Episteme N. 6 - Parte I

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Episteme N. 6 - Parte I
EPISTEME
Physis e Sophia nel III millennio
An International Journal
of Science, History and Philosophy
N. 6 - 21 dicembre 2002
2
Redazione ([email protected])
"Episteme"
c/o Dipartimento di Matematica e Informatica
Università degli Studi
Via Vanvitelli - 06100 Perugia
Direttore Responsabile Euro Roscini (Supplemento semestrale ad: Arte in Foglio,
Pubblicazione registrata presso il Tribunale di Perugia, N. 36/1991)
http://www.robotics.it/episteme
http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci
(per ottenere ~ tenere premuto Alt mentre si compone il numero 126 con i simboli numerici
nella parte destra della tastiera)
Numeri arretrati on line: http://itis.volta.alessandria.it/episteme
PORZI editoriali
ISSN 1593-3482
3
PARTE I/
FIRST SECTION
4
EPISTEME
Physis e Sophia nel III millennio/Physis and Sophia in the III millennium
An International Journal of Science, History and Philosophy
N. 6 - 21 dicembre 2002 / 21st Dec. 2002
[La diffusione via Internet di sezioni della rivista avviene prima della data indicata - Sections
of Episteme are available in Internet even before the previous date]
Parte I
Informazioni editoriali/Editorial Policy
Pubblicazioni ricevute/Received books and journals
1 - Lia Mangolini: La vera natura del "magico Shamìr" - A proposito di un'antichissima
tecnologia per la lavorazione della pietra senza l'uso di strumenti metallici
2 - Emilio Spedicato: L'Eden riscoperto: geografia, questioni numeriche ed altre storie
3 - Felice Vinci: L'optimum climatico, il paradiso indoeuropeo e il giardino dell'Eden
4 - Sabato Scala: Il culto gnostico della Maddalena - Dal mosaico di Otranto alle basiliche
paleocristiane di Cimitile, attraverso opere letterarie ed architettoniche, fino agli ultimi
custodi, i Catari ed i Templari
5 - Arcangelo Papi: La facciata profetica del Duomo di S. Rufino in Assisi
6 - Prospero Calzolari: Presenza occulta e manifesta dell'Imperatore Federico II nella
Basilica di San Francesco ad Assisi - Frate Elia e la congiura del silenzio
7 - Giuseppe Pirazzo, Francesco Vitale: Il mistero degli indiani Mandan
8 - Ludwik Kostro: When, Where, and How Was Decalogue Created? - Historical Origins
and Evolution of the Ten Commandments
9 - Umberto Bartocci: La vera identità di Cristoforo Colombo - Osservazioni e congetture
10 - Pier Costanzo Brio: Cristoforo Colombo, la nascita - Verità storica e leggenda purista
11 - Ezio Albrile: Una eresia di luce
12 - Rosario Vieni: Sul termine greco ανθρωπος … e dintorni
13 - Oktawian Nawrot: Liberty as a Relation
14 - Sante Anfiboli: Il canto delle gru - Un racconto iniziatico
5
15 - Bruno d'Ausser Berrau: Ατοπον − Relazioni spazio-temporali e metafisica tradizionale
16 -
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"
"
: Solvet saeclum in favilla - In attesa del Dies Irae?
17 - Umberto Lucia: Il ruolo del trasferimento tecnologico nello sviluppo sostenibile
Reprints
Paolo Manzelli, Mariagrazia Costa: Il tempo come coordinata - Gli studi di Giorgio
Piccardi (1895-1972)
Omero Speri, Piero Zorzi: Atomo, Energia, Uomo
Commenti ricevuti/Received Comments
Sante Anfiboli: A proposito del Vexillum Templi, e altra simbolica templare...
Alberto Bolognesi: Il Big Bang ha fatto flop?
Lino Lista: Le tre Grazie - Una chiave per dischiudere il giardino della Primavera
Arcangelo Papi: Il caso Majorana - L'<<ipotesi Klingsor>>
Francesco Pullia: Manlio Farinacci, studioso fuori dal coro
Recensioni/Reviews
Luca Bianchini, Anna Trombetta: Goethe, Mozart e Mayr, fratelli illuminati
Paolo Cortesi: Alla ricerca della Pietra Filosofale - Storia e segreti dell'alchimia
(Gerardina Cesarano)
Gianni Grana: L'invenzione di Dio
6
Parte II
(Sezione speciale, tutta dedicata alla teoria della relatività, e "filiazioni"... - A
special section, wholly dedicated to the theory of relativity, and "derivations"...)
- A Letter from the Editor to the Readers
- Alternative Physics On Line
1 - Umberto Bartocci: Looking for Special Relativity's Possible Experimental Falsifications
2 - Christopher Jon Bjerknes: S. Tolver Preston's Explosive Idea - E = mc 2 and the
Huyghens-Leibnitz Mass/Energy Identity as a Heuristic Principle in the Nineteenth Century
3"
"
" : Einstein's Irrational Ontology of Redundancy - The Special
Theory of Relativity and Its Many Fallacies of Petitio Principii
4 - Alberto Bolognesi: La nuova teoria del cielo - La cosmologia osservativa di Halton Arp
5 - George Galeczki: Beyond Maxwell-Lorentz Electrodynamics
6 - Delbert J. Larson: The State of Experimental Evidence for Length Contraction, 2002
7-
"
"
: The Most General Fundamental Failures of Modern Physics
8 - Emidio Laureti: Le basi sperimentali della propulsione non Newtoniana
9 - Rocco Vittorio Macrì: Neopitagorismo e Relatività
10 - Jarosław Mrozek: Did Einstein Claim That Nature Has Mathematical Structure?
11 - Francisco J. Müller: The Problem of Reciprocity and Non-Reciprocity in Relativity
Theory
12 - Vladimir Onoochin: On the Impossibility to Describe the Fields of the System of
Uniformly Moving Charges in the Frame of Special Relativity
13 - Sabato Scala: Simmetrizzazione delle equazioni di Maxwell con l'introduzione del
campo gravitazionale, un'idea bizzarra?
14 - Gianfranco Spavieri, Miguel Rodríguez, Edgar Moreno: Recent Developments in the
Relativistic Electrodynamics Controversy
15 - Tuomo Suntola: Dynamic Space Converts Relativity Into Absolute Time and Distance
16 - Paramahamsa Tewari: Nature of Energy, Light, and Einstein's Light Principle in
Special Theory of Relativity
17 -
"
"
: On the Space-Vortex Structure of Cosmic Bodies
7
18 - Theo Theocharis: Louis T. More, Prophet of the 20th Century
19 -
"
"
: Ultimate Creative Ignorance
20 - Tom Van Flandern: What the Global Positioning System Tells Us about the Twin's
Paradox
Reprints
Emilio Almansi: Sulle attrazioni newtoniane di origine idrodinamica
Stefan Marinov: Annus Horribilis - (The Story of) A Payed Advertisement Published by
Nature
N. Moisseiev: Intorno alla legge di resistenza al moto dei corpi in un mezzo pulviscolare
Carl A. Zapffe: Exodus of Einstein's Special Theory in Seven Simple Steps
Recensioni/Reviews
Christopher Jon Bjerknes: Albert Einstein, The Incorrigible Plagiarist
(Thomas E. Phipps, Jr., from Infinite Energy Magazine, N. 47, 6 October, 2002)
(A brand new Appendix to the book: A Short History of the Concept of Relative Simultaneity
in the Special Theory of Relativity)
Franco Selleri (a cura di): La natura del tempo (Propagazioni super-luminali - Paradosso
dei gemelli - Teletrasporto)
8
INFORMAZIONI EDITORIALI
Episteme è soprattutto una rivista "non convenzionale" on-line, reperibile presso i seguenti
siti:
http://www.robotics.it/episteme
http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci
(Numeri arretrati: http://itis.volta.alessandria.it/episteme).
Articoli, commenti e altro materiale sono benvenuti, e possono essere presentati per la
pubblicazione da parte di ciascuna persona interessata. La spedizione può essere effettuata
vuoi a mezzo Internet, a:
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(inviare eventuali attachments soltanto in formato txt, o doc - si prega di non usare tex! - ed
eventuali figure, tabelle, etc. in formato jpg),
vuoi facendo pervenire un dischetto tramite posta ordinaria, all'indirizzo:
"Episteme"
Dipartimento di Matematica e Informatica, Università
06100 Perugia - Italy.
Respingendo ogni forma di "monopolio linguistico", Episteme intende mantenersi
plurilingue, pertanto i lavori potranno essere redatti in qualsiasi (quasi!) lingua, vale a dire
Francese, Inglese, Italiano, Spagnolo, Tedesco (etc.?!).
L'accettazione degli articoli è decisa dagli organizzatori - in base alla conformità con la linea
della rivista - che ne informeranno in modo tempestivo i proponenti, riservandosi
eventualmente di acquisire pareri di esperti (le opinioni ricevute saranno eventualmente rese
note agli interessati), e/o di chiedere agli autori chiarimenti o modifiche.
Il materiale ricevuto anche se non utilizzato non si restituisce.
- La diffusione via Internet di parti della rivista avviene in qualche caso prima della data
prevista per la pubblicazione ordinaria, dopo la quale però ogni correzione ai lavori messi a
disposizione in rete viene segnalata in un apposito Errata Corrige.
- Si fa notare che la versione on-line di Episteme è talora necessariamente "semplificata"
rispetto a quella a stampa (per esempio in presenza di caratteri o simboli speciali). Il file
originale in formato doc dei vari articoli (o dell'intero fascicolo) verrà inviato gratuitamente
dalla redazione (come attachment) a chiunque ne farà richiesta.
"Episteme" è più in generale un "progetto culturale", che non ha fini di lucro, e non è
finanziato da alcun ente, pubblico o privato. Gli organizzatori se ne ripartiscono le spese
secondo le personali momentanee disponibilità. Sovvenzioni per tenere in vita l'iniziativa
sono ovviamente ben gradite, e possono essere inviate via vaglia postale o assegno (intestati
ad Episteme) al sopra citato indirizzo.
9
Oltre alla diffusione on-line, si produce anche un certo numero di copie cartacee della rivista,
tra l'altro per distribuirle, a cura e spese degli organizzatori, presso Biblioteche, Istituzioni,
etc.. Tali copie potranno essere ottenute da singoli rivolgendone specifica richiesta agli
indirizzi sopra menzionati, al prezzo di 15 Euro cadauna. Detta somma va intesa
esclusivamente quale rimborso (assai parziale!) per le spese di stampa, rilegatura e spedizione
postale, e come contributo generale per la gestione e il mantenimento in vita del progetto. Si
ringraziano pertanto in anticipo coloro che vorranno richiedere la versione a stampa della
rivista.
EDITORIAL POLICY
Episteme is mostly an on-line publication, but it does produce even printed copies. In order to
obtain some of these (15$ each), a request should be sent to the editor, at one of the addresses
indicated below.
Episteme is interested in publishing papers which illustrate unconventional points of view that is to say, which do not usually appear in other academic journals - in Science, History and
Philosophy.
Since Episteme is thought of as a multi-linguistic journal, papers are accepted and possibly
published in Deutsch, French, English, Italian, Spanish (etc.?!).
Episteme will communicate to contributors as soon as possible whether submitted papers are
in agreement with the journal's criteria, or not.
Files of the papers, in doc or txt format (please avoid tex!), together with possible illustrations
in jpg format, should be sent either by attachment, to:
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or by diskette, through ordinary mail, to:
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Dipartimento di Matematica e Informatica
Università, 06100 Perugia - Italy.
Episteme can be found at the following web sites:
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version; afterwards, any modification of the material made available in the web is registered
in a suitable Errata Corrige.
- The Internet version of Episteme can sometimes be defective, in presence for instance of
special characters or symbols. The original file in doc format of the various articles (or of the
journal's whole issue) will be sent free (as an attachment) from the editorial office to every
people asking for it.
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Pubblicazioni ricevute/Received books and journals
1 - Enrico Barazzetti, L'Espace Symbolique - Développements du syrnbolisme mathématique
des états multiples de l'Être
Ed. Archè, Milano, en co-édition avec La Nef de Salomon, 1997
<<Que nul n'entre ici s'il n'est géomètre>> proclamait la devise inscrite à l'entrée de I'Académie
platonicienne. On peut en effet regarder le symbolisme des dimensions de l'espace comrne formant le
noyau du sens symbolique caché dans toutes les traditions, d'Orient comme d'Occident.
S'appuyant sur l'oeuvre de René Guénon - notamment Le Symbolisme de La Croix, Le Règne de la
Quantité et les signes des temps et Les Principes du calcul inflnitésimal - Enrico Barazzetti étudie et
développe ici ce symbolisme mathématique et géométrique par lequel peuvent être représentées et
comprises les vérités métaphysiques les plus complexes. Il éclaircit ainsi certaines questions délicates
de la voie initiatique, telle la transition évolutive d'un degré de l'Existence à l'autre, ou encore la
réalisation descendante, réfutant au passage plusieurs chimères du néo-spiritualisme contemporain
-comme le réincarnationnisme et "l'auto-initiation".
Du fait même de son point de vue spécial, cette étude s'adresse avant tout à ceux qui ont un intérêt
direct et rnarqué pour le symbolisme mathématique en métaphysique. Plus généralement, elle
concerne également ceux qui, ayant déjà rencontré l'oeuvre de René Guénon, sont désireux
d'approfondir quelques-unes des formulations les plus proprement métaphysiques de cette oeuvre.
2 - Silvio Bergia, Dialogo sul sistema dell'universo
McGraw-Hill, Milano, 2002
L'autore immagina che tre scienziati contemporanei discutano animatamente sui temi di maggior
interesse sui quali si svolge la ricerca in cosmologia, uno dei campi di ricerca che hanno ricevuto il
maggior sviluppo nel corso del Ventesimo secolo. I temi trattati sono: l'espansione dell'universo e le
sue modalità, la sua storia pregressa e il ventaglio dei destini che appaiono al momento ipotizzabili.
Ne emerge il quadro di una disciplina pienamente scientifica, che si è quindi svincolata dalla
pregiudiziale filosofica ottocentesca circa l'impossibilità di parlare del tutto e che, d'altra parte,
attraversa una fase di crescita rapidissima, che rende particolarmente vivace il confronto tra i suoi
cultori.
3 - E. Del Fusaro, Per un "Commonwealth" balcanico orientato verso l'Italia
Editions du Savoir Perdu, 2001
c/o Ser.ma Principessa Emanuela Kretzulesco Quaranta
Via Silvio Pellico, 2 - 43019 Soragna (Parma)
(vedi anche il testo presentato nel punto 5)
Si tratta di un opuscolo, pubblicato per la prima volta nel 1960 (la firma "Del Fusaro" era uno
pseudonimo preso fra i nomi degli antichi feudi di Casa Quaranta), destinato all'Ambasciata d'Italia a
Bucarest, ora ristampato perché le tesi ivi contenute appaiono quanto mai attuali...
4 - Paul Forman, Fisici a Weimar - La cultura di Weimar, la causalità e la teoria quantistica
A cura di Tito M Tonietti
Ed. C.R.T., Pistoia, 2002
Paul Forman racconta la discussione tra i fisici ed i matematici della Repubblica di Weimar attraverso
la quale è stata inventata la meccanica quantistica. Tale teoria fisica è importante perché costituisce la
base sulla quale successivamente è stato possibile costruire la bomba atomica, il computer moderno ed
il DNA. Alcune caratteristiche essenziali della meccanica quantistica ortodossa, come la rinuncia alla
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causalità, risentono quindi del contesto culturale seguito alla sconfitta degli imperi centrali nella
guerra.
5 - Emanuela Kretzulesco, Nouvel Institut de Recherches Scientifiques pluridisciplinaire
Nicolas Kretzulesco
Artegrafica Silva, Parma, 1997
(vedi il testo presentato nel punto 3)
L'opera è dedicata alla memoria del fisico rumeno Nicolas Kretzulesco - scomparso a Parigi nel 1985,
che rifiutò di collaborare sia ai progetti di bomba nucleare di parte sovietica, sia a quelli di parte
francese - e dell'istituzione che cercò di creare in Romania a spese personali, per favorire lo sviluppo
della scienza nel suo paese. Autore di un Les pouvoirs de nôtre esprit - Science et Foi, era laureato alla
Sorbona, discepolo di Jean Perrin (Premio Nobel 1926), collaborò con i coniugi Joliot-Curie, Louis De
Broglie (Premio Nobel 1929), etc. (l'autrice, che è la vedova dello scienziato, si trova citata anche in
Episteme N. 1 e N. 2, Sezione Reprints).
6 - Tuomo Suntola, The Dynamic Universe - A New Perspective on Space and Relativity
Data Com. Finland Oy., Third Edition, March 2002
The Dynamic Universe introduces a new coordinate system in which the ct direction of spacetime in
the theory of re]ativity is interpreted as the direction of the radial expansion of space. Space is
described as the surface of a four-dimensional sphere and the expansion takes place in a zero-energy
process in which motion is balanced by the gravitation of the structure. The new approach shows the
rest energy of matter to be the energy that matter has due to the motion of space, which enables a
detailed analysis of the energetic structure of space and objects.
What the theory of relativity explains by modifying time and metrics the DU model explains as the
consequence of energetic structure. The bending and delay of light near mass centers is a result of the
actual topology of space in the fourth dimension. Clocks in motion or subject to local gravitational
interaction do not lose time because time is distorted; they actually run slower as a result of their
energetic state.
The DU model shows a match between the geological age estimates of the oldest stars and the age of
expanding space calculated from the Hubble constant. The mass density of space (0.55 x Friedmann
critical mass) is unambiguously predicted, and the expansion of space is described in full agreement
with recent observations on the relationship between apparent magnitude and redshift. The perihelion
12
shift of planetary orbits, the Euclidean appearance of distant space, and the microwave background
radiation are explained in closed mathematical forms.
[About this author's physical conceptions see also the second section of this Episteme's special issue]
7 - Luciano T'sinai'n (Tansini), Ascolta o Israele!... - Sulla schiavitù e sull'amore romantico
[l'Etica dei Profeti: Pedagogia di libertà]
Ed. Pendragon, Bologna, 2001
http://www.pendragon.it
Luciano Tansini (T'sinai'n, suo anagramma), l'autore di questo libro, che si aggiunge agli altri preparati
nell'arco di cinquant'anni, è un vecchio inconsistente, un "nessuno", a cui piace, nel palese e
nell'occulto, evocare e ricercare giustizia e verità. Anche se la sua è una debole voce, pure sembra che
sia passato attraverso filtri di innumerevoli esistenze. Egli qui, come sempre, si confessa a se stesso e
agli altri. Purtroppo non sa chi sia, né sa chi siano gli altri, e vorrebbe sapere e vorrebbe saggezza
acquisire. Eppure i profeti (e le streghe) lo hanno quasi convinto che lui, come ogni creatura
dell'universo, è il "Sogno dei sogni", ancora non vissuto, che vuole vivere e farsi carne in ogni dove di
bellezza per dare e ricevere bellezza. Così Tansini vorrebbe, con tutto l'universo, entrare nella libertà
dei sogni senza confine.
E anche questo libro (che valorizza gli altri e ne è valorizzato e completato), si pone nel solco della
libertà di evocazione e di riflessione del sogno di libertà senza limiti, senza stato di fissità. Sogno di
Esodo, di Pasqua, di augurio del Magnificat del Vangelo e di Anna madre del profeta Samuele; vera
teologia di liberazione e di amore e di magia di grazia e di piacere contro la Tirannide; vero culto dello
spirito messianico dei profeti, di "cieli nuovi e di terra nuova" (vero Spirito della "parte femminile di
Dio", la Shekinà, l'Helohim, l'Iside...). Parte femminile che completa ed è vittoria sull'Impero della
morte, spesso mascherata da vita. Qui si fa dunque un "augurio" di Esodo di libertà senza confini.
8 - Luciano Tansini, Evocazione alla Luna - Patto col Mondo delle Madri, col loro respiro
Ed. Terra di Nessuno, Ferrara, 2002
Corso Porta Po, 72/A
44100 Ferrara
[email protected] , http://www.ferraraterzomondo.it
Questo lavoro, fatto di poesie e di prosa, lo considero il libro conclusivo, come se fosse l'ultimo filo di
una rete iniziata più di quarant'anni fa e oggi conclusa.
Questo lavoro lo considero come ultima tessitura di un tappeto immaginario, come tappeto di Aladino,
con la sua lampada del "genio".
Le riflessioni risalgono da quando ero ragazzo e tutto mi stringeva la gola e mi soffocava e io
terribilmente lottavo per sciogliere i nodi e per diventare capace di fare tappeti e vestiti di sogno che
mi permettessero di vincere l'ignoranza e la povertà della mia e di quella degli altri esistenza. Ora il
corpo di sogno prende sempre più sostanza in me e lo vorrei sviluppare in ogni dove, specie in coloro
che mi sono più prossimi.
Ho la fortuna di avere l'amore della "Madre".
Ho la fortuna di terminare il "tappeto volante" con questo inno-evocazione-benedizione al mondo delle
Madri. Immagino ricevere la benedizione delle Madri, la loro innocenza.
Le Madri ora mi aprono le loro porte e le posso amare faccia a faccia; migliore compenso non potevo
avere. La conclusione di un'opera di tutta una vita è il risveglio di una percezione di contemplazione
verso un altrove senza confini; è un entrare nel sogno evocato senza più mediazioni di scrittura o di
altro ancora. E' un ricevere la Benedizione promessa, fonte di benedizione, alla maniera di Abraham il
benedetto dalle Madri. [...]
13
9 - Paramahamsa Tewari, Universal Principles of Space and Matter - A Call for Conceptual
Reorientation
Crest Publishing House, New Delhi, 2002
G-2, 16 Ansari Road, Darya Ganj
New Delhi - 110 002 - India
This is a very singular book, in front of the current paradigm of contemporary Physics, a "cartesianinspired" work which calls for reorientation in the foundations, by wisely warning that:
> The conclusion of the modern physics that absolute space, time, simultaneity, and space filling
media are discredited ideas is certainly premature (p. 178).
The books deals with arguments such as: Discovery of Charge and Mass Equations; Fundamental
States of Cosmic Energy, Fields and Forces; Gravitation; Universal Constants; Motion of Electron;
Atomic Structure; Light; Creation of Cosmic Matter (about Tewari's physical conceptions see also the
second section of this Episteme's special issue).
"The universe must be dynamic and possess movement? Isn't this another way ot stating the content of
Einstein's 1917 and still standard geometric theory of gravity, according to which the geometry of
space is a dynamic entity, changing from instant to instant according to an utterly simple and beautiful
law? It is an honor and pleasure to be associated with you in the considerations of these deep and
wonderful questions", from a letter of Sir John Archibald Wheeler to the author (Feb. 1985).
*****
Episteme ha inoltre ricevuto dalla Società Editrice Andromeda (Via S. Allende 1, 40139
Bologna
[email protected],
http://www.alinet.it/andromeda)
l'antologia
Guerra/Guerre - I mille bandoli di una sola matassa (Inediti N. 147), a cura di Paolo Brunetti,
Paolo Caliari, Franco Ferlini, Antonio Papa, di cui ci sembra utile, nell'oscuro momento
storico che stiamo vivendo, riportare l'intero sommario, assieme all'ultima pagina di
conclusione.
14
Premessa
Guerra/Guerre - I mille bandoli di una sola matassa
Introduzione
Schede Storiche (Afghanistan - Arabi/Arabia/Arabia Saudita - Filippine - Giordania - Iran Iraq - Israele - Kuwait - Libano - Somalia - Sudan - Vietnam)
Mezzo secolo di storia italiana, con un occhio sul mondo: per ricordare l'ieri e capire meglio
l'oggi (una sintesi degli avvenimenti dal 1946 ai giorni nostri)
Islam - "Sottomissione, abbandono alla volontà di Dio" e teologia cristiana, di Gian Marco
Montesano
1 È possibile che un paese così avanzato tecnologicamente e preparato a rispondere ad
un attacco atomico nel giro di pochi minuti non sia stato in grado di intervenire su 4
aerei dirottati nei propri cieli?
Questa è un'operazione strategica coperta contro gli Usa, intervista a Lyndon LaRouche di
Woody Woodland
Il sogno infranto di due torri gemelle, di Marco Magrini
Gore Vidal - Perché odiano noi americani, intervista di Jacopo Iacoboni
Le profezie di Jan van Helsing - Quale sarà il futuro del Medio Oriente dilaniato dai conflitti?
(da "Le Società Segrete e il loro potere nel XX secolo", di Jan van Helsing)
2 Ma cos'è il terrorismo?
Terrorismo, l'arma dei potenti, di Noam Chomsky
Gli attentati. A quale scopo?, di Michael T. Klare
Come gli Usa diedero il via ai musulmani, intervista a Zbignew Brzezinski, consigliere della
Casa Bianca
Tra Stockhausen e Lucifero, di Francesco Poli
La guerra non è un diritto, di Luigi Lombardi Vallauri
3 La guerra, da sempre, costa un sacco di soldi: chi vince cosa? e chi perde cosa?
La guerra geopolitica, di Michael T. Klare
Con la guerra afghana, Bush ha saziato la sete di vendetta degli americani e allargato a
dismisura l'influenza degli Usa in Asia. Il prezzo è stato il grande ritorno in campo della
Russia, di Giulietto Chiesa
Perché combattiamo ancora, di Fabio Mini
Pentagono, il budget fa un boom "duraturo", di Manlio Dinucci
Tempi di recessione: per fortuna c'è la guerra, da ALTREconomia
Armi: chi vende a chi, di Francesco Ferreri
La guerra e l'economia, di Andromeda
4 Perché Francia, Germania e Italia hanno deciso di inviare navi, aerei e soldati
scavalcando l'Unione Europea?
Ma cosa vanno a fare?!, di Andromeda
Globalizzazione made in Usa e fragilità europea, di Paola Bonora
Alla vigilia della più grande vittoria comunitaria del dopoguerra, la moneta unica, gli europei
vanno alla guerra alla spicciolata, mentre riunioni ristrette, direttorii e doppie velocità sono
ormai all'ordine del giorno, dì Elena Comelli
5 Perché contro l'Afghanistan si sono schierati anche la Cina, la Russia, l'Iran e il
Giappone?
Il grande gioco, di John Pilger
Lo shangai di guerra, di Angelo Pascucci
Gioco triangolare fra Washington, Mosca e Pechino, di Gilbert Achcar
Den Xiao Ping, di John Cooley
Se la Cina ne approfitta, di Pietro Masina
Le conseguenze per la Russia nella 'battaglia degli oleodotti', di Fabrizio Vielmini
15
6 I petrolieri al governo degli Stati Uniti quale interesse hanno alla guerra?
Energia, il progetto di Bush, di Abid Asiam
La verità sotto terra, intervista a John Maresca
In guerra per il petrolio - L'altra faccia dei raid, di Federico Rampini
"Tutto il greggio all'Islam" la parola d'ordine di bin Laden, di Magdi Allam
Nella lobby Usa del petrolio l'altra verità su bin Laden, di Giacomo Leso
Il business del gasdotto e i rapporti con i taliban, da la Repubblica
La guerra sul treno della crisi petrolifera. Parla l'esperto Onu Alberto Di Fazio, di Francesco
Piccioni
Imbarazzo alla Casa Bianca per lo scandalo "Enron", di Vittorio Zucconi
7 bin Laden da dove viene? e cosa vuole? e i talebani da dove vengono, e cosa vogliono?
La fine della libertà, di Gore Vidal
Le ambiguità del regno saudita, di Christophe Ayad
Arabia, le "tentazioni" dell'alleato più fedele. Riad tra gli Stati Uniti e i rischi di Jiihad, di
Jean-Marie Benjamin
Carter e Breznev nella valle della decisione, di John Cooley
Da dove viene Bin Laden?, di John Cooley
8 Esiste un rapporto tra la crisi economica degli USA e la guerra?
Qualcuno deve pur fare il nemico, di Enzo Modugno
Le vere ragioni della guerra, di Manlio Dinucci
I nostri alleati contro il terrorismo, di Robert Fisk
La crisi e i cannoni, di Joseph Halevi
9 Una guerra o l'ennesima guerra? Perché tante guerre?
La pace simulata. Mezzo secolo di "pace"!, di Andromeda
Nuova geografia dei conflitti, di Michael T. Klare
La prossima guerra, di Liliana Cardile
l0 Guerra e libertà: che fine fanno le nostre liberta con la guerra?
Prefazione al rapporto alla Commissione Trilaterale, di Giovanni Agnelli
Attacco alla privacy, di Katharine Mieszkowski
Ricordate il Reichstag..., di John Perry Barlow
Il tribunale speciale di Bush - "È un attacco alla giustizia", di Vittorio Zucconi
Il terrorismo corre nell'e-mail, di Marco d'Eramo
Lettera al Presidente della Repubblica, di Umberto Bartocci
"Carnivore"
Quel tribunale molto speciale, di Domenico Gallo
C'erano una volta i grattacieli, di Paolo Persichetti
Dai diritti ai bisogni, a cura di Riccardo Petrella
11 Che rapporto c'è fra guerra e globalizzazione?
Quale rapporto fra guerra e globalizzazione?
Jeremy Rifkin, nel suo libro "L'era dell'accesso - La rivoluzione della new economy" senza
mai collegare i due termini elenca una smisurata serie di legami
Intervista a Benjamin Barber
12 Ma perché l'Afghanistan è così importante?
L'ascesa dei talebani, di Fausto Alunni
Barili di interessi sauditi, di Jürgen Krönig
Tutte le vie del petrolio, di Vijay Prashad
Macedonia, l'oleodotto va alla guerra, di Michel Chosstidovsky
Oro giallo e nero nell'oleodotto, di Michel Chossudovsky
Quanto pesa il petrolio del Caspio, di Francesco Piccioni
Campi di papavero, campi di sterminio e signori della droga, di John Cooley
L'impero della droga Bush-Cheney, di Michael Ruppert
16
13 Noriega, Saddam Hussein, Milosevic, bin Laden: burattinai o burattini? chi sta dietro
le quinte e decide le sorti del mondo?
Chi ha creato la rete del terrore, di James Ingalls
I poteri occulti, Brani da "Globalizzazione - Mondialisrno. Ambiguità di un sinonimo" di
Sergio Gozzoli
La sanguinosa ascesa del generale Sharon, di Amnon Kapeljouk
La prossima vittima, di Franco Ferlini
14 Perché il Papa e la Chiesa Cattolica si sono schierati contro la guerra?
La guerra e la morale, di Andromeda
La guerra del vescovi. Il giudizio del sinodo, di Mimmo De Cillis
Le nostre complicità con l'ingiustizia, di Carlo Maria Martini
Cominciamo a chiedere scusa, di Jonathan Power
"Nessuna guerra è buona", intervista a Michel Sabbah, Patriarca di Gerusalemme, di Patrizia
Cuffaro
La guerra e l'<<Utopia nera>> dei preatlantici, di Ernesto Balducci
L'oppio dei popoli, di Paolo Persichetti
15 Perché la grande stampa non fa che ripetere acriticamente le posizioni dei governi
della coalizione antiterrorismo?
Globalizzazione economica e della comunicazione, di Ettore Bernabei
La falsa informazione obiettiva, di Giuseppe De Micheli
L'informazione? È in autocensura, di Patricia Lombroso
Guerra e Informazione, di Astrit Dakli
Minacce e censure, di Vittorio Zucconi
Autocensura made in USA, di Marco d'Eramo
La circolazione libera delle informazioni..., di Noam Chomsky
Giornalisti in trincea, dì Raffaele Mastrolonardo
Redazioni pericolose
Se trionfa l'ideologia del denaro, lettera di Paolo Bressano a Corrado Augias e sua risposta
Piccoli scostamenti di senso, di Franco Ferlini
Postfazione
Le ceneri del mondo, di Gian Marco Montesano
Conclusione
[...] La disillusione, la frustrazione, la coscienza di "non contare nulla" in questo sistema,
porta i più ad aggregarsi a quella "maggioranza silenziosa" che oggi rappresenta lo "zoccolo
duro" del cinismo di massa (ma dalla quale, forse, potrebbero venire le sorprese più
inaspettate). Quarant'anni di propaganda, di film western e di guerra, di un "benessere" tutto e
solo materiale, di un inculcamento del modello efficientista (dal guerrafondaio Rambo allo
yuppie rampante, ma sempre, comunque aggressivo) hanno portato all'attuale situazione di
"adesione alla guerra" da parte del "cittadino qualunque". Il lavaggio del cervello (il Grande
Fratello al servizio delle Sette Sorelle) è stato perfetto: il colpevole è uno ed uno solo,
(Saddam Hussein? Milosevich? Bin Laden?...) che va eliminato "per ristabilire il diritto
internazionale". [...]
Il "diritto internazionale" è stato violato centinaia di volte, solo negli ultimi decenni, e assai
più spesso dai civili e progrediti occidentali che dagli altri!
Ma tutto ciò "non ha importanza, non si può risalire troppo addietro nella storia!", certi
legami storici in questa situazione appaiono sospetti! Il bravo cittadino è stato abituato a non
avere il minimo desiderio di informazione, il minimo senso di esame critico della situazione.
(Ricordate Orwell in "1984"?)
Chiunque si provi a parlare di "soluzione non violenta" è attaccato con violenza. Si parla di
diritto, ma lo si fa praticando la violenza.
17
E mentre i giorni passano, mentre le operazioni chirurgiche mostrano sempre più evidenti
(nonostante le censure militari e politiche) i caratteri del massacro quanto più si svela la reale
"natura" di questa guerra tanto più irato e violento diventa l'attacco a chi ancora si permette di
nominare la parola pace. Perché non si può parlare di pace, giustizia e onore a chi sceglie di
uccidere per affermare il proprio dominio economico e politico mascherandosi con le vesti,
ormai consunte dalla storia, del crociato liberatore. A chi vuoi fare un deserto e chiamarlo
pace.
Così diviene sempre più faticoso e compromettente mettere in discussione lo stato delle
cose, e nasce dentro di noi un forte desiderio di silenzio. Ma la ricerca di un'altra
dimensione in cui scorgere segni di pace e umanità ci sospinge incessantemente; il senso
dell'esistenza di un'etica umana indistruttibile, per quanto infangata e sbiadita, ci rende
consapevoli che questa dimensione esiste, che ciascuno la può trovare: basta iniziare a
cercare dentro se stessi, a cercare, se ancora ve n'è traccia, nella nostra anima.
(Da "Una fine con orrore, o un orrore senza fine?" in "Guerra: cadono le maschere", Inediti n.
42, Andromeda, 1991)
*****
Tra i nuovi titoli di riviste pervenute alla Redazione di Episteme, per le quali tutte ringraziamo
sempre sentitamente i curatori, segnaliamo:
- Anthropos & Iatria, Rivista Italiana di Studi e Ricerche sulle Medicine Antropologiche e di
Storia delle Medicine, Anno VI, N. 1, Gennaio-Marzo 2002
Nova Scripta (Salita San Francesco da Paola 20/7, 16126 Genova) e De Ferrari Ed. (Via G.
D'Annunzio 2/3, 16123 Genova)
http://www.medicinealtre.it
18
Editoriale
Dott.ssa Guglielmina Montano, Introduzione al Convegno Bioetica e Filosofia della Medicina
Prof. Evandro Agazzi, Il significato di una medicina umanistica
Prof. Paolo Aldo Rossi, Umanesimo e scienza - ιατρεια αιρετικης ossia "la cura eretica"
Recensione
Prof. Carlo Maccagni, Le razionalità, la razionalità
Dott. Fernando Piterà, Omeopatia - Medicina ippocratica, umanistica e scienza
Prof. Pietro M. Boselli, Le professioni sanitarie divise tra umanesimo e scienza
Prof. Giovanni Pierini, Una metà divisoria che impone una scelta
Prof.ssa Ida Li Vigni, Le stagioni della follia
Dott.ssa Lourdes Velàsquez Gonzàlez, Artificialità e naturalità nella discussione etica sulla
procreazione assistita
Prof. Stefano A.E. Leoni, Medicina, scienze e musica nella trattatistica araba
Prof.ssa Luisella Battaglia, Bioetica e umanizzazione della medicina
Dott.ssa Rosangela Barcaro, Eutanasia e suicidio assistito
Dott.ssa Anna Vigoni Marciani, Medicina tra umanesimo e scienza: la fitoterapia
Dott. Davide Arecco, I profeti di Londra
Dott. Ottavlo Oliveri, La morale dell'attuario
Dott. Luca Norfo, Pratica medica e centralità dell'uomo nella moderna società mazateca
- HELIODROMOS - Contributi per il fronte della Tradizione
A cura del Centro Studi di Formazione Tradizionale Heliodromos
N. 17 - Primavera 2002
edizioni "IL CINABRO" - Via Crociferi, 54 - 95124 Catania
19
EDITORIALE: Ora o mai più
INEDITI: La fine del mondo, Guido De Giorgio
CONTRIBUTI DOTTRINARI: Introduzione al Ciclo Avatarico Da Matsya a Kalki (seconda
parte), Giuseppe Acerbi
SIMBOLISMO: Hyperborea, Claudio Mutti
RACCONTO: La coppa e l'acqua, Renzo Arcon
GENESI DEL MONDO MODERNO: Janua Inferni, Bruno d'Ausser Berrau
CONTROSTORIA: Gli esercizi spirituali dei Gesuiti, Fortunato Pavisi
RIFLESSIONI - Dentro e fuori le mura
ANALISI
Marco Revelli - Pino Tripodi, Lo stato della globalizzazione
David Icke, Io sono me stesso io sono libero: La guida per i robot verso la libertà
Julius Evola, Il Fascismo e l'idea politica tradizionale
Julius Evola, Mussolini e il razzismo
LETTERE A HELIODROMOS
[Segnaliamo in particolare l'interessante articolo di Fortunato Pavisi sugli esercizi spirituali
dei Gesuiti, che fornisce al lettore una serie di informazioni assai poco comuni, ma la cui
fondatezza è comunque da verificare con attenzione]
- NOUVELLE ECOLE
Histoire - Philosophie - Sciences - Economie - Droit
N. 52 - 2001 (trente-troisième année)
Directeur: Alain de Benoist
41 rue Barrault - 75013 Paris - France
[email protected]
20
Le christianisme et les religions du Livre (Pierre Le Vigan)
Jésus sous l'oeil critique des historiens (Alain de Benoist)
Jésus et ses frères (Alain de Benoist)
La persécution contre les païens, de la conversion de Constantin (312) à la mort de Justinien
(565) (Alexandre Gryf)
Bibliographie
Monte Verità (1900-1920): une <<communauté alternative>> entro mouvance völkish et
avant-garde artistique (Philippe Baillet)
Nietzsche et la musique (Michel Lhomme)
Nécrologie
Présentation par Alain de BENOIST:
CHRISTIANISME
En s'implantant en Europe, au sein d'une culture qui, lorsqu'il apparut, avait déjà derrière elle
deux ou trois mille ans d'existence, le christianisme a puissamment contribué à la transformer.
Il apportait en effet avec lui des nouveautés inouïes. D'abord l'idée dune humanité une,
composée d'individus égaux pour l'essentiel, car tous dotés d'une àme en égale relation avec
Dieu. Puis la distinction, empruntée aux Hébreux, entre un être incréé, nécessaire et parfait, et
un être créé, contingent et imparfait. Posés comme radicalement distincts, le monde et Dieu
devaient dès lors être pensés séparément. Le monde perdait du même coup son autosuffisance
et sa qualité d'être: non seulement il n'était plus intrinsèquement le lieu du divin mais, étant
imparfait, il pouvait légitimement être arraisonné dans l'espoir d'être rendu <<meilleur>>.
Désacralisé, l'existant tel qu'il est, le Tout-Un (hen kai pan) se trouvait assujetti à un devoirêtre. S'y ajoutait la notion d'un salut qui, comme le disait Théophile d'Antioche, ne pouvait
plus reposer sur le rite, mais jouait avant tout un ròle de compensation: consoler l'individu de
son appartenance à ce monde imparfait. S'y ajoutait encore une conception de l'histoire
comme création continuée et finalisée, c'est-à-dire comme système irréversiblement orienté
vers le futur. Et enfin l'idée de péché, bien distincte de celle de faute ou d'erreur, assortie de
celle d'une corruption originelle, héréditaire.
Ces idées nouvelles ont contribué à faire de l'Occident ce qu'il est progressivement devenu:
un monde étranger à lui-méme. Dès la fin du II et le début du III siècle, toute une
<<Aufklärung chrétienne>> s'est en outre développée sur la base d'une théologie du Logos,
introduisant dans la religion un principe de rationalité éthique et d'<<émancipation>> qui
allait créer les circonstances de l'éclosion de la modernité.
Le christianisme a aussi apporté avec lui une intolérance d'un genre jamais vu. Cette
intolérance, ordonnée aux notions, elles aussi nouvelles, de dogme, d'hérésie et de conversion,
l'a caractérisé dès ses débuts, comme en témoignent les imprécations d'un Tertullien (<<Mais
qu'y at-il de commun entre Athènes et Jérusalem?>>), d'un Tatien, d'un Minucius Félix, d'un
Cyrille d'Alexandrie ou d'un Lactance. Toute la première littérature chrétienne n'est qu'un
long cri de haine, appelant à l'interdiction, à la destruction, au pillage. Plus tard, partout où
elle a eu le pouvoir, l'Eglise a persécuté. Ces persécutions, associées aux croisades, aux
conversions forcées, à la lutte contre les hérétiques, les indigènes, les païens ou les juifs ont
fait des victimes par dizaines de millions. Avec l'Inquisition, l'exigence de conformité s'est
étendue jusqu'au for intérieur, créant le modéle de toutes les futures <<polices de la pensée>>.
De la <<loi des suspects>> aux procès staliniens, de la confession et de l'<<examen de
conscience>> à l'autocritique, les régimes totalitaires, visant eux aussi à la mise en conformité
totale, poursuivront sur cette lancée.
La modernité a vu le transfert svstématique de tous les grands concepts théologiques à la
théorie de l'Etat. Le modèle de la <<monarchie de Dieu>>, transposé dans le système papal de
21
la plenitudo potestatis, a inspiré toutes les formes de l'absolutisme politique. L'universalisme
moderne, qui étend partout le règne du Même, prolonge à sa façon les vues d'un Eusèbe de
Césarée, grand défenseur de la <<théologie politique>>, qui arguait déjà de la force
pédagogique du Logos divin pour justifier l'hostilité chrétienne aux particularismes culturels
ou religieux. Celse, dans son Discours vrai, reprochait d'ailleurs déjà à l'universalisme
chrétien d'incarner un élément de <<révolte>> (stasis) contre un universel conçu en termes de
pluralité: <<Celui qui détruit les cultes nationaux détruit aussi en dernière instance les
particularités nationales et attaque en même temps l'Imperium romanum qui respecte la place
des cultes et des particularités nationales>>.
Le monde moderne est né d'un mouvement dialectique. D'un côté, il s'est émancipé de la
religion, qu'il a rejetée dans le domaine privé des opinions individuelles, s'attirant ainsi, dans
un premier temps, l'hostilité de l'Eglise. De l'autre, il sest construit au travers d'un processus
de sécularisation, sur la base d'idées chrétiennes retranscrites en mode profane, c'est-à-dire sur
une interprétation <<mondaine>> des potentialités inscrites dans la foi chrétienne et dans sa
conception eschatologique du temps. Le christianisme n'a pas été le vecteur ou le moteur de la
modernité, mais son terreau, son <<sol nourricier>>, disait à juste titre le jésuite Joseph
Moingt. Comme si sa signification historique avait été de préparer l'avènement de la
modernité, et que son rôle strictement religieux était maintenant terminé. C'est ce qui explique
le caractère paradoxal de sa situation actuelle: en même temps qu'il dépérit comme croyance,
il triomphe comme idéologie. Le monde contemporain ne croit plus guère en Dieu, mais
continue plus que jamais à penser dans des catégories chrétiennes sécularisées. On peut dès
lors parler de <<monothéisation>> du social. Le christianisme peut bien dénoncer
l'indifférentisme ou le matérialisme pratique dont il est aùjourd'hui victime, il ne dénonce
jamais que ce qu'il a engendré. En fin de compte, la modernité n'est que la dernière en date
des hérésies chrétiennes. Le monde postmoderne sera aussi un monde postchrétien.
*****
The Alain De Benoist Collection
This Collection of articles features pieces by Alain de Benoist - and others about him. It is
impossible to do justice in a brief introduction to the importance of the thought of de Benoist.
Readers should appreciate that in a career of over three decades, de Benoist has laboured to
change the very discourse of that mercurial beast sometimes labelled - 'radical nationalist
politics'. Through the Research Group For The Study Of European Civilization (GRECE in its
French acronym), and the circles and publications which grew up around it, de Benoist
developed a theory of long-term counter-cultural struggle for hegemony with the dominant
'Western liberal internationalist ideology'. Drawing upon the theories of the Italian communist
Antonio Gramsci, de Benoist started a struggle to 'contest' and delegitimise this opposing
ideology. Labels should not be imposed on de Benoist although the term 'Nouvelle Droit'
(New Right) was one which he used. In a war of ideas, it was the appointed function of the
Nouvelle Droit to provide new arguments. [...]
[http://www.alphalink.com.au/~radnat/debenoist/index.html]
22
[Episteme è orgogliosa di presentare ai suoi lettori, in esclusiva anteprima
assoluta, un capitolo di un libro di Lia Mangolini attualmente in fase di
preparazione.]
La vera natura del "magico Shamìr"
A proposito di un'antichissima tecnologia
per la lavorazione della pietra senza l'uso di strumenti metallici
(Lia Mangolini)
Storia e leggenda
"Il quinto mese, il sette del mese, corrispondente al diciannovesimo anno di Nabuchadnèsar,
re di Babilonia, giunse a Gerusalemme Nabuzardàn, comandante della guardia, subalterno
del re di Babilonia" (2 Re 25, 8). La prima volta che casualmente mi imbattei nello Shamìr, si
trattava solo di un fuggevole accenno contenuto in un articolo che parlava della Massoneria, e
diceva pressappoco quel che segue.
Durante la seconda conquista di Gerusalemme da parte dei Babilonesi (che la Bibbia chiama
"caldei") nel 587 a.C. - con susseguente saccheggio dell'intera città, messa a ferro e fuoco, e
deportazione dei suoi abitanti - dal Tempio di Salomone fu portato via tutto quanto c'era
ancora di prezioso. Ma quasi ogni arredo e oggetto in oro e in argento era già stato sottratto
dieci anni addietro durante il primo episodio di questo genere, quello portato a termine nel
597 a.C. dallo stesso Nabuchadnèsar, o Nabucodonosor (1). La spoliazione compiuta dai
caldei - benché definitiva e, questa volta, completa - fu quindi, per forza di cose, più modesta
quanto a valore venale, ma non per importanza. Oltre all'asportazione di tutti gli oggetti
mobili, furono demoliti e portati via tutti gli accessori in bronzo del Tempio, compresa la
grande vasca per la purificazione dei sacerdoti (2) e le due colonne, poste all'esterno ai lati
dell'ingresso: modello comune a tutti gli impianti templari di questo periodo e di questo
àmbito geografico. Le due colonne, delle quali la Bibbia riporta minuziose descrizioni (3), e
alle quali Salomone aveva dato i nomi di "Jachin", quella di destra, e "Boaz", quella di sinistra
(cioè, forse, "Stabilità" e "Forza"), erano cave. Fin qui, per quanto attiene la testimonianza
"storica" dell'Antico Testamento. La leggenda riportata dalla tradizione midràshica (4),
tuttavia, fornisce ulteriori dettagli. Insieme alle colonne fu asportato il loro contenuto: nella
loro cavità, infatti, veniva conservato l'intero archivio storico del popolo d'Israele, assieme ai
documenti che riportavano la summa di tutto il sapere e tutti i segreti scientifici. Pare poi che
in seguito, per vie misteriose, quei documenti siano entrati in possesso della Massoneria, che
li deterrebbe tuttora. Fra essi, era custodito il segreto di "qualcosa" che nessuno più sa cosa
sia: il "magico Shamìr" (5).
Il mio secondo incontro - anch'esso fortuito - con lo Shamìr avvenne leggendo un altro
midràsh e fu molto più illuminante; ma non a sufficienza. Il racconto riporta che, per la
costruzione del Tempio (6), Salomone aveva dato ordini molto precisi. Secondo la Legge
mosaica, Legge divina, nessun materiale (pietra, legno, oro, avorio eccetera) doveva essere
lavorato con attrezzi di ferro (7), il metallo di cui son fatte le armi che portano morte.
L'altare, soprattutto, non doveva essere profanato in nessun modo da quel contatto, e nel
cantiere non doveva entrare nemmeno un chiodo; né tanto meno martelli, scalpelli, picconi o
altro. Tanto è vero che il materiale da costruzione - o almeno, sicuramente, la pietra - era
arrivato sul posto già squadrato, se non rifinito, di modo che durante i lavori "non si udì nel
Tempio nessun rumore prodotto da utensili metallici". L'unica maniera alternativa di lavorare
23
la pietra senza impiegare strumenti di ferro era quella di usare il "magico Shamìr"(8). Dio
stesso l'aveva dato sul Sinai a Mosè, che se ne era servito per incidere i nomi delle dodici tribù
sulle pietre incastonate nel pettorale e nell'"efòd" che facevano parte dei paramenti del
Sommo Sacerdote.
Da allora però lo Shamìr era sparito e non si sapeva più che fine avesse fatto.
Ma la storia racconta poi di come Salomone (in modo a dire il vero non troppo onorevole)
riuscì a procurarselo. Il dèmone Asmodeo (che sa dove si trovano tutti i tesori nascosti) fu
costretto a rivelare al re che Dio aveva consegnato lo Shamìr a Rahav, l'Angelo (o il Principe)
del Mare, il quale non lo affidava mai a nessuno se non, raramente e solo a fin di bene, al
gallo selvatico (o gallo cedrone, o gallina di brughiera, o aquila di mare, a seconda delle
versioni), che viveva lontano, ai piedi di montagne mai esplorate dall'uomo: questi se ne
serviva per "forestare" intere colline nude e pietrose, producendovi - per mezzo dello Shamìr innumerevoli forellini, nei quali poi piantava semi di varie piante e di alberi. Ciò veniva fatto
nell'imminenza della migrazione di gruppi tribali divenuti troppo numerosi, che più tardi,
arrivando sul posto, avrebbero trovato un ambiente vivibile. In quell'occasione, re Salomone
riuscì con l'inganno a sottrarre il magico "tarlo" al gallo selvatico, che se lo era fatto prestare
da Rahav per un caso di forza maggiore: il re infatti, proprio per costringere il pennuto a
questo espediente estremo, aveva fatta porre sopra il suo nido una piccola cupola di vetro,
separandolo così dai suoi piccoli. Volò verso occidente l'uccello disperato, in cerca di Rahav;
quando tornò portava nel becco lo Shamìr, con il quale in pochi istanti riuscì a perforare o a
disintegrare il vetro, lasciando poi cadere lo Shamìr, che Salomone lestamente raccolse. A lui
che stupito chiedeva cosa mai fosse quella misteriosa e portentosa sostanza e da dove venisse,
il gallo selvatico rispose che la si poteva trovare lontano, sulle Montagne dei Dormienti, e là
lo condusse, dove il re ne fece scorta sufficiente a completare tutte le opere del Tempio che
non potevano essere eseguite usando strumenti metallici. Particolare pietoso, si dice anche che
il gallo selvatico, per la vergogna di aver perso lo Shamìr, si sia suicidato. Vedremo fra poco
quante e quanto strette analogie (luoghi, personaggi, miracolose caratteristiche e modalità
degli avvenimenti) questa leggenda mostri con le altre sparse in tutto il mondo. Il racconto dà
inoltre una interessante precisazione: lo Shamìr - che, almeno in alcune versioni, a fine lavori
venne restituito al suo custode - venne da Salomone riposto e in seguito conservato (era quello
l'unico modo di trattarlo correttamente) in un cestino pieno di crusca d'orzo.
Ma che cos'era dunque lo Shamìr?
Particolari tecnici
Quella sopra riportata è solo una delle molte narrazioni relative allo Shamìr: segno che malgrado l'incertezza dell'identificazione - a suo tempo era "qualcosa" di ben noto e diffuso.
Infatti ho trovato più tardi numerosi altri dettagli. Provengono da almeno una quindicina di
midrashìm diversi (alcuni dei quali molto antichi) ma sostanzialmente concordi sui punti
principali, che figurano in svariate antologie, ma meglio accorpati o riassunti in quella che è la
più completa e ponderosa raccolta moderna del genere, "Le leggende degli ebrei" di Louis
Ginzberg. Rimandando ad uno studio più approfondito l'esame diretto delle fonti originali, i
particolari che ne emergono sono i seguenti.
•
•
•
Lo Shamìr, con altre creature soprannaturali, venne creato al crepuscolo del sesto giorno
della Creazione.
E' grande più o meno come un grano di frumento o d'orzo, e possiede la mirabile proprietà
di tagliare qualsiasi materiale per quanto durissimo, anche il più duro dei diamanti.
Per questa ragione venne utilizzato da Mosè per lavorare le gemme poste sul "pettorale del
giudizio" del Sommo Sacerdote. I nomi dei capi delle dodici tribù furono dapprima
tracciati con l'inchiostro sulle pietre destinate a essere incastonate nel pettorale (e anche
sulle due onici dei fermagli posti sulle spalline dell'"efòd" - N.d.A.) poi lo Shamìr venne
24
•
•
•
•
passato sui tratti che rimasero così incisi (dalla letteratura rabbinica). Il fatto più
straordinario fu che l'attrito (o l'azione) che segnò le gemme non produsse nessun residuo.
Lo Shamìr venne inoltre usato per tagliare le pietre con cui fu costruito il Tempio, perché
la legge proibiva di usare per quest'opera strumenti di ferro (dal Talmud e dalla letteratura
midràshica).
Lo Shamìr non può essere conservato in un recipiente chiuso di ferro o di qualunque altro
metallo, poiché lo farebbe scoppiare. Esso va avvolto in un panno di lana e deposto in un
cesto di piombo pieno di crusca d'orzo.
Lo Shamìr rimase in paradiso sinché Salomone non ne ebbe bisogno e mandò l'aquila (o
un altro volatile) a prenderlo. Era il più meraviglioso possesso del re.
Con la fine dei lavori del Primo Tempio, o con la distruzione del Tempio stesso, lo Shamìr
scomparve. (9)
Chiaramente, la leggenda su re Salomone e il gallo selvatico ha soprattutto le caratteristiche di
un racconto immaginario. Contiene tuttavia un paio di indicazioni concrete, e inoltre alcune
informazioni che potrebbero consentire un collegamento - lo vedremo più avanti - con miti
consimili appartenenti ad altri àmbiti culturali, sia geograficamente vicini che
inverosimilmente lontani. L'intero collage di citazioni midràshiche di Louis Ginzberg
presenta da parte sua alcuni dati fantastici (la creazione dello Shamìr al crepuscolo del sesto
giorno, insieme ad altre "creature soprannaturali"; il fatto che Salomone mandò l'"aquila" a
prenderlo in paradiso), ma soprattutto vi dominano connotazioni e dettagli estremamente
realistici, tali da suggerire fortemente l'impressione che la descrizione dello Shamìr che vi
compare fosse frutto di osservazioni di prima mano, più che di pura fantasia. Un articolo di
Phillip Clapham poi, citandone un altro pubblicato da Velikovsky sulla rivista "Kronos" (VI:
1) (torneremo più avanti su entrambi), aggiunge il particolare, tratto probabilmente da qualche
altro midràsh, che anche le due Tavole della Legge, scritte da Mosè sotto dettatura divina,
erano state incise usando lo Shamìr. Nel semileggendario "Testamento di Salomone" (del III°
secolo d.C.) si narra inoltre che, durante la costruzione del Tempio, gli operai addetti ai lavori
soffrivano di un male misterioso che provocava grande spossatezza: ogni giorno più pallidi,
con profonde occhiaie, deperivano, non riuscivano più a lavorare, e ogni notte erano visitati
da vampiri e dèmoni che li affamavano rubando loro il cibo (il che, a parer mio, significa che
rimettevano anche l'anima). Quando incominciarono a morire, il re salì sul monte Moria e
pregò Dio, il quale gli mandò in dono - tramite l'arcangelo Michele - il famoso anello d'oro,
con incisi la stella e il Suo ineffabile Nome, che dava poteri straordinari e immensa saggezza
(in quell'anello fu più tardi incastonato lo Shamìr, che era una specie di rutilante "pietra
verde", un "portentoso gioiello che irradiava luce"). Vampiri e dèmoni furono messi, al posto
degli operai, a tagliar pietre giorno e notte. Questo è, più o meno, tutto quello che si sa sul
"magico Shamìr". Complessivamente, dai brani citati si possono trarre le seguenti
informazioni "tecniche":
1) lo Shamìr poteva essere usato per foggiare e per lavorare qualunque minerale, anche le
pietre più dure - un midràsh dice "anche il legno duro come pietra" - diamante compreso (che,
in alcune versioni, figura tra le gemme del pettorale); era in grado di intaccare anche il vetro;
la sua azione non lasciava residui (10);
2) il suo aspetto era quello di un "qualcosa" delle dimensioni di un granello d'orzo, forse di
colore verde;
3) non poteva essere conservato in un contenitore metallico chiuso, che sarebbe esploso (o si
sarebbe fuso): liberava vapori? o che altro?
4) solo il piombo, anzi un recipiente non ermetico di piombo, se protetto da una adeguata
coibentazione, poteva resistere alla corrosione (o comunque alla reazione chimica) da esso
prodotta;
25
5) non danneggiava la lana né la crusca, e - con qualche problema - si poteva manipolarlo a
mani nude (11);
6) non inibiva la crescita delle piante;
7) con l'andar del tempo (si parla di circa 400 anni, quelli intercorsi fra la costruzione e la
distruzione del Tempio; ma forse ne occorsero molti meno) "scomparve", o meglio "divenne
inattivo" (12).
Appare piuttosto evidente che la descrizione di questo "qualcosa" fosse dovuta, in origine,
all'esperienza diretta di chi con questo "qualcosa" aveva avuto a che fare, e che l'aveva usato.
Ed appare ugualmente evidente - poiché all'epoca della stesura di questi testi, di cosa fosse di
preciso lo Shamìr si era ormai persa la memoria - che le straordinarie caratteristiche di questo
"oggetto misterioso" non sono riferibili ad alcuna delle più comuni interpretazioni che ne
vengono date.
Il dizionario ebraico-italiano, alla voce "SHAMIR", elenca infatti diverse, mirabilmente
eclettiche definizioni: 1) diamante (?) (sic); 2) verme leggendario che tagliava le pietre per il
Santuario; 3) finocchio; 4) paliuro. E questo è tutto.
L'unica indicazione aggiuntiva viene dal termine, subito sotto riportato, di "niàr shamìr" che
in ebraico moderno a tutt'oggi, correntemente, indica la comune "carta vetrata", cioè qualcosa
che consuma e corrode.
Qui ci troviamo evidentemente nel campo delle ipotesi. Dirò di più, siamo al livello degli
indovinelli da bambini: minerale, animale o vegetale?
Ora, è chiaro che siamo costretti a considerare attendibili i dati forniti. D'altronde, non
abbiamo alternative. Quindi, sulla base degli elementi descrittivi a nostra disposizione, e alla
luce delle conoscenze scientifiche attuali, cercherò per prima cosa di escludere le
interpretazioni "impossibili", e quindi (anche mettendo in atto i collegamenti cui prima
accennavo) di identificare tentativamente il favoloso Shamìr. Ma che cos'era insomma?
Sette spiegazioni e mezza
MINERALE
E' doveroso oltreché pertinente, in questa sede, riportare le origini del termine e le sue
successive modificazioni. "Shamìr" viene, pare, dall'antica parola indoeuropea "smer", che
indica una "polvere minerale per levigare o segare"; e non si può negare che in effetti la
funzione del "nostro" Shamìr sia quella, né che nei due vocaboli sia presente la medesima
radice "SMR". In greco quel materiale venne chiamato "smeris" o "smiris", in latino
"smericulum", in francese e in inglese moderni rispettivamente "émeri" ed "emery", in italiano
infine "smeriglio".
In ebraico, come abbiamo visto, sono stati invece conservati sia il senso che, insieme, la
forma della parola. Tutte queste versioni hanno sostanzialmente lo stesso significato:
"smeriglio", per l'appunto. Solo che questa interpretazione non mi procura una particolare
soddisfazione, poiché con quel termine si definiva (e si definisce tuttora) un notissimo
abrasivo proveniente dall'isola di Naxos nelle Cicladi (che tuttora lo esporta), e ricavato
polverizzando una locale varietà granulare compatta di corindone. Da nessuna parte sta scritto
che fosse un dono divino gestito da un uccello, circondato da un alone di leggenda, né che
avesse abitudini esplosive, o che facesse ammalare la gente, o che avesse l'aspetto di un
granello d'orzo, o che si inattivasse dopo un certo tempo. Tutto ciò che questo materiale inerte
sa fare è unicamente levigare e lucidare, più o meno come la normale pomice o la polvere di
quarzo (c'è una bella differenza con quanto si legge a proposito dello Shamìr!). E a me questo
non basta. Per cui, ritenendo valida soltanto - e soltanto in parte - l'affinità dell'uso, sarò
costretta ad accantonare questa ipotesi. C'è una sola notazione interessante e curiosa da fare:
"smeriglio" viene chiamata anche una specie di uccello predatore molto piccola appartenente
26
alla famiglia dei Falconidi, ed è pure un altro nome con cui viene indicato lo sparviere. Ma
vediamo ora cosa dice il dizionario.
"DIAMANTE" (?):
E' il dizionario stesso che, con quel punto interrogativo, manifesta nei riguardi di questa
interpretazione la sua perplessità. Infatti (per quanto il termine "Shamìr" compaia diverse
volte nei Libri di alcuni Profeti (13) a indicare qualcosa di più duro della roccia e del ferro), è
chiaro che, accogliendo tale definizione, ciò che viene considerato, pure qui, è soltanto il
possibile effetto, il risultato dell'azione svolta sul materiale lavorato. Anche questo punto di
vista, in più, lascia aperti altri problemi, poiché un'incisione eseguita con una punta di
diamante produce limatura o polvere, contrariamente a quanto veniva detto dello Shamìr (anzi
era proprio questo, per gli autori dei midrashìm, uno dei suoi aspetti più straordinari).
L'ipotesi, oltre tutto, diviene ancora più fragile se si considera che in teoria con quel
"diamante" dovrebbero essere state tagliate in misura e rifinite le enormi pietre (14) messe in
opera nella costruzione del Tempio. In ogni caso, l'impiego per quell'uso del diamante (pietra
pure allora assai rara e preziosa, tanto da far parte forse del pettorale del Sommo Sacerdote)
sarebbe stato insostenibilmente dispendioso. E, a parte questo, dove avrebbe potuto Salomone
procurarsene i quantitativi necessari, visto che non risulta che in Israele né in Egitto o in altri
paesi vicini esistano giacimenti diamantiferi? D'altronde, nemmeno tale lettura tiene in alcun
conto le altre numerose indicazioni contrarie: né le dimensioni indicate, né il carattere
"esplosivo" dello Shamìr, e neppure l'affermazione che col tempo esso divenisse "inattivo".
Insomma, a parte l'effettiva "capacità" del diamante di tagliare qualunque pietra, non c'è
nessun elemento che concordi. Cosa che, credo, ci autorizza a escludere questa
identificazione.
E, poiché stiamo indagando sulla possibile natura minerale dello Shamìr, è in questa sede che
devo inserire una ipotesi molto più originale ed interessante di quella dello smeriglio o del
diamante, ma che gli antichi esegeti e autori di midrashìm non potevano certo prendere in
considerazione, anzi non potevano neppure immaginare.
SOSTANZA RADIOATTIVA:
Sempre a partire dalla stessa (e unica) fonte di Ginzberg, altri ricercatori giungono a
conclusioni completamente nuove e diverse che, sostanzialmente, vedono nello Shamìr una
qualche - non ben precisata - forma di energia. Un articolo di David Salkeld (15) richiama ed
approfondisce quello già citato di Velikovsky (16), il quale a lungo si occupò pure di questi
problemi e le cui teorie "eretiche" sollevarono grande scalpore verso gli anni '50.
Diversamente dagli esegeti biblici, sostenitori di più tradizionali interpretazioni (a
giustificazione dei quali, comunque, è appena il caso di ricordare che non erano di certo
scienziati dell'era nucleare), Velikovsky aveva invece preso in esame alcune altre
caratteristiche dello Shamìr, da questi solitamente trascurate - immagino, per mancanza di
spiegazioni sensate -: "colore verde" (forse), simile a quello di alcuni sali di elementi pesanti;
corrosività nei confronti di tutti i minerali e metalli tranne il piombo; "inattivazione" nello
spazio di 400 anni o meno. Era perciò giunto a identificare - per quanto non esplicitamente lo Shamìr con qualche tipo di sostanza radioattiva. Poteva forse trattarsi del radium, o di un
suo sale, o di qualche altro isotopo della serie dell'uranio, dell'attinio o del torio: purché
avesse una "vita energetica" compatibile con la durata documentata dell'attività dello Shamìr
(valutata in circa 900 anni, cioè dall'epoca dell'esodo a quella della distruzione del Primo
Tempio; ammesso naturalmente, come ho rilevato alla nota 12, che si trattasse sempre dello
stesso Shamìr). Se non è vera, è ben pensata, come diceva un mio vecchio maestro. Perché fin
qui il discorso torna, o parrebbe tornare. Ma vedremo più avanti perché invece non sia così.
Salkeld cerca di avvalorare questa tesi con diverse argomentazioni.
27
E' un dato di fatto che oggi in natura i minerali radioattivi - per quanto forse più abbondanti in
passato - sono rarissimi sulla superficie terrestre (3-4 grammi di radium dispersi in 2000
tonnellate di pechblenda), e possiamo supporre che, 3500 anni fa, chi non ne conoscesse le
potenzialità ben difficilmente avrebbe investito il suo tempo e le sue energie per procurarseli
con l'estrazione mineraria. E c'è inoltre il problema che, anche in questo caso, né in Israele né
nei paesi limitrofi sono noti giacimenti di tali minerali. Tuttavia, poteva anche darsi che la
miracolosa e inidentificata sostanza fosse stata trovata "concentrata" in superficie, cioè - per
così dire - già pronta all'uso, e che, riconosciutene la natura "speciale" e le peculiari proprietà
(ma come?), fosse stata conservata e quindi utilizzata nei modi già visti.
Per la supposta esistenza di questo elemento, Salkeld dà due possibili spiegazioni:
1) Precipitato con un bolide meteoritico. A sostegno di questa supposizione, vengono citati
diversi elementi.
• La presenza, nel racconto su re Salomone e il gallo selvatico, sia dell'Angelo del Mare che
di un uccello: "segno" che lo Shamìr veniva dal cielo.
• Una "pestilenza" verificatasi sotto il regno di Davide, durata tre giorni e che uccise
70.000 persone, portata a Gerusalemme da un "Angelo sterminatore che stava fra cielo e
terra con la spada sguainata" (17): si trattava forse di "morte nucleare" da contaminazione
radioattiva? Ma quale "peste", nucleare o biologica che sia, agisce solo per tre giorni?
• Il "fatto" che, dopo quell'avvenimento, il re Davide - con grande costernazione di tutta la
corte - divenne stranamente debole e impotente (ma aveva anche settant'anni!), e che pure
Salomone più tardi fu ben poco prolifico. Secondo quanto Salkeld ipotizza, questi
potrebbero essere indizi dei nefasti effetti delle radiazioni, prodotti dallo Shamìr sulla
persona di chi, venutone in possesso, se lo fosse portato sempre addosso come un
talismano celeste: l'uno e poi l'altro re, appunto.
Ora, a favore della tesi meteoritica, bisogna ammettere che è pur vero che molte leggende in
tutto il mondo parlano di "pietre magiche" dai presunti straordinari poteri, di solito cadute dal
cielo. E' parimenti vero che molti santuari e luoghi di culto divennero oggetto di particolare
venerazione proprio per la presenza di un meteorite che, nell'anima popolare, avrebbe
rappresentato il segno concreto di una particolare benevolenza divina verso quel sito: la
Kaaba della Mecca e il Tempio di Diana ad Efeso, per non citarne che un paio. (Per converso,
una credenza assai diffusa, e che si è in parte conservata anche fino ai giorni nostri, vuole che
la caduta di pietre dal cielo e/o il passaggio ravvicinato di comete siano inesorabilmente
portatori di guai, e strettamente connessi con pestilenze, carestie, guerre e catastrofi in
genere.) Tuttavia, come lo stesso Salkeld riconosce, in nessun meteorite recuperato sono mai
stati segnalati inconsueti valori di radioattività né, per altro, nessuno di essi è mai stato trovato
dotato di particolari "poteri" (18).
I midrashìm affermano che lo Shamìr fu creato il sesto giorno: ciò, secondo Salkeld, sembra
suggerire (oltre al fatto che forse era noto già in un lontano passato) che, in ogni caso, la sua
origine sarebbe da collocarsi al tempo dei catastrofici sconvolgimenti della Creazione. La sua
seconda apparizione - questa volta, "pubblica" -, nelle mani di Mosè, risalirebbe ai tempi
dell'esodo: pure questo un evento collegato, secondo Velikovsky, ad altri disastri cosmici. E
per concludere, anche la performance dello Shamìr che, come sopra detto, si sarebbe
verificata durante il regno di Davide, avrebbe un'origine meteoritica. Comunque dopo la sua
creazione, essa pure ovviamente "celeste", sia nell'uno che nell'altro caso (dell'uso che
Salomone ne fece però non si parla) la presenza dello Shamìr sarebbe in relazione con la
caduta di qualche bolide molto anomalo e strano. Ancora più strano, però, appare il fatto che
questo tipo di detriti cosmici veramente "speciali" sarebbe caduto soltanto in quelle rare
occasioni - sempre sul territorio di Israele - e poi mai più.
In alternativa, Salkeld propone una seconda, non meno immaginosa ipotesi.
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2) Creato da scariche elettriche.
Sostiene Velikovsky che nel lontano passato elementi radioattivi, come quelli che oggi
otteniamo artificialmente in laboratorio, potrebbero essersi formati "naturalmente" sulla
superficie terrestre (a partire da altri elementi), nel corso di eventi eccezionali quali tremende
scariche elettriche prodotte da un bombardamento cometario o meteoritico. Salkeld,
cautamente, concorda, rammentando una delle geniali (e sconvolgenti per la scienza
"ufficiale") previsioni azzeccate di Velikovsky: il quale era convinto che sulla Luna sarebbero
stati trovati alti livelli di radioattività, e ne attribuiva la causa alle scariche elettriche
interplanetarie di 2700 e 3500 anni fa, verificatesi nel corso delle presunte catastrofi cosmiche
da lui teorizzate. Infatti l'esplorazione lunare gli ha dato ragione: che nel cratere Aristarco
siano presenti emissioni di radon-222 di almeno quattro volte più alte della media lunare, è
appunto per gli accademici un mistero senza spiegazione. Sfortunatamente, né Salkeld né - si
pensa - nessun altro è attualmente in grado di calcolare di quale potenza, per "formare"
sostanze radioattive da altre, inerti, dovrebbero essere le mostruose scariche elettriche
intercorse, in ipotesi, fra la terra ed un altro corpo celeste, nel corso di un "incontro
ravvicinato". Dipende, mi sembra, dalla differenza di potenziale fra i due oggetti. E nemmeno
siamo al presente in grado di dire se quel fenomeno - non tanto le scariche, quanto le loro
conseguenze - si sia effettivamente potuto verificare. Né, tanto meno, quando. O in
concomitanza con cosa. Visto che di un simile evento non esiste alcuna memoria storica - e
neppure, quanto a questo, leggendaria -, né testimonianza geologica o scientifica d'altro tipo,
dovremo accontentarci di supporre che quanto affermato "potrebbe" - chissà quando - essere
successo. Ma le prove sono un'altra cosa. Salkeld peraltro non insiste né sull'una né sull'altra
teoria, consapevole del fatto che - se mai radioattività c'è stata - al giorno d'oggi non sarebbe
ormai più rilevabile: in tutti i casi il normale decadimento avrebbe già da tempo reso
qualunque materiale ("caduto" o "formatosi" in un passato così abissalmente lontano) nulla
più che un innocuo pezzo di pietra (19).
Si limita a sottolineare, spezzando un'ultima lancia a favore dell'ipotesi nucleare in genere,
che - come sembra accertato - in molti siti megalitici in Inghilterra (per la precisione, al centro
di preistorici cerchi di "pietre erette") si registrano tuttora significative letture di radioattività di origine ignota -, ovviamente residua rispetto ai valori presumibili all'epoca della
costruzione. Indubbiamente erano luoghi sacri e speciali. Ma - e con Salkeld abbiamo finito viene naturale chiedersi se questa "sacralità" fosse positiva o negativa. In altre parole (per
quanto non sia chiaro come, all'epoca, fosse possibile misurare le radiazioni), se quei cerchi
venissero eretti come strutture "off limits", segnali della pericolosità di un luogo cui non
conveniva avvicinarsi, o per il motivo opposto (20), facendo salvo in tutti i casi il loro
significato magico-astronomico.
Comunque, a puro titolo di curiosità, sarebbe interessante sapere cosa mai possa racchiudere o racchiudesse - il sottosuolo del sito in cui fu eretto il Tempio: minerali radioattivi? metano?
che altro?
A questo proposito è indispensabile un'osservazione.
Salomone era un pozzo di scienza, lo sanno tutti; era di una sapienza e di una saggezza
strabilianti; da mezzo mondo tutti i più potenti re della terra venivano a Gerusalemme per
consultarlo, per avere lumi. Se lo Shamìr era veramente radioattivo, e quindi gravemente
deleterio per la salute, non è pensabile che, conoscendo tali proprietà negative o effetti
collaterali indesiderati, fosse così incosciente da portarselo sempre addosso (meglio sorvolare
sul fatto che obbligava i suoi dipendenti a maneggiarlo quotidianamente).
A quanto pare, invece, il "magico Shamìr" era qualcosa che si poteva - con molta precauzione,
e probabilmente riportandone danni non indifferenti - manipolare ed utilizzare almeno per un
certo tempo.
E allora non era radioattivo.
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Infine, non concordano con questa sua presunta natura nemmeno altre affermazioni relative
allo Shamìr, affermazioni in grado di invalidare anche altre tentate identificazioni: che non
danneggiasse i materiali organici (la lana, la crusca), che non inibisse la crescita delle piante,
che avesse la dimensione di "un granello di orzo".
Alla luce di quanto sopra esposto, mi sembra perciò inevitabile escludere anche
l'identificazione "nucleare": con un certo disappunto, devo dire, poiché sembrava molto
promettente, ed era sicuramente affascinante. D'altronde, i giochi sono aperti. Solo qualche
tempo fa, un eminente studioso mi ha espresso molto seriamente la sua convinzione che il
misterioso Shamìr altro non fosse che una specie di laser primitivo, in cui la luce coerente
sarebbe stata prodotta (ma da quale fonte, non lo ha detto) facendola passare per un forellino,
ottenuto dallo stampo (se di una certa dimensione) di un capello di un adulto, oppure da
quello del capello di un bambino (se serviva un foro ancora più piccolo…) (21).
E ora, possiamo tornare alle interpretazioni "tradizionali".
ANIMALE
"VERME":
Per la verità il midràsh che ne parla, nella raccolta di Ginzberg, dice che "la salamandra e lo
Shamìr sono i più mirabili tra i rettili"; ma diversi altri racconti, e anche il dizionario, lo
definiscono senza incertezze come "verme". Non mi è chiaro il motivo della forte propensione
che un buon numero di autorevoli rabbini ed esegeti biblici ha manifestato - e forse manifesta
tuttora - ad accogliere questa versione. In ogni caso, trasformare in "rettile" il "verme", o in
alternativa il "tarlo" (o altro insetto), sembra proprio l'interpretazione di una interpretazione.
(Il termine "insetto", fra l'altro, deriverebbe dall'erronea traduzione del latino "insectator",
cioè "tagliatore"). A me pare invece che tale significato possa essere utile solo ad indicare come nel caso del diamante e dello smeriglio - l'azione meccanica ed un effetto consimile che
tali animali potrebbero avere prodotto, ma di sicuro non sugli stessi materiali. A voler essere
generosi, tuttavia, è comprensibile anche questa identificazione, alla luce del fatto che quando
questi testi vennero messi per iscritto, nessuno già più sapeva per certo in che cosa consistesse
né come operasse lo Shamìr. Ho letto anche una cavillosa (ed anche un po' pretenziosa)
ipotesi, secondo la quale il "verme" potrebbe essere assimilabile ad un "serpente", animale
mitico di cui le tradizioni religiose e cosmiche traboccano, ma onestamente non mi sembra
che possa essere presa in considerazione. E poi, che razza di verme era? Uno che dopo
quattrocento anni "diventava inattivo"? Non mi stupisce. Era "esplosivo"? Era come un grano
d'orzo? Non impediva la crescita delle piante? Lo si poteva manipolare? A difesa di questa
teoria (che, peraltro, si basa principalmente sul fatto che si dovesse trattare comunque di un
essere vivente), si può dire solamente che, per tradizione, tutta la storia letteraria dell'antico
Vicino Oriente - compresa ovviamente quella ebraica - manifesta un forte interesse per il
ruolo, spesso simbolico, svolto da molti animali nella vita degli uomini, soprattutto in senso
didattico, moralistico e sapienziale. In fin dei conti, né Esopo, né Fedro, né La Fontaine hanno
inventato niente di nuovo. Così, nessuno dei lettori cui erano destinate queste favole e queste
leggende si sarebbe stupito di trovare perfino le creature più umili - come potrebbe essere
appunto il verme - che parlano con Dio, interagiscono con gli esseri umani, svolgono compiti
vari.
Nel caso in esame, si diceva che quel singolare animaletto sarebbe strisciato dentro o sul
pezzo da lavorare riuscendo a intaccarlo o a fenderlo con un taglio perfetto. Si diceva pure che
un suo semplice tocco potesse scindere la pietra, che si apriva "come le pagine di un libro".
Certo che il supporre che il "verme" avrebbe volonterosamente tagliato le pietre del Santuario
(per compiacere Salomone, naturalmente) denota una grande fiducia nella pazienza e
nell'abilità di chi lo doveva addestrare: come riuscivano a convincerlo o a costringerlo a
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collaborare? Per non parlare dei tempi di lavorazione. E non voglio nemmeno pensare a come
dovesse sentirsi il gallo selvatico, mentre volava trasportandolo nel becco.
Insomma, oltre all'ovvia constatazione che il verme è "capace" di scavare (mele, di solito),
non abbiamo nessun altro elemento che concordi. A riscattare, almeno in parte, la dignità del
povero verme, c'è però una notazione bizzarra e anche un po' inquietante: si diceva che il suo
sguardo facesse morire, così come quello di Medusa faceva impietrire. Ma, a parte il fatto che
mi sembra piuttosto problematico riuscire a capire se il verme ti sta fissando o meno,
francamente non so che cosa pensarne.
E' stato anche proposto che non propriamente di un "verme" si trattasse, ma di sue ipotetiche e
particolari secrezioni corrosive. E questo potrebbe anche avere un senso, volendo sorvolare
sulla proclamata natura di "essere vivente" dello Shamìr oltre che sull'indubbia difficoltà di
procurarsi - forse strizzando gli sventurati anellidi - adeguati quantitativi di quella prodigiosa
sostanza, a condizione però di mettere su un allevamento. Chi prende in considerazione una
soluzione del genere non dovrebbe tuttavia dimenticare che il re Salomone (al quale l'anello
fatato consentiva di parlare con tutti gli animali del buon Dio, con i quali aveva un ottimo
rapporto) mai e poi mai avrebbe fatto una cosa simile. E' vero che già con il povero gallo
selvatico non si era comportato troppo bene, ma strizzare i vermi, insomma...
Anche con il verme, comunque, abbiamo chiuso.
VEGETALE
"FINOCCHIO":
Per quanto riguarda questa modesta pianta mangereccia, non saprei davvero che proprietà
possa avere nel campo che ci interessa, e mi spiace dover ammettere che non mi viene in
mente niente. Ma, pur riconoscendo di non aver fatto approfondite ricerche sull'argomento,
oserei dire che - probabilmente - il fatto che porti lo stesso nome sia sostanzialmente una
coincidenza, e che l'umile finocchio non abbia proprio niente da spartire con il "magico
Shamìr". Quindi, con rincrescimento, manderò anche il finocchio dove sono finite tutte le
altre proposte.
Così, per risolvere il mistero di cosa potesse essere lo Shamìr, una volta eliminate tutte le
interpretazioni a parer mio impossibili, esaurite tutte le altre eventuali identificazioni connesse
ai regni minerale, animale e vegetale, non ci resta ormai più che il "paliuro". Ma chi, o per
meglio dire "cosa" era costui?
"PALIURO" (Paliurus) - botanica:
Va sotto questo nome una pianta della famiglia delle Ramnacee, che ne comprende sei specie,
cinque delle quali però (presenti in Cina e Giappone) non si trovano nei nostri climi. Quello
che a noi interessa, poiché cresce in Africa e nell'Europa mediterranea, è il Paliurus spinaChristi, detto anche Paliurus aculeatus Lamarck, o più popolarmente "marruca", che è il
nostro biancospino.
Viene descritto come un arbusto (ma può raggiungere anche i sei metri di altezza) molto
ramoso e spinoso dal legno duro e resistente, con foglie alterne ovate, dotate di due stipole
spinose disuguali. Porta fiori piccoli raccolti in cime, e frutti (drupe) con margine alato largo
fino a tre centimetri. Il nome "spina di Cristo" deriva dalla credenza che dei suoi rami fosse
fatta la "corona" con la quale Gesù fu proclamato "re dei Giudei". E' citato da Teocrito,
Strabone, Euripide e Teofrasto, il quale nel IV° libro dell'"Historia plantarum" ne dà una
descrizione un po' diversa; ma in sostanza, almeno apparentemente, è una pianta che non ha
proprio niente di misterioso né tanto meno di portentoso. Sembrerebbe, purtroppo, che siamo
arrivati a un punto morto. Ma, attenzione! Perché il profeta Isaia (a differenza di Geremia,
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Ezechiele e Zaccaria - citati alla nota 13 - i quali quando si riferiscono allo Shamìr intendono
sempre qualcosa di "più duro del diamante"), tutte le volte che nomina quello stesso Shamìr,
ne parla come di "spini e pruni" o di "rovi e pruni"? E' chiaro che per Isaia non si trattava di
un minerale né tanto meno di un animale, ma di una pungentissima pianta, che di sicuro non
era il finocchio, ma che - forse - poteva essere più o meno propriamente indicata con il nome tradotto - di Paliurus. E allora - poiché non ci sono alternative - continuiamo su questa strada,
per quanto cosparsa ed irta appunto di spine e triboli, e tentiamo di scoprire se ci sono altri
elementi che stiano ad indicare che lo Shamìr fosse davvero un rappresentante (per ora in
incognito) del regno vegetale. La nostra ricerca ci porterà, questa volta, fuori dai confini
d'Israele, in luoghi anche molto lontani, impensati. Avrete parecchie sorprese.
Lo Shamìr e i suoi parenti
Oltre agli animali fantastici, dei quali le antiche tradizioni abbondano, tutti i miti parlano
spesso e volentieri di varie piante dalle magiche proprietà, purtroppo di difficile
identificazione perché citate con nomi diversi e descritte in modo ambiguo. Il motivo è
semplice: a differenza dagli animali favolosi, che compaiono sulla scena autonomamente,
dotati come sono di esistenza e volontà proprie, le piante "prodigiose" si possono cercare,
raccogliere ed utilizzare per gli scopi ai quali si crede siano adatte, e chiunque lo può fare.
Tutta l'antica farmacopea è basata su questo. Ma è ovvio che, se l'"iniziato" intende
conservare il potere che gli deriva dai suoi speciali "filtri" o "pozioni" (d'amore, di morte, di
forza o d'immortalità), deve mantenerne segreti non solo i procedimenti di preparazione, ma
innanzitutto gli ingredienti, e nella fattispecie le piante che li compongono. Troviamo quindi
una quantità di vegetali capaci di prestazioni eccezionali in ogni campo, ma sfortunatamente
non riconoscibili, o per via di informazioni scarse e/o fuorvianti, o perché realmente ormai
estinti e introvabili. Tale era per esempio la misteriosa pianta subacquea che "ha spine come il
rovo, come la rosa", trovata da Gilgamesh in fondo all'Abzu (ma in seguito perduta), e che
avrebbe dovuto restituirgli la svanita giovinezza. Oppure l'altrettanto enigmatica "pianta del
parto" o "della nascita", che avrebbe consentito ad Etana (secondo la "Lista reale Sumerica",
tredicesimo re di Kish dopo il Diluvio) di avere finalmente dalla sua sposa un erede, e per
cogliere la quale - primo essere umano nella storia - quel sovrano volò fino in cielo sulle ali
dell'aquila. Ma moltissime altre sono, nelle leggende, le piante miracolose (22). E vedremo
poi che con impressionante frequenza ad esse è associato un qualche volatile, dotato anch'esso
di inusuali caratteristiche e spesso di grandi dimensioni. Nel sud dell'Iraq e nell'Iran
occidentale, le tradizioni dell'antichissima religione dei mandei, o sabei, parlano appunto del
grande uccello Simurgh, che ha profonde conoscenze di saggezza segreta e che possiede un
elisir che guarisce tutte le ferite, purifica ogni sostanza, ringiovanisce il corpo, prolunga la
vita e rende invulnerabili. Nei miti iraniani quell'elisir viene chiamato col termine avestico di
"haoma" ed è prodotto anche qui da una pianta, forse da una liana rampicante della famiglia
delle Gnetacee, l'Ephedra, che cresce in cima ai monti o nelle valli più nascoste; ma potrebbe
essere stato estratto anche dal fungo Fly-Agarico, allucinogeno usato dagli sciamani da 10.000
anni e letteralmente adorato come un dio (o era, magari più verosimilmente, alcool?).
L'"haoma", che fortifica e dà poteri soprannaturali ma ha anche effetti intossicanti, viene
custodito, in questa versione, dall'uccello Saena, che lo concede agli dei ed in qualche caso
anche agli uomini, ma solo a quelli particolarmente meritevoli.
Per gli indù è invece il mitico Garuda, mezzo gigante e mezzo aquila, che gestisce l'Ambrosia
o Amrita, nettare inebriante o "soma" (in sanscrito; corrisponde all'"haoma") importantissimo
nei riti della religione vedica, che dà poteri superiori agli dei "asura" e li rende immortali.
Pure in questo caso, il "soma" è tratto da una pianta - generalmente identificata con una liana
rampicante della famiglia delle Asclepiadacee - che cresce su di un albero, vicino al Monte
Elburz dove vivevano gli uomini-uccello, noto solo a questi. E' probabile che alla base di
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questo mito ci sia una antica origine comune con l'"albero della vita" della Genesi, che
avrebbe reso gli uomini onniscienti, immortali e simili agli dèi.
Come si vede, l'àmbito geografico di diffusione di questa leggenda (o meglio corpus di
leggende, che vede protagonista di un qualche "portento" un pennuto cui è affidata la custodia
di una pianta prodigiosa) è assai vasto, spaziando dalle rive del Mediterraneo (attraverso
l'Asia Minore, l'Anatolia e la Mesopotamia, fino alla valle dell'Indo) a quelle dell'Oceano
Indiano. E non solo, poiché la ritroviamo perfino nelle lontane Americhe. Quanto poi alla sua
antichità, si perde nella notte dei tempi.
Ma ciò di cui più in particolare volevo parlarvi sono i "parenti" dello Shamìr, anch'essi
sparpagliati un po' in ogni dove; e non solo nel Vecchio Mondo, giungendo fino al Giappone,
bensì - inaspettatamente - pure nel Nuovo, in Perù, Guatemala, Messico, Bolivia, per non
citare che gli esempi che ho potuto vedere con i miei occhi. E ora la cosa si fa ben più
interessante, e dobbiamo dire che siamo molto fortunati, perché infatti abbiamo il vantaggio di
poter disporre non solo dei documenti scritti che riportano favole e leggende, ma di
antichissimi manufatti realizzati con tecniche riconducibili soltanto alle affermate proprietà
dello Shamìr. Tutti li conoscete.
Mura megalitiche fatte con blocchi di dimensioni mostruose messi in opera con precisione
millimetrica, inumana.
Minute, delicatissime incisioni su pietre di estrema durezza. Oggetti, in pietra altrettanto dura,
lavorati come fossero modellati in creta. Senza attrezzi metallici, come voleva Salomone,
poiché metalli adatti non ce n'erano. Ma andiamo con ordine.
Una leggenda iraniana senza tempo narra, tra le altre cose, che il re Zal appena nato fu
"esposto" dal padre ed allevato - guarda caso - dal "nobile avvoltoio" Simurgh, il quale in
questo racconto ricopre anche (in occasione della difficile nascita del figlio di Zal: si parla
nientemeno che del primo taglio cesareo della storia) il ruolo di ostetrico, chirurgo e perfino
anestesista. Ma ciò che qui più importa è che tanto Zal, una volta salito al trono, che la sua
sposa "splendevano" per la presenza di un'"essenza divina", chiamata "farr" o "khvarnah"
("Fortuna del Re" e "Gloria di Dio"), la quale permetteva di scavare le sostanze più dure,
forgiare metalli e addirittura conoscere la natura di Dio. Senza di essa, tangibile simbolo
dell'investitura celeste, un re non poteva regnare. Sull'altopiano anatolico, a Catal Huyuk (la
cui età di almeno 8500 anni è documentata, oltre che dalla datazione al carbonio 14, da un
"murale" che rappresenta l'eruzione - avvenuta nel 6200 a.C. - su quella città del vulcano dalle
due cime Hasan Dag), una cultura molto progredita, la quale già praticava la metallurgia del
rame e del piombo, comparve all'improvviso: sorprendentemente, il minerale più usato, e
trattato con notevole perizia tecnologica, era l'ossidiana, che nella "scala delle durezze" di
Mohs occupa il settimo posto. Vi pare normale? Ma quel materiale, importato dalle stesse
zone, veniva lavorato circa a quell'epoca anche a Gerico dai natufiani proto-neolitici, e ancor
prima (fin dal 10.000 a.C.) sui Monti Zagros, a Nimrud Dag, in Armenia, sul Lago Van. La
finissima esecuzione di lavori in ossidiana è anche una delle più salienti caratteristiche della
cultura che in Cappadocia, a partire dal 9500 a.C., costruì qualcosa come 36 città sotterranee
articolate su 18-20 livelli e in grado di ospitare una popolazione da 100.000 a 200.000 anime.
Scavate nella viva roccia, le abitazioni (che i locali chiamano "camini delle fate", poiché le
credono opera degli "angeli caduti" e tuttora abitate dagli Jinn o dalle Peri ) sono collegate fra
loro da una rete di tunnel alti anche più di due metri, e oltre a ciò sono aerate da numerosi
condotti di ventilazione, lunghi molti metri e con un diametro medio di 4 centimetri. Scavati
come? Ma è soltanto qualche millennio più tardi, quando improvvisa poco dopo il 4000 a.C.
esplose la grande civiltà del "Paese fra i due fiumi", seguìta dappresso da quella egizia, che
ebbe inizio in questa parte del mondo allora conosciuto quella straordinaria produzione di
oggetti d'uso ma più che altro di opere d'arte in pietra, che ci lascia tuttora ammirati, ma anche
perplessi e sconcertati per la sua incredibile accuratezza in rapporto agli utensili (o almeno a
quelli a noi noti) di cui si presume l'impiego.
33
Perché qui, signori miei, si sta parlando di incisioni - figure e scritte - delle dimensioni
massime di un paio di centimetri, eseguite sul quarzo (durezza 7), sul diaspro (idem),
sull'onice di pietre da sigillo o da ornamento, in gran parte riportate alla luce dagli scavi in
Mesopotamia e in Egitto (23): iscrizioni il cui spessore a volte non supera 0,16 millimetri.
Mentre ci è difficile persino raffigurarci la misura e l'aspetto del morsetto che necessariamente
doveva tenerle ferme durante il lavoro del bulino, è stato calcolato che quelle pietre debbono
essere state lavorate con punte resistentissime da mm 0,12. Di che materiale?
E di che materiale erano fatti gli strumenti con i quali venne scolpita la statua in diorite di
Gudea di Lagash, che ha più di 4000 anni? O la stele famosa del Codice di Hammurabi, di
poco posteriore, dove il basalto nero è tutto coperto da una minutissima e nettissima scrittura
cuneiforme che pare impressa nell'argilla o nella cera? Tutti questi manufatti e infiniti altri meravigliosi nell'aspetto e di fattura perfetta - sembrano eseguiti con la massima facilità, come
se la solida pietra fosse stata semplicemente plasmata, e non violentemente colpita con rozzi
attrezzi primitivi, tenacemente scavata, levigata e lucidata per un tempo interminabile.
Parrebbe che quei materiali avessero subìto una lenta, silenziosa dissoluzione chimica,
piuttosto che l'aggressione di un impatto meccanico. Un testo specifico ("Le pietre magiche",
di Santini De Riols) ci dice che per lavorare queste pietre destinate al culto veniva usato un
"punteruolo consacrato"; ma non riesco davvero a immaginare di che tipo di attrezzo si
trattasse. L'unico modo conosciuto per intervenire su materie di quella durezza è quello di
scalfirle - con santa pazienza oppure, al giorno d'oggi, utilizzando altissime velocità di
rotazione - con un arnese di forma adatta, fatto di qualcosa di ancora più duro. Ma non
esistono molte sostanze più dure di quelle sopra citate, anzi non ne esiste alcuna tranne il
diamante che le vince tutte, ma che però a quel tempo non veniva ancora normalmente
impiegato. La Bibbia in alcune delle diverse versioni che riportano l'elenco delle gemme del
pettorale di Aronne cita, è vero, anche il "diamante", ma la cosa è fortemente improbabile per
vari motivi: benché ritenuta anch'essa carica di energie misteriose, questa pietra non era usata
innanzi tutto perché la tecnica non aveva fino ad allora raggiunto (e non l'avrebbe fatto per un
lunghissimo tempo ancora) il livello indispensabile per saperla tagliare; in secondo luogo, le
pietre colorate piacevano molto di più del cristallino e incolore diamante, che dà ben poca
soddisfazione all'occhio a meno che non sia adeguatamente sfaccettato. E comunque, stiamo
parlando del diamante non in quanto pietra ornamentale, bensì di un suo eventuale uso come
strumento di lavoro: per cui, anche in questo caso, valgono le considerazioni di alto costo e di
difficile reperibilità già sopra esposte. Tanto più se l'oggetto da lavorare era di grandi o magari
grandissime dimensioni.
L'ingegner Pincherle, che di queste cose se ne intende, afferma invece che su quelle opere
sono visibili i segni dello scalpello, che doveva essere di ottimo acciaio (strumenti in rame
oppure in bronzo, qualora non si fossero sbriciolati sotto la pressione e l'attrito, avrebbero
immediatamente "perso il taglio", e avrebbero dovuto essere continuamente riparati ed
affilati) (24). Abbiamo, però, un piccolo problema.
Allo stato attuale delle nostre conoscenze, al tempo di cui si parla non solamente non esisteva
ancora niente di paragonabile a "un ottimo acciaio", ma il ferro stesso (per quanto riguarda
attrezzi ed utensili) era ben di là da venire. Gli unici metalli a quell'epoca disponibili, per quel
che troviamo scritto e per quanto l'archeologia ci ha restituito, erano tutti metalli teneri (rame,
argento, oro, piombo, stagno, o - nella migliore delle ipotesi - rame martellato e leghe di
bronzo), inadatti alle lavorazioni richieste. Ergo, a questo interrogativo tecnico non c'è
risposta. E anzi, dobbiamo per di più retrodatare questo mistero ad epoche anche più remote,
dato che a quanto pare le prime statue in diorite, eseguite da quelli che erano i migliori
tagliatori di quei tempi, cioè gli ioni e i sardiani, risalgono all'epoca di Sargon il Grande di
Accad, attorno al 2350 a.C. Che è poi, almeno secondo la cronologia ufficiale, più o meno il
periodo in cui in Egitto furono erette le piramidi.
Ma qui la datazione d'inizio di questo tipo di lavorazione sprofonda ancor più nel passato.
Perché le cose più mirabolanti le troviamo, fin dai primordi stessi di quella civiltà, proprio
34
nell'antico paese del Nilo: una terra dove, a differenza di Sumer o Babilonia, abbondano sia le
pietre preziose che, precipuamente, quelle da opera. "Civiltà della pietra", la chiamano anche
infatti.
Dai siti di "Naqada" dell'oscuro e lontanissimo periodo predinastico (cultura gerzeana, 35003100 a.C.), dalle principesche tombe protodinastiche di Abidos, dai sotterranei della piramide
di Zoser a Saqqara sono tornati alla luce quantitativi incredibili (più di 30.000 esemplari solo
in quest'ultimo sito) di stupendo vasellame - integro o in pezzi - di svariatissimo disegno, e
innumerevoli altri articoli, in ogni sorta di materiale litico. Non solo i più trattabili alabastro,
ardesia, scisto o calcare, ma diorite, quarzite, granito (minerale anche in seguito molto amato
in Egitto), basalto e loro varietà. I vasi, le coppe e tutti gli altri recipienti rinvenuti, pezzi di
grande raffinatezza, con pareti dallo spessore minimo, simmetrici, rifiniti e levigati in maniera
ineccepibile, sembrano lavorati al tornio: cosa che si ritiene decisamente impossibile. Molte
delle anfore - scavate ed a volte perfino incise all'interno non si capisce come - hanno un collo
sottilissimo, elegantemente allungato, e un'imboccatura così stretta che non ci passa nemmeno
un dito. Fra i reperti datati al periodo più antico c'è anche una lente di cristallo, talmente
perfetta che sembra molata meccanicamente. Il più antico nome di un sovrano ritrovato a
Saqqara è quello di Narmer, che fu forse Menes, il leggendario unificatore dei due regni del
Basso e dell'Alto Egitto: è inciso su di una coppa di porfido (avete presente il porfido? ci si
fanno le pavimentazioni stradali). E di lì in poi - sparse ovunque - decine di migliaia di oggetti
piccoli e grandi di tutte le specie, di statue, obelischi (alti fino a 73 metri, dice Plinio), stele, e
centinaia di migliaia, anzi milioni di blocchi da costruzione e di rocchi di colonne, e
chilometri quadrati di bassorilievi incisi, scolpiti, di geroglifici iscritti su quelle durissime
rocce (25). Ora, secondo voi, gli egiziani amavano soffrire e rendersi la vita difficile? Non
avrebbero potuto scegliersi, per fare le loro opere d'arte, qualche altro sasso meno ostico? O
forse usavano quei materiali perché in realtà non erano poi tanto impegnativi da lavorare - per
loro, allora - quanto sembrano a noi oggi? In altre parole, può essere che conoscessero un
altro metodo per tagliare, squadrare, dar forma alla pietra, un sistema diciamo così di
pretrattamento che si avvaleva di un principio corrosivo, chimico, più che della forza bruta o
dell'insistenza? (a me, per la verità, il discorso che "ma avevano tanto tempo a disposizione" è
sempre sembrato una grossa sciocchezza). La cosa, date le loro profonde e vastissime
conoscenze in ogni campo dell'alchimia, non dovrebbe stupire e non è nemmeno impossibile,
come cercherò di dimostrarvi.
La tradizione, in effetti, afferma che i "sapienti" egiziani avevano messa a punto (a meno che
non l'avessero ereditata o importata da qualche altra zona geografica) una speciale "mistura
vegetale" in grado di disgregare superficialmente qualunque - sia pur durissima - roccia o
pietra e di trasformarla in una sorta di malleabile pasta (quella sì, lavorabile con i normali
strumenti in rame o in bronzo) la quale, una volta evaporato quella specie di "solvente", si
sarebbe ricompattata rendendo all'oggetto l'aspetto e la consistenza originari.
Ad appoggiare questa tesi potrebbe esserci più di una prova. Guardate, ad esempio, la
precisione di ogni amorevole dettaglio delle sculture a tutto tondo in granito o in basalto, e
ditemi se non sembra anche a voi che quei minuziosi particolari siano stati modellati con la
stecca piuttosto che scavati a colpi di scalpello. Lo stesso si può dire per la tecnica con la
quale nei rilievi di Saqqara il fondo è stato mantenuto perfettamente piano (il che, lasciatelo
dire a me, è una delle cose più difficili da fare), dove l'asportazione di tutto il materiale
superfluo pare ottenuta livellando o spianando una sostanza cedevole anziché scheggiando
con la sgorbia la dura pietra. Parlo però in prevalenza delle opere più antiche, e comunque di
quelle più accurate, e presumibilmente più costose. Infatti io penso che più tardi quell'arte
andò perduta, o perché l'applicazione di quel metodo era divenuta eccessivamente onerosa, o
per la cessata disponibilità di quella materia prima, o per un qualche altro motivo. Tanto è
vero che - come si può vedere - mentre agli inizi i simboli geroglifici aggettavano sui pannelli,
in seguito verranno più semplicemente scavati nel loro spessore. E che molti dei rilievi
successivi, rinunciando a qualsiasi pretesa di profondità, mostrano soltanto una grossolana
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incisione tutto attorno alle figure le quali, appena vagamente arrotondate ai margini, non
emergono per niente dal fondo del quale sono allo stesso livello, per cui tecnicamente non si
potrebbero nemmeno più chiamare bassorilievi (26). Ma c'è dell'altro.
Tutti sanno che la Grande Piramide, per citare solo quella, è stata costruita a secco, e che i
blocchi che la compongono non sono legati con malta. E' stato trovato però, fra un corso e
l'altro dei blocchi e pure tra le giunzioni verticali, un sottilissimo strato di materiale
inidentificato, del quale si sa tuttavia che contiene residui vegetali. Era forse quel misterioso
"solvente" che, consumando e livellando la superficie irregolare delle pietre, ne consentiva la
perfetta sovrapposizione, agendo inoltre quasi come un collante? Possiamo escluderlo?
Se fosse vero ciò che vi suggerisco, si potrebbe anche fare l'interessante osservazione che, in
tal caso, quanto maggiore era il peso delle pietre sovrapposte, tanto più coerente e solida
sarebbe riuscita la costruzione, per via della pressione esercitata che - con l'aiuto della
reazione chimica - avrebbe fatto combaciare e, per così dire, cementato assieme quei massi
semplicemente appoggiati l'uno sull'altro (come si sa, il peso medio dei blocchi di calcare
della Grande Piramide è di circa 2,5 tonnellate, per non parlare di quelli granitici - il cui peso
arriva forse a 200 tonnellate - della struttura interna, per la quale rimando agli studi di
Pincherle) (27). Usando quel materiale, inoltre, sarebbero stati ben più agevoli di quanto si
pensi l'estrazione ed il taglio dei blocchi in cava: un problema al quale tuttora non abbiamo
saputo dare spiegazioni davvero esaurienti.
Certo che quell'arte - come anche quella di movimentare e sovrapporre massi di peso ed
ingombro immani -andò perduta, o venne comunque abbandonata quella tecnica. E come si
spiegherebbe se no il fatto che, dopo il periodo di splendore della costruzione delle grandi
piramidi in pietra, tutto quel che di "piramidale" ci rimane delle epoche più tarde sono
soltanto dei miserabili e informi mucchi di mattoni semicrudi, che piano piano finiscono di
disfarsi in polvere sotto lo spietato sole del deserto? Come a Nippur, come a Ur, regni di
argilla. Ma torniamo a noi, perché vorrei parlarvi ancora un momento di un solo ultimo
esempio di ciò che, a parer mio, può essere stato realizzato unicamente con "qualcosa" che
sembra essere fratello gemello del mio Shamìr. Abbiamo già parlato (nota 25) del cosiddetto
"sarcofago" posto nella cosiddetta "camera del re" nel cuore della Grande Piramide
(cosiddetta "di Cheope", o Khufu) sulla piana di Giza, perciò del suo aspetto sapete già ogni
cosa. Il problema che a me interessa però è solamente quello della realizzazione tecnica di
questo oggetto. Per la precisione, della realizzazione del suo interno, poiché di quel sarcofago,
o vasca, o cassa che sia (e può aver contenuto, per quel che ne sappiamo, qualunque cosa:
oggetti o spoglie mortali), ciò che è più incomprensibile è il come sia stato svuotato. A meno
di non accogliere l'ipotesi di Flinders Petrie, il quale in questo caso suggerisce l'utilizzo di
seghe tubolari, sempre in bronzo, in cui erano incastonati diamanti, e che avrebbero dovuto
estrarre da quel masso "carote" di granito fino a creare lo spazio interno. Purtroppo però Petrie
suppone anche che quelle seghe o quei trapani (manuali, s'intende), per poter penetrare la
pietra, avrebbero dovuto ruotare o ad una velocità assolutamente impossibile da raggiungere
con i mezzi (noti) dell'epoca, applicando inoltre all'attrezzo una pressione o carico di una o
anche due tonnellate. Lascio a voi giudicare.
Tra le sabbie della piana di Giza sono stati trovati sia fori cilindrici in blocchi di granito che
"carote" della stessa pietra (ma non sappiamo se corrispondente a quella del "sarcofago"), che
sono state analizzate dal tecnico utensilista Christopher Dunn (28): all'indagine microscopica
questi pezzi mostrano un doppio solco elicoidale eseguito con un trapano - o sega tubolare che procedeva nella roccia con una velocità di penetrazione media di 2,5 millimetri ad ogni
rotazione. Si tenga presente che un trapano moderno, che utilizza le tecnologie ed i materiali
più avanzati, compie 900 giri al minuto e penetra nel granito ad una velocità di mm 0,05 per
ogni giro. Il che vorrebbe dire che i trapani egizi di 4500 anni fa lavoravano a velocità
qualche centinaio di volte superiori rispetto a quelle dei trapani attuali. Mossi da quale
energia? Dunn è convinto che la risposta si trovi nell'uso di sconosciuti (e perduti) strumenti
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a ultrasuoni, che utilizzavano vibrazioni ad alta frequenza: ma non vorrei prender posizione a
questo proposito, poiché non ho difficoltà ad ammettere la mia ignoranza su tali argomenti.
Quello che invece mi ha colpito di più è un dettaglio degli esami condotti da Dunn, dal quale
risulta che l'antico trapano a mano tagliò il quarzo che costituisce il granito più velocemente
del feldspato, più tenero, che ne è un'altra componente. E vedrete fra poco che, ai fini
dell'individuazione di questo "gemello" dello Shamìr, questo è il particolare più importante.
Da tutto quanto sopra detto risulta chiara la convinzione sia di Flinders Petrie che di Dunn che
siano stati usati particolari macchinari, ma di ciò non ci sono prove. Io penso invece che non
di velocità e pressione si trattasse, né di ultrasuoni: il trapano avanzava veloce perché la pietra
non opponeva resistenza; e mi pare più che evidente, in ogni caso, che quel tipo di lavorazioni
in generale venisse effettuato trattando la pietra secondo le modalità della plastica anziché
secondo quelle della scultura propriamente detta. Ci troviamo di fronte, a quanto pare, a un
bell'esempio di applicazione del "rasoio di Occam": ma io credo che la soluzione più semplice
- e quindi la più probabile - sia proprio quella che vi propongo.
Ma non pensiate - già ve lo avevo anticipato - che quel particolare procedimento fosse
prerogativa ed esclusivo monopolio delle culture del Vecchio Mondo quale noi lo
conosciamo. Tutt'altro. Dallo Yucatan a Tula, dall'Ecuador al Titicaca, molte culture
precolombiane forniscono spettacolari esempi di scultura ed architettura nei quali sono
presenti le stesse caratteristiche: produzione di manufatti realizzati, in pietra, senza nessun
uso di strumenti metallici, quasi fossero stati plasmati nell'argilla. Piuttosto che di oggetti di
dimensioni contenute - ma pure le statue e gli splendidi rilievi maya, olmechi, toltechi,
aztechi, preincaici e inca, come le enigmatiche andesiti incise, le cosiddette "pietre di Ica",
fanno parte dello stesso mistero - si tratta qui però prevalentemente (sto parlando, nella
fattispecie, degli impressionanti monumenti del Perù) di costruzioni megalitiche, edificate con
blocchi di granito che - a mio avviso - sarebbe stato impossibile assemblare con qualunque
altro metodo. E non voglio qui entrare nel merito di come diavolo facessero ad estrarre,
trasportare e sollevare massi del peso di varie decine e in qualche caso persino di alcune
centinaia di tonnellate (problema posto ugualmente dalle consimili strutture egizie, siriane ed
altre), limitandomi ad arrendermi di fronte all'evidenza che - in qualche modo - ci riuscivano:
l'ipotesi meno sballata che mi viene in mente è forse proprio quella, già citata, dell'uso - anche
qui - di frequenze ultrasoniche, ma l'argomento esula sia dal tema che stiamo trattando che,
come ho detto in precedenza, dalle mie competenze. Per cui lascerò che se ne occupi qualcuno
più autorevole di me.
