Decameron I

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Decameron I
Decameron I
di Giovanni Boccaccio
Letteratura italiana Einaudi
Edizione di riferimento:
Einaudi, Torino 1980, 1987 e 1992
Introduzione, note bibliografiche, indici e
commento
a cura di Vittore Branca
Letteratura italiana Einaudi
ii
Sommario
Proemio
Introduzione
1
9
Prima giornata
Novella prima
Novella seconda
Novella terza
Novella quarta
Novella quinta
Novella sesta
Novella settima
Novella ottava
Novella nona
Novella decima
Conclusione
55
82
90
96
103
111
117
128
133
136
143
Seconda giornata
Novella prima
Novella seconda
Novella terza
Novella quarta
Novella quinta
Novella sesta
Novella settima
Novella ottava
Novella nona
Novella decima
Conclusione
151
153
163
176
193
205
233
262
303
332
356
371
Terza giornata
Novella prima
376
382
Novella seconda
Novella terza
Novella quarta
Novella quinta
Novella sesta
Novella settima
Novella ottava
Novella nona
Novella decima
Conclusione
393
403
419
429
440
455
484
501
517
526
Quarta giornata
Novella prima
Novella seconda
Novella terza
Novella quarta
Novella quinta
Novella sesta
Novella settima
Novella ottava
Novella nona
Novella decima
Conclusione
534
549
568
589
602
614
623
637
646
657
665
682
Quinta giornata
Novella prima
Novella seconda
Novella terza
Novella quarta
Novella quinta
Novella sesta
688
690
710
723
738
749s
760
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Novella settima
Novella ottava
Novella nona
Novella decima
Conclusione
772
785
799
813
830
Letteratura italiana Einaudi
iv
1
Comincia il libro chiamato Decameron1, cognominato
prencipe Galeotto2, nel quale si contengono cento novelle
in diece3 dì dette da sette donne e da tre giovani uomini.
1 Cioè Dieci giornate. Il titolo, di derivazione greca (déka
ΩmerÒn; ma il B. conosceva quest’ultima nella forma erronea meros), fu ricalcato (forse anche parodisticamente?) su Hexameron,
nome della nota opera di sant’Ambrogio e di alcuni divulgati trattati patristici e medievali sui sei giorni della creazione del mondo
(cfr. P. Rajna, L’episodio delle questioni d’amore, in «Romania»,
XXXI, 1902, pp. 80 sgg., anche per la forma vulgata invece di
Hexemeron o Hexaemeron).
2 «Come questo nobile principe [Galeotto], per l’amore straordinario che portava a Lancillotto (l’amava ‘maravigliosamente’ dice il B. stesso nel commento a Dante), s’era adoprato, secondo doveva, a compiacerlo in ciò che gli faceva bisogno; così l’autore del
D., per quel suo grande amore alle donne del quale si confessa e
compiace in principio della quarta giornata, vuol prestare ad esse
quel conforto e quell’aiuto che per lui si può a sollevarle e distrarle
nelle loro pene amorose e a consigliarle nei dubbi e nei frangenti
che possono loro occorrere» (M. BARBI, La Nuova Filologia, Firenze 1938, p. 72). Questo atteggiamento è confermato dal paragrafo 14 e dalla Conclusione. Cfr. Inf., V 137 «Galeotto fu ’l libro e
chi lo scrisse»: il B. commenta: «E così vuol questa donna dire che
quello libro, il quale leggevano Polo ed ella, quello officio adoperasse tra lor due che adoperò Galeotto tra Lancillotto e la reina Ginevra» (Esposizioni, V litt. 184; e cfr. Amorosa Visione, XI 29 e
comm.). «L’evocazione del mondo degli antichi amori e cortesie
pone, fin dall’inizio, l’opera su di un piano di elegante letteratura,
atta a popolarsi di immagini di poesia» (Marti). E cfr. D. DELCORNO BRANCA, «Cognominato prencipe Galeotto», «Studi sul
B.», XXIII 1995.
3 Forma costante nel D.; cfr. Rohlfs, 142; Inf., XXV 33.
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1
PROEMIO
2
3
5
Umana cosa è aver compassione degli afflitti: e come
che a ciascuna persona stea bene, a coloro è massimamente richiesto li quali già hanno di conforto avuto mestiere e hannol trovato in alcuni4; fra quali, se alcuno
mai n’ebbe bisogno o gli fu caro o già ne ricevette piacere, io sono uno di quegli5. Per ciò che, dalla mia prima
giovinezza infino a questo tempo oltre modo essendo
acceso stato d’altissimo e nobile amore, forse più assai
che alla mia bassa condizione non parrebbe, narrando-
4 Secondo i precetti della retorica medievale («opus illustrant
proverbia» Galfrido di Vino Salvo), l’opera si apre con una sentenza ripresa nelle Esposizioni (II litt. 111: «degl’infelici si suole aver
compassione») e nella Consolatoria (12). È del tipo del divulgato
«Solamen miseris socios habuisse malorum» (H. Walther, Proverbia sententiaeque Latinitatis Medii Aevi, Göttingen 1963, V, p. 57).
«A proverbio sumitur initium» si consigliava (cfr. E. Faral, Les arts
poétiques, Paris 1923, p. 267): e questo consiglio il B. aveva seguito
anche iniziando la Fiammetta con un’affermazione in qualche modo analoga: «Suole a’ miseri crescere di dolersi vaghezza, quando
di sé discernono o sentono in alcuno compassione». Cfr. per la tecnica sentenziale e proverbiale, insistente nel D., G. Checchi, Sentenze e proverbi nel D., in «Studi sul B.», IX, 1975-76.
5 In questo periodo iniziale v’è un ribaltamento psicologico ed
espressivo analogo a quello che campeggia nelle quartine del sonetto introduttivo alle rime del Petrarca: dall’impersonale appello
sentenziale d’inizio attraverso una serie di disgiuntive e di concessive il B. punta a un capovolgimento con il finale mutamento di
soggetto a sopresa («Umana cosa è … io sono uno di quegli»). Il
soggetto ideale di tutto il lungo periodo iniziale deve essere l’oggetto della «compassione» di chi ha sperimentato ed è invocato
all’inizio (e cfr. nota finale al Proemio). La solennità di questo avvio è sottolineata dall’impiego del cursus planus per concludere
ogni membretto del periodo: da «degli afflitti» a «io sono úno di
quégli». E cfr. V, 10,16.
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2
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4
5
lo, si richiedesse6, quantunque appo coloro che discreti7
erano e alla cui notizia pervenne io ne fossi lodato e da
molto8 più reputato, nondimeno mi fu egli di grandissima fatica a sofferire, certo non per crudeltà della donna
amata, ma per soverchio fuoco nella mente concetto9 da
poco regolato appetito: il quale, per ciò che a niuno convenevole termine mi lasciava un tempo stare, più di
noia10 che bisogno non m’era spesse volte sentir mi facea. Nella qual noia tanto rifrigerio già mi porsero i piacevoli ragionamenti d’alcuno amico e le sue laudevoli
consolazioni, che io porto fermissima opinione per quelle essere avenuto che io non sia morto. Ma sì come a Colui piacque il quale, essendo Egli infinito, diede per legge incommutabile a tutte le cose mondane aver fine, il
6 forse assai più di quanto non sembrerebbe che convenisse (s i
r i c h i e d e s s e ) alla mia umile condizione, essendo io stesso a dirlo
(n a r r a n d o l o ). «Costrutto in zoccoli» (M.; forse per la prima
delle molte ellissi del che punteggianti il D.). In questa affermazione si è voluto vedere il riflesso degli amori di Giovanni, borghese e
mercante, con Maria d’Aquino o Fiammetta, di stirpe reale: secondo il meraviglioso romanzo costruito sui misteriosi cenni pseudobiografici delle opere giovanili. Converrà piuttosto vedere nella
frase un riflesso di quegli schemi medievali, di quei precetti della
trattatistica amorosa – da Andrea Cappellano in poi – che furono
così presenti nell’esercizio letterario del B.: «negli uomini è gran
senno il cercar d’amr sempre donna di più alto legnaggio che egli
non è» (I 5,4; e cfr. II 8,41; III 2; Filocolo, IV 47 sgg.). Cfr V.
BRANCA, Schemi letterari e schemi autobiografici, in B. medievale,
pp. 231 sgg.; A. CAPPELLANO, De amore, Copenaghen 1892,
pp. 38 sgg.
7
assennati, di savio discernimento: cfr. Intr., 74 «Ma Filomena,
la quale discretissima era»; II 6,71; X 7,3; e anche Convivio, I XI,3;
Inf., XXXI 54.
8
D a m o l t o è locuzione aggettivale, simile alle ancora viventi
dabbene, dappoco. Da, riferito a persona, significa atto a, capace a,
cioè attitudine, virtù di fare.
9
concepito; participio alla latina (cfr. Inf., XXVI 73).
10 dolore, pena; senso solito nel B. e in quel secolo: p. es. 67 n; I
9,46 n; II 8,42 n.
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6
7
8
mio amore, oltre a ogn’altro fervente e il quale niuna
forza di proponimento o di consiglio o di vergogna evidente, o pericolo che seguir ne potesse, aveva potuto né
rompere né piegare, per se medesimo in processo di
tempo si diminuì in guisa, che sol di sé nella mente m’ha
al presente lasciato quel piacere che egli è usato di porgere a chi troppo non si mette né suoi più cupi pelaghi
navigando11; per che, dove faticoso esser solea, ogni affanno togliendo via, dilettevole il sento esser rimaso12.
Ma quantunque cessata sia la pena, non per ciò è la
memoria fuggita de’ benefici già ricevuti, datimi da coloro a’ quali per benivolenza da loro a me portata erano
gravi le mie fatiche: né passerà mai, sì come io credo, se
non per morte. E per ciò che la gratitudine, secondo che
io credo, trall’altre virtù è sommamente da commendare13 e il contrario da biasimare, per non parere ingrato
ho meco stesso proposto di volere, in quel poco che per
me14 si può, in cambio di ciò che io ricevetti, ora che libero dir mi posso, e15 se non a coloro che me atarono16,
alli quali per avventura per lo lor senno o per la loro
buona ventura non abisogna, a quegli almeno a’ qual fa
luogo17, alcuno alleggiamento18 prestare. E quantunque
11
Immagine tradizionale della letteratura classica, patristica,
ascetica: c u p i profondi (Inf., VII 10; Par., III 123).
12
Chiusura del periodo solenne con un endecasillabo: il primo
di quelle varie migliaia di versi che punteggiano sapientemente la
prosa del D. (ne noteremo alcune sequenze più chiare e significative).
13
lodare, approvare: II 7,67 n.
14
da me. È il solito p e r di agente (fr. par): cfr. Intr., 55 n.
15
Così nel proemio della Genealogia: «libet … apponere, et si
non omnia, quaedam saltem…»
16
aiutarono. La riduzione atare da aitare è corrente anche nel
D.: p. es. Intr., 30; III 2,9.
17
fa bisogno, occorre.
18 sollievo, alleviamento; comune questa forma nel B. (p. es. più
avanti in questo stesso Proemio, 12; e Rime, XIII; Teseida, IV 37,
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Proemio
il mio sostentamento19, o conforto che vogliam dire,
possa essere e sia a’ bisognosi assai poco, nondimeno
parmi quello doversi più tosto porgere dove il bisogno
apparisce maggiore, sì perché più utilità vi farà e si ancora perché più vi fia caro avuto.
9
E chi negherà questo, quantunque egli si sia20, non
molto più alle vaghe21 donne che agli uomini convenirsi
10 donare? Esse dentro a’ dilicati petti, temendo e vergognando, tengono l’amorose fiamme nascose, le quali
quanto più di forza abbian che le palesi coloro il sanno
che l’hanno provate: e oltre a ciò, ristrette da’ voleri, da’
piaceri, da’ comandamenti de’ padri, delle madri, de’
fratelli e de’ mariti, il più del tempo nel piccolo circuito22 delle loro camere racchiuse dimorano e quasi oziose
sedendosi, volendo e non volendo in una medesima ora,
seco rivolgendo diversi pensieri, li quali non è possibile
11 che sempre sieno allegri. E se per quegli alcuna malinconia23, mossa da focoso disio, sopraviene nelle lor menti,
in quelle conviene che con grave noia si dimori, se da
nuovi ragionamenti non è rimossa: senza che24 elle sono
V 3 e 47; Amorosa Visione, XLVIII 70 e L 69; cfr. anche S. PIERI,
in Miscellanea Ascoli, Torino 1901, p. 423).
19 X concl., 3 «a sostentamento della nostra sanità e vita».
20 qualunque sia, per quanto piccolo sia.
21 graziose, leggiadre; ma questo aggettivo ritiene nel B. – che lo
usa spessissimo per le donne – qualcosa del suo senso primitivo, di
movimento; quasi a indicare i continui vivaci impulsi da cui sono
mossi gli animi femminili (Intr., 75 n: «Noi [donne] siamo mobili,
riottose, sospettose, pusillanime e paurose»).
22 piccolo spazio limitato; Amorosa Visione, XLV 31. Il seguente
d i m o r a n o è il verbo reggente tutto il periodo.
23 In senso più cupo (quasi «umor nero») che oggi: cfr. 14; I, 7,8
n; II 6,19 n; II 10,23; III 7,5; V 9,38; X 7,8; e nel Filocolo, IV 126:
«L’amiraglio, pieno di malinconia … cerca, per fuggir quella, la
bellezza di Biancifiore vedere». Si tenga presente anche il sonetto
dantesco «Un dì si venne a me Malinconia» (LXXII).
24 senza dire, senza contare che.
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5
Giovanni Boccaccio - Decameron - Proemio
molto men forti che gli uomini a sostenere25; il che degli
innamorati uomini non avviene, sì come noi possiamo
12 apertamente vedere. Essi, se alcuna malinconia o gravezza di pensieri gli affligge, hanno molti modi da alleggiare o da passar quello26, per ciò che a loro, volendo essi, non manca l’andare a torno, udire e veder molte cose,
uccellare27, cacciare, pescare, cavalcare, giucare28 o mercatare: de’ quali modi ciascuno ha forza di trarre, o in
tutto o in parte, l’animo a sé e dal noioso pensiero rimuoverlo almeno per alcuno spazio di tempo, appresso
il quale, con un modo o con altro, o consolazion sopraviene o diventa la noia minore.
13
Adunque, acciò che in parte per me s’amendi il peccato della fortuna29, la quale dove meno era di forza, sì
come noi nelle dilicate donne veggiamo, quivi più avara
fu di sostegno, in soccorso e rifugio di quelle che amano,
per ciò che all’altre è assai30 l’ago e ’l fuso e l’arcolaio,
intendo di raccontare cento novelle, o favole o parabole
o istorie31 che dire le vogliamo, raccontate in diece gior25 nel sopportare; uso intransitivo non comune: ma cfr. VIII 7,45
e anche II 7,11.
26 q u e l l o è comprensivo di malinconia e gravezza; passar vale
rimuovere, superare, non è causativo; cfr. II 6,19; F. BRAMBILLA
AGENO, Il verbo nell’italiano antico, Milano 1964, p. 130.
27 andare a caccia degli uccelli con l’aiuto di rapaci o con le reti o
le panie; la dittologia è anche in X 10,4.
28 È il primo esempio della riduzione, corrente nel B., del dittongo uo a u (giuco, lugo, figliulo ecc.), tonico e atono; cfr. A
SCHIAFFINI, in «Italia dialettale», IV, 1928, pp. 87 sg.
29 perché per opera mia in qualche modo si rimedi, si ripari al torto fatto dalla fortuna (alle donne).
30 basta. Cfr. Comedia, I 14; «e però chi ama, ascolti; degli altri
non curo: la loro sollecitudine gli abbia tutti». Il motivo, già stilnovistico, è frequente all’inizio delle opere del B.: p. es. nella lettera
dedicatoria del Filostrato, nella prima canzone della Comedia, nel
terzo acrostico dell’Amorosa Visione.
31 Questa serie di sostantivi sta a indicare che la materia sarà mista, e i racconti di varia specie: novelle sono generalmente narrazio-
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6
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ni da una onesta brigata di sette donne e di tre giovani
nel pistelenzioso tempo della passata mortalità fatta32, e
alcune canzonette dalle predette donne cantate al lor di14 letto33. Nelle quali novelle piacevoli e aspri casi d’amore
e altri fortunati34 avvenimenti si vederanno così ne’ moderni tempi avvenuti come negli antichi; delle quali le
già dette donne, che queste leggeranno, parimente diletto delle sollazzevoli cose in quelle mostrate e utile consiglio potranno pigliare, in quanto potranno cognoscere
quello che sia da fuggire e che sia similmente da seguitare: le quali cose senza passamento di noia non credo che
15 possano intervenire35. Il che se avviene, che voglia Idio
ni di ogni argomento; favole rammenta l’uso francese di «fabliaux»; parabole accenna a esempi e probabilmente alla volontà
didascalico-allegorica che non di rado è presente nei prologhi e negli epiloghi delle singole novelle, e qualche volta in racconti moralizzati per via di paragoni (p. es. I 3, 7, 10 ecc.); s t o r i e indica infine specialmente le narrazioni a sfondo storico, di personaggi
illustri. Salimbene dice di Guido Bonatti (Inf., XX 118) «erat totus
plenus proverbis, fabulis et exemplis» (Cronica, p. 239). Si noti che
n o v e l l a col valore attuale era appena entrata nell’uso (FEW, VII
p. 207).
32 Da riferire a b r i g a t a : la p a s s a t a m o r t a l i t à allude alla
ancor recente peste del 1348.
33 Non tutte, dunque, quelle che furono cantate: difatti varie
volte si accennerà a canti o canzoni senza riportarli. Le c a n z o n e t t e sono principalmente, è naturale, le ballate che concludono
ogni giornata; ma si noti che solo sette sono cantate dalle d o n n e ,
tre invece dai giovani. Sarà questa un’indicazione approssimativa,
o il B. pensò realmente al principio di far cantare solo le fanciulle,
come di fatti fece nelle prime tre giornate, cioè nella parte della sua
opera che sarebbe stata divulgata in forma autonoma?
34 Accanto al più corrente senso positivo (felici, di buona fortuna)
poteva, come «fortunosi», avere quello negativo (di cattiva fortuna,
sventurati; cfr. Inf., XXVIII 8; Morelli, Ricordi, p. 535): oppure anche quello di casuali, fortuiti (cfr. p. es. il volgarizzamento, ora attribuito al B., di Valerio Massimo, Bologna 1868, p. 672). Forse, per
questo, si può intendere semplicemente soggetti alle vicende della
fortuna (come alcuni interpretano anche Inf., XXVIII 8).
35 senza che passino i loro affanni non credo possa accadere. Il
quadro vago delle donne oziose e fantasticanti d’amore, che sta al
Letteratura italiana Einaudi
7
Giovanni Boccaccio - Decameron - Proemio
che così sia, a Amore ne rendano grazie, il quale liberandomi da’ suoi legami m’ha conceduto il potere attendere
a’ lor piaceri36.
centro di questo proemio e che da Ovidio (Heroides, XIX 5 sgg.)
in poi aveva una lunga tradizione letteraria, sarà in certo modo ripreso in tono più teorizzante nella II 8,12 sgg., e invece appena accennato nella VII 5,4 sgg.
36 Come è stato accennato nella nota 2 v’è analogia strutturale e
funzionale fra l’inizio di questo proemio e l’attacco del sonetto
proemiale del Petrarca: e l’analogia continua lungo tutti e due i testi. Il significato del rovesciamento non può che formalmente essere ricondotto nella prospettiva dell’ordo artificialis consigliato dalla
tradizione retorica più autorevole specialmente per l’oratoria (e
grande oratoria sono questi due testi, con quell’energica apostrofe
iniziale). Quel rovesciamento è scoperto nel suo valore nuovo e dinamico dalla divaricazione che si opera fra i due estremi (e che era
già stata sperimentata nel Secretum e nell’Elegia di Fiammetta): divaricazione insieme temporale e morale che oppone il «giovanile
errore» (Petrarca) o la «giovanezza» (B.) e le sue «vane speranze»
(Petrarca) o i suoi «soverchi fuochi» (B.) alla maturità della coscienza che li sente ormai come un «vaneggiar» (Petrarca), come
«cose mondane» che «tutte» hanno «fine» (B.), il cui «frutto» è
«vergogna» (Petrarca), «vergogna evidente» (B.). Il capovolgimento proemiale introduce in ambedue i «libri», e con sorprendenti ricorsi verbali, quasi un procedimento ambiguo à rebours, o meglio
di flash back: la storia dell’uomo, dello jedermann, narrata poi lungo l’opera come presente e operante, si prospetta così come un
passato sofferto. L’ampio arco della sospensione che regge quei
gremitissimi inizi proemiali dà luogo quasi a una prospettiva di
specchi, illusionistica come l’affannarsi umano: e il testo stesso, in
quei primi periodi, nelle ambagi grammaticali continue, sembra
sprofondare lentamente in se stesso scavando uno spazio dilatato
temporalmente e moralmente. Con questi avvii, con questi «proemi fatti per insinuazione» (come scrive tecnicamente e suggestivamente il Daniello) e coi loro sviluppi il Petrarca e il B., in modo del
tutto indipendente, affermano anche la necessità, per l’opera letteraria, di un’organizzazione tematica e di una struttura unitaria. Cfr.
il raffronto più particolare in V. Branca, Implicazioni strutturali e
espressive fra Petrarca e B., in Atti del Convegno Internazionale su
Francesco Petrarca promosso dall’Accademia dei Lincei, Roma
1975; e l’analisi del sonetto petrarchesco in A. NOFERI, Il sonetto
introduttivo del Petrarca, in «Lettere Italiane», XXVII, 1974. E cfr.
per un rovesciamento opposto IV intr., 32 n.
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INTRODUZIONE
1
Comincia la Prima giornata del Decameron, nella quale,
dopo la dimostrazione fatta dall’autore, per che cagione
avvenisse di doversi quelle persone, che appresso si mostrano, ragunare a ragionare insieme, sotto il reggimento1 di Pampinea si ragiona di quello che più aggrada a
ciascheduno.
2
Quantunque2 volte, graziosissime donne, meco pensando3 riguardo quanto voi naturalmente4 tutte siete
pietose, tante conosco che la presente opera al vostro iudicio avrà grave e noioso principio, sì come è5 la dolorosa ricordazione della pestifera mortalità trapassata, universalmente a ciascuno che quella vide o altramenti
conobbe dannosa, la quale6 essa porta nella sua fronte7.
Ma non voglio per ciò che questo di più avanti8 leggere
3
1 governo, guida. È il termine consueto per indicare il «regno»
giornaliero di ciascuno dei dieci novellatori.
2 quante mai (quante unque); Inf., V 11 sg.: «cignesi con la coda
tante volte | Quantunque gradi vuol che giù sia messa». È in relazione col t a n t e di due righe dopo.
3 meco (alle volte rafforzato da «medesimo», «stesso»: Proemio,
7) serve a indicare che il pensiero è profondo e fisso, alla latina:
«mecum cogitans»: Corbaccio, 7; «ogni atto e ogni parola pensando
meco medesimo».
4 per natura; Petrarca, XXVIII 50 sg.: «Nemica naturalmente di
pace, | Nasce una gente».
5 quale è appunto.
6 Si riferisce a r i c o r d a z i o n e .
7 in fronte, in principio; Filocolo, V 97,2: «il cui nome [di Fiammetta] tu porti scritto nella tua fronte»; Concl., 19.
8 più oltre. A v a n t i determina il senso generale di più: II 1,17
«come costoro ebbero udito questo non bisognò più avanti»; Corbaccio, 163: «darmi ardire a più avanti scrivere».
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Introduzione
4
5
6
7
vi spaventi, quasi9 sempre tra’ sospiri e tralle lagrime
leggendo dobbiate trapassare10. Questo orrido cominciamento vi fia non altramenti che a’ camminanti una
montagna aspra e erta, presso alla quale un bellissimo
piano e dilettevole sia reposto, il quale tanto più viene11
lor piacevole quanto maggiore è stata del salire e dello
smontare la gravezza. E sì come la estremità della allegrezza il dolore occupa12, così le miserie da sopravegnente letizia sono terminate. A questa brieve noia (dico brieve in quanto poche lettere si contiene) seguita
prestamente la dolcezza e il piacere il quale io v’ho davanti promesso e che forse non sarebbe da così fatto
inizio, se non si dicesse, aspettato. E nel vero, se io potuto avessi onestamente 13 per altra parte menarvi a
quello che io desidero che14 per così aspro sentiero come fia questo, io l’avrei volentier fatto: ma ciò che, qual
fosse la cagione per che le cose che appresso si leggeranno avvenissero, non si poteva senza questa ramemo-
9
come se.
Usato spesso dal B; al posto del semplice passare (p. es. II
8,26).
11 riesce. Non si può non pensare alla selva «aspra» e al «dilettoso» monte del canto introduttivo della Divina Commedia: tanto più
che l’azione si svolge per ambedue gli scrittori nel mezzo del cammino della vita, a trentacinque anni (V. BRANCA, B. medievale,
pp. 34 sg.). E cfr. Filocolo, V 31,3; OVIDIO, Met., VIII, 517 sg.
12 tocca, raggiunge, cioè il dolore succede all’allegrezza. Cfr. Proverbia, XIV 13: «Risus dolore miscebitur | Et extrema gaudii luctus
occupat»; e anche Fedone, III (per le conoscenze platoniche del B.
vedi Amorosa Visione comm., pp. 28 e 404). La sentenza biblica
doveva esser comune nella letteratura del tempo; Petrarca, LXXI
88: «L’estremo del riso assaglia il pianto»; M. Villani, Cronica, VIII
47: «gli estremi dell’allegrezza sono occupati dal pianto». E cfr. III
7,19.
13 convenientemente, cioè senza falsare troppo la verità: III 7,48:
«dove onestamente e senza generar sospetto di voi potea favellare».
14 anziché; è in relazione con altra precedente.
10
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Introduzione
razion dimostrare, quasi da necessità constretto a scriverle mi conduco15.
Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera
incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti
di milletrecentoquarantotto16, quando nella egregia città
di Fiorenza17
15
Inf., XXXII 6: «non sanza tema a dicer mi conduco». Il periodo è veramente esemplare per l’alta legge della simmetria e delle
clausole finali; raggiunte mediante gli artifici più consueti alla stilistica medievale (inversioni, separazioni ecc.) e le apocopi: è analizzato in questo senso puntualmente dal Fornaciari.
16
Secondo lo «stile fiorentino», l’anno si faceva cominciare non
dalla Natività, ma dall’Incarnazione o Annunciazione (25 marzo):
la peste cominciò in Firenze all’entrare d’aprile (M. Villani, I 2),
ma già dal gennaio a Pisa (A. FEROCI, La peste bubbonica in Pisa,
Pisa 1893). Il periodo iniziato col solenne, dantesco, D i c o (Inf., V
7, VIII I: e Convivio, passim) si conclude nel suo primo membro
con un velox, «mortifera pestilenza». Per questa famosa descrizione della peste, come mostrai altrove (B. medievale, pp. 335 sgg., e
vedi ivi anche bibliografia sull’argomento), non furono presenti allo scrittore modelli classici, ma alcune pagine di Paolo Diacono già
in precedenza da lui utilizzate (Historia Langobardorum, II 4-5).
Cfr. per le documentazioni storiche: F. CARABELLESE, La peste
del 1348 e le condizioni della sanità pubblica in Toscana, Rocca San
Casciano 1897; L. FEBVRE, La peste noire de 1348, in «Annales»,
II, 1949; E. CARPENTIER, Autour de la peste noire, ivi, XVII,
1962; W. M. BOWSKY, The Impact of the Black Death ecc., in
«Speculum», XXXIX, 1964; A. FRUGONI, G. Villani «Cronica»
XI 94, in «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo», n. 77, 1965; A. B. FALSINI, Firenze dopo il 1348, in «Archivio Storico Italiano», CXXIX, 1971; The Black Death, New York
1971: oltre le solite fonti (G. Villani, XX 84; M. Villani, I 1 sgg.;
Marchionne Stefani, in R.R.II.SS., XXX 1).
17 Di solito però il B. usa la forma più corrente Firenz: ma qui il
tono sostenutissimo sollecita la forma latineggiante.
18 La spiegazione morale, provvidenziale (affermata più risolutamente dal B. al 25 e nella risposta a Cecco de’ Rossi: Rime,
LXXIX), è qui posta a fianco a quella astrologicca, come nella Cronaca di Marchionne Stefani o in quella dei Villani (Giovanni, XII
84; Matteo, I 2: «la congiunzione di tre superiori pianeti nel segno
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Introduzione
uovo, e alcune più e alcun’ altre meno, le quali i volgari25 nominavan gavoccioli. E dalle due parti del corpo
predette infra brieve spazio cominciò il già detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello
a nascere e a venire27: e da questo appresso28 s’incominciò la qualità della predetta infermità a permutare in
macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce e in ciascuna altra parte del corpo apparivano a mol12 ti, a cui grandi e rade e a cui minute e spesse. E come il
gavocciolo primieramente era stato e ancora era certissimo indizio di futura morte, così erano queste a ciascuno
a cui venieno.
A cura delle quali infermità né consiglio di medico
13
né virtù29 di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto30: anzi, o che natura del malore nol patisse31
o che la ignoranza de’ medicanti32 (de’ quali, oltre al numero degli scienziati, così di femine come d’uomini senza avere alcuna dottrina di medicina avuta giammai, era
11
26 la gente del popolo, così distinta dai medici (II 9,3 n.). L’appellativo è confermato dai cronisti: secondo il Villani si usava pure
«ghianducce», «bozze».
27 senza distinzione … a nascere e a crescere.
28 dopo di questo, oltre a questo; cfr. III 10,24 n.
29 capacità, potenza di operar qualche effetto; I 8,18; X 9,90: «essendo la virtù del beveraggio consumata». «Per il ductus cfr. nel
canto di Ulisse “Né dolcezza di figlio, né la pieta | Del vecchio padre ecc.”» (Contini).
30 E lo Stefani, p. 136: «Non valeva né medico né medicina o
che non fossero ancora conosciute quelle malattie, o che li medici
non avessero sopra quelle mai studiato».
31 consentisse, permettesse, alla latina, come in IV 7,20: «la cui
innocenzia non patì la fortuna…»
32 Cioè quelli che curavano, con o senza diritto: il senso spregiativo è rilevato dall’opposizione a s c i e n z i a t i , cioè addottorati in
medicina.
33 mezzo, rimedio adatto; VIII 7,45: «Li medici con grandissimi
argomenti e con presti aiutandolo», e in senso morale Purg., XXX
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Proemio
il numero divenuto grandissimo) non conoscesse da che
si movesse e per consequente debito argomento33 non vi
prendesse, non solamente pochi ne guarivano, anzi quasi tutti infra ‘l terzo giorno dalla apparizione de’ sopra
detti segni, chi più tosto e chi meno e i più senza alcuna
febbre o altro accidente34, morivano.
14
E fu questa pestilenza di maggior forza per ciò che
essa dagli infermi di quella per lo comunicare insieme35
s’avventava36 a’ sani, non altramenti che faccia37 il fuoco
alle cose secche o unte quando molto gli sono avvicina15 te. E più avanti ancora ebbe38 di male: ché non solamente il parlare e l’usare cogli infermi dava a’ sani infermità
o cagione di comune39 morte, ma ancora il toccare i pan-
136 sg.: «Tanto giù cadde, che tutti argomenti | A la salute sua eran
già corti». Anche Matteo Villani, I 2: «Di questa pestifera infermità
i medici in catuna parte del mondo, per filosofia naturale o per fisica o per arte d’astrologia non ebbono argomento né vera cura».
34 sintomo speciale, complicazione impreveduta; cfr. VIII 7,147.
35 Cioè per i mutui contatti.
36 Per esprimere la straordinaria rapidità e violenza con cui, anche senza contatto diretto, si propagava il contagio, è usato questo
verbo proprio all’appiccarsi del fuoco: cfr. Bartoli (T.) «il fuoco da
una piccola brace s’avventa a una gran massa di carbone»; G. BENIVIENI, Opere, Firenze 1519, p. 103: «Subito si avventa | L’orribil fiamma».
37 che s’avventi. Il verbo fare, secondo un uso proprio delle lingue neolatine, può tenere il posto di qualsiasi verbo già espresso,
quando occorrerebbe ripeterlo (cfr. Mussafia, pp. 504 sgg.); l’uso è
frequente nel D. (p. es. più innanzi 29,58: e anche II 6,73 n. ecc.)
Sonora è la eco dantesca: Inf., XIX 28 «Qual suole il fiammeggiar
de le cose unte», già presente nel Filostrato, pr. 14 «quale sopra le
cose unte veggiamo fiamme … discorrere»
38 E più oltre ancora vi fu (a v a n t i rinforza l’idea contenuta nel
più): cioè il male fu anche maggiore; cfr. Intr., 3. Per avere nel senso di essere: cfr. II 5,77 n.
39 Con gli infermi.
40 Uno dei soliti sostantivi verbali, alla latina, amati e spesso coniati dal B. (benché il suffisso -tore indichi l’agente abituale piuttosto che il momentaneo): Intr., 95 «cominciatrice … de’ ragiona-
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Proemio
ni o qualunque altra cosa da quegli infermi stata tocca o
adoperata pareva seco quella cotale infermità nel toccator40 transportare.
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Maravigliosa41 cosa è da udire quello che io debbo
dire: il che, se dagli occhi di molti e da’ miei42 non fosse
stato veduto, appena che io ardissi di crederlo43, non
che di scriverlo, quantunque da fededegna44 udito
17 l’avessi. Dico che di tanta efficacia fu la qualità della pestilenzia narrata nello appiccarsi da uno a altro, che non
solamente l’uomo all’uomo45, ma questo, che è molto
più, assai volte visibilmente fece, cioè che la cosa
dell’uomo infermo stato, o morto di tale infermità, tocca
da un altro animale fuori della spezie dell’uomo, non solamente della infermità il contaminasse ma quello infra
18 brevissimo spazio uccidesse. Di che gli occhi miei, sì come poco davanti è detto, presero tra l’altre volte un dì
così fatta esperienza: che, essendo gli stracci d’un povero uomo da tale infermità morto gittati nella via publica
menti»; III 3,50 «Ecco onesto uomo! è divenuto andator di notte,
apritor di giardini e salitor d’alberi». Cfr. Rohlfs, 1146-47.
41 Straordinaria, spaventosa; come Gerione per Dante, Inf., XVI
131 sg.: «… una figura in suso, | Maravigliosa ad ogni cor sicuro»:
e cfr. IV intr., 24.
42 Il B., nonostante i dubbi che si ebbero in passato, era a Firenze nel 1348 (cfr. D. GUERRI, Il Comento del B. a Dante, Bari
1926, pp. 137 e 179); e suo padre fu di quegli «Otto dell’Abbondanza» (giugno ’47 - agosto ’48) che molto si adoperarono per
fronteggiare la terribile emergenza (Carabellese, op. cit., p. 58). Gli
«esempi» erano del resto, ai vari livelli letterari (dalla predicazione
ai trattati), introdotti spesso con simili sottolineature di esperienza
personale (così anche IV intr., 2 «. cose da me molte volte … vedute»).
43 Efficace scorcio sintattico per: ardirei appena (cfr. X 10,59)
con apodosi condizionale in congiuntivo.
44 fededegna: sottintendendo facilmente, alla latina, persona; cfr.
Esposizioni, II litt. 83: «secondo la relazione di fededegna persona»; e qui più avanti (49) «da persona degna di fede».
45 Anche qui si sottintende facilmente l’a p p i c c a v a .
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Proemio
e avvenendosi46 a essi due porci, e quegli secondo il lor
costume prima molto col grifo e poi co’ denti presigli e
scossiglisi alle guance, in piccola ora appresso, dopo alcuno avvolgimento47, come se veleno avesser preso,
amenduni48 sopra li mal49 tirati stracci morti caddero in
terra.
19
Dalle quali cose e da assai altre a queste simiglianti o
maggiori nacquero diverse paure e imaginazioni50 in
quegli che rimanevano vivi, e tutti quasi a un fine tiravano51 assai crudele, ciò era di schifare e di fuggire52 gl’infermi e le lor cose; e così faccendo, si credeva ciascuno
medesimo salute acquistare.
20
E erano alcuni, li quali avvisavano53 che il viver moderatamente e il guardarsi da ogni superfluità avesse
molto a così fatto accidente resistere54; e fatta brigata, da
ogni altro separati viveano, e in quelle case ricogliendosi
e racchiudendosi, dove niuno infermo fosse e da viver
46 capitando per caso, imbattendosi (come ha anche qualche ms.):
e cfr. più innanzi, 22. L’episodio è riportato anche dal Morelli nei
suoi Ricordi (p. 290), citando il B.
47 contorsione.
48 Nota forma – assai frequente nel B. tanto in poesia che in prosa – in cui l’n si inserisce nell’ultima sillaba probabilmente per un
plurale contaminato su due o dui e uni.
49 in loro rovina, malora: cfr. Inf., XV 114 «li mal protesi nervi».
50 Una delle frequentissime endiadi che ricorrono nel D. (paurose immaginazioni, supposizioni suggerite dalla paura).
51 tendevano.
52 «F u g g i r e , parlando di pericoli è andarne più o meno lontano; s c h i v a r e è scansarli», evitarli (Tommaseo, Sinonimi): cfr. più
oltre, 27, 49. E nota un primo esempio di «cioè» allora correntemente coniugato (c i ò e r a ).
53 erano d’avviso, del parere; II, 7,44 n.: vedi per questa forma attiva F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 142 (e cfr. IV 10,10).
54 Solita soppressione, nei testi del Trecento e del B., di una delle due preposizioni a che per l’iperbato si seguirebbero (molto a a
così fatto accidente resistere): così p. es. anche in Inf., V 81: e cfr. I
1,20 n.; II 5,38 n.; II 7,40; VII 6,1 n.
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Proemio
meglio, dilicatissimi cibi e ottimi vini temperatissimamente usando e ogni lussuria55 fuggendo, senza lasciarsi
parlare a alcuno56 o volere di fuori di morte o d’infermi
alcuna novella sentire, con suoni e con quegli piaceri
21 che aver poteano si dimovano. Altri, in contraria oppinion tratti, affermavano il bere assai e il godere e l’andar
cantando attorno e sollazzando e il sodisfare d’ogni cosa
all’appetito che si potesse e di ciò che avveniva ridersi e
beffarsi esser medicina certissima a tanto male; e così
come il dicevano mettevano in opera a lor potere, il
giorno e la notte ora a quella taverna ora a quella altra
andando, bevendo senza modo e senza misura57, e molto più ciò per l’altrui case faccendo, solamente che cose
22 vi sentissero che lor venissero a grado o in piacere58. E
ciò potevan far di leggiere, per ciò che ciascun, quasi
non più viver dovesse, aveva, sì come sé, le sue cose
messe in abandono; di che59 le più delle case erano divenute comuni, e così l’usava lo straniere, pure che ad esse
s’avvenisse60, come l’avrebbe il proprio signore usate; e
55 «Lussuria sta … in ogni superchio uso delle cose naturali»
(Da Buti, comm. a Purg., VII 2); quindi è ogni stravizio.
56 da alcuno, dando ad a il valore di da, solito nel Trecento specie con infiniti retti da lasciare, dare e verba sentiendi: II 1,25: «fatevi a ciascun che m’accusa dire quando e dove io gli tagliai la borsa»; II 6,38: «amenduni gli fece pigliare a tre suoi servidori»: II,
7,15 n.; II 9,57 n., ecc.); cfr. E. DE FELICE, La preposizione italiana «a», in «Studi di Filologia Italiana», XVI, 1958, e XVIII, 1960
(XVI, pp. 367 sgg.). Ma si può intendere anche: senza permettere
ad alcuno di parlar loro.
57 Una delle dittologie sinonimiche frequenti nel B. (cfr. subito
sotto «a grado o in piacere»): e proprio opposta a un precetto del
Passavanti che voleva «con modo e con misura» fatte persino le penitenze (Specchio, IV 1).
58 «Il gradimento o grado è una specie di piacere, ma è del men
forte» (Tommaseo, Sinonimi).
59 per la qual cosa.
60 solo che vi capitasse.
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Proemio
con tutto61 questo proponimento bestiale sempre gl’infermi fuggivano a lor potere.
E in tanta afflizione e miseria della nostra città era la
23
reverenda autorità delle leggi, così divine come umane,
quasi caduta e dissoluta62 tutta per li ministri e esecutori
di quelle, li quali, sì come gli altri uomini, erano tutti o
morti o infermi o sì di famigli rimasi stremi63, che uficio
alcuno non potean fare; per la qual cosa era a ciascun li24 cito quanto a grado gli era d’adoperare64. Molti altri servavano, tra questi due di sopra detti, una mezzana via65,
non strignendosi nelle vivande quanto i primi né nel bere e nell’altre dissoluzioni allargandosi quanto i secondi,
ma a sofficienza secondo gli appetiti le cose usavano e
senza rinchiudersi andavano a torno, portando nelle mani chi fiori, chi erbe odorifere e chi diverse maniere di
spezierie, quelle al naso ponendosi spesso, estimando
essere ottima cosa il cerebro66 con cotali odori67 confortare, con ciò fosse cosa che l’aere tutto paresse dal puzzo
61 nonostante; VII 1,28 n; VII 8,14: «con tutto che fosse mercatante…»; IX 1,32 n. Il proponimento per quanto bestiale non aveva spento l’umano senso della paura. L’aggettivo è il primo di tutta
una serie che sottolinea lo stato belluino in cui era caduta Firenze
(cfr. B. medievale, p. 40).
62 disfatta, distrutta.
63 di dipendenti rimasti sprovvisti. Anche se l’affermazione è
iperbolica (cfr. CARABELLESE, op. cit.), si sa che 11 Gonfalonieri, 6 Buoni Uomini, 4 Camerari, 2 Ufficiali della Condotta, 9 dei
Dodici della Moneta non s’erano più fatti vedere nei loro uffici.
64 fare, operare: III 7,56: «conosco il mio difetto essere stato
grande in ciò che contro a Tedaldo adoperai». per tutta la frase è
naturale richiamare Inf., V 56: «che libito fé licito in sua legge».
65 tenevano … una via di mezzo, egualmente distante cioè dagli
estremi sopra descritti.
66 il cervello, ritenuto sede degli spiriti vitali; cfr. Inf., XXVIII
140; Purg., XXV 69; e Esposizioni, VI all. 16.
67 ristorare, tonificare; anche nelle Esposizioni, VI all. 16: «… gli
odori arabici, acciò che, confortato il naso, o per lo naso il cerebro,
lui rendessero più forte alle ’ngiurie».
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de’ morti corpi e delle infermità e delle medicine compreso68 e puzzolente.
25
Alcuni erano di più crudel sentimento, come che69
per avventura più fosse sicuro, dicendo niuna altra medicina essere contro alle pestilenze migliore né così buona come il fuggir loro davanti; e da questo argomento
mossi, non curando d’alcuna cosa se non di se’ , assai e
uomini e donne abbandonarono la propia città, le propie case, i lor luoghi e i lor parenti e le lor cose, e cercarono l’altrui o almeno il lor contado70, quasi l’ira di Dio
a punire le iniquità degli uomini con quella pestilenza
non dove fossero procedesse, ma solamente a coloro opprimere li quali dentro alle mura della lor città si trovassero, commossa intendesse71; o quasi avvisando niuna
persona in quella dover rimanere e la sua ultima ora esser venuta.
26
E come che questi così variamente oppinanti non
morissero tutti, non per ciò tutti campavano: anzi, infermandone di ciascuna molti72 e in ogni luogo, avendo essi stessi, quando sani erano, essemplo dato a coloro che
68 impregnato.
69 quantunque,
benché; II 5,60 n; II 9,27 n.
contado, la campagna, di altre città o almeno quello di Firenze.
se l’ira di Dio non si indirizzasse a punire con quella pestilenza la malvagità degli uomini dovunque (d o v e ; cfr. IV 2,51) essi
fossero, ma eccitata mirasse soltanto a colpire coloro i quali dentro alle mura della loro città si trovassero.
72 Sottinteso: appartenenti ad ognuna di quelle opinioni. «Opinione» è inclusa nel precedente o p p i n a n t i , con quell’uso sintattico ad intelligentiam che, come vedremo, spesso ricorre nel D.: Intr., 111 «se in questo il mio parer si seguisse; non giucando, nel
quale [riferito a un «giuoco» sottinteso nel «giucando»] l’animo
dell’una delle parti convien che si turbi…»; II intr., 3 n; II, 7,35 n:
«… là dove Pericon con la donna dormiva e quella aperta» [riferito
a «camera» inclusa in «là dove … dormiva»], e così via. «Nota»
(M.). Per la normale doppia in o p p i n i o n e , o p p i n a r e cfr. I,
1,5 n.
70 il
71 come
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sani rimanevano, quasi abbandonati per tutto languieno. E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse73 e quasi niuno vicino74 avesse dell’altro cura e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di
lontano: era con sì fatto spavento questa tribulazione
entrata né petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nipote e la sorella il
fratello e spesse volte la donna il suo marito; e (che maggior cosa è e quasi non credibile), li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire
schifavano.
28
Per la qual cosa a coloro, de’ quali era la moltitudine
inestimabile, e maschi e femine, che infermavano, niuno
altro sussidio rimase che75 o la carità degli amici (e di
questi fur pochi) o l’avarizia de’ serventi, li quali da
grossi salari e sconvenevoli tratti76 servieno, quantunque
per tutto ciò molti non fossero divenuti. E quegli cotanti erano uomini o femine di grosso ingegno77, e i più di
tali servigi non usati78, li qual niuna altra cosa servieno
27
73 evitasse, con sfumatura di disprezzo e ribrezzo: Filostrato,
VIII 31; e qui 19 n, 28,49 n. Per la costruzione cfr. VII 5,9 n.
74 Il vincolo della vicinanza era assai più sentito che oggi: «… sì
come un uomo a sua sufficienza richiede compagnia dimestica di
famiglia, così una casa a sua sufficienza richiede una vicinanza: altrimenti molti difetti sosterrebbe che sarebbero impedimento di
felicitade» (Convivio, IV IV 2). Naturalmente v i c i n i e v i c i n a n z a hanno anche significato preciso: si riferiscono cioè ai quartieri
o sestieri in cui era divisa la città.
75 «O il morir tosto» (M.).
76 «Le servigiali che serviano li malati volieno da uno in tre fiorini per dì e le spese di casa fiorite» (Stefani, op. cit.). Cfr. II 5,43 n.
A v a r i z i a : cupidigia, venalità; s c o n v e n e v o l i : troppo superiori
al servizio che prestavano. Anteporre un aggettivo al sostantivo e
posporne un altro è uso amato dal B., specialmente nelle opere giovanili.
77 indole grossolana, rozza.
78 non pratici.
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32
che di porgere alcune cose dagl’infermi addomandate o
di riguardare quando morieno79; e, servendo in tal servigio, se molte volte col guadagno perdeano.
E da questo essere abbandonati gli infermi da’ vicini, da’ parenti e dagli amici e avere scarsità di serventi,
discorse80 uno uso quasi davanti mai non udito: che niuna, quantunque leggiadra o bella o gentil donna fosse,
infermando, non curava d’avere a’ suoi servigi uomo,
egli si fosse o giovane o altro, e a lui senza alcuna vergogna ogni parte del corpo aprire81 non altrimenti che a
una femina avrebbe fatto, solo che la necessità della sua
infermità il richiedesse; il che, in quelle che ne guerirono, fu forse di minore onestà, nel tempo che succedette,
cagione. E oltre a questo ne seguio82 la morte di molti
che per avventura, se stati fossero atati83, campati sarieno; di che, tra per lo difetto degli opportuni servigi, li
quali gl’infermi aver non poteano84, e per la forza della
pestilenza, era tanta nella città la moltitudine che di dì e
di notte morieno, che uno stupore era a udir dire, non
che a riguardarlo85. Per che, quasi di necessità, cose contrarie a’ primi costumi de’ cittadini nacquero tra quali
rimanean vivi.
Era usanza (sì come ancora oggi veggiamo usare)
che le donne parenti e vicine nella casa del morto si ra-
78 Cioè
osservare, constatare la morte: con un senso di impotenza.
introdusse, si diffuse.
81 scoprire, lasciar vedere.
82 Correnti negli scrittori del Trecento queste forme, di provenienza meridionale, nella terza persona del passato remoto (Rohlfs,
568, 571).
83 atati: riduzione da aitati (per aiutati) corrente nel B.: cfr.
Proemio, 7 n.
84 Lo Stefani narra che molti ammalati, del tutto abbandonati,
morirono di fame. E nota il tra non ripetuto, per cui II 3,48 n.
85 Il secondo verbo piglia il pronome lo sottinteso nel primo, come di frequente nel B.
80 si
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gunavano e quivi con quelle che più gli appartenevano86
piagnevano; e d’altra parte dinanzi alla casa del morto
co’ suoi prossimi si ragunavano i suoi vicini e altri cittadini assai87, e secondo la qualità del morto vi veniva il
chericato; ed egli sopra gli omeri se’ suoi pari, con funeral pompa di cera e di canti, alla chiesa da lui prima elet33 ta anzi la morte n’era portato88. Le quali cose, poi che a
montar89 cominciò la ferocità della pestilenza tutto o in
maggior parte quasi cessarono e altre nuove in lor luogo
34 ne sopravennero. Per ciò che, non solamente senza aver
molte donne da torno morivan le genti, ma assai n’erano
di quelli che di questa vita senza testimonio trapassavano; e pochissimi erano coloro a’ quali i pietosi pianti e
l’amare lagrime de’ suoi congiunti90 fossero concedute,
anzi in luogo di quelle s’usavano per li più risa e motti e
86
Cioè colle parenti più prossime.
Vita Nuova, XXII 3: «… con ciò sia cosa che, secondo l’usanza de la sopradetta cittade, donne con donne e uomini con uomini
s’adunino a cotale tristizia, molte donne s’adunaro colà dove questa Beatrice piangea pietosamente» la morte del padre; Compagni,
Cronica, I, 20: «essendo molti cittadini un giorno per seppellire
una donna morta, alla piazza de’ Frescobalddi, ed essendo l’uso
della terra a simili raunate i cittadini sedere basso in su stuoie di
giunchi e i cavalieri e dottori in alto…»
88 P r i m a vale già e si riferisce a eletta; anzi è lo stesso che avanti ed è riferito a l a m o r t e : cioè alla chiesa prescelta da lui prima
di morire. «Quando i cimiteri comuni non esistevano, era necessario che ciascuno disponesse prima in quale chiesa voleva esser sepolto, perché spettava a quella chiesa anche un legato per la sepoltura e i suffragi» (Zingarelli).
89 a dilagare, ad accrescersi: Compagni, Cronica, I 11: «molto
montò il rigoglio dei nemici». La soppressione della pompa funebre, confermata dal Villani e dallo Stefani, era provvedimento solito nelle pestilenze (cfr. pure Velluti, p. 34): vedi anche le precise
disposizioni legislative nel Carabellese, op. cit., p. 121.
90 La distinzione fra l a g r i m e e p i a n t o (più grave) è nella lingua del Trecento assai viva: II 6,12 n: «con le lagrime e col pianto»;
Corbaccio, 8: «cominciai non a lagrimare solamente, ma a piangere»; e vedi anche le sottili distinzioni nelle Esposizioni, VIII litt. 42
87
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35
festeggiar compagnevole91; la quale usanza le donne, in
gran parte proposta la donnesca pietà per la salute di loro, avevano ottimamente appresa. Ed erano radi coloro,
i corpi de’ quali fosser più che da un diece o dodici de’
suoi vicini alla chiesa acompagnato92; de’ quali non gli
orrevoli e cari93 cittadini sopra gli omeri portavano, ma
una maniera di beccamorti sopravenuti di minuta gente,
che chiamar si facevan becchini, la quale questi servigi
prezzolata faceva, sottentravano alla bara94; e quella95
con frettolosi passi, non a quella chiesa che esso aveva
anzi la morte disposto ma alla più vicina le più volte il
portavano, dietro a quattro o a sei cherici con poco lu-
sgg. e la Vita Nuova, XXXI e canz. VV, 2 sgg. E nota suoi per loro,
come alla V 2,33.
91 di lieta compagnia; cioè, si direbbe oggi, di società. È il primo
di quegli aggettivi verbali in -evole prediletti dal B. (p. es. qui 35; e
I 6,20; II 7,109; IV 3,7 e 6,40; VI 8,5; X 8,13 ecc..) per cui cfr. F.
BRAMBILLA AGENO, Il verbo, pp. 258 sgg. E nota prima il solito per di agente.
92 È una delle solite forme invariate di participio, correnti nel
Trecento per i verbi composti, così nel Petrarca (p. es. Rime, XXII
34, CCXCV 8, CCCXIII 3, CCCXXV 10) come nel B. (p. es. III
9,32; IV 1,34; V 9,22; VI 9,7; VIII 7,4 e 21 e 65 e 75; IX concl., 2;
X 4,32; X 8,80; X 10,31; X concl., 16).
93 IV 6,42: «non a guisa di plebeio, ma di signore, tratto della
corte publica, sopra gli omeri de’ più nobili cittadini con grandissimo onore fu portato alla sepoltura». C a r o è in questo caso sinonimo di o r r e v o l e , onorevole (per sincope e assimilazione), ed era
usato per stimato, illustre; Trattatello, I 92: «carissimo cittadino»;
Cronichette di vari autori, Firenze 1733, p. 37: «Nel consiglio furono gli ambasciatori de’ fiorentini: ché, durante questa guerra, sempre vi stavano fermi due cari cittadini di Firenze».
94 «Nota construzione» (M.); per cui Mussafia, pp. 522 sgg.
95 Si riferisce a m a n i e r a d i b e c c a m o r t i . «Il periodo è un
po’ arruffato non tanto per il continuo mescolarsi del singolare collettivo con verbi al plurale … quanto per il sostituirsi ai radi, che
avevano il privilegio d’essere accompagnati da almeno dieci o dodici vicini, il singolare e s s o e il quando viene a essere indicata la
chiesa da essi scelta o dove venivano portati» (BARBI, La nuova filologia, p. 81).
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me96 e tal fiata senza alcuno; li quali con l’aiuto de’ detti
becchini, senza faticarsi in troppo lungo uficio o solenne, in qualunque sepoltura disoccupata trovavano più
tosto il mettevano.
Della minuta gente, e forse in gran parte della mezzana97, era il ragguardamento di molto maggior miseria
pieno98; per ciò che essi, il più o da speranza o da povertà ritenuti nelle lor case, nelle lor vicinanze standosi,
a migliaia per giorno infermavano; e non essendo né serviti né atati d’alcuna cosa, quasi senza alcuna redenzione99, tutti morivano. E assai n’erano che nella strada
pubblica o di dì o di notte finivano, e molti, ancora che
nelle case finissero, prima col puzzo de lor corpi corrotti che altramenti facevano a’ vicini sentire se’ esser morti100; e di questi e degli altri che per tutto morivano, tutto pieno101.
Era il più102 da’ vicini una medesima maniera servata, mossi non meno da tema che la corruzione de’ morti
non gli offendesse, che da carità la quale avessero a’ trapassati. Essi, e per se’ medesimi e con l’aiuto d’alcuni
96 pochi
lumi: collettivo come in Purg., III 132 «a lume spento».
racconto che precede si riferisce ai grandi; qui si passa al popolo minuto e alla gente mezzana secondo la classica distinzione già
del Compagni («uomini grandi, mezzani, piccolini»).
98 era la vista, lo spettacolo, molto più miserevole; m i s e r i a ha
qui insieme senso proprio e figurato, come in Inf., XVI 28: «Se miseria d’esto loco».
99 scampo, remissione; Corbaccio, 98: «… in quella prigione etterna nella quale senza speranza di redenzione e s’entra e si dimora».
100 «moltissimi morieno senza esser veduti, che stavano in sullo
letto tanto che puzzavano; e la vicinanza, se v’era, sentito lo puzzo
…, li mandavano a seppellire» (Stefani, op. cit., p. 231).
101 «Sottindendi era. uso che sa del latino, e qui sta molto bene»
(Fornaciari); e cfr. VII 3,7 n; Comedia, XXVI 36.
102 per lo più, nella maggior parte dei casi; V 9,6 n.
97 Il
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portatori, quando aver ne potevano, traevano delle103
lor case li corpi de’ già passati, e quegli davanti alli loro
usci ponevano, dove, la mattina spezialmente, n’avrebbe
potuti veder senza numero chi fosse attorno andato: e
quindi fatte venir bare, e tali furono, che, per difetto di
quelle, sopra alcuna tavole, ne ponievano104. Né fu una
bara sola quella che due o tre ne portò insiememente105,
né avvenne pure106 una volta, ma se ne sarieno assai potute annoverare di quelle che la moglie e ’l marito, di
due o tre fratelli, o il padre e il figliuolo, o così fattamen40 te107 ne contenieno. E infinite volte avvenne che, andando due preti con una croce per alcuno, si misero tre o
quatro bare, dà portatori portate, di dietro a quella: e,
dove un morto credevano avere i preti a sepellire, n’ave41 vano sei o otto e tal fiata più. Né erano per ciò questi da
alcuna lagrima o lume o compagnia onorati; anzi era la
cosa pervenuta a tanto, che non altramenti si curava degli uomini che morivano, che ora si curerebbe108 di capre; per che assai manifestamente apparve che quello
che il naturale corso delle cose non avea potuto con piccoli e radi danni a’ savi mostrare doversi con pazienza
passare, la grandezza de’mali eziandio i semplici far di
ciò scorti e non curanti109.
103 dalle;
era normale di per da nel moto da luogo.
quindi fatte venire bare ve li deponevano, e vi furono di quelli che per mancanza di esse bare [li deposero] sopra una tavola.
105 L’aggiunta del suffisso avverbiale -mente è corrente nel Trecento e nel B. (p. es. II 9,3).
106 solamente.
107 Cioè o altri gruppi di tal genere.
108 Forme impersonali (s i c u r a v a , s i c u r e r e b b e ) assai
usate dal B.
109 apparve manifestamente che la grandezza dei mali aveva fatto
accorti (s c o r t i ) e rassegnati anche i semplici, gli ignoranti, di fronte
a quelle disgrazie (q u e l l o ) le quali i piccoli e rari danni, che avven104 e
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Alla gran moltitudine de’corpi mostrata, che a ogni
chiesa ogni dì e quasi ogn’ora concorreva portata, non
bastando la terra sacra alle sepolture, e massimamente
volendo110 dare a ciascun luogo proprio secondo l’antico costume, si facevano per gli cimiterii delle chiese, poi
che ogni parte era piena, fosse grandissime nelle quali a
centinaia si mettevano i sopravegnenti: e in quelle stivati, come si mettono le mercatantie nelle navi a suolo a
suolo111, con poca terra si ricoprieno infino a tanto che
la fossa al sommo si pervenia.
43
E acciò che dietro a ogni particularità le nostre passate miserie per la città avvenute più ricercando non vada112, dico che, così inimico tempo correndo per quella,
non per ciò meno d’alcuna cosa113 risparmiò il circustante contado. Nel quale, lasciando star le castella, che
erano nella loro piccolezza alla città114, per le sparte vil42
gono nel corso normale delle cose, non avevano potuto insegnare
neppure ai savi a sopportare con pazienza. La difficoltà del celebre
periodo sta nell’anacoluto che lascia sospeso quel c h e e tutta la
proposizione q u e l l o … p a s s a r e che dovrebbe essere oggettiva: quello che anticipa ciò. Una costruzione simile nel Trattatello, I
152: «Manifesta cosa è che ogni cosa, che con fatica s’acquista, avere alquanto più di dolcezza che quella che vien senza affanno»; cfr.
anche I 1,3 e 89 e Mussafia, pp. 459 sgg.; e I 4,3 n. Altra interpretazione possibile e simile è quella proposta dal barbi sottindendo i
danni dopo pazienza e poté dopo far. «Nota» (M.).
110 Gerundio condizionale: se si fosse voluto.
111 Espressione quasi tecnica per le mercanzie o frutta poste a
strati, l’uno direttamente sopra l’altro. M e r c a t a n t i a per mercanza è forma corrente nei primi secoli, astratto di «mercatante»:
cfr. I 1,46; I 2,21; II 4,5 ecc.; Convivio I 8,16 e 17 ecc.
112 Corbaccio, 343: «E acciò che io ora di questa materia più
non dica»; Fiammetta, I 7,3: «E acciò che io non vada ogni suo atto narrando…» È un modo consueto al B. per passare ad altro argomento.
113 non pertanto in alcuna cosa, cioè per nulla.
114 Difatti il Morelli, nei Ricordi, descrive «le castella» del Mugello «piene di case abitate, ordinate con vaghi borghi…» (p. 94).
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le115 e per li campi i lavoratori miseri e poveri e le loro
famiglie, senza alcuna fatica di medico o aiuto di servidore, per le vie e per li loro colti116 e per le case, di dì e
di notte indifferentemente, non come uomini ma quasi
come bestie morieno. Per la qual cosa essi, così nelli loro
costumi come i cittadini divenuti lascivi117, di niuna lor
cosa o faccenda curavano; anzi tutti, quasi quel giorno
nel quale si vedevano esser venuti la morte aspettassero,
non d’aiutare i futuri frutti delle bestie e delle terre e
delle loro passate fatiche, ma di consumare quegli che si
trovavano presenti si sforzavano con ogni ingegno118.
Per che adivenne i buoi, gli asini, le pecore, le capre, i
porci, i polli e i cani medesimi fedelissimi agli uomini,
fuori delle proprie case cacciati, per li campi, dove ancora le biade abbandonate erano, senza essere, non che
raccolte ma pur segate119, come meglio piaceva loro se
n’andavano. E molti, quasi come razionali120, poi che
pasciuti erano bene il giorno, la notte alle lor case senza
alcuno correggimento121 di pastore si tornavano satolli.
Che più si può dire (lasciando stare il contado e alla
città ritornando) se non che tanta e tal fu la crudeltà del
cielo122, e forse in parte quella degli uomini, che infra ’l
115 cascinali isolati. Più comune sparse; ma cfr. V 3,35: «Sparti
adunque costoro per la piccola casa»; Comedia, XXXVI 36: «intorniato di sparti meligranati»; Inf., XIV 2: «fronde sparte» ecc.
116 campi coltivati; Novellino, XCIII; Morelli, Ricordi, p. 94.
117 negligenti, trascurati, rilassati: Trattatello, I 21: «non secondo
il costume de’ nobili odierni, si diede alle fanciullesche lascivie e
agli ozii»; Comedia, XXVI 4: «… io giovinetta e lasciva…»; Fiammetta, V 11,4: «io lasciva giovane…»; e Par., V 82 sg.
118 con ogni mezzo e studio.
119 ma neppure mietute; Amorosa Visione, XXII 31: ma «segare»
è d’uso proprio per il fieno; cfr. P. Crescenzi, Agricoltura, Verona
1851-52, VII 3: «I prati si devono segare quando l’erbe saranno…»
120 Cioè come se fossero forniti di ragione.
121 guida, governo; cfr. Inf., V 60.
122 Cioè le malefiche influenze degli astri.
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marzo e il prossimo luglio vegnente, tra per la forza della pestifera infermità e per l’esser molti infermi mal serviti o abbandonati né lor bisogni per la paura ch’aveono
i sani, oltre a centomilia creature umane si crede per certo dentro alle mura della città di Firenze essere stati di
vita tolti123, che forse, anzi l’accidente mortifero, non si
48 saria estimato tanti avervene dentro avuti? O quanti
gran palagi, quante belle case, quanti nobili abituri124
per adietro di famiglie pieni, di signori e di donne, infi-
123 «Era fatto ordine in Firenze per lo Vescovo e per li Signori
che si vedesse solennemente quanti ne moriva nella città di Firenze: ultimamente veduto in calendi ottobre che di quella pestilenzia
non moria più persone, si trovarono tra maschi e femine, piccoli e
grandi, dal marzo infino all’ottobre v’era morti novantaseimila»
(Stefani, op. cit.). Secondo i cronisti, i morti furono circa i tre quinti della popolazione, tenuto conto anche del «contado»; secondo il
Biagi (Vita italiana nel Rinascimento, Milano s.d.) 80 000, come del
resto indica il Morelli (p. 291); secondo il Carabellese 50 000, come indica all’incirca M. Villani (I 2). Il Frugoni (art. cit.) imputa alla musa letteraria del B. la cifra favolosa da lui data, eco forse del
«seculum in antiquum redactum silentium» dal suo modello latino,
la descrizione di Paolo Diacono: e pensa che i morti dovettero essere fra i 40 e i 50 000. Nonostante i molti studi, le valutazioni sulle proporzioni della peste del ’48 sono tutt’altro che concordi: cfr.
il rapporto di C. M. CIPOLLA, I. DHONDT, M. M. POSTAN,
PH. WOLFF, Rapport au IXe Congrès International des Sciences
Historiques (sez. I), Paris 1950; e le opere citate in nota a par. 8.
Certo, oltre la pagina di Paolo Diacono, sono presenti al B. le lamentazioni di Geremia (specialmente Thr., prol. e I 1), proprio
quelle che erano usate nella Vita Nuova (XXX e XL). Tanto M.
Villani che lo Stefani e gli altri cronisti concordano nel dire che la
pestilenza durò fino a ottobre: anzi il Villani (I 8) nel novembre
parla ancora della mortalità assai preoccupante, sebbene rallentata.
L’Anonimo pubblicato dal Feroci (op. cit.) parla per Pisa del 70
per cento della poopolazione distrutta e del settembre come termine del contagio.
124 abitazioni; e valeva in generale anche per i palazzi, tanto che
G. Villani parla de «lo abituro del Papa» (X 197); e il Sacchetti:
«andò a Chiaravalle dove è una gran badia ed uno bellissimo abituro per lo signore» (LIX); e cfr. IV 3,19.
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no al menomo fante125 rimaser voti! O quante memorabili schiatte, quante ampissime eredità, quante famose
ricchezze si videro senza successor debito rimanere!
Quanti valorosi uomini, quante belle donne, quanti leggiadri giovani, li quali non che altri, ma Galieno, Ipocrate o Esculapio126 avrieno giudicati sanissimi, la mattina
desinarono co’ lor parenti, compagni e amici, che poi la
sera vegnente appresso nell’altro mondo cenaron con li
lor passati127!
49
A me medesimo incresce andarmi tanto tra tante miserie ravolgendo128: per che, volendo omai lasciare star
quella parte di quelle che io acconciamente posso schifare129, dico che, stando in questi termini la nostra città,
125 al
più umile servo o al più piccolo ragazzo.
A parte la figura mitologica di Esculapio, inventore e dio della terapeutica, i nomi dei due celebri medici Ippocrate e Galeno
(Galieno è deformazione popolare) ricorron quasi proverbialmente nella letteratura del Trecento e nel B. stesso (VIII 9; Amorosa
Visione, IV 49 sgg.; Esposizioni, I litt. 82 e IV litt. 359-67; Epistole,
XII e XX ecc.)
127 Echeggia qui il ricordo delle parole di Leonida come erano
riferite da autori familiari al B.; p. es. Cicerone nelle Tusculanae (I
42: «hodie apud inferos fortasse cenabimus»), o Valerio Massimo
(III 2,3: «prandete … tamquam apud inferos cenaturi»). Forse
proprio commosso ancora dalla grandiosa classica tragicità di questa pagina e di questi ultimi periodi, tutti modulati su cursus preziosi (cfr. B. medievale, p. 56), il Petrarca scriveva: «narrasti proprie et magnifice deplorasti» (Sen., XVII 3: e cfr. V. BRANCA, La
prima diffusione del D. cit.). E su questa grandiosa e terrifica descrizione, oltre le opere citate a par. 8 n, vedi M. MEISS, Painting
in Florence and Siena after the Black Death, Princeton 1951; G.
GETTO, Immagini e problemi di letteratura italiana, Milano 1966,
pp. 49 sgg.; V. BRANCA, Coerenza ideale e funzione unitaria
dell’Introduzione, in B. medievale cit.
128 Continue allitterazioni sembrano voler segnare la difficoltà
di staccarsi dal terrifico quadro precedente e dalle geremiache lamentazioni che lo avevano concluso.
129 posso tralasciare convenientemente, senza danno del racconto.
126
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d’abitatori quasi vota, addivenne, sì come io poi da persona degna di fede sentii, che nella venerabile chiesa di
Santa Maria Novella, un martedì mattina130, non essendovi quasi alcuna altra persona131, uditi li divini ufici in
abito lugubre132 quale a sì fatta stagione133 si richiedea,
si ritrovarono sette giovani donne tutte l’una all’altra o
per amistà o per vicinanza o per parentado congiunte134,
delle quali niuna il venti e ottesimo anno passato avea né
era minor di diciotto, savia ciascuna e di sangue nobile e
bella di forma e ornata di costumi e di leggiadra one50 stà135. Li nomi delle quali io in propria forma racconte130 La chiesa antichissima era stata solo da poco compresa dentro il «terzo cerchio» delle mura della città; ma era già stata una
delle più famose e frequentate per le alte predicazioni (p. es., ai
primi del secolo, di Giordano da Pisa e poi del Passavanti, che
molto vi operò e vi è sepolto). Sappiamo che proprio in questo
quartiere abitavano vari amici del B., anzi forse qualcuno dei novellatori, se ascoltiamo chi vuol dare loro corpo reale (cfr. G. BILLANOVICH, Restauri boccacceschi, Roma 1946, pp. 103 sgg.) Naturalmente è scelto il martedì per permettere un certo svolgimento
delle «giornate» prima dell’interruzione pia nel venerdì e di quella
igienica nel sabato (cfr. III concl., 5 sgg.).
131 Più verisimili sono così la riunione e i colloqui successivi delle fanciulle e dei giovani: non erano del resto insoliti allora proprio
nelle chiese (cfr. p. es. Filocolo I, 1,23 sgg.; Fiammetta, I 8 ecc.).
132 da lutto, o piagnevoli come chiosa il B. «lugubre manto» nel
Teseida, XI 30.
133 tempo, come in VI concl., 9: «per la perversità di questa stagione, li giudici hanno lasciati i tribunali».
134 «congiunto d’amore, parentado e vicinanza» dice anche il
Velluti (Cronica, p. 22).
135 Contrariamente alle opere precedenti, dalla Caccia di Diana
alla Comedia e all’Amorosa Visione, le protagoniste sono qui presentate senza particolari esteriori, eccettol’indicazione dell’età non
più tenera (se si pensa che le fanciulle già a dodici anni erano da
marito, e che tra i quattordici e i diciotto cadevano disolito le nozze: Emilia nel Teseida ha «quindici anni», e cfr. II 3 e 6, III 10, IV
3 e 8, V 1 e 7, IX 6, X 6, 8 e 10). Il B. insiste piuttosto sulle elevate
qualità morali delle giovani: onestà è il termine emblema della loro
temperie umana, il quale ritorna in questo passo continuamente
variato (52, 53, 54, 55, 61, 65, 72, 82, 84 91), come poi sarà insi-
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Proemio
rei136, se giusta cagione da dirlo non mi togliesse, la quale è questa: che io non voglio che per le raccontate cose
da loro, che seguono, e per l’ascoltare nel tempo avvenire alcuna di loro possa prender vergogna, essendo oggi
alquanto ristrette le leggi al piacere137 che allora, per le
cagioni di sopra mostrate, erano non che alla loro età ma
a troppo più matura larghissime; né ancora dar materia
agl’invidiosi, presti a mordere138 ogni laudevole vita, di
diminuire in niuno atto l’onestà delle valorose donne
51 con isconci parlari139. E però, acciò che quello che ciascuna dicesse senza confusione si possa comprendere
appresso, per nomi alle qualità di ciascuna convenienti o
in tutto o in parte intendo di nominarle: delle quali la
15
stentemente ripreso per le novellatrici fino alla conclusione finale
(X concl., 4-5).
136
direi quali realmente fossero, e non usando pseudonimi, come
farà. Era uno scrupolo, quello della precisione storica, sentito vivamente anche nel novellare toccando di avvenimenti reali: difatti il
B. fa dire a Fiammetta: «ardirò oltre alle dette dirvene una novella,
la quale, se io dalla verità dei fatti mi fossi scostare voluta o volessi,
avrei ben saputo e saprei sotto altri nomi comporla e raccontarla;
ma per ciò che il partirsi dalla verità delle cose state nel novellare è
gran diminuire di diletto negl’intendenti, in propria forma, dalla
ragion di sopra detta aiutata, la vi dirò» (IX 5,5). Del resto il B.
non aveva esitato a fare i nomi delle donne, o a indicarli attraverso
allusioni più o meno chiare, nelle opere in cui aveva in qualche modo presagito questi aristocratici convegni mondani: dalla Caccia e
dal Filocolo alla Comedia, all’Amorosa Visione, al ternario Contento
quasi. Cfr. in generale V. BRANCA, Tradizione medievale del D.,
in B. medievale cit.
137 Cioè essendo divenuti più austeri i costumi. «Nota bel dire»
(M.). Invece Matteo Villani narra «come gli uomini furono peggiori che prima» (I 4).
138 pronti a criticare, a rimproverare: cfr. I 7,1 e 4; II 8,20 n.
139 Questi infiniti sostantivati ricorrono di frequente nel B. anche al plurale: p. es. II 5,25 «gli abbracciari e gli onesti basci»; Comedia, XXXV 88: «più turpi parlari»; Fiammetta, I 25,12: «ne’
miei parlari biasimando». Cfr. la difesa che delle novellatrici svolge
il B. nella conclusione della VI giornata, 11 sgg., e della X, 3 sgg.
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Proemio
prima, e quella che di più età era, Pampinea chiameremo e al seconda Fiammetta, Filomena la terza e la quarta Emilia, e appresso Lauretta diremo alla quinta e alla
sesta Neifile, e l’ultima Elissa non senza cagion nomeremo140.
20
140 L’asserzione della convenienza dei nomi alla qualità delle
donne ne sottolinea il carattere letterario proprio mentre sono presentate come reali. La caratterizzazione delle novellatrici (e dei novellatori) è stata tentata più volte e sempre invano: dal Carducci
(Ai parentali di G. B.), dall’Albertazzi (Parvenze e sembianze, Bologna 1892), dal Rossi (Dalla mente e dal cuore di G. B., Bologna
1900), al Bosco (Il Decameron, pp. 20 sgg.), al Billanovich (Restauri cit.), al Rømhild (Osservazioni sul concetto e sul significato della
cornice nel D., Copenaghen 1974). Ma la retorica classica (Tusculanae, III 5,10) e medievale, come suggerisce il B. stesso parafrasando un’allora divulgatissima affermazione («Nomina sunt consequentia rerum»), consigliava di utilizzare l’attribuzione o
l’invenzione dei nomi per caratterizzare, con amplificazioni e giochi etimologici vari, i personaggi stessi. Il B. segue questa linea soprattutto in senso letterariamente allusivo. Le fanciulle sono sette
come i giorni della settimana e i pianeti, come, secondo il simbolismo medievale, le direzioni dello spazio, a indicare ordine perfetto
e totalità di un ciclo, come le virtù teologali e cardinali, come i sette gradi di perfezione (cfr. 78 n): come soprattutto le Arti liberali.
Sono le nuove Muse ispiratrici di poesia (cfr. IV intr., 35). E di fatti sono loro a prendere l’iniziativa del «buen retiro» e del narrare
(Intr., 111), sono loro cui è rivolta sempre la parola nel crear le novelle. Rappresentano il distacco dall’episodio per la forma eterna
della poesia e del giudizio morale. Per questo coi loro nomi stessi si
riferiscono, emblematicamente, a figure divenute esemplari per le
vicende di fortuna, di intelligenza, di amore, di virtù, al di là
dell’evento, nella letteratura e nella cultura, dalla più grande poesia
latina ai testi contemporanei più cari al B. Già il Billanovich indicò
in Elissa la filigrana e l’allusione alla più appassionata figura virgiliana, alla regina fenicia simbolo di amore totale (così chiamata dal
B. nella maturità: e cfr. Amorosa Visione, B, VIII 68; De mulieribus, XLII; Esposizioni, V litt. 65 sgg.), ma non è da escludere del
tutto una sottile e galante presenza di quella «Elisa» moglie di Bertino che esaltarono insieme il B. e il Pucci: cfr. Amorosa Visione,
XLII 40 sgg. e comm. (un puro accostamento casuale è quello che
si fa con la Lisa del ternario). E indicò pure in Lauretta un’allusione alla mitica donna del Petrarca (così nominata sempre dal B. e in
cui è chiaro anche il riferimento al lauro poetico: cfr. Vita Petrac-
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Le quali, non già da alcuno proponimento tirate ma
per caso in una delle parti della chiesa adunatesi, quasi
in cerchio a seder postesi, dopo più sospiri lasciato stare
il dir de’ paternostri141, seco delle qualità del tempo142
molte e varie cose cominciarono a ragionare143.
E dopo alcuno spazio, tacendo l’altre, così Pampinea
53
cominciò a parlare: - Donne mie care, voi potete, così
come io, molte volte avere udito che a niuna persona fa
chi). Ma filigrane e allusioni simili sono identificabili anche nelle
altre fanciulle: da Pampinea, cioè «la rigogliosa», che rimanda a
due opere del B., ambedue allegoriche, dove già il nome era comparso (Comedia, XXXV; Buccolicum carmen, II) a Neifile, la «nuova innamorata» o «l’amante d’amor nuovo», probabilmente figura
allusiva alla poesia dello Stile Nuovo e di Dante stesso (il Muscetta
ha suggerito che alluda alla «pargoletta» dantesca). Le altre tre
hanno il nome di protagoniste di scritti giovanili del B.; Fiammetta
appare qui per l’ultima volta dopo esser stata presente nelle opere
dal Filocolo all’Elegia di Madonna Fiammetta, al centro del romanzo amoroso del poeta (ma si noti come è stata ringiovanita: nel Filocolo, I 1, 15 sgg., era nata prima del settembre 1310; nella Comedia, XXXV, poco dopo il 1313; qui addirittura dopo il 1321 poiché
è più giovane di Pampinea, che ha ventisette anni); Filomena
«l’amata» o «l’amante del canto», il cui nome era affiorato negli accenni eruditi degli scritti giovanili, era la dedicataria del Filostrato,
la donna del poeta prima di Fiammetta, e ritorna qui come pallida
satellite di Pampinea, fino a ripeterne le parole (cfr. I 10 e VI 1);
Emilia «la lusinghiera» (aimulia) è nome frequente sotto la penna
del B. a Firenze, dopo il Teseida (Comedia, Amorosa Visione, ternario Contento quasi): da escludere, credo, l’allusione autobiografica a un grande amore fiorentino proposta dal Torraca e dal Billanovich (cfr. B. medievale, pp. 197 e 244). Vano del resto è il
tentativo di scorgere ritratti determinati con valore autobiografico
almeno in tre delle novellatrici (Pampinea, Fiammetta, Emilia). Per
questo cfr. i già citt. artt. Coerenza dell’Introduzione, Schemi letterari, in B. medievale, e La prima diffusione del D., in Tradizione II;
L. Sasso, L’interpretatio nominis cit.
141 Purg., XXVI 130: «Falli per me un dir d’un paternostro»: e
cfr. Concl., 15; e anche V 10,14 n.
142 delle condizioni di quei giorni.
143 R a g i o n a r e nel Trecento è spesso usato come transitivo
(74;; II 8,95 n; Inf., II 115).
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ingiuria chi onestamente usa la sua ragione144. Natural
ragione è, di ciascuno che ci nasce145, la sua vita quanto
può aiutare e conservare e difendere146: e concedesi
questo tanto, che alcuna volta è già addivenuto che, per
guardar147 quella, senza colpa alcuna si sono uccisi degli
54 uomini. E se questo concedono le leggi, nelle sollecitudini delle quali è148 il ben vivere d’ogni mortale, quanto
maggiormente, senza offesa d’alcuno, è a noi e a qualunque altro onesto149 alla conservazione della nostra vita
55 prendere quegli rimedii che noi possiamo? Ognora che
io vengo ben raguardando alli nostri modi di questa
mattina e ancora di più a quegli di più altre passate e
pensando chenti e quali150 li nostri ragionamenti sieno,
io comprendo, e voi similemente il potete prendere, ciascuna di noi di se medesima dubitare151: né di ciò mi
maraviglio niente, ma maravigliomi forte, avvedendomi
ciascuna di noi aver sentimento di donna152, non pren144 diritto.
145 Cioè nasce in questo mondo (ci): Consolatoria, 6: «chiunque
ci nasce»; VI 4,13: «sempre che tu ci viverai».
146 Filocolo, I 22,13: «ciascuno è per divino comandamento tenuto di servare la sua vita il più che puote».
147 conservare, difendere. Qui e nel seguito Pampinea inserisce
loci del De inventione e della Rhetorica ad Herennium (III 1, 3 e 45, 8-9; II 51, 156; II 57-58, 173) «per argomentare la scelta della
utilitas tuta e sostenere la coincidenza (a causa della necessità)
dell’honestum e della salus» (Muscetta, op. cit., p. 308).
148 alle cui cure è affidato.
149 lecito, onorevole.
150 di che natura e di che qualtà; ma chente dal primitivo valore
«di qual natura, di quale essenza», viene quasi sempre dal B. usato
in funzione enfatica accanto a quale.
151 temere; I 1,27: «d’alcuna cosa di me dubitate»; II 4,22 n; e
anche Purg., XX 135; Par. , XXVI 1.
152 indole, temperamento di donna; cioè considerando che ciascuna di noi è avveduta, come sogliono esser le donne, mi merviglio di più che da parte vostra non si prenda qualche rimedio (compenso) contro quello che a buon diritto (meritatamente) ciascuna
teme.
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dersi per voi153 a quello di che ciascuna di voi meritamente teme alcun compenso . Noi dimoriamo qui, al parer mio, non altramente che se essere volessimo o dovessimo testimonie 154 di quanti corpi morti ci sieno alla
sepoltura recati o d’ascoltare se i frati di qua entro, de’
quali il numero è quasi venuto al niente155, alle debite
ore cantino i loro ufici, o a dimostrare a qualunque ci
apparisce, né nostri abiti, la qualità e la quantità delle
nostre miserie156. E, se di quinci usciamo, o veggiamo
corpi morti o infermi trasportarsi dattorno, o veggiamo
coloro li quali per li loro difetti157 l’autorità delle publiche leggi già condannò ad essilio, quasi quelle schernendo, per ciò che sentono158 gli essecutori di quelle o morti o malati, con dispiacevoli impeti per la terra
discorrere159, o la feccia della nostra città, del nostro
sangue riscaldata160, chiamarsi becchini e in strazio di
153
da voi; è il solito per di agente usato spesso anche dal B.: cfr.
Proemio, 7 n; II 6,25 n. Il passaggio da noi a voi rende più severa la
rampogna, in quanto Pampinea sottolinea così di essere l’unica ad
agire, a prender ripari (compenso).
154 femminile plurale da «testimonio»: cfr. VIII 5,13; VIII 7,104.
155 mancato, finito; cfr. I 2,6 n: «la sua [fede] … diminuirsi e venire al niente poteva discernere».
156 Evidentemente a Firenze non era stato preso il singolare
provvedimento deciso a Venezia e Siena, durante la stessa pestilenza, di vietare gli abiti di lutto, considerando che era «utile pro videntibus removere talem moerorem et suo loco inducere plenum
gaudium atque festum» (C. MERKEL, Come vestivano gli uomini
del D., Roma 1898, p. 110).
157 colpe, misfatti.
158 sanno, conoscono; così spesso nel D.: III 10,6: «senza altro
farne a alcuna persona sentire»; VI concl., 19: «senza farne alcuna
cosa sentire a’ giovani».
159 scorrazzare (lat. discurrere: II concl., 8; VI concl., 27) per la
città facendo violenze. Ricorre più sotto con c a v a l c a r e saccheggiare: F. Villani, X 62.
160 desiderosa, cupida; così il Fornaciari e sulle sue tracce tutti i
commentatori. Ma è forse più sicuro intendere eccitata, inebriata,
imbaldanzita, secondo il senso solito di riscaldato nel D.: I, 6,5:
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noi andar cavalcando e discorrendo per tutto, con disoneste canzoni rimproverandoci i nostri danni. Né altra
cosa alcuna ci udiamo, se non ‘I cotali son morti’ e ‘Gli
altrettali sono per morire’; e, se ci fosse chi fargli161, per
tutto dolorosi pianti udiremmo.
59
E, se alle nostre case torniamo, non so se a voi così
come a me adiviene: io, di molta famiglia, niuna altra
persona in quella se non la mia fante trovando, impaurisco e quasi tutti i capelli addosso mi sento arricciare; e
parmi, dovunque io vado o dimoro per quella, l’ombre
di coloro che sono trapassati vedere, e non con quegli
visi che io soleva, ma con una vista162 orribile, non so
donde il loro nuovamente venuta, spaventarmi163.
60
Per le quali cose, e qui e fuori di qui e in casa mi
sembra star male; e tanto più ancora quanto egli164 mi
pare che niuna persona, la quale abbia alcun polso165 e
dove possa andare, come noi abbiamo, ci sia rimasa altri
61 che noi. E ho sentito e veduto più volte, ( se pure alcuni
58
«forse da vino o da soperchia letizia riscaldato…»; II 9,22 n: «Ambrogiuolo, già in su la novella riscaldato…»; VI Intr., 7: «in sul gridar riscaldata».
161 chi li facesse; costruzione non rara nel B., questa del relativo
con l’infinto; II 2,25 n: «qui è questa cena e non saria chi mangiarla»; cfr. Annotazioni dei Deputati, pp. 77 sgg.; F. BRAMBILLA
AGENO, Il verbo, p. 405.
162 aspetto: giustamente il Rua richiama qui il XXII della Vita
Nuova (e cfr. I 7,10 n; II 5,43 n; X 6,22 n).
163 Verbo isolato alla fine per concludere paurosamente l’alta
tensione stilistica, su inversioni e violente separazioni, che caratterizza questo periodo e in generale tutto questo discorso di Pampinea.
164 e g l i , neutro, è usato spesso come soggetto grammaticale di
un impersonale (qui, pare): cfr. Rohlfs, 449.
165 potere, facoltà, possibilità economica in generale: M. Villani,
IX 51: «per lo poco polso e per la poca forza e vigore ch’aveano le
parti che governavano l’isola di Cicilia, loro guerre erano inferme e
tediose».
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ce ne sono) quegli cotali166, senza fare distinzione alcuna
dalle cose oneste a quelle che oneste non sono, solo che
l’appetito le cheggia, e soli e accompagnati, e di dì e di
notte, quelle fare che più di diletto lor porgono. E non
che le solute167 persone, ma ancora le racchiuse ne’ monisteri, faccendosi a credere168 che quello a lor si convenga e non si disdica che all’altre, rotte della obedienza
le leggi, datesi a’ diletti carnali, in tal guisa avvisando
scampare, son divenute lascive e dissolute.
E se così è (che essere manifestamente si vede) che
faccian noi qui? che attendiamo? che sognamo? perché
più pigre e lente alla nostra salute, che tutto il rimanente
de’ cittadini, siamo? reputianci noi men care169 che tutte
l’altre? o crediam la nostra vita con più forti catene esser
legata al nostro corpo che quella degli altri sia, e così di
niuna cosa curar dobbiamo, la quale abbia forza d’offenderla? Noi erriamo, noi siamo ingannate; che bestialità170 è la nostra se così crediamo? quante volte noi ci
vorrem ricordare chenti e quali sieno stati i giovani e le
donne vinte da questa crudel pestilenza, noi ne vedremo
apertissimo argomento.
E perciò, acciò che noi per ischifaltà o per traccuttaggine171 non cadessimo in quello, di che noi per avven-
166 Cioè quelli di cui Pampinea ha detto sopra, che hanno i mezzi e la possibilità di recarsi fuori di città.
167 non vincolate da voti religiosi.
168 rivolgendosi, inducendosi a credere; frase identica nella I 10,6
n.
169 da meno; cfr. 82. Giustamente il Fornaciari richiama per questa serie incalzante d nterrogazioni Inf., II 121 sgg.
170 stoltezza, insensatezza tale da essere propria più di bestie che
di uomini; II 9,54 n: «sé della sua bestialità punir dovea»; VIII
10,40: «le beffe le quali meritamente della sua bestialità n’aspettava».
171 per soverchia ritrosia o eccessiva fiducia che rende non curanti.
T r a c c u t a g g i n e , t r a c u t a r e , t r a c u t a t o derivano dall’anti-
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tura per alcuna maniera, volendo, potremmo scampare,
non so se a voi quello se ne parrà che a me ne parrebbe:
io giudicherei ottimamente fatto che noi, sì come noi
siamo172, sì come molti innanzi a noi hanno fatto e fanno, di questa terra173 uscissimo; e, fuggendo come la
morte i disonesti essempli degli altri, onestamente a’ nostri luoghi in contado, de’ quali a ciascuna di noi è gran
copia174, ce ne andassimo a stare; e quivi quella festa,
quella allegrezza, quello piacere che noi potessimo, senza trapassare in alcuno atto il segno della ragione, prendessimo175.
66
Quivi s’odono gli uccelletti cantare, veggionvisi verdeggiare i colli e le pianure, e i campi pieni di biade non
altramenti ondeggiare che il mare, e d’alberi ben mille
maniere, e il cielo più apertamente176, il quale, ancora
che crucciato ne sia, non per ciò le sue bellezze eterne177
ne nega, le quali molto più belle sono a riguardare che le
67 mura vote della nostra città. Ed èvvi oltre a questo l’aere
assai più fresco, e di quelle cose che alla vita bisognano
in questi tempi v’è la copia maggiore, e minore il nume-
co francese outrecuidier (da outre «oltre» e cuidier «coitare», «pensare») (DEI). Cfr. Inf., XXXI 77 e Par., III 26; e per la forma X
4,48; e la III Annotazione dei Deputati.
172 Cioè donne e sole; o, più genericamente, nelle nostre condizioni.
173 città; cfr. II 1,7 e 26; II 2,22 n ecc.
174 ai poderi (cfr. V 7,10; X 9,7) che tutte abbiamo in abbondanza.
175 Proprio nel senso di queste esortazioni di Pampinea, erano
anche i consigli del più autorevole fra i medici fiorentini, Tommaso
Del Garbo: cioè «fuggire malinconia», «con ordine prendere allegrezza», «usare canzoni e altre novelle piacevoli» abitando in villa
e con amici giocondi (op. cit.). I n a l c u n o a t t o : in alcun modo
(III 5,25 n). E cfr. Par. XXVI, 117 e KIRKHAM, The sign of Reason, pp. 11 sgg.
176 È sottinteso si vede, implicito nel v e g g i o n v i s i precedente.
177 Par., VII 66: «dispiega le bellezze eterne»; e Purg., XIV 149.
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ro delle noie178. Per ciò che, quantunque quivi così
muoiano i lavoratori come qui179 fanno i cittadini, v’è
tanto minore il dispiacere quanto vi sono, più che nella
città, rade le case e gli abitanti. E qui d’altra parte, se io
ben veggio, noi non abbandoniam persona, anzi ne possiamo con verità dire molto più tosto abbandonate; per
ciò che i nostri, o morendo o da morte fuggendo, quasi
non fossimo loro, sole in tanta afflizione n’hanno lasciate.
Niuna riprensione adunque può cadere in cotal consiglio seguire180: dolore e noia e forse morte, non seguendolo, potrebbe avvenire. E per ciò, quando vi paia,
prendendo le nostre fanti e con le cose oportune faccendoci seguitare, oggi in questo luogo e domane in quello
quella alle grezza e festa prendendo181che questo tempo
può porgere, credo che sia ben fatto a dover fare; e tanto dimorare in tal guisa, che noi veggiamo (se prima da
morte non siam sopragiunte ) che fine il cielo riserbi a
queste cose. E ricordivi182 che egli non si disdice più a
noi l’onesta mente andare, che faccia a gran parte
dell’altre lo star disonestamente.–
178 cose spiacevoli; difatti Noie si intitolarono le enumerazioni di
cose sgradevoli che misero in versi p. es. il Patecchio, il Pucci, Cenne della Chitarra. La gioia della vita campestre era già stata idillicamente carezzata dal B. nella Fiammetta (V 30); e cfr. anche Consolatoria, 80 sgg.
179 In tutto questo passo q u i v i indica il luogo già prima accennato, lontano da chi parla, q u i il luogo dov’è chi parla.
180 Il B. usò spesso, come gli altri trecentisti, staccare alla latina
la preposizione (e altre volte l’articolo) dal verbo: Intr., 95: «doverci a lietamente vivere disporre»; Amorosa Visione, XXXIX 84: «e
’ntenderesti a sol me seguitare».
181 I gerundi (p r e n d e n d o ecc.) hanno valore condizionale se
prendiamo, se facciamo, o di semplici infiniti soggettivi.
182 vi sia ricordato, ricordatevi: cfr. 74 e X 9,47 n.
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L’altre donne, udita Pampinea, non solamente il suo
consiglio lodarono, ma disiderose di seguitarlo avevan
già più particularmente tra se’ cominciato a trattar del
modo, quasi, quindi levandosi da sedere, a mano a mano183 dovessero entrare in cammino.
74
Ma Filomena, la quale discretissima184 era, disse: –
Donne, quantunque ciò che ragiona Pampinea sia ottimamente detto, non è per ciò così da correre a farlo, come mostra185 che voi vogliate fare. Ricordivi che noi siamo tutte femine, e non ce n’ha niuna sì fanciulla, che
non possa ben conoscere come le femine sien ragionate
insieme186 e senza la provedenza d’alcuno uomo si sap75 piano regolare187. Noi siamo mobili188, riottose189, sospettose, pusillanime e paurose; per le quali cose io dubito forte, se noi alcuna altra guida non prendiamo che
la nostra, che questa compagnia non si dissolva troppo
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15
183
senza interruzione, successivamente, e quindi subito; X 9,49:
«… quasi a mano a man cominciò una grandissima infermeriaa e
mortalità»; I 1,87 n; Pucci, Centiloquio, LXXV 64: «E tagliogli la
testa a mano a mano».
184 molto avveduta, prudente; cfr. I concl., 3.
185 Uso impersonale, per sembra, frequente nel Trecento e nel
D. (p. es. I 7,21 n; IV intr., 33 n e 7,21 n).
186 si lascino guidar dalla ragione quando sono insieme. R a g i o n a t o è attivo da ragione, come appassionato da passione, costumato da costume ecc. Cfr. D. Cavalca, Trattato dei vizi e delle virtù
(cit. nelle Annotazioni, IV): «si dee andare al savio e ragionato confessore».
187 Filomena vuol dire che ognuna di loro sa che le donne, senza
l’aiuto e il consiglio (provedenza) degli uomini, non sanno reggersi:
e cfr. IX 9,3 sgg. «Nota» (M.).
188 volubili, facili a esser mosse dalle passioni: Filostrato, VIII 30
«Giovane donna e mobile e vogliosa»; e II 9,15 n; e per il concetto
anche VI 8; IX 9,9; Filocolo, III 13,8; Corbaccio, 199 sgg.; Rime,
LXXXIX. E cfr. Aen., IV 569-70 «Varium et mutabile semper |
Femina»; Ovidio, Amores, II 16,45; e i vari proverbi medievali raccolti dal WALTHER, op. cit., II, pp. 53-97 (e cfr. A. Cappellano,
De amore, pp. 340 e 346). Anche il Petrarca, CLXXXIII: «Femina
è cosa mobil per natura».
189 litigiose; cfr. I 1,8 n.
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più tosto, e con meno onor di noi, che non ci bisognerebbe; e per ciò è buono a provederci190 avanti che cominciamo.–
76
Disse allora Elissa: – Veramente gli uomini sono delle femine capo191 e senza l’ordine loro rare volte riesce
alcuna nostra opera a laudevole fine; ma come possiam
77 noi aver questi uomini? Ciascuna di noi sa che de’ suoi
son la maggior parte morti, e gli altri che vivi rimasi sono, chi qua e chi là in diverse brigate, senza saper noi
dove, vanno fuggendo quello che noi cerchiamo di fuggire; e il prender gli strani192 non saria convenevole; per
che, se alla nostra salute, vogliamo andar dietro, trovare
si convien modo di sì fattamente ordinarci che, dove193
per diletto e per riposo andiamo, noia e scandalo194 non
ne segua.
78
Mentre tralle donne erano così fatti ragionamenti, e
ecco195 entrar nella chiesa tre giovani non per ciò196 tan190
è bene (lat. bonum est) provvedere a questo; ma quell’a p r o v e d e r c i (spesso l’inf. sogg. era preceduto da a: cfr. IV 5,6 n)
equivale piuttosto a «se provvediamo a questo»: cfr. E. DE FELICE, La preposizione italiana «a», in «Studi di filologia italiana»,
XVIII, 1960, p. 309.
191 Per questa affermazione, come per il precedente di Filomena, cfr. IX 9 e II 9,15 n; Esposizioni, acc. 55: «loro capo e lor guida… è il marito»: e cfr. Efes., 5,23 «vir caput est mulieris». «Nota
bene» (M.).
192 estranei, non legati da parentela.
193 mentre.
194 discordia, disunione; I 1,12 n: «commettere tra amici … scandali»; X 8,42: «grandissimo scandalo ne nascerebbe»; e anche Inf.,
XXVIII 35: «Seminator di scandalo e di scisma».
195 Questo introdurre colla copula (e e c c o ) una proposizione
dopo un’altra lasciata sospesa su di un avverbio temporale, è usato
spesso dal B. per II 8,46 n; V concl., 21). I giovani sono tre per
compiere il numero perfetto di dieci; ma anche forse perché il tre è
simbolo del principio maschio e delle rivalità sormontate, secondo
la tradizione medievale (per questi possibili simboli numerici cfr. J.
E. CIRLOT, A dictionary of symbols, London 1967, pp. 223 e 269
sgg.; Dictionnaire des symboles, Paris 1969, pp. 686 e 772 sgg.).
196 Con valore avversativo: però: come spesso e con sfumature
diverse nel D. (Mussafia, pp. 497 sgg.).
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to che meno di venticinque anni fosse l’età di colui che
più giovane era di loro. Ne’ quali né perversità di tempo
né perdita d’amici o di parenti né paura di se medesimi
avea potuto amor, non che spegnere, ma raffreddare.
79 De’ quali, l’uno era chiamato Panfilo, e Filostrato il secondo, e l’ultimo Dioneo, assai piacevole e costumato
ciascuno197: e andavano cercando per loro somma consolazione, in tanta turbazione di cose, di vedere le loro
donne, le quali per ventura tutte e tre erano tra le predette sette, come che dell’altre alcune ne fossero congiunte parenti d’alcuni di loro198.
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Né prima esse agli occhi corsero di costoro, che costoro furono da esse veduti; per che Pampinea allor cominciò sorridendo: – Ecco che la fortuna a’ nostri co197 Come alle sette fanciulle, così a questi tre giovani si è vanamente tentato di dare lineamenti precisi, o determinato valore autobiografico, seppure rappresentano in qualche modo tutti e tre
l’autore stesso. I nomi hanno un senso etimologico e letteralmente
allusivo – come quelli delle fanciulle – a opere altrui o del B. stesso.
P a n f i l o (il «tutto amore»: cfr. Epistole, XXIII) è nome che è usato nelle egloghe (III e V) e nella Fiammetta per l’amante infedele
(che ha qualche tratto del B.); e ripete quello dello pseudo-autore
dei diffusissimi De arte amandi e De vetula, posti fra i classici trattatisti d’amore (cfr. Amorosa Visione, V 27; Epistole, XVIII). F i l o s t r a t o (l’«abbattuto da amore», secondo una falsa etimologia:
e non secondo la vera l’«amante della guerra») è il titolo del poemetto giovanile in cui sono cantate le pene di Troiolo per la lontananza e il tradimento dell’amata, Criseida. D i o n e o (il «lussurioso», il «venereo»: Venere era figlia di Dione: Par., VIII 7) già era
stato chiamato nella Comedia (XXVI) il giovane «di maravigliosa
bellezza … in atto lascivo», figlio di Bacco, di cui si innamora
Adiona; e parlando di sé in una giovanile lettera retorica il B. aveva
scritto: «me miserum rudem … a Dyona spurcissimum dyoneum»
(Epistole, II).
198 Si è insistentemente parlato delle coppie Dioneo-Fiammetta
(basandosi sul solito pseudo-romanzo autobiografico del B.), Panfilo-Neifile, Filostrato-Filomena: ma in realtà il B. non solleva il velo di questi misteri amorosi, ma lo lascia aleggiare sulla cortese brigata come un motivo di gentilezza e di galanteria. C o n g i u n t e
p a r e n t i : strette parenti: cfr. 49 n.
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minciamenti è favorevole, e hacci davanti posti discreti
giovani e valorosi, li quali volentieri e guida e servidor
ne saranno, se di prendergli a questo uficio non schiferemo.–
Neifile allora, tutta nel viso divenuta per vergogna
vermiglia, per ciò che l’una era di quelle che dall’un de
giovani era amata199, disse: – Pampinea, per Dio, guarda
ciò che tu dichi200. Io conosco assai apertamente niuna
altra cosa che tutta buona dir potersi di qualunque s’è
l’uno di costoro201, e credogli a troppo202 maggior cosa
che questa non è sofficienti; e similmente avviso loro
buona compagnia e onesta dover tenere non che a noi,
ma a molto più belle e più care che noi non siamo. Ma,
per ciò che assai manifesta cosa è loro essere d’alcune
che qui ne sono innamorati, temo che infamia e riprensione, senza nostra colpa o di loro, non ce ne segua se gli
meniamo. –
Disse allora Filomena: – Questo non monta203 niente: là dove io onestamente viva né mi rimorda d’alcuna
cosa la coscienza, parli chi vuole in contrario; Iddio e la
verità l’arme per me prenderanno. Ora, fossero essi pur
già disposti a venire, ché veramente, come Pampinea
disse, potremmo dire la fortuna essere alla nostra andata
favoreggiante204. –
199 La proposizione relativa accorda col soggetto anteriore al
partitivo di quelle (amata invece di amate): così il Mussafia nelle
Osservazioni cit., pp. 535 sgg. Ma il Marti osserva che probabilmente la singolarità (non eccezionale nella nostra antica lingua) è
soltanto nell’uso dell’articolo innanzi a una e a un.
200 È forma popolare per dica, corrente nel B. (cfr. II 7,100 n; II
9,40 ; VI concl., 40; VIII 7,105); normale del tutto la desinenza -i
alla II sing. del congiuntivo pres. della II e III coniugazione. Non
sembra possibile pensare a d i c h i dici perché la forma non ricorre
mai nel D.
201 di ciascuno di costoro.
202 molto; cfr. p. es. II 9,59 n.
203 importa; cfr. II 6,43; II 9,21 n.
204 L’uso del sonante participio invece di favorevole (come a 80)
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L’altre, udendo costei così fattamente parlare, non
solamente si tacquero ma con consentimento concorde
tutte dissero che essi fosser chiamati e loro si dicesse la
loro intenzione e pregassersi che dovesse loro piacere in
così fatta andata lor tener compagnia205. Per che senza
più parole Pampinea, levatasi in piè, la quale a alcun di
loro per consanguinità206 era congiunta, verso loro, che
fermi stavano a riguardarle, si fece e, con lieto viso salutatigli, loro la lor disposizione fe’ manifesta, e pregogli
per parte di tutte che con puro e fratellevole animo a tener loro compagnia si dovessero disporre. I giovani si
credettero primieramente essere beffati; ma, poi che videro che da dovero207 parlava la donna, rispuosero lietamente sé essere apparecchiati; e senza dare alcuno indugio all’opera, anzi che quindi si partissono, diedono
ordine a ciò che a fare avessono in sul partire. E ordinatamente fatta ogni cosa oportuna apparecchiare e prima
mandato là dove intendevan d’andare, la seguente mattina, cioè il mercoledì, in su lo schiarir del giorno, le
donne con alquante delle lor fanti e i tre giovani con tre
lor famigliari, usciti della città, si misero in via; né oltre a
due piccole miglia208 si dilungarono da essa, che essi
pervennero al luogo da loro primieramente ordinato.
Era il detto luogo209 sopra una piccola montagnetta,
è probabilmente dovuto al desiderio di una clausola più solenne a
fine periodo.
205 «In poche parole quattro volte la ripetizione di loro ma sempre in forza di proclitica; e perciò non molesta all’orecchio» (Fornaciari).
206 consanguineità, parentela; cfr. 79 n.
207 seriamente, per davvero.
208 due miglia scarse. Il miglio toscano equivaleva a circa 1650
metri.
209 «Il B. possessore di una villetta nel popolo di Maiano si compiacque di descriverne le adiacenze… Quindi è che alla vaga dipintura che fa della prima dimora della lieta brigata si riconosce Poggio Gherardi». Così il Baldelli (Vita del B., Firenze 1806, p. 284),
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da ogni parte lontano alquanto alle210 nostre strade, di211
varii albuscelli e piante tutte di verdi fronde ripiene piacevoli212 a riguardare; in sul colmo della quale era un palagio con bello e gran cortile nel mezzo, e con logge e
con sale e con camere, tutte ciascuna verso di se’ bellissima213 e di liete dipinture raguardevole e ornata, con pratelli da torno e con giardini maravigliosi e con pozzi
d’acque freschissime e con volte214 piene di preziosi vini:
cose più atte a curiosi215 bevitori che a sobrie e oneste
avvalorando una tradizione già accennata dal Ficino (Opera, Basilea 1576, I, p. 894: parlando della villa di Leonardo Aretino sotto
Fiesole «hanc, Pice, inquam, sapiens ille L. A. dicitur construxisse
et prope hanc ipsam, illic, ubi vides, Joannes Boccatius habitasse…») Con copia di rilievi particolari, di misurazioni, di sottili paragooni l’identificazione fu ripresa da G. Mancini e N. Masellis
(«Rassegna Nazionale», maggio 1904). Ma, a parte la scarsa e assai
relativa consistenza di tali argomenti, non è difficile accorgersi che,
come in molti casi simili (cfr. Schemi letterari cit.), il B., proprio
mentre sembra offrire particolari esatti e realistici, si abbandona
invece a un disegnare convenzionale o meglio tutto letterario e
ideale; quasi a dar corpo ai suoi sogni di euritmia naturale, di vita
signorile e aristocratica. Basti vedere come questo palagio è simile
a quello dove i novellatori si trasferiscono all’inizio della terza giornata; come i giardini siano sempre ordinati sul metro di quelli della
Caccia, del Filocolo, della Comedia, dell’Amorosa Visione, di varie
novelle (p. es. X 6); come tutto risponda alle descrizioni fascinose
disseminate nella «cornice»; come tutto rifletta moduli letterari, testimoniati anche da testi illustri, come il Roman de la Rose (cfr. E.
Kern, The Gardens in the D.’ Cornice, in «PMLA», LXVI, 1951).
210 Era dell’uso l o n t a n o … a: II 6,19; IV 4,10 (e cfr. E. De Felice, art. cit.).
211 Causale: cfr. II 7,64 n; III 1,6 n; e Inf. XIII 79.
212 P i a c e v o l i si riferisce a l u o g o e m o n t a g n e t t a .
213 per se stessa, nel suo genere (provenzalismo: X 9,35) bellissima; per l’uso di accordare il predicato o il verbo al pronome distributivo singolare (c i a s c u n a ), invece che al plurale (t u t t e ) di cui
è apposizione cfr. Inf., I 116 sg.: «Vedrai li antichi spiriti dolenti, |
ch’a la seconda morte ciascun grida».
214 scantinati a volta; III intr., 4: «le volte piene d’ottimi vini».
215 esigenti, raffinati, che hanno cura (lat. curiosus) e quindi sono
desiderosi di conoscere le diverse qualità: Fiore, LXXIII 13.
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donne216. Il quale tutto spazzato, e nelle camere i letti
fatti, e ogni cosa di fiori, quali nella stagione si potevano
avere, piena e di giunchi giuncata217, la vegnente brigata
trovò con suo non poco piacere.
E postisi nella prima giunta218 a sedere, disse Dioneo, il quale oltre a ogni altro era piacevole giovane e
pieno di motti:- Donne, il vostro senno, più che il nostro
avvedimento ci ha qui guidati. Io non so quello che de’
vostri pensieri voi v’intendete di fare; li miei lasciai io
dentro dalla porta della città allora che io con voi poco
fa me ne uscì fuori; e per ciò, o voi a sollazzare e a ridere
e a cantare con meco insieme vi disponete (tanto, dico,
quanto alla vostra dignità s’appartiene), o voi mi licenziate219 che io per li miei pensieri mi ritorni e steami nella città tribolata.–
A cui Pampinea, non d’altra maniera che se similmente tutti i suoi220 avesse da se’ cacciati, lieta rispose: –
Dioneo, ottimamente parli: festevolmente viver si vuole,
né altra cagione dalle tristizie ci ha fatto fuggire. Ma, per
ciò che le cose che sono senza modo221 non possono
216 Il prototipo di donna disonesta, la protagonista del Corbaccio, è difatti «solenne investigatrice e bevitrice del bun vino cotto,
della vernaccia da Corniglio, del grecoo di qualunque altro buon
vino morbido e accostante» (312).
217 cosparsa, coperta, tappezzata (fr. joncher). «Poiché i giunchi
erano adoperati per stuoie, di un terreno ricoperto di fiori o altro si
disse ‘giuncato’ come noi diciamo tappezzato» (Zingarelli). Difatti:
Filocolo, IV 161,1: «Niuna ruga è scoperta, ma tutte di bellissimi
drappi coperte, e d’erbe e di fiori giuncate…»; Petrarca, Rime, L
36-37: «O casetta o spelunca | Di verdi frondi ingiunca».
218 appena giunti più che sul principio; Inf., XXIV 45: «Anzi
m’assisi ne la prima giunta».
219 mi date licenza: II 7,119 n; II 9,74 n.
220 Riferito a p e n s i e r .
221 ordine e misura (cfr. Intr., 21). Cfr. De mulieribus, XCIX:
«nil violentum durabile». E quasi una sentenza discesa da Seneca
(Troad., 258; Oedip., 930: «Quidquid excessit modum | Pendet in-
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lungamente durare, io, che cominciatrice fui de’ ragionamenti da’ quali questa così bella compagnia è stata
fatta pensando al continuare della nostra letizia, estimo
che di necessità sia convenire esser tra noi alcuno principale222, il quale noi e onoriamo e ubbidiamo come maggiore, nel quale ogni pensiero stea di doverci a lietamen96 te viver disporre. E acciò che ciascun pruovi il peso
della sollecitudine insieme col piacere della maggioranza223, e per conseguente, d’una parte e d’altra tratti 224,
non possa chi nol pruova invidia avere alcuna, dico che
a ciascun per un giorno s’attribuisca e ’l peso e l’onore; e
chi il primo di noi esser debba nella elezion di noi tutti
sia. Di quegli che seguiranno, come l’ora del vespro s’avvicinerà, quegli o quella che a colui o a colei piacerà, che
quel giorno avrà avuta la signoria225; e questo cotale, secondo il suo arbitrio, del tempo che la sua signoria dee
20
stabili loco») e divenuta proverbile: cfr. F. NOVATI, Le serie alfabetiche proverbiali, in «Giorn. Stor. Lett. It.», XVIII, 1891, p. 119;
LV, 1910, p. 276; Paolo da Certaldo, Libro di buoni costumi, pp. 62
e 79.
222 capo; Velluti, Cronica, p. 65: «capo e principale».
223 dell’esser maggiore di grado, cioè del comando. «Nota bel dire» (M.).
224 Cioè per conseguenza ora partecipando del piacere e ora della
sollecitudine; X concl., 1: «le donne, chi d’una parte e chi d’altrra
tirando, chi biasimando una cosa, un’altra intorno a essa lodandone…»; Purg., XXI 115: «Or son io d’una parte e d’altra preso». Altri, ma meno bene, interpreta: tratti dalle donne e dagli uomini
(Gigli, Fanfani ecc.).
225 di quelli che verranno in seguito, che si succederanno, quando
si avvicinerà il tramonto, [sia tale l’elezione]: colui o colei che piacerà al signore o alla signora della giornata. «Il sovrano della giornata deve eleggersi il successore; qualche cosa di simile era in alcuni
istituti medioevali» (Zingarelli). Del resto proprio a Firenze, come
ricorda G. Villani, nel 1333 «si feciono due brigate d’artefici … e
durò da uno mese continuo giuochi e sollazzi per la città, andando
a due a due per la terra con trombe e più stromenti e colle ghirlande in capo danzando, col loro re molto onorevolemente coronato»
(Cronica, X 219).
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bastare226, del luogo e del modo nel quale a vivere abbiamo ordini e disponga.–
97
Queste parole sommamente piacquero e ad una voce lei per reina del primo giorno227 elessero; e Filomena,
corsa prestamente ad uno alloro, per ciò che assai volte
aveva udito ragionare di quanto onore le frondi di quello eran degne e quanto degno d’onore facevano chi
n’era meritamente incoronato, di quello alcuni rami colti, ne le fece una ghirlanda onorevole e apparente228; la
quale messale sopra la testa, fu poi mentre durò la lor
compagnia manifesto segno a ciascuno altro della real signoria e maggioranza.
Pampinea, fatta reina229, comandò che ogn’uom230
98
tacesse, avendo già fatti i famigliari de’ tre giovani e le
loro fanti, ch’eran quatro, davanti chiamarsi; e tacendo
ciascun, disse: – Acciò che io prima essemplo dea a tutte
voi, per lo quale, di bene in meglio procedendo, la nostra compagnia con ordine e con piacere e senza alcuna
226 durare; Testi fiorentini, p. 104: F. SIGOLI, Viaggio al Monte
Sinai, Firenze 1944, p. 189.
227 Cioè: capo per il primo giorno. Si noti che nella proposta si
era sempre parlato di p r i n c i p a l e (95), e proprio di primo (96):
l’appellativo di regina è usato solo dopo la simbolica incoronazione, «manifesto segno … della real signoria e maggioranza» (97).
228 appariscente. Tutta questa scena era in certo modo anticipata
nel Filocolo, proprio nell’episodio delle «questioni d’amore» che
più direttamente prelude al disegno del D. (cfr. IV 18 sgg.: Ascalione corona con l’alloro Fiammetta regina della brigata). Né va dimenticato che proprio in quegli anni vari personaggi erano stati
coronati con «l’onorata fronda»: il Petrarca (1341), Cola di Rienzo
(1347), Zanobi da Strada (1355). Nel gesto e nel pensiero di Filomena vibra quella devozione già umanistica del B. per l’alloro, che,
con parole simili a queste, palpita nel Teseida (chiose a I 1),
nell’Amorosa Visione (acr. III e XIX 49 sgg. B), nel Trattatello, nella Genealogia (VII 29). Analogamente nella Comedia Mopsa, la più
anziana, iniziava le narrazioni.
229 Cioè essendo stata incoronata.
230 ognuno; è forma corrente nel D.: I 7,15 n; II 1,33 n.
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vergogna viva e duri quanto a grado ne fia, io primieramente costituisco Parmeno231, famigliar di Dioneo, mio
siniscalco232, e a lui la cura e la sollecitudine di tutta la
nostra famiglia commetto e ciò che al servigio della sa233 appartiene. Sirisco, famigliar di Panfilo, voglio che
99 la
di noi sia spenditore e tesoriere e di Parmeno seguiti i
comandamenti. Tindaro al servigio di Filostrato e degli
altri due attenda nelle camere loro, qualora gli altri, intorno a’ loro ufici impediti, attendere non vi potessero.
100 Misia mia fante, e Licisca, di Filomena, nella cucina saranno continue234 e quelle vivande diligentemente apparecchieranno che per Parmeno loro saranno imposte.
231 Questo e gli altri nomi, di stampo greco, attribuiti ai servi
hanno, come quelli dei novellatori, origine e allusività letteraria.
Sono tipici della commedia ellenistica, passati di peso nella palliata
romana: varia ne è la provenienza, e qualcuno è anche vezzeggiativo. Sono in generale nomi caratteristici di servi o di personaggi di
basso rango, che comparivano nella commedia o nella satira latina:
Parmeno – d’origine militare (parma, parmula) e perciò siniscalco –
in tre lavori di Terenzio (Eunuchus, Hecyra, Adelphoe), Sirisco nella Copa virgiliana (non conosciuta però direttamente dal B.: a parte
i numeros Syrus e Syra nella commedia), Tindaro nei Captivi di
Plauto, Misia (etnonimo) nell’Andria di Terenzio, Licisca (pure etnonimo) nelle satire di Giovenale (VI 122) e negli epigrammi di
Marziale (IV 17), Chimera nelle Odi di Orazio (I 27) e nel commento di Servio a Virgilio (Ecl., VIII 68). Non identificabile l’origine di Stratilia (di stampo militaresco), a meno che non voglia alludere a una figlia di quello Strato creato re di Tiro dai servi
(Giustino, XVIII 3,6-19). Per la loro origine classica e letteraria si
contrappongono ai nomi realistici e quotidiani che ricorrono nelle
novelle; e contribuiscono così anch’essi a dare al mondo della
«cornice» una patina di sopramondo. Del resto due di essi ritorneranno nell’allusivo Buccolicum carmen (I 1 sgg. Tindarus, Licisca al
III 9 è però una cagna, come in Virgilio, Ecl., III 18). Cfr. N.
GIANNETTO, rec. a Forni, «Studi sul B.», XXV, 1997.
232 maestro di casa, maggiordomo; I 7,17; II 3,24 n.
233 Cioè della mensa.
234 di continuo, in permanenza; l’uso dell’aggettivo al posto
dell’avverbio è frequente nel B. (p. es. II 1,19 n; II 4,20 n).
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101 Chimera, di Lauretta, e Stratilia, di Fiammetta, al gover-
no delle camere delle donne intente vogliamo che stieno
e alla nettezza de’ luoghi dove staremo; e ciascuno generalmente, per quanto egli avrà cara la nostra grazia, vogliamo e comandiamo235 che si guardi, dove che egli vada, onde che egli torni, che egli oda o vegga236, niuna
novella, altro che lieta, ci rechi di fuori237.–
E questi ordini sommariamente dati, li quali da tutti
102
commendati furono, lieta drizzata in piè disse: – Qui sono giardini, qui sono pratelli, qui altri luoghi dilettevoli
assai, per li quali ciascuno a suo piacer sollazzando si vada, e come terza238 suona, ciascun qui sia, acciò che per
lo fresco239 si mangi.
103
Licenziata adunque dalla nuova reina la lieta brigata,
li giovani insieme colle belle donne, ragionando dilettevoli cose, con lento passo si misono per uno giardino,
belle ghirlande di varie frondi faccendosi e amorosamente cantando.
E poi che in quello tanto fur dimorati quanto di spa104
zio dalla reina avuto aveano, a casa tornati, trovarono
235 Formula regale, solenne, in crescendo: a determinare pienamente l’ordine dato sia ai singoli che a tutti quanti (generalmente).
236 Inf., VI 4 sgg.: «Novi tormenti a novi tormentati | Mi veggio
intorno come ch’io mi mova | E ch’io mi mova | E ch’io mi volga, e
come che io guati». Da notare l’insistere dei latinismi.
237 «C i r e c h i dipende da s i g u a r d i e si sottintende un che.
Ma come in latino dopo ‘cavere’, così in italiano dopo i verbi che significano ‘stare in guardia’ e simile l’omettere la congiunzione fa in
certi casi sentir meglio la sollecitudine del comando» (Fornaciari).
238 Nel Trecento (cfr. Par, XV 98), rifacendosi all’uso romano, si
computava il giorno dall’alba al tramonto, dividendolo in dodici
ore; e queste si raggruppavano in quattro periodi di tre ore ciascuno (terza, sesta, nona, vespro). Naturalmente, per il diverso orario
del sole nelle varie stagioni, non si può stabilire un’esatta costante
rispondenza fra quei quattro periodi e le ore nostre.
239 Con efficace senso insieme temporale e modale: come in latino per otium, per ludum ecc. Cfr. I concl., 8 n; II, intr., 3 n.
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Parmeno studiosamente aver dato principio al suo uficio, per ciò che, entrati in sala terrena, quivi le tavole
messe videro con tovaglie bianchissime e con bicchieri
che d’ariento parevano240, e ogni cosa di fiori di ginestra
coperta; per che, data l’acqua alle mani 241, come piacque alla reina, secondo il giudicio di Parmeno tutti andarono a sedere.
105
Le vivande dilicatamente fatte vennero e finissimi vini fur presti; e senza più chetamente242 li tre famigliari
106 servirono le tavole. Dalle quali cose, per ciò che belle e
ordinate erano rallegrato ciascuno, con piacevoli motti e
con festa mangiarono. E levate le tavole243, con ciò fosse
cosa che tutte le donne carolar244 sapessero e similmente
i giovani e parte di loro ottima mente e sonare e cantare,
comandò la reina che gli strumenti venissero; e per comandamento di lei Dioneo preso un liuto e la Fiammetta una viuola, cominciarono soavemente una danza a so107 nare245; per che la reina coll’altre donne, insieme co’ due
240 Come nella VI 2,11. I bicchieri erano comunemente di stagno o di peltro o di vetro.
241 L’operazione era di prammatica: ed era necessaria più che
oggi, non usandosi forchette, anche fra portata e portata e alla fine.
242 ordinatamente e in silenzio: I 4,7 n.
243 Era uso nel Trecento di non fare una sola tavola ma di mangiare a più deschi, quando gli invitati erano un certo numero (cfr. I
5, I 8, X 9 ecc.); ma l e v a r e l e t a v o l e (ccome più sopra m e t t e r e l e t a v o l e ) vale in genere semplicemente s p a r e c c h i a r e
e a p p a r e c c h i a r e (anche per l’uso di tavole su cavalletti: cfr. il
francese dresser, ôter les tables).
244 danzare in tondo, in cerchio, tenendosi per mano: VII intr., 8;
cfr. Par., XXIV 16 e XXV 99; ed equivale alla seguente frase tecnica: p r e n d e r e u n a c a r o l a (107).
245 cominciarono a suonare l’aria di una danza. Il liuto e la viola
erano strumenti musicali aulici, e così il monocordo, l’organo e il
flauto. Cfr. per questo G. CARDUCCI, Musica e poesia del secolo
XIV, Bologna 1936; e Velluti, Cronica, P. 95: «Giovanni Frescobal-
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giovani presa una carola, con lento passo, mandati i famigliari a mangiare, a carolar cominciarono; e quella finita, canzoni vaghette e liete cominciarono a cantare.
108
E in questa maniera stettero tanto che tempo parve
alla reina d’andare a dormire: per che, data a tutti la licenzia, li tre giovani alle lor camere, da quelle delle donne separate246, se n’andarono, le quali co’ letti ben fatti e
così di fiori piene come la sala trovarono, e simigliantemente le donne le loro; per che, spogliatesi, s’andarono
a riposare.
109
Non era di molto spazio sonata nona, che la reina,
levatasi, tutte l’altre fece levare, e similmente i giovani,
affermando esser nocivo il troppo dormire di giorno; e
così se n’andarono in uno pratello, nel quale l’erba era
verde e grande né vi poteva d’alcuna parte il sole247. E
quivi, sentendo un soave venticello venire, sì come volle
la lor reina, tutti sopra la verde erba si puosero in cer110 chio a sedere248, a’ quali ella disse così: – Come voi vede-
di fu buono trovatore e sonettieri…; bello e grande sonatore di
chitarra e leuto e viuola».
246 «Meglio era fare mescolati di borsella» (M.): alludendo al
panno misto di Bruxelles e giocando sull’equivoco del mescolare le
borse.
247 non aveva parte, non vi batteva, non vi penetrava d’alcuna parte il sole.
248 Proprio di un «soave venticello» che rallegrava una gentile
compagnia di donne sedute in cerchio in un giardino a novellare
d’amore aveva cantato il B. nel sonetto 1: «Intorn’ad una fonte»;
proprio una leggiadra brigata di donne riunite in luogo fitto «Di
frondi folti sì ch’a pena il sole | Tra essi può passar nella campagna» aveva rappresentato nella Caccia (II 11 sg.): senza parlare del
famoso episodio del Filocolo e della aristocratica compagnia che
faceva graziosa festa «cercando dilettevoli ombre e diversi diletti»
e passando in vari ragionamenti d’amore la parte più calda del
giorno (IV 17 sgg.; e anche Comedia, IX 11; XVII 4-6; P. RAJNA,
art. cit.; R. FORNACIARI, Dal «Filocolo» al «D.», in Studi su G.
B., Castelfiorentino 1913; A. E. QUAGLIO, Intr. ed. Filocolo cit.).
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te, il sole è alto e il caldo è grande, né altro s’ode che le
cicale su per gli ulivi; per che l’andare al presente in alcun luogo sarebbe senza dubbio sciocchezza. Qui è bello e fresco stare, e hacci, come voi vedete, e tavolieri e
scacchieri249, e puote ciascuno, secondo che all’animo
gli è più di piacere, diletto pigliare. Ma se in questo il
mio parer si seguisse, non giucando, nel quale250 l’animo
dell’una delle parti convien che si turbi senza troppo
piacere dell’altra o di chi sta a vedere, ma novellando (il
che può porgere, dicendo uno251, a tutta la compagnia
che ascolta diletto) questa calda parte del giorno trapasseremo. Voi non avrete compiuta ciascuno di dire una
sua novelletta, che il sole fia declinato252 e il caldo mancato, e potremo dove più a grado vi fia andare prendendo diletto; e per ciò, quando questo che io dico vi piaccia (ché disposta sono in ciò di seguire il piacer vostro),
faccianlo; e dove non vi piacesse, ciascuno infino all’ora
del vespro quello faccia che più gli piace. –
Le donne parimente e gli uomini tutti lodarono il
novellare.
– Adunque, disse la reina, se questo vi piace, per
questa Giornata prima voglio che libero sia a ciascuno
di quella materia ragionare che più gli sarà a grado253. –
249 Tavolette per giocare a scacchi, a dama, a tavole: cioè ai giuochi preferiti dalla società più elegante del Trecento (III intr., VII 7;
Filocolo, IV 96; Sacchetti, CLXV; Velluti, Cronica, p. 77 ecc.).
250 Da riferire a g i u o c o sottinteso nel precedente g i u c a n d o
(solita sillessi, cfr. 26 n). Questa riduzione del dittongo in g i u c a r e e derivati è frequente nel D. (p. es. Proemio, 12 n; I 1,14; III intr., 15; VIII concl., 7; anche per casi simili).
251 mentre uno solo parla, narra.
252 sarà sceso verso il tramonto.
253 La prima e la nona sono le due sole giornate in cui non sia
imposto ai novellatori un tema generale.
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Proemio
E rivolta a Panfilo, il quale alla sua destra sedea, piacevolmente gli disse che con una delle sue novelle all’altre desse principio; laonde Panfilo, udito il comandamento, prestamente, essendo da tutti ascoltato,
cominciò così.
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NOVELLA PRIMA
1
Ser Cepparello con una falsa confessione inganna un santo frate, e muorsi; ed essendo stato un pessimo uomo in vita, è morto reputato per santo e chiamato san Ciappelletto1.
2
– Convenevole cosa è2, carissime donne, che ciasche1 La novella trasse probabilmente origine da narrazioni e da dicerie venute dalla Francia sulla mala vita e le male arti dei prestatori italiani; e il B., insieme ad altre inventate o derivate da suggestioni letterarie, le attribuì a un personaggio realmente esistito, che
aveva trafficato in quelle terre, ed era stato in rapporto con i fratelli Franzesi, prototipi, per la storiografia fiorentina, dei loschi affaristi. Difatti un Cepperello o Ciapperello Dietaiuti da Prato appare
in documenti della fine del ’200 come ricevitore di decime e di taglie, per conto di Filippo il Bello, re di Francia, e di Bonifacio VIII,
nel contado venosino ecc. (ma non era notaio, era ammogliato e
aveva figli, era ancora vivo, a Prato, nel 1304). Il suo libro di conti
è uno dei più antichi documenti volgari (Testi fiorentini cit., pp.
244 sgg.). «È pittoresco – nota Contini – che in un suo libro di
conti relativo agli anni 1288-1290, dove sono documentati fra l’altro i suoi rapporti con Biccio e Musciatto (i loschi fratelli Franzesi)
e non mancano menzioni di località borgognone (come Mâcon),
sia registrata anche una modesta elemosina» ai francescani e ai domenicani. Episodi simili alla novella erano in testi medievali: nella
Vita di San Martino di Sulpizio Severo (XI: la tomba di un brigante
presso Tours è venerata come quella d’un santo), nella Storia di
Spagna di Juan de Mariana (con pseudomiracoli gli eretici inducevano il popolino a venerar la tomba del loro compagno Arnaldo); e
in generale in tutte le frequenti raffigurazioni e satire di ipocriti, da
quelle del Fiore a quelle della Divina Commedia. È tema del resto
diffuso nella novellistica (Rotunda, U II6*). Cfr. C. PAOLI, Documenti di Ser Ciappelletto, in «Giorn. Stor. Lett. It.», v, 1885; A.
NERI, Una lettera di G. Bianchini, ibid., VI, 1885; C. GIANI, Cepparello da Prato, Prato 1915, e Ancora due parole su Cepparello,
Prato 1916; L. FASSÒ, Saggi e ricerche di storia letteraria, Milano
1947; V. BRANCA, B. Medievale, pp. 94 sgg., 156 sgg.
2 La prima novella di ogni giornata comincia sempre, contraria-
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3
4
5
duna cosa la quale l’uomo fa, dallo ammirabile e santo
nome di Colui, il quale di tutte fu facitore, le dea principio. Per che, dovendo io al vostro novellare, sì come primo, dare cominciamento, intendo da una delle sue maravigliose cose incominciare, acciò che, quella udita, la
nostra speranza in Lui, sì come in cosa impermutabile3,
si fermi e sempre sia da noi il suo nome lodato. Manifesta cosa è che, sì come le cose temporali tutte sono transitorie e mortali, così in sé e fuor di sé esser 4 piene di
noia, d’angoscia e di fatica e a infiniti pericoli sogiacere;
alle quali senza niuno fallo né potremmo noi, che viviamo mescolati in esse e che siamo parte d’esse, durare né
ripararci5, se spezial grazia di Dio forza e avvedimento
non ci prestasse. La quale a noi e in noi non è da credere
che per alcuno nostro merito discenda, ma dalla sua
propria benignità mossa e da’ prieghi di coloro impetrata che, sì come noi siamo, furon mortali, e bene i suoi
piaceri6 mentre furono in vita seguendo ora con Lui
eterni son divenuti e beati. Alli quali noi medesimi, sì
come a procuratori informati per esperienza della nostra
fragilità, forse non audaci di porgere i prieghi nostri nel
cospetto di tanto giudice7, delle cose le quali a noi reputiamo opportune gli8 porgiamo. E ancor più in Lui, ver-
mente alle altre, senza azione alcuna nella «cornice», proprio perché tale azione è compresa nella introduzione alla giornata.
3 Non soggetta a mutamenti.
4 Per questa costruzione cfr. Intr., 41 n., I 4,3 n. Le considerazioni sulla caducità divulgate in forma simile da testi autorevoli (per
es. Ecclesiste I 2-13; Seneca, De constantia, 20,8) erano state rese
proverbiali dall’«Omnia vertuntur» (H. WALTHER, Proverbia,
III, p. 622; e anche L. DE MAURI, Flores Sententiarum, Milano
1967, p. 77).
5 resistere né evitarle. E nota i due cursus veloces che concludono
i due membri del periodo.
6 le sue volontà. Coloro (nella riga precedente) sono i santi.
7 tutta la frase forse…giudice è apposizione di noi medesimi.
8 Cioè i prieghi.
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so noi di pietosa liberalità pieno, discerniamo9, che, non
potendo l’acume dell’occhio mortale nel segreto della
divina mente trapassare in alcun modo10, avvien forse tal
volta che, da oppinione11 ingannati, tale dinanzi alla sua
maestà facciamo procuratore che da quella con eterno
essilio è iscacciato. E nondimeno Esso, al quale niuna
cosa è occulta12, più alla purità del pregator riguardando
che alla sua ignoranza o allo essilio del pregato13, così
come se quegli fosse nel suo cospetto beato, essaudisce
coloro che ’l priegano14. Il che manifestamente potrà apparire nella novella la quale di raccontare intendo: manifestamente, dico, non il giudicio di Dio ma quel degli
uomini seguitando.
Ragionasi15 adunque che essendo Musciatto Franzesi16 di ricchissimo e gran mercatante in Francia cavalier
9 E in Lui, che è pieno di pietà e di liberalità verso di noi, scorgiamo qualcosa anche di più grande, di più liberale.
10 Par., XIII 141: «Vederli dentro al consiglio divino»: cfr. Par.,
VI 121.-23, Purg., VIII 67-69; Esposizioni, IX litt. 72: «la profondità della divina mente, la quale è tanta e sì nascosa che occhio
mortale non può ad essa trapassare».
11 Oppinione (la doppia è consueta nell’antico toscano: dal lat.
med. oppinio) è «sentenza dubbiosa, e non certa, ingannata dal parere» (Da Buti, comm. a Purg., XXVI 2): II 6, 54 n. e IV intr., 39
n.: «gli lascerò con la loro oppinione».
12 Par., XXI 50: «Colui che tutto vede».
13 Cioè al fatto che il pregato è all’Inferno: Inf., XXIII 126 e
Purg., XXI 18: «ne l’etterno essilio».
14 È un concetto che anche Dante accenna (Ep., VI: «qui divine
voluntati reluctatus est et sciens et volens, eidem militet nesciens
atque nolens»), e che sarà ripreso ampiamente nel finale (89-91).
15
Si narra.
16
Musciatto di Messer Guido Franzesi, «nostro contadino», secondo il Villani, accumulò grandi ricchezze trafficando in Francia,
e fu dei più ascoltati e malvagi consiglieri di Filippo il Bello, inducendolo a falsificare moneta e a razziare i mercanti italiani (Cronica, VII 147 e VIII 49, 56, 63). Anche il Compagni: «cavaliere di
gran malizia, picciolo della persona ... corrotto» (II 4). Era già
morto nel 1310 (cfr. la nota di I. Del Lungo al citato luogo del
Compagni): e fu realmente in stretti rapporti d’affari con Ceppa-
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divenuto e dovendone in Toscana venire con messer
Carlo Senzaterra, fratello del re di Francia, da papa Bonifazio addomandato e al venir promosso17, sentendo18
egli gli fatti suoi, sì come le più volte son quegli de’ mercatanti, molto intralciati in qua e in là e non potersi di
leggiere né subitamente stralciare19, pensò quegli commettere20 a più persone e a tutti trovò modo: fuor solamente in dubbio gli rimase cui lasciar potesse sofficiente
a21 riscuoter suoi crediti fatti a più borgognoni. E la cagione del dubbio era il sentire li borgognoni uomini
riottosi e di mala condizione e misleali22; e a lui non an-
rello, come testimoniano i documenti di cui alla n. 1 di p. 49. Da
notizie manoscritte cui si riferiscono il Manni e il Giani, risulta che
fu Podestà e Capitano del Popolo a Prato e poi Capitano della Taglia Toscana nel novembre del 1301; e che i fratelli Franzesi, prima
Lombards soggetti alla taille, erano divenuti gentilshommes, receveurs, trésoriers del Re. Cfr. in gen. F. BOCK, Musciatto dei Franzesi, in «Deutsches Archiv für Geschichte des Mittelalters», VI,
1943; R. DAVIDSOHN, Storia di Firenze, Firenze 1965, VI, pp.
625 sgg. Musciatto è soprannome da Moscia, forma francese di Mosca.
17 sollecitato, indotto. Anche questo cenno alla calata in Italia nel
1301 di Carlo di Valois è storico: è l’episodio che porterà all’esilio
Dante (Purg., XX 70 sgg. e Trattatello, I 165 sg.). Il soprannome di
Senzaterra (cui allude anche Dante: Purg., XX 76) era rimasto a
Carlo, fratello di Filippo il Bello, dal tempo in cui non godeva di
proprio appannaggio o dall’aver avuta solo nominalmente corona e
dai suoi vani tentativi di procurarsi un regno.
18 conoscendo, sapendo, alla latina, come in Intr., 57: «sentono gli
essecutori di quelle o morti o malati»: e cfr. II 6,58 n.; II 8,4 n. ecc.
19 sbrogliare; o forse, modernamente, liquidare.
20 affidare: II 7,70 n.
21 idoneo, capace di.
22 litigiosi e di malvagia indole (morale) e sleali, falsi. «I Borgognoni avevano cattiva fama anche in Francia. Nel poemetto Tournoiement Antecrist di Huon di Mery (1234) la schiera guidata da
Fellonia n’è piena, v. 701: ‘Felonie, qui het pitié avoit Bourgoignons a plenté’» (Zingarelli). A colorire l’ambiente sono usati due
francesismi (riottosi e misleali: e cfr. riotta II 7,42). Cfr. in generale
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dava per la memoria chi tanto malvagio uom fosse, in
cui egli potesse alcuna fidanza23 avere che opporre alla
loro malvagità si potesse. E sopra questa essaminazione24 pensando lungamente stato, gli venne a memoria
un ser Cepparello da Prato, il quale molto alla sua casa
in Parigi si riparava25. Il quale, per ciò che piccolo di
persona era e molto assettatuzzo26, non sappiendo li
franceschi che si volesse dir27 Cepparello, credendo che
‘cappello’, cioè ‘ghirlanda’28, secondo il lor volgare a dir
venisse, per ciò che piccolo era come dicemmo, non
Ciappello, ma Ciappelletto il chiamavano; e per Ciappelletto era conosciuto per tutto, là dove pochi per ser
Cepperello il conoscieno.
per l’ambiente mercantile italiano in Borgogna: L. GAUTHIER,
Les Lombards dans les Deux-Bourgognes, Paris 1907; e A. SAPORI,
Studi di storia economica, Firenze 1955, I, pp 100 sgg.; R. DAVIDSOHN, Storia di Firenze,VI, pp. 649 sgg.
23
fiducia: cfr. IV 6,40 n.
24 disamina, indagine: usato soprattutto per gli esami processuali,
non senza ragione il vocabolo è impiegato proprio qui.
25 si rifugiava, albergava: cfr. II 8,33: «nella corte del quale ...
molto si riparavano» e 77: «cominciò come povero uomo a ripararsi vicino alla casa di lei»; e più avanti, 20.
26 agghindato, di un’eleganza un po’affettata: Vita di Sant’Antonio
(C.): «Era una giovine balda e tutta piena d’arditezza, e tutta assettatuzza e atteggevole»; e Dante, Rime dubbie, VI 4. «Il B. s’impadronisce magistralmente di questo suffisso istituzionale nella poesia burlesca» (Contini):e cfr. qui 41,51.
27 Riflessivo corrente allora nelle interrogative o dubitative dipendenti da «non sapere» ed espressioni equivalenti: cfr. per es. I
4,15; II 3,16; II 5,55; II 7,11 e 16 e 22 e 46; III 7,23 e 51 e 73 e 99;
III 8,38; III 9,35;
IV 2,48 ecc.; e F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, pp. 149 sgg.
28 Il francese «chapel» aveva il suo diminutivo assai comune in
«chapelet», cioè «ciappelletto» pronunziato alla toscana: e anche
in italiano «cappello» s’usava per «corona, ghirlanda» (Par., XXV
9 e cfr. MERKEL, op. cit., pp. 81 sgg.). Forse il B. riteneva che
«Cepparello» derivasse da «ceppo», mentre con tutta probabilità
non era che un diminutivo di Ciapo (Ciaperello), deformazione di
Jacopo: a meno che non provenga dall’identico toponimo. A Prato
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Era questo Ciappelletto di questa vita: egli, essendo
notaio29, avea grandissima vergogna quando uno de’
suoi strumenti, come che pochi ne facesse, fosse altro
che falso trovato; de’ quali tanti avrebbe fatti di quanti
fosse stato richesto, e quegli più volentieri in dono che
alcuno altro grandemente salariato30. Testimonianze false con sommo diletto diceva, richesto e non richesto; e
dandosi a quei tempi in Francia a’ saramenti31 grandissima fede, non curandosi fargli falsi, tante quistioni malvagiamente vincea a quante a giurare di dire il vero sopra la sua fede era chiamato. Aveva oltre modo piacere,
e forte vi studiava32, in commettere33 tra amici e parenti
e qualunque altra persona mali e inimicizie e scandali,
de’ quali quanto maggiori mali vedeva seguire tanto più
d’allegrezza prendea. Invitato a uno omicidio o a qualunque altra rea cosa, senza negarlo mai, volenterosamente v’andava, e più volte a fedire e a uccidere uomini
con le proprie mani si ritrovò volentieri. Bestemmiatore
di Dio e de’ santi era grandissimo, e per ogni piccola cosa, sì come colui che più che alcuno altro era iracundo.
A chiesa non usava34 giammai; e i sacramenti di quella
esisteva ancora nel Settecento una famiglia Cepperelli. Franceschi
era corrente per francesi: cfr. II 6,77 n.
29 Per questa qualifica che, come abbiamo visto, non aveva Cepparello Dietaiuti, gli è attribuito il titolo di Ser. Strumenti atti notarili.
