Parte 2 - Pro Varallo Pombia
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Parte 2 - Pro Varallo Pombia
Il primo Visconte di Pombia si trova nell’ 841 (Ved. Le più antiche carte dell'archivio di San Gaudenzio di Novara, doc. 1°: "Maginardo, Visconte di Pombia, dona alla Chiesa di San Gaudenzio un podere in Garbagna (giugno 841) " "... ego Maginardo ex genere Francorum Vice Comes Plumbiense abitator in loco Casaliglo ..."). Un successivo documento del 16 aprile 867 (n° 243, cod. dip. lang.) porta: "Gnerulfus ministeriali domni Imperatori di legge salica, per mezzo del giudice Pietro del fu Paolo, e del suo vassallo Ercembaldo, stabilisce di elargire in elemosina i beni da lui posseduti: "... tam in Valetelina iudicairia Mediolanensis et in Casale iudiciaria Plumbiensis". Essendo il termine "iudiciaria" una dizione longobardica per le località che avevano una propria giurisdizione, è accreditata da questo documento l'ipotesi dell'esistenza del Ducato di Pombia (Gabotto "Per la storia Novarese nell'Alto Medioevo - Ducati e Comitati", B.S.S.N. 1917 n° 1-2). Tale termine fu poi usato nel periodo Franco per le Contee rurali. In un'altra carta, già da noi menzionata, troviamo: “(17-7-885) Raginaldus Archidiaconus e Vicedominus sancte novariensis ecclesie, figli bone memorie Rapaldi de castro Plumbiae" dona alla Luminaria della Chiesa di Novara un campo in Mergozzo. Fra i testimoni figura "Madalberti qui beto vocatur filio Ioannemperti de Plumbia - Luoni de Uuaralo". Il re Berengario dà a Leone, Visdomino della Chiesa di Novara, fra il 911 e il 915 la facoltà di costruire castelli in propriis suis rebus finibus Plumbiensis Comitatus, in vocabulis villulis in sunt Peronate, Terdoblade, Cammari ed Galliade; nello stesso periodo dona alla Chiesa di S. Maria "mansos duos in villa Nebbiola actenus pertinentes de Comitato Plumbiense, cum omni eorum integritate" (Gabotto o.c.). Successivamente nell'Aprile del 942, tale Arnaldo di Biulaco lascia per testamento alla Chiesa di S. Maria al monte sopra Varese, proprietà "in vico et fundo Cassiate Comitatum Plumbiense" (Cod. Dip. Lang. Doc. 567). Da queste carte si ha notizia diretta che fra il 911 e il 915 Pombia è già sede di Comitato, ma non compare sino ad ora nessun Conte di Pombia. Nel documento 70 delle Carte dell'Archivio Capitolare di S. Maria in Novara, troviamo tal Elgerico del fu Manginardo, Conte, che vende a Uberto, Vescovo di Parma, la metà di un suo castello "in Comitato Plombiensis locus quae dicitur Meecia". TAV. IV - AGRO NOVARESE NEL MEDIO EVO Carta ricopiata dalla carta geografica del Giulini in “ Ager Mediolanensis Aevi”. PARTE QUINTA contenuta V SOMMARIO DI STORIA GENERALE ITALIANA 1-5 S M E M B R A M E N T O E R O D E L S A C R O R O M A N O I M P Per meglio inquadrare questo periodo e i successivi occorre, a nostro avviso, dare un breve ragguaglio della storia generale italiana. Carlo Magno, sconfitti i Longobardi, divenuto signore d'Italia, assoggettati Sassoni, Bavari, Longobardi e Slavi ripristinò in parte l'Impero Romano d'occidente. I suoi successori non riuscirono a conservare tale opera e con la morte di Carlo il Grosso (888) l'impero si smembrò. I tedeschi proclamarono re Arnolfo, duca di Carinzia, i feudatari Italiani elessero re Berengario, duca del Friuli, il cui dominio era limitato ai precedenti Ducati Longobardi. Il suo regno è tribolato: la Chiesa tenta di far cingere la corona al duca di Carinzia ma Berengario riesce a mantenerla finché non è ucciso a tradimento a Verona nel 924. Allora i feudatari eleggono re Ugo di Provenza, il quale, ritirandosi dopo qualche anno, lascia come erede il figlio Lotario, sotto la tutela di Berengario II, Marchese d'Ivrea. Morto precocemente Lotario, Berengario II rimane l'unico sovrano (950). A questi si associa il figlio Adalberto, cui Berengario vorrebbe dare in sposa la vedova di Lotario, Adelaide, che rifiutatasi e fatta prigioniera, riesce a fuggire e a chiedere aiuto al re di Germania Ottone I. Ottone scende in Italia, si porta a Pavia, dove sposa Adelaide e con essa torna in Germania. Berengario, che è fuggito d'innanzi a Ottone, tenta un accordo dichiarandosi vassallo del tedesco. I feudatari Italiani richiamano di nuovo Ottone che nel 961 rientra in Italia e a Pavia si fa proclamare re d'Italia. A Pombia il 6-9-957, moriva forse di veleno Liutulfo, figlio di Ottone, che era sceso in Italia a combattere Berengario II (il Bascapè nell'opera "Novaria Sacra", ed. 1878, tradotta dal Ravizza, ricorda che nel castello di Pombia c'era un sarcofago con l'iscrizione: LITULPHUS), dopo averlo assediato e scacciato dall'isola di San Giulio d'Orta. Berengario fuggì nella rocca di San Leo presso Urbino, mentre la moglie, al sopraggiungere di Ottone, si rinchiudeva nuovamente nell'isola si San Giulio d'Orta, ripresa, nel frattempo dai partigiani di Berengario II. Nel 962 Ottone assedia l'isola, la coraggiosa regina Willa gli resiste per ben settanta giorni, poi si arrende ed è lasciata libera di raggiungere il marito che nel frattempo si era rifugiato a Monte Feltro. La lotta tra Berengario II da una parte e la chiesa con i vescovi dall'altra aveva fatto sì che questi perdessero privilegi e terre che in seguito Ottone I restituiva loro. A Ottone I successe il figlio Ottone II (973-983) morto giovane lasciando come successore Ottone III, morto a soli ventidue anni. L'improvvisa scomparsa del terzo Ottone offerse ai feudatari Italiani la possibilità di una rivincita rivendicando l'indipendenza del regno d'Italia. Venne così eletto re d'Italia Arduino, Marchese d'Ivrea, nell'anno 1004. Questi era già molto noto per le sue lotte con i Vescovi piemontesi. L'Imperatore di Germania, Enrico II, chiamato dai Vescovi calò in Italia costringendo Arduino, abbandonato da tutti nei momenti di bisogno, a ritirarsi nei suoi feudi e si fece incoronare a Pavia re d'Italia. Ripartito Enrico II, egli riprese il potere per un decennio (1004-1O14). alla vittoria dei Tornielli furono poi distrutti (fra questi i castelli di Borgosesia, Pombia, Revislate, e altri; Rizzo “Compendio di Storia Novarese”). Avido di vendette non ebbe però forze sufficienti per fronteggiare i Vescovi e i Signori laici, benché riuscisse a togliere molti privilegi e terre specialmente ai primi. Tornato Enrico verso la fine del 1013 il Marchese si rinchiuse nelle sue rocche Canavesane finché stanco, ammalato, impotente, rimasto solo ad affrontare la situazione, si ritirò nel monastero della Fruttuaria ove morì nel 1015. I suoi sostenitori rimasero così soli a lottare contro i Vescovi, pure essendo certi di soccombere. Con la morte di Enrico II (1024), fatto santo dalla Chiesa, si estinse la casa di Sassonia e la corona passò con Corrado II (1024-1039) alla casa di Franconia o Salica. La potenza dei Vescovi-Conti, di nomina imperiale, era divenuta enorme a danno dei grandi e piccoli feudatari laici. Il loro massimo rappresentante fu Ariberto, Arcivescovo di Milano che si fece nominare da Corrado II Vicario Imperiale. A Corrado II successe Enrico III (1039-1056) poi Enrico IV: durante questo periodo la spinta antifeudale dei comuni nascenti cominciava a manifestarsi mentre ancora fervevano le lotte per le investiture fra il Re e il Papato. Con Enrico V (1106-1125) si arrivò al famoso concordato di Worms (1122) con il quale il sovrano rinunciava a qualsiasi ingerenza nell'elezione dei Papi e dei Vescovi, mentre il Papa riconosceva all'imperatore il diritto di dare ai Vescovi i feudi, non con lo scettro ma con il pastorale. 2-5 N A S C I T A D E I C O M U N I Nel periodo feudale i Vescovi-Conti governavano le città e la loro giurisdizione si estendeva anche ai territori circostanti, ove si trovavano i piccoli feudatari vassalli del Vescovo. Nelle numerose lotte di quel tempo i Vescovi-Conti sono costretti a chiedere l'aiuto dei feudatari minori e del popolo per costituire un vero e proprio esercito cittadino. I feudatari, però, chiedono in cambio di cooperare nel governo della città con la costituzione di un "Consiglio" degli uomini più eminenti, presieduti da un Vice-Comes (Visconte) che sostituisce il Vescovo nelle cose politiche e militari. A poco a poco, queste nuove istituzioni prendono il sopravvento e al vescovo, rimangono soltanto le mansioni di carattere religioso. Il governo cittadino diventa laico, regolare e mirante al benessere di tutti: nasce così il Comune. Compaiono i primi Consoli, i Podestà, i Capitani del popolo e i Consigli. Sorgono le corporazioni delle industrie, dell’artigianato e del commercio. In una parola ci si avvia verso una nuova era. Il Comune, sorto con intento di sostituirsi al feudalesimo, era riuscito a imporsi, o quasi, nell’Italia settentrionale. Sostituitosi ai feudatari nel godimento delle terre, si trovò ad assumere una posizione di rottura nei confronti dell’Imperatore, che, per diritto feudale aveva la prerogativa di imporre balzelli, nominare magistrati, ecc. 3-5 G U E L F I E G H I B E L L I N I I Comuni avevano avuto modo di raggiungere tale condizione anche poiché l’Imperatore era sconvolto della rivalità di due grandi Case in lizza per il trono: la Casa di Svevia o di Honenstaufen i cui seguaci erano detti Ghibellini, dal castello di Waiblinghen, e la Casa di Sassonia, che, da Welf, fondatore della casa di Baviera, era chiamata Guelfa. In Italia, invece, i partigiani della Casa di Svevia, che combatteva i Comuni e il Papa erano i Ghibellini, i Guelfi erano i sostenitori dei Comuni e della Chiesa. 