. INVISIBLE
HARMONY AND ECOSOPHY
4
Editoriale
ATTI DEL 1°COLLOQUIUM CIRPIT
L’Associazione Cirpit desidera ringraziare l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici
(IISF)e il Prof. Antonio Gargano, per il sostegno offerto al nostro progetto, il Dr. Marco
Emanuele e le Associazioni Napolitalia e Link Campus University e i Proff. Alberto
Manco e Francesco Parisi dell’Università l’Orientale per le collaborazioni, le Università
di Napoli, Siena e Bergamo, il Comune di Napoli, la Commissione Nazionale Italiana per
l’Unesco per i patrocinii, l’Editrice Jaca Book e il Dr. Sante Bagnoli per la collaborazione.
Ed ancora la D.ssa Rammairone per il servizio traduzione e l’Agenzia Sant’Elia per il
supporto tecnico. Infine tutti i relatori e gli amici che sono gentilmente intervenuti a
Napoli in occasione del 1°Colloquium della nostra Associazione. Un particolare
ringraziamento va agli ospiti: ai Professori Vincenzo Scotti, Massimo Cacciari e Gianni
Colzani. Ed ancora al Dr.Mario Cavani della Fondazione Culturale Responsabilità Etica
ed alla D.ssa Milena Carrara Pavan curatrice dell'Opera Omnia (Edizioni Jaca Book),
per il bellissimo video “La mia Opera”, (temi sviluppati e presentati dall’autore stesso)
la cui proiezione ha suggellato il termine dei Lavori. Ed infine un ringraziamento anche
ai Soci e collaboratori del Cirpit ed al pubblico presente. A tutti un grazie di cuore per
aver permesso la realizzazione di questo Colloquium.
Editoriale
In questo secondo numero della Rivista, corredato di Supplemento, riportiamo
gli Atti del 1°Colloquium Cirpit di Napoli, insieme alle domande che sono state rivolte
ai relatori da parte del pubblico e degli amici presenti. Nel Supplemento abbiamo
raccolto alcuni contributi postumi relativi alle riflessioni scaturite spontaneamente dai
Lavori insieme ad alcune recensioni. I Lavori del Colloquium hanno rappresentato non
solo un momento accademico ma anche un’occasione di vera e propria condivisione
amicale e di convivialità, in quello spirito di “philìa” cui sempre invitava Panikkar. Egli
era solito affermare infatti l’importanza della lingua parlata, della vitalità e diversità
della parola orale rispetto a quella scritta, la sua sacralità, essendo irripetibile, in
quanto portatrice della dimensione olistica della persona. Una parola pertanto
“integra” nel suo senso pieno e nella sua valenza simbolica, a rappresentare
l’incarnazione dell’esperienza di vita e di pensiero, dell’autenticità dell’essere umano
5
Editoriale
“qui ed ora”. Una parola di vita, che emerge e ritorna nelle profondità del silenzio, di
cui si nutre.
“In un certo senso la lingua parlata è una liturgia e ogni liturgia è unica e fine a
se stessa. …In un Simposio si mangiano e si bevono le parole, non si leggono frasi.
Poiché il valore e il merito di un Simposio consistono nella sua concelebrazione.” 1
Nonostante la consapevolezza di tale irripetibilità e dei limiti di ogni possibile
registrazione, pensando di fare cosa gradita al pubblico dei lettori, abbiamo pensato di
aggiungere alle pagine dedicate agli interventi dei relatori, qualche minuto di
videoregistrazione delle loro “parole dal vivo”, ad accompagnarne la lettura.
Analogamente per quanto riguarda gli ospiti del Colloquium, non avendo
disponibile il testo scritto, abbiamo ritenuto significativo offrire qualche minuto
videoregistrato dei loro interventi.
LINKS: V. Scotti; G. Colzani; M. Emanuele; M. Cacciari
Desideriamo sottolineare che l’intento del Colloquium è comunque riferibile al
limite d’orizzonte relativo al suo particolare contesto, rimandando per la
comprensione profonda delle tematiche proposte alle pubblicazioni dell’Autore.
Ci auguriamo inoltre che le riflessioni e le tematiche proposte in questi Atti
possano continuare ad essere dibattute sul Forum delle nostre pagine web, che fa
seguito al Colloquium, invitando gli studiosi, i lettori e gli amici ad entrare in un
“dialogo dialogale”in merito al dibattito avviato a Napoli.
Anna M. Natalini
1
M. Roberta Cappellini
R.Panikkar, La sfida di scoprirsi monaco, Cittadella, Assisi, 1991, Introduzione, 7-9
6
Editorial
Proceedings of the 1st Cirpit Colloquium
Cirpit Association wishes to thank the Italian Institute for Philosophical Studies
(IISF) and Prof.Antonio Gargano, for the support given to our project, Dr. Marco
Emanuele of Napolitalia Association and Link Campus University, Prof. Alberto Manco
and Francesco Parisi of L’Orientale for their contributions, the Universities of Naples,
Siena and Bergamo, the City of Naples, the Italian National Commission for UNESCO for
their moral patronage. Furthermore Jaca Book Editors and Dr. Sante Bagnoli for their
cooperation, Dr. Rammairone for the translation service and St. Elias Service for the
technical support. Finally, all the speakers and friends who have kindly intervened in
Naples on the occasion of the 1st Colloquium of our Association. Special thanks to the
guests: Professors Vincenzo Scotti, Massimo Cacciari and Gianni Colzani. And still to
Dr.Mario Cavani of Fondazione Culturale Responsabilità Etica and to Dr. Milena
Carrara Pavan curator of the Opera Omnia (Jaca Book Editions) for the projection of
her beautiful video “La mia opera” (with themes presented and developed by the
author himself) . And final thanks go to Cirpit staff and Members and to the public.
Thanks to everybody for having allowed the realization of this Colloquium.
Editorial
The second issue of Cirpit Review is dedicated to the Proceedings of the 1st
Colloquium of Naples and is accompanied by a Supplement with some contributions
following up the Conference, together with some book reviews. The questions
addressed to the speakers by the public and friends have been added, together with the
speeches and reflections spontaneously arisen during the debate. The meeting has
represented not only an academic occasion but also a moment of conviviality, in that
spirit of "Philìa " which Panikkar always invited to. He used to underline the importance
of the spoken language, the vitality and strength of the oral word compared to the
written one, its holiness and uniqueness, as bearer of the holistic dimension of the
person. A word so "integral " in its full meaning and its symbolic value, to represent the
embodiment of “life experience and thought, the authenticity of the human being here
and now. " A word of life, emerging and returning to the depths of silence, to its origin.
7
Editorial
"In a sense, the spoken language is a liturgy and each liturgy is unique and an
end in itself. ... In a symposium words are eaten and drunk , sentences are read. Since
the value and merits of a symposium lies in its con-celebration."
Despite the awareness of this uniqueness and of the limitations of every type of
recording, a few minutes of video-taping of the speakers’ "live words" have been added
to the pages dedicated to their papers, for the pleasure of the public. The same has
been done as regards the guests of the Colloquium, where the written texts were not
available.(see links here below)
Links: V. Scotti; G. Colzani; M. Emanuele; M. Cacciari
We wish to emphasize that the intent of the Colloquium addresses to the
horizon and limits of its particular context, referring to the author’s publications for
further understanding of the issues here proposed
We also hope the discussions and topics raised by these papers will continue to
be debated on our Forum web pages, following the Colloquium, inviting scholars,
readers and friends to join in a "dialogic dialogue" and in the debate started in Naples.
Anna M. Natalini
8
M. Roberta Cappellini
Maria Roberta Cappellini
I°Colloquium Internazionale Cirpit, 2-3 Dicembre 2010
“LA DIMORA DELLA SAGGEZZA: L’ECOSOFIA TRA FILOSOFIA
INTERCULTURALE E PENSIERO DELLA COMPLESSITÀ”
Omaggio a Raimon Panikkar
Presentazione di Maria Roberta Cappellini
Penso sia difficile o forse inutile presentare la figura di Raimon Panikkar perché credo
che tutti i presenti in qualche modo, o di persona o sui libri abbiano conosciuto l’uomo e il
suo pensiero. Scomparso il 26 agosto scorso,
Panikkar è stato filosofo, teologo, mistico, poeta, oppure più semplicemente uomo di confine tra i diversi mondi dell’oriente e
dell’occidente, avendo vissuto contemporaneamente in vari continenti. Antesignano
dell’intercultura e del dialogo interreligioso
(riferito in particolare a Cristianesimo, Buddhismo, Induismo e Secolarità) Panikkar è stato un esempio di saggio contemporaneo che
ha saputo combinare l’aspetto intellettuale e
contemplativo ad un profondo sentimento
umanitario, ad “una compassione globale”(Prabhu). In questo senso e soprattutto per
chi ha avuto il privilegio di conoscerlo e frequentarlo Raimon Panikkar ha rappresentato
indubbiamente la figura di un Maestro.
“Una delle più grandi sintesi del ‘900” :
così Edgar Morin lo definiva nel volume del
Metodo dedicato all’Etica, nominandolo insieme ad altre personalità ed autorità intellettuali non occidentali (Gandhi, Mandela, il
Dalai Lama ecc) le quali hanno aperto la contemporaneità alla coscienza del problema
planetario e umanitario. Con eguale ammirazione Panikkar si esprimeva nei riguardi di
Edgar Morin stimando profondamente il suo
illuminato Pensiero della Complessità. Questo
rappresenta uno dei motivi del titolo del nostro Colloquium, pensato in senso interculturale e transdisciplinare, sulla scia del dialogo
contemporaneo tra scienza e tradizione, tra
Filosofia della Scienza, in particolare la complessità della scuola di Edgar Morin e Filosofia
della Tradizione, nello specifico l’Interculturalità di R. Panikkar.
Il soggetto dell’Ecosofia scelto come
tema del Colloquium è stato un argomento
particolarmente caro ai due filosofi, entrambi
sostenitori della necessità di una profonda
trasformazione nella nostra epoca, al fine della stessa sopravvivenza planetaria. A tal riguardo Panikkar parlava di “metamorfosi”
nell’accezione etimologica di mutazione radicale, utilizzando la metafora della crisalide che
abbandona il bozzolo per una nuova forma di
vita. Una trasformazione in profondità, che né
gli orienti né gli occidenti individualmente riuscirebbero a realizzare, se non entrando in relazione di reciprocità e mutua fecondazione,
attraverso il dialogo e la critica della modernità.
9
Maria Roberta Cappellini
In particolare davanti alla nostra contemporaneità Panikkar parlava di tre catastrofi: quella ecologica incombente, quella psicologica visibile e quella economica reale,
comprendendole in un unico fenomeno: “la
sindrome del villaggio globale” (comprensiva
del mercato globale, del governo mondiale,
della democrazia planetaria, della scienza universale, monocultura, monoteismo ecc)1 . E
ponendosi in senso critico davanti a tale panorama, osservava che se il fenomeno da un
lato rivela un allargamento della conoscenza
dei popoli e degli orizzonti fisici e psicologici
ed una diffusa tendenza generale verso
l’unità, dall’altro evidenzia un mito distruttivo
totalitario e colonialistico. Panikkar ne ritrae il
quadro: olocausti, guerre, impoverimento diffuso, una crescita senza omeostasi, in cui ha
predominato l’accelerazione, alla quale ogni
individuo sottomette la vita e la natura, ma
soprattutto la separazione, la frammentazione
della dimensione umana e del sapere che è
diventato esclusivamente specialistico, per
contro alienando l’uomo dalla vita. Ancor più
l’esperimento di divisione della realtà si è
spinto fino al frazionamento dell’atomo e come inevitabile conseguenza, di noi stessi. Il risultato è che non si riesce più a ricomporre
tutto quello che si è scoperto e nello stesso
tempo l’obiettivo di tale ricerca non ha prodotto alcuna pietra filosofale. L’ecologia ha
costituito forse il risveglio di una certa consapevolezza, ma ha continuato a proporre soluzioni tecnologiche proseguendo quindi
secondo l’atteggiamento strumentale nei confronti della Natura. Su questo punto è necessario pertanto interrogarsi poiché per quanto
1
Raimon Panikkar, Ecosofia: la nuova saggezza. Per
una spiritualità della terra, Cittadella Editrice, Assisi,
1993, p.39
10
concerne l’epoca“civilizzata”, secondo Panikkar, non è cambiata la mentalità, che continua
ad essere separativa, dualistica, alienando
progressivamente l’uomo dalla natura, dal cosmo e dal divino, dimenticando che il corpo
umano è analogo alla terra: di entrambi infatti
si sono perse la coscienza, la sacralità e i ritmi
naturali.
Ma la terra non è solamente luogo, pianeta, in quanto essa è fondamentalmente
simbolo della realtà intera. Pertanto recuperare l’ordine naturale dell’universo nella sua
interezza, non solo attraverso una coscienza
dei diritti degli uomini e degli animali ma anche attraverso una diversa coscienza della
terra, da considerare non come corpo inerte,
ma come organismo vivente, come soggetto,
è quanto invita a fare il messaggio ecosofico
di Panikkar (collegandosi a chi coniò per primo
il termine: Arne Naess). E’ necessario pertanto
recuperarne le radici, quell’”humus” proprio
dello stato di contingenza, che avvicina paradossalmente l’uomo al punto di tangenza con
il divino. Per giungere ad un cambiamento di
mentalità. Un cambiamento radicale che sappia far tesoro del logos senza assolutizzarlo,
recuperando il mythos. Panikkar propone “una dimensione cosmoteandrica”, olistica, che
riapra l’uomo contemporaneamente alle tre
forme di conoscenza: quella empirica, quella
intellettuale e quella olistico-mistica, tre forme che costitutivamente si co-appartengono
essendo in reciprocità di relazione, affinchè
possa riemergere nella sua struttura fondamentale di “polis”, ossia di tribù, di comunità.
Comunità radicata, carnale, politica (non partitica), comprensiva cioè di tutte le forme viventi (cose, animali, uomini e dèi), in cui tutto
Maria Roberta Cappellini
è in relazione con tutto.2 L’approccio (non sistema) olistico (non globale) non deve essere
confuso con l’ideale universalistico di assolutizzazione dei valori umani. Né l’Intero con il
Tutto, in quanto il pensiero fa parte
dell’Intero/Realtà, la modifica, ma non
l’esaurisce. Panikkar suggerisce un ordine adualistico di intelligibilità, diverso dall’evidenza razionale, assumendolo come intrinsecamente pluralistico. L’Intero non ha né nome, né concetto, né cosa. Non si tratta della
somma delle parti, ma di un orizzonte di intelligibilità. In tal senso esso dà luogo non ad un
sistema, ma ad un’attitudine.
Ne segue che non si tratta di applicare
riforme, distribuire ricchezze o di mettere a
punto una tecnologia se prima non si effettua
un profondo cambiamento a monte: ciò che
deve cambiare profondamente, radicalmente
è in primo luogo l’atteggiamento dell’uomo
sulla terra. La situazione di emergenza lo richiede. E’ necessario pertanto porci secondo
una diversa visuale, più complessa e transdisciplinare come afferma Morin seppur da un
fronte diverso, ma in modo analogo a Panikkar.
Come dichiarato nel Manifesto della
Transdisciplinarietà, sottoscritto da Nicolescu,
da Morin e dai più grandi uomini di Scienza e
di pensiero, davanti alla minaccia della tecnoscienza seguace della logica univoca di produzione, davanti alle ingiustizie e povertà che affliggono differentemente i paesi del mondo, è
necessario accogliere la consapevolezza del rischio dell’auto-distruzione delle specie umane
e riacquisire la conoscenza dei molteplici livelli
2
Raimon Panikkar, Ecosofìa. Para una espiritualidad de
la tierra, Madrid, 1994, p.32, “La dimora della saggezza”, Mondadori, Milano, 1991, p.73
di realtà dipendenti da differenti logiche, al fine di sviluppare una più umana coscienza planetaria e cosmica aperta alle diverse discipline
ed alla mutua interazione di ciò che possono
condividere nell’interesse comune.3 E’ infatti
impossibile investigare una parte della realtà
senza essere coinvolti con il tutto: siamo tenuti pertanto ad uscire dai recinti specialistici e a
ricomporre l’infranto attraverso una visione
d’insieme, con apertura ai miti ed alle tradizioni, con rigore del pensiero e senso tollerante verso le diversità, non dimenticando che
l’approccio olistico è di tipo diretto e richiede
una rivalutazione della sensibilità, dell’intuizione e dell’immaginazione: del cuore oltre
che della mente. I due si danno inseparabilmente poiché appartenenti alla medesima
sorgente. Panikkar parla di un approccio di
conoscenza/amore, privo di sintesi dialettiche, quanto piuttosto aperto al dialogo che
potrà forse sollecitare l’auspicata trasformazione.
È la storia del volo di Icaro e della sua
caduta, nel quadro di Bruegel, come ricorda
Morin metafora dell’intuizione audace che diviene realtà, poiché a ben vedere è dopo un
gran numero di Icari sempre più evoluti che
l’uomo è giunto al primo aereo.4 Sarebbe pertanto l’azzardo utopico di Icaro a farci uscire
dalla preistoria della mente umana, ad indicare un pensiero più aperto ed una logica paradossale (o a-dualistica in termini panikkariani),
al fine di coniugare la visione delle parti (analitica, razionale, propria della scienza ) con la
3
Basarab Nicolescu, “Manifesto of Transdisciplinaity”,
State University of New York Press, 2002
4
Edgar Morin, Introduzione al pensiero complesso,
Sperling & Kupfer, Milano 1990, p.32, “L’identità umana”, Il Metodo, 5, RaffaelloCortinaEditore, Milano,
2002, pp. 109-112
11
Maria Roberta Cappellini
visione dell’intero (intuitiva, propria della Philosophia Tradizionale). E’ quanto auspica il
dialogo interculturale e transdisciplinare che,
senza nulla togliere alle rispettive diversità, intende collegarle in modo fecondo ed in senso
uni-pluriversale, a salvaguardia della conoscenza , dell’ambiente e delle relazioni etniche e culturali, per un futuro sostenibile.
Su tutto questo si propone di riflettere il
Colloquium , proponendo di aprire un dialogo
intra- inter e trans-disciplinare tra scienza e filosofia, confrontandosi autocriticamente con
altre diverse visioni della realtà, su un tema
comune, partendo dal famoso distinguo panikkariano : “La scienza sull’infinito non è la
conoscenza dell’Infinito”.
BETWEEN INTERCULTURAL PHILOSOPHY
AND COMPLEXITY: ECOSOPHY, THE WISDOM OF DWELLING.
Dedicated to Raimon Panikkar
I think it is difficult or perhaps unnecessary to introduce Raimon Panikkar because I
believe that everyone here in some way, either in person or on books, have met the man
and his thinking. Disappeared on August 26,
Panikkar was philosopher, theologian, mystic,
poet, or simply a “border man” between East
and West, having lived on several continents
simultaneously. Forerunner of the intercultural and interreligious dialogue (with particular
reference to Christianity, Buddhism, Hinduism
and secularism) Panikkar was an example of
contemporary sage, able to combine the intellectual and contemplative aspects with a deep
humanitarian feeling, with "a global compassion "(Prabhu). In this sense, especially for
12
those who have had the privilege to know and
meet him personally Raimon Panikkar has
undoubtedly represented the figure of a
Master.
“One of the greatest synthesis of the
twentieth century”: this is how Edgar Morin
depicts Raimon Panikkar, in the volume Ethics, in his Method, naming him along with
other non-western intellectual authorities
(such as Gandhi, Mandela, the Dalai Lama,
etc.) who opened the contemporary consciousness to the Earth concern and to a lively
interest in humanity. With equal admiration
Panikkar referred to Edgar Morin, estimating
his enlightened thinking of Complexity.
To the philosopher who recently died, is
dedicated the 1st International Colloquium
CIRPIT (Intercultural Center Dedicated to Raimon Panikkar). A meeting about Ecosophy between Intercultural Philosophy and Thought
of Complexity, between science and tradition.
A subject particularly dear to Panikkar and
Morin, both supporters, even if from different
sides, of the need for a profound transformation in our times, aiming to the very survival
of man and planet. In that regard Panikkar
spoke of "metamorphosis" in the etymological
meaning, using the metaphor of the chrysalis,
which leaves the cocoon to a new form of life.
A transformation in depth, that neither
the Easts nor the Wests would be able to achieve individually, without dialogue, mutual
relationship, and critique of modernity. The
man of "civilized" times has progressively alienated himself from nature, from cosmos
and from divine, forgetting that his body is
similar to the earth and losing consciousness
of nature rhythms and sacredness. As a matter of fact the earth is not only a place, a pla-
Maria Roberta Cappellini
net, but chiefly a symbol of the whole reality
as well. Man must therefore recover his roots,
that' humus' characterizing his state of contingency, which, paradoxically constitutes the
point of tangency with the divine. In order to
achieve a change of mentality. Radical. In particular it’s now necessary for him to go beyond logos regaining mythos, as thought
cannot get over itself.
Panikkar proposes "a cosmotheandric
cosmology " that can re-open man to the
three forms of knowledge: empirical, intellectual and mystic-holistic, three forms that are
constitutively in mutual terms of relationship.
What emerges from this vision is a man who is
essentially "polis," tribe, community. A deeprooted, carnal, political (not party politics)
community, including all living forms (things,
animals, human beings and gods), where everything is related to everything. The approach (not system) proposed here is not global
but holistic and cannot be confused with the
abstract absolute ideal of universal human values, but rather be applied to the different
concrete human experiences.
and calculating use of rationality, as: "Science
about Infinity is not knowledge of the Infinite." (Panikkar)
Briefly, today we should try to gain a
more complex and trans-disciplinary view
(Morin). It’s the old story of Icarus’s flight and
his fall, as depicted in Bruegel famous picture,
a metaphor of human daring intuition. In this
sense, as Edgar Morin asserts, it’s up to Icarus
to free ourselves from the prehistory of the
human mind. Both Morin and Panikkar in a
very similar way, even if through different approaches, invite contemporary man to open
his mind, according to a paradoxical logic (or
“a-dualistic”, as in Panikkar’s terms ) in order
to combine the analytical vision ( rational, according to science) with the vision of the whole (intuitive, according to Traditional
Philosophia). This is what the transdisciplinary
and intercultural dialogue suggests, in full
compliance of their diversities, trying to connect them in a fruitful, uni-pluriversal way, to
protect knowledge, environment and cultural
and ethnic relations, for a sustainable future.
Panikkar’s ecosophic message calls for
the reclamation of the natural order of the
universe as a whole, not only through an
awareness of the rights of men and animals
but also through a different consciousness of
the earth, to be considered not as a dead
body, but as a living organism, as a subject.
We’re invited to keep open an inter-transdisciplinary dialogue between science, philosophy and theology, as disciplines belonging
to the same cosmological context, comparing
ourselves self-critically with other different
views of reality, trying to emancipate ourselves from our exclusive conceptual thought
13
Maria Roberta Cappellini
net, but chiefly a symbol of the whole reality
as well. Man must therefore recover his roots,
that' humus' characterizing his state of contingency, which, paradoxically constitutes the
point of tangency with the divine. In order to
achieve a change of mentality. Radical. In particular it’s now necessary for him to go beyond logos regaining mythos, as thought
cannot get over itself.
Panikkar proposes "a cosmotheandric
cosmology " that can re-open man to the
three forms of knowledge: empirical, intellectual and mystic-holistic, three forms that are
constitutively in mutual terms of relationship.
What emerges from this vision is a man who is
essentially "polis," tribe, community. A deeprooted, carnal, political (not party politics)
community, including all living forms (things,
animals, human beings and gods), where everything is related to everything. The approach (not system) proposed here is not global
but holistic and cannot be confused with the
abstract absolute ideal of universal human values, but rather be applied to the different
concrete human experiences.
and calculating use of rationality, as: "Science
about Infinity is not knowledge of the Infinite." (Panikkar)
Briefly, today we should try to gain a
more complex and trans-disciplinary view
(Morin). It’s the old story of Icarus’s flight and
his fall, as depicted in Bruegel famous picture,
a metaphor of human daring intuition. In this
sense, as Edgar Morin asserts, it’s up to Icarus
to free ourselves from the prehistory of the
human mind. Both Morin and Panikkar in a
very similar way, even if through different approaches, invite contemporary man to open
his mind, according to a paradoxical logic (or
“a-dualistic”, as in Panikkar’s terms ) in order
to combine the analytical vision ( rational, according to science) with the vision of the whole (intuitive, according to Traditional
Philosophia). This is what the transdisciplinary
and intercultural dialogue suggests, in full
compliance of their diversities, trying to connect them in a fruitful, uni-pluriversal way, to
protect knowledge, environment and cultural
and ethnic relations, for a sustainable future.
Panikkar’s ecosophic message calls for
the reclamation of the natural order of the
universe as a whole, not only through an
awareness of the rights of men and animals
but also through a different consciousness of
the earth, to be considered not as a dead
body, but as a living organism, as a subject.
We’re invited to keep open an inter-transdisciplinary dialogue between science, philosophy and theology, as disciplines belonging
to the same cosmological context, comparing
ourselves self-critically with other different
views of reality, trying to emancipate ourselves from our exclusive conceptual thought
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Maria Roberta Cappellini
I°Colloquium Internazionale Cirpit, 2-3 Dicembre 2010
“LA DIMORA DELLA SAGGEZZA: L’ECOSOFIA TRA FILOSOFIA
INTERCULTURALE E PENSIERO DELLA COMPLESSITÀ”
Omaggio a Raimon Panikkar
Presentazione di Maria Roberta Cappellini
Penso sia difficile o forse inutile presentare la figura di Raimon Panikkar perché credo
che tutti i presenti in qualche modo, o di persona o sui libri abbiano conosciuto l’uomo e il
suo pensiero. Scomparso il 26 agosto scorso,
Panikkar è stato filosofo, teologo, mistico, poeta, oppure più semplicemente uomo di confine tra i diversi mondi dell’oriente e
dell’occidente, avendo vissuto contemporaneamente in vari continenti. Antesignano
dell’intercultura e del dialogo interreligioso
(riferito in particolare a Cristianesimo, Buddhismo, Induismo e Secolarità) Panikkar è stato un esempio di saggio contemporaneo che
ha saputo combinare l’aspetto intellettuale e
contemplativo ad un profondo sentimento
umanitario, ad “una compassione globale”(Prabhu). In questo senso e soprattutto per
chi ha avuto il privilegio di conoscerlo e frequentarlo Raimon Panikkar ha rappresentato
indubbiamente la figura di un Maestro.
“Una delle più grandi sintesi del ‘900” :
così Edgar Morin lo definiva nel volume del
Metodo dedicato all’Etica, nominandolo insieme ad altre personalità ed autorità intellettuali non occidentali (Gandhi, Mandela, il
Dalai Lama ecc) le quali hanno aperto la contemporaneità alla coscienza del problema
planetario e umanitario. Con eguale ammirazione Panikkar si esprimeva nei riguardi di
Edgar Morin stimando profondamente il suo
illuminato Pensiero della Complessità. Questo
rappresenta uno dei motivi del titolo del nostro Colloquium, pensato in senso interculturale e transdisciplinare, sulla scia del dialogo
contemporaneo tra scienza e tradizione, tra
Filosofia della Scienza, in particolare la complessità della scuola di Edgar Morin e Filosofia
della Tradizione, nello specifico l’Interculturalità di R. Panikkar.
Il soggetto dell’Ecosofia scelto come
tema del Colloquium è stato un argomento
particolarmente caro ai due filosofi, entrambi
sostenitori della necessità di una profonda
trasformazione nella nostra epoca, al fine della stessa sopravvivenza planetaria. A tal riguardo Panikkar parlava di “metamorfosi”
nell’accezione etimologica di mutazione radicale, utilizzando la metafora della crisalide che
abbandona il bozzolo per una nuova forma di
vita. Una trasformazione in profondità, che né
gli orienti né gli occidenti individualmente riuscirebbero a realizzare, se non entrando in relazione di reciprocità e mutua fecondazione,
attraverso il dialogo e la critica della modernità.
9
Maria Roberta Cappellini
In particolare davanti alla nostra contemporaneità Panikkar parlava di tre catastrofi: quella ecologica incombente, quella psicologica visibile e quella economica reale,
comprendendole in un unico fenomeno: “la
sindrome del villaggio globale” (comprensiva
del mercato globale, del governo mondiale,
della democrazia planetaria, della scienza universale, monocultura, monoteismo ecc)1 . E
ponendosi in senso critico davanti a tale panorama, osservava che se il fenomeno da un
lato rivela un allargamento della conoscenza
dei popoli e degli orizzonti fisici e psicologici
ed una diffusa tendenza generale verso
l’unità, dall’altro evidenzia un mito distruttivo
totalitario e colonialistico. Panikkar ne ritrae il
quadro: olocausti, guerre, impoverimento diffuso, una crescita senza omeostasi, in cui ha
predominato l’accelerazione, alla quale ogni
individuo sottomette la vita e la natura, ma
soprattutto la separazione, la frammentazione
della dimensione umana e del sapere che è
diventato esclusivamente specialistico, per
contro alienando l’uomo dalla vita. Ancor più
l’esperimento di divisione della realtà si è
spinto fino al frazionamento dell’atomo e come inevitabile conseguenza, di noi stessi. Il risultato è che non si riesce più a ricomporre
tutto quello che si è scoperto e nello stesso
tempo l’obiettivo di tale ricerca non ha prodotto alcuna pietra filosofale. L’ecologia ha
costituito forse il risveglio di una certa consapevolezza, ma ha continuato a proporre soluzioni tecnologiche proseguendo quindi
secondo l’atteggiamento strumentale nei confronti della Natura. Su questo punto è necessario pertanto interrogarsi poiché per quanto
1
Raimon Panikkar, Ecosofia: la nuova saggezza. Per
una spiritualità della terra, Cittadella Editrice, Assisi,
1993, p.39
10
concerne l’epoca“civilizzata”, secondo Panikkar, non è cambiata la mentalità, che continua
ad essere separativa, dualistica, alienando
progressivamente l’uomo dalla natura, dal cosmo e dal divino, dimenticando che il corpo
umano è analogo alla terra: di entrambi infatti
si sono perse la coscienza, la sacralità e i ritmi
naturali.
Ma la terra non è solamente luogo, pianeta, in quanto essa è fondamentalmente
simbolo della realtà intera. Pertanto recuperare l’ordine naturale dell’universo nella sua
interezza, non solo attraverso una coscienza
dei diritti degli uomini e degli animali ma anche attraverso una diversa coscienza della
terra, da considerare non come corpo inerte,
ma come organismo vivente, come soggetto,
è quanto invita a fare il messaggio ecosofico
di Panikkar (collegandosi a chi coniò per primo
il termine: Arne Naess). E’ necessario pertanto
recuperarne le radici, quell’”humus” proprio
dello stato di contingenza, che avvicina paradossalmente l’uomo al punto di tangenza con
il divino. Per giungere ad un cambiamento di
mentalità. Un cambiamento radicale che sappia far tesoro del logos senza assolutizzarlo,
recuperando il mythos. Panikkar propone “una dimensione cosmoteandrica”, olistica, che
riapra l’uomo contemporaneamente alle tre
forme di conoscenza: quella empirica, quella
intellettuale e quella olistico-mistica, tre forme che costitutivamente si co-appartengono
essendo in reciprocità di relazione, affinchè
possa riemergere nella sua struttura fondamentale di “polis”, ossia di tribù, di comunità.
Comunità radicata, carnale, politica (non partitica), comprensiva cioè di tutte le forme viventi (cose, animali, uomini e dèi), in cui tutto
Maria Roberta Cappellini
è in relazione con tutto.2 L’approccio (non sistema) olistico (non globale) non deve essere
confuso con l’ideale universalistico di assolutizzazione dei valori umani. Né l’Intero con il
Tutto, in quanto il pensiero fa parte
dell’Intero/Realtà, la modifica, ma non
l’esaurisce. Panikkar suggerisce un ordine adualistico di intelligibilità, diverso dall’evidenza razionale, assumendolo come intrinsecamente pluralistico. L’Intero non ha né nome, né concetto, né cosa. Non si tratta della
somma delle parti, ma di un orizzonte di intelligibilità. In tal senso esso dà luogo non ad un
sistema, ma ad un’attitudine.
Ne segue che non si tratta di applicare
riforme, distribuire ricchezze o di mettere a
punto una tecnologia se prima non si effettua
un profondo cambiamento a monte: ciò che
deve cambiare profondamente, radicalmente
è in primo luogo l’atteggiamento dell’uomo
sulla terra. La situazione di emergenza lo richiede. E’ necessario pertanto porci secondo
una diversa visuale, più complessa e transdisciplinare come afferma Morin seppur da un
fronte diverso, ma in modo analogo a Panikkar.
Come dichiarato nel Manifesto della
Transdisciplinarietà, sottoscritto da Nicolescu,
da Morin e dai più grandi uomini di Scienza e
di pensiero, davanti alla minaccia della tecnoscienza seguace della logica univoca di produzione, davanti alle ingiustizie e povertà che affliggono differentemente i paesi del mondo, è
necessario accogliere la consapevolezza del rischio dell’auto-distruzione delle specie umane
e riacquisire la conoscenza dei molteplici livelli
2
Raimon Panikkar, Ecosofìa. Para una espiritualidad de
la tierra, Madrid, 1994, p.32, “La dimora della saggezza”, Mondadori, Milano, 1991, p.73
di realtà dipendenti da differenti logiche, al fine di sviluppare una più umana coscienza planetaria e cosmica aperta alle diverse discipline
ed alla mutua interazione di ciò che possono
condividere nell’interesse comune.3 E’ infatti
impossibile investigare una parte della realtà
senza essere coinvolti con il tutto: siamo tenuti pertanto ad uscire dai recinti specialistici e a
ricomporre l’infranto attraverso una visione
d’insieme, con apertura ai miti ed alle tradizioni, con rigore del pensiero e senso tollerante verso le diversità, non dimenticando che
l’approccio olistico è di tipo diretto e richiede
una rivalutazione della sensibilità, dell’intuizione e dell’immaginazione: del cuore oltre
che della mente. I due si danno inseparabilmente poiché appartenenti alla medesima
sorgente. Panikkar parla di un approccio di
conoscenza/amore, privo di sintesi dialettiche, quanto piuttosto aperto al dialogo che
potrà forse sollecitare l’auspicata trasformazione.
È la storia del volo di Icaro e della sua
caduta, nel quadro di Bruegel, come ricorda
Morin metafora dell’intuizione audace che diviene realtà, poiché a ben vedere è dopo un
gran numero di Icari sempre più evoluti che
l’uomo è giunto al primo aereo.4 Sarebbe pertanto l’azzardo utopico di Icaro a farci uscire
dalla preistoria della mente umana, ad indicare un pensiero più aperto ed una logica paradossale (o a-dualistica in termini panikkariani),
al fine di coniugare la visione delle parti (analitica, razionale, propria della scienza ) con la
3
Basarab Nicolescu, “Manifesto of Transdisciplinaity”,
State University of New York Press, 2002
4
Edgar Morin, Introduzione al pensiero complesso,
Sperling & Kupfer, Milano 1990, p.32, “L’identità umana”, Il Metodo, 5, RaffaelloCortinaEditore, Milano,
2002, pp. 109-112
11
Maria Roberta Cappellini
visione dell’intero (intuitiva, propria della Philosophia Tradizionale). E’ quanto auspica il
dialogo interculturale e transdisciplinare che,
senza nulla togliere alle rispettive diversità, intende collegarle in modo fecondo ed in senso
uni-pluriversale, a salvaguardia della conoscenza , dell’ambiente e delle relazioni etniche e culturali, per un futuro sostenibile.
Su tutto questo si propone di riflettere il
Colloquium , proponendo di aprire un dialogo
intra- inter e trans-disciplinare tra scienza e filosofia, confrontandosi autocriticamente con
altre diverse visioni della realtà, su un tema
comune, partendo dal famoso distinguo panikkariano : “La scienza sull’infinito non è la
conoscenza dell’Infinito”.
BETWEEN INTERCULTURAL PHILOSOPHY
AND COMPLEXITY: ECOSOPHY, THE WISDOM OF DWELLING.
Dedicated to Raimon Panikkar
I think it is difficult or perhaps unnecessary to introduce Raimon Panikkar because I
believe that everyone here in some way, either in person or on books, have met the man
and his thinking. Disappeared on August 26,
Panikkar was philosopher, theologian, mystic,
poet, or simply a “border man” between East
and West, having lived on several continents
simultaneously. Forerunner of the intercultural and interreligious dialogue (with particular
reference to Christianity, Buddhism, Hinduism
and secularism) Panikkar was an example of
contemporary sage, able to combine the intellectual and contemplative aspects with a deep
humanitarian feeling, with "a global compassion "(Prabhu). In this sense, especially for
12
those who have had the privilege to know and
meet him personally Raimon Panikkar has
undoubtedly represented the figure of a
Master.
“One of the greatest synthesis of the
twentieth century”: this is how Edgar Morin
depicts Raimon Panikkar, in the volume Ethics, in his Method, naming him along with
other non-western intellectual authorities
(such as Gandhi, Mandela, the Dalai Lama,
etc.) who opened the contemporary consciousness to the Earth concern and to a lively
interest in humanity. With equal admiration
Panikkar referred to Edgar Morin, estimating
his enlightened thinking of Complexity.
To the philosopher who recently died, is
dedicated the 1st International Colloquium
CIRPIT (Intercultural Center Dedicated to Raimon Panikkar). A meeting about Ecosophy between Intercultural Philosophy and Thought
of Complexity, between science and tradition.
A subject particularly dear to Panikkar and
Morin, both supporters, even if from different
sides, of the need for a profound transformation in our times, aiming to the very survival
of man and planet. In that regard Panikkar
spoke of "metamorphosis" in the etymological
meaning, using the metaphor of the chrysalis,
which leaves the cocoon to a new form of life.
A transformation in depth, that neither
the Easts nor the Wests would be able to achieve individually, without dialogue, mutual
relationship, and critique of modernity. The
man of "civilized" times has progressively alienated himself from nature, from cosmos
and from divine, forgetting that his body is
similar to the earth and losing consciousness
of nature rhythms and sacredness. As a matter of fact the earth is not only a place, a pla-
Maria Roberta Cappellini
net, but chiefly a symbol of the whole reality
as well. Man must therefore recover his roots,
that' humus' characterizing his state of contingency, which, paradoxically constitutes the
point of tangency with the divine. In order to
achieve a change of mentality. Radical. In particular it’s now necessary for him to go beyond logos regaining mythos, as thought
cannot get over itself.
Panikkar proposes "a cosmotheandric
cosmology " that can re-open man to the
three forms of knowledge: empirical, intellectual and mystic-holistic, three forms that are
constitutively in mutual terms of relationship.
What emerges from this vision is a man who is
essentially "polis," tribe, community. A deeprooted, carnal, political (not party politics)
community, including all living forms (things,
animals, human beings and gods), where everything is related to everything. The approach (not system) proposed here is not global
but holistic and cannot be confused with the
abstract absolute ideal of universal human values, but rather be applied to the different
concrete human experiences.
and calculating use of rationality, as: "Science
about Infinity is not knowledge of the Infinite." (Panikkar)
Briefly, today we should try to gain a
more complex and trans-disciplinary view
(Morin). It’s the old story of Icarus’s flight and
his fall, as depicted in Bruegel famous picture,
a metaphor of human daring intuition. In this
sense, as Edgar Morin asserts, it’s up to Icarus
to free ourselves from the prehistory of the
human mind. Both Morin and Panikkar in a
very similar way, even if through different approaches, invite contemporary man to open
his mind, according to a paradoxical logic (or
“a-dualistic”, as in Panikkar’s terms ) in order
to combine the analytical vision ( rational, according to science) with the vision of the whole (intuitive, according to Traditional
Philosophia). This is what the transdisciplinary
and intercultural dialogue suggests, in full
compliance of their diversities, trying to connect them in a fruitful, uni-pluriversal way, to
protect knowledge, environment and cultural
and ethnic relations, for a sustainable future.
Panikkar’s ecosophic message calls for
the reclamation of the natural order of the
universe as a whole, not only through an
awareness of the rights of men and animals
but also through a different consciousness of
the earth, to be considered not as a dead
body, but as a living organism, as a subject.
We’re invited to keep open an inter-transdisciplinary dialogue between science, philosophy and theology, as disciplines belonging
to the same cosmological context, comparing
ourselves self-critically with other different
views of reality, trying to emancipate ourselves from our exclusive conceptual thought
13
Giuseppe Cognetti
I°Colloquium Internazionale Cirpit, 2-3 Dicembre 2010
“LA DIMORA DELLA SAGGEZZA: L’ECOSOFIA TRA FILOSOFIA
INTERCULTURALE E PENSIERO DELLA COMPLESSITÀ”
Omaggio a Raimon Panikkar
Introduzione ai Lavori di Giuseppe Cognetti
Desidero avviare i lavori del Colloquium
leggendo un testo, tratto da Colligite
Fragmenta, che potrebbe valere come
“manifesto” della prospettiva di R.Panikkar: “È
giunto il momento di iniziare a raccogliere i
frammenti sia della cultura moderna, che
eccelle nell’analisi e nella specializzazione, che
delle diverse civiltà del mondo. Non possiamo
consentire ad alcuna religione, cultura o
frammento di realtà – anche se etichettato
come “rimasuglio” di una civiltà posteriore o
un pezzo rotto da un più alto grado di
coscienza – di essere dimenticato, negletto o
tralasciato, se dobbiamo conquistare quella
totale ricostruzione della realtà che diventa
imperativa oggi”. Queste parole, che,come gli
aforismi di Nietzsche, andrebbero “ruminate”
a lungo, hanno vaste e profonde implicazioni
alle quali qui non possiamo neanche
accennare.
Vale però forse la pena di sottolineare,
riprendendo alcune lucide riflessioni di G.
Pasqualotto, che il problema dell’intercultura,
posto con vigore dal testo panikkariano
succitato, oggi non può che essere pensato in
un contesto dominato dal processo,ormai
irreversibile,della globalizzazione, che sembra
andare proprio nella direzione opposta
all’auspicio di Panikkar.
Il dato più evidente che questo processo
14
mette in luce, e che sarebbe bene accettassero fino in fondo soprattutto coloro che
utilizzano strumenti di analisi della realtà di
provenienza marxiana, spesso invece ancora
irretiti in un astratto utopismo, è che negli
ultimi due secoli della storia dell’Occidente si
è venuta imponendo una colossale inversione
di tendenza per la quale la prevalenza del
potere politico su quello economico ha
progressivamente ceduto ad una netta prevalenza del potere economico (e tecnologico) su
quello politico.
Non sembrano esserci più ostacoli
strutturali all’avanzata della globalizzazione,
che quindi procede sempre più velocemente
sia in profondità (uniformità crescente di
pensiero e comportamento,che neutralizza
qualsiasi residua fiducia nell’antagonismo
delle “moltitudini”) che in estensione (si pensi
alla Cina e all’India). Pasqualotto osserva
giustamente che alla domanda posta alcuni
anni fa da Cacciari – “È concepibile che il
mondo venga ‘conquistato’ da un sistema di
poteri assolutamente deterritorializzato, da
una ‘super-società’ dominante le risorse
finanziarie ed i mezzi di informazione, e di cui
le leadership politiche nazionali siano sempre
più o diretta espressione o variabile
dipendente?”, si è oggi costretti a rispondere
affermativamente. Richiamandoci al grande
Schopenhauer, si potrebbe dire che il mondo
Giuseppe Cognetti
attuale è la piena oggettivazione di quella
cieca, irrazionale (perché non c’è nulla di
razionale nei miti sottesi ai processi di
globalizzazione) e insensata Volontà ch’egli
poneva a fondamento della realtà.
Mi piace dire che la morte della Politica
è una sorta di seconda “morte di Dio”, che
Nietszche faceva annunciare all’”uomo folle”
nell’af.125 della Gaia Scienza.Per molti, che
hanno creduto e ancora credono nella
Politica, valgono le parole con cui Nietzsche
nel medesimo aforisma descriveva gli effetti
devastanti dell’evento: “In che direzione ci
muoviamo? Lontano da ogni sole? Non
precipitiamo sempre più?…Non scende
sempre più notte?”.Però sempre Nietzsche,
nell’af.343, sottraendosi al rischio incombente
del pessimismo di debolezza, o nichilismo
decadente, scriveva, versus un pessimismo di
forza o nichilismo dionisiaco: “In effetti noi
filosofi e ‘spiriti liberi’ ci sentiamo, alla notizia
che il ‘vecchioDio è morto’, come sfiorati da
una nuova aurora…l’orizzonte ci sembra di
nuovo libero…il mare aperto è di nuovo là, e
forse non c’è mai stato un mare così ‘aperto’”.
È possibile rispondere con “più vita” ,
con una nuova progettualità, ma consapevole
dei suoi limiti, alle conseguenze spesso
mortifere della globalizzazione economica, e,
per riprendere ancora Pasqualotto, declinarla
in termini terapeutici, di ritrovamento sul
piano esistenziale di un senso, indirizzata
soprattutto alle vittime potenziali e attuali dei
processi irreversibili, propriamente ‘satanici’,
(Satana è l’”Avversario” per antonomasia),
che stanno distruggendo ogni relazione
umana (comprese le relazioni fra culture)
significativa?
Se siamo onestamente coscienti del
carattere marginale e testimoniale di qualsiasi
progetto interculturale, e non ci facciamo
illusioni, per es., sullo stato di salute delle
culture “orientali” (le gandi case editrici
indiane oggi stampano i testi tradizionali della
cultura e spiritualità hindu quasi esclusivamente per gli occidentali), possiamo
sforzarci di rimemorizzare in Occidente, e farli
dialogare “dialogicamente” con le nostre
tradizioni religiose, di pensiero etc., aspetti di
orizzonti di senso, di kosmologie e “miti”,
direbbe Panikkar, che rischiano di inabissarsi e
i cui valori sono oggettivamente sovversivi
rispetto ai modelli di vita veicolati dalla
globalizzazione, e sono molto in sintonia ,per
tacer d’altro, con i momenti alti, per es., del
pensiero femminile del Novecento (si pensi a
Maria Zambrano e Simone Weil) e con il
pensiero della “complessità”.
La globalizzazione è molto potente, ma
non è onnipotente, e il divenire storico mostra
il fallimento disastroso dei sogni generati
dall’inflazione psichica di collettività o
individui. Non dovremmo dimenticare che i
grandi processi di trasformazione ed
evoluzione e ampliamento della coscienza (e
oggi è fondamentale il dispiegarsi di un’accelerazione evolutiva per uscire dalle secche in
cui siamo impantanati) hanno lunghissimi
periodi di gestazione nell’inconscio (dimensione con la quale occorrerebbe cominciare
seriamente a familiarizzarci), e oggi si
moltiplicano i segni di un insieme di “stati
emergenti”, di sensibilità e consapevolezze (si
pensi all’ampiezza e diffusione dei movimenti
per la salvaguardia dell’ambiente, da una
prospettiva puramente “ecologica” all’orizzonte “ecosofico”, il tema di questo primo
Colloquium del Centro Panikkar) che possono
essere segni precursori (se la struttura
psicologica degli esseri umani sarà all’altezza,
come osserva C.G.Jung nell’interessantissimo
saggio del 1957 Presente e Futuro) di un
grande cambiamento.
15
Intercultural Session – Giuseppe Cacciatore
CITTADINANZA INTERCULTURALE
Giuseppe Cacciatore
Giuseppe Cacciatore
(Video)
1. Il concetto di cittadinanza e la pratica
interculturale
«Voler instaurare un “modo di pensare
unico” o una civiltà unica è un peccato di lesa
umanità che deriva dal fatto di avere confuso
il pensiero con l’astrazione. Il concetto “uomo” non esaurisce ciò che è l’uomo.
L’interculturalità è indispensabile per non cadere in una visione monolitica delle cose che
può sfociare nel fanatismo»1. Inizio con questa
citazione di Panikkar, non solo per rendere
omaggio al filosofo, al teologo, al grande intellettuale al quale è dedicato questo convegno,
ma per sottolineare ciò che egli da tempo aveva ben capito e su cui aveva fecondamente
riflettuto: la centralità che sempre più ha assunto e assumerà il tema dell’interculturalità.
Tema che io, in questo mio intervento, analizzerò nella sua relazione col concetto e la prassi della cittadinanza.
1 Cfr. R. Panikkar, Pace e interculturalità. Una riflessione filosofica, a cura di M. Carrara Pavan, Jaca Book, Milano 2002, p. 12.
16
Credo che sia oggi necessario acquisire
una consapevolezza critica – che è anche informazione, conoscenza, capacità di giudizio
storico ed etico – del concetto di cittadinanza,
il quale non deve diventare un magico passepartout buono per ogni situazione e per ogni
latitudine storico-culturale o uno slogan da
sbandierare con innocente retorica o, peggio
ancora, con colpevole intenzione propagandistica. L’idea di cittadinanza deve passare dal
pur importante livello del dibattito concettuale e della chiarificazione teorica, ad una pratica di vita quotidiana, di educazione
permanente ai valori civili riconosciuti e condivisi nel continuo intercambio tra il patto costituzionale fondativo e l’insieme delle
tradizioni e delle specificità umane e culturali
della comunità di appartenenza. Essa deve
trasformarsi da passiva attribuzione di qualificazioni giuridiche in attiva costruzione di momenti partecipativi al governo del territorio.
Così come non basta aver letto e assimilato
Montesquieu e Toqueville per agire democraGiuseppe Cacciatore,
Università degli Studi di Napoli “Federico II”
Intercultural Session – Giuseppe Cacciatore
ticamente e per testimoniare una pratica democratica, allo stesso modo non basta aver
letto le analisi contemporanee di Marshall o di
Dahrendorf2 per ritenersi automaticamente
capaci di esprimere livelli di pratica della cittadinanza attiva. Per essere più concreti, con
l’idea di cittadinanza attiva, si tratta – sia pur
senza cadere in astratti schematismi – di costruire nella determinatezza di situazioni storico-sociali e culturali di ogni città e di ogni
dimensione urbana le occasioni di una pratica
effettività dell’insieme dei diritti dei quali è titolare ogni appartenente alla comunità.
tate delle discariche per i problemi causati
dalla globalizzazione» (forse Baumann non
immagina quanto corposa possa essere per gli
abitanti di molte città italiane la sua metafora). E, tuttavia, il riferimento a Bauman consente di individuare un ragionevole e
plausibile modello, al tempo stesso teorico e
pratico, di politica e di nuovo diritto della cittadinanza . La sua applicabilità non è certo facile (come non è facile ogni passaggio
possibile dalla paura alla fiducia), giacché si
tratta dell’arduo compito di «trovare soluzioni
locali alle contraddizioni globali».
Che la città di oggi, la «città globale»,
come l’ha definita Zygmunt Bauman, stia attraversando una inedita fase storica che fa di
essa l’asse focale delle trasformazioni culturali, psicologiche, sociali ed economiche del XXI
secolo, è ormai dato incontrovertibile. La città
postmoderna rappresenta il luogo di una contraddizione strategica di fondo: quella della
concentrazione in essa delle funzioni più avanzate del capitalismo finanziario e telematico e della contemporanea presenza di una
spaccatura sempre più radicale tra la città della sicurezza3 e della ricchezza (dominata anche
visivamente dai simboli della difesa dalla paura: guardie private, ronde di quartiere, sistemi
elettronici, esercito nelle strade, recinzioni e
inferriate) e la città invivibile dell’insicurezza
economica, del disagio, della violenza, delle
nuove e vecchie povertà. Non solo, ma, come
osserva ancora Bauman4 «le città sono diven-
Eppure, anche se ormai la politica locale
appare “sovraccarica” di quei problemi che su
essa riversa l’inadeguata politica di fronteggiamento degli effetti della globalizzazione,
non si può non ripartire dai “luoghi” della cittadinanza, dai luoghi in cui si può sperimentare la pratica interculturale, in cui si forma e si
consolida l’esperienza del vivere condiviso, in
cui questa esperienza viene elaborata e trasformata in norme comuni e sempre negoziabili nell’interesse generale della collettività,
dai luoghi infine dell’incontro con gli altri, con
i diversi, con lo straniero immigrato, dai luoghi
dove finalmente prevalga la mixofilia sulla mixofobia.
2 Mi riferisco all’ormai classico libro di T.H. Marshall,
Cittadinanza e classe sociale (1950), Utet, Torino 1976.
Si veda anche R. Dahrendorf, Al di là della crisi, Laterza,
Roma-Bari 1984.
3 Bauman parla dell’insicurezza come una delle più «infauste e dolorose tra le angustie contemporanee» (cfr.
Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2000, pp. 13 e ss.).