30 compensato. Questa volontà gratuita di male sembra riecheggiare da un famoso topico ritratto di malvagio, Catilina, tracciato
dall’ammiratissimo Sallustio: ritratto certo presente al B. in questa
pagina («Huic ... caedes, rapinae, discordia grata fuere ... testes signatoresque falsos commodare ... gratuito potius malus atque crudelis erat»: I 5 sgg .).
31 giuramenti: II 8,20 n.: e cfr. Annotazioni, VII.
32 fortemente vi si appassionava.
33 introdurre, intessere: lnf., XXVII 136: «quei che scommettendo acquistan carco».
34 non soleva andare: I 6,19 n.
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tutti come vil cosa con abominevoli parole scherniva; e
così in contrario le taverne e gli altri disonesti luoghi visitava volentieri e usavagli. Delle femine era così vago
come sono i cani de’ bastoni35; del contrario più che alcuno altro tristo uomo si dilettava. Imbolato avrebbe e
rubato36 con quella coscienza che un santo uomo offerrebbe37. Gulosissimo e bevitor grande, tanto che alcuna
volta sconciamente gli facea noia. Giuocatore e mettito15 re di malvagi dadi38 era solenne39. Perché mi distendo io
in tante parole? Egli era il piggiore uomo forse che mai
nascesse40. La cui malizia lungo tempo sostenne la potenzia e lo stato41 di messer Musciatto, per cui molte
volte e dalle private persone, alle quali assai sovente fa35 Anche di un altro sodomita, Pietro da Vinciolo, la moglie dice
«se’ cosi’ vago di noi [donne] come il can delle mazze» (V 10,55); e
il Sacchetti: «vago delle femmine, come i fanciulli delle palmate»
(CXII): quasi proverbio «già usato nella precedente poesia giocosa, della quale in questa pagina ritornano alcuni tratti fondamentali» (Marti). Comincia l’insistenza iterativa, di evidente valore allusivo-deprecativo per Cepparello, su «cane» (14, 25, 26).
36 Il primo verbo indica il portar via di furto; il secondo rapire con
violenza (II 4,8 n.).
37 con la quale ... offrirebbe denaro in elemosina: era corrente offerere, assoluto: 11 6 ,53; Par., V 50, XIII 140. Nota una di quelle
sincopi, frequenti in casi simili (per es. II 5,34; IV 9,9) come le metatesi (per es. enterrai II 5,76). E per l’omissione della preposizione
dinanzi al relativo dipendente da un sostantivo preceduto da un dimostrativo, cfr. Mussafia,pp 517 sgg.
38 dadi truccati, cioè era baro: cfr. Sacchetti, XLII. E cfr. Intr., III
n.
39 Ultimo di quegli aggettivi – o espressioni – usati di solito in
senso positivo e qui stravolti in negativo di cui è punteggiato questo ritratto. Il quale introduce così proprio il grande tema dello
«stravolgimento», che è centrale alla novella, e il suo linguaggio antifrastico che trionfano coerentemente nella conclusione (cfr. B.
medievale, pp. 94 sgg.).
40 Cfr. Matteo 26.24; Marco 14.21: «Bonum erat et si non esset
natus homo ille» (per Giuda): e cfr. IX 1,8; Corbaccio, 384 «Perché
mi vo io in più parole stendendo?»
41 protesse, salvaguardò la potenza e il grado, la condizione: cfr. I
1, 30 n.; II 8,33 n.; V 2,35: «venne ... in grande e ricco stato».
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ceva iniuria, e dalla corte42, a cui tuttavia43 la facea, fu riguardato44.
Venuto adunque questo ser Cepparello nell’animo a
messer Musciatto, il quale ottimamente la sua vita conosceva, si pensò il detto messer Musciatto costui dovere
essere tale quale la malvagità de’ borgognoni il richiedea; e perciò, fattolsi chiamare, gli disse così: «Ser Ciapelletto, come tu sai, io sono per ritrarmi del tutto di
qui: e avendo tra gli altri a fare co’ borgognoni, uomini
pieni d’inganni, non so cui io mi possa lasciare a riscuotere il mio da loro più convenevole di te. E perciò, con
ciò sia cosa che tu niente facci al presente45, ove a questo
vogli intendere, io intendo46 di farti avere il favore della
corte47 e di donarti quella parte di ciò che tu riscoterai
che convenevole sia».
Ser Ciappelletto, che scioperato si vedea e male agiato delle cose del mondo48 e lui ne vedeva andare che suo
sostegno e ritegno49 era lungamente stato, senza niuno
indugio e quasi da necessità costretto si diliberò50, e disse che volea volentieri. Per che, convenutisi insieme, ri42
polizia, giustizia.
continuamente: I 4,8 n.; II 2,15 n.
fu risparmiato, gli fu usato riguardo: cfr. più avanti, 35: «E non
mi riguardate perché io infermo sia»; II 1,12 n. Questo ritratto sinistro di ser Ciappelletto ben si accorda a quelli di Biccio e Musciatto Franzesi tracciati dal Villani (loc. cit.).
45 Non esiste attività di Cepparello per il 1301: difatti più sotto si
dice scioperato (Dante, Rime, LXXV 13).
46 Intendere vale la prima volta badare, la seconda ho intenzione,
ho in animo. È segnata la biforcazione, la ambiguità di una stessa
parola usata in due significati diversi.
47 Corte reale: difatti più sotto si parla delle lettere favorevoli del
re, cioè di lettere commendatizie. Gli affari di Musciatto in Borgogna riguardavano riscossione di imposte. Si noti che dal libro di
conti di Cepparello risulta che già era stato esattore.
48 disoccupato ... e in non buone condizioni economiche.
49 protezione, difesa.
50 prese una deliberazione, si decise.
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cevuta ser Ciappelletto la procura e le lettere favorevoli
del re, partitosi messer Musciatto, n’andò in Borgogna
dove quasi niuno il conoscea; e quivi, fuor di sua natura51, benignamente e mansuetamente cominciò a voler
riscuotere e fare quello per che andato v’era, quasi si riserbasse l’adirarsi al da sezzo52.
E così faccendo, riparandosi in casa di due fratelli
fiorentini, li quali quivi a usura prestavano e lui per
amor di messer Musciatto onoravano molto, avvenne
che egli infermò. Al quale i due fratelli fecero prestamente venir medici e fanti che il servissero e ogni cosa
opportuna alla sua santà53 racquistare. Ma ogni aiuto era
nullo54, per ciò che il buono uomo, il quale già era vecchio e disordinatamente vivuto, secondo che i medici dicevano, andava di giorno in giorno di male in peggio come colui che aveva il male della morte; di che li due
fratelli si dolevan forte.
E un giorno, assai vicini della camera nella quale ser
Ciappelletto giaceva infermo, seco medesimo cominciarono a ragionare: «Che farem noi» diceva l’uno all’altro
«di costui? Noi abbiamo de’ fatti suoi pessimo partito
alle mani55: per ciò che il mandarlo fuori di casa nostra
così infermo ne sarebbe gran biasimo e segno manifesto
di poco senno, veggendo la gente che noi l’avessimo ricevuto prima e poi fatto servire e medicare così sollecitamente, e ora, senza potere egli aver fatta cosa alcuna
che dispiacer ci debbia56, così subitamente di casa no-
51
contrariamente alla sua indole.
da ultimo: VI 9,2; Teseida, VIII 79; Inf., VII 130.
53 sanità; santà è forma più popolare (cfr. fr. santé). «Come di
norma, la preposizione che regge l’infinito (a) è fusa con l’articolo
dell’oggetto anteposto» (Contini): cfr. Intr., 20 n.
54 mezzo, rimedio (II 8,47 n.) era inutile.
55 Cioè ci troviamo con lui, per causa di lui a mal, a pessimo partito.
56 Forma corrente, accanto a debba, nel toscano del Duecento e
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stra e infermo a morte vederlo mandar fuori57. D’altra
parte, egli è stato sì malvagio uomo che egli non si vorrà
confessare né prendere alcuno sagramento della Chiesa;
e, morendo senza confessione, niuna chiesa vorrà il suo
corpo ricevere, anzi sarà gittato a’ fossi a guisa d’un ca25 ne58. E, se egli si pur confessa59, i peccati suoi son tanti e
sì orribili60 che il simigliante n’avverrà61, per ciò che frate né prete ci sarà che ’l voglia né possa assolvere; per
26 che, non assoluto, anche sarà gittato a’ fossi. E se questo
avviene, il popolo di questa terra, il quale sì per lo mestier nostro, il quale loro pare iniquissimo e tutto il giorno ne dicon male, e sì per la volontà che hanno di rubarci, veggendo ciò si leverà a romore62 e griderà: ‘Questi
lombardi cani63, li quali a chiesa non sono voluti riceve24
Trecento e nel D. stesso (per es. II 8,13 e 9,39; IX 5,4; X 10,35:
Rohlfs, 556).
57 Anacoluto. Era da aspettarsi lo mandiam fuori, (dipendendo
da veggendo la gente che noi; invece il B. torna col pensiero al costrutto il mandarlo fuori, oppure coordina col gerundio procedente veggendo.
58 G. Villani, Cronica, VI 62: «feciono ... il corpo ... gittare a’ fossi». Nei fossati che cingevano le mura della città si gettavano i cadaveri dei suicidi, degli eretici, degli scomunicati (IV 6,26) e anche
degli usurai (Thompson, P 435; V 22).
59 Iperbato col pronome atono, comunissimo in quell’età (cfr.
per es. Vita Nuova, XL, 4: «io li pur farei piangere»).
60 Purg., III 121: «Orribil furon li peccati miei», dichiara Manfredi, che infatti non ebbe sepoltura in terra consacrata.
61 ci accadrà la stessa cosa.
62 tumulto: cfr. II 6,77 e n.
63 Lombardi erano chiamati in Francia tutti gli italiani della parte settentrionale della penisola, Toscana inclusa (Purg., XVI 12526): e ‘lombardo’ era sinonimo di prestatore e usuraio, cui si accompagnava spesso il dispregiativo di ‘chien’. Ancor oggi a Parigi
esiste rue des Lombards e a Londra Lombard Street. Cfr. A. SEGRE, Storia del commercio, Torino 1923, I, pp 215 sgg.; A. SAPORI, op. cit., pp. 107, 180 sgg., 688, 866 sgg., 1051 sgg.
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re, non ci si voglion64 più sostenere65’; e correrannoci alle case e per avventura non solamente l’avere ci ruberanno, ma forse ci torranno oltre a ciò le persone66; di che
noi in ogni guisa stiam male se costui muore».
27
Ser Ciappelletto, il quale, come dicemmo, presso
giacea là dove costoro così ragionavano, avendo l’udire
sottile, sì come le più volte veggiamo aver gl’infermi, udì
ciò che costoro di lui dicevano; li quali egli si fece chiamare, e disse loro: «Io non voglio che voi d’alcuna cosa
di me dubitiate67 né abbiate paura di ricevere per me alcun danno. Io ho inteso ciò che di me ragionato avete e
son certissimo che così n’avverrebbe come voi dite, dove così andasse la bisogna68 come avvisate; ma ella andrà
28 altramenti. Io ho, vivendo, tante ingiurie fatte a Domenedio, che, per farnegli io una ora in su la mia morte, né
29 più né meno ne farà69; e per ciò procacciate di farmi venire un santo e valente frate, il più70 che aver potete, se
alcun ce n’è; e lasciate fare a me, ché fermamente io acconcerò i fatti vostri e’ miei in maniera che starà bene e
che dovrete esser contenti».
64 non si lasciano nemmeno entrare o non si vogliono ricevere in
chiesa, non ci (cioè qui) si devono ... con costruzione personale: uso
non comune ma ripetuto nel B.: V 10,45: «elle si vorrebbero uccidere, elle si vorrebbon vive vive metter nel fuoco»; Amorosa Visione, I 67 sg .: «Più mirabil cosa | Veder vuoi prima che giunghi lassuso»; cfr. Mussafia, pp. 447 sgg., 473; C.SEGRE, rec. cit.
65 tollerare: Proemio, II n.
66 la vita: cfr. II 5,60 n.
67 di nulla temiate a causa mia: cfr. Intr., 55 e n.
68 la faccenda: II 7,90 n.; e Inf., XXIII 140: «Mal contava la bisogna».
69 non ne farà maggior caso, non ne terrà neppur conto, cioè mi
tratterà allo stesso modo. Altri interpreta impersonalmente non
sarà nulla, non farà nulla. E cfr. Par., XXX 121: «Presso e lontano,
lì, né pon né leva».
70 Sottinteso: santo e valente.
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I due fratelli, come che molta speranza non prendessono di questo, nondimeno se n’andarono a una religione71 di frati e domandarono alcuno santo e savio uomo
che udisse la confessione d’un lombardo che in casa loro
era infermo; e fu lor dato un frate antico72 di santa e di
buona vita e gran maestro in Iscrittura e molto venerabile uomo, nel quale tutti i cittadini grandissima e speziale
divozione aveano, e lui menarono. Il quale, giunto nella
camera dove ser Ciappelletto giacea e allato postoglisi a
sedere, prima benignamente il cominciò a confortare, e
appresso il domandò quanto tempo era che egli altra
volta confessato si fosse.
Al quale ser Ciappelletto, che mai 73 confessato non
s’era, rispose: «Padre mio, la mia usanza suole essere di
confessarsi ogni settimana almeno una volta, senza che
assai sono di quelle che io mi confesso più; è il vero che
poi che io infermai, che son passati da otto dì, io non
mi confessai tanta è stata la noia che la infermità m’ha
data».
Disse allora il frate: «Figliuol mio, bene hai fatto, e
così si vuol fare per innanzi74; e veggio che, poi75 sì spesso ti confessi, poca fatica avrò d’udire o di dimandare».
Disse ser Ciappelletto: «Messer lo frate76, non dite
così: io non mi confessai mai tante volte né sì spesso, che
io sempre non mi volessi confessare generalmente77 di
71 convento Sacchetti, CI: «andando…fuori di Todi a una religione di frati».
73 L’inverosimile iperbole è armonica alla vituperatio che modula
tutta la presentazione di Ciappelletto.
74 si deve fare d’ora in poi.
75 poiché, secondo l’uso comune nel Duecento e Trecento.
76 L’articolo lo era corrente dopo la r. E nota il messere e il «voi»
di rispetto usato a ragion veduta da Ciappelletto contro il figliuolo
e il «tu» paterno del frate. Ma cfr. 75; e in generale S. ZINI, Il «tu»
e il «voi» nel D., in «Lingua Nostra», III, 1941.
77 Cioè fare quella che la Chiesa chiama la confessione generale.
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tutti i miei peccati che io mi ricordassi dal dì che io nacqui infino a quello che confessato mi sono; e per ciò vi
priego, padre mio buono, che così puntalmente78 d’ogni
cosa mi domandiate come se mai confessato non mi fossi; e non mi riguardate perché io infermo sia, ché io amo
molto meglio di dispiacere a queste mie carni che, faccendo agio loro79, io facessi cosa che potesse essere perdizione dell’ anima mia, la quale il mio Salvatore ricomperò col suo prezioso sangue80».
Queste parole piacquero molto al santo uomo e parvongli argomento di bene disposta mente: e poi che a
ser Ciappelletto ebbe molto commendato questa sua
usanza, il cominciò a domandare se egli mai in lussuria
con alcuna femina peccato avesse81.
Al qual ser Ciappelletto sospirando rispose: «Padre
mio, di questa parte mi vergogno io di dirvene il vero,
temendo di non peccare in vanagloria».
Al quale il santo frate disse: «Di’ sicuramente82, ché
il vero dicendo né in confessione né in altro atto si peccò
giammai».
Giordano da Pisa, Quaresimale fiorentino cit., XX 26: «l’omo è tenuto di confessarsi generalmente di tutti i peccati ...» E cfr. «nella
canzone dantesca Io sento si’ ‘Io non la vidi tante volte ancora |
Ch’io non trovasse in lei nova bellezza’» (Contini): Dante, Rime,
XCI 71-72.
78 punto per punto, minutamente. Da Buti, Commento, intr.: «come apparirà quando si esporrà la lettera puntalmente» (punctualiter, latino scolastico).
79
avendo riguardo al loro comodo, indulgendo loro.
È la traduzione di un versetto del Te Deum: «quos pretioso
sanguine redemisti [tu, Christe]».
81 «Deh, di femine non era e’ ghiotto troppo» (M.). Incomincia
la confessione che con ordine si volge prima ai peccati di incontinenza (accidia, lussuria, gola, avarizia, ira: trascurate superbia e invidia come meno facili alla qualità del confessato), poi a quelli di
malizia.
82 Anche Beatrice per togliere timore a Dante: «Di’, di’ sicuramente» (Par., V 122-23).
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Disse allora ser Ciappelletto: «Poiché voi di questo
mi fate sicuro, e83 io il vi dirò: io son così vergine come
io usci’ del corpo della mamma mia».
40
«Oh benedetto sie tu84 da Dio!» disse il frate «come
bene hai fatto! e, faccendolo, hai tanto più meritato,
quanto, volendo, avevi più d’albitrio di fare il contrario
che non abbiam noi e qualunque altri son quegli che
sotto alcuna regola sono costretti85».
41
E appresso questo il domandò se nel peccato della
gola aveva a Dio dispiaciuto. Al quale, sospirando forte,
ser Ciappelletto rispose di sì e molte volte; per ciò che,
con ciò fosse cosa che egli, oltre alli digiuni delle quaresime86 che nell’anno si fanno dalle divote persone, ogni
settimana almeno tre dì fosse uso di digiunare in pane e
in acqua, con quello diletto e con quello appetito l’acqua bevuta aveva, e spezialmente quando avesse alcuna
fatica durata o adorando87 o andando in pellegrinaggio,
39
83 ecco che io: uso paraipotattico frequente nel B.; II 9,32 n.; III
5,23 n.; V 10,32: «Essendo noi già posti a tavola, Ercolano e la moglie e io, e noi sentimmo presso di noi starnutire»; V 8,37 n.; VII
7,20.
84 Formula amata dal B. per la sua solennità: Amorosa Visione,
VI 4; Filocolo, IV 130,4; e anche qui 52.
85 da alcuna regola monastica, religiosa, sono retti e moderati.
Qualunque era usato correntemente col plurale (qui riferito ai religiosi).
86 Evidentemente qui non si allude solo alla Quaresima propriamente detta, cioè al digiuno di 46 giorni in preparazione alla Pasqua; ma ai vari periodi di digiuno, di lunghezza diversa, osservati
dai fedeli o per prescrizione della Chiesa (per es. nell’Avvento e
nelle Tempora) o per devozioni particolari. Quest’uso generico di
«quaresima» è frequente: cfr. F. Sigoli, Viaggio cit., p. 189: «i Saracini fanno l’anno una quaresima ... e basta 30 dì e tutto il dì stanno
che non mangiano e non beono»; F. BELCARI, Vita di G. Colombini, Verona 1817, p. 224: «Essendo andato il Bianco a Nanni da
Terranuova a fare la quaresima dello Spirito Santo ...»
87 pregando, facendo le dìvozioni; vedi più innanzi, 87: «cominciarono le genti ... a adorarlo»; e Sacchetti, CXCVIII: «uno Juccio
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che fanno i gran bevitori il vino; e molte volte aveva disiderato d’avere cotali insalatuzze d’erbucce88, come le
donne fanno quando vanno in villa89, e alcuna volta gli
era paruto migliore il mangiare che non pareva a lui che
dovesse parere a chi digiuna per divozione, come digiunava egli90.
42
Al quale il frate disse: «Figliuol mio, questi peccati
sono naturali e sono assai leggieri, e per ciò io non voglio che tu ne gravi più la conscienzia tua che bisogni. A
ogni uomo avviene, quantunque santissimo sia, il parergli dopo lungo digiuno buono il manicare91, e dopo la
fatica il bere».
43
«Oh!» disse ser Ciappelletto «padre mio, non mi dite questo per confortarmi: ben sapete che io so che le
cose che al servigio di Dio si fanno, si deono fare tutte
nettamente e senza alcuna ruggine92 d’animo; e chiunque altri menti le fa, pecca».
44
Il frate contentissimo disse: «E93 io son contento che
così ti cappia nell’animo94, e piacemi forte la tua pura e
... che adorava». E per l’uso frequente nel D. di gerundi in coordinazione cfr. SKERLJ , Syntaxe du participe présent et du gérondif en
vieil italien, Paris 1926, 748 sgg,
88 I diminutivi hanno sempre nel B. un valore affettivo: e questa
novella ne è punteggiata fin dal principio. E cfr. anche 9 n.
89 in campagna, come a VIII 6,40.
91 La ripetizione di parere (tre volte) e di digiunare è una di quelle sottigliezze linguistiche cui il B. ricorre spesso per esprimere situazioni interiori (qui la untuosa complicatezza dell’ipocrita; e vedi
altri esempi simili più sotto). Cfr. 51 e n.
91 mangiare. La forma arcaica, debole («manducare» livellato in
«manucare», «manicare») viva ancor oggi in «manicaretto», è usata dal B. promiscuamente a quella più comune (di origine francese)
«mangiare»: I 10,17; II 5,82 n.; VIII 7,128; IX 7,10.
92 macchia: «indica molto bene ciò che toglie splendore all’anima
che opera in servizio di Dio» (Momigliano): è termine del linguaggio pio.
93 Enfatico, quasi etiam: uso frequente nel B.: per es. VII 2,21; X
10,44.
94 ti stia nell’animo, cioè che tu la pensi così; I 10,12 n.; VI 6,5:
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buona conscienza in ciò. Ma, dimmi: in avarizia hai tu
peccato, disiderando più che il convenevole, o tenendo
quello che tu tener non dovesti?»
45
Al quale ser Ciappelletto disse: «Padre mio, io non
vorrei che voi guardasti96 perché io sia in casa di questi
usurieri97: io non ci ho a far nulla, anzi ci era venuto per
dovergli ammonire e gastigare98 e torgli da questo abominevole guadagno; e credo mi sarebbe venuto fatto, se
46 Idio non m’avesse così visitato99. Ma voi dovete sapere
che mio padre mi lasciò ricco uomo, del cui avere, come
egli fu morto, diedi la maggior parte per Dio100; e poi,
per sostentar la vita mia e per potere aiutare i poveri di
Cristo, ho fatte mie piccole mercatantie101 e in quelle ho
disiderato di guadagnare, e sempre co’ poveri di Dio,
quello che ho guadagnato ho partito per mezzo102, la
«secondo che nell’animo gli capea»; VI 9,8: «sapeva onorare cui
nell’animo gli capeva»; e Purg.., XXI 81.
95 «Conscientia bona e (separatamente) pura sono sintagmi paolini» (Contini).
96 steste in guardia, sospettaste (per la eccezionale ma corrente
terminazione in -i cfr. Rohlfs, 560).
97 Gallicismo frequente: Inf., XI 109.
98 biasimare, rimproverare: II 4,11 n. Dovere è qui pleonastico,
col valore di con l’intenzione di o allo scopo di (come a II 2,20; III
7,80; III 9,57; VII 8,14; VIII 7,64; e I 5,12; II 8,63; III 3,20; V 7,17;
VI 10,31; X 2,25). Cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 447.
99 È termine proprio al linguaggio devoto per indicare che le tribolazioni sono una grazia di Dio, come mezzo di perfezionamento
morale: cfr. B. GIAMBONI, Introduzione alla virtú, Firenze 1810,
p. 14: «dee pensare l’uomo che Dio l’ami, quando di tribolazioni
da Dio è visitato»; Job VII 18; Ps. XVI 3. Il singolare costrutto passivo non è unico (III 6,38; V 5,29).
100 per amor di Dio, cioè in elemosine, in carità: II 8,77 n.; IV intr., 15: «data ogni sua cosa per Dio».
101 negozi, affari: per la forma cfr. Intr., 42 n.
102 diviso a metà, come san Martino il suo mantello, e non riservando alle elemosine solo il dieci per cento, come si faceva ordinariamente. Anche la frase seguente è pietisticamente allusiva
all’evangelico «date e vi sarà dato».
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mia metà convertendo ne’ miei bisogni, l’altra metà dando loro: e di ciò m’ha sì bene il mio Creatore aiutato,
che io ho sempre di bene in meglio fatti i fatti miei».
«Bene hai fatto:» disse il frate «ma come ti se’ tu
spesso103 adirato?»
«Oh!» disse ser Ciappelletto «cotesto vi dico io bene
che io ho molto spesso fatto; e chi se ne potrebbe tenere,
veggendo tutto il dì gli uomini fare le sconce cose, non
servare i comandamenti di Dio, non temere i suoi giudicii104? Egli105 sono state assai volte il dì che io vorrei più
tosto essere stato morto che vivo, veggendo i giovani andare dietro alle vanità e udendogli giurare e spergiurare,
andare alle taverne, non visitar le chiese e seguir più tosto le vie del mondo che quella di Dio106».
Disse allora il frate: «Figliuol mio, cotesta è buona
ira, né io per me te ne saprei penitenza imporre; ma, per
alcun caso avrebbeti l’ira potuto inducere a fare alcuno
omicidio o a dire villania a persona o a fare alcuna altra
ingiuria?»
A cui ser Ciappelletto rispose: «Ohimè, messere,
o107 voi mi parete uomo di Dio: come dite voi coteste
parole? o108 s’io avessi avuto pure un pensieruzzo di fare
qualunque s’è109 l’una delle cose che voi dite, credete
103
104
quanto spesso, quante volte ti sei.
punizioni, castigbi. È l’ira lodata nelle Esposizioni, VIII litt. 48
sgg.
105 «Soggetto grammaticale del verbo preposto, qui neutro (invariabile) nonostante l’accordo del participio (incontro mentale di
egli è stato e sono state )» (Contini).
106 Altra frase propria al linguaggio di devozione.
107 Uso fiorentino, popolare dell’o esclamativo: qui quasi eppure.
108 Altro uso toscano di o per introdurre l’interrogazione dubitativa (cfr. più innanzi 61, e VII 3,14 n.).
109 Per simili forme stereotipate di riflessivo di «essere», con si ridondante, cfr. III 7,47 e F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p.
152.
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voi che io creda che Idio m’avesse110 tanto sostenuto?
Coteste son cose da farle gli scherani111 e i rei uomini,
de’ quali qualunque ora112 io n’ho mai veduto alcuno,
sempre ho detto: ‘Va, che Idio ti converta’».
Allora disse il frate: «Or mi di’, figliuol mio, che benedetto sie tu da Dio: hai tu mai testimonianza niuna
falsa113 detta contra alcuno o detto male d’altrui o tolte
dell’altrui cose senza piacere di colui di cui sono?»
«Mai, messere, sì114,» rispose ser Ciappelletto «che
io ho detto male d’altrui; per ciò che io ebbi già un mio
vicino che, al maggior torto del mondo, non faceva altro
che batter la moglie, sì che io dissi una volta male di lui
alli parenti della moglie, sì gran pietà mi venne di quella
cattivella115, la quale egli, ogni volta che bevuto avea
troppo, conciava come Dio vel dica116».
Disse allora il frate: «Or bene, tu mi di’ che se’ stato
mercatante: ingannasti tu mai persona così come fanno i
mercatanti?»
«Gnaffé117,» disse ser Ciappelletto «messer sì, ma io
non so chi egli si fu: se non che, uno avendomi recati de110 avrebbe: l’imperfetto congiuntivo invece del condizionale era
dell’uso in proposizioni dipendenti potenziali o condizionali: VI
concl., 12. E nota il bisticcio su credere spesso usato dal B. (per es.
II 9,14 e 17; III 6,20; VI 5,14 e 15; VIII 7,97 e 105) e già dantesco
(Inf., XIII 25).
111 malandrini, facinorosi, assassini.
112 ogni volta che.
113 Anche qui ritorna la formula consacrata nel Decalogo.
114 Signorsì, senza dubbio. Mai, in unione a sì o no, funge da
rafforzativo: cfr. III 3,36 n.: «Mai si’ che io le conosco»; IX 8,20:
«Rispose Biondello: Mai no; perché me ne domandi tu?»: e cfr. III
3,24 n.
115 disgraziata, infelice, poveretta: aggettivo usitatissimo dal B.
(cfr. passim: II 5, IV 7, V 7, VIII 7 ecc. e Filostrato, VIII 14).
116 come solo Dio vi potrebbe dire, cioè come solo Dio sa: cfr. Par.,
III 108.
117 In fede mia («mia fé»): antica interiezione toscana su cui PARODI, Op. cit. p. 603; e Rohlfs, 281.
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nari che egli mi doveva dare di panno che io gli avea
venduto e io messigli in una mia cassa senza annoverare118, ivi bene a un mese119 trovai ch’egli erano quattro
piccioli120 più che esser non doveano; per che, non rivedendo colui e avendogli serbati bene uno anno per rendergliele121, io gli diedi per l’amor di Dio».
Disse il frate: «Cotesta fu piccola cosa, e facesti bene
56
a farne quello che ne facesti».
57
E, oltre a questo, il domandò il santo frate di molte
altre cose, delle quali di tutte122 rispose a questo modo;
e volendo egli già procedere all’absoluzione, disse ser
Ciappelletto: «Messere, io ho ancora alcun peccato che
io non v’ho detto».
Il frate il domandò quale; e egli disse: «Io mi ricordo
58
che io feci al fante mio, un sabato dopo nona, spazzare
la casa e non ebbi alla santa domenica quella reverenza
che io dovea123».
118 contare: VI concl., 27 n.: sottinteso -gli, come prima di messigli avendo.
119 dopo un mese buono: cfr. E. DE FELICE, art. cit., XVIII, pp.
267 sgg.
120 Secondo l’uso monetario carolingio la lira (che era moneta
immaginaria, di conto) era divisa in venti soldi, il soldo in dodici
denari o piccoli, piccioli. Nel 1252, quando a Firenze si coniò il
fiorino (su una faccia il giglio fiorentino, sull’altra san Giovanni),
lira e fiorino stavano alla pari: ma poco dopo ebbe inizio la svalutazione della moneta spicciola, dei piccioli: sicché per un fiorino nel
1300 occorrevano soldi 46 1/2, nel 1318 soldi 68, e così via. Cfr.
per tutto A. SAPORI, op. cit., pp 316 sg.; C. M. CIPOLLA, Moneta e civiltà mediterranea, Venezia 1957, pp 40 sgg.
121 Corrente gliele indeclinabile (composto del dativo maschile
gli e dell’indeclinabile le: il fiorentino moderno «gliene»): usato
spesso anche isolato dal B. (cfr. per es. più innanzi, 68).
122 di tutte le quali (di tutte è apposizione di delle quali).
123 Poiché la celebrazione della festa e quindi il riposo festivo cominciavano dal vespro del sabato (cfr. II concl., 5 sgg.; M. BARBI,
Il sabato inglese dell’antichità, in «Pan», III, 1935), Ciappelletto
spinge il suo zelo fino allo scrupolo di avere fatto lavorare il suo
servo nell’ora immediatamente precedente il vespro (cioè la nona:
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«Oh!» disse il frate «figliuol mio, cotesta è leggier
cosa».
«Non124,» disse ser Ciappelletto «non dite leggier
cosa, ché la domenica è troppo da onorare, però che in
così fatto dì risuscitò da morte a vita il nostro Signore».
Disse allora il frate: «O, altro hai tu fatto?»
«Messer sì,» rispose ser Ciappelletto «ché io, non
avvedendomene, sputai una volta nella chiesa di Dio».
Il frate cominciò a sorridere e disse: «Figliuol mio,
cotesta non è cosa da curarsene: noi, che siamo religiosi,
tutto il dì vi sputiamo».
Disse allora ser Ciappelletto: «E voi fate gran villania, per ciò che niuna cosa si convien tener netta come il
santo tempio, nel quale si rende sacrificio a Dio».
E in brieve de’ così fatti ne gli disse molti; e ultimamente cominciò a sospirare e appresso a piagner forte,
come colui che il sapeva troppo ben fare quando volea.
Disse il santo frate: «Figliuol mio, che hai tu?»
Rispose ser Ciappelletto: «Oimè, messere, ché un
peccato m’è rimaso, del quale io non mi confessai mai, sì
gran vergogna ho di doverlo dire; e ogni volta che io me
ne ricordo piango come voi vedete, e parmi esser molto
certo che Idio mai non avrà misericordia di me per questo peccato».
Allora il santo frate disse: «Va via125, figliuolo, che è
ciò che tu di’? Se tutti i peccati che furon mai fatti da
tutti gli uomini, o che si debbon fare da tutti gli uomini
mentre che126 il mondo durerà, fosser tutti in uno uom
cfr. Intr., 102 n.): in un’ora cioè che considerava già sacra per la vicinanza alla festività.
124 Per il semplice no, secondo l’uso trecentesco: V 7,25 e 30;
Inf., XII 63; Par., IV 129; o forse non reduplicato enfaticamente.
125 Modo di disapprovare, in tono bonario e confidenziale, quasi
per confortare; III 7,93: «Va via, credi tu che io creda agli abbaiatori?».
126 finché: II 9,74 n.; Inf., XXVI 80.
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solo, e egli ne fosse pentuto e contrito come io veggio te,
sì è tanta la benignità e la misericordia di Dio, che, confessandogli egli127, gliele perdonerebbe liberamente128: e
per ciò dillo sicuramente».
Disse allora ser Ciappelletto, sempre piagnendo forte: «Oimè, padre mio, il mio è troppo gran peccato, e
appena posso credere, se i vostri prieghi non ci si adoperano, che egli mi debba129 mai da Dio esser perdonato».
A cui il frate disse: «Dillo sicuramente, ché io ti prometto di pregare Idio per te».
Ser Ciappelletto pur piagnea130 e nol dicea, e il frate
pure il confortava a dire. Ma poi che ser Ciappelletto
piagnendo ebbe un grandissimo pezzo tenuto il frate così sospeso, e131 egli gittò un gran sospiro e disse: «Padre
mio, poscia che voi mi promettete di pregare Idio per
me, e io il vi dirò132: sappiate che, quando io era piccolino, io bestemmiai133 una volta la mamma mia». E così
detto ricominciò a piagnere forte.
Disse il frate: «O figliuol mio, or parti questo così
gran peccato? o gli uomini bestemmiano tutto il giorno
Idio, e sì134 perdona Egli volentieri a chi si pente d’averlo bestemmiato; e tu non credi che Egli perdoni a te
questo? Non piagner, confortati, ché fermamente, se tu
127
128
qualora egli li confessasse: gerundio con valore ipotetico.
volentieri, di buon grado: II 8,35 n.; Inf., XIII 86; Purg., XI
134.
129 In dipendenza da verba sentiendi dovere è alle volte pleonastico così scolorito da equivalere pressappoco a potere: come più
avanti a 85. Cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 433.
130 Col solito senso di continuità (come nella stessa riga): continuava a piangere.
131 Paraipotattico, come più sotto: cfr. Intr., 78 n. e I 1,39 n.
132 Cfr. 39 n.
133 maledissi, ingiuriai: IV concl., 14 n.
134 eppure.
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fossi stato un di quegli che il posero in croce, avendo la
contrizione che io ti veggio, sì ti perdonerebbe Egli».
Disse allora ser Ciappelletto: «Oimè, padre mio, che
dite voi? La mamma mia dolce135, che mi portò in corpo
nove mesi il dì e la notte e portommi in collo più di cento volte! troppo feci male a bestemmiarla e troppo è
gran peccato; e se voi non pregate Idio per me, egli non
mi serà perdonato».
Veggendo il frate non essere altro restato a dire a ser
Ciappelletto, gli fece l’absoluzione e diedegli la sua benedizione, avendolo per136 santissimo uomo, sì come colui che pienamente credeva esser vero ciò che ser Ciappelletto avea detto: e chi sarebbe colui che nol credesse,
veggendo uno uomo in caso137 di morte dir così?
E poi, dopo tutto questo, gli disse: «Ser Ciappelletto, con l’aiuto di Dio voi138 sarete tosto sano; ma se pure
avvenisse che Idio la vostra benedetta e ben disposta
anima chiamasse a sé, piacevi egli139 che ’l vostro corpo
sia sepellito al nostro luogo140?»
Al quale ser Ciappelletto rispose: «Messer sì; anzi
non vorrei io essere altrove, poscia che voi m’ avete promesso di pregare Idio per me: senza che141 io ho avuta
sempre spezial divozione al vostro Ordine. E per ciò vi
135 «Di valore attenuato, alla francese (dove ‘douce mere’ significava ‘cara mamma’ o semplicemente ‘mamma mia’)» (Contini):
pargoleggiando.
136 stimandolo, ritenendolo.
137 in punto, in pericolo.
138 Il frate passa dal tu usato nella confessione, come da padre a
figlio, al voi per rispetto a chi considera ormai «santissimo uomo»:
cfr. S. ZINI, art. cit.
139 siete contento.
140 convento: cioè nella chiesa o nel cimitero del nostro convento:
cfr. I 7,13 n.: «a un suo luogo»; Trattatello, I 87: «al luogo de’ frati
minori in Ravenna».
141 senza dire che, senza contare che: I 2,13 n.; II 8,70 n.
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priego che, come voi al vostro luogo sarete, facciate che
a me vegna quel veracissimo corpo di Cristo il quale voi
la mattina sopra l’altare consecrate; per ciò che, come
che io degno non ne sia, io intendo con la vostra licenzia
di prenderlo, e appresso la santa e ultima unzione142, acciò che io, se vivuto son come peccatore, almeno muoia
come cristiano».
Il santo uomo disse che molto gli piacea e che egli
diceva bene, e farebbe che di presente143 gli sarebbe apportato: e così fu.
Li due fratelli, li quali dubitavan forte non ser Ciappelletto gl’ingannasse, s’eran posti appresso a un tavolato, il quale la camera dove ser Ciappelletto giaceva dividea da un’altra, e ascoltando leggiermente144 udivano e
intendevano ciò che ser Ciappelletto al frate diceva; e
aveano alcuna volta sì gran voglia di ridere, udendo le
cose le quali egli confessava d’aver fatte, che quasi scoppiavano. E fra sé talora dicevano: «Che uomo è costui, il
quale né vecchiezza né infermità né paura di morte, alla
qual si vede vicino, né ancora di Dio, dinanzi al giudicio
del quale di qui a picciola ora s’aspetta di dovere essere,
dalla sua malvagità l’hanno potuto rimuovere145, né far
che egli così non voglia morire come egli è vivuto?». Ma
pur vedendo che sì aveva detto che egli sarebbe a sepoltura ricevuto in chiesa, niente del rimaso146 si curarono.
Ser Ciappelletto poco appresso si comunicò: e peggiorando senza modo ebbe l’ultima unzione e poco passato vespro, quel dì stesso che la buona confessione fatta
142 l’estrema Unzione: è da mettere in relazione con v e g n a, come secondo soggetto.
143 subito, senza indugio: II 7,102; V 1,65; VII concl., 8.
144 facilmente, comodanieiite: II 2,33 n.; II 5,71 n. ecc.
145 Ciappelletto non era dunque ateo o scettico. Nota la ripresa,
frequente nel D., del relativo con un dimostrativo (il quale ... l’hanno).
146 del rimanente, del resto: cfr. II 8,70 n.
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avea, si morì. Per la qual cosa li due fratelli, ordinato di
quello di lui medesimo147 come egli fosse onorevolmente sepellito, e mandatolo a dire al luogo de’ frati, e che
essi vi venissero la sera a far la vigilia148 secondo l’usanza
e la mattina per lo corpo, ogni cosa a ciò oportuna dispuosero.
83
Il santo frate che confessato l’avea, udendo che egli
era trapassato, fu insieme149 col priore del luogo; e fatto
sonare a capitolo, alli frati ragunati in quello mostrò ser
Ciappelletto essere stato santo uomo, secondo che per la
sua confessione conceputo 150 avea; e sperando per lui
Domenedio dovere151 molti miracoli dimostrare, persuadette loro che con grandissima reverenzia e divozio84 ne quello corpo si dovesse152 ricevere. Alla qual cosa il
priore e gli altri frati creduli s’acordarono: e la sera, andati tutti là dove il corpo di ser Ciappelletto giaceva, sopr’esso fecero una grande e solenne vigilia; e la mattina,
tutti vestiti co’ camisci e co’ pieviali153, con li libri in mano e con le croci innanzi cantando, andaron per questo
corpo e con grandissima festa e solennità il recarono alla
lor chiesa, seguendo quasi tutto il popolo della città, uo82
147
Cioè adoperando i denari di lui stesso: VII 8,22.
la veglia funebre, cioè a cantare la notte i salmi d’uso attorno a
un morto.
149 ebbe un colloquio, si accordò.
150 arguito. Desinenza del participio normale nel D.: III 6,33; IV
intr.,13.
151 Un dovere pleonastico, con valore di accenno al futuro, dopo
verbi indicanti speranza e aspettazione: cfr. F. BRAMBILLA
AGENO, Il verbo, p. 436.
152 Un altro uso di dovere pleonastico dopo verbi di «consigliare»,«pregare»: cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, pp 442
sgg.
153 coi camici e coi piviali (esisteva la forma ‘camiscio’ accanto a
‘camice’); Sacchetti, CIV: «quando uno è portato alla fossa, ... molti innanzi vanno in camicio cantando».
148
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mini e donne. E nella chiesa postolo, il santo frate, che
confessato l’avea, salito in sul pergamo di lui cominciò e
della sua vita, de’ suoi digiuni, della sua virginità, della
sua simplicità e innocenzia e santità maravigliose cose a
predicare, tra l’altre cose narrando quello che ser Ciappelletto per lo suo maggior peccato piangendo gli avea
confessato, e come esso appena gli avea potuto metter
nel capo che Idio gliele dovesse perdonare, da questo
volgendosi155 a riprendere il popolo che ascoltava, dicendo: «E voi, maledetti da Dio, per ogni fuscello di paglia che vi si volge tra’ piedi bestemmiate Idio e la Madre e tutta la corte di Paradiso156».
86
E oltre a queste, molte altre cose disse della sua
lealtà e della sua purità: e in brieve con le sue parole, alle quali era dalla gente della contrada data intera fede, sì
il mise nel capo e nella divozion di tutti coloro che v’erano che, poi che fornito157 fu l’uficio, con la maggior calca del mondo da tutti fu andato158 a basciargli i piedi e
le mani, e tutti i panni gli furono indosso stracciati, tenendosi beato chi pure un poco di quegli potesse avere159: e convenne che tutto il giorno così fosse tenuto,
85
154 Secondo le artes predicandi, il discorso è bipartito: le virtú di
Ciappelletto e i vizi degli ascoltatori.
155 prendendo occasione, muovendo. E nota prima il «futuro del
passato» espresso dal condizionale semplice dovesse secondo un
uso sintattico corrente nel Trecento che escludeva il «futuro del
passato» dopo i verba credendi, sentiendi: cfr. F. BRAMBILLA
AGENO, Annotazioni sintattiche sul D., in «Studi sul B.», II,
1964.
156 Cioè i santi: come «corte del cielo» in Dante (Inf,, II 125;
Par., X 70).
157 terminato, compiuto: come in II 3,40 n.; II 9,30 n. ecc.
158 si andò, tutti andarono. Il passivo impersonale di un intransitivo (alla latina) era dell’uso: Inf., XXVI 84 «Dove, per lui, perduto
a morir gissi».
159 Una scena simile è nella II 1. E cfr. anche Guittone, Lettere,
Bologna 1923, VIII 15.
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acciò che da tutti potesse essere veduto e visitato. Poi, la
vegnente notte, in una arca di marmo sepellito fu onorevolmente in una cappella, e a mano a mano160 il dì seguente vi cominciarono le genti a andare e a accender
lumi e a adorarlo161, e per conseguente a botarsi162 e a
appiccarvi le imagini della cera163 secondo la promes88 sion fatta. E in tanto164 crebbe la fama della sua santità e
divozione a lui, che quasi niuno era che in alcuna avversità fosse, che a altro santo che a lui si botasse, e chiamaronlo e chiamano san Ciappelletto; e affermano molti
miracoli Idio aver mostrati per lui e mostrare tutto giorno165 a chi divotamente si raccomanda a lui.
89
Così adunque visse e morì ser Cepparello da Prato e
santo166 divenne come avete udito. Il quale negar non
voglio esser possibile lui167 esser beato nella presenza di
Dio, per ciò che, come che la sua vita fosse scellerata e
malvagia, egli potè in su lo stremo168 aver sì fatta contrizione, che per avventura Idio ebbe misericordia di lui e
nel suo regno il ricevette169: ma per ciò che questo n’è
87
160
successivamente, subito: Intr., 73 n. E per arca II 5,71; VI 9,10 n.
pregarlo (cfr. 41 n.).
162 far voti, per ottenere una grazia: VII 6,16 n.
163 Sono gli ex voto: cfr. VII 3,37. Per questa costruzione del
complemento di materia (Par., XVI 110: «le palle de l’oro»), che
nel B. e nel D. si alterna all’altra con la preposizione semplice (cfr.
anche qui, subito prima, «arca di marmo»), Cfr. B. MIGLIORINI,
Saggi linguistici, Firenze1957, pp 156 sgg.
164 E tanto.
165 sempre, spesso: cfr. II 3,20 n.; VIII 9,4.
166 «Qui, con la forma solenne della chiusa delle sacre leggende,
riappare il suo nome col soprannome della terra» (Zingarelli). A
parte che, naturalmente, il nome di Ciappelletto non appare in alcun elenco di santi, va ricordato che nel Trecento la canonizzazione non era ancora riservata alla Curia pontificia, né richiedeva il rigoroso processo d’oggi.
167 Questo pronome è pleonastico, ma giova all’evidenza: cfr.
Mussafia, pp 452-53; e 79.
168 in punto di morte.
169 Purg., III 121 sgg., V 100 sgg.
161
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occulto, secondo quello che ne può apparire ragiono, e
dico costui più tosto dovere essere nelle mani del diavo90 lo in perdizione che in Paradiso170. E se così è, grandissima si può la benignità di Dio cognoscere verso noi, la
quale non al nostro errore ma alla purità della fé riguardando, così faccendo noi nostro mezzano171 un suo nemico, amico credendolo, ci essaudisce, come se a uno
veramente santo per mezzano della sua grazia ricorressi91 mo172. E per ciò, acciò che noi per la sua grazia nelle
presenti avversità173 e in questa compagnia così lieta siamo sani e salvi servati, lodando il suo nome nel quale cominciata l’abbiamo, Lui in reverenza avendo, ne’ nostri
bisogni gli ci raccomanderemo sicurissimi d’essere uditi.–
E qui si tacque174.
92
170
Così più che alle figure di Manfredi e di Bonconte (evocate
nella nota precedente) quella di Ciappelletto si assimila a quella
dannata di Guido da Montefeltro (Inf., XIX).
171 intercessore, intermediario: I 6,9 n.
172 Come abbiamo già rilevato, nel finale è ripreso il concetto accennato a par. 4-5 nn. ed è sviluppato il tema dello «stravolgimento» (15 n.). L’empio e il bestemmiatore, che anche negli estremi
suoi momenti aveva voluto sfidare Dio con un sacrilegio e beffare
un suo candido e «santo» ministro, suscita invece col suo stesso sacrilegio una vasta ondata di entusiasmo religioso, gradita a Dio e
da Dio sollecitatrice di grazie e di miracoli. Tra il falsario apparentemente vincitore e Dio e i suoi devoti apparentemente ingannati,
sono in definitiva questi ultimi ad ottenere successo e vittoria,
mentre egli è punito per aver voluto ingannare (nell’ep. VI di Dante prima del passo cit. a par. 5: «.... ut inde digna supplicia impius
declinare arbitratur, inde in ea gravius precipitetur»).
173 Cioè durante la peste.
174 È l’unico caso in tutto il D. in cui alla fine della novella riappaia, in qualche modo, il narratore. A proposito del tema della novella, si tengano presenti le polemiche del tempo contro coloro che
veneravano defunti prima dell’autorizzazione della Chiesa (cfr. per
es.: Salimbene, pp 733 sg., e 864 sgg.; Sacchetti, Lettere, pp. 101
sgg.).
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NOVELLA SECONDA
1
Abraam giudeo, da Giannotto di Civignì stimolato, va in corte
di Roma; e veduta la malvagità de’ cherici, torna a Parigi e fassi
cristiano1.
2
La novella di Panfilo fu in parte risa2 e tutta commendata dalle donne: la quale diligentemente ascoltata e
al suo fine essendo venuta, sedendo appresso di lui Neifile, le comandò la reina che, una dicendone, l’ordine
dello incominciato sollazzo seguisse. La quale, sì come
colei che non meno era di cortesi costumi che di bellezze ornata, lietamente rispose che volentieri: e cominciò
in questa guisa:
– Mostrato n’ha Panfilo nel suo novellare la benignità di Dio non guardare a’ nostri errori quando da cosa che per noi veder non si possa procedano: e io nel
3
1 Un ragionamento simile a quello di Abraam è attribuito all’imperatore Federigo (probabilmente II) da Etienne de Bourbon (De
diversis materiis praedicabilibus, Paris 1877, p. 287), al Saladino
dall’Avventuroso Ciciliano (III, oss.), a un ebreo anonimo da Giovanni Bromyard (Summa praedicantium, I, c. 199); e l’argomentazione ebbe gran successo fra i contemporanei e alcuni scrittori posteriori al B. (Benvenuto da Imola la ripete in tutti i suoi particolari
nel commento al II dell’Inf.; e cfr. Thompson e Rotunda, J 1263.3).
Oltre le solite opere cfr. L. DI FRANCIA, Alcune novelle del D.
cit., 1904; P. TOLDO, La conversione di Abraam, in «Giorn. Stor.
Lett. It.», XLII, 1903, pp 94 sgg. Civigní sarà forse Souvigny (Allier) o Chauvigny (Vienne): ma vi sono vari Chevigny o Chovigny
fra Doubs e Saône. Giannotto era dunque un «Gaulois authentique» (Pézard). È curioso che il suo nome sia una forma familiare di
quello del B., attribuito poi nel battesimo all’ebreo: il quale ha di
suo un nome evidentemente emblematico.
2 L’uso transitivo, alla latina, di ridere, è certo favorito dall’influenza del vicino commendare (cfr. I 6,3 n., V concl., I: e Par., I
95).
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mio intendo di dimostrarvi quanto questa medesima benignità, sostenendo pazientemente i difetti di coloro li
quali d’essa ne deono dare e con le opere e con le parole
vera testimonianza, il contrario3 operando, di sé argomento d’infallibile verità ne dimostri, acciò che quello
che noi crediamo con più fermezza d’animo seguitiamo.
Sì come io, graziose donne, già udii ragionare, in Parigi fu un gran mercatante e buono4 uomo il quale fu
chiamato Giannotto di Civignì, lealissimo e diritto e di
gran traffico d’opera di drapperia: e avea singulare amistà5 con uno ricchissimo uomo giudeo chiamato
Abraam, il quale similmente mercatante era e diritto e
leale6 uomo assai. La cui dirittura e la cui lealtà veggendo Giannotto, gl’incominciò forte a increscere che l’anima d’un così valente e savio e buono uomo per difetto
di fede andasse a perdizione; e per ciò amichevolmente
lo ’ncominciò a pregare che egli lasciasse gli errori della
fede giudaica e ritornassesi7 alla verità cristiana, la quale
egli poteva vedere, sì come santa e buona, sempre prosperare e aumentarsi; dove la sua, in contrario, diminuirsi e venire al niente8 poteva discernere.
Il giudeo rispondeva che niuna ne credeva né santa
né buona fuor che la giudaica, e che egli in quella era nato e in quella intendeva e vivere e morire, né cosa sarebbe che mai da ciò il facesse rimuovere. Giannotto non
stette9 per questo che egli, passati alquanti dì, non gli ri-
3 benché facciano o mentre danno il contrario (gerundio concessivo o avversativo).
4 valente, alla latina.
5 grandissima amicizia.
6 Ripetizione appena variata della formula usata sopra per Giannotto.
7 venisse, si volgesse, si convertisse.
8 andar mancando, disfarsi; Intr., 56: «de’ quali il numero è quasi
venuto al niente»; Filocolo, I 1,1: «le forze ... al niente venute».
9 ristette, si astenne: III 7,92 n.; V 9,40 n.
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movesse simiglianti parole, mostrandogli così grossamente, come il più10 i mercatanti sanno fare, per quali
9
ragioni la nostra era migliore che la giudaica; e come che
il giudeo fosse nella giudaica legge11 un gran maestro,
tuttavia, o l’amicizia grande che con Giannotto avea che
il movesse o forse parole12 le quali lo Spirito Santo sopra
la lingua dell’uomo idiota13 poneva che sel facessero, al
giudeo cominciarono forte a piacere le dimostrazioni di
Giannotto: ma pure, ostinato in su la sua credenza, volger non si lasciava.
10
Così come egli pertinace dimorava, così14 Giannotto
di sollecitarlo non finava15 giammai, tanto che il giudeo,
da così continua instanzia16 vinto, disse: «Ecco, Giannotto, a te piace che io divenga cristiano: e io sono disposto a farlo, sì veramente17 che io voglio in prima andare a Roma, e quivi vedere colui il quale tu di’ che è
vicario di Dio in terra e considerare i suoi modi e i suoi
10 rozzamente, grossolanamente come per lo più …: II 9,13 n.: «di
sì grosso ingegno»; IX 10,13: «Compar Pietro, che era anzi grossetto uom che no».
11 religione: II 7,10g n. e V 2,44: «intendeva secondo la nostra
legge di sposarla».
12 o fosse l’amicizia ... che lo rimuovesse o fossero forse le parole …
che lo facessero.
13 ignorante, illetterato: III 4,5 n.: «uomo idiota era e di grossa
pasta»; VI 9,14: «gli altri uomini idioti e non letterati». E per la figura di Giannetto vedi anche Par., XXIX 92-93.
14 Così e simili particelle sono spesso ripetute dal B.: IV 1,46 n.:
«li quali, così come loro era stato comandato, così operarono»: e
cfr. I 3,11 n.
15 Forma (forse influenzata dal prov. finar) frequente specie nei
testi del Duecento: cfr. Testi fiorentini, glossario; N. CAIX, Origini
della lingua poetica, Firenze 1880, p. 215; e anche Corbaccio, 380:
«la quale mai di ciarlare non ristà, mai non molla, mai non rifina
...»; e cfr. V 3,30 n.; IX 9,29. Cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il
verbo, p. 119.
16 insistenza: X 8,21: «con instanzia domandandolo».
17 a questo patto: X 5,22: «liberamente vi potrete partire, sì veramente che voi al vostro marito ... quelle grazie renderete».
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costumi, e similmente de’ suoi fratelli cardinali18; e se essi mi parranno tali, che io possa tra per le tue parole e
per quegli comprendere che la vostra fede sia miglior
che la mia, come tu ti se’ ingegnato di dimostrarmi, io
farò quello che detto t’ho: ove così non fosse, io mi rimarrò giudeo come io mi sono».
Quando Giannotto intese questo, fu in se stesso oltremodo dolente, tacitamente dicendo: «Perduta ho la
fatica la quale ottimamente mi pareva avere impiegata,
credendomi costui aver convertito: per ciò che, se egli
va in corte di Roma e vede la vita scellerata e lorda19 de’
cherici, non che20 egli di giudeo si faccia cristiano, ma se
egli fosse cristian fatto senza fallo giudeo si ritornerebbe». E a Abraam rivolto disse: «Deh! amico mio, perché
vuoi tu entrare in questa fatica e così grande spesa come
a te sarà d’andare di qui a Roma? senza che21, e per mare e per terra, a un ricco uomo come tu se’, ci è tutto
pien di pericoli. Non credi tu trovar qui chi il battesimo
ti dea? E, se forse alcuni dubbii hai intorno alla fede che
io ti dimostro, dove ha maggior maestri e più savi uomini in quella, che son qui, da poterti di ciò che tu vorrai o
domanderai dichiarire22? Per le quali cose, al mio parere, questa tua andata è di soperchio. Pensa che tali sono
là i prelati quali tu gli hai qui potuti vedere, e più, e tanto ancor migliori quanto essi son più vicini al pastor
principale; e perciò questa fatica per mio consiglio ti
serberai in altra volta a alcuno perdono23, al quale io per
avventura ti farò compagnia».
18«Fratres»
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è appellativo che il Papa rivolge ai cardinali.
Purg., VII 110: «la vita sua viziata e lorda»: I 7,4.
non solo non ... si farà: e per i vari usi cfr. Mussafia, pp. 50g
sgg.
21
oltre che, senza contare che (I 1,76 n.).
illuminare, istruire. Come è noto, Parigi era nel Medioevo considerata cittadella della scienza, della filosofia e della teologia. Per
ha col valore di sono (ha maggior ) cfr. Intr., 110; II 5,76 n.
23 pellegrinaggio per acquistare indulgenze: Purg., XIII 62. ‘Per22
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A cui il giudeo rispose: «Io mi credo, Giannotto, che
così sia come tu mi favelli; ma recandoti le molte parole
in una24, io son del tutto, se tu vuogli che io faccia quello di che tu m’hai cotanto pregato, disposto ad andarvi,
e altramenti mai non ne farò nulla».
Giannotto, vedendo il voler suo, disse: «E tu va’ con
buona ventura!» e seco avvisò lui mai non doversi far
cristiano come la corte di Roma veduta avesse; ma pur,
niente perdendovi, si stette25.
Il giudeo montò a cavallo, e, come più tosto potè, se
n’andò in corte di Roma, dove pervenuto da’ suoi giudei
fu onorevolmente ricevuto. E quivi dimorando, senza
dire a alcuno per che ito vi fosse, cautamente cominciò a
riguardare alle maniere del Papa e de’ cardinali e degli
altri prelati e di tutti i cortigiani: e tra26 che egli s’accorse, sì come uomo che molto avveduto era, e che egli ancora da alcuno fu informato27, egli trovò dal maggiore
infino al minore generalmente tutti disonestissimamente
peccare in lussuria, e non solo nella naturale, ma ancora
nella sogdomitica, senza freno alcuno di rimordimento o
di vergogna, in tanto che la potenza delle meretrici e de’
garzoni in impetrare qualunque gran cosa non v’era di
picciol potere. Oltre a questo, universalmente28 gulosi,
bevitori, ebriachi e più al ventre serventi a guisa d’animali bruti29, appresso30 alla lussuria, che a altro gli codoni’ erano, in generale, le festività religiose accompagnate da indulgenze.
24 racchiudendo tutto quello che potrei dirti in una parola, frase: I
6,16 n.
25 cessò (dall’insistere, dal dissuaderlo).
26 Regge ambedue i che seguenti (che egli… e che egli…).
27 Cioè: tra quel che vide da sé e quel che seppe da altri.
28 tutti quanti.
29 Amorosa Visione, XLII 74 sg.: «se ella fosse | Cosa insensata o
d’un bruto animale»; Sallustio, Cat., I 1: «ventri oboedientia»; IX
concl., 5 n.
30 oltre.
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nobbe apertamente. E più avanti guardando, in tanto
tutti avari e cupidi di denari gli vide, che parimente
l’uman sangue, anzi il cristiano31, e le divine cose, chenti32 che elle si fossero o a sacrificii o a benefici appartenenti, a denari e vendevano e comperavano, maggior
mercatantia faccendone e più sensali avendone che a Parigi di drappi o d’alcuna altra cosa non erano, avendo alla manifesta simonia ‘procureria’33 posto nome e alla gulosità ‘substentazioni’, quasi Idio, lasciamo stare il
significato di34 vocaboli, ma la ’ntenzione de’ pessimi
animi non conoscesse e a guisa degli uomini a’ nomi del22 le cose si debba lasciare ingannare. Le quali, insieme
con molte altre che da tacer sono, sommamente spiacendo al giudeo, sì come a colui che sobrio e modesto uomo
era, parendogli assai aver veduto, propose di tornare a
Parigi; e così fece.
23
Al quale, come Giannotto seppe che venuto se n’era,
niuna cosa meno sperando che del suo farsi cristiano, se
ne venne, e gran festa insieme si fecero; e poi che riposato si fu alcun giorno, Giannotto il domandò quello che
del santo Padre e de’ cardinali e degli altri cortigiani gli
parea.
24
Al quale il giudeo prestamente rispose: «Parmene
male che Idio dea a quanti sono35: e dicoti così, che, se
io ben seppi considerare, quivi niuna santità, niuna divozione, niuna buona opera o essemplo di vita o d’altro
in alcuno che cherico fosse veder mi parve, ma lussuria,
avarizia e gulosità, fraude, invidia e superbia e simili co21
31
La stessa opposizione deprecatoria in Inf., XXVII 86-88.
quali.
Cioè necessità di procurarsi il necessario alla vita: oppure mediazione.
34 dei, secondo l’uso corrente: cfr. Nuovi testi fiorentini, p. 863.
35 Inf., XXVII 70: «il gran prete, a cui mal prenda!». «Male è avverbio riferito a parmene e al tempo stesso sostantivo ripreso dal
relativo che e oggetto di dea» (Sapegno).
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se e piggiori, se piggiori essere possono in alcuno, mi vi
parve in tanta grazia di tutti vedere, che io ho più tosto
quella per una fucina di diaboliche operazioni36 che di
divine. E per quello che io estimi, con ogni sollecitudine
e con ogni ingegno e con ogni arte mi pare che il vostro
pastore, e per consequente tutti gli altri, si procaccino37
di riducere a nulla e di cacciare del mondo la cristiana
religione, là dove essi fondamento e sostegno38 esser dovrebber di quella. E per ciò che io veggio non quello avvenire che essi procacciano, ma continuamente la vostra
religione aumentarsi e più lucida e più chiara divenire,
meritamente mi par discerner lo Spirito Santo esser
d’essa, sì come di vera e di santa più che alcuna altra,
fondamento e sostegno. Per la qual cosa, dove io rigido
e duro stava a’ tuoi conforti39 e non mi volea far cristiano, ora tutto aperto40 ti dico che io per niuna cosa lascerei di cristian farmi: andiamo adunque alla chiesa, e quivi secondo il debito costume della vostra santa fede mi
fa’ battezzare».
Giannotto, il quale aspettava dirittamente41 contraria conclusione a questa, come lui così udì dire fu il più
contento uomo che giammai fosse: e a Nostra Dama42 di
Parigi con lui insieme andatosene, richiese i cherici di là
entro che a Abraam dovessero dare il battesimo. Li qua36 Petrarca, CXXXVIII: «Già Roma, or Babilonia falsa e ria, |
Per cui tanto si piange e si sospira; | O fucina d’inganni, o pregion
dira, | Ove ’l ben more, e ’l mal si nutre e cria, | Di vivi inferno...»
37 curino, procurino: II 4,25 n.; II 9,6 n.
38 L’immagine edilizia, che ritornerà anche più sotto, è di chiara
derivazione evangelica (Matteo 7.21 e 16.18).
39 esortazioni, consigli: II 9,56 n.: «per gli suoi conforti Ambruogiuolo ... se n’andò in Alessandria»; Inf., XXVIII 135: «diedi al re
giovane i ma’ conforti».
40 apertamente, chiaramente: il solito uso avverbiale: Purg., XVII
88: «Ma perché più aperto intendi ancora».
41 proprio, appunto: VII 7,10 n.
42 A Notre-Dame, già allora cattedrale di Parigi: è l’ultimo tocco
tipico di questa novella di origine e di ambiente francese.
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li, udendo che esso l’adomandava, prestamente il fecero;
e Giannotto il levò del sacro fonte43 e nominollo Giovanni, e appresso a44 gran valenti uomini il fece compiutamente ammaestrare nella nostra fede, la quale egli prestamente apprese: e fu poi buono e valente uomo e di
santa vita.–
43 Cioè: lo tenne a battesimo, fu suo padrino di battesimo (e difatti gli diede il suo nome). Riguardo a di in luogo di da nel moto
da luogo: Intr., 39 n.; I 3,4 n.
44 da, col solito senso d’agente: Intr., 20 n.
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NOVELLA TERZA
1
Melchisedech giudeo, con una novella di tre anella cessa1 un
gran pericolo dal Saladino apparecchiatogli2.
2
Poi che, commendata da tutti la novella di Neifile,
ella si tacque, come alla reina piacque Filomena così cominciò a parlare:
– La novella da Neifile detta mi ritorna a memoria il
3
1
allontana, scansa, evita: V 2,22 n.; VI 4,20 n.
Il nucleo centrale della novella, la parabola dell’ebreo savio, ebbe grande diffusione nel Medioevo e, grazie al B., anche nell’età
moderna (fino al capolavoro del Lessing, Nathan der Weise), in
forme più o meno analoghe a quella del B. Prima di lui, era già stata narrata, fra noi, nel Novellino (LXXIII) se non nell’Avventuroso
Ciciliano (III, oss. 5); e, oltralpe, nei dugenteschi De diversis materiis praedicabilibus di Etienne de Bourbon (p. 281), Welt Buch di
Jans Enenkel (Gesammtabenteuer ecc., ed. Appel-Hagen, Stuttgart
1850, II, pp. 643 sgg.), Dis dou vrai aniel (ed, Tobler, Leipzig
1884), e nel trecentesco Gesta Romanorum (c. 89). Ma, secondo il
Paris, la più antica forma della novella sarebbe riflessa dal quattrocentesco libro ebraico del Schebet Jehuda, che mette in scena Pietro d’Aragona: cfr. G. PARIS, La poésie du moyen âge, II, Paris
1903. E vedi anche A. D’ANCONA, Studi di critica e storia letteraria, Bologna 1880; G. BERTINO, Spigolature letterarie, Sassari
1903; E, ETTLINGER, Eine Parallele zur Parabel von den drei
Ringen, in «Euphorion», XIX, 1913; G. BECKER, Eine indische
Parallele ecc., in «Arch. für das Studium des Neueren Sprachen»,
CXLIX, 1925; M. PENNA, La parabola dei tre anelli, Torino 1953;
E. HERMES, Die drei Ringe, Göttingen 1964. Si potrebbe anche
richiamare, come non è mai stato fatto, la leggenda di Iside che fece fare vari simulacri del corpo d’Osiride perché le varie categorie
di sacerdoti credessero ognuna di avere il cadavere autentico del
dio. Era racconto largamente diffuso e ripetuto anche da fonti classiche e medievali (cfr. per es. Plutarco, Iside e Osiride; Diodoro Siculo, I 21,5-II e IV 6,3; Strabone, XVII 1,23; Cirillo d’Alessandria,
in Patrologia Graeca, LXX 441): è analizzato in senso antropologico da J. G. FRAZER (Tbe golden bougb, Oxford 1911 sgg., IV
2,1). E per la popolarità anche novellistica del tema cfr. Thompson, J 462 e 462.3.1; Rotunda, J 462.3.1.1* e 2*.
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dubbioso3 caso già avvenuto a un giudeo. Per ciò che già
e di Dio e della verità della nostra fede è assai bene stato
detto, il discendere oggimai agli avvenimenti e agli atti
degli uomini non si dovrà disdire: e a narrarvi quella
verrò, la quale udita, forse più caute diverrete nelle risposte alle quistioni4 che fatte vi fossero. Voi dovete,
amorose compagne, sapere che, sì come la sciocchezza
spesse volte trae altrui5 di felice stato e mette in grandissima miseria, così il senno di6 grandissimi pericoli trae il
savio e ponlo in grande e in sicuro riposo. E che vero sia
che la sciocchezza di buono stato in miseria alcun conduca, per molti essempli si vede, li quali non fia al presente nostra cura di raccontare, avendo riguardo7 che
tutto il dì mille essempli n’appaiano manifesti: ma che il
senno di consolazion sia cagione, come premisi, per una
novelletta mostrerò brievemente.
Il Saladino, il valore del quale fu tanto, che non solamente di piccolo uomo il fé di Babillonia soldano ma
ancora molte vittorie sopra li re saracini e cristiani gli fece avere8, avendo in diverse guerre e in grandissime sue
3
pericoloso: II 2,3 n.
quesiti, interrogazioni: Par., IV 25 e XXIV 47.
Col valore di pronome indefinito, uno.
6 da dipendente dal seguente trae (Intr., 39 n.). La sentenza d’avvio profetizza l’esito felice.
7 considerando.
8 Salah ad-din (1138-93), sultano del Cairo (Babillonia), riconquistatore di Gerusalemme (1187), godé di un singolare favore nella fantasia popolare e nella letteratura medievale d’Occidente (cfr.
da noi per es. Novellino, VIII, XXIII, LXXIII, LXXVI; Conti di
antichi cavalieri, I-V). Dante, dopo averne magnificato la liberalità
nel Convivio (IV XI) lo pose nel Nobile Castello (Inf., IV 129); il
Petrarca lo esaltò nel Tr. Fame (II 148 sgg.); il B., che lo aveva
splendidamente presentato nell’Amorosa Visione (XII 28 sgg.) e –
caso unico per un personaggio storico – lo aveva voluto aristocratico protagonista di due novelle (I 3 e X 9), ne fece questo ritratto
nelle Esposizioni: «Uomo di nazione assai umile [piccolo uomo]
per quello mi paia avere per addietro sentito [era una leggenda: fu
figlio di Ayub, alto dignitario alla corte del Sultano Norandino],
ma di grande e altissimo animo e ammaestratissimo in fatti di guer4
5
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magnificenze speso tutto il suo tesoro e per alcuno accidente sopravvenutogli bisognandogli una buona quantità di denari, né veggendo donde così prestamente come gli bisognavano aver gli potesse, gli venne a
memoria9 un ricco giudeo, il cui nome era Melchisedech10, il quale prestava a usura in Alessandria. E pensossi
costui avere da poterlo servire11 quando volesse; ma sì
era avaro che di sua volontà non l’avrebbe mai fatto, e
forza non gli voleva fare; per che, strignendolo il bisogno, rivoltosi tutto a dover trovar modo come il giudeo
il servisse, s’avisò di fargli una forza da alcuna ragion colorata12.
ra, sì come in più sue operazioni dimostrò. Fu vago di vedere e di
cognoscere li gran prencipi del mondo e di sapere i loro costumi:
né in ciò fu contento solamente alle relazioni degli uomini, ma credesi che, trasformatosi, gran parte del mondo personalmente cercasse, e massimamente intra’ cristiani [cfr. X 9], li quali, per la Terra santa da lui occupata, gli erano capitali nemici. E fu per setta de’
seguaci di Maometto, quantunoue, per quello che alcuni voglion
dire, poco le sue leggi e i suoi comandamenti prezasse. Fu in donare magnifico, e delle sue magnificenze se ne raccontano assai. Fu
pietoso signore, e maravigliosamente amò e onorò i valenti uomini» (IV litt. 243 sg.). Cfr. in gen. G. PARIS, La leggenda del Saladino, Firenze 18962; A. FIORAVANTI, Il Saladino nelle leggende,
Reggio Calabria 1891; F. GABRIELI, Storia e civiltà musulmana,
Napoli 1947, pp 1 sgg., e Storici arabi delle crociate, Torino 1957,
passim; A. CASTRO, Présence du Sultan Saladin dans les littératures romances, in «Diogène», VIII, 1954.
9 L’anacoluto balza spontaneo dal difficile groviglio in cui si dibatteva il Saladino.
10 Un nome frequente fra gli ebrei e che rimonta al Genesi XIV
18 e ai Salmi CIX 4, e significa «re di giustizia».
11 È termine quasi tecnico per i prestiti di denaro: Velluti, Cronica, p. 86: «avendo messer Lambertuccio ... servito messer Berto di
grande quantità di denaro».
12 violenza (Inf., XI 32 e 46) che avesse una qualche apparenza,
una qualche giustificazione di ragione, di legalità: Compagni, Cronica, I 27: «cominciò a seminare discordie sotto colore di giustizia»;
Esposizioni, V all.49: «Sarebbe questa ragione ... assai colorata»; e
IX 1,7.
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata 1
E fattolsi chiamare e familiarmente ricevutolo, seco
il fece sedere e appresso gli disse: «Valente uomo, io ho
da più persone inteso che tu se’ savissimo e nelle cose di
Dio senti molto avanti13; e per ciò io saprei volentieri da
te quale delle tre leggi tu reputi la verace, o la giudaica o
la saracina o la cristiana».
9
Il giudeo, il quale veramente era savio uomo, s’avisò
troppo bene che il Saladino guardava di pigliarlo nelle
parole14 per dovergli muovere alcuna quistione, e pensò
non potere alcuna di queste tre più l’una che l’altre lodare, che il Saladino non avesse la sua intenzione15. Per
che, come colui il qual pareva d’aver bisogno di risposta
per la quale preso non potesse essere, aguzzato lo ’ngegno, gli venne prestamente avanti quello che dir doves10 se, e disse: «Signor mio, la quistione la qual voi mi fate è
bella, e a volervene dire ciò che io ne sento mi vi convien
11 dire una novelletta, qual voi udirete. Se io non erro16, io
mi ricordo aver molte volte udito dire che un grande uomo e ricco fu già, il quale, intra l’altre gioie più care che
nel suo tesoro avesse, era uno anello bellissimo e prezioso17; al quale per lo suo valore e per la sua bellezza volendo fare onore e in perpetuo lasciarlo ne’ suoi discendenti, ordinò che colui de’ suoi figliuoli appo il quale, sì
come lasciatogli da lui, fosse questo anello trovato, che
colui18 s’intendesse essere il suo erede e dovesse da tutti
8
13
sei motto addentro nella conoscenza delle cose di Dio.
mirava a coglierlo in fallo nelle parole che avrebbe risposto.
15 senza che il Saladino non conseguisse il suo intento (I concl., 20
n.); per l’uso corrente di che non (lat. quin) cfr. Mussafìa, pp 515
sgg.
16 Se la memoria non mi inganna: Inf., II 6 «la mente che non erra» e Purg., XX 147 «se la memoria mia in ciò non erra».
17 Anacoluto che ferma l’attenzione del lettore sull’anello, tipico
segno nel Medioevo di riconoscimento e di autorità, dai significati
simbolici vari (cfr. G. FERGUSON, Signs and Symbols, New York
1954), che apparirà tanto spesso nelle novelle del D.
18 Ripresa che chiarisce il discorso e ribadisce la volontà di quel
14
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12
gli altri essere come maggiore19 onorato e reverito. E colui al quale da costui fu lasciato tenne simigliante ordine
ne’ suoi discendenti, e così fece come fatto avea il suo
predecessore; e in brieve andò questo anello di mano in
mano a molti successori, e ultimamente pervenne alle
mani a uno, il quale avea tre figliuoli belli e virtuosi e
molto al padre loro obedienti, per la qual cosa tutti e tre
13 parimente gli amava. E i giovani, li quali la consuetudine20 dello anello sapevano, sì come vaghi ciascuno d’essere il più onorato tra’ suoi, ciascun per sé, come meglio
sapeva, pregava il padre, il quale era già vecchio, che
14 quando a morte venisse a lui quello anello lasciasse. Il
valente uomo, che parimente tutti gli amava21, né sapeva
esso medesimo eleggere a qual più tosto lasciar lo volesse, pensò, avendolo a ciascun promesso, di volergli tutti
e tre sodisfare: e segretamente a un buon maestro22 ne
fece fare due altri, li quali sì furono simiglianti al primiero, che esso medesimo che fatti gli avea fare appena conosceva qual si fosse il vero; e venendo a morte, segreta15 mente diede il suo a ciascun de’ figliuoli. Li quali, dopo
la morte del padre, volendo ciascuno la eredità e l’onore
occupare23 e l’uno negandola all’altro, in testimonianza
di dover ciò ragionevolmente fare ciascuno produsse
fuori il suo anello; e trovatisi gli anelli sì simili l’uno
all’altro che qual fosse il vero non si sapeva cognoscere,
si rimase la quistione, qual fosse il vero erede del padre,
padre (Rua); per che ripetuto spesso dopo inciso cfr. Mussafia, pp
461 sgg., con ampia esemplificazione.
19 Cfr. Intr., 95 e 96 n. e V 3,34 n.
20 Cioè la tradizione familiare.
21 Ripetizione della frase alla conclusione del paragrafo 12. Tutto
il discorso di Melchisedech è ricco di anacoluti, ripetizioni, riprese
che danno un appropriato tono insieme parlato e sentenzioso.
22 Si diceva in genere d’uomo esperto in qualche scienza o arte;
qui intendi orafo.
23 accaparrarsi: III 10,32: «avanti che la corte i beni stati del padre ... occupasse».
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16
in pendente: e ancor pende24. E così vi dico, signor mio,
delle tre leggi alli tre popoli date da Dio padre, delle
quali la quistion proponeste: ciascuno la sua eredità, la
sua vera legge e i suoi comandamenti dirittamente25 si
crede avere e fare, ma chi se l’abbia, come degli anelli,
ancora ne pende la quistione».
17
Il Saladino conobbe costui ottimamente essere saputo uscire del laccio il quale davanti a’ piedi teso gli aveva, e per ciò dispose d’aprirgli26 il suo bisogno e vedere
se servire il volesse; e così fece, aprendogli ciò che in
animo avesse avuto di fare, se così discretamente27, co18 me fatto avea, non gli avesse risposto. Il giudeo liberamente d’ogni quantità28 che il Saladino richiese il servì, e
il Saladino poi interamente il soddisfece; e oltre a ciò gli
donò grandissimi doni29 e sempre per suo amico l’ebbe
e in grande e onorevole stato appresso di sé il mantenne. –
24
in dubbio: e ancora è incerta, non è risolta.
a buon diritto, onestamente, oppure per linea diretta; cioè come
discesi direttamente da Dio.
26 manifestargli: II 3,21 n.; II 6,21 n.; Inf., II 81, X 44.
27 con discernimento, saviamente.
28 Cioè d’ogni somma: cfr. 6.
29 Enfatica e solenne costruzione con l’oggetto interno. Si conclude così il primo esempio nel D. della tecnica narrativa a scatola
cinese, cioè di una novella (metanovella) – o simili – dentro un’altra novella (cfr. per es. I 7; II 5 e 7; V 10; VI 1; e anche X 7).
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NOVELLA QUARTA
1
Un monaco, caduto in peccato degno di gravissima punizione,
onestamente rimproverando al suo abate quella medesima colpa, si libera dalla pena1.
2
Già si tacea Filomena dalla sua novella espedita2,
quando Dioneo, che appresso di lei sedeva, senza aspettare dalla reina altro comandamento, conoscendo già
per l’ordine cominciato3 che a lui toccava il dover dire,
in cotal guisa cominciò a parlare:
– Amorose donne, se io ho bene la ’ntenzione di tutte compresa, noi siamo qui per dovere a noi medesimi
novellando piacere4; e per ciò, solamente che contro a
questo non si faccia, estimo a ciascuno dovere essere licito (e così ne disse la nostra reina, poco avanti, che fosse5) quella novella dire che più crede che possa dilettare.
Per che, avendo udito per li buoni consigli di Giannotto
di Civignì Abraam aver6 l’anima salvata e Melchisedech
3
1 Con varianti più o meno notevoli il tema centrale della novella
– che in qualche modo sarà ripreso nella IX 2 – era già nel Novellino (LIV) e nel fabliau L’évéque qui bénit (Recueil général et complet des Fabliaux, Paris 1877, 111, p. 77: J. BÉDIER, Les fabliaux,
Paris 1911, p. 462) ma, secondo il Bartoli, era anche diffuso nella
novellistica popolare, di tradizione orale: cfr. Thompson e Rotunda, K 1274. Cfr. L. DI FRANCIA, La IV novella del D. e le sue fonti, in Miscellanea a V. Cian, Pisa 1909.
2 liberata; cioè essendosi sbrigata del dovere di raccontar la sua novella: VI 2, 18: «essendo espediti e partir dovendosi» (detto di ambasciatori che avevan compiuto il loro mandato): e anche IX 6,15.
3 dall’ordine tenuto sino allora nella successione di chi doveva
novellare.
4 Cioè spassarci, divertirci.
5 sott. licito : cioè concedette che così si facesse.
6 Queste costruzioni cominciate con un che, che dovrebbe reggere un verbo finito, e cui invece corrisponde un infinito, sono, co-
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4
5
per lo suo senno avere le sue ricchezze dagli aguati del
Saladino difese, senza riprensione7 attender da voi intendo di raccontar brievemente con che cautela un monaco il suo corpo di gravissima pena liberasse8.
Fu in Lunigiana9, paese non molto da questo lontano, uno monistero già di santità e di monaci più copioso
che oggi non è, nel quale tra gli altri era un monaco giovane, il vigore del quale né la freschezza10 né i digiuni né
le vigilie potevano macerare. Il quale per ventura un
giorno in sul mezzodì, quando gli altri monaci tutti dorme abbiamo detto, frequenti nelle scritture del tempo e nel B. stesso (vedi per es. già Intr., 41 n.; I 1,3 n.). Cfr. Mussafia, pp 459 sgg.;
Barbi, p. 80; F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, pp. 413 sgg.
7 biasimo, rimprovero. «Ed è significativo preannuncio il fatto
che Dioneo abbia ricordato le ultime due novelle (implicitamente,
come non dilettevoli a sufficienza) e non quella di ser Ciappelletto» (Marti).
8 Chiusura del lungo periodo su due endecasillabi, uno di seguito all’altro: cui ne seguono due altri per avviare il racconto ( cautela: astuzia, accorgimento: VI 10,3).
9 Un monastero propriamente benedettino, in Lunigiana nel secolo XIV, era quello di Montelungo, presso Pontremoli, dipendente dall’Abbazia di San Zeno: ma un altro, di benedettini pulsanesi,
certo assai noto al B., ricorre spontaneamente al pensiero. È il piccolo priorato di Santa Croce del Corvo (sul Caprione, sopra Lerici), dipendente dall’Abbazia di San Michele degli Scalzi di Pisa:
cioè il cenobio (fondato nel 1176 e abbandonato nel 1350-60)
presso cui sarebbe avvenuto il famoso incontro di Dante con Frate
Ilaro, la cui lettera il B. trascrisse nel suo Zibaldone ora Laurenziano e riecheggiò nel Trattatello (I 193 sgg.; cfr. G. BILLANOVICH, Prime ricerche dantesche, Roma 1947). Per notizie su questi
monasteri: L. PODESTÀ, I vescovi di Luni, in «Atti e Memorie
della Dep. modenese», serie IV, VI, 1895; Dante e la Lunigiana,
Milano 1909; G. VOLPE, Lunigiana medievale, Firenze 1923; L.
MATTEI CERASOLI, La congregazione benedettina degli eremiti
pulsanesi, Badia di Cava 1938. Il disegnino, di mano del B., a c. 8r
dell’autografo conferma che la novella tratta di benedettini.
10 rigoglio, fioridezza di gioventú. Tutta la frase è da ordinare così: il vigore e la freschezza del quale né i digiuni né le vigilie potevano
macerare: Corbaccio, 396: «... la freschezza della carne del viso ...».
«Né per e (cfr. provenzale ni; francese antico ne) era dell’uso e s’incontra spesso nel B.» (Sapegno).
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mivano, andandosi tutto solo dattorno alla sua chiesa, la
quale in luogo assai solitario era, gli venne veduta11 una
giovinetta assai bella, forse figliuola d’alcuno de’ lavoratori della contrada, la quale andava per li campi certe erbe cogliendo: né prima veduta l’ebbe, che egli fieramente assalito fu dalla concupiscenza carnale. Per che,
fattolesi più presso, con lei entrò in parole e tanto andò
d’una in altra, che egli si fu accordato con lei e seco nella sua cella ne la menò, che12 niuna persona se n’accorse.
E mentre che egli, da troppa volontà13 trasportato,
men cautamente con le’ scherzava, avvenne che l’abate,
da dormir levatosi e pianamente passando davanti alla
cella di costui, sentio lo schiamazzio che costoro insieme
faceano; e per conoscere meglio le voci, s’accostò chetamente14 all’uscio della cella a ascoltare e manifestamente
conobbe che dentro a quella era femina e tutto15 fu tentato di farsi aprire; poi pensò di voler tenere in ciò altra
maniera e, tornatosi alla sua camera aspettò che il monaco fuori uscisse. Il monaco, ancora che da grandissimo
suo piacere e diletto fosse con questa giovane occupato,
pur nondimeno tuttavia16 sospettava; e parendogli aver
sentito alcuno stropiccio di piedi per lo dormentorio17, a
un piccol pertugio pose l’occhio e vide apertissimamente l’abate stare a ascoltarlo, e molto ben comprese l’abate aver potuto conoscere quella giovane essere nella sua
11 gli accadde di vedere: un altro anacoluto naturale nella sintassi
della lingua parlata.
12 in modo che.
13 passione, concupiscenza.
14 cautamente, senza far rumore: Intr., 105 n.
15 Esprime l’intensità della tentazione: tutto è usato spesso dal B.
in questo senso, con gli aggettivi e anche coi verbi: V 3,35: «tutta
riscossasi, stette cheta»; e nella stessa novella 50: «Egli si struggea
tutto d’andarla a abracciare».
16 sempre, continuamente: I 1,56 n.
17 Era termine quasi tecnico per indicare la parte del convento in
cui erano poste le celle dei frati.
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cella. Di che egli, sappiendo che di questo gran pena gli
dovea seguire, oltre modo fu dolente: ma pur, sanza del
suo cruccio niente mostrare alla giovane, prestamente
seco molte cose rivolse18, cercando se a lui alcuna salutifera trovar ne potesse. E occorsagli19 una nuova malizia20, la quale al fine imaginato da lui dirittamente pervenne, e faccendo sembiante che esser gli paresse stato
assai con quella giovane, le disse: «Io voglio andare a
trovar modo come tu esca di qua entro senza esser veduta; e per ciò statti pianamente21 infino alla mia tornata».
E uscito fuori e serrata la cella con la chiave, dirittamente se n’andò alla camera dello abate; e presentatagli
quella secondo che ciascuno monaco facea quando fuori
andava, con un buon1 volto disse: «Messere, io non potei stamane farne venire tutte le legne le quali io aveva
fatte fare, e perciò con vostra licenzia io voglio andare al
bosco e farlene venire23».
L’abate, per potersi più pienamente informare del
fallo commesso da costui, avvisando che questi accorto
non se ne fosse che egli fosse stato da lui veduto, fu lieto
di tale accidente24, e volentier prese la chiave e similmente gli die’ licenzia. E come il vide andato via, cominciò a pensare qual25 far volesse più tosto: o in presenza
18 esaminò nella sua mente. Espressione alla latina assai usata dal
B.: IV 5,6: «varie cose fra sé rivolgendo»; VIII 7,40: «seco gran cose e varie volgendo» e 80: «seco la ricevuta ingiuria rivolgendo»
ecc.
19 venutagli in mente: cfr. III 9,3: «quella [novella] che alla proposta materia m’occorre»; Fiammetta, VI 16,11: «m’occorse la
morte di Pernice».
20 astuzia di nuovo genere, singolare: anche questa è espressione
cara al B. IV 1,7; «pensò una nuova malizia».
21 chetamente, senza far rumore: II 2,25 n. Per tornata cfr. IV
2,46 n.
22 sereno, tranquillo.
23 farle venire di là.
24 caso, circostanza.
25 che cosa.
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di tutti i monaci aprir la cella di costui e far loro vedere
il suo difetto26, acciò che poi non avesser cagione di
mormorare contra di lui quando il monaco punisse, o di
voler prima da lei sentire come andata fosse la bisogna27.
14 E pensando seco stesso che questa potrebbe essere tal
femina o figliuola di tale uomo28, che egli non le vorrebbe aver fatta quella vergogna d’averla a tutti i monaci
fatta vedere, s’avisò29 di voler prima veder chi fosse e
poi prender partito; e chetamente andatosene alla cella,
quella aprì e entrò dentro e l’uscio richiuse. La giovane,
vedendo venir l’abate tutta smarrì, e temendo di vergogna cominciò a piagnere.
15
Messer l’abate, postole l’occhio addosso e veggendola bella e fresca, ancora che vecchio fosse sentì subitamente non meno cocenti gli stimoli della carne che sentiti avesse il suo giovane monaco; e fra se’ stesso
cominciò a dire: «Deh, perché non prendo io del piacere quando io ne posso avere, con ciò sia cosa che il dispiacere e la noia, sempre che io ne vorrò, sieno apparecchiati? Costei è una bella giovane e è qui che niuna
persona del mondo il sa: se io la posso recare a fare i pia16 cer miei, io non so perché io nol mi faccia. Chi il saprà?
Egli nol saprà persona mai, e peccato celato è mezzo
perdonato30. Questo caso non avverrà forse mai più: io
26
colpa, mancanza: Intr., 57 n.
la faccenda: I 1,27 n.
28 di uomo di tale condizione.
29 giudicò e decise.
30 Proverbio diffuso già nel Trecento: Paolo da Certaldo, Libro
di buoni costumi, n. 73: «’Pecato celato è mezzo perdonato’ però
che tu non dei dare agli altri malo asempro» (e cfr. anche Dieci Tavole de’ proverbi, Venezia 1578, n. 18). Correva anche il proverbio
opposto, oggi più diffuso: «Peccato confessato è mezzo perdonato»: Paolo da Certaldo, n. 313; Bartolomeo da San Concordio,
Ammaestramenti degli antichi, Firenze 1861, XXII 2. E cfr. Filocolo, III 3,6: la piaga «palesata le più volte lievemente si sana».
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estimo ch’ egli sia gran senno31 a pigliarsi del bene,
quando Domenedio ne manda altrui32».
E così dicendo, e avendo del tutto mutato
proposito33 da quello per che andato v’era, fattosi più
presso alla giovane, pianamente34 la cominciò a confortare e a pregarla che non piagnesse; e, d’una parola in
un’altra procedendo, a aprirle il suo desiderio pervenne.
La giovane, che non era di ferro né di diamante, assai
agevolmente si piegò a’ piaceri dello abate: il quale, abbracciatala e baciatala più volte, in su il letticello del monaco salitosene, avendo forse riguardo al grave peso della sua dignità e alla tenera età della giovane, temendo
forse di non offenderla35 per troppa gravezza, non sopra
il petto di lei salì, ma lei sopra il suo petto pose, e per
lungo spazio con lei si trastullò.
Il monaco, che fatto avea sembiante d’andare al bosco, essendo nel dormentoro occultato, come vide l’abate solo nella sua cella entrare, così tutto rassicurato
estimò il suo avviso dovere avere effetto36; e veggendol
serrar dentro, l’ebbe per certissimo. E, uscito di là
dov’era, chetamente n’andò a un pertugio per lo quale
ciò che l’abate fece o disse e udì e vide. Parendo allo
31
sia da persona accorta. «Nota» (M.).
ad altri, a qualcuno. Frase proverbiale: cfr. per es. G. GIUSTI,
Raccolta di proverbi toscani, Firenze 1926, p. 129. Frequente è nel
B. l’uso di sentenze o proverbi a conclusione o a scansione di discorsi o soliloqui (cfr. per es. Filocolo, II 9; Filostrato, V 21; Comedia, XXIX 26-28; Fiammetta, I 8). Più raffinato e sottile l’uso nel
D. anche su registro ironico (cfr. per es. II 5,31; II 7,122; II 9,6 e
75; II 10,43; III 1,26; III 4,27; III 5,30 ecc.). Altre volte servono a
avviare il discorso (IV 2,5 n.). E cfr. Proemio, 2 n.
33 Una formula frequente nel B.: per es. III 1,33; Amorosa Visione, XXI 42, ecc.
34 gentilmente, con garbo: IX 9,19 «menarlo ... pianamente».
35 di non farle male.
36 il suo disegno, il suo pensiero (cfr. II 4,6 n.) dover riuscire (come aveva immaginato ).
32
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abate essere assai con la giovanetta dimorato, serratala
nella cella, alla sua camera se ne tornò; e dopo alquanto,
sentendo il monaco e credendo lui esser tornato dal bosco, avvisò di riprenderlo forte e di farlo incarcerare 37
acciò che esso38 solo possedesse la guadagnata preda: e
fattoselo chiamare, gravissimamente e con mal viso il riprese e comandò che fosse in carcere messo.
21
Il monaco prontissimamente rispose: «Messere, io
non sono ancora tanto all’ordine di san Benedetto stato,
che io possa avere ogni particularità di quello apparata39; e voi ancora non m’avavate40 mostrato che’ monaci
si debban far dalle femine premiere come da’ digiuni e
dalle vigilie; ma ora che mostrato me l’avete, vi prometto, se questa41 mi perdonate, di mai più in ciò non peccare, anzi farò sempre come io a voi ho veduto fare».
22
L’abate, che accorto uomo era, prestamente conobbe costui non solamente aver più di lui saputo42, ma veduto ciò che esso aveva fatto; per che, dalla sua colpa
stessa rimorso, si vergognò di fare al monaco quello che
egli, sì come lui, aveva meritato. E perdonatogli e impostogli di ciò che veduto aveva silenzio, onestamente43
misero la giovinetta di fuori, e poi più volte si dee credere ve la facesser tornare. –
37 Ogni convento aveva il suo carcere per la punizione del monaci colpevoli.
38 «Abate ingordo, non ti verrà» (M.).
39 imparato ogni minimo particolare della regola dell’ordine: la
forma è frequente nel B. (per es. II 7,110n.; Amorosa Visione, XXVIII 86).
40 Queste forme dell’imperfetto indicativo, che devono il loro irregolare -a- a un’assimilazione, sono correnti nel toscano antico
(cfr. Rohlfs, 550) e ritornano con insistenza nel D., specie nei discorsi diretti di borghesi o popolani: cfr. II 5,23 n.
41 Si sottintende «mancanza, colpa».
42 esser stato più saggio, più astuto di lui: Amorosa Visione,
XXXIII 58 e XXXV 33.
43 In questo caso, senza che ne venisse danno alla sua fama, al suo
onore, cioè senza farlo sapere a nessuno.
Letteratura italiana Einaudi 102
NOVELLA QUINTA
1
La marchesana di Monferrato, con un convito di galline e con
alquante leggiadre parolette reprime il folle amore del re di
Francia1.
2
La novella da Dioneo raccontata prima con un poco
di vergogna punse i cuori delle donne ascoltanti e con
onesto rossore nel loro viso apparito ne diede segno; e
poi quella, l’una l’altra guardando, appena del rider potendosi abstenere, soghignando2 ascoltarono. Ma venuta
3
1 L’ingegnosa trovata della Marchesa del Monferrato ha qualche
affinità con quella della giovane moglie di un Visir, tentata dal Sultano, che è narrata nella versione araba di una novella del Libro dei
Sette Savi (D. COMPARETTI, Intorno al «Libro dei Sette Savi»,
Pisa 1865). Qualche somiglianza si può stabilire con altri racconti
orientali (S. PRATO, «L’orma del leone», racconto orientale ecc., in
«Romania», XII e XIV, 1883 e ’85; BURTON-SMITHERS, Arabian Nigbts, Benares 1884, II, p. 378 e IX, p. 120; W. E. A.
AXON, in «Notes and Queries», serie IX, XII, 1902, pp 223 e
261; Mille e una notte, 578-79): ma l’antecedente più interessante,
se si deve prestar fede ad Aldo Manuzio, sarebbe un aneddoto
strettamente simile – anche se diverso nella conclusione – che si
narrava in ambiente napoletano come accaduto a Manfredi, e che
ebbe solenne forma latina dall’Arcivescovo P. E. Santorio (A. MANUZIO, Lettere, Roma 1592, p. 87). Cfr. anche per un analogo
racconto arabo R. BASSET, Contes et légendes arabes, in «Revue
de Traditions Populaires», XVI, 1901, racc. DIV. Una qualche somiglianza è stata anche notata con un episodio del Milon di Matteo
di Vendôme (Cfr. RYSSEL, in «Theologische Studien u. Kritiken», 1903, p. 229). Il tema è del resto popolare e tradizionale anche nella novellistica (Thompson, J 81, Rotunda, J 81 e 81.1*). La
forma marchesana è una delle poche superstiti di quelle formazioni
analogiche al tipo flessionale germanico A-UN sviluppatesi prima
nei nomi propri di origine tedesca ed estesesi poi a qualche appellativo comune (mammana, puttana: cfr. J. JUD, Recherches sur la
génèse et la diffusion des accusatifs en «ain» et «on», Halle 1907).
2 Tutta la frase è quasi ripetuta ad litteram nella VI 8,2: «La novella da Filostrato raccontata prima con un poco di vergogna pun-
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di questa la fine, poi che lui con alquante dolci parolette3 ebber morso, volendo mostrare che simili novelle
non fossero tra donne da raccontare, la reina verso la
Fiammetta che appresso di lui sopra l’erba sedeva rivolta, che essa l’ordine seguitasse le comandò. La quale
vezzosamente e con lieto viso a incominciò:
– Sì perché mi piace noi essere entrati a dimostrare
con le novelle quanta sia la forza delle belle e pronte risposte4, e sì ancora perché quanto negli uomini è gran
senno il cercar d’amar sempre donna di più alto legnaggio che egli non è, così nelle donne è grandissimo avvedimento il sapersi guardare dal prendersi dell’ amore di
maggiore uomo che ella non è5, m’è caduto nell’animo,
donne mie belle, di mostrarvi, nella novella che a me
tocca di dire, come e con opere e con parole una gentil
donna sé da questo guardasse e altrui ne rimovesse
Era il marchese di Monferrato, uomo d’alto valore,
gonfaloniere della Chiesa, oltremare passato in un genese li cuori delle donne ascoltanti, e con onesto rossore ne’ lor visi
apparito ne dieder segno; e poi, l’una l’altra guardando, appena dal
ridere potendosi abstenere, soghignando quella ascoltarono». Soghignare non aveva allora nessuna sfumatura maligna: il Da Buti
(comm. a Purg., II 83) definisce: «Sorrise un poco, cioè sogghignò,
che è confusamente e non apertamente ridere»: cfr. anche II 3,3 n.
3 Par., I 95 «per le sorrise parolette brevi»: e cfr. nel sommario
«leggiadre parolette» (come a I 10,7).
4 Dopo esser stato uno dei motivi più frequenti, specialmente in
questa giornata, questo sarà il tema della VI.
5 Questi canoni erano diffusi nella precettistica amorosa del Medioevo: basti confrontare due capitoli del De amore di Andrea
Cappellano (ed. cit., pp 38 sgg.), ripetuti anche nel Filocolo (IV 50)
e in varie pagine del D. (per es., Proemio, 3 n.; II 8,41 n. ecc.). Ancora ai primi del Cinquecento il Bibbiena affermava: «come in una
donna è grandissimo senno il guardarsi dall’amore di maggior omo
che ella non è, così è gran valore nelli omini di amare donne di più
alto lignaggio che essi non sono» (Calandria, I 1). Cfr. tutta la X 7,
in cui però il canone, contrariamente a questa affermazione, è esteso anche alle donne. Una patina cortese è data alla premessa e alla
novella dai francesismi insistenti e dalla struttura latineggiante dei
periodi, spesso col verbo alla fine.
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6
ral passaggio6 da’ cristiani fatto con armata mano7. E del
suo valore ragionandosi nella corte del re Filippo il bornio8, il quale a quello medesimo passaggio andar di
Francia s’aparecchiava, fu per9 un cavalier detto non esser sotto le stelle una simile coppia a quella del marche-
6 Termine specifico italiano per le Crociate: I 6,10 n. e X 9,5: «al
tempo dello ’mperador Federigo primo a racquistar la Terra Santa
si fece per li cristiani un general passaggio» (è proprio la stessa III
Crociata).
7 Espressione latineggiante per con un esercito, con una moltitudine di armati: come a V 1,30. Pare preferibile questa interpretazione a quella, pure possibile, di armati, con le armi.
8 Ecco l’ambiente storico della novella fissato con riferimenti abbastanza precisi. Filippo il bornio (cioè guercio: fr. borne, borgne) è
Filippo Augusto (1165-1223) che con Federico Barbarossa e Riccardo Cuor di Leone guidò la III Crociata (1189-92; cfr. G. Villani,
V 4 che dice F. «uomo di gran valore»): la Crociata che più dovette colpire la fantasia del B. se vi intrecciò varie novelle (I 5, V 7, X
9; e I 9). Marchese del Monferrato era allora Corrado degli Aleramici, il famoso difensore di Costantinopoli e di Tiro, che ottenne il
titolo di Re di Gerusalemme poco prima di essere assassinato (28
aprile 1192); era succeduto nel 1190 al padre Guglielmo nella Signoria del Monferrato. Egli, uno dei più attivi capi della III Crociata, si appoggiò, contro Riccardo Cuor di Leone, a Filippo Augusto: il quale si era imbarcato per l’Oriente a Genova, porto
canonico per il «passaggio», quando Corrado già da alcuni anni
era in Palestina. Fin qui storia e novella coincidono puntualmente;
ma divergono in un elemento essenziale: Corrado non aveva lasciato una moglie nel Monferrato, perché nel 1187, quando a Costantinopoli sposa Teodora, sorella dell’imperatore Alessio, risulta vedovo; e Teodora, abbandonata da Corrado (che nel 1190 sposò
Isabella, principessa di Gerusalemme), non fu mai in Monferrato.
Neppure si può pensare a una confusione con Bonifacio I (marchese dal 1192 al 1207) e che fu a capo della IV Crociata: anch’egli,
al tempo del «passaggio», era vedovo. È uno degli esempi caratteristici delle costruzioni novellistiche tra storia e fantasia così frequenti nel D. Per le notizie sopra esposte e altri particolari cfr. L.
USSEGLIO, I Marchesi di Monferrato, Torino 1926.
9 da: uso corrente, come nell’Intr., 34 n., 55 n. Per la frase di lode
seguente cfr. Petrarca, CCXLV 9: «Non vede un simil par d’amanti il sole».
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se e della sua donna: però che, quanto tra’ cavalieri era
d’ogni virtù il marchese famoso, tanto la donna tra tutte
l’altre donne del mondo era bellissima10 e valorosa. Le
quali parole per sì fatta maniera nell’animo del re di
Francia entrarono, che, senza mai averla veduta11, di subito ferventemente la cominciò a amare; e propose di
non volere, al passaggio al quale andava, in mare entrare
altrove che a Genova, acciò che quivi, per terra andando, onesta12 cagione avesse di dovere andare la marchesana a vedere, avvisandosi che, non essendovi il marchese, gli potesse venir fatto di mettere a effetto il suo disio.
E secondo il pensier fatto mandò a esecuzione13: per ciò
che, mandato avanti ogni uomo, esso con poca compagnia e di gentili uomini entrò in cammino; e, avvicinandosi alle terre del marchese, un dì davanti14 mandò a dire alla donna che la seguente mattina l’attendesse a
desinare.
La donna, savia e avveduta, lietamente rispose che
questa l’era somma grazia sopra ogni altra e che egli fosse il ben venuto. E appresso entrò in pensiero che questo volesse dire15, che uno così fatto re, non essendovi16
10
Teseída, I 136: «Che di bellezza passava le belle».
Un innamoramento per fama; uno dei più cari e poetici canoni
della letteratura erotica medievale, ripetuto dal B. stesso (cfr. II 7,
IV 4, VII 7 ecc.): e cfr. Thompson, T 11 sgg.
12 conveniente al suo onore, plausibile: III 9,5 n.; IV 4,8.
13 Cioè: E come aveva pensato di fare, così fece.
14 un giorno prima.
15 cominciò a pensare che cosa significasse questo. Questo è prolettico di che uno …
16 Frequenti (venti) i gerundi in questa novella ad accentuare la
solennità e la musicalità della prosa (cfr. G. HERCZEG, Il gerundio assoluto nella prosa del B., in Saggi linguistici e stilistici, Firenze
1972); e frequenti anche i participi passati invece dei gerundi composti perché «maniera ... vaga e brieve e graziosa molto» come,
parlando proprio del B., scrive il Bembo (Prose della volgar lingua,
III LIV).
11
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il marito di lei, la venisse a visitare: né la ’ngannò in questo l’avvso, cioè che la fama della sua bellezza il vi traes10 se. Nondimeno, come valorosa donna dispostasi a onorarlo, fattisi chiamare di que’ buoni uomini che rimasi
v’erano, a ogni cosa opportuna con lor consiglio fece ordine dare17, ma il convito e le vivande ella sola volle ordinare. E fatte senza indugio quante galline nella contrada erano ragunare, di quelle sole varie vivande divisò18
a’ suoi cuochi per lo convito reale.
Venne adunque il re il giorno detto e con gran festa
11
e onore dalla donna fu ricevuto. Il quale, oltre a quello
che compreso aveva19 per le parole del cavaliere, riguardandola, gli parve20 bella e valorosa e costumata, e sommamente se ne maravigliò e commendolla forte, tanto
nel suo disio più accendendosi quanto da più trovava es12 ser la donna che la sua passata stima di lei. E dopo alcun
riposo preso in camere21 ornatissime di ciò che a quelle,
per dovere un sì fatto re ricevere, s’appartiene22, venuta
l’ora del desinare, il re e la marchesana a una tavola se-
17 Fare è qui evidentemente fraseologico, come spesso nel D. (II
8,77; VII 5,21; VIII 6,49): cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo,
pp 472 sgg.
18 ordinò. Per le varie sfumature di senso di questo verbo cfr. per
es. I 7,27 n.; II 8,86 n.; II concl.,10n.
19 al di là di quello che aveva immaginato: VII 9,78 n.
20 Spesso, nei primi secoli, coi verbi impersonali o pronominali
(mi pare, mi conviene ecc.), quando si richiederebbe il pronome
personale o la particella pronominale in caso obliquo, si ponevano
– con anacoluto – i pronomi come soggetti e si ripeteva poi la loro
particella: come qui il B. E cfr. per es. Fiammetta, VIII 16,2: «Ma
io ... usa di trastullarmi col lascivo amore, ogni piccola pena m’è
grave molto»; G. Villani, I 1: «Io Giovanni cittadino di Firenze ...
mi pare che si convenga di raccontare ...»
21 Cinque endecasillabi di seguito (maravigliò ... camere).
22 fornitissime ... di quanto è necessario a ricevere un tale re. Per
queste forme impersonali (anche a III 7,49; IX 9,3) cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 147. Insistenti in questo passo le note
di etichetta cortese.
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dettero, e gli altri secondo la lor qualità23 a altre mense
furono onorati.
Quivi essendo il re successivamente di molti messi24
14
servito e di vini ottimi e preziosi, e oltre a ciò con diletto
talvolta la marchesana bellissima riguardando, sommo
piacere avea. Ma pur, venendo l’un messo appresso l’altro, cominciò il re alquanto a maravigliarsi conoscendo
che quivi, quantunque le vivande diverse fossero, non
per tanto di niuna cosa essere altro che di galline. E come che il re conoscesse il luogo, là dove era, dovere esser tale che copiosamente di diverse salvaggine aver vi
dovesse, e l’avere davanti significata la sua venuta alla
donna spazio l’avesse dato di poter far cacciare, non
pertanto, quantunque molto di ciò si maravigliasse, in
altro non volle prender cagion di doverla mettere in parole25 se non delle sue galline; e con lieto viso rivoltosi
verso lei disse: «Dama, nascono in questo paese solamente galline senza gallo alcuno?»
15
La marchesana, che ottimamente la dimanda intese,
parendole che secondo il suo disidero Domenedio
l’avesse tempo mandato opportuno a poter la sua intenzion dimostrare, al re domandante baldanzosamente26
verso lui rivolta rispose: «Monsignor no, ma le femine,
quantunque in vestimenti e in onori alquanto dall’altre
variino, tutte perciò27 son fatte qui come altrove».
23 secondo il loro rango: X 2,10: «ogn’altro uomo secondo la sua
qualità per lo castello fu assai bene adagiato».
24 portate, piatti (fr. mets): «ne rende ragione quel di Dante Par.,
X: ‘Messo t’ho innanzi: omai per te ti ciba’» (Tommaseo); «alla prima mensa ... cinque messe di pesce» (G. Villani, XI 60); «A ogni
messo di vivanda si mutano gli strumenti tutti della mensa» (F.
SERDONATI, Storia delle Indie, Firenze 1586, VIII 224).
25 Cfr. I 3,9 n.
26 lietamente, con nobile disinvoltura e franchezza: cfr. I 6,2; X
5,2: «Emilia ... baldanzosamente ... cominciò ...»
27 però, tuttavia. Questo ragionamento, oltre che negli antece-
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16
Il re, udite queste parole, raccolse28 bene la cagione
del convito delle galline e la vertù nascosa nelle parole, e
accorsesi che invano con così fatta donna parole si gitterebbono, e che forza non v’avea29 luogo; per che così come disavedutamente acceso s’era di lei, saviamente s’era
17 da spegnere per onor di lui il male concetto fuoco30. E
senza più motteggiarla31, temendo delle sue risposte,
fuori d’ogni speranza desinò; e, finito il desinare, acciò
che il presto partirsi ricoprisse la sua disonesta venuta,
ringraziatala32 dell’onor ricevuto da lei, accomandandolo ella a Dio, a Genova se n’andò33. –
denti già citati, era patrimonio del buon senso moralistico del tempo: anche Paolo da Certaldo, Libro di buoni costumi, n. 135: «...
pensa che tutte sono femmine e tutte sono fatte a uno modo; e
però non porre più amore a l’una che a l’altra»: e cfr. Thompson, J
81.
28
intese, comprese: IX 6,29: «Pinuccio, avendo raccolto... ciò che
detto s’era...»
29 non era possibile, non era il caso di usar violenza, di insistere fino alla violenza.
30 era da spegnersi ... l’amore mal concepito, cioè disonesto (cfr.
Proemio,3).
31 rivolgerle motti maliziosi (I 110, 13 n.; II 9,5 n.).
32 «E però tolga la speranza agli amanti chi non vuole essere vaghegiata» (M.). Il topos, famoso nella letteratura medievale, dell’innarnoramento per tama è in questa novella quasi parodiato sia nel
finale che nel paragone delle donne colle galline, esseri di infima
quotazione anche nel mondo animale.
33 Nell’articolo Una leggenda monferrina, in «Studi sul Boccaccio», XI, 1979, Olimpio Musso tende a identificare il marchese del
Monferrato citato in questa novella non, come Usseglio (II, pp 5113 e 423), con Corrado ma col padre Guglielmo il Vecchio, perché questi sarebbe morto solo nel 1191 dopo l’imbarco a Genova
di Filippo Augusto (fine agosto 1190). Ma la moglie di Guglielmo,
Giulia d’Austria, aveva allora un’età (più di settant’anni) non certo
confacente al ruolo, sostenuto nella novella, di dama appetita e
corteggiata dal venticinquenne Filippo Augusto; e d’altra parte
Corrado poteva a buon diritto esser chiamato marchese del Monferrato anche prima della morte del padre, ma non aveva allora
moglie (cfr. 5 n.). I dati storici, cioè supponendo «Marchese del
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Monferrato» sia Guglielmo sia Corrado (cioè i due marchesi che
operarono nella III Crociata) non coincidono – come già abbiamo
rilevato – con quelli della novella: e del resto si sa che Filippo arrivò a Genova non dal Monferrato ma dalla Riviera di Ponente.
Anche in questo racconto dunque i riferimenti storici non sembrano dati per precisione o scrupolo anagrafico: i nomi preziosi e le
circostanze evocative mirano solo a creare un’ambientazione e una
suggestione allusive. L’essenziale per il B. è far scattare e risaltare il
motto teratologico a contrasto, sullo sfondo di un mondo signorile
e quasi fiabesco (i potenti marchesi del Monferrato, famosi per le
gesta in Occidente e in Oriente, la leggendaria III Crociata, un
grande re come Filippo, un porto topico come Genova). Cfr. per
questa tecnica narrativa II 3, specialmente 1 n., 6 n., 14 n., 37 n.,
48 n.; e cfr. in generale anche S. BIANCHINI, L’alta marquesana
qe fo de Monferato, in Miscellanea... a Roncaglia, Modena 1989.
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NOVELLA SESTA
1
Confonde un valente uomo con un bel detto la malvagia ipocresia de’ religiosi1.
2
Emilia, la quale appresso la Fiammetta sedea, essendo già stato da tutte commendato il valore e il leggiadro
1 L’avidità degli «inquisitori della eretica pravità» aveva una lunga e triste tradizione anche in Firenze. Basta scorrere le cronache
del tempo, per es. quelle del Villani e dello Stefani; o ricordare certi momenti del ritratto, fra lo sdegnoso e il caricaturale, del Falsembiante nel Fiore (CVIII, e CXXIV-CXXVI), così affini ad alcuni tratti dell’inquisitore di questa novella. Può essere però che il B.
abbia pensato a una persona più determinata: anzi, dal Manni in
poi, si è ripetuto che egli volle raffigurare Pietro dall’Aquila, frate
minore, inquisitore a Firenze dal 1344 al 1347, ritratto dal Villani
(XII 57) e dallo Stefani (RR. II.SS.2, XXX, 1, pp. 150 sgg.) con tinte fosche, soprattutto per un suo grave contrasto col Comune fiorentino. Ma altre fonti, non così evidentemente parziali come il
Villani e lo Stefani, lo mostrano sotto ben diversa luce (cfr. Manni); né va trascurato il fatto che Pietro dall’Aquila fu cappellano
della Regina Giovanna di Napoli, alla cui corte il B. fu sempre molto affezionato e indulgente, Sarà meglio, se mai, pensare a quel
Frate Mino da San Quirico, inquisitore a Firenze dal 1332 al 1334,
che suscitò così vasto sdegno per la sua vita sregolata e per la sua
avidità, tanto da esser destituito (cfr. G. BISCARO, Inquisitori ed
eretici a Firenze, in «Studi medievali», n. s., 11-6, 1929-33): il B.
dunque non poteva aver nessun timore nel metterlo alla berlina
(Frate Pietro invece continuò ad esser un potente prelato). Come
l’inquisitore della novella, Frate Mino appare dedito ai banchetti e
raffinato buongustaio; usava vari intermediari per farsi versare
somme ad estinguere le più diverse accuse; amava, per soddisfare il
volgo, imporre vistosi e ridicoli contrassegni ai condannati, anche
per lievi colpe; condannò molte persone a grosse multe «pro verbis
hereticalibus»; anzi v’è traccia di due episodi molto simili a quello
narrato dal B. Lotto di Benvenuto per aver motteggiato sul cavallo
dell’inquisitore e Ser Caccia da Prato per aver detto scherzosamente «Vivo coi vivi, morto coi morti», furono messi in stato d’accusa:
se la cavarono donando a Frate Mino, intermediario Frate Roberto, l’uno venti braccia di buon panno, l’altro cinquanta fiorini.
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6
gastigamento della2 marchesana fatto al re di Francia,
come alla sua reina piacque, baldanzosamente a dir cominciò:
– Né io altressì tacerò un morso3 dato da un valente
uomo secolare a uno avaro religioso con un motto non
meno da ridere4 che da commendare.
Fu dunque, o care giovani, non è ancora gran tempo, nella nostra città un frate minore inquisitore della
eretica pravità5, il quale, come che molto s’ingegnasse di
parer santo e tenero amatore della cristiana fede, sì come tutti fanno, era non meno buono investigatore di chi
piena aveva la borsa che di chi di scemo6 nella fede sentisse7. Per la quale sollecitudine per avventura gli venne
trovato un buono uomo, assai più ricco di denar che di
senno, al quale, non già per difetto di fede ma semplicemente8 parlando forse da vino o da soperchia letizia riscaldato, era venuto detto un dì a una sua brigata sé avere un vino sì buono che ne berrebbe Cristo. Il che
essendo allo ’nquisitor rapportato9, e egli sentendo che
li suoi poderi eran grandi e ben tirata10 la borsa, cum glaSull’inquisizione a Firenze vedi in generale D. CORSI, Aspetti
dell’inquisizione fiorentina, in AA.VV., Eretici e ribelli del XIII e
XIV secolo, Pistola 1974, pp. 65 sgg.
2 rimprovero dalla (I 5,1). Per il frequente uso nel D. del di oggettivo invece di da, cfr. Mussafia, pp 438 sgg.
3 Cfr. I 5,3; oggi si direbbe una frecciata.
4 Il solito uso transitivo di ridere (I 2,2 n.).
5 Era il titolo ufficiale: cfr. BISCARO, art. cit.
6 «E pur pe’ cherici!» (M.).
7 di chi in qualcosa fosse manchevole (scemo mancanza, difetto),
non fosse ben saldo, nei riguardi della religione: e così si accenna insieme all’eresia propriamente detta, e alle mancanze morali e rispetto alla Chiesa (per es. l’usura, la falsa testimonianza, l’astensione dal culto ecc, cadevano di diritto sotto l’inquisizione).
8 avventatamente, da semplicione: VII 6,3 n.
9 riferito: ha lo stesso senso spregiativo che in I 8,9: «rapportar
male dall’uno all’altro.
10 Perché ben piena.
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diis et fustibus11 impetuosissimamente corse a formargli
un processo gravissimo addosso, avvisando non di ciò
alleviamento di miscredenza nello inquisito, ma empimento di fiorini della sua mano ne dovesse procedere,
come fece. E fattolo richiedere, lui domandò se vero fosse ciò che contro di lui era stato detto. Il buono uomo rispose del sì , e dissegli il modo.
A che lo ’nquisitore santissimo e divoto di san Giovanni Barbadoro12 disse: «Dunque hai tu fatto Cristo
bevitore e vago de’ vini solenni13, come se egli fosse Cinciglione14 o alcuno altro di voi bevitori, ebriachi e tavernieri: e ora, umilmente parlando, vuogli mostrare questa
cosa molto esser leggiera. Ella non è come ella ti pare; tu
11 Con spade e bastoni: espressione curialesca divenuta proverbiale: da Matteo 26.47.
12
Diffusa, come testimonia anche il Sacchetti (CXXVIII e CXCVIII), era l’abitudine di trarre dall’etimologia dell’appellativo onorifico Crisostomo (=Boccadoro, attribuito a san Giovanni arcivescovo di Costantinopoli per la sua eloquenza) allusioni all’avidità
di danaro: anche, forse, perché sui fiorini era impressa l’immagine
di san Giovanni Battista protettore di Firenze. Evidentemente, per
non ripetersi e per volontà espressivistica, il B. usa qui la colorita
variante Barbadoro (appropriata a un barbuto francescano o allusiva al san Giovanni barbuto impresso sul fiorino), mentre più innanzi scrive il tradizionale Boccadoro (9).
13 squisiti, sublimi, è aggettivo solito per i vini (cfr. Lettere di
Sant’Antonino Firenze 1859, p. 75: e anche Corbaccio, 312).
14 Evidentemente nome di un famoso bevitore assunto a soprannome emblematico (come per es. ‘Epulone’). Cfr. Concl.: 9: «Chi
non sa ch’è il vino ottima cosa a’ viventi, secondo Cinciglione?»;
Corbaccio, 312; Galateo, XXIX: «sono costumi da tavernieri e da
Cinciglioni». Cinciglione’ è anche l’accrescitivo di ‘cinciglio’, cioè
pendaglio che si mette alle vesti militari (Sacchetti, CXXXVII): onde l’ipotesi che forse il soprannome abbia origini soldatesche. Ma
cfr. il DEI che cita «cinciglium» come pieghettatura (1402) e propone «cinciglione» nel senso non attestato di pendaglio di forca,
cioè uomo perverso, degno di forca: e in gen. G. HERCZEG, I cosiddetti «nomi parlanti» nel D., in Atti e Memorie del VII Congresso
Internazionale di Scienze Onomastiche, Firenze 1963.
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n’hai meritato il fuoco, quando noi vogliamo, come
dobbiamo15, verso te operare».
9
E con queste e con altre parole assai, col viso dell’arme16, quasi costui fosse stato Epicuro17 negante la eternità delle anime, gli parlava. E in brieve tanto lo spaurì,
che il buono uomo per certi mezzani18 gli fece con una
buona quantità della grascia di san Giovanni
Boccadoro19 ugner le mani (la quale molto giova alle infermità delle pistilenziose avarizie de’ cherici, e spezialmente de’ frati minori20, che denari non osan toccare)
acciò che egli dovesse verso lui misericordiosamente
10 aparare21. La quale unzione, sì come molto virtuosa 22,
avvegna che Galieno23 non ne parli in alcuna parte delle
sue medicine, sì e tanto adoperò, che il fuoco minacciatogli di grazia si permutò in una croce24; e, quasi al passaggio25 d’oltremare andar dovesse, per far più bella
15
Plurali maiestatis di tono minaccioso,
col viso minaccioso, cioè di chi aggredisce colle armi (Ariosto,
Satire, II 69).
17 Simbolo d’ateismo, di negazione dell’immortalità, secondo la
tradizione medievale: cfr. Inf., X 13 sgg.; Convivio, IV 6; Esposizioni, X 10 sgg. Potrebbe essere non nome ma aggettivo per epicureo:
VI 9,9 n.
18 mediatori (I 1,90 n.); come quel Fra’ Roberto di cui a p. 95,
nota1.
19 Grascia indica genericamente quanto è necessario al vitto: qui
i fiorini fiorentini, che portavano effigiato san Giovanni Battista.
20 «Nota pe’ cherici!» (M.). I frati minori avevano per tradizione
l’ufficio di inquisitori a Firenze (cfr. BISCARO, art. cit.); e cfr. Inf.,
VII 37 sgg.
21 disporre, preparare le cose: cfr. Trattatello, I 115 «quelle [cose]
fare con somma diligenzia apparare»; Collazione dell’abate Isaac,
Roma 1845 «quelle cose che Iddio hae apparate a coloro che
l’amano»; Pulci, Morgante, XXVI 38 «gli angeli apparar sú con
gran fretta | Il loco ...»
22 piena di virtú, di efficacia: VIII 3,8: «queste pietre così virtuose».
23 Cfr. Intr., 48 n.
24 per grazia, per misericordia si cambiò nella pena di [cucirsi] una
croce sulle vesti.
25 Cfr. I 5,5 n.: e per queste penitenze vedi BISCARO, art. cit.
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bandiera, gialla gliele pose in sul nero. E oltre a questo,
già ricevuti i denari, più giorni appresso di sé il sostenne26, per penitenza dandogli che egli ogni mattina dovesse udire una messa in Santa Croce27 e all’ora del
mangiare avanti a lui presentarsi, e poi il rimanente del
giorno quello che più gli piacesse potesse fare.
Il che costui diligentemente faccendo, avvenne una
mattina tra l’altre che egli udì alla messa uno evangelio,
nel quale queste parole si cantavano: «Voi riceverete per
ognun cento, e possederete la vita eterna28»: le quali esso nella memoria fermamente ritenne; e secondo il comandamento fattogli, a ora di mangiare davanti allo inquisitor venendo, il trovò desinare. Il quale lo ’nquisitor
domandò se egli avesse la messa udita quella mattina.
Al quale esso prestamente rispose: «Messer sì».
A cui lo ’nquisitor disse: «Udistù, in quella, cosa niuna della quale tu dubiti o vogline dimandare?»
«Certo» rispose il buono uomo «di niuna cosa che io
udissi dubito, anzi tutte per fermo le credo vere. Udinne
io bene alcuna che m’ha fatto e fa avere di voi e degli altri vostri frati grandissima compassione, pensando al
malvagio stato che voi di là nell’altra vita dovrete avere».
Disse allora lo ’nquisitore: «E quale fu quella parola29, che t’ha mosso a aver questa compassion di noi?»
Il buono uomo rispose: «Messere, ella fu quella parola dello evangelio, la qual dice: ‘Voi riceverete per
ognun cento’».
Lo ’nquisitore disse: «Questo è vero: ma perché t’ha
per ciò questa parola commosso?»
26
trattenne, tenne: IV 3,27 n.
Gli inquisitori risiedevano in generale nel massimo convento
francescano di Firenze; e vi risiedette Frate Mino.
28 Matteo 19.29: «centuplum accipiet et vitam aeternam possidebit».
29 frase: I 2,16 n.; VI 2,1; Inf., II 43.
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«Messere,» rispose il buono uomo «io vel dirò: poi
che io usai qui30, ho io ogni dì veduto dar qui di fuori a
molta povera gente quando una e quando due grandissime caldaie di broda31, la quale a’ frati di questo convento e a voi si toglie, sì come soperchia, davanti; per che, se
per ognuna cento vene fieno rendute, di là voi n’avrete
tanta, che voi dentro tutti vi dovrete affogare32».
20
Come che33 gli altri che alla tavola dello inquisitore
erano tutti ridessono, lo ’nquisitore sentendo trafiggere
la lor brodaiuola34 ipocrisia tutto si turbò; e se non fosse
che biasimo portava di quello35 che fatto avea, un altro
processo gli avrebbe addosso fatto per ciò che con ridevol36 motto lui e gli altri poltroni aveva morsi. E per bizzarria37 gli comandò che quello che più gli piacesse facesse, senza più davanti venirgli. –
19
30
Da quando io frequentai (I 1,14 n.) questo convento.
«Il proprio significato di broda, secondo il nostro parlare, è
quel superfluo della minestra il qual davanti si leva a coloro che
mangiato hanno» (Esposizioni, VIII litt, 64). Cfr. naturalmente
Inf., VIII 33.
32 La conclusione dell’inquisito riflette probabilmente un atteggiamento popolare: cfr. Rotunda, J 1262.6*.
33 Benché, quantunque.
34 «Nota pure pe’ frati minori» (M.). Qui l’aggettivo ha un chiaro
senso allusivo a quanto sopra è detto della broda elargita ai poveri:
altrove, con valore dispregiativo non ignaro di questa novella, vago, gbiotto: III 7,52 n.: «alcun brodaiuolo manicator di torte».
35 che era vituperato per quello. E per la locuzione stereotipata se
non fosse (IV 2,22; VI intr., 15; VIII 7,45 ecc.) cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, pp. 248 sgg.
36 Vale che merita che se ne rida: e cfr. Intr., 34 n.
37 per stizza, per ira: Inf., VIII 62: «E ’l fiorentino spirito bizarro,
cioè iracundo. E credo questo vocabolo bizarro sia solo de’ fiorentini e suona sempre in mala parte: per ciò che noi tegnamo bizarri
coloro che subitamente e per ogni piccola cagione corrono in ira»
(Esposizioni, VIII litt. 69, e cfr. IX 7,4; 8,10).
31
Letteratura italiana Einaudi 116
NOVELLA SETTIMA
1
Bergamino, con una novella di Primasso e dell’ abate di Clignì
onestamente morde una avarizia nuova venuta in messer Can
della Scala1.
2
Mosse la piacevolezza d’Emilia e la sua novella la reina e ciascun altro a ridere e a commendare il nuovo avviso2 del crociato. Ma poi che le risa rimase furono e
racquetato ciascuno, Filostrato, al qual toccava il novellare, in cotal guisa cominciò a parlare:
– Bella cosa è, valorose donne, il ferire un segno che
mai non si muti3, ma quella è quasi maravigliosa, quando alcuna cosa non usata apparisce di subito, se subitamente da uno arciere è ferita. La viziosa e lorda vita4 de’
cherici, in molte cose quasi di cattività fermo segno5,
senza troppa difficultà dà di sé da parlare, da mordere e
da riprendere a ciascuno che ciò disidera di fare. E per
ciò, come che ben facesse il valente uomo che lo inquisitore della ipocrita carità6 de’ frati, che quello danno a’
3
4
1 Nessun antecedente preciso può esser indicato per questa novella (molto vago è il richiamo al Novellino, XLIV, e alla Disciplina
clericalis di Pietro Alfonso, IV). Vanno però tenuti presenti i dati
storici sui protagonisti e sugli ambienti di cui alle note seguenti.
Nuova insolita, singolare: I 4,10 n., II 8,3 n.
2 trovata: Sacchetti, CCXXV: «nuovi avvisi hanno li piacevoli
uomini e specialmente i buffoni».
3 un bersaglio che non si muova mai: V 4,46 n.: e cfr. qui 4 n.
4 «E pur pe’ cherici che di sé danno abondevol materia di dire»
(M.): I 2,11; Purg., VII 110: «la vita sua viziata e lorda».
5 fermo (e quindi facile) bersaglio di ribalderia, di malizia, oppure
di viltà d’animo, di miseria: I 8,7 n. e 9: «la cattività de’ vilissimi ...
dir cattività e tristizie»; V 10,8: «ammendamento della cattività del
marito».
6 riguardo alla ipocrita carità: dipende logicamente da trafisse .
Letteratura italiana Einaudi
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5
6
poveri che converrebbe loro dare al porco o gittar via,
trafisse, assai estimo più da lodare colui del quale, tirandomi a ciò la precedente novella, parlar debbo: il quale
messer Cane della Scala, magnifico signore, d’una subita
e disusata avarizia in lui apparita morse con una leggiadra novella, in altrui figurando7 quello che di sé e di lui
intendeva di dire: la quale è questa.
Sì come chiarissima fama quasi per tutto il mondo
suona, messer Cane della Scala8, al quale in assai cose fu
favorevole la fortuna, fu uno de’ più notabili e de’ più
magnifichi signori che dallo imperadore Federigo secondo9 in qua si sapesse in Italia. Il quale, avendo disposto di fare una notabile e maravigliosa festa in Verona10,
e a quella molta gente e di varie parti fosse venuta11, e
7
proiettando su altri cioè narrando di altri, riferendo ad altri.
È naturale pensare, per la raffigurazione nobile e liberale di
Cangrande (1291-1329) in questa novella, alle alte lodi dantesche
(Par., XVII 76 sgg.) che insistono proprio sulla magnificenza del signore veronese (e forse lasciano qui anche qualche traccia verbale:
«Che notabili fier l’opere sue»; e cfr. anche Purg., VIII 123-32). E
tale sua generosità esaltano anche vari altri scrittori familiari al B.
(per es. Petrarca, Rerum memorandarum, II 83-84, III 97; G. Villani, X 139), o che sono particolarmente rappresentativi nella cultura del secolo (per es. Ferreto dei Ferreti e Benvenuto da Imola). E
cfr. in generale A. SCOLARI, Dante e Verona, Verona 1965.
9 Anche la liberalità di Federigo II fu magnificata da molti; dal
Novellino (II, XXI), da Salimbene da Parma (passim), da Dante
(Inf., XIII 75, De vulgari eloquentia, I XII), da G. Villani (VI 1); il
B. già aveva raffigurato l’imperatore nell’Amorosa Visione (XI 83).
Per magnifichi cfr. X 4,3 n.
10 Di Verona il B. parlò spesso anche altrove: dal Filocolo in cui,
com’è noto, è evocata sotto il nome di «Marmorina», a un’altra novella del D. (II 2,4), al Trattatello (I 74 e 113; II 54-55 e 67), al De
montibus (v. Athesis, Benacus), al De casibus (VIII 22), alle Esposizioni (VIII litt. 5; XII litt. 99; XV all. 101).
11 Non rari nel D. gli esempi di coordinazione, come qui («avendo disposto ... fosse venuta»), di gerundio e congiuntivo senza la
congiunzione che dovrebbe servire a rnettere il modo finito sullo
stesso piano del gerundio (per es. III 6,9 n. e 10,25 n.); e non rari
neppure quelli di coordinazione simile fra gerundio e indicativo
8
Letteratura italiana Einaudi 118
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata 1
7
massimamente uomini di corte d’ogni maniera12, subito,
qual che la cagion fosse, da ciò si ritrasse, e in parte provedette13 coloro che venuti v’erano e licenziolli. Solo
uno, chiamato Bergamino14, oltre al credere di chi non l’
udì15 presto parlatore e ornato, senza essere d’alcuna co(per es. II 2,20 n.). Cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, pp.
500 sgg.
12 Mentre è vano e impossibile determinare, come tentò il Manni, a quale festa il B. voglia alludere, è opportuno ricordare che era
uso di Signori, di Comuni e di privati, in occasione di vari avvenimenti, o ricorrenze, indire feste grandiose, invitando largamente
cortigiani, istrioni, buffoni ecc. Il B. ne narra alcune nel Filocolo,
svoltesi proprio a Marmorina, cioè a Verona; e il Sacchetti ambienta così una sua novella (CXLIV): «Quando messer Mastino era nel
colmo della rota nella città di Verona, facendo una sua festa, tutti i
buffoni d’Italia, come sempre interviene, corsono a quella per guadagnare». Anche il Petrarca (loc.cit.) dice che: «apud Canem Magnum veronensem, commune tunc afflictorum solamen ac profugium ... erant ... histriones se nebulones omnis generis ...» Di
splendide feste veronesi nel Trecento parlano spesso i cronisti locali pubblicati dal Muratori (Antiquitates, II, XXIX) e la Chronica
veronensis di Paride da Cerea (cod. 896 della Biblioteca Civica di
Verona): e cfr. anche V. FAINELLI, Verona e gli Scaligeri, Verona
1950. Famosa quella del 1328 in occasione della vittoria su Padova. Queste feste si chiamavano ‘corti’: e uomini di corte furono
dette le persone, dal buffone al dotto, che vi intervenivano per allietarle (I 8,7 sgg.): «gente di corte | Che sono use ed acorte sollazzar la gente» (Tesoretto, 1495): Annotazioni, pp. 65 sgg., e M.
SCHERILLO, in «Nuova Antologia», agosto-settembre 1901.
13 soddisfece con regali.
14 Nulla si sa attorno a questo Bergamino che doveva essere un
conteur o novellatore di professione, come appare in seguito (nota
subito presto parlatore e ornato). Bergamino è con tutta probabilità un soprannome: anzi il Rajna avanzò l’ipotesi che nel protagonista della novella sia da riconoscere «Nicolaus qui dicebatur Pergaminus», autore del Dialogus creaturarum («Giorn. Stor. Lett.
It.», X, 1887, pp 50 sgg.). Si ricordi anche il Sacchetti, LXVII: «...
un uomo di corte chiamato o Bergamino o Bergolino»: ma con tutta probabilità siamo di fronte a una derivazione dal D. (cfr. anche
CLII). Di tali novellatori il B. ne dovette conoscere vari alla corte
angioina (F. TORRACA, G. B. a Napoli, Napoli 1915, p. 140).
15 al di là d’ogni immaginazione da parte di chi non lo poté ascoltare.
Letteratura italiana Einaudi
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8
9
sa proveduto o licenzia datagli16, si rimase, sperando che
non senza sua futura utilità ciò dovesse essere stato fatto. Ma nel pensiero di messer Cane era caduto17 ogni cosa che gli si donasse vie peggio esser perduta che se nel
fuoco fosse stata gittata: né di ciò gli dicea o facea dire
alcuna cosa.
Bergamino dopo alquanti dì, non veggendosi né
chiamare né richiedere a cosa che a suo mestier partenesse18 e oltre a ciò consumarsi nello albergo co’ suoi cavalli e co’ suoi fanti19, incominciò a prender malinconia20; ma pure aspettava, non parendogli ben far di
partirsi. E avendo seco portate tre belle e ricche robe21,
che donate gli erano state da altri signori, per comparire
orrevole22 alla festa, volendo il suo oste esser pagato23,
16 senza che gli fosse data licenza. Gli «uomini di corte» non erano liberi di andarsene, ma dovevano attender la «licenza» del signore (Sacchetti, CXVII): cfr. due righe sopra e II 7,119 n. e 9,74
n.
17
a messer Cane era venuto in mente, s’era fitto in capo (cfr. II
6,48 n.). L’espressione vuole indicare un’idea nata senza riflessione, un’antipatia senza ragione, un capriccio (Par., XIV 4): tanto
l’atteggiamento è alieno dalla solita cortesia di Cangrande.
18 appartenesse, si riferisse: la forma semplice è assai rara.
19 servitori (cfr. Intr., 48 n.). Bergamino apparteneva dunque
all’aristocrazia dei conteurs: come, per esempio, Messer Dolcibene
dei Tori di cui novellò il Sacchetti (specie CLVI) e che appare anche nel Paradiso degli Alberti (III, p. 60). Per consumarsi cfr. V 9, 1
n.
20 umor nero: cfr. Proemio, II n. Solito l’uso di prendere con sostantivi che indicano diversi affetti o stati d’animo. Lo Zingarelli ricorda una situazione simile a quella di Bergamino cantata in una
tenzone provenzale di Ugo di San Circ col Visconte di Turenna
(Vescoms, moirs d’un mes ai estat ... ) Per malinconia cfr. anche II
6,19
21 vesti: cfr. II 5,17 n.
22 onorevole, cioè in abbigliamento decoroso: IX 4,6; Velluti, Cronica, p.186: «[eletto ambasciatore a Siena] vi andò molto orrevole». Corrente l’assimilazione: Intr., 35 n.
23 Sarebbe ipotesi attraente pensare che Bergamino alloggiasse in
quella locanda che, già nel Trecento, esisteva sulla piazza S. Anastasia, nell’edificio che sorgeva dove oggi è l’Albergo due Torri
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata 1
primieramente gli diede l’una e appresso, soprastando24
ancora molto più, convenne, se più volle col suo oste
tornare25, gli desse la seconda; e cominciò sopra la terza26 a mangiare, disposto di tanto stare a vedere quanto
quella durasse e poi partirsi.
10
Ora, mentre che egli sopra la terza roba mangiava,
avvenne che egli si trovò un giorno, desinando messer
Cane, davanti da lui27 assai nella vista28 malinconoso; il
qual messer Can veggendo, più per istraziarlo29 che per
diletto pigliare d’alcun suo detto, disse: «Bergamino,
che hai tu? tu stai così malinconoso! dinne alcuna cosa».
11
Bergamino allora, senza punto pensare30 quasi molto
tempo pensato avesse, subitamente in acconcio de’ fatti
suoi11 disse questa novella: «Signor mio, voi dovete sapere che Primasso fu un gran valente uomo in gramatica
e fu oltre a ogni altro grande e presto versificatore32: le
(cfr. C. CIPOLLA, Storia Scaligera, Venezia 1903, pp. 69 sg.). Vi
alloggiavano spesso persone che dovevano frequentare la corte scaligera, la quale si trovava a un centinaio di metri sulla «Via communis».
24 trattenendosi, indugiando.
25 alloggiare, albergare: II 5,8 n.; II 7,82 n.
26 cioè avendo dato in pegno la terza veste: II 3,13: «messo s’era in
prestare a baroni sopra castella e altre loro entrate».
27 Per la costruzione di d avanti col da cfr. V 6,41; V 8,40; Passavanti, Specchio, II 2: «ponite malfattore dinanzi da te». Probabilmente la scena è immaginata nel Palazzo che nei primi anni del
Trecento Cangrande si era fatto costruire in fondo a Piazza dei Signori.
28 aspetto (Intr., 59 n.)
29 schernirlo pungentemente: Petrarca, CXXVIII 68: «Peggio è lo
strazio, al mio parer, che ’l danno»; e VIII 3,57 n.
30 Difatti era presto parlatore, cioè aveva molta facilità e prontezza di parlare e di novellare.
31 a proposito del ..., traendo profitto per il suo caso: VI 10,33.
32 Nella prima metà del Duecento raggiunse grande notorietà
Primas, canonico di Colonia (Ugo d’Orléans?): il quale sotto il nome di Golias sarebbe stato autore di numerosi «canti goliardici» e
di vari poemetti in latino (difatti è detto valente uomo in gramatica). Salimbene da Parma (nella citata Cronica, pp. 117 sgg) ne par-
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata 1
quali cose il renderono tanto ragguardevole e sì famoso,
che, ancora che per vista in ogni parte conosciuto non
fosse, per nome e per fama quasi niuno era che non sa12 pesse chi fosse Primasso. Ora avvenne che, trovandosi
egli una volta a Parigi in povero stato, sì come egli il più
del tempo dimorava, per la vertù che poco era gradita
da coloro che possono assai33, udì ragionare d’uno abate
di Clignì, il quale si crede che sia il più ricco prelato di
sue entrate che abbia la Chiesa di Dio dal Papa in fuori34; e di lui udì dire maravigliose e magnifiche cose in
tener sempre corte e non esser mai a alcuno, che andasse là dove egli fosse, negato né mangiar né bere, solo
13 che35 quando l’abate mangiasse il domandasse. La qual
cosa Primasso udendo, sì come uomo che si dilettava di
vedere i valenti uomini e’ signori, diliberò di volere andare a vedere la magnificenza di questo abate e domandò quanto egli allora dimorasse presso a Parigi. A
la lungamente facendone un ritratto vivo e scapigliato: anzi ne dà
una definizione, «maximus versificator et velox», che è ripetuta
proprio dal B. Doveva essere una sua qualità proverbiale: anche da
altri è detto «in metris ... facundus et promtus» (cfr. Chronica Richardi Pictaviensis, in Mon. Germ. Hist., XXVI LXXXI, pp 36
sgg.). Cfr. anche A. STRACCALI, I Goliardi, Firenze 1880; S. DE
BENEDETTI, in «Giorn. Stor. Lett. It.», LXXIV, 1919, p. 138; G.
VINAY, Ugo Primate, in «Cultura Neolatina», IX, 1949.
33 È un cenno discreto, o meglio un invito sottinteso, a Cangrande; anche lui è di coloro che possono assai; ma con quel passato
‘era’ Bergamino sembra esortarlo ad esser diverso da quei signori
antichi. Il motivo della virtú poco gradita ai potenti era comune alla letteratura medievale: dal Novellino al Petrarca (locc. citt.). Per la
costruzione cfr. Mussafia, pp. 538 sgg.
34 L’esaltazione della famosa abbazia benedettina nel sud-est della Francia (che ebbe diramazioni in tutto l’Occidente e tanto operò
per la cultura e l’arte) e della magnificenza dei suoi abati è un altro
luogo comune nella letteratura medievale. Il B. la riprenderà anche
nella X 2.