4-5 I L B A R B A R O S S A ’ I M P E R A- L O T T A T R A C O M U N I E L T O R E Nel 1152, in Germania, le lotte dinastiche cessarono con l’ascesa al trono di Federico di Svevia, “IL BARBAROSSA”, ghibellino. L’ambizione di Federico è grande, vorrebbe restaurare l’autorità imperiale in Italia, dove fra i liberi Comuni primeggia Milano, tanto potente da minacciare il Marchese del Monferrato, fautore dell’Imperatore. Nel 1154 Federico scende in Italia per rivendicare i diritti Imperiali: Milano si oppone ed è messa al bando. Incendia Chieri, Asti e distrugge Tortona, Trecate e Galliate, alleate di Milano, poi, a Pavia, assume la corona di Re d’Italia e successivamente a Roma, il 18 giugno 1155, riceve dal Papa la corona Imperiale. Tornato in Germania, Milano si riprende, ricostruisce Tortona e apre la lotta contro le città ghibelline. Nell’estate del 1158 il Barbarossa è di nuovo in Italia, a lui si uniscono le ghibelline Lodi, Como, Pavia e Cremona. Assediato Milano, questa è costretta alla resa, poi Federico, a Roncaglia, dichiara di non riconoscere le usurpazioni dei Comuni. Nella città invia podestà imperiali, ma i Comuni, Milano in testa, si rivoltano e scacciano i podestà. Allora Federico distrugge Crema, si precipita su Milano, la assedia e la fa distruggere, nel 1162, dai Pavesi e Cremonesi, quindi rientra in Germania. La rivolta contro l’imperatore è ormai in atto, Milano risorge, le rivalità scompaiono e i rappresentanti dei grandi Comuni Veneto-Lombardi a Pontida fondano la Lega Lombarda cui aderiscono i Comuni dell’Emilia e del Piemonte (fra cui Novara). Per tagliare la via fra il Marchese del Monferrato e Pavia, ghibelline più che mai, la Lega Lombarda fonda la città di Alessandria. Nel 1174 Federico è di nuovo in Italia, devasta la Lombardia, e dopo un assedio di sei mesi prende Alessandria, ma a Legnano il 29 maggio 1176 è sconfitto in maniera disastrosa dalla Lega Lombarda. Nel 1177 a Venezia firma col Papa e con i delegati dei Comuni una tregua di sei anni, mentre nel 1183, col trattato di Costanza, riconosce i diritti dei Comuni a patto che questi riconoscano l’autorità Imperiale. Non ci dilungheremo oltre in questa cronologia storica, diremo soltanto che la lotta fra i Comuni e gli Imperatori continuò con alterne vicende. Ricorderemo Federico II, figlio del Barbarossa, celebre per le sue dispute con la Chiesa; Lodovico di Baviera, il Bavaro, Imperatore dal 1327 al 1347 e Giovanni di Boemia che fra il 1330 e il 1333, anno del suo ritorno in Boemia, era divenuto Signore di molte città, fra cui Novara, Pavia e Vercelli. 5-5 L E S I G N O R I E I V I S C O N T I I Comuni ormai avevano fatto il loro tempo: a essi subentrarono le Signorie, sorta di dittature ereditarie che riconoscevano la sovranità dell’Imperatore. L’istituzione Comunale perse di importanza politica riducendosi a semplice organismo amministrativo. A Milano come capi-popolo primeggiavano i Torriani, guelfi, contro i quali si posero i Visconti, ghibellini, assurti a grande potenza. Dal 1240 al 1277 prevalsero i Torriani, ma a Desio in quell’anno l’Arcivescovo Ottone Visconti sconfisse Napoleone Della Torre, facendolo poi morire barbaramente in gabbia, esposto al pubblico ludibrio. Secondo il Bascapè nel 1275 Ottone Visconti occupò Pombia e il suo castello che sembra fosse stato tolto precedentemente dai Torriani alla Chiesa di Novara. Matteo Visconti, figlio di Ottone, fu poi espulso dalla città dai Torriani, ma nel 1311 riuscì ad avere il sopravvento e a stabilire definitivamente la Signoria Viscontea. Prima di essere Arcivescovo di Milano, Ottone Visconti fu Podestà di Novara nel 1260 e canonico della Cattedrale nel 1261. A Novara intorno al 1310 le lotte fra i Sanguigni (famiglia Brusati) e i Rotondi (famiglia Tornielli) sfociarono nella cacciata dei Sanguigni dalla città che si rifugiarono nei loro castelli che, in seguito alla vittoria dei Tornielli furono poi distrutti (fra questi i castelli di Borgosesia, Pombia, Revislate, e altri; - Rizzo “Compendio di Storia Novarese”). Approfittando delle lotte fra le fazioni Novaresi, essendo morto nel 1329 il Vescovo Uguccione Borromeo, gli successe Giovanni Visconti figlio di Matteo. Prima di essere Vescovo, Giovanni Visconti era stato nominato Cardinale dall’antipapa Nicolò V, creato da Ludovico il Bavaro. Al rientro in Germania di Ludovico, Il Visconti si rappacificò col Papa, dal quale fu nominato Vescovo di Novara. Resi impotenti i capi delle fazioni rivali Novaresi con uno stratagemma, intenzionato a ripristinare l’autorità del Vescovo sulle terre Novaresi e di Pombia, il Visconti unì questi territori a quelli già appartenenti alla sua famiglia. Il Papa che approvava il suo operato, lo fece amministratore della Diocesi di Milano e nel 1342 Arcivescovo. Passata sotto la Diocesi di Milano, Novara e il contado rimasero sotto la Signoria dei Visconti. L’apogeo dei Visconti si ebbe con Gian Galeazzo che nel 1395 ottiene dall’Imperatore il titolo di Duca di Milano. Nelle lotte fra Gian Galeazzo e il Marchese del Monferrato che nel 1356 aveva occupato Novara e posto un castellano a Pombia (Bascapè o.c.), il Visconti nel 1958 recuperò Novara e per ripagarsi incendiò e distrusse borghi e villaggi fra cui Pombia e Varallo Pombia (Bascapè o.c. - Giovannetti “Le risaie Novaresi”). Per non dilungarsi troppo, facciamo un bel balzo in avanti e vediamo che nel 1450, a Milano, prende il sopravvento Francesco Sforza. 6-5 E S E G L I S F O R Z A - L A D O M I N A Z I O N E F R A N C A Francesco Sforza successe fraudolentemente Ludovico il Moro al quale si attribuisce la responsabilità di avere nuovamente data l’Italia allo straniero. Infatti, nel 1494 Carlo VIII di Francia scendeva in Italia, invitato dal Moro che temeva la vendetta del Re di Napoli, Ludovico, infatti, si era impadronito del Ducato dopo avere ucciso Galeazzo Maria Sforza, suo fratello, e rinchiuso il figlio di questi nel castello di Pavia. In seguito ad alterne vicende i principi Italiani sconfissero a Fornovo (8 luglio 1495) Carlo VIII. Luigi XII, re di Francia, poiché accampava pretese di successione sul ducato dei Visconti, d’accordo con i Veneziani, dopo avere messo in fuga Ludovico il Moro, si impadronì di Milano. Il Moro tentò la riconquista del ducato, ma il francese corrompe i mercenari di Ludovico, e quando a Novara i due eserciti si incontrarono non si combatterono e il Moro abbandonato fu fatto prigioniero e portato a morire in Francia. Per opera di Papa Giulio II, promotore con i Veneziani e Spagnoli della Lega Santa, i Francesi dovettero abbandonare l’Italia. Il ducato di Milano venne, quindi, assegnato a Massimiliano Sforza, figlio del Moro, ma sotto la tutela della Spagna. Nel 1515 Francesco I re di Francia, succeduto a Luigi XVI, rivendicando diritti su Milano se ne impadronisce (battaglia di Melegnano). Carlo V, re di Spagna, Imperatore d’Austria, re di Napoli, in lotta con la Francia per il predominio in Europa, nel 1521 scaccia i Francesi dal Ducato di Milano e vi insedia l’ultimo dei figli del Moro: Francesco Maria. Verso la fine del 1523 un nuovo esercito francese scende in Italia e rioccupa parte della Lombardia, ma l’esercito del Borbone lo ricaccia di là del Ticino e il 30 aprile 1524, a Romagnano Sesia, sconfigge i Francesi. Francesco I non cede, ma, successivamente, a Pavia, fra il Ticino e il Po, è sconfitto e fatto prigioniero. Morto l’ultimo Sforza, Carlo V rivendicò la successione del ducato di Milano. 7-5 L A D O M I N A Z I O N S P A G N O L A Ha così inizio la dominazione Spagnola: in questo periodo il Novarese è tormentato dalla continua lotta fra i Francesi e Carlo V fino a quando quest’ultimo non ne rimase l’assoluto dominatore. Carlo V cede il Novarese a Pier Luigi Farnese, nipote di Paolo III. Assassinato il Farnese, morto Paolo III, il Marchesato di Novara passa a un certo Dal Monte, nipote di Giulio III. La Francia ne trae occasione per riprendere le ostilità che cessano solamente con la morte del Dal Monte. Con la “Pace di Castel Cambresis” del 1559 si consolidò il predominio Spagnolo sull’Italia. Il Ducato di Milano si estendeva dall’Adda al Sesia. Il dominio Spagnolo fu dannoso per l’Italia: il disordine amministrativo, l’intollerabile contegno di una nobiltà debilitata, il pesantissimo aggravio fiscale, la terribile miseria e l’ignoranza sono gli effetti di tale dominazione. In questo clima scoppiarono rivolte sempre soffocate dagli Spagnoli, mentre i Signori, i Nobili favorivano il padrone Spagnolo. La dominazione Spagnola in Italia durò fino alla Pace di Utrecht-Rastad (1713-1714) e a essa subentrò la dominazione Austriaca. Finalmente con gli accordi di Vienna del 3 ottobre 1735 e ancora con quelli di Vienna del 1 novembre 1738, Novara, fino al Ticino, era annessa al Regno Sabaudo. Con il trattato di Worms del 13 settembre 1743 passava al Re di Sardegna l’Alto Novarese e il Vigevanese. Si formava così la provincia novarese comprendente la Lomellina, il Vigevanese, la bassa e alta Ossola, il Lago Maggiore e la riviera di Orta cui rinunciavano i Vescovi il 3 giugno 1777, e parte della Valsesia. 