Ma sovrapporre e incastrare a secco l'uno con l'altro quei massi incredibili è altrettanto arduo
da comprendere. La mente si smarrisce nell'osservare i macigni ciclopici, con un numero
terrificante di angoli (fino a quaranta) della più varia apertura, che compongono le stupende,
perfette mura di Sacsayhuaman, di Ollantaytambo, di Cuzco, di Machu Picchu, collimando in
maniera così perfetta che, come si sa, nelle commessure non c'è spazio "nemmeno per un
foglio di carta". Un lavoro del genere in teoria richiederebbe infinite misurazioni, tentativi,
prove: cosa impensabile considerandone il peso e il fatto che furono messi in opera senza l'uso
di animali da lavoro, né di ruote per argani (29). Sembrano invece, quelle pietre (la cui forma
non squadrata è la migliore dimostrazione della grande padronanza delle tecniche
antisismiche usate), fuse insieme da una qualche forza misteriosa, schiacciate e compattate dal
loro stesso peso l'una contro e sull'altra a mo'di enormi cuscini fino a riempire ogni spazio e
interstizio fra loro, come se invece che dure rocce fossero ammassi di morbida mota. O
trattate, appunto, con una sostanza corrosiva che ne "condizionò" le superfici di contatto, se
non la struttura stessa. Impressione che deriva pure dalla loro faccia esterna, sempre come
leggermente "gonfia", arrotondata, liscia come se fosse stata rifinita semplicemente
raschiando via tutte le asperità insieme al materiale in eccesso. D'altronde, questa non è
affatto una mia fantasia. In parallelo con i miti e le leggende di àmbito eurasiatico e
mediterraneo sopra riportati, anche qui viene fatto riferimento a una non meglio identificata
sostanza in grado di ammorbidire la pietra e renderla lavorabile. Ma non sono le sole
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tradizioni popolari a parlarne, bensì anche autori nostri contemporanei. L'esploratore Percy
Fawcett, ad esempio, in un passo di "Operazione Fawcett" dice infatti che gli inca, ereditando
le fortezze e le città edificate dalla razza che li aveva preceduti, le restaurarono servendosi
delle medesime tecniche costruttive (e cioè di quel "solvente"). E racconta poi un episodio in
cui un esperto minerario statunitense, che lavorava nelle Ande del Perù centrale a 4.500 metri
di altezza, trovò in una tomba preincaica una giara di terracotta ancora piena di liquido. Quel
liquido, versato incidentalmente su di una roccia, dopo circa dieci minuti ne era stato
assorbito, "e la roccia era diventata molle come cemento bagnato, come se la pietra si fosse
sciolta a guisa di cera sotto l'effetto del caldo". L'archeologa Mirella Rostaing, dal canto suo,
ne "I misteri dei mondi" riporta una conversazione da lei avuta con uno sciamano nei pressi
del lago Titicaca a proposito di un tipico cespuglio locale detto "ghacre ". La pianta, che
somigliava ad un "rampicante orizzontale" e che manipolata diveniva molliccia e appiccicosa,
aveva corroso come un acido buona parte degli stivali dell'archeologa, che ci aveva
camminato in mezzo (e la stessa cosa viene riferita a proposito degli speroni di un caballero
che ne aveva attraversato un prato). Nelle parole del vecchio sciamano, il suo uso era
ancestrale, precedente addirittura agli abitatori preincaici, poiché "i grandi architetti delle
costruzioni ciclopiche usavano quella pappetta per la congiunzione delle grossissime muraglie
difensive andine".
Ma non è tutto, perché con mia grande sorpresa anche qui ho ritrovato nei miti locali il
concetto di un uccello associato ad una pianta capace di intaccare la pietra. In questa parte del
mondo quel volatile (chiamato in alcune versioni "pichin-goto", che proprio non so cosa sia,
in altre identificato con un'improbabile "golondrina ", che sarebbe la comune rondine) si
servirebbe delle proprietà di un vegetale non meglio precisato, infilandone i semi nelle fessure
delle pareti rocciose a grande altezza allo scopo di utilizzare in seguito la cavità creatasi (una
volta che quei semi corrosivi, o le radici, abbiano compiuto il loro lavoro di sgretolare il
minerale) per costruirvi il nido (30). O, in alternativa, per nutrirsi della pianta stessa che lì
avrebbe attecchito: cosa che, almeno nel caso dell'insettivora golondrina, sarebbe per lo meno
strana. Non più strana comunque della strettissima analogia, anzi parentela, con la leggenda
del gallo selvatico e dello Shamìr riportata all'inizio. Io, quando sento storie come queste,
drizzo subito le orecchie e comincio a guardarmi attorno. Ed è per l'appunto guardandomi
attorno là, sul posto, che ho visto qualcosa che mi ha dato da pensare. Se state, con l'abitato di
Machu Picchu alle spalle, proprio sull'orlo del precipizio in fondo al quale, a picco oltre
cinquecento metri più sotto, scorre luccicando l'esiguo corso del fiume Uru (Uru Bamba - cioè
"pampa" - vuol dire "pianura", o "valle", dell'Uru), subito al di là di quell'angusta voragine
vedrete di fronte a voi innalzarsi sulla destra una altissima parete di roccia. Liscia come il
vetro, perfettamente verticale e tutta quanta cosparsa di piante pioniere tenacemente
abbarbicate negli interstizi della pietra. E viene naturale allora chiedersi (dato che avete
ancora negli occhi quel miracolo di precisione che sono le mura granitiche della cosiddetta
Tomba Reale, e il morbido modellato dell'Inti Huatana: nota 31) se non siano proprio quelle
piante a produrre il succo corrosivo che potrebbe avere levigato a quel modo la parete
rocciosa e "addomesticato" le pietre da opera, e che specie esse rappresentino. A me, da quella
distanza, sono sembrate bromeliacee, che da quelle parti sono diffusissime e crescono su muri,
alberi, montagne; ma purtroppo non sono riuscita ad avere maggiori informazioni e ad andare
più in là di così. Ragion per cui rimango, per ora, con i miei interrogativi.
E per finire, vi segnalerò che il muro di cinta del palazzo imperiale di Tokio riprodotto in
un'antica stampa giapponese, come altre muraglie ancora più antiche, è costruito esattamente
con la stessa coesione e le stesse tecniche applicate in Perù. E questo non può certo essere
casuale, o almeno non può esserlo per me (32) che credo fermamente all'esistenza di contatti e
di una vasta diffusione culturale tra i continenti in tempi ben più che soltanto "preistorici". In
conclusione, spero di avere sufficientemente dimostrato lo stretto rapporto fra quella
"sostanza" e qualche specie botanica, in ogni cultura; in nessuna delle quali, mai, si parla di
qualche genere di strumento, di diamanti o di vermi o d'altro. Tutte le indicazioni e le
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testimonianze - sia letterarie che archeologiche - raccolte in diverse parti del mondo mi hanno
confermato al di là di ogni dubbio nell'idea che il mio Shamìr (o come altro venisse chiamato
localmente nei diversi paesi) fosse "qualcosa" di vegetale. Ma cosa?
Considerazioni aggiuntive
Dunque si direbbe proprio che non poche fra le più grandi - e tuttora per molti versi
enigmatiche - civiltà del passato, e noi con loro, siano debitrici alla grande tribù dei parenti ed
affini dello Shamìr della possibilità di lavorare facilmente, impiegando un principio chimico,
pietre di ogni qualità: opportunità in assenza della quale, io credo, mai avrebbero potuto
essere create - in tempi in cui il ferro era ancora del tutto sconosciuto - tante e tanto splendide
opere d'arte. E quanto di più mi piace, concettualmente, l'ipotesi di questo tipo di approccio
gentile, soft, alla materia nella quale si manifesterà la creazione artistica, in confronto alla
consueta immagine della pietra aggredita, spezzata, brutalizzata da un traumatico, violento,
polveroso e fragoroso martellamento! E' qualcosa che cambierebbe perfino, se fosse come io
penso, la nostra comprensione dell'idea stessa che quegli antichi e sconosciuti artisti dovevano
avere del loro lavoro.
Non a caso ho detto "parenti ed affini" dello Shamìr. Perché le umili e misconosciute
pianticelle cui ciò si deve non appartenevano sicuramente ad un'unica specie, famiglia o
genere, originarie come erano di àmbiti climatici e fitogeografici assai diversi (benché stiamo
parlando di famiglie comuni e diffuse in molti continenti). Sono però convinta che identico
fosse il principio applicato, ancorché utilizzando piante, o parti di piante, differenti: una
materia fortemente corrosiva, contenuta in certe piante colonizzatrici, specie pioniere (e non
può essere altrimenti), della quale parleremo fra poco. Potrei citare, ad esempio, una nota del
testo di Ginzberg nella quale si dice che "l'Euforbia, cui le fonti non ebraiche del Medioevo
attribuiscono lo stesso potere dello Shamìr, è ricordata anch'essa nei testi ebraici…, ma non va
identificata con esso … infatti lo Shamìr fu dato all'uomo solo durante la costruzione del
Tempio, mentre l'Euforbia rimase reperibile anche in seguito" (e qui si cade nel dottrinario)
(33). C'è oltre tutto la possibilità, o piuttosto la probabilità, che la versione più veritiera sia
quella egizia, ossia che la sostanza caustica di cui si tratta fosse in effetti una "mistura
vegetale" ricavata da piante diverse, dove però una era dominante. Ma purtroppo, in questa
direzione, il buio è totale.
Quanto al mio Shamìr, una volta superati la delusione e il disappunto di dover purtroppo
constatare che l'unica indicazione fornita è fuorviante, cioè che non è possibile identificarlo
con il Paliurus - botanicamente inteso - poiché del nostro familiare biancospino, a quanto mi
risulta, non è nota nessuna particolare proprietà corrosiva, tutto quel che pensavo di poter fare
era tentare di trovargli una collocazione più ampia nel regno vegetale: ovverosia cercare
qualche altra specie, simile al biancospino almeno in alcune caratteristiche morfologiche che
potrebbero aver tratto in inganno i classificatori (ma vedremo poi che ero partita col piede
sbagliato). E in realtà ne ho trovate non poche. C'è da precisare infatti che oltre al Paliurus
esiste una grande varietà di altre piante pioniere spinose della famiglia delle Ramnacee, come
il Paliurus, o delle Rosacee (entrambe presenti anche nel continente americano) o altre,
presenti in abbondanza sul territorio di interesse biblico. Tali ad esempio sono:
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ECHINOPS VISCOSUS D.C., o "pruno della steppa", che compare in Giudici 8, 7;
PRUNUS ARMENIACA L., che inoltre ha semi velenosi;
RHAMNUS PALAESTINA BOISS, o "biancospino di Palestina";
RUBUS SANGUINEUS FRIV.
e parecchi altri arbusti o cespugli.
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In teoria, considerandone solamente l'aspetto, sul quale le informazioni in nostro possesso
sono oltre tutto così confuse e avare, ciascuna di queste specie (o anche qualche altra)
potrebbe essere quella che vado cercando. A tutte queste piante, compreso lo Shamìr, nelle
versioni attuali delle Scritture si fa riferimento con indicazioni banalmente generiche quali
"spini", o "pruni", o "rovi". Ma, se sono state individuate - come abbiamo visto - con nome e
cognome all'interno di un preciso ordine sistematico, significa (se non vado errata) che pure
nel testo originale compaiono con un nome proprio: naturalmente quello usato in quei luoghi
e a quell'epoca. Infatti non è pensabile che botanici o traduttori abbiano arbitrariamente
affibbiato nomi scientifici a queste cosiddette piante "bibliche" (che sono cioè citate nella
Bibbia) sulla scorta solo di quegli "spini", "pruni" o "rovi". Tuttavia un abbaglio è pur sempre
possibile, tanto più nei confronti di una specie forse già estinta da tempo. In altre parole pare
che i profeti che chiamarono "Shamìr" vari cespugli in realtà lo Shamìr non l'avessero visto
mai. Ma con chi dovrei prendermela per quelle errate attribuzioni e traduzioni, dopo qualcosa
come un paio di millenni?
Ora, può darsi benissimo che tutti gli altri arbusti e suffrutici spinosi siano stati correttamente
riconosciuti, ma io sarei pronta a scommettere che così non è stato nel caso del "magico"
Shamìr: il quale, per dirla tutta, penso infatti sia stato abusivamente identificato con
l'innocente Paliurus in base ad una somiglianza superficiale o per un errore di interpretazione
(a meno di supporre, volendo fare un po' di dietrologia, che la sua vera natura sia stata
volutamente occultata). E' lo stesso errore che avevo fatto io, cercando analogie apparenti
piuttosto che indizi sul comportamento, e prendendo in considerazione soltanto le affinità
esteriori invece delle caratteristiche vegetazionali e delle "specializzazioni" chimiche. Ma
rimedierò subito, anche se in un certo senso siamo tornati al punto di partenza. Avremo se non
altro stabilito che lo Shamìr - va bene - non era il biancospino, ma era di certo una pianta
cespugliosa, forse aculeata. Per trovare quale, non c'è che l'imbarazzo della scelta. Stavolta,
però, cercheremo in tutt'altra direzione, tentando un approccio totalmente diverso a questo
spinoso problema. E adesso, finalmente, veniamo al sodo.
Una proposta da verificare
E allora, vediamo un po' che cosa abbiamo qui. Innanzitutto, la testimonianza fornita da un
assortimento di pietre lavorate: nella loro concreta realtà di reperti archeologici, o anche solo
nelle citazioni letterarie (alle quali do - quasi - lo stesso credito). Nel primo caso, le gemme in
questione stanno sotto gli occhi di tutti. Per quanto riguarda il secondo caso, mi rifaccio a
quelle famose del pettorale e dell'efòd di Aronne, tredici pietre preziose, semipreziose o dure,
di piccole dimensioni. Il procedimento attuato da Mosè, se rammentate quanto riportato da
Ginzberg, consisteva nel tracciare prima con l'inchiostro, o meglio con uno stilo, sulle pietre
(ricoperte, è probabile, da un sottile strato di cera resistente agli acidi) i segni desiderati, e nel
passarvi poi sopra lo Shamìr, dal quale le pietre rimanevano così incise. Sistema che ricorda
assai da vicino la tecnica tuttora impiegata nella fluorografia per incidere su vetro. E non
dimentichiamo che viene inoltre evidenziato il fatto che l'azione dello Shamìr sulla pietra non
produceva alcun residuo, cosa - anche questa - spiegabile solo nel caso di una reazione
chimica, non di un'azione meccanica. L'elenco di quelle pietre presenta più di una versione;
per non sbagliare citerò tutte quelle che ho trovato (34).
Appartengono in prevalenza al gruppo dei minerali a base di silicio. Anzi, circa la metà di
esse sono in effetti altrettante varietà di quarzo. Per essere più precisi, le prime quattro sono
diverse qualità di CALCEDONIO.
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•
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AGATA
CORNIOLA
ONICE
SARDA (nell'efòd)
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AMETISTA
DIASPRO (di origine organogena)
Tutte queste pietre silicee sono solubili in acido fluoridrico. Fanno parte dei tectosilicati,
insieme ad altre non citate nella Bibbia (ma presenti in molti musei) come il MICROCLINO,
il CRISOPRASIO e il LAPISLAZZULI, che si comportano analogamente. Allo stesso gruppo
appartiene l'OPALE, forma non cristallizzata e insolubile in acidi.
Abbiamo poi una serie compresa tra i nesosilicati, solubile in acido fluoridrico e in acido
solforico.
•
•
•
•
CRISOLITO
GIACINTO o ZIRCONE ROSSO - esiste pure la varietà AZZURRA, spesso in antico
confusa con lo zaffiro, e anche quella INCOLORE, spesso in antico confusa con il
diamante.
TOPAZIO: anche di questo esiste una varietà INCOLORE, essa pure anticamente confusa
con il diamante.
GRANATO ALMANDINO: chiamato anche "carbonchio", spesso confuso con il rubino,
e insolubile in acidi.
Appartiene invece al gruppo dei ciclosilicati lo
• SMERALDO o BERILLO, nome che può indicare anche l'ACQUAMARINA: insolubile
in acidi. In passato tale termine era usato per designare pure molte altre pietre verdi più
comuni e di minore pregio. Anche l'OSSIDIANA, vetro magmatico siliceo a struttura
amorfa, è solubile in acido fluoridrico.
• MALACHITE: è un carbonato di rame, solubile in acido fluoridrico e in acido cloridrico.
• TURCHESE: questo è un fosfato idrato, esso pure solubile in acido fluoridrico e in acido
cloridrico.
Insolubili in acidi sono inoltre lo
• ZAFFIRO: ossido di alluminio o CORINDONE, denominazione che indicava anche lo
zircone azzurro, ed il
• RUBINO o CARBONCHIO: altra varietà di CORINDONE. Il nome definiva anche il
granato almandino.
Lo stesso problema di identificazione si pone infine per la pietra inattaccabile per eccellenza,
ovvero, il
• DIAMANTE: carbonio purissimo allo stato nativo, insolubile in acidi e "indomabile"
come il suo nome greco indica, il minerale più duro in assoluto, che all'epoca biblica non
poteva né essere tagliato né venire lavorato in alcun modo. E' del tutto verosimile perciò
che con questa denominazione ci si riferisse ad altre più docili pietre incolori, quali ad
esempio lo zircone ed il topazio incolori.
Molte altre pietre ornamentali vennero usate in diversi contesti, ma statisticamente questo mi
è sembrato un campionario abbastanza significativo. Dunque, se avete seguìto il mio
ragionamento, vi sto proponendo l'idea che per tagliare ed incidere senza troppo sforzo le
gemme bibliche (come anche tante altre giunte fino a noi) fossero conosciuti fin dai tempi più
antichi, e possano essere stati correntemente usati, degli acidi.
E, per l'esattezza, acido fluoridrico in primo luogo - poi vi spiego perché -, ma forse anche
solforico e cloridrico. Per quanto riguarda invece alcune gemme particolari (smeraldo, rubino,
zaffiro, diamante, granato), resistenti all'azione di questi princìpi corrosivi, si dà il caso che
41
siano proprio quelle la cui identificazione solleva i più forti dubbi, dato che nel corso del
tempo sono state "soprannominate" in molti diversi modi. E quindi non è detto che i nomi
citati corrispondano alla realtà della loro composizione chimica.
Infatti, e specie anticamente (come a tutt'oggi di frequente avviene nel linguaggio popolare,
oltre che per le denominazioni dei minerali, per quelle delle specie animali e vegetali più
diffuse), non solo spesso una pietra veniva chiamata con più di un nome, ma, inoltre, con il
medesimo nome venivano chiamate più pietre diverse (e se, come sospetto, il chimismo dei
cosiddetti "opale", "granato", "smeraldo", "zaffiro", rubino" e "diamante" era in realtà
riconducibile a quello di materiali più trattabili, come potrebbero essere ad esempio il
crisoprasio, lo zircone e il topazio, ecco che tutte le pietre citate verrebbero ad avere un loro
naturale "solvente" che ne avrebbe permesso la facile lavorazione manuale).
Ma può darsi pure che (anche escludendo la mala fede o intenti truffaldini), non disponendo di
microscopi né di laboratori per l'analisi chimica o strutturale, non si fosse in grado di
riconoscerle correttamente e di distinguerle l'una dall'altra. Be', se non altro per le pietre da
opera questi problemi non si ponevano. Almeno, non troppo. Per "pietre da opera" intendo
quelle usate per sculture a tutto tondo di medie, grandi e grandissime dimensioni, per rilievi di
ogni profondità, elementi architettonici, rivestimenti, decorazioni, e in senso proprio come
materiale da costruzione. Anche qui, senza entrare nello specifico delle diverse varietà, ne ho
fatto una piccola selezione.
Le più correntemente utilizzate sono sempre, come è logico, quelle comunemente diffuse
nella zona, ovverosia, data l'estrema reperibilità praticamente ovunque, le
• PIETRE CALCAREE SEDIMENTARIE di vario tipo: composte in prevalenza di calcite,
dolomite, gesso, resti fossili e minoritariamente di altri e diversi elementi. Queste rocce
carbonatiche se da un lato, essendo tenere e a bassa consistenza, offrono il vantaggio di
risultare agevoli da lavorare, dall'altro - proprio per gli stessi motivi - non resistono agli
agenti atmosferici. Vengono facilmente attaccate e dissolte dagli acidi, specie dall'acido
cloridrico, ma anche dall'acido fluoridrico. Fra i più pregiati rappresentanti di questo
gruppo si distingue il delicato ALABASTRO, molto usato per statue, vasi ed altri
recipienti.
Accanto a queste tuttavia, nonostante l'estrema durezza e difficoltà di lavorazione, è assai
frequente l'impiego - soprattutto in àmbito egizio - di materiali di origine magmatica, in
diversa misura ricchi di silicio. Tra questi il
• GRANITO: come tutte le rocce acide, silicee, può essere attaccato dall'acido fluoridrico.
E così pure il
• PORFIDO, che ha caratteristiche assai simili a quelle del granito. Contengono un po'
meno silice invece l'
• ANDESITE, che ha chimismo intermedio come la
• DIORITE; altra roccia magmatica prevalentemente basica, contenendo silicio in
proporzioni minori, è il
• BASALTO, del quale esistono molti tipi; ma la pietra più volentieri utilizzata dalla
statuaria egizia, tanto da poter essere considerata il materiale tipico per questo impiego, è
la
• PORFIRITE DIORITICA, a chimismo intermedio, più conosciuta con il nome di
PORFIDO ROSSO ANTICO.
Una posizione a sé tra i due gruppi occupa poi la
• QUARZITE, roccia metamorfica di origine sedimentaria, notevolmente silicea e ricca di
quarzo.
Abbiamo detto che anche tutte queste pietre di grandi dimensioni, usate per le sculture e
messe in opera nelle costruzioni, possono essere soggette a corrosione sotto l'azione di alcuni
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acidi. Come nel caso delle gemme, dell'acido fluoridrico sempre, ma pure del solforico e del
cloridrico. O per lo meno di qualche principio analogo. Il motivo per cui, tuttavia, le mie
preferenze per l'identificazione dello Shamìr vanno proprio all'acido fluoridrico sta nel fatto
che - secondo quanto ho potuto sapere da un esperto - sembra sia l'unica sostanza in grado di
attaccare praticamente qualunque materiale inorganico - o quasi - non meno di quelli organici,
che ne vengono carbonizzati. E' un gas incolore, di odore pungente e fumante all'aria, che
sotto i 19,54 °C passa allo stato di liquido pure incolore, e la cui soluzione in acqua è
fortemente acida. Come già sappiamo, attacca elettivamente la silice e reagisce con quasi tutti
i metalli. Per questo motivo può essere conservato solamente in contenitori di piombo (35), di
bronzo (o in alternativa d'oro: ma la cosa sarebbe un po' di costo), o di vetro: in questo caso
però occorre addirittura proteggere con uno strato di cera o paraffina l'interno dei recipienti
destinati a contenerlo. E qui non bisogna dimenticare la specifica indicazione - sempre nei
midrashìm - al fatto che lo Shamìr avesse precisamente la capacità di dissolvere perfino il
vetro: proprietà, a quanto mi dicono, precipua e caratteristica dell'acido fluoridrico soltanto.
Essendo il fluoro inoltre abbondante in natura, questo suo acido, come tenterò di dimostrarvi
fra poco, potrebbe essere reperibile ed ottenibile abbastanza facilmente.
E, mentre la lavorazione delle pietre calcaree è, relativamente, assai facile, la cosa a dir poco
sorprendente che l'archeologia ci svela è invece la straordinaria abbondanza, in tempi remoti,
di manufatti realizzati di preferenza nei più duri minerali esistenti. Prendete ad esempio il
basalto, che è uno tra i più antichi materiali lavorati dall'uomo. In Mesopotamia, in Egitto, in
Asia Minore, tra il rovinoso sfasciume dei cumuli di blocchi calcarei in avanzato stato di
dissolvimento e decomposizione, consumati dai millenni, statue, basamenti, pilastri e
architravi in basalto emergono integri, come fossero stati fatti ieri. Superfici levigate, spigoli
netti sui quali le intemperie di quaranta o cinquanta secoli praticamente non hanno prodotto
neanche un graffio. E allora, quanto tempo ci sarebbe voluto a un operaio per renderli perfetti
quali sono? E con quali utensili, per favore, li avrebbe tagliati, rifiniti, levigati, incisi? Ma lo
stesso discorso del basalto vale di sicuro anche per il granito.
Per il porfido. Per tutte le altre rocce vulcaniche. Quanti anni avrebbe dovuto aspettare re
Narmer per avere la sua coppa di porfido, se gliela avessero dovuto scavare a mano con una
scheggia di granito? A parte il fatto che non capisco che bisogno avesse di una coppa fatta di
un materiale simile, poteva morire, nel frattempo. O non fu piuttosto proprio con l'acido
fluoridrico, come io sono convinta, che fu possibile realizzare tali opere? Certo, non ne ho
prove sicure, ma qualche promettente indizio sì. In attesa di verifiche. Ma andiamo avanti.
Supponiamo allora, provvisoriamente, che fosse davvero l'acido fluoridrico - il più potente di
tutti - l'agente corrosivo prevalentemente usato nella zona e nel periodo che ci interessano.
Secondo quanto mi sembra di aver capito, è probabilmente possibile ricavarlo, forse
addirittura direttamente - in verità qualche idea ce l'avrei -, da sostanze naturali. Altrettanto
dicasi per l'acido cloridrico, presente in alte percentuali nelle secrezioni gastriche dei
mammiferi in genere (tutti quei sacrifici di animali non vi dicono proprio niente?), e per
l'acido solforico, che si poteva ottenere dai composti contenenti zolfo presenti nel suolo del
Neghev, nella penisola del Sinai. Naturalmente, sono mie ipotesi.
Tutti questi princìpi attivi, oltre a disciogliere - come ho già detto - in pratica l'intera gamma
delle pietre più o meno preziose e di quelle da opera citate dalla Sacra Scrittura e/o attestate
dall'archeologia (36), hanno in comune altre notevoli caratteristiche. Vanno conservati in
speciali recipienti di qualche materiale che non ne possa venire attaccato. Danno varie
colorazioni alla fiamma. Analogamente ad altre sostanze simili, riscaldati o bruciati ma anche
semplicemente esposti all'aria, emanano inoltre gas irritanti, soffocanti e al limite tossici
sviluppando dense colonne di fumi e vapori. Possono infine avere, in alcuni casi e in
determinate condizioni, manifestazioni esplosive.
L'unico di essi, tuttavia, per il quale io abbia trovato riferimenti ad una possibile origine
vegetale - cioè allo Shamìr - è l'acido fluoridrico (che oltre ai materiali citati attacca anche
43
cemento, porcellana, gomma e legno), che sembra proprio il perfetto candidato a tradurre in
termini chimici le descrizioni mitiche.
A proposito dello Shamìr, infatti, nelle leggende dei midrashìm sta esplicitamente scritto che
una delle sue utilizzazioni da parte del gallo selvatico sarebbe stata quella di crivellare colline
rocciose e spoglie di piccoli fori, nei quali avrebbero poi attecchito piante pioniere: il che
sembrerebbe indicare - una volta di più - che quella sostanza, che non inibiva la nascita delle
piante, era anch'essa di origine vegetale; e abbiamo visto pure come dalle leggende
amazzoniche si possa arguire che era lo Shamìr locale, quella pianta pioniera. Leggiamo
inoltre che doveva essere conservato in un recipiente non ermetico fatto di piombo, forse
perché sviluppava vapori che rischiavano di mettere in pressione il contenitore. Infine, che si
presentava come un "qualcosa" (non liquido, né gassoso, anzi certamente solido) di colore
tendente al verde, simile per aspetto e grandezza a granelli di orzo. E che fossero granelli,
semi di qualche pianta, io lo credo, perché diversamente non avrebbero potuto essere che
cristalli, e questo non risulta in nessun modo. Oltre tutto, se fosse stato un "prodotto" già
pronto, in un certo senso "tramandato" in eredità da Mosè a Salomone, al re ne sarebbero
occorsi quantitativi industriali per tagliare e rifinire le grandi pietre del Tempio. Mentre
invece appare chiaro che era sicuramente un oggetto di dimensioni assai piccole, se si
suppone che un uccello avrebbe potuto trasportarlo in volo. In aggiunta a ciò, è ragionevole
supporre che anche in seguito, all'interno delle colonne Jachin e Boaz, avrebbero potuto essere
contenuti i semi della pianta insieme agli scritti che ne trattavano, piuttosto che quella
pericolosa sostanza in sé. E narra ancora la leggenda che lo Shamìr lo si poteva trovare
"lontano in occidente, in luoghi inesplorati, sulle selvagge Montagne dei Dormienti" (37):
frase che può avere senso se si trattava di una rara pianta spontanea, ma più verosimilmente,
come io credo, se Salomone lo aveva seminato lassù per coltivarlo e riprodurlo.
Quello che penso, in sostanza, è che ciò che venne tramandato e conservato dal tempo di
Mosè a quello di Salomone, e poi fino alla razzia di Nabucodonosor, fosse il "principio", il
"segreto del magico Shamìr", della sua natura e delle sue speciali proprietà, non lo Shamìr
stesso in quanto strumento operativo. Quindi, io credo, oltre alle istruzioni relative al
procedimento chimico per ottenerlo, i semi (da piantare) di un cespuglio dal quale era
possibile estrarre - direttamente o meno - acido fluoridrico o qualcosa di assai simile e attivo
allo stesso modo. Vediamo dunque se riusciamo a raccogliere altri argomenti e altri indizi a
favore di questa ipotesi.
Malattie professionali
Il secondo elemento che ho preso in considerazione è la descrizione dei danni prodotti
sull'organismo umano dal prolungato contatto e dalla manipolazione dello Shamìr a raffronto
con quelli provocati dall'acido fluoridrico. Come ho già detto infatti, nel "Testamento di
Salomone" è scritto che le maestranze addette alla costruzione del Tempio, obbligate ad
usarlo quotidianamente per lungo tempo, soffrivano di un male misterioso e debilitante, con
esiti spesso mortali. Sempre più smunti e pallidi, deperivano e non riuscivano più a nutrirsi né
a lavorare. Ebbene, questo sembra proprio il quadro clinico di una tipica intossicazione
cronica da fluoro.
E di certo rammenterete che Mosè, nello scendere dalla Montagna di Dio con le nuove Tavole
della Legge, dopo quaranta giorni e quaranta notti passati a stretto contatto con Lui, aveva la
pelle della faccia tutta infiammata - e probabilmente pure gli occhi irritati - tanto che si coprì
il viso con un velo per non impressionare il popolo. Il quale popolo era ben comprensibile che
restasse impressionato da quelle ustioni o piaghe che, almeno a prima vista, avevano tutta
l'aria, poco rassicurante, di una malattia contagiosa.
Quell'aspetto "strinato" (che però non durò a lungo, perché - dice un midràsh - dopo il triste
episodio del Vitello d'Oro lo "splendore" del viso di Mosè si ridusse a un millesimo di quanto
era prima) sembrerebbe proprio la conseguenza di una protratta intimità con un potente acido.
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E, come se ciò non bastasse, penso che il Maestro dovesse inoltre puzzare - se conosco un po'
i chimici - in maniera allarmante e sospetta per tutte le porcherie che aveva distillate,
miscelate, manipolate. Quei due pietroni, sui quali il Profeta aveva scritto tutto il loro - ed il
nostro - futuro, erano stati incisi per mezzo dello Shamìr, o acido fluoridrico, i cui vapori
appunto attaccano la pelle ed irritano gli occhi di chi lo maneggi da vicino. Comunque in
seguito non successe mai più che la pelle del viso di Mosè fosse infiammata. Il che ci
testimonia che almeno in quel caso - con uno scopo specifico, e per trattare oggetti di
dimensioni abbastanza considerevoli - ebbe sicuramente a che fare di persona con quell'acido:
a lungo, in abbondanza ed evidentemente (in mancanza di adeguate avvertenze e istruzioni per
l'uso) senza prendere le adeguate precauzioni. Tanto che un midràsh molto illuminante narra
che quando, lassù sulla montagna, finì di scrivere con lo Shamìr le Leggi sulle Tavole, pulì la
penna sui capelli della sua fronte, e quell'inchiostro celeste che gli imbrattò la fronte lo fece
splendere. Più chiaro di così...(38). Non così accadde invece a Bezàlel quando incise le
gemme dei paramenti, per le quali ne fu sufficiente solo un piccolo quantitativo, che infatti
(usato per un tempo limitato) non produsse sull'artefice le irritazioni tipiche provocate da quel
contatto.
E adesso scusatemi se mi metto un momentino in cattedra, ma per spiegarvi un po' meglio i
perché delle mie convinzioni devo proprio dirvi qualcosa a proposito del fluoro, delle sue
proprietà e dei suoi comportamenti. Come elemento in sé, il fluoro (che quantitativamente
occupa il 17° posto sulla crosta terrestre) è largamente diffuso in natura e combinato con quasi
tutti gli elementi; è presente come criolite e fluorite (fluoruri naturali) nei silicati, e può
formare parecchi altri fluoruri con svariati metalli e metalloidi. Inoltre, in alcuni pozzi e acque
profonde ne è stata riscontrata la presenza fino a 53 milligrammi per litro. Negli organismi
viventi, si trova in special modo nell'involucro dei semi dei cereali, nelle ceneri di parecchie
piante, nell'uva, ed è relativamente abbondante nei peli, nello smalto dei denti e nelle ossa dei
vertebrati.
Dal punto di vista biologico, se assorbito in quantità e/o per una durata eccessive, si comporta
come un potente veleno protoplasmatico, che danneggia la funzione delle cellule e l'attività
dei loro enzimi, compresi quelli respiratorii; nuoce al sistema endocrino abbassando il
metabolismo basale, ed ha pure azione ipoglicemizzante.
La letteratura medica, oltre alle transitorie manifestazioni infiammatorie descritte, subìte da
Mosè, relativamente alla tossicologia elenca ed illustra diversi tipi di avvelenamento da
fluoro, causati direttamente dal minerale in cui esso è presente; oppure, con varie modalità, da
molti dei suoi composti industriali; o infine da sostanze, elaborate e prodotte dal grande
laboratorio della natura, che lo contengono. In tutti quanti i casi citati queste intossicazioni
sono definite con il nome generale di "fluorosi". Viene descritta anche una forma acuta, che si
manifesta come una gastroenterite acuta emorragica con convulsioni - e talora collasso e
morte -, la cui cura è unicamente sintomatica, ma molto più sovente l'intossicazione è
cronica.
La fluorosi cronica può avere varia origine: la più frequente è quella professionale, che
colpisce i minatori addetti alle miniere di criolite e i lavoratori dell'industria del vetro, della
ceramica, dell'alluminio eccetera, in cui fino a 25-30 milligrammo al giorno di vapori saturi di
fluoro possono essere assorbiti dall'organismo. Il quadro generale descrive un lento inizio dei
sintomi, che compaiono di solito dopo due o tre anni di intossicazione: senso generale di
formicolio, dolori diffusi soprattutto alle vertebre lombari e alle articolazioni, cui subentrano
poi alterazioni scheletriche con rigidità della colonna per osteosclerosi e calcificazione di
tendini e legamenti articolari; a ciò si accompagnano, all'opposto, caratteristiche alterazioni
dentarie con forte decalcificazione sia della dentina che dello smalto. In parallelo si
manifestano bronchiti e gastroenteriti croniche, con degenerazione del fegato e dei reni. In
particolare, vengono riferiti disparati tipi di avvelenamento, l'eziologia dei quali è
riconducibile ai vari composti chimici cui l'organismo può essere stato esposto: per esempio
fluoruro di sodio (che provoca congiuntivite, cui seguono nausea, vomito, insufficienza
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cardiaca); fluoruri di sodio e potassio (scialorrea, sete, nausea, vomito, dolori addominali,
astenia, tremori, aritmie cardiache, morte); fluoroacetati, fluoroacetamide, acido
fluoroacetico, e infine acido fluoridrico (nausea, vomito, parestesie, paralisi motoria, aritmie
cardiache, fibrillazione ventricolare, insufficienza respiratoria, convulsioni e coma, morte).
La patologia distintiva della fluorosi cronica può avere però anche origine diversa da quella
professionale, pur presentando gli stessi sintomi, e da questi altri due tipi possono essere
accidentalmente colpiti pure gli animali: la fluorosi tellurica difatti è dovuta all'utilizzo di
vegetali inquinati da ceneri vulcaniche o da fumi industriali. E per finire abbiamo la fluorosi
geologica o idrica, causata dall'ingestione o dal prolungato contatto con acqua e/o con specie
vegetali spontanee o coltivate in terreni ricchi di fluoruri.
Molte piante spontanee "si specializzano" nell'assorbimento selettivo di particolari elementi e
sostanze chimiche dal terreno a scopo protettivo, cioè per rendersi meno appetibili agli
animali. Come abbiamo visto, l'Euforbia ad esempio lo fa. Non parliamo poi dei funghi. I
principii selezionati, estratti e concentrati dalla pianta possono essere diversissimi, ma tutti
hanno in ogni caso la caratteristica comune di "misura difensiva" contro gli erbivori. Ne
esistono, come sappiamo, anche altre. Ma la natura non indulge mai a sprechi. Se una specie invece di armarsi di aculei - ha scelto di salvaguardare la propria incolumità per mezzo di un
veleno, o di altre sostanze pericolose o anche soltanto sgradevoli al gusto, in essa contenute,
non le serve altro. E sono giunta perciò alla conclusione che l'identificazione dello Shamìr con
il Paliurus, o con qualunque altra specie spinosa, è errata. Per il banalissimo motivo che una
pianta che contiene fluoro non ha nessun bisogno di sviluppare anche spine.
Ma per concludere: io sono ben sicura che era una fluorosi il male misterioso che colpì gli
operai di Salomone. Così come sono sicura che, limitatamente, colpì anche Mosè. Perché sia
gli uni che l'altro si servirono, per le loro lavorazioni, dell'estratto corrosivo ricavato da una
pianta che ha la particolare proprietà di assorbire dal terreno fluoruri in notevoli quantità. E
che purtroppo per ora non so con sicurezza quale sia. Ma io non dispero.
Sottrazione e contrabbando di segreti di Stato
A questo punto, sarà bene cercare di fare il punto della situazione.
Dunque, abbiamo qui una storia vecchia di tre o quattro millenni che parla di una sostanza
vegetale capace di corrodere la pietra. Quella tradizione, narrata prima oralmente e assai più
tardi messa per iscritto, nel corso del tempo è divenuta favola, adornandosi di tutte le
meravigliose insensatezze del mito. C'è rimasto nondimeno, di quell'antica ipotetica realtà,
abbastanza da indurmi a cercare di capire fino a che punto il racconto sullo Shamìr sia
attendibile e tentare di ricostruire la sua effettiva natura: che è quanto mi sto provando a fare.
Tutto sta a riuscire ad estrarre da quel viluppo di magia e mistero un nucleo di razionali e
verosimili informazioni tecniche, che ci consentano di riportare la leggenda alle sue origini
concrete: cosa non facile, ma nemmeno impossibile. Che dietro quel gran polverone ci sia una
storia vera, io ne sono convinta.
Difatti dalle indicazioni - benché distorte e quindi malintese - esistenti, appare chiaro che i
suoi contemporanei disponevano di diversi dati di carattere pratico sullo Shamìr: come la
descrizione sommaria e l'identificazione (sbagliata) della pianta dalla quale quel succo veniva
estratto; l'elenco di tutte le qualità di pietre sulle quali agiva; le istruzioni circa il modo di
usarlo e di conservarlo; l'illustrazione della patologia relativa agli "effetti collaterali
indesiderati" connessi al suo uso. Non è poco. Questi sono dettagli tecnici. L'esposizione del
"modus operandi" dello Shamìr (al di là della narrazione leggendaria di eventi che vedono
coinvolti pennuti, dèmoni e quant'altro) ha tutto il sapore di qualcosa di assolutamente
concreto, e non sembra davvero inventata di sana pianta, come nel caso dei miti sul favoloso
Leviatano o su altri fattori o creature fantastiche (all'origine di alcuni dei quali, tuttavia,
potrebbero celarsi dimenticate verità). Questa relativa abbondanza di dati reali (infatti se ne sa
fin troppo, dato che degli altri "segreti scientifici" non sappiamo praticamente nulla) è dovuta
46
proprio, credo, al fatto che lo Shamìr aveva applicazioni del tutto materiali, e che venne
utilizzato da semplici operai, muratori, scalpellini: qualcuno che per forza lo vide, lo toccò, lo
ebbe tra le mani - anche se mai nessuno riuscì a capire esattamente di che cosa si trattasse - e
ne parlò. E debbo ringraziare appunto quegli umili lavoratori per questa "fuga di notizie" che
per la mia ricerca è stata un insperato vantaggio, considerato che anche quello dello Shamìr
era ritenuto uno dei "grandi segreti" - da custodire con cura - della tecnologia.
Prova ne sia che, dopo averlo "riscoperto" a cinquecento anni dal suo primo utilizzo da parte
di Mosè, anche in seguito alla costruzione del Tempio i suoi custodi lo conservarono (per
quanto fosse ormai "inattivo", e forse già da molto tempo) per altri quattro secoli. Non
soltanto lo conservarono, ma - a ulteriore dimostrazione della sua importanza - nascosero
accuratamente il "segreto del magico Shamìr" nella cavità delle due colonne Jachin e Boaz,
insieme a tutti gli altri marchingegni scientifici.
Ma alla fine, vuoi per "inattivazione" spontanea, vuoi in concomitanza con la totale e
conclusiva demolizione del primo Tempio, lo Shamìr misteriosamente "scomparve" (39).
L'ultimo accenno che se ne trova (tralasciando la presunta "eredità" massonica, sulla quale
comunque sarebbe interessante indagare) è quello che ho citato all'inizio: e cioè la sua
asportazione dal Tempio (e la sua più che probabile distruzione), insieme a tutto il resto della
documentazione storica e scientifica del popolo di Israele, da parte dei babilonesi. Prassi
comunissima in tutte le guerre di conquista, sia del passato che attuali: rubare le memorie e il
sapere di un popolo equivale, da sempre, a impossessarsi della sua forza, della sua anima. In
ogni caso, e qualunque sia stato il motivo della sua sparizione finale, anche se il suo "segreto"
non era ancora andato perduto, a quell'epoca già da gran tempo lo Shamìr non veniva più
utilizzato. Per l'esattezza, dopo il periodo di splendore delle grandi costruzioni religiose e
civili volute da Salomone, non se ne sente più parlare. Anzi, fu proprio Salomone l'ultimo a
saperne qualcosa. L'effettiva - e direi anzi definitiva - scomparsa dello Shamìr è attestata, più
che dall'affermazione contenuta nel racconto in questione, dal fatto che in seguito non
troviamo più nessuna allusione al suo impiego, né nella Bibbia (che per altro non ne ha mai
esplicitamente parlato) e nemmeno nei midrashìm; e questo, nonostante il Tempio sia stato
poi ricostruito, e più di una volta. Come se l'antico divieto della Legge mosaica di usare ferro
per la lavorazione delle sacre pietre (con la conseguente necessità di mettere in atto un sistema
alternativo) fosse caduto in prescrizione o dimenticato. O come se lo Shamìr non fosse più
stato operante o disponibile. O, anche, come se non esistesse più la figura di un depositario
autorevole che ne conoscesse, per investitura divina, la natura, le proprietà e le modalità
d'impiego.
Lo Shamìr, come ogni altro ritrovato scientifico, era possesso esclusivo, "monopolio" di
Salomone. Salomone era benedetto da Dio ("la sua sapienza fu più grande che la sapienza di
tutti i figli d'Oriente e tutta la sapienza d'Egitto": un confronto significativamente polemico) e
perciò deteneva il potere "magico", politico e militare. Ma alla sua morte il regno si sfasciò,
dividendosi in due rissose fazioni. Le conoscenze riservate non vennero tramandate, caddero
nell'oblio. Frattanto, nel suo ripostiglio nascosto, il segreto del "magico Shamìr" era ben
custodito; alla fine, divenne nulla più che il vago ricordo di un "qualcosa" che nessuno più
sapeva cosa fosse.
Tanto che lo è ancora adesso.
E non ho nessun dubbio che quando i babilonesi, nel distruggere le colonne di bronzo per
mandarle in fonderia, scoprirono il nascondiglio, verosimilmente delusi che non contenesse
roba di valore ma solamente polverose scartoffie e forse qualche curioso e incomprensibile
congegno, diedero fuoco a quanto avevano trovato; ché tanto l'intera città era oramai in
fiamme. Nessuno certamente fece caso a un mucchietto di semi rinsecchiti e a qualche
vecchia e magari ormai illeggibile pergamena. Quella, penso, fu la fine del mio "magico
Shamìr"(40). Quanto alle altre civiltà che sfruttavano lo stesso o un simile principio, e presso
le quali ugualmente esso andò perduto, può darsi che abbiano abbandonato quella tecnica (che
non soltanto era, si suppone, lenta, ma anche negata all'utilizzo comune e privato ) in
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coincidenza con l'introduzione e la diffusione comune del ferro per gli attrezzi da lavoro. O
forse per il fatto che - come ho già accennato - quella pianta, in quanto importata da climi
differenti, era difficile da coltivare. O magari perché, così come in Israele, anche in altri regni
i rovesci politici sommersero e fecero sparire dalla scena le conquiste della scienza. A meno
che il motivo fosse che il suo impiego era troppo dannoso per la salute. La verità - che non
conosceremo mai - probabilmente consiste in una somma di concause, che non penso certo di
avere elencate tutte.
Ma sembra evidente che - a suo tempo - lo Shamìr fosse un ritrovato tecnologico-scientifico
di forte interesse. Non il più importante, con ogni probabilità, ma notevole abbastanza perché
il primo midràsh citato lo nomini specificamente, a parte. E comunque di grande valore
pratico, per lo meno nell'àmbito delle attività artigianali e artistiche della lavorazione delle
pietre da ornamento, di quelle da costruzione e di quelle impiegate per la statuaria, i
bassorilievi, le decorazioni et similia (e cioè nei settori istituzionalmente addetti alla
realizzazione esclusiva di opere e manufatti "sacri", destinati a mostrare il fasto e la
magnificenza di divinità e di regnanti). Quello che lo riguardava era un "segreto di Stato".
Faceva infatti parte anche lo Shamìr, di sicuro, di quel limitato e perciò inestimabile
patrimonio di riservatissime, enigmatiche conoscenze scientifiche e culturali (astronomiche,
mediche, chimiche, arte dello scrivere e quant'altro) che erano proprietà privata di tutte le
Supreme Autorità. Quelle cognizioni che, rappresentate da un qualche "magico" oggetto, da
un'arma "fatata", da un "potente" talismano o da una "mistica" sostanza (avete notato quanti
termini sono stati coniati per esprimere questi concetti?), costituivano il "segno" tangibile
della "rivelazione" di Dio concessa solo a chi ne fosse "degno"; della benedizione del cielo;
del riconoscimento divino del diritto di un sovrano a regnare. Solamente pochissimi eletti per celeste privilegio - potevano accedervi. I Sovrani consacrati. Gli Unti del Signore. Ma
insieme a loro anche i Sacerdoti. Gli Iniziati. I Maghi. Gli Stregoni.
Non a caso Hitler, nei suoi folli vaneggiamenti esoterici, cercava di entrare in possesso
dell'Arca dell'Alleanza.
Sapere occulto, top secret, riservato possesso della casa regnante e della casta sacerdotale,
vietato ai comuni mortali e gelosamente difeso come uno dei più efficaci strumenti di potere,
in ogni luogo, in ogni tempo, in ogni sistema culturale. Informazioni tabù, ammantate di
"sacralità" e di "religiosità", che agli occhi del popolo erano "mistero" e "magia", e che tali
dovevano rimanere senza mai uscire dalla ristretta cerchia del "palazzo", tramandate di padre
in figlio. Misteriosi ed inquietanti fenomeni che colpivano sia i sensi che l'immaginazione.
Fuochi e bagliori. Fumi ed incensi. Filtri, pozioni. E, come indispensabile corollario di questi
aspetti più concreti, "parole potenti", "parole magiche". Procedimenti tecnici come formule
cabalistiche.
Stregoneria,
incantesimi,
fatture,
scongiuri.
Abracadabra.
Con
l'accompagnamento di un apparato liturgico adeguatamente suggestivo, di musiche e suoni
"evocativi", prodotti da "sacri" strumenti.
Le Sibille e i Profeti che ti dicono la vita. Il Nome segreto di Dio. Chi predice le eclissi
comanda il sole, e così via.
(Mi scuso con gli addetti ai lavori. Non è certo mia intenzione, e non sarebbe comunque
questa la sede adatta ad approfondire l'indagine sui complessi rapporti fra scienza, magia,
religione, rito e potere: troppe migliaia di importanti e dotte opere sono state scritte su questi
argomenti.)
Ma torniamo a noi.
Come erano entrati in possesso i re di Gerusalemme di quelle conoscenze superiori? E in
particolare da dove veniva il segreto del "magico Shamìr"? Ancora sotto Salomone, lo stato
unificato di Israele-Giuda (uno stato, di per sé, di dimensioni modeste) era, specie se
rapportato a quelle limitrofe, una nazione giovane e molto, molto ignorante. Un popolo di
pastori seminomadi e di contadini, grossi gruppi familiari e tribù - raccoltisi poi insieme per
necessità politiche e militari - che fino a solo settant'anni prima non aveva mai avuto un re, né
tanto meno una dinastia regnante che potesse essere depositaria dei segreti di una scienza
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elaborata autonomamente. E' assai difficile, per non dire altro, che possedesse gli strumenti
culturali e le tradizioni tecnico-scientifiche che potevano svilupparsi soltanto, nel corso di
molte generazioni di studiosi, in un ambiente stanziale, in un clima di continuità, in uno stato
dotato di un forte senso storico e dell'identità nazionale, presso una corte reale ricca,
progredita ed aperta alla ricerca, per quanto intesa in senso utilitaristico. Questi sono, invece, i
requisiti tipici delle nazioni che già avevano fatto grandi conquiste in questi campi: nazioni
antiche, colte, potenti (e vicine). L'Egitto in primo luogo, l'eterno amico-nemico. Ma anche
tutti gli altri popoli d'attorno - l'intera Asia Minore, i paesi che si affacciano sulla riva
orientale del Mediterraneo, e la Mesopotamia, assiri, babilonesi e persiani, eredi dei sumeri,
per non citarne che alcuni - erano certamente più acculturati degli ebrei. Matematici,
astronomi, maghi caldei, egizi, medi, siriani... Sorvolando sul celeberrimo anello o sulla
benedizione divina, mi sembra indubitabile che, quali che fossero i preziosi e tanto decantati
segreti della conoscenza in possesso di Salomone, in generale non potessero provenire che da
queste fonti esterne a lui contemporanee.
Può darsi, però, che nel caso particolare dello Shamìr (come anche dei segreti murari con cui
fu costruito il Tempio, cioè dei princìpi di geometria sacra applicati all'architettura, e pure di
altri ritrovati che però in seguito non vennero messi in pratica), la provenienza indicata nei
midrashìm fosse davvero antica, che quello fosse cioè una specie di "lascito" culturale (o
magico, se vogliamo) risalente a Mosè e tramandato dai sacerdoti attraverso le generazioni.
Re Salomone - come afferma la leggenda - si sarebbe limitato solo a "riscoprire" lo Shamìr e a
rimetterlo in funzione, quando ne ebbe la necessità. E' un'ipotesi verosimile, giustificata da
quell'intrigante riferimento al primo uso che Mosè ne avrebbe fatto sul Monte Sinai.
Nel complesso, gran parte della cultura materiale dei Figli d'Israele, all'epoca dell'esodo,
doveva essere per forza di cose di derivazione egizia. In fin dei conti, è fra gli egiziani che
avevano soggiornato durante gli ultimi duecento anni, assimilandone - per quanto in misura
minima - le nozioni, l'arte, la tecnologia. Gli ebrei che "rientrarono" nella Terra Promessa
erano certamente più evoluti sotto ogni punto di vista di quelli che vi erano sempre rimasti
dedicandosi alle loro semplici occupazioni. Infatti (pur essendo anch'essi modesti agricoltori e
allevatori) gli israeliti non ebbero, a quel che sembra, nessuna difficoltà a fondere e fabbricare
colonne, altari, l'Arca, il Vitello d'Oro e altro.
Questo, per ciò che riguarda le conoscenze e le attività per così dire "normali".
Ma qui stiamo parlando di cose di ben altra importanza. Perché Mosè, nel partirsene
dall'Egitto alla guida dell'esodo, non si portò certamente via banali, comuni oggetti d'uso. A
quanto pare portò invece via (leggi: "rubò") - nella "bara" di piombo di Giuseppe, ma non solo
- nientemeno che alcuni fra i segreti tecnologici più preziosi di proprietà del governo. Un
capitale senza prezzo in grado di tentare chiunque, apparecchiature e documenti che facevano
parte di quel "sapere riservatissimo" che era appannaggio esclusivo della famiglia reale, della
classe sacerdotale e delle sacre confraternite di arti e mestieri. Cioè di quegli ambienti vicini
al "palazzo" che, nel corso del periodo "privilegiato" della sua educazione a corte, il Maestro
aveva avuto occasione di frequentare.
Unicamente in quel contesto avrebbe potuto venire a conoscenza di quei "misteri".
Quanto a metterci su le mani, però, era tutta un'altra musica. Ma il destino lo aiutò. Il destino e
la previdenza (per non chiamarla "appropriazione indebita") di Giuseppe, che misero Mosè in
condizione di "incamerare" quei "segreti", dallo stesso Giuseppe abilmente sottratti (come
estesamente spiegato nel volume citato in premessa: N.d.A.) ai loro legittimi custodi e
proprietari.
Come riportano Grierson e Munro-Hay nel volume "L'Arca dell'Alleanza", Trogo Pompeo, un
celta di Narbona che scriveva in latino, vissuto sotto il regno di Augusto, affermava che Mosè
"segretamente aveva preso con sé gli oggetti sacri degli egizi", oggetti che gli egiziani
cercarono di riprendersi con la forza, venendo però travolti da una tempesta. Si riferiva in
particolare all'"Arca dell'Alleanza (la quale), più che simile a un reliquario egizio, sarebbe
davvero un reliquario egizio. Pur non essendo nominata espressamente, è essa l'oggetto sacro
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sul quale si basava il culto israelitico nella Bibbia, ed è descritta in termini che fanno pensare
che sarebbe valsa la pena di mandare un esercito per riconquistarla." Dello stesso parere sono
non pochi altri Autori, e io per parte mia spero di avere esaurientemente dimostrato (sempre
nel volume citato in premessa: N.d.A.), prove alla mano, che quell'opinione è altamente
attendibile.
Specificando però che ciò che il Maestro considerava del massimo valore, tanto da essere
indotto (non una, ma ben due volte) ad un "furto sacrilego" per impadronirsene, non era in
realtà la "cassa" in sé, ma piuttosto le attrezzature e le "istruzioni" in essa contenute: cioè
(come sopra: N.d.A.) oltre agli scritti (legislativi, tecnici, di geometria e di architettura),
l'impianto elettrico (di altra derivazione), l'impianto di amplificazione sonora, le lenti ustorie
e l'intero assortimento di prodotti chimici del quale - con modalità tutte particolari, nelle quali
aveva un suo ruolo anche l'arte del giardinaggio - faceva parte pure il "magico Shamìr". Del
quale ultimo, se non altro, si può dire che fu l'unica, fra le diavolerie tecnologiche messe in
funzione dal Profeta, che non ebbe applicazioni deterrenti nei confronti del "popolo". A parte
il fatto che le altre, come per esempio l'elettricità, mostravano ben scarse prospettive di
utilizzo alternativo, diverso da quello che lui ne fece per mezzo dell'Arca. In fin dei conti, si
era in mezzo a un deserto, e non alla corte del faraone.
Come sa chi mi ha seguito fin qui, non ho mai nascosto la mia ferma opinione che Mosè fosse
uomo totalmente privo di scrupoli. Tuttavia insieme posso capire che l'impiego dei trucchi
fornitigli dalla "magia" fosse (dal suo punto di vista) assolutamente indispensabile per riuscire
ad imporre la propria autorità tramite la suggestione: qualcosa mi dice che era capace di
questo e d'altro. E comunque, fu anche fortunato. Perché se quei trucchi non avessero fatto
parte dell'armamentario di "segreti" lasciato in eredità da Giuseppe alla sua famiglia, è certo
che Mosè non sarebbe stato in grado di tenere così efficientemente sotto controllo quel branco
di disperati. E la storia loro e nostra sarebbe stata del tutto diversa.
Era quello il tesoro sottratto dalle misteriose cripte, dagli oscuri antri dei templi e delle scuole
iniziatiche egizie. Quelle erano le "conoscenze riservate" che Mosè "contrabbandò" fuori dai
confini d'Egitto. Forse, per dotare gli israeliti di armi invincibili, ma soprattutto per usarle
come mezzo per affermare su di essi il proprio dominio. Di quei prodigi, miracoli e sortilegi il
Profeta si servì a piene mani, mettendoli in opera ogni volta che poteva. Tutta la storia
dell'esodo, finché fu lui a guidarlo, ne è piena: dalla mistica "colonna di fuoco" alle non meno
sulfuree apparizioni sul Monte Horeb, dalle spaventose folgorazioni prodotte dall'Arca di Dio
al divino dono del "magico Shamìr".
E come avrebbe potuto fare, se no?
Il laboratorio di Dio
Dei prodotti chimici, di cui si sarebbe servito per i suoi spettacoli di "suoni e luci", Mosè si
era di certo portato appresso dall'Egitto una buona scorta.
Non così nel caso dello Shamìr, di quell'acido fluoridrico cioè con il quale, secondo le
istruzioni direttamente e minuziosamente impartite da Dio, il Maestro avrebbe dovuto far
incidere tanto le pietre del pettorale e dell'efòd (così narra l'Esodo 28, 9-11 e 21: "saranno
incise come sigilli") quanto, come affermano i midrashìm, le Tavole della Legge. Quella
precisa indicazione implica senz'altro almeno una cosa: cioè che dello Shamìr, ancor prima
che si procedesse a quel lavoro, era comunque previsto il puntuale utilizzo proprio nell'àmbito
di quella tecnica.
Ciò tuttavia non significa necessariamente che l'acido fosse già bell'e pronto a disposizione, o
che non fosse ancora "scaduto", o in ogni caso che ce ne fosse a sufficienza. Siccome su tali
particolari non abbiamo nessun dato, possiamo solo fare delle deduzioni basandoci sulla
descrizione dei fatti verificatisi in seguito.
Nel resoconto della Scrittura c'è però qualche dettaglio significativo che ha attirato la mia
attenzione, e ve li spiegherò a modo mio cercando di ricostruire quanto veramente accadde, là
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sul Monte di Dio. Perché cercherò di dimostrarvi che, là sul Sinai, lo Shamìr - proditoriamente
involato al "tesoro" d'Egitto - venne prodotto in laboratorio. Piantando i semi di quella pianta,
naturalmente (escluderei, come abbiamo visto, l'esistenza di una specie con simili virtù
reperibile in zona, perché sembra appurato che quella non fosse una pianta indigena),
coltivandola, ed estraendone il principio attivo, che andava poi trattato seguendo le procedure
del manuale con le istruzioni per l'uso. State attenti.
Immagino avrete notato che, quando si parla di qualcosa di misterioso e "miracoloso" agli
occhi degli ingenui israeliti, l'origine ne viene immancabilmente attribuita a Dio: come per lo
Shamìr così per le Tavole della Legge e per il complicato progetto del tempio-tenda con tutti i
suoi mistici arredi ed accessori. In realtà tutti i disegni che a Mosè furono "mostrati sul
monte", le istruzioni e il materiale "anomalo" che ebbero parte nell'allestimento del Santuario
venivano dritti dritti dalla cosiddetta "eredità" di Giuseppe. Questo, giusto per chiarire.
Tutti sapete, tanto per cominciare, che l'incisione delle Leggi sulla pietra fu fatta due volte.
(Quello a cui invece con ogni probabilità non avete mai pensato è la possibilità che la prima
volta sia stata scritta una sola Tavola. Sì, lo dico a rischio di scandalizzarvi: sono
praticamente sicura che, la prima volta, fu incisa una sola Tavola. Ho i miei motivi per
crederlo. Comunque nel presente testo, per convenzione, continuerò a parlarne al plurale.)
Ma andiamo avanti. Dice il Libro che - dopo avere condotto i 70 anziani al cospetto di Dio
perché Lo vedessero - il Profeta insieme a Giosuè salì al monte, dove Dio disse che gli
avrebbe dato le "Tavole della Legge". Allora la "gloria di Dio" e la "nube" coprirono per sei
giorni il monte, nel quale Mosè rimase per 40 giorni e 40 notti filate. Occorreva infatti
nascondere alla vista del popolo quanto si stava svolgendo lassù, poiché qualche importante
procedimento chimico doveva essere in corso nella grotta della montagna. Tuttavia, quando il
Maestro scese di là con le "prime Tavole", il suo aspetto era quello consueto, ché altrimenti la
Sacra Scrittura l'avrebbe detto. Non era infiammata, non "splendeva" ancora - cotta dagli acidi
- la pelle del suo viso (41). Segue il famigerato episodio del Vitello d'Oro, nel corso del quale
Mosè furibondo distrusse quelle prime Tavole (e, incidentalmente, fece giustiziare circa 3000
"idolatri"). Subito dopo, risalito sulla montagna, incise le nuove Tavole e finalmente tornò per
consegnare la parola di Dio al popolo adorante. E, quella volta, aveva la faccia rovinata.
Dunque, dopo che Mosè ebbe scritto le nuove Tavole "splendeva la pelle del suo viso per
avere parlato con Lui". Ora, sembrerebbe ovvio a chiunque che, anche ai capitoli
"avvertenze", "precauzioni" e "modalità d'uso", sulle proprietà della sostanza che stava
maneggiando il Nostro dovesse saperne assai di meno la prima volta della seconda. E allora
come mai, usando - in teoria - sempre lo stesso prodotto, la seconda volta si spellò la faccia e
la prima invece no? Perché non accadde anche la prima volta? Forse Dio "gli diede" lo Shamìr
solo più tardi? Dando per scontato che la seconda volta abbia impiegato - e per me è evidente
- un potente acido corrosivo, come testimonia l'irritazione che si manifestò sulla sua pelle,
resta da chiarire come Mosè abbia inciso le prime Tavole. Nel libro di cui in premessa
vengono prese in considerazione anche altre possibilità, ma per semplificare qui diremo che i
casi, sostanzialmente, sono due:
1) NON USÒ lo Shamìr;
2) USÒ lo Shamìr, ma questo non gli provocò danni.
Vediamo in dettaglio cosa questo possa significare.
1) Non usò lo Shamìr. Le prime Tavole le incise a mano. Questa ipotesi prevede che, per
quelle Tavole, Mosè non impiegò l'acido fluoridrico, e per questo non si ustionò. Le
spiegazioni possono essere diverse.
• Può darsi, per esempio, che all'inizio l'acido non lo avesse proprio, ma che avesse trovato
tra il "materiale" destinato da Giuseppe al Santuario soltanto i semi della pianta
51
•
•
misteriosa. Non era, tuttavia, un gran male, perché una delle più interessanti ed utili
caratteristiche di quella materia prima era che, in quanto sostanza organica, cioè di per sé
rinnovabile, poteva essere prodotta di volta in volta a seconda della necessità.
Oppure, poniamo il caso, soprattutto se quella sostanza era stata conservata sotto forma di
liquido, poteva non essere più attiva ed essere anzi completamente svaporata, perché dalla
sua "acquisizione" da parte di Giuseppe era trascorso troppo tempo. Fermo restando che i
semi, in ogni caso, c'erano.
O magari, ancora, di quell'acido Mosè aveva potuto recuperare soltanto un piccolo
quantitativo, diciamo un campione (qualcosa di simile a quello rinvenuto sulle Ande dal
geologo del quale vi ho già raccontato). In teoria, comunque, non ne occorreva molto, e
quel campione sarebbe forse bastato per tutto quello che il Maestro aveva in mente di fare
(ossia per l'incisione delle pietre dell'efòd e del pettorale e per quella di una Tavola) se le
cose fossero andate per il verso giusto, cioè se Mosè fosse stato capace di usare l'acido.
Invece (e qui ammetto di "svolazzare" un po'), visto che quello non era davvero il suo
mestiere, piuttosto che sprecare il poco che ne aveva a scopo di "addestramento", preferì
lasciar perdere e non impiegare lo Shamìr. Non lo impiegò, volutamente, perché voleva
conservare quel po' che c'era del prodotto originale per altri scopi: fu probabilmente
quello, che diede più tardi a Bezàlel per incidere le gemme. E Bezàlel, che era un incisore,
lo prese e lo adoperò (si capisce dal testo) normalmente, senza alcuna meraviglia e senza
problemi di sorta. Segno che lo conosceva e sapeva servirsene, come dice il Libro,
"secondo il lavoro dell'intagliatore di pietra che incide un sigillo". Ma non lo impiegò
anche perché si era reso conto che glie ne sarebbe occorsa una discreta quantità, e lui non
ne aveva abbastanza.
Quale che fosse il motivo specifico, il Nostro, non potendo disporre dello Shamìr, dovette
rinunciare ad usarlo. Di conseguenza fu costretto a piantare quei semi e aspettare che le piante
crescessero. Per quanto con intrugli ed esperimenti lui ci andasse a nozze, non gli fu tuttavia
possibile preparare l'acido in quelle poche settimane, probabilmente perché dai semi che
aveva piantato, là in cima al monte, non si erano ancora sviluppate (in soli 40 giorni) piante
con una massa vegetale sufficiente per estrarlo. Così, dato che non c'erano alternative, fece del
suo meglio per eseguire le incisioni, faticosamente, a mano.
Con risultati assai poco esaltanti.
Il guaio era che giù da basso la gente cominciava a spazientirsi, stufa che la cosa andasse tanto
per le lunghe. Ma se l'acido non era pronto e se il materiale che stava tentando di incidere era
la selce, bella e solida pietra, l'unica - su quella montagna - adatta ad essere iscritta con le
Leggi di Dio, non stento a credere che portare a termine quel lavoraccio, oltre a tutti i calcoli e
i disegni esecutivi per la progettazione e l'esecuzione del tempio-tenda, avrebbe preso al
Profeta anche più di quaranta giorni (chissà, là sopra, quanti tentativi avrà fatto), non
potendosi far aiutare che dal fedele Giosuè che di scultura ne sapeva tanto quanto lui, cioè
niente. Gli serviva più tempo, doveva prender tempo. Invece fu costretto a piantare a mezzo
l'opera per correre giù a rappezzare una situazione d'emergenza. Così, la cosa migliore da fare
era afferrare al volo l'occasione di quella blasfema rivolta anti-Yawè per fracassare nel suo
"sdegno", prima che gli altri potessero vederle, quelle Tavole così mal fatte e peggio scritte.
C'è un midràsh che racconta addirittura che in presenza di quell'abominevole idolo, del
Vitello d'Oro, "lo scritto svanì dalle Tavole"...
Forse, la palese imperizia di quel lavoro potrebbe essere una spiegazione (assai debole) a
quell'inopinato atto di distruzione. Io però non penso affatto che il vero motivo fosse quello,
tutt'altro. Credo invece che quel gesto apparentemente inconsulto fosse dovuto piuttosto al
fatto che quelle incisioni non andavano bene comunque. E sono pure convinta che in
quell'occasione l'acido effettivamente venne usato, anche se lo penso più che altro perché la
Bibbia specificamente afferma che (mentre nel secondo episodio di quel tipo le "parole"
vennero dettate da Dio a Mosè) fu proprio "il dito stesso di Dio" che, lassù sull'Horeb, incise
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sulla pietra le prime Leggi: cioè il prodotto originale - l'estratto "ereditato" da Giuseppe,
intendo -, con l'aiuto di Mosè che materialmente scrisse il testo sulla pietra incerata prima di
passarvi sopra - come raccontano i midrashìm - il "magico Shamìr".
2) Questa ipotesi alternativa prende infatti in considerazione un'altra possibilità, e cioè che per l'incisione di quelle prime Tavole - Mosè abbia utilizzata tutta o quasi la piccola scorta di
acido che aveva a disposizione. O quanto meno che abbia tentato di utilizzarla. Ma quell'acido
(il "dito stesso di Dio") oltre ad essere scarso era oramai pure vecchio e "svanito", quindi non
più così potente e aggressivo sulla pietra: lavorava troppo debolmente e lentamente, e i segni
che tracciava erano vaghi e incerti. Se non altro però, proprio per quel motivo, non era in
grado di procurare gravi irritazioni, e la faccia di Mosè mantenne il suo colorito normale.
In entrambi i casi comunque, sia che per quel primo tentativo di incisione avesse usato lo
Shamìr di Giuseppe o la semplice forza bruta, le Tavole non riuscirono come il Nostro voleva.
Ma non fu per quello che le distrusse. C'è dell'altro, qualcosa di ben più fondamentale
dell'inadeguato aspetto "tecnico" di quel simbolo: perché in entrambi i casi il contenuto stesso
di quanto aveva scritto non corrispondeva più (dopo la sua lunga assenza) alle necessità di
circostanze che erano mutate, erano degenerate ed ormai totalmente fuori controllo (il motivo
per cui Mosè si rese improvvisamente conto che quanto stava per consegnare agli israeliti non
andava bene, e senza por tempo in mezzo, con grande presenza di spirito, prese una soluzione
radicale mandando in frantumi la Tavola, viene spiegato nel volume di cui già si è detto:
N.d.A.).
L'unico modo per rimediare era guadagnare tempo ancora una volta congelando la situazione,
ed approfittare di quella pausa per correggere il tiro (soprattutto sotto l'aspetto concettuale)
delle disposizioni che si accingeva a dare al popolo d'Israele. La faccenda del Vitello d'Oro
era solo una scusa. Fu in realtà con quei tremila morti ammazzati che Mosè riuscì a bloccare
le spinte eversive e anarcoidi della gente, e a dividere una volta per tutte i "buoni" dai
"cattivi".
Fece comunque in maniera molto convincente la sua scena madre, la sua sfuriata di
apocalittica indignazione. Ovviamente, per rendere più credibile quella indignazione e la
distruzione delle Tavole, dovette raccontare che Yawè era ancora più furibondo di lui, che a
stento era riuscito - bontà sua - a dissuaderLo dallo sterminarli tutti. Quanto alle Tavole in sé,
fisicamente intese, forse mandandole in pezzi sottovalutò il lavoro necessario per farne di
nuove (e anche il rischio), ma credetemi se vi dico che - naturalmente, sempre dal suo punto
di vista - Mosè aveva ottime ragioni per il suo comportamento. Oltre tutto, c'è addirittura un
midràsh che afferma che Yawè stesso lo ringraziò per averle tolte di mezzo. E comunque, sta
di fatto che sapeva di potersi procurare quando voleva, come poi fece, altro acido
preparandoselo da sé; forse aveva già piantato i semi fin da quando aveva aperto il "pacco
dono" di Giuseppe, oppure lo fece dopo aver distrutto le prime Tavole, ma in tutti i casi quello
non era certo un problema.
Ripreso il controllo della situazione, continuò nei suoi esperimenti. Mentre i contriti e
spaventati Figli d'Israele si spogliavano di tutti i loro ornamenti per consegnarli
"volontariamente" ad Aronne, proto-tesoriere del Tempio, le piantine sulla montagna
crescevano, e ben presto - erano passati forse tre mesi - lo Shamìr poté essere messo in
produzione. Mosè era pronto, ora, per realizzare le nuove Tavole della Legge in versione
ufficiale e definitiva.
Anche così tuttavia quel lavoro non deve essere stato né breve né facile. In fin dei conti il
Nostro non aveva mai fabbricato né maneggiato quel venefico acido. Ma era divenuto ormai
indispensabile imporre una Legge scritta - e perciò tanto più ineludibile - ai suoi recalcitranti
seguaci, e (in mancanza di quello originale) fu pertanto costretto a preparare ex novo lo
Shamìr, distillando e manipolando l'estratto di quella pianta, senza averne nessuna pratica. Ma
forse proprio perché non ne aveva alcuna esperienza diretta, o forse tratto in inganno dalla
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scarsa aggressività manifestata da quello "vecchio", non considerò che l'acido "fresco", di
nuova produzione, sarebbe stato ben più potente, e che oltre all'impiego di quella sostanza in
sé anche, o piuttosto soprattutto, la lavorazione necessaria a distillarla e ad estrarla poteva
essere pericolosa al punto da provocare danni assai seri. E quindi trascurò di procedere con la
necessaria cautela. C.V.D.
Era quello, in realtà, il motivo dello "splendore" ossia, in termini clinici, dell'eritema sulla
pelle del suo viso che tanto spaventò gli israeliti. E fu quella, credo, l'unica volta che Mosè si
comportò con leggerezza.
Le Tavole vennero reincise con lo Shamìr, appena fatto, gagliardo e corrosivo. E quella volta
sì che erano due. Portavano scritto, quella seconda volta, il "regolamento" aggiornato,
completato, riveduto e corretto del campo degli ebrei, la Legge (che arriva fino a noi) della
loro vita a venire, chiaramente e profondamente scolpita nella pietra, altrettanto quanto lo
sarebbe stata poi nello spirito e nella coscienza dei Figli d'Israele.
Avevo ragione a non disperare. Sono stata fortunata. Ho trovato lo Shamìr. Forse. Spero.
Si chiama Dichapetalum cymosum Hook. e fa parte della famiglia delle Dicapetalaceae (in
precedenza veniva chiamato Chailletia cymosa, delle Chailletiaceae) che comprende almeno
una sessantina di specie fra arbusti, arbusti lianescenti e liane, molte delle quali vivono in
foreste dense e umide. Il Dichapetalum cymosum, che si presenta come un banale cespuglio di
circa 30 centimetri di altezza (privo di spine), cresce invece soprattutto sulla sabbia. E' assai
comune, col nome di Gifblaar, nel sud e nella fascia tropicale dell'Africa. Tutte le sue parti,
tranne la polpa del frutto, sono tossiche, ed è una delle piante più velenose. Questa sua
"qualità" fu scoperta da Anderstepoor e Marais in seguito all'osservazione che gli animali non
se ne nutrono. Il principio contenuto è l'acido fluoroacetico, uno dei più potenti veleni
conosciuti, che ingerito, inalato o per contatto provoca danni sia acuti che cronici come quelli
sopra descritti. L'acido fluoroacetico (C2 H3 F O2), che si isola dalle sue foglie, oggi,
prodotto industrialmente, viene impiegato come "base" per prodotti topicidi.
Ma 5000 anni fa, e pure prima, lo si usava (ne sono fermamente convinta) per ricavarne
l'acido fluoridrico (HF) - che si comporta esattamente come faceva lo Shamìr -, forse con un
semplice processo che prevede l'aggiunta di acqua ad una certa temperatura: ma non voglio
andare "ultra crepidam", con la chimica e la botanica (42). Tutto quello che posso ancora dire
è che almeno una pianta con quelle precise caratteristiche l'ho individuata, e penso proprio
che possa essere quella, o forse qualche altro arbusto affine o che è attivo allo stesso modo, il
mio "magico Shamìr". Aspetto conferme. O smentite.
Tanto vi dovevo.
Giocare a fare "il piccolo chimico" a volte può essere rischioso. E di più può esserlo giocare a
fare il Padreterno. Prendere, come fece Mosè, in mano il destino della gente, poter decidere se
condurla a morire o a vivere, imporre la propria volontà "in nome di Dio". Ci vuole una
immensa presunzione, un'incrollabile certezza di essere nel giusto e probabilmente un ramo di
pazzia. Chissà se, almeno per qualche istante, lo sfiorò un dubbio.
Chissà se qualche notte, lasciando per un poco gli alambicchi e le storte, mentre sulla soglia
del suo antro cercava sollievo agli occhi brucianti e al volto ardente nel fresco vento di
ponente, si fermò a pensarci.
Chissà se qualche volta, guardando laggiù ai suoi piedi l'accampamento silenzioso
addormentato sotto le stelle, chissà se qualche volta aveva paura.
54
Note
1: Il saccheggio del 597 a.C. è riportato da 2 RE 24, 10-13, la distruzione della città e del Tempio del
587 a.C. da 2 RE 25, 8-17.
2: Le misure di questo "mare" di bronzo, fuso in un sol pezzo, erano: diametro 10 cubiti (m 5,25),
altezza cubiti (m 2,60), spessore 1 palmo (cm 7,5), capacità 2000 bat (l 44.000): 1 RE 7, 23-26. Il
bacino era sorretto da dodici buoi, essi pure in bronzo.
3: Le misure delle due colonne di bronzo erano: altezza 18 cubiti (m 9,45), circonferenza 12 cubiti (m
6,30), spessore 1 palmo ( cm 7,5). Erano sormontate da un doppio capitello molto elaborato, alto 5
cubiti più altri 4, pari in totale a m 4,70: 1 RE 7, 13-22. Ho inserito la descrizione di quei grandi
manufatti in fusione di bronzo solo per dare un'idea del livello di capacità artistica e tecnologica
raggiunto dagli ebrei in un lasso di tempo (dall'esodo a Salomone) sorprendentemente breve. Non
dimentico però che il merito di tali realizzazioni viene dalla Bibbia stessa attribuito a Hiram, un
famoso artefice di Tiro ingaggiato ad hoc, e che il contributo israelita si limitò a fornire la
manodopera necessaria. Ai fini dell'archeologia industriale, sarebbe tuttavia molto interessante
ritrovare - se fosse possibile - il laboratorio o l'altoforno nel quale quelle imponenti opere vennero
"fuse in modelli di argilla", e che si troverebbe (così la Bibbia indica) in un luogo appositamente
allestito "nella regione del Giordano tra Succòt (che non era certo la stessa Succòt dell'Esodo) e
Zartan" (1 Re 7, 45).
4: Midràshica. Aggettivo da midràsh (plurale midrashìm): narrazione popolare che amplia e
arricchisce di tradizione orale e di leggenda gli scarni testi dell'Antico Testamento. Spesso altrettanto
vetusti di questo, i midrashìm trattano le identiche storie ed i medesimi personaggi, fornendo talvolta
su di essi indicazioni essenziali, ma non sono stati inclusi nella Sacra Scrittura per motivi dottrinari.
Ne esistono a centinaia, di diverse epoche, soggetti e provenienze, raccolti in moltissime antologie.
Per parte mia rivendico con forza al midràsh il ruolo, la funzione e la dignità di fonte d'informazione:
non ho detto "attendibile", ho detto "informazione", e confermo "informazione preziosa", giacché
qualunque scelta in questo campo è sempre arbitraria. I midrashìm costituiscono la fonte più diretta
delle tradizioni "apocrife" di argomento biblico.
5: Secondo un'antichissima leggenda Enoch, in vista del Diluvio, avrebbe costruito un rifugio
sotterraneo contenente i documenti relativi a tutte le scienze all'epoca disponibili, innalzando poi
sopra il rifugio sigillato i due "Pilastri di Enoch" o "antidiluviani". L'ubicazione di quel nascondiglio,
a causa forse proprio del Diluvio, o per qualche altro motivo, era però andata perduta. In seguito il
re Salomone, durante i lavori per la costruzione del suo Tempio, avrebbe ritrovato il rifugio
apprendendone i segreti; davanti a quel Tempio ricostruì in bronzo le colonne, nelle cui cavità erano
conservati i "pregevoli scritti" e le "antiche testimonianze" relativi alla storia passata del popolo
ebraico, compreso "il segreto del magico Shamir" e la descrizione delle sue proprietà.
Nell'"Itinerario" del viaggiatore e scrittore ebreo Binyamin da Tudela, scritto attorno al 1160,
l'Autore afferma: "A Roma, nella chiesa di San Giovanni in Laterano, vi sono due colonne bronzee
provenienti dal Tempio, opera del re Salomone, ciascuna delle quali reca la scritta: ‘Salomone figlio
di Davide'"; e aggiunge che gli ebrei di Roma gli avevano raccontato che ogni anno, il 9 del mese di
Av, "colava su di esse un liquido simile all'acqua". Ma sia di questo miracoloso particolare, sia
dell'ipotesi che quelle colonne fossero le famose "Jachin" e "Boaz", sia più in generale - anche se
erano altre, comuni colonne - della loro reale provenienza dal Tempio "di Salomone" - nonostante la
scritta -, mi sembra lecito dubitare, visto che all'epoca della caduta finale di Gerusalemme (avvenuta
come è noto nel 70 d.C. ad opera dei romani agli ordini di Tito) quel Tempio era stato dato alle
fiamme ormai da più di sei secoli dai caldei che "spezzarono le colonne" e "ne portarono il bronzo a
Babilonia" (vedi nota 1). Eventualmente, infatti, quelle colonne (che comunque in San Giovanni in
Laterano non ci sono più, e nessuno sa dove siano finite), anche se fossero state realmente sottratte
dal Tempio di Gerusalemme, avrebbero potuto al limite provenire non certo dal Tempio di Salomone,
ma soltanto da quello ricostruito più tardi da Erode.
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6: Salomone iniziò la costruzione del Tempio nel secondo mese (Ziv) del quinto anno del suo regno,
480 anni dopo l'uscita dall'Egitto del popolo d'Israele, quindi probabilmente attorno al 967 a.C.: 1 Re
6, 1.
7: Esodo 20, 25; Deuteronomio 27, 5-6; Giosuè 8, 30-31.
8: 1 Re 5, 31-32; 1 Re 6, 7. Ma, oltre alla Bibbia e ai midrashìm, anche leggende musulmane ne
parlano. Il divieto di usare ferro nel cantiere così fermamente imposto dal re poteva forse avere,
facendo volare un po' la fantasia, altre motivazioni più pratiche di quelle della Legge mosaica: come
ad esempio l'alto costo di strumenti fabbricati con quel metallo, ancora molto raro a quei tempi;
oppure, nella medesima ottica, il sospetto che gli operai potessero rubarli; o addirittura il timore che
se ne impadronissero per servirsene come armi suscitando una ipotetica rivolta nel cantiere. Diverse
e ancora più immaginose teorie si potrebbero sviluppare, supponendo che quella proibizione
intendesse in realtà evitare che l'uso di tali attrezzi producesse scintille: il che starebbe ad indicare
che nell'area del Tempio trovavano sfogo in superficie emissioni di gas naturale o di metano, che
avrebbero potuto pericolosamente incendiarsi; cosa tuttavia purtroppo contraddetta dall'evidenza dei
fatti. C'è infine un'ultima e ancor più fascinosa possibilità. Dicono i midrashìm che nel cantiere le
grandi pietre levitavano andando a posarsi da sé nel punto preciso al quale erano destinate.
Troviamo qui un evidente nesso con altre simili leggende egiziane (ma anche di altri paesi), secondo
cui quelle antiche maestranze erano in grado di muovere e innalzare enormi blocchi di granito,
calcare o marmo (oltre che con la sola forza del pensiero: anche questo è stato scritto) semplicemente
sollevandoli e indirizzandoli con "una musica". Secondo gli antichi papiri, era sufficiente porre sulla
pietra da spostare o sotto di essa un foglio con su scritte parole, simboli o formule magiche, produrre
quel misterioso "suono", e il blocco si alzava di un poco da terra galleggiando nell'aria. A quel punto
bastava spingerlo leggermente o colpirlo con un bastone, e avrebbe percorso, prima di posarsi di
nuovo al suolo, tanto spazio "quanto un tiro d'arco". Anche le piramidi sarebbero state costruite così.
Se il sistema messo in atto da Salomone era lo stesso, in questo caso l'interdetto avrebbe potuto
riguardare essenzialmente il rumore causato dagli utensili metallici, che avrebbe potuto interferire o
coprire quel "suono" dotato di magiche virtù. Si deve far silenzio in cantiere, quando le pietre volano.
Sarà una favola, ma forse dal punto di vista scientifico non è poi una cosa così insensata e ridicola se
è vero che sono attualmente in corso seri studi e sperimentazioni intesi ad appurare le potenzialità
(quasi del tutto ignote) di particolari frequenze e vibrazioni sonore e le loro possibili applicazioni in
vari campi della fisica, con particolare riguardo per la gravitazione. D'altro canto, visto che sui
sistemi utilizzati dagli egiziani per trasportare ed erigere oggetti di grande mole e peso il dibattito è
tuttora aperto, e anzi che - in parole povere - nessuno ci ha ancora capito nulla, non c'è proprio
niente di male a tentare nuove vie. E allora, a titolo di curiosità, vi citerò un recente articolo di
Christopher Dunn a proposito di uno straordinario personaggio che sosteneva di conoscere il segreto
della costruzione delle piramidi, e che forse diceva la verità. Sta di fatto che questo signore di origine
lituana di nome Edward Leedskalnin, verso la metà del ‘900, in 28 anni, tutto da solo e senza gru o
macchinari pesanti costruì a Homestead in Florida un complesso (che chiamò "Coral Castle") di ben
1.100 tonnellate di roccia, estraendo, lavorando e sovrapponendo blocchi monolitici di corallo pesanti
fino a 30 tonnellate. Come abbia fatto, Dio solo lo sa: ma il suo segreto ormai se lo è portato nella
tomba, e nemmeno il governo degli Stati Uniti è riuscito a farselo raccontare. La sua attrezzatura era
più che modesta, quasi ridicola, e la sua teoria era che tutta la materia è composta da magneti
individuali che basta (con il suo personalissimo sistema) allineare per adattarli al flusso magnetico
terrestre, agendo così sull'attrazione gravitazionale terrestre. Dunn (che va matto per queste cose)
pensa che forse, con un segnale radio sonoro, Leedskalnin facesse vibrare gli atomi della roccia in
risonanza con la frequenza di quel segnale, e riuscisse poi a invertirne la polarità magnetica
utilizzando un campo elettromagnetico. Spero di aver capito bene. Se no, rivolgetevi pure a lui. E
comunque, a conclusione del discorso sul divieto di Salomone, ci sarebbero ancora da fare una
domanda e un'osservazione. La domanda è: come mai era consentito tagliare con strumenti di ferro
quelle pietre (comunque sacre) fuori dal cantiere? E poi: nessun altro popolo aveva quel tabù, ma si
sa che molti possedevano qualche cosa di assai simile allo Shamìr, o che funzionava sullo stesso
principio. Ne parleremo fra poco.
9: Louis Ginzberg - "Le leggende degli ebrei" - vol. I° - Adelphi - 1995.
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10: Dato, questo, molto importante, perché sta ad indicare un effetto basato non su una frizione
meccanica esercitata sui materiali, bensì su di un principio chimico, anzi più precisamente corrosivo,
dal quale quei materiali venivano praticamente dissolti. Anche di questo parleremo più avanti.
11: E' data specifica indicazione che lo Shamìr potesse stare senza far danni a contatto con materiali
organici quali un panno di lana e crusca di orzo. Ma per quanto concerne invece gli esseri viventi
(umani, nella fattispecie) dal racconto citato da Clapham emerge chiaramente il quadro patologico di
un'intossicazione cronica, della quale ci occuperemo fra poco. Ma cosa li intossicava? forse lo
Shamìr?
12: Questa infatti è la traduzione letterale del termine ebraico "batel", a significare che, alla lunga, lo
Shamìr poteva perdere le sue proprietà. A questo proposito, non si può fare a meno di notare che,
dato che - secolo più secolo meno - altrettanti erano gli anni passati fra il primo (da parte di Mosè) ed
il secondo (da parte di Salomone) utilizzo dello Shamìr, anche durante quei cinquecento anni esso
potrebbe essere divenuto "inattivo". Il che, come vedremo, legittima il sospetto che il re Salomone,
non potendo ormai più disporre di un agente corrosivo di adeguata efficienza, non dello Shamìr di
Mosé, dello Shamìr originale si sarebbe servito bensì del suo principio, applicato però impiegando
materia prima "fresca". Tanto è vero che quella "materia prima "Salomone dovette cercarla lontano,
sulle selvagge "Montagne dei Dormienti".
13: Geremia 17, 1; Ezechiele 3, 9; Zaccaria 7, 12.
14: Se erano come quelle del palazzo di Salomone, e non c'è ragione di supporre che fossero più
modeste, si trattava di "pietre squadrate di dieci e di otto cubiti", cioè di m 5,25 x 4,20 (1 Re 7, 10).
15: "C & C Review" - 1996: 1.
16: "Kronos" - VI: 1.
17: 1 Cronache 21, 14-28. Il terreno su cui si era manifestata quella spettacolare apparizione, cioè
l'aia di Ornan il Gebuseo, divenuto sacro per via di quel fatto miracoloso, fu poi acquistato da Davide
"a prezzo di mercato": giustamente, visto che la pestilenza rappresentava la punizione di Dio per una
colpa da lui commessa. E' interessante tuttavia notare che il proprietario dell'aia fu ben felice di
liberarsene, tanto che l'avrebbe ceduta anche gratis. E che fu proprio su quel terreno che più tardi
Salomone costruì il Primo Tempio.
18: Resta però il fatto che di un meteorite del peso di più di un quintale caduto in Siberia anni fa non
esiste più traccia in quanto, a quel che sembra, la popolazione, convinta delle sue magiche virtù
afrodisiache, se lo è letteralmente mangiato, sgranocchiandoselo un pezzetto per volta, senza
risparmiare neppure il campione che era stato prudenzialmente messo "al sicuro" nel locale museo.
19: Ipotesi perversa e maligna: se lo Shamìr era una sostanza "naturale" altamente corrosiva e libera
in superficie, che cosa avrebbe potuto impedirgli - portando il ragionamento alle sue estreme
conseguenze - di sprofondare col tempo fino al centro della terra? Magari lo ha fatto davvero, visto
che non si trova più.
20: E' noto come presso diverse popolazioni primitive la tradizione relativa ai riti di iniziazione
imponga che, prima delle vere e proprie "prove" - solitamente assai rischiose - il candidato debba
dimostrare il proprio coraggio passando la notte precedente, solo e disarmato, dormendo sul terreno
del luogo sacro. Il che dimostra che il contatto con il terreno stesso di quel luogo è ritenuto in qualche
modo pericoloso.
21: Non è quella, per altro, l'unica interpretazione "diversa". Graham Hancock, ad esempio, ritiene lo
Shamir "una pietra" o "uno strumento" che non fa alcun rumore mentre è in funzione, e comunque "un
oggetto tecnologicamente avanzato".
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22: Anche in Italia sembra esista tuttora un'antica tradizione relativa ad una ignota "erba moli",
panacea per tutti i mali.
23: Non a caso Esodo 28, 11 e 39, 6, parlando delle 12 gemme da incastonare nel "pettorale del
giudizio" e delle due onici - o "sarde" - poste sulle spalle dell'"efòd", specifica che avrebbero dovuto
essere istoriate "secondo il lavoro dell'intagliatore di pietre che incide un sigillo", "secondo l'arte di
incidere i sigilli": ma, ahimè, non ci dà nessun altro dettaglio, lasciandoci con l'interrogativo di quali
mai strumenti e metodi venissero usati per eseguire tali opere. E' interessante in ogni caso notare che
la citazione di quelle tecniche d'incisione non contiene niente di magico. Si sa comunque che l'arte (e
l'uso) di tagliare, incidere, intarsiare e scolpire in rilievo le pietre dure e preziose è una delle più
antiche conosciute, e risale a gran tempo prima che fossero conosciuti i metalli adatti a questo scopo.
Già le pietre pregiate in sé sono da sempre state circonfuse da un alone di leggenda e accompagnate
dalla credenza (ancor oggi lo sono) che ognuna di esse abbia una (o più) diverse virtù e proprietà
particolari: che, ad esempio, possano conferire salute, o forza, o pazienza, o saggezza eccetera; che
siano in grado di proteggere chi le porta da diversi mali e svariati guai (come i fulmini, gli aborti, i
furti e simili); che vi sia un rapporto diretto fra i pianeti - ciascuno dei quali ha un suo àmbito di
azione particolare - e le pietre che sono sotto la loro influenza. Ogni varietà ha insomma il suo
significato ed è dotata di aspetti e poteri magici, sacri. E sappiamo pure che perfino la scienza
ufficiale e contemporanea non disdegna di prendere in considerazione eventuali proprietà
elettromagnetiche ed elettroniche di alcune di esse. In questa ottica, ancora più grande e
determinante era considerato il potere della pietra incisa, nella quale alle caratteristiche proprie ad
una particolare gemma si univa la forza occulta del simbolo o delle parole su di essa riportati. E' da
questa diffusissima convinzione che trae origine la produzione, così copiosa e continuativa, di tali
talismani in ogni tempo.
24: Dimenticando forse l'asserzione appena fatta, l'ingegner Pincherle - nello stesso contesto sostiene però anche un'altra ipotesi circa il taglio e la perforazione di pietre dure: seghe, trapani
eccetera, invece del tagliente "portavano fori o cavità a forma di calice che contenevano polvere
abrasiva con la quale si praticavano le perforazioni e i tagli".
25: Le pietre da opera solitamente usate erano basalto nero di Gebel Qatrani, granito rosa di Assuan,
quarzite di Gebel Ahmar, diorite del deserto occidentale di Abu Simbel, dolerite nubiana. Materiali
estremamente resistenti, nei quali (almeno dal 7° grado della scala di Mohs in su) con rame e
abrasivo è impossibile fare un taglio netto. E tuttavia Flinders Petrie, il quale ha dedicato a questi
problemi lunghi anni di meticolosi studi, ha calcolato che per tagliare, ad esempio, il "sarcofago di
Cheope" deve essere stata usata una sega in bronzo lunga almeno m 2,40, ipotizzando - in mancanza
di altre e più realistiche spiegazioni - che nella lama fossero incastonati diamanti: i quali però come è
noto, e a parte ogni altra già esposta considerazione di costo, non sono reperibili in Egitto. Altre
supposizioni sono state fatte: che quelle lame fossero state realizzate in una lega di rame con un
indurente come il berillio o l'arsenico, oppure che vi fossero inserite altre gemme quali quelle di
corindone (rubini e zaffiri) anch'esse tuttavia di importazione. In ogni caso, a quell'epoca, gli attrezzi
utilizzati non potevano essere in ferro, anche se nella Grande Piramide è stata in realtà trovata una
lastra di ferro (cm 38,48 x 10,16 x 0,3), inserita lì in fase di costruzione, e che già di per sé costituisce
un mistero. Sta di fatto comunque che sulle pareti del "sarcofago" (un unico blocco di granito di cm
227 x 97,7 x 105) non si notano segni di scalpello o di taglio, come peraltro non se ne vedono
nemmeno in quello "di Chefren", o in quelli enormi (ricavati anche questi da un sol pezzo di cm 400 x
200 x 335, 100 tonnellate totali), riservati alla sepoltura dei tori sacri, del Serapeum di Saqqara: tutti
anzi mostrano una levigatura sia interna che esterna di incredibile perfezione. Secondariamente al
fatto che, altro dato stupefacente, le pareti sia interne che esterne di tali oggetti presentano angoli e
spigoli perfetti di 90° i quali sembrano eseguiti simultaneamente, con un attrezzo da taglio, anzi con
un macchinario a tre assi, impensabile per l'epoca. Qualche altro particolare che potrei aggiungere
sul "sarcofago di Cheope", tanto per rinfrescarvi la memoria, è che non si trova al centro della
stanza. Che gli manca il coperchio. Che uno spigolo superiore è rotto e manca. Che il suo volume
esterno è esattamente il doppio di quello interno. E che i calcoli e le considerazioni sulle sue misure
ed i rapporti esistenti fra esse, così come su quelle relative alle piramidi in generale, hanno dato la
stura ad elucubrazioni matematico-esoterico-cosmologiche nelle quali mi guardo bene
dall'addentrarmi. Per inciso, neppure sull'obelisco incompiuto di Assuan (lungo 42 metri e del peso di
58
kg 1.200.000) ci sono quei segni, benché si presenti allo stato grezzo, solo sbozzato in superficie e
scavato lateralmente. Quanto sopra detto si riferisce alla sola lavorazione esterna, cioè al taglio dei
blocchi. Ma, come vedremo, ci sono anche altri, ben più problematici aspetti. E' inspiegabile, per
esempio, l'uso del tornio - sostenuto da Flinders Petrie ed avallato dalle analisi tecniche eseguite da
altri successivi ricercatori - per lavorare la diorite e il granito di vasi e coperchi di sarcofagi. Anche
quel tornio, evidentemente, avrebbe dovuto dar forma al minerale per mezzo di un "tagliente" più
duro della pietra. Per quanto attiene poi la lavorazione del granito in particolare, mi viene in mente
che un famoso scultore italiano contemporaneo, a un certo punto della sua evoluzione artistica, volle
cimentarsi (cosa che non aveva mai fatto prima) con quel materiale per la realizzazione di una statua
di medie dimensioni. Anche sudando le proverbiali sette camicie, ci mise otto anni prima di finirla.
26: Il fatto che in quelle opere più tarde - e più rozze - non venisse più tolta (per "liberare" la figura e
porre lo sfondo al suo giusto livello) la materia eccedente, significa che quell'asportazione non era
più possibile perché era venuto a mancare qualcosa: il tempo? i soldi? o la "mistura vegetale"?
Quanto all'effetto prodotto da quell'estratto vegetale, la mia supposizione è che agisse solo su uno
spessore ridotto (2 o 3 centimetri), quello della profondità dei bassorilievi. Ovviamente, l'applicazione
poteva essere ripetuta più volte; ma a questo punto è evidente che se l'intervento o il taglio non veniva
eseguito con una sola applicazione ma in momenti ed in fasi successive, il lavoro potesse risultare
impreciso. A questo proposito è interessante notare, tenuto conto anche di quanto detto alla nota
precedente, e a conferma dell'ipotesi che certe lavorazioni venissero effettivamente eseguite al tornio,
che su alcuni dei vasi di Saqqara sono stati individuati dei segni che dimostrerebbero che l'oggetto in
questione è stato tolto dal tornio e poi riposizionato non correttamente, cioè non centrando
esattamente l'asse di rotazione.
27: E' quanto, in effetti, si riscontra nella Grande Piramide, nella quale i massi più pesanti (10-15
tonnellate) sono posizionati ben in alto - a partire dal cinquantesimo corso di pietre - sopra quelli più
piccoli e leggeri (da una tonnellata o poco più) dei livelli inferiori. Una delle più nuove, "eretiche" ed
interessanti teorie a proposito della realizzazione di questa struttura è quella avanzata dall'ingegnere
francese Joseph Davidovitz, secondo il quale i blocchi calcarei che costituiscono la Grande Piramide
non sono in pietra naturale, ma artificiali, fabbricati sul posto con una sorta di cemento o
calcestruzzo, e contengono acqua più del dovuto. Questa ipotesi - partita dall'affermato ritrovamento,
all'interno di uno dei blocchi, di un capello umano, e supportata da svariate analisi e dal parere di
diversi scienziati francesi - si basa anche su quanto si trova scritto nella cosiddetta "Stele della fame"
o "della carestia". E cioè che il re Zoser aveva ricevuto dal dio Khnum, in sogno, le istruzioni per
costruire la sua piramide e altri monumenti; tali istruzioni riguardavano sia il modello architettonico
sia il materiale da costruzione, che per l'appunto sarebbe stato una miscela di vari minerali locali non
tutti identificati (adeguatamente macinati e mescolati con una sorta di "betoniera"), che comprendeva
probabilmente un qualche elemento indurente: forse, l'arsenico, un metalloide che, unito ad altre
sostanze, produce una coagulazione rapida e resistente. Sarebbe, in effetti, l'"uovo di Colombo", in
grado di risolvere in un colpo solo sia i problemi del taglio che quelli del trasporto delle pietre. Non
sappiamo se tutte le componenti di quel materiale siano state identificate (o quanto meno se siano
state identificate correttamente), ma sta di fatto che Davidovitz ha brevettato ed in seguito
commercializzato un "geopolimero" ottenuto proprio da quella formula. Per parte sua, il fisico belga
Guy Demortier, avendo rilevato anomalie nei blocchi di calcare sia per quanto riguarda la loro
composizione chimica che la loro densità, inusualmente variabile, sostiene che in realtà questi sono
costituiti da calcestruzzo ottenuto colando in casseforme di legno (del cui impiego sarebbero rimaste
tracce) un miscuglio di ghiaia di calcare, acqua e nitrato di sodio. Ma ricerche in tal senso erano
state per altro già anticipate dal biochimico tedesco Klemm. Altri ricercatori ed università americane,
inoltre, affermano che 4000 anni fa anche i babilonesi - a ciò costretti dalla quasi totale mancanza di
materie prime - fabbricavano pietra artificiale, ovverosia "basalto sintetico", fondendo in grandi
fornaci, a 1200 gradi Celsius, i sedimenti fluviali. In base ai ritrovamenti di Mashkan-Shapir (sito
archeologico a sud di Bagdad), sembra che i basalti da cui sono costituiti i manufatti di quella zona, a
prima vista indistinguibili da quelli naturali, siano in effetti del tutto diversi da qualunque altro tipo di
basalto noto, sia per composizione chimica che per struttura cristallina.
28: Christopher Dunn è un tecnico utensilista statunitense specializzato in ricerche ed applicazioni
delle tecnologie laser ed a ultrasuoni. Ha pubblicato una serie di articoli ("Le progredite tecniche
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degli Egizi") sull'ipotesi della lavorazione della pietra con ultrasuoni. Leggo a questo proposito in
una rivista di settore che il "Jet Propulsion Laboratory" della NASA, a Pasadena in California, ha
realizzato un apparecchio ultrasonico piccolo e leggerissimo che può penetrare le rocce più dure con
pochissimo peso sulla punta e un bassissimo consumo di elettricità. Purtroppo però non posso dire
che tale notizia mi sia di grande aiuto per quanto riguarda il problema che stiamo trattando.
29: Si tenga presente che alcuni dei mostruosi blocchi che compongono le spettacolari mura della
fortezza di Sacsayhuaman giungono a sfiorare le 400 tonnellate. Davanti a quella fortezza Garcilaso
de la Vega, uno storico al seguito degli spagnoli, rimase a bocca aperta, come racconta nei suoi
"Commentari Reali degli Incas" descrivendola così: "può davvero sembrare incredibile a chi non l'ha
vista. E ad altri può sembrare frutto di incantesimo..."
30: Scriveva attorno al 1650 nella sua "Storia del Cile" Padre Diego de Rosales, missionario della
Conquista spagnola, di una pianta chiamata "pito", che cresce sulle montagne del Perù e della
Bolivia. Gli indigeni ingerivano l'estratto delle sue foglie rosse per sciogliere i calcoli renali (lo stesso
uso a quanto mi dicono veniva fatto anche da noi della nostra comune Portulaca). Un uccello che
l'Autore chiama "carpentiere" mangiava le foglie del "pito" per "purgarsi e per rinforzare il becco,
con il quale poi può scavare anche il legno più duro". Inoltre, l'"uccello carpentiere" sfregava le
foglie con movimento circolare sulle rocce per ammorbidirle e per scavarvi successivamente il nido.
31: L'Inti Huatana è la famosissima "Pietra del Sole" (o "dove si lega il Sole") che con il suo gnomone
indica la data esatta di solstizi ed equinozi e serve da riferimento per i movimenti lunari.
32: Contatti intercontinentali in età remotissime sono cosa d'altronde confermata, per chi ha occhi
per vedere, da una quantità di altri segni, e oramai sempre meno osteggiata anche dalla "cultura
ufficiale". Ma non è questa la sede per trattare un tema così importante, del quale mi occuperò al
momento giusto.
33: Del latice prodotto dalle foglie (foglie che gli animali non mangiano) dell'Euphorbia dendroides
L. o Euforbia arborea - che Galeno definiva "acre", "acutissimum", "causticum" e che "fortiter
calfacit" - è noto il forte potere urticante. Veniva infatti (e forse ancora viene) popolarmente
utilizzato, al pari di quello del fico, come acido per bruciare porri e verruche. Si narra che la maga
Circe lo impiegasse come ingrediente nelle sue pozioni che trasformavano gli uomini in porci, e anche
che in passato i pescatori di frodo lo usassero per stordire e catturare i pesci. Tale principio irritante
pare tuttavia il solo punto di contatto con lo Shamìr: non solo difatti l'Euforbia non manifesta alcuna
delle altre sue straordinarie caratteristiche, ma - come dice Ginzberg - è tuttora presente in
abbondanza nei climi caldi e aridi del Mediterraneo meridionale, mentre lo Shamìr, disponibile solo
all'epoca della costruzione del Tempio, in seguito sparì per sempre. Segno che non era una specie
locale, autoctona in Israele, bensì che venne appositamente importata, per quell'occasione, da altri
climi. Introdotta ad hoc, adattata e coltivata per un periodo di tempo prestabilito. E' una delle tre
possibili spiegazioni. Un'altra è che effettivamente il re Salomone si servisse di conoscenze e "lasciti"
di origine mosaica, compresi i semi di quel prodigioso cespuglio, e di ciò parleremo fra poco. La
terza è che quell'apporto fosse del tutto casuale: e cioè che uccelli migratori provenienti dal sud,
dall'Africa, possano avere incidentalmente trasportato al nord, nelle zone di nostro interesse (ed
anche in altre) lo Shamìr, dando così origine alla leggenda del gallo cedrone ed a tutte le altre ad
essa parallele. E volutamente non intendo addentrarmi qua nelle ipotesi "marca Sitchin" di che cosa
in realtà fossero quegli "uccelli" (lui direbbe uomini-uccello, ovverosia astronauti): un argomento di
certo molto affascinante, ma troppo vasto e lontano dal mio, e perciò lo lascio tutto a lui. Quello che
qui mi preme sottolineare è l'evidenza che sia dal nostro àmbito che da quello delle altre civiltà
vicine, dove ne sono state riscontrate le tracce sia letterarie che archeologiche, lo Shamìr - o chi per
esso - a un certo punto scomparve, e perciò quella magica arte di lavorare la pietra senza usare
metalli andò perduta. Più avanti cercheremo di capire il perché, ma per ora mi basta ribadire bene
due concetti: il primo è che lo Shamìr era sicurissimamente una pianta, perché oltre tutto se no non si
capisce che senso possa avere il mettere in guardia da una sua possibile confusione con l'Euforbia
(che di sicuro è un vegetale e non, per esempio, un verme ): il secondo è che con ogni probabilità
quella pianta non faceva parte della comune flora mediterranea. Era una specie esotica, e occorreva
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procurarsela intenzionalmente da altri lidi, e poi coltivarla volta per volta - probabilmente con
difficoltà e certo con molte cure - per poterne usare a fini particolari le straordinarie caratteristiche.
34: La migliore dimostrazione dello scarso accordo esistente su questo celebre campionario di
gemme sta nel fatto che, avendo consultato otto diverse edizioni italiane e straniere dell'Antico
Testamento, ho trovato di quell'elenco ben sei differenti varianti, o per l'ordine in cui le pietre sono
riportate o per i nomi stessi loro attribuiti. A parte quelli già riportati nel testo, compaiono infatti una
volta anche il CALCEDONIO, senza altre indicazioni, e in tre edizioni il LIGURIO, che proprio non
sono riuscita a identificare (a meno che quel nome non stia per LIGURITE, nel qual caso sarebbe un
nesosilicato solubile in acido solforico).
35: Penso proprio che non vi sarà sfuggita la connessione con quel "cesto di piombo pieno di crusca
d'orzo" di salomonica memoria, nel quale il re ripose lo Shamìr sottratto al gallo selvatico. E neppure
quella con la sorprendente bara di piombo in cui fu sepolto il patriarca Giuseppe, e che Mosè si portò
poi appresso durante tutta la peregrinazione nel deserto (tema meglio trattato nel libro di cui in
premessa: N.d.A.).
36: Il materiale da costruzione del Tempio di Salomone, per esempio, era, nella citazione di Giuseppe
Flavio, un "marmo bianchissimo", cioè un tipo di dolomite (ovverosia un calcare) tenero ma che
indurisce all'aria, di ottima qualità, molto fine e compatto, detto appunto "pietra reale". Si estraeva
dalle "cave reali" o "cave di Salomone", appena fuori la terza cinta di mura di Gerusalemme, vicino
alla Porta di Damasco.
37: L'indicazione costantemente ribadita nei midrashìm delle "Montagne dei Dormienti" come luogo
selvaggio e isolato dove si sarebbe trovato lo Shamìr può far pensare: 1) che Salomone intendesse
tenere nascosto a tutti il suo "vivaio", nel quale la pianta veniva coltivata; e 2) che il clima, o il
terreno, o entrambi, delle montagne citate fossero i più confacenti all'acclimatazione e alla
coltivazione di quella specie esotica. Ma delle misteriose "Montagne dei Dormienti", o "dei Veglianti"
si parla spesso nelle più antiche tradizioni indoeuropee. Sarebbero quei luoghi segreti nei quali
vivevano, in un lontanissimo passato, quegli esseri divini - o divinizzati - che avrebbero civilizzato la
terra, e dove i loro superstiti discendenti si sarebbero poi ritirati abbandonando il genere umano al
suo destino. Ma questa è un'altra storia.
38: Come ho già spiegato a proposito della teoria avanzata da Velikovsky e da qualche altro studioso,
lascerei proprio perdere, e senza alcun rimorso, l'ipotesi che quegli effetti potessero essere provocati
da un'improbabile proprietà radioattiva delle Tavole o dell'agente impiegato per lavorarle. E' vero
che la radioattività colpisce ed ammazza sì la gente, ma in maniera molto diversa, e soprattutto - una
volta che le radiazioni siano state assorbite dall'organismo - non recede, non è reversibile e continua
per tutta la residua vita dell'individuo a fare danni. E tanto meno prenderei in considerazione l'uso di
un primitivo laser, che con queste manifestazioni cliniche non ha proprio nulla da spartire. A titolo di
informazione mi corre tuttavia l'obbligo di riferire che la radioattività in sé non è un fenomeno del
tutto assente fra le molte cose "strane" che si possono trovare nel corso delle ricerche archeologiche
svolte in Egitto. Non solo, infatti, alti valori di radon - emanazione radioattiva derivante dal radio sono stati riscontrati nei più antichi monumenti egizi (cosa, per altro, non di rado constatata in
ambienti sotterranei isolati e chiusi), ma anche la pece (proveniente dal Mar Rosso e da alcune zone
dell'Asia Minore) e le bende usate per l'imbalsamazione delle mummie egizie presentano un discreto
livello di radioattività. Il che però non ci autorizza a congetturare che l'impiego di sostanze
radioattive a tale scopo fosse consapevole e voluto. Quanto all'uso del laser il già citato Dunn (e
questo è proprio il suo specifico settore di competenza) non ha potuto rilevare nelle pietre egizie
nessuna traccia di incisioni eseguite con tale tecnica. I miti egizi, per altro, affermano che le molte
pietre di diorite trovate ad Abusir intorno al tempio di Sahura, che mostrano fori di trivellazione
apparentemente eseguiti con trapani diamantati, furono tagliate da Seth.