35 purché (lat. modo ut): modo frequente nel B.
Letteratura italiana Einaudi 122
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata 1
che gli fu risposto che forse a sei miglia, a un suo luogo36; al quale Primasso pensò di potervi essere, moven14 dosi la mattina a buona ora, a ora di mangiare. Fattasi
adunque la via insegnare, non trovando alcun che v’andasse, temette non per isciagura gli venisse smarrita e
quinci potere andare in parte dove così tosto non troveria da mangiare; per che, se ciò avvenisse, acciò che di
mangiare non patisse disagio, seco pensò di portare tre
pani37, avvisando che dell’acqua, come che ella gli piacesse poco38, troverebbe in ogni parte da bere. E quegli
messisi in seno, prese il suo cammino e vennegli sì ben
fatto, che avanti ora di mangiare pervenne là dove l’aba15 te era. E entrato dentro andò riguardando per tutto, e
veduta la gran moltitudine delle tavole messe e il grande
apparecchio della cucina e l’altre cose per lo desinare
apprestate, fra se medesimo disse: ‘Veramente è questi
16 così magnifico come uom39 dice’ . E stando alquanto intorno a queste cose attento, il siniscalco dell’ abate, per
ciò che ora era di mangiare40, comandò che l’acqua si
desse alle mani; e, data l’acqua41, mise ogn’uomo a tavola. E per avventura avvenne che Primasso fu messo a sedere appunto dirimpetto all’uscio della camera donde
36 che abitava circa alla distanza di sei miglia, in un suo convento;
per questo valore di luogo cfr. I 1,75 n.
37 Altro accenno discretissimo di Bergamino alle sue vicende (tre
le vesti, tre i pani).
38 A Primasso – oltre vari carmina potatoria – è attribuito proprio
un contrasto tra l’acqua e il vino: cfr. F. NOVATI, Carmina Medii
Aevi, Firenze 1883, pp 52 sgg.
39 Pronome indeterminato, con valore simile all’on francese (si
dice): è costrutto frequente nell’antico italiano (R. SCHLAEPFER,
Die Ausdrucksformen lür ‘man’ im Italienischen, Bern 1933; C.
MARGUERON, Quelques exemples d’impersonnels, in Mélanges
... à Mario Roques, Paris 1952, IV, pp. 169 sgg.; Rohlfs, 516).
40 Periodo aperto con una serie di tre endecasillabi.
41 Per tutti questi particolari (le molte tavole, il siniscalco, il dare
acqua alle mani) cfr. Intr., 99 sgg. e nn.
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata 1
l’abate dovea uscire per venire nella sala a mangiare. Era
in quella corte questa usanza, che in su le tavole vino né
pane né altre cose da mangiare o da ber si ponea42 già
mai, se prima l’abate non veniva a sedere alla tavola.
Avendo adunque il siniscalco le tavole messe, fece dire
all’abate che, qualora gli piacesse, il mangiare era
18 presto43. L’abate fece aprir la camera per venire nella sala: e venendo si guardò innanzi e per ventura il primo
uomo che agli occhi gli corse fu Primasso, il quale assai
male era in arnese44 e cui egli per veduta non conoscea:
e come veduto l’ebbe, incontanente gli corse nello animo un pensier cattivo e mai più non statovi45, e disse se19 co: ‘Vedi a cui io do mangiare46 il mio!’ E tornandosi
adietro, comandò che la camera fosse serrata e domandò coloro che appresso lui erano se alcuno conoscesse quel ribaldo47 che arrimpetto all’uscio della sua
17
42
erano poste. Per l’uso di questi riflessivi impersonali al posto di
passivi cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 210.
43 apprestato, pronto.
44 Arnese sono in origine l’armatura e le armi di offesa (II 8,98:
«... di famiglia e di cavalli e d’arnesi rimesso fosse in assetto»); qui
sta naturalmente per veste, abito: cfr. II 3, 16 n.: «assai poveramente in arnese»; VI 10,23 n.: «rivestir la voleva e rimetterla in arnese».
Singolare coincidenza: proprio Primasso «de paupere mantello ...
declamatorie composuit» (Chronica Richardi Pictaviensis cit.).
45 Proprio insolito e capriccioso come il sentimento che «nel
pensiero di messer Cane era caduto» (7).
46 Per questa particolare costruzione cfr. II 7,26 n. e in generale
F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, pp 216 sgg., e Annotazioni
sintattiche sul D., in «Studi sul B.», II, 1964.
47 I ribaldi (arlots e ribauds in francese) erano gli straccioni che
accompagnavano le truppe per profittare dei saccheggi. Nel B. ha
il valore di povero, straccione; cioè «chi senz’arte onesta, vivesse alla giornata» (M. BARBI, Problemi di critica dantesca, I, Firenze
1934, pp 212 e 242): X 8,82: «... se egli a un villano, a un ribaldo, a
un servo data l’avesse [in moglie]?» e II 6,61 n.; Cenne della Chitarra, Sonetto di Gennaio: «star come ribaldo en arnese, | Con panni rotti, senza alcun danaio». Per simili vicende che si narrano come accadute a Dante, cfr., oltre i luoghi petrarcheschi cit., G.
PAPANTI, Dante secondo la tradizione, Livorno 1873, pp. 65 sgg.
Letteratura italiana Einaudi 124
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata 1
camera sedeva alle tavole. Ciascuno rispose del no48.
Primasso, il quale avea talento di mangiare, come colui
che camminato avea e uso non era di digiunare49, avendo alquanto aspettato e veggendo che lo abate non veniva, si trasse di seno l’un de’ tre pani li quali portati aveva
20 e cominciò a mangiare 50. L’abate, poi che alquanto fu
stato, comandò a uno de’ suoi famigliari che riguardasse
se partito si fosse questo Primasso. Il famigliare rispose:
‘Messer no, anzi mangia pane, il quale mostra51 che egli
seco recasse’. Disse allora l’abate: ‘Or mangi del suo, se
22 egli n’ha, ché del nostro non mangerà egli oggi’. Avrebbe voluto l’abate che Primasso da se stesso si fosse partito, per ciò che accomiatarlo non gli pareva far bene. Primasso, avendo l’un pane mangiato e l’abate non
vegnendo, cominciò a mangiare il secondo: il che similmente all’abate fu detto, che fatto avea guardare se par23 tito si fosse. Ultimamente52, non venendo l’abate, Primasso, mangiato il secondo cominciò a mangiare il
terzo: il che ancora fu all’abate detto, il quale seco stesso
cominciò a pensare e a dire: ‘Deh questa che novità è
oggi che nell’anima m’è venuta? che avarizia, chente53
sdegno, e per cui? Io ho dato mangiare il mio, già è
molt’anni, a chiunque mangiar n’ha voluto, senza guar48 Modo frequente accanto a di no, di sì: I 6,7; IV 6,33 n.; Inf.,
XXI 42 (e cfr. Barbi, p. 78).
49 Altro accenno alle leggendarie abitudini goderecce e da crapulone di Primasso, fatto sul ritmo di tre endecasillabi di seguito.
50 Il rapporto fra le tre vesti di Bergamino e i tre pani di Primasso si fa di qui innanzi sempre più chiaro: difatti alla fine Cangrande
dirà: «assai acconciamente hai mostrati i danni tuoi» (27). E cfr. II
8,29 n.; e per il tema popolare Thompson, J 1575.
51 sembra, appare. Impersonale, a forma attiva, con complemento
predicativo ma senza particella pronominale-. uso frequente nel D.
(per es. Intr.,74; IV 7,31; IV 10,36; VIII 7,107). Cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, pp. 153 sgg.
52 Alla fine: II 6,24 n.
53 quale; ma cfr. Intr., 55 n.
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata 1
dare se gentile uomo è o villano, o povero o ricco, o
mercatante o barattiere54 stato sia, e a infiniti ribaldi con
l’occhio me l’ho veduto straziare55, né mai nell’ animo
m’entrò questo pensiero che per costui mi c’è entrato.
24 Fermamente56 avarizia non mi dee avere assalito per uomo di piccolo affare, qualche gran fatto57 dee esser costui che ribaldo mi pare, poscia che così mi s’è rintuzza25 to58 l’animo d’onorarlo’. E così detto, volle saper chi
fosse; e trovato che era Primasso, quivi venuto a vedere
della sua magnificenza quello che n’aveva udito, il quale
avendo59 l’abate per fama molto tempo davante per valente uom conosciuto, si vergognò, e vago di far l’amen26 da, in molte maniere s’ingegnò d’onorarlo. E appresso
mangiare, secondo che alla sufficienza60 di Primasso si
conveniva, il fé nobilmente vestire e, donatigli denari e
61 pallafreno, nel suo albitrio rimise l’andare e lo stare62.
54 Vagabondo, miserabile faccendiere: IX 8,13: «con un saccente
barattier si convenne del prezzo ...»; Sacchetti, CLXXIV.
55
l’ho veduto coi miei occhi sciupare, rovinare. È normale nel B.
l’ausiliare avere con vedere e coi riflessivi.
56 Certamente.
57 qualche gran cosa, qualche pezzo grosso.
58 soffocato, ottuso (lat. Retundere): V 9,37: «la grandezza
dell’animo suo, la quale la povertà non avea potuto né potea rintuzzare»; e per l’immagine simile cfr. anche Par., XXII 25-26: «Io
stava come quei che ’n sé repreme | La punta del disio».
59 Il pronome relativo collega la principale alla subordinata non
direttamente ma per il tramite d’una subordinata intermedia che
precede immediatamente la principale (G. GHINASSI, Casi di
«paraipotassi relativa» in italiano antico, in «Studi di Grammatica
Italiana», 1, 1971; e cfr. anche Mussafia, pp 466 sgg., e X 10, 16
n.).
60 valore, pregio, e qui anche condizione, rango: Fiammetta, V
28,1: «la cui sufficienza alla sua età giovinetta impetrava sì fatto
luogo».
61 Cavallo da viaggio: «Sono cavalli di molte maniere, ché tali sono destrieri grandi per combattere, e tali sono palafreni da cavalcare per agio del corpo, e tali sono ronzini per portar soma» (Tesoro
volg. da Bono Giamboni, V 53). Era uno dei regali di prammatica:
X 1 e 9; Novellino XX; Sacchetti, XLII ecc.
62 Modo signorile e cortese d’uso: X 2,23: «sia l’andare e lo stare
Letteratura italiana Einaudi 126
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata 1
Di che Primasso contento, rendutegli quelle grazie le
quali poté maggiori, a Parigi, donde a piè partito s’era,
ritornò a cavallo».
27
Messer Cane, il quale intendente63 signore era, senza
altra dimostrazione alcuna ottimamente intese ciò che
dir volea Bergamino: e sorridendo gli disse: «Bergamino, assai acconciamente64 hai mostrati i danni tuoi, la
tua virtù e la mia avarizia e quel che da me disideri: e veramente mai più che ora per te da avarizia assalito non
fui, ma io la caccerò con quel bastone che tu medesimo
28 hai divisato65». E fatto pagare l’oste di Bergamino e lui
nobilissimamente d’una sua roba vestito, datigli denari e
un pallafreno, nel suo piacere per quella volta rimise
l’andare e lo stare66. –
nel piacer vostro». Era del resto «frase d’uso propria del cerimoniale diplomatico: cfr. Brunetto Latini, Tesoro (volg. di Bono
Giamboni) ‘quando gli ambasciatori hanno parlato al consiglio, il
signore dee rispondere e dire ch’elli sono signori dell’andare e del
stare’» (Sapegno).
63 buon intenditore, intelligente, perspicace: VI 9,15 n.
64 Difatti fin dal principio (2) il B. aveva detto: «Bergamino ... in
acconcio de’ fatti suoi disse questa novella».
65 immaginato e indicato: V 5,32 n.; VI concl., 19; Fiammetta, V
27,9.
66 Studiata ripresa della conclusione del racconto di Bergamino
(26).
Letteratura italiana Einaudi
127
NOVELLA OTTAVA
1
Guglielmo Borsiere con leggiadre parole trafigge l’avarizia di
messer Erminio de’ Grimaldi1.
2
Sedeva appresso Filostrato Lauretta, la quale, poscia
che udito ebbe lodare la ’ndustria2 di Bergamino e sentendo a lei convenir dire alcuna cosa, senza alcuno comandamento aspettare piacevolmente così cominciò a
parlare:
– La precedente novella, care compagne, m’induce a
voler dire come un valente uomo di corte similemente, e
non senza frutto, pugnesse d’un ricchissimo mercatante
la cupidigia; la quale3 perché l’effetto della passata somigli, non vi dovrà per ciò esser men cara, pensando che
bene n’adivenisse alla fine.
Fu adunque in Genova, buon tempo è passato, un
gentile uomo chiamato messere Ermino de’ Grimaldi4, il
quale, per quello che da tutti era creduto, di grandissi-
3
4
1 La pungente battuta di Guglielmo Borsieri è ripetuta come storica da vari dei commentatori danteschi all’Inf., XVI 70-72 (per es.
da Benvenuto da Imola e dal Landino; ma non dal B. stesso): non
se ne trova però altra notizia. Cfr. Thompson e Rotunda, J 1576.
La novella non è forse che una variazione sul blasone di taccagneria tradizionale per i genovesi. Ma cfr. il sonetto di Folgore Cortesia, cortesia.
2 lo stratagemma, l’accorgimento: II concl., 9 n.
3 Concessivo: benché: e cfr. III 1,24 n.; Mussafia, pp. 500 sgg.
4 I Grimaldi furono fra le più antiche e potenti famiglie patrizie
genovesi, e fino alla metà del Trecento mirarono alla supremazia
nella Repubblica. Furono in rapporto coi fiorentini in varie azioni
contro i pisani: e anzi nel 1365 proprio il B. ebbe dalla Signoria
una missione presso il Doge di Genova in favore di alcuni Grimaldi perseguitati per quelle loro intese. Nelle genealogie dei Grimaldi non compare nessun Ermino nella seconda metà del Duecento
(Guglielmo Borsieri morì ai primi del 1300); Erminio era però un
nome di famiglia (così si chiamò per es. il figlio di Grimaldo II).
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5
6
7
me possessioni e di denari di gran lunga trapassava la
ricchezza d’ogni altro ricchissimo cittadino che allora si
sapesse in Italia. E sì come egli di ricchezza ogni altro
avanzava5 che italico fosse, così d’avarizia e di miseria6
ogni altro misero e avaro che al mondo fosse soperchiava oltre misura: per ciò che non solamente in onorare altrui teneva la borsa stretta, ma nelle cose opportune alla
sua propria persona, contra il general costume de’ genovesi che usi sono di nobilmente vestire, sosteneva egli
per non ispendere difetti grandissimi7, e similmente nel
mangiare e nel bere. Per la qual cosa, e meritamente, gli
era de’ Grimaldi caduto il soprannome8 e solamente
messer Ermino Avarizia9 era da tutti chiamato.
Avvenne che in questi tempi, che costui non ispendendo il suo multiplicava, arrivò a Genova un valente
uomo di corte e costumato e ben parlante, il quale fu
chiamato Guiglielmo Borsiere10, non miga11 simile a
5
superava.
grettezza, spilorceria.
7 privazioni grandissime: cfr. Convivio, IV IV 2.
8 cognome: Par., XV 137 sg.: «Mia donna venne a me di Val di
Pado, | E quindi il sopranome tuo si feo»; e Purg., XVI 139.
9 Per questo tipo popolare di «nome parlante» usato anche altra
volta dal B. cfr. G. HERCZEG, I cosiddetti «nomi parlanti» nel D.
È però l’unica volta che la costruzione paratattica usi un sostantivo
astratto.
10 Anche nell’Inf. (XVI 70-72), Guglielmo Borsiere, morto da
poco, è nominato mentre Jacopo Rusticucci lamenta che «cortesia
e valore» erano ormai scomparsi. Il B. nelle Esposizioni (XVI 54
sgg.) così ne parla, non senza un’eco da questa novella: «Questi fu
cavalier di corte, uomo costumato molto e di laudevol maniera; ed
era il suo essercizio, e degli altri suoi pari, il trattar paci tra grandi e
gentili uomini, trattar matrimoni e parentadi e talora con piacevoli
e oneste novelle recreare gli animi de’ faticati e confortargli alle cose onorevoli; il che i moderni non fanno, anzi ...» Tali notizie ripetono all’incirca gli altri commentatori trecenteschi. Per uomo di
corte cfr. I 7,6 n.; e per la presenza di atteggiamenti danteschi anche più avanti cfr. 16 n.
11 Sonorizzazione della velare caratteristica nel B.: cfr. Teseida, p.
CXXX e Testi fiorentini, p. XXVIII.
6
Letteratura italiana Einaudi
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quegli li quali sono oggi, li quali, non senza gran vergogna de’ corrotti e vituperevoli costumi di coloro li quali12 al presente vogliono essere gentili uomini e signor
chiamati e reputati, son più tosto da dire asini nella
bruttura di tutta la cattività13 de’ vilissimi uomini alleva8
ti che nelle corti. E là dove a que’ tempi soleva essere il
lor mestiere e consumarsi la lor fatica in trattar paci, dove guerre o sdegni14 tra gentili uomini fosser nati, o trattar matrimonii, parentadi e amistà, e con belli motti e
leggiadri ricreare gli animi degli affaticati e sollazzar le
corti e con agre riprensioni, sì come padri, mordere i di9
fetti de’ cattivi, e questo con premii assai leggieri; oggi di
rapportar male dall’uno all’altro, in seminare zizzania15,
in dir cattività e tristizie, e, che è peggio, in farle nella
presenza degli uomini, in rimproverare i mali, le vergogne e le tristezze vere e non vere l’uno all’altro e con false lusinghe gli animi gentili alle cose vili e scelerate ri10 trarre s’ingegnano il lor tempo di consumare16. E colui è
più caro avuto e più da’ miseri17 e scostumati signori
onorato e con premi grandissimi essaltato, che più abominevoli parole dice o fa atti: gran vergogna e biasimevole del mondo presente, e argomento assai evidente
12 «Nota in loda de’ buffoni antichi, e in biasimo de’ moderni»
(M., che a margine segna il testo fino al par. 11).
13 malvagità, ribalderia, come più sotto cattivi. Ma qui il sostantivo ha anche una sfumatura di miseria: VI 10,23: «rimetterla in arnese e trarla di quella cattività»; I 7,4 n.
14 Petrarca, CXXVIII 104: «Piacciavi porre giú l’odio e lo sdegno». Si ricordi che tanto Dante che il Petrarca e il B. ebbero incarichi simili.
15 scandali, discordie: immagine comune dopo la parabola evangelica. Da notare uno dei cambiamenti di costruzione nelle dipendenti non rari nel B. (di rapportar ... in seminare): e cfr. II 1,6 n.; II
9,16 n.
16 «Costoro consumavano il tempo ma quelli la fatica» (Rua).
17 sordidi: X 3,31: «a amassar denari, come i miseri fanno».
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che le virtù ,di qua giù dipartitesi, hanno nella feccia de’
vizii i miseri viventi abbandonati18.
Ma tornando a ciò che io cominciato avea, da che
giusto sdegno un poco m’ha trasviata più che io non credetti, dico che il già detto Guiglielmo da tutti i gentili
uomini di Genova fu onorato e volentier veduto 19: il
quale, essendo dimorato alquanti giorni nella città e
avendo udite molte cose della miseria e della avarizia di
messer Ermino, il volle vedere. Messer Ermino aveva già
sentito come questo Guiglielmo Borsiere era valente uomo; e pure avendo in sé, quantunque avaro fosse, alcuna
favilluzza di gentilezza, con parole assai amichevoli e
con lieto viso20 il ricevette e con lui entrò in molti e varii
ragionamenti, e ragionando il menò seco, insieme con
altri genovesi che con lui erano, in una sua casa nuova,
la quale fatta avea fare assai bella.
E, dopo avergliele tutta mostrata, disse: «Deh, messer Guiglielmo, voi che avete e vedute e udite molte cose, saprestemi voi insegnare cosa alcuna che mai più non
fosse stata veduta21, la quale io potessi far dipignere nella sala di questa mia casa?»
A cui Guiglielmo, udendo il suo mal conveniente22
parlare, rispose: «Messere, cosa che non fosse mai stata
18 «Si confronti questa eloquente digressione del B. con i lamenti
di Dante sulla decadenza delle corti: Inf., XVI 67 sgg.; Purg., XIV
109 sgg. e XVI 115 sgg.; Convivio, II X 8» (Sapegno).
19 visitato, come più sotto vedere. La frase era quasi una formula:
cfr. Velluti, p. 212: «... a Palagio ove dai Giudici fui veduto e onorato».
20 Anche questa è espressione prediletta dal B.: Intr., 87; I 5,3;
IV 3,30; V 9,2 ecc.: cfr. Inf., III 20.
21 Uno degli esempi caratteristici di forme con ‘stato’ del congiuntivo e del condizionale: cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 189.
22 inopportuno, perché borioso per l’ostentazione delle possibilità finanziarie.
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veduta non vi crederrei io sapere insegnare, se ciò non
fosser già starnuti o cose a quegli simiglianti; ma, se vi
piace, io ve ne insegnerò bene una che voi non credo
che vedeste giammai».
Messere Ermino disse:«Deh, io ve ne priego, ditemi
quale è dessa», non aspettando lui quello dover rispondere che rispose.
A cui Guiglielmo allora prestamente disse: «Fateci
dipignere la Cortesia23».
Come messere Ermino udì questa parola, così subitamente il prese una vergogna tale, che ella ebbe forza di
fargli mutare animo quasi tutto in contrario a quello che
infino a quella ora aveva avuto, e disse: «Messer Guiglielmo, io la ci farò dipignere in maniera che mai né voi
né altri con ragione mi potrà più dire che io non l’abbia
veduta e conosciuta».
E da questo dì innanzi, di tanta virtù fu la parola da
Guiglielmo detta, fu il più liberale e ’l più grazioso24
gentile uomo e quello che più e’ forestieri e i cittadini
onorò che altro che in Genova fosse a’ tempi suoi. –
23 «Cortesia e onestade è tutt’uno: e però che ne le corti anticamente le vertudi e li belli costumi s’usavano, sì come oggi s’usa lo
contrario, si tolse quello vocabulo da le corti, e fu tanto a dire ‘cortesia’ quanto uso di corte» (Convivio, II x 8); «Cortesia par che
consista negli atti civili, cioè nel vivere insieme liberalmente e lietamente, e fare onore a tutti secondo la possibilità» (Esposizioni,
XVI 53).
24 affabile, gentile, compiacente: cfr. IV 6,23 n.; Convivio, IV
XXV 1.
Letteratura italiana Einaudi 132
NOVELLA NONA
1
Il re di Cipri, da una donna di Guascogna trafitto, di cattivo
valoroso1 diviene.
2
A Elissa restava l’ultimo comandamento della reina;
la quale, senza aspettarlo, tutta festevole cominciò:
– Giovani donne, spesse volte già addivenne che
quello che varie riprensioni e molte pene date a alcuno
non hanno potuto in lui adoperare, una parola molte
volte, per accidente non che ex proposito detta, l’ha operato. Il che assai bene appare nella novella raccontata
dalla Lauretta, e io ancora con un’altra assai brieve ve lo
intendo dimostrare: perché , con ciò sia cosa che le buone sempre possan giovare, con attento animo2 son da ricogliere3, chi che d’esse sia il dicitore.
Dico adunque che ne’ tempi del primo re di Cipri4,
3
4
1 tardo, pusillanime, come il B. spiega più avanti (5) e nelle Esposizioni (III litt. 25) a proposito «d’i cattivi» dell’inf., III 62. La novella, la più breve del D., era già narrata in poche righe nel Novellino (LI). E del resto il tema riferito a giudici, governatori e simili è
diffuso nella novellistica: cfr. Rotunda, J 1284.1*.
2 Due endecasillabi di seguito accentuano il tono sentenzioso di
questa conclusione del prologo.
3 ascoltare e meditare, comprendere: Par., IV 88-89: «E per queste
parole, se ricolte | L’hai come dei ...»: e cfr. I 5,16 n.
4 Primo re di Cipro fu, com’è noto, dal 1192 al 1194, Guido di
Lusignano, già re di Gerusalemme. La sua incapacità e la sua debolezza furono famose e ben rispondono a quanto ne dice il B.; ma
invece non v’è traccia d’un suo mutamento in meglio. Si ricordi
che il B. fu in rapporti cordiali coi Signori di Cipro della sua età
(legati di parentela agli Angioini di Napoli): basti ricordare Amorosa Visione, XLIV 1-6 e la dedica a Ugo di Lusignano della Genealogia (F. TORRACA, G. B. a Napoli cit.; J. R. RODD, Tbe princes
of Achaia, London 1907); e di loro scrisse nello Zibaldone ora Magliabechiano (per es. cc. 199, 207, 220). La forma Cipri è costante
nel D. (II 4 e 7; III 7; V 1; X 9); cfr. Inf., XXVIII 82.
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5
6
dopo il conquisto fatto della Terra Santa da Gottifrè di
Buglione5, avvenne che una gentil donna di Guascogna
in pellegrinaggio andò al Sepolcro, donde tornando, in
Cipri arrivata, da alcuni scellerati uomini villanamente
fu oltraggiata. Di che ella senza alcuna consolazion dolendosi, pensò d’andarsene a richiamare6 al re; ma detto
le fu per alcuno che la fatica si perderebbe7, perciò che
egli era di sì rimessa vita e da sì poco bene8, che, non che
egli l’altrui onte con giustizia vendicasse, anzi infinite
con vituperevole viltà a lui fattene sosteneva, in tanto
che chiunque avea cruccio alcuno, quello col fargli alcuna onta o vergogna sfogava.
La qual cosa udendo la donna, disperata della vendetta9, a alcuna consolazione della sua noia10 propose di
voler mordere la miseria11 del detto re; e andatasene piagnendo davanti a lui, disse: «Signor mio, io non vengo
nella tua presenza per vendetta che io attenda della ingiuria che m’è stata fatta; ma in sodisfacimento12 di
5 L’accenno generico alla prima crociata e alla conquista di Gerusalemme (1099) serve a dare alla novella uno sfondo storico.
Goffredo (il B. usa sempre la forma francesizzata del nome) era già
stato solennemente presentato nel Trionfo della Gloria dell’Amorosa Visione (XI 76 sgg.), e apparirà poi nel De casibus (IX 21). Per
l’assunzione di Goffredo nel regno della leggenda medievale cfr.
K. NYROP, Storia dell’epopea francese nel Medioevo, Firenze
1886, pp 214 sgg.
6 querelare, dolersi: termine giuridico.
7 Con una sfumatura di «dativo etico»: cfr. F. BRAMBILLA
AGENO, Il verbo, p. 146.
8 d’indole così pusillanime, remissiva, e così poco capace di far del
bene, così dappoco.
9 perduta la speranza di aver giustizia: II 8,42 n.; III 6,7 n.: «cominciò a mostrarsi dell’amor di Catella disperato». «Vendicare
(cfr. 5) per punire e vendetta per punizione e giustizia sono comuni
negli antichi» (Sapegno).
10 per alleviare in qualche modo il suo cruccio.
11 dappocaggine.
12 in compenso.
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7
quella ti priego che tu m’insegni come tu sofferi quelle
le quali io intendo che ti son fatte, acciò che, da te apparando13, io possa pazientemente la mia comportare: la
quale, sallo Idio, se io far lo potessi, volentieri te la donerei, poi così buono portatore14 ne se’».
Il re, infino allora stato tardo e pigro, quasi dal sonno si risvegliasse15, cominciando dalla ingiuria fatta a
questa donna, la quale agramente16 vendicò, rigidissimo
persecutore divenne di ciascuno che contro allo onore
della sua corona alcuna cosa commettesse da indi innanzi. –
13
imparando.
poiché così buon sopportatore.
15 Cfr. Prov., VI 9; e Inf., IV 1: e anche qui II, 5,52.
16 severamente, aspramente: II 3,11 n. «agramente cominciarono
a prestare a usura».
14
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NOVELLA DECIMA
1
Maestro Alberto da Bologna onestamente fa vergognare una
donna, la quale lui d’esser di lei innamorato voleva far vergognare1.
2
Restava, tacendo già Elissa, l’ultima fatica del novellare alla reina; la quale, donnescamente2 cominciando a
parlar disse:
– Valorose giovani, come ne’ lucidi sereni3 sono le
stelle ornamento del cielo e nella primavera i fiori ne’
verdi prati, così de’ laudevoli costumi e de’ ragionamenti piacevoli sono i leggiadri motti. Li quali, per ciò che
brievi sono, molto meglio alle donne stanno che agli uomini, in quanto più alle donne che agli uomini il molto
3
4
1 L’unico vago antecedente di questa novella si vuol vedere
nell’usanza greca, largamente testimoniata nella letteratura, di stabilire in certe feste una gara a chi portasse i maggiori porri a Latona, in ricordo d’una sua voglia durante la gravidanza d’Apollo
(Ateneo, IX 3). Ma forse il detto di maestro Alberto rispondeva a
un’immagine quasi proverbiale, non senza allusione sessuale, usata
dal B. anche per se stesso: cfr. IV intr., 33 n. Il tema generale, del
resto, sembra corrente nella novellistica (Rotunda, J 1221*).
2 con grazia tutta femminile: avverbio attribuito spesso dal B. alle sue novellatrici: III 5,2; IV intr., 45; e cfr. anche Teseida, III 29;
Purg., XXXIII 135.
3 «Nota tutto il Prolago di questa novella qualunque se’ donna lisciatrice o ciarlatrice» (M.). Sereno sostantivato «si dice del cielo e
dell’aria pura, chiara e senza nuvoli» (T.): Par., XV 13-14: «Quale
per li seren tranquilli e puri | Discorre ad ora ad or subito foco»; e,
sempre alludendo a notte limpida, nella VIII 7,24: «dove fuggire il
sereno». È un classico esempio di «determinatio» e di «ornatus facilis» secondo la più canonica retorica medievale (E. FARAL, Les
Arts Poétiques, p. 27).
Letteratura italiana Einaudi 136
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata 1
5
6
parlare e lungo, quando senza esso si possa far, si disdice, come che oggi poche o niuna donna rimasa ci sia la
quale o ne ’ntenda alcuno leggiadro o a quello, se pur lo
’ntendesse, sappia rispondere: general vergogna è di noi
e di tutte quelle che vivono4. Per ciò che quella vertù
che già fu nell’anime delle passate hanno le moderne rivolta in ornamenti del corpo; e colei la quale si vede indosso li panni più screziati e più vergati5 e con più fregi
si crede dovere essere da molto più tenuta e più che l’altre onorata, non pensando che, se fosse chi addosso o
indosso gliele ponesse, uno asino ne porterebbe troppo
più che alcuna di loro: né per ciò più da onorar sarebbe
che uno asino6. Io mi vergogno di dirlo, per ciò che contro all’altre non posso dire che io contro a me non dica:
queste così fregiate, così dipinte, così screziate o come
statue di marmo mutole e insensibili stanno o sì rispondono, se sono addomandate, che molto sarebbe meglio
l’avere taciuto; e fannosi a credere7 che da purità d’animo proceda il non saper tralle donne e co’ valenti uomini favellare, e alla loro milensaggine8 hanno posto nome
onestà, quasi niuna donna onesta sia se non colei che
4 «Deh nota bene donna che leggi» (M.). Questo accorato rimpianto – uno dei vari che punteggiano la prima giornata – sarà ripetuto quasi alla lettera da Filomena, la «fedele» di Pampinea,
all’inizio della sesta giornata (VI 1,1-4): cioè di quella in cui è celebrato «chi con alcun leggiadro motto, tentato, si riscotesse, o con
pronta risposta o avvedimento fuggì perdita o pericolo o scorno»,
come in varie novelle di questa giornata.
5 di più colori diversi e più striati, dipinti a strisce.
6 Il tono di questa rampogna ricorda alcune pagine del Corbaccio
(209 sgg.), la intemerata contro il lusso dei frati nella III 7, e anche
Par., XV 100 sgg. «Porre addosso è porre sulla schiena come per
soma; e porre indosso è adattare al corpo, come si fa degli abiti»
(Fanfani).
7 s’inducono a credere: frase identica nell’Intr., 62 n.
8 sciocchezza, balordaggine: I concl., 5 n.: «acciò che milensa non
paresse»; V 10,17: «non vorrei che tu credessi che io fossi stata una
milensa».
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata 1
con la fante o con la lavandaia o con la sua fornaia favella: il che se la natura avesse voluto, come elle si fanno a
credere, per altro modo loro avrebbe limitato il cinguet7
tare9. È il vero che, così come nell’altre cose, è in questa
da riguardare e il tempo e il luogo e con cui si favella,
per ciò che talvolta avviene che, credendo alcuna donna
o uomo con alcuna paroletta10 leggiadra fare altrui arrossare11, non avendo bene le sue forze con quelle di
quel cotal misurate, quello rossore che in altrui ha cre8
duto gittare sopra sé l’ha sentito tornare. Per che, acciò
che voi vi sappiate guardare, e oltre a questo acciò che
per voi non si possa quello proverbio intendere che comunemente si dice per tutto, cioè che le femine in ogni
cosa sempre pigliano il peggio12, questa ultima novella
di quelle d’oggi, la quale a me tocca di dover dire, voglio
ve ne renda ammaestrate, acciò che, come per nobiltà
d’animo dall’altre divise siete, così ancora per eccellenzia di costumi separate dall’altre vi dimostriate.
9
Egli non sono ancora molti anni passati che in Bologna fu un grandissimo medico e di chiara fama quasi a
tutto il mondo, e forse ancora vive, il cui nome fu mae10 stro Alberto13. Il quale, essendo già vecchio di presso a
9 «Nota tu femina ciarlatrice» (M.). Era verbo già usato nel Trecento con questo valore caricaturale: cfr. per es. F. DA BARBERINO, Reggimento e costumi di donna, Torino 1957, p. 34 «E ella pure cinguettava e mostrava di non intenderci».
10 Questo diminutivo è usato dal B. sempre in senso grazioso e
pungente insieme: I 5,1 e 3 n.; Concl., 5; e cfr. Par., I 95.
11 arrossire: il B., come Dante, usa la forma «arrossare»: I concl.,
5; II concl., 2; III 2,2; IX 3,22; Comedia, xx 6; Corbaccio, 214.
12 «Ovvio riportare il proverbio ed il motivo alla tradizione misogina medievale, che nei primi secoli della nostra civiltà s’era imbevuta di spiriti giocosi» (Marti). Cfr. del resto Filocolo, III 9. La novella è, come varie altre, un «exemplum» storico a dimostrazione
del proverbio o della sentenza iniziale.
13 Si può identificare assai probabilmente con maestro Alberto
de’ Zancari, nato attorno al 1280, addottorato prima del 1310, che
Letteratura italiana Einaudi 138
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata 1
settanta anni, tanta fu la nobiltà del suo spirito14 che, essendo già del corpo quasi ogni natural caldo partito, in
sé non schifò15 di ricevere l’amorose fiamme: avendo veduta a una festa una bellissima donna vedova chiamata,
secondo che alcuni dicono, madonna Malgherida dei
Ghisolieri16 e piaciutagli sommamente, non altrimenti
che un giovinetto quelle nel maturo petto ricevette, in
tanto che a lui non pareva quella notte ben riposare che
il dì precedente veduto non avesse il vago e dilicato viso
11 della bella donna17; e per questo incominciò a continuare18, quando a piè e quando a cavallo secondo che più in
destro gli venia, la via davanti alla casa di questa donna.
12 Per la qual cosa e ella e molte altre donne s’accorsero
della cagione del suo passare e più volte insieme ne motteggiarono, di vedere uno umo19, così antico d’anni e di
esercitò a Ravenna e fu poi lettore di medicina nell’Università di
Bologna, ed era ancor vivo alla fine del ’48 (l’ultima notizia è quella di un suo testamento in data 15 agosto ’48). Ebbe veramente
grande fama: e, coincidenza curiosa, sposò in seconde nozze una
«Margherita», come si rivela dal testamento di questa donna in data 2 agosto 1348. Cfr. per tutte queste notizie L. FRATI, Per una
novella del B., in «Nuova Antologia», 16 settembre 1913.
14 È la prima chiara nota del linguaggio stilnovistico che affiorerà
insistente in questa novella.
15 non ricusò, Intr., 80: «se di prendergli a questo oficio non schiferemo».
16 Assai nota la famiglia bolognese dei Ghisilieri, cui appartenne
Guido, ricordato da Dante fra i poeti del circolo del Guinizzelli
(De vulgari eloquentia, I XV 6, II XII 6): ma di una Margherita
Ghisilieri non v’è notizia negli scarsi documenti. Malgherida è probabilmente forma bolognese, come Catalina nella X 4.
17 Aggettivazione di tipo stilnovistico, che ritorna puntualmente
nel D. in situazioni simili: III 3,7 n., V 2,5 n.; X 6, 19 sgg.
18 andare di continuo in qualche luogo, frequentare continuamente: III 4,9 n.: «Continuando adunque il monaco a casa di fra Puccio».
19 uomo. La riduzione del dittongo atono e tonico uo a u è corrente nel Due e Trecento e ricorre anche nel B. (per il Teseida cfr.
ed. Battaglia, p. CXVI; per il D. per es., II 3,47; III intr., 15 n.; IV
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senno, inamorato; quasi credessero questa passione piacevolissima d’amore solamente nelle sciocche20 anime
de’ giovani e non in altra parte capere21 e dimorare.
Per che, continuando il passar del maestro Alberto,
avvenne un giorno di festa che, essendo questa donna
con molte altre donne a sedere davanti alla sua porta e
avendo di lontano veduto il maestro Alberto verso loro
venire, con lei insieme tutte si proposero di riceverlo e
di fargli onore, e appresso di motteggiarlo di22 questo
suo innamoramento; e così fecero. Per ciò che levatesi
tutte e lui invitato, in una fresca corte il menarono, dove
di finissimi vini e confetti23 fecer venire; e al fine con assai belle e leggiadre parole come questo potesse essere,
che egli di questa bella donna fosse innamorato, il domandarono, sentendo esso24 lei da molti belli, gentili e
leggiadri giovani essere amata.
Il maestro, sentendosi assai cortesemente pugnere,
fece lieto viso e rispose: «Madonna, che io ami, questo
non dee esser maraviglia a alcun savio, e spezialmente
voi25, per ciò che voi il valete. E come che agli antichi
10,36; V 9, 16; IX 1,11 e 25): più rara come qui in umo (ma cfr. III
1,11 n.: e Giordano da Pisa, Quaresimale cit., LIV 19). E cfr. in generale STUSSI, p. 198.
20 insipienti, non esperte: III 1,24 n.: «giovanaccio sciocco, cresciuto innanzi al senno»; Petrarca, CCCLXVI
21: «i mortali sciocchi»; e cfr. per l’affermazione VIII 7,102 sgg.
21 stare, trovar luogo (latinismo per capire). I 1,44 n. «Nota» (M.).
22 punzecchiarlo per: cfr. I 5,17 n. «È la preparazione al tradizionale gabbo» (Marti). E cfr. Vita Nuova, XVIII 1 sgg.
23 dolciumi, biscotti: cioè cibi fatti con cure speciali (confectus): II
4,24 n.; II 5,30 n.: «fece venire greco e confetti»; VIII 9,21: «...
quanti sieno i confetti che vi si consumano». E cfr. II 10,7 n. Il ‘di’
accenna a quantità indeterminata.
24 benché egli sapesse: gerundio concessivo. «Tutta questa graziosa scenetta ricorda quella così fresca e ingenua della Vita Nuova,
XVIII» (Scherillo): ed anche le scene di conversazioni tutte femminili con un solo uomo al centro che spesseggiano negli scritti giovanili del B. (per es. Rime, 1; Filocolo, I 1 ecc.).
25 È complemento oggetto di un sottinteso «che io ami».
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uomini sieno naturalmente tolte le forze le quali agli
amorosi essercizii si richeggiono, non è per ciò lor tolto
la buona volontà né lo intendere quello che sia da essere
amato, ma tanto più dalla natura conosciuto26, quanto
17 essi hanno più di conoscimento27 che i giovani. La speranza, la qual mi muove che io vecchio ami voi amata da
molti giovani, è questa: io sono stato più volte già là dove io ho vedute merendarsi28 le donne e mangiare lupini
e porri; e come che nel porro niuna cosa sia buona, pur
men reo e più piacevole alla bocca è il capo di quello, il
quale29 voi generalmente, da torto appetito tirate, il capo vi tenete in mano e manicate le frondi, le quali non
solamente non sono da cosa alcuna30, ma son di malva18 gio sapore. E che so io, madonna, se nello elegger degli
amanti voi vi faceste il simigliante31? E se voi il faceste,
io sarei colui che eletto sarei da voi, e gli altri cacciati
via».
19
La gentil donna, insieme con l’altre alquanto vergognandosi disse: «Maestro, assai bene e cortesemente gastigate n’avete della nostra presuntuosa impresa; tuttavia il vostro amor m’è caro, sì come di savio e valente
uomo esser dee, e per ciò, salva la mia onestà32, come a
vostra cosa ogni vostro piacere imponete sicuramente».
26 per natura: corrispondente al naturalmente di tre righe innanzi; si sottintende facilmente «è lor» (cioè: sono tanto più in grado di
conoscerlo).
27 discernimento, comprensione.
28 far merenda.
29 È pronome relativo riferentesi a porro. V’è l’ellissi del pronome suo: cioè il quale [porro] voi ... il suo capo vi tenete in mano: con
anacoluto simile a quelli già notati.
30 non sanno di nulla, non son buone a nulla. E cfr. IV intr., 33 n.
31 Interrogativa con sfumatura potenziale: cfr. F. BRAMBILLA
AGENO, Il verbo, p. 371.
32 Èuna donnesca riserva frequente in situazioni simili nel D. (III
5 e 9; V 8; X 4 e 5).
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Il maestro, levatosi co’ suoi compagni, ringraziò la
donna: e, ridendo e con festa da lei preso commiato, si
partì. Così la donna, non guardando cui motteggiasse33,
credendo vincer fu vinta34: di che voi, se savie sarete, ottimamente vi guarderete. –
33 Cioè: non avendo considerato le qualità della persona che voleva punzecchiare.
34
Anche l’ultima novella, come la prima, è strutturata con la tecnica del rovesciamento. Anzi, come ha rilevato Padoan, tutte le novelle della prima giornata seguono questa ideale linea comune.
«Giannotto da Civigní dando buoni consigli a Abraam gli mente
per distoglierlo dall’andare a Roma, ma è proprio quel viaggio che
determina la conversione del giudeo; il Saladino pensa di truffare
Melchisedech e finisce invece per fargli grandi doni; l’abate biasima fortemente il suo monaco pensando di godersi da solo la giovinetta, la quale invece resta di entrambi; il re di Francia vuol passare per il Monferrato per godersi la Marchesana e riparte senza aver
nulla ottenuto; l’inquisitore ordina una ingiusta condanna, e alla
presenza di tutti subisce una grave rampogna ove si predice ai frati
la dannazione eterna; Can Grande e messer Grimaldi si comportano avaramente, ma proverbiati divengono liberali; la donna, che
per viltà del re di Cipro disperava della vendetta, è da lui agramente vendicata; e colei che voleva far vergognare maestro Alberto è
vergognata» (Mondo aristocratico e mondo comunale nell’ideologia
e nell’arte di G. B., in «Studi sul B.», 11, 1964). E del resto il tema
del motteggíatore motteggiato, o del beffatore beffato, o dell’ingannatore ingannato è frequente nel D. (cfr. per es. I 5 e 6; II 1 e 9;
III 3 e 5; V 10; VI 1 e 2 e 5; VII 4 e 5; VIII 7 e 10; IX 2 e 8). L’anticipazione più notevole nella I giornata è quella del tema dei «bei
motti», che sarà poi quello specifico della VI giornata (e cfr. V
concl., 3 n. e i rimandi nelle note a varie novelle della VI).
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CONCLUSIONE
1
2
3
Già era il sole inchinato al vespro e in gran parte il
caldo diminuito, quando le novelle delle giovani donne
e de’ tre giovani si trovarono esser finite.
Per la qual cosa la loro reina piacevolmente disse:
– Omai, care compagne, niuna cosa resta più a fare
al mio reggimento per la presente giornata se non darvi
reina nuova, la quale di quella che è a venire, secondo il
suo giudicio, la sua vita e la nostra a onesto diletto disponga. E quantunque il dì paia di qui alla notte durare1, perciò che chi alquanto non prende di tempo avanti
non pare che ben si possa provedere2 per l’avvenire e acciò che quello che la reina nuova dilibererà esser per domattina oportuno si possa preparare, a questa ora giudico doversi le seguenti giornate incominciare. E per ciò, a
reverenza di Colui a cui tutte le cose vivono3 e consola-
1 E benché paia che il giorno duri ancora fino al sopraggiungere
della notte.
2 Affermazione proverbiale: «Providus est plenus, improvidus
extat egenus» (H. WALTHER, Proverbia, III, p. 1004).
3 La decisione di Pampinea assume addirittura il tono di un decreto solenne, anzi di un’investitura sacrale: per la scelta del vespro
come punto di passaggio da un «regno» all’altro, cioè dell’ora canonica che segna il passaggio da un giorno liturgico all’altro, per i
ritmi di quelle due serie di endecasillabi (4: oportuno ... Colui; 2:
Filomena ... regno), per quel campeggiare del nome di Dio in mezzo ad esse in un contesto di linguaggio di allusività liturgico-evangelica («Regem cui omnia vivunt» Off Defunctorum, Mat., Invit.; e
«omnes enim vivunt Ei» Luca 20.38). Sono parole che già erano risonate nella conclusione della Vita Nuova ripresa puntualmente
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zione di voi, per questa seconda giornata Filomena, discretissima giovane4, reina guiderà il nostro regno. –
E così detto, in piè levatasi e trattasi la ghirlanda dello alloro5, a lei reverente6 la mise, la quale essa prima e
appresso tutte l’altre e i giovani similmente salutaron come reina, e alla sua signoria piacevolmente s’offersero.
Filomena, alquanto per vergogna arrossata7 veggendosi coronata del regno e ricordandosi delle parole poco
avanti dette da Pampinea8, acciò che milensa9 non paresse ripreso l’ardire, primieramente gli ufici dati da
Pampinea10 riconfermò e dispose quello che per la seguente mattina e per la futura cena far si dovesse11, quivi
dimorando dove erano; e appresso così cominciò a parlare: – Carissime compagne, quantunque Pampinea, per
sua cortesia più che per mia vertù, m’abbia di voi tutte
fatta reina, non sono io per ciò disposta nella forma del
nostro vivere dover solamente il mio giudicio seguire,
ma col mio il vostro insieme; e acciò che quello che a me
di far pare conosciate, e per conseguente aggiugnere e
menomar12 possiate a vostro piacere, con poche parole
qui e nel Corbaccio, 108 (XLII 2: «... se piacere sarà di Colui a cui
tutte le cose vivono»). Cfr. anche Arrigbetto, ed. Battaglia, Torino
1929, IV, p. 254: «O inclito e savio vescovo fiorentino, al quale io
Arrigo vivo, se io vivo ...»
4 Nell’Intr., 74: «Filomena, la quale discretissima era ...»: anche
nel suo «regno» è pallida satellite di Pampinea.
5 Per questa costruzione cfr. I 1,87 n.
6 Si riferisce a Pampinea che oramai è suddita.
7 Comedia, XX 6; Filocolo, IV 18,4: «Alquanto il candido viso
della bella donna [Fiammetta coronata regina della brigata] si dipinse di nuova rossezza»: cfr. I 10,7 n.
8 Cfr. I 10,4 sgg.
9 Cfr. I 10,6 n.
10 Cioè gli incarichi riguardanti il loro vivere (siniscalco, addetti
alla cucina e alle camere ecc.).
11 «Non torre l’uficio a Parmeno il quale è sopra le vivande»
(M.).
12 diminuire, togliere: IV 8,21: «e ’l suo amore mai per distanzia
non menomato».
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ve lo intendo di dimostrare. Se io ho ben riguardato oggi alle maniere13 da Pampinea tenute, egli me le pare
avere parimente laudevoli e dilettevoli conosciute; e per
ciò infino a tanto che elle o per troppa continuanza14 o
per altra cagione non ci divenisser noiose, quelle non le
8
giudico da mutare. Dato adunque ordine a quello che
abbiamo già a fare cominciato, quinci levatici, alquanto
n’andrem sollazzando e, come il sole sarà per andar sotto, ceneremo per lo fresco15, e dopo alcune canzonette e
9
altri sollazzi sarà ben fatto l’andarsi a dormire. Domattina, per lo fresco levatici, similmente in alcuna parte
n’andremo sollazzando come a ciascuno sarà più a grado di fare, e, come oggi avem fatto, così all’ora debita
torneremo a mangiare, balleremo; e da dormir levatici,
come oggi state siamo16, qui al novellare torneremo, nel
quale mi par grandissima parte di piacere e d’utilità si10 milmente consistere. È il vero che quello che Pampinea
non poté fare, per lo esser tardi eletta al reggimento, io il
voglio cominciare a fare: cioè a ristrignere dentro a alcun termine quello di che dobbiamo novellare e davanti
mostrarlovi, acciò che ciascuno abbia spazio17 di poter
pensare a alcuna bella novella sopra la data proposta18
7
13 È uno dei modi preferiti dal B. per far introdurre con rispettosa modestia un’opinione: V 2,30: «Se io ho bene ... riguardato alla
maniera ...»
14 durata, continuità: Filocolo, IV 31,5: «però che per continuanza la molle acqua fora la dura pietra»; Convivio, III III 12: «la sua
continuanza e lo suo fervore».
15 Cfr. Intr., 102 n.
16 Nella «cornice» le novellatrici appaiono protagoniste e soggetti quasi costanti. Non solo, per costume cortese, il discorso è rivolto correntemente alle fanciulle: ma spesso aggettivi, participi ecc.
sono, come qui, al femminile anche quando si riferiscono pure ai
giovani. Cfr. per es. I concl., 15 e16; III intr,, 4 n.; IV 6,4; IV concl., 1 e 18 ecc.
17 tempo e comodo: Purg., XI 106-7; XXIV 31-32.
18 la proposta fatta, cioè il tema proposto: II 1,2 n.; II 9,3 n. ecc.
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contare. La quale, quando questo vi piaccia, sia questa:
che, con ciò sia cosa che dal principio del mondo gli uomini sieno stati da diversi casi della fortuna menati, e saranno infino al fine19, ciascun debba dire sopra questo:
chi, da diverse cose infestato20, sia oltre alla speranza
riuscito a lieto fine. –
Le donne e gli uomini parimente tutti questo ordine
commendarono e quello dissero da seguire; Dioneo solamente, tutti gli altri tacendo già, disse: – Madonna, come tutti questi altri hanno detto, così dico io sommamente esser piacevole e commendabile l’ordine dato da
voi. Ma21 di spezial grazia vi chieggio un dono, il quale
voglio che mi sia confermato per infino a tanto che la
nostra compagnia durerà, il quale è questo: che io a questa legge non sia costretto di dover dire novella secondo
la proposta data, se io non vorrò, ma qual più di dire mi
piacerà. E acciò che alcun non creda che io questa grazia voglia sì come uomo che delle novelle non abbia alle
mani, infino da ora son contento d’esser sempre l’ultimo
che ragioni. –
La reina, la quale lui e sollazzevole uomo e festevole
conoscea e ottimamente s’avisò questo lui non chieder
se non per dovere la brigata, se stanca fosse del ragiona-
19 Per questo atteggiamento del B. di fronte alla Fortuna, considerata dantescamente strumento della Provvidenza (Inf., VII 70
sgg.) cfr. Rime, LXXXIX; Teseida, VI 1 sgg.; Comedia, XXXVI;
Fiammetta, V 25; Amorosa Visione, XXXI; Corbaccio, 49 sgg.;
Esposizioni, VII litt. 55 sgg.; De casibus, VI intr.; II 16; IX 27; e anche II 314 n.
20 travagliato: Trattatello, I 110: «infestato da tanta turbine».
21 Nel ‘ma’ è implicita l’espressione contraria a esser costretto
ecc. (cioè, ad esempio: mi sia lecito): secondo un uso trecentesco illustrato dal Barbi («Di là più che di qua essere aspetta», in «Studi
Danteschi», 1925)
Letteratura italiana Einaudi 146
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re22, rallegrare con alcuna novella da ridere, col consentimento degli altri lietamente la grazia gli fece. E da seder levatasi, verso un rivo d’acqua chiarissima, il quale
d’una montagnetta discendeva in una valle ombrosa da
molti albori fra vive pietre23 e verdi erbette, con lento
passo se n’andarono. Quivi, scalze e colle braccia nude
per l’acqua andando, cominciarono a prendere varii di16 letti fra se24 medesime. E appressandosi l’ora della cena,
verso il palagio tornatesi con diletto cenarono; dopo la
qual cena, fatti venir gli strumenti, comandò la reina che
una danza fosse presa25 e, quella menando26 la Lauretta27, Emilia cantasse una canzone da’ leuto di Dioneo
17 aiutata28. Per lo qual comandamento Lauretta prestamente prese una danza e quella menò , cantando Emilia
la seguente canzone amorosamente:
15
18
Io son sì vaga della mia bellezza29,
che d’altro amor già mai
22 Quasi: trattare del tema proposto: ed è affermazione notevole
per l’impostazione generale del D.
23 Cioè pietre senza terriccio, di schietta roccia: VI concl., 25 n. e
cfr. «viva pietra, sasso vivo»; e Aen., I 167: «vivoque sedilia saxo».
Per ‘da’ strumentale o causale cfr. III 10,6 n.; V 4,23 n. e 9,3 n.
24 La presentazione delle belle donne su uno sfondo di fresche
verzure e di acque mormoranti, già accennata nella Caccia, nelle
Rime, nella Comedia, nel Ninfale, qui è ripresa quasi preparazione
alla limpidissima scena nella Valle delle Donne (VI concl.).
25 iniziata.
26 guidando (ant. fr. mener la danse): Lauretta cioè era la prima
delle danzatrici che si tenevano per mano (Amorosa Visione, XLI
23).
27 Di fronte a nome proprio spesso è posto l’articolo ma con
oscillazione continua: vedi semplicemente «Lauretta» subito dopo:
e cfr. II 5,2 n.; IV 4,5 n.; X 10,17 n.
28 dal liuto ... accompagnata.
29 Cino da Pistoia: «io son sì vago de la bella luce»; e cfr. B., Rime, XX 2 e XLIX 1.
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non curerò né credo aver vaghezza.
Io veggio in quella, ogn’ora ch’io mi specchio,
quel ben che fa contento lo ’ntelletto30:
né accidente nuovo31 o pensier vecchio32
mi può privar di sì caro diletto.
Qual altro dunque piacevole obgetto
potrei veder già mai,
che mi mettesse in cuor nuova vaghezza33?
Non fugge questo ben qualor disio
di rimirarlo in34 mia consolazione:
anzi si fa incontro al piacer mio
tanto soave a sentir, che sermone
dir nol poria, né prendere intenzione35
d’alcun mortal già mai,
che non ardesse di cotal vaghezza.
E io, che ciascuna ora più m’accendo
quanto più fisi tengo gli occhi in esso,
tutta mi dono a lui, tutta mi rendo36,
30 Inf., III 18: «il ben de l’intelletto ...»; Purg., XXVII 103: «Per
piacermi a lo specchio, qui m’addorno»; Par., XXVI 16: «Lo ben
che fa contenta questa corte».
31 Forse la malattia, l’infermità: cfr. Rime, XLIII 9 sgg. e XLIV e
XLV 1-8; Dante, Rime, XXVI 18 sg. Oppure l’amore, l’innamoramento: cfr. Rime, 38 1; Cavalcanti, XXVII 2; Cino, Io non posso celar, 27 (come forse confermerebbero i vv. 8 sgg.).
32 Forse il peccato, la vera morte: Par., VI 93; Purg., XI 20; Rime,
VII 1-3, 10-16; cfr. Matteo 9-17; Ephes., IV 22; Coloss., III 9; I
Cor., V 7.
33 «Nota quod quelibet pars sive stantia superioris cantilene habet eumdem finem scilicet ultimo et penultimo versu» (M.).
34 a, come nella X concl., 11 «in cui salute».
35 non c’è sermone che il potesse dire né (potendolo dire) essere inteso (prendere intenzione) da chi non prova tal vaghezza (Fanfani).
E cfr. Vita Nuova, XXVI: «Tanto gentile ... | Che ’ntender no la
può chi no la prova»; Inf., XXVIII 1-2: «Chi poria mai pur con parole sciolte | Dicer ...» Inf., XX 100 sgg.; Purg., XII 111: «che nel
diria sermone»; Purg., XVIII 23; Convivio, IV III 2.; e qui I 3,9 n.
36 Cfr. Convivio, IV XXXVIII 7; Purg., XX 54.
Letteratura italiana Einaudi 148
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata 1
gustando già di ciò ch’el m’ha promesso:
e maggior gioia spero più da presso
sì fatta, che già mai
simil non si sentì qui di vaghezza37.
22
Questa ballatetta38 finita, alla qual tutti lietamente
37 che mai qui, in questo mondo, si sentì derivare, venire gioia simile da una qualche bellezza: simil è sostantivato: cfr. Cavalcanti,
III 14 «simil di natura»; Cino, Poi ch’i’ fui, 13. «simil di beltate» e
Signor e’ non 10. La ballata può ricordare, per il motivo ispiratore,
alcuni versi dell’Amorosa Visione (XVI 2 sgg.), un sonetto un madrigale e una ballata del B. (Rime, XXVI, XXXIII, LXXVII); e anche l’apparizione di Lia nel Paradiso terrestre (Purg., XXVII). Il
Crescini, anzi, volendo forse troppo precisare e irrigidire il senso
vago di questa ballata – vago come ogni tentativo del B. di impostare la sua poesia su affermazioni di pensiero – scrive: «Qual è il
bene che fa contento l’intelletto? Dio. La donna, specchiando la
sua bellezza, vede in quella Dio. E nel mirarvi sempre più fiso,
sempre più si accende: a Dio tutta s’abbandona, già gustando parte
della gioia promessa e sperando gioia maggiore allorché a quel bene, a Dio, si sarà fatta più presso… Che sarà dunque codesta donna? Non la bellezza del corpo, ma quella dell’anima. L’anima pura
che in sé intentamente riguardi, scerne e vagheggia Dio» (Di due
recenti saggi sulle liriche del B., in «Atti e Memorie Acc. Di Padova», XVIII 2, 1902, p. 20). Altri intendendo «quel ben che fa contento lo ’ntelletto» come la Sapienza, giunse a supporre che la donna che si specchia sia una delle Arti liberali (che sarebbero
raffigurate successivamente nelle ballate) e precisamente la Grammatica. Cfr. anche in generale: L. MANICARDI – A. F. MASSERA, Le dieci ballate del D., in «Misc. Stor. Valdelsa», IX, 1901;
H.HAUVETTE, Les ballades du D., in «Journal des Savants», settembre 1905; G. R. SILBER,The influence of Dante and Petrarch
on certain of B’s lyrics, Menasha Wis. 1940, pp. 68 sgg.; V. BRANCA, B. medievale, pp. 275 sgg.; A. PÉZARD, Littérature et civilisation italiennes, in «Annuaire du Collège de France», LIX, 1959.
38 È formata da una ripresa (ZyZ) e da tre strofe anch’esse di endecasillabi e settenari (AB, AB; ByZ): come ha notato il Mannelli
(19 n.), le parole-rima degli ultimi due versi sono le stesse sia nella
ripresa sia nelle strofe.
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata 1
avean risposto39, ancora che alcuni molto alle parole di
quella pensar facesse, dopo alcune altre carolette40 fatte,
essendo già una particella della brieve notte passata,
piacque alla reina di dar fine alla prima giornata; e, fatti
torchi41 accender, comandò che ciascuno infino alla seguente mattina s’andasse a riposare: per che ciascuno alla sua camera tornatosi, così fece.
39 Avevano cioè cantato, alla fine di ogni stanza, la ripresa: II
concl., 11 n.
40 brevi carole, rapide danze.
41 torce.
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SECONDA GIORNATA
1
Finisce la Prima giornata del Decameron: e incomincia la Seconda, nella quale, sotto il reggimento di Filomena, si ragiona
di chi, da diverse cose infestato, sia oltre alla sua speranza riuscito a lieto fine.
2
Già per tutto aveva il sol recato con la sua luce il nuovo giorno e gli uccelli su per li verdi rami cantando piacevoli versi1 ne davano agli orecchi testimonianza, quando parimente tutte le donne e i tre giovani levatisi ne’
giardini se ne entrarono, e le rugiadose erbe con lento
passo scalpitando2 d’una parte in un’altra, belle ghirlande faccendosi, per lungo spazio diportando s’andarono.
E sì come il trapassato giorno avean fatto, così fecero il
presente: per lo fresco3 avendo mangiato, dopo alcun
ballo s’andarono a riposare, e da quello4 appresso la nona levatisi, come alla loro reina piacque, nel fresco pra-
3
1 Inf., XVI 19-20: «Ricominciar ... L’antico verso»; Petrarca,
CCXXXIX 3: «E li augelletti incominciar lor versi».
2
calpestando: VIII 7,82: «scalpitando la neve»; Amorosa Visione,
XXXVIII 23 sg.: «scalpitando | L’erbette e’ fior col passo lento
lento»; Inf., XIV 34.
3 Cioè prima che il sole scottasse e fosse molesto: Intr.,102 n.
4 Cioè dal riposo: la solita sintassi di pensiero (Intr., 26 n.). Tutta
la breve scena, come spesso quelle delle introduzioni alle varie
giornate, riprende il topos del «locus amoenus»: qui usando parole
di un sonetto del B. «Intorn’ ad una fonte, in un pratello...» (Rime,
1).
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
4
tello venuti a lei dintorno si posero a sedere. Ella, la
quale era formosa5 e di piacevole aspetto molto, della
sua ghirlanda dello alloro coronata, alquanto stata6 e
tutta la sua compagnia riguardata nel viso, a Neifile comandò che alle future novelle con una desse principio.
La quale, senza alcuna scusa fare7, così lieta cominciò a
parlare.
5 avvenente, che ha belle forme: riguarda tutta la persona, e per
questo il B. aggiunge : e di piacevole aspetto;
Amorosa Visione, XVIII 7 e XIX 45; Comedia, XXIX 16; Convivio, III III 9.
6 avendo atteso, indugiato alquanto; o sottintendendo «sopra di
sé»: essendo stata alquanto sopra pensiero (II 9,2 n.).
7 senza addurre alcun pretesto (per ricusare): Purg., XXXIII 130.
Quasi sempre chi dà inizio alle novelle premette qualche parola di
cortesia e scusa per l’onore attribuitogli.
Letteratura italiana Einaudi 152
NOVELLA PRIMA
1
Martellino, infignendosi attratto1, sopra santo Arrigo fa vista di
guerire2 e, conosciuto il suo inganno, è battuto e poi, preso; e
in pericol venuto d’essere impiccato per la gola, ultimamente
scampa3.
2
– Spesse volte, carissime donne, avvenne che chi al-
1
fingendosi rattrappito, storpio, paralitico.
fa le viste, finge di guarire appena posto sopra il corpo di santo
Arrigo.
3 da ultimo, alla fine scampa. Non si conosce alcun antecedente
di questa novella: ma i protagonisti e l’ambiente sono storici. Di
Stecchi e Martellino, buffoni assai volgari, parla anche il Sacchetti
(CXLIV); ma è soprattutto quanto riguarda la morte e i primi miracoli del Beato Arrigo da Bolzano, o da Treviso, che è narrato qui
con esattezza. La sua umile vita di facchino, il miracoloso suonar
delle campane alla sua morte, il trasporto in Duomo fra l’entusiasmo venerante del popolo, i primi miracoli – fra cui la guarigione
di un paralitico –, l’accorrere del Podestà, tutto è riferito con estrema precisione dai più autorevoli testimoni contemporanei, come il
vescovo Pietro Domenico da Baono, amico del Petrarca e forse del
B. (L. LAZZARINI, Amici del Petrarca, in «Archivio Veneto», serie V, XIV, 1933; e Acta Sanctorum, Paris 1866, 10giugno), e dagli
storici trevigiani Giovanni Bonifacio (Istoria di Trivigi, Venezia
1744 , VIII) e Rambaldo degli Azzoni Avogaro (Memorie del Beato
Enrico, Venezia 1766). Cfr. anche: P. B., Il Beato Enrico da Bolzano
nella sua vita e nel suo culto ecc., Treviso s. d., sul qual libro A. SERENA, in «Nuovo Archivio Veneto», n. s., XXXIII, 1917, pp 207
sgg. E si ricordi pure che G. Villani (X 178) narra un fatto simile
avvenuto a Firenze nel 1331: «Morirono ... due buoni e giusti uomini e di santa vita ... per ciascuno mostrò Iddio aperti miracoli di
sanare infermi e attratti e di più diverse maniere, e per ciascuno fu
fatta solenne sepoltura e poste più immagini di cera per voti fatti».
Né si può dimenticare, ad altro livello, l’episodio evangelico del
paralitico che non riesce a farsi largo tra la folla accalcata attorno a
Gesù (Marco 2.2 sgg.; Luca 5.18 sgg.).
2
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trui sé di beffare ingegnò4, e massimamente quelle cose5
che sono da reverire, s’è con le beffe e talvolta col danno
sé solo ritrovato. Il che6, acciò che io al comandamento
della reina ubbidisca e principio dea con una mia novella alla proposta7, intendo di raccontarvi quello che prima sventuratamente e poi, fuori di tutto il suo pensiero,
assai felicemente a un nostro cittadino adivenisse.
Era, non è ancora lungo tempo passato8, un tedesco9
a Trivigi, chiamato Arrigo, il quale, povero uomo essendo, di portar pesi a prezzo serviva chi il richiedeva10; e,
con questo11, uomo di santissima vita e di buona era tenuto da tutti. Per la qual cosa, o vero o non vero che si
fosse, morendo egli adivenne, secondo che i trivigiani
affermavano, che nell’ora della sua morte le campane
della maggior chiesa di Trivigi12 tutte, senza essere da alcun tirate, cominciarono a sonare. Il che in luogo di miracolo avendo, questo Arrigo esser santo dicevano tutti;
e concorso13 tutto il popolo della città alla casa nella
quale il suo corpo giacea, quello a guisa d’un corpo san4 si ingegnò di beffare. Naturalmente si potrebbe anche leggere
«s’è di beffare ingegno» data la frequenza di questi participi accorciati o aggettivi verbali (cfr. II 7,89 n.). Il detto – costruito ad antitesi, con quella sequenza di due trispondiaci al centro e alla fine –
era proverbiale: per es. «Malus bonum ad se numquam consilium
refert» (H. WALTHER, Proverbia cit., II, p. 818); e popolare e diffuso era il tema: cfr. II 9,3 n.
5 Dipende da beffare.
6 il perché, per il che; come alla II 5,49 n.
7 al tema proposto per la seconda giornata: cfr. I concl., 10.
8 Arrigo era morto il 10 giugno 1315.
9 Il Beato Arrigo era di Bolzano.
10 Faceva cioè il mestiere del facchino: o dello spaccalegna, secondo gli agiografi già citati.
11con tutto questo, malgrado questo; Intr., 22 n.
12 Il Duomo di Treviso, dove ancor oggi è il sepolcro del Beato
Arrigo («subito passato di questa vita, miracolosamente da per loro le campane della Chiesa Cattedrale sì soavemente sonarono, che
diede stupore ad ognuno» Giovanni Bonifacio).
13 accorso.
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7
to nella chiesa maggior ne portarono, menando quivi
zoppi, attratti e ciechi e altri di qualunque infermità o
difetto impediti, quasi tutti dovessero dal toccamento di
questo corpo divenir sani.
In tanto14 tumulto e discorrimento15 di popolo, avvenne che in Trivigi giunsero tre nostri cittadini, de’
quali l’uno era chiamato Stecchi, l’altro Martellino e il
terzo Marchese, uomini li quali, le corti de’ signor visitando, di contraffarsi16 e con nuovi atti contraffacendo
qualunque altro uomo li veditori sollazzavano17. Li quali
quivi non essendo stati già mai, veggendo correre ogni
uomo, si maravigliarono, e udita la cagione per che ciò
era disiderosi divennero d’andare a vedere.
E poste le lor cose a uno albergo, disse Marchese: Noi
vogliamo andare a veder questo santo, ma io per me non
veggio come noi vi ci possiam pervenire, per ciò che io
ho inteso che la piazza è piena di tedeschi18 e d’altra
gente armata, la quale il signor di questa terra, acciò che
romor19 non si faccia, vi fa stare; e oltre a questo la chiesa, per quel che si dica, è sì piena di gente che quasi niuna persona più vi può entrare».
14 In mezzo a tanto ... : Intr., 23: «E in tanta afflizione e miseria
della nostra città». Due endecasillabi avviano il racconto centrale.
15 andirivieni, viavai: Intr., 57 n.
16 trasformarsi. «Specie di anacoluto. Il primo membro ha l’infinito, il secondo il gerundio. Di denota il genere in cui sollazzavano» (Fornaciari). E cfr. I 8,9 n.
17 Questa era una delle abilità più acclamate in questi istrioni:
Esposizioni, I litt. 86: «buffoni ... l’uficio de’ quali è sapere contrafare gli atti degli uomini»; Inf., XXIX 136 sgg.; Sacchetti, LXIV.
‘Nuovi’: strani: I 7,1 n.
18 Connazionali del Beato Arrigo e non mercenari tedeschi, come si suol dire, poiché non v’erano ancora nel 1315 (cfr. Avogaro,
op. cit.).Treviso era allora governata, dopo la cacciata dei Caminesi, da un podestà ghibellino, Manno della Branca da Gubbio.
19 disordine, tumulto; cfr. I 1, 26 n.; II 6,77 n.
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Martellino allora, che di veder questa cosa disiderava,
disse: «Per questo non rimanga20; ché di pervenire infino al corpo santo troverò io ben modo».
9
Disse Marchese: «Come?»
10
Rispose Martellino: «Dicolti21. Io mi contraffarò a
guisa d’uno attratto, e tu dall’un lato e Stecchi dall’altro,
come se io per me22 andar non potessi, mi verrete sostenendo faccendo sembianti di volermi là menare acciò
che questo santo mi guarisca: egli non sarà alcuno che
veggendoci non ci faccia luogo e lascici andare».
11
A Marchese e a Stecchi piacque il modo: e senza alcuno indugio usciti fuor dell’ albergo, tutti e tre in un solitario luogo venuti, Martellino si storse in guisa le mani,
le dita e le braccia e le gambe e oltre a questo la bocca e
gli occhi e tutto il viso, che fiera23 cosa pareva a vedere;
né sarebbe stato alcuno che veduto l’avesse, che non
avesse detto lui veramente esser tutto della persona per12 duto24 e rattratto. E preso, così fatto, da Marchese e da
Stecchi, verso la chiesa si dirizzarono in vista tutti pieni
di pietà, umilemente e per l’ amor di Dio domandando a
ciascuno che dinanzi lor si parava25 che loro luogo facesse, il che agevolmente impetravano; e in brieve, riguardati26 da tutti e quasi per tutto gridandosi «fa luogo! fa
luogo!», là pervennero ove il corpo di santo Arrigo era
posto; e da certi gentili27 uomini, che v’erano da torno,
fu Martellino prestamente preso e sopra il corpo posto,
20 Per questo non sia la cosa senza effetto, non si tralasci. Modo
impersonale assai usato anche dal B.: III 7,46 n.; Trattatello, I 89.
21 Cfr. VI 10,17: «dirolvi»; Inf., III 45: «Dicerolti molto breve»; e
per altre simili enclitiche II 5,19 n.; II 7,6 n.
22 da me solo.
23 terribile, spaventosa, alla latina.
24 rovinato, paralizzato.
25 Due endecasillabi e un quinario di seguito (umilemente ... parava).
26
trattati con rispetto, con riguardo: I 1,15 n.
27
nobili, autorevoli: VI 6,12 n.
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acciò che per quello il beneficio della santà acquistasse.
Martellino, essendo tutta la gente attenta a vedere che di
lui avvenisse, stato alquanto, cominciò, come colui che
ottimamente fare lo sapeva, a far sembiante di distendere l’uno de’ diti e appresso la mano e poi il braccio, e così tutto a venirsi distendendo28. Il che veggendo la gente,
sì gran romore in lode di santo Arrigo facevano, che i
tuoni non si sarieno potuti udire.
Era per avventura un fiorentino vicino a questo luogo, il quale molto bene conoscea Martellino, ma per l’esser così travolto29 quando vi fu menato non l’avea conosciuto; il quale, veggendolo ridirizzato e riconosciutolo,
subitamente cominciò a ridere e a dire: «Domine, fallo
tristo30! Chi non avrebbe creduto, veggendol venire, che
egli fosse stato attratto da dovero?»
Queste parole udirono alcuni trivigiani, li quali incotanente31 il domandarono: «Come! Non era costui attratto?»
A’ quali il fiorentin rispose: «Non piaccia a Dio! Egli
è sempre stato diritto come qualunque è l’un di noi, ma
sa meglio che altro uomo, come voi avete potuto vedere,
far queste ciance32 di contraffarsi in qualunque forma
vuole».
Come costoro ebbero udito questo, non bisognò più
28 «Nota le parole acconciamente frapposte tra il soggetto Martellino e lo ‘stato alquanto’ [cfr. II intr., 4 n.] come pure fra ‘cominciò’ e il suo infinito ‘a far sembiante’; osserva anche quel modo
pittorico ’l’uno de’ diti’ e la graduata descrizione del movimento»
(Fornaciari).
29 sfigurato, stravolto, contraffatto: Inf., XX 11 e 16-17.
30 Signore, dagli il malanno! Imprecazione usata, con altre simili,
di frequente anche dal B. (per es. III 8,45; VII 8,48).
31 immediatamente. Nota la forma insolita per il dileguo di n (o
per dissimilazione): ma cfr. V 2,29; Giordano da Pisa, Quaresimale
cit., LXI 19; Morelli, Ricordi, pp. 165 sgg.
32 buffonerie, scherzi: VI concl., 13: «queste ciance ragionare»; II
5,45 n.; Par., V 64.
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avanti33: essi si fecero34 per forza innanzi e cominciarono a gridare: «Sia preso questo traditore e beffatore di
Dio e de’ santi, il quale, non essendo attratto, per ischernire il nostro santo e noi, qui a guisa d’attratto è venuto!» E così dicendo il pigliarono e giù del luogo dove
era il tirarono, e presolo per li capelli e stracciatili tutti i
panni indosso gl’incominciarono a dare delle pugna e
de’ calci; né parea a colui esser uomo che a questo far
non correa. Martellin gridava «Mercé per Dio!» e quanto poteva s’aiutava, ma ciò era niente35: la calca gli multiplicava36 ognora addosso maggiore37.
La qual cosa veggendo Stecchi e Marchese cominciarono fra sé a dire che la cosa stava male, e di se medesimi dubitando38 non ardivano a39 aiutarlo, anzi con gli altri insieme gridando ch’el fosse morto, avendo
nondimeno pensiero tuttavia come trarre il potessero
delle mani del popolo; il quale fermamente l’avrebbe ucciso, se uno argomento non fosse stato il qual Marchese
subitamente prese: che, essendo ivi di fuori la famiglia
tutta della signoria40, Marchese, come più tosto poté,
n’andò a colui che in luogo del podestà v’era41, e disse:
33
non ci volle altro.
La vivacità dell’inizio del periodo è sottolineata dai due endecasillabi di seguito, il secondo sdrucciolo.
35 era inutile, vano: II 5,41 n.; II 7,22 n.; Inf., XXII 143.
36 cresceva, si addensava: V 8,8 n.; VIII 9,73. Di una tempesta il
B. nel Filocolo: «incominciò ... ’1 vento a multiplicare ... Multiplicava ciascuna ora alla sconsolata nave più pericolo» (IV 7,2 e 8,1);
e il Compagni: «cominciò l’odio a moltiplicare» (I 20), «vedendo
multiplicare il mal fare» (II 19). Per questo uso intransitivo cfr. F.
BRAMBILLA AGENO, Il verbo, pp. 72 sg.
37 di più: uso dell’aggettivo per l’avverbio (Intr., 100 n.).
38 temendo: Intr., 55 n.
39 di, secondo un uso non raro nel Trecento: IV 7,6; V 3,16; Petrarca, XL 7: «Che paventosamente a dirlo ardisco».
40 Cioè le guardie del podestà: II 5,56 n.
41 che rappresentava il podestà. Come è noto il podestà era nei comuni il magistrato supremo, rappresentando la maestà dell’impero: i più antichi si erano intitolati «gratia Dei et imperatoris». Ma
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«Mercé per Dio! Egli è qua un malvagio uomo che m’ha
tagliata la borsa con ben cento fiorini d’oro42; io vi priego che voi il pigliate, sì che io riabbia il mio».
22
Subitamente, udito questo, ben dodici de’ sergenti43
corsero là dove il misero Martellino era senza pettine
carminato44, e alle45 maggiori fatiche del mondo, rotta la
calca, loro tutto pesto e tutto rotto il trassero delle mani
e menaronnelo a palagio46; dove molti seguitolo che da
lui si tenevano scherniti, avendo udito che per tagliaborse47 era stato preso, non parendo loro avere alcuno altro
più giusto titolo a fargli dare la mala ventura, similmente
cominciarono a dir ciascuno48 da lui essergli stata taglia23 ta la borsa. Le quali cose udendo il giudice del podestà,
il quale era un ruvido uomo, prestamente da parte me24 natolo sopra ciò lo ‘ncominciò a essaminare. Ma Martellino rispondea motteggiando, quasi per niente avesse
quella presura49: di che il giudice turbato, fattolo legare
alla colla50, parecchie tratte delle buone gli fece dare con
dalla metà del Duecento la loro autorità declinò per l’istituzione
del Capitano del popolo e di altri ufficiali, e si limitò a poco a poco
al potere giudiziario.
42 La moneta battuta nel 1252: cfr. I 1,55 n.
43 gendarmi (V 5,21 n.). Dodici è numero indicativo, indeterminato, come oggi dozzina: cfr. VI 4,16 n.; VIII 10,2 n.
44 «Pettinare uno si dice in burla per batterlo, conciarlo, graffiarlo. Più sotto vedremo infatti pettinato. Ma l’autore, per accrescere
lo scherzo, ha usato quel termine (carminare) che vale pettinar lana,
dove e il pettine è più grosso e il movimento più affrettato» (Fornaciari). Un uso simile è nella novella CLXXII del Sacchetti. E cfr.
F. AGENO, Alcune antiche frasi proverbiali, in «Lingua Nostra»,
XV, 1954.
45 con le: ma il B. ha rifatto l’espressione sul modo avverbiale a
fatica.
46 al palazzo del podestà.
47 Nota i due endecasillabi di seguito.
48 Per la costruzione di ‘ciascuno’ col plurale cfr. II 6,40 n.
49 quasi tenesse in nessun conto (lat. pro nihilo babere) quell’arresto: II 6,78 n.; X 1,27; X 9,61.
50 canapo, fune. Era uno strumento di tortura consistente in una
corda scorrente in una carrucola fissata in alto: «si sollevava in alto
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
animo di fargli confessare ciò che color dicevano, per
farlo poi appiccar per la gola. Ma poi che egli fu in terra
posto, domandandolo il giudice se ciò fosse vero che coloro incontro a lui dicevano, non valendogli il dire di no,
disse: «Signor mio, io son presto a confessarvi il vero,
ma fatevi a51 ciascun che m’ accusa dire quando e dove
io gli tagliai la borsa, e io vi dirò quello che io avrò fatto,
e quel che no».
26
Disse il giudice: «Questo mi piace»; e fattine alquanti
chiamare, l’un diceva che gliele52 avea tagliata otto dì
eran passati, l’altro sei, l’altro quattro, e alcuni dicevano
quel dì stesso.
27
Il che udendo Martellino, disse: «Signor mio, essi
mentono tutti per la gola53! e che io dica il vero, questa
pruova ve ne posso fare: che54 così non fossi io mai in
questa terra entrato come io mai non ci fui se non da poco fa in qua! E come io giunsi, per mia disaventura andai a veder questo corpo santo, dove io sono stato pettinato come voi potete vedere; e che questo che io dico sia
vero, ve ne può far chiaro l’uficial del signore il quale sta
28 alle presentagioni55 e il suo libro e ancora l’oste mio. Per
che, se così trovate come io vi dico, non mi vogliate a instanzia di questi malvagi uomini straziare e uccidere».
25
il paziente con le braccia legate dietro la schiena, e gli si facevano
dare più o meno tratte, ossia tratti di corda, sino a che avesse confessato» (Massera).
51 da (Intr., 20 n.).
52 Cfr. I 1,55 n.
53 mentono sfacciatamente. «Frase dell’uso che costituiva un’offesa gravissima» (Rua): più sonante pel suo ritmo di endecasillabo
che risponde al precedente (‘Il ... disse’): cfr. IX 6,26.
54 «Parlare rotto e confuso qual si addice a uomo turbato. Il che
regge tutto il discorso seguente, in cui si contiene la pruova arrecata da Martellino; e serve a congiungerla solo esternamente con ciò
che precede» (Fornaciari).
55 Cioè l’incaricato, cui, appena arrivati in città, dovevano presentarsi i forestieri per far registrare il loro nome (TORRACA, Per
la biografia di G. B., p. 432); ma tale ufficiale non esisteva in Treviso (Avogaro, op. cit.).
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29
Mentre le cose erano in questi termini, Marchese e
Stecchi, li quali avevan sentito che il giudice del podestà
fieramente contro a lui procedeva e già l’aveva collato56,
temetter forte, seco dicendo: «Male abbiam procacciato;
noi abbiamo costui tratto della padella e gittatolo nel
30 fuoco57». Per che, con ogni sollecitudine dandosi attorno e l’oste loro ritrovato, come il fatto era gli raccontarono; di che esso ridendo, gli menò a un Sandro Agolanti59, il quale in Trivigi abitava e appresso al signore aveva
grande stato60; e ogni cosa per ordine dettagli, con loro
insieme il pregò che de’fatti di Martellino gli tenesse61.
31
Sandro, dopo molte risa, andatosene al signore, impetrò che per Martellino fosse mandato; e così fu. Il quale
coloro che per lui andarono trovarono ancora in camiscia62 dinanzi al giudice e tutto smarrito e pauroso forte,
perciò che il giudice niuna cosa in sua scusa voleva udire; anzi, per avventura avendo alcuno odio ne’ fiorenti-
56
legato alla colla, torturato: II 3,66 n.
È una delle prime testimonianze della frase proverbiale.
ponendosi in moto, dandosi da fare.
59 Nobile famiglia cacciata di Firenze nella seconda metà del
Duecento. Alcuni dei suoi saranno protagonisti della II 3; e vari
documenti del principio del Trecento parlano di Agolanti abitanti
a Treviso e Venezia, probabilmente fra quei prestatori fiorentini
che avevano sostituito nella zona gli ebrei alla fine del secolo XIII.
Il Manni vuole identificare questo Sandro Agolanti con «Bernardus de Agolantis de Florentia» che appare in un documento quale
testimonio di un miracolo operato dal Beato Arrigo il 20 giugno
1315; e il Serena vorrebbe che proprio lo scettico Agolanti avesse
diffuso a Firenze il comico episodio.
60 credito, autorità; oppure occupava un’alta carica (I 1,15 n.).
Non v’era, veramente, nel 1315 un Signore di Treviso essendo stato cacciato l’ultimo dei Caminesi, Guecellone, nel dicembre del
1312. Si allude probabilmente quindi alla somma autorità trevigiana, il podestà Manno della Branca.
61 si prendesse cura, pensiero: cfr. Annotazioni, pp 73 sgg.
62 La camicia era indumento meno intimo che ai giorni nostri,
quasi un camiciotto, una blouse (Merkel: e cfr. II 2, VI 10, VII 2,
IX 4 ecc.).
57
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ni63, del tutto era disposto a volerlo fare impiccar per la
gola e in niuna guisa rendere il voleva al signore, infino a
32 tanto che costretto non fu di renderlo a suo dispetto. Al
quale poiché egli fu davanti, e ogni cosa per ordine dettagli, porse prieghi che in luogo di somma grazia via il
lasciasse andare, per ciò che infino che in Firenze non
33 fosse sempre gli parrebbe il capestro aver nella gola64. Il
signore fece grandissime risa65 di così fatto accidente; e
fatta donare una roba per uomo66, oltre alla speranza67
di tutti e tre di così gran pericolo usciti, sani e salvi se ne
tornarono a casa loro. –
63 contro i fiorentini (alla lat. In: Intr., 9 n.). Forse perché i fiorentini amavano farsi beffe dei giudici (VIII 5 e per es. Sacchetti,
XLII, CXXVII, CXXXIX, CXLV, CLXIII). A Treviso nel primo
Trecento esisteva una natio fiorentina: e vi erano intellettuali, mercanti, artigiani toscani in buon numero (cfr. in generale A. MARCHESAN, Treviso medievale, Treviso 1923, e L’Università di Treviso nei secoli XIII e XIV, Treviso 1892, pp 168 sgg.).
64 attorno alla gola: cfr. IV 2,52 n.
65 È l’ultima delle risate che accompagnano il lieto fine della novella.
66 In abito per uno: Intr., 98 n. È un altro dei numerosi endecasillabi narrativi che punteggiano questa novella.
67 La frase alla latina (praeter spem) riprende la proposizione del
tema della giornata.
Letteratura italiana Einaudi 162
NOVELLA SECONDA
1
Rinaldo d’Asti, rubato, capita a Castel Guiglielmo e è albergato da una donna vedova; e, de’ suo’ danni ristorato, sano e salvo si torna a casa sua1.
2
Degli accidenti di Martellino da Neifile raccontati
1 Qualche vago riscontro è stato indicato nel Pantschatantra (IV
1, ed. Benfey, Leipzig 1859, II, pp 183 sgg.), nel Kath‚sarits‚gara di
Somadeva (VI 30), nel Novellino (XCIX). Ma il vero terreno su cui
nasce la novella è l’enorme popolarità, nel Medioevo, di San Giuliano, della sua leggenda (raccontata anche nella Legenda Aurea di
Jacopo da Varazze, 30), del suo «pater noster», di cui troviamo sicure tracce già nello Speculum historiale di Vincenzo di Beauvais.
Dal suo «titolo» di fornitore e protettore dell’ospitalità, dovette essere assai facile il passaggio a immaginarlo mediatore di un’ospitalità piacevole e completa, che comprendesse naturalmente anche –
secondo i buoni usi del tempo (MERAY, La vie au temps des
trouvères, Paris 1873. pp 76 sgg.) – una compagna di letto. Difatti,
se le citazioni di San Giuliano nel Sacchetti (XXXIII) e nel Pataffio
(VII) – per trascurare la ripresa boccacciana pedissequa del Sercambi (LXXXII) – indicano più che altro l’estrema popolarità del
«titolo», già nel Pecorone (III 1) e oltralpe in una canzone di Giacomo d’Ostun (Fabliaux ou contes du XIIe, et du XIIIe, siècle, Paris
1779, III, p.108) e in vari componimenti provenzali il sottinteso
dell’accoglienza amorosa è assai chiaro (per es. Guglielmo IX:
«Ben vuelh que sapchon li pluzor», 29 Sgg.; Pierre Vidal: «Tart mi
veiran mei amic en Tolzan», 25 sgg, e anche: «Bon’aventura don
Dieus als Pisans», 25 sgg.; Lo Monge de Montaudo: «L’autre jorn
m’en pogei et cel», 6 sgg.); e tale rimane ancora nella letteratura
del Cinquecento (per es. Aretino Cortigiana, III 3 e V 16; N. Franco, Epistole volgari, Venezia 1542, p. 157; Berni, Orlando Innamorato, XXVIII 8). Per questo e in generale per la leggenda di San
Giuliano, le sue origini, la sua diffusione e popolarità si vedano
specialmente: A. GRAF, Miti e leggende e superstizioni nel Medioevo, Torino 1925; p. TOSCHI, La poesia popolare religiosa in Italia,
Firenze 1935, pp 113 sgg.; M. OBERZINER, Il paternoster di San
Giuliano, in «Lares», IV, 1933 e La leggenda di San Giuliano, in
«Atti R. Ist. Veneto», XCIII, 1933; B. DE GAIFFER, La legende
de St. Julien, in «Analecta Bollandiana», LXIII, 1945: e cfr. anche
Letteratura italiana Einaudi
163
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
3
senza modo risero le donne, e massimamente tra’ giovani Filostrato; al quale, per ciò che appresso di Neifile sedea, comandò la reina che novellando la seguitasse. Il
quale senza indugio alcuno incominciò:
– Belle donne, a raccontarsi mi tira2 una novella di cose catoliche3 e di sciagure e d’amore in parte mescolata,
la quale per avventura non fia altro che utile avere udita;
e spezialmente a coloro li quali per li dubbiosi4 paesi
d’amore sono caminanti, ne’ quali chi non ha detto il paternostro di san Giuliano5, spesse volte, ancora che abbia buon letto, alberga male.
A. LEDRU, Le premier miracle attribué à St. Julien, in «La Province do Maine», X, 1902 (cfr. «Analecta Bollandiana», XXII, 1903);
E. BAXMANN, Middletons Lustspiel ’the Widdow’ und B.’s D. III
3 und II 2, Halle 1903; G. BONOMO, Il Paternostro di San Giuliano nella letteratura e nel folklore, in «Annali della Facoltà di Magistero di Palermo», III, 1961-62. Tale leggenda il B. annotò studiosamente nel suo Zibaldone ora Magliabechiano (c. 195b). Per
paralleli e motivi popolari cfr. Aarne, 1544; Thompson e Rotunda,
N 225, T 281.
2 una novella mi tira, mi induce a farsi raccontare. La novella cioè
è personificata come altrove (per es. I 7,4; IV 7,3; IV 9,3; VII 5,3):
quasi si dicesse: una novella vuole che io la racconti; Par., III 7-8.
3 sacre, pie: IV 2,9 n.; Genealogia, XII 63 «a patre meo catholico
profecto homine»; Sacchetti, LXXXIX: «uomo non cattolico», e
CIII, CXLIX. L’ironia linguistica introduce tutta la narrazione ironica, equivoca fra enunciati religiosi e realtà ben materiali e sensuali.
4 pericolosi, pieni d’incertezza: I 3,3 n.
5 Scrivono i Bollandisti, narrando di San Giuliano: «Ad onore di
questo Giuliano costumano molti dire un paternostro od altra preghiera, acciò dia loro buono ospizio e li difenda ne’ pericoli di lunga via» (Acta Sanctorum, gennaio, II, p. 974). Ecco un esempio in
volgare – il più diffuso e antico (sec. XV) – di queste preghiere o
«scongiuri» scritte anche su «brevi»: «Il beato messere santo Giuliano, | Venia dal monte Calvaro | Con la croce dell’oro in mano. |
Allo scender di monte al piano | Trovò il serpente, l’orso e il leone.
| Legasti la lor forza e la balia | E così libera me | E chi è in mia
compagnia. | Poi trovasti il malandrino | Legasti il braccio e la bocca e la, mano; | Così priego il mio signore Gesù Cristo | E la beata
vergine Maria | Che mi difenda me e la mia compagnia. | Chi questo per l’amor di San Giuliano porterae | D’ogni febbre e sciagura
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Era adunque, al tempo del marchese Azzo da
Ferrara6, un mercatante chiamato Rinaldo d’Asti7 per
sue bisogne venuto a Bologna; le quali avendo fornite e
a casa tornandosi, avvenne che, uscito di Ferrara e cavalcando verso Verona, s’abbatté in alcuni li quali mercatanti parevano, e erano masnadieri8 e uomini di malvagia vita e condizione, con li quali ragionando
incautamente s’accompagnò. Costoro, veggendol mercatante e estimando lui dovere portar denari, seco diliberarono che, come prima tempo9 si vedessero, di rubarlo10: e per ciò, acciò che egli niuna suspeccion
prendesse, come uomini modesti e di buona condizione
campato serae. | Amen» (G. AMATI, Ubbie, ciancioni e ciarpe, Bologna 1866, p. 2; G. PITRÈ, Il paternostro di San Giuliano, in «Arch. per le tradizioni popolari», XXI, 1, 1902; altri esempi nell’art.
cit. della Oberziner). «Si noti qui la sovrapposizione tra le espressioni di viaggio e quelle d’amore» (Segre).
6 Con tutta probabilità Azzo VIII da Ferrara, morto il 1308.
7 Asti era importante centro mercantile (A. SAPORI, Studi cit.,
pp. 55 sgg., 533, 624 sgg.) e Rinaldo vi era nome diffuso; e a Bologna e Ferrara operavano anche mercanti fiorentini (R. DAVIDSOHN, Storia di Firenze, VI, pp. 617, 650, 675, 846 sgg., 884).
8 ladri, assassini di strada, come nella X 2,5 e non soldati come
nella III 7,99 n. Molti i lamenti del tempo sulle strade infestate in
quelle zone da malfattori (cfr. per es. C. CIPOLLA, Storia politica
di Verona, Verona 1954, p. 174); e insistente il consiglio «Nonne
incominciare via con neuno che tu non cognoschi, et se alcuno, che
tu non conoschi, ti si accompagna ne la via, e dimanderà del tuo
andare, dilli che vadi più a lunga che non t’abbia posto in cuore»
(Dei trattati morali di Albertano da Brescia volg. da Andrea da
Grosseto, Bologna 1873, p. 210).
9 non appena occasione (alla latina ut primum).
10 Costrutto solito nel B. e fino a tutto il Cinquecento: i verbi
opinativi, deliberativi ecc., pur reggendo il che e il congiuntivo,
quando erano separati dall’altro verbo da un inciso condizionale o
causale, conservavano il che immediatamente seguente, ma dopo
l’inciso ponevano spesso l’altro verbo all’infinito con di (cfr. per es.
III 4,14 n.).
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pure11 d’oneste cose e di lealtà andavano con lui favellando, rendendosi in ciò che potevano e sapevano umili
e benigni verso di lui: per che egli gli avergli trovati12 si
reputava in gran ventura, per ciò che solo era con un
suo fante a cavallo.
E così camminando, d’una cosa in altra, come ne’ ragionamenti addivien, trapassando, caddero in sul ragionare delle orazioni che gli uomini fanno a Dio; e l’uno
de’ masnadieri, che eran tre, disse verso Rinaldo: «E voi,
gentile uomo, che orazione usate di dir camminando?»
Al quale Rinaldo rispose: «Nel vero io sono uomo di
queste cose materiale e rozzo13, e poche orazioni ho per
le mani, sì come colui che mi vivo14 all’antica e lascio
correr due soldi per ventiquattro denari15; ma nondimeno ho sempre avuto in costume, camminando, di dir la
mattina, quando esco dell’albergo, un paternostro e una
avemaria per l’anima del padre e della madre16 di san
Giuliano, dopo il quale io priego Idio e lui che la seguente notte mi deano buono albergo. E assai volte già
de’ miei dì sono stato, camminando in gran pericoli,
11 solamente (cfr. Intr., 39). L’antitesi fra l’essere e il parere introduce all’ambiguità delle situazioni nella novella.
12 Sintagma singolare ma di grande interesse, quasi si coniugasse
l’infinito sostantivato come in certe parlate (per es. in napoletano):
cfr. IV intr., 31 «lasciamo stare gli aver conosciuti gli amorosi basciari».
13 grossolano e inesperto: cfr. III 8,5 n.: «Ferondo, uomo materiale e grosso»; V 1,8: «un pensiero il quale nella materiale e grossa
mente gli ragionava».
14 vivo. Per questo caratteristico uso del riflessivo (V 3,54) cfr. F.
BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 141.
15 «È passarsi leggermente d’alcuna cosa» (Varchi). Il soldo era
la ventesima parte del fiorino: il denaro la dodicesima del soldo
(cfr. I 1,55 sgg.).
16 Secondo la leggenda, erano stati uccisi per errore dal Santo,
che, per scontare il delitto, si era fatto «ospedaliere».
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
de’quali tutti scampato pur sono la notte poi stato in
buon luogo17 e bene albergato: per che io porto ferma
credenza che san Giuliano, a cui onore io il dico, m’abbia questa grazia impetrata da Dio; né mi parrebbe il dì
bene potere andare né dovere la notte vegnente bene arrivare, che18 io non l’avessi la mattina detto».
9
A cui colui, che domandato l’avea, disse: «E istamane
dicestel voi?»
10
A cui Rinaldo rispose: «Sì bene».
11
Allora quegli, che già sapeva come andar doveva il
fatto, disse seco medesimo: «Al bisogno ti fia venuto19,
ché, se fallito non ci viene, per mio avviso tu albergherai
12 pur male»; e poi gli disse: «Io similemente ho già molto
camminato e mai nol dissi, quantunque io l’abbia a molti molto udito già commendare, né giammai non m’avvenne che io per ciò altro che bene albergassi; e questa
sera per avventura ve ne potrete avvedere chi meglio albergherà, o voi che detto l’avete o io che non l’ho detto.
Bene è il vero che io uso in luogo di quello il Dirupisti, o
la ‘Ntemerata, o il Deprofundi20, che sono, secondo che
una mia avola mi solea dire, di grandissima virtù» .
17 Con queste parole si conclude la serie più lunga di versi che
scandisca la prosa del D. (‘nondimeno... luogo’: 12 versi): quasi
un’eco del ritmo di quella preghiera, anche per l’insistenza poi del
linguaggio ripetitivo e dei termini pii (credenza, onore, grazia,
ecc.).
18 se; cioè più distesamente: in quel giorno nel quale.
19 ti gioverà, ti tornerà utile. Dal voi si passa al tu di dileggio come poi al 13: e cfr I,34 n. e ZINI, art. cit. ivi.
20 Inizi di tre preghiere latine molto in uso: Dirupisti (Ps.
LXXIII, CXV), De profundis clamavi (Ps. CXXIX), O intemerata
Virgo: cfr. A. WILMART, Auteurs spirituels, Paris 1932 pp. 74 sgg.
Contro l’abuso quasi magico di queste e di simili orazioni vedi:
Passavanti, Specchio, «Dell’altra scienzia diabolica»; Sacchetti,
CXL; e qui VII 1,20 n. Forse le preci sono citate anche per allusione furbesca alla vita brigantesca (vedi però Delcorno, Exemplum,
pp. 282 sgg.). Per il seguente ‘avola’ nonna cfr. IV 4,4; Morelli, Ricordi, p. 209.
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E così di varie cose parlando21 e al lor cammin procedendo e aspettando luogo e tempo al lor malvagio proponimento, avvenne che, essendo già tardi, di là dal Castel Guiglielmo22, al valicar d’un fiume23 questi tre,
veggendo l’ora tarda e il luogo solitario e chiuso, assalitolo il rubarono, e, lui a piè e in camiscia lasciato, partendosi dissero: «Va e sappi24 se il tuo san Giuliano questa notte ti darà buono albergo, ché il nostro il darà
bene a noi»; e valicato il fiume andaron via.
14
Il fante di Rinaldo veggendolo assalire, come cattivo25, niuna cosa al suo aiuto adoperò, ma volto il cavallo
sopra il quale era non si ritenne di correre sì fu26 a Castel
13
21 È il primo di una serie di gerundi usati insistentemente per
creare suspense.
22 È un borgo del Polesine (oggi in provincia di Rovigo), tra Ferrara e Este, presso il Canale Bianco: la precisione di questo e degli
altri accenni topografici in questa novella ha reso naturale l’ipotesi
di un passaggio o di una breve dimora del B. in questo borgo, durante uno dei suoi viaggi romagnolo-veneti (P. MAZZUCCHI, Memorie storiche di Castelguglielmo, Badia Polesine 1903, p. 7). Per la
forma Guiglielmo cfr. IV 4,4 n.
23 Il Tartaro (ab antiquo collettore delle acque defluenti delle valli veronesi) o più probabilmente uno dei suoi canali, forse nella posizione di quello che sarà il Canal Bianco (F. A. BOCCHI, Trattato… per servire alla storia di Adria e del Polesine, Adria 1879, p.
307; MAZZUCCHI, Op. cit., p. 4). I viandanti dovevano aver percorso un’antica strada romana che passava lungo la sponda destra
del Tartaro o di uno dei suoi rami. Il fatto che fosse già tardi, quando stavano valicando il fiume, può indicare che avevano vicino il
luogo di sosta e cioè Trecenta, donde appunto si deviava a nord
per portarsi sulla strada di Verona lungo l’Adige.
24 Nota il solito passaggio dal voi al tu che qui sottolinea il rovesciamento di situazione.
25 vile: I 9,1 n.
26 sin che fu, se non quando fu. ‘Sì’in questo senso è comune nel
Trecento: II 3,11 n.; III 9,35 n.: «né mai ristette sì fu in Firenze»;
VII 1,19: «mai ho avuto ardir di trarlo [il capo] fuori sì è stato dì
chiaro»; Inf., XIX 44: «Non mi dipuose, sì mi giunse al rotto» (e
XIX 128; XXIX 30); Purg., XXI 12.
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Guiglielmo, e in quello, essendo già sera, entrato, senza
darsi altro impaccio27 albergò.
15
Rinaldo, rimaso in camiscia e scalzo, essendo il freddo grande e nevicando tuttavia28 forte, non sappiendo
che farsi29, veggendo già sopravenuta la notte, tremando
e battendo i denti, cominciò a riguardare se da torno alcuno ricetto30 si vedesse dove la notte potesse stare, che
non si morisse di freddo. Ma niun veggendone, per ciò
che poco davanti essendo stata guerra nella contrada31
v’era ogni cosa arsa, sospinto dalla freddura32, trottando
si dirizzò verso Castel Guiglielmo, non sappiendo perciò33 che il suo fante là o altrove si fosse fuggito, pensando, se dentro entrar vi potesse, qualche soccorso gli
16 manderebbe Idio. Ma la notte obscura il sopraprese34 di
lungi dal castello presso a un miglio: per la qual cosa sì
tardi vi giunse, che, essendo le porti35 serrate e i ponti
17 levati, entrar non vi poté dentro. Laonde, dolente e
isconsolato piagnendo, guardava dintorno dove porre si
potesse, che almeno addosso non gli nevicasse: e per avventura vide una casa sopra le mura del castello sporta27
altra briga, altro pensiero: X 4,7 n.
continuamente, senza interruzione: cfr. V 7,16.
29 Per questa serie verbale fissa, frequente nel D. (per es. qui 21;
II 4,8; IV 1,28; IV 4,15 ecc.) cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 408.
30 ricovero.
31 Con tutta probabilità si allude alla guerra del 1305-307 tra Azzo VIII e il fratello Francesco, minacciato di esclusione dall’eredità
al momento del matrimonio di Azzo con Beatrice d’Angiò (1305).
32 Ha un valore più intenso del semplice freddo: Rime, XXXVII
«Vetro son fatti i fiumi ed i ruscelli | Gli serra di fuor ora la freddura»; Inf., XXXI 123: «Dove Cocito la freddura serra», e XXXII 5253; Dante, Rime, c 61; Sacchetti, CCXXV.
33 però, per altro: avversativo.
34 sorprese, sopraggiunse, prese alla sprovvista: II 6,38 n.; II 8,94
n.;VI 5,10 ecc.
35 Desinenza assai comune, e forse più popolaresca: vedi per es.
III 2,29 e 7,10; VIII 9,70; X 3,9 e 10; e Annotazioni, pp 79 sgg.;
Rohlfs, 362.
28
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ta36 alquanto in fuori, sotto il quale sporto diliberò d’andarsi a stare infino al giorno. E là andatosene e sotto
quello sporto trovato uno uscio, come che serrato fosse,
a piè di quello ragunato alquanto di pagliericcio37 che
vicin v’era, tristo e dolente si pose a stare, spesse volte
dolendosi38 a san Giuliano, dicendo questo non essere
18 della fede39 che aveva in lui. Ma san Giuliano, avendo a
lui riguardo, senza troppo indugio gli apparecchiò buono albergo.
19
Egli era in questo castello40 una donna vedova, del
corpo bellissima quanto alcuna altra, la quale41 il marchese Azzo amava quanto la vita sua e quivi a instanzia
di sé42 la facea stare: e dimorava la predetta donna in
quella casa, sotto lo sporto della quale Rinaldo s’era an20 dato a dimorare. E era il dì dinanzi per avventura il marchese quivi venuto per doversi la notte giacere con essolei, e in casa di lei medesima tacitamente aveva fatto fare
un bagno e nobilmente da cena. E essendo ogni cosa
presta (e niuna altra cosa che la venuta del marchese era
da lei aspettata43) avvenne che un fante giunse alla porta, il quale recò novelle al marchese per le quali a lui su36 che sporgeva: G. Villani, XII 46: «anticamente erano [le botteghe] di legname, sportate sopra l’Arno». E così subito dopo ‘sporto’ parte sporgente.
37 paglia trita e minuta.
38 lamentandosi, querelandosi con: X 8,25: «io di te a te medesimo mi dorrei».
39 non esser proprio (cioè degno) della fede, non meritar questo la
fiducia (genitivo di appartenenza o convenienza): X 6,31: «Ora è
questa della giustizia del re ...»
40 borgo: Intr., 43: «lasciando star le castella ...»
41 Ha inizio una serie di quattro versi, di cui il secondo settenario
(’la vita sua e quivi’), gli altri endecasillabi.
42 a sua disposizione, a suo piacere, come altrove ‘a sua posta’(IX
5,8).
43 Un altro esempio di quelle costruzioni in cui al gerundio corrisponde un imperfetto, frequenti nel Trecento (cfr.I 7,6 n.; III 6,9
n.).
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bitamente cavalcar convenne: per la qual cosa, mandato
a dire alla donna che non l’attendesse, prestamente
andò via. Onde la donna, un poco sconsolata, non sappiendo che farsi, diliberò d’entrare nel bagno fatto per
lo marchese e poi cenare e andarsi al letto; e così nel bagno se n’entrò.
Era questo bagno vicino all’uscio dove il meschino
Rinaldo s’era accostato fuori della terra44; per che, stando la donna nel bagno, sentì il pianto e ’l tremito che Rinaldo faceva, il quale pareva diventato una cicogna45:
laonde, chiamata la sua fante, le disse: «Va sù e guarda
fuori del muro a piè di questo uscio chi v’è e chi egli è e
quel ch’el vi fa». La fante andò e aiutandola la chiarità
dell’aere vide costui in camiscia e scalzo quivi sedersi,
come detto è, tremando46 forte; per che ella il domandò
chi el fosse. E Rinaldo, sì forte tremando che appena poteva le parole formare, chi el fosse e come e perché quivi47 quanto più brieve potè le disse: e poi pietosamente
la cominciò a pregare che, se esser potesse, quivi non lo
lasciasse di freddo la notte morire. La fante, divenutane
pietosa, tornò alla donna e ogni cosa le disse. La qual similmente pietà avendone, ricordatasi che di quello uscio
aveva la chiave, il quale alcuna volta serviva alle occulte
entrate del marchese, disse: «Va, e pianamente48 gli apri;
qui è questa cena e non saria chi mangiarla49, e da poterlo albergar ci è assai».
44
borgo città: Intr., 65; III 4,11; V 7,29.
Cioè: batteva i denti così forte che faceva un rumore simile a
quello delle cicogne quando battono insieme le due parti del becco. L’espressione è ripetuta dal B. per una situazione simile nella
VIII 7,39: cfr. naturalmente Inf., XXXII 34-36: «Livide, insin là
dove appar vergogna | Eran l’ombre dolenti ne la ghiaccia, | Mettendo i denti in nota di cicogna».
46 Gerundio participiale, oggetto di vide; oppure gerundio dipendente da sedersi (che sedeva tremando).
47 Sottinteso»fosse».
48 Pian Piano, senza rumore; I 4,10 n.
49 Cfr. per questo chi con l’infinito, Intr., 58 n.
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La fante, di questa umanità avendo molto commendata la donna, andò e sì gli aperse; e dentro messolo,
quasi assiderato veggendolo, gli disse la donna: «Tosto,
buono uomo, entra50 in quel bagno, il quale ancora è
caldo».
E egli questo, senza più inviti aspettare, di voglia fece:
e tutto dalla caldezza di quello riconfortato da morte a
vita gli parve esser tornato. La donna gli fece apprestare
panni stati del marito di lei poco tempo davanti morto,
li quali, come vestiti s’ebbe, a suo dosso51 fatti parevano;
e aspettando quello che la donna gli comandasse incominciò a ringraziare Idio e san Giuliano che di sì malvagia notte, come egli aspettava, l’avevano liberato e a
buono albergo, per quello che gli pareva, condotto. Appresso questo la donna, alquanto riposatasi, avendo fatto fare un grandissimo fuoco52 in una sua camminata53,
in quella se ne venne e del buono uomo domandò che
ne fosse.
A cui la fante rispose: «Madonna, egli s’è rivestito e è
un bello uomo e pare persona molto da bene e costumato».
«Va dunque,» disse la donna «e chiamalo e digli che
qua se ne venga: al fuoco si cenerà, ché so che cenato
non ha».
Rinaldo nella camminata entrato, e veggendo la donna e da molto parendogli54, reverentemente la salutò e
quelle grazie le quali seppe maggiori del beneficio fattogli le rendé. La donna, vedutolo e uditolo e parendole
50 Il tu al mendico apparente si trasformerà presto in voi di rispetto (37,sgg.): cfr.11 n.
51 per la sua corporatura.
52 Situazione simile e identici desideri nella VIII 7,36 sgg.
53 sala spaziosa e in generale con camino: Inf., XXXIV 97: «Non
era camminata di palagio»: e il Da Buti: «i signori usano di chiamare le loro sale camminate massimamente in Lombardia».
54 «Parendogli donna di qualità» (Fanfani): cfr. Intr., 3 n.
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quello che la fante dicea55, lietamente il ricevette56 e seco al fuoco familiarmente il fè sedere e dello accidente
che quivi condotto l’avea il domandò: alla quale Rinaldo
per ordine ogni cosa narrò. Aveva la donna, nel venire
del fante di Rinaldo nel castello, di questo alcuna cosa
sentita, per che ella ciò che da lui era detta57 interamente credette, e sì gli disse ciò che del suo fante sapea e come leggiermente58 la mattina appresso ritrovare il potrebbe59. Ma poi che la tavola fu messa, come la donna
volle, Rinaldo con lei insieme, le mani lavatesi, si pose a
cenare. Egli era grande della persona e bello e piacevole
nel viso e di maniere assai laudevoli e graziose e giovane
di mezza età60; al quale la donna avendo più volte posto
l’occhio addosso e molto commendatolo61, e già, per lo
marchese che con lei doveva venire a giacersi, il concupiscibile appetito62 avendo desto nella mente ricevuto
l’avea. Dopo la cena, da tavola levatasi, con la sua fante
si consigliò se ben fatto le paresse che ella, poi che il
marchese beffata l’avea, usasse quel bene che innanzi
l’aveva la fortuna mandato.
La fante, conoscendo il disiderio della sua donna,
quanto potè e seppe a seguirlo la confortò63: per che la
55
Cioè che Rinaldo fosse un uomo bello e dabbene.
Il cursus velox conclude le clausole liete e veloci, che caratterizzano questo e il precedente periodo.
57 Accordo a senso con ‘alcuna cosa’ o anche con ‘ciò’ sentito come questa cosa: e cfr. anche II 3,25 n.
58 facilmente: I 1,78 n.
59 Condizionale con valore di futuro del passato (II 5,34 n.). Cfr.
F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, pp. 346 sgg.
60 Cioè sui trentacinque anni («Nel mezzo del cammin di nostra
vita»).
61 lodatolo.
62 È quasi una formula (su cursus velox) nel B.: III 1,4 n.; IV intr.,
23; X 5,25; X 8,14; Consolatoria, 29; Corbaccio, 123: è oggetto anche di ricevuto avea, con ridondanza del pronome.
63 «Non si può errare consigliando le donne di quel c’hanno voglia; e questa fante ben se ne avide» (M.).
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donna, al fuoco tornatasi dove Rinaldo solo lasciato aveva, cominciatolo amorosamente a guardare, gli disse:
«Deh, Rinaldo, perché state voi così pensoso? Non credete voi potere essere ristorato64 d’un cavallo e d’alquanti panni che voi abbiate perduti? Confortatevi, state lietamente, voi siete in casa vostra. Anzi vi voglio dir
più avanti65: che, veggendovi cotesti panni indosso, li
quali del mio morto marito furono, parendomi voi pur
desso, m’è venuta stasera66 forse cento volte voglia
d’abracciarvi e di basciarvi: e, s’io non avessi temuto che
dispiaciuto vi fosse, per certo io l’avrei fatto».
Rinaldo, queste parole udendo e il lampeggiar degli
occhi della donna67 veggendo, come colui che mentacatto68 non era, fattolesi incontro con le braccia aperte, disse: «Madonna, pensando che io per voi 69possa omai
sempre dire che io sia vivo, a quello guardando donde
torre mi faceste70, gran villania sarebbe la mia se io ogni
cosa che a grado vi fosse non m’ingegnassi di fare; e
però contentate il piacer vostro d’abracciarmi e di basciarmi, ché io abraccerò e bascerò voi vie più che volentieri».
Oltre a queste non bisognar più parole. La donna,
che tutta d’amoroso disio ardeva, prestamente gli si
gittò nelle braccia; e poi che mille volte, disiderosamente strignendolo, basciato l’ebbe e altrettante da lui fu basciata, levatisi di quindi nella camera se ne andarono, e
senza niuno indugio coricatisi pienamente e molte volte,
anzi che il giorno venisse, i loro disii adempierono. Ma
64
risarcito, compensato: cfr. il sommario e II 5,23 n.
di più
Periodo dominato da una serie di suasivi cursus plani.
67 «Nota signum Veneris in fernina» (M.). Anche qui due cursus
plani.
68 Si alternano nel B. le due forme mentacatto e mentecatto.
69 in grazia vostra, per merito vostro.
70 Pensando alla situazione dalla quale m’avete fatto togliere.
65
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poi che a apparir cominciò l’aurora, sì come alla donna
piacque levatisi, acciò che questa cosa non si potesse
presummere per71 alcuno, datigli alcuni panni assai cattivi e empiutagli la borsa di denari, pregandolo che questo tenesse celato, avendogli prima mostrato che via tener dovesse a venir dentro72 a ritrovare il fante suo, per
quello usciolo onde era entrato, il mise fuori.
41
Egli, fatto dì chiaro, mostrando di venire di più lontano, aperte le porte, entrò nel castello e ritrovò il suo fante. Per che, rivestitosi de’ panni suoi che nella valigia
erano e volendo montare in sul cavallo del fante, quasi
per divino miracolo73 addivenne che li tre masnadieri
che la sera davanti rubato l’aveano, per altro maleficio
da loro fatto poco poi appresso presi, furono in quello
castell menati; e per confessione da loro medesimi fatta,
gli fu restituito il suo cavallo, i panni e i danari, né ne
perdé altro che un paio di cintolini74, de’ quali non sape42 vano i masnadieri che fatto se n’avessero. Per la qual cosa Rinaldo, Idio e san Giulian ringraziando, montò a cavallo e sano e salvo ritornò a casa sua; e i tre masnadieri
il dì seguente andaro a dare de‘ calci a rovaio75.
71 sospettare, immaginare, risapersi da: III 2,18 n.: «subitamente
presunse la reina da similitudine di costumi e di persona essere stata ingannata».
72 Cioè a entrare in Castel Guglielmo.
73 L’aggettivo, superfluo, vuole evidentemente sottolineare il carattere assolutamente straordinario (anche troppo) di tutti questi
avvenimenti.
74 Forse legacci da calza (Merkel): e cfr. IV 10,41 n.
75 Rovaio è la tramontana: sicché l’espressione vale «dare calci al
vento» (come del resto hanno alcuni mss. deteriori), cioè essere impiccati. E cfr. II 5,80 n.: «sì come ladro dovere essere appiccato»;
IV 10,29; e per la popolarità di questa punizione come propria ai
ladri cfr. Thompson e Rotunda, Q 413-1.
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NOVELLA TERZA
1
Tre giovani male il loro avere spendono, impoveriscono; de’
quali un nepote con uno abate accontatosi1, tornandosi a casa
per disperato2, lui truova essere la figliuola del re d’Inghilterra,
la quale lui per marito prende e de’ suoi zii ogni danno ristora,
tornandogli3 in buono stato4.
1 accompagnatosi o anche familiarizzatosi: II 9,25 n.: «accontatosi
con una povera femina»; II 10,18 n.: «con lui si accontò»; VIII
7,11: «s’accontò con la fante di lei».
2 mentre tornava a casa in condizioni disperate, senza speranza alcuna.
3 ritornandoli, rimettendoli.
4 La romanzesca vicenda narrata in questa novella – che sarà subito imitata nel Pecorone (III 1) – non ha nessun vero antecedente
né letterario né storico (di scarsissimo valore i richiami alla chanson
del Conte di Fiandra: cfr. Histoire littéraire de la France, XXIV, p.
167; e anche alla Chronica di Guillaume de Nangis, ed. Geraud,
Paris 1843, II, pp 209 sgg.). Non è in sostanza che una variazione
sulla bella e canonica fiaba del giovane che fa la sua fortuna conquistando, quasi senza neppure conoscerla, il cuore della reginotta:
una fiaba amata e ripetuta dal B. (cfr. B. medievale, pp. 199 sgg.) e
appartenente a moduli antichissimi (J. G. FRAZER, The golden
bough, I 2,3; V. J. PROPP, Le radici storiche ecc., cap. IX, 11;
Thompson e Rotunda, L 160, 161; T 44.1, 91.4, 121). Per il viaggio
del principe travestito da monaco, tradizionale nella novellistica,
cfr. Rotunda, K 1812.8.2*; e per il travestimento Thompson e Rotunda, K 1837; E. PATLAGEAN, L’histoire de la femme déguisée
en moine ecc., in «Studi Medievali», S. III, XVII, 1976. Si tengano
presenti suggestioni dagli archivi fiorentini. Lamberto, Agnolo e
Lenso Lamberti «mercatores in Arte Calimale» furono nel 1308 dichiarati «cessantes et fugitivi» (cod. Magliabechiano XXXVII 305,
c. 252: e cfr. Magl. XXVI 203, c. 118); e un Alexander Vannis
Lamberti, dell’Arte del Cambio, appare nel 1357 perseguitato dai
creditori e nel 1358 «abrasus fuit tamquam cessans et fugitivus»
(Riccardiano 3113, c. 271; Magl. XXVI 132, c. 63). Anche di un
Alessandro Agolanti si trova però qualche testimonianza: compare
in documenti della gabella attorno al 1350 (Magl. XXVI 205, c. 28;
XXVI 206, c. 243) e nel 1360 quale ascritto alla Compagnia Maggiore della Madonna (Magl. XXV 403, c. 216). È noto poi che mol-
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2
3
4
Furono con ammirazione ascoltati i casi di Rinaldo
d’Asti dalle donne e da’ giovani e la sua divozion commendata e Idio e san Giuliano ringraziati che al suo bisogno maggiore gli avevano prestato soccorso; né fu per
ciò, quantunque cotal5 mezzo di nascoso si dicesse, la
donna reputata sciocca che saputo aveva pigliare il bene
che Idio a casa l’aveva mandato. E mentre che della
buona notte che colei ebbe sogghignando6 si ragionava,
Pampinea, che sé allato allato7 a Filostrato vedea, avvisando, sì come avvenne, che a lei la volta8 dovesse toccare, in sé stessa recatasi9 quel che dovesse dire cominciò a
pensare; e, dopo il comandamento della reina, non meno ardita che lieta così cominciò a parlare:
– Valorose donne, quanto più si parla de’ fatti della
fortuna10, tanto più , a chi vuole le sue cose ben riguarti mercanti fiorentini lavoravano in Inghilterra e anche in Scozia
(R. DAVIDSOHN, Storia di Firenze, VI, pp. 690 sgg.): e cfr. 6 nn.
5
così. L’uso avverbiale di tale, cotale ricorre non di rado negli
scrittori del Trecento, come alquanto, così, talmente: VIII 2,12: «e
ella cotal salvatichetta»; VIII 6,8: «gl’invitò a cena cotale alla trista»; VIII 9,62: «ti do tale in su la testa ...»; Amorosa Visione, VI
31; Inf., XII 25. E cfr. Annotazioni, p. 81; «Bull. Soc. Dantesca»,
III, 1895, p. 135.
6 ridendo, sorridendo: cfr. I 5,2 n.
7 Una delle ripetizioni con valore intensivo frequenti nel B.
(identica nell’Amorosa Visione, A XI 40 e B XXVI 4): cfr. Annotazioni, pp. 82 e 90.
8 il turno: cioè che a lei spettasse per ordine di parlare.
9 raccoltasi: II 9,2 n.
10 Come in molti scrittori medievali, anche nel B. ripetutamente
è accennato il problema della Fortuna: da una concezione puramente fatalistica e percorsa da lamenti autobiografici (Filostrato,
proemio; Teseida, proemio; Epistole, IV e V) il B. giunge a una visione tomistica e dantesca della Fortuna come strumento della
Provvidenza e della Giustizia divina (Amorosa Visione, XXXIXXXVI; Corbaccio, 49 sgg.; De casibus, VI intr,, e II 16, IX 27;
Esposizioni, VII litt. 55 sgg.). Nel mondo distaccato e esemplare
del D., gli accenni in questo senso sono meno sistematici e coerenti, più affidati al tono e alle necessità del novellare: riescono però a
comporsi in un disegno aristocratico sulle labbra di Pampinea, la
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5
6
dare, ne resta a poter dire: e di ciò niuno dee aver maraviglia, se discretamente pensa che tutte le cose, le quali
noi scioccamente nostre chiamiamo, sieno nelle sue mani, e per conseguente da lei, secondo il suo occulto giudicio, senza alcuna posa d’uno in altro e d’altro in uno
successivamente, senza alcuno conosciuto ordine da noi,
esser da lei11 permutate. Il che, quantunque con piena
fede in ogni cosa e tutto il giorno si mostri e ancora in
alcune novelle di sopra mostrato sia, nondimeno, piacendo alla nostra reina che sopra ciò si favelli, forse non
senza utilità degli ascoltanti aggiugnerò alle dette una
mia novella, la quale avviso dovrà piacere.
Fu già nella nostra città un cavaliere il cui nome fu
messer Tebaldo, il quale, secondo che alcuni vogliono,
portavoce dell’autore, qui e particolarmente nel proemio alla VI 2.
Cfr. in generale V. CIOFFARI, The Conception of Fortune in the
D., in «Italica», XVII, 1940 e The function of Fortune ecc., ivi,
XXIV, 1947; Amorosa Visione, comm. pp. 569 sgg.; V. BRANCA,
B. medievale, pp 20 sgg.; e anche qui Intr., 8 n.; I concl., 10 n.; II
7,3 sgg. n.; e Inf., VII 77 sgg.
11 Nota la ripetizione del ‘da lei’, per render più chiaro il periodo: frequentissime sono del resto nel D. simili ripetizioni dopo incisi o anche parole semplicemente interposte (su quella di ‘che’ cfr.
I 3,11 n. e Mussafia, pp 461 sg.). E cfr. per questa espressione Inf.,
VII 79 sgg.
12 «Quando [Ottone I] tornò in Alamagna, de’ suoi baroni vi [a
Firenze] rimasero e furono cittadini; e intra gli altri... un barone
ch’ebbe nome Lamberto, che si dice che discesono i Lamberti...
Nel quartiere della porta di San Brancazio erano grandissimi e potenti la casa de’ Lamberti» (G. Villani, IV 1 e 12). Un Lamberti fu
nel 1180 console insieme a Uberto degli Uberti: a quel secolo risale
la massima potenza della famiglia (Par., XVI 109 sgg.), ghibellina
fin dalla origine leggendaria delle fazioni (per Mosca, Inf. XXVII1106 sgg.). Già esiliati nel 1258, nel 1268 furono cacciati definitivamente (Villani, VI 65, VII 14) e scomparirono per sempre dalla
storia di Firenze. Ma dei Lamberti appaiono nella vita mercantile
della prima metà del Trecento, proprio come i Boccacci legati alla
Compagnia dei Bardi, che lavorava in Inghilterra (Y. RENOUARD, Le compagnie commerciali fiorentine, in «Archivio Storico Italiano», XCVI, 1938, 1): erano anche, come i Boccacci,
Letteratura italiana Einaudi 178
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7
8
fu de’ Lamberti12, e altri affermano lui essere stato degli
Agolanti13, forse più dal mestiere de’ figliuoli di lui poscia fatto, conforme a quello che sempre gli Agolanti
hanno fatto e fanno, prendendo argomento che da altro.
Ma lasciando stare di quale delle due case si fosse, dico
che esso fu ne’ suoi tempi ricchissimo cavaliere, e ebbe
tre figliuoli, de’ quali il primo ebbe nome Lamberto, il
secondo Tedaldo e il terzo Agolante, già belli e leggiadri
giovani, quantunque il maggiore a diciotto anni non aggiugnesse, quando esso messer Tebaldo ricchissimo venne a morte e loro, sì come a legittimi suoi eredi, ogni
suo bene e mobile e stabile lasciò. Li quali, veggendosi
rimasi ricchissimi e di contanti e di possessioni, senza alcuno altro governo che del loro medesimo piacere14,
senza alcuno freno o ritegno cominciarono a spendere,
tenendo grandissima famiglia e molti e buoni cavalli e
cani e uccelli e continuamente corte15, donando e armeggiando e faccendo ciò non solamente che a gentili
uomini s’appartiene ma ancor quello che nello appetito
clienti del notaio Ser Salvi Dini (A. SAPORI, Studi di Storia economica cit., p. 53). Altre notizie su questi Lamberti mercatanti, già riferite (cfr. 1 n.), farebbero anch’esse propendere a scorgere nelle
loro vicende possibili suggestioni per questa novella. E cfr. VI 6,5.
13 Gli Agolanti abitavano nel Corso degli Adimari e in Mercato
Vecchio (Porta Duomo): famiglia modesta di prestatori, ghibellina
(Villani, I 39), ebbe tuttavia nel Duecento vari giudici (SAPORI,
op. cit., p . 44), e un Agolante fu proprio dei «quattro avogadi» dei
Frescobaldi contro i re d’Inghilterra di fronte al Pontefice, ad Avignone (A. SAPORI, La compagnia dei Frescobaldi, Firenze 1947,
pp. 67 e 120): e cfr. II 1,30 n. Per la identificazione di un Alessandro Agolanti cfr. 1 n. E cfr. anche II 1,30 e n.
14 senza nessun’altra guida che il loro piacere, la loro volontà.
15 Cioè «accogliere splendidamente noti ed ignoti in casa signorile» (Tommaseo). Una nota, questa, amata dal B. e costante nella
rappresentazione degli eroi più ammirati (per es. Filostrato, III 72
sgg.; Teseida, V 7 sgg.; e qui III 5, IV 4, V 8 e 9, X 3 e 4 ecc.); riecheggia un motivo caro ai cantari (cfr. il Bel Gherardino) vivo pure
nel seguente ‘armeggiando’, partecipando a tornei.
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
loro giovenile cadeva di voler fare16. Né lungamente fecero cotal vita ,che il tesoro lasciato loro dal padre venne meno; e non bastando alle cominciate spese solamente le loro rendite, cominciarono a impegnare e a vendere
le possessioni: e oggi l’una e doman l’altra vendendo,
appena s’avvidero che quasi al niente venuti furono17, e
aperse loro gli occhi la povertà, li quali la ricchezza aveva tenuti chiusi18.
10
Per la qual cosa Lamberto, chiamati un giorno gli altri due, disse loro qual fosse l’orrevolezza19 del padre
stata e quanta la loro e quale la loro ricchezza e chente20
la povertà nella quale per lo disordinato loro spendere
eran venuti; e come seppe il meglio, avanti che più della
loro miseria apparisse, gli confortò con lui insieme a
vendere quel poco che rimaso era loro e andarsene via: e
11 così fecero. E senza commiato chiedere o fare alcuna
pompa di Firenze usciti, non si ritennero sì21 furono in
Inghilterra; e quivi, presa in Londra22 una casetta, faccendo sottilissime spese, agramente23 cominciarono a
prestare a usura; e sì fu in questo loro favorevole la for9
16
che al loro giovanile capriccio veniva voglia di fare (I 7,7 n.).
a malapena se ne erano accorti che già erano ridotti a nulla.
«Nota» (M.).
19 onorevolezza magnificenza: I 7,9 n.; VI 5,12.
20 di qual maniera.
21 non si fermarono sin che (II 2,14 n.).
22 Sulla attività dei mercanti fiorentini (e specie dei Bardi) in Inghilterra, e sull’intenso scambio corrente in quei secoli fra Londra
e Firenze si veda in generale: W. E. RHODES, The italian Bankers
in England, London 1902; R.J. WITWELL, Italian Bankers and
the English Crown, in «Transactions of the R. Historical Soc.»,
XVII, 1903 ; E. RE, Archivi inglesi e La Compagnia dei Ricciardi, in
«Arch. Soc. Rom. di Storia Patria» XXXVII, 1914; A. SAPORI, La
crisi delle Compagnie mercantili dei Bardi e dei Peruzzi, Firenze
1926 e La Compagnia dei Frescobaldi; e anche G. M. TREVELYAN, English Social History London 1944, capp. I e II; R.
DAVIDSOHN, Storia di Firenze, VI, pp. 690 sgg. E cfr. I 1,26 n.
23 duramente, avidamente (I 9,7 n.).
17
18
Letteratura italiana Einaudi 180
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
tuna, che in pochi anni grandissima quantità di denari
avanzarono24.
12
Per la qual cosa con quelli, successivamente or l’uno
or l’altro a Firenze tornandosi, gran parte delle loro possessioni ricomperarono e molte dell’altre comperar sopra25 quelle, e presero moglie; e continuamente in Inghilterra prestando, a attendere a’ fatti loro un giovane
lor nepote, che avea nome Alesandro26, mandarono, e
essi tutti e tre a Firenze, avendo dimenticato a qual partito gli avesse lo sconcio27 spendere altra volta recati,
non obstante che in famiglia tutti venuti fossero28, più
che mai strabocchevolmente spendeano e erano sommamente creduti29 da ogni mercatante, e d’ogni gran quan13 tità di danari30. Le quali spese alquanti anni aiutò lor sostenere la moneta da Alessandro loro mandata, il quale
messo s’era in prestare a’ baroni sopra castella e altre loro entrate, le quali da gran vantaggio bene gli rispondeano31.
14
E mentre così i tre fratelli largamente spendeano, e
mancando denari accattavano32, avendo sempre la speranza ferma in Inghilterra, avvenne che, contra l’ oppinion d’ogni uomo, nacque in Inghilterra una guerra tra
il re e un suo figliuolo33, per la quale tutta l’isola si divi24 misero da parte, accumularono: con uso transitivo del verbo impiegato intransitivamente invece a VI 7,17: Cfr. F. BRAMBILLA
AGENO, Il verbo, p. 128.
25 oltre: IX 4,7 «senza alcun salario sopra le spese».
26 Era nome comune fra gli Agolanti (oscilla fra Al- e All-).
27 smodato: VII 9,54 n.
28 «Avessero messo su famiglia, avessero avuto figliuoli dalle loro
mogli» (Fanfani). Corrente il latinismo non obstante.
29 godevano di gran credito: VII 8,42 n.; G. Villani, XI 88; Morelli, p. 225.
30 per qualunque grossa somma.
31 gli fruttavano (Cfr. 14) molto bene: IV 3,17; Sacchetti, CXLIX.
32 prendevano a prestito.
33 Si allude evidentemente alle lotte fra Enrico II (1154-89) e il
suo primogenito Enrico, associato nel regno nel 1170, ribellatosi
Letteratura italiana Einaudi
181
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
se, e chi tenea con l’uno e chi con l’altro; per la qual cosa furono tutte le castella de’ baroni tolte a Alessandro,
né alcuna altra rendita era che di niente gli rispondesse.
15 E sperandosi che di giorno in giorno tra ’l figliuolo e ’l
padre dovesse esser pace, e per conseguente ogni cosa
restituita a Alessandro, e merito35 e capitale, Alessandro
dell’isola non si partiva, e i tre fratelli che in Firenze erano in niuna cosa le loro spese grandissime limitavano,
16 ogni giorno più accattando. Ma poi che in più anni niuno effetto seguir si vide alla speranza avuta, li tre fratelli
non solamente la credenza36 perderono ma, volendo coloro che aver doveano esser pagati, furono subitamente
presi; e non bastando al pagamento le lor possessioni,
per lo rimanente rimasono in prigione, e le lor donne e i
figliuoli piccioletti qual se ne andò in contado e qual
qua e qual là assai poveramente in arnese37, più non sappiendo che aspettar si dovessono se non misera vita
sempre.
17
Alessandro, il quale in Inghilterra la pace più anni
aspettata avea, veggendo che ella non venia e parendogli
quivi non meno in dubbio della vita sua che invano38 dimorare, diliberato di tornarsi in Italia, tutto soletto si
insieme ai fratelli nel 1173, riconciliato nel 1174, ribellatosi ancora
nel 1181 e morto nel 1183. Tali drammatiche vicende – favolosamente anteriori a quelle di cui a 1 n. – avevano suscitato una lunga
eco anche in Italia: basti pensare al Novellino (XVIII), all’Inf., XXVIII 133 sgg., a G. Villani (V 4) ecc.
34 Per questo uso pleonastico di dovere accennante al futuro cfr.
I 1,83 n.
35 interessi, frutti: Sacchetti, XXXII: «Hanno battezzato l’usura
in diversi nomi, come dono di tempo, merito, interesse, cambio, civanza, baroccolo, ritrangola e molti altri nomi».
36 il credito.
37 Cfr. I 7,18 n.
38 non meno con pericolo di vita che inutilmente.
Letteratura italiana Einaudi 182
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
mise in cammino. E per ventura di Bruggia39 uscendo,
vide n’usciva similmente uno abate bianco40 con molti
monaci accompagnato e con molta famiglia e con gran
salmeria41 avanti; al quale appresso venieno due cavalieri antichi42 e parenti del re, co’ quali, sì come con conoscenti43, Alessandro accontatosi, da loro in compagnia
fu volentieri ricevuto.
18
Camminando44 adunque Alessandro con costoro,
dolcemente gli domandò chi fossero i monaci che con
19 tanta famiglia cavalcavano avanti e dove andassono. Al
quale l’uno de’ cavalieri rispose: «Questi che avanti cavalca è un giovinetto nostro parente, nuovamente45 eletto abate d’una delle maggiori badie d’Inghilterra; e per
ciò che egli è più giovane che per le leggi non è conceduto a sì fatta dignità, andiam noi con esso lui a Roma a
impetrare dal Santo Padre che nel difetto della troppo
giovane età dispensi con lui46, e appresso nella dignità il
confermi: ma ciò non si vuol con altrui ragionare47».
39 Bruges (Inf,, XV 4; Purg., XX 46). Era uno dei grandi centri
del commercio internazionale, frequentato dalle
Compagnie fiorentine, soprattutto dai Peruzzi e dai Bardi.
40 vestito di bianco: come i monaci di alcuni ordini benedettini
(per es. Cistercensi, Camaldolesi, Eremitani ecc.).
41 con molta servitù e molti bagagli. Cfr. III intr., 1 n. e VII intr.
2: «il siniscalco levatosi con una gran salmeria n’andò nella Valle
delle Donne».
42 attempati, vecchi: I 1,30 n.
43 Persone conosciute: cfr. VI 5,10; F. BRAMBILLA AGENO, Il
verbo, p. 183; e per il seguente accontatosi cfr. 1 n.
44 È il primo dei tre Camminando che avviano le tre successive
parti in cui è descritto il viaggio (18, 20, 24).
45 da poco, di recente.
46 che gli dia la dispensa riguardo al difetto d’età (è una delle più
comuni dispense ecclesiastiche quella de defectu aetatis). Dispensare è qui usato in senso intransitivo, come altrove dal B. stesso: X
10,40: «voleva procacciar col Papa che con lui dispensasse che
un’altra donna prender potesse»; e 42: «il Papa per quelle aver seco dispensato di poter torre altra moglie»; e cfr. Par., V 35.
47 di ciò non si deve parlare con nessuno (cfr. I 1,26 n. e I 1,27).
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
Camminando adunque il novello abate ora avanti e
ora appresso alla sua famiglia, sì come noi tutto il giorno48 veggiamo per cammino avvenir de’ signori, gli venne nel cammino presso di sé veduto Alessandro, il quale
era giovane assai, di persona e di viso bellissimo, e,
quanto alcuno altro esser potesse, costumato e piacevole
e di bella maniera: il quale maravigliosamente nella prima vista gli piacque49 quanto mai alcuna altra cosa gli
fosse piaciuta; e chiamatolo a sé, con lui cominciò piacevolmente a ragionare e domandare chi fosse, donde ve21 nisse e dove andasse50. Al quale Alessandro ogni suo stato liberamente aperse51 e sodisfece alla sua domanda, e
sé a ogni suo servigio, quantunque poco potesse, offer22 se. L’abate, udendo il suo ragionare bello e ordinato e
più partitamente i suoi costumi considerando, e lui seco
estimando, come che il suo mestiere fosse stato servile,
essere gentile uomo, più del piacere52 di lui s’accese; e
già pieno di compassion divenuto delle sue sciagure, assai familiarmente il confortò e gli disse che a buona speranza stesse53, per ciò che, se valente uom fosse, ancora
Idio il riporrebbe là onde la fortuna l’aveva gittato e più
20
48 sempre, spesso. Modo frequente nel B. e negli scrittori del tempo, come tutto dì: Par., XVII 51; e qui I 1,88 n.; VII concl,, 4; VIII
intr., 1.
49 «O pur bene, ché noi faremo a pignibotte» (M.).
50 Quasi formula in situazioni simili: II 7,110; IX 9,12; X 9,18; X
9,29.
51 espose pienamente e sinceramente le sue condizioni (cfr. I 3,17
n.).
52 avvenenza, cioè quello che in lui era naturalmente da piacere
(cfr. X 8,24: «dal piacere della bella giovane ... era preso»). Non
occorre ricordare il dantesco «Mi prese del costui piacer sì forte
...» (Inf., V 104) cui si accosta anche Purg., XXXI 50 e 52: e nel
Convivio (IV XXV 12): «E quando elli [il corpo] è bene ordinato e
disposto, allora è bello per tutto e per le parti; ché l’ordine debito
de le nostre membra rende uno piacere non so di che armonia mirabile».
53 stesse bene sperando: III 5,21.
Letteratura italiana Einaudi 184
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
a alto54: e pregollo che, poi verso Toscana andava, gli
piacesse d’essere in sua compagnia, con ciò fosse cosa
23 che esso là similmente andasse. Alessandro gli rendé
grazie del conforto e sé a ogni suo comandamento disse
esser presto.
24
Camminando adunque l’abate, al quale nuove cose si
volgean per lo petto del veduto Alessandro 55, avvenne
che dopo più giorni essi pervennero a una villa56, la quale non era troppo riccamente fornita d’alberghi. E volendo quivi l’abate albergare, Alessandro in casa d’uno
oste, il quale assai suo dimestico era, il fece smontare, e
fecegli la sua camera fare nel meno disagiato luogo della
casa. E quasi già divenuto uno siniscalco57 dello abate, sì
come colui che molto era pratico, come il meglio si potè
per la villa allogata tutta la sua famiglia, chi qua e chi là,
avendo l’abate cenato e già essendo buona pezza di notte58 e ogni uomo andato a dormire, Alessandro domandò l’oste là dove esso potesse dormire.
25
Al quale l’oste rispose: «In verità io non so: tu vedi
che ogni cosa è pieno59 e puoi veder me e la mia famiglia
dormire su per le panche; tuttavia nella camera dell’
abate sono certi granai60 a’ quali io ti posso menare e po54 in alto: Jacopone, Laudi, LXIV 49 «Null’om con canto volò
tanto ad alto»; Vite dei Santi Padri, ed. Manni, Firenze 1731, III, p.
92: «quando e’ vide Gesù ad alto in sulla croce», e III, p. 56.
55 «La vista d’Alessandro gli destava in cuore cose non più provate o sentite» (Fanfani); ‘del’ circa il.
56 borgo, villaggio: III 1,7 n.; III 8,37 n.
57 maggiordomo: Intr., 98 n.
58 essendo notte avanzata, trascorso un buon tratto della notte: IX
2,8; X 9,36: «gran pezza di via gli accompagnarono».
59 ‘Ogni cosa’ è considerato come un neutro (tutto ciò che v’è) ed
è quindi accordato con ‘pieno’: secondo una concordanza non rara
nel B. (per es. V 1,66 «fu ogni cosa di romore e di pianto ripieno»;
e cfr. anche 2,33 n. e II 5,77 n.). E vedi F. BRAMBILLA AGENO,
Il verbo, p. 61.
60 cassoni da grano: uso raro per cui cfr. Giordano da Pisa, Prediche, Firenze 1739, p. 160 (21 febbraio 1304) «onde, perché non
nasce il grano nel granaio ovvero nell’arca?»
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
rovvi suso alcun letticello61, e quivi, se ti piace, come
meglio puoi questa notte ti giaci».