1-5 S M E M B R A M E N T O P E R O D E L S A C R O R O M A N O I M Per meglio inquadrare questo periodo e i successivi occorre, a nostro avviso, dare un breve ragguaglio della storia generale italiana. Carlo Magno, sconfitti i Longobardi, divenuto signore d'Italia, assoggettati Sassoni, Bavari, Longobardi e Slavi ripristinò in parte l'Impero Romano d'occidente. I suoi successori non riuscirono a conservare tale opera e con la morte di Carlo il Grosso (888) l'impero si smembrò. I tedeschi proclamarono re Arnolfo, duca di Carinzia, i feudatari Italiani elessero re Berengario, duca del Friuli, il cui dominio era limitato ai precedenti Ducati Longobardi. Il suo regno è tribolato: la Chiesa tenta di far cingere la corona al duca di Carinzia ma Berengario riesce a mantenerla finché non è ucciso a tradimento a Verona nel 924. Allora i feudatari eleggono re Ugo di Provenza, il quale, ritirandosi dopo qualche anno, lascia come erede il figlio Lotario, sotto la tutela di Berengario II, Marchese d'Ivrea. Morto precocemente Lotario, Berengario II rimane l'unico sovrano (950). A questi si associa il figlio Adalberto, cui Berengario vorrebbe dare in sposa la vedova di Lotario, Adelaide, che rifiutatasi e fatta prigioniera, riesce a fuggire e a chiedere aiuto al re di Germania Ottone I. Ottone scende in Italia, si porta a Pavia, dove sposa Adelaide e con essa torna in Germania. Berengario, che è fuggito d'innanzi a Ottone, tenta un accordo dichiarandosi vassallo del tedesco. I feudatari Italiani richiamano di nuovo Ottone che nel 961 rientra in Italia e a Pavia si fa proclamare re d'Italia. A Pombia il 6-9-957, moriva forse di veleno Liutulfo, figlio di Ottone, che era sceso in Italia a combattere Berengario II (il Bascapè nell'opera "Novaria Sacra", ed. 1878, tradotta dal Ravizza, ricorda che nel castello di Pombia c'era un sarcofago con l'iscrizione: LITULPHUS), dopo averlo assediato e scacciato dall'isola di San Giulio d'Orta. Berengario fuggì nella rocca di San Leo presso Urbino, mentre la moglie, al sopraggiungere di Ottone, si rinchiudeva nuovamente nell'isola si San Giulio d'Orta, ripresa, nel frattempo dai partigiani di Berengario II. Nel 962 Ottone assedia l'isola, la coraggiosa regina Willa gli resiste per ben settanta giorni, poi si arrende ed è lasciata libera di raggiungere il marito che nel frattempo si era rifugiato a Monte Feltro. La lotta tra Berengario II da una parte e la chiesa con i vescovi dall'altra aveva fatto sì che questi perdessero privilegi e terre che in seguito Ottone I restituiva loro. A Ottone I successe il figlio Ottone II (973-983) morto giovane lasciando come successore Ottone III, morto a soli ventidue anni. L'improvvisa scomparsa del terzo Ottone offerse ai feudatari Italiani la possibilità di una rivincita rivendicando l'indipendenza del regno d'Italia. Venne così eletto re d'Italia Arduino, Marchese d'Ivrea, nell'anno 1004. Questi era già molto noto per le sue lotte con i Vescovi piemontesi. L'Imperatore di Germania, Enrico II, chiamato dai Vescovi calò in Italia costringendo Arduino, abbandonato da tutti nei momenti di bisogno, a ritirarsi nei suoi feudi e si fece incoronare a Pavia re d'Italia. Ripartito Enrico II, egli riprese il potere per un decennio (1004-1O14). Avido di vendette non ebbe però forze sufficienti per fronteggiare i Vescovi e i Signori laici, benché riuscisse a togliere molti privilegi e terre specialmente ai primi. Tornato Enrico verso la fine del 1013 il Marchese si rinchiuse nelle sue rocche Canavesane finché stanco, ammalato, impotente, rimasto solo ad affrontare la situazione, si ritirò nel monastero della Fruttuaria ove morì nel 1015. I suoi sostenitori rimasero così soli a lottare contro i Vescovi, pure essendo certi di soccombere. Con la morte di Enrico II (1024), fatto santo dalla Chiesa, si estinse la casa di Sassonia e la corona passò con Corrado II (1024-1039) alla casa di Franconia o Salica. La potenza dei Vescovi-Conti, di nomina imperiale, era divenuta enorme a danno dei grandi e piccoli feudatari laici. Il loro massimo rappresentante fu Ariberto, Arcivescovo di Milano che si fece nominare da Corrado II Vicario Imperiale. A Corrado II successe Enrico III (1039-1056) poi Enrico IV: durante questo periodo la spinta antifeudale dei comuni nascenti cominciava a manifestarsi mentre ancora fervevano le lotte per le investiture fra il Re e il Papato. Con Enrico V (1106-1125) si arrivò al famoso concordato di Worms (1122) con il quale il sovrano rinunciava a qualsiasi ingerenza nell'elezione dei Papi e dei Vescovi, mentre il Papa riconosceva all'imperatore il diritto di dare ai Vescovi i feudi, non con lo scettro ma con il pastorale. 2-5 N A S C I T A D E I C O M U N I Nel periodo feudale i Vescovi-Conti governavano le città e la loro giurisdizione si estendeva anche ai territori circostanti, ove si trovavano i piccoli feudatari vassalli del Vescovo. Nelle numerose lotte di quel tempo i Vescovi-Conti sono costretti a chiedere l'aiuto dei feudatari minori e del popolo per costituire un vero e proprio esercito cittadino. I feudatari, però, chiedono in cambio di cooperare nel governo della città con la costituzione di un "Consiglio" degli uomini più eminenti, presieduti da un Vice-Comes (Visconte) che sostituisce il Vescovo nelle cose politiche e militari. A poco a poco, queste nuove istituzioni prendono il sopravvento e al vescovo, rimangono soltanto le mansioni di carattere religioso. Il governo cittadino diventa laico, regolare e mirante al benessere di tutti: nasce così il Comune. Compaiono i primi Consoli, i Podestà, i Capitani del popolo e i Consigli. Sorgono le corporazioni delle industrie, dell’artigianato e del commercio. In una parola ci si avvia verso una nuova era. Il Comune, sorto con intento di sostituirsi al feudalesimo, era riuscito a imporsi, o quasi, nell’Italia settentrionale. Sostituitosi ai feudatari nel godimento delle terre, si trovò ad assumere una posizione di rottura nei confronti dell’Imperatore, che, per diritto feudale aveva la prerogativa di imporre balzelli, nominare magistrati, ecc. 3-5 G U E L F I E G H I B E L L I N I I Comuni avevano avuto modo di raggiungere tale condizione anche poiché l’Imperatore era sconvolto della rivalità di due grandi Case in lizza per il trono: la Casa di Svevia o di Honenstaufen i cui seguaci erano detti Ghibellini, dal castello di Waiblinghen, e la Casa di Sassonia, che, da Welf, fondatore della casa di Baviera, era chiamata Guelfa. In Italia, invece, i partigiani della Casa di Svevia, che combatteva i Comuni e il Papa erano i Ghibellini, i Guelfi erano i sostenitori dei Comuni e della Chiesa. 4-5 I L B A R B A R O S S A L O T T A E L ’ I M P ER A T O R E T R A C O M U N I Nel 1152, in Germania, le lotte dinastiche cessarono con l’ascesa al trono di Federico di Svevia, “IL BARBAROSSA”, ghibellino. L’ambizione di Federico è grande, vorrebbe restaurare l’autorità imperiale in Italia, dove fra i liberi Comuni primeggia Milano, tanto potente da minacciare il Marchese del Monferrato, fautore dell’Imperatore. Nel 1154 Federico scende in Italia per rivendicare i diritti Imperiali: Milano si oppone ed è messa al bando. Incendia Chieri, Asti e distrugge Tortona, Trecate e Galliate, alleate di Milano, poi, a Pavia, assume la corona di Re d’Italia e successivamente a Roma, il 18 giugno 1155, riceve dal Papa la corona Imperiale. Tornato in Germania, Milano si riprende, ricostruisce Tortona e apre la lotta contro le città ghibelline. Nell’estate del 1158 il Barbarossa è di nuovo in Italia, a lui si uniscono le ghibelline Lodi, Como, Pavia e Cremona. Assediato Milano, questa è costretta alla resa, poi Federico, a Roncaglia, dichiara di non riconoscere le usurpazioni dei Comuni. Nella città invia podestà imperiali, ma i Comuni, Milano in testa, si rivoltano e scacciano i podestà. Allora Federico distrugge Crema, si precipita su Milano, la assedia e la fa distruggere, nel 1162, dai Pavesi e Cremonesi, quindi rientra in Germania. La rivolta contro l’imperatore è ormai in atto, Milano risorge, le rivalità scompaiono e i rappresentanti dei grandi Comuni Veneto-Lombardi a Pontida fondano la Lega Lombarda cui aderiscono i Comuni dell’Emilia e del Piemonte (fra cui Novara). Per tagliare la via fra il Marchese del Monferrato e Pavia, ghibelline più che mai, la Lega Lombarda fonda la città di Alessandria. Nel 1174 Federico è di nuovo in Italia, devasta la Lombardia, e dopo un assedio di sei mesi prende Alessandria, ma a Legnano il 29 maggio 1176 è sconfitto in maniera disastrosa dalla Lega Lombarda. Nel 1177 a Venezia firma col Papa e con i delegati dei Comuni una tregua di sei anni, mentre nel 1183, col trattato di Costanza, riconosce i diritti dei Comuni a patto che questi riconoscano l’autorità Imperiale. Non ci dilungheremo oltre in questa cronologia storica, diremo soltanto che la lotta fra i Comuni e gli Imperatori continuò con alterne vicende. Ricorderemo Federico II, figlio del Barbarossa, celebre per le sue dispute con la Chiesa; Lodovico di Baviera, il Bavaro, Imperatore dal 1327 al 1347 e Giovanni di Boemia che fra il 1330 e il 1333, anno del suo ritorno in Boemia, era divenuto Signore di molte città, fra cui Novara, Pavia e Vercelli. 5-5 L E S I G N O R I E I V I S C O N T I I Comuni ormai avevano fatto il loro tempo: a essi subentrarono le Signorie, sorta di dittature ereditarie che riconoscevano la sovranità dell’Imperatore. L’istituzione Comunale perse di importanza politica riducendosi a semplice organismo amministrativo. A Milano come capi-popolo primeggiavano i Torriani, guelfi, contro i quali si posero i Visconti, ghibellini, assurti a grande potenza. Dal 1240 al 1277 prevalsero i Torriani, ma a Desio in quell’anno l’Arcivescovo Ottone Visconti sconfisse Napoleone Della Torre, facendolo poi morire barbaramente in gabbia, esposto al pubblico ludibrio. Secondo il Bascapè nel 1275 Ottone Visconti occupò Pombia e il suo castello che sembra fosse stato tolto precedentemente dai Torriani alla Chiesa di Novara. Matteo Visconti, figlio di Ottone, fu poi espulso dalla città dai Torriani, ma nel 1311 riuscì ad avere il sopravvento e a stabilire definitivamente la Signoria Viscontea. Prima di essere Arcivescovo di Milano, Ottone Visconti fu Podestà di Novara nel 1260 e canonico della Cattedrale nel 1261. A Novara intorno al 1310 le lotte fra i Sanguigni (famiglia Brusati) e i Rotondi (famiglia Tornielli) sfociarono nella cacciata dei Sanguigni dalla città che si rifugiarono nei loro castelli che, in seguito Approfittando delle lotte fra le fazioni Novaresi, essendo morto nel 1329 il Vescovo Uguccione Borromeo, gli successe Giovanni Visconti figlio di Matteo. Prima di essere Vescovo, Giovanni Visconti era stato nominato Cardinale dall’antipapa Nicolò V, creato da Ludovico il Bavaro. Al rientro in Germania di Ludovico, Il Visconti si rappacificò col Papa, dal quale fu nominato Vescovo di Novara. Resi impotenti i capi delle fazioni rivali Novaresi con uno stratagemma, intenzionato a ripristinare l’autorità del Vescovo sulle terre Novaresi e di Pombia, il Visconti unì questi territori a quelli già appartenenti alla sua famiglia. Il Papa che approvava il suo operato, lo fece amministratore della Diocesi di Milano e nel 1342 Arcivescovo. Passata sotto la Diocesi di Milano, Novara e il contado rimasero sotto la Signoria dei Visconti. L’apogeo dei Visconti si ebbe con Gian Galeazzo che nel 1395 ottiene dall’Imperatore il titolo di Duca di Milano. Nelle lotte fra Gian Galeazzo e il Marchese del Monferrato che nel 1356 aveva occupato Novara e posto un castellano a Pombia (Bascapè o.c.), il Visconti nel 1958 recuperò Novara e per ripagarsi incendiò e distrusse borghi e villaggi fra cui Pombia e Varallo Pombia (Bascapè o.c. - Giovannetti “Le risaie Novaresi”). Per non dilungarsi troppo, facciamo un bel balzo in avanti e vediamo che nel 1450, a Milano, prende il sopravvento Francesco Sforza. 