39: Non saprei davvero come lo si potrebbe verificare, ma credo proprio che anche il più potente
degli acidi, come l'acido fluoridrico, dopo molto tempo "svapori" e perda la sua forza aggressiva:
avrà pure la sua "data di scadenza", e qui si sta parlando di secoli. Questo, se lo Shamìr veniva
conservato, per esempio, sotto forma di pasta. Ma anche se si trattava dei soli semi della pianta, può
61
darsi che nel lungo periodo la loro germinabilità ne risultasse compromessa (tuttavia non è detto,
perché si sono visti casi di antiche piante germogliate dopo millenni passati in un'asciutta oscurità).
40: Così pure neanche tra gli arredi del culto restituiti da Ciro agli ebrei, alla vigilia del loro ritorno
in patria da Babilonia, lo Shamìr non c'era (e nemmeno i documenti scritti), se no di certo la Bibbia
l'avrebbe detto.
41: Nel libro del quale la presente ricerca fa parte vengono confutate le ipotesi di Phillip Clapham (il
quale sostiene che furono le Tavole stesse, che avevano proprietà radioattive, ad ustionare Mosè) e di
Hancock (il quale deduce - sulla scorta di una fonte midràshica che narra che le seconde Tavole
erano "permeate dal fulgore divino", mentre le prime invece no - che il Maestro distrusse quelle prime
Tavole forse perché "tecnicamente imperfette". Il motivo, come nel volume viene spiegato, è invece
tutt'altro). Hancock e Charroux, però, sono stati gli unici a notare l'anomalia del fatto che, mentre la
prima volta la pelle della faccia di Mosè non risentì della sua frequentazione del Signore, solo dopo
l'incisione delle nuove Tavole "splendeva", e poi non lo fece mai più, nonostante lui continuasse ad
incontrarsi "faccia a faccia con Dio".
42: Quest'ultima nota avrebbe dovuto, nelle mie intenzioni, illustrare la reazione con la quale
dall'acido fluoroacetico si può ottenere l'acido fluoridrico. A causa delle mie personali carenze
scientifiche non è così, purtroppo, ma spero con tutta l'anima mia che qualcuno degli addetti ai
lavori "mi umilii" ricostruendo quel procedimento. E che me lo faccia sapere, naturalmente.
Vorrei aggiungere comunque qualche osservazione. Sembra di capire che con il termine "Shamìr"
venisse indicato sia il "lascito" di Giuseppe e poi di Mosè (cioè i semi della pianta) che il "prodotto
finito". L'acido fluoroacetico estratto dalle foglie della pianta si presenta come una polvere cristallina
incolore, quindi non è di esso che si parla nella leggenda. L'acido fluoridrico invece (ricavato, nella
mia ipotesi, dal primo), che solidifica a - 83,55 °C, è liquido fino a +19,54 °C (poi diviene gassoso). Il
che mi fa supporre che, non essendo possibile disporne, come è evidente, sotto forma di solido, lo
Shamìr "operativo" consistesse forse in una pasta ottenuta mescolando l'acido fluoridrico liquido con
un qualche eccipiente minerale inerte, ma sappiamo che non ne vengono attaccati unicamente il
piombo, il bronzo e l'oro. Era quello che si doveva "involtare in un panno e deporre in un cesto di
piombo pieno di crusca d'orzo"? E l'elaborato "candelabro d'oro puro" di Mosè era forse, a suo
modo, un alambicco?
Riferimenti Bibliografici
1 AA.VV. - L'Antico Testamento - edizioni varie
2 AGREST MATEST - L'antico miracoloso meccanismo Shamìr
3 BINYAMIN DA TUDELA - Itinerario - Luisè - 1988
4 CHARROUX ROBERT - Il libro dei segreti traditi - Ceschina - 1973
5 CLAPHAM PHILLIP - Shamìr - in "C&C Review - 1996: 1
6 DUNN CHRISTOPHER - Le progredite tecniche degli Egizi - in "Hera" dal n. 11 al n. 15
7 FAWCETT PERCY - Operazione Fawcett - Bompiani - 1953
8 FLAVIO GIUSEPPE - Delle antichità giudaiche - Sonzogno - 1821
9 FLAVIO GIUSEPPE - Guerra giudaica - Mondadori - 1991
10 FLINDERS PETRIE WILLIAM - Dieci anni di scavi in Egitto
62
11 FLINDERS PETRIE WILLIAM - Le piramidi e templi dell'Egitto
12 FORBES R.J. - Studies in Ancient Technology - Leiden 1964-1966
13 GINZBERG LOUIS - Legends of the Jewish - Jewish Publication Society of America - 1911
14 GRAVES ROBERT- PATAI RAPHAEL - I miti ebraici - TEA - 1998
15 GRIERSON RODERICK - MUNRO-HAY STUART - L'arca dell'alleanza - Mondadori - 2000
16 HANCOCK GRAHAM - Il mistero del Sacro Graal - Piemme - 1995
17 INGERSOLL ROBERT(1833-1899) - Some mistakes of Moses
18 KANNER ISRAEL ZWI - Fiabe ebraiche - Mondadori - 1991
19 LIMENTANI GIACOMA - Gli uomini del Libro - Adelphi - 1975
20 MOSCATI SABATINO - Antichi imperi d'Oriente - Newton Compton - 1978
21 PINCHERLE MARIO - Il Mosè proibito - Macro Edizioni - 2000
22 ROSTAING MIRELLA - I misteri dei mondi - Mondadori - 1992
23 SALKELD DAVID - Shamìr - in "C&C Review" - 1997: 1
24 SANTINI DE RIOLS - Le pietre magiche
25 SITCHIN ZECHARIA - Le astronavi del Sinai - Piemme - 1998
26 TEOFRASTO - Historia plantarum
27 VELIKOVSKY IMMANUEL - Shamìr - in "Kronos" - VI: 1
----Lia Mangolini che, adolescente, ha vissuto qualche tempo in Israele, ha più
tardi investito la sua preparazione classica in attività di divulgazione
scientifica, ufficio stampa e relazioni pubbliche nel campo dell'educazione e
della difesa ambientali, realizzando e curando mezzi mediatici di vario tipo per
conto di enti pubblici e privati. Occupazioni che ha poi anticipatamente
abbandonato per dedicarsi alla sua antica passione per l'archeologia e l'origine
delle religioni, anche come membro del Centro Camuno di Studi Preistorici al
cui lavoro editoriale e, sul campo, nel Sinai, ha partecipato. Visita paesi di
remotissima civiltà cercandone le misconosciute connessioni, e crede
fermamente nell'archeologia "eretica" o "di frontiera". Questo è il suo primo
lavoro che viene pubblicato.
[email protected]
63
I luoghi che videro la "nascita" dell'Homo Sapiens,
secondo Spedicato...
64
L'Eden riscoperto: geografia, questioni numeriche
ed altre storie
(Emilio Spedicato)
Questo saggio è dedicato:
• A mia zia Amelia Risso, i cui racconti sul Paradiso Terrestre nella mia infanzia inspirarono
domande senza risposte allora, le cui risposte potrebbero ora trovarsi in queste pagine
• Ai popoli dell'Afghanistan, terra dei fiumi che discendono dai monti del Giardino dell'Eden.
Possano vivere in pace, armonia e tolleranza fra di sé e con il mondo.
Riassunto: L'Eden, il luogo dove furono creati Adamo ed Eva, è brevemente descritto nel
Genesi, primo libro della Bibbia, e più ampiamente in più antiche fonti mesopotamiche. Qui
consideriamo gli spunti geografici identificanti il Paradiso Terrestre presenti nel testo Biblico.
Mostreremo l'esistenza di un preciso luogo dell'Asia che soddisfa precisamente queste
informazioni geografiche. Nel contesto di tale nostra ipotesi geografica proporremo una nuova
interpretazione d'antichi simboli e modelli della cultura umana, inclusi i significati della
svastica e dei punti cardinali nelle lingue di ceppo germanico.
Prefazione
"La collocazione del Paradiso Terrestre ha stimolato i curiosi e i teologi sin dalla prima lettura del
testo biblico. Oggi, pochi studiosi sarebbero così ribelli o sconsiderati da affermarne la reale
esistenza - e tanto meno da dire che fu il luogo da cui nacque il genere umano. Questo dice tutto sul
modo di pensare degli studiosi odierni, in cui sembrano prevalere diffidenza e puro scetticismo ... in
questi tempi c'è così tanto timore nel proporre nuove idee in disaccordo con le vigenti opinioni
accademiche che la maggior parte degli storici tende a evitare in tutti i modi di usare la propria
immaginazione, e come risultato, il lettore interessato è lasciato ai prodotti dell'immaginazione delle
precedenti generazioni. Quelli nel mondo accademico che osano proporre nuove interpretazioni sono
spesso derisi dai propri colleghi precisamente perché usano intuizione ed immaginazione nel tentativo
di rispondere a cavillosi problemi storici".
Quelle sopra sono citazioni da Rohl [11]. Questo saggio è il tentativo di una persona
appartenente al mondo accademico, sebbene al ramo scientifico e non umanistico, di
rispondere alla domanda "dove" riguardante il Giardino dell'Eden. La nostra risposta è il
prodotto di interessi personali in geografia e storia antica sviluppati sin dalla prima età, ormai
per quasi 50 anni. La risposta che proponiamo per quanto ci consta è una nuova
identificazione del "dove", che concorda in modo impressionante con i dati geografici presenti
nel Genesi, generalmente considerati abbellimenti.
1. Introduzione
La Bibbia (con questo nome ci riferiamo a quello che i Cristiani chiamano "Vecchio
Testamento"), libro sacro per Ebrei, Cristiani e Musulmani, contiene una vastità di
informazioni storiche, geografiche e di natura non teologica. La Bibbia ha raggiunto i nostri
tempi attraverso diversi canali di trasmissione, basati sul fatto che i testi sacri sono
sopravvissuti presso comunità di Ebrei separate geograficamente in diverse parti del mondo.
La più famosa è la cosiddetta versione rivelata, conservata dalle tribù di Giuda e Beniamino,
deportate in Mesopotamia da Nebuchadnezzar nel 587 A.C.; si pensa che questo testo sia stato
redatto nella sua versione attuale dal grande sacerdote Esdra, che guidò le due tribù dopo che
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Ciro il Grande concesse loro di lasciare Babilonia. Il testo originariamente messo insieme da
Esdra conteneva solo consonanti. Le vocali furono aggiunte un millennio più avanti, durante
l'espansione islamica, dalla cosiddetta scuola rabbinica dei Masoreti; così fu stesa quella che
oggi viene chiamata Bibbia di Gerusalemme. Ricopiare vecchi testi per farne dei duplicati era
un lavoro curato con estrema attenzione, tanto che gli errori non potevano essere corretti ma il
foglio intero doveva essere ricopiato completamente. L'impressionante accuratezza nella
trasmissione del testo biblico è stata confermata dalla scoperta di diversi libri della Bibbia
negli scavi di Qumran. Per esempio tra i primi quattro papiri scoperti da beduini e portati nel
1947 al vescovo siriaco - ortodosso Yeshue Samuel, c'era una copia integrale del libro di
Isaia, in 54 colonne di 30 linee. Il più antico manoscritto di Isaia allora noto faceva parte della
cosiddetta Bibbia di Leningrado, del IX sec. D.C., scritta un millennio dopo. I due testi erano
virtualmente identici. Va notato però che quando i Masoreti vocalizzarono il testo
consonantico della Bibbia, l'ebraico era una lingua morta da circa 1000 anni, pertanto è lecito
aspettarsi la presenza di errori nella vocalizzazione. Il professore Kamal Salibi [1,2,3] è
l'autore della tesi, dimostrata prevalentemente con argomenti geografici, che la Terra del
Latte e del Miele, dove Abramo abitò dopo aver lasciato Ur dei Caldei (circa 1900-1800 A.C.)
e dove vi ritornò Mosè dopo l'Esodo (evento che insieme a Velikovsky [4], Rohl [5], James
[6], Bimson [7] e Patten [8] collochiamo nel 1447 A.C.), non era la Palestina, bensì la regione
tra la Mecca e lo Yemen, chiamata adesso Asir. In questo contesto e servendosi dell'arcaica
forma di arabo tuttora parlato nell'Asir egli ha arguito che alcune vocalizzazioni proposte dai
Masoreti non sono corrette.
Inoltre si potrebbe sospettare che la vocalizzazione corretta e originale e quindi anche la
capacità di interpretare l'antico testo consonantico, sia stata influenzata, per quanto riguarda le
antiche tribù di Giuda e Beniamino, dall'assassinio dei sacerdoti ordinato da Manasse, prima
della deportazione in Mesopotamia, quando questo re per un certo tempo ritornò al politeismo
(secondo Hancock [9] un piccolo gruppo di sacerdoti sopravvisse, raggiungendo l'isola
egiziana di Elefantina e portandosi dietro l'Arca dell'Alleanza, che più tardi finì in Etiopia).
Questa perdita di continuità nel clero delle tribù di Giuda e Beniamino, quelle che poi si
insediarono in Palestina una volta affrancate da Ciro il Grande, e che poi diedero origine alla
diaspora nell'Impero Romano, potrebbe spiegare i molti problemi affrontati dai primi
traduttori della Bibbia in greco (la versione dei Settanta databile verso il 250 A.C.). Potrebbe
inoltre spiegare parzialmente la differenza tra quest'ultima e le altre versioni, p.e. la Vulgata
latina (dovuta a San Girolamo, dell'inizio del V sec. D.C.: San Gerolamo studiò l'ebraico in
tarda età servendosi del determinante aiuto di un amico rabbino) e della Bibbia di
Gerusalemme, basata su tradizioni rabbiniche.
Ci sono altre versioni della Bibbia, redatte forse prima della versione canonica di Esdra, forse
basate su tradizioni indipendenti delle altre 10 tribù d'Israele, deportate nel 722 A.C. dal re
assiro Sargon II in un luogo che più tardi collocheremo in una parte dell'Afghanistan (secondo
Salibi, l'Asir è la terra delle 10 tribù; da questa terra alcuni avrebbero potuto evitare la
deportazione fuggendo per via marina ed originando quindi una diaspora su una scala molto
maggiore di quella successiva all'interno dell'impero romano). Tra queste versioni sono
incluse la Bibbia Samaritana e le versioni etiope ed armena. Tuttavia, parlando in generale, le
differenze tra le varie versioni sono trascurabili, sebbene in qualche caso possano essere
importanti (per esempio nel numero di anni fra la creazione di Adamo e il Diluvio). Inoltre in
alcune versioni alternative vengono considerati canonici alcuni libri esclusi dalla redazione
dei Settanta (p.e. il libro di Enoch).
A parte le riportate considerazioni sulla corretta lettura del testo biblico, ci si deve quasi
stupire che il testo del Genesi - usualmente attribuito a Mosè, quindi avente circa 3500 anni, e
più probabilmente basato su tradizioni assai più arcaiche (di oltre 7500 anni fa, se, dando retta
ai testi etiopi o samaritani, collochiamo Adamo circa nel 5500 A.C.) - contenga nomi
geografici tuttora identificabili e in certi casi sopravvissuti con trascurabili cambiamenti fin
quasi ai nostri tempi.
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La Bibbia è un testo che da informazioni in diversi campi. Nel mondo occidentale la sua
attendibilità non è stata messa in dubbio per un tempo molto lungo, addirittura nel senso
letterale delle traduzioni disponibili, che, come fatto notare, sono per lo meno soggette al
problema della corretta vocalizzazione. Durante l'Illuminismo molte affermazioni bibliche
iniziarono ad essere rifiutate (incluse ad esempio quelle sulle "pietre cadenti dal cielo",
fenomeno ammesso dagli astronomi solo nella seconda metà del XIX secolo). Oggigiorno
perfino presso gli esegeti delle chiese cristiane si attribuisce abbastanza comunemente alla
Bibbia autorità esclusivamente morale o teologica, mentre i fatti raccontati sono considerati
essere esclusivamente di valore simbolico o allegorico, vedasi la seguente affermazione di
Borgonovo [10]:
Il principio su cui si basa la prima parte del Genesi (Capitoli 1-11) ha caratteristiche abbastanza
speciali. Non ha basi scientifiche, ma è una riflessione "sapienziale" attraverso un linguaggio
mitico ... La principale conseguenza per l'interpretazione di questo testo è che non siamo in grado di
passare direttamente dal racconto biblico ad una convalida storica per esempio sull'unica origine del
genere umano, sull'arca di Noè, sul diluvio. ... Nel Genesi guardiamo esclusivamente ad una
formulazione mitico - simbolica degli eventi vissuti da Israele.
Altri studiosi, comunque, per esempio Velikovsky [4] e Rohl [5, 11], hanno dato grande
valore alla Bibbia come testo storico, affermando che molte difficoltà in apparenti
incongruenze con altre storie derivano da un'errata cronologia adottata dagli storici dell'Egitto,
ancorata ad un anno sotico fissato erroneamente.
In questo saggio trascureremo le questioni cronologiche, trattando essenzialmente lo specifico
problema della collocazione dell'Eden. La Torah (il Pentateuco) contiene circa 2000 toponimi,
la maggior parte dei quali dovrebbero riferirsi alla Palestina o a zone vicine. Ma la maggior
parte di essi non è localizzabile nei posti dove dovrebbero essere o, se si riesce, appaiono
spesso associati a caratteristiche locali che variano da quelle descritte nel testo biblico. Questo
è il rebus geografico che ha portato Salibi ad identificare la Terra del Latte e del Miele con
l'Asir, sull'altopiano dell'Arabia sud-occidentale, dove si può identificare la maggior parte dei
toponimi citati e inoltre tali luoghi vi appaiono con le caratteristiche geografiche descritte
nella Bibbia (incidentalmente, una nostra ricerca, [13], sulla distribuzione degli ebrei nel 1175
AD basata su un libro di Beniamino di Tudela, conferma la tesi di Salibi). L'informazione
geografica sull'Eden nel Genesi è limitata, ma precisa e specifica. Lo dimostreremo nelle
prossime sezioni. Prima discuteremo di alcune precedenti identificazioni dell'Eden, in
particolare di quella di Rohl [11] e di Salibi [1]. Faremo notare che tali identificazioni hanno
una debole aderenza al testo biblico. Poi daremo la nostra identificazione, che, a quanto ne
sappiamo tuttora (sebbene abbiamo letto solo una piccola parte della letteratura di questo
campo) è nuova. Alla fine, considereremo alcune naturali conseguenze sull'interpretazione di
antichi simboli e usi. Inoltre, interessanti indizi appariranno sui retroscena dell'Esodo.
2. I dati geografici sull'Eden nel Genesi
Qui diamo le informazioni sull'Eden in 4 diverse traduzioni.
Dalla Biblia Sacra, Justa Vulgatam Clementinam (denuo editerunt complures Scripturae
Sacrae Professores Facultatis Theologicae Parisiensis ... Typis Societatis S. Joannis Evang.,
Parisiis, 1927)
Genesi II, 8-14 - Plantaverat autem Dominus Deus paradisum voluptatis a principio; in quo posuit
hominem quem formaverit. Produxitque Dominus Deus de humo omne lignum pulchrum visu et ad
vescendum suave; lignum etiam vitae in medio paradisi; lignumque scientiae beni et mali. Et fluvius
egrediebatur de loco voluptatis ad irrigandum paradisum, qui inde dividitur in quatuor capita. Nomen
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uni Phison; ipse est qui circuit omnem terram Hevilath, ubi nascitur aurum; et aurum terrae illius
optimum est; ibi invenitur bdellium, et lapis onychinus. Et nomen fluvii secundi Gehon; ipse est qui
circuit omnem terram Aethiopiae. Nomen vero fluminis tertii, Tygris; ipse vadit contra Assyrios.
Fluvius autem quartus, ipse est Eufrate...
IV, 15-16 - Posuitque Dominus Cain signum, ut non intericent eum omnis qui invenisset eum.
Egressusque Cain a facie Domini, habitavit profugus in terra ad orientalem plagam Eden.
Da The Art Bible, London, George Newnes, 1896
II, 8-14 - And the Lord God planted a Garden estward in Eden; and there he put the man whom he had
formed. And out of the ground made the Lord God to grow every tree that is pleasant to the sight and
good for food; the tree of life also in the midst of the Garden, and the tree of knowledge of good and
evil. And a river went out of Eden to water the Garden; and from thence it was parted, and became into
four heads. The name of the first is Pison; that is it which compasseth the whole land of Havilah,
where there is gold. And the gold of that land is good; there is bdellium and the onyx stone. And the
name of the second river is Gihon; the same is it that compasseth the whole land of Ethiopia. And the
name of the third river is Hiddekel: that is it which goes east of Assyria. And the fourth river is the
Euphrates.
IV, 15-16 - ... and the Lord sat a mark upon Cain, lest any finding him should kill him. And Cain went
out of the presence of the Lord, and dwelt in the land of Nod, on the east of Eden.
The above edition at page 5 has a map of the Eufrate or Eden district, where "the most
probable Region of the Paradise" is identified with the central part of the Mesopotamian plain,
the Hiddekel is identified with the Tigris, the Euphrates is also called The great river, the
Pison e Gihon are identified with two distinct outlets of the Tigris and Euphrates, Cush or
Ethiopia is collocated within present Khuzestan, while Havilah is identified with the desert to
tle south of the Euphrates.
Da La Sacra Bibbia, Edizione Ufficiale della CEI, 1974 (San Paolo, 1985)
II, 8-14 - Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l'uomo che aveva
plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da
mangiare, tra cui l'albero della vita in mezzo al giardino e l'albero della conoscenza del bene e del
male. Un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino, poi di lì si divideva e formava quattro corsi. Il
primo fiume si chiamava Pison; esso scorre intorno a tutto il paese di Avila dove c'è l'oro e l'oro di
quelle terre è fine; qui c'è anche la resina odorosa e la pietra d'onice. Il secondo fiume si chiama
Ghicon: esso scorre intorno a tutto il paese d'Etiopia. Il terzo fiume si chiama Tigri: esso scorre a
oriente di Assur. Il quarto fiume è l'Eufrate.
IV, 15-16 - ... il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l'avesse incontrato.
Caino si allontanò dal Signore e abitò nel paese di Nod, ad oriente di Eden.
Da The Holy Scriptures, Hebrew and English, The Society for Distributing Hebrew
Scriptures, University Press, Cambridge (circa 1990) - Stesso testo in God's Breath, Sacred
Scriptures of the World, Marlowe and Company, 2000
II, 8-14 - And the Lord planted a Garden eastward in Eden; and there he put the man he had formed.
And out of the Garden made the Lord God to grow every tree that is pleasant to the sight and good for
food; the tree of life also in the midst of the Garden, and the tree of knowledge of good and evil. And a
river went out of Eden to water the Garden; and from there it was parted and became into four heads.
The name of the first is Pishon; that is which compasseth the whole land of Havilah, where there is
gold. And the gold of that land is good; there is bdellium and the onyx stone. And the name of the
second river is Gihon; the same is it that compasseth the whole land of Ethiopia. And the name of the
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third river is Hiddekel; that is which goes towards the east of Assyria. And the fourth river is the
Euphrates.
IV, 15-16 - ... and the Lord set a mark upon Cain, lest any finding him should kill him. Then Cain
went out of the presence of the Lord, and dwelt in the land of Nod, on the east of Eden.
Da quanto riportato possiamo ricavare le seguenti informazioni geografiche:
•
•
•
•
•
•
Esiste una regione, chiamata Eden, associata a 4 fiumi.
Nella sua parte orientale c'è un giardino, chiamato anche Paradiso nelle citate versioni
della Vulgata e dei Settanta, pieno di alberi belli e utili (tra cui 2 veramente particolari).
Nelle traduzioni il primo fiume è chiamato PHISON/PISON/PISHON. Useremo Pishon.
Contorna i bordi di una regione denominata HAVILATH/HAVILAH/AVILA, useremo
Havilah, ricca di oro, onice e di un materiale chiamato bdellium, a quanto si dice "un
materiale resinoso profumato".
Nelle traduzioni il secondo è chiamato GEHON/GIHON/GHICON, useremo Gihon. Nelle
traduzioni la terra cui confina viene chiamata Etiopia, sebbene il nome originario sia
CUSH/KUSH nel testo Masoretico. La sua identificazione con l'Etiopia risale al lavoro di
Giuseppe Flavio Antichità Giudaiche, dove il regno africano di Kush, di cui se ne ha
traccia nel sud d'Egitto già dal XX sec A.C., si credeva fosse il Cush del Genesi, da qui la
successiva identificazione del Gihon col Nilo, credenza comune in Etiopia.
Il terzo fiume è chiamato TIGRIS o HIDDEKEL (oppure HINDEKEL in altre traduzioni),
useremo Hiddekel, il nome nel testo Masoretico. Già dall'antichità questo fiume è stato
associato al Tigri mesopotamico, ora chiamato Dicle in Turchia, Dijlah in Iraq. Si
aggiunge che scorre ad est dell'Assiria (più esattamente, di Ashur, nel testo masoretico).
Il quarto fiume è chiamato Eufrate, il nome classico del più lungo fiume mesopotamico,
che adesso attraversa Turchia, Siria, Iraq col nome Firat in Turchia, al Furat in arabo.
Questo fiume è tradotto in Rohl [11] con Perath. Nella versione ricevuta la traslitterazione
consonantica è NHR PRT.
Sinteticamente, dal Genesi ricaviamo le seguenti informazioni geografiche essenziali:
•
•
•
Una regione, EDEN, da cui sgorgano 4 fiumi.
Un "giardino" o "paradiso" ben irrigato, ad est di essa, ricco di alberi fruttiferi.
I nomi di 4 fiumi, con la nota che uno di essi scorreva ad est di una regione denominata
Ashur. I due fiumi Pishon e Gihon bordano rispettivamente terre chiamate Havilah e
Kush.
Ulteriori informazioni geografiche dell'Eden esistono sepolte nell'immensa letteratura del
Talmud, del Midrashim, delle antiche leggende ebraiche, nei commentari cristiani e
mussulmani e in particolare nei testi della creazione mesopotamici, che generalmente si
ritiene essere i testi ispiratori del Genesi (sebbene si potrebbe accettare il fatto che per quanto
sia il Genesi e che i testi sumeri e accadici descrivano i medesimi eventi, tuttavia si possano
basare su tradizioni indipendenti). Non abbiamo tuttora effettuato una ricerca seria su queste
informazioni ausiliarie. Comunque due informazioni da queste fonti sono qui riportate.
Nel libro di Ginzberg [17] Leggende sugli Ebrei i quattro fiumi sono identificati con il Gange,
Nilo, Tigri e Eufrate, e si afferma che hanno una fonte comune sotto l'albero della vita. Si
identifica il Giardino dell'Eden con il luogo per il quale le anime dei defunti devono passare
prima di raggiungere la loro destinazione finale. Per ovvie ragioni geografiche non si può
accettare questa identificazione. Ma le seguenti affermazioni saranno interessanti più avanti:
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ad Adamo fu concesso di nutrirsi solo dei frutti del proprio campo. Solo dopo il diluvio di
Noè fu eliminata la proibizione di mangiare carne.
In fonti sumere (tavoletta W-B/144, vedi Sitchin [40]) si sostiene l'esistenza di una città,
chiamata Bad Tibira, centro metallurgico, locata nell'Edin (E-DIN, casa dei virtuosi, secondo
Sitchin; secondo altri il termine significherebbe terreno stepposo oppure giardino elevato). E'
molto verosimile che il sumerico Edin e l'Eden biblico siamo le medesime regioni. A Bad
Tibira fu portato il cadavere del dio Dumuzi, amato da Inanna, per il quale sembra ci fu un
processo di imbalsamazione. Il corpo poi fu posto in un reliquario su una lastra di lapislazzuli,
vedasi Sitchin [19]. Bad Tibira è inoltre menzionata nella lista dei re sumeri (anche da
Berosso, citato in Apollodoro e Solino) come una delle 5 città prediluviane (le altre erano
Eridu, Larsak, Sippar e Shuruppak), governate da 8 re antidiluviani di longevità straordinaria
(per 241.200 anni totali; 3 re a Bad Tibira regnarono 108.000 anni). In questo saggio non
tratteremo di tali questioni cronologiche (che in modo abbastanza affascinante ci porterebbero
vicini all'anno di nascita della coppia dalla quale pare l'attuale intero genere umano discenda,
in base a recenti analisi cromosomiche). Qui facciamo semplicemente notare che i sumeri
affermavano di essere arrivati nel luogo che noi chiamiamo Sumer da una lontana terra ad est,
chiamata Dilmun, dove avevano vissuto prima del diluvio. Da ciò sembrerebbe naturale
collocare le 5 città antidiluviane da tutt'altra parte della Mesopotamia; quindi le città
mesopotamiche identificate con tali nomi sarebbero città postdiluviane cui i nomi antichi
furono riattribuiti.
3. Sull'identificazione del paradiso terrestre proposta da Salibi e Rohl
Tralasciando il (ragionevole) presupposto che i dati geografici sull'Eden nel Genesi siano
"simbolici" o "abbellimenti", in questa sezione considereremo due serie proposte recenti sulla
posizione geografica del Paradiso Terrestre. Premettiamo che antichi tentativi di
identificazione, come quello di Giuseppe Flavio o quello nelle citate Leggende degli Ebrei,
fanno capo ad assurdità geografiche, comprensibili considerando la scarsa conoscenza del
globo terrestre di allora, in particolare dell'interno dei continenti. L'identificazione dell'Eden
con una parte della pianura del Tigri-Eufrate in Iraq, data nella citata Art Bible e ancora in
Iraq ritenuta vera tra la gente (più precisamente lo si indica nel punto in cui i due fiumi
s'incontrano per formare lo Shatt-el-Arab; lì vi fu costruito perfino un hotel, chiamato The
Garden of Eden Resthouse, vedasi Heyerdahl [21]) è probabilmente collocata con la scoperta
avvenuta nel XIX secolo delle rovine di antichissime città delle civiltà sumeriche e accadiche,
città che si credevano le più antiche della storia. Lì Adamo come Homo Sapiens doveva essere
stato creato.
Ora considereremo la proposta fatta Salibi [2] nel cap. XIX del suo libro La Bibbia viene
dall'Arabia, che sviluppa ulteriormente le rivoluzionarie tesi, proposte in [1], che la Terra del
Latte e del Miele assegnata ad Abramo fosse nell'Asir.
Salibi identifica il Giardino dell'Eden con l'oasi di Junaynah, lungo il Wadi Bishah, nella parte
orientale dell'Asir, latitudine 20° 20' N, longitudine 40° 55' E. L'oasi fu visitata nei primi anni
trenta da Philby, che descrisse poi alcune rovine abbandonate, vedi [22]. Il Wadi Bishah,
mostrato per esempio a pag. 33 del Times Atlas of the World, Edizione Completa 1974, ha la
sua sorgente nelle alte montagne dell'Asir, circa 150 km a sud di Junainah, sfociando nel
deserto sabbioso del Rub-al-Khali, a circa 300 km ad est dall'oasi. Un numero di fiumi, o
meglio uadi, il più lungo dei quali è attualmente è il Ramiah e Tathlith, lo congiunge alla parte
orientale dell'oasi. Usando ampiamente la trasformazione linguistica chiamata metatesi, Salibi
propone le seguenti identificazioni dei nomi del Genesi.
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Il Pishon con il Wadi Tabalah, il cui nome biblico sopravvive nel villaggio Shufan vicino
alle sue sorgenti.
Il fiume Havilah con Havalah, dove fu trovato oro nell'antichità, probabilmente l'area
mineraria citata nella descrizione dell'Arabia di Strabone. Salibi propose inoltre che
"carnelian" sia la corretta traduzione della forma ebraica H-SH-M, usualmente tradotta
con onice, mentre "bdellium", in ebraico B D L H, sarebbe stata la cosiddetta gomma
balsamo della Mecca, prodotta dalla pianta Commiphora Mukul.
Il Gihon (G H N in ebraico), che scorre intorno alla terra di Kush (K W SH in ebraico) è
identificato con il Wadi Bishah, di cui uno degli affluenti è ancora chiamato Wadi Juhan.
Cush è identificato con il villaggio Kuthan.
L'Hindekel (H D Q L in ebraico) sopravvive nel nome del villaggio Al Jahdal, vicino alla
foce del Wadi Tindahah, che inizialmente scorre ad est del villaggio Bani Thawr (T W R),
questo ultimo nome da lui identificato con la forma ebraica SH W R, tradotta di solito
Ashur/Assiria.
L'Eufrate, in ebraico N H R P R T, è identificato col Wadi Kharif, P R T venendo
associato, per metatesi, col nome del villaggio Al Tafra (T P R al luogo di P R T).
Il nome Eden (D N) sopravvive in quello dell'oasi Adan (D N), mentre l'oasi Junaynah (G
N Y N, diminutivo di GN) conserva il nome Giardino (G N in ebraico).
La terra di Nod (in ebraico N W D, terra di vagabondaggio, di nomadismo, di senzaterra)
sarebbe quindi l'arida zona ad est dell'oasi di Junaynah, prima di raggiungere il mare di
sabbie sterili del Rub-al-Khali.
La proposta di Salibi offre molti spunti sui luoghi geografici relativi all'Eden, in aggiunta ad
un'intelligente identificazione delle località. In ogni modo riteniamo che l'identificazione che
proporremo poi sia più soddisfacente poiché:
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Abbiamo 4 grandi fiumi, tutti aventi la sorgente nella stessa medesima montagna, e che da
essa fluiscono in quatto direzioni diverse, di cui solo uno verso est. La geografia di Salibi
ha un solo fiume moderatamente lungo, il Gihon, ovvero il Wadi Bishah, che scorre in una
direzione prevalentemente orientale e che ingloba le acque degli altri fiumi, abbastanza
corti.
Possiamo inoltre proporre, almeno per alcuni dei nomi geografici, una spiegazione molto
interessante del loro significato originario, che per giunta chiarifica molti aspetti della
storia e delle tradizioni antiche.
Siamo d'accordo con Salibi che l'Asir fosse molto probabilmente la Terra del Latte e del
Miele. Sotto quest'identificazione è verosimile che le persone che lì si stanziarono con
Abramo, che veniva da Ur dei Caldei in Mesopotamia (non necessariamente la Ur sumerica;
forse la Ur Kasdim sull'Eufrate superiore; Ur era un nome abbastanza diffuso) vi portassero i
nomi dei propri luoghi sacri e quindi ridenominassero con quelli i nuovi territori, tentando di
rispettare i precedenti orientamenti topologici. Quasi sicuramente erano venuti dalla
Mesopotamia superiore, ovvero dell'Anatolia orientale, dove nomi associati all'Eden
esistevano se l'identificazione di Rohl, discussa nel successivo paragrafo, è corretta. Il
processo di ridenominazione di nuovi posti è tipico della storia di molti popoli emigrati. Si
veda per esempio la monografia di Vinci [23], dove in base a ragioni geografiche (e
climatologiche) si afferma in modo convincente un'origine baltica dei Greci e una
collocazione scandinava degli eventi descritti nell'Iliade e nell'Odissea.
Considereremo ora l'identificazione dell'Eden proposta da Rohl [11], all'interno di un alquanto
grandioso tentativo di identificare le figure bibliche con figure corrispondenti mesopotamiche.
L'ipotesi di Rohl usa svariate idee inizialmente sviluppate Walker [24]. E' la seguente.
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Il fiume N H R P R T è il mesopotamico Eufrate.
Il fiume Hiddekel è il Tigri.
Il Gihon è identificato con il fiume Arasse, dell'Anatolia orientale, la cui sorgente si trova
presso Erzurum, a nord del lago Van, e che si versa nel Caspio. Questa identificazione è
sostenuta con evidenze storiche: nell'VIII secolo una parte di questo fiume era chiamata
Gaihun e perfino nel XIX secolo i Persiani lo chiamavano ancora Jichon-Aras.
Il Pishon è identificato con il fiume Uizhun, che sorge dal vulcano estinto Kuh-i-Sahend, a
sud di Tabriz, un nome linguisticamente correlato con Pishon attraverso la sostituzione
della U con la P, trasformazione localmente attestata per altre parole (p.e. il villaggio
chiamato una volta Uishteri, ora Pisdeli).
La terra di Cush, delimitata dal Gihon, è identificata con la Cossea, che secondo gli antichi
geografi si trovava da qualche parte presso il Caspio; si nota anche che il passo che vi
arriva da Tabriz attraversa una catena montuosa chiamata Kusheh Dagh, vale a dire
montagna di Kush.
La terra di Havilah è identificata con la regione Anguran legata al fiume Uizhun, nota per
essere stata un tempo sede d'estrazione d'oro e pietre dure.
Il Paradiso è identificato con la pianura ad est del lago Urmiah, dove la città di Tabriz è
collocata, circondata da monti ed irrorata dal fiume Adji Chaiy.
La terra di Nod è identificata con la regione montuosa ad est di Tabriz, vicino alla città di
Ardebil, dove si trovano una città chiamata Noadi e un villaggio chiamato Noqdi. Inoltre
vicino ad Ardebil c'è la città Helabad, già Kheruabad (sede dei Kherus?), che potrebbe
rappresentare un collegamento con i Cherubini, che difendevano il confine orientale
dell'Eden.
Globalmente, la regione dell'Eden nell'identificazione di Rohl, dove sorgono i 4 fiumi,
corrisponde con una parte dell'Armenia classica (ora, dopo l'eliminazione della maggior parte
della popolazione armena da parte di turchi e curdi all'inizio del XX secolo, questa terra è in
buona parte inglobata nel Kurdistan e nell'Azerbaijian). Rohl inoltre appoggia l'identificazione
della terra chiamata Aratta nelle fonti sumeriche, che era ricca d'oro e lapislazzuli, con la
pianura Miyeoah a sud del lago Urmiah, parte dell'Armenia storica, in questa generale
identificazione dell'Eden. Identifica il vulcano Sahend con la "Montagna delle riunioni" delle
divinità sumeriche.
Come per le identificazioni di Salibi, anche la teoria di Rohl è corredata da validi argomenti,
certamente indicanti che alcune caratteristiche geografiche locali furono nominate
associandole all'Eden biblico. Ma ancora pensiamo che tali nomi furono dati da una
popolazione che era emigrata e che intendeva conservare nomi della terra lasciata. Le
principali obiezioni alla identificazione geografica di Rohl sono le seguenti:
•
Il Genesi presenta i 4 fiumi come originatisi dallo stesso luogo. Come anche Rohl osserva,
l'ebraico Rosh (testa) si riferisce ad una foce, non ad un estuario. Questo punto sarà
discusso più ampiamente avanti, chiarificando la questione delle 4 sorgenti. Ora, i fiumi
identificati da Walker e Rohl non hanno sicuramente un'origine comune. Infatti, usando ad
esempio la cartina 37 del citato Times Atlas, stimiamo le seguenti distanze tra le loro
sorgenti:
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circa 160 km tra le sorgenti del Tigris-Askar, dalle montagne di Hakres Daglan, e la
fonte del Firat-Kara, nel Kargapazari-Dagy. Per giunta le due montagne da cui tali
fiumi si dipartono sono separate dell'importante valle del fiume Murat, che viene da
nord del lago Van.
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le sorgenti del fiume Aras sono in verità molto vicine a quelle dell'Eufrate (FuratKara), una appena a circa 10 km dalla sorgente del Kara a nord di Erzurum, pertanto
di nuovo a circa 160 km dal Tigris-Askar.
l'Uizhun (anche chiamato Qezel Owzan) sorge dal vulcano Sahend, che dista oltre 500
km dalle sorgenti degli altri 3 fiumi, dalle quali è poi separato da un complesso di
valli e depressioni, incluse quelle dei laghi Van e Urmiah.
Il luogo proposto per il Giardino, vale a dire la terra piatta attraversata dal fiume Adji Chay,
ha circa dimensioni 80 x 40 km, pertanto, pur essendo circondato da montagne, non da
proprio l'impressione di un paradiso come una "valle racchiusa", come mi era manifesto
quando visitai Tabriz. Inoltre è abbastanza probabile che una sua gran parte fosse coperta
dalle acque fino a pochi millenni orsono; il presente lago Urmiah, molto salato, è
probabilmente il residuo di un lago molto maggiore che esistette per buon parte dell'Olocene,
parte del cui antico letto è evidente nel sale che ricopre le pianure vicine.
I quattro fiumi considerati fluiscono tutti generalmente verso est, mentre nel Genesi solo
Hiddekel va ad est, il che fa pensare che gli altri si dirigano verso altre direzioni. Infine i 4
fiumi, o più precisamente la loro sorgente, sono associati con l'irrigazione del Giardino.
Nell'identificazione di Rohl ciò avviene con un fiume diverso, l'Adji Chay.
4. Eden ad Est: verso una convalida dei dati geografici del Genesi
Eden ad Est è il titolo di un libro recente di Oppenheimer [25], un medico con interessi in
archeologia ed origine delle civiltà. Il libro sottolinea l'importanza dell'Asia sudorientale circa
le origini della nostra civiltà, una regione geografica in buona parte inondata dopo
l'innalzamento dei livelli oceanici che seguì lo scioglimento dei ghiacci dell'ultima
glaciazione, circa nel 9500 A.C. (trascurando minori glaciazioni-deglaciazioni successive).
Oppenheimer afferma che molti elementi delle antiche civiltà, che attualmente si pensa
originari dall'Egitto o dal Medio Oriente, possano avere un'origine più remota, nel lontano
oriente. Sebbene non andiamo così lontano come lui (ma riguardo all'Eden Oppenheimer non
propone alcuna particolare identificazione, considerando "abbellimenti" i dati geografici), noi
collochiamo il Paradiso Terreste definitivamente ad est, rispetto alle usuali collocazioni
mediorientali. Proponiamo un luogo ben preciso, vicino al cuore dell'Asia, dove quattro fiumi
importanti nascono dalla stessa montagna, dove tre imponenti catene di montagne
s'incontrano, con strade naturali che si dirigono verso le altre parti del continente.
L'identificazione proposta venne all'improvviso alla mente di questo autore durante una notte
del marzo 2000. Avevo finalmente trovato il tempo di leggere il libro di Rohl, Leggenda, la
Genesi della civiltà, che avevo comprato direttamente dall'autore nel novembre 98, in una
delle riunioni londinesi organizzate da Andrew Collins, autore di importanti lavori sull'origine
della civiltà. Avevo già letto il primo libro di Rohl, La Bibbia, dal mito alla storia, con
immenso fascino, quasi non riuscendo a interromperne la lettura. Lo avevo comprato in una
libreria alla York University, dove stavo seguendo una conferenza di matematica, e il libro fu
letto nella settimana della conferenza, durante le notti e in treno per Edimburgo. Non ero stato
in grado di leggere il secondo libro per oltre un anno, durante il quale, tra l'altro, avevo
lavorato ad un saggio su una nuova collocazione dei viaggi di Gilgamesh, vedi Spedicato
[15]:
•
Prima tappa, nella valle di Hunza, nell'alto Kashmir, che identificai come la terra citata
come "Libano", dove Gilgamesh uccise Humwawa e da cui portò un cedro, che giudicai
essere un Cedrus Deodara, e non un Cedrus Libanotica.
73
•
Seconda tappa, alle sorgenti del Fiume Giallo, dove identificai il Monte Mashu con la
catena Anye Machin, montagna tuttora sacra per la locale popolazione Ngolok.
I due viaggi sopra citati indicano chiaramente una connessione tra la Mesopotamia ed il cuore
dell'Asia, la regione dove potrebbe essere collocato Dilmun, la terra ad oriente da cui i Sumeri
affermavano essere venuti dopo il diluvio.
Quando, leggendo Rohl, giunsi all'identificazione dei quattro fiumi da lui proposta, presi il
Times Atlas e ne controllai la posizione. Fu immediatamente chiaro che i fiumi non
condividevano un'origine comune, tranne l'Eufrate e l'Arasse. Allora guardai una mappa su
ampia scala dell'Asia Centrale, la carta 27. Non era visibile alcun sistema di 4 fiumi aventi
origine dalla medesima montagna. Detti infine uno sguardo alla mappa della valle di Hunza
nell'articolo del National Geographic 1985 scritto da McCarry, che mi aveva procurato
informazioni utili sugli Hunza. Lì era la risposta! Quattro fiumi che scendevano da una grande
montagna che separa la valle di Hunza, in Pakistan, dalla valle di Wakhan, in Afghanistan.
Quattro grandi fiumi, uno che finisce oltre 2000 km ad est, nel deserto di Lop Nor, un altro
che termina oltre 2000 km ad ovest nel mar d'Aral, due che fluiscono prevalentemente a sud,
unendosi alla fine delle montagne e confluendo come Indo nell'Oceano Indiano oltre 2000 km
a sud. Tre di questi fiumi hanno le sorgenti a pochi km l'una dalle altre, quella del quarto un
po' più lontana; tutti e quattro i fiumi raccolgono l'acqua dalle nevi e dai ghiacci di uno stesso
massiccio, la loro sorgente (la Montagna della Riunione? La Montagna degli Dei?).
Nel paragrafo successivo discuterò dettagliatamente l'identificazione da me proposta dei dati
geografici del Genesi. Poi proporrò alcune possibili conseguenze di tale teoria, in termini di
nuovi significati correlabili a simboli molto antichi e ad antiche tradizioni umane.
5. Gihon e Kush identificati
Identifichiamo il Gihon con il fiume che esce dalla parte orientale della valle Wakhan, sotto il
passo Vahir Lo che porta in Cina, nella parte est della provincia Badakhshan dell'Afghanistan
(il "dito" che l'Afghanistan punta verso la Cina, tra il Pakistan - la provincia Hunza del
Kashmir- e il Tajikistan -la Autonoma Regione Badakhshon, vedasi la Nelley Map, ISBN 388618-665-2-). Non lontano dalla sorgente citata, il fiume si ingrossa con l'apporto
dell'Oksu/Aksu, che viene dal Tagikistan Badakshon (una regione dove l'antico Saka è tuttora
parlato in alcuni villaggi isolati); prosegue per la valle Wakhan con il nome Wakhan, da lì per
circa 1000 km fa da confine tra Afghanistan e Tagikistan, fluendo con il nome Panj in un
grande cerchio con una stretta valle tra alte montagne. Entra nella pianura turanica vicino alla
città chiamata Panj, non lontano da rovine di una città greca. Lì prende il nome di Amu Darya
e dopo un migliaio di km entra nel lago d'Aral. Letti di fiumi essicati, lungo uno dei quali si
trova la città di Khiva, un tempo importante, ora quasi abbandonata, indicano che non molti
secoli orsono l'Amu Darya finiva nel Caspio. Il fiume entra nel pianura turanica molto ricco di
acqua. Quest'acqua è oggigiorno quasi completamente utilizzata per l'irrigazione dei campi di
cotone, con conseguente disseccamento del lago d'Aral. In età classica il fiume era noto come
Oxus, che in sanscrito significa "grande acqua". Costituiva la divisione naturale tra la regione
di Turan, terra di cavalieri, e quella dell'Iran; le ricorrenti guerre tra le due aree, la prima
abitata principalmente da nomadi, la seconda da popolazioni sedentarie, costituisce
l'argomento centrale dell'epica iraniana Shahnameh di Ferdowsi.
L'identificazione del fiume Amu Darya-Panj con il Gihon è basata sull'osservazione che in
tutte le mappe anteriori al XX secolo da me osservate il nome Gihon, e non Panj, è dato al
fiume nella parte montagnosa del suo bacino. Vedasi ad esempio la Mappa 47 nell'Atlas
Compendarius Quinquaginta Tabularum Geographicarum Homanniarum ... Norimberga
74
anno 1752, dove il fiume è indicato come Gihon in mezzo alle montagne, diventa Amu alla
loro fine, vicino alla citta di Amu/Amol (spesso citata nello Shahnameh), e riprende il nome
di Gihon prima di sfociare non nell'Aral, ma nel Caspio. Appare col nome Gihon o Amu nella
mappa 35 del Nouvel Atlas Portatif, par le Robert de Vaugondy, 1762, dove il fiume ora
sfocia nell'Aral (il sopracitato Homann Atlas è una tarda edizione di un famoso atlante
apparso alla fine del XVII secolo, pertanto sospettiamo che lo spostamento della foce dal
Caspio all'Aral sia capitato tra il 1650 e 1750). Appare con il solo nome Gihon nella mappa
dell'Asia del Nuovo Atlante di Geografia Universale in 52 carte, del Cav. Luigi Rossi,
Milano, Batelli e Fontana, 1820. Nell'Atlas Classique de la Géographie, par V. Monin, Paris,
1846-47, sulla mappa 18 appare col nome Amou Deria per la parte occidentale, Djihoun
invece per quella orientale. La città di Khiva è presente, assente quella di Amu/Amol. Il fiume
sfocia nell'Aral, ed è anche mostrato il letto secco che si dirige verso il Caspio. Pubblicato agli
inizi del XX secolo, l'Atlas de Géographie Moderne, Paris, Hachette, 1914, presenta,
nell'abbastanza dettagliata mappa 4, la città di Khiva ad una certa distanza a sud del fiume, la
città di Amu/Amol non appare più, il fiume è nominato Amu Darya nella pianura, Peji e
Wakhan sulle montagne. Così appare che dopo il 1850, con l'arrivo delle potenze europee in
Asia centrale e la tendenza a rinominare luoghi con criteri burocratici al luogo dei nomi
tradizionali, seguendo lo stile ispirato dalla Rivoluzione Francese, due nomi antichi
spariscono, quello della città di Amu/Amol, e del fiume chiamato Gihon, sostituito da Panji or
Panja.
Che il fiume chiamato Oxus in tempi classici mantenesse il nome biblico Gihon o alcune sue
varianti fino a tempi recenti ci è noto anche, p.e., dal Novum Lexicon Geographicum,
Philippus Ferrarius, Patavii, MDCXCVI, dove alla voce Oxus leggiamo: Oxus fluvius est
Sogdianae, quem Arabes Gichonem vocant, cuius memeruit Achmed Gueraspi filius in
Themiris historia, eumque Ghaion, Gihon et Iihum vocat. Also in the Abrégé de Géographie
di Balbi, Paris, 1842, leggiamo (p. 716): ... l'Amou-Darya (l'Oxus des anciens, dit aussi
Djihoun...) ... Le Syr-Darya (le Jaxarte des anciens), dit aussi Sihoun ... . Poiché Syr-Darya
significa "fiume o mare di leoni", quanto sopra suggerisce che la sillaba ON in Gihon, e per
estensione in Pishon, possa significare fiume. Inoltre G H N in ebraico significa "qualcosa
che si piega, che gira", il che si accorda perfettamente con la grande curva che il Gihon fa
attraversando le montagne. Quindi proponiamo Gihon = fiume del (gran) giro.
Spostiamo ora la nostra attenzione al nome Amu Darya, che è dato alla parte inferiore del
fiume, tra le montagne e l'Aral (o il Caspio). "Darya" è una parola turca, usata anche in
persiano, significante essenzialmente "mare" (Darya ye Khazar, "Mare dei Khazari", è
l'attuale nome persiano per il mar Caspio); è comunque attribuito anche a grandi fiumi. E' ora
legittimo chiedersi se il significato "mare", ovvero una assai grande distesa d'acqua, risalga ad
una diversa antica configurazione della regione del Turan. Tale regione, come anche altre
grandi parti dell'Asia centrale - le più importanti il bacino del Xinjang e la maggior parte
dell'altopiano tibetano, ma anche considerevoli parti di Iran e Afghanistan - non dispongono
attualmente di uno sbocco sull'oceano, fatto probabilmente vero per tutto l'Olocene. Ci sono
pertano laghi senza sbocco, alcuni grandi come il Caspio, altri più piccoli come l'Aral, il
Balkash, l'Hamun..., solitamente salatissimi, e inoltre ci sono vaste distese salate, ciò che
rimane di precedenti distese d'acqua, ora completamente essiccate (tranne per trasformarsi in
acquitrini salati durante periodi di forti piogge). Il processo di disseccamento, ora fortemente
accentuato dallo sfuttamento delle acque per l'irrigazione, vedasi il drammatico esempio
dell'Aral, continua da diversi millenni. Questo fenomeno naturale è causato dallo scompenso
tra l'acqua versata dai fiumi e quella che scompare per evaporazione. Ora, lasciando da parte
una recente diminuzione delle piogge, ci si deve spiegare come vennero a formarsi bacini
d'acqua molto grandi. Una spiegazione naturale è che si formarono all'improvviso durante
eventi catastrofici non molti millenni fa, quando depressioni interne, isolate dagli oceani,
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vennero riempita ad un livello assai maggiore di quello preesistente dato dall'equilibrio tra le
perdite dovute all'evaporazione e l'acqua naturalmente raccolta dal bacino locale. Eventi
catastrofici capaci di riempire depressioni interne sono ondate tsunamiche provenienti dagli
oceani, dovute per esempio ad impatti con asteroidi, vedasi [43], o a rapidi cambiamenti
dell'asse terrestre, vedasi Barbiero [44] o Woelfli e Baltensperger [45], o perfino ad arrivi
d'acqua da fonti extraterrestri (p.e. comete). Ora c'è una forte evidenza che i bacini interni
all'Asia Centrale furono assai più estesi in passato. Per esempio fonti letterarie come lo
Shahnameh descrivono la regione del Sistan, ora un vero e proprio deserto con il lago Hamun
prossimo ad estinguersi, come una ricca prateria piena di selvaggina, la riserva di caccia
preferita di Rostam; fu nel terzo e nel secondo millennio A.C. una delle aree maggiormente
sviluppate al mondo, con grandi città, che erano centri di commerci e di lavorazione di
metalli. La mappa della regione iranico-turanica nell'Atlante di Tolomeo, di circa 2000 anni fa
e di cui sopravvivono tarde copie, mostra un grande mare Caspio non separato dall'Aral, che
sembra essere incorporato nel Caspio, e la cui maggiore lunghezza è nella direzione est-ovest,
non sud-nord come oggi. Sebbene le mappe antiche non rispettino gli attuali standard di
accuratezza, la regione era sicuramente ben nota a mercanti e viaggiatori e fu a lungo sotto
controllo dei persiani, il cui sistema di comunicazione era ben organizzato con stime di
distanza abbastanza precise tra i diversi punti di sosta delle carovane. Pertanto sembra
abbastanza improbabile un errore di tale portata. La più forte conferma che l'Asia Centrale
poche migliaia d'anni fa fosse molto più ricca d'acqua d'oggi è stata ottenuta di recente
dall'analisi di foto da satellite. Per esempio queste hanno mostrato che il deserto di Takla
Makan, ora una distesa di dune alte oltre 200 metri, era un mare interno d'acqua dolce alla fine
dell'ultima glaciazione, profondo più di un migliaio di metri, vedi Ryan e Pittman [18], che
citano il lavoro del geomorfologo turco Erol Orguz. Tali ritrovamenti aprono una nuova
prospettiva sulla nascita delle civiltà. Infatti i deserti dell'Asia Centrale, dove gli scavi
archeologici sono stati in passato quasi inesistenti, ora stanno iniziando a fornire reperti
stupefacenti, vedasi Mallory e Mair [27], e potrebbero aver visto nascere civiltà antecedenti
anche Sumer e l'Egitto. Magari le relazioni descritte da Hummel [28] come "tracce di Eurasia
nell'Asia Centrale" in futuro potrebbero essere note come "tracce di Asia Centrale in Eurasia".
Le considerazioni di sopra offrono pertanto un certo peso all'ipotesi che, diciamo nel 5500
A.C., il periodo al quale la storia di Adamo potrebbe essere collocata, seguendo la cronologia
per esempio della Bibbia Samaritana (questa data corrisponde anche all'inizo del calendario
etiopico), il fiume Gihon, alla sua uscita dalle montagne, sarebbe molto presto confluito in un
vasto mare interno incorporante il Caspio e l'Aral e ricoprente molta della pianura turanica.
Un vero mare pertanto, da chiamarsi propriamente il mare di Adamo, se si possa considerare
Amu una forma contratta di Adamu, e se il tragitto preso da Adamo dopo la sua espulsione
dall'Eden, nel seguito letterale del racconto del Genesi, lo portò ad ovest, verso il sole cadente,
via il Wakhan e la stretta valle del Gihon. Possiamo allora ipotizzare che Adamo si sia
fermato ai piedi della montagna, di fronte al grande mare che ora si è ritirato; inoltre si
potrebbe ipotizzare che lo specifico luogo dove si stabilì all'inizio fosse dove la città storica di
Amu/Amol era collocata.
Ora parleremo degli altri elementi del Genesi associati al Gihon, ovvero del territorio di Kush,
circondato dal Gihon. L'identificazione di Kush è abbastanza ovvia nel nostro contesto. E' la
catena montuosa appena a sud del Gihon/Pandji, chiamata tuttora Hindukush, una delle tre
grandi catene montuose, col Pamir e il Karakorum, che s'uniscono nel massiccio che separa la
valle di Hunza dalla valle di Wakhan, da cui hanno origine i quattro fiumi dell'Eden secondo
la nostra ipotesi.
La parola Kush si può facilmente interpretare dal verbo kushtan, che in persiano e sanscrito,
significa "uccidere". E' pertanto il "luogo dell'uccisione". Quale uccisione tuttavia? Di nuovo,
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secondo un'interpretazione letterale del testo del Genesi, l'uccisione di Abele è la principale
ipotesi, e questa identificazione è rafforzata dal significato che troveremo per l'altra regione
nominata nel Genesi come Havilah.
E' inoltre facile, crediamo, spiegare come mai il nome Kush fu ad una certo tempo cambiato
in Hindukush e perché si trovi anche a sud dell'Egitto un territorio Kush, il che ha portato poi
alla comune traduzione di Kush come Etiopia e all'identificazione di un ramo del Nilo con il
Gihon, sostenuta dagli etiopi e dai copti. La nostra spiegazione, se corretta, inoltre illumina
alcuni aspetti dell'Esodo e della vita di Mosè. Si veda l'Appendice 1.
La parte dell'Afghanistan delimitata dall'antico Gihon ha oggi il nome di Badakshan. Ci si
domanda se questo nome derivi da antichi toponimi. Possiamo vederlo come una forma
contratta di Badakushstan. Ora "stan" significa "terra di", "kush" è stato discusso, ma quale
significato per "bada"? Come abbiamo ricordato precedentemente, Bad Tibira è una delle
cinque città prediluviane nominate nei testi sumerici, un centro di lavorazione di metalli (rame
e oro) e di pietre. Ivi il corpo di Dumuzi fu imbalsamato e posto su una lastra di lapislazzuli. I
sumeri venivano da Dilmun, una terra ad est, e di conseguenza dovevano avere portato
informazioni su città prediluviane collocate ad est, e non nel Medio Oriente, (Mesopotamia),
dove le città furono ricostruite assegnandovi i nomi antichi di città più ad est. Ora, ogni
territorio ricco di fiumi non sfruttati è probabile abbia oro nel letto di questi, e l'Afghanistan è
tuttora un produttore di rame. Lapislazzuli sono stati estratti per tempi immemorabili da
un'unica miniera nel mondo, localizzata nel Badakshan, la Famosa Montagna Blu. Questi
elementi fanno pensare che Bad Tibira era probablimente collocata nel Badakshan e che il suo
nome sia entrato in parte del nome di tale regione. L'Afghanistan del nord, inoltre, fu
chiamato Bactria in tempi classici, nome le cui componenti consonantiche sono molto simili a
quelle di Bad Tibira.
6. Hiddekel identificato
A pochi km dalla sorgente dell'Amu Darya da noi individuata nasce un altro fiume, che
discende la ripida valle del passo di Mintaka/Minteke, si unisce ad un'altro fiume proveniente
dal passo di Vahgir, prosegue ad est per circa 50 km, gira a nord per circa 70 km, poi fluisce
in una direzione prevalentemente est-est-nord prima con il nome di Tashkurgan, poi
Yarkhand, poi Tarim, finendo nelle vastità del deserto di Lop Nor, a circa 2000 km in
direzione est-est-nord dalla sua sorgente. Come Yarkhand attraversa il deserto di Takla
Makan (il nome significa tu entri, ma non esci. Sven Hedin fu il primo esploratore occidentale
ad attraversarlo da sud a nord, a mala pena evitando di morir di sete; alcuni anni dopo fu
anche attraversato da Aurel Stein nella più difficile direzione nord-sud), dove è spesso
completamente secco. Come Tarim definisce il confine nord del Takla Makan,
fiancheggiando il lato sud della catena del Tien Shan (o Tengri Tagh, Monti del Cielo), dalle
cui cime elevate (oltre 6000 m) diversi fiumi apportano le loro acque.
Il passo di Mintaka, altezza 4709 m, è uno di quelli associato con il ramo meridionale della
Via della Seta, che collega la Cina all'India, utilizzato già da diversi millenni. Il nome del
fiume nell'attuale parte cinese del passo non appare nei soliti atlanti o mappe per turisti, ma si
trova nel Mappa di viaggio culturale per la strada della seta, prodotta da Viaggi dell'Elefante,
agenzia viaggi fondata dai fratelli archeologhi Dutrot, Roma, 1998. Ivi appare come Mingt'ieh-kai Ho, dove Ho è fiume in cinese, e il resto è virtualmente Minteke.
Riteniamo che il nome Minteke sia ciò che rimane oggi del nome del fiume Hiddekel del
Genesi, per i seguenti motivi:
77
•
•
Il fiume Minteke-Yarkhand-Tarim ha una sorgente prossima a quella del Gihon/Amu
Darya e una direzione prevalentemente orientale.
C'è una considerevole somiglianza consonantica i due nomi M NT K, H DD K L,
considerando che i nomi tendono ad accorciarsi col tempo (così L risulta assorbita), di
piccole variazioni nelle consonanti doppie per rinforzarne il suono, che sia T e D sono
consonanti dentali.
Non sappiamo quale sia il significato originario di Hiddekel/Minteke (comunque, seguendo
un suggerimento di D'Ausser Berrau, li correleremmo con l'accadico Deputo, ovvero
depressione geografica; il fiume finisce davvero nella depressione del Lop Nor, sotto il livello
del mare). Il fatto che l'Hiddekel fosse chiamato classicamente, nel contesto mesopotamico,
Tigri, che è il nome latino della tigre, incuriosisce. Infatti non c'è evidenza dell'esistenza di
tigri in Mesopotamia durante il periodo sumerico-babilonese, mentre c'erano elefanti, leoni,
leopardi. Pomponio Mela spiegò l'origine del nome con una presunta grande velocità delle
acque del fiume, il che è vero solo per quanto riguarda il tratto anatolico, dove la pendenza
media è superiore a quella del più lungo Eufrate. Ma le tigri esistettero fino al XX secolo nella
regione turanica (le famose tigri dell'Aral, dell'Amu Darya e del Mazandaran) e forse anche
fino all'inizio di questo secolo in Zungaria, secondo Lattimore [29], e nella regione del Lop
Nor, vedasi Hedin [30]. Le tigri prosperano nei canneti, abbondanti dove il fiume raggiungeva
la terra piatta della regione del Taklamakan. Potrebbero esserci state tigri nelle aree paludose
del Shatt-el-Arab prima del Diluvio, ovvero prima dell'arrivo dei Sumeri; se fu così
probabilmente non sopravvissero alla grande alluvione tsunamica che venendo dal golfo
persiano devastò le pianure della Mesopotamia. Quindi un'associazione dell'Hiddekel/Mintaka
con il Tigri sembra essere un'interessante possibilità. Qui si potrebbe aggiungere che il nome
del fiume Indo, chiamato localmente Sindh/Sundh da almeno 2000 anni, si debba associare
con il nome Singh, il più comune cognome presso i Sikhs, e con Senge, il nome tibetano della
sua principale sorgente dal il lato nord della montagna sacra Kailas; ambedue significano
leone. Con tale osservazione, la terra dell'Eden sembra essere collocata a sud della terra delle
tigri e a nord di quella dei leoni, un luogo sicuro tra terre pericolose.
Un'altra osservazione degna di nota è che Mintaka appare come Al Mintaka nel nome di una
delle tre stelle centrali della costellazione di Orione, quelle che rappresentano la sua cintura
(la cui possibile associazione con le tre grandi piramidi, in termini di simile allineamento,
distanza angolare e luminosità relativa, è stata proposta da Bauval e Gilbert [31]). Al Nilam è
il nome di un'altra delle tre stelle, correlabile con il fiume Nilo; ma non sappiamo se un fiume
possa essere associato alla terza stella, Al Nitak (a meno che, per metatesi ed apocope, questo
possa essere l'antico Tanai, l'attuale Don, che per gli antichi divideva l'Asia dall'Europa).
Infine discutiamo l'affermazione del Genesi che l'Hiddekel "va ad est di Ashur", Ashur
essendo tradotto di solito con Assiria. Già Salibi ha rifiutato tale soluzione. Non sappiamo con
certezza come spiegare il passaggio, ma il nostro pensiero è questo:
•
•
ASH potrebbe essere la radice della parola ASIA, usata in tempi classici per indicare la
parte occidentale dell'attuale Asia, ma che ha una interessante collocazione nell'Asia
Centrale Tibetana nel regno di A-ZHA, vedasi ad esempio Hummel [32] o Deshayes [33].
UR potrebbe avere lo stesso significato che in sumerico, ovvero città.
Quindi il nome potrebbe riferirsi ad una città di Ur dell'Asia, qui intesa come "Asia Centrale",
da mettere in opposizione con una Ur nello Shinar/Sumer (nel Medio Oriente si possono
individuare molte Ur, p.e. Ur Kasdim in Anatolia, una fortezza chiamata Ur citata da
Ammiano Marcellino nella regione di Edessa...). Così se era stata conservata la memoria di
una precedente antica Ur nel cuore dell'Asia, questo potrebbe spiegare perchè il Genesi
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specifichi che Abramo partì da Ur dei Caldei (e a quale delle Ur del Medio Oriente si riferiva
l'autore del Genesi?). Tentativamente suggeriamo come candidato per Ash-Ur l'antica e
strategicamente collocata città di Tashkurgan, altezza 3200 m, dove il Mintaka cambia nome
in Tashkurgan e incomincia la sua principale direzione verso oriente. Si potrebbe
ulteriormente arguire che Tashkurgan significa Porta pietrosa di accesso (Tash) ai monti
(kur) del Giardino dell'Eden (gan).
7. Pishon ed Havilah identificati
Identifichiamo Pishon con il fiume le cui sorgenti sono a sud ovest del massiccio che separa
Wakhan dalla valle di Hunza, nell'attuale Chitral, provincia del Pakistan. Il fiume ora ha
diversi nomi, associati con le città capitali delle provincie da cui passa. Nel corso superiore il
nome è Yarkhun, poi Mastuj dopo la città di Mastuj. Dopo Chitral entra nella provincia
dell'Afghanistan di Konar con il nome di Darya-ye-Konar. Vicino a Galalabad (prima
trascritto come Jalalabad, antica residenza invernale dei re afgani) si unisce al fiume Kabul.
Come Kabul rientra in Pakistan dopo circa 80 km, una ventina di km a nord del passo di
Khyber (come mi informò il prof. Petech, anticamente le carovane seguivano il letto del
fiume, non il passo di Khyber). Fluisce circa 20 km a nord di Peshawar e raggiunge l'Indo
vicino a Attock. Dall'analisi della mappa BALTIT, NJ 43-14, U502, revisione 1962, scala
1:250.000, identifichiamo con il ghiacciaio Chiantar la sua sorgente, circa 100 km ad ovest
del passo di Mintaka, dove il Mintaka/Hiddekel hanno le loro sorgenti. Tra le sorgenti dello
Yarkhun e quelle del Mintaka giace la catena montuosa che separa Wakhan dal bacino di
Hunza. Circa il 20% di questo massicio è ora coperto da ghiaccio, secondo la mappa citata;
l'altezza della catena è prossima ai 6000 m, con alcuni picchi, come Sakar Sar, prossimi ai
7000m. Diversi piccoli fiumi si gettano nel Gihon superiore, attualmente chiamato Abi-iWakhan, alcuni con sorgenti appena pochi chilometri distanti da quelle dello Yarkhun. La
parte sud della catena porta le sue acque al fiume Hunza anche qui tramite svariati affluenti
minori, p.e. il Ribai-Karambar, le cui sorgenti si trovano appena sotto quelle dello Yarkun, o il
Chapursan, che le ha a metà tra lo Yarkhun e il Mintaka.
La nostra identificazione del fiume Yarkhun-Mastuj-Konar-Kabul con il Pishon è basata su
questi argomenti:
•
•
E' uno dei 4 grandi fiumi che fluiscono fuori dal massiccio che separa le valli di Wakhan e
Hunza. Due sono stati identificati tramite considerazioni linguistiche e gli attributi
geografici loro associati (vicinanza a Kush, direzione verso est). Il NHR PRT sarà
identificato con speciali considerazioni geografiche. Pertanto questo fiume è identificato
per esclusione.
L'antico nome Pishon è completamente scomparso nelle denominazioni attuali, che
riteniamo essere d'origine relativamente recente. Non siamo stati in grado di ottenere
documentazione circa i nomi antichi. La regione attraversata dal fiume è una delle più
selvagge ed isolate nelle montagne tra l'India e l'Asia Centrale. La valle del fiume è stretta,
quasi un canyon, d'accesso difficile fino a poco tempo fa, e anche ora la strada esistente è
spesso chiusa per frane. L'area è stata abitata fino a tempi recenti da fiere popolazioni che
resistettero all'introduzione dell'Islam. Perciò fu chiamata Kafiristan, terra degli infedeli, e
spesso condottieri musulmani vi condussero sanguinose spedizioni. Il nome Kafiristan era
ancora presente nelle mappe dell'Afghanistan fino alla metà del XX secolo ed era anche
usato per la regione del Pakistan ad ovest del Chitral-Drosh nel Times Atlas del 1974
(dove, casualmente, parte del Mastuj è chiamato Chitral). Quindi siamo alla presenza di
una regione dove antiche tradizioni sono state attaccate e distrutte in misura considerevole
(una parte, comunque, potrebbe sopravvivere nel segreto di tradizioni familiari), con
conseguenze non solo nell'ambito religioso, ma anche nelle denominazioni geografiche.
79
• Una traccia della radice P-SH si può trovare in una serie di casi interessanti:
1 - Nel nome della città di Peshawar, che tradizionalmente viene tradotta "città (awar) del
confine", il che suggerisce la traduzione "confine" per P-SH.
2 - Nel nome Pashtun di uno dei principali gruppi etnici del popolo afgano. Dovrebbe essere
notato, con riferimento al ragionamento riportato sotto, che il linguaggio pashtun ha diverse
parole vicine all'ebraico, si veda Kersten [46], e che gli stessi Pashtun affermano di discendere
da tribù ebraiche.
3 - Nel nome della regione Pashai, vicino al restringimento del fiume Kunar, sulla quale si
veda Thesiger [35].
Ora parleremo del nome della regione associata nel Genesi al Pishon, la terra chiamata di
nome Havilah. Il suffisso AH nei linguaggi semitici appare in diversi nomi di regioni
geografiche, per esempio Aravah (la regione tra il Mar Morto e il Golfo di Aqaba) oppure
Tihamah (la parte inferiore sud occidentale dell'Arabia, tra Habi e Jizan). Pertanto possiamo
proporre Havilah = terra di Havil. Ora "Haveel" sta per "Abele" in arabo (Hevel in ebraico),
il nome del secondogenito di Adamo. Pertanto, con meravigliosa concordanza con la storia
presentata nel Genesi, abbiamo identificato Kush con la terra, a sud del Gihon, dove Abele fu
ucciso, e Havilah, a nord ovest del Pishon, con la terra che fu presumibilmente colonizzata per
prima da Abele. Se l'ipotesi è corretta, potremmo forse vedere una sopravvivenza del nome
Havilah in quello di Hazarah, un territorio così chiamato sino a tempi recenti sia ad est che ad
ovest di Kabul, si veda riguardo Thesiger [34], e in alcune parti del Kashmir pakistano.
Potremmo anche supporre che Havilah riappare nella Bibbia come una delle tre caratteristiche
della terra dove Sargon II deportò le dieci tribù di Israele, una terra chiamata Halah, con una
città chiamata Habor e un fiume chiamato Gozan. Halah appare come una versione ridotta per
apocope di Havilah, Gozan come una variazione di Gihon, e Habor con semplici mutamenti
fonetici diventa Kabol, il nome persiano di Kabul.
Infine, un indizio interessante per collocare Abele, che addomesticò la pecora, in Afghanistan
è ricavato dalla recente scoperta, vedasi Ryan e Pittman [18], che tutte le pecore domestiche
nel mondo discendono da una varietà selvatica originaria dell'Afghanistan. Questa scoperta è
basata su sofisticate analisi genetiche. La storia di Caino e Abele riguarda un contrasto tra
Caino, che osservò la proibizione di uccidere animali, che da fonti esterne al Genesi si dice
fosse una legge data ad Adamo, e Abele, che aveva trovato una ragione apparente per
scavalcare il divieto, usando le pecore per cibarsene e farne sacrifici graditi a Dio. Una
domanda intrigante: fu davvero Abele colui che per primo addomesticò la pecora selvaggia
dell'Afghanistan, da cui discendono le varietà attualmente allevate? Si noti che una risposta
affermativa non significherebbe comunque che pecore non fossero state addomesticate prima,
fatto documentato in reperti risalenti ad almeno l'8000 AC. Solo significherebbe una migliore
qualità delle pecore addomesticate in Afghanistan, che avrebbero successivamente sostituito
quelle addomesticate precedentemente, secondo un processo ben comune nella storia
economica.
8. Eufrate, il Fiume della Frutta, e il Giardino dell'Eden
Manca l'identificazione del quarto fiume, quello di solito tradotto con Eufrate o Perath. Il
nome consonantico biblico è NHR PRT. NHR può essere vocalizzato Nahar/Nahal, che sta
per "fiume" in arabo ed ebraico, quantunque più avanti discuteremo un'altra possibile
traduzione. PRT si può ad esempio vocalizzare con:
•
•
Perath, ovvero fertilità
Parot, ovvero vacche
80
•
Pirot, ovvero frutti.
Appare impossibile fornire un valido argomento per scegliere definitivamente una tra le
vocalizzazioni proposte. Riteniamo che, in un certo senso, il nome racchiuda tutti e tre i
significati, avendo pertanto un generale riferimento alla fertilità, alla produzione di cibo, in
particolare di frutti, caratteristiche del Giardino dell'Eden.
A questo punto l'identificazione di NHR PRT con il fiume Hunza nel nord del Kashmir
pachistano può essere sostenuta con le seguenti argomentazioni:
•
•
Il fiume Hunza nasce dallo stesso massiccio che separa la valle di Hunza dalla valle di
Wakhan. Come Kilik-Mintaka, quest'ultimo nome applicato nell'ultima decina di km,
nasce nella parte occidentale del passo di Mintaka, dal ghiacciaio Gul Kwaja Ulwin,
appena qualche chilometro dalle sorgenti del Gihon e del Mintaka; come Chapurjan nasce
da un sistema di ghiacciai, nel massiccio di Koz, praticamente connesso con il ghiacciaio
Chantar che da origine al fiume identificato con il Pishon.
Come fiume Hunza bagna una delle valli più interessanti al mondo, quella di Hunza, tra i
1700 e 2400 m d'altezza, di popolazione 28.000 nel 1981, 46.000 nel 1994.
La valle di Hunza presenta molte caratteristiche straordinarie, si veda ad esempio [35] e [36]:
•
•
•
•
È un luogo ricco d'ortaggi e frutta, tra cui venti varietà d'albicocche (insieme a prugne,
uva, pere, mandorli, con alcune varietà del tutto locali); la popolazione prima dell'apertura
della strada del Karakorum nel 1978 era principalmente vegetariana, e sopravviveva
d'inverno con frutta secca, passando svariate settimane con un apporto calorico minimo
prima del raccolto estivo.
C'è una varietà locale di mucca nana, presente anche nel Wakhan, che produce poco latte e
localmente è usata per trasporto di carichi, essendo molto abili nel salire per pendii molto
ripidi.
La popolazione si è convertita all'Islam solo alla fine del XIX sec., molti aderiscono alla
setta ismaelitica guidata dall'Agha Khan. La lingua locale, burushashki, è un linguaggio
molto particolare e complesso, a quanto pare senza parentele con altre lingue al mondo, e
da cui nemmeno risultano apporti nelle lingue al di fuori della valle.
La popolazione è sempre stata notata per la sua generale salubrità e longevità (tipicamente
oltre i 100 anni - molti sopravvivono quasi fino ai 120 anni); la gente raggiunge la
vecchiaia con vista ed udito ancora eccellenti; gli uomini sono rinomati per dare figli fino
all'età avanzata.
La valle di Hunza declina dolcemente verso la sua parte disabitata, tra Sikandarabad e
Ainabad. Il fiume Hunza fluisce in un letto profondo, che separa la valle in due parti, con
differenti stili di vita. E' circondata da alte montagne, spesso superiori ai 6000 metri, che
culminano a 7789 metri nella cima piramidale, ricoperta di ghiaccio, del Rakaposhi, montagna
sacra per gli Indù. Tali alte montagne definiscono una alta cinta naturale per le terre della
valle (paradiso, giardino cintato!). Queste montagne non ostacolano troppo i raggi solari,
poichè la parte coltivata della valle si estende nella direzione est-ovest, un fatto che insieme
con la latitudine abbastanza meridionale (circa 40°) assicura molte ore di sole.
Il passaggio da Hunza a Gilgit, a sud, verso la piana dell'Indo, è difficile, via un canyon assai
scosceso dove le frane sono frequenti. Prima dell'apertura negli ultimi anni settanta della
strada del Karakorum, per raggiungere Gilgit ci volevano circa 2 settimane a cavallo o a mulo
sullo strapiombante sentiero che l'amministrazione inglese aveva tracciato quando la zona
entrò sotto il suo controllo alla fine del XIX sec., si veda al riguardo Stein [41].
81
I suddetti argomenti consentono di affermare che la nostra ricerca del Giardino dell'Eden ha
ottenuto un'eccellente soluzione: abbiamo infatti trovato una terra molto ricca, circondata da
alte mura naturali (un "paradiso"), isolata, irrigata da uno dei quattro fiumi aventi la sorgente
dallo stesso massiccio.
Concludiamo questa sezione con una considerazione sulla frase del Genesi tradotta di solito
"un fiume irrigava il Giardino, da lì si divideva in 4 fiumi di testa". Nella geografia reale
terrestre un fiume può dividersi in vari rami in due casi: o in un'estuario di tipo delta, che non
sembra però essere il caso in questione, dal momento che il termine "testa" si riferisce a
sorgenti, oppure su una terra molto piatta, dove i rami si riuniscono dopo un po', cambiano
dopo episodi stagionali di alluvione e sono pertanto effimeri. L'unico caso di un fiume le cui
acque si può dire fluiscano in due direzioni diverse è il fiume Casiquiare, nella provincia
venezuelana di Amazonas, un fiume di circa 200 km che unisce l'Orinoco con il bacino del
Rio delle Amazzoni (più precisamente con il Rio Negro). Un fiume che si divide in 4 parti,
scorrenti in 4 direzioni diverse, sembra una impossibilità. Questo rebus ha comunque una
facile soluzione: infatti NAHAR significa anche "nevaio, ghiacciaio". La catena montuosa da
cui i quattro fiumi del Genesi hanno origine nel nostro scenario è molto alta, con ampia
copertura di ghiaccio. Probabilmente in passato i ghiacciai erano più imponenti. Pertanto
affermiano che la sorgente dei quattro fiumi fosse non un altro fiume, bensì un unico nevaio o
ghiacciaio.
9. Sull'uscita di Adamo dal Giardino dell'Eden
Potremmo fare un'ipotesi ragionevole sul tragitto preso da Adamo dopo essere stato scacciato
dall'Eden, sempre sul presupposto di considerare il racconto del Genesi basato su eventi
realmente accaduto. Un'analisi della geografia della regione dove la valle di Hunza è collocata
suggerisce quanto sotto:
•
•
Il tragitto verso sud, per esempio seguendo i fiumi Gilgit e Indo, era probabilmente troppo
difficile, in quanto fino ad un secolo fa richiedeva l'uso di sentieri faticosamente costruiti
su pendii scoscesi, che garantivano agli abitanti della valle di Hunza una difesa naturale
dagli invasori.
Il tragitto verso est od ovest sarebbe stato attraverso altissime montagne, e non è mai stato
una via commerciale.
Pertanto rimangono le tre naturali uscite da nord, ovvero attraverso i passi Kilik, Mintaka o
Khunjerab. Ora il Genesi afferma che due Cherubim (in Accadico Karibo) con spade
fiammeggianti erano di guardia all'uscita orientale del Giardino per fermare tentativi d'entrata.
Ciò suggerisce che il passo di Khunjerab sia la via d'uscita, poichè giace ad est dei passi Kilik
e Mintaka ed è attualmente raggiungibile seguendo un ramo orientale del fiume Hunza.
Questa tesi può essere ulteriormente rafforzata mendiante considerazioni filologiche,
esaminando l'analogia tra le parole CHERUBIM = KRB con JRB = GRB = KRB nel nome
del passo, dove vi abbiamo tolto la prima sillaba Khun. Tali argomentazioni potrebbero essere
ulteriormente rinforzate se KHUN, che in turco significa Sole anche come divinità, possa
essere legato a tale nome. Alcune tradizioni locali degli Hunza affermano che la valle fu
colonizzata da disertori dell'esercito di Alessandro il Grande. L'armata di Alessandro era
arricchita da genti di varia nazionalità, provenienti dalle terre da lui conquistate o visitate. Il
dominio di Alessandro si estendeva sino al fiume Jaxarte (Syr Darya), che confina con terre
abitate da popolazioni del ceppo turco. Per giunta il passo di Khunjerab porta ad una parte
dell'Asia (Sarikol) dove popolazioni di parlata turca esistono da moltissimo tempo. Pertanto
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potrebbe essere verosimile l'uso del turco per interpretare Khunjerab come (il passo dei)
Cherubini splendenti come il sole.
Se la nostra interpretazione della parola Khunjerab e Amu Darya è corretta, avremmo la
seguente risposta sul tragitto preso da Adamo ed Eva dopo la cacciata dal Giardino:
•
•
•
Prima verso il passo Khunjerab in direzione nordest (altezza 4934, ridotta a 4602 grazie
alla strada moderna), seguendo il ramo Khunjerab dell'alto fiume di Hunza; si noti che
questa è la strada seguita dalla moderna strada del Karakorum.
Poi vicino agli attuali Pisali e Ajekobai, circa a 4000 m d'altezza, in direzione ovest
seguendo il fiume Minteke, entrando quindi nel Wakhan attraverso l'odierno passo di
Vahir Lo, 4827 m, anche esso su una delle diramazioni della Strada Meridionale della
Seta, probabilmente quella usata da Marco Polo.
Poi principalmente seguendo il fiume Gihon, fino ad entrare nella pianura turanica. Alla
fine, stabilendosi presso l'attuale Amu/Amol.
Quindi Adamo muove dall'Eden verso ponente, fermandosi vicino al grande mare interno
comprendente il Caspio e l'Aral, lasciando l'ormai distante Eden a levante. Guardare il Sole
che sorge quindi significava guardare l'Eden perduto. Qadim significa "di fronte", Qedem
significa "est", in ebraico, con edem curiosamente simile ad eden. Pertanto si può inferire che
la "positività" della direzione dove sorge il Sole avrebbe una giustificazione nella memoria
che in quella direzione giaceva l'Eden. Quindi la parola "orientarsi" potrebbe significare
trovare la direzione dove l'Eden si trovi. Fare atti speciali, tipo pregare, rivolgendosi verso una
direzione speciale, è una caratteristica ben diffusa nella cultura umana, in particolare modo il
rivolgersi verso la Mecca dei musulmani (una decisione presa da Maometto dopo un periodo
di incertezza se bisognasse rivolgersi verso la Mecca o verso Gerusalemme, sacra città dove
Abramo era stato benedetto da Melchisedek).
Tradizioni affermano che Adamo ebbe una lunga (930 anni) ed attiva vita dopo essere uscito
dall'Eden. Oltre ad aver generato dopo Caino e Abele 33 altri figli e 23 altre figlie, come
afferma Giuseppe Flavio, si dice abbia viaggiato a lungo, raggiungendo in particolare la
Palestina, l'Arabia e lo Sri Lanka. In vista della sua lunga vita e poichè a quel tempo nessun
vincolo burocratico ostacolava i viaggiatori, la storia potrebbe essere vera. E' inoltre più
specificatamente affermato che fondò i primi luoghi di culto: a Gerusalemme, vedasi Grierson
e Munro-Hay [37], e alla Mecca, vedasi Boubakeur [38]. E' naturale, quindi, che i popoli del
medioriente prendessero quelle località a loro vicine come punti verso cui "rivolgere la
faccia", quando la conoscenza della precisa collocazione dell'Eden fu persa con il passare dei
millenni.
Concludiamo questo paragrafo con due ulteriori considerazioni, che possono spiegare alcune
specificità dell'Induismo, la religione che più di tutte le altre ha mantenuto elementi arcaici: il
vegetarianismo e la sacralità delle mucche.
Abbiamo già osservato che leggende ebraiche affermano che una legge fosse stata data nel
Giardino contro l'uccisione di animali, contro lo spargimento di sangue. Dal racconto del
Genesi, Caino osservava tale legge, al contrario di Abele, che aveva addomesticato la pecora e
aveva violato il divieto di uccidere animali, forse reinterpretando la medesima legge: sarebbe
stato lecito uccidere se non si spargeva sangue per terra, per esempio tagliando la gola e
raccogliendone il sangue. Possiamo qui vedere il rituale praticato da ebrei ed arabi tuttora
oggi (anche il modo tradizionale dei Mongoli per uccidere evita lo spargimento di sangue: un
taglio nel grasso della pancia, da cui poi si rimuove velocemente il cuore inserendovi il
braccio). Ci si potrebbe chiedere se l'uccisione di Abele non potesse essere un "esperimento"
83
di Caino per verificare la validità di sacrifici umani, e dove quindi potrebbe vedersi l'origine
della tradizione di uccidere il primo nato, applicata fino al tempo di Abramo e perfino in
tempi successivi presso varie popolazioni. In conclusione, si può vedere la storia di Abele
come il tentativo di reinterpretare una legge al di là del suo significato letterale. Legge che è
stata tuttavia osservata alla lettera dagli Indù.
Il ruolo sacro delle mucche in India è sempre stato un enigma per persone d'altre culture. Nel
suo libro sull'Induismo Gandi afferma che la ragione del rispetto particolare per le mucche
deriva dal fatto che esse hanno aiutato l'uomo durante un tempo difficile, benché non
specifichi né dove né quando. Qui offriamo una spiegazione nel contesto dell'espulsione di
Adamo dal Giardino. La presenza di un tipo speciale di mucche nella valle di Hunza, abili a
salire per ripidi dirupi e a portare pesi, suggerisce che Adamo fosse autorizzato a portarne via
alcune quando fu espulso. Esse probabilmente erano state caricate di frutta, noci e semi
secchi. Pertanto lui ed Eva erano indebitati con loro per un aiuto, forse rivelatosi
indispensabile, durante il difficile viaggio verso la pianura turanica. Inoltre forse semi del
Giardino furono piantati nel nuovo territorio (spiegando forse anche la grande ricchezza di
frutta delle valli della zona, in particolare del Fergana (Fertile Giardino o, in cinese, Da Yuan,
Grande Giardino). Se questo scenario è corretto, allora è semplicemente fantastico che
l'Induismo abbia preservato la memoria di questo evento rispettando fino ai nostri giorni la
vita delle vacche.
10. La terra di Nod
Il Genesi afferma che dopo l'uccisione di Abele, Caino dovette migrare verso la terra di Nod,
ad est dell'Eden. Sul suo corpo aveva un segno speciale, che fu presumibilmente trasmesso ai
discendenti, i quali, nei tempi prima del diluvio, svilupparono per primi la costruzione di città,
la metallurgia, e l'agricoltura.
La terra di Nod è interpretata nei testi talmudici come "la terra di vagabondaggio, di
nomadismo". Ora, ad est dell'Eden, o più precisamente a nord-est, abbiamo gli immensi
pascoli dell'altopiano tibetano, della Mongolia e del Xinjang. E' quindi una interessante
supposizione che Caino sia entrato nel bacino del Tarim e che i suoi discendenti si
spargessero attorno a questa vasta area. La maggior parte di loro diventarono allevatori di
pecore, addomesticando yaks e cavalli e cammelli oltre alle pecore, altri praticarono
l'agricultura, avvantaggiandosi della presenza molto probabile di un grande lago dolce nel
Takla Makan e nella depressione del Lob Nor, la cui esistenza, abbiamo prima acccennato, è
stata scoperta assai di recente. Il fatto che questo lago fosse soggetto ad un processo di
evaporazione, quindi ad una diminuzione della sua superficie, molto probabilemte si rivelò
uno stimolo all'innovazione tecnologica, portando a quella civiltà avanzata di cui parla la
Bibbia, le cui tracce cominciano solo ora ad apparire in quel deserto tuttora sostanzialmente
inesplorato.
Se possiamo considerare i mongoli i più vicini discendenti di Caino, allora forse il "segno"
dato a Caino può essere identificato con la cosiddetta macchia mongolica con la quale molti
dei mongoli nascono. E' una macchia blu collocata sulla schiena, di solito alla base della
colonna vertebrale, e che scompare dopo pochi mesi (ma Gengis Khan la ebbe sulla mano e la
portò per tutta la vita). Curiosamente, blu è il colore dei lapislazzuli, la pietra sacra
proveniente dal Badakshan, la prima terra assegnata a Caino.
11. Sulla svastica ed altri simboli
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Nel quadro della nostra identificazione dell'Eden, qui proponiamo una nuova interpretazione
del significato della svastica (il cui significato in sanscrito è: ciò è buono), delle scelte rituali
tra destra e sinistra, e, nella sezione successiva, dei nomi delle direzioni cardinali nelle lingue
di origine germanica.
La svastica è un pittogramma ampiamente diffuso in Asia ed Europa, particolarmente comune
nelle culture indoeuropee, ma documentato anche, per esempio a Tell Bakun in Iran [39],
durante il IV millennio A.C., assai prima dell'invasione ariana. Di solito lo si interpreta come
un simbolo solare, dove il centro è il Sole, con quattro raggi. Ma perchè quattro e perchè
esistono due tipi di svastica, una destrorsa e un'altra sinistrorsa?
Noi diamo la seguente spiegazione alternativa:
•
•
•
Il punto centrale non è il Sole, ma è una rappresentazione della Montagna dell'Eden.
I quattro raggi sono i 4 fiumi che sgorgano dalla Montagna dell'Eden.
Il senso di rotazione conserva la memoria della direzione presa dai discendenti di Adamo
quando si spostarono dal primo insediamento (ad Amu/Amol) dove si fermò Adamo una
volta raggiunta la pianura turanica. Non potevano andare ad est, il luogo dato Caino. Non
potevano andare ad ovest, in quanto occupato da un grande mare interno, l'originale Amu
Darya. Così potevano andare o a nord o a sud. Andando a nord avrebbero avuto l'Eden
alla loro destra, quindi descrivendo, almeno inizialmente, un movimento destrorso, in
senso orario. Altrimenti avrebbero potuto andare a sud. Pertanto, nella nostra
interpretazione, la svastica è un simbolo che racchiude contemporaneaemnte le
informazioni essenziali sull'Eden e una memoria della prima decisione di ristabilirsi
altrove presa dai discendenti di Adamo. Pertanto una memoria molto sacra.
In modo simile possiamo spiegare perchè molte persone si muovano attorno ad un luogo sacro
tenendolo sistematicamente o alla loro destra o alla loro sinistra. Per esempio, gli indù e i
buddisti (ma il buddismo può essere visto come una semplice variante dell'induismo, come
era l'opinione di Gandhi) vanno verso un monumento sacro tenendolo alla loro destra; se ci
devono girare attorno, come fanno in diverse cerimonie (incluso il circumambulare il sacro
monte Kailas) lo fanno in senso orario, che è il verso della svastica da loro adottata,
mantenendolo così sulla destra. I Bon fanno l'incontrario. I Bon seguono l'antica religione
prebuddista del Tibet, le cui origini vanno ricercato al di là del Tibet, secondo Hummel [28,
32]), nell'alto bacino dell'antico Gihon; la loro svastica è sinistrosa; anche gli arabi girano
attorno ad un monumento (ad esempio la Kaaba), tenendolo alla sinistra.
Possiamo anche dare una spiegazione naturale sul perchè la sinistra sia considerata inferiore
alla destra nelle tradizioni occidentali, mentre i cinesi considerano la destra inferiore. Se si
guarda verso l'Eden dall'Asia occidentale, allora il Kush è visto a sinistra dell'Havilah, e se il
Kush è stato il luogo dell'uccisione di Abele gli è quindi stata associata una naturale
connotazione negativa. Il caso opposto avviene quando l'Eden è osservato dall'Asia orientale.
12. Una proposta sull'origine del nome delle direzioni cardinali
Qui diamo una spiegazione contestualizzata all'Eden dei nomi delle direzioni cardinali nei
linguaggi del gruppo germanico:
•
Est, tedesco OESTEN: tolta la S rinforzante, abbiamo le due consonanti T N, ottenendo,
con l'accettabile sostituzione della dentale T con la dentale D, il nome consonantico
dell'Eden. Pertanto proponiamo Est = verso l'Eden.
85
•
•
•
Ovest, tedesco WESTEN: possiamo legare W = V con la B, in latino ab, in inglese away.
Pertanto suggeriamo Ovest = via dall'Eden.
Nord, tedesco NORDEN: possiamo collegarlo a Nod, la terra di vagabondaggio, che si
estende sia ad est che a nord dell'Eden, comprendendo difatto l'ampia parte dell'Asia tra le
foreste boreali e la grande catena di montagne estese dal Caucasus all'Himalaya.
Sud, SUEDEN: in S D vediamo le radici consonantiche del fiume Sindh, Sundh, l'Indo,
dove Pishon e NHR PRT mandano le loro acque, il fiume del leone, come affermammo
prima. Pertanto sud potrebbe riferisi al territorio a sud dell'Eden, al bacino dell'Indo, e
all'India per estensione, e significare quindi la terra del leone.
13. Chi era Adamo?
Se è corretta la nostra identificazione dell'Eden, allora la sopravvivenza di informazioni
linguistiche e geografiche risalenti fino al tempo della composizione del Genesi (circa verso il
1500 A.C. se fu scritta da Mosè e se la datazione di Velikovsky è corretta) e perfino sino ai
nostri giorni, nei nomi che sopravvivono localmente, suggerisce che il tempo passato
dall'evento Adamo non possa essere troppo lungo, al massimo di qualche millennio. Sarebbe
difficile che tali dettagliate informazioni si siano conservate per tempi assai più lunghi.
Ora c'è una forte evidenza che l'Homo Sapiens si sia sviluppato oltre 200.000 anni fa in
Africa; tale evidenza, per quanto non definitiva, è basata in larga parte su analisi del gene Y e
del DNA mitocondriale unita all'analisi di proteine e di altri elementi del sangue umano.
Pertanto un Adamo da datarsi verso il 5500 A.C. sulle basi dell'interna cronologia biblica, non
potrebbe essere stato il primo Homo Sapiens. Ora, l'epica sumerica della creazione parla di
diversi episodi di "creazione" che alcuni autori, p.e. O' Brien [14] o Sitchin [19, 20, 41],
hanno recentemente interpretato in termini di ibridazione tra preesistenti esseri umani e esseri
superiori, forse originari di altri pianeti (una forma di ibridazione tra i Nephilim e le figlie
degli uomini è anche citata nel Genesi). Un passaggio in una tavoletta tradotta recentemente
(Pettinato, comunicazione all'Accademia dei Lincei, 2000) afferma che Enki diede 108
essenze ad Inanna. Cosa le essenze siano non è chiaro, ma potrebbe forse riferirsi a materiale
genetico?
Così, mentre non possiamo certamente datare l'Homo Sapiens ad un periodo compatibile con
la cronologia interna alla Bibbia, l'idea che un salto finale nelle qualità umane accadde a quel
tempo - e che ciò sia stato dovuto ad una interazione esterna- è certamente degna di
considerazione.
Appendice 1: sul Kush, l'Hindukush e l'Esodo
Intorno alla metà del II millennio A.C. abbiamo la grande migrazione indoeuropea o degli
ariani dall'Europa del nord e dall'Asia nord occidentale verso l'Europa sudoccidentale, verso
l'Iran e verso l'India. Non c'è accordo sulle reali cause di questi esodi, che atttribuiamo a
catastrofi che colpirono almeno il bacino atlantico, di cui abbiamo tracce nelle dieci piaghe
d'Egitto appena prima dell'Esodo e in terribili tsunami che devastarono le coste dell'America
Atlantica e dell'Europa, la cui documentazione geologica è recente, si veda Harris [42].
Riteniamo che tsunami devastarono in particolare le pianure nordeuropee che avevano visto la
grande tradizione megalitica e inoltre il bassopiano sarmatico ed il bacino dell'Ob,
provocando una migrazione verso sud. Se la datazione di Velikovsky dell'Esodo è corretta,
l'evento sarebbe avvenuto nel 1447 A.C., corrispondente, secondo la cronologia dell'Egitto
proposta da Velikovsky, alla fine della XII dinastia, appena prima dell'invasione degli
Hyksos. Possiamo anche notare che alcuni episodi migratori potrebbero essere avvenuti anche
in tempi anteriori, poichè gli eventi che motivarono la migrazione degli Ebrei in Egitto
86
quando Giuseppe era viceré possono essere collegati ad un evento catastrofico (da Baillie [16]
possiamo prendere la data 1628 A.C. per l'inizio della carestia in Egitto, un anno associato a
grandi crisi climatiche secondo l'evidenza dendrocronologica).
Nelle loro migrazioni verso l'India, gli ariani presero un cammino che quasi certamente li
portò verso la pianura della mesopotamia turanica, la regione tra il Syr Darya e l'Amu Darya.
Se la nostra ipotesi sulla correlazione tra le migrazioni indoeuropee e l'Esodo e se la datazione
di Velikovsky è corretta nel datare l'Esodo appena prima dell'invasione degli Hyksos, allora
abbiamo di fronte una storia davvero interessante. Chi erano gli Hyksos? Questo è il nome
dato da Manetone, con la spiegazione "il popolo di pastori". In un altro lavoro [26] abbiamo
affermato che il significato più corretto del nome sia "popolo dei cavalli", nome
comunemente dato da popolazioni agricole od urbane ai cavalieri che invadevano dalle steppe
i loro territori (così i mongoli erano chiamati dai cinesi). Ora gli invasori che Manetone
chiama Hyksos sono citati nei pochi documenti egiziani sopravvissuti come Amu e riteniamo
con Velikovsky che essi siano coloro che appaiono nell'Esodo come gli Amaleciti, termini che
noi interpretiamo come popolo di Amu/Amol. Gli amaleciti furono incontrati e distrutti da
Mosè nel deserto. Riteniamo che gli amaleciti sconfitti fossero semplicemente un piccolo
gruppo degli Amu/Hyksos, separatosi dal gruppo principale degli invasori per esplorare il
deserto, mentre il corpo principale raggiungeva l'Egitto seguendo la via canonica, la
cosiddetta Via del Mare, lungo il mare Mediterraneo. Il nome Amu suggerisce che questi
invasori provenissero dal Turan, la regione dell'Amu Darya.
Possiamo vedere due ragioni della loro migrazione dalla regione dell'Amu Darya verso
l'Egitto:
•
•
Innanzitutto, sapevano di non poter opporre un'adeguata resistenza agli invasori ariani. Gli
ariani quasi certamente avevano una superiorità militare, basata non solo sul bronzo (nel
nord Europa la tecnologia del bronzo era assai ben sviluppata nella prima parte del II
millennio A.C.), ma probabilmente avevano anche armi di ferro. E' infatti una recente
scoperta che noduli di ferro fossero abbastanza comuni nelle paludi del nord Europa e
della Siberia occidentale, prodotti dall'azione metabolica di batteri. Cercare questi noduli
era abbastanza facile (il che potrebbe essere la vera ragione perchè molti corpi ben
preservati si trovano nelle torbiere del nord Europa, antiche paludi). Tali noduli
costituivano un materiale per produrre il ferro preferibile ai normali minerali ferrosi.
Gli Amu potrebbero aver avuto un conto da sistemare con gli egiziani e in particolar
modo con Mosè. Sappiamo che la prima moglie di Mosè era di Kush, identificato di solito
con l'Etiopia, ma da noi identificato con la terra a sud del Gihon, ovvero con l'attuale
Badakshan, terra delle preziose miniere di lapislazzuli. Forse una spedizione egiziana
guidata da Mosè aveva aiutato le popolazioni locali a respingere un attacco degli Amu.
Forse in quell'occasione Mosè aveva preso moglie, certamente da un'importante famiglia
locale. Allora gli Amu, che avevano lasciato un territorio per loro indifendibile dagli
invasori ariani, si mossero verso l'Egitto per vendicarsi di una precedente sconfitta. Forse
la famiglia di Mosè lo informò da Kush del loro arrivo imminente (messaggeri speciali
potevano arrivare molto prima del corpo principale degli Amu). Ciò potrebbe spiegare sia
la fretta di Mosè di portare via il suo popolo sia il tragitto inusuale che prese attraverso il
deserto, non per scappare da un faraone vendicativo, che non avrebbe avuto difficoltà a
localizzare la sua posizione, ma per evitare l'armata degli Amu invasori. Infine, questo
potrebbe anche spiegare il fatto curioso che nessuno conoscesse, stando alla Bibbia, dove
fosse la tomba di Mosè, mentre una cosiddetta tomba di Mosè è attualmente presente nel
Kashmir (vicino alla località di Booth, presso il villaggio di Aham Sharif e la città di
Beipur), e di essa se ne prende cura una famiglia ebraica (i Wali Rishi), da circa 90
87
generazioni secondo le tradizioni locali, si veda Kersten [46]. Mosè alla fine della sua vita
potrebbe essersi diretto semplicemente a oriente, dalla sua famiglia.
Così, pensiamo, gli ariani attraversarono il territorio degli Amu senza grosse difficoltà,
puntando verso la valle dell'Indo e forse anche dell'Helmand, ambedue posti di grandi e ricche
civiltà, promettenti ricchi saccheggi. Per raggiungere quelle valli dovevano attraversare i
monti dell'Afghanistan, che dividono la valle dell'Amu Darya/Gihon da quella dell'Indo (la
valle dell'attuale fiume Kabul). Il tragitto verso India potrebbe anche essere stato quello
attualmente seguito dalla strada che collega Kunduz con Kabul, attraverso il Salang Pass
(3363m), nella parte occidentale dell'Hindukush, o un'altro che segue il fiume Daryz-yekonce, e poi sfocia nel bacino di Kabul (il nostro Havilah) attraverso l'alto passo di Anguran
(4430m; si noti che il nome Anguran è ripetuto nella parte dell'Azerbaijian proposta da Rohl
come Havilah); questo secondo viaggio avrebbe potuto portare gli ariani non lontani dalle
miniere di lapislazzuli vicino a Sar-e-Sang, circa 80 km a nord del passo di Anguran.
Riteniamo che molto probabilmente sia stato scelto il secondo percorso e che le popolazioni
locali abbiano opposto una forte resistenza agli ariani. Un immenso spargimento di sangue
deve aversi avuto, con gli ariani che probabilmente non furono capaci di conquistare le
miniere, così immenso che il nome di Kush, collegato secondo noi all'uccisione di Abele, fu
cambiato in Hindukush, la strage degli ariani hindu. Se la nostra interpretazione è corretta, un
eco di tali eventi potrebbe tuttora esistere nelle tradizioni locali del Badakshan.
Il nome Kush sopravvisse chiaramente nel nome dei Kushana, un popolo molto importante in
quella zona circa 2000 anni fa, citato anche nel Periplus Maris Erythraei. La presenza di un
regno Kush a sud dell'Egitto può essere spiegata nel nostro contesto. Ci si deve certo attendere
che alcune popolazioni sulla via dell'invasione ariana siano fuggite molto lontano - al di là del
mare sarebbe stata la migliore scelta. Dovevano essere piccoli gruppi, appartenenti ad un'elite
di possidenti. I viaggi via mare erano già sviluppati tra la valle dell'Indo (e il Sistan) e altre
destinazioni ad est o ad ovest, seguendo i monsoni. Si osservi che il nome locale dell'Indo era
Sindh/Sundh e che Meluhha era una parte del nord della valle dell'Indo. Popolazioni
potrebbero essere fuggite anche da queste regioni, finendo o in Africa o nell'Asia SudOrientale, secondo il mese in cui affrontarono il mare, a causa della diversa direzione dei
monsoni nei mesi dell'anno. Questo probabilmente spiega perchè in Africa troviamo nomi tipo
Kush, Meluhha, Sudan e nel sud-est asiatico troviamo Sunda/Sonda, Moluccas. Tali
migrazioni potrebbero essere avvenute già in tempi precedenti, essendo il nome Kush
documentato per l'Africa già in testi dell'inizio del Medio Regno egiziano (almeno 400 anni
prima dell'Esodo). Anche contatti fra gli Amu (nome non egiziano) e l'Egitto sono
documentati sin dal primo periodo intermedio, il che fa pensare che incursioni dei popoli dei
cavalli verso l'Egitto - separati da circa 4000 km - avvennero più volte, similmente alle
incursioni che gli Xiongnu (gli Unni) fecero verso la Cina per un periodo di svariati secoli,
partendo dalle loro basi in Zungaria, anch'essere a circa 4000 km dalla Cina propria.
Appendice 2: Afghanistan, porta d'ingresso dell'Eden
Finiamo questo saggio con una nota sul nome "Afghanistan". Terra degli Afgani, certamente.
Ma cosa significa Afgani? Riteniamo AF una variazione di AB, acqua, fiume, in persiano e
sanscrito (A in sumerico). In ebraico gan appare con il significato di Giardino dell'Eden e
parole di origine ebraica sono comuni nella lingua pashtun parlata dalla maggioranza della
popolazione afgana. Pertanto Afghanistan appare con il significato di terra dei fiumi (dalle
montagne) del Giardino dell'Eden, in perfetto accordo con la nostra identificazione del Gihon
con il Pandji, del Pishon con il Yarkhun-Mastuj-Konar-Kabul, e di Kush e Avilah con la
regione tra i due fiumi.
88
E' ironico che il vero significato della parola Afghanistan (se la nostra interpretazione è
corretta) sia stato perso, per quanto ne siamo informati, anche dal popolo afgano. Ma lo stesso
vale anche per gli Italiani, se la vera origine del nome Italia non derivi da Vituli (terra di
vitelli) come Varrone propose, ma dal greco Aithalia, la terra fumante, con riferimento ai
vulcani collocati vicino alle coste italiche, un nome molto denso di significato, per il cui
recupero siamo indebitati al genio di Felice Vinci [23].