26
A cui Alessandro disse: « Come andrò io nella camera
dell’ abate, che sai che è piccola e per istrettezza non v’è
potuto giacere alcuno de’ suoi monaci? Se io mi fossi di
ciò accorto quando le cortine si tesero62, io avrei fatto
dormire sopra i granai i monaci suoi e io mi sarei stato
dove i monaci dormono».
27
Al quale l’oste disse: «L’opera 63 sta pur così , e tu
puoi, se tu vuogli, quivi64 stare il meglio del mondo.
L’abate dorme, e se’ cortine65 son dinanzi: io vi ti porrò
chetamente una coltricetta, e dormiviti».
28
Alessandro, veggendo che questo si poteva fare senza
dare alcuna noia allo abate, vi s’accordò, e quanto più
chetamente poté vi s’acconciò. L’abate, il quale non
dormiva anzi alli suoi nuovi disii fieramente pensava,
udiva ciò che l’oste e Alesandro parlavano66, e similmente avea sentito dove Alesandro s’era a giacer messo; per
che, seco stesso forte contento, cominciò a dire: «Idio
ha mandato tempo67 a’ miei desiri: se io nol prendo, per
avventura simile a pezza68 non mi tornerà».
61 È un diminutivo, usato specialmente per i letti improvvisati: V
4,21; del resto più innanzi (27) questo letticello si riduce a una ’coltricetta’.
62 quando le cortine del letto dell’abate furono chiuse.
63 «La cosa, la faccenda, la bisogna» (Fanfani).
64 Cioè in questo luogo, in questo letto improvvisato: IX 9,21 n.
65 Era uso, a ciascuno dei tre lati del letto esposti, porre due cortine: sei in tutto quindi (ma il numero potrebbe anche essere uno
dei soliti convenzionali come a IV 2,57 n., oppure ironicamente
iperbolico).
66 L’uso transitivo di parlare non è insolito nel B.: per es. II 5,17
n.; Amorosa Visione, VI 79 e XXVIII 50.
67 occasione, momento favorevole: senso frequente anche nel D.
(per es. II 5,77 n.; II 6,9 n. e 29 n.; II 7,64 n. ecc.).
68 in molto tempo, di qui a gran tempo (avverbialmente). Cioè:
forse un’occasione simile, tanto propizia, non mi tornerà se non fra
molto tempo: III 7,96 n.: «non credevano ancor fermamente, né
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33
E diliberatosi del tutto di prenderlo, parendogli ogni
cosa cheta per l’albergo, con sommessa voce chiamò
Alessandro e gli disse che appresso lui si coricasse: il
quale, dopo molte disdette69 spogliatosi, vi si coricò.
L’abate postagli la mano sopra il petto, lo ‘ncominciò a
toccare70 non altramenti che sogliano fare le vaghe giovani i loro amanti: di che Alessandro si maravigliò forte
e dubitò non forse l’abate, da disonesto amor preso, si
movesse a così fattamente toccarlo. La qual dubitazione,
o per presunzione71 o per alcuno atto che Alessandro facesse, subitamente l’abate conobbe e sorrise; e prestamente di dosso una camiscia, ch’ avea, cacciatasi, presa
la mano d’Alesandro, e72 quella sopra il petto si pose dicendo: «Alessandro, caccia via il tuo sciocco pensiero, e,
cercando qui, conosci quello che io nascondo». Alessandro, posta la mano sopra il petto dell’ abate, trovò due
poppelline tonde e sode73 e dilicate, non altramenti che
se d’avorio fossono state74; le quali egli trovate e conosciuto tantosto75 costei esser femina, senza altro invito
aspettare prestamente abbracciatala, la voleva basciare,
quando ella gli disse: «Avanti che tu più mi t’avicini, attendi quello che io ti voglio dire. Come tu puoi conoscere, io son femina e non uomo; e pulcella partitami da casa mia, al Papa andava che mi maritasse: o tua ventura o
mia sciagura che sia, come l’altro dì ti vidi, sì di te m’accese Amore, che donna non fu mai che tanto amasse uoforse avrebber fatto a pezza, se un caso ...»; e cfr. anche IX 8, 19; e
E. DE FELICE, La preposizione italiana ’a’ cit., XVIII, p. 269.
69 dinieghi rispettosi, complimenti.
70 «Ventura, Iddio, ché ’l senno non ci val due danari» (M.).
71 per congettura, cioè immaginandolo da sé: Comedia, XXIX 41.
72 Corrente l’uso di far seguire un gerundio semplice o composto
(come qui «avendo presa») da una congiunzione e da un verbo di
modo finito: cfr. III 7,87 n.; III 8,5 n.
73 Dittologia consueta: cfr. IX 10,18.
74 «Vedi che anche le reali fanno delle cosette» (M.).
75 subito, immediatamente.
Letteratura italiana Einaudi
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35
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37
mo. E per questo io ho diliberato di volere te avanti che
alcuno altro per marito: dove tu me per moglie non vogli, tantosto di qui ti diparti e nel tuo luogo ritorna».
Alessandro, quantunque non la conoscesse, avendo
riguardo alla compagnia che ella avea, lei stimò dovere
essere nobile e ricca, e bellissima la vedea: per che senza
troppo lungo pensiero rispose che, se questo a lei piacea, a lui era molto a grado. Essa allora levatasi a sedere
in su il letto, davanti a una tavoletta dove Nostro Signore era effigiato postogli in mano uno anello, gli si fece
sposare76; e appresso insieme abbracciatisi, con gran
piacere di ciascuna delle parti quanto di quella notte restava si sollazzarono. E preso tra loro modo e ordine alli
lor fatti, come il giorno venne, Alessandro levatosi e per
quindi77 della camera uscendo donde era entrato, senza
sapere alcuno ove la notte dormito si fosse, lieto oltre
misura con l’abate e con sua compagnia rientrò in cammino; e dopo molte giornate pervennero a Roma.
E quivi, poi che alcun dì dimorati furono, l’abate con
li due cavalieri e con Alessandro senza più78 entrarono
al Papa79; e fatta la debita reverenza così cominciò l’abate a favellare: «Santo padre80, sì come voi meglio che al-
76 si fece dare da lui promessa solenne di matrimonio (cfr. V 4, 46
sgg. n.; X 10,22-23). Tutta la scena era puntualmente presentata
nel Filocolo (IV120 sg.).
77 per il luogo già detto, cioè per la via per cui era entrato: X 3,8 e
18.
78 senz’altri, da soli: II 8,7 n.: «fanciulli rimasi di lei senza più».
79 Secondo le congetture cronologiche formulate a 48 n. il Papa
dovrebbe essere Alessandro III (1159-81), che ebbe stretti ma difficili rapporti con Enrico II.
80 Questo ricorso così spontaneo al Papa, questo risoluto discorso, con il colpo di scena finale, richiamano episodi e toni simili di
vari cantari: per es. della Bella Camilla e della Reina d’Oriente.
Letteratura italiana Einaudi 188
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
cuno altro dovete sapere, ciascun che bene e onestamente vuol vivere dee, in quanto può, fuggire ogni cagione
la quale a altramenti fare il potesse conducere81; il che
acciò che io, che onestamente viver disidero, potessi
compiutamente fare, nell’abito nel qual mi vedete, fuggita segretamente con grandissima parte de’ tesori del re
d’lnghilterra mio padre (il quale al re di Scozia vecchissimo signore82, essendo io giovane come voi mi vedete,
mi voleva per moglie dare), per qui venire, acciò che la
38 vostra Santità mi maritasse, mi misi in via. Né mi fece
tanto la vecchiezza del re di Scozia fuggire, quanto la
paura di non fare per la fragilità della mia giovanezza, se
a lui maritata fossi, cosa che fosse contra le divine leggi e
39 contra l’onore del real sangue del padre mio. E così disposta venendo, Idio, il quale solo ottimamente conosce
ciò che fa mestiere83 a ciascuno, credo per la sua misericordia colui che a Lui piacea che mio marito fosse mi
pose avanti agli occhi: e quel fu questo giovane» e mostrò Alesandro84 «il quale voi qui appresso di me vedete,
li cui costumi e il cui valore son degni di qualunque gran
donna, quantunque forse la nobiltà del suo sangue non
81 «Tu be’ lo facesti quando Alessandro chiamasti nel leto tuo»
(M.). Cfr. Filocolo, V 51,6 «Da fuggire è la cagione acciò che l’effetto cessi». La solenne e sostenuta impostazione del discorso è
sottolineata dagli insistenti omeoteleuti e dal cursus tardus finale: e
cfr. Inf., XXXII 6.
82 Chi dovrebbe essere questo re di Scozia è difficile dire (vedi
48 n.); forse Guglielmo il Leone (1143-1214)? il quale, però, ai
tempi in cui è immaginata l’azione della novella, cioè prima della
morte di Papa Alessandro III (1181), non era vecchissimo. Il re
d’Inghilterra sarà logicamente Enrico II: ma tutti i dati sono favolosamente mescolati.
83 che è opportuno, necessario.
84 «Nota pulcram parenthesin» (M.).
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40
sia così chiara come è la reale. Lui ho adunque preso e
lui voglio; né mai alcuno altro n’avrò, che che se ne debba parere al padre mio o a altrui; per che la principal cagione per la quale mi mossi è tolta via, ma piacquemi di
fornire85 il mio cammino sì per visitare li santi luoghi e
reverendi, de’ quali questa città è piena86, e la vostra
Santità, e sì acciò che per voi il contratto matrimonio tra
Alessandro e me solamente nella presenza di Dio io facessi aperto nella vostra e per conseguente degli altri uo41 mini87. Per che umilmente vi priego che quello che a
Dio e a me è piaciuto sia a grado a voi, e la vostra benedizion ne doniate, acciò che con quella, sì come con più
certezza del piacere di Colui del quale voi siete vicario88,
noi possiamo insieme all’onore di Dio e del vostro vivere
e ultimamente morire».
Maravigliossi Alessandro udendo la moglie esser fi42
gliuola del re d’lnghilterra, e di mirabile allegrezza occulta fu ripieno: ma più si maravigliarono li due cavalieri
e sì si turbarono, che, se in altra parte che davanti al papa stati fossero, avrebbono a Alessandro e forse alla
43 donna fatta villania. D’altra parte il Papa si maravigliò
assai e dello abito della donna e della sua elezione: ma
conoscendo che indietro tornare non si potea89, le volle
del suo priego sodisfare. E primieramente racconsolati i
cavalieri li quali turbati conoscea e in buona pace con la
donna e con Alessandro rimessigli, diede ordine a quel-
85
condurre a termine: I 1,86 n.
Un’altra nota presentita nel Filocolo (V 52).
Sottinteso ’nella presenza’.
88 «Avuta la benedizione del Papa, le pareva di aver la certezza
che a Dio fosse in piacere la loro unione» (Fanfani).
89 Espressione frequente nel B., quasi a manifestare una delle sue
convinzioni di buon senso umano: cfr. per es. Teseida, VII 126; e
qui III 6,43; V 4,43.
86
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lo che da far fosse. E il giorno posto90 da lui essendo venuto, davanti a tutti i cardinali e dimolti altri gran valenti uomini, li quali invitati a una grandissima festa da lui
apparecchiata eran venuti, fece venire la donna realmente91 vestita, la qual tanto bella e sì piacevol parea che
meritamente da tutti era commendata, e simigliantemente Alessandro splendidamente vestito, in apparenza
e in costurni non miga giovane che a usura avesse prestato ma più tosto reale, e da’ due cavalieri molto onorato; e quivi da capo fece solennemente le sponsalizie celebrare, e appresso, le nozze belle e magnifiche fatte, con
la sua benedizione gli licenziò.
45
Piacque a Alessandro e similmente alla donna, di Roma partendosi, di venire a Firenze, dove già la fama aveva la novella recata; e quivi da’ cittadini con sommo
onore ricevuti, fece la donna li tre fratelli liberare, avendo prima fatto ogn’ uom pagare, e loro e le lor donne rimise nelle loro possessioni. Per la qual cosa con buona
grazia di tutti Alessandro con la sua donna, menandone
seco Agolante, si partì di Firenze, e a Parigi venuti onorevolmente dal re ricevuti furono.
46
Quindi92 andarono i due cavalieri in Inghilterra e tanto col re adoperarono, che egli le rendé la grazia sua e
con grandissima festa lei e ’l suo genero ricevette; il quale egli poco appresso con grandissimo onore fé cavaliere
47 e donogli la contea di Cornovaglia93. Il quale fu da tanto94 e tanto seppe fare, che egli paceficò il figliuolo95 col
44
90 fissato, determinato: alla latina composita hora (Orazio, Odi, I
.9): V1,62 n.
91 regalmente: come ‘reale’ vale regale.
92 Di qui.
93 «In verità, il nome della contea suscitò nell’antica letteratura
facili ironie; ma qui, evidentemente, non è il caso» (Marti).
94 così valente.
95 Per questa forma, con riduzione di dittongo, cfr. I 10,12 n.
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
padre: di che seguì gran bene all’isola, e egli n’acquistò
l’amore e la grazia di tutti i paesani, e Agolante ricoverò96 tutto ciò che aver vi doveano interamente e ricco
oltre modo si tornò a Firenze, avendol prima il conte
48 Alessandro cavalier fatto. Il conte poi con la sua donna
gloriosamente visse; e, secondo che alcuni voglion dire,
tra97 col suo senno e valore e l’aiuto del suocero egli
conquistò poi la Scozia e funne re coronato98. –
96
riacquistò, ricuperò: II 6,64 n.; II 7,40 n.
parte: Intr., 47: «tra per la forza della pestifera infermità e per
l’esser molti infermi ...»; III 1,9: «tra per l’una cosa e per l’altra» (e
cfr. Intr., 30 n.). Ma qui la preposizione (con) non è ripetuta davanti al secondo membro.
98
La frase solenne – già usata dal B. (per es., Amorosa Visione,
XII 23) – ben conclude la novella fiabesca, affidata, specie in quest’ultima parte, alla compiacenza del favoloso con apparenza storica. Enrico, il «re giovane», si riconciliò col padre nel 1174, specie
per la mediazione del re di Francia e di Papa Alessandro III; gli
Alessandri, re di Scozia, sono Alessandro I il selvaggio della casa
Malcom (1078-1124), Alessandro II (1198-1249) e Alessandro III
(1241-86) della casa Kenneth. Alcune vaghissime suggestioni alle
sue fantasiose costruzioni il B. forse potrebbe aver avuto dal fatto
che Guglielmo il Leone (1143-1214), re di Scozia, appoggiò il re
giovane nella sua ribellione, ma nel 1174 dovette riconoscersi vassallo di Enrico II; che Alessandro III sposò Margherita figlia di Enrico III d’Inghilterra; che proprio una figlia di Enrico II, Giovanna, era divenuta moglie di un italiano, Guglielmo di Sicilia. Si
ricordi anche che la storia della Scozia si era venuta in qualche modo intrecciando a quella degli Angioini di Napoli, proprio negli anni della dimora del B. in quella città: una delle nipoti di Re Roberto, una figlia di Filippo di Taranto, aveva sposato circa il 1331
Edoardo di Balliol, re di Scozia dal 1332 (cfr. J. R. RODD, The
princes of Achaia, London 1908, II, pp. 170 sgg.). Cfr. per la tecnica allusiva e suggestiva, e non di precisione storica, I, 5,17 n. Per
puntualizzazioni su possibili riferimenti storici cfr. anche le note di
G. H. McWilliam in B., D. transl. by G. H. M., Londra 19952, p.
812.
97
Letteratura italiana Einaudi 192
NOVELLA QUARTA
1
Landolfo Rufolo, impoverito, divien corsale e da’ Genovesi
preso rompe in mare1 e sopra una cassetta di gioie carissime
piena scampa; e in Gurfo2 ricevuto da una femina, ricco si torna a casa sua3.
2
La Lauretta appresso Pampinea sedea; la qual, veggendo lei al glorioso fine della sua novella, senza altro
aspettare a parlar cominciò in cotal guisa:
– Graziosissime donne, niuno atto della fortuna, secondo il mio giudicio, si può veder maggiore che vedere
uno d’infima miseria a stato reale elevare, come la novella di Pampinea n’ha mostrato essere al suo Alessandro
adivenuto. E per ciò che a qualunque della proposta
materia da quinci innanzi novellerà converrà che infra
questi termini dica4, non mi vergognerò io di dire una
novella, la quale, ancora che miserie maggiori in sé con-
3
4
1 fa naufragio: cfr. II 7,101 n. e Passavanti, Specchio, prol.: «coloro che rompono in mare», «uno che avesse rotto in mare».
2 Corfù. Era terra in cui operarono i Bardi (R. DAVIDSOHN,
Storia di Firenze, VI, p. 774).
3 Nessun antecedente o riscontro preciso per questa novella: lo
Zumbini richiama in generale i romanzi greci, le cui vicende avventurose attraverso il Mediterraneo arieggia lo svolgimento del racconto del B. (La novella di Landolfo Rufolo, in «Biblioteca delle
scuole it.», XI, 1906). Ma si tengano presenti l’evidente affinità con
le novelle di Gostanza (V 2) e di Cimone (V 1,26 sg.); il diffuso costume di certi mercanti di trasformarsi in determinate circostanze
– specie a danno degli infedeli – in corsari (cfr. II 6,10 e 27 nn.: e in
gen. PH. GOSSE, Histoire de la piraterie, Paris 1952; e anche G.
RAPPENAU, De la Piraterie du droit des gens à la piraterie par analogie, Paris 1942); e in fine il carattere popolare del tema: Thompson e Rotunda, N 226.
4 chiunque ... dovrà novellare restando dentro questi limiti: cioè
non potrà narrare fortuna maggiore di quella accaduta ad Alessandro. «Nota infra prepositionem quam proprie hic stare» (M.).
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
5
tenga, non per ciò abbia così splendida riuscita5. Ben so
che, pure a quella avendo riguardo6, con minor diligenzia fia la mia udita: ma altro non potendo sarò scusata.
Credesi che la marina da Reggio7 a Gaeta sia quasi la
più dilettevole parte d’ltalia; nella quale assai presso a
Salerno e una costa sopra il mare riguardante, la quale
gli abitanti chiamano la costa d’Amalfi8, piena di picciole città, di giardini e di fontane e d’uomini ricchi e procaccianti in atto di mercatantia 9 sì come alcuni altri10.
Tralle quali cittadette n’è una chiamata Ravello11, nella
quale, come che oggi v’abbia di ricchi uomini, ve n’ebbe
già uno il quale fu ricchissimo12, chiamato Landolfo
Rufolo13; al quale non bastando la sua ricchezza, diside5
esito, conclusione.
Cioè solo, di continuo, considerando la splendida conclusione
della novella di Pampinea: cfr. I 3,5 n.
7 litorale, costiera: cfr. 28 n.
8
«Ora costiera d’Amalfi; ma ancora nel Mezzodì la Costa semplicemente è intesa quella» (Zingarelli).
9 operosi e abili nei commerci. ‘In atto’ vale nell’opera, nell’esercizio: II 8,69 n.: «in qualunque altro atto d’arme». G. Villani, III 1:
«popolo sollecito e procacciante in arti ... e mercatanzie» (per la
forma: Intr., 42 n.).
10 come pochissimi altri, come nessun altro (’alcuno’ = quelque o
aucun): cfr. ntr., 43 n.; I 10,17 n.
11 In provincia di Salerno. Il B. ebbe vari amici a Ravello, fra cui
Angelo di Ravello, «summus magister gramatice», «optimus atque
venerabilis vir et amicus» (Epistole, XIX: e cfr. F. TORRACA,
Aneddoti di storia letteraria, Città di Castello 1925, pp 142 sgg.).
12 nella quale, benché anche oggi vi siano uomini ricchi, un tempo
ve ne fu uno molto più ricco (cfr. Salviati, Avvertimenti,§ 14).
13 Il Camera (Memorie storico-diplomatiche dell’antica città e ducato d’Amalfi, Salerno 1876-81, II, pp 387 sgg.) ricorda che la famiglia Rufolo esisteva nel Duecento-Trecento a Napoli, Molfetta, Ravello. Quest’ultimo ramo era ricco e potente, come testimoniano il
palazzo a due torri e lo splendido pulpito del Duomo di Ravello: i
suoi membri ebbero alti onori e uffici dagli Angioini, e furono anche uomini di cultura («Nicolaus Rufulus de Ravello» figura nel
Trecento «professar tamquam legum doctor» nello Studio napoletano). Un Matteo ebbe ricchi traffici con la Grecia e l’Egitto: ma
nel 1283 fu, col figlio Lorenzo, condannato alla prigionia e alla
6
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6
7
8
rando di raddoppiarla, venne presso che fatto di perder
con tutta quella se stesso14.
Costui adunque, sì come usanza suole essere de’ mercatanti, fatti suoi avvisi15, comperò un grandissimo legno e quello tutto, di suoi denari16, caricò di varie mercatantie e andonne con esse in Cipri. Quivi, con quelle
qualità medesime di mercatantie che egli aveva portate,
trovò essere più altri legni venuti; per la qual cagione
non solamente gli convenne far gran mercato17 di ciò
che portato avea, ma quasi, se spacciar volle le cose sue,
gliele convenne gittar via18: laonde egli fu vicino al disertarsi19. E portando egli di questa cosa seco grandissima
noia, non sappiendo che farsi e veggendosi di ricchissimo uomo in brieve tempo quasi povero divenuto, pensò
o morire o rubando20 ristorare i danni suoi, acciò che là
confisca dei beni come complice dei Vespri siciliani (c. MINIERIRICCIO, Notizie storiche tratte da 62 Registri angioini, Napoli
1877, p. 156). Secondo il Camera, Lorenzo riuscí a riacquistare la
grazia del Re; ma di nuovo perdutala, divenne corsaro; e dopo vari
anni, catturato, morì nel 1291 in un castello della Calabria. Il B. si
sarebbe ispirato a queste vicende mutando il nome (Landolfo era
assai comune nel Regno) e volgendo a fine lieto la triste conclusione storica (e cfr. Registri Cancelleria, I-XX, agli indici).
14 «Per pochissimo non perdette a un punto solo vita e sostanze»
(Zingarelli). È la condanna dell’ingordigia solita e cara al B.: già nel
Filocolo: «più che tu abbia non t’è di necessità disiare ... spesse volte per avere l’uomo più che si convenga, quel che convenevolmente avea, ha perduto» (V 92,9).
15 disegni, piani (cfr. I 4,19 n.).
16 a sue spese, cioè senza ricorrere a prestiti, poiché era ricchissimo: G.Villani, IV 26: «per loro danari si ricomperarono».
17 vendere a basso prezzo, a buon mercato, sottocosto: si direbbe
oggi: cfr. Sacchetti, CCXI; Giordano da Pisa, Quaresimale fiorentino, XX 19: e in generale la nota di F. AGENO, in «Lingua Nostra», XIII, 1952, pp 74 sg.
18 darle via per niente.
19 rovinarsi ( disertare: far deserto, vuotare, toglier ogni vigore);
cfr. II 9,64 n.; VIII 10,57 n.
20 predando: il termine è quasi tecnico (cfr. più sotto e V 2.,6):
due determinazioni da disperato di cui la prima spiega la seconda.
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onde ricco partito s’era povero non tornasse. E trovato
comperatore del suo gran legno, con quegli denari e con
gli altri che della sua mercatantia avuti avea comperò un
legnetto sottile da corseggiare21 e quello d’ogni cosa
oportuna a tal servigio armò e guernì ottimamente, e
diessi a far sua della roba d’ogni uomo e massimamente
sopra i turchi22.
Al qual servigio gli fu molto più la fortuna benivola
che alla mercatantia stata non era. Egli, forse infra uno
anno23, rubò e prese tanti legni di turchi, che egli si
trovò non solamente avere racquistato il suo che in mercatantia avea perduto ma di gran lunga quello aver raddoppiato. Per la qual cosa, gastigato24 dal primo dolore
della perdita, conoscendo che egli aveva assai, per non
incappar nel secondo25 a se medesimo dimostrò26 quello
che aveva, senza voler più, dovergli bastare: e per ciò si
dispose di tornarsi con esso a casa sua. E pauroso della
mercatantia, non s’mpacciò d’investire altramenti i suoi
denari, ma con quello legnetto col quale guadagnati gli
avea, dato de’ remi in acqua, si mise al ritornare. E già
nell’Arcipelago27 venuto, levandosi la sera uno sciloc21 da corsaro, cioè lungo, stretto, veloce (II 7,72 n.: «Chetamente
fece armare una barca sottile»).
22 Quasi per nobilitare Landolfo. La figura del corsaro, del resto,
allora non era spregevole: basti vedere il D. stesso (per es. II 10, IV
4, V 1 e 2) e i cronisti del tempo: e cfr. 1 n.
23 entro un anno.
24 ammonito, fatto accorto, corretto: Corbaccio, 180: «se la lunga
esperienza delle fatiche d’amore ... tanto non t’avea gastigato»; e
anche I 1,45 n.
25 che egli ne aveva abbastanza per non commettere un secondo
sproposito. Alcuni interpretano ‘assai’ come assai ricchezze, ma questo è detto nelle righe seguenti.
26 si persuase: poiché abbiamo visto che Landolfo era avido di
ricchezze.
27 Egeo. «Periodo difettoso per quel relativo tre volte ripetuto: il
quale ... il quale ... il quale...; tanto più che il secondo e terzo sono
oggetti, mentre paiono a prima vista soggetti; la qual cosa rende il
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co28, il quale non solamente era contrario al suo cammino ma ancora faceva grossissimo il mare, il quale il suo
picciolo legno non avrebbe bene potuto comportare, in
uno seno di mare, il quale una piccola isoletta faceva29
da quello vento coperto, si raccolse, quivi proponendo
14 d’aspettarlo migliore30. Nel quale seno poco stante31 due
gran cocche32 di genovesi, le quali venivano di Costantinopoli, per fuggir quello che Landolfo fuggito avea, con
fatica pervennero; Le genti delle quali, veduto il legnetto e chiusagli la via da potersi partire, udendo di cui egli
era e già per fama conoscendol ricchissimo, sì come uomini naturalmente vaghi di pecunia e rapaci33 a doverlo
15 aver si disposero. E messa in terra parte della lor gente
con balestra34 e bene armata, in parte la fecero andare
che35 de’ legnetto niuna persona, se saettato esser non
volea, poteva discendere; e essi, fattisi tirare a’ paliscalmi36 e aiutati dal mare, s’accostarono al picciol legno di
Landolfo e quello con piccola fatica in picciolo spazio,
costrutto malagevole e oscuro» (Fornaciari) . Ma felice è l’apertura
fluente e mossa su due endecasillabi accoppiati.
28 Forma toscana e siciliana del termine di origine araba (G. B.
PELLEGRINI, Gli arabismi nelle lingue neolatine, Brescia 1973,
p. 42 8).
29 «insula portum | Efficit obiectu laterum» (Aen., I 159-60).
30 aspettare un vento migliore. Due endecasillabi anche qui.
31 a poca distanza di tempo o di luogo.
32 Navi da trasporto, di forma tondeggiante, a vele quadre, diffusesi durante le crociate per la loro leggerezza e celerità. Cfr. G. Villani, VIII 77 e IX107, M. Villani, III 79; A. Pucci, Centiloquio,
XLIII 4. I Genovesi nel secondo Trecento avevano concessioni cospicue e basi importanti a Costantinopoli (cfr. V. BRANCA, Su
una redazione, p. 39).
33 «Nota i Genovesi esser ladri per natura» (M.). E cfr. II 6; II
7,33 sgg.; Inf., XXXIII 151 sgg.: ma in contrario II 9.
34 archi di ferro da tirar frecce pesanti: è plurale di «balestro».
35 la fecero andare in un luogo tale che.
36 fattisi rimorchiare dalle loro piccole barche a remi, cioè dalle
scialuppe di cui erano forniti. Per l’uso di a invece di da cfr. Intr.,
20 n.: per paliscalmo, II 7,12 n.
Letteratura italiana Einaudi
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con tutta la ciurma senza perderne uomo, ebbero a man
salva37: e fatto venire sopra l’una delle lor cocche Landolfo e ogni cosa del legnetto tolta, quello
sfondolarono38 lui in un povero farsettino39 ritenendo.
16
Il dì seguente, mutatosi il vento, le cocche ver Ponente vegnendo fer vela e tutto quel dì prosperamente vennero al lor viaggio; ma nel fare della sera si mise40 un
vento tempestoso, il qual faccendo i mari41 altissimi, di17 vise le due cocche l’una dall’altra. E per forza di questo
vento addivenne che quella sopra la quale era il misero e
povero Landolfo con grandissimo impeto di sopra
all’isola di Cifalonia42 percosse in una secca43 e, non altramenti che un vetro percosso a un muro tutta s’aperse
e si stritolò: di che i miseri dolenti44 che sopra quella
erano, essendo già il mare tutto pieno di mercatantie che
notavano e di casse e di tavole, come in così fatti casi
suole avvenire45, quantunque oscurissima notte fosse e il
mare grossissimo e gonfiato, notando quelli che notar
37 senza che nessuno scampasse presero facilmente, senza lotta: II
6,10 «una galea di corsari ... tutti a man salva gli prese».
38 Come nella V 2,7: «di lor la maggior parte da’ saracini mazzerati e isfondolato il legno, esso menato a Tunisi ...»
39 Un vestimento del busto corto, stretto, imbottito, che s’indossava sopra la camicia (MERKEL, op. cit.). Per il motivo corrente
nella novellistica della cattura da parte di pirati cfr. Rotunda, R
12.2*.
40 si levò: VIII 7,34: «da poco in qua s’è messa la più folta neve
del mondo».
41 onde, marosi: Georg., II 479: «maria alta tumescant»; Filocolo,
IV 7,3: «li mari erano alti a cielo» (e si confronti con questa tutta la
descrizione della tempesta nel Filocolo).
42 presso l’isola di Cefalonia, nello Jonio.
43 urtò in un bassofondo: cfr. X 9,66 e Filocolo, V 31,3.
44 «Aggettivo sostantivato cui si riferisce e accorda un altro aggettivo. È uso d’eccezione che compare talvolta anche in latino,
massime in poesia, come Georg., III 147 plurimus volitans, 124
densus pinguis, 291 deserta per ardua» (Fornaciari).
45 Aen., I 118-19: «rari nantes in gurgite vasto | Arma virum tabulacque et Troia gaza per undas».
Letteratura italiana Einaudi 198
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
sapevano46, s’incominciarono a appiccare47 a quelle cose
che per ventura loro si paravan davanti.
18
Intra li quali il misero Landolfo, ancora che molte
volte il dì davanti la morte chiamata avesse, seco eleggendo di volerla più tosto che di tornare a casa sua povero come si vedea, vedendola presta48 n’ebbe paura: e,
come gli altri, venutagli alle mani una tavola, a quella
s’appiccò, se forse Idio49, indugiando50 egli l’affogare,
gli mandasse qualche aiuto allo scampo suo; e a cavallo a
quella, come meglio poteva, veggendosi sospinto dal
mare e dal vento ora in qua e ora in là, si sostenne infino
19 al chiaro giorno. Il quale veduto, guardandosi egli da
torno, niuna cosa altro che nuvoli e mare vedea e una
cassa la quale sopra l’onde del mare notando talvolta
con grandissima paura di lui gli s’appressava, temendo
non quella cassa forse il percotesse per modo che gli
noiasse51; e sempre che presso gli venia, quando potea
con mano, come che poca forza n’avesse, la lontanava.
46
Due altri endecasillabi accoppiati.
afferrare, appigliare: V 4,29 n.
48 pronta, imminente.
49 sperando che forse Iddio. L’uso di particelle che indicano speranza o timore, senza alcun verbo reggente, alla latina, è frequente
negli scritti del tempo: II 10,10 n.: «guardandola bene, non forse
alcuno altro le ’nsegnasse conoscere li dì da lavorare»; IV 6,24: «se
forse per alcun peccato commesso n’ha bisogno»; Considerazioni
delle gloriose stimmate di San Francesco, Firenze 1934, II, p. 127:
«raccomandandosi a Dio, brancolando con le mani se a cosa niuna
egli si potesse appigliare». «Questa costruzione non così piana e facile, ma alquanto alterata... scuopre più l’affanno e periglio del misero Landolfo, e par quasi, per dir così, che fortuneggi anch’ella»
(Annotazioni, p. 89).
50 ritardando, differendo, con uso transitivo come in V 7,42:
«piacciavi di tanto indugiare la essecuzione»: cfr. Inf., XXI 28;
Purg., IV 132; e F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 90.
51 gli facesse danno. In tutto questo periodo «avverti tutti quei
piccoli membretti sospesi ed erranti come il povero naufrago: quella cassa là spiccata; quel gerundio sospeso temendo (equivalente a
una proposizione poiché temeva) e la debolezza e lo stento dell’ulti47
Letteratura italiana Einaudi
199
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
Ma come che il fatto s’andasse, adivenne che solutosi subitamente nell’aere un groppo di vento52 e percosso nel
mare sì grande53 in questa cassa diede e la cassa nella tavola sopra la quale Landolfo era, che, riversata, per forza Landolfo lasciatala54 andò sotto l’onde e ritornò suso
notando55, più da paura che da forza aiutato, e vide da
sè molto dilungata la tavola. Per che, temendo non potere a essa pervenire, s’appressò alla cassa la quale gli era
assai vicina, e sopra il coperchio di quella posto il petto,
21 come meglio poteva, con le braccia la reggeva diritta. E
in questa maniera, gittato dal mare ora in qua e ora in là,
senza mangiare, sì come colui che non aveva che56, e bevendo più che non avrebbe voluto, senza sapere ove si
fosse o vedere altro che mare, dimorò tutto quel giorno
e la notte vegnente.
22
Il dì seguente appresso, o piacer di Dio o forza di
vento che ’l facesse, costui divenuto quasi una spugna,
tenendo forte con ammendune le mani gli orli della cassa a quella guisa che far veggiamo a coloro che per affogar sono quando prendono alcuna cosa, pervenne al lito
dell’isola di Gurfo, dove una povera feminetta per ventura suoi stovigli con la rena e con l’acqua salsa lavava e
20
mo membro, come pure lo sforzo significato da quella lunga parola la lontanava» (Fornaciari).
52 sciolto, scoppiato un nodo di vento, cioè: scatenatasi d’improvviso una raffica; «e immagina il vento quasi aggroppato e annodato
nell’aria, perché ponevano allora l’origine immediata dei venti nei
vapori stessi che generavano la pioggia e gli altri fenomeni meteorici» (Zingarelli).
53 sì grandemente: uso avverbiale dell’aggettivo non comune con
’grande’: ma i Deputati (p. 89) citano esempi contemporanei dai
Miracoli della Madonna («l’imperatore le diede sì grande che la fece cadere in terra») e dalla Tavola rotonda («Tristano viene e dalli
tale della spada sopra l’elmo che lo fé cader in terra, sì grande che
non sa se si è notte o giorno»). Cfr. Intr., 100 n.; II 1,19 n
54 Tanto riversata che lasciatala si riferiscono alla tavola.
55 Inf., XXI 46: «Quei s’attuffò, e tornò sù convolto».
56 non aveva di che mangiare, nulla da mangiare.
Letteratura italiana Einaudi 200
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
facea belli. La quale, come vide costui avvicinarsi, non
conoscendo in lui alcuna forma, dubitando57 e gridando
23 si trasse indietro. Questi non potea favellare e poco vedea, e perciò niente le disse; ma pur, mandandolo verso
la terra il mare, costei conobbe la forma della cassa, e
più sottilmente guardando e vedendo conobbe primieramente le braccia stese sopra la cassa, quindi appresso
24 ravvisò la faccia58 e quello esser che era s’immaginò. Per
che, da compassion mossa, fattasi alquanto per lo mare59, che già era tranquillo, e per li capelli presolo, con
tutta60 la cassa il tirò in terra e quivi, con fatica le mani
dalla cassa sviluppatogli61 e quella posta in capo a una
sua figlioletta che con lei era, lui come un picciol fanciullo ne portò nella terra62: e in una stufa63 messolo,
tanto lo stropicciò e con acqua calda lavò, che in lui ritornò lo smarrito calore e alquante delle perdute forze.
E quando tempo le parve trattonelo, con alquanto di
buon vino e di confetto64 il riconfortò, e alcun giorno
come poté il meglio il tenne, tanto che esso, le forze re25 cuperate, conobbe là dove era. Per che alla buona femina parve di dovergli la sua cassa rendere, la qual salvata
gli avea, e di dirgli che omai procacciasse sua ventura65;
e così fece.
57 non ravvisando in lui alcuna forma, sembianza umana, temendo
...:Intr., 55.
58 Purg., XXIII 48: «E ravvisai la faccia di Forese».
59 avanzatasi un poco nel mare: Intr., 87; III 3,11
60 ‘Tutto’ ha un valore avverbiale (interamente) che va riferito
non al sostantivo ma alla preposizione di compagnia: come in IV
6,32 n. e V 3,32: «trovato il ronzin della giovane ancora con tutta la
sella», e X 9,87: «il letto con tutto messer Torello fu tolto via». E
cfr. Inf., XXVIII 128.
61 avendogli distaccato. E nota due altri endecasillabi di seguito.
62 al borgo, al villaggio: Cfr. II 2,22 n.
63 bagno caldo: III 2,13 n. La situazione è simile alla II 2,26 sgg.
64 dolci, o in generale cibi adatti a far riprendere le forze: I 10, 14
n.
65 cercasse la sua fortuna, andasse pei fatti suoi: modo cortese di
congedare.
Letteratura italiana Einaudi
201
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
Costui, che di cassa66 non si ricordava, pur la prese,
presentandogliele la buona femina, avvisando quella
non potere sì poco valere, che alcun dì non gli facesse le
spese; e trovandola molto leggiera assai mancò della sua
speranza67. Nondimeno, non essendo la buona femina
in casa, la sconficcò per vedere che dentro vi fosse: e
trovò in quella molte preziose pietre e legate e sciolte,
delle quali egli alquanto s’intendea:le quali veggendo e
di gran valor conoscendole, lodando Idio che ancora ab27 bandonare non l’aveva voluto, tutto si riconfortò. Ma sì
come colui che in piccol tempo fieramente era stato balestrato68 dalla fortuna due volte, dubitando della terza,
pensò convenirgli molta cautela avere a voler quelle cose
poter conducere69 a casa sua: per che in alcuni stracci,
come meglio poté, ravoltele70, disse alla buona femina
che più di cassa non aveva bisogno, ma che, se le piacesse, un sacco gli donasse e avessesi quella71.
28
La buona femina il fece volentieri; e costui, rendutele
quelle grazie le quali poteva maggiori72 del beneficio da
lei ricevuto, recatosi suo sacco in collo, da lei si partì , e
montato sopra una barca passò a Brandizio73, e di quin26
66 Di cassa e non della cassa, perché egli non si ricordava neppure di essa.
67 venne meno gran parte della sua speranza.
68 bersagliato. Ancora un periodo aperto su due endecasillabi.
69 affinché potesse portar quelle cose. Per la forma latineggiante
cfr. IV 1,27 n.
70 Riferito a ‘quelle cose’: participio assoluto impersonale con
oggetto costituito da un pronome enclitico: Il 8,24: F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, pp. 166 sg.
71 si tenesse pure [in cambio] la cassa.
72 Trasposizione elegante, come sopra: ‘come poté il meglio’
(24).
73 Brindisi (Purg., III 27), che è di fronte a Corfù.
Letteratura italiana Einaudi 202
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
di, marina marina74, si condusse infino a Trani75, dove
trovati de’ suoi cittadini, li quali eran drappieri76, quasi
per l’amor di Dio fu da lor rivestito, avendo esso già loro
tutti li suoi accidenti narrati fuori che della cassa; e oltre
a questo prestatogli cavallo e datagli compagnia, infino a
Ravello, dove del tutto77 diceva di voler tornare, il mandarono.
29
Quivi parendogli esser sicuro, ringraziando Idio che
condotto ve lo avea, sciolse il suo sacchetto: e con più
diligenzia cercata ogni cosa che prima fatto non avea78,
trovò sé avere tante e sì fatte pietre, che, a convenevole
pregio79 vendendole e ancor meno, egli era il doppio più
30 ricco che quando partito s’era. E trovato modo di spacciare le sue pietre, infino a Gurfo mandò una buona
quantità di denari, per merito80 del servigio ricevuto, alla buona femina che di mare l’avea tratto, e il simigliante
fece a Trani a coloro che rivestito l’aveano; e il rimanente, senza più voler mercatare, si ritenne, e onorevolmente visse infino alla fine. –
74 di costiera in costiera, cioè senza allontanarsi dalla riva, sempre
lungo il litorale. E semplicemente la Marina è chiamata in Puglia la
costa da Barletta a Brindisi. «Alcuni nomi che accennano a superficie o a confine, raddoppiati, diventano avverbi che accennan la più
possibile vicinità, per es. terra terra, buccia buccia, pelle pelle» (Fanfani). E cfr. Annotazioni, pp. 90 sg.
75 La città pugliese ebbe grande importanza al tempo dei Normanni e degli Svevi. Di questa parte d’Italia il B. ebbe probabilmente conoscenza diretta:
cfr. IX 10 e nn.; Epistole, IV; Comedia, XXVl 70.
76 fabbricanti o commercianti di stoffe.
77 assolutamente, in ogni modo: II 6,23 n.
78 indagata, esaminata (Inf., I 84) ogni cosa con diligenza maggiore
che non avesse fatto prima.
79 prezzo conveniente.
80 in ricompensa.
Letteratura italiana Einaudi
203
NOVELLA QUINTA
1
Andreuccio da Perugia, venuto a Napoli a comperar cavalli, in
una notte da tre gravi accidenti soprapreso, da tutti scampato
con un rubino si torna a casa sua1.
1Antecedenti della prima parte della novella sono stati indicati
nel fabliau Bouvin de Provins (Recueil général cit., V, p. 52; ma cfr.
J. BÉDIER, Les fabliaux cit., p. 449) e anche in un’avventura di
Pradjota (A. SCHIEFNER, Mahakatjajana v. König Tschanda Pradiota, Pietroburgo 1875, p. 23); e della seconda parte (il furto nella
tomba) nel romanzo di Antheia e Habrocome (III 8) utilizzato forse
dal B. anche per altre novelle (per es. II 7 e pure III 8). Si potrebbe
aggiungere, per l’episodio del pozzo, anche la novellistica popolare
araba riflessa dalle Mille e una notte (per es. Storia di Alì az-Zaibaq,
711-12): ma questi riscontri sono tutt’altro che convincenti. Questa novella, la più napoletana del B., ha invece un preciso sfondo
ambientale e storico che è in certo senso l’antecedente più diretto e
interessante. È facile quindi pensare che sia stata intrecciata su
aneddoti reali, popolari, fantastici, composti in una trama suggerita da quelle generali circostanze e condizioni d’ambiente (per cui
B. CROCE, La novella di Andreuccio da Perugia, Bari 1911; poi in
Storie e leggende napoletane, Bari 1926), e dalla più consueta saggezza e precettistica dei circoli mercantili, codificata per es. da
Paolo da Certaldo (Libro di buoni costumi, n. 86: «Guardati di non
andare fuori di casa tua di notte, se puoi fare altro: e se ti conviene
ire, mena teco compagnia fidata e uno buono e grande lume. Non
andare mai a casa di niuna femina mondana né d’altra simile di
notte, per ch’ella mandi per te ... ché molte beffe se ne sono già vedute, e spezialmente in terre marine e forestiere»). Anche i possibili riferimenti a tradizioni popolari italiane (per es. G. PITRÈ Fiabe
novelle e racconti, Palermo 1873, III, pp 237 Sgg.; G. NERUCCI,
Novelle montalesi, Firenze 1880, pp 369 sgg.; A. GIANANDREA,
Biblioteca delle tradizioni marchigiane, Jesi 1878, pp. 120 sgg.»El
Mercante») non testimoniano che il grande successo di questi episodi avventurosi, attestato pure dalla novellistica letteraria (Sacchetti, CXX; Sercambi, Novelle, IX e XCVIII): e cfr. Thompson e
Rotunda, K 335.1 e 6; N 511.1.1 e 522. Per l’ambíentazione generale della novella, oltre il saggiodi Croce, cfr. C. DE FREDE in
AA.VV., Storia di Napoli, III, Napoli 1969, pp. 83 sgg. (per la «mala vita», pp. 196 sgg.).
Letteratura italiana Einaudi 204
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
2
3
– Le pietre da Landolfo2 trovate – cominciò la Fiammetta, alla quale del novellare la volta toccava – m’hanno alla memoria tornata una novella non guari meno di
pericoli in sé contenente che la narrata dalla Lauretta3,
ma in tanto differente da essa, in quanto quegli forse in
più anni e questi nello spazio d’una sola notte addivennero, come udirete.
Fu, secondo che io già intesi, in Perugia un giovane il
cui nome era Andreuccio di Pietro, cozzone di cavalli4;
il quale, avendo inteso che a Napoli era buon mercato di
cavalli5, messisi in borsa cinquecento fiorin d’oro6, non
2 È questo, del riferimento e della connessione a un particolare
(come nelle VII 5 e X 7, ad esempio), un mezzo consueto e tradizionale di collegare una novella all’altra (cfr. IV 6,3 n.). Anche in
quella di Andreuccio la fortuna inaspettata è rappresentata da una
pietra preziosa, il rubino trafugato al cadavere del vescovo Minutolo. È questa l’unica volta che il passaggio da una novella all’altra
non sia segnato da qualche riga riferentesi alla «cornice»: qui il
narratore comincia a parlare ex abrupto, senza neppure la solita
premessa generale, spesso di carattere morale (ma cfr. I 1,2 n.).
3 I nomi delle fanciulle, specialmente quelli di Fiammetta e Lauretta, sono ora familiarmente preceduti dall’articolo, come avviene
in questo stesso paragrafo, e ora no (e cfr. I concl., 16 n.; IV 4,5 n.).
4 sensale di cavalli (lat. volg. cocio): Trattato di ben vivere, Firenze
1848, III: «siccome fanno que’ cozzoni» di cavalli. Il Croce cita un
documento (Reg. angioini, 201, f 78 A) in cui appare un Andrea da
Perugia che nel 1313 era «cursor», cioè corriere, di Adenolfo di
Aquino, uno dei candidati alla paternità putativa di Fiammetta (G.
DE BLASIIS, Racconti di storia napoletana, Napoli 1908, pp.168
sgg.) Ma l’ufficio del personaggio non sembra permettere un’identificazione col protagonista della novella; e d’altra parte le ipotesi
sui suoi possibili rapporti indiretti col B., attraverso Fiammetta,
suonano come pure fantasie nel quadro tutto letterario di questo
amore (cfr. V. BRANCA, B. medievale, pp. 191 sgg.)
5 I cavalli del Regno di Napoli, già rinomati nel Medioevo, furono anche più ricercati dopo che Carlo I ebbe preso vari provvedimenti e promosso varie cure per migliorarne le razze (cfr. C. MINIERI –RICCIO, Genealogia di Carlo I d’Angiò, Napoli 1857, pp.
69 sgg.) e per questo a Napoli si commerciavano bene.
6 Cfr. II 1,21 n.
Letteratura italiana Einaudi
205
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
4
5
6
essendo mai più fuori di casa stato, con altri mercatanti
là se n’andò. Dove giunto una domenica sera in sul vespro, dall’oste suo7 informato la seguente mattina fu in
sul Mercato8 , e molti ne vide e assai ne gli piacquero e
di più e più mercato tenne9 , né di niuno potendosi accordare , per mostrare che per comperar fosse, sì come
rozzo e poco cauto più volte in presenza di chi andava e
di chi veniva trasse fuori questa sua borsa de’ fiorini che
aveva10.
E in questi trattati11 stando, avendo esso la sua borsa
mostrata, avvenne che una giovane ciciliana12 bellissima,
ma disposta per piccol pregio13 a compiacere a qualunque uomo, senza vederla egli, passò appresso di lui e la
sua borsa vide e subito seco disse: «Chi starebbe meglio
di me se quegli denari fosser miei?» e passò oltre. Era
con questa giovane una vecchia similmente ciciliana, la
quale, come vide Andreuccio, lasciata oltre la giovane
andare, affettuosamente corse a abbracciarlo: il che la
giovane veggendo, senza dire alcuna cosa, da una delle
parti la cominciò a attendere14. Andreuccio, alla vecchia
rivoltosi e conosciutala, le fece gran festa, e prometten7 L’albergo di Andreuccio era, come si dice più innanzi (84), «alla marina»; era cioè prossimo alla regione del Pertugio (cfr. 14).
8 Il B. allude evidentemente alla piazza di questo nome, dove ebbe luogo nel 1268 l’esecuzione capitale di Corradino.
9 Cioè su molti cavalli intavolò trattative (per comperarli).
10 «Nota quante indicazioni non necessarie a farsi! mentre bastava il dire ’la borsa’ o ‘questa borsa’. Ma queste parole ci mostrano
quanto caso facesse Andreuccio di quella borsa (sua), e come si tenesse d’averla (che aveva)» (Fornaciari).
11 trattative: II 6,41 n.
12 È forma normale nel Trecento (Inf., XXVII 7). Numerose erano le cortigiane siciliane a Napoli; il B. poi farà protagonista di
un’avventura simile un’altra cortigiana, Madonna Jancofiore, anch’essa siciliana (VIII 10). Si veda Croce, p. 32, Che cita pure l’Antonius del Pontano.
13 prezzo: II 4,29 n.
14 in disparte la cominciò ad osservare: cfr. III 7,22 n.
Letteratura italiana Einaudi 206
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
dogli essa di venire a lui all’albergo, senza quivi tenere
troppo lungo sermone, si partì : e Andreuccio si tornò a
7
mercatare ma niente comperò la mattina. La giovane,
che prima la borsa d’Andreuccio e poi la contezza15 della sua vecchia con lui aveva veduta, per tentare se modo
alcuno trovar potesse a dovere aver quelli denari, o tutti
o parte, cautamente incominciò a domandare chi colui
fosse o donde16 e che quivi facesse e come il conoscesse.
8
La quale ogni cosa così particularmente de’ fatti d’Andreuccio le disse come avrebbe per poco17 detto egli
stesso, sì come colei che lungamente in Cicilia col padre
di lui e poi a Perugia dimorata era, e similmente le contò
dove tornasse18 e perché venuto fosse.
9
La giovane, pienamente informata e del parentado di
lui e de’ nomi, al suo appetito fornire 19 con una sottil
malizia, sopra questo fondò la sua intenzione20; e a casa
tornatasi, mise la vecchia in faccenda per tutto il giorno
acciò che a Andreuccio non potesse tornare; e presa una
sua fanticella, la quale essa assai bene a così fatti servigi
aveva ammaestrata, in sul vespro la mandò all’albergo
dove Andreuccio tornava.
10
La qual, quivi venuta, per ventura lui medesimo e solo21 trovò in su la porta e di lui stesso il domandò. Alla
quale dicendole egli che era desso22, essa, tiratolo da
parte, disse: «Messere, una gentil donna di questa terra,
15
dimestichezza, familiarità: Teseida, I 102.
Cfr. II 3,20 n.
17 quasi, pressappoco: X 7,24 n.
18 albergasse: I 7,9 n. e qui al 9 «dove Andreuccio tornava».
19 per soddisfare la sua cupidigia.
20 sulle informazioni ricevute dalla vecchia fondò il suo piano (‘intenzione’) (Sapegno).
21 Circostanza questa – come più sotto quella di lasciar l’albergo
‘senza alcuna cosa dir’ – messa in rilievo perché necessaria allo
svolgimento di tutta l’avventura.
22 quello appunto, proprio lui (lat. id ipsum): II 1,37; II 8,48, Inf.,
XXVIII 96. S’usa di solito come predicato.
16
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
quando vi piacesse, vi parleria volentieri». Il quale ve vedendola, tutto postosi mente e parendogli essere un bel
fante23 della persona, s’avvisò questa donna dover di lui
essere innamorata, quasi altro bel giovane che egli non si
trovasse allora in Napoli, e prestamente rispose che era
apparecchiato e domandolla dove e quando questa donna parlargli volesse.
12
A cui la fanticella rispose: «Messere, quando di venir
vi piaccia, ella v’attende in casa sua».
13
Andreuccio presto, senza alcuna cosa dir nell’albergo,
disse: «Or via mettiti avanti, io ti verrò appresso24».
14
Laonde la fanticella a casa di costei il condusse, la
quale dimorava in una contrada chiamata
Malpertugio25, la quale quanto sia onesta contrada il nome medesimo il dimostra. Ma esso, niente di ciò sappiendo né suspicando, credendosi in uno onestissimo
luogo andare e a una cara donna, liberamente26, andata
la fanticella avanti, se n’entrò nella sua casa; e salendo su
11
23 guardatosi bene da capo a piede e sembrandogli d’essere un bel
ragazzo, un bel giovinotto (Intr., 48 n.).
24 Inf., XV 40: «Però va oltre: i’ ti verrò a’ panni».
25 Come ha documentato largamente il Croce (pp 24 sgg.) Pertugio o Malpertugio era una contrada (o regio) attigua alla contrada
del Porto o compresa in essa: è frequentemente ricordata in documenti del Duecento e Trecento. Prendeva nome da un piccolo adito aperto nella muraglia della città verso lo sbocco di Rua Catalana,
come scorciatoia per recarsi al Porto (C. CAPASSO, in «Arch.
stor. nap.», XVIII, 1893, p. 110); era situato pressappoco fra le
odierne vie Flavio Gioia e San Nicola alla Dogana (cfr. forse anche
Basile, Pentamerone, Bari 1925, I, p. 87). Era una zona destinata ai
traffici. Carlo II, circa il 1307, aveva fatto edificare nei pressi il
nuovo arsenale e tutto intorno sorgevano le logge dei mercanti forestieri, fra cui quelle dei siciliani (G. COLOMBO, in «Napoli nobilissima», III, 1894, p. 147): non lontano era anche il banco dei
Bardi, in cui il B. passò vari anni della sua giovinezza (TORRACA,
G. B. a Napoli, pp. 14 sgg.). Intorno si erano naturalmente stabiliti
luoghi di piacere e covi di gente di malaffare.
26 a una donna dabbene, senza sospetto, ingenuamente: III 7,84:
«liberamente ... tennero lo ’nvito»: e anche Purg., III 64.
Letteratura italiana Einaudi 208
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
per le scale, avendo la fanticella già la sua donna chiamata e detto «Ecco Andreuccio27» , la vide in capo della
scala farsi a aspettarlo.
15
Ella era ancora assai giovane, di persona grande e con
bellissimo viso, vestita e ornata assai orrevolemente28; alla quale come Andreuccio fu presso, essa incontrogli da
tre gradi discese29 con le braccia aperte, e avvinghiatogli
il collo alquanto stette senza alcuna cosa dire, quasi da
soperchia tenerezza impedita; poi lagrimando gli basciò
la fronte30 e con voce alquanto rotta31 disse: «O Andreuccio mio, tu sii il ben venuto!»
16
Esso, maravigliandosi di così tenere carezze 32, tutto
stupefatto rispose: «Madonna, voi siate la ben trovata!»
17
Ella appresso, per la man presolo, suso nella sua sala
il menò e di quella, senza alcuna cosa parlare33, con lui
nella sua camera se n’entrò, la quale di rose, di fiori
d’aranci e d’altri odori tutta oliva34, là dove egli un bellissimo letto incortinato35 e molte robe su per le
27 «Per far credere che avessero molte volte parlato di lui insieme, come di una persona di famiglia» (Zingarelli).
28 Cioè con decoro e onestà: I 7,9 n.
29 gli discese incontro tre gradini. A vari avverbi-preposizioni indicanti una relazione locale, come su, entro, dietro, sotto (e qui ‘incontro’), si uniscono alle volte – e frequentemente nel Sacchetti e
nei Villani – enclitiche pronominali o avverbiali: suvvi, entrovi, dietrogli, sottovi. Così qui incontrogli.
30 A sottolineare la castità del gesto sororale (e cfr. 24); sono definiti infatti «onesti basci» (25).
31 Per la finta commozione: cfr. VII 8,20 n.
32 «Modi che dimostrano quanto abbiam caro l’oggetto: siano
parole, sian cenni, sian fatti» (Tommaseo). Cfr. II 8,79; VII 9,38;
VIII 8,22.
33 Il solito parlare usato transitivamente (II 3,28 n.).
34 olezzava, odorava: III intr., 6 n.; Amorosa Visione, XLI 72;
Purg., XXVIII 6 (e anche CAIX, op. cit., pp. 84 sgg.).
35 chiuso da cortine: un letto di lusso, dunque (II 3,26 n.).
Letteratura italiana Einaudi
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stanghe36, secondo il costume di là37 , e altri assai belli e
ricchi arnesi vide38; per le quali cose, sì come nuovo39,
fermamente credette lei dovesse essere non men che
gran donna.
18
E postisi40 a sedere insieme sopra una cassa che appiè
del suo letto era, così gli cominciò a parlare: « Andreuccio, io sono molto certa che tu ti maravigli e delle carezze le quali io ti fo e delle mie lagrime, sì come colui che
non mi conosci e per avventura mai ricordar non m’udisti41. Ma tu udirai tosto cosa la quale più ti farà forse
maravigliare42, sì come è che io sia tua sorella; e dicoti
che, poi che Idio m’ha fatta tanta grazia che io anzi la
mia morte ho veduto alcuno de’ miei fratelli, come che
io disideri di vedervi tutti43, io non morrò a quella ora
che io consolata non muoia44. E se tu forse questo mai
36 molte vesti (I 7,9) appese a pertiche (fr. perches) o traverse di legno: alle quali, non usandosi gli armadi, si appendevano gli abiti.
37
Questo inciso, secondo il Torraca, indica che chi descrive la
scena è a Firenze lontano da Napoli. Ma ’là’ potrebbe riferirsi anche alla Sicilia: nella casa di un’altra cortigiana siciliana troviamo
un ambiente strettamente simile: «... oricanni d’ariento bellissimi e
pieni qual d’acqua rosa, qual d’acqua di fior d’aranci ... ; sentì quivi maraviglioso odore di legno aloè e d’uccelletti cipriani, vide il
letto ricchissimo e molte belle robe su per le stanghe. Le quali cose, tutte insieme e ciascuna per sé, gli fecero stimare costei dovere
essere una grande e ricca donna» (VIII 10,18 e 24).
38 masserizie, suppellettili: Testi fiorentini, p. 179; G. Villani, XII
21.
39 semplice, ingenuo, inesperto.
40 «Il soggetto dell’implicita (si dica, essi) include quello della
reggente (essa sottinteso)» (Contini).
41 Fiordaliso finge cioè di credere che forse ( per avventura ) potrebbe anche essergli nota di nome.
42 Purg., XXI 121 sgg.: «Forse che tu ti maravigli, ... Ma più
d’ammirazion vo’ che ti pigli».
43 «Non già vederli, i fratelli, perché l’affetto suo non può distrarsi da colui che le è davanti e che quasi li raccoglie in sé» (Zingarelli).
44 Cioè oramai, qualunque sia l’ora in cui dovrò morire non potrò
che morire consolata.
Letteratura italiana Einaudi 210
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
più non udisti, io tel vo’ dire. Pietro, mio padre e tuo,
come io credo che tu abbi potuto sapere, dimorò lungamente in Palermo, e per la sua bontà e piacevolezza45 vi
fu e è ancora da quegli che il conobbero amato assai. Ma
tra gli altri che molto l’amarono, mia madre, che gentil
donna fu e allora era vedova, fu quella che più l’amò46,
tanto che, posta giù la paura del padre e de’ fratelli e il
suo onore, in tal guisa con lui si dimesticò, che io ne
20 nacqui e sonne47 qual tu mi vedi. Poi, sopravenuta cagione a Pietro di partirsi di Palermo e tornare in Perugia, me con la48 mia madre piccola fanciulla lasciò, né
mai, per quello che io sentissi, più né di me né di lei si ricordò: di che io, se mio padre stato non fosse, forte il riprenderei avendo riguardo alla ingratitudine di lui verso
mia madre mostrata (lasciamo stare allo amore che a me
come a sua figliuola non nata d’una fante né di vil femina dovea portare), la quale le sue cose e sé parimente,
senza sapere altrimenti chi egli si fosse, da fedelissimo
21 amor mossa rimise nelle sue mani. Ma che è49? Le cose
mal fatte e di gran tempo passate sono troppo più age19
45
amabilità.
Tutta la storia romanzesca è strettamente simile a quella che il
B. architettò letterariamente per se stesso, e specialmente nel racconto di Ibrida nella Comedia (XXIII): ma ha anche i colori della
verisimiglianza nell’avventurosa vita mercantile dei tempi (il Velluti, per es., narra alle pp. 147 sgg. un episodio simile di un suo fratello che aveva avuto una figlia naturale «a Trapani in Cicilia», fatta poi venire a Firenze).
47 e ne sono, sono restata. È sono col suffisso di moto da luogo
(III 1,9 n.) quasi a insistere sull’origine; ed è modo comune, nel
Trecento, parlando dei figli che restavano d’alcuno.
48 Davanti al possessivo, anche coi nomi di parentela, si poneva
di solito l’articolo: per es. II 8,40 n.; Purg., VI 103 (Rohlfs, 432).
49 Ma a che serve [recriminare]? «L’abilissima commediante siciliana intramette al racconto della sua nascita, e dell’abbandono che
di lei e della madre avrebbe fatto il padre d’Andreuccio, un biasimo morale, subito cancellato dalla riverenza e dall’indulgente rassegnazione» (Croce).
46
Letteratura italiana Einaudi
211
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
voli a riprendere che a emendare50: la cosa andò pur così . Egli mi lasciò piccola fanciulla in Palermo, dove, cresciuta quasi come io mi sono, mia madre, che ricca donna era, mi diede per moglie a uno da Gergenti51, gentile
uomo e da bene, il quale per amor di mia madre e di me
tornò52 a stare a Palermo; e quivi, come colui che è molto guelfo53 cominciò a avere alcuno trattato col nostro re
23 Carlo. Il quale, sentito dal re Federigo54 prima che dare
gli si potesse effetto, fu cagione di farci fuggire di Cicilia
quando io aspettava essere la maggior cavalleressa55 che
mai in quella isola fosse; donde, prese quelle poche cose
che prender potemmo (poche dico per rispetto alle molte le quali avavamo56, lasciate le terre e li palazzi, in questa terra ne rifuggimmo, dove il re Carlo verso di noi
22
50 Anche nella Fiammetta (I 8,3): «Le preterite cose mal fatte, si
possono molto più agevolmente biasimare che emendare»: e cfr.
Livio, III 10,30.
51 Girgenti, oggi Agrigento, nella Sicilia meridionale.
52 venne: VIII 9,7.
53 E perciò amico della dinastia angioina – cacciata di Sicilia dopo i Vespri del 1282 – e del «nostro re Carlo» (Carlo II lo zoppo,
re dal 1285 al 1309): cioè negli anni in cui si immagina l’azione.
54 Federigo II d’Aragona, figlio di Pietro III e di Costanza (figlia
di Manfredi: Purg., III 115), «onor di Cicilia e d’Aragona», proclamato re di Sicilia nel 1296 dal generale Parlamento di Catania, ufficialmente riconosciuto dopo la pace di Caltabellotta (1302), regnò
fino al 1337. Molte macchinazioni e congiure (‘trattati’: cfr. II 6,41
n.) vi furono durante i lunghi anni di guerre e contese. ‘Il quale’ si
riferisce appunto al precedente ‘trattato’.
55 sposa di un nobile cavaliere, gran dama (fr. chevaleresse): cfr.
Rustico di Filippo, Il giorno avesse, v. 4 «e non cavalleressa né cattana»; per una simile forma femminile, compagnessa cfr. Filostrato,
IV 84.
56 Per queste forme analogiche (su eravamo, eravate: vedine
un’altra tre righe più sotto) cfr. NANNUCCI, Verbi, pp. 142 sgg.
con ampia esemplificazione; M. BARBI, Pref. alla Vita Nuova, Firenze 1931, p. CCCV; e nel B. stesso, oltre II 10,31 n.: I 4,21 n.;
Teseida, lett. dedicatoria e XI 42; Amorosa Visione, XXX 9 e
XLIX 3.
Letteratura italiana Einaudi 212
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
trovammo sì grato che, ristoratici 57 in parte li danni li
quali per lui ricevuti avavamo, e possessioni e case58 ci
ha date, e dà continuamente al mio marito, e tuo cognato che è59, buona provisione60, sì come tu potrai ancor
vedere. E in questa maniera son qui, dove io, la buona
mercé di Dio e non tua61 , fratel mio dolce, ti veggio».
24
E così detto, da capo il rabbracciò62 e ancora teneramente lagrimando gli basciò la fronte.
25
Andreuccio, udendo questa favola così ordinatamente, così compostamente63 detta da costei, alla quale in
niuno atto64 moriva la parola tra’ denti né balbettava la
lingua, e ricordandosi esser vero che il padre era stato in
Palermo e per se medesimo65 de’ giovani conoscendo i
costumi, che volentieri amano nella giovanezza, e veggendo le tenere lagrime, gli abbracciari e gli onesti basci,
ebbe ciò che ella diceva più che per vero. E poscia che
26 ella tacque, le rispose: «Madonna, egli non vi dee parer
gran cosa se io mi maraviglio: per ciò che nel vero66, o
57 risarcitici: cfr. II 2,37 n.; II 4,8; V 9,20: «Son venuta a ristorarti de’ danni».
58 «Polisindeto bene appropriato a questa ostentazione di grandigia» (Rua).
59 e tuo cognato al tempo stesso.
60 di denaro, cioè pensione, stipendio. Molti esuli e profughi siciliani erano difatti impiegati o sussidiati dalla Corte napoletana
(Croce, pp 32 e 50): e cfr. anche 59 n.
61 È un rimprovero ad Andreuccio che non aveva cercato la sorella (cfr III 3,27).
62 Frequenti nel D. queste forme iterative (cfr. per es. II 6,68; II
8,89; IV 8,25; V 4,48 ecc.).
63 acconciamente, coerentemente; oppure artificiosamente, scaltramente. Per il primo senso VI 1,1: «Un cavalier dice a madonna
Oretta di portarla con una novella: e mal compostamente dicendola ...»; per il secondo. Fatti di Enea, XII: «le sue parole composte»
(che traduce simulata verba).
64 in nessuna maniera (II 4,5 n.), cioè qualunque cosa dicesse o facesse.
65 per esperienza propria.
66 in verità.
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27
28
29
30
che mio padre, per che che67 egli sel facesse, di vostra
madre e di voi non ragionasse giammai, o che, se egli ne
ragionò, a mia notizia venuto non sia, io per me niuna
coscienza aveva68 di voi se non come se non foste; e emmi tanto più caro l’avervi qui mia sorella trovata, quanto
io ci69 sono più solo e meno questo sperava. E nel vero
io non conosco uomo di sì alto affare al quale voi non
doveste esser cara, non che a me che un picciolo mercatante sono. Ma d’una cosa vi priego mi facciate chiaro:
come sapeste voi che io qui fossi?»
Al quale ella rispose: «Questa mattina mel fé sapere
una povera femina la qual molto meco si ritiene70, per
ciò che con nostro padre, per quello che ella mi dica,
lungamente e in Palermo e in Perugia stette; e se non
fosse che più onesta cosa mi parea che tu a me venissi in
casa tua71 che io a te nell’altrui, egli ha gran pezza72 che
io a te venuta sarei».
Appresso queste parole ella cominciò distintamente a
domandare di tutti i suoi parenti nominatamente73, alla
quale di tutti Andreuccio rispose, per questo ancora più
credendo quello che meno di creder gli bisognava.
Essendo stati i ragionamenti lunghi e il caldo grande,
ella fece venire greco e confetti74 e fé dar bere75 a An67 per qualsiasi ragione. Se l’uso di che che è frequente anche nel
B., è rarissimo nei casi obliqui.
68 Cioè: nulla sapevo.
69 qui: cfr. I 1,26 n.
70 s’intrattiene con me molto, con molto attaccamento, è cosa mia,
e quindi frequenta molto la mia casa: I 1,18 n. (ritegno) e V 4,6:
«usava molto nella casa di messer Lizio, e molto con lui si riteneva»; e G. Villani, XII 4: «Il modo c’hai a tener volendoli bene governare si è questo: che tu ti ritenga col popolo».
71 Nota la sottolineatura ‘casa tua’.
72 lungo tempo: II 3,24 n.
73 per nome.
74 Cfr. I 10,14 n. Il greco è un vino bianco, comune nell’Italia
meridionale.
75 Per questa costruzione cfr. I 7,18 n.; e cfr., anche per il proba-
Letteratura italiana Einaudi 214
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
dreuccio; il quale dopo questo partir volendosi, per ciò
che ora di cena era, in niuna guisa il sostenne76, ma sem31 biante fatto di forte turbarsi abbracciandol disse: «Ahi
lassa me, ché assai chiaro conosco come io ti sia poco cara! Che è a pensare che tu sii77 con una tua sorella mai
più da te non veduta, e in casa sua, dove, qui venendo,
smontato78 esser dovresti, e vogli di quella uscire per andare a cenare all’albergo? Di vero tu cenerai con esso
meco79: e perché mio marito non ci sia, di che forte mi
grava80, io ti saprò bene secondo donna81 fare un poco
d’onore».
32
Alla quale Andreuccio, non sappiendo altro che rispondersi, disse: «Io v’ho cara quanto sorella si dee avere, ma se io non ne vado, io sarò tutta sera aspettato a
cena e farò villania».
33
E ella allora disse: «Lodato sia Idio, se io non ho82 in
casa per cui83 mandare a dire che tu non sii aspettato!
benché tu faresti assai maggior cortesia, e tuo dovere,
mandare84 a dire a’ tuoi compagni che qui venissero a
cenare, e poi, se pure andare te ne volessi, ve ne potresti
tutti andar di brigata85».
bile valore fraseologico di fé, F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo,
pp 472 sgg.
76 lo sopportò, lo permise: I 1,26 n.; II 7,26 n.
77 Come è possibile pensare che tu sia ...
78 «Ora si direbbe disceso (è disceso al tale albergo): ’Carlo di Valois scavalcò nel palagio degli Spini e i suoi baroni smontarono nelle case ... dei Frescobaldi’, Storie Pistoresi» (Rua).
79 «Sovresso, sottesso, lunghesso ed altre simili preposizioni si
adoperano così col rinforzamento di quell’esso che ha sovente la
forza dell’ipse latino» (Fornaciari). Cfr. VI concl., 31 n.
80 della qual cosa molto mi rincresce: X 2,27; Filostrato, VI 27.
81 per quel che è concesso a una donna, cioè modestamente: X
9,19: «secondo cena sproveduta». Costruzione dura per il perché
concessivo con principale affermativa (Mussafia, pp 500 sgg.).
82 Grazie a Dio, immaginarsi se io non ho (II 4,18 n.).
83 persona per mezzo della quale.
84 «Senza preposizione (di contro all’uso moderno) nonostante il
valore strumentale» (Contini).
85 tutti insieme, in compagnia: Santa Caterina, Lettere, Firenze
Letteratura italiana Einaudi
215
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
Andreuccio rispose che de’ suoi compagni non volea
quella sera, ma, poi che pure a grado l’era, di lui facesse
il piacer suo. Ella allora fé vista di mandare a dire all’albergo che egli non fosse atteso a cena; e poi, dopo molti
altri ragionamenti, postisi a cena e splendidamente di
più vivande serviti, astutamente quella menò per lunga86
infino alla notte obscura; e essendo da tavola levati e
Andreuccio partir volendosi, ella disse che ciò in niuna
guisa sofferrebbe87 , per ciò che Napoli non era terra da
andarvi per entro di notte88, e massimamente un forestiere; e che come che egli a cena non fosse atteso aveva
mandato a dire, così aveva dello albergo fatto il somi35 gliante89. Egli, questo credendo e dilettandogli, da falsa
34
1860, I, p. 179: «di bella brigata ... facciamo sacreficio a Dio» e II,
p. 219. ‘Potresti’ è forma fiorentina della II plurale.
86
menò la cena in lungo: G. Villani, XI 44: «Parendo a’ Fiorentini che messer Mastino e Alberto della Scala gli menassono per lunga».
87 permetterebbe: III 5,15: «non sofferete che io per tanto e tale
amore morte riceva» (per il condizionale sincopato cfr. I 1,14 n.). t
uno di quei condizionali in funzione di «futuro del passato» ricorrenti spesso nel D. (per es. VIII 10,62; IX 4,8; X 2,15) su cui cfr. F.
BRAMBILLA AGENO, Il verbo, pp. 346 sgg.
88 «I documenti angioini ricordano con grande frequenza ruberie, tumulti, risse, ferite, omicidi che accadevano a Napoli» specie
di notte (Croce, pp 29 e 48 sgg.). E il Petrarca scrivendo da Napoli
a Giovanni Colonna (Familiares, V 6,2 sg.: «nocturnum iter, hic
non secus atque inter densissimas silvas, anceps ac periculis plenum est, obsidentibus vias nobilibus adolescentulis armatis, quorum licentiam nulla unquam vel patrum disciplina vel magistratum
autoritas vel regum maiestas atque imperium frenare quivit. Quid
autem miri est, siquid per umbram noctis nullo teste petulantius
audeant, cum luce media, inspectantibus regibus ac populo, infamis ille gladiatorius ludus in urbe itala celebretur, plusquam barbarica feritate?»
89 e che come aveva avvisato che egli non fosse atteso a cena così
aveva fatto per l’alloggio: Sacchetti, CVII: «per sua cortesia il ritenne la sera a cena e albergo»: e cfr. qui VIII 10,21 e 56 per situazione e frase simili.
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credenza ingannato, d’esser con costei, stette90. Furono
adunque dopo cena i ragionamenti molti e lunghi non
senza cagione tenuti; e essendo della notte una parte
passata, ella, lasciato Andreuccio a dormire nella sua camera con un piccol fanciullo che gli mostrasse se egli volesse nulla, con le sue femine in un’altra camera se
n’andò.
37
Era il caldo grande: per la qual cosa Andreuccio, veggendosi solo rimaso, subitamente si spogliò in farsetto91
e trassesi i panni di gamba92 e al capo del letto gli si pose93. E richiedendo il naturale uso di dovere diporre il
superfluo peso del ventre, dove ciò si facesse domandò
quel fanciullo, il quale nell’uno de’ canti della camera gli
38 mostrò uno uscio e disse: «Andate là entro». Andreuccio dentro sicuramente94 passato, gli venne per ventura
posto il95 piè sopra una tavola, la quale dalla contraposta
parte sconfitta dal travicello sopra il quale era96, per la
36
90
«Il verbo alla fine ha come un significato fatale» (Momiglia-
no).
91
Cfr. II 4,15 n.
Cioè oltre le brache, le mutande di lino e le calze (Merkel); e
cfr. Sacchetti, X, XVI, CXVI ecc.
93 se li pose.
94 senza sospetto. Anacoluto (Andreuccio ... gli venne), nella forma più frequente nei testi del Trecento (anche G. Villani iniziando
la sua Cronica: «Io Giovanni cittadino di Firenze ... mi pare che si
convenga»), a cui ne segue un altro più duro (una tavola, la quale
... per la qual cosa capolevando questa tavola).
95 Articolo determinato per l’indeterminato: come nella VIII
7,142: «smucciandole il piede, cadde della scala in terra e ruppesi
la coscia» (e cfr. II 10, 11 n.).
96 sul quale s’appoggiava. Come altre volte (Intr., 20 n.) è soppressa una delle due parole identiche che per l’iperbato si dovrebbero qui seguire, cioè e r a (l’uno si riferisce a sconfitta, sconficcata,
l’altro a sopra il quale).
92
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qual cosa capolevando97 questa tavola con lui insieme se
n’andò quindi giuso: e di tanto l’amò Idio, che niuno
male si fece nella caduta, quantunque alquanto cadesse
da alto, ma tutto della bruttura, della quale il luogo era
39 pieno, s’imbrattò. Il quale luogo, acciò che meglio intendiate e quello che è detto e ciò che segue, come stesse vi
mostrerò. Egli era98 in un chiassetto stretto, come spesso
tra due case veggiamo8: sopra due travicelli, tra l’una casa e l’altra posti, alcune tavole eran confitte e il luogo da
seder posto, delle quali tavole quella che con lui cadde
era l’una.
40
Ritrovandosi adunque là giù nel chiassetto Andreuccio, dolente del caso, cominciò a chiamare il fanciullo;
ma il fanciullo100, come sentito l’ebbe cadere, così corse
a dirlo alla donna. La quale, corsa alla sua camera, prestamente cercò se i suoi panni v’erano; e trovati i panni e
con essi i denari, li quali esso non fidandosi mattamente
sempre portava addosso, avendo101 quello a che ella di
97 capovolgendosi; cfr. per senso analogo Sacchetti, CXCIII: «tu
non iscenda o capolevi».
98 Vi erano (sogg. sott. alcune tavole). Ma il verbo essere è usato
impersonalmente (come alle volte anche un verbo intransitivo) riferendolo, piuttosto che al soggetto, all’azione nel complesso: come per es. Inf., XIII 43 sg. «de la scheggia rotta usciva insieme |
Parole e sangue»; Convivio, IV XIX 5: «Riluce in essa le intellettuali e le morali virtudi; riluce in essa le buone disposizioni ... le
corporali bontadi». E per ‘egli’: Intr., 60 n.
99 Era, come si vedrà, «un chiassolino chiuso da un muretto, ossia una v a n e l l a o v i n e l l a , come si chiamava nel Napoletano»
(Croce).
100 «Ripetizione efficace del nome quasi per rimbeccare la speranza del povero Andreuccio» (Fornaciari); come nelle righe seguenti l’incontro di ‘corse’ ... ‘corsa e di panni’ ... ‘panni’ a rendere
l’immediatezza dell’intervento avido e rapace della donna.
101 tenendo, avendo ottenuto. E il periodo seguente «raccoglie
tutta la ben riuscita trama, come una risata della scaltra femmina»
(Zingarelli).
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Palermo, sirocchia102 d’un perugin faccendosi, aveva teso il lacciuolo, più di lui non curandosi prestamente
andò a chiuder l’uscio del quale egli era uscito quando
cadde.
41
Andreuccio, non rispondendogli il fanciullo, cominciò più forte a chiamare: ma ciò era niente103. Per che
egli, già sospettando e tardi dello inganno cominciandosi a accorgere salito sopra un muretto che quello chiassolino dalla strada chiudea e nella via disceso, all’uscio
della casa, il quale egli molto ben riconobbe, se n’andò,
e quivi invano lungamente chiamò e molto il dimenò104
42 e percosse . Di che egli piagnendo, come colui che chiara vedea la sua disavventura, cominciò a dire: «Oimè
lasso, in come piccol tempo ho io perduti cinquecento
fiorini e una sorella!»
43
E dopo molte altre parole, da capo cominciò a battere
l’uscio e a gridare; e tanto fece così, che molti de’ circunstanti vicini105, desti, non potendo la noia sofferire,
si levarono; e una delle servigiali106 della donna, in vista107 tutta sonnocchiosa108, fattasi alla finestra proverbiosamente109 disse: «Chi picchia là giù ?»
102
sorella.
ciò era inutile: II 1,19 n.
104 scosse, squassò.
105 vicini che stavan li intorno, più accosto.
106 donne addette al servizio, serve: Intr., 28 n.; IX 5,27; Filocolo,
III 46,6.
107 in apparenza, in aspetto (Intr., 59 n.).
108 Forma frequente anche nel B. (conserva l’originario sonno): II
7,57 n. ecc.
109 rimproverandolo (con villania). Il Fornaciari, seguito da molti, canzonandolo. Ma nel B. «proverbiare» ha sempre il senso di
rimproverare (VIII 2,1; VIII 3,1 e 51; X 3,10): e cfr. anche Dittamondo, III 22: «come donzella a cui l’uom tange | Parole proverbiose quando falla ...»
103
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«Oh!» disse Andreuccio «o110 non mi conosci tu? Io
sono Andreuccio, fratello di madama Fiordaliso111».
45
Al quale ella rispose: «Buono uomo, se tu hai troppo
bevuto, va dormi112 e tornerai domattina; io non so che
Andreuccio né che ciance113 son quelle che tu di’ ; va in
buona ora114 e lasciaci dormir, se ti piace».
46
«Come» disse Andreuccio «non sai che io mi dico?
Certo sì sai115; ma se pur son così fatti i parentadi di Cicilia, che in sì piccol termine si dimentichino, rendimi
almeno i panni miei, li quali lasciati v’ho, e io m’andrò
volentier con Dio».
44
110
Quasi forse che: ma cfr. I 1,51 n.
Nomignolo o nome posticcio della donna, floreale come quello dell’altra cortigiana siciliana, Jancofiore, protagonista della VIII
10. «Un documento del 1341 ... ci presenta, se non proprio una
madonna Fiordaliso, una madonna Flora siciliana (domna Flora sicula); ma (e qui il riscontro si fa stupefacente) questa siciliana madonna Flora abitava proprio al Malpertugio, dove occupava una
stanza avente un mezzanino dietro (si direbbe quasi il mezzanino
dal quale precipitò Andreuccio: pensionaria cuiusdam camere et
unius mezzanini, siti retro ipsam cameram ... in platea Malpertusii).
Una siciliana, con un nome assai simile a quello della giovane ciciliana e abitante nel medesimo luogo e nel tempo stesso in cui il B.
era a Napoli e vi conduceva vita da giovanotto allegro, non inesperto al certo delle case di quella contrada, ha non pochi numeri
per essere identificata con l’eroina della novella» (Croce: i documenti erano nei Reg. angioini, 322, ff. 275 A e 327, f. 181 B). Per
‘madama’ cfr. II 6,10 n.
112 va a dormire: imperativi coordinati, senza copula dopo ‘va’,
frequenti, specialmente nel parlato, nella Toscana del Trecento: III
7,93; VII 4,12; VIII 9,70; IX 4,18; Sacchetti, LIV, XCIII, CXVIII,
CCLIV: e cfr. L. SORRENTO, Sintassi romanza, Milano 1950, pp
205 sgg.; F. AGENO, rec. in «Giorn. Stor. Lett. It-», CXXXI,
1954, p. 239; A. E. QUAGLIO, Parole del B. cit., V.
113 frottole: II 1,16 n. Anche nel Filocolo (V 73,4), quando Glorizia vuol farsi riconoscere dal fratello Sempronio dopo i lunghi anni
di separazione, viene da lui sulle prime così apostrofata: «Gentil
donna, a cui che il cianciare stia bene, a voi molto si disdice».
114 Avverbialmente è un modo di pregare, come di grazia.
115 Dopo sì e non si ometteva spesso il pronome complemento
oggetto: VI 2,23: «Per certo, figliuol, non fa»; Purg., XXI 131-32:
«Frate, | Non far ...»; Inf., XXVII 114.
111
Letteratura italiana Einaudi 220
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47
Al quale ella quasi ridendo disse: «Buono uomo, e’ mi
par che tu sogni», e il dir questo e il tornarsi dentro e
chiuder la finestra fu una cosa116.
48
Di che Andreuccio, già certissimo de’ suoi danni,
quasi per doglia fu presso a convertire in rabbia la sua
grande ira117, e per ingiuria118 propose di rivolere quello
che per parole riaver non potea; per che da capo, presa
una gran pietra, con troppi119 maggior colpi che prima
49 fieramente cominiciò a percuoter la porta. La qual cosa120 molti de’ vicini avanti destisi e levatisi, credendo lui
essere alcuno spiacevole il quale queste parole fingesse
per noiare quella buona femina121, recatosi a noia il picchiare il quale egli faceva, fattisi alle finestre, non altramenti che a un can forestiere tutti quegli della contrada
50 abbaiano122 adosso, cominciarono a dire: «Questa è una
gran villania a venire a questa ora a casa le123 buone fe116
fu tutto uno, una cosa sola: come nella VIII 3,47.
«È benissimo osservata la differenza e gradazione di significato in queste due parole: r a b b i a è passione più bestiale che umana, propria d’uomo accecato, che non sa ormai quello che si faccia:
‘ira’ conserva sempre un po’ di lume di ragione» (Fornaciari). Cfr.
Petrarca, CCXXXII 5.
118 con la violenza, arrecando offesa.
119 Attrazione dell’avverbio (ridotto a aggettivo) coll’aggettivo e
sostantivo seguenti; vedi trattazione e ampia documentazione boccacciana in Mussafia, pp 445 sgg. e cfr. II 6,37 n.: Rohlfs, 955.
120 Per la qual cosa: con uso analogo a quello annotato alla II 1,2
n., e ampiamente giustificato e documentato dai Deputati, nelle
Annotazioni, XXVI (pp. 91 sgg.), confermata anche dal Barbi (p.
78). Lo Zingarelli crede invece si tratti di «collegamenti con forti
anacoluti». «Latino imperfetto è qui» (M.).
121 Eufemismo ironico: II 9,25 n.; III 6,23 n.: «se n’andò a una
buona femina»; IV 2,33 ecc.
122 «La bestialità del cane è così riportata alle persone» (Marti).
123 Solita soppressione, in questi casi, della preposizione di; a
c a s a è una preposizione (chez francese): VII 3,23: «a casa la donna» e II 10,24 n. Più naturale quando vi sia un nome: come più innanzi (59) «in casa lo scarabone Buttafuoco» e II 6,31 n.: «in casa
messer Guasparino»; IV I 0,49; V 2,10 ecc. (G. PASQUALI, Lingua nuova e antica, Firenze 1964, pp. 105 sgg.).
117
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
mine e dire queste ciance; deh! va con Dio, buono uomo; lasciaci dormir, se ti piace; e se tu hai nulla a far con
lei, tornerai domane, e non ci dar questa seccaggine stanotte».
51
Dalle quali parole forse assicurato uno che dentro
dalla casa era, ruffiano della buona femina, il quale egli
né veduto né sentito avea, si fece alle finestre e con una
boce124 grossa, orribile e fiera disse: «Chi è laggiù ?»
52
Andreuccio, a quella voce levata la testa, vide uno il
quale, per quel poco che comprender poté, mostrava di
dovere essere un gran bacalare125, con una barba nera e
folta al volto, e come se del letto o da alto sonno126 si levasse sbadigliava e stropicciavasi gli occhi: a cui egli,
non senza paura, rispose: «Io sono un fratello della donna di là entro».
53
Ma colui non aspettò che Andreuccio finisse la risposta, anzi più rigido127 assai che prima disse: «Io non so a
che io mi tegno128 che io non vegno là giù , e deati tante
bastonate quante io ti vegga muovere129, asino fastidioso
e ebriaco che tu dei essere, che questa notte non ci lasce-
124 voce: dialettale e qui caricaturale (più sotto vedi difatti ‘voce’), come altra volta nel B.: IV 10,27; Corbaccio, 125.
125 persona autorevole. La parola è presa dal linguaggio accademico, dove baccalaureus o baccalaris indicava il dottore coronato
d’alloro (bacca laurea): di qui bacceliere o baccalare (l’etimo è controverso: REW, 863). È qui usato con una certa ironia, come altrove barbassoro (X 9,105).
126 Cfr. I 9,7 n.
127 burbero, aspro, severo: II 9,59 n.: «con rigido viso».
128 non so a che fine, perché io mi contengo: III 6,38 n.: Terenzio,
Eunucus,V 2: «vix me contineo quin involem in Capillum».
129 tante bastonate quante volte io ti vedrò muovere, cioè fino a
che non ti muoverai più. Forse ‘quante’ non è che un’attrazione per
quanto (finché).
Letteratura italiana Einaudi 222
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
rai dormire persona»; e tornatosi dentro serrò la finestra.
Alcuni de’ vicini, che meglio conoscieno la condi54
zion130 di colui, umilmente131 parlando a Andreuccio
dissero: «Per Dio, buono uomo, vatti con Dio, non volere stanotte essere ucciso costì : vattene per lo tuo migliore132».
Laonde Andreuccio, spaventato dalla voce di colui e
55
dalla vista e sospinto da’ conforti di coloro li quali gli
pareva che da carità mossi parlassero, doloroso133 quanto mai alcuno altro e de’ suoi denar disperato134, verso
quella parte onde il dì aveva la fanticella seguita, senza
saper dove s’andasse135, prese la via per tornarsi all’al56 bergo. E a se medesimo dispiacendo per lo puzzo che a
lui di lui136 veniva, disideroso di volgersi al mare per lavarsi, si torse a man sinistra e su per una via chiamata la
Ruga Catalana137 si mise. E verso l’alto della città andan130
Cioè chi fosse e che cosa facesse in quella casa.
«Intenderei: sottovoce e quasi con paura: e non come altri: in
tono di consiglio o di pietà» (Sapegno); caritatevolmente (Segre);
bonariamente (Contini).
132 per il tuo meglio: Sacchetti, XXXIV: «Ferrantino fassi alla finestra e dice: ’Vatti con Dio, per lo tuo migliore’»; e CXCVII. Dopo r è normale l’articolo ’lo’: cfr. I 1,34 n.
133 dolente: cfr. più avanti «doloroso molto stando» (81), e X 7,7;
Inf., III 17.
134 Cioè senza più alcuna speranza di riaverli: I .9,6 n.
135 Difatti, come vedremo, invece di andare verso la marina, al
suo albergo, Andreuccio si avvia verso l’alto della città.
136 Cfr. Purg., XXXII 51: «E quel di lei a lei lasciò legato».
137 «La Rua Catalana, infatti, allora come ora, conduceva dalle
vie di Porto, e perciò dalla marina, all’alto della città; aveva acquistato non poca importanza proprio nella prima metà del Trecento,
sotto Carlo II e sotto re Roberto, che aveva riempito la sua corte di
catalani, assimilandone i costumi (onde l’ ‘avara povertà di Catalogna’ che gli rinfaccia Dante); e più ancora, a quel che sembra, sotto
la nipote di lui, la regina Giovanna, al cui tempo Tristano Caracciolo pone la fioritura delle colonie di catalani» (Croce). E cfr. anche B. CROCE, Primi contatti fra Spagna e Italia, Napoli 1893, pp
131
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
do, per ventura davanti si vide due che verso di lui con
una lanterna in mano venieno, li quali temendo non fosser della famiglia della corte138 o altri uomini a mal far
disposti, per fuggirli, in un casolare139, il qual si vide vi57 cino, pianamente ricoverò140. Ma costoro, quasi come a
quello proprio luogo inviati andassero, in quel medesimo casolare se n’entrarono; e quivi l’un di loro, scaricati
certi ferramenti141 che in collo avea, con l’altro insieme
gl’incominciò a guardare, varie cose sopra quegli ragionando.
58
E mentre parlavano, disse l’uno: «Che vuol dir questo? Io sento il maggior puzzo che mai mi paresse sentire»; e questo detto, alzata alquanto la lanterna, ebber veduto il cattivel d’Andreuccio142, e stupefatti domandar:
«Chi è là?»
59
Andreuccio taceva, ma essi avvicinatiglisi con lume il
22 sgg. Ruga deriva dal basso latino ruga ed era voce assai viva ai
tempi del B. (cfr. per es. Filocolo, II 25,5 e V 46,5; Comedia, XXXVIII 60). Nota la sottintesa familiarità con quei luoghi nella frase,
senz’altra indicazione, «si torse a man sinistra» (la quale indica pure che Andreuccio veniva di sù). A destra, di fronte alla Ruga Catalana, era l’arco (Malpertugio) da cui prendeva nome la contrada, e
che egli logicamente pensò di evitare.
138 la polizia, le guardie, come più oltre e a II 1,21 «la famiglia
della signoria».
139 «Forse quello che i Napoletani chiamano basso, che per caso
era aperto e disabitato: i chiosatori parlano di casa rovinata, il qual
senso non appartiene al vocabolo o lo arguiscono arbitrariamente»
(Zingarelli).
140 si ritirò, si rifugiò.
141 «Ferramento si usò nel senso di qualunque istrumento o utensile di ferro, con cui gli artigiani fanno i lor lavorii, che oggi dicesi
più comunemente ferro» (C.).
142 videro quel poverello, quel disgraziato d’Andreuccio: il trapassato remoto si usava efficacemente invece del passato remoto a indicare o azione compiuta o effetto istantaneo di un’azione: VI 9,12:
«prese un salto e fussi gittato dall’altra parte»; X 9, 11: «per certe
strade gli trasviò e al luogo del suo signore ... condotti gli ebbe».
Per il senso di cattivello cfr. I 1,53 n.; e per l’uso di d i in questi casi VII 2,11 n.
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
domandarono che quivi così brutto143 facesse: alli quali
Andreuccio ciò che avvenuto gli era narrò interamente.
Costoro, imaginando dove ciò gli potesse essere avvenuto, dissero fra sé144: «Veramente in casa lo scarabone
Buttafuoco fia stato questo145».
60
E a lui rivolti, disse l’uno: «Buono uomo, come che146
tu abbi perduti i tuoi denari, tu hai molto a lodare Idio
che quel caso ti venne che tu cadesti né potesti poi in casa rientrare: per ciò che, se caduto non fossi, vivi sicuro
143 lordo (participio forte); cfr. ‘bruttura’ più sopra (38) e Inf.,
VIII 35.
144 l’un l’altro: VIII 5,11: «fra sé ordinato ...»
145 questo sarà successo. «In un registro di re Roberto, in un documento del maggio 1336 (ossia proprio degli anni nei quali il B.
dimorava e amoreggiava e poetava in Napoli) si ha notizia di un
Francesco Buttafuoco, morto da poco, il quale (particolare anche
più calzante) era un siciliano [il casato Buttafuoco esiste tuttora in
Sicilia], di quelli che avevano serbato fedeltà al re angioino, e perciò riceveva dalla regia corte dieci once l’anno sopra i diritti della
gabella del sale del Principato e di Terra di Lavoro. Compatriota
di madonna Fiordaliso, e probabilmente soldato o ex soldato, perché (ci si consenta di fantasticare) non ne sarebbe stato l’amante e
il protettore? Anche in tempi più tardi a Napoli i soldati erano acquartierati nelle case delle meretrici» (Croce). Di lui i ladri notturni parlano come di una potenza terribile: sicché a ragione l’Ammirato (Famiglie nobili napoletane, Firenze 1651, II, p. 338) avanzò
l’ipotesi che potesse essere uno dei capi di quelle leghe di malviventi che furono successivamente chiamati «ruffiani», «compagnoni» (oggi «camorristi»). «Nel Trecento e Dugento, in Napoli e in
Sicilia, dovevano prendere, tra gli altri nomi, quello per l’appunto
di ‘scaraboni’, come si può desumere da un luogo di Saba Malaspina» (Croce). Cfr. M. AMARI, La guerra del Vespro siciliano, Milano 1886, pp. 183-184. «In siciliano scarabuni è una specie di ladro»
(Zingarelli); e scarafuni vale
scroccone (letteralmente scarafaggio da cui probabilmente deriva). E cfr. sull’etimo E. LI GOTTI,
Scarabone, in «Studi di Filologia italiana», XII, 1954. Per l’espressione ‘in casa lo’ cfr. 50 n.
146 benché.
147 appena che.
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
che, come prima147 adormentato ti fossi, saresti stato
amazzato e co’ denari avresti la persona148 perduta. Ma
che giova oggimai di piagnere? Tu ne potresti così riavere un denaio149 come avere delle stelle del cielo: ucciso
ne potrai tu bene essere, se colui sente che tu mai ne facci parola».
61
E detto questo, consigliatisi alquanto, gli dissero:
«Vedi, a noi è presa compassion di te: e per ciò, dove tu
vogli con noi essere a fare alcuna cosa la quale a fare andiamo, egli ci pare esser molto certi che in parte ti toccherà il valere di troppo più che perduto non hai150».
62
Andreuccio, sì come disperato, rispuose ch’era presto.
63
Era151 quel dì sepellito uno arcivescovo di Napoli,
chiamato messer Filippo Minutolo152, e era stato sepelli-
148
il corpo, la vita: I 1,26: «ci torranno ... le persone»; IV 10,45:
«Ruggieri n’è per perdere la persona»; e Purg., III 118.
149 Era la dodicesima parte del soldo (II 1,21 n.; II 2,7 n.).
150 per la tua parte ti toccherà il valsente di una somma assai superiore a quella che hai persa.
151 Era stato: cfr. II 7,27 n.; X 9,61 n.; X 2,10: Mussafia, p. 458.
152 Filippo Minutolo, anche prima di esser arcivescovo di Napoli, era grande dignitario del Regno: a lui si deve, tra l’altro, la prima
redazione scritta delle consuetudini di Napoli, e la ricostruzione e
l’ampliamento del Duomo napoletano (L. PARASCANDOLO,
Memorie ... della chiesa di Napoli, Napoli 1847, III, pp. 90 sgg.).
Morì il 24 ottobre 1301: un particolare questo che può sottolineare
la libertà con cui il B. si serve nelle sue novelle degli episodi storici
(egli alludendo ripetutamente al «caldo grande» pone l’azione
nell’estate; né è credibile che quando fu sepolto l’arcivescovo già vi
fosse l’arca sontuosa di cui più sotto). Alla stessa famiglia Minutolo
appartiene il protagonista della III 6. E cfr. in generale su questo
Personaggio D. AMBRASI, La vita religiosa, in Storia di Napoli cit.,
III, pp. 443 sgg.; promosse anche, con tutta probabilità, il rinnovo
della cappella con gli affreschi cimabueschi (D. STRAZZULLO,
Saggi storici sul Duomo di Napoli, Napoli 1959, pp. 45 sgg.; E.
BORCA, I ritrovati affreschi medievali nella Cappella Minutolo, in
«Boll. d’Arte», gennaio-marzo 1962; F. BOLOGNA, I pittori alla
Corte angioina di Napoli, Roma 1969, pp 79 sgg.).
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
to con ricchissimi ornamenti e con un rubino in dito il
quale valeva oltre cinquecento fiorin d’oro, il quale costoro volevano andare a spogliare153; e così a Andreuccio fecer veduto154.
64
Laonde Andreuccio, più cupido che consigliato, con
loro si mise in via; e andando verso la chiesa maggiore155, e Andreuccio putendo forte, disse l’uno: «Non potremmo noi trovar modo che costui si lavasse un poco
dove che sia, che egli non putisse così fieramente156?»
65
Disse l’altro: «Sì , noi siam qui presso a un pozzo al
quale suole sempre esser la carrucola e un gran secchione; andianne là e laverenlo spacciatamente157».
66
Giunti a questo pozzo trovarono che la fune v’era ma
il secchione n’era stato levato158: per che insieme delibe-
153 Non erano imprese rarissime: simili ne narrano il Sacchetti
nella CXX e il Sercambi, Novelle, IX; e lo stesso pensiero dei due
ladri avevan avuto anche altri, come narra la conclusione di questa
novella.
154
mostrarono, comunicarono: cfr. X 10,42: «fece veduto a’ suoi
subditi il Papa per quelle aver seco dispensato ...»; e VII 4,22; 7,7.
155
Difatti Filippo Minutolo fu sepolto nell’antica cappella della
famiglia Capece Minutolo, nell’angolo estremo della crociera del
Duomo di Napoli, in una tomba che ancor oggi si può ammirare;
proprio, come scrive più sotto il B. (avendola probabilmente contemplata ai suoi tempi napoletani), un’arca «di marmo e molto
grande», dal «coperchio ... gravissimo» (L. DE LA VILLE e S.
FRASCHETTI, in «Napoli nobilissima», IV, 1895, pp. 113 sgg. e
XI, 1901, pp. 49 sgg.).
156
fortemente: VII 9,46: «la bocca ti pute fieramente».
157 e lo laveremo in fretta: cfr. IX 2,9 n.
158 Non «è possibile sapere dove fosse ... il pubblico pozzo (ce
n’erano a tutti i quadrivi) al cui fondo i compagni lo calarono (segno genericamente napoletano e perciò non caratteristico: ne era
stato portato via il secchione!) e quali strade il mercante perugino
percorresse in loro compagnia ... sarebbe attraente, ma un po’ vuoto, il fantasticare che essi passassero dinanzi alle mura del vetusto
monastero di Sant’Arcangelo a Baiano» (Croce) dove il B. narra
che soggiornò Fiammetta e egli novellò di Florio e Biancifiore (Filocolo, I 1,23 sgg.).
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rarono di legarlo alla fune e di collarlo159 nel pozzo, e
egli là giù si lavasse e, come lavato fosse, crollasse la fune
e essi il tirerebber suso; e così fecero.
67
Avvenne che, avendol costor nel pozzo collato, alcuni
della famiglia della signoria, li quali e per lo caldo e perché corsi erano dietro a alcuno avendo160 sete, a quel
pozzo venieno a bere: li quali161 come quegli due videro,
incontanente cominciarono a fuggire, li famigliari che
68 quivi venivano a bere non avendogli veduti. Essendo già
nel fondo del pozzo Andreuccio lavato, dimenò la fune.
Costoro assetati, posti giù lor tavolacci162 e loro armi e
lor gonnelle163, cominciarono la fune a tirare credendo a
quella il secchion pien d’acqua essere appicato. Come
Andreuccio si vide alla sponda del pozzo vicino, così ,
69 lasciata la fune, con le mani si gittò sopra quella. La qual
cosa costor vedendo, da subita paura presi, senza altro
dir lasciaron la fune e cominciarono quanto più poterono a fuggire: di che Andreuccio si maravigliò forte, e se
egli non si fosse bene attenuto, egli sarebbe infin nel
fondo caduto forse non senza suo gran danno o morte;
ma pure uscitone e queste arme trovate, le quali egli sa159 sospenderlo e quindi calarlo: dal tormento della colla o corda,
per cui cfr. II 1,29 n.; III 2,31; e Velluti, p. 126: «trovando che in
una tomba albergavano colombi, facendosi collare, cadde e morì».
160 «Questo gerundio, quasi attratto dal precedente avendol costor, non si avverte molto, ma rompe l’ordine logico del periodo»
(Fornaciari). Tutta la frase l i q u a l i ... s e t e è in funzione assoluta: come la seguente l i f a m i g l i a r i ... v e d u t i ; oppure «l’elemento ripreso è qui, per accidens, un antecedente di relativa (‘alcuni della famiglia della signoria’) presentato prima in veste di
potenziale soggetto e poi dimenticato» (G. GHINASSI, Casi di
«paraipotassi relativa» in italiano antico cit.).
161 Complemento oggetto: soggetto è quegli due.
162 Scudi di legno, alle volte coperti di cuoio: vedi V 3,35: «poste
giù lor lance e lor tavolacci» e una scena simile in IX 1.
163 «La gonnella da uomo era una sopravveste piuttosto lunga,
serrata ai fianchi da un correggia ... i famigli della Signoria l’adoperavano come soprabito ed al bisogno la smettevano» (Merkel).
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peva che i suoi compagni non avean portate, ancora più
s’incominciò a maravigliare.
Ma dubitando e non sappiendo che164, della sua fortuna dolendosi, senza alcuna cosa toccar quindi diliberò
di partirsi: e andava senza saper dove165. Così andando
si venne scontrato166 in que’ due suoi compagni, li quali
a trarlo del pozzo venivano; e come il videro, maravigliandosi forte, il domandarono chi del pozzo l’avesse
tratto. Andreuccio rispose che non sapea, e loro ordinatamente disse come era avvenuto e quello che trovato
aveva fuori del pozzo. Di che costoro, avvisatisi come
stato era, ridendo gli contarono perché s’eran fuggiti e
chi stati eran coloro che su l’avean tirato. E senza più
parole fare, essendo già mezzanotte, n’andarono alla
chiesa maggiore, e in quella assai leggiermente167 entrarono e furono all’arca, la quale era di marmo e molto
grande; e con lor ferro il coperchio, ch’era gravissimo,
sollevaron tanto quanto uno uomo vi potesse entrare, e
puntellaronlo.
E fatto questo, cominciò l’uno a dire: «Chi entrerà
dentro?»
A cui l’altro rispose: «Non io».
«Nè io168» disse colui «ma entrivi Andreuccio».
«Questo non farò io» disse Andreuccio.
Verso il quale ammenduni169 costoro rivolti dissero:
«Come non v’enterrai170? In fé di Dio, se tu non v’entri,
164
temendo e non sapendo di che cosa (cfr. IV 5,11 n.).
Identica situazione e identica frase di prima (55).
gli accadde d’imbattersi: uso di venire come ausiliare, ad esprimere subitaneità fortuita (VI 4,16: e cfr. III 4,11 n.).
167 facilmente.
168 Neppure io: come l’uso latino di nec per ne quidem: III 8,4 n.:
«niuno non che il sapesse ma né suspicava».
169 Cfr. Intr., 18 n.
170 Metatesi frequente: I 1,14 n.
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noi ti darem tante d’uno di questi pali171 di ferro sopra
la testa, che noi ti farem cader morto».
77
Andreuccio temendo v’entrò, e entrandovi pensò seco: «Costoro mi ci fanno entrare per ingannarmi, per ciò
che, come io avrò loro ogni cosa dato172, mentre che io
penerò173 a uscir dall’arca, essi se ne andranno pe’ fatti
loro e io rimarrò senza cosa alcuna». E per ciò s’avisò di
farsi innanzi tratto174 la parte sua; e ricordatosi del caro175 anello che aveva loro udito dire, come fu giù disceso così di dito il trasse all’arcivescovo e miselo a sé; e poi
dato il pasturale e la mitra e’ guanti176 e spogliatolo infino alla camiscia, ogni cosa diè loro dicendo che più
78 niente v’avea177. Costoro, affermando che esser vi doveva l’anello, gli dissero che cercasse per tutto: ma esso, rispondendo che nol trovava e sembiante faccendo di cercarne, alquanto gli tenne in aspettare. Costoro che
d’altra parte eran sì come lui maliziosi ,dicendo pur178
che ben cercasse, preso tempo179, tiraron via il puntello
che il coperchio dell’arca sostenea, e fuggendosi lui den171 ti daremo tanti colpi, tante percosse con uno di questi pali. Ellissi assai comune, e nel linguaggio familiare e nel B., su cui vedi
Annotazioni, pp 220 sgg.: e Inf., XXV 32-33: «Sotto la mazza d’Ercule, che forse | Gliene diè cento, e non sentì le diece». Simile era
stata del resto la minaccia di Buttafuoco (53); e cfr. IV 2,17 n.
172 Cfr. II 3,25 n.
173 indugerò, tarderò, oppure m’affaticherò, mi sforzerò: per il primo significato – accettato dai più – cfr. V 6,30: «senza troppo penare»; per il secondo – a mio avviso preferibile – cfr. IV 1,11:
«molti dì con suoi ingegni penato avea». E vedi Annotazioni, pp
212 sgg.
174 anzi tutto, per prima cosa.
175 prezioso (francesismo), III 8,27: «di belli gioielli e di cari».
176 «Erano portati dal vescovo come un simbolo della sua autorità» (Merkel): ed erano spesso di gran valore per ricami d’oro e
per pietre preziose.
177 v’era, secondo l’uso assai frequente anche nel B.: Intr., 15 n.;
IV 4,21 n.; Amorosa Visione, V 32, XXI 9, XXXVIII 73.
178 continuando a dire: I 1,71 n.
179 colto il momento opportuno: II 3,28 n., e 7,64 n.
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tro dall’arca lasciaron racchiuso180. La qual cosa sentendo Andreuccio, quale egli allor divenisse ciascun sel può
pensare181.
Egli tentò più volte e col capo e con le spalle se alzare
potesse il coperchio, ma invano si faticava: per che da
grave dolor vinto182, venendo meno cadde sopra il morto corpo dell’arcivescovo; e chi allora veduti gli avesse
malagevolmente avrebbe conosciuto chi più si fosse
morto, o l’arcivescovo o egli183. Ma poi che in sé fu ritornato, dirottissimamente cominciò a piagnere, veggendosi quivi senza dubbio all’un de’ due fini184 dover pervenire: o in quella arca, non venendovi alcuni più a aprirla,
di fame e di puzzo tra’ vermini del morto corpo convenirlo185 morire, o vegnendovi alcuni e trovandovi lui
dentro, sì come ladro dovere essere appiccato186.
E in così fatti pensieri e doloroso molto stando, sentì
per la chiesa andar genti e parlar molte persone, le quali,
sì come gli avvisava, quello andavano a fare che esso co’
suoi compagni avean già fatto: di che la paura gli crebbe
forte. Ma poi che costoro ebbero l’arca aperta e puntellata187, in quistion caddero chi vi dovesse entrare, e niuno il voleva fare; pur dopo lunga tencione188 un prete
disse: «Che paura avete voi? credete voi che egli vi ma180 Il settenario dopo i tre endecasillabi (preso tempo ... ) ha un
suono di caduta fatale.
181 Inf., XXXIV 22-24, 26-27, 91-92.
182 Inf., III 33: «gent’è che par nel duol sì vinta».
183 Apuleio, Met., II 25,4: «ne Deus quidem ... facile discerneret,
duobus nobis iacentibus, quis esset magis
mortuus».
184 Al maschile, come si usava allora. «Raro, in questo senso, il
plurale» (Fornaciari): cfr. X 4,26 n.
185 Nel Trecento era corrente la costruzione impersonale con
l’accusativo per convenire: Testi fiorentini, pp: 197 e sgg; Vita Nuova, XXVI 3; Rime, LXVII 28; Convivio, III IX 2: e qui III 4,16.
186 Come i ladri della II 2 (cfr. 42 n.).
187 messi i puntelli al coperchio sollevato: cfr. 71.
188 contrasto, disputa: Inf., VI 64.
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nuchi189? Li morti non mangian gli uomini: io v’entrerò
dentro io190». E così detto, posto il petto sopra l’orlo
dell’arca, volse il capo in fuori e dentro mandò le gambe
83 per doversi giuso calare. Andreuccio, questo vedendo,
in piè levatosi prese il prete per l’una delle gambe e fé
sembiante di volerlo giù tirare. La qual cosa sentendo il
prete mise uno strido grandissimo e presto dell’arca si
gittò fuori; della qual cosa tutti gli altri spaventati, lasciata l’arca aperta, non altramente a fuggir cominciarono che se da centomilia191 diavoli fosser perseguitati.
84
La qual cosa veggendo Andreuccio, lieto oltre a quello che sperava, subito si gittò fuori e per quella via onde
era venuto se ne uscì dalla chiesa; e già avvicinandosi al
giorno, con quello anello in dito andando all’avventura,
pervenne alla marina e quindi al suo albergo si abbatté192 ; dove li suoi compagni e l’albergatore trovò tut85 ta la notte stati in sollecitudine193 de’ fatti suoi. A’ quali
ciò che avvenuto gli era raccontato, parve per lo consiglio dell’oste loro che costui incontanente si dovesse194
di Napoli partire; la qual cosa egli fece prestamente e a
Perugia tornossi, avendo il suo195 investito in uno anello,
dove per comperare cavalli era andato196. –
189 mangi: De vulgari eloquentia, I XIII 2; e vedi manicare in I
1,42 n. (così di regola nelle voci dove l’accento cadeva sulla desinenza, manucare nelle altre voci).
190 «Il primo io è proclitico, il secondo enfatico» (Contini).
191 Forma etimologica, latineggiante, corrente nelle scritture del
tempo: per es. Intr., 47; II 7, 121; II 9,21; Inf., XXVI 112; Compagni e Sacchetti, passim.
192 capitò, s’imbatté: Intr., 18; V 3,21.
193 preoccupazione, apprensione.
194 Ancora tre endecasillabi di seguito (‘si dovesse ... il suo’).
195 il suo denaro: cinquecento fiorini aveva portato, la stessa somma e più era valutato l’anello (63). E si ricordi che il rubino era emblema di felicità per la cultura antica e medievale (F. PORTAL,
Des couleurs symboliques, Paris 1837, p. 128).
196 «Il cadavere di Filippo Minutolo fu rimosso dal monumento
nel 1721 e deposto in un ipogeo della cappella. Fu restituito alla
sua sede originaria nel febbraio 1965» (Ambrasi).
Letteratura italiana Einaudi 232
NOVELLA SESTA
1
Madama Beritola, con due cavriuoli sopra una isola trovata,
avendo due figliuoli perduti, ne va in Lunigiana; quivi l’un de’
figliuoli col signore di lei si pone e con la figliuola di lui giace e
è messo in prigione: Cicilia ribellata al re Carlo, e il figliuolo riconosciuto dalla madre1, sposa la figliuola del suo signore e il
suo fratel ritrova e in grande stato ritornano2.
2
Avevan le donne parimente e’ giovani riso molto de’
1
Costruzione participiale assoluta.
Neppure di questa novella si possono indicare antecedenti precisi e significativi. Sono state a volta a volta citate la leggenda di
sant’Eustachio e un racconto delle Mille e una notte ed uno ebraico del Midrasch che ne derivano (cfr. per es. Gesta Romanorum,
110; Vite dei Santi Padri, IV 49-53; Legenda aurea, 161 e anche 130
sant’Egidio; Arabian Nights, a cura di Smithers, Benares 1894, IX,
pp 50 e 313 sgg.; e in gen. A. MONTEVERDI, La leggenda di Santo Eustachio, in «Studi medievali», III, 1909, pp. 169 sgg.); la storia
di san Clemente Papa volgarizzata già nel Trecento (Bologna 1863)
e che è narrata anche nei Vangeli apocrifi (Petrus, 13); la storia di
Sir Isumbras (Thornton Romances, London 1844); i cantari di Carduino (ed. Rajna, Bologna 1873), della Bella Elena, di Fierabraccia,
il Cantare dell’Apollonio di Tiro (Venezia 1455, o i suoi antecedenti latini: per questi testi e l’eventuale conoscenza che il B. ne poté
avere, cfr. V. BRANCA, Il cantare trecentesco cit.); e perfino i soliti
romanzi greco-bizantini. Ma tutti i riscontri sono vaghi e poco convincenti. Anche lo sfondo storico – a parte quello vago e generico
delle lotte tra Svevi, Aragonesi e Angioini, tanto caro al B. – sembra quasi tutto di fantasia (B. ZUMBINI, Di alcune novelle del B.
ecc., in «Atti R. Acc. della Crusca», 1903-904); ma tuttavia qualche
particolare, come vedremo, conserva forse lontani riflessi di dati
storici (cfr. note seguenti). Nessun valore hanno, naturalmente, le
costruzioni di qualche scrittore napoletano, basate chiaramente
sulla novella del B. (per es. F. CAMPANILE, L’Armi overo insegne
de’ Nobili, Napoli 1610, p. 107; G. A. SUMMONTE, Historia della città e regno di Napoli, Napoli 1748, II, p. 383). Per gli elementi
popolari e novellistici cfr. Thompson, N 251,730; Rotunda, B 580
sgg., 590 sgg., N 251,730.
2
Letteratura italiana Einaudi
233
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
3
4
5
casi d’Andreuccio dalla Fiammetta narrati, quando
Emilia, sentendo la novella finita, per comandamento
della reina, così cominciò:
– Gravi cose e noiose sono i movimenti varii della fortuna, de’ quali però che quante volte alcuna cosa si parla, tante è un destare delle nostre menti3, le quali leggiermente s’adormentano nelle sue lusinghe4, giudico mai
rincrescer non dover l’ascoltare5 e a’ felici e agli sventurati, in quanto li primi rende avvisati e i secondi consola.
E per ciò, quantunque gran cose dette ne sieno avanti,
io intendo di raccontarvene6 una novella non meno vera
che pietosa: la quale ancora che lieto fine avesse, fu tanta e sì lunga l’amaritudine, che appena che io possa credere che mai da letizia seguita7 si radolcisse.
Carissime donne, voi dovete sapere che appresso la
morte di Federigo secondo imperadore fu re di Cicilia
coronato Manfredi8, appo il quale in grandissimo stato
fu un gentile uomo di Napoli chiamato Arrighetto Capece9, il quale per moglie avea una bella e gentil donna
3 poiché quante volte si dice qualcosa di essi, cioè dei casi di fortuna, altrettante le nostre menti si risvegliano.
4 «Nota bellissimo detto» (M., che segna a margine tutto il paragrafo).
5 Cioè il prestare orecchio ai movimenti vari della fortuna.
6 di raccontarvi in questa maniera (Fanfani).
7 che ne seguisse.
8 Manfredi veramente non fu coronato nel 1250, alla morte di
Federico II, ma nel 1258 quando corse voce che Corradino fosse
morto. Naturalmente Cicilia è usato in senso politico a indicare
tutto il «Reame» del Mezzogiorno.
9 Nessun documento parla di un Arrighetto della nobilissima famiglia napoletana dei Capece (Caccia, I 29), cosa strana data l’alta
carica che, secondo il B., avrebbe ricoperta: anzi sono noti i nomi
dei governatori dell’isola in quegli anni (ZUMBINI, art. cit.). Il
Torraca (G. B. a Napoli, p. 153) nota però che i due più fedeli e più
cari amici di Manfredi furono Corrado e Marino Capece, e che
Corrado fu capitano generale per Manfredi in Sicilia proprio nel
1266 e come Vicario generale di Corradino sollevò la Sicilia contro
Carlo I (fu poi accecato e impiccato a Catania). Il B. poté vedere le
Letteratura italiana Einaudi 234
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
6
7
similmente napoletana, chiamata madama Beritola Caracciola10. Il quale Arrighetto, avendo il governo
dell’isola nelle mani, sentendo che il re Carlo primo aveva a Benevento vinto e ucciso Manfredi11, e tutto il Regno a lui si rivolgea, avendo poca sicurtà della corta fede12 de’ ciciliani, non volendo subdito divenire del
nemico del suo signore, di fuggire s’apparecchiava. Ma
questo da’ ciciliani conosciuto, subitamente egli e molti
altri amici e servidori13 del re Manfredi furono per pri-
loro case in via di Capuana e sentir narrare di loro da Marino Bulgaro, che in quell’occasione aveva vista assalita e devastata la sua
Ischia da Marino Capece e Arrighetto di Ventimiglia, partigiani di
Corradino (C. MINIERI- RICCIO, Alcuni fatti riguardanti Carlo I,
Napoli 1872, pp 31, 87, 103: Studi storici cit., p. 103): e forse contaminò i due nomi. Cfr. anche n. seguente.
10 Varie donne della famiglia Caracciolo sono ricordate nella
Caccia (I 20-21, IX 41-44, X 23 ecc.) e nell’Amorosa Visione (XLII
49 sgg.); e Beritola è nome che non doveva esser raro nella aristocrazia della Napoli trecentesca, se lo portano ben tre gentildonne
della Caccia (I 23, 26-27; IV 6-7; V 1, 16, 22; X 23-24; XV 2-3). Tenaci oppositori degli Angioini furono non solo i Capece (cfr. anche
Registri Cancelleria, I p. 272, II e III passim, IV pp. 80, 109 e 176,
V pp. 62 e 193), ma anche i Caracciolo, tanto che Pietro fu impiccato perché accusato «de proditione» al tempo di Corradino (Arch. Stato Napoli, Notamenta ex registris Caroli II, I, cc. 1612 sg.).
Nel ramo Pisquizi di tale famiglia apparirebbe proprio una «Biancofiore o Beritola, menzionata nei registri angioini al 1295» (F. FABRIS, La famiglia Caracciolo, tav. XXI nei Supplementi a LITTA,
Famiglie celebri, Milano 1819 sgg. pubblicati a Napoli, 1902 sgg.; è
detta moglie di Corrado Capece). Sarebbe la figlia di Ligorio Caracciolo Pisquizi, giustiziere in Terra di Lavoro, vissuto tra il 1230
e il 1280 circa (cfr. anche A. CARACCIOLO, Una famiglia italianissima, Napoli 1939, p. 239). A meno di pensare alla famiglia Caracciolo-Carafa, cui appartenne proprio una Beritola presentata
dal B. nella Caccia (I 23).
11 25 febbraio 1266; cfr. Purg., III 112 sgg. Carlo d’Angiò, sceso
in Italia nel ’65, era stato coronato re a Roma il 6 gennaio 1266.
12 scarsa fiducia nella poco costante fedeltà: Inf., XXVII 110 (ma
anche i continentali non furon fedeli: Inf., XXVIII 16 sg.).
13 Naturalmente in senso lato: II 8,4: «Gualtieri conte d’Anguersa ... molto loro [dei reali di Francia] fedele amico e servitore».
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
gioni dati al re Carlo14 e la possessione dell’isola appresso. Madama Beritola in tanto mutamento di cose, non
sappiendo15 che d’Arrighetto si fosse e sempre di quello
che era avvenuto temendo, per tema di vergogna16, ogni
sua cosa lasciata, con un suo figliuolo d’età forse d’otto
anni, chiamato Giuffredi, e gravida e povera17, montata
sopra una barchetta se ne fuggì a Lipari, e quivi partorì
un altro figliuol maschio, il quale nominò lo Scacciato18;
e presa una balia, con tutti sopra un legnetto montò per
tornarsene a Napoli a’ suoi parenti.
9
Ma altramenti avvenne che il suo avviso19; perciò che
per forza di vento il legno, che a Napoli andar dovea, fu
trasportato all’isola di Ponzo20, dove, entrati in un picciol seno di mare, cominciarono a attender tempo21 al
10 loro viaggio. Madama22 Beritola, come gli altri smontata
in su l’isola e sopra quella un luogo solitario e rimoto
trovato, quivi a dolersi del suo Arrighetto si mise tutta
sola. E questa maniera ciascun giorno tenendo, avvenne
8
14
«Ma tenuti in Palermo stessa» (Zingarelli).
«Volendo il B. adattare a questi personaggi le avventure romanzesche che sta per narrare, pone qui un troppo debole e frettoloso legame, non essendo possibile che ella rimanesse al buio di
quel che era avvenuto» (Zingarelli).
16 disonore, onta: VIII 7,98: «in maggior pena e vergogna».
17 Inf., XVIII 94: «lasciolla quivi, gravida, soletta»: e anche Amorosa Visione, XXI 34-35.
18 Uno dei nomi, frequenti nel Medioevo, suggeriti dalle circostanze della nascita: per es. Florio e Biancifiore furono così chiamati perché nati a Pentecoste, cioè ’Pasqua rosata’ (Filocolo, I 39 e
44), Tristano per le sventure tra cui nacque. Né il nome di Scacciato è raro: è il provenzale Faidit..
19 di quello che ella pensava, del suo disegno: cfr. I 4,19 n.; IX
4,25 n.
20 Ponza, nel golfo di Gaeta: non disabitata allora, come si crederebbe a leggere il seguito (ZUMBINI, art. cit.). La forma Ponzo ricorre spesso nelle cronache del tempo.
21 tempo propizio: come a II 3,28 n.
22 Questa forma francese è usata indifferentemente insieme a
15
Letteratura italiana Einaudi 236
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
che, essendo ella al suo dolersi occupata, senza che alcuno o marinaro o altri se n’accorgesse, una galea23 di corsari sopravvenne, la quale tutti a man salva24 gli prese e
andò via.
11
Madama Beritola, finito il suo diurno25 lamento, tornata al lito per rivedere i figliuoli, come usata era di fare,
niuna persona vi trovò; di che prima si maravigliò e poi,
subitamente di quello che avvenuto era sospettando, gli
occhi infra26 ’l mar sospinse e vide la galea, non molto
ancora allungata27, dietro tirarsi il legnetto: per la qual
cosa ottimamente cognobbe, sì come il marito, aver perduti i figliuoli. E povera e sola e abbandonata, senza saper dove mai alcuno doversene ritrovare28, quivi vedendosi29, tramortita il marito e’ figliuoli chiamando cadde
12 in su il lito. Quivi non era chi con acqua fredda o con altro argomento30 le smarrite forze rivocasse; per che a
bell’agio31 poterono gli spiriti andar vagando dove lor
Madonna (cfr. II 5,44; e Amorosa Visione, acrostico I e XLIX 48);
ricorreva anche nel napoletano di quell’età: REW, 2733; DEI, s. v.
23 Una nave grande, come quelle che assalirono Landolfo, e anche questa di genovesi, come si può dedurre dal seguito del racconto. Per questi atti di pirateria cfr. II 4,1 n.
24 senza che nessuno ne scampasse, senza combattimento: cfr. II
4,15 n.
25 quotidiano: Petrarca, CCXXXIV 2.
26 per entro, indicando che la lontananza non era grande: Intr.,
11, 13, 17.
27 dilungata, allontanata: Purg., VII 64: «Poco allungati c’eravam
di lici».
28 in qual luogo ne avrebbe potuto ritrovare alcuno: ‘dovere’ ha
qui quel valore futuro generico e indeterminato che ha anche in I
1,83: «dovere molti miracoli dimostrare» e II 5,7: «a dovere avere
quelli denari». E cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 409.
Tutta la raffigurazione sconsolata era stata anticipata dal B.
nell’Amorosa Visione (XXI e XXII), nelle rievocazioni ovidiane di
Isifile e Arianna.
29 Cioè accorgendosi d’esser povera, sola e derelitta.
30 rimedio: Intr., 13 n.
31 con tutto il loro agio: e v’è naturalmente riferimento a quegli
spiriti della vita vegetativa, animale, razionale che negli svenimenti
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
piacque: ma poi che nel misero corpo le partite forze insieme con le lagrime e col pianto32 tornate furono, lungamente chiamò i figliuoli, e molto per ogni caverna gli
13 andò cercando. Ma poi che la sua fatica conobbe vana e
vide la notte sopravenire, sperando e non sappiendo
che33, di se medesima alquanto divenne sollecita, e dal
lito partitasi in quella caverna, dove di piagnere e di dolersi era usa, si ritornò.
14
E poi che la notte con molta paura e con dolore inestimabile fu passata e il dì nuovo venuto e già l’ora della
terza valicata34, essa, che la sera davanti cenato non
avea, da fame constretta a pascer35 l’erbe si diede; e, pasciuta come poté, piangendo a varii pensieri della sua
15 futura vita si diede. Ne’ quali mentre ella dimorava, vide
venire una cavriuola e entrare ivi vicino in una caverna e
dopo alquanto uscirne e per lo bosco andarsene36: per
che ella, levatasi, là entrò donde uscita era la cavriuola, e
videvi due cavriuoli forse il dì medesimo nati, li quali le
parevano la più dolce cosa del mondo e la più vezzosa37;
si credeva si separassero dal corpo, come nella morte stessa. Vedi
Filocolo, II 21,10 sg.: «i loro cuori, da greve doglia costretti per la
futura partenza, paurosi di morire, a sé rivocarono i tementi spiriti
... e essi caddero semivivi ... Ma dopo certo spazio, il cuore rendé le
perdute forze a’ sopiti membri». E cfr. più innanzi, 68 n.
32 Per la distinzione fra lagrime e pianto : Intr., 34 n.
33 «La speranza, che sorge come per divina ispirazione, le dà il
pensiero e la cura di sé [di se medesima ... divenne sollecita], e cerca un ricovero» (Zingarelli). Per l’espressione: II 5,70: «dubitando
e non sappiendo che»; V 2,22: «La giovane, udendo dire Carapresa, ... cominciò a sperar senza saper che».
34 passate le nove circa: ma cfr. Intr.,102 n.
35 «La locuzione ha qualcosa d’animalesco che forse prepara la
successiva comunanza» (Marti).
36 È il primo riflesso del topos del bosco e della selva, così tipico
nelle narrazioni tragiche e avventurose della letteratura medievale
(cfr. E. R. CURTIUS, La littérature européenne et le Moyen Âge
Latin, Paris 1956, pp. 239 sgg., 244 sgg.), e ricorrente puntualmente nel D. (per es. II 7, IV .9, V 1 e 3, IX 7, X 3).
37 «L’astratto (cosa) sostituito al concreto (i più dolci ecc.), come
si usa quando vogliamo porre in maggior rilievo la qualità di una
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
e non essendolesi ancora del nuovo38 parto rasciutto il
latte del petto, quegli teneramente prese e al petto gli si
16 pose39. Li quali, non rifiutando il servigio, così lei poppavano come la madre avrebber fatto; e d’allora innanzi
dalla madre a lei niuna distinzion fecero. Per che, parendo alla gentil donna avere nel diserto luogo alcuna compagnia trovata, l’erbe pascendo e bevendo l’acqua e tante volte piagnendo quante del marito e de’ figliuoli e
della sua preterita vita si ricordava, quivi e a vivere e a
morire s’era disposta, non meno dimestica della cavriuola divenuta che de’ figliuoli.
17
E così dimorando la gentil donna divenuta fiera40, avvenne dopo più mesi che per fortuna41 similmente quivi
arrivò uno legnetto di pisani dove ella prima era arriva18 ta, e più giorni vi dimorò. Era sopra quel legno un gentile uomo chiamato Currado de’ marchesi Malespini42
cosa che la cosa stessa; e l’aver separato quei due aggettivi col frapporvi il sostantivo, onde si fanno più notare, dà vaghezza e dolcezza» (Fornaciari).
38 recente: II 3,28; II 6,69.
39 L’atto gentile e materno aveva avuto, nei riti dionisiaci, un senso religioso: come mostra una raffigurazione della pompeiana Villa
dei Misteri (A. MAIURI, Pompei, Roma 1948, p. 96; e cfr. in generale per il simbolismo orfico e medievale del capriuolo Dictionnaire des symboles, p. 196).
40 selvatica (lat. ferus: chi mena vita a mo’ di bestie). È possibile
intendere che, poiché allattava due bestiole, era in certo modo anch’essa una bestia.
41 burrasca, fortunale.
42 Corrado II di Villafranca, morto nel 1294 e protagonista del
celebre episodio dantesco (Purg., VIII 120 sgg.: «A’ miei portai
l’amor che qui raffina»: e cfr. Dante e la Lunigiana cit., pp. 165
sgg.). Naturalmente questa avventura non ha il minimo appiglio
storico. Si ricordi però che i Malaspina, come ghibellini, erano naturalmente fautori degli Svevi e quindi naturalmente amici dei Capece; e che la loro fama e la loro generosità cogli esuli, proclamata
da Dante, dovette colpire il B., non solo per i versi della Commedia
ma anche per la epistola a Moroello, imitata da lui studiosamente
(ep. 11; e V. BRANCA, B. medievale, pp 219 sgg.). Nota che il B.
alle volte declina i cognomi: Malespini, Caracciola.
Letteratura italiana Einaudi
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con una sua donna valorosa e santa43; e venivano di pellegrinaggio da tutti i santi luoghi li quali nel regno di Pu19 glia44 sono e a casa loro se ne tornavano. Il quale, per
passare malinconia45, insieme con la sua donna e con alcun46 suoi famigliari e con suoi cani, un dì a andare fra
l’isola47 si mise; e non guari lontano al luogo dove era
madama Beritola cominciarono i cani di Currado a seguire i due cavriuoli, li quali già grandicelli pascendo andavano: li quali cavriuoli, da’ cani cacciati, in nulla altra
parte fuggirono che alla caverna dove era madama Beri20 tola. La quale, questo vedendo, levata in piè e preso un
bastone li cani mandò indietro: e quivi Currado e la sua
donna, che i lor cani seguitavan, sopravenuti, vedendo
costei che bruna e magra e pelosa divenuta era48, si ma21 ravigliarono, e ella molto più di loro. Ma poi che a’ prieghi di lei ebbe Currado i suoi cani tirati indietro, dopo
molti prieghi la piegarono49 a dire chi ella fosse e che
43 La moglie di Corrado era Orietta, di cui è ignota la famiglia
(E. BRANCHI, Storia della Lunigiana, Pistoia 1898, II, p. 9). Evidentemente il B. non ne conosceva il nome, lui così desideroso di
punteggiare le sue novelle di splendenti nomi storici. Per l’uso di
‘una’ cfr. 72 n.
44 Cioè nel Regno di Napoli: per es. San Michele sul Gargano,
San Matteo di Salerno, San Nicola di Bari ecc.
45 noia, umor tetro per la sosta forzata. E cfr. Proemio, 11 n.
46 Non eccezionali nel D. le apocopi nei plurali (cfr. per es. II
5,63; III 10,32). Per alcun plurale vedi Filostrato, I 1,1; Giordano
da Pisa, Quaresimale cit., XX 26 «alcun santi»; Orlando Furioso,
XXVIII 58. Cfr. C. SALVIONI, Appunti sull’antico e moderno lucchese, in «Arch. Glott. It.», XVI, 1902-1905, nn. 42-44.
47 entro l’isola, nell’interno dell’isola.
48 Ricorda un poco la descrizione di Arcita lontano da Emilia
(Teseida, IV 27 sgg.); o in ambito sacro quella di Maria Egiziaca ritrovata dall’abate Zosima nel deserto «nuda col corpo nero e secco
per lo sole e coi capelli canuti, bianchi come lana» (D. C a v a l c a ,
Vite dei Santi Padri, Trieste 1858, p. 268). È del resto un topos descrittivo in situazioni simili: cfr. anche II 8,81. E per tutta la scena
precedente cfr. Legenda aurea, 130.
49 indussero, persuasero.
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quivi facesse; la quale pienamente ogni sua condizione e
ogni suo accidente e il suo fiero proponimento loro
aperse50. Il che udendo Currado, che molto bene Arrighetto Capece conosciuto avea, di compassion pianse e
con parole assai s’ingegnò di rimuoverla da proponimento sì fiero, offerendole di rimenarla a casa sua o di
seco tenerla in quello onore che sua sorella, e stesse51
tanto che Idio più lieta fortuna le mandasse innanzi. Alle quali proferte non piegandosi la donna, Currado con
lei lasciò la moglie e le disse che da mangiare quivi facesse venire e lei, che tutta era stracciata, d’alcuna delle sue
robe rivestisse, e del tutto facesse che seco la ne menasse52. La gentil donna con lei rimasa, avendo prima molto
con madama Beritola pianto de’ suoi infortunii, fatti venir vestimenti e vivande, con la maggior fatica del mondo a prendergli e a mangiar la condusse: e ultimamente53, dopo molti prieghi, affermando ella di mai non
volere andare ove conosciuta fosse, la ‘ndusse a doversene seco andare in Lunigiana54 insieme co’ due cavriuoli
e con la cavriuola la quale in quel mezzo tempo55 era
tornata e, non senza gran maraviglia della gentil donna,
l’aveva fatta grandissima festa.
E così venuto il buon tempo, madama Beritola con
Currado e con la sua donna sopra il lor legno montò, e
con loro insieme la cavriuola e i due cavriuoli, da’ quali,
50
manifestò, rivelò: I 3,17 n.
È un congiuntivo coordinato agli infiniti precedenti, con ellissi
di che. Meno probabilmente si potrebbe pensare a un offrendole o
aggiungendo sottintesi.
52 e in tutti i modi facesse si di menarla seco.
53 finalmente.
54 La regione della Magra, fra Toscana e Liguria, che prende nome dall’antica Luni, dov’erano i castelli dei Malaspina: coi quali
ebbero ottimi rapporti i mercanti fiorentini che operavano in quella zona (R. DAVIDSOHN, Storia di Firenze, VI, p. 846).
55 nel frattempo, in quel mentre: per l’omissione del di cfr. Annotazioni, p. 96.
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non sappiendosi per tutti56 il suo nome, ella fu Cavriuola dinominata; e con buon vento tosto infino nella foce
della Magra n’andarono, dove smontati alle loro castella
ne salirono57. Quivi appresso la donna di Currado madama Beritola, in abito vedovile58, come una sua damigella, onesta e umile e obediente stette, sempre a’ suoi
cavriuoli avendo amore e faccendogli nutricare.
I corsari, li quali avevano a Ponzo preso il legno sopra
il quale madama Beritola venuta era, lei lasciata sì come
da lor non veduta, con tutta l’altra gente a Genova n’andarono; e quivi tra’ padroni della galea59 divisa la preda,
toccò per avventura, tra l’altre cose, in sorte a un messer
Guasparrin Doria60 la balia di madama Beritola e i due
fanciulli con lei; il quale lei co’ fanciulli insieme a casa
sua ne mandò per tenergli a guisa di servi ne’ servigi della casa61. La balia, dolente oltre modo della perdita della
sua donna e della misera fortuna nella quale sé e i due
fanciulli caduti vedea, lungamente pianse. Ma poi che
56
da tutti: Intr., 55 n.
Forse il B. pensò al castello di Mulazzo, tra i ruderi del quale
la tradizione indica «la torre di Dante» (Dante e la Lunigiana cit.);
e per le conoscenze e le esperienze che della zona ebbe il B., vedi
anche l’altra novella lunense (I 4,4 n.).
58 Cioè vestita di nero e col capo cinto di bianche bende, come
Criseida (Fitostrato, I 26) e la protagonista del Corbaccio (143 e
432: e cfr. anche Purg., VIII 74).
59 Era usanza, nelle città marinare, che più persone si unissero ad
armare una galea per mandarla a corseggiare.
60 Nella celebre famiglia Doria non risulta che vi fosse in quel periodo alcuno di tale nome. Guaspare o Guasparre è forma genovese: cfr. G. Villani, IX 82: «Guasparre Grimaldi» ecc.
61 «I Genovesi finirono per farsi trafficanti di schiavi, né si limitarono al commercio nel Levante, ma portarono schiavi in Genova» (A. ZANELLI, Le schiave orientali ecc., Firenze 1885; e cfr. R.
LIVI, La schiavitù domestica nei tempi di mezzo, Padova 1928; L.
TRIA, La schiavitù in Liguria, in «Atti Soc. Lig. St. Patria», LXX,
1947; CH. VERLINDEN, L’esclavage dans l’Europe médiévale,
Bruges 1955): cfr. V 7,4. E per le pratiche piratesche dei mercanti
medievali cfr. II 4,1n.
57
Letteratura italiana Einaudi 242
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
vide le lagrime niente giovare e sé esser serva con loro
insieme, ancora che povera femina fosse, pure era savia
e avveduta62; per che, prima come poté il meglio riconfortatasi e appresso riguardando dove erano pervenuti, s’avisò che se i due fanciulli conosciuti fossono per
avventura potrebbono di leggiere63 impedimento65 ricevere: e oltre a questo sperando che, quando che sia, si
potrebbe mutar la fortuna e essi potrebbono, se vivi fossero, nel perduto stato65 tornare, pensò di non palesare
a alcuna persona chi fossero, se tempo di ciò66 non vedesse; e a tutti diceva; che di ciò domandata l’avessero,
30 che suoi figliuoli erano. E il maggiore non Giuffredi ma
Giannotto di Procida nominava, al minore non curò di
mutar nome67; e con somma diligenzia mostrò a Giuffredi perché il nome cambiato gli avea e a qual pericolo egli
potesse essere se conosciuto fosse68, e questo non una
volta ma molte e molto spesso gli ricordava69: la qual cosa il fanciullo, che intendente70 era, secondo l’ammae31 stramento della savia balia ottimamente faceva. Stettero
adunque, e mal vestiti e peggio calzati71, a ogni vil servigio adoperati, con la balia insieme pazientemente più
anni i due garzoni in casa messer Guasparino.
62 «Anacoluto non raro negli scrittori antichi, che si fa quando
prima d’arrivare all’apodosi o conclusione, ci vien davanti un pensiero accessorio sì, ma che ci occupa e trattiene, tal che lo facciamo
principale; e poi dopo, per mezzo d’un’altra congiunzione (in questo luogo ‘per che’), riappicchiamo il filo colla prodosi intralasciata» (Fornaciari).
63 facilmente: per la forma assai usata cfr. Intr., 22.
64 ostacolo, impaccio, noia: VIII 9,80; Inf., II 95.
65 nella condizione che avevano persa.
66 tempo a ciò propizio: cfr. 9 n.
67 Per analoghe ragioni che inducevano a mutar nome cfr. Filocolo, III 75.
68 Perché i Genovesi erano favorevoli agli Angioini.
69 «Vengono a mente le amorevoli iterate raccomandazioni di
Dedalo a Icaro nei bei distici di Ovidio» (Rua): cfr. Met., VIII 200
sgg.
71 intelligente: cfr. I 7,27 n.
Letteratura italiana Einaudi
243
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
Ma Giannotto, già d’età di sedici anni, avendo più
animo72 che a servo non s’apparteneva73, sdegnando la
viltà della servil condizione, salito sopra galee che in
Alessandria andavano, dal servigio di messer Guasparino si partì e in più parti andò in niente potendosi avan33 zare74. Alla fine, forse dopo tre o quattro anni appresso
la partita75 fatta da messer Guasparrino, essendo bel
giovane e grande della persona divenuto e avendo sentito il padre di lui, il quale morto credeva che fosse, essere
ancor vivo ma in prigione e in captività per lo re Carlo
guardato76, quasi della fortuna disperato vagabundo andando, pervenne in Lunigiana: e quivi per ventura con
Currado Malaspina si mise per famigliare77, lui assai ac34 conciamente e a grado78 servendo. E come che rade volte la sua madre, la quale con la donna di Currado era,
vedesse, niuna volta la conobbe, né ella lui: tanto la età
l’uno e l’altro79, da quello che esser soleano quando ultimamente si videro, gli avea trasformati.
35
Essendo adunque Giannotto al servigio di Currado,
avvenne che una figliuola di Currado, il cui nome era
32
72 « È di bellissimo uso nel senso di sentimento, cuore, virtù, e in
somma di quella interna forza che deriva dalla coscienza del proprio valore» (Fornaciari) e, secondo quanto allora si credeva, dal
sangue: vedi più avanti: «ma il generoso animo dalla sua origine
tratto ...» (52) e II 8, IV 1, V 7 ecc.