6-5 G L I C E S E S F O R Z A - L A D O M I N A Z I O N E F R A N A Francesco Sforza successe fraudolentemente Ludovico il Moro al quale si attribuisce la responsabilità di avere nuovamente data l’Italia allo straniero. Infatti, nel 1494 Carlo VIII di Francia scendeva in Italia, invitato dal Moro che temeva la vendetta del Re di Napoli, Ludovico, infatti, si era impadronito del Ducato dopo avere ucciso Galeazzo Maria Sforza, suo fratello, e rinchiuso il figlio di questi nel castello di Pavia. In seguito ad alterne vicende i principi Italiani sconfissero a Fornovo (8 luglio 1495) Carlo VIII. Luigi XII, re di Francia, poiché accampava pretese di successione sul ducato dei Visconti, d’accordo con i Veneziani, dopo avere messo in fuga Ludovico il Moro, si impadronì di Milano. Il Moro tentò la riconquista del ducato, ma il francese corrompe i mercenari di Ludovico, e quando a Novara i due eserciti si incontrarono non si combatterono e il Moro abbandonato fu fatto prigioniero e portato a morire in Francia. Per opera di Papa Giulio II, promotore con i Veneziani e Spagnoli della Lega Santa, i Francesi dovettero abbandonare l’Italia. Il ducato di Milano venne, quindi, assegnato a Massimiliano Sforza, figlio del Moro, ma sotto la tutela della Spagna. Nel 1515 Francesco I re di Francia, succeduto a Luigi XVI, rivendicando diritti su Milano se ne impadronisce (battaglia di Melegnano). Carlo V, re di Spagna, Imperatore d’Austria, re di Napoli, in lotta con la Francia per il predominio in Europa, nel 1521 scaccia i Francesi dal Ducato di Milano e vi insedia l’ultimo dei figli del Moro: Francesco Maria. Verso la fine del 1523 un nuovo esercito francese scende in Italia e rioccupa parte della Lombardia, ma l’esercito del Borbone lo ricaccia di là del Ticino e il 30 aprile 1524, a Romagnano Sesia, sconfigge i Francesi. Francesco I non cede, ma, successivamente, a Pavia, fra il Ticino e il Po, è sconfitto e fatto prigioniero. Morto l’ultimo Sforza, Carlo V rivendicò la successione del ducato di Milano. 7-5 L A D O M I N A Z I O N E S P A G N O L A Ha così inizio la dominazione Spagnola: in questo periodo il Novarese è tormentato dalla continua lotta fra i Francesi e Carlo V fino a quando quest’ultimo non ne rimase l’assoluto dominatore. Carlo V cede il Novarese a Pier Luigi Farnese, nipote di Paolo III. Assassinato il Farnese, morto Paolo III, il Marchesato di Novara passa a un certo Dal Monte, nipote di Giulio III. La Francia ne trae occasione per riprendere le ostilità che cessano solamente con la morte del Dal Monte. Con la “Pace di Castel Cambresis” del 1559 si consolidò il predominio Spagnolo sull’Italia. Il Ducato di Milano si estendeva dall’Adda al Sesia. Il dominio Spagnolo fu dannoso per l’Italia: il disordine amministrativo, l’intollerabile contegno di una nobiltà debilitata, il pesantissimo aggravio fiscale, la terribile miseria e l’ignoranza sono gli effetti di tale dominazione. In questo clima scoppiarono rivolte sempre soffocate dagli Spagnoli, mentre i Signori, i Nobili favorivano il padrone Spagnolo. La dominazione Spagnola in Italia durò fino alla Pace di Utrecht-Rastad (1713-1714) e a essa subentrò la dominazione Austriaca. Finalmente con gli accordi di Vienna del 3 ottobre 1735 e ancora con quelli di Vienna del 1 novembre 1738, Novara, fino al Ticino, era annessa al Regno Sabaudo. Con il trattato di Worms del 13 settembre 1743 passava al Re di Sardegna l’Alto Novarese e il Vigevanese. Si formava così la provincia novarese comprendente la Lomellina, il Vigevanese, la bassa e alta Ossola, il Lago Maggiore e la riviera di Orta cui rinunciavano i Vescovi il 3 giugno 1777, e parte della Valsesia. V PARTE SESTA VARALLO P. LEGATO AL CONTADO DI POMBIA 1-6 I C O N T I D I P O M B I A Nel diploma del 29 luglio 962 (C.A.S.M. di Novara) doc. 54, l’Imperatore Ottone I restituì alla Chiesa di Novara il Castello di San Giulio che Berengario II le aveva tolto, donando anche: “Quosdam res nostro iuri et dominatione actenus subiectas infra Comitatum Plumbiensen coniacentes, hoc est curtes duas Barazzolam et Aggredade”. In altra carta, doc. 56, compare Adalberto Conte di Pombia (4-11-962), “Adalbertus comes Comitatu huius Plumbiensis”. Il Gabotto (o.c.) sostiene che il Conte Adalberto sia un discendente del Marchese di Ivrea Ascanio I, forse suo zio. Nell’atto di permuta, doc. 58; fra Apualdo Vescovo di Novara e certo Dagiprando di Galliate (marzo 965) figura un altro Conte di altra casata: “Uuiberti filius quodam Angelbertj de loco Plumbia testis” . Ancora nella carta dell’Aprile 963, doc. 63, dove Apualdo, Vescovo di Novara, permuta beni in territorio di Conturbia con Anginone, si legge: “In eodem loco et fundo Plumbia dicitur a Lentjglaria coerjt ej da duas partes Dadonis comes”. Dadone, come dice il Gabotto, è il Conte del Comitato Pombiese: e, inoltre, è padre di Arduino re d’Italia e di Guiberto che successe ad Adalberto (ma per il momento non entriamo nella complicata questione della parentela tuttora in discussione). Nel doc. 103, del 28 novembre 991, compaiono altri figli di Dadone: “... nobis qui supra Ubertus comes et Uualbertus clericus germanis tollere presumat usque e uiginti”. Nel Cod. Dip. long. abbiamo prova di quanto sopra: in data 10 agosto 1000, in Ghemme, Guibertus, Comes filius bone memorie Dadoni, vende a prete Bornone in fundo et loco Bunio. Nel diploma di Ottone III, dato a Pavia, del 14 ottobre 1001, interviene anche “Wibertus comes filius bone memorie Dadonis itemque comitis”. (Gabotto o.c.) Dopo il 1000, signore di Pombia appare Uberto o Giuberto che, come Conte, agisce anche in Novara ed è sempre della stirpe di Dadone. Caduto Arduino, re d’Italia, i Vescovi cominciarono a vendicarsi dei presunti torti subiti. Infatti, il 10 giugno 1025 l’Imperatore Corrado, il Salico, concedeva al Vescovo di Novara, Pietro III l’intero Comitato di Pombia, ma gli eredi di Guiberto, per alcuni decenni, furono i veri padroni della Contea. La prova di ciò si ha nel fatto che il 4 luglio 1034 il Conte Adalberto del fu Uberto stando in Stodegarda, nel Comitato di Pombia, permuta dei beni. (Muratori R. A. M. E. tomo II) La casata dei Conti di Pombia si divise poi in tre rami: quello del Canavese, quello di Biandrate e infine quello Piacentino. Nominato Vescovo di Novara Riprando, parente dei Conti di Pombia, la contesa naturalmente s’acquietò (1039-1053) per non toccare e ledere i beni di famiglia. 2-6 L A C O N T E A D I P O M B I A Le origini di Pombia e di Varallo Pombia sono antichissime; archeologicamente sono comprese nell’area della Civiltà di Golasecca. Subentrati i Romani, verso la fine dell’impero, Pombia era Municipio con il titolo di Civitas. E’ presumibile che anche Varallo rivestisse notevole importanza come lo testimoniano la lapide e il tempio dedicati a Nettuno. Perché Pombia fosse diventata Municipio nessuno storico lo dice: l’unica traccia è rappresentata dagli scritti dell’Anonimo Ravennate e di Guido. La sua costituzione a Municipio è comunque provata dalla successiva trasformazione, per merito dei Longobardi, in Ducato, e in seguito a sede comitale. Riteniamo che la felice posizione geografica di Pombia – facile alla difesa, la vicinanza del Ticino e delle vie consolari, il castrum che presumibilmente vi sorgeva - e per ragioni di carattere politico e militare abbiano giocato un ruolo determinante per la sua creazione a Municipio, dopo l’ordinamento della “Lex Iulia Municipalis”. Pombia e Varallo, anche se geograficamente distanti un paio di chilometri, erano un tutt’uno nell’ambito politico e tali rimasero per parecchi secoli. Il termine “Municipio” non deve essere inteso nel significato moderno del termine, bensì come una circoscrizione territoriale comprendente diversi borghi sui quali la giurisdizione spettava al borgo predominante insignito del titolo. Con i Longobardi le circoscrizioni Romane Novaresi (Novaria, Plumbia, Laumellum, Staziona e Oxilla) non subirono modifiche e furono trasformate in “Ducati” e in seguito in “Gastaldati”. Si spostarono temporaneamente solamente i centri di due Municipi e si ebbe così i Ducati di San Giulio d’Orta, Bulgaria, Pombia e Lomello; per Ossola gli storici sono incerti. Caduti i Longobardi (773 d.C.) i Franchi trasformarono i Ducati in Comitati: si ebbe così la Contea di Pombia, di Bulgaria, di Lomello, di Orta-Stazzona, di Ossola. Inoltre fra il Sesia e l’Agogna si insediava il piccolo comitato di Fontaneto, che in seguito fu assorbito dai comitati maggiori. In pratica che cos’era questa contesissima Contea di Pombia? Il Duranti (Alpi Graie e Pennine) e il Giulini (Memorie della città di Milano e della campagna nei secoli bassi) dicono che la Contea di Pombia comprendeva, fra l’altro, Varallo Pombia, Conturbia, Divignano, Revislate, Agrate, Mezzomerico, Cressa, Suno, Vaprio, Momo, Alzate, Caltignaga, Oleggio, Bellinzago, Dulzago, Cavagliano, Cameri e forse anche Bornate, Galliate, Terdobbiate, Trecate, Olengo, Vespolate, Nibbiola, Stodegarda. Una prova che quest’ultima località appartenesse al Comitato di Pombia si ha nella carta prima citata del 4-7-1034. Questa Contea, quindi, era un grande e ricco possedimento che avrebbe destato invidia a chiunque, soprattutto perché posto in una felice posizione geografica, politica ed economica. Ne erano proprietari i Marchesi d’Ivrea da cui sortì Arduino, che fu poi