4 Z. Bauman, Fiducia e paura nella città, Bruno Mondadori, Milano 2005, pp. 19 e ss.
2. La funzione di giuntura della terza generazione di diritti
Qui occorre un chiarimento. Spesso i diritti di cittadinanza sono stati individuati e definiti in una sorta di terza generazione dei
diritti, che verrebbe dopo i diritti politici e
quelli sociali. Si fa cioè riferimento ai diritti
all’informazione, alla comunicazione, al tempo
libero, all’ambiente, alla gestione del proprio
corpo, del proprio patrimonio genetico e di
quello di chi verrà dopo di noi. È indubbio che
si tratta di ambiti spesso inediti della vita e dei
17
Intercultural Session – Giuseppe Cacciatore
bisogni delle donne e degli uomini contemporanei. Ma guai a considerare, antistoricamente, la sequenza tra le tre generazioni di diritti
in una prospettiva evolutiva, dando cioè per
scontata l’acquisizione erga omnes dei diritti
politici e sociali. Basterebbe gettare uno
sguardo sul mondo, tanto globale quanto locale, per rendersi conto di come possa sembrare drammaticamente sarcastico invocare
diritti di cittadinanza là dove si soffre la mancanza degli altri elementari diritti alla dignità e
alla sopravvivenza. Si potrebbe tuttavia individuare nella cittadinanza attiva e interculturale l’elemento chiave di giuntura tra le varie
articolazioni dei diritti, una volta però che la si
intenda – come io la intendo e più avanti cercherò di argomentare – come reale riconquista della partecipazione politica nel suo senso,
però, più ampio e comprensivo, nel significato, cioè, originariamente aristotelico del governo della polis e non, dunque, come mero
esercizio del diritto al voto.
In tal senso si può parlare di una trasfigurazione della nozione classica di cittadinanza, di un suo ampliamento, un ampliamento
preparato dall’affermarsi di una teoria e di
una pratica dell’interculturalità. L’interculturalità non è soltanto la registrazione di livelli, più o meno garantiti dalla legge, di coesistenza di plurali culture in un determinato
territorio nazionale, ma è la ricerca di strategie che mettano in moto processi dinamici tra
identità complesse che si relazionano nel confronto tra stili e condotte di vita diversi e sul
terreno della partecipazione a istituzioni e a
servizi degli Stati investiti dai fenomeni immigratori.
Come ha spiegato con esemplare chiarezza Raimon Panikkar un discorso filosoficamente ed eticamente convincente sull’inter18
culturalità deve evitare al massimo paradigmi
olistici e parametri di uniformità astratta.
L’interculturalità è innanzitutto riconoscimento e valorizzazione delle differenze, senza che
questo dia adito all’esaltazione dei conflitti e
delle separatezze etnico-culturali. «Le differenze tra culture – scrive il filosofo catalano –
[…] sono anche differenze antropologiche»,
ma è proprio il rispetto per l’uomo che esige il
rispetto di ogni cultura umana5.
Se questo è vero, anche la cittadinanza e
i diritti che ad essa fanno riferimento (o i doveri che la sua giuridicità prescrive) non possono non misurarsi con il compito di una vera
e propria educazione e consapevolezza interculturali6. Questo significa che la trasformazione dell’idea di cittadinanza non dev’essere
valutata e compresa soltanto a partire dal
problema della sua applicabilità a un contesto
che non è più quello del suo tradizionale luogo di radicamento (lo Stato Nazione7), quanto,
piuttosto, dalla presa d’atto della sua ritrascrizione in termini, non solo politici ed economici – segnati dalla globalizzazione –, ma anche
interculturali, giacchè, grazie all’impatto stra5 Cfr. R. Panikkar, op.cit., pp. 12 e ss.
6 Sul rapporto tra cittadinanza e interculturalità come
processo educativo cfr. M. Santerini, Educare alla cittadinanza. La pedagogia e le sfide della globalizzazione,
Carocci, Roma 2001.
7 Si parla, nei dibattiti attuali sui diritti di cittadinanza,
della prevalenza di un modello “postwestfaliano” (in riferimento alla pace di Westfalia, 1648, che ridisegnò e
sanzionò i confini delle maggiori nazioni europee e costituì per così dire l’atto di nascita delle moderne sovranità statali). Su questo punto e sulla relativa
bibliografia cfr. S. Benhabib, I diritti degli altri. Stranieri,
residenti, cittadini, Cortina, Milano 2006, pp. 2 e ss. Il
problema delle migrazioni impone che si ripensi radicalmente l’idea di sovranità statale. «Da un punto di vista filosofico – osserva la filosofa della Yale – le
migrazioni transnazionali portano alla ribalta il dilemma
costitutivo che sta al cuore delle democrazie liberali:
quello tra le rivendicazioni del diritto sovrano
all’autodeterminazione, da una parte, e l’adesione ai
principi universali dei diritti umani, dall’altra».
Intercultural Session – Giuseppe Cacciatore
ordinario dei nuovi mezzi di comunicazione e
della produzione e riproduzione delle immagini, si sono enormemente dilatate e moltiplicate le occasioni di scambio di modelli
antropologici, di esperienze artistico-letterarie
e religiose, di vere e proprie ibridazioni culturali, fino a determinare tensioni, ora positive e
feconde, ora negative e nocive, tre vecchie e
nuove appartenenze. L’idea stessa e il complesso di norme e di ordinamenti che sono a
fondamento della territorialità sono sempre
più diventati anacronistici e, tuttavia, le politiche migratorie e i diritti di cittadinanza restano vincolati alla tradizionale titolarità statale
della sovranità. Si capisce, allora, come la definizione e la realizzazione di un «regime internazionale dei diritti umani»8 non sia da
considerare come un mero capitolo di filosofia
politica o un aspetto di un generoso programma cosmopolitico, ma come il vero punto cruciale dell’agenda politica dei prossimi
anni. Si tratta, in sostanza, per usare una indicazione di Benhabib, di rivendicare e attuare
un universale «diritto umano all’appartenenza»9 che non metta però in discussione
l’altro fondamentale diritto all’emigrazione.
Cosicché, l’accesso ai diritti di cittadinanza,
nel modo in cui esso viene configurandosi
nell’era della comunicazione e della trasmigrazione globale, si presenta come una modalità del diritto umano all’appartenenza, di un
«aspetto del principio universale del diritto,
cioè del riconoscimento dell’individuo quale
titolare di un diritto al rispetto morale e al riconoscimento della propria libertà comunicativa»10. Si profila, così, una chiara distinzione
tra i diritti derivanti da norme di giustizia internazionale e le norme di giustizia cosmopo8 Ivi, pp. 6 e ss.
9 Ivi, pp. 107 e ss.
10 Ivi, p. 113.
litica. Questi ultimi – come sostiene ancora
Benhabib, sviluppando alcune idee di Hannah
Arendt – appaiono vincolanti non soltanto per
gli Stati che sottoscrivono trattati e accordi,
ma anche e soprattutto per gli «individui in
quanto persone morali e giuridiche di una società civile globale»11.
3. Le ambivalenze della cittadinanza
La tematica dei diritti di cittadinanza, di
una cittadinanza che assume sempre più i
contorni di una esperienza, al tempo stesso,
globale e frammentata, tendenzialmente universalistica e al contempo plurale e relativa
nell’articolarsi e nello stratificarsi delle appartenenze che si incrociano in una medesima
persona (all’appartenenza di base, etnica e
familiare, si aggiungono quelle, per così dire,
culturali e sociali), diventa uno dei passaggi
cruciali della riflessione interculturale. Benhabib suggerisce alcune sensate analisi delle
“ambivalenze” che presenta oggi la frammentazione della cittadinanza12. Si tratta di un pro11 Cfr. S. Benhabib, Cittadini globali, il Mulino, Bologna
2008. Il titolare dei diritti cosmopolitici non è più solo lo
Stato e i suoi rappresentanti, ma i singoli individui, come mostra, osserva Benhabib, lo sviluppo e il consolidarsi di un diritto penale internazionale. Viene in tal
modo attuandosi un «passaggio definitivo da un modello di diritto internazionale basato sui trattati tra Stati a
un diritto cosmopolitico inteso come diritto pubblico
internazionale che vincola e sottomette il volere degli
Stati sovrani» (ivi, p. 15). Il presupposto filosofico di tale impostazione è l’adesione esplicita di Benhabib ad
una teoria critica del cosmopolitismo come variante
dell’etica universalistica del discorso di origine habermasiana.
12 Anche e forse soprattutto i giuristi individuano nella
cittadinanza una delle fondamentali fenomenologie
della democrazia contemporanea. Stefano Rodotà, ad
esempio, analizza le decisive trasformazioni della nozione di cittadinanza e parla di un ormai avvenuto attestarsi di una «cittadinanza a geometria variabile». S.
Rodotà, Repertorio di fine secolo, Laterza, Roma-Bari
1992, pp. 45 e ss. Uno studioso di teoria generale del
diritto, Giuseppe Zaccaria, ha osservato come «il processo di allargamento della cittadinanza ha contribuito
al riconoscimento delle differenze individuali e delle in-
19
Intercultural Session – Giuseppe Cacciatore
blema che non solo tocca le forme possibili
del dialogo interculturale e dell’espansione
planetaria dei diritti umani13, ma investe i modi in cui può essere ripensato l’insieme delle
regole democratiche che non riguardano più
terdipendenze che strutturano l’individualità stessa,
frantumando l’immagine di un individuo universale ed
astratto». G. Zaccaria, Questioni di interpretazione, Cedam, Padova 1996, pp. 36 e ss. Un recente contributo
alla chiarificazione storico-concettuale della cittadinanza e alla critica di alcuni suoi paradigmi è quello di R.
Ciccarelli, La cittadinanza. Una prospettiva critica, Aracne, Roma 2005.
Per la storia del concetto di cittadinanza cfr. P. Costa,
Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, voll. I-IV, Laterza, Roma-Bari 1999 e cfr. infine S. Mezzadra, Diritto
di fuga. Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione, Ombre Corte, Verona 2006.
13 La bibliografia sui diritti umani è ovviamente sterminata. Mi limito qui a richiamare alcuni studi recenti e, in
modo particolare, quelli più attinenti alle problematiche teorico-filosofiche qui affrontate. Cfr. H. Bielefeldt,
Philosophie der Menschenrechte. Grundlagen eines
weltweiten Freiheitsethos, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1998; Cfr. P. Barcellona. A. Carrino (a cura di), I diritti umani tra politica filosofia e
storia, Guida. Napoli 2003; F. Ciaramelli, I diritti umani
e il problema della cittadinanza, ivi, vol. II, pp. 29-51; A.
De Benoist, Universalité et non-universalité des droits
de l’homme, ivi, pp. 53-66; M. Kaufmann, Menschenrechte und internationale Gerechtigkeit, ivi, pp.143-164;
Id., Diritti Umani, Guida, Napoli 2009; B. Finelli, F. Fistetti, F.R. Recchia Luciani, P. Di Vittorio (a cura di),
Globalizzazione e diritti futuri, Manifestolibri, Roma
2004; F.S. Trincia, Diritti umani, coscienza, esistenza, ivi, pp.191-212; M. Chemillier-Gendreau, A quali condizioni garantire i diritti umani nella globalizzazione?, ivi,
pp. 215-227; Y.M. Boutang, Diritti dell’uomo, globalizzaiione e diritti umani futuri, ivi, pp. 241-269; I. Strazzeri, Riconoscimento e diritti umani. Grammatica del
conflitto nel processo di integrazione europea, Morlacchi, Perugia 2007; J. Gardner, “Semplicemente in quanto esseri umani”: titolari e giustificazioni dei diritti
umani, in «Ragion Pratica», 29, 2007, pp. 413-431; D.
Miller, Diritti umani, bisogni fondamentali e scarsità, ivi, pp. 433-447; J. Raz, Diritti umani senza fondamenti,
ivi, pp. 449-468; R. Dworkin, Cosa sono i diritti umani?
(2003), ivi, pp. 469-480. È ora disponibile una raccolta
antologica di interventi sui diritti umani (datati tra il
1973 e il 1995) della filosofa svizzera J. Hersch, I diritti
umani da un punto di vista filosofico, a cura di F. De
Vecchi e con una prefazione di R. De Monticelli, Bruno
Mondadori, Milano 2008. Si veda inoltre: V. Gessa Kurotschka, Diritti umani e vita, in F. Brezzi (a cura di), Pari
opportunità e diritti umani, Equal Opportunities and
Human Rights, Tor Vergata University Press on-line,
www.uptotorvergata-laterza.it, 2009.
20
esclusivamente il governo del locale e del territoriale. «Lo stato-nazione – così Benhabib –
si sta sgretolando, e il confine tra diritti umani
e diritti di cittadinanza tende a scomparire:
emergono così nuove forme di cittadinanza
deterritorializzata […]. Le enclave multiculturali di tutte le grandi città del mondo esibiscono i volti nuovi di una cittadinanza non più
fondata sull’adesione esclusiva a un territorio
e a una tradizione»14.
La cittadinanza frammentata15 e democraticamente regolata diventa, se così si può
dire, la “condizione di possibilità” nella individuazione e creazione di relazioni tra multiple
e diverse articolazioni culturali, religiose, linguistiche, ma diventa anche l’auspicabile ponte di passaggio dalla teoria alla pratica
dell’interculturalità, giacché soltanto partecipazioni attive e costruzioni di vere e proprie
istituzioni interculturali (nella scuola, nella società, nel governo dei territori locali) possono
dar vita ai nuovi diritti di una cittadinanza cosmopolitica16.
Bisogna
perciò
uscire
14 S. Benhabib, Cittadini globali, cit., p. 139. Sul tema
della necessaria relazione tra interculturalità, diritti
umani e cittadinanza come pratica democratica cfr A.
Papisca, Cittadinanza e cittadinanze, ad omnes includendos: la via dei diritti umani, in M. Mascia (a cura di),
Dialogo interculturale, diritti umani e cittadinanza plurale, Marsilio, Venezia 2007.
15 «Siamo giunti – scrive Benhabib – ad una fase
dell’evoluzione politica che segna la fine del modello
unitario di cittadinanza, che intrecciava la residenza in
un territorio delimitato con l’amministrazione di un popolo percepito quale entità più o meno coesa.
L’esaurimento di quel modello non implica
l’obsolescenza della sua presa sulla nostra immaginazione politica o della sua forza normativa nel guidare le
istituzioni vigenti. Significa piuttosto che dobbiamo essere pronti a immaginare forme di agency e soggettività politica capaci di anticipare nuove forme della
cittadinanza politica» (ivi, p. 143).
16 Sulla necessità, per le società e le nazioni occidentali
di tradizione liberale e democratica, di passare dal mito
di un astratto universalismo democratico esportabile
con ogni mezzo (anche la guerra, purtroppo), ad una
concreta ipotesi di “democrazia cosmopolitica”, cf. D.
Archibugi, Cittadini del mondo: verso una democrazia
Intercultural Session – Giuseppe Cacciatore
dall’ambivalenza di una situazione in cui i diritti di emigrazione e di ospitalità vengano deliberati escludendo dalla decisione coloro che
di quei diritti potrebbero divenire titolari. La
soluzione che al dilemma dà Benhabib è convincente, anche perché essa non fa che elaborare una teoria che è già dentro la pratica
delle norme e delle procedure di riforma e di
emendamento delle principali costituzioni
democratiche contemporanee. Si tratta di un
«processo continuo di autocreazione costituzionale», basato innanzitutto sulla capacità
autocorrettiva delle regole democratiche, su
ciò che Benhabib definisce iterazioni democratiche, cioè sull’insieme dei momenti di
pubblica discussione e di deliberazione da
parte delle istituzioni giuridiche e politiche,
ma anche da parte delle associazioni della società civile, «attraverso i quali le rivendicazioni
e i principi universalistici dei diritti vengono
contestati e contestualizzati, invocati e revocati, proposti e situati»17. Da questo plesso di
problemi non si può prescindere. Quale che
sia la soluzione, non si può non ricollocare al
cosmopolitica, Il Saggiatore, Milano 2009. Il filo conduttore della proposta di Archibugi è individuabile nella
percorribilità di un itinerario di ampliamento delle regole democratiche dalla territorialità nazionale al governo delle questioni globali. Tale proposta poggia sul
convincimento che sia non più differibile il compito di
«dare ai cittadini del mondo la possibilità di partecipare
direttamente alle scelte globali tramite nuove istituzioni, parallele ed autonome rispetto a quelle già esistenti
all’interno degli stati». In questo senso, la democrazia
cosmopolitica non si riduce a un pur generoso e velleitario neo-utopismo, ma esige la concreta formazione di
«nuovi canali istituzionali che consentano di aumentare
la partecipazione popolare e il controllo politico sulle
scelte globali. Solamente rendendo effettiva la condizione di cittadini del mondo sarà finalmente possibile
raccogliere i frutti promessi da una democrazia cosmopolitica» (ivi, pp. 11 e ss.). La questione del cosmopolitismo è diventata oggi uno dei punti principali del
dibattito etico. Un punto significativo di riferimento, in
questo dibattito, è costituito dalle riflessioni di K.A.,
Appiah, Cosmopolitismo. L’etica in un mondo di estranei, Laterza, Bari-Roma 2007.
17 S. Benhabib, Cittiadini globali, cit., p. 139 e s.
primo posto nell’agenda politica (e prima ancora nella riflessione etica e filosofica) delle
società contemporanee il problema della riformulazione dei diritti di cittadinanza, alla luce di una realtà sempre più multiculturale18 e
della sua necessaria declinazione in chiave interculturale19. Non bisognerebbe mai dimenticare – come ammonisce ancora la Benhabib –
che «il trattamento riservato agli stranieri e
agli altri fra noi costituisce un formidabile terreno di verifica della coscienza morale e della
riflessività politica delle democrazie liberali»20.
La necessità di pensare oggi ad un saldo
legame tra diritti di cittadinanza e interculturalità, è motivata dall’esigenza di non separare astrattamente la cittadinanza dall’appartenenza culturale, ma di trovare le modalità, anche giuridiche e normative, di un «vivere insieme nel mondo della differenza»21. Questo
naturalmente non significa assimilare la pratica e la teoria dell’interculturalità a forme più
o meno esplicite di relativismo culturale. È ancora una volta Panikkar che ci ammonisce a
18 All’idea e alla chiarificazione teorica della cittadinanza coniugata in senso multiculturale ha dato un fondamentale contributo W. Kymlika, La cittadinanza
multiculturale (1995), Il Mulino, Bologna 1999. Lo studioso canadese collega significativamente il riconoscimento e la garanzia di diritti fondamentali per le
minoranze etniche e culturali all’ampliamento della sfera dei diritti tradizionali individuali. La dimensione giuridica multiculturale non depotenzia, anzi ne fa una
condizione di possibilità, il diritto universale
all’appartenenza. Kymlika elabora una proposta in cui i
«diritti polietnici» devono convivere con i diritti umani
universali, imponendo anche per essi i vincoli democratici della libertà individuale e della giustizia sociale:
dunque rispetto delle differenze e delle minoranze etniche e attuazione di principi e di scelte di uguaglianza.
19 Ho, a più riprese, tematizzato la necessità del passaggio dal multiculturalismo all’interculturalità in molti
miei interventi. Per tutti rinvio a G. Cacciatore, Identità
e filosofia dell’interculturalità, in «Iride», 45, 2005, pp.
235-244. A questo testo rinvio anche per le indicazioni
bibliografiche di massima sull’interculturalità.
20 S. Benhabib, Cittadini globali, cit., p. 142.
21 Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, cit., p.
201.
21
Intercultural Session – Giuseppe Cacciatore
non pensare che una cultura vale un’altra, né
che la natura umana possa essere artificiosamente frammentata. «Ogni cultura è cultura
umana – anche se può degenerare. Detto più
filosoficamente, ci sono invarianti umane, ma
non ci sono universali culturali»22. Diventa così
fondamentale la distinzione tra relativismo e
relatività. Se è vero che possiamo analizzare e
comparare un’altra cultura, tenendo presente
quella a cui apparteniamo, è altresì vero che
non possiamo considerare unici ed assoluti i
nostri criteri di valutazione. «C’è una via media – scrive Panikkar – fra l’assolutismo e il relativismo culturale: la relatività culturale. La
filosofia interculturale cerca di seguire questa
via di mezzo. Il suo metodo è il dialogo come
apertura all’altro»23. D’altro canto il diritto di
cittadinanza reca con sé già nella sua stessa
genesi terminologica il riferimento alla generale sfera dei diritti della relazionalità e della
sociabilità. Per questo lo sforzo teorico e pratico di giuristi e filosofi, oggi, potrebbe essere
indirizzato a riscrivere la tavola dei diritti di
cittadinanza, dinanzi all’accelerato stato di
trasformazione sociale e antropologica della
contemporaneità. Si tratta di individuare i
fondamenti di una cittadinanza interculturale24 che si muova lungo il crinale del non facile
equilibrio tra cittadinanza come appartenenza
ad una determinata comunità e cittadinanza
come pieno e libero esercizio di un diritto acquisito di residenza (garantito da regole democratiche costituzionali) e, al contempo, di
22 Cfr. Panikkar, cit., p.13
23 Ivi, p. 37.
24 Utili informazioni sul tema (anche se non sempre inquadrate in un discorso coerentemente organico) si
possono trovare in M. Simeoni, La cittadinanza interculturale. Consenso e confronto, Armando Editore, Roma
2005. Su un piano più specificamente pedagogico si
muove M. Tarozzi, Cittadinanza interculturale. Esperienza educativa come agire politico, La Nuova Italia, Firenze 2005.
22
un diritto umano universale di circolazione
degli individui, delle persone, prima che dei
cittadini.25
4. La cittadinanza come spazio per la realizzazione di una alleanza umanistica
In via di provvisoria conclusione, ritengo
che l’uomo contemporaneo non possa più accontentarsi di quella plurisecolare forma di
rassicurazione della dignità della vita affidata
al convincimento aristotelico che la politicità
appartiene solo all’essere umano. Né possono
più offrire elementi di rassicurazione eticopolitica i modelli classici, liberali e democratici, di cittadinanza (e non solo quelli storicamente nati nel contesto dell’idea di Stato
nazionale o quelli riformulati in chiave comunitaristica, ma persino quelli ispirati al cosmopolitismo e all’ideale repubblicano). Se le
teorie contemporanee della cittadinanza continuano a fondarsi sulla esclusività di alcune
appartenenze (a un territorio determinato e
tendenzialmente chiuso alle migrazioni, a un
sistema di diritti non sempre accessibili a tutti,
a strutture produttive e mercantili che sono
restate e resteranno fonte di disuguaglianze),
allora diventerà ben difficile ipotizzare e realizzare un rapporto virtuoso e produttivo, sul
piano della pratica, tra cittadinanza e interculturalità. L’etica, la filosofia e la politica che si
confrontano con le questione interculturali rivoluzionano il senso e la finalità stessa del
concetto di appartenenza, liberandolo dal sigillo della ricchezza economica e della produttività lavorativa (che continuerebbe ad
25 Su queste ultime considerazioni cfr. L. Ferrajoli, Cittadinanza e diritti fondamentali, in «Teoria politica», 3,
1995. Per una informazione critica sul complesso dei
temi relativi al concetto di cittadinanza e alle sue trasformazioni in età contemporanea cfr. D. Zolo (a cura
di), La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Laterza, Bari-Roma 1994.
Intercultural Session – Giuseppe Cacciatore
escludere dalla cittadinanza come diritto umano universale milioni di immigrati e di nuovi poveri delle nostre società in crisi
economica sempre più profonda).
Il modello di filosofia interculturale non
è peraltro da intendere come miracoloso toccasana per guarire le contraddizioni ognora
vistose tra il diritto universale umano alla cittadinanza e il diritto alla scelta delle nostre identità26, senza che ciò si traduca in una
espulsione da essa per ragioni formalmente
giuridiche e sostanzialmente economiche. Si
tratterebbe, se così fosse inteso, di una ingannevole retorica che narra solo a se stessa
dei suoi successi immaginari. Vi è bisogno invece di costruire una nuova alleanza umanistica che riconduca al massimo di unità
operativa l’effettività delle norme di giustizia
sociale (tentandone anche una coerente applicazione, a livello di obbligazione politica e
giuridica da riconoscere per i diritti sociali universalizzabili nei trattati e nelle carte costituzionali sovranazionali) e la pratica quotidiana
della relazione interculturale. Solo in questa
relazione perdono astrattezza l’obbligazione
politica e il bisogno di universalizzazione etica.
Da un lato, la cittadinanza acquista nuovi contenuti giuridici e politici planetari27, dall’altro il
26 L’espressione è di A. Sen, Identità, povertà e diritti
umani, in P. Fassino, S. Maffettone, A. Sen., Giustizia
globale, Il Saggiatore, Milano 2006, p. 32.
27 «Ciò non significa – ha scritto Balibar – che esiste
un'unica politica possibile, ma anzi che si impone una
scelta tra politiche diverse, definite da diversi obiettivi,
mezzi, condizioni, ostacoli, “soggetti” o “volontà”, rischi. L'alternativa è il campo della politica. Il problema
diventa allora: quali sono le alternative alle forme dominanti? […] Parlare di una politica necessariamente
mondiale non significa disinteressarsi alle condizioni e
ai problemi delle persone, lì dove vivono o dove la storia le ha collocate. Significa anzi affermare che la cittadinanza locale ha per condizione una cittadinanza
mondiale attiva. Ogni scelta che orienta una politica locale in materia economica, sociale, culturale, istituzionale implica una scelta “cosmopolitica” e viceversa» (E.
dialogo interculturale perde in genericità e
ambiguità. Non si tratta solo di narrare28 o di
ottenere reciproche informazioni sui propri
modelli di vita e le specifiche identità di ogni
individuo e di ogni cultura, ma di trasferire il
patrimonio comune di conoscenze ed immaginazioni in un progetto29 altrettanto comune
(nella scuola, nella sanità, nei luoghi della
produzione, nelle comunità locali) che abbia
come guida e come finalità la realizzazione dei
diritti umani universali, civili, politici e sociali.
Bisogna, in tal modo, non solo teorizzare
l’incontro e gli spazi sia territoriali che culturali entro i quali si può realizzare il reciproco riconoscimento e la sempre maggiore
universalizzazione dei diritti umani, ma far diventare il dialogo una tecnica che dal livello
della conversazione sappia passare a quello
della stipulazione, della creazione di una citBalibar, È in Europa l’altro mondo possibile, in «Il Manifesto», 28 marzo 2007). Lo studioso francese esprime il
convincimento – peraltro lineare in un quadro ideologico di radicale trasformazione sociale – che le ineguaglianze sociali «costituiscono il più potente fattore di
esclusione dalla pratica politica, e dunque dal “diritto
eguale” o dal pari diritto di accesso alla rappresentanza
e alla decisione». Ma ciò è anche alla base delle motivazioni che caratterizzano «i movimenti di rivendicazione e le resistenze collettive che hanno per oggetto la
difesa e la conquista dei diritti sociali». Sono proprio
questi movimenti che costituiscono «una delle forme
più efficaci di accesso dei cittadini all’espressione e alle
responsabilità politiche. La questione è perciò più attuale che mai ed è, in concreto, quella di stabilire se e
come i cittadini riusciranno ad adattarsi a condizioni
storiche nuove e a uno spazio nuovo formulando rivendicazioni di nuovi diritti fondamentali inerenti alla cittadinanza, e caratteristici del “momento costituente”
attuale» (E. Balibar, Le radici culturali della Costituzione
europea, in «Lettera internazionale», n. 81, 2004).
28 Il che non significa che il racconto e le storie degli altri non possano costituire materiali di analisi critica delle
politiche
contemporanee
nei
confronti
dell’immigrazione. In merito, cfr. F. Sossi, Migrare. Spazi di sconfinamento e strategie di esistenza, Il Saggiatore, Milano 2007.
29 Sull’interculturalismo come progetto cfr. P. Malizia,
Interculturalismo. Studio sul vivere “individualmenteinsieme-con-gli-altri”, Franco Angeli, Milano 2005, pp.
40 e ss.
23
Intercultural Session – Giuseppe Cacciatore
tadinanza universale dei soggetti e delle culture30. Da questo punto di vista la filosofia
dell’intercultura può presentarsi come la modalità critica e riflessiva all’altezza delle cosiddette sfide della globalizzazione e della
trasformazione antropologico-culturale indotta dalle migrazioni31, giacché uno dei suoi
compiti fondamentali appare quello della riformulazione di categorie chiave come incontro, dialogo, diritti umani, solidarietà. Si tratta
di livelli, tanto teorici che pratici, che si richiamano l’un l’altro, giacché non è possibile
30 Utilizzo qui i convincenti parametri analitici elaborati
da F. Cambi, Incontro e dialogo. Prospettive della pedagogia interculturale, Carocci Editore, Roma 2006, pp. 8
e ss. Più avanti si legge, a proposito del necessario processo di integrazione tra identità e differenza:
«L’Europa soprattutto mediterranea […] sta faticosamente elaborando un altro modello: un modello squisitamente interculturale, fondato sulla costruzione di un
reciproco riconoscimento e di una reciproca integrazione e, al limite, un reciproco innesto tra culture, rivolto a
dar vita al métissage, a una “nuova cultura meticcia”
che si guarda – sia pure nel futuro – come
un’occasione, come una risorsa, come un evento non
fatale, ma positivo, proprio in vista di quella Globalità
del Mondo che nessuno potrà più arrestare» (ivi, p. 17).
Sugli aspetti pedagogici e didattici connessi alle pratiche interculturali si veda F. Pinto Minerva,
L’intercultura, Laterza, Roma-Bari 2002.
31 Per una analisi dell’esser migranti come forma preponderante dell’esser-uomo oggi, cfr. Cambi, op. cit.,
pp. 40 e ss. «Infatti, la condizione di emigrazione/migrazione è la condizione stessa attuale del soggetto. […] Essere migranti è stare in una esperienza (in
un fare-esperienza) che si caratterizza come avventura,
come sfida, come ricerca, come incontro. Pertanto è
[…] stare in una forma mentis plurale, dialettica, integrata e dismorfica ad un tempo, capace di leggere, insieme, e le identità e le differenze, ad ogni livello» (ivi,
p. 41). Sulla soggettività nomade come passione politica per la trasformazione e come riflessione su una idea
post-nazionale, multipla e flessibile di cittadinanza, cfr.
R. Braidotti, Nuovi soggetti nomadi. Transizioni e identità postnazionaliste, Luca Sossella Editore, Roma 2002.
Cfr. inoltre A. Dal Lago, Non-persone. L’esclusione dei
migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano 2004;
M. Traversi, M. Ognisanti (a cura di), Letterature migranti e identità urbane. I centri interculturali e la promozione di spazi pubblici di espressione, narrazione e
ricomposizione identitaria, Franco Angeli, Milano 2008;
A. Arru, D. Caglioti, F. Ramella, Donne e uomini migranti. Storie e geografie tra breve e lunga distanza, Donzelli, Roma 2008.
24
un dialogo che non sia favorito dall’incontro,
né si può pensare di promuovere una solidarietà fattiva e concreta se non si amplia e si
rende effettiva la sfera dei diritti umani32. Una
sfera che certamente è fatta, dovrà esser
sempre più fatta di dispositivi giuridici e di
obbligazioni politico-istituzionali, ma che si
configura anche e soprattutto come condizione di possibilità per il confronto e per la postulazione di una sempre più ampia e comune
umanità. In tal senso il primo, inamovibile e
necessario diritto per gli uomini e le donne
della società migrante ed interculturale è
quello alla solidarietà. Una solidarietà che non
è solo generosa petizione di principi, ma costruzione reale, da rendere operativa «e nella
società e nelle coscienze» e che costituisce
una «risorsa cognitiva, etica e politica»33, giacché favorisce nuove esperienze di conoscenze
e incontri fra culture, ha l’impegnativo obiettivo di realizzare un’etica discorsiva e comprensiva che trova poi il suo necessario
pendant in una democrazia deliberativa. Ma il
vero cemento che tiene insieme tutto ciò è il
senso dell’appartenenza ad una comune umanità, la quale – come osserva giustamente
Baumann – deve essere intimamente relazionata ad un legame, ad un vincolo, che vengono ancor prima e che sono quelli della
solidarietà e dell’assistenza reciproca. Racconta Baumann di un suo vecchio professore di
antropologia che spiegava l’origine della società umana partendo dal ritrovamento di uno
scheletro di una creatura invalida con una
gamba spezzata. Ma l’incidente come rivelarono le analisi era avvenuto in età infantile.
Significa che qualcuno si era preso cura di lui e
non era stato abbandonato alle fiere. «La pre32 Su questi nessi cfr ancora F. Cambi, op. cit., pp. 45 e
ss.
33 Ivi, pp. 47 e ss.
Intercultural Session – Giuseppe Cacciatore
Domande al Prof. Giuseppe Cacciatore
Domanda 3): La prospettiva interculturale in filosofia, rivela un elemento di strutturale debolezza quando si traduce in una
serie di auspici, per così dire, che spesso nel
mondo conflittuale attuale non trovano una
rispondenza o almeno non trovano le condizioni per potersi realizzare. Provo a tradurre in
termini filosofici questi auspici: si tratta
dell’eterno contrasto fra il dover essere e
l’essere. Come noi dovremmo essere per impostare le condizioni della società interculturale e come invece siamo in realtà?
Domanda 1): Come si concilia questo
riconoscimento auspicabile dei diritti per un
nuovo cosmopolitismo, che non sia solo astrattamente universalistico ma si concretizzi
nell’identità dei popoli e delle persone, con la
resistenza dei poteri? Il respingimento, il rifiuto dell’altro, (al di là di ogni considerazione di
solidarietà, che è la condizione prospettica
della relazione) pongono degli ostacoli oggettivi all’affermazione dei principi di libertà connessi proprio alla condizione di estremo
bisogno che, ad esempio, è propria dei migranti. Questo problema dell’affermazione
della libertà rispetto alla resistenza tenace dei
poteri in quanto tali è un ostacolo oggettivo.
Si tira in ballo il cosmopolitismo, ma gli scenari reali sono poi quelli della barbarie (Prof.
Giuseppe D’alessandro).
Abbiamo sentito citare Seyla Benhabib a
proposito dei diritti universali della libertà di
comunicazione e di espressione, e questo naturalmente ci piace. Però noi sappiamo, per
fare solo un esempio, che nelle società islamiche più rigoriste prioritaria non è la libertà,
ma il senso di appartenenza alla comunità e la
sottomissione alla legge divina; sicché giustapporre l’aggettivo “universale” a diritti di
libertà, di libertà d’espressione da parte della
Benhabib può apparire una ingenuità pari a
quella che spesso si è consumata nella tradizione filosofica occidentale ogni volta che
pensatori di prima grandezza hanno affiancato ingenuamente quell’aggettivo a concetti e
li hanno considerati applicabili a tutto
l’universo mondo. Bisogna evidentemente
trovare nuove modalità di pensiero
Domanda 2): Come si può pensare ad
una città cosmopolita in questa nostra società, dal momento che una tale città non potrà
somigliare né alla polis greca di Aristotele né
ad una città nel senso dello Stato liberale, dello Stato nazionale? (Prof. Fred Dallmayr).
Una categoria lei l’ha proposta: quella di
universalizzante o universalizzabile. Ora, quale
potrebbe essere, per così dire, il volano di
quel movimento di tendenziale universalizzazione che caratterizza l’universalizzabile? A
me sembra che la categoria con cui possiamo
pensare l’estensione di un concetto “universalizzabile”, la “costruzione” di uno spazio di più
ampia condivisione, sia proprio quella del riconoscimento, che da categoria etica sembra
occupazione odierna, per Bauman, è tutta qui:
portare questa compassione e questa sollecitudine sul piano planetario. So che le generazioni precedenti hanno affrontato questo
compito, ma voi dovrete proseguire su questa
strada, vi piaccia o no, cominciando dalla vostra casa, dalla vostra città, adesso. Non riesco
a pensare a niente che sia più importante di
questo. È da qui che si deve cominciare»34.
34 Z. Bauman, Fiducia e paura nella città, cit., p.79.
25
Intercultural Session – Giuseppe Cacciatore
trasfigurarsi in categoria logica (penso naturalmente ad una logica non astratta ma dialogante: una dia-logica). Dunque creare “ponti”
attraverso il dialogo interculturale e il riconoscimento reciproco, negoziale dei valori interni alle diverse culture: questa potrebbe forse
essere una via per articolare il concetto di universalizzabile. Mi interessa la sua opinione
su questo punto. (Prof. Rosario Diana).
Risposta 1): Ho provocato io questa prosecuzione.
Sarò brevissimo con Rosario Diana. Un
tema sul quale discutiamo da anni e sul quale
abbiamo – seppure con differenze di posizioni
– un comune orientamento. Lui ha già dato
una parziale risposta quando ha parlato del
concetto di universale non nel senso
dell’assolutezza delle posizioni ma di ciò che è
universalizzabile e universalizzante: come dire, qualche cosa che si definisce, si autocostruisce con una possibilità di universalizzazione mai definitiva e che in un modo o
nell’altro può incontrarsi con quella importante tematica, quella formulazione del riconoscimento non inteso in maniera astratta. E qui
aggiungerei al concetto di universalizzabile e
universalizzante il concetto di comune, nel
modo in cui – come molti di voi sanno – è stato teriorizzato non da un filosofo, non da un
teologo, ma da un sinologo, François Jullien.
Questo concetto di comune diventa parzialmente analogo al concetto vichiano del senso
comune. In un modo o nell’altro entrambi legano situazioni diverse, differenze di culture,
di storie, di religioni.
Risposta 2): Per quel che riguarda la
domanda del collega, qui si tratta di una città
che abbia le stigmate, se possiamo dire così,
del postmoderno e della globalizzazione. Ritengo importanti posizioni come quelle e26
spresse in un libro importante, un libro di Daniele Archibugi: Cittadini del mondo. Verso la
democrazia cosmopolitica, dove si teorizza la
percorribilità di un ampliamento delle regole
democratiche dei diritti di cittadinanza. È
quello che sia gli storici che i teorici della politica chiamano: dimensione post-westfaliana,
ovvero successiva all’età costruitasi a partire
dal famosissimo trattato di Westfalia, che ha
posto l’inizio delle grandi nazioni europee.
Siamo in una situazione post-nazionale, dove i
diritti dei cittadini, di umanità e umanizzazione, di tutti sono conquistabili e devono essere
conquistabili nella realtà territoriale della città
e non più nello Stato nazionale. Questo non
vuol dire creare un’anarchia di piccole città
stato come nell’antica Grecia; significa ricondurre una possibilità che va al di là della retorica dell’ingenuità, come sostiene la Benhabib,
che parla di un passaggio ad un modello di diritto internazionale basato su trattati fra Stati
di diritto cosmopolitico. Non è una situazione
immaginaria e immaginata. Qui ha ragione
Panikkar, che queste parole le diceva già dieci
o quindici anni fa: “se non si riconoscono queste prospettive, se non si attuano o comunque
si comincia a praticarle, il mondo è perduto,
c’è poco da scherzare”. E questa secondo me
è l’unica prospettiva, una prospettiva di
scomparsa del mondo e di noi… e allora altro
che una prospettiva cosmoteandrica…
Intercultural Session - Francis X. D’Sa
THE SIGNIFICANCE OF
PANIKKAR’S COSMOTHEANDRIC VISION
Francis X. D’Sa
Francis X. D’Sa
(video)
0. Introduction
The Cosmotheandric Insight, I submit, is
the core of Raimon Panikkar’s inspiration.
Anyone interested in understanding Panikkar
will first have to become familiar with this
insight. This neologism is neither an-eye
catching label nor just an attractive sounding
name. It is in fact one more intimation of the
dawn of a new axial age that some of today’s
Seers perceive. This might sound a bit too
presumptuous but bear with me as I clarify
and elucidate in what follows.
1.The Cosmotheandric Intuition
The Cosmotheandric Intuition is an
insight into what Reality is in us, around us
and above us. This also means that we who
are speaking about Reality are really part of
the Cosmotheandric Intuition. Though we are
speaking “about” Reality this is only a
heuristic way of going about, since our
speaking too is an integral aspect of Reality.
That is why language employed here is
symbolic, not descriptive.
The Cosmotheandric Intuition perceives
Francis X. D’Sa,
Pontificium Athenaeum, Pune, India
three centres in Reality: World, Man and God;
or the Cosmic, the Human and the Divine, or
again material, mental, and spiritual are some
of the ways of expressing it.1 Whatever
expressions one chooses, it is important to
keep in mind their threefold dynamics. Each
of these centres is important and
indispensable. Each is unique and cannot be
reduced to the other two. None is superior to
the others. But all of them are interdependent
because none can exist without the other
two. The three always and without exception
go together; they constitute the threefold
dynamics of Reality. The other way round,
when we say Reality we are in fact meaning
its threefold dynamics. Panikkar’s summing up
is profound: "God, Man and World are three
artificially substantivized forms of the three
primordial adjectives which describe Reality."2
On this background it is important to
Raimon Panikkar, The Rhythm of Being. The Gifford
Lectures (Orbis, 2010), 183: "...the three human 'faculties' (sense, mind and consciousness) belong together;
and the three referents of our awareness (World, Man,
and God) are also inseparable. Reality is their relationship."
1
2
Raimon Panikkar, “Philosophy as Life-Style”, in: A.
Mercier/M. Vilar (Eds.), Philosophers on Their Own
Work IV (Bern/Frankfurt/Las Vegas,1978 [193-228]),
206.
27
Intercultural Session - Francis X. D’Sa
note that our way of going about with Reality
has not only to take account of the threefold
dynamics but it has also to respond to it
positively. Speaking hermeneutically we have
to follow the threefold dynamics in both the
senses of following: to understand and to go
after!
The cosmic dimension refers to the
world of things, the human dimension refers
to the world of persons and the divine
dimension refers to the inexhaustibility of
both these two worlds. Here inexhaustibility
refers to the fact that the cosmic dimension
can be objectified without end; and that the
human dimension too can objectify without
ever coming to an end. This endlessness, the
infinity, so to say of these two dimensions
constitutes the depth- or divine dimension.
The depth-dimension, by whatever name it
may be called, is constitutive of Reality.
Our usual way of thinking and speaking
enumerates the three worlds of God, World
and Man separately. Though we do not intend
to separate them, we do separate them as a
matter of fact when we speak and perhaps
when we think. The end-result is that our
understanding takes them to be separate
realms. It has been Panikkar’s merit to coin a
neologism that mentions all three at once as it
were so that attention is drawn to the three
together. The neologism is cosmotheandric
(or
genderwise
more
appropriately,
theanthropocosmic). Reality is cosmotheandric; each being is cosmotheandric,
every human being is cosmotheandric.
Everything that exists, God, World and
Man, everything is cosmotheandric. God is
cosmotheandric but when we speak of God
we focus more on the depth-dimension
28
without omitting the cosmic and human
dimensions; when we speak of the World we
focus more on the cosmic dimension without
omitting the human or the depth-dimensions;
and when we speak of Man we focus on the
human dimension without omitting the
cosmic and the depth-dimensions. The
expression “cosmotheandric” highlights not
just the three dimensions of Reality but more
especially its threefold dynamics or its
trinitarian nature.
2. The Dynamics of the Cosmic Dimension
The world, namely the world of
perception, is our first centre, the basic
access to Reality. It is the place of any and
every encounter as well as the address of
every being. The world of perception is the
cosmic dimension of Reality. It locates Reality,
the Reality of every being. Without the cosmic
dimension there is neither contact nor
relationship. We are not speaking of the
pragmatic aspect of the cosmic dimension; we
are referring to its constitutive dimension.
The world of perception employs
descriptive language which is informative.
Information has to be univocal and precise. It
is at home in the world of perception where
efficiency is of the essence. The more precise
the description the higher will be the degree
of performance and success. We speak of
success here because at this level (and only at
this level) there is the possibility of
verification and falsification respectively.
Quantification and measurability, unique characteristics of the world of perception,
are both essential and important factors in information and in the information world. Matter, the cosmic dimension, is rarely taken to
have its own importance and tends to be un-
Intercultural Session - Francis X. D’Sa
derstood as an ancilla for the spirit. Panikkar
says, “If in the past centuries there was a pathos to see everything sub specie aeternitatis,
there is now a similar pathos to see everything sub specie quantitatis.”3 And again,
„Here the contribution of modern science is
paramount. Thanks to it we have come to
know matter in its own right and not as a
mere servant of the soul or the spirit.“4 (My
emphasis)
Hardly anyone speaks of „matter in its
own right and not as a mere servant of the
soul or the spirit“. This is uniquely significant.
Panikkar’s ideas express and give rise to a new
understanding of and a different approach to
the world of matter. To yield to the
temptation of punning on the word, matter in
the cosmotheandric vision matters.
But what is new about this? Why does
matter matter? Let us begin by asking the
other way round, why has matter not
mattered all this time? Why has it been
always instrumentalized?
Early in life Panikkar realized how our
age has concentrated on the objectification of
Reality and begun building a civilization on
that faulty premise. Science has had an
important role to play in this process. Science,
Panikkar says accusingly, has changed the
meaning of words. For instance, the world
means for science the scientific cosmos. But in
Reality "The kosmos is not only the scientific
cosmos; the mathematical method is not the
Raimon Panikkar, The Rhythm of Being. The Gifford
Lectures (Orbis, 2010), 389.
4
Raimon Panikkar, The Rhythm of Being. The Gifford
Lectures (Orbis, 2010), 403.
3
only way to approach reality."5 The world so
to say has become a collection of objects for
modern Man. All our crises today have their
roots here. Our relationship to the world, to
the animals, to human beings and not least, to
the Divine, has changed dramatically. If
matter were only matter, then, of course it
would not matter.
Panikkar has been one of the first
persons to view the secular perspective, the
process of secularization positively. The
process of secularization cannot but be
positive for Panikkar and though he does not
approve of secularism as such he is convinced
that secularization has introduced a positive
view of the saeculum, that is, of time and the
world. For him matter is never matter alone.
It is a dimension of Reality along with the
human and the divine dimensions.
The cosmic dimension far from being
static has its own unique dynamics which
make the world what it is, namely, an
interrelated, interdependent and organic
body. Our main response has to be to this
interrelated, interdependent and organic
body. Because of his possessiveness Man has
reduced the world to a source of resources.
The asian religions have all focused on Man’s
possessiveness as the cause of his blindness
to the divine dimension. This is also the
source of his inability to experience the world
as interrelated, interdependent and organic. It
is time that our civilizations which also share
in this blindness discover that they too have
to be a part of a positive response to the
dynamics of the cosmic dimension. Sadly our
Raimon Panikkar, The Rhythm of Being. The Gifford
Lectures (Orbis, 2010), 388.
5
29
Intercultural Session - Francis X. D’Sa
present civilizations are anything but a
positive response to the cosmic dimension
and we are surprised that we have an
ecological crisis of such unprecedented
dimensions.
Admittedly then, the historical response
to this interrelated, interdependent and organic body has been diametrically opposed to
the dynamics of the cosmic dimension. Possessiveness has deepened our blindness to
the real world and have constructed a world
where the only thing that matters is the world
of matter. We have to change gears and take
the dynamics of the cosmic dimension seriously. Just planting trees is not the real solution. Our thinking has to be so transformed
that we realize that we are really part and
parcel of the world body, the world process,
and not a Subject that treats it as a collection
of objects. Only a transformation of our thinking will transform our being and our beingin-the-world. Our attitude to the world has to
change and become a be-attitude, not a haveattitude.
3. The Dynamics of the Human Dimension
The Human Dimension does not mean
Man but refers to that dimension in Reality
which focuses on Man without neglecting the
other two dimensions. This dimension lights
up our being-in-the-world. Like the other two
it cannot be objectified though it also has an
objectifying aspect. It points to and locates
the objective aspect of Reality. Like the
cosmic dimension the human dimension too
does not have a limit. It can go on objectifying
endlessly.
The uniqueness of the human
dimension consists in the fact that it does not
permit Man to get lost in the „objective“
30
world and become one among many other
things. Because of this he stands out (=exists)
in the world of things without getting lost in
them.
Not surprisingly the dynamics of the
human dimension are different from the
dynamics of the cosmic dimension. Things are
located in and by the cosmic dimension. It sees to it that every being has a place as it were
in the cosmos. But it is different with the human dimension. It ensures that Man finds his
place in the world.
The human dimension aims at
personhood and does this best through the
discovery of the world of symbol and by
expressing it in metaphor. Symbols are not
produced by Man; they are discovered by
Man in so far as he is open to the depthdimension.
Whereas
a
distorted
consciousness promotes individualism and
reduces the world to mere objects, fidelity to
the dynamics of the human dimension helps
retrieve symbols if and when Man takes to the
path of personhood. These dynamics also
collaborate in expressing the experience of
symbols in metaphors. In the realm of
symbols and metaphors Man discovers his
real vocation as person to be a poet, a
prophet and a pontifex. This is one of the
most fitting ways in which Man can respond
to the dynamics of the human dimension.
Man discovers his poetic vocation when
he does not get lost in the world of objects
and things which he himself creates. Instead,
if he lets himself be driven by hope (which is
of the invisible) he goes beyond the
perceptible/object dimension of Reality to the
depth-dimension. It is this kind of hope that
drives the poet to experience the world of
Intercultural Session - Francis X. D’Sa
symbols and express this in metaphor.
However Man’s vocation is not limited
to the poetic alone. He is also called to be a
prophet. He is not just a neutral observer but
a critical observer of whether Man in the
world has fallen a prey to his likes and dislikes
or whether he is open to and capable of
responding to the dynamics of the human
dimension. A prophet does not jump on the
band-wagon of popularity nor does he play to
the gallery. Listening to and guided by the
Spirit he engages in the discernment of spirits.
This he does not out of private devotion as it
were to enhance his spiritual life but as a
member of the human family. He is fully
committed to the welfare of all beings. For
the prophet justice is an important priority.
Finally the dynamics of the human
dimension goad Man on to play his role as the
pontifex, the bridge-builder between the
Divine Mystery or the depth-dimension and
Man-in-the-World, on the one hand and
between Man and World, on the other. The
human dimension expresses itself in the
interconnectedness of all things. But modern
Man does not take this fact into consideration
when building his world. Never before has
Man been fragmented on so many levels as
he is today. This fragmentation can be
repaired by responding to the dynamics of the
human dimension. The response consists in
building bridges at all the various levels where
fragmentation has taken place and is still
taking place. The human dimension
counteracts the human tendency towards
individualism by strenthening the path
towards personhood. Personhood, the
cornerstone of a genuine community,
flourishes in a world of symbol and metaphor.
Briefly, the dynamics of the human
dimension focus on Man so that he does not
get lost among beings but stands out (exists)
as poet, prophet and pontifex. The danger for
Man on the one extreme is individualism and
on the other is neglect of his calling by letting
himself be transported on the conveyor-belt
of routine and pragmatism.
4. The Dynamics of the Depth-Dimension
Unlike the human and the cosmic
dimensions the depth-dimension is of an
altogether different kind. It acts through both
these dimensions lending them a sort of
endlessness. The cosmic dimension can be
objectified endlessly (without any limit) and
the human dimension can objectify endlessly
(without any limit). This is a dimension that
Man can in no way master or manipulate. His
life in the world of the senses, the mind and
the spirit is totally and inexorably dependent
on this dimension. The drive towards “more”,
“deeper”and “higher” derives from this
dimension. The right realization of this is
acquired not by “doing” or “achieving”
something but in and through silence, as we
shall see a little later.
Man’s yearning for peace, joy,
happiness, goodness, beauty, justice, etc., etc.
is endless. He can never have enough of any
one of these. On the other hand, Man stands
helpless in the face of inexplicable tragedy
and sorrow. This dimension is related to
Man’s meaning in life, of how he can face life
and life’s vicissitudes. Only openness to the
depth-dimension can help one to face such
situations.
The depth-dimension has to do with
hope. Hope, as Panikkar reminded us
31
Intercultural Session - Francis X. D’Sa
constantly, is of the invisible. The invisible at
work in the present is the focus of hope.
Hope, Vaclaw Havel tells us, is not the
optimism that everything will be all right but
the convinction that everything has meaning.
Recognizing that this dimension can in no way
be manipulated Man has to admit his
limitations, cultivate hope by letting oneself
be led by the Mystery in which we live, move
and have our being. The dynamics of the
depth-dimension have to do with hope, not
with expectation.
This is not a dimension where human
wisdom can help or plan or produce hope. At
the most human wisdom can produce expectation but not hope. Here nothing will help
except the realization that helplessness is the
first step towards opening up to a realm where the Mystery of Life speaks in silence. One
important requisite of the dynamics of the
depth-dimension is familiarity with silence.
The path of silence leads to self-discovery and
hopefully to the source of all hope. Silence,
not merely external silence but the silence of
the mind and of the heart, is a word that is
not found in the dictionaries of our technological/technocratic age. Unfortunately very
few, indeed very, very few persons seem to
be aware of the seriousness of this lacuna. We
hardly encounter any positive signs in this
direction. Religions are all engaged in honing
their doctrines and persuading people to join
their ranks in order to achieve peace and prosperity. Panikkar would have diagnosed it as
an overstress on the logos and a complete neglect of the mythos. Intelligibility ousting out
interiority. Words silencing silence!
To summarize: If the requisite of the
cosmic dimension to counteract possessiveness is detachment, and the requisite of
32
the human dimension to counteract
individualism is the pursuit of personhood,
the requisite of the depth-dimension is
familiarity with the world of silence. Both
detachment and the pursuit of personhood
grow and flourish in the soil of silence.