Bibliografia
[1] K. Salibi, Secrets of the Bible people, Saqi Books, London, 1988
[2] K. Salibi, The Bible came from Arabia, Naufal, 1996
[3] K. Salibi, The historicity of Biblical Israel. Studies in Samuel I e II, Nabu, London, 1998
[4] I. Velikovsky, Ages in Chaos, Sidgwick e Jackson, 1953
[5] J. Rohl, A Test of Time. The Bible from Myth to History, Secolo, 1995
[6] P. James et al., Centuries of Darkness, London, 1991
[7] J. Bimson, Redating the Exosus and conquest, PhD Dissertation, Sheffield, 1978
[8] D. Patten, Catastrophism and the Old Testament, Pacific Meridian Publishing, 1988
[9] G. Hancock, The Sign and the Seal, a Quest for the Lost Ark of the Covenant, Heinemann, 1992
[10] G. Borgonovo, The Archaic Elements in Genesis: a Catholic Interpretation, abstract,
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[12] A. Y. Samuel, Treasure of Qumram, Westminster Press, 1966
[13] E. Spedicato, Numerics of Hebrews Worldwide Distribution Around 1170 AD According to
Binyamin of Tudela, Report DMSIA Miscellanea 2/99, University of Bergamo, 1999 (also in
Migration and Diffusion 3, 6-16, 2000; Episteme, N. 2, 21 dicembre 2000)
[14] C. O' Brien and B. O' Brien, The Genius of the Few, Dianthus, Cirencester, 1999
[15] E. Spedicato, Numerics and geography of Gilgamesh travels, Report DMSIA Miscellanea 1/2000,
University of Bergamo, 2000 (Episteme, N. 1, 21 giugno 2000)
[16] M. Baillie, From Esodo to Arthur: catastrophic encounters with comets, Batsford, 1999
[17] C. Ginzberg, Le leggende degli Ebrei, vol. 1, Dalla Creazione al Diluvio, Adelphi, 1995 (p. 79);
translated from The Legends of the Jews, The Jewish Publication Society of America, 1925
[18] W. Ryan and W. Pitman, Noah's Flood. The new scientific discoveries on the event that changed
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[19] Z. Sitchin, The Cosmic Code, Avon Press, 1988 (p.90, 103)
[20] Z. Sitchin, Il Dodicesimo Pianeta, Edizioni Mediterranee, 1996 (p.264)
89
[21] T. Heyerdahl, The Tigris expedition, Allen and Unwin, 1980 (p.11)
[22] H. Philby, Arabian High Lands, Ithaca, 1952
[23] F. Vinci, Omero nel Baltico, Palombi, 1998
[24] R.A. Walker, The Garden of Eden, manuscript, 1987 (in shorter form in Newsletter of Ancient
and Medieval History, Book Club, 11, 1986)
[25] S. Oppenheimer, Eden in the Est, Phoenix, 1998
[26] E. Spedicato, Who were the Hyksos, C&C Review, 1, 55, 1997
[27] J.P. Mallory and V.H. Mair, The Tarim mummies, Thames and Hudson, 2000
[28] S. Hummel, Tracce di Eurasia in Asia Centrale, Ananke, 1998
[29] O. Lattimore, The desert road to Turkestan, Kodansha International, 1995
[30] S. Hedin, Il lago errante, Einaudi, 1943
[31] R. Bauval e A. Gilbert, The Orion Mystery, Heinemann, 1994
[32] S. Hummel, On Zhang-Zhung, Library of Tibetan Works and Archives, Dharamsala, 2000
[34] L. Deshayes, Histoire du Tibet, Fayard, 1997
[35] W. Thesiger, Among the Mountains: Travels through Asia, Flamingo, 2000
[36] R. Bircher, Gli Hunza, un popolo che ignora le malattie, Editrice Fiorentina, 1980
[37] R. Grierson and S. Munro-Hay, The Ark of the Covenant, 1999
[38] D. Boubakeur, La Mècque, la Kaaba et les origines de l'Islam, Proceedings of the First
International Conference on New Scenarios on Evolution of Solar System: Consequences on History of
Earth e Man, Bergamo, June 1999, University of Bergamo, 2001
[39] A. Sami, Persepolis, Musavi Printing Office, Shiraz, 1977
[40] Z. Sitchin, Genesis Revisited, Avon Books, 1990
[41] A. Stein, Serindia, Clarendon Press, 1921
[42] S. Harris, private email communications (monograph in preparation)
[43] E. Spedicato, Galactic encounters, Apollo objects and Atlantis: a catastrophical scenario for
discontinuities in human history, Report DMSIA Miscellanea 3/99, University of Bergamo, 1999
(Episteme, N. 5, 21 marzo 2002)
[44] F. Barbiero, On the possibility of very rapid shifts of the terrestrial poles, Report DMSIA 7/97,
University of Bergamo, 1997
[45] W. Woelfli e W. Baltensperger, A possible explanation for Earth's climatic changes in the past
few million years, Report CBPF-NF-031/99, Centro Brasileiro de Pesquisas Fisicas, Rio de Janeiro,
1999
90
[46] H. Kersten, Jesus lived in India, Element Book, 1986
*****
Riconoscimenti: Lavoro parzialmente finanziato da fondi MURST 60% 2000.
Ringraziamenti particolari per commenti e suggerimenti a Antonio Agriesti, Lia Mangolini,
Bruno d'Ausser Berrau, Nezam Mahdavi-Amiri, Mehiddin Al Baali, Vittorio Sabbadini.
----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 1 di Episteme]
[email protected]
*****
Nella cartina sono distinguibili i fiumi Kunar-Konar,
Panj, e Yarkant (Yarkhand), nella zona di confine
tra Afghanistan, Pakistan, Cina e Tazakistan
[http://www.lib.utexas.edu/maps/pakistan.html]
91
Nell'antica cartina sono visibili il fiume Tarim (mentre scorre da Ovest verso Est), e il fiume
Amu Daria (Amu Darya), (che si vede nascere sotto la scritta "Pamir", e scorrere verso Nord
Ovest) ["Mediaeval Commerce (Asia)" - From The Historical Atlas by William R. Shepherd,
1926 - http://www.lib.utexas.edu/maps/historical/history_asia.html]
In questa cartina, ancorché poco luminosa,
si riesce comunque a scorgere il fiume Cabool (Kabul),
a Nord Est dell'omonima città
[Bokhara-Cabool-Beloochistan, Published by the Society for the Diffusion of Useful
Knowledge, 1838 - http://www.lib.utexas.edu/maps/historical/bokhara_1838.jpg]
92
Nella cartina, molto dettagliata, è visibile il corso del fiume Hunza.
93
Un link interessante...
A proposito dell'Eden, e della sua possibile collocazione geografica in Oriente (ipotesi che fa
da pendant - con soddisfazione di Episteme, la quale auspica sempre il confronto tra una
pluralità di opinioni in argomenti controversi - a quella esposta dall'Ing. Felice Vinci
nell'articolo successivo), il nostro prezioso collaboratore d'Ausser Berrau ci avverte della
presenza di un saggio liberamente disponibile on line, che si muove sulla stessa linea di
Spedicato. Proponiamo quindi il relativo link all'attenzione degli interessati, non senza avere
esplicitamente osservato che la "linea razionale" che ci ispira non permette di apprezzare il
particolare punto di vista - che a taluni intelletti non può non apparire viziato da vitanda
"mania religiosa" - con cui certe questioni vengono affrontate nel sito segnalato. Pure, siamo
convinti che, dietro alcune ben note "leggende delle origini", possano celarsi, sotto la coltre
del tempo e dell'oblio, delle deformazioni allucinate dei "teomani" e del caso, delle vere e
proprie storie...
http://www.bibleword.org/genesis4.html .
Chiudiamo questa breve nota con una dichiarazione riportata alla fine dello studio citato, che
ci sembra alquanto istruttiva:
[...] according to the First Amendment of the Constitution we have the right to free speech,
including political speech, and freedom of religion. The content of this study (with the
exception of any scripture or quote) is the sole production of Pastor Mark Oaks and is subject
to change as the pastor grows and learns.
*****
Carlo Piterà: Il velo, 1990
(Olio su tela, cm. 60 x 120, Collezione privata)
[Una presentazione di questo interessantissimo autore, alcune opere del quale abbelliscono il
presente numero di Episteme, si può trovare nella pagina web:
http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/ep6/pitera.htm]
94
L'optimum climatico, il paradiso indoeuropeo
e il giardino dell'Eden
(Felice Vinci)
Nel volume Omero nel Baltico1 abbiamo cercato di dimostrare che il reale scenario delle
vicende dell'Iliade e dell'Odissea fu il mondo baltico-scandinavo, sede primitiva dei biondi
navigatori achei: costoro successivamente discesero nel Mediterraneo, dove, attorno all'inizio
del XVI secolo a.C., fondarono la civiltà micenea 2, trasponendovi, oltre ai nomi geografici,
anche epos e mitologia, portati con sé dalla perduta patria nordica.
Questo tra l'altro ci ha permesso di collegare in un quadro unitario la discesa degli Achei nel
mar Egeo con la diaspora di altri popoli indoeuropei, che, all'incirca nello stesso periodo
(ossia nella prima metà del II millennio a.C.), si stanziarono nelle rispettive sedi storiche:
pensiamo agli Hittiti in Anatolia, ai Cassiti in Mesopotamia, ai Tocari in Turkestan, agli Arii
in India3. Riguardo a questi ultimi, "cugini" degli Achei nonché parlanti una lingua affine (di
cui una traccia nel mondo nordico è rimasta nell'attuale lingua lituana), è significativa la tesi
del Tilak, un dotto bramino indiano, il quale nel mondo vedico ha ritrovato cospicue tracce di
una probabile origine nordica, anzi, addirittura artica4. In effetti, nella nostra ricognizione del
mondo omerico abbiamo riscontrato diversi indizi di una collocazione precedente a quella
baltica, ancora più settentrionale, che sembrano localizzare nell'area lappone e sulle coste del
mare Artico la sede di una civiltà primordiale, connessa col mondo degli dèi.
In particolare, i misteriosi Etiopi, "estremi degli uomini", menzionati ripetutamente da Omero,
hanno una collocazione assolutamente incongruente con la ben nota Etiopia africana: essi
invece sembrano collocabili tra Capo Nord e la penisola Nordkinn, all'estremità settentrionale
della Scandinavia5. Al riguardo, ci sembra assai significativo che i miti indiani menzionino
una terra, posta "agli estremi confini del mondo", corrispondente all'Etiopia omerica: il
Mahabharata la chiama "Uttarakuru", ossia la "terra estrema" o "regione estrema",
denominata in sanscrito "Paradesha", in iranico "Pairidaeza", in greco "Paràdeisos", in ebraico
"Pardes"6. Inoltre, "nella tradizione vedica compare, in luogo di Airyana Vaêjo, l'Uttarakuru
come il luogo primigenio degli Arii vedici"7. Ora, "le fonti Indo-iraniche testimoniano la
presenza di un culto solare nella terra dell'Airyana Vaêjo prima che sopraggiungessero i climi
glaciali: il culto apollineo, che viene non a caso dalla terra degli Iperborei e che secondo la
tradizione si insedia in Grecia, crea in proposito un parallelismo impressionante. Gli
Iperborei, che vivono ai confini dell'Oceano (…) trovano un parallelo con quegli Arii che
vivono in un territorio che, secondo le fonti avestiche e vediche, è assolato per sei mesi (o per
dieci mesi, secondo la variante delle fonti) con il clima mite, la cui divinità preponderante è
quella solare, e con una notte di altrettanti sei mesi (o due mesi, nella precedente variante)" 8. E
nell'Inno omerico a Hermes, ambientato nella Pieria (regione contigua all'Olimpo, sede degli
dèi), un'apparentemente incomprensibile anomalia astronomica, legata alle fasi della luna, ci
riconduce anch'essa ad un ambiente artico, situato al di sopra del circolo polare e, più
precisamente, in una regione, identificabile con la Lapponia settentrionale, dove la notte
solstiziale si protrae per quasi due mesi9.
D'altronde l'ipotesi della localizzazione artica di una civiltà, impensabile nella situazione
climatica attuale, non è affatto in contrasto con quelle che sono le odierne conoscenze
scientifiche sull'evoluzione del clima dopo la fine dell'ultima era glaciale: infatti per un lungo
periodo, compreso tra il 5500 ed il 2000 a.C., il mondo nordico, fino alle latitudini più
settentrionali, godette di un clima eccezionalmente mite, al punto che durante tale epoca definita dai climatologi "optimum climatico post-glaciale" (corrispondente alla cosiddetta
"fase atlantica" dell'Olocene)10 - la tundra scomparve pressoché interamente dal territorio
95
europeo e l'area della vite si estese fino alla Norvegia11. Tale situazione si protrasse fin verso il
2000 a.C., allorché l'optimum climatico svanì e subentrò la "fase sub-boreale", caratterizzata
da un clima alquanto più rigido, che rese inabitabili le regioni situate a nord del circolo polare.
Ora, il ricordo di un antichissimo disastro climatico è attestato nella memoria di molti popoli:
pensiamo ad esempio al Ragnarok dei miti nordici, il "crepuscolo degli dèi" annunciato da una
serie di inverni terribili, di cui l'Edda di Snorri ci dà un resoconto drammatico: "Verrà
l'inverno chiamato Fimbulvetr ('inverno spaventoso'): la neve cadrà vorticando da tutte le
parti; vi sarà un gran gelo e venti pungenti; non ci sarà più il sole. Verranno tre inverni
insieme, senza estati di mezzo"12. Ciò a sua volta trova un preciso parallelo nella distruzione,
sempre ad opera della neve e del gelo, del paradiso primordiale degli Iranici, l'Airyana Vaêjo:
secondo il racconto dell'Avesta, il dio Ahura Mazda avvertì Yima, primo re degli uomini, che
una serie di rigidissimi inverni avrebbe distrutto il suo paese; dopo di allora, vi sarebbero stati
dieci mesi d'inverno e due d'estate. Ora, questo è effettivamente il clima delle regioni artiche.
In sintesi, da tutte le considerazioni sviluppate in Omero nel Baltico e che qui abbiamo
sommariamente riassunto (pensiamo anche alle "isole al nord del mondo" della mitologia
celtica, da cui sarebbero discesi i Tuatha Dé Danann, gli antichi abitatori dell'Irlanda), emerge
che la Urheimat, ossia la sede primordiale degli Indoeuropei, era con ogni probabilità una
terra artica, la quale può essere collocata con precisione sulla carta geografica: si tratta
dell'estremità settentrionale della Scandinavia, ovvero di quella sorta di "cappello" del
continente europeo, affacciato sul Mar Glaciale, che si estende dalla Lapponia settentrionale
alle isole Vesterålen e alla penisola di Kola. Fu qui che, a partire da cinque o seimila anni fa,
allorché la costellazione di Orione segnava l'equinozio di primavera 13 e il Dragone indicava il
Polo Nord14, si sviluppò l'originaria civiltà indoeuropea, nel periodo climaticamente più
favorevole che si sia mai verificato in tale area. Successivamente però il tracollo del clima,
attestato da varie tradizioni, la rese inabitabile, costringendo le popolazioni ivi stanziate a
cercarsi nuove sedi a latitudini più meridionali.
Osserviamo a questo punto che Yima, il mitico re del paradiso iranico, è chiamato "Yama"
nella mitologia indiana, dove è il signore dei morti. Egli ha pertanto un preciso corrispondente
nell'Odissea: ci riferiamo ad Ade, il signore dei morti omerico. Il suo lugubre regno,
caratterizzato da quattro fiumi15, è localizzabile nell'area lappone16. D'altro canto Yima - che si
potrebbe anche accostare a Ymir, un gigante primordiale dei miti nordici - fu il primo uomo a
conoscere la morte. Questo lo riconduce ad Adamo, il progenitore dell'umanità secondo la
Bibbia. Dunque il mitico regno di Yima-Yama si può accostare al paradiso biblico, ossia al
giardino dell'Eden, dove il Signore pose Adamo, il primo uomo.
Al riguardo, il libro della Genesi caratterizza geograficamente la regione dell'Eden in modo
molto puntuale, menzionando i quattro fiumi che da lì si dipartono: "Il nome del primo fiume
è Pison; esso circonda tutta la regione di Avila, dove si trova l'oro; l'oro di quel paese è puro;
là si trova pure la resina profumata e la pietra onice. Il nome del secondo fiume è Gihon: esso
circonda tutto il paese di Etiopia. Il terzo si chiama Tigri e scorre ad oriente di Assiria. Il
quarto fiume è l'Eufrate"17. Però, al riguardo, nell'area mesopotamica si ritrovano soltanto il
Tigri e l'Eufrate, mentre gli altri due fiumi sono inesistenti. Non solo: questi fiumi che,
secondo la Bibbia, nascono nella zona di Eden vanno ad interessare due regioni, l'Etiopia e
l'Assiria, dislocate addirittura in continenti diversi! Si tratta di assurdità - per non parlare di
quella misteriosa "regione di Avila", con il suo oro fino, mai localizzata da nessuna parte - che
sembrano rendere il racconto biblico geograficamente inverosimile.
A questo punto un nostro lettore, il dott. Luigi Cesetti di Falerone, ci ha segnalato che, ove
questo problematico "paese di Etiopia" fosse l'Etiopia omerica, che abbiamo ritrovato
all'estremità settentrionale dell'Europa, tutto sembrerebbe andare a posto. Esaminiamo infatti
il fiume che la bagna, il Tana (che pertanto corrisponderebbe al Gihon biblico): esso nasce in
96
una zona della Lapponia finlandese, nell'area di Enontekiö (nome che significa "che fa grandi
fiumi")18, da cui effettivamente si dipartono vari altri fiumi. Uno è l'Ivalo, che i Lapponi (o
Sami) chiamano "Avvil". L'assonanza con "Avila", la regione biblica dell'oro, da sola
potrebbe essere casuale, ma proprio questo territorio è ricco d'oro, come attesta il museo
dell'oro di Tankavaara19, a pochi chilometri dal fiume Ivalo. Per di più si tratta di un oro
eccezionalmente puro, come afferma il passo biblico: esso arriva a 23 carati 20, il che lo
distingue dall'oro estratto dai giacimenti di altre parti del mondo. La resina è secreta da pini e
abeti e, per quanto riguarda l'onice, questa zona della Lapponia è ricca di pietre, tra cui il
calcedonio e il diaspro, simili all'onice per la composizione dei cristalli.
E gli altri due fiumi, ossia i "prototipi" del Tigri e dell'Eufrate? Sempre nell'area di Enontekiö
nascono un affluente del Mounio-Tornionjoki e lo Ounas-Kemijoki, che scorrono in parallelo
verso sud per poi sfociare vicini all'estremità settentrionale del Golfo di Botnia. Il complesso
di questi fiumi, con il territorio da essi racchiuso, delinea una sorta di "Mesopotamia" finnica,
straordinariamente rassomigliante a quella asiatica (v. tavola annessa).
Potrebbe essere dunque questa la regione di "Ur dei Caldei" da cui partì Abramo, diretto verso
la Terra Promessa, e da dove discesero i Sumeri 21, che l'avrebbero poi trasposta nella
Mesopotamia a noi ben nota. Il cambiamento del clima la avrebbe poi resa inospitale, come ci
ricorda il profeta Isaia: "Ecco che il Signore spopola la terra, la devasta, ne altera l'aspetto, ne
disperde gli abitanti"22. Potrebbe essere la "Terre Gaste" dei miti arturiani! Questo concetto a
sua volta trova un preciso riscontro nella "dimora in rovina ("δομον ευρωεντα") di Ade",
menzionata nell'Odissea23, a cui pure sono associati vari fiumi e che è anch'essa localizzabile
nell'area lappone24.
Avila-Avvil ricorda poi la leggendaria "Avalon" del mondo arturiano, che probabilmente fa
riferimento alla sede primordiale celtica: ciò sembra far sospettare un rapporto tra caldei e
celti, che trova riscontro in certe analogie tra il mondo celtico e quello ebraico (per inciso,
nella letteratura celtica si ritrova la locuzione "Terra della Promessa": "Tìr Tairngiri")25.
Notiamo anche che, calando la descrizione biblica nel contesto lappone, il mitico giardino,
posto "in Eden a oriente"26, sembrerebbe essere al centro di una sorta di quadrifoglio costituito
da quattro regioni (Eden, Etiopia, Avila e Assiria): ciò delinea un quadro singolarmente simile
a quello della mitica suddivisione dell'Irlanda, terra celtica per eccellenza, in cui un centro
politico-religioso, Tara, era circondato da quattro regioni periferiche. Per inciso, il nome di un
fiume edenico, il Pison (o Fison) ricorda Pisa, un toponimo sia finnico che lappone
menzionato anche nel Kalevala27.
Tra le osservazioni del Cesetti, di particolare interesse è poi il riferimento ad un altro versetto
della Bibbia: "Caino si allontanò dalla presenza del Signore e abitò nel paese di Nod, a oriente
di Eden"28. Ora, ad est di Enontekiö, ossia "a oriente di Eden", nella Lapponia russa si trovano
il fiume Nota ed il lago Nota (Notozero). Inoltre, scendendo a sud del bacino del Nota,
s'incontra la regione di Kainuu29, in territorio finlandese, situata ad est del golfo di Botnia.
Essa corrisponde al territorio dei Lapiti omerici30, tra i quali l'Iliade ricorda Caineo, avo di un
eroe lapita che partecipò alla guerra di Troia 31. Ciò potrebbe indicare che i discendenti di
Caino, allorché il clima iniziò a tracollare e la tundra prese il sopravvento rendendo inabitabili
le regioni situate al di sopra del circolo polare, si spostarono dal bacino del Nota verso un
territorio più vivibile, situato ad una latitudine leggermente più bassa. A questo punto si
potrebbe altresì congetturare che il diluvio di Noè sia il ricordo (poi trasposto nel mondo
caucasico, importante crocevia di migrazioni dal nord al sud) di una disastrosa inondazione
che avrebbe interessato una vasta area della Lapponia settentrionale, il cui territorio è spesso
caratterizzato da fitti intrichi di laghi, fiumi e acquitrini32.
In ogni caso, lo stretto rapporto tra il mondo originario semitico e quello indoeuropeo è
attestato, a parte la comune ascendenza di Sem e di Jafet, anche dal passo biblico che
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proclama l'affinità tra gli Ebrei e gli Spartani: "Ario, re degli Spartani, a Onia, Sommo
Sacerdote, salute! In uno scritto riguardante gli Spartani e i Giudei, si è trovato che sono
fratelli, perché della stessa stirpe di Abramo (...) I nostri bestiami e i nostri beni sono vostri, e
ciò che è vostro è nostro"33.
Sempre riguardo a Sem, colpisce la rassomiglianza del suo nome con quello dei Sami, gli
attuali abitanti della Lapponia. Costoro inoltre hanno un monte sacro, il Saana, che ricorda il
Sinai, il monte sacro degli Ebrei (alle pendici del Saana giace il lago Kilpis, da cui scaturisce
una ramificazione del Mounio-Tornionjoki, il fiume corrispondente all'Eufrate
mesopotamico).
E Cam, l'altro figlio di Noè? Ritorniamo al Kemijoki, il "fiume Kemi", che scende dalla
Lapponia verso l'estremità settentrionale del Golfo di Botnia: alle sue spalle nasce il fiume
Tana, il quale poi si dirige verso quell'Etiopia artica che ritroviamo sia in Omero che nel
racconto biblico dell'Eden. Tale configurazione rappresenta quasi uno specchio dell'Egitto
africano, la "terra di Kem", abitata dai discendenti di Cam e situata lungo il grande fiume che
proviene dall'Etiopia e dal lago Tana (da cui trae origine il Nilo Azzurro). Dunque i primitivi
Egizi, come ci conferma una serie di indizi riguardo ad una loro possibile origine nordica (in
primis il culto spiccatamente solare)34 forse provenivano anch'essi dall'area lappone: essi poi,
in analogia a quanto accaduto in Mesopotamia, una volta arrivati nella valle del Nilo
(passando probabilmente per la Caucasia, dove lasciarono significative tracce toponomastiche
riscontrate dal Flinders Petrie35) ricostruirono a modo loro il remoto mondo artico da cui erano
discesi. D'altronde anche i loro documenti, proprio come la Bibbia e gli stessi poemi omerici pensiamo alla terra dove i Feaci vivevano accanto agli dèi, alla Pieria dell'Inno a Hermes, alle
sedi dell'Olimpo, degli Etiopi e dell'Ade, tutte collocabili nell'area lappone - ricordano la loro
patria originaria come la "terra degli dèi".
Insomma, se già la Lapponia ci ha dato non pochi indizi per localizzarvi la sede della sede
primordiale indoeuropea, ora queste convergenze con l'Eden biblico da un lato ne
rappresentano una conferma, dall'altro allargano il quadro a prospettive ancora più
stupefacenti, dando una sostanza sia storica, sia geografica alla concezione tradizionale
dell'origine "iperborea" della nostra civiltà, e saldandola nel contempo al concetto biblico
della comune origine dei semiti, dei camiti e degli indoeuropei. Tutto ciò invece va
irrimediabilmente a cozzare con la vecchia idea dell'origine orientale della civiltà europea
("Ex Oriente Lux")36. Peraltro va notato che tale concetto è stato ormai da tempo messo in
crisi dall'introduzione della datazione col radiocarbonio, corretta con la dendrocronologia
(cioè la calibrazione con gli anelli annuali degli alberi). Al riguardo, un autorevolissimo
studioso come il prof. Colin Renfrew afferma che "si verifica tutta una serie di rovesciamenti
allarmanti nelle relazioni cronologiche. Le tombe megalitiche dell'Europa occidentale
diventano ora più antiche delle piramidi o delle tombe circolari di Creta, ritenute loro
antecedenti; (…) in Inghilterra, la struttura definitiva di Stonehenge, che si riteneva fosse stata
ispirata da maestranze micenee, fu completata molto prima dell'inizio della civiltà micenea" 37.
Insomma, lo spostamento delle origini della nostra civiltà dall'oriente al settentrione risulta
perfettamente in linea con le più recenti acquisizioni della scienza. È altresì evidente che le
precedenti considerazioni richiedono ulteriori verifiche ed approfondimenti da parte degli
specialisti nei vari ambiti da esse toccati: noi preferiamo dunque considerarle un punto di
partenza, più che di arrivo, nella ricerca delle origini della civiltà umana.
98
Note
1
F. Vinci, Omero nel Baltico, terza edizione, Palombi Editori, Roma 2002 (una sintesi è apparsa su
Episteme n. 2 - 21 dicembre 2000)
2
L'origine nordica della civiltà micenea è stata proposta da vari autorevoli studiosi, tra cui lo storico
delle religioni Martin P. Nilsson ed il filosofo Bertrand Russell
3
In questo quadro si può inserire il fatto che l'età del bronzo in Cina è iniziata nello stesso periodo,
cioè tra il XVIII ed il XVI secolo a.C.
4
B.G. Tilak, La dimora artica nei Veda, Genova 1994
5
Omero nel Baltico, p. 366 sgg.
6
B.G. Tilak, Orione: a proposito dell'antichità dei Veda, Genova 1991, p. 15 (premessa di G. Acerbi)
7
Antichi popoli europei, a cura di O. Bucci, Roma 1993, p. 56
8
Ibid., p. 59
9
Omero nel Baltico, p. 360 sgg. Anche l'articolazione del primitivo calendario romano su dieci mesi
(l'ultimo dei quali era infatti chiamato December) potrebbe essere indizio di una provenienza artica
10
Per i dettagli sull'evoluzione del clima nel periodo olocenico (così viene definita l'età post-glaciale),
v. ad esempio: M. Pinna, Climatologia, Torino 1977; F. Ortolani, Le variazioni climatiche storiche, in
Integralismo ambientale e informazione scientifica, Atti della giornata di Studio AIN 2001, Roma
2001, p. 97 sgg.; Enciclopedia Treccani, voce "Olocenico, periodo"
11
Un altro periodo climaticamente favorevole, però assai più breve dell'"optimum" preistorico e con
temperature meno elevate, si verificò per circa tre-quattro secoli a cavallo dell'anno 1000 della nostra
èra, allorché i Vichinghi colonizzarono l'Islanda e la Groenlandia (la "terra verde") e, proprio in virtù
di tali condizioni favorevoli, riuscirono a raggiungere le coste settentrionali del continente americano.
Addirittura, nel XII secolo è attestata una diocesi cattolica, con un vescovo vichingo, sulla costa
groenlandese antistante il Labrador
12
Gylfaginning, 51
13
Nel suo Orione il Tilak dimostra che la primitiva civiltà vedica si sviluppò nel "periodo orionico",
allorché l'equinozio di primavera approssimativamente corrispondeva alla costellazione di Orione
(4000-2500 a.C.). Adesso noi sappiamo quello che il Tilak ignorava, cioè che quel periodo coincise
proprio con la fase culminante dell'optimum climatico. Ve ne rimane un ricordo anche nella mitologia
greca: infatti esso probabilmente s'identifica con la felice età di Crono, il re dell'età dell'oro (poi
soppiantato da Zeus, che ha tutte le caratteristiche del "dio della tempesta" indoeuropeo)
14
La posizione polare assunta dal Dragone a quell'epoca - nel 2830 a.C. la stella Alpha Draconis, o
Thuban, si trovava ad appena 10' dal polo celeste (a titolo di confronto, attualmente la Stella Polare ne
dista 50') - lo fece assurgere ad emblema nonché signore del cielo stellato notturno: ecco perché
l'Apollo iperboreo, ossia il principio solare (alias Ra, Thor, Michele, San Giorgio, Maui, ecc.) al suo
ritorno dalle tenebre solstiziali lo "uccideva" a colpi di frecce (ossia con i suoi raggi). Riguardo
all'Apollo iperboreo, v. M. Duichin, Apollo, il dio sciamano venuto dal Nord, in Abstracta n. 39,
Luglio-Agosto 1989
15
Od. X, 512-514. Notiamo che nel mondo di Ade Omero menziona un particolare sacrificio (Odissea,
XI, 131), presumibilmente antichissimo, analogo al sautramani indù ed al suovetaurilia romano.
99
D'altronde tutto l'episodio è caratterizzato da aspetti che denotano un'estrema arcaicità nonché,
probabilmente, un sottofondo di tipo "sciamanico" (v. Omero nel Baltico, p. 374 sgg.)
16
Omero nel Baltico, p. 370
17
Genesi 2, 11-14
18
Le informazioni sulla Lapponia sono per la maggior parte tratte dal libro Iter Lapponicum di Ada
Grilli Bonini, Bergamo 2000
19
v. sito http://www.urova.fi/home/kulta/eindex.htm
20
A. Grilli Bonini, Iter Lapponicum, p. 277
21
Il dott. Giuliano Bruni ci segnala che in sanscrito "Sumeru" indica il polo artico (Monier-Williams,
Sanskrit-English Dictionary). Al riguardo, potrebbe essere significativo il fatto che il Kojiki, testo
sacro shintoista, chiami "Sumera" i primi imperatori del Giappone (inoltre riporta diversi miti
assimilabili a quelli classici non solo per le vicende, ma anche per i nomi: ad esempio, il "giapponese"
Inaihi ha una serie di vicissitudini del tutto simili a quelle del "greco" Inaco; per di più Inaihi ed Inaco
hanno due congiunti anch'essi pressoché omonimi: Mikenu e Micene, rispettivamente fratello dell'uno
e figlia dell'altro)
22
Isaia 24, 1
23
Od. X, 512
24
Omero nel Baltico, p. 370 sgg. Notiamo altresì che il nome di Ade, il signore dei morti omerico,
sembra ricordare il biblico Adamo e lo stesso Eden. D'altronde Ade, chiamato anche "Aidoneo" da
Omero, ha vari tratti in comune con Adone, che a sua volta è legato al mondo sotterraneo nonché a un
albero (in tale quadro, ci sembrano meritevoli di attenzione anche i cosiddetti "giardini di Adone" del
mondo classico)
25
MacCulloch, La religione degli antichi Celti, Vicenza 1998, p. 352
26
Genesi 2, 8
27
La stessa radice si ritrova in vocaboli omerici quali "πισος" (pisos, "luogo irrigato") e πιδαξ (pidax,
"sorgente"). Notiamo che nomi dell'area "ligure" (i Liguri erano un'antica popolazione probabilmente
indoeuropea) quali Pisa, Savona e Levanto si ritrovano pressoché inalterati nel mondo finnico: Pisa,
Savonlinna, Levanto
28
Genesi 4, 16
29
Treccani, app. 2000, voce "Finlandia", tab. 2 (v. anche sito http://www.kainuu.com/eng/)
30
Omero nel Baltico, p. 262 sgg.
31
Il. II, 745-746
32
Se si ammette che il racconto del diluvio, diffuso fra tanti popoli, possa avere un fondamento
storico, il ritenere che il monte della salvezza sia collocabile nella regione caucasica, tra cime alte più
di cinquemila metri, appare francamente assurdo! È invece ragionevole supporre che esso abbia avuto
un prototipo altrove, ossia in un territorio pianeggiante, caratterizzato qua e là da rilievi isolati e
soggetto ad alluvioni, proprio come il territorio della Lapponia
33
I Maccabei 12, 20-23. Il concetto della comune origine di Ebrei e Spartani è ribadito in II Maccabei
5,9. Sui non pochi punti di contatto tra il mondo omerico e quello biblico ci soffermiamo nel cap.
100
XVIII di Omero nel Baltico. Qui aggiungiamo l'analogia del sacrificio di Abramo descritto in Genesi
15, 9 con i presumibilmente antichissimi riti che si ritrovano pressoché identici in Omero, nella cultura
indù e nel mondo romano arcaico (v. nota 15)
34
v. capp. XIII e XVIII di Omero nel Baltico. Sottolineiamo in particolare la straordinaria
rassomiglianza tra il mito di Osiride, fatto a pezzi, sparito, ritrovato, ricomposto e resuscitato, ed una
pressoché identica disavventura capitata all'eroe finnico Lemminkäinen (runi XIV e XV del Kalevala):
entrambi agevolmente spiegabili in termini di metafora del ciclo annuo del sole nelle regioni artiche
(v. Omero nel Baltico, p. 279)
35
The Origin of the Book of the Dead, in Ancient Egypt, June 1926, citato dal de Rachewiltz ne Il libro
dei morti degli antichi egiziani, Milano 1958, pag. 8
36
A tale concezione hanno probabilmente contribuito sia l'antichità delle civiltà mesopotamiche, sia
l'indicazione (fraintesa) della Genesi riguardo alla localizzazione del giardino dell'Eden "a oriente",
nei pressi delle sorgenti del Tigri e dell'Eufrate
37
C. Renfrew, L'Europa della preistoria, Bari 1996, p. 63
I fiumi che si dipartono dall'"Eden" lappone, corrispondente
alla zona dell'attuale Enontekiö, nella Finlandia settentrionale.
----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 2 di Episteme]
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101
Il culto gnostico della Maddalena
Dal mosaico di Otranto alle basiliche paleocristiane di Cimitile,
attraverso opere letterarie ed architettoniche
fino agli ultimi custodi, i Catari ed i Templari
(Sabato Scala)
Introduzione
In un precedente (doppio) articolo1 dedicato al mosaico di Otranto, intrigante e complessa
opera musiva realizzata tra il 1163 ed il 1165 dal monaco Pantaleone della abbazia di Casole,
abbiamo proposto un nuovo percorso interpretativo ripartito in due distinte fasi:
a. L'analisi del significato filosofico e teologico della macchina simbolica musiva effettuato
attraverso gli stretti (a nostro avviso) legami tra il mosaico e gli scritti gnostici scoperti nel
1945 a Nag Hammadi con particolare riferimento al Vangelo di Filippo.
b. L'analisi del messaggio criptico dell'opera in chiave storica a partire da quello che poteva
essere il punto di vista di uno gnostico, quale a nostro avviso era Pantaleone, collocato nel
quadro della cultura medioevale del 13mo secolo. In particolare abbiamo illustrato la
possibilità di leggere nell'opera un complesso messaggio nascosto che illustra l'origine e la
fine della stirpe Merovingia collegandola attraverso leggende medioevali ed eresie di origine
gnostica al viaggio di Maria Maddalena in Francia avvenuto dopo la morte di Cristo. In
particolare abbiamo evidenziato lo stretto legame tra la corona del mosaico ed i re Merovingi
con particolare riferimento a re Dagoberto II di Austrasia del quale vengono, a nostro avviso,
chiaramente indicate la data di morte, le modalità, le cause ed il mandante del suo assassinio.
In questo nuovo lavoro proporremo un viaggio attraverso i documenti che avvalorano la
chiave interpretativa storica proposta nella seconda parte del precedente articolo. Avremo
occasione, proprio a partire dai suggerimenti che nascono da questi documenti letterari ed
architettonici, di ampliare il quadro dell'analisi ed approfondire alcuni elementi simbolici
dell'opera di Pantaleone non completamente sviscerati. Prima di procedere, però, in questo
nuovo viaggio attraverso l'opera, segnaliamo l'imminente, uscita del nuovo lavoro dell'amico
Corona2 che ha, ormai un anno fa, ispirato le nostre ricerche ma che propone un percorso
interpretativo radicalmente diverso dal nostro individuando nella chiave spirituale più che in
quella teologico-politica il metro di lettura del simbolismo musivo. Il nuovo lavoro del
Corona ricostruisce lo sfondo culturale in cui si forma l'opera di Pantaleone soffermandosi su
interessanti aspetti quali la preghiera isicastica basiliana e l'ebraismo nell'Italia meridionale
del tempo. Singolari sono i paralleli tra alcune raffigurazioni musive e brani danteschi della
Divina Commedia.
La Legenda Aurea e la Maddalena
Il più antico documento che propone la incredibile storia della presenza della Maddalena in
Provenza dopo la morte di Gesù, è la Vita di Maria Maddalena, opera pubblicata intorno al IX
secolo da Rabanus Maurus arcivescovo di Mainz (Magonza), ma il testo che più ampliamente
affronta questo tema e che aggiunge maggiori dettagli è di certo la Legenda Aurea scritta nel
1260 da Jacopo de Varagine. Qui di seguito proponiamo una sintesi ottenuta stralciando parti
del libro quarto che l'autore dedica alla leggenda della Maddalena3.
102
Maria Maddalena prende il nome da Magdalo, un castello, nacque da nobile lignaggio e da genitori
di sangue reale. Suo padre si chiamava Ciro e sua madre Euchasia. Lei con suo fratello Lazzaro e sua
sorella Marta possedevano il castello di Magdalo, che sorge a due miglia da Nazareth e da Betania ...
In quel tempo all'apostolo S. Massimino, che era uno dei 70 discepoli del signore cui fu affidata la
Maddalena per ordine di S. Pietro, in seguito dopo che i discepoli furono partiti, S. Massimino, Maria
Maddalena, Lazzaro suo fratello, Marta sua sorella, Marcella serva di Marta, e Santa Cetonia che
era nata cieca e che aveva riacquistato la vista grazie al Signore, insieme ad altri cristiani furono
catturati dai miscredenti e caricati su una barca priva di remi e timone perché affogassero. Ma la
bontà di Dio onnipotente li condusse tutti a Marsiglia ... In seguito accadde che il principe della
provincia e sua moglie fecero sacrifici per ottenere un figlio e Maria Maddalena che aveva parlato
loro di Gesù Cristo gli impedì di compiere quei sacrifici ... allora il principe disse io e mia moglie
saremo lieti di adempiere a tutte queste cose se tu riuscirai ad fare in modo di farci avere un bambino
attraverso le preghiere al tuo dio ... il Signore ascoltò le sue preghiere e la donna concepì. Suo marito
decise che sarebbe partito per andare da S. Pietro e verificare se era vero ciò che aveva ascoltato
dalla Maddalena. Sua moglie ... gli chiese di portarla con lui. Dopo che ebbero veleggiato un giorno
ed una notte vi fu una grande tempesta ... a causa del temporale e della tempesta il bimbo che portava
in grembo morì ... Ahimè disse, cosa farò? Desideravo avere un figlio e ho perso moglie e figlio ... E
pensarono che fosse meglio indirizzare la nave verso terra e seppellirlo lì per evitare che fosse
divorato dai pesci del mare ... Quando giunse da Pietro, egli vide la croce sulla sua spalla e gli chiese
chi fosse e perché era giunto fin lì, così egli gli raccontò tutto quanto era accaduto ... Quindi Pietro lo
condusse a Gerusalemme e gli mostrò tutti i luoghi ove Gesù aveva predicato e fatto miracoli ed il
posto ove aveva sofferto ed era morto e dove era asceso al cielo. Dopo che fu ben istruito nella fede
da S. Pietro e dopo che furono trascorsi due anni egli ripartì per Marsiglia ... Veleggiando sulla rotta
di ritorno giunsero, per volere di Dio, nel luogo in cui aveva abbandonato i corpi della moglie e del
figlio ... Il piccolo che aveva ottenuto grazie a Maria Maddalena si alzò ed andò verso la spiaggia e
come tutti i bimbi piccoli, prese delle piccole pietre e le lanciò in mare ... Quando il bimbo li vide, non
avendo mai visto altre persone prima, ebbe timore e corse a nascondersi sotto il mantello della madre
... il padre sollevò il mantello e vide il bimbo che poppava al seno della mamma ... Allora prese suo
figlio tra le braccia e disse: Oh Maria Maddalena ora io so e credo davvero che sei stata proprio tu a
darmi mio figlio, lo hai alimentato e tenuto in vita due anni su queste rocce ora ridonami sua madre e
riportala così com'era a me. A queste parole la donna iniziò a respirare e prese vita ... Giunsero in
fretta a Marsiglia ... e trovarono Maria Maddalena che pregava con i suoi discepoli ... e le raccontò
ciò che era accaduto ... ricevette, così, il battesimo da S. Massimino. Distrussero i templi degli idoli a
Marsiglia e costruirono le chiese di Gesù Cristo. S. Lazzaro fu scelto quale vescovo di quella città e
dopo di ciò si trasferirono ad Aix ... e lì S. Massimino fu ordinato vescovo ... Egesippo con altri libri
di Giuseppe, concordano abbastanza con la storia narrata ... .Al tempo di Carlo Magno nell'anno di
nostro signore 771, Gerard duca di Burgundia non aveva avuto figli da sua moglie sebbene avesse
dato sempre elemosine e avesse costruito molte chiese e molti conventi. Dopo che ebbe costruito
l'abbazia di Vesoul, egli e l'abate del convento spedirono un monaco per trovare e portare al
convento, se possibile, le spoglie di Maria Maddalena. Quando giunse nella città la trovò distrutta dai
pagani ... Poi, per fortuna, trovò il sepolcro ... quindi egli tornò ... Presto il duca ebbe un figlio dalla
moglie ... Alcuni dicono che Maria Maddalena fosse sposata con San Giovanni quando Cristo lo
chiamò dal matrimonio e quando egli fu chiamato via da lei ella si indignò per l'abbandono di suo
marito e si diede ad ogni tipo di lussuria, ma poiché non era giusto che la chiamata di San Giovanni
fosse occasione per lei di dannazione, nostro Signore la convertì ...
Non vogliamo entrare nel merito della attendibilità storica della narrazione, ma è evidente che
quest'opera costituisce una incredibile commistione di tutte le tematiche e le leggende, più o
meno antiche, che ruotano intorno alla Maddalena. La sua collocazione cronologica non
distante da quella del mosaico e la presenza di testimonianze ancor più antiche che precedono
di circa 200 anni la data di costruzione del mosaico, ci suggerisce l'esistenza di un complesso
substrato consolidato di tradizioni legate alla presenza della Maddalena in Provenza e che
certamente erano patrimonio del colto monaco casolano.
103
Codice XXXV
sec. XIV, foll. 318
in pergamena (cm 37 x 25)
Vita
Diversorum
Sanctorum
et
Praecipue Vita S.ti Eusebii cum
Ethimologiae Dictorum Sanctorum
Iacobi de Varagine
Conservato presso il museo del Duomo
di Vercelli
Legenda aurea, Jacobus de Varagine
Manoscritto francese prima metà del 14mo sec.
Phyllis Goodhart Gordan Collection
Legenda aurea, Jacobus de Varagine
Nuremberg: Georg Stuchs de Sulczpach, Ottobre 1488
Bryn Mawr College Library's Collections.
Le ipotesi interpretative avanzate, assumono una dimensione diversa anche osservando lo
stretto legame tra il mosaico ed il Vangelo di Filippo, unico apocrifo che propone un legame
tra Gesù e la Maddalena che andava ben oltre quello discepolo-maestro ("e spesso la baciava
sulla bocca" Vang. Fil. 64,2).
Chi disponeva delle conoscenze esposte così in dettaglio nella Legenda Aurea, delle
informazioni intriganti sulla centralità della Maddalena e sul suo rapporto privilegiato con
Cristo tratte dal Vangelo di Filippo e comuni a tutta la letteratura gnostica, poteva a ragione
collegarle così come abbiamo proposto nei precedenti lavori.
Ma andiamo a vedere nel dettaglio alcuni elementi che riteniamo rilevanti ai nostri fini:
- Nel testo viene chiaramente legata l'origine del nome Maddalena all'ebraico Magdal (torre)
attraverso la discendenza della donna da una stirpe nobile ed il fatto che abitava in un
Castello. Questa osservazione rende l'immagine della torre un ottimo sostituto simbolico della
Maddalena chiaramente comprensibile al pubblico medioevale cui si rivolge Pantaleone. Di
conseguenza l'associazione proposta tra la torre di Babele che campeggia nel mosaico e
l'albero (simbolo della croce di Cristo nel Vangelo di Filippo) diviene più che legittimo. Non
va dimenticato, inoltre, che Pantaleone raffigura una torre di Babele merlata tipica di un
castello fortificato.
- La Legenda parla dell'arrivo della Maddalena in Francia e dei suoi rapporti con un principe
del luogo legando la fede del principe alla nascita di un figlio dalla moglie sterile grazie alla
intercessione della Maddalena. In questo quadro la leggenda sul capostipite della stirpe
Merovingia, Mervee, nato dallo stupro della madre di Mervee ad opera del mostro marino
denominato Quinotauro, poteva, a ragione, essere collegato alla Maddalena specie stante
l'assonanza tra il nome del bimbo (Mervee appunto) e quello di Maria di Magdala.
- Il legame tra la leggendaria origine dei Merovingi, il Sangue Reale (Sang Real - SanGraal) e
quindi il sangue di Cristo è avvalorato dalla incredibile storia del ritorno in vita prima del
figlioletto e poi della madre. Il figlio, morto e poi tornato alla vita, nasce dal grembo di una
104
madre morta ed in seguito tornata in vita, tutto grazie sempre alla Maddalena. Il bimbo
sopravvive miracolosamente, per due anni privo di cibo. La sterilità dell'uomo, e la storia nel
suo complesso, collegata al mare ed alla presenza solitaria del cadavere della donna per due
anni nei pressi di una spiaggia sconosciuta, poteva essere legittimamente collegato al mostro
Quinotauro ed allo stupro della moglie del primo re dei Merovingi fino ad allora rimasto privo
di eredi. La mente sottile e teologicamente preparata dal substrato gnostico del Vangelo di
Filippo, di Pantaleone, non doveva far altro che ricollegare il "rapporto particolare" della
Maddalena con Gesù al bimbo che lo stesso principe riteneva, chiaramente, figlio "spirituale"
della Maddalena.
- Il viaggio che il padre della Legenda compie verso Roma e successivamente verso
Gerusalemme insieme a Pietro, descrive, chiaramente, l'itinerario di un pellegrinaggio che, in
epoca di Crociate, pochi anni dopo la nascita dell'Ordine Templare sorto in difesa dei
pellegrini diretti in Terra Santa, assumeva un significato simbolico particolarissimo. Per un
uomo, come Pantaleone, folgorato dalla sua visione gnostica dovuta, forse, al possesso di una
vasta biblioteca di testi ritrovati durante le missioni dei crociati, immerso e convinto del
legame tra i Merovingi ed il Sang Real, vissuto fin da piccolo in una città che era porto
fondamentale verso la Terra Santa poteva legittimamente essere visto come il ritorno della
stirpe regale di Cristo alla sua terra finalmente riconquistata.
- Il matrimonio tra Giovanni e la Maddalena, precedente la sua chiamata all'apostolato, non fa
altro che avvalorare la presenza di voci non ortodosse che ipotizzavano legami tra i discepoli
e tra questi ed il Cristo, diversi da quelli puramente spirituali. Possiamo immaginare a quali
conclusioni fosse giunto Pantaleone affiancando una simile ipotesi al rapporto stretto tra Gesù
e la Maddalena chiaramente indicata nel Vangelo di Filippo.
- La Legenda indica in Aix la prima tomba della Maddalena, ma parla anche del trasferimento
delle spoglie nell'abbazia di Vesoul nella parte centro orientale della Francia.
- La Legenda riporta anche alcuni miracoli compiuti dalle reliquie della Maddalena collegati
sempre, a sterilità miracolosamente risolte e a persone miracolosamente tornate in vita. Il
tema della fertilità e della resurrezione è chiaramente vincolato alla Maddalena e di
conseguenza è logico ipotizzare un legame più o meno inconscio, tra i poteri miracolosi del
Graal in grado di guarire ma anche di resuscitare i morti, il sangue di Cristo ed il grembo della
Maddalena. In questo caso, però, c'è un chiaro substrato leggendario, dimostrato dal presente
testo, che rende non solo legittimo ma pressoché automatico questo legame.
Una volta legittimato su base documentale, lo sfondo culturale e leggendario che riteniamo
abbia guidato Pantaleone nella realizzazione del mosaico, passiamo ad analizzare l'elemento
più enigmatico dell'opera: la raffigurazione di re Artù.
La leggenda di Re Artù nei documenti dell'epoca
Il richiamo esplicito alla leggenda arturiana, che nel mosaico di Otranto è segnalata dalla
raffigurazione di Re Artù a cavallo di un caprone, non rappresenta affatto un caso isolato nel
territorio pugliese, ma è cronologicamente preceduto e seguito rispettivamente, da altre due
rilevanti opere architettoniche: la cattedrale di S. Nicola di Bari realizzata tra il 1087 ed il
1108 e lo stupendo ed enigmatico edificio di Castel del Monte realizzato tra il 1240 ed il
1250.
La chiesa di S. Nicola fu edificata per contenervi le spoglie del santo riportate il 7 maggio del
1087 in Italia dalla Terra Santa, grazie ad una ardita spedizione di alcuni mercanti. Le
caratteristiche miracolose attribuite alle spoglie del Santo hanno non poche affinità con i
poteri di guarigione attribuiti al Graal, ma l'aspetto più interessante di quest'opera è di certo, la
raffigurazione di Re Artù insieme ad una rappresentazione stilizzata del nascondiglio della
preziosa coppa4. Particolarmente interessante è la raffigurazione dei cavalieri in lotta armati
alla normanna con scudo lancia e spadone che combattono ai lati di una costruzione a forma
105
di torre munita di una vistosa serratura. La raffigurazione è stata collegata a quella simile del
"Duomo di Peschiera" a Modena che reca i cavalieri del ciclo arturiano indicandone i nomi.
Diverso è il discorso per Castel del Monte. costruzione voluta da Federico II e che la leggenda
vuole sia stata realizzata con il solo scopo di tenervi nascosta la preziosa coppa. Che la
leggenda sia vera o meno, è certo che il Castello non sembra essere stato costruito né come
dimora né come semplice fortezza e lo scopo pratico rimane ad oggi non chiaramente
identificabile. La costruzione è ricca di simbolismi esoterici. Una leggenda vuole che i
Cavalieri Templari5 avessero affidato il Graal all'Imperatore, affinché lo preservasse dalle
distruzioni scatenate dalle Crociate.
A questo punto è interessante sapere quando fanno apparizione sulla scena letteraria, le storie
connesse a Re Artù ed al Graal. La più famosa opera che parla del Graal risale al 1190 anno
della pubblicazione del Perceval le Gallois ou le Compte du Graal ad opera di Chrétien de
Troyes, ma la prima vera apparizione letteraria della storia di Re Artù è databile al 940 anno
in cui furono pubblicati gli Annales Cambriae le cui storie coprono un arco di tempo di ben
533 anni a partire dal 447. Il testo che, però, dà origine alla leggenda di re Artù è la Historia
Regnum Britannie opera di Geoffrey of Monmouth completato nel 1139. Possiamo, quindi,
affermare con certezza che Pantaleone possedeva, anche da questo punto di vista, tutti gli
elementi leggendari già ben formati che sono alla base delle leggende arturiane, ma resta da
comprendere il motivo per il quale egli rappresenta il Re nel mosaico.
Re Artù nel mosaico: analisi tra storia e leggenda
Cominciamo subito dallo strano modo con cui Pantaleone scrive il nome di Artù nel mosaico
e che abbiamo ricostruito nella immagine seguente:
Si nota subito il modo anomalo con cui sono state separate le lettere US e che pare vogliano
indicarne un uso sia nella lettura della seconda riga che della terza. Altro elemento
interessante è lo spazio che Pantaleone lascia tra la R e la U dell'ultima riga: tale spazio
poteva essere utilizzato per inserire le due lettere US collocate all'esterno delle tre righe,
eppure Pantaleone non ne approfitta: perché?
Sulla base di queste osservazioni, il testo segnato da Pantaleone contiene, la seguente dicitura:
REX ARTUS UR-US
che non può non suggerire la lettura:
REX ARTUS URSUS
A ben pensarci, e ragionando al contrario, se questa fosse stata la vera intenzione di
Pantaleone, non poteva scegliere un modo più indicato per una rappresentazione, che pur
contenendo il nome del re mantiene relativamente chiara ed accessibile anche questa seconda
chiave di lettura. Artus Ursus è il nome scientifico con cui viene indicato l'Orso Marsicano,
diffuso in Italia ed il Grizzly tipico delle regioni americane, ma quale senso può avere? Chi
era il Re Orso, quali documenti attestano un rapporto tra questo nome e Re Artù?
Cominciamo con l'evidenziare una prima chiave di lettura basata, ancora una volta, su una
lingua diffusa nel territorio francese e ricollegabile al periodo Merovingio: il celtico. In questa
106
lingua art o arth ha il significato, appunto, di Orso, ed Orso era un nome tipico assegnato ai
guerrieri più valorosi. I Celti, infatti, avevano una vera e propria venerazione per questo
animale dotato di impressionante potenza, ma le affinità tra i Celti e la storia di Re Artù non
finiscono qui. La terra in cui sono ambientate le storie arturiane Avalon è un altro termine di
origine celtica e significa Terra Sacra o Terra Santa. A questo punto è evidente che con la sua
rappresentazione, Pantaleone suggerisce non solo la connessione tra Artù ed i Celti, ma anche
un implicito rimando alla conquista della Terra Santa da parte delle truppe crociate, che pare
essere l'unico elemento che non ha mai rappresentazione esplicita nel mosaico. Re Artù è
quindi, il ponte tra il Re Orso, l'origine del nome ed il fine della sua missione: la riconquista
della Terra Santa, obiettivo delle crociate.
A questo punto spostiamo l'attenzione su un'altra leggenda moderna, quella del Priorato di
Sion, fantomatico ordine le cui origini sono narrate nel testo di Michael Baigent, Richard
Leigh, Henry Lincoln: Holy Blood, Holy Grail (Ed. Random House, 1982; tr. it. Il Santo
Graal, Ed. Arnoldo Mondadori, Milano, 1982), ed in altre opere come quelle di Lionel
Fanthorpe. Prima di addentrarci nelle ipotesi e nei presunti antichi documenti del priorato,
inclusi in questo testo, vogliamo ricordare che sulla attendibilità del contenuto sono stati
sollevati fortissimi dubbi che riguardano, non solo la falsificazione di documenti genealogici
(sebbene fatta a partire da informazioni parzialmente vere) ma anche la controversa figura del
personaggio chiave che si ritiene ultimo Maestro del fantomatico priorato e discendente dei
Merovingi e quindi di Cristo: Plantard. Tratteremo più approfonditamente l'argomento nel
successivo paragrafo dedicato alla chiesetta di Rennes-le-Château, altro recente mito di cui si
è spesso abusato. Tra le notizie riportate da questa novella leggenda c'è quella della
fondazione del monastero di Orval da parte di un gruppo di monaci basiliani calabri guidati da
un certo Principe Orso che, partiti intorno al 1090 si spostarono, stranamente, in Francia, nelle
Ardenne, lì dove probabilmente fu ucciso Dagoberto II (personaggio a noi noto per i richiami
nella interpretazione musiva). La strana storia è confermata anche dalla Catholic
Encyclopedia che data al 1071 la fondazione dell'abbazia da parte di un monaco Calabro e del
suo abbandono nel 1110.
Resta il problema della identificazione del misterioso Principe Orso che avrebbe guidato la
spedizione. Prima di tutto va verificata la plausibilità di un simile nome in Italia nel periodo in
esame. Cominciamo subito, con l'osservare che nel 1058 Goffredo di Buglione ed il Duca
Guglielmo di Normandia invitati da Papa Stefano IX scendono in Italia meridionale
giungendo fino alla Calabria. L'occupazione Normanna poneva fine a quella Longobarda. In
questo periodo inizia a diffondersi un nome sconosciuto nelle terre meridionali e di chiara
origine nordica: Ursus. Ecco di seguito uno dei primi documenti che attesta la presenza di
questo nome in Campania (http://www.solofrastorica.it/Normanni.htm). Il testo, datato ottobre
del 1127, riporta un atto notarile effettuato di fronte al giudice Alferio in cui un tale Urso de
Inga, figlio di Falco, divide i suoi possedimenti di Montoro e Sant'Agata:
Ante me Alferium iudicem de castro, quod dicitur Muntorium, Ursus, qui dicitur de Inga filius
quondam Falconi, conuinctus est cum Urso filio suo, at dividendum inter se per convenientiam rebus
stabilius, quas inter se habuerunt in eodem loco Muntorium et in tota pertinentiam eiusdem locis et
quas habuerunt in pertinentia de vico quit de Sancte Agathe dicitur.
Al nome Ursus è legata l'origine della famosa famiglia Orsini che, cui secondo una tradizione
appartenevano i papi Paolo I (787) ed Eugenio II (824) e cui di certo apparteneva Papa
Celestino III (1191) figlio di Pietro Bobo. Un altro fondamentale documento è la 18ma
epistola di S. Paolino vescovo di Nola databile al 398 e destinata al vescovo di Rouen in
Normandia, nella quale Paolino parla di un cristiano di nome Orso confermando la presenza
antichissima del nome in quella zona della Francia. Quindi Ursus è un nome che ritroviamo in
107
Francia e che è plausibile in Italia, nell'anno in cui viene collocato l'episodio del viaggio dei
monaci Basiliani; esso è legato a nobili di origine normanna e fa la sua comparsa in
coincidenza con la discesa di Goffredo di Buglione in Italia. La storia narrata è quindi
attendibile relativamente alla fondazione del monastero e plausibile relativamente al nome del
principe che guidò la spedizione dei monaci basiliani calabri.
Non può sfuggire, inoltre, il ritorno, nella storia, dei monaci Basiliani: basiliano era lo stesso
Pantaleone. Ma perché un gruppo di monaci Basiliani doveva recarsi a fondare un monastero
in una terra così lontana e proprio nel territorio di Goffredo di Buglione? Il fantomatico Re
Orso, potrebbe ragionevolmente essere lo stesso Goffredo di Buglione, infatti sembra logico
desumere che sia stato proprio quest'ultimo, dopo la conquista dell'Italia meridionale e della
Calabria, ad invitare i monaci presso i suoi possedimenti in Francia. Ciò che manca è, però,
ancora una volta, il legame tra il Buglione ed il principe Orso. Stando a quanto narra il citato
volume di Baigent, Leigh & Lincoln, Goffredo di Buglione era un discendente della stirpe dei
Merovingi. Di seguito indichiamo l'albero genealogico della famiglia di Goffredo6:
Goffredo di Buglione (10621100)
Ugo di Plantard (____ - 1015)
Sigisbert VII (____ - Abt 980)
Guglielmo III (874 - 936)
Eustacchio II (1030 - 1093)
Eustacchio I (1004 - 1049)
Giovanni I (____ - 1020)
Bera VI "The Architect" (____ 975)
Gugliemo II (____ - 914)
Ugo I (951 - 971)
Arnaud (____ - 952)
Ildedrico I (____ - 867)
Bera IV (755 - 813)
Bera V (794 - 860)
Gugliemo or Guilhelm (____ ____)
Sigisberto V (695/698 - Abt 766) Sigisberto IV (676 - 758)
Sigisberto III (629 - 656)
Chilprico I (523 - 584)
Childerico I (436 - 26 NOV
481/484)
Faramondo o Faramundo (Abt
370 - 427/430)
Dagoberto (Abt 300 - 379)
Walter (Bef 298 - 306)
Hilderico (Bef 212 - 253)
Clodomiro IV (Bef 149 - 166)o
Richemero (____ - 114)
Clodomiro III (0003 - 0063)
Sigisbert VI "Principe Ursus"
(____ - Abt 885)
Argila (775 - 836)
Bera III (715 - 770)
Dagoberto II (651 - 23 DEC
679)
Dagobert I "the Great" (605 - 19 Clotario II DI NEUSTRIA (584
JAN 639)
- 629)
Clotaire I "the Old" (497 - 561) Clovis I "the Great" (Abt 465 27 NOV 511/514)
Merovee "il giovane" (Abt 415 - Clodio (380/395 - 448)
457)
Marcomiro (Abt 347 - 404)
Clodio (Abt 324 - 389)
Genebaldo (Abt 262 - 358)
Clodio III (Bef 272 - 298)
Sunno or Huano (Bef 186 - 213)
Marcomero IV (Bef 128 - 149)
Ratherio (____ - 0090)
Dagoberto (Abt 230 - 317)
Barthero (Bef 253 - 272)
Faraberto (Bef 166 - 186)
Odomiro o Odomar (Bef 114 128)
Antenore IV (____ - 0069)
Sempre stando ai documenti del fantomatico priorato, Sigisberto VI, il Principe Ursus,
condusse una rivolta infruttuosa contro il re Luigi II: la storia riporta la rivolta ma non parla
né di Sigisberto, né, tantomeno, ricorda l'appellativo di Principe Orso. Goffredo potrebbe, da
questo punto di vista, essere a ragione ritenuto il legittimo discendente del principe Orso,
sempre a patto che la genealogia sia attendibile e che il principe Orso sia davvero esistito. In
questa ipotesi (quella di Plantard riportata nel testo di Lionel Fanthorpe) Sigisberto IV figlio
di Dagoberto, non sarebbe deceduto nell'agguato che vide la morte del padre, ma scampato
avrebbe continuato a vivere di nascosto dando origine all'albero genealogico illustrato. Una
cosa è certa la leggenda che lega Mervee alla Maddalena è incompatibile con l'anno
dell'arrivo ipotetico della Maddalena in Francia (35 d.c.), da cui la data di nascita ipotetica di
Mervee dista ben 380 anni. Se si fosse voluto dar credito, nel I Secolo, alla leggenda, la
108
connessione corretta doveva essere con Clodomiro III (ferma restando la cautela sulla
attendibilità della genealogia). Resta il dubbio che, sulla base di questa leggenda, Pantaleone
possa aver rappresentato simbolicamente l'"Albero genealogico", al centro della sua opera.
Torniamo, però, alla raffigurazione di re Artù nel mosaico. Che senso ha la cavalcatura del
caprone? Il cavalcare la capra era, nel Medioevo, un modo di dire abbastanza diffuso per
indicare una persona che parla o agisce in modo sciocco, riportiamo a riguardo due
emblematici esempi d'uso della locuzione7:
Mi pare che ser Bernabò, disputando con ser Ambrogio cavalcasse la capra inverso il chino
(Decamerone II,10) / Gli facean cavalcare la capra delle maggiori sciocchezze del mondo (Ibidem
VIII,9)
Non va trascurato nemmeno lo scettro di Re Artù che sembra, invero, essere una verga da
pastore. La scena, insomma, sembra voler sottolineare o l'atteggiamento sciocco di Artù,
oppure quello di coloro che credono alla sua leggenda.
Il Gatto con gli stivali, Parsifal ed Excalibur nel mosaico
Interessante è la presenza di un altro personaggio fantastico: il Gatto con gli stivali posto
innanzi la capra cavalcata da Re Artù. Il Gatto, notoriamente, trasformò, con le sue furbate, il
suo povero padrone, di lignaggio tutt'altro che nobile, in un principe consentendogli anche di
pervenire a nozze con una nobildama, e consolidando, così, una stirpe nobile nata da un
raggiro. Esistono due problemi, il primo è, evidentemente, il senso che Pantaleone vuol dare a
questa storia fantastica, anche alla luce di quanto si è detto, il secondo, invece, è la
constatazione che la storia, che sembrerebbe apparire per la prima volta nei racconti del poeta
napoletano Gianbattista Basile intorno al 16 secolo, esisteva invece già ben 400 anni prima. A
nostro avviso, anche in linea con l'interpretazione delle storie arturiane proposta da David
Lodge8, il gatto con gli stivali non ha solo la funzione immediata che abbiamo dato ma anche
una funzione implicitamente sessuale e suggerisce, ancora una volta, che qualunque chiave di
lettura dell'opera musiva non può prescindere da questo parametro, ricordato, in forma più o
meno esplicita, fin troppo spesso nel mosaico: basti ricordare la donna nuda che cavalca uno
dei due lunghi rami alla base dell'albero (a destra in alto in figura).
La raffigurazione si completa con i due elefanti di sesso diverso (vedi i due cerchi che li
contrassegnano) che sorreggono l'intero albero ritratti nell'atto dell'accoppiamento 9,
evidenziato anche dalla protuberanza che dall'animale di destra si infila sotto la coda di quello
a sinistra. Per comprendere la storia di re Artù non ci si può limitare ad osservare ciò che si
narra o si vede nel mosaico (Re Artù che cavalca la capra), ma bisogna spingersi oltre
cercando di "ascoltare" l'opera. Non a caso, dietro Re Artù c'è la figura di Parsival nudo (con
chiaro riferimento alla purezza e mancanza di preconcetto che deve precedere la
interpretazione) che porta la mano alla bocca nell'atto di gridare a Re Artù qualcosa. Ma la
purezza di intenzione non è sufficiente, è necessario tener conto che la regalità di Artù gli
109
viene dalle opere del furbo gatto, che rampante gli mostra il modo per pervenire al trono pur
non avendo sangue reale: la spada Excalibur.
Resta, però, da capire dov'è nascosta la spada nel mosaico: la figura successiva la mostra,
credo, con fin troppa evidenza ed è lo stesso Re Artù che ci indica il posto in cui è conficcata.
La spada è, quindi, lo stesso albero conficcato nell'altare. Quindi l'albero è la Croce
(nell'interpretazione gnostica), la genealogia (in quella storica) e la spada (in quella
leggendaria e simbolica) insieme. Il suo manico è il Graal ed il grembo che dà vita
nell'incontro casto (i due elefanti come indicato nel precedente lavoro) alla nuova stirpe regale
trasformando un principe che in realtà non lo era (Clodomiro III, se si vuol credere alla
genealogia) in un re la cui stirpe discende direttamente da Gesù attraverso la Maddalena (la
torre - Magdal compagna-Miriam dell'albero-Yoshua).
E' ancora una volta il vescovo di Nola S. Paolino che avvalora la nostra ipotesi attraverso una
delle sue più comuni metafore: la coppia Croce-Albero. Questa metafora era, per Paolino,
talmente scontata che nella dodicesima lettera datata 398 non si premura nemmeno di
spiegarla:
... ritrovati in conseguenza di un albero (la Croce), ritrovati per opera di una vergine ...
(Epistolario Paolino, Lettera 12,4)
Un altro interessante particolare è relativo alla "roccia" in cui è infissa la spada ed al Graal. La
forma che prende la mitica coppa nell'opera Parzival di Wolfram von Eschenbach del 1220, è
una pietra (lapsit exillis, o lapis exillis), con il significato probabile di "pietra della morte" che
è stata associata, forse non a torto, alla pietra filosofale alchemica. L'obiettivo dichiarato di
110
Wolfram è di correggere la versione di Chrétien de Troyes che, a dire dell'autore, non
contiene tutte le informazioni disponibili, ma, cosa singolare, la storia ampliata e corretta,
secondo Wolfram, gli viene da un certo Kyot di Provenza (identificabile in Guiot de Provins),
monaco templare. Nella storia il Graal-pietra è custodita da un gruppo di Cavalieri (Templari)
che Wolfram definisce <<uomini battezzati>> in un Castello (e chissà che proprio questi
racconti non abbiano ispirato a Federico II il progetto di Castel del Monte). Ma quello che
appare l'elemento più singolare della storia è sicuramente la figura di Cundrie il
<<messaggero del Graal>>, che Wagner sostituì secoli dopo (1882) con Kundry, e che non
esitò ad identificare con la Maddalena. Il personaggio, infatti, come la Maddalena porta
un'ampolla di balsamo (che rievoca il Graal) con cui lava i piedi dell'eroe asciugandoli
(proprio come la Maddalena) con i suoi lunghi capelli. Che Artù, nel mosaico, indicandoci il
punto in cui è infissa Excalibur-albero voglia indicarci che il segreto del Graal va ricercato in
quella roccia?
Il segreto dei Templari nel mosaico
L'ordine dei Templari fondato da Hugo de Paganis nel 1118 per difendere i pellegrini e la
stessa città di Gerusalemme, ha una parte rilevante nel mosaico anche se non direttamente
evidente. L'elemento simbolico che meglio rappresenta l'Ordine nell'opera è di certo la
scacchiera di 8x8 = 64 quadrati bianchi e neri la cui collocazione alla base dell'albero,
affiancata al medesimo cervo ferito(vedi figura in altro a destra) che appare anche nella
corona e che abbiamo già analizzato nel precedente lavoro, è tutt'altro che casuale. La
scacchiera è uno dei principali simboli templari.
Abbiamo supposto che il cervo nella corona del mosaico rappresenti Dagoberto II trafitto al
capo da una lancia durante una battuta di caccia10. Nella corona del mosaico il Sagittario
scaglia la freccia che uccide il cervo; in questo caso chi scaglia la freccia è Diana cacciatrice.
Si è detto (vedi precedente articolo) che il cervo della corona rappresenta sia Dagoberto che il
figlio leggendario Sigisberto IV11. Qui, invece, gli animali sono due, il primo appare ferito e
morente (vedi il capo reclinato) ma il secondo appare in fuga (vedi la gamba sinistra alzata) e
per di più è rappresentato come un cervo dal volto d'uomo. La stessa Diana ci riporta al culto
storicamente accertato dei primi Merovingi (Merovee e Clodoveo) per la dea cacciatrice.
Interessante è anche constatare che il cervo morente ha in testa, com'è normale che sia, vistose
corna simbolo della sua regalità (infatti "corona" ha una etimologia ebraica derivante da KRN,
Keren), mentre il cervo che sfugge a Diana, con la testa d'uomo, ha sulla testa la scacchiera
simbolo Templare. Egli quindi, ed il personaggio che rappresenta, Sigisberto IV, diviene il Re
o primo Gran Maestro dell'ordine Templare (che è insito nel simbolo della scacchiera). Quindi
alla base della spada c'è l'episodio con il quale i mandanti dell'omicidio di Dagoberto II
ritenevano di aver estinto la dinastia dei Merovingi, legittima titolare del trono di Francia, e,
attraverso la leggenda della Maddalena e di Gesù, anche di quello di Israele.
In realtà, sempre volendo dar credito alla leggenda ed alle genealogie di Plantard, la
discendenza dei Merovingi sopravvive con Sigisberto IV fino a Goffredo di Buglione che
111
attraverso la conquista di Gerusalemme completa il progetto di riunificazione dei legittimi
regni12.
Ma torniamo alla scacchiera. La leggenda vuole che il simbolo sia legato ai nascondiglio del
mitico tesoro del Tempio di Salomone che sarebbe entrato in possesso dei Templari insieme
ad altre importanti reliquie come il Graal fisico (la coppa dell'ultima cena), la croce di Gesù e
la Sacra Sindone. E' interessante notare come la scacchiera con le sue 64 celle (8x8) sia
davvero simbolicamente legata al mitico Tesoro da un famosissimo documento scoperto nel
1945 a Qumran: il Rotolo di Rame. Questo rotolo contiene, in forma più o meno esplicita, 64
luoghi nei quali sarebbero stati seppelliti i tesori del Tempio, forse per sottrarli al saccheggio
Romano. Milik, personaggio centrale nella storia dei ritrovamenti e delle ricerche sui papiri
qumraniani13, condusse tra il 1959 ed il 1960, una serie di scavi in alcuni dei luoghi indicati
nel rotolo senza alcun successo, tanto che lo stesso prof. Moraldi, massimo studioso italiano
dei rotoli, insieme ad altri studiosi finì per credere che l'opera fosse solo un componimento
letterario simbolico in cui il tesoro aveva un valore esclusivamente metaforico. Se i Templari
fossero venuti in possesso del Rotolo, la storia delle ricerche da loro condotte in Terra Santa
avrebbe un saldo fondamento. Inoltre se il, Rotolo di Rame fosse entrato in loro possesso,
quale oggetto poteva essere più indicato a simboleggiare la mappa del tesoro del Tempio se
non la scacchiera?
E' anche interessante notare come Pantaleone effettui un particolare accostamento formale e
cromatico tra la scacchiera bianca e nera, con la quale rappresenta la Torre a sinistra
dell'Albero, e la scacchiera bianca e nera del mosaico, alla base dell'albero ed nel cavo della
coppa-Graal, rappresentata metaforicamente dai due rami curvi. Se, come crediamo di aver
dimostrato, Pantaleone entrò in possesso del Vangelo di Filippo, opera gnostica conosciuta
solo dopo i ritrovamenti del 1947 a Nag Hammadi in Egitto, è possibile che questo sia stato
uno dei reperti portati alla luce dai Templari. Lo stesso simbolo della sirena presente nella
corona e di cui più volte abbiamo parlato, proprio nella forma di Abraxas costituisce uno tra i
vari sigilli che sono stati adoperati dall'Ordine, ne vediamo di seguito alcune immagini:
L'Abraxas, chiaramente raffigurato come un cavaliere con elmo, è presente nella
raffigurazione con una emblematica scritta "Secretum Templi" 14. Interessante è anche la
presenza delle tre torri tipiche di alcuni dei suddetti sigilli templari talora sostituite una torre
centrale e due pesci, o una torre con tre merli, raffigurazioni molto simili alla torre di Babele
del mosaico di Otranto:
112
O ancora il simbolo del calice-nido con il pellicano che si strappa il petto per nutrire i tre
piccoli insidiato da un serpente, contiene in sé le principali allegorie del mosaico:
Il mosaico di Otranto ed il mistero di Rennes-le-Château
Passiamo ad un'altra coincidenza cronologica che ci riporta che al citato libro Holy Blood,
Holy Grail e che riguarda, ancora una volta, i Templari. Sappiamo che il mosaico di Otranto
fu realizzato tra il 1163 ed il 1165. Tra il 1156 ed il 1169, Bertrand de Blanquefort o
Blanchefort fu Gran Maestro dell'ordine Templare. Blanchefort fu fatto prigioniero nello
stesso anno della sua elezione a Gran Maestro (1156) e fu liberato tre anni dopo (1159) per
intercessione di Manuel Commène imperatore di Costantinopoli. Combatté con valore al
fianco di Raymond Roger de Trencavel, celebre cataro, che gli fece dono di alcune terre nei
dintorni di Rennes-le-Château e di Bezu à l'Ordre 15. E' proprio questo legame cronologico con
il mosaico, affiancato a ciò che abbiamo già evidenziato e che ricollega il mosaico all'ordine
Templare a farci fare un'ulteriore passo verso un'altra intricata e tutt'altro che limpida storia:
quella della chiesetta di Rennes-le-Château proprio nel territorio che fu donato al Gran
Maestro. L'argomento è stato oggetto di un numero enorme di pubblicazioni articoli e di
recente ha acceso fantasie di diverso genere, tanto che è oggettivamente difficile se non
impossibile capire dove è la realtà e dove, invece, comincia la fantasia. Pur rimandando alla
vastissima letteratura più o meno fondata pubblicata intorno all'argomento vogliamo
soffermarci sui fatti oggettivi che la storia della chiesetta contiene e che vanno doverosamente
riconnessi al mosaico di Otranto nella interpretazione che abbiamo proposto nel precedente
numero di Episteme. Sono, infatti, a nostro avviso diversi gli elementi oggettivi che
accomunano la storia di questa oscura chiesetta a quella dei templari ed il nostro mosaico.
Cominciamo dagli elementi cronologici e geografici.
La chiesetta di Rennes nacque, probabilmente, come Cappella di famiglia nell'VIII secolo e fu
consacrata nel 108916 a S. Maria Maddalena. Di certo si sa, grazie ad un registro parrocchiale
datato 1694, che nella chiesa venivano inumati i discendenti della famiglia Blanchefort. La
chiesetta sorge, come detto, nel territorio di Carcassone in Linguadoca. Quel territorio vide la
nascita e l'ascesa della eresia catara fino al 1244 anno in cui la Linguadoca cade sotto il
dominio francese segnando la fine della esperienza catara sviluppatasi in quella regione.
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Prima di proseguire soffermiamoci per un istante sulla eresia catara. Il catarismo ultima
derivazione del pensiero gnostico nacque, probabilmente, come sviluppo di due precedenti
filoni di origine manichea e quindi post-gnostica: i Pauliciani diffusisi in Asia Minore (VIIIIX sec.) e successivamente i Bogomili della penisola balcanica (XI-XIV sec.) che, si crede
grazie agli scambi culturali favoriti proprio dalle crociate, e sulla spinta delle invasioni turche,
si spostarono in Linguadoca.
Gli studiosi propongono quali possibile evoluzione del pensiero gnostico le seguenti tappe:
- cristiani delle origini > gnostici > manichei > pauliciani > bogomili > catari occidentali17.
Nel 1167 (solo due anni dopo la realizzazione del mosaico), un concilio cataro tenutosi a
Tolosa stabiliva ufficialmente una sorta di organizzazione territoriale dell'eresia, con
l'istituzione di quattro diocesi nella zona di Tolosa, Albi, Carcassonne, quest'ultima città a
pochi chilometri da Rennes. Esiste quindi, una compatibilità temporale e spaziale spinta che
lega:
- il fiorire del pensiero gnostico in Francia attraverso il catarismo
- il culto della Maddalena centrale per lo gnosticismo e che ha interessanti echi nel catarismo
(vedere capitolo successivo)
- la leggenda della Maddalena in Francia
- il trasferimento dei Bogomili dai Balcani alla Francia
- la figura di Bertrand de Blanquefort gran Maestro templare tra il 1156 ed il 1169 divenuto
tenutario di possedimenti nel territorio di Rennes grazie alle donazioni del cataro Raymond
Roger de Trencavel
- le crociate e l'anno di costruzione del mosaico di Otranto (1163-1165)
- la rotta privilegiata delle navi crociate tra Otranto ed i Balcani.
Ritorniamo, ora, alla piccola chiesa di Rennes. Nel 1781 il curato di Rennes-le-Château,
Antoine Bigou, ricevette, in confessione ed in punto di morte, dalla marchesa d'Hautpoul,
Marie de Negri D'Arlès, un segreto di famiglia, che avrebbe dovuto essere tramandato. La
marchesa, stranamente, non viene inumata lì dove giacevano i resti di famiglia (nella chiesa)
ma fuori da essa nei pressi del campanile. Dieci anni dopo il curato fece collocare sulla tomba
della marchesa una pietra tombale proveniente da un'altra tomba che si trovava nella zona di
Les Pontils ad Arques nella valle de la Sals. Che fine abbiano fatto i resti di questa misteriosa
tomba profanata, non è dato sapere. Nello stesso anno, il curato depone alcuni manoscritti in
un pilastro visigoto lì vicino. Poi fa posare all'incontrario, sempre vicino all'altare, a copertura
di quella che poteva essere la tomba dei d'Hautpoul (il condizionale lo spiegheremo tra breve),
una lastra di pietra conosciuta come la "dalle des Chevaliers" 18. François Bérenger Saunière
viene nominato curato di Rennes-le-Château il 1° giugno 1885. Viste le condizioni disperate
della chiesetta cui era stato destinato avvia i lavori di restauro che, come vedremo,
stravolgeranno la costruzione introducendo una serie incredibile di raffigurazioni e simbolismi
enigmatici, ma ciò che ci interessa è il ritrovamento della lastra capovolta che copriva un
locale il cui unico contenuto pervenutoci (visto che l'abate chiese agli operai di lasciarlo solo
durante il sopralluogo) è un teschio forato. Soffermiamoci su questa lastra che costituisce un
ulteriore elemento oggettivo.
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La lastra, purtroppo fortemente deteriorata poiché lasciata dall'abate esposta alle intemperie, è
costituita da due Pannelli raffiguranti due portali. Sotto il primo appare una figura a cavallo
che suona un corno, sotto l'altro un cavaliere ed un fanciullo a cavallo. Quest'ultima immagine
non può non richiamare il sigillo templare, anche se il secondo cavaliere è qui raffigurato
come un fanciullo. Una immagine simile la troviamo nel mosaico, sempre nella parte inferiore
lì dove è presente la raffigurazione dei due cervi ma in posizione diagonalmente simmetrica:
A questo punto ritorniamo al secondo ritrovamento dell'abate: i documenti. E' proprio dai
presunti documenti ritrovati che inizia la storia da noi adoperata per desumere la discendenza
presunta di re Dagoberto II, che vede come protagonista il fantomatico Priorato di Sion e
Plantard. Il primo dei due documenti era l'albero geneologico di Dagobert II dal 681 al 1244 e
dal 1244 al 1644, redatto su pergamena e accompagnato da un secondo documento, un
testamento di Francois-Pierre d'Hautpoul registrato il 23 novembre 1644 da Captier, notaio in
Esperaza (Aude), entrambi recanti il sigillo della Regina Blanche de Castille. Quindi siamo di
fronte al classico "cane che si morde la coda". Non è il caso di addentrarci nella miriade di
critiche mosse a Plantard cui vengono attribuite falsificazioni progressive della
documentazione effettuate depositando falsi reperti, utilizzando informazioni talora vere,
talora palesemente false ma, comunque e sempre, storie inventate con tanto di pezze
d'appoggio destinate a dimostrare il suo lignaggio. Riteniamo, doveroso, comunque, segnalare
che le obiezioni che abbiamo letto, espongono in maniera scrupolosa, i torbidi retroscena della
vita di Plantard ed il suo legame con il governo collaborazionista di Vichy durante la seconda
guerra mondiale, ma anche con il nazismo e con le fazioni antimassoniche ed antisioniste
della destra francese, ma sono altrettanto superficiali quando devono addurre le motivazioni
per le quali i documenti indicati da Plantard sono ritenuti falsi19.
115
Potremmo, a questo punto, entrare nella marea di simbolismi introdotti a seguito della
ristrutturazione voluta dall'abate Saunière, verificando l'analogia tra il pavimento a scacchiera
di 64 caselle bianche e nere e la scacchiera del mosaico, o l'ossessiva presenza della
Maddalena dentro e fuori la chiesa, o la sequenza delle statue dei santi le cui iniziali
descrivono la parola Graal - che ci riporta all'Artù nel mosaico - o la impressionante
somiglianza tra la costruzione voluta dall'abate denominata Torre Magdala e la torre del
mosaico, e infinite altre analogie, ma sposteremmo l'attenzione su opere realizzate ad oltre
700 anni di distanza, peraltro di pessimo gusto e fattura volute da un sacerdote avente
controversi legami con ambienti esoterici.
Ciò che ci preme sottolineare e che, anche nella storia di Rennes, il fulcro pare essere la
tomba della Maddalena e la sua venuta in Francia, e che il mistero è quindi legato, ancora una
volta, a questa donna e ad antichi manoscritti o reliquie che sembrano avere un valore
rilevante non solo di tipo simbolico-gnostico, ma per una qualche informazione in esse
contenuta che deve rimanere segreta.
Il mosaico di Otranto e la cattedrale di Chartres
Per proseguire in questa carrellata dedicata ai documenti ed alle opere architettoniche ed
artistiche che avvalorano la nostra ricostruzione del simbolismo adoperato da Pantaleone nel
mosaico di Otranto non possiamo non ricordare una delle più spettacolari realizzazioni
dell'arte gotica: la cattedrale di Chartres. Essa presenta, sebbene adottando forme artistiche
variegate (vetrate, bassorilievi, sculture) tematiche e accostamenti che sono comuni anche al
mosaico di Otranto. Interessante è, ad esempio, il bassorilievo che ritrae insieme Melchisedek,
la regina di Saba e re Salomone. Melchisedek reca tra le mani una coppa e nella dicitura che
campeggia sotto il bassorilievo vi è una enigmatica scritta in latino "HIC AMITITUR
ARCHA CEDERIS". In questa forma la frase è priva di significato. Una delle possibili
alternative potrebbe essere "HIC AMICITUR ARCHA FOEDERIS", in pratica "Qui è
nascosta l'arca dell'alleanza", ma indipendentemente dal significato, l'accostamento tra Re
Salomone e Melchisedek, la regina di Saba e il Graal è interamente presente nel mosaico con
un simbolismo più criptico ma simile. Nel mosaico, infatti, ritorna la doppia funzione della
immagine di Salomone che è allo stesso tempo Re di Salem (Jerusalem o "città della Pace"
con etimologia ebraica) ma anche Re di Giustizia (essendo egli stesso il simbolo massimo
della giustizia e della saggezza) così come l'enigmatico Re di Salem (Gerusalemme nel papiro
qumraniano 11Qmelch) Melchisedek è, nella etimologia ebraica il re (melek in lingua ebraica)
di giustizia (sedek in lingua ebraica). I due personaggi rappresentano il doppio messianesimo
tipico dell'essenismo (il messia di Aronne ed il Messia di Davide) che, se vogliamo, ci riporta
alla doppia funzione del Messia: sacerdotale e politica che si unisce nel Cristo, in particolare
in quello giudaico-cristiano prima, e gnostico dopo. La centralità di Melchisedek è un
elemento fortemente caratterizzante delle scritture qumraniane (papiro 11Qmelch, Libri di
Enoch), di quelle gnostiche (scritti di Nag Hammadi) e di quelle di matrice giudaico-cristiana
116
(la Lettera agli Ebrei, chiaramente rivolta ai giudeo-cristiani come invito alla unificazione con
la corrente paolina del cristianesimo, è l'unico tra gli scritti neotestamentari che fa un chiaro
riferimento a questa figura). Quindi Melchisedek è, di per sé, un primo forte indizio che
colloca gli autori della cattedrale di Chartes e del mosaico di Otranto nell'ambito della
teologia gnostica o al più giudaico-cristiana. La figura della regina di Saba, invece, è un
elemento simbolico che caratterizza le opere chiaramente ed univocamente come gnostiche.
La regina di Saba è il simbolo della saggezza (caratteristica questa della Maddalena), ma è
anche la regina nera che richiama alla mente il culto di Iside, e il culto della Madonna nera,
introdotto, proprio da Re Dagoberto. Ed è proprio l'ambiguità del nome Maria che consente
agli eretici gnostici di nascondere il culto della Maddalena dietro quello della Vergine, e forse
il culto del figlio avuto da Gesù dietro Gesù stesso. Questa ambiguità è presente, come
indicato, nel mosaico attraverso la pantera (chiaro richiamo alla tesi del polemista Celso ed
alle scritture Toledot ebraiche che volevano Gesù figlio di un soldato romano di nome
Pandera) che regge l'ariete e che segnala il passaggio da un era, quella dell'Ariete, ad un'altra,
quella dei Pesci, (rappresentati dalla sua compagna la sirena a due code) attraverso Gesù. La
pantera ha una compagna, la Sirena Melusine, che è nel contempo la Madre dell'Ariete (Gesù)
e compagna (Miriam in ebraico) dello stesso Gesù e quindi progenitrice della stirpe
Merovingia (per il dettaglio di questa tesi rimandiamo ai precedenti due articoli pubblicati su
Episteme n. 5). Nella raffigurazione di Chartres, Melchisedek regge una coppa chiaramente
indicante il sangue e la coppa dell'ultima cena. Il fatto che sia lui a tenere in mano la coppa lo
ricollega al sacerdozio eterno cui è destinato, e che ha in Gesù il legittimo successore.
Per finire non possiamo non soffermarci su quella che è una ulteriore evidente prova a
sostegno della diffusione della leggenda della Maddalena in Francia in epoca medioevale: la
raffigurazione del viaggio della Maddalena in Francia in una delle vetrate della cattedrale di
Chartres.
Soffermiamoci sulla parte centrale della vetrata (abbiamo isolato unicamente questa in figura)
che, come il mosaico, va letta dal basso verso l'alto. Al centro, in basso a sinistra La
Maddalena vestita con un mantello azzurro da cui fuoriesce una tunica rossa, sale su una nave.
Giunge in Francia con la sorella Marta ed il fratello Lazzaro ove S. Massimino vescovo li
accoglie(al centro in basso). Nella scena in basso a destra è raffigurata una sorta di castello
che pare richiamare l'accoglienza che il principe francese dette alla Maddalena. Nel
semicerchio superiore la morte della Maddalena e la sua deposizione in un sepolcro (che a
questo punto si trova, chiaramente, in Francia). L'anomala scena appare ripetuta e nella
117
seconda il cadavere è bendato. Questo, può, a nostro avviso, avere un sol senso: la prima è la
raffigurazione della morte della Maddalena, mentre la seconda raffigura il ritrovamento del
corpo o, meglio, una deposizione in un diverso sito, visto che il sarcofago appare chiaramente
diverso nelle due raffigurazioni.
La Maddalena nelle basiliche di Cimitile
La più incredibile e significativa raffigurazione della Maddalena è ancora oggi visibile nel
complesso delle basiliche paleocristiane di Cimitile in provincia di Napoli. Il complesso
rappresenta la più antica testimonianza del Cristianesimo in Italia ma è anche uno dei più
sensazionali e prestigiosi documenti del Cristianesimo mondiale. La sua importanza risiede,
non solo nella vetustà delle opere ma soprattutto, paradossalmente, nella incuria in cui è stato
relegato e che ha consentito, anche se in pessimo stato di conservazione, la sopravvivenza del
prezioso patrimonio monumentale e pittorico. Il restauro iniziato nel lontano1988 e culminato
con gli interventi per il giubileo, ha restituito al patrimonio artistico mondiale questo prezioso
gioiello, eppure, paradossalmente, oggi che queste opere sembrano essere state salvate
dall'abbandono, finiscono per essere seriamente minacciate da interventi inutili, eseguiti con
incredibile imperizia e superficialità sui quali torneremo doverosamente alla fine di questo
capitolo. La principale opera pittorica, sulla quale vogliamo attirare l'attenzione non solo del
lettore, ma anche dei critici e degli storici, è allocata nella basilica detta dei Martiri. La
basilica costituisce la più antica del complesso e, quindi, si colloca tra le più antiche basiliche
paleocristiane mondiali. È un locale di dimensioni ridottissime composto da tre vani risalenti
al II-III secolo. Il vano centrale, a cupola, rappresenta il vero gioiello pittorico del complesso,
sebbene i dipinti siano in condizioni che si possono eufemisticamente definire disperate.
Questo locale contiene sulla parete ovest una rappresentazione della passione di Gesù
relativamente convenzionale se non per la collocazione del Cristo in croce che appare dipinto,
in parte, su un contrafforte che sorregge la volta. La parete nord ospita vari dipinti che
raffigurano episodi evangelici. In questa parete fu ricavato dal vescovo Leone III nel IX
secolo il nuovo ingresso all'edificio sostitutivo di quello preesistente orientato a sud. Il primo
dipinto della parete nord, situato subito sopra l'ingresso, ritrae la Maddalena e la Vergine
inginocchiate ai due lati del Cristo risorto. La scena è quella che tradizionalmente viene
identificata con le parole "Noli me tangere" rivolte dal Cristo risorto alla Maddalena. ("Non
mi toccare poiché non sono ancora salito al Padre", Lc 20,17).
Altro dipinto di questa parete è la incredulità di Tommaso che immerge la mano nel costato di
Gesù. Un terzo affresco rappresenta la chiamata di Pietro e Andrea raffigurati sulla loro barca
durante la pesca. Interessante è uno dei tre ambienti dedicati all'apostolo Giacomo con un
apposito altare e con la volta affrescata di cui rimane ben poco. La parete est presenta due
altarini ai lati di un arco che funge da ingresso alla cappella di S. Giacomo. I due altarini sono
costituiti da due strutture che fuoriescono dal muro e che ospitavano due acquasantiere o un
piano destinato, probabilmente, ad oggetti votivi (lo stato di conservazione dei piani
orizzontali non consente un migliore dettaglio). I due altarini sono sovrastati da due dipinti
ricavati nelle due lunette nel muro incavato di dimensioni identiche di circa 60 cm di altezza.
Quello straordinario, a nostro avviso, è il dipinto presente nell'altare a destra della volta.
118
Esso raffigura la Maddalena, il cui nome è chiaramente visibile a destra della testa, in abito
regale che reca sulla testa una vistosissima corona. Singolare è il modo in cui l'artista ha
scritto il nome adoperando per la M una sorta di omega capovolta e per la D di Magdal un
cerchio. L'autore del dipinto ha posto sulla Maddalena un velo bianco (nimbo) che dista dalla
testa alcuni centimetri: l'effetto complessivo è un'amplificazione delle dimensioni della corona
che risalta in maniera del tutto inconsueta. Nel ritratto la Maddalena regge tra le mani un vaso
chiuso associabile a quello che ospitava l'olio profumato della unzione che precedette l'ultima
cena. Interessante è notare che il complesso basilicale contiene svariate raffigurazioni della
Madonna, ma nelle più antiche essa appare priva di corona. Il primo dipinto che ritrae la
Vergine in veste regale è sito nella basilica di S. Maria degli Angeli ed è stato realizzato nel
1344, come segnala la iscrizione in basso allo stesso dipinto. Esso, quindi, si colloca
successivamente alle possibili date proposte per il dipinto della Maddalena. Questa
constatazione rende ancor più incredibile la raffigurazione in veste regale della Santa che,
quindi, risultava, almeno fino al XIV secolo, l'unico personaggio femminile incoronato presso
il vasto complesso basilicale.
Il Reau20 - irrinunciabile riferimento per l'iconografia cristiana - riporta in analitica carrellata,
tutte le possibili raffigurazioni della Santa nei vari secoli e culture, identificando nel vaso il
principale tratto iconografico ed aggiunge:
Il vestito muta a seconda che sia rappresentato prima o dopo il suo pentimento. Nel periodo della vita
mondana è rappresentato in vesti da cortigiana ... una acconciatura civettuola, orecchini pendenti,
maniche con spacchi, guanti che il maestro della tavola di Sainte-Barthelemy le fa portare anche ai
piedi della croce. Ritiratasi a Saint Baume, la si vede stesa seminuda o vestita solo del manto d'oro
dei suoi capelli biondi, di modo che malgrado il teschio davanti cui ella medita, è generalmente meno
casta quando è rappresentata nel suo pentimento che durante il suo smarrimento. A partire dal
Rinascimento, la maggior parte dei pittori hanno visto in questo motivo privo di ogni carattere
religioso, nient'altro che un tentativo per eccitare la sensualità degli osservatori ...
Nel sottolineare la singolarità iconografica nulla ci viene, però, detto, pur nella vasta analisi,
di possibili raffigurazioni della Maddalena con corona e, nonostante i nostri sforzi, non siamo
stati in grado di trovare altri dipinti simili a quello cimitilese 21. All'infuori della Vergine,
esistono rarissime tradizioni di Sante incoronate, legate o alla effettiva regalità (es.: Sant'Elena
imperatrice), o alla regalità acquisita attraverso la verginità consacrata in matrimonio mistico
a Cristo (es.: S. Agata). E' evidente che la verginità e la regalità sono attributi non applicabili
alla Maddalena. Infatti, la Maddalena era una prostituta e, sebbene proveniente da famiglia di
119
sangue regale, come ricorda la Legenda Aurea, non ci viene presentata come una regina22. Il
motivo della sua regalità va, quindi, cercato altrove.
Proviamo, quindi, ad analizzare il simbolismo attraverso le parole di S. Paolino vescovo di
Nola, artefice primo del complesso basilicale, che alla santa dedica una notevole parte della
sua 23ma lettera. Ne stralciamo una sintesi.
Con chiome siffatte anche la famosa donna del Vangelo, simbolo della Chiesa, asciugò i piedi di
Cristo, irrigandoli di lacrime e di olio profumato ... In lei il signore non amò l'unguento profumato,
ma la carità per cui, modesta nell'impudenza ed audace nel suo amore, senza temere l'oltraggio e la
ripulsa, penetrò nella casa a sé estranea del fariseo, vi entrò senza essere invitata, petulante ed
usando quella violenza con la quale si rapisce il regno dei cieli ... non corse alla tavola riccamente
imbandita di quel fariseo, ma ai piedi del Cristo e si lavò e si nutrì in essi ... compì la sua libagione
col pianto, fece l'offerta con l'unguento, sacrificò con l'amore ... meritò non solo la remissione dei
peccati ma anche la gloria che il suo nome fosse proclamato insieme col Vangelo ... Beata lei che
gustò Cristo nella carne e ricevette il corpo di Cristo nella realtà fisica ... Beata lei che meritò di
essere presentata con questa immagine come simbolo della Chiesa ... Vale molto di più
l'inopportunità di questa donna. Infatti l'ordine del ministero preparato fin dall'eternità ... richiedeva
che nelle tende di Sem passasse l'abitazione di Jafeth, cioè che nella casa della Legge e dei Profeti
fosse giustificata piuttosto la Chiesa ... .23
L'ambiguità di alcune frasi, in Paolino, è solo apparente. L'ortodossia e l'immediatezza dei
suoi scritti impedisce di trarre indicazioni nascoste relative ad un rapporto privilegiato della
Maddalena con Gesù, ma è del tutto inconsueto il paragone che Paolino propone, e che fa
della peccatrice il simbolo stesso della Chiesa conferendole una implicita regalità: la regalità
della Chiesa, sposa di Cristo. Esperti del calibro della professoressa Castelfranchi di Lecce,
profonda conoscitrice dell'arte bizantina in Italia meridionale, che abbiamo contattato per un
parere sulla possibile datazione del dipinto, ritengono, a partire dalla foggia della corona, che
il dipinto sia collocabile con certezza nel periodo Svevo-Angioino; eppure vari sono gli
elementi che, a nostro avviso, possono consentirci di anticiparne notevolmente l'epoca di
composizione. La raffigurazione potrebbe essere stata ispirata direttamente dagli scritti di
Paolino e, potrebbe essere stata realizzata, non molto dopo la composizione dell'epistolario (V
sec.). Ritorneremo tra breve su questa ipotesi.
Paolino parla raramente di sante nel suo epistolario e ancor più raramente eleva queste a
simbolo della Chiesa; la cosa che, però, meraviglia di più è la equivalenza tra questa
raffigurazione della Maddalena neotestamentaria e quella che Paolino dedica alla Regina di
Saba veterotestamentaria che egli chiama Regina del Sud nella quinta epistola:
Ella (la Regina del Sud) non possedeva la legge della Scrittura, ma aveva la fede della legge, incisa
nello spirito della sapienza e della pietà delle tavole del suo cuore. Venuta dagli estremi confini del
mondo sospinta dal suo interesse e dal grande desiderio di conseguire la salvezza, bramò ascoltare la
sapienza di Dio per ricevere ciò che non possedeva ed attingere la luce della conoscenza di cui era
priva. Vuol dire che fin d'allora quella regina destinata a venire dalle genti, desiderava il suo sposo:
circondata di varietà del suo vestito intessuto d'oro dimentica del suo popolo e della casa paterna,
correva verso l'odore di Cristo che abbondantemente spirava dal suo Profeta (Salomone) ... Perciò
ella è ritenuta degna non solo del premio celeste della beata resurrezione, ma anche della potestà
degli Apostoli di giudicare i Giudei infedeli per bocca del Giudice in persona, in quanto, avendo
ammirato Cristo nella persona di Salomone, aveva compiuto l'amore vero di regina celeste nella
mistica immagine della provvida Chiesa.24
La esegesi in apparenza ardita di Paolino, che lo porta a riconoscere in Salomone il precursore
di Cristo e di conseguenza nella Regina di Saba l'immagine della Chiesa, è estremamente
indicativa del clima culturale del primo Medioevo e ci riporta (anche se a distanza di 700
anni) alle raffigurazioni della regina di Saba e di Re Salomone nel mosaico di Otranto.
Relativamente al mosaico, si rafforza la nostra convinzione che la prima riga della corona
120
musiva rappresenti da un lato la Regina di Saba ed il Re Salomone come simbolo della coppia
veterotestamentaria Gesù-Maddalena, dall'altro la coppia Sirena-Pantera come equivalente
della medesima coppia neotestamentaria. Paolino, del resto, non fa altro che commentare e
desumere da Matteo il suo paragone:
La regina del sud si leverà a giudicare questa generazione e la condannerà, perché essa venne
dall'estremità della terra per ascoltare la sapienza di Salomone; ecco, ora qui c'è più di Salomone!
(Mt 12,42)
E' proprio il "ritorno" della Regina del Sud che ci riporta alla Maddalena ed al dipinto che
sembra voler suggerire questa interpretazione. Il viso che l'autore del dipinto ha marcatamente
brunito, pare voler confermare la associazione tra la scura Regina di Saba e la Maddalena.
Paolino era originario della Aquitania e quindi era nato e vissuto in una regione che vide un
florido sviluppo del culto della Maddalena: non ci meraviglia, quindi, che alla Maddalena ed
alla sua immagine equivalente veterotestamentaria, la Regina di Saba, Paolino dedichi non
solo uno spazio inusuale nella sue lettere ma addirittura il titolo di "immagine dalla Chiesa";
ciò che desta meraviglia, è che il culto, se così fosse, era già presente nella Provenza del V
secolo. E', altresì, indicativo constatare che le due lettere furono scritte nei primi 5 anni di
permanenza a Nola e quindi non risentono ancora della cultura italica e della evoluzione
teologica subita dal pensiero e dalla lingua di Paolino nelle epistole successive. La triade
sposa-regina-peccatrice che emerge dagli scritti di Paolino ci sembra, se non la ispirazione
diretta del quadro, sicuramente una spiegazione convincente delle motivazioni teologiche alla
base di questa raffigurazione, facendo emergere, anche se Paolino mai l'avrebbe sottoscritta,
l'esistenza di una tradizione di origine francese, che vedeva nella Maddalena ben più di una
sposa mistica di Gesù.
Ma le sorprese della cappella dei Martiri non finiscono qui. A destra della raffigurazione della
Maddalena campeggia una figura intera, riccamente vestita priva, purtroppo, del volto, che,
cosa estremamente strana, non è stata mai identificata. E' sufficiente uno sguardo per rendersi
conto che la figura in questione è ancora la stessa Maddalena 25. La testa della figura reca il
medesimo velo della Maddalena e, sebbene il volto sia andato perduto, si nota la medesima
distanza del velo dalla testa, tanto che, per le identiche dimensioni, il volto della Maddalena
nell'altare potrebbe essere perfettamente sovrapposto a quello della figura intera. La figura
reca il medesimo mantello e la veste scura della Maddalena nell'altare, ma, i particolari che la
identificano, a nostro avviso, definitivamente come la Maddalena, sono il disegno della
cintura, il ricamo nelle maniche della veste e i bracciali identici nelle due figure.
Altro particolare che accomuna il metodo realizzativo delle due figure è nella cucitura dorata
dei quadroni in cui sono intarsiate le stesse pietruzze che ritroviamo incastonate nella corona.
Perché mai allora, l'artista ha voluto raffigurare la Santa sia a mezzo busto che a busto intero?
121
Il dipinto a figura intera collocato
a destra della Maddalena.
Dettaglio: si notano il velo sulla testa, le maniche
e la cintura decorata, ed il rotolo ed i bracciali.
Rappresentazioni replicate della medesima figura a mezzo busto e a busto intero, oltre che
essere difficilmente spiegabili sono anche alquanto inconsuete. Indubbiamente la figura a
busto intero appare ancor più maestosa e regale della immagine a mezzo busto nell'altare.
Interessanti sono i particolari della stupenda veste a quadroni.
Comparazione del velo (nimbo) nella figura a
busto intero (a sinistra) ed in quella a mezzo
busto (a destra).
Comparazione delle decorazioni della cintura
della Maddalena a mezzo busto (in alto), e del
ricamo della veste della figura a busto intero
(in basso). Entrambe presentano una corona
circolare contenente una margherita.
Comparazione delle maniche delle due vesti.
Figura intera a sinistra e Maddalena a destra.
Decorazioni tipiche di una dalmatica
bizantina del V-VI sec.
Si noti la similitudine con le spirali sulla
cintura e sulla veste o con la decorazione della
manica della tunica nella Maddalena.
Come abbiamo precedentemente indicato, sia la corona nimbata che la veste sono state
classificate come Svevo/Angioine, ma può essere davvero esclusa l'ipotesi della
contemporaneità al periodo paolino26? Del resto alcune preziose corone come quella dello
stesso Federico II e della moglie Costanza di Aragona, ma anche quelle raffigurate in alcune
miniature del periodo, sembrano particolarmente distanti dalla foggia della corona della
Maddalena.
La corona imperiale di Ottone
il Grande
ereditata da Federico II.
Il cumuleuco di Costanza
d'Aragona moglie di
Federico II, Palermo,
tesoro della cattedrale.
Il matrimonio tra la giovane Jolanda di
Brienne e Federico II, dalla Cronica del
Villani.
In particolare abbiamo notato che il tipo di tunica della figura intera e della Maddalena
sembra essere una tipica dalmatica imperiale bizantina che era dotata di lunghe e larghe
maniche come quelle nel dipinto. Abbiamo ritrovato foto di decorazioni adoperate per le
maniche ed i bordi di questo tipo di abbigliamento databili al IV-V sec. comparabili alla
dalmatica della Maddalena. Va sicuramente detto, che le dalmatiche, solitamente, avevano
colorazione chiara e non possedevano decorazioni così diffuse (quadroni scuri nel dipinto a
figura intera) ma quasi sempre concentrate (maniche, bordi). Esistono, comunque,
raffigurazioni che, ritraggono simili variazioni. In un mosaico del IV secolo che si può
ammirare nella chiesa di S. Vitale a Ravenna (525-548), raffigurante la imperatrice Teodora
ed il suo corteo di cortigiane, ritroviamo non solo la corona nimbata (sebbene diversa da
quella del dipinto come diverso è il tipo di corona), ma anche una decorazione a rombi (bordo
inferiore di una delle figure a destra del dipinto) estremamente simile a quella a quadri con
bordo decorato che adorna la dalmatica nella figura a busto intero cimitilese.
Corteo della imperatrice Teodora (chiesa di S. Vitale a Ravenna 525 -548)
Notare la decorazione a rombi della ultima cortigiana a destra.
Le figure con bordi marcati del mosaico, l'assenza di chiaroscuri, lo sviluppo totalmente
bidimensionale ed in particolare la fattura dei volti con contorni marcati ed allungati
accomunano, a nostro avviso, i due affreschi cimitilesi e le figure musive del ravennate. Altro
elemento che non andrebbe trascurato, è il fatto che il dipinto verticale cimitilese, pur
trovandosi sulla parete in cui era presente il precedente ingresso chiuso da Leone III,
campeggia in una zona esterna a quella in cui era situata l'apertura. Quella zona muraria è,
quindi, potenzialmente rimasta inalterata. Parimenti, va osservato che, salvo ritenere
successivo il muro di separazione con le due lunette e gli altarini che contengono Eusebio (di
cui parleremo tra breve) e la Maddalena, il muro stesso potrebbe risalire al III-IV secolo e
quindi sarebbe anomalo che, pur essendo state ricavate due aree incavate destinate
chiaramente a contenere figure o statue votive, queste non siano state affrescate per oltre 600
anni. Ma andiamo ad analizzare altre singolari similitudini con alcune opere del patrimonio
pittorico e musivo italiano. Una particolare affinità la ritroviamo comparando la Maddalena
ad un altro mosaico altrettanto anomalo, nella basilica di S. Prassede a Roma.
Soffermiamo l'attenzione sui primi due personaggi dei 4 che compongono il mosaico databile
al IX sec.. Interessante è il primo dei due denominato "Episcopa Theodora". Probabilmente si
trattava di una persona in vita quando è stato eseguito il mosaico e, pur ritenendo il
personaggio in aura di santità, lo si è rappresentato con una corona quadrata per distinguerlo
dagli altri quattro (Santa Prassede, la Madonna e Santa Prudenziana). Non ci soffermeremo
sull'altro interessantissimo particolare riguardante il fatto che il personaggio rappresenta
chiaramente un vescovo di sesso femminile e che, quindi, costituisce una prova della apertura,
nella chiesa delle origini, al sacerdozio alle donne 27. Va notato che la Theodora del dipinto
non è mai divenuta santa, suggerendoci la flessibilità che il concetto di santità aveva nel
primo Medioevo e sul quale torneremo in relazione al dipinto che a Cimitile raffigura S.
Eusebio. Molto interessante, ai nostri fini è il personaggio di S. Prudenziana rappresentato con
una corona a tre punte simile alle tre punte che ritroviamo nella corona della Maddalena. Ciò
aggiunge un tassello alla nostra ipotesi di predatazione, portandoci a soli 400 anni dalla data
che presumiamo sia quella di composizione del nostro dipinto.
Altro sito fondamentale per la nostra elaborazione è la antichissima basilica di S. Maria
Maggiore a Roma ed anche in questo caso le opere che ci interessano sono due stupendi
mosaici il primo dei quali orna la facciata. La basilica del IV secolo fu ristrutturata da Papa
Innocenzo II nel XII secolo dandogli l'attuale aspetto. Il mosaico in facciata mostra una
stupenda Vergine in trono priva di corona, circondata dalle vergini savie e da quelle stolte
della famosa parabola evangelica. Giungiamo, così, alla prima stranezza. Le vergini savie
posseggono sia aureola che corona. Per essere più precisi, le vergini stolte posseggono solo
l'aureola e portano una lampada ad olio spenta, mentre quelle savie posseggono aureola e
corona con lampada ad olio accesa.
Difficile è dire quale sia il motivo che ha spinto l'autore del mosaico a raffigurare anche le
vergini stolte con l'aureola. Se questa era strana per quelle savie, visto che si tratta di
personaggi di fantasia, ci pare assurda per quelle stolte che non sono in alcun modo
collegabili al concetto di santità. Raffrontando le raffigurazioni delle Vergini con quella della
Maddalena nelle basiliche di Cimitile emergono svariate similitudini che non possono essere
solo frutto del caso. Prima di tutto, osservando le vergini savie, si nota il ripetersi costante
della presenza di una corona a tre punte simile a quella della Maddalena, ma è evidente che
questo è solo uno degli aspetti e forse il meno interessante. La veste di tutte le vergini ha una
fattura pressoché analoga a quella della Maddalena a figura intera cimitilese. Si ripetono i
quadroni anche se in questo caso sono disposti romboidalmente. Ritornano il bordo e le
maniche ricamate, la cintura decorata e, cosa che risalta in maniera emblematica, la evidente
presenza di un nimbo sotto la corona delle vergini savie. Il contrasto tra la Madonna priva di
corona e le vergini savie rende ancor più singolare la raffigurazione, specie se si entra
all'interno della basilica e si comparano la vergine sulla facciata - priva di corona, ma assisa in
trono con il bambino - e quella in trono incoronata che si trova all'interno.
Qui la "Madonna" appare abbracciata al Cristo, e sormontata, da una corona che, ancora una
volta, si presenta con tre punte ed ha foggia identica a quella delle vergini sulla facciata.