l’unico re d’Italia italiano fra tanti stranieri fino all’avvento dei Savoia. La Marca d’Ivrea, nel novarese, da Carlo Magno in poi, comprendeva cinque comitati: Bulgaro, Pombia, Fontaneto, San Giulio d’Orta-Stazzona e Ossola, oltre ai limitrofi comitati d’Ivrea, Santhià, Vercelli e Lomello. Fra le genti Longobardiche stanziatesi nel Novarese, come attesta P. Diacono, molti furono i Bulgari, dai quali derivarono i nomi di Bulgarum (Borgovercelli) e Bulgaria (Borgolavezzaro). Da qui prese il nome il Comitato di Bulgaro o di Bulgaria, come appare nel documento 65 delle Carte dell’Archivio di Santa Maria, del 18-6-969, di Ottone, dove si legge: “… coniacentes infra Regnum Italicum in Comitatibus uidilicet Bulgariensis, Laumellensi, Plumbiensi, Mediolanensi…” e ancora continua “… et uilla Sazago seu infra ciuitatem nouariensem cortem de ueratelino (da ueratelim, verectelim), cum castro super habentem…”. Secondo il Rusconi (I Conti di Pombia e di Biandrate) il “Veratelino” è nientemeno che la corte di Varallo Pombia. Le “corti”, dice il Volpe (o.c.), erano quelle località ove esistevano complessi di case coloniche, di edifici padronali, piccole officine, terre coltivate, boschi e pascoli, in altre parole una specie di azienda autosufficiente. Il Pezza (Profilo della Bulgaria Italiana in B.S.S.N. 1935, n° 1-2) pone il Veratelino in Novara e noi siamo propensi a dargli ragione se soltanto interpretiamo alla lettera il diploma, infatti, il termine “Ciuitatem” sta per Novara, sede municipale. Il Ruasconi errava quando affermava che in una carta del marzo 931 si aveva la prova dell’esistenza del castello di Varallo Pombia: tale carta (doc. 44, Carte A.C.S.N. di Novara) si legge: “… de loco Castro Plumbia uassallo predicto Uualoni istj testjs.”. Si potrebbe interpretare che tale corte, con il suo castello, fosse una dipendenza di Novara, in una località per noi incerta, ma senz’altro non facente parte del Comitato di Pombia. Il Comitato Bulgaro o Bulgaria ha dato luogo a parecchie controversie. Inizialmente, secondo il Gabotto (o.c.), aveva il suo centro in Borgolavezzaro e Novara, che faceva parte di tale Comitato, non poteva appartenere al Comitato di Pombia, che veniamo a conoscere solo in seguito. In seguito, nei documenti, non è più citato il Comitato di Bulgaria, sostituito con quello di Novara. Presumibilmente la sede si trasferì quando i vescovi assunsero, assieme ai religiosi, i poteri civili. Il Pezza ritiene che Novara fosse appartenuta, per qualche tempo, al Comitato di Pombia, e localizza Bulgaro di là del Ticino, in Lombardia. Divide, poi, la storia dei due comitati in tre periodi ben distinti. Il primo, fra il secolo VIII e il IX, che vede il Comitato Novarese indipendente. Il secondo, dall’813 al 968, durante il quale Pombia assorbe Novara. Il terzo vede nuovamente i due comitati indipendenti e si termina con l’investitura al vescovo di Novara, nell’anno 1025, del Comitato di Pombia. 3-6 I C O N T I D I B I A N D R A T E Nel novarese le lotte fra i Vescovi e i Marchesi di Ivrea raggiunsero il massimo con Arduino che, approfittando della lotta che gli derivava dal possesso della corona d’Italia aveva insediato i suoi sostenitori nei punti chiave del territorio a danno del Vescovo a cui toglieva privilegi, decime e terre. Scomparso Arduino con l’aiuto dello straniero asceso al trono, incominciarono le vendette e, nonostante la resistenza dei Conti, la cospicua Contea pombiese passò al Vescovo. Ma la cessione del Comitato di Pombia al Vescovo di Novara, avvenuta nel 1025, rimase per qualche decennio un fatto puramente formale: al Vescovo, tolta forse Pombia e qualche terra, non rimaneva che il titolo. Le località più importanti erano possedute dai Conti di Pombia e da qui continuarono le dispute. Con la salita alla cattedra di San Gaudenzio del vescovo Oddone si ha la riconferma, con il diploma del 3 aprile 1060 di Enrico III (IV), della cessione del Comitato Plumbiense al Vescovo di Novara con l’aggiunta della riva del Ticino da Cameri fino alla Pietra Mora (Cum ripa Ticini a loco Camararum usque a Petram Mauram). Morto Oddone, il nuovo vescovo Alberto riprese con rinnovato vigore la lotta per il possesso del Comitato ma “fu ingiustamente ucciso da iniqui conti” che il dittico di San Gaudenzio precisa di “Biandrate” (di Pombia). Per ottenere il perdono è probabile che i Conti di Pombia cedessero definitivamente i loro possessi e si ritirassero in Biandrate assumendone il nome (1093) per mascherare l’infamia dell’assassinio. Sotto questo nome assunsero a grande potenza con Federico Barbarossa, tanto che, se per diritto imperiale la Contea di Pombia apparteneva al Vescovo di Novara, di fatto era alla mercè del Conte Guido di Biandrate, il più famoso di tale dinastia. I successivi imperatori confermarono tale donazione (Federico Barbarossa con il diploma del 3-1-1155 ed Enrico VII con quello del 20-4-1311) e la Contea di Pombia rimase ai Vescovi di Novara fino al 1413. Federico Barbarossa, con il diploma del 1152, conferma ai Conti da Castello il possesso del castello di Marano Ticino e i loro possessi in Pombia e nella Contea con il mercato di Scozola ai due lati del Ticino e i diritti di pedaggio del porto di Sesto Calende. Tale concessione fu riconfermata da Ottone IV il 15-41210. 4-6 A R D U I N O Per un millennio abbiamo visto Pombia nello splendore della sua grandezza: dai Romani ai Longobardi e al periodo comitale chiusosi, di fatto, nel 1093. Con il definitivo passaggio ai Vescovi di Novara e in seguito ai Visconti e ai Ferrero, Pombia progressivamente decadde. Della sua grandezza non restano che pochi e incerti ricordi. Il suo apogeo si ebbe con Dadone e con suo figlio Arduino e di questo personaggio, forse nativo di Pombia, sicuro conte di questa località narreremo le vicende, non per fini meramente campanilistici, ma perché fu un grande italiano. Arduino nacque verso l’anno 955 da Dadone, Conte di Pombia, e da una figlia di Arduino III Glabrione. Fu prima Conte di Pombia, poi succedette al cugino Corrado Conone, intorno all’anno 989, nel governo della Marca di Ivrea che allora comprendeva i comitati di Ivrea, Pombia, Bulgaria, Vercelli, dell’Ossola, Stazzona e di Lomello. Era un grande feudatario, ostile a Ottone III ed alla feudalità ecclesiastica dei vescovi-conti creati e protetti dagli Ottoni. Ottone I aveva trovato la feudalità laica molto potente e, non potendo annientarla, tentò di diminuirne i poteri con la collaborazione dei vescovi-conti sensibili ai bisogni della corona. Anche i suoi successori continuarono questa politica che sfociò nel forte antagonismo dei feudatari laici capeggiati da Arduino. Nel 995 con la donazione della Corte di Caresana ai canonici vercellesi da parte dell’imperatrice Adelaide, Arduino ebbe occasione di scatenare il conflitto contro Pietro, vescovo di Vercelli. Occupata la città anche il Vescovo fu ucciso e il suo corpo bruciato con la chiesa (13/2 – 17/3/997). Continuò la lotta contro il Vescovo di Ivrea Marmondo, dal quale fu scomunicato due volte. Sulla cattedra di Vercelli, dopo la morte di Pietro, salirono Raginfredo ad Adalberto, partigiani di Arduino. Nel 999 la sede di Vercelli, per ordine del Papa, è affidata al monaco tedesco Leone della curia imperiale. Nonostante le scomuniche e la minaccia dell’anatema del predecessore di Silvestro II, Gregorio V (morto nel 999), e l’opposizione di Leone, Arduino si presenta al Sinodo Romano, indetto da Silvestro II e Ottone III, a sostenere i suoi diritti. Il Sinodo, fra l’aprile e il maggio del 999, lo condanna: ”che egli debba deporre le armi, non mangiare carne, non dare bacio né a uomo né a donna, non vestir lino, non dormire più di due notti, se sano, nel medesimo luogo, non ricevere il corpo del Signore se non in morte e condurre penitenza dove nessuno possa offendere dei suoi avversari, o farsi monaco immantinente”. I suoi beni con diploma del 7-5-999 sono concessi al Vescovo Leone, al quale, con altro diploma in pari data, sono concessi i comitati di Vercelli e di Santhià. I poteri di Arduino passano così al figlio Arduino II (Ardicino). Arduino non cede alla condanna e, ritornato nelle sue terre, riprende la situazione scacciando dalle rispettive sedi i Vescovi di Ivrea e di Vercelli. I nemici richiamano Ottone III che alla fine del 999 giunge a Pavia, chiama in sua presenza Arduino II (Ardicino) che si presenta, ma fugge ai primi sentori di tradimento. Da qui una nuova messa al bando tanto per Arduino che per Ardicino. Ritornato Ottone III in Germania, Arduino risale il terreno perduto e, sembrerebbe, fosse proclamato re dai feudatari dell’Italia settentrionale nella primavera dell’anno 1000. Morto Ottone III il 23-1-1002, il 15 febbraio dello stesso anno, in Pavia, Arduino ricevette la seconda incoronazione con tutta la solennità del rito. L’incoronazione non servì a riconciliare le parti: da un lato i suoi sostenitori per i quali era “il nobile Marchese d’Ivrea”, eletto a Pavia re di tutti “I Longobardi”, per gli altri era l’usurpatore del trono, l’uccisore del Vescovo. Intanto in Germania la corona imperiale passava a Enrico II, pronipote di Ottone I e continuatore della sua politica a favore dei vescovi-conti. I vescovi di varie città, con Arnolfo arcivescovo di Milano in testa, si rivolsero a Enrico II per avere aiuto a combattere Arduino. Enrico mandò allora in Italia Oddone, duca di Carinzia e Conte di Verona. Arduino, data l’inimicizia dei vescovi e dei feudatari più ossequenti, per gelosia, al tedesco non poteva avere un grande esercito. Ciononostante, appoggiato dai secondi militi (la piccola nobiltà campagnola) approntò un piccolo esercito e con una indovinatissima mossa strategica passò all’offensiva occupando la marca di Verona e in una memorabile battaglia al Campo della Fabbrica sconfiggeva Oddone fino a costringerlo a rivalicare le Alpi (dicembre 1002 – gennaio 1003). Nella primavera del 1004 Enrico giungeva in Italia con un grande esercito