5. Implications of the Cosmotheandric
Vision
The Cosmotheandric Vision grows out of
a phenomenological awareness, not from any
moralistic project/pressure. Our being-in-theworld makes us discover the three dimensions
of the Real: The cosmic or material dimension,
the human or consciousness dimension and
the depth- or divine dimension. But we have
to remind ourselves that we do not find these
dimensions separately, though we speak of
them separately. We experience something
that is perceived, and us as perceiving. At the
same time we experience that there is no
limit to the process of our perceiving and
being perceived.
5.1 Reality as a Community of the Cosmic, the Human and the Divine Dimensions
The Cosmotheandric Vision is about the
solidarity of the three dimensions which
constitute the Real. Our experience is
definitely not of each of these dimensions
separately. Our experience is cosmotheandric,
that is, an experience of the cosmic, the
human and the depth-dimensions but our
focus is not on all three but now on one, now
on another. For heuristic purposes we speak
separately till we reach that stage of
awareness where we shall be equally aware of
all three. Panikkar has led us to the first step
in this direction by calling this experience as
cosmotheandric. From now on the word
cosmotheandric will be a constant reminder
Intercultural Session - Francis X. D’Sa
that the Real consists of the threefold
dynamics. We are born and brought up –
without our knowing it – in a world of
threefold dynamics. We need to become
more aware of our cosmic, human and divine
relationships. Reality is an interconnected and
interdependent community.
More significantly, we are members of
this community. The more intensely we follow
and respond to Reality’s threefold dynamics
the more authentic members we shall be of
this community. We too have to cultivate our
cosmic relationship, our cosmic relatives, both
through our body as well as through the
world-body. Here is our responsibility, more
precisely, our response-ability towards the
environment.
At the same time we have to become
more familiar with the complexity of the
human community, the human family, ruled
as it is now by considerations of colour, caste
and creed. Questions of economic, political,
social, religious, racial/ethnic and gender
justice are part of this programme. The
human family is bedevilled by all these kinds
of injustices and prejudices.
In our day religions have become part of
the problem, not part of the solution.
Religions are busy with power politics, not
with peace of mind and peace for the
minorities and the marginalized. Increasingly
we are realizing that behind the façade of
religious problems lurks the spectre of socioeconomic problems. With that we return to
the ubiquitous problems of injustice.
The cosmotheandric community is a
Reality, not a romantic dream. Modern Man
finds himself alienated and needs to retrieve
his cosmotheandric roots.
5.2 A Cosmotheandric Spirituality
The Cosmotheandric Intuition would be
incomplete or seriously wanting if a cosmic
spirituality were not part and parcel of that
intuition. This is not difficult to understand.
The Cosmotheandric Intuition is not a
description of the Real. It is a symbolic
expression of the threefold dynamics of the
Real. It is a metaphor for their three
dimensional dance, perichoresis, of the Greek
tradition. A dance is not a dance if it is not
danced in much the same way that a song is
not a song that is not sung and a play is not a
play that is not played. The cosmic spirituality
is the three dimensional dance of the Cosmic,
the Human and the Divine. We who believe
that we are cosmotheandric in our being, will
be confirmed in our belief when our being
joins the cosmotheandric dance!
Finally the Cosmotheandric Intuition
does not explain Reality. Reality remains a
mystery. The Cosmotheandric Intuition puts
forward a relevant way of discovering our
connection with Reality.
6. Emergence of a Common Horizon
All over the world there are intimations
in our times that a common concern (however
minimal) as regards Man and World is
emerging. Both world peace and the
environment are part of these intimations. It
is not the magnitude of this concern that is
striking as the kind of concern-community
that we are witnessing. Cutting across the
board we have movements from all kinds of
political, social, religious, ethnic and cultural
groups showing awareness of the urgency for
peace and care of the environment. A
common horizon is on the way. People may
not have heard of the Cosmotheandric
33
Intercultural Session - Francis X. D’Sa
Intuition but they seem to hear and feel the
threefold dynamics of Reality and are acting
on it. The emerging horizon is the result.
QUESTIONS TO Prof.D’SA
Q1): My question is about the relation
between the critical consciousness of man
and the symbolic dimension keeping the divine aspect into man’s horizon. Kant also spoke of this dimension, the divine man in
us………..
Q2): Could you comment a little bit on
the reformulation of the Trinity in Panikkar ?
Because the trinity in traditional theology is a
Trinity among three persons in God. But in
Panikkar it becomes a cosmic trinity. So how
can this be reformulated and still be called the
Trinity? (Fred Dallmayr).
A1): I begin with your first question:
when you stand under a certain mythos, a
certain horizon, there’s no possibility for critical reason to question that horizon, because
that horizon means what makes sense to you.
Everyone has a horizon where certain
things make sense other things don’t. So for
example the Christian background: when
you’re talking about polytheism in India this is
not part of your horizon. But a hindu won’t be
able to give you reasons for all this, only some
kind of external answers, but he won’t be able
to give critical reasons.
When there’s a symbolic experience,
when a symbol is a living symbol, reason has
no place there, rightly or wrongly. It’s simply
the structure of your symbolic knowing that is
not able to make sense.
For example for a military person what
makes sense are the most sophisticated war
34
weapons, for his understanding of peace. But
for a non violent person who doesn’t believe
in this, it doesn’t make sense. Both of them
have to try to find where they can meet.
You see some thing makes sense to you
in your kosmovision: outside that it doesn’t.
The Buddhist experience makes sense in a
Buddhist kosmovision. There’s no such thing
as a universal horizon making sense. Today
the peace horizon is becoming broader and
broader. But people who are for the military
system have little understanding of peace.
They think the more sophisticated your
weapons, the more chance peace has. This is
why more and more people are talking about
peace but differentry…
A2): Coming to the Trinity: it’s a certain
Christian horizon where Father, Son and Spirit
make sense. But your question is more than
that: then why do you bring in the cosmichuman-divine? I’ve always ascertained that
people who live in monocultural worlds will
never understand Panikkar. His horizon is not
theirs. The only possible thing is an attempt to
broaden our horizon. An intercultural effort to
find what Panikkar would have called: functional, homeomorphic equivalents. They are
not equivalents, but functional equivalents, like Incarnation could be eventually the functional equivalent of Avatara. But Panikkar
doesn’t say that Incarnation is Avatar. So here
also he would agree with me: that the cosmotheandric vision is the functional equivalent of
the Christian Trinity and vice versa.
Our effort is intercultural expansion,
understanding intercultural expansion.
Intercultural Session - Achille Rossi
MITO CHE MUORE, MITO CHE NASCE
Achille Rossi
Achille Rossi
(video)
Il pensiero di Panikkar è come una
immensa cattedrale: si può entrare dalla
porta principale, l’intuizione cosmoteandrica,
o da qualche ingresso laterale. Ne ho scelto
uno legato all’attualità. Panikkar è convinto
che un mito stia tramontando e uno nuovo
stia albeggiando al nostro orizzonte.
- Non c’è bisogno di ricordare
l’importanza del mito nella sintesi
panikkariana. Il mito è l’orizzonte che avvolge
il nostro pensiero e le nostre pratiche, come
un utero all’interno del quale galleggiamo,
che determina i confini del reale e del
possibile e che non sentiamo necessità di
mettere in discussione. Il mito ci libera dal
pensiero. Nella gnoseologia panikkariana il
mito occupa il primo gradino, poi viene il
logos e al livello superiore lo Spirito. Il non
pensato – il pensabile – l’impensabile.
- I miti si consumano e si logorano
come i vestiti per diverse ragioni: basta che si
entri in contatto con nuove culture, che si
Achille Rossi, direttore del mensile di
informazione, politica e cultura: L’Altrapagina,
Città di Castello (Pg). www.altrapagina.it
presentino nuove scoperte scientifiche, che
venga intaccato razionalmente. In tal caso il
mito muore e viene sostituito da un nuovo
mito. L’uomo è un essere mitopoietico.
A. Il mito che tramonta è quello della cosmologia scientifica e, insieme con esso, quello
delle antiche cosmologie e di un rigido monoteismo.
Panikkar lo esprime così: «Anche se il
tempo non è del tutto maturo per un nuovo
mito, noi abbiamo perso la nostra innocenza
con quelli vecchi e non possiamo credere in
essi più a lungo. Il progresso, la scienza, la
tecnologia, la storia, la democrazia e altre
simili narrazioni in cui molti dei nostri
predecessori hanno creduto, e a cui molti dei
nostri contemporanei ancora si aggrappano,
non sono ritenute vere da una moltitudine di
gente e dai pensatori responsabili dei più
diversi percorsi di vita e persuasioni».
La cosmologia scientifica che sta
tramontando non ci offre un mondo dove noi
possiamo trovarci a casa, perché il Divino è
assente, l’uomo perde la propria umanità, il
35
Intercultural Session - Achille Rossi
cosmo è ridotto semplicemente a un
ammasso di materia e di energia.
A.1. Prima di riprendere punto per
punto questa affermazione voglio esaminare
il limite della cosmologia scientifica. Il
principale è legato al metodo scientifico e alla
sua assolutizzazione. La scienza pretende di
fornirci una visione completa del mondo,
dimenticando che il suo metodo ci regala solo
una descrizione degli aspetti quantitativi
della realtà.
Quando cerchiamo di conoscere
qualcosa dipendiamo dagli strumenti che
utilizziamo e dalla precomprensione della
natura della cosa che stiamo tentando di
raggiungere. Lo strumento per eccellenza del
metodo scientifico è la matematica, che
proietta sulla realtà la sua rete e ci fa
prendere coscienza di una certa struttura del
reale, ma questo non equivale a conoscere il
mondo. In parole povere, il metodo
condiziona ciò che possiamo conoscere.
A.1.1. Il metodo scientifico ha di mira il
controllo dei fenomeni, prevederli per poterli
controllare, perciò s’interessa del comportamento delle cose, non del loro perché. Non ha
bisogno di un approccio olistico né richiede
una cosmologia. In questo modo il metodo
acquista una importanza così centrale da
diventare il contenuto e i mezzi diventano il
fine. Poiché il metodo ci abilita a cercare la
quantità in tutti i campi finiamo per trovarla
dappertutto e non vediamo altro. In una
simile cosmovisione l’astrazione e il pensiero
calcolante prendono il sopravvento.
A.2. Panikkar fa ancora notare che
esiste uno stretto rapporto fra questa
36
cosmologia scientifica e il monoteismo,
perché ambedue comprendono la realtà in
base a un unico principio: la ragione umana
nel caso della scienza, Dio nel caso del
monoteismo. Panikkar non è iconoclasta e
non vuol buttare a mare né la scienza né il
Divino ma tenta di riposizionarli, liberando la
scienza dal suo assolutismo, salvaguardando
tutto il positivo che il mito monoteista
veicola. Il monoteismo c’insegna che la realtà
ha sempre una dimensione trascendente, il
deismo cerca di armonizzare Dio e ragione, il
panteismo sottolinea che il Divino pervade
tutto, il politeismo ci ricorda che il divino è
irriducibile a qualsiasi singolarità, l’ateismo il
carattere apofatico dell’Ultimo, l’agnosticismo che noi non siamo Dio, lo scetticismo
che il fondamento delle nostre certezze può
essere solo Dio.
B. L’assenza del Divino:
Nella descrizione scientifica l’universo è
concepito come un ammasso di materia ed
energia che si sviluppa nello spazio e nel
tempo fino all’uomo che osserva tutto il
processo. Dio è collocato alla fine come
punto Omega, ma in realtà non c’è bisogno di
lui. La religione è un fatto privato; nell’ipotesi
migliore Dio è l’insieme che contiene il
mondo come sottoinsieme. Il Dio vivente è
perduto. D’altra parte il monoteismo tende
come china fatale a sostanzializzare, dunque
a limitare Dio.
La perdita dell’umano:
L’uomo è assente nel mito scientifico
perché è solo l’osservatore o, al massimo,
colui che ha programmato le misurazioni, ma
è sentito quasi come un ostacolo alla purezza
Intercultural Session - Achille Rossi
dei calcoli. Tutto l’umano è oggettivato e
l’uomo è ridotto alla terza persona. La
scienza non sa chi è l’uomo. L’apologo
dell’indù e dello scienziato: «abbiamo
mandato un uomo sulla luna». «Ma se non
sapete nemmeno chi è?». C’è una differenza
fondamentale tra conoscenza scientifica e
conoscenza umana. La conoscenza scientifica
ci permette di cogliere i fenomeni che
appaiono al metodo scientifico, la
conoscenza umana ci permette di diventare
in un certo modo quello che conosciamo e
impegna l’attività di tutto il nostro essere e
implica anche l’amore. “Qui Deum cognoscit,
Deus fit”.
L’oblio della dimensione cosmica:
Non c’è bisogno di un’analisi approfondita del sistema economico dominante
per rendersi conto che la natura è considerata una risorsa a costo zero di cui si può
fare ciò che si vuole “La natura è una
meretrice…” (Bacone). Il linguaggio è illuminante.
C. Il nuovo mito
È necessaria una svolta per superare il
conflitto di cosmologie in cui siamo
impantanati. La cosmologia scientifica, che
riposa sulla quantità e che tenta di eliminare
completamente il fattore soggettivo, non può
prepararci un mondo umano. Dopotutto il
fattore soggettivo non può essere eliminato
perché noi apparteniamo al mondo. Ed è
ingenuo pensare che oggi per la prima volta
abbiamo una visione oggettiva dell’universo.
L’osservatore dimentica se stesso e legge gli
oggetti “sub specie quantitatis”.
Neppure l’aspetto oggettivo, però, può
essere eliminato sposando una prospettiva
idealistica. Il mondo non è né soggettivo né
oggettivo.
D’altra parte nemmeno le cosmologie
tradizionali possono aiutarci perché le nostre
attuali conoscenze non ci permettono di condividerle più. Non si tratta nemmeno di
coniugare cosmologia scientifica e cosmologie tradizionali, ma di trasformarle entrambe e di entrare in un nuovo mito.
Descrizione: Il Divino esiste, non è una
proiezione dell’uomo, è qualcosa di più e di
differente, irriducibile all’uomo e al mondo.
Viene espresso col linguaggio delle diverse
culture. È una dimensione reale, né indipendente né separabile dall’Universo, che
pervade ogni cosa, ma che non è afferrabile
direttamente come un corpo o intellegibile
come un’idea. Il Mistero divino non è né un
Essere supremo né una sostanza separata.
«Dio non è né un idolo, né una formula, né
una cosa, né un concetto».
L’uomo non può essere ridotto alla
terza persona (esso) come fa la scienza,
perché è il punto d’incontro dell’intera realtà.
A questo alludono le tradizioni che lo
definiscono “icona di Dio”, o parlano di
“atman-brahman”.
Il Cosmo è vivo, non può essere
staccato dalla dimensione divina e da quella
umana. Dio-uomo-mondo sono dimensioni
inter-in-dipendenti e alla fine non sono né
uno né tre.
Panikkar è consapevole di aver
descritto un mito e ogni mito consente
molteplici interpretazioni. Riecco di nuovo il
37
Intercultural Session - Achille Rossi
pluralismo. Queste intuizioni, aggiunge
Panikkar «non sono né dogmi né semplici
ipotesi, ma filosofia, che è l’unica vera sofia
umana».
Osservazioni conclusive:
Dopo questa sommaria incursione in
alcune tematiche panikkariane permettetemi
alcune osservazioni a mo’ di conclusione.
Il mondo che ci troviamo a vivere è un
mondo impossibile sia dal punto di vista etico,
che da quello ecologico, che spirituale.
L’etica c’impedisce di accettare un
mondo dove (tre quarti dell’umanità vivono
in condizioni disagiate); la questione
climatica ci spinge a un cambiamento
urgente altrimenti è in pericolo la
sopravvivenza dell’umanità, l’asfissia spirituale provocata dal nichilismo impedisce una
vita veramente umana.
Panikkar è cosciente della necessità di
un cambiamento radicale che dovrebbe
toccare tutti gli aspetti della vita umana, dalla
spiritualità all’economia, dalla politica
all’ecologia. Questo cambiamento sarà
possibile solo attraverso un cambiamento di
cultura altrettanto radicale, altrimenti tutti i
tentativi di mutamento ricadranno su se
stessi.
La forza del pensiero di Panikkar sta
proprio nell’aver delineato questo nuovo
orizzonte, il nuovo mito, e averlo fatto in un
confronto con le culture del mondo, al di fuori
di ogni provincialismo e senza la minima
paura di mettere in discussione il mito
dominante. Eppure questo grande spirituale
ha affrontato un compito così titanico con
38
grande delicatezza perché il mito che
tramonta non sono solo macerie, ma anche
tesori di inestimabile valore che meritano di
essere integrati sotto una luce nuova nel
mito che sta albeggiando.
Complexity Session - Piero Bevilacqua
NOVECENTO DIVISO: TRA RIDUZIONISMO TECNICO-SCIENTIFICO
E SAPERE DELLE CONNESSIONI
Piero Bevilacqua
Piero Bevilacqua
(video)
Intanto una premessa chiarificatrice sui
termini utilizzati nel titolo di questa
comunicazione. Perché uso la parola sapere,
distinta da scienza? Non sto ricorrendo a un
sinonimo per eliminare una cacofonia da
ripetizione. Nel mio vocabolario la scienza è
un fenomeno storicamente determinato
dell'età contemporanea: con la sua ricerca
istituzionalizzata, divisa in discipline, con le
sue procedure universalmente riconosciute, i
suoi protocolli, le sue finalità eminentemente
tecniche, la sua dipendenza dai poteri
dominanti1, la sua incorporazione nella
macchina della produzione capitalistica. A
quest'ultimo proposito sappiamo, almeno dai
tempi di Marx, che «l'invenzione diventa
un'attività economica e l'applicazione della
scienza nella produzione immediata un
1 Rimando al vasto affresco di F. Capra, Il punto di svolta. Scienza, società e cultura emergente (1982) Feltrinelli Milano 2008, e al contributo - che solo a tratti ha
un'impostazione storica - di M.Cini, Un paradiso perduto. Dall'universo delle leggi naturali al mondo dei processi evolutivi.Feltrinelli Milano, 2004. Su saperi,scienze
e conoscenza si veda il testo, a più voci, Manifesto sul
futuro dei sistemi di conoscenza.Sovranità della conoscenza per un pianeta vitale, Press Service, Sesto Fiorentino 2009
criterio determinante e sollecitante per la
produzione stessa.»2
I saperi, ovviamente, possono essere
anche scienza, quanto a universalità di criteri
di procedura e di validazione, ma essi sono
contaminati da conoscenze e finalità extrascientifiche. Oggi i saperi che si occupano
della biodiversità, ad esempio, e che utilizzano
il patrimonio conoscitivo di discipline
tradizionali come la biologia o la zoologia,
rappresentano forme di conoscenze che
osservano non solo i singoli fenomeni, ma le
loro reciproche relazioni e lo spazio specifico
in cui essi si svolgono. E non danno vita
necessariamente a tecnologie, a farmaci o a
qualunque altro prodotto mercificabile. Essi
sono incomprensibili, al di fuori di un impulso
di carattere non scientifico, proveniente dalla
reazione morale e politica all'avanzare delle
monoculture agricole e alla riduzione delle
Piero Bevilacqua,
Università La Sapienza, Roma
2 K.Marx,Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Presentazione, traduzione e note di
E.Grillo,La Nuova Italia, Firenze 1970, vol.I, p. 399
39
Complexity Session - Piero Bevilacqua
specie viventi sulla Terra. Il testo di Vandana
Shiva, Monoculture della mente ne costituisce
una testimonianza significativa3
Resta da aggiungere che i saperi sono
spesso esterni alle istituzioni dominanti,
hanno talora a che fare con le sapienze locali
tramandate oralmente. E' questo il caso dei
contadini. Essi hanno elaborato e tramandato
un sapere che per diecimila anni ha permesso
all'umanità di nutrirsi e di sopravvivere. Una
massa di conoscenze empiriche e di
concezioni olistiche, su cui è sorta la scienza
agronomica nell' 800. Per il tratto più lungo
della sua storia l'umanità si è retta sui saperi,
e questi sopravvivono e hanno la loro larga e
spesso invisibile influenza, anche nella nostra
epoca e nelle società dominate dalla scienza.
Si pensi a quanto sapere orienta la nostra vita
quotidiana, il lavoro domestico femminile,
ecc.
Dunque, scienza e saperi. Simili, ma
diversi. Una diversità che vogliamo marcare
per ragioni non scientifiche, ma morali e
politiche. Sempre, è con nuove parole che ci si
separa da un passato che si vuol superare.
Ora, il Novecento ormai concluso squaderna
al nostro sguardo storico uno spettacolo di
grande interesse. Esso mostra, ad esempio,
come alcuni principi e caratteri fondativi della
scienza moderna pervengano alla loro
estrema conclusione. Ma ci mostra, anche, al
tempo stesso, come dall'interno del corpo
della scienza dominante si facciano strada
saperi che addirittura colpiscono alla radice il
suo principio ed il suo fine originario.
Questo è senza dubbio il caso della
fisica. La Big science della prima parte del
3 V.Shiva, Monoculture della mente. Biodiversità,biotecnologia e agricoltura “scientifica”, Bollati Boringhieri, Torino 1995.
40
secolo. Questa disciplina che, com'è noto, con
Galilei, fonda la scienza moderna, conosce nel
Novecento l'esito più estremo del riduzionismo che ne segna l'atto di nascita. Ricordo
per brevità quanto dice Edgar Morin a questo
proposito, ne La natura della natura: «La
fisica occidentale non ha solamente disincantato l'universo, essa l'ha desolato», cioé le
ha sottratto la vita riducendola a rapporti
matematici fra corpi. 4
Ebbene, esattamente questa scienza,
che nel secolo scorso ha puntato a indagare le
strutture prime della materia, a smontare la
complessità del vivente e a ridurlo nei suoi
elementi ultimi e costitutivi, è sfociata in un
risultato tecnico di gigantesca distruttività. I
fisici della prima metà del '900 hanno creato
la bomba atomica. Hanno cioé finalizzato il
sapere della scienza per un compito totalitario
di morte. La bomba atomica, come ricordava
Ivan Illich, non è un'arma qualsiasi da usare
contro un nemico in guerra: è un progetto di
genocidio. 5
Al tempo stesso, la fisica, seguendo
questo sentiero riduzionistico della conoscenza e di ulteriore dominio sulla natura, si
consegnava a poteri esterni, poteri illiberali e
di guerra. Come ha ricordato Karl Jaspers, nel
suo saggio La bomba atomica e il destino
dell'uomo, riferendosi a quanto accadde negli
USA negli anni '40, «quella che era una
organizzazione, in un primo tempo libera, di
scienziati impegnati col massimo spirito di
sacrificio, per la libertà degli uomini, subito
sempre più divenne una impresa militarmente
4
E.Morin, La méthode.Tome I, La Nature de la Nature,
Edition Seuil, Paris 1977, p. 365
5 I.Illich, Nello specchio del passato.Le radici storiche
delle moderne ovvietà:pace,economia, sviluppo, linguaggio, salute, educazione, Red Como 1992, p. 28
Complexity Session - Piero Bevilacqua
controllata.6» Crediamo di poter concludere
che mai nella storia dell'umanità si era verificato un così totale rovesciamento dei fini
della conoscenza.
Eppure è stata questa stessa scienza, la
fisica, nel corso del '900, a sfociare nella
negazione delle sue cadute riduzionistiche, a
scavare un altro sentiero accanto a quello
strumentale e distruttivo, a porsi di fronte il
grande mare della complessità. «La fisica,
animata dall'ossessione mitologica dell'unità
prima - ha scritto ancora Morin ne La vita
della vita- scoprì in principio la molecole, poi
l'atomo, poi ancora la particella. Nella sua
ricerca dell'elementare, essa trovò di volta in
volta il combinato, il complicato, il complesso
e, nella particella, la maggior complessità
logica che si possa immaginare.» 7
Com'è noto, è stato, fra tanti, un fisico
eterodosso, Fritjof Capra a riflettere genialmente su questa tarda evoluzione della fisica
contemporanea. Uno sviluppo che ha portato
una scienza eminentemente riduzionistica a
scoprirsi profondamente affine al pensiero
mistico orientale: vale a dire a riconoscere «l
'unità e l'interdipendenza di tutti i fenomeni e
la natura intrinsecamente dinamica dell'universo»8 «La meccanica quantistica rivela – ha
scritto Capra nel Tao della fisica – un'essenziale interconnessione dell'universo e ci fa
capire che non possiamo scomporre il mondo
in unità elementari con esistenza indipendente. Quando studiamo la materia in
profondità, scopriamo che essa è composta da
particelle, ma queste non sono i “mattoni
fondamentali” nel senso di Democrito e di
6 K.Jaspers, La bomba atomica e il destino dell'uomo, il
Saggiatore Milano, 1960, p.289
7 E. Morin, Il metodo. 2 La vita della vita, (1980) Raffaello Cortina Editore, Milano, p. 116
8 F.Capra, Il Tao della fisica, (1975) Adelphi Milano
2009, p.27
Newton. Sono soltanto idealizzazioni, utili da
un punto di vista pratico, ma prive di
significato fondamentale.» 9
L'ecologia come sapere olistico.
Ma nel Novecento, soprattutto nella
seconda metà del secolo, fiorisce e potremmo
dire esplode una conquista sostanzialmente
dimenticata del pieno Ottocento: l'ecologia.
La «scienza delle relazioni – come scriveva il
suo pioneristico fondatore, Ernst Haeckel, nel
1866 - fra le cose viventi e il loro ambiente».10
E' questo elementare principio fondativo che
ha rivoluzionato e sta rivoluzionando i saperi
della nostra epoca.
Esso contraddice infatti alla radice il
principio su cui si è retta l'intera scienza
moderna: vale a dire la separazione e
l'isolamento dell'oggetto dal suo ambiente,
per essere studiato nella sua intima e solitaria
struttura. L'ecologia ha invece mostrato che
tale separazione e isolamento portano a
conoscenze parziali, riduttive, esemplificatrici.
Esse finiscono con l'occultare i condizionamenti, gli influssi, le determinazioni che il
tutto interrelato ha sulle singole parti.
Certo, come mostra tanto la storia del
sapere scientifico che la storia della società
industriale, il riduzionismo della scienza, e la
sua finalizzazione in tecnica, sono stati
coronati da un enorme successo. Essi hanno
costituito la stoffa stessa della nostra epoca,
interamente fondata su un progetto di
dominio assoluto sulla natura. Ma è stato
esattamente tale dominio e le alterazioni
prodotte, le minacce che esso ha fatto
9 Ibidem, p. 156
10 P. Bevilacqua, La terra è finita. Breve storia dell'ambiente, Laterza Roma-Bari, 2006, p.138; C. Modonesi
e G.Tamino ( a cura di ) Biodiversità e beni co-
41
Complexity Session - Piero Bevilacqua
intravedere all'orizzonte, che hanno fatto
emergere dal campo stesso della scienza
dominante percorsi nuovi della ricerca e del
pensiero.
globalizzate. Ma questa, per la verità, era una
conoscenza che la scienza medica aveva
cominciato a far propria almeno a partire da
Pasteur.
L'osservatore della realtà esterna ha
dovuto accorgersi che egli era fatto della
stessa materia della realtà osservata, il
dominatore ha dovuto constatare che il
dominio gravava anche su di lui, frammento
della natura assoggettata. Il secondo
Novecento ha potuto infatti assistere a un
sotterraneo mutamento di paradigma
scientifico, indotto dalla constatazione, per
dirla ancora con parole di Morin, che
«L'asservimento della natura da parte
dell'uomo ha trasformato la natura
dell'asservimento»11 Perché «il controllo
dell'ecosistema sulle società umane aumenta
nella misura in cui aumenta il controllo cui
esso è soggetto (...) Più l'uomo possiede la
natura, e più la natura lo possiede »12
Ma non è solo questo. Non è certa
questa la novità che fa epoca. Con drammatica sorpresa, solo negli ultimi decenni gli
uomini si sono accorti di essere inscindibilmente legati all' infinitamente grande. La
scoperta che le attività umane, i nostri fumi e
scarichi, i nostri allevamenti alterano addirittura l'atmosfera, il cielo lontano che sta sopra
di noi, provocando il riscaldamento del clima,
illumina sinistra-mente l'esito potenzialmente
catastrofico del nostro dominio. Uno dei
maggiori studiosi degli effetti economici del
global warming, del riscaldamento globale,
Nicholas Stern, ha definito il fenomeno «il più
grave ed esteso caso di fallimento del mercato
che si sia mai verificato.»14 Ben detto. Ma non
è soltanto questo. Esso costituisce la
rivelazione drammatica dei limiti conoscitivi
su cui la scienza moderna ha edificato la
gigantesca macchina di dominio tecnico sul
mondo vivente. E' una sorta di bilancio, un
conto che la natura immaginata come lontana
e infinita presenta ai manipolatori ignari e
maldestri che l'hanno violata.
Gli uomini non potevano, dunque, e non
possono sottrarsi né col pensiero né con
l'agire pratico alle infinite e spesso ancora
ignote relazioni che li legano al loro ambiente,
che li imprigionano nella maglia invisibile,
complessa e sfuggente della biosfera. Essi
appaiono sempre più legati e condizionati al
mondo infinitamente piccolo dei virus e dei
batteri, protagonisti, come ormai sappiamo,
nella lunga vicenda della storia umana.13 E
come abbiamo imparato a sperimentare negli
ultimi anni con le pandemie che dal mondo
animale si diffondono nelle società umane
muni. Introduzione di M.Capanna, Jaka Book,
Milano 2009, p.23
11 E. Morin, Il pensiero ecologico, Hopeful Monster
,Firenze 1988, p.94
12 Ibidem ,p. 95
13 J.Diamond, Armi, acciaio e malattie. Breve storia del
mondo negli ultimi tredicimila anni. Introduzione di L. e
F. Cavalli Sforza, Einaudi Torino, 2006, p. 149 e ss.
42
Nel Novecento, un altro ramo della
scienza – che negli ultimi decenni sembra aver
sostituito la fisica nel ruolo di Big science – la
biologia, si è inoltrata nel sentiero della
scomposizione del vivente nei suoi costituenti
primi e fondamentali. Non senza grandi
successi, sia conoscitivi che tecnici. E'
sufficiente pensare alle scoperte della
genetica, a partire dalla decodificazione della
doppia elica del DNA da parte di Krick e
14 N. Stern, Clima è vera emergenza. Il rapporto Stern:
cambiare è possibile, introduzione di C.Carraro, Brioschi
Milano , 2008, p.22
Complexity Session - Piero Bevilacqua
Watson, nel 1953, o agli indubbi progressi
realizzati in campo medico e biotecnologico.
Negli ultimi decenni non pochi scienziati
hanno addirittura creduto – seguendo le
sirene di un meccanicismo che sopravvive ad
almeno 4 secoli di storia della scienza - che
tramite i geni si potessero definitivamente
stabilire i caratteri degli organismi, predire
l'evoluzione organica degli individui. Ma si
sono dovuti rassegnare al fatto che gran parte
dei geni non sono invarianti, non replicano i
caratteri dell'informazione ereditata, ma sono
fenotipi, sono cioé soggetti all'alterazione e
modificazione dell'ambiente, variano nel
tempo e dunque sono intimamente connessi
agli andamenti imprevedibili della storia
individuale.15 La stessa genetica, d'altro canto,
progredendo nelle sue scoperte, ha mostrato
che la materia possiede anch'essa una sua
“soggettività”. Non solo gli uomini e gli
animali, ma anche le piante si sviluppano ed
evolvono sulla base di codici informativi
contenuti nei geni. Gli alberi vivono e
crescono per via di messaggi invisibili. Forme
insospettate di “sapere”, dunque, orientano le
strutture profonde della vita, anche quelle che
a partire da Cartesio avevamo pensato e
rappresentato come res extensa, come
oggetto esterno e contrapposto alla nostra
soggettività.16
Ecco, dunque, un altro e clamoroso caso
in cui il riduzionismo ha dovuto cedere alla
15 Cfr. B.Commoner, Replicazione del DNA: il tallone
d'Achille della genetica molecolare; E.Gagliasso Luoni,
Riduzionismi:il metodo e i valori, in C.Modenesi,
S.Masini, I.Verga, Il gene invadente.Riduzionismo, brevettabilità e governance dell'innovazione biotech. Introduzione di M.Capanna, Baldini Castoldi Dalai, Milano
2006, p. 51 e ss. e p.111 e ss.
16 Si vedano in proposito le osservazioni di M. Alcaro,
Coscienza e mondo. Un dialogo tra filosofia e scienza, in
P.Bevilacqua ( a cura di) A che serve la storia? I saperi
umanistici alla prova della modernità, Donzelli Roma,
2011.
complessità, l'uno al molteplice, l'“astratto” al
contesto,
l'isolato
alle
connessioni.
L'infinitamente piccolo si è nuovamente
mostrato indissolubilmente legato all'infinitamente grande, lo condiziona e ne è
condizionato.
Ha ricordato Marcello Buiatti nel suo
saggio sulla Biodiversità : «Quando parliamo
di biodiversità (.... )parliamo della diversità fra
molecole all'interno di una cellula, fra cellule
in un organismo, fra organismi che fanno
parte di una popolazione (insieme di
organismi di una stessa specie), specie diverse
appartenenti ad un ecosistema, ecosistemi
che compongono la biosfera. La vita cioé è un
insieme di componenti tutti più o meno
collegati fra di loro e quindi non indipendenti
ma che inevitabilmente si influenzano l'un
l'altro.»17
Una minacciosa involuzione
Lo scenario del Novecento mostra
tuttavia percorsi di rovesciamento della
direzione della ricerca anche in altri campi:
vale a dire in ambiti poco sospettabili di
caduta nell' illusione riduzionistica che da
sempre accompagna e spesso porta fuori
strada le ambizioni e i sentieri della ricerca. E'
il caso di una scienza sociale nata in Europa
nel XVIII secolo e che ha celebrato i suoi
trionfi e le sue perniciose illusioni nel XX
secolo.18 Mi riferisco all'economia, nata da
una costola della filosofia morale e diventata,
alla fine del suo percorso, una tecnologia della
crescita. Un sapere della complessità, delle
relazioni tra i fenomeni produttivi e le classi
sociali, tra la divisione del lavoro e i mercati,
17 M. Buiatti, La biodiversità, il Mulino 2007, p.8
18 Sul carattere per cosi dire inventato dell'economia,
come disciplina scientifica, che si è ritagliata uno spazio autonomo tra i fenomeni sociali, S.Latouche, L'invenzione dell'economia, Bollati Boringhieri, Torino 2010
43
Complexity Session - Piero Bevilacqua
tra il centro e la periferia, tra la ricchezza e la
pubblica felicità, si è ridotta a una sofisticata
macchina volta ad un unico fine: l'incremento
del Prodotto interno Lord, il sacro Graal della
nostra epoca. O per meglio dire, la crescita dei
beni e servizi disponibili senza alcun riguardo
per quel che accade alle connessioni che
legano la società, alle relazioni fra gli individui,
al benessere delle persone, alla loro vita
intima e alla spiritualità collettiva. E
naturalmente senza riguardo – ma questo era
un peccato originale anche dell'economia
politica sin dai suoi esordi settecenteschi19 –
per la distruzione di risorse non rinnovabili
che produce, per gli effetti negativi che ha
sull'intero mondo vivente, per le alterazioni e i
danni che genera dentro la placenta che tutti
ci contiene, cioé l'atmosfera.
L'involuzione grave che ha subito questa
disciplina scientifica nella seconda metà del
Novecento, mostra in maniera paradigmatica
– non diversamente da quanto è accaduto alla
fisica con la creazione della bomba atomica come essa possa trasformarsi in uno
strumento di distruzione della biosfera. Messa
al servizio di una macchina che divora immani
risorse e mette a sacco gli habitat dell'intero
pianeta, essa si è trasformata in un dispositivo
meccanico di autoperpetuazione del proprio
agente. La scienza economica sembra aver
subito lo stesso destino della fisica messasi al
servizio del potere militare, secondo la
rassegnata constatazione di Jaspers. Essa ha
perduto le sue caratteristiche di libera e
“disinteressata” ricerca e si muove a testa
19 Per la rimozione della natura nel processo economico già in Smith, Ricardo e in parte nello stesso Marx,
cfr. H.Immler, Natur in der ökonomischen Theorie,Westdeuscher Verlag, Opladen,1985, p. 138. e il
commento di chi scrive in P.Bevilacqua, Demetra e
Clio.Uomini e ambiente nella storia, Donzelli roma,
2001, p 118 e ss.
44
china, al cappio dei poteri e delle ideologie
dominanti
Ma la sua metamorfosi ha contagiato
altri ambiti dell'umano pensare. Il suo stato
attuale, la riduzione del sapere economico in
una tecnologia della crescita, coinvolge e
immiserisce oggi uno dei saperi più antichi
dell'umanità - non meno antico dell'economia- elaborato sin da quando gli uomini si
sono uniti in società. Un sapere delle
connessioni, profondamente olistico, creato
per gestire la diversità e la complessità della
vita organizzata degli uomini: la politica.
La subordinazione della politica alla
tecnologia della crescita è responsabile in
larghissima parte dell'irrilevanza in cui oggi
annaspa questo antico sapere. E costituisce
forse uno dei nodi fondamentali che spiegano
gli equilibri fragili e precari in cui l'umanità
sembra precipitata negli ultimi decenni.
Equilibri ambientali ed equilibri sociali al
tempo stesso. La politica è oggi sempre più
unilateralmente irretita, nelle sue forme
dominanti,
dal
delirio
riduzionistico
dell'economicismo: la peste ideologica dell
'età contemporanea.20 E rischia di trascinarci
nella rovina se non riusciamo a ridarle
autonomia, a farla somigliare a quella che
Morin chiama, ricordando il nostro
Gianbattista Vico, la «prima scienza nuova»,
vale a dire l'ecologia, un sapere delle
connessioni e delle interrelazioni che legano
le infinite varietà del vivente in un tutto che
muta nel tempo.
20 Su questi aspetti rimandiamo, anche per la bibliografia specifica utilizzata, a P.Bevilacqua, Miseria dello
sviluppo,Laterza, Bari Roma, 2008, p.. e Id. Il grande
saccheggio. L'età del capitalismo distruttivo, Laterza,
Roma-Bari, 2011, p. 94 e ss.
Complexity Session - Giuseppe Gembillo
PERCHÉ LA COMPLESSITÀ
Giuseppe Gembillo
Giuseppe Gembillo
(video)
La concezione della Complessità è la
nuova visione della realtà che si propone come alternativa a quella tradizionale. Che si
propone, cioè, come alternativa al Riduzionismo. Ma il Riduzionismo ha una gloriosa tradizione teorica e ha conseguito grandissimi
successi tecno-pratici. Inoltre, si fonda su una
concezione che affonda le proprie radici sia
nel pensiero filosofico, da Talete a Cartesio;
1
sia in quello scientifico, da Galilei a Einstein .
Tenuto conto di ciò, se la concezione della
complessità si vuole proporre come alternativa al riduzionismo ha l’obbligo di presentare
argomentazioni forti e ben fondate. Io proverò a farlo, cominciando col sottolineare il fatto
che anche la concezione della Complessità si
fonda su una gloriosa tradizione filosofica e su
un’altrettanto gloriosa tradizione scientifica.
La tradizione filosofica risale a Vico ed Hegel e
Giuseppe Gembillo,
Centro della Complessità, Univ. Messina
1
Cfr. G. Galilei, Le opere, voll. 20, ed. nazionale, a cura
di A. Favaro, Firenze 1890-1909;Id., Il Saggiatore, a cura
di L. Sosio, Feltrinelli Milano 1990;R. Cartesio, Opere filosofiche, trad. di E. Garin, G. Galli, M. Garin, Laterza,
Roma-bari 1998; G. Gembillo, Neostoricismo complesso, ESI, Napoli 1999.
passa per Croce, per Cassirer, per Dewey, per
Perelmann; la tradizione scientifica risale a
Fourier e a Darwin, e passa per Mach, per
Planck, per von Bertalanffy, per Heisenberg,
per Bohr, per Prigogine, per Maturana, per
2
Wiener, per Lovelock, per Mandelbrot .
2
Cfr. G. Vico, la scienza nuova e altri scritti, a cura di N.
Abbagnano, UTET, Torino 1976; G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, trad. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1995; Id., Scienza della logica, trad. di A.
Moni, Laterza, Roma-Bari 1983; Id., Lezioni sulla storia
della filosofia, trad. di E. Codignola e G. Sanna, La Nuova Italia, Firenze 1972; B. Croce, Logica come scienza
del concetto puro, Laterza, Bari 1964; Indagini su Hegel
e schiarimenti filosofici, Laterza, Bari 1967; G. Gembillo,
Filosofia e scienze nel pensiero di Croce, Giannini, Napoli 1984; Id. Benedetto Croce filosofo della complessità,
Rubbettino, Soveria Mannelli 2006; E. Cassirer, Filosofia
delle forme simboliche. 1. Il linguaggio, Trad. di E. Arnaud, La Nuova Italia, Firenze 1966; Id., Determinismo e
indeterminismo nella fisica moderna, trad. di G. A. De
Toni, La Nuova Italia, Firenze 1970; J. Dewey- A.F. Bentley, Conoscenza e transazione, trad. di E. Mistretta, La
Nuova Italia, Firenze 1974; J. Dewey, Logica, teoria
dell’indagine, trad. di A. Visalberghi, Einaudi, Torino
1965; Ch. Perelman – L. Olbrechts-Tyteca, Trattato
dell’argomentazione, trad. di M. Meyer, C. Schick, E.
Barassi, Einaudi, Torino 1976; Ch. Perelman, Il campo
dell’argomentazione, trad. di E. Mattioli, Pratiche, Parma 1979. Riguardo all’ambito scientifico per il momento rimando a: L. von Bertalannfy, Teoria generale dei
sistemi. Fondameni, sviluppo, applicazioni, trad. di E.
45
Complexity Session - Giuseppe Gembillo
Considerato ciò, mi propongo di mostrare che la concezione della Complessità è il risultato coerente di una serie di rivoluzioni
avvenute nell’ambito della filosofia e delle varie scienze a partire dagli inizi dell’Ottocento e
tuttora in corso. L’aspetto più significativo di
tutto questo è che tali rivoluzioni hanno modificato radicalmente il nostro concetto di Natura, di Realtà esterna, di Universo e hanno
comportato innanziuttto: la fine della contrapposizione tra Natura e Storia; la storicizzazione del concetto di sistema; una radicale
trasformazione di tutti i principali concetti
scientifici tradizionali, e, proprio come coseguenza generale di ciò, hanno reso inevitabile
il passaggio dal Riduzionismo alla Complessi3
tà .
Bellone, Mondadori, Milano 2004; H. Maturana – F. Varela, Macchine
ed esseri viventi. L’autopoiesi e
l’organizzazione biologica, trad. di A. Orellana, Astrolabio-Ubaldini, Roma 1992;Idd., L’albero della conoscenza, trad. di G. Melone, Garzanti, Milano 1999; AA.VV.,
Conoscere è fare. Omaggio a Humberto Maturana, a
cura di G. Gembillo e L. Nucara, Sicliano, Messina 2008;
N. Wiener, Introduzione alla cibernetica, trad. di D. Persiani, Bollati Boringhieri, Torino 1997;Id., La cibernetica.
Controllo e comunicazione nell’animale e nella macchina, trad. di G. Barosso, Mondadori, Milano 1968; J. Lovelock, Gaia. Nuove idee sull’ecologia, trad. di V. Bassan
Landucci, Bollati Boringhieri, Torino 1996; Id., Le nuove
età di Gaia, trad. di R. Valla, Bollati Boringhieri, Torino
1991; G. Gembillo, Le polilogiche della complessità, Le
Lettere, Firenze 2008
3
La storia e le ragioni teoriche di tale trasformazione si
trovano perfettamente condensate nei sei volumi del
Metodo di Edgar Morin: Il metodo 1. La natura della
natura, trad. di G: Bocchi e A. Serra, Cortina, Milano
2001; Il metodo 2. La vita della vita, trad. di G. Bocchi e
A. Serra, Cortina, Milano 2004; Il Metodo 3. La conoscenza della conoscenza, trad. di A. Serra, Cortina, Milano 2007; Il metodo 4. Le idee: habitat, vita,
organizzazione, usi e costumi, trad. di A. Serra, Cortina,
Milano 2008; Il metodo 5. L’identità umana, trad. di S.
Lazzari, Cortina, Milano 2002; Il metodo 6. Etica, trad.
di S. Lazzari, Cortina, Milano 2005. Su ciò cfr. A. Anselmo, Edgar Morin e gli scienziati contemporanei, prefazione di Edgar Morin, Rubbettino, Soveria Mannelli,
46
Il Riduzionismo “messo a fuoco”
Da Talete ad Einstein abbiamo cercato
di semplificare il mondo esterno “complicato”, cercando il principio unico di spiegazione.
La via per conseguire questo risultato è passata attraverso un approccio metodologico conforme allo scopo: il complicato è stato
spiegato come aggregato di parti, riconducibile alle singole unità, senza difficoltà, anzi con
grande e decisivo vantaggio, come ha mostrato Cartesio proponendo un metodo che consisteva nel ridurre ogni oggetto, identificato con
un meccanismo facilmente scomponibile, alle
sue parti costituenti. Per via scientifica, lo
schema di questo aggregato è stato esteso alla realtà nella sua interezza ed è stato ordinato in sistema eterno, retto da leggi
immodificabili e caratterizzato da andamento
ricorsivo e ripetitivo. La perfezione in tal senso, e dunque la meta definitiva, è stata raggiunta, come proclamavano per vie diverse
Laplace e Kant, col sistema solare delineato da
4
Newton .
Ma ecco il paradosso: un sistema, il sistema del mondo di Newton, che ruota attorno a un astro infuocato, presenta solo
processi adiabatici, per i quali lo scambio di
calore non è preso in considerazione. In conseguenza di questa scelta, l’universo newtoniano diventa freddo e statico.
A un certo punto, però, e imprevedibilmente, qualcuno comincia ad affrontare sul
2005; G. Gembillo- A. Anselmo- G. Giordano, Complessità e formazione, ENEA, Roma 2008; G. Gembillo, Da
Einstein a Mandelbrot, Le Lettere, Firenze 2009
4
Cfr. I. Prigogine – I. Stengers, La nuova alleanza, trad.
di P. D. Napolitani, Einaudi, Torino 1993; G. Gembillo –
G. Giordano- F. Stramandino, Ilya Prigogine scienziato e
filosofo, Siciliano, Messina 2004; G. Giordano, La filosofia di Ilya Prigogine,Siciliano, Messina 2005
Complexity Session - Giuseppe Gembillo
serio il problema del calore e scopre, con Fourier, che il calore è una forma di energia universale come la forza gravitazionale ma del
tutto opposta ad essa, perché esso trasforma i
corpi, li degrada, ne determina un’evoluzione
storica nella direzione della progressiva dissoluzione.
Fourier, al seguito di Napoleone durante
la campagna d’Egitto, contrasse, dopo avere
attraversato 30 kilometri di deserto, una strana malattia: il suo corpo perdeva lentamente
ma progressivamente calore. Nessun medico
dell’epoca riuscì a venire a capo del problema.
Allora Fourier cominciò ad affrontare da sé il
problema, estendendolo alla natura del calore
in generale. I risultati furono sconvolgenti:
ogni corpo possiede calore che prima o poi si
disperde, degradando il corpo. Esso, dunque,
è strutturato temporalmente, è soggetto allo
5
scorrere del tempo.
Con questo atto di consapevolezza, il
tempo e la storia entrano di prepotenza e definitivamente nella scienza. Scompare la differenza tra Natura e Storia.
Queste conseguenze emergono anche
attraverso la trasformazione che via via subiscono tutti i concetti fondamentali su cui si
fondava la scienza classica. Primo fra tutti
quello di reversibilità che viene sostituito dal
suo opposto, quando ci si rende conto che nel
mondo concreto, reale, gli eventi seguono
sempre una direzione che va dalla loro genesi
fino alla loro dissoluzione, che si chiama morte per gli esseri viventi e si chiama dissipazione per tutti gli altri corpi.
5
J. J. Fourier, Thèorie analytique de la chaleur, Gabay,
Paris 1988
Il concetto di causa, a sua volta, si volatilizza quando applicato ai fenomeni della trasmissione del calore. In essi la causa della
trasmissione è la differenza di temperatura
tra i corpi che entrano in contatto. Ma, a fine
processo, il calore si distribuisce i maniera uniforme tra i corpi e la causa, cioè la differenza,
scompare e non si ripristina in maniera naturale: dall’effetto non si risale alla causa nemmeno nel senso che a fine processo essi
restino distinguibili perché per chi ha non ha
avuto modo di assistere al processo di diffusione è impossibile capire quale sia stato, in
partenza, il corpo a cedere calore.
Il tempo, poi, in fisica classica era considerato o uno dei parametri che consentono di
inquadrare i fenomeni in maniera spaziotemporale (Cartesio); o un contenitore assoluto, dentro il quale gli eventi scorrono(Newton); oppure una delle forme pure
della sensibilità (Kant); in ogni caso esso restava sempre esterno ai fenomeni. Con Fourier, invece, il tempo diventa una struttura
intrinseca ai vari fenomeni; ognuno di essi ha
un tempo proprio che ne determina i ritmi
evolutivi.
Chiarisco questo concetto servendomi
di una situazione particolare immaginata da
Ludovico Ariosto nella sua Satira settima: un
albero di pero si sveglia dal letargo invernale e
si trova coperto da una zucca. Indispettito, le
chiede spiegazioni. La zucca lo prende in giro
facendogli rilevare come mentre lui aveva impiegato molti anni per crescere, lei in due mesi lo avesse sopravanzato. Al che il pero
risponde. “è vero, tu sei cresciuta rapidamente, ma altrettando rapidamente morirai”.
La simpatica discussione rende bene
l’idea per la quale ogni esistente ha un “tempo prorprio”, segue un ritmo temporale indi47
Complexity Session - Giuseppe Gembillo
viduale, e non può dunque fare affidamento
su un tempo “isocrono”, uguale per tutti.
singolo, ma anche nella sua essenza, nella sua
Analogo discorso va fatto per lo spazio
inteso, anch’esso, tradizionalmente, come un
contenitore indifferente ai corpi che contiene.
Con la termodinamica, invece, esso si è trasformato in ambiente con il quale qualunque
esistente interagisce in maniera attiva. Così lo
spazio non contiene indifferentemente oggetti, ma interagisce con entità che lo trasformano e che vengono a loro volta trasformati.
Coniugando questi risultati con il secondo principio della termodinamica, Ernst Mach,
a sua volta, è giunto a storicizzare la Meccanica, inserendo il tempo nel cuore della fisica
classica e trasformando le teorie scientifiche
da rispecchiamenti oggettivi della realtà in elaborazioni storiche dei singoli scienziati, espresse per fini economici e pratici e volti non
alla conoscenza della natura, ma alla sua ma-
Tutto questo impone un’ulteriore svolta
a favore del disequilibrio e della diseguaglianza. Nessun esistente è identico a qualcosa di
diverso da se stesso; anzi, nessuno è identico
a se stesso perché cambia continuamente nel
tempo; tutto ciò che è, esiste in condizioni
nipolazione .
lontane dall’equilibrio, che è stasi e morte .
quella ondulatorio-immateriale . In questo
modo subisce una radicale trasformazione
non solo il reale microscopico, ma la logica
stessa con la quale possiamo in qualche modo
coglierlo: alla logica della non contraddizione
e della reciproca esclusione degli opposti su-
6
Allora, come dicevo prima, si consolida
la svolta che porterà al superamento del riduzionismo e porrà l’esigenza del nuovo approccio complesso al reale: tutto diventa storia,
non solo a livello di singoli oggetti, ma a anche
a livello dell’Intero.
Un primo passo condapevole ed esplicito in questa direzione è quello che coinvolge
tutte le specie viventi le quali da fisse ed eterne, diventano, grazie a Darwin, in continua
evoluzione. Indipendentemente dalle tesi particolari da lui elaborate, il solo fatto di mettere in movimento ciò che era considerato
statico ha costituito una rivoluzione radicale.
Da allora ogni essere vivente rivela una sua
storia particolare; ogni essere vivente si evolve non solo nella sua fenomenologia di essere
6
Cfr. I. Prigogine- I. Stengers, La nuova alleanza, cit.,
pp. 111 e ss.
48
7
“sostanza” .
8
Come se non bastasse, indagando
l’immensamente piccolo, una serie di fisici rivoluziona l’immagine statica della natura microscopica
attribuendole
una
doppia
immagine, quella corpuscolare-materiale e
9
7
Cfr, Ch. Darwin, L’origine dell’uomo, trad. di F. Paparo,
Ed. Riuniti, Roma 1983; Id., L’origine della specie, trad.
di C. Balducci, Newton Compton, Roma 1981.