Colpisce l'aspetto giovanile della figura femminile, di fronte alla quale il Gesù barbuto, che
poggia una mano sulla spalla della donna (altro atteggiamento singolare), appare visibilmente,
più anziano. Comparando le vesti della Madonna in facciata con quella raffigurata sotto
l'abside appare stridente la differenza. La veste della Madonna in facciata, sebbene elaborata,
non sembra una veste nobiliare. Il drappeggio vistoso e le decorazioni geometriche grossolane
sembrano fatte per esaltare la differenza tra la nobiltà delle vesti delle vergini savie rispetto a
quella della Madonna. La veste della Madonna sembra molto più vicina a quella priva di
decorazioni delle vergini stolte che non a quella riccamente decorata di quelle savie. La
Madonna, invece, sotto l'abside è vestita con una sfarzosa veste riccamente decorata ed
indossa scarpe, anch'esse decorate che risaltano di fronte ai piedi nudi di Gesù che indossa un
semplice paio di sandali.
Crediamo che la sequenza delle 4 immagini, le prime due della Maddalena nelle basiliche di
Cimitile, la seconda di una delle vergini della basilica di S. Maria in Trastevere e l'ultima
della Madonna in trono sempre nella medesima basilica rendano meglio di ogni altra
descrizione le deduzioni comparative che intendiamo proporre. Ad aumentare le nostre
perplessità di fronte all'ambigua raffigurazione absidale della chiesa trasteverina intervengono
le due iscrizioni: "leva eius sub capite meo et dextera illius amplexabitur me" (la sua sinistra
è sotto il mio capo e la destra mi abbraccerà) incise nel rotolo che tiene in mano la Madonna
e "veni electa mea et ponam te in thronum meum" (vieni mia eletta e ti porrò sul mio trono).
La scritta riportata nel libro tra le mani del Cristo la ritroviamo anche in un dipinto
sostanzialmente identico, successivo a quello in analisi presente presso la cappella paolina
ultimata nel 1611.
Qui, però, sparisce l'ambiguo braccio che circonda la spalla della Vergine. Il senso profondo
di questa ambiguità si comprende solo risalendo alla fonte che ha ispirato le due scritte che è
il Cantico dei Cantici, stupendo poema biblico dedicato al dialogo passionale che intercorre
tra due sposi. La radice ambigua di questa ispirazione viene del tutto esplicata nel Pontificale
Romanum - Jussu editum a Benedicto XIV et Leone XIII recognitum et castigatum ove essa
diviene:
"Veni, electa mea, et ponam in te thronum meum. Quia concupivit rex speciem tuam."
E', quindi, evidente che colei che è rappresentata è la Sposa mistica di Cristo: la Chiesa, ma
nel contempo è anche la compagna di Cristo che non può essere la Vergine sebbene la
teologia cattolica voglia caricare la Madonna anche di questo appellativo. La donna nel
dipinto riprende il concetto espresso nell'epistolario paolino, in tal senso essa è, a nostro
avviso, ispirata da una iconografia ancora in fase di transizione al momento della
composizione del mosaico che aveva sovrapposto l'immagine della Madonna (in vesti umili) a
quella della Maddalena (in veste e con corona regale) con l'intenzione di soppiantare
quest'ultima. In questa nuova e più tranquilla collocazione teologica, gli artisti possono
elaborare il concetto spingendosi fino a porre la "nuova" Maddalena sul posto che le
competeva secondo la gnosi e quindi sul trono di Cristo, riprendendo l'inconscia mediazione
proposta da S. Paolino: la Maddalena quale simbolo della Chiesa e Sposa mistica di Cristo. Il
dipinto cimitilese è, quindi, una preziosa prova di questa transizione dal culto della
Maddalena incoronata a quello delle varie Madonne incoronate che popolano le chiese, in
particolare, quelle del Sud Italia. Questa prova, già di per se validissima, acquista ancor più
forza nella ipotesi da noi proposta, che suggerisce una data anteriore a tutte le opere che
abbiamo esaminato, e che esamineremo ancora nel seguito di questa trattazione. E' la stessa
esistenza della Maddalena intatta nelle basiliche che testimonia la sua antichità, riportandoci
ad una fase storica, come quella che vide la stesura dell'epistolario paolino, ove tale ambiguità
non era ancora colta in tutto il suo potenziale teologico devastante.
Ma torniamo al mosaico romano. La similitudine tra le figure delle vergini nel corteo musivo
della facciata di S. Maria in Trastevere ed il corteo della Imperatrice Teodora nella chiesa di
S. Vitale sembra tutt'altro che casuale anche se si pensa che nella stessa chiesa viene
conservato una delle più antiche raffigurazioni della Madonna databile al VI-VII sec. che
mostra evidenti analogie con l'immagine della Imperatrice nella chiesa di S. Vittore.
L'abito presenta la medesima decorazione dell'ampio collare della dalmatica di Teodora,
identico è, poi, il copricapo nimbato nelle due figure. Siamo a poco più di 100 anni dalla
realizzazione delle basiliche cimitilesi e, sebbene, come si sa, nessuna delle madonne
precedenti a quella del 1344 nella basilica di S. Maria degli Angeli porti la corona, a Roma
parecchi secoli prima si rappresenta una Madonna con copricapo bizantino ed in veste regale,
a testimonianza dell'inizio della fase di transizione iconografica di cui si parlava.
A questo punto, ciò che manca alla nostra ricostruzione è un dipinto che rappresenti il
momento di transizione in cui il copricapo bizantino imperiale alla Teodora sulla testa della
Vergine sia appaiato alla corona a tre punte sulla testa della Maddalena. Questo dipinto esiste
ed è stato di recente scoperto nella chiesa di Santa Susanna28 in Roma.
Il dipinto rappresenta le tre Marie evangeliche. La Maddalena è all'estrema destra,
riconoscibile dal vaso che sorregge con gesto identico a quello della Maddalena nelle
basiliche cimitilesi, è sormontata da una corona a tre punte che la differenzia dal personaggio
di sinistra che ne è privo. La Vergine, invece, si presenta con il bambino e con il copricapo
imperiale bizantino della principessa Teodora nella basilica di S. Vitale a Ravenna. Singolare
ci appare anche la similitudine formale tra questo dipinto e quello cimitilese, specie in
relazione al modo in cui sono stati delineati i contorni del volto e degli occhi. Si paragonino,
infatti, le palpebre della Madonna di questo dipinto con quelle della Maddalena cimitilese.
A questo punto possiamo ricapitolare i passi della transizione di culto ed iconografica. S.
Paolino prepara la strada al cambio con la sua ardita teologia che paragona la Maddalena alla
Chiesa ed alla Sposa mistica di Cristo, riadattando un culto di origine provenzale, che aveva
incamerato nella sua terra e che era di chiara, anche se non dichiarata, sub-origine gnostica. Il
dipinto cimitilese della Maddalena incoronata, crediamo, si basi proprio su questa teologia.
Le basiliche di Cimitile e lo stesso Paolino, come testimonia il suo vasto epistolario ed in
particolar modo l'epistola 32, divengono promotori di un vasto movimento di uomini ed idee
che sfocia nella realizzazione di varie chiese tra la Provenza e l'Italia centrale e settentrionale,
che, in qualche modo, vedono una influenza diretta o indiretta del vasto complesso basilicale
cimitilese. Il costume di Paolino che commenta le immagini dipinte con un carme esplicativo,
diviene la prassi, come dimostra, appunto, la lettera 32. Le immagini non sono importanti in
quanto singole, ma in quanto combinate con il complesso delle rappresentazioni di una
basilica: questa è l'idea centrale in Paolino che esprime, chiaramente, un costume in uso al
tempo. Paolino, spesso consultato dai suoi amici, probabilmente diviene un riferimento non
solo per la già vasta e nutrita cerchia di autorevoli personaggi che stimano profondamente il
monaco nolano. In questo ambito il pensiero di Paolino sulla Maddalena dovette divenire uno
dei momenti iconografici tipici anche se, ben presto, la contraddizione stridente evidente nelle
basiliche cimitilesi, tra la Vergine in vesti umili e non regali e la Maddalena in vesti regali,
insieme alle idee eretiche della gnosi e del ruolo della Maddalena in quella eresia, dovettero
spingere ai primi tentativi di rappresentazione diversa della Madonna di cui il dipinto di S.
Maria Maggiore è una delle prime testimonianze. Quel dipinto, come anche quello cimitilese,
traggono ispirazione dai mosaici del ravennate ed in particolare dal riferimento primo della
regalità al femminile: il corteo nuziale della imperatrice Teodora. Ma Paolino - ritenendo
plausibile la datazione da noi proposta per la Maddalena cimitilese - sceglie un modello
raffigurativo più libero e che, come mostreremo tra breve, sembra ispirato alla sua origine
Provenzale o è, comunque, di origine Francese. Quella raffigurazione della Maddalena e la
teologia che Paolino esprime, è ancora presente nel dipinto della basilica di S. Susanna. Qui,
però, la Maddalena incoronata è affiancata alla Vergine imperatrice. La Vergine indossa il
copricapo bizantino della imperatrice Teodora che pone il suo simbolo regale al di sopra di
quello della Maddalena rappresentata con la corona a tre punte. Questo è l'apice del periodo di
transizione prima della scomparsa definitiva della Maddalena incoronata. Sarebbe interessante
sapere se lo stato di degrado del dipinto è dovuto ad una deliberata distruzione, ma ciò ci
porterebbe fuori tema.
Altro interessante dettaglio, tutt'altro che trascurabile, è costituito dal volto volontariamente e
fortemente brunito, della Maddalena nel dipinto cimitilese. E legittimo pensare che, se il culto
della Vergine Incoronata costituisce una sovrapposizione sostitutiva di quello della
Maddalena, il culto delle Madonne Nere, anch'esse sempre incoronate, è il più chiaro e diretto
richiamo alla iconografia cui si ispira e che testimonia il dipinto cimitilese. Attraverso la
Maddalena di Cimitile viene, quindi, documentalmente confermata la plausibilità della teoria
della transizione di culto dalla bruna Maddalena Incoronata alle nere Madonne Incoronate ed
alle Madonne Incoronate in generale.
Resta, a questo punto, il dubbio sulla datazione della Corona e sull'origine di quella
particolare foggia che, evidentemente, non era italica, ma francese. A testimoniare l'antichità
della corona a tre punte viene la miniatura di una Bibbia carolingia del IX secolo che
mostriamo di seguito e che rappresenta Carlo Magno assiso in trono con una corona che non
è, evidentemente, la famosa Corona Ferrea.
La forma della corona a tre punte torna anche in altre rappresentazioni come un salterio del IX
sec. raffigurante Carlo il Calvo ed i simboli regali 29. La corona a tre punte, quindi, già esisteva
nella Francia della fine dell'VIII secolo, anni in cui salì al trono Carlo Magno. Possiamo
anche proporre una ipotesi sulla sua possibile origine. E' nostra convinzione che la foggia
della corona a tre foglie possa aver preceduto quella a tre punte riprendendo una tradizione
ancor più antica che potrebbe aver preso le mosse in Gallia dal costume di coronare la testa
dei re e dei vincitori ispirata, probabilmente, a quanto accadeva nel costume romano. Le
foglie ed il rami intrecciati a cerchio, potrebbero essere stati ripresi nella formazione della
foggia della tipica corona medievale "à fleurons". Le tre punte dovevano avere una funzione
simbolica particolare confermata, a nostro avviso, dalla mano di Dio che si stende sulla testa
di Carlo il Calvo nel suddetto salterio. In particolare riteniamo che le tre foglie tripartite
rappresentassero l'unità della trinità nella figura regale che manifestava, quindi, la
congiunzione tra la funzione regale e quella divina.
Ma torniamo alle basiliche di Cimitile. A rafforzare la nostra convinzione inerente la
datazione dei due affreschi delle lunette al IV secolo è l'altro dei due dipinti raffigurante S.
Eusebio. Soffermiamoci allora su questa raffigurazione ed in particolare sulla identità del
personaggio.
Che si tratti di S. Eusebio ci è confermato dalla dicitura visibile (EUSEBIUS) a destra del
Santo. Un interessante particolare che accomuna i due dipinti (la Maddalena ed Eusebio) a
quelli del ravennate, non ripreso in alcuno dei dipinti fino ad ora visti, è nella forma e nella
realizzazione delle due aureole. Entrambe hanno un bordo scuro in cui sono incastonate
pietruzze bianche a mo' di mosaico. Questo modo di rappresentare l'aureola è comune solo
alle basiliche bizantine di Ravenna. Nella immagine seguente sono comparate le due
raffigurazioni da cui si evidenzia la similitudine anche nel modo di rappresentare il viso, di
marcare i contorni e nello sviluppo piano in cui i chiaroscuri sono pressoché assenti.
Ma a quale S. Eusebio si riferisce il dipinto? La presenza del libro, la dalmatica rossa tipico
abito vescovile, l'aureola che identifica il santo sembrerebbero ricondurci a S. Eusebio
vescovo di Vercelli cui è attribuita la prima traduzione in latino dei Vangeli (il duomo di
Vercelli conserva ancora un codice di quella traduzione, attribuito al vescovo), eppure, anche
in questo caso, le lettere di Paolino aprono una diversa e straordinaria possibilità di
identificazione. In una delle sue primissime lettere scritte dopo soli due mesi dall'avvio della
personale attività monastica iniziata con il trasferimento dalla Spagna a Cimitile, Paolino
scrive a S. Agostino quanto segue:
In verità io, sebbene inferiore a te in tutto, con un dono che potesse ricambiare in qualche modo il
tuo, ti ho procurato, così come avevi chiesto, la famosa Storia Universale di Eusebio, venerabile
vescovo di Costantinopoli ... Ad ogni modo, poiché ti sei degnato di indicarmi anche i luoghi dove
potevi trovarti, così come tu stesso avevi consigliato, ho scritto al nostro padre Aurelio, tuo
venerabile collega nella dignità episcopale, di modo che, qualora attualmente tu ti trovassi ad Ippona
egli abbia la cortesia di inviarti colà la mia lettera e questo codice membranaceo dopo averlo fatto
trascrivere a Cartagine ... affinché al nostro parente Domnione non mancasse troppo a lungo il suo
codice e quello a te trasmesso restasse a tua disposizione senza necessità di restituirlo .
L'equivoco che porta Paolino a confondere Eusebio da Cesarea con Eusebio vescovo di
Costantinopoli è alquanto singolare, visto che il secondo fu, fino alla morte, un acerrimo
sostenitore di Ario e della eresia gnostica. L'errore appare ancor più vistoso ed inspiegabile se
si constata come Paolino, sebbene non possedesse il testo in precedenza, ne conosceva la
fama e se si pensa che egli lo stava inviando ad Agostino in cambio dei suoi scritti appena
pervenutigli in cui Agostino confuta le eresie del periodo. Va anche detto che, con questa
lettera, la prima che Paolino invia ad Agostino, egli si propone di instaurare una amicizia
salda con un personaggio che fino ad allora conosceva solo per fama, probabilmente l'evento
avrebbe meritato una maggiore attenzione. Sicuramente né Eusebio da Cesarea né,
ovviamente, Eusebio da Costantinopoli sono divenuti santi, ma il termine venerabile, adottato
da Paolino, la disconoscenza dei fatti che egli dimostra nella epistola accompagnata dalla
importanza che Paolino dà all'opera di Eusebio, suggeriscono una diversa interpretazione
delle due rappresentazioni nella cappella dei S.S. Martiri, ma per giungerci dobbiamo operare
una breve digressione. Sappiamo che la lettera 3, ora citata, fu scritta nel 359 poco dopo
l'arrivo a Nola, mentre la 23, vista in precedenza (quella in cui si parla della Maddalena) fu
scritta 5 anni dopo. Ciò che esisteva, all'arrivo di Paolino, era sicuramente la cappella dei
Martiri priva dei numerosi affreschi fatti realizzare in parte proprio da Paolino. Sappiamo
anche che Paolino fece portare a Nola i frammenti della Santa Croce e che manteneva un
particolarissimo interesse per reliquie quali quelle di S. Felice cui era profondamente devoto.
La vistosa corona che campeggia sulla testa della Maddalena non può non richiamare quella
che compare nella scritta marmorea apposta sotto il protiro realizzato dal vescovo Leone III
che recita:
Basilica de' S.S. Martiri la quale è un intero pozzo, pieno delli corpi e sangue delli suddetti, e si sente
bollire ne' giorni de' loro natali. Una donna incredula vi calò la corona e la tirò su piena di sangue,
le cui gocciole incavarono il marmo. A man destra si vede il luogo ove S. Felice fu difeso dalle tele
d'Aragni.
Il giorno dei natali è da intendersi come giorno del martirio fatto coincidere con quello della
passione di Gesù, mentre l'ultimo episodio parla di un salvataggio miracoloso di S. Felice che
in fuga fu nascosto dalle ragnatele tessute velocemente da un gruppo di ragni. Nella lapide si
narra di "una" donna e non di una regina, ma nel contempo di parla "della" corona, come se
l'oggetto fosse essenziale nella narrazione e fosse preesistente al fatto. In buona sostanza non
crediamo sia peregrina l'ipotesi che la corona fosse una delle reliquie conservate nella
cappella, proprio sull'altarino di fronte alla Maddalena, ciò spiegherebbe un gesto, altrimenti
alquanto anomalo, quale quello di introdurre una corona in una pozza di sangue: il gesto,
probabilmente, racchiudeva un consolidato rituale. Approfittando della leggenda che voleva la
Santa di stirpe regale, anche per il suo legame spirituale con Gesù, è possibile che si ritenesse
la corona come appartenuta alla Santa, conciliando la leggenda della goccia di sangue che
scava la roccia e quella della corona della Maddalena. Il gesto rituale avrebbe avuto anche un
forte valore simbolico nell'ottica della funzione che Paolino conferisce alla Maddalena:
essendo, infatti, essa il simbolo della Chiesa, la sua corona era la corona stessa della Chiesa
che immersa nel sangue dei Martiri assumeva una potente funzione allegorica. Il gesto
compenetrava in sé la Chiesa ed il Sangue dei Martiri, e probabilmente, poggiandosi la corona
sul capo i fedeli intendevano acquisire una duplice benedizione. Se, allora, l'altarino di fronte
alla Maddalena era destinato alla corona vistosamente rappresentata sul capo della Santa, è
intuibile che quello simmetrico dedicato a S. Eusebio contenesse il voluminoso libro che egli
mantiene sotto il braccio e che quel libro fosse proprio il testo membranaceo della "Storia
Universale" che, come si legge dalla epistola, dovette tornare a Nola dopo essere stato
ricopiato per Agostino. In quest'ottica la funzione teologica delle due figure è abbastanza
chiara. S. Eusebio con la sua Storia Universale rappresenta il cristianesimo come fulcro della
storia dell'Uomo. La storia stessa culmina nel cristianesimo e nella fondazione della Chiesa di
Roma. La Maddalena, dal canto suo, come Paolino stesso indica, è il simbolo stesso della
Chiesa, ed è allora chiara la scelta di decorare con medesimo motivo, la cintura della Santa sul
libro che S. Eusebio tiene sotto il braccio.
Cintura della Maddalena - Particolare della
decorazione comparato con la decorazione sulla
copertina del libro tra le mani di S. Eusebio.
La mancanza di affreschi simili sulla parete (fatta eccezione per il Cristo sul trono e per i
dipinti nelle parti interne dell'arco) conferma la nostra convinzione che si sia voluto dare
risalto, fin dalla costruzione del muro nella basilica, alla figure in esso rappresentate (Cristo,
Eusebio e la Maddalena).
Soffermiamoci, a questo punto, sugli oggetti che le due Maddelene cimitilesi portano tra le
mani. L'unica differenza evidente è nell'oggetto che la figura intera ha tra le mani e che ci
riporta a quelli che appaiono nella immagine a mezzo busto sotto le maniche del vestito. Nella
figura a busto intero il braccio destro regge un oggetto scuro che sembra l'estremità del
medesimo oggetto chiaro che è sotto il braccio sinistro. Sebbene le due estremità diano
l'impressione d'essere la testa di due bimbi, l'uno biondo l'altro bruno, la mancanza della parte
inferiore dei presunti due corpicini ci porta ad escludere questa ipotesi 30, l'oggetto parrebbe,
invece, essere una sorta di rotolo di notevoli dimensioni. E' proprio l'immagine ridotta del
medesimo rotolo nella figura a mezzo busto che emerge sotto le due braccia della Maddalena
nell'altare che ci fa desumere che proprio di questo oggetto possa trattarsi. E', a questo punto,
evidente che il rotolo in questione non può che essere il telo sindonico. Infatti la Maddalena
nella figura a mezzo busto è raffigurata prima della passione con il simbolo che ne
preannuncia l'imminenza: il vaso. Il telo appare ridotto per dare rilevanza al simbolo degli oli
profumati della unzione. Nella figura a busto intero, la Maddalena è ritratta dopo la Passione
quale depositaria della preziosa reliquia e quindi della prova della resurrezione. E' infatti,
proprio la Maddalena la prima a recarsi nel sepolcro e la prima a vedere il Cristo risorto. La
Passione ed il sangue del Martirio con la regalità della sposa mistica che dalla Maddalena si
estende a tutti gli apostoli ed ai Martiri, sembra, quindi, essere il tema dominante della
cappella. Lo stesso Paolino, nelle sue epistole (es.: nella epistola 3,4) parla di "stirpe regale e
sacerdotale" riferendosi all'apostolato.
Come anticipato, vogliamo chiudere questo lungo paragrafo con un forte senso di amarezza.
La foto che riportiamo è tratta dal bel volume di Arcangelo Mercogliano Le Basiliche di
Cimitile (ed. Barone) ed espone la situazione al 1988. E' con sincero dolore che constatiamo
l'ulteriore degrado e lo scempio cui è stato sottoposto il dipinto. Oggi la cintura della
Maddalena è del tutto scomparsa, come scomparsa è la scritta che appariva a sinistra della
testa. Uno sciagurato intervento privo, a nostro avviso, di senso, con il quale sono state
coperte con uno spesso strato di intonaco a base cementizia (notoriamente isolante) le pareti
della cappella di S. Giacomo subito dietro il dipinto della Maddalena, ha provocato una
copiosa traspirazione attraverso il dipinto che risulta, oggi, vistosamente coperto di sali
minerali con parti irrimediabilmente perse come il nome stesso della figura. La cintura,
probabilmente per effetto di questo e di altri sciagurati interventi che nulla avevano a che
vedere con il recupero, è scomparsa del tutto, essendo crollato l'intonaco che la sosteneva.
Ma il danno irreparabile non finisce qui. Il libro di Mercogliano (pag. 224) parla della figura
intera della Maddalena, segnalando che la santa (che non identifica) appare riccamente
addobbata e sormontata da corona: di quella corona non v'è traccia, essendo stata cancellata
insieme all'intonaco che era al di sotto: ma da chi? Evidentissime sono le tracce di schizzi di
cemento sulla figura che, quindi, non è stata protetta durante gli interventi. Abbiamo rilevato
anche quelle che sembrano abrasioni di spazzola effettuate, forse, per far fronte al danno che
si era procurato. E' indispensabile un immediato intervento per salvare queste due opere di
inestimabile valore non solo artistico, ma storico e teologico che gettano una luce definitiva a
testimonianza delle trasformazioni del culto cristiano e della epurazione delle componenti
ritenute troppo vicine alle eresie gnostiche con assimilazione e trasformazione in altri culti.
Abbiamo doverosamente, segnalato il problema che ha trovato pronto e sensibile riscontro
nelle persone dei professori Sersale e Marino del Dipartimento di Ingegneria dei Materiali
dell'Università di Napoli, i quali si sono fatti carico di un articolo denuncia che uscirà,
probabilmente, in contemporanea alla pubblicazione di questo nostro. Crediamo sarebbe
opportuno non alimentare nuove leggende in merito alla deliberata volontà di distruggere tutto
ciò che può riportarci alla verità sulla storia del Cristianesimo, già ricca di momenti oscuri per
fortuna passati ormai da tempo.
L'eresia catara, il Vangelo di Filippo ed il mosaico di Otranto
Nella convinzione che l'eresia Catara trovi parziale riscontro anche nell'opera musiva di
Pantaleone riportiamo di seguito un brano trattato dalla Historia Albigensis di Pierre de Vaux
de Cernay31. Il lungo estratto evidenzia gli aspetti principali della eresia che ritroviamo
nell'opera musiva di Pantaleone:
Prima di tutto, bisogna sapere che gli eretici ritenevano che ci siano due Creatori; cioè uno delle cose
invisibili, che chiamano il Dio buono, ed un altro delle cose visibili, che chiamano il Dio maligno.
Attribuivano il Nuovo Testamento al Dio buono e l'Antico Testamento al Dio maligno e quest'ultimo
lo rifiutavano interamente, con l'eccezione di alcuni passi che sono accolti nel Nuovo Testamento;
questi ultimi li ritenevano degni di essere accolti per la riverenza dovuta al Nuovo Testamento. Essi
accusavano l'autore dell'Antico Testamento di falsità, poiché il Creatore disse: "Nel giorno che
mangerete dell'albero della conoscenza del bene e del male, morirete"; ma (dicono) dopo averne
mangiato non morirono; mentre, invero, dopo aver mangiato il frutto proibito (gli uomini) furono
assoggettati alla miseria della morte. Lo chiamano anche omicida, sia per aver bruciato Sodoma e
Gomorra ed aver distrutto il mondo con le acque del diluvio, sia per aver scaraventato nel mare
Faraone e gli Egiziani. Affermavano anche che tutti i padri dell'Antico Testamento erano dannati; che
Giovanni il Battista era uno dei più grandi demoni. Essi dicevano anche, nella loro dottrina segreta,
che quel Cristo che era nato nel mondo visibile, nella Betlemme terrestre, e fu crocifisso a
Gerusalemme, era malvagio, e che Maria Maddalena era la sua concubina; e che era lei la donna
sorpresa in adulterio, di cui leggiamo nel vangelo. Poiché il Cristo buono, dicevano, non mangiò
mai, né bevve, né prese su di sé carne mortale, né fu mai in questo mondo, eccetto che spiritualmente
nel corpo di Paolo ... Dicevano che quasi tutta la chiesa di Roma era un covo di ladri; e che era la
prostituta di cui si legge nell'Apocalisse. Erano così contrari ai sacramenti della Chiesa, da insegnare
pubblicamente che l'acqua del Santo Battesimo equivaleva in tutto all'acqua di un fiume e che l'Ostia
del Santissimo Sangue di Cristo non era diversa da un pane comune, instillando nelle orecchie dei
semplici questa bestemmia, che il corpo di Cristo, anche se fosse stato grande come le Alpi avrebbe
dovuto da tempo essere consumato e distrutto da quelli che ne avevano mangiato. Consideravano la
Cresima e la Confessione inutili e frivole. Predicavano che il Santo Matrimonio equivaleva al
meretricio e che nessuno poteva salvarsi in esso, se avesse generato dei figli. Negando anche la
Resurrezione della carne, inventavano delle storie inaudite, dicendo che le nostre anime sono quelle
di spiriti angelici che, scaraventati giù dal cielo a causa dell'apostasia dell'orgoglio, lasciarono in
aria i propri corpi glorificati; e che queste stesse anime, dopo aver dimorato in successione in sette
corpi terrestri, di una specie o dell'altra, avendo alla fine adempiuto la propria penitenza, ritornano
ai loro corpi abbandonati.
Pur tenendo conto del fatto che la testimonianza è fortemente inficiata dall'atteggiamento
negativo che il monaco cistercense premette alla sua analisi va anche detto che le rare
testimonianze (principalmente interrogatori della Santa Inquisizione) sono abbastanza
concordi. Il primo aspetto rilevante è sicuramente la testimonianza del concubinaggio tra la
Maddalena e Gesù in cui credevano i Catari ma che, a differenza di quanto si può pensare
visto il puritanesimo estremo dei Catari, è in linea con la loro teologia. In effetti i Catari
distinguevano nettamente l'apparenza corporea - che viene da loro associata
inequivocabilmente al dio dal male, come ogni cosa visibile - ed il Gesù spirituale. Il Gesù
carnale può aver fatto e forse ha fatto realmente, nella visione catara, ogni sorta di male. Se
vogliamo questo è il classico dualismo gnostico ed è anche uno dei principi esposti, tra gli
altri testi, anche nel Vangelo di Filippo ove la materia è lo strumento con cui gli Arconti
ingannano l'uomo. Interessanti sono, ad esempio brani come questo, tratti dal Vangelo di
Filippo (54,20):
Gli arconti vollero ingannare l'uomo a motivo della sua parentela con quelli che sono veramente
buoni.
Presero il nome di coloro che sono buoni e lo attribuirono a coloro che non sono buoni ...
Quindi nessuna meraviglia che il nome di Gesù venga associato a pratiche sessuali illecite con
la Maddalena. Del resto il disprezzo per il Gesù materiale e l'adorazione per quello spirituale
poteva ben conciliarsi con un analogo atteggiamento per la Maddalena e quindi il disprezzo
per la Maddalena carnale ed il culto per la Maddalena spirituale massima espressione del
pensiero gnostico ed esempio nella ricerca della ricongiunzione al Padre. E ancora, ecco come
il Vangelo di Filippo ci aiuta a capire il dualismo del Gesù cataro(55,30):
C'è chi dice<< Maria ha concepito per opera dello Spirito Santo>>. Sbagliano. ... Quando mai una
donna ha concepito per opera di una donna? Maria è la vergine e non fu mai contaminata da alcuna
forza ... E il Signore non avrebbe detto:<<Il Padre mio che è nei cieli>> se non avesse avuto un altro
padre. Egli avrebbe detto semplicemente: <<Mio Padre>>
Il brano è perfettamente in linea con la polemica delle Toledot ebraiche e quella di Celso che
voleva Gesù figlio di un soldato romano di nome Pandera. Anzi l'adulterio è in perfetta linea
con la separazione tra il Gesù spirituale e quello carnale cui, proprio perché materiale, sono
possibili ogni sorta di perversione. Lo stesso argomento della non credenza nella
resurrezione dei corpi è tipico del Vangelo di Filippo (56,30):
Alcuni temono di resuscitare nudi, perciò desiderano resuscitare nella carne. Costoro non sanno che
proprio quanti portano la carne sono nudi ... <<La carne ed il sangue non possono ereditare il Regno
di Dio>> ... <<Colui che non mangia la mia carne e beve il mio sangue non avrà in se la vita>>.
Che significa? La sua carne è il Logos ed il suo sangue è lo Spirito Santo. Colui che ha ricevuto
questo ha cibo, bevanda e vestito.
Chi avesse letto questo brano e gli altri simili del Vangelo di Filippo non poteva non
pervenire alla conclusione che l'eucarestia non aveva valore. Un discorso analogo vale per il
Battesimo. Ecco cosa afferma il Vangelo di Filippo in merito (64,30)
Se uno scende nell'acqua e ne risale senza avere ricevuto nulla e dice: <<Io sono un cristiano>>:
costui si prende in prestito il Nome. Ma se riceve lo Spirito Santo, costui ha il Nome come dono. A
colui che ha ricevuto un dono non lo si domanda indietro.
Anche per il Matrimonio vale il medesimo discorso, seppure il brano riportato dal monaco
non è attendibile in quanto ritroviamo altri brani in cui il matrimonio, pur riconosciuto come
fonte di peccato, non lo è se lo scopo resta quello della procreazione. Nella Summa de
Chataribus di Raniero Sacconi si legge:
Condannano anche il sacramento del matrimonio, dicendo che i coniugi commettono peccato mortale
se si uniscono senza aspettativa di generare - inoltre, non si curano della compaternità, disprezzano i
gradi di affinità carnale e spirituale e gli impedimenti degli Ordini (monastici) e del pubblico pudore
e le proibizioni della chiesa ... dicono anche che la chiesa ha sbagliato nel proibire il matrimonio del
clero, mentre la chiesa orientale lo ammette.
Questo duplice atteggiamento sul matrimonio è visibile anche nel Vangelo di Filippo (65,10)
ove si legge:
Vi sono spiriti impuri maschili e femminili: i maschi si associano alle anime che hanno preso
domicilio in corpi di femmine e i femminili sono associati a quelle dei corpi degli uomini a motivo di
colui che disobbedì: e non sfugge loro alcuno - poiché essi lo trattengono - a meno che uno non
riceva una forza maschile e una forza femminile e cioè quella del fidanzato e della fidanzata. Questo
poi si riceve in immagine nella camera nuziale.
Anche se in Filippo il matrimonio diviene la massima espressione del cristiano gnostico ed è
una via indispensabile per la ricongiunzione degli Eoni al Padre (69,30):
La redenzione ha luogo nella camera nuziale. Ma la camera nuziale è superiore ad essa poiché tu non
troverai nulla come essa.
Del resto l'accoppiamento casto dei due elefanti (Gesù e Maddalena secondo la nostra
ricostruzione) alla radice dell'albero nel mosaico è chiaramente vicino a questa posizione e
non a quella estrema dei Catari.
Ma passiamo ora al più interessante degli aspetti: la visione veterotestamentaria dei Catari.
Cominciamo col dire che, in periodo post-iconoclasta e sulla base della repulsione che i Catari
avevano per le reliquie e per le immagini, la rappresentazione veterotestamentaria può essere
consentita solo a patto che non la si ritenga sacra. Tutto ciò che è sacro, invece, se vogliamo
addentrarci nella mentalità di un cataro o di uno gnostico vicino a questo modo di vedere il
mondo, va espresso in forma allegorica. E' forse questo il motivo per il quale Pantaleone
rappresenta in forma chiara e leggibile le scene veterotestamentarie e in forma simbolica e
nascosta quelle neotestamentarie (la croce, la Maddalena, ecc.). Agli occhi di un eretico
gnostico che si ispirasse al Catarismo, il Vecchio Testamento appariva come un inganno del
Demonio e quindi del Dio del Male. Scene come il diavolo al centro della chiesa (il serpente),
le scene grottesche di re Artù nel paradiso terrestre, o dei mostri Leviathan e Melusine
(Abraxas) lì dove ci dovrebbe essere Dio o della nascita non verginale di Cristo attraverso il
soldato Pandera (la pantera alata) sembrano più che plausibili, anzi obbligate in quest'ottica.
La polemica anticlericale di Pantaleone che ci invita ad uscire dalla chiesa seguendo l'albero,
pare tutt'altro che irreale.
Il dualismo bene-male lo ritroviamo in tutta la sua forza ed in tutte le parti del mosaico. Due
alberi del bene e del male (non inclusi nelle figure del precedente articolo, e grandi un quarto
di quello centrale) campeggiano nelle navate laterali, ed entrambi sono alquanto enigmatici.
L'albero del male nella navata sinistra, ricco di scene che l'amico Corona ha associato
giustamente a varie scenografie dantesche, contiene un elemento emblematico: in cima ad
esso, a sinistra (e quindi dallo stesso lato del male nell'albero del male) ci sono i patriarchi
Isacco, Giacobbe e Abramo. Solo un cataro avrebbe collocato i Padri del Vecchio Testamento
in ciò che è inequivocabilmente l'Inferno. Ma lo stesso albero del bene, nella navata destra,
non differisce molto. Scene strane come quella di un leone (scritto in maniera altrettanto
strana L Eone?) che mangia la coda di un serpente che a sua volta mangia una capra non
sembrano simboleggiare nulla di associabile al bene, tantomeno se si pensa che in basso a
destra c'è, addirittura, un Minotauro famoso per i sacrifici umani che gli erano tributati e non a
caso un richiamo al labirinto quale quello che campeggia al centro della cattedrale di Chartres.
Inutile dire che, nella visione catara, il Vecchio Testamento è un inganno come un inganno è
la morte della quale vengono minacciati Adamo ed Eva per aver mangiato dall'albero del bene
e del male. Un inganno cui solo gli stupidi possono credere gli stupidi che si credono Re,
come Artù, ma che cavalcano una capra usurpando titoli (quelli di cristiani) che non gli
appartengono ottenuti anche questi con l'inganno (il gatto con gli stivali). Malvagio è il dio
demoniaco dell'Antico Testamento, nella eresia catara, che distrugge il mondo e che al Noè
implorante fa costruire una Arca per salvare l'umanità. Eppure la generazione che esce fuori
da quell'Arca è una serie tremenda di mostruosi uomini imbestialiti, animali immondi e
multiformi ma pur sempre uomini (vedi parte centrale inferiore destra del mosaico). Ed in
tutto ciò l'uomo cerca mezzi assurdi per raggiungere Dio: la torre di Babele (al centro a
destra) o i grifoni su cui Alessandro vuol raggiungere il cielo (al centro a sinistra).
La stessa Croce - l'albero che campeggia al centro della chiesa, raffigurante quella su cui fu
crocefisso Cristo - viene sbeffeggiata, facendo sedere una donna nuda su uno dei bracci e
facendola sorreggere da due elefanti che si accoppiano seppure castamente.
Dai Catari al progetto Templare
In tutto questo, però, c'è un problema ineliminabile. I Catari appaiono, sebbene ispirati
chiaramente da testi gnostici (a nostro avviso il Vangelo di Filippo), estremamente rozzi e
primitivi per elaborare un opera complessa e teologicamente esplosiva come il mosaico.
Inoltre stridente appare il percorso complesso della ricerca gnostica che vede nella Maddalena
la massima espressione di colei che intuisce le vie per la ricongiunzione al Padre (vedi Pistis
Sophia) con i rozzi Catari. Essi rappresentano, molto più probabilmente, solo la parte visibile
di una corrente di pensiero assai più complessa di matrice chiaramente gnostica, che
adoperava il catarismo come strumento per combattere e distruggere la Chiesa esponendo solo
la parte "popolare" di quel pensiero e riservando a pochi eletti la visione profonda e la ricerca
dura, con un "viaggio iniziatico" attraverso diversi livelli di misteri che ritroviamo in opere
ancor più difficili da decifrare del mosaico e del Vangelo di Filippo come la Pistis Sophia. In
questo quadro il culto della Maddalena e quello della "camera nuziale" del Vangelo di
Filippo, resta prerogativa degli Eletti. I Templari erano certamente, tra coloro che
oggettivamente e culturalmente potevano aspirare a questo ruolo. Del resto, sebbene le
interconnessioni tra essi ed i Catari non siano, stranamente, mai state usate come elemento di
accusa nei processi inquisitori, sono ormai molti coloro che ritengono che sia difficile negare
una fortissima interrelazione tra questo gruppo di cavalieri e gli eretici di Linguadoca.
Abbracciando questa tesi non si può non notare che il disprezzo per la Chiesa ufficiale, tipico
del mondo cataro doveva essere solo un pallido riflesso di quello che questo gruppo di Eletti
provava.
Eppure se i Templari erano davvero gli ispiratori del movimento o comunque erano in
qualche modo collegati ad esso (come vari elementi sembrano indicare e come anche dalla
nostra analisi emerge) è evidente che l'aver deciso di operare all'interno della Chiesa per
distruggerla comportava una notevole capacita di autocontrollo e di scissione della missione
da compiere dallo strumento per portarla a termine che ben si concilia con chi demonizza la
materia e la carne ma nello stesso tempo venera il simbolo spirituale che rappresenta (vedi
l'atteggiamento dei Catari verso il Cristo). Da quello che abbiamo appurato la missione
potrebbe essere stata duplice: fondare politicamente ed economicamente (furono i primi
banchieri d'Europa) un nuovo impero cristiano con sede a Gerusalemme e restituire il trono di
Francia ai legittimi discendenti (i Merovingi) disgregando e distruggendo la struttura
ecclesiastica dall'interno.
Ma era proprio questo l'obiettivo? Tutto ciò, comporterebbe un attaccamento materiale ad un
ipotetico regno terreno che mal si concilia sia con l'ideale cataro e con quello gnostico degli
Eletti di Dio. Il rifiuto del titolo di re di Gerusalemme da parte di Goffredo di Buglione
sembrerebbe smentire questa ipotesi, eppure le ricchezze accumulate, lo sforzo dei Templari
nel divenire un riferimento economico mondiale, sembrerebbero indicare il contrario. La pista
catara ci consente però di spiegare alcune anomalie tipiche delle manifestazioni Templari:
- gli strani riti con i quali essi manifestavano il proprio attaccamento all'ordine quali quello di
sputare sulla Croce: essi, infatti, separavano il Gesù materiale diabolico da quello spirituale.
Chi sputava sulla croce, consapevole del valore spirituale del Cristo e non di quello materiale
del Gesù in carne, o addirittura del suo simulacro in legno, era degno di entrare nel l'Ordine;
- la loro vita dissennata compatibile unicamente con il doppio status materiale intrinsecamente
demoniaco e spirituale, intrinsecamente divino;
- le azioni oltraggiose praticate riempiendo le chiese con simbolismi allusivi. Le chiese erano
luoghi privi di valore come le rappresentazioni e le reliquie nella visione catara;
- il modo in cui questi uomini, convinti della loro superiorità e del fatto di essere i prescelti,
agivano machiavellicamente, mistificando miti e creando leggende, adoperando qualunque
mezzo anche quelli moralmente più riprovevoli.
Purtroppo parallelamente divengono inspiegabili altri costumi e vicende. Tra le cose poco
chiare c'è, di certo, la frenetica caccia di reliquie che vede coinvolti i Templari. Nell'ambito
della teologia gnostica e catara, non si capisce quale interesse potessero avere i Templari per
le reliquie visto che, almeno sulla carta, essi avrebbero dovuto al più ignorarle se non odiarle
per il culto materiale che avrebbero generato. Inspiegabile è il loro coinvolgimento nella
costruzione dei più stupendi e spettacolari monumenti della Cristianità: le grandi cattedrali
gotiche. Tutto sembra portare alla conclusione che il potere terreno e quello materiale,
insieme alle opere da essi promosse ed alle ricerche avviate erano uno strumento per un
progetto che di terreno non aveva nulla. Diverso sarebbe stato, invece, un interesse per
documenti contenenti formulari esoterici, magici o comunque cibo per le menti e gli studi
spirituali che essi praticavano come gnostici. Del resto, crediamo di aver provato che essi
conoscevano testi come il Vangelo di Tommaso e di Filippo che, però, tenevano lontani dalla
portata del volgo ritenendosi, come iniziati-gnostici, gli unici destinatari di quei messaggi. La
matrice gnostica che pervade i testi magici dell'epoca e che ispira, insieme al misticismo
ebraico, la quasi totalità dei documenti di questo tipo che ci sono pervenuti (un esempio
classico è il Papiro Magico di Parigi), ci sembra legata in modo talmente palese all'insieme
delle vicende Templari ed alle loro realizzazioni materiali, che non si può non analizzare
l'obiettivo non dichiarato dell'azione templare senza tenere ben presente questo aspetto.
Sebbene documenti gnostici come ad esempio, la Pistis Sophia ripetano in maniera quasi
ossessiva la perdizione cui portano le azioni magiche, condannando la magia come il più
grave dei peccati, è anche evidente che molti di questi testi come l'essenza stessa della gnosi
invita gli Eletti alla comprensione di questi misteri e di queste pratiche, fornendo essi stessi
una miriade di formule ed elementi magico-simbolici più o meno palesi. Proprio la Pistis
Sophia rivela, ad esempio, che la venuta del Cristo e soprattutto il suo ritorno nelle sfere
celesti ha sconvolto il moto degli astri tanto che questi, dopo la sua azione, emanano i loro
influssi in maniera simile a ciò che accadeva prima della venuta di Gesù solo per metà di un
ciclo indefinito, mentre per l'altra metà emanano influssi opposti. La Pistis Sophia segnala
come questo fa sì che solo una metà delle opere magiche ed astrologiche degli odiati maghi,
va a buon fine, mentre l'altra metà è destinata a fallire miseramente. La resurrezione del
Cristo, nella visione della Pistis Sophia, ha lo scopo di sconvolgere il normale corso delle
cose e l'azione demoniaca delle forze del male e degli Arconti che vogliono la perdizione
dell'uomo, abbreviando i Tempi della salvezza delle anime degli Eletti. Insomma l'azione di
Cristo risorto è un raggiro ed un inganno per gli Arconti, che reagiscono, di fronte al Cristo
risorto ed alla incapacità di riconoscerlo e di comprendere i suoi obiettivi, in modo inorridito
cercando, invano, di combatterlo. Nel caos generato Gesù salva Sophia e sconvolge il corso
dei pianeti togliendo forza agli Arconti ignari e sconvolgendo lo strumento che consente agli
astrologi ed ai maghi (figli di queste forze demoniache) di prevedere il futuro e di portare, in
tal modo, con più facilità le anime degli Eoni alla perdizione. In sintesi, quello della Pistis
Sophia sembra un invito diretto agli Eletti, a cooperare in questa azione di disturbo creando
opere ed elementi che sconvolgano gli Arconti, e partecipando all'azione di salvataggio delle
anime degli Eoni che non sanno ancora d'esserlo, per favorirne la ricongiunzione al Padre. La
materia e l'inversione dei nomi delle cose buone con i nomi di quelle cattive (vedi precedente
brano del Vangelo di Filippo) sono lo strumento "visibile" degli Arconti per ingannare l'uomo
nascondendogli la verità del loro losco progetto. Il Vangelo di Filippo invita a diffidare del
mondo visibile e dei messaggi che esso trasferisce in forma esplicita all'uomo: essi sono
messaggi degli Arconti che vogliono ingannare l'uomo. Nel contempo Filippo invita ad
andare oltre la realtà e a cercare non le cose ma la loro immagine ed il loro simbolo consci di
questo inganno: lì è la verità. E nostra sincera convinzione che il progetto Templare abbia
questo scopo: seminare i simboli di una verità che divenendo falsa nello stesso momento in
cui la si palesa visibilmente, viene nascosta dietro le opere visibili ed in particolare nei luoghi
di culto per ottenere la salvezza delle anime. Gli uomini, grazie all'opera dei Templari,
vengono invitati a venerare la verità che è celata dietro al simbolo da essi creato e non la
falsità celata dietro la materia governata dagli Arconti. Un esempio è il culto della Maddalena
che essi celano ai credenti dietro il culto delle Madonne nere o dietro i simboli quali la torre
nel mosaico di Otranto. Lo stesso albero della vita dietro cui si cela lo strumento di morte e
tortura odiato da Catari e Templari, diviene il simbolo della fonte di vita per l'uomo che è il
Cristo-Logos. L'inganno, il segreto, la leggenda, le opere letterarie che essi ispirano sono uno
strumento simbolico di salvazione per l'uomo e che gli Arconti e le forze del male che sono
nella materia non devono comprendere. Gli Arconti nascondono la verità del simbolo dietro
all'oggetto materiale che lo rappresenta inducendo l'uomo a credere nella materia e a
realizzare, invece, il piano di dannazione nascosto dietro il simbolo materiale. A questo
progetto gli Eletti rispondono con altre creazioni materiali i cui simboli, però, descrivono
verità e rientrano nel progetto di salvezza di Dio.
Questo è, a nostro avviso, il "piano" Templare, e queste le motivazioni per le quali si svolge
in modo così inestricabile.
Conclusioni
Il percorso compiuto pur partendo dal simbolismo criptico del mosaico di Otranto, ha
riguardato, opere architettoniche, scultoree e pittoriche che coprono un arco di tempo di quasi
2000 anni:
- le basiliche paleocristiane di Cimitile realizzate tra il 300 ed il 900 d.c.
- la cattedrale di S Nicola di Bari, Il mosaico di Otranto, Castel del Monte in Italia e la
cattedrale di Chartes tra il XI ed il XIII sec. d.c.
- la medioevale chiesetta di Rennes con le bizzarre costruzioni postume XIX sec. dell'abate
Saunière.
In tutte queste costruzioni ed in modo diverso (talora massimamente esplicito come nelle
basiliche di Cimitile, talora celato dietro simboli all'apparenza inestricabili come nel mosaico
di Otranto), abbiamo evidenziato la presenza di una costante: il culto per Maddalena che,
sebbene abbia trovato massima diffusione della Francia Medioevale trova forte eco anche in
Italia paleocristiana. Questo culto vede la sua massima espressione in ambito gnostico. La
Maddalena assume, nella gnosi, il ruolo di suprema guida per la comprensione dei misteri del
Padre. Essa è la prima discepola di Cristo ed è chiaramente indicata come la sua compagna di
vita (Vangelo di Filippo). Ovunque questa figura è presente ci riporta in maniera
inequivocabile a questo tipo di cultura ed alla eresia che ad essa si riferisce. La persistenza e
l'antichità di questo culto ed il fatto che lo si ritrovi anche in opere antichissime che si sono
salvate dall'opera censoria operata dalla Chiesa (vedi il caso delle basiliche paleocristiane di
Cimitile o degli scritti di Nag Hammadi) ci fa ritenere che esso non sia una componente
transitoria e che sia legata ad una convinzione radicata che è stata perpetuata nonostante la
persecuzione durissima della eresia gnostica fino al 1200, per poi insabbiarsi dietro il
simbolismo criptico dei monumenti templari o dietro il culto delle Madonne nere.
L'evoluzione che il pensiero gnostico assume in testi che seguono di pochi secoli la morte di
Gesù, quali il Vangelo di Tommaso fino ad opere di una complessità simbolica e teologica
prive di eguali come la Pistis Sophia, testimoniano di uno sforzo costante nel tempo cui si
sono dedicate intelligenze non comuni. Il pensiero gnostico, espressione di una fede infinita
nelle possibilità dell'uomo e nel suo ruolo di protagonista nella ricerca di Dio, fu perseguitato
dalla Chiesa ufficiale e centralista fin dai primissimi secoli dell'era cristiana. Questo pensiero,
ha ispirato la ricerca alchimistica e magica ed ha rappresentato una sorta di luce nascosta che
si è diffusa in modi rocamboleschi durante i primi 1000 anni di vita della Chiesa aprendo, a
nostro avviso, o comunque tenendo acceso il lume della ricerca della verità anche in tempi
bui. Gli gnostici avrebbero potuto evitare di esporsi, anche se in forme criptiche, se non
avessero voluto, a tutti i costi, diffondere il loro messaggio per renderlo visibile ai pochi
uomini "spirituali" e nascosto ai tanti uomini "materiali". Nella loro teologia la persecuzione è
una parte inevitabile della loro azione: gli Arconti ingannatori usano la materia per
nascondere il loro piano di dannazione, quel piano lo si legge andando oltre la materia nel
mondo del simbolo e quindi dello spirito. Gesù ha ingannato gli Arconti ed ha sconvolto il
corso della storia sovvertendo l'ordine degli astri che i maghi e gli astrologi, ignari strumenti
degli Arconti, adoperano per prevedere il futuro ed essere avvantaggiati nel loro progetto di
dannazione dell'uomo. Gli Eletti, come crediamo si ritenessero i Templari, si fanno strumento
di un piano inverso che usa la materia e le scienze esoteriche per realizzare un piano a lunga
scadenza, che ha lo scopo di nascondere una verità superiore sostituendola alle falsità degli
Arconti dietro i simboli materiali. Consci dei diversi livelli di salvazione cui si perviene nel
ciclo delle reincarnazioni culminanti nella reincarnazione in un eletto, estendono il loro
progetto facendo sì che tutti possano prendervi parte in diversi modi. A coloro che non sono
ancora in condizione di avviarsi nel percorso misterico, viene proposto uno strumento che
argina l'effetto del male contrastandolo con gigantesche costruzioni simboliche poste nei
luoghi di culto: le cattedrali gotiche e le opere scultoree, musive e pittoriche. Questi elementi
simbolici celati nelle cattedrali e nelle opere di questi maestri muratori, nascondono diversi
livelli di lettura in analogia a quanto avviene con opere letterarie come la Divina Commedia.
In generale solo i primi tre livelli (vedi Pistis Sophia) sono aperti alla comprensione e
ciascuno dei livelli contiene chiavi di lettura per i livelli successivi. Abbiamo cercato di
illustrare questi diversi livelli di lettura applicandoli al mosaico di Otranto, ma siamo certi di
avere raschiato solo il primo strato della serie di messaggi che quest'opera, come le altre
realizzate nel Medioevo secondo gli stessi principi, nascondono.
Per concludere vogliamo riportare, sempre dal Vangelo di Filippo, alcuni passi che ci sembra
commentino bene il quadro che abbiamo provato a ricostruire, che percorre la storia cristiana
fino al Medioevo e che, forse, ha trovato anche successivamente, fino ad oggi, sostenitori
occulti di un progetto che esiste ed ha effetti solo se rimane nascosto.
La verità in simboli ed immagini
La verità non è venuta nuda in questo mondo, ma in simboli ed immagini. Non la si può afferrare in
altro modo.
Vi è una rigenerazione ed una immagine della rigenerazione. Bisogna veramente rinascer per mezzo
dell'immagine. Cos'è la resurrezione? L'immagine deve risorgere per mezzo dell'immagine ... (Vang.
Fil 67,10)
Il Dio del male
Il mondo ebbe origine da una trasgressione. Colui che lo ha creato voleva farlo incorruttibile e
immortale; ma fallì e non realizzò quanto sperava. Poiché l'incorruzione del mondo non esisteva non
esisteva l'incorruzione di colui che creò il mondo ... (Vang. Fil 75,10)
L'uomo perfetto
Non soltanto non riusciranno ad afferrare l'uomo perfetto ma non riusciranno a vederlo poiché se lo
vedessero lo afferrerebbero ... (Vang. Fil 76,20)
Didattica della gnosi
Si comporta così anche il discepolo di Dio. Se è saggio, comprende la qualità di un discepolo; le
forme corporee non l'inducono in errore; valuta piuttosto la disposizione d'animo di ognuno e parla
con lui. Nel mondo vi sono molti animali che hanno forma umana; allorché egli li riconosce, getta
ghiande ai maiali, getta orzo, paglia ed erba agli animali, getta ossi ai cani. Ai servi dà gli inizi (delle
lezioni), ai fanciulli dà (l'insegnamento) perfetto ... (Vang. Fil 80,30)
Generazione e creazione
Chi crea lavora in modo visibile ed è egli stesso visibile. Chi genera genera in segreto ed è egli stesso
nascosto stando con la sua immagine. Chi crea crea apertamente, ma colui che genera genera figli in
segreto. (Vang. Fil 81,20)
Note
1
Episteme n. 5.
2
"La triplice via del fuoco nel mosaico di Otranto", di Francesco Corona, ed. Atanor.
3
La versione proposta è stralciata e liberamente tratta da una traduzione inglese del testo disponibile
in rete al seguente indirizzo:
http://www.fordham.edu/halsall/basis/goldenlegend/GoldenLegend-Volume4.htm .
4
Tratto da Il segreto di S. Nicola di Alfredo Castelli (Martin Mystère N. 96, Sergio Bonelli Ed.,
Milano).
5
Famoso ordine monastico-cavalleresco, di cui riparleremo. Fondato si dice nel 1118, pare fosse in
contatto con i mistici Sufi, una setta islamica che adorava il Dio delle tre religioni, Ebraica, Islamica e
Cristiana.
6
Fonte: The Bingham Genealogy Project di Douglas K. Bingham che, probabilmente, adotta le fonti
adottate dallo stesso Plantard e, come riferito, secondo alcuni da lui stesso adulterate (rif. online:
http://ourworld.compuserve.com/homepages/dkbingham/GENPROJ.htm#Intro).
7
Tratte dal Bestiario medioevale, di F. Maspero e Aldo Granata, ed. PIEMME, 1999.
8
Small World [New York, Penguin Books, 1984].
9
Nel Medioevo si riteneva che questi animali castissimi si accoppiassero solo per proliferare, e che lo
facessero di spalle, per pudicizia. Rimandiamo al precedente articolo per i dettagli.
10
Vedi il precedente articolo. Il mosaico indica, con la coppia Antilope del Mare (Capricorno) e
Sagittario nella corona, la data del 22 dicembre, e con i 26 cerchi percorsi 26 volte intorno
all'Unicorno l'anno dell'ultima assunzione al trono di Dagoberto II, cui vanno aggiunte le tre punte
asimmetriche della stella sull'animale mitologico ottenendo infine 679, che è l'anno di morte.
11
Vedi il precedente articolo. Il cervo è il simbolo di S. Hubert, mentre sig in ebraico è l'atto del
voltarsi indietro: quindi Sig-Hubert = Sigisberto.
12
Vedi il precedente articolo. La prima riga corona del mosaico - che mette insieme la leggenda di
Gesù figlio di Pandera e compagno della Maddalena (la sirena Melusine), insieme alla coppia
Salomone-Regina di Saba ed alla leggenda del Mostro Marino Mervee, pure ricollegata da noi alla
sirena Melusine dai lunghi capelli (Nazir in ebraico), all'Abraxas (Drago con due code a forma di
serpente che nel mosaico è rappresentato con Melusine) ed alla leggenda del figlio mostruoso della
sirena - in pratica sembra confermare la leggenda presente nel testo già citato: Holy Blood, Holy Grail.
13
I Manoscritti del Mar Morto, di L. Moraldi, ed. TEA e UTET, ristampa 1999.
14
de Saint Hilaire: Les sceaux templiers, Puiseaux 1991.
15
Dalla rivista Actualité De L'Histoire Mìsterièuse (rif. online:
http://www.contrepoints.com/jerusalem/pages/06_bblanquefort.htm).
16
Stesso anno della costruzione della cattedrale di S. Nicola.
17
"E' probabile che le sette - comparse in seguito - dei bogomili e dei catari costituiscano gli anelli di
una unica catena, dal momento che il paulicianesimo ha prodotto il bogomilismo, il quale a sua volta
avrebbe dato vita, nell'Occidente Medievale, al movimento cataro o ne avrebbe assunto la forma.
Tuttavia, la seconda di queste filiazioni è accertata con maggior sicurezza della prima", Doresse,
Rudolph, Puech, Gnosticismo e Manicheismo, VI volume della Storia delle Religioni, edito da Laterza,
1988.
18
"Pierre tombale carolingienne (771) trouvée en 1884-5 sous l'autel de l'église romane de Rennes-leChâteau, ancienne capitale bien déchue du Comté du Razès. Actuellement dans le jardin qui précède
le cimetière, posée à plat où elle s'effrite, couverte de terre et des feuilles, et sert de plate-forme au
monument du souvenir. Détail curieux, la partie sculptée était à l'intérieur, la partie unie à l'extérieur.
Henri Guy, 12, Quai d'Alsace, à Narbonne.", tratto dal Bulletin de la Société d'Étude Scientifique de
l'Aude, tomo 31 del 1927, pag 197.
19
Esempio: "L'inganno del priorato di Sion", di Robert Richardson, da Gnosis, Primavera 1999.
20
Louis Reau, Iconographie de l'art chrétien, vol. 2, 1958, Press Universitaries de France, pag. 850.
21
Va doverosamente segnalato che il Reau, nella sua analisi, prescinde completamente dalle
fondamentali scoperte archeologiche dei testi gnostici di Nag Hammadi (scoperti da pochi anni prima
del 1958, data di pubblicazione del suo lavoro, e quindi non ancora sufficientemente noti e studiati).
Ne consegue che, relativamente al personaggio della Maddalena, centrale nella Gnosi, l'analisi
teologica e iconografica è del volume è ampiamente carente, ignorando del tutto questo fondamentale
aspetto.
22
La vistosità della corona nel dipinto cimitilese non può essere giustificata con il fugace riferimento
alle origini nobili della Maddalena nella Legenda Aurea. Le dimensioni della corona e l'amplificazione
dell'effetto ottenuta attraverso l'ampio nimbo, hanno, chiaramente, un più profondo significato per
l'autore del dipinto.
23
Paolino di Nola, Le Lettere, epistola 23-32 (a cura di Giovanni Santaniello, edito da "Istituto
Anselmi" - Piccola Opera della Redenzione, Marigliano, NA, 1992).
24
Ibidem, epistola 5-2.
25
La professoressa Castelfranchi, da noi interpellata, esclude l'associazione qui proposta tra la
Maddalena e la figura intera nella basilica dei Martiri. Su questa ipotesi, invece, abbiamo trovato
convergente l'arch. Mercogliano, profondo conoscitore del complesso ed autore del bel volume
segnalato più avanti nel testo.
26
Sia la prof. Castelfranchi che l'arch. Mercogliano hanno escluso che l'abbigliamento possa essere
bizantino, collocandolo, invece, nel periodo Svevo-Angioino. Inoltre la professoressa Castelfranchi fa
notare che in nessuna costruzione di epoca similare si trova due volte la rappresentazione del
medesimo personaggio a figura intera e a mezzo busto.
27
Per approfondimenti: "The Problem of the Ordination of Women in the Early Christian Priesthood",
Lecture delivered in the USA in 1991 by Professor Giorgio Otranto, University of Bari, Italy;
translation by Dr. Mary Ann Rossi, http://www.womenpriests.org/traditio/otran_2.htm; Dorothy Irvin,
'The Ministry of Women in the Early Church: The Archeological Evidence", in Duke Divinity School
Review, Spring 1980.
28
I frammenti dipinti restaurati e ricomposti sono stati ufficialmente presentati il 28 marzo 2000.
29
Per brevità non se ne riporta l'immagine, che è reperibile ad esempio in Storia Universale di Jacques
Perenne, pag 36, ed. Sansoni, 1960. In questa immagine la forma a foglia tripartita delle tre punte della
corona è ancor più evidente che nella miniatura carolingia riportata nel presente articolo.
30
Non possiamo non ricordare che il particolare dei due bimbi ritorna in alcuni articoli ed opere in cui
si parla della esistenza di due figli ottenuti dal matrimonio presunto di Gesù e della Maddalena. In
particolare va segnalato La linea di Sangue del Santo Graal, di Laurence Gardner. 1997, Roma, ed.
Newton Compton. Nonostante i nostri sforzi non siamo riusciti a trovare quale sia la fonte
documentale o leggendaria a supporto di questa teoria che riporta, addirittura, il nome dei due bimbi
(Tamara e Giuseppe). E' nostra convinzione che mescolare, come avviene in questa opera, fatti
documentati, leggende, ipotesi e rivelazioni mistiche serva solamente ad allontanare la verità ed a
relegare questa, che ci pare una vicenda serissima come crediamo di aver dimostrato con il presente
articolo, nel campo delle favole.
31
Il testo è tratto dalla History of the Albigenses and Waldenses (London, C.J.G. and F. Rivington,
1832), pp. 392-394, disponibile in rete all'indirizzo:
http://www.fordham.edu/halsall/source/heresy1.html . La traduzione adottata, opera dell'amico "Frank
Pawerfull" è anch'essa disponibile in rete:
http://utenti.lycos.it/NUOVAENCICLOPEDIA/Religione/eresia/introduzione.htm. Dal sito dell'amico
Frank attingiamo anche per i successivi brani riportati nel presente paragrafo.
Ringraziamenti: Questo lavoro ed i due precedenti, non avrebbero visto la luce senza il
prezioso aiuto dei professori:
- Umberto Bartocci dell'Università di Perugia per la fiducia che da ormai un anno nutre
in me e per il copioso aiuto nelle mie ricerche
- Paolo Cesaretti dell'Università di Chieti per avermi saputo indirizzare nelle mie
ricerche sull'arte bizantina
- Marina Falla Castelfranchi dell'Università di Lecce per l'aiuto fornitomi nella
interpretazione delle opere pittoriche cimitilesi alla luce della cultura bizantina
nell'Italia Meridionale
- Riccardo Sersale dell'Università di Napoli per la disponibilità nell'analizzare il
materiale fotografico a testimonianza dello stato di degrado delle opere cimitilesi.
degli studiosi ed esperti di storia cultura ed arte dell'agro nolano:
- il sociologo prof. Francesco Manganelli per le preziose informazioni e la sua
disponibilità
-
l'arch. Arcangelo Mercogliano per il preziosissimo materiale fotografico tratto dal suo
volume "Le basiliche paleocristiane di Cimitile" ed. Barone, che mi ha autorizzato a
replicare e per l'inestimabile aiuto offertomi
degli amici:
- Giuseppe Mocci che ha effettuato la prima analisi dello scempio cui è stata sottoposta
la basilica dei Martiri identificando le cause del degrado dei dipinti in essa contenuti
- Francesco Dattolo che mi ha aiutato a raccogliere la necessaria bibliografia e a trattare
le immagini nel testo
Infine un grazie sentito alla mia famiglia e a mia moglie Angela in particolare, che
sopportano da anni questa mia onerosa passione, cui dedico talora tutto il mio tempo libero
sottraendolo agli affetti.
----Sabato Scala è nato a Saviano (Napoli), nel 1964. Laureatosi in Ingegneria
Elettronica all'Università Federico II di Napoli, lavora in qualità di progettista
software presso una multinazionale del settore. Da alcuni anni compie studi e
ricerche autonome nel campo della storia delle origini cristiane, nel quale
ambito ha proposto una nuova visione d'insieme, centrata su una ricostruzione
alternativa della vita e delle opere di Paolo di Tarso (consultabile in linea al
seguente indirizzo: http://digilander.iol.it/sabato). L'approfondimento delle
radici del cristianesimo gnostico lo ha portato, di recente, a concentrarsi sulle
influenze che questa corrente ereticale, perseguitata dal cristianesimo ufficiale,
ha lasciato nelle pieghe dei secoli, condizionando in forma più o meno occulta
lo sviluppo della cultura occidentale. Tra i suoi altri interessi, quelli per
l'Intelligenza Artificiale (con riferimento particolare alle reti neurali
BackPropagation), e per la Fisica dell'Elettromagnetismo.
[email protected]
Figura 1
Il lunotto: le piccole teste rappresentano, da sinistra
a destra, Enrico VI, Costanza d'Altavilla e "Magister Rufinus",
mentre San Rufino è raffigurato per intero all'estrema destra.
La facciata profetica del Duomo di San Rufino in Assisi
(Arcangelo Papi)
1. Assisi1 è universalmente nota come città natale di San Francesco, che vi nacque non si sa
bene se nel 1181 o nel 1182 2 da un padre mercante di stoffe di nome Pietro di Bernardone e
da certa monna Pica, di probabili origini francesi.3
La 'leggenda francescana' è ancora oggi assai incerta e controversa, 4 malgrado gli accurati
studi storiografici che a partire dall'ultimo quarto del XIX secolo, dapprima da parte del
Thode e poi del Sabatier, hanno cercato di riprodurre la figura storica di San Francesco, dopo
secoli di supino oblio e d'abbandono ad una convenzionalità stereotipa ed acritica.
Quest'ultimo studioso, il Sabatier, al quale si intitola il 'centenario di studi francescani' che si
sta celebrando in Assisi, apparteneva alla scuola storica francese del Renan, autore tra l'altro
di una celebre Vita di Cristo. Il formidabile avvio di questi studi è proseguito, con enorme
ricchezza di scavo e su diversi versanti, fino ai giorni nostri.5
Infatti, la figura di San Francesco è di quelle che segnano svolte fondamentali nell'ambito
storico e religioso-sociale, tanto da essere definito l'<<alter Christus>>, secondo un
parallelismo sul quale hanno giocato la tradizione e le prime biografie del Santo. E si
comprende, chiaramente, come non solo gli elementi biografici del Santo siano stati, subito
dopo la sua morte, ampiamente adattati alle più diverse interpretazioni, per essere finalmente
'canonizzati' con la 'Legenda Major' di San Bonaventura (composta tra il 1260-1262 ed
ispiratrice del ciclo iconografico giottesco della Basilica Superiore). Ma addirittura, ancora
vivente San Francesco, lo stesso francescanesimo, sviluppatosi con uno straordinario impulso
iniziale, si svolse - per così dire - sempre di più 'sub signo contradictionis', nella grande
disputa insorta tra spirituali (la 'spiritual corte' di Dante Alighieri) e le altre componenti. Lo
scontro verteva soprattutto sulla rigidità della prima regola 'minorita' e sulla fedeltà assoluta
alle 'nozze mistiche' di Francesco con Madonna Povertà (il 'Sacrum commercium' cavalleresco
del Santo in contrapposto al 'De contemptu mundi' dello ieratico Papa Innocenzo III, che ne
approverà la prima 'regola' di testimonianza e di predicazione).
La 'querelle', già assai aspra negli ultimi anni di vita di Francesco, fu appena sopita con
l'approvazione da parte di Onorio III della 'regula bullata' del 1223. Tuttavia Francesco, dopo
la crisi dell'Ordine, che si manifestò nettamente già a partire dal 1220, non solo non si smosse
di un 'et' dall'osservanza alla 'lettera' del Vangelo, ma provvide addirittura a nominare in suo
luogo, come 'generale dell'Ordine', Pietro Cattani ('juris peritus et canonicus ecclesiae S.
Rufini', uno dei primissimi 'compagni', insieme a Bernardo da Quintavalle, quest'ultimo, non
si sa bene, se a sua volta mercante come Francesco stesso, o altro).
Dopo la morte del Cattani (1221), Francesco decise in prima persona di affidare il
generalato a fra' Elia, le cui successive vicende (fu rimosso infatti dal generalato nel 1227,
appena l'anno dopo la morte del Santo, di nuovo nominato nel 1233, nuovamente rimosso nel
1239, dopo la scomunica di Federico II, per essere infine a sua volta scomunicato e
imprigionato dal vecchissimo Papa Gregorio IX, terminando i suoi giorni a Cortona nel 1253;
erano noti infatti i suoi solidi legami con l'Imperatore, guarda caso battezzato ad Assisi,
proprio nel Duomo di San Rufino), 6 mostrano con chiarezza uno scenario di grande tensione
tra 'riforma' e 'conservazione', all'interno di certi gruppi e nel quadro di una politica pontificia
nei confronti dell'Impero, complicata altresì dalle complesse vicende delle Crociate che vi si
sovrapposero.
Il 1260 è l'anno del movimento dei 'flagellanti' e delle grandi passioni 'penitenziali'. E' anche
l'anno della 'renovatio mundi', secondo una datazione già individuata da Gioacchino da Fiore.
Ma lo stesso Salimbene de Adam7 considera quest'anno come l'inizio di una grande delusione,
quello dell'abbandono dello spirito rinnovatore gioachimita, quando vide che i grandi eventi, a
lungo attesi, non ci furono affatto.
Possiamo concordare con il Salvatorelli, nella considerazione generale che 'il
francescanesimo originario è lo sforzo più poderoso che sia stato fatto per una rinnovazione
religiosa 'ab intus', nel quadro dell'ortodossia del popolo credente, a cominciare da quello
italiano e umbro'.
Il francescanesimo, che era sorto quasi sul filo dell'eresia, però rimediata dalla fedele
'oboedientia' e dalla assoluta 'devotio' di Francesco nei confronti di qualunque sacerdote,
anche degli indegni, secondo la migliore dottrina teologica risalente a Sant'Agostino, rischiò
seriamente l'inquisizione, che si era già scatenata, subito dopo la morte del Santo, soprattutto
nei confronti dei catari. Inquisitore per la Francia è il cupo Robert le Bougre, che porta anche
lui il nome di eretico (bougre = bulgaro = eretico). In Germania infuria Corrado di Marburgo,8
come nel 'Nome della Rosa' di Umberto Eco. Il quadro è di quelli foschi ed enigmatici.
La 'Legenda major' di San Bonaventura (al quale Dante dedica il XII canto del Paradiso,
subito dopo quello di San Francesco) si incaricò pertanto di una sorta di riconciliazione tra le
varie fazioni, sia accogliendo il 'profetismo gioachimita', sia addolcendo i contrasti,
soprattutto con riguardo alla povertà assoluta dei 'minores', la vera 'sposa mistica' di
Francesco, che venne coniugata alla vita conventuale e agli studi filosofici.
2. Assisi è anche la probabile patria del poeta latino Properzio, sicuramente di origini
etrusche.9 La vicenda francescana e quella properziana (due autentici 'mysteria' nel loro
rispettivo genere,10 il primo assai più intricato del secondo), sembrano ad un certo punto
toccarsi l'un l'altra, per due particolari ragioni.
Il motto di Francesco era <<Pace e bene>>.11 Nell'affresco del Sacro Speco di Subiaco - che
sicuramente lo rappresenta quando il Santo non era stato ancora canonizzato da Gregorio IX
(1228), e molto probabilmente quando era ancora in vita (1223), e non aveva ancora ricevuto
quale 'segno del Dio vivente' le stimmate alla Verna - il ritratto di 'frate Francesco' si presenta
assai conforme alla successiva descrizione fisica e psicologica che fa di lui il biografo
Tommaso da Celano nella 'Vita prima' (risalente al 1228), a prescindere soltanto dal
particolare degli occhi (azzurri nel dipinto) 12. In questo murale benedettino, 'frate Francesco'
con la barba e col cappuccio,13 sorregge la scritta 'pax in huic domo'.14 In un'elegia di
Properzio, si afferma, allo stesso modo, che 'amore è un dio di pace'.15 I resti romani della
casa di Properzio si trovano sotto la chiesa di Santa Maria Maggiore, al tempo di San
Francesco e già prima, sede del vescovo di Assisi. E' in questa piazza, in questo medesimo
luogo, che Francesco fa la sua scelta 'coram populo', abbracciando formalmente la sua
vocazione, rifiutando suo padre come nel bellissimo affresco giottesco.
Secondo alcune fonti, appena rivestito il misero abito dell'ortolano gettatogli addosso dal
vescovo Guido per ricoprirne le nudità, subito dopo il suo gesto clamoroso Francesco si avvia
a piedi verso Gubbio, 'araldo del gran Re'. Quando (era il mese di febbraio) alcuni furfanti,
sentendolo cantare a squarciagola in provenzale, lo assalgono, e povero in canna com'è, lo
gettano per sberleffo in una fossa di neve. Un affine passo si legge, in buona sostanza, nella
Consolazione della filosofia di Severino Boezio, il capolavoro scritto nel carcere teodoriciano,
allorché si argomenta in modo filosoficamente serrato, in un misto di platonismo e di
cristianesimo, sull'imperturbabilità dello spirito oltre la fragilità della carne e sulla perfezione
dell'anima rispetto ai mali della vita.
Il 'mistero poetico' properziano sembra del resto incentrarsi sull'evocazione sistematica della
luna, 'Cinzia mutevole in amore'. Properzio è in realtà un 'flamine solare'. E' possibile, se non
probabile, che il 'Callimaco romano' (così si definiva Properzio stesso) abbia nascosto nelle
sue elegie (o piuttosto, quanto a noi resta della sua più vasta opera), una teoria delle eclissi,
ovviamente tutta intrisa di poesia, ed essa stessa altamente allusiva rispetto alle vicende
amorose, nei rapporti dialettici e trascorrenti tra elemento maschile ed elemento femminile,
impersonati in questo caso dalla coppia di amanti. L'astronomia etrusca è ancora tutta da
scoprire, col suo cielo diviso in cinque parti, e le particolari tecniche di osservazione. Allo
stesso modo, le sette tavole di Gubbio, monumento linguistico umbro risalente al II-I secolo
a.C., accennano ad alcune cerimonie d'avvistamento degli uccelli da certi siti particolari, il cui
recondito significato lascia intrinsecamente sospettare che si tratti in effetti di un cerimoniale
molto più antico, quasi sicuramente di originaria matrice astronomica.
Fatto è che i simboli del sole, della luna e delle stelle appaiono nel lunotto stesso dell'antico
portale della chiesa romanica del Duomo di San Rufino di Assisi (Figure 1 e 2), databile
come vedremo verso il 1189, e ricompaiono (insieme al fuoco, all'acqua e al vento) nello
splendido monumento poetico del Cantico delle Creature, composto da San Francesco
nell'ultimo e difficilissimo periodo della sua vita, e il cui attacco ricalca l'incipit delle
Confessioni di Sant'Agostino, che appunto ripercorre gli stessi salmi ai quali si inspira anche
l'<<Altissimu, onnipotente, bon Signore,/Tue so' le laude, la gloria e l'honore et onne
benedictione>> della lauda francescana. Un passo dell'Apocalisse, così suona:
<<Benedizione, onore, gloria a Colui che siede sul trono e all'Agnello, nei secoli dei
secoli>>.
Figura 2
Il portale con l'archivolto e il lunotto. Si distinguono le tre fasce,
con quella mediana ad altorilievo.
Il campanile del Duomo di San Rufino in Assisi, posto in prossimità dell'abside di una
precedente chiesa forse dell'XI secolo ed oggi accanto alla maestosa facciata romanica, è
direttamente poggiato su di una magnifica costruzione romana, specificamente qualificata - da
una iscrizione latina che ricorda tra l'altro la singolare magistratura umbra dei 'marones' come 'cisterna' per la raccolta delle acque, mentre ha tutte le accurate e precise fattezze
architettoniche di un tempio oracolare, probabilmente dedicato alla 'Buona Madre' e quindi
anche ad un'acqua salutare ('sancta et regia'), del resto richiamata dalla presenza a valle delle
antiche terme umbre di Santoraggio, le cui proprietà terapeutiche erano note ancora nel
Medioevo, e persino nelle epoche successive con riguardo alla 'gorga' o 'conca del parlascio',
cioè l'anfiteatro romano soprastante il Duomo stesso, altresì utilizzato nel Medioevo anche per
la tintura delle stoffe.16
Non stupisca il lettore alla nostra introduzione, liscia e semplicistica come appare, eppure
densa e compendiata. Si tratta soltanto dell'avvio. L'ipotesi, oltremodo suggestiva, richiamata
dal titolo, che si andrà via via colorando in queste pagine, lungi dall'essere il prosieguo di una
sorta di fantasioso ricamo, potrebbe al contrario rivelarsi sorprendente e straordinaria. Occorre
soltanto un po' di pazienza. E poiché stiamo toccando aspetti assai delicati, che impegnano da
vicino la Storia con la 'esse' maiuscola, non fosse altro con riguardo a San Francesco, è
necessario chiarire subito il 'metodo' utilizzato nella nostra ricerca.
Si tratta, chiaramente, del 'metodo indiziario'. Non riporteremo questa volta in nota gli
opportuni complementi di informazione, per citare direttamente tutto di seguito.
Secondo Franco Cardini (cfr. 'Casteldelmonte', il bel libro sulla reggia mistica ed
archeoastronomica di Federico II, ed altresì 'Carlo Magno', pag. 20), nulla vieta allo 'storico'
di utilizzare i 'se' e i 'ma'. Secondo il Prof. Umberto Bartocci (si veda il bel libro su Cristoforo
Colombo 'America: una rotta templare', pag. 17), <<il compito dello storico autentico, più
che di restare impigliato tra le piccolezze confuse della 'lettera che uccide', resta sempre
quello di cercare di rintracciare l'esile filo della verità vagliando tutto l'insieme dei segni che
gli provengono da tempi lontani, avendo come unici strumenti a sua disposizione la propria
libera ed autonoma ragione ed il criterio di verosimiglianza, i soli che gli permetteranno di
individuare i nessi significativi, sottolineare le coincidenze eccezionali, stabilire una trama
convergente di dati sulla quale fondare delle ipotesi, e successivamente confrontarle tra loro,
cercando di determinarne la maggiore o la minore 'probabilità'>>.
Lo scrivente, occorre specificarlo chiaramente, non è neppure uno storico dilettante. E'
soltanto un curioso, cui non sfuggono, ad es., le 'Lezioni di metodo storico' di Federico
Chabod, né la frequentazione, sempre per esempio, degli acutissimi testi di un Santo
Mazzarino. Tuttavia i 'mysteria' vanno ben oltre i documenti storici. La storia ne è piena, ed i
documenti molto spesso difettano. Per nostra fortuna, questa volta, il 'documento' c'è tutto, ed
è la stessa facciata del Duomo di San Rufino, soprattutto il suo magnifico portale (Figura 2),
stranamente sfuggito all'attenzione degli storici dell'arte e dei critici, rimasto per così dire in
un'ombra alquanto sospetta per secoli e secoli, malgrado la patina di bianco dei recentissimi
restauri.
Questo portale, col suo archivolto che incornicia altresì il lunotto, è dunque il 'documento'
tangibilissimo che vogliamo interpretare, ma la questione si fa assai complessa, nei suoi
riposti ed articolati retroscena. Come dicevamo, occorre un po' di pazienza.
L'ipotesi generale affacciata, è quella che le bellissime sculture ad altorilievo ed anche a
basso rilievo del portale e dell'archivolto, in particolare del lunotto e delle due fasce, interna
ed esterna, che lo contornano, fatte di diverso materiale lapideo e di diverso colore
(rispettivamente il rosso di Verona, il pomato rossastro di Assisi e un marmo bianco antico,
riciclato, in blocchi di colore tra loro leggermente diverso, che contornano all'esterno gli
altorilievi mediani), corrispondano in effetti ad una allegoria gioachimita, e più precisamente
al 'Decem Salpterium Chordarum.'17
Si tratterebbe, cioè, delle tre diverse epoche religiose, che secondo il profeta calabrese
caratterizzerebbero la storia dell'umanità: quella biblica del Padre, quella evangelica di Cristo
e quella finale dello Spirito Santo. Quest'ultima epoca era considerata allora imminente,
prevista come si è detto verso il 1260.
Gioacchino da Fiore (rappresentato in uno specifico e minuscolo particolare che si situa a
sinistra della base di appoggio dello stipite dell'archivolto, all'interno della nicchia del suo
primo eremo di Pietralata, con a lato i suoi due allievi Luca da Cosenza e Raniero 'de pontio',
uno dei quali è seduto intento a suonare una cetra - Figura 3), sosteneva, infatti, che la 'terza
età' sarebbe stata caratterizzata da una 'ecclesia spiritualis', che sarebbero apparsi 'viri
spirituales predicatores veritatis' ed anche un 'ordo monachorum' in sostituzione del vecchio
'ordo clericorum', e che sarebbe sorto pure un 'papa angelicus'.
Figura 3
A sinistra, Gioacchino da Fiore nel suo eremo di Pietralata,
a destra Luca da Cosenza e Raniero da Ponza,
intenti a suonare due strumenti diversi.
Nell'Expositio in Apocalypsim egli afferma che <<il monaco genuino non chiama sua che
la cetra>>18. Le dottrine dell'abate calabrese esercitarono un profondo fascino sugli uomini
del secolo XIII, consacrando la fama di un Gioacchino 'spiritu prophetico dotatus', così come,
per bocca di San Bonaventura, nella luce abbagliante del sole paradisiaco, lo ritrae appunto
Dante (Pd., XII, 139-141): << ... e lucemi accanto il calavrese abate Giovacchino di spirito
profetico dotato>>.
A questa sorprendente conclusione era già pervenuto, nel 1968, lo studioso ed artista
assisiate Prof. Franco Prosperi, figlio del noto scultore Francesco Prosperi,19 con una
pubblicazione assai originale, che nel vuoto secolare che ha accompagnato la colpevole
mancanza di attenzione verso questa meravigliosa facciata romanica, faceva seguito soltanto
ad un precedente ed isolato lavoro del canonico del Duomo Giuseppe Elisei, risalente al
1893.20
Soltanto nel 1999, in conseguenza dei complessi lavori di restauro causa il terremoto
distruttivo del 1997, è stato pubblicato un organico e pregevolissimo volume sulla chiesa di
San Rufino, a cura del Prof. Don Aldo Brunacci (canonico della chiesa stessa) e
dell'Accademia Properziana del Subasio.21 La chiesa di San Rufino è citata in tutte le
principali storie dell'arte come esempio di romanico umbro, ma non esiste alcuno studio
specifico su questa bellissima facciata, oltre quelli già menzionati.
Tanto per non lasciare troppo in attesa il lettore, accenneremo subito ad un piccolo
particolare di questa vasta facciata, che articolandosi in tre parti distinte (l'inferiore, la
mediana e la terminale cuspidata, recante il 'leone' simbolo del Comune di Assisi), sembra
appunto riflettere tre distinti momenti quanto ai lunghi lavori del suo completamento.22
Sull'archivolto in rilievo del portale (cioè nella fascia mediana in travertino giallastro) si
notano, in alto, quattro coppie di ballerini allacciati in delicati passi di danza, e quasi in
sommità, due 'acrobati' (così l'autore dell'articolo sulla 'facciata' presente nel citato volume
del 1999), che in assenza di gravità ricordano molto da vicino un passo profetico di Isaia (LX,
8): <<Qui sunt isti, qui ut nubes volant, et quasi columbae ad fenestras meas?>>.
Figura 4
Un particolare dei "ballerini".
Figura 5
Il particolare degli "acrobati".
In alto si scorge la parte inferiore della fascia mediana ad altorilievo,
in travertino giallastro. Sotto alle figure, la fascia interna
dell'archivolto, in pomato rossastro di Assisi.
Mentre le quattro coppie di danzatori possono facilmente essere ricondotte alle 'otto specie'
di pace, collegate due a due nella classificazione fatta da Rufino nel 'De Bono Pacis' (ad
esempio la pace di Dio con gli uomini e quella degli uomini con Dio), il particolare degli
'acrobati' risulta più incerto, evidenziando il relativo ingrandimento elettronico ulteriori
dettagli che dovrebbero essere meglio vagliati.
Giacomo da Vitry, importantissimo testimone diretto del periodo francescano (poi fatto
cardinale da Onorio III, e che racconta tra l'altro di aver assistito allo scempio operato notte
tempo da alcuni ladri sul corpo del pontefice Innocenzo III morto a Perugia il 16 luglio del
1216, ed esposto nel Duomo di S. Lorenzo), alludeva proprio a questo passo profetico di Isaia
per ricordare i 'Frati Minori'. Ed è questo l'inizio della nostra storia.
3. Fondatore della cattedra di Studi francescani presso l'Università di Perugia (oltreché
promotore della Società internazionale di studi francescani avente sede in Assisi) fu il grande
avvocato e storico assisiate Arnaldo Fortini.23 Seguirono poi Ilarino da Milano e Stanislao da
Campagnola. Quest'ultimo studioso si è occupato da vicino dell'ipotesi gioachimita affacciata
dal Prof. Prosperi, dandone ampio resoconto (pagg. 58-67) nella monografia 'L'Angelo del
Sesto Sigillo e l'<<Alter Christus>> - Genesi e sviluppo di due celebrazioni francescane nei
secoli XIII-XIV' (Ed. Laurentianum, Ed. Antonianum, Roma, 1971).
L'interpretazione 'gioachimita' dei motivi della facciata romanica del Duomo di San Rufino
suggerita da Franco Prosperi finì per entusiasmare non poco Stanislao da Campagnola, che
tuttavia svolse alcune importanti eccezioni critiche, indubbiamente meritevoli di essere
ripercorse a profitto del lettore, ben inteso dopo aver provveduto alla descrizione della
facciata stessa, utilizzando in parte alcune annotazioni riprese dalle parole stesse del Fortini
(cfr. Vita Nova, vol.V, pag. 37 ss.).
Anzitutto essa è divisa in tre piani. Il primo dove si aprono le porte, il secondo quello ornato
dai tre rosoni, il terzo (più in alto) formato dal timpano triangolare con un grande arco cieco
ogivale. La porta centrale è sormontata da un architrave sul quale è una lunetta, <<che per le
sculture primitive che l'adornano è stata ritenuta opera già appartenuta alla vecchia basilica
ugoniana>>. In essa si vede Dio padre coronato24, con un triplice nimbo intorno al capo,
seduto in trono fra la luna e il sole e le stelle, che stringe al petto il libro della creazione,
mentre addita alla sua destra la vergine incoronata che allatta un bambino. A lato, sotto
l'immagine di San Rufino, identificabile dalle sue vesti vescovili, compare una <<testa che si
vuole sia quella di San Cesidio martire, figlio di San Rufino. Ai lati del trono della vergine
sono due altre teste mozze, che vengono ritenute per quelle di San Marcello ed Esuperanzio, i
diaconi martirizzati in Assisi nel secolo IV>>. Senonché la seconda testa (n.d.r.) è
chiaramente femminile (così appare, in tutta evidenza, dall'ingrandimento al computer delle
riproduzioni in fotografia elettronica eseguite dall'amico Marco Francalancia, nipote del
grande pittore del novecento italiano Riccardo Francalancia). Ambedue le testine presentano
sulla chioma un serto imperiale, che non può essere in alcun modo confuso con l'aureola dei
martiri cristiani.
Figura 6
Il particolare delle "testine".
Si tratterebbe, in effetti, dei volti augusti di Enrico VI e della moglie Costanza d'Altavilla,
erede della monarchia normanna di Sicilia, sposata nel gennaio del 1186 a Milano (il Manselli
attesta la presenza in Assisi dell'Imperatore Federico I Barbarossa alla fine del 1185, che qui
sostò in attesa della promessa sposa del figlio per scortarla a Milano). 25 I due ritratti molto
probabilmente risalgono a quando ad Enrico era stata affidata da Federico I la reggenza
imperiale (1189), dal momento che il Barbarossa si era diretto alla crociata (dove morì
affogato nel 1190, in circostanze poco chiare). In luogo della riproduzione della testina di San
Cesidio va invece visto il volto di 'magister Rufinus',26 che è stato a nostro avviso l'ispiratore
dell'allegoria dell'intero portale, compreso il lunotto in 'rosso di Verona', che non è affatto
'rozzo' come si sostiene, e che peraltro è caratterizzato dall'insistente uso del trapano anche
nella bellissima veste regale della 'Madonna lactans' (che sembra richiamarsi quasi ad
immagini ereticali), ed è quasi sicuramente di mano di Pietro Vassalletto (l'attribuzione è
nostra), il quale non solo usava frequentemente questa tecnica di traforo, ma continua a farne
impiego in molti altri particolari figurativi dello stesso portale.27
Così prosegue il Fortini: <<Intorno alla lunetta gira l'archivolto, ove si intrecciano
elegantemente due racemi, nei cui spazi si succedono, due a due, minuscole figurine vestite
di una corta tunica succinta alla vita, volatili, quadrupedi, fiori: al principio della
decorazione, a sinistra, un uomo è seduto in trono (forse l'imperatore), mentre una figurina
si inginocchia ai piedi dell'altra, in segno di omaggio>>.
Qui la descrizione del Fortini si fa piuttosto approssimativa, perde di dettaglio e di
chiarezza, ingloba ed omogeneizza in una sommaria e rapidissima sintesi riduttiva, un vasto
sfondo rappresentativo assai ricco ed articolato. In realtà l'Autore si riferisce promiscuamente
alla fascia esterna in marmo bianco dell'archivolto (recante una infinità di particolari
significativi), e alla fascia interna in pomato rosso di Assisi, che rappresenta una ricchissima
'vinea domini', mentre nella fascia mediana ad altorilievo del portale - che è quella di
maggiore interesse scultoreo - figurano accanto ad una selva di addetti ai lavori colti nei
dettagli più fini delle altre due fasce, ben dodici riproduzioni scultoree contornanti il
semianello. In tutto la facciata presenta circa trecento particolari, sculture e bassorilievi tutti di
pregevolissima fattura.
Trascurando questi pur interessantissimi e magnifici particolari, che costituiranno oggetto di
trattazione in una pubblicazione che si ha in animo di predisporre con ampio e dettagliato
corredo fotografico, vale subito la pena di osservare che l'uomo racchiuso nel piccolo riparo è
proprio Gioacchino da Fiore, con accanto i suoi due fedeli discepoli, che suonano l'uno la
cetra e l'altro, quello inginocchiato o meglio ricurvo, uno strumento musicale a manovella,
probabilmente una ghironda, come mostrano i forti ingrandimenti elettronici, qui non esibiti.
L''imperatore' (rectius il biblico Re David) è invece effigiato nel secondo altorilievo della
fascia mediana in travertino giallo a partire da sinistra, dalla quale si dipartono a giro dodici
rappresentazioni diverse, tutte del massimo interesse, tra le quali le predette quattro coppie di
danzatori. Il complesso rammenta il Salmo 150, che invita a lodare Dio 'nel clamore del
corno', 'con l'arpa e con la cetra', e persino 'col tamburo e con la danza'. E' poi noto che San
Francesco, colto dall'entusiamo e dalla dolcezza mistica, si accompagnava talvolta cantando e
ballando con un bastoncello usato a mo' d'archetto.
Figura 7
L'Imperatore Enrico VI, rappresentato come Re David.
4. Passiamo adesso, in sintesi, alla descrizione che fa il Prosperi nella sua pubblicazione del
1968. Egli mette subito in evidenza il primo altorilievo dall'archivolto del portale (fascia
mediana in travertino giallastro e fortemente rilevata rispetto alle altre due), chiarendo
appunto che si tratta del biblico Re David (assiso in trono), intento a suonare un 'salterio a
dieci corde', come nel Salmo 144, 9, un ulteriore passo biblico cui l'immagine può essere
chiarissimamente riferita: <<Mio dio, ti canterò un cantico nuovo, / suonerò per te sull'arpa a
dieci corde / a te che dai vittoria al tuo consacrato, / che liberi Davide tuo servo>>.
L'abilissimo artista esecutore dell'opera riesce addirittura a catturare, con nettissima evidenza,
l'agile e trascorrente movimento delle mani, suggerendo ampiamente l'intonazione musicale
dell'intera cornice. Questo altorilievo è della massima importanza sia in relazione a quanto
appena detto, sia per quanto concerne gli innegabili caratteri stilistici afferenti
all'individuazione degli esecutori dell'opera.
La fascia degli altorilievi prosegue con tutta una serie di figurazioni, tra le quali anche un
angelo che accompagna verso la luce e protegge la fronte del nuovo Adamo, con la sua veste
riccamente trapunta. Seguono (a destra del giro) due donne che tengono in braccio i due loro
figli, uno di questi già cresciutello e ignudo, ed un angelo 'turibolante'. Potrebbe trattarsi di
Gesù e di San Giovanni, ma anche dei due nuovi ordini monastici profetizzati da Gioacchino.
L'interesse di Prosperi si appunta, in particolare, sull'occhio del piccolo rosone di sinistra,
che rappresenta l'angelo apocalittico recante il segno del dio vivente (cioè la croce), e
sorprendentemente fa rilevare che le scritte didascaliche che accompagnano i simboli dei
quattro evangelisti ai lati del rosone principale, risultano specularmente invertite, come
appunto fuoriuscissero da un medesimo raggio centrale di luce, promanante dal centro del
rosone stesso (però attualmente privo dell'occhio centrale).
In realtà, vi sono molti altri interessanti particolari della facciata, compresi i tre 'telamoni',
appoggiati su bestie apocalittiche, che con estrema leggerezza sorreggono il grande rosone
centrale. Li dobbiamo trascurare per mere ragioni di spazio nell'economia modesta del
presente articolo. Ma poiché la pubblicazione di Prosperi riporta, sulla intera copertina, in
inchiostro rosso, la scritta di una antica lapide che si conserva nel museo del Duomo, resa
assai oscura nel suo significato letterale dalla presenza di un doppio 'nominativo' latino che vi
figura, la vogliamo riprodurre proprio nell'eventualità che qualche acuto lettore sappia venirne
a capo (facendo però presente che un secolo fa, due studiosi locali, il Prof. Venarucci prima e
quindi l'Arch. Brizi, tentarono invano di restituirle un senso nel presupposto che le lettere
<<B. R.>> che vi figurano, si riferissero al 'beato Rufino', primo vescovo e protettore della
città di Assisi, cui appunto la cattedrale è dedicata). La scritta recita così (la riportiamo per
intero, senza le abbreviazioni che la caratterizzano): <<Contra Morsum Venenosum B. R.
Caro Reducat Monachus>>. Gli scenari ipotizzati dagli esegeti sono, rispettivamente, quelli
del culto di san Rufino anche contro i morsi di vipera, e in particolare (il Brizi), che questa
lapide si trovasse nella chiesetta di Fossa Caroncia (un reale toponimo assisano), di cui non vi
è però traccia. In particolare, 'fossa caroncia' starebbe a significare (n.d.r.) il luogo di
sepoltura comune dei morti appestati, lungi dal centro abitato. Altro scenario ipotizzabile è
quello di una scritta di avvertimento per i monaci benedettini con i rimedi da praticarsi contro
il morso velenoso. Altro scenario ancora potrebbe essere quello della testa di serpente che
inequivocabilmente è presente sull'apice dell'archivolto del portale che abbiamo appena
descritto.
Figura 8
Il particolare del "serpente" (all'apice dell'archivolto).
Avvertendo che la 'erre' di questa scritta è percorsa dal basso verso l'alto da una 'esse' che
l'attraversa tutta (con il possibile significato di un abbreviativo del tipo 'res' o 'rex'), sarebbe
assai interessante conoscere l'opinione di qualche introdotto lettore, non senza renderlo edotto
che la scritta posta sulla facciata della bellissima chiesa di S. Silvestro a Bevagna 28 (la
'nebbiosa Bevagna' di Properzio), risalente al 1195 ('Enrico imperatore regnante'), si riferisce
ad un 'Binellus magister' quale esecutore dell'opera.
5. Sull'abside dell'attuale Duomo figura la seguente scritta in ottonari rimati: <<Anno Domini
milleno / centenoque quadrageno / ac in quarto solis cardo / suum explet illo anno / domus
haec est inchoata / ex sumptibus aptata / a Rainerio priore / Rufini Sancti honore / eugubinus
et Ioannes / huius domus qui magister / prius ipse designavit / dum vixitque edificavit>>. Il
significato palese di questa lapide è che la chiesa di San Rufino fu rifatta sulle rovine di una
vecchia basilica, a partire dall'anno 1140 (il priore Rainerio finanziò i lavori, eseguiti da
Giovanni da Gubbio, che vi lavorò 'finché visse'). Ora, anche i lavori di riadattamento della
sopra citata chiesa vescovile di Santa Maria Maggiore furono eseguiti da Giovanni da Gubbio
(un architetto medievale ricordato dal Vasari), recando la scritta del 1167. E' quindi da
ritenere che la lapide commemorativa di San Rufino sia stata apposta molti anni dopo l'inizio
dei lavori, e qui si ipotizza che autore della stessa sia stato proprio Magister Rufinus, che fu
canonico di San Rufino e Vescovo di Assisi nei primi anni all'intorno la nascita di San
Francesco. Questo Rufino - o Ruffino - è il grande canonista bolognese, allievo di Graziano,
ricordato in tutte le storie del diritto italiano, autore di un famoso Decretum verso la fine degli
anni '60 del XII secolo ed altresì autore (insieme ad un folto elenco di 'discorsi' che si
conservano nella Biblioteca Ambrosiana) del 'De Bono Pacis', composto all'incirca all'epoca
della Pace di Costanza (1183) tra Federico I ed i Comuni.29
Rufino era di origini francesi (proveniente dall'Università di Parigi era passato poi a
Bologna), ed appare senza dubbio influenzato dalla Scuola di Chartres. E' un benedettino
riformato (Graziano era un 'camaldolese'), che potrebbe aver chiuso i suoi giorni, verso gli
ottant'anni di età, proprio nel Monastero benedettino del Monte Subasio, dipendente da quello
di Farfa. Possiede una cultura sterminata, che giunge ben aldilà di un limite standard. La sua è
una impostazione 'sacramentale' del 'diritto canonico' (di chiara matrice grazianea), che è
lungi dall'affermazione assoluta del potere temporale del Papato, per far invece leva (come
appunto nel 'De Bono Pacis') su principi di pace politica universale che si accostano, in terra,
alla santissima 'Pace di Gerusalemme', contrapposta a quella sacrilega d'Egitto e a quella
mercenaria di Babilonia (è questa in sintesi l'articolazione dell'elegantissimo trattatello, a
prescindere dalla distinzione della 'pace' in otto generi diversi che vi figura). Fu Papa
Gregorio IX, anche lui illustre canonista, a trasformare l'assetto canonistico del 'diritto' dalla
sua precedente natura 'sacramentale' in vero e proprio ordinamento giuridico. E fu proprio
questo Papa a 'consacrare' (nel 1228, come ricorda una lapide) l'altare della chiesa - che pure
era pienamente funzionante già molti anni prima, se Francesco e Chiara furono qui battezzati
come Federico II, e se le prime prediche di Francesco e la conversione di Chiara avvennero in
questo contesto religioso e d'affluenza di popolo. Segno evidente che la Chiesa di San
Rufino deve nascondere qualche 'mistero'.
Ben si intendono, leggendo il 'De Bono Pacis', certe affinità di pensiero tra Rufino e
Gioacchino da Fiore, che probabilmente giunsero a conoscersi, anche perché quasi coetanei,
ed ambedue strettamente legati da vincoli personali d'amicizia e di frequentazione con Papa
Alessandro III (1159-1181), il grande canonista Rolando Bandinelli.
Il Decreto di Rufino (1157-1159) fu composto ancora 'in giovane età'. 30 La presenza di
Rufino come vescovo di Assisi, negli anni della nascita di san Francesco, si può ben spiegare
sia con il lavoro diplomatico da lui svolto per arrivare alla Pace di Costanza, sia con il fatto
che lo stesso Rufino aveva tenuto il discorso inaugurale del Concilio Ecumenico III indetto da
Papa Alessandro (e si trattava di un altissimo onore, degno del 'vir clarissimus', titolo che
accompagna il suo nome accanto a quello di 'magister').
Ora è noto che i 'quattro dottori' (Bulgaro, 'os aureum'; Martino, 'copia legum'; Ugo, 'mens
legum'; Jacopo 'id quod ego', secondo quanto tramanda un cronista medievale che mette in
bocca il distico allo stesso Irnerio) favorirono non poco le ragioni imperiali di Federico I, che
si appoggiavano al diritto romano. Certamente non fu di ostacolo Rufino, il cui pensiero
volava molto in alto, verso un'era di riconciliazione e di rigenerazione. Questi importantissimi
aspetti sembrano spiegare molte cose, anche la presenza del francese Rufino in Assisi, città
amministrata autonomamente, in via comitale, da Corrado di Urslingen, ultrafidato 'missus
dominicus', separatamente dal Ducato di Spoleto. Corrado aveva sposato una nobildonna di
Nocera Umbra e risiedeva stabilmente nel castello di Assisi. Per il suo carattere tipicamente
tedesco ed eccessivamente scrupoloso, facile all'ira e al risentimento, gli assisani lo avevano
ribattezzato col curioso epiteto di 'mosca in cervello'.
Al fedelissimo Corrado (prima della distruzione per una sollevazione popolare del castello
della Rocca di Assisi nel 1198) era stato affidato il piccolo Federico II, che di lì a breve
resterà orfano prima di padre (Enrico VI) e poi di madre (Costanza d'Altavilla).
Federico II nacque a Jesi (nome alquanto simile nel suono ad Assisi), il 26 dicembre del
1194. Secondo Dante Alighieri, Costanza 'dal velo del cuore mai si disciolse', nel senso che secondo quella versione che la vuole tratta via a forza, 'jussu' del Papa, da un convento, per
divenire 'sposa imperiale', secondo chiare mire politiche in ordine al Regno di Sicilia
lungamente accarezzate da Federico I - essa non sarebbe appunto neppure la vera madre di
Federico II. Ed infatti tra Enrico - giovane assai aitante - e Costanza, unica figlia di Ruggero
II, correvano diversi anni di età.
In conseguenza della singolare coincidenza della data di nascita del rampollo imperiale (e si
dice pure che Federico sia addirittura nato la notte di Natale, sia che si fosse trattato di una
messa in scena oppure di un dato reale: le versioni sono diverse), sorse appunto la 'leggenda'
dei 'Frederici presagia', cui volentieri si abbandonava il poeta devoto alla casa sveva, Pietro
da Eboli: <<O votive puer>>, <<renovandi temporis aetas>>, <<pax oritur tecum>>!
Federico II, stando alla Cronaca d'Alberto abate stadese, sarebbe stato battezzato nel Duomo
di San Rufino, proprio come Francesco e Chiara. Correva l'anno 1197, ed il fanciullo
imperiale aveva quasi tre anni. Enrico VI era morto precocemente nel settembre di quell'anno,
dopo breve malattia. Da lì a diciotto mesi lo seguirà nella tomba Costanza. Intricatissime
vicende politiche si dipanano da questi frangenti, così come si erano intrecciate molte
situazioni precedenti. Secondo il Salvatorelli (cfr. 'Vita di San Francesco', pag. 25, Einaudi,
ediz. 1982), nell'autunno del 1196 Enrico VI si trovava nella valle spoletana e <<a Foligno
trovava il suo bambino Federico, ancora in fasce, allevato dalla moglie di Corrado, e se lo
portava con sé verso Roma, a farlo battezzare nei pressi della città, con un gran corteo di
vescovi e di cardinali>>.
Sappiamo per certo che Costanza era una grande devota di Gioacchino da Fiore. Ce lo fa
sapere Luca da Cosenza, testimone oculare. Un 'venerdì santo', mentre Gioacchino si trovava
nel chiostro del Santo Spirito a Palermo, l'<<Imperatrice>> (così testualmente il cronista,
presente ai fatti) lo convoca a palazzo, dicendogli che gli vuole parlare (siamo probabilmente
nel 1197/1198 - n.d.r.).31 L'Augusta lo attendeva assisa sul trono della chiesa annessa alla
reggia, e lo invita a sedere in una sedia posta lì accanto. Poiché era in animo di confessarsi,
Gioacchino le impone invece di discendere dal trono, e poiché adesso è lui a tenere il posto di
Gesù Cristo, le comanda di sedere in terra, <<aliter enim non debeo te audire>>. Allora
Costanza si siede umilmente per terra, e si confessa dei suoi peccati. Il racconto ci appare
come quello di un riaccostamento finale della Regina a Gioacchino, e soprattutto all''autorità
apostolica' (il che rafforza l'ipotesi monacale). Del resto gli Svevi avevano ampiamente
favorito la fondazione gioachimita, concedendole favori e privilegi, come ci fa sapere
Stanislao da Campagnola, il quale aggiunge che è possibile arrivare a sospettare <<che essi
abbiano inteso di fissarne le dottrine, facendole scolpire in pietra, sulla facciata di S.
Rufino>>, anche se <<non abbiamo indizi per affermarlo>>.
Secondo l'illustre studioso del francescanesimo <<l'interpretazione dei motivi scolpiti sulla
facciata della cattedrale di Assisi permangono avvolti da un mistero, anche se non possiamo
escludere che possano veramente avere un rapporto con le dottrine di Gioacchino>>. Il
grande e vero limite sarebbe infatti dato dall'assenza di un qualsiasi collegamento che provi la
presenza di Gioacchino da Fiore in Assisi, nonché lo stesso silenzio delle fonti compreso
Francesco stesso.
6. Questo rapporto con Assisi passerebbe invece, secondo noi, attraverso 'magister Rufinus',
del quale non si hanno più notizie dopo il 1192, e che per questa ragione viene creduto morto
intorno a questa data. Rufino si era al contrario ritirato, già in età avanzata, nell'importante
Monastero del Monte Subasio (che tra l'altro era proprietario della chiesa di S. Nicolò,
protettore dei mercanti, situata accanto alla casa di San Francesco 32 e a ridosso della Piazza
del tempio di Minerva o 'forum mercatorum', legata alla più profonda memoria francescana
proprio dall'episodio della consultazione casuale del Vangelo secondo la 'sortes apostolorum',
nonché della Porziuncola, antichissima chiesetta, che sorgeva su di un affioramento di terra
del Lacus Umber, bonificato dei benedettini nell'ottavo secolo, per la cui donazione,
Francesco, che voleva restare assolutamente povero, volle riconoscere un 'amiscere' di
pesciolini lacustri, contraccambiati poi dai benedettini con olio d'oliva del monte).
Ce lo fa credere l'insieme dei 'fatti' all'interno di un contesto fortemente 'indiziario' (grave,
preciso e concordante), ed anche quella lastra di sarcofago in pietra graffita, conservata nel
Monastero del Subasio (che fu distrutto alla fine del trecento in una guerra di fazioni dopo che
si era andato spopolando dei monaci), la quale rappresenta un vescovo benedettino. Così la
descrive, non volendo, il Fortini (cfr. Vita Nova, 1, I, pag. 26), pur dotato di formidabile
intuizione: <<In terra giace una lastra tombale spezzata. Vi è ritratto un abate del
monastero, in abiti pontificali. Sotto la mitra appare un volto ieratico che ha l'aspetto della
sfinge impietrata. Una mano, chiusa nel guanto, regge un pastorale. La figura non emerge
nel rilievo, né è disegnata, incisa nella pietra ... >>.
Già un altro vescovo di Assisi (anch'esso attestato dal Di Costanzo come nel caso di Ugone
e di Rufino), di nome Dragone, risulta nel libro dei morti dell'abbazia di Fonte Avellana
('aveva trovato asilo presso di noi', annota il compilatore).33 Niente di strano, perciò, che il
canonista Rufino, collega ed amico di Rolando Bandinelli (Alessandro III) e di Stefano
d'Orleans, poi vescovo di Tournai, avesse deciso di ritirarsi ad Assisi, dopo essere stato anche
vescovo di Sorrento, pensando così di morire nel Monastero del Subasio, non lungi dalla
facciata 'profetica' di San Rufino, da lui studiatamente ed arditamente concepita, col sostegno
economico dei reggitori imperiali ed il 'placet' dell'Ordine benedettino, quale sacro annuncio
gioachimita del prossimo rinnovamento del secolo.
La nostra ipotesi è abbastanza coerente ed è soprattutto fortemente 'aiutata' dalla
composizione del 'De Bono Pacis', i cui contenuti sembrano aver raggiunto anche Dante
Alighieri (ad es. 'per unam cordis compuntiunculam, per unam oculorum lacrimulam' del 'De
Bono...', cui farebbe riscontro - come mette intelligentemente in evidenza il Prof. G.
Catanzaro - il 'Tu te ne porti di costui l'etterno / per una lagrimetta che 'l mi toglie' - cfr.
Purgatorio, V, 106-107).