per assecondare i desideri dei vescovi e dei feudatari che temevano sempre più l’autorità di Arduino. Purtroppo i “Longobardi” di Arduino, ridotti di numero per le continue defezioni, furono sconfitti e il Conte Pombiese fu costretto a ritirarsi nel Canavese dove, asserragliandosi nella rocca di Sparone, faceva l’estremo tentativo di fermare il tedesco. Enrico, intanto, si recava a Pavia, dove il clero e la nobiltà lo incoronò Re d’Italia. I “plebei” il giorno stesso si rivoltarono tanto che Enrico, per reprimere la rivolta, incendiò la città punendo poi crudelmente i ribelli. In seguito Enrico dovette ritornare in Germania per arginare un tentativo d’invasione dei Polacchi. Da questo fatto Arduino ne trasse immediato vantaggio, riprendendosi la Marca d‘Ivrea e alcuni comitati limitrofi, ma la sua autorità non tornò ristabilita in tante altre parti del regno. Comunque, nonostante continuassero le contese tra Enriciani e Arduinici, Arduino poté regnare con relativa tranquillità per qualche anno ancora. Nel dicembre del 1013 Enrico era di nuovo in Italia e i feudatari ne trassero argomento per ribellarsi. Occupata con facilità la Lombardia, Enrico giungeva a Roma, dove il 14 febbraio 1014 riceveva da Benedetto VII la Corona Imperiale. Arduino propose allora a Enrico un accordo che fu respinto dal tedesco. Arduino, sdegnato, attese il momento propizio per vendicarsi e l’occasione non si fece attendere. Otto giorni dopo l’incoronazione, il popolo romano si ribellava al tedesco che, trovandosi in difficoltà, rientrava in Germania. Arduino, allora, sostenuto dai suoi fedeli, si impadroniva di Vercelli, dove il Vescovo Leone riusciva a sfuggirgli a stento, di Novara, Como ed anche Milano e Piacenza si disponevano a sottomettersi. Improvvisamente i seguaci di Enrico, sostenuti, parrebbe, dal Marchese di Toscana e appoggiati da Arnolfo, Arcivescovo di Milano, riprendevano il sopravvento e Vercelli era restituita a Leone. Arduino, intanto, gravemente malato, persa ogni speranza, abbandonato da tutti, deponeva allora lo scettro e la corona sull’altare del monastero della Fruttuaria per vestire l’abito secolare. Lì lo colse la morte il 14 dicembre 1015. Nel sepolcro i monaci lo composero con le vesti regali tanto che nella ricognizione nel secolo XVII il Cardinale Ferrero così lo trovò. Fuori dalle ire dei suoi contemporanei italiani e tedeschi, nella quiete monastica, i santi monaci, sopra di ogni contesa, l’avevano riconsacrato per la storia, assegnandogli il titolo che per diritto gli spettava. Se da un lato aveva difeso gli interessi feudali laici contro i vescovi-conti sostenuti dal papato e appoggiati dagli imperatori, dall’altro combatteva il tedesco sia perché questi mirava a frammentare il potere feudale laico, sia per una naturale insofferenza al giogo straniero, preludio di una nascitura coscienza nazionale. 5-6 I V I S C O N T I L’Imperatore Ludovico il Bavaro, con diploma dato in Pavia il 6-8-1329, infeudava Castelletto Ticino a Ottorino Visconti a cui succedesse il figlio Bartolomeo e in seguito il nipote Alberto. Nel 1407 il Duca di Milano Filippo Maria Visconti nominava Alberto signore di Borgo Ticino e Varallo Pombia; poi lo stesso Duca con diploma del 7-5-1413 (Milano Archivio di Stato) investiva i figli di Alberto: a Ermes concedeva il titolo di Barone di Ornavasso, con le terre del Vergante, di Invorio Inferiore, di Borgo Ticino, Varallo Pombia e Pombia per sé e i suoi eredi. (Nominative terram de Ornavasso, terram Invorio Superiori, terram de Burgo Ticini, terram de Varale Pombie, terram Pombia, Vergantium, diocesis Novariensis.) 6-6 N I B B I A - C A C C I A - F E R R E R O Il 6-10-1469 il Duca Galeazzo Maria Sforza concedeva a Martino Nibbia, segretario del Marchese del Monferrato, il feudo di Varallo Pombia; il 31-7-1628, Paolo e Martino Nibbia alienavano mezzo feudo a favore di Camillo Caccia. Successivamente il 5-4-1685 Luigi Nibbia cedeva l’altra metà di feudo a Ottavio Caccia e al Cardinale Federico Caccia, Arcivescovo di Milano (1693-1712), la cui abitazione era l’attuale Casa Simonetta. Nel 1690, una parte del feudo passava al Marchese Pietro Antonio Ferrero, feudatario di Pombia. 7-6 A A N N E S S I O N E A L R E G N O D I S A R D E G N Col passare degli anni, assopite per sempre le discordie fra Conti, Vescovi e Comuni, le nostre terre assunsero, con l’annessione del Novarese al Piemonte (Trattato di Worms, 1748) l’aspetto attuale. Le terre furono frazionate, si formarono le piccole proprietà terriere, le aziende individuali, fiorirono le industrie, i commerci, avviando così le premesse della vita attuale. Però dobbiamo trarre una amara conclusione: le vicende di secoli hanno fatto decadere i borghi di Pombia e di Varallo a due località povere e sottosviluppate. 8-6 Z E D O M I N A Z I O N E S P A G N O L A - P E S T I L E N Durante la dominazione Spagnola, il Contado Novarese come del resto le terre Lombarde e viciniore, furono flagellate dalla peste, immortalata dalla descrizione che il Manzoni ne fa ne’“I Promessi Sposi”. Date le pessime condizioni igieniche e profilattiche, nei tempi antichi erano soventi le epidemie. Paolo Diacono (o.c.) ricorda di una epidemia di peste verso il 680. Il Giulini (o.c.) ricorda l’epidemia del 1004 e quella terribile del 1187, del 1361 e come se ciò non bastasse nel 1364, 1373 e 1378 le cavallette provocarono una terribile carestia. Il Contado di Milano subì altre epidemie di peste fra il 1450 e il 1451 e nel 1485 che durò più di quattro anni, provocando oltre 100 mila morti. Il De Vit (Storia del Lago Maggiore) ci dice che il Capis ricorda che l’Ossolano e il Novarese ebbero pestilenze nel 1513, 1528, 1550, 1564. Il Medoni narra che la peste del 1524 fece morire più di 140 mila persone nella Lombardia. Notissima è la peste di San Carlo, preceduta da una grande carestia, fra gli anni 1574 e 1575. Il Medoni scrive, inoltre, che venne dal Tirolo, proseguì per il Veneto e il Mantovano e si portò poi sul Lago Maggiore. Paruzzaro fu il primo paese toccato (14-3-1576); poi essa si diffuse verso il Cusio e, quindi, nel Milanese. La peste del 1629-1631, fu preceduta da una grande carestia tra il 1627 e il 1628, che mostrò bene le pessime condizioni dell’agricoltura, la prostrazione e il debilitante stato delle genti povere. Esse, private a causa della carestia, dei se pure miseri sostegni che potevano dare la terra e prostrate dai continui passaggi e distruzioni compiute dalle genti straniere assoldate dai potenti, sempre in lotta fra loro, e assoggettate all’autorità Spagnola, che, tutta impegnata nell’assedio di Casale, non si curava dello stato della popolazione, erano destinati a essere preda della peste senza possibilità di scampo. Alla miseria e alla fame che decimavano sempre più le genti, subentrò, quindi, la peste che contribuì all’eccidio con migliaia di vittime. A nulla valsero le istrioniche cure dei medici del tempo, né a calmare la popolazione di Milano, esasperata dalla cecità ipocrita dei governanti e dall’incertezza dei tempi, e il ricorso alla violenza come testimonia il processo agli untori che avrebbero propagato la peste facendo uso di unguenti medicinali su mandato di potenti Signori, se non a rendere più tragica una situazione di per sé già drammatica. Senza dubbio fu un autentico disastro che si ripercosse per decenni sulle terre che ebbero a soffrire l’epidemia. Fu anche però una sorta di giustizia che non risparmiava né ricchi né poveri, rendendo tutti, almeno una volta, uguali. I morti furono complessivamente diverse centinaia di migliaia. La relazione dell’Arnali (B.S.S.N. 1939 - fasc. II-III) deputato del tribunale di sanità, del 17-6-1631, dice che Oleggio ebbe nel primo contagio 1062 morti, nel secondo 115. Di Pombia non parla, di Varallo dice che restavano 125 famiglie con 750 abitanti e che nel secondo contagio i morti furono 23. Il soprintendente era Gerolamo Caccia. Sempre in tema di calamità, ricordiamo le piene del Ticino e del Lago Maggiore descritte dal Muratori: nel 1717, ad esempio, il Lago si alzò di 10,80 metri sul livello normale. Le altre piene degne di nota furono quelle del 1566, 1570, 1571, 1587, 1601, 1640, 1704 VII PARTE SETTIMA CRISTIANESIMO – MONUMENTI PIU’ IMPORTANTI 1-7 I L T E R R E C R I S T I A N E S I M O N E L L E N O S T R E E’ presumibile che dopo l’editto di Milano del 313 il Cristianesimo cominciasse a diffondersi anche nelle nostre contrade. La tradizione pone Gaudenzio (397-417) primo Vescovo Novarese, ma il Lizier (Episcopato e Comitato in Novara nell’alto medioevo) mette in dubbio la tradizione e pone San Lorenzo quale primo Vescovo, ritenendo già organizzata la Chiesa Novarese attorno al 356. Il Gabotto (Storia dell’Italia Occidentale) ritiene che inizialmente in ogni Municipio Romano si trovasse una sede Vescovile, in ogni pago (villaggio del Municipio) una pieve, e in ogni vico (borgata) un titolo o cappella. Quindi, in ogni sede municipale risiedeva un Vescovo, e in ogni villaggio un pievano o un arciprete (archipresbiter). Secondo questa tesi anche Pombia era sede vescovile, però in merito non si ha nessuna traccia. In proposito, la lapide che si trova nella Parrocchia di Varallo, fra l’altro, dice: “... IN PROVINCIA CAPUT IMEMO(RA)BILI ARCHI(EPISCO) - PALE - VETUSTATE SUBLIME ...”