8
Cfr. E. Mach, La meccanica esposta nel suo sviluppo
storico-critico, Boringhieri, Torino 1977
9
Cfr. A. Einstein, Opere scelte, a cura di E. Bellone, Bollati Boringhieri, Torino 1988; Id., Autobiografia scientifica, trad. di A. Gamba, Bollati Boringhieri, Torino 1979;
G. Giordano, Da Einstein a Morin, Rubbettino, Soveria
Mannelli 2006; M. Planck, La conoscenza del mondo fisico, trad. di E. Persico e A. Gamba, Boringhieri, Torino
1993; Id. Scienza, filosofia e religione, trad. di F. Selvaggi, Fabbri, Milano 1973; L. De Broglie, Fisica e microfisica, trad. di G. Crescenzi, Einaudi, Torino 1950; Id., I
quanti e la fisica moderna, trad. di U. Richard, Einaudi,
Torino 1938; E. Schroedinger, L’immagine del mondo,
trad. di A. Verson, Boringhieri, Torino 1987; Id., Mèmoires sur la mècanique ondulatoire, trad. fr. di A. Proca,
Gabay, Paris 1988;
Complexity Session - Giuseppe Gembillo
bentra la logica della complementarità e della
10
giustapposizione tra visioni del reale .
Ma la “storia della storicizzazione” dei
vari livelli del reale non finisce qui. Nel 1912
Wegener scopre che anche il pianeta terra ha
una sua storia che si è dipanata attraverso la
deriva dei continenti che la compongono. A
completare il quadro nel giro di qualche decennio, dal 1912 (Slipher) al 1929 (Hubble)
anche l’Universo intero viene “messo in movimento” e gli astrofisici si mostrano in grado
di delinearne la storia evolutiva e di certificar11
ne la continua espansione .
La conclusione, a questo punto, diventa
conseguente: il sistema universo è un sistema
storico. Il concetto che fino a quel momento
aveva contrassegnato la staticità ordinata, il
concetto di “sistema”, si storicizza anch’esso.
2 . Tra Storicità e Complessità
Il sistema è storico sia visto nella sua interezza, sia indagato nelle sue articolazioni interne, nelle sue “parti”.
Queste ultime non appaiono più come
fisse, rigide e come giustapposte l’una all’altra
10
Cfr. N. Bohr, Teoria dell’atomo e conoscenza umana,
trad. di P. Gulmanelli, Boringhieri, Torino 1961; Id., Collected works, voll. 1-9, North-Holland, Amsterdam, Oxford, New York, Tokio 1972-1986; AA. VV., Niels Bohr
scienziato e filosofo, a cura di G. Gembillo e G. Giordano, Siciliano, Messina 2004; W. Heisenberg, Indeterminazione e realtà, a cura di G. Gembillo e G. Gregorio,
Guida, Napoli 2002; Id., Lo sfondo filosofico della fisica
moderna, a cura di G. Gembillo e E. Giannetto, Sellerio,
Palermo 1999; AA.VV., Werner Heisenberg scienziato e
filosofo, acura di G. Gembillo e C. Altavilla, Siciliano,
Messina 2002.
11
Cfr. AA.VV., La natura dell’universo fisico, a cura di D.
Huff e O. Prewett, trad. di P. Radicati, Boringhieri, Torino 1981; W. Bonnor, Universo in espansione, trad. di F.
Bedarida, Boringhieri, Torino 1967.
e dunque facilmente sostituibili. Ognuna di
esse, interagendo con le altre, subisce trasformazioni più o meno sensibili e, soprattutto, contribuisce a creare novità, o, come
meglio si dice, “emergenze”.
Per esempio, due gas infiammabili,
l’idrogeno e l’ossigeno, unendosi secondo il
noto rapporto, fanno emergere un nuovo
prodotto che acquisisce la caratteristica
dell’effetto bagnato, che serve a spegnere tutto ciò che è infiammabile. Così, il “tutto” rappresentato dall’acqua acquista caratteristiche
completamente diverse rispetto a quelle che
posseggono i suoi componenti, le singole parti.
Il sistema costituito non è, come prima
si diceva, ordinato, ma è “organizzato”; anzi, è
autorganizzato. Esso è più della somma delle
sue parti, perché, come s’è visto, le parti che
lo compongono creano novità e aggiungono
qualcosa in più rispetto a ciò che mostravano
di possedere singolarmente prese. C’è da aggiungere, però, che esso, come tutto organizzato, è anche meno della somma delle sue
parti perché esse, intrappolate in un determinato intero, sviluppano solo le potenzialità
funzionali alla costituizione di detto intero,
mentre latentizzano e bloccano tutte le al12
tre .
Comunque, le parti ineragenti si modificano ed evolvono organizzandosi. Per ovvia
estensione anche l’intero organizzato si sviluppa storicamente crescendo su se stesso.
Esso attraversa un percorso che dalla genesi
12
Cfr. E. Morin, Il metodo. 1. La natura della natura,
cit.; E. Morin e altri, La metafora del circolo nella filosofia del novecento, Siciliano, Messina 2002; A. Anselmo,
Edgar Morin dalla sociologia all’epistemologia, Guida,
Napoli 2006.
49
Complexity Session - Giuseppe Gembillo
lo porta al massimo del suo sviluppo e quindi
alla dissoluzione, alla dissipazione. In questo
modo anche il tradizionale rapporto tra ordine
e disordine non appare di reciproca esclusione
ma è segnato da una linea di demarcazione
che determina il passaggio dall’uno all’altro
con alternanza temporale.
L’alternanza è prodotta dal fatto che
ogni organismo è caratterizzato da un continuo scambio con ciò che costistuisce
l’ambiente esterno rispetto a se stesso, dal
suo metabolismo. Grazie ad esso l’organismo
mantiene la propria organizzazione, restando
in omeostasi, in una condizione di equilibrio
mobile, sufficiente a garantirgli la sussistenza.
Ma il metabolismo conduce ogni organismo
verso un degrado irreversibile; lo sforzo per
mantenere l’omeostasi paga il prezzo di uno
spreco di energia sia dell’organismo che
dell’ambiente circostante. Quando l’organismo supera il limite del proprio “calore”
consentito, si dissipa. Dunque il calore crea e
distrugge; in ogni caso esso è l’energia che
13
consente la vita .
A queste considerazioni si deve aggiungere che ogni organismo, anche quello non vivente, è formato da parti o organismi più
piccoli. In questo senso tutti gli esistenti sono
ipercomplessi. Essi si sviluppano organizzandosi e associandosi e, da qui, autosviluppandosi, come avviene in tutte le forme di
associazione, dalla società civile, alle leggi etc.
Da tutto ciò si deduce che tutti gli oggetti, essendo, come detto, strutture dissipative
che durano un certo tempo, non sono più
“oggetti” immodificabili, ma eventi.
13
Cfr. E. Morin, Il metodo 2. La vita della vita, cit.
50
Gli eventi vengono generati a partire da
interazioni caotiche che si autoorganizzano in
sistemi storico-organici. In strutture che durano per un certo tempo e poi tornano a scoparire nel caos, per formare materia per una
nuova organizzazione. Se è così, il passaggio
dal caos al cosmo, all’ordine, non è avvenuto
una volta per tutte, nella notte dei tempi, ma
si ripete continuamente a livello di singoli eventi che non emergono per causa esterna,
per causa efficiente, ma per cause interne, per
spinte prodotte dalle interazioni tra le varie
parti che entrano in contatto e che finiranno
per formare un “nuovo intero”, un nuovo e14
vento organizzato .
Ma se tutto è frutto di organizzazione, è
ovvio che cercare il semplice nella Natura è
inutile. Il semplice non ha esistenza e consistenza reale “oggettiva” esso è, come ha rilevato tra gli altri Gaston Bachelard, frutto del
nostro operare, per cui, non esiste il semplice
ma il “semplificato” dall’uomo. Allora tutto ciò
che abbiamo creduto di individuare come entità semplice nella Natura non è altro che il risultato di una nostra opera di divisione e di
astrazione da un contesto. Siamo noi che separiamo e isoliamo ciò che “per natura” è,
sempre e a tutti i livelli, concreto, articolato e
organizzato.
Alla luce di tutto ciò entra definitivamente in crisi uno dei concetti più antichi e
più rassicuranti: il concetto di sostanza, che
garantiva la stabilità, la certezza e l’eternità
degli esistenti. Con esso entra in crisi il princi14
Cfr. I. Prigogine – G. Nicolis, Le strutture dissipative.
Auto-organizzazione dei sistemi termodinamici in nonequilibrio, trad. di A. Tripiciano, Sansoni, Firenze 1982;
G. Nicolis – I. Prigogine, La complessità. Esplorazioni nei
nuovi campi della scienza, trad. di M. Andreatta e di M.
S. De Francesco, Einaudi, Torino 1991.
Complexity Session - Giuseppe Gembillo
pio di identità che imponeva che ogni cosa
debba essere sempre identica a se stessa. Ci si
rende conto che ogni esistente, pur mantenendo una sua fisionomia particolare, cresce
su se stesso, “diviene altro da sé”, si trasforma
in funzione delle interazioni con l’esterno e
delle sollecitazioni che riceve dall’ambiente
circostante; assume una fisionomia particolare in funzione di pluridentità che si intrecciano
e si fecondano a vicenda nello stesso soggetto: l’identità di genere, quella religiosa, quella
linguistica, quella politica, quella “globalmente” terrestre, e così via.
Tutto questo interagire, allargato a livello planetario e all’Universo intero spinge a riconoscere che ogni cosa se è vero che è
rivolta verso l’unità è anche orientata verso la
diversità è, cioè, universa e pluriversa nello
stesso tempo.
Alla rivoluzione ontologica segue anche
quella logica. Ci si rende conto che aveva ragione Aristotele e non i suoi seguaci “infedeli”: la logica della non contraddizione è uno
strumento per comunicare in maniera non
ambigua ma non rappresenta la via per conoscere e rispecchiare la realtà. Quest’ultima
non risponde alla logica dell’ aut aut, ma a più
logiche: a quella della contraddizione, a quella
della complementarità, a quella sfumata, a
quella circolare, e così via. In questo modo
dall’illusione di poter applicare la logica
dell’escusione al Reale si passa alla convinzione che alla comprensione di esso ci si deve
approssimare con la stessa varietà di modi che
esso stesso presenta Dunque, un mondo
complesso richiede metodi, logiche e approcci
15
complessi e plurali .
15
Cfr. G. Gembillo, Le polilogiche della complessità, cit.
La cosa più spoprendente è che comincia a cambiare anche il linguaggio formale della fisica: agli oggetti non ci si rivolge più con
“gli occhi della mente”, cioè con l’intelletto,
ma con gli occhi corporali: dal 1967 Benoit
Mandelbrot ci invita a guardare il libro della
natura non nella sua essenza nascosta, che si
pretende strutturata secondo la geometria
euclidea, ma secondo “ciò che effettivamente
ci appare”. Ci invita a esaminare sia con gli occhi che con l’intelletto la forma delle coste
terrestri, quella delle nubi, quella degli alberi,
quella del cavolfiore, cioè quella degli oggetti
reali, prima che essi vengano formalizzati e
16
“rettificati” dalla geometria tradizionale.
Insomma, anche in matematica irrompre l’approccio complesso.
Allora, le ragioni della complessità, anche alla luce delle mie rapide e generiche considerazioni, si rivelano davvero legittime. Il
problema a questo punto diventa quello di
“regolare” i rapporti tra il vecchio metodo e il
nuovo e di individuare i reciproci ambiti di
competenza. Ma, la necessità di utilizzare
l’approccio complesso appare riconosciuta
una volta per tutte.
Il “perché” riguardo la Complessità appare giustificato e in qualche modo legittimato.
16
Cfr. B. Mandelbrot, Gli oggetti frattali. Forma caso e
dimensione, trad. di R. Pignoni, Einaudi, Torino 1987;
Id., How is Long the Coast of Britain?, a cura di G. Gembillo, Siciliano, Messina 2007; Id., La geometria della
natura. Sulla teoria dei frattali, a cura di A. Giordano e
altri, Theoria, Roma-Napoli 1989; Id., Nel mondo dei
frattali, s.i.trad., Di Renzo, Roma 2002; G. Gembillo,
Mandelbrot, la geometria frattale e la sua estensione,
“Complessità”, 2, 2006.
51
Complexity Session - Gabriele Piana
BUDDISMO, SCIENZA E INTERDIPENDENZA
Gabriele Piana
Gabriele Piana
(video)
L'argomento 'buddismo, scienza e
interdipendenza' è estremamente vasto, per
lo meno dal punto di vista della storia delle
idee. Quanto vorrei innanzi tutto fare è allora
delimitare il quadro del mio intervento,
accennando molto rapidamente comunque -e
per altro a tale scopo- all'ampio scenario
storico.
Il discorso su buddismo e scienza è
iniziato a partire dalla seconda metà del
diciannovesimo secolo: è iniziato con il
tentativo da parte buddista di difendersi dagli
attacchi dei missionari cristiani
e dei
secolaristi moderni e spesso ha avuto un
intento apologetico. In una prima fase il
buddismo in questione è stato il buddismo
theravada dello Sri Lanka e del sudest asiatico,
poi in una fase successiva il buddismo
esoterico della Teosofia e il buddismo etico
degli orientalisti, poi, nel periodo successivo
alla seconda guerra mondiale, il buddismo zen
(specialmente quello propugnato da Suzuki), e
Gabriele Piana, monaco buddista,
Istituto Lama Tzong Khapa
52
infine, negli ultimi tre decenni il buddismo
tibetano. Nel discorso su buddismo e scienza
occorre dunque tenere pure conto del fatto
che sono in gioco vari buddismi. Anche la
scienza con cui questi diversi buddismi si sono
confrontati ha per altro assunto fisionomie e
significati diversi.1
Il rapporto storico tra buddismo e
scienza può poi essere anche indicato
ricorrendo a diversi modelli, in particolare tre:
conflitto/ambivalenza (piuttosto raro), compatibilità/identità (tra i vari motivi di compatibilità indicati da diversi autori, a volte in una
prospettiva di contrapposizione alle altre
religioni, l'assenza di dogmi, il riferimento alla
legge di causa ed effetto, il fare a meno di Dio
e dell'anima) e complementarità (in quest'ultimo caso si sottolineano somiglianze di metodo e differenze nell'oggetto di studio oppure
1 Per quanto riguarda la ricostruzione storica del rapporto tra i diversi buddismi e la scienza si vedano le
dettagliate analisi di Donald S. Lopez Jr., Buddhismo e
scienza. Storia di un amore, Ubaldini, Roma 2010.
Complexity Session - Gabriele Piana
differenze metodologiche e somiglianze di
contenuto).2
Si può cominciare col ricordare
l'interesse costante e profondo del quattordicesimo Dalai Lama per la scienza. Fin da
bambino, in un ambiente in cui non era
previsto un curriculum di studi scientifici di
matematica, fisica, chimica, biologia, ecc., egli
si è interessato al funzionamento di diversi
oggetti meccanici (un telescopio, un orologio,
alcuni proiettori e alcune automobili)
appartenuti al precedente Dalai Lama. Più
tardi, egli ha avuto modo di recuperare
pienamente la mancata educazione scientifica
attraverso un approfondito scambio intellettuale con due personaggi del calibro di Carl
von Weizsäcker (fisico e filosofo tedesco che è
stato negli anni trenta del novecento
l'assistente di Werner Heisenberg) e David
Bohm. Nel 1987 ha avuto luogo il primo
incontro di Mind and Life (istituto fondato dal
noto neurobiologo cileno Francisco Varela e
dall'uomo d'affari americano Adam Engle) tra
il Dalai Lama e diversi scienziati su temi
provenienti dalle scienze cognitive. A
proposito dell'importanza dell'incontro con il
buddismo per la scienza moderna, Varela ha
scritto: “Il naturale terreno d'incontro tra la
scienza e il buddismo è […] una delle frontiere
più attive della ricerca odierna. Si tratta di
imparare a unire i dati provenienti dall'esame
interiore dell'esperienza umana con la base
empirica che la moderna neuroscienza
cognitiva e affettiva può fornire. Questi
resoconti in prima persona non sono soltanto
una 'conferma' di ciò che la scienza può
comunque scoprire. Sono un complemento
necessario. Per esempio, a meno che negli
attuali esperimenti che si servono di 'brain
imaging' per studiare i sostrati neuronali delle
emozioni o dell'attenzione non si tenga conto
di raffinate descrizioni interiori, i dati empirici
non possono essere adeguatamente interpretati. […] Benché le scienze della vita e
quelle cognitive siano il luogo in cui il
buddismo può intimamente toccare la scienza
a un livello di ricerca dettagliata, esso può
anche avere una grande importanza a un
livello più fondamentale o epistemologico. […]
La fisica moderna è forse il luogo in cui questo
secondo terreno d'incontro è maggiormente
visibile”.3 A questo primo incontro di Mind
and Life sono in effetti seguiti numerosi altri
2 José Ignacio Cabezon, Buddhism and science: on the
nature of the dialogue, in AA. VV., Buddhism and science. Breaking new ground, a cura di A. Wallace, Columbia University Press, New York 2003, pp. 35-68.
3F. J. Varela, The importance of the encounter with
Buddhism
for
moderne
science,
www.mindandlife.org/about/hhdl-mli/buddhism-andmodern-science/.
Ora, quanto intendo prendere in
considerazione è il rapporto tra buddismo
tibetano e scienza, così come si è delineato
nella riflessione del maggiore e più noto
rappresentante attuale di tale buddismo, il
quattordicesimo Dalai Lama (il quale aderisce
al modello della complementarità), e in una
serie di incontri tra il Dalai Lama e vari
importanti scienziati noti come incontri o
dialoghi Mind and Life, dal nome dell'istituto
che li organizza. Andando all'essenziale:
perché è importante il rapporto tra buddismo
e scienza e, più in generale, tra religioni,
spiritualità e scienza? Qual è la posta in gioco
di tale rapporto? Sono queste le questioni che
vorrei prendere in considerazione, tenendo
conto anche, implicitamente per lo meno, di
alcune idee espresse da Panikkar, e in
particolare soffermandomi infine sul concetto
buddista d'interdipendenza.
53
Complexity Session - Gabriele Piana
incontri sulle neuroscienze (1989), sulle
emozioni e la salute (1990), sulla nuova fisica
e la cosmologia (1997), sulle questioni
epistemologiche nella fisica quantistica e nelle
scienze contemplative orientali (1998), sulle
emozioni distruttive (2000), sulla neuroplasticità (2004), sulle applicazioni cliniche
della meditazione (2005) e sulla consapevolezza, la compassione e la cura della
depressione (2007), per citarne solo alcuni.
Questi incontri tra il Dalai Lama e gli scienziati
hanno ormai una cadenza annuale e sono
accompagnati da numerose pubblicazioni.
In un libro sul rapporto tra buddismo e
scienza il Dalai Lama ha scritto: “la mia fiducia
nella scienza poggia sulla convinzione che sia
il buddismo sia il pensiero scientifico tentino
di comprendere la realtà attraverso un'analisi
critica: se la ricerca scientifica dovesse
dimostrare senza ombra di dubbio che alcune
affermazioni del buddismo sono errate,
dovremmo accettare questo fatto e
abbandonarle”.4 Questa è una considerazione
importante nella misura in cui mette in luce il
pericolo del dogmatismo, del fanatismo, che
può sempre incombere su una religione che
rifiuti il confronto con le scienze, e quindi il
beneficio che questa può ricavare da tale
confronto. Da tale confronto possono anche
nascere nuove idee, spunti e riflessioni
interessanti. Come afferma il Dalai Lama
qualche pagina dopo: “la spiritualità deve
essere arricchita dalla consapevolezza delle
scoperte scientifiche. Se ignorassimo i
progressi della scienza, la nostra pratica
spirituale ne soffrirebbe notevolmente e
potremmo perfino diventare preda del
4 L'abbraccio del mondo. Quando scienza e spiritualità
si incontrano, Sperling & Kupfer, Milano 2005, p. 3.
54
fondamentalismo”.5 Bisogna tra l'altro
ricordare che l'occasione in cui il buddismo
tibetano ha potuto confrontarsi con la scienza
è incredibilmente recente rispetto al
confronto tra cristianesimo e scienza (può
facilmente venire in mente l'antica vicenda
del contrasto tra Galilei e il cardinale
Bellarmino e della condanna di Galilei). Non è
allora un caso che il Dalai Lama si sia dato da
fare perché venissero introdotti corsi sulla
fisica moderna nei collegi monastici tibetani.
Il beneficio che il buddhismo può quindi
ricavare dal confronto con la scienza è quello
di evitare il dogmatismo, il fondamentalismo,
e così è il beneficio di un arricchimento
conoscitivo.
Questo, però, non significa ovviamente
accettare tutto ciò che la scienza propone: “se
la ricerca scientifica dovesse dimostrare senza
ombra di dubbio”. Qui è importante ricordare
un principio metodologico della tradizione
filosofica del buddismo tibetano secondo cui
“esiste una differenza basilare tra quello che
'non è trovato' e quello che 'è trovato non
esistere'. Se cerchiamo qualcosa e non
riusciamo a trovarlo non significa certo che
l'oggetto della nostra ricerca non esista. Non
vedere una cosa non è lo stesso che non
vederne l'esistenza”.6 Esiste quindi una
differenza fondamentale tra il trovare che
qualcosa non esiste e il non trovare che
qualcosa esiste: occorre distinguere tra ciò
che è negato tramite il metodo scientifico e
ciò che non è osservato tramite tale metodo.
In tale prospettiva, occorre allora ricordare -è
quanto fanno il Dalai Lama e anche uno
studioso buddista come Alan Wallace che
propone un'alleanza tra scienza e spiritualità- i
5 Ivi, p. 12.
6 Ivi, p. 35.
Complexity Session - Gabriele Piana
limiti del materialismo scientifico radicale, il
suo potenziale nichilismo e i suoi orizzonti
ristretti, la sua incapacità di rendere conto di
se stesso e i suoi pregiudizi metafisici. Con
tale prospettiva si possono far convergere
certe critiche di Panikkar a una scienza non
consapevole dei propri limiti e all'aspetto
assolutamente oggettivante della scienza
moderna.
Da un lato vi sono dunque dei benefici
per il buddismo (e più in generale direi per la
spiritualità) in un confronto con le scienze
(evitare dogmatismi, fondamentalismi, quindi
avere nuovi spunti conoscitivi). Dall'altro, vi
sono vari benefici che la scienza stessa può
ricavare dall'incontro con il buddismo. Nel
caso delle neuroscienze, ad esempio, il
buddismo può offrire un approccio diretto, 'in
prima persona', da integrare con quello 'in
terza persona', per avere così un quadro
completo di come funziona la mente. Il
metodo 'in terza persona' (quello che ricorre
alla quantificazione, alle misure oggettive), da
solo, è inadeguato per spiegare la coscienza
ed esso, quindi, dovrebbe essere integrato
con una prospettiva 'in prima persona', ossia
con l'esperienza soggettiva di colui che
medita.7 Secondo il Dalai Lama la questione
che allora si pone è la seguente: si può
pensare a una metodologia scientifica per lo
studio della coscienza dove il metodo 'in
prima persona' sia integrabile con il metodo
oggettivo dello studio del cervello? In questo
ambito egli ritiene, insieme a diversi scienziati
7 Occorre tra l'altro ricordare che per la psicologia buddista la mente ha più livelli, grossolani (dipendenti
strettamente dal fisico) e sottili (indipendenti dal fisico). La mente, nella sua natura convenzionale, è poi definita un chiaro conoscitore. La chiarezza e la
conoscenza (l''apertura conoscitiva, l'esperire) sono evidentemente qualcosa che sfugge alle maglie del metodo 'in terza persona'.
che partecipano appunto alle iniziative di
Mind and Life, che “una stretta collaborazione
tra le scienze moderne e le tradizioni
contemplative, tra cui il buddismo, sarebbe di
grande utilità”.8
Il Buddismo stesso del resto può essere
considerato, per certi versi (è quanto fa, ad
esempio, Mathieu Ricard) una scienza
contemplativa, una scienza della mente.9 In
che senso può essere considerato una scienza
se non ricorre ai cosiddetti strumenti
scientifici, ai classici strumenti di misura?
Esso può essere considerato una scienza della
mente nella misura in cui, ad esempio, le
esperienze meditative sono in effetti
verificabili, sia attraverso ripetute esperienze
di una persona sia attraverso l'esperienza di
altre persone. Attraverso una ripetuta
esperienza meditativa si può verificare la
validità di tale esperienza meditativa, che non
rimane un fatto contingente: si può verificare
che certe qualità (concentrazione, amore,
pazienza, compassione e così via) sorgono
ripetutamente e poi stabilmente nella mente,
e ciò sia a livello individuale sia a livello
collettivo. Occorre inoltre ricordare come
diverse ricerche scientifiche abbiano non solo
testato e confermato gli eccezionali effetti di
diverse forme di meditazione buddista sulla
riduzione dello stress, sul metabolismo e sulla
resistenza a condizioni fisiche difficili, ma
abbiano anche messo in risalto l'effetto delle
esperienze meditative sull'addestrabilità dei
processi affettivi e dell'attenzione: in tale
ottica è possibile che la letteratura e la pratica
8 L'abbraccio del mondo, cit., p. 138.
9 M. Ricard e T. Xuan Thuan, Dal big bang all'illuminazione, Amrita, Torino 2008, pp. 217-236. Cfr. pure A.
Wallace e B. Hodel, Embracing mind. The common
ground of science and spirituality, Shambala, Boston
2008, pp. 180-201.
55
Complexity Session - Gabriele Piana
dei meditanti buddisti influenzino le scienze
cognitive, costringendole a rivedere alcuni dei
propri modelli teorici.10
Accenniamo ora all'argomento dell'interdipendenza. Tra l'altro, il pensiero buddista
dell'interdipendenza s'incontra, come è stato
osservato da più parti, con diversi asserti della
fisica quantistica (in particolare con diverse
tesi della scuola di Copenaghen).11 Cosa
significa interdipendenza per il buddismo?
Nulla esiste in modo indipendente, in sé e per
sé, e pensare che le cose esistano in modo
indipendente (è questa l'ignoranza) è l'origine
della sofferenza. Le cose sembrano essere
indipendenti, ci appaiono a livello innato, in
modo spontaneo, come indipendenti tra loro
e rispetto a noi stessi, ma questo non è il loro
modo d'essere. Si può parlare di diversi livelli
di dipendenza: dipendenza da cause e
condizioni, dipendenza da parti, infine -ed è
questo il livello più sottile dell'interdipendenza- dipendenza da designazione mentale.
Le cose, dicevamo, sembrano esistere dal loro
lato, oggettivamente, ma questa è una
percezione ingannevole dovuta alla nostra
ignoranza. Un esempio che ricorre in diversi
testi buddisti è quello della corda e del
serpente. Di notte, in una stanza buia, una
corda arrotolata può apparire a qualcuno
come un serpente e suscitare una reazione di
paura, la quale può scomparire non appena si
10 Cfr. H. Benson, L'interazione mente/corpo e gli studi
tibetani, in AA. VV., La scienza della mente. Un dialogo
Oriente -Occidente, Chiara Luce, Pomaia 1993, pp. 5770; cfr. AA. VV., Il Buddha in laboratorio: dialoghi fra il
Dalai Lama e la scienza sulla natura della mente, Amrita, Torino 2008, pp. 254-255; cfr. A. Wallace e B. Hodel,
Embracing mind, cit., pp. 164-179.
11 Cfr. Ad esempio Dalai Lama, Nuove immagini dell'universo. Dialoghi con fisici e cosmologi, Cortina, Milano
2006; W. L. Ames, Emptiness and quantum theory, in
AA. VV., Buddhism and science, cit., pp. 281-304; M. Ri-
56
accenda la luce e si riconosca che si trattava
solo di una designazione mentale completamente erronea. A causa del buio, un
serpente sembrava esistere dal suo lato,
sembrava essere proprio lì, mentre invece
c'era solo una corda -come base di
designazione- sulla quale era erroneamente
sovrapposta l'immagine mentale del serpente.
Allo stesso modo, a causa della nostra
ignoranza, percepiamo la nostra identità
personale e i fenomeni esteriori come
esistenti dal loro lato, oggettivamente,
autonomamente, indipendentemente da
cause e condizioni e da designazioni mentali,
e così sviluppiamo tutta una serie di afflizioni
mentali, di emozioni negative, che producono
a loro volta azioni negative, fonte di
sofferenza. In tale prospettiva, mi considero,
apprendo me stesso, come un'identità
indipendente, come un io esistente
intrinsecamente, e così pure considero gli altri
come qualcosa d'indipendente, di separato.
Inoltre, le cose che mi appaiono esistenti dal
loro lato, proprio per questo loro modo
d'apparirmi mi appaiono anche come
assolutamente, intrinsecamente, oggettivamente piacevoli, desiderabili, oppure come
assolutamente, intrinsecamente, oggettivamente spiacevoli. La mente quindi reagisce o
con attaccamento rispetto al piacevole, con il
non volersi separare da ciò che viene
considerato intrinsecamente piacevole, o con
avversione, rabbia rispetto a quanto è vissuto
come intrinsecamente spiacevole. Tutto ciò
produce inevitabilmente sofferenza. C'è la mia
identità che è vissuta come assolutamente
separata dal resto, come esistente intrinsecamente, e che è quindi qualcosa da gratificare
card e T. Xuan Thuan, Dal big bang all'illuminazione,
cit., in particolare pp. 57-93.
Complexity Session - Gabriele Piana
in modo privilegiato e pure da difendere a
denti stretti, con tutto il contorno di tensione,
di frustrazioni, insoddisfazioni, presunzione,
risentimenti e avversioni che ciò comporta; ci
sono gli altri, che sono assolutamente
separati, e che si trasformano in amici o in
nemici, a seconda che gratifichino o meno il
nostro io; ci sono poi gli oggetti i quali,
essendo considerati come esistenti dal loro
lato, indipendentemente, diventano assolutamente desiderabili o assolutamente non desiderabili, dando così luogo ad attrazione o
avversione e quindi alle diverse altre emozioni
disturbanti, come invidia, gelosia, risentimento, paura, e così via.
Se invece si comprende la natura
interdipendente della realtà (la mancanza di
esistenza intrinseca dell'io e dei fenomeni),
tutte queste emozioni disturbanti non
sorgono, e diventa significativo sviluppare
amore (il desiderio che tutti gli esseri senzienti
siano felici) e compassione (il desiderio che
tutti gli esseri senzienti siano liberi dalle
sofferenze create da tali emozioni e in primo
luogo dall'ignoranza). La nostra felicità
dipende dagli altri, così come la felicità degli
altri dipende da noi. In tale prospettiva,
diventa allora essenziale una collaborazione
tra scienza e spiritualità. Non possiamo
lasciare separate scienza e spiritualità. Il Dalai
Lama ritiene ci sia “bisogno di una bussola
morale da usare tutti insieme senza
impantanarci in divisioni dottrinali. Necessitiamo dunque di una prospettiva olistica, in
grado di riconoscere la natura profondamente
interconnessa di tutti gli esseri viventi e del
loro habitat. […] Tutto questo deve includere
il riconoscimento della preziosità della vita, la
comprensione del bisogno di un equilibrio in
natura, […] l'uso consapevole della compassione come motivazione fondamentale per
tutti i nostri comportamenti. Compassione
che deve essere integrata con la capacità di
vedere le conseguenze delle azioni anche nel
lungo periodo. […] Dal momento che il mondo
contemporaneo è profondamente interconnesso, dobbiamo rapportarci a queste sfide
come se fossimo tutti membri della medesima
famiglia umana piuttosto che esponenti di
tante differenti specificità (nazionali, etniche,
religiose). In altre parole, è indispensabile uno
spirito unitario che ci faccia sentire tutti parte
del genere umano”.12 Tocchiamo qui un punto
fondamentale. Le differenze sono essenziali
ed è essenziale tenerne conto, ma occorre
impedire che tali differenze diventino identità
chiuse o separate che creano solo conflitto. E'
quindi fondamentale rendersi conto che
siamo uguali nel voler essere felici e nel non
desiderare la sofferenza, e ciò a livello di
pratica meditativa tramite la quale instaurare
un'autentica e calorosa empatia con gli altri.
Anche gli altri vogliono essere felici e non
soffrire, proprio come me, e questa constatazione va interiorizzata.
In tale prospettiva, occorre prendere
atto “dei limiti della conoscenza scientifica.
Solo così potremo veramente apprezzare il
bisogno di integrare la scienza con la totalità
del sapere umano”. Anche qui si può rilevare,
nonostante certe differenze, una convergenza
con Panikkar.13 In caso contrario, se non si
12 L'abbraccio del mondo, cit., pp. 203-204.
13 In un'intervista che sintetizza bene la sua posizione
sulla scienza, Panikkar afferma: “Non si tratta di eliminare la scienza. Non si tratta di decretare che essa è
maligna e di voltarle le spalle. Bisogna al contrario operare perché sia reintegrata nell'unità del sapere -nel
senso di gnôsis- e riprenda il suo posto senza pretendere quel tipo di dominio che dipende da una vera e propria invasione cancerosa, e che vorrebbe far credere
che la cosa più importante dia di specializzarsi” (R. Panikkar, Tra Dio e il cosmo. Una visione non dualista del-
57
Complexity Session - Gabriele Piana
riconoscono i limiti della scienza (che molti
scienziati, per altro, oggi tendono ormai a
riconoscere), si va inevitabilmente incontro a
una visione del mondo riduzionista, materialista e nichilista. Per il Dalai Lama “si può
prendere sul serio la scienza e accettarne le
scoperte senza però cadere nel materialismo
scientifico”. E' allora necessario coniugare la
“possibilità di una visione del mondo fondata
sulla scienza” e la “validità anche di altri
modelli di conoscenza che non siano quelli
scientifici”: “scienza e spiritualità, malgrado i
differenti approcci, condividono il medesimo
fine, vale a dire il miglioramento dell'umanità.
[…] Oggi, nei primi anni del ventunesimo
secolo, scienza e spiritualità hanno la
possibilità di essere più solidali che mai e di
mettere in atto una fruttuosa collaborazione
in grado di aiutare l'umanità a superare
positivamente le sfide che l'attendono.
Dovremmo essere uniti. E ognuno di noi, in
quanto membro della stessa famiglia umana,
dovrebbe rispondere a questo importante
impegno morale e rendere possibile la
collaborazione tra scienza e spiritualità”.14
Questa alleanza tra scienza e spiritualità
esige quindi una riflessione e un lavoro sulla
propria motivazione: “Forse il punto principale è assicurarsi che la scienza non sia mai
separata da un sentimento di solidarietà nei
confronti di tutti gli esseri viventi […] L'aspetto
più importante del problema è la motivazione
che sta alla base della scienza e della
tecnologia, in cui cuore e mente dovrebbero
lavorare all'unisono”.15 E' questo il punto in
cui il buddismo e la spiritualità in genere
la realtà. Dialogo con Gendoline jarczyk, Laterza, RomaBari 2006, pp. 214-215).
14 L'abbraccio del mondo, cit., p. 209, pp. 209-210, p.
211.
15 Ivi, pp. 9-10.
58
possono dare il contributo più importante alla
scienza. Come è stato notato, non bisogna
fermarsi alla constatazione dell'interdipendenza. Bisogna sforzarsi di trasformarla in una
pratica di vita, bisogna cercare di introdurla
nella quotidianità. Occorre quindi chiedersi in
che modo si percepisce se stessi e la realtà e
rendersi conto che non si percepisce naturalmente, spontaneamente, l'interdipendenza. Si tratta così di educare la mente a
cogliere l'interdipendenza e a sviluppare le
qualità spirituali che sono a essa collegate.
Nell'ambito del buddismo tibetano si parla di
lojong, di addestramento mentale (nelle
tradizioni contemplative del cristianesimo,
dell'ebraismo e delle altre religioni si usano
termini diversi, ma la sostanza non cambia):
un addestramento in cui si cerca, tramite la
meditazione, di familiarizzare la mente con
certe qualità. Se è vero che il buon cuore non
basta e che richiede, per dare buoni risultati,
intelligenza, occorre però ricordare anche i
numerosi effetti negativi di un'intelligenza che
non sia stabilmente e solidamente accompagnata da equanimità, amore e compassione.
Complexity Session - Paolo Calabrò
RAIMON PANIKKAR E LA SCIENZA MODERNA
Paolo Calabrò
Paolo Calabrò
Studiando con continuità il pensiero di
Raimon Panikkar nel corso degli ultimi dieci
anni, mi sono spesso imbattuto in
affermazioni sorprendenti come: “la materia è
libera”, “la materia è viva”, “il pensiero
modifica il pensato”. Mi sono chiesto se – e
quanto, e come – tali affermazioni potessero
venir conciliate con la visione del mondo
tipica della scienza moderna; d’altro canto
Panikkar non lasciava dubbi circa la sua
posizione al riguardo: «la fisica non offre una
visione del mondo, ma ne fornisce il materiale
alla metafisica, così che una metafisica che
ignori la fisica non sarebbe valida. La
metafisica deve “ascoltare” la fisica. [...] Non
c'è metafisica senza fisica»1.
Nessun dubbio, dunque: l’accordo tra
fisica e metafisica è necessario. Tuttavia
Panikkar non spiega la compatibilità delle sue
affermazioni con quelle della fisica. Da qui la
domanda: e se la fisica non fosse d’accordo?
Se la scienza reputasse incompatibile la
metafisica cosmoteandrica di Panikkar –
Paolo Calabrò, (CIRPIT)
http://paolocalabro.blogspot.com
R. PANIKKAR, La porta stretta della conoscenza, RCS,
Milano 2005, pp. 178-182.
1
cornice di quelle affermazioni – con le proprie
acquisizioni più recenti?
Mi sono messo quindi sulle tracce del
pensiero di quegli uomini di scienza –
soprattutto del secolo scorso – che si sono
interrogati circa i fondamenti filosofici della
loro scienza: Heisenberg, Planck, Schrödinger,
Bohr, Mach, Einstein e tanti altri. Per scoprire
– con nuova sorpresa – che, rispetto alla loro
stessa interpretazione della fisica, non solo la
filosofia di Panikkar non è incompatibile, ma
mostra addirittura una sensibilità comune,
spesso
un’affinità
più
spiccata
di
quell’ontologia dell’oggettività e della cosa in
sé maggiormente adatta a una visione del
mondo prequantistica.
Ho cercato di illustrare e documentare
questa compatibilità nel libro Le cose si
toccano. Raimon Panikkar e le scienze
moderne, in corso di pubblicazione per
l’editore Diabasis (la cui uscita è prevista per
aprile 2011)2. A partire dalla “reticenza” del
Del quale sono stati pubblicati su queste pagine due
estratti: “La cosa in sé non esiste. Critica di Raimon
Panikkar a due concetti filosofici applicati alla scienza
moderna” – n° 1, marzo 2010 – e “Il ruolo della
soggettività nella scienza” – supplemento al n° 1,
settembre 2010.
2
59
Complexity Session - Paolo Calabrò
filosofo su tali questioni3 e dal fatto singolare
che la letteratura secondaria sul pensiero di
Panikkar ad oggi non si è occupata della
tematica scientifica, preferendole l’interculturalità, la pace, la cristologia4.
Credo inoltre che il collegamento che
cerco di stabilire tra la scienza moderna e la
filosofia di Panikkar possa liberare
quest’ultima da quell’impressione di esotismo
che può dare in superficie la sua originalità,
nella quale rischia di arenarsi. Il pensiero
occidentale, abituato da millenni alla rigida e
mutuamente esclusiva alternativa tra
monismo e dualismo, resta spiazzato dalla
proposta cosmoteandrica (nonostante il
confronto serrato che Panikkar tiene con la
filosofia occidentale): così il rischio è che essa
venga presa come una sospetta commistione
di teologia cristiana e filosofia indiana, e
Panikkar come un erudito dai modi
orientaleggianti e dalle parole inclini al
mistico, che rifiuta la scienza e avversa la
tecnologia. È necessario andare oltre questa
scorza e scoprire che alcune delle convinzioni
più radicate nell’immagine ingenua che la
scienza e la tecnologia offrono di sé nella
percezione dei non specialisti (come ad
esempio la presunta universalità della scienza)
non sono né evidenti né scontate5. Senza
Pur essendosi occupato di “fare scienza” per parecchi
anni (com’egli stesso racconta nella conferenza
“Ambiguità della scienza”), PANIKKAR ha dedicato alla
scienza moderna – oltre alla citata conferenza e agli
interventi più o meno ampi disseminati in quasi tutti i
suoi libri – solo i testi Pensare la scienza, l’Altrapagina,
Città di Castello (PG) 2004 (che tra l’altro è un testo a
più voci) e ID., La porta stretta della conoscenza, cit.
L’Opera Omnia prevede un unico volume (in
preparazione) dedicato – parzialmente – al tema della
scienza.
4 Fa eccezione l’ottimo testo di introduzione alla
filosofia di Panikkar di A. ROSSI, Pluralismo e armonia,
l’Altrapagina, Città di Castello (PG).
5 Ai fini di una maggiore chiarezza all’interno del
singolo contesto, ho utilizzato talvolta il termine
3
alcuna pretesa di fondare scientificamente la
filosofia di Panikkar, né tanto meno di
giustificarla in tal senso (ciò che il filosofo per
primo non ha mai inteso fare); semplicemente
cercando di rintracciare la consonanza tra
l’immagine del mondo offerta dalla sua
filosofia e quella offerta dalle scienze
occidentali moderne.
Lungo questo percorso, ho dato ampio
spazio al pensiero degli uomini di scienza,
limitando al massimo l’apporto dei filosofi
della scienza. E questo non perché si possa
dire che «i maggiori filosofi del ’900 sono stati
Einstein e Dirac»6 (che è un’esagerazione;
anche se è vero che a volte «le migliori analisi
filosofiche di un concetto o di un problema
scientifico
provengono
proprio
da
7
scienziati» ); bensì perché ho preferito dare
un peso maggiore alla filosofia della scienza
nel senso del genitivo soggettivo, anziché
oggettivo. Nessun disconoscimento del ruolo
e del peso della filosofia della scienza;
piuttosto, la scelta fatta mi è sembrata
adeguata allo scopo, che non è calare il
pensiero di Panikkar all’interno del dibattito
filosofico contemporaneo (della filosofia della
scienza, in particolare), ma mostrare che esso
è tutt’altro che incompatibile con il pensiero
scientifico.
Null’altro dunque che il tentativo di
mostrare il sostanziale accordo tra la
“scienza”, talvolta il termine “fisica”. Sperando di
essere riuscito ad evitare ogni confusione, sottolineo
che le conclusioni possono essere applicate (salvo ove
diversamente specificato) all’una come all’altra.
6 Come sostiene E. BELLONE, introduzione a M. PLANCK,
La conoscenza del mondo fisico, Bollati Boringhieri,
Torino 1993 [ed. orig. Vorträge und Erinnerungen,
5
Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1949 ],
p. 4.
7 M. DORATO, Cosa c’entra l’anima con gli atomi?,
Introduzione alla filosofia della scienza, Laterza, RomaBari 2007, p. 14.
60
Complexity Session - Paolo Calabrò
posizione di Panikkar e quella della scienza
moderna su argomenti comunemente ritenuti
ovvi e pertanto indiscutibili al pari di tabù:
l’oggettività e l’universalità della scienza,
l’esistenza della cosa in sé e della materia
“inanimata”. Lo sforzo è stato quello di
evidenziare come certe convinzioni si
radichino in una visione scientifica
prequantistica8, che la fisica ha già da tempo
superato ma alla quale la percezione comune
è rimasta ancorata. Non tanto dunque una
“dimostrazione” dell’accordo tra la filosofia di
Panikkar e la scienza moderna9; piuttosto, la
presentazione del fatto che esiste un’ampia
fascia della scienza moderna (intendo: di
scienziati, soprattutto fisici) che non
troverebbe né scandalosa né inverosimile la
concezione metafisica di Panikkar alla luce
delle attuali conoscenze scientifiche, e che
anzi la riterrebbe molto più adeguata ad esse
di una metafisica fondata sul postulato della
“cosa in sé”, che per una disciplina così
fortemente basata sulla sperimentazione
Spesso ancora precedente, facente capo a Newton e a
Laplace.
9 Va da sé che non esiste una opinione ufficiale della
fisica moderna, né tanto meno la scienza può venir
considerata come un monolite dall’opinione compatta
e recisa. All’interno del mondo scientifico (ma,
scendendo man mano, all’interno della fisica e della
stessa meccanica quantistica) coesistono le posizioni
più disparate e le opinioni più distanti, talora perfino
opposte. Cfr. ad es. A. TONTINI, “La formula chimica di
struttura:
un
problema
per
l’epistemologia
popperiana?”, «Isonomia», settembre 2008, visibile
all’indirizzo
internet
8
http://www.uniurb.it/Filosofia/isonomia/2008tontini.p
df (pagina visitata il 29 luglio 2009), p. 2: «chi si
propone di indagare con i mezzi della filosofia la
struttura e il significato della scienza dovrebbe
innanzitutto, a mio avviso, tenere in considerazione la
diversità delle dimensioni, della struttura e del
comportamento degli oggetti di studio di questa e,
conseguentemente, dei linguaggi usati per descrivere
tali oggetti. Siamo capaci di indicare in maniera
schematica il significato di termini come “botanica”,
“immunologia”, “teoria della relatività”, eccetera.
Rispondere alla domanda: “che cos’è la scienza?” è
molto più arduo».
rimane una terribile spina nel fianco.
Sulla libertà della materia
Di seguito riporto lo studio in tal senso –
tratto dal libro citato – dell’affermazione di
Panikkar per cui “la materia è libera”10:
la realtà è costante novità. [...] La natura
è meno bizzarra dell'uomo, ma supporre
che essa sia solo “materia” inerte che
segue leggi deterministiche è un'ipotesi
infondata. Anche la materia ha i suoi
gradi di libertà11.
Dire che la materia è libera può far
subito pensare ad una pietra che,
d’improvviso, si metta a levitare nel cielo.
Siamo abituati a considerare la materia come
qualcosa di inanimato, immobile, che se ne
sta lì fermo “fino a che non intervenga una
forza” (per dirla con il primo principio della
dinamica). Panikkar ha spesso sottolineato
che la libertà della materia non è la stessa
libertà dell’uomo. La materia e l’uomo però,
in quanto inseriti nella stessa realtà
cosmoteandrica, partecipano entrambi della
stessa dimensione di libertà. Il discorso di
Panikkar è qualitativo, non quantitativo; in
questo senso gli è sufficiente affermare che la
materia abbia “un certo” margine di libertà.
Egli non pretende di stabilire un margine
maggiore di quello che la fisica (quantistica, in
particolare) riconosce alla materia.
È vero che di rado gli uomini di scienza si
esprimono utilizzando la parola “libertà” a
proposito della materia, anche se non
mancano singole suggestioni, quali ad
Le considerazioni che seguono sono state da me
succintamente esposte il 2 dicembre 2010 nel corso del
I Colloquium CIRPIT, Napoli, Istituto Italiano per gli
Studi Filosofici.
11 R. PANIKKAR, La porta stretta della conoscenza, cit., p.
148.
10
61
Complexity Session - Paolo Calabrò
esempio quella di Prigogine, che parla di
«creatività della natura»12 o di Feynman, che
a sua volta parla di «immaginazione della
natura»13, di Laughlin, per il quale la materia
può avere «opinioni proprie», oltre alla
«capacità di fare delle scelte»14, o di Charpak
e Omnés:
la libertà, o la moltitudine dei possibili
che ne rappresentano la forma radicale, è
dunque profondamente inserita nel
cuore stesso della meccanica quantistica
e delle sue leggi. Dietro al caso assoluto
c’è la libertà totale»15.
Tuttavia il termine “libertà” non è
inadeguato alla situazione, ad esempio, del
classico esperimento quantistico delle due
fenditure16, dove non è possibile prevedere da
che parte andrà la singola particella, né
stabilire la causa che l’ha indotta a scegliere
un passaggio piuttosto che l’altro. (Ciò non
significa che le particelle si comportino in
maniera arbitraria: statisticamente esse
tenderanno sempre a distribuirsi in maniera
omogenea, al 50%)17.
I. PRIGOGINE, Le leggi del caos, Laterza, Roma-Bari
2003 (ciclo di lezioni svolto all’Università Statale di
Milano, presso la cattedra di filosofia della scienza del
prof. Giulio Giorello, nei giorni 12, 13 e 14 febbraio
1992), p. 85.
13 R. P. FEYNMAN, Il senso delle cose, Adelphi, Milano
4
2004 [ed. orig. The Meaning of It All, Michelle
Feynman e Carl Feynman, 1998], p. 20.
14 R. LAUGHLIN, Un universo diverso. Reinventare la fisica
da cima a fondo, Codice, Torino 2005 [ed. orig. A
Different Universe. Reinventing Physics from the
Bottom Down, Basic Books, 2005], p. 53.
15 G. CHARPAK-R. OMNÉS, Siate saggi, diventate profeti,
Codice, Torino 2004 [ed. orig. Soyez savants, devenez
prophétes, Odile Jacob, Paris 2004], p. 81. Che alla
stessa pagina rincarano, con tanto di punto
esclamativo: «la materia è libera!».
16 Cfr. ad es. R. FEYNMAN, Sei pezzi facili, Adelphi,
Milano, 2000 [ed. orig. Six easy pieces, California
Institute of Technology, 1963], pp. 173 ss.
17 Si presti attenzione al fatto che in fisica il
determinismo, la causalità e la predicibilità sono tre
concetti distinti. Per questa distinzione cfr. F. LAUDISA,
12
In definitiva, quella che a tutta prima
può sembrare un’affermazione discutibile (o
provocatoria, se non addirittura inconcepibile)
da parte di Panikkar, circa la libertà della
materia (che i profani concepiscono ancora à
la Laplace, secondo un meccanicismo che la
fisica ha abbandonato da più di un secolo), si
rivela perfettamente compatibile con l’attuale
assetto della fisica.
Il tutto è maggiore della somma delle parti
Un discorso simile può esser fatto per
un’altra affermazione di Panikkar (e per tante
altre): «il tutto non è la somma delle parti»18.
Panikkar sostiene l’impossibilità di
applicare alla realtà il metodo cartesiano di
scomporre i problemi complessi in
sottoproblemi più facili da risolvere, onde
ricomporre l’intero successivamente, con
l’intento di ottenere la soluzione complessiva
come somma delle soluzioni parziali:
«l’integrale delle conoscenze parziali non è la
realtà. La realtà non è uguale alla somma delle
sue parti»19.
In fisica le opinioni al riguardo sono
contrastanti e vedono i riduzionisti (cartesiani,
per i quali ogni cosa può essere spiegata a
partire dalle sue parti, e al limite ogni sistema
macroscopico può essere descritto a partire
dal livello di descrizione più basso, quello
“La causalita in fisica”, in M. DORATO, V. ALLORI, F.
LAUDISA, N. ZANGHÌ, La natura delle cose. Introduzione ai
fondamenti e alla filosofia della fisica, Carocci, 2005,
pp. 395-428.
18 La pienezza dell’uomo. Una cristofania, Jaca Book,
2
Milano 2000 , p. 38.
19 «L'intégrale des connaissances partielles n'est pas la
réalité. La réalité n'est pas la somme de ses parties»: R.
PANIKKAR, “Deux personnages en quête de hauteur”,
dialogo con Jordi Savall, visibile in internet all’indirizzo
http://classique.abeillemusique.com/dossiers/clasav.ph
p?nomdossier=clasav&rg=5 (pagina visitata il 21
gennaio 2011).
62
Complexity Session - Paolo Calabrò
quantistico) opporsi agli emergentisti (per i
quali ogni livello superiore di descrizione
contiene caratteristiche emergenti solo a quel
livello irriducibili ad altre contenute nei livelli
inferiori). Gli emergentisti sembrano avere
dalla loro l’evidenza: essi sfidano i riduzionisti
a effettuare previsioni su sistemi macroscopici
basandosi sulla meccanica quantistica (ciò che
è impossibile: anche il più elementare sistema
macroscopico è composto da miliardi di
particelle in interazione mutua). Per essi «le
strutture emergenti non sono aggregati, cioè
non sono risultati prevedibili della “somma”
delle proprietà delle parti»20. I riduzionisti, per
contro, sembrano avere dalla loro il buon
senso: se ogni sistema macroscopico è
composto da particelle, è impossibile che il
funzionamento dell’intero sistema non vada
ricondotto a quello delle particelle che lo
compongono; la meccanica quantistica potrà
essere incompleta (come lo è ogni teoria
fisica, perennemente in itinere), ma in nessun
caso potrà esserci un “di più” che non sia
presente in tutti i livelli di descrizione. Per
loro, l’impossibilità di effettuare previsioni su
sistemi macroscopici a partire dal livello
quantistico è soltanto un limite tecnico, non di
principio.