Memorabile fu il discorso tenuto da San Francesco il 15 agosto 1222 a Bologna, in presenza
di tutto il senato accademico dell'Università. L'oggetto di questo discorso di 'riconciliazione'
fu il 'bene della pace' degli 'uomini con gli uomini', e degli 'uomini con Dio'. Ce lo fa sapere
un testimone d'eccezione, Tommaso da Spalato.34 I discorsi del Santo non erano prediche, ma
'conciones', allocuzioni o conferenze, che trattavano argomenti pratici, specialmente rivolti
alla riforma dei costumi.35
Le Goff riporta, poi, un'interessantissima versione della 'Predica degli uccelli', edulcorata
dalla grande mano di Giotto. Rifacendosi a Matteo Paris, che segue il benedettino Ruggero di
Wendover, il quale colloca il celebre episodio al momento del ritorno da Roma nella Valle
spoletana dopo la difficilissima udienza papale del 1209, Francesco, <<esulcerato per
l'accoglienza fattagli dai romani, i loro vizi e le loro turpitudini, avrebbe chiamato a raccolta
gli uccelli, i più aggressivi tra essi, quelli dai becchi voraci, uccelli da preda e corvi, e a loro
avrebbe insegnato la buona novella, anziché ai miserabili romani>>. La fonte di questo
aneddoto si trova precisamente nel libro dell'Apocalisse (19, 17-18): <<E vidi un angelo,
levato nel sole, gridare con voce forte e dire a tutti gli uccelli che volavano nel cielo: venite
e radunatevi al gran banchetto di Dio; mangiate la carne dei tribuni, la carne dei superbi,
la carne dei cavalli e dei cavalieri, la carne dei liberi e degli schiavi, dei piccoli e dei
grandi>>. Lasciamo al lettore ogni commento!
Chi poté favorire l'incontro col Papa, se non l'ordine benedettino? San Pier Damiani
(prolificissimo scrittore) indirizza il 'sermo' XXXIV, conservato a Montecassino, ai miracoli
di San Rufino, riportandone una profluvie incredibile. Era sorta, infatti, asperrima questione
tra i fedeli ed il vescovo di Assisi Ugone (presente alla dieta di Worms del 1048), circa la
destinazione di un sepolcro romano (risalente al II secolo d.C. e rappresentante il mito di
Endimione e Diana), che il popolo voleva fosse trasferito nella 'parva basilica' del santo
protettore assisiate, e il vescovo voleva invece ricondurre a S. Maria Maggiore (questo
sepolcro era stato ritrovato in quell'epoca non lungi dall'antico luogo del martirio del Santo, si
dice fatto morire affogato nel fiume Chiascio con una macina di mulino al collo). Alla fine
prevalse la volontà popolare (dice testualmente Pier Damiani: <<vox populi, vox dei>>).36 Di
conseguenza il vescovo Ugone non solo si decise a costruire una chiesa più grande (la 'magna
basilica' citata nel 'sermo', della quale restano alcuni avanzi e soprattutto il basamento
originario del campanile), ma trasferì a San Rufino la cattedra vescovile (la questione è assai
interessante e complessa, e non tutte le tessere del relativo 'mosaico' storico sembrano ben
collocarsi al loro posto, come ritiene anche il Fortini richiamando lo Gnoli, 37 soprattutto in
relazione ai tempi tecnici necessari per una così importante edificazione, che sarebbe stata
sostituita, appena un secolo dopo ed anche meno, da un'altra chiesa ancor più grande, l'attuale
Duomo in oggetto).
Pier Damiani era un benedettino seguace della regola di san Romualdo, nato come lui a
Ravenna. Divenne cardinale di Ostia, lo stesso incarico ecclesiastico che, guarda caso, ricopre
Ugolino dei Conti Segni nel 1209, poi divenuto Gregorio IX, morto quasi centenario, dopo
essere stato uno dei grandi benefattori dell'Ordine francescano. Fu infatti Ugolino a favorire
San Francesco verso il Papa, insieme al cardinale di S. Paolo. Coincidenze, queste, che non
possono non mettere in sospetto per la loro significativa concordanza e congruenza.
Francesco si salvò da ogni accusa di eresia iniziando da solo il proprio difficilissimo
percorso, sia perché egli era ' Francesco', sia perché seppe evitare gli errori o gli eccessi, ad
es., di un Arnaldo da Brescia.38 Del resto i 'patarini' lombardi erano dei lavoratori della lana,
un mestiere assai affine a quello di Pietro Valdo e del padre stesso di Francesco (lo stesso
'Pietro' Valdo - si noti l'analogia del nome col padre di Francesco - fu ben accolto nel Concilio
Vaticano III, quello al quale partecipò Rufino, per essere in seguito scomunicato).
Uno dei grandi 'misteri' francescani è proprio quello del 1209, cioè l'approvazione papale
della regola 'orale', ovvero la possibilità di una vita evangelica e della predicazione al popolo
da parte dei 'poveri di Assisi', che tanto assomiglierebbero ai 'poveri di Lione', se non fosse
che i primi erano una sorta di 'militia Christi', perfettamente 'pacifica' e perfettamente
'cavalleresca', a differenza dei secondi che cadevano in frequenti eccessi di intolleranza.
Francesco percorre con grande sofferenza il suo primo momento di crisi, che lo porterà alla
'metanoia', cioè alla grande scelta di cambiamento. Secondo S. Antonino di Firenze, <<nunc
latebat in eremis, nunc ecclesiarum reparationibus insistebat devotus>>. Secondo altre
concordanti fonti, amava recarsi all'interno di una grotta (un amico lo accompagnava), e ne
usciva dopo lungo tempo come trasfigurato e spesse volte piangente. Francesco, nel
'Testamento', non ci fa sapere nulla della sua conversione interiore, se non il bacio al lebbroso,
che lo trasformò, e la solitudine degli incerti inizi ('nessuno mi diceva cosa dovessi fare' 'stetti un po' e poi 'exivi de seculo'). Eppure è possibile, se non anche probabile, che in origine
ci sia stata una sorta di istradamento del giovane Francesco appunto da parte del vecchissimo
Rufino, ritiratosi nel monastero del Subasio, che lo avrebbe consigliato e sostenuto
precocemente, almeno nei momenti iniziali della crisi, e prima della morte intervenuta presto
che avrebbe lasciato solo il Santo. Tutto lo lascia sospettare all'interno del 'quadro indiziario'
che abbiamo cercato di delineare almeno per grossa maglia.
Indubbiamente validissime risultano, comunque, le ragioni di coloro che con grande
sensibilità, sostengono essere il Duomo di San Rufino <<il primo santuario francescano>>.
Noi vi scorgiamo molto di più: la 'longa manus' dei benedettini39 (sempre presente), ed una
ispirazione 'rufiniana' al supremo 'bene sacramentale' della Pace. Nessuna meraviglia, dunque,
che il portale 'profetico' di San Rufino (se non tutta intera la facciata) possa contenere, come
si è cercato di mostrare, una precisa allegoria, riconducibile alle idee di Gioacchino da Fiore,
con l'anticipazione dei due nuovi ordini religiosi che sarebbero seguiti: quello francescano e
quello domenicano.
7. Chiudiamo questo articolo (scritto quasi di getto nei giorni della ricorrenza della festa di
San Rufino e di Santa Chiara, 11 e 12 agosto, al picco massimo di visibilità dello sciame
meteoritico delle 'Perseidi', le famose 'lacrime' di san Lorenzo) riportando il passo iniziale del
'De Bono Pacis' (nell'eccellente traduzione fattane dal Prof. Giuseppe Catanzaro, Presidente
dell'Accademia Properziana del Subasio), ed invitando i lettori a scorrere con avidità
quest'operetta, tanto essa appare splendida anche nel suo genere letterario, presentandosi tanto più oggi - di grandissima attualità. <<Se si vuole una cognizione completa sul bene
della, pace, procedendo con ordine, bisogna prima dare una spiegazione sul nome
dell'oggetto in discussione e poi sull'oggetto che il bene indica. Questo bene è stato indicato
con la parola Pax, perché il vocabolo esprime lo straordinario mistero della Trinità di Dio.
Questo nome infatti si declina, ma non si volge al plurale, simboleggiando quell'unità che è
carattere peculiare e distintivo di Dio: in questa unità, infatti, vi è la distinzione in tre
persone e nello stesso tempo si mantiene e venera la semplicità di un'unica e medesima
natura. Come dunque questo nome è formato di tre lettere, la P, la A e la X, che costituiscono
un'espressione che non ammette il plurale (non diciamo le paci), così anche la divinità consta
di tre persone: il Padre, il Figlio e lo Spirito santo. Queste non sono tre essenze, o Dei, ma
l'unica essenza, un unico Dio. La P, poiché è la prima lettera della parola, indica il Padre; la
A, che è quella di mezzo, indica il Figlio; la X, che è posta alla fine, rappresenta
espressamente lo Spirito santo. Inoltre la P indica la Persona del Padre per una duplice
ragione. La prima riguarda il nome: evidentemente la parola padre ha questa lettera iniziale.
La seconda è questa: essendovi due lettere, che, per essere pronunziate, richiedono la
divisione delle labbra, subito dopo una loro compressione, cioè la P e la B, per formare la P
le labbra si stringono con maggiore compressione che per pronunziare la B e poi si aprono
con un suono più chiaro per l'emissione della voce. Come dunque per pronunziare la lettera
P le labbra si spalancano di più, affinché la voce formata sia profferita, così tutte le cose, che
erano nascoste nel segreto dei disegni divini, quasi suono della voce concepita nel cuore,
hanno incominciato a formarsi e ad aprirsi per opera della creazione... Parimenti si ritenga
che A indica il Figlio per una duplice ragione. In primo luogo, perché è vocale, cioè ha un
suono di per sé, e il figlio che si è incarnato, di per sé è visto e conosciuto. In secondo luogo,
perché è la prima di tutte le lettere; e il figlio è il Primogenito rispetto ad ogni creatura. E
come Egli è prima, così è dopo di ogni creatura: L'Alfa e l'Omega, il primo e l'ultimo, onde è
chiamato il Primogenito e l'Unigenito: Primogenito, in quanto nessuno è esistito prima di lui;
Unigenito, perché nessuno sarà dopo di lui. Affinché l'insieme di questo nome risulti
completo, alle due precedenti lettere si lega la terza, cioè la X. Questa prefigura la persona
dello Spirito santo in duplice modo, cioè per la natura del suono e per l'ordine in cui è
disposta. Per la natura del suono: perché è consonante doppia, e perciò, a buon diritto,
indica lo Spirito santo per la doppia consonanza d'amore, che in esso si comprende: infatti
da una parte congiunge il Padre con il Figlio, dall'altra la creatura con il Creatore… Per
l'ordine della disposizione: perché questa lettera è la terzultima dell'alfabeto, viene cioè
prima della penultima. Infatti nell'abbecceddario due lettere la Y e la Z vengono dopo questa.
Di queste tre lettere la prima è la X, e perciò essa è concepita come immagine del
mistero>>40.
*****
Il 'mistero' di cui ci siamo occupati è dinanzi agli occhi di tutti. Si tratta anche del
'mistero francescano' che non finirà di stupire i secoli. Con gli 'occhi', c'è, per 'vedere',
l'ausilio della 'mente' e del 'cuore'. E' quanto abbiamo cercato di fare, spiando in pochi
acri di terra assisana la presenza del 'mistero' dello Spirito Santo e il 'segreto' della
Pace.
Note
1
Assisi è descritta da Properzio (4, I, 125) come <<scandentiique axis consurgit vertice muros, mura
ab ingenio notior ille tuo>>. Secondo Dante Alighieri (Paradiso, XI, 52-55) <<Però chi d'esso loco
fa parole, / non dica Ascesi, ché direbbe corto, / ma Orïente, se proprio dir vole>>. Secondo l'illustre
glottologo Giovanni Semerano, autore di studi rivoluzionari, 'asu' - in accadico e assiro-babilonese - è
appunto il Sole. Gli Asisinates sono ricordati nell'ambito delle popolazioni umbre da Plinio. Di Assisi
fanno menzione Tolomeo nella Geografia e Procopio nella Guerra Gotica. Sorprendente è il silenzio
di Strabone, geografo augusteo, che si guarda bene dal nominarla. Sorge perciò il legittimo sospetto
che l'etrusco Properzio (con l'eclissarsi dell'astro politico di Mecenate, etrusco di Arezzo della regia
famiglia dei Cilnii, proprietari terrieri sulla linea dei 'laghi' che giungevano fino alle Fonti del Clitunno
passando dal Trasimeno, fino al Lacus Umber sotto Assisi, bonificato dai benedettini nell'ottavo
secolo) abbia ricevuto ad un certo momento una sorta di interdetto, affine a quello che ebbe a subire
molti anni dopo il sodale Ovidio di lui un po' più giovane, il cui 'giallo' non è stato mai risolto. La
precoce 'scomparsa' di Properzio (che sarebbe 'morto' ad appena 31 anni), e la chiara falcidia della sua
opera (le Elegie in 4 libri, che in verità si presentano assai disomogenee), potrebbero invece trovare
proprio questa 'spiegazione'. Su 'Assisi', si veda A. Grohmann, Le città nella storia d'Italia, Laterza,
Bari, 1989, nonché A. Cristofani, Delle storie di Assisi, A. Forni Editore, ristampa 1980 dell'edizione
del 1902. Il Duomo romanico di San Rufino rimonta al XII secolo. Fu ultimato durante la vita di San
Francesco. In precedenza doveva esserci una basilica forse dell'XI secolo, o forse ancora precedente,
di cui restano la cripta e soprattutto la robusta torre campanaria. La zona del Duomo insiste nella parte
alta della città, quella più antica, contornata da robuste mura umbro-romane, che molto probabilmente
racchiudevano il primitivo insediamento, ed è caratterizzata dalla presenza di notevoli reperti
archeologici (teatro, circo, anfiteatro ed antico foro umbro, accanto al tempio della Buona Madre). La
zona del foro antico è quella oggi occupata dalla chiesa. Stando all'illustre storico del francescanesimo
Arnaldo Fortini, Assisi sarebbe caratterizzata dalla presenza di tre distinte cittadelle: quella 'imperiale'
(col castello svevo e gli edifici collinari), la zona di san Rufino (o 'cittadella benedettina' a ridosso del
monte Subasio), e la parte bassa (Santa Maria Maggiore o 'cittadella vescovile'), dove appunto si
collocavano la casa di Properzio e le antiche terme. Questa 'teoria' corrisponde, nominalmente, alle
varie ipotesi che si possono avanzare per la formazione storica del libero comune di Assisi, che appare
certamente attestato nell'anno 1198, quando il castello svevo fu distrutto dal popolo dopo la morte di
Enrico VI e quella di Costanza d'Altavilla.
2
L'incertezza dell'anno di nascita deriva da un conto a ritroso rispetto alla data certa della morte (3
ottobre 1226) e al computo degli anni della vita. Secondo le varie leggende francescane, la nascita del
Santo sarebbe stata caratterizzata da eventi miracolosi: anzitutto si sarebbe presentato a monna Pica un
uomo, annunciando che in quel giorno sarebbero nati a Assisi il migliore e il peggiore degli uomini;
quindi, al momento del battesimo al fonte di San Rufino, un angelo avrebbe lasciato impresse le sue
orme sulla pietra, assistendo all'evento (Francesco si chiamava Giovanni); poi, uno strano pellegrino
avrebbe cominciato ad annunciare per le vie di Assisi il messaggio di 'Pace e Bene'; infine, un uomo
semplice avrebbe steso un velo al passaggio del giovane Francesco per la Piazza (o foro del mercato),
rendendo omaggio alla sua futura grandezza (si tratta, in questo caso, del primo affresco del ciclo
iconografico giottesco, composto da 28 grandi riquadri). Tale sostrato di leggende potrebbe in effetti
celare una 'verità' storica della quale ci si è spogliati e di cui ci occupiamo in questo articolo, con
particolare riguardo a Gioacchino da Fiore e alla figura di Magister Rufinus. I due erano nati
pressoché in quegli anni (intorno al 1130) e mentre è certo che Gioacchino sia morto nel 1201-1202, di
Rufino non si hanno più notizie dopo il 1192. Il De Bono Pacis di Rufino e il Decem salpterium
chordarum di Gioacchino risalgono invece agli anni della pace di Costanza.
3
Su I genitori di san Francesco si veda in particolare l'esauriente lavoro di F. Rossetti, Edizioni Il
leccio, Siena, 1984. Secondo la versione del vescovo di Assisi (1698-1715) Ottavio Spader, in base al
racconto fattogli a Lucca, mentre predicava nel 1689 in quella città, dal canonico Francesco Moricone,
Pietro di Bernardone discenderebbe dalla famiglia di mercanti dei fratelli Moricone, originaria di
Lucca. Quando il corpo del Santo fu scoperto nel 1818 nel sepolcro murato sotto l'altare maggiore
della Basilica inferiore di Assisi, risultò, dalla ricognizione del cadavere, la presenza di un rosario con
33 grani (tanti i versi del Cantico), un anello con un sigillo riportante l'effigie di Minerva (il comune di
Assisi aveva allora sede nel famoso tempio di Minerva posto nel 'forum mercatorum'), e 26 piccole
monete lucchesi. A nostro avviso (seguendo una traccia aperta da Gemma Fortini, la figlia del già
citato Arnaldo, che peraltro incontreremo di nuovo), Petrus Bernardonis era un mercante convertito,
di origine ebraica, la cui famiglia già esercitava il mestiere in epoca carolingia (cfr. G. Fortini,
Francesco d'Assisi ebreo?, Carucci Editore, 1978). Il patronimico 'Bernardonis' evocherebbe,
piuttosto, la dipendenza dall'importante abbazia riformata del Monte Subasio, egemone nell'alto
medioevo dell'economia curtense locale, in nome e per conto della quale l'attività di scambio era
esercitata, profittando della via francigena che correva sotto Assisi, e con basi d'appoggio nei lunghi
viaggi tramite le stesse abbazie benedettine presenti lungo il tragitto. La madre di Francesco avrebbe
avuto origini nobiliari piccarde o provenzali, ma nessun documento lo prova. Pica è anche il nome di
un uccello. Alcuni sostengono che il suo nome fosse Giovanna, così come Francesco si chiamava
Giovanni prima che il padre gli mutasse nome. L'epiteto di 'madonna' ne attesta senza dubbio una
qualità sociale di rango superiore a quella del marito. Tradizione vuole che fosse effettivamente
francese, e meglio ancora provenzale, oppure della Burgundia. Francesco prorompeva assai spesso in
canti provenzali, probabile lingua materna, saltellando e ritmando la musica, accompagnandosi con un
bastoncello che imitava un archetto. Il carattere di Francesco appare fine e poetico come quello della
madre e al tempo stesso assai deciso come quello del padre. Le fonti ci fanno presente il suo spirito
curiale e cavalleresco, assai accentuato. Magister Rufinus era pure di origini francesi, contrariamente
all'opinione del Singer. L'eresia catara si radicò pervicacemente in questa parte riparata della Francia,
riperpetuandosi in seguito con gli ugonotti.
4
Si veda al riguardo la pregevolissima pubblicazione 'Fonti francescane' a cura di Stanislao da
Campagnola, (editio minoris, pag. 1-1560), Editrici Francescane, Assisi, 1986.
5
Gli studi francescani si avviarono con il Thode, che pubblicò a Berlino nel 1885 il suo Francesco di
Assisi (riproposto da Donzelli Editore, Roma, 1993, con prefazione di L. Bellosi, autore de La pecora
di Giotto, Einaudi, Torino, 1983), e proseguirono con il Sabatier (1894), di religione protestante. Una
Vita di san Francesco si deve anche al famoso poeta danese J. Joergensen, nel 1907. Seguirono, a
questi primi studi, una profluvie di vite del Santo, alcune composte da grandi scrittori come G.K.
Chesterton, H. Hesse, J. Green e N. Kazantzakis. In questa sede citeremo soltanto alcune accurate
biografie storiche, come la monumentale Nova vita di san Francesco di Arnaldo Fortini, ed. Assisi, 5
voll., non più ristampata; L. Salvatorelli, Vita di san Francesco d'Assisi, Einaudi 1973 (I ediz. Laterza,
Bari, 1926); R. Manselli, San Francesco, Bulzoni Editore, Roma, 1980; F. Cardini, Francesco
d'Assisi, Mondadori, Milano, 1991; J. Le Goff, San Francesco d'Assisi, Laterza, Bari, 2000. Per gli
amanti delle curiosità facciamo presente che il grande storico Luigi Salvatorelli era nipote del Prof.
Leto Alessandri, cui l'opera francescana è dedicata, già preside del Liceo di Assisi e notevole studioso
di storia locale. Le fonti francescane sono di vario genere. Su questo argomento cadono, in particolare,
gli autorevolissimi studi di Stanislao da Campagnola, fra i quali Biografie e cronache del duecento
francescano, Perugia, 1970; L'angelo del sesto sigillo e l'<<Alter Christus>>, Roma, 1971;
Francesco d'Assisi nei suoi scritti e nelle biografie dei secoli XIII-XIV, Edizioni Porziuncola, Assisi,
1981. Su Assisi al tempo di San Francesco si vedano gli Atti del V convegno internazionale di Studi
Francescani, Assisi, 1978, nonché di A. Fortini, Francesco d'Assisi e l'Italia del suo tempo, Biblioteca
di Storia Patria, Roma, 1968, e soprattutto Assisi nel medioevo, Carucci editore, Roma, 1940.
6
Nel 1238 fra' Elia, diretto a Cremona dove trovavasi il campo imperiale come Legato Pontificio,
passando da Parma accolse nell'ordine fra' Salimbene de Adam, il quale nella sua Cronaca ci ha
descritto, a tratti vivaci, i particolari di quell'incontro (giovedì 4 febbraio). Il mancato successo della
missione affidatagli dal Papa Gregorio IX segnò la sua disgrazia. Si suole ricondurre a fra' Elia il
progetto della Basilica di S. Francesco (ma il Santo aveva lasciato scritto nel suo Testamento che
nessuna chiesa si sarebbe dovuta edificare a suo nome), e la successiva cura dei lavori. Sono incerte le
sue origini. La sua effigie, accanto a quella di Federico II, comparirebbe in un angolo esterno del
Sacro Convento della Basilica, che affaccia sulla pianura. Un primo studio al proposito si deve negli
anni ottanta al Dott. Prospero Calzolari, amico personale del Prof. Bartocci (P. Calzolari, Massoneria
Francescanesimo Alchimia, Sear Edizioni, Scandiano, 1988). Questo spunto è stato organicamente
ripreso dallo storico dell'arte Prof. Elvio Lunghi in un importante saggio: Presenza di Federico II
nella chiesa di S. Francesco ad Assisi, in Atti dell'Accademia Properziana del Subasio, serie IV, n. 23,
anno 1995, Assisi al tempo di Federico II. Su La corte papale a Perugia nel ducento, si veda inoltre
l'interessantissimo lavoro, assai ricco di spunti, del Prof. Francesco Frascarelli, in Annali della Facoltà
di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Perugia, volume XV, nuova serie volume I, 1977/1978,
pag.155-213.
7
Cfr. Salimbene de Adam, Cronica, 441. Presentata al Capitolo generale di Pisa del 1263, la
Leggenda Maggiore di San Bonaventura incontrò il plauso incondizionato del gruppo dirigente. Il
Capitolo generale di Parigi del 1266 ordinò la distruzione di tutte le precedenti biografie. Così ad es. la
Vita prima di Tommaso da Celano (commissionata nel 1228 da Papa Gregorio IX) fu recuperata
soltanto nel 1768. Il Capitolo di Parigi affermò che San Francesco era 'ad litteram' l'angelo
apocalittico del sesto sigillo. Dante Alighieri si ispira, nel canto XI del Paradiso, al poemetto
allegorico del Sacrum commercium beati Francisci cum domina Paupertate, forse erroneamente
attribuito a Giovanni da Parma. Nella temperie storica di questa delicatissima fase di passaggio del
movimento francescano, che vede prevalere San Bonaventura, viene travolto lo stesso ministro
generale dell'Ordine, Giovanni da Parma, compromesso dall'azione di Gerardo da Borgo San Donnino,
che era accanito fautore delle attese di 'renovatio' di Gioacchino da Fiore, profeticamente fissate per
l'anno 1260 in cui appunto si manifestarono i movimenti epocali dei 'flagellanti'.
8
Cfr. F. Heer, Il Medioevo, Mondadori, 1991, pag. 216, capitolo: <<Sinistra>> e <<destra>> nei
movimenti religiosi particolari.
9
Ce lo attesta lo stesso Properzio, nel breve, bellissimo e misteriosamente allusivo 'epigramma'
funebre impropriamente inserito come elegia XXI del libro I.
10
Appartiene al novero dei tanti misteri francescani anche la famosa benedizione, scritta a fra' Leone
di pugno di Francesco e portata sul petto del frate fino alla morte. A parte l'invito a che il Signore
'mostri il suo volto' - e ben inteso si tratta di un passo biblico (Numeri, 6, 24-26) - la benedizione
francescana è caratterizzata da un Tau fuoriuscente dalla bocca di un volto incorniciato dalla barba,
che si può presumere quello di Cristo, ma questo viso sembra emergere da un lenzuolo. Si tratta forse
della Sindone, che fino alla conquista crociata del 1204, si conservava a Costantinopoli, e che andò in
mano ai cavalieri templari, per poi essere conservata dai catari od ugonotti in Burgundia, durante la
persecuzione di Filippo il Bello, e riapparire finalmente in mano ai Savoia? Ci limitiamo
all'enunciazione dell'ipotesi. Tuttavia è certo che il Tau (in ebraico 'segno') era il simbolo col quale si
sottoscrivevano i cavalieri templari, poi accusati di venerare una strana immagine scurita, chiamata
'Bafometto'. Il mistero properziano concerne i vari aspetti della vita e dell'opera poetica. Il Prof. Pio
Fedeli, massimo studioso di Properzio, da me richiesto se Cinzia è in effetti l'immagine della luna
come riporta Macrobio, mi riferì di recente che in America era stato pubblicato un libro proprio su
questo tema. E' probabile che le elegie nascondano allusioni di carattere astronomico. Si veda in
particolare 4, I, l'elegia in cui Properzio è Oros, nella traduzione fattane dalla compianta Gemma
Fortini in Le Elegie di Properzio, Assisi, 1997. Vale in ogni caso far presente al lettore interessato che
non solo la famosa archeologa M. Guarducci, scopritrice tra l'altro della tomba di San Pietro in
Vaticano, pubblicò un lavoro (in Memorie dell'Accademia Nazionale dei Lincei, s. VIII, XXIII, 1979,
pp. 269-297) sulla Domus Musae. Epigrafi greche e latine in un'antica casa di Assisi (posta nei
sotterranei della Chiesa di Santa Maria Maggiore), ma che nei primi anni cinquanta l'esoterico
farmacista assisano Dott. Fioravante Caldari (cfr. Atti dell'Accademia Properziana del Subasio, serie
V, n. 2, dicembre 1955, pagg. 17-22) scavò a proprie spese il medesimo sito archeologico, scoprendo
tra l'altro, oltre agli affreschi e alle epigrafi illustrate dalla Guarducci, una lapide in cui certo Properzio
è nominato come 'sacerdote flamine'. Caldari figura in una fotografia accanto ai professori G. Saeflund
e K. Kerenyi, che allora ispezionarono la supposta casa di Properzio. Ma lasciamo la parola a Gemma
Fortini (op. cit., Prefazione) per una contrastante opinione: <<…Gens Propertia, una famiglia
imparentata con i Passenna e i Paulli, da cui il famoso console Emilio Paolo e gli Scipioni: una
famiglia di magistrati che per trecento anni diede saggi amministratori alla città. Si vuole che la loro
casa si trovasse nell'attuale chiesa di S. Maria Maggiore per i numerosi cimeli romani ritrovati e quel
piccolo tempio orfico dai variopinti disegni parietali [con fiori rossi a forma di cuore - n.d.r.]; ma il
nome della Gens Propertia [un antico re di Veio è attestato col nome di Properzio - n.d.r.] non è qui
venuto alla luce, come invece è accaduto nel sepolcro lungo la via che conduce a S .Damiano fuori le
mura [primo luogo francescano - n.d.r.; Gemma Fortini sta qui difendendo un antico lavoro del padre
Arnaldo, risalente al 1931, che fu letto in Campidoglio per le celebrazioni properziane], dove una
lunga lapide calcarea porta chiaramente inciso il nome della gens Propertia [non si tratta tuttavia della
importantissima epigrafe venuta alla luce nel 1742 fra Assisi e Bastia in cui è menzionato il 'marone'
Vols... Propartii - n.d.r]>>.
11
Sembra che Dante Alighieri, il ghibellin fuggiasco, durante le sue peregrinazioni avesse bussato una
volta all'eremo di Fonte Avellana, invocando appunto la 'pace'. L'episodio del 'lupo di Gubbio',
riportato dai Fioretti, nasconde un atto di pacificazione. La famosa Concordia del 1210, preceduta da
un atto consimile del 1203, sembra riflettere la presenza in Assisi del messaggio benedettino di pace
originato da magister Rufino. L'insieme delle tante connessioni che potrebbero essere scorte (e che
inevitabilmente dobbiamo trascurare) è tale da restituire un interessantissimo tracciato, sul quale
invitiamo i lettori a riflettere per proprio conto.
12
Questo ritratto prova lo stretto collegamento tra i benedettini e San Francesco (che viene
rappresentato non ancora stigmatizzato - sulla questione dell'<<invenzione>> delle stimmate, si veda
l'ampio ed approfondito saggio della Prof. Chiara Frugoni, docente di Storia medievale all'Università
di Roma II, Francesco e l'invenzione delle stimmate - Una storia per parole e immagini fino a
Bonaventura e Giotto, Einaudi, 1993). Come evidenzia il Fortini (cfr. F. d'Assisi e l'Italia del suo
tempo, op. cit. pag. 353) questo ritratto risulta fedele alla descrizione poi data dal Celano nella Vita
prima, 465: <<Era uomo facondissimo, di aspetto gioviale, di sguardo buono, mai indolente, mai
altezzoso. Di statura piuttosto piccola, testa regolare e rotonda, volto un po' ovale proteso, fronte
piana e piccola, occhi neri, di misura normale e tutto semplicità, capelli pure oscuri, sopracciglia
diritte, naso giusto, sottile diritto, orecchie dritte ma piccole, tempie piane, lingua mite, bruciante
penetrante, voce robusta, dolce, chiara e sonora, denti uniti, uguali e bianchi, labbra piccole e sottili,
barba nera e rada, collo sottile, spalle diritte, braccia corte, mani scarne, dita lunghe, unghie
sporgenti, gambe snelle, piedi piccoli, pelle delicata, magro, veste ruvida, sonno brevissimo, mano
generosissima>>. E' il ritratto di un trovatore, di un poeta e allo stesso tempo di un uomo di azione.
L'ottimo seme di Francesco deve aver fruttato sul buon terreno già preparato da Rufino. E' questo
l'assunto fondamentale del presente scritto, pur negli inevitabili limiti che ci siamo imposti.
13
Ci sarà poi, iconograficamente parlando, un 'Francesco con la barba' ed un 'Francesco senza barba'
(quello degli Angiò). Si veda al riguardo l'importante saggio di L. Bellosi, La pecora di Giotto, op. cit.
Enormi problemi ha suscitato la datazione e l'attribuzione dei cicli pittorici della Basilica assisiate, che
vede il succedersi di varie scuole, e molto probabilmente registra le diverse vicende politiche che si
sono succedute durante il lungo periodo del suo completamento.
14
La scritta di pace è evangelica e compare in Matteo 10, 13, oltreché nel De Bono Pacis, Libro I,
Cap. IV, De pace Dei ad Homines. Il messaggio francescano è essenzialmente quello della Pace. La
parola minores socialmente voleva indicare che i francescani si mettevano dalla parte del popolo, dei
deboli, dei minori, in opposizione ai maggiori, agli aristocratici, ai potenti. Vedremo a suo tempo la
bellissima interpretazione della parola 'pace' che dà il grande canonista Rufino nella sua opera. In
modo allusivo, si noti la semplice consonanza che intercorre tra 'PAX' e 'AXis'. Axim è infatti il nome
di Assisi, che figura nell'Italia illustrata (1527) di Flavio Biondo, e talvolta nei codici properziani si
legge 'Axis' in luogo di 'Asis'. La parola 'asse' richiama - in virtù del particolare orientamento da est a
ovest, con fronte a sud, della città di Assisi - l'asse di traguardo degli antichi osservatori astronomici
per la determinazione del calendario luni-solare. Sembra perciò dirla lunga sulle origini 'sacre' della
patria di Francesco, che forse sorse intorno ad un antico osservatorio sito sulla sommità del colle, dove
oggi si colloca il castello. Infatti si scorgono ancora i resti imponenti di un antichissimo muro
'pelasgico', e del resto sono stati trovati sulla montagna soprastante del Subasio straordinari 'bronzetti
votivi' di fattura antichissima. L'impressione generale è che il toponimo di Assisi evochi un culto
solare. Tanto bene lo intuisce Dante Alighieri, e lo stesso 'Angelo del Sesto Sigillo' della ' lectio'
bonaventuriana è proprio l'angelo apocalittico che appare dall'oriente recando sulle mani il segno del
Dio vivo (quest'angelo, col segno del Dio vivente, è effigiato nel tondo centrale del rosone piccolo di
sinistra della facciata del Duomo: 'Vidi alterum Angelum ascendentem ab ortu solis, habentem signum
Dei vivi - Apocalisse, 7,2). A nostro giudizio si tratta di connessioni assai significative, che non
debbono essere sottovalutate.
15
Si tratta dell'incipit dell'elegia III, 5, che riportiamo nella traduzione di Gemma Fortini: ' Amore è un
dio di pace, noi amanti veneriamo la pace'. Dunque a piena ragione Assisi può essere definita 'la città
della pace' (<<Benedicat tibi dominus Sancta civitas deo fidelis, quia per te animae multae
salvabuntur, in te servi altissimi habitabunt, de te multi eligentur ad regnum aeternum>>, se non fosse
che - come racconta il Fortini in Assisi nel medioevo - ci fu una volta che i frati conventuali invitarono
al sacro Convento i cappuccini di Santa Maria degli Angeli e ne nacque una zuffa con molti feriti e
contusi).
16
A quest'ultimo riguardo ricordiamo brevemente che nel pregevole lavoro dell'archeologa A. Tufani,
L'anfiteatro di Assisi, Accademia Properziana del Subasio, Assisi, 1999, vengono citate le singolari
proprietà terapeutiche di quest'acqua sorgiva del perlasio (secondo il Fortini, il nome richiama il primo
luogo di raduno popolare dell'insorgente comune medievale col significato di parlascio o parlamento).
Si tratta di una fons o gurgha perlasii, che secondo le memorie della antica famiglia Paolucci (pag. 35)
conduceva a numerose guarigioni miracolose grazie all'aspersione corporea e all'assunzione di 'acqua
santa'. La Tufani rammenta altresì che l'invaso dell'anfiteatro (gurgha) era utilizzato nel medioevo per
la tintura delle stoffe.
17
Gioacchino da Fiore nacque più probabilmente verso il 1130 (non verso il 1145 come altri
sostengono), e morì nell'anno 1201 o 1202, quando Francesco aveva circa venti anni. Le sue principali
opere sono la Concordia Novi et veteris Testamenti, l'Expositio in Apocalypsim, il Psalterium decem
chordarum, il commento Super quatuor Evangelia e forse anche il Liber figurarum. Secondo
l'opinione di molti studiosi l'influsso gioachimita su Francesco fu inevitabile. Si ritiene
prevalentemente che umilissime fossero le origini di Gioacchino. Non trova eccessivo credito l'ipotesi
che lo vuole figlio di un notaio della corte normanna. Egli si mostra precursore dei movimenti
spirituali che si realizzeranno in seguito. Secondo il 'francescano di Erfurt' (Cronica minor risalente al
1261/1268) sembra che nella sua cella Gioacchino avesse fatto dipingere, prima ancora che
sorgessero, i due nuovi ordini da lui profetati, poi identificati nel movimento francescano e in quello
domenicano. Tali immagini si scorgono anche sulla facciata di San Rufino, ai lati del piccolo rosone di
sinistra. Gioacchino era in origine cistercense, ma poi si ritirò fondando un ordine proprio (i
Cistercensi erano sorti in derivazione dei Cluniacensi). Nel 1184 lo troviamo a Veroli presso il
pontefice Lucio III, cioè quel Rolando Bandinelli, che insieme a Magister Rufinus, era stato tra i
principali allievi di Graziano. I teologi di Parigi e i membri di altri ordini perseguitarono Gioacchino
come eretico. Tuttavia egli ebbe entrature notevoli anche con Urbano III, che lo incontrò a Verona nel
1186 e lo esortò a scrivere l'Expositio in Apocalypsim, la sua seconda grande opera. Il Psalterium era
stato già in buona parte abbozzato nel 1183, l'anno della pace di Costanza e quello della probabile
composizione da parte di magister Rufinus del De Bono Pacis. Nel 1196 una bolla di Celestino III
recante la data del 25 aprile regolarizza l'ordine florense. Le principali notizie su Gioacchino ci
provengono da Gregorio da Lauro che scriveva nel 1660. Altre fonti gioachimite sono Ruggero di
Hovden, Benedetto di Peterborough e Raul di Coggeahall (quest'ultimo in relazione alla profezia di
Riccardo Cuor di Leone). L'ordine florense è esistito fino al 1570. Come abate e come erudito - non
come politico - Gioacchino intrattenne rapporti personali con la casa reale di Enrico VI: cfr. H.
Grundmann, Studi su Gioacchino da Fiore, Marietti, 1989 (I ed. Leipzig-Berlin 1927), pag. 16.
Entrato nel monastero cistercense di Corazzo, ne fu abate dal 1178 al 1188 almeno. Nel 1255 la
Commissione di Anagni, nominata da Papa Alessandro IV, ne valutò la dottrina a seguito delle
denunzie dei maestri di Parigi nei confronti del gioachimita francescano Gerardo da Borgo Donnino.
Secondo Stanislao da Campagnola la 'novitas' francescana, a differenza di quella di Gioacchino da
Fiore, fu piuttosto rivolta alla trasformazione attiva del presente, che all'attesa contemplante del futuro.
Su Gioacchino da Fiore e il Salterio a dieci corde cfr. E. Zolla, I mistici dell'occidente, III, Rizzoli,
Milano, 1977, Mistici medievali, pag. 111 ss.
18
Tale affermazione è presente anche nel Salterio a dieci corde, con evidente riguardo al Salmo 144,
9, Lode di Davide, di cui si riparlerà nel seguito.
19
Il grande catalogo (pagg. 171) delle intense opere scultoree (1906-1973) di Francesco Prosperi (con
apparati critici e filologici a cura del figlio Franco) è stato pubblicato dall'Accademia Properziana del
Subasio (ed. Porziuncola) nel 1997. Un lavoro di Prosperi (S. Francesco ascendente al cielo in un
carro di fuoco come il profeta Elia) è presente nella antica cripta della Chiesa di San Rufino.
L'Accademia Properziana, di illustri origini, venne fondata in Assisi nel 1516. Negli ultimi 20-30 anni
si sono moltiplicate le accuratissime pubblicazioni di pregio di questa Accademia, di non trascurabile
risalto nazionale.
20
F. Prosperi, La facciata della cattedrale di Assisi (La mistica gioachimita prefrancescana nella
simbologia delle sculture), Stampa grafica Perugia, 1968. Sembra che negli anni ottanta il compianto
Dott. Francesco Brunelli di Perugia abbia prodotto un lavoro originale su questa medesima facciata,
tuttavia non abbiamo potuto al momento reperirlo. Per la bibliografia completa inerente a questo
importante monumento si rimanda ai più recenti lavori citati in queste note.
21
La cattedrale di San Rufino in Assisi, Arti grafiche A. Pizzi s.p.a, Milano, Accademia Properziana
del Subasio e Capitolo della Cattedrale di San Rufino, con ampia prefazione ed eccellente studio
introduttivo del Prof. Don Aldo Brunacci, illustre Canonico della Cattedrale e direttore della Casa
editrice Fonteviva.
22
Nel famoso atto giuridico della Concordia del 1210 tra 'majores' e 'minores', riportato in tutte le
storie del diritto italiano e col quale fu operato un massiccio affrancamento di mano d'opera servile, è
chiaramente fissato l'impegno del completamento dei lavori della facciata del Duomo. Ciò non esclude
affatto che la parte più bassa ed antica della facciata, quella cioè comprensiva del bellissimo portale,
fosse già stata completata in anni precedenti, come da noi indicato.
23
Fortini, nato e vissuto in Assisi, esercitava la professione di avvocato. Oltreché aver preso parte al
collegio difensivo del processo di Verona (difensore del ministro dell'agricoltura Cianetti), fu per
moltissimi anni podestà di Assisi. Amico personale del Re Vittorio Emanuele III e di Gabriele
D'Annunzio, che scrisse il Notturno a seguito degli stimoli spirituali che gli provennero da questa
amicizia e dalla frequentazione dei luoghi francescani.
24
L'autore dell'articolo sulla facciata di San Rufino presente nella pubblicazione del 1999 parla invece
di un 'Cristo'. I recenti lavori di restauro presentano dei punti particolari di sorprendente disposizione
simmetrica, che andrebbero assolutamente chiariti. Si tratta di macchie di colore di un rosso più vivo
che non la pietra del lunotto, e che sembrano segnare delle stimmate alle mani, una ferita appena sopra
il cuore, un punto centrale sulla fronte, ed infine due tumefazioni agli zigomi di questo Dio incoronato,
uno e trino, tutto contenuto assiso in trono entro il cerchio empedocleo del 'rotondo sfero' della
creazione caratterizzata dalla presenza della luna, del sole e delle altre stelle.
25
26
Cfr. R. Manselli, Francesco di Assisi, op.cit., pag. 29.
Così si esprimeva Arnaldo Fortini: <<Ecco una bella figura di vescovo che andrebbe studiata>>. Ed
in effetti a Magister Rufinus, grande canonista ed oratore, il Singer, che nel 1902 ne pubblicò in
Germania la Summa Decretorum, dedica una prefazione di circa 130 pagine, fornendo vari particolari.
Su Rufino si veda anche la prefazione al De Bono Pacis a cura del Prof. Don Aldo Brunacci, ed il
profilo altresì tracciato dal Prof. G. Catanzaro, Magister Rufinus vescovo di Assisi nel sec. XII, in Atti
dell'Accademia Properziana del Subasio, Serie VI, n.14, 1987, pag. 243 ss. Si ha però ragione di
ritenere che Rufino fosse di origini francesi, e che prima di approdare all'Università di Bologna fosse
presente all'Università di Parigi. La data di nascita di Rufino potrebbe essere fissata intorno al 1130,
come per Gioacchino da Fiore. Alcune idee presenti nel De Bono Pacis sembrano riflettere temi
gioachimiti esposti nel Salterio a dieci corde. Riteniamo di poter affermare che Magister Rufinus subì
evidenti influssi della Scuola di Chartres, sui cui caratteri di 'naturalismo platonico' cfr. M. Lemoine,
Intorno a Chartres, Jaca Book, Milano,1998.
27
Sui Vassalletto, una dinastia di architetti e lapicidi romani, si veda in particolare l'Enciclopedia
dell'arte medievale Treccani, Vol. II, Roma, 1991, pagg. 625-653 (voce Roma). Nel medesimo
contesto enciclopedico (voce Assisi) si citano, a proposito della facciata del Duomo di San Rufino, i
lavori del vecchio canonico G. Elisei, risalenti al 1893, e quello del 1968 di F. Prosperi, gli unici in
effetti dedicati a questo capolavoro del tutto trascurato. Dallo studio comparato tra gli altorilievi del
candelabro in pietra della Basilica di San Paolo fuori le mura in Roma (di mano di Niccolò d'Angelo e
Pietro Vassalletto) e le sculture di Assisi, emerge indubbiamente la medesima 'mano'. Ciò consente
una ragionevole datazione del portale, precedente alla morte di Gioacchino da Fiore (ivi rappresentato
in vita), e non come erroneamente si sostiene posteriore al 1210. Del resto la presenza in loco dei
lapicidi romani e dei loro cantieri è ben attestata da altre opere, come ad es. la pubblicazione del
Touring Club Italiano (1965), L'arte nel medioevo (Duecento e trecento), pag. 29. Niccolò e
Vassalletto sono attestati al culmine della loro fama proprio nell'ultimo quarto del XIII secolo.
28
La bellissima piazza di Bevagna è adornata anche dalla frontestante chiesa di San Michele
Arcangelo, sulla cui facciata compare tra l'altro l'effigie del giovane imperatore Enrico VI.
29
Si veda al riguardo A. Brunacci, Prefazione al De Bono Pacis, da lui personalmente riscoperto e
valorizzato, ed ottimamente tradotto ed annotato dal Prof. G. Catanzaro, Presidente dell'Accademia
Properziana del Subasio. La Summa Decretorum di Rufino è stata pubblicata in Germania nel 1902 dal
Singer, e ristampata nuovamente nel 1963, sempre a Paderborn. E' interessante notare che si ha notizia
di ben tre codici contenenti il De Bono Pacis (il Cassinese 238, il Tegernseensis 779 e il
Bambergensis, perduto), di cui i due ultimi sono tedeschi. Questo la dice lunga sull'equilibrata visione
di Rufino in ordine ai rapporti tra papato ed impero.
30
Cfr. Enciclopedia Treccani, voce ' Rufino'. Emerge che Rufino, come da noi sospettato, fosse di
lingua e cultura francese, il che costituisce altro interessantissimo 'indizio'.
31
Cfr. Stanislao da Campagnola, L'Angelo del Sesto Sigillo, op.cit., pag. 63.
32
Tra i tanti misteri francescani vi è anche quello della casa paterna, che viene situata dove sorge la
Chiesa Nuova, costruita nel seicento con i fondi del Re di Spagna. Sembra invece, come prova
documentalmente il Fortini, che la casa di Francesco si trovasse a sinistra della piazza, a ridosso della
chiesa di S. Nicolò, così come appare dal primo affresco di Giotto. Si veda al riguardo anche P.
Chioccioni, La casa paterna di San Francesco, Roma, 1966. Ciò proverebbe ulteriormente lo stretto
collegamento tra il mercante 'Petrus Bernardonis' e il monastero benedettino del Subasio.
33
A. Fortini, Vita Nova, op. cit., vol. 1, I, pag. 78.
34
Cfr. J. Le Goff, San Francesco d'Assisi, op. cit., pag. 67.
35
Cfr. J. Joergensen, San Francesco d'Assisi, op. cit., pag. 271.
36
Si veda al riguardo il dotto ed interessantissimo lavoro del Prof. Don Aldo Brunacci , S. Rufino
martire primo vescovo di Assisi, Libreria Fonteviva, Assisi, 2000, e si gusti poi il sermone di Pier
Damiani (altresì autore di un bell'inno a san Rufino: <<....magnum Rufini meritum turba canat
fidelium...>>) nell'eccellente traduzione dello stesso Don Aldo Brunacci.
37
A. Fortini, Assisi nel medioevo, op. cit., pag. 49; U. Gnoli, L'antica Basilica Ugoniana e il Duomo
di Giovanni da Gubbio in Assisi, in rivista Augusta Perusia, A. I, fasc. 11 e 12. La versione fornita da
Pier Damiani, di tendenze fortemente popolari, è perlomeno dubbia.
38
Su Arnaldo da Brescia si veda l'importante lavoro di A. Frugoni risalente al 1954, nell'edizione
Einaudi del 1989.
39
Come San Benedetto e Santa Scolastica rappresentano la 'coppia sacra' dell'Ordine benedettino al
momento dell'oscurità e del 'farsi crudo' della storia, così Chiara e Francesco ne rappresentano la
recuperata immagine diadica all'aprirsi del medioevo comunale, tempo di nuova libertà. G. Duby
pubblicò su la Repubblica (domenica 27 novembre 1994) un articolo su Le donne di Francesco santo
e cavaliere, recensendo un libro di Dalarun (dal titolo Francesco: un passaggio - Donna e donne negli
scritti e nelle leggende di Francesco d'Assisi, allora appena pubblicato in Italia), relativo al fascino
esercitato sulle dame, tra le quali spicca la devotissima Jacopa dei Settesoli, che da Roma accorse al
suo capezzale al momento della morte, recando con sé alcuni dolcetti.
40
Questo lavoro di sintesi, presentato in forma rapida e succinta ai lettori di Episteme, è caratterizzato
da molte superficialità e manchevolezze, parte dovute alla difficoltà della materia, parte ad ovvie
carenze di spazio. Teniamo a sottolineare che la nostra 'traccia' potrebbe comunque avere un
fortissimo impatto sulla figura storica di San Francesco, se in effetti, come si ipotizza in queste pagine,
Magister Rufinus fu per così dire l'istradatore del giovane Francesco. Ci sorprende la considerazione
(in base a quanto risulta, per bocca di Gioacchino, dal 'Salterio a dieci corde'), che la 'castitas' è il
'segno del fuoco dello Spirito Santo'. Così anche le altre due virtù francescane (umiltà e povertà),
sembrano riguardare, a loro volta, l'età del 'padre' e quella del 'figlio'. Quanto all'assunto altrettanto
fondamentale che Assisi abbia costituito nell'alto medioevo un centro ad economia curtense
direttamente connessa all'abbazia benedettina del Monte Subasio, rimandiamo in generale ad opere di
storia medievale, e, in particolare, a P. Cammarosano, Storia dell'Italia Medievale (Dal VI al XI
secolo), Laterza, Bari, 2001.
----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 5 di Episteme]
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Presenza occulta e manifesta dell'Imperatore Federico II
nella Basilica di San Francesco ad Assisi
Frate Elia e la congiura del silenzio
(Prospero Calzolari)
La trasposizione della stella ottagonale, legata all'esoterismo cristiano, nella pianta di Castel
del Monte, rappresenta in modo molto efficace la sacralizzazione dell'autorità sveva: Castel
del Monte è il simbolo di Federico II per rappresentare la comunione di Regnum e
Sacerdotium nella sua persona.(1)
Presso i neoplatonici e i neopitagorici, le cui dottrine influenzarono la cultura islamica,
l'origine del mondo scaturirebbe da un cerchio generato da due quadrati ruotanti di 45°
rispetto ai propri assi.
La figura che ne deriva è un ottagono, uno dei principali simboli esoterici dell'arte e della
tradizione cristiana ed islamica.
Come il quadrato simboleggia il mondo, così il cerchio rappresenta il cielo, così come la cuba
islamica doveva avere una base quadrata e un tetto circolare, tracciati dal compasso celeste e
dalla squadra terrestre della simbologia commacina.
Anche il numero otto possiede la stessa valenza simbolica, rappresentando il mondo
intermedio tra la circonferenza del cielo e la mole quadrata della terra, il punto di arresto della
manifestazione, la bilancia dei cabalisti; lo stesso numero, coricato, rappresenta l'infinito.
L'ottagono racchiude in sé il concetto di rigenerazione spirituale in quanto appunto
intermediario tra il quadrato e il cerchio.
Non a caso nella tradizione cristiana il fonte battesimale che simboleggia rigenerazione e
rinascita è quasi sempre di forma ottagonale, ed è nell'ottavo giorno che fu creato l'uomo
nuovo investito della Grazia ed ebbe luogo la risurrezione del Cristo (mediatore tra Dio e
l'uomo, come Federico lo era tra i suoi sudditi e Dio): giorno inesistente nel calendario reale,
essendo un puro simbolo salvifico indicante l'<<altro giorno>>, il <<tempo di Dio>>.
Le figure geometriche costituite dall'ottagono e/o dalla stella a otto punte, presenti nelle
chiese islamiche e cristiane, costituiscono un simbolo mandalico che rappresenta il percorso
dal mondo terreno alla salvezza eterna.(2)
In riferimento a questa simbologia esoterica, non meraviglia il fatto che gli alchimisti
attribuissero una così grande importanza alla "quadratura del cerchio".
Due sono però gli edifici in cui la stella a otto punte raggiunge la sua massima espressione
simbolica: la Cupola della Roccia presso Gerusalemme, costruita dal Califfo 'Abd al-Malik,
sulla rupe dove un tempo si trovava il tempio di Salomone (in seguito divenuta quartier
generale dei Cavalieri del Tempio) e Castel del Monte in Puglia, l'una testimonianza
dell'affermazione religiosa dell'Islam (da lì Maometto lasciò la terra per essere assunto in
cielo), l'altro simbolo architettonico della Pax Augusta federiciana.
L'Imperatore stesso, durante la crociata del 1228, visitò la Cupola della Roccia ed è
presumibile che in quell'occasione maturò in lui l'intenzione di rappresentare in forma
architettonico-simbolica la sua idea di Impero. Basti ricordare che per le proporzioni di Castel
del Monte si ispirò alle stesse usate da Salomone per la costruzione del Tempio di
Gerusalemme.(3)
Ma Federico II conosceva il linguaggio simbolico ed esoterico?
A parte il fatto che in alcuni trattati alchimistici bizantini del secolo XIII viene riportato il
nome di Federico II, prendendo in esame alcune delle figure a lui più vicine, la risposta è
senza dubbio affermativa.
Tenendo inoltre nella dovuta considerazione la vastità degli interessi culturali dell'Imperatore,
è universalmente accertato anche l'interesse che egli nutriva per quel campo dello scibile dai
più denominato "mondo dell'occulto" ma che noi preferiamo designare col termine di
"esoterismo".
Alla corte di Federico II erano presenti, tra gli altri, Leonardo Fibonacci, il grande matematico
che per primo introdusse il sistema numerico arabo in Occidente (dedicò all'Imperatore, nel
1225, il suo Liber quadratorum) e Michele Scoto, grandissimo astrologo, autore del triplice
trattato Liber Introductorius, Liber particularis, e la Phisyognomia, che nel loro complesso
costituivano una vera enciclopedia di tutto il sapere astronomico-astrologico dell'epoca.
Tra le fonti principali di Michele Scoto figuravano le antiche opere di Ermete Trismegisto e
alcuni trattati come il Liber auguriorum già sospetti alle autorità ecclesiastiche.
Lo stesso, ispirandosi alle teorie musicali del monaco Guido di Arezzo, ricercava nelle leggi
che regolano il moto delle sfere celesti, l'armonia universale.
Fa comunque notare Antonino de Stefano (4) che tale sorprendente erudizione lo Scoto
l'aveva potuta acquisire per mezzo della biblioteca imperiale, i cui armadi erano colmi di libri
riguardanti ogni scibile umano.
Anche l'alchimia non poteva rimanere estranea all'interesse dell'Imperatore.
Sebbene allo stesso Scoto vengano attribuiti alcuni trattati alchimistici del XIII secolo (5), è
frate Elia il personaggio principale in questa specifica disciplina esoterica.
Lo stesso Kantorowicz afferma che non v'è dubbio che frate Elia conoscesse Michele Scoto e
che ambedue tentassero insieme esperimenti alchemici, dei quali è lo Scoto stesso a dare
notizia.(6)
Ma chi era in realtà frate Elia?
Colui che San Francesco considerò "padre e madre di tutti i sui figli", colui che Bernardo da
Bessa chiamava "vir adeo in sapientia humana famosus, ut rares in ea pares in Italia
putaretur habere", colui che fece esclamare a Tommaso da Eccleston "Quis in universo
Christianitatis orbe vel gratiosor vel famosior quam Elias?", colui che edificò l'esoterica
basilica di S. Francesco ad Assisi (7), viene relegato, oggi come allora, nel dimenticatoio della
storia a causa degli intimi rapporti di amicizia con l'Imperatore Federico II, col quale
condivise perfino la scomunica.
L'aver abbracciato la causa dell'Impero, la "visione del mondo" federiciana - una visione
superpolitica della realtà totalmente innovativa per quei tempi - in cui l'Impero appariva come
una istituzione sovrannaturale, l'aver sondato abissi imperscrutabili, relegò per sempre frate
Elia nell'ombra, allontanandolo da quella eterna luce che al contrario appieno condivise con le
immortali figure di San Francesco e Federico II di Svevia.
Dice il Kantorowicz che con lui "si rivelava ora per la prima volta il segreto legame che
univa ghibellinismo e francescanesimo".(8)
E di che natura fossero i rapporti tra frate Elia e Federico II saranno i fatti a dimostrarlo.
Basterebbe ricordare l'intervento diretto dell'Imperatore a difesa di Elia in occasione della sua
deposizione dall'Ordine nel maggio del 1239, allorché, accusato di tendenze ghibelline, venne
rimosso dall'incarico nel Capitolo Generale che si tenne a Roma per la Pentecoste di
quell'anno.(9)
L'Imperatore inoltre lo inviò, tra il 1241 e il 1242, come suo Legato in Oriente, per risolvere
la critica situazione tra l'imperatore latino di Costantinopoli Baldovino e quello greco Vatacio
di Nicea.
E proprio per i suoi servizi, in favore della riconciliazione tra la Chiesa Greca e Romana,
l'Imperatore di Costantinopoli gli donò la reliquia della Santa Croce, conservata oggi a
Cortona.
Questa è l'immagine - per così dire - storica, più conosciuta del Frate.
Spostiamoci però nella Biblioteca Riccardiana di Firenze.
Nel manoscritto 119, troviamo scritto: "Fr. Eliae liber Alchimiae. Incipit liber alchimicalis
quem frater Helyas edidit apud Federicum imperatorem. Liber lumen de luminum transactus
de sarraceno ac arabico in latinum a fratre Cypriano ac compositus in latinum a generali
fratrum minorum super alchimicis".(10)
Parimenti nella Biblioteca Vaticana, tra i codici provenienti dal fondo Reginense, si legge
un'opera divisa in tre libri e composta da 256 fogli intitolata "Liber Fratris Rev. Eliae
Generalis Ordinis Minorum praecepta artis chymicae ad Federicum Imperatorem".(11)
Quanto sopra riportato sarebbe di per sé sufficiente ad aprire un dibattito sul perché la
damnatio memoriae del braccio destro di San Francesco abbia fino ad oggi impedito una
benché minima ricerca, sia in campo storico che in campo per così dire "tradizionale" sulla
"corrispondenza" alchemica tra frate Elia e Federico II.
Portiamo ora la nostra attenzione alla basilica di S. Francesco ad Assisi.
Nella Biblioteca Nazionale di Firenze vi è un manoscritto dal titolo già di per sé eloquente:
"Speculum artis Alkimie Fratris Helyae O. Min. S. Francisci, qui ex dicta arte componi fecit
seu fabricare Ecclesiam S. Francisci in Assisio", esplicita conferma del "metodo" usato da
Elia per l'erezione della basilica assisiate.
E' da tutti gli Autori accettato che furono le maestranze commacine dell'epoca, sotto la guida
di frate Elia, a costruire la basilica di S. Francesco in Assisi con l'accluso Sacro Convento.
Le prove più concrete le abbiamo nel cortiletto d'ingresso di quest'ultimo e nell'antico
cimitero della chiesa.
Nel cortiletto d'ingresso del Sacro Convento, incisi su pietre conce, possiamo ammirare la
cazzuola, la mazzetta, la squadra e il compasso tipici della muratorìa medioevale.
Nell'antico cimitero troviamo, tra le altre, alcune tombe per noi molto importanti, le quali
l'elenco compilato nel 1509 dal sacrestano Fra Galeotto definisce come "sepoltura di tutti li
maestri lombardi (altro nome con il quale venivano designati i maestri commacini) della città
di Assisi".
In una di queste è sepolto il Maestro Giovanni, figlio del Maestro Simone, morto il 7 luglio
1300.
Su di un fondo di pietra rossa di Assisi spiccano due grandi stelle ad otto punte, con all'interno
raffigurati due leoni rampanti con scudo crociato (il leone e la croce diverranno poi lo stemma
della città di Assisi).
Un'altra di queste tombe, appartenente a Ciccolo di Becca, morto nel 1330, presenta un
insieme sconcertante di simboli: la Rosa-Croce accanto ad una squadra ed un punteruolo e di
nuovo una stella ad otto punte.(12)
Suggestivo a questo punto è il raffronto con il mosaico dello stemma federiciano posto di
fronte all'altare nella Cappella Palatina di Palermo, incorniciato in ben venti stelle ad otto
punte della medesima fattura di quelle presenti nella basilica di Assisi.
Qualunque buon osservatore potrà infatti notare come la stella ad otto punte, insieme
all'esagono regolare o stellato (Sigillo di Salomone), sia ampiamente diffusa all'interno e
all'esterno del Santuario, su volte, pareti e pavimenti così come nei resti delle pavimentazioni
di Castel del Monte.(13)
Lo stesso altare della Basilica superiore, costruito da Elia, è ricchissimo dei medesimi
simboli.
L'edificio-simbolo di Federico II si divide il tre livelli distinti così come la Basilica di San
Francesco ed in ambedue i casi rappresenta un cammino iniziatico il quale alla fine conduce,
secondo la visione dantesca, "a riveder le stelle" (in Egitto il soffitto delle camere sepolcrali
era stellato come lo sarà in seguito quello delle Logge massoniche).
In effetti da più parti frate Elia è considerato progettista del castello federiciano di Castel del
Monte.
Mariano da Firenze (morto nel 1523) scrive: "Helias de Corthona (14), frater Minor, in ipsa
arte architecturae famosus, mirabilem Ecclesiam cum Conventu Sanctii Francisci de Assisio
et de Corthona extruxit, ac arces plurimas et fortalitia per regnum Siciliae ab rogatu
Frederici Imperatoris, postquam ei adhesit cui familiaritate nimia, tam ex hac arte, quam ex
sapientia sua, et familiaritate quam habuerat cum beato Francisco, erat coniunctus".(15)
A tale proposito Pietro Scarpellini dice: "Quanto all'accenno di Mariano circa un'attività di
Elia a servizio di Federico II, essa potrebbe riferirsi, come ha fatto notare l'Haseloff (1920),
a Castello Ursino a Catania, iniziato nel novembre 1239, quindi dopo la deposizione del
Frate da generale dell'Ordine, avvenuta nel maggio di quello stesso anno; e più ancora a
Castel del Monte, presso Andria nelle Puglie, iniziato nel 1240".(16)
Un altro autore, il Coletti, insiste sui rapporti tra la basilica di S. Francesco e Castel del
Monte, così come Renata Wagner-Rieger, la quale mette in evidenza una straordinaria
somiglianza tra la chiesa superiore di Assisi e la strutturazione delle pareti del piano superiore
di Castel del Monte.
Grande è l'importanza dei simboli presenti nella basilica di S. Francesco e riconducibili,
almeno in parte, alla visione federiciana racchiusa nelle mura di Castel del Monte, ma i
riferimenti imperiali sono lungi dall'esaurirsi nella simbologia finora illustrata.
Federico II chiamava Elia "dilecto familiari et fideli nostro" ed il Frate mai fece mistero della
profonda amicizia che lo legava all'Imperatore.
L'ammirazione di Elia per l'idea imperiale di Federico II non poteva non tradursi in un
riconoscimento tangibile che sarebbe dovuto durare nel tempo, in eterno conservato nella
chiesa che lui aveva progettato e che sotto la sua direzione le maestranze commacine
andavano costruendo.
La rosa del Tetramorfo (i quattro Evangelisti) è una caratteristica dell'Italia Centrale,
praticamente assente al nord come al sud dell'Italia.
La facciata superiore di S. Francesco si distingue inoltre dai precedenti romanici della regione
per l'assenza nel portale di un apparato iconografico scolpito.
Questa volontaria parsimonia nell'uso della statuaria verrà rispettata anche nella posteriore
architettura degli Ordini mendicanti.(17)
Apparentemente inspiegabile appare dunque la presenza delle due aquile a coronamento del
cornicione, alle quali corrispondono altre due aquile scolpite alla base delle colonnine
d'angolo addossate alla facciata interna della chiesa.
I più vi riconoscono lo stemma di Gregorio IX, ma, considerando le "simpatie" politiche di
Elia, non sarebbe azzardato identificarvi l'aquila imperiale di Federico II di Svevia.
Poco prima di fuggire nel campo imperiale, in seguito alla rimozione dalla carica di ministro
generale, frate Elia vide ultimate nel 1239 le campane per il campanile della chiesa.
Nella più grande di queste campane, una scritta recitava che essa era stata fusa per volere di
frate Elia nell'anno del Signore 1239, al tempo di papa Gregorio IX e del potentissimo
Imperatore Federico.(18)
L'aggettivo potentissimo accostato al nome di Federico II è una chiara allusione alle simpatie
di Elia per le insegne imperiali e prelude alla scelta di campo del Frate dopo la rimozione
dalla carica di Ministro Generale.
Molto spesso trascurato dalla stampa turistica, nella chiesa inferiore di Assisi si erge il
monumento sepolcrale della Casa di Brienne, uno dei complessi più misteriosi dell'intera
basilica.
Nel 1509 Galeotto, il già citato sacrestano di S. Francesco, ricorda nel suo catalogo sulle
sepolture: "Item nella ditta ecclesia iace Giovanni di Ierusalem et imperatore
costantinopolitano il quale fo frà minore e [la] sua figliola la quale fu moglie di Federico
imperatore secundo".
Già in relazione a questo monumento potremmo introdurre l'argomento, che più avanti verrà
ampiamente affrontato, riguardante la "congiura del silenzio".
In effetti mentre nella figura seduta - considerando anche la testimonianza di Bartolomeo da
Pisa - può essere ravvisata l'immagine di Giovanni di Brienne, per quanto concerne la figura
giacente - che fra Galeotto e molti altri asseriscono essere la stessa figlia di Giovanni e moglie
di Federico II - molti dubbi sono stati sollevati a riguardo.
A tale proposito è stato notato come la veste corta fino alle caviglie e la presenza dei piedi in
vista, disdica ad un personaggio femminile.
Ma la statua non è sempre stata così.
Infatti è stato definitivamente accertato che in epoca imprecisata tutta la parte inferiore del
corpo venne accorciata e riscalpellata.
Perché e da chi resta un mistero.
Del tutto ignorate dalle peraltro numerosissime pubblicazioni sia turistiche che storicoillustrative della Basilica, risultano invece le quattro protomi umane inserite esternamente
nelle parti alte e contrapposte del transetto della Chiesa superiore, a fianco delle imposte delle
arcate ogivali delle polifore gotiche che danno luce al transetto stesso.
Sfuggite fino al 1981 ai più attenti studiosi della Basilica di Assisi, in due di esse non sembra
azzardato riconoscere l'Imperatore Federico II ed il suo segretario Pier delle Vigne.
Il volto coronato presenta infatti forti analogie con quello di Federico II, presente nella
tipologia dei ritratti ufficiali dell'Imperatore divulgati attraverso i sigilli dei diplomi e con
quello riprodotto nel famoso trattato di falconeria composto dallo stesso Imperatore e
conservato nella Biblioteca Vaticana, nonché con il busto già presente sulla porta di Capua,
ora perduto - ma di cui si conserva un calco - e con il volto presente su una colonna della
bifora sinistra del lato sud del chiostro dell'abbazia di Casamari, che un'antica e tutt'oggi
accolta tradizione indica come quello di Federico II.
Da notare che nella suddetta abbazia, contrapposto al suddetto volto imperiale, su di
un'identica colonna è raffigurato anche il volto di Pier delle Vigne.
Ultimamente c'è chi ha ravvisato nel secondo busto del transetto della Basilica di Assisi non
già Pier delle Vigne ma lo stesso Frate Elia, raffigurato con una folta barba, come nella Croce
dipinta da Giunta Pisano, e con in capo un berretto esotico, secondo il costume descritto da
Salimbene di Adam.(19)
Chi se non Frate Elia poteva aver pensato a commissionare e a far collocare il ritratto
dell'Imperatore nella Chiesa che con tutte le sue forze andava costruendo?
Tenendo nella dovuta considerazione storica ciò che da noi è stato precedentemente esposto,
resta inspiegabile la cortina di silenzio calata sulla figura di Elia, il suo indubbio "interesse"
per l'<<arte regia>>, i suoi stretti rapporti con Federico II di Svevia, la costante presenza,
occulta e palese, dell'Imperatore nella basilica di Assisi.
Solo una congiura, orchestrata ad arte fin dal medioevo, può spiegare un simile silenzio su
una delle figure più importanti del suo tempo.
Per comprendere appieno l'importanza storica di Elia, basterebbe considerare solo quanto
segue: fu il primo Ministro Provinciale di Toscana; il primo Ministro Provinciale di Terra
Santa; il primo Ministro Generale dell'Ordine; fu il primo Custode del Sacro Convento, della
Tomba di San Francesco e della Basilica, proclamata da Gregorio IX "Caput e Mater" di tutto
l'Ordine Minoritico.
Santa Chiara, scrivendo nel 1236 alla Beata Agnese di Praga le diceva: "Attieniti ai consigli
del Venerabile e Padre Nostro Frate Elia, Ministro Generale, e anteponili ai consigli di
qualsiasi altro e ritienili più preziosi per te di qualsiasi dono".
I motivi della "congiura" possono essere molteplici, dalla condanna senza appello pronunziata
da un guelfismo manicheo che non perdonò mai le "simpatie" imperiali del Frate - con
relative scomuniche - ad un razionalismo di stampo illuminista presente purtroppo nella stessa
Chiesa, per la quale tutto ciò che va al di là del semplice messaggio cristiano, ad uso e
consumo delle masse, non può essere accolto come fatto reale e storicamente accettabile, ma
relegato, nella migliore delle ipotesi, nell'ambito della fantasia e dell'<<occulto>>,
nell'accezione peggiore del termine.
Questo fu ed è il destino dell'esoterismo di Elia.
Pertanto, tutti i documenti che potevano far luce sulla sua autentica figura, verranno nel
tempo, o distrutti o distorti.
Di conseguenza anche tutto ciò che avrebbe potuto in qualche modo accomunare il
francescanesimo con lo scomunicato Federico II, venne accuratamente celato o distrutto, al
fine di non turbare, attraverso i secoli, le "coscienze" dei più.
Sarebbe del resto difficile far comprendere l'equazione "San Francesco - Frate Elia - Federico
II" senza mettere in discussione gli stereotipi di una agiografia fino ad oggi contrabbandata
come l'unica delle verità.(20)
Se Elia fosse stato veramente ciò che di lui i suoi denigratori vanno dicendo, come mai San
Francesco - ad esempio - nel suo testamento, lasciò scritto: "Confesso a Dio Padre e al Figlio
e allo Spirito Santo e alla Beata Vergine Maria e a tutti i Santi in cielo e in terra a frate Elia,
Ministro Generale di questo nostro Ordine, come a mio signore degno di venerazione tutti i
miei peccati"?
E poco prima di morire, come riportato da Tommaso da Celano nella "Vita Prima",
rivolgendosi ad Elia disse: "Ti benedico, o figlio, in tutto e per tutto; e come l'Altissimo, sotto
la tua direzione, rese numerosi i miei fratelli e figlioli, così su TE e in TE li benedico tutti. In
cielo e in terra ti benedica Dio, Re di tutte le cose. Ti benedico come posso e più di quanto è
in mio potere, e quello che non posso fare io, lo faccia in TE Colui, che tutto può. Si ricordi
Dio del tuo lavoro e della tua opera e ti riservi la tua mercede nel giorno della retribuzione
dei giusti. Che tu possa trovare qualunque benedizione desideri e sia esaudita qualsiasi tua
giusta domanda".
Già in passato vennero strappati dagli antichi registri del Sacro Convento tutti i fogli che si
riferivano alla persona di Elia ed inoltre andò "perduto" il Registro dove frate Illuminato
segnava tutte le lettere che Elia riceveva e spediva: in pratica fu tutto appositamente e
faziosamente distrutto.
Non si può non pensare ad una congiura se si considera che di lui ci è rimasta solo la famosa
lettera a fra Gregorio da Napoli "In morte di San Francesco", dove si apprende delle stimmate
del Santo.
Dopo il 1239 vennero fuori i primi scritti contro Frate Elia, ed in effetti è proprio dopo la
caduta del Frate che vennero lanciate contro di lui le accuse più inverosimili.
Lo stesso "Speculum Vitae" raccoglie senza criterio e senza controllo le più assurde dicerie.
Esso pone, ad esempio, di fronte a Frate Elia, in veste di violento accusatore, nel 1239,
Sant'Antonio da Padova, morto nel 1231 e canonizzato da oltre sei anni.
Questo clamoroso anacronismo dà la misura del valore del resto.
Ma primo fra tutti, a dare inizio alla "congiura" fu addirittura frate Tommaso da Celano,
primo biografo ufficiale di San Francesco.
Nella "Vita Seconda", n. 184, arriva addirittura a cambiare le carte in tavola.
Vorrebbe far capire che il Ministro Generale non era Frate Elia.
Infatti per la "Vita Seconda", trovandosi Francesco vicino a morire, un frate gli avrebbe
chiesto di indicare chi poteva essere il Ministro Generale.
Alla domanda, il Celano, mette sulle labbra del Santo morente questa falsa risposta: "Non
conosco alcuno capace di essere guida di un esercito così vario e pastore di un gregge tanto
numeroso".
Al tempo stesso nega la scelta a Ministro Generale di Frate Elia, definito invece tale in iscritto
e benedetto da San Francesco.
Quello che desta soprattutto giusta indignazione è il sapere che il Celano stesso nella "Vita
Prima", al n. 110, chiama Frate Elia Ministro Generale.
Con la risposta che il Celano mette in bocca a Francesco morente, egli nega al Santo quello
che invece gli attribuì nella "Vita Prima", ai nn. 48-49-50, cioè il celebrato carisma della
profezia e di leggere i segreti dei cuori e delle coscienze.
La conferma di tali "doti" in Francesco difficilmente, in effetti, si sarebbe conciliata con la
scelta, da parte del Santo, di un "braccio destro" alchimista, ghibellino e scomunicato.
E la cosa sembra aver funzionato, se dopo 762 anni il generale sentimento verso Elia è
rimasto pressoché immutato.
Inoltre, sempre il Celano, passando a raccontare il commovente particolare della Benedizione,
nella Vita Seconda, n 216, la riduce "all'imposizione della destra sul capo di ciascun frate,
cominciando dal suo vicario (non più Ministro e per di più senza nome); al saluto di addio a
tutti i figli, senza distinzioni; alla generale benedizione nei presenti a tutti i frati; alla
proibitiva conclusione che nessuno si usurpi questa benedizione data ai presenti per gli
assenti".
Francesco non cerca il Ministro Generale, come nella Vita Prima, n. 108; di Frate Elia non si
ricorda nemmeno il nome e non si legge più la bella e sincera frase del Santo: "Su TE (Frate
Elia) ed in TE benedico tutti i miei fratelli e figli".
Nel 1263, San Bonaventura, secondo biografo ufficiale di San Francesco, che sapeva a mente
la Vita I e II del Celano, descrivendo nella sua Leggenda Maggiore, al capitolo XIV n. 5, il
particolare della Benedizione di San Francesco morente, dice: "Stese sopra di loro le mani,
intrecciando le braccia in forma di croce, benedisse tutti i frati, presenti ed assenti".
Anche per questo Santo il nome di Frate Elia è dimenticato.
Fra gli scritti ostili a Frate Elia vi sono persino i famosi "Fioretti di San Francesco",
pubblicati verso la fine del 1300.
Al Capitolo XXXVIII apprendiamo che a San Francesco fu rivelato che Frate Elia si sarebbe
dannato, ma che poi la sentenza di dannazione fu revocata.
Al Capitolo VI si parla di una solenne benedizione data da San Francesco a frate Bernardo,
anziché a Frate Elia, con l'unito incarico d'essere il primo dei suoi fratelli (che il racconto sia
falso lo dichiara il Celano, non ancora in fase di "revisionismo", nella Vita I, al n. 108, dove si
parla di Frate Elia e non di Bernardo).
Nel 1662, lo storico Waddingo, nei suoi Annali, Vol. 1, p. 165, n. IX, arriva a scrivere quanto
segue: "La vigilia della sua morte, Francesco chiamati i Frati e benedetto il pane, ne diede
un pezzetto a ciascuno, perché lo mangiassero come segno di carità e di concordia. Tutti lo
mangiarono con devozione, eccetto Frate Elia, impedito dai gemiti e dalle lacrime. Poi
incrociate le braccia, pose la destra sul capo di Bernardo, il quale si trovava genuflesso a
sinistra del Santo giacente nel lettuccio (a destra vi era genuflesso frate Egidio) e gli impartì
molte benedizioni. Lo munì pure del privilegio di essere il Signore dei suoi Fratelli e di
andare e di stare liberamente dove voleva".
E' chiaro che lo "storico" ricopia il racconto dei Fioretti e lo abbellisce con il particolare
dell'Ultima Cena di Francesco con i suoi Fratelli, nella quale "solo frate Elia non mangia il
pezzetto di pane benedetto".
In verità, di questo particolare non parlano né il Celano, né la Leggenda Perugina, né le
Cronache non francescane.
Il particolare ha evidentemente lo scopo di paragonare Frate Elia a Giuda, il traditore.
Addirittura nell'Albero della Vita di Ubertino da Casale si racconta che lo stesso Francesco
catalogò Frate Elia fra i bastardi dell'Ordine, perché indossava un largo cappuccio ed una
tonaca preziosa, lunga ed ampia.
Tale ennesima falsità è peraltro contraddetta nell'immagine che di Elia ci dà un suo
contemporaneo, Giunta Pisano, nel 1236.
A conferma della secolare "damnatio memoriae" nei riguardi di Frate Elia, riportiamo qui un
ulteriore inconfutabile documento.
Si tratta di un quadro in carta stampata di 2,30 metri x 1,70, proveniente dalla tipografia di
Avignone.
Risale al 1663 ed è conservato nella sacrestia di S. Francesco a Cortona, dove da 748 anni
riposano le sue Ossa.
Rappresenta un Albero Francescano il quale riporta nei suoi vari rami i primi discepoli di
Francesco, seguono i Santi, i Predicatori, i Missionari, i Dottori, i Vescovi e i Papi.
Lungo il tronco, alla base del quale c'è San Francesco, si vedono figurati, in piccoli dischi
gemelli, i Ministri Generali dell'Ordine fino all'anno 1633.
Sono 67. L'ultimo disco è vuoto.
Che si tratti dei Ministri Generali lo dichiara il sottostante cartiglio dove si legge: "Generales
qui iuxta tenorem Regulae dicuntur, successores S. Francisci".
Incredibilmente Frate Elia non risulta, né come primo né come secondo Ministro Generale, né
mai.
Il Primo è Giovanni Parenti, poi Alberto da Pisa, Aimone, Crescenzio, Giovanni da Parma,
Bonaventura ecc. ecc.
Frate Elia è relegato fuori dal tronco, figurando dentro un ricciolo destro del quadro.
E ai giorni nostri cosa accade?
Abbiamo in precedenza parlato della testa coronata raffigurante con ogni probabilità
l'Imperatore Federico II, presente all'esterno dei finestroni del transetto della Basilica di
Assisi.
Giuseppe Rocchi, Renato Bonelli, Antonio Cadei, Joachin Poeschke, grandi studiosi della
Basilica assisiate, nei loro lavori, la ignorano completamente.(21)
La "dimenticanza" più vistosa a riguardo è nel volume di Wolfgang Schenkluhn
sull'architettura di S. Francesco (22), e la cosa sorprende non poco trattandosi della più
accurata indagine della Chiesa nel suo aspetto materiale.
L'assenza è ancora più sorprendente quando si esamini il significato politico attribuito al
monumento dallo studioso tedesco, che vorrebbe riconoscervi una testimonianza del conflitto
personale tra Gregorio IX e Federico II, a tutto vantaggio del pontefice.
Naturalmente, la scoperta di un ritratto imperiale sulle pareti della Chiesa avrebbe fatto
crollare tutto il castello di carte del libro, ed è probabile che sempre per questa ragione lo
Schenkluhn abbia omesso di segnalare anche la presenza del nome di Federico, accanto a
quelli di Gregorio IX e di Elia, sulle campane fuse per il campanile, per volere del Frate, nel
1239.
Strane, troppe coincidenze o non piuttosto una comune volontà, attraverso i secoli, di ignorare
volutamente, con l'ausilio della menzogna, tutto ciò che in qualche modo potrebbe minare
alcune "certezze" assunte a fondamento di una visione del mondo senz'altro più semplice e
più comoda ma senz'altro più "orizzontale" e più opaca, nonché falsa?
Rimettere in discussione il profilo esoterico di alcune figure oramai storicamente "catalogate",
l'Idea imperiale ed i suoi rapporti con il Sacro in generale e con il Francescanesimo in
particolare, significherebbe minare dalle fondamenta quella sicumera culturale troppo spesso
alibi per avvenimenti adattati ad una realtà di comodo.
Soltanto il ritorno ad una profonda onestà intellettuale potrà permettere il recupero della
comprensione del codice simbolico di tanti antichi monumenti, permettendo all'uomo di oggi
di proiettarsi e dilatarsi verso alte e superiori dimensioni già simbolicamente presenti nella
pietra di per sé trasparente.
L'esercizio della visione artistico-simbolica lo formerà a vedere oltre le immagini puramente
materiali, educandolo a vivere la propria storia terrena come un'esperienza di permanente
pellegrinaggio verso altri possibili mondi, di cui il tempo e lo spazio non sono che un
preludio.
Note
1 - H.M. Shaller, Kaiser Friedrich II. Verwandler der Welt, Gottinga, 1971; pp. 36-40, 86 e seg. in H.
Gotze, Castel del Monte. Forma e simbologia dell'architettura di Federico II, Milano, 1988; p. 102.
2 - Il motivo della stella a otto punte orna simbolicamente la chiesa della Sainte-Croix a OloronSainte-Marie, la cupola della moschea degli Omayyadi a Cordova, le cupole di Bel-el-Mardu e di
Torres del Rio in Navarra. La stella ottagonale si ritrova altresì nella pianta della cattedrale di San
Giorgio a Bosra in Siria e nel santuario di San Simeone stilita a Qal'at Seman.
3 - Cfr. Nedim R. Vlora, Gaetano Mongelli, Maria S. Resta, Il segreto di Federico II -Oltre il castello,
oltre il monte, Ed. Congedo, 1988, p. 26.
4 - A. de Stefano, La cultura alla corte di Federico II Imperatore, Parma, 1990; p. 63.
5 - H. Haskins, The "Alchemy" ascribed to Michael Scot, in Isis, n. 34 vol. X, 1928; pp. 350-359.
Cod. lat. ms n. 164 (153), Bibl. Univ. Di Bologna: "Incipit disputatio Scoti super arte alkimie"; cc.
121 r-124 r.
Ms miscellaneo, s. XIV, Biblioteca Comunale di Palermo: "Incipit liber magistri
Miccaellis Scotti in quo continetur magisterium"; Codice Speciale Qq; A.10.
6 - E. Kantorowicz, Federico II Imperatore, Garzanti, 1994; p. 524.
7 - A tale proposito cfr. P. Calzolari, Massoneria Francescanesimo Alchimia, Scandiano, 1988.
8 - E. Kantorowicz, op. cit., p. 502.
9 - "Questo Papa, in odio a noi, ha deposto dal ministero generale un generoso e coscienzioso frate
Elia, costituito Ministro dell'Ordine dei Frati Minori dallo stesso Padre dell'Ordine Beato Francesco,
al tempo del suo transito: perché, per amore della giustizia a cui si è dedicato col cuore e con
l'azione, promovendo la pace dell'Impero, difendeva con evidenti argomenti il nostro nome, l'onore e
il bene della pace".
10 - Per una completa ed accurata bibliografia delle opere attribuite a Frate Elia cfr. C. Rossetti, Frate
Elia di Assisi: sintesi biografica e bibliografica, in "Labrys", anno III, Perugia 1982; pp. 35-48.
11 - Città del Vaticano, Bibl. Apost. Vat., ms. Reg. lat. 1242, cc 1r. - 11v; Ravenna, Bibl. Classense,
ms. LVII; cfr. "Les manuscrits de la reine de Suède au Vatican. Réédition du catalogue de
Montfaucon et cotes actuelles". Studi e Testi - 238, Città del Vaticano, Bibl. Apost. Vat., 1964.
12 - Le foto delle tombe dei maestri commacini, insieme ad un ampia iconografia in parte inedita,
sono contenute nel nostro già citato saggio Massoneria Francescanesimo Alchimia.
13 - "Se uno toglie le sei punte della stella, otterrà un esagono "regolare" - una stella spenta. La teoria
simbolica spiega: il poligono richiama l'alveolo, celletta delle api. Era la forma usata per la cassa
mortuaria nei tempi antichi, vista trasversalmente. Così come la larva aspetta la sua rinascita come
ape, così il defunto nella bara aspetta la sua risurrezione. Quando un poligono a sei lati, riacquistando
le sei punte, si trasforma in una stella, allora questo significa che esso ha nuovamente i raggi della luce
celestiale". F. Dahlby, Symboler i kirkeens billedsprong, Copenhagen 1985, p. 232, in P.M. Magro, Il
simbolismo cristiano della chiesa-reliquiario di S. Francesco in Assisi, Assisi 1993, p. 14.
14 - Riguardo alla città natale di Elia molto si è discusso e molto si continuerà a discutere.
Personalmente riteniamo, sulla base dei documenti storici, che Assisi sia la sua città natale e Cortona
la patria di adozione (città imperiale presso la quale trovò rifugio nel momento del bisogno e che
tuttora custodisce le sue ossa). E' comunque interessante notare come nello stemma gentilizio della
famiglia Coppi (cognome di Frate Elia per i sostenitori della sua origine cortonese) figurino due stelle
ad otto punte.
15 - Mariano da Firenze, in G. Golubovich, 1906, p. 116L.
16 - Ludovico da Pietralunga, Descrizione della Basilica di S. Francesco e di altri santuari di Assisi,
introduzione, note al testo e commentario critico di P. Scarpellini, Treviso 1982; pp. 145-146.
17 - E. Lunghi, Presenza di Federico II nella chiesa di S. Francesco ad Assisi, in Atti dell'Accademia
Properziana del Subasio, Serie VI - n. 23 -1995; p. 216.
18 - "Anno D. 1239 Papae Gregorii tempore Noni, Caesaris ac potentissimi Friderici. O Francisce
pie, fratris studio sed Heliae. Christus regnat, Christus vincit, Christus imperat. Mentem sanctam,
spontaneam, honorem Deo, et Patriae liberationem / Cum fit campana quae dicitur Italiana,
Bartholomaeus Pisanus fecit, cum Lotaringio filio eius. / Ave Maria gratia plena, Dominus tecum,
benedicta tu in mulieribus et benedictus fructus ventris tui".
19 - E. Lunghi, op. cit.; p. 230.
20 - L'Imperatore morente indossava un saio privo di cordone, come prescritto ai terziari francescani e
nell'istante della morte un frate siciliano dell'Ordine di San Francesco gli era accanto. Cfr. E.
Kantorowicz, op. cit.; p. 684.
21 - G. Rocchi, La basilica di San Francesco ad Assisi, Firenze 1982. R. Bonelli, Specialis ecclesia:
ipotesi sulle fasi costruttive della basilica di Assisi, in "Architettura Storia e Documenti", 1985/2. A.
Cadei, Assisi, S. Francesco: l'architettura e la prima fase della decorazione, in Roma anno 1300,
Roma 1983. J. Poeschke, Die Kirche San Francesco in Assisi und ihre Wandmalereien, Munchen
1985.
22 - W. Schenkluhn, San Francesco in Assisi: Ecclesia specialis. Die Vision Papst Gregors IX. Von
einer Erneuerung der Kirche, Darmstadt 1991, in E. Lunghi. Op. cit., p. 220.
----Prospero Calzolari è nato ad Assisi il 4 ottobre 1948, giorno di San Francesco.
Da oltre 20 anni svolge l'attività di medico pediatra ed omeopata. Da sempre
interessato alla storia della terra umbra in generale e della città di Assisi in
particolare, ha indirizzato col tempo i suoi interessi verso il Medioevo,
principalmente nel suo aspetto simbolico ed esoterico. Affascinato dalle figure
di frate Elia, braccio destro di San Francesco, e di Federico II di Svevia (sul
quale nel maggio del 1995 ha tenuto una conferenza nel palazzo comunale di
Jesi), ha dedicato a questi personaggi il suo saggio Massoneria
Francescanesimo Alchimia (Sear Edizioni, Scandiano 1988, con introduzione di
Alberto Cesare Ambesi), al quale il presente scritto aggiunge delle inedite
novità. Membro dell'Accademia Properziana del Subasio e della Società
Internazionale di Studi Francescani, è stato Presidente del Calendimaggio di
Assisi. Attualmente è Direttore Artistico per le Rievocazioni Medioevali del
comune di Rieti e Presidente della Consulta per la Cultura del comune di Assisi.
[email protected]
*****
Carlo Piterà: La setta, 1986
(Olio su tela, cm. 150 x 100, Collezione privata)
Il mistero degli Indiani Mandan
(Giuseppe Pirazzo - Francesco Vitale)
Sommario - A partire dal XVII secolo, vari esploratori vennero in contatto, nella regione dell'America
Settentrionale corrispondente all'attuale stato del North Dakota, con una tribù di Indiani, i Mandan,
aventi carattersistiche somatiche tipicamente europee (capelli biondi o rossi, occhi azzurri e pelle
chiara). Per spiegare tali peculiarità, gli Autori espongono le varie teorie avanzate dagli studiosi, a
partire da quelle, coeve con la scoperta di questi Pellerosse, che li volevano discendenti dai Gallesi,
fino a quelle, più recenti, che li vogliono discendenti dai Vichinghi e concludono proponendo una loro
spiegazione, secondo la quale le stranezze somatiche dei Mandan furono prodotte da una mutazione
genetica causata dai minerali radioattivi presenti nella regione che essi occupavano.
*****
I fatti che fecero conoscere al mondo la presenza dei Pellerosse Mandan risalgono al 1803,
anno in cui Thomas Jefferson diventò il terzo presidente degli Stati Uniti d'America. Il suo
desiderio, mai esaudito prima, di arrivare ad un'approfondita conoscenza delle regioni
comprese tra il Mississippi e la costa del Pacifico, poté finalmente concretizzarsi con la sua
elezione alla carica di Presidente. Egli affidò, infatti, a due valenti ufficiali dell'esercito,
Meriwether Lewis e William Clark, il compito di effettuare la traversata e l'esplorazione del
continente, in vista di un'espansione dell'Unione fino al Pacifico. Tutto si sarebbe dovuto
svolgere con la massima segretezza, dal momento che il territorio da attraversare apparteneva
in gran parte alla Francia. Tuttavia si presentò proprio allora la possibilità, per l'Unione, di
acquistare da Napoleone la Louisiana, immenso territorio, in gran parte inesplorato, che allora
si estendeva dalla costa settentrionale del Golfo del Messico, fino ai Grandi Laghi e
comprendeva le regioni che si affacciavano sui fiumi Mississippi e Missouri (v. successiva
Figura 1): perciò non fu più necessario effettuare il viaggio di esplorazione in segreto.
La spedizione, composta da una cinquantina di uomini, trascorse l'inverno 1803-1804 in un
accampamento realizzato alla confluenza del Missouri col Mississippi. Il viaggio vero e
proprio iniziò il 14 maggio 1804. Due piroghe e una grossa chiatta furono utilizzate dalla
spedizione per risalire il Missouri.
I primi Indiani incontrati all'inizio di agosto furono gli Oti. Dopo una generosa elargizione
di doni, gli esploratori proseguirono senza fastidi. Verso la fine di agosto entrarono nel
territorio dei Sioux, i quali, anche se si dimostrarono un po' ostili, non impedirono al corpo di
spedizione di raggiungere la regione dell'attuale South Dakota. Con stupore gli esploratori
constatarono che gli Indiani Aricara, che lì vivevano, rifiutarono le bevande alcooliche che
erano risultate gradite alle tribù precedentemente incontrate e questo fatto costituiva uno dei
vari casi di comportamento diverso da quello tenuto dagli Indiani delle praterie.
Figura 1
A novembre fu necessario costruire un accampamento dove trascorrere l'inverno che si
preannunciava rigido. Fu realizzato nella regione corrispondente all'attuale North Dakota,
dove vivevano gli Indiani Mandan e Fort Mandan fu difatti chiamata quell'opera difensiva,
che poi è diventata una moderna città.
All'inizio del 1805 Clark cominciò a contattare questa tribù di Indiani, che non mancò di
attirare la curiosità di tutti gli esploratori. Innanzi tutto avevano la pelle chiara; molti avevano
gli occhi azzurri o grigi e alcuni avevano i capelli castani o rossi; i vecchi avevano i capelli
bianchi, caratteristica insolita tra gli Indiani.
Queste stranezze venivano giustificate con una leggenda popolare che li voleva discendenti
da un re del Galles, che avrebbe fondato una colonia in America nel XII secolo. Questa
tradizione sembrava confermata dalla somiglianza di alcune parole indiane con i
corrispondenti termini in gallese; inoltre le loro imbarcazioni, ricoperte di pelli,
assomigliavano al coracle usato nel Galles. Tuttavia, il pastore protestante John Evans originario di questa parte dell'Inghilterra - che trascorse l'inverno del 1795 con quegli Indiani,
affermò che nessuno dei Mandan parlava il gallese. Alla stessa conclusione giunsero vent'anni
dopo Lewis e Clark.
Il pittore americano George Catlin, che pure visse tra quelle genti per un lungo periodo di
tempo, lasciò molti ritratti di Mandan con la pelle chiara e i capelli biondi, ma tentò anche di
dare a queste stranezze qualche spiegazione. Intanto affermò che, essendo quegli Indiani poco
numerosi, non erano in grado di combattere in campo aperto contro i vicini Sioux e le altre
tribù nomadi: perciò avevano costruito villaggi fortificati. Erano sedentari e si dedicavano
all'agricoltura. Poi era convinto che essi fossero i discendenti dall'incontro fra un popolo
civilizzato e i Pellerosse e che la loro presenza fosse la testimonianza di una colonia gallese
fondata da Madoc, re del Galles Settentrionale. Questo re s'imbarcò nel 1170 su dieci navi per
colonizzare una terra, da lui scoperta, che si affacciava sull'Atlantico. Successivamente,
avrebbe risalito con le navi il Mississippi - partendo dalla sua foce oppure dalla Florida - e
l'Ohio. Lungo quest'ultimo fiume, i Gallesi avrebbero trovato finalmente un territorio fertile,
che avrebbero occupato stabilmente, praticando l'agricoltura. In lotta continua con le bellicose
tribù confinanti, sarebbero stati costretti a realizzare numerose fortificazioni nella zona da loro
occupata, ma sarebbero stati quasi tutti sterminati. Soltanto una sparuta minoranza sarebbe
stata risparmiata e precisamente quella formata dai discendenti di quelle famiglie che si erano
imparentate con gli Indiani. Questa piccola tribù, costretta anch'essa a cambiare
continuamente residenza a causa dell'ostilità di quelle vicine, si sarebbe infine decisa a tornare
indietro e a risalire il Missouri, fino a portarsi nella zona dove furono trovati.
La spiegazione di Catlin dell'origine dei Mandan è inaccettabile se si tiene conto dei fatti
che egli stesso aveva menzionato. Sembra infatti assurdo che i Gallesi, cacciati dagli Indiani
in una zona assai vicina all'Atlantico, si fossero poi allontanati dalla costa e, dopo aver risalito
il Mississipi e il Missouri, si fossero inoltrati in territori lontanissimi e occupati da
popolazioni indiane ostili. Anche se, dopo lo sterminio di gran parte di quella gente, fu
consentito ad una sparuta minoranza di lasciare incolume quella zona, è improbabile che tutte
le altre tribù indiane, che per migliaia di chilometri occupavano il corso del Mississippi e del
Missouri, abbiano pure concesso l'immunità a quegli sventurati. Inoltre, nella mitologia dei
Mandan c'era l'esplicita affermazione della loro discendenza da un uomo bianco, giunto in
canoa in tempi preistorici.
Questa strana tribù di Indiani non fu però scoperta dalla spedizione voluta da Jefferson: il
primo grande esploratore francese, Champlain, ne parlava già nel 1615. Poi fu il governatore
francese dal Canada ad affidare al mercante di pelli Verandrye il compito di esplorare il
territorio dei Mandan. Verandrye fu dunque il primo bianco a conoscere bene i Mandan e
anch'egli constatò che, sia per la costituzione fisica che per le usanze, essi si differenziavano
nettamente dai componenti di tutte le altre tribù.
Purtroppo, il mistero non poté essere risolto: alla fine dell'Ottocento, un'epidemia di vaiolo
sterminò tutti gli Indiani di quella tribù. Quindi, se non è possibile imputare ai Gallesi le
singolari caratteristiche somatiche di quelle genti, occorre prendere in esame le altre ipotesi
che sono state avanzate.
Prima dei Gallesi, le coste settentrionali dell'America erano state raggiunte dai Vichinghi,
che avevano i capelli rossi e gli occhi chiari: sorge perciò spontanea l'idea di attribuire a
influenze vichinghe le singolarità riscontrate nei Mandan.
L'espansione vichinga in America iniziò con una spedizione di Leif Ericsson - figlio di Eric
il Rosso - che, nella ricerca di nuove terre, nel 1001 partì da Brattahlid (v. Figura 1), colonia
occidentale groenlandese. Costeggiando quest'isola, si diresse verso l'estremità meridionale
dell'Isola di Baffin e da lì proseguì verso sud, seguendo la costa orientale della penisola del
Labrador (che chiamò Markland, cioè "Terra boscosa") e raggiungendo lo stretto di Belle Isle.
Dopo averlo varcato, toccò la vicina estremità settentrionale di Terranova, dove fondò un
insediamento a cui diede il nome di Leifsbudir.
Dopo aver trascorso l'inverno, Leif, lasciata Terranova - che chiamò Vinland ("Paese del
Vino") - fece ritorno in Groenlandia.
L'anno seguente toccò al fratello di Leif, Thorvald, ritornare a Terranova e a Leifsbudir,
dove trascorse l'inverno. In primavera esplorò le coste del Labrador.
Ma fu nell'anno 1009 che Thorfinn Karlsefni cercò di colonizzare Vinland, portando con sé
la moglie e 250 coloni. Tuttavia, le lotte con gli indigeni lo costrinsero, nel 1013, sulla via del
ritorno.
L'ultimo tentativo di insediamento a Terranova fu opera di Freydis, figlia di Eric il Rosso;
ma, a causa di vari avvenimenti, anche questo fallì.
Sulla permanenza ancora per parecchi decenni dei Vichinghi in quella parte dell'America
Settentrionale ci sono molti dubbi, anche se un riferimento a Vinland sembra esserci nella
Storia della Chiesa, scritta dal britanno Ordericus Vitalis verso il 1125.
A Newport, nel Massachusetts, una torre cilindrica realizzata in pietra è stata attribuita ai
Vichinghi, perché presentava una struttura simile a quella delle chiese costruite nella
Scandinavia. Successive ricerche hanno consentito di stabilire che l'edificio fu costruito nel
XIV secolo e doveva servire anche da fortezza; ma si tratta di una testimonianza isolata (e
forse unica) della loro presenza in quella zona.
I Vichinghi possono essersi dunque spinti lungo la costa atlantica verso sud fino a Newport,
perché altri insediamenti non sono stati trovati. Questo popolo nordico preferì, a quanto pare,
le coste della Groenlandia - più fredde ma più simili a quelle della Norvegia - a quelle
climaticamente più dolci di Vinland. Il motivo fu certamente la forte ostilità degli Indiani.
Infatti, i Vichinghi, le cui navi di dimensioni contenute potevano portare un equipaggio
piuttosto esiguo, quando sbarcavano durante le loro incursioni, non potevano allontanarsi dai
punti di approdo, per non venire poi circondati e sopraffatti da una possibile reazione della
popolazione attaccata, una volta organizzatasi dopo lo scontro iniziale.
L'ipotesi dell'origine vichinga dei Mandan è stata avanzata e sostenuta da Paul Herrmann.
Secondo questo studioso, la zona situata a sud del Lago Superiore, ricca di giacimenti di
rame, avrebbe spinto i Vichinghi a spostarsi fin lì e a proseguire verso ovest, fino a
raggiungere la zona occupata dai Mandan, per tentare poi di raggiungere i centri minerari più
ricchi nel vicino Montana.
Quest'ipotesi è inaccettabile per vari motivi. Innanzi tutto occorre far presente che
giacimenti di rame si trovano a Terranova e nella penisola Gaspé, nel Golfo di San Lorenzo
(v. Figura 1), terre già toccate dai Vichinghi, che perciò non avrebbero avuto alcuna necessità
di spostarsi di migliaia di chilometri per trasportare modeste quantità di rame; se si fosse
trattato di oro, forse l'ipotesi sarebbe stata accettabile.
Un secondo motivo è che la zona dei Mandan dista ben 650 chilometri dall'estremità
occidentale del Lago Superiore. Non c'è alcuna via fluviale di comunicazione che possa aver
consentito ai Vichinghi di raggiungere con le navi il North Dakota attraversando il Minnesota;
essi, come abbiamo già spiegato, non si allontanavano mai a piedi a notevoli distanze dagli
approdi. La regione da attraversare era inoltre abitata dai Sioux Orientali, che certamente non
avrebbero consentito agli invasori nordici di attraversare incolumi il loro territorio.
Inoltre, il Lago Superiore non poteva essere nemmeno raggiunto risalendo il fiume San
Lorenzo fino al Lago Ontario, perché il dislivello rispetto all'adiacente Lago Erie, in
comunicazione con gli altri Grandi Laghi, produce le enormi e insormontabili Cascate del
Niagara: i Vichinghi, per aggirarle, avrebbero dovuto trasportare le loro navi, oppure
imbarcazioni più piccole, via terra per decine di chilometri (supponendo che avessero
preventivamente perlustrato a piedi tutto quel territorio) prima di rimetterle nelle acque del
Lago Erie. Se invece avessero deciso di risalire il principale affluente del San Lorenzo,
l'Ottawa - utilizzando piccole imbarcazioni perché questo è navigabile soltanto nel primo
tratto - non avrebbero in ogni caso potuto toccare il Lago Huron (comunicante col Lago
Superiore), perché l'Ottawa si avvicina ad esso alla distanza minima di circa 150 chilometri,
da percorrere, con tutte le imbarcazioni, a piedi anche in questo caso. Infine, era
assolutamente impossibile raggiungere il North Dakota attraverso il Canada.
A tutte queste obiezioni, si aggiunge quella che esclude definitivamente l'attribuzione delle
caratteristiche somatiche degli Indiani Mandan a influenze europee e che consiste nel fatto
che essi non facevano uso della ruota. Sembra infatti impossibile che popolazioni europee,
venute in contatto con loro, non abbiano suggerito di utilizzare i carri in zone dove questi
sarebbero stati utilissimi, proprio perché, come era stato riferito, essi si dedicavano
all'agricoltura.
Non resta, a nostro avviso, che spiegare con una mutazione genetica le strane caratteristiche
somatiche dei Mandan. L'idea ci è venuta in mente quando abbiamo esaminato le carte dei
giacimenti minerari degli Stati Uniti e del Canada (v. Figura 1).
Nel Montana, stato confinante col North Dakota, scorre il fiume Yellowstone, che si innesta
poi a nord col Missouri. Ebbene, il fiume tocca una zona molto ricca di giacimenti di uranio,
unici nel raggio di centinaia di chilometri: infatti, i giacimenti statunitensi più vicini
paragonabili a questi si trovano nella regione di Colorado Plateau e nel Nuovo Messico (1000
km a sud); nel Canada, i più vicini sono quelli di Uranium City, sul Lago Athabasca, 1500
chilometri a nord.
Oggi sappiamo che un'eccessiva esposizione alle radiazioni produce effetti somatici cronici
negli individui colpiti, che si manifestano a distanza di tempo dall'irradiazione. Consistono
nell'alterazione della pigmentazione della pelle e dei capelli, nella diminuzione della durata
della vita per leucemia o tumori, invecchiamento precoce caratterizzato da fibrosi della pelle e
del miocardio, da atrofie e da difetti degli organi linfoidi, del midollo osseo e delle gonadi;
anche il sistema immunitario può risultare definitivamente compromesso. Si sa pure che
l'esposizione prolungata ad un'irradiazione di bassa intensità produce gli stessi danni genetici
di un'irradiazione breve, ma di elevata intensità: le caratteristiche peculiari dei Mandan
sembrano perciò corrispondere bene agli effetti genetici prodotti da un'esposizione prolungata
a radiazioni dovute a piccole quantità di uranio trasportate dalle acque dello Yellowstone e
poi da quelle del Missouri nel tratto che attraversava il territorio di quella tribù. Oppure, i loro
mitici progenitori potrebbero essere stati un gruppo di pochi individui provenienti proprio dal
Montana, nei quali la mutazione genetica doveva aver prodotto effetti molto più intensi di
quelli poi riscontrati nei componenti della tribù e che discesero in canoa il corso dei due
predetti fiumi. Infine, fu probabilmente la perdita di efficienza del sistema immunitario dei
Mandan a rendere possibile la loro completa estinzione durante un'epidemia di vaiolo.
Era però necessaria una conferma indipendente per questa nostra spiegazione. Ebbene, gli
Aracani, Indios della Bolivia, hanno caratteristiche somatiche molto vicine a quelle,
indoeuropee, dei "bianchi". Abitano nella città di Tiahuanaco, ma sono presenti, in minor
numero, nelle zone bagnate dal Rio Guaporé, fiume che, presso il confine con il Brasile si
unisce al Rio Beni, formando il Rio Madeira. Le carte geografiche che indicano i giacimenti
minerari del Perù, della Bolivia e del Brasile e del Cile segnalano un solo grande giacimento
di uranio a poche decine di chilometri da Tiahuanaco, proprio presso la città di Araca, nei
dintorni del Monte Illiman, dove scorre il Rio de la Paz, che poi confluisce nel Rio Beni (v. la
successiva Figura 2).
Altri giacimenti importanti si trovano soltanto in Brasile, presso la città di Juiz de Fora, a
2400 chilometri di distanza.
In definitiva, riteniamo, che il mistero che ha avvolto la tribù dei Mandan per tanto tempo,
ma anche la tribù degli Aracani, a motivo di questa nostra ricerca possa essere considerato
definitivamente risolto.
Figura 2
*****
Giuseppe Pirazzo è nato a Reggio Calabria nel 1941. Ha conseguito nel 1960
il diploma di abilitazione magistrale e nel 1979, presso l'Università degli Studi
di Messina, il diploma di abilitazione alla Vigilanza nelle Scuole Elementari.
Pur svolgendo la sua attività di insegnante elementare di ruolo, da anni si è
dedicato, nel tempo libero, allo studio della narrativa anglo-americana e,
soprattutto, delle opere delle scrittici Charlotte, Anne ed Emily Brontë.
Via S. Caterina - Traversa Privata, 21
89121 Reggio Calabria
Telefono: 0965 47294.
Francesco Vitale è nato a Torre Annunziata (NA) nel 1944. Si è laureato a
Napoli in ingegneria elettronica nel 1969. Al di fuori della sua attività
professionale, da anni si occupa di astronomia e di archeologia, collaborando
con varie riviste scientifiche. Recentemente è stato pubblicato il suo libro
Astronomia ed esoterismo nell'antica Pompei e ricerche archeoastronomiche a
Paestum, Cuma, Velia, Metaponto, Crotone, Locri e Vibo Valentia, nel quale
egli propone, tra l'altro, una nuova chiave di lettura dei misteriosi "quadrati
magici". Sta per essere pubblicato un altro suo lavoro: La fine del mondo
secondo la Bibbia e secondo la scienza (si veda il n. 5 di Episteme).
Via Nazionale, 144
89060 Saline Joniche (RC)
Telefono e fax: 0965 782184.
When, Where, and How Was Decalogue Created?
Historical Origins and Evolution of the Ten Commandments
(Ludwik Kostro)
Each Christian child, preparing for its First Holy Communion learns Ten God's
Commandments by heart. Most of us remember them till death. However, hardly anybody
knows the history of the Commandments. This article aims at presenting main stages of
development of the Decalogue in Biblical times. It was then, when the two types of the
Decalogue and its side versions were created. They can be found in the ultimate version of the
Pentateuch (i.e. the first five books of the Old Testament), which - in the opinion of both
believer and non-believer Biblicists - was created in the 4th century BC. [1-2]
It is quite surprising for many people that besides the ethical Decalogue there is another
one, i.e. the cult Decalogue, older than the ethical one, which forbids to 'cook a young goat in
its mother's milk'. It is even more surprising that according to one of biblical traditions, it was
the cult Decalogue with the above mentioned prohibition inscribed on the stone tablets, not
the ethical one, commanding to 'honour your father and mother' and including prohibitions
'You shall not murder; You shall not commit adultery; You shall not steal.' This fact is rather
unknown to general public. However, all the biblical dictionaries mention the two kinds of
Decalogue present in the Pentateuch, at the same pointing exact spots where their different
versions can be found. It is enough to look it up in the smallest dictionary, i.e. ABC of the Old
Testament [3] to find it is true.
We can differentiate the 'ethical Decalogue' (Ex. 20; Deut. 5) from the 'cult one' (Ex. 34;
Deut. 23). There are different opinions as far as their origins are concerned. Some of the Old
Testament scholars (particularly older and more orthodox - L.K.) refer the 'ethical Decalogue'
to Moses, whereas the others (younger and more contemporary - L. K.) treat it as a younger
piece of work, dating it back to the Babylonian captivity [3, p. 21].
It should be added that the Babylonian captivity refers to the years 597 - 538 BC, so the
'ethical Decalogue' might have been created as late as in the 6 th century BC, i.e. seven
centuries after Moses had lead the Israelites out of Egypt. Some find it hard to believe because
in the cultural space influenced by the Judaistic, Christian and Moslem religions, the ethical
Decalogue constitutes the basic canon of morality. The followers of the three religions were
brought up under conviction that the ten ethical Commandments were received by Moses
from God himself (in the 13th century BC). The results of the research, however, seem to be
undeniable and absolute, and they are accepted by numerous believing biblicists.