73 non si confaceva.
74 migliorare la sua condizione: G. Villani, XI 39 «fu un grande
imprenditore di gran cose per avanzarsi»; Petrarca, XXXII 13.
75 dipartita, partenza.
76 in carcere e in prigionia a disposizione, per conto del re Carlo, o
dal re Carlo custodito: per captività vedi più innanzi, 41: «quale la
vita loro in captività»: cfr. 77.
77 «Non propriamente servo, sebbene sia detto fante più oltre;
forse con ufficio militare» (Zingarelli).
78 con soddisfazione, con piacere: ma sua o di Corrado?
79 Non v’è distinzione di sesso, come nei predicati di soggetti di
vario genere; perché le persone sono prese come semplici individui, esseri, e si vuol rilevare unicamente la relazione fra di loro. V’è
forse anche l’influenza di tale uso nelle azioni reciproche (35
«l’uno dell’altro s’innamorò»): cfr. VII 5,37 n.
Letteratura italiana Einaudi 244
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
Spina80, rimasa vedova d’uno Niccolò da Grignano81 alla casa del padre tornò: la quale, essendo assai bella e
piacevole e giovane di poco più di sedici anni82, per ventura pose gli occhi addosso a Giannotto, e egli a lei, e
36 ferventissimamente l’uno dell’altro s’innamorò83. Il quale amore non fu lungamente senza effetto, e più mesi
durò avanti che di ciò niuna persona s’accorgesse: per la
qual cosa essi, troppo assicurati, cominciarono a tener
maniera men discreta che a così fatte cose non si richie37 dea. E andando un giorno per un bosco bello e folto
d’alberi la giovane insieme con Giannotto, lasciata tutta
l’altra compagnia, entrarono innanzi84; e parendo loro
molta di via85 aver gli altri avanzati, in un luogo dilettevole e pien d’erba e di fiori e d’alberi chiuso ripostisi86, a
prendere amoroso piacere l’un dell’altro incominciaro38 no87. E come che lungo spazio stati già fossero insieme,
avendo il gran diletto fattolo loro parere molto brieve,
80
Personaggio forse immaginario, il cui nome fu suggerito dal
cognome (esistette questo nome fra i Malaspina: G. Villani, X 6).
Anche le notizie del Branchi (II, p. 9) e del Gerini (Memorie storiche della Lunigiana, Massa 1829, II, p. 28) sono chiaramente derivate dal B. La situazione dalla Spina è simile a quella di Ghismonda (IV 1: cfr. n. 7).
81 Era un cittadino o subfeudatario dei Malaspina in Val di Gragnano, presso Carrara (BRANCHI, op. cit.II, p. 9; G. VOLPE, Lunigiana medievale, Firenze 1923, agli indici).
82 Come abbiamo detto, l’età canonica del matrimonio era per le
fanciulle fra i quattordici e i diciotto anni (Intr., 49 n.; IV 3; e
BRANCA, B. medievale, pp. 2 1 0 sgg.).
83 Motivo popolare e diffuso nella novellistica questo dell’innamorato al servizio del padre della amata (Thompson e Rotunda, T
31.1): cfr. VII 7,9 n.
84 Cioè si inoltrarono avanzando gli altri: cfr. V 7, I 2 n.
85 Come spesso anche altrove, l’aggettivo sta per l’avverbio di
quantità (cfr. II 5,48 n.), con ‘di’ partitivo.
86 appartatisi.
87 Il B. si compiace spesso di circondare gli amori giovanili di
una natura lussureggiante e fiabesca. Dopo le cornici naturalistiche
a scene erotiche, suggeritegli probabilmente dalla rilassata vita napoletana, nel Filocolo (III 11, V 8), nelle Rime (LXIII, LXV) e nel-
Letteratura italiana Einaudi
245
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
in ciò dalla madre della giovane prima e appresso da
Currado soprappresi88 furono. Il quale, doloroso oltre
modo questo vedendo, senza alcuna cosa dire del perché, amenduni gli fece pigliare a tre89 suoi servidori e a
un suo castello legati menargliene90; e d’ira e di cruccio
fremendo andava, disposto di fargli vituperosamente
morire.
39
La madre della giovane, quantunque molto turbata
fosse e degna reputasse la figliuola per lo suo fallo
d’ogni crudel penitenza, avendo per alcuna parola di
Currado compreso qual fosse l’animo suo verso i nocenti91, non potendo ciò comportare, avacciandosi92 sopragiunse l’adirato marito e cominciollo a pregare che gli
dovesse piacere di non correr furiosamente a volere93
nella sua vecchiezza della figliuola divenir micidiale94 e a
la Fiammetta (V 17-22, 26-28), la fantasia si fa poi più lieve e gentile nell’Amorosa Visione (XLIX), e soprattutto nel Ninfale e nel D.
(III 7, V 1 e 6, X 5: e anche Buccolicum carmen, I 31 sgg.). Notevoli i precisi riscontri coi vv. 1 -7 dell’Amorosa Visione, XLIX: «Era
quel loco, dove ci trovamo, | Soletto tutto, né persona appresso |
Di nulla parte a noi non sentavamo. | Tutto dintorno ed ancora sopra esso | Era di frondi verdi il loco pieno, | E di quelle era ben follato e spesso. | Entrar non vi potea sol né sereno ...» Tutta la scena
ha poi stretta somiglianza con quella centrale della V 7.
88 sorpresi: II 2, 16 n.
89 da tre: cfr. Intr. 20 n.
90 menarglieli, condurglieli, o condurli di là: e cfr. STUSSI, p.
209.
91 Colpevoli (lat. nocere, noxius, nocens): II 8,26 n.; Ammaestramenti degli antichi, Firenze 1734, XXIII 2,6 «Proprio de’ nocenti è
il temere».
92 affrettandosi: II 7,52 n.: «avendo l’animo al doversi avacciare»;
III 7,21 n.: «per Dio pregandolo ... che egli s’avacciasse»; e Corbaccio, 51.
93 «Avverti la forza di quel ‘dovesse’ e di quel ‘volere’ che poi segue. Il primo rappresenta la cosa addimandata come dovuta e conveniente; il secondo fa sentire la fatica che costerebbe l’uccidere la
figliuola, richiedendosi uno sforzo di volontà» (Fornaciari).
94 uccisore, omicida: II 9,39 n.: «non volere divenire micidiale»;
VIII 7,128: «a’ micidiali dannati dalla ragione»; Compagni, II 18.
Letteratura italiana Einaudi 246
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
bruttarsi le mani del sangue d’un suo fante, e ch’ egli altra maniera trovasse a sodisfare all’ira sua, sì come di
fargli imprigionare e in prigione stentare95 e piagnere il
40 peccato commesso. E tanto e queste e molte altre parole
gli andò dicendo la santa donna96, che essa da uccidergli
l’animo suo rivolse97; e comandò che in diversi luoghi
ciascun di loro imprigionato fosse, e quivi guardati bene98 e con poco cibo e con molto disagio servati infino a
tanto che esso altro diliberasse di loro; e così fu fatto.
41
Quale la vita loro in captività e in continue lagrime e
in più lunghi digiuni, che loro non sarien bisognati, si
fosse, ciascuno sel può pensare. Stando adunque Giannotto e la Spina in vita così dolente e essendovi già uno
anno, senza ricordarsi Currado di loro, dimorati, avvenne che il re Piero da Raona99, per trattato di messer Gian
di Procida l’isola di Cicilia ribellò e tolse al re Carlo100;
di che Currado, come ghibellino, fece gran festa.
Una situazione simile è nel Filocolo (III 40,3: la regina dice al re
Felice: «Cessino questo gli iddii ... che le mani vostre di sì vile sangue siano contaminate») e soprattutto – anche se assai diverso è lo
scioglimento – nella novella di Tancredi e Ghismonda (IV 1) fino a
coincidenze verbali (3: «se egli nell’amoroso sangue nella sua vecchiezza non s’avesse le mani bruttate»; la Spina e Ghismonda sono
ambedue vedove, scelgono ambedue per amante un familiare del
padre ecc.; e cfr. anche note seguenti).
95 soffrire: cfr. Filocolo, II 44,14.
96 La stessa espressione usata a 18; e cfr. V 3,41 n.
97 distolse, allontanò.
98 «Qui vedesi ‘ciascuno’ unito prima col singolare e poi col plurale: e ciò avviene perché nel primo caso si considerano i due giovani individualmente e nel secondo collettivamente» (Fanfani): e
cfr. II 1,22 n. ‘Quivi’ si riferisce, mi pare, a diversi luoghi; il Fanfani pensa invece a una sillessi riferendolo a un prigione implicito nel
verbo ‘imprigionato fosse’.
99 Frequenti queste aferesi correnti e del parlato per vari nomi
inizianti con la a: cfr. X 7,5; e ‘Vignone’ VIII 2,3.
100 Sono note le vicende cui aveva alluso anche Madonna Fiordaliso (II 5,22 sgg.). Pietro III d’Aragona intervenne in Sicilia dopo i
Letteratura italiana Einaudi
247
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
La quale Giannotto sentendo da alcuno di quelli che
a guardia l’aveano, gittò un gran sospiro, e disse: «Ahi
lasso me! ché passati sono omai quattordici anni101 che
io sono andato tapinando102 per lo mondo, niuna altra
cosa aspettando che questa, la quale ora che venuta è,
acciò che io mai d’aver ben più non speri, m’ha trovato
in prigione, della quale mai se non morto uscir non spero!»
43
«E come ?» disse il prigioniere103 «che monta a te
quello che i grandissimi re si facciano104? Che avevi tu a
fare in Cicilia?»
44
A cui Giannotto disse: «El pare105 che ’l cuor mi si
schianti106, ricordandomi di ciò che già mio padre v’ebbe a fare: il quale, ancora che piccol fanciul fossi quando
42
Vespri (31 marzo 1282), in cui ebbe gran parte il leggendario raccoglitore del guanto di Corradino, Giovanni da Procida. Per lui il
B., nonostante i suoi sentimenti devoti verso gli Angioini, ebbe viva simpatia, come traspare – oltre che forse dal falso nome di Giusfredi plasmato sul suo – dalla V 6 e dal De casibus, IX 19 (da tener
presente come la più organica narrazione boccacciana dei tumultuosi e tragici casi del Regno in quel periodo: e anche Amorosa Visione, XI e comm.). ‘Trattato’ è congiura, trama, come nella II 5,22
n.
101 Cioè da quand’era fuggito con la madre a quei giorni del
1282: Otto anni con Guasparrino Doria, quattro ramingando, due
(di cui uno in prigione) presso il Malaspina. Evidentemente dunque il B. pone la fuga di Beritola nel 1268 e non come sembrerebbe
nel 1266: sia che si tratti di un indugio, inspiegabile però da parte
di Beritola; sia che il B. abbia confuso la data della battaglia di Benevento con quella di Tagliacozzo (1268). E cfr. 47 n.
102 vivendo di stenti, quasi elemosinando: come nella III 9,58:
«lungamente andata son tapinando».
103 carceriere: III 7,69 n.: «col piacere de’ pregionieri a lui se
n’entrò»; e IV 10,47 n.
104 che importa, che giova a te quello che i grandissimi re possono
fare?
105 Impersonale: cfr. Intr., 60. Corrente ‘el’ per egli.
106 Vita Nuova, XXXVI 4: «io temo forte non lo cor si schianti».
Letteratura italiana Einaudi 248
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48
me ne fuggi’, pur mi ricorda che io nel vidi signore107,
vivendo il re Manfredi.»
Seguì il prigioniere: «E chi fu tuo padre?»
«Il mio padre» disse Giannotto «posso io omai sicuramente manifestare, poi nel pericolo mi veggio108 il
quale io temeva scoprendolo. Egli fu chiamato e è ancora, s’el vive, Arrighetto Capece, e io non Giannotto ma
Giuffredi ho nome; e non dubito punto, se io di qui fossi fuori, che tornando in Cicilia io non v’avessi ancora
grandissimo luogo109».
Il valente uomo, senza più avanti andare, come
prima110 ebbe tempo, tutto questo raccontò a Currado.
Il che Currado udendo, quantunque al prigioniere mostrasse di non curarsene, andatosene a madama Beritola
piacevolmente111 la domandò se alcun figliuolo avesse
d’Arrighetto avuto che Giuffredi avesse nome. La donna piagnendo rispose che, se il maggior de’ suoi due che
avuti avea fosse vivo, così si chiamerebbe e sarebbe d’età
di ventidue anni112.
Questo udendo Currado avvisò lui dovere esser desso, e caddegli nell’animo113, se così fosse, che egli a una
ora114 poteva una gran misericordia fare115 e la sua vergogna e quella della figliuola tor via dandola per moglie
107
Cioè uno dei capi, uno dei grandi.
Cioè: nella situazione dolorosa in cui io temevo di cadere se lo
avessi manifestato. Già il Borghini: «poi ch’io mi veggio in prigione, che era alla fine il peggio ch’io dovessi temere scoprendomi»
(Annotazioni, p. 97).
109 altissimo grado, grandissima autorità, dignità.
110 non appena: II 2,5 n.; II 5,60 n.
111 garbatamente, con cortesia e delicatezza: II 10,18 n. e anche II
5,19 n.
112 Veramente ventiquattro, se nel 1266 aveva otto anni (cfr. 8):
ma cfr. 42 n.
113 gli venne in mente: I 7,8 n.; IV 1, 1 9 n.
114 nello stesso tempo: II 8,94.
115 «Questa voce fu usata specialmente per perdono di grave ingiuria» (Fanfani).
108
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
a costui. E per ciò, fattosi segretamente Giannotto venire, partitamente d’ogni sua passata vita116 l’esaminò; e
trovando per assai manifesti indizii lui veramente esser
Giuffredi figliuolo d’Arrighetto Capece, gli disse:
49 «Giannotto, tu sai quanta e quale sia la ‘ngiuria la quale
tu m’hai fatta nella mia propia figliuola, là dove, trattandoti io bene e amichevolemente, secondo che servidor si
dee fare, tu dovevi il mio onore e delle mie cose sempre
e cercare e operare117; e molti sarebbero stati quegli, a’
quali se tu quello avessi fatto che a me facesti, che118 vituperosamente t’avrebbero fatto morire119: il che la mia
50 pietà non sofferse120. Ora, poi che così è come tu mi di’
che tu figliuol se’ di gentile uomo e di gentil donna, io
voglio alle tue angosce, quando tu medesimo vogli, porre fine e trarti della miseria e della captività nella qual tu
dimori, e a una ora il tuo onore e ’l mio nel suo debito
51 luogo riducere121. Come tu sai, la Spina (la quale tu con
amorosa, avvegna che sconvenevole a te e a lei, amistà
prendesti) è vedova, e la sua dota è grande e buona; quali sieno i suoi costumi e il padre e la madre di lei tu il sai;
del tuo presente stato niente dico. Per che, quando tu
vogli, io sono disposto, dove ella disonestamente amica
ti fu, che ella onestamente tua moglie divenga e che in
guisa di mio figliuolo qui con esso meco e con lei quanto
ti piacerà dimori».
116
in ogni particolare della sua vita passata.
cercare e promuovere ciò che tornasse d’onore a me e ai miei, alla mia posizione (‘mio’ di me; ‘cose’ esseri, persone): IV 1,22 n.:
«l’oltraggio e la vergogna la quale nelle mie cose fatta m’hai».
118 Anacoluto che risolve rapidamente quello che con una costruzione regolare sarebbe riuscito lungo e pesante (quelli che, se tu
loro avessi fatto quello che facesti a me, vituperosamente ecc.).
119 Come Tancredi fece uccidere Guiscardo (IV 1).
120 non permise: II 5,34 n.
121 nel dovuto stato reintegrare
117
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Aveva la prigione macerate le carni di Giannotto122,
ma il generoso animo dalla sua origine tratto non aveva
ella in cosa alcuna diminuito né ancora lo ‘ntero123 amo53 re il quale egli alla sua donna portava. E quantunque
egli ferventemente disiderasse quello che Currado gli offereva124 e sé vedesse nelle sue forze, in niuna parte
piegò126 quello che la grandezza dello animo suo gli mostrava di dover dire, e rispose: «Currado, né cupidità di
signoria né disiderio di denari né altra cagione alcuna mi
fece mai alla tua127 vita né alle tue cose insidie come tra54 ditor, porre. Amai tua figliuola e amo e amerò sempre128, per ciò che degna la reputo del mio amore; e se io
seco fui meno che onestamente, secondo la oppinion de’
meccanici129, quel peccato commisi il qual sempre seco
tiene la giovanezza congiunto e che, se via si volesse torre, converrebbe che via si togliesse la giovanezza, e il
quale, se i vecchi si volessero ricordare d’essere stati giovani e gli altrui difetti con li lor misurare e li lor con gli
52
122 Efficace inizio di periodo sulla successione di un endecasillabo e di un settenario.
123 assoluto, integro, perfetto: III 5,19: «il tuo amor verso me ...
grandissimo e perfetto»: e Purg., XVII 30.
124 Offerere e offerire sono usati alternatamente dal B.: cfr. Annotazioni, pp. 98 sgg.
125 in suo potere, cioè di Corrado: Fiammetta, VI 19,5: «O Atropos, ... umilmente ti priego che il cadente corpo guidi nelle tue forze».
126 mutò, abbassò.
127 «Giannotto dà del tu a Currado: una specie di sfida di fronte
al signore e in esso vi è anche un senso di parità ... poi in segno di
riconoscenza e di umiliazione si rivolge a lui col voi» (70 sgg.): Cfr.
S. ZINI, Il «tu» e il «voi» nel D. cit.
128 Appassionata protesta che ricorda quelle del Zima (III 5, 10),
di Ghismonda e di Lisa (IV 1,32 n. e X 7,41 n.); e Amorosa Visione, XXIII 14 sgg. e L 85 sgg.
129 Nota l’insistere del disprezzo sia in oppinione (che, come si è
visto nella I 1,5 n., ha il senso di falsa credenza) sia in meccanici che
vale gente grossolana, vile: Corbaccio, 279: «... colui il quale i sacri
studi, la filosofia, ha dalla meccanica turba separato»; e cfr. Rime,
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altrui, non saria grave come tu e molti altri fanno130: e
come
amico, non come nemico il commisi131. Quello
55
che tu offeri di voler fare sempre il disiderai, e se io
avessi creduto che conceduto mi dovesse esser suto132,
lungo tempo133 che domandato l’avrei; e tanto mi sarà
56 ora più caro quanto di ciò la speranza è minore. Se tu
non hai quello animo che le parole tue dimostrano, non
mi pascere di vana speranza; fammi ritornare alla prigione e quivi quanto ti piace mi fa affliggere, ché quanto io
amerò la Spina, tanto sempre per amor di lei amerò te,
che che tu mi ti facci, e avrotti in reverenza».
57
Currado, avendo costui udito, si maravigliò e di grande animo il tenne e il suo amore fervente reputò e più ne
l’ebbe caro; e per ciò, levatosi in piè134, l’abbracciò e basciò, e senza dar più indugio alla cosa comandò che quivi chetamente135 fosse menata la Spina. Ella era nella
prigione magra e pallida divenuta e debole, e quasi
CXXIII 13; e M. L. ALTIERI BIAGI, «Vile meccanico», in «Lingua Nostra», XXVI, 1965.
130 reputano, giudicano. Era anche sentenza proverbiale: «Senex
sum factus, iuvenum mihi displicet actus» (H. WALTHER, Proverbia, IV, p. 798).
131 Nella frase sembra riecheggiare il ricordo del famoso episodio
di Pisistrato che, sulle orme di Valerio Massimo (V, 1 ext. 2), la letteratura medievale aveva ripetuto con ammirazione (per es. Purg.,
XV 94 sgg.; Familiares, XII 2,19): e che anche il B. aveva esaltato
nel Filocolo (III 34,2: «Ahi, Fisistrato, degno d’etterna memoria
per la tua benignità, il quale, udendo con pianti narrare la tua figliuola esser baciata, e di ciò dimandarti vendetta, non dubitasti rispondere: ’Che farem noi a’ nostri nimici, se colui che ci ama è per
noi tormentato?’») E per le precedenti affermazioni cfr. II 8,53 n.
132 stato. «Il costrutto ha valore di futuro: se avessi potuto pensare che un giorno mi sarebbe stato concesso ciò che ho sempre desiderato» (Marti).
133 Sottinteso è.
134 Corrado, dunque, era stato a sedere finora, in atteggiamento
quasi di giudice, o comunque di superiore.
135 segretamente.
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un’altra femina che esser non soleva parea, e così Giannotto un altro uomo: i quali nella presenzia di Currado
di pari consentimento contrassero le sponsalizie secondo la nostra usanza136.
E poi che più giorni, senza sentirsi137 da alcuna persona di ciò che fatto era alcuna cosa, gli ebbe di tutto ciò
che bisognò loro e di piacere era fatti adagiare138, parendogli tempo di farne le loro madri liete139, chiamate la
sua donna e la Cavriuola, così verso lor disse: «Che direste voi, madonna, se io vi facessi il vostro figliuolo maggior riavere, essendo egli marito d’una delle mie figliuole?»
A cui la Cavriuola rispose: «Io non vi potrei di ciò altro dire se non che, se io vi potessi più esser tenuta140
che io non sono, tanto più vi sarei quanto voi più cara
cosa, che non sono io medesima a me, mi rendereste; e
rendendomela in quella guisa che voi dite, alquanto in
me la mia perduta speranza rivocareste141»; e lagrimando si tacque.
Allora disse Currado alla sua donna: «E a te che ne
parrebbe, donna, se io così fatto genero ti donassi?»
A cui la donna rispose: «Non che un di loro che gentili uomini sono, ma un ribaldo142, quando a voi piacesse, mi piacerebbe».
136 Cioè scambiando le promesse e consegnando l’anello alla
sposa: cerimonia che si svolgeva dinanzi ai genitori o anche al padre solo: cfr. V 4,46.
137 sapersi, conoscersi.
138 fornire largamente: Cfr. X 2,10: «ogn’altro uomo ... per lo castello fu assai bene adagiato»: e anche IV 3,11 n.; IX 6,10.
139 Purg., III 142: «se tu mi puoi far lieto»; e anche Inf., XXVI
96: «lo qual dovea Penelopè far lieta»: e cfr. qui 62 e 70.
140 obbligata.
141 fareste risorgere. «Forma etimologica, rara anche in antico e
rimasta nei dialetti» (Zingarelli). «Qui forse il B. la usa per fuggire
il suono simile del rendereste che è poco sopra» (Fanfani): e cfr. 68.
142 uomo di bassa condizione, straccione: ma cfr. I 7,19 n.
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65
66
Allora disse Currado: «Io spero infra pochi dì farvi di
ciò liete femine».
E veggendo già nella prima forma143 i due giovani ritornati, onorevolmente vestitigli, domandò Giuffredi:
«Che ti sarebbe caro sopra l’allegrezza la qual tu hai144,
se tu qui la tua madre vedessi?»
A cui Giuffredi rispose: «Egli non mi si lascia145 credere che i dolori de’ suoi sventurati accidenti l’abbian
tanto lasciata viva; ma, se pur fosse, sommamente mi saria caro, sì come colui che ancora, per lo suo consiglio,
mi crederei gran parte del mio stato ricoverare146 in Cicilia».
Allora Currado l’una e l’altra donna quivi fece venire.
Elle fecero ammendune maravigliosa festa alla nuova
sposa, non poco maravigliandosi quale spirazione147 potesse essere stata che Currado avesse a tanta benignità
recato, che Giannotto con lei avesse congiunto. Al quale
madama Beritola, per le parole da Currado udite, cominciò a riguardare, e da occulta virtù desta in lei alcuna
ramemorazione148 de’ puerili lineamenti del viso del suo
figliuolo149, senza aspettare altro dimostramento con le
braccia aperte gli corse al collo; né la soprabbondante
143
figura, aspetto: cioè com’erano prima della prigionia.
Quanto ameresti, gioiresti oltre l’allegrezza presente, cioè
Quanto aumenterebbe l’allegrezza ecc.: II 3,12 n.: «molte dell’altre
comperar sopra quelle [possessioni]»; Vita Nuova, VIII 5: «ciò che
al mondo è da laudare | In gentil donna sovra de l’onore».
145 non posso, stento a ... : solita costruzione impersonale.
146 ricuperare: II 3,47 n.
147 ispirazione: Purg., XXX 133 «Né l’impetrare ispirazion mi
valse»: e cfr. III 10,7 n.
148 e per una forza occulta essendosi ridestato in lei un vago ricordo: II 8,78 n.: «da occulta virtù mossi»; V 5,37: «la giovane ... da
occulta virtù mossa, sostenendo li suoi abbracciamenti, con lui teneramente cominciò a piagnere»; Purg., XXX 38.
149 «Nota naturale e propio detto» (M.).
144
Letteratura italiana Einaudi 254
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
pietà150 e allegrezza materna le permisero di potere alcuna parola dire, anzi sì ogni virtù sensitiva le chiusero151,
67 che quasi morta nelle braccia del figliuolo ricadde. Il
quale, quantunque molto si maravigliasse, ricordandosi
d’averla molte volte152 avanti in quel castel medesimo
veduta e mai non riconosciutala, pur nondimeno conobbe incontanente l’odor materno153; e, se medesimo della
sua preterita trascutaggine154 biasimando, lei nelle brac68 cia ricevuta lagrimando teneramente basciò. Ma poi che,
madama Beritola pietosamente dalla donna di Currado
e dalla Spina aiutata, e con acqua fredda e con altre loro
arti in sé le smarrite forze ebbero rivocate155, rabracciò156 da capo il figliuolo con molte lagrime e con molte
150 amore: Inf., XXVI 94 sg.: «la pietà | Del vecchio padre»; Convivio, II X 6.
151
le sopraffecero, vinsero ogni facoltà dei sensi: Inf., VI 1 e VIII
88; e anche qui 12 n.
152 Questo particolare può sembrare contraddittorio con quanto
è detto al 34.
153 Accenna insieme indefinitamente alla maternità che appariva
in Beritola, e a quell’influsso fisico che opera sui sensi e li attira. I
Vocabolari spiegano indizio, sentore: ma inadeguatamente. Cfr.
Fiammetta, III 12,3: «giacendo in quella parte ove il mio Panfilo
era giaciuto, quasi sentendo di lui alcuno odore»; Paolo da Certaldo, Libro di buoni costumi, n. 266: «colui ch’è diritto figliuolo di
colui ch’egli tiene per padre ... sempre gliene viene grandissimo
olore»; Morelli, Ricordi, p. 182: «a tutti noi di lei [della sorella
morta] ... dee venire olore»; Cavalca, Vite dei Santi Padri, S.
Abraam «sentendosi quasi un odore d’astinenza e di santitade
uscire di costui». Era espressione dell’uso, già in san Paolo, II Cor.,
2,14 «odorem notitiae suae»: cfr. Thompson, H 175.
154 sbadataggine, trascuratezza: Intr., 65 n.
155 Cfr. 12 n.: naturalmente madama Beritola è soggetto di proposizione assoluta, come si dicesse: «ma poi che, essendo madama
Beritola aiutata ...»; soggetto sottinteso di ‘ebbero’sono «le donne»
nominate prima o in generale «i presenti», «i circostanti». A meno
che si tratti di un accordo nel numero, anziché col soggetto coll’oggetto (Rohlfs, 642).
156 Identica forma iterativa a II 5,24 n.
Letteratura italiana Einaudi
255
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
parole dolci; e piena di materna pietà mille volte o più il
basciò, e egli lei reverentemente molto la157 vide e ricevette.
69
Ma poi che l’accoglienze oneste e liete furo iterate tre
e quattro volte158, non senza gran letizia e piacere de’circunstanti, e l’uno all’altro ebbe ogni suo accidente narrato, avendo già Currado a’ suoi amici significato, con
gran piacer di tutti, il nuovo parentado fatto da lui, e ordinando una bella e magnifica festa, gli disse Giuffredi:
70 «Currado, voi avete fatto me lieto di molte cose e lungamente avete onorata mia madre: ora, acciò che niuna
parte in quello che per voi si possa ci resti a far, vi priego
che voi mia madre e la mia festa e me facciate lieti159 della presenza di mio fratello, il quale in forma160 di servo
messer Guasparrin Doria tiene in casa, il quale, come io
vi dissi già, e lui e me prese in corso161; e appresso, che
voi alcuna persona mandiate in Cicilia, il quale162 pienamente s’informi delle condizioni e dello stato del paese,
157
Pleonasmo del pronome frequentissimo nel B. in frasi simili.
«Nota Dante» (M.). Purg., VII 1-2: «Poscia che l’accoglienze
oneste e liete | Furo iterate tre e quattro volte». Finemente osservano i Deputati, traendo di qui spunto a trattare delle imitazioni e citazioni dantesche del B., «che e’ fu sempre consuetudine dei buoni
prosatori spargere tal volta per le loro composizioni qualche detto
d’un famoso Poeta, et abbellirne gli scritti loro: e questo avviene
perché, essendo i Poeti molto noti generalmente, et oltre questo in
molta stima e maraviglia de’ popoli, cota’ motti, quasi solleticando
gli ingegni, dilettano chi ode, e insieme adornano e ingrandiscono
lo stile di chi scrive o ragiona» (p. 101); e cfr. V. BRANCA,
L’»Amorosa Visione», in «Annali Sc. Normale Sup. Pisa», XI,
1942, pp 273 sgg.
159 Cfr. 58 n.
160 in qualità, in condizione: II 9,68: «in forma d’uom»; IV 2,23.
161 corseggiando: VIII 9,29: «E questa cosa chiamiam noi vulgarmente l’andare in corso: per ciò che sì come i corsari tolgono la roba d’ogni uomo, e così facciam noi».
162 Riferito ad sensum a ‘persona’: cfr. Annotazioni, p.104.
158
Letteratura italiana Einaudi 256
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
e mettasi a sentire quello che è d’Arrighetto mio padre,
se egli è o vivo o morto, e, se è vivo, in che stato, e
d’ogni cosa pienamente informato163 a noi ritorni».
71
Piacque a Currado la domanda di Giuffredi e, senza
alcuno indugio discretissime164 persone mandò e a Genova e in Cicilia. Colui che a Genova andò, trovato messer Guasparrino, da parte di Currado diligentemente il
pregò che lo Scacciato e la sua balia gli dovesse mandare, ordinatamente narrandogli ciò che per Currado era
stato fatto verso Giuffredi e verso la madre.
72
Messer Guasparrin si maravigliò forte questo udendo, e disse: «Egli è vero che io farei per Currado ogni
cosa, che io potessi, che gli piacesse; e ho bene in casa
avuti, già sono quattordici anni, il garzon che tu dimandi e una sua madre165, li quali io gli manderò volentieri.
Ma dira’ gli da mia parte che si guardi di non aver troppo creduto o di non credere alle favole di Giannotto, il
qual di’ che oggi si fa chiamar Giuffredi, per ciò che egli
è troppo più malvagio che egli non s’avvisa».
73
E così detto, fatto onorare166 il valente uomo, si fece
in segreto chiamar la balia e cautamente la essaminò di
questo fatto. La quale, avendo udita la rebellione di Cicilia e sentendo Arrighetto esser vivo, cacciata via la
paura che già avuta avea, ordinatamente ogni cosa gli
disse e le cagioni gli mostrò per che quella maniera che
fatto aveva tenuta avesse167.
163 Solita conclusione solenne di periodo su sequenza di tre endecasillabi.
164 molto accorte: Intr., 74 n.
165 Corrente l’articolo indeterminativo con nome di parentela e
possessivo: 18 n.; IV intr., 12; V 3,21. La balia si era dichiarata madre dei due fanciulli (cfr. 29). ‘Dimandi’ richiedi, richiedi di avere.
166 trattare, ospitare onorevolmente: II 5,31; X 9,17; e Annotazioni, pp. 247 sgg.
167 perché avesse tenuto il modo che avea tenuto, perché si fosse
comportata come s’era comportata: Intr., 14 n.
Letteratura italiana Einaudi
257
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
Messer Guasparrin, veggendo li detti della balia con
quegli dello ambasciador di Currado ottimamente convenirsi168, cominciò a dar fede alle parole; e per un modo e per uno altro, sì come uomo che astutissimo era,
fatta inquisizion di questa opera169, e più ognora trovando cose che più fede gli davano al fatto170, vergognandosi del vil trattamento fatto del garzone, in ammenda di
ciò, avendo una sua bella figlioletta d’età d’undici anni,
conoscendo egli chi Arrighetto era stato e fosse, con una
75 gran dota gli diè per moglie171. E dopo una gran festa di
ciò fatta, col garzone e con la figliuola e con l’ ambasciador di Currado e con la balia montato sopra una galeotta bene armata172, se ne venne a Lerici173; dove, ricevuto
da Currado, con tutta la sua brigata n’andò a un castel
di Currado non molto di quivi lontano, dove la festa
grande era apparecchiata.
76
Quale la festa174 della madre fosse rivedendo il suo figliuolo, qual quella de’ due fratelli, qual quella di tutti e
tre alla fedel balia, qual quella di tutti fatta a messer
Guasparrino e alla sua figliuola e di lui a tutti e di tutti
insieme con Currado e con la sua donna e co’ figliuoli e
74
168
adattarsi, concordare.
ricerca di questo fatto.
170 gli davano maggior certezza del fatto, quanto al fatto.
171 Cfr. 35 n.; il Da Buti commentando Par., XV105 scrive: «maritansi oggi di dieci anni». Naturalmente il matrimonio è qui solo
deciso: avrebbe avuto luogo più tardi, ad età conveniente (I. DEL
LUNGO, Dino Compagni e la sua «Cronica», Firenze 1879, I, pp
1103 sgg.; e cfr. V 4,46 n.).
172 galea piccola ben fornita, bene equipaggiata: II 7,9.
173 Castello e porto nel golfo di La Spezia, non lontano dalle foci
della Magra (Purg., III 49): posto consueto di sbarco per chi da
Genova o da oltre i confini d’Italia si recava in Toscana o in Emilia
(cfr. Dante e la Lunigiana cit., p. 145).
174 ‘Festa’ in tutta questa parte della novella è usata ora per cerimonia festiva e ora per allegrezza, festosità.
169
Letteratura italiana Einaudi 258
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
co’ suoi amici, non si potrebbe con parole spiegare; e
per ciò a voi, donne175, la lascio a imaginare. Alla quale176, acciò che compiuta fosse, volle Domenedio, abbondantissimo donatore quando comincia, sopragiugnere177 le liete novelle della vita e del buono stato
d’Arrighetto Capece.
77
Per ciò che, essendo la festa grande e i convitati, le
donne e gli uomini, alle tavole ancora alla prima vivanda178, sopragiunse colui il quale andato era in Cicilia, e
tra l’altre cose raccontò d’Arrighetto che, essendo egli in
captività per lo re Carlo guardato179, quando il romore180 contro al re si levò nella terra, il popolo a furore
corse alla prigione e, uccise le guardie, lui n’avean tratto
fuori, e sì come capitale nemico del re Carlo l’avevano
fatto lor capitano e seguitolo a cacciare181 e a uccidere i
78 franceschi182. Per la qual cosa egli sommamente era venuto nella grazia del re Petro, il quale lui in tutti i suoi
beni e in ogni suo onore rimesso aveva; laonde egli era
in grande e in buono stato; aggiugnendo che egli aveva
lui con sommo onore ricevuto e inestimabile festa aveva
fatta della sua donna e del figliuolo, de’ quali mai dopo
la presura183 sua neente aveva saputo, e oltre a ciò man175 In generale, come abbiamo visto, i novellatori, per cortesia, si
rivolgono nel loro narrare soltanto alle donne della lieta brigata:
cfr. III intr.,4 n.
176 «Lo strabochevole» (M.).
177 aggiungere in più: IX 4,8: «tanti prieghi sopragiugnendo».
178 prima portata: ordinariamente consisteva di carne in umido e
uova e salse.
179 Espressione tecnica simile a quella che ricorre al 33. ‘Per lo’
dal o per conto del.
180 tumulto, rivolta: cfr. I 1,26 n., II 1,7 n.; e G. Villani, IX 181:
«si levò a romore la città di Milano».
181 lo avevano seguito nel dar la caccia. Col collettivo ‘popolo’ prima è usato il verbo al singolare poi al plurale.
182 Costante questa forma per francesi: I 1,9 n.; II 8,4 e 28; VII
intr., .9; X 7,4.
183 cattura, imprigionamento: II 1,24 n.
Letteratura italiana Einaudi
259
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
dava per loro una saettia184 con alquanti gentili uomini li
quali appresso venieno. Costui fu con grande allegrezza
e festa ricevuto e ascoltato; e prestamente Currado con
alquanti de’ suoi amici in contro si fecero a’ gentili uomini che per madama Beritola e per Giuffredi venieno,
e loro lietamente ricevette e al suo convito, il quale ancora al mezzo non era, gl’introdusse.
80
Quivi e la donna e Giuffredi e oltre a questi tutti gli
altri con tanta letizia gli videro, che mai simile non fu
udita; e essi, avanti che a mangiar si ponessero, da parte
d’Arrighetto e salutarono e ringraziarono, quanto il meglio seppero e più poterono185, Currado e la sua donna
dell’onor fatto e alla donna di lui e al figliuolo, e Arrighetto e ogni cosa che per lui si potesse offersero al lor
81 piacere. Quindi a messer Guasparrin rivolti, il cui beneficio era inoppinato186, dissero sé esser certissimi che,
qualora ciò che per lui verso lo Scacciato stato era fatto
da Arrighetto si sapesse, che187 grazie simiglianti e maggiori rendute sarebbono. Appreso questo188, lietissimamente nella festa delle due nuove spose e con li novelli
sposi mangiarono.
82
Nè solo quel dì fece Currado festa al genero e agli al79
184 Nave da guerra, velocissima, usata anche per corseggiare: IV
3,17 n.
185 quanto seppero e poterono meglio. «Bella variazione dello stesso concetto, coi due verbi ‘seppero’ e ‘poterono’ che vengono a dire lo stesso» (Zingarelli).
186 imprevisto e impensato, perché il messo di Currado nulla sapeva di questo.
187 Spesso, dopo inciso, il B. ripete ‘che’: cfr. I 3,11 n.; Mussafia,
pp. 461 sgg.
188 Essendosi saputo questo, impersonalmente; oppure avendo saputo questo che prima non sapevano: cfr. Intr., 34; IV 1,14.
Letteratura italiana Einaudi 260
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
tri suoi e parenti e amici, ma molti altri. La quale poi che
riposata189 fu, parendo a madama Beritola e a Giuffredi
e agli altri di doversi partire, con molte lagrime da Currado e dalla sua donna e da messer Guasparrino, sopra
la saettia montati, seco la Spina menandone190 si partiro83 no. E avendo prospero vento, tosto in Cicilia pervennero, dove con tanta festa da Arrighetto tutti parimente, e’
figliuoli e le donne, furono in Palermo ricevuti, che dir
non si potrebbe giammai. Dove poi molto tempo si crede che essi tutti felicemente vivessero e, come conoscenti191 del ricevuto beneficio, amici di Messer Domenedio. –
9
189 finita, cessata, calmata: X, 3,2: «riposandosene già il ragionare
delle donne».
190
«La moglie dello Scacciato dove lasciate voi?» (M.). E difatti
qualche ms ha «la Spina e l’altra donna
menandone». Ma la sposa dello Scacciato il B. non l’ha mai presentata e resta in ombra: e «chi non vede che la sposa dello Scacciato era di già fuor della patria non che della casa sua e in via per
andarsene col marito nel suo paese? Della Spina si poteva dubitare
un poco, che era in casa sua nella quale era stata buon tempo la
suocera e ’1 marito, e per questo la poteano in un certo modo tenere per loro, e molto più per l’offerta fatta da Currado a Giuffredi
quando la Spina gli diede, che a guisa di suo figliuolo con esso seco
dimorasse. Ora questo bastò toccare al B., lasciando il resto, come
di sua natura assai chiaro, alla discrezione del lettore ...» (Annotazioni, p.105). Si potrebbe però anche osservare che in molti casi simili di matrimoni soltanto decisi per la troppo giovane età degli
sposi (cfr. 74 n questi rimanevano ognuno a casa propria, fino alla
celebrazione definitiva e reale delle nozze; e che anche nel D., come nei grandi capolavolavori narrativi, non mancano piccole contraddizioni o incongruenze contenutistiche (cfr. V. BRANCA,
Beckmesser legge il D, in Festschrift ... Th. Elwert, Wiesbaden
1980), come già abbiamo notato in questa novella (8, 42, 47, 67 e
nn.).
191 consci, riconoscenti: Convivio, II VI 4; Petrarca, XXVIII 85. Il
finale meraviglioso arieggia chiaramente quello delle favole e dei
racconti popolareschi.
Letteratura italiana Einaudi
261
NOVELLA SETTIMA
1
Il soldano di Babilonia ne manda una sua figliuola a marito al
re del Garbo, la quale per diversi accidenti in ispazio di quatro
anni alle mani di nove1 uomini perviene in diversi luoghi: ultimamente, restituita al padre per pulcella2, ne va al re del Garbo, come prima faceva, per moglie3.
2
Forse non molto più si sarebbe la novella d’Emilia di1 «con otto uomini ... giaciuta» si dice al 121 (cfr. n.): qui ‘nove’
(come al 7) forse comprendendo anche il «padrone» della nave
che, ferito gravemente, dopo essersene impossessato non «giacque» con Alatiel (42-44).
2 come se fosse vergine: VI Concl., 5 n.
3 L’antecedente citato con un qualche senso per questa novella è
la Storia di Antheia e Habrocome di Senofonte Efesio, che già abbiamo ricordato a proposito della II 5 (una delle «favole greche»
menzionate nella Fiammetta, prologo 3?): ma i riscontri possibili
sono assai lati e vaghi. Ancor meno convincenti i richiami a narrazioni orientali (per es. la storia degli amanti di Siria, o quella della
principessa Mâdhavî: cfr. Arabian Nights, ed. cit., II, p. 174, e E.
LEVÉQUE, Les mythes et les légendes de l’Inde... dans B., Paris
1880, p. 530; e anche P. RAJNA, Le fonti dell’«Orlando Furioso»,
Firenze 1900_, pp. 233 n., 557, 566 sgg.); o a racconti medievali di
monache che poterono occultare la perdita della loro verginità
(cfr. per es. l’VIII dei Dodici conti morali d’anonimo, Bologna
1862; il fabliau De l’abesse qui fut grosse, in LEGRAND, op. cit., V,
p. 48 e appendice, p. 1; il XIII racconto dell’Alphabetum narrationum ecc.). Interessante l’analogia con le avventurose e intricate vicende di Chelinde e Sador, antenati di Tristano, e di Chelinda e i
re Canor e Pelias: analogia che potrebbe esser derivata da una fonte comune ma anche dai primi capitoli del Tristan (cfr. J. D. BRUCE, A B. analogue in the old french prose Tristan, in «The Romanic
Review», 1, 1910; D. BRANCA, I romanzi italiani di Tristano ecc.,
Firenze 1968, p. 21; F. BRAMBILLA AGENO, Una fonte della
novella di Alatiel, in «Studi sul B.», X, 1977-78). Nell’avventuroso
peregrinare di Alatiel attraverso il Mediterraneo si potrebbe forse
anche vedere, più o meno deformata, una qualche filigrana del
viaggio simbolico e allusivo, attraverso lo stesso mare, così spesso
usato - sulle orme di quelli di Enea e di Ulisse - nella letteratura
Letteratura italiana Einaudi 262
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3
stesa, che la compassione avuta dalle giovani donne a’
casi di madama Beritola loro avrebbe condotte a lagrimare. Ma poi che a quella fu posta fine, piacque alla reina che Panfilo seguitasse la sua raccontando; per la qual
cosa egli, che ubidentissimo era, incominciò:
– Malagevolmente, piacevoli donne, si può da noi conoscer quello che per noi si faccia4, per ciò che, sì come
assai volte s’è potuto vedere, molti estimando se essi ricchi divinissero senza sollecitudine e sicuri poter vivere,
quello non solamente con prieghi a Dio adomandarono
ma sollecitamente, non recusando alcuna fatica o pericolo, d’acquistarle5 cercarono; e, come che loro venisse
fatto, trovarono chi per vaghezza di così ampia eredità
medievale sacra e profana (a cominciare da san Gregorio, Moralia,
XVIII 43) con riferimenti spirituali e mondani, religiosi e antropologici (cfr. P. COURCELLE, Quelques symboles ... du néoplatonisme latin, in «Rev. des études anciennes», XLVI, 1944; R. GUENON, Aperçu sur l’initiation, Paris 1959). A puro fine
bibliografico va registrato anche il tentativo del Lami di dimostrare
che lo sfondo di queste avventure, che si sarebbero svolte fra il
1315 e il 1320, è storico (Novelle letterarie di Firenze, Firenze 1754,
pp. 209, 225, 257, 273, Poi in Appendice all’illustrazione istorica sul
D., Milano 1820, pp. 1 sgg.). Si tengano soprattutto presenti le sollecitazioni che il B. poté ricevere dall’ambiente angioino, a lui più
familiare, nel creare la fantasiosa trama di peregrinazioni mediterranee (cfr. note seguenti). Secondo il Pézard (rec. cit.) si potrebbe
anche pensare al tradizionale racconto del tesoro impossibile a custodire (A. D’ANCONA, Studi di critica ecc., Pisa 1912, pp. 136
sgg.). E in gen. cfr. anche A. CALDERINI, Le avventure di Cherea
e Calliroe di Caritone d’Afrodisia, Torino 1913, p. 203; B. E.
PERRY, The ancient romances, Berkeley 1967, pp. 260 sgg.; H. G.
BECK, Geschichte der byzantinischen Volksliteratur, München
1971, pp. 115 sgg. Presenti certo, ironizzati, anche il mito di Elena
e le leggende di sant’Orsola, di sant’Uliva ecc. (A. WESSELOFSKY, Novella della figlia del re di Dacia, Pisa 1866; V. BRANCA,
B. rinnovatore, in «Il Veltro», XX, 1976).
4 quello che si deve fare da noi o quello che a noi si confaccia (Sapegno).
5 Un altro esempio di pronome riferito ad un sostantivo sottinteso nelle parole precedenti: qui a «ricchezze». E cfr. 35 n.
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4
5
6
gli uccise, li quali6, avanti che arricchiti fossero, amavan
la vita loro7. Altri di basso stato per mille pericolose battaglie, per mezzo il sangue de’ fratelli e degli amici loro
saliti all’altezza de’ regni, in quegli somma felicità esser
credendo, senza8 le infinite sollecitudini e paure di che
piena la videro e sentirono, cognobbero, non senza la
morte loro, che nell’oro alle mense reali si beveva il veleno9. Molti furono che la forza corporale e la bellezza e
certi gli ornamenti con appetito ardentissimo disiderarono, né prima d’aver mal disiderato s’avidero, che essi
quelle cose loro di morte essere o di dolorosa vita cagione10. E acciò che io partitamente di tutti gli umani disi6 Si riferisce a ‘chi’: i quali avevano cara la vita di quei loro[ familiari] e quindi mai vi avrebbero attentato prima che divenissero ricchi.
7 Tutto questo preludio alla novella sembra ubbidire al desiderio
di teorizzare quella caducità delle fortune mondane che già altrove
era stata affermata dal B. (II 3,4; e poi IV Intr, 37-38; X 8,69) e che
è alla base del tema di questa giornata: sicché numerosi sono i punti di contatto coi cc. XXXI-XXXIII dell’Amorosa Visione che trattano lo stesso soggetto. Anche qui il B. introduce le riflessioni sulle
ricchezze, considerate come i tipici beni di fortuna (Convivio, IV
XI; Contra Gentiles, III 30): erano state del resto il tema delle novelle 3, 4, 5. Cfr. particolarmente Amorosa Visione, XXXII 37-60 e
XXXIII 52-58; e anche Petrarca, Tr. Mortis, 94 sgg.
8 senza contare le, per tacere le (I 1,76 n. e II 6,38 n.).
9 «Venenum in auro bibitur» (M., che segna a margine i paragrafi 3-8): Seneca, Thyestes, 453 (e pure Virgilio, Georgiche, II 503
sgg. «gaudent perfusi sanguine fratrum» «penetrant aulas et limina
regum»). Cfr. Amorosa Visione, XXXII 13-15, 61-78; ma ancor più
si tenga presente l’architettura morale del De casibus virorum illustrium (V 13: «Ludit Fortuna quotiens ex fece, ut ita loquar, plebeia nonnullos ad regale sublimat fastigium ...»), e specialmente alcuni capitoli, come quello su Filippa Catanese (IX 26), alla quale
forse il B. poteva pensare scrivendo queste parole (e anche IX 11:
«per vulnera suorum, mortes et sanguinem ad culmen ... Imperii
truculentus ascendit»; e De mulieribus, specie LI).
10
«né prima d’aver male desiderato si avvidero, che essi s’avvidero
quelle cose loro di morte essere o di dolorosa vita cagione. Ed è parlare efficacissimo come quello che mostra che s’avvidero di aver
mal desiderato allora soltanto che s’avvidero quelle cose esser ca-
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derii non parli, affermo niuno poterne essere con pieno
avvedimento, sì come sicuro da fortunosi casi, che da’
viventi si possa eleggere11: per che, se dirittamente operar volessimo, a quello prendere e possedere ci dovremmo disporre che Colui ci donasse, il quale solo ciò che ci
fa bisogno cognosce e puolci12 dare. Ma per ciò che, come che gli uomini in varie cose pecchino disiderando,
voi, graziose donne, sommamente peccate in una, cioè
nel disiderare d’esser belle, in tanto che, non bastandovi
le bellezze che dalla natura concedute vi sono, ancora
con maravigliosa arte quelle cercate d’acrescere, mi piace di raccontarvi quanto sventuratamente fosse bella
una saracina, alla quale in forse quatro anni avvenne per
la sua bellezza di fare nuove nozze da nove volte13.
Già è buon tempo passato che di Babillonia14 fu un
soldano, il quale ebbe nome Beminedab15, al quale ne’
gione di morte o di vita dolorosa, cioè quando non c’era più tempo» (Fanfani).
11 non potervene essere alcuno che, in quanto sicuro dai casi di avversa fortuna, possa essere scelto dai viventi con vera saggezza, con
piena avvedutezza. Identica conclusione nell’Amorosa Visione,
XXXIII 58 sgg., XXXVII 22 sgg.
12 ce lo può (II 1,10 n.). Anche questa affermazione, del resto assai naturale e comune, era già sostanzialmente nell’Amorosa Visione, XXXII 85 sgg.
13 Il tema della bellezza come causa di sventura, e in conseguenza il senso tragico che Alatiel ha del proprio fascino - cioè il motivo
più suggestivo di questa novella - è qui enunciato chiaramente dopo che il B. già lo aveva saggiato cautamente nelle sue opere giovanili, specialmente nel Filocolo (per es. III 49) e nel Teseida (VII 8999; X 71). Era un motivo che egli trovava vivissimo nei cantari, e
che dei cantari ritiene forse ancora qualche intonazione (cfr.
BRANCA, I1 Cantare trecentesco, pp. 22 sgg., 86 sgg.). ‘Da’ circa:
III 8,64 n.: ‘nove’ evidentemente comprendendo il re del Garbo
(ma cfr. anche 1 n., e 12 1 n.).
14 Cioè del Cairo: I 3,6.
15 Nome, a quel che si sa, fantastico, come quello di Alatiel (forse
anagramma di La lieta?); ma ricorda il biblico Aminedab (Num., I
7, VII 12, X 14; Matteo 1.4), protagonista anche di un racconto del
Novellino (XI), compare anche nel Roman d’Alixandre (Stuttgart
Letteratura italiana Einaudi 265
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
suoi dì assai cose secondo il suo piacere avvennero. Aveva costui, tra gli altri suoi molti figliuoli e maschi e femine, una figliuola chiamata Alatiel, la qual, per quello che
ciascuno che la vedeva dicesse, era la più bella femina
che si vedesse in que’ tempi nel mondo; e per ciò che in
una grande sconfitta, la quale aveva data a una gran
moltitudine d’arabi che addosso gli eran venuti16, l’aveva maravigliosamente aiutato il re del Garbo17, a lui, domandandogliele egli18 di grazia speziale, l’aveva per moglie data; e lei con onorevole compagnia e d’uomini e di
donne e con molti nobili e ricchi arnesi19 fece sopra una
nave bene armata e ben corredata montare, e a lui mandandola l’accomandò a Dio20.
10
I marinari, come videro il tempo ben disposto, diedero le vele a’ venti21 e del porto d’Allessandria si partirono e più giorni felicemente navigarono: e già avendo la
Sardigna passata22, parendo loro alla fine del loro cammino esser vicini, si levarono subitamente un giorno di9
1846, pp. 309 sgg.) fra gli alleati di Poro contro Alessandro Magno.
16 che lo avevano assalito: cfr. 78.
17 Algarvio, la provincia più settentrionale del Marocco: ma il regno d’Algarvio comprese gran parte della costa africana occidentale sul Mediterraneo e una parte della penisola iberica (il nome è
ancora conservato dalla più meridionale delle provincie del Portogallo): sì che ai primi del Trecento era il più noto dei regni moreschi eurafricani (cfr. VI 10,38), anche per lane famose commerciate assiduamente dai Fiorentini (R. DAVIDSOHN, Garbo wolle
ecc., in «Histor.Vierteljahrschr.», n. f., VII, 1904, pp. 385 sgg.).
18 Cioè il re del Garbo.
19 vesti e arredi: cfr. I 7,18 n.; II 5,17 n.
20 raccomandò a Dio. Per una probabile ripresa petrarchesca di
questa descrizione di nave lussuosa - e della sua sventurata sorte nella canzone CCCXXIII, 13 sgg. cfr. V. BRANCA, Temi e stilemi
fra Petrarca e B., in «Studi sul B.», VIII, 1974 (e ora B. medievale,
p. 320).
21 Identica espressione in Amorosa Visione, XXVII 35.
22 Forse una reminiscenza di un simile viaggio dantesco: Inf.,
XXVI 104: e cfr. IV 4,15.
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266
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
versi venti, li quali, essendo ciascuno oltre modo impetuoso, sì faticaron23 la nave dove la donna era e’ marina11 ri, che più volte per perduti si tennero. Ma pure, come
valenti uomini, ogni arte e ogni forza operando, essendo
da infinito mare24 combattuti, due dì si sostennero; e
surgendo già dalla tempesta cominciata la terza notte25,
e quella non cessando ma crescendo tuttafiata26, non
sappiendo essi dove si fossero né potendolo per estimazion marinaresca27 comprendere né per vista, per ciò
che obscurissimo di nuvoli e di buia notte era il cielo, essendo essi non guari sopra Maiolica28, sentirono la nave
sdruscire29.
12
Per la qual cosa, non veggendovi alcun rimedio al loro scampo, avendo a mente ciascun se medesimo e non
altrui30, in mare gittarono un paliscalmo31, e sopra quello32 più tosto di fidarsi disponendo33 che sopra la isdru-
23
travagliarono, misero in difficoltà.
da mare grossissimo: al contrario che nella V 2,13: «non essendo quasi mare»
25 e venendo la terza notte dacché la tempesta era cominciata.
26 tuttavia.
27 per mezzo di congetture e calcoli dell’arte nautica: cfr. V 2,11
«arte marineresca»; Filocolo, V 30: «i furiosi venti, a’ quali niuna
marinesca arte mi dà rimedio ...»
28 non lontani da Maiorca al nord, nelle Baleari: Inf., XXVIII 82.
Conoscenze e interesse particolari il B. ebbe per quelle isole a causa degli stretti legami fra i sovrani delle Baleari e gli Angioini di
Napoli (la regina Sancia moglie di Roberto era figlia del re Giacomo I di Maiorca) e dei rapporti personali con alcuni di quei principi (Epistole, XVIII e specialmente Amorosa Visione, XLIV 5
comm.); e anche perché i Bardi vi avevano un fondaco attivissimo
e proprio per le lane del Garbo (R. DAVIDSOHN, Storia di Firenze, VI, pp. 736 sgg.; e art. cit. a 9 n.).
29 aprirsi, fendersi: vedi anche più sotto, 12 e 13.
30 pensando ciascuno a se stesso e non agli altri.
31 scialuppa, barca a remi: II 4, 15 n.
32 Dipende insieme da fidarsi e da si gittarono.
33
deliberando, risolvendosi: senza il solito si, come in VI 7,9: «La
donna ...del tutto dispose di comparire».
24
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
cita nave si gittarono i padroni34; a’ quali appresso or
l’uno or l’altro di quanti uomini erano nella nave, quantunque quelli che prima nel paliscalmo eran discesi con
le coltella in mano il contradicessero35, tutti si gittarono,
e credendosi la morte fuggire in quella incapparono: per
ciò che, non potendone per la contrarietà del tempo
tanti reggere il paliscalmo, andato sotto36, tutti quanti
13 perirono. E la nave, che da impetuoso vento era sospinta, quantunque isdruscita fosse e già presso che piena
d’acqua, non essendovi sù rimasa altra persona che la
donna e le sue femine (e quelle tutte per la tempesta del
mare e per la paura vinte37 su per quella quasi morte giacevano), velocissimamente correndo in una piaggia
dell’isola di Maiolica percosse. E fu tanta e sì grande la
foga di quella, che quasi tutta si ficcò nella rena, vicina
al lito forse una gittata di pietra: quivi, dal mar combattuta, la notte senza poter più dal vento esser mossa si
stette.
14
Venuto il giorno chiaro e alquanto la tempesta acchetata, la donna, che quasi mezza morta era, alzò la testa e
così debole come era cominciò a chiamare ora uno e ora
un altro della sua famiglia38, ma per niente39 chiamava: i
15 chiamati erano troppo lontani. Per che, non sentendosi
rispondere a alcuno40 né alcuno veggendone, si maravigliò molto e cominciò a avere grandissima paura; e come
meglio poté levatasi, le donne che in compagnia di lei
34 quelli che comandavano la nave: termine marinaresco: Ranieri
Sardo, Cronaca Pisana, in «Arch. Stor. It.», VI, 2, 1845 p. 196: «andovvi la nostra galeotta, e padrone v’andò Buonaccorso dal Colle»:
IV 4, 19 n.
35 tentassero di impedirlo. Costante nel D, questa forma di plurale (coltella) in -a (Rohlfs, 368; e cfr. qui 76 n.).
36 Si riferisce a paliscalmo.
37 abbattute, sopraffate: II 5,79 n.
38 servitù.
39 invano.
40 da alcuno: Intr., 20 n.
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
erano e l’altre femine tutte vide giacere, e or l’una e or
l’altra dopo molto chiamare tentando41 poche ve ne
trovò che avessero sentimento42, sì come quelle che tra
per grave angoscia43 di stomaco e per paura morte s’era16 no44; di che la paura alla donna divenne maggiore. Ma
nondimeno, strignendola necessità di consiglio45, per
ciò che quivi tutta sola si vedeva, non conoscendo o sappiendo dove si fosse, pure stimolò tanto quelle che vive
erano, che sù le fece levare; e trovando quelle non sapere dove gli uomini andati fossero e veggendo la nave in
terra percossa e d’acqua piena, con quelle insieme dolorosamente cominciò a piagnere. E già era ora di nona46
avanti che alcuna persona su per lo lito o in altra parte
vedessero a cui di sé potessero far venire alcuna pietà a
aiutarle.
17
In su la nona, per avventura da un suo luogo47 tornando, passò di quindi un gentile uomo, il cui nome era
Pericon da Visalgo48, con più suoi famigli a cavallo; il
quale, veggendo la nave, subitamente immaginò ciò che
era, e comandò a un de’ famigli che senza indugio procacciasse di sù montarvi e gli raccontasse ciò che vi fos18 se. Il famigliare, ancora che con difficultà il facesse, pur
41 tastando, per sincerarsi della condizione loro: IV 8,25: «stesa
oltre la mano, acciò che si svegliasse il cominciò a tentare»; e Inf.,
XXIV 30. Per ‘donne’ opposto a ‘femine’: V 7,10 n.
42 che dessero segno di vita.
43 travaglio.
44 Queste forme riflessive per le attive sono correnti nel Trecento
e nel B. stesso (IV 5,23; V 3,46: e cfr. in generale F. BRAMBILLA
AGENO, Il verbo, pp. 136 sgg.).
45 spinta dal bisogno di pronto rimedio, riparo. «’Consiglio’ per rimedio o simile ha altri esempi classici» (Fanfani).
46 Circa le tre del pomeriggio: ma cfr. Intr., 102 n.
47 podere, campagna.
48 Personaggio naturalmente immaginario: il nome è un diminutivo del catalano Pere (Pietro): appare anche nella forma ‘Perdicon’ (come nella X 7,45 e 48: perdigó è diminutivo di perdiu «pernice»): cfr. 23 e 25. Visalgo era un castello di Maiorca.
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vi montò sù: e trovò la gentil giovane, con quella poca
compagnia che avea, sotto il becco della proda 49 della
nave tutta timida star nascosa. Le quali, come costui videro, piangendo più volte misericordia adomandarono,
ma accorgendosi che intese non erano né esse lui intendevano con atti s’ingegnarono di dimostrare la loro disavventura. Il famigliare, come poté il meglio ogni cosa
raguardata, raccontò a Pericone ciò che sù v’era. Il quale, prestamente fattene giù torre le donne e le più preziose cose che in essa erano e che aver si potessono50,
con esse n’andò a un suo castello; e quivi con vivande e
con riposo riconfortate le donne, comprese per gli arnesi ricchi la donna che trovata avea dovere essere gran
gentil donna, e lei prestamente conobbe51 all’onore che
vedeva dall’altre fare a lei sola. E quantunque pallida e
assai male in ordine della persona per la fatica del mare
allora fosse la donna, pur pareano le sue fattezze bellissime a Pericone: per la qual cosa subitamente seco diliberò, se ella marito non avesse, di volerla per moglie, e
se per moglie aver non la potesse, di volere avere la sua
amistà.
Era Pericone uomo di fiera vista52 e robusto molto; e
avendo per alcun dì la donna ottimamente fatta servire e
per questo essendo ella riconfortata tutta, veggendola
esso oltre a ogni estimazione bellissima, dolente senza
modo che lei intender non poteva né ella lui e così non
poter saper53 chi si fosse, acceso nondimeno della sua
bellezza smisuratamente, con atti piacevoli e amorosi
s’ingegnò d’inducerla a fare senza contenzione54 i suoi
49
la punta della prora, il rostro.
si potessero asportare, portar via.
Cioè conobbe essere una gran gentildonna oppure la individuò
subito.
52 aspetto (Intr., 59 n.).
53 Uno dei soliti rapidi cambiamenti di costruzione (dolente che
...non poteva ... e così non poter): cfr. Intr., 41 n.
54 contesa, contrasto, cioè violenza.
50
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piaceri. Ma ciò era niente55: ella rifiutava del tutto la sua
dimestichezza56, e intanto più s’accendeva l’ardore di
Pericone57. Il che la donna veggendo, e già quivi per alcuni giorni dimorata e per li costumi avvisando che tra
cristiani era e in parte dove, se pure avesse saputo, il farsi conoscere le montava58 poco, avvisandosi che a lungo
andare o per forza o per amore le converrebbe venire a
dovere i piaceri di Perdicon fare, con altezza d’animo
propose di calcare59 la miseria della sua fortuna. E alle
sue femine, che più che tre rimase non le ne erano, comandò che a alcuna60 persona mai manifestassero chi
fossero, salvo se in parte si trovassero dove aiuto manifesto alla lor libertà conoscessero; oltre a questo sommamente confortandole a conservare la loro castità, affermando sé aver seco proposto che mai di lei se non il suo
marito goderebbe. Le sue femine di ciò la commendarono e dissero di servare al lor potere61 il suo comandamento.
Perdicone, più di giorno in giorno accendendosi e
tanto più quanto più vicina si vedeva la disiderata cosa e
più negata, e veggendo che le sue lusinghe non gli valevano, dispose lo ’ngegno e l’arti riserbandosi alla fine le
forze62. E essendosi avveduto alcuna volta che alla don55
Ma tutto questo era vano: II 1,19 n.
In senso erotico: cfr. più avanti 37,80 n.; e Compagni, III 30:
«i tedeschi sono dimestichi con le donne».
57 «E però è buon fare caro di sé» (M.).
58 importava, giovava: Intr,, 84 n.
59 calpestare e quindi disprezzare (Volg. Sermoni Sant’Agostino,
Bologna1818, II 33: «abbiamo cominciato a calcare il mondo»);
oppure forse percorrere tutta intera l’infelicità delle sue sventurate
condizioni (Marti).
60 nessuna: come più innanzi, 83: «quelle due persone le quali io
più amo che alcune altre»; e in fine alla novella, 100: «ti priego che
mai a alcuna persona dichi» (cfr. Annotazioni, pp. 106 sgg.).
61 osservare ad ogni costo, per quanto stesse in loro potere.
62 la violenza: cfr. IV 4,II; IV 6,35 e 37; VII 9,25.
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na piaceva il vino, sì come a colei che usata non era di
bere per la sua legge63 che il vietava, con quello, sì come
con ministro di Venere 64, s’avisò di poterla pigliare: e
mostrando di non aver cura di ciò che65 ella si mostrava
schifa, fece una sera per modo di solenne festa una bella
cena nella quale la donna venne; e in quella, essendo di
molte cose la cena lieta, ordinò con colui che a lei servia
che di varii vini mescolati le desse bere66. Il che colui ottimamente fece; e ella, che di ciò non si guardava, dalla
piacevolezza del beveraggio67 tirata più ne prese che alla
sua onestà non sarebbe richiesto68: di che ella, ogni avversità trapassata dimenticando, divenne lieta, e veggendo alcune femine alla guisa di Maiolica ballare essa alla
maniera allessandrina ballò69. Il che veggendo Pericone,
esser gli parve vicino a quello che egli disiderava; e continuando in più abbondanza di cibi e di beveraggi la cena, per grande spazio di notte la prolungò70.
Ultimamente, partitisi i convitati, con la donna solo se
ne entrò nella camera: la quale, più calda di vino che
d’onestà temperata, quasi come se Pericone una delle
sue femine fosse, senza alcuno ritegno di vergogna in
presenza di lui spogliatasi, se n’entrò nel letto. Pericone
63
che non aveva l’abitudine di bere vino per la sua religione: I 2,9
n.
64 Orazio, Odi, III 18 e 21; Apuleio, Metam., II 11e15; per citare
solo autori cari al B. e presenti nel D.
65 di ciò di che: non ripetuta la preposizione dinanzi a relativo dipendente da dimostrativo neutro: III 3,23 n.: oppure del fatto che,
cioè del suo mostrarsi schiva: cfr. Vita Nuova, VIII 2.
66 Se uniti a una voce del verbo dare, gli infiniti mangiare, bere
possono omettere la preposizione che di solito li precede (la stessa
costruzione per es. I 7,18 n.; II 5,30 n.; V 9,33). I vini variamente
mescolati portano, è noto, più facilmente all’ebrietà.
67 bevanda, come sei righe piú sotto, e non come in IV 10,23 e IX
3,29 dove significa pozione.
68 non sarebbe stato conveniente: cfr. II 5,63 n.
69 «Nota quanto il vino sia nimico della onestà» (M.). Allessandrina vale qui, in generale, egiziana.
70 Cfr, II 5,34 n.
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
non diede indugio71 a seguitarla; ma spento ogni lume
prestamente dall’altra parte72 le si coricò allato, e in
braccio recatalasi senza alcuna contradizione di lei, con
lei incominciò amorosamente a sollazzarsi. Il che poi
che ella ebbe sentito, non avendo mai davanti saputo
con che corno gli uomini cozzano, quasi pentuta del non
avere alle lusinghe di Pericone assentito, senza attendere
d’essere a così dolci notti invitata, spesse volte se stessa
invitava non colle parole, ché non si sapea fare intendere, ma co’ fatti.
31
A questo gran piacere di Pericone e di lei, non essendo la fortuna contenta d’averla di moglie d’un re fatta
divenire amica d’un castellano, le si parò davanti73 più
32 crudele amistà. Aveva Pericone un fratello d’età di venticinque anni, bello e fresco come una rosa74, il cui nome
era Marato; il quale, avendo costei veduta e essendogli
sommamente piaciuta, parendogli, secondo che per gli
atti di lei poteva comprendere, essere assai bene della
grazia sua75 e estimando che ciò che di lei disiderava
niuna cosa gliele toglieva se non la solenne76 guardia che
faceva di lei Pericone, cadde in un crudel pensiero: e al
pensiero seguì senza indugio lo scellerato effetto.
71
non tardò.
dalla parte opposta (a quella in cui la donna era entrata nel letto). 0 meglio, più semplicemente e senza necessità di sottintesi:
dall’una delle due parti, dando ad ‘altra’ il valore di altera (l’una
delle due), come nell’Amorosa Visione, XV 60 B.: «dall’altro lato»
(cfr. commento). Per vari esempi danteschi di tale uso: N. ZINGARELLI, in « Giorn. Stor. Lett. It. «, XLVIII, 1906, pp. 368 sgg.; E.
G. PARODI e M. PELAEZ, in «Bull. Soc . Dantesca «, n.s., XII,
1905, p. 7 e XV, 1908, p. 55.
73 le si offerse: con uno dei soliti pronomi ridondanti.
74 Espressione corrente nei cantari ripresa dal B. anche nel Teseida (I 136; V. BRANCA, Il cantare trecentesco cit.,
p. 62): cfr. V 4,6 n.
75 essere assai nelle sue grazie: X 4,5 n.
76 accurata, grande, severa: VII 5,16 n.; VI 10,2: «solenne comandamento».
72
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Era allora per ventura nel porto della città una nave la
quale di mercatantia era carica per andare in Chiarenza
in Romania77, della quale due giovani genovesi eran padroni, e già aveva collata la vela78 per doversi, come
buon vento fosse, partire; con li quali Marato convenutosi ordinò come da loro con la donna la seguente notte
34 ricevuto fosse. E questo fatto, faccendosi notte, seco ciò
che far doveva avendo disposto, alla casa di Pericone, il
quale di niente79 da lui si guardava, sconosciutamente80
se n’andò con alcuni suoi fidatissimi compagni li quali a
quello che fare intendeva richesti aveva81, e nella casa,
35 secondo l’ordine tra lor posto, si nascose. E poi che parte della notte fu trapassata, aperto a’ suoi compagni là
dove Pericon con la donna dormiva e quella aperta82,
Pericone dormente uccisono, e la donna desta e piagnente minacciando di morte, se alcun romor facesse,
presero; e con gran parte delle più preziose cose di Pericone, senza essere stati sentiti, prestamente alla marina
n’andarono, e quindi senza indugio sopra la nave se ne
montarono Marato e la donna, e’ suoi compagni se ne
tornarono.
33
77 Un porto del Peloponneso (Romania indicava in genere l’impero d’Oriente): proprio la città dove - dopo la conquista fattane
dai principi di Maiorca coll’aiuto dei Catalani - nel 1315 erano avvenute le nozze di due augusti principi ammirati e celebrati dal B.,
Ferdinando di Maiorca (fratello della regina Sancia di Napoli) e
Isabella di Ibelin, cugina di Ugo di Cipro, cui fu dedicata la Genealogia (cfr. RODD, The princes of Achaia cit., pp. 136 sgg.); proprio
un porto che fu lungamente conteso fra gli Angioini di Taranto e i
Veneziani e in cui si imbarcò, per il ritorno dall’impresa di cui a 44
n., Nicola Acciaiuoli: E. G. LÉONARD, Histoire de Jeanne Ire,Paris 1932-37, 1, pp. 98-99, 185, 327; II, p. 121; III, p. 6.
78 alzata la vela: propriamente tirata sú, sospesa: II 5,66 n.
79 Per niente.
80 nascostamente: cfr. III 7,11 «eraci tornato sconosciuto».
81 aveva richiesto di aiutarlo a compiere ciò che intendeva fare.
82 Il passo è estremamente incerto e oscuro e può nascondere un
guasto del testo: difatti amanuensi e editori spesso o soppressero
«e quella aperta» o aggiunsero prima di questa frase «se n’andò».
Letteratura italiana Einaudi
274
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
I marinari, avendo buon vento e fresco, fecero vela al
lor viaggio. La donna amaramente e della sua prima
sciagura e di questa seconda si dolfe83 molto; ma Marato, col santo cresci84 in man che Dio ci diè la cominciò
per sì fatta maniera a consolare85, che ella, già con lui dimesticatasi, Pericone dimenticato aveva; e già le pareva
star bene quando la fortuna l’86apparecchiò nuova tristi38 zia, quasi non contenta delle passate. Per ciò che, essendo ella di forma bellissima, sì come già più volte detto
avemo87, e di maniere laudevoli molto88, sì forte di lei i
due giovani padroni della nave s’innamorarono, che,
ogni altra cosa dimenticatane89, a servirle e a piacerle intendevano, guardandosi sempre non90 Marato s’accorgesse della cagione.
39
E essendosi l’un dell’altro di questo amore avveduto,
di ciò ebbero insieme segreto ragionamento e convennersi di fare l’acquisto di questo amor comune, quasi
amore così questo dovesse patire come la mercatantia o i
40 guadagni fanno91. E veggendola molto da Marato guar36
37
Si può in qualche modo però intendere il testo così: avendo rivelato
ai suoi compagni il luogo, cioè la camera, dove Pericone dormiva con
la donna e avendo aperto quella [camera]. Per l’uso di ‘quella’ riferito a un sostantivo sottinteso cfr. 3 n.
83 dolse. È forma nota e abbastanza usata nel Due-Trecento e dal
B. stesso: per es. II 8,84; II 10,14; III 3,25; III 7,12; IV 8,34; X
8,99; Teseida, X 15; Amorosa Visione, XVIII 34 ecc.: e cfr. Inf., II
51- Per il fenomeno (da dolve) vedi MEYER LUBKE, Grammatica
cit., p. 213; PARODI, Lingua e letteratura, p. 259; Rohlfs, 582.
84 Per questa metafora fallica cfr. 109 n.
85 «E due « (M.).
86 le.
87 Forma assai usata dal B.: per es. Teseida, X 52; Amorosa Visione, XXXIII 18.
88 Come più sotto, 46, «ornata di costumi reali».
89 dimenticata per questa.
90 Costruzione latineggiante, con ellissi di «che», corrente coi
verbi che esprimono timore, dubbio, cautela. Vari esempi anche
nelle pagine seguenti.
91 «Onde nel Teseo dice, dicendo: Signoria né amor stan bene
cum cumpagnia; e Seneca dice: Nec regna sotium ferre nec tede
Letteratura italiana Einaudi 275
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
data, e per ciò alla loro intenzione impediti, andando un
dì a vela velocissimamente la nave e Marato standosi sopra la poppa e verso il mare riguardando, di niuna cosa
da lor guardandosi, di concordia andarono e, lui prestamente di dietro preso, il gittarono in mare; e prima per
ispazio di più d’un miglio dilungati furono, che alcuno
si fosse pure avveduto Marato esser caduto in mare. Il
che sentendo la donna e non veggendosi via da poterlo
ricoverare92, nuovo cordoglio93 sopra la nave a far cominciò.
41
Al conforto della quale i due amanti incontanente
vennero e con dolci parole e con promesse grandissime,
quantunque ella poco intendesse, lei, che non tanto il
perduto Marato quanto la sua sventura piagnea, s’ingegnavan di racchetare. E dopo lunghi sermoni e una e altra volta con lei usati, parendo loro lei quasi avere racconsolata, a ragionamento venner tra se medesimi qual
42 prima di loro la dovesse con seco menare a giacere. E
volendo ciascuno essere il primo né potendosi in ciò tra
loro alcuna concordia trovare, prima con parole grave e
dura riotta94 incominciarono, e da quella accesi nell’ira,
messo mano alle coltella, furiosamente s’andarono addosso e più colpi, non potendo quelli che sopra la nave
eran dividergli, si diedono insieme: de’ quali95 incontanente l’un cadde morto e l’altro in molte parti della per43 sona gravemente fedito rimase in vita. Il che dispiacque
molto alla donna, sì come a colei che quivi sola senza
sciunt» (M.). La prima citazione è dal Teseida, V 13; la seconda
dall’Agamennon, V. 259. E per l’uso di fare cfr. Intr., 14 n.
92 riacquistare, ricuperare: II 3,47 n.
93 pianto, lamento, specie riferito a un morto: G. Villani, XII 10:
«in Firenze se ne fece il cordoglio e l’esequio molto solenne».
94 litigio, contesa: Esposizioni, VI litt. 31 e 49; VII litt. 51: «per
riotta o per quistione «; Volgarizzamento di Livio, Palermo 1819,
111 30: « tribuni... al di sopra della riotta « e 111 41. Corrente ‘grave’ e pl. femm.: Rohlfs, 397.
95 per i quali (colpi): come si direbbe «morto di coltellate».
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
aiuto o consiglio d’alcun si vedea e temeva forte non sopra lei l’ira si volgesse de’ parenti e degli amici de’ due
padroni; ma i prieghi del fedito e il prestamente pervenire a Chiarenza dal pericolo della morte la liberarono.
44 Dove col fedito insieme discese in terra: e con lui dimorando in uno albergo, subitamente corse la fama della
sua gran bellezza per la città, e agli orecchi del prenze
della Morea96, il quale allora era in Chiarenza, pervenne.
Laonde egli veder la volle, e vedutola e oltre a quello
che la fama portava bella parendogli, sì forte di lei subitamente s’innamorò, che a altro non poteva pensare; e
avendo udito in che guisa quivi pervenuta fosse, s’avvisò
45 di doverla potere avere97. E cercando de’ modi98 e i parenti del fedito sappiendolo, senza altro aspettare pre96 La Morea (nome dato nel basso Medioevo prima all’Elide e
poi a tutto il Peloponneso) era stata in quegli anni teatro di imprese e di avvenimenti che il B. aveva seguito con particolare interesse.
Nel 1338 un suo grande amico, Nicola Acciaiuoli (che fin dal 1334
aveva assunto tutti gli interessi economici dei principi di Taranto
in Morea) guidò Caterina di Valois Courtenay (figlia di Baldovino
II e perciò «Imperatrice di Costantinopoli «: cfr. VIII 10,42) e i figli Roberto e Luigi di Taranto (il futuro marito di Giovanna di Napoli) a prendere possesso del principato d’Acaia, e ritornò solo nel
giugno 1341: avvenimento che colpì molto il B., come testimonia
ancora una sua epistola (V). A parte il suono familiare che così acquistano le varie località esotiche di questa novella (cfr. anche nn.
ai 33 e 48), sarebbe perfino suggestivo pensare che il B. volesse in
qualche modo alludere, sotto le vesti favolose di questo «prenze»,
a uno dei principi di Taranto, molto «femminieri» a quanto ci dicono le cronache, amanti della Regina Giovanna e implicati poi
nell’assassinio di Andrea (egloghe III e IV): non godevano le simpatie del B., il cui favore fra i due contrastanti rami angioini, i Tarentini e i Durazzeschi, si indirizzò risoluto e costante ai secondi
(cfr. in generale: G. Villani, XII 52; RODD, op. cit., II, pp. 180
sgg.; LÉONARD, Histoire de Jeanne Ire, I, pp. 100 sgg.; BRANCA,
Amorosa Visione, comm. pp. 613 sgg.).
97 pensò che avrebbe potuto facilmente averla in suo possesso. Per
questa unione pleonastica di ‘dovere’ e ‘potere’ a indicare il futuro
cfr. IV 10,10 e F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, pp. 435 e 438.
98 E mentre cercava i modi, le vie migliori per averla.
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
stamente gliele99 mandarono: il che al prenze fu sommamente caro e alla donna altressì, per ciò che fuor d’un
gran pericolo esser le parve100.
46
Il prenze vedendola oltre alla bellezza ornata di costumi reali, non potendo altramenti saper chi ella si fosse, nobile donna dovere essere la stimò e pertanto il suo
amore in lei si raddoppiò; e onorevolmente molto tenendola, non a guisa d’amica ma di sua propia moglie la
47 trattava. Il che101, avendo a’ trapassati mali alcun rispetto102 la donna e parendole assai bene stare, tutta riconfortata e lieta divenuta, in tanto le sue bellezze fiorirono, che di niuna altra cosa pareva che tutta la
Romania avesse da favellare.
48
Per la qual cosa al duca d’Atene103, giovane e bello e
pro’ della persona, amico e parente del prenze, venne
disidero di vederla: e mostrando di venirlo a visitare, come usato era talvolta di fare, con bella e onorevole compagnia se ne venne a Chiarenza, dove onorevolmente104
fu ricevuto e con gran festa. Poi, dopo alcun dì, venuti
99
La solita forma assoluta e quasi indeclinabile (cfr. I 1,55 n.).
« E tre» (M.).
Per la qual cosa: cfr. II 1,2 n.; II 5,49 n.
102 facendo qualche confronto coi mali passati: II 5,23 n.
103 Anche per questo personaggio sarebbe facile pensare a un
lontano riflesso di conoscenze e esperienze del B. (e lo potrebbe
confermare la frase seguente «amico e parente del prenze «). Proprio nel 1331 era in Grecia per consolidare la sua signoria in Atene, già tenuta dal padre, quel Gualtieri VI di Brienne, duca d’Atene, che fu negli anni successivi conosciuto dal B. a Napoli mentre
preparava una nuova spedizione in Grecia (De casibus, IX 24; la
moglie, una figlia di Filippo di Taranto, sorella di Roberto e Luigi,
fu esaltata nell’Amorosa Visione, XLI 40-48); e che poi, dopo la tirannia a Firenze, sarà dipinto a colori così foschi nel De casibus,
loc. cit. (LÉONARD, op.cit., I, pp. 25, 288 sgg.; II, p. 376; III, pp.
33 sgg,, 149, 496, anche per i dissensi con Luigi; e Villani, XII 121).
104 Cfr. I 2,18; II 3,45; II 7,63 e 121; V 2,38; X 10,12.
100
101
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insieme a ragionamento delle bellezze di questa donna,
domandò il duca se così era mirabil cosa come si ragionava.
49
A cui il prenze rispose: «Molto più! ma di ciò non le
mie parole ma gli occhi tuoi voglio ti faccian fede».
50
A che105 sollecitando il duca il prenze, insieme n’andarono là dove ella era. La quale costumatamente molto
e con lieto viso, avendo davanti sentita la lor venuta, gli
ricevette. E in mezzo di loro fattala sedere, non si poté
di ragionar con lei prender piacere, per ciò che essa poco o niente di quella lingua intendeva; per che ciascun
lei sì come maravigliosa cosa guardava, e il duca massimamente, il quale appena seco poteva credere lei essere106 cosa mortale; e non accorgendosi, riguardandola,
dell’amoroso veleno107 che egli con gli occhi bevea, credendosi al suo piacer sodisfare mirandola, se stesso miseramente impacciò108, di lei ardentissimamente inna51 morandosi. E poi che da lei insieme col prenze partito si
fu e ebbe spazio di poter pensare, seco stesso estimava il
prenze sopra ogni altro felice, sì bella cosa avendo al suo
piacere109: e dopo molti e varii pensieri, pesando più il
suo focoso amore che la sua onestà110, diliberò, che che
105
Cioè di poterla vedere.
appena poteva persuadersi che fosse ... Espressione del madrigalesco stilnovismo delle Rime (VIII) e Amorosa Visione: ma cfr.
anche Petrarca, XC 9; CCVII 28; CXLVIII 8; CCCLXV 2.
107 Anche nel Filocolo (II 4) «venereo fuoco»; e cfr. pure Petrarca, CLII 8 «dolce veneno Amor»; CCVII 84. Nell’espressione può
anche essere un qualche riflesso della diffusissima leggenda della
fanciulla che uccideva con lo sguardo o col bacio (cfr. W. HERTZ,
Die Sage vom Giftmädchen, in Gesammelte Abhandlungen, Berlin
1905, pp. 170 sgg.; Guittone, Lettere, Bologna 1923, XXI e XXV;
Giordano da Rivalto, Prediche, Firenze 1739, p. 15).
108 inviluppò, intrigò, impaniò: Purg., XI 75.
109 a sua disposizione.
110 avendo in lui maggior peso, maggior forza, l’amore che l’onestà:
Concl., 5: «Piú le parole pesan che’ fatti». Queste riflessioni e tutta
la violenta scena seguente sono preluse puntualmente nel Tristan
106
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avvenir se ne dovesse, di privare di questa felicità il
prenze e sé a suo potere farne felice.
52
E avendo l’animo al doversi avacciare111, lasciando
ogni ragione e ogni giustizia dall’una delle parti, agl’inganni tutto il suo pensier dispose. E un giorno, secondo
l’ordine malvagio da lui preso112, insieme con uno segretissimo cameriere del prenze, il quale avea nome Ciuriaci, segretissimamente113 tutti i suoi cavalli e le sue cose
fece mettere in assetto per doversene andare, e la notte
vegnente insieme con un compagno, tutti armati, messo
fu dal predetto Ciuriaci nella camera del prenze chetamente114. Il quale egli vide che per lo gran caldo che era,
dormendo la donna115, esso116 tutto ignudo si stava a
una finestra volta alla marina a ricevere un venticello
53 che da quella parte veniva. Per la qual cosa, avendo il
suo compagno davanti informato di quello che avesse a
fare, chetamente n’andò per la camera117 infino alla finestra, e quivi con un coltello ferito il prenze per le reni infino all’altra parte il passò118 e prestamente presolo dalla
54 finestra il gittò fuori. Era il palagio sopra il mare e alto
molto, e quella finestra, alla quale allora era il prenze,
guardava sopra certe case dall’impeto del mare fatte cadere, nelle quali rade volte o non mai andava persona:
per che avvenne, sì come il duca davanti avea provedunell’episodio di Chelinda, Canor e Pelias (cfr. F. BRAMBILLA
AGENO, art. cit.).
111 affrettare: II 6,39 n.
112 secondo il disegno, il progetto delittuoso da lui fatto.
113 Nota l’insistenza sui due superlativi. Ciuriaci è forse deformazione di Ciriaco.
114 silenziosamente, di soppiatto. Non rara l’oscillazione ad sensum da singolare a plurale (tutti armati ... messo fu): al 76 «ne prese ... n’uccisero». La scena ripete quella dei paragrafi 34-36.
115 Solita costruzione assoluta: mentre la donna dormiva.
116 Uno dei tanti pronomi ridondanti.
117 attraverso la camera.
118 Cioè lo trapassò da parte a parte: V 8,29 n.
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to, che la caduta del corpo del prenze da alcuno né fu né
poté esser sentita.
Il compagno del duca ciò veggendo esser fatto, prestamente un capestro da lui per ciò portato, faccendo vista di fare carezze119 a Ciuriaci, gli gittò alla gola e tirò sì
che Ciuriaci niuno romore poté fare: e sopragiuntovi il
duca, lui strangolarono120, e dove il prenza121 gittato
avea il gittarono. E questo fatto, manifestamente conoscendo sé non esser stati né dalla donna né da altrui sentiti, prese il duca un lume in mano e quello portò sopra
il letto, e chetamente tutta la donna, la quale fisamente122 dormiva, scoperse; e riguardandola tutta la lodò
sommamente, e se vestita gli era piaciuta, oltre a ogni
comparazione ignuda123 gli piacque. Per che, di più caldo disio accesosi, non spaventato dal ricente peccato da
lui commesso, con le mani ancor sanguinose allato le si
coricò e con lei tutta sonnocchiosa, e credente che il
prenze fosse, si giacque124.
Ma poi che alquanto con grandissimo piacere fu dimorato con lei, levatosi e fatti alquanti de’ suoi compagni quivi venire, fé prender la donna in guisa che romore far non potesse e, per una falsa porta125, donde egli
entrato era, trattala e a caval messala, quanto più poté
tacitamente con tutti i suoi entrò in camino e verso Atene se ne tornò. Ma per ciò che moglie aveva, non in Ate119
Cfr. II.5,16 n.
« Ogni cosa ti perdono, Duca» (M.).
121 È forma francesizzante, usata quasi espressivisticamente in
generale per i principi angioini, napoletani e greci: Sacchetti, Le
lettere, I sermoni evangelici, Firenze 1857, p. 268 «messer Filippo
prenza di Taranto»; Velluti, Cronica, p. 34 «tesoriere del prenza»
cioè di Roberto di Taranto (cfr. 44 n.). E nota ‘avea’ riferito al duca, e ‘gittarono’ al duca e al suo compagno.
122 profondamente: Sacchetti, XXXI: «mai non dormii così fiso».
123 L’uso di dormire senza alcun indumento durò fino al secolo
xv (Merkel: e cfr. III 3,40).
124 «E quatro « (M.).
125 porta segreta (fr. lausse porte).
120
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ne ma a un suo bellissimo luogo, che poco di fuori dalla
città sopra il mare aveva, la donna più che altra dolorosa
mise, quivi nascosamente tenendola e faccendola onorevolmente di ciò che bisognava servire.
60
Aveano la seguente mattina i cortigiani del prenze infino a nona126 aspettato che il prenze si levasse; ma niente sentendo, sospinti gli usci delle camere che solamente
chiusi127 erano e niuna persona trovandovi, avvisando
che occultamente in alcuna parte andato fosse per istarsi
alcun dì a suo diletto con quella sua bella donna, più
61 non si dierono impaccio128. E così standosi, avvenne che
il dì seguente un matto, entrato intra le ruine dove il corpo del prenze e di Ciuriaci erano, per lo capestro tirò
fuori Ciuriaci e andavaselo tirando dietro. Il quale non
senza gran maraviglia fu riconosciuto da molti, li quali
con lusinghe fattisi menare al129 matto là onde tratto
l’avea, quivi con grandissimo dolore di tutta la città
quello130 del prenze trovarono, e onorevolmente il sepellirono; e de’131 commettitori di così grande eccesso132
investigando e veggendo il duca d’Atene non esservi ma
essersi furtivamente partito, estimarono, così come era,
lui dovere aver fatto questo e menatasene133 la donna.
62 Per che prestamente in lor prenze un fratello del morto
prenze substituendo, lui alla vendetta con ogni loro potere incitarono; il quale, per più altre cose poi acertato
126
Circa le tre del pomeriggio. ma cfr. Intr., 102 n.
solamente accostati, cioè senza esser serrati a chiave.
128 pensiero, cura: II 2,14 n.
129 dal: Intr., 20 n.
130 Si riferisce evidentemente, ma non senza sforzo, a ‘corpo’ di
cinque righe sopra.
131 intorno ai: Giordano da Pisa, Prediche recitate ..., Firenze
1831, II, p. 240: «investigare di questa cavalleria»; Avventuroso Ciciliano, Milano 1833, I 1: «investigarono di un santo romito».
132 coloro che avevano commesso così grande delitto (cfr. Comedia,
XXIV 33).
133 e aversene menata via.
127
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così essere come imaginato avieno, richesti134 e amici e
parenti e servidori di diverse parti, prestamente congregò una bella e grande e poderosa oste135, e a far guerra al duca d’Atene si dirizzò.
13
Il duca, queste cose sentendo, a difesa di sé similmente ogni suo sforzo136 apparecchiò, e in aiuto di lui molti
signor vennero, tra’ quali, mandati dallo ‘mperadore di
Costantinopoli, furono Constantino suo figliuolo e Manovello137 suo nepote con bella e con gran gente. Li quali dal duca onorevolemente ricevuti furono e dalla duchessa più, per ciò che loro sirocchia138 era.
14
Appressandosi di giorno in giorno più alla guerra le
cose, la duchessa, preso tempo139, ammenduni nella camera se gli fece venire, e quivi con lagrime assai e con
parole molte tutta la istoria narrò, le cagioni della guerra
narrando: mostrò il dispetto a lei fatto dal duca della fe134
chiamati in aiuto, invitati: V 9,8 n.
esercito, spedizione militare: assai usato dal B. (II 8,25 e 87;
Concl., 17 ; Teseida, I 17 e 19 ecc.) accanto al latinismo allora nuovo esercito (cfr. 79; II 8,1 e 4 n. e 90; X 9,48 e 61; e cfr. F. MAGGINI, in «Lingua Nostra», III
1941).
136 esercito, apprestamento militare (provenzale esfort); II 8,4 n.
137 Anche questi altisonanti titoli imperiali possono riecheggiare,
come abbiamo visto, le esperienze napoletane del B. Costanzo è
nome ovvio per un membro della casa d’Oriente, e Costantino (diminutivo di Constantio: 67 sgg.) era il figlio di Andronico, imperatore all’inizio del Trecento. Manuello era nipote di Andronico: nome anch’esso comune nella corte bizantina e che certo aveva
particolarmente colpito il B. per le tragiche vicende poi narrate nel
De casibus (IX 11). Questo Impero d’Oriente, rappresentato qui
debole moralmente proprio nei suoi capi e alla mercé di potenti vicini, è ritratto delle misere condizioni e vicende bizantine nei secoli XIII-XIV.
138 sorella: ma evidentemente solo di uno dei due; a meno che si
intenda genericamente cugina, parente, comare come era corrente
(così nell’epistola del B. all ’Albanzani: V. BRANCA, Profilo, p.
140; non nel D.).
139 scelto un momento opportuno, propizio: II5,78 n.
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mina140 la quale nascosamente si credeva tenere; e forte
di ciò condogliendosi gli pregò che all’onor del duca e
alla consolazion di lei quello compenso141 mettessero
che per loro si potesse il migliore.
Sapevano i giovani tutto il fatto come stato era: e per
ciò, senza troppo adomandar, la duchessa come seppero
il meglio riconfortarono e di buona speranza la riempirono; e da lei informati dove stesse la donna si dipartirono.
E avendo molte volte udita la donna di maravigliosa
bellezza commendare, disideraron di vederla e il duca
pregarono che loro la mostrasse. Il quale, mal ricordandosi di ciò che al prenze avvenuto era per averla mostrata a lui, promise di farlo; e fatto in un bellissimo giardino, che nel luogo dove la donna dimorava era,
apparecchiare un magnifico desinare, loro la seguente
mattina con pochi altri compagni a mangiar con lei
menò. E sedendo Constanzio con lei, la cominciò a riguardare pieno di maraviglia, seco affermando142 mai sì
bella cosa non aver veduta e che per certo per iscusato si
doveva avere il duca e qualunque altro che per avere
una sì bella cosa143 facesse tradimento o altra disonesta
cosa: e una volta e altra mirandola, e più ciascuna commendandola144, non altramenti a lui avvenne che al duca
avvenuto era. Per che, da lei innamorato partitosi, tutto
il pensier della guerra abbandonato, si diede a pensare
140 il torto, il dispregio fattole dal duca per cagione di, rispetto a
quella femmina: vedi la stessa espressione a 70, e cfr. III 1,6 n.
141 rimedio, provvedimento: Intr., 55: «non prendersi per voi ...
alcun compenso». e in questa stessa novella, più innanzi, 98: «noi
ci troveremo, con l’aiuto di Dio, buon compenso».
142 affermando in cuor suo.
143 Nota l’insistenza della stessa espressione due righe sopra e
qui.
144 lodandola ogni volta di più (Proemio, 7 n.): una impressione
simile a quella dei vecchi di Troia di fronte a Elena (Iliade, II).
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come al duca torre la potesse, ottimamente a ciascuna
persona il suo amor celando.
69
Ma mentre che esso in questo fuoco ardeva, sopravenne il tempo d’uscire contro145 al prenze che già alle
terre del duca s’avvicinava: per che il duca e Constanzio
e gli altri tutti, secondo l’ordine dato146 d’Atene usciti,
andarono a contrastare a certe frontiere147 acciò che più
70 avanti non potesse il prenze venire. E quivi per più dì
dimorando, avendo sempre Constanzio l’animo e ‘l pensiere a quella donna, imaginando che, ora che ‘l duca
non l’era vicino, assai bene gli potrebbe venir fatto il suo
piacere, per aver cagione di tornarsi a Atene si mostrò
forte della persona disagiato148; per che, con licenzia del
duca, commessa ogni sua podestà in Manovello149, a
Atene se ne venne alla sorella. E quivi, dopo alcun dì,
messala nel ragionare150 del dispetto che dal duca le pareva ricevere per la donna la qual teneva151, le disse che,
dove ella volesse, egli assai bene di ciò152 l’aiuterebbe,
71 faccendola di colà ove era trarre e menarla via. La duchessa, estimando Constanzio questo per amor di lei e
non della donna fare, disse che molto le piacea, sì veramente dove153 in guisa si facesse che il duca mai non risapesse che essa a questo avesse consentito. Il che Constanzio pienamente le promise, per che la duchessa
consentì che egli, come il meglio gli paresse, facesse.
145
di marciare contro, di muovere contro.
secondo il disegno, il piano stabilito.
combattere, opporsi, resistere su certi confini.
148 molto indisposto, ammalazzato: V 6,9 n.
149 affidato ogni suo potere, ogni suo comando a Manuello: Cfr, I
1,7 n.
150 indottala a parlare.
151 La stessa espressione usata prima: cfr. 64.
152 in ciò.
153 a condizione che, pur che: II 9,96 n.
146
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72
Constanzio chetamente fece armare una barca sottile154, e quella una sera ne mandò vicina al giardino dove
dimorava la donna, informati de’ suoi155 che sù v’erano
quello che a fare avessero; e appresso con altri n’andò al
palagio dove era la donna, dove da quegli che quivi al
servigio di lei erano fu lietamente ricevuto, e ancora dalla donna, e con essolui da’ suoi servidori accompagnata
e da’ compagni di Constanzio, sì come gli piacque, se
n’andò156 nel giardino.
73
E quasi alla donna da parte del duca parlar volesse,
con lei verso una porta che sopra il mare usciva157 solo
se n’andò; la quale già essendo da uno de’ suoi compagni aperta e quivi col segno dato chiamata la barca, fattala prestamente prendere e sopra la barca porre, rivolto
alla famiglia158 di lei disse: «Niuno se ne muova né faccia
motto, se egli non vuol morire, per ciò che io intendo
non di rubare al duca la femina sua ma di torre via l’onta la quale egli fa alla mia sorella».
74
A questo niuno ardì di rispondere: per che Constanzio, co’ suoi sopra la barca montato e alla donna che piagnea accostatosi, comandò che de’ remi dessero in acqua e andasser via. Li quali, non vocando ma volando159,
154
E quindi veloce: II 4,9 n.
avendo reso noto ad alcuni dei suoi familiari.
Soggetto sottinteso è la donna; mentre del seguente ‘se
n’andò’ (73) è soggetto Constanzio.
157 che dava sul mare, si direbbe oggi.
158 ai familiari, alle persone addette a servirla.
159 Cfr. Inf., XXVI 125. Per la forma ‘vocare’ vogare cfr. Rohlfs,
195 e 218.
155
156
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quasi in sul dì del seguente giorno160 a Egina161 pervennero.
75
Quivi in terra discesi e riposandosi, Constanzio con la
donna, che la sua sventurata bellezza162 piangea, si sollazzò163: quindi, rimontati in su la barca, infra pochi
giorni pervennero a Chios164, e quivi, per tema delle riprensioni del padre e che165 la donna rubata non gli fosse tolta, piacque a Constanzio come in sicuro luogo di
rimanersi166; dove più giorni la bella donna pianse la sua
disaventura, ma pur poi da Constanzio riconfortata, come l’altre volte fatto avea, s’incominciò a prender piacere di ciò che la fortuna avanti l’apparecchiava.
76
Mentre queste cose andavano in questa guisa, Osbech167, allora re de’ turchi, il quale in continua guerra sta160 all’alba del giorno seguente. «Pare che alcuna volta gli antichi
facessero divario da dì e giorno, prendendo per giorno lo spazio
delle 24 ore, e per dì quel tanto che il sole sta fuori e ci si vede»
(Fanfani). Difatti si veda VI 5,11: «volendo essere il dì a Firenze»
cioè prima che facesse notte; e Tesoro volg. da Bono Giamboni,
Bologna 1878, II 43: «Dì non è altra cosa che esser lo sole sopra la
terra»; Purg., VII 60, XII 81, XIX 38 ecc.
161 Città nell’isola omonima di fronte ad Atene.
162 la sua bellezza causa di sventure; come in Purg., XXII 51. Altra
esplicita dichiarazione del tema preannunciato nel prologo (7 cfr.
n.; e 41,92).
163 «E cinque» (M.).
164 Isola delle Sporadi, presso il golfo di Smirne: era possesso genovese.
165 Uno dei soliti cambiamenti di costruzione (per timore ... che).
166 Un altro riflessivo per un semplice attivo: cfr. 15 n.
167 Ozbek o Uzbegh, khan dell’Orda d’Oro (1312-40). Spirito
intelligente e tollerante, fu in buone relazioni coi Papi Giovanni
XXII e Benedetto XII e colle corti del Cairo, di Bisanzio, di Mosca, in cui tre principesse della sua famiglia andarono spose: favorì
nel Mar Nero e in Crimea il commercio dei Veneziani e soprattutto
dei Genovesi. Proprio forse per la sua fama nelle corti legate a Bisanzio e all’Oriente (come l’Angioina) e negli ambienti mercantili
italiani, piacque al B. usare qui il suo nome a preferenza di quelli di
altri grandi d’Oriente: anche se naturalmente e nel titolo «Re dei
Turchi» e in quanto narrò di lui molto indulse alla fantasia (cfr. H.
HOWARTH History of Mongols, London 1876, II, pp. 148 sgg.;
Letteratura italiana Einaudi 287
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
va con lo ‘mperadore, in questo tempo venne per caso
alle Smirre168: e quivi udendo come Constanzio in lasciva vita con una sua donna, la quale rubata avea, senza alcuno provedimento169 si stava in Chios, con alcuni legnetti170 armati là andatone una notte e tacitamente con
la sua gente nella terra entrato, molti sopra le letta171 ne
prese prima che s’accorgessero li nemici esser sopravenuti; e ultimamente alquanti, che risentiti172 erano all’arme corsi, n’uccisero; e arsa tutta la terra e la preda e’ prigioni sopra le navi posti, verso le Smirre si ritornarono.
77 Quivi pervenuti, trovando Osbech, che giovane uomo
era, nel riveder della preda173 la bella donna, e conoscendo questa esser quella che con Constanzio era stata
sopra il letto dormendo174 presa, fu sommamente contento veggendola; e senza niuno indugio sua moglie la
fece e celebrò le nozze e con lei si giacque più mesi lieto175.
78
Lo ‘mperadore il quale, avanti che queste cose avvenissero, aveva tenuto trattato con Basano, re di Capado-
R. S. LOPEZ, Le colonie genovesi nel Mediterraneo, Bologna 1938;
R. GROUSSET, L’Empire des Steppes, Paris 1969, pp. 481 sgg.).
Cfr. anche VIII 9,23.
168 Smirne, nell’Asia Minore: dove però non giunsero mai i domini di Ozbek.
169 Cioè precauzione difensiva.
170 piccole navi: II 4,9 n.
171 i letti: il B. usa qui il plurale in a - prosecuzione del plurale latino dei neutri - invece del normale in i (III 2,24; IX 6,12; X 9,19:
cfr. Rohlfs, 368-70: e qui 12 n.).
172 svegliati.
173 nella revisione, nell’esame della preda.
174 Gerundio participiale.
175 «E sei « (M.).
Letteratura italiana Einaudi
288
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
cia176, acciò che sopra177 Osbech dall’una parte con le
sue forze discendesse e egli con le sue l’assalirebbe
dall’altra, né ancora pienamente l’aveva potuto fornire178 per ciò che alcune cose, le quali Basano adomandava, sì come meno convenevoli179, non aveva volute fare,
sentendo ciò che al figliuolo era avvenuto, dolente fuor
di misura, senza alcuno indugio ciò che il re di Capadocia domandava fece, e lui quanto più poté allo scendere
sopra180 Osbech sollecitò, apparecchiandosi egli d’altra
79 parte d’andargli addosso. Osbech, sentendo questo, il
suo essercito ragunato, prima che da’ due potentissimi
signori fosse stretto in mezzo, andò contro al re di Capadocia, lasciata nelle Smirre a guardia181 d’un suo fedele
famigliare e amico la sua bella donna; e col re di Capadocia dopo alquanto tempo affrontatosi combatté, e fu
nella battaglia morto182 e il suo essercito sconfitto e disperso. Per che Basano vittorioso cominciò liberamente
176 Personaggio fittizio; come fittizio è il regno di Cappadocia,
lontana rerniniscenza certo di letture latine (nel Trecento la regione era sotto i Turchi: un’ombra di verisimiglianza forse potrebbe
riflettersi dalle lotte che Ozbek e i suoi successori sostennero con
turchi e persiani, ma è un’ombra evanescente). Il nome però - se si
vuole seguire ancora quelle sottili filigrane angioine - potrebbe ripetere quello di un potente nemico dei principi di Taranto-Acaia:
cioè Baudon Bassian, o meglio, com’era chiamato italianamente e
latinamente a Napoli, Baldon Bassano, già capitano d’Aversa e
ciambellano di Re Roberto, ciambellano maggiore e maestro di Palazzo del Re Andrea (fedele a lui anche dopo l’assassinio sarà protetto da Clemente VI: cfr. LÉONARD, op. cit., I e II passim).
177 contro: e forse col riferimento di cui a n. 8.
178 aveva potuto concludere quelle trattative (‘trattato’).
179 Evidentemente in senso morale e materiale.
180 assalire (come dopo, ‘andare addosso’): V 2,27 n. Ma v’è forse
(n. 5) anche riferimento implicito alla posizione del regno di Cappadocia rispetto all’Asia Minore occupata dai Turchi.
181 guardata, sotto la guardia, in custodia; come otto righe più sotto.
182 ucciso: come già alla II 1,20.
Letteratura italiana Einaudi 289
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
a venirsene verso le Smirre:, e vegnendo, ogni gente a
lui, sì come a vincitore, ubbidiva.
Il famigliar d’Osbech, il cui nome era Antioco, a cui
la bella donna era a guardia rimasa, ancora che attempato fosse, veggendola così bella, senza servare al suo amico e signor fede, di lei s’innamorò. E sappiendo la lingua
di lei (il che molto a grado l’era, sì come a colei alla quale parecchi anni a guisa quasi di sorda e di mutola era
convenuta183 vivere, per lo non aver persona inteso né
essa essere stata intesa da persona184), da amore incitato
cominciò seco tanta familiarità a pigliare in pochi dì, che
non dopo molto, non avendo riguardo al signor loro che
in arme e in guerra era, fecero la dimestichezza185 non
solamente amichevole ma amorosa divenire186, l’uno
dell’altro pigliando sotto le lenzuola maraviglioso piace81 re.
Ma sentendo costoro Osbech essere vinto e morto e
Basano ogni cosa venir pigliando, insieme per partito
presero187 di quivi non aspettarlo; ma, presa grandissima
parte188 che quivi eran d’Osbech, insieme nascosamente
82 se n’andarono a Rodi189, e quivi non guari di tempo dimorarono190, che Antioco infermò a morte. Col quale
80
183 Una delle tipiche attrazioni usitatissime del B.: cfr. Mussafia,
p. 442: e per la costruzione personale: VII 7,36 n.
184 Per il senso e l’uso di ‘persona’ (nessuno) cfr. III 8,59 n.
185 Vedi già prima, 22 n.
186 «E sette» (M.).
187 decisero d’accordo.
188 Atto e frase ripetuti con monotonia (vedi prima 20 e 35): e
per questo è possibile sottintendere qui facilmente «delle cose»
(anche per il precedente «ogni cosa») in espressione analoga a
quella della IV 3,14. E cfr. Intr., 26 n.
189 I successivi rapimenti e viaggi di Alatiel la spostano sempre
metodicamente nel Mediterraneo da Occidente a Oriente, verso la
sua patria. A Rodi operavano i Peruzzi e i Bardi (R. DAVIDSOHN, Storia di Firenze, VI, pp. 759 sg.).
190 non molto tempo.
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
tornando191 per ventura un mercatante cipriano, da lui
molto amato e sommamente suo amico, sentendosi egli
verso la fine venire, pensò di volere e le sue cose e la sua
83 cara donna lasciare a lui.
E già alla morte vicino, amenduni gli chiamò, così dicendo: «Io mi veggio senza alcuno fallo venir meno; il
84 che mi duole, per ciò che di vivere mai non mi giovò192
come ora faceva. È il vero che d’una cosa contentissimo
muoio, per ciò che, pur dovendo morire, mi veggio morir nelle braccia di quelle due persone le quali io più
amo che alcune altre193 che al mondo ne sieno, cioè nelle tue, carissimo amico, e in quelle di questa donna, la
quale io più che me medesimo ho amata poscia che io la
conobbi. È il vero che grave194 m’è, lei sentendo qui forestiera e senza aiuto e senza consiglio, morendomi io,
rimanere, e più sarebbe grave ancora, se io qui non sentissi te, il quale io credo che quella cura di lei avrai per
amor di me che di me medesimo avresti; e per ciò quanto più posso ti priego che, s’egli avviene che io muoia,
che195 le mie cose e ella ti sieno raccomandate, e quello
85 dell’une e dell’altra facci che credi che sieno196 consolazione dell’anima mia. E te, carissima donna, priego che
dopo la mia morte me non dimentichi, acciò che io di là
vantar mi possa che io di qua amato sia dalla più bella
191
dimorando, albergando: I 7,9 n.
piacque.
193 nessun’altra: cfr. 24 n.
194 Motivo d’angoscia mi è [il morire]; oppure «il successivo gerundio sentendo ha valore di infinito presente
sostantivato il sentire» (Marti).
195 Altro esempio di ripetizione del ‘che’ dopo una ipotetica in
inciso: cfr. I 3,11 n.
196 Attrazione. «Dovrebbe dire quello che credi che sia; ma ‘le cose e ella ... le une e l’altra’ vanno per la mente allo scrittore, che con
manifesta sconcordanza pone ‘sieno’» (Mussafia, p. 442).
192
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donna che mai formata fosse dalla natura197. Se di queste due cose voi mi darete intera speranza, senza niun
86
dubbio n’andrò198 consolato».
L’amico mercatante e la donna similmente, queste parole udendo, piangevano; e avendo egli detto199, il
confortarono e promisongli sopra la lor fede200 di quel
fare che egli pregava, se avvenisse che el morisse. Il quale non stette guari201 che trapassò e da loro fu onorevol87 mente fatto sepellire.
Poi, pochi dì appresso, avendo il mercatante cipriano
ogni suo fatto in Rodi spacciato202 e in Cipri203 volendosene tornare sopra una cocca204 di catalani che v’era, domandò la bella donna quello205 che far volesse, con ciò
fosse cosa che a lui convenisse in Cipri tornare. La donna rispose che con lui, se gli piacesse, volentieri se ne an88
drebbe, sperando che per amor d’Antioco da lui come
sorella sarebbe trattata e riguardata. Il mercatante rispose che d’ogni suo piacere era contento: e acciò che da
ogni ingiuria, che sopravenire le potesse avanti che in
Cipri fosser, la difendesse, disse che era sua moglie. E
12
197 «O scioco, scioco» (M.). Cfr. per l’espressione, Amorosa Visione, VI 43-44: «mai Natura con sua arte | Forma non diede a sì
bella figura». Da notare amato sia per sia stato amato; e per questi
verbi imperfettivi al posto di forme perfettive cfr. F. BRAMBILLA
AGENO, Il verbo, pp. 198 sgg.
198 andrò via di qui, morirò.
199 Cioè: avendo concluso il suo dire.
200 Promessa solenne scandita su due endecasillabi.
201 molto tempo, come all’81, ma con la ellissi, assai comune dopo gli avverbi che indicano quantità, di tempo (Inf., VIII 113); e
così avviene per spazio: Purg., X 79.
202 sbrigato: II 4,7.
203 importante centro del commercio fiorentino: vi dominarono
particolarmente i Bardi (R. DAVIDSOHN, Storia di Firenze, VI,
pp. 756 sgg.).
204 Nave da trasporto: II 4,14 n.
205 Per questa costruzione di domandare cfr. I 2,23: «Giannotto il
domandò quello che del santo Padre ... gli parea»; III 4,24: «domandolla ciò che ella faceva».
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
sopra la nave montati, data loro una cameretta nella
poppa, acciò che i fatti non paressero alle parole contrarii, con lei in uno lettuccio assai piccolo si dormiva. Per
la qual cosa avvenne quello che né dell’un né dell’altro
nel partir da Rodi era stato intendimento: cioè che incitandogli il buio e l’agio e ‘l caldo del letto, le cui forze
non son piccole, dimentica206 l’amistà e l’amor d’Antioco morto, quasi da iguali207 appetito tirati, cominciatisi a
stuzzicare insieme, prima che a Baffa208 giugnessero, là
onde era il cipriano, insieme fecero parentado 209; e a
Baffa pervenuti, più tempo insieme col mercatante si
90 stette.
Avvenne per ventura che a Baffa venne per alcuna sua
bisogna210 un gentile uomo il cui nome era Antigono211,
la cui età era grande ma il senno maggiore e la ricchezza
piccola, per ciò che in assai cose intramettendosi212 egli
91 ne’ servigi del re di Cipri gli era la fortuna stata contraria213. Il quale, passando un giorno davanti la casa dove
la bella donna dimorava, essendo il cipriano mercatan89
206 dimenticata. È uno di quei participi accorciati o aggettivi verbali correnti nel D. (per es. II 1,2; IV 8,29; V 1,64; VIII 7,22), non
rari nel Due-Trecento: cfr. J. SCHÜRMANN, Die Entstehung und
Vorbreitung der sogenannten «Vorkurzten Partizipien», Strasbourg
1890; Rohlfs, 627, 628, 629; F. AGENO, in « Lingua Nostra»,
XIV, 1953, pp. 99 sgg .
207 Corrente la desinenza singolare in -i: IV 10,25 n. «sopra luogo
iguali «.
208 Città sulla costa sudoccidentale dell’isola di Cipro, l’antica
Pafo. Situazione simile nella V 7,13.
209 «E otto: alle nove aren cavallo, s’a Dio piace» (M.). Analogo
senso equivoco anche altrove: VIII 2,38.
210 faccenda, affare: I 1,27 n.
211 Nome ovvio, come prima quello di Antioco, nell’Oriente classicheggiante e romanzesco del B. (cfr. per es. Amorosa Visione, V
54).
212 facendo da mediatore, da tramite; o semplicemente interessandosi: III 3,20: «disse di più non intramettersene per innanzi».
213 Dunque anche Antigono è in qualche modo un protagonista
del tema generale della II giornata.
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te214 andato con sua mercatantia in Erminia215, gli venne
per ventura a una finestra della casa di lei questa donna
veduta216; la qual, per ciò che bellissima era, fisa cominciò a riguardare e cominciò seco stesso a ricordarsi di
doverla avere altra volta veduta, ma il dove in niuna maniera ricordar si poteva. La bella donna, la quale lungamente trastullo della fortuna era stata, appressandosi il
termine nel quale i suoi mali dovevano aver fine, come
ella Antigono vide così si ricordò di217 lui in Alessandria
ne’ servigi del padre in non piccolo stato aver veduto.
Per la qual cosa subita speranza prendendo di dover potere ancora nello stato real ritornare per lo colui consiglio, non sentendovi218 il mercatante suo, come più tosto
potè si fece chiamare Antigono. Il quale, a lei venuto, ella vergognosamente domandò se egli Antigono di Famagosta219 fosse, sì come ella credeva.
Antigono rispose del sì, e oltre a ciò disse: «Madonna,
a me pare voi riconoscere ma per niuna cosa mi posso ricordar dove220; per che io vi priego, se grave non v’è,
che a memoria mi riduciate chi voi siete».
La donna, udendo che desso era, piangendo forte gli
si gittò con le braccia al collo; e, dopo alquanto, lui che
forte si maravigliava domandò se mai in Alessandra veduta l’avesse. La qual domanda udendo, Antigono, incontanente riconobbe costei essere Alatiel figliuola del
214
Altri due endecasillabi di seguito.
Armenia: forma comune (per es.: V 7; Intelligenza, 219).
gli accadde di vedere ... questa donna.
217 Regolarmente questo ‘di’ andrebbe unito ad ‘aver veduto’;
ma qui il discorso segue una chiara e naturale constructio ad sensum. Cfr. del resto II 8,35 n.
218 non sentendo in quel luogo: cioè sentendo che non v’era.
219 Altra città sulla costa orientale di Cipro.
220 «Sottintendi io v’abbia veduta. Ellissi di lieve compimento e
di lievissimo intendimento» (Fanfani).
215
216
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soldano, la quale morta in mare si credeva che fosse, e
vollele fare la debita reverenza; ma ella nol sostenne221 e
pregollo che seco alquanto si sedesse. La qual cosa da
Antigono fatta, egli reverentemente la domandò come e
quando e donde quivi venuta fosse, con ciò fosse cosa
che per tutta terra d’Egitto s’avesse per certo222 lei in
mare, già eran più anni passati, essere annegata.
A cui la donna disse: «Io vorrei bene che così fosse
stato più tosto che avere avuta la vita la quale avuta ho, e
credo che mio padre vorrebbe il simigliante, se giammai
il saprà»; e così detto ricominciò maravigliosamente223 a
piagnere.
Per che Antigono le disse: «Madonna, non vi sconfortate prima che vi bisogni: se vi piace, narratemi i vostri
accidenti e che vita sia stata la vostra; per avventura
l’opera224 potrà essere andata in modo che noi ci troveremo, con l’aiuto di Dio, buon compenso225.
«Antigono,» disse la bella donna «a me parve, come
io ti vidi, vedere il padre mio: e da quello amore e da
quella tenerezza, che io a lui tenuta son di portare, mossa, potendomiti celare, mi ti feci palese. E di poche persone sarebbe potuto addivenire d’aver vedute, delle
quali io tanto contenta fossi, quanto sono d’aver te innanzi a226 alcuno altro veduto e riconosciuto; e per ciò
quello che nella mia malvagia fortuna ho sempre tenuto
nascoso, a te sì come a padre paleserò. Se vedi, poi che
udito l’avrai, da potermi in alcun modo nel mio pristino
stato tornare227, priegoti l’ 228adoperi; se nol vedi, ti prie221
permise: II 5,30 n.; V 5,37 n.
si ritenesse con sicurezza.
in modo straordinario, da suscitar meraviglia.
224 il fatto, la cosa.
225 rimedio, provvedimento: 64 n.
226 prima di.
227 Con valore transitivo: riportare, restituire.
228 Riferito, a senso, a ‘modo’.
222
223
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go che mai a alcuna persona dichi229 d’avermi veduta o
di me avere alcuna cosa sentita».
101
E questo detto, sempre piagnendo, ciò che avvenuto
l’era dal dì che in Maiolica ruppe230 infino a quel punto
li raccontò; di che Antigono pietosamente a piagnere
cominciò; e poi che alquanto ebbe pensato disse: Madonna, poi che occulto è stato ne’ vostri infortunii chi
voi siate, senza fallo più cara che mai vi renderò al vostro padre e appresso per moglie231 al re del Garbo».
102
E, domandato da lei del come, ordinatamente ciò che
da far fosse le dimostrò; e acciò che altro per indugio intervenir non potesse, di presente232 si tornò Antigono in
Famagosta e fu al re233, al qual disse: «Signor mio, se a
voi aggrada, voi potete a una ora a voi fare grandissimo
onore, e a me, che povero sono per voi234, grande utile
senza gran vostro costo».
103
Il re235 domandò come. Antigono allora disse: «A
Baffa è pervenuta la bella giovane figliuola del soldano,
di cui è stata così lunga fama che annegata era; e ha, per
servare la sua onestà, grandissimo disagio sofferto lungamente, e al presente è in povero stato e disidera di tornarsi236 al padre. Se a voi piacesse di mandargliele sotto
la mia guardia, questo sarebbe grande onor di voi e di
229
dica: Purg., III 117; e vedi Intr., 81 n.
fece naufragio: II 4,1 n.
231 vi renderò ... quale moglie.
232 subito, immediatamente: I 1,77 n.; mentre ‘al presente’ più
sotto (103) vale ora, presentemente.
233 si presentò al re.
234 per causa vostra: cfr. 90.
235 Anche questo personaggio, il Re di Cipro, appare, come abbiamo visto (33 n.), sullo schermo di quelle vicende della corte angioina che poterono forse offrire qualche filigrana storico-geografica alla trama di questa avventurosa novella. Cfr. anche I 9; e
LÉONARD e RODD, opp. citt., passim.
236 Piú corrente allora la forma riflessiva del neutro «tornare»:
cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 79.
230
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me gran bene237; né credo che mai tal servigio di mente
al soldano238 uscisse».
104
Il re, da una reale onestà239 mosso, subitamente rispose che gli piacea; e onoratamente per lei mandando, a
Famagosta la fece venire, dove da lui e dalla reina con
festa inestimabile e con onor magnifico fu ricevuta. La
quale poi dal re e dalla reina de’ suoi casi adomandata,
secondo l’ammaestramento datole da Antigono rispose
105 e contò tutto. E pochi dì appresso, adomandandolo ella,
il re, con bella e onorevole compagnia d’uomini e di
donne, sotto il governo240 d’Antigono la rimandò al soldano: dal quale se con festa fu ricevuta niun ne dimandi,
e Antigono similemente con tutta la sua compagnia. La
quale poi che alquanto fu riposata, volle il soldano sapere come fosse che viva fosse, e dove tanto tempo dimorata senza mai avergli fatto di suo stato alcuna cosa sentire.
106
La donna, la quale ottimamente gli ammaestramenti
d’Antigono aveva tenuti a mente, appresso al padre così
cominciò a parlare: «Padre mio, forse il ventesimo giorno dopo la mia partita da voi, per fiera tempesta la nostra nave, sdruscita, percosse a certe piaggie là in Ponente, vicine d’un luogo chiamato Aguamorta241, una notte;
237
questo riuscirebbe di grande onore a voi e a me di grande bene-
ficio.
238 uscirebbe. È usato il congiuntivo per sottolineare che si tratta
di un’opinione.
239 regale gentilezza, nobiltà d’animo, magnanimità: cfr. II 3,44 n.
240 protezione, custodia, cioè affidata a lui: più sopra, 103: «Se a
voi piacesse di mandargliele sotto la mia guardia».
241 Aigues-Mortes in Provenza, proprio dove si recheranno dei
nipoti del B. (Cfr. D. TORDI, Attorno a G. B., Orvieto 1923, p.
85): porto e luogo famoso per i mercanti genovesi e fiorentini. E
tutto il racconto di Alatiel può ricordare quello della leggenda di
Pietro di Provenza e di Maguelonne, figlia del re di Napoli (ed.
Biedermann, Halle 1913; cfr. J. BAUMEL, Le livre de Maguelonne,
Paris 1953).
Letteratura italiana Einaudi 297
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
e che che242 degli uomini, che sopra la nostra nave era107 no, io nol so né seppi già mai. Di tanto mi ricorda243 che,
venuto il giorno e io quasi di morte a vita risurgendo, essendo già la straccata244 nave da’ paesani veduta e essi a
rubar quella di tutta la contrada corsi, io con due delle
mie femine prima sopra il lito poste fummo, e incontanente245 da’ giovani prese chi qua con una e chi là con
108 un’altra cominciarono246 a fuggire. Che di loro si fosse
io nol seppi mai247: ma, avendo me contrastante248 due
giovani presa e per le trecce tirandomi, piagnendo io
sempre forte, avvenne che, passando costoro che mi tiravano una strada per entrare in un grandissimo bosco,
quatro uomini in quella ora di quindi passavano a cavallo: li quali249 come quegli che mi tiravano videro, così la109 sciatami prestamente presero a fuggire. Li quatro uomini, li quali nel sembiante assai autorevoli mi parevano,
veduto ciò, corsero dove io era e molto mi domandarono, e io dissi molto, ma né da loro fui intesa né io loro
242 qualunque cosa, sottinteso accadesse, avvenisse; oppure si può
intendere, con pleonasmo del pronome, io non so e non seppi mai
qualsiasi cosa, cioè nulla, degli uomini. E cfr. 109, n. 8.
243 Di questo soltanto mi ricordo. Il verbo «ricordare» è spesso
usato dal B. impersonalmente col soggetto egli o espresso o sottinteso: cfr. per es. II 9,54 n.; e per il valore di ‘tanto’ Tristano Riccardiano, pp. 286 e 293.
244 rovinata, malconcia, fuori uso: cfr. G. Villani, XII 67 «straccato e vinto»; A. LUPICINI, Architettura militare, Firenze 1582, p.
78 «alle cinque sparate se ne straccorono sei « [dei cannoni portati].
245 V’è sottinteso un poi in relazione a ‘prima’ della stessa riga. E
per l’uso del plurale con soggetto singolare cui va unito altro nome
preceduto dalla preposizione ‘con’ (‘io ... fummo’) cfr. II 8,10 n.; II
9,1 n.
246 Soggetto è «i giovani»: cambiamento di costruzione non raro
nel B.
247 Formula ripetuta necessariamente nel racconto fittizio.
248 che contrastavo, che mi opponevo.
249 Complemento oggetto.
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
intesi. Essi, dopo lungo consiglio postami sopra uno de’
lor cavalli, mi menarono a uno monastero di donne secondo la lor legge250 religiose; e quivi, che che251 essi dicessero, io fui da tutte benignissimamente ricevuta e
onorata sempre, e con gran divozione con loro insieme
ho poi servito a san Cresci in Valcava252, a cui le femine
110 di quel paese voglion molto bene. Ma poi che per alquanto tempo con loro dimorata fui, e già alquanto
avendo della loro lingua apparata253, domandandomi esse chi io fossi e donde, e io conoscendo là dove io era e
temendo se il vero dicessi non fossi da lor cacciata sì come nemica della lor legge, risposi che io era figliuola
d’un gran gentile uomo di Cipri, il quale mandandomene a marito in Creti254, per fortuna quivi eravam corsi e
111 rotti255. E assai volte in assai cose, per tema di peggio,
servai i lor costumi: e domandata dalla maggiore di
quelle donne, la quale esse appellan badessa, se in Cipri
250
fede, religione: cfr. 26 n.
«Il che che o chi che sia non pure si adoprano a significare
qualunque cosa o qualunque persona; ma anche o cosa o persona da
noi non saputa per appunto, come suol dirsi Non so chi o Non so
che: e come qui fa il B.» (Fanfani): e cfr. II 5,26 n.
252 È evidente il significato equivoco già accennato in parte prima (cfr. 37) «secondo una tecnica di analogica trasposizione semantica assai cara a tutta la tradizione giocosa» (Marti). Ma va rilevato che esistette veramente un santuario di San Cresci a Valcava,
in Mugello, come testimoniano anche G. Villani (I 58) e Giovanni
Morelli (Ricordi, p. 87). L’appellativo dovette derivare da una cava
nei pressi: Cresci è abbreviatura di Crescenzio ed era nome di conoscenti del B.: cfr. B. nelle culture nazionali, pp. 645 sg.
253 imparata: I 4,21 n.
254 Anche questa forma, come Cipri (I 9), è costante (cfr. per es.
IV 3; Inf., XII 12).
255 a causa d’una tempesta eravamo stati trascinati in quel luogo e
avevamo ivi fatto naufragio. Cfr. per ‘corsi e rotti’ più sopra, 13; e
per ‘fortuna’ II 6,17 n. «E si noti la sintassi collocutoria, con i vari
costrutti e cambi di soggetto» (Marti).
251
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tornare me ne volessi, risposi che niuna cosa tanto disi112 derava. Ma essa, tenera256 del mio onore, mai a alcuna
persona fidar non mi volle che verso Cipri venisse, se
non, forse due mesi sono257, venuti quivi certi buoni uomini di Francia con le loro donne, de’ quali alcun parente v’era della badessa, e sentendo essa che in Ierusalem
andavano a visitare il Sepolcro, dove colui cui tengon
per Idio fu sepellito poi che da’ giudei fu ucciso, allora
mi raccomandò, e pregogli che in Cipri a mio padre mi
113 dovessero presentare. Quanto questi gentili uomini
m’onorassono258 e lietamente mi ricevessero insieme con
114 le lor donne lunga istoria sarebbe a raccontare. Saliti
adunque sopra una nave, dopo più giorni pervenimmo a
Baffa: e quivi veggendomi pervenire, né persona conoscendovi né sappiendo che dovermi dire259 a’ gentili uomini che a mio padre mi volean presentare, secondo che
loro era stato imposto dalla veneranda donna, m’apparecchiò Idio, al quale forse di me incresceva260, sopra il
lito Antigono in quella ora che noi a Baffa smontavamo;
il quale io prestamente chiamai, e in nostra lingua, per
non essere da’ gentili uomini né dalle donne intesa, gli
115 dissi che come figliuola mi ricevesse. Egli prestamente
m’intese: e fattami la festa grande261, quegli gentili uomini e quelle donne secondo la sua povera possibilità262
onorò, e me ne menò al re di Cipri, il quale con quello
256
sollecita, preoccupata.
Ha inizio, dopo queste parole, un lungo periodo parentetico
che va fino a ‘fu ucciso’, con una ripresa ad anacoluto.
258 Cfr. Annotazioni, pp. 247 sgg. per le varie sfumature di senso
in onorare, fare onore.
259 Il B. introduce alle volte nella dipendente dubitativa il verbo
servile proprio delle dubitative dirette: cfr. V 9,15 e F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, P .409.
260 doleva; cioè: aveva pietà di me.
261 Cfr. II 6,75 e 76 n. e II 10,11 n.
262 le sue povere facoltà, la sua condizione modesta: IX 8,4: «non
potendo la sua possibilità sostener le spese».
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onore mi ricevette e qui a voi m’ha rimandata che mai
per me raccontare non si potrebbe. Se altro a dir ci resta, Antigono, che molte volte da me ha questa mia fortuna263 udita, il racconti».
Antigono allora al soldano rivolto disse: «Signor mio,
sì come264 ella m’ha più volte detto e come quegli gentili
uomini con li quali venne mi dissero, v’ha raccontato.
Solamente una parte v’ha lasciata a dire, la quale265 io
stimo che, per ciò che bene non sta a lei di dirlo, l’abbia
fatto: e questo è quanto quegli gentili uomini e donne,
con li quali venne, dicessero della onesta vita la quale
con le religiose donne aveva tenuta e della sua virtù e de’
suoi laudevoli costumi, e delle lagrime e del pianto266
che fecero e le donne e gli uomini quando, a me restituitola, si partiron da lei. Delle quali cose se io volessi a
pien dire ciò che essi mi dissero, non che il presente
giorno ma la seguente notte non ci basterebbe: tanto solamente averne detto voglio che basti, che, secondo che
le loro parole mostravano e quello ancora che io n’ho
potuto vedere, voi vi potete vantare d’avere la più bella
figliuola e la più onesta e la più valorosa che267 altro signore che oggi corona porti».
Di queste cose fece il soldano maravigliosissima festa268 e più volte pregò Idio che grazia gli concedesse di
potere degni meriti rendere a chiunque avea la figliuola
onorata269, e massimamente al re di Cipri per cui onora-
263
queste mie fortunose vicende: V 1,56.
nella stessa maniera, proprio come.
Cioè Alatiel: soggetto di ‘abbia fatto’.
266 Sempre la solita distinzione, per cui cfr. Intr., 34 n.
267 che abbia.
268 «Nota quanto si crede tosto quel che piace « (M.).
269 «Troppo buon gallo ti converrebbe essere» (M.). E nota il caricaturale insistere su onorata, onoratamente.
264
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tamente gli era stata rimandata: e appresso alquanti dì,
fatti grandissimi doni apparecchiare a Antigono, al tornarsi in Cipri il licenziò270, al re per lettere e per ispeziali ambasciadori grandissime grazie rendendo di ciò che
120 fatto aveva alla figliuola. Appresso questo, volendo che
quello che cominciato era avesse effetto, cioè che ella
moglie fosse del re del Garbo, a lui ogni cosa significò,
scrivendogli oltre a ciò che, se gli piacesse d’averla, per
121 lei sì mandasse. Di ciò fece il re del Garbo gran festa: e,
mandato onorevolmente per lei, lietamente la ricevette.
E essa, che con otto uomini forse diecemilia271 volte giaciuta era, allato a lui si coricò per pulcella e fecegliele
credere che così fosse; e reina con lui lietamente poi più
122 tempo visse. E per ciò si disse: «Bocca basciata non perde ventura, anzi rinnuova come fa la luna272». –
270 gli dié licenza di tornarsene a Cipro: Intr., 93 n.; e per l’uso
dell’articolo di fronte all’infinito cfr. Vita Nuova, XII 16 e l’ampia
nota del Barbi.
271 Per queste forme etimologiche cfr. II 5,83 n.; e per questi numeri approssimativi e quasi fiabeschi III intr., 3. E per le oscillazioni nel numero degli uomini di Alatiel, già notate a 1 e 7 nn., cfr. V.
BRANCA, Beckmesser legge il D. cit.
272 È questa, credo, la prima testimonianza del proverbio popolarissimo: il quale è testimoniato nelle citate Serie alfabetiche proverbiali pubblicate dal Novati, XVIII, pp. 128 sg.; e poi nel Poliziano, Tagebuch, Jena 1929, n. 373. Nota la struttura bimestre,
paragonabile in tutto ai distici delle sentenze, su due endecasillabi
(cfr. F. DI CAPUA, Scritti minori, Roma 1959, I, pp. 69 sgg.). E
per il concetto cfr. II 9,19: per una serie proverbiale simile cfr. anche Giusti, Raccolta di proverbi toscani cit., p. 132. E per il tema,
popolare nella novellistica, della falsa vergine, cfr. Rotunda, K
1912 *.
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NOVELLA OTTAVA
1
Il conte d’Anguersa, falsamente accusato, va in essilio; lascia
due suoi figliuoli in diversi luoghi in Inghilterra; e egli, sconosciuto tornandodi Scozia, lor truova in buono stato; va come
ragazzo1 nello essercito del re di Francia, e riconosciuto innocente è nel primo stato ritornato2.
2
Sospirato fu molto dalle donne per li varii casi della
1 garzone di stalla: Inf., XXIX 77. Scozia vale qui, secondo l’uso
latino e del tempo, Irlanda (cfr. 36 e 74).
2 Il motivo iniziale della novella - la calunnia della donna respinta - ha antecedenti così illustri che è quasi superfluo ricordarli: dalla storia della moglie di Putifarre nella Bibbia (Gen., XXXIX), di
Bellerofonte nell’Iliade (VI 155 sgg.), di Fedra (ricordata ampiamente nell’Amorosa Visione, XXII e nella Genealogia X 50, XI 30,
oltre che nel Filocolo e nella Fiammetta), alle narrazioni orientali
del romanzo egiziano di Anapú e Satú e del Sindibad (W. A.
CLOUSTON, Popular tales, London 1887, II, pp. 500 sgg.), del
Kathâsaritsâgara di Somadeva, dei Sette Vizir poi incorporata nelle
Mille e una notte ecc. Anche nella letteratura dei secoli XIII-XIV
non mancano esempi simili: per es. nella Legenda aurea (136),
nell’Ugone d’Alvernia (Bologna 1882), nel Libro dei sette savi, e soprattutto nel romanzo provenzale Guillaume de la Barre composto
nel 1318 da Arnaut Vidal (ed. Meyer, Paris 1895), affine alla novella boccacciana (e cfr. Thompson e Rotunda, K 2 111, L 111.1) Ma
forse, antecedente più interessante per l’ambiente storico e culturale assai familiare al B., è quello già indicato dai Deputati e poi dal
Manni: cioè l’episodio di Pietro de la Brosse (cortigiano di Filippo
III di Francia, accusato dalla moglie del Re e fatto uccidere nel
1278) cui allude Dante nel Purgatorio (VI 22 sgg.) e che è narrato
largamente dai commentatori. L’ambientazione storica della novella, pur colle libertà e le immaginose fantasie proprie a queste costruzioni del B., ha una singolare rispondenza con quell’episodio
che dovette godere di larga popolarità: Pietro aveva dimorato probabilmente a Napoli e Firenze (N. ZINGARELLI, Dante, Milano
1947, p. 525). Anche la gentile storia d’amore della Giannetta e la
scoperta della passione di Giachetto da parte del medico mentre
gli tasta il polso, ha singolare rispondenza con la storia di Antioco
(Plutarco, Vita di Demetrio, XXXVIII; Valerio Massimo, V 7), con
Letteratura italiana Einaudi 303
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3
4
bella donna: ma chi sa che cagione moveva que’ sospiri?
Forse v’eran di quelle che non meno per vaghezza 3 di
così spesse nozze che per pietà di colei sospiravano. Ma
lasciando questo stare al presente, essendosi da loro riso
per l’ultime parole da Panfilo dette e veggendo la reina
in quelle4 la novella di lui esser finita, a Elissa rivolta impose che con una delle sue l’ordine seguitasse. La quale,
lietamente faccendolo, incominciò:
– Ampissimo campo è quello per lo quale noi oggi
spaziando andiamo, né ce n’è alcuno che, non che uno
aringo5 ma diece non ci potesse assai leggiermente correre, sì copioso l’ha fatto la fortuna delle sue nuove6 e
gravi cose; e per ciò, venendo di quelle, che infinite sono, a raccontare alcuna, dico
Che essendo lo ‘mperio di Roma da’ franceschi ne’
tedeschi transportato7, nacque tra l’una nazione e l’altra
grandissima nimistà e acerba e continua guerra, per la
quale, sì per la difesa del suo paese e sì per l’offesa
dell’altrui, il re di Francia e un suo figliuolo, con ogni
sforzo8 del lor regno e appresso d’amici e di parenti che
una delle lettere amorose di Aristeneto (I 13), col XL racconto delle Gesta Romanorum, con la novella di Lionardo d’Arezzo aggiunta al Novellino (ed. Manni, Firenze 1782, II, p. 2 80): si degrada
poi nelle Sei giornate dell’Aretino (Bari 1969, p. 55). E per la popolarità del particolare: Thompson e Rotunda, J 1142.2; N 251, 730.
3 desiderio. «E forse!» (M.).
4 con quelle parole.
5 una giostra: cioè figuratamente ‘correre uno aringo’ è trattare
un argomento. Qui vuol dire che ogni caso di fortuna potrebbe offrire materia a dieci novelle: cfr. IX 1,2.
6 strane, insolite.
7 L’impero romano rinnovato nel 799 da Carlo Magno e passato
nei suoi discendenti, nel 962 si trasferì in Germania a Ottone I di
Sassonia: la frase è ricalcata sull’espressione tecnica «translatio imperii» usata dagli storici e giuristi medievali. Per la forma ‘franceschi’ cfr. II 6,76 n.
8 apparecchiamento militare: II 7,63 n.; V 2,28: «il re di Tunisi faceva grandissimo sforzo a sua difesa» (e anche G. Villani, II 5: «gli
si fece allo ’ncontro in Aquileia con tutto lo sforzo d’Italia»).
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5
6
7
far poterono, ordinarono9 un grandissimo essercito per
andare sopra i nemici10. E avanti che a ciò procedessero, per non lasciare il regno senza governo, sentendo11
Gualtieri conte d’Anguersa12 gentile e savio uomo e
molto loro fedele amico e servidore, e ancora che assai
ammaestrato fosse nell’arte della guerra, per ciò che loro più alle dilicatezze atto che a quelle fatiche parea13,
lui in luogo di loro sopra tutto il governo14 del reame di
Francia general vicario lasciarono, e andarono al lor
cammino15. Cominciò adunque Gualtieri e con senno e
con ordine l’uficio commesso, sempre d’ogni cosa con
la reina e con la nuora di lei conferendo; e benché sotto
la sua custodia e giurisdizione lasciate fossero, nondimeno come sue donne16 e maggiori l’onorava. Era il
detto Gualtieri del corpo bellissimo e d’età forse di
quaranta anni, e tanto piacevole e costumato quanto alcuno altro gentile uomo il più esser potesse; e, oltre a
tutto questo, era il più leggiadro e il più dilicato cavaliere che a quegli tempi si conoscesse e quegli che più della persona andava ornato17.
Ora avvenne che, essendo il re di Francia e il figliuolo
9
prepararono, organizzarono: cfr. VIII 9, 19.
contro i nemici: II 7,78: «sopra Osbech ... discendesse».
conoscendo (I 1,7 n.).
12 Anversa (il w tedesco passa in gu). I conti d’Anversa erano imparentati col re di Francia. Ad Anversa commerciavano molti fiorentini e particolarmente i Bardi: nel 1315 v’era come loro fattore
Francesco Pegolotti, autore della famosa Pratica della Mercatura
(R. DAVIDSOHN, Storia di Firenze, VI, pp. 665 sgg.; e cfr. VII
1,6 nn.).
13 Uno dei soliti anacoluti. Dilicatezze vale raffinatezze del vivere
in corte (cfr. più sotto, 6, dilicato cavaliere).
14 amministrazione.
15 viaggio, francesismo: cfr. Tesoretto, II 188.
16 signore (lat. dominae): cfr. V 7,10 n.
17 «Io per me non so chi non ci cascasse» (M., che segna a margine il paragrafo).