Panikkar non entra nel merito di questa
disputa: la sua è una critica del metodo
cartesiano, volta al recupero di una visione
integrale della realtà. Ma sono molti i fisici
(tra cui spiccano diversi premi Nobel, come
Laughlin e Prigogine), convinti che oggi la
visione cartesiana della realtà non sia più
sostenibile (e non solo per il fenomeno
G. CASINI, “Spiegare la complessità”, in
«Humana.Mente», Anno I, vol. 1, pp. 13-23, visibile in
internet
all’indirizzo
20
http://www.humanamente.eu/PDF/giovanni.casini_pap
er2_numero1.pdf (pagina visitata il 21 gennaio 2011), p.
15.
dell’entanglement quantistico, cui si è già
accennato).
Per Margenau nessuna delle descrizioni
parziali fornite dalla fisica (e le descrizioni
della fisica sono tutte parziali, in quanto
fondate sull’isolamento di una parte dal resto
al fine di studiarla) può aspirare
all’onnicomprensività. Egli porta come
esempio il principio di esclusione di Pauli, il
quale – se ci si fosse limitati a studiare, per
quanto esaustivamente, il comportamento
delle particelle singole – non avrebbe mai
potuto essere previsto; anzi: «dal punto di
vista del problema del corpo singolo il
principio non ha significato, e non avrebbe
mai potuto essere previsto»21. Ed aggiunge
che, a livelli di astrazione diversi, «i nuovi
osservabili potrebbero essere privi di
significato, inutili o superflui per l’universo
fisico, dal quale non possiamo vederli»22.
Sugli scogli della meccanica quantistica
naufraga quindi, secondo alcuni, la
concezione cartesiana della realtà; così per il
citato Nobel Robert Laughlin, «la scienza fisica
ci dice che considerare l’intero essere come
qualcosa di più della somma delle sue parti
non è soltanto una teoria ma un fenomeno
fisico»23, per D’Espagnat, essa la confuta
addirittura:
H. MARGENAU, Dio, la scienza, la filosofia. L’incontro
fra l’Oriente e l’Occidente, Armando, Roma 1987-2001
[ed. orig. The miracle of existence, Ox Bow Press, 1984],
p. 26.
22 Ivi, p. 46. Nel corso del I Colloquium CIRPIT il prof.
Gembillo, dell’Università di Messina, ha riportato un
celebre esempio, ancora più lampante, quello
dell’idrogeno e dell’ossigeno. I quali elementi chimici
possiedono ciascuno la proprietà di essere infiammabili
(e altamente); messi insieme, tuttavia, essi danno luogo
all’acqua, elemento nuovo che ha la qualità non solo di
non essere infiammabile, ma addirittura di spegnere il
fuoco. Esito che in nessun modo è possibile dedurre
dallo studio isolato del singolo elemento.
23 Un universo diverso, cit., p. XV.
21
63
Complexity Session - Paolo Calabrò
[la fisica quantistica] confuta una
concezione del mondo che ha funzionato
per secoli come orientamento generale
per gli scienziati. Ci riferiamo alla
concezione secondo cui un sistema fisico
esteso può – e dovrebbe – essere sempre
analizzato nelle sue parti. [...] Più in
particolare, si può dire che la regola di
ispirazione cartesiana, secondo cui un
sistema fisico esteso può, e dovrebbe,
essere diviso dal pensiero in elementi più
o meno localizzati (connessi da forze) è
una
delle
regole
implicite
ma
24
fondamentali dell’intera fisica classica .
Ma la meccanica quantistica non è
l’unico duro colpo inferto al metodo. La teoria
del caos ha mostrato che esistono problemi
non scomponibili in sottoproblemi semplici (la
cui interazione semplice sarebbe la causa
dell’apparente complessità del sistema di
partenza), la cui complessità è un frutto
genuino del comportamento dinamico
intrinseco del sistema. Come ha spiegato con
grande chiarezza Prigogine,
il fatto che taluni sistemi possano
divenire caotici non è una novità:
l’esempio classico è rappresentato dalla
transizione tra moto laminare e
turbolento. Ma un liquido è un sistema
complesso che corrisponde a un’enorme
popolazione di particelle in interazione. Si
tratta di un sistema talmente complesso
che non possiamo sperare di descrivere
in termini di traiettorie individuali. Quindi
i fisici potevano pensare di dover
procedere per approssimazioni e ancora
una volta il caos e l’irreversibilità
potevano risultare da queste. Ma la
Così B. D’ESPAGNAT, Veiled Reality, An Analysis of
Present-day Quantum Mechanical Concepts, Reading
Mass, Addison-Wesley, 1995, p. 111 (citato in F.
LAUDISA, Le correlazioni pericolose. Tra storia e filosofia
della fisica contemporanea, Il Poligrafo, Padova 1998,
pp. 105-106).
24
novità è che attualmente disponiamo di
sistemi caotici molto semplici e di
conseguenza
non
possiamo
più
nasconderci dietro lo schermo della
complessità. L’instabilità e l’irreversibilità
diventano
parte
integrante
della
descrizione già a livello fondamentale25.
Conclusioni
Il confronto tra la filosofia di Panikkar e
la scienza moderna mette in luce che non è
necessario essere dei mistici o degli amanti
del pensiero orientale per vedere la realtà
come un tutto. Il battito d’ali di una farfalla
può davvero, sul piano fisico come su quello
filosofico, provocare un tornado dall’altra
parte del mondo. A volte si dipinge la scienza
come ottusa e ripiegata su se stessa
(abusando del motto heideggeriano per il
quale “la scienza non pensa”); similmente, si
percepisce la filosofia di Panikkar come una
mistica orientaleggiante e new age. A ben
vedere, tuttavia, i due saperi convergono su
molte cose.
Considerazione non secondaria: se è
vero – come Panikkar sostiene – che oggi
nessuna cultura, nessun sapere, nessuna
civiltà può ritenersi autosufficiente al punto
da possedere le soluzioni ai problemi globali
(in primo luogo quello ambientale). Nel nostro
mondo “globalizzato”, in cui la relazione di
ognuno con tutti gli altri è ormai esperienza
quotidiana, c’è bisogno del contributo di tutti.
Poter affermare che la filosofia di Panikkar è
effettivamente in grado di tenere insieme
diversi frammenti (secondo quello che è stato
da sempre l’orientamento fondamentale del
pensatore catalano: colligite fragmenta), è
motivo di speranza.
25
I. PRIGOGINE, Le leggi del caos, cit., pp. 28-29.
64
Complexity Session - Alessandro Calabrese
LA FILOSOFIA TEORETICA TRA
INTERCULTURALITA’ E COMPLESSITA’
NEL PENSIERO DI RAIMON PANIKKAR
Alessandro Calabrese
Alessandro Calabrese
Vorrei proporre alcune riflessioni che
mirano a indicare una forma di convergenza
fra l’approccio interculturale alla filosofia e la
prospettiva teoretica della complessità. In altri
termini, vorrei parlare del modo in cui la
maniera di fare filosofia secondo un’apertura
interculturale contribuisca a chiarire i
problemi che caratterizzano la prospettiva
della complessità e ad evidenziarne
l’importanza nel momento in cui ci si pone a
ragionare sul reale e sull’uomo. Soprattutto
allo scopo generale di comprendere quali
siano le possibilità e i limiti cui andiamo
incontro nel lavoro di interpretazione,
descrizione, chiarificazione della realtà.
Queste brevi riflessioni prendono le
mosse da una frase contenuta nella premessa
dell’opera che Raimon Panikkar ha dedicato
allo studio del buddhismo: in italiano, Il
silenzio del Buddha1. Quest’opera è
estremamente importante perché cerca di
ragionare a partire dalle questioni di natura
1
R. Panikkar, El silencio de Dios. Un mensaje del
Buddha al mundo actual (1970), trad. it., Il silenzio del
Buddha. Un a-teismo religioso, Milano, Mondadori,
2006, p. 8.
intrinsecamente filosofiche che si agitano
nell’insegnamento
buddhista.
Inoltre
ragionando su simili questioni essa interroga
sulle stesse l’uomo contemporaneo. In altre
parole, la riflessione su problemi filosofici
tradizionali secondo la maniera del
buddhismo induce a porre in discussione il
modo occidentale di fare filosofia, significa
ampliare l’orizzonte al quale attingere per
offrire un’interpretazione a tutti quei
problemi.
La frase in questione è la seguente:
«pretendo solo di far posto all’incommensurabilità, dato che non vedo la necessità di
misurare tutto». Un simile enunciato ha
quantomeno la dote di essere a un tempo
sintetico, chiaro e soprattutto evocativo di un
intero mondo filosofico, di una maniera di
intendere la filosofia e il suo compito nei
confronti della realtà. Inoltre, contiene quel
velo di ironia che nelle saggezze tradizionali
spesso accompagna l’intuizione della vera
Alessandro Calabrese,
CIRPIT
65
Complexity Session - Alessandro Calabrese
essenza, della natura delle cose. Inoltre, il suo
interrogarsi sull’essenza è declinato in una
chiave interculturale e sotto la provocazione
dei problemi posti dalla prospettiva della
complessità.
Quali sono le caratteristiche di questo
modo di fare filosofia?
In primo luogo esso ci presenta una
ragione ‘disarmata’. Un approccio teoretico
che non punta alla vittoria, ma che si scopre
aperto e trasformabile per via della sua
naturale apertura. Non trova in tale apertura
l’indicatore della sua sconfitta, ma la cifra
delle sue possibilità di comprendere il reale.
Nell’apertura, infatti, tale approccio esercita
l’ermeneutica della realtà, l’integrazione fra i
punti di vista: conoscere e comprendere per
interpretare e costruire un orizzonte di senso,
piuttosto che spiegare per oggettivare e
possedere.
In secondo luogo, di fronte alla
complessità del reale il discorso filosofico
indicato dall’espressione di Panikkar pone in
evidenza la non necessarietà assoluta della
scelta. Il pensiero procede attraverso l’ascolto
e il confronto, l’incontro e la trasformazione
reciproca dei punti di vista, piuttosto che
attraverso la scelta e l’esclusione di un punto
di vista rispetto ad un altro, secondo una
chiave di lettura strettamente dialettica.
Non è un caso che Panikkar, a tal
proposito, si rivolge all’esempio meno
dialettico e paradigmatico: il Buddha e il suo
silenzio di fronte alle domande riguardanti le
questioni capitali sull’essere dell’uomo e del
mondo2. Posto di fronte all’enunciazione di
2
Panikkar affronta la questione in sede di analisi
ermeneutica di alcuni testi della tradizione buddhista
relativi alla avyākṛtavestūni del Buddha, vale a dire il
66
proposizioni relative all’essere del mondo e
all’essere dell’uomo, egli non le conferma né
le nega, ma si limita ad affermare che esse
non corrispondono alla sua opinione,
sostenendo in questo modo l’idea che
nessuna di esse contiene la verità. In altre
parole, la verità non corrisponde alle pretese
di validità che ciascuna proposizione avanza
su di essa. Ciò perché la verità mal si adegua
al «gioco della mera dialettica», per il quale la
sua definizione è formulata in senso
affermativo o negativo, inclusivo o esclusivo.
L’ispirazione di Panikkar al silenzio del
Buddha e il suo studio della natura di tale
silenzio sono la via che egli sceglie per
elaborare la sua critica al primato
razionalistico
del
principio
di
non
contraddizione. Aggiungendo immediatamente il necessario corollario per cui tale
principio non ha solo un valore gnoseologico,
ma anche ontologico: esso è l’espressione
dell’identità fra Pensare ed Essere.
Giungiamo in tal modo al terzo aspetto
del modo di fare filosofia proposto nella frase
di Panikkar su cui abbiamo scelto di riflettere:
esso afferma l’irriducibilità totale dell’Essere
al Pensiero. Non si può affermare che il
Pensiero dica tutto ciò che l’Essere è, né che
esaurisca l’Essere. Ed è da una simile visione
riduzionistica che bisogna liberare la filosofia.
In altre parole, ciò contro cui questa
visione della filosofia si rivolge criticamente è
l’idea – tutta occidentale – che il principio di
non contraddizione possa essere applicato
esaustivamente a tutta la realtà, in virtù del
suo rifiuto di rispondere a quattordici quesiti relativi a
quattro problemi fondamentali: l’eternità del mondo,
la finitezza del mondo, l’esistenza dopo la morte,
l’identità tra anima e corpo. Cfr. R. Panikkar, Il silenzio
del Buddha, cit., p. 123-137.
Complexity Session - Alessandro Calabrese
suo essere espressione sul piano logico
dell’identità affermata sul piano ontologico
fra Pensiero ed Essere. Quindi il silenzio del
Buddha è per Panikkar una delle vie possibili
per avanzare la critica al principio
fondamentale su cui si basa la visione
metafisica
dominante
dell’Occidente
moderno: visione centrata sull’identità fra
Pensiero ed Essere.
Da qui parte una possibile ‘terza via’
nella descrizione dell’Essere, quella via che
Panikkar ha chiamato non duale.
Tutto ciò che è pensato ‘è’, ma non
tutto ciò che è può essere pensato.
Quest’intuizione apre la strada alla
ridefinizione del rapporto fra Pensiero ed
Essere in una chiave non duale. Non si può
parlare di identità fra Pensiero ed Essere,
perché il primo non esaurisce il secondo. Ora,
l’eccedenza dell’Essere rispetto al Pensiero è
descritta da Panikkar in termini di ‘libertà’.
Non è necessario che Pensiero ed Essere
coincidano; la realtà non è necessariamente
intelligibile. La «ragion d’essere» di ogni cosa
reale non è quella di essere razionale, bensì
semplicemente quella di essere reale. Tale
assunto
conferma
l’idea
volta
a
ridimensionare le possibilità del Pensiero nei
confronti dell’Essere. Tutto ciò che è reale ‘è’,
ma non è necessariamente razionale.
Conseguentemente tutto ciò che è, non è
necessariamente oggetto delle categorie del
pensiero logico razionale. Quindi la realtà
eccede la razionalità così come l’Essere è
eccedente rispetto al Pensiero. In ciò consiste
la libertà.3
Bisogna liberare la filosofia dall’idea per
cui il suo unico punto di partenza sia la coppia
‘Pensare ed Essere’. Se tale coppia è stata il
punto di partenza di tutta la storia della
filosofia occidentale, non è detto che esso sia
l’unico possibile punto dal quale può avere
origine il discorso filosofico. Esso corrisponde
a una concezione della filosofia, ma nel
momento in cui si sostenga una concezione
diversa, allora emerge anche un percorso
teoretico differente attraverso cui tracciare il
discorso filosofico.
Panikkar non pone in discussione l’idea
che il Pensiero pensi l’Essere e che in qualche
modo anche lo dica. Ciò che egli discute e
cerca di superare è l’idea secondo cui l’Essere
si riduce al Pensare: non si può affermare che
il Pensiero dica tutto ciò che l’Essere è né che
esaurisca l’Essere.
L’argomento principale utilizzato da
Panikkar per sostenere la sua idea è semplice
e tradizionale: «dire che il pensiero esaurisce
quello che l’essere è, equivale ad affermare
che tutto l’essere è pensabile».4 Ora, il motivo
per cui questo punto di vista non può essere
sostenuto è principalmente logico. Infatti, la
sola ipotesi del darsi di una porzione
impensabile dell’Essere nega l’affermazione
della totale pensabilità dell’Essere stesso. Al
contrario Panikkar sostiene che il Pensiero
può dire qualcosa solo sul versante pensabile
dell’Essere. Sulla possibilità di un essere
impensabile il Pensiero può solo tacere.
Quindi, ciò che si può affermare senza
contraddizione è che solo l’essere che si pensa
è pensabile. Ma è evidente che tutto ciò che
4
3
Cfr. ivi, p. 37.
R. PANIKKAR, La torre di Babele. Pace e pluralismo, S.
Domenico di Fiesole, Edizioni Cultura della Pace, 1990,
p. 53.
67
Complexity Session - Alessandro Calabrese
dell’Essere è impensabile o non ancora
pensato rimane fuori dal dominio del Pensare.
La via d’uscita da tale situazione
contraddittoria è nel «riconoscere almeno,
una possibile libertà dell’essere rispetto al
pensare».5 La possibilità di cui il Pensiero
dispone per dire l’Essere si limita alla realtà
pensabile o al modo in cui l’Essere è
pensabile. Al contrario, ogni singolo essere ‘è’,
indipendentemente
dalla
capacità
di
spiegazione del Pensiero. Pertanto la libertà
costitutiva dell’Essere si manifesta nella
possibilità di ogni singolo ente di essere in un
modo proprio, indipendente dal Pensiero. «In
ogni ente esiste un nucleo di libertà che
coincide con il proprio essere».6
Nella prospettiva di Panikkar, il
riconoscimento della libertà dell’Essere
rispetto al pensiero rientra nella natura
propria della filosofia. È l’‘amore’ contenuto
nel suo nome e nella sua essenza ad
assegnare alla filosofia questo compito.
L’amore è la disponibilità ad accogliere
l’Essere
nella
sua
immediatezza
e
imprevedibilità, nel suo essere impensabile ed
ingiustificabile. L’amore è il riconoscimento
che «l’essere non ha ragione di seguire
sempre il pensiero».
Infine l’irriducibilità dell’Essere al
Pensare emerge anche da una ulteriore
considerazione. «Essere» è un verbo che si
può ridurre a sostantivo solo tramite una
forzatura. Tutto ciò che è, è tale ‘essendo’,
non in virtù di qualcosa che è posto al di fuori
e che lo sostiene.
eliminate o risolte. Devono essere, in primo
luogo, riconosciute nella loro imprescindibilità
esistenziale e nel loro valore positivo. La
visione non dualista si esprime nella
comprensione della realtà; muove dalla presa
di coscienza che «la realtà non è una né
molteplice, non è quantificabile e nemmeno
totalmente intelligibile, la polarità è
costitutiva e non va eliminata ma
riconosciuta».7 La diversità è riconosciuta ed
accettata nel suo valore positivo. Della
polarità fra i diversi aspetti o modi
d’interpretazione del reale è accolta la
costitutiva tensione esistenziale, rivolta verso
il compimento piuttosto che verso il primato
di una delle parti. Al non-dualismo è
impossibile attribuire sia la «vittoria finale»,
cui aspira il monismo, sia l’esasperazione della
dialettica, caratteristica del dualismo. Esso,
però, conserva il valore positivo insito in
entrambi i punti di vista: dal monismo trae
l’aspirazione verso l’unità del reale, del
dualismo conserva il movimento finalizzato
alla sintesi.8 In qualche modo, il non-dualismo
segna una via alla comprensione del reale che
salva le differenze e sostiene la tendenza
naturale dell’uomo verso l’unità. Ma, se il
non-dualismo segna una via per la
comprensione, ciò vuol dire che non centra
del tutto il problema e non ne offre la
soluzione definitiva. Dev’essere riconosciuto e
attraversato sul piano esistenziale e condotto
a
compimento
concettualmente,
per
introdurci a una nozione che Panikkar coglie
nel suo valore filosofico: l’armonia.
La pluralità e la polarità nel rapporto fra
le parti non devono essere necessariamente
7
5
Ibidem
6
R. Panikkar, Il silenzio del Buddha, cit., p. 37.
68
R. Panikkar, La torre di Babele, cit., p. 87.
Ivi, p. 88: «È sensibile sia al diritto del potere che alla
saggezza della tensione».
8
Complexity Session - Marcello Ghilardi
APPUNTI PER UN INTERVENTO IN CHIUSURA DELLA PRIMA
GIORNATA DEL CONVEGNO IN ONORE DI RAIMON PANIKKAR
Napoli, 2-3 dicembre 2010
Marcello Ghilardi
Marcello Ghilardi
La realtà cosmo-teandrica
Per un incontro tra scienza, religione e
filosofia
Le differenti tradizioni dell’Asia
orientale hanno fatto spesso ricorso ad
immagini, metafore, analogie nel tentativo di
spiegare gli aspetti più complessi degli
insegnamenti, aspetti che spesso sfuggono a
una possibilità di trattazione puramente
concettuale e formalizzata. Un’analogia che
tenta di spiegare attraverso immagini fisiche
cosa si intenda con “interrelazione” o “mutua
inclusività” è quella, ben nota nella
letteratura buddhista, dell’oceano e delle
onde:
È come la metafora dell’acqua e delle onde: le
forme, che sono alte o basse, sono le onde; l’umidità,
che è identica, è l’acqua. Le onde sono onde e non
sono altro dall’acqua – le onde stesse manifestano
l’acqua. L’acqua è acqua che non differisce dalle onde
– è l’acqua a formare le onde. Le onde e l’acqua sono
una cosa sola, eppure questo non cela la loro
differenza. L’acqua e le onde sono differenti, eppure
Marcello Ghilardi,
Università di Padova
questo non cela la loro unità. In virtù della loro
manifesta unità, essere l’acqua è essere nelle onde; in
virtù della loro manifesta differenza, porre attenzione
alle onde non è porre attenzione all’acqua. Come mai?
Perché l’acqua e le onde sono differenti eppure non
sono differenti.
(Tu Shun, Cessation and Contemplation, in
T.Cleary, Entry the Inconceivable, p. 58)
Le onde stanno a significare le forme
molteplici, i fenomeni empirici che
“accadono”, mutano, si danno alla
percezione dei nostri sensi nella loro
impermanenza e varietà di modalità
espressive. Sono gli “oggetti” esperiti
normalmente, che danno corpo alla
“apparente concretezza” del mondo e
permettono alle nostre azioni quotidiane di
compiersi facendo affidamento sulle
strategie ermeneutiche convenzionali, in
base alle quali cogliamo tali azioni e
manifestazioni come se fossero dotate di
un’essenza propria, indipendente. Ma le
onde non sono se non in virtù dell’acqua, da
cui traggono la loro forma, da cui hanno
origine e verso cui ritornano: non esistono le
69
Complexity Session - Marcello Ghilardi
onde se non all’interno dell’acqua, che
costituisce il loro “orizzonte di possibilità”, la
loro condizione d’essere. E non esistono
nemmeno in quanto singolarità, perché
un’onda è tale solo in relazione alle altre
onde, che in base a quella si conformano, e
che nelle stesso tempo quella stessa esse
formano. Il nocciolo della riflessione sta tutto
qui: la dialettica dell’uscita dall’originaria
condizione del Vuoto, dal regno “noumenico”
in cui ciò che è, senza discriminazione, e del
ritorno ad essa attraverso la negazione e la
mediazione nel mondo fenomenico, trova la
sua
soluzione
nella
comprensione
dell’identità che è insita nella differenza,
poiché tutto ciò che possiamo esperire o
pensare è solo in quanto è in relazione con
tutto ciò che ad esso è esterno, estraneo,
diverso. Le onde non “sono” l’acqua, ma esse
senza l’acqua non sarebbero; esse
rappresentano
una
particolare
determinazione dell’acqua, che svela se
stessa, si dimostra alle nostre capacità
percettive, in quanto onde: e per questo è
lecito dire che l’acqua non sarebbe senza le
onde, poiché è solo per mezzo delle onde che
essa è in grado di manifestarsi, di agire. Di
nuovo appare in tutta la sua forza e la sua
pregnanza di significato per il pensiero cinese
più genuino, fin dalle sue origini, quell’idea di
movimento, di processualità, come unica ed
autentica condizione d’essere delle cose: per
darsi effettivamente, tanto un fenomeno
quanto il principio che ne sta alla base deve
essere in divenire, in “processo” appunto.
Il concetto di sistema
Un sistema è una relazione tra elementi.
In un sistema lo stato di un elemento
determina ed è determinato dallo stato di
70
tutti gli altri elementi: non serve a molto
conoscere il componente senza conoscere: a)
le sue relazioni; b) il livello di integrazione
delle relazioni; c) la storia delle sue relazioni
passate e possibili.
Il tutto, in un sistema, non si riduce mai
alla somma delle parti. Ogni elemento del
sistema può essere considerato a sua volta
un sistema, di livello inferiore, e ogni sistema
può essere considerato elemento di un
sistema di livello superiore. Un sistema è
sempre frutto di una scelta operata
dall’osservatore, che ritaglia in un ambiente
processi specifici, cioè un sistema con la sua
organizzazione e le sue possibili dinamiche, e
nel far ciò riduce a rumore di sfondo ogni
altra relazione che pure interviene nella
interazione tra sistemi.
Emergentismo
Un comportamento emergente o
proprietà emergente può comparire quando
un numero di entità semplici (agenti)
operano in un ambiente, dando origine a
comportamenti più complessi in quanto
collettività. La proprietà stessa non è
prevedibile e non ha precedenti, e
rappresenta un nuovo livello di evoluzione
del sistema. I comportamenti complessi non
sono proprietà delle singole entità e non
possono essere facilmente riconosciuti o
dedotti dal comportamento di entità del
livello più basso.
La vita costituisce una inesauribile
miniera di esempi da cui l’emergentismo
attinge. Il caso più semplice di emergenza è
rappresentato dalla relazione tra un
organismo vivente e le molecole di cui è
composto a un dato momento. Se
prendessimo tutte queste molecole, che sono
Complexity Session - Marcello Ghilardi
tutto ciò che costituisce quell’organismo, e
ne cambiassimo drasticamente l’organizzazione esse non costituirebbero più un
organismo. Dunque, l’essere vivente emerge
dalle molecole.
Raimon Panikkar: la crisi del mondo
moderno
In diverse opere Panikkar si è rivolto
alle questioni della scienza e del progresso,
da un punto di vista religioso ed ecologico o
meglio, come amava ripetere, ecosofico (è la
sophia, più del logos, che può permetterci di
prestare ascolto all’oikos, alla casa,
all’ambiente nel quale viviamo e che ci
nutre). Qui di seguito si cerca di riassumere
alcune delle sue idee in proposito, in
particolare in rapporto al suo testo La nuova
innocenza.
Anche alla luce delle considerazioni
precedenti, si vorrebbero dunque avanzare
alcune proposte di trasformazione, di
“conversione” dello sguardo, per modificare
la attuale mentalità tecnologica in una più
adatta ad avvertire le esigenze dell’ambiente,
nel quale siamo integrati – e non soggetti
esterni
che
possono
permettersi
semplicemente di sfruttarne le risorse.
Queste proposte si possono, almeno
provvisoriamente, riassumere nei seguenti
punti
a) Perdita di centralità del soggetto
psicologico;
d) Correlazione tra la dimensione
morale e quella fisica; rapporto tra scienza,
politica e morale (tra cosmologia, politica e
antropologia);
e) Integrazione (e non scissione) tra io e
mondo.
Le radici teologiche della crisi moderna
Si è riflettuto relativamente poco sulle
radici teologiche della crisi spirituale e
materiale che attanaglia l’uomo moderno,
producendo infiniti conflitti di ogni genere e
facendogli percepire in modo sempre più
crescente di vivere in un universo alienante
ed alienato. Queste radici rimandano,
secondo Panikkar, ad epoche lontane, allo
stesso fondarsi di molte tradizioni culturali
sul principio di proprietà, cioè sul dualismo,
sulla contrapposizione. Lo stesso decalogo
può essere inteso come la sacralizzazione del
principio di proprietà: ama il tuo Dio, ama la
tua donna, ecc. La distinzione più radicale,
poi, è quella fra l’uomo e la natura: l’uomo è
eccezione e padrone del creato. Non è un
caso che proprio in Occidente sia nata la
tecnologia, vero cancro del mondo moderno,
cioè una concezione dualistica della realtà,
dove ciò che conta è separare, isolare,
oggettivare, per poter meglio quantificare e,
quindi, manipolare delle “cose”. La
tecnologia non è che l’ultimo risultato di una
mentalità che aveva già portato il mondo
semitico a “privatizzare” Dio, la religione, la
cultura.
b) Diversa collocazione dell’uomo nel
cosmo;
La scienza moderna
c) Attenzione alla regolazione invece di
un’ossessione per la predizione in vista di un
“rendimento”;
La crisi che l’uomo contemporaneo sta
attraversando è, per Panikkar, una crisi di
“frantumazione” scaturita, in primo luogo, da
quella frantumazione della conoscenza
71
Complexity Session - Marcello Ghilardi
realizzatasi con la nascita della scienza
moderna. La scienza, nel mondo moderno,
perde il suo valore salvifico e si riduce a
conoscenza (presunta) oggettiva. Non è più,
come nell'antichità, e ancor oggi nelle
autentiche vie spirituali, comunione con la
realtà e realizzazione di se stessi.
Nell’antichità, progredire nella conoscenza
della realtà voleva dire progredire nella
conoscenza di se stessi; la “nuova scienza”
nata con Galilei, invece, non ha più il fine di
capire, bensì solo di calcolare, prevedere e
dominare la realtà (cfr. F. Bacon, Novum
Organum 1, 70).
Tecnica e tecnologia
Non
bisogna
però
confondere
tecnologia e tecnica: la tecnica è un’arte
(poietikê technê), nella quale l’intelligenza
umana si integra nella materia per produrre
un artefatto (ceramica, musica, poesia, un
edificio, ecc.) che migliori il benessere e la
bellezza della vita umana. Si deve essere
ispirati per produrre qualsiasi tipo di attività
tecnica, è necessario il pneuma (spirito). La
tecnologia sorge quando allo spirito si
sostituisce la ratio, cioè il logos, nel suo senso
più ristretto di razionalità discorsiva. A
questo punto nella technê si introduce
l’aritmetica, cioè un ritmo (il risultato di una
mens, mensura), e allora il risultato della
tecnica può essere riprodotto indefinitamente quando se ne conosca la sigla
numerica. Ogni artefatto ha il suo stile e, in
un certo senso, è unico, anche quando se ne
producano più esemplari. Però c’è un
momento in cui il cambiamento quantitativo
introduce un mutamento qualitativo. Questo
mutamento avviene attraverso l’utilizzo di
macchine, cioè strumenti di secondo grado,
che finiscono poi per imporre all’uomo le
72
proprie regole. La tecnologia, da strumento,
giunge a trasformarsi in fine.
Il tecnocentrismo
La tecnologia non è universalizzabile
come se fosse un universale culturale, non è
neutra. Può germinare soltanto in un terreno
moderno e può crescere solo in un clima
occidentalizzato. L’universalizzazione della
tecnologia implica l’occidentalizzazione del
mondo e la distruzione delle altre culture,
che si basano su visioni della realtà
incompatibili con i moderni presupposti della
tecnologia. Il fatto che questa incompatibilità
non sia stata notata e che si sia pensato che
la tecnologia potesse adattarsi allo stile di
vita di diverse culture, dimostra come non si
sia realizzato un vero dialogo interculturale.
Ha prevalso la credenza in una evoluzione
lineare della specie umana.
La tecnocrazia: l’ontonomia impossibile
Secondo Panikkar, che in questo
assume una posizione simile a quella di
Heidegger, la tecnologia è autonoma, sia
dall’uomo sia dalla natura. Ma l’uomo si sta
svegliando dal sogno di poter dominare il
sistema tecnologico, a tal punto che oramai
non crede più possibile liberarsi da esso. È
questo che detta lo stile di vita, i valori
dominanti e i ritmi della collettività, e perfino
una gran parte delle forme di pensiero, per
non parlare della corsa agli armamenti, della
crescita delle multinazionali e della
proliferazione delle macchine, che nessuno
sembra poter fermare. La macchina di
secondo grado ha le proprie regolarità, che
non dipendono né dalle leggi della natura né
da quelle dell’uomo. È l’uomo che deve
adattarsi alle leggi della macchina,
Complexity Session - Marcello Ghilardi
diventando così prigioniero di un tempo e di
uno spazio che sono pure astrazioni
scientifiche. L’interdipendenza fra uomo e
cosmo, l’equilibrio armonioso, “ontonomo”
(il nomos dell’on – l’ordine intrinseco
dell’essere), non è più possibile nell'epoca
della tecnologia.
Omocentrismo e interventismo
La tecnologia presuppone che l’uomo
sia essenzialmente differente e superiore alla
natura. Non è un caso che la tecnologia sia
sorta in un mondo governato dalla
concezione semitica dell'universo, dove
l'uomo è padrone della natura, una eccezione
nella creazione. Non è un caso che si usi
comunemente il termine "sfruttamento":
agricolo, minerario, ecc. Ciò rimanda anche
all'origine della scienza moderna, finalizzata
non al sapere, ma al potere, non alla
conoscenza, ma al dominio della natura.
Il metodo proprio della tecnologia è la
sperimentazione, l’intervento sulla realtà.
L’esperimento consiste nel modificare
almeno una delle variabili di un sistema
osservato per poi accertare una variazione
dell’intero sistema. L'esperimento rende
possibile il calcolo della variazione e delle
variabili e si basa nello stesso tempo su
questo
calcolo.
L’esperimento
è
principalmente una possibilità di dominio, di
calcolo, di previsione, ma non esprime molto
sulla natura delle cose, sulla realtà, sulla
nostra propria natura. L’attività umana, non è
considerata una collaborazione con i ritmi
della natura per lo sviluppo personale e per
l’armonia dell’universo, ma come un lavoro
visto come una produzione, modificazione,
dominazione.
L’oggettivismo
La tecnologia presuppone che la realtà
sia oggettivabile e dunque sottoposta al
pensiero. La tecnologia è la cristallizzazione e
l’oggettivazione dei concetti. I concetti
possono essere fissati in macchine, le quali
garantiscono poi un funzionamento costante
e preciso, come la macchina del nostro
cervello. Questa oggettivazione rende la
realtà immutabile e costante, in modo tale
che la conoscenza scientifica sia sempre più
stabile. La scienza moderna è la guardiana
dell’essere, l’essere non può scappare. Così si
possono costruire macchine che funzionino e
l’uomo
se
ne
può
fidare.
Che la scienza contemporanea abbia
superato grossolani paradigmi di oggettività
non dice niente sul piano della tecnologia.
Sarebbe possibile la tecnologia se i processi
reali non seguissero le leggi della logica o
addirittura quelle della probabilità? Il criterio
di verità, o meglio di precisione, su cui si basa
la sperimentazione scientifica è la ripetibilità
e la ripetibilità presuppone un tempo
costante e omogeneo. Senza di esso nessuna
macchina potrebbe funzionare, nessuna
grande città moderna potrebbe esistere. Lo
spazio ed il tempo nel quale si muovono le
macchine sono, a differenza di quelli umani,
neutri e universali.
Quantificabilità, controllo e strumentalizzazione
Il regno della scienza moderna è ciò che
è quantificabile, essa agisce misurando, cioè
dividendo. Non pretende nemmeno di
spiegare il mondo, semplicemente misura dei
comportamenti e, scoprendo alcune costanti,
prevede vari avvenimenti. La tecnologia fa
qualcosa di più che calcolare: moltiplica. È il
73
Complexity Session - Marcello Ghilardi
mondo della quantità e dell'accelerazione, il
mondo del più quantitativo. Senza
accelerazione la tecnologia è impossibile. Il
tempo è soltanto un fattore quantitativo che
è piegabile all’accelerazione. Quello che non
può essere misurato, che non può essere
contato, non “conta”.
La tecnologia è il mondo dei mezzi,
degli
strumenti.
Essa
produce
in
continuazione strumenti, sempre nuovi,
sempre migliori. Non importa a cosa servano,
se siano realmente utili, l'importante è usarli.
Noi stessi siamo strumenti.
La cultura moderna
La cultura moderna ha reso tutto
monetizzabile e dipendente dall’economia: il
tempo, l’educazione, il matrimonio, il
nutrimento, la mia salute, le mie credenze, la
mia felicità. Tutto ha un coefficiente
economico,
ossia,
in
altre
parole,
quantificabile. Ciò che accomuna tecnocrazia
ed economicismo estremo è la visione
quantitativa della vita. Se gli si offrono i mezzi
per soddisfarli, l’uomo è felice. Questo tipo di
mentalità e di cultura non è universale né
universalizzabile. E non lo è né da un punto di
vista qualitativo, per i motivi sopra esposti,
né da un punto di vista quantitativo: il 6%
della popolazione mondiale consuma il 40%
delle risorse disponibili e ne controlla il 60%.
Le possibilità e le risorse del pianeta sono
limitate. Nella prima metà del secolo il
sistema
economico
mondiale
era
relativamente aperto. Ora il sistema è chiuso
e in un sistema chiuso ogni aumento in una
regione comporta una diminuzione in
un'altra. Viviamo un aumento costante di
entropia. Il nostro stile di vita non può essere
mantenuto su scala mondiale. Nel complesso
74
tecnocratico ogni progresso implica un
regresso in un altro ambito.
Alternative alla cultura moderna
Vi sono tre modi per affrontare il
problema della modernità, secondo Panikkar:
1. Riforma
Consiste nel pensare che questa cultura
si possa riformare, magari utilizzando una
tecnologia più adeguata. Panikkar stesso
aveva in un primo tempo aderito a questa
prospettiva, coniando addirittura il termine
tecnicultura. Ancora nel 1970, quando
pubblicò Il Silenzio di Dio, era di questa
opinione. Pensava che la macchina potesse
essere coltivata, nel senso della cultura. Ma
la macchina di secondo grado ha
un’autonomia che l'uomo non è più in grado
di controllare e dirigere. Ci si dice: solo
momentaneamente la tecnologia crea fame,
sfrutta e distrugge le culture non
industrializzate, fa numerose vittime
dappertutto, ma ritroverà il suo equilibrio
una volta che sarà più perfezionata. Non
esiste un’omeostasi tecnologica di questo
tipo e non è solo l’argomento morale che vi si
potrebbe opporre: gli uomini non sono
semplici elementi di una posta storica più
alta. Vi si oppone anche l’esistenza di altre
culture che si rifiutano di avere una simile
concezione dell’uomo e della realtà.
2. Deformazione
Vuol dire fare una critica totale,
anatemizzare, non salvare niente, distruggere
tutto. Anche questo tipo di critica, come il
precedente, rimane ancora all'interno della
mentalità moderna, tecnologica. Anche
questa è ragione armata, è violenza.
Complexity Session - Marcello Ghilardi
3. Trasformazione
È una metamorfosi, una mutazione
radicale della forma (morphê). Non vuol dire
riformare un po’, cambiare questo o quello,
ma realizzare un cambiamento radicale, una
metànoia, una vera rivoluzione della mente,
del cuore e dello spirito. Voler fare soltanto
qualche aggiustamento e riformare il sistema
significa
solo
prolungare
l’agonia.
Emanciparsi veramente dalla tecnologia vuol
dire saltare al di là di questa cultura che l’ha
creata. L’Occidente da solo non può fare
tutto questo, e l’Oriente nemmeno: c’è
bisogno di un incontro di culture. È qui che si
rende indispensabile il dialogo “intrareligioso” come condizione per la salvezza
dell’umanità. La mutua fecondazione delle
culture è l'unica cosa che ancora potrà
salvarci. Non esiste infatti un’alternativa
globale, così come non esistono, né forse
sarebbero desiderabili, una cultura globale,
una prospettiva globale, una lingua ed una
religione universali, un unico ordine mondiale
perfetto, politico o economico. Ci sono
solamente alternative provvisorie, secolari e
pluraliste.
ben noto alle varie tradizioni spirituali e che
egli stesso ritrova, ad esempio, nella
concezione cristiana della Trinità o in quella
buddhista della pratityasamutpada. La realtà
mostra questa triplice dimensione: un
aspetto
metafisico
(trascendente
o
apofatico), un fattore noetico (o cosciente,
pensante) e un elemento empirico (fisico o
materiale). A livello umano, poi, questo
principio si esplica nei tre fondamentali modi
di percepire la realtà: l’esperienza sensibile
(aisthêsis), l’esperienza intellettuale (noêsis)
e l’esperienza sovraconoscitiva e globale che
trascende il pensiero (mystika). La visione
cosmoteandrica o relazionale della realtà
supera sia il monismo sia il dualismo, tanto
che potrebbe essere definita non-dualista, ed
è il frutto, in ultima analisi, di un’esperienza
mistica, e come tale ineffabile, che rimanda
ad un dimensione contemplativa venuta
meno con la cultura moderna.
L’intuizione cosmoteandrica
Il divino, l’umano e il terrestre sono le
tre dimensioni irriducibili che costituiscono il
reale, cioè qualsiasi realtà in quanto tale.
Tutto ciò che esiste presenta questa
struttura, triplice e unica, espressa in queste
tre dimensioni che si generano reciprocamente ma non sono riducibili l’una all’altra.
Vi è un’unica relazione, benché intrinsecamente triplice, che esprime la costituzione
ultima della realtà: è questa l’intuizione
cosmoteandrica. Panikkar è consapevole di
riformulare, in questi termini, un principio
75
Raimon Panikkar Session - Fred Dallmayr
A SECULAR AGE?
REFLECTIONS ON TAYLOR AND PANIKKAR
Fred Dallmayr
Fred Dallmayr
(video)
At least in the Western context, our age
is commonly referred to as that of
“modernity”—a term sometimes qualified as
“late modernity” or “postmodernity.” Taken
by itself, the term is nondescript; in its literal
sense, it simply means a time of novelty or
innovation. Hence, something needs to be
added to capture the kind of novelty involved.
To pinpoint this innovation, modernity is also
referred to as the “age of reason” or the age
of enlightenment and science—in order to
demarcate the period from a prior age
presumably characterized by unreason,
metaphysical speculation, and intellectual
obscurantism or darkness. Seen in this light,
modernity for a large number of people—
including supporters of scientific and social
progress—is a cause for rejoicing, celebration,
and unrelenting promotion. As is well known,
however, this chorus of support has for some
time been accompanied by discordant voices
pointing to the dark underside of modernity,
evident in what Max Weber called the
“disenchantment” of the world and others
(more dramatically) the “death of God” or the
“flight of the gods.” More recently, discontent
Fred Dallmayr,
Notre Dame University, USA
76
has given rise to claims regarding an inherent
“crisis” of modernity manifest in the slide
toward materialism, consumerism, irreligion,
and a general “loss of meaning.”1
For present purposes I want to lift up for
consideration two highly nuanced and
philosophically challenging assessments of our
modern condition: Charles Taylor’s A Secular
Age (of 2007) and Raimon Panikkar’s The
Rhythm of Being (of 2010). As it happens,
both texts are strongly revised versions of
earlier
Gifford
Lectures
(presented
respectively in 1999 and 1989). Before
proceeding, a word of caution: neither of the
two thinkers belongs to one of the polarized
camps—which means that neither is an
uncritical “booster” or else a mindless
1
. Concerning the “crisis of modernity” compare, e.g.,
Oswald Spengler, The Decline of the West (1918; New
York: Knopf, 1939); René Guénon, La crise du monde
moderne (1928), trans. M. Pallis and R. Nicholson, The
Crisis of the Modern World (London: Luzac, 1962); Romano Guardini, Das Ende der Neuzeit (1950), trans. The
End of the Modern World (New York: Sheed & Ward,
1956); and Leo Strauss, “The Crisis of Our Time,” in The
Predicament of Modern Politics, ed. Harold J. Spaeth
(Detroit, MI: University of Destroit Press, 1964), pp. 4154. Compare in this context the chapter “Global Modernization: Toward Different Modernities,” in my Dialogue Among Civilizations: Some Exemplary Voices
(New York: Palgrave Macmillan, 2002), pp. 85-104.
Raimon Panikkar Session - Fred Dallmayr
“knocker” of the modern age.2 Both thinkers
share many things in common. Both complain
about certain glaring blemishes of the
modern, especially the contemporary period;
both deplore above all a certain deficit of
religiosity or spirituality. The differences
between the two authors have to do mainly
with the details of their diagnosis and
proposed remedies. In Taylor’s view, the
modern age—styled as “secular age”—
appears marked by a slide into worldly
agnosticism, into “exclusive humanism” and
above all into an “immanent fame” excluding
or marginalizing theistic “transcendence.”
Although sharing the concern about “loss of
meaning,” Panikkar does not find its source in
the
abandonment
of
(mono)theistic
transcendence; nor does he locate this source
in secularism or “secularity” per se—seeing
that, in view of its temporality, faith is
necessarily linked with a given age (or
“saeculum”).
Instead of stressing the
dichotomy
between
immanence
and
transcendence, Panikkar focuses on the
pervasive “oblivion of being” in our time, an
oblivion which can only be overcome through
a renewed remembrance of the divine as a
holistic happening in a “cosmotheandric”
mode.
people; and “secularity 3” involving the
erosion of the very conditions of possibility of
shared faith. While in the first type, public
spaces are assumed to be “emptied of God, or
of any reference to ultimate reality,” and
whereas in the second type secularity consists
“in the falling off of religious belief and
practice, in people turning away from God,”
the third type involves a more pervasive
change: namely, “a move from a society
where belief in God is unchallenged and
indeed, unproblematic, to one in which it is
understood to be one option among others,
and frequently not the easiest to embrace.”
Taken in the third sense, secularity means
more than the evacuation of public life or else
the loss of a personal willingness to believe;
rather, it affects “the whole context of
understanding in which our moral, spiritual or
religious experience and search takes place.”
Viewed on this level, an age or a society
would be secular or not “in virtue of the
conditions of experience of and search for the
spiritual.” As Taylor emphasizes, the focus of
his study is on the last kind of secularity. In
his words:
So I want to examine our society as
secular in this third sense, which I could
perhaps encapsulate in this way: the
change I want to define and trace is one
which takes us from a society in which it
was virtually impossible not to believe in
God, to one in which faith, even for the
staunchest believer, is one human
possibility among others. . . . Belief in
God is no longer axiomatic.3
A Secular Age
At the very beginning of his massive
study, Taylor distinguishes between three
kinds of secularity or “the secular”:
“secularity 1” involving the retreat of faith
from public life; “secularity 2” denoting a
diminution or vanishing of faith among certain
2
. In one of his previous writings, Taylor had distinguished between the “boosters” and the “knockers” of
modernity. See his The Ethics of Authenticity (Cambridge, MA: Harvard University Press, 1992), pp. 11, 2223.
In seeking to flesh out the meaning of
secularity as a mode of modern experience,
3
. Charles Taylor, A Secular Age (Cambridge, MA: Harvard University Press, 2007), pp. 2-3.
77
Raimon Panikkar Session - Fred Dallmayr
Taylor’s text very quickly introduces the
notion of “exclusive humanism” or “selfsufficient humanism” characterized by a
neglect of transcendence. An important
criterion here is the notion of a “fullness of
life” and whether this fullness can be reached
by human resources alone or requires a step
“beyond” or “outside.” “The big obvious
contrast here,” we read, “is that for believers
the account of the place of fullness requires
reference to God, that is, something beyond
human life and/or nature; where for
unbelievers this is not the case.” Typically, for
believers fullness or completion is received as
a gift whereas for unbelievers the source of
completion resides “within.” Appeal to
internal resources can take many forms. In
modernity, the appeal is frequently to the
power of reason and rational knowledge.
However, self-sufficiency can also be
predicated on a “rigorous naturalism.” In that
case, the sources of fullness are not
transcendent, but are to be “found in Nature,
or in our own inner depths, or in both.”
Examples of such naturalism are provided by
“the Romantic critique of disengaged reason,
and most notably certain ecological ethics of
our day, particularly deep ecology.” Other
forms of self-sufficiency or internal selfreliance can be found in versions of
Nietscheanism and existentialism which draw
empowerment “from the sense of our
courage and greatness in being able to face
the irremediable, and carry on nonetheless.”
A further modality can be detected in recent
modes of post-modernism which, while
dismissive of claims of self-sufficient reason,
yet “offer no outside source for the reception
of power.”4
4
. Ibid., pp. 8-10. The comment on existentialism o-
78
In subsequent remarks the distinction
between inside and outside (“withinwithout”) is further sharpened by the
invocation of the binaries of immanence/transcendence and natural/supranatural. “The shift in background, or better
the disruption of the earlier background,”
Taylor writes, “comes best to light when we
focus on certain distinctions we make today:
for instance, that between the immanent and
the transcendent, the natural and the supernatural. . . . It is this shift in background, in
the whole context in which we experience
and search for fullness, that I am calling the
coming of a secular age, in my third sense . . .
[and] that I want to describe, and perhaps
also (very partially) explain.” In general terms,
modernity for Taylor assumes the character of
a “secular age” once priority is granted to
immanence over transcendence and to a selfsufficient humanism over divine interventions. “The great invention of the [modern]
West,” he writes, “was that of an immanent
order of Nature whose working could be
systematically understood and explained on
its own terms.” This notion of immanence
involves denying, or at least questioning, “any
form of interpenetration between the things
of Nature, on the one hand, and the
‘supernatural,’ on the other.” Seen from this
angle, he adds, “defining religion in terms of
the distinction immanent/transcendent is a
more tailor-made for our culture.” From a
humanist perspective, the basic question
becomes
“whether
people
recognize
bviously is tailored to the writings of Albert Camus.
Regarding deep ecology, the judgment is modified a
few pages later (p. 19) where we read that “there are
attempts to reconstruct a non-exclusive humanism on a
non-religious basis, which one sees in various forms of
deep ecology.
Raimon Panikkar Session - Fred Dallmayr
something beyond or transcendent to their
lives.”5
birth and death; our lives extend beyond ‘this
life’.”6
At the core of the modern secular
shift, for Taylor, is the issue of human
fulfillment or “flourishing,” that is, the
question “what constitutes a fulfilled life?” At
this point, an intriguing radicalism comes to
the fore: in the sense that not only the secular
goals of fulfillment are chastised, but the very
idea of human flourishing is called into
question. In earlier periods, he comments, it
was still possible to assume that the best life
involved our seeking “a good which is beyond,
in the sense of being independent of human
flourishing.” In that case, the highest, most
adequate human striving could include our
aiming “at something other than human
flourishing.” Under the aegis of an exclusive
or self-sufficient humanism, the possibility of
such higher striving has atrophied and even
vanished. Differently phrased: “secularity 3”
in Taylor’s sense came along together with
the possibility and even probability of
exclusive humanism. In fact, he states, one
could offer this “one-line description” of the
difference between earlier times and the
secular age: “a secular age is one in which the
eclipse of all goals beyond human flourishing
becomes conceivable.” Here is the crucial link
“between secularity and a self-sufficing
humanism.” In traditional religion, especially
in Christianity, a different path was offered:
namely, “the possibility of transformation . . .
which takes us beyond merely human
perfection.” To follow this path, it was needful
to rely on “a higher power, the transcendent
God.” Seen in this light, Christian faith
requires “that we see our life as going beyond
the bounds of its ‘natural’ scope between
It cannot be my ambition here to
recapitulate Taylor’s complex and lengthy
tome; suffice it for present purposes to draw
attention briefly to a central chapter dealing
with the noted binary tension: the chapter
titled “The Immanent Frame.” At this point,
the notion of an exclusive humanism is
reformulated in terms of a “buffered self.”
According to Taylor, what modern secularity
chiefly entails is “the replacement of a porous
self by the buffered self,” a self that begins to
find “the idea of spirits, moral forces, causal
powers with a purposive bent, close to
incomprehensible.” Buffering here involves
“interiorization,” that is, a withdrawal into “an
inner realm of thought and feeling to be
explored.” Examples of this inward turn are
said to be Romanticism, the “ethic of
authenticity,” and similar moves prompting us
to “conceive ourselves as having inner
depths.” A corollary of this turn is “the
atrophy of earlier ideas of cosmic order” and
the rise of individual self-reliance and selfdevelopment, especially of an “instrumental
individualism” exploiting worldly resources to
its own exclusive benefit. Aggregating the
various changes or mutations occurring in
secular modernity, Taylor arrives at this
succinct formulation: “So, the buffered
identity of the disciplined [self-reliant]
individual moves in a constructed social
space, where instrumental rationality is a key
value and time is pervasively secular [as clock
time]. All of this makes up what I want to call
‘the immanent frame’.” There is one
important background feature which also
needs to be taken into account: namely, that
5
6
. Ibid., pp. 13-16.
. Ibid., pp. 16, 19-20.
79
Raimon Panikkar Session - Fred Dallmayr
“this frame constitutes a ‘natural’ order, to be
contrasted to a ‘supernatural’ one, an
‘immanent’ world, over against a possible
‘transcendent’ one.”7
As Taylor recognizes, the boundary
between the two “worlds” is not always
sharply demarcated. Although ready to
“slough off the transcendent,” the immanent
order occasionally makes concessions to the
former. This happens in various forms of “civil
region,” and also in vaguely spiritual
movements or expressions like Pentecostalism or “Romantic forms of art.”
However, such concessions are at best halfhearted, and do not basically challenge or
impede the “moral attraction” of immanence,
of this-worldiness, of materialism and
naturalism. As Taylor remarks with regard to
the latter: “We can see in the naturalistic
rejection of the transcendent . . . the ethical
outlook which pushes to closure” in
immanence, especially when the rejection is
coupled with wholesale trust in modern
natural science and associated technologies.
Undergirded by this trust, the entire growth
of modern civilization can be seen “as
synonymous with the laying out of a closed
immanent frame.” To be sure, the text insists,
the “moral attraction” of immanence is not
absolutely compelling or pre-ordained; it only
prevails as a dominant pull or possibility,
leaving room for other recessed alternatives.