1. The Decalogue and Biblical traditions. When was the ethical Decalogue created?
Today, both believing and unbelieving specialists [1-2] generally agree, that the Pentateuch
comprises four fundamental traditions, i.e. Jehovistic (J), Elohistic (E), Deuteronomic (D),
and Levitical (Priests) (P). The Jehovistic tradition, the oldest of them, dating back to the
King Salomon's times (ca. 965 - 926 BC) takes its name after the name of Jehovah, used in it
in reference to the God of Israel. The cult issues take significant and fundamental place in this
tradition [4, pp. 312 and 490]. The Elohistic tradition, named after the name of Elohim, dating
back to 750 - 700 BC, the cult aspect seems to recede into the background, whereas ethical
aspect comes to the fore [4, p. 312]. The third tradition, Deuteronomistic one, covers those
parts of Pentateuch and other books which were written or reworked in the spirit of the
Deuteronomy, constituting a part of the Pentateuch. It dates back to 597 - 538 BC and tries to
prove that the fall of Israel and Judah, and the Babylonian captivity was an inevitable
punishment for infringement of the Law given by God at Mount Sinai. The tradition urges
revival of the obedience of the Law [4, p. 242]. The youngest of all the Pentateuch traditions
is the Levitical one. It was probably written by the end of the Babylonian captivity (the end of
the 6th century BC) in the Levitical circles. It deals with various events in the history of Israel
from the point of view of the cult. This tradition depicts the history of the Israelites in
captivity. In spite of the lack of the temple and the obstacles in carrying out the cult, both the
promises of the Lord and His Law are still in power. The Pentateuch is a compilation of the
documents comprised in the four traditions mentioned above, i.e. J, E, D and P.
According to the oldest biblical tradition, i.e. the Jehovistic one, it was Jehovah himself who
commanded Moses to carve out the cult Decalogue on the tablets, not the ethical one. Let us
take a closer look at the text of the 34 th Chapter of the Exodus which contains the message of
the Jehovistic tradition. According to it, Moses was firstly ordered to chisel out new tablets
and carve out once again the same commandments which were placed on the first tablets
broken to pieces by him. It means that according to the Jehovistic tradition, the firs tablets
also contained the cult, not the ethical Decalogue:
Jehovah said to Moses, "Chisel out two stone tablets like the first ones, and I will write on them the
words that that were on the first tablets that you broke. Be ready in the morning, and then come up on
Mount Sinai. Present yourself to me there on top of the mountain. No one is to come with you or be
seen anywhere on the mountain; not even the flocks or herds may graze in front of the mountain."
Then Jehovah came down in the cloud and stood there with [Moses] and proclaimed His name,
Jehovah (Ex. 34, 1-5)1.
We skip here the fragment where Moses asks the Lord's forgiveness for his people's sins,
and let us read the text where Jehovah is making a covenant with His people, giving them His
cult Decalogue:
Then Jehovah said: "I am making a covenant with you. Before all your people I will do wonders never
before done in any nation in all the world. The people you live among will see how awesome is the
work that I, Jehovah, will do for you. Obey what I command you today. I will drive out before you the
Amorites, Canaanites, Hittites, Perizzites, Hivites, and Jebusites. Be careful not to make a treaty with
those who live in the land where you are going, or they will be a snare among you. Break down their
altars, smash their sacred stones, and cut down their Asherah poles.
Do not worship any other god, for Jehovah, whose name is Jealous, is a jealous God. Be careful
not to make a treaty with those who live in the land; for when they prostitute themselves to their
gods and sacrifice to them , they will invite you and you will eat their sacrifices. And when you
choose some of their daughters as wives for your sons and those daughters prostitute themselves
to their gods, they will lead your sons to do the same. Do not make cast idols. Celebrate the Feast
of Unleavened Bread. For seven days eat bread made without yeast, as I command you. Do this
at the appointed time in the month of Abib, for in that month you came out of Egypt. The first
offspring of every womb belongs to me, including all the firstborn males of your livestock,
whether from herd or flock. Redeem the firstborn donkey with a lamb, but if you do not redeem
it, break its neck. Redeem all your firstborn sons. No one is to appear before me empty-handed.
Six days you shall labour, but on the seventh day you shall rest; even during the ploughing
season and harvest you must rest. Celebrate the Feast of Weeks with the firstfruits of the wheat
harvest, and the Feast of Ingathering at the turn of the year.
Three times a year all your men are to appear before the Sovereign Jehovah, the God of Israel.
I will drive out nations before you and enlarge your territory, and no one will covet your land
when you go up three times each year to appear before Jehovah, your God. Do not offer the
blood of the sacrifice to me along with anything containing yeast, and do not let any of the
sacrifice from the Passover Feast remain until morning. Bring the best of the firstfruits of your
soil to the house of Jehovah, your God. Do not cook a young goat in its mother's milk.
Then Jehovah said to Moses: "Write down these words, for in accordance with these words I have
made a covenant and with Israel." Moses was there with Jehovah forty days and forty nights without
eating bread or drinking water. And he wrote on the tablets the words of the covenant - the Ten
Commandments (Ex. 34, 10-28).
As you can see, according to the Jehovistic tradition it is Jehovah himself who tells Moses
to write the cult Decalogue on the tablets. It should be added that in this paragraph of the
Pentateuch the oldest J tradition gives the cult Decalogue a name of 'Ten Words" (in Greek
dekalogos, in Hebrew 'aseret hadde- barim).
According to Grether, a Hebrew name 'aseret hadde- barim is an old one, and most
probably reaches the oldest sources of Pentateuch [5, p.181].
A later Deuteronomic tradition D shall apply the name 'Ten Words' also to the ethical
Decalogue (Deut. 4, 13: 10, 4)
Since the times of a very renowned Biblicist who was the first to notice the existence of the
four J, E, D, P traditions, the cult Decalogue has been considered the oldest version of the
Ten Commandments. It should be noted, however, that even this Decalogue does not fully
reach back the Moses times, as it contains also some inclusions from the King Solomon era,
i.e. from the times when the Jehovistic tradition was formed. For instance, the commandment
of going up three times each year to appear before God in the temple had some sense only
when the temple did exist, and the temple was constructed in the 9th century BC by the said
Salomon. Also some other cult commandments point to the settled rural manner of living. The
commandments mention harvest and the obligation of bringing firstfruits to God. During
Moses times, people of Israel constituted a wandering group. As an effect of later inclusions,
we can find more than ten commandments in the cult Decalogue under discussion. Generally,
a number of twelve commandments is used, therefore some researchers use the name of
'Dodecalogue'. A Practical Biblical Dictionary contains a special entry:
"DODECALOGUE (Greek - twelve words), Ex. 34, 14-26. Later, more developed wording of the [cult
- L. K.] Decalogue in which you can enumerate (depending on the method of counting) twelve or ten
commandments related to the rural cycle of holidays (also called cultic Decalogue)" [4, p. 262].
The first version of the ethical Decalogue can be also found in the Exodus. It belongs,
however, to the later, Elohistic E tradition than the Jehovistic J one; it also contains influences
of further traditions, i.e. Deuteronomic D, and the youngest, Levitical P. Stanisław Łach, a
Catholic Biblicist makes the following comment:
"The text of [ethical - L. K.] Decalogue is based - in general opinion - on the E tradition with further
transformations D or P" [5, p. 181].
Thus, the ethical Decalogue (Ex. 20, 1- 17) results from three traditions, E, D and P.
According to the tradition constructed in this way (finally drawn up in the 4 th century BC),
the ethical Decalogue are the words of the Lord himself, spoken directly by Jehovah to all the
Israelites gathered at the foot of Mount Sinai amidst thunder, lightning, and the sound of
trumpets. Mount Sinai is depicted as a volcano erupting fire and smoke:
And God spoke all these words: "I am Jehovah, your God, who brought you out of Egypt, out of the
land of slavery.
You shall not make for yourself an idol in the form of anything in heaven above and earth beneath or
in the waters below. You shall not bow down to them or worship them; for I, Jehovah, your God, am a
jealous God, punishing the children for the sin of the fathers to the third and fourth generation of those
who hate me, but showing love to a thousand generations of those who love me and keep my
commandments.
You shall not misuse the name of Jehovah, your God, for Jehovah will not hold anyone guiltless who
misuses His name.
Remember the Sabbath day by keeping it holy. Six days you shall labour and do all your work, but
the seventh day is Sabbath to Jehovah, your God. On it you shall not do any work, neither you, nor
your son or daughter, nor your manservant or maidservant, nor your animals, nor the alien within your
gates. For in six days Jehovah made the heaven and the earth, the sea, and all that is in them, but he
rested on the seventh day. Therefore Jehovah blessed the Sabbath day and made it holy.
Honour your father and your mother, so that you may live long in the land of Jehovah, your God is
giving you.
You shall not murder.
You shall not commit adultery.
You shall not steal.
You shall not give false testimony against your neighbour.
You shall not covet your neighbour's house. You shall not covet your neighbour's wife, or his
manservant or maidservant, his ox or donkey, or anything that belongs to your neighbour.
When the people saw the thunder and lightning and heard the trumpet and saw the mountain in
smoke, they trembled with fear. They stayed at the distance […] (Ex. 20, 1 - 18).
When the Elohistic tradition was born (the 8 th century BC), the cult of Jehovah was not
fully monotheistic yet. This concept was to emerge in the 7 th century BC. That is why we
cannot find in the ethical Decalogue such adjectives as 'one', 'the only', and 'true'
accompanying the Name of God; however quite frequently we can find possessive adjective
'your': "I am Jehovah, your God", 'You shall not misuse the name of Jehovah, your God". This
'God of the Hebrew' is contrasted with 'other gods', the existence of whom was not fully
denied yet. Jehovah is jealous about their cult: "Do not worship any other god, […] for
Jehovah is a jealous God." The Israelites were bound by monolatry, i.e. they could worship
only their own God, on Sabbath day in particular: "[…] the seventh day is Sabbath to
Jehovah, your God". The ethical Decalogue still lacks Elohistic tradition of formal
monotheism. Reverend S. Łach notices:
"The words of the first commandment of the Decalogue do not impose formal monotheism yet,
because they only advise to worship Jehovah, without excluding the existence of other gods,
worshiped by other nations. But as it was Jehovah, who brought the Israelites out of Egypt, proving to
be higher than Egyptian idols, and presented Himself in the Decalogue as God jealous about Israel,
who wants to become its only master, as He is a master of forces of nature, so we might assume that in
Decalogue the teaching of monotheism is imbedded in the context" [5, p. 184].
There is another very similar version of the ethical Decalogue in the Deuteronomy (Chapter
5). There are certain differences in details and different justification of celebrating the
Sabbath day. According to this version, Moses declared the commandments as his people was
afraid of climbing the mountain because of the volcano spitting fire, called in this case Mount
Horeb instead of Sinai. The previous tradition Jehovah forbade people to climb Mount Sinai:
At that time I stood between Jehovah and you to declare to you the word of Jehovah, because you
were afraid of the fire and did not go up the mountain. And he said: "I am Jehovah, your God, who
brought you out of Egypt, out of the land of slavery" (Deut. 5, 5-7).
In the previous version of the ethical Decalogue the commandment of observing the
Sabbath day was justified by the version of the creation of the world in six days, with the
seventh day of resting (which belongs to Levitical P tradition and can be a prove of the
influence of this tradition, and its ultimate edition in the 6th century BC); in the version of the
Decalogue under discussion the Sabbath day obligation results from being brought out of
Egyptian captivity:
Observe the Sabbath day by keeping it holy, as Jehovah, your God, has commanded you. Six days you
shall labour and do all your work, but the seventh day is a Sabbath to Jehovah, your God. On it you
shall not do any work, neither you, nor your son or daughter, nor your manservant or maidservant, nor
your ox, your donkey or any of your animals, nor the alien within your gates, so that your manservant
and maidservant may rest , as you do. Remember that you were slaves in Egypt and Jehovah, your
God, brought you out of there with a mighty hand and outstretched arm. Therefore Jehovah, your God,
has commanded you to observe the Sabbath day (Deut. 5, 12-15).
It must be stressed that the last commandment of the two versions of the ethical Decalogue
under discussions forbids to covet your neighbours property. So it is not the issue of sexual
desire; had it been the sexual desire, the coveting party might have been accused of
homosexuality if one coveted2 someone's slave, or zoophilia or bestiality if one coveted
somebody else's ox or donkey. Thus coveting one's wife is treated here as coveting a
component of one's property. Both versions differ by the positioning of the wife. In the first
version the wife is a component of the neighbour's household, placed besides the manservant,
maidservant, and cattle: ox or donkey. In the second version the wife is mentioned before the
neighbour's household:
You shall not covet your neighbour's wife. You shall not set your desire on your neighbour's house or
land, his manservant or maidservant, his ox or donkey, or anything that belongs to your neighbour
(Deut. 5, 21).
In both versions of the ethical Decalogue, manservants and maidservants are mentioned. So
we should try to answer the question what the Decalogue's attitude is towards servants
(slavery).
In both versions of the ethical Decalogue, slavery is treated as something normal, hence
justified. There is no commandment forbidding it. There are no words like "You shall not
make your neighbour your manservant (slave)"; quite the opposite: the property rights of
slave owners are protected. Recently mentioned last commandment forbids even coveting
itself to take over somebody else's manservant or maidservant. Among the provisions of
Moses Law complementing the ethical Decalogue, which find it normal and fully legal to buy
and sell menservants or maidservants and treating them as physical objects. It was permitted
to sell one's own daughter as a servant, although the provisions here were different than in the
case of a slave, e.g. she must not have been sold to foreigners (Ex. 21, 7-11):
If a man sells his daughter as a servant, she is not to go free as menservants do. If she does not please
the master who has selected her for himself, he must let her be redeemed. He has no right to sell her to
foreigners, because he has broken faith with her (Ex. 21, 7-8).
A manservant did not enjoy rights of a free person. Death penalty was applied for homicide
("life for life" Ex. 21, 23; "Anyone who strikes a man and kills him shall surely be put to
death" Ex. 21, 12). For fatal beating up of a slave there was only a severe penalty if he or she
died instantly, however, if they were in fatal agony for a day or two, the proprietor went
unpunished.
If a man beats his male or female slave with a rod, and the slave dies as a direct result, he must be
punished, but he is not to be punished if the slave gets up after a day or two, since the slave is his
property (Ex. 21, 20-21).
And what does a composition of both versions of the ethical Decalogue look like from a
formal point of view?
"From the formal point of view, the Decalogue is a mixed composition because it can be divided into
three parts: in the first part (prohibition of worshipping other gods and making images of God), it is
Jehovah who speaks in the first person; in the second part (prohibition of misusing of God's name,
remembering the Sabbath day and honouring parents), Jehovah is mentioned as the third person; in the
third part (starting from "You shall not murder" on), the speaker is not directly defined (neutral
wording). Moreover, the length of individual commandments is different - there are short prohibitions
beside developed clauses. Finally, commands are mixed with prohibitions […]. The Decalogue is a set
of commandments, out of which each individual one has its own earlier and later history developing
around a single central motif" [7, pp. 83-84].
As far as further history [of commandments] is concerned, during Christian times the
commandment prohibiting making figures or images disappeared. In Judaism the word and
the Book (the Torah) were most important; in Hellenic and Roman cultures - an image and a
figure. When Christianity entered the Roman Empire, the devotion to sculptures and pictures
was so strong (the love of sculpture and painting) that it overpowered the God's
commandment prohibiting this type of creativity. When the commandments forbidding
making figures and images was removed, the last one was divided into two to maintain the
number of ten, i.e. IX: "You shall not covet your neighbour's wife" and X: "Or anything that
belongs to your neighbour".
There were cases of iconoclasm in the 8 th and 9th centuries in Byzantium, and later during
the Reformation period, when people remembered the rejected prohibition still present in the
Bible.
What is the interrelation with the earlier cult Decalogue and the later ethical one? According
to the Lexicon of Religion, published on Cardinal Franz Kőnig's (a retired Primate of Austria)
initiative, the cult Decalogue is an artefact the later ethical Decalogue refers to:
"The Decalogue composed in such a way refers to its artefact, i.e. the law of privileges [of the cult
Decalogue - L. K.] (Ex. 34) presented in the context of Jehovistic Sinai theophany (Ex. 19-34)" [7, p.
84].
It must be noticed that the cult Decalogue in turn refers to the events that took place in the
13th century BC when Moses declared to his people brought out from Egypt the context of
covenant taken with Jehovah, their God. We do not know, however, the original text from
those times.
The ethical Decalogue (Ex. 20; Deut. 5) is presently dated at 8 th-6th century BC. Therefore
Władysław Kopaliński in his Dictionary of Myths and Tradition in Culture under the entry
"Decalogue" writes:
"These laws were written most probably in 8th-6th century BC" [6, p. 199].
The fact that prophets from the period before 8 th century BC never quote the ethical
Decalogue may be a proof of its late creation.
Some authors [13] point out that there is another, third version of the ethical commandments
(Lev. 19) much different from the two under discussion. In this version each commandment
ends with the words "I am Jehovah, your God".
This is the beginning and a few excerpts from this set of commandments:
Jehovah said to Moses: "Speak to the entire assembly of Israel and say to them:
Be holy, because I, Jehovah, your God, am holy.
Each of you must respect his mother and father, and you must observe my Sabbaths. I am Jehovah,
your God.
Do not turn to idols or make gods of cast metal for yourselves. I am Jehovah, your God" (Lev.19,
1-4) […] "Do not steal. Do not lie. Do not deceive one another. Do not swear falsely by my name and
so profane the name of your God. I am Jehovah" (Lev. 19, 11-12).
The above discussed set of commandments does not contain the prohibition of adultery.
These can be found a couple of lines before the set:
"Do not have sexual relations with your neighbour's wife and defile yourself with her" (Lev. 18, 20).
However there is an excerpt [in the set] referring to this prohibition:
If a man sleeps with a woman who is a slave girl promised to another man but who has not been
ransomed or given her freedom, there must be due punishment. Yet they are not to be put to death,
because she had not been freed (Lev. 19, 20).
As we can see, the Holy Bible contains a few versions of the Decalogue. We do not know,
however, the primary version that had been carved out on the tablets. Most probably it was
similar to the cult Decalogue included in the current version of the Bible (Ex. 34), and
scholars claim that it is the oldest version of the Ten Commandments.
2. Where was the primary Decalogue created and which mountain should it be
associated with?
Depending on the tradition, the Bible gives two names of the mountain connected with the
declaration of the Decalogue. According to the Jehovistic (Ex. 34) and Elohistic (Ex. 20)
tradition it was a mountain called Sinai. However, according to the Deuteronomic tradition
(Deut. 5) it was a mountain called Horeb. As we can see, traditions are not coherent as far as
the name of the mountain is concerned.
Where was Mount Sinai / Horeb located? This question has not been univocally answered
so far.
According to the Christian tradition, relatively young (4 th century AD) [8, pp. 337-338; 10,
pp. 66-68] as compared to the time of the declaration of the primary Decalogue (13 th century
BC), Mount Sinai/Horeb is located on the Sinai Peninsula. It is supposed to be a mountain
called Dżebel Musa, situated within the mountain range in the southern part of the peninsula
presently called the Sinai Peninsula. Since the mountain range in question has nothing to do
with volcanoes, and according to Pentateuch during the declaration of the primary Decalogue
"the smoke billowed up from it like smoke from the furnace" (Ex. 19, 18; Ex. 20, 18), some
researchers believe that Mount Sinai/Horeb was located on the Gulf of Aquaba, where we can
locate a mountain range of volcanic origin. It can be proved by the fact that Midianites used to
live there, and Jethro, Moses' father in law was a member of this tribe. Therefore The Great
Biblical Atlas [14, pp. 34-35] marks Mount Sinai/Horeb? with the question mark in two
places: in the Sinai Peninsula and in the range of volcanic mountains in the land of
Midianites. Some scholars doubt, however, if there were active volcanoes on the Gulf of
Aquaba during Moses' times. In their opinion an erupting volcano is a typical background of a
manifestation of deity (theophany) in ancient religions, therefore it must not be taken too
seriously as a historical fact [10, pp. 62-63]. There are some other suggestions of locating the
Mountain of Commandments, e.g. in the mountain range presently known as the Seir:
"Sinai. In some relations - the mountain on top of which Jehovah appeared to Moses (Ex. 19; other
relations speak about Mount Horeb, or simply 'the mountain'). According to Christian tradition (since
4th century AD) Sinai is situated on the Sinai Peninsula (another possibility the Seir Mountains, near
Kadesh, present Saudi Arabia)" [8, pp. 337-338].
As we can see, we do not know where exactly the primary cult Decalogue was declared;
even more - we have no idea where the latter, ethical Decalogue was created. The latter
Decalogue most probably should not be associated with any mountain but with the land of
Babylonia, as the creation of the ethical Decalogue is generally associated with the
Babylonian captivity.
As it has already been said, according to Christian tradition from the 4 th century AD the
declaration of the primary Decalogue took place on 'Mountain of Moses' in the range of the
mountains presently called the Sinai. How was this tradition created? This question is
answered by the Oxford Dictionary of Biblical Knowledge translated and published in Poland
within the Primate's Biblical Series:
"According to the most popular opinion, Mount Sinai might have been Djebel Musa (Mountain of
Moses; map 2:S4) near St Catherine's Monastery. This identification was carried out for the first time
by Byzantine monks in the 4th century AD, there is no evidence, however, that the monks had any
topographical information whatsoever...
When Byzantine monks settled down on Sinai (300 - 600 AD), they started digging wells, construct
terraces and cascades in the valley, create gardens and orchards. Cesar Justinian built up the church
and fortified monastery (527 AD) which was then named after St Catherine. In the area of 2½ sq km
Byzantine monks identified the spot where God revealed himself to Moses in the burning bush, the
spot where Moses drew water out of the rock, the mountain on which God talked to Moses, and the
place where Aaron erected the golden calf. Most probably the monks found on this historical peninsula
some remote place where they could make their living, and gradually started to identify places
described by the Bible with specific spots in their vicinity" [9, pp. 733-734].
As we can see, the tradition created by the monks living in the 4 th century AD has no
scientific foundations. Thus, we do not know which mountain is related to the declaration of
the primary Decalogue. Most convincing seems to be an opinion of scientists who say that it
must have been some mountain in the Gulf of Aquaba, because it was the place, where
Midianites, a tribe worshiping their God, Jehovah. Moses' father in law, Jethro (the core of his
name comes from the name of Jahwei, meaning "Jehovah gave us plenty") was a priest of this
God. However, as far as the name of Moses' father in law is concerned, the Biblical traditions
are not fully coherent about it. Besides the name of Jethro (Ex. 3, 1; 4, 18, 1n, 5n), there are
two other names, i.e. Reuel (Ex. 2, 18) meaning 'A Friend of El' or 'El Is the Shepherd', and
Chobab (Num. 10, 29; Judg. 4, 11) [8, p. 151].
3. Who declared the Decalogue and who made the tablets with the Ten Commandments?
The Holy Bible gives different traditions in relation with the declaration of the Ten
Commandments and the origin of the tablets. Let us deal with the declaration of the
Decalogue first. According to one of the traditions it is God himself who speaks to people and
declares the text of the concluded covenant. The voice of God himself can be heard amid the
roaring erupting with fire and smoke volcano:
Mount Sinai was covered with smoke, because Jehovah descended on it in fire. The smoke billowed
up from it like smoke from a furnace, the whole mountain trembled violently […] Then Moses spoke
and the voice of God answered him. […] And God spoke all these words: "I am Jehovah, your God,
who brought you out of Egypt, out of the land of slavery" [Now, according to this tradition, we have
the declaration of the ethical Decalogue - L.K.] When the people saw the thunder and lightning and
heard the trumpet and saw the mountain in smoke, they trembled with fear. They stayed at a distance
and said to Moses "Speak to us yourself and we will listen. But do not have God to speak to us or we
will die" (Ex. 19, 18-19; 20, 18-19).
Then Jehovah said to Moses: "Tell the Israelites this: You have seen for yourselves that I have spoken
to you from heaven: Do not make any gods to be alongside me; do not make for yourselves gods of
silver or gods of gold" (Ex. 20, 22-23).
According to another tradition, God is responsible only for the phenomenon of the erupting
volcano. And this very phenomenon is interpreted as God's speech, whereas Moses declares
the Decalogue in a language known to his people:
Jehovah spoke to you face to face. (At that time I stood between Jehovah and you to declare to you the
word of Jehovah, because you were afraid of the fire and did not go up the mountain.) And he said: "I
am Jehovah, your God, who brought you out of Egypt, out of the land of slavery" [Now, according to
this tradition, we have the declaration of the ethical Decalogue. Moses declaring the contents of the
Decalogue is merely an interpreter, and the Decalogue is made up by God - L.K.] These are the
commandments Jehovah proclaimed in a loud voice to your whole assembly there on the mountain
from out of the fire, the cloud, and the deep darkness; and he added no more [meaning that it was
Moses who added a translation into the language understood by his people - L.K.] (Deut. 5, 4-6 and
5, 22).
As far as the origin of the tablets with the Decalogue is concerned, one of the traditions (Ex.
31 and 32; Deut. 5) claims that Moses received them with the ready text from Jehovah
himself:
When Jehovah finished speaking to Moses on Mount Sinai, he gave him the two tablets of the
Testimony, the tablets of stone inscribed by the finger of God. […]The tablets were the work of God;
the writing was the writing of God, engraved on the tablets (Ex. 31, 18; 32, 16).
Then he wrote them on two stone tablets and gave them to me (Deut. 5, 22).
According to another tradition, God tells Moses to chisel out tablets similar to the ones he
broke down, and carving out once again what was written on the first ones. So the text
chiselled out on the first and second set of tablets - in the light of the tradition under current
discussion - was the work of Moses:
Jehovah said to Moses: "Chisel out two stone tablets like the first ones, and [I will] 3 write on them the
words that were on the first tablets which you broke." […] So Moses chiselled out two stone tablets
and went up Mount Sinai early in the morning as Jehovah had commanded him; and he carried the two
stone tablets in his hands [Now we have the declaration of the Decalogue - this time a cult one - L.K.]
[…] Then Jehovah said to Moses: "Write down these words, for in accordance with these words I have
made a covenant with you and with Israel." Moses was there with Jehovah forty days and forty nights
without eating bread or drinking water. And he wrote on the tablets the words of the covenant - the
Ten Commandments (Ex. 34, 1, 10-28).
All the evidence shows that the tablets with the primary Decalogue (most probably the
primary cult one) were the work of Moses or his people who could chisel the stone and write
texts on it (the skill acquired back in Egypt). The Ten Commandment Tablets have not
preserved till today so we do not know what they looked like and what was inscribed on them.
Biblical stories about the Decalogue and the tablets coming directly from God are treated by
contemporary biblicists as literary convention used to stress the transcendent origin of the
basic laws. Man has always been aware that it is not him, who is the creator of the basic laws;
these laws were of higher source. Biblicists point out that similar stress on transcendence of
laws can be seen in the Hammurabi Code, a work earlier than the Decalogue. Two-meter-long
column (black diorite stela) with the inscribed text of the code (at present preserved in the
Louvre) was depicted on ancient relieves as an object directly handed in by some god (most
probably Marduk) to Hammurabi (1792-1750 BC) [10].
Therefore all the contemporary biblicists treat the primary Decalogue (unknown to us in its
original form) as the work of Moses. Thus the Catholic Encyclopaedia published by the
Catholic University of Lublin in Poland says:
"The Decalogue written down by Moses and stored in the Tabernaculum" [11, pp. 1106-1107].
4. The Decalogue and the capital punishment
According to the provisions of the Old Testament, the infringement of the provisions of the
Ten Commandment was punished with death. First of all this punishment was awarded to
those, who broke the First Commandment, i.e. who worshipped alien gods or lead others to do
the same:
Whoever sacrifices to any god other then Jehovah must be banned4 (Ex. 22, 20).
"Ban" (cherem) means in the Bible a person or a thing devoted by God to be destroyed or
the very act of devoting somebody or something for destruction [12, p. 1423].
Sometimes Israeli kings and prophets seemed authorised to carry out destruction,
particularly when the infringement were massive and frequent.
For example king Jehu treacherously summoned to the Baal's temple all the worshipers
together with their priests and commanded to kill them all (cf. 2 Kings 10, 18-27) The cult of
Baal flourished in Israel particularly during king Ahab's times, whose wife promoted the
worship. King Jehu for his deed, as the Bible says, received praise and a reward from Jehovah
himself:
Jehovah said to Jehu: "Because you have done well in accomplishing what is right in my eyes
and have done to the house of Ahab all I had in mind to do, your descendants will sit on the
throne of Israel to the fourth generation" (2 Kings 10, 30).
Prophet Elijah acted in similar way, when he gave out orders to murder ca 450 prophets of
Baal (cf. 1 Kings 18, 1-40):
Then Elijah commanded them, "Seize the prophets of Baal. Don't let anyone get away!" They
seized them, and Elijah had them brought down to the Kishon Valley and slaughtered there." (1
Kings 18, 40).
Sorcery was also treated as worshipping other forces then God Jehovah, therefore people
practicing witchcraft were sentenced to death.
"Do not allow a sorceress to live." (Ex. 22, 17)
Death sentence was also awarded for infringement of the Second Commandment, i.e. for
making idols and worshipping them, even if they depicted Jehovah himself. According to
Exodus, at the God's command Moses ordered the Levites to slain all the men who
worshipped a calf depicting Jehovah:
Then he said to them: "This is what Jehovah, the God of Israel says: Each man strap a sword to
his side. Go back and forth through the camp and from one end to the other, each killing his
brother and friend and neighbour…" Then Levites did as Moses commanded, and that day
about three thousand of the people died." (Ex. 32, 27-29).
Certain forms of abuse of the God's name, e.g. blasphemy was also punished with death:
[...] anyone who blasphemes the name of Jehovah must be put to death. The entire assembly
must stone him. Weather an alien or native-born, when he blasphemes the Name, he must be put
to death. (Lev. 24, 15-6).
Using Gods name in perjury evokes also grievous consequences:
[…] everyone who swears falsely will be banished. Jehovah Almighty declares: "I will send [the
curse] out, and it will enter the house of him who swears falsely by my name. It will remain in
his house and destroy it, both its timbers and its stones" (Zach. 5, 3-4).
Death was also a punishment for not celebrating the holy day, i.e. Sabbath:
Observe the Sabbath, because it is holy to you. Anyone who desecrates it must be put to
death; whoever does any work on that day must be cut off from his people. For six days work
is to be done, but the seventh day is the Sabbath of rest, holy to Jehovah. Whoever does any
work on the Sabbath day must be put to death (Ex. 31, 14-15).
Also some sins against the commandment ordering respect for father and mother were
punished with death:
Anyone who curses his father and mother must be put to death (Ex. 21, 17),
Anyone who attacks his father or his mother must be put to death (Ex. 21, 15).
Infringement of the commandment prohibiting homicide was punished with death, unless
the killed person was a slave, as it has been mentioned before:
Anyone who strikes a man and kills him shall surely be put to death (Ex. 21,12).
Not only homicide, but also kidnapping aimed of selling the person was punished with
death:
Anyone who kidnaps another and either sells him or has him when he is caught must be put to
death (Ex. 21, 16).
Death sentence was also awarded for adultery and various sexual misconduct:
If a man commits adultery with another man's wife - with the wife of his neighbour - both the
adulterer and the adulteress must be put to death. If a man sleeps with his father's wife, he has
dishonoured his father5. Both the man and the woman must be put to death; their blood will be
on their own heads. If a man sleeps with his daughter in law, both of them must be put to death.
What they have done is a perversion; their blood will be on their own heads. If a man lies with a
man as one lies with a woman, both of them have done what is detestable. They must be put to
death; their blood will be on their own heads. If a man marries both a woman and her mother, it
is wicked. Both he and they must be burned in fire, so that no wickedness will be among you. If a
man has sexual relations with an animal, he must be put to death and you must kill the animal.
If a woman approaches an animal to have sexual relation with it, kill both the woman and the
animal. They must be put to death: their blood will be on their own heads. And if a man shall
take his sister, his father's daughter, or his mother's daughter, and see her nakedness, and she
see his nakedness; it is a wicked thing; and they shall be cut off in the sight of their people: who
has uncovered his sister's nakedness will be held responsible. If a man lies with a woman during
her monthly period and has sexual relations with her [uncovered her nakedness], he has exposed
her flow [the source of her blood], both of them must be cut off from their people (Lev. 20, 10-
18)6.
Punishment was milder if a man seduced an unmarried woman:
If a man seduces a virgin who is not pledged to be married and sleeps with her, he must pay [her
family] the bride-price, and she shall be his wife. If her father absolutely refuses to give her to
him, he must still pay the bride-price for virgins (Ex. 22, 16-17).
Also theft was generally not punished with death:
If a man steals an ox or a sheep, and slaughters it, he must pay back five head of cattle for
the ox and four sheep for the sheep (Ex. 22, 1).
Although Zechariah says that God will annihilate thieves:
[…] every thief will be banished. […] Jehova almighty declares: "I will send [my curse] out and
it will enter the house of the thief […], it will remain in his house and destroy it, both its timbers
and its stones" (Zech. 5, 3-4).
There is no death penalty in the Bible for the next two, i.e. the final two Commandments,
i.e. for lying and false testimony, and for coveting the neighbours household (i.e. his wife,
manservant, maidservant, and the rest that belongs to him).
The Decalogue, being a fundamental moral code has never lost and shall never lose its
importance. However, we do not punish with death the infringement of it. The only exception
is the death penalty awarded in some countries for manslaughter. At present Pope John Paul II
demands the abolition of capital punishment wherever it is still applied.
5. Two commandments referring to love
With time the Decalogue was abbreviated end expressed in a positive way only with respect
to two Commandments of love, to God and to the others:
Love Jehovah, your God, with all your heart and with all your soul and with all your strength.
These commandments that I give you today are to be upon your hearts. Impress them on your
sons. Talk about them when you sit at home and when you walk along the road, when you lie
down and when you get up (Deut. 6, 5-7),
Do not seek revenge or bear a grudge against one of your people, but love your neighbour as
yourself. I am Jehovah (Lev. 19, 18).
As we can see, the neighbour meant a member of the Israeli nation only, and when an alien
person was in question, he or she had to be also included in the commandment of love:
The alien living with you must be treated as one of your native-born. Love him as yourself, for
you were aliens in Egypt. I am Jehovah, your God! (Lev. 19, 34).
A different situation was with the enemies of Israel: these could be exterminated. It is
enough to mention the behaviour of the God's man, David, who - together with his men - kills
two hundred Philistines hostile to Israel in order to get married to a daughter of King Saul.
King Saul has but one condition. David shall receive Saul's daughter as a wife if he brings
Saul 100 Philistine foreskins. David organises the expedition, kills two hundred Philistines
and brings Saul two hundred Philistine foreskins. Saul treats the successful expedition as
Jehovah's blessing to David:
Saul replied: "Say to David, The king wants no other price for the bride than a hundred
Philistine foreskins to take revenge on his enemies". Saul's plan was to have David fall by the
hands of the Philistines. When the attendants told David these things, he was pleased to become
the king's son-in-law. So before the allotted time elapsed, David and his men went out and killed
two hundred Philistines. He brought their foreskins and presented the full number to the king so
that he might become the king's son-in-law. The Saul gave him his daughter Michal in marriage.
[…] Saul realised that Jehovah was with David and that his daughter Michal loved David (1 Sm.
18, 25-28).
Love of all the people, including enemies shall be introduced as late as in the New
Testament by Jesus Christ.
Love your enemies, do good to those who hate you, bless those who curse you, pray for those
who mistreat you. […] If you love those who love you, what credit is that to you? Even 'sinners'
love those who love them (Luke 6, 27-28 and 32-33).
The Decalogue was inherited by us from the People of Israel. This contribution of the nation
to the world culture is enormous. And we also owe to this nation the fundamental moral code
upon which basic inter-human relations are based.
Notes
1
All the Biblical quotations after: The Student Bible, New International Version, Zondervan
Publishing House, Grand Rapids, Michigan, 1992.
2
= desired.
3
English translations of the Bible, together with Greek and Latin versions use in (Ex. 34, 1) words: "I
will write", although it is incoherent with (Ex. 4, 27) where we can read: "Write down these words".
The Polish translation in St. Łach's Exodus. Introduction - Translated from the original version.
Comments, and the Millennium Bible skip the words: "I will", leaving the imperative form: "Chisel
out two stone tablets like the first ones, and write on them the words that were on the first
tablets which you broke".
4
English versions of the Bible usually translate it as "must be destroyed" or "devoted" (cf. Robert
Young's Literal Translation).
5
The Polish translation is coherent here with St. James' Bible: "And the man that lieth with his father's
wife hath uncovered his father's nakedness".
6
Lev. 20, 17-18 has different wording in The Student Bible. The translation in the text above is
adjusted to the Polish version.
Bibliography
[1] H. Langkammer, OFM, Słownik Biblijny (Biblical Dictionary), Księg. Św. Jacka, Katowice, 1982
(cf. entry "Pentateuch").
[2] W. Tyloch, Dzieje ksiąg Starego Testamentu (History of the Books of the Old Testament), Książka
i Wiedza, 1994.
[3] W. Steinmann, ABC Starego Testamentu (Old Testament: ABC), Wydawnictwo Kerygma, Lublin
1992.
[4] Praktyczny słownik Biblijny (Practical Biblical Dictionary), collective work of Catholic and
Protestant theologists, ed. by: Anton Grabner - Haider, IW Pax i Wyd. Ks. Pallotynów Warsaw 1994.
[5] S. Łach, Księga Wyjścia, Wstęp - przekład z oryginału, komentarz (Exodus. Introduction Translated from the original version - Comments), Pallottinum, Poznań 1964.
[6] W. Kopaliński, Słownik mitów i tradycji kultury (Dictionary of Myths and Culture), PIW, Wyd. V
poprawione, Kraków 1996.
[7] Leksykon religii, Zjawiska - dzieje - idée (Lexicon of Religions. Phenomena - history - ideas), (Out
of the initiative of Cardinal Franz Knig with a cooperation of numerous scholars, ed. by: Hans
Wandenfels), Verbinum, Wyd. Księży Werbistów, Warsaw 1997.
[8] Mała encyklopedia biblijna (Little Biblical Encyclopaedia), (Forward by biblicist Rev. Prof. Jerzy
Chmiel from the Papal Theological Academy in Kraków) Dom Wydawniczy "ASLAN", Kraków
1995.
[9] Słownik wiedzy biblijnej, Prymasowska Seria Biblijna, (The OxfordCompanion to the Bible)
scientific ed.: Bruce M. Metzger i Micael D. Coogan (trasl. by: W. Chrostowski), Of. Wyd. "Vocatio",
Warsaw 1997.
[10] E. Zenger, Der Gott der Bibel. Sachbuch zu den Anfängen des alttestamentlichen Gottesglaubens,
Verlag Katholisches Bibelwerk, Stuttgart, 1992.
[11] Encyklopedia katolicka (Catholic Encyclopaedia), Vol. III, (ed. by: R. Łukaszyk, L. Bieńkowski,
F. Gryglewicz), Tow. Nauk. KUL, Lublin 1997.
[12] Pismo Święte Starego i Nowego Testamentu, (Biblia Tysiąclecia) (The Holy Script of the Old and
New Testament - The Millennium Bible), Wyd. Pallotinum, Poznań -Warsaw 1971.
[13] Podręczna Encyklopedia Biblijna (Concise Biblical Encyclopaedia), collective work ed. by: E.
Dąbrowski, Volume I, A-Ł, Księgarnia Św. Wojciecha, Poznań-Warsaw-Lublin, 1959.
[14] Wielki Atlas Biblijny (The Great Biblical Atlas) (ed. J.B. Pritchard), Oficyna Wyd. "Vocatio",
Warszawa 1994.
----[A presentation of the author can be found in Episteme N. 2]
Department for Logic, Methodology and Philosophy of Science
University of Gdańsk, ul. Bielańska 5
80-952 Gdańsk, Poland
[email protected]
*****
Salvador Dalì: La scoperta dell'America (1958-59)
Illustrazione dalla Lettera (di Colombo) a Santangelo del 1493
(ripresa poi quasi tale e quale nella lettera di Amerigo Vespucci
a Piero Soderini, "delle isole nuovamente trovate in quattro suoi viaggi", 1504);
a detta di alcuni commentatori (cfr. Nota 30) in essa è celato un messaggio ebraico,
il Nuovo Mondo è stato scoperto per essere la nuova Terra Promessa...
La vera identità di Cristoforo Colombo:
osservazioni e congetture
(Umberto Bartocci)
Parte I
E' curioso1 constatare come si abbiano poche notizie certe sul luogo, l'anno di nascita, la
famiglia, etc., di uno dei personaggi più famosi della storia moderna. Vale a dire, proprio di
colui che con la sua coraggiosa impresa fu protagonista dell'evento che, per convenzione
unanime degli studiosi, viene prescelto a marcare l'inizio dell'attuale fase della storia
dell'umanità - quella contrassegnata dall'affermazione della scienza e della tecnica occidentali,
e da un crescente controllo-sfruttamento della Natura da parte dell'uomo (i cui più recenti esiti
preoccupano giustamente molti). Stiamo parlando naturalmente di Cristoforo Colombo, e di
domande che hanno ricevuto nel corso dei secoli numerose inconciliabili risposte. A fronte
infatti di una tesi "purista"2 largamente diffusa (e "documentata"), conformemente alla quale il
grande navigatore ebbe umili e ben ricostruiti natali a Genova, diverse sono state le obiezioni,
i dubbi, le proposte alternative, vuoi in ordine alla località che all'anno che alla famiglia
d'origine, al punto che si potrebbe quasi riconoscere che si tratti di una questione ormai
insolubile, e amen.
Del resto, bisogna convenire che di per sé, a priori, essa non appare certo tra quelle
"fondamentali". Poco importerebbe invero sapere che lo scopritore è nato nella località X
oppure Y, nell'anno Z oppure T, e che tali fossero i suoi genitori anziché talaltri, a meno che
naturalmente la determinazione di (qualcuno di) questi elementi sconosciuti non rivestisse
uno specifico significato per comprendere meglio il futuro sviluppo degli eventi della sua vita
(il che implica, per esempio, che l'identificazione del luogo di nascita in particolare, all'origine
di varie controversie di stampo campanilistico, deve essere considerata di interesse
decisamente minore3).
Accenniamo soltanto a quella che appare tra le più sensazionali delle varianti eterodosse,
anche se non bisognerebbe trascurare, in detta categoria, la tesi esposta nel saggio di Emilio
Michelone (Il mito di Cristoforo Colombo, Varani Ed., Milano, 1985), secondo cui addirittura
Colombo non sarebbe mai esistito, e l'invenzione della sua persona fu frutto esclusivo di
"un'assoluta minoranza di scribacchini colti osservanti delle prescrizioni religiose prima che
del reale" (p. 18), oppure l'ipotesi Zarco, che sostiene invece che le imprese del grande
navigatore andrebbero ascritte a un fuoruscito portoghese, Salvador Gonçalves Zarco, il
quale, trovato riparo in Italia, vi avrebbe cambiato il nome in Colombo, e sarebbe poi
ritornato sotto falsa identità nella sua terra natale 4. Quella di cui dicevamo è una congettura
illustrata da Italo Orbegiani nel libro dall'eloquente titolo: Se Dio vuole ... (e Chiesa
acconsente...) - SAN CRISTOFORO COLOMBO Figlio del Papa genovese Innocenzo VIII e
uomo mandato dalla Chiesa (Roma, luglio 2000)5. Alla luce dei criteri che abbiamo dianzi
specificato, per distinguere interrogativi rilevanti da altri meno, non si può negare che siffatta
supposizione, oltre che certamente suggestiva, sembra ben capace di spiegare per esempio i
legami e le protezioni di cui indubitabilmente godette Colombo, in particolare il ruolo del
Papa, che era di origine ebraica, nella vicenda della scoperta dell'America6.
In effetti, è lecito prevedere che un'ultima parola in proposito non verrebbe universalmente
accettata neppure a seguito dell'eventuale scoperta di documenti coevi che dessero qualche
informazione atta a risolvere l'annoso enigma, dal momento che a fronte di ciascuno di essi si
potrebbe avanzare il sospetto che possa essere stato frutto di manipolazioni più o meno
volontarie, fraintendimenti, etc.. Accenniamo solo ancora una volta al più impressionante di
questi casi, che si trova nell'interessantissimo libro che il meglio noto per altre imprese Simon
Wiesenthal dedicò (da "storico dilettante") al tema della scoperta del Nuovo Mondo 7. Si tratta
di un appunto "steso presumibilmente dal conte Giovanni dei Borromei nel 1494", che si dice
reperito, nascosto nella rilegatura di un libro, in una casa dell'illustre famiglia 8 nel 1930, e che
oggi "si troverebbe nella biblioteca dell'Università di Barcellona". Orbene, Wiesenthal ne
riferisce il contenuto come segue:
Io, Giovanni dei Borromei, mi sono impegnato a non rivelare mai la verità confidatami dal
signor Piero de Angliera. Ma, poiché ne rimanga il ricordo, confesso alla storia che
Cristobal Colon è nato a Maiorca e non in Liguria. E il nominato Piero de Angliera aggiunse
che il consiglio di serbare tale segreto per motivi politici e religiosi 9, onde ottenere l'aiuto di
navi dal re spagnolo, avrebbe indotto Juan Colon a questo inganno. E inoltre voglio ancora
dire che Colom e Colon sono identici perché fu scoperto a Genova un Cristobal Colombo
Canajola, figlio di Domingo e di Susanna Fontanarossa, che non va confuso con il
navigatore delle Indie.
Bergamo, nell'anno del Signore 1494.
Vero o falso che sia il precedente documento (oppure, vere o false che siano le asserzioni in
esso riportate), vi si rinviene comunque una parola chiave per comprendere la vera ragione di
tante incertezze, e cioè: SEGRETO, dovuto, si precisa, a "motivi politici e religiosi". Tenuto
conto della rilevanza del personaggio, e della naturale curiosità suscitata intorno a lui, appare
altrimenti assai strano che, sin dagli inizi di questa storia, sia stato così difficile dare risposta a
interrogativi innocui per la stragrande maggioranza degli esseri umani. Non bisogna
dimenticare infatti che lo stesso navigatore, e i suoi stretti parenti, sono, manifestamente, i
primi responsabili della circostanza che la situazione stia nei confusi termini sopra descritti,
sicché, se le soluzioni sono talora invero eccessivamente "fantasiose", i dubbi sono viceversa
più che giustificati (massimamente quelli relativi all'opinione comune, che Colombo
intendeva soltanto aprire una nuova rotta verso l'Asia, né si rese mai conto di essere approdato
su un continente fino allora sconosciuto agli Europei; di tale questione ci siamo occupati nel
libro citato nella Nota 1). Né il figlio Fernando, né l'Almirante in persona, vollero in effetti
mai illuminare le circostanze oscure della nascita in oggetto. E' chiaro che, in conformità alla
tesi purista, la semplice spiegazione di tutto consiste nel fatto che, vivendo i protagonisti nella
"tronfia e boriosa Spagna del Cinquecento", cercavano di "nascondere la vera patria di
Cristoforo, Genova, e l'umile famiglia plebea nel cui seno era nato" 10, ma si direbbe
maggiormente sensato ritenere che ci debba essere stato molto di più a giustificare tante
cautele (Fernando afferma esplicitamente: "gli piacque che i suoi genitori fossero men
conosciuti [...] la sua patria e origine volle che fosse men certa e conosciuta"; loc. cit. nella
Nota 10, p. 22).
Potremmo aggiungere un altro particolare, a dimostrazione di quanto le celebrate "carte
d'archivio", tanto care agli "storici professionisti" - seppure coeve, e della stessa mano (forse)
dei protagonisti, o dei "testimoni oculari" - possano talvolta aumentare la confusione piuttosto
che il caso contrario - circostanza questa che dovrebbe dirla lunga a coloro i quali sostengono
che esiste un solo modo per avvicinarsi alle verità della storia, e sdegnano il ruolo del metodo
indiziario (ampiamente descritto nel Cap. I del libro citato nella Nota 1), ossia dell'abduzione
puramente logica post eventum. Invero, malgrado quasi universalmente venga attribuito a
Colombo un solo figlio legittimo portoghese (il noto Diego, che pur ritrovandosi nella
condizione di primo erede legale, assai poco seppe dare onore al nome del padre, rispetto a
quanto operò invece nei fatti l'altro figlio naturale dello scopritore, Fernando), nato poco
prima della morte della madre, e poi portato con il padre ancora piccolo in Spagna nel
momento della "fuga" dal Portogallo (vedi Parte II), troviamo viceversa affermato, in una
lettera dell'Ammiraglio indirizzata ai membri del Consiglio di Castiglia (scritta molti anni
dopo, quando la sua fortuna era ormai in declino), che egli aveva lasciato "moglie e figli" (si
notino il plurale, e il fatto che lo scrivente si riferisca alla moglie come - almeno in quel
momento - ancora vivente) in Portogallo per venire "a servire questi Principi da tanto
lontano"11, e siffatti esempi si potrebbero moltiplicare a piacere.
Riprendiamo il filo del nostro discorso principale, dicendo che è difficile evitare la
tentazione di chiedersi quali potessero essere le ragioni di tante precauzioni-mistificazioni, di
così inusuale riservatezza, sicché cercheremo anche noi di presentare ai lettori di Episteme
una soluzione "ragionevole" dell'intricato dilemma, nella convinzione che i misteri
colombiani nascondano appunto qualcosa di rilevante in ordine agli interrogativi maggiori che
ci si può porre (che ci si deve porre) sul reale svolgimento, sui più autentici retroscena, di
avvenimenti enormemente importanti. Ci cimenteremo nell'impresa con la persuasione che
assai di rado il "puro caso" è unico responsabile di accadimenti notevoli; che nessuno riesce a
esserne protagonista per esclusivi meriti personali (ovvero, da solo, senza appoggi); e infine
che, nonostante l'accuratezza che viene posta nel cancellare certe tracce, talora nel confondere
le acque con un eccesso di informazione:
les hommes n'ont pas détruit tout ce qu'ils croyaient détruire ni caché tout ce qu'ils voulaient
dissimuler; ce désordre permet a l'historien d'entrevoir parfois la vérité et l'amène souvent à
se heurter aux problèmes tels qu'ils étaient quand le passé était encore un présent et n'avait
point été mis en momie par les archivistes et les éditeurs12.
Bene, avendo lo scrivente esaminato con attenzione tutte le ipotesi alternative che sono
capitate, per caso o per studio, davanti alla sua attenzione, gli è parso che non sia stata data la
giusta interpretazione a una notizia contenuta nella Historia general y natural de las Indias,
Islas, y Tierra Firme del Mar Océano, di Gonzalo Fernández de Oviedo y Valdés13:
Cristóbal Colom [...] fué natural de la provincia de Liguria, que es en Italia, en la qual cae la
cibdad e señoría de Génova [...] por más cierto se tiene que fué natural de un lugar dicho
Cugureo, cerca de la misma cibdad de Génova [...] El origen de sus predescesores es de la
cibdad de Placençia, en la Lombardía, la cual está en la riberia del río Po, del antiguo e
noble linaje de Pelestrel14.
La notizia della discendenza di Colombo dalla famiglia Pallastrelli di Piacenza (o
Pellestrelli, che diventa Perestrello nel suo ramo portoghese di cui presto diremo) viene
ripresa anche in un poema in lingua latina che Lorenzo Gambara 15 dedicò a Cristoforo
Colombo nel 1581. Si tratta di De navigatione Christophori Columbi libri quattuor, del quale
il già nominato Osvaldo Baldacci dice bene: "Il poema merita di essere considerato con una
certa serietà"16. Del resto, non solo il Gambara afferma 17 di seguire quel Pietro Martire
d'Anghiera, che fu "amico personale dello scopritore"18, ma si ha buona ragione di ritenere che
sia stato direttamente "sollecitato a comporre il poema dal cardinale Antonio Peronotto
[sic]"19. L'osservazione è particolarmente interessante nel nostro contesto, giacché si sa che il
padre del Cardinale "aveva appreso molte vicende direttamente da Colombo, durante un
soggiorno a Barcellona"19.
Ma vediamo le esatte parole del Gambara:
[...] Columbus (qui originem duxit a Pellestrellis Placentinis, quae familia inter alias nobilis
est: natus Cugureo, quod castrum est in territorio Genuensi) tam insigne factum effecit.
[Traduciamo, anche se si tratta di un latino molto comprensibile: " [...] Colombo (che ha preso
origine dai Pellestrelli di Piacenza, che è famiglia assai nobile: nacque a Cugureo, che è
castello in territorio genovese) ha condotto a termine un'impresa tanto illustre."]
Appare significativo notare - quasi un campanello d'allarme, a farci presumere di essere
sulla strada giusta - che l'indicazione relativa al collegamento tra Colombo e la nobile
famiglia piacentina, si trova nella lettera di dedica al Cardinale Antonio Perenotto premessa
alle edizioni del poema del 1581 e del 158320, ma che essa è stata soppressa - chissà per
quale motivo! - nell'edizione del 1585, che pure viene detta copiosior (in questa è del resto
ancora presente la lettera di dedica).
Veniamo così a sapere di una possibile connessione familiare tra Colombo e i Pallastrelli a
partire da due testimonianze abbastanza affidabili (una delle quali proveniente dall'Italia, a
rimarcare il ruolo non marginale che il nostro paese riveste nella vicenda della scoperta
dell'America, assieme ovviamente a Spagna e Portogallo), anche se bisogna riconoscere che è
lecito ritenere che il Gambara abbia ripreso semplicemente il testo di Oviedo (cfr. loc. cit.
nella Nota 15, p. 20), e che quindi le due testimonianze siano in realtà una sola.
Comunque sia, ciò che maggiormente ci deve interessare è chiedere perché il particolare
venga ignorato dall'opinione ortodossa con cui si identifica la gran parte degli studiosi, che
pure conoscono bene il resoconto dello spagnolo, se non quello del Gambara 21. L'incredibile
risposta, giusta l'interpretazione corrente, è che il brano che abbiamo citato farebbe
riferimento alla parentela con i Perestrello acquisita da Colombo successivamente al proprio
matrimonio22 (avvenuto in Portogallo in epoca imprecisata, comunque più probabilmente tra
la fine del 1479 e il 1480 - si rammenti che Colombo arrivò in quel paese nel 1476) con
Felipa Moniz Perestrello, figlia di Bartolomeo Perestrello - stretto collaboratore di Enrico il
Navigatore, governatore di Porto Santo, al tempo già deceduto da diversi anni - e di Isabela
Moniz, imparentata con la famiglia reale portoghese, e (anch'essa) di probabile origine
ebraica, come attesta Simon Wiesenthal23. Sembra invece ovvio che le parole di Oviedo
volessero menzionare un rapporto diretto tra Colombo e i Pallastrelli, e non a uno indiretto
post-matrimoniale, e del resto, a lume di logica, sarebbe proprio il primo legame capace di
spiegare le circostanze del secondo, e non viceversa!
Due parole su quanto riguarda il luogo che viene indicato da Oviedo, e da Gambara, quale
quello natale di Colombo, ancorché si tratti di questione come abbiamo detto per noi
marginale. Sottolineiamo soltanto che Cugureo nell'opinione di alcuni è l'attuale Cuccaro
(Cùccaro) Monferrato, in provincia di Alessandria, un piccolo centro agricolo alla destra del
torrente Grana, a una ventina di chilometri a Nord Ovest dal capoluogo (un'insistente
tradizione locale vuole in effetti Colombo nato nel castello di cui restano oggi delle strutture
murarie assai rimaneggiate nel corso dei secoli, e attualmente in condizioni di avanzato
deperimento). Invece a parere di altri, e sembrerebbero la maggioranza, la misteriosa località
va identificata con Cogoleto, sulla riviera ligure, pochi chilometri a Ovest di Genova, e prima
di Savona24.
Non è semplice chiarire le ragioni di tali ulteriori incertezze. Si tratta probabilmente anche
del fatto che in taluni resoconti, strutturalmente parecchio simili, si trova invero
esplicitamente nominato Cuccaro anziché il misterioso "Cugureo"25. Per esempio, nelle
Décadas y Historia general de los hechos de los Castellanos en la islas y Tierra firme del
Mar Océano, di Antonio Herrera de Tordesillas 26, rinveniamo l'affermazione: "nativo del
castello di Cucaro, nello stato del Monferrato, in Lombardia27".
Comunque sia, ribadiamo ancora una volta che il legame importante che viene messo in
evidenza dalle testimonianze selezionate è quello con la famiglia Pallastrelli (legame che non
risulta citato nelle altre principali fonti coeve relative alla vita di Colombo, quali le Historie
attribuite al secondo figlio di Cristoforo, Fernando; gli scritti di Pietro Martire d'Anghiera; le
memorie di Bartolomeo de Las Casas, etc.), e non, tramite il luogo di nascita, con una più o
meno nobile famiglia Colombo, sia pure eventualmente presente a Cuccaro sin dall'epoca che
ci interessa. Esiste senza dubbio una nobile famiglia Colombo di Cuccaro, ma la connessione
di essa con il navigatore risale a quegli anni successivi alla scoperta, in cui numerosi diversi
Colombo28, che pur sapendo di non avere nulla a che fare realmente con l'illustre scopritore
del Nuovo Mondo, o nell'incertezza di tale circostanza, pretesero vero il contrario, data la
grande risonanza dell'impresa e del nome del suo autore (per non dire di possibili mire
ereditarie).
Parte II
Tenteremo adesso di sintetizzare a beneficio dei lettori il perché la "soluzione" che abbiamo
dianzi proposto sia capace di contribuire alla formazione di un quadro interpretativo coerente
e verosimile, nel quale a numerosi interrogativi si può dare naturale semplice risposta. Essa
ha infatti il merito logico di:
1 - spiegare come mai a un certo punto ritroviamo improvvisamente sia Cristoforo che il
fratello Bartolomeo proprio in Portogallo, il centro delle grandi esplorazioni geografiche del
XV secolo (semplicemente per cercare aiuto presso dei parenti);
2 - fornire una possibile spiegazione per il matrimonio di Cristoforo con la nobile Donna
Felipa, che resterebbe altrimenti inspiegabile (cioè, se Colombo fosse stato davvero un
"plebeo"), dati i tempi e i luoghi;
3 - indicare uno dei motivi (oltre all'ovvio cruccio personale per la condizione di illegittimo
non riconosciuto), vale a dire l'impedimento nel salire di grado nell'Ordine templare, che fu
probabilmente una delle cause non minori del suo abbandono del Portogallo29;
4 - raccordarsi perfettamente con la tesi purista, come presto vedremo;
5 - permettere di comprendere le ragioni per una "confusione" che serviva il duplice scopo di
celare tanto la circostanza dell'illegittimità della nascita, quanto (e forse soprattutto)
l'ascendenza ebraica30, caratteristica poco apprezzabile sia nella penisola iberica che in Italia
in tempi di grande zelo cristiano, in cui veniva ritenuta elemento essenziale per l'ascesa a
talune posizioni di rilievo la cosiddetta limpieza de sangre31;
6 - dare in ultima analisi conto dell'elemento chiave più significativo dell'intera vicenda, per
certi versi ancora incompresa, ovvero la presenza in essa, in ruoli di assoluto rilievo, di ebrei e
templari.
Per quanto riguarda in particolare il punto 4, appare infatti facile, alla luce di ciò che
abbiamo finora illustrato, attribuire l'eventuale giusto valore ai famosi documenti genovesi
che sono il supporto della tesi purista. Colombo risulterebbe dal complesso delle dette carte
figlio di una certa Susanna Fontanarossa (alcuni studiosi sostengono che si trattasse di
un'ebrea, il cui padre si chiamava Giacobbe), e di un "genovese", tal Domenico Colombo.
Viene ammesso che i Colombo in generale (con riferimento però più agli avi di Domenico
che non a quelli di Susanna, della cui famiglia e provenienza non sembra sapersi molto)
possano essere originari del Piacentino32, e proprio Piacenza è la città d'elezione di quei
Pallastrelli che ci interessano in modo speciale.
Prima di procedere oltre, sarà opportuno dare qualche notizia sulla storia di questa famiglia,
nel periodo per noi rilevante, che ci permetterà di identificare univocamente il possibile vero
padre di Colombo. Essa comincia con due fratelli, Borgognone e Gherardo (fine XIII secolo),
e con Gabriele, del ramo di Gherardo (Gherardo fu padre di Matteo, che da Bernina Scotti
ebbe un nuovo Gherardo, padre di Gabriele), sposato a Bertolina Bracciforti, che si trasferisce
in Portogallo intorno al 1385, insieme al figlio Filippo e alla di lui moglie Caterina Visconti.
In Portogallo il cognome della famiglia si tramuta in Perestrello, e da Filippo e Caterina nasce
il padre della futura moglie di Colombo, quel Bartolomeo Perestrello che abbiamo già
nominato, che diverrà un noto navigatore, tra i più stretti collaboratori del principe Enrico.
Giovanni Pallastrelli, del ramo di Borgognone, rimane invece in Italia (per ciò che concerne la
possibile individuazione di termini temporali certi, il padre di Giovanni, Stefano, era vivente
nel 1405). Giovanni sposa Ermellina Rivalta, e ne ha un figlio, chiamato anch'egli
Bartolomeo. Questi nel 1444 ebbe dal Duca di Milano, Filippo Maria Visconti, una patente di
capitano (il documento è tuttora esistente, ed è stato reso noto allo scrivente da Pier Lorenzo
Ranieri Tenti - cfr. i "Ringraziamenti" alla fine del presente articolo). Un ulteriore atto del
1471 ricorda poi Giovanni quale proprietario del castello di Sariano insieme a Bartolomeo.
Dal matrimonio di questi con Marta Bracciforti nasceranno due figli legittimi, Gian Stefano e
Gian Marco.
Ritorniamo adesso alla tesi purista, che vuole Colombo nato intorno al 1451, dalla detta
Susanna e da Domenico: non è lecito ipotizzare che Domenico non fosse affatto il vero padre
di Cristoforo, e che il futuro scopritore dell'America fosse un figlio naturale proprio di
Bartolomeo Pallastrelli e di Susanna Fontanarossa? (probabilmente neppure il solo figlio
della coppia: forse fu tale anche Bartolomeo Colombo - si noti la ricorrenza del nome - quel
fedele fratello dell'Ammiraglio che abbiamo trovato assieme a lui sin dai tempi del
Portogallo; Bartolomeo fu sempre molto vicino a Cristoforo, e ricoprì un ruolo importante
anche nella vicenda della scoperta dell'America). Il povero Domenico Colombo (con il quale
Cristoforo non ebbe mai particolari rapporti di affetto, pur essendo questi sopravvissuto fin
quasi alla fine del secolo), che viene nominato nei documenti genovesi come marito di
Susanna, poteva essere semplicemente qualcuno chiamato successivamente a sistemare dietro buona ricompensa - una situazione familiare alquanto incresciosa, sposando la donna
con i suoi figli mezzo nobili, che ne avrebbero assunto a tutti gli effetti (anche "simbolici" 33) il
cognome. Invero, i famosi atti notarili che si riferiscono insieme a Domenico e a Susanna o a
Cristoforo appaiono redatti parecchio dopo l'eventuale matrimonio della coppia, che avrebbe
dovuto aver luogo intorno al 1450, se il futuro scopritore delle Americhe fosse stato
veramente un loro figlio legittimo. Il primo documento in cui compare Cristoforo è del 31
ottobre 1470 (in esso viene fornita un'esplicita indicazione sull'età del giovane "Cristofforus
de Columbo filius Dominici", "maior annis decem novem", e su di essa gli storici fondano
l'ipotesi di un anno di nascita da collocarsi all'incirca nel 1451), mentre nel nostro contesto è
assai significativo citare atti che vanno dal 1471 al 1477, nei quali Susanna acconsente, "per
se et suos heredes", a che il marito Domenico possa disporre di beni della sua dote. Non è un
po' troppo tardi? Non appare tutto meglio comprensibile se il matrimonio della coppia fosse
avvenuto negli anni '70, anziché '50?
Ecco così esposta succintamente, ma si spera in modo chiaro, la tesi che offriamo ai lettori
di Episteme quale possibile soluzione di tanti dilemmi. Essa si accorda bene con diversi altri
particolari minori, accenniamo per esempio soltanto al fatto che il nome Giovanni del padre di
Domenico risulta, nei documenti genovesi in parola, come quello di un figlio di Domenico
nato dopo Cristoforo (forse addirittura precedentemente al matrimonio con Susanna, e da
madre diversa), mentre il nome del nonno materno (nella forma Giacomo), viene attribuito
non a colui che risulterebbe il terzo figlio della coppia, il ben noto Bartolomeo, bensì al
quarto, nato intorno al 1470.
Riteniamo infine di far cosa utile riportando il riassunto dell'intera storia della scoperta
dell'America secondo questo punto di vista (sostanzialmente quello che si trova nel libro
citato nella Nota 1, però aggiornato ed ampliato), sottolineando che in realtà ciò che più conta,
tra tanti misteri anagrafici, è comprendere:
- la scientificità dell'impresa colombiana;
- l'assoluta non casualità della scoperta di un nuovo continente;
- le connessioni con il Centro di Cultura Nautica di Sagres, e con gli scienziati lì radunati dal
1416 dall'Infante di Portogallo, Don Enrico detto il Navigatore [Porto 1394 - Sagres 1460;
figlio terzogenito del re Giovanni I e di Filippa di Lancaster, fratello del futuro re Edoardo
(Duarte) I, Governatore dal 1420 - per il ruolo che riteniamo più significativo - dell'Ordine dei
Cavalieri di Cristo, i successori portoghesi dei Templari], con lo scopo scientifico di:
trovare un mezzo che permettesse alle navi veleggianti lontano dalla costa di mantenere la
direzione scelta: senza un perfezionamento deciso degli strumenti, senza un metodo per
determinare la posizione del sole nelle diverse stagioni e la distanza di una nave
dall'equatore, viaggiare per mari sconosciuti era infatti quasi impossibile34,
e con quello ideale-politico di conquistare un nuovo spazio che potesse costituire un
autentico, in tutti i sensi, "Nuovo Mondo", per le speranze di rinnovamento dell'umanità:
havia, por parte dos portugueses, un projecto ordenado a um futuro ecumenizante e
fraternizante [...] era o projecto político da sinarquia templária, herdada pela Ordem de
Cristo [...] a forma como o espiritual de todas as terras descobertas, povoadas ou dominadas
pelos portugueses, foi concedida à Ordem de Cristo, verdadeiramente a autora da expansão
[...] a empresa não foi unicamente geográfica, de expansão lusíada ou mesmo de propagacão
da fé, embora também o fosse, foi ainda de edificação do Templo, Cidade de Deus e Templo
Universal, para o que era ou parecia essencial o estabelecimento de uma cadeia ou corda
ecuménica de solidaridade mundial [...] 35
Gravura do rosto do "Repertorio dos Tempos", impresso por Valentim Fernandes,
representado El-Rei Don João II e um cosmólogo que se presume ser o judeu Abraão Zacuto
1 - Cristoforo Colombo nasce intorno al 1450, probabilmente figlio illegittimo del nobile
Bartolomeo Pallastrelli di Piacenza, e di una "plebea" di sangue ebraico, Susanna
Fontanarossa, figlia di Giacomo (Giacobbe). Le stesse condizioni di nascita sussistono
verosimilmente almeno per il di lui fratello Bartolomeo. Verso il 1470 Susanna sposa
Domenico Colombo, d'onde l'origine di tutta una serie di equivoci, ancorché ben
"documentati", sulla vera identità del padre del futuro scopritore dell'America.
2 - A circa 26 anni Colombo si reca in Portogallo, dove un ramo della famiglia Pallastrelli
(cognome poi modificato in Perestrello) si è stabilita circa un secolo prima. Assieme a lui
troviamo il fedele fratello Bartolomeo.
3 - Verso la fine del 1479 Colombo sposa Donna Felipa Moniz Perestrello, figlia di
Bartolomeo Perestrello, ormai deceduto (1457), che era stato aiutante del principe del
Portogallo Enrico, detto il Navigatore. Donna Felipa risulta imparentata per parte di madre,
Donna Isabel Moniz, probabilmente anch'essa di origine ebraica, con la famiglia reale
portoghese.
4 - Colombo entra così nel giro degli esploratori templari portoghesi, e la sua doppia origine figlio di un Pallastrelli e di un'ebrea - non gli è certo di ostacolo, visti i buoni rapporti che i
Templari da diverso tempo intrecciano con gli Ebrei, anche se è probabile che la sua nascita
illegittima, per la quale sentirà costantemente rimpianto, gli impedisca di entrare regolarmente
nell'Ordine, o di raggiungerne i più alti gradi. Lo aiuta pure sicuramente il fatto che durante lo
svolgimento della sua attività Bartolomeo Perestrello aveva costituito una biblioteca,
finalizzata a tutti gli argomenti inerenti la navigazione, seconda per importanza soltanto a
quella del suo Principe.
5 - Accade così che, nel regno che era stato fondato proprio dai Templari nel 1143, Colombo
venga a conoscere molti particolari del grande progetto di navigazione e di esplorazione del
globo che era stato messo in atto sin dal 1416, con la fondazione del Centro di Cultura
Nautica di Sagres, nell'estremità meridionale del Portogallo (Capo São Vicente, dove il
principe Enrico stabilì la sua residenza fino al giorno della morte), e riesca ad avere
conoscenza di tutta una serie di nozioni che gli varranno più tardi l'accusa di "furto" da parte
del re del Portogallo Giovanni II (nato a Lisbona nel 1455, quasi coetaneo quindi di Colombo,
fu detto Il Perfetto; salì al trono nel 1481, e morì nel 1495).
6 - In special modo, Colombo viene presumibilmente a sapere della congettura di Raimondo
Lullo, con ogni verosimiglianza un altro templare egli stesso, il quale riteneva che ad Ovest
delle coste portoghesi ed africane si trovasse un grande continente sconosciuto: su di esso la
marea dell'Oceano Atlantico si appoggiava per il proprio flusso e riflusso. Colombo rimane
ossessionato dall'idea di essere il primo a raggiungere questo Nuovo Mondo, che i navigatori
portoghesi stanno già cercando con prudenza con i loro viaggi "larghi" di circumnavigazione
dell'Africa.
7 - Dopo viaggi effettuati in Islanda e in Guinea tra il 1477 e il 1483, Colombo riesce forse a
valutare la distanza e la posizione del continente previsto da Lullo in base alla direzione della
corrente del Golfo, in "andata" e in "ritorno". Un altro argomento che potrebbe avere
utilizzato è il confronto tra le altezze delle maree, rispettivamente del Mare Mediterraneo e
dell'Oceano Atlantico. Ancora in tema di dati sperimentali disponibili per il progetto della
traversata oceanica, pochi sembrano riflettere sul fatto che la lunghezza di un cerchio
massimo su una sfera (così come era da tutti ritenuta la Terra!) può essere misurata non solo
su un parallelo, a partire quindi da difficili misure di longitudine (che non potevano all'epoca
essere troppo precise), bensì pure su un meridiano, a partire allora da ben più esatte misure di
latitudine (e Colombo sembra essersi spinto nella misura maggiore che al tempo si poteva su
uno stesso meridiano, quasi un quarto dell'intera circonferenza terrestre).
8 - Colombo è sempre più deluso perché non viene apprezzato conformemente ai suoi indubbi
talenti nell'ambiente portoghese, e nel 1484, probabilmente in seguito anche a una crisi
scoppiata tra l'Ordine dei Cavalieri di Cristo e il re Giovanni II (che uccise personalmente a
pugnalate l'undicesimo Governatore dell'Ordine, Don Diego), lascia in gran fretta il
Portogallo con l'unico figlioletto Diego avuto da Donna Felipa, che si ritiene in quel periodo
già deceduta, e si rifugia nella vicina Spagna.
9 - In questo paese cerca un nuovo sponsor politico per il suo progetto, mentre continua a
essere fatto oggetto di sostegno e protezione da parte di persone legate sia all'ambiente
ebraico sia a quello templare (si tratta di una fase difficile da comprendere bene, sia pure nelle
grandi linee; forse nell'animo di Colombo matura ormai l'idea di approfittare di quello che sa
per pensare soltanto a benefici personali, e per la sua famiglia?!). In particolare, riceve aiuto
economico da figure che erano in relazione con la famiglia dei Medici e con il Papa
Innocenzo VIII, anch'egli di origine ebraica.
10 - Nel 1488 gli nasce da Beatrice Enriquez de Araña, che non sposerà mai, un altro figlio,
Fernando (Cordova 1488 - Siviglia 1539). A questi andrà il merito della "scoperta" del
metodo della misura di una differenza di longitudine attraverso il cosiddetto "trasporto del
tempo" (confronto tra il tempo vero locale e il tempo misurato a partire dal momento della
partenza). Con tutta verosimiglianza si tratta di una conoscenza "ereditata" dal padre 36, il
quale l'aveva appresa a sua volta dagli scienziati portoghesi che in questa storia rimangono
sempre nell'ombra37.
11 - Nel 1492 riceve finalmente il permesso di procedere con il suo progetto - di cui ha
continuamente celato i veri obiettivi, affermando pubblicamente di voler soltanto aprire una
nuova rotta per l'Asia, cercando in ogni caso di assicurarsi il controllo delle ricchezze di
eventuali nuove terre scoperte - sotto l'egida della corona spagnola.
12 - Raggiunto il "Nuovo Mondo", questo verrà reclamato come proprio di diritto dal re
Giovanni II, perfettamente al corrente di quanto Colombo avesse "preso" dai portoghesi,
anche se forse tuttora incapace di dare il giusto credito alla parte più originale introdottavi dal
grande esploratore (e cioè la stima della distanza del continente sconosciuto ipotizzato da
Lullo, e soprattutto l'individuazione di una latitudine in cui si poteva presumere di incontrare
sicuramente della terraferma).
13 - L'impresa di Colombo viene immediatamente esaltata dal successore di Innocenzo VIII,
Alessandro VI, al secolo lo spagnolo Rodrigo Borgia, legato alla corte di Re Ferdinando, e lo
scopritore dell'America diventa così - volente o nolente, è difficile scegliere tra le due ipotesi un campione della cristianità, il Cristo-foro che porta Cristo al di là dell'oceano, che apre
all'Europa cristiana nuove terre da colonizzare e nuovi popoli da evangelizzare, circostanza
questa che non gli impedisce però di cadere in disgrazia (perché in Spagna si rendono conto
prima o poi di quelli che erano i suoi veri scopi, e della sua vera identità?!).
14 - Dal 1492 in poi si verifica in Italia una serie di morti misteriose tra i "protagonisti" della
storia che stiamo narrando: Lorenzo il Magnifico, Innocenzo VIII, Pico della Mirandola,
Angelo Poliziano, etc. (vedi il testo citato nella Nota 1, pp. 62-63). E' ovvio che la presenza
del Borgia sullo sfondo non può non far venire alla mente certi sospetti38.
15 - Già nel maggio del 1493 Alessandro VI divide il mondo in due parti, assegnando agli
Spagnoli tutta quella ad Ovest di una linea da lui tracciata lungo un meridiano (da Nord verso
Sud) su una carta geografica. I Portoghesi si danno molto da fare per spostare questo confine
di qualche centinaio di chilometri, di modo che la nuova linea di separazione venga a toccare
la terraferma brasiliana, peraltro al tempo ancora sconosciuta, almeno ufficialmente.
L'accordo così definito sarà finalmente ratificato dal Trattato di Tordesillas (giugno 1493).
16 - L'intellettualità europea, soprattutto quella di area protestante, presumibilmente
influenzata dalle associazioni segrete di natura anticattolica (che possono definirsi "early
Masonic lodges"39), e meno disponibile quindi all'interpretazione in chiave religiosa della
scoperta del Nuovo Mondo fornita dalla Chiesa di Roma, decide di celebrare il nuovo
continente con il nome di un altro personaggio più direttamente riconducibile alla famiglia dei
Medici, Amerigo Vespucci. Questi, repentinamente divenuto scienziato e navigatore da
modesto funzionario qual era, ed essendo stato comunque in contatto personale con Colombo,
raggiunge nel 1501-1502 le coste del continente sudamericano, che Colombo aveva peraltro
già avvistato nel corso del suo terzo viaggio nel 1498, con una spedizione interamente
portoghese40. Furono i resoconti di tale spedizione, tra i quali il celebre Mundus Novus del
1504, a ispirare (fungere da pretesto?!) una denominazione palesemente ingiusta, la cui prima
responsabilità viene attribuita al geografo Martin Waldseemuller (che introduce il termine
America, e le motivazioni per esso, in una sua Cosmographiae Introductio, pubblicata nel
1507 a Saint-Dié nei Vosgi, in Lorena). Si noti che comunque il grande rivale di Colombo,
Giovanni II, è ormai morto da diversi anni, e che sul trono del Portogallo siede adesso il di lui
successore Emanuele I.
17 - Colombo muore in disgrazia, ma non povero come un'insistita agiografia lascia credere, a
Valladolid nel 1506.
Don Manuel I [successore di Giovanni II al trono del Portogallo nel 1495]
e os seus simbolos: a esfera armilar e a cruz de Cristo
Note
1 Ma poi non troppo, almeno se si accettano, quali possibili spiegazioni dei tanti misteri in cui ci si
imbatte, gli elementi chiave dell'interpretazione storiografica che l'autore ha illustrato in: America;
una rotta templare. Un'ipotesi sul ruolo delle società segrete nelle origini della scienza moderna,
dalla scoperta dell'America alla Rivoluzione copernicana, Ed. Della Lisca, Milano, 1995 (che
contiene purtroppo numerosi errori), o nel successivo articolo: "Alle origini della costruzione
dell'immagine scientifica del mondo: un problema storiografico" (pubblicato in La costruzione
dell'immagine scientifica del mondo - Mutamenti nella concezione dell'uomo e del cosmo dalla
scoperta dell'America alla Meccanica quantistica, a cura di Marco Mamone Capria, Ed. Città del
Sole, Napoli, 1999), reperibile nella pagina web: http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/napoli.html .
2 Si utilizza qui un'azzeccata definizione di Pier Costanzo Brio, Identità di Cristoforo Colombo,
Torino, 1993.
3 Tra le varie località che sono state via via proposte per tali illustri natali, contendendosene l'onore,
ricordiamo per esempio (assai parzialmente), oltre alla più gettonata Genova: Savona, Oneglia,
Quinto, Albissola, Cogoleto, Cuccaro, Calvi, Nervi, Bogliasco, Piacenza, e anche Napoli - ma si è
parlato pure di un Colombo provenzale, catalano, gallego, portoghese, greco, francese, perfino inglese
e svizzero...
4 G.L. Santos Ferreira, Salvadôr Gonsalves Zarco (Cristóbal Colón) - Os Livros de Dom Tivisco
(Confirmações Históricas por António Ferreira De Serpa), Lisboa, 1930. Questa, e altre analoghe
teorie, si trovano esposte in Alfredo Pinheiro Marques, As teorias fantasiosas do Colombo
<<Português>>, Quetzal Ed., Lisboa, 1991. Aggiungiamo soltanto che, secondo i Ferreira, il mistero
della vera identità di Colombo si troverebbe nel famoso crittogramma con cui questi firmò alcune
lettere, un ulteriore enigma direttamente originato dal protagonista della nostra vicenda, e che
Salvador è ovviamente altra persona (anche solo per motivi di età) che il meglio noto João Gonçalves
Zarco, ufficiale al servizio del principe Enrico il Navigatore, scopritore di Porto Santo e di Madera agli
inizi del XV secolo (Salvador sarebbe però appartenuto alla stessa famiglia, e viene descritto
addirittura quale figlio naturale del principe). A un'assurda identità tra le due persone si riferisce
invece sommariamente (p. 211) quell'autentica enciclopedia della questione colombiana che è l'opera
di Paolo Emilio Taviani, Cristoforo Colombo - La genesi della grande scoperta (De Agostini Ed.,
Novara, 1982).
5 Si direbbe questa in effetti, almeno allo stato attuale delle informazioni, un'ipotesi alquanto fragile,
alla quale è stata dedicata attenzione nella recensione comparsa in Episteme, N. 2, 2000. Potrebbe pure
darsi che Colombo fosse figlio del futuro Papa Innocenzo VIII, come peraltro di qualsiasi altro
maschio della giusta età vissuto in quei tempi, ma chissà perché allora, tra tanti figli naturali che
Giovanni Battista Cybo ebbe, proprio di Colombo si sarebbe persa notizia nella storia.
6 La scoperta di tale ruolo si deve al giornalista romano Ruggero Marino (Cristoforo Colombo e il
papa tradito - Un giallo storico lungo cinque secoli, Newton Compton Ed., Roma, 1991; nuova
edizione "aggiornata ed ampliata" RTM Ed., Roma, 1997), il quale ha anch'egli recentemente
ipotizzato che Colombo potesse essere figlio del Papa, fornendo tra gli altri "indizi" che: "Due testi dei
primi anni del Cinquecento parlano di un Columbus nepos etc." (cfr. Hera, N. 11, 2001). Se in effetti
il termine nepos era un modo consueto all'epoca per indicare con discrezione i figli illegittimi, il suo
uso appare però nel caso in esame interpretabile in maniera del tutto diversa. Il fatto è che non sembra
si parli di Columbus, il grande navigatore, come di un "nepos", ma di due distinte persone, Columbus
e Columbus nepos. Nel libro di Osvaldo Baldacci (Roma e Cristoforo Colombo, Ed. Olschki, Firenze,
1992, pp. 78-82) si trovano ampie informazioni sulla questione, e sul testo di Marco Beneventano (un
monaco Celestino che nel 1508 curò una riedizione della Geografia di Tolomeo, aggiornata con le
nuove scoperte oltreoceano) in cui si rinviene l'espressione incriminata. Per esempio: "Columbus
primus [ovviamente quello più famoso] et nepos: orientale descripserunt mare" (si noti bene l'uso del
plurale); oppure: "praesentim apud Columbum nepotem una extat [si riferisce a una carta geografica],
in qua nobis ostendit etc."; oppure ancora: "quando Columbus nepos mihi dixerit etc.". Questo
"Columbus nepos" è certamente un discendente di Cristoforo, personalmente conosciuto dal
Beneventano, forse addirittura lo stesso figlio Fernando (appunto un illegittimo*), come ritiene A.E.
Nordenskiöld (loc. cit., p. 81), ma per la verità non il Baldacci stesso, che afferma con franchezza di
continuare a nutrire dubbi su chi quegli effettivamente fosse. * A proposito di tale termine, vale forse
la pena specificare che, per esempio secondo il Dizionario Enciclopedico Treccani, "illegittimo (o più
propriamente naturale)" è qualsiasi figlio "nato da genitori non uniti in matrimonio tra loro". Giusta
tale definizione, si potrebbe ritenere che una siffatta qualifica, riferendosi a un "dato di fatto storico",
non possa essere cancellata da nessun "atto giuridico" successivo. Come dire che una persona è un
figlio illegittimo-naturale oppure no, indipendentemente dalla circostanza se poi sia stato
"riconosciuto", o come pure si dice "legittimato", riconoscimento che avvenne con quasi assoluta
certezza nel caso di Fernando.
7 Operazione Nuovo Mondo - I motivi segreti del viaggio di Cristoforo Colombo verso le Indie (1973;
ed. it. Garzanti Ed., Milano, 1991).
8 A testimoniare degli effettivi legami del Borromeo con le persone che gravitavano intorno a
Colombo, esistono almeno due lettere di Pietro Martire d'Anghiera, uno dei personaggi da non
trascurare nello studio di questa intricata vicenda, al conte Giovanni Borromeo, in data 14 maggio
1493 e 20 ottobre 1494 (riportate in La scoperta del Nuovo Mondo negli scritti di Pietro Martire
d'Anghiera, Nuova Raccolta Colombiana, Comitato Nazionale per le Celebrazioni del V Centenario
della Scoperta dell'America, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, Vol. VI, Libreria dello Stato,
Roma, 1988).
9 Il cenno a Maiorca appare in ogni caso come un'ulteriore conferma della "pista ebraica", privilegiata
insieme al Wiesenthal dall'autore del presente scritto. Maiorca era infatti un rinomato centro di
cartografi ebrei.
10 Secondo Claudio Asciuti, curatore dell'edizione italiana delle Historie di Fernando Colombo, La
vera storia di Cristoforo Colombo - verità e leggenda nel racconto del figlio, Fratelli Melita Ed.,
Genova, 1989 (p. 22).
11 Cristoforo Colombo, Gli Scritti, a cura di Consuelo Varela, Einaudi, Torino, 1992, p. 284. La
curatrice si limita a commentare, prudentemente: "Frase che ha dato luogo a ogni tipo di
interpretazioni [...] ".
12 Bernard Faÿ, La Franc-Maçonnerie et la révolution intellectuelle du XVIIIe siècle, Ed. de Cluny,
Parigi, 1935, p. 7.
13 Secondo il Dizionario Enciclopedico Treccani, questo personaggio (nato a Madrid nel 1478, morto
a Valladolid nel 1557), uomo d'armi e scrittore, che viaggiò in Italia e nelle "Indie", fu autore di
un'opera "confusa" ma "preziosa per l'abbondanza di notizie, utili per quanto non sempre controllate".
Aggiungiamo che Oviedo conobbe molto bene Colombo, e che riferisce di fatti di cui fu comunque
testimone oculare, come tale riconosciuto dal tribunale nella causa che Colombo intentò ai reali di
Spagna per far valere i suoi diritti. La prima parte del testo in parola fu edita a Siviglia nel 1535, e
viene considerata una delle fonti dei possibili diversi compilatori o revisori delle Historie della vita e
dei fatti di Cristoforo Colombo attribuite al figlio minore di Colombo, Fernando (cfr. la Nota 10).
Comunque, va detto che nelle Historie la notizia oggetto della nostra attenzione non compare.
14 Il brano citato si può trovare nel ben documentato testo di Ilaria Luzzana Caraci, Colombo vero e
falso, Sagep Ed., Genova, 1989, pp. 96 e 99. Esso viene però presentato in modo frammentato, in due
pagine distinte, l'ultima parte addirittura in nota, quasi a diminuire la possibile rilevanza della notizia,
per noi invece tanto istruttiva. Si può aggiungere, sempre nella stessa ottica, che essa non viene
riportata nel libro di Paolo Emilio Taviani citato nella Nota 4.
15 L'autore nacque a Brescia, intorno al 1496, e morì a Roma nel 1586. Una recente riedizione del suo
poema con traduzione in italiano a fronte, a cura di Gagliardi Cristina, è comparsa nel 1993 (Bulzoni
Ed., Roma). Essa riproduce l'edizione del 1583.
16 Loc. cit. nella Nota 6, p. 67.
17 In una pagina di notizie che vengono date "ad lectorem" alla fine (p. 117) dell'Editio Copiosior
dell'opera in parola (Romae, Ex Typographia Bartholomei Bonfadini, 1585) si trova scritto: "In hac
novi orbis descriptione Petrum Martyrem Angleriam Mediolanensem sum secutus: qui hanc
navigationem, et filium Columbi et alios scripsere [...] id quod Fernandus prodidit [...] ". Tale pagina
è omessa nella riedizione di cui alla Nota 15, sicché può venire il dubbio che essa non compaia nella
versione del 1583, pur essendo presente in quelle del 1581 e del 1585 (è citata dal Baldacci, loc. cit.
nella Nota 6, p. 67).
18 Vedi per esempio la p. 6 dell'Introduzione di Ernesto Lunardi al volume citato nella Nota 8, oppure
Paolo Emilio Taviani, loc. cit. nella Nota 4, p. 208.
19 O. Baldacci, loc. cit. nella Nota 6, p. 66. Secondo le parole del Gambara stesso: " Nunc breviter
memorabo, quae genitori rettulit ipse tuo longe admiranda Columbus, post lautas epulas et mensae
dona secundae" ["Ora in breve narrerò quelle cose degne della più grande meraviglia che Colombo
stesso riferì al tuo genitore, dopo un lauto banchetto e l'offerta di una seconda serie di portate"], loc.
cit. nella Nota 15, p. 49.
20 Nella riedizione di cui alla Nota 15, alla lettera dedicatoria oggetto del nostro interesse si presta
così poca attenzione che essa non è stata neppure tradotta.
21 Notiamo esplicitamente che Gambara non viene neanche nominato nella "enciclopedia" di Taviani
(loc. cit. nella Nota 4), e che peraltro in essa non si fa neppure mai cenno alle affermazioni di Oviedo
sulle circostanze della nascita di Colombo.
22 Per esempio, l'Albo Nazionale delle Famiglie Nobili dello Stato Italiano (che abbraccia la tesi di
Cuccaro come luogo d'origine della famiglia del Grande Navigatore), parla dei Pallastrelli di Celleri,
piacentini, imparentati con Colombo per via della moglie.
23 Loc. cit. nella Nota 7, p. 130.
24 In effetti, si potrebbe sostenere che nessuno chiamava Cugureo né Cogoleto né Cuccaro, pure se, a
detta degli abitanti di quest'ultima località, si parlava di Cuguri, Cugri, Cucri, italianizzato Cuccaro.
Inoltre, non ci sarebbe contraddizione con l'ulteriore indicazione relativa al territorio di Piacenza. Su
di una pergamena coeva (1441) si legge infatti: "petrinus de cucharo decto de monteferato [o
montuferato] placentie in domo habitationis infrascripto" (vedi anche la Nota 27).
25 Si potrebbe aggiungere che Cugureo è nominato pure nelle Historie di Don Fernando, testo la cui
"tradizione" è assai travagliata (al punto che si ha a che fare con traduzioni italiane da traduzioni
spagnole di una versione originale probabilmente redatta in italiano), sicché si può addirittura pensare
che esso "nasca" soltanto con la versione di Alfonso de Ulloa, del 1571, quando l'autore era ormai
deceduto, e non poteva più eventualmente apportare correzioni. Comunque, esso viene inserito in una
lista di "luoghi piccoli presso alla città di Genova e nella sua stessa riviera", candidati ai natali di
Colombo (loc. cit. nella Nota 10, p. 22). Fernando (p. 24) afferma di essere passato di persona per
Cugureo onde "meglio certificarmi", e procurando "di avere informazioni di due fratelli Colombi, che
erano i più ricchi di quel castello, e si diceva ch'erano alquanto suoi parenti", i quali però "non seppero
darmi notizia di ciò".
26 Cuéllar 1549 - Madrid 1625. Il testo in questione fu stampato a Madrid, a partire dal 1601,
successivamente alla nomina di Herrera (1597) quale "cronista ufficiale [da parte di Filippo II re di
Spagna, dopo che l'interessato era stato segretario di Vespasiano Gonzaga], con l'incarico di compilare
una storia <<verdadera>> della conquista" (Ilaria Luzzana Caraci, loc. cit. nella Nota 14, p. 84).
Secondo il Dizionario Enciclopedico Treccani si tratta di un'opera "annalistica, poco critica e infarcita
di orazioni magniloquenti", cosa che non è difficile da credere, dato l'incarico ufficiale che ne fu
all'origine.
27 Va rammentato che il termine "Lombardia" designava genericamente tutta la pianura padana, che
iniziava da Asti. Inoltre, il Monferrato raggiungeva il mare, occupando parte dell'attuale Liguria, a
ponente di Genova.
28 Paolo Emilio Taviani (loc. cit. nella Nota 4, p. 44) spiega bene come stanno le cose in ordine al
cognome Colombo, con parole che integralmente riportiamo: "Il lettore forse si stupirà di tanta
contemporanea abbondanza di persone con il cognome o il soprannome Colombo e rischierà di
confondersi. Nella seconda parte di quest'opera diamo dettagliate notizie dei vari Colombo, soprattutto
di quelli che svolsero attività corsara e non furono parenti, né prossimi né lontani, del grande
Scopritore. Qui basti sottolineare che il cognome Colombo era nel Quattrocento tra i più diffusi in
Italia, e non solo in Italia. E' del resto ancor oggi uno dei più diffusi, accanto a quelli di Rossi, Bianchi
e Russo. Basta scorrere le cronache politiche, sportive e finanziarie per rendersene conto".
29 "Nessun illegittimo poteva essere accolto nell'Ordine del Tempio", Atti X Convegno di Ricerche
Templari, a cura della Libera Associazione Ricercatori Templari Italiani, Poggibonsi, 12-13 Settembre
1992, Franco Cesati Ed., Firenze, 1994, p. 142.
30 La questione dell'ebraicità di Colombo è stata lungamente discussa e ipotizzata, anche da autorevoli
studiosi (da altri respinta invece con sdegno: tra questi, il curatore del testo citato alla Nota 10, p. 396:
"Si è parlato di solidarietà di razza; favola; nelle vene di Colombo non vi fu neppure una stilla di
sangue ebraico"), sicché non è il caso qui di farne neppure cenno (ma vedi anche la Nota 32).
Ricordiamo soltanto, oltre alle fonti più note: Sarah Leibovici, Christophe Colomb Juif, Ed.
Maisonneuve & Larose, Paris, 1986; Jane Frances Amler, Christopher Columbus's Jewish Roots,
Jason Aronson Inc., Northvale, New Jersey, 1991. Nel primo dei due libri (da p. 105 in poi) è
contenuta l'analisi cui abbiamo fatto riferimento in sede di presentazione dell'illustrazione che apre il
presente articolo, ripresa dalla prima edizione della lettera di Colombo annunciante le sue scoperte al
ritorno dalla futura America, nel 1493. La Leibovici nota la presenza di un "mandatario" raffigurato
chiaramente come un re biblico; il simbolo della palma, "le loulav de Hochanah Rabbah" (ricorrenza
ebraica che cadeva esattamente il 12 ottobre 1492 - inutile forse dire che "Hochanah" vale il nostro
"Osanna", e rammentare la "Domenica delle Palme" della tradizione cattolica); ma "vede" soprattutto
Mosè, "portant les tables de la Loi", dissimulato tra le nuvole in alto a sinistra dell'incisione.
31 Non va mai dimenticato, quando si pensa a questa storia, che il 1492 è anche l'anno dell'espulsione
degli ebrei dalla Spagna, un evento tanto greve di conseguenze nella successiva evoluzione dei destini
dell'Europa moderna, quanto ancora oggi "misterioso" in ordine alle sue più autentiche motivazioni
prime.
32 Cfr. ad esempio P.E. Taviani, loc. cit. nella Nota 4, pp. 14 e 232. Val forse qui la pena di
aggiungere qualcosa sull'opinione del più conosciuto colombista italiano in merito alla possibile
ebraicità della madre di Colombo (e quindi di Colombo stesso: si rammenti che si sta parlando di una
caratteristica ereditaria matrilineare). Orbene, Taviani ammette che "chiamandosi Susanna e avendo il
padre di nome Jacobo, potrebbe essere di origine ebraica. Sarebbe stata, in tal caso, certamente
convertita, e con lei tutta la sua famiglia, altrimenti non avrebbero potuto essere proprietari di terreni",
specificando subito però che si tratta di un problema "di stirpe e non di fede religiosa. Quanto alla
stirpe, riteniamo che ben difficilmente potrà essere risolto. [...] non vi sarebbe proprio nulla di strano
se anche sangue ebraico sia scorso nelle vene del più grande scopritore della storia. Nulla di strano,
tuttavia nessuna prova conferma questa ipotesi" (loc. cit., p. 16). Quanto alla religione invece, Taviani
non ha dubbi: "[Colombo] è figlio di una famiglia cristiana e le sue convinzioni religiose le ha apprese
fanciullo dalla madre in Italia. Il culto di San Francesco è italiano, diffusissimo, allora, come oggi, in
Liguria, e non ha nulla a che vedere con la cabala, con il Talmud e con le dottrine ebraiche. [...] fu
cattolico e religiosissimo; che possa avere avuto una lontana origine ebraica nessuno può affermarlo o
negarlo con sicurezza" (loc. cit., p. 236).
33 L'amareggiato Cristoforo avrebbe comunque preso vantaggio dalle possibilità simboliche offerte
dal cognome del padre adottivo per considerarsi (farsi considerare) destinato a essere un vero uccello
trasvolatore degli oceani. Nel qui spesso citato testo del figlio Fernando (o almeno a lui attribuito), si
sostiene (loc. cit. nella Nota 10, p. 23): "che veramente fu colombo, in quanto portò la grazia dello
Spirito Santo a quel nuovo mondo che egli scoprì, mostrando, secondo che nel battesimo di San
Giovanni Battista lo Spirito Santo in figura di colombo mostrò, qual era il figliuolo diletto di Dio, che
ivi non si conosceva, e perché sopra le acque dell'Oceano medesimamente portò, come la colomba di
Noè, l'olivo e l'olio del battesimo per l'unione e pace che quelle genti con la chiesa dovevano avere,
poiché erano rinchiuse nell'arca delle tenebre e confusione". Assume particolare rilievo in tale contesto
anche l'anacronismo contenuto in una cronaca di Pirro Alvi (vedi il libro citato nella Nota 1, p. 103):
"E qui è dovere parlare del celebre Cardinale Nicolò di Cusa, morto nella nostra città [...] Attorno al
suo letto erano il Toscanelli, il Bussi, il Martinez, testimoni nel suo testamento. Si ragionò di Colombo
e della scoperta del nuovo mondo" (il Cusano morì a Todi nel 1464, circa trent'anni prima dell'epopea
del "vero" Colombo, e cioè Cristoforo!).
34 Simon Wiesenthal, loc. cit. nella Nota 7, p. 131.
35 António Quadros, Portugal - Razão e Mistério, Guimarães Editores, Lisboa, 1987, Vol. II, pp. 154155 e 158. L'autore, che fornisce di questa vicenda un quadro (affine al punto di vista qui prescelto)
assai più verosimile di quello "ufficiale", riferisce esplicitamente di una "dedicação iniciática da
Ordem de Cristo" (ancora p. 158).
36 Tra tutte le altre cose di cui siamo andati dicendo, appare pure incredibile che questo importante
indizio della preparazione scientifica di Colombo resti invisibile agli occhi dei "puristi". Il Dizionario
Enciclopedico Treccani, alla voce "Gemma Rainer", attribuisce - come fanno molti - al noto
matematico e cosmografo olandese (conosciuto anche come Gemma Frisius; 1508-1555) il merito
"dell'idea di determinare la differenza di longitudine mediante orologi (1530)". Curioso allora
osservare che lo stesso Dizionario, alla voce "Navigazione", riconosca invece a Fernando Colombo
(1500) la priorità della "definizione tecnica della longitudine mediante la misura dell'ora" (e che cosa
sono per definizione gli "orologi", se non strumenti di "misura dell'ora"?!).
37 Secondo Kurt Mendelssohn (La scienza e il dominio dell'Occidente, Editori Riuniti, Roma, 1981, p.
29): " I coraggiosi marinai portoghesi non temevano la morte, ma il loro valore non sarebbe servito a
molto se non fosse stato per le menti intelligenti e la misteriosa forza nascosta che dirigeva i loro
sforzi. I grandi viaggi di scoperta sono diventati un capitolo d'obbligo nei nostri testi scolastici, ma
non dicono niente, e molto poco si sa, degli uomini che li pianificarono e li diressero. In un mondo di
zelo cristiano avevano buone ragioni per rimanere nell'ombra, perché erano ebrei".
38 La principessa Emanuela Kretzulesco Quaranta, nel suo interessantissimo "E' Leon Battista Alberti
il misterioso autore della Hypnerotomachia Poliphili?", Episteme N. 1, 2000, riprende ed amplia gli
stessi sospetti, con un brano che ci sembra di far cosa utile riproponendolo integralmente: "Morirono
di <<podagra>> Pio II, Niccolò Cusano e Prospero Colonna. Nel 1464 fu eletto Paolo II amico di
Rodrigo Borgia, creato Vice-Cancelliere di Santa Romana Chiesa dallo zio Callisto III Borgia che
regnò fra Niccolò V e Pio II. A chi giovò l'ecatombe dei fautori d'una Chiesa svincolata dal potere
temporale? Come mai morirono in tempo utile al Borgia? Da dove proviene la leggenda del <<veleno
Borgia>>? Si sa che esiste un veleno che sgretola le ossa e che può sembrare podagra. Appena
insediato Paolo II, vi fu il processo all'Accademia Romana con l'accusa di ritorno al paganesimo ed
attentato all'autorità pontificia. Gli Accademici furono interrogati e torturati. E che dire poi della
sparizione dell'Accademia Fiorentina, in tempo utile per l'elezione dello stesso Borgia, con il nome di
Alessandro VI (agosto 1492)? Di podagra era morto a 43 anni Lorenzo il Magnifico nell'aprile di
quell'anno. A Roma era morta sua moglie Clarice Orsini, suo sostegno nel mondo romano; ed era
morta la bambina loro di otto anni. Morirono il Poliziano con il suo domestico e Pico della Mirandola
nel 1494: Borgia era papa da due anni. Nel 1493 era morto Ermolao Barbaro, patriarca d'Aquileia,
studioso di Aristotele; fu per una <<brutta febbre>> a 39 anni. Da poco era morto Bertoldo di
Giovanni, custode delle <<antichità>> del giardino dei Medici; conosceva il senso dell'iconologia di
Orapollo; sapeva decriptare rebus ed allegorie. Sparì l'Accademia Fiorentina".
39 Si usa qui un'indovinata espressione di Margaret C. Jacob, in The Newtonians and the English
Revolution 1689-1720 (Classics in the History and Philosophy of Science, Gordon and Breach Pubs,
New York etc., 1990; prima edizione Cornell University, 1976), p. 207.
40 Per la precisione va ricordato che si trattava invero del secondo viaggio di Vespucci oltreoceano, in
quanto fu preceduto da una spedizione spagnola, 1499-1500, al comando di Alonso de Hojeda, che
pure raggiunse le dette coste, ma sempre successivamente a Colombo. Tale esplorazione portò alla
celebre prima carta geografica delle nuove terre elaborata da Juan de la Cosa nel 1500, oggi
conservata presso il Museo Navale di Madrid (una carta non troppo dissimile da quella - di poco
posteriore - detta "di Piri Reis", che tanto clamore suscita in spettacoli o pubblicazioni aventi finalità
sensazionalistiche come pretesa "mappa impossibile").
Ringraziamenti - L'autore desidera menzionare con gratitudine Pier Lorenzo
Ranieri Tenti, discendente diretto dei Pallastrelli (al trisnonno Bernardo
Pallastrelli si deve un libro Sulla piacentinità di Cristoforo Colombo), per la
ricostruzione della storia della sua famiglia, e Pier Costanzo Brio (che però non
condivide le conclusioni principali di questo saggio, come si vedrà nel
successivo scritto che Episteme offre pure con piacere all'attenzione critica dei
lettori), per la preziosa concreta collaborazione offerta nel corso della redazione
del presente articolo (particolarmente in ordine alle Note 3, 22, 24, 27).
----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 1 di Episteme]
[email protected]
Cristoforo Colombo, la nascita
Verità storica e leggenda purista
(Pier Costanzo Brio)
1. Premessa
Tutto quello che da circa un secolo viene divulgato, minuziosamente, capillarmente ed
ossessivamente, dai puristi genovesi, circa la nascita del Viceré Almirante molto Nobile
Don Christobal Colon, altrimenti detto Cristoforo Colombo, l'inventore del viaggio alle isole
ed alla Terra Ferma, ora detta America, è provatamente FALSO. Falsa la data di nascita, e di
conseguenza falsi gli Avi, falsa la cronologia, tutto falso.
Questa gravissima affermazione non è frutto maniacale, ma nasce da prove "al di sopra di
ogni ragionevole dubbio", ovvero regolari sentenze pronunziate da Tribunali dell'epoca,
prove dirette fornite da testimoni asseverati dai medesimi Tribunali, scritti autografi coevi
sino a noi pervenuti sia del personaggio in oggetto, sia dei figli, sia degli amici.
Difficile è credere il nuovo, ma ancora più difficile è modificare le proprie conoscenze e
convinzioni, da sempre rifugio e "certo" riferimento, a favore del nuovo. Il cuore trema, la
mente vacilla. L'istinto stesso ci porta ad ignorare anche il palese, a favore del conosciuto.
Come è possibile, ci si domanda, che nelle scuole da "sempre" si insegni il falso? Tutti
"sappiamo", e la certezza della nostra "conoscenza" ci viene confermata dalla Stampa, dal dio
Cinema, dalla dea Televisione, dall'onnipresente, onnisaccente, onnivoro Internet, tutto e tutti.
Certo, tutto falso, globalmente falso. Menzogna purista, integrale, romantica, artata e non
sempre involontaria.
Ma come si può ingannare il mondo? La stessa domanda contiene parte della risposta.
Come si può mettere in dubbio il comune senso della verità? Come si può mettere in dubbio il
mondo? Proprio questa "logica" è la migliore garanzia, dei puristi.
Un principio, scientificamente provato, ci assicura che l'Uomo, tutti noi, anche i più
razionali, dinanzi al conflitto totale ed univoco Fantasia-Realtà, sceglie sempre la fantasia o
suggestione, a danno della realtà. Questo è il principio ipnotico, che può essere indotto con
droghe, od anche con la semplice parola e suggestione, se si riesce a conquistare la completa
fiducia-certezza dell'uditore, e non importa se la realtà è contraria. Notare bene che la
suggestione è direttamente proporzionale alla intelligenza ed alla creatività del soggetto,
ovvero sono proprio gli idioti pragmatici ad essere i meno suggestionabili.
Quindi, se una teoria (fantastica) è ritenuta universalmente per vera, ed ha conquistato la
nostra fiducia, anche in presenza di prova contraria, siamo portati ad ignorare o "distruggere"
in ogni modo questa realtà che, per istinto, consideriamo nemica subdola ed artata.
2. La favola purista
Sebbene la teoria purista vera e propria, che fa nascere Colombo nel 1451, sia cosa molto
recente, e culmini con il documento "Assereto" della prima metà del novecento, la sua vantata
origine risale a subito dopo la morte dell'Ammiraglio. A dire il vero detta teoria dovrebbe
risalire ai primi tentativi che alcuni "Colombo" genovesi fecero, al diffondersi della fama
dell'Ammiraglio, di ottenere appannaggi: ma nessuno di questi fu riconosciuto. Nel senso che
erano parenti sì di un Cristoforo Colombo mercante ed ex laniero che operava in Lisbona, ma
che questi non era il Viceré Ammiraglio, anzi non gli era neppure lontano parente. Quindi non
troviamo menzione nei moderni puristi di questo innegabile antefatto, e tutto inizia con
l'epistola di Antonio Gallo.
Antonio Gallo, che mai conobbe l'Almirante e tantomeno i suoi avi, disse per primo che
questi era di umili origini. Peccato che i Gallo fossero, con i Giustiniani, artefici del ritorno
dei Doge a Genova, mediante la cacciata dei Signori Paleologi, e dei Colombo, loro legati e
protetti.
Il Giustiniani pubblica le parole del Gallo, e si becca una bella denunzia dal figlio
Fernando dell'Almirante. Il Fernando, sono sue parole, ottiene sentenza favorevole dal
Tribunale di Genova per falso e calunnia e, sono sempre sue parole, l'ordinanza di ritiro di
tutte le copie del libro di Giustiniani dal commercio.
Purtroppo, ma guarda che combinazione, detta sentenza è, almeno al momento,
"desaparecida", scomparsa dagli archivi genovesi, quindi possiamo citarla solo come prova
indiretta.
Ma vi sono ben altre sentenze, come vedremo, che provano la falsità delle affermazioni del
Gallo e quindi del Giustiniani, ed autenticano ufficialmente le parole del Fernando.
Risulta opportuno, per proseguire, conoscere meglio il metodo di ricerca tipicamente, ma
non solo, purista, e chiarire come, sfruttando la suggestione delle omonimie, con documenti
anche autenticissimi, ma non attinenti il vero personaggio, con metodo indiziario, si può
dimostrare una tesi preconcetta, e farla asseverare.
Breve descrizione del metodo di ricerca "purista"
Condizione imprescindibile del metodo è che nessun testimone diretto possa giurare il
contrario, ovvero che sia passato almeno un secolo, meglio se due secoli, dai fatti in oggetto,
nel nostro caso dalla morte del personaggio. Il Gallo ed il Giustiniani furono troppo
precipitosi.
Primo, occorre scartabellare negli archivi notarili del 1400-1500 e dintorni, quindi
rintracciare qualsiasi frase riportante un Decolun, Colon, Decolumbis. Dicolumbo, Columbus,
Couloumb, ecc. ecc. Meglio se riportante pure un nome che vagamente ricordi Domenico,
Cristoforo, Diego, Bartolomeo, in tutte le varianti possibili ed immaginabili. Ad esempio al
posto di Diego, vanno benissimo Giacomino, Iacobus, ecc. ecc. Ovviamente in quasi TUTTI i
luoghi ove questo è stato fatto, sia in Italia che all'estero, un "Cristoforo Colombo" di comodo
o quasi, figlio di Domenico, e via dicendo, è saltato fuori.
Secondo, si cataloga il tutto scartando il non desiderato. Ad esempio, in dette ricerche, anche
genovesi, sono comparsi molti Colombo corsari (quindi nobili), ma anche pirati (che potevano
essere non nobili), bene, tutti questi documenti vanno rigorosamente scartati, di principio,
purista. Accade spesso che i poveri Cristofori in oggetto siano più di uno, ma tutti servano alla
nostra tesi. L'antica saggezza purista insegna: basta ignorare i problemi di ubiquità. Ed ecco
che i nostri Colombi si fondono, siccome amor comanda, in una unica persona (lo ha detto
Gesù), e non importa se poi sono anche più di due (lo ha detto Maometto).
Terzo, incuranti totalmente della attinenza o meno del personaggio 'trovato" con l'Almirante,
si costruisce la "storia" favolosa, considerando tutti gli indizi, veri o presunti che siano, a
nostro vantaggio e scartando tutti gli altri.
Infine, si inventano, pardon, compilano gli Alberi Genealogici. Dopo mezzo millennio,
nessun testimone coevo può smentirci.
Se poi, per troppa fretta, come accadde proprio alla tesi "ufficiale", l'albero in oggetto è subito
riconosciuto palesemente falso da testimoni diretti, per nostra disgrazia sopravvissuti, ci viene
ancora in aiuto l'infinita saccenza purista. Ignorare, perseverare, divulgare le nostre
"prove".
Una menzogna lungamente ripetuta, infine è ritenuta per vera; anzi, diviene pura verità.
Magari fosse una burla! Al contrario, il metodo purista funziona talmente bene, ed è
talmente radicato, che gli stessi critici ed oppositori della tesi genovese, cadono
inevitabilmente invischiati nella sua tela a maglie strettissime, e dopo un inizio di critica
brillante, si perdono, quasi tutti, nel far collimare le loro ricerche e teorie con personaggi
puristi che nulla hanno a che fare nè con il Viceré (è bene ricordarlo) Almirante e Consigliere
della Corona Don Cristoforo Colombo, nè con l'Adelantado delle Indie occidentali Don
Bartolomeo, suo fratello, e neppure con gli unici "alquanto parenti" riconosciuti
dall'Ammiraglio: il Capitano Don Antonio e suo fratello Don Andrea Colon. Ovvero si finisce
per convalidare la tesi ed il metodo purista, dando per scontati i nomi, del tutto inattinenti, di
personaggi quali "Susanna Fontanarossa", "Giovanni Pellegrino", "Bianchetta", "Giannetto",
"Matteo", "Amighetto", ecc. ecc.
La trappola mentale è raffinatissima, infatti, come detto, quasi tutti i documenti considerati
sono autentici, ben traslati, riportano indizi e nomi di forte, se non fortissima suggestione,
inoltre le "radici" della tesi, sebbene via via "ritoccata", appaiono tradizionali e consolidate:
per qual motivo avere "insani" dubbi sulla "storia" quasi universalmente accettata?
Per la verità, moltissimi studiosi, anche in questo secolo di incrollabili e "pure certezze"
ebbero numerosi "insani" dubbi. Le evidenti grottesche assurdità della tesi "ufficiale"
genovese, ingenerano innumerevoli "Teorie", per lo più altrettanto di parte, ma purtroppo
quasi tutte utilizzanti lo stesso metodo di ricerca purista visto, "probante" ed indiziario, ma
del tutto inattinente. Ovvia la vittoria dei puristi genovesi: vince sempre, nel dubbio, la
visione comune, tradizionale e consolidata.
Si potrebbe notare, come in effetti fecero molti storici nel passato, che le "famiglie Colombo"
aventi un figlio Cristoforo ed un padre Domenico sono palesemente più di una, con diversa
madre, con diversi mestieri, con diversa ricchezza, con diversa origine, con diversa residenza.
La teoria purista risolve il tutto ignorando le assurdità, e suppone che i Colombo siano una
unica famiglia "itinerante" che cambia residenza e passa da povertà galeotte sino a notevole
agiatezza, per non dire ricchezza. Poi vi sono numerosissimi "non senso" che portano al
grottesco (che abbiamo illustrato nel nostro articolo "Le balle di Colombo", vedi Episteme N.
2), ma non è questo a cui miriamo. Purtroppo la "prova per assurdo", valida in Analisi
(Matematica), non è umanisticamente ritenuta degna in campo storico. Questa via è
suggestiva, quindi il nuovo è, ripeto, perdente, a priori, rispetto al conosciuto consolidato.
Ma proprio la stessa forza suggestiva che regge la comune teoria purista, basata sulla
tradizione consolidata, ne è il tallone d'Achille, se si trova un appiglio "certo", ovvero non
suggestivo, non opinabile, numerico e quindi passibile di "verifica".
Il nostro scopo non è quello di contestare i documenti puristi, non possiamo contestare il
mondo, senza esibire impossibili testimonianze dirette viventi. Ma possiamo provare "al di
sopra di ogni ragionevole dubbio", ovvero legalmente, quindi basandoci su testimonianze e
sentenze coeve, la completa non attinenza, di parametri numerici certi quali le Date.
Una constatazione lapalissiana dell'amico Umberto Bartocci: "È ovvio che, una volta
stabilito che C. è nato diversi anni prima di quel che si pensi, la tesi purista crolla tutta ",
semplice e chiarissima, è illuminante. Quindi concentriamoci sulla data di nascita.
La data di nascita purista
Gli stessi puristi, mentre sulla genovesità dell'Ammiraglio sono (quasi) sempre stati unanimi,
circa la data di nascita, prima del "documento Assereto", furono di opinioni quanto mai
"mobili qual piuma al vento". Via via la data di nascita di C. passa dal 1435 al 1437 al 1440, e
proprio "intorno al 1440" viene detta nei prontuari storici e nelle enciclopedie di tutto il
settecento, ed oltre.
Poi, la semplice rilettura degli scritti, porta alla data del 1442, infatti, l'Almirante, di pugno,
scrive che ha iniziato a navigare a 14 anni, e naviga ininterrottamente per 23 anni. Ora, la data
estrema (limite) per il termine della navigazione è il 1479, quando C. è stabilito in Lisbona.
Quindi 1479-23-14 = 1442. Data molto stiracchiata, anzi del tutto improbabile, dal momento
che gli stessi scritti ci assicurano che Diego nasce nel 1479 (lo stesso Almirante, di pugno, lo
dice maggiorenne nel 1498), ed in tal data C. era sposato da tempo, ovvero detta data va
anticipata. Inoltre balza agli occhi che, se il futuro Ammiraglio navigava, non poteva certo
scardassare lana e dimorare a Genova, Savona, ed altri luoghi puristi. Comunque non
vogliamo fare qui polemiche, ed, al momento, accettiamo tutte le ipotesi puriste.
Altra rilettura, più consona ai puristi ottocenteschi è la seguente: nel 1501 l'Almirante scrive
di avere una esperienza ultra quarantennale di navigazione, quindi 1501-40-14=1447, ma,
visto che dice "ultra", facciamo 1446, e non se ne parli più. Questa fu la data purista più
accreditata sino ai primi del 1900, ma non la sola e non la più autorevole.
Cesare Cantù, storico vero, in una delle sue monumentali opere, "Storia Universale",
enciclopedia storica in 36 volumi del 1839, più volte ristampata, fissa come data di nascita più
probabile dell'Almirante il 1436, e non senza logica.
La determinazione di questa data è semplicissima: il medico che ha stilato il referto di morte
dell'Ammiraglio, scrive che lo stesso aveva circa 70 anni, confortato dalla testimonianza dei
presenti (tra i quali i due servitori personali di Colombo, lo scrivano del Consiglio della
Corona, che lo accompagnava sempre, il notaio di fiducia). Ora 1506-70 = 1436.
Questa data risponde appieno agli scritti ed alle testimonianze coeve. Infatti, C. inizia a
navigare nel 1450-51, diviene Capitano nel 1464-65 ed inizia a "servire" (come corsaro a 28
anni), naviga per 23 anni sino al 1473-74, e si spiega la sua corrispondenza del 1474-75 con il
Toscanelli, da Lisbona; ha tutto il tempo di sposarsi con la cugina del Re, Cavaliera Felipa
Mugniz-Perestrello, ed avere il primogenito Diego, nel 1479, quindi abitare per alquanto
tempo sia a Lisbona che a Porto Santo, nelle case avute dalla moglie, ed a Madera, nella casa
del Governatore dell'isola, suo cognato, e recarsi più volte alla non lontanissima Mina, intorno
al 1480. Facile far quadrare tutti gli altri tasselli della vita dell'Almirante, comprese le azioni
corsare (ignorate dai puristi). Ma questa data aveva il torto di non quadrare con le famose
carte notarili genovesi.
Finalmente ecco il documento principe, il documento che prova inequivocabilmente la
nascita del Cristoforo Colombo genovese nel 1451. Parliamo del documento Assereto, di
innegabile valore suggestivo, circostanziato e preciso.
Finalmente disponiamo di un documento non aleatorio, matematico, e proprio per la sua
precisione è la chiave di volta di tutta la teoria purista, nel bene e nel male.
3. La verità storica
Non vi è sordo peggiore di chi non vuol sentire. Come possiamo allora dimostrare la verità a
scanso della suggestione o favola? Mediante prove inconfutabili. Ma chi decide se le prove
sono inconfutabili? Apposite aule ove si dibatte il pro ed il contro, ognuno presenta le proprie
"prove" che vengono debitamente verificate, possibilmente mediante testimomianze dirette, o
coeve.
Le prove
Queste aule ove la verità viene asseverata "al di sopra di ogni ragionevole dubbio" sono i
Tribunali. Nessuno pretende una giustizia Divina, assoluta, utopistica, ma una "umana
certezza".
La certezza umanamente possibile, che deve essere accettata, al di sopra dei sentimenti,
della suggestione, delle radicate convinzioni, personali o pubbliche, quindi esiste, consiste in
due soli tipi di "prove certe":
1) nelle decisioni dei tribunali coevi sull'Ammiraglio ed i suoi parenti,
2) negli scritti diretti e sicuramente inerenti l'Ammiraglio.
Ovviamente i processi debbono essere sicuramente inerenti l'Ammiraglio, e gli scritti
debbono essere di pugno (autografi) o copie certe di originali (apografi autenticati).
Qualsiasi altro documento, anche importantissimo, che non sia certamente autenticato dai
precedenti è da ritenersi di parte, illatorio, non probante.
Infatti oggi non possiamo più provare nulla con testimonianze dirette, e neppure con
testimonianze indirette ma coeve, nemmeno ci è consentita una testimonianza di memoria
recondita. Possiamo solo rileggere quel poco che ci è stato tramandato, annegato e disperso
nell'immenso oceano delle favole di parte posteriori e moderne.
Quindi non possiamo rifare processi di mezzo millennio fa, e volenti o nolenti dobbiamo,
nostro malgrado, accettare detti, e gli scritti, come certezze, ripeto al di sopra di ogni
ragionevole dubbio, al di sopra di qualsiasi suggestione e fede, personale o pubblica.
Per nostra fortuna, vi furono regolari processi inerenti il l'Almirante Cristoforo Colombo ed
i suoi famigliari, discendenti e collaterali.
I processi coevi
Chissà per qual motivo, i puristi non amano rammentare due "azioni" legali provate e
circostanziate, alla base di due annosi processi, al tempo famosi.
Il primo è il processo che intenta lo stesso Ammiraglio, come parte lesa, denunziando
(niente di meno) che il Re e la stessa Regina, per inadempienza contrattuale. Questo annoso
processo alla Corona viene terminato solo dal figlio Diego (allevato dal Re che lo ritiene uno
di famiglia) il quale riottiene, solo per sè e non trasferibile, il titolo di Viceré, quindi, a titolo
di risarcimento, per i posteri, lo Stato di Veragua ed il titolo ereditabile di Duca.
Tutti parlano del raffreddamento dei rapporti fra Cristoforo e la Corona. Tutti sanno che
Cristoforo "cadde in disgrazia" ed alcuni idioti addirittura ipotizzano la sua povertà (era ricco
da far schifo), ma nessuno ne cita chiaramente il motivo.
No, non cadde in disgrazia, non comparve mai in catene davanti ai reali (come lui stesso
avrebbe voluto), e le sue incalcolabili ricchezze vennero da lui convogliate nel Maggiorasco
per evitarne la frammentazione.
Semplicemente fu lui che, denunziando la corona, provocò il naturale calo dei rapporti. Da
una parte l'Almirante, spogliato del pericoloso titolo di Viceré che aveva, è bene rammentare,
facoltà esplicita di eleggere magistrati e formare eserciti. Dall'altra la Corona, che non vuole,
e non può, soddisfare tutte le pretese dell'ex corsaro, altra cosa da non dimenticare.
Ovviamente l'Almirante Maggiore e Consigliere (cariche remuneratissime, mai messe in
discussione) si atteggia a vittima depauperata, e rifiuta ostinatamente il "solo" titolo,
comunque principesco, di Duca, e conseguente possesso dello Stato di Veragua.
Tutto provatissimo, incontestabile, facente parte (non sbandierata) dello sbandieratissimo
"Codice dei Privilegi" conservato in Genova. Ma, come detto, non è questo il punto.
Interessante sarebbe avere pubblicazione integrale di questo primo processo, purtroppo
l'intenzione della Corona spagnola non fu certo quella di dare risalto alla cosa, anzi.
Per fortuna il secondo processo, volto a stabilire a chi spettasse l'enorme ricchezza del
"povero" Ammiraglio Cristoforo Colombo, confluita nel famoso maggiorasco, richiama
diverse sentenze passate in giudicato, come prove "al di sopra di ogni ragionevole dubbio",
incontestabili.
L'eredità del maggiorasco
Il secondo processo, è per l'eredità del maggiorasco. Di questo lungo processo abbiamo
varie sentenze, e varie (oggi diremmo) rogatorie internazionali asseverate.
Nella seconda metà del 1500 (1576) si estingue la linea diretta mascolina dell'Ammiraglio. Vi
erano discendenti maschi da linea femminile, ma l'Almirante aveva stabilito di preferire, se
possibile, i diretti collaterali alla linea femminile.
In sintesi il Tribunale, detto Tribunale delle Indie, doveva stabilire se era preferibile la linea
di sangue discendente direttamente da Cristoforo, sebbene femminile, o quella collaterale,
non discendenti dell'Ammiraglio ma da avi, sicuri parenti.
Vinse, come era a mio avviso logico, il consanguineo diretto maschio per via femminile, a
scapito dei parenti collaterali, di cui il più prossimo fu accertato di ottavo grado.
Il primo atto del tribunale fu di accertare quali fossero i parenti del Primo Ammiraglio del
Mare Oceano, Viceré e Consigliere della Corona Cristoforo Colombo. Ricerca fatta in modo
rigoroso ed ufficiale, quindi alquanto complessa e lunga.
Dal momento che erano passati settanta anni circa dalla morte del Primo Ammiraglio
Cristoforo, istitutore del maggiorasco, si iscrissero a prova precedenti sentenze di tribunale,
scaturite da testimonianze dirette, non più disponibili per morte dei testimoni.
Risulta quindi certo ed inequivocabile da precedenti sentenze di tribunale coevo che:
A) L'Ammiraglio cambiò il nome da Colombo a Colon
B) L'Ammiraglio era di origine italiana e non portoghese o spagnola
C) L'Ammiraglio non era di origine ebrea, tantomeno moresca, e non era di razza plebea.
I dati di cui sopra sarebbero da soli chiarificatori, ma, il punto C) ad orecchie moderne
"globali" suona male: in effetti non si parlava solo di origine, ma espressamente di razza.
Curiosa la "razza plebea", quindi, ad evitare alzate di scudi buonisti (ma erano altri tempi),
ignoriamo, ed ecco che la tesi purista rientra in gioco. Ben altre prove ci attendono.
Quindi, essendo noti i discendenti diretti, supplicanti (pretendenti) o meno, la ricerca si
riduceva alla minuziosa verifica di parenti collaterali, di origine italiana, il cui casato fosse
Colombo.
Una clausola del maggiorasco prevedeva la ricerca di eventuali parenti, provatamente dello
stesso "lignaggio" dell'Ammiraglio e, se non in grado di vivere in modo consono al rango di
un Colombo, dovevano essere aiutati con rendite di tutto rispetto ed a fondo perso.
Tralasciamo gli ovvi e numerosi pretendenti "genovesi", alcuni "residenti in Lisbona", che
vennero subito scartati, o peggio arrestati per evidente menzogna e falso. In effetti pare
provato che non fossero appoggiati ufficialmente dalla Repubblica di Genova.
I pretendenti "ufficiali" italiani, furono due, entrambi riconosciuti della schiatta Colombo:
1) Don Bernardo Colombo, con credenziali della Repubblica di Genova
2) Don Baldassarre Colombo con credenziali monferrine e piacentine.
Per chiarire ogni dubbio in merito ai pretendenti non iberici, venne istituita dal Re Filippo di
Spagna (che intanto era anche diventato Duca di Milano) una apposita commissione
internazionale, con la collaborazione diretta del Duca di Mantova e molti illustri e nobili
personaggi dell'epoca.
La requisitoria
Dopo aver vagliato tutti i documenti all'epoca ancora esistenti, ed aver raccolto centinaia di
testimonianze dirette, alcune illustri (Conte di Nemours, Conte di Percivalle, Marchesa
Margarita e Duchessa di Monferrato, i Signori della Manta Marchesi di Saluzzo, ecc.) la
Requisitoria del Supremo Consiglio Reale, accertò, senza ombra di umano dubbio i
seguenti punti, che elenchiamo in sintesi essenziale:
R1) La famiglia Colombo nasce da concessione di Ottone I nell'anno domini 960.
R2) I possedimenti dei Colombo sino al 1340 comprendevano certamente: Altavilla,
Bistagno, Calamandrana, Cuccaro, Gonzano, Lù, Ricaldone, Rocca Platea, Gonzano.
R3) A causa delle guerre di Lombardia, i Colombo perdono tutti i loro dominii, salvo
Cuccaro.
R4) I Colombo esercitavano il nobile mestiere delle armi, con onore ma alterne fortune.
Furono a fianco del Marchese Giovanni, del Marchese Teodoro Paleologo, e del Duca di
Milano.
R5) Lancia Colombo era famigliare del Marchese Teodoro di Monferrato (Paleologo), il
quale divenne nel 1405, alla morte di Lancia, tutore dei suoi figli, compreso Domenico
Colombo.
R6) Nicolino Colombo fratello di Lancia (1376), si trasferisce a Cogoleto e cambia nome in
Domenico originando il ramo tipicamente corsaro dei Colombo di Cogoleto.
R7) Nicolino Colombo ebbe come figli accertati Cristoforo, e Bartolomeo. Cristoforo,
corsaro Ammiraglio, non è lo scopritore delle Indie Occidentali, ma sarà il suo tutore.
R8) Pietrino Colombo milite, parente di Teodoro Colombo Cavaliere di Malta, si
trasferisce a Piacenza ed origina un ramo di Colombo Piacentini.
R9) Berretino Colombo, fratello di Domenico, a fianco del Marchese Teodoro, per mare e
per terra, conquista Savona. Nel 1419 viene definito espressamente famigliare del Marchese
(quindi Paleologo n.d.a).
R10) Giacomo Colombo, fratello di Domenico, dietro esplicita richiesta di pugno del
Marchese Guglielmo VII Paleologo (e Principe dell'Impero) al Papa Paolo II, ottiene
l'investitura a Vescovo titolare di Betlemme.
R11) Domenico Colombo ottiene nel 1419 il solo 18 per cento dei beni di Cuccaro. La
rendita di tale porzione non superava i 50 ducati annui.
R12) Domenico Colombo ebbe come figli accertati Cristoforo, Bartolomeo e Diego, quindi
muore nel 1456.
R13) Cristoforo Colombo di Domenico, futuro Almirante, nasce nel 1437, studia a Pavia
sino ai 14 anni (1451), quindi si imbarca sotto la tutela di un Cristoforo Colombo corsaro di
Cogoleto, suo parente.
R14) Cristoforo Colombo futuro Almirante, nel 1456, viene spogliato, insieme ai fratelli,
della sua seppur piccola parte di feudo. Il motivo addotto era che da tempo (5 anni) era partito
e non si sapeva dove fosse e se fosse ancora vivo.
R15) Giovan Antonio Colombo, capitano, figlio di Alberto, figlio di Berretino Pretore di
Alessandria, è parente di Cristoforo futuro Almirante.
R16) Bernardo Colombo di Cogoleto, pretendente appoggiato da Genova, figlio di Agostino,
di Bernardo, di Nicolino, di Bartolomeo fratello del Cristoforo corsaro di Cogoleto, è parente
di Cristoforo futuro Almirante.
R17) Baldassarre Colombo, pretendente di Cuccaro, nato a Genova da Bonifacio, di
Mariotto, di Biagio, di Enriotto fratello di Domenico padre del futuro Almirante, ne è
riconosciuto parente legittimo di ottavo grado.
Il contraddittorio
Ovviamente i pretendenti di linea diretta, iberici, cercano in ogni modo di invalidare, o
rendere inutili, mediante cavilli legali, le prove presentate dai pretendenti italiani. Ma
ottengono il risultato contrario, ed alla fine sono costretti avendo esaurito ogni ragionevole
dubbio, a sottoscrivere unanimemente le prove ottenute dalla Requisitoria internazionale.
Il non provato
N1) Il luogo di nascita dell'Almirante. Il Baldassarre non riesce a provare oltre ogni
ragionevole dubbio che l'Almirante sia nato entro le mura del castello di Cuccaro. Lo stesso
Baldassarre di Cuccaro, in realtà era nato a Genova, da nobildonna Genovese. Quindi,
sebbene l'origine da famiglia di Cuccaro fosse certa, accertata la non opulente rendita del
padre Domenico, lo stesso, con ogni probabilità "agiva" e dimorava spesso al di fuori del
castello. Si stabilì che questo particolare non era di nessuna importanza ai fini del processo,
che doveva ricercare i legami di sangue e non il luogo occasionale di nascita. Quindi non
vennero fatte ulteriori costose ricerche rogatorie in merito.
N2) La sede di studio dell'Almirante, Università o Convento di Pavia. Accertato che
Cristoforo studiò a Pavia (R13) non fu dimostrato dove, non essendo di interesse per il
tribunale.
Il provato
Elenchiamo succintamente alcune conclusioni del tribunale delle Indie, accettate e
sottoscritte da tutte le parti contendenti:
P1) Bernardo Colombo di Cogoleto, pretendente appoggiato dalla Repubblica, viene
estromesso dalla lite e viene giudicato colpevole di falso volontario e calunnia. Infatti,
aveva presentato un albero genealogico, pare autenticato dalla Repubblica, dove il suo reale
antenato Bartolomeo, fratello del Cristoforo corsaro di Cogoleto tutore dello scopritore,
veniva artatamente confuso con il Bartolomeo fratello dello scopritore.
P2) Le famiglie Colombo di Genova, non vengono riconosciute parenti dell'Almirante.
L'unico Colombo che si voleva in qualche modo genovese era il Bernardo, ma venne
dimostrata la sua discendenza dal ramo di Cogoleto dei Colombo di Cuccaro (R6) ed (R16).
P3) Baldassarre Colombo di Cuccaro, viene riconosciuto parente di ottavo grado
dell'Almirante, e di discendenza pura mascolina. Gli altri pretendenti, di grado diretto, quindi
teoricamente di parentela molto più stretta, erano tutti di linea femminile o femmine.
P4) Le famiglie Colombo di Cuccaro, Cogoleto e di Piacenza, vengono riconosciute tutte
parenti dell'Almirante.
P5) La Historia di Fernando Colombo che viene dimostrato essere figlio legittimo
dell'Almirante è autentica e dice il vero.
P6) Hanno mentito Antonio Gallo, il Giustiniani, ma anche in alcuni particolari, l'Oviedo e
Pietro Martire (R1-R15).
P7) Il padre dell'Ammiraglio è Domenico Colombo di Cuccaro, figlio di Lancia (R5),
uomo d'armi (R4), che muore nel 1456 e viene spogliato della sua parte di feudo (18%) che
non viene ereditata dai figli (R14).
P8) Domenico Colombo di Cuccaro ha tre figli: Cristoforo, Bartolomeo e Diego.
P9) Cristoforo Colombo, figlio di Domenico di Cuccaro, è lo scopritore, primo Almirante
fondatore del maggiorasco.
P10) L'Almirante Cristoforo Colombo si imbarca a 14 anni e nel 1456, quando muore il
padre è in mare, quindi viene considerato assente, e spogliato della sua parte di feudo.
P11) L'Almirante Cristoforo Colombo, figlio di Domenico di Cuccaro, nasce nel 1437.
Fermiamoci qui.
La famiglia di nascita, "la schiatta", dell'Almirante è stata riconosciuta, al di sopra di
ogni ragionevole dubbio, da Rogatoria internazionale, superando feroce contradditorio, è stata
accettata in modo unanime dai contendenti e dai Giudici.
Il Cristoforo Colombo primo Almirante del Mar Oceano, lo scopritore, o meglio (come si
diceva) l'inventore del viaggio alle Indie Occidentali, è il figlio di Domenico Colombo della
nobile ed antica famiglia di Altavilla, Bistagno, Calamandrana, Cuccaro, Gonzano, Lù,
Ricaldone, Rocca Platea, Gonzano (R2) poi detta solo di Cuccaro, con ramificazioni certe in
Piacenza ed a Cogoleto.
Cristoforo Colombo primo Almirante e fondatore del maggiorasco nasce nel 1437.
Per ostico che sia rispetto le nostre convinzioni e l'immaginario collettivo questo semplice
dato, "nasce nel 1437" dobbiamo umilmente accettarlo.
Non esistono più gli illustri personaggi coinvolti nella Rogatoria, non esistono più i testimoni
diretti o semi-diretti, non esistono più molti documenti. Non possiamo, neppure per burla,
scimmiottare un nuovo processo.
La data di nascita del 1437 non venne dedotta solo dalla data di nascita del Cristoforo dei
nobili Colombo di Cuccaro. Dalla rogatoria coeva e da prove documentali (alcuni scritti si
sono salvati e sono a noi pervenuti) attentamente vagliate, venne provata la nascita proprio
intorno il 1435-40 ed il 1437 rientra in tale intervallo.
Altri Cristoforo Colombo di Cuccaro e ramificazioni, figli di un Domenico, vennero
scartati come ipotesi, proprio per la loro data di nascita, palesemente al di fuori di detta
finestra.
Rammentiamo che lo stesso Bernardo Colombo (P1) voleva far passare per l'Almirante un
suo antenato di nome Cristoforo Colombo, con fratelli Bartolomeo e Diego, figli di
Domenico.
Quindi dobbiamo prendere atto, come lo presero i coevi anche oppositori del Baldassarre di
Cuccaro (nato a Genova), che il Cristoforo scopritore si identifica univocamente con il
Cristoforo della famiglia di Cuccaro, il quale nasce certamente nell'anno domini 1437.
Riprendiamo l'elenco del provato
P12) In età di 14 anni Cristoforo interrompe gli studi a Pavia e subito si imbarca come
mozzo (ma cadetto) sulla nave di un omonimo Cristoforo Colombo suo tutore e parente,
corsaro del ramo dei Colombo di Cogoleto.
P13) Nel 1456, alla morte del padre, il futuro Almirante è in mare da tempo (5 anni n.d.a.) e
con questa scusa viene spogliato dei suoi beni feudali. Rimane dolorosamente "senza terra".
Nel 1458 circa (21 anni) diviene marinaio, sempre sotto il comando e la guida dell'omonimo
Ammiraglio. Sino al 1465, il futuro Almirante partecipa ad azioni corsare contro Francesco il
Bastardo di Napoli, a favore di Renato d'Angiò, e naviga per tutto il Mediterraneo.
Nel 1461 circa (24 anni) diviene ufficiale, ed ottiene il comando di una nave della flotta
dell'omonimo Ammiraglio parente. Inizia la sua esperienza di "navigazione" quarantennale
(lettera del 1501) come pilota.
Nel 1465 circa (28 anni) sicuramente come Capitano, si mette al servizio diretto al soldo dei
regnanti, certamente dello stesso Re Renato, e quasi certamente del crescente stato francese.
P14) Naviga per 23 anni consecutivi, e naufraga nei pressi di Lisbona nel 1474 (1451+23) in
età di 37 anni. Si trasferisce presto in Lisbona dove intrattiene corrispondenza con il fisico
Toscanelli. Conosce la Cavaliera Felipa Mugniz Perestrello, cugina del Re, figlia del
Governatore di Porto Santo, sorella del Governatore di Madera, e decide di sposarsi.
P15) Nel 1477 (40 anni), si trova a navigare nel nord all'isola di Tyle.
Nel 1479 (42 anni), nasce il primogenito Diego. A causa delle cattive condizioni di salute di
Donna Felipa, la famiglia si trasferisce nelle dimore di Porto Santo e di Madera, dove Felipa
può contare, durante i viaggi del marito, sulla vicinanza del fratello, Governatore dell'Isola.
Nel 1482 (45 anni), la moglie Felipa si ammala, quindi la famiglia ritorna a Lisbona. Il Re è
Giovanni, amico "particolare" (così si definisce) del futuro Almirante.
Nel 1483 (46 anni) rimane vedovo. Si trasferisce quindi a Cuelva, presso la sorella della ex
moglie, che bada al figlioletto Diego (4 anni). In questo tempo compie vari viaggi alla Mina.
Nel 1484 (47 anni) porta il figlio Diego (5 anni) al Convento della Rabida, in Spagna. Entra
quindi nella Corte Spagnola, pur tenendo ancora aperti i rapporti con il Portogallo ed il Re
Giovanni.
P16) Nel 1485 (48 anni), primavera, si ritrova alla corte di Lisbona, invitato dallo stesso Re,
per assistere ad una relazione scientifica sulle misure mediante l'Astrolabio. Nello stesso
anno, presso la corte spagnola, riesce ad ottenere per la primavera seguente l'istituzione di una
commissione che valutasse le sue teorie.
P17) Nel 1487 (50 anni), si unisce con Beatrice de Arana. I testimoni e le prove non
assicurano circa un matrimonio, probabilmente segreto, ma assicurano che il figlio Fernando
che nascerà da questa unione è certamente legittimo, a tutti gli effetti. Questa prova venne
accettata solo dopo furiosa controversia, ma venne provata ed accettata. Infatti, alcuni
pretendenti avevano tutto l'interesse che anche gli "illegittimi" potessero adire al maggiorasco,
quindi si batterono in tal senso.
P18) Nel 1488 (51 anni), nel mese di dicembre, si trova nuovamente alla corte di Lisbona,
dove assiste alla relazione di Bartolomeo Diaz. In questo anno nasce Fernando il
secondogenito, che Cristoforo riconosce e legittima. Sempre in questo anno terminano, per
ammissione autografa, i suoi rapporti con il Portogallo, dopo 14 anni (1474-1488).
4. Conclusione
Ricordo le parole di Umberto Bartocci: "È ovvio che, una volta stabilito che C. è nato diversi
anni prima di quel che si pensi, la tesi purista crolla tutta".
Come detto la teoria purista si basa su atti notarili genovesi, questi atti dimostrano l'esistenza
di un Cristoforo Colombo nato nel 1451 (documento Assereto).
Ora, i testimoni, i documenti, gli scritti coevi, la commissione di giudici e gli stessi litiganti,
dopo annose analisi rogatorie e contradditori, tutti coevi, ci assicurano che, al di sopra di
ogni umano e ragionevole dubbio, il Cristoforo Colombo primo Almirante del Mar Oceano
nasce nel 1437.
Proprio la certezza di queste due date non ci lascia alternativa:
Il Colombo purista delle carte genovesi non è l'Almirante.
1) L'Almirante era di nobile schiatta, ed iniziò a navigare a 14 anni:
Il Colombo purista non può essere l'Almirante.
2) Il futuro Almirante partecipa ad azioni corsare intorno al 1460:
Il Colombo delle carte genovesi aveva 9 anni; impossibile.
3) Il futuro Almirante naviga per 23 anni prima di naufragare presso Lisbona:
Il Colombo purista sarebbe naufragato nel 1488 (1451+14+23), impossibile.
4) Il futuro Almirante nel 1501 aveva più di 40 anni di esperienza da pilota:
Il Colombo purista a 10 anni era pilota? Impossibile.
5) Nessun tassello della vita accertata dell'Almirante è soddisfatto dal Colombo purista.
Il Colombo delle carte genovesi non è l'Almirante.
La radice della realtà
Al di sopra di ogni ragionevole dubbio, il Colombo pupulista e romantico
dell'immaginario collettivo, insegnato nelle scuole, illustrato dal cinema, dalla
televisione, minuziosamente descritto nei libri, è FALSO, provatamente falso,
innegabilmente falso.
----[Una breve presentazione dell'autore, che preferisce mantenere un certo riserbo
sulla propria persona, si trova nel numero 2 di Episteme]
[email protected]
Una eresia di luce
(Ezio Albrile)
Nel linguaggio comune il termine "manicheismo" designa un modo di agire in cui due modi di
pensare sono contrapposti in modo assoluto. Un pregiudizio clericale che immaginava due
dèi, uno del Bene l'altro del Male fronteggiarsi sin dall'eternità è alla base di questa
concezione: così, affabulando il diteismo, gli eresiologi antichi descrivevano la "Religione
della Luce" fondata da Mani. Ma chi era costui?
Colui che nelle fonti latine è nominato come Manichaios, contrazione del siriaco Mani
hayya cioé "Mani il vivente", nacque nelle lande babilonesi dell'impero persiano il 14 aprile
del 216 dell'era volgare. Suo padre, un certo Pattek, di stirpe regale, fu preso da manie
religiose ed ad un certo punto della sua vita decise di entrare a far parte di una setta gnosticogiudaica allora in voga in terra mesopotamica, gli Elchasaiti. Il nome di questa setta che
predicava l'astensionismo sessuale ed alimentare, ed impartiva continui battesimi derivava dal
fondatore, un certo Elchasai, un personaggio che secoli prima di Maometto diceva di aver
ricevuto dal cielo il Libro della Rivelazione.
Prima di abbandonare la comunità religiosa del padre, Mani ricevette due messaggi celesti,
uno all'età di 12 anni, l'altro all'età di 24 anni: il "gemello", in greco syzygos gli rivelò i
misteri della Luce e delle Tenebre su cui è fondato il cosmo.
Il dualismo che contrappone Luce e Tenebre, Vita e Non-Vita, Verità e Menzogna è il
fulcro del credo manicheo. All'inizio esistono due Regni: uno a Nord, governato dal Padre
della Grandezza, Abba d-Rabbuta nelle fonti siriache, Zurwan in quelle iraniche, l'altro a Sud,
l'universo della Hyle, la Materia, su cui domina il Princeps tenebrarum, Ahriman. Il Padre
della Grandezza è composto da Cinque Elementi di Luce, cinque "splendori", in siriaco
ziwane, ed è circondato dai Dodici Eoni adamantini che abitano il Regno di Luce.
Mentre per la Dodecade luminosa il pensiero corre alle dodici costellazioni dello zodiaco, la
pentade è una cifra ricorrente nella mitologia manichea: cinque sono gli elementi di Luce, ma
cinque sono anche gli elementi di Tenebra contrapposti simmetricamente al Regno del Padre
della Grandezza. Quando il Regno delle Tenebre attacca quello della Luce, il Padre della
Grandezza decide di combattere evocando, "chiamando" (dal siriaco qra) dalla propria
essenza il protos anthropos, l'Uomo primigenio: cinque, anche per lui, sono gli Elementi di
Luce che formano la sua fulgida "corazza", la sua Anima. L'Uomo primigenio deriva
dall'essenza dello splendore sorgivo attraverso la Madre dei viventi, Madar i zindagan
nelle fonti iraniche.
La strategia adottata dal Mondo della Luce prevede che l'Uomo primigenio si dia
volontariamente preda ai demoni dell'oscurità, affinché la Luce sia letale verso le Tenebre,
come chi volendo annientare il proprio nemico "mescoli in un dolce un potente veleno".
Quello del "miscuglio", il gumezisn iranico, è un tema costante nel manicheismo, esso
rappresenta il "tempo intermedio" in cui le due sostanze, le due modalità di vita e di non-vita,
si amalgamano e combattono per la supremazia sul tutto. Il manicheismo non a caso è noto
come religione delle due "sostanze" o "principî" e dei tre "tempi", initium medium et finem di
sant'Agostino.
Lacerato nei penetrali della Tenebra, l'Uomo primigenio innalza una preghiera al mondo del
Padre luminoso, anelando la salvazione; essa si concretizza nella figura dello Spirito Vivente,
il quale attraverso un "grido" demiurgico sveglia l'Uomo primigenio dal sonno di tenebra. La
risposta non tarda ad arrivare ed entrambe i discorsi salvifici - cioè il richiamo dello Spirito
Vivente e il riscontro dell'Uomo primigenio - diventano due ipostasi, due personificazioni
luminose. Al seguito dello Spirito Vivente, ruha hayya nelle fonti siriache, waxs zindag in
quelle iraniche, vi sono anche qui Cinque Figli, i "santi del macrocosmo" delle fonti cinesi, i
quali reggono le sorti dell'universo.
L'ossessione pentadica, interiorizzata nelle cinque facoltà noetiche mens sensus prudentia
intellectus cogitatio, equivalenti alla serie greca di nous ennoia phronesis enthymesis
logismos, si ritroverà nella gnosi islamica personificata nelle cinque figure sante della fazione
sciita: Maometto, sua figlia Fatima, il cugino e genero 'Ali ed i due figli Hasan ed Husain. Nel
loro insieme essi sono i "cinque della tenda", la pentade luminosa dell' Ummu'l-kitab, il testo
sacro degli Ismaeliti del Pamir, edito anni orsono in una magistrale traduzione italiana dal
prof. Pio Filippani-Ronconi. La pentade logicamente richiama l'idea di quintessenza, il quinto
elemento, l'etere adamantino che nella fisica aristotelica era ritenuto permeare il tutto. Nelle
fonti manichee iraniche il primo elemento della pentade era lo xwarrah, l'avestico xvarEnah, il
nimbo glorioso che nella tradizione mazdea riveste gli esseri eletti, magistralmente studiato in
tanti lavori dal prof. Gherardo Gnoli. Vertice della pentade salvifica è quindi il fulgore
luminoso dello xwarrah; cosmologicamente esso corrisponde al primo dei Cinque Figli dello
Spirito Vivente: nelle fonti greche è chiamato phengokatochos, colui che veglia gli splendori.
Egli regge i cieli posti al di sopra dell'ebdomade planetaria, cioè governa le modalità di
esistenza poste al di là della manifestazione fenomenica.
La cosmogonia nel manicheismo è frutto dello smembramento degli Arconti: lo Spirito
Vivente, al contrario del Demiurgo gnostico, non crea nel vuoto o dal vuoto, bensì utilizza la
pelle ed i corpi dei demoni per fabbricare il mondo, nel loro corpo è infatti intrappolata la
Luce, che solo attraverso la cosmogonia può essere restituita alla condizione di purità iniziale.
Il risultato sono dieci cieli e - di nuovo!- cinque terre stigma dei diversi gradi raggiunti nella
purificazione della Luce; essa infatti è raccolta in proporzioni maggiori nel Sole e nella Luna,
mentre le costellazioni della sfera zodiacale sono quello che rimane dei demoni. La Luna ed il
Sole hanno una parte centrale nel processo di salvezza della Luce intrappolata nel mondo,
poiché rappresentano le "ruote" di un meraviglioso meccanismo, la "Colonna di Gloria",
attraverso cui la sostanza luminosa ritorna nel mondo del Padre della Grandezza.
Fungendo da gigantesco "mulino", il cosmo sottrae lentamente ma inesorabilmente le
scintille di Luce intrappolate nella Hyle: attraverso le lunazioni la sostanza luminosa viene
travasata nel Sole, naviglio supremo nel viaggio al Regno originario del Padre della
Grandezza. La Luna, che i manichei chiamano "occhio del cielo" ed identificano con il Gesù
cosmico, rappresenta il momento di transizione della sostanza spirituale alle dimore beate; un
mondo intermedio, un paradiso celeste per certi versi affine alle tante dimore immortali
dipinte nelle leggende taoiste. In una di esse il santo taoista Chang Kuo, alla forsennata
ricerca dell'Unicorno, ascende in groppa al suo Asino sulla Luna, luogo paradisiaco nel quale
trova lo splendente Imperatore di Giada accanto all'Albero della Vita. Uno scenario affine è
descritto nella visione che del paradiso lunare manicheo forniscono gli Acta Archelai del
presunto Egemonio: la trasmigrazione delle Anime luminose e viventi sull'astro notturno è
relazionata all'unione con il principio cristico, il Gesù lunare identico all'Albero paradisiaco.
L'Unicorno e l'Asino nella narrazione taoista rammentano inoltre il xar i se pay, l'Asino
unicorne che nella tradizione iranico-mazdea dimora, come l'Albero della Vita e il polo
cosmico, al centro del mare Vouru.kasa .
L'universo celeste ed onirico su cui veglia il phengokatochos è certamente il più lontano
dall'esperienza empirica dell'Adamo somatico, che nella gnosi manichea scaturisce da un
connubio diabolico: per conservare un'ultima porzione di Luce, la Hyle escogita un artifizio
fondato sulla concupiscentia sexualis, la scandalosa Az dei testi medio-persiani, il temibile
demone che nelle tradizioni mazdee tenta di demolire la creazione luminosa di Ohrmazd. La
Hyle mira a coagulare la massima parte di Luce in una creazione separata che si contrappone
alla creazione "spirituale", la creazione menog dei testi zoroastriani. Per attuare questo piano,
simile per certi versi all'origine fisiologica della patologia tumorale, Az sceglie un demone
chiamato Asaqlun ed una demonessa di nome Namrael ; una coppia di cannibali che in poco
tempo divora gli Aborti delle demonesse, ingravidate in una fase precedente del mito dal
desiderio spermatico per il Legatus Tertius, l'Adamas luminoso apparso nei cieli.
Non paghi del pasto satanico, la coppia di demoni si dà alla fornicazione più sfrenata,
plasmando mentalmente, come i NEfilim, gli Angeli decaduti del "Libro di Enoch" una
progenie effigiata nelle forme dell'Adamas di Luce apparso nel firmamento psichico. È
l'origine della prima coppia umana secondo la gnosi manichea: il grande Ernesto Buonaiuti oggidì riesumato dal pensiero laico - fu tra i primi ad osservare come il genere umano sia per i
manichei esito di un ripugnante connubio di cannibalismo e sessualità. Da un lato il corpo,
epifania puramente animalesca dei demoni, e dall'altro la concupiscentia sexualis, esito
erotico della brama di possesso sul cosmo, vincolano l'uomo alla potenza delle Tenebre, la
Maya hindu. Gli Arconti creano un mondo fittizio modulato sull'illusione del desiderio: la
presunta realtà è quindi un miscuglio di paura e di attesa, di passione e di odio, di creazione e
di distruzione. Chi ha dimestichezza con il mondo cinematografico contemporaneo non si
stupirà nel constatare come idee simili siano alla base di un lungometraggio di successo uscito
pochi anni fa, Matrix. Consciamente o inconsciamente l'universo della celluloide, quale
dimensione irreale in cui albergano gli Arconti, ha da sempre trascritto in chiave visuale una
serie di tematiche definibili neo-manichee. È il caso ancora di una pellicola di circa trent'anni
fa, Emmanuelle. Tratto dal romanzo di E. Arsan e magistralmente interpretato dalla
ahrimanica Sylvia Kristel, Emmanuelle è un curioso esempio - profetico per i tempi! - di ciò
che intercorre nella gnosi manichea tra l'Anima vivente, la griw zindag dei testi iranici, e le
potenze del cosmo. In una modalità di esistenza priva di ogni direzione spirituale, l'Anima come sostengono molti testi gnostici - è preda dei lestes, dei briganti che abusando di lei
maculano irrimediabilmente la sua essenza di Luce. È l'interpretazione gnostica dell'episodio
evangelico della donna Samaritana, il cui "vero sposo" alberga in una dimensione che
trascende questo piano di realtà, ma che nel nostro caso assume nuovi significati: l'universo
rappresentato da Emmanuelle è l'universo della scissione ineluttabile, sequenza di edonégamos-genesis-thanatos.
Tutto ciò porta ad un paradosso, che è anche il paradosso della gnosi manichea: l'Abisso in
cui è volontariamente caduta l'Anima, versione ultima dell'Uomo primigenio, è l'apice della
sua abiezione, infimo gradino verso l'Assoluto; questo perché le Tenebre, nel loro macularsi
di passioni e rancori, non possono sopportare il veleno più terribile: la Luce!
----Ezio Albrile è nato a Torino nel 1962. Membro della Società Italiana di Storia
delle Religioni, studioso di fenomeni religiosi sincretistici al crocevia tra
Oriente e Occidente (gnosticismo, mandeismo, manicheismo, ecc.), attualmente
assistente per le stesse materie presso la Cattedra di Antropologia Culturale
della Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino. Collaboratore nelle
stesse tematiche presso il Dipartimento di Orientalistica dell'Università degli
Studi di Torino. È stato consulente per il settore semitico-iranico nella ricerca
sulle "Gemme magiche e gemme gnostiche nel sincretismo tardoantico" del
CNR, coordinata dal professor Attilio Mastrocinque dell'Università degli Studi
di Verona, e consulente del professor padre Andrea Strus (Pontificio Ateneo
Salesiano) nell'interpretazione dei reperti del mausoleo paleocristiano
rinvenuto nei pressi di Bet Giemal (Palestina). Consulente scientifico della casa
editrice Mimesis (Milano), e in passato di Giordano Editore (Cosenza). Invitato
al Convegno della Fondazione Eranos di Ascona dedicato agli "Dèi ignoti"
(2001). E' autore di oltre cento articoli dedicati ai soggetti indicati.
Via Paisiello, 76/B
10154 Torino
Sul termine greco ανθρωπος … e dintorni.
(Rosario Vieni)
Assai di frequente gli etimi della lingua greca hanno risentito, e risentono, di quella cattiva
lettura del "miceneo" (Lineare B) che gli epigoni di M. Ventris continuano a fornirci e ad
ammannire ai poveri studenti delle università italiane; con l'aggravante che i nostri illustri
cattedratici sovente, più che avere lo sguardo attento al dubbio ed alla scienza (e senza
dubbio non esiste curiosità né amore per il sapere, ovvero per l'aver fame), ce l'hanno per il
loro piccolo o grande potere e, direbbe Pirandello, per il proprio pupo.
Questo, almeno, per le scienze cosiddette umane dove assai spesso 2 + 2 non dà 4.
Ragion per cui, per tornare all'assunto, visto che morto prematuramente Ventris gli altri non
erano capaci di cavare un ragno dal buco si decise che non solo andavano bene quei 2 o 3
tasselli del puzzle che l'architetto inglese era riuscito a ben incastrare ma che tutto il resto
andava altrettanto bene. Sicché, in barba alla lingua e ad ogni regola di fonetica, ne è venuta
fuori una lettura del miceneo da far rizzare i capelli al povero Platone o a Senofonte.
Ma, d'altra parte, né Platone né Senofonte potevano più protestare, ragion per cui su quel
groviglio di linguaggio dinosaurico (come l'ha definito un mio caro amico greco, il prof.
Tsopanakis dell'Università di Salonicco) hanno chiosato e poi ancora chiosato piegando (e
piagando) la lingua e contorcendola al fine di cercare di farla assomigliare ad un simulacro
di greco… che mai nessun greco, o pre-greco, si sarebbe mai immaginato di pronunciare.
Prova ne è la lettura, nella tav. PY Fr 1184, di un termine greco perfetto (un aoristo) che caso unico - troviamo nel miceneo di Ventris, laddove invece tutto il resto appare come il
tentativo malaccorto raffazzonato e non riuscito di dare una sembianza di greco a ciò che
come greco mai potrà essere sentito.
Da qui, il tentativo di spiegare gli etimi del greco alla luce di una lettura del miceneo
sostanzialmente e formalmente errata.
Se leggiamo quanto dice Georgiev a proposito di a-to-ro-qo / α[νθρωπο∀, ebbene c'è da
rimanere alquanto perplessi.
Dice testualmente a pag. 53: "La labiovelare attestata in a-to-ro-qo = att. α[νθρωπο∀ uomo,
marito conferma l'etimologia fornita già da tempo, ma che ha sempre destato dubbi:
α[νθρ−ωκw−ο−∀ come volto-(con)-barba, cioè l'uomo che ha la faccia con la barba (dal
volto ricoperto di barba).
Tale spiegazione, mi sia concesso, è sostanzialmente errata perché "formalmente" errata. Il
significato del termine α[νθρωπο∀ è ben diverso. Si tratta di un termine agglutinato
(secondo il più genuino uso greco), formato da αϕντιϖ + ρϑο ( √ di ρϑεϖω ) + οϕπ (una
delle 3 √ di οϑραϖω) + il distintivo della declinazione maschile in −ο(∀). La dentale di
αϕντ(ιϖ), venendo a contatto con lo spirito forte del ρϑ, prende su di sé l'aspirazione e si
trasforma in θ. Ciò testimonia il passaggio storico-fonetico avvenuto, e ci dà delle indicazioni
del tutto certe per l'etimo della parola.
Per la qual cosa la parola indica semplicemente quell'animale (l'uomo) che "cammina
guardando contro/frontalmente/di fronte a sé" (ovviamente rispetto agli altri animali che non
guardano sul davanti, visto che hanno gli occhi posti sui lati).
A proposito di tale termine, Chantraine (XI, op.cit.) dice che: "Les adjectifs en
−ωπο∀ ( σκυθρωποϖ∀ , etc., voir § 203), comme en latin les adjectifs en -ox (atrox, etc.),
contiennent la racine d'un verbe signifiant voir". E' vero epperò che, più avanti (§ 203), dirà
"…Dans un grand nombre d'entre eux, il est évident que cette finale représente la racine -oqw
voir".
Tentativo, pare, di conciliare con la lettura-Ventris gli etimi della lingua greca, che risultano
anche in questo caso almeno discutibili. Gli è che bisogna fare i conti, piuttosto che con radici
ricostruite in maniera artificiosa, con quello che la lingua stessa ci offre.
Non è solamente un problema di etimo. L'esatta origine della parola ci offre anche la storia
della lingua, del suo sistema formale e quindi logico.
Tutto il resto, voglio dire le tante forzature e i tentativi di adattare le leggi della fonetica e
della lingua greca al miceneo di Ventris, è roba che non appartiene alla scienza; se mai è roba
da saltimbanchi. Nella maniera più assoluta.
Ma se per un attimo distogliamo lo sguardo dal "microscopio" che la filologia utilizza per
volare appena un po' più in alto, ci accorgiamo che la nuova lettura delle tavolette micenaiche
che noi ormai proponiamo dal 1988 ci prefigura un quadro storico assai ben diverso da quello
che la scienza ufficiale continua a voler imporre… a tutti i costi e contro ogni logica coerente.
Secondo la scienza ufficiale i Dori sarebbero giunti in Grecia intono al 1100 a.C., mentre il
dialetto parlato dai "Micenei" sarebbe appartenuto ad un gruppo acheo-eolico.
Secondo invece quanto emerge dalla nostra lettura delle tavolette in Lineare B le cose stanno
ben diversamente:
> la lingua parlata dai conquistatori micenei apparteneva in maniera inequivocabile al
gruppo dorico, e ne consegue quindi che essi sono discesi in Grecia ben 4/5 secoli prima di
quanto s'è sostenuto fino ad ora. Inoltre (e non a caso abbiamo usato il termine "discesi"; del
resto in continuità con la medesima tradizione antica) essi sono giunti dal Nord, tant'è che
nella loro parlata sono presenti elementi del dialetto beotico.[1]
L'illustre filologo Harald Haarmann, che da anni studia la lingua e la cultura Vinča, ha saputo
apprezzare tale nuova visione della storia e del miceneo tanto da citare l'eretico autore nel suo
ultimo saggio[2], "naturalmente" non ancora tradotto in Italia dove predomina una casta di
mandarini caparbiamente cieca sorda e muta; incapace di dubitare, incapace di scendere ad un
confronto veramente scientifico, incapace persino di obiettare o di giustificare le proprie
scelte. Aristotelici per vocazione, e per comodità, sarebbero capaci di mandarti al rogo se solo
ne avessero il potere. Si accontentato quindi di annichilirti… o tentano di farlo.
Tale nuova visione peraltro è accettata pure nella Patria di Platone e di Senofonte, come
risulta dagli Atti di un Congresso Internazionale dedicato sì ai dialetti neoellenici ma durante
il quale abbiamo letto le parole d'oggi alla luce della nostra traslitterazione della Lineare B[3].
Nella pratica, l'ipotesi dorica se non altro conferma ciò che da tempo ci veniva dai dati
archeologici in nostro possesso.
Inoltre fa luce (in quanto non si tratterebbe di documenti d'archivio palaziali) sulla loro genesi
e sulla fine della civiltà minoica.
L'illustre prof. Godart, che si picca d'essere l'Unico (l'unico micenologo degno di tale nome,
s'intende) nel suo ultimo libro sul disco di Festo [4] espone una teoria che riprende pari pari dal
mio saggio apparso 4 anni prima. E, ovviamente, senza neppure citarmi, né a margine né in
bibliografia. E chi osa salire su così tanto Olimpo?!
In pratica sarebbe avvenuto questo: il maremoto, l'onda d'urto, l'oscuramento del cielo, la
ricaduta di polveri e pomici in seguito all'esplosione di Thera-Santorini avrebbero distrutto
non solo la fiducia dei Minoici nel loro potere, ma innanzitutto le loro strutture costiere,
portuali, le flotte, l'economia.
Ne approfittarono i Micenei, che altro non aspettavano per mettere fine alla talassocrazia
minoica. Dal Peloponneso inviarono le loro nere navi (di nere navi parlerà poi pure il cantore
dell'Iliade) su cui issarono vele nere (rammentate il mito di Teseo?). Dopo e durante le razzie
stilarono un inventario di quanto poterono depredare, e cioè di tutto, ivi compresi pure gli
arredi delle tombe; e lo fecero su argilla non cotta epperò, e ciò per ovvie ragioni pratiche.
Le tavolette testimoniano tutto ciò. Così come ci testimoniano la presenza, molti secoli prima
di Omero, della prima "poesia" in lingua greca… perché finalmente con la nostra lettura del
miceneo si può parlare veramente di lingua greca a proposito delle tavolette d'argilla
micenaiche.
Sed de hoc alias.
Note
1 Rosario Vieni, La lingua dei Micenei, Catanzaro, 1990.
2 Harald Haarmann, Early Civilization and Literacy in Europe - An Inquiry into Cultural Continuity
in the Mediterranean World, Mouton de Gruyter, Berlin-New York, 1996.
3 RosarioVieni, "Tracce del Miceneo e oltre in linguaggi odierni dell'area magno-greca", in Atti del III
Congresso Internazionale di Dialetti neoellenici (Khalimnos-Rodi, 1998), Università di Atene, 2000.
4 Louis Godart, Il Disco di Festo, Einaudi, Torino, 1994.
----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 5 di Episteme]
[email protected]
Liberty as a Relation
(Oktawian Nawrot)
What is liberty, that "magic" word, which could give reasons for envy to Protheus himself,
and which is referred to so often that we seem to know every single one of its faces? Since
August the 26th, 1789, the day when The Declarations of the Rights of Man was proclaimed, it
has been being said more and more loudly and commonly that Men are born and remain free
and equal in rights [5, art. 1] (It is not meaningful for the discourse that this document for a
long time actually regulated only the legal situation of men, the clear evidence of which can
be found in Robespierre's order to guillotine Olympia de Gouges, the author of The
Declaration of the Rights of Woman and Citizen, with its first paragraph saying: Every
woman is born free and has the same rights as a man [4, p.32].). What does the above
statement mean? What are we actually dealing with? Should we understand liberty as the
freedom to do whatever comes to our minds, including "walking in the clouds"? Do we see
liberty as the situation in which no compulsion occurs? Or maybe we should understand it as
an inner state, which is dependent only on the individual and its view on the world, and which
cannot be changed by even the strongest shackles? Should we then repeat after St. Ambrose:
a wise man, even if he is a slave, is free, which means that a fool, even if he rules, is enslaved
[1, p.s. 196], or after Helvétius: a free man is a man who is not handcuffed, nor imprisoned,
nor lives as a slave in constant fear of punishment [2, p. 36]? What is liberty, then?
Article Four of the already mentioned Declaration of the Rights of Man says that: Liberty
consists in the freedom to do everything which injures no one else [5]. The quoted words
seem to put an end to all anarchist theories of liberty describing it as a lack of any
compulsion. In the light of the above definition, liberty is some relation which at the same
time puts the limits on itself. Using the expression which injures no one else forces us to look
at liberty not as something inner, some feeling, state of mind something so intangible on one
hand, or as the lack of any limits, and therefore de facto other subjects on the other hand, but
rather as at objective reality, the state that we can submit to falsification. If we have the
reference to another human being, and a particular reference, we can surely speak about a
relation, and therefore a particular interpersonal reality. Having investigated this relation,
which I will call a liberty relation, we will discover that it has some characteristic features.
Above all, it should be noted that every human being possesses some definite sphere of
liberty, just as everyone has some definite height, weight, IQ etc. It is obvious then that at a
definite moment, everyone has such a scope of liberty as he has, exactly as everyone has such
a height or weight as he has - no more, no less. Therefore we can say that the liberty relation
is a reflexive relation in class A. This conclusion is a natural consequence of assuming the
rule of non-contradiction ~(p^~p) , which in this case can be transcribed in the following
way: it is not possible for anybody to be like something in some aspect and at the same not to
be like it, or in other words: it is not possible for anybody to possess some feature (to some
degree) and at the same time not to possess it [7, p. 379]. This statement itself is not a great
discovery, together with some other qualities of the liberty relation, however, it will let me
present some interesting implications of the latter.
Therefore:
ΛxεA xWx
where:
- x stands for the individual
- A - the society
- W - the liberty relation .
The Declaration of the Rights of Man claims next: the exercise of the natural rights of each
man has no limits except those which assure to the other members of the society the
enjoyment of the same rights [5, art. 4], therefore stating that liberty has limits, and moreover,
that it clearly defines the limits itself: the limit of the liberty of the individual is the liberty of
another individual. As John Locke noticed: So that, however it may be mistaken the end of
law is not to abolish or restrain, but to preserve and enlarge freedom: for in all the states of
created beings capable of laws, where there is no law, there is no freedom: for liberty is, to
be free from restraint and violence from others; which cannot be, where there is no law: but
freedom is not, as we are told, a liberty for every man to do what he lists: (for who could be
free, when every other man's humour might domineer over him?) [3, sec. 57]. Therefore to let
everyone the widest possible sphere of liberty, it is necessary for every person in society A to
have identical spheres of liberty. It is worth mentioning that Kant's categorical imperative Act
only on that maxim which you can will as a universal law or the biblical you shall love your
neighbour as you love yourself. The idea was accurately reflected by the UN General Meeting
who, when on December the 10th, 1948 declaring The Universal Declaration of Human
Rights, in Article One of this document claimed that: All human beings are born free and
equal in dignity and rights [6]. If we assume that it is necessary that everyone have (at least at
the starting point) the same degree of liberty as the other members of a given society, then we
can say that the liberty relation is not only reflexive, but also symmetric:
Λx,yεA (xWy → yWx) .
According to the above: for every two subjects, who are members of society A, if x is in the
liberty relation to y, then y is also in the liberty relation to x. Therefore when someone is born
as a slave, or his rights are limited in comparison to others for whatever reason, in the light
of the above comments we cannot speak of the liberty relation, but rather about the relation
of subordination, since the liberty relation as a symmetric relation must be followed by
equality in the sphere of liberty among individuals, this being its constitutive feature. With
such an understanding of liberty, it is not necessary to speak of the natural equality among
people, since the latter is included in the former. It is also worth mentioning that using a
conjunction by the General Assembly of the United Nations means that a situation when
somebody is born free and at the same time has limited rights in comparison to other
members of the society is not possible. According to the above statement, the situation when
somebody is born with the same rights as others but at the same time enslaved is not possible,
either.
To go further this way of thinking, we must claim that if the liberty relation occurs between x
and y and between y and z, then it must occur between x and z as well. If x is free in relation
to y and if y is free in relation to z, then x is free also in relation to z. Therefore, the next
feature of the liberty relation is its transitiveness. In this way, the liberty relation is extended
on all the members of society A and "connects" with each other even the individuals that are
completely different in all other aspects.
Λx,y,zεA (xWy ^ yWz → xWz) .
If at this point we connect all the features of the liberty relation that we have enumerated, that
is its reflexiveness, symmetricalness and transitiveness, we discover that this relation is
actually an equivalence relation. What we get is a view of society in which all individuals
have exactly the same scope of liberty. In other words, there appears a class of abstractions, a
class of individuals who in this case remain in the equivalence relation towards each other,
and therefore are identical as to the scope of liberty they possess. It is not irrelevant to note
that the liberty relation generates something like the human family or the human community.
To sum up, we can state the following: if individual x is free in society A, then the liberty
relation of which the individual is a subject is at the same time reflexive, symmetric and
transitive in the class consisting of all the members of society A:
WL(x,A)→ Λx,y,zεA [xWx ^ (xWy → yWx) ^ (xWy ^ yWz → xWz)]
WL(x,A) - x is free in society A .
All the above comments refer on the one hand to the relation between individuals, and on the
other to the state which we would call initial, which is the situation when the liberty of no
individual is limited (because of the individual's state, for example incapacitation resulting
from insanity, or his deeds, such as crime). A few questions and doubts appear at this point,
out of which two seem to be most important. First of all, some might say that it is easy to
imagine a society where all the above conditions are met but it would be difficult to say that
all the people living in it can enjoy their freedom. Let us imagine for example a society where
the liberty of the individual is limited to the freedom of thought. All the members of the
society are still members of a liberty relation, but the sphere of liberty of all the individuals is
so limited that de facto they are all enslaved.
At a first glance, the above charge seems to be easy to refute: it is enough to notice that in fact
not everybody will be enslaved to the same extent because there will always exist someone
who - in this case - will actually enjoy an unlimited scope of liberty and make a profit on the
others' enslavement. Therefore the symmetry will be broken and as we have already proved,
this symmetry is a constitutive element of the liberty relation, and in this situation we can
only speak of a relation of subordination. The case is much more complex, though, since the
problem refers to the conditions that must be met by society A to let the people living in it
enjoy real liberty.
Pointing out the symmetricalness of the liberty relation, we have said that the limit for the
individual's liberty can only be set by the liberty of some other individual. However, the
existence of the State machine can at times spoil this order, as there are a number of
obligations that a citizen has towards the state and therefore the sphere of his freedom
becomes limited. If we consider the liberty relation between the individuals, the condition
necessary for this relation to be retained seems to be the individual's abstinence from activities
which result in invading the liberty of another individual. At this level we mostly deal with
negative obligations: don't kill, don't steal etc. In the case of the relation citizen - state or
citizen - society there appear some positive obligations, demanding a particular action from
the individual: paying taxes, military service etc. In such case it is necessary to define the
spheres of life in which the individual can act unrestricted or with a certain freedom.
Consequently, there can exist laws that would regulate the actions of the individuals and at the
same time it would undoubtedly be possible to speak of liberty. Freedom is a liberty to
dispose, and order as he lists, his person, actions, possessions, and his whole property, within
the allowance of those laws under which he is, and therein not to be subject to the arbitrary
will of another, but freely follow his own [3, sec. 57].
It is necessary then to define the spheres of life in which the individual will be allowed to
direct his own person in a possibly unrestricted way. Again, we must note that the spheres
cannot be chosen at random, because according to the above rules we would be able to create
a totalitarian society, but only those that are crucial from the point of view of the individual's
interest. This is the place where it becomes clear why we started our discourse by referring to
The Declaration of the Rights of Man. What we undoubtedly see as crucial spheres of life are
the spheres that actually reflect the human rights: as Karl Vasak said, the rights of liberty
(personal and political rights), the rights of equality (economic, social and cultural rights) and
the rights of brotherhood (solidarity rights). There is no point in listing these rights here, it is
only important for us to realise that we are speaking of particular spheres in the life of the
individual and his rights, not some illusionary ideas.
In the light of the above comments the statement illustrating the liberty of individual x in
society A must be completed:
WL(x,A) → Λx,y,zεA [xWx ^ (xWy → yWx) ^ (xWy ^ yWz → xWz) ^ Vi S(x,i) ^ Vni S(x,ni)] ,
where:
- S - the freedom of action,
- i - "crucial spheres of life" (the spheres in which the liberty must be guaranteed by law),
- ni - the spheres of life of the individual beyond the interest of the state,
- S(x,i) - individual x has the freedom to act in i,
- S(x,ni) - individual x has the freedom to act in ni .
To conclude, we should ask whether the existence of the classes of people whose liberty has
been limited by law (the already mentioned incapacitated insane people or the criminals to
whom legal means have been applied) will not disrupt the presented scheme or will not cause
the necessity to complete it. It seems that it will not. The very notion of incapacitation, a
person deprived of capacity suggests that in reference to those people we cannot speak of the
liberty relation (we would say: as much freedom as responsibility). It seems interesting that
the individuals being members of the second mentioned class have disrupted the liberty
relation themselves, and therefore the disruption of the symmetry, which is necessary for
freedom to exist, was caused by their own actions.
One might wonder whether the above words are not a too simple solution to the problem. We
might rightly ask: what about children? We know that even in liberal societies their liberty is
considerably limited in comparison to that of adults. To take into consideration the categories
of people with limited rights, ant therefore liberty, we must complete our statement. To do
this, we must introduce the matrix of the unnamed extensional functor.
What we have is a functor with the use of which we will always build a true compound
sentence, if only the first clause is true. In other words, to make the compound sentence true,
only the first argument must be true. I will ascribe to the functor the symbol "←" and I
suggest to transcribe it as the expression "at the same time, it may happen that". Why this
matrix? Because the use of the functor means that the first of its arguments must be true in
every case, if the compound sentence built with it is to be true. In this case it only means that
the first part of the formula, which is the one that we have already presented, must always
describe a particular society, if we want to call the individuals living in it free. The second
argument does not have to appear at all. Naturally, in reality there always exist incapacitated
people or people with restricted rights (together with sentenced criminals). However, we can
easily imagine a society in which no such categories of people exist, and the individuals
living in it we can still call free. Of course the introduced functor connects in a way stronger
than material equivalence:
WL(x,A)↔ Λx,y,zεA [xWx ^ (xWy → yWx) ^ (xWy ^ yWz → xWz) ^ Vi S(x,i) ^
^ Vni S(x,ni)] ← VoεA ~S(o, i v ni)
where:
- S - the freedom to act,
- o - the individuals with limited scope of liberty,
- ~S(o, i v ni) - individual o does not have the freedom to act in i or in ni .
Notes
1 - Berlin I., Cztery eseje o wolności, Warszawa 1994.
2 - Helvétius C.A., O umyśle, t. 1, Warszawa 1959.
3 - Locke J., Two Treatises of Government, Book II, http://history.hanover.edu/early/locke/j-l2009.htm.
4 - Powinności Człowieka, Kronika Międzynarodowego Forum Jubileuszowego "Prawa i Powinności
Człowieka", Święto Człowieka, Posłanie Normana Daviesa, Gdańsk 2001.
5
The
Avalon
Project:
Declaration
http://www.yale.edu/lawweb/avalon/rightsof.htm .
of
the
Rights
of
Man
-
1789,
6 - The Universal Declaration of Human Rights, http://www.un.org/Overview/rights.html .
7 - Witwicki W., Psychologia, t. I, Warszawa 1962.
----University of Gdańsk
Institute of Philosophy and Sociology
ul. Bielańska 5, 80-851 Gdańsk, Poland
Oktawian Nawrot (1976) is an assistant in the Institute of Philosophy and
Sociology at the University of Gdańsk. Between 1995 - 2001 he was studying
both law and philosophy. He is interested in problems concerning philosophy of
law, ethic and bioethic, to which he dedicated some texts (e.g. Ethical and law
aspects of the surrogate motherhood, Legal reasoning in context of dispute about
abortion, The problems of free will according to Albert Einstein).
[email protected]
Il canto delle gru
Un racconto iniziatico
(Sante Anfiboli)
Le gru compiono le loro spettacolari migrazioni due volte l'anno, volando in formazione a Y a enorme
altezza e lanciando strida squillanti.
Informazione desunta da varie enciclopedie
E anch'io sono giunto dopo aver ricevuto l'iniziazione per i miei meriti, costeggiando nell'oscurità le
rive della palude Pelusia.
Eufronio del Chersoneso
Ciò che limita il vero non è il falso ma l'insignificante.
René Thom
[Stando ai primi echi che mi sono stati rinviati, questo mio capriccio risulta "inquietante" e
"di difficile comprensione". O forse inquietante perché di difficile comprensione. Ho quindi
considerato utile premettervi una brevissima nota didascalica, cosa di solito contraria al mio
costume.
Nelle mie intenzioni quel che segue - quale che sia il suo valore culturale - è un apologo sulla
questione del senso, del non senso e del buon senso. In particolare, esso vuole attirare
l'attenzione sull'ultimo di questi tre termini in ragione del fatto che la nostra epoca ha il torto
di averlo completamente screditato. Infatti è a causa di ciò - per usare la felicissima frase di
Mario Agrifoglio che suggella il quinto numero di Episteme - che oggi "tutti capiscono, o
fingono di capire le cose maggiormente astruse, ma poi trovano misterioso, e
incomprensibile, che due più due faccia quattro".
Quel che segue è anche una riflessione sull'eterna lite - squisitamente femminile - tra
Filologia e Armonia: problema antichissimo di cui non s'intravede alcuna soluzione. Per
quanto la filologia sia una disciplina straordinariamente affascinante basta il più infimo dei
giochi di parole, dei calembours, per sconvolgerla alla radice. Che lo sappia o no, ciascuno
di noi ha Filologia per moglie e Armonia per amante: senza una moglie non si può
desiderare un'amante ma senza un'amante non si può valutare appieno una moglie, Si vede
bene che non se ne esce.
Il limite della filologia è di presupporre un'umanità senza umorismo, eppure si sa che la
gente ha il vizio di scherzare. Dopo di che - come disse Mosca Lamberti per suggellare
l'omicidio di Buondelmonte de' Buondelmonti - "cosa fatta, capo ha". E tuttavia chi si limita
esclusivamente a scherzare finisce per lasciarci lo zampino: scherzare non è uno scherzo.
A ciò aggiungo che per comprendere un eventuale messaggio cifrato un filologo non serve
affatto: ci vuole un crittografo, e in generale costui ignora del tutto la filologia.
Quanto ho osservato tocca anche la scienza che, per certi aspetti nient'affatto secondari, si
presenta come una filologia dei fenomeni naturali. Ma anche la natura scherza, d'onde
l'espressione "scherzo di natura", e qui s'intravede un limite che troppo spesso vien tenuto in
scarsa considerazione. Forse Dio non gioca a dadi, ma è certo che la natura ama follemente
l'azzardo. La natura è poetessa, e solo chi è prima poeta che scienziato può veramente
conoscerla.
Per richiamare attenzione su questo limite ho dato alla mia narrazione un tono ironico che,
se non risparmia gli scienziati e gli specialisti di ogni tipo, risparmia ancor meno me stesso,
che scienziato e specialista pure sono. Non irritarsene sarebbe atto di semplice buon senso,
se posso permettermi di suggerirlo.
Come diceva il buon Rabelais: "Science sans conscience est la ruine de l'âme." Ma la
coscienza della scienza cos'altro è se non la poesia?
Infine, tutte le citazioni e i riferimenti da me fatti nel corso della narrazione sono
rigorosamente autentici: la realtà supera la fantasia, così non c'è stato bisogno di inventare
alcunché. D'altronde, perché affannarsi ad immaginare unicorni, quando in natura abbiamo
qualcosa di così enormemente enigmatico come le api?
Sto forse mentendo?]
SOMMARIO
1. Una premessa etica - 2. Sotto il manto di sant'Anfibalo - 3. Argadistiche per Mesone 4. Verso il fondo - 5. Verba dimissa - 6. Una conclusione sensata.
1. Una premessa etica.
Certe cose è meglio non saperle, certe domande non farle.
Tra gli sciocchi va di moda pensare che la verità sia una donna bella, sana, ricca e intelligente,
la sua conoscenza un bene e la curiosità una virtù. Tuttavia - mi domando - se ciò fosse vero,
perché sarebbe sempre stata figurata dietro un velo? Voglio dire, se fosse così bella come
affermano concordemente coloro che non l'hanno mai vista, e se conoscerla fosse un bene,
non ci sarebbe da guadagnare a mostrarla in tutta la sua esplicita e luminosa nudità? Tutti
correrebbero a bearsi della sua visione e non ci sarebbe tanto da faticare in discussioni sterili
quanto interminabili. Ma è sempre stata rappresentata come velata, e la mia personale
esperienza in merito mi suggerisce che la ragione di ciò sta nella sua ineffabile bruttezza. La
ragione del velo è molto semplice: se venisse raffigurata senza, la sua vista sarebbe tale da
respingere chiunque.
La verità non è solo brutta, è anche patogena, fa impazzire. Come nelle tossicomanie, si ha
poi bisogno di dosi sempre maggiori per trovare la vita sopportabile, e questo ci porta a un
aspetto assai poco noto della sua bruttezza, ossia le mutilazioni. Chi l'ha anche solo intravista
sbirciando da sotto un angolo del velo, sa che deve aver avuto come minimo uno spaventoso
incidente. L'orrore è indescrivibile: tutto quello che se ne può dire è che le mancano dei pezzi,
tanto che non si comprende come possa continuare a campare. Non so se mi spiego: non
potrà mai darci tutto ciò che ci serve.
Quel che ci serve non sono domande ma risposte, che quanto più sono false tanto più sono
apodittiche, quindi non necessitano di altri ricorsi. Ci servono certezze, non verità. E, al
massimo, chiose di certezze. Se n'era accorto persino il buon Cartesio, che non era poi così
stupido, come dimostra il brano seguente tratto da una sua lettera alla principessa Elisabetta
del Palatinato.
La regola principale che ho sempre seguito nei miei studi e che credo mi abbia aiutato di più
nell'acquisire conoscenza è di non dedicare mai più di poche ore al giorno ai pensieri che occupano
l'immaginazione, e pochissime ore all'anno a quelli che occupano solo l'intelletto: il resto del mio
tempo mi sono riposato e ho dato un po' di quiete alla mia mente.
Insomma, che fosse malato di verità non c'è dubbio, tuttavia cercava in ogni modo di
contenere il danno, e questo è già molto.
Abbiamo bisogno di certezze, e a questo pensano gli impiegati in istituzioni accademiche, che
son pagati apposta per svolgere 'sto lavoro del cavolo. Una delle cose più stupide che si possa
fare è mettere in dubbio le loro asserzioni.
Cos'è un quark? È un chiacchiello definito da numeri: strange, beauty, charm, truth, ecc.
Punto. Non ci sono dubbi da sollevare, domande da fare, metodologie da verificare: affari
loro, con quel che li paghiamo. Chiedere come questi numeri siano ottenuti, impegnarsi in
verifiche, significa stracciare la carta colorata della risposta per ritrovare la domanda che i
buoni impiegati hanno tanto faticato a nascondere, e con ciò liberare nuovamente il fetore
della verità. Tuttavia c'è chi ci si mette e cosa ottiene? Per esempio di sapere che hanno
fabbricato una certa equazione, equazione di natura per così dire "puramente
fenomenologica", che stabilisce una certa relazione tra carica elettrica, numero barionico e
spin isotopico e va bene per robe come pioni e nucleoni. Poi trova che, però, aggeggi come il
mesone Κ e l'iperone Λ° non la rispettano. Ora, poiché l'equazione è "puramente
fenomenologica", cioè desunta dall'esperienza, all'ingenuo verrebbe da dire: "Beh, forse il
campo fenomenico di riferimento era troppo stretto, forse c'è da buttar via l'equazione e
cominciare da capo." Ma, grazie a dio, è qui che intervengono i nostri impiegati: prendono la
devianza, la trasformano in un numero, all'occorrenza battezzato strange, che si affrettano ad
aggiungere all'equazione. E per ogni devianza fanno un numero nuovo e aggiungono,
aggiungono, sicché l'equazione non è e non sarà mai sbagliata. Solleva pure questioni su tutto,
deridi questa metodologia dubbia: cosa ottieni? Che le fondamenta del tuo universo
scricchiolano facendoti rimanere sveglio la notte con gli occhi fissi nel buio e il batticuore,
mentre la cosa mutila che sta dietro il velo si agita gemendo.
Al diavolo, ricominciamo da capo! Cos'è un quark? È un chiacchiello definito da numeri.
Punto. Numeri fabbricati da gente che paghiamo apposta, stimabilissimi impiegati in
istituzioni accademiche, dio li benedica. Punto. Soprattutto niente domande! Dopodiché si va
tutti da Alfio per un drink.
Ma non si creda che sia così facile, perché c'è la noia. Di annoiarsi succede, e chi è annoiato è
distratto, e la noia e la distrazione sono i genitori della curiosità. Capita anche a gente attenta
come me. Io ho una regola: poiché so benissimo come vanno le cose, mi sono imposto una
metodologia profilattica, ossia tengo sempre a portata di mano un numero congruo di
libronzoli relativi a discipline improbabili: ufo, archeologie non standard, esoterismi vari,
storia alternativa, insomma il genere di paccottiglia che scoraggiano dal porsi qualunque
domanda. Quando sono in quello stato tuffo il naso lì dentro finché mi passa. E tuttavia anche
così a volte mi va male. Ultimamente uno dei miei principali gadget anti-curiosità era la
massoneria, rispettabile istituzione tutta piena di storie buffe cui non credono più nemmeno
gli stessi massoni. Cosa c'è di più inoffensivo, gnoseologicamente parlando, direte voi? Lo
pensavo anch'io, finché non ho sbirciato sotto il manto di sant'Anfibalo.
Racconto la storia perché vi possa servire. Ricordate: non si sta mai abbastanza all'erta. E
diffidate delle imitazioni, potrebbero essere l'originale.
2. Sotto il manto di sant'Anfibalo.
Insomma, durante uno dei miei attacchi periodici di noia distratta, o distrazione annoiata, ho
preso in mano un mammozzo, che supponevo del tutto inoffensivo, di un certo Jean Barles,
intitolato Storia dello scisma massonico inglese del 1717. Se andate a pagina 66 e leggete,
verrete a sapere che nel 1686 fu pubblicata una Natural History of Staffordshire, opera del
dottor Robert Plot, passata alla storia come il primo documento antimassonico.
Già lì pensavo oziosamente che, considerato che il dottor Plot (1640-1696), professore di
chimica, fu Fellow della Royal Society e anche il primo Conservatore dell'Ashmolean
Museum, riesce davvero difficile conciliare il suo reclamato antimassonismo con il fatto che
fece parte di un'istituzione allora a prevalenza massonica e addirittura ne diresse un'altra
fondata da un massone1. D'altra parte, se è vero che disapprova la Massoneria, è anche vero
che la presenta in modo da invogliare ad entrarvi: questo dovrebbe almeno far riflettere sulle
sue reali intenzioni.
Nella sua opera infatti - menzionando, ed apparentemente deprecando, la massiccia presenza
della massoneria nello Staffordshire - Plot scrive quanto segue.
Qui persone del massimo livello non disdegnano di appartenere a questa Società di Compagni d'Arte
["Compagnonerie" nel testo], non perché ne abbiano bisogno, ma per l'onore e l'antichità vantati in
un grande libro di pergamena contenente la storia e le regole dell'Ordine della Muratoria.
Egli prosegue poi esponendo sommmariamente il contenuto di quel libro, secondo cui gli "old
charges" sarebbero stati introdotti in Inghilterra da sant'Anfibalo: questo misterioso santo
cristiano - francese per alcuni, gallese per altri - avrebbe convertito il nobile cavaliere Albano
e questi avrebbe dato ai massoni di allora le regole che gli aveva trasmesso il suo mentore.
Nel Manoscritto Cooke il misterioso maestro di Albano è invece chiamato sant'Adhabell o
Adahabelle.
Non dite che due nomi del genere non vi avrebbero stuzzicato, anche perché entrambi sono
per gli specialisti fonte di grande imbarazzo. Di un sant'Adhabell nessuno ha mai sentito
parlare - errore di trascrizione, affermano sussiegosi gli storici - mentre Goffredo di
Monmouth attesta un Sant'Anfibalo, protomartire anglosassone, come autore della
conversione di Albano. Tuttavia - si affrettano a spiegare i filologi - se questo misterioso prete
cristiano è esistito, certamente anche il suo nome è stato malinteso e maltrascritto, perché non
è possibile che un essere umano venga battezzato in modo tanto bizzarro. Insomma, l'ignoto
cronachista averebbe riferito all'uomo il nome del suo mantello. "Naturalmente! - pensavo
intanto io - È noto che a quei tempi i pochi che sapevano leggere e scrivere eran tutti scemi
mentre solo gli analfabeti avevano un po' di buon senso. Gesù, tutte le volte che si deve
scrivere il nome di 'sto santo c'è qualcuno che sbaglia!" Tuttavia non mi fermai lì perché avendo la sventura di conoscere un poco la lingua greca - continuavo a ripetermi che il nome
di sant'Anfibalo è senza dubbio la trascrizione della parola amfíbolos, equivoco, di doppio
senso: come dire che Albano fu convertito da sant'Equivoco, sant'Ambiguo o san Sottinteso.
Ancor oggi la parola italiana "anfibolìa" è impiegata in questo senso.
Già cominciavo a scivolare e non me n'ero accorto affatto, come sempre capita. Mi martellava
in testa l'idea che l'anonimo cronachista, pace all'anima sua, non fosse affatto scemo ma
avesse scritto esattamente quel che voleva scrivere, ossia un'informazione celata dentro un
nome. Dopotutto - mi dicevo - qui si tratta di massoneria, quindi di esoterismo, quindi di
comunicazioni riservate: cifre, enigmi e inganni! Mi appariva chiaro che l'informazione era:
nel terzo secolo venne portata in Inghilterra una certa tradizione riservata, cifrata in lingua
greca. Sant'Anfibalo era la chiave stessa della cifra.
Naturalmente, se la mia ipotesi era vera, anche gli altri nomi connessi con questo avrebbero
dovuto poter essere compresi in greco. Mi resi così conto che in tale prospettiva Albano, o
Albone, allievo di Anfibalo, non era altro che una metatesi di labón, participio aoristo di
lambáno, prendo, anche nel senso di imparo, ricevo. Albano, nobile cavaliere, era quindi
colui che ha afferrato, ricevuto, che ha imparato, colui al quale è stata trasmessa l'arte di
comprendere l'anfibolìa, il parlar coperto, per enigmi, in definitiva la comprensione del
linguaggio iniziatico.
Quanto precede mi diede la chiave anche per decifrare quell'altro stranissimo nome di
sant'Adhabell o Adahabelle, molto più vicino al primo di quel che si supporrebbe. Infatti,
come Anfibalo deriva da amfi-bállo, Adhabell viene da a-dia-bállo, esso infatti vale
adiábolos, che non induce in errore. Si capisce allora che sant'Anfibalo e sant'Adhabell
esprimono lo stesso concetto: il senso nascosto, esoterico - quello di Anfibalo - è anche
quello che non inganna, quello di Adhabell.
Nel racconto di Plot è detto pure che tale tradizione dovette poi entrare in clandestinità, e la
massoneria con lei, fino ai tempi di re Atelstano quando - ad opera di suo figlio Eduino quest'ultima fu riabilitata e ricevette un nuovo codice di leggi. Naturalmente, la riabilitazione
non poteva essere attribuita ad Atelstano stesso, in quanto il suo nome vale atélestos,
incompiuto, anche nel preciso senso di non iniziato, non ammesso ai misteri - era, insomma,
solo un simpatizzante -, mentre Eduino vale édyn prima persona singolare aorista di dyo e
significa "Io sono entrato, sono andato sotto, sono morto, mi sono immerso". Tutti sinonimi
di chi è stato iniziato.
La mia ipotesi oziosa dava dunque luogo a una lettura stranamente coerente, la quale diceva
che nel III secolo una certa tradizione cifrata in lingua greca - imperniata sull'aspetto fonetico
- venne riportata in Inghilterra e che, dopo un periodo difficile, nel X secolo tornò in onore
per il semplice fatto che uno dei figli di un re vi fu iniziato. Egli non fece quindi altro che
fingere di darle nuove regole: in realtà le ridiede pubblicamente quelle che aveva appena
ricevuto da essa in segreto.
"Ma guarda 'sti massoni!" pensai. Insomma, mi risultava che le loro buffe storie avrebbero
anche potuto contenere ingegnose cifre che attestavano l'effettiva esistenza di una tradizione
riservata. Poi mi chiesi: "Ma perché mai, di questa misteriosa e antica conoscenza, in
massoneria sembra non esservi traccia?" "Forse nemmeno loro capiscono più le loro stesse
tradizioni - risposi - dopo tutto hanno avuto un intero secolo per ringuénonire
completamente."
Non che me la menassi più di tanto. Si trattava - forse - di un'inaspettata, piccola conferma
delle tesi del misterioso Fulcanelli e del suo allievo Canseliet nonché di quel libraio erudito
che fu Pierre Dujols, i quali insistono tutti su una specie di lingua esoterica a base greca,
fondata sulla fonetica, che chiamavano appunto cabala fonetica o lingua degli uccelli2.
Tuttavia nessuno di loro si era mai riferito particolarmente alla massoneria. Peraltro, che certi
esoteristi abbiano usato cifre linguistiche astruse è cosa ben nota. Come tutti conoscevo
l'Hypnerotomachia Poliphili, ancor oggi indecifrata, o i Rabish dra Academiglia dor Compa'
Zavargna del pittore ed occultista milanese del Cinquecento Giovan Paolo Lomazzo, se
possibile ancora più oscuri. Che poi la base delle loro cifre potesse essere greca o altro non mi
toccava più di tanto: nel mio frammento di decifrazione se era qualcosa era greca. Punto.
C'era però una specie di vago retrogusto che non riuscivo a metter bene a fuoco. Mi pareva
che Dujols, nel suo stravagante e sconclusionato La chevalerie amoureuse, avesse accennato a
un rapporto tra la massoneria e un'opera di Ateneo, I deipnosofisti, a me sconosciuta. Cercai
per un po' il libretto di Dujols ma lì per lì non riuscii a trovarlo, così mi stufai presto e tornai a
farmi i cavoli miei, cioè a lavorare per vivere.
Tuttavia questa minuscola brace continuò a covare sotto la cenere finché qualche settimana
dopo il destino - che gli sciocchi chiamano caso - non s'intromise nuovamente. Il mio
venditore UTET venne proprio ad offrirmi l'edizione, appena realizzata dall'editore Salerno,
dei Deipnosofisti di Ateneo. Era una cosa di gran lusso, in quattro volumi e dal costo
assolutamente indecoroso. Cosa credete che abbia fatto? Ma l'ho comprata, naturale, il che mi
fece tornare in mente tutto l'ambaradan. Avevo già l'acqua alla vita e non sentivo neanche un
pelino di umidità.
3. Argadistiche per Mesone.
I deipnosofisti, ossia I sapienti a banchetto, è un'opera del secondo secolo scritta in greco.
Noiosa quant'altre mai si occupa dell'argomento meno interessante che esista, la cucina.
Insomma, la cucina è bello gustarla ma leggerla...
La mia attenzione venne tuttavia attratta dal fatto che la categoria professionale dei cuochi vi
è dipinta in modo sorprendente. Nel IX Libro si dice trattarsi di "una categoria molto pignola
sia nella scelta degli argomenti sia nell'uso delle parole". In altri luoghi si assiste al lungo
elenco della formazione culturale dei cuochi, stupendosi nel sentire che - prima di apprendere
l'arte culinaria propriamente detta - occorre imparare scienze come la pittura, l'astronomia,
l'architettura, la geometria, la medicina e financo la strategia. Altrove vengono detti anche
"fondatori di città": cuochi costruttori, ma vi rendete conto? Insomma, Ateneo cominciò a
sembrarmi completamente fuori. Il classico tipo che quando parla ti fa sentire a disagio, uno
che non sai se si è appena fatto una canna o se ti sta pigliando in giro. Ma com'è possibile,
pensavo, abbiamo qui un gruppo di eruditi a banchetto, e i cuochi ne sanno più di loro? I
cuochi? Che accidenti di mondo è questo?
Nel XIV Libro si presenta appunto uno di questi "cuochi eruditi" e annuncia l'arrivo di uno
strano piatto che si chiama myma. I curatori dell'edizione italiana, tremebondi, postillano in
nota che "doveva trattarsi di un piatto decisamente insolito nella cucina romana del tempo, se
gli stessi convitati non sapevano di che si trattava". Ma vi rendete conto? Il cuoco prosegue
poi riportando una tradizione di Sidone secondo la quale Cadmo - il mitico fondatore di Tebe
e nonno di Dioniso - era un cuoco - pensa te - servo del re locale, che rapì una suonatrice di
flauto di nome Armonia fuggendo con lei dalla servitù. Egli aggiunge poi che nessun cuoco tranne rarissime eccezioni - è mai stato servo, e che "gli antichi designavano col nome di
máison un cuoco che avesse il diritto di cittadinanza, mentre un cuoco straniero lo
chiamavano 'cicala'." Vacci a capire qualcosa. L'appellativo máison - continua - viene dal
nome di Mesone, che era un attor comico originario di Megara di Sicilia. Egli inventò
appunto una maschera detta máison, nell'occasione in cui creò tanto il personaggio del servo
quanto quello del cuoco. Dice poi che i cuochi dei tempi più antichi erano anche esperti di
tecnica dei sacrifici, ad esempio sovrintendevano alle nozze e alle cerimonie. A questo
proposito cita una lettera della madre di Alessandro Magno al figlio in cui gli offre un proprio
cuoco di nome Peligna, in quanto conosce bene le regole con le quali si compiono tutte le
cerimonie sacrificali della tradizione, sia quelle 'argadistiche' che quelle bacchiche. A
proposito delle 'argadistiche' i curatori vengono nuovamente assaliti da un certo bruciorino, in
quanto il termine è per loro oscuro. Il tipo ci mette pure a conoscenza del fatto che in Atene
gli araldi - famiglia sacerdotale ateniese - svolgevano contemporaneamente la funzione di
cuochi e di sacerdoti sacrificatori. Tanta era la rinomanza e la stima di cui godeva l'arte del
cuoco che a Roma addirittura i censori - carica importantissima - avevano il compito di
abbattere le vittime con la scure. L'ultima informazione rilevante che ci da è che quest'arte
"non è adatta ai servi ma nemmeno a liberi qualunque". Insomma, a quei tempi per fare il
cuoco bisognava essere almeno Leonardo da Vinci con in più un cavalierato del lavoro.
Che dire di questa storia se non che è ben strana? Presenta improbabili cuochi che devono
essere addirittura degli eruditi in svariate discipline scientifiche, che svolgono un ruolo
sacerdotale e che devono necessariamente essere uomini liberi; poi pietanze di cui nessuno ha
mai sentito parlare; poi ancora cerimonie oscure. Roba da fattoni, direbbe mio figlio.
Insomma, è davvero troppo.
Come nel caso precedente, fu una parola in particolare a farmi scattare l'intuizione. Infatti il
myma, questo piatto misterioso, gioca troppo evidentemente con mímos, ossia mimo, termine
che deriva da miméomai, imito, rappresento, contraffaccio. Insomma, questo cuoco dichiara
che parlerà copertamente, per allusioni, solo specialisti privi di qualunque genere di
intelligenza possono permettersi di non notarlo. Ma d'altra parte li paghiamo apposta.
Il myma era un secondo sant'Anfibalo: vidi che stavo ritrovando la stessa situazione di prima.
Una parola il cui significato era particolarmente chiaro mi si offriva come chiave di una cifra.
Ero ormai lanciato verso il precipizio, nessuno e niente sarebbe più riuscito a fermarmi.
Cominciai così a rendermi conto che "cuoco erudito", sofistés mágheiros, poteva ben stare per
sofistés magóteros, mago sapiente, essendo magóteros una forma epica di Mágos, termine di
derivazione persiana che indica un Mago, come in Persia venivano chiamati certi sacerdoti,
astronomi e interpreti di sogni. Da notare che sofistés vale sapiente, dotto, scienziato, ma
significa anche maestro d'eloquenza e per estensione ciurmadore, impostore, cavillatore,
chiara allusione al parlare enigmatico.
Fatto ciò, il nostro "cuoco" spiega il senso del mito di Cadmo e Armonia 3, riportando una
tradizione di Sidone, Sidoníon - che intesi come composto da siá, forma di theá, dei, e éidon,
so, conosco, quindi come una tradizione di chi conosce (l'effettiva natura de)gli dei - secondo
la quale Cadmo - nonno, páppos, ossia báptes, sacerdote di Dioniso, theòs nychios, dio
oscuro, ossia diá-nóos, cioè diànoia, il senso, il significato - sarebbe stato un mago che
avrebbe "rapito" Armonia in ambiente fenicio. Armonía non era altro che l'accordo dei suoni
su cui si basa la cifra fonetica, la quale sfrutta proprio la consonanza tra parole di diverso
significato, e per questo vale ermenéia, interpetazione. Il tizio sembrava dunque dire che
questa tecnica di comunicazione cifrata fosse in uso tra i Fenici, quindi in ambito
mediorientale, e fosse stata poi importata in ambiente greco, segnatamente nella cultura
misterica di Samotracia.
Ci dice quindi che un cuoco avente diritto di cittadinanza, un politikòn mágheiron, veniva
detto máison mentre uno ektópion, uno straniero, lo si chiamava - chissà perché - 'cicala':
tradussi senza esitare che un polytéchnon magóteros, un mago abile in molte arti, veniva
chiamato - naturalmente e logicamente - mathón, participio aoristo di mantháno, ossia colui
che ha appreso, mentre un éktypon, uno che strepita, che fa solo del cicaleccio (da ktypéo,
rumoreggio, risuono, strepito, rimbombo), che dunque non ha "rapito Armonia", lo si
chiamava - altrettanto logicamente - 'cicala'.
L'introduzione del termine máison - di cui non sto neanche a sottolineare la prossimità con
mason, maçon, massone - sarebbe semplicemente derivata dal nome proprio di Mesone, un
attor comico, komoidías ypokrítes, dove si gioca semplicemente sull'altro senso del termine
ypokrítes, conservato nel nostro 'ipocrita', cioè simulatore. Ma, ci vien detto: attenzione,
costui è di Megara, megaréys - parola che gioca con mágeiron, cuoco - tuttavia non di Nisea,
Nisáion, ossia del porto di Megara capoluogo della Megaride, bensì della Megara di Sicilia,
Sikelía. Ora, considerando che Nisáion vale ne-idón (lat. nesciens), ignorante, ignaro,
inesperto, mentre Sikelía gioca con skoliós, obliquo, tortuoso, sleale, falso, ambiguo,
compresi bene quel che mi veniva detto. Questo commediante ipocrita di nome Mesone, cioè
Sapiente, era in realtà un cuoco, ma non di quelli veri, che si limitano a cucinare vivande e
sono ignoranti, ignari, bensì di quelli che vi si mascherano dietro, quelli falsi, ambigui, ossia
non mágheiroi, cuochi, ma magóteroi, maghi.
Costui avrebbe inventato insieme le maschere, cioè le mascherature, sia del cuoco che del
servo, therápon, ossia del Therapeutés, del Terapeuta, come erano chiamati i sacerdoti di
Iside a Delo. Così, quando nel testo si insisteva sul fatto che un cuoco non può essere un
servo, io intesi che le funzioni del Mago e del Terapeuta dovevano essere tenute
rigorosamente distinte, ossia che non si dovevano mescolare i grandi e i piccoli misteri.
Compresi allora il senso del riferimento a Cadmo che, prima di liberarsi, era stato un servo,
dunque un Terapeuta. Infatti in questo contesto Kádmos valeva kadómenos, da kádomai, mi
prendo cura. Sembrava dunque che Cadmo fosse passato da Terapeuta a Mago, da myste ad
epopte, cioè da un rango iniziatico minore a uno maggiore, proprio "rapendo Armonia",
apprendendo le regole della lingua segreta.
Venni quindi al nome del 'cuoco' che la Madre di Alessandro offre al figlio: Peligna è polys
gnómon, colui che è molto sapiente perché conosce le regole, trópon, da intendere qui nel suo
altro senso di tropi, traslati, figure retoriche, tanto delle cerimonie 'argadistiche', argadistiká,
che di quelle bacchiche. Le bacchiche erano naturalmente i misteri di Dioniso, ossia di
Osiride, ma quelle 'argadistiche' quali potevano mai essere? Visto che la filologia classica non
mi aiutava, ricorsi ancora al mio buon senso: argadistiká valeva érga dísticha, ossia le opere
in due file, in distico, doppie, vale a dire in due sensi.
A questo punto potei tornare al titolo dell'opera di Ateneo, Deipnosofistón e - considerato che
déipnon, banchetto, valeva diplóon, doppio, finto, capzioso, ambiguo - tradurlo
adeguatamente come Diplosofistón, i sapienti doppi, dal parlare ambiguo, diplomatico.
Presi allora brevemente in considerazione l'autore de I deipnosofisti, ossia Ateneo: si trattava
di un greco egizio proveniente da Naucrati, città situata sul ramo canopico del Nilo, a oriente
di Alessandria, che aveva svolto prima di questa il ruolo di centro culturale. È nella regione di
Naucrati che il Fedro di Platone colloca il dio Theut, inventore del calcolo, dell'astronomia,
del gioco dei dadi e della scrittura. Come per caso, dietro Ateneo vidi profilarsi l'ombra di
Ermete. Quando Ateneo venne a Roma entrò a far parte del circolo di un ricco romano
appartenente all'ordine equestre - un cavaliere - di nome Larense, ossia l'ospite dei banchetti e
simposi messi in scena nei Deipnosofisti. Questo circolo era assai anomalo per gli standard
dell'epoca, in quanto si riuniva regolarmente e i suoi partecipanti mostrano indizi di
familiarità profonda, di una comune militanza di tavola e cultura. Lo stesso Larense non era il
solito ricco romano alla Trimalcione ma un sacerdote e un alto funzionario
dell'amministrazione imperiale, e in più un autentico letterato, un bibliofilo perfettamente
bilingue, con un sapere critico degno di Socrate in persona, cosicché il rapporto di dipendenza
sociale dei suoi ospiti da lui risultava sorprendentemente attenuato: si trattava - come ho detto
- di una vera e propria comunità intellettuale che prendeva i suoi pasti in comune,
consacrandosi alle lettere e al sapere e condividendo una ricchissima biblioteca. Nonché
parlando - a quanto pare - solo di cucina.
A questo punto mi alzai e accesi un Montecristo n. 1: avevo bisogno di calmarmi e riflettere.
In mano cos'avevo? Ero partito da una vecchia leggenda massonica che presentava personaggi
dai nomi assurdi, la decifrazione dei quali consentiva di intendere che nel terzo secolo una
tradizione segreta, caratterizzata da una particolare forma di comunicazione cifrata, era stata
portata in Inghilterra e trasmessa ai massoni locali. Avevo poi trovato un bizzarro documento
di un secolo prima - il secondo - che sembrava utilizzare la medesima cifra dato che,
applicandovela, tutte le sue incongruità scomparivano. Esso sembrava attestare l'esistenza,
nella Roma del secondo secolo, di una società di iniziati a grandi misteri, mascherata dietro la
categoria professionale dei cuochi, depositaria di una tradizione antica che rinviava alla
Persia, all'Egitto e alla Fenicia nonché dotata di usi e costumi sorprendentemente simili a
quelli della massoneria moderna, ivi compresa la menzione di tal Mesone. Questa società
praticava una forma di comunicazione cifrata, enigmatica, a base greca, caratterizzata dal
gioco di parole, dal calembour.
Mi ronzava la testa e sudavo. Pareva che nel circolo di Larense si credesse che da un'antichità
tanto remota da essere persino nauseante fosse esistita una specie di società iniziatica che si
nascondeva dietro o dentro svariate categorie professionali e che usava un particolare tipo di
cifra per comunicare e trasmettere le proprie conoscenze. Una specie di Alien che non
sembrava essere mai vissuto se non come parassita di qualcos'altro. Dalla storia di Anfibalo
risultava anche che, in ordine di tempo, l'ultima categoria professionale dietro cui si era
mascherata fosse quella dei costruttori di edifici. Se è così - mi dicevo - col cavolo che i
cosiddetti "accettati" hanno cominciato ad essere ammessi in massoneria solo nel Seicento,
questo è un trucchetto che va avanti da molto ma molto più tempo, e mica solo coi massoni.
4. Verso il fondo.
Ma da quanto - mi chiedevo - da quanto? Pensai che dovevo seguire le tracce di quel
particolare tipo di trasmissione per gioco fonetico: dopotutto era questo il segno distintivo
della società. Naturalmente partii dai Magi, dato che avevo sottomano l'ottimo testo di Walter
Burkert Da Omero ai Magi. Ormai non mi divertivo più e speravo che l'autorevole filologo mi
smentisse categoricamente facendomi smettere di delirare perché, insomma, se non stavo
delirando cosa stavo facendo? Ma purtroppo, verso la fine del libro, caddi sulla frase
seguente.
I mágoi sono presentati come maestri della epoidé (canto magico) in connessione col sacrificio già in
Erodoto (I, 132, 3).
Naturalmente Erodoto I, 132, 3 - che il diavolo se lo porti - confermava. Come in Ateneo, i
Magi erano messi in connessione tanto con le attività sacrificali quanto con il canto magico,
con Armonia. Ma in Burkert c'era anche di più. Vi si menzionava il papiro di Derveni, un
testo del V secolo a. C. che si occupa principalmente di teogonia Orfica ma che menziona
ripetutamente i Magi paragonando i loro riti con quelli dei mysti e sottolineando la superiorità
dei primi sui secondi. Insomma, qualcosa di assai vicino a quel che la mia decifrazione di
Ateneo aveva messo in luce.
Appare chiaro che i Magi sono introdotti come degli esperti, con un sapere superiore in relazione a
pratiche e credenze conosciute in Grecia. [...] La presenza dei Magi conferma le ipotesi e trova
conferma attraverso la pratica degli iniziati, mystai. La formula "nello stesso senso come i Magi",
katà tà autà mágois, indica che sono posti in relazione due sistemi: parlando dei mystai l'autore li
mette in relazione con un altro rituale, parallelo ma separato.
Sembrava che la differenza tra i due riti stesse proprio in questa padronanza del canto magico.
L'attività dei Magi descritta nel nostro testo si accorda perfettamente con un testo di Diogene Laerzio
già menzionato: "I Magi si occupano del culto degli dei; dei sacrifici e delle preghiere, asserendo di
essere gli unici ad aver ascolto presso gli dei", toùs dè mágous perí te therapéias theón diatríbein
kài thysías kái eychás, os autoùs mónous akouoménous. Questo è straordinariamente vicino al testo
di Derveni: euchài kài thysíai - thysías kài eychás, ma non ne dipende; si spinge un po' oltre, fino ad
affermare l'esclusività dei mágoi per l'efficacia dei loro riti, senza menzionare i dettagli rituali.
Nondimeno si accorda pienamente col nuovo testo: solo i mágoi sono uditi dagli dei, perché
conoscono l'incantesimo per rimuovere gli ostacoli, i demoni malevoli, e così aprono la via,
attraverso le thysíai, alle eychài.
L'idea che sta dietro tutto ciò mi sembrava essere la seguente: i Magi pretendevano di essere
gli unici a venir ascoltati dagli dei perché pretendevano di essere gli unici a venir compresi da
loro: pensavano di parlare la loro stessa lingua. Perbacco!
Burkert rapportava poi le misteriose credenze dei Magi alla filosofia naturalistica
presocratica, in particolare a Pitagora e Democrito che, in un famoso passo, descrive "maestri
della parola" che, tendendo le mani verso il cielo, "chiamano l'universo con il nome di Zeus".
Questa interpretazione naturalistica e fisicalista del sapere dei Magi mi ricordò che c'era
qualcos'altro collegato con la Persia e la lingua segreta, esattamente nel fondamentale Le
origini dell'alchimia nell'Egitto greco-romano di Jack Lindsay.
Non possiamo sviluppare questi punti, ma dobbiamo ricordare che le tradizioni artigiane dei minatori
e dei metallurgi erano esistite per millenni e avevano sviluppato ricche elaborazioni. Termini sumeri,
tramandati in seguito dagli Accadi, dagli Assiri e dai Babilonesi, possono spesso essere identificati; e
incontriamo diversi minerali oltre a termini indicanti processi come la cottura, l'uso di cenere di
lisciva, il lavaggio e la calcinazione, che svolgono una parte importante al tempo debito in alchimia. I
testi mostrano, però, che vi fu una specie di linguaggio segreto, che ricorreva a effetti fondati su
analogie di suono. Così, una ricetta per fare il vetro risalente al XVII secolo a. C. usa eru, aquila, per
eru, rame. A-ba-an (pietra) è scritto ha-bar-an, avendo i segni ha e bar anche il valore di a e ba. Lo
zolfo grezzo è chiamato la sponda del fiume.
Partito dal III secolo d. C. ero scivolato addirittura al XVII a. C., praticamente con i piedi a
bagno nel diluvio universale e sempre con i segni visibili di questa misteriosa società. Nel
XVII a. C. si nascondevano tra i fabbri, nel V a. C. tra i sacrificatori, nel II d. C. tra i cuochi,
nel III tra i muratori ma erano sempre loro. Me lo diceva la musicalità della loro lingua
segreta, l'incomprensibile canto che li accompagnava costantemente, come un marchio
indelebile, attraverso tutte le loro maschere. In origine, la lingua di riferimento non doveva
essere greca ma un qualche idioma mediorientale: sembrava che i Greci fossero stati tenuti
fuori dalla cricca per un bel po', a fare i semplici Terapeuti finché Cadmo - che pure greco
non era - rapì Armonia e la portò in ambito ellenico. Poi, divenuto il greco la lingua comune
nel bacino del Mediterraneo, cioè l'inglese dell'epoca, la conoscenza segreta doveva esservi
stata tradotta e non soltanto cifrata.
In qualche modo, tutto quanto era confermato anche da quel visionario geniale di Robert
Graves nel suo La dea bianca.
La mia tesi è che il linguaggio del mito poetico anticamente usato nel Mediterraneo e nell'Europa
settentrionale fosse una lingua magica ...
E non solo, perché anche Giorgio de Santillana e la sua collaboratrice Herta von Dechend, nel
loro Il mulino di Amleto, si erano occupati di qualcosa del genere, ossia di un'antichissima
scienza cifrata nei miti, una scienza che "fu fondamentalmente tenuta segreta, e in modi tali
che non riusciamo bene a immaginare".
Quelle che ci appaiono condizioni "primitive" sono, con pochissime eccezioni, solo ciò che è rimasto
di antiche civiltà altamente sviluppate; quello che sembrava essere uno stadio di superstizione
universale e costante da cui si sarebbe sviluppato il pensiero, non è altro che il comune denominatore
nel quale versano le civiltà in decadenza.
E ancora.
Il lettore moderno rispetta come "scientifiche" soltanto le formule di approssimazione lunghe una
pagina e cose simili. Non gli vien fatto di pensare che in passato una conoscenza altrettanto
importante potesse venir espressa nella lingua di tutti i giorni. È una possibilità che nemmeno
sospetta, anche se le realizzazioni delle civiltà antiche - basti pensare alle piramidi o alla metallurgia
- dovrebbero esser motivo probante per concludere che dietro le quinte lavorava gente seria e
intelligente, che non poteva servirsi di una terminologia tecnica.
Ma non era finita qui, perché a questa misteriosa e antichissima scienza era associata, anche
per lui, una strana lingua.
Era una lingua che non si curava delle credenze e dei culti locali e si concentrava invece sui numeri,
moti, misure, architetture generali e schemi, sulla struttura dei numeri, sulla geometria... È di
antichità che incute timore.
In fin dei conti, una robetta che faceva rizzare i capelli anche al grande professore del M.I.T.,
non solo a me. E tuttavia, se de Santillana avesse saputo quel che sapevo io, e cioè che questa
conoscenza era sopravvissuta fin quasi ai nostri giorni, avrebbe pure smesso di dormire, ci
potete scommettere.
Il Montecristo era ormai finito, e con lui le povere risorse della mia biblioteca. Ma sospettavo
che, per poter davvero proseguire la mia ricerca, non mi sarebbe servito niente di meno che
quella di Alessandria, tanto si trattava di faccende remote. Tuttavia, tre cose continuavano a
disturbarmi: una perché non la sapevo, l'altra perché non la capivo, l'altra ancora perché la
temevo. Quella che non sapevo era naturalmente il contenuto di questa conoscenza così
riservata. Quella che non capivo, e che mi dava una punta di nausea, era questo nascondersi
ostinato per oltre tremila anni, questo non voler assolutamente esistere in modo ufficiale.
Quella che temevo era che la cricca non fosse affatto estinta. Solo l'idea mi sconvolgeva:
come pensare che Adamo in persona stia passeggiando su e giù nel giardinetto di fronte.
Cominciavo a vedere con occhio diverso e nient'affatto benevolo l'Hypnerotomachia
Poliphili, i Rabish di Lomazzo, le opere di Fulcanelli, e tutti i maledetti luoghi dove poteva
sembrarmi che Armonia suonasse il suo flauto. Tuttavia ciascuno di costoro pareva essere
essenzialmente un isolato, sicché cominciai a dirmi che forse, lustro dopo lustro, secolo dopo
secolo, millennio dopo millennio anche una cosa incredibilmente vitale come l'antica società
aveva finito per sfilacciarsi irreparabilmente, non lasciando dietro di sé che qualche sperduto
superstite.
Per quanto riguardava la massoneria in particolare, ossia l'ultima delle società parassitate di
cui fossi a conoscenza, sapevo che in essa si parlava della "parola perduta" e che le sue parole
sacre e di passo erano ebraiche. Due cose che mi facevano ritenere assai probabile che
sant'Anfibalo non abitasse più lì: tra il X secolo - data dell'ultima attestazione di
sopravvivenza dell'antica tradizione in massoneria - e