10
11
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nella guerra già detta, essendosi morta la donna di Gualtieri e a lui un figliuol maschio e una femina piccoli fanciulli rimasi di lei senza più18 , che19, costumando egli alla corte20 delle donne predette e con loro spesso
parlando delle bisogne21 del regno, che la donna del figliuolo del re gli pose gli occhi addosso e, con grandissima affezione22 la persona di lui e’ suoi costumi conside8
rando, d’occulto amore ferventemente di lui s’accese. E
sé giovane e fresca sentendo e lui senza alcuna donna, si
pensò leggiermente23 doverle il suo disidero venir fatto,
e pensando niuna cosa a ciò contrastare, se non vergogna, di manifestargliele24 dispose del tutto e quella cac9
ciar via. E essendo un giorno sola e parendole tempo25,
quasi d’altre cose con lui ragionar volesse, per lui
mandò.
10
Il conte, il cui pensiero era molto lontano da quel della donna, senza alcuno indugio a lei andò; e postosi, come ella volle, con lei sopra un letto26 in una camera tutti
soli27 a sedere, avendola il conte già due volte domandata della cagione per che fatto l’avesse venire e ella taciu18 solamente, senz’altri: III 9,4: «Aveva il detto conte un suo flgliuol piccolo senza più «, e anche II 3,37 n.; VII 7,4.
19 Uno dei soliti ‘che’ ripetuto dopo gerundi narrativi parentetici: ripetuto poi nuovamente, due righe piú sotto, dopo due altri gerundi. «L’oscurità del periodo nasce dall’aver usato di seguito tre
proposizioni gerundiali, mentre la seconda sarebbe stata bene in
indicativo morì la donna ... e a lui ... rimase … e l’ultima parte
avrebbe formato un nuovo periodo» (Fornaciari); cfr. Mussafia, p.
461.
20 frequentando egli la corte: IV 3,7 n.
21 faccende: I 1,27 n.
22 «Nel senso passivo di commozione d’animo, passione» (Fornaciari).
23 facilmente.
24 manifestarglielo: I 1,55 n.
25 momento opportuno: II 3,28 n,
26 divano, sofà: VI concl., 38 n.: «portatovi alcun letto se alcun
volesse o dormire o giacersi di meriggiana «; VII intr., 9.
27 Inf., V 129: «Soli eravamo e sanza alcun sospetto». È il topos
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to, ultimamente da amor sospinta, tutta di vergogna divenuta vermiglia, quasi piangendo e tutta tremante28
11 con parole rotte così cominciò a dire: «Carissimo e dolce amico e signor mio, voi potete, come savio uomo,
agevolmente conoscere quanta sia la fragilità e degli uomini e delle donne, e per diverse cagioni più in una che
in altra; per che debitamente dinanzi a giusto giudice un
medesimo peccato in diverse qualità di persone non dee
12 una medesima pena ricevere29. E chi sarebbe colui che
dicesse che non dovesse molto più esser da riprendere
un povero uomo o una povera femina, a’ quali con la loro fatica convenisse30 guadagnare quello che per la vita
loro lor bisognasse, se da amore stimolati fossero e quello seguissero, che una donna la quale, ricca e oziosa e a
cui niuna cosa che a’ suoi disideri piacesse, mancasse31?
13 Certo io non credo niuno32. Per la quale ragione io estimo che grandissima parte di scusa debbian fare le dette
cose in servigio di colei che le possiede, se ella per avventura si lascia trascorrere a amare; e il rimanente debbia fare l’avere eletto savio e valoroso amadore, se quella
della letteratura romanzesca medievale (cfr. A. MARY, La chambre
des Dames, Paris 1922) ricorrente anche altrove nel D. (per es. II 7
e 9 e 10; III 7; VII 6 e 7 ecc.). Nota l’uso del plurale dopo soggetto
singolare cui va unito altro nome preceduto dalla preposizione con:
come in II 7,107 n.; II 9,1 n.; III 8,6 ecc.: e cfr. Rohlfs, 642.
28 Inf., V 136: «tutto tremante»: la situazione esteriormente simile dà naturale via a questi echi del famoso episodio dantesco.
29 È una distinzione di classi e di doveri diffusa nella trattatistica
amorosa da Andrea Cappellano in poi e che si riflette nel B. anche
altrove, seppure attenuata e in generale riferita come opinione altrui (cfr. per es. Fiammetta, I 15; e qui III 10, IV 7; Consolatoria,
passim).
30 fosse necessario: cfr. III 8,55 n.
31 Questa giustificazione delle donne dei ceti sociali più elevati e
questa opposizione fra popolani e nobili nell’amore era già affiorata nella Fiammetta (I 15,3 sgg.); sarà poi sviluppata specie nella IV
7 e accennata anche nella Consolatoria (47 sgg.).
32 «Denegazione reduplicata e assoluta, usata altre volte dal B.»
(Rua).
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14
l’ha fatto33 che ama. Le quali cose con ciò sia cosa che
amendune34, secondo il mio parere, sieno in me, e oltre
a queste più altre le quali a amare mi debbono inducere,
sì come è la mia giovanezza e la lontananza del mio marito, ora convien che surgano in servigio di me alla difesa del mio focoso amore35 del vostro conspetto: le quali,
se quello vi potranno che nella presenza de’ savi debbono potere36, io vi priego che consiglio e aiuto in quello
15 che io vi dimanderò mi porgiate. Egli è il vero che, per la
lontananza di mio marito non potendo io agli stimoli
della carne né alla forza d’amor contrastare, le quali sono di tanta potenza, che i fortissimi uomini non che le
tenere37 donne hanno già molte volte vinti e vincono tutto il giorno38, essendo io negli agi e negli ozii ne’ quali
voi mi vedete, a secondare li piaceri d’amore e a divenire
16 innamorata mi sono lasciata trascorrere. E come che tal
cosa, se saputa fosse, io conosca non essere onesta39,
nondimeno essendo e stando nascosa quasi di niuna cosa essere disonesta la giudichi, pur m’è di tanto Amore
stato grazioso40, che egli non solamente non m’ha il debito conoscimento tolto nello elegger l’amante ma me
n’ha molto in ciò prestato, voi degno mostrandomi da
33 Il solito ‘fare’ che, come di frequente, sostituisce altro verbo:
cfr. Intr., 14 n.
34 ambedue le cose: per la forma cfr. Intr., 18 n.
35 Accoppiamento frequente nel B.: II 7,51 n.; VII concl., 11; Filostrato, Proemio 4, ecc.: e cfr. qui Proemio, 3 e 11.
36 Cioè: se giungeranno a ottenere quel risultato, che pur dovrebbero, quando si dovesse giudicar saviamente (Marti).
37 Aggettivo usato spesso dal B. per le donne, come «vaghe»,
«dilicate», «addorne» (cfr. per es. Proemio, 9 n., e 10: «dilicati petti»; I 10,10 n., X concl., 2 ecc.).
38 sempre, continuamente: cfr. II 3,20 n.
39 onorevole: cfr. più avanti, 49. ‘Nondimeno’ coordina asindeticamente ‘giudichi’ al precedente ‘conosca’.
40 compiacente, favorevole: Inf., V 88.
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dovere da una donna, fatta come sono io41, essere amato. Il quale, se ‘l mio avviso non m’inganna, io reputo il
più bello, il più piacevole e ‘l più leggiadro e ‘l più savio
cavaliere che nel reame di Francia trovar si possa; e sì
come io senza marito posso dire che io mi veggia, così
18 voi ancora senza mogliere. Per che io vi priego, per cotanto amore quanto è quello che io vi porto42, che voi
non neghiate il vostro verso di me e che della mia giovanezza v’incresca43, la qual veramente, come il ghiaccio al
fuoco44, si consuma per voi45».
A queste parole sopravennero in tanta abbondanza le
19
lagrime, che essa, che ancora più prieghi intendeva di
porgere, più avanti non ebbe poter di parlare, ma bassato46 il viso e quasi vinta47 piagnendo sopra il seno del
20 conte si lasciò con la testa cadere. Il conte, il quale lealissimo cavaliere era, con gravissime riprensioni cominciò
a mordere così folle amore48 e a sospignerla indietro,
17
41
pari mia, nella mia condizione.
Beatrice ad Anichino, VII 7,17: «per quanto ben tu mi vogli».
43 abbiate pietà.
44 Così la Lisa «come la neve al sole si consumava» per l’amore a
Re Piero (X 7,8).
45 Il discorso della regina, lungo e solenne, mira a dare una grandiosa oratoria spiegazione a questa «follia» amorosa che origina
tutte le avventure su cui è intessuta la novella. Con intento e processo analoghi si sviluppano, per esempio, nel D. gli ampi discorsi
di Ghismonda (IV 1) e quelli di Tedaldo (III 7), di Tito (X 8) ecc.;
sempre affidati a costruzioni sentimentali e non più ad enumerazioni gonfie di erudizione, come l’immediato antecedente nella
Fiammetta (I 17), ampliamento retorico di una affermazione già ritornata qui al paragrafo 15 («la forza d’amore ... la quale è di tanta
potenza, che i fortissimi uomini non che le tenere donne ha già
molte volte vinti e vince tutto il giorno»).
46 Forma aferetica frequentissima nel B. (per es. III 3,13; IV intr., 21; IV 1,29; Amorosa Visione, VIII 87 e XIX 36; Comedia, V 12
e VIII 15; Teseida, passim).
47 sopraffatta dalla passione: Inf., III 33; XXIII 60.
48 riprendere acerbamente un amore così fuor di ragione: Par.,
VIII 2; Intr., 50 n.
49 giuramenti: I 1,11 n.
42
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che già al collo gli si voleva gittare, e con saramenti49 a
affermare che egli prima sofferrebbe d’essere squartato50, che tal cosa contro all’ onore del suo signore né in
sé né in altrui consentisse51.
21
Il che la donna udendo, subitamente dimenticato
l’amore e in fiero furore accesa, disse: «Dunque sarò io,
villan cavaliere52, in questa guisa da voi del mio disidero
schernita? Unque a Dio non piaccia53, poi che voi volete
me far morire, che io voi o morire o cacciar del mondo54
22 non faccia». E così detto, a una ora55 messesi le mani ne’
capelli e rabuffatigli56 e stracciatigli tutti e appresso nel
50 Supplizio riservato ai traditori, come Gano di Maganza: cfr.
Compagni, III 29 e anche Filocolo, III 35,8; e VII 9,72 n.
51 «Conte bestia se’ una pecora» (M.).
52 Ingiuria feroce, che anche Marte usa per eccitare Arcita (Teseida, VIII 113).
53
Mai non piaccia a Dio: deprecazione assai usata (per es. IV
9,22; X 5,24).
54 Espressione intesa in vari modi: vi faccia ad altri uccidere o a
morte dannare (Fanfani); imprigionare (a vita) (Fornaciari, Scherillo). Meglio degli altri, il Rua che alle parole dà un valore di minaccia più vaga e quindi più paurosa: «frase anche più paurosamente
minacciosa di altre consimili allora in uso: dileguare, sperdere, disfare del mondo: con prigionia o bando perpetuo o comechessia».
55 nel medesimo tempo, tutto a un tratto: II 6,48 n.
56 scompigliatili: IV 5,12; Amorosa Visione, XVIII 81. Tutta la
scena, come tutto l’episodio, ricorda la raffigurazione di Fedra in
Ovidio (Heroides, IV) e soprattutto in Seneca, che il B. predilesse e
imitò (cfr. Crescini, Contributo cit., pp. 160 sgg. e in «Atti R. Ist.
Veneto», LXXX, 1920-21, pp. 455 sgg.; A. RONCAGLIA e M.
SERAFINI, in «Giorn. Stor. Lett. It.», CXXV e CXXVI, 1948-49).
Ma più ancora che nella Fiammetta (citata dai critici or ora ricordati), vi sono anticipazioni quasi verbali di questa pagina nel Filocolo (III 35,8): «E qual diabolico spirito avrebbe potuto pensare
quello che fece Fedra, la quale non potendo avere recato Ipolito
suo figliastro a giacere con lei, con altissima voce gridando e stracciandosi i vestimenti e’ capelli e ’1 viso, disse sé essere voluta isforzare da lui, e, lui preso, consentì che dal propio padre fosse fatto
squartare?»
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petto squarciandosi i vestimenti, cominciò a gridar forte: «Aiuto, aiuto! ché ‘l conte d’Anguersa mi vuol far
forza57».
Il conte, veggendo questo e dubitando forte più della
invidia cortigiana che della sua conscienza58, e temendo
per quella non fosse più fede data alla malvagità della
donna che alla sua innocenzia, levatosi come più tosto
poté della camera e del palagio s’uscì e fuggissi a casa
sua; dove, senza altro consiglio prendere59, pose i suoi
figliuoli a cavallo, e egli montatovi altressì quanto più
poté, n’andò verso Calese60.
Al romor della donna corsero molti, li quali, vedutala
e udita la cagione del suo gridare, non solamente per
quello dieder fede alle sue parole, ma aggiunsero la leggiadria e la ornata maniera del conte, per potere a quel
venire61, essere stata da lui lungamente usata. Corsesi
adunque a furore alle case del conte per arestarlo; ma
non trovando lui, prima le rubar tutte e appresso infino
a’ fondamenti le mandar giuso62. La novella, secondo
che sconcia si diceva63, pervenne nell’oste al re e al figliuolo; li quali turbati molto a perpetuo essilio lui e i
suoi discendenti dannarono, grandissimi doni promettendo a chi o vivo o morto loro il presentasse.
Il conte, dolente che d’innocente fuggendo s’era fatto
57 Qui particolarmente l’episodio può ricordare anche Legenda
aurea, 136.
58 temendo fortemente dell’invidia dei cortigiani più che non l’assicurasse la sua coscienza. Ellissi. Cfr. Inf., XIII 64 sgg.
59 senza pensarvi più oltre: VI 7,8 n. e anche III 5,18 n.
60 Calais.
61 per giungere a quello scopo: cfr. VIII 10,51 n.
62 Era procedimento solito contro coloro che erano considerati
traditori: Compagni, I 12; G. Villani, VIII 42 e 49, XI 119. ‘Rubar’
saccheggiarono; ‘mandar giuso’ distrussero dalle fondamenta.
63 turpe come si narrava: Inf., XVIII 57: «Come che suoni la
sconcia novella «.
64 colpevole: II 6,39 n.; Inf., XIII 71 sgg. «Credendo col morir
fuggir disdegno, | Ingiusto fece me contra me giusto».
Letteratura italiana Einaudi 311
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
nocente64, pervenuto senza farsi conoscere o essere conosciuto co’ suoi figliuoli a Calese, prestamente trapassò65 in Inghilterra e in povero abito n’andò verso Londra. Nella quale prima che entrasse, con molte parole
ammaestrò i due piccioli figliuoli e massimamente in
due cose: prima, che essi pazientemente comportassero
lo stato povero nel quale senza lor colpa la fortuna con
lui insieme gli aveva recati; e appresso, che con ogni sagacità66 si guardassero di mai non manifestare a alcuno
onde si fossero né di cui figliuoli, se cara avevan la vita.
27 Era il figliuolo, chiamato Luigi, di forse nove anni, e la
figliuola, che nome avea Violante67, n’avea forse sette; li
quali, secondo che comportava la loro tenera età, assai
bene compresero l’ammaestramento del padre loro e
28 per opera68 il mostrarono appresso. Il che, acciò che meglio fare si potesse, gli parve da dover loro i nomi mutare, e così fece; e nominò il maschio Perotto e Giannetta
65
passò: Intr., 3 n.
cautela, accorgimento: VIII concl., 1: «commendato ... la sagacità di Salabaetto» e VII 8,50.
67 Per una figura gentilissima il B. usa un nome a lui caro: quello
della figliuoletta natagli probabilmente verso il 1349 e morta a seisette anni, ricordata con tenero affetto nell’egloga XIV e nelle Epistole XV e XXIII (V. BRANCA, Profilo cit., pp. 78 sgg., 142, 158).
E cfr. V 7.
68 colle opere, coi fatti: X 3,5 n.
69 Per questi mutamenti di nomi cfr. II 6,30 n. I due nomi sono
francesi e dovevano esser familiari al B. Perotto si chiamavano il
secondo figliuolo di Filippa Catanese - la cui prodigiosa fortuna
nella Corte napoletana e la tragica fine colpirono tanto lo scrittore
(De casibus, IX 26: CAMERA, op. cit., p. 400) - e vari cortigiani
della Regina Giovanna (LÉONARD, op. cit., I, pp. 160-61, 238,
239); e Ponzo di Perotto, vescovo d’Orvieto, era vicario di Roma
quando fu ordinato il Giubileo del 1350, cui il B. intervenne. Giannetta (Jeanne o Jeannette) è il nome attribuito dal B. a sua madre
nei racconti romanzeschi della propria nascita (per es. Filocolo, V
8): e Giannetto si firmò egli stesso nella scherzosa lettera in napoletano a Franceschino de’ Bardi.
66
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
la femina69. E pervenuti poveramente vestiti in Londra,
a guisa che far veggiamo a questi paltoni franceschi70, si
diedero a andar la limosina adomandando71.
29
E essendo per ventura in tal servigio72 una mattina a
una chiesa, avvenne che una gran dama, la quale era moglie dell’uno de’ maliscalchi73 del re d’lnghilterra, uscendo della chiesa vide questo conte e i due suoi figlioletti
che limosina adomandavano; il quale ella domandò don30 de fosse e se suoi erano quegli figliuoli. Alla quale egli rispose che era di Piccardia74 e che, per misfatto d’un suo
maggior figliuolo ribaldo75, con quegli due, che suoi era31 no, gli era convenuto partire. La dama, che pietosa era,
pose gli occhi sopra la fanciulla e piacquele molto, per
ciò che bella e gentilesca76 e avvenente era, e disse: «Valente uomo, se tu ti contenti di lasciare appresso di me
questa tua figlioletta, per ciò che buono aspetto ha, io la
prenderò volentieri; e se valente77 femina sarà, io la ma-
70 pitocchi, mendicanti francesi (fr. e prov. pautoner). « Il ‘questi’
del B. induce a pensare che giungessero allora sino a Firenze mendicanti francesi» (Rua).
71 «Inanzi vorrei esser subito andato al re nimico che ciò fare»
(M.).
72 tale opera, faccenda: VII 3,32: « altri che la madre del fanciullo
non può essere a così fatto servigio». E per l’atto cfr. Purg,, XIII 61
sgg.
73 Alta carica militare (dapprima: soprintendente alle stalle, marescialli. Nota dell’’uno de’ invece che di uno de’: i numerali richiedono l’articolo - che oggi si omette per lo più - quando sono considerati parte di un altro numero o espresso o ben noto (cfr. I 7,20
n.: «l’uno de’ tre pani»; II 1, 13 n.: «l’uno de’ diti»).
74 Regione del Nord-ovest della Francia.
75 ardito e rio uomo (Da Buti spiegando Inf., XXII 50): oppure
nel senso della I 7, 19 n., mettendo una virgola dopo ‘figliuolo’.
76 di gentile e nobile aspetto: III 10,4 n.: «una figlioletta bella e
gentilesca «; V 7,4: « molti fanciulli ... tra’ quali ... n’era uno il quale gentilesco e di migliore aspetto ... pareva»; Rime, 11 2.
77 virtuosa: come la moglie di Currado Malaspina era stata detta
«donna valorosa « (II 6,18).
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riterò a quel tempo che convenevole sarà in maniera che
starà bene».
Al conte piacque molto questa domanda e prestamente rispose di sì , e con lagrime gliele diede e raccomandò molto. E così avendo la figliuola allogata e sappiendo bene a cui, diliberò di più non dimorar quivi; e
limosinando traversò l’isola e con Perotto pervenne in
Gales78 non senza gran fatica, sì come colui che d’andare a piè non era uso. Quivi era un altro de’ maliscalchi
del re, il quale grande stato79 e molta famiglia tenea, nella corte80 del quale il conte alcuna volta, e egli e ‘l figliuolo, per aver da mangiare molto si riparavano81. E
essendo in essa alcun figliuolo del detto maliscalco e altri fanciulli di gentili uomini e faccendo cotali pruove82
fanciullesche, sì come di correre e di saltare, Perotto
s’incominciò con loro a mescolare e a fare così destramente, o più , come alcuno degli altri facesse, ciascuna
pruova che tra lor si faceva83. Il che il maliscalco alcuna
volta veggendo, e piacendogli molto la maniera e’ modi
del fanciullo, domandò chi egli fosse. Fugli detto che
egli era figliuolo d’un povero uomo il quale alcuna volta
per limosina là entro veniva: a cui il maliscalco il fece
adomandare, e il conte, sì come colui che d’altro Idio
non pregava, liberamente84 gliel concedette, quantunque noioso gli fosse il da lui dipartirsi85. Avendo adun78
Wales o Galles, la regione occidentale della Gran Bretagna.
Cfr. II 1,30 n.
80 nel cortile: che nei palazzi medievali era grande e riservato
spesso a esercizi militari o ginnastici (III intr., 4).
81 si ricoveravano e quindi frequentavano: I 1,9 n.
82 giuochi, esercizi.
83 Simile racconto nell’Avventuroso Ciciliano (proemio, oss. 5)
84 senza obiezioni, senza incertezze, più che volentieri.
85 gli fosse doloroso allontanarsi da lui. Costruzione non insolita
nel B.: l’articolo è separato dal suo termine da una parola o espressione dipendente dal termine stesso e anteposta per inversione
(cfr. per es. Amorosa Visione, I 31 e XXXIX 84: e qui II 7,92 n.).
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que il conte il figliuolo e la figliuola acconci, pensò di
più non volere dimorare in Inghilterra, ma come il meglio poté se ne passò in Irlanda; e pervenuto a Stanforda86, con un cavaliere d’un conte87 paesano per fante si
pose, tutte quelle cose faccendo che a fante o a ragazzo88
possono appartenere. E quivi, senza esser mai da alcuno
conosciuto, con assai disagio e fatica dimorò lungo tempo.
37
Violante, chiamata Giannetta, con la gentil donna in
Londra venne crescendo e in anni e in persona e in bellezza e in tanta grazia89 e della donna e del marito di lei e
di ciascuno altro della casa e di chiunque la conoscea,
che era a vedere maravigliosa cosa90; né alcuno era che
a’ suoi costumi e alle sue maniere riguardasse, che lei
non dicesse dovere esser degna d’ogni grandissimo bene
38 e onore. Per la qual cosa la gentil donna che lei dal padre ricevuta avea, senza aver mai potuto sapere chi egli
si fosse altramenti91 che da lui udito avesse, s’era proposta di doverla onorevolmente, secondo la condizione
39 della quale stimava che fosse, maritare. Ma Idio, giusto
riguardatore degli altrui meriti, lei nobile femina92 conoscendo e senza colpa penitenzia portar dell’altrui pecca86
Strangford nell’Irlanda del Nord.
Cioè con un vassallo d’un conte.
a servo o a garzone di stalla.
89 Come Beatrice: Vita Nuova, XXVI 1: «Questa gentilissima
donna ... venne in tanta grazia de le genti»; e cfr. anche Luca 2.52 e
le espressioni simili nell’agiografia più diffusa (V. BRANCA, Poetica del rinnovamento e tradizione agiografica ecc., in Studi in onore
di Italo Siciliano, Firenze 1966): e qui 69 e V 2,26. E nota come un
solo verbo ‘crescendo’ regga efficacemente tanti complementi diversi.
90 Ancora Vita Nuova, XXVI 2: «Diceano molti ... : ’Questa è
una maraviglia’».
91 in modo diverso e quindi più completo.
92 « L’origine era nobile, ma la sua presente condizione era di femina: nel Corbaccio il B. deride quelle femine che si fanno chiamar
donne» (Rua): e cfr. II 7,15; V 7,10 n.
87
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to, altramente dispose: e acciò che a mano di vile uomo93 la gentil giovane non venisse, si dee credere che
quello che avvenne Egli per sua benignità permettesse.
40
Aveva la gentil donna, con la quale la Giannetta dimorava, un solo figliuolo del94 suo marito, il quale e essa
e ‘l padre sommamente amavano, sì perché figliuolo era
e sì ancora perché per vertù e per meriti il valeva95, come colui che più che altro e costumato e valoroso e pro’
41 e bello della persona96 era. Il quale, avendo forse sei anni più che la Giannetta e lei veggendo bellissima e graziosa, sì forte di lei s’innamorò, che più avanti di lei non
vedea97. E per ciò che egli imaginava lei di bassa condizion dovere essere, non solamente non ardiva addomandarla al padre e alla madre per moglie, ma, temendo non
fosse ripreso che bassamente si fosse a amar messo98,
quanto poteva il suo amore teneva nascoso; per la qual
cosa troppo più che se palesato l’avesse lo stimolava99.
42 Laonde avvenne che per soverchio di noia100 egli infermò, e gravemente; alla cura del quale essendo più
93
in potere (Inf., XXII 45) di uomo di bassa condizione.
dal: cfr. I 6,2 n.
95 lo meritava, ne era degno: I 10, 15: «per ciò che voi il valete».
96 Quasi una formula per i giovani e gli innamorati: per es. II
7,48; II 8,69; VIII 1,5.
97 l’amava tanto che nel mondo non vedeva altra cosa che lei, non
gli pareva esserci altra cosa che lei (Fanfani). Vedi VIII 4,6: «di lei
s’innamorò si forte ... che più qua né più là non vedea «; Filocolo,
IV 31,3: «di tanto amore l’amava, che oltre a lei non vedeva, né
niuna cosa più disiava «; e anche Petrarca, CXVI: « Ch’altro non
vede, e ciò che non è lei | Già per antica usanza odia e disprezza».
98 La situazione è simile a quella di Florio (Filocolo, specie II 7
sgg.): e per l’affermazione generale cfr. I 5,4 n.
99 lo accendeva, lo tormentava: Petrarca, CCVII 66: «Chiusa
fiamma è più ardente»; e cfr. III 3,23 n.; IX 1,6 n.
100 per troppo dolore. Popolare e diffuso nella novellistica il motivo della malattia per amore: cfr. Thompson e Rotunda, T 24.1; e in
generale X 7 e nn.
101 sintomo: o forse specificatamente l’orina, il cui esame costituiva uno dei mezzi diagnostici più usati (per es. IX 3,15 sgg.): ma cfr.
47.
94
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medici richesti e avendo un segno101 e altro guardato di
lui e non potendo la sua infermità tanto 102 conoscere,
43 tutti comunemente si disperavano della sua salute103. Di
che il padre e la madre del giovane portavano sì gran dolore e malinconia, che maggiore non si saria potuta portare: e più volte con pietosi prieghi il domandavano della cagione del suo male, a’ quali o sospiri per risposta
dava o che tutto si sentia consumare.
44
Avvenne un giorno che, sedendosi appresso di lui un
medico assai giovane ma in iscienza profondo molto e
lui per lo braccio tenendo in quella parte dove essi cercano104 il polso, la Giannetta, la quale, per rispetto della
madre di lui, lui105 sollecitamente serviva, per alcuna cagione entrò nella camera nella quale il giovane giacea.
45 La quale come il giovane vide, senza alcuna parola o atto fare, sentì con più forza nel cuore l’amoroso ardore,
per che il polso più forte cominciò a battergli che l’usato: il che il medico sentì incontanente e maravigliossi, e
stette cheto per vedere quanto questo battimento doves-
102 per nulla, punto (Fornaciari) oppure nondimeno (Fanfani).
Per il primo significato si tenga presente Petrarca, Tr. Cupidinis, II
128: «Costei non è chi tanto o quanto stringa» e l’uso assoluto di
tanto per indicare una quantità qualsiasi; per il secondo l’uso familiare - ma non documentato negli scrittori - di tanto con valore avversativo. Il Fanfani portando l’esempio: «Ho messo tutto il mio
ingegno a far questo lavoro, e tanto mi è riuscito un imparaticcio»
aggiunge «Quel che dà noia nel luogo presente è l’esser la voce
‘tanto’ in luogo diverso da quel che si porrebbe parlando familiarmente».
103 tutti insieme, d’accordo, non avevano speranza alcuna di salvarlo: I 9,6 n.
104 tastano, toccano e quasi interrogano: X 4,11-12: «gli parve sentire ... battere il cuore a costei. Il quale ... con più sentimento cercando ... «
105 Di questa efficace ripresa di ‘lui’ e dell’uso generale nel B.
scrivono elegantemente i Deputati (Annotazioni, pp. 114 sgg.).
106 La congiunzione, in ripresa dopo proposizione temporale, indica spesso l’istantaneità dell’azione: Intr., 78 n.
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se durare. Come la Giannetta uscì dalla camera, e106 il
battimento ristette: per che parte parve al medico avere
della cagione107 della infermità del giovane; e stato alquanto, quasi d’alcuna cosa volesse la Giannetta adomandare, sempre tenendo per lo braccio lo ’nfermo, la
si fè chiamare, al quale ella venne incontanente: né prima nella camera entrò che ‘l battimento del polso ritornò al giovane e, lei partita, cessò.
47
Laonde, parendo al medico avere assai piena certezza, levatosi e tratti da parte il padre e la madre del giovane, disse loro: «La sanità del vostro figliuolo non è nell’
aiuto108 de’ medici, ma nelle mani della Giannetta dimora, la quale, sì come io ho manifestamente per certi segni
conosciuto, il giovane focosamente ama, come che109 ella non se ne accorge, per quello che io vegga. Sapete
omai che a fare v’avete, se la sua vita v’è cara».
48
Il gentile uomo e la sua donna questo udendo furon
contenti, in quanto pure alcun modo si trovava al suo
scampo, quantunque loro molto gravasse che quello, di
che dubitavano, fosse desso110, cioè di dover dare la
Giannetta al loro figliuolo per isposa.
49
Essi adunque, partito il medico, se n’andarono allo
’nfermo: e dissegli la donna così : «Figliuol mio, io non
avrei mai creduto che da me d’alcun tuo disidero ti fossi
guardato111, e spezialmente veggendoti tu, per non aver
quello112, venir meno: per ciò che tu dovevi esser certo e
dèi che niuna cosa è che per contentamento di te far po46
107
parve al medico possedere, aver compreso parte della causa.
rimedio, come «auxilium» usato da Celso proprio in questo
senso: I,21 n.
109 sebbene, anche se.
110 fosse proprio quello, fosse vero: II 5,10 n.
111 mi avessi nascosto alcun tuo desiderio.
112 per non potere appagare quel desiderio.
113 benché fosse non del tutto onorevole. ‘Meno’ e ‘meno che’ sono negative meno assolute di non: per es. IX 1,6: «avendo ella ...
men saviamente ... gli orecchi porti».
108
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tessi, quantunque meno che onesta fosse113, che io come
per me medesima non la facessi. Ma poi che pur fatta
l’hai114, è avvenuto che Domenedio è stato misericordioso di te più che tu medesimo, e a ciò che tu di questa infermità non muoi m’ha dimostrata la cagione del tuo
male, la quale niuna altra cosa è che soperchio amore il
quale tu porti a alcuna giovane, qual che ella si sia. E nel
vero di manifestar questo non ti dovevi tu vergognare,
per ciò che la tua età il richiede: e se tu innamorato non
fossi, io ti riputerei da assai poco115. Adunque, figliuol
mio, non ti guardare da me116, ma sicuramente ogni tuo
desidero mi scuopri; e la malinconia e il pensiero, il quale hai e dal quale questa infermità procede, gitta via e
confortati e renditi certo che niuna cosa sarà per sodisfacimento di te che tu m’imponghi, che io a mio poter117 non faccia, sì come colei che te più amo che la mia
vita118. Caccia via la vergogna e la paura, e dimmi se io
posso intorno al tuo amore adoperare alcuna cosa119. E
se tu non truovi che io a ciò sia sollecita e a effetto tel rechi, abbimi per la più crudel madre che mai partorisse
figliuolo».
Il giovane, udendo le parole della madre, prima si
vergognò; poi, seco pensando che niuna persona meglio
di lei potrebbe al suo piacer sodisfare, cacciata via la
vergogna così le disse: «Madonna, niuna altra cosa mi
v’ha fatto tenere il mio amor nascoso quanto l’essermi
114
che hai pur commessa questa colpa.
assai dappoco, molto poco valente: Proemio, 3 n.
non diffidare di me.
117 Per quanto io possa.
118 Un’affermazione quasi stereotipata in situazioni simili: cfr.
per es. II 10,36; V 6,4 e 34; VIII 10,12 e 49; X 8,65. E cfr. anche III
9,26 n.
119 fare qualcosa. Periodo concluso nel giro suadente di tre endecasillabi.
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nelle più delle persone avveduto che, poi che attempati
sono, d’essere stati giovani ricordar non si vogliono120.
Ma poi che in ciò discreta vi veggio, non solamente
quello, di che dite vi siete accorta, non negherò esser vero, ma ancora di cui121 vi farò manifesto: con cotal patto,
che effetto seguirà alla vostra promessa a vostro potere122, e così mi potrete aver sano».
Al quale la donna, troppo fidandosi di ciò che non le
doveva venir fatto nella forma nella quale già seco pensava, liberamente rispose che sicuramente ogni suo disidero l’aprisse, ché ella senza alcuno indugio darebbe
opera a fare che egli il suo piacere avrebbe.
«Madama123,» disse allora il giovane «l’alta bellezza e
le laudevoli maniere della nostra Giannetta e il non poterla fare accorgere, non che pietosa124, del mio amore e
il non avere ardito mai di manifestarlo a alcuno m’hanno
condotto dove voi mi vedete; e se quello che promesso
m’avete o in un modo o in un altro non segue, state sicura che la mia vita fia brieve».
La donna, a cui più tempo da conforto che da riprensioni parea, sorridendo disse: «Ahi! figliuol mio, dunque per questo t’hai tu lasciato aver male? Confortati e
lascia fare a me, poi che guarito sarai».
Il giovane, pieno di buona speranza, in brevissimo
tempo di grandissimo miglioramento mostrò segni: di
120 «Nota» (M.). È ricordato dai commentatori Terenzio, Heautontimorumenos, II 1: «Come irragionevoli giudici sono i padri
verso tutti i giovani, giudicando che ci convenga nascer vecchi pur
pure in fasce, né punto prendersi di quelle cose che porta la giovinezza! E’ ci governano secondo il loro genio: quello, dico, dell’età
presente, non quello della passata» (trad. Cesari). Ma va tenuto
presente anche quanto dice Giuffredi a Currado nella II 6,54.
121 di chi (io sia innamorato).
122 che la vostra promessa sarà adempiuta per quanto sta in voi.
123 Per l’alternarsi delle forme Madonna e Madama cfr. II 6,10 n.
124 non che farla pietosa.
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che la donna contenta molto si dispose a voler tentare
come quello potesse oservare il che promesso avea125. E
chiamata un dì la Giannetta per via di motti126 assai cortesemente la domandò se ella avesse alcuno amadore.
60
La Giannetta, divenuta tutta rossa, rispose: «Madama, a povera damigella e di casa sua cacciata, come io
sono, e che all’altrui servigio dimori, come io fo, non si
richiede né sta bene l’attendere a amore».
61
A cui la donna disse: «E127 se voi non l’avete, noi ve
ne vogliamo donare uno, di che voi tutta giuliva viverete
e più della vostra biltà128 vi diletterete, per ciò che non è
convenevole che così bella damigella, come voi siete,
senza amante dimori».
62
A cui la Giannetta rispose: «Madama, voi dalla povertà di mio padre togliendomi come figliuola cresciuta
m’avete129, e per questo ogni vostro piacere far dovrei:
ma in questo io non vi piacerò già, credendomi far bene130. Se a voi piacerà di donarmi marito, colui intendo
io d’amare ma altro no; per ciò che della eredità de’ miei
125 come potesse mantenere quello che aveva promesso. ‘Che’, specie se neutro, ha presso i trecentisti, alle volte, l’articolo anche dove oggi non sembra opportuno: per es. VI concl., 3: «io vi farei goder di quello senza il che per certo niuna festa compiutamente è
lieta»; cfr. anche Mussafia, p. 526.
126 scherzando, celiando: II 9,5 «E motteggiando cominciò alcuno
a dire «.
127 «Questo e tien quasi la forza di ebbene» (Fornaciari). Tutta la
frase, nella sua giocondità trionfante, ha il tono di quella dell’abate
intraprendente nella III 8,29: «E noi faremo che egli v’andrà incontanente ... «
128 II concl., 14: «Che di biltà ... « «Qui fra tanti gallicismi (madama, donare, giuliva, damigella, monsignore lo re ecc.) è un altro
vezzo stilistico, e aggiunge ancora una tinta esotica al discorso di
queste donne. Il francese antico diceva biauté e biaulteit, oltre
beauté» (Scherillo) e il provenzale beltat: e Cfr. 72 e 75 nn.
129 Eccezionale è questo valore transitivo di crescere: discende
evidentemente dalla locuzione in cui è rimasto corrente («crescere
i íìgli»). Cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 28.
130 non vi compiacerò, convinta di far bene.
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passati avoli niuna cosa rimasa m’è se non l’onestà, quella intendo io di guardare e di servare quanto la vita mi
durerà131».
Questa parola parve forte contraria alla donna a quello a che di venire intendea132 per dovere al figliuolo la
promessa servare, quantunque, sì come savia donna,
molto seco medesima ne commendasse la damigella; e
disse: «Come, Giannetta? Se monsignore lo re, il quale è
giovane cavaliere, e tu sé bellissima damigella, volesse
del tuo amore alcun piacere, negherestigliele tu133?»
Alla quale essa subitamente rispose: «Forza mi potrebbe fare il re, ma di mio consentimento mai da me, se
non quanto onesto fosse, aver non potrebbe134».
La dama, comprendendo qual fosse l’animo di lei, lasciò star le parole e pensossi di metterla alla pruova; e
così al figliuolo disse di fare, come guarito fosse, di metterla135 con lui in una camera e ch’egli s’ingegnasse
d’avere di lei il suo piacere, dicendo che disonesto le pareva che essa, a guisa d’una ruffiana, predicasse136 per lo
figliuolo e pregasse la sua damigella. Alla qual cosa il
giovane non fu contento in alcuna guisa e di subito fieramente peggiorò. Il che la donna veggendo, aperse137 la
131
132
di custodire e di conservare per tutta la vita.
allo scopo che si proponeva di conseguire. ‘Parola’ frase: I 6,16
n.
133 Prima (61) la gentildonna si rivolge a Giannetta con un insinuante e lusinghiero ‘voi’, ora con un aggressivo ‘tu’: cfr. ZINI, art.
cit.
134 Ricorda la risposta della «buona Gualdrada « riferita dagli
antichi commentatori a Inf,. XVI 36: («... il Conte la motteggiò di
volerla baciare: la fanciulla disse che né elli né altri potrebbe ciò fare, se suo marito non fosse: onde il Conte, considerata la savia risposta ... la sposò» Ottimo; Esposizioni, XVI 16 sgg.; De mulieribus, CV).
135 e disse al figliuolo che questo avrebbe fatto, quando fosse guarito, cioè avrebbe messo Giannetta ...
136 perorasse, scongiurasse: VII 8,16 n.
137 manifestò: Par., XI 91-92 «sua dura intenzione ... aperse».
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sua intenzione alla Giannetta. Ma più constante che mai
trovandola, raccontato ciò che fatto aveva al marito, ancora che grave loro paresse, di pari consentimento diliberarono di dargliele per isposa, amando meglio138 il figliuolo vivo con moglie non convenevole a lui che morto
68 senza alcuna; e così , dopo molte novelle139, fecero. Di
che la Giannetta fu contenta molto e con divoto cuore
ringraziò Idio140 che lei non avea dimenticata: né per
tutto questo mai altro che figliuola d’un piccardo141 si
disse. Il giovane guerì e fece le nozze più lieto che altro
uomo e cominciossi a dar buon tempo con lei.
69
Perotto, il quale in Gales col maliscalco del re d’lnghilterra era rimaso, similmente crescendo venne in grazia142 del signor suo e divenne di persona bellissimo e
pro’ quanto alcuno altro che nell’isola fosse, in tanto che
né in tornei né in giostre143 né in qualunque altro atto144
d’arme niuno v’era nel paese che quello valesse che egli;
per che per tutto, chiamato da loro Perotto il piccardo,
70 era conosciuto e famoso. E come Idio la sua sorella dimenticata non avea, così similmente d’aver lui a mente
dimostrò: per ciò che, venuta in quella contrada una pistilenziosa mortalità, quasi la metà della gente di quella
se ne portò, senza che145 grandissima parte del rimaso146
per paura in altre contrade se ne fuggirono147, di che il
67
138 preferendo. La solita filosofia del B.: per es. V 4,43 n.; VIII 8;
Amorosa Visione, XXI 1 sgg.
139 discorsi vani, discussioni inutili: IV 8,28; X 8,53; Inf., XXV 38.
140 Piú insistenti che mai qui il nome e l’intervento di Dio.
141 Cioè di un abitante della Piccardia, come aveva detto il padre
(30).
142 Cfr. 37 n.
143 I primi sono combattimenti a squadre, le seconde scontri di
cavalieri singoli (cfr. Inf., XXII 6 e i commenti di Benvenuto e del
Buti). E cfr. qui IV 9,5.
144 esercizio, fatto: II 4,5 n.
145 e oltre a ciò.
146 della rimanente: I 1,80 n.
147 Il verbo plurale si riferisce a un soggetto al singolare, ma di
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paese tutto pareva abbandonato. Nella quale mortalità il
maliscalco suo signore e la donna di lui e un suo figliuolo e molti altri e fratelli e nepoti e parenti tutti morirono,
né altro che una damigella già da marito di lui rimase e
con alcuni altri famigliari Perotto. Il quale, cessata alquanto la pestilenza, la damigella, per ciò che prod’uomo e valente era, con piacere e consiglio d’alquanti pochi paesani149 vivi rimasi per marito prese, e di tutto ciò
che a lei per eredità scaduto150 era il fece signore; nè
guari di tempo passò che, udendo il re d’lnghilterra il
maliscalco esser morto e conoscendo il valor di Perotto
il piccardo, in luogo di quello che morto era il substituì
e fecelo suo maliscalco. E così brievemente151 avvenne
de’ due innocenti figliuoli del conte d’Anguersa da lui
per perduti lasciati152.
Era già il diceottesimo anno passato poi che il conte
d’Anguersa fuggito153 di Parigi s’era partito, quando a
lui dimorante in Irlanda, avendo in assai misera vita
molte cose patite, già vecchio veggendosi, venne voglia
di sentire, se egli potesse, quello che de’ figliuoli fosse
adivenuto. Per che, del tutto della forma154 della quale
esser solea veggendosi trasmutato e sentendosi per lo
valore collettivo (‘grandissima parte’): uso corrente, specialmente
nel Trecento, testimoniato anche nel D. (per es. V 3,36; X 9,49).
Cfr. Rohlfs, 642; F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, pp. 174 sgg.
148 Altro gallicismo (prod home) comune nella nostra letteratura
francesizzante (per es. Tristano Riccardiano, p. 36; Tavola rotonda,
p. 341; Fiore, XCVII).
149 Un po’ come Gualtieri nella X 10,5 sgg.
150 pervenuto: ‘scadere’, come ricadere, è termine tecnico per le
eredità (G.Villani, VII 70).
151 per farla breve, per dirla in breve.
152 abbandonati facendo conto di averli perduti, o in condizioni
non liete,
senza speranza e possibilità di avvenire.
153 A margine è la variante alternativa ‘fuggendo’ che il B. si segnò da una redazione precedente per promemoria e per lasciarsi
evidentemente una possibilità di variare (cfr. ed. critica).
154 aspetto.
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lungo essercizio più della persona atante155 che quando
giovane in ozio dimorando non era156, partitosi assai povero e male in arnese da colui col quale lungamente era
stato, se ne venne in Inghilterra e là se ne andò dove Perotto avea lasciato. E trovò lui essere maliscalco e gran
signore, e videlo sano e atante e bello della persona: il
che gli aggradì forte ma farglisi cognoscere non volle infino a tanto che saputo non avesse della Giannetta. Per
che, messosi in cammino, prima non ristette che in Londra pervenne: e quivi, cautamente domandato della
donna alla quale la figliuola lasciata avea e del suo stato,
trovò la Giannetta moglie del figliuolo, il che forte gli
piacque e ogni sua avversità preterita157 reputò piccola,
poi che vivi aveva ritrovati i figliuoli e in buono stato. E
disideroso di poterla vedere, cominciò come povero uomo a ripararsi158 vicino alla casa di lei; dove un giorno
veggendol Giachetto Lamiens, che così era chiamato il
marito della Giannetta, avendo di lui compassione per
ciò che povero e vecchio il vide, comandò a uno de’ suoi
famigliari che nella sua casa il menasse e gli facesse dare
da mangiar per Dio159, il che il famigliare volentier fece.
Aveva la Giannetta avuti di Giachetto già più figliuoli, de’ quali il maggiore non avea oltre a otto anni, e erano i più belli e i più vezzosi fanciulli del mondo; li quali,
come videro il conte mangiare, così tutti quanti gli fur
dintorno e cominciarongli a far festa, quasi da occulta
virtù mossi avesser sentito costui loro avolo essere160. Il
quale, suoi nepoti cognoscendoli, cominciò loro a mo155 aitante, vigoroso: anche questa è voce della lingua cavalleresca
provenzale e francese.
156 che non era, che non fosse quando era giovane dimorante (gerundio participiale) in ozio. Il verbo essere serve qui a due proposizioni, mentre è espresso in una sola: cfr. Mussafia, p. 475.
157 passata: IV 2,9.
158 Cfr. prima 33 n.
159 per amor di Dio: I 1,46 n.
160 Per tutta la frase e l’idea cfr. II 6,67 n.
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strare amore e a far carezze161: per la qual cosa i fanciulli da lui non si volean partire, quantunque colui162 che al
governo di loro attendea gli chiamasse. Per che la Giannetta, ciò sentendo, uscì d’una camera e quivi venne là
dove163 era il conte e minacciogli forte di battergli se
quello che il lor maestro volea non facessero. I fanciulli
cominciarono a piagnere e a dire ch’essi volevano stare
appresso a quel prod’uomo, il quale più che il lor maestro gli amava: di che e la donna e ‘l conte si rise165. Erasi il conte levato, non miga166 a guisa di padre ma di povero uomo, a fare onore alla figliuola sì come a donna167,
e maraviglioso piacere veggendola avea sentito nell’animo; ma ella né allora né poi il conobbe punto, per ciò
che oltre modo era trasformato da quello che esser soleva, sì come colui che vecchio e canuto e barbuto era, e
magro e bruno divenuto168, e più tosto un altro uomo
pareva che il conte. E veggendo la donna che i fanciulli
da lui partir non si voleano, ma volendonegli partir169
piangevano, disse al maestro che alquanto gli lasciasse
stare.
Standosi adunque i fanciulli col prod’uomo, avvenne
che il padre di Giachetto tornò e dal maestro loro sentì
161
atti affettuosi: II 5,16 n.
Cioè il precettore, il maestro, come si dice più sotto.
«O il ‘quivi’ o il ‘là’ o tutti e due non sono necessari. Ma il B.
ama di tener bene distinta la proposizione dimostrativa dalla relativa « (Fornaciari).
164 In senso generico: valent’uomo: cfr. 72 n.
165 Uno degli esempi di più soggetti, o soggetto plurale, con verbo al singolare frequenti anche nel B. (per es. Filocolo, IV 7,3 e
10,1 e 127,8; V 1,1; Ninfale, VIII 6, CCXXV 4, CCCXLVI 8; D., V
6,25). Cfr. Rohlfs, 642.
166 non già: e per la forma cfr. 1. 8,7 n.
167 Cfr. sopra 5 n. e 39 n.
168 Naturalmente di pelle, di carnagione: Corbaccio, 67: «di statura grande, di pelle e di pelo bruno, benché in parte bianco divenuto fosse per gli anni». E per il topos cfr. II 6,20 n.
169 allontanare: reduplicazione nelle forme riflessiva e attiva.
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questo fatto: per che egli, il quale a schifo avea170 la
Giannetta, disse: «Lasciagli star con la mala ventura
cheDio dea loro, ché essi fanno ritratto da171 quello onde nati sono: essi son per madre discesi di paltoniere, e
per ciò non da maravigliarsi se volentier dimoran co’
paltonieri».
Queste parole udì il conte e dolfergli172 forte; ma pure nelle spalle ristretto173, così quella ingiuria sofferse
come molte altre sostenute n’avea. Giachetto, che sentita aveva la festa che i figliuoli al prod’uomo, cioè al conte, facevano, quantunque gli dispiacesse, nondimeno
tanto gli amava, che avanti che piagner gli vedesse comandò che, se ‘l prod’uomo a alcun servigio là entro dimorar volesse, che egli vi fosse ricevuto. Il quale rispose
che vi rimanea volentieri, ma che altra cosa far non sapea che attendere a’ cavalli, di che tutto il tempo della
sua vita era usato. Assegnatogli adunque un cavallo, come174 quello governato avea, al trastullare i fanciulli intendea.
Mentre che la fortuna, in questa guisa che divisata175
è, il conte d’Anguersa e i figliuoli menava, avvenne che il
re di Francia, molte triegue fatte con gli alamanni, morì ,
e in suo luogo fu coronato il figliuolo, del quale colei era
moglie per cui il conte era stato cacciato. Costui, essendo l’ultima triegua finita co’ tedeschi, ricominciò asprissima guerra: in aiuto del quale, sì come nuovo parente176, il re d’lnghilterra mandò molta gente sotto il
170 sdegnava, disprezzava: Filocolo, V 39,2 «avere la loro picciola
condizione a schifo»; Esposizioni, I all. 97 «avendo a schifo questa»; Petrarca, CCXLVII 6.
171 ritraggono da, si mostrano somiglianti a: Corbaccio, 218: «fai
ben ritratto di quel che tu se’».
172 II 7,37 n.
173 «È la sopportazione in immagine» (Rua).
174 quando, dopo che.
175 descritta, spiegata partitamente.
176 parente da poco tempo. Questo indizio e i fatti accennati in
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governo di Perotto suo maliscalco e di Giachetto Lamiens, figliuolo dell’altro maliscalco: col quale il
prod’uomo, cioè il conte, andò, e senza essere da alcuno
riconosciuto dimorò nell’oste per buono spazio a guisa
di ragazzo; e quivi, come valente uomo, e con consigli e
con fatti177, più che a lui non si richiedea, assai di bene
adoperò.
Avvenne durante la guerra che la reina di Francia in88
fermò gravemente; e conoscendo ella se medesima venire alla morte, contrita d’ogni suo peccato divotamente si
confessò dall’ arcivescovo di Ruem178, il quale da tutti
era tenuto un santissimo e buono uomo179, e tra gli altri
peccati gli narrò ciò che per lei a gran torto il conte
89 d’Anguersa ricevuto avea. Nè solamente fu a lui contenta di dirlo, ma davanti a molti altri valenti uomini tutto
come era stato raccontò180, pregandogli che col re operassono181 che ‘l conte, se vivo fosse, e se non, alcun de’
suoi figliuoli nel loro stato restituiti fossero: né guari poi
dimorò che, di questa vita passata, onorevolmente fu sepellita.
90
La quale confessione al re raccontata, dopo alcun doloroso sospiro delle ingiurie fatte al valente uomo a torto, il mosse a fare andare182 per tutto lo essercito, e oltre
a ciò in molte altre parti, una grida183: che chi il conte
d’Anguersa o alcuno de’ figliuoli gli rinsegnasse184, maquesta pagina potrebbero aver l’apparenza di riferimenti storici:
ma non corrispondono a nessuna precisa situazione. Com’è noto,
molti furono i legami famigliari fra le corone di Inghilterra e di
Francia: ma furono motivi di lotta non di alleanza, e gli inglesi se
mai si unirono coi tedeschi contro i francesi.
177 Ricorda Inf., XVI 39: «Fece col senno assai e con la spada».
178 Rouen.
179 Cfr. II 1,3: buono è valente: I 2,4 n.
180 Per tali forme iterative cfr. II 5,24 n.
181 si adoperassero, facessero in modo.
182 a far circolare.
183 bando.
184 indicasse, palesasse (fr. renseigner).
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ravigliosamente da lui per ognuno185 guiderdonato sarebbe186, con ciò fosse cosa che egli lui per innocente di
ciò per che in essilio andato era l’avesse187 per la confessione fatta dalla reina, e nel primo stato e in maggiore
intendeva di ritornarlo. Le quali cose il conte in forma
di ragazzo188 udendo e sentendo189 che così era il vero,
subitamente fu a190 Giachetto e il pregò che con lui insieme fosse con Perotto191, per ciò che egli voleva loro
mostrare ciò che il re andava cercando.
Adunati adunque tutti e tre insieme, disse il conte a
Perotto, che già era in pensiero di palesarsi: «Perotto,
Giachetto, che è qui, ha tua sorella per mogliere192 né
mai n’ebbe alcuna dota; e per ciò, acciò che tua sorella
senza dote non sia, io intendo che egli e non altri abbia
questo beneficio che il re promette così grande per te, e
ti rinsegni sì come figliuolo del conte d’Anguersa, e per
la Violante tua sorella e sua mogliere, e per me che il
conte d’Anguersa e vostro padre sono».
Perotto, udendo questo e fiso guardandolo, tantosto193 il riconobbe: e piagnendo gli si gittò a’ piedi e abbracciollo194 dicendo: «Padre mio, voi siate il molto ben
venuto!»
Giachetto, prima udendo ciò che il conte detto avea e
poi veggendo quello che Perotto faceva, fu a un’ora da
185
per ciascuno di loro che fosse trovato.
sarebbe ricompensato: Filocolo, II 36,8; III 60,2; Amorosa Visione, XXIII 70; e qui 96.
187 lo ritenesse.
188 nella sua qualità, mentre aveva l’ufficio di garzone di stalla: II
6,70 n.
189 avendo coscienza, ben sapendo.
190 andò subito da, si presentò subito a: II 7,102 n.
191 Cioè: che andasse insieme a lui da Perotto.
192 Lat. mulierem, Dota e dote si alternano qui come nel D.
193 subito: II 3,32 n. e qui 98.
194 Purg., XXI 130: «s’inchinava ad abbracciar li piedi».
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tanta maraviglia e da tanta allegrezza soprapreso195, che
appena sapeva che far si dovesse196. Ma pur, dando alle
parole fede e vergognandosi forte di parole ingiuriose
già da lui verso il conte ragazzo197 usate, piagnendo gli si
lasciò cadere a’ piedi e umilmente d’ogni oltraggio passato domandò perdonanza198: la quale il conte assai be95 nignamente, in piè rilevatolo, gli diede. E poi che i varii
casi di ciascuno tutti e tre ragionati199 ebbero, e molto
piantosi e molto rallegratosi200 insieme, volendo Perotto
e Giachetto rivestire il conte, per niuna maniera il sofferse ma volle che, avendo prima Giachetto certezza
d’avere il guiderdon promesso, così fatto e in quello abito di ragazzo, per farlo201 più vergognare, gliele presentasse.
96
Giachetto adunque col conte e con Perotto appresso
venne davanti al re e offerse di presentargli il conte e i figliuoli, dove202, secondo la grida fatta, guiderdonare il
dovesse. Il re prestamente per tutti fece il guiderdon venire maraviglioso agli occhi203 di Giachetto, e comandò
che via il portasse dove con verità il conte e’ figliuoli di97 mostrasse come promettea. Giachetto allora, voltatosi
195
Cfr. II 2,16 n.
Per il riflessivo invece del semplice attivo (IV 1,44) cfr. F.
BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 151: e cfr. II 7,15 e 75 nn.
197 verso il conte mentre era garzone di stalla.
198 Cfr. II 9,71: «a’ piedi di lei si gittò piagnendo e domandò perdonanza « (altra forma gallicizzante).
199 Il solito uso transitivo, per cui Intr., 52 n.
200 È sottinteso ‘fu’ con i participi usati impersonalmente: o
idealmente è contenuto nel precedente ‘ebbero’, secondo lo scambio corrente in questi casi fra i due ausiliari (cfr. Mussafia, p. 470):
come in caso analogo nella IX 5,29: «costoro avendo lasciata opera
e giú nella corte discesi ... «
201 Il re.
202 a condizione che, come tre righe più innanzi.
203 Inf., XVI 132: « Maravigliosa ad ogne cor sicuro «.
196
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indietro e davanti messisi il conte suo ragazzo e Perotto,
disse: «Monsignore, ecco qui il padre e ‘l figliuolo; la figliuola, ch’è mia mogliere e non è qui, con l’aiuto di Dio
tosto vedrete».
98
Il re, udendo questo, guardò il conte204: e quantunque molto da quello che esser solea transmutato fosse,
pur dopo l’averlo alquanto guardato il riconobbe, e quasi con le lagrime in su gli occhi lui che ginocchione stava
levò in piede e il basciò e abbracciò; e amichevolmente
ricevette Perotto, e comandò che incontanente il conte
di vestimenti, di famiglia e di cavalli e d’arnesi205 rimesso fosse in assetto, secondo che alla sua nobilità si richie99 dea; la qual cosa tantosto fu fatta. Oltre a questo, onorò
il re molto Giachetto e volle ogni cosa sapere di tutti i
suoi preteriti casi206; e quando Giachetto prese gli alti
guiderdoni per l’avere insegnati il conte e’ figliuoli, gli
disse il conte: «Prendi cotesti doni dalla magnificenza di
monsignore lo re, e ricordera’ ti di dire a tuo padre che i
tuoi figliuoli, suoi e miei nepoti, non son per madre207
nati di paltoniere».
100
Giachetto prese i doni e fece a Parigi venir la moglie
e la suocera208, e vennevi la moglie di Perotto; e quivi in
grandissima festa furono col conte, il quale il re avea in
ogni suo ben rimesso209, e maggior fattolo che fosse già
mai; poi ciascuno con la sua licenzia tornò a casa sua. E
esso infino alla morte visse in Parigi più gloriosamente
che mai. –
204
Altri due endecasillabi di seguito, solennemente.
di servitori e di cavalli e di armi: I 7,18 n.; X 2,10 n.
206 i suoi passati casi.
207 da parte di madre.
208 Evidentemente ‘suocera’ nei riguardi della Giannetta (cioè la
madre di Giachetto): perché la suocera di Giachetto era morta da
tempo (cfr. 7). Non credo si tratti di una di quelle inesattezze o di
quei lapsus rilevati nel già citato articolo Beckmesser legge il D. e
che forse ricorrono anche in questa novella.
209 al quale il re aveva fatto restituire ogni suo possesso e ogni sua
carica.
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NOVELLA NONA
1
Bernabò da Genova, da Ambruogiuolo ingannato, perde il suo
e comanda che la moglie innocente sia uccisa; ella scampa e in
abito d’uomo serve il soldano: ritrova lo ’ngannatore e Bernabò conduce in Alessandria, dove lo ’ngannatore punito, ripreso abito feminile, col marito ricchi1 si tornano a Genova2.
1 Uno dei frequenti esempi in cui - contrariamente all’uso moderno - al soggetto costituito da due sostantivi legati da con corrisponde un verbo plurale: per es. III 8,35 n.; VIII 7,38; VIII 9,80.
Cfr. Rohlfs, 642; e II 8,10 n.
2 Gli antecedenti, i paralleli, la fortuna di questa novella sono stati indagati con speciale accanimento data la ripresa illustre nel
Cymbeline di Shakespeare. Sarebbe inutile in questa sede enumerare tutti gli esempi dalle letterature popolari, romanze, germaniche, anglosassoni, orientali a volta a volta citati e che si possono vedere, oltre che nell’opera del Lee, in: K. SIMROCK, Die Quellen
des Shakespeare, Leipzig 1872; B. LEONHARDT e S. LEVY, Zu
Cymbelin, in «Anglia», VII, 1884 sgg.; R. OHLE, Sbakespeare’s
Cymbeline,Berlin 1890; P. REBORA, Civiltà italiana e civiltà inglese, Firenze 1936. Ma in particolare per la novella del B. è opportuno tener presenti come antecedenti più vicini alla sua cultura: Roman de la Violette ou de Gérard de Nevers, ed. Michel, Paris 1837;
Compte de Poitiers, ed. Michel, Paris 1831; Dou Roi Flore et de la
Bielle Jehanne e Miracle de Nôtre Dame, in Tbéâtre Français du
Moyen Age, Paris 1879; il cantare di Madonna Elena (su cui E. LEVI, I cantari leggendari del popolo italiano, in « Giorn. Stor. Lett,
It. «, suppl. XVI, 1914, pp. 142 sgg.); la prima delle Due novelle
antiche pubblicate dallo Zambrini (Bologna 1859); e in fine un racconto forse trecentesco molto simile citato dal Lami («Novelle letterarie», XVI, 1755, p. 193). Giustamente osserva però il Paris che
si ha l’impressione che la novella del B. riecheggi soprattutto racconti di mercanti italiani provenienti di Francia: «il est caracteristique que les personnages du récit, rois, grands seigneurs ou chevaliers dans toutes les autres versions anciennes, sont devenus ici de
simples marchands de Gênes et de Florence» (Le conte de la Gageure dans B., in Miscellanea Graf, Bergamo 1903). È inutile ricordare quanti e quali rapporti abbia avuto il B. cogli ambienti mercantili italiani di Parigi. Il tema e varie note sono popolari: Aarne,
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3
Avendo Elissa colla sua compassionevole3 novella il
suo dover fornito4, Filomena reina, la quale bella e grande era della persona e nel viso più che altra piacevole e
ridente, sopra sé recatasi5, disse: – Servar si vogliono i
patti a Dioneo, e però, non restandoci altri che egli e io a
novellare, io dirò prima la mia e esso, che di grazia il
chiese, l’ultimo fia che dirà6. – E questo detto così cominciò:
– Suolsi tra’ volgari7 spesse volte dire un cotal proverbio: che lo ’ngannatore rimane a piè dello ’ngannato8; il
quale non pare che per alcuna ragione si possa mostrare
esser vero, se per gli accidenti9 che avvengono non si
mostrasse. E per ciò, seguendo la proposta10, questo insiememente11, carissime donne, esser vero come si dice
m’è venuto in talento di dimostrarvi; né vi dovrà esser
discaro d’averlo udito, acciò che dagl’ingannatori guardar vi sappiate.
882; Thompson e Rotunda, K 2112. 2, K 512, 521. 4. 11, 1342,
2112. 1, N 12 e 15; e per un antecedente arabo cfr. F. MACLER, in
«Rev. Traditions Populaires», XXVIII, 1912.
3 capace di suscitare compassione: e per questo tipo di aggettivi
verbali prediletti dal B. cfr. Intr., 34 n.
4 compiuto: cfr. IV 4,2 n
5 raccoltasi in se stessa, come chi si accinge a parlare: II 3,3 n.
6 sarà l’ultimo a novellare.
7 la gente comune, il popolo (Intr., 10 n.); come analogamente,
con simile denotazione di ambiente e di provenienza, alla IV 2,5:
«Usano i volgari un così fatto proverbio «.
8 Sacchetti, CXCVIII: «E ben gli stette, però che chi tutto vuole,
tutto perde; e lo ’ngannatore molto spesso rimane appiè dello ingannato» (e anche XVIII). Il proverbio è registrato dal Giusti, Raccolta di proverbi toscani, p. 33. Analogo a quello che ricorre poi
(cfr. 6 n.), apre e chiude la novella con un’affermazione che connota l’alternanza di inganni orditi e subiti che ne caratterizza la trama. Per le riprese e la popolarità del tema cfr. II 1, III 5, V 10, VIII
8, VIII 10: e Thompson e Rotunda, J 1500 sgg., K 1600 sgg.
9 i casi.
10 pur attenendomi al tema proposto: I concl., 10 n.
11 al tempo stesso: cfr. Intr., 39 n. e Annotazioni, pp. 116 sgg.
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Erano in Parigi in uno albergo alquanti grandissimi
mercatanti italiani, qual per una bisogna e qual per
un’altra, secondo la loro usanza; e avendo una sera fra
l’altre tutti lietamente cenato, cominciarono di diverse
cose a ragionare, e d’un ragionamento in altro travalicando12 pervennero a dire delle lor donne, le quali alle
lor case avevan lasciate.
E motteggiando13 cominciò alcuno a dire: «Io non so
come la mia si fa14: ma questo so io bene, che quando
qui mi viene alle mani alcuna giovinetta, che mi piaccia,
io lascio stare dall’un de’ lati l’amore il quale io porto a
mia mogliere, e prendo di questa qua quello piacere che
io posso15».
L’altro rispose: «E io fo il simigliante, per ciò che se
io credo che la mia donna alcuna sua ventura procacci16,
ella il fa, e se io nol credo, sì ‘l fa17; e per ciò a fare a far
sia18: quale asino dà in parete, tal riceve19».
Il terzo quasi in questa medesima sentenza parlando
pervenne: e brievemente tutti pareva che a questo s’accordassero, che le donne lasciate da loro non volessero
perder tempo.
12 trapassando. La scena per certi tocchi ricorda Esposizioni, IV
litt. 222.
13 celiando: I 5,17 n.; II 8,59 n.
14 come si comporta mia moglie. E nota i due settenari rimati seguenti.
15 Botta conclusa su un endecasillabo e un quinario prima della
risposta su quattro endecasillabi di seguito sapientemente variati,
non alieni da rime.
16 si procuri qualche fortuna, qualche piacere (in senso amoroso): I
2,25 n.; II 4,2 5 n.; e IX 2,19: «l’altre che senza amante erano...
procacciaron lor ventura».
17 lo fa lo stesso. Cfr. III 7,4 3.
18 faremo a farcela, ci renderemo la pariglia: come chiarisce anche
il proverbio seguente: lo stesso modo di dire nel Corbaccio, 145 e
nelle Lettere di Ser Lapo Mazzei, Firenze 1880, CCLXXIX.
19 Cioè «chi la fa l’aspetti», come se un asino batte in una parete
riceve il contraccolpo: cfr. V 10,64; VIII 8,3; Corbaccio, 320; e anche Poliziano, Tagebuch, 373; Serie alfabetiche proverbiali cit.,
Letteratura italiana Einaudi
334
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
8
Un solamente, il quale avea nome Bernabò Lomellin
da Genova20, disse il contrario, affermando sé di spezial
grazia da Dio avere una donna per moglie21 la più compiuta di tutte quelle virtù che donna o ancora cavaliere
in gran parte o donzello22 dee avere, che forse in Italia
ne fosse un’altra23: per ciò che ella era bella del corpo e
giovane ancora assai e destra e atante della persona, né
alcuna cosa era che a donna appartenesse, sì come di lavorare lavorii24 di seta e simili cose, che ella non facesse
9
meglio che alcuna altra. Oltre a questo, niuno scudiere25, o famigliare che dir vogliamo, diceva trovarsi il
quale meglio né più accortamente servisse a una tavola
d’un signore, che serviva ella, sì come colei che era co10 stumatissima, savia e discreta molto. Appresso questo la
commendò meglio saper cavalcare un cavallo, tenere
uno uccello26, leggere e scrivere e fare una ragione27 che
XVIII, p. 106; Giusti, Raccolta cit., p.76; C. MERBURY, Proverbi
vulgari, Berkeley 1946, p. 89.
20 A Genova e in Liguria erano illustri i mercanti e nobili di questo nome: il Sacchetti introdusse un Lomellini in una novella di
una qualche affinità con la presente (CLIV). Non occorre ricordare la vivacissima attività dei mercanti genovesi in Francia spesso in
concorrenza coi fiorentini (R. LOPEZ, Studi sull’economia genovese nel Medio Evo, Torino 1936, passim): i Lomellini ebbero nel
Trecento un giro d’affari europeo: cfr. G. AIRALDI, Storia d’Italia, V, Torino 1986, passim; Y. KAMENAGA, La coscienza della
famiglia… La famiglia Lomellini, in «Studi italici», XLVI, 1996.
21 che egli per grazia particolare aveva da Dio per moglie una donna...
22 aspirante ad esser armato cavaliere.
23 la più compiuta, la più adorna ... forse di ogni altra donna che
fosse in Italia, di tutte quelle virtú…
24 lavori, ma si dice specialmente di lavori continuati: V 2,25: «lavoravano di lor mano, di seta, di palma, di cuoio diversi lavorii»;
Esopo Toscano, XLIX e LXI.
25 Qui vale semplicemente servitore, come nella X 1, dove è usato ora famigliare e ora scudiere.
26 Cioè governare un falcone.
27 far conti: III 1,6: «fatta la ragion sua»; VIII 10,64: «buona e intera ragione rimandò a Firenze a’ suoi maestri».
Letteratura italiana Einaudi 335
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
se un mercatante fosse; e da questo, dopo molte altre lode, pervenne a quello di che quivi si ragionava, affermando con saramento28 niuna altra più onesta né più casta potersene trovar di lei; per la qual cosa egli credeva
certamente che, se egli diece anni o sempre mai fuori di
casa dimorasse, che ella mai a così fatte novelle29 non intenderebbe con altro uomo.
11
Era tra questi mercatanti che così ragionavano un giovane mercatante chiamato Ambruogiuolo da Piagenza30,
il quale di questa ultima loda31 che Bernabò avea data
alla sua donna cominciò a far le maggior risa del mondo;
e gabbando32 il domandò se lo ‘mperadore gli avea questo privilegio più che a tutti gli altri uomini conceduto.
12 Bernabò un poco turbatetto33 disse che non lo ‘mperadore ma Idio, il quale poteva un poco più che lo ‘mperadore, gli avea questa grazia conceduta.
13
Allora disse Ambruogiuolo: «Bernabò, io non dubito
punto che tu non ti creda dir vero, ma, per quello che a
me paia, tu hai poco riguardato alla natura delle cose,
28 sotto giuramento. Questa esaltazione dell’onestà di una genovese, ricorda quanto della famosa pudicizia di quelle donne fu
scritto nei secoli XIV-XV, per es. dal Compagni (III 30), dal Sacchetti (VIII, CLIV) e da Giacomo Bracelli nel suo De claris genuensibus: «Nec matronalis pudicitiae curam ulli unquam populo
rnaiorem fuisse crediderim». Eccezionali erano per una donna le
abilità lodate a 9-10 (Paolo da Certaldo, 155; Morelli, Ricordi, p.
179 n.).
29 aqueste baie, a queste corbellerie, a queste storie: VII 2,17 n. E
nota la solita ripetizione di ‘che’ dopo frase ipotetica e parentetica.
30 Piacenza. Molti mercanti piacentini trafficavano in quel secolo
in Francia, tanto che sulla fine del secolo XIII appaiono fra le 15
comunità e città rappresentate nella Universitas mercatorum italicorum ... in regno Francie (F. BOURQUELOT, Etudes sur les foires
ecc., Paris 1865, I, pp. 164 sgg.; SAPORI, op. cit., p. 643).
31 Le due forme, lode e loda, si alternano nel B. (e cfr. II 8,92 n.).
32 scherzando, burlando.
33 inquieto, adirato: VII 9,16: «E turbatetta con le parole di Pirro
se ne tornò alla donna».
Letteratura italiana Einaudi
336
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
per ciò che, se riguardato v’avessi, non ti sento34 di sì
grosso ingegno35, che tu non avessi in quella36 cognosciute cose che ti farebbono sopra questa materia più
14 temperatamente parlare. E per ciò che tu non creda che
noi, che molto largo37 abbiamo delle nostre mogli parlato, crediamo avere altra moglie o altrimenti fatta che tu,
ma da un naturale avvedimento38 mossi così abbiam detto, voglio un poco con teco sopra questa materia ragio15 nare. Io ho sempre inteso l’uomo essere il più nobile
animale che tra’ mortali fosse creato da Dio, e appresso
la femina; ma l’uomo, sì come generalmente si crede e
vede per opere, è più perfetto39; e avendo più di perfezione, senza alcun fallo dee avere più di fermezza e così
ha, per ciò che universalmente le femine sono più mobili40, e il perché si potrebbe per molte ragioni naturali dimostrare, le quali al presente intendo di lasciare stare.
16 Se l’uomo adunque è di maggior fermezza e non si può
tenere che non condiscenda, lasciamo stare a una che ‘l
prieghi, ma pure a non disiderare una che gli piaccia, e,
oltre al disidero, di far41 ciò che può acciò che con quella esser possa, e questo non una volta il mese ma mille il
giorno avvenirgli42: che speri tu che una donna, naturalmente mobile, possa fare a’ prieghi, alle lusinghe, a’ do34
conosco, stimo: I 1,7 n.
di mente così rozza, grossolana: Intr,, 28 n.; I 2,8 n.
36 Nella natura delle cose.
37 Molto liberamente, senza riguardo: III 7,33; Corbaccio, 392.
38 Cioè dall’esperienza che ha le sue radici nella natura (Marti).
39 Questo tradizionale e diffusissimo argomentare sull’inferiorità
della donna rispetto all’uomo sarà ripreso con particolare violenza
dal B. nel Corbaccio (e cfr. anche Intr., 75 n.).
40 Proprio lo stesso aggettivo usato da Filomena stessa nel suo discorso nell’Intr., 75: e cfr. anche IX 9,9 e Aen., IV 569: «varium et
mutabile semper femina «.
41 Mutamento subitaneo di costruzione per a fare dato che il verbo reggente è sempre ‘condiscenda’.
42 Anacoluto, perché la frase dipende sempre da ‘non si può te35
Letteratura italiana Einaudi 337
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
ni, a’ mille altri modi che userà uno uom savio che
l’ami? credi che ella si possa tenere43? Certo, quantunque tu te l’affermi, io non credo che tu il creda; e tu medesimo di’ che la moglie tua è femina e ch’ella è di carne
e d’ossa come son l’altre. Per che, se così è, quegli medesimi disideri deono essere i suoi e quelle medesime forze
che nell’altre sono a resistere a questi naturali appetiti;
per che possibile è, quantunque ella sia onestissima, che
ella quello che l’altre faccia, e niuna cosa possibile è così
acerbamente44 da negare, o da affermare il contrario a
quella, come tu fai».
18
Al quale Bernabò rispose e disse: «Io son mercatante
e non fisofolo45, e come mercatante risponderò. E dico46
che io conosco ciò che tu di’ potere avvenire alle stolte,
nelle quali non è alcuna vergogna; ma quelle che savie
sono hanno tanta sollecitudine dello onor loro, che elle
diventan forti più che gli uomini, che di ciò non si curano, a guardarlo47; e di queste così fatte è la mia».
19
Disse Ambruogiuolo: «Veramente se per ogni volta
che elle a queste così fatte novelle attendono48 nascesse
loro un corno nella fronte, il quale desse testimonianza
di ciò che fatto avessero, io mi credo che poche sarebber
quelle che v’atendessero; ma, non che il corno nasca,
17
nere che non’ (per queste tre negazioni, dove ne basterebbe una,
cfr. Mussafia, p. 528).
43 trattenere, frenare (II 5,53 n.) e quindi, come dice più sotto, resistere.
44 fieramente, assolutamente.
45 Forma popolare (con complessa metatesi) corrente anche nel
D.: VI 6,6.
46 «Nota bene e meglio questo detto, il quale ha forza di far concedere alle donne di leggere questo libro» (M.).
47 a difenderlo, a custodirlo.
48 Ambrogiuolo ironizza il discorso di Bernabò riprendendone
scherzosamente o equivocamente varie espressioni o parole (cfr. 10
per questo inizio; e il ‘savie’ di 18 per quello di 19; e ‘l’onor’ di 18
per ‘l’onore’ di 19 ecc.).
Letteratura italiana Einaudi
338
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
egli non se ne pare, a quelle che savie49 sono, né pedata
né orma, e la vergogna e ‘l guastamento dell’onore non
consiste se non nelle cose palesi50: per che, quando possono occultamente51, il fanno, o per mattezza lasciano52.
20 E abbi questo per certo: che colei sola è casta la quale o
non fu mai da alcuno pregata o se pregò non fu essaudita53. E quantunque io conosca per naturali e vere ragioni
così dovere essere, non ne parlere’ io così a pieno, come
io fo, se io non ne fossi molte volte e con molte stato alla
pruova. E dicoti così , che, se io fossi presso a questa tua
così santissima donna, io mi crederei in brieve spazio di
tempo recarla a quello che io ho già dell’altre recate54».
21
Bernabò turbato55 rispose: «Il quistionar con parole
potrebbe distendersi troppo : tu diresti e io direi, e alla
fine niente monterebbe56. Ma poi che tu di’ che tutte sono così pieghevoli57 e che ‘l tuo ingegno è cotanto, acciò
che io ti faccia certo della onestà della mia donna, io son
disposto che mi sia tagliata la testa se tu mai a cosa che ti
piaccia in cotale atto58 la puoi conducere; e se tu non
49
accorte. E per il concetto cfr. II 7,122 n.
È affermazione alla base delle argomentazioni e della prassi
amorosa di molti personaggi del D. (cfr. per es. I 4, II 7, III 5, 6, 7
ecc.). Qui ha quasi andamento sillogistico-retorico in quella sentenza sviluppata in spiegazione.
51 «Niuna cosa si occulta che non si palesi» (M.): «Nihil est opertum quod non revelabitur» (Matteo 10.26).
52 si astengono per sciocchezza: II 10,42 n.
53 Detto sentenziosamente (con quella sequenza di quattro settenari e un endecasillabo che abbraccia tutto il periodo), sull’esempio della tradizione classica e medievale: da Ovidio, Amores, I VIII
43: «casta est quam nemo rogavit» a Brunetto Latini, Tesoro, III, p.
455: «dice Giovenale ... che quella è casta che non fu richiesta».
54 «Ahi, villanaccio bugiardo» (M.).
55 Crescendo, dal precedente turbatetto.
56 non gioverebbe nulla cioè non si giungerebbe a nessuna conclusione: III 9,34: «furon lagrime sparte ... e a lei porti molti prieghi ...
ma niente montarono».
57 facili a piegarsi ai voleri e piaceri altrui, arrendevoli.
58 in azioni di questo genere.
50
Letteratura italiana Einaudi 339
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
puoi, io non voglio che tu perda altro che mille fiorin
d’oro».
22
Ambruogiuolo, già in su la novella riscaldato59, rispose: «Bernabò, io non so quello che io mi facessi del tuo
sangue, se io vincessi; ma se tu hai voglia di vedere pruova di ciò che io ho già ragionato, metti cinquemilia60 fiorin d’oro de’ tuoi, che meno ti deono essere cari che la
testa, contro a mille de’ miei; e dove tu niuno termine
poni61, io mi voglio obligare d’andare a Genova e infra
tre mesi dal dì che io mi partirò di qui avere della tua
donna fatta mia volontà, e in segno di ciò recarne meco
delle sue cose più care e sì fatti e tanti indizii, che tu medesimo confesserai esser vero, sì veramente che62 tu mi
prometterai sopra la tua fede infra questo termine non
venire a Genova né scrivere a lei alcuna cosa di questa
materia».
23
Bernabò disse che gli piacea molto; e quantunque gli
altri mercatanti che quivi erano s’ingegnassero di sturbar63 questo fatto, conoscendo che gran male ne potea
nascere, pure erano de’ due mercatanti sì gli animi accesi, che, oltre al voler degli altri, per belle scritte64 di lor
mano s’obbligarono l’uno all’altro.
24
E fatta la obbligagione, Bernabò rimase e Ambruogiuolo quanto più tosto poté se ne venne a Genova; e dimoratovi alcun giorno e con molta cautela informatosi
59
già accesosi nella discussione, nei ragionamenti: II 8,67 n.
La solita forma etimologica: II 5,83 n.
61 mentre tu non fissi alcun termine, alcun limite di tempo: cfr. IV
intr., 42 n.
62 purché naturalmente, a patto che: I 2,10 n.; II 10,29 n.
63 interrompere, impedire: Filocolo, I 44,1: «Assai sturbò la gran
festa ... la compassione che ogni uomo generalmente portava alla
morte di Giulia «.
64 contro la volontà degli altri per mezzo di un contratto scritto
(‘belle’ ha qui un valore intensivo, come oggi diremmo con un bel
contratto).
60
Letteratura italiana Einaudi
340
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
del nome della contrada e de’ costumi della donna,
quello e più ne ’ntese che da Bernabò udito n’avea: per
25 che gli parve matta impresa aver fatta. Ma pure, accontatosi65 con una povera femina che molto nella casa usava e a cui la donna voleva gran bene, non potendola a altro inducere, con denari la corruppe e a lei in una cassa
artificiata a suo modo66 si fece portare non solamente
nella casa ma nella camera della gentil donna; e quivi,
come se in alcuna parte andar volesse, la buona femina67, secondo l’ordine datole da Ambruogiuolo, la raccomandò68 per alcun dì .
26
Rimasa adunque la cassa nella camera e venuta la notte, all’ora che Ambruogiuolo avvisò che la donna dormisse, con certi suoi ingegni69 apertala, chetamente nella
camera uscì nella quale un lume acceso avea70; per la
qual cosa egli il sito71 della camera, le dipinture e ogni
altra cosa notabile che in quella era cominciò a raguar27 dare e a fermare nella sua memoria. Quindi, avvicinatosi
al letto e sentendo che la donna e una piccola fanciulla
che con lei era dormivan forte, pianamente scopertala
tutta, vide che così era bella ignuda come vestita, ma
niuno segnale da potere rapportare le vide, fuori che
uno ch’ella n’avea sotto la sinistra poppa, ciò era un neo
d’intorno al quale erano alquanti peluzzi biondi come
oro; e, ciò veduto, chetamente la ricoperse, come che72,
65
fatta conoscenza, familiarizzatosi: II 3,1 n.
costruita con artificio all’uopo, in quanto poteva contenere un
uomo ed esser aperta dall’interno: cfr. Sacchetti, CXXXVI: «artificiali colori». Era un espediente tradizionale: cfr. J. G. FRAZER,
The golden Bough , III 5 (pp. 152 sg.); Thompson e Rotunda, K
1342.
67 La solita antifrasi ironica per cui cfr. II 5,49 n.
68 affidò.
69 congegni, ordigni, mezzi meccanici: IV 1,11: «molti di con suoi
ingegni penato avea ... aprir quello uscio».
70 v’era: II 5,77 n.
71 la forma e la disposizione.
72 sebbene, benché: Intr., 25 n.
66
Letteratura italiana Einaudi 341
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
così bella vedendola, in disiderio avesse di mettere in avventura73 la vita sua e coricarlesi allato. Ma pure, avendo
udito lei essere così cruda e alpestra74 intorno a quelle
novelle75, non s’arrischiò. E statosi la maggior parte della notte per la camera a suo agio, una borsa e una guarnacca76 d’un suo forzier trasse e alcuno anello e alcuna
cintura77, e ogni cosa nella cassa sua messa, egli altressì
vi si ritornò e così la serrò come prima stava; e in questa
maniera fece due notti senza che la donna di niente s’ac29 corgesse. Vegnente il terzo dì78, secondo l’ordine dato,
la buona femina tornò per la cassa sua e colà la riportò
onde levata l’avea; della quale Ambruogiuolo uscito, e
contentata79 secondo la promessa la femina, quanto più
tosto poté con quelle cose si tornò a Parigi avanti il termine preso80.
30
Quivi, chiamati que’ mercatanti che presenti erano
stati alle parole e al metter de’ pegni, presente Bernabò,
disse sé aver vinto il pegno tra lor messo perciò che fornito81 aveva quello di che vantato s’era: e che ciò fosse
vero82, primieramente disegnò la forma della camera e le
dipinture di quella, e appresso mostrò le cose che di lei
28
73
arrischiare, mettere in pericolo.
severa, aspra. È un termine della poesia amorosa: Fitostrato, II
82; Amorosa Visione, XV 34; Petrarca, LII 4 «la pastorella alpestra
e cruda».
75 Cfr. sopra, 10 n. e 19 n.
76 Sopravveste lunga spesso foderata di pelli, da indossarsi sopra
la gonnella (Merkel): VIII 5,7 «più lunga la gonnella che la guarnacca».
77 Ornamenti femminili caratteristici ma anche simboli di fedeltà
e doni abituali tra amanti (cfr. per es. III 3, VIII 10).
78 Con valore assoluto, per una secondaria indipendente di azione concomitante.
79 pagata, soddisfatta.
80 fissato, stabilito.
81 compiuto: I 1,86 n.
82 Ellissi per: e per mostrare che ciò rosse vero.
74
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342
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
n’aveva seco recate affermando da lei averle avute. Confessò Bernabò così essere fatta la camera come diceva e
oltre a ciò sé riconoscere quelle cose veramente della sua
donna essere state; ma disse lui aver potuto da alcuno
de’ fanti della casa sapere la qualità della camera e in simil maniera avere avute le cose; per che, se altro non dicea, non gli parea che questo bastasse a dovere aver vinto.
32
Per che Ambrogiuolo disse: «Nel vero questo doveva
bastare: ma poi che tu vuogli che io più avanti ancora dica, e83 io il dirò. Dicoti che madonna Zinevra84 tua mogliere ha sotto la sinistra poppa un neo ben grandicello,
dintorno al quale son forse sei peluzzi biondi come
oro».
33
Quando Bernabò udì questo, parve che gli fosse dato
d’un coltello al cuore85, sì fatto dolore sentì: e tutto nel
viso cambiato, eziandio se parola non avesse detta, diede assai manifesto segnale ciò esser vero che Ambruogiuolo diceva; e dopo alquanto disse: «Signori, ciò che
Ambruogiuolo dice è vero; e perciò, avendo egli vinto,
venga qualor gli piace e sì si paghi86». E così fu il dì seguente Ambruogiuolo interamente pagato.
34
E Bernabò, da Parigi partitosi, con fellone87 animo
contro alla donna verso Genova se ne venne. E appressandosi a quella non volle in essa entrare, ma si rimase
31
83 La solita congiunzione in ripresa dopo proposizione causale:
cfr. I 1,39n.
84 Ginevra, secondo la pronunzia genovese: difatti nella X 6 «Ginevra». Era, per influenza dell’eroina francese, nome diffuso nel
Trecento anche in Firenze (cfr. passim Velluti e Villani).
85 X 10,51: «Come che queste parole fossero tutte coltella al cuor
di Griselda ... «; VII 5,25.
86 e così sia pagato, sia soddisfatto. «Il primo ‘si’ è un ripieno di
efficacia usitatissimo agli antichi» (Fanfani).
87 fieramente adirato: V 7,28: «fieramente divenuto fellone, appena d’ucciderla si ritenne»; IV 9,11.
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38
ben venti miglia88 lontano a essa, a una sua possessione;
e un suo famigliare, in cui molto si fidava, con due cavalli e con sue lettere mandò a Genova, scrivendo alla donna come tornato era e che con colui a lui89 venisse; e al
famiglio segretamente impose che, come in parte fosse
con la donna che90 miglior gli paresse, senza niuna misericordia la dovesse uccidere e a lui tornarsene. Giunto
adunque il famigliare a Genova e date le lettere e fatta
l’ambasciata, fu dalla donna con gran festa ricevuto; la
quale la seguente mattina, montata col famigliare a cavallo, verso la sua possessione prese il cammino.
E camminando insieme e di varie cose ragionando,
pervennero in un vallone molto profondo e solitario e
chiuso d’alte grotte91 e d’alberi; il quale parendo al famigliare luogo da dovere sicuramente per sé92 fare il comandamento del suo signore, tratto fuori il coltello e
presa la donna per lo braccio, disse: «Madonna, raccomandate l’anima vostra a Dio, ché a voi, senza passar93
più avanti, convien morire».
La donna, vedendo il coltello e udendo le parole, tutta spaventata disse: «Mercè per Dio! anzi che tu m’ uccida, dimmi di che io t’ho offeso, che tu uccider mi debbi».
«Madonna,» disse il famigliare «me non avete offeso
d’alcuna cosa: ma di che voi offeso abbiate il vostro marito io nol so, se non94 che egli mi comandò che senza al-
88 il miglio genovese, usato in quasi tutta l’Italia nord-ovest, equivaleva circa a 2500 m.
89 Il solito vezzo per cui II 8,44 n.
90 tale che: d’uso l’omissione di ‘tale’ nelle consecutive.
91 rocce, dirupi: Inf., XXXI 114; Purg., III 90 ecc.
92 senza pericolo da parte sua.
93 andare, proseguire: IX 9,17 e 18.
94 eccetto; cioè io so solo questo.
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cuna misericordia aver di voi io in questo cammin v’uccidessi; e se io nol facessi mi minacciò di farmi impiccar
per la gola. Voi sapete bene quanto io gli son tenuto e
come io di cosa che egli m’imponga possa dir di no: sallo Idio che di voi m’incresce ma io non posso altro».
A cui la donna piagnendo disse: «Ahi! mercé per
Dio! non volere divenire micidiale95 di chi mai non t’offese, per servire altrui. Idio, che tutto conosce, sa che io
non feci mai cosa per la quale io dal mio marito debbia
così fatto merito96 ricevere. Ma lasciamo ora star questo;
tu puoi, quando tu vogli, a un’ora piacere a Dio e al tuo
signore e a me in questa maniera: che tu prenda questi
miei panni e donimi solamente il tuo farsetto97 e un cappuccio, e con essi torni al mio e tuo signore e dichi98 che
tu m’abbi uccisa; e io ti giuro, per quella salute la quale
tu donata m’avrai, che io mi dileguerò e andronne in
parte che mai né a lui né a te né in queste contrade di
me perverrà alcuna novella».
Il famigliare, che mal volentieri l’uccidea, leggiermente99 divenne pietoso: per che, presi i drappi100 suoi e datole un suo farsettaccio e un cappuccio e lasciatile certi
denari li quali essa avea, pregandola che di quelle contrade si dileguasse, la lasciò nel vallone a piè; e andonne
al signor suo, al qual disse che ‘l suo comandamento non
solamente era fornito, ma che il corpo di lei morta aveva
tra parecchi lupi lasciato. Bernabò dopo alcun tempo se
ne tornò a Genova e, saputosi il fatto, forte fu biasimato.
La donna, rimasa sola e sconsolata, come la notte fu
95
omicida. II 6,39 n.
compenso, frutto: II 3,15 n. e 4,30 n.
Cfr. II 4,15 n.
98 dica. La solita forma popolare, per cui cfr. Intr., 81 n.
99 facilmente. La figura dell’esecutore pietoso è tradizionale nella
narrativa popolare e letteraria (Thompson e Rotunda, K 512).
100 Parola solenne (che allude quasi a un complesso di stoffe di
pregio) che fa contrasto a quel ‘farsettaccio’.
96
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venuta, contraffatta101 il più che poté n’andò a una villetta102 ivi vicina; e quivi da una vecchia procacciato
quello che le bisognava, racconciò il farsetto a suo dosso, e fattol corto e fattosi della sua camiscia un paio di
pannilini103 e i capelli tondutisi104 e trasformatasi tutta in
forma d’un marinaro, verso il mare se ne venne, dove
per avventura trovò un gentile uom catalano, il cui nome era segner En Cararh105, il quale d’una sua nave, la
quale alquanto di quivi era lontana, in Alba106 già disce43 so era a rinfrescarsi a una fontana. Col quale entrata in
parole, con lui s’acconciò per servidore e salissene sopra
la nave faccendosi chiamare Sicuran da Finale. Quivi, di
miglior panni rimesso in arnese107 dal gentile uomo, lo
’ncominciò a servir sì bene e sì acconciamente, che egli
44 gli venne oltre modo a grado108. Avvenne ivi a non guari
101
travestita, mutato aspetto: Sacchetti, CXX.
Piccolo borgo: II 3,24 n.
brache di tela, secondo l’uso dei marinai (Sacchetti, CCVII):
X 9,31.
104 tagliatisi: cfr. III 2,1 n. Questo travestimento maschile è tradizionale: cfr.,Thompson e Rotunda, K 521.4.1 e anche 1837.
105 Nome di chiaro stampo catalano, preceduto dalla particella
onorevole ‘en’, equivalente a don, e da ‘segner’, calco sul catalano
arcaico sener e senyer. I catalani, nei secoli XIII-XIV, furono spesso alleati dei mercanti genovesi contro i veneziani (G. LUZZATTO, Sindacati e cartelli, in «Riv. Storica Italiana», I, 1936; SAPORI, op. cit., p. 527).
106 È l’attuale Albisola, in provincia di Savona, il cui nome nel
Medioevo oscillava fra Albizola e Alba (la forma latina dotta è Alba
Docilia): cfr. N. RUSSO, Su le origini e la costituzione della Potestas
Varaginis ecc., Savona 1908, p. 19. La conformazione costiera di
Albisola coincide con la descrizione del B. Si aggiunga che la campagna dove Bernabò si era fermato sulla Riviera di Ponente, seguendo uno degli itinerari soliti fra Liguria e Francia (quello percorso anche dal B. nel 1365), se teniamo conto della distanza
indicata al 34, doveva essere nella zona di Spotorno-Noli, a una
dozzina di chilometri da Albisola e sempre nel Savonese, come del
resto Finale subito dopo nominata. È una costiera ricordata con
precisione dal B. nel suo De maribus (s. v. «Ligustinum mare»).
107 rivestito: I 7,18 n.
108 gli venne in somma grazia: Par., XV 141: «Tanto per bene
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tempo che questo catalano con un suo carico navicò in
Alessandria e portò certi falconi pellegrini109 al soldano
e presentogliele: al quale110 il soldano avendo alcuna
volta dato mangiare e veduti i costumi di Sicurano, che
sempre a servir l’111andava, e piaciutigli, al catalano il dimandò, e quegli, ancora che grave gli paresse, gliele lasciò.
45
Sicurano in poco di tempo non meno la grazia e
l’amor del soldano acquistò col suo bene adoperare, che
quella del catalano avesse fatto: per che in processo di
tempo avvenne che, dovendosi in un certo tempo
dell’anno a guisa d’una fiera fare una gran ragunanza di
mercatanti e cristiani e saracini in Acri112 (la quale sotto
la signoria del soldano era), acciò che i mercatanti e le
mercatantie sicure stessero, era il soldano sempre usato
di mandarvi, oltre agli altri suoi uficiali, alcuno de’ suoi
ovrar li venni in grado»; e la frase è ripetuta quasi dalla II 6,33 n.:
«assai acconciamente e a grado servendo».
109
falchi ammaestrati per la caccia, di qualità molto pregiata:
«Falconi sono di sette generazioni ... Lo secondo lignaggio son
quelli che l’uom appella pellegrini, perché persona non può trovare lo loro nido, anzi sono presi siccome in pellegrinaggio. E’ sono
molto leggieri a nudrire e cortesi e di buon’aria e valenti e arditi»
(B. Latini, Tesoro volg., I 150); e cfr. IV concl., 4; Sacchetti,
CLXIV.
110 e glieli regalò: al quale catalano: solita la costruzione seguente
di «dar mangiare» (cfr. I 7,18 n.): e per l’indeclinabile ‘gliele’ cfr. I
1,55 n.
111 Si riferisce al catalano.
112 San Giovanni d’Acri, in Siria (ora in Israele), città fortificata
costiera con buon porto, tenuta per una dozzina d’anni da un vicario angioino, ultima piazza posseduta dai Crociati. Cadde il 14 agosto 1291 destando profonda impressione in tutta la Cristianità
(Corbaccio, 325): basti ascoltare i toni apocalittici di Giordano da
Pisa (C. DELCORNO, Giordano da Pisa, Firenze 1975, p. 49) o di
Riccoldo Pennini (Epistole ad Ecclesiam triumphantes, ed. Röhricht, in « Arch. de l’Orient latin «, 11, 1894). L’azione del. la novella si immagina dunque posteriore. Ivi operavano vari mercanti fiorentini e particolarmente i Peruzzi: e la fiera sopra menzionata era
organizzata sul modello delle «Foires de Champagne» (R. DAVIDSOHN, Storia di Firenze, VI, p. 753).
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grandi uomini113 con gente che alla guardia attendesse.
Nella quale bisogna, sopravegnendo il tempo, diliberò
di mandare Sicurano, il quale già ottimamente la lingua
sapeva; e così fece.
Venuto adunque Sicurano in Acri signore e capitano
della guardia de’ mercatanti e della mercatantia, e quivi
bene e sollecitamente faccendo ciò che al suo uficio appartenea e andando dattorno veggendo, e molti mercatanti e ciciliani e pisani e genovesi e viniziani e altri italiani vedendovi, con loro volentieri si dimesticava per
rimembrarza della contrada sua. Ora avvenne tra l’altre
volte che, essendo egli a un fondaco114 di mercatanti viniziani smontato, gli vennero vedute tra altre gioie una
borsa e una cintura le quali egli prestamente riconobbe
essere state sue, e maravigliossi; ma senza altra vista
fare115, piacevolmente domandò di cui fossero e se vendere si voleano.
Era quivi venuto Ambruogiuolo da Piagenza con
molta mercatantia in su una nave di viniziani; il quale,
udendo che il capitano della guardia domandava di cui
fossero, si trasse avanti e ridendo disse: «Messer, le cose
son mie e non le vendo; ma s’elle vi piacciono, io le vi
donerò volentieri».
Sicurano, vedendol ridere, suspicò non costui in alcuno atto l’avesse raffigurato116; ma pur, fermo viso faccendo117, disse: «Tu ridi forse perché vedi me uom d’arme andar domandando di queste cose feminili».
113
dei suoi familiari, dei suoi fedeli più autorevoli.
Il vocabolo non è usato probabilmente nel suo senso generico
di magazzino (come più avanti), ma in quello specifico di zona
franca concessa nei vari porti d’Oriente, e in San Giovanni d’Acri,
alle varie nazioni di mercanti (G. Villani, VI 60).
115 senza mutare aspetto, senza mostrare meraviglia.
116 sospettò che da qualche gesto l’avesse riconosciuto.
117 con viso impassibile, restando impassibile: IV 1,30; VI 7,10 n.
114
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Disse Ambruogiuolo: «Messere, io non rido di ciò,
ma rido del modo ne quale io le guadagnai».
A cui Sicuran disse: «Deh, se118 Idio ti dea buona
ventura, se egli non è disdicevole119 diccelo come tu le
guadagnasti».
«Messere,» disse Ambruogiuolo «queste mi donò con
alcuna altra cosa una gentil donna di Genova chiamata
madonna Zinevra, moglie di Bernabò Lomellin, una
notte che io giacqui con lei, e pregommi che per suo
amore io le tenessi. Ora risi io, per ciò che egli mi ricordò120 della sciocchezza di Bernabò, il qual fu di tanta
follia, che mise121 cinquemilia fiorin d’oro contro a mille
che io la sua donna non recherei a’ miei piaceri: il che io
feci e vinsi il pegno. E egli, che più tosto sé della sua bestialità122 punir dovea che lei d’aver fatto quello che tutte le femine fanno, da Parigi a Genova tornandosene,
per quello che io abbia poi sentito, la fece uccidere».
Sicurano, udendo questo, prestamente comprese qual
fosse la cagione dell’ira di Bernabò verso lei e manifestamente conobbe costui di tutto il suo male esser cagione;
e seco pensò di non lasciarglielne portare impunità 123.
Mostrò adunque Sicurano d’aver molto cara questa novella, e artatamente124 prese con costui una stretta dime118 Il solito se ottativo, d’augurio (II 4,18 n.), che ha un tono più
accentuato di preghiera nel ritmo di quei due endecasillabi quasi
di seguito (Deh ... ventura, diccelo ... guadagnasti).
119 sconveniente: Concl., 7: «andar con le brache in capo per
iscampo di sé era alli più onesti non disdicevole».
120 La solita costruzione impersonale, ma col soggetto ‘egli’
espresso: II 7,107 n.
121 scommise: 22 e VI 6,8 n.
122 Come quella del Marchese di Saluzzo (X I 10,3): e cfr. Par.
,XVII 67: «Di sua bestialitate il suo processo».
123 di non lasciarlo impunito di quello, cioè di quella malvagia
azione.
124 ad arte, con astuzia: VII 4,7: «non solamente gliele [il bere]
cominciò a commendare, ma artatamente a sollicitarlo a ciò molto
spesso».
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stichezza, tanto che per gli suoi conforti125 Ambruogiuolo, finita la fiera, con essolui e con ogni sua cosa se
57 n’andò in Alessandria, dove Sicurano gli fece fare un
fondaco e misegli in mano de’ suoi denari assai: per che
egli, util grande veggendosi126, vi dimorava volentieri.
Sicurano, sollecito a voler della sua innocenzia far chiaro Bernabò, mai non riposò127 infino a tanto che con
opera128 d’alcuni gran mercatanti genovesi che in Alessandria erano, nuove cagioni trovando, non l’ebbe fatto
venire: il quale, in assai povero stato essendo, a129 alcun
suo amico tacitamente fece ricevere, infino che tempo
gli paresse a quel fare che di fare intendea.
58
Aveva già Sicurano fatta raccontare a Ambruogiuolo
la novella davanti al soldano e fattone al soldano prender piacere; ma poi che vide quivi Bernabò, pensando
che alla bisogna non era da dare indugio130, preso tempo
convenevole131, dal soldano impetrò che davanti venir si
facesse Ambruogiuolo e Bernabò, e in presenzia di Bernabò, se agevolmente fare non si potesse, con severità da
Ambruogiuolo si traesse il vero132 come stato fosse quel59 lo di che egli della moglie di Bernabò si vantava. Per la
qual cosa, Ambruogiuolo e Bernabò venuti, il soldano in
presenzia di molti con rigido133 viso a Ambruogiuol comandò che il vero dicesse come a Bernabò vinti avesse
125
consigli, esortazioni: I 2,27 n.
vedendo che molto guadagno gliene veniva.
127 non si dette pace, non stette tranquillo.
128 con l’aiuto, per opera.
129 da: Intr., 20 n.
130 che non conveniva rimandare, ritardare (cfr. II 7,30 n.) la faccenda (I 1,27 n.)
131 colta l’occasione favorevole.
132 se non si potesse con le buone, con le cattive si sapesse da Ambrogiuolo la verità.
133 severo: II 5,53 n.
126
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cinquemilia fiorin d’oro: e quivi era presente Sicurano,
in cui Ambruogiuolo più avea di fidanza, il quale con viso troppo più134 turbato gli minacciava gravissimi tormenti se nol dicesse. Per che Ambruogiuolo, da una
parte e d’altra spaventato, e ancora alquanto costretto,
in presenzia di Bernabò e di molti altri, niuna pena più
aspettandone che la restituzione di fiorini cinquemilia
d’oro e delle cose, chiaramente, come stato era il fatto,
narrò ogni cosa.
E avendo Ambruogiuol detto, Sicurano, quasi essecutore del soldano, in quello135 rivolto a Bernabò disse: «E
tu che facesti per questa bugia alla tua donna?»
A cui Bernabò rispose: «Io, vinto dall’ ira della perdita de’ miei denari e dall’onta della vergogna136 che mi
parea avere ricevuta dalla mia donna, la feci a un mio famigliare uccidere; e, secondo che egli mi rapportò137, ella fu prestamente divorata da molti lupi».
Queste cose così nella presenzia del soldan dette e da
lui tutte udite e intese138, non sappiendo egli ancora a
che Sicurano, che questo ordinato avea e domandato,
volesse riuscire, gli disse Sicurano: «Signor mio, assai
chiaramente potete conoscere quanto quella buona donna gloriar si possa d’amante e di marito: ché l’amante a
134
molto più di quello del soldano: Intr., 82 n.; II 5,61 n.
quasi ministro (Inf., XXXI 51) del soldano in quel mentre, in
quell’istante.
136 dalla vergogna dell’ingiuria. «’Onta’ qui significa la passione
che accendevagli il cuore per l’offesa ricevuta nell’onore; e ‘vergogna’ vale la offesa o ingiuria medesima: ché ’fare vergogna altrui’
vale offenderlo nell’onore, vituperarlo» (Fanfani).
137 riferì: I 6,6 n.
138 ascoltate e capite.
135
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un’ora139 lei priva d’onor con bugie guastando la fama
sua e diserta140 il marito di lei; e il marito, più credulo alle altrui falsità che alla verità da lui per lunga esperienza
potuta conoscere, la fa uccidere e mangiare a’ lupi; e oltre a questo, è tanto il bene e l’amore che l’amico e il
marito le porta, che, con lei lungamente dimorati, niun
la conosce. Ma per ciò che voi ottimamente conoscete
quello che ciascun di costoro ha meritato, ove voi mi vogliate di spezial grazia fare di punire141 lo ’ngannatore e
perdonare allo ’ngannato, io la142 farò qui in vostra e in
lor presenzia venire».
Il soldano, disposto in questa cosa di volere in tutto
compiacere a Sicurano, disse che gli piacea e che facesse
la donna venire. Maravigliavasi forte Bernabò, il quale
lei per fermo morta credea; e Ambruogiuolo, già del suo
male indovino143, di peggio avea paura che di pagar denari, né sapea che si sperare o che più temere, perché144
quivi la donna venisse, ma più con maraviglia la sua venuta aspettava.
Fatta adunque la concession dal soldano a Sicurano,
esso, piagnendo e inginocchion dinanzi al soldano gittatosi, quasi a un’ora la maschil voce e il più non volere
maschio parere si partì145, e disse: «Signor mio, io sono
139
nel medesimo tempo.
rovina: II 4,7 n.
141 vogliate per grazia speciale far sì che sia punito. Quel ‘fare’ fraseologico è quasi pleonastico: un uso non peregrino nel B.: cfr. F.
BRAMBILLA AGENO, Il verbo, pp. 472 sgg.; e qui I 5,10 n.
142 Cioè la donna. Questo pronome, assai lontano dal sostantivo
cui si riferisce (‘quella buona donna’: 64), diede luogo a varie congetture e interpretazioni: cfr. Annotazioni, pp. 117 sgg.
143 Identica espressione alla V 3,13; e cfr. Amorosa Visione,
XXXVI 75.
144 per il fatto che.
145 abbandonò, lasciò cadere o separò, divise. Ma la frase, così
com’è attestata dall’autografo e dalle più autorevoli testimonianze,
140
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la misera sventurata Zinevra, sei anni andata tapinando146 in forma d’uom per lo mondo, da questo traditor
d’Ambruogiuolo falsamente e reamente vituperata, e da
questo crudele e iniquo uomo data a uccidere a un suo
69 fante e a mangiare a’ lupi». E stracciando i panni dinanzi e mostrando il petto, sé esser femina e al soldano e a
ciascuno altro fece palese, rivolgendosi poi a Ambruogiuolo ingiuriosamente domandandolo147 quando mai,
secondo che egli avanti si vantava, con lei giaciuto fosse;
il quale, già riconoscendola e per vergogna quasi mutolo
divenuto, niente dicea.
70
Il soldano, il quale sempre per uomo avuta l’avea,
questo vedendo e udendo venne in tanta maraviglia, che
più volte quello che egli vedeva e udiva credette più tosto esser sogno che vero148. Ma pur, poi che la maraviglia cessò, la verità conoscendo, con somma laude la vita
rimane oscura, perché sembra che quel ‘non’ sia di troppo o almeno sia pleonastico, come del resto avviene correntemente nel D.
(cfr. III 7,5 n.). Il B. l’avrebbe potuto inserire indebitamente avendo la mente fissa al valore generale negativo della frase, cioè al fatto che la protagonista «non voleva più» parere maschio: cfr. F.
BRAMBILLA AGENO, Errori d’autore nel D., in «Studi sul B.»,
VIII, 1974. Si potrebbe anche pensare, meno probabilmente, a una
specie di inversione del tipo «il non più volere», «il non volere
più», «il volere non più», quasi ‘non’ sia rafforzativo di ‘più’ come
lo è spesso di ‘mai’ (cfr. casi analoghi: V 2,6 e 13). Pier Giorgio
Ricci, in questo caso disperato mi propose d’intendere: «separò,
divise dalla volontà di non sembrare più maschio la voce che ella
aveva maschile» (questo particolare però non è mai detto), e per
questo deve nudare il petto (69) per dimostrarsi femmina: ma si ha
l’impressione di una forzatura.
146 vivendo di stenti: come nell’identica espressione della II 6,42
n. e della III 9,58.
147 mescolando alla domanda parole d’ingiuria (Fanfani), interrogandolo con impetuosa ed oltraggiosa violenza (Marti).
148 Espressione di meraviglia che ricorda alcuni versi dell’Amorosa Visione (XLVI 40-42) e un passo di un’epistola (11).
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
e la constanzia e i costumi e la virtù della Ginevra, infino
allora stata Sicuran chiamata, commendò. E fattile venire onorevolissimi vestimenti feminili e donne che compagnia le tenessero, secondo la dimanda fatta da lei a
Bernabò perdonò la meritata morte. Il quale, riconosciutala, a’ piedi di lei si gittò piagnendo e domandò
perdonanza149, la quale ella, quantunque egli mal
degno150 ne fosse, benignamente gli diede, e in piede il
fece levare teneramente sì come suo marito abbracciandolo.
72
Il soldano appresso comandò che incontanente Ambruogiuolo in alcuno alto luogo della città fosse al sole
legato a un palo e unto di mele151, né quindi152 mai, infino a tanto che per se medesimo non cadesse, levato fos73 se; e così fu fatto. Appresso questo comandò che ciò che
d’Ambruogiuolo stato era fosse alla donna donato, che
non era sì poco che oltre a diecimilia dobbre153 non valesse; e egli, fatta apprestare una bellissima festa, in
71
149
Cfr. II 8,94 n.
indegno: col solito valore di ‘male’ per non, non già, non pienamente; VIII 10,36: «malvolentieri gli prendo» e anche IV intr.,
17: «potete male durar fatica»; I 8,14 n.
151 Per questa pena assai diffusa cfr. Thompson, Q 461, 464; è riflessa anche qui nella IV 2 ed è citata da Giordano, Quaresimale
cit., LXXVI 17.
152 di qui: II 3,46 n.
153 doble, doppie: moneta d’oro moresca e spagnola, di vario valore, conosciuta anche a Firenze (per es. X 9,86; PUCCI, Centiloquio, XV 29).
150
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quella Bernabò come marito di madonna Zinevra e madonna Zinevra sì come valorosissima donna onorò, e donolle che154 in gioie e che in vasellamenti d’oro e
d’ariento e che in denari, quello che valse meglio155 d’al74 tre diecemilia dobbre. E fatto loro apprestare un legno,
poi che fatta fu la festa, gli licenziò156 di potersi tornare
a Genova al lor piacere: dove ricchissimi e con grande
allegrezza tornarono, e con sommo onore ricevuti furono, e spezialmente madonna Zinevra, la quale da tutti si
credeva che morta fosse; e sempre di gran virtù e da
molto, mentre visse, fu reputata.
75
Ambruogiuolo il dì medesimo che legato fu al palo e
unto di mele, con sua grandissima angoscia dalle mosche e dalle vespe e da’ tafani, de’ quali quel paese è copioso molto, fu non solamente ucciso ma infino all’ossa
divorato: le quali bianche rimase e a’ nervi appiccate,
poi lungo tempo158, senza esser mosse, della sua malvagità fecero a chiunque le vide testimonianza. E così rimase lo ’ngannatore a piè dello ’ngannato.
154 Questo e i seguenti ‘che’ possono esser interpretati come tanto (Fanfani, Sapegno) o come sia (Marti) o come parte (Segre): e
cfr. 34 n.
155 più.
156 diede loro licenza: Intr., 93 n.
157 finché: I 1,68 n.
158 per lungo tempo appresso.
159 Proverbio che aveva dato lo spunto iniziale alla novella (3).
Letteratura italiana Einaudi 355
NOVELLA DECIMA
1
Paganino da Monaco ruba la moglie a messer Ricciardo di
Chinzica; il quale, sappiendo dove ella è, va, e diventa amico di
Paganino; raddomandagliele, e egli, dove ella voglia, gliele concede; ella non vuol con lui tornare e, morto messer Ricciardo,
moglie di Paganin diviene1.
2
Ciascuno della onesta brigata sommamente commendò per bella la novella dalla loro reina contata, e
massimamente Dioneo, al qual solo per la presente giornata restava il novellare. Il quale, dopo molte commendazioni di quella fatte, disse:
– Belle donne, una parte della novella della reina
m’ha fatto mutar consiglio di dirne una, che all’animo
m’era, a doverne un’altra dire: e questa è2 la bestialità di
Bernabò, come che bene ne gli avvenisse, e di tutti gli altri che quello si danno a credere che esso di creder mostrava: cioè che essi, andando per lo mondo e con questa
e con quella ora una volta ora un’altra sollazzandosi,
s’immaginan che le donne a casa rimase si tengan le mani a cintola, quasi noi non conosciamo, che tra esse na-
3
1 Della novella, che riprende il vecchio e diffuso tema di Gennaio
e Maggio, si possono indicare solo vaghi antecedenti: per la prima
parte nella II epistola di Aristeneto, e probabilmente per il nucleo
centrale in alcuni racconti orientali, per es. nella Storia d’un sarto e
di sua moglie (in Cabinets des Fées, XVI, p. 76) e nel poema indiano Dasa-koumara-tcharita (A. LOISELEUR DESLONGCHAMPS, Essai sur les fables indiennes ecc., Paris 1838, p. 174) e forse in
qualche motivo della novellistica (Rotunda, T 242*). Ma una vera
anticipazione della prima parte si ha nella Comedia (XXXII 8 sgg.):
cfr. V. BRANCA, Per il testo del D., I cit.
2 e questa parte è.
3 Iperbato: quasi che noi, che tra esse ..., non conosciamo quello di
cui ...
Letteratura italiana Einaudi
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4
5
6
sciamo e cresciamo e stiamo, di che3 elle sien vaghe. La
qual4 dicendo, a un’ora vi mostrerò chente5 sia la sciocchezza di questi cotali, e quanto ancora sia maggior
quella di coloro li quali, sé più che la natura possenti
estimando, si credon quello con dimostrazioni favolose
potere che essi non possono, e sforzansi d’altrui recare a
quello che essi sono, non patendolo la natura di chi è tirato6.
Fu dunque in Pisa un giudice, più che di corporal forza dotato d’ingegno, il cui nome fu messer Riccardo di
Chinzica7; il quale, forse credendosi con quelle medesime opere sodisfare alla moglie che egli faceva agli studii,
essendo molto ricco, con non piccola sollecitudine cercò
d’avere e bella e giovane donna per moglie, dove e l’uno
e l’altro, se così avesse saputo consigliar sé come altrui
faceva, doveva fuggire. E quello8 gli venne fatto, per ciò
che messer Lotto Gualandi9 per moglie gli diede una
4
La qual novella.
vi mostrerò allo stesso tempo quale: Intr., 55 n.
6 Cioè: «credono di potere fare l’impossibile con ragionamenti
fantastici e si sforzano di conformare contro natura l’indole altrui
alla propria» (Sapegno). ‘Patendolo’ soffrendolo, sopportandolo.
7 Non si è potuta trovare notizia alcuna che permetta di dare
un’ombra di realtà a questo personaggio. È ben nota però la contrada pisana di Chinzica o Cinsica, cui è legato il ricordo leggendario (ma il nome è anteriore alla presunta data del fatto) della celebre gesta della fanciulla dei Sismondi, Cinzica: che nel 1005
avrebbe dato l’allarme e spronato i concittadini a respingere un assalto di saraceni.
8 quella cosa: neutro, come il precedente l’uno e l’altro: Inf.,
XXIII 8.
9 La famiglia Gualandi, una delle più nobili e potenti nella Pisa
di quei secoli, è ricordata anche da Dante come nemica del Conte
Ugolino (Inf., XXXIII 32), che fu imprigionato e morì proprio in
una delle sue torri. Un Gualandi fu, ai tempi del B., ambasciatore
presso Re Roberto di Napoli.
5
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9
sua figliuola il cui nome era Bartolomea, una delle più
belle e delle più vaghe giovani di Pisa, come che poche
ve n’abbiano10 che lucertole verminare non paiano11. La
quale il giudice menata con grandissima festa a casa sua,
e fatte le nozze belle e magnifiche, pur per la prima notte incappò una volta12 per consumare il matrimonio a
toccarla e di poco fallò che egli quella una non fece tavola13; il quale poi la mattina, sì come colui che era magro
e secco e di poco spirito14, convenne che con vernaccia e
con confetti ristorativi15 e con altri argomenti16 nel mondo si ritornasse.
Or questo messer lo giudice, migliore stimatore delle
sue forze che stato non era avanti, incominciò a insegnare a costei un calendaro buono da fanciulli che stanno a
10 Di solito quando avere sta per essere nelle frasi di stato in luogo, è usato impersonalmente, come abbiamo visto (Intr., 15 n.; II
5,77 n. e II 9,26 n.). Ma qui il B. ha probabilmente sottinteso un
soggetto i Pisani, o il verbo è stato attratto dal seguente ‘paiano’
(cfr. Annotazioni, pp. 119 sgg.).
11 che non sembrino tarantole («tarentolae mauritanicae»).
L’espressione, restata oscura ai commentatori, dai Deputati (pp.
119 sgg.) in poi, è di origine napoletana: ancora s’usa ed è testimoniata dal Basile (ed. Croce, I 2, p. 40: «era diventato piccino e meschino con un colore di spagnolo malato, di lucertola verminara»).
E tale rettile della famiglia dei geconidi è diffuso in Campania (cfr.
per tutto L. MESSEDAGLIA, Cbiose al D., in «Atti Ist. Veneto»,
CXII, 1953-54). «La bruttezza delle donne pisane sembra fosse
proverbiale tra i fiorentini. In una tenzone di sonetti Ventura Monachi e Lambertuccio Frescobaldi ne trattano, e l’uno le descrive
come ’talpe ... gialle e iraconde’ mentre l’altro afferma che a Pisa
’ogni femmina v’è, per lor ber, crespa’» (Sapegno).
12 riuscí per caso una volta.
13 poco mancò che già quella sola volta egli non impattasse, non facesse partita nulla. «Fare tavola è metafora del giuoco degli scacchi,
dove chi fa tavola non finisce il giuoco ed è come non fatto» (Fanfani).
14 di fiacca vitalità.
15 La solita frase, quasi una formula: I 10,14 n. ‘Vernaccia’ è un
ottimo vino ligure: Cfr. X 2,12.
16 mezzi, rimedi: Intr., 13 n.
17 A Ravenna si diceva vi fossero tante chiese quanti sono i giorni
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leggere e forse già stato fatto a Ravenna17. Per ciò che,
secondo che egli le mostrava, niun dì era che non solamente una festa ma molte non ne fossero, a reverenza
delle quali per diverse cagioni mostrava l’uomo e la donna doversi abstenere da così fatti congiugnimenti, sopra
questi aggiugnendo digiuni e quatro tempora e vigilie
d’apostoli e di mille altri santi e venerdì e sabati e la domenica del Signore e la quaresima tutta, e certi punti18
della luna e altre eccezion molte, avvisandosi forse che
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così feria19 far si convenisse con le donne nel letto, come
egli faceva talvolta piatendo alle civili20. E questa maniera, non senza grave malinconia21 della donna, a cui forse
una volta ne toccava il mese e appena, lungamente tenne, sempre guardandola bene, non forse22 alcuno altro
le ’nsegnasse conoscere li dì da lavorare, come egli l’ave11
va insegnate le feste.
Avvenne che, essendo il caldo grande23, a messer Riccardo venne disidero d’andarsi a diportare24 a un suo
luogo molto bello vicino a Monte Nero25, e quivi per
12 prendere aere dimorarsi alcun giorno, e con seco menò
dell’anno; ogni giorno era notato con la festa di un santo, e i ragazzi consultavano quindi spesso il calendario nella speranza di avere
vacanze (Martinelli nell’ed. cit. del Colombo, 1841). Per la conoscenza che il B. ebbe di tale città cfr. V 8; e per i periodi di astinenza: san Bernardino da Siena, Prediche volgari, Milano 1936, p. 460.
18 posizioni astronomiche: cfr. VII 2,16 n.
19 giorno di riposo, festa civile, in cui stavano chiusi gli uffici pubblici: cfr, VI 5,9 e più innanzi 16 n.
20 trattando cause civili. ‘Piatire’ è termine tecnico: Concl., 4 n.
21 umor nero per il desiderio insoddisfatto: cfr. Pr., 11 n.; II 6,19
n.
22 Cioè che non accadesse che. Vedi II 4,18 n.
23 In queste frasi, qui e altrove (per es. II 5,38 n.), l’articolo determinativo sta dove noi metteremmo l’indeterminativo: come nelle simili a II 7,115 n., IV 7,15 n. ecc.
24 recarsi per diporto, per spasso.
25 ad una sua campagna presso Monte Nero (il promontorio a sud
di Livorno): II 7,17: «da un suo luogo tornando».
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la sua bella donna. E quivi standosi, per darle alcuna
consolazione26 fece un giorno pescare, e sopra due barchette, egli in su una co’ pescatori e ella in su un’altra
con altre donne, andarono a vedere; e tirandogli il dilet27
13 to parecchi miglia quasi senza accorgersene n’andarono infra mare. E mentre che essi più attenti stavano a riguardare, subito una galeotta di Paganin da Mare28,
allora molto famoso corsale, sopravenne e, vedute le
barche, si dirizzò a loro; le quali non poteron sì tosto
fuggire, che Paganin non giugnesse quella ove eran le
donne: nella quale veggendo la bella donna, senza altro
14 volerne, quella, veggente messer Riccardo che già era in
terra, sopra la sua galeotta posta, andò via. La qual cosa
veggendo messer lo giudice, il quale era sì geloso che temeva dell’aere stesso, se esso fu dolente non è da diman26
ricreazione, divertimento.
Parecchi è corrente nel Trecento e nel B. stesso al plurale, usato indeclinabilmente: cfr. per es. III 9,49 n.; VII 7,42 n.
28
Qui appare il nome di famiglia del corsaro, mentre nel sommario Paganino era stato designato col nome di provenienza («nel
generale correva più il nome della terra che della casa propria»:
Annotazioni, XLIII). Questo Paganino sarebbe stato dunque della
nobilissima famiglia genovese Da Mare o De Mari, più tardi trasferitasi a Savona. Probabilmente il B. sentì rammentare a Napoli Arrighino Da Mare, che fu ammiraglio di Carlo I d’Angiò nelle guerre di Sicilia contro il Re Pietro d’Aragona (G. Villani, VII 117; G.
A. SUMMONTE, op. cit., III, p. 295); e Jayma de Mari, dama di
corte della Regina Giovanna (LÉONARD, I, p. 160; Raimbaut de
Vaqueiras ricorda nella sua tenzone Nicolas e Lanfrancos da Mar).
Paganino è diminutivo di Pagano, nome assai diffuso in Genova;
ma di lui nessuna notizia. Va ricordata inoltre la frequenza con cui,
in quegli anni, per vicende politiche e civili, anche membri di grandi famiglie si facevano corsari o banditi: si pensi, del resto, nel D., a
Landolfo Ruffolo, Guasparrino Doria, Ghino di Tacco, ecc.
29 Effìcace anacoluto esclamativo, assai usato: IV 9,23 n. e IV
10,16 n.; Esopo Toscano, XIII: «se fu dolente non è da dimandare»;
Sacchetti, CLIV: «se i parenti stavano dolorosi non è da domandare». E per il motivo corrente, nella novellistica e nel romanzo, della
donna rapita da pirati cfr. Thompson e Rotunda, R 12.1: ma qui la
conclusione solita è rovesciata.
30 Per questa forma cfr. II 7,37 n.
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dare29. Egli senza pro, e in Pisa e altrove, si dolfe30 della
malvagità de’ corsari, senza sapere chi la moglie tolta gli
15 avesse o dove portatala.
A Paganino, veggendola così bella, parve star bene; e
non avendo moglie, si pensò di sempre tenersi costei, e
16 lei che forte piagnea cominciò dolcemente a confortare.
E venuta la notte, essendo a lui il calendaro caduto da
cintola31 e ogni festa o feria uscita di mente, la cominciò
a confortar co’ fatti, parendogli che poco fossero il dì
giovate le parole; e per sì fatta maniera la racconsolò,
che, prima che a Monaco32 giugnessero, e il giudice e le
sue leggi le furono uscite di mente33, e cominciò a viver
più lietamente del mondo34 con Paganino; il quale, a
Monaco menatala, oltre alle consolazioni che di dì e di
17 notte le dava, onoratamente come sua moglie la tenea.
Poi a certo tempo35 pervenuto agli orecchi di messer
Riccardo dove la sua donna fosse, con ardentissimo disidero, avvisandosi niuno interamente saper far ciò che a
ciò bisognava, esso stesso dispose d’andar per lei, disposto a spendere per lo riscatto di lei ogni quantità di denari: e, messosi in mare, se n’andò a Monaco e quivi la
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31 «In una scrittura distesa, credo io, oltre al 1550, esistente nel
cod. 861 in 4° della Stroziana, a c. 80 si narra che quella del Calendario è un’usanza, che era allora ne’ tempi del B., di portarli a cintola, come in cassette da occhiali» (Manni: ma il cod. 861, di n. 74,
ora in Archivio di Stato non contiene la notizia). Il senso è chiaro
anche intendendo ‘caduto di cintola’ come perduto, smarrito. ‘Festa’ è religiosa, ‘feria’ civile: cfr. 9 n.
32 Monaco fu in quei tempi, e anche posteriormente, famoso nido di pirati, spesso in rapporti amichevoli cogli Angioini (LÉONARD, op. cit., Passim): anche Salabaetto, per dar credito alla sua
favola, dice senz’altro che il suo legno «è stato preso da’ corsari di
Monaco» (VIII 10,57).
33 Quasi la stessa frase usata per Alatiel e Marato (II 7,37).
34 lietissimamente, con la maggior gioia del mondo: II 3,27: «il
meglio del mondo «.
35 Dopo un certo tempo.
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vide e ella lui, la quale poi la sera a Paganino il disse e lui
della sua intenzione informò. La seguente mattina messer Riccardo, veggendo Paganino, con lui s’accontò36 e
fece in poca d’ora37 una gran dimestichezza e amistà, infignendosi38 Paganino di conoscerlo e aspettando a che
riuscir volesse39; per che, quando tempo parve a messer
Riccardo, come meglio seppe e il più piacevolmente40 la
cagione per la quale venuto era gli discoperse, pregan41
19 dolo che quello che gli piacesse prendesse e la donna
gli rendesse.
Al quale Paganino con lieto viso rispose: «Messer, voi
siate il ben venuto, e rispondendo in brieve vi dico così :
egli è vero che io ho una giovane in casa, la quale non so
20 se vostra moglie o d’altrui si sia, per ciò che voi io non
conosco né lei altressì se non in tanto quanto ella è meco
alcun tempo dimorata. Se voi siete suo marito, come voi
dite, io, perciò che piacevol42 gentile uom mi parete, vi
menerò da lei, e son certo che ella vi conoscerà bene. Se
essa dice che così sia come voi dite e vogliasene con voi
venire, per amor della vostra piacevolezza quello che voi
medesimo vorrete per riscatto di lei mi darete; ove così
non fosse, voi fareste villania a volerlami torre, per ciò
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s’accostò, si avvicinò a lui, s’abboccò con lui: II 3,1 n.
Attrazione frequente in questi avverbi di quantità seguiti dal
genitivo e ridotti ad aggettivi: per es. VIII 7,104: « quella poca di
bella apparenza»; Purg., IX 124 sg.: «l’altra vuol troppa | D’arte»; e
cfr. II 5,48 n.
38 dissimulando, non mostrando: IV 5,7: «diliberò di questa cosa
... di passarsene tacitamente e d’infignersi del tutto d’averne alcuna
cosa veduta o saputa»; X 8,116: «possendosi egli onestamente infignere di vedere»; e Annotazioni, pp. 122 sgg.; Testi fiorentini, p.
203.
39 che cosa si proponesse di fare.
40 amabilmente, garbatamente: e vedi piacevole o piacevolezza
nelle righe seguenti.
41 prendesse per riscatto.
42 amabile, simpatico.
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che io son giovane uomo e posso così come un altro tenere una femina, e spezialmente lei che è la più piacevole che io vidi mai43».
Disse allora messer Riccardo: «Per certo ella è mia
moglie, e se tu mi meni dove ella sia, tu il vedrai tosto:
ella mi si gittarà incontanente al collo44; e per ciò non
domando che altramente sia se non come tu medesimo
hai divisato45».
«Adunque» disse Paganino «andiamo».
Andatisene adunque nella casa di Paganino e stando
in una sua sala, Paganino la fece chiamare; e ella vestita
e acconcia uscì d’una camera e quivi venne dove messer
Riccardo con Paganino era, né altramente fece motto a
messer Riccardo che fatto s’avrebbe a un altro forestiere
che con Paganino in casa sua venuto fosse. Il che vedendo il giudice, che aspettava di dovere essere con grandissima festa ricevuto da lei, si maravigliò forte e seco stesso cominciò a dire: «Forse che la malinconia e il lungo
dolore che io ho avuto poscia che io la perdei m’ha sì
trasfigurato, che ella non mi riconosce».
Per che egli disse: «Donna, caro mi costa il menarti46
a pescare, per ciò che simil dolore non si sentì mai a
quello che io ho poscia portato che io ti perdei 47, e tu
non pare che mi riconoschi48, sì salvaticamente49 motto
mi fai. Non vedi tu che io sono il tuo messer Riccardo,
43 «Paganin mio, tu gli dai punzoni da segno che de’ quatro l’uno
cadrebbe l’asino» (M.).
44 «Io ne dubito» (M.).
45 che avvenga diversamente da come tu medesimo hai previsto,
hai proposto.
46 «Qui c’è l’infinito presente per il passato, volendo dire caro mi
costa l’averti menato: così Dante [Inf., IV 119 sg.]: ’Mi fuor mostrati li spiriti magni, | Che del vedere in me stesso m’essalto’» (Fanfani): cfr. IX 1,5 n.
47 Iperbato: che io ho sopportato dopo che io ti perdei.
48 Forma per cui cfr. Intr., 81 n.
49 scontrosamente.
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venuto qui per pagare ciò che volesse questo gentile uomo in casa cui50 noi siamo, per riaverti e per menartene?
e egli, la sua mercè, per ciò che io voglio, mi ti rende».
La donna rivolta a lui, un cotal pocolin sorridendo,
disse: «Messere, dite voi a me? Guardate che voi non
m’abbiate colta in iscambio51, chè, quanto è io52, non mi
ricordo che io vi vedessi giammai53».
Disse messer Riccardo: «Guarda ciò che tu di’ , guatami bene: se tu ti vorrai ben ricordare, tu vedrai bene
che io sono il tuo54 Riccardo di Chinzica».
La donna disse: «Messere, voi mi perdonerete: forse
non è egli così onesta cosa a me, come voi v’immaginate,
il molto guardarvi, ma io v’ho nondimeno tanto guardato, che io conosco che io mai più non vi vidi».
Imaginossi messer Riccardo che ella questo facesse
per tema di Paganino, di non volere in sua presenza
confessar di conoscerlo: per che dopo alquanto chiese di
grazia a Paganino che in camera solo con essolei le potesse parlare. Paganin disse che gli piacea, sì veramente55 che egli non la dovesse contra suo piacere bascia-
50
La solita omissione della preposizione di, per cui II 5,50 n.
presa per un’altra: cfr. VII 6,27 n.
52 per quanto è in me, sta a me: Sacchetti, CLVII: «che, quanto
io, non sono per adorarlo», e «quanto io, non sono acconcio, né intendo di vederlo»; e anche LXXVIII e CLXXVII. Per le varie discussioni su questo passo vedi Annotazioni, p. 124; e cfr. IV intr.,
28. Quest’ultimo esempio potrebbe indurre anche a punteggiare e
a intendere diversamente: «quanto è, io non mi ricordo che io»,
cioè per quanto è possibile ..., ma la ripetizione di ‘io’ sembra così
troppo pesante.
53 Inf.,VI 45: « Sì che non par ch’i’ ti vedessi mai».
54 La preghiera si fa più incalzante nel ritmo dei tre endecasillabi.
55 purché, a patto che: II 9,22 n.
56 «E pure appica Paganino» (M.).
51
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re56; e alla donna comandò che con lui in camera andasse e udisse ciò che egli volesse dire e come le piacesse gli
30 rispondesse.
Andatisene adunque in camera la donna e messer Riccardo soli, come a sedere si furon posti, incominciò messer Riccardo a dire: «Deh, cuore del corpo mio, anima
mia dolce57, speranza mia, or non riconosci tu Riccardo
tuo che t’ama più che se medesimo? come può questo
esser? son io così trasfigurato? deh, occhio mio bello,
31 guatami pure un poco».
La donna incominciò a ridere e senza lasciarlo dir più
disse: «Ben sapete che io non sono sì smimorata58, che
io non conosca che voi siete messer Riccardo di Chinzica mio marito; ma voi, mentre che io fui con voi, mostraste assai male di conoscer me. Per ciò che se voi eravate
savio o sete, come volete esser tenuto, dovavate59 bene
avere tanto conoscimento, che voi dovavate vedere che
io era giovane e fresca e gagliarda, e per conseguente cognoscere quello che alle giovani donne, oltre al vestire e
32
al mangiare, benché elle per vergogna nol dicano, si richiede: il che come voi il faciavate, voi il vi sapete. E se
egli v’era più a grado lo studio delle leggi che la moglie,
57 Appassionate espressioni - come più sotto ‘occhio mio bello’ consuete alla poesia popolare e ai cantari, e che il B. amò riprendere (V. BRANCA, Il cantare trecentesco cit., pp. 17 sgg., 83 sgg.).
58 Non solo senza memoria, ma anche balorda, stupida (cfr. VI
9,13 n.).
59 Queste forme dell’imperfetto, non ignote al B. (I 4,21 n.), si
infittiscono sulle labbra di Madonna Bartolomea, forse perché erano anche cadenze particolari del vernacolo pisano.
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voi non dovavate pigliarla; benché a me non parve mai
che voi giudice foste, anzi mi paravate un banditor di sagre e di feste, sì ben le sapavate, e le digiune60 e le vigilie.
E dicovi che se voi aveste tante feste fatte fare a’ lavora33 tori che le vostre possession lavorano, quante faciavate
fare a colui che il mio piccol campicello aveva a lavorare, voi non avreste mai ricolto granel di grano61. Sommi
abbattuta62 a costui, che ha voluto Idio sì come pietoso
raguardatore della mia giovanezza, col quale io mi sto in
questa camera, nella quale non si sa che cosa festa sia,
dico di quelle feste che voi, più divoto a Dio che a’ servigi delle donne, cotante celebravate; né mai dentro a
quello uscio63 entrò né sabato né venerdì né vigilia né
quatro tempora né quaresima, ch’è così lunga, anzi di dì
64
34 e di notte ci si lavora e battecisi la lana ; e poi che questa notte sonò mattutino65, so bene come il fatto andò da
una volta in sù. E però con lui intendo di starmi e di lavorare mentre sarò giovane, e le feste e le perdonanze66
e’ digiuni serbarmi a far quando sarò vecchia; e voi con
60 Dal latino neutro jejunia, fatto femminile (Pucci, Centiloquio,
XLIV, 16): forse allude determinatamente alle tempora.
61 Cfr. III 1, I 8; VII 10, 15; e Sacchetti, CLIV. Il lavoro dei campi, quello dell’aratro nel solco, servono naturalmente a rnetafore
del commercio sessuale (cfr. per es. Dictionnaire des symboles, pp.
175 sgg., 445).
62 imbattuta: II 5,84 n.
63 Evidentemente la donna indica la porta della camera.
64 In senso equivoco assai facile e diffuso: per es. IV 7,8 n.; VIII
9,26.
65 Cioè il principio del giorno, secondo la solita divisione delle
ore per cui Intr., 102 n.
66 i pellegrinaggi per ottenere indulgenze.
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la buona ventura sì ve n’andate il più tosto che voi potete, e senza me fate feste quante vi piace».
Messer Riccardo, udendo queste parole, sosteneva
dolore incomportabile, e disse, poi che lei tacer vide:
«Deh, anima mia dolce, che parole son quelle che tu di’
? or non hai tu riguardo all’onore de’ parenti tuoi e al
tuo? Vuoi tu innanzi star qui per bagascia di costui e in
peccato mortale, che a Pisa mia moglie? Costui, quando
36 tu gli sarai rincresciuta67, con gran vitupero di te medesima ti caccerà via: io t’avrò sempre cara e sempre, ancora che io non volessi68, sarai donna della casa mia. Dei tu
per questo appetito disordinato e disonesto lasciar
l’onor tuo e me, che t’amo più che la vita mia? Deh, speranza mia cara, non dir più così , voglitene venir con meco: io da quinci innanzi, poscia che io conosco il tuo disidero, mi sforzerò; e però, ben mio dolce69, muta
37 consiglio e vientene meco, ché mai ben non sentii poscia
che tu tolta mi fosti».
A cui la donna rispose: «Del mio onore non intendo
io che persona, ora che non si può70, sia più di me tene35
67
gli sarai venuta a noia: cfr. V 6,35 n.
«Credo che voglia dire: non vivessi» (M.). Ma la chiosa è errata, come già notarono i Deputati: «il buon Dottore il quale ... meglio avea la teorica de iure dotium che la pratica de usu noctium, voleva in suo linguaggio dire che Paganino era sciolto, e per ciò stava
a lui, quandunque ella gli fusse venuta a noia, cacciarla via; cosa
che di sé non poteva in modo alcun sospettare, poiché legato dal
contratto del matrimonio, se per tempo alcuno gli fosse rincresciuta, ... gli conveniva, ancor che a suo mal grato ... ritenerla in casa, e
come ‘donna’, ché così chiamavano allora la padrona» (lat. domina:
p. 125).
69 Questo discorso, punteggiato di appellativi tenerissimi, ricorda certi passi dell’Amorosa Visione (per es. XXIII 52 sgg.). E cfr.
III 3,10 n.
70 Cioè ora che è ormai passato il tempo, che è troppo tardi.
71 mio onore: come poi ‘loro’ (onore).
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ra: fosserne stati i parenti miei quando mi diedero a voi!
Li quali se non furono allora del mio71, io non intendo
38 d’essere al presente del loro; e se io ora sto in peccato
mortaio, io starò quando che sia in imbeccato pestello72:
non ne siate più tenero di me. E dicovi così , che qui mi
pare esser moglie di Paganino e a Pisa mi pareva esser
vostra bagascia, pensando che per punti di luna e per
isquadri di geometria73 si convenieno tra voi e me con39 giugnere i pianeti, dove qui Paganino tutta la notte mi
tiene in braccio e strignemi e mordemi, e come egli mi
conci Dio vel dica per me. Anche dite voi che vi sforzerete: e di che? di farla in tre pace74, e rizzare a
mazzata75? Io so che voi siete divenuto un pro’ cavaliere
40 poscia che io non vi vidi! Andate, e sforzatevi di vivere,
ché mi pare anzi che no che voi ci stiate a pigione76, sì tisicuzzo e tristanzuol mi parete. E ancor vi dico più: che
72 Facile gioco di parole equivoche e metafora sessuale assai corrente (IV intr., 28 n.; VIII 2,44-45; Concl., 5), su una frase di Ricciardo «star qui ... in peccato mortale «: 35).
73 secondo certe posizioni della luna e certi squadrari dettati dalle
regole della geometria, cioè, calcoli geometrici. La ripresa di una
espressione usata all’inizio per indicare le interessate eccezioni di
Ricciardo («sopra questi aggiungendo ... certi punti della luna e altre eccezioni»: 9), dà l’avvio a tutta questa frase immaginosamente
equivoca, per cui vedi anche Sacchetti, XXVIII.
74 fare patta, cioè non far nulla: con modo di dire, qui equivoco,
tratto dal gioco degli aliossi o dei dadi dove facendo il gioco al terzo colpo non si vinceva né si perdeva. Oppure si può intendere che
anche dopo tre partite non si conclude, non si ottiene nulla, perché
si rimane pari.
75 Altra espressione equivoca: «rizzare a mazzata è proprio quella canna, con che si pesca con l’amo, la qual quando si vuol vedere
s’alcun pesce è preso si alza con mano» (Alunno); o semplicemente
a furia di bastonate, riprendendo il linguaggio dei cavallari.
76 in questo mondo ci stiate a fatica, possiate vivere a stento: cioè
ci stiate in affitto, come in casa non vostra.
77 se io.
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quando costui mi lascerà, che non mi pare a ciò disposto
dove io77 voglia stare, io non intendo per ciò di mai tornare a voi, di cui, tutto premendovi, non si farebbe uno
41 scodellino di salsa78, per ciò che con mio grandissimo
danno e interesse79 vi stetti una volta: per che in altra
parte cercherei mia civanza80. Di che da capo vi dico che
qui non ha81 festa né vigilia, laonde io intendo di starmi;
42 e per ciò, come più tosto potete, v’andate con Dio, se
non che io griderò che voi mi vogliate sforzare».
Messer Riccardo, veggendosi a mal partito e pure allora conoscendo la sua follia d’aver moglie giovane tolta
essendo spossato82, dolente e tristo s’uscì della camera e
disse parole assai a Paganino le quali non montarono un
78 Anche la moglie di Calandrino, in situazione simile: «premendoti tutto, non uscirebbe tanto sugo che bastasse a una salsa» (IX
5,64).
79 avendo grandissimo danno e pagando un ingordo interesse, riferendosi chiaramente a quanto è detto sopra. Ed è espressione del
linguaggio mercantesco, equivalente all’odierno «lucro cessante e
danno emergente».
80 utile, guadagno: Sacchetti, XXXII: «Hanno battezzato l’usura
in diversi nomi come ... merito, interesse, cambio, civanza ... »; e
anche G. Villani, XII 49.
81 non c’è: II 5,76 n.
82 svigorito, impotente: III 6,36: «Tu se’ bene oggi, can rinnegato,
stato gagliardo, che a casa ti suogli mostrare così debole e vinto e
senza possa»: cfr. Annotazioni, pp. 125 sgg.