. (... centro arcivescovile della provincia di antichità immemorabile). Siccome sia a Varallo Pombia sia a Pombia le chiese parrocchiali sono dedicate a San Vincenzo, nulla toglie che nel 1755 (anno della lapide) l’estensore della stessa, memore di qualche antica tradizione pombiese, volesse ricordare (confusionariamente) la dignità assunta dalle chiese locali. Nel Comitato di Pombia, secondo il Gabotto (B. S. S. N. 1918 - fasc. II) “Le Pievi della Diocesi”), si trovano le seguenti pievi: Ponzana, Canceriano, Casalvolone, Biandrate, Mosezzo, Trebbiate, Cameri, Dulzago, Oleggio, Contengo, Pro, Seso, Sizzano, Ghemme, Camodegia, Grignasco, Cureggio, Suno, Pombia (poi Varallo Pombia). Pombia, secondo il Bascapè, è indicata come pieve in un documento del Vescovo Guglielmo (1° o 2°). Litifredo, Vescovo di Novara dal 1124 al 1151, ottenne da Papa Innocenzo II, nell’anno 1133, un diploma nel quale figurano le pievi della diocesi sopra le quali il Vescovo aveva diritti: “Innocenzo Vescovo servo dei servi di Dio. Al venerabile fratello Litifredo, Vescovo di Novara, ed ai di lui successori che saranno canonicamente sostituiti in perpetuo... Plebem Olegli cum capellis suis. Plebem Dunciagi cum capellis suis. Ecclesias Santi Iulii nouam et antiquam. Plebem Varadi (Pombia) cum capellis suis. Plebem de Gatico cum capellis suis ... “(26-6-1133). (C. A. S. M. vol. 2° - doc. CCCXX). Nelle testimoniali del 2-3-1157 troviamo che “Presbit Otto Gagia” ricorda l’elezione di “magistrum nebulonem in archipresbiterium in plebe uarali” (C. A. S. M. vol. 2° - doc. CCCXCIV). Nelle “Consignationes” di tutti i benefici ecclesiastici ordinate dal Vescovo Guglielmo Amidano nel 1347, a Varallo non compare nessun pievano, ma il solo chierico Giacobino da Casteno, mentre è ricordato Arnaldo pievano della Chiesa di San Vincenzo di Pombia. E’ probabile che con il decadimento politico di Pombia, la dignità pievana, verso il 1133, passasse a Varallo Pombia, benché non sia possibile dare una risposta precisa, come abbiamo già fatto cenno, nelle “Consignationes” della dignità pievana è investito Arnaldo di Pombia. Se però consideriamo che nelle “Rationes Decimarum Italiae” del 1335-1336 imposte dal Papa Benedetto XII, nelle collettorie al n° 200 - Diocesis Novariensis - foglio 60, troviamo: “Item pro Iohanne de Vaegiis archispresbytero plebis Varalli iuxta Pombia pro prebenda sua dicte plebis assignarunt V libras imper.” (F. Pezza - “Tributi pontifici e le scomuniche fiscali ecc.” in B. S. S. N. - 1947), dunque abbiamo un Arciprete a Varallo Pombia e non a Pombia appena dodici anni prima l’ordinamento delle “Consignationes”. Si potrebbe anche terminare che dopo il 1133 l’arcipretura fosse passata definitivamente a Varallo Pombia e che durante le “Consignationes” l’arcipretura stessa fosse provvisoriamente vacante. Il Vicariato foraneo di Varallo Pombia fu istituito dal Vescovo Speciano (1590) e comprendeva Varallo Pombia, Marano Ticino, Pombia, Divignano, Conturbia, Castelletto Ticino, Borgo Ticino e i suoi parroci erano insigniti del titolo di Arciprete. In seguito Marano Ticino vene unita al vicariato di Oleggio. Nelle “Consignationes” compaiono per la prima volta i nomi delle più antiche famiglie di Varallo Pombia: gli Albertalli ed i Favini. Nelle stesse carte si parla dei possedimenti delle “Humiliate”, delle quali tratteremo brevemente. Il Romussi (o. c.) narra che alcuni cittadini di Milano e Contado, fatti prigionieri dall’Imperatore di Germania Enrico, fecero voto che, se fossero ritornati in Italia, si sarebbero ritirati insieme a fare vita devota. Assunsero il nome di Humiliati e si divisero in seguito in tre ordini: il primo dei Primissimi, che comunemente vestiva in grigio; il secondo, istituito da San Bernardo, i cui appartenenti eressero la loro casa in un luogo di Milano detto Brera (da Baida, podere) . La casa di Milano diede poi origine ad altre case che non si chiamarono mai conventi a causa della loro indipendenza laicale. Il terzo ordine fu istituito dal Beato Giovanni di Meda. San Bernardo aveva trasformato i laici Humiliati in una sorta di frati, Giovanni li cambiò in una specie di preti. Il Cardinale Jacopo di Vitri nel 1240 così descriveva gli Humiliati; “In Lombardia vi sono certe congregazioni di uomini e di donne che chiamansi Umiliati perché e nella povertà e nell’asprezza e nella compostezza esteriore e nella gravità dei costumi, in tutte le loro parole e opere insomma danno grande esempio di umiltà. Vivono in comune e in gran parte del lavoro delle proprie mani; perciocché non hanno molti redditi o possessioni, né è lecito ad alcuno di loro di possedere alcunché di proprio... scacciano l’ozio colle lezioni, colle orazioni e coll’assiduo lavoro delle loro mani e molti nobili e potenti cittadini e molte matrone e vergini si sono consacrate al Signore: dei quali personaggi alcuni sono entrati nella religione; altri rimasti nel mondo con i loro figlioli e colle loro mogli, ciò nonostante Umiliati, in abito religioso, sobri nel vitto e pieni d’opere di misericordia, sono nel secolo come se non vi fossero”. Questi frati, “solo a metà”, si diedero all’industria manifatturiera della lana, in Italia e in Europa, ricavando dalle loro attività grandi ricchezze (si pensi alla grandiosità di palazzo Brera). Quest’ordine assurto a grande potenza economicocommerciale si era inserito vigorosamente nella società, ma le grandi ricchezze portarono gli Humiliati alla corruzione e al lusso sfrenato, tanto che San Carlo Borromeo, nel 1570, chiese l’abolizione dell’ordine destinando i suoi possedimenti ai Gesuiti. Palazzo Brera venne così destinato all’accademia delle Belle Arti. La via Brera di Varallo potrebbe anche indicare la vecchia strada che portava alle braide (poderi) degli Umiliati che compaiono nelle “Consignationes” di Pombia. 2-7 I M O N U M E N T I P I U’ I M P O R T A N T I § 1 - RESTI DI CHIESA A SAN GIORGIO A San Giorgio di Pombia esistono, in un boschetto pieno di rovi, i resti di una cappella. Da quel poco che rimane si può dedurre che la cappella aveva tre absidi. Dei due laterali rimane ben poco, mentre quella centrale è quasi completa e, inoltre, vi si vede traccia di un affresco che sembra proto-romanico. La costruzione di tale cappella è databile fra il VII e l’VIII secolo. § 2 - IL CASTELLO DI POMBIA Poco discosto dalla Chiesa di San Vincenzo di Pombia si trovano i ruderi di un antichissimo castello. Vi sono i resti di due muri perimetrali, in ciottoli di fiume e pietre squadrate negli angoli. Quasi al centro di questa doppia recinzione si trova la torre quadrata. Il castello, posto in posizione strategica, al limite del ciglio della collina che guarda al Ticino, fu costruito sul modello dei primi castelli piemontesi e romani che erano costituiti da una torre posta al centro di uno spiazzo recintato. Il Nigra (Torri, castelli e case forti del Piemonte) lo fa risalire all’XI secolo. Il Bascapè (o.c.) ricorda che queste rovine furono denominate Castel Dogno, da Castel Domino, appellativo che anticamente si attribuiva ai Vescovi e il luogo appartiene ancora alla Chiesa. Avanziamo l’ipotesi che Castel Dogno derivi piuttosto dal latino volgare “dunio” che sta per montagnola, poi trasformato in don jon, che stava appunto a indicare i primitivi castelli posti a difesa di luoghi rialzati, com’è il caso del castello di Pombia che può, quindi, essere sorto in epoca anteriore all’XI secolo, forse sulle rovine di un castrum romano. Un altro castello si trova poco discosto da Castel Dogno, è di epoca più recente, XVI secolo, ed è posto anch’esso sul ciglio della collina e guarda verso il Ticino. Forse è sorto sui resti di una costruzione trecentesca, come si può ritenere considerando alcuni elementi incorporati nella costruzione. Sono notevoli alcune parti della costruzione e alcuni affreschi che sembrerebbero riprodurre Pombia con la valle del Ticino. § 3 - SAN VINCENZO DI POMBIA La Chiesa parrocchiale di San Vincenzo di Pombia, insigne monumento romanico, è stata da poco riportata, in parte, al primitivo stato a cura della Soprintendenza ai Monumenti di Torino, sotto la personale direzione del Soprintendente Prof. Chierici. Il Ravizza, annotatore della Novaria Sacra, presume, a causa di certe analogie con il Duomo di Casale Monferrato, che la sua costruzione sia avvenuta in epoca longobarda. Il Verzone (l’Architettura Romanica nel Novarese, in B. S. S. N. - 1935-37) data la costruzione fra il 1025 e il 1050, motivando la sua opinione con l’indicazione del tipo di muratura e di volte a crociera con tre absidi sul lato di levante. Dinanzi l’ingresso fu costruito un nartece a due piani. Attualmente il piano terra è stato sfondato per ripristinare gli arconi che formavano l’ingresso, più basso del piano della Chiesa alla quale si accedeva mediante una gradinata. Fra il 1754 e il 1756 il monumento fu ripristinato in stile Barocco, furono demoliti gli apsidi laterali e all’interno si fecero delle decorazioni non troppo ortodosse per cui il complesso, anche a causa di successive modifiche, perse il suo valore. Notevole è l’unico affresco romanico conservato, rappresentante una Madonna. Nelle vicinanze della Chiesa doveva esserci il battistero già ridotto in pessime condizioni fin dal XVIII secolo (Verzone, o.c.). § 4 - SAN MARTINO DI POMBIA La Chiesa di San Martino è un piccolo monumento romanico che si componeva, originariamente, di tre piccole navate con absidi. Adesso rimane solo la navata centrale, le laterali furono demolite non si sa quando. La muratura è di ciottoli misti a mattoni romani, il tetto è in parte coperto da tegole romane. La sua costruzione risale fra il 1000 e il 1025 (Verzone o.c.) e pare fosse un priorato dell’abbazia di Arona, la quale rivendicava l’indipendenza dall’Episcopato Novarese. A causa del suo stato di decadenza nel 1758 o 1759 la chiesa fu sospesa dalle funzioni religiose. Ora è proprietà privata ed è adibita a ripostiglio e cantina. § 5 - SAN VINCENZO DI VARALLO POMBIA A nostro modesto giudizio, se questo monumento non fosse stato deturpato dalle modifiche e aggiustamenti, se ad esso non fossero state avvicinate le altre fabbriche che formano il complesso della parrocchia, senza tema di ricorrere in campanilismi, esso sarebbe veramente uno dei migliori esempi di architettura romanica del Novarese. Secondo il Verzone (o.c.) sorse verso il 1100 o 1125, mentre il campanile è più antico. La basilica fu innalzata sui resti di un delubro dedicato a Nettuno, come ricorda la lapide che si trova ora nella Canonica di Novara: “NEPTUN - SACRUM - L. LABIENUS - BUCCULUS - COMU ...”