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EAST COKER
di T.S.
Eliot
(dai Quattro Quartetti)
versione di Massimo Scrignòli
alla chiara fonte volgere
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per Annalisa
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Il poemetto, secondo dei Quattro Quartetti, prende il nome da East Coker, villaggio
del Somersetshire poco lontano dal mare, dal quale partí per emigrare in America
Andrew Eliot, antenato di T.S. Eliot.
Pubblicato nel 1940 (Burnt Norton, primo dei Quattro Quartetti, uscí nel 1936),
East Coker è incentrato sul motto di Maria Stuarda “En ma fin est mon commencement”, che Eliot rovescia in incipit (“Nel mio principio è la mia fine”), peraltro
contraddicendo un suo stesso verso contenuto in “Portrait of a Lady” (“Ma i nostri
inizî non sanno mai quale sarà la fine!”), per ricomporlo poi in chiusura al poemetto (“Nella mia fine è il mio principio”). Nel percorso seguito da Eliot si avverte
anche una precisa correlazione con il frammento 70 di Eraclito: “Il principio e la
fine sono la stessa cosa”.
A East Coker, per volontà di Eliot, nella chiesetta di St. Michael riposano le sue
ceneri. Eliot morì a Londra il 4 Gennaio 1965. A East Coker furono portate in Aprile (mese non casuale nella storia poetica di Eliot….); sulla lapide che ricorda il
poeta sono citati i versi:
“nel mio principio è la mia fine” — “Nella mia fine è il mio principio”.
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I
Nel mio principio è la mia fine. In successione
le case si alzano e cadono, crollano, sono ingrandite
sono demolite, distrutte, restaurate, oppure al loro posto
c’è un campo aperto, o una fabbrica, o una strada di circonvallazione.
Vecchie pietre per nuove costruzioni, vecchio legname per nuovi fuochi,
vecchi fuochi per cenere e cenere per la terra
che è già carne, pelame e feci,
ossa di uomo e di bestia, stelo di grano e foglia.
Le case vivono e muoiono: c’è un tempo per costruire
e un tempo per vivere e per generare
e un tempo perché il vento rompa il vetro smosso
e scuota il rivestimento di legno dove trotterella il topo
e scuota il logoro arazzo ricamato con il suo motto silenzioso.
Nel mio principio è la mia fine. Adesso la luce cade
piena sul campo aperto, lasciando la via come incastonata
riparata dai rami, buia nel pomeriggio,
dove quando passa un carro ci si appoggia alla sponda,
e la strada incastonata va diretta
fino al villaggio, nel caldo saturo, elettrico,
ipnotizzata. Nella foschia calda la luce afosa
è assorbita, non riflette, dalla grigia pietra.
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Nel silenzio vuoto le dalie dormono.
La civetta non si farà aspettare.
In quel campo aperto
se non vi avvicinate troppo, se non vi avvicinate troppo,
in una mezzanotte d’estate potete ascoltare la musica
del flauto sottile e del piccolo tamburo
e vederli danzare intorno al falò
l’unione dell’uomo e della donna
in danza, significando del matrimonio
la piena dignità e convenienza del sacramento.
Due a due, congiunzione necessaria,
tenendosi l’un l’altro la mano o il braccio
quale immagine di concordia. Giro giro al fuoco
saltando tra le fiamme oppure uniti in cerchio,
rusticamente solenni o in rustiche risate
alzando i piedi pesanti in scarpe goffe,
piedi di terra, piedi di argilla, alzati in campagnola allegria,
l’allegria di coloro che da lungo tempo sono sotto terra
a nutrire il grano. Attenti al tempo,
attenti al ritmo della loro danza
come a quello della vita nelle vive stagioni,
il tempo delle stagioni e delle costellazioni
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il tempo della mungitura e il tempo del raccolto
il tempo dell’accoppiamento dell’uomo e della donna
e quello delle bestie. Piedi che si alzano e cadono.
Spunta l’alba, e un altro giorno
si prepara al calore e al silenzio. Laggiú, sul mare il vento dell’alba
increspa e scivola. Io sono qui
oppure là, o altrove. Nel mio principio.
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II
Che cosa fa novembre inoltrato
con i turbamenti della primavera,
le creature dell’estate torrida
e i bucaneve schiacciati sotto i piedi
e i malvoni troppo alti,
un rosso che sfuma nel grigio,
e rovesciano giú
rose tardive piene di neve?
Il rollio del tuono per il rotolare delle stelle
simula i carri trionfanti
dispiegati in guerre di costellazioni
lo Scorpione combatte contro il Sole
finché Sole e Luna tramontano,
Comete lacrimano e Leonidi volano, vanno
in caccia per cieli e piani
presi in un vortice che porterà
il mondo verso un fuoco distruttore
che brucia già prima che il ghiaccio regni.
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Questo era un modo per presentare la cosa… a dir il vero non molto soddisfacente:
uno studio perifrastico alla maniera poetica d’altri tempi,
che ancora ci abbandona alla lotta intollerabile
con le parole e i significati. La poesia non importa
non era (per ricominciare) ciò che ci si aspettava.
Quale doveva essere il valore della tanto attesa,
tanto sperata calma, la serenità autunnale
e la saggezza dell’età? Avevano ingannato noi
o avevano ingannato sé stessi, gli antenati dalla voce quieta,
lasciandoci in eredità nient’altro che una ricetta di inganni?
La serenità, soltanto una deliberata ebetudine,
la saggezza, soltanto conoscenza di segreti morti
inutili nel buio in cui fissavano lo sguardo
o da cui volgevano gli occhi. C’è, almeno cosí ci pare,
nel migliore dei casi, soltanto un valore limitato
nella conoscenza che deriva dall’esperienza.
La conoscenza impone una trama, e falsifica,
perché la trama è nuova in ogni nuovo momento,
e ogni momento è una nuova e sconcertante
valutazione di tutto ciò che siamo stati. Non ci inganna soltanto
ciò che ingannando non potrebbe piú nuocerci.
Nel mezzo, non solo nel mezzo del cammin
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ma per tutta la via, in una selva oscura, in un roveto,
sull’orlo di un pantano, dove il piede è incerto,
tra minacce di mostri, fantastiche luci,
rischiando l’incantesimo. Non voglio sentir parlare
della saggezza dei vecchi, ma della loro follia,
la loro paura della paura e della frenesía, la loro paura della possessione,
di appartenere a un altro, o ad altri, o a Dio.
La sola saggezza che possiamo sperare di ottenere
è la saggezza dell’umiltà: l’umiltà non ha confini.
Le case sono andate tutte sotto il mare.
I danzatori sono andati tutti sotto la collina.
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III
O buio buio buio. Tutti vanno nel buio,
nei vuoti spazî interstellari, il vuoto va nel vuoto,
i capitani, uomini d’affari, gli eminenti letterati,
i generosi patroni dell’arte, gli uomini di stato e i governanti,
gli esimi funzionari, i presidenti di molti comitati,
i capitani d’industria e i piccoli imprenditori, tutti vanno nel buio
e buio è il Sole, e la Luna, e l’Almanacco di Gotha
e la Gazzetta della Borsa, l’Annuario delle Società Anonime,
e freddo il senso ed è perduto il motivo dell’azione.
E noi tutti andiamo con loro, nel funerale silenzioso,
funerale di nessuno, perché non c’è nessuno da seppellire.
Ho detto alla mia anima: taci, e lascia che il buio scenda su di te,
sarà l’oscurità di Dio. Come in un teatro,
si spengono le luci per poter cambiare la scena
con un cupo rombo d’ali, con un movimento dell’oscurità sul buio,
e noi sappiamo che le colline e gli alberi, il panorama lontano
e l’imponente ardita facciata, tutto, tutto viene arrotolato e messo via –
O come quando un treno della metropolitana si ferma troppo a lungo tra due stazioni
e allora la conversazione cresce, poi un po’ per volta svanisce nel silenzio.
E vedi che dietro ad ogni faccia si spalanca il vuoto mentale
lasciando soltanto il terrore di non avere nulla a cui pensare;
o quando, sotto l’etere, la mente è cosciente, però cosciente di nulla –
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Ho detto alla mia anima: resta in silenzio, e attendi senza speranza
perché la speranza sarebbe speranza mal riposta: aspetta senza amore
perché l’amore sarebbe mal riposto; resta la fede
ma la fede e l’amore e la speranza sono tutte nell’attesa.
Attendi senza pensiero, perché tu non sei pronta al pensiero:
cosí l’oscurità sarà luce, e la quiete danza.
Brusío di rapidi ruscelli, e lampi d’inverno.
Il timo selvatico non visto, e la fragola di bosco,
le risa nel giardino, eco di un’estasi
non perduta, ma che richiede, protesa all’agonia
della morte e della nascita.
Voi dite che io ripeto
qualcosa che ho già detto prima. Lo dirò un’altra volta
dovrò dirlo un’altra volta? Per arrivare là,
per arrivare dove siete voi, per andare via da dove voi non siete,
dovete passare per una strada dove non c’è estasi.
Per arrivare a ciò che non sapete
dovete passare per una strada che è la strada dell’ignoranza.
Per possedere ciò che non possedete
dovete passare per la strada della privazione.
Per arrivare a ciò che non siete
dovete passare per la strada in cui non siete.
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E ciò che non sapete è la sola cosa che sapete
e ciò che avete è ciò che non avete
e dove siete è dove non siete.
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IV
Maneggia l’acciaio il chirurgo ferito
che indaga la parte malata;
sotto la mano insanguinata sentiamo
l’arte pietosa e tagliente di chi guarisce
e scioglie l’enigma del diagramma della febbre.
La malattia è la nostra sola salute
se obbediamo all’infermiera morente
la cui cura costante non è di piacere
ma di ricordarci la nostra maledizione e quella di Adamo,
e che la nostra malattia, per guarire, deve peggiorare.
Tutta la terra è il nostro ospedale
finanziato da un milionario in rovina,
dove, se va bene, moriremo
dell’assoluta cura paterna
che non ci lascerà mai, ma che ci precede ovunque.
Il freddo sale dai piedi alle ginocchia,
la febbre canta nei sentieri della mente.
Se voglio sentire caldo, devo gelare
e tremare nei fuochi frigidi del purgatorio
la cui fiamma è di rose, e il fumo è di spini.
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Sangue che stilla, nostra sola bevanda;
carne sanguinolenta, nostro solo cibo:
e a dispetto di tutto questo ci piace pensare
che sostanzialmente siamo fatti davvero di carne e di sangue –
E ancora, a dispetto di tutto questo, parliamo del venerdí santo.
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V
E cosí eccomi qui, nel mezzo del cammin, dopo vent’anni —
vent’anni in gran parte aridi, gli anni dell’entre deux guerres —
cercando di imparare l’uso delle parole, e ogni tentativo
è tutto un ripartire dal principio, e un modo diverso di fallire
perché si è imparato a servirsi bene delle parole
soltanto quanto basta a dire quello che non si ha piú da dire, o nel modo in cui
non si è piú disposti a dirlo. E cosí ogni impresa
è un ripartire dal principio, un’incursione nel vago
con strumenti logori che si deteriorano sempre piú
nella grande confusione di sentimenti imprecisi,
indisciplinate squadre di emozioni. E quello che c’è da conquistare
con la forza e la sottomissione, è già stato scoperto
una volta o due, o molte altre volte, da uomini che non possiamo sperare
di emulare — ma non c’è competizione —
c’è soltanto la lotta per recuperare ciò che si è perduto
e trovato e perduto, e ancora: e adesso in circostanze
che non sembrano propizie. Ma forse non c’è guadagno né perdita.
Per noi rimane soltanto il tentare. Il resto non ci riguarda.
Casa è il punto da cui si parte. Man mano che invecchiamo
il mondo diventa piú estraneo, la trama piú complicata
di morti e di vivi. Non il momento intenso
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isolato, senza prima né poi,
ma tutta una vita che brucia in ogni momento
e non la vita intera di un uomo soltanto
ma la vita di vecchie pietre che non si possono decifrare.
C’è un tempo per la sera con la luce delle stelle
un tempo per la sera al paralume
(la sera con l’album delle fotografie).
L’amore è piú vicino a sé stesso
quando il qui e l’ora non importano piú.
I vecchi dovrebbero essere esploratori,
il qui e l’ora non importano
noi dobbiamo muovere ancora, e ancora
verso un’altra intensità
per un’unione piú completa, una comunione piú profonda
attraverso il buio freddo e la vuota desolazione,
il grido dell’onda, il grido del vento, la vastità d’acqua
della procellaria e del delfino. Nella mia fine è il mio principio.
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EAST COKER
di T.S. Eliot
(dai Quattro Quartetti)
nella versione di Massimo Scrignòli
è il numero 2 della collana: volgere
Immagine: The Needle Rock,
fotografia di autore ignoto, primi anni del ‘900.
9 Dicembre 2005
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