83 non venivano, non servivano a nulla: «Frullo fu detto già un
osso forato nel mezzo e con certa corda nel buco che tirandola ed
allargandola fa un certo suono nel suo aggirare, come la stessa voce
significa... Ed è pure il romore che fanno alcuni uccelli, massimamente le starne, levandosi da terra» (Fanfani).
84 follia, demenza: II 9,19 n.
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frullo83. E ultimamente, senza alcuna cosa aver fatta, lasciata la donna, a Pisa si ritornò; e in tanta mattezza84
per dolor cadde, che andando per Pisa, a chiunque il salutava o d’alcuna cosa il domandava, niuna altra cosa ri43
spondeva, se non: «Il mal furo non vuol festa85» ; e dopo
non molto tempo si morì .
Il che Paganin sentendo e conoscendo l’amore che la
donna gli portava, per sua legittima moglie la sposò, e
senza mai guardar festa o vigilia o far quaresima, quanto
le gambe ne gli poteron portare lavorarono e buon tempo si diedono. Per la qual cosa, donne mie care, mi pare
85 «Credo che voglia dire foro» (M.). E così deve essere (come
nel Corbaccio, 416 «malpertugio»); il B. probabilmente scrisse così
per imitar caricaturalmente la pronuncia pisana, come già abbiamo
notato per altri particolari linguistici (hanno largamente ragionato
e dimostrato il fatto i Deputati in una acuta Annotazione, pp. 127
sgg.). Il detto sentenzioso, quasi da codice, allude sinteticamente a
tutta la vicenda matrimoniale del vecchio giudice: una sorta di paronomasia («denominatio») complicata dalla pronuncia pisana, dà
rilievo al grottesco della situazione, alla demenza ripetitiva di Ricciardo. E forse si gioca anche sull’anfibologia furo - fur (lat. ladro).
Ma per tutto il linguaggio giuridico e le inflessioni pisane usate in
senso espressionistico cfr. Introduzione a questa edizione, pp. XXVI sgg.
86 facesse male i latti suoi, andasse male, in rovina: dato che le capre in discesa vanno a balzelloni, e sarebbe pericoloso cavalcarle:
VIII 9,73: «godendo, gli facean cavalcar la capra delle maggiori
sciocchezze del mondo». E il detto si riferisce chiaramente al duplice errore di Ricciardo, di aver preso moglie da vecchio e di averla voluta giovane. Per la popolarità del motto proverbiale (che di
solito cita il cavallo al posto della capra) cfr. Rotunda, J 21.24*.
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che ser Bernabò disputando con Ambruogiuolo cavalcasse la capra inverso il chino86. –
CONCLUSIONE
1
2
3
Questa novella diè tanto che1 ridere a tutta la compagnia, che niuna ve n’era a cui non dolessero le mascelle2:
e di pari consentimento tutte le donne dissero che Dioneo diceva vero e che Bernabò era stato una bestia. Ma
poi che la novella fu finita e le risa ristate, avendo la reina riguardato che l’ora era omai tarda e che tutti avean
novellato e la fine della sua signoria era venuta, secondo
il cominciato ordine3, trattasi la ghirlanda di capo, sopra
la testa la pose di Neifile con lieto viso dicendo: – Omai,
cara compagna, di questo piccol popolo il governo sia
tuo – : e a seder si ripose.
1
tanto di cui, tanto da: cfr. II 7,26 n.
Così dopo la predica di Frate Cipolla: «avevan tanto riso, che
eran creduti smascellare» (VI 10,55): e VI intr., 11 n.
3 secondo la disposizione già presa, secondo l’uso già stabilito; oppure secondo la iniziale posizione dei novellatori, in giro (Marti): e
cfr. per lo stilema I 4,2 n.
4 Un rossore costante sulle guance delle novellatrici più giovani
coronate regine (Filomena, Neifile, Emilia), come già, in analoga
circostanza, su quelle della Fiammetta nel Filocolo (IV 18,4). Per
arrossare cfr. I 10,7 n.
5 Si suole ricordare per questa vaga descrizione di Neifile Inf., II
55: «Lucevan li occhi suoi più che la stella» e Purg., XII 89-90: «ne
la faccia quale | Par tremolando mattutina stella». Ma vanno tenuti
presenti anche la poesia popolare del tempo e i cantari le cui fanciulle sono sempre «fresche rose di maggio», «mattutine stelle»
(cioè la stella Diana o Lucifero), dagli «occhi vaghi e scintillanti»: il
B. già aveva accettato proprio queste formule e questa aggettiva2
Letteratura italiana Einaudi 371
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
4
5
6
Neifile del ricevuto onore un poco arrossò4, e tal nel
viso divenne qual fresca rosa d’aprile o di maggio in su
lo schiarir del giorno si mostra, con gli occhi vaghi e sintillanti non altramenti che matutina stella5, un poco bassi. Ma poi che l’onesto romor6 de’ circunstanti, nel quale il favor loro verso la reina lietamente mostravano7, si
fu riposato e ella ebbe ripreso l’animo, alquanto più alta
che usata non era sedendo, disse: – Poi che così è che io
vostra reina sono, non dilungandomi dalla maniera tenuta per quelle8 che davanti a me sono state, il cui reggimento voi ubidendo commendato avete, il parer mio in
poche parole vi farò manifesto, il quale se dal vostro
consiglio sarà commendato, quel9 seguiremo. Come voi
sapete, domane è venerdì e il seguente dì sabato, giorni,
per le vivande le quali s’usano in quegli10, alquanto tediosi alle più genti; senza che11 ‘l venerdì , avendo riguardo che in esso Colui che per la nostra vita morì sostenne passione, è degno di reverenza, per che giusta
cosa e molto onesta reputerei che, a onor di Dio, più tosto a orazioni che a novelle vacassimo12. E il sabato appresso usanza è delle donne di lavarsi la testa, e di tor
zione nel Filostrato e nel Teseida (cfr. V. BRANCA, Il cantare trecentesco cit., pp. 82 sgg.). Per sintillanti cfr. Annotazioni, pp. 130
sgg.
6 Composto, signorile mormorio di consenso, di plauso.
7 Espressione solita a indicare approvazione: per es. IV 4,18.
8 da quelle, cioè Pampinea e Filomena.
9 quel parere.
10 Cioè «giorni di magro» dato che al venerdì e al sabato v’era
astinenza e digiuno.
11 senza contare che.
12 attendessimo: più sotto, 16: «a quelle cose vacando»; Trattatello, I 129: «solamente a’ divini servigi vacassero», e Fiammetta, III
6,7.
13 Di queste usanze nella Firenze del Trecento ha trattato con
precise documentazioni M. BARBI, Il sabato inglese dell’antichità,
in « Pan «, III, 1935.
14 molte donne.
Letteratura italiana Einaudi
372
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
via ogni polvere, ogni sucidume che per la fatica di tutta
la passata settimana sopravenuta fosse13; e soglion similmente assai14, a reverenza della Vergine Madre del Figliuolo di Dio, digiunare, e da indi in avanti15 per onor
della sopravegnente domenica da ciascuna opera ripo7
sarsi: per che, non potendo così appieno in quel dì l’ordine da noi preso nel vivere seguitare, similmente stimo
sia ben fatto quel dì delle novelle ci posiamo16. Appresso, per ciò che noi qui quatro dì dimorate saremo17, se
8
noi vogliam tor via18 che gente nuova non ci sopravenga,
reputo oportuno di mutarci di qui19 e andarne altrove; e
il dove io ho già pensato e proveduto. Quivi quando noi
saremo domenica appresso dormire adunati, avendo noi
oggi avuto assai largo spazio da discorrere ragionando20,
sì
perché più tempo da pensare avrete e sì perché sarà
9
ancora più bello che un poco si ristringa del novellare la
licenzia21 e che sopra uno de’ molti fatti della fortuna si
dica, e22 ho pensato che questo sarà: di chi alcuna cosa
molto disiderata con industria23 acquistasse o la perduta
recuperasse.
Sopra che24 ciascun pensi di dire alcuna co10
sa che alla brigata esser possa utile o almeno dilettevole,
salvo sempre il privilegio di Dioneo. –
15 Cioè per il resto del sabato, presumibilmente dal vespro in poi
(cfr. I 1,58 n.).
16 Doppia ellissi di che dopo ‘stimo’ e dopo ‘fatto’. Il lungo e solenne periodo si conclude coi ritmi di un
endecasillabo.
17 La brigata si era recata in campagna il mercoledì.
18 evitare, impedire.
19 di muoverci di qui, di cambiare residenza.
20 avendo il tema di oggi concesso ampio spazio, argomento da novellare.
21 la libertà della scelta degli argomenti.
22 Ha valore dimostrativo, come altrove: ecco (e cfr. I 1,39 n.;
Rohlfs, 759).
23 ingegnosità, abilità: I 8,2 n.: «poscia che udito ebbe lodare la
’ndustria di Bergamino».
24 Sopra il quale argomento.
25 il divisamento, la proposta: III 7,87: «il diviso e lo ’nvito del
pellegrino».
Letteratura italiana Einaudi 373
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
11
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13
14
Ciascun commendò il parlare e il diviso25 della reina,
e così statuiron che fosse. La quale, appresso questo, fattosi chiamare il suo siniscalco, dove metter dovesse la
sera le tavole e quello appresso che far dovesse in tutto il
tempo della sua signoria pienamente gli divisò26; e così
fatto, in piè dirizzata con la sua brigata, a far quello che
più piacesse a ciascuno gli licenziò.
Presero adunque le donne e gli uomini inverso un
giardinetto la via e quivi, poi che alquanto diportati si
furono, l’ora della cena venuta, con festa e con piacer
cenarono; e da quella levati, come alla reina piacque,
menando Emilia la carola27, la seguente canzone da
Pampinea28, rispondendo29 l’altre, fu cantanta:
Qual donna canterà, s’io non canto io30,
che son contenta d’ogni mio disio?
Vien dunque, Amor, cagion d’ogni mio bene,
d’ogni speranza e d’ogni lieto effetto;
cantiamo insieme un poco,
non de’ sospir né delle amare pene
ch’or più dolce mi fanno il tuo diletto,
ma sol del chiaro foco31,
nel quale ardendo in festa vivo e ’n gioco32,
te adorando come un mio idio.
Tu mi ponesti innanzi agli occhi, Amore,
il primo dì ch’io nel tuo foco entrai,
26
espose e ordinò: I 5,10 n.
iniziando e quindi guidando Emilia la danza: Intr., 106 n.; I
concl., 16 n.
28 canzone a ballo.
29 Cioè facendo coro per i due versi della ripresa: I concl., 22 n.
30 Petrarca, CV 17: «Intendami chi pò ch’i’ m’intend’io»: la ripetizione enfatica è dell’uso poetico; ma cfr. III 2,18.
31 cioè dell’infocata passione.
32 gioia, letizia: Amorosa Visione, XXI 44-45: «tu in giuoco e festa | Ora ti stai»; Teseida, III 34; e cfr. IV 3,19 n.; Cino, O giorno di
tristizia, 12: «E faimi dimorare in ghiaccio e ’n foco».
33 Petrarca, CCCXXV 93-94: «Leggiadria né beltate | Tanta non
vide ’l sol credo, già mai».
27
Letteratura italiana Einaudi
374
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata II
un giovinetto tale,
che di biltà, d’ardir, né di valore
non se ne troverebbe un maggior mai33,
15
né pure a lui equale:
di lui m’accesi tanto, che aguale34
lieta ne canto teco, signor mio.
E quel che ’n questo m’è sommo piacere
è ch’io gli piaccio quanto egli a me piace,
Amor, la tua merzede35;
per che in questo mondo il mio volere
posseggo, e spero nell’altro aver pace
16
per quella intera fede
che io gli porto. Idio, che questo vede,
del regno suo ancor ne sarà pio36.
Appresso questa37, più altre se ne cantarono e più
danze si fecero e sonarono diversi suoni38; ma estimando
la reina tempo essere di doversi andare a posare, co’ torchi avanti ciascuno alla sua camera se n’andò. E li due dì
seguenti a quelle cose vacando39 che prima la reina aveva ragionate, con disiderio aspettarono la domenica.
34 ora, adesso: Teseida, I 32 e 33, III 5 e 56; Amorosa Visione,
XXXV 27.
35 grazie a te: IX concl., 8; Vita Nuova, XVIII 4: «Amore, la sua
merzede, ha posto tutta la mia beatitudine in quello»; e XXIII 28.
36 ci sarà largo, ce lo concederà. La ballata, che canta la gioia
d’amore con una serenità che ben si addice al carattere di Pampinea, sembra variare latamente su motivi e in un’atmosfera simili a
certe Rime (XIV, XXVI, LIX, LXX), a certe ottave del Filostrato
(III 74 sgg.), a certi passi dell’Amorosa Visione (XVI 10 sgg.,
XXIII 14 sgg., XLII 61 sgg.). L’interpretazione allegorica proposta
dall’Hauvette (art. cit.), quella autobiografica del Manicardi e Massera (art. cit.), quella che vorrebbe vedere nella protagonista la raffigurazione della Dialettica o Logica (I concl., 12 n.), svaniscono di
fronte a quei riscontri precisi, che riconducono anche questa ballata nel cerchio vago e madrigalesco della lirica amorosa del B.
37 Questa canzone a ballo è costituita dalla ripresa (Z Z) e da tre
strofe di endecasillabi e settenari (ABc, ABc; CZ), l’una e le altre con
identica rima (Z) nell’ultimo verso. Fu musicata da Girolamo Scotto.
38 arie, motivi: X 6, 22: «cominciarono a cantare un suono»; X
7,23: «le quali parole ... intonò d’un suono soave».
39 attendendo: cfr. 5 n.
Letteratura italiana Einaudi 375
TERZA GIORNATA
1
Finisce la Seconda giornata del Decameron: incomincia la terza, nella quale si ragiona, sotto il reggimento di Neifile, di chi
alcuna cosa molto disiderata con industria acquistasse o la perduta ricoverasse.
2
L’aurora già di vermiglia cominciava, appressandosi il
sole, a divenir rancia1, quando la domenica la reina levata e fatta tutta la sua compagnia levare, e avendo già il siniscalco gran pezzo davanti mandato al luogo dove andar doveano assai delle cose oportune e chi quivi
preparasse quello che bisognava, veggendo già la reina
in cammino, prestamente fatta ogni altra cosa caricare,
quasi quindi il campo levato, con la salmeria2 n’andò3 e
con la famiglia rimasa appresso delle donne e dei signori.
La reina adunque con lento passo, accompagnata e
seguita dalle sue donne e dai tre giovani, alla guida del
canto di forse venti4 usignuoli e altri uccelli, per una
3
1 Era cioè l’ultima parte dell’aurora, quando il cielo è arancione:
Purg., II 7 sgg.: «le bianche e le vermiglie guance, | Là dov’i’ era, de
la bella Aurora | Per troppa etate divenivan rance». Si distingueva
infatti l’Aurora albescens, rubescens, lutea.
2 bagagli: II 3,17 n.
3 Il soggetto è sempre il s i n i s c a l c o. Non si accenna, come
nella domenica seguente (VIII intr., 2), alla partecipazione a una
messa.
4 accompagnata dal canto di forse venti ... Numero indeterminato,
per indicare una quantità non grande, come più sotto (12) e per es.
nella V 3,13: «venticinque fanti» e nella VIII 9,19 (e cfr. M. FERRARA, in «Lingua Nostra», IX, 1948; e anche III 3,25).
Letteratura italiana Einaudi 376
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata III
4
vietta non troppo usata, ma piena di verdi erbette e di
fiori, li quali per lo sopravegnente sole tutti s’incominciavano a aprire, prese il cammino verso l’occidente, e
cianciando e motteggiando e ridendo5 con la sua brigata, senza essere andata oltre a dumilia passi, assai avanti
che mezza terza6 fosse a un bellissimo e ricco palagio, il
quale alquanto rilevato dal piano sopra un poggetto era
posto, gli ebbe condotti7. Nel quale entrati e per tutto
andati, e avendo le gran sale, le pulite e ornate camere
compiutamente ripiene di ciò che a camera s’appartiene,
sommamente il commendarono e magnifico reputarono
il signor di quello. Poi, abbasso discesi, e veduta l’ampissima e lieta corte di quello, le volte8 piene d’ottimi vini e la freddissima acqua e in gran copia che quivi surgea, più ancora il lodarono. Quindi, quasi di riposo
vaghi, sopra una loggia che la corte tutta signoreggiava9,
essendo ogni cosa piena di quei fiori che concedeva il
tempo e di frondi, postisi10 a sedere, venne il discreto siniscalco, e loro con preziosissimi confetti e ottimi vini11
ricevette e riconfortò.
5
La vaga descrizione prende un ritmo quasi di canzone in queste
due serie ciascuna di tre endecasillabi di seguito (forse ... ridendo)
unite da un dodecasillabo (li quali ... sole).
6
Un’ora e mezza dopo lo spuntare del sole: V 3,40 n.
7
Secondo una tradizione settecentesca, la Villa Schifanoia o de’
Tre Visi o Villa Palmieri, sopra il poggio di Camerata: assai più distante però di duemila passi da Poggio Gherardi (cfr. N. MASELLIS, I due palagi di rifugio ecc., in «Rassegna Nazionale», 16 giugno 1904; e cfr. Intr., 90 n.). E nota il trapassato remoto con valore
perfettivo: cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, pp. 299 sgg.
Tutta la descrizione sembra ricalcare il topos del «locus amoenus»
della letteratura medievale, secondo il modello, ad esempio, del
Roman de la Rose (cfr. E. G. KERN, The Gardens in the D., in
«PMLA», LXVI, 1951).
8 le cantine. Tutto come nel primo palazzo, quasi ripetizione di
una formula (Intr., 90 n.).
9 dominava.
10
Per questi femminili cfr. I concl., 9 n.
11
Altre due formule ripetute in situazioni analoghe (Intr., 90-91;
Letteratura italiana Einaudi 377
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata III
5
6
7
8
Appresso la qual cosa, fattosi aprire un giardino che
di costa12 era al palagio, in quello, che tutto era da torno
murato, se n’entrarono; e parendo loro nella prima entrata di maravigliosa bellezza tutto insieme, più attentamente le parti di quello cominciarono a riguardare. Esso
avea dintorno da sé e per lo mezzo in assai parti vie ampissime, tutte diritte come strale e coperte di pergolati
di viti, le quali facevan gran vista di dovere quello anno
assai uve fare, e tutte allora fiorite sì grande odore per lo
giardin rendevano, che, mescolato insieme con quello di
molte altre cose che per lo giardino olivano13, pareva loro essere tra tutta la spezieria14 che mai nacque in
Oriente. Le latora15 delle quali vie tutte di rosa’ bianchi
e vermigli e di gelsomini erano quasi chiuse: per le quali
cose, non che la mattina, ma qualora il sole era più alto,
sotto odorifera e dilettevole ombra, senza esser tocco da
quello, vi si poteva per tutto andare. Quante e quali e
come ordinate poste fossero le piante che erano in quel
luogo, lungo sarebbe a raccontare; ma niuna n’è laudevole, la quale il nostro aere patisca16, di che quivi non sia
abondevolemente. Nel mezzo del quale, quello che è
non meno commendabile che altra cosa che vi fosse, ma
molto più, era un prato di minutissima erba e verde tanto, che quasi nera parea, dipinto17 tutto forse di mille varietà di fiori, chiuso dintorno di verdissimi e vivi18 aranci
I 10,14 n.). I due elementi «s’accompagnano sempre e costituiscono quasi locuzione (ed uso mondano) tecnicamente fissa» (Marti).
12
accosto, allato; G. Villani, XI 114: «di costa al coro».
13
olezzavano: II 5,17 n.
14
Ira tutti gli alberi di spezie, aromatici, dell’Oriente.
15
lati: plurale, risalente all’-ora lat. dei neutri in -us (tempora), assai frequente nei testi antichi (cfr. per es. Crestomazia, glossario;
Testi fiorentini,glossario; Sacchetti, L, ecc.: e Rohlfs, 370).
16
cui il nostro clima consenta di allignare, di crescere.
17
Purg., VII 79-80: «Non avea pur natura ivi dipinto, | Ma di
soavítà di mille odori ...»
18 rigogliosi, schietti: Orazio, Odi, III 8: «in caespite vivo».
Letteratura italiana Einaudi
378
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata III
e di cedri, li quali, avendo i vecchi frutti e’ nuovi e i fiori
ancora, non solamente piacevole ombra agli occhi, ma
9
ancora all’odorato facevan piacere19. Nel mezzo del qual
prato era una fonte di marmo bianchissimo e con maravigliosi intagli: iv’entro20, non so se da natural vena o da
artificiosa, per21 una figura, la quale sopra una colonna
che nel mezzo di quella diritta era22, gittava tanta acqua
e sì alta verso il cielo, che poi non senza dilettevol suono
nella fonte chiarissima ricadea, che di meno avria maci10 nato un mulino23. La qual poi, quella dico che soprabondava al pieno della fonte24, per occulta via del pratello usciva e, per canaletti assai belli e artificiosamente
fatti, fuori di quello divenuta palese, tutto lo ’ntorniava;
e quindi per canaletti simili quasi per ogni parte del
giardin discorrea, raccogliendosi ultimamente in una
parte dalla quale del bel giardino avea l’uscita, e quindi
19 Il lussureggiante giardino descritto in questi tre ultimi periodi
(le latora ecc.) ha riscontri quasi verbali nell’Amorosa Visione, specie nella II redazione: «Tutto dintorno ed ancora sopra esso | Era
di frondi verdi il loco pieno, | Per cui tutt’era d’ombra soave spesso. | Entrar non vi potea sol né sereno, | Di gelsomini e rose circuito, | E d’odorifer cedri e aranci ameno» (XLIX 4 sgg.; e vedi anche
XXXIX 49 sgg.). E cfr. anche Teseida, IV 65; Comedia, XXVI 8
sgg. È il solito topos: cfr. 3 n.
20 «Gli avverbi di luogo, e così i nomi di luogo, sogliono spesso
prendere qualità di sostantivi, come per es.: ‘Intorno a lui parea
calcato e pieno’, [Purg., X 79] cioè il luogo intorno a lui ... Ora si
consideri iv’entro per sostantivo, come chi dicesse il di dentro»
(Fanfani), e come soggetto di gittava: VI concl., 18 n. Soggetto di
gittava potrebbe anche essere o fonte o tanta acqua, sia pur con
una certa durezza. Cfr. anche Mussafia, pp. 475 sg.; E. G. PARODI, Lingua e Letteratura Cit., p. 225; Giordano da Pisa, Quaresimale Cit., LX II.
21 per mezzo, attraverso.
22 Il verbo, che andrebbe ripetuto, serve ad ambedue i relativi.
23 che meno acqua avrebbe potuto far girare un mutino: il che consecutivo dipende dal precedente tanta acqua.
24 traboccava dalla fonte già piena.
Letteratura italiana Einaudi 379
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata III
verso il pian discendendo chiarissima, avanti che a quel
divenisse25, con grandissima forza e con non piccola utilità del signore, due mulina volgea26.
11
Il veder questo giardino, il suo bello ordine, le piante
la e la fontana co’ ruscelletti procedenti da quella, tanto
piacque a ciascuna donna e a’ tre giovani che tutti cominciarono a affermare che, se Paradiso si potesse in
terra fare, non sapevano conoscere che altra forma27 che
quella di quel giardino gli si potesse dare, né pensare, ol12 tre a questo, qual bellezza gli si potesse aggiugnere. Andando adunque contentissimi dintorno per quello, faccendosi di vari rami d’albori ghirlande bellissime,
tuttavia udendo forse venti maniere di canti d’uccelli
quasi a pruova28 l’un dell’altro cantare, s’accorsero
d’una dilettevol bellezza, della quale, dall’altre sopra13 presi29, non s’erano ancora accorti: ché essi videro il
giardin pieno forse di cento varietà di belli animali, e
l’uno all’altro mostrandolo, d’una parte uscir conigli,
d’altra parte correr lepri, e dove giacer cavriuoli, e in alcuna cerbiatti giovani andar pascendo e, oltre a questi,
altre più maniere di non nocivi animali, ciascuno a suo
diletto, quasi dimestichi, andarsi a sollazzo: le quali cose, oltre agli altri piaceri, un vie maggior piacere aggiunsero30.
25 pervenisse,
giungesse.
faceva girare. Anche la descrizione della meravigliosa fontana
(intagli, sculture) e degli artificiosi canali è anticipata nell’Amorosa
Visione,XXXVIII-XXXIX (»... una fontana bella e grande; e
quando | Io m’appressai a quella, d’intagliato | E bianco marmo vidi assai figure ecc.»). Vedi anche Rime, I e Filocolo, IV 17,4 e V 14
sg.; e D., IV concl., 7: «parte per lo giardino ... e parte verso le mulina che fuor di quel [giardino] macinavano» (m u l i n a è forma di
plurale costante nel D.: Cfr. II 7,76 n.).
27 immaginare quale altra forma.
28 a gara: Inf., VIII 114.
29 colpiti, sorpresi. Cfr. II 2,16 n.: e Purg., I 97-98: «l’occhio sorpriso | D’alcuna nebbia».
30 Anche tutti questi particolari ricordano nella prima parte l’In26
Letteratura italiana Einaudi
380
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata III
Ma poi che assai, or questa cosa or quella veggendo,
andati furono, fatto dintorno alla bella fonte metter le
tavole e quivi prima sei canzonette cantate e alquanti
balli fatti, come alla reina piacque, andarono a mangiare: e con grandissimo e bello e riposato31 ordine serviti e
di buone e dilicate vivande, divenuti più lieti sù si levarono, e a’ suoni e a’ canti e a’ balli da capo si dierono, infino che alla reina, per lo caldo sopravegnente, parve ora
15 che, a cui piacesse, s’andasse a dormire32. De’ quali chi
vi andò e chi, vinto dalla bellezza del luogo, andar non
vi volle, ma quivi dimoratisi, chi a legger romanzi33, chi a
giucare a scacchi e chi a tavole34, mentre gli altri dormiron, si diede35.
16
Ma poi che, passata la nona, ciascuno levato si fu36, e
il viso colla fresca acqua rinfrescato s’ebbero, nel prato,
sì come alla reina piacque, vicini alla fontana venutine, e
in quello secondo il modo usato postisi a sedere, a aspettar cominciarono di dover novellare sopra la materia
dalla reina proposta. De’ quali il primo a cui la reina tal
carico impose fu Filostrato, il quale cominciò in questa
guisa.
14
troduzione (106 sgg.) e nella seconda il Teseida (IV 65), l’Amorosa
Visione (XXXIX 46 sgg.), la Comedia (XXVI 8 sgg.) e in generale
la Caccia.
31 composto: Par., XV 130.
32 Tutti questi atti e queste occupazioni sono ripetuti puntualmente dall’Intr., 106 sgg. Le canzonette cantate sono sei, quante
cioè erano le giovani, esclusa la regina.
33 Cioè storie di amore e di cavalleria. Come Fiammetta (Prologo, 3), e la protagonista del Corbaccio (374 sgg., 411 sgg.), come
Paolo e Francesca: e cfr. Purg., XXVI 118; Tr. Cupidinis, IV 66.
34 Un gioco eseguito con pedine e dadi: cfr. Intr., 110 n.; e per le
forme giuco, giucare cfr. Intr., III n. e anche I 10,12 n.; e ed. critica
cit., p. CI.
35 Conclusione su una serie di due settenari e due endecasillabi
(il primo settenario e il primo endecasillabo sdruccioli).
36 Uso impersonale (ci si levò, si levarono) non insolito in toscano
e in toscano antico: cfr. del resto I 1,7; II 4,5; Purg., IV 25. E vedi
Annotazioni, pp. 132 sg. Nota che l’azione si ripete puntualmente
alla stessa ora.
Letteratura italiana Einaudi 381
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata III
NOVELLA PRIMA
1
Masetto da Lamporecchio si fa mutolo e diviene ortolano di
uno monistero di donne, le quali tutte concorrono a giacersi
con lui1 .
2
Bellissime donne, assai sono di quegli uomini e di
quelle femine che sì sono stolti, che credono troppo bene che, come a una giovane è sopra il capo posta la benda bianca e in dosso messole la nera cocolla2, che3 ella
più non sia femina né più senta de’ feminili appetiti se
non come se di pietra l’avesse fatta divenire il farla monaca: e se forse alcuna cosa contra questa lor credenza
n’odono, così si turbano come se contra natura un grandissimo e scelerato male fosse stato commesso, non pen-
3
1 Simili avventure – ma con sviluppi assai diversi – narrano il Novellino, come accadute alla contessa Antica e alle sue damigelle
(LXII), e Francesco da Barberino come avvenute in un convento
spagnolo per intervento di Satana (Reggimento e costumi cit., pp.
162 sgg.). Ancor più vaghi e lontani gli altri pretesi antecedenti: il
già citato fabliau «De l’abesse qui fut grosse», l’VIII dei Dodici conti morali (Bologna 1862, il XIII dell’Alphabetum narrationum, la
storia del conte di Poitou (MILLOT, Hist. Litt. des Troubadours,
Paris 1774, I, p. 8), la ballata trecentesca Kyrie kyrie pregne son le
monache (T. CASINI, Notizie e documenti per la storia della poesia
italiana nei secoli XIII e XIV, in «Il Propugnatore», n. s., ti, 1889,
p. 1). Una possibile presenza di suggestioni diverse e di accenni di
Andrea Cappellano è stata prospettata da H. LIMOLI, B.’s Masetto, in «Romanische Forschungen», LXXVII, 1965. Ma va tenuto
conto anche della popolarità del tema: Thompson e Rotunda, K
1323 e 1816. I.
2 Sopravveste a forma di manto portata da alcuni ordini religiosi:
dal B. (Amorosa Visione, XIV 14), come da Dante (Par., IX 78 e
XXII 77), il vocabolo fu usato per indicare specificatamente le vesti clericali.
3 La solita ripetizione di che dopo una frase parentetica, specialmente se ipotetica o temporale.
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5
6
sando né volendo aver rispetto a4 sé medesimi, li quali la
piena licenzia di poter far quel che vogliono non può saziare, né ancora alle gran forze dell’ozio e della solitudine5. E similmente sono ancora di quegli assai che credono troppo bene che la zappa e la vanga e le grosse
vivande e i disagi tolgano del tutto a’ lavoratori della terra i concupiscibili appetiti6 e rendan loro d’intelletto e
d’avedimento grossissimi7. Ma quanto tutti coloro che
così credono sieno ingannati, mi piace, poi che la reina
comandato me l’ha, non uscendo della proposta fatta da
lei, di farvene più chiare8 con una piccola novelletta.
In queste nostre contrade fu e è ancora un munistero
di donne assai famoso di9 santità (il quale io non nomerò
per non diminuire in parte alcuna la fama sua), nel quale, non ha gran tempo, non essendovi allora più che otto
donne con una badessa, e tutte giovani, era un buono
omicciuolo10 d’un loro bellissimo giardino ortolano: il
quale, non contentandosi del salario, fatta la ragion
sua11 col castaldo delle donne, a Lamporecchio12, là onde egli era, se ne tornò.
4 considerare:
II 7,47 n.
«Credo che voglia dire solitudine» (M.): una delle solite congetture errate del Mannelli.
6 brame amorose, che destano concupiscenza. La solita formula (II
2,35 n.). È da notare subito dopo l’indicativo (invece del congiuntivo, come prima: tolgano) in dipendenza da credono, secondo l’alternanza stilistica di moduli semanticamente equivalenti tonalmente diversi: cfr. III 3,50 n.
7 molto ottusi, grossolani: I 2,8 n. e III 3,8 n. E per tali concezioni, cui fu assai sensibile anche il B., cfr. II 8,12 n. e III 10,3 n.
8 rendervene meglio edotte, consapevoli.
9 per: li 7,64 n. Tutte le ricerche fatte per identificare questo monastero sono state, come si può immaginare, vane: qualche tradizione in proposito, vivente in Toscana, è nata chiaramente dal D.
10 Diminutivo e insieme spregiativo: come nel Sacchetti, LXXIV
e CCII.
11 fatti i conti: II 9,10 n.
12 Borgo nel Pístoiese.
5
Letteratura italiana Einaudi 383
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata III
7
Quivi, tra gli altri che lietamente il raccolsono13 fu un
giovane lavoratore forte e robusto e, secondo uomo di
villa14 con bella persona, il cui nome era Masetto; e domandollo dove tanto tempo stato fosse. Il buono uomo,
che Nuto avea nome, gliele disse; il quale Masetto domandò di che egli il monistero servisse.
8
A cui Nuto rispose: «Io lavorava un lor15 giardino
bello e grande e, oltre a questo, andava alcuna volta al
bosco per le legne, attigneva acqua e faceva cotali16 altri
servigetti; ma le donne mi davano sì poco salario, che io
9
non ne potevo appena pure pagare i calzari17. E oltre a
questo, elle son tutte giovani e parmi ch’ell’abbiano il
diavolo in corpo, ché non si può far cosa niuna al lor
modo. Anzi, quand’io lavorava alcuna volta l’orto, l’una
diceva: ‘Pon qui questo’, e l’altra: ‘Pon qui quello’, e l’altra mi toglieva la zappa di mano e diceva: ‘Questo non
sta bene’, e davanmi tanta seccaggine, che io lasciava
stare il lavorio18 e uscivami dell’orto; sì che, tra per l’una
cosa e per l’altra, io non vi volli star più e sommene ve10 nuto19. Anzi mi pregò il castaldo loro, quando io me ne
venni, che, se io n’avessi alcuno alle mani che fosse da
ciò, che io gliele mandassi, e io gliele promisi: ma tanto il
faccia Dio san delle reni20, quanto io o ne procaccerò o
ne gli manderò niuno».
11
A Masetto, udendo egli le parole di Nuto, venne
nell’animo un disidero sì grande d’esser con queste monache, che tutto se ne struggea, comprendendo per le
13 accolsero.
14 «Oggi si direbbe e per contadino, cioè ... quanto pativa la sua
qualità di uomo di villa» (Fanfani): e cfr. II 5,31 n. Masetto è ipocoristico da Tomaso, N u t o da Benvenuto.
15 Delle monache.
16 di questo genere: cfr. II 9,21 n.
17 Calze fornite di suola e che perciò sostituivan le scarpe
(Merkel).
18 Cioè: il lavoro che stavo facendo.
19 Cfr. Il 5,19 n.
20 Augurio forse derivato da un’interpretazione popolare del Ps.
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata III
parole di Nuto che a lui dovrebbe poter venir fatto di
quello che21 egli disiderava; e avvisandosi che fatto non
gli verrebbe se a Nuto ne dicesse niente, gli disse: «Deh
come ben facesti a venirtene! Che è un uomo22 a star
con femine? Egli sarebbe meglio a star con diavoli: elle
non sanno delle sette volte le sei quello che elle si vogliono elleno stesse».
12
Ma poi, partito23 il lor ragionare, cominciò Masetto a
pensare che via dovesse tenere a dovere potere esser con
loro; e conoscendo che egli sapeva ben fare quegli servigi che Nuto diceva, non dubitò di perder per quello24,
ma temette di non dovervi esser ricevuto per ciò che
troppo era giovane e appariscente. Per che, molte cose
divisate25 seco, imaginò: «Il luogo è assai lontano di qui
e niuno mi vi conosce; se io so far vista d’esser mutolo,
per certo io vi sarò ricevuto».
13
E in questa imaginazione fermatosi, con una sua scure
in collo, senza dire a alcuno dove s’andasse, in guisa
d’un povero uomo se n’andò al monistero: dove pervenuto, entrò dentro e trovò per ventura il castaldo nella
corte, al quale, faccendo suoi atti come i mutoli fanno,
mostrò di domandargli mangiare26 per l’amor di Dio e
14 che egli, se bisognasse, gli spezzerebbe delle legne. Il castaldo gli diè da mangiar volentieri, e appresso questo
gli mise innanzi certi ceppi che Nuto non avea potuti
spezzare, li quali costui, che fortissimo era, in poca
XXV 2. (»Ure renes meos») e di altre simili espressioni scritturali
(Ps. XV 7, LXXII 21, Ezechiele XXIX 7 ecc. e cfr. anche Sacchetti, CCXXX).
21 qualcosa di quello che.
22 A che si riduce un uomo: per la forma u m o cfr. I 10,12 n.
23 cessato, poiché se ne andarono: Purg., VI I: «Quando si parte il
gioco de la zara».
24 non dubitò di essere rifiutato, di non esser accettato per ciò che
riguardava i servigi da fare (Fanfani).
25 pensate: I 5,10 n.
26 Omessa la consueta preposizione anche in questo caso come
nella II 5,30 n.
Letteratura italiana Einaudi 385
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata III
15
d’ora27 ebbe tutti spezzati. Il castaldo, che bisogno avea
d’andare al bosco28, il menò seco, e quivi gli fece tagliate
delle legne; poscia, messogli l’asino innanzi, con suoi
cenni gli fece intendere che a casa ne le29 recasse. Costui
il fece molto bene, per che il castaldo a far fare certe bisogne che gli eran luogo30 più giorni vel tenne: de’ quali
avvenne che uno dì la badessa il vide, e domandò il castaldo chi egli fosse.
16
Il quale le disse: «Madonna, questi è un povero uomo
mutolo e sordo, il quale un di questi dì ci31 venne per limosina, sì che io gli ho fatto bene32, e hogli fatte fare assai cose che bisogno c’erano. Se egli sapesse lavorar l’orto e volesseci rimanere, io mi credo che noi n’avremmo
buon servigio, per ciò che egli ci bisogna, ed egli è forte
e potrebbene l’uom fare ciò che volesse33: e, oltre a questo, non vi bisognerebbe d’aver pensiero che egli motteggiasse queste vostre giovani».
17
A cui la badessa disse: «In fè di Dio tu di’ il vero! sappi se egli sa lavorare e ingegnati di ritenercelo: dagli
qualche paio di scarpette qualche cappuccio vecchio34, e
lusingalo, fagli vezzi, dagli ben da mangiare».
18
Il castaldo disse di farlo. Masetto non era guari lontano, ma faccendo vista di spazzar la corte tutte queste pa-
27 in
breve tempo: cfr. II 10,18 n.
come nella I 4,11.
come gliele: I I,55 n.
30 certe faccende che aveva necessità di fare, che gli occorrevano:
luogo in questo senso è usato anche con avere e fare (Intr., 7 n.;
VIII 1,15 ecc.).
31 qui, come più avanti.
32 l’bo beneficato, gli bo fatto l’elemosina.
33 e se ne potrebbe fare quel che si vuole (solito uso indeterminato
di u o m o, come l’on francese: I 7,15 n.).
34 I cappucci eran diventati sempre più comuni dai primi decenni del Duecento in poi: li portavano anche le persone più umili (Il
9, VI 10 ecc.), ma quelle di ceti più elevati li coprivano con cuffie e
cappelli (Merlcel). Per le scarpette cfr. 8 n.
28 Proprio
29 Indeclinabile
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19
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22
role udiva e seco lieto diceva: «Se voi mi mettete costà
entro, io vi lavorerò35 sì l’orto che mai non vi fu così lavorato.
Ora, avendo il castaldo veduto che egli ottimamente
sapea lavorare e con cenni domandatolo se egli voleva
star quivi, e costui con cenni rispostogli che far voleva
ciò che egli volesse, avendolo ricevuto36, gl’impose che
egli l’orto lavorasse e mostrogli quello che a fare avesse;
poi andò per altre bisogne del monistero e lui lasciò. Il
quale lavorando l’un dì appresso l’altro, le monache incominciarono a dargli noia e a metterlo in novelle37, come spesse volte avviene che altri fa38 de’mutoli, e dicevangli le più scelerate parole del mondo, non credendo
da lui essere intese; e la badessa, che forse stimava che
egli così senza coda39 come senza favella fosse, di ciò poco o niente si curava40.
Or pure avvenne che, costui un dì avendo lavorato
molto e riposandosi, due giovinette monache, che per lo
giardino andavano, s’appressarono là dove egli era, e lui
che sembiante facea di dormire cominciarono a riguardare; per che l’una, che alquanto era più baldanzosa,
disse all’altra: «Se io credessi che tu mi tenessi credenza41, io ti direi un pensiero che io ho avuto più volte, il
quale forse anche a te potrebbe giovare».
L’altra rispose: «Di’ sicuramente, ché per certo io nol
dirò mai a persona».
35 Per
il significato equivoco della frase Il 10,32 n.; Fiore, LXV.
si direbbe: avendolo assunto.
beffarlo: come il precedente motteggiare e secondo
il già notato valore di novelle (II 9,10 n.).
38 si fa.
39 Facile e diffuso uso equivoco: VII 1,27 n., e anche IV intr., 33
n.; IX 10,15 sgg. Cfr. Orazio, Satire, I 2,45; II 7,49.
40 Periodo concluso su una serie di quattro endecasillabi e un settenario.
41 il segreto: cfr. per es. VIII 3,8.
36 Oggi
37 canzonarlo,
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25
26
27
Allora la baldanzosa incominciò: «Io non so se tu
t’hai posto mente come noi siamo tenute strette42, né
che mai qua entro uomo alcuno osa entrare, se non il castaldo ch’è vecchio e questo mutolo; e io ho più volte a
più donne che a noi son venute, udito dire che tutte l’altre dolcezze del mondo sono una beffa a rispetto di
quella quando la femina usa con l’uomo. Per che io
m’ho più volte messo in animo, poiché con altrui non
posso, di volere con questo mutolo provare se così è, e
egli è il miglior del mondo da ciò43 costui, ché, perché
egli pur volesse44, egli nol potrebbe né saprebbe ridire:
tu vedi ch’egli è un cotal giovanaccio45 sciocco, cresciuto innanzi al senno46. Volentieri udirei quello che a te ne
pare».
«Oimè!» disse l’altra «che è quello che tu di’? non sai
tu che noi abbiam promesso la virginità nostra a Dio?»
«Oh» disse colei «quante cose gli si promettono tutto
il dì, che non se ne gli attiene niuna47! se noi gliele abbiam promessa, truovisi un’altra o dell’altre che gliele
attengano».
A cui la compagna disse: «O se noi ingravidassimo,
come andrebbe il fatto?»
42 vigilate, costrette da regole severe: V 9,7 e Proemio, 10. Da notare l’interrogativa indiretta, introdotta da se, all’indicativo: F.
BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 151.
43 per questo, per far questo.
44 anche volendolo: il solito uso di perché col valore di benché (III
3,43 n.; VIII 10,33 n. ecc.).
45 Cfr. Vita di fra Ginepro, III: «E scontrossi frate Ginepro con
alquanti giovanacci».
46 prima del suo cervello: cioè grande ma tardivo di cervello.
47 mantiene nessuna. Affermazione sviluppata e ragionata da altri
personaggi del D. (per es. nella III 7). Ed è traduzione e rovesciamento in etopea di sentenze divulgatissime allora, come ad esempio: «Femina dum iurat errat qui credere curat», «Providentia est
melior penitentia» (WALTHER, Proverbia cit., II p. 60, III p.
1003).
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Quella allora disse: «Tu cominci a aver pensiero del
mal prima che egli ti venga: quando cotesto avvenisse,
allora si vorrà48 pensare; egli ci avrà mille modi da fare sì
che mai non si saprà, pur che noi medesime nol diciamo».
Costei, udendo ciò, avendo già maggior voglia che
l’altra di provare che bestia fosse l’uomo, disse: «Or bene, come faremo?»
A cui colei rispose: «Tu vedi ch’egli è in su la nona49:
io mi credo che le suore sien tutte a dormire, se non noi;
guatiamo per l’orto se persona ci è, e s’egli non c’è persona, che abbiam noi a fare se non a pigliarlo per mano
e menarlo in questo capannetto, là dove egli fugge l’acqua50, e quivi l’una si stea dentro con lui e l’altra faccia
la guardia? Egli è sì sciocco, che egli s’acconcerà comunque noi vorremo».
Masetto udiva tutto questo ragionamento, e disposto
a ubidire niuna cosa aspettava se non l’esser preso
dall’una di loro. Queste, guardato ben per tutto e veggendo che da niuna parte potevano esser vedute, appressandosi quella, che mosse51 avea le parole a Masetto, lui destò, e egli incontanente si levò in piè; per che
costei con atti lusinghevoli presolo per la mano, e egli
faccendo cotali52 risa sciocche, il menò nel capannetto,
dove Masetto senza farsi troppo invitare quel fece che
ella volle. La quale, sì come leale compagna, avuto quel
che volea, diede all’altra luogo, e Masetto, pur mostrandosi semplice, faceva il lor volere; per che, avanti che
quindi53 si dipartissono, da una volta in sù54 ciascuna
provar volle come il mutolo sapea cavalcare: e poi, seco
48 si
dovrà, sarà necessario: I 1,26 n.
le due e le tre circa, cioè nell’ora della siesta.
50 Cioè dove egli si ricovera quando piove.
51 dette, pronunziate.
52 certe; III 10,6 n.: «un cotal fanciullesco appetito».
53 di lì
54 più di una volta .
49 Fra
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spesse volte ragionando, dicevano che bene era così dolce cosa, e più, come udito aveano; e prendendo a convenevoli ore tempo55, col mutolo s’andavano a trastullare.
Avvenne un giorno che una lor compagna, da una finestretta della sua cella di questo fatto avvedutasi, a due
altre il mostrò. E prima tennero ragionamento insieme
di doverle accusare alla badessa; poi, mutato consiglio e
con loro accordatesi, partefici56 divennero del poder di
Masetto: alle quali l’altre tre57 per diversi accidenti divenner compagne in vari tempi. Ultimamente la badessa, che ancora di queste cose non s’accorgea, andando
un dì tutta sola per lo giardino, essendo il caldo grande58, trovò Masetto, il qual di poca fatica il dì, per lo
troppo cavalcar della notte, aveva assai59 , tutto disteso
all’ombra d’un mandorlo dormirsi; e avendogli il vento i
panni60 dinanzi levati indietro, tutto stava scoperto. La
qual cosa riguardando la donna, e sola vedendosi, in
quel medesimo appetito cadde che cadute erano le sue
monacelle; e destato Masetto seco nella sua camera nel
menò, dove parecchi giorni, con gran querimonia dalle
monache fatta che l’ortolano non venia a lavorar l’orto,
il tenne, provando e riprovando quella dolcezza la qual
essa prima all’altre solea biasimare.
Ultimamente della sua camera alla stanza di lui rimandatolne, e molto spesso rivolendolo, e oltre a ciò più
che parte volendo da lui61, non potendo Masetto sodi55 tempo,
momento opportuno (II 3, 28 n.)
partecipi: per la forma cfr. VI 10,46 n.; G. Villani, XI 3; Sacchetti, CCVI ecc.
57 Poiché le monache erano in tutto otto, oltre la badessa (cfr. 6).
58 La solita costruzione per cui cfr. II 10,11 n.
59 il giorno ogni piccola fatica gli era soverchia, si stancava anche
per poca fatica che facesse, a causa del troppo ...
60 Cioè la tunica. Masetto evidentemente andava senza «panni di
gamba», come spesso gli uomini di bassa condizione, quale per es.
Carmignano di Fortune nella CLXV del Sacchetti.
61 volendo da lui più di una parte di lui stesso, non accontentandosi di una parte: cioè volendolo tutto o quasi per sé.
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sfare a tante, s’avisò che il suo esser mutolo gli
potrebbe62, se più stesse, in troppo gran danno resultare; e perciò una notte, con la badessa essendo, rotto lo
scilinguagnolo63, cominciò a dire: «Madonna, io ho inteso che un gallo basta assai bene a dieci galline, ma che
dieci uomini possono male o con fatica una femina sodisfare64, dove a me ne conviene servir nove; al che per cosa del mondo io non potrei durare, anzi son io, per quello che infino a qui ho fatto, a tal65 venuto che io non
posso far né poco né molto; e perciò o voi mi lasciate andar con Dio, o voi a questa cosa trovate modo66».
La donna udendo costui parlare, il quale ella teneva
mutolo, tutta stordì, e disse: «Che è questo? Io credeva
che tu fossi mutolo».
«Madonna», disse Masetto «io era ben così ma non
per natura, anzi per una infermità che la favella mi tolse,
e solamente da prima67 questa notte la mi sento essere
restituita, di che io lodo Iddio quant’io posso».
La donna sel credette e domandollo che volesse dir
ciò che egli a nove aveva a servire. Masetto le disse il fatto; il che la badessa udendo, s’accorse che monaca non
avea68 che molto più savia non fosse di lei: per che, co-
62 Condizionale
con valore di futuro del passato: cfr. II 2,33 n.
Cioè cominciando a parlare. «D’uno che favella assai s’usa di
dire: ‘egli ha rotto o tagliato lo scilinguagnolo’, il quale si chiama
ancora filetto, che è quel muscolino che tagliano le più volte le balie di sotto la lingua a’ bambini» (Varchi).
64 Cfr. III 10; III concl.; V 10,19; VI 7; Corbaccio, 347. L’antitesi
è rilevata dalla posizione chiastica dei termini e dei numerali stessi.
65 a tal punto, a tale condizione: Livio volgarizzato, Palermo 1819,
II II: «recò a tale le ville e i casali di Roma che non vi rimase bestia
né altre cose».
66 rimedio, o giusta soluzione (cfr. 40, e 41 «le sue fatiche partirono»: e anche III 2,17).
67 per la prima volta, primamente.
68 non v’era: Intr., 15 n.
63
Letteratura italiana Einaudi 391
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me discreta, senza lasciar Masetto partire, dispose di voler colle sue monache trovar modo a questi fatti, acciò
41 che da Masetto non fosse il monistero vituperato. E essendo di quei dì morto il lor castaldo, di pari consentimento, apertosi69 tra tutte ciò che per adietro da tutte
era stato fatto, con piacer di Masetto ordinarono che70 le
genti circustanti credettero che, per le loro orazioni e
per gli meriti del santo in cui71 intitolato era il monistero, a Masetto, stato lungamente mutolo la favella fosse
restituita; e lui castaldo fecero e per sì fatta maniera le
sue fatiche partirono72, che egli le poté comportare73.
42 Nelle quali, come che esso assai74 monachin generasse,
pur sì discretamente procedette la cosa che niente se ne
sentì se non dopo la morte della badessa, essendo già
Masetto presso che vecchio e disideroso di tornarsi ricco a casa; la qual cosa saputa, di leggier gli fece venir fatto75.
43
Così adunque Masetto vecchio, padre e ricco, senza
aver fatica di nutricar figliuoli o spesa di quegli, per lo
suo avvedimento avendo saputo la sua giovanezza bene
adoperare, donde con una scure in collo partito s’era se
ne tornò, affermando che così trattava Cristo chi gli poneva le corna sopra ’l cappello76. –
69 reso
noto, manifestatosi: I 3,17.
in modo, disposero che.
71 Locuzione tecnica, analoga a nel nome del quale.
72 ripartirono, divisero.
73 sopportare: I 9,6 e III 2,9 n.
74 molti: con valore aggettivale.
75 la qual cosa, essendosi saputa, facilmente gli fece ottenere quanto desiderava, cioè di tornarsi ricco a casa. Ma la frase non è sintatticamente del tutto chiara: cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Errori
d’autore nel D. cit., e anche Il verbo, p. 468; e qui III 9,8 n.
76 ghirlanda, corona: cfr. I I,9 n. Espressione quasi proverbiale:
cfr. per es. san Bernardino, Prediche volgari, Milano 1936, p. 434.
70 fecero
Letteratura italiana Einaudi
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NOVELLA SECONDA
1
Un pallafreniere giace con la moglie d’Agilulf re, di che Agilulf
tacitamente s’accorge; truovalo e tondalo1; il tonduto tutti gli
altri tonde, e così campa della mala ventura2.
2
Essendo la fine venuta della novella di Filostrato, della quale erano alcuna volta un poco le donne arrossate3
e alcun’altra se ne avevan riso, piacque alla reina che
Pampinea novellando seguisse: la quale, con ridente viso
incominciando, disse.
– Sono alcuni sì poco discreti nel voler pur4 mostrare
di conoscere e di sentire quello che per lor non fa di sapere5, che alcuna volta per questo, riprendendo i disave-
3
1
gli taglia dei capelli, lo tosa. Nota qui la forma da «tondare»: si
alterna nella novella con quelle da «tondere» (cfr. 27,29).
2 La novella nelle sue due parti (l’astuzia del palafreniere; l’avvedutezza e la prudenza del re) ha antecedenti numerosi, seppure
non molto precisi. Per la prima sono stati ricordati il Novellino (C;
e cfr. p. 68 dell’intr. del Favati), il Roman de Trubert (D. M.
MEON, Nouveau recueil de fabliaux, Paris 1823, I, pp. 211 sgg.),
una favola «del pittore e della moglie del mercante» che dalla notissima raccolta orientale Kalila e Dimna passò anche a vari autori
occidentali (per es. in Giovanni da Capua, Directorium humanae
vitae e in Raimondo di Bézière: L. HERVIEUX, Les fabulistes latins, Paris 1899, V, pp. 174 sgg., pp. 508 sgg.): e sarebbe possibile
riferirsi anche a qualche esempio classico (per es. Erodoto, VI 6869). Per la seconda vengono citate la novella Il furto del tesoro del
Re nel Dolopathos (ed. Brunet-Montaiglon, Paris 1856) e anche
Erodoto (II 121): cfr. per la popolarità del tema, anche nella novellistica, Thompson e Rotunda, K 415, 1317.1 e pure Rotunda, K
1311.0.1*. Va del resto ricordata, almeno per un punto, 24 sgg., la
II 8, 45-46 (cfr. anche Recueil général de fabliaux cit., IV 94).
3 Per la forma cfr. I 10,7 n.
4 «Accenna insistenza, e vale in tutti i modi» (Fanfani).
5 che non conviene che loro sappiano, che non è bene sia saputo da
loro.
Letteratura italiana Einaudi 393
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4
5
duti difetti6 in altrui, si credono la loro vergogna scemare, dove essi l’acrescono in infinito; e che ciò sia vero nel
suo contrario, mostrandovi l’astuzia d’un forse di minor
valore tenuto che Masetto, nel senno d’un valoroso re,
vaghe donne, intendo che per me vi sia dimostrato7.
Agilulf re de’ longobardi, sì come i suoi predecessori,
in Pavia città di Lombardia, avevan fatto, fermò il solio8
del suo regno, avendo presa per moglie Teudelinga, rimasa vedova d’Auttari, re stato similmente de’ longobardi: la quale fu bellissima donna, savia e onesta molto9
ma male avventurata in amadore10. E essendo alquanto
per la vertù e per lo senno di questo re Agilulf le cose
de’longobardi prospere e in quiete, adivvenne che un
pallafreniere della detta reina, uomo quanto a nazione11
di vilissima condizione, ma per altro da troppo più che
da così vil mestiere12, e della persona bello e grande così
6
rimproverando o punendo le colpe non conosciute, non evidenti,
nascoste: con senso passivo non comune.
7 Cioè: intendo che da me vi sia dimostrato che questo è vero
mostrandovi in senso o l’astuzia usata, per vincere l’assennato accorgimento di un valente re, da un uomo ritenuto anche inferiore a
Masetto.
8 pose il seggio, il trono cioè la sede, la capitale. L’iperbato precedente è del tipo corrente nel D.; e del resto «avevan fatto» può esser pleonastico.
9 Cfr. III 5,5: «la quale era bellissima e onesta molto».
10 L’immaginario sfondo storico e gli tessi nero preziosi rappresentano probabilmente un altro frutto dell’accurata lettura dei libri
III e IV di Paolo Diacono (Intr., 8 n.): sono in parte gli stessi personaggi che torneranno anche nel De casibus (IX 4-5). Agilulfo regnò dal 591 al 615; era asceso al trono attraverso il matrimonio con
la principessa bavarese Teodolinda (vedova del re Autari: 584-90),
la cui leggendaria figura dovette colpire particolarmente il B.; e
forse anche quanto Paolo Diacono narra (III 30 e 35) circa le curiose vicende matrimoniali di Teodolinda poté esercitare sul B. una
qualche suggestione ad attribuirle l’avventura e a definirla sfortunata in amore.
11 origine, nascita: III 5,5 n.; IV 1,6 n.; IV 3,8 n. ecc.
12 ma per tutto il resto d’animo, di qualità più alte, più generose
che a così vil mestiere non convenisse.
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9
come il re fosse13, senza misura della reina s’innamorò.
E per ciò che il suo basso stato non gli avea tolto che egli
non conoscesse questo suo amore esser fuor d’ogni convenienza, sì come savio, a niuna persona il palesava, né
eziandio a lei con gli occhi ardiva di scoprirlo. E quantunque senza alcuna speranza vivesse di dover mai a lei
piacere, pur seco si gloriava che in alta parte avesse allogati i suoi pensieri14; e, come colui che tutto ardeva in
amoroso fuoco15, studiosamente faceva, oltre a ogni altro16 de’ suoi compagni, ogni cosa la qual credeva che
alla reina dovesse piacere. Per che interveniva 17 che la
reina, dovendo cavalcare, più volentieri il palla freno da
costui guardato18 cavalcava che alcuno altro: il che
quando avveniva, costui in grandissima grazia sel reputava19 e mai dalla staffa non le si partiva, beato tenendosi qualora pure i panni toccar le poteva.
Ma, come noi veggiamo assai sovente avvenire20,
quanto la speranza diventa minore tanto l’amor maggior
farsi, così in questo povero pallafreniere avvenia, in tan13 Il ritratto fisico e morale di Agilulfo come poi si delinea nella
novella, ricorda l’efficace presentazione di Paolo Diacono: «vir
strenuus et bellicosus et tam forma quam animo ad regni gubernacula coaptatus» (III 35). Fosse ricorre probabilmente per confusione tra una comparativa e un’ipotetica: come se fosse il re.
14 Secondo la precettistica amorosa discesa da Andrea Cappellano e accolta dal B. (cfr. B. medievale, pp. 231 sgg.; e qui Proemio, 3
n.; I 5,4 n.).
15 Cfr. Rime, XXIII: «Questo amoroso fuoco è si soave | Che tuttora ardo».. Con un endecasillabo del tutto lirico si chiude una serie di endecasillabi e settenari iniziatasi col periodo.
16 più che ogni altro.
17 accadeva: Proemio, 14 n.
18 governato, custodito.
19 lo riteneva una grazia, un favore grandissimo.
20 «Nota che pare il testo segnato di questo segno [cioè tutto il seguente periodo] contradire a quel che dice Mes. Giovanni nel Filostrato, dove favellando di Troilo dice così: ‘Ma come noi per continua usanza | Per più legne veggiam foco maggiore | Così avien
crescendo la speranza | Assai sovente ancor crescere Amore’ [II
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata III
to che gravissimo gli era il poter comportare21 il gran disio22 così nascoso come facea, non essendo da alcuna
speranza atato23; e più volte seco, da questo amor non
10 potendo disciogliersi, diliberò di morire. E pensando seco del modo, prese per partito di voler questa morte per
cosa per la quale apparisse lui morire24 per lo amore che
alla reina aveva portato e portava: e questa cosa propose
di voler che tal fosse, che egli in essa tentasse la sua for11 tuna in potere o tutto o parte aver del suo disidero. Né
si fece25 a voler dir parole alla reina o a voler per lettere
far sentire il suo amore, ché sapeva che in vano o direbbe o scriverebbe; ma a voler provare se per ingegno26
con la reina giacer potesse; né altro ingegno né via c’era
se non trovar modo come egli in persona del re27, il quale sapea che del continuo28 con lei non giacea, potesse a
12 lei pervenire e nella sua camera entrare. Per che, acciò
che vedesse in che maniera e in che abito il re, quando a
lei andava, andasse, più volte di notte in una gran sala
del palagio del re, la quale in mezzo era tra la camera del
re e quella della reina, si nascose: e in tra l’altre una notte vide il re uscire della sua camera inviluppato in un
gran mantello e aver dall’una mano un torchietto29 acce85]. Credo nondimeno che questo vocabolo sovente dichiari la
quistione e puossi comprendere che l’uno e l’altro avviene. E nella
novella di Nastagio degli Onesti [V 8] a e. 88 dice: ‘Perciò che pareva che quanto più la speranza mancava, tanto più multiplicasse il
suo amore’» (M.).
21 sopportare: III 1,41 n.
22 Rime, XIV: «Il gran disio che l’amorosa fiamma».
23 aiutato, sostenuto: forma assai frequente nel B. (per es. Teseida, VII 27; Amorosa Visione, XXV 56): e qui per es. Proemio, 7 n.,
Intr., 30 n.
24 fosse manifesto che egli moriva.
25 si diede o accennò.
26 per mezzo di un espediente: IX 3,33.
27 Cioè scambiando la propria con la persona del re, fingendo di
essere il re.
28 continuamente, senza interruzione: IV 5,19 n.
29 piccola torcia: VIII 4,32 n. e anche I concl., 22 n.
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so e dall’altra una bacchetta, e andare alla camera della
reina e senza dire alcuna cosa percuotere una volta o
due l’uscio della camera con quella bacchetta, e incontanente essergli aperto e toltogli di mano il torchietto.
La qual cosa venuta, e similmente vedutolo ritornare,
pensò di così dover fare egli altressì; e trovato modo
d’avere un mantello simile a quello che al re veduto avea
e un torchietto e una mazzuola30, e prima in una stufa31
lavatosi bene, acciò che non forse l’odore del letame la
reina noiasse o la facesse accorgere dello inganno, con
queste cose, come usato era, nella gran sala si nascose. E
sentendo che già per tutto32 si dormia, e tempo parendogli o di dovere al suo disiderio dare effetto o di far via
con alta cagione alla bramata morte33, fatto colla pietra e
con lo acciaio34 che seco portato avea un poco di fuoco,
il suo torchietto accese, e chiuso e avviluppato nel mantello se n’andò all’uscio della camera e due volte il percosse con la bacchetta. La camera da una cameriera tutta sonnacchiosa fu aperta, e il lume preso e occultato:
laonde egli, senza alcuna cosa dire, dentro alla cortina35
trapassato e posato il mantello, se n’entrò nel letto nel
quale la reina dormiva. Egli disiderosamente in braccio
recatalasi36, mostrandosi turbato, per ciò che costume
del re esser sapea che quando turbato era niuna cosa voleva udire, senza dire alcuna cosa o senza essere a lui
detta, più volte carnalmente37 la reina cognobbe. E come che grave gli paresse il partire, pur temendo non la
30
piccola mazza: equivalente del precedente bacchetta.
bagno caldo: II 4,24 n.
dappertutto.
33 «Di procacciarsi, ’o come chi dicesse di chiamare a sé, di aprir
la strada con si bel mezzo alla morte desiderata» (Fanfani).
34 colla pietra locaia e coll’acciarino.
35 La cortina che circondava il letto: cfr. II 3,26 n.
36 Quasi una formula: II 7,30; VIII 4,28 ecc.
37 Cfr. VII 9,73 n.
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troppa stanza38 gli fosse cagione di volgere l’avuto diletto in tristizia, si levò e ripreso il suo mantello e il lume,
senza alcuna cosa dire se n’andò , e come più tosto potè
si tornò al letto suo.
Nel quale appena ancora esser poteva, quando il re,
levatosi, alla camera andò della reina, di che ella si maravigliò forte; e essendo egli nel letto entrato e lietamente
salutatala, ella, dalla sua letizia preso ardire, disse: «O signor mio, questa che novità è stanotte? voi vi partite pur
testé da me e oltre l’usato modo di me avete preso piacere, e così tosto da capo ritornate? Guardate ciò che voi
fate».
Il re, udendo queste parole, subitamente presunse39 la
reina da similitudine di costumi e di persona essere stata
ingannata; ma, come savio, subitamente pensò , poi40 vide la reina accorta non se n’era né alcuno altro, di non
volernela fare accorgere: il che molti sciocchi non avrebbon fatto, ma avrebbon detto: «Io non ci fui io, chi fu
colui che ci fu? come andò ? chi ci venne?» Di che molte cose nate sarebbono, per le quali egli avrebbe a torto
contristata la donna e datole materia di disiderare altra
volta quello che già sentito avea; e quello che tacendo
niuna vergogna gli poteva tornare, parlando s’arebbe vitupero recato41.
Risposele adunque il re, più nella mente che nel viso o
che nelle parole turbato: «Donna, non vi sembro io uo38 la troppo lunga dimora, il troppo trattenersi. Come già si è notato troppo può esser usato come avverbio o come aggettivo in casi
simili a questo.
39 immaginò, suppose: II 2,40 n.
40 poiché, dacché: I 1,33 n.; II 3,22: «pregollo che, poi verso Toscana andava, gli piacesse d’essere in sua compagnia».
41 e quello che, tacendolo, non poteva assolutamente riuscirgli di
vergogna, dicendolo, gli avrebbe cagionato vituperio, disonore. La
difficoltà della frase sta nel subitaneo cambiamento del soggetto
dalla prima alla seconda parte. Per l’uso piuttosto raro delle forme
«s’aria», «s’arebbe» nel B. cfr. QUAGLIO, Parole del B. cit., XIV.
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mo da poterci altra volta essere stato e ancora appresso
questa tornarci?»
A cui la donna rispose: «Signor mio, sì; ma tuttavia io
vi priego che voi guardiate alla vostra salute».
Allora il re disse: «E egli mi piace di seguire il vostro
consiglio; e questa volta senza darvi più impaccio me ne
vo’ tornare».
E avendo l’animo già pieno d’ira e di mal talento42,
per quello che vedeva gli era stato fatto, ripreso il suo
mantello, s’uscì della camera e pensò di voler chetamente43 trovare chi questo avesse fatto, imaginando lui della
casa dovere essere, e qualunque si fosse, non esser potuto di quella uscire44. Preso adunque un picciolissimo lume in una lanternetta, se n’andò in una lunghissima casa45 che nel suo palagio era sopra le stalle de’ cavalli,
nella quale quasi tutta la sua famiglia in diversi letti dormiva. E estimando che, qualunque fosse colui che ciò
fatto avesse che la donna diceva, non gli fosse ancora il
polso e ’l battimento del cuore46 , per lo durato affanno
potuto47 riposare, tacitamente, cominciato dall’uno de’
capi della casa, a tutti cominciò a andar48 toccando il
petto per sapere se gli battesse.
42 sdegno: per l’origine e la semantica cfr. G. MOMBELLO, Les
avatars de «Talentum», Torino 1976, specialmente pp. 141 e 238
sgg. L’accoppiamento con ira è frequente nel B. (per es. VII 8,18;
Amorosa Visione, VIII 44).
43 Cioè segretamente: cfr. II 6,57 n.
44 Poiché la reggia era strettamente guardata e le porte chiuse,
come risulta in seguito.
45 casamento, quartiere.
46 Per le due espressioni vedi II 8,44-45 n. Questo mezzo di indagine del colpevole era di tradizione popolare e novellistica: cfr. Rotunda, J II42.2,I*.
47 Per queste forme invariate del participio passato cfr. Intr., 35
n.; e per la ripetizione dopo frase parentetica I 3,11 n.
48 Fraseologico seguito da uno di quei gerundi modali assai frequenti nel B.
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Come che ciascuno altro dormisse forte, colui che
con la reina stato era non dormiva ancora; per la qual
cosa, vedendo venire il re e avvisandosi ciò che esso cercando andava, forte cominciò a temere tanto che sopra49
il battimento della fatica avuta la paura n’aggiunse un
maggiore; e avvisossi fermamente che, se il re di ciò s’av26 vedesse, senza indugio il facesse50 morire. E come che
varie cose gli andasser per lo pensiero di doversi fare,
pur vedendo il re senza alcuna arme diliberò di far vista
di dormire e d’attender quello che il51 re far dovesse.
Avendone adunque il re molti cerchi52 né alcuno trovandone il quale giudicasse essere stato desso, pervenne a
costui, e trovandogli batter forte il cuore, seco disse:
27 «Questi è desso». Ma sì come colui che di ciò che fare
intendeva niuna cosa voleva che si sentisse, niuna altra
cosa gli fece se non che con un paio di forficette53, le
quali portate avea, gli tondè alquanto dall’una delle parti i capelli, li quali essi a quel tempo portavano lunghissimi54, acciò che a quel segnale la mattina seguente il riconoscesse; e questo fatto, si dipartì, e tornossi alla camera
sua.
28
Costui, che tutto ciò sentito55 avea, sì come colui che
malizioso56 era, chiaramente s’avisò per che così segnato
49
oltre: II 3,12 n.
Spesso negli scritti del tempo il congiuntivo imperfetto sta dove oggi usiamo un condizionale (I 1,51 n.; II 7,103 n.; ecc.).
51 egli. Alle volte il è in funzione di soggetto: cfr. Cavalca, Esposizione del Simbolo (Roma 1763), p. 17 «sicché il sappia averla in debita riverenza»..
52 cercati e quindi tastati: per la forma cfr. IV 8,29 n.; VII 7,6.
53 forbicette; forma non insolita in quell’età (per es. Jacopone,
Laudi cit., XXXVIII 61; Nuovi testi fiorentini, gloss.; Sacchetti,
CXCVIII e CXCIX).
54 Anche questa è notizia letta in Paolo Diacono (IV 22), e ripetuta nel De casibus (IX 4) e nelle Esposizioni (I litt., 55): l’usanza
era citata come caratteristica dei Longobardi.
55 capito.
56 avveduto, astuto: cfr. VII 8,2 n.
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era stato: laonde egli senza alcuno aspettar si levò , e trovato un paio di forficette, delle quali per avventura
v’erano alcun paio57 per la stalla per lo servigio de’ cavalli, pianamente andando a quanti in quella casa ne giacevano, a tutti in simile maniera sopra l’orecchie tagliò i
capelli; e ciò fatto, senza essere stato sentito, se ne tornò
a dormire58.
29
Il re, levato la mattina, comandò che avanti che le
porti59 del palagio s’aprissono, tutta la sua famiglia gli
venisse davanti; e così fu fatto. Li quali60 tutti, senza alcuna cosa in capo davanti standogli, esso cominciò a
guardare per riconoscere il tonduto da lui; e veggendo la
maggior parte di loro co’ capelli a un medesimo modo
tagliati, si maravigliò, e disse seco stesso: «Costui, il quale io vo cercando, quantunque di bassa condizion sia, as30 sai ben mostra d’essere d’alto senno». Poi, veggendo
che senza romore61 non poteva avere quel ch’egli cercava, disposto a non volere per piccola vendetta62 acquistar gran vergogna, con una sola parola63 d’ammonirlo e
dimostrargli che avveduto se ne fosse gli piacque; e a
tutti rivolto disse: «Chi ’l fece nol faccia mai più, e andatevi con Dio».
57
Costruzione alla latina: ve ne era un paio; e cfr. II 6,72 n.
Per il significato emblematico-etnografico del taglio dei capelli cfr. J. G. FRAZER, The golden bough, VII 2,67; ma anche Plinio,
Epistolae, VII 27 (ultima parte). «Nota» (M.).
59 Cfr. II 2,16 n. per questa forma del plurale.
60 Riferito ad sensum al collettivo famiglia.
61 scalpore, cioè senza far saper tutto.
62 «Dice non per rispetto alla ingiuria che era gravissima, ma per
rispetto alla vil persona su cui si sarebbe fatta» (Fanfani).
63 con poche parole, con una frase: I 6,16 n.
58
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31
Un altro gli averebbe voluti far collare64, martoriare,
esaminare, e domandare; e ciò faccendo, avrebbe scoperto quello che ciascun dee andar cercando di ricoprire, e essendosi scoperto, ancora che intera vendetta
n’avesse presa, non scemata ma molto cresciuta n’avrebbe la sua vergogna e contaminata l’onestà della donna
sua. Coloro che quella parola udirono si maravigliarono
e lungamente fra sé esaminarono che avesse il re voluto
per quella dire, ma niuno ve ne fu che la ’ntendesse se
non colui solo a cui toccava. Il quale, sì come savio, mai,
vivente il re, non la scoperse, né più la sua vita in sì fatto
atto commise alla fortuna65. –
64
65
Cioè mettere al supplizio della «colla»: II 1,24 n. e 5,66 n.
mai più con un’azione simile mise la sua vita a repentaglio.
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NOVELLA TERZA
1
Sotto spezie di confessione e di purissima conscienza1 una
donna innamorata d’un giovane induce un solenne frate, senza
avvedersene egli, a dar modo che il piacer di lei avesse intero
effetto2.
2
Taceva già Pampinea, e l’ardire e la cautela del pallafreniere era da’ più di loro stata lodata, e similmente il
senno del re, quando la reina, a Filomena voltatasi, le
’mpose il seguitare: per la qual cosa Filomena vezzosamente così incominciò a parlare:
– Io intendo di raccontarvi una beffa che fu da dovero fatta da una bella donna a uno solenne religioso, tanto più a ogni secolar da piacere, quanto essi, il più stoltissimi e uomini di nuove3 maniere e costumi4, si
3
1Facendo finta di volersi confessare e simulando una purissima coscienza.
2 Nessun sicuro antecedente di questa novella che ebbe poi larga
fortuna, a cominciare dal Sercambi (CVI), Esiste una canzone a
ballo, attribuita falsamente a Lorenzo il Magnifico, Una donna
d’amor fino, che appare già diffusa a fine Trecento e che tratta lo
stesso tema: non è possibile stabilire se sia preesistente a questa novella o invece ne derivi (Cfr. V. BRANCA Per le canzoni a ballo di
Lorenzo il Magnifico, in Miscellanea in onore di Roberto Cessi, Roma 1958). Un altro riscontro interessante e quasi contemporaneo è
quello colla novella tedesca Der schuolaere ze Paris (F. H. VON
DER HAGEN, Gesammtabenteuer cit., XIV). Siamo nell’impossibilità di verificare quanto scrive il Manni (op. cit, p. 222) «infra i testi a penna, che già possedevano i Signori fratelli Alessandrini ... si
trovava un ricordo del luogo ove il fatto della presente Novella seguì veracemente, in Firenze in una casa, in cui e giardino ed alberi
fino a i nostri giorni rimasi erano, ove i Lanaiuoli d’ordinario aver
solevano i loro negozi», cioè presso Mercato Nuovo. Per la popolarità del tema: cfr. Thompson e Rotunda, K 1584: è, in sostanza, un
exemplum pio rovesciato.
3 insolite, strane: I 7,1 n.
4 «E pur nota il ver de’ frati» (M.).
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5
6
credono più che gli altri in ogni cosa valere e sapere, dove essi di gran lunga sono da molto meno, sì come quegli che per viltà d’animo non avendo argomento, come
gli altri uomini, di civanzarsi5, si rifuggono dove aver
possano da mangiar come ’l porco. La quale, o piacevoli
donne, io racconterò non solamente per seguire l’ordine
imposto, ma ancora per farvi accorte che eziandio che6 i
religiosi, a’ quali noi oltre modo credule troppa fede
prestiamo, possono essere e sono alcuna volta, non che
dagli uomini, ma da alcuna di noi cautamente7 beffati.
Nella nostra città , più d’inganni piena che d’amore o
di fede8, non sono ancora molti anni passati, fu una gentil donna di bellezze ornata e di costumi, d’altezza d’animo e di sottili avvedimenti quanto alcun’altra dalla natura dotata, il cui nome, né ancora alcuno altro che alla
presente novella appartenga, come che io gli sappia, non
intendo di palesare, per ciò che ancora vivono di quegli
che per questo si caricherebber di sdegno, dove di ciò
sarebbe con risa da trapassare9.
Costei adunque, d’alto legnaggio veggendosi nata e
maritata a uno artefice lanaiuolo, per ciò che ricchissimo
era, non potendo lo sdegno dell’animo porre in terra10,
per lo quale estimava niuno uomo di bassa condizione,
quantunque ricchissimo fosse, esser di gentil donna de5 modo ... di lare il proprio utile, provvedere ai loro bisogni (II
10,40 n.).
6 Una delle più singolari ripetizioni di che per cui cfr. I 3,II n.: e
anche VII 5,45 n., X 3,35 n.
7 accortamente: V 1,64 n.
8 Tenue riflesso, nell’atmosfera pacata e fiabesca del D., di giudizi non rari nell’opera del B. (per es. Fiammetta, II 6,20 sgg.; Epistola V; Trattatello, I 92 sgg.).
9 È questa una protesta frequente, quando il novellatore sembra
– anche per la mancanza di ogni antecedente – scendere più direttamente alla cronaca pettegola e scandalistica della sua città.
10 non potendo deporre lo sdegno, lo schifo: cfr. Petrarca, Rime,
CXXVIII 104.
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gno11, e veggendo lui ancora con tutte le sue ricchezze
da niuna altra cosa essere più avanti che12 da saper divisare un mescolato13 o fare ordire una tela o con una filatrice disputare del filato, propose di non volere de’ suoi
abbracciamenti in alcuna maniera se non in quanto negare non gli potesse, ma di volere a soddisfazione di sé
medesima trovare alcuno, il quale più di ciò che il lanaiuolo le paresse che fosse degno,14. E innamorossi
d’uno assai valoroso uomo e di mezza età 15, tanto che
qual dì nol vedea, non poteva la seguente notte senza
noia passare 16, ma il valente uomo, di ciò non accorgendosi, niente ne curava, e ella, che molto cauta era, né per
ambasciata di femina né per lettera ardiva di fargliele
sentire, temendo de’pericoli possibili a avvenire.
E essendosi accorta che costui usava molto con un 17
religioso, il quale, quantunque fosse tondo e grosso 18
uomo, nondimeno per ciò che di santissima vita era quasi da tutti avea di valentissimo frate fama, estimò costui
dovere essere ottimo mezzano tra lei e ’l suo amante 19 E
avendo seco pensato che modo tener dovesse, se n’andò
11
Quattro novenari in sequenza continua.
non esser capace di altro che. «Nota» (M.).
e riconoscere o progettare un tessuto misto: Sacchetti, Lettere,
p. 88. Per queste e altre tecniche tessili del tempo, oltre varie novelle del D. (IV 7; VIII 2), Cfr. U. FORTI, Storia della tecnica. Dalla rinascita dopo il Mille alla fine del Rinascimento, Torino 1974,
pp. 187 sgg..
14 il quale paresse che di ciò fosse più degno che il lanaiuolo: iperbato.
15 Cioè di trentacinque anni circa: II 2,35 n.; per l’eccellenza di
tali amanti VIII 7,102 sgg.
16 Espressione solita in situazioni simili: cfr. I 10,10 n.
17 frequentava spesso un ... : cfr. I 1,14 n.
18 sciocco e rozzo: cfr. III 1,4 n.
19 amato: participio presente con senso passivo: cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, pp. :182 sgg.; e per dovere pleonastico I
1,69 n.
12
13
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a convenevole ora alla chiesa dove egli dimorava, e fattosel chiamare, disse, quando gli piacesse, da lui si volea
confessare.
9
Il frate, vedendola, e estimandola gentil donna,
l’ascoltò volentieri; e essa dopo la confessione disse:
»Padre mio, a me convien ricorrere a voi per aiuto e per
10 consiglio di ciò che voi udirete. Io so, come colei che
detto ve l’ho, che voi conoscete i miei parenti e ’l mio
marito, dal quale io sono più che la vita sua amata 20, né
alcuna cosa disidero che da lui, sì come da ricchissimo
uomo e che ’l può ben fare, io non l’abbia incontanente,
per le quali cose io più che me stessa l’amo: e, lasciamo
stare che io facessi, ma se io pur pensassi cosa niuna che
contro al suo onore e piacer fosse, niuna rea femina fu
11 mai del fuoco degna come sarei io. Ora uno (del quale
nel vero io non so il nome, ma persona dabbene mi pare
e, se io non ne sono ingannata, usa molto con voi) bello
e grande della persona, vestito di panni bruni assai onesti 21, forse non avvisandosi che io così fatta intenzione 22
abbia come io ho, pare che m’abbia posto l’assedio; né
posso farmi né a uscio né a finestra, né uscir di casa, che
egli incontanente non mi si pari innanzi; e maravigliomi
io come egli non è ora qui: di che io mi dolgo forte, per
ciò che questi così fatti modi fanno sovente senza colpa
12 alle oneste donne acquistar biasimo. Hommi posto in
cuore di fargliele alcuna volta dire 23 a’ miei fratelli, ma
poscia m’ho pensato che gli uomini fanno alcuna volta
l’ambasciate per modo che le risposte seguitan cattive,
di che nascon parole e dalle parole si perviene a’ fatti;
20 Anche questa è espressione canonica in dichiarazioni simili: II
10,36 n.; 111 6,33; V 6,4 e 34 ecc.
21 Secondo il Merkel la donna allude a un color verde bruno,
usato dai «cavalieri di corredo» (Sacchetti, CLIII) e in generale dai
cittadini più autorevoli: cfr. anche III 7,89 n.
22 disposizione, maniera di pensare.
23 Cioè di farlo acerbamente riprendere una volta.
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per che, acciò che male e scandalo 24 non ne nascesse,
me ne son taciuta, e dilibera’mi di dirlo più tosto a voi
che a altrui, sì perché pare che suo amico siate, sì ancora
perché a voi sta bene di così fatte cose, non che gli amici, ma gli strani ripigliare 25. Per che io vi priego per solo
Idio 26 che voi di ciò il dobbiate riprendere e pregare che
più questi modi non tenga. Egli ci sono dell’altre donne
assai le quali per avventura son disposte a queste cose, e
piacerà loro d’esser guatate e vagheggiate da lui, là dove
a me è gravissima noia, sì come a colei che in niuno atto
27
ho l’animo disposto a tal materia». E detto questo,
quasi lagrimar volesse, bassò la testa.
Il santo frate comprese incontanente che di colui dicesse di cui veramente diceva, e commendata molto la
donna di questa sua disposizion buona, fermamente credendo quello esser vero che ella diceva, le promise
d’operar sì e per tal modo che più da quel cotale non le
sarebbe dato noia; e conoscendola ricca molto, le lodò
l’opera della carità e della limosina, il suo bisogno raccontandole 28.
A cui la donna disse: «Io ve ne priego per Dio; e s’egli
questo negasse, sicuramente gli dite che io sia stata quella che questo v’abbia detto e siamivene doluta 29».
E quinci, fatta la confessione e presa la penitenza, ricordandosi de’ conforti datile dal frate dell’opera della
limosina, empiutagli nascosamente la man di denari, il
24 Cfr.
Intr., 77 n.
riprendere, rimproverare: come più innanzi (29) e nella IV intr., 32 n.
26 solo per amor di Dio, solo nel nome di Dio.
27 in nessun modo: Intr., 65 n.
28 esponendole le proprie necessità. «Nota pe’ frati bugiardi»
(M.).
29 me ne sia a voi, con voi doluta. Il Bembo cita proprio questo
esempio trattando delle parole di cinque sillabe paghe d’un solo
accento (Prose della volgar lingua, II 16).
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pregò che messe dicesse per l’anima dei morti suoi; e dai
piè di lui levatasi, a casa se ne tornò.
Al santo frate non dopo molto, sì come usato era,
venne il valente uomo, col quale poi che d’una cosa e
d’altra ebbero insieme alquanto ragionato, tiratol da
parte, per30 assai cortese modo il riprese dello
intendere31 e del guardare che egli credeva che esso facesse a quella donna, sì come ella gli aveva dato a intendere. Il valente uomo si maravigliò, sì come colui che
mai guatata non l’avea e radissime volte era usato di passare davanti a casa sua, e cominciò a volersi scusare; ma
il frate non lo lasciò dire, ma disse egli: «Or non far vista
di maravigliarti, né perder parole in negarlo, per ciò che
tu non puoi; io non ho queste cose sapute da’ vicini: ella
medesima, forte di te dolendosi, me l’ha dette. E quantunque a te queste ciance32 omai non ti33 stean bene, ti
dico io di lei cotanto, che, se mai io ne trovai alcuna di
queste sciocchezze schifa, ella è dessa; e per ciò, per
onor di te e per consolazione di lei, ti priego te ne rimanghi34 e lascila stare in pace».
Il valente uomo, più accorto che ’l santo frate, senza
troppo indugio la sagacità della donna comprese, e mostrando alquanto di vergognarsi, disse di più non intramettersene35 per innanzi; e dal frate partitosi, dalla casa
30
con, per mezzo di.
corteggiare. Provenzalismo più comune nella forma riflessiva
(Esposizioni, IV litt., 125); ma si trova usato come attivo seguito da
in oppure da a: Guittone, Lettere, Bologna 1924, p. 130: «Maggiore ingiuria serea a qualunque de voi è la minore, se intendesse in de
lo ’nperatore di Roma, che se l’Enperadrice nel più vile schiavo»;
Jacopo da Cessole, Libro de’ costumi, Milano 1829, II 1,15: «Spregiata la moglie, intende ad altra» (cfr. Filostrato, VIII 2; Amorosa
Visione, XLII 19): X 8,30 n.
32 sciocchezze: II 1,16 n.
33 Pleonasmo assai comune anche nel B.
34 ti astenga: III 7,28 n. e IV 10,8 n.; e per la forma Intr., 81 n.
35 occuparsene: cfr. II 7,90 n.
31
Letteratura italiana Einaudi
408
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata III
n’andò36 della donna, la quale sempre attenta stava a
una picciola finestretta per doverlo vedere, se vi passas21 se. E vedendol venire, tanto lieta e tanto graziosa37 gli si
mostrò , che egli assai bene potè comprendere sé avere il
vero compreso dalle parole del frate; e da quel dì innanzi assai cautamente, con suo piacere e con grandissimo
diletto e consolazion della donna, faccendo sembianti
che altra faccenda ne fosse cagione, continuò di passar38
per quella contrada.
22
Ma la donna dopo alquanto già accortasi che ella a
costui così piacea come egli a lei, disiderosa di volerlo
più accendere e certificare dello amore che ella gli portava, preso luogo e tempo, al santo frate se ne tornò, e
postaglisi nella chiesa a sedere a’ piedi39 a piagnere incominciò. Il frate, questo vedendo, la domandò pietosamente che novella ella avesse.
23
La donna rispose: «Padre mio, le novelle che io ho
non sono altre che di quel maledetto da Dio vostro amico, di cui io mi vi ramaricai l’altr’ieri40, per ciò che io
credo che egli sia nato per mio grandissimo stimolo41 e
per farmi far cosa, che io non sarò mai lieta42 né mai ardirò poi di più pormivi a’ piedi».
36 andò
verso la casa, passò vicino alla casa.
amorosa: II 8,16 n.
a passare. Non rara la costruzione di continuare col genitivo (VII 4,8 n.).
39 Cioè in atto di supplice o di penitente; III 8,7 n. (i confessionali non esistevano allora).
40 mi lamentai con voi giorni sono (l’altrieri è indeterminato al
contrario di ierlaltro: VII 1,23 n.).
41 tormento, noia; come, sempre con un sottinteso amoroso, nella
III 6,17 n. «lo stimol di Filippello» e nella VII1 4,9 n. «Parendo
questo stimolo troppo grave e troppo noioso». E cfr. anche II 8,42
n.
42 di che io non sarò mai lieta. Il che era usato in quell’età – come
ancor oggi nel linguaggio familiare – anche per tutti i casi obliqui e
senza alcuna preposizione: per es. IV 1,42: «Chi il commendò mai
tanto quanto tu commendavi in tutte quelle cose laudevoli che valoroso uomo dee essere commendato?»: II 7,26 n.: cfr. Mussafia,
37 benigna,
38 seguitò
Letteratura italiana Einaudi 409
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata III
24
«Come!» disse il frate «non s’è egli rimaso43 di darti
più noia?».
25
«Certo no», disse la donna «anzi, poi che io mi vene
dolfi44, quasi come per un dispetto, avendo forse avuto
per male che io mi ve ne sia doluta, per ogni volta che
26 passar vi solea, credo che poscia vi sia passato sette45. E
or volesse Iddio che il passarvi e il guatarmi gli fosse bastato, ma egli è stato sì ardito e sì sfacciato, che pure ieri
mi mandò una femina in casa con sue novelle e con sue
frasche46, e quasi come se io non avessi delle borse e delle cintole47, mi mandò una borsa e una cintola; il che io
ho avuto48 e ho sì forte per male, che io credo, se io non
avessi guardato al peccato49, e poscia per vostro amore,
io avrei fatto il diavolo, ma pure mi son rattemperata, né
ho voluto fare né dire cosa alcuna che io non vel faccia
27 prima assapere50. E oltre a questo, avendo io già renduta
indietro la borsa e la cintola alla feminetta che recata
l’avea, che gliele riportasse, e brutto commiato datole,
temendo che ella per sé non la tenesse e a lui; dicesse
che io l’avessi ricevuta, sì com’io intendo che elle fanno
alcuna volta, la richiamai indietro e piena di stizza gliele
pp. 518 sgg.; Rohlfs, 484. Si potrebbe anche intendere come che
consecutivo, con un «tale» sottinteso: cosa tale che.
43 astenuto.
44 Per queste forme cfr. II 7,37 n.
45 Uno dei soliti numeri indeterminati, fra i più usati nel Medioevo, come 3, 10, 12, 25, 100 (III intr., 3 n.; III 7,7 n.),
46 sciocchezze, baie: IV intr., 7 n.: VIII 7,148 n.; Sacchetti,
XXXII, XLIII, CX ecc.
47 Erano ornamenti in cui comunemente si sfoggiava l’eleganza
(cfr. MERKEL, art. cit. e anche Il 9,28 e 49-50; VII 3,39).
48 L’oggetto femminile che precede (borsa, cintola) si è sovrapposto evidentemente all’astratto il che determinando questo participio femminile.
49 scandalo.
50 16 forma intensiva usata solitamente, ma non di frequente,
con fare: come pìú innanzi, 40: «gli si facesse assapere»; M. Villani,
II 37: «feciono assapere a quelli dell’oste ...»; Malespini, Cronica
cit., p. 167: «fece assapere agli usciti di Firenze».
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata III
tolsi di mano e holla recata51 a voi, acciò che voi gliele
rendiate e gli diciate che io non ho bisogno di sue cose
per ciò che, la mercé di Dio e del marito mio io ho tante
28 borse e tante cintole che io ve l’afogherei entro. E appresso questo, sì come a padre mi vi scuso52 che, se egli
di questo non si rimane, io il dirò al marito mio e a’ fratei miei, e avvegnane che può; ché io ho molto più caro
che egli riceva villania, se ricevere ne la dee, che io abbia
biasimo per lui: frate, bene sta53».
29
E detto questo, tuttavia piagnendo forte, si trasse di
sotto alla guarnacca54 una bellissima e ricca borsa con
una leggiadra e cara55 cinturetta, e gittolle in grembo al
frate; il quale, pienamente credendo ciò che la donna diceva, turbato oltre misura le prese, e disse: «Figliuola, se
tu di queste cose ti crucci, io non me ne maraviglio né te
ne so ripigliare; ma lodo molto che tu in questo seguiti il
30 mio consiglio. Io il ripresi l’altr’ieri, e egli m’ha male attenuto quello che egli mi promise56 : per che, tra57 per
quello e per questo che nuovamente fatto ha, io gli credo per sì fatta maniera riscaldare gli orecchi58, che egli
più briga non ti darà; e tu, con la benedizion di Dio non
51 Qui, come altrove prima (recata, la tenesse, ricevuta) il sin. golare dove si aspetterebbe un plurale (per la borsa e la cintola): forse
la donna pensa alla borsa e alla cintola come a una sola cosa (e può
anche avere chiusa questa dentro quella: cfr. 29).
52 vi chiedo scusa.
53 «Frase proverbiale, che corrisponde su per giú a _O guarda un
po’» (Bianchi); «‘frate, così stanno le cose’ (ironico)» (Segre). Secondo il Fanfani potrebbero essere parole formulate solo mentalmente dalla donna. Cfr. VII 8,45 n.; VIII 2,26.
54 Sepravveste lunga: cfr. II 9,28 n.
55 preziosa.
56 mantenuto ciò che mi promise (Amorosa Visione, XVIII 34-35):
cfr.III 1,26 n.
57 parte: II 3,48 n.
58 rimproverare, lare un rabbuio: Velluti, Cronica domestica, p.
20: «avrebbe riscaldato gli orecchi altrui».
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata III
ti lasciassi59 vincer tanto all’ira, che tu a alcuno de’ tuoi
il dicessi, ché gli ne potrebbe troppo di mal seguire. Né
dubitar che mai di questo biasimo ti segua, ché io sarò
sempre e dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini fermissimo
testimonio della tua onestà».
31
La donna fece sembiante di riconfortarsi alquanto, e
lasciate queste parole, come colei che l’avarizia sua e degli altri conoscea60, disse: «Messere, a61 queste notti mi
sono appariti più miei parenti, e parmi che egli sieno in
grandissime pene, e non domandino altro che limosine,
e spezialmente la mamma mia, la quale mi pare sì afflitta
32 e cattivella62, che è una pietà a vedere. Credo che ella
porti grandissime pene di vedermi in questa tribulazione di questo nemico d’Iddio, e per ciò vorrei che voi mi
diceste per l’anime loro le quaranta messe di san Grigorio63 e delle vostre orazioni, acciò che Iddio gli tragga di
quel fuoco pennace64»; e così detto, gli pose in mano un
fiorino.
33
Il santo frate lietamente il prese, e con buone parole e
con molti essempli65 confermò la divozion di costei e,
datale la sua benedizione, la lasciò andare. E partita la
donna, non accorgendosi ch’egli era uccellato66 mandò
59 Deprecativo: fa di non lasciarti. Per questo uso dell’imperfetto
cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 384.
60 «Pur pe’ frati» (M.).
61 in: cfr. E. DE FELICE, La preposizione italiana ‘a’ cit., XVIII,
pp. 278 sgg.
62 misera: I 1,53 n.
63 Veramente le messe di san Gregorio sono tradizionalmente
trenta, poiché trenta messe celebrò san Gregorio Magno per la liberazione dell’anima del monaco Giusto (Dialogi, IV 55; Acta
Sanctorum, marzo, II, p. 140). Sarà un errore o una zelante esagerazione della donna? E cfr. G. VIDOSSI, Saggi e scritti minori di
folklore, Torino 1960, pp. 529 sgg.
64 che dà pena, tormentoso: quasi sempre in questa espressione:
per es. III 7,28 n.: «sarei messa nel fuoco pennace»; VII 10,21: «tu
se’ tra l’anime dannate nel fuoco pennace di Ninferno».
65 racconti devoti: cioè «exempla».
66 beffato, ingannato: III 5,3 n.
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per l’amico suo: il quale venuto, e vedendol turbato, incontanente s’avisò che egli avrebbe novelle dalla donna,
e aspettò che dir volesse il frate. Il quale, ripetendogli le
parole altre volte dettegli e di nuovo ingiuriosamente67 e
crucciato parlandogli, il riprese molto di ciò che detto
gli avea la donna che egli doveva aver fatto. Il valente
uomo, che ancor non vedea a che il frate riuscir volesse68, assai tiepidamente negava sé aver mandata la borsa
e la cintura, acciò che al frate non togliesse fede di ciò,
se forse69 data gliele avesse la donna.
Ma il frate, acceso forte, disse: «Come il puoi tu negare, malvagio uomo? Eccole, ché ella medesima piagnendo me l’ha recate; vedi se tu le conosci!»
Il valente uomo, mostrando di vergognarsi forte, disse: «Mai70 sì che io le conosco, e confessovi che io feci
male, e giurovi che, poi che io così la veggio disposta,
che71 mai di questo voi non sentirete più parola».
Ora le parole fur molte; alla fine il frate montone72
diede la borsa e la cintura allo amico suo, e ’l dopo73
molto averlo ammaestrato74 e pregato che più a queste
cose non attendesse, e egli avendogliele promesso, il licenziò.
Il valente uomo, lietissimo e della certezza che aver gli
67
68
con rimbrotti e rimproveri aspri: II 9,69 n.
a che cosa volesse mirare, dove volesse andare a parare: II 10,18
n.
69
nel caso che, qualora.
Rafforzativo consueto con si e no, forse da madie si, madie no:
Sacchetti, CXLIV; e cfr. I 1,53 n.
71 Ripetizione del che, solita dopo un inciso specialmente se condizionale: II 7,84 n.; e I 3,11 n.
72 balordo, sciocco: V 1,23: «considerando che amor l’avesse di
montone fatto tornare uno uomo»; Sacchetti, CVIII e CCV. E più
sotto, 55 n.: «frate bestia».
73 Singolare metatesi per il corrente «e dopo il molto». Ma non
impossibile in frasi simili (cfr. per es. III 5,15 n.).
74 ammonito.
70
Letteratura italiana Einaudi 413
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata III
parea dello amor della donna e del bel dono, come dal
frate partito fu, in parte n’andò dove cautamente fece alla sua donna vedere che egli avea e l’una e l’altra cosa; di
che la donna fu molto contenta, e più ancora per ciò che
le parea che ’l suo avviso75 andasse di bene in meglio. E
niuna altra cosa aspettando se non che il marito andasse
in alcuna parte per dare all’opera compimento, avvenne
che per alcuna cagione non molto dopo a questo convenne al marito andare infino a Genova76.
39
E come egli fu la mattina montato a cavallo e andato
via, così la donna n’andò al santo frate e dopo molte
querimonie piagnendo gli disse: «Padre mio, or vi dico
io bene che io non posso più sofferire; ma per ciò che
l’altr’ieri io vi promisi di niuna cosa farne che io prima
nol vi dicessi77, son venuta a iscusarmivi78. E acciò che
voi crediate che io abbia ragione e di piagnere e di ramaricarmi, io vi voglio dire ciò che ’l vostro amico, anzi dia
volo del Ninferno79, mi fece stamane poco innanzi mat40 tutino80. Io non so qual mala ventura gli facesse assapere
che il marito mio andasse iermattina a Genova, se non
che stamane, all’ora che io v’ho detta, egli entrò in un
mio giardino e venne sene su per uno albero alla finestra
della camera mia, la quale è sopra ’l giardino. E già aveva la finestra aperta e voleva nella camera entrare, quan75
piano, disegno.
Specialmente per il commercio dei panni, Firenze ebbe vivi, e
non sempre cordiali, rapporti con Genova (cfr. A. SAPORI, Studi
di storia economica medievale, pp. 36 sgg., 464 sgg. e passim).
77 di non fare alcun atto senza dirvelo prima.
78 Come sopra, ha il senso di chieder scusa, licenza di fare alcuna
cosa (28 n.).
79 Forma scherzosa e popolaresca, nata dall’agglutinazione della
lettera n tratta dalla preposizione in che molto spesso precede ‘inferno’ (è fenomeno che avviene anche in altri casi, per es. in ‘nabissare’. cfr. VIII 9,93 n.). P messa dal B. anche altre volte sulle labbra di protagonisti di sue novelle (III 7,28 n.; III 10,18 n,; VII
10,21).
80 Cioè prima dell’alba (Intr., 102 n.).
76
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do io destatami subito mi levai, e aveva cominciato a gridare e per Dio e per voi, dicendomi chi egli era; laonde
io, udendolo, per amor di voi tacqui, e ignuda come io
nacqui81 corsi e serra’gli la finestra nel viso, e egli nella
sua mal’ora credo che se ne andasse, perciò che poi più
nol sentii. Ora, se questa è bella cosa e è da sofferire, vedetel voi; io per me non intendo di più comportargliene82, anzi ne gli ho io bene per amor di voi sofferte troppe83».
Il frate, udendo questo, fu il più turbato uomo del
mondo, e non sapeva che dirsi, se non che più volte la
domandò se ella aveva ben conosciuto che egli non fosse
stato altri84.
A cui la donna rispose: «Lodato sia Idio, se85 io non
conosco ancor lui da un altro! Io vi dico che fu egli, e
perché86 egli il negasse, non gliele credete».
Disse allora il frate: «Figliuola, qui non ha87 altro da
dire, se non che questo è stato troppo grande ardire e
troppo mal fatta cosa, e tu facesti quello che far dovevi
di mandarnelo88 come facesti. Ma io ti voglio pregare,
poscia che Idio ti guardò di vergogna89, che, come due
volte seguito hai il mio consiglio, così ancora questa volta facci, cioè che senza dolertene a90 alcuno tuo parente
lasci fare a me, a vedere91 se io posso raffrenare questo
81
Cfr. II 7,56 n.
Il solito senso di sopportare (III 1,41 n.) si precisa qui in permettere, tollerare quello che si dovrebbe impedire.
83 per amor vostro, per riguardo a voi gliene ho perdonate troppe.
84 Cioè che non si fosse trattato d’altra persona.
85 Esclamazione di affermazione e di fermo proposito che già abbiamo sentito sulle labbra di madonna Fiordaliso (II 5,33 n.).
86 benché, per quanto (quasi con valore di futuro ipotetico): III
1,24 n.
87 non c’è: Intr., 15 n.
88 mandarlo via.
89 ti preservò dalla vergogna, dal disonore.
90 con: II 1,22 n.; II 2,17 n.; III 3,25; X 8,25.
91 per vedere.
82
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diavolo scatenato, che io credeva che fosse un santo; e se
io posso tanto fare che io il tolga da questa bestialità ,
bene sta; e se io non potrò , infino a ora con la mia benedizione ti do la parola92 che tu ne facci quello che l’animo ti giudica che ben sia fatto».
«Ora ecco», disse la donna «per questa volta io non vi
voglio turbare né disubidire; ma sì adoperate che egli si
guardi di più noiarmi, ché io vi prometto di non tornar
più per questa cagione a voi»; e senza più dire, quasi
turbata93, dal frate si partì .
Né era appena ancor fuor della chiesa la donna, che il
valente uomo sopravenne e fu chiamato dal frate, al
quale, da parte tiratol, esso disse la maggior villania che
mai a uomo fosse detta, disleale e spergiuro e traditor
chiamandolo. Costui, che già due altre volte conosciuto
avea che montavano i mordimenti94 di questo frate,
stando attento, e con risposte perplesse95 ingegnandosi
di farlo parlare, primieramente disse: «Perché questo
cruccio, messere? Ho io crocifisso Cristo?»
A cui il frate rispose: «Vedi svergognato! odi ciò
ch’e’dice! Egli parla né più né meno come se uno anno
o due fosser passati e per la lunghezza del tempo avesse
le sue tristizie e disonestà dimenticate. Etti egli da stamane a mattutino in qua uscito di mente96 l’avere altrui
ingiuriato? ove fostù stamane poco avanti al giorno?»
Rispose il valente uomo: «Non so io ove io mi fui;
molto tosto ve n’è giunto il messo».
«Egli è il vero», disse il frate «che il messo me n’è
giunto; io m’avviso che tu ti credesti97, per ciò che il ma92 fin da questo momento (III 5,22) ... ti do il permesso, la licenza:
cfr. Sacchetti, CCVII.
93 adirata: II 9,21 n,
94 che cosa comportavano, che cosa significavano i rimproveri (e
cfr. Intr., 50 n.).
95 ambigue.
96 Ti è ... uscito di memoria.
97 Questo indicativo in dipendenza di verbo putandì «contribui-
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rito non c’era, che la gentil donna ti dovesse incontanente ricevere in braccio. Hi meccere98: ecco onesto uomo!
è divenuto andator di notte, apritor di giardini e salitor
d’alberi! Credi tu per improntitudine vincere la santità99
di questa donna, che le vai alle finestre su per gli alberi
la notte? Niuna cosa è al mondo che a lei dispiaccia, come fai100 tu; e tu pur ti vai riprovando. In verità, lasciamo stare che ella te l’abbia in molte cose mostrato, ma
tu ti se’ molto bene ammendato101 per li miei gastigamenti102. Ma così ti vo’ dire: ella ha infino a qui, non per
amore che ella ti porti ma a instanzia de’prieghi miei, taciuto di ciò che fatto hai; ma essa non tacerà più ; conceduta l’ho la licenzia che, se tu più in cosa alcuna le spiaci, che103 ella faccia il parer suo. Che farai tu, se ella il
dice a’ fratelli?»
Il valente uomo, avendo assai compreso di quello che
gli bisognava, come meglio seppe e potè con molte ampie promesse racchetò il frate; e da lui partitosi, come il
mattutino della seguente notte fu, così egli nel giardino
entrato e su per lo albero salito e trovata la finestra aperta, se n’entrò nella camera, e come più tosto potè nelle
braccia della sua bella donna si mise. La quale, con
grandissimo disidero avendolo aspettato, lietamente il
ricevette, dicendo: «Gran mercé a messer lo frate, che
così bene t’insegnò la via da venirci. E appresso, prendendo l’un dell’altro piacere, ragionando e ridendo molsce a completare la figura del personaggio, di santissima vita ma
‘tondo e grosso’» con un espressivismo stilistico studiato da F.
BRAMBILLA AGENO, Il Verbo, pp. 327 sgg.
98 «Gli dice così, pronunziando meccère per messere al modo de’
bambini, come dire: _Guarda l’innocentino’; ora si direbbe ‘Bellino!’» (Fanfani). Voluta ironia che continua nella serie di sostantivi
verbali (cfr. Intr., 15 n.).
99 onestà, castità.
100 quanto dispiaci: cfr. Intr., 14 n.
101 emendato.
102 per i miei rimproveri (I 6,2 n.).
103 Cfr. 36 n.
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata III
to della simplicità del frate bestia104, biasimando i lucignoli e’ pettini e gli scardassi105, insieme con gran diletto
si sollazzarono.
55
E dato ordine a’ lor fatti, sì fecero, che senza aver più
a tornare a messer lo frate, molte altre notti con pari letizia insieme si ritrovarono; alle quali io priego Iddio per
la sua santa misericordia che tosto conduca me e tutte
l’anime cristiane che voglia ne hanno106. –
104 dabbenaggine, stoltezza di quel Frate bestione (cfr. VII 4,25):
Più Sopra frate montone (37 n.).
105 Tutti vocaboli della lavorazione della lana: lucignolo è la
quantità di lana che si mette sulla rocca per filarla: pettini e scardassi sono strumenti per pettinar la lana: cfr. U. FORTI, op. e loc.
cit.
106 «Buon priego è quel di costei» (M.): ed è ripetuto alla fine di
alcune novelle di questa giornata, con diverse variazioni (6, 7, 10).
Letteratura italiana Einaudi
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NOVELLA QUARTA
1
Dom Felice insegna a frate Puccio come egli diverrà beato faccendo una sua penitenzia; la quale frate Puccio fa, e dom Felice in questo mezzo con la moglie del frate si dà buon tempo1.
2
Poi che Filomena, finita la sua novella, si tacque,
avendo Dioneo con dolci parole molto lo ’ngegno della
donna commendato e ancora la preghiera da Filomena
ultimamente fatta, la reina ridendo guardò verso Panfilo, e disse: – Ora appresso, Panfilo, continua con alcuna
piacevol cosetta il nostro diletto. – Panfilo prestamente
rispose che volontieri2, e cominciò:
– Madonna, assai persone sono che, mentre che essi3
3
1
Nessun antecedente è stato indicato per questa novella, che
narra anche Chaucer (The Miller’s Tale) e il Sercambi (CXI e CXVII) imita prontamente. Ma sull’affermazione del Della Casa (Galateo, XI) e su alcuni documenti, il Manni tentò l’identificazione
storica del protagonista: «... si ha tanto in mano da credere che
Puccio di Rinieri, qui dal B. descritto, vi ebbe e fu de’ Carini. Nella Pace del Cardinal Latino seguita in Firenze nel 1280, abbiamo
Puccius Carini del Sesto di Borgo; e ancora Nerius Paganucci Carini; e tra le cartapecore dell’Archivio di Santa Maria Nuova si legge
‘1300-30 Januarii Puccius quondam Aldobrandini Carini populi S.
Trinitatis [vicino a San Brancazio] emancipavit Nerium [cioè Rinieril Benuccium et Albizzum filios suos’.. Ed appunto figliuolo di
uno di questi, Rinieri, fu per avventura il nostro Puccio». Si noti
che nel popolo di San Brancazio è posto anche un altro bigotto,
Gianni Lotteringhi (VII I). Per la popolarità del tema anche nella
novellistica cfr. Thompson e Rotunda, K 11514.1 e 2. Frate vale
terziario, frate del terzo ordine; dom è forma antica per don (cfr.
per es. Testi fiorentini, p. 240).
2 Sottinteso, come spesso, il verbo dalla frase precedente: avrebbe continuato, cioè avrebbe detto una novella piacevole. Sulla quasi formula cfr. G. COLUSSI, La formula decameroniana ‘disse che
volentieri’, in «Neuphilologische Mitteilungen», LXIX, 1968.
3 Una delle solite sillessi, assai spontanea del resto, dato che persone può indicare insieme maschi e femmine.
Letteratura italiana Einaudi 419
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata III
4
5
6
si sforzano d’andarne in paradiso, senza avvedersene vi
mandano altrui; il che a una nostra vicina4, non ha ancor
lungo tempo, sì come voi potrete udire, intervenne.
Secondo che io udii già dire, vicino di san Brancazio5
stette un buon uomo e ricco, il quale fu chiamato Puccio
di Rinieri, che poi, essendo tutto dato allo spirito6, si fece bizzoco di quegli di san Francesco7, e fu chiamato
frate Puccio, e seguendo questa sua vita spirituale, per
ciò che altra famiglia non avea che una sua donna e una
fante, né per questo a alcuna arte attender gli bisognava,
usava molto la chiesa. E per ciò che uomo idiota8 era e
di grossa pasta9, diceva suoi paternostri, andava alle prediche, stava alle messe, né mai falliva10 che alle laude che
cantavano i secolari esso non fosse, e digiunava e disciplinavasi, e bucinavasi11 che egli era degli scopatori12. La
moglie, che monna Isabetta avea nome, giovane ancora
di ventotto in trenta anni, fresca e bella e ritondetta che
pareva una mela casolana13, per la santità del marito e
4 concittadina. Siamo sempre nel cerchio della cronaca municipale scandalistica, come nelle III 3, VII 1 ecc.: e cfr. X 1,19 n.
5 San Brancazio o San Pancrazio (VII I), convento francescano
adiacente all’oratorio Rucellai, nell’odierna via della Spada.
6 dedicandosi interamente alle cose dello spirito,
7 terziario Francescano. Per bizzoco bigotto, di origine ignota
(Sacchetti, Rime, CLIX 278), cfr. A. PRATI, in «Arch. Glott. It.»,
XXXIV, 1942, pp. 43 sgg.; F. AGENO, Riboboli trecenteschi, in
«Studi di filologia italiana», X, 1952, p. 422.
8 ignorante: cfr. I 2,9 n.
9 grossolano, materiale, come grosso (III 1,4 n.).
10 né mancava mai ... colla solita ripetizione pleonastica del non.
11 si batteva colla disciplina (staffile), e si bisbigliava, si diceva: III
7,25 n.: «quantunque ... se ne bucinasse per certe parolette»; VIII
10,24: «quantunque in contrario avesse della vita di lei udito buscinare».
12 Era una compagnia di disciplinati che praticava gravi penitenze (Sacchetti, CXIII). E cfr. VII I,4 e 34 e nn. Tutto il passo riflette
il ritratto ideale del borghese devoto quale era tracciato dalla predicazione del tempo (C. DELCORNO, Giordano da Pisa e l’antica
predicazione in volgare, Firenze 1975, pp. 67 sg.).
13 «È mela rossa, che in alcuni luoghi chiamano mele rosse ed in
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7
8
forse per la vecchiezza, faceva molto spesso troppo più
lunghe diete che voluto non avrebbe; e, quand’ella si sarebbe voluta dormire o forse scherzar con lui, e egli le
raccontava la vita di Cristo e le prediche di frate Nastagio o il lamento della Maddalena o così fatte cose14.
Tornò in questi tempi da Parigi15 un monaco chiamato don Felice16, conventuale di san Brancazio, il quale
assai giovane e bello della persona era e d’aguto ingegno
e di profonda scienza17, col qual frate Puccio prese una
stretta dimestichezza. E per ciò che costui ogni suo dubbio molto bene gli solvea, e oltre a ciò, avendo la sua
condizion conosciuta, gli si mostrava santissimo, se lo
incominciò frate Puccio a menare talvolta a casa e a dargli desinare e cena, secondo che fatto gli venia; e la donna altressì per amor di fra Puccio era sua dimestica18 dialtri mele dìece, e credo pigliasse nome da Casole, luogo ove doveano esser notabili in bellezza e in quantità» (Ruscelli). Casole è nella
Valdelsa. Nota i due endecasillabi di seguito, fra altri endecasillabi
che punteggiano il periodo.
14 Varie sono le operette cui il B. potrebbe alludere con il lamento della Magdalena (cfr. per es. Acta Sanctorum, 22 luglio; ZAMBRINI, Opere volgari a stampa cit., I, 570; Lamentatio Magdalene
nel cod. Vat. lat. 7714, C. 103a; A. WILMART, Auteurs spirituels,
Paris 1932, pp. 203 sgg. e agli indici; e cfr. Concl., 24): ma più probabilmente il riferimento è generico. Le prediche di frate Nastagio
(cioè Anastasio), sono ricordate anche dal Della Casa (Galateo,
XI); ma il nome non accenna probabilmente a un predicatore in
qualche modo famoso (di cui non trovo notizia), ma deve avere
soltanto un valore evocativo, tale da richiamare alla mente del lettore tutto un mondo fratesco (in cui quel nome era frequente): cfr.
WILMART, Op. Cit., p. 332.
15 Parigi era, anche per il B., antonomastica e quasi leggendaria
cittadella del sapere (vedi VIII 7; Concl., 21 e anche I 2, VIII 9;
Trattatello, I 25, 75, 123; II A 20, 56, 76).
16 Due endecasillabi di seguito introducono la narrazione.
17 È sottintesa una voce del verbo «essere», probabilmente
«era»: come era d’uso e accade anche nel D., specialmente quando
v’è ripresa con relativa o temporale (per es. III 7,21 n. e 8,2; IV I,7
n.; VIII 4,2; X 9,82; Concl., 23).
18 familiare, amica.
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venuta e volentier gli faceva onore. Continuando19
adunque il monaco a casa di fra Puccio e veggendo la
moglie così fresca e ritondetta, s’avisò qual dovesse essere quella cosa della quale ella patisse maggior difetto; e
pensossi, se egli potesse, per tor fatica a fra Puccio, di
10 volerla supplire20. E postole l’occhio adosso e una volta
e altra bene astutamente, tanto fece che egli l’accese nella mente quello medesimo disidero che aveva egli; di che
accortosi il monaco, come prima destro gli venne21, con
11 lei ragionò il suo piacere22. Ma, quantunque bene la trovasse disposta a dover dare all’opera compimento, non
si poteva trovar modo, per ciò che costei in niun luogo
del mondo si voleva fidare a esser col monaco se non in
casa sua; e in casa sua non si potea, perché fra Puccio
non andava mai fuor della terra23; di che il monaco avea
gran malinconia24. E dopo molto gli venne pensato25 un
modo da dover potere essere colla donna in casa sua
senza sospetto26, non obstante che fra Puccio in casa
fosse.
12
E essendosi un dì andato a star con lui frate Puccio,
gli disse così: «Io ho già assai volte compreso, fra Puccio, che tutto il tuo disidero è di divenir santo, alla qual
cosa mi par che tu vadi per una lunga via, là dove ce n’è
una che è molto corta, la quale il papa e gli altri suoi
19
Andando di continuo, frequentando: I 10,11 n.
soddisfare di quanto le mancava, sovvenirla nel diletto di cui pativa: uso e costruzione non solita, né registrata dai vocabolari.
21 appena gli si presentò occasione favorevole: IV 5,8 n.
22 espresse il suo desiderio: Intr., 52 n.
23 città: II 2,22 n.
24 dolore, umor nero, con valore più forte che in II 6,19 n.: V 9,38
n.
25 pensò, ma accennando a modo involontario fortuito, come a
VII 8,7: e cfr. anche II 5,70 n.; VII 8,11; IX 4,20. Vedi in generale
Rohlfs, 735.
26 timore: IX 7,12 n.; Inf., V 129.
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maggior prelati, che la sanno e usano, non vogliono che
ella si mostri; per ciò che l’ordine chericato27, che il più
di limosine vive, incontanente sarebbe disfatto, sì come
quello al quale più i secolari né con limosine né con altro attenderebbono28. Ma per ciò che tu se’ mio amico e
haimi onorato molto, dove io credessi che tu a niuna
persona del mondo l’appalesassi, e volessila seguire, io
la t’insegnerei».
Frate Puccio, divenuto disideroso di questa cosa, prima cominciò ’a pregare con grandissima instanzia che
gliele insegnasse, e poi a giurare che mai, se non quanto
gli29 piacesse, a alcun nol direbbe, affermando che, se tal
fosse che esso seguir la potesse, di mettervisi30.
«Poi che tu così mi prometti i», disse il monaco «e31
io la ti mosterrò . Tu dei sapere che i santi dottori tengono32 che a chi vuol divenir beato si convien fare la penitenzia che tu udirai. Ma intendi sanamente33: io non dico, che dopo la penitenzia tu non sii peccatore come tu
ti se’; ma avverrà questo, che i peccati che tu hai infino
all’ora della penitenzia fatti, tutti si purgheranno e sarannoti per quella perdonati; e quegli che tu farai poi
non saranno scritti a tua dannazione, anzi se n’andranno
con l’acqua benedetta, come ora fanno i veniali. Conviensi adunque l’uomo principalmente con gran diligenzia confessare de’ suoi peccati34 quando viene a comin27 Cioè tanto i preti secolari che i religiosi dei vari Ordini: la classe sacerdotale.
28 renderebbero ossequio, presterebbero attenzioni e cure: II 9,45;
VII 2,17.
29 A don Felice.
30 Per questa costruzione (con infinito in anacoluto) dei verbi deliberativi e opinativi: II 2,5 n. Tutto questo periodo, e la situazione
stessa, sono strettamente simili a VIII 9,14.
31 Lo stesso valore (ecco) e costruzione che in I I,39 n.
32 ritengono: III 2,3 n.
33 bene: quasi una formula: V 10,58; VII 2,18; VIII 6,53 ecc.
34 Conviene che l’uomo ... si confessi dei suoi peccati. «È costruito
alla latina con l’infinito per congiuntivo: e la particella riflessiva di
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata III
ciar la penitenzia; e appresso questo li convien cominciare un digiuno e una abstinenzia grandissima, la qual
convien che duri quaranta dì, ne’ quali, non che da altra
femina, ma da toccare la propria tua moglie ti conviene
17 astenere35. E oltre a questo si conviene avere nella tua
propria casa alcun luogo donde tu possi la notte vedere
il cielo, e in su l’ora della compieta36 andare in questo
luogo, e quivi avere una tavola molto larga ordinata37 in
guisa che, stando tu in pie’, vi possi le reni appoggiare, e
tenendo gli piedi in terra distender le braccia a guisa di
crocifisso: e se tu quelle volessi appoggiare a alcun cavigliuolo38, puoil fare; e in questa maniera guardando il
18 cielo, star senza muoverti punto insino a matutino39. E,
se tu fossi litterato, ti converrebbe in questo mezzo dire
certe orazioni che io ti darei; ma, perché non se’, ti converrà dire trecento paternostri con trecento avemarie a
reverenzia della40 Trinità , e riguardando il cielo, sempre
aver nella memoria Idio essere stato creatore del cielo e
della terra, e la passion di Cristo, stando in quella ma19 niera che stette Egli in su la croce. Poi, come matutino
suona, te ne puoi, se tu vuogli, andare e così vestito gittarti sopra ’l letto tuo e dormire: e la mattina appresso si
vuole andare41 alla chiesa, e quivi udire almeno tre mesconfessarsi è apposta al conviensi» (Fanfani). O conviensi è riflessivo e è omesso si dopo confessare (Segre). Per le varie costruzioni di
convenire, che si alternano in questi paragrafi, come del resto lungo tutto il D. (personale, impersonale, col dativo), cfr. II 7,80 n.;
VII 7,36 n.; e F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 148.
35 Nota il rapido passaggio dall’impersonale e generale al personale e particolare poiché si accenna al fatto che più interessa Frate
Puccio. Naturalmente quaranta qui come altrove (VIII 4,37) è numero emblematico, dalla Bibbia in poi, di attesa, di preparazione e
quindi di penitenza.
36 L’ultima delle ore canoniche, al tramonto del sole.
37 adattata, disposta.
38 cavicchio, sostegno.
39 La prima delle ore canoniche, poco innanzi all’alba.
40 in onore della.
41 bisogna, si deve andare: I 1,26 n.
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se e dir cinquanta paternostri con altrettante avemarie; e
appresso questo con simplicità fare alcuni tuoi fatti, se a
far n’hai alcuno, e poi desinare, e essere appresso al vespro42 nella chiesa e quivi dire certe orazioni che io ti
darò scritte, senza le quali non si può fare; e poi in su la
compieta ritornare al modo detto. E faccendo questo, sì
come io feci già, spero che anzi che la fine della penitenzia venga, tu sentirai maravigliosa cosa della beatitudine
eterna, se con divozione fatta l’avrai».
Frate Puccio disse allora: «Questa non è troppo grave
cosa, né troppo lunga, e deesi assai ben poter fare; e per
ciò io voglio al nome di Dio cominciar domenica».
E da lui partitosene e andatosene a casa, ordinatamente, con sua43 licenzia perciò44 , alla moglie disse ogni
cosa. La donna intese troppo bene per lo star fermo infino a matutino senza muoversi ciò che il monaco voleva
dire; per che, parendole assai buon modo, disse che di
questo e d’ogni altro bene, che egli per l’anima sua faceva, ella era contenta, e che, acciò che Idio gli facesse la
sua penitenzia profittevole, ella voleva con esso lui digiunare, ma fare altro no45.
Rimasi adunque in concordia, venuta la domenica,
frate Puccio cominciò la sua penitenzia, e messer lo monaco, convenutosi colla donna, a ora che veduto non poteva essere, le più delle sere con lei se ne veniva a cenare,
seco sempre recando e ben da mangiare e ben da bere,
poi con lei si giaceva infino all’ora del matutino, al quale
levandosi se n’andava, e frate Puccio tornava al letto.
Era il luogo, il quale frate Puccio aveva alla sua penitenzia eletto, allato alla camera nella quale giaceva la donna, né da altro era da quella diviso che da un sottilissimo
42
La Penultima delle ore canoniche, nel Pomeriggio avanzato.
Di don Felice.
44 Con valore avversativo: per altro, però: II 2,1,5 n.
45 «Non senza un velo d’equivoca ambiguità» (Marti).
46 pavimento o più probabilmente tramezzo riferendosi al s o t t i
43
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muro; per che, ruzzando messer lo monaco troppo colla
donna alla scapestrata e ella con lui, parve a frate Puccio
sentire alcuno dimenamento di palco46 della casa; di
che, avendo già detti cento de’ suoi paternostri, fatto
punto quivi47, chiamò la donna senza muoversi, e domandolla ciò che ella faceva. La donna, che motteggevole48 era molto, forse cavalcando allora senza sella la bestia di san Benedetto o vero di san Giovanni
Gualberto49, rispose: «Gnaffè50, marito mio, io mi dimeno quanto io posso».
Disse allora frate Puccio: «Come ti dimeni? Che vuol
dir questo dimenare?»
La donna ridendo (e di buon’ aria51 e valente donna
era, e forse avendo cagion di ridere) rispose: «Come non
sapete voi quello che questo vuol dire? Ora io ve l’ho
udito dire mille volte: _Chi la sera non cena, tutta notte
si dimena52».
Credettesi frate Puccio che il digiunare, il quale ella a
lui mostrava di fare, le fosse cagione di non poter dormire, e per ciò per lo letto si dimenasse, per che egli di
buona fede disse «Donna, io t’ho ben detto: ’non digiunare’; ma, poiché pur l’hai voluto fare, non pensare a
l i s s i m o muro: cfr. VIII 2,17; e Esposizioni, IV litt. 296 «non che
le mura e’ palchi ma eziandio il pavimento…»
47 fermatosi a questo punto.
48 incline a motteggiare, faceta, burlona. Per questo tipo di aggettivi verbali prediletti dal B. cfr. F. BRARIBILLA AGENO, Il verbo, pp. 251 sgg.
49 Facile linguaggio equivoco per cui cfr. anche I 4, III 8, San Benedetto e san Giovanni Gualberto sono ritratti spesso a cavallo di
un asino. «Il linguaggio osceno si colorisce di formule in apparenza
religiose in conformità con l’ambiente della novella e l’indole dei
personaggi» (Sapegno).
50 Cfr. I I,55 n.
51 faceta, gaia (francesismo: ant. fr. debonnaire): cfr. X 5,4.
52 L’equivocità dell’allusione è sottolineata dalla cantilena rimata. Il proverbio conclusivo è già nel fortunatissimo dialogo De Salomone et Marcolpbo (secolo XII); è ripreso dal Piovano Arlotto (8),
e registrato dal Giusti, Raccolta di proverbi toscani, p. 286.
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ciò, pensa di riposarti; tu dai tali volte53 per lo letto, che
tu fai dimenar ciò che ci e’54».
Disse allora la donna: «Non ve ne caglia55 no; io so
ben ciò ch’i’mi fo; fate pur ben voi, ché io farò bene io,
se io potrò».
Stettesi adunque cheto frate Puccio e rimise mano a’
suoi paternostri; e la donna e messer lo monaco da questa notte innanzi, fatto in altra parte della casa ordinare
un letto, in quello, quanto durava il tempo della penitenzia di frate Puccio, con grandissima festa si stavano, e
a una ora56 il monaco se n’andava e la donna al suo letto
tornava, e poco stante57 dalla penitenzia a quello58 se ne
venia frate Puccio. Continuando adunque in così fatta
maniera il frate la penitenzia e la donna col monaco il
suo diletto, più volte motteggiando disse con lui: «Tu fai
fare la penitenzia a frate Puccio, per la quale noi abbiam
guadagnato il paradiso». E parendo molto bene stare alla donna, sì s’avvezzò a’ cibi del monaco che, essendo
dal marito lungamente stata tenuta in dieta, ancora che
la penitenzia di frate Puccio si consumasse59, modo
trovò di cibarsi in altra parte con lui, e con discrezione
lungamente ne prese il suo piacere.
53
ti rivolti, ti rigiri in tale modo, così violentemente.
ogni cosa, tutto.
Non ve ne curate, non ve ne date pensiero. Calere, verbo assai
usato dal B., è impersonale.
56 nello stesso tempo, momento.
57 dopo poco tempo.
58 Cioè al letto.
59 benché ... finisse, alla latina.
54
55
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33
Di che, acciò che l’ultime parole non sieno discordanti alle prime, avvenne che, dove frate Puccio, faccendo
penitenzia sé credette mettere60 in paradiso, egli vi mise
il monaco, che da andarvi tosto gli avea mostrata la via, e
la moglie, che con lui in gran necessità vivea di ciò che61
messer lo monaco, come misericordioso, gran divizia le
fece62.
60
credette di mettersi.
di quello di cui: cfr. II 7,26 n.
62 le donò molto abbondantemente.
61
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NOVELLA QUINTA
1
Il Zima dona a messer Francesco Vergellesi un suo pallafreno,
e per quello con licenzia di lui parla alla sua donna; e ella tacendo, egli in persona di lei si risponde, e secondo la sua risposta poi l’effetto segue1.
2
Aveva Panfilo, non senza risa delle donne, finita la
novella di frate Puccio, quando donnescamente la reina
a Elissa impose che seguisse: la quale, anzi acerbetta che
no2, non per malizia ma per antico costume, così cominciò a parlare:
– Credonsi molti, molto sappiendo, che altri non sappi nulla, li quali spesse volte, mentre altrui si credono
uccellare3, dopo il fatto sé da altrui essere stati uccellati
3
1
Nessun antecedente preciso neppure per questa novella. Sono
stati citati soltanto alcuni racconti orientali in cui dei mariti, per
avarizia o bramosia di denari, inducono le mogli a cedere ai desideri dei loro corteggiatori: cfr. per es. Hitopadesa ou l’instruction utile ... traduit du Sanscrit par E. Lancerau, Paris 1882, I 8; The book
of Sindibad ecc., ed. W. A. Clouston, London 1884, p. 61; A.
D’ANCONA, Il libro de’ Sette Savi, Pisa 1864, p. 114, e le varie altre versioni e rimaneggiamenti dello stesso libro. Allo stesso tema
conducono i motivi della novellistica citati dal Rotunda (K 1359.I e
1544). Si può pensare anche alla ripresa, a livello diverso tra il narrativo e l’ironico, del topos del «contrasto» d’amore.
2 Piuttosto sdegnosetta, cioè in tono piuttosto aspro e riservato.
Per comprendere il valore di questa e della frase seguente si tenga
presente quanto su Elissa è stato detto nell’Intr., 51 n. e 77 n. È la
più ritrosa e pudica delle novellatrici, questa adolescente garbata,
riservata, così modesta nei suoi esordi (I 9, IV 4, VII 3, VIII 3):
mostra ira e sdegno solo contro tutto quello che è contrario al suo
ideale di nobiltà spirituale: cioè contro l’ipocrisia (VII 3, IX 2, X
2), contro la vigliaccheria (I 9), contro la turpe avarizia, come in
questa novella (e vedi anche la ballata della VI). Proprio a questa
innata severità rispondente a costume del «buon tempo antico» e
non a cattiveria (malizia) risale l’atteggiamento di Elissa.
3 ingannare, beffare: III 3,33 n. È il solito tema dell’ingannatore o
beffatore vittima delle sue trame stesse: cfr. II 9,3 n.
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4
5
conoscono; per la qual cosa io reputo gran follia quella
di chi si mette senza bisogno a tentar le forze dello altrui
ingegno4. Ma perché forse ogniuomo della mia opinione
non sarebbe, quello che a un cavalier pistolese n’adivenisse, l’ordine dato del ragionar seguitando, mi piace di
raccontarvi.
Fu in Pistoia nella famiglia de’ Vergellesi un cavalier
nominato messer Francesco6, uomo molto ricco e savio
e avveduto per altro, ma avarissimo senza modo; il quale, dovendo andar podestà di Melano7, d’ogni cosa
oportuna a dovere onorevolmente andare fornito s’era,
se non d’un pallafreno solamente8 che bello fosse per
lui; né trovandone alcuno che gli piacesse, ne stava in
pensiero. Era allora un giovane in Pistoia, il cui nome
era Ricciardo, di piccola nazione9 ma ricco molto, il
quale sì ornato e sì pulito della persona andava, che generalmente da tutti era chiamato il Zima10, e avea lungo
4
«Nota» (M.). Come altre volte (per es. III 10, IV 7, V 2) la novella è sentita e concepita come dimostrazione della sentenza iniziale, proprio come un «exemplum» nell’oratoria sacra del tempo.
5 pistoiese. Sono comuni le forme pistolese e pistorese (per es. Storie pistoresi, in RR. II.SS2., XI 5 passim).
6 I Vergellesi o Vergiolesi erano una nota e potente famiglia che
capeggiò i Bianchi e poi i Ghibellini a Pistoia: e cui avrebbe appartenuto, secondo lo Zaccagnini (Le rime di Cino da Pistoia, Genève
1925, p. 212; La capitaneria e la podesteria di Soffredi Vergiolesi, in
«Boll. Stor. Pistoiese», XXXVI, 1934), anche la donna cantata da
Cino (cfr. specie Lasso! pensando a la distrutta valle). Un Francesco de’ Vergellesi fu mandato nel 1313 con una missione politica in
Francia (M. SALVI, Historie di Pistoia, Pistoia 1657, Il, p. 314); e
proprio circa il 1326 andò podestà in Lombardia (L. CHIAPPELLI, Studi storici pistoiesi, Pistoia 1919, p. 123; cfr. anche Storie pistoresi, XLI; D. HERLIHY, Pistoia nel Medioevo e nel Rinascimento, Firenze 1972, pp. 289 sgg.; G. GANUCCI CANCELLIERI,
Pistoia nel XIII secolo, Firenze 1975, pp. 259 sgg.).
7 È forma comune nel D. (III concl.; VIII I; X 9) e negli scritti
del tempo (Purg., VIII 80; Convivio, IV XX).
8 fuor che di ..., eccetto soltanto un palafreno.
9 di umile nascita, origine: III 2,5 n.
10 Cioè l’azzimato: e non doveva esser nomignolo troppo raro,
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9
tempo amata e vagheggiata infelicemente11 la donna di
messer Francesco, la quale era bellissima e onesta molto.
Ora aveva costui un de’ più belli pallafren di Toscana e
avevalo molto caro per la sua bellezza; e essendo a ogni
uom publico12 lui vagheggiare la moglie di messer Francesco, fu chi gli disse che, se egli quello addimandasse,
che egli l’avrebbe per l’amore il quale il Zima alla sua
donna portava. Messer Francesco, da avarizia tirato, fattosi chiamare il Zima, in vendita gli domandò il suo pallafreno, acciò che il Zima gliele profferesse in dono.
Il Zima, udendo ciò, gli piacque13, e rispose al cavaliere: «Messere, se voi mi donaste ciò che voi avete al mondo, voi non potreste per via di vendita avere il mio pallafreno, ma in dono il potreste voi bene avere, quando vi
piacesse, con questa condizione che io, prima che voi il
prendiate, possa con la grazia vostra e in vostra presenzia parlare alquante parole alla donna vostra, tanto da
ogni uom separato che io da altrui14 che da lei udito non
sia».
Il cavaliere, da avarizia tirato e sperando di dover beffar costui, rispose che gli piacea, e quantunque15 egli volesse; e lui nella sala del suo palagio lasciato, andò nella
camera alla donna, e quando detto l’ebbe come agevolmente poteva il pallafreno guadagnare, le ’mpose che a
udire il Zima venisse; ma ben si guardasse che a niuna
cosa che egli dicesse rispondesse né poco né molto. La
donna biasimò molto questa cosa, ma pure, convenendole seguire i piaceri del marito, disse di farlo16: e appoiché in una pergamena dell’Archivio del Monastero del Cestello
di Firenze, del 18 luglio 1300 (F 93), si trova, come già segnalò il
Manni, un «Zima figliuolo del quondam Rinieri del Bagno».
11 senza profitto, inutilmente.
12 essendo pubblico ad ogni uomo cioè essendo noto ad ognuno.
13 ci ebbe piacere (Fanfani).
14 da altri, da nessun altro.
15 quanto mai, quanto tempo.
16 che lo avrebbe fatto.
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presso al marito andò nella sala a udire ciò che il Zima
volesse dire.
10
Il quale, avendo col cavaliere i patti rifermati17, da
una parte della sala assai lontano da ogn’uomo colla
donna si pose a sedere, e così cominciò a dire: «Valorosa
donna18, egli mi pare esser certo che voi siete sì savia,
che assai bene, già è gran tempo, avete potuto comprendere a quanto amor portarvi m’abbia condotto la vostra
bellezza, la qual senza alcun fallo trapassa quella di ciascun’altra che veder mi paresse giammai; lascio stare de’
costumi laudevoli e delle virtù singolari che in voi sono,
le quali avrebbon forza di pigliare ciascuno alto animo
11 di qualunque uomo. E per ciò non bisogna che io vi dimostri con parole quello19 essere stato il maggiore e il
più fervente che mai uomo a alcuna donna portasse; e
così senza fallo sarà mentre la mia misera vita sosterrà
questi membri, e ancor più: chè, se di là come di qua
s’ama, in perpetuo v’amerò. E per questo vi potete render sicura che niuna cosa avete, qual che ella si sia o cara
o vile, che tanto vostra possiate tenere e così in ogni atto
farne conto come di me, da quanto che io mi sia20, e il si12 migliante delle mie cose21. E acciò che voi di questo
prendiate certissimo argomento, vi dico che io mi reputerei maggior grazia che voi cosa che io far potessi che vi
17 confermati.
18 «Nota pro epistola mittenda» (M.): e di fatti tutta la parlata
del Zima è architettata molto letterariamente e secondo la tradizione della trattatistica medievale (cfr. per es. Andrea Cappellano, De
amore, pp. 65 sgg.; Guittone, Lettere, v; e J. M. RUGGIERI, Due
lettere d’amore ecc., in «Archivum Romanicum», XXIV, 1940, p.
94; V. BRANCA, La prima diffusione del D., pp. 86 sgg.; C. MARGUERON, Recherches sur Guittone, Paris 1966, p. 401).
19 quell’amore.
20 per quanto io valga.
21 L’alta e studiata intonazione di questo discorso amoroso, lo
compone qui nei ritmi di una serie di endecasillabi (5) veramente
eccezionale e incastonata fra insistenti altri endecasillabi e settenari
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata III
piacesse mi comandaste, che22 io non terrei che, comandando io, tutto il mondo prestissimo m’ubbidisse23.
13 Adunque, se così son vostro come udite che sono, non
immeritamente ardirò di porgere i prieghi miei alla vostra altezza24, dalla qual sola ogni mia pace, ogni mio bene e la mia salute venir mi puote, e non altronde25. E sì
come umilissimo servidor vi priego, caro mio bene e sola speranza dell’anima mia, che nello amoroso fuoco
sperando in voi si nutrica26, che la vostra benignità sia
tanta e sì ammollita la vostra passata durezza verso di
me dimostrata, che vostro sono, che io, dalla vostra
pietà riconfortato, possa dire che, come per la vostra
bellezza innamorato sono, così per quella aver la vita27,
la quale, se a’ miei prieghi l’altiero vostro animo non
s’inchina, senza alcun fallo verrà meno, e morrommi28, e
14 potrete esser detta di me micidiale 29. E lasciamo stare
che la mia morte non vi fosse onore, nondimeno credo
che, rimordendovene alcuna volta la conscienza, ve ne
dorrebbe d’averlo fatto, e talvolta, meglio disposta 30,
che decorano l’orazione. E cfr. i discorsi di Troiolo (Filostrato, IV
122 e VII 52) e quello di Federigo degli Alberighi (V 9,21-22).
22 Introduce dopo maggior il secondo termine di paragone.
23 prontissimo.
24 Amorosa Visione, XLV 82 sgg. e XLVI 55 sgg.; A. Cappellano,
De amore, p. 39.
25 da altra parte.
26 Espressioni letterarie già risonate nei momenti più solennemente concitati dell’Amorosa Visione: L 82 Sgg.: «Amor mi diede a
voi, voi sola sete | Il ben che mi promette la speranza, | Sola mia vita in gioia tener potete. | Solo mio ben, sola mia disianza, | Solo
conforto della vaga mente, | Sola colei che mia virtute avanza | Sete
e sarete sempre al mio vivente ...»; e anche XXIII 64 sgg.; XXVII
73 sgg.
27 Per la costruzione con che e l’infinito cfr. Intr., 42 n. E cfr. Cino, Quando pur veggio 39 sgg. per tutta l’affermazione amorosa.
28 Cfr. II 7,15 n.
29 omicida: II 6,39 n. Cfr. ancora Cino, Avegna ched el m’aggia
45, Prego’l vostro saver 14.
30 piú incline a pietà, più benigna verso la mia memoria.
Letteratura italiana Einaudi 433
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata III
con voi medesima direste: ‘Deh, quanto mal feci a non
aver misericordia del Zima mio!’e questo pentere non
15 avendo luogo, vi sarebbe di maggior noia cagione31. Per
che, acciò che ciò non avvenga, ora che sovvenir mi potete, di ciò v’incresca, e anzi che io muoia a misericordia
di me vi movete, per ciò che in voi sola il farmi il più lieto e il più dolente uomo che viva dimora32. Spero tanta
essere la vostra cortesia che non sofferete che io per tanto e tale amore morte riceva per guiderdone33, ma con
lieta risposta e piena di grazia riconforterete gli spiriti
miei, li quali spaventati tutti trieman nel vostro
16 cospetto34.». E quinci35 tacendo, alquante lacrime dietro
a36 profondissimi sospiri mandate per gli occhi fuori37,
cominciò a attender quello che la gentil donna gli rispondesse.
17
La donna, la quale il lungo vagheggiare, l’armeggiare,
le mattinate38, e l’altre cose simili a queste per amor di
lei fatte dal Zima, muovere non avean potuto, mossero
le affettuose parole dette dal ferventissimo amante: e cominciò a sentire ciò che prima mai non avea sentito, cioè
31 e a nulla giovando questo pentimento vi causerebbe maggior dolore. È un accenno al motivo che sarà poi sviluppato e figurato nella novella di Tedaldo (III 7) e soprattutto in quella di Nastagio (V
8).
32 dipende da voi, sta in voi sola il farmi ... E cfr. 13; e Ninfale,
XIX.
33 come ricompensa.
34 L’alto e letterario discorso del Zima si conclude con immagini
e linguaggio stilnovistici (cfr. per es. Cavalcanti, XIII): ma forse
con funzione ironizzante e dissacrante se pensiamo alla conclusione della novella.
35 E da questo punto in poi.
36 dopo, successivamente a: cfr. IV 1,17 n.; G. Villani, XI 94
«quelli che verranno dietro a noi»; Sacchetti, Rime, XLIV 33 sgg.
«il tempo, che disciolto | Dirieto a questa età venne più vago».
37 Petrarca, CII 4: «Pianse per gli occhi fuor».
38 Canti d’amore intonati dagli innamorati sotto le finestre delle
loro donne, sul far del giorno (e cfr. Par., X 141; C E. G. PARODI,
in «Bull. Soc. Dantesca», XII, :1905, p. 328). Armeggiare vale qui
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che amor si fosse. E quantunque, per seguire il comandamento fattole dal marito, tacesse, non potè per ciò alcun sospiretto nascondere quello che 39 volentieri, rispondendo al Zima, avrebbe fatto manifesto.