. La lapide della parrocchiale del 1755 ricorda: “... TEMPLUM HOC - NEPTUM SUPERST(ITIO)NE - ...” questo tempio (dedicato) a Nettuno (nel tempo della e dalla superstizione). Escludiamo a priori che tale lapide provenga da Borgosesia, come alcuni hanno affermato. Il campanile è in rozza muratura di ciottoli, disposti senza alcun ordine, ha tre ordini di cornici ed è decorato da semplici archetti in mattoni. La parte alta fu sfondata per fare luogo alla cella campanaria. La basilica era, invece, interamente costruita con conci di pietra squadrata e levigata. Sulla fronte dell’ingresso esiste una croce luminosa a foggia greco-romana. L’ingresso era munito di portale ad arco. La basilica è addossata al campanile che ne sostituisce la muratura nel tratto di addossamento. La chiesa era costituita praticamente da due ambienti all’incirca rettangolari: il primo, contenente l’ingresso, si eleva più alto del resto della basilica, il secondo vano, relativamente più basso, era la chiesa vera e propria e si prolungava fino a metà degli attuali arconi laterali del transetto. Non era coperta da nessuna volta, ma semplicemente dal tetto, infatti, ancora si notano le sedi di appoggio delle capriate alla sommità della muratura. Il restringimento del vano d’ingresso è dovuto all’inserimento del campanile, davanti cui rimaneva una rientranza libera da costruzioni. La muratura in pietra squadrata è ben curata, tanto che le lesene dividono esternamente la fabbrica in moduli uguali, formando dei pannelli sfondati rispetto le lesene nelle cui mezzerie sono poste le pregevolissime finestre strombate. Questo tipo di muratura, come abbiamo costatato in minuziose ricerche, continua anche nella parte cui fu addossata l’attuale navata si San Giovanni. Anche le lesene continuano lungo questo lato con lo stesso modulo e le finestre strombate hanno l’archivolto in pietre e mattoni. I tipi di finestre, architettonicamente parlando, sono due: quelle a giorno hanno tre archivolti in pietra aggettanti l’uno rispetto all’altro, sormontati da due anelli in mattoni di cui il primo è doppio dell’altro, mentre i mattoni sono posti a losanga. Le finestre non visibili dall’esterno (lato San Giovanni) constano di tre archivolti in pietra e mattoni in aggetto l’uno nell’altro. All’esterno, il timpano della facciata è decorato da archetti, quasi tutti in cotto, che coprono un concio semicircolare in pietra. Sul lato a giorno esiste (visibile dalla scala di accesso al campanile) un gruppo di tre archetti ricavati da un unico blocco di pietra, mentre gli altri sono simili a quelli della facciata d’ingresso. Sul lato di San Giovanni esistono archetti di foggia analoga agli altri con un concio in cotto, ad archi, sotto la linea di gronda. La basilica, per ragioni statiche, non poteva avere un’abside di diametro uguale alla larghezza della navata. Al massimo ci poteva essere un’absidiola di dimensioni ridotte, appoggiata al muro di levante, come abbiamo esempio in numerose basiliche dell’epoca. In seconda ipotesi si ritiene che non esistessero né abside, né transetto. Di qui lo sviluppo della ricostruzione della pieve riportata in appendice terza. L’unione fra il corpo dell’ingresso e il resto della chiesa era costituita da un semplice arcone, impostato fra il campanile e la muratura del lato di San Giovanni, con timpano in mattoni a chiusura del dislivello fra i due corpi di fabbrica. Nella sua forma la chiesa richiama le primitive basiliche romaniche costituite da un semplice vano coperto dal tetto senza abside e transetto. E’ presumibile che il battistero fosse costituito da una semplice vaschetta posta nel vano dell’ingresso e nulla impedisce di ritenere che fosse la stessa che ora si trova nel muro del campanile nel lato destro dell’ingresso. In seguito la primitiva basilica fu rialzata, trasformata internamente secondo lo stile barocco, la rientranza del campanile fu chiusa, la parte riguardante l’ingresso ridotta e notevolmente ribassata con un sistema di volte e murature in parte rette da una rozza colonna. I lavori successivi portarono la nostra parrocchiale allo stato attuale, a detrimento del primitivo monumento, verso il 1755, e la chiesa così trasformata fu consacrata dal Vescovo Balbis Bertone il 3 agosto 1758. Diremo che, a nostro giudizio, il campanile della chiesa della Beata Vergine del Rosario sembrerebbe databile al XIII secolo; resto, forse, di un primitivo castello alla vecchia maniera e posto a baluardo della vallata in una posizione strategicamente notevole. * * * Scuole elementari VARALLO POMBIA - Vedute caratteristiche degli anni ‘40 Giardini e monumento ai caduti VIII PARTE OTTAVA APPENDICE A P P E N D I C E 1 Da: “I Romani ed i loro precursori sulle rive del Verbano, nell’Alto Novarese e nell’agro Varesino”, di Filippo Ponti, Regio Ispettore degli scavi e monumenti (Intra 1896). Un rapporto dell’Egregio prof. Castelfranco alla Società Italiana di Scienze Naturali (vol. XVI fasc. 1° - seduta del 23 febbraio 1873) illustra un’altra stazione preistorica posta ai piedi dell’altipiano di Golasecca, sulla riva sinistra del Ticino, in una località denominata Molinaccio, dalle rovine di un antico mulino ivi esistente. Il chiarissimo professore nella prima e successive escursioni in questa località rinveniva molti cocci di stoviglie di comunissimo impasto, modellate a mano con argilla arenosa e cotta a libera fiamma o semplicemente essiccata ai raggi solari; tali frammenti, disposti in vari gruppi nel terreno dell’alluvione sottostante al terriccio vegetale, appartenevano a fittili di forme e dimensioni assai variabili: taluni con anse, altri senza, ma privi tutti di qualsiasi ornamentazione grafica e plasmata, ove si accentuino alcune tracce o impressioni fatte con la stecca sul collo del vaso e presso l’orlo. Accompagnavano i cocci alcune ossa di cervo, di bue a spigoli taglienti. I caratteri di queste reliquie, i particolari della loro distribuzione e l’esistenza di piccoli focolari sparsi nello strato sabbioso, conferiscono alla stazione preistorica del Molinaccio una fisionomia affatto speciale, che la distingue da tutte le altre dell’altipiano di Somma Lombardo, avvicinandole a quelle de Basso Varesotto. Le ricerche dell’egregio prof. Castelfranco ci rivelano, sull’opposta riva del Ticino, l’esistenza di un’altra stazione preistorica coeva a quella dell’altipiano di Golasecca, alla quale accenneremo valendoci della dotta relazione dello stesso scopritore. La stazione preistorica dei Merlotitt si trova sulla riva destra del Ticino, di rimpetto al passo di Presualdo, in una delle piccole valli che si sono formate per l’erosione dell’altipiano morenico entro il quale il fiume, uscito dal Lago Maggiore sotto Sesto Calende, si scava un letto profondissimo e tortuoso, e vi accede per un sentiero serpeggiante nel Ghiareto che parte dal cascinale dei “Savoia”. Gli avanzi dell’umana industria si rinvengono in questa stazione disseminati nella massa ghiaiosa sottostante all’esilissimo strato di terreno vegetale che ricopre quei colli morenici e vi sono variamente distribuiti. Nel fondo della valletta abbondano le scorie di ferro miste a pochi cocci e a carboni, al centro i cocci e i carboni sono abbondantissimi, mentre scarseggiano le scorie che cessano affatto sul limite inferiore della stazione, presso lo sbocco della valle. L’analisi di questi cocci, e i confronti istituiti dal loro chiarissimo scopritore fra i medesimi e i fittili interi o frammenti esumati in altre località dell’altipiano di Somma Lombardo e Golasecca, massime in quest’ultima necropoli, elimina il dubbio che la stazione dei Merlotitt debba cronologicamente ritenersi anteriore a quest’ultime, quantunque i cocci che vi si rinvengono frammisti alle scorie di ferro siano in gran parte rozzissimi e tali da essere preferibilmente paragonati a quelli caratteristici dell’età della pietra. Non vi mancano, infatti, i frammenti di alcuni fittili che trovano il riscontro più palese in quelli delle tombe di Golasecca, per la forma, per la natura dell’impasto, per la vernice a ingubbiatura e per l’ornamentazione; se questi ultimi sono rarissimi in confronto dei materiali più rozzi, appare sempre evidentissimo il sincronismo di questo deposito, comunque non costituente una vera e propria necropoli, con quelli di Sesto Calende, di Castelletto Ticino e di Golasecca e le reliquie che vi tornarono alla luce si può, quindi, indubbiamente considerare come appartenenti a una stazione, forse temporanea, della prima etˆ del ferro, vista la scarsità degli avanzi organici e l’assoluta mancanza di oggetti metallici. La necropoli di Golasecca occupa il quadrilatero irregolare compreso fra l’Abbadia di Sesto Calende, Vergiate, Somma Lombardo e Borgo Ticino, territorio con una superficie di 37 Km quadrati all'incirca, dimezzato longitudinalmente dal corso del Ticino. I monumenti che la costituiscono, siano essi le tombe caratteristiche della prima età del ferro, o i recinti di rozze pietre, tuttora visibili a fior di terra, sono disseminati in molti punti di questo territorio, nei pressi di Sesona, al Galiasco, al Monsoriso, ai Guasti, a Impiovo e specialmente alle Corneliane, distesa di campi compresa fra Sesto Calende, i casolari di Sesona e il villaggio di Golasecca, dal quale questa estesissima necropoli dell’altipiano di Somma Lombardo prende la sua denominazione che non è forse la più esatta, quantunque un gruppo di tombe, delle più notevoli, sia apparso, per primo, appunto nelle immediate vicinanze di quel villaggio. Queste stazioni preistoriche sparse sulle rive del Ticino, a mezzogiorno del Lago Maggiore, esplorate fin dai primordi del nostro secolo, descritte dal Giani, dal Mortillet e dal Biondello vennero da questi autori erroneamente attribuite ai Romani, ai Celti, ai Galli ed agli Etruschi, formulando tesi che le odierne e ripetute ricerche dell’egregio prof. Castelfranco ed un cumulo di prove, le più evidenti, da lui recate, dimostrarono completamente erronee, assegnandole, invece,