Resisting the dominant frame, some
individuals find themselves placed in the
cauldron of competing pulls—a cauldron
giving rise sometimes to the striving for a
radical exodus, accomplished through a stark
(Kierkegaardian) “leap of faith.” However,
this personal experience of cross-pressures
does not call into question the basic structure
of secular modernity. What his study is trying
to bring to the fore, Taylor concludes, is the
“constitution of [secular] modernity” in terms
of the emphasis on “‘closed’ or ‘horizontal’
worlds” which leave little or no place for “the
‘vertical’ or ‘transcendent’.”8
Without doubt, Taylor’s A Secular Age is
an intellectual tour de force as well as a
spirited defense of religious faith (seen as
openness to a transcendent realm). In an age
submerged in the maelstrom of materialism,
consumerism, and mindless self-indulgence,
his book has the quality of a wake-up call, of a
stirring plea for transformation and
“metanoia.” Nevertheless, even while
appreciating the cogency of this plea, the
reader cannot quite escape the impression of
a certain one-dimensionality. Despite
repeated rejections of a “subtraction story”
(treating modernity simply as a culture minus
faith), the overall account presented in the
book is one of diminution or impoverishment:
leading from a holistic framework hospitable
to transcendence to an “immanent frame”
hostile to it. Surely, this is not the only story
that can be told—and probably not the most
persuasive one. In Taylor’s presentation,
8
7
. Ibid., pp. 539-542. In another succinct formulation he
states (p. 566): “Modern science, along with the many
other facets described—the buffered identity, with its
disciplines, modern individualism, with its reliance on
instrumental reason and action in secular time—make
up the immanent frame. . . . Science, modern individualism, instrumental reason, secular time, all seem
proofs of the truth of immanence.”
80
. Ibid., pp. 543, 547-549, 555-556. Taylor’s discussion
of the different “frames” or “worlds” is often quite ambiguous—to the point of jeopardizing the distinction itself. Thus, with regard to naturalism we read at one
point (p. 548): “Belonging to the earth, the sense of
our dark genesis, can also be part of Christian faith, but
only when it has broken with certain features of the
immanent frame, especially the distinction nature/supernature.”
Raimon Panikkar Session - Fred Dallmayr
immanence and transcendence, this world
and the world “beyond,” seem to be
immutable binary categories exempt from
change. Clearly, there is the possibility of
another (more compelling) narrative: a story
where immanence and transcendence, the
human and the divine, encounter each other
in ever new ways, leading to profound
transformations on both (or all) sides.
Curiously, Taylor’s own earlier writings had
been leaning more in that direction. One of
his best-known earlier works, Sources of the
Self, narrated the development of human
selfhood from antiquity to modernity in a
nuanced manner not reducible to a slide from
porousness to buffered closure. Very little of
this story remains in A Secular Age. In a
similar manner, the “ethics of authenticity”
(highlighted in one of his earlier books) now
seems the be just another synonym for
modern buffering and self-sufficiency. Even
the move toward personal religiosity—
celebrated earlier in the case of William
James—now seems to be relegated to a
marginal gloss on the “immanent frame.”
Hardly an echo seems to be left of the “thanks
to Voltaric and others”—extended in his
“Marianist Lecture”—for “allowing us to live
the gospel in a purer way,” free of the “often
bloody forcing of conscience” marking
previous centuries.9
As it seems to me, one of the more
curious and troubling aspects of the book is
the determined privileging of the “vertical” or
“transcendent” dimension over the lateral or
9
. See Taylor, A Catholic Modernity?, ed. James L. Heft,
S. M. (New York: Oxford University Press, 1999), pp.
16-19. Compare also his Sources of the Self: The Making of the Modern Identity (Cambridge, MA: Harvard
University Press, 1989), and The Ethics of Authenticity
(Cambridge, MA: Harvard University Press, 1992).
“horizontal worlds.” Even if one were to grant
the atrophy of transcendence, modernity
styled as a “secular age” surely has witnessed
important
“horizontal,”
social-political
developments by no means alien to a religious
register: the demolition of ancient caste
structures, the struggles against imperialism,
the emancipation of slaves, the steady
process of democratization promising equal
treatment for people without regard for
gender, race, and religion. Strangely, in a book
seeking to distill the essence of Western
modernity, these and similar developments
occupy a minor or shadowy place, being
eclipsed by the accent on verticality (heavily
indebted to certain monotheistic creeds). The
accent is all the more surprising in the context
of a largely Christian narrative, given the
traditional linkage of that faith with
embodiment and “incarnation.”10 The
downgrading or relative dismissal of the
horizontal has clear repercussions with regard
to “humanism” and the divine-human
relationship. The conception of an “exclusive
humanism” seems to leave ample room for a
more open and non-exclusive type. Yet,
despite an occasional acknowledgment of the
possibility of non-exclusiveness, the point is
not further developed or explored. Equally
bypassed or sidelined is the possibility of a
symbiosis of the divine, the human, and
“nature”—a triadic structure requiring
resolute openness on all sides. At one point,
Taylor ponders the deleterious impact of a
10
. At one point, Taylor complains that we have moved
“from an era in which religious life was more ‘embodied’, where the presence of the sacred could be enacted in ritual . . . into one which is more ‘in the mind’.”
As a corollary of this move, “official Christianity has gone through what we can call an ‘excarnation’, a transfer
of embodied, ‘enfleshed’ forms of religious life, to those which are more ‘in the head’.” See A Secular Age, p.
554.
81
Raimon Panikkar Session - Fred Dallmayr
certain
“non-religious
anti-humanism”
(associated mainly with Nietzsche and his
followers). However, his own privileging of
verticality conjures up the specter of a
radically religious anti-humanism—a specter
bound to be disturbing in the context of the
current vague of fundamentalist rhetoric.11
The Rhythm of Being
To some extent, the preceding
paragraph can serve as gateway to the work
of Raimon Panikkar, the renowned SpanishIndian philosopher and sage (who passed
away on August 26, 2010). Among many
other intellectual initiatives, Panikkar is
known for his endorsement of a triadic
structure
of
Being—the
so-called
“cosmotheandric” conception—in which God
(or the divine), human beings, and nature (or
cosmos) are linked in indissoluble correlation
or symbiosis. Seen from the angle of this
conception, the radical separation or
opposition between transcendence and an
“immanent frame” seems far-fetched if not
simply unintelligible. It is fairly clear that
Panikkar could not or would not have written
a book titled A Secular Age with a focus on
immanentization. For one thing, the two
terms of the title for him are synonymous—
seeing that “age” is equivalent to the Latin
“saeculum.” More importantly, the divine (or
11
. Ibid., p. 19. In his stress on verticality, Taylor seems
to have been influenced by a certain “transcendentalist” strand in French postmodernism, manifest especially in the writings of the later Jacques Derrida (under
the influence of Emmanuel Levinas and his notion of
the radically “Other”). For a different, more “open”
conception of humanism compare, e.g., Jacques Maritain, Integral Humanism: Temporal and Spiritual Problems of a New Christendom, trans. Joseph W. Evans
(Notre Dame, IN: University of Notre Dame Press,
1973); and Martin Heidegger, “Letter on Humanism,” in
David F. Krell, ed., Martin Heidegger: Basic Writings
(New York: Harper & Row, 1977), pp. 189-242.
82
transcendent) in Panikkar’s view cannot be
divorced from the temporal (or “secular”)
without jeopardizing or destroying the
intimate divine-human relation and thereby
the mentioned triadic structure. The
distinctive and unconventional meaning of
secularism or secularity is manifest in a
number of his early writings which remain
important in the present context. Thus, his
book Worship and Secular Man (of 1973) put
forward this provocative thesis: “Only worship
can prevent secularization from becoming
inhuman, and only secularization can save
worship from being meaningless.” To which
he added this equally startling comment:
“Now, what is emerging in our days, and what
may be a ‘hapax phenomenon’, a unique
occurrence in the history of humankind, is—
paradoxically—not secularism, but the sacred
quality of secularism.”12
Panikkar has never abandoned this
provocative thesis; it still pervades powerfully
his later writings, including The Rhythm of
Being. As he notes in the Preface to that book
(written on Pentecost 2009), the original title
of his Gifford Lectures was “The Dwelling of
the Divine in the Contemporary World”—a
phrase surely not far removed from the
notion of sacred secularity. Although for
various reasons the original title was changed,
the “leading thread” of the book—he adds—
“continues to be the same.” What
characterizes this “leading thread,” despite
textual revisions, is the idea of a radical
“relationality” or “relativity” involving the
12
. Raimon Panikkar, Worship and Secular Man (Maryknoll, NY: Orbis Books, 1973), pp. 1-2, 10-13. Compare also the chapter “Rethinking Secularism—With
Raimon Panikkar,” in my Dialogue Among Civilizations:
Some Exemplary Voices (New York: Palgrave Macmillan
2002), pp. 185-200.
Raimon Panikkar Session - Fred Dallmayr
three basic dimensions of reality: cosmos
(nature), human beings, and God (or the
divine)—where each of these dimensions is
seen not as a static essence but as an active
and dynamic participant in the ongoing
transformation of reality or “Being.” As
Panikkar states, what he intends to convey in
his book is a new sense of “creatio continua”
in which each one of us, in St. Bonaventure’s
phrase, is a “co-creator.” A crucial feature of
the intended relationality is the close linkage
between the “temporal” and the “eternal,” or
between time and Being. “Time,” we read, “is
not an accident to life, or to Being . . . Each
existence is tempiternal . . . and with this
observation we have already reached our
topic of the ‘Rhythm of Being’, which is ever
old and ever new.” Instead of bogging down
in irremediable ruptures and dichotomies, this
rhythm proceeds in the modility of mediation
(utrum, both, as well as) and thus in “the
advaitic language.”13
Along with other ruptures and
dichotomies, The Rhythm of Being also
refuses to accept the split between the
“vertical” and “horizontal” dimensions of
reality. In fact, despite its basically
philosophical and meditative character, the
book elaborates more explicitly on presentday social-political ills than does the Canadian
political thinker. For Panikkar, dealing with
the “rhythm of Being” cannot be a mode of
escapism but involves a struggle about “the
very meaning” of life and reality—a struggle
which has to be attentive to all dimensions of
reality, even the least appealing. “In a world
of crisis, upheaval, and injustice,” he asks,
“can we disdainfully distance ourselves from
13
. Panikkar, The Rhythm of Being: The Gifford Lectures
(Maryknoll, NY: Orbis Books 2010), pp. xxvi-xxx, xxxii.
the plight of the immense majority of the
peoples of the world and dedicate ourselves
to ‘speculative’ and/or ‘theoretical’ issues?
Do we not thereby fall prey to the powers of
the status quo?” In language which becomes
ever more urgent and pleading, he continues:
Can we really do “business as usual” in a
world in which half of our fellow-beings
suffer from man-made causes? Is our
theory not already flawed by the praxis
from which it proceeds? Are we not
puppets in the hands of an oppressive
system, lackeys to the powers that be,
hypocrites who succumb to the allure
and flattery of money, prestige, and
honors? Is it not escapism to talk about
the Trinity while the world falls to pieces
and its people suffer all around us? . . .
Have we seen the constant terror under
which the “natives” and the “poor” are
forced to live? What do we really know
about the hundreds of thousands killed,
starved, tortured, and desapericidos, or
about the millions of displaced and
homeless people who have become the
statistical commonplace of the mass
media?14
For Panikkar, we cannot remain
bystanders in the affairs of the world, but
have to become involved—without engaging
in mindless or self-promoting activism. In a
disjointed and disoriented world, what is
needed above all is a genuine search for the
truth of Being and the meaning of life—which
basically involves a search for justice and the
14
. Ibid., pp. 3-4. As he adds somberly (p. 4): “Today’s
powers, though more anonymous and more diffused,
are quite as cruel and terrible as the worst monsters of
history. What good is a merely intellectual denunciation in countries where we can say anything we like because it is bound to remain ineffectual. . . . There is
little risk in denouncing provided we do not move a finger.”
83
Raimon Panikkar Session - Fred Dallmayr
“good life” (or the goodness of life). “We are
all co-responsible for the state of the world,”
Panikkar affirms. In the case of intellectuals or
philosophers, this responsibility entails that
they “ought to be incarnated in their own
times and have an exemplary function,” which
in turn means the obligation “to search for
truth (something that has saving power) and
not to chase after irrelevant verities.”
Genuine search truth or life, however,
proceeds from a lack or a perceived need
which provides the compelling motivation for
the quest: “Without this thirst for ‘living
waters’,” Panikkar writes, “there is no human
life, no dynamism, no change. Thirst comes
from lack of water.” On this level, we are not
dealing with epistemological, logical, or purely
academic questions. Quest for life and its
truth derives ultimately from “our existential
thirst for the reign of justice,” not from a
passing interest or curiosity: “We are dealing
with something that is more than an academic
challenge. It is a spiritual endeavor to live the
life that has been given us.”15
The quest for life and its meaning, in
Panikkar’s presentation, is not simply a
human initiative or an individual “project” (in
Sartre’s sense); nor is it an external destiny or
a fate imposed from on high. The reason is
that, in the pursuit of the quest, the human
seeker is steadily transformed, just as the goal
of the search is constantly reformulated or
refined. This is where Panikkar’s “holistic” or
non-dualistic approach comes into play, his
notion of a constantly evolving and interacting
15
. Ibid., pp. 4-5. In this context, Panikkar offers some
very instructive asides (p. 5): “Now the foremost way
to communicate life is to live it; but this life is neither
an exclusively public domain, nor merely private property. Neither withdrawing from the world nor submerging ourselves in it is the responsible human
attitude.”
84
triadic structure. As he writes: “I would like to
help awaken the dignity and responsibility of
the individual by providing a holistic vision,”
and this can only happen if, in addition to our
human freedom, we remain attentive to the
“freedom of Being on which our human and
cosmic dignity is grounded.” From a holistic
angle, the different elements of reality are not
isolated fragments but interrelated partners
in a symphony or symbiosis where they are
neither identical nor divorced. “Each entity,”
Panikkar states, “is not just a part, but an
image or icon of the Whole, or minimal and
imperfect as that image may be.” Holism thus
stands opposed to the Cartesian dualistic
(subject/object)
epistemology,
without
subscribing to a dialectical synthesis where
differences are “sublated” in a universal
(Hegelian) system. Importantly, holism does
not and cannot equal “totalism” or
“totalitarianism” because no one can have a
grasp or overview of the totality or the
“Whole.” “No single person,” we read, “can
reasonably claim to master a global point of
departure. No individual exhausts the totality
of possible approaches to the real.” For
Panikkar, the most adequate idiom in which
to articulate such holism is the Indian
language of Advaita Vedanta: “Advaita offers
the adequate approach . . . [because it] entails
a cordial order of intelligibility, of an
intellectus
that
does
not
proceed
dialectically.” Different from rationalistic
demonstration, the advaitic order is
“intrinsically pluralistic.”16
16
. Ibid., pp. 6-7, 17, 23-24. As he adds (p. 24): One
must “constantly be on guard against one of the most
insidious dangers that bedevils such endeavors: the totalitarian temptation. My attempt is holistic, not global; I am no offering a system.”
Raimon Panikkar Session - Fred Dallmayr
By overcoming Cartesian epistemology,
advaitic holism inaugurates a close relation
between human mind and reality, or (in
different language) between “thinking” and
“Being.” In this relation, thought not only
thinks about Being (as an external object), but
Being penetrates thinking as its animating
ground. As Panikkar states pointedly: “The
underlying problem is that of thinking and
Being.” What is conjured up by this problem is
the Vedantic conception of “atman-braham”
or else the Thomistic formula “anima
quodammodo omnia.” Another, more general
idiom is that of ontology. In Panikkar’s words:
“The consecrated word for what we were
pondering about the Whole is precisely
‘Being”—and we shall not avoid this word any
longer.” At this point, the text offers a
passage which is not only evocative of, but
directly congruent with Heideggerian
formulations. “Thinking ‘thinks Being’,” we
read. “Being begets thinking; one might even
risk saying: Being ‘beings thinking’” (in line
with Heidegger’s phrase that Being “calls
forth” thinking). “Thinking is such only,” the
passage continues, “if it is permeated by
Being. Thinking is an activity of Being. Being
thinks; otherwise thinking would be nothing.”
This does not mean, of course, that human
thinking can ever exhaust Being—which
would result in “totalism” or totalization.
Rather, thinking and Being are responsive to
each other in a rhythmic “complementarity”
or a spirited embrace:
The vision of the concrete in the Whole
and the Whole in the concrete is, in fact,
another way of saying that the
relationship is rhythmic. Rhythm is not an
‘eternal return’ in a static repetition . . .
[but] rather the vital circle in the dance
between the concrete and the Whole in
which the concrete takes an era-new
form of the Whole.17
For human beings, participation in this
dance means not only light-hearted
entertainment, but involvement in a
transformative
struggle
to
overcome
selfishness or possessive self-centeredness.
Panikkar speaks in this context of a
“purification of the heart” which is needed in
order to join the dance. He quotes at this
point the words of Hugo of St. Victor: “The
way to ascend to God is to descend into
oneself”; and also the parallel statement by
Richard of St. Victor: “Let man ascend through
himself above himself.” What is involved here
is not merely an epistemic principle, nor a
purely deontological duty, but “an ontological
requirement.” As Panikkar stresses, the issue
here is not esoteric nor a private whim but
simply this: that we shall not discover our real
situation, collectively as well as individually,
“if our hearts are not pure, if our lives are not
in harmony within ourselves, with our
surroundings, and ultimately with the
universe [Being] at large.” The text here adds
a passage that can serve as the passkey to
Panikkar’s entire vision: “Only when the heart
is pure are we in harmony with the real, in
tune with reality, able to hear its voice, detect
its dynamism, and truly ‘speak’ its truth,
having become adequate to the movement of
Being, the Rhythm of Being.” The passage
refers to the Chinese Chung Yung (in Ezra
Pound’s translation) saying: “Only the most
17
. Ibid., pp. 22, 32-33. As the text adds a bit later (p.
51): “Being is not a thing. There is nothing ‘outside’
Being. Hence, the Rhythm of Being can only express
the rhythm that Being itself is.” For Heidegger’s formulations see his “Letter on Humanism,” in David F. Koell,
ed., Martin Heidegger: Basic Writings (New York: Harper & Row, 1977), esp. pp. 235-236; and What is Called
Thinking? [rather: What Calls for Thinking?], trans.
Fred D. Wieck and J. Gleen Gray (New York: Harper &
Row, 1968).
85
Raimon Panikkar Session - Fred Dallmayr
absolute sincerity under heaven can effect
any change,” and adds: “The spiritual masters
of every age agree that only when the waters
of our spirit are tranquil can they reflect
reality without deforming it.”18
gods, men, and nature.” In more traditional
language, one might say that rhythm is “the
cosmotheandric order of the universe, the
perichoresis (circuminsessio, mutual indwelling) of the radical Trinity.”19
What becomes clear in this context is
that some of Panikkar’s key notions—like the
“cosmotheandric”
vision
or
“sacred
secularity”—are
not
simply
neutraldescriptive devices but are imbued with a
dynamic, transformative potency. As one
should note, however—and this is crucial—his
notions do not reflect a bland optimism or
trust in a “better future,” but are based on
“hope”: which is a hope “of the invisible,” a
hope for a promised possibility. With regard
to “sacred secularity,” this possibility is not an
empty pipe dream but is supported by a novel
phenomenon (a novum) in our time: “This
novum does not take refuge in the highest by
neglecting the lowest; it does not make a
separation by favoring the spiritual and
ignoring the material; it does not search out
eternity at the expense of temporality.”
Differently phrased: the novum consists in a
growing attentiveness to holism in lieu of the
customary polarities (of this world and the
other world, the inner and the outer, the
secular and the divine). A still further way to
express the novum is the growing awareness
of the “Rhythm of Being” and the growing
willingness to participate in that rhythm.
What is becoming manifest, we read, is that
“we all participate in Rhythm,” and that
“Rhythm is another name for Being and Being
is Trinity.” The last formulation refers again to
the triadic or “cosmotheandric” structure of
reality. For, Panikkar states, “rhythm is
intrinsically connected with any activity of the
As in the case of Taylor’s A Secular Age,
it cannot be my aim here to submit Panikkar’s
entire volume to reflective review and
scrutiny. A few additional points must suffice.
One point concerns the traditional conception
of
monotheism.
The
notion
of
“perichoresis”—coupled with the accent on
the “meta-transcendental” status of Being—
does not seem to accord well with
monotheistic “transcendence.” In fact,
Panikkar’s text subjects the conception to
strong critique. As he writes at one point: “I
suspect that the days of unqualified theisms
are not going to be bright.” What troubles
Panikkar, apart from philosophical considerations, is the implicit connection of
monotheism with a heteronomous command
structure (“God, King, President, Police”).
“The titles of King and Lord,” we read, “fit the
monotheistic God quite well, and conversely,
the human king could easily be the
representative of God, and his retinue a copy
of the heavenly hierarchies.” This is the gist of
“political theology” (so-called). To be sure,
traditional hierarchies no longer prevail—
despite recurrent attempts at constructing
“theocracies.” What is required in the context
18
. Ibid., pp. 34-35.
86
19
. Ibid., pp. 10, 36, 38-39, 42. Somewhat later (p. 52)
the text adds: “Rhythm is a meta-transcendental quality—that is, a property that belongs to every being as
Being. Rhythm adds nothing to Being, but only expresses a property of Being qua Being. If truth is considered a transcendental because it expresses Being as
intelligible, that is, in relation to the intellect, rhythm
belongs to Being considered not in relation to the
intelligence or the will, but in relation to its totality [or
Whole].” This view is said to be also in accord with
“the advaitic vision of the Rhythm of Being.”
Raimon Panikkar Session - Fred Dallmayr
of modern democracy is a radical rethinking
of the monotheistic command structure. In
Panikkar’s words: “Regardless of certain forms
of fundamentalism, both Christianity and
Judaism clearly show that human freedom
and love of neighbor belong to the kernel of
their message.” This means that any
“revealed” monotheism must ultimately
acknowledge its intrinsic reference to its
“human
reception”
(and
hence
to
“circuminsessio”). Differently phrased: Divine
revelation “has to fall on human grounds in
order to be a belief for humans.” This belief is
“a human experience, humanly interpreted,
and humanly received into the collective
consciousness of a culture at a given time.”
Summarizing his view, Panikkar writes:
My position . . . is neither naively
iconoclastic nor satisfied with a reformed
monotheism. It recognizes the valid
insight of belief in God, but at the same
time it acknowledges that God is not the
only symbol for that third dimension we
call the Divine, and it attempts to deepen
the human experience of the Divine by
formulating it more convincingly for our
times.20
In a central chapter of the book, titled
“The Dwelling of the Divine” (capturing the
originally intended title of the Gifford
Lectures), Panikkar returns to the central
meaning of the triadic structure understood
20
. Ibid., pp. 110, 128, 133-135. In an intriguing aside he
adds (p. 135): “The hypothesis I would advance is that
Western, mainly Christian and later Muslim monotheism, is a blend of biblical monotheism and the Hellenic mind represented mainly by Plotinus . . . Neither
Plato nor Aristotle . . . was a strict monothist.” For a
critique of (imperial-style) political theology see the
chapter “The Secular and the Sacred: Whither Political
Theology?,” in my Integral Pluralism: Beyond Culture
Wars (Lexington, KY: University of Kentucky Press,
2010) pp. 45-66.
as mutual in-dwelling. As he reaffirms, onesided theisms “no longer seem to be able to
satisfy the most profound urges of the
contemporary sensibilities.” What is coming
into view instead is “perichoresis” seen as
radical relationality where “everything is
permeated by everything else.” Seen from
this angle, “man is ‘more’ than just an
individual being, the Divine ‘different’ from a
Supreme Lord, and the world ‘other’ than raw
material to be plundered for utility or profit.”
This view can be grasped neither in the
language of transcendence nor that of
immanence, because “we cannot even think”
one without the other. Thus, where does the
Divine dwell? “I would say,” Panikkar states,
“that the space of man is in God in much the
same way as the space of God is in man.”
From this perspective, man and God are not
two separable, independent substances:
“There is no real two encompassing man and
God . . ., but they are not one either. Man and
God are neither one nor two.” This, again, is
the language of “adviatic intuition” (perhaps
of Heideggerian “Unterschied”). Advaita, we
are told here, does not simply mean
“monism,” but rather “the overcoming of
dualistic dialectics by means of introducing
love [or wisdom] at the ultimate level of
reality.” Regarding the trinitarian structure,
Panikkar takes pains to broaden the
conception beyond traditional Christian
theology. Both “esoteric Judaism and esoteric
Islam,” he notes, are familiar with the
threefold structure of the Divine. Thus, Philo
of Alexandria interpreted the vision of
Abraham and his three “visitors” in a
trinitarian fashion. The Muslim mystic Ibn
Arabi was even more explicit when he wrote:
“My beloved is three/-three yet only
one;/many things appear as three/which are
no more than one.” And the Chinese Taoist
87
Raimon Panikkar Session - Fred Dallmayr
Yang Hsuing explained the “great mystery” as
constituting simultaneously “the way of
Heaven, the way of Earth, and the way of
Man.”21
Toward the end of his book, Panikkar
returns to the relation of meditation and
praxis; of thinking and doing in a
transformative process. As he writes: “The
task of transforming the cosmos is not
achieved by a merely passive attitude nor by
sheer activism.” What is needed is a “synergy”
in which human beings are seen neither as
designing engineers nor as victims: “The world
does not ‘go’ independently from us. We are
also active factors in the destiny of the
cosmos. Otherwise, discourse about the
dignity of man, his ‘divinization’ or divine
character is an illusion.” Seen from an advaitic
angle, “man” is a “microcosmos” and even a
“microtheos.” Hence, human participation in
the rhythm of the cosmos means “a sharing in
the divine dimension” or what is sometimes
called “salvation history.” Participation in this
dynamism is indeed a striving for a “better
world”—but a striving where the latter is
“neither the dream of an earthly paradise nor
[a retreat into] the inner self alone,” but
rather a struggle for “a world with less hatred
and more love, with less violence and more
justice.” Fro Panikkar, this struggle is urgent
because the situation of our world today is
“tragic” and “serious enough to call for radical
measures.” Ultimately, the struggle involves a
quest for the “meaning of Life” which will
never be found through selfish exploits or
violent conquest, but only “in reaching that
fullness of Life to which [advaitic]
contemplation is the way.” As Panikkar finally
21
. The Rhythm of Being, pp. 171-172, 174, 179 216,
230.
88
pleads: “Plenitude, happiness, creativity,
freedom, well-being, achievement etc. should
not be given up but, on the contrary, should
be enhanced by this transformative passage”
from man-made history to a triadic
redemptive story.22
Concluding Comments
The passage just cited highlights an
important difference between Taylor and
Panikkar. Basically, The Rhythm of Being is an
affirmation and celebration of “life” in its
deeper advaitic meaning. Panikkar uses as
equivalents the terms “plenitude, happiness,
creativity, freedom, well-being”; another
customary term is “flourishing” (often used to
translate Aristotle’s endaimonia). At another
point, he introduces the word “life” “at the
level of Being, as a human experience of the
Whole”; the term here means “not only
anima, animal life, but physis, natura,
prakriti” referring to “reality as a Whole.” On
this issue, A Secular Age appears astonishingly
(and unduly) dismissive. As Taylor notes in his
Introduction, in modernity “we have moved
from a world in which the place of fullness
was understood as unproblemtically outside
or ‘beyond’ human life, to a conflicted age in
which this construal is challenged by others
which place it . . . ‘within’ human life.” For
Taylor (as mentioned before), the basic
question raised by the modern secular age is
“whether people [still] recognize something
beyond or transcendent to their lives,” that is,
whether their highest aim is “serving a good
which is beyond, in the sense of independent
22
. Ibid., pp. 350-351, 359. As he asks dramatically (p.
358): “Who or what will put a halt to the lethal course
of technocracy? More concretely: who will control
armaments, polluting industries, cancerous consumerism, and the like? Who will put an end to the unbridled tyranny of money?”
Raimon Panikkar Session - Fred Dallmayr
of human flourishing” or involving “something
other than human flourishing?” The truly
believing or devout person is said to be
marked by readiness “to make a profound
inner break with the goals of flourishing in
their own case”; unwillingness to do so is
claimed to be the hallmark of “self-sufficient
humanism.” In sum: “A secular age is one in
which the eclipse of all goals beyond human
flourish becomes conceivable.”23
Taylor’s comments here are puzzling—
and also disturbing. They are disturbing in a
time when many, presumably religious people
are ready to throw away their lives in the
hope of gaining quick access to the “beyond.”
They are puzzling by jeopardizing the very
meaning of faith. For most believers, salvation
(or “moksha”) signifies precisely the highest
level of flourishing and the ultimate
fulfillment of life. What, then, does it mean
for believers to seeks something “outside or
‘beyond’ human life,” or something
“transcendent to their lives”? Commonly, the
antithesis of life is said to be death. Is God
(the monotheistic God) then a God of death
or of the dead? Clearly, this cannot be the
case if we listen to Isaiah’s words: “The dead
shall live, their bodies shall rise” (Isaiah
26:19). It becomes even less plausible if we
recall Jesus’s provocative saying: “Follow me,
and leave the dead to bury their dead”
(Matthew 8:22), or his admonition that “the
Father raises the dead and gives them life”
(John 5:21). As it happens, Taylor himself
waivers on this point and has to resort to
ambivalent language.
“There remains a
fundamental tension in Christianity,” he
writes. “Flourishing is good, nevertheless
seeking it is not our ultimate goal. But even
when we renounce it, we re-affirm it.” And he
adds: “The injunction ‘Thy will be done’ is not
equivalent to ‘Let humans flourish’, even
though we know that God wills human
flourishing.”24
Rather than pursuing the contrast
between the two thinkers, however, I want to
emphasize here a commonality. While
differing in many ways, neither Taylor nor
Panikkar shows sympathy for theocracy or for
any kind of religious triumphalism. Being
turned off by the megalomania and massive
power plays of our world, both thinkers are
sensitive to new modes of religiosity—quite
outside impressive spectacles and miraculous
events. As it seems to me, one of the
distinctive features of are age is not so much
the “death of God” or the lack of faith, but
rather the withdrawal and sheltering of the
divine in recessed, inconspicuous phenomena
of ordinary life. The Indian novelist Arundhati
Roy has caught this aspect in her book The
God of Small Things. Inspired by the Indian
text, I tried to capture the sense of (what I
called) “small wonder” in one of my earlier
writings. Here are some lines:
For too long, I fear, the divine has been
usurped and co-opted by powerful elites
for there own purposes. . . . For too long
in human history the divine has been
nailed to the cross of worldly power.
However, in recent times, there are signs
that the old alliance may be ending and
that religious faith may begin to liberate
itself from the chains of worldly
manipulation. Exiting from the palaces
and mansions of the powerful, faith—
joined by philosophical wisdom—is
24
23
. Ibid., pp. 270-271; A Secular Age, pp. 15-17, 19.
. A Secular Age, pp. 17-18. In the same context, Taylor makes some references to Buddhism—which, likewise, remain ambivalent and deeply contestable.
89
Raimon Panikkar Session - Fred Dallmayr
beginning
to
take
shelter
in
inconspicuous smallness, in those
recesses of ordinary life unavailable to
co-optation.25
“But where there is danger, a saving grace
also grows.”26
The change in religious sensibility is
vividly displayed in modern art, especially in
modern and contemporary painting. As we
know, in medieval art the presence of the
divine or the sacred was expressed
symbolically by a golden background and the
haloes surrounding sacred figures. Modern art
cannot honestly, or without caricature,
imitate or replicate this mode of expression.
This does not mean that the sense of
sacredness has been lost or abandoned. As it
seems to me, that sense resurfaces in less
obvious, more subdued ways: for example, in
the miniature paintings of Paul Klee or else in
a still life by Paul Cezanne. Viewed from this
angle, modern secularism has a recessed
meaning which is actually the very reverse of
the popular “secularization thesis” (meaning
the triumph of this-worldiness). he French
philosopher
Maurice
Merleau-Ponty—a
strong admirier of Cezanne—had a phrase for
it: “the invisible of the visible.” Seen against
this background, the relation between the
two books reviewed here—A Secular Age and
The Rhythm of Being—acquires a new
meaning. Perhaps, one might conjecture, the
“secular age,” as portrayed by Taylor,
functioned and functions as wholesome
conduit, a clearing agent, to guide a more
mature and sober humanity to the
appreciation of the “rhythm of Being.” If this
is so (at least in approximation), then it may
be propitious to remember Hölderlin’s lines:
Q1): Professor Dallmayr, could you
please tell me which is, in your opinion, the
best translation of the vedantic term
“advaita”, which is at the basis of Panikkar’s
philosophy: “non-duality” or “a-duality”?
Perhaps the meaning is the same?
25
. Fred Dallmayr, Small Wonder: Global Power and Its
Discontents (Lanham, MD: Rowman & Littlefield,
2005), p. 4. See also Arundhati Roy, The God of Small
Things (New York: Random House, 1997).
90
QUESTIONS to Fred Dallmayr
Q2): Vorrei dare un piccolo contributo
consapevole che mi pongo nell’ottica del e/e ,
come dire, un’altra finestra che si può aprire
rispetto a quelle che stiamo ascoltando, ed è
questa: quando si parla dell’autonomia del
soggetto, questo soggetto occidentale che
sembra nascere dal nulla e quando si
sottolinea questo concetto dell’interdipendenza come condizione reale di tutti noi, a
me sembra e questa è la mia finestra, che si
possa aggiungere un altro anello di questa
catena e che è quello che ci riconduce alla
negazione della nostra origine. Tutti nasciamo
da madre, da corpo di madre. Questo
soggetto occidentale che pretende invece di
nascere dal nulla dimenticando la sua origine
da corpo di madre e dunque comportando
conseguentemente questo “slegame” con la
madre terra, per cui la terra diventa una
macchina e non più un organismo che ci nutre
e ci consente te di vivere come un’ ennesima
26
. This is a free translation of Hölderlin’s lines: “Wo
aber Gefahr ist, wächst das Rettende auch.” See Friedrich Hölderlin, “Patmos,” in Poems and Fragments,
trans. Michael Hamburger (Ann Arbor: University of
Michigan Press, 1966), pp. 462-463. Compare in this
context Maurice Merleau-Ponty, The Visible and the Invisible, Followed by Working Notes, ed. Claude Lefort,
trans. Alphonso Lingis (Evanston, IL: Northwestern
University Press, 1968); also his “Cezanne’s Doubt,” in
Sense and Non-Sense, trans. Hubert L. and Patricia A.
Dreyfus (Evanston: IL: Northwestern University Press,
1964), pp. 9-25.
Raimon Panikkar Session - Fred Dallmayr
risorsa alla quale si è fatto riferimento fino ad
oggi in maniera indiscriminata, mi sembra che
questo contributo del pensiero femminile
…(sono stata contenta di queste citazioni di
un pensiero femminile che esiste e che è
ricchissimo ma che purtroppo sembra
camminare su percorsi separati, anche questo
credo volesse dire Panikkar quando richiama
all’importanza ed alla fecondità di una
integrazione anche naturalmente nei luoghi
maschili di questo pensiero e quindi andare
anche fino in fondo… Quando si dice non è
uno né due: ho pensato alla gravidanza
All’esperienza della gravidanza in cui c’è un
altro essere che non è separato ma nemmeno
è insieme, la stessa cosa della madre .
Analizzare questa fenomenologia oppure
ancora analizzare quel rapporto che sappiamo
solo definire con la parola dipendenza della
madre che educa un bambino. Ma non è così ,
perché una madre educa ad essere autonomi
e quindi una dipendenza che crea
un’autonomia
che
dovrebbe
creare
realizzazione di sé. Non esiste una parola in
italiano che esprima quella particolare forma
di dipendenza che non è solo dipendenza del
bambino/a dalla madre. Poiché manca la
parola significa che è un’impensabile della
nostra cultura, qualcosa che non si vuole
vedere. (Maria Esther Mastrogiovanni)
Q3): Al Prof.Dallmayr chiederei di
tornare sulla relazione Heidegger-Panikkar,
che mi sembra molto interessante e che
potrebbe portare effettivamente anche a
delle nuove piste da tracciare. In che senso,
diceva prima, che non si può capire Panikkar
in tutto o in parte, senza passare attraverso le
esperienze di Heidegger? Questo è un tema
secondo me
molto importante perché
Heidegger è
presente implicitamente o
esplicitamente in molti grandi pensatori
contemporanei, morti da poco come Deridda
o viventi come Nancy e che comunque ha
segnato sia per i suoi detrattori che per i suoi
estimatori un punto decisivo. (Prof. Marcello
Ghilardi)
A1): I am not sure I can “answer” all
your questions. I just offer reflections on
them. Regarding “advaita”: It is very difficult
to render the notion in a Western language.
Sometimes it is translated as “non-duality”.
The later Panikkar preferred “a-duality”. Nonduality might imply that there is no difference
at all. A-duality has the advantage of being
closer to the Sanskrit “a-dvaita” which does
not simply mean negation. But a-duality in
English also might suggest negation. For
example, an a-theist is one who negates
theism. I have found it helpful to speak in
terms of “difference,” in the sense that
“advaita” implies difference but not
separation or negation. “Difference” here
suggests a kind of relationship which is not a
unity or synthesis, but also not a dichotomy or
polarity. Hence, neither unity nor duality.
There are famous Indian schools of
philosophy, all related to Vedanta (the
interpretation of the Vedas). There is Advaita
Vedanta associated with Shankara. But there
is also a Dvaita Vedanta associated with
Madva Acharya; and there is a “modified
Advaita” associated with Ramanuja. These
versions all deal with the relation between
God and humans, God and the world. So,
“advaita” is hard to translate. One should just
keep in mind what it means: not sameness or
identity, but also not radical division. This is
why I say it is similar to what Derrida called
“différance”, or Heidegger “Unterschied.”
Just a few words also on “space”: there
is a misleading view that space means a
91
Raimon Panikkar Session - Fred Dallmayr
“container”. Thus, one might think that we
are in this room like in a container box. Thus,
“space” might seem to be something outside
us or containing us. Here, it is good to come
back to Heidegger. When he says that human
Dasein means “being-in-the-world”, he does
not mean that we are in a container called
“world”. Rather, world is constitutive of our
being as humans. Hence, in a sense, world is
also “inside” us. World here also means
“space”. In the very first pages of Being and
Time, there is a radical departure from
Cartesian philosophy, the separation between
cogito and external world. This is also a
departure from the notion of “space” that
continues from Descartes to Kant. For
Heidegger, world and space are constitutive
of us. (Space in Sanskirt is akasha; Panikkar
uses that term in the Heideggerian sense.)
A2): With regard to the question of the
“mother”: I think the question of “mater” and
the “maternal” is crucial. And “maternal” is
related to “material” and thus to “matter.”
We know that Panikkar puts great emphasis
on “incarnation”, on the indwelling of spirit in
matter. In this sense, matter definitely
“matters.” The maternal-material here is not
something external or alien to us, but
something that we are: we are also maternal.
We are not only of paternal, but of maternal
origin. Clearly, this is a crucial feature of The
Rhythm of Being: the maternal aspect. Being
is not a masculine concept. Panikkar links the
masculine aspect to the idea of monotheism
where the Father God dominates everything.
In a provocative way, he compares the
omnipotence of the Father God with the
“leader”, the Duce, the “Führer” (maybe
George W. Bush etc.). So the maternal
emphasis implies a rebellion against
92
machismo, against imperialism and global
hegemony.
A3): The question “Why Heidegger?” is
quite appropriate. To be sure, one can
approach Panikkar in many different ways.
You can approach him as a literary figure; you
can also approach him as a somewhat exotic
religious teacher, perhaps as a “guru”. But if
you really want to understand him and grasp
what he says or writes, you have to follow his
thought philosophically. And here, the
philosophy of Heidegger can serve as a good
gateway or entry wedge. One might perhaps
also use other thinkers, like Wittgenstein or
Paul Tillich or Paul Ricoeur. But Panikkar
himself very often refers to Heidegger; of
course, he also reformulates, revises and
rethinks the letter’s thought. A good example
is the “rhythm of Being” which is evocative of
Being and Time. Also the assertion that
“Being thinks thinking” (or prompts thinking
to think). The statement sounds strange,
perhaps even mystical. If one wishes, one can
us it as a mantra or incantation. But if one
really wishes to understand it, the one might
want to look at the place where Panikkar
himself looked. And this is one of Heidegger’s
texts titled Was keisst Denken? The title is
often translated as “What is Called
Thinking?”—a trite question. But actually
what the text wants to interrogate is this:
What calls upon thinking? To what does
thinking respond? And this leads us to
Heidegger’s suggestion that thinking responds
to Being which calls upon it to think. This is
surely more than a mantra. (Unfortunately
today, many people shy away from
Heidegger’s
work
out
of
“political
correctness”. In this respect, Panikkar was
surely not politically correct.
Raimon Panikkar Session - Fulvio C. Manara
LA FILOSOFIA “INTERCULTURALE”.
Note e riflessioni
Fulvio C. Manara
Fulvio C. Manara
(video)
L'epoca delle riforme è
già passata. Ora ci vuole
una trasformazione,
una metamorfosi. (…)
realizzare in modo nuovo
*
l'esperienza umana .
Vi ringrazio prima di tutto per la
possibilità concessami di prendere parte a
questo evento, che l'Associazione Interculturale ha saggiamente ed efficacemente
sollecitato e messo in opera, e poter così
incontrare amici e continuare un dialogo che
ha radici ormai lontane. Radici lontane —
radici sulle quali ancora viviamo e poggiamo,
per fortuna, nel senso che sono divenute un
vissuto e una storia che abbiamo in parte
condiviso.
In questo intervento1, dopo una breve
premessa, vorrei muovermi attorno a tre
direttrici, che sono le seguenti: a) una
ricomprensione esperienziale della filosofia;
b) un oltrepassamento della idea della
filosofia comparativa, nell'esercizio del
“colligite fragmenta” e nel contempo nella
scoperta del pluralismo della verità; c) la
* Raimon Panikkar, L'esperienza filosofica dell'India,
Assisi, Cittadella, 2000, p. 21.
1 Conservo qui il registro, e, con poche modifiche e
alcune aggiunte e integrazioni, la struttura e la sequenza dell'esposizione orale.
riscoperta della natura “interculturale” di
alcune pratiche filosofiche (se non di tutte), e
il richiamo alla pratica del dialogo dialogale,
che ricomprendo e considero a partire dalla
pratica della “comunità di ricerca filosofica”.
Parlo ovviamente dando per acquisita
una lettura, se non un ascolto complesso e
critico dell'opera di Raimon Panikkar, che ci ha
detto: «La filosofia interculturale appare come
una epifania di speranza» 2.
Se così si può dire, affidiamoci a questa
epifania, prendiamola sul serio, mettiamoci
anche in gioco nel cercare di comprendere di
che opera si tratta e che cosa ci chiede, non
tanto in termini di “fare”, e men che meno di
quel fare che è semplice “teorizzare”, quanto
in termini di un'opera, di una pratica,
letteralmente, di una esperienza umana
integrale, quindi nei termini di un essere, di
un “esserci”.
2 Raimon Panikkar, Pace e interculturalità. Una
riflessione filosofica, Milano, Jaca Book, 2001, p. 139.
93
Raimon Panikkar Session - Fulvio C. Manara
Prendendo le mosse da un ascolto di
Panikkar stesso, vorrei proporvi di ascoltare
insieme un brano di una intervista a Panikkar,
l'unico che per ora appare nel sito ufficiale:
l'intervista in cui egli ci suggerisce la ben nota
“metafora della finestra”.
«Una delle metafore cui spesso ricorro è
quella della finestra. Noi tutti vediamo il
mondo dal nostro particolare punto di vista:
vediamo il mondo attraverso una finestra.
Due osservazioni. Prima: più pulita è la
finestra meno vedo la finestra e il vetro e
più sono in sintonia e amo ciò che vedo. Io
non vedo la mia finestra: vedo attraverso la
finestra. Ho bisogno di qualcuno che mi
dica: “vedi attraverso una finestra”, ma
allora anch'io posso dire: “anche tu vedi
attraverso una finestra” e allora possiamo
scambiarci le nostre osservazioni.
Va bene. Abbiamo bisogno l'uno dell'altro.
Ma c'è un'altra cosa circa la metafora della
finestra. Io vedo attraverso la finestra e non
posso dire che non vedo ciò che vedo
attraverso la mia finestra. Io non vedo
attraverso la finestra del mio vicino, ma se
amo il mio prossimo — il che penso non sia
male — allora ascolterò la descrizione di ciò
che egli vede, e dirò: io non vedo la stessa
cosa perché vedo attraverso la mia finestra
ma sento che tu mi dici che c'è dell'altro.
Scopro allora due cose: che l'altro, il mio
vicino, non vede lo stesso mondo che vedo
io. Ma scopro che anch'io non vedo tutto il
mondo perché a meno che lui sia pazzo e io
un fanatico, sento — e ricordiamo che san
Paolo dice che la fede viene dall'ascolto —
sento l'altro che mi dice qualcosa sul mondo
o sulla realtà che lui vede che io non so.
Allora scopro che il mondo è molto più bello
di quanto pensassi. Credevo che la mia vista
abbracciasse tutto ma ora tu mi dici che c'è
94
dell'altro, che può piacermi o meno, ma che
è un arricchimento, una sfida. E qui
comincia il dialogo intrareligioso: tu dici ciò
che vedi, ciò che credi, ciò che sperimenti e
nello stesso tempo ascolti l'altro che ti
racconta altre storie, altre credenze, altre
esperienze. E così, dialoghiamo» 3.
In realtà, vorrei suggerirvi come in
queste parole non si comprende ed
esemplifica solo l'inizio del dialogo
3 «One of the metaphors I use is that we are all seeing
the world from our particular point of view. We see the
world through a window. And here I say two things:
first, the more cleaner the window is, the less I see the
window, and the glass, and the more I am in touch and
in love with what I see. So, I don't see my window, I see
through the window. And I need my fellow, who tells
me: Look here, you're looking through the window! But
than I have to tell him: Sorry, you're looking too
through the window! And then we compare notes...
And in great part we see the same landscape, but
perhaps we see different way also. And If I say, no no I
don't like to see that... All right... So, we need each
other. But there is another thing, about the matter of
the window. I see through my window, and I cannot say
that I do not see what I see through my window. I
dont's see through the window of my neighbour. But, if
I love my neighbour — which I think is not bad — then I
will have to hear the description of what my neighbour
see, and I would tell, Sorry, I don't see that, cause I see
through my window, but I hear you telling me
something else. Well. What do I discover? I discover
two things: I discover that the other, my neighbour,
doesn't see the same world as I see. But I would also
discover I don't see the whole world, because, unless
he is a fool and I'm a fanatic, or I haven't heard him, I
hear — and you remember that Saint Paul says that
faith comes from hearing — I hear the other telling me
something about the world or reality about what he or
she sees through the window, that I don't. And then
what I say? Well, than the world is much nicer than I
thought! I thought I was seeing the whole film picture,
and you are telling me there are other things as well.
Well I don't like more, I like better, is enrichment, is a
challenge. And here begins the interreligious dialogue.
You say what you hear, you say what you believe, you
say your experience, and arrange in the same time to
hear the other telling other narratives, other believes,
other experiences. And than, we dialogue». Raimon
Panikkar, Estratto di una intervista visibile in
http://www.raimon-panikkar.org/italiano/filmati.html.
Raimon Panikkar Session - Fulvio C. Manara
intrareligioso/interreligioso, o di qualsiasi
dialogo inter/intra-umano. Con queste parole
si mostra altrettanto bene come comincia
anche la ricerca filosofica stessa. E, in ultima
analisi, sosterrei che la filosofia, se praticata in
questo senso, è essa stessa intrinsecamente
interculturale (o inter-intra-culturale)
Una ricomprensione della filosofia
Non penso sia utile interrogarsi tanto sul
rapporto tra la filosofia interculturale e
l'ecosofia, prese come se fossero due realtà
distinguibili.
Pensando a queste questioni in questi
giorni mi è venuto in mente un neologismo.
Direi che potremmo comprendere di che cosa
si parla se utilizziamo la parola (anzi, tre), che
invento, “econoia”, “econoesis”, “econoetica”.
Raimon Panikkar spesso ci ha condotto a
riflettere sulla connessione intima tra
l'esperienza della filosofia e la metanoia.
Suggerirei di non dimenticare che questa
metanoia non consiste univocamente in un
“oltrepassamento” del “nous”. Deve infatti
contemporaneamente consistere in un
“trascendimento” nel senso dell'andare-al-dilà e in un “trascendimento” nel senso dello
“scendere tra” — tra-scendere 4. Spesso
abbiamo parlato di un “attraversamento” del
logos: qui proporrei, in aggiunta, questo
esercizio del pensare come un “abitare” il
nous (o lasciare che il nous ci attraversi, che è
lo stesso). Ecco quindi l'espressione
“econoia”, sorella gemella e advaiticamente
4 E questo, evidentemente, complica il nostro
intendere, perché mostra che esso inevitabilmente è
anche un fra-intendere.
inseparabile dalla espressione “metanoia”.
La filosofia “interculturale”, se qualcosa
di corrispondente a questa espressione si può
dare, potrebbe essere intesa proprio come
questa stessa pratica advaitica. La filosofia
stessa in sé e per sé, potrebbe essere questa
pratica radicale.
Da questo punto di vista, si può dire che
essa è ancora tutta da comprendere. E non
penso dobbiamo illuderci che si possa
realizzare. Spesso nei suoi scritti Panikkar ci
suggerisce che non possiamo pensare ad una
“transculturalità” 5. Ci è richiesto piuttosto di
imparare ad abitare altrimenti le culture (le
nostre e le altre), la nostra dimensione
culturale in modo nuovo, trasformando il
nostro vivere la cultura. La filosofia
“interculturale” è una attività paradossale,
come qualcosa che si deve imparare sempre
da capo. È noto che Panikkar inventa e spesso
richiama, per definirla, l'espressione “filosofia
imparativa” 6. Una vera e propria e
permanente “dinamica del provvisorio” 7.
5 «Nessuno può scavalcare la propria ombra. Non c'è
una prospettiva umana a 360 gradi, e possiamo
renderci conto che vediamo il mondo dalla nostra
finestra e che proprio il relativizzare i nostri punti di
vista costituisce la via per poter accogliere i racconti di
coloro che guardano il mondo da altre finestre», R.
Panikkar, L'esperienza..., cit., p. 41.
6 Ivi, p. 66.
7 Una pratica semplicemente comparativa, afferma
sempre Panikkar, incappa in un circolo ermeneutico
“vizioso” dal quale si può uscire se non con un dialogo
dialogale, cfr. ivi, pp.65-66. Sul tema “filosofia
interculturale” tra filosofia comparata e altre nuove
direzioni proposte, in questi ultimi anni, si possono
vedere anche: Fritz G. Wallner – Florian Schmidsberger
– Franz Martin Wimmer, Intercultural Philosophy. New
Aspects and Methods,
Peter Lang, 2010; A.
Campodonico – M. S. Vaccarezza, Gli altri in noi.
Filosofia dell'interculturalità, Rubbettino, SoveriaMannelli, 2009; Per una filosofia interculturale, a c. di
95
Raimon Panikkar Session - Fulvio C. Manara
Nella nostra tradizione occidentale,
spesso la filosofia ingenuamente ha pensato
di poter realizzare in qualche modo un
“prodotto” schiettamente transculturale, ha
pensato quindi di poter definire, di poter
identificare un orizzonte che uscisse, come
dire, dalla dimensione culturale e relativa e
attingesse all'universale, all'assoluto, e lo
potesse sistematizzare, lo potesse anche
dominare, controllare. Una ingenuità: non
può esistere una transculturalità, quindi una
filosofia “transculturale”. «Non c'è», dice
Panikkar, «una terra di nessuno in questa
terra di tutti» 8.
L'auspicio allora può essere che in
questa “terra di tutti” possiamo riscoprire una
pratica forse antica quanto l'essere umano
stesso ma non sempre portata alla coscienza
ed alla consapevolezza. Il mio intento è quello
di riflettere sulla pratica, sulle pratiche,
perché penso che non sia tanto il contenuto il
problema della filosofia interculturale, quanto
il processo, che dobbiamo incominciare a
comprendere. Ciò dipende, ovviamente, da
una ricomprensione della filosofia.
Abbiamo
scoperto
in
effetti
che
G. Pasqualotto, Mimesis, Milano, 2008; Vie per
un'estetica interculturale, a cura di M. Ghilardi,
Mimesis, Milano, 2008; Raoul Fornet-Betancourt,
Trasformazione
interculturale
della
filosofia,
Dehoniana- Pardes Edizioni, Bologna, 2006; Giangiorgio
Pasqualotto, East & West. Identità e dialogo
interculturale, Marsilio, Venezia, 2003; Ram Adhar Mall,
Intercultural Philosophy, Rowman & Littlefield Pub.,
Lanham-Boulder-NewYork- Boston, 2000; Angelo
Campodonico, Etica della ragione. La filosofia
dell'uomo tra nichilismo e confronto interculturale, Jaca
Book, Milano, 2000. Si tenga presente inoltre la rivista
InterCulture, versione italiana della pubblicazione
dell'Istituto Interculturale di Montreal, edita da Città
Aperta.
8 R. Panikkar, L'esperienza filosofica..., cit., p. 10.
96
neanche la ragione è transculturale. Ci
ripetiamo, quasi ossessivamente, che non è
possibile trascendere i punti di vista, e trovare
un punto di vista di tutti i punti di vista, o il
sistema dei sistemi, come pensava Hegel. Ma
la pratica filosofica, intesa nella sua nuda
essenzialità, può essere forse scoperta (o
riscoperta) come un invariante culturale?
In un testo di Panikkar che è la
Prefazione all'opera L'esperienza filosofica
dell'India, che lui intitola “Karma-gnosis” 9, ci
provoca a cogliere questa relazione advaita
tra due prospettive, quella pratica, che
sarebbe identificata dall'espressione “karma”,
e quella teoretica, che sarebbe identificata
nell'espressione “gnosis”.
In questo testo viene ripreso l'etimo
della parola “filosofia”, perché questa parola
non ha un etimo univoco e monistico, mentre
nella nostra tradizione abbiamo ricordato e
tramandato, in grande prevalenza, solo uno
dei significati dell'etimo della parola
“filosofia”, che è invece parola non solo
composta, ma complessa, plurale, o almeno
duale. Normalmente, per tradizione, diciamo
tutti che la filosofia è “l'amore della
sapienza”: così facendo in realtà ci muoviamo
in una direzione esattamente opposta rispetto
a quello che avviene per altri termini analoghi,
come ad esempio “biologia”, che vuol dire
“discorso sul bios”. Quando diciamo
“filosofia” dovremmo intendere piuttosto
“saggezza dell'amore”, che è l'etimo
“dimenticato” (e ripreso oggi nel mondo delle
pratiche filosofiche) 10.
9 R. Panikkar, L'esperienza..., cit. pp. 9-22.
10 A proposito, tra altri autori che hanno sottolineato
Raimon Panikkar Session - Fulvio C. Manara
«Con filosofia intendo ciò che dovremo
ancora dire, infatti probabilmente non
abbiamo un altro e migliore nome in
Occidente per esprimere non solo l'amore
verso la sapienza, ma pure la sapienza
dell'amore e quella attività mediante cui
l'uomo cerca di dare senso alla propria vita
e all'intero universo» 11.
In realtà nella tradizione filosofica
occidentale questa maniera di intendere la
filosofia è ben presente, anche se
tendenzialmente marginalizzata o anche
rimossa. Si pensi ad esempio al testo
celeberrimo della Lettera VII di Platone, in cui
si legge:
«Non è, questa mia, una scienza come le
altre: essa non si può in alcun modo
comunicare, ma come fiamma s'accende da
fuoco che balza; nasce d'improvviso
nell'anima dopo un lungo periodo di
discussioni sull'argomento e una vita vissuta
in comune» 12.
Questa “scienza” non nasce solo dal
lavorare faticosamente sullo scontro dei
concetti, in un dialogo dialettico, ma esige il
vivere insieme e insieme “esercitare” dialogo
e pensiero, 13. È determinante anche quel
la “riscoperta” di questo “etimo dimenticato” nel corso
del novecento (Lanza del Vasto, Levinas, ecc.), il rinvio
d'obbligo è ora a Luce Irigaray, La via dell'amore,
Torino, Bollati Boringhieri, 2008: passim, ma si v.
soprattutto l'Introduzione, pp. 7-14.
11 R. Panikkar, L'esperienza..., cit. p. 17.
12 Platone, Lettera VII, 341c-d, in Opere complete, vol.
VIII, Bari, Laterza, 1984, p. 44. Corsivo mio, ovviamente.
13 A proposito della presenza “originaria” in Socrate di
un atteggiamento simile, centrato sul “mettere alla
prova” il logos (manthanein ta legomena, o exetazein
ton logon), che è tutt'altro rispetto al fare «della
conoscenza e del possesso assoluto della verità la meta
della critica e dell'uso della ragione» si v. il bel saggio di
Gabriele Giannantoni, Socrate, Roma, Istituto della
Enciclopedia Italiana, 1993, in part. Il cap. VI, pp. 62-63
“suzen” spesso dimenticato, quel “vivere
insieme” e dal praticare insieme nella vita le
pratiche dialogiche, da cui scaturisce una
saggezza, da cui scaturisce una comprensione
di sé e dell'altro, del mondo.
Anche quando si menziona e si enfatizza
il sumphilosophein, non sempre viene
debitamente tenuto conto di questa
dimensione di integrale esperienza di vita
comune e quindi di costituzione di “comunità”
come condizione determinante (e complessa)
della pratica filosofica stessa, la quale viene
quasi sempre intesa come un “confilosofare”,
ma pensato (e agito) come semplice pratica
particolare della dialettica del gioco sulle idee,
sul mondo puramente centrato sull'oggetto su
cui si parla 14.
Nella intervista che abbiamo sentito, la
raccomandazione panikkariana, in un inciso, è
molto significativa, quando, a proposito
dell'amore dell'altro, soggiunge “penso che
non sia poi una cosa malvagia”. Direi di più: è
la condizione costitutiva dell'esperienza della
comunità filosofica.
E Panikkar stesso mostra che si tratta di
una trasformazione, quando dice che il sapere
è più del conoscere e il conoscere è più che
calcolare 15. Questo sapere, che nasce dalla
pratica della relazione, della relazione
amicale, della relazione amorosa, da un
contagio amoroso, questa sapienza che nasce
in questo modo consiste in un “assaporare”:
e 66.
14 Si v. ad esempio Enrico Berti, Sumphilosophein. La
vita nell'accademia di Platone, Laterza, Bari, 2010, in
part. alle pp. VII-IX, dove si vede appunto che dal suzen,
pur esplicitamente richiamato, l'accento si sposta
subito sulla prospettiva tradizionale.
15 Cfr. R. Panikkar, L'esperienza..., cit., p. 13.
97
Raimon Panikkar Session - Fulvio C. Manara
questo “contagio” è esso stesso una nuova
forma dell'amore.
La conoscenza autentica, in questo
senso, è un continuo nascere 16, ed è evidente
la connessione interessantissima e profonda
con l'idea di Maria Zambrano del “desnacer”.
Voi sapete che uno dei maestri di Maria
Zambrano, Xavier Zubiri, è anche venuto in
diretto e stretto contatto con Raimon
Panikkar. In ogni caso, un “desnacer”, un
“disnascere” che non è un nuovo nascere, il
quale sarebbe impossibile, perché non si
nasce una seconda volta, ma è un rimettere al
mondo il mondo che noi stessi siamo, e di cui
siamo parte costitutiva, con un'opera ed un
processo continui.
«Il mondo del pensiero non cessa di
appartenere alla vita», il «luogo in cui si nasce
e si disnasce (…) è il più proprio al pensiero
filosofico» 17, scrive la Zambrano, e:
«Tutto il vissuto, la vita intera, sarebbe un
semplice passare senza rinascere, e, senza
rinascere, niente è del tutto vivo. Tornare a
vedere nuovamente le cose e gli esseri,
afferrati sempre a metà dall'intelletto, o
captati violentemente dalla percezione, o
lasciati passare senza reagire e precipitati
tutti negli inferi, dove giace e geme quanto
è stato visto solo a metà, sottratto
violentemente al suo ambiente. Si direbbe
dunque che tutto il vivente — sia il soggetto
di una vita, sia quello che si dà all'interno
della vita di un soggetto — aneli e sia
irresistibilmente mosso per completarsi:
germe, embrione che tenta di nascere
completamente in un'atmosfera più ampia
16 Ibidem.
17 Maria Zambrano, Verso un sapere dell'anima,
Milano, Cortina, 1996. risp., p. 183, 7.
98
e luminosa, dove la sua totale apparizione
sia possibile, la sua totalità interminabile.
Un'atmosfera in cui il tempo venga
fecondato dalla luce». 18
Un pensiero vivente, dunque. Al centro
l'esperienza della vita: «proprio quel
contatto immediato con la realtà che
nell'uomo si realizza attraverso i sensi, siano
essi sensuali, intellettuali o mistici» 19.
Ecco cosa significa sostenere che la
pratica filosofica, è in se stessa attiva e
pratica, «La filosofia, cosa esclusivamente in
atto e pratica» 20, come fa Simone Weil nei
Cahiers.
Il theorein è qualcosa che si gioca dentro
l'esperienza della vita, del mondo. Come per
la Zambrano e Zubiri, per Panikkar la filosofia
è attenersi alla realtà vivente che si culla nelle
nostre vite, e consiste in una intellezione
profonda del mistero delle nostre stesse vite.
Cercheremo qui di mettere attenzione a
dov'è che si da questa esperienza, e sulle sue
dinamiche costitutive, ecc. Il contesto del
suzen, il suo modo di realizzarsi, non è
evidente a tutti 21, anche se la sua espressione
più generale, ossia il dialogo, è generalmente
riconosciuta da molti. Per comprendere
meglio e meno riduttivamente ciò che
avviene, però, occorre che consideriamo con
maggiore attenzione la dinamica complessa e
18 Maria Zambrano, Note di un metodo, Napoli, Filema,
2003, pp. 89-90.
19 R. Panikkar, L'esperienza..., cit., p. 17.
20 Simone Weil, Oeuvres Completes, Cahiers, vol. VI, p.
392; tr. it. Quaderni, IV vol., Adelphi, Milano, 1993, p.
396. p.
21 Anche perché nelle nostre scuole di ogni ordine e
grado spesso la pratica del dialogo non è la dimensione
originale
e
strutturante
dell'esperienza
di
apprendimento...
Raimon Panikkar Session - Fulvio C. Manara
pluridimensionale dell'esperienza di cui ci ha
parlato Panikkar nella sua intervista sulla
metafora della finestra.
Dobbiamo vedere di “mettere a fuoco”
meglio il luogo di questo operare, la sua
“architettura”.
Più
che
essere
una
“architettura dell'anima”, come avrebbe detto
Simone Weil, potremmo dire che questo
“luogo” è, per Panikkar, l'ordo / dharma
teantropocosmico. La tradizione filosofica
(abbiamo insistito parecchio anche in questi
giorni su questa distinzione più profonda) non
può chiudersi e limitarsi solo sulla pratica
dialettica, che è poi descritta abbastanza
analiticamente anche nel passo della Lettera
VII che abbiamo riletto, noto a tutta la
tradizione. Ma quest'ultima ha la tendenza ad
intendere in modo “obiettivante” la pratica
della “fatica del concetto”. La filosofia così
sarebbe solo l'attività del mettere a
confronto, elaborare, raffinare idee e
concetti, per costruire una grande
classificazione del mondo, un sistema che ci
permette di “ingabbiare” il mondo. Invece, la
filosofia, oltre che condizione di chi ama la
sapienza, ed ama e cerca la verità (sapendo
che non può impadronirsene ed è quindi in
cammino in una ricerca mosso dal desiderio),
è anche contemporaneamente un'esperienza
della relazione con l'altro che mi provoca e mi
interpella direttamente, mettendo in attività
quello stesso contatto integrale dei sensi
(sensuali, intellettuali e mistici).
L'altro che mi parla, mentre io sono
intento a perdermi nella mia visione del
mondo, è un elemento determinante
dell'esperienza filosofica, o dell'esperienza di
una vivencia che si disponga a desnacer.
L'altro in carne ed ossa, con i suoi colori,
sapori ed odori, ecc. In questo senso la
filosofia non è solo una visione del mondo, o
“concezione del mondo”. La filosofia
necessita, in primis, ovvero come dimensione
costitutiva, di quel momento, quella pratica in
cui prima di tutto due persone, o più, si
incontrano e si ascoltano, comunicando con
una parola viva, non solo con una parola
scritta 22. Solo da questo incontro/ascolto
nasce poi l'interrogare.
La parola scritta, in sé e per sé, fa
compiere al nostro pensiero uno scivolamento
(dal processo al prodotto concettuale) che ci
può portare a pensare che poi noi in qualche
modo “dominiamo il concetto”: e alla fine può
essere un ostacolo all'attraversamento del
logos.
E il logos, lo dobbiamo sentito anche
ieri, è là per essere attraversato, in più
direzioni, almeno due: l'una verso il mito e
l'altra verso l'impensabile.
Ma non lo attraverso, il logos,
solipsisticamente, standomene per conto mio,
nella mia cameretta, a speculare. Lo posso
fare solo mediante una esperienza 23, quando
un altro vivente, un altro essere umano,
accanto a me, mi interpella. Ed è capace di
farmi ascoltare quello che io non vedo, non
sento. D'altra parte è certo che nel nostro
campo visivo noi non vediamo i nostri occhi,
quindi non vediamo e non ci rendiamo conto
del nostro “punto di vista”: questo lo
22 In questo dialogo vivo si compie una esperienza
complessa, non univocamente “mentale” quanto
integrale ed olistica, di questa relazione, che ha almeno
tre poli: il tu che mi interpella – io che vedo – il mondo
“tra” noi due o “in” cui siamo entrambi.
23 R. Panikkar, L'esperienza filosofica..., cit., p. 16.
99
Raimon Panikkar Session - Fulvio C. Manara
sappiamo tutti — forse dovremmo imparare a
comprenderlo meglio.
Questa filosofia, esercizio della sapienza
stessa dell'amore, nasce da questa relazione
dialogale entro cui si sposta l'accento oltre
l'univoco e astratto “parlare su” qualcosa tra
noi. Ciò vuol dire rendere l'oggetto del
discorso — e il discorso stesso, in ultima
analisi — qualcosa che “sta tra noi”, e su cui
noi possiamo anche concentrarci prestando
attenzione — ma che non possiamo
“comprendere” se non ascoltando il “tu” con
cui parliamo. Non è solo un “parlare su” è un
“parlare con”. E l'oggetto (non più
letteralmente, gegenstand) diventa come un
“mediatore” tra noi, che si costituisce grazie
all'attraversamento
delle
reciproche
“visioni”... Come ci ricorda il già menzionato
libro di Luce Irigaray, in cui si riprende questa
esplorazione, e si mostra in che cosa possa
consistere ciò che porta alla sapienza
dell'amore, alla saggezza dell'amore.
“Dialogo con” e quel “con” è
esattamente il movimento che abbiamo
sentito descrivere e che ci permette di
raccogliere i frammenti dell'esperienza, che è
sempre molteplice rispetto a quanto noi non
immaginiamo, in una pluralità, ma ci permette
anche di ridare valore a ciascuna propria
visione.
Il “contagio amoroso” e l'interrogare
radicale
Quest'idea del contagio amoroso, della
relazione amicale come origine di una
comprensione sapienziale, di una sabiduria —
come ripeteva Panikkar — un sapere che mi
permette di entrare in relazione empatica
100
profonda con l'altro e anche di sentire,
“sapere”, gustare il mondo... Ha mostrato la
radice di questa esperienza sempre Platone,
nel Gorgia, quando usa un termine che può
essere tradotto molto male in italiano,
tradizionalmente, senza anche discuterne
troppo, il termine “eunoia”, che viene
tradotto normalmente con “benevolenza” ed
è un impoverimento abbastanza significativo.
Si sposta l'accento dalla “buona disposizione
del nous” entro la relazione, alla “buona
volontà” di accento solo morale, e non più
invece costitutivamente teoretica. Il pensiero
filosofico che si dà nella relazione viene
ignorato.
Forse potremmo mettere tutto questo
in relazione (se ne potrebbe ragionare) con
quella che noi chiamiamo un po'
psicologisticamente l'empatia.
Cito invece un altro filosofo, Levinas,
che in un suo testo — commentando la
domanda di Polemarco all'inizio della
Repubblica di Platone (che si chiede se
possiamo convincere chi non ascolta) —
mostra questo “circolo originario” dell'etica
come disponibilità originaria al dialogo nella
fiducia costitutiva nella quale mi affido al
dialogo stesso, ascoltando. Circolo originario,
perché l'atteggiamento di disponibilità
all'ascolto da parte degli interlocutori, sembra
un momento “fondativo”, nel senso che sta a
monte di qualsiasi parola che io dico, di
qualsiasi atteggiamento che interagisce tra
noi. E Levinas la chiama “ragione prima della
ragione”, persuasione originaria «che rende
umani il discorso coerente e la ragione
Raimon Panikkar Session - Fulvio C. Manara
impersonale» 24.
treccia 26...
Ci sarebbe ben da fare per esplorare
questa “via” tra le testimonianze delle diverse
vie filosofiche in occidente. Ma, è sicuro,
anche oltre l'occidente. Potremmo, ad es.,
risalire anche al Rig Veda, che provoca il
nostro pensare dicendo: «In principio è
scaturito l'amore, / il primo germe della
mente» (e ad altri passi paralleli) 25. Ciò
comporterebbe sviluppare seriamente e per
gioco la vera e propria dimensione interintraculturale della pratica filosofica...
Con la pratica filosofica ci viene chiesta
o suggerita un'opera, come possibile scoperta.
Metterci-in-gioco fidandoci, affidandosi a
questa buona disposizione della mente,
dell'intelletto o dell'intelligenza (del nous) che
Platone chiama eunoia, e che è la radice
profonda del dialogo: si può esprimere solo in
un'opera, in un esserci-agendo, e questa
fiducia profonda non può essere oggettivata.
La fiducia profonda nell'altro è qualche cosa di
problematico, chiaramente, ma anche reale
ed effettivo. E quali sono le caratteristiche di
questo “stile” di questo modo di essere che è
la filosofia? È una filosofia non intesa come
una teoria, come una dottrina, non intesa
come una costruzione di un “discorso su”
qualcosa. Da questo punto di vista sono
straordinarie
le
connessioni
con
27
l'insegnamento di Pierre Hadot , mancato
pure lui quest'anno, filosofo, non solo storico
della filosofia, che ci ha fatto riscoprire la
filosofia come maniera di vivere, e la filosofia
come esercizio spirituale, o insieme di esercizi
spirituali che noi possiamo compiere.
Ma quello che voglio sottolineare qui
con forza è che questa non è una questione
“speculativa”. Sarebbe riduttivo conoscere
senza amare, e amare senza agire (come ci
ripetiamo con insistenza in questi giorni tra
noi,
testimoniando
un
messaggio
determinante di Panikkar) — in termini indici,
c'è un'unicità ma non una unità di queste tre
dimensioni: i tre cammini, ossia jnana-marga,
karma-marga e bhakti-marga, sono come una
24 Emmanuel Levinas, Libertà e comando, in E. Levinas
– A. Peperzak, Etica come filosofia prima, Milano,
Guerini e Associati, 1989, pp. 20-21. Cfr. anche, nello
stesso volume, Fabio Ciaramelli, L'anacronismo, p.166.
Levinas stesso, in Altrimenti che essere o al di là
dell'essenza, illustra e riflette sul “secondo etimo” della
parola “filosofia” di cui ho parlato più sopra, quando
afferma: «La filosofia è questa misura recata all'infinito
dell'essere-per-l'altro della prossimità e come la
saggezza dell'amore», e ancora: «La filosofia: saggezza
dell'amore al servizio dell'amore», Milano, Jaca Book,
1995, pp. 202-203.
25 Raimon Panikkar, L'esperienza..., cit, p. 5: ma si v.
piuttosto le due diverse traduzioni che egli stesso
presenta in The Vedic Experience. Mantramanjari.
Anthology of the Vedas for Modern Man and
Contemporary Celebration, edited and Translated with
Introduction and Notes by Raimundo Panikkar, with the
Collaboration of N. Shanta, M. Rogers, B. Baumer, M.
Bidoli, Delhi, Motilal Banarsidass Publ., 1977, p. 52 e
58, nella tr. it. I Veda. Mantramanjari, Milano, Rizzoli,
2001, vol. I, pp. 69 e 76.
Ecco il luogo in cui noi pratichiamo
questo filosofare che richiede la vita comune
e si genera da essa. È ovviamente un contesto
diverso da quello sviluppato tradizionalmente
nella scuola. In realtà la filosofia nell'età
moderna in molti casi e nell'età
contemporanea quasi universalmente è una
attività di professori che parlano ad altri
26 Cfr. Raimon Panikkar, Il dharma dell'induismo,
Milano, Rizzoli, 2006, pp. 97-175, in part. pp. 154-175.
27 Di Pierre Hadot si può vedere con frutto tutto
quanto ha prodotto, ma qui va menzionato per
precisione il suo capolavoro dal titolo Esercizi spirituali
e filosofia antica, Einaudi, Torino, 1986.
101
Raimon Panikkar Session - Fulvio C. Manara
professori, o una attività di professori che
formano altri professori.
È abbastanza
inquietante quella filosofia che finisce per
“specializzarsi” ed è evidentemente un
paradosso, o forse un suo vero e proprio
pervertimento. Aveva ben compreso questa
tensione verso la totalità Enzo Melandri, che a
proposito afferma:
«La filosofia appartiene al genere degli
amori o filie non corrisposti per principio. Il
suo senso è la pretesa di un sapere totale,
non meno. Degrada se stesso, non la
filosofia, chi si rifiuti di riconoscere in sé la
presenza di questo senso. Tuttavia non c’è
bisogno di uscir fuori di sé, per capire che la
totalità del sapere non si lascia racchiudere
in una pretesa.
La crisi attuale della filosofia non può essere
la crisi della pretesa di un sapere totale, per
la semplice ragione che questa crisi c’è
sempre stata da quando esiste la filosofia.
Lasciamo stare la metafisica: la filosofia si è
sempre saputa quale amore non
corrisposto. La crisi della pretesa di un
sapere totale è lo specifico modo d’essere
della filosofia. (...)
La filosofia non può costituirsi in sapere
parziale, disciplina o scienza speciale. Essa
non può ritagliare entro il mondo il suo
oggetto, perché il suo oggetto è la totalità.
Esser filosofi significa esser specialisti in
fatto di totalità» 28 .
Ed è proprio nella scuola, nella pratica
della scuola (sebbene non solo in essa) che
forse può sopravvivere quella possibilità
dialogale profonda, questo atto, questa
pratica, che è un'esperienza. Come uno “stile
28 Enzo Melandri, Sulla crisi attuale della filosofia, in «Il
Mulino», n.223, settembre-ottobre 1972, p. 877.
102
di vita” che ci permetta di imparare a
“scrivere la nostra vita”. Come con uno stilo,
come con una penna: scriviamo la scrittura
della vita. E nello stesso tempo la scrittura
può divenire un vero e proprio esercizio
spirituale...
Ora, alcune pratiche possono essere
anche descritte, se volete, ma è chiaro, si
tratterebbe di un discorso che si avvita un po'
su se stesso: son cose che si dovrebbero
esercitare, mettere in opera, svolgere sul
piano esperienziale, fuori dal setting della
conferenza. Provare insieme: mettersi in
cerchio e giocare il gioco del dialogo, dove è
chiaro in primis che l'ascoltare (più che il
parlare esprimendosi) è determinante.
Nell'intervista si coglie molto bene questo
spostamento dell'asse dal vedere all'ascoltare
(che non cancella il primo, ma, come dire, lo
“relativizza”).
Un invito a passare dalla fiducia nella
vista come senso cui viene attribuito il
massimo valore all'ascolto, e l'ascolto attivo.
Quest'ultimo, come ormai sappiamo anche da
contributi semplicemente psicologici, è
costituito strutturalmente dall'atto dell'interrogare. Questo interrogare è un domandare
volto a rimandare all'altro, in ogni senso,
quello che a noi sembra di lui, quello che ci
pare di aver compreso, quello che sentiamo di
lui, dal nostro punto di vista, per chiedergli
una conferma, o per ascoltare meglio,
appunto, da lui, la sua esperienza esposta dal
suo punto di vista, e per vedere se l'altro/a si
riconosce nell'interpretazione che noi diamo
di lui/lei. Ed, entro questo orizzonte dialogale,
si disvela e si mette in opera l'atto filosofico
per eccellenza, che è appunto l'atto
Raimon Panikkar Session - Fulvio C. Manara
dell'interrogare radicale 29.
convergenza di differenti approcci.
Dal colligite fragmenta alla fenomenologia
esperienziale, all'ermeneutica diatopica
Ma di fronte all'emergere della radicale
incommensurabilità delle differenti filosofie
nessuna filosofia si accontenta di essere
semplicemente “una prospettiva” e il
relativismo ingenuo è poveramente insufficiente. Se spostiamo però l'accento dalla
“natura del prodotto” alla “forma della
pratica”, vediamo che forse il carattere
metafilosofico, o più radicalmente filosofico, è
proprio questo stile-registro di dialogo e interinterrogazione continua e aperta.
Noi siamo diventati in occidente
abbastanza sfiduciati rispetto a quello che
vediamo. Abbiamo la cultura del sospetto, se
ne potrebbe ben discutere, o anche la cultura
del disincanto del mondo: non ci fidiamo più
della nostra visione, di quello che vediamo. E
qui si potrebbe richiamare il racconto che
anche Raimon Panikkar cita spesso, ed è
quello dei sei saggi ciechi e dell'elefante. Una
storia che sembra risalire ad un antico
racconto buddhista 30. In sostanza questa
storia dice che sei ciechi, magari filosofi, si
incontrano con un elefante e ciascuno dice la
sua su quello che riesce a toccare...
«È come un muro» dice chi sente la
pancia. «È come una muraglia». «È come un
tronco» dice chi sente le gambe. «È come una
corda»: chi tocca la proboscide. «È come una
spada appuntita» dice chi tocca le punte delle
zanne. I filosofi litigano tra loro. Di solito
questa storiella viene interpretata come una
allegoria della “trascendenza” dell'oggetto
rispetto a chi lo percepisce.
La prima delle due più diffuse
interpretazioni della parabola dell'elefante è
notoriamente
quella
che
ne
trae
l'insegnamento che invita a “comporre” a
“mettere insieme” i frammenti per ottenere
una “visione di insieme” che al singolo non è
possibile ma si costituisce appunto con questa
29 Dell'interrogare radicale dà una brillante e
abbastanza
condivisibile
descrizione
Wilhelm
Weischedel, nella sua opera Il Dio dei filosofi, vol. I,
Genova, Il Melangolo. 1988, p. 50-58.
30 R. Panikkar, L'esperienza..., cit. p. 65-66.
C'è poi una seconda maniera, a parer
mio altrettanto importante, di intendere e
interpretare la parabola dell'elefante, che la
tradizione fenomenologica del novecento ci
ha invitato a riscoprire, ponendo attenzione a
come entro in relazione con quell'elefante: e
ci dice che dobbiamo porre miglior attenzione
a quel che accade quando “sentiamo”,
quando tocchiamo: «Giudichi bene quando tu,
toccando la pancia, la paragoni a un muro?
Quell'analogia non è un po' sbrigativa, non
potresti stare un po' attento, prestare
attenzione a quello che accade in te quando
c'è questo incontro?». E via dicendo per tutte
le altre prospettive. Come si vede, occorre
muoversi in due direzioni, anche se tra loro
opposte e contradditorie, occorre approfondire in due direzioni di pensiero: da una parte,
riconoscere che la comprensione dell'elefante
non può essere relativa solo al proprio punto
di vista. E, dall'altra parte, nello stesso tempo,
raffinare la nostra capacità di entrare in
relazione col mondo e fidarci di quello che
appare, affinando sempre di più e sempre di
nuovo questa esperienza. E qui abbiamo la
connessione diretta con la metafora della
103
Raimon Panikkar Session - Fulvio C. Manara
finestra che ci dice “vedo solo quel poco che
posso vedere” ma quel poco che posso vedere
lo posso “vedere” e posso avere una relazione
col mondo.
Mi viene in mente a proposito una
espressione di Paulo Freire, che dice «nessuno
educa nessuno, nessuno educa gli altri, tutti ci
educhiamo reciprocamente» 31. Di solito ci si
ferma qui nella citazione mentre invece c'è un
altro pezzo: «ci educhiamo reciprocamente
con la mediazione
del mondo» (la
mediatisacion del mundo) Cos'è questa
mediatisacion? Quale mondo? Non può più
essere evidentemente il “mio” mondo... La
spinta che è tipica della pratica filosofica verso
la totalità non può essere dimenticata in
questo. Forse la si può riconsiderare a partire
appunto dalla attenta considerazione di
queste attività, di queste pratiche, più che da
una idea, o dalla spinta ingenua a “visioni del
mondo” univoche, a “concezioni del mondo”
unitarie. Conviene fare molta attenzione a
questo. Non costruiremo con la filosofia
interculturale una nuova “visione del mondo”.
L'interculturalità è un mito, un nuovo mito, se
vogliamo (magari vecchio quanto le colline:
spesso noi diciamo che le cose sono nuove
perché è nuova la nostra “scoperta”, così
come accadde al “nuovo mondo” nell'età del
rinascimento...). Occorre che lo abitiamo, o
esploriamo integralmente, con consapevolezza.
Propongo tutto questo per integrare e
sviluppare, se così si può dire, quanto
Panikkar suggerisce nel paragrafo dedicato a
sottolineare che la filosofia “comporta ed
31 Paulo Freire, Pedagogia degli oppressi, Torino, EGA,
2001, p. 69.
104
esige una prassi”32. Appunto, nella esplorazione di questa natura interculturale della
filosofia.
Una miglior pratica fenomenologica
Abitare i propri miti sviluppando ricerca
di consapevolezza comprende ed esige
soprattutto l'esercizio della capacità di “uscire
dalle proprie cornici”. Non è possibile alcuna
ermeneutica diatopica senza che si metta in
atto questa trasformazione (insieme metanoia
ed econoia). E qui credo che la principale
illuminazione, o se volete, il risveglio che ho
connesso inmediatamente con l'esperienza
del pensiero a cui mi ha invitato e guidato
Raimon Panikkar è quella di un fenomenologo
statunitense che si chiama Don Ihde, il quale,
nel libro Experimental Phenomenology ci fa
comprendere mediante esercizi o giochi che
ciascuno di noi può imparare a fare
esperienza dell'uscire dalle proprie cornici,
sviluppando una “coscienza fenomenologica”
33
. La fenomenologia in realtà appunto non è
nient'altro che la comprensione della
plurivocità dell'esperienza del mondo.
Detto in termini non tecnici: di fronte a
un fenomeno, non posso giudicare in modo
univoco: vedo una cosa, dico “è questo”, ma
posso anche scoprire di poter sentire e quindi
esprimere, che quella stessa apparenza “può
essere anche quest'altro”, e “può essere
anche tante altre cose”: posso compiere in
questo modo almeno tre passaggi di stati di
coscienza. Oltre una “interpretazione”
univoca, a cui corrisponderebbe poi univoca-
32 Cfr. R. Panikkar, L'esperienza.., cit., pp. 57-58.
33 Cfr. Don Ihde, Experimental Phenomenology. An
Introduction, G. P. Putnam's Sons, New York, 1977.
Raimon Panikkar Session - Fulvio C. Manara
mente il segno: i termini (e quindi i concetti)
sono costruiti su questa pretesa di dare
univocità
alla
parola.
Nell'esperienza
fenomenologica la parola invece torna libera e
mi permette di entrare in una relazione
aperta con il fenomeno, con i fenomeni.
Possiamo chiamare questa “competenza”
mentale o intellettuale “exotopia”: ossia la
capacità di uscire fuori dai nostri luoghi
mentali. È ancora, un'altra volta, lo stesso
esercizio che Raimon illustra in questa breve
metafora della finestra. Ed è come se ci
dicesse, semplicemente: «Uscite fuori, ma
non per stare fuori perché non si può uscire
dalle proprie finestre, ci si deve stare, ma
rendersene conto»... Da questo punto di vista
credo che sia proprio da qui che emerge
anche la sua aperta rivalutazione del
prospettivismo (che però non resta la sua
ultima parola sul tema del pluralismo). E da
qui viene la consapevolezza di quello che egli
chiama “il pluralismo della verità” 34: come si
può comprendere, è abbastanza importante,
34 R. Panikkar, “The Pluralism of Truth”, in «World
Faiths Insight», New-York-London 1990, XXVI, ott., pp.
7-16; tr. it.: “Il pluralismo della verità”.
«Dialegesthai.Rivista telematica di filosofia» [in linea],
anno
10
(2008),
disponibile
su
www:<http://mondodomani.org/dialegesthai/>, ISSN
1128-5478; e inserito infine con alcune revisioni come
Introduzione al Vol. VI/1 dell'Opera Omnia, dal titolo
Culture e religioni in dialogo, Jaca Book, Milano, 2008.
Cfr. anche “Identità religiosa e pluralismo”, in
«InterCulture», Rivista dell’Istituto Interculturale di
Montreal, edizione italiana, n. 9, Città Aperta,
settembre-dicembre 2007, pp. 23-55. Si v. inoltre “Die
existentielle Phänomenologie der Wahrheit”, in
«Philosophisches Jahrbuch del Görres-Gesellschaft»,
64/1956, pp. 27-54. Mi permetto anche di rimandare a
Fulvio C. Manara, Il dialogo come rischio esistenziale e
responsabilità intellettuale. L'interculturalità secondo
Raimon Panikkar, in Identità, cultura, intercultura, a
cura di G. Cannarozzo, Rubbettino, Soveria-Mannelli,
2009, pp.71-95.
ma ancora una volta si potrebbe correre il
rischio di trasformare in oggetti quelli che
invece sono degli “sfondi”, delle esperienze,
delle possibilità. Per questo ritengo che sia
necessario chiedersi sempre: cosa rende
possibile in me questa attività? Cosa faccio
quando filosofo? Quando l'esperienza
originale mi permette di comprendere, di
esercitare questo lavoro, questo processo
infinito del raccogliere i frammenti, i
frammenti dell'esperienza, della vita, del
mondo (dei mondi) e delle interrelazioni in cui
sono?
Agire e praticare la filosofia: il sangama
Panikkar, sempre ne L'esperienza
filosofica dell'India 35, afferma che la filosofia
contemporanea manifesta una paura radicale,
viscerale di due cose: una è l'amore, perché ci
si dimentica che è sorgente e origine della
saggezza, e l'altra, l'azione 36. È molto facile
incontrare queste paure tra i professori,
quando si riflette sulla natura e le
conseguenze
della
propria
pratica
nell'insegnamento filosofico, sull'agire che
viene dopo il filosofare, o meglio, che viene
insieme al filosofare. Mentre è impossibile
tenerli separati, secondo l'insegnamento di
Panikkar.
Nel testo che sto prendendo come
riferimento Panikkar riassume così le tre
dimensioni della prassi nell'attività filosofica:
(ante rem), 1) la preparazione al buon
filosofare, unita alla situazione esistenziale di
chi la mette in opera; (in re) 2) l'attività del
pensare nella ricerca del retto logos; (post
35 R. Panikkar, L'esperienza.., cit., p.17.
36 Ibidem.
105
Raimon Panikkar Session - Fulvio C. Manara
rem) 3) il pensiero trasforma chi pensa 37.
Gettiamo però meglio lo sguardo su
queste “prassi” inerenti la filosofia stessa,
ossia, come richiama Panikkar stesso, su
questa epimeleia dell'anima (epimeleia sou).
Ci viene incontro per questo proprio la
sua stessa testimonianza ed esperienza: il
luogo di queste prassi, il loro ambiente — o se
vogliamo dire, un po' riduttivamente, il
“setting” — per lui è la comunità, il sangama.
Come sappiamo, egli chiama così le
“convocazioni” degli amici e questa
dimensione amicale è sempre per lui così
importante. Questa sua apertura radicale
all'amicalità era anche inquietante per chi vi
prendeva parte, per alcuni aspetti, nel senso
che provocava radicalmente ciascuno ad
uscire
dai
suoi
schemi,
mettendo
sostanzialmente in moto una trasformazione.
Pensate per esempio a quanto può essere
illuminante, per chi è filosofo, la scoperta cui
lui sapeva guidarci, non solo sul piano
intellettuale ma in modo olistico, a compiere
autenticamente l'atto contemplativo, di
sentire e vivere l'atto della contemplazione,
oltre ogni riduzionismo tipico della nostra
tradizione, per cui abbiamo reso la
contemplazione sinonimo di teoria, di
costruzione di un modello… Quindi pensare, e
pensare insieme vivendo, che appunto è
pratica, non astrazione: lo si è detto molte
volte in questi giorni, esplorare e persino
scoprire mondi nuovi (e quindi agire in essi
consapevolmente
creativamente
e
liberamente — nel senso dell'esserci e del
“rimettere al mondo il mondo che siamo”).
37 Ivi, pp. 57-58.
106
Ciascuno di noi quando si incontra non mette
a confronto solo delle cosmologie, ma dei
mondi diversi, non solo delle “cosmovisioni”
diverse, grazie a finestre che vengono messe a
confronto, ma veri e propri mondi diversi, se
mette se stesso integralmente in questo
gioco. Se in questi “mondi” diversi che
incontriamo evidentemente non possiamo
entrare integralmente, per la radicale
incompatibilità delle visioni ultime e anche
delle filosofie, questa opera contemplativa
può però permetterci di trasformarci, di
lasciarci trasformare. Ecco che qui torna
l'accento sulla metanoia che spesso è appunto
uno dei termini con cui noi esprimiamo la
pratica filosofica: non tanto cambiare punto di
vista, o andare “oltre” il proprio punto di vista
(perché non è possibile), ma attraversarlo,
scoprirne la porosità, la radicale porosità, e
sapersi giocare di nuovo creativamente in
esso (eunoia). Le tre dimensioni della pratica
filosofica, che sono, se volete, per tradizione,
il logos, il rapporto con il mito e le credenze
(ermeneutica) e infine il rapporto con la
dimensione spirituale (fede) sono nel loro
complesso un corrispettivo processuale della
intuizione cosmoteandrica. Qui per chi ha la
mia età il principale shock era la scoperta
dello spazio che nella pratica filosofica deve
avere il mito, che viene dall'impensato, e
quindi la spinta ad uscire dal dualismo
profondo che è tipico della nostra tradizione
occidentale. Mi spiego meglio: quando
studiavo filosofia all'Università mi dicevano,
sia pure un po' stancamente, che la filosofia
consiste nella emancipazione dal mito. Una
liberazione dal mito! Liberarsi da questa
emancipazione, poi, è stato interessante... Ma
anche nello stesso tempo riscoprire la fiducia
Raimon Panikkar Session - Fulvio C. Manara
come dimensione a monte e a valle
dell'esperienza filosofica. Ed anche scoprire
che la filosofia, la pratica filosofica, ha a che
fare con la fede. Come, evidentemente, ha a
che fare con le credenze, ma per saper
trascendere con piglio libero l'esperienza della
pluralità delle filosofie, quando facilmente ci
si rassegnava ad un sostanziale indifferentismo, parlandone troppo tranquillamente
al plurale. Come se ciascuno avesse solo la
sua...
Muoversi
in
questa
dinamica
trasformativa, che è pratica filosofica tout
court, può quindi essere una grande
esperienza. E la comunità di ricerca è
esattamente il luogo in cui penso che questa
piccola pratica possa essere scoperta per
ciascuno di noi e che permetta così di
ritrovarci e respirare liberamente, per
disnascere.
CdRF: la pratica filosofica intrinsecamente
inter-intraculturale
La vita del sangama per me può essere
connessa e messa in relazione ad un'altra
esperienza che ho potuto incontrare e
compiere nel corso di questi ultimi vent'anni:
quella della comunità di ricerca filosofica, che,
se vogliamo, non è altro che un differente
nome di quello che Panikkar chiama appunto
“sangama”.
La comunità di ricerca non ha nessuna
pretesa, è una pratica poverissima, che non
ha bisogno di grandi risorse: è il semplice
mettersi insieme, e scoprire che il pensiero e
la pratica filosofica nascono così, in questa
complessa interazione con un tu e nel logos, e
sono parola viva che mette in gioco tutto,
nella pratica del domandare e dell'ascoltarsi
reciprocamente, nell'apprendere ed esercitare insieme l'esperienza della ricerca.
Possiamo in essa raccogliere i frammenti per
cercare di armonizzarli, ma senza voler per
forza tenerli insieme, e men che meno con un
disegno più o meno prestabilito. Di solito, la
prima origine della comunità di ricerca viene
identificata nel pensiero di un rappresentante
del pragmatismo americano, Peirce, e poi in
Dewey, ed è guidata dalla pratica dialettica:
secondo questo approccio pragmatista si deve
dialogare secondo un modello dialettico, per
trovare la giusta posizione ed arrivare ad una
decisione comune.
Ma poi l'esperienza concreta e
l'esplorazione di questa pratica ha portato chi
l'ha compiuta a comprenderne le dimensioni
plurali dell'esercizio del pensare, che non è
evidentemente solo logos ma anche
creatività, intelligenza emotiva, pensiero
simbolico, ragione poetica ecc. 38. Una bella
sfida, per la filosofia, e anche
l'apertura
speranze).
di
grandi
possibilità
(e
In particolare riguardo alla riduzione
della prassi filosofica a sola dialettica, la
prospettiva che scopriamo con Raimon è che
questa è solo una delle possibilità dello
sviluppo dell'esercizio del pensare insieme:
quella che come tutti sappiamo consiste nel
costruire un consenso di idee, visioni, e
quant'altro. Occorre sempre ricordare infatti
38 Si v. lo sviluppo riflessivo compiuto dentro (e oltre) il
movimento della P4C (Philosophy for Children) nelle
opere di Matthew Lipman, Ann Margareth Sharp,
Gareth Matthews, Walter Omar Kohan, Catherine
McCall, ecc.
107
Raimon Panikkar Session - Fulvio C. Manara
che quando questo avviene otteniamo certo
un consenso fra più persone (in direzione del
mito del “consensus omnium”), ma che
queste persone restano però differenti tra
loro alla radice.
La pratica della comunità di ricerca
filosofica può divenire quindi un cercare
insieme l'armonia della differenza nella
convivenza delle differenze, perché le
differenze sono le persone; non sono le
culture che si incontrano facendo filosofia,
quanto le persone che vivono dimensioni
culturali. Non sono le religioni, e men che
meno le filosofie, ad incontrarsi: sono le
persone che si incontrano. L'esercizio del
dialogo “dialogale” è esattamente questo
tentativo di provocare radicalmente la pratica
filosofica che è rimasta ancorata alla dialettica
(senza dimenticare la dialettica, senza buttarla
a mare, chiaro). La capacità di fare della
dialettica un'esperienza che non si chiuda su
se stessa, e resti aperta in direzione di altre
possibili dimensioni del dialogo. Il che ci libera
anche in direzione di altre elaborazioni
dell'immagine del pensare che noi abbiamo
nella nostra testa: pensiamo quando
ruminiamo e quando meditiamo o pensiamo
quando parliamo tra noi?
Ecco, sono tutte domande che in
qualche modo ci permettono di entrare
dentro l'idea della filosofia (interculturale)
come una pratica, come un processo aperto,
che non ha mai fine.
“Cosa io penso”, il “prodotto” del
pensare — che pure è importantissimo — non
è proprio al centro. Lo è la capacità di
comporre frammenti, che in questo contesto
108
abbiamo
compreso
essere
inevitabilmente paradossale.
sempre,
Per rendere questo evidente, in
conclusione, (e per far comprendere bene
cosa comporta questo “colligite fragmenta”
che punta all'armonia pluralistica) richiamo
un'altra storiella che Raimon racconta 39. La
storiella di quel rabbino saggio (o di quel
saggio rabbino) a cui una comunità, divisa da
profonde dispute, si rivolge. Una delle parti in
causa va dal rabbino e gli dice: «Eh, noi
pensiamo questa cosa e quest'altra e non va
bene, e insomma, noi vogliamo che tu ci
ascolti attentamente», e lui risponde dando
loro ragione. Il giorno dopo gli altri
contendenti vanno dal rabbino, pensando:
«Come, ha dato ragione agli altri, ora andiamo
noi a dirgli come la pensiamo!» e gli
raccontano il loro punto di vista, gli
raccontano le loro esigenze e le loro
questioni, le loro posizioni. Il rabbino risponde
a questo secondo gruppo: avete ragione.
Allora i saggi della comunità dicono: «Come, il
rabbino non capisce più nulla!». Vanno da lui
il terzo giorno e gli dicono: «Ma cosa stai
facendo: vengono i primi e ti dicono il loro
punto di vista, e tu gli dai ragione. Vengono i
secondi, con il loro punto di vista
contradditorio e tu dici avete ragione pure
voi... Questo non può essere!». Il rabbino
risponde agli scribi e ai maestri: «Avete
ragione!».
Questo rabbino non è uno stupido,
come molti potrebbero sbrigativamente
pensare. Le affermazioni proposte dalle
diverse parti che confliggono sono tra loro
39 V. ad es., R. Panikkar, Pluralismo e interculturalità,
Milano, Jaca Book, 2009, p.5.
Raimon Panikkar Session - Fulvio C. Manara
evidentemente dialettiche, sono contradditorie, sono visioni del mondo incompatibili,
che non possono essere rese compatibili. Quel
rabbino si rende conto del gioco delle
posizioni in questo conflitto, che è dialettico,
ma egli non si affida solo alla dialettica nel
leggere questa situazione. Dice Panikkar:
«La relazione tra le tre affermazioni è
naturalmente dialettica. Ma la relazione fra
i due gruppi contendenti di persone non è
dialettica. Il rabbino vide la completezza
relativa di ciascuna posizione, benché
implicasse la mutua contraddizione delle
affermazioni intellettuali, così come vide il
terzo gruppo esistenzialmente coinvolto» 40.
Il “compito” o la “scoperta” del terzo
gruppo, ossia il gruppo dei saggi, che si
accorgono che il gioco delle “ragioni” non è
pacifico, è anzi, appunto, scoperta dell'incompatibilità delle posizioni, prese come affermazioni intellettuali e posizioni di interesse. Il
terzo gruppo è però un gruppo che vorrebbe
compiere un po' la funzione del giudice,
ancora è chiuso nella sua idea che la ragione
stia da una sola parte. Il compito della pratica
filosofica invece non è quello del giudice che
deve stabilire la verità, come se la potesse
stabilire sua sponte: il gioco della pratica
filosofica nella comunità di ricerca è piuttosto
permettere a ciascuno di compiere la sua
esperienza e di relativizzare questa esperienza, di scoprire la relatività di questa
esperienza senza perdere l'amore e la
passione per la verità, ossia senza cancellare
l'orizzonte della ricerca come orizzonte
comune.
rabilità delle posizioni umane e anche
l'incompatibilità dei credo definitivi, ciò non
comporta che la convivenza e la coesistenza
non siano possibili: questa è la sfida. Anche
questo farsi carico della reciproca coesistenza
(costruendo comunità) è parte del gioco
filosofico, ossia farsi carico di “mantenere viva
la polarità delle realtà umane” ecc.
Conclude Panikkar:
«Credo che la nostra situazione attuale
richieda a tutti noi di essere capaci di dire:
“Non ti capisco troppo bene, anche se
penso tu sia in errore, ma il fatto che tu ti
sbagli non mi dice granché circa il mio
essere nel giusto o il mio essere forse a mia
volta in errore”. Abbiamo bisogno di questo
tipo di relazione gli uni con gli altri» 41.
Rinnoviamo quindi a noi stessi l'invito
alla filosofia propostoci da Panikkar. È un
invito che
«Vuole risvegliare in noi la brama o la
“volontà” di partecipare a qualcosa, cioè
invitarci (se pensiamo in latino), o suscitare
un piacere (se pensiamo in sanscrito), al
riparo di sapienze antiche e attuali da cui
tutti possiamo apprendere, per gustare
l'esperienza umana nel suo sforzo di trovare
un senso alla Vita di cui tutti fruiamo» 42.
In questo gioco filosofico scopriremo la
radicale precarietà delle nostre parole, e
anche la povertà della filosofia, tanto quanto
la ricchezza e la gioia dell'esperienza e del
cammino di ricerca
Se scopriamo la reciproca incommensu40 Ibidem.
41 Cfr. ivi, pp. 5-6.
42 R. Panikkar, L'esperienza..., cit., p. 20.
109
Raimon Panikkar Session - Michiko Yusa
ECOSOPHY, RAIMON PANIKKAR,
AND BASHŌ’S NATURE-AESTHETICS
Michiko Yusa
Michiko Yusa
(video)
Our mentor and friend Raimon Panikkar
endorsed the idea of ecosophy—the posture
of listening to the “wisdom of the earth.” Ecosophy is different from “ecology,” maintained
Panikkar, because although “ecological consciousness is a step in the right direction, it
does not bring us in touch with the divine dimension.”1 Instead, he advocated the ecosophical awareness, which finds the divine dimension as integrated “within ourselves.”2
For Panikkar, contemporary “ecological” consciousness appeared to rest on the worldview,
in which nature, or environment, is considered to be separate from us and stands in opposition to us as a kind of “thing out there,”—
as an object of scientific investigations, of adventurous explorations, or even of exploitations. “Ecosophy,” in contrast, resonates with
the “cosmotheanthropic” appreciation of the
unity of the world (cosmos), the sacred (or the
divine, theos), and human beings (anthoroMichiko Yusa
Washington University
1
Raimon Panikkar, The Rhythm of Being (Maryknoll,
New York: Orbis Books, 2010), p. 353.
2
Ibid., p. 352.
110
Marcello Ghilardi
poi). We are an integral part of the universe
and everything is “inter-independently” related to everything else.3 In the traditional worldview of Japan that was familiar to our poet
Bashō, the cosmotheanthropic unity was an
unspoken premise, in which the dimension of
“theos” was highly attenuated into sacred and
awe-inspiring qualities typically found in nature.
The Japanese master haikai-poet Matsuo Bashō (1644-1694) embodied the
“ecosophical” awareness through and
through. He may even be called an “ecosophist” par excellence, with the caveat that
such appellation be not confounded with the
ancient Greek “sophists.” Bashō viewed not
only his existence but also the entire universe
to be on an incessant journey (viaggio). He
called the sun and the moon “eternal travelers.”4 On a personal level, going on a journey
3
Ibid., p. 404. Panikkar often quoted his favorite Sanskrit saying: “All is inherent in all.”
4
Bashō, Oku no hosomichi 『奥の細道』 [An narrow
road
to
Oku],
月日は百代の過客にして、行かう年も又旅人也。A
sō Isoji 麻生磯次, ed., Oku no hosomichi, ta yonhen
Raimon Panikkar Session - Michiko Yusa
gave him the opportunity to come closer to
nature, which heightened his aesthetic sensitivity and enlivened his creative perception,
and in that setting he was able to explore the
limits of his artistic creativity. Going on a journey also forced him to practice his ideal of detachment from material comfort. While in the
bosom of nature, he tapped into the wisdom
(sophia) of nature (oikos), as he came close to
the heartbeat of nature.
Bashō was most successful in leading
the way to transforming the art of haikai
(commonly known as “haiku” today5—the
seventeen syllable poetry), from a literary
pastime to a path of serious art, to the pursuit
of which one could dedicate one’s entire life.
In his younger years, he sported in the witty
“Teimon school” style of verse-making, from
which he moved on to the “Danrin school” of
versifying, which aimed at more refined expressions, which, nevertheless, were often
aimed at impressing the public. Still dissatisfied with the Danrin school, his quest for authenticity and poetic integrity drove him away
from any of the established schools. The focus
of his poetizing shifted to the unchartered territories. In around 1680, his singular style of
haikai came to be recognized as the “Shōfū
style,” or the “style after Bashō,” and dedicated disciples gathered around him. Although Bashō was a seeker of solitude, he
most gladly received disciples and enjoyed
their company.
I. Nature and Art
The more Bashō pursued his art with
sincerity, the more bottomlessly the creative
mystery of haikai revealed itself to him. He
studied with a Rinzai Zen master, Bucchō
(1642-1716), for a couple of years in the early
1680s, which helped him hone his awareness
of the oneness of all sentient and nonsentient beings. It became progressively clear
to him that nature, of which human beings
are part, was the source of life and spiritual
illumination, and as such the source of artistic
inspiration. Among the many things “nature”
exemplified for Bashō, it presented the manner of being beyond the world infused with
petty assertions and pride of the individualego, and he found in nature a model for an art
that was void of artificiality and contrived expressions.
Unlike the dominant European traditions that tended to set apart art and nature,
or culture and nature, in East Asian religious
traditions nature has been understood as the
life-giving force that permeates the entire
human activities, and the role of art was to
capture nature. Nature gives human beings
daily and seasonal rhythms of life, and unfolds
a full panorama of constantly changing vistas.
The modern Japanese word for “nature”
(“shizen” 自然) was not in Bashō’s lexicon. Instead, he employed a word, zōka 造化,6
“creation-transformation,” and kenkon no hen
乾坤の変,7 “the mutation of yang and yin
6
『奥の細道、他四編』[The Narrow Road to Oku and
four other essays], (Tokyo: Ōbunsha, 1970), p. 10.
5
“Haikai” is the same as “haiku”; “haiku” is a modern
th
word that became common around the turn of the 20
century.
“Zōka” is pronounced “zaohua” in Chinese. This expression is found in The Zhuangzi. In today’s Chinese
this word designates “Heaven (tian),” which creates
and nurtures everything, as well as “happiness.”
7
“Kenkon” is pronounced “qiankun” in Chinese. “Ken”
is the first hexagram of The Yijing, representing the dry
111
Raimon Panikkar Session - Michiko Yusa
principles”—both words he adopted from the
ancient Chinese Daoist philosophy.
Beckoned by the “wind” that stirred the
core of his being, Bashō first set out on an
ambulatory journey in 1684, accompanied by
Chiri, one of his disciples. This trip culminated
in a travel journal, “Nozarashi kikō” (“the record of exposure to the weather,” or The Records of a Weather-Exposed Skeleton8). He
went on other major journeys in 1687 (a short
excursion to Kashima), in 1687-88 (a half-a
year visit to the western part of Japan, and a
return to his abode in Edo, today’s Tokyo, by
way of Sarashina), and in 1689 (a long extended trip to northern Japan), which he extended into his stay in 1690 and 1691 in the
Kyoto area. He returned to Edo in 1691, only
to set out again on his final journey in 1694,
during which time he succumbed to illness
and died “on the road.” He left his partinghaikai:
“Stricken by illness on a journey,
my dreams still run wild
in the withered fields”
tabi ni yande
yume wa kareno o
kakemeguru.9
land, and the male principle of strength and sturdiness,
while “kon” is the second hexagram, representing the
wet dark land, and the female principle of softness and
yielding.
8
See Nobuyuki Yuasa, trans. & intro., Bashō, The Narrow Road to the Deep North and Other Travel Sketches
(Harmondsworth: Penguin Books, 1983).
9
The
original
reads:
旅に病で、夢は枯野をかけ廻る. See Imoto Nōichi
井本農一 & Hori Nobuo 堀信夫, ed., Matsuo Bashō
shū 『松尾芭蕉集』[Collected works of Matsuo Bashō] vol. 1 (Tokyo: Shōgakukan, 1995), p. 502.
112
The writings that came out of his journey of 1687-1688 were posthumously published in around 1703, with the title that he
had given them—“A small bundle of essays in
the backpack” of “Oi no kobumi” 笈の小文
(also The Records of a Travel-Worn Satchel10).
This work, whose existence had only been
known to a select few disciples during his lifetime, contains important passages that summarize Bashō’s reflections on art in general
and the path of haikai in particular. Finding a
personal affinity with iconic Japanese artists
of the past, Bashō declares that the mind that
obeys “nature” is shared in common by all
these great artists; that “nature” is their constant companion; and that nature is the
abode to which they return. The names, Saigyō,11 Sōgi,12 Sesshū,13 and Rikyū,14 to whom
Bashō pays tribute, are all celebrated Japanese poets and artists, and may very roughly
be comparable in importance (but not in their
particular individual achievements) to such
Italian master artists as Petrarca, Botticelli,
Michelangelo, and Leonardo da Vinci. Bashō’s
text reads:
There is one common thread that runs
through the thirty-one syllable poetry
(waka) of Saigyō, the linked verse (renga) of
Sōgi, the paintings of Sesshū, and the art of
tea ceremony (cha) by Rikyū. Moreover,
those who engage in the path of art (fūga)
10
Ibid.
1118-1190; he was a waka poet, known for his extensive travels and superb nature poetry.
12
1425-1502; he was an accomplished renga poet.
13
1420-1506; he was a splendid monochrome landscape painter.
14
1522-91; he was the celebrated tea master, who perfected "wabi-cha," a style of tea ceremony, which
stripped anything superfluous from the opulent style of
tea ceremony to distill the essential feature of the “way
of tea.”
11
Raimon Panikkar Session - Michiko Yusa
follow nature (zōka) and take the four
seasons as their friends.
Wherever artists look, there is no place
where they do not see flowers [i.e., beauty];
whatever they contemplate, no moon [i.e.,
clarity and truth] is absent. If they do not
find flowers in what they see, their mind is
that of uncivilized creatures and not of
human beings. When their contemplation is
not on the moon, their mind is that of wild
beasts. Moving out of the uncivilized state
and leaving behind the beastly state, artists
must follow, and return to, nature (zōka).15
Bashō calls the arts as “fūga ” 風雅—
“fū” meaning “wind,” and “ga” meaning “elegance,” and therefore “fūga” literally means
“wind[like]-elegance.” An art as an elegant
rendition of the invisible “wind” is the “art”
that is truly worthy of its name. “Wind” was a
fond symbol Bashō adopted often, and he
even occasionally likened his inner self to an
amorphous restless creature that was easily
blown away and tattered by the wind—fūrabō
風羅坊. “An art defined as fūga” is inexhaustible by conceptual descriptions, since
one cannot pinpoint a substantive referent in
terms of a conceptual object. As such, it defies
mental categorization and reductionism. Like
a breath of fresh air, the moment one thinks
15
The original Japanese text and the interpretation in
modern Japanese language of the Oi no kobumi『笈の小文』 is taken from Asō Isoji 麻生磯次, ed.,
Bashō, Oku no hosomichi, ta yonhen, op. cit., pp. 126127.西行の和歌における、宗祇の連歌における、雪
舟の絵における、利休が茶における、其貫道する物
は一なり。しかも風雅におけるもの、造化にしたが
いて四時を友とする。見る処、花にあらずという事
なし。おもう所、月にあらじという事なし。像花に
あらざる時は、夷狄にひとし。心花にあらざる時は
鳥獣に類す。夷狄を出、鳥獣を離れて、造化にした
がい造化にかえれとなり。The English translation is by
the author, unless otherwise indicated.
one has got it, it is nowhere to be found in
one’s hand. This kind of use of words eludes
today’s post-Enlightenment scientific mentality that is not satisfied until we conceptualize
and apprehend the “objects” and sort them
out according to our prescribed mental
scheme. Bashō’s use of words moves away
from a “conceptualizing” use of words, and in
that process words regain their “poetic”
power, not only in haikai poetry but also in his
prose. Panikkar would call this a “symbolic”
use, as opposed to a “conceptual” use, of language.
As mentioned earlier, the word “zōka”
造化 is equivalent to what we today mean by
“nature.” Bashō adopted it from the ancient
Chinese Daoist philosopher, Zhuangzi. Bashō
also used an expression, “zōka no tenkō”
造化の天工, “the ingenuous heavenly creator,” a work by some ancient Shinto deity
such as Ōyamazumi (deity of “piling up mountains”).16 In a naturalistic world without a
monotheistic creator god, “nature natures,”
as it were, and that fact of incessant creation
itself is marveled with most reverence. This
acknowledgement of the creative aspect of
nature may be similar to what Panikkar called
“creatio continua”—an idea evolved out of his
cosmotheanthropic vision.17 The modern
Japanese word for nature “shizen”18 was used
at the time of Bashō to mean “of itself,”
“spontaneously,” and hence, “naturally”—this
16
Bashō, “Oku no hosomichi,” in Asō Isoji, ed., op. cit.,
p. 44.
17
R. Panikkar, op. cit., pp. 2-3: “I mentioned the idea of
a creatio continua, as the radical newness of each
‘moment’—not only of time but also of space, and ultimately of reality.”
18
The word自然, when pronounced “jinen,” still means
in modern Japanese “from of itself,” or “out of itself,”
and in that sense, “naturally” without external forces.
113
Raimon Panikkar Session - Michiko Yusa
meaning is close to Latin “naturaliter.” In
short, “nature” for Bashō was the source of
life and the font of arts. Therefore, it is easy to
see why he asserted that authentic artists listen to it, follow it, and return to it in order to
draw their creative energies from it.
Bashō’s ecosophical appreciation of the
path of art includes the warm camaraderie
among those who share this appreciation of
nature and art. The poet’s mind that engages
in haikai as “fūga” is a convivial mind that
cherishes not only nature but the company of
like-minded friends. Bashō, being convinced
that the path of poetry-composition had a
humanizing effect on the poet, highly recommended it. He even entrusted a word to a
former disciple, who had left him out of disagreement, not to give up his haikai art, for it
would keep him in touch with his colleagues,
and would prevent him from becoming a
coarse person.19 It should be mentioned here
that, taking after the tradition of the thirty-six
poetry-composition (waka), which cherished
the gatherings of poets at special occasions of
the season or even a competition of poetrycomposition (known as “utaawase”), the haikai artists held similar gatherings at various
occasions, and more formal gatherings were
known as “kuawase.” For the art of haikai, no
topic is off-limit, insofar as it does not hurt the
feelings of the people present at the poetry
gatherings. It is said that Bashō never mentioned the word “deaf,” in consideration of
the fact that one of his dear disciples Sampū
was hard of hearing. This is yet another ex-
19
Nose Asaji 能勢朝次, Sanzōshi hyōshaku
『三冊子評釈』[Sanzōshi & commentary] (Tokyo: Sanseidō, 1955), section 186, pp 376-378. Hereafter, this
work will be cited simply as Sanzōshi.
114
ample of how a path of art for Bashō was that
of humanity and not of the uncivilized creatures.
II. Nature as the Source of Art
We saw thus far that for Bashō the artists’ task was to render the knowledge possessed by the earth (eco-sophy) into their arts.
He was neither a pedagogue nor a theoretician, and therefore he did not leave a handbook on “how to compose a good poem.” But
his profound knowledge and precious advice
fortunately come down to us thanks to the
pen of such distinguished disciples as Mukai
Kyorai (1651-1704) and Hattori Dohō (16571730). One of the important works on Bashō’s
haikai poetics is a booklet compiled by Dohō,
called the Sanzōshi (Three Notebooks, published in 1776, years after Dohō’s death).
Therein, we find Bashō’s words as well as
Dohō’s insightful commentary on the master’s
philosophy of haikai composition. We read
therein how Bashō, the ecosophist, approached and engaged in his poetry composition. In the following, by closely reading some
weighty passages from the Sanzoshi, we shall
come to touch on the essential teachings of
the master.
(a) Tempiternity of poetry
Bashō was convinced that good haikai
poems must have “refreshing” and “new”
elements, by moving away from hackneyed
expressions and conventional locutions.
Moreover, if this quality of freshness is genuine, it should emanate from within the artist’s
own being and have the power to withstand
the passage of time. Towards the last years of
his life, he came to speak about the quality of
the unchanging and the new in his art, or
Raimon Panikkar Session - Michiko Yusa
“fueki ryūkō” 不易流行. A poetic expression
may be current and contemporary and yet can
have an “eternal quality” that can transcend
the “fashion” of the day.
We can fathom this idea somewhat easier if we resort to a concrete example. Let us
take the music by the Beatles. Some of their
“hits” in the 1960s are today’s “classics,”
never having become old or stale. The reason
seems that those tunes that captured the audience in those days as new and exciting
managed to have the universal quality that
continues to impart pleasure to the listeners
even today, half a century later. Bashō came
to hold this conviction about the tempiternal
quality in the art of haikai. He tirelessly nurtured his inner artist to express his art in a
new way, while trying to reach the quality of
tempiternity. In order to achieve that end, the
mind had to be flexible and free of conceptual
biases. How does one attain such a universal
quality? Bashō’s answer was simple: “By assiduous practice,” which consisted of developing one’s overarching awareness of any given
moment, and capturing what hits one’s
senses by way of words.
On the question of the relationship between “the old and the new” or the traditional and contemporary expressions in art,
Bashō found the Japanese Buddhist master
Kūkai’s (774-835) words on calligraphy to
have captured this point brilliantly. His words
to his beloved disciple Kyoroku reveals this
fact: “Do not seek to follow in the footsteps of
the artists of old; seek what they sought—just
as Master Kūkai commented on the art of calligraphy.”20 These words, dating from 1693—
20
“Farewell words to Kyoroku, or Saimon no ji,”
only a year before Bashō’s death—can be
considered to summarize his final view on this
matter.
(b) Keep your mind high, and return to
the daily activities
Bashō advises that for the composition
of a good poem, it is essential to keep one’s
mind above trivial affairs of the daily life.
When we can maintain equanimity and selfdisinterestedness, our mind is free from worries and mundane burdens, and can become
flexible and responsive to the artistic stimuli.
If we return to the midst of one’s daily activities, while retaining this kind of transcendental mental attitude, we will be able to stay in
touch with the deep source of authentic creativity. This kind of mental attitude may be
compared to the awareness of “sacred secularity,” of which Panikkar spoke. Bashō’s
words recorded by Dohō read:
Keep your mind high in the world of
true understanding, and return to the world
of daily experience. If you doggedly pursue
artistic (“fūga”) sincerity and understand it,
whatever attempt you will make will be
turned into your haikai poem. If you
constantly dwell in the artistic path
(“fūga”), the impression (iro)21 of your
許六離別の詞、柴門の辞, 1693. For an English translation, see “The Rustic Gate,” Ryūsaku Tsunoda, et al.,
ed., Sources of Japanese Tradition, (New York & London: Columbia University Press, 1971) pp. 458-459. The
Japanese text consulted is in Murata Haruo 村田治夫,
Bashō
haibun
nikki
kikō
hairon
yōkai
『芭蕉俳文・日記・紀行・俳論要解』[Selection
from Bashō’s prose, travel diary, and on the poetics of
haikai],
(Tokyo:
Yūseidō,
1967),
p.
81.
古人の跡をもとめず、古人の求めたる所をもとめよ
。と、南山大師の筆の道にも見えたり。
21
The Japanese word “iro,” means color or hue, and it
may have a resonance with the Sanskrit “rūpa” of “nā-
115
Raimon Panikkar Session - Michiko Yusa
contemplating mind will take on a tangible
form (mono), and your verse will take its
own shape. When you are in this state,
things come to you naturally, and nothing is
amiss.22
Bashō also said, “The merit of haikai is
to raise the ordinary words to its rightful
place. Never trivialize anything.”23 Bashō’s
haikai, such as “Deep in the autumn, I wonder, my neighbor, what does he do for living?”
(Aki fukaki, tonari wa nani o, suru hito zo)
shows how ordinary words, such as
“neighbor” and “what does he do for living”
are elevated to a new height, as the whole
poem is imbued with a sense of stillness and
loneliness that Bashō deeply felt in one late
quiet autumn night. This elevation of the ordinary to a poetic “depth” was a very unique
contribution Bashō was able to make in his
art. He was certainly not an iconoclast, however, and set a certain parameter. Not all
words were appropriate under certain circumstances, as briefly mentioned above.
Moreover, because haikai poetry was often
composed at a gathering of several poets
where each would come up with a new verse
to follow the earlier verse in promptu (which
was done in the fashion of “renku” or connecting verses), there were certain protocols
Bashō felt were essential. For instance, on the
occasion of the celebration of a newly built
ma rūpa”—which generally means “appearance.” It is
translated as “impression” here.
22
Sanzōshi, Nose Asaji, op. cit., p. 97.
高く心をさとりて俗に帰るべし。常に風雅の誠を
せめさとりて、今なす処俳諧に帰るべし。常風雅
にいるものは思う心の色、物となりて、句姿定る
ものなれば、取物自然にして仔細なし。
23
Sanzōshi, section 177, Nose Asaji, op. cit., pp. 365366.
俳諧の益は俗語を正す也。つねに物をおろそかに
すべからず。
116
house, words related to fire that could destroy the house—fire was quite common during the Edo period and thus was feared—were
to be avoided by way of considerate etiquette.24 He also advised that such words be
discarded as “killing (a person),” “killing with a
sword,” and “tying up (a person) with a
rope”—not because of the words themselves
but because of the “baseness” of the mind
that would even conceive such actions.25
(c) Go to a Pine Tree-remove your private
preconceptions
How do poets gain the knowledge of
the “subject” of their poetry? Bashō had the
following famous advice on this point: “As for
a pine tree, learn it from a pine tree; as for a
bamboo, learn it from a bamboo.” Dohō recorded these words, followed by a reflection
of his own:
“About a pine tree, learn from a pine
tree. About a bamboo, learn from a
bamboo.” That is to say, we must leave our
subjective preoccupations (shii) behind
when
composing
poetry.
If
we
misunderstand what the master meant by
“learn,” we end up going greatly astray.
What the master said “to learn” is this:
when we enter into the object and glimpse
its hidden glimmering, poetry issues forth of
its own accord. However nicely phrased our
poetry may be, if it does not flow out of the
thing naturally (shizen), the thing and the
self remain separate, and the feeling falls
24
Ibid.,
section
21,
pp.
65-66.
新宅の会に、燃る、焼など火の噂、...いむべ
き心遣いと也。
25
Ibid.,
section
17,
pp.
58-59.
人を殺す、切る、しばるなどの類は用捨すべし。
Raimon Panikkar Session - Michiko Yusa
short of sincerity. Such poetry is nothing but
a product of artificial fabrication.26
deed require commitment, self-discipline, and
proper guidance of a master.
Bashō’s words—“About a pine tree,
learn it from a pine tree; about a bamboo,
learn it from a bamboo”—seem deceptively
simple and convincing. And yet, how are we
to understand this teaching? Dohō explains:
we must remove our subjective preconceptions or private arbitrariness (“shii” 私意), i.e.,
dogmatism. “Shii” also includes our worldly
ambitions, such as the thought of producing a
fine poem in order to earn fame. Bashō’s
words echo the Zen master Dōgen’s famous
saying: “To ‘learn’ Buddhism is to learn about
oneself. To learn about oneself is to forget
oneself. To forget oneself is to be illuminated
(and enlightened) by all things” (“Genjō
kōan,” Shōbōgenzō).27 “Learning” in the Zen
Buddhist context has to take place in the form
of “practice.” Likewise, the practice of haikai
composition begins with “getting rid of” preconceptions and ego-centric dogmatism. It is
because of the importance of the practice,
which the path of traditional arts in Japan requires, artistic pursuits have often been compared to a religious practice—both paths in-
The verb “to learn” (narau) here means
not so much as to “study” as to “practice the
skill until one acquires it by embodying it.”
This meaning is clear in English when we say:
“I want to learn piano.” It means I want to
learn to play the piano, which begins with the
practice of basic skills over and over again, until I get it. Likewise, what is meant by “to
learn” here by Bashō is to “practice” with our
body and mind to acquire the needed skills. It
is to embody the knowledge of what we are
trying to express through the art form. What
does it mean then to “learn about a pine
tree”? How do we “acquire and embody a
pine tree”? How are we to “practice a pine
tree”?
26
Sanzōshi, section 31m Nose Asaji, op. cit, pp. 97-98.
Emphasis
added.
松の事は松に習え、竹の事は竹に習え。私意をはな
れよという事なり。この習えという所を、おのがま
まにとりて、終に習わざる也。習えと云うは、物に
入てその微の顕て情感るや、句となる所也。たとえ
物あらわらに云出ても、そのものより自然に出る情
にあらざれば、物と我二つになりて其情誠にいたら
ず。私意のなす作意也。
27
Masutani Fumio 増谷文雄, trans. into modern Japanese, Gendaigo-yaku, Shōbōgenzō 『現代語訳
正法眼蔵』[Shōbōgenzō, accompanied by a modern
Japanese reading] , vol. 1, Genjō kōan 現成公案(Tokyo:
Kadokawa
Shoten,
1973),
p.
27.
仏道をならふといふは、自己をならふ也。自己を
ならふといふは、自己をわするるなり。自己をわ
するるといふは、万法に証せらるるなり。
Dohō’s next line looms significant, as it
sheds light on this question. Dohō wrote:
“What the master said ‘to learn’ is this: when
we enter into the object and glimpse its hidden glimmering, poetry issues forth of its own
accord.” Here, a philosophical analysis of “action-intuition (kōiteki chokkan 行為的直観),
developed by the Japanese thinker Nishida Kitarō (1870-1945), helps us understand better
what Bashō meant. Nishida describes the “action-intuition” in many different ways: “We
see a thing by our action; while the thing determines me, I determine the thing. That is action-intuition.”28 And again: “Technique (gijutsu, techne) means that I become the thing
and work. I become the thing and the thing
28
Nishida Kitarō, “Kōiteki chokkan no tachiba,” [The
stand point of action-intuition] (1935) Shimomura Toratarō et al., ed., Nishida Kitarō Zenshū [Collected
works of Nishida Kitarō] (hereafter NKZ) (Tokyo: Iwanami Shoten, 1979), vol. 8, p. 131.
117
Raimon Panikkar Session - Michiko Yusa
becomes the I. I work by seeing, and I see by
acting. It is active-intuitive.”29 He came to
paraphrase this insight in shorthand formula
as: “We think, having become a thing, and we
act, having become a thing” (mono to natte
kangae, mono to natte okonau).30 “Actionintuition” points to the mode in which our action and intuition are mutually integral to
each other. This idea is nicely illustrated by a
concrete example of playing soccer.31 When a
ball comes to him, he intuitively knows exactly
where to kick it to pass it to the other member of the team, or which part of the goal to
shoot it with what angle to score a point. The
ball and the kinetic body-movement of the
player, the rule of the game (knowledge), and
the concrete perception of where the ball is
on the field—all form a seamless present
moment in a total picture. Instantaneously,
the player plays the ball without taking a moment to reflect on it in order to analyze the
situation. If he hesitates even a split second,
he would lose the ball to the opponent. The
position of the ball, the position of his opponents and team members, and his physical
skills are all intertwined in an interpenetrating
way, and his perfect pass or kick would contribute to the satisfying unfolding of the
game.
29
Nishida Kitarō, “Poieshisu to purakushisu” [Poiesis
and Praxis] (1940), NKZ vol. 10, p. 158.
30
Nishida Kitarō, “Chishiki no kyakkansei ni tsuite” [On
the objectivity of knowledge] (1943), NKZ vol. 10, p.
404. Sometimes he paraphrases this as: “mono to natte
mi, mono to natte hataraku” (Becoming a thing I see,
becoming a thing I work.” These varying expressions
mean essentially the same phenomenon.
31
This example arose out of a class discussion with a
student of mine, who is a semi-professional soccer player.
118
If we can apply this Nishidan insight
here to what Bashō is saying, we may paraphrase the inner dynamism of “learning from
a pine tree” as follows. When I become one
with the pine tree, I, in direct contact with the
pine tree, am incited to come up with certain
expressions. A poem writes itself, as it were,
out of this close encounter.
How do I know what I “glimpse” in the
pine tree is not my personal illusion or some
sort of subjective fabrication? Dohō’s next line
addresses this question: “However nicely
phrased our poetry may be, if it does not flow
out of the thing naturally (shizen), the thing
and the self remain separate, and the feeling
falls short of sincerity. Such poetry is nothing
but a product of artificial fabrication.” If there
is even a smidge of ego-assertion, the verse
will result in an over-wrought expression. To
become one with the thing is to understand
it—or to “stand under it,” as Panikkar so
fondly used to say. To embrace a pine tree is
to shed my boundaries and expand my consciousness to embrace the other, and at that
moment, the other is no longer the other but
a me. By “embracing” the pine tree, I am in
fact “being embraced” by the pine tree.
This selflessness as the necessary requirement for writing a fine piece of haikai
may also be illustrated by a story from the
Zhuangzi, the ancient Chinese Daoist text attributed to the philosopher by the same
name. Bashō loved Zhuangzian naturalistic attitude. Here is a story of the “Woodcarver
Qing.”
Woodworker Qing of Lu, carved a piece
of wood and made a bell stand, and when it
was finished, everyone who saw it
marveled, for it seemed to be the work of
Raimon Panikkar Session - Michiko Yusa
gods or spirits. When the marquis of Lu saw
it, he asked, “What art is it you have?”
Qing replied, “I am only a craftsman—
how would I have any art? There is one
thing, however. When I am going to make a
bell stand, I never let it wear out my energy.
I always fast in order to still my mind. When
I have fasted for three days, I no longer
have any thought of congratulations or
rewards, of titles or stipends. When I have
fasted for five days, I no longer have any
thought of praise or blame, of skill or
clumsiness. And when I have fasted for
seven days, I am so still that I forget I have
four limbs and a form and body. By that
time, the ruler and his court no longer exist
for me. My skill is concentrated and all
outside distractions fade away. After that, I
go into the mountain forest and examine
the heavenly nature of the trees. If I find
one of the superlative forms, and I can see a
bell stand there, I put my hand to the job of
carving; if not, I let it go. This way I am
simply matching up ‘heaven’ with ‘heaven’
[that is, matching up my own innate nature
with that of the tree]. That’s probably the
reason that people wonder if the results
were not made by spirits.”32
(d) A fundamental difference between
“letting it be” and “forcing it to be”
For Bashō, there was a clear distinction
between forcing a verse to form itself and letting it take its own form. Bashō often spoke
about the fundamental difference between
two verbs “[a situation] comes to pass” or “it
becomes” (naru) and “I do” (suru). These are
32
Burton Watson, trans. Chuang Tzu Basic Writings,
(New York & London: Columbia University Press, 1964),
pp. 126-127. The spelling in the original was Ch’ing,
which is changed to pinyin, Qing.
two opposite directions associated with human creative activities. One is to force a form
to take its shape, and the other is to let a form
take its own shape. Bashō, deeply resonating
with the Zhuangzian spirit of “wuwei 無為”
(riddance of unnecessary artificial actions),
used to say:
The constant interplay of the positive
and the negative elements (i.e., yang and
yin elements in nature) can be described as
the “seeds” of art (fūga). What is quiet and
unmoving is the appearance of the
immutable. What is dynamic and moving
belongs to the mutable. If you do not
capture (tomeru) the moment, it will not
remain (todomaru) in your memory. “To
capture” means to commit it to your visual
memory and write it down. Even the
splendid scattering of spring flowers or
falling of autumnal foliages, if you are not in
the midst of it to commit it to your mental
image and write it down, how can such
scenes be retained in your memory? Living
things disappear without a trace.
Dohō continues and cites the master’s
words:
You must capture a thing by way of
words, before the glimmer of the thing
disappears from your mind. Also, there is a
technique to start a verse with the words
that best captures the wonder of the thing.
That is to say, while the impression of the
thing is still warm in your mind, write it
down, and later revisit it in order to polish
it.
In verse-making, there are two
approaches: “to become” (naru) and “to
do” (suru), If you constantly cultivate your
inner awareness to meet a thing, the
impression (iro) of your mind will take on a
verse. If you do not constantly cultivate
119
Raimon Panikkar Session - Michiko Yusa
your inner awareness, it will not lead to a
good verse, and therefore you end up
“making” a verse with the help of your
subjective will (shii).33
Bashō emphasized just to jot down any
impression, in order to capture the image of a
subject. So long as you have a rough sketch of
the scenery, you have something to remember it by, and it will enable you to compose a
satisfying poem about it later. Any poet must
capture a moment with words, and put the
impression and observation into some key
words so as not to let the fleeting moments
pass.34 Also, any poet must cultivate a power
to observe any scenery in a penetrating manner, with utmost clarity and accuracy into the
details. A vague memory of the setting would
not do. This ability to have a mental snapshot
of a scenery is gained only after years of intense practice of training the mind to observe
in detail.35
33
Sanzōshi, section 33, Nose Asaji, op. cit., p. 115.
師の曰、乾坤の変は風雅のたね也といえり。静な
るものは不変の姿也。動るものは変也。時として
とめざればとどまらず。止るというは、見とめ聞
とむる也。飛花落葉の散乱るも、その中にして見
とめ聞とめざれば、おさまることなし。その活た
るものだに消て跡なし。又、句作りに師の詞有。
物の見えたるひかり、いまだ心にきえざる中にい
いとむべし。又、趣向を句のふりに振出すという
ことあり。是その境に入て物のさめざるうちに取
て、姿を究る教也。句作になるとするとあり。内
をつねに勤て物に応ずれば、その心のいろ句とな
る。内をつねに勤ざるものは、ならざる故に私意
にかけてする也。
34
Sanzōshi, section 171, p. 356, and section 176, pp.
363-364.
35
Nose Asaji’s comment on section 33 of Sanzōshi, op.
cit., pp. 120-121.
120
III. Concluding Remarks, Ecosophy, Panikkar, and Bashō
As we saw above, because of his
“ecosophical” bend, Bashō progressively felt
choked by his city dwelling and began to make
extended journeys into nature. Journey for
him was not an act of exploration or adventure, but the way to tune his being and perception with nature. His sensibility towards
nature is informed by the native Japanese attitude towards nature, namely, nature is
something that nurtures, gives a bounty of
blessings, is ever new and ever fresh, but occasionally reminds us of our frail and precarious place within it. Bashō also seems to have
considered his journey to have a religious aspect, as Zen monks of olden days used to
travel—known as “angya” 行脚—from monastery to monastery, in search of a master
under whom each could best practice to pursue the path of awakening. Travel occasionally
exposed Bashō to the untamed elements,
which were at times truly terrifying. He had to
overcome the fear of falling off a cliff or being
drowned by whitewater rapids. No doubt,
such experiences came to him as an acute antidote to human hubris. Bashō was not a pure
“nature” poet, in that his attention always
embraced everyday human activities, as well
as the historical events of the past.
The legacies of the ancients came to
Bashō as a kind of affirmation in the everchanging world. He would be deeply moved
by the enduring human artifacts whenever he
would come upon them. During his trip of
1689 to the northern part of Japan, when he
came across a forgotten stone monument,
which he discovered from the inscription was
dating from the eighth century at the ancient
Raimon Panikkar Session - Michiko Yusa
fortress of Tagajō, the sense of encounter
with the ancients overwhelmed him. He
wrote:
different or distant, after all, “sub specie
ecosophiae.”
Many place names have been
preserved for us in poetry from ancient
times, but mountains crumble and rivers
disappear, new roads replace the old,
stones are buried and vanish in the earth,
trees grow old and give way to saplings.
Time passes, the generation changes, and
the remains of the past are often shrouded.
And yet here before my eyes was the
monument, a memory of the ancients of a
thousand years ago. I felt as if I had a
privileged look into the heart of the ancient
people. This is one of the rewards of travel
and the joy of living to an old age.
Forgetting the weariness of my travel, I was
moved to tears.36
Asō Isoji 麻生磯次, ed. Bashō, Oku no hosomichi, ta
yonhen [The Narrow Road to Oku and four other essays], (Tokyo: Ōbunsha, 1970).
We may conclude this essay by making a
bold assertion that consciousness that permeates the world and nature (cosmos) is larger than human consciousness. It cuts
through the matter, and bridges the sentient
and non-sentient beings, as well as the past
and the present. This was perhaps at the core
of the “cosmotheanthropic” vision that Raimon Panikkar savored and lived. A similar intuition also kindled Bashō’s life and energized
his creativity in so different a century in so
distant a culture—and yet, perhaps, not so
References:
Imoto Nōichi 井本農一 & Hori Nobuo 堀信夫, ed. Matsuo Bashō shū 『松尾芭蕉集』[Collected works of
Matsuo Bashō] vol. 1 (Tokyo: Shōgakukan, 1995).
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Japanese reading], vol. 1 (Tokyo: Kadokawa Shoten,
1973).
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yōkai
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__________.
“Poieshisu
to
purakushisu”
ポイエシスとプラクシス [Poiesis and Praxis] (1940),
Nishida Kitarō Zenshū, vol. 10, pp. 124-176.
__________.
no kyakkansei ni tsuite”
知識の客観性について [On the objectivity of knowledge] (1943), Nishida Kitarō Zenshū, vol. 10, pp. 343476.
Nose
Asaji
“Chishiki
能勢朝次.
Sanzōshi
hyōshaku
『三冊子評釈』[Sanzōshi & commentary] (Tokyo:
Sanseidō, 1955).
Panikkar, Raimon. The Rhythm of Being (Maryknoll,
New York: Orbis Books, 2010).
36
Oku no hosomichi in Asō Isoji, Oku no hosomichi, op.
cit., pp. 38-40.
むかしよりよみ置ける歌枕、多く語り伝うといえ
ども、山崩れ、川流れて道あらたまり、石は埋も
れて土にかくれ、木は老いて若木にかわれば、時
移り代変じて、其跡たしかならぬ事のみを、爰に
至りて疑いなき千歳の記念、今眼前に古人の心を
閲す。行脚の一徳、存命の悦び、羇旅の労をわす
れて泪も落つるばかり也。
Tsunoda, Ryūsaku, et al. ed. Sources of Japanese Tradition, (New York & London: Columbia University Press,
1971).
Yuasa, Nobuyuki, trans. & intro. Bashō, The Narrow
Road to the Deep North and Other Travel Sketches
(Harmondsworth: Penguin Books, 1983).
Watson, Burton, trans. Chuang Tzu Basic Writings,
(New York & London: Columbia University Press, 1964).
121
Raimon Panikkar Session - Victorino Pérez Prieto
THE COSMOTHEANDRIC STRUCTURE OF REALITY: THE PART
AND THE WHOLE. INVISIBLE HARMONY AND ECOSOPHY
Victorino Pérez Prieto
Victorino Pérez Prieto
(video)
“We no longer can live into isolated
compartments and narcissisticaly installed
in a detachment that lacks to be splendid to
become miserable... The way is the
interconnection
of
everything
with
everything, as practically all mystics
underline”1.
Good morning,
Let me start with a greeting to the
panikkarian colleagues and other scholars
present at this meeting. I would like to
express my gratitude to the organization of
this First CIRPIT International Colloquium
“Between Intercultural Philosophy and
Complexity”, dedicated to the great teacher,
colleague and unforgettable friend who was
Raimon Panikkar. I have had the privilege of
sharing life and thought with him and with
him I have learnt to position myself better in
my relation with God and the world.
I have
titled
my talk “The
cosmotheandric structure of reality. The part
and the whole. Invisible harmony and
ecosophy”. I want to start this talk with some
significant words from Raimon Panikkar,
which express the reason for this title:
Victorino Pérez Prieto, Doctor of Theology
Università Santiago de Compostela, Spagna.
122
1st point. The part and the whole.
Particularism and universality.
Ontonomy versus heteronomy and autonomy.
“Colligite
quae
superaverunt
fragmenta, ne pereant” (Jn 6, 12). This
sentence from Jesus of Nazareth – sentence
which Raimon Panikkar really liked2– puts an
end to the story of the multiplication and
sums up the foundations of Panikkar's
thought. That is to say, the need to integrate
the whole reality in all its dimensions; to
1
R. Panikkar,“¿Mística comparada?”, en VV AA, La
mística en el siglo XXI, Madrid 2002, 228.
2
“Colligite Fragmenta: For an Integration of Reality”,
From Alienation to At-Oneness, ed. F. A. Eigo, The
Villanova University Press, 1977.
Raimon Panikkar Session - Victorino Pérez Prieto
collect scattered fragments, even the smallest
ones, even if they are just bits; to reconstruct
the harmonic whole from which they have
been split: “Nothing is rejected, nothing is left
aside. All is comprehensive, assumed,
transfigured... It is a question of thinking
about all the fragments of our current world
to gather them in a non monolithic but
harmonic set” 3.
Compared to reductionism –“a usual
philosophic sin” which Panikkar calls
microdoxia–, his thought has a distinctive
feature: his obsession for the whole, for a
harmony between the various particular
realities and the different cultural conceptions
of the modern Western world and the Eastern
world. It is a question of how to reach an
authentic “vision of the whole”: “My great
aspiration was, and still is, to include, or
rather to become, the reality in all its
fullness”. Without any doubt –in a position
inspired in both Buddhism and Saint John of
the Cross– Panikkar states:
“To which place do I want to go?... I want to
go nowhere. This would mean to still be in
the strong-willed stage... that sets up the
post Platonic-aristotelian-Kantian culture,
that is to say, the Western culture... It is not
a question of going nowhere. It is not a
question of parts. It is not a question of
partialities... It is a question of the totality” 4.
As Jordi Pigem has observed, Panikkar
states that the fundamental feature of reality
is that “there is no structure in it”, only
“interrelationships” 5. Panikkar himself has
corroborated this by saying that “the reality
does not have any structure”; there is an
“interconnection
of
everything
with
6
everything” . With this statement he reaches
a new historical age of the human conscience,
which is emerging in the thought of the latest
years. The integral conscience is being born
against the dictatorship of the logical thought,
which vindicated an exclusive “explanation”
of the world and men, a dictatorship that has
already failed. It is a conscience of the
entirety and the unity in which men and the
cosmos are merging, for the multiple human
realms do work as a comprehensive
conscience.
This is the reason why particularism
and universality are inextricably joined in
Panikkar's reflection and life, in a search for
the interrelationship of everything with
everything. The sole way to reach the whole
reality is to start with particular things, but
jumping again from the particular thing to the
whole. Panikkar knows that it is not possible
to be really universal without being radically
particular. The particular thing makes us
specific, allows us to take root in a specific
culture and in a particular place so as not to
live isolated. You only can be really universal if
you maturely take on your uniqueness: to be
genuinely universal you need to be radically
specific.
The
interconnection,
or
interde-
3
La intuición cosmoteándrica. Las tres dimensiones de
la realidad, Madrid 1999, 19-20; The Cosmotheandric
Experience. Emerging Religious Consciousness, New
York 1993.
4
Prologue of El silencio del Buddha. Una introducción al
ateismo religioso, Madrid 1999; The silence of God. The
Answer of the Budha, NewYork 1989.
5
Jordi Pigem, El pensament de Raimon Panikkar.
Interdepèndencia,
pluralisme,
interculturalitat,
Barcelona 2007.
6
“Epíleg. Diàleg a diverses veus”, I. Boada (ed.), La
filosofia intercultural de Raimon Panikkar, Barcelona
2004, 156.
123
Raimon Panikkar Session - Victorino Pérez Prieto
pendence, is a crucial factor in the
environmentalist thought as well as in
Buddhism and other traditions. Jesus of
Nazareth, accepting his spatial and temporal
limits, accepts those Galilean limits in order to
be “a universal man” (“all in everyone”); he
will always be “Jesus of Nazareth”, until being
recognised as the universal Christ. From his
small and individual Galilean reality, Jesus
Christ could get to all men and women “of all
race, language, people and nation” (Rev 5.9)
to carry out his universal salvation project.
the particular realms of the being (autonomy)
as well as the domination of every realm over
the others (heteronomy) so to get to a
harmonious integration in the whole
(ontonomy).
“The relationship between God and the
creature is not heteronomous nor
autonomous... The creature is not God,
certainly, but is not true that God is not the
creature... [for] everything that is has to be,
in some way, God... The creature is not God,
but is of God, in God and by God... is with
God... The ontic structure that ontonomy
seeks is not an intrinsic tie nor an extrinsic
relationship. God is not the Eterós as the
creature is not a autós. We are rather
seautós, even better, seautón (of you) and
Him, God, a Eautós (Himself)… There is an
ontonomic order that we have to discover,
because it is the only thing capable of
showing us the real structure of the
world”9.
This relationship between particularism and universality was an early
achievement in Panikkar's thought through
his concept of ontonomy, which opposes
heteronomy and autonomy. The nómos toû
óntos is the internal nomos constituent of
each being, that allows “growth” (ontonomic)
without breaking harmony” 7.
“I call ontonomy the recognition or the
development of the specific laws of every
realm of human beings or of the human
activity, distinguishing superior and inferior
realms, but without separation or
unjustified interferences. Ontonomy is
sensitive to the peculiarities specific to
every being or kind of beings, without
making these regularities absolutes as
though there were not other beings, nor to
enslave them at the service of higher
entities8.
It is a question of the exclusion of the
separate or disconnected independence of
7
“Autobiografía intelectual. La filosofía como estilo de
vida”, Anthropos, Barcelona,
53-54 (1985) 14;
“Philosophy as life-style”, en A. Mercier-M. Svilar (ed.)
Philosophes critiques d’eux mêmes, Berna 1978.
8
Ontonomía de la ciencia. Sobre el sentido de la ciencia
y sus relaciones con la filosofía, Madrid 1961, 10.
124
2ndpoint. Radical reality and total reciprocity,
invisible harmony and ecosophy.
For this harmonic conjunction
between the parts and the whole, Panikkar,
very much in accordance with Hindu thought,
insists in the relativity of all those parts,
against the prevailing absolutism of one of
them. But, as he constantly repeats, relativity
is not the same thing as relativism. Each part
has got its particular value: “The dilemma is
not relativism or absolutism, but the
recognition of the radical relativity of the
whole Reality”10. Panikkar repeatedly insists in
9
Misterio y revelación. Hinduismo y cristianismo,
encuentro entre dos culturas, Madrid 1971, 86-89;
Mayá e Apocalisse. L’incontro dell’induismo e del
cristianesimo, Roma 1966.
10
La Trinidad. Una experiencia humana primordial,
Madrid 1998, 18; The Trinity and the Religious
Raimon Panikkar Session - Victorino Pérez Prieto
this radical relativity, which has an equivalent
in the valuable Hinduist concept of
pratítyasamutpáda. This relativity should
apply to our human relationships, to our
relationship with the world, to the
relationship of God with that world, and even
to the divine reality itself:
“God is radical relativity or total reciprocity.
This
statement
emphasizes
the
fundamentality of the relationship of
everything with everything, which is very
different from a pure relativism defending
the non existence of valid statements and
so denying its aspiration of validity.
Relativism is pessimistic and destroys any
real criterion of truth; relativity, on the
contrary, leaves the criteria of truth intact,
but without absolutizing it”11.
Panikkar turns this radical relativity,
total reciprocity or relationship in something
that constitutes the whole reality, also the
Divinity: “Everything is related to everything”,
he states, following a maxim of Shivaism also
present in all the Eastern thought. That is why
he states that God is pure relationship: “the
genitive relationship fundamental to reality”,
“the constituent and creating genitive of all
things”12. This is the foundation of his
conception of the divine Trinity, that he thinks
deeply Christian: “God does not have
'himself', given that 'he is' an I, a You and a
Him, that are exchanged in the Trinitarian
perichôrêsis” (Ibidem) and of a harmonic and
unitary expression of the whole Reality, which
is the cosmotheandric perspective.
This perspective means the invisible
Experience of Man. Icon, Person, Mystery, New York
1975.
11
El silencio del Buddha, 234.
12
Ibid. 234-35.
harmony of the whole Reality. The same
harmony which should exist between every
human being and the others; between all
religions and between all cultures. This
invisible harmony opposes dualism, which
confronts some religions against the others,
as well as monism, which would mean a plain
ecumenism, an “ecumenical esperanto” that
would kill the richness that lies in
differences13. On the contrary, we should
open our minds to the others and believe and
trust the human experience as a whole, the
harmony of the human beings and the
cosmos. For “religion is the symphony, not the
sole musician”.
This perspective leads to an ecosophy
as well; a wisdom-spirituality of the earth,
more than a simple ecology (“science of the
earth”). This wisdom is a “new balance” not
merely between men and the earth, but
between matter and spirit, between the
spatial-temporality and conscience. A wisdom
that states a cosmic confidence and faith14.
Panikkar integrates this ecosophy in
Cristophany: the cosmic Christ and the
scatological Christ tell us something about the
physical future of the earth as well. “Athens
may not be related with Jerusalem –in the
words of Tertulian–, but Christ is related with
both of them and also with the mother
earth”. For “our faithfulness to Christ and our
love towards him do not separate us from our
fellow men, included animals and plants, the
earth...” 15.
13
Invisible Harmony. Essays on Contemplation
Responsibility, ed. by H.J. Cargas, Minneapolis 1995.
14
Ecosofía. Para una espiritualidad de la tierra, Madrid
1994,114-115.
15
La plenitud del hombre. Una cristofanía, Madrid
1999, 204-205; The Fullness of Man. A Christophany,
125
Raimon Panikkar Session - Victorino Pérez Prieto
3rd point. The cosmotheandric/theantropocosmic intuition.
Radical Trinity and advaita
a) The cosmotheandric or theantropocosmic intuition is “the entire knowledge of
the whole”. It is a question of living open to
this triple dimension of reality, open to the
others, open to the world and to God, so as to
get to a harmonic communion with the whole,
that is to say, the cosmotheandric
reconciliation. “What counts is the whole
reality, matter as well as spirit, good as well as
evil, science as much as mysticism, the soul as
much as the body”16.
The metaphor “dimension” –Panikkar
explains– wants to exceed “the monist
temptation of building a modalistic super
simplified universe, where all things are no
more than variations and modes of a
substance..., [and] the dualist temptation of
establishing two or more incommunicable
elements”17. It is more of a mystic and
ineffable experience than philosophic
experience in the traditional meaning; but –as
it is known– Panikkar breaks philosophictheological moulds generally in use.
“There are not three realities: God, Man
and the World; there is not a single one
either (God, Man or the World). The reality
is cosmotheandric. It is our way of watching
which makes the reality appear to us in
different modes. God, Man and the World
are, so to speak, in an intimate and
constitutive collaboration to build the
Reality, to move history forward, to
continue the creation...
There is dynamism and growth in what
Christians call the mystic Body of Christ and
Buddhists call dharamakaya. God, Man and
the World are committed to a sole
adventure and this commitment constitutes
the actual Reality”18.
The cosmotheandric intuition is the
same thing as the “radical” conception of
Trinity. This Panikkarian concept is in close
connection with the Hindu concepts of
advaita a-dualism and the ŗta principle, of
which I am going to talk briefly. This triadic
and radical-Trinitarian structure is present not
only in Panikkar's thought –his conception of
reality– but in his own methodology as well.
As Scott Eastham has pointed out, the “three
worlds” omnipresent in Panikkar's thought,
are not unrelated with his triple doctorate in
sciences, philosophy and theology: ánthrôpostheós-kósmos, man-God-world. They match
the
triplet
humanity-religion-science,
noumenon-mysterion-phainomenon,
lógospneûma-mýtos, etc.
Jordi Pigem refers how Raimon Panikkar
organises his written thoughts on the basis of
triadic structures and their multiples, like his
famous “novenarios” (three times three)19.
b) Radical Trinity. Although he assumes the
Christian trinitarian perspective, Panikkar
does not consider the Trinity as exclusive of
the Christian revelation, but as a fundamental
human experience, as the subtitle of the 20th
Spanish edition of hiss book on the Trinity
18
La Trinidad, 90. The Trinity...
S. Eastham, “Una visita guiada pels tres mons de
Raimon Panikkar”, J. Pigem, “L’ estructura trinitària de
la realitat i la intuició cosmoteàndrica”, in Ignasi Boada,
La filosofia intercultural de Raimon Panikkar, 29-46 y
52-53.
19
New York 2006.
16
“The Cosmotheandric Intuition”, in La nueva
inocencia, Estella 1993, 54.
17
Ibid.
126
Raimon Panikkar Session - Victorino Pérez Prieto
religions. This surmounting ... implies the
opening to the great intuition of the Trinity,
a fundamental human experience and a
meeting point for the human traditions”23.
remembers.
“In this essay I try to go deeply in the
Christian mystery and I encounter an
astonishing confluence with the traditional
world of religions and the secular world of
modernity. At this depth a fecund dialogue
is possible...”20.
We encounter this idea of the Trinity
versus a royalist-imperial regime in the book
of Jürgen Moltmann Trinitat und Reich Gottes;
and most notably in Leonardo Boff's book A
Trindade, a sociedade e a libertação. Both are
indebted to a short classical essay which
made a name for its author: Eric Peterson's
The monotheism as a political problem 21.
If the “Trinitarian” scandal – that cost
his life to Jesus of Nazareth according to the
theology of the first centuries – achieved a
wide spread was, according to Panikkar,
decause “a strict monotheism is a lot more
congruous
with
the
royalist-imperial
22
Christendom regime” . This is why Panikkar
considers that the real challenge of
contemporary Christianity is recovering its
Trinitarian dimension. The thing is not
denying monotheism but “giving way to the
Trinity”, conceiving God in its real Christian
originality: the Father-Son-Spirit from the
trinitarian monotheism.
“At the Christianity kairos in the third
millennium is the surmounting of the
Abrahamic monotheism while keeping the
legitimacy and validity of the monotheistic
20
La Trinidad, 46.
st
“Monotheismus als politisches Problem”, 1 edition
1935, spanish traslation Madrid 1999. Cf. Jürgen
Moltmann Trinidad y Reino de Dios, Salamanca 1983;
Leonardo Boff La Trinidad, la sociedad y la liberación,
Madrid 1987).
22
La Trinidad, 47.
21
Panikkar questions a monotheist God
that were the whole reality too –for He would
not leave ontological room for the creature –
as well as he questioning pantheism, which
would get to the same point: “We can state
that all is divine, but we should add that the
divine thing does not run out in any whole”24.
For Panikkar, deep down is the conception of
God as pure relationship, compared to the
God as Absolute, invariable and unmoving
substance, independent from the world, that
appears in the old monotheism and some
religions. So he speaks about a radical Trinity,
which integrates all the Reality in a nondualist way (the divine, the human, the
cosmic) avoiding to fall both in dualism and in
a pantheist monism.
“When one has experienced that God is in
everything, that everything is in God
however. God is nothing of what really
exists, then one has nearly reached the
realization,
the
authentic
advaita
experience which, as every real experience,
can neither be communicated nor
expressed through concepts”25.
The entire Reality has a Trinitarian
structure. Everything is closely related to it.
They are not only in a constitutive relation
God Father-God Son-God Holy Ghost, the ad
intra of the divine reality, but also God-ManCosmos,
Heaven-EarthMan,
ThingsConcepts-Words. Father-Son-Holy Ghost
would correspond to what Christian theology
23
La plenitud del hombre, 15. The Fullness of Man.
La Trinidad, 13-14.
25
Ibid. 60.
24
127
Raimon Panikkar Session - Victorino Pérez Prieto
calls immanent Trinity, the divine interior.
God-Man- Cosmos would correspond to which
Christian theology calls economic Trinity, the
relationship of God with man and the world.
Radical Trinity – Raimon Panikkar repeats over
and over again– means that the Reality is
neither monist nor dualist, neither one nor
multiple; it is polarity, it is trinity. In other
words, we have to reject monotheism as well
as triteism to get to a trinitarian harmony.
Radical Trinity means that the Trinity is the
Reality. The whole Reality is a trinitarian
relationship. This way, the radical Trinity is
not, in Panikkar's thought, something
different from the cosmotheandric vision of
Reality.
c)
This
Panikkarian
conception
(trinitarian and cosmotheandric) has a
particularly direct relationship with two Hindu
concepts: the advaita a-dualism and the ŗta
principle.
“The central message of the Upanisad –
interpreted in its fullness (sensus plenior)–
is neither monism nor dualism (nor the
theism some of them show) but advaita,
that is, the non dual character of the
Reality, the impossibility of adding God to
the world or vice versa, the impossibility of
placing God and the World in dvandva, like
members of a couple. For the Upanisad, the
‘Absolute’ is not just transcendent, but
transcendent and immanent at the same
time, all in one”26.
It is well known, advaita (“not two”) is
the Hindu doctrine of the non-duality of all
beings, God and the world included. Panikkar
prefers translating advaita as “a-duality”: the
Divinity “is not separated from the rest of the
26
La Trinidad, 59.
128
reality, but is not completely identical to it
too”, as in dualism and monism.
Advaita cannot be confused with
monism, as stated by many Western
commentators, and a common view among
Western theologists. It is considered the
culminating point of all religions and
philosophies if they introduce the “supreme”
experience of non-duality, non-separability
between Oneself (Atman) and God
(Brahman). For advaita the truth is
discovering that “Atman (the I) is Brahman
(the Absolute)” – in other words (“Tat tvam
asi” = “You are This-or Him”, the Absolute) –
but still being different from one another. In
advaita, God and the world are neither
juxtaposed nor one is absorbed by the other;
on the contrary, there is reciprocity between
them: the Absolute is transcendent and
immanent at the same time. So Panikkar
writes:
“God is neither Himself (monism) nor the
Other (dualism). God is a pole of the Reality,
a constitutive pole; quiet and therefore
ineffable… transcendent, but immanent in
the world; infinity, but limited in the things.
This pole is nothing in itself. It only exists in
his polarity, in his relationships. God is
relationship... with everything”27.
According to this conception nothing is
unsacred, but nothing is absolutely sacred too,
nothing is separated from the rest, everything
has a sacred dimension: “The sacred
dimension is an aspect of all things derived
from the fact that things are real”. And in this
respect, the Revelation itself is “not revelation
27
Iconos del misterio. La experiencia de Dios, Barcelona
2001, 86; The Experience of God: Icons of the Mystery,
Minneapolis 2006.
Raimon Panikkar Session - Victorino Pérez Prieto
of the sacred” for “conferring reality to the
sacred”, but just because “unveils what is
already there”28.
The concept of advaita is fundamental
in Panikkar's cosmotheandric thought. This is
in accordance with the aforementioned
concept of ontonomy and applicable to the
Trinitarian dynamism, to the divine interior as
well as to all the reality. As Francis X. D’Sa has
rightly stated, “Advaita and ontonomy are the
two faces of the same coin”29.
Anyway, advaita is directly related to
another concept from Hinduism: the ŗta
principle, or the principle of the harmony of
all beings. No being is identified with another,
but it is neither separated from the others; is
the principle that governs the cosmic and
sacred order.
Neither dualism, nor monism, nor
pantheism: the Reality is a-dualist and it is set
up as a radical the-antropo-cosmic trinity.
Raimon Panikkar helped us to understand that
Christian belief cannot be understood neither
as dualist nor as monist, but only as
Trinitarian-advaita; God as Relationship in a
polyphonic vision of Divinity.
28
El mundanal silencio, 50.
Francis X. D’Sa, “Der trinitarische Ansatz von Raimon
Panikkar”, B. Nitsche (Hg.), Gottesdenken in
interreligiöser
Perspektive.
Raimon
Panikkars
Trinitätstheologie in der Diskussion, Frankfurt/M.Paderborn, 2005.
29
129