Il Zima, avendo alquanto atteso e veggendo che niuna
risposta seguiva, si maravigliò, e poscia s’incominciò a
accorgere dell’arte usata dal cavaliere; ma pur lei riguardando nel viso e veggendo alcun lampeggiare d’occhi40
di lei verso di lui alcuna volta, e oltre a ciò raccogliendo
i sospiri li quali essa non con tutta la forza loro del petto
lasciava uscire, alcuna buona speranza prese, e da quella
aiutato prese nuovo consiglio41. E cominciò in forma
della donna42 udendolo ella, a rispondere a sé medesimo in cotal guisa: «Zima mio, senza dubbio gran tempo
ha che io m’accorsi il tuo amore verso me esser grandissimo e perfetto, e ora per le tue parole molto maggiormente il conosco, e sonne contenta, sì come io debbo.
Tuttafiata43, se dura e crudele paruta ti sono, non voglio
che tu creda che io nello animo stata sia quello che nel
viso mi sono dimostrata: anzi t’ho sempre amato e avuto
caro innanzi a ogni altro uomo, ma così m’è convenuto
fare e per paura d’altrui e per servare la fama della mia
onestà . Ma ora ne viene quel tempo nel quale io ti potrò
chiaramente mostrare se io t’amo e renderti guiderdone
dello amore il qual portato m’hai e mi porti; e per ciò
confortati e sta a buona speranza, per ciò che messer
Francesco è per andare in fra pochi dì a Melano per podestà, sì come tu sai, che per mio amore donato gli hai il
bel pallafreno. Il quale come andato sarà , senz’alcun
giocar d’arme, intervenire in tornei in onore di una donna: come
nella II 3,8 n. e III 6,7 n.
39 tuttavia alcun sospiretto non poté nascondere quello che.
40 È espressione solita ad indicare sguardo amoroso (II 2, 38 n.).
41 decise un nuovo modo d’agire: II 8,23 n.
42 al posto della donna, in persona della donna.
43 Tuttavia.
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata III
fallo ti prometto sopra la mia fè e per lo buono amore44
il quale io ti porto, che in fra pochi dì tu ti troverai meco
e al nostro amore daremo piacevole e intero compimen22 to45. E acciò che io non t’abbia altra volta a far parlar di
questa materia, infino a ora46 quel giorno il qual tu vedrai due asciugatoi tesi alla finestra della camera mia, la
quale è sopra il nostro giardino, quella sera di notte,
guardando ben che veduto non sii, fa che per l’uscio del
giardino a me te ne venghi; tu mi troverai ivi che t’aspetterò , e insieme avrem tutta la notte festa e piacere l’un
dell’altro sì come disideriamo».
23
Come il Zima in persona della donna ebbe così parlato, e47 egli incominciò per sé a parlare e così rispose:
«Carissima donna, egli è per soverchia letizia della vostra buona risposta sì ogni mia virtù occupata48, che appena posso a rendervi debite grazie formar la risposta; e
se io pur potessi, come io disidero, favellare, niun termine è sì lungo che mi bastasse a pienamente potervi ringraziare come io vorrei e come a me di far si conviene; e
per ciò nella vostra discreta considerazion si rimanga a
conoscer quello che io disiderando fornir con parole
44 amore sincero e leale, secondo un linguaggio tradizionale usato
anche dal B.: VI 7,13; Filocolo, IV 38,8.
45 Anche in questo secondo discorso si affolla sulle labbra del Zima il linguaggio consacrato dalla nostra letteratura amorosa dei
primi secoli: come accade anche altrove nel D. (per es. VII 7, X 6).
Guiderdone e compimento avevano un senso preciso e quasi tecnico, indicando il terzo momento di ogni storia d’amore, il completo
mutuo possesso degli amanti (cfr. BRANCA, B. medievale, pp. 224
sgg.).
46 fin da questo momento [ti dico che]. «Questo modo fu usato
spesso dagli antichi, come finora. Dante: ‘Finor t’assolvo e tu m’insegna fare’» (Fanfani): Inf., XXVII 101. E cfr. III 3,45 n.; IV 2,20
CCC.; e Mussafia, p. 537.
47 Solito uso paraipotattico per cui cfr. I 1,39 n.
48 la soverchia gioia, causatarni dalla vostra risposta piena di
bontà, mi ha così sopraffatto: altra espressione stilnovistica.
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non posso49. Soltanto vi dico che, come imposto m’avete, così penserò di far senza fallo; e allora forse più rassicurato di tanto dono quanto conceduto m’avete, m’ingegnerò a mio potere di rendervi grazie quali per me si
potranno maggiori50. Or qui non resta a dire al presente
altro; e però, carissima mia donna, Dio vi dea quella allegrezza e quel bene che voi disiderate il maggiore, e a
Dio v’acomando».
Per tutto questo non disse la donna una sola parola;
laonde il Zima si levò suso e verso il cavaliere cominciò a
tornare, il qual veggendolo levato, gli si fece incontro e
ridendo disse: «Che ti pare? Ho t’io bene la promessa
servata?»
«Messer no», rispose il Zima «ché voi mi prometteste
di farmi parlare colla donna vostra e voi m’avete fatto
parlar con una statua di marmo51».
Questa parola piacque molto al cavaliere, il quale, come che buona oppinione avesse della donna, ancora ne
la prese migliore; e disse: «Omai è ben mio il pallafreno
che fu tuo».
A cui il Zima rispose: «Messer sì; ma se io avessi creduto trarre di questa grazia ricevuta da voi tal frutto
chente52 tratto n’ho, senza domandarlavi ve l’avrei donato; e or volesse Iddio che io fatto l’avessi, per ciò che
voi avete comperato il pallafreno, e io non l’ho venduto53».
49 alla vostra riflessione, piena di discrezione, sia affidato il compito di conoscere quanto io non posso esprimere colle parole, benché lo
desideri. I periodi continuano a snodarsi solennemente, secondo i
paradigmi e la tecnica di quella nobile tradizione letteraria.
50 È una formula assai amata dal B.: II 4,28 n.
51 Nella tradizione lirica – forse qui ironizzata – era d i m a r m o
la donna senza pietà (Petrarca, CLXXI 1 1e anche Dante, Rime, C
72).
52 quale: Intr., 55 n.
53 «Lo avete comperato, perché m’avete dato quel che vi ho chie-
Letteratura italiana Einaudi 437
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata III
Il cavaliere di questo si rise, e essendo fornito di pallafreno, ivi a pochi dì entrò in cammino e verso Melano se
n’andò in podesteria54. La donna, rimasa libera nella sua
casa, ripensando alle parole del Zima e all’amore il qual
le portava e al pallafreno per amor di lei donato, e veggendol da casa sua molto spesso passare, disse seco me30 desima: «Che fo io? perché perdo io la mia giovanezza?
Questi se n’è andato a Melano e non tornerà di questi
sei mesi55; e quando me gli ristorerà56 egli giammai?
quando io sarò vecchia? e oltre a questo, quando troverò io mai un così fatto amante come è il Zima? Io son
sola, né ho d’alcuna persona paura; io non so perché io
non mi prendo questo buon tempo mentre che io posso;
io non avrò sempre spazio57 come io ho al presente; questa cosa non saprà mai persona, e se egli pur si dovesse
risapere, si è egli meglio fare e pentere che starsi e pentersi58».
31
E così seco medesima consigliata, un dì pose due
asciugatoi alla finestra del giardino, come il Zima aveva
detto; li quali il Zima vedendo, lietissimo, come la notte
fu venuta, segretamente e solo se n’andò all’uscio del
giardino della donna, e quello trovò aperto, e quindi
29
sto, e però niun obbligo me ne avete; e io non l’ho venduto, perché
niente non ho approdato dalla concessione vostra» (Fanfani).
54 all’ufficio di podestà: Sacchetti, CIX.
55 durante questi sei mesi, quanto cioè durava la carica: per l’uso
temporale di d i cfr. Vll 5,34 n.
56 li risarcirà: Il 5,23 n.; Sacchetti, CLIV.
57 occasione, comodità: cfr. I concl., 10 n.; Purg., XXIV 31. E cfr.
per tutta l’affermazione VI 7,13 sg,
58 Così Paolo da Certaldo, Libro di buoni costumi, n. 356: «meglio è indarno fare che indarno stare»; mentre Geremia da Montagnone, Proverbi, 103 (in «Atti R. Ist. Veneto», serie VI, III, 1885,
pp. 93 sgg.): «È meglio indarno stare che indarno lavorare». «Il
verbo è costruito prima in forma assoluta e poi in forma riflessiva
per accordarsi al modo dei due verbi con cui si accompagna» (Sapegno).
Letteratura italiana Einaudi
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n’andò a un altro uscio che nella casa entrava, dove
trovò la gentil donna che l’aspettava.
32
La qual veggendol venire, levataglisi incontro, con
grandissima festa il ricevette; e egli, abbracciandola e
baciandola centomilia volte, su per le scale la seguitò; e
senza alcuno indugio coricatisi, gli ultimi termini conob33 ber d’amore59. Né questa volta, come che la prima fosse,
fu però l’ultima, per ciò che, mentre il cavalier fu a Melano, e ancor dopo la sua tornata60, vi tornò con grandissimo piacere di ciascuna delle parti61 il Zima molte
dell’altre volte.
59
Quasi una formula: per es. Filostrato, III 32; e anche V 6, 1 9 n
finché il cavaliere fu a Milano e ancora dopo il suo ritorno (III 5,
33 n.).
61 Una frase cara al B. in situazioni simili: per es. III 6,32.
60
Letteratura italiana Einaudi 439
NOVELLA SESTA
1
Ricciardo Minutolo ama la moglie di Filippello Sighinolfo, la
quale sentendo gelosa, col mostrare Filippello il dì seguente
con la moglie di lui dovere essere a un bagno, fa che ella vi va,
e credendosi col marito essere stata, si truova che con Ricciardo è dimorata1.
2
Niente restava più avanti a dire a Elissa, quando,
commendata la sagacità del Zima, la reina impose alla
Fiammetta che procedesse con una2, la qual tutta ridente rispose: «Madonna, volentieri»; e cominciò:
Alquanto è da uscire della nostra città, la quale, come
d’ogn’altra cosa è copiosa, così è d’essempli a ogni materia, e, come Elissa ha fatto, alquanto delle cose che per
l’altro mondo3 avvenute son raccontare; e per ciò, a Napoli trapassando, dirò come una di queste santesi4, che
così d’amore schife si mostrano, fusse dallo ’ngegno
3
1 Di simili scambi e di simili sorprese (di solito è solo la moglie
che si sostituisce alla donna di cui è incapricciato il marito, come
nella III 9: cfr. Rotunda, K 1223.3*) narrano già varie novelle
orientali: per es. nel Libro dei Sette Savi (ed. D’Ancona, p. LVII),
nel Cukasaptati (cfr. op. cit., p. LVIII), nel Sindibad Nameh (»Asiatic Journal», XXX, 1841 e XXXVI, 1847). Anche un fabliau di Engerrant d’Oisy, Le Meunier d’Arleux, ripete lo stesso motivo, ma
sempre in forma più simile al Sacchetti, CCVI (Recueil général cit.,
II, pp. 31 sgg.; BEDIER, Les fabliaux, pp. 465 sgg.; e anche Due
novelle aggiunte in un codice del 1437, Bologna 1866; Thompson e
Rotunda, K 1311).
2 con una novella.
3 per le altre parti del mondo.
4 beghine, bacchettone o, come il B. scriverà nella Conclusione,
spigolistre. Santese (da santo chiesa) è chi ha cura della chiesa, il sagrestano. Dinanzi a come è sottinteso facilmente raccontare, dire
secondo un uso non infrequente (V I,20; V 7,16; e cfr. Mussafia,
pp. 537 sg.).
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4
d’un suo amante prima a sentir d’amore il frutto condotta che i fiori avesse conosciuti5 :il che a una ora a voi
presterà cautela6 nelle cose che possono avvenire, e daravvi diletto delle avenute.
In Napoli, città antichissima e forse così dilettevole, o
più, come ne sia alcuna altra in Italia7, fu già un giovane
per nobiltà di sangue chiaro e splendido per molte ricchezze, il cui nome fu Ricciardo Minutolo8. Il quale, non
ostante che una bellissima giovane e vaga per moglie
avesse, s’innamorò d’una, la quale, secondo l’oppinion
di tutti, di gran lunga passava di bellezza tutte l’altre 9
donne napoletane, e fu chiamata Catella10, moglie d’un
5 Nell’immagine naturale si riflette anche, come nella X 6, il linguaggio quasi tecnico della letteratura d’amore di quel secolo, accettato dal B. anche per la sua favolosa autobiografia (V. BRANCA, B. medievale, pp. 224 sgg.; e cfr. III 5,21 n.; VII 7,25 n.; IX 2,5
n.; X 6,36 n.; X 7,47 n.).
6
prudenza, avvedutezza: cioè: vi insegnerà ad esser caute.
7
Fiammetta, V 27,1: «La nostra città, oltre a tutte l’altre italiche,
di lietissime feste abbondevole ... copiosa di molti giuochi ...»
8 Il protagonista di questa novella apparterrebbe dunque alla nobile famiglia cui già accenna il B. nella II 5, parlando dell’Arcivescovo allora sepolto (cfr. 63 n.). Il Campanile (Delle Insegne dei
Nobili di Napoli, Napoli 1680, p. 56) scrive: «Ricciardo [Minutoli],
che dicemmo essere stato anche egli figliuol di Ligorio, fu cavaliere, consigliere e famigliare del Re Roberto e della Regina Giovanna
I dalla quale nel 1343 fu egli mandato per Viceré e Capitano a
guerra in Terra d’Otranto. Leggesi anche di questo Ricciardo essere stato uno di quei Cavalieri che accompagnarono il Principe di
Taranto all’impresa di Grecia ...» (cfr. anche LEONARD, op. cit.,
III, p. 162). Nulla sappiamo invece della moglie, di cui appresso.
9 Teseida, I 136: «che di bellezza passava le belle»; Amorosa Visione, XLIII 81; Comedia, XXIX 40.
10 Nella Caccia di Diana una delle protagoniste è proprio Caterina Sighinolfi (X 20; XIV 50), e nello stesso poemetto è usato il vezzeggiativo Catella (III 47; XI 9). A tale identificazione il Torraca
(G. B. a Napoli, p. 154) obiettò che «le donne della Caccia portano
tutte i cognomi delle famiglie da cui uscirono, non di quelle in cui
entrarono maritandosi»; ma la regola generale soffre varie eccezioni (per es. IX 56 Iacopa Aldimaresca; IX 43: Marella Caracciola).
La ripetizione del nome è ad ogni modo indizio probabile di una
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6
7
giovane similmente gentile uomo, chiamato Filippel Sighinolfo11, il quale ella, onestissima, più che altra cosa
amava e aveva caro. Amando adunque Ricciardo Minutolo questa Catella e tutte quelle cose operando per le
quali la grazia e l’amor d’una donna si dee potere acquistare, e per tutto ciò a niuna cosa potendo del suo disidero pervenire12, quasi si disperava; e da amore o non
sappiendo o non potendo disciogliersi, né morir sapeva
né gli giovava di vivere.
E in cotal disposizion dimorando, avvenne che da
donne che sue parenti erano fu un dì assai confortato
che di tale amore si dovesse rimanere13, per ciò che in
van si faticava, con ciò fosse cosa che Catella niuno altro
bene avesse che Filippello, del quale ella in tanta gelosia
viveva, che ogni uccel che per l’aere volava credeva gliele togliesse. Ricciardo, udito14 della gelosia di Catella,
subitamente prese consiglio a’ suoi piaceri15 e cominciò
qualche familiarità. Di Catella (o Covella) Sighinolfi parla anche
l’Ammirato (Famiglie nobili napoletane, Firenze 1580, I, p. 170); e
cfr. per tutto V. BRANCA, Tradizione delle opere di G. B. cit., pp.
186 sgg.
11 Filippo Sighinolfi ebbe varie alte cariche e godé di vari benefici alla corte della Regina Giovanna: ma risulta sposato non a una
Caterina, ma a Mattea d’Aprano (cfr. c. MINIERI-RICCIO, Notizie storiche tratte da 62 Registri Angioini, Napoli 1877, p. 26; LEONARD, Op. Cit., III, pp. 222 e 572). Il diminutivo Filippello era
molto usato, e se ne trovano vari esempi anche alla corte napoletana (DE BLASIIS, Racconti ecc. cit., pp. 144 sg.; TORRACA, G. B.
a Napoli, p. 33; LEONARD, op. cit., I, p. 448 ecc.). Perillo Sighinolfi sposò Regale Bartile, figlia di Giovanni, grande amico del B.
(Genealogia, XIV 19; e cfr. Profilo cit., passim, all’indice): i Sighinolfi erano dunque famiglia conosciuta dal B.
12 e con tutto ciò non potendo giungere a soddisfare in nulla il suo
desiderio. Per la frase seguente cfr. X 7,13 e Rime, LXXVI.
13 si dovesse distogliere. La scena, appena accennata, può ricordarne una del Filostrato (VII 84 sgg.).
14 Participio passato assoluto: appena udì, udito che ebbe.
15 Cioè studiò il modo di ottenere ciò che desiderava.
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8
9
a mostrarsi dello amor di Catella disperato16, e per ciò in
un’altra gentil donna averlo posto17: e per amor di lei
cominciò a mostrar d’armeggiare e di giostrare18 e di far
tutte quelle cose le quali per Catella solea fare. Nè guari
di tempo ciò fece che quasi a tutti i napoletani, e a Catella altressì, era nell’animo19 che non più Catella, ma questa seconda donna sommamente amasse; e tanto in questo perseverò, che sì per fermo da tutti si teneva che,
non ch’altri, ma Catella lasciò una salvatichezza20 che
con lui aveva dell’amor che portar le solea, e dimesticamente21, come vicino, andando e vegnendo il salutava
come faceva gli altri.
Ora avvenne che, essendo il tempo caldo e molte brigate di donne e di cavalieri, secondo l’usanza de’ napo16
fuor di speranza: II 5,55 n.
Il solito espediente della «donna schermo», di cui troviamo accenni o esempi nei trovatori provenzali e nei nostri rimatoti di quei
secoli, Dante compreso (Vita Nuova, V).
18
Il giostrare (11 8,69 n.) era uno dei più solenni divertimenti
della nobile società napoletana, cui intervenivano in gran folla anche le donne: l’usanza introdotta da Carlo I (TORRACA, G. B. a
Napoli, pp. 130 sgg.) continuava ancora sotto Roberto. A una giostra nel ’43 assisté anche il Petrarca (Familiares, V 6); e il B. nel
passo della Fiammetta citato per il par. 4 continua: «Ma tra l’altre
cose nelle quali essa [Napoli] appare splendidissima, è nel sovente
armeggiare. Suole adunque essere questa a noi consuetudine antica
... di convocare li di più solenni alle logge de’ cavalieri le nobili
donne ... al suono delle tostane trombe l’uno appresso l’altro, e seguiti da molti, tutti in cotale abito cominciano davanti alle donne il
giuoco loro, colui lodando più in esso, il quale con la lancia più vicino alla terra con la sua punta, e meglio chiuso sotto lo scudo, senza muoversi sconciamente, dimora correndo sopra il cavallo ... Essendo adunque la lieta schiera due o tre volte, cavalcando con
picciolo passo, dimostratasi a’ circustanti, cominciavano i loro
aringhi ...» (V 27,2 sgg. e 29,1). E cfr. III 5,17 n.
19 tutti i napoletani ... credevano, erano convinti.
20 ritrosia che gli dimostrava a causa dell’amore ... : III 7,26 n.; V
6,16: «La giovane, parendole il suo onore avere omai perduto, per
la guardia del quale ella gli era alquanto nel passato stata salvatichetta».
21 amabilmente.
17
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letani, andassero a diportarsi22 a’ liti del mare e a desinarvi e a cenarvi23, Ricciardo, sappiendo Catella con sua
brigata esservi andata, similmente con sua compagnia
v’andò, e nella brigata delle donne di Catella fu ricevuto, faccendosi prima molto invitare, quasi non fosse
10 molto vago di rimanervi. Quivi le donne, e Catella insieme con loro, incominciarono con lui a motteggiare24 del
suo novello amore, del quale egli mostrandosi acceso
forte, più loro di ragionare dava materia. A lungo andare essendo l’una donna andata in qua e l’altra in là, come
si fa in quei luoghi25, essendo Catella con poche rimasa
quivi dove Ricciardo era, gittò Ricciardo verso lei un
motto26 d’un certo amore di Filippello suo marito, per
lo quale ella entrò in subita gelosia, e dentro cominciò a
arder tutta di disidero di saper ciò che Ricciardo volesse
11 dire. E poi che alquanto tenuta27 si fu, non potendo più
tenersi, pregò Ricciardo che, per amor di quella donna
la quale egli più amava, gli dovesse piacere di farla chiara di ciò28 che detto aveva di Filippello.
12
Il quale le disse: «Voi m’avete scongiurato per persona, che29 io non oso negar cosa che voi mi domandiate; e
per ciò io son presto a dirlovi30, sol che voi mi promettiate che niuna parola ne farete mai né con lui né con al-
22
divertirsi, svagarsi.
Per una viva pittura di queste usanze napoletane e del giocondo vivere sulle spiagge, si veda ancora Fiammetta, V 17 sgg. e anche Rime, VI, LX, LXI, LXII, LXV ecc.; Filocolo, IV 14,3 sgg. E
nota la solita costruzione del gerundio e dell’imperfetto (I 7,6 n.; II
2,20 n.; III 10,25 n.); e cfr. Mussafia, p. 463.
24 Cfr. I 5,17 n.
25 Fiammetta, V 20 599.
26 frase, accenno scherzoso (II 8,5.9 n.).
27 trattenuta, contenuta (Il 5,53 n.).
28 di chiarirle ciò: cfr. II I,27; II 5,27; Il .9,57; III 1,5 n. ecc.
29 tale che. Situazione analoga a quella nella VII 7,18.
30 son pronto a dirvelo (la stessa forma poco più innanzi).
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trui, se non quando per effetto31 vederete esser vero
quello che io vi conterò; ché, quando vogliate, v’insegnerò come vedere il potrete».
Alla donna piacque questo che egli addomandava, e
più il credette esser vero, e giurogli di mai non dirlo. Tirati adunque da una parte, che da altrui uditi non fossero, Ricciardo cominciò così a dire: «Madonna, se io
v’amassi come io già amai, io non avrei ardire di dirvi
cosa che io credessi che noiar vi dovesse; ma, per ciò che
quello amore è passato, me ne curerò meno d’aprirvi32 il
vero d’ogni cosa. Io non so se Filippello si prese giammai onta33 dell’amore il quale io vi portai, o se avuto ha
credenza34 che io mai da voi amato fossi; ma, como35 che
questo sia stato o no, nella mia persona36 niuna cosa ne
mostrò mai. Ma ora, forse aspettando tempo quando ha
creduto che io abbia men di sospetto, mostra di volere
fare a :me quello che io dubito che egli non tema ch’io
facessi a lui, cioè di volere al suo piacere avere la donna
mia; e per quello che io truovo37 egli l’ha da non troppo
tempo in qua segretissimamente con più ambasciate sollicitata, le quali io ho tutte da lei risapute; e ella ha fatte
le risposte secondo che io l’ho imposto. Ma pure stamane, anzi che io qui venissi, io trovai con la donna mia in
casa una femina a stretto consiglio38, la quale io credetti
incontanente che fosse ciò che ella era, per che io chiamai la donna mia e la dimandai quello che colei di man31 in effetto, in realtà, nel fatto; non comune, ma cfr. X 8,.58: «si
come per effetto si conosce al presente».
32 manifestarvi.
33 si sentì offeso.
34 se ha creduto.
35 È l’unico esempio nel D. di questa forma non ignota all’antico
italiano (lnf., XX1V i12; Purg., XXIII 36: e cfr. Rohlfs, 945).
36 verso la mia persona. Oggi: nei miei riguardi (cfr. 33 n.; X 2,2).
37 per quanto mi risulta.
38 a segreto colloquio: Convivio, I II 5: «a l’amico dee l’uomo lo
suo difetto contare strettamente».
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dasse. Ella mi disse: ‘Egli è lo stimol di Filippello 39, il
qual tu, con fargli risposte e dargli speranza, m’hai fatto
recare addosso40, e dice che del tutto vuol sapere quello
che io intendo di fare, e che egli, quando io volessi, farebbe che io potrei essere segretamente a un bagno41 in
questa terra; e di questo mi prega e grava42: e se non fosse che tu m’ha’fatto, non so perchè, tener questi
mercati43, io me l’avrei per maniera levato di dosso che
18 egli mai non avrebbe guatato là dove io fossi stata’. Allora mi parve che questi procedesse troppo innanzi e che
più non fosse da sofferire, e di dirlovi, acciò che voi conosceste che merito riceve la vostra intera fede44, per la
19 quale io fui già presso alla morte. E acciò che voi non
credeste queste esser parole e favole, ma il poteste,
quando voglia ve ne venisse, apertamente e vedere e toccare, io feci fare alla donna mia, a colei che l’aspettava,
questa risposta, che ella era presta d’esser domani in su
la nona, quando la gente dorme, a questo bagno45; di
20 che la femina contentissima si partì da lei. Ora non credo io che voi crediate46 che io la vi mandassi; ma, se io
fossi in vostro luogo, io farei che egli vi troverrebbe me
in luogo di colei cui trovarvi si crede47; e quando alquanto con lui dimorata fossi, io il farei avvedere con
39 Cioè: colei che mi viene a stimolare da parte di Filippello (III
3,23 n.); oppure è quel seccatore di Filippello (Segre).
40 hai fatto sì che mi si metta d’attorno (Fanfani).
41 Le case da bagni o stufe erano fra i luoghi più usati per gli appuntamenti amorosi (TORRACA, G. B. a Napoli, p. I 54).
42 mi istiga.
43 rapporti, trattative.
44 come sia compensata la vostra assoluta fedeltà, onestà.
45 Verso le due-tre del pomeriggio, nella controra, come si dice a
Napoli, dove è ancora generale l’uso della siesta, specie d’estate. I
due endecasillabi di seguito sottolineano il tono delle parole di Ricciardo.
46 Per il bisticcio replicatorio con e r e d e r e cfr. I 1,51 n.
47 Non raro «credersi» riflessivo con oggetto diretto o con l’infi-
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cui stato fosse, e quel lo onore che a lui se ne convenisse
ne gli farei; e questo faccendo, credo sì fatta vergogna gli
fia, che a una ora la ’ngiuria che a voi e a me far vuole
vendicata sarebbe».
Catella, udendo questo, senza avere alcuna considerazione a chi era colui che gliele dicea o a’ suoi inganni, secondo il costume de’ gelosi, subitamente diede fede alle
parole, e certe cose state davanti cominciò a attare48 a
questo fatto; e di subita ira accesa, rispose che questo
farà ella certamente49, non era egli sì gran fatica a fare; e
che fermamente, se egli vi venisse, ella gli farebbe sì fatta
vergogna, che sempre che egli alcuna donna vedesse gli
si girerebbe per lo capo50. Ricciardo, contento di questo
e parendogli che ’l suo consiglio fosse stato buono e
procedesse51, con molte altre parole la vi confermò su e
fece la fede maggiore52, pregandola non dimeno che dir
non dovesse giammai d’averlo udito da lui, il che ella sopra la sua fè gli promise.
La mattina seguente Ricciardo se n’andò a una buona
femina53, che quel bagno che egli aveva a Catella detto
teneva, e le disse ciò che egli intendeva di fare, e pregolla che in ciò fosse favorevole quanto potesse. La buona
femina, che molto gli era tenuta54, disse di farlo volentieri e con lui ordinò quello che a fare o a dire avesse. Aveva costei, nella casa ove ’l bagno era, una camera oscura
molto, sì come quella nella quale niuna finestra che lunito o con dichiarativa esplicita: per es. VI intr., 9: e cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, pp. 141 sg.
48 cominciò a collegare, a connettere.
49 Costruzione che ritiene del discorso diretto, anche nella seguente frase quasi parentetica.
50 gli tornerebbe in mente (gli ronzerebbe nella testa si direbbe
volgarmente): Inf., XXX 135.
51 si sviluppasse con successo, facesse la sua via, andasse bene.
52 la confermò sempre più nella sua fede, nella sua credenza.
53 solito eufemismo, o antifrasi: cfr. II 5,49 n.
54 I Minutolo erano, nel Trecento, possessori di uno dei bagni
napoletani (TORRACA, art. cit., p. 155).
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me rendesse rispondea55. Questa, secondo l’ammaestramento di Ricciardo, acconciò la buona femina e fecevi
entro un letto, secondo che potè il migliore, nel quale
Ricciardo, come desinato ebbe, si mise e cominciò a
aspettare Catella.
La donna65, udite le parole di Ricciardo e a quelle data più fede che non le bisognava, piena di sdegno tornò
la sera a casa, dove per avventura Filippello pieno d’altro pensiero57 similmente tornò, né le fece forse quella
dimestichezza58 che era usato di fare. Il che ella vedendo, entrò in troppo maggior sospetto che ella non era,
seco medesima dicendo: «Veramente costui ha l’animo a
quella donna con la qual domane si crede aver piacere e
diletto, ma fermamente questo non avverrà». E sopra
cotal pensiero, e imaginando come dir gli dovesse quando con lui stata fosse, quasi tutta la notte dimorò.
Ma che più? Venuta la nona, Catella prese sua compagnia e senza mutare altramente consiglio se n’andò a
quel bagno il quale Ricciardo le aveva insegnato; e quivi
trovata la buona femina, la domandò se Filippello stato
vi fosse quel dì.
A cui la buona femina ammaestrata da Ricciardo disse: «Sete voi quella donna che gli dovete venire a parlare?»
Catella rispose: «Sì sono59».
55
si apriva.
Catella.
tutto fitto in un altro pensiero.
58 non la trattò con quell’affetto, con quella tenerezza: IX 5,56:
«un poco di più dimestichezza che usata non era gli fece»; e anche
II 7,22 n.
59 Solita omissione del predicato, al confronto dell’uso moderno,
dove per il contesto è facile sottintenderlo (III 1,39: «io era ben così»; IV 6,18 n.; IV :10,4 n.; Comedia, IX 7: «e qualunque campo
tiene satiri manda quivi ...»)
56
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«Adunque», disse la buona femina «andatevene da
lui».
Catella, che cercando andava quello che ella non
avrebbe voluto trovare, fattasi alla camera menare dove
Ricciardo era, col capo coperto60 in quella entrò e dentro serrossi. Ricciardo, vedendola venire, lieto si levò in
piè e, in braccio ricevutala, disse pianamente61: «Ben vegna l’anima mia». Catella, per mostrarsi ben d’essere altra che ella non era, abbracciò e baciò lui e fecegli la festa grande62 senza dire alcuna parola, temendo, se
parlasse, non fosse da lui conosciuta. La camera era
oscurissima, di che ciascuna delle parti era contenta; né
per lungamente dimorarvi riprendevan gli occhi più di
potere63. Ricciardo la condusse in su il letto, e quivi, senza favellare in guisa che scorger64 si potesse la voce, per
grandissimo spazio con maggior diletto e piacere
dell’una parte che dell’altra stettero.
Ma poi che a Catella parve tempo di dovere il conceputo sdegno mandar fuori, così di fervente ira accesa cominciò a parlare: «Ahi quanto è misera la fortuna delle
donne e come è male impiegato l’amor di molte ne’ mariti65! Io, misera me!, già sono otto anni, t’ho più che la
mia vita amato, e tu, come io sentito ho, tutto ardi e consumiti nello amore d’una donna strana66, reo e malvagio
uom che tu se’! Or con cui ti credi tu essere stato? Tu
se’ stato con colei la qual con false lusinghe67 tu hai, già
è assai68, ingannata mostrandole amore e essendo altro-
60
Cioè velata.
piano, sommessamente.
62 Il solito uso per cui II 5,38 n.; e per lo stilema: II 7,115 n.
63 gli occhi acquistavano maggior capacità di vedere.
64 riconoscere, distinguere: sinestesia non comune.
65 verso i mariti (14 n.).
66 estranea: Intr., 77 n.; Amorosa Visione, XXVI 30.
67 Un sintagma che piace al B.: cfr. I 8,9.
68 molto tempo fa.
61
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ve innamorato. Io son Catella, non son la moglie di Ricciardo, traditor disleale che tu se’; ascolta se tu riconosci
la voce mia, io son ben dessa; e parmi mille anni che noi
siamo al lume69, che io ti possa svergognare come m se’
degno, sozzo cane vituperato che tu se’. Oimè, misera
me! a cui ho io cotanti anni portato cotanto amore? A
questo can disleale, che, credendosi in braccio avere una
donna strana, m’ha più di carezze70 e d’amorevolezze
fatte in questo poco di tempo che qui stata son con lui,
che in tutto l’altro rimanente che stata son sua. Tu se’
bene oggi, can rinnegato, stato gagliardo, che a casa ti
suogli mostrare così debole e vinto e senza possa. Ma,
lodato sia Idio, che il tuo campo, non l’altrui, hai lavorato, come tu ti credevi71. Non maraviglia72 che stanotte tu
non mi ti appressasti! tu aspettavi di scaricar le some altrove, e volevi giugnere molto fresco cavaliere alla battaglia73; ma, lodato sia Idio e il mio avvedimento, l’acqua è
pur corsa all’in giù, come ella doveva74! Ché non rispondi, reo uomo? Ché non di’ qualche cosa? Se’ tu divenuto
mutolo udendomi? In fè di Dio io non so a che io mi
tengo75, che io non ti ficco le mani negli occhi e traggogliti76. Credesti molto celatamente saper fare questo tradimento; per Dio! tanto sa altri quanto altri77; non t’è
69
alla luce.
Cfr. II 5,16 n.
Il solito senso equivoco, per cui II 10,32 n.
72 Non è strano: con costruzione impersonale.
73 Altri comuni modi di dire equivoci, per cui IV 2,30 n.; IX 6,17
e II 10,39.
74 Cioè: la cosa è andata per il suo verso, è accaduto quel che doveva: con allusione equivoca all opinione allora corrente che i vari
elementi tendessero ognuno alla sua sfera, e quella dell’acqua era
in basso; e cfr. anche VIII 2,9 n.
75 non so da che cosa io sia trattenuta, non so che cosa mi tiene: come poco più sotto (41) e alla II 5,53 n.; V1II 9,62 n.
76 te li cavo.
77 tanto ne sa uno quanto un altro, cioè non sei il solo furbo. P a r
è forma corrente soprattutto nel sintagma qui usato: cfr. per es.
Crestomazia, 38 II 46.
70
71
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venuto fatto; io t’ho avuti miglior bracchi alla coda78 che
tu non credevi».
39
Ricciardo in sé medesimo godeva di queste parole, e
senza rispondere alcuna cosa l’abbracciava e baciava e
più che mai le faceva le carezze grandi. Per che ella, seguendo il suo parlar, diceva: «Sì, tu mi credi ora con tue
carezze infinte lusingare79, can fastidioso che tu se’, e rapaceficare e racconsolare; tu se’ errato80; io non sarò mai
di questa cosa consolata, infino a tanto che io non te ne
vitupero81 in presenzia di quanti parenti e amici e vicini
40 noi abbiamo. Or non sono io, malvagio uomo, così bella
come sia la moglie di Ricciardo Minutolo? Non son io
così gentil donna? ché non rispondi, sozzo cane? Che ha
colei più di me? Fatti in costà, non mi toccare, che tu hai
41 troppo fatto d’arme82 per oggi. Io so bene che
oggimai83, poscia che tu conosci chi io sono, che84 tu ciò
che tu fa cessi faresti a forza; ma, se85 Dio mi dea la grazia sua, io te ne farò ancor patir voglia86; e non so a che
io mi tengo che io non mando per Ricciardo, il qual più
che sé m’ha amata e mai non potè vantarsi che io il guatassi pure una volta; e non so che male si fosse a farlo.
Tu hai creduto avere la moglie qui, e è come se avuta
l’avessi, in quanto per te non è rimaso87; dunque, se io
avessi lui, non mi potresti con ragione biasimare».
78 Cioè ho saputo spiarti, ho saputo farti appostare meglio ... Bracchi sono cani da caccia dal fiuto finissimo.
79 rabbonire, acquietare.
80 Non rare nel D. queste forme composte con l’ausiliare «essere» invece che «avere». Cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p.
293.
81 svergogno: VII 6,6 n.; VIII 9,I12 n.
82 hai troppo giostrato, nel solito senso equivoco.
83 ormai: IV intr., 17 n.
84 Solita ripetizione del che dopo frase parentetica.
85 Deprecativo: ma possa Dio concedermi la sua grazia.
86 soffrir mancanza, aver carestia.
87 perché per parte tua non hai trascurato nulla perché questo non
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Ora le parole furono assai e il rammarichio della donna grande; pure alla fine Ricciardo, pensando che, se andar ne la lasciasse con questa credenza 88 molto di male
ne potrebbe seguire, diliberò di palesarsi e di trarla dello inganno nel quale era; e recatasela in braccio e presala
bene sì che partire non si poteva, disse: «Anima mia dolce, non vi turbate; quello che io semplicemente amando
aver non potei, Amor con inganno m’ha insegnato avere, e sono il vostro Ricciardo».
43
Il che Catella udendo e conoscendolo alla voce, subita mente si volle gittare del letto, ma non potè; ond’ella
volle gridare; ma Ricciardo le chiuse con l’una delle mani la bocca, e disse: «Madonna, egli non può oggimai essere che quello che è stato non sia pure stato89, se voi
gridaste tutto il tempo della vita vostra; e se voi criderete90 o in alcuna maniera fa rete che questo si senta mai
44 per alcuna persona, due cose ne avverranno. L’una fia,
di che non poco vi dee calere, che il vostro onore e la vostra buona fama fia guasta, per ciò che, come che91 voi
diciate che io qui a inganno v’abbia fatta venire, io dirò
che non sia vero, anzi vi ci abbia fatta venire per denari e
per doni che io v’abbia promessi, li quali per ciò che così compiutamente dati non v’ho come sperava te, vi siete
turbata92 e queste parole e questo romor ne fate93; e voi
42
avvenisse: II 1,8 n. C III 7,46. «per voi non rimase ... che egli non
s’uccidesse».
88 se lasciasse andare a proposito di questa azione creduta, se trascurasse questa cosa creduta: cfr. VII 6,14 n.
89 La solita filosofia bonaria e mondana del B. (per es. IV 6 e 8; V
4; IX 7,4; X 5 e 8 ; Teseida, X 26; Amorosa Visione, XII 86 sg.: «cosa fatta, penter non si vale | Né puolla adietro ritornar nessuno»;
Ninfale, 276: «ch’esser non può non fatto quel ch’è fatto»; e cfr.
VIII 10,43 n.).
90Forma corrente allora (lat. volg. critare; fr. crier).
91 quand’anche.
92 adirata.
93 Tutto questo argomentare di Ricciardo riflette, in tono conversevole e ragionativo, la scena e le minacce di Sesto Tarquinio di
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sapete che la gente è più acconcia a credere il male che il
bene; e per ciò non fia men tosto94 creduto a me che a
voi. Appresso questo, ne seguirà tra vostro marito e me
mortal nimistà, e potrebbe sì andare la cosa che io ucciderei altressì tosto lui, come egli me; di che mai voi non
dovreste esser poi né lieta né contenta95. E per ciò, cuor
del corpo mio96, non vogliate a una ora vituperar voi e
mettere in pericolo e in briga il vostro marito e me. Voi
non siete la prima, né sarete l’ultima, la quale è ingannata, né io non v’ho ingannata per torvi il vostro, ma per
soverchio amore che io vi porto e son disposto sempre a
portarvi, e a essere vostro umilissimo servidore97. E come che sia gran tempo che io e le mie cose e ciò che io
posso e vaglio vostre state sieno e al vostro servigio, io
intendo che da quinci innanzi sien più che mai. Ora, voi
siete savia nell’altre cose, e così son certo che sarete in
questa».
Catella, mentre che Ricciardo diceva queste parole,
piagneva forte98, e come che molto turbata fosse e molto
si rammaricasse, nondimeno diede tanto luogo la ragione alle vere parole99 di Ricciardo, che ella cognobbe esser possibile a avvenire ciò che Ricciardo diceva, e per
ciò disse: «Ricciardo, io non so come Domenedio mi si
concederà che io possa comportare100 la ’ngiuria e lo
fronte a Lucrezia, che il B. aveva letto nel suo Livio (I 58) e in Valerio Massimo (VI I), e ripeterà poi nel De mulieribus (XLVIII) e
nel De casibus (III 3). Cfr. Thompson, K 2112.
94 È il contrario di piuttosto.
95 Questo secondo argomento può ricordare la VIII 8,24 sgg. La
dittologia sinonimica è corrente (cfr. per es. X 7,29 e 48).
96 Tenero appellativo popolaresco, già usato nel D. (II 10,30 n,),
97 Espressione appassionata che ritorna nella ballata della IV
giornata, vv. 16-17.
98 Come Mensola (Ninfale, 246 sgg.).
99 la ragione accolse tanto bene le parole .... ragionando riconobbe
tanto vere le parole ...
100 mi darà tanta forza con la sua grazia da potere sopportare: III
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’nganno che fatto m’hai. Non voglio gridar qui, dove la
mia simplicità e soperchia gelosia101 mi condusse; ma di
questo vivi sicuro che io non sarò mai lieta se in un modo o in uno altro io non mi veggio vendica102 di ciò che
fatto m’hai; e per ciò lasciami, non mi tener più; tu hai
avuto ciò che disiderato hai, e ha’ mi straziata quanto t’è
piaciuto; tempo è di lasciarmi103; lasciami, io te ne priego».
49
Ricciardo, che conosceva l’animo suo ancora troppo
turbato, s’avea posto in cuore di non lasciarla mai se la
sua pace104 non riavesse: per che, cominciando con dolcissime parole a raumiliarla105, tanto disse e tanto pregò
e tanto scongiurò, che ella, vinta, con lui si paceficò; e di
pari volontà di ciascuno gran pezza appresso in grandis50 simo diletto dimorarono insieme. E conoscendo allora la
donna quanto più saporiti fossero i baci dello amante
che quegli del marito106, voltata la sua durezza in dolce
amore verso Ricciardo, tenerissimamente da quel giorno
innanzi l’amò, e savissimamente operando molte volte
goderono del loro amore. Idio faccia noi goder del nostro107.
1,41 n. Nota il riflessivo in interrogativa col futuro, per cui cfr, F.
BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 150.
101 balordaggine e soverchia, smodata gelosia.
102 vendicata: uno dei participi accorciati o aggettivi verbali correnti nel B.: cfr, II 1,2 n.: e VIII 7,122. «ben ti se’ oltre misura vendico».
103 Hai ora il momento opportuno per lasciarmi andar via, è il tempo di lasciarmi.
104 perdono.
105 placarla, addolcirla: cfr. IV 8,13 n.
106 Anche Andrea Cappellano «Nitimur in vetitum, cupimus
semperque negatum» (De amore, p. 15). L’adulterio qualificava del
resto l’amor cortese: cfr. c. S. LEWIS, L’allegoria d’amore, Torino
1969, pp. 3 sgg.
107 Questa conclusione, un endecasillabo, sarà ripetuta ad litteram nella novella seguente: e cfr. III 3,55 n.
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NOVELLA SETTIMA
1
Tedaldo, turbato1 con una sua donna, si parte di Firenze; tornavi in forma di peregrino dopo alcun tempo; parla con la donna e falla del suo error conoscente, e libera il marito di lei da
morte, che lui gli era provato che aveva ucciso, e co’ fratelli il
pacefica; e poi saviamente colla sua donna si gode2.
2
Già si taceva Fiammetta lodata da tutti, quando la reina, per non perder tempo, prestamente a Emilia commise3 il ragionare; la qual cominciò: –
A me piace nella nostra città ritornare4, donde alle
due passate piacque di dipartirsi, e come uno nostro cittadino la sua donna perduta racquistasse mostrarvi.
Fu adunque in Firenze un nobile giovane, il cui nome
fu Tedaldo degli Elisei, il quale d’una donna, monna Ermellina chiamata e moglie d’uno Aldobrandino Palermi-
3
4
1 sdegnato,
adirato.
Nessun antecedente di questa novella è stato trovato finora: interessanti riscontri sono quelli con la LXXXV del Sacchetti, di cui
parleremo più sotto, e con una antica e diffusa canzone popolare,
Il falso pellegrino (per es. G. FFRRARO, Canti popolari monferrini,
Torino 1872, p. 126). Per il motivo nella novellistica cfr. Rotunda,
K 1817.2.1* e T 93.2* (e anche Thompson, T 93). Si ricordi che il
Valli volle usare anche di questa novella per le sue teorie su Dante
e i «fedeli d’amore» (Il linguaggio segreto di Dante, Roma 1928, pp.
434 sgg.).
3 affidò.
4 Cfr. IV 7,5 n. per questo spunto connettivo.
5 Una novella di Gherardo Elisei che prende in moglie Ermellina
già vedova «disonesta e vana» narra il Sacchetti (LXXXV) usando
probabilmente tali nomi per ricordo del racconto del B. La famiglia Elisei fu una delle più antiche tra le fiorentine, ed aveva le sue
case prima nel sesto di San Piero e poi presso Mercato Vecchio
(Villani, IV II; Malespini, CXLI): nello stesso sesto cioè degli Ali2
Letteratura italiana Einaudi 455
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5
6
ni5 , innamorato oltre misura per gli suoi laudevoli costumi, meritò di godere del suo disiderio. Al qual piacere la Fortuna, nemica de’ felici, s’oppose; per ciò che,
qual che la cagion si fosse, la donna, avendo di sé a Tedaldo compiaciuto un tempo, del tutto si tolse dal volergli più compiacere, né a non volere6 non solamente alcuna sua ambasciata ascoltare ma vedere in alcuna
maniera: di che egli entrò in fiera malinconia7 e ispiacevole, ma sì era questo suo amor celato, che della sua malinconia niuno credeva ciò essere la cagione.
E poi ché egli in diverse maniere si fu molto ingegnato di racquistare l’amore che senza sua colpa gli pareva
aver perduto, e ogni fatica trovando vana, a doversi dileguar del mondo8, per non far lieta colei che del suo male
era cagione di9 vederlo consumare, si dispose. E, presi
quegli denari che aver potè, segretamente, senza far
motto a amico o a parente, fuor che a un suo compagno
ghieri, cui probabilmente era legata di parentela (cfr. m. BARBI, in
«Bull. Soc. Dantesca», IV, 1896, pp. 2 sgg. e XII, 1905, pp. 3,4
sgg.). Anche i Palermini appartennero alle più antiche famiglie della città (IX I): furono ghibellini e abitarono nel sesto di San Pancrazio (Villani, V 39). Ma né di un Tedaldo né di un Aldobrandino
si ha testimonianza nelle due case (cfr. codd. Magliabechiani XXV
395, C. 50; XXVII 299, CC. 354 sgg.) quantunque questi nomi fossero, come quello d’Ermellina, tutt’altro che rari a Firenze.
6 Questa seconda parte del periodo contiene una negazione plconastica; cioè n è a n o n v o I e r e dipende sempre da s i t o l s e,
ed equivale a e dal volere (cfr. molti esempi, anche del B., raccolti
da F. AGENO, in «Studi di filologia italiana», XIII, 1955, pp. 345
sgg.; e qui II 9,67 n.).
7 dolore: II 6,19 n.
8 abbandonare il mondo, ritirarsi dalla società, dalla gente a lui nota. Dipende dal seguente si dispose: cfr. II 8,21 n.
9 Dipende da per non far lieta, esprimendo la causa di quella letizia.
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata III
7
8
il quale ogni cosa sapea, andò via e pervenne a Ancona10, Filippo di San Lodeccio faccendosi chiamare11; e
quivi con un ricco mercatante accontatosi 12, con lui si
mise per servidore e in su una sua nave con lui insieme
n’andò in Cipri. I costumi del quale e le maniere piacquero sì al mercatante, che non solamente buon salario
gli assegnò, ma il fece in parte suo compagno13, oltre a
ciò gran parte de’ suoi fatti mettendogli tra le mani; li
quali esso fece sì bene e con tanta sollicitudine, che esso
in pochi anni divenne buono e ricco mercatante e famoso. Nelle quali faccende, ancora che spesso della sua
crudel donna si ricordasse, e fieramente fosse da amor
trafitto e molto disiderasse di rivederla, fu di tanta constanzia che sette14 anni vinse quella battaglia. Ma avvenne che, udendo egli un dì in Cipri cantare una canzone
già da lui stata fatta, nella quale l’amore che alla sua
donna portava ed ella a lui e il piacer che di lei aveva si
10 Della zona adriatica emiliano-marchigiana il B. dovette fare
esperienze dirette e indirette specie durante il suo soggiorno presso Ostasio da Polenta (’46) e Scarpetta Ordelaffi (’47-’48): Ancona
era del resto in stretti rapporti coi regno di Napoli, ed era centro
marinaro di una certa importanza ed emporio frequentato dai Bardi e dagli Acciaiuoli (R. DAVIDSOHN, Storia di Firenze, VI, pp.
888 sg.).
11 Già abbiamo visto parecchi esempi dell’uso di mutar nome in
simili casi (per es. II 6,30 n.). San Lodeccio o Saludeccio era sulla
strada più frequentata tra Rimini e Urbino, percorsa probabilmente dal B. (e cfr. G. ALBINI, Il Modesti e la Veneziade, Imola 1886;
e in «Atti e Mem. Dep. St. patria per le Romagne», 1899).
12 divenuto conoscente, familiare: II 3,1 n.
13 Termine tecnico per indicare che Tedaldo entrò a far parte
dell’azienda mercantile come socio. Non era infrequente che gli
impiegati delle compagnie mercantili, da «garzoni» e «discepoli»
divenuti «fattori» nei vari gradi e funzioni, fossero poi chiamati ad
esser «compagni» (Cfr. A. DOREN, Le Arti fiorentine, Firenze
1930, I, pp. 224 Sgg.; A. SAPORI, Studi di storia economica medievale, pp. 695 sgg.).
14 Col solito valore indeterminato e favoloso (III 3,25 n.).
Letteratura italiana Einaudi 457
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata III
raccontava15, avvisando16 questo non dover potere essere, che ella dimenticato l’avesse, in tanto disidero di rivederla s’accese, che, più non potendo sofferir si dispose a tornar in Firenze.
9
E, messa ogni sua cosa in ordine, se ne venne con un
suo fante solamente a Ancona, dove essendo ogni sua
roba giunta, quella ne mandò a Firenze a alcuno amico
dell’ancontano17 suo compagno, ed egli celatamente, in
forma di peregrino che dal Sepolcro18 venisse, col fante
suo se ne venne appresso; e in Firenze giunti, se n’andò
a uno alberghetto di due fratelli che vicino era alla casa
10 della sua donna19. Né prima andò in altra parte che davanti alla casa di lei, per vederla se potesse. Ma egli vide
le finestre e le porti20 e ogni cosa serrata; di che21 egli
dubitò forte che morta non fosse o di quindi mutatasi22.
Per che, forte pensoso, verso la casa de’ fratelli se
n’andò, davanti la quale vide quattro suoi fratelli tutti di
nero vestiti23, di che egli si maravigliò molto: e conoscendosi in tanto trasfigurato e d’abito e di persona da
quello che esser soleva quando si partì, che di leggier
15 Dell’uso di tali canzoni testimonia anche altrove il D. (per es.
IV 5; X 6 e 7; e anche III 5,17 n.).
16 stimando, ritenendo.
17 del suo socio anconetano (è caduta la vocale atona).
18 dal Santo Sepolcro, cioè da Gerusalernme. L’abito caratteristico dei pellegrini era, come si dirà più sotto, la schiavina: un soprabito a grandi pieghe, discinto, lungo sino al polpaccio, con maniche larghe, su cui si legava con corregge una fiaschetta e una borsa
(Merkel, p. 65). Quella presentata nella novella è situazione popolare, testimoniata anche dalla nota canzone epico-lirica del Falso
pellegrino: e cfr. Thompson, K 1817.2.
19 Cioè nel sesto di San Pancrazio, dove esistevano effettivamente nel Trecento alcuni alberghi.
20 Cfr. II 2,16 n.
21 per la qual cosa: Intr., 22 n.
22 o si fosse trasferita altrove di casa.
23 «In segno di lutto, mentre le donne adoperavano il nero od il
bruno, gli uomini vestivano di nero» (Merkel, p. 109): cfr. 85-86,
95.
Letteratura italiana Einaudi
458
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata III
non potrebbe essere stato riconosciuto24, sicuramente
s’accostò a un calzolaio e domandollo perché di nero
fossero vestiti coloro.
11
Al quale il calzolaio rispose: «Coloro sono di nero vestiti, per ciò che non sono ancora quindici dì che un lor
fratello, che di gran tempo non c’era stato 25, che avea
nome Tedaldo fu ucciso: e parmi intendere che egli26
abbiano provato alla corte27 che uno che ha nome Aldobrandino Palermini, il quale è preso, l’uccidesse, per ciò
che egli voleva bene alla moglie e eraci tornato sconosciuto per esser con lei».
12
Maravigliossi forte Tedaldo che alcuno in tanto il simigliasse, che fosse creduto lui28; e della sciagura d’Aldobrandino gli dolfe29.. E avendo sentito che la donna
era viva e sana, essendo già notte, pieno di vari pensieri
se ne tornò all’albergo, e poi che cenato ebbe insieme
col fante suo, quasi nel più alto30 della casa fu messo a
13 dormire. Quivi, sì per li molti pensieri che lo stimolavano e sì per la malvagità31 del letto e forse per la cena
ch’era stata magra, essendo già la metà della notte andata32, non s’era ancor potuto Tedaldo addormentare; per
24 non
avrebbe potuto essere riconosciuto.
era stato qui.
essi: uso non infrequente: III 7,42; VII 8,46: «come egli
hanno tre soldi»; Rohlfs, 439.
27 alla giustizia, alla polizia: I I,15 n.
28 gli somigliasse tanto da esser preso per lui, scambiato con lui.
«Quando i verbi essere, parere e credere, nel significato di questo
presente hanno innanzi un nome di persona o di cosa, e dopo un
pronome a quella riferentesi, o quando anche innanzi al verbo non
c’è il nome di persona ma un pronome o una particella pronominale che lo rappresenta o espresso o sottinteso, il pronome che segue
può mettersi in quarto caso, e dire, per es.: ‘lo lo credo lui’; ‘egli mi
par me’; e come qui dice il B.: che fosse creduto lui; dove innanzi al
fosse creduto va inteso egli» (Fanfani).
29 La solita forma per cui II 7,37 n.
30 nella parte più alta.
31 cattiva qualità: non comune riferito a cosa materiale.
32 passata.
25 non
26 eglino,
Letteratura italiana Einaudi 459
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata III
che, essendo desto, gli parve in su la mezza notte sentire
d’in su il tetto della casa scender nella casa persone, e
appresso per le fessure dell’uscio della camera vide là
14 sù33 venire un lume. Per che, chetamente alla fessura accostatosi, cominciò a guardare che ciò volesse dire, e vide una giovane assai bella tener questo lume, e verso lei
venir tre uomini che del tetto quivi eran discesi; e dopo
alcuna festa insieme fattasi, disse l’un di loro alla giova15 ne: «Noi possiamo, lodato sia Idio, oggimai star sicuri,
per ciò che noi sappiamo fermamente che la morte di
Tedaldo Elisei è stata provata da’ fratelli addosso a34 Aldobrandin Palermini, e egli l’ha confessata e già è scritta
la sentenzia; ma ben si vuol nondimeno tacere, per ciò
che, se mai si risapesse che noi fossimo stati, noi saremmo a quel medesimo pericolo che è Aldobrandino». E
questo detto con la donna, che forte di ciò si mostrò lieta, se ne sciesono e andarsi35 a dormire.
16
Tedaldo, udito questo, cominciò a riguardare quanti
e quali fossero gli errori che potevano cadere nelle menti degli uomini, prima pensando a’ fratelli che uno strano avevano pianto e sepellito in luogo di lui, e appresso
lo innocente per falsa suspizione accusato, e con testimoni non veri averlo condotto a dover morire, e oltre a
ciò la36 cieca severità delle leggi e de’ rettori37, li quali
assai volte, quasi solleciti investigatori delli errori, incrudelendo fanno il falso provare38, e sé ministri dicono
della giustizia e di Dio, dove sono della iniquità e del
33
Cioè nella parte più elevata della casa.
a carico di, contro a (I 6,6: «corse a formargli un processo gravissimo addosso»); cioè: è stato provato dai fratelli che la morte di
Tedaldo Elisei ricade su ..., è colpa di ...
35 se ne andarono.
36 Subitanei cambiamenti di costruzione nelle dipendenti da pensando, non insoliti nel B.
37 magistrati.
38 Cioè: con crudeli torture inducono ad affermare il falso.
34
Letteratura italiana Einaudi
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17
18
19
20
21
diavolo esecutori39. Appresso questo alla salute d’Aldobrandino il pensier volse, e seco ciò che a fare avesse
compose40.
E come levato fu la mattina, lasciato il suo fante,
quando tempo gli parve, solo se n’andò verso la casa
della sua donna; e per ventura trovata la porta aperta,
entrò dentro e vide la sua donna sedere in terra41 in una
saletta terrena che ivi era, e era tutta piena di lagrime e
d’amaritudine42, e quasi per compassione ne lagrimò, e
avvicinatolesi disse: «Madonna, non vi tribolate: la vostra pace è vicina».
La donna, udendo costui, levò alto il viso e piangendo
disse: «Buono uomo, tu43 mi pari un pellegrin forestiere;
che sai tu di pace o di mia afflizione?»
Rispose allora il peregrino: «Madonna, io son di Costantinopoli e giungo testé qui mandato da Dio a convertire le vostre lagrime in riso e di liberare da morte il
vostro marito».
«Come», disse la donna «se tu di Costantinopoli se’e
giugni pur testé qui, sai tu chi mio marito o io ci siamo?
45
»
Il peregrino, da capo fattosi, tutta la istoria della an39 «Nota» (M., che segna a margine il par. 16). Come già nelle II
1 e 10, e poi nelle III 5 e 6, IV 3 e 6 e 7 C io, V i, VIII 5 ecc. il B.
manifesta una sfiducia generale nella giustizia umana.
40 disegnò, stabilì, fissò: III 8,37.
41 Cioè in atteggiamento doloroso: cfr. per es. III 8,7 n. ed Esopo
Toscano, XLIII.
42 Espressione stereotipata: V 9,39 n.; VIII 7,46 (e analogamente
IV 6,26): chiaro sviluppo dello stilema «amare lagrime» molto corrente (nel D. per es. Intr. 34; V 1,36; VI concl., 44; VIII 7,93).
43 Nota il tu della gentildonna rivolto a chi appariva povero e
pellegrino.
44 Cfr. Intr., 5 n.; Prov., XIV 13; Ep. Jacobi, IV 9; e anche Petrarca, Rime, LXXI 88.
45 Sovrordinata interrogativa di valore negativo per cui cfr. F.
BRAMBILLA AGENO, Il verbo, p. 150. Ci qui è in funzione chiaramente pleonastica.
Letteratura italiana Einaudi 461
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata III
goscia d’Aldobrandino raccontò e a lei disse chi ella era,
quanto tempo stata46 maritata e altre cose assai, le quali
egli molto ben sapeva de’ fatti suoi; di che la donna si
maravigliò forte, e avendolo per uno profeta, gli s’inginocchiò a’ piedi, per Dio pregandolo che, se per la salute d’Aldobrandino era venuto, che egli s’avacciasse47,
per ciò che il tempo era brieve.
22
Il peregrino, mostrandosi molto santo uomo, disse:
«Madonna, levate sù48 e non piagnete49, e attendete bene a quello che io vi dirò, e guardatevi bene di mai a alcun non dirlo. Per quello che Idio mi riveli, la tribulazione la qual voi avete n’è50 per un peccato, il qual voi
commetteste già, avvenuta, il quale Domenedio ha voluto in parte purgare con questa noia51, e vuole del tutto
che per voi s’amendi; se non, sì52 ricadereste in troppo
maggiore affanno».
23
Disse allora la donna: «Messere, io ho peccati assai,
né so qual Domenedio più un che un altro si voglia che
io m’amendi; e per ciò, se voi il sapete, ditelmi, e io ne
farò ciò che io potrò per ammendarlo».
24
«Madonna», disse allora il peregrino «io so bene quale egli è, né ve ne domanderò per saperlo meglio, ma per
ciò che voi medesima dicendolo n’abbiate più rimordimento53. Ma vegnamo al fatto. Ditemi, ricordavi 54 egli
che voi mai aveste alcuno amante?».
46 Sottintendi:
era.
II 6,39 n. E si noti ancora una volta il che ripetuto
dopo ipotetica incidentale.
48 alzatevi.
49 state bene attenta, osservate bene: II 5,5 n.
50 Va unito al seguente a v v e n u t a .
51 castigare con questo dolore, dispiacere.
52 in questo modo, per questo: in ripresa dopo proposizione ipotetica.
53 rimorso: I 2,19.
54 Il solito uso impersonale di ricordare (II 7,107 n.).
47 s’affrettasse:
Letteratura italiana Einaudi
462
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata III
La donna, udendo questo, gittò un gran sospiro e maravigliossi forte, non credendo che mai alcuna persona
saputo l’avesse, quantunque di que’ dì, che ucciso era
stato colui che per Tedaldo fu sepellito, se ne bucinasse55 per certe parolette56 non ben saviamente usate dal
26 compagno di Tedaldo che ciò sapea, e rispose: «Io veggio che Idio vi dimostra tutti i segreti degli uomini, e per
ciò io son disposta a non celarvi i miei. Egli il è vero che
nella mia giovanezza io amai sommamente lo sventurato
giovane la cui morte è apposta57 al mio marito: la qual
morte io ho tanto pianta, quanto dolent’è a me58; per ciò
che, quantunque io rigida e salvatica59 verso lui mi mostrassi anzi la sua partita, né la sua partita, né la sua lunga dimora60, né ancora la sventurata morte me l’hanno
potuto trarre del cuore».
27
A cui il peregrin disse: «Lo sventurato giovane che fu
morto61 non amaste voi mai, ma Tedaldo Elisei sì. Ma
ditemi: qual fu la cagione per la quale voi con lui vi turbaste? offesevi egli giammai?».
28
A cui la donna rispose: «Certo no, che egli non mi offese mai; ma la cagione del cruccio furono le parole d’un
maladetto frate, dal quale io una volta mi confessai; per
ciò che, quando io gli dissi l’amore il quale io a costui
portava e la dimestichezza62 che io aveva seco, mi fece
25
55 mormorasse,
bisbigliasse: III 4,5 n.
I 10,7 n.
57 imputata: VI 7,12 n.
58 quanto è causa di dolore a me, quanto è il dolore che ne provo: e
per questo senso di dolente cfr. III concl,, 14; Inf., III I e VIII 120;
DAVANZATI, Volg. Vita di Agricola, Firenze 1637, p, 43: «il fine
della sua vita fu lacrimevole a noi, dolente agli amici».
59 severa e ritrosa: II 5,53 n. e III 6,8 n.
60 il suo stare per tanto lontano, il suo lungo indugio (a tornare).
61 fu ucciso: cfr. più innanzi, 66: «e mai né mori’ né fui morto»; II
7,7.9 n.; IX 5,23: «ella m’ha morto».
62 Cfr. II 7,22 n. e anche in questa stessa novella, 30.
56 Cfr.
Letteratura italiana Einaudi 463
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata III
un romore in capo63 che ancor mi spaventa, dicendomi
che, se io non me ne rimanessi64, io n’andrei in bocca del
diavolo65 nel profondo del Ninferno66 e sarei messa nel
29 fuoco pennace67. Di che sì fatta paura m’entrò, che io
del tutto mi disposi a non voler più la dimestichezza di
lui; e per non averne cagione, né sua lettera né sua ambasciata più volli ricevere; come che io credo 68, se più
fosse perseverato (come per quello che io presumma,
egli se n’andò disperato), veggendolo io consumare come si fa la neve al sole, il mio duro proponimento si sarebbe piegato69, per ciò che niun disidero al mondo
maggiore avea».
30
Disse allora il peregrino:«Madonna, questo è sol quel
peccato che ora vi tribola. Io so fermamente che Tedaldo non vi fece forza alcuna; quando voi di lui v’innamoraste, di vostra propria volontà il faceste, piacendovi
egli; e, come voi medesima voleste, a voi venne e usò la
vostra dimestichezza, nella quale e con parole e con fatti
tanta70 di piacevolezza gli mostraste che, se egli prima
v’amava, in ben mille doppi71 faceste l’amor raddoppia-
63 mi sgridò fieramente, me ne empì la testa (VIII 8,9). «Nota pe’
frati astiosi che tutte le donne vorrebon per loro» (M.).
64 cessassi: III 3,19 n.
65 In varie leggende e in diverse raffigurazioni i diavoli erano rappresentati in atto di divorare i dannati, come per es. proprio nella
volta del Battistero fiorentino; e anche Dante rappresentò in tale
atteggiamento Lucifero: e cfr. VIII 2,46.
66 Cfr. III 3,39 n.
67 che dà pena: cfr. III 3,32 n.
68 sebbene io creda.
69 «Costrutto assai confuso, da spiegarsi così: benché io creda che,
se avesse perseverato di piú, come (per quel ch’io penso) egli se ne
andò per disperato, così, veggendolo consumare come la neve al sole,
io mi sarei lasciata vincere» (Fanfani). Per l’espressione c o n s u m
a r e c o m e s i f a l a n e v e a l so le cfr. II 8,18 n.
70 Attrazione comune, per cui II 5,48 n.; II 10,18 n.
71 Cioè migliaia di volte: cfr. X 4,22.
Letteratura italiana Einaudi
464
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata III
31
re. E se così fu, che so che fu72, qual cagion vi dovea poter muovere a torglivi73 così rigidamente? Queste cose si
volean74 pensare innanzi tratto75, e se credevate76 dovervene, come di mal far, pentere, non farle. Così, come
32 egli divenne vostro, così diveniste voi sua. Che egli non
fosse vostro potavate voi fare a ogni vostro piacere, sì
come del vostro77, ma il voler torre voi a lui, che sua eravate, questa era ruberia e sconvenevole cosa, dove sua
33 volontà stata non fosse78. Or voi dovete sapere che io
son frate, e per ciò li loro costumi io conosco tutti; e se
io ne parlo alquanto largo79 a utilità di voi, non mi si disdice come farebbe a un altro, ed egli mi piace di parlarne, acciò che per innanzi meglio li conosciate che per
addietro non pare che abbiate fatto80.
34
Furon già i frati santissimi e valenti uomini, ma quegli
che oggi frati si chiamano e così vogliono esser tenuti,
niuna altra cosa hanno di frate se non la cappa, né quella altressì è di frate, per ciò che, dove dagl’inventori de’
frati81 furono ordinate strette e misere e di grossi panni e
dimostratrici dello animo, il quale le temporali cose disprezzate avea quando il corpo in così vile abito avviluppava, essi oggi le fanno larghe e doppie82 e lucide e di fi72
come so che fu.
a togliere voi a lui.
dovevano: I 1,26 n.
75 in precedenza, per prima cosa: II 5,77 n.
76 Per simili forme dell’imperfetto (come subito dopo potavate)
usate dal B. cfr. I 4,21 n.; II 5,23 n.
77 poiché facevate sul vostro, poiché si trattava di cosa che riguardava voi.
78 qualora egli non l’avesse voluto. «Pulcra suasio est» (M., che
segna i paragrafi 31-32).
79 Cioè liberamente, senza riguardi: II 9,14 n.
80 «Frati miei dolciati, s’avete scudi sien da voi imbracciati, ch’or
bisogno n’avete» (M.). L’invettiva seguente ha caratteri così esemplari che fu continuamente variata e ampliata da trascrittori.
81 Cioè dai fondatori dei vari Ordini.
82 Cioè foderate, e quindi di lusso (Merkel). M. segna a margine i
paragrafi 35-45 fino a procede.
73
74 si
Letteratura italiana Einaudi 465
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata III
nissimi panni, e quelle in forma hanno recate leggiadria
e pontificale, in tanto che paoneggiar83 con esse nelle
chiese e nelle piazze, come con le loro robe i secolari
35 fanno, non si vergognano. E quale col giacchio84 il pescatore d’occupar85 ne’ fiumi molti pesci a un tratto, così costoro con le fimbrie86 ampissime avvolgendosi, molte pinzochere, molte vedove, molte altre sciocche
femine e uomini d’avilupparvi sotto s’ingegnano87, e è
lor maggior sollicitudine che d’altro essercizio. E per
ciò, acciò ch’io più vero parli, non le cappe de’ frati han36 no costoro, ma solamente i colori delle cappe88. E dove
gli antichi la salute disideravan degli uomini, quegli
d’oggi disiderano le femine e le ricchezze; e tutto il loro
studio89 hanno posto e pongono in ispaventare con romori e con dipinture le menti degli sciocchi e in mostrare che con limosine i peccati si purghino e con le messe,
acciò che a loro, che per viltà, non per divozione, sono
rifuggiti a farsi frati, e per non durar fatica, porti questi
il pane, colui mandi il vino, quello altro faccia la pietan37 za per l’anima de’ lor passati90. E certo egli è il vero che
le elimosine e le orazion purgano i peccati; ma se coloro
83 pavoneggiare o meglio camminare come pavoni (corrente paone
per pavone).
84 Rete tonda, che gettata nell’acqua s’apre e poi avvicinandosi al
fondo si rinchiude serrando dentro i pesci (Crescenzi, Agricultura
volg., X 36,4).
85 inchiudere cioè prendere, acchiappare: Purg., XIV 53-54: «Trova le volpi si piene di froda, | Che non temono ingegno che le occupi»; e anche I 3, I 5 n.
86 orli delle vesti: Comedia, XV 7: «del cui vestimenio le fimbrie,
le scollature e qualunque altra estremità ...» Fimbria passò anche a
significare un ornamento speciale, ricamo o intaglio (Merkel). p.
cfr. Matteo 23,5.
87 «Nota il motto più velenoso che non pare» (M.) .
88 Si può ricordare Par., X e XI. «Non veri frati, dunque, ma pavoni vanitosi» (Marti).
89 e ogni loro cura.
90 Cioè: procuri la pietanza in cambio di preghiere in suffragio
dei loro defunti.
Letteratura italiana Einaudi
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Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata III
che le fanno vedessero a cui le fanno o il conoscessero,
più tosto o a sé il guarderieno91 o dinanzi a altrettanti
porci il gitterieno92. E per ciò che essi conoscono, quanti meno sono i possessori d’una gran ricchezza, tanto più
stanno a agio, ognuno con romori e con ispaventamenti
s’ingegna di rimuovere altrui da quello a che esso di ri38 maner solo disidera93. Essi sgridano contra gli uomini la
lussuria, acciò che, rimovendosene gli sgridati, agli sgridatori rimangano le femine; essi dannan l’usura e i malvagi guadagni, acciò che, fatti restitutori di quegli, si
possano fare le cappe più larghe, procacciare i vescovadi
e l’altre prelature maggiori di ciò94 che mostrato hanno
39 dover menare a perdizione chi l’avesse. E quando di
queste cose e di molte altre che sconce fanno ripresi sono, l’avere risposto: ‘Fate quello che noi diciamo e non
quello che noi facciamo95’, estimano che sia degno scaricamento d’ogni grave peso96, quasi più alle pecore sia
possibile l’esser costanti e di ferro97 che a’ pastori. E
quanti sien quegli a’ quali essi fanno cotal risposta, che
non la ’ntendono per lo modo che essi la dicono, gran
40 parte di loro il sanno. Vogliono gli odierni frati che voi
facciate quello che dicono, cioè che voi empiate loro le
borse di denari, fidiate loro i vostri segreti, serviate castità, siate pazienti, perdoniate le ’ngiurie, guardiatevi
del maldire, cose tutte buone, tutte oneste, tutte sante;
91 lo serberebbero per loro stessi, cioè il denaro delle elemosine e
le orazioni.
92 «Neque mittatis margaritas ante porcos» (Matteo 7.6).
93 Purg., XV 61-63: «Com’esser puote ch’un ben, distributo | In
più posseditor, faccia più ricchi | Di sé che se da pochi è posseduto?» 94 per mezzo di quello stesso denaro.
95 «Nota bene» (M.). Tutto il passo porta l’eco di insistenti simili
depre cazioni dei predicatori del tempo (cfr. per es. Giordano da
Pisa, Quaresimale fiorentino, XXVIII, specialmente 9 sgg.).
96 sgravio, scura sufficiente di ogni fallo più grave oppure di ogni
responsabilità. Scaricamento è solitamente usato solo in senso materiale.
97 Cioè resistenti ad ogni tentazione. «Nota bene» (M.)
Letteratura italiana Einaudi 467
Giovanni Boccaccio - Decameron - Giornata III
ma questo perché? Perché essi possano fare quello che,
se i secolari faranno, essi fare non potranno. Chi non sa
che senza denari la poltroneria non può durare? Se tu
ne’ tuoi diletti spenderai i denari, il frate non potrà poltroneggiare nell’Ordine; se tu andrai alle femine dattorno, i frati non avranno lor luogo98; se tu non sarai paziente o perdonator d’ingiurie, il frate non ardirà di
venirti a casa a contaminare la tua famiglia. Perché vo io
42 dietro a ogni cosa? Essi s’accusano quante volte nel cospetto degl’intendenti fanno quella scusa99. Perché non
si stanno eglino innanzi a casa100, se astinenti e santi non
si credono potere essere ? o se pure a questo101 dar si vogliono, perché non seguitano quella altra santa parola
43 dell’ Evangelio: ‘Incominciò Cristo a fare e a insegnare102’? Facciano in prima essi, poi ammaestrin gli altri.
Io n’ho de’ miei dì mille veduti vagheggiatori, amatori,
visitatori103, non solamente delle donne secolari, ma de’
monisteri; e pur di quegli che maggior romor fanno in
su i pergami! A quegli adunque così fatti andrem dietro? Chi ’l fa, fa quel che vuole, ma Iddio sa se egli fa sa44 viamente104. Ma, posto pur che in questo sia da concedere ciò che il frate che vi sgridò vi disse, cioè che
gravissima colpa sia rompere la matrimonial fede, non è
molto maggiore il rubare uno uomo? non è molto mag41
98 non
ci sarà più posto per i frati, non avranno più possibilità.
Cfr. 39. Ricorda la conclusione del sinistro ritratto di Ser Ciappelletto «Perché mi distendo io in tante parole? egli era il piggiore
uomo forse che mai nascesse» (I 1,15).
100 piuttosto a casa loro, da secolari.
101 a questo genere di vita.
102 Matteo 4.23; Marco 1.21 sgg.; Luca 4.18 sgg.
103 Ecco un’altra serie di sostantivi verbali (Intr., 15 n.; III 3,50):
«simboleggiano quasi i tre momenti di una relazione amorosa»
(Marti); e nota il rilievo retorico dell’omeoteleuto.
104 Si conclude qui, con questa sentenza come altre volte formulata a proverbio (II 9,6 n.), il più ampio e sistematico sfogo oratorio del D. contro i «nuovi farisei». La generica deprecazione affiorata nella Comedia, che si era fatta più precisa nell’Amorosa
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giore l’ucciderlo o il mandarlo in essilio tapinando per
lo mondo105? Questo concederà ciascuno. L’usare la dimestichezza d’uno uomo una donna106 è peccato naturale: il rubarlo o l’ucciderlo o il discacciarlo da malvagità
di mente107 procede. Che voi rubaste Tedaldo già di sopra v’è dimostrato, togliendoli voi, che sua di vostra
46 spontanea volontà eravate divenuta. Appresso dico che,
in quanto in voi fu, voi l’uccideste, per ciò che per voi
non rimase, mostrandovi ognora più crudele, che egli
non108 s’uccidesse colle sue mani; e la legge vuole che
colui che è cagione del male che si fa sia in quella mede47 sima colpa che colui che ’l fa. E che voi del suo essilio e
dello essere andato tapin per lo mondo sette anni non
siate cagione, questo non si può negare. Sì che molto
maggiore peccato avete commesso in qualunque s’è
45
Visione (XIV I sgg.), insistendo sull’avidità, come sul centro di tutti i vizi dei chierici, qui è sentita colla profondità e la serietà di una
convinzione morale. Piú che agli analoghi cenni nel D. (I 2 e 6; III
3; VII 3), e specialmente all’introduzione della IV 2, questa pagina
può esser messa accanto ad alcune frementi di alto sdegno nelle
opere più tarde (Amorosa Visione, B, XIV; Epistole, XVIII; De mulieribus, XLV; Genealogia, XIV 5; De casibus, IX 7 e 21, e specie
Esposizioni, VII all. 70); e a quelle aspre invettive che s’impennano
in molti degli scrittori religiosi del secolo, Dante e Jacopone compresi (cfr. per es. Giovanni di Salisbury, Policraticus, VII 21; Etienne de Bourbon, Tractatus cit., nn. 250 sgg.; Salimbene da Parma,
Cronica, pp. 325 sgg., 599 sgg., 612 sgg., 745 sgg.; Sacchetti, Sposizioni di Vangeli, pp. 202-3; Lettere, p. 103; Rime, XXXIII, CXXI,
CLXXXVI sgg. per non citar le frequentissime moralità nelle novelle): rampogne appassionate, non certo dissacrazioni.
105 Identica espressione nella II 6,42.
106 Il fatto che una donna abbia una relazione con un uomo.
107 Cioè da malizia. È la solita divisione e gradazione aristotelica e
tomistica dei peccati affermata anche da Dante nell’Inf., XI 79
sgg.: «Non ti rimembra di quelle parole | Con le quai la tua Etica
pertratta | Le tre disposizion che ’l ciel non vole, | Incontenenza,
malizia e la matta | Bestialitade? e come incontenenza | Men Dio
offende e men biasimo accatta?» Il B. la spiega puntualmente nelle
Esposizioni, XI 55 sgg.
108 non trascuraste nulla .... perché egli non: III 6,41 n.
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l’una di queste109 tre cose dette che nella sua dimestichezza non commettavate. Ma veggiamo: forse che Tedaldo meritò queste cose? Certo non fece110: voi medesima già confessato l’avete; senza che io so che egli più
che sé v’ama. Niuna cosa fu mai tanto onorata, tanto
esaltata, tanto magnificata quanto eravate voi sopra ogni
altra donna da lui, se in parte si trovava dove onestamente e senza generar sospetto di voi potea favellare.
Ogni suo bene, ogni suo onore, ogni sua libertà, tutta
nelle vostre mani era da lui rimessa111. Non era egli nobile giovane? non era egli tra gli altri suoi cittadin bello?
non era egli valoroso in quelle cose che a’ giovani s’appartengono? non amato? non avuto caro? non volentier
veduto da ogni uomo112? Né di questo direte di no.
Adunque come, per detto113 d’un fraticello pazzo bestiale e invidioso, poteste voi alcun proponimento crudele pigliare contro a lui114? Io non so che errore s’è
quello delle donne, le quali gli uomini schifano e prezzangli115 poco; dove esse, pensando a quello che elle sono e quanta e qual sia la nobiltà da Dio oltre a ogni altro
animale data all’uomo, si dovrebbon gloriare quando da
alcuno amate sono, e colui aver sommamente caro e con
ogni sollicitudine ingegnarsi di compiacergli, acciò che
109 in ciascuna qualsiasi di queste ... : il si qui è ridondante, come
non di raro nella prosa del tempo e nel D. stesso (vedi sotto, 51:
«che errore s’è quello» e II 9,33 n.): e cfr. per tutto Intr., 82 n.; I
1,51 n.
110 Certo no, non le meritò: cfr. Intr., 14 (fare è in funzione di verbo vicario).
111 In questi periodi sembrano riflettersi le appassionate proteste
che già eran state messe in versi dal B. (per es. Amorosa Visione,
XLV 82 sgg., L).
112 Anche Guglielmo Borsiere: «da tutti ... fu onorato volentier
veduto» (I 8,11).
113 per il dir, per le parole.
114 «Nota uno asso pe’ frati» (M,, che segna a margine il par. 50).
115 li apprezzano.
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da amarla116 non si rimovesse giammai. Il che come voi
faceste, mossa dalle parole d’un frate, il qual per certo
doveva esser alcun brodaiuolo manicator di torte117, voi
il vi sapete; e forse disiderava egli di porre sé in quello
luogo, onde egli s’ingegnava di cacciar altrui. Questo
peccato adunque è quello, che la divina giustizia, la quale con giusta bilancia tutte le sue operazion mena a effetto, non ha voluto lasciare impunito; e così come voi senza ragione v’ingegnaste di torre voi medesima a
Tedaldo, così il vostro marito senza ragione per Tedaldo
è stato ed è ancora in pericolo, e voi in tribulazione. Dalla quale se liberata esser volete, quello che a voi conviene promettere e molto maggiormente118 fare, è questo:
se mai avviene che Tedaldo dal suo lungo sbandeggiamento119 qui torni, la vostra grazia, il vostro amore, la
vostra benivolenzia e dimestichezza gli rendiate e in
quello stato il ripognate nel quale era avanti che voi
scioccamente credeste al matto frate».
Aveva il pellegrino le sue parole finite, quando la
donna, che attentissimamente le raccoglieva120, per ciò
che verissime le parevan le sue ragioni, e sé per certo per
quel peccato, a lui udendol dire, estimava tribolata, disse: «Amico di Dio, assai conosco vere le cose le quali ragionate121, e in gran parte per la vostra dimostrazione
conosco chi sieno i frati, infino a ora da me tutti santi tenuti; e senza dubbio conosco il mio difetto essere stato
grande in ciò che contro a Tedaldo adoperai, e se per
me si potesse, volentieri l’amenderei nella maniera che
116 Usato il singolare forse perché, tratto dal singolare maschile
(colui ecc.), il B. pensa a una singola donna.
117 «E pe’ frati» (M., che segna a margine il Par. 52). Brodaiuolo,
ghiotto, con riferimento alla I 6; per manicatore cfr. I 1,42 n. e Sacchetti, CVII.
118 soprattutto, tanto più.
119 Qui vale semplicemente lontananza, esilio.
120 ascoltava: I 9,3 n.
121 Solita costruzione transitiva di ragionare: Intr., 52 n.
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detta avete. Ma questo come si può fare? Tedaldo non
ci122 potrà mai tornare; egli è morto; e per ciò quello che
non si dee poter fare non so perché bisogni che io il vi
prometta».
A cui il peregrin disse: «Madonna, Tedaldo non è
punto morto, per quello che Iddio mi dimostri, ma è vivo e sano e in buono stato, se egli la vostra grazia avesse».
Disse allora la donna: «Guardate che voi diciate123; io
il vidi morto davanti alla mia porta di più punte di coltello124, ed ebbilo in queste braccia e di molte mie lagrime gli bagnai il morto viso, le quali forse furon cagione
di farne parlare quel cotanto che parlato se n’è disonestamente».
Allora disse il pellegrino: «Madonna, che che voi vi
diciate, io v’accerto che Tedaldo è vivo; e, dove voi quello prometter vogliate per doverlo attenere125, io spero
che voi il vedrete tosto».
La donna allora disse: «Questo fo io e farò volentieri;
né cosa potrebbe avvenire che simile letizia mi fosse, che
sarebbe il126 vedere il mio marito libero senza danno e
Tedaldo vivo».
Parve allora a Tedaldo tempo di palesarsi e di confortare la donna con più certa speranza del suo marito, e
disse: «Madonna, acciò che io vi consoli del127 vostro
marito, un gran segreto mi vi convien dimostrare, il quale guarderete che per la vita vostra voi mai non manifestiate».
Essi erano in parte assai remota e soli, somma confi122
a noi o qui (III 1,16 n.).
bene a che cosa dite.
124 colpi di punta di coltello, coltellate: cfr. Purg., III 119: «punte
mortali».
125 con l’intenzione di mantenerlo: III 3,30 n.
126 che mi desse una letizia così grande, quanto sarebbe quella di...
127 a riguardo del.
123 Badate
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denzia avendo la donna presa della santità che nel pellegrino le pareva che fosse; per che Tedaldo, tratto fuori
uno anello128 guardato da lui con somma diligenza, il
quale la donna gli avea donato l’ultima notte che con lei
era stato, e mostrando gliele disse: «Madonna, conoscete voi questo?».
Come la donna il vide, così il riconobbe, e disse:
«Messer sì, io il donai già a Tedaldo».
Il peregrino allora, levatosi in piè e prestamente la
schiavina gittatasi di dosso e di capo il cappello129, e fiorentin parlando130 disse: «E me conoscete voi ?»
Quando la donna il vide, conoscendo lui esser Tedaldo, tutta stordì, così di lui temendo come de’ morti corpi, se poi veduti131 andare come vivi, si teme; e non come Tedaldo venuto di Cipri a riceverlo gli si fece
incontro, ma come Tedaldo dalla sepoltura quivi tornato fosse, fuggir si volle temendo132.
A cui Tedaldo disse: «Madonna, non dubitate133, io
sono il vostro Tedaldo vivo e sano, e mai né mori’né fui
morto, che che voi e i miei fratelli si credano».
La donna, rassicurata alquanto e temendo la sua boce134 e alquanto più riguardatolo e seco affermando che
per certo egli era Tedaldo, piagnendo gli si gittò al collo
128 È il solito strumento di queste favolose agnizioni (per es. III
9; X 9): di tradizione popolare e novellistica: cfr. Thompson e Rotunda, II 94.
129 Cioè gli indumenti più caratteristici del pellegrino (cfr. 9 n.).
130 con accento, pronunzia fiorentina.
131 se dopo la morte sono veduti (e cfr. Annotazioni, pp. 136 sgg.).
132 non gli si fece incontro a ricevere lui come Tedaldo venuto da
Cipro, ma volle fuggire paurosa Tedaldo come uscito dalla tomba e
tornato in quel luogo o in questo mondo.
133 non temete: II 4,22 n.
134 avendo timore della o per la sua voce, perché la riconosceva
come quella di chi credeva morto. Tutto il periodo esprime un’alternanza continua di timori e di speranze, di dubbi e di sorprese.
La voce è anche essa, del resto, mezzo popolare di agnizione nella
novellistica: cfr. Rotunda, II 79.3*. Per boce cfr. II 5,51 n.
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e basciollo, dicendo: «Tedaldo mio dolce, tu sii il ben
tornato!»
Tedaldo, baciata e abbracciata lei, disse: «Madonna,
egli non è or tempo da fare più strette accoglienze; io
voglio andare a fare che Aldobrandino vi sia sano e salvo
renduto, della qual cosa spero che avanti che doman sia
sera voi udirete novelle che vi piaceranno; sì veramente135, se io l’ho buone, come io credo, della sua salute, io
voglio stanotte poter venir da voi e contarlevi per più
agio che al presente non posso».
E rimessasi la schiavina e ’l cappello, basciata un’altra
volta la donna e con buona speranza riconfortatala, da
lei si partì e colà se n’andò dove Aldobrandino in prigione era, più di paura della soprastante morte pensoso che
di speranza di futura salute; e quasi in guisa di confortatore col piacere dei prigionieri136 a lui se n’entrò, e postosi con lui a sedere, gli disse: «Aldobrandino, io sono
un tuo amico a te mandato da Dio per la tua salute, al
quale per la tua innocenzia è di te venuta pietà; e per
ciò, se a reverenza di Lui un picciol dono che io ti domanderò conceder mi vuoli, senza alcun fallo avanti che
doman sia sera, dove tu137 la sentenzia della morte attendi, quella della tua absoluzione udirai».
A cui Aldobrandin rispose: «Valente uomo, poi che
tu della mia salute se’ sollecito, come che io non ti conosca né mi ricordi mai più averti veduto, amico dei essere
come tu di’. E nel vero il peccato per lo quale uom dice138 che io debbo essere a morte giudicato, io nol commisi giammai; assai degli altri ho già fatti, li quali forse a
questo condotto m’hanno. Ma così ti dico a reverenza di
Dio: se Egli ha al presente misericordia di me, ogni gran
135 a
condizione che, purché naturalmente: II 9,22 n.
col consenso dei carcerieri: II 6,43 n.
137 mentre tu: con valore avversativo.
138 si dice: I 7,15 n.
136
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cosa, non che una picciola, farei volentieri, non che io
promettessi; e però quello che ti piace adomanda, ché
senza fallo, ov’egli avvenga che io scampi, io lo serverò
fermamente».
Il peregrino allora disse: «Quello che io voglio niuna
altra cosa è se non che tu perdoni a’ quattro fratelli di
Tedaldo l’averti a questo punto condotto, te credendo
nella morte del lor fratello esser colpevole 139, e abbigli
per fratelli e per amici140, dove essi di questo ti dimandin perdono.
A cui Aldobrandin rispose: «Non sa quanto dolce cosa si sia la vendetta, né con quanto ardor si disideri, se
non chi riceve l’offese; ma tuttavia, acciò che Idio alla
mia salute intenda141, volentieri loro perdonerò e ora loro perdono; e se io quinci142 esco vivo e scampo, in ciò
fare quella maniera terrò che a grado ti fia«.
Questo piacque al peregrino, e senza volergli dire altro, sommamente il pregò che di buon cuore stesse, ché
per certo che143 avanti che il seguente giorno finisse, egli
udirebbe novella certissima144 della sua salute.
E da lui partitosi, se n’andò alla signoria, e in segreto
a un cavaliere che quella tenea145 , disse così: «Signor
139 colpevole
della morte. Di solito in indica colpa abituale.
Frase tradizionale: V 3,6 e IX 5,52: «né per parente né per
amico»; Dante, Rime, LXXVIII II (son. di Forese); Sacchetti, CL;
Morelli, Ricordi, p. 366.
141 acciò che Dio provveda, pensi alla mia salvezza (cfr. anche I
1,17 n.).
142 di qui, cioè dalla prigione.
143 poiché certamente. «Il secondo che è giustificato dalla proposizione implicita nel per certo: era da considerarsi cosa sicura»
(Marti).
144 notizia sicurissima: e la sicurezza qui riguarda la liberazione,
mentre il per certo precedente si riferisce alla sicurezza di udir la
novella.
145 L’indicazione è molto indeterminata: allude al capo della
«corte», cioè al bargello più probabilmente che a uno di quei «signori» di cui è dolorosamente punteggiata la storia fiorentina di
140
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mio, ciascun dee volentieri faticarsi in far che la verità
delle cose si conosca, e massimamente coloro che tengono il luogo che voi tenete, acciò che coloro non portino
le pene che non hanno il peccato commesso e i peccatori sien puniti. La qual cosa acciò che avvenga, in onor di
voi e in male di chi meritato l’ha, io son qui venuto a voi.
76 E come voi sapete, voi avete rigidamente146 contro Aldobrandin Palermini proceduto, e parvi aver trovato per
vero lui essere stato quello che Tedaldo Elisei uccise, e
siete per condannarlo; il che è certissimamente falso, sì
come io credo avanti che mezza notte sia, dandovi gli
ucciditori147 di quel giovane nelle mani, avervi mostrato».
77
Il valoroso uomo, al quale d’Aldobrandino increscea,
volentier diede orecchi alle parole del peregrino; e molte
cose da lui sopra ciò ragionate, per sua introduzione149
in su ’l primo sonno i due fratelli albergatori e il lor fante150 a man salva151 prese; e lor volendo, per rinvenire
come stata fosse la cosa, porre al martorio152, nol soffersero, ma ciascun per sé e poi tutti insieme apertamente
confessarono sé essere stati coloro che Tedaldo Elisei
ucciso aveano, non conoscendolo. Domandati della cagione, dissero per ciò che egli alla moglie dell’un di loro,
non essendovi essi nello albergo, aveva molta noia data e
volutola sforzare a fare il voler suo.
quel secolo; cfr. DEL LUNGO, in D. Compagni, Cronica, in RR.
II.SS2, IX 2, p. 18.
146 severamente.
147 uccisori, come si disse possessori e posseditori: cfr. Filocolo, III
61,1: «Ahi, malvagio re, di me non padre ma perfidissimo ucciditore».
148 Dipende da credo, due righe innanzi.
149 con la sua guida, cogli indizi da lui fornitigli.
150 Sono evidentemente i «tre uomini» che appaiono all’inizio
(14).
151 senza resistenza alcuna, senza difficoltà: II 4,15 n.
152 martirio, tortura,
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Il pellegrino, questo avendo saputo, con licenzia del
gentile uomo si partì, e occultamente alla casa di madonna Ermellina se ne venne, e lei sola, essendo ogni altro della casa andato a dormire, trovò che l’aspettava,
parimente disiderosa d’udire buone novelle del marito e
di riconciliarsi pienamente col suo Tedaldo. Alla qual
venuto, con lieto viso disse: «Carissima donna mia, rallegrati, ché per certo tu riavrai domane qui sano e salvo il
tuo Aldobrandino», e per darle di ciò più intera credenza153, ciò che fatto avea pienamente le raccontò.
79
La donna di due così fatti accidenti 154 e così subiti,
cioè di riaver Tedaldo vivo, il quale veramente credeva
aver pianto morto, e di veder libero dal pericolo Aldobrandino, il quale fra155 pochi dì si credeva dover piagner morto, tanto lieta quanto altra ne fosse mai, affettuosamente abbracciò e baciò il suo Tedaldo; e
andatisene insieme al letto, di buon volere fecero graziosa e lieta pace, l’un dell’altro prendendo dilettosa gioia.
80 E come il giorno s’appressò, Tedaldo levatosi, avendo
già alla donna mostrato ciò che fare intendeva e da capo
pregatola che occultissimo fosse, pure in abito pellegrino156 si uscì della casa della donna, per dovere, quando
ora fosse, attendere a’ fatti d’Aldobrandino.
81
La signoria, venuto il giorno, e parendole piena informazione avere dell’opera, prestamente Aldobrandino liberò, e pochi dì appresso a’ mafattori157, dove commesso avevan l’omicidio158, fece tagliar la testa. Essendo
adunque libero Aldobrandino, con gran letizia di lui e
78
153
credito, fiducia: II 3,16 n.
casi inaspettati: I 4,12 n.
entro: II 6,19 n.; X 10,12 n.
156 avendola pregata che restasse segretissimo [«ciò che fare intendeva»], sempre in abito da pellegrino: III 9,37.
157 Idiotismo fiorentino di cui vari esempi nei Testi fiorentini.
158 Era questa un’usanza diffusa in quell’età, quasi ricordo della
pena del taglione (cfr. per es. De casibus, IX 3,36): e cfr. Rotunda,
Q 421-0.4*
154
155
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della sua donna e di tutti i suoi amici e parenti, e conoscendo manifestamente ciò essere per opera del pellegrino avvenuto, lui alla loro casa condussero per tanto
quanto159 nella città gli piacesse di stare; e quivi di fargli
onore e festa non si potevano veder sazii, e spezialmente
la donna, che sapeva a cui farlosi160.
82
Ma parendogli dopo alcun dì tempo di dovere i fratelli riducere a concordia con Aldobrandino, li quali esso sentiva non solamente per lo suo scampo scornati161,
ma armati per tema, domandò a Aldobrandino la promessa162. Aldobrandino liberamente rispose sé essere
83 apparecchiato. A cui il peregrino fece per lo seguente dì
apprestare un bel convito, nel quale gli disse che voleva
che egli co’ suoi parenti e colle sue donne ricevesse i
quattro fratelli e le lor donne, aggiugnendo che esso medesimo andrebbe incontanente a invitargli alla sua pa84 ce163 e al suo convito da sua parte. E essendo Aldobrandino di quanto al peregrino piaceva contento, il
pellgrino tantosto164 n’andò a’ quattro fratelli, e con loro
assai delle parole che intorno a tal materia si richiedeano
usate, al fine con ragioni inrepugnabili assai agevolmente gli condusse a dovere, domandando perdono, l’amistà
d’Aldobrandino racquistare. E questo fatto, loro e le lor
donne a dover desinare la seguente mattina con Aldobrandino gl’invitò; ed essi liberamente, della sua fè sicu159 condussero
(a dimorare) per tutto il tempo che.
sapeva a chi lo faceva. «Risale al latino tardo il sovrapporsi
della costruzione infinitivale a quella con un pronome o avverbio
relativo o interrogativo e il congiuntivo dopo habere accompagnato
da negazione» (F. BRAMBILLA AGENO, Annotazioni sintattiche
sul D., in «Studi sul B.», II, 1964; e Il verbo, p. 411).
161 conosceva che non solamente erano svergognati a causa della
salvezza raggiunta da Aldobrandino, Per scampo: V 4,10: «a te sta il
trovar modo allo scampo della tua vita e della mia».
162 Cioè: domandò ... di mantenere quello che aveva promesso.
163 al suo perdono, al suo atto di pacificazione.
164 subito.
160
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85
rati165, tennero166 lo ’nvito. La mattina adunque seguente, in su l’ora del mangiare, primieramente i quattro fratelli di Tedaldo, così vestiti di nero come erano, con alquanti loro amici vennero a casa Aldobrandino167, che
gli attendeva; e quivi, davanti a tutti coloro che a fare lor
compagnia erano stati da Aldobrandino invitati, gittate
l’armi in terra, nelle mani d’Aldobrandino si rimisero168,
perdonanza domandando di ciò che contro a lui aveva86 no adoperato. Aldobrandino lagrimando pietosamente
gli ricevette; e tutti baciandogli in bocca, con poche parole spacciandosi169, ogni ingiuria ricevuta rimise170. Appresso costoro le sirocchie e le mogli loro, tutte di bruno
vestite, vennero, e da madonna Ermellina e dall’altre
donne graziosamente ricevute furono.
87
E essendo stati magnificamente serviti nel convito gli
uomini parimente e le donne, né avendo avuto in quello
cosa alcuna altro che laudevole, se non una, la taciturnità stata per lo fresco dolore rappresentato ne’ vestimenti oscuri de’ parenti di Tedaldo (per la qual cosa da
alquanti il diviso171 e lo ’nvito del pellegrino era stato
biasimato ed egli se n’era accorto), ma172, come seco di165
sulla sua fede, resi sicuri dalla sua fede, dalla sua promessa.
accettarono: cfr. X 9,13 n.
l’omissione del di cfr. II 5,50 n.
168 È consueta espressione di confidenza, di fiducia massima (cfr.
per es. VIII 7,97).
169 sbrigandosela con poche parole.
170 perdonò.
171 il pensiero, il disegno: II concl., 10.
172 Nella prima parte di questo periodo il gerundio è indipendente, come sottolinea la congiunzione davanti alla principale che segue il gerundio; il periodo rimane quindi sospeso, ripreso com’è da
questo ma (che ha valore di copula: quasi insomma, infine). Il caso
non è ignoto ai nostri scrittori delle origini e al B. stesso (Mussafia,
pp. 464 sgg.; SKERLJ, Syntaxe du partecipe présent et du gérondif
en vieil italien, Paris 1926, 748 sgg.; SCHIAFFINI, Testi fiorentini
cit., pp. 283 sgg. E in «Italia dialettale», III, 1927; G. HERCZEG,
Az önallô gerundium használata G. B. prozájábán, Budapest 1944 e
166 accolsero,
167 Per
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sposto avea, venuto il tempo da torla173 via, si levò in
piè, mangiando ancora gli altri le frutte, e disse: «Niuna
cosa è mancata a questo convito a doverlo far lieto, se
non Tedaldo; il quale, poi che avendolo avuto continuamente con voi non lo avete conosciuto, io il vi voglio
mostrare».
89
E di dosso gittatasi la schiavina e ogni abito peregrino, in una giubba di zendado verde174 rimase, e non senza grandissima maraviglia di tutti guatato e riconosciuto
fu lungamente175, avanti che alcun s’arrischiasse a crede90 re ch’el fosse desso. Il che Tedaldo vedendo, assai de’
lor parentadi, delle cose tra loro avvenute, de’ suoi accidenti raccontò: per che i fratelli e gli altri uomini, tutti di
lagrime d’allegrezza pieni, a abbracciare il corsero176, e il
simigliante appresso fecer le donne, così le non parenti
come le parenti, fuor che monna Ermellina.
91
Il che Aldobrandino veggendo disse: «Che è questo,
88
Saggi linguistici e stilistici, Firenze 1972, pp. 144 sgg.; e cfr. III 8,5;
X 6,11; X 8,103; Ninfale, 31,1-5; 172,1-4; 329,1-4). Analoghi a questi vari esempi nell’Esopo Toscano (per es. XVII).
173 Cioè la taciturnità: di rompere il silenzio.
174 La giubba era abito signorile, indossato di solito in occasioni
solenni, come Possiamo vedere anche dal D. stesso (X 9,31). Lo
zendado (sempre tali le giubbe nominate dal B.) era un tessuto di
seta cruda simile, probabilmente, al taffetà, che si prestava bene
all’imbottitura Nel 1330, a Firenze, fu vietato agli uomini di portare «giubbetti di zendado o di drappo o di ciambellotto» (Villani, X
153): sicché, se tali leggi suntuarie avessero avuto assoluto valore
(il che è assai dubbio), questo cenno potrebbe servire a stabilire la
cronologia ideale della novella. Quanto al colore, il verde, era anch’esso signorile e solenne (III 3,11 n.), a parte i ricchi e significativi valori simbolici (cfr. F. PORTAL, Des couleurs symboliques, Paris 1837, pp. 207 sgg.; Dictionnaire des symboles, pp. 795 sgg.). fu
guardato ed esaminato a lungo: cfr. Bandi fiorentini, Firenze 1737,
XLVIII 164: «l’ingegnere destinato per riconoscere il lavoro già
fatto»; Giornale dell’assedio di Montalcino, in «Archivio Stor. It.»,
VIII, 1850, p. 357: «deliberatosi dai nostri signori capitani riconoscere li gabbioni».
175 corsero ad abbracciarlo: iperbato.
176 gli è obbligata, gli è riconoscente.
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Ermellina? come non fai tu, come l’altre donne, festa a
Tedaldo?»
A cui, udendo tutti, la donna rispose: «Niuna ce n’è
che più volentieri gli abbia fatto festa e faccia, che
fare’io, sì come colei che più gli è tenuta177 che alcuna
altra, considerato che per le sue opere io t’abbia riavuto;
ma le disoneste parole dette ne’ dì che noi piagnemmo
colui che noi credevam Tedaldo, me ne fanno stare178».
A cui Aldobrandin disse: «Va via, credi tu che io creda agli abbaiatori179? Esso, procacciando la mia salute,
assai bene dimostrato ha quello essere stato falso, senza
che io mai nol credetti; tosto leva su, va abbraccialo180».
La donna, che altro non desiderava, non fu lenta in
questo a ubbidire il marito; per che, levatasi, come l’altre avevan fatto, così ella abbracciandolo gli fece lieta festa. Questa liberalità d’Aldobrandino piacque molto a’
fratelli di Tedaldo, e a ciascuno uomo e donna che quivi
era; e ogni rugginuzza181, che fosse nata nelle menti d’alcuni dalle parole state182, per questo si tolse via. Fatta
adunque da ciascun festa a Tedaldo, esso medesimo
stracciò li vestimenti neri in dosso a’ fratelli e i bruni183
alle sirocchie e alle cognate; e volle che quivi altri vestimenti si facessero venire. Li quali poi che rivestiti furono, canti e balli e altri sollazzi vi si fecero assai; per la
qual cosa il convito, che tacito principio avuto avea, eb178
astenere: I 2,8 n.
mormoratori, maldicenti: cfr. Volg. di alcuni opuscoli di San
Giovanni Grisostomo, Firenze 1821, p. 241: «allora vedrai quanti
abbaiatori si leveranno contro a te e quanti sparlatori».
180 orsú (X 4,42 n.), va ad abbracciarlo (imperativi coordinati: cfr.
II 5,45 n.).
181malanimo, sospetto: ma l’espressione è resa più delicata dal diminútivo. E cfr. I 1,43 n.; e Convivio, IV XV I: «acciò che di loro
false ragioni nulla ruggine rimagna ne la mente».
182 state dette, cioè dalle mormorazioni, dalle «disoneste parole»
(92).
183 Cfr. per questo uso 10 n.
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be sonoro fine. E con grandissima allegrezza, così come
eran, tutti a casa di Tedaldo n’andarono, e quivi la sera
cenarono; e più giorni appresso, questa maniera tegnendo, la festa continuarono.
Li fiorentini più giorni quasi come un uomo risuscitato e maravigliosa cosa184 riguardaron Tedaldo; e a molti,
e a’ fratelli ancora, n’era un cotal dubbio debole
nell’animo se fosse desso o no, e nol credevano ancor
fermamente, né forse avrebber fatto a pezza185, se un caso avvenuto non fosse che lor chiaro186 chi fosse stato
l’ucciso; il qual187 fu questo.
Passavano un giorno fanti di Lunigiana davanti a casa
loro, e vedendo Tedaldo gli si fecero sirocchie dicendo:
«Ben possa stare Faziuolo188».
A’quali Tedaldo in presenzia de’ fratelli rispose: «Voi
m’avete colto in iscambio».
Costoro, udendol parlare, si vergognarono, e chiesongli perdono dicendo: «In verità che voi risomigliate189,
più che uomo che noi vedessimo mai risomigliare un altro, un nostro compagno, il quale si chiama Faziuolo da
Pontremoli190, che venne, forse quindici dì o poco più
fa, qua, né mai potemmo poi sapere che di lui si fosse.
Bene è vero che noi ci maravigliavamo dello abito, per
ciò che esso era, sì come noi siamo, masnadiere191».
184
cosa tale da destar meraviglia: cfr. X 4,46.
ci avrebber creduto (Intr., 14 n.) per molto tempo (II 3,28 n.).
186 chiarì. Non ignota la forma chiarare (lat. clarare): cfr. F. da
Barberino, Reggimento e costume di donna, XIV 14: «come assai
ben la legge ti chiara». Nel D. I 2,14 «chiarare» nella redazione P
(cfr. pp. CXXIII sgg.).
187 Riferito a c a so.
188 È diminutivo di Bonifazio.
189 rassomigliate: forma non rara anche nel B. (cfr. per es. subito
dopo, e Filocolo, IV 76,1).
190 Città della Lunigiana, nell’alta valle della Magra. Un Bonifazio da Pontremoli è fatto dal Sacchetti protagonista della Sua LXI
novella.
191 soldato di ventura o di masnada (che era milizia irregolare): co185
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Il maggior fratel di Tedaldo, udendo questo, si fece
innanzi e domandò di che fosse stato vestito quel Faziuolo. Costoro il dissero, e trovossi appunto così essere
stato come costor dicevano; di che, tra per questi e per
gli altri segni, riconosciuto fu colui che era stato ucciso
essere stato Faziuolo e non Tedaldo; laonde il sospetto
di lui192 uscì a’ fratelli e a ciascun altro.
101
Tedaldo adunque, tornato ricchissimo, perseverò nel
suo amare, e, senza più turbarsi la donna193, discretamente operando, lungamente goderon del loro amore.
Dio faccia noi goder del nostro194. –
100
me per es. nel Villani (X 30; XII 21 ecc.), e non ladro, assassino come alla II 2,4 n.
192 Il sospetto che egli non fosse davvero Tedaldo.
193 e senza che la donna più si corrucciasse, si guastasse con lui.
194 Identico il finale della III 6.
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NOVELLA OTTAVA
1
Ferondo, mangiata certa polvere, è sotterrato per morto; e
dall’abate, che la moglie di lui si gode, tratto della sepoltura, è
messo in prigione e fattogli credere che egli è in purgatoro; e
poi risuscitato, per suo nutrica un figliuolo dello abate nella
moglie di lui generato1.
2
Venuta2 era la fine della lunga novella d’Emilia, non
per ciò dispiaciuta a alcuno per la sua lunghezza, ma da
tutti tenuto3 che brievemente narrata fosse stata, avendo
rispetto alla quantità e alla varietà de’ casi in essa raccontati; per che la reina, alla Lauretta con un sol cenno
mostrato il suo disio, le diè cagione di così cominciare:
– Carissime donne, a me si para davanti a doversi far
raccontare4 una verità che ha, troppo più che di quello
che ella fu, di menzogna sembianza5, e quella nella mente m’ha ritornata l’avere udito un per un altro essere sta-
3
1 L’antecedente, vago ma interessante, di questa novella è un fabliau di Jean de Boves, Du Vilain de Bailluel (MONTAIGLON,
op. cit., IV, p. 212; BEDIER, Les fabliaux, pp. 475 sgg.). Altri sono
stati indicati nella letteratura orientale, in fonti indiane e talmudìche delle Plaisanteries de Nasr-Eddin Hodia (R. HÖHLER., Kleinere Schiften , Leipzig 1882, I, pp. 481 sgg.); in Somadeva (LANDAU,
op. cit. p. 155), nelle Gesta Romanorum (n. 132) ecc.: cfr. anche
la novella Der begrabene ‘man (Gesammtabenteuer, XLV); e per la
popolarità del tema cfr. Thompson e Rotunda, J. 2311.0.1, K 15 I
4.3. Ma i riscontri sono vaghi e parziali.
2 In questa prima parte del periodo o il gerundio è indipendente
(essendo venuta ecc.) come nella III 7,87 (e cfr. n.), o si deve sottintindere dopo ve n ut a un e r a. Analoga la costruzione di VIII 4,2.
3 ma essendo stato da tutti stimato, con subitaneo passaggio al costrutto assoluto.
4 Cfr. la stessa personificazione della novella nell’esordio della II
2,3 n.: «a raccontarsi mi tira una novella».
5 un fatto vero, il quale più che di verità ha apparenza di menzogna: cfr. Inf. VI 124: «quel ver c’ha f accia di menzogna».
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to pianto e sepellito6. Dico adunque come un vivo per
morto sepellito fosse, e come poi per risuscitato, e non
per vivo7, egli stesso e molti altri lui credessero essere
della sepoltura uscito, colui di ciò essendo per santo
adorato che come colpevole ne dovea più tosto essere
condannato.
Fu adunque in Toscana una badia8, e ancora è, posta,
sì come noi ne veggiam molte, in luogo non troppo frequentato dagli uomini, nella quale fu fatto abate un monaco, il quale in ogni cosa era santissimo fuor che
nell’opera delle femine; e questo sapeva sì cautamente
fare che quasi niuno, non che il sapesse, ma né suspicava9, per che santissimo e giusto era tenuto in ogni cosa.
Ora avvenne che, essendosi molto collo abate dimesticato un ricchissimo villano, il quale avea nome Ferondo,
uomo materiale e grosso10 senza modo (né per altro la
sua dimestichezza piaceva allo abate, se non per alcune
recreazioni le quali talvolta pigliava delle sue simplicità11), e12 in questa dimestichezza s’accorse l’abate Ferondo avere una bellissima donna per moglie13, della
6 Questi tenui richiami di contenuto sono spesso usati a creare
un rapporto e un legame tutti esteriori fra le varie novelle.
7 e non come ancor vivo.
8 La narrazione è introdotta spigliatamente da questo endecasillabo, ripreso da quattro altri nella prima parte di questo periodo
(posta ... molte ... nella quale ... delle femine).
9 neppure sospettava: cfr. II 5,14. Due altri endecasillabi.
10 grossolano e tonto: II 2,7; e III 3,8 n.
11 per un certo sollazzo che ... prendeva delle sue sciocchezze.
12 Cfr. III 7,87 n. «Se altre volte dopo il gerundio viene la congiunzione, essa deve parere ancor più naturale qui dove quel verbo
indicativo p i a c e v a seduce l’orecchio a credere che tutta la proposizione precedente sia principale» (Mussafia); «più che funzione
copulativa regolare, questo e tiene della natura del che ripetuto dopo lungo inciso (da a v v e n n e che): o meglio dell’e in ripresa dopo un gerundio narrativo (essendosi) col solito significato di e c c o
c h e» (Marti). Cfr. I 1,39 n.
13 Cfr. IV 9,6.
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quale esso sì ferventemente s’innamorò che a altro non
pensava né dì né notte. Ma udendo che, quantunque Ferondo fosse in ogni altra cosa semplice e dissipato14, in
amare questa sua moglie e guardarla bene era savissimo,
quasi se ne disperava. Ma pure, come molto avveduto,
recò a tanto Ferondo15, che egli insieme colla sua donna
a prendere alcuno diporto nel giardino della badia venivano alcuna volta; e quivi con loro della beatitudine di
vita eterna e di santissime opere di molti uomini e donne
passate ragionava modestissimamente loro, tanto che alla donna venne disidero di confessarsi da lui e chiesene
la licenzia da Ferondo e ebbela.
Venuta adunque a confessarsi la donna allo abate,
con grandissimo piacer di lui e a’ piè postaglisi a sedere16, anzi che adire altro venisse, incominciò17: «Messere, se Idio m’avesse dato marito o non me lo avesse
dato18, forse mi sarebbe agevole co’ vostri ammaestramenti d’entrare nel cammino che ragionato n’avete che
mena altrui a vita eterna. Ma io, considerato chi è Ferondo e la sua stoltizia, mi posso dir vedova, e pur maritata sono, in quanto, vivendo esso, altro marito aver non
posso; e egli, così matto19 come egli è, senza alcuna cagione è sì fuori d’ogni misura geloso di me, che io, per
questo, altro che in tribulazione e in mala ventura con
lui viver non posso. Per la qual cosa, prima che io a altra
14
scipito, sciocco, senza sale in zucca.
seppe trattare Ferondo in tal modo.
16 In atto di umiltà e dolore, da penitente (III 3,22 n.). Si ricordi
che l’uso dei confessionali risale solo al Cinquecento, alle prescrizioni tridentine.
17 «Nota come costei è ben disposta alla confessione, che si comincia a dir male del marito» (M.).
18 «Parlare che suona Se Iddio mavesse dato marito veramente,
cioè datomi un uomo di senno e di proposito, o se piuttosto non me
lo avesse dato che darmelo così sciocco. Tal modo di dire il B. lo usa
anche nella Lettera a messer Pino [81] così: ‘Se Dio m’avesse dato
fratello, o non me l’avesse dato’» (Fanfani).
19 sciocco, stolto: cfr. V I,4 n.
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confession20 venga, quanto più posso umilmente vi priego che sopra questo vi piaccia darmi alcun consiglio, per
ciò che, se quinci21 non comincia la cagione del mio ben
potere adoperare, il confessarmi o altro bene fare poco
mi gioverà».
Questo ragionamento con gran piacere toccò l’animo
dello abate, e parvegli che la fortuna gli avesse al suo
maggior disidero aperta la via, e disse: «Figliuola mia22,
io credo che gran noia sia a una bella e dilicata donna,
come voi siete, aver per marito un mentecatto, ma molto
maggiore la credo essere l’avere un geloso; per che,
avendo voi e l’uno e l’altro, agevolmente ciò che della
vostra tribolazione dite vi credo. Ma a questo, brievemente parlando23, niuno né consiglio né rimedio veggo
fuor che uno, il quale è che Ferondo di questa gelosia si
guarisca. La medicina da guarirlo so io troppo ben fare,
purché a voi dea il cuore24 di segreto temere ciò che io vi
ragionerò».
La donna disse: «Padre mio, di ciò non dubitate, per
ciò che io mi lascierei innanzi morire che io cosa dicessi
a altrui che voi mi diceste che io non dicessi25; ma come
si potrà far questo?»
Rispose l’abate: «Se noi vogliamo che egli guerisca, di
necessità convien che egli vada in Purgatorio».
«E come», disse la donna «vi potrà egli andare vivendo?»
Disse l’abate: «Egli convien ch’e’muoia, e così v’an20 Cioè: prima che passi a un’altra parte della confessione, quella
dei peccati veri e propri.
21 di qui, da questo fatto.
22 «Nota pe’ cherici ipocriti e bugiardi» (M.).
23 per dirla in breve.
24 purché voi abbiate cuore, siate capace. Dea e simili forme del
congiuntivo presente non sono rare nel B. (Teseida, p. CXLIII).
25 Bisticcio che ricorda Inf., XIII 25: e cfr. I 1,51 n.; III 6,20 n.;
VI 5,13 n.
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drà; e quando tanta pena avrà sofferta che egli di questa
sua gelosia sarà gastigato, noi con certe orazioni pregheremo Iddio che in questa vita il ritorni, e Egli il farà».
«Adunque», disse la donna «debbo io rimaner vedova?»
«Sì», rispose l’abate «per un certo tempo, nel quale vi
converrà molto ben guardare che voi a altrui non vi lasciate rimaritare26, per ciò che Idio l’avrebbe per male,
e, tornandoci27 Ferondo, vi converrebbe a lui tornare, e
sarebbe più geloso che mai».
La donna disse: «Purché egli di questa mala ventura
guarisca, che egli non mi convenea28 sempre stare in prigione, io son contenta; fate come vi piace».
Disse allora l’abate: «E io il farò; ma che guiderdon
debbo io aver da voi di così fatto servigio?»
«Padre mio», disse la donna «ciò che vi piace, purché
io possa; ma che puote una mia pari, che a un così fatto
uomo, come voi siete, sia convenevole?».
A cui l’abate disse: «Madonna, voi potete non meno
adoperar per me che sia quello29 che io mi metto a far
per voi; per ciò che, sì come io mi dispongo a far quello
che vostro bene e vostra consolazion dee essere, così voi
potete far quello che fia salute e scampo della vita
mia30».
Disse allora la donna: «Se così è, io sono apparecchiata».
«Adunque», disse l’abate «mi donerete voi il vostro
amore e faretemi contento di voi, per la quale io ardo
tutto e mi consumo».
26 Perché le vedove rimanevano sotto la tutela del padre e dei
fratelli, che spesso combinavano il nuovo matrimonio, come sappiamo dal D. stesso (per es. V 9, X 9).
27 tornando qui, in questo mondo.
28 poiché non mi piaceva, non mi garbava.
29 voi potete fare per me cosa non minore di quella ...
30 Come nella V 4,10: «a te sta il trovar modo allo scampo della
tua vita e della mia». Chiusa su due endecasillabi rimati.
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La donna, udendo questo, tutta sbigottita rispose:
«Ohimè, padre mio, che è ciò che voi domandate? Io mi
credeva che voi foste un santo; or conviensi egli a’ santi
uomini di richieder le donne, che a lor vanno per consiglio, di così fatte cose?».
25
A cui l’abate disse: «Anima mia bella, non vi maravigliate, ché per questo la santità non diventa minore, per
ciò che ella dimora nell’anima e quello che io vi domando è peccato del corpo31.. Ma, che che si sia, tanta forza
ha avuta la vostra vaga bellezza, che amore mi costrigne
a così fare. E dicovi che voi della vostra bellezza più che
altra donna gloriar vi potete, pensando che ella piaccia
26 a’ santi, che sono usi di vedere quelle del cielo32. E oltre
a questo, come che io sia abate, io sono uomo come gli
altri, e, come voi vedete, io non sono ancor vecchio. E
non vi dee questo esser grave a dover fare, anzi il dovete
disiderare, per ciò che, mentre che Ferondo starà in
Purgatoro33, io vi darò, faccendovi la notte compagnia,
quella consolazion che vi dovrebbe dare egli; né mai di
questo persona niuna s’accorgerà, credendo ciascun di
me quello34, e più, che voi poco avante ne credevate.
27 Non rifiutate la grazia che Iddio vi manda, ché assai sono di quelle che quello disiderano che voi potete avere,
e avrete, se savia crederete al mio consiglio. Oltre a questo, io ho di35 belli gioielli e di cari, li quali io non intendo che d’altra persona sieno che vostra36. Fate adunque,
24
31 Sembra quasi un sofistico rovesciamento di un passo di Andrea Cappellano: «Istud crimen [amoris] solum animam simul coro corpore foedat, ergo super omnibus est criminibus evitandum,
onde non immerito evidenter divina clamat auctoritas, crimen nullum esse gravius fornicatione repertum» (De amore, p. 318).
32 questo il tema centrale della IV 2.
33 Le due forme Purgatorio e Purgatoro si alternano nel D.
34 Cioè: che io sia un santo.
35 Partitivo (oggi comunemente dei, delle), usato frequentemente
dal B. specie davanti a aggettivo e sostantivo (per es. I 10, 14; IV 4,
15 n.; V 10,8 ecc.). Cari preziosi.
36 che della vostra, cioè di voi.
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dolce speranza mia37, per me quello che io fo per voi volentieri».
La donna teneva il viso basso, né sapeva come negarlo, e il concedergliele non le pareva far bene; per che
l’abate, veggendola averlo ascoltato e dare indugio alla
risposta, parendo gliele avere già mezza convertita, con
molte altre parole alle prime continuandosi, avanti che
egli ristesse38 l’ebbe nel capo messo che questo fosse
ben fatto; per che essa vergognosamente disse sé essere
apparecchiata a ogni suo comando, ma prima non potere che Ferondo andato fosse in Purgatoro. A cui l’abate
contentissimo disse: «E39 noi faremo che egli v’andrà incontanente; farete pure che domane o l’altro dì40 egli
qua con meco se ne venga a dimorare»; e detto questo,
postole celatamente in mano un bellissimo anello, la licenziò. La donna lieta del dono e attendendo d’aver degli altri, alle compagne tornata, maravigliose cose cominciò a raccontare della santità dello abate e con loro a
casa se ne tornò.
Ivi a pochi dì Ferondo se n’andò alla badia, il quale
come l’abate vide, così s’avvisò di mandarlo in Purgatoro. E ritrovata una polvere di maravigliosa virtù, la quale
nelle parti di Levante avuta avea da un gran prencipe (il
quale41 affermava quella solersi usare per lo Veglio della
Montagna42, quando alcun voleva dormendo mandare
37
Amorosa Visione, XXIII 65.
facendo seguire alle prime molte altre parole, avanti che egli
smettesse di parlare, tacesse ... Costruzione non rara: Inf, X 76:
«continuando al primo detto»; Convivio, II x 3. Meno frequente il
riflessivo: cfr. IV 7,2 n.
39 Cfr. Il 8,61 n.
40 domani l’altro, dopodomani.
41 Comincia qui un lungo e intricato periodo parentetico, che va
fino a aver vita.
42 Questo cenno al Veglio della Montagna, al suo beveraggio, al
suo paradiso, deriva dal racconto di Marco Polo (Il Milione, ed. L.
F. Benedetto, Firenze 1928, capp. XLI-XLII); ed è una delle testimonianze letterarie dell’enorme successo del libro da mettere ac38
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nel suo paradiso o trarlone, e che43 ella, più e men data,
senza alcuna lesione44 faceva per sì fatta maniera più e
men dormire colui che la prendeva, che, mentre la sua
virtù durava, alcuno non avrebbe mai detto45 colui in sé
aver vita) e di questa tanta presane che a fare dormir tre
giorni sufficiente fosse, e46 in un bicchier di vino non
ben chiaro ancora47 nella sua cella, senza avvedersene
Ferondo, gliele diè bere48, e lui appresso menò nel chiostro, e con più altri de’ suoi monaci di lui cominciarono
32 e delle sue sciocchezze a pigliar diletto. Il quale non
durò guari che, lavorando49 la polvere, a costui venne un
sonno subito e fiero nella testa, tale che stando ancora in
canto alle prime di solito citate, quelle di Pietro d’Abano, di Guido
delle Colonne, del Novellino,del Mare Amoroso, di Giovanni Villani, di Antonio Pucci. Il B. stesso trascrisse un passo della cronaca
di Paolino Veneto, che raccontava il fatto, nel suo Zibaldone Magliabechiano (e. 167r), annotando in volgare a margine «il veglio
della montagna». Si narrava che questo Vecchio (che sarebbe stato
il capo della setta asiatica degli Ismaeliti) avrebbe avuto fra i monti
un bellissimo giardino che faceva credere fosse il Paradiso ai giovani e alle donzelle che riusciva a raccogliervi, trasportandoli da vari
luoghi dopo averli fatti cadere in un sonno profondo; e che poi, facendo loro prendere una droga (l’hascisc’, donde ‘assassino’ cioè
originariamente drogato), inviava a compiere. imprese e misfatti.
Cfr. in generale P. FILIPPANI-RONCONI, Ismailiti ed Assassini,
Basel 1973; e per la popolarità del racconto anche nella novellistica
cfr. Rotunda, F III, F 756.2.1*, K 1889.3*; M. P. GIARDINI, Tradizioni popolari nel D., Firenze 1965, pp. 19 sg.: e cfr. Sercambi,
LXVI.
43 Dipende da affermava.
44 senza alcun danno.
45 finché durava il suo efietto non si sarebbe mai dello.
46 «Questo e sembra al Colombo che sia soverchio, e guasti il
senso. A me non pare, sembrandomi poter bene far riscontro con
l’altro e in e lui appresso; come chi dicesse: E presane quanta bastò
e gliela dié bere e lo menò ecc., cioè Non solo gliela dié bere, ma anche lo menò ecc.» (Fanfani).
47 Riferito al vino: forse perché non si vedesse nulla della polvere
disciolta.
48 La solita omissione della preposizione, per cui cfr. II 5,30 n.
49 agendo, facendo il suo effetto.
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piè s’addormentò e addormentato cadde. L’abate, mostrando di turbarsi dello accidente, fattolo scignere50 e
fatta recare acqua fredda e gittargliele nel viso, e molti
suoi altri argomenti fatti fare, quasi da alcuna fumosità51
di stomaco o d’altro che occupato l’avesse gli volesse la
smarrita vita e ’l sentimento52 rivocare, veggendo l’abate
e’ monaci che per tutto questo egli non si risentiva, toccandogli il polso e niun sentimento trovandogli, tutti
per constante53 ebbero ch’e’ fosse morto: per che, mandatolo a dire alla moglie e a’ parenti di lui, tutti quivi
prestamente vennero, e avendolo la moglie colle sue parenti alquanto pianto, così vestito come era il fece l’abate mettere in uno avello.
34
La donna si tornò a casa, e da un piccol fanciullin che
di lui aveva disse che non intendeva partirsi giammai; e
così, rimasasi nella casa, il figliuolo e la ricchezza, che
stata era di Ferondo, cominciò a governare.
35
L’abate con un monaco bolognese, di cui egli molto si
confidava54 e che quel dì quivi da Bologna era venuto,
levatosi la notte tacitamente, Ferondo trassero55 della
sepoltura, e lui in una tomba56, nella quale alcun lume
non si vedea e che per prigione de’ monaci che fallissero
era stata fatta, nel57 portarono; e trattigli i suoi vestimen33
50
fattigli slacciare gli abiti. Periodo anacolutico animatissimo.
esalazione, produzione di vapori malefici per cattiva digestione.
52 Cioè l’attività dei sensi, le manifestazioni di vita, come più sotto: cfr. II 7,15 n.
53 come fatto certo, indubitabile: X 9,67: «ebbe per constante la
donna dover esser maritata».
54 si fidava, in cui aveva molta confidenza: V 3,9; Par., XXII 3 e
YXIX 120.
55 Si noti l’oscillazione continua fra l’uso del verbo al plurale (come qui e a 67) o al singolare (come a 36) quando il soggetto è costituito da due sostantivi legati da con (cfr. II 9,1 n.).
56 sotterraneo: cfr. Inf., XXXIV 128; e BARBI, Problemi di critica
dantesca cit., I, pp. 244 sgg.
57 uno dei pleonasmi più frequenti nel B. e più naturali (I 1,89
n.).
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ti e a guisa di monaco vestitolo, sopra un fascio di paglia
il posero e lasciaronlo stare tanto ch’egli si risentisse58.
In questo mezzo59 il monaco bolognese, dallo abate
informato di quello che avesse a fare, senza saperne alcuna altra persona niuna cosa, cominciò a attender che
Ferondo si risentisse.
36
L’abate il dì seguente con alcun de’ suoi monaci per
modo di visitazion60 se n’andò a casa della donna, la
quale di nero vestita e tribolata trovò, e confortatala alquanto, pianamente la richiese della promessa. La donna, veggendosi libera e senza lo ’mpaccio di Ferondo o
d’altrui, avendogli veduto in dito un altro bello anello,
disse che era apparecchiata; e con lui compose61 che la
37 seguente notte v’andasse. Per che, venuta la notte, l’abate, travestito de’ panni di Ferondo e dal suo monaco accompagnato, v’andò e con lei infino al matutino62 con
grandissimo diletto e piacere si giacque, e poi si ritornò
alla badia, quel camino per così fatto servigio faccendo
assai sovente. E da alcuni e nello andare e nel tornare alcuna volta essendo scontrato, fu creduto ch’e’ fosse Ferondo che andasse per quella contrada penitenza faccendo; e poi molte novelle tra la gente grossa della villa
contatone63, e alla moglie ancora, che ben sapeva ciò che
era, più volte fu detto.
38
Il monaco bolognese, risentito Ferondo e quivi trovandosi senza saper dove si fosse, entrato dentro con
una voce orribile, con certe verghe in mano, presolo, gli
diede una gran battitura.
58
rinvenisse, si svegliasse, come più sotto risentito: 11 7,76 n.
In questo frattempo.
fingendo una visita di cortesia.
61 fissò, s’accordò.
62 Quattro endecasillabi di seguito segnano il trionfo dell’abate.
Per matutino cfr. III 4,17 n.
63 e poi ne nacquero molte chiacchiere fra la gente rozza del villaggio. È sottinteso fu, dal precedente fu creduto: e per questa costru59
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Ferondo, piangendo e gridando, non faceva altro che
domandare: «Dove sono io?»
A cui il monaco rispose: «Tu se’in Purgatoro».
«Come!» disse Ferondo «dunque sono io morto?»
Disse il monaco: «Mai sì64».; per che Ferondo sé stesso e la sua donna e ’l suo figliuolo cominciò a piagnere,
le più nuove65 cose del mondo dicendo.
Al quale il monaco portò alquanto da mangiare e da
bere. Il che veggendo Ferondo, disse: «O mangiano i
morti?»
Disse il monaco: «Sì; e questo che io ti reco è ciò che
la donna, che fu tua, mandò stamane alla chiesa a far dir
messe66 per l’anima tua, il che Domenedio vuole che qui
rappresentato67 ti sia».
Disse allora Ferondo: «Domine, dalle il buono anno68. Io le voleva ben gran bene anzi che io morissi, tanto che io me la teneva tutta notte in braccio e non faceva
altro che baciarla e anche faceva altro quando voglia me
ne veniva. E poi, gran voglia avendone, cominciò a mangiare e a bere; e non parendogli il vino troppo buono,
disse: «Domine, falla trista, ché ella non diede al prete
del vino della botte di lungo il muro69».
Ma poi che mangiato ebbe, il monaco da capo il riprese e con quelle medesime verghe gli diede una gran
battitura.
zione col predicato al singolare e il soggetto al plurale cfr. F.
BRAMBILLA AGENO, Il verbo, pp. 161 sgg.
64 Per queste forme rafforzate di affermazione cfr. III 3,36 n.
65 strane.
66 perché fossero dette delle messe.
67 presentato, donato.
68 Esclamazione popolaresca d’augurio (come: «Signore benedicila») ripetuta anche al 66, contraria all’imprecazione di qualche riga più innanzi (Domine falla trista!): II 1,14 n.
69 della botte che è allato o rasente al muro. «Il dì non forma modo avverbiale con lungo, ma è particella diciam così di ubicità, come quando si dice ‘Dammi di quel vino di dispensa’ cioè ‘in dispensa’» (Fanfani).
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A cui Ferondo, avendo gridato assai, disse: «Deh.
questo perché mi fai tu?».
Disse il monaco: «Per ciò che così ha comandato Domenedio che ogni dì due volte ti sia fatto».
«E per che cagione?» disse Ferondo.
Disse il monaco: «Perché tu fosti geloso, avendo la
miglior donna che fosse nelle tue contrade per moglie».
«Oimè», disse Ferondo «tu di’ vero, e la più dolce; ella era più melata70 che ’l confetto71, ma io non sapeva
che Domenedio avesse per male che l’uomo72 fosse geloso, ché io non sarei stato».
Disse il monaco: «Di questo ti dovevi tu avvedere
mentre eri di là, e ammendartene; e se egli avviene che
tu mai vi torni, fa che tu abbi sì a mente quello che io fo
ora, che tu non sii mai più geloso».
Disse Ferondo: «O ritornavi mai chi muore?».
Disse il monaco: «Sì, chi Dio vuole».
«Oh,» disse Ferondo «se io vi torno mai, io sarò il miglior marito del mondo; mai non la batterò, mai non le
dirò villania, se non del vino che ella ci ha mandato stamane, e anche non ci ha mandato candela niuna, e emmi
convenuto73 mangiare al buio».
Disse il monaco: «Sì fece bene74, ma elle arsero alle
messe».
«Oh», disse Ferondo «tu dirai vero; e per certo se io
vi torno, io la lascerò fare ciò che ella vorrà.. Ma dimmi
chi se’ tu che questo mi fai?».
Disse il monaco: «Io sono anche morto75, e fui di Sar70 mielata, dolce: cfr. più avanti, al 66; e VIII 7,81: «i miei prieghi, quali nel vero io non seppi bagnar di lagrime né far melati».
71 I Il termine allude a qualsiasi confezione di dolciumi (cfr. I
10,14 n.; II 5,30 n.).
72 Con valore impersonale: che si fosse: I 7,15 n.
73 mi è stato necessario: II 8,12 n.
74 Si che lo fece, si che ne mandò: e cfr. Intr,, 14 n. Sì e no furono
spesso nell’italiano antico rafforzati da bene.
75Anch’io sono morto.
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digna76, e perché io lodai già molto a un mio signore
l’esser geloso, sono stato dannato da Dio a questa pena,
che io ti debba dare mangiare e bere e queste battiture,
infino a tanto che Idio dilibererà altro di te e di me».
Disse Ferondo: «Non c’è egli più persona77 che noi
due?».
Disse il monaco: «Sì, a migliaia, ma tu non gli puoi né
vedere né udire, se non come essi te».
Disse allora Ferondo: «O quanto siam noi di lungi
dalle nostre contrade?».
«Ohioh78!» disse il monaco «sevi79 di lungi delle miglia più di be’ la cacheremo80».
«Gnaffé! cotesto è bene assai!» disse Ferondo «e per
quel che mi paia, noi dovremmo essere fuor del mondo,
tanta ci ha».
Ora in così fatti ragionamenti e in simili, con mangiare e con battiture, fu tenuto Ferondo da diece mesi81 infra li quali assai sovente l’abate bene avventurosamente82 visitò la bella donna e con lei si diede il più bel
tempo del mondo. Ma, come avvengono le sventure, la
donna ingravidò, e prestamente accortasene, il disse
all’abate; per che a ammenduni parve che senza indugio
Ferondo fosse da dovere essere di Purgatorio rivocato a
76 È forma normale negli scrittori del tempo: Inf., XXIX 48 e
XXII 89 (chissà che il B. non abbia avuto qui nell’orecchio quei
versi danteschi).
77 altra persona, qualcuno.
78 Esclamazione allungata per enfasi.
79 vi sei meglio che vi si è (cfr. c. MERLO, Etimologie ecc. in Mélanges… à M. Roques, Paris 1952, IV, p. 179); oppure scrivendo
s’evvi se vi è delle miglia! sfido se ci son delle miglia! (Pézard).
80 Parole senza senso, gettate là per confondere e stupire sempre
più Ferondo, come tante di quelle di Frate Cipolla: quasi a dire che
le miglia sono tante da non poterle indicare con un numero.
81 circa dieci mesi: III 10,24 n.: «da sei volte»; V 3,10 n.: «subitamente uscirono da dodici fanti».
82 Sequenza trionfale di due endecasillabi rimati.
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vita e che a lei si tornasse, e ella di lui dicesse che gravida fosse.
65
L’abate adunque la seguente notte fece con una voce
contrafatta83 chiamar Ferondo nella prigione, e dirgli:
«Ferondo, confortati, ché a Dio piace che tu torni al
mondo; dove tornato, tu avrai un figliuolo della tua donna, il quale farai che tu nomini Benedetto84, per ciò che
per gli prieghi del tuo santo abate e della tua donna e
per amor di san Benedetto ti fa questa grazia».
66
Ferondo, udendo questo, fu forte lieto e disse: «Ben
mi piace: Dio gli dea il buono anno a messer Domenedio85 e all’abate e a san Benedetto e alla moglie mia casciata86, melata, dolciata».
67
L’abate, fattogli dare nel vino che egli gli mandava di
quella polvere tanta che forse quattro ora il facesse dormire, rimessigli i panni suoi, insieme col monaco suo tacitamente il tornarono87 nello avello nel quale era stato
sepellito.
83 Inizio
di nuova azione avviato da due endecasillabi di seguito.
parole riecheggiano quelle dell’angelo a Zaccaria (Luca
84 Queste
1.13).
85 «Dio, nell’augurativo ‘Dio gli dea’ non è presente in modo reale sicché può essere complemento di termine della proposizione
stessa. Il parlare di Ferondo è pieno di queste espressioni convenzionali (cfr. par. 45)» (Segre). L’espressione del resto non doveva
essere insolita: Marti cita «Die vi dea ’l buon dì, domine Deo» di
Meo dei Tolomei.
86 piena di cacio, saporita come un cibo con molto cacio. Questo e i
due aggettivi seguenti trasferiscono proprietà piacevoli di cibi a
una donna, con una goffaggine che ben ritrae lo sciocco protagonista (e per queste sequenze rimate di aggettivi non rare nel B., cfr.
VI 10,17 n.). Proprio tali aggettivi, strascicati e ridondanti nelle
terminazioni, erano stati riprovati come «muliebria propter sui
mollitiem» da Dante (De vulgari eloquente, II VII 4). «Il B. si diverte qui e altrove ... a riprodurre, con l’ironico distacco del cittadino colto, il linguaggio amoroso del villano, e dà l’avvio al genere
dei rispetti rusticani, che avrà tanta fortuna nel secolo XV e nei seguenti. ‘Madonna dolciata’ è già in una ballata della fine del Trecento» (Sapegno). Cfr. in generale VIII 2 e nn.
87 lo rimisero, lo riportarono.
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La mattina in sul far del giorno Ferondo si risentì e vide per alcuno pertugio dello avello lume, il quale egli veduto non avea ben dieci mesi: per che, parendogli esser
vivo, cominciò a gridare: «Apritemi, apritemi» e egli
stesso a pontar88 col capo nel coperchio dello avello sì
forte, che ismossolo, per ciò che poca ismovitura avea89,
lo ’ncominciava a mandar via; quando i monaci, che detto avean matutino, corson colà e conobbero la voce di
Ferondo e viderlo già del monimento90 uscir fuori: di
che, spaventati tutti per la novità del fatto, cominciarono a fuggire e allo abate n’andarono.
69
Il quale, sembianti faccendo di levarsi d’orazione, disse:
«Figliuoli, non abbiate paura, prendete la croce e
l’acqua santa e appresso di me venite, e veggiamo ciò
che la potenzia di Dio ne vuol mostrare»; e così fece91.
70
Era Ferondo tutto pallido, come colui che tanto tempo era stato senza vedere il cielo, fuor dello avello uscito. Il quale, come vide l’abate, così gli corse a’ piedi e
disse: «Padre mio, le vostre orazioni, secondo che revelato mi fu, e quelle di san Benedetto e della mia donna,
m’hanno delle pene del Purgatoro tratto e tornato in vita, di che io priego Idio che vi dea il buono anno e le
buone calendi92, oggi e tuttavia».
68
88 spingere.
89 si poteva smuovere con poco, era facile a smuoversi (al contrario
di quello della II 5). È un’espressione di cui non si hanno esempi,
ma che è gemella dell’altra «avere poca, piccola levatura» che ricorre varie volte anche nel D. (IV 2,41; VII 3,22; IX 8,17).
90 tomba: Esopo Toscano, XLIX; G. Villani, VI 62.
91 L’azione è nelle sue linee generali analoga a quella della X 9,91
sgg,
92 mesi (propriamente il primo giorno del mese: cfr. VIII 9,57).
«Nota che questo sciocco è sempre fatto parlare da suo pari, come
si vede anche in questo buon anno e buone calendi oggi e tuttavia,
ché detto buon anno era detto tutto» (Fanfani). Calendi, come singolare e plurale, invece di calende, era corrente: Purg., XVI 27; e si
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L’abate disse: «Lodata sia la potenza di Dio! Va dunque, figliuolo, poscia che Idio t’ha qui rimandato, e consola la tua donna, la qual sempre, poi che tu di questa vita passasti, è stata in lagrime, e sii da quinci innanzi93
amico e servidore di Dio».
Disse Ferondo: «Messere, egli m’è ben detto così; lasciate far pur me, ché come io la troverò, così la bacerò,
tanto bene le voglio».
L’abate rimaso co’ monaci suoi, mostrò d’avere di
questa cosa una grande ammirazione, e fecene divotamente cantare il Miserere. Ferondo tornò nella sua villa94, dove chiunque il vedeva fuggiva, come far si suole
delle orribili cose95, ma egli, richiamandogli, affermava
sé essere risuscitato. La moglie similmente aveva di lui
paura.
Ma poi che la gente alquanto si fu rassicurata con lui
e videro che egli era vivo, domandandolo di molte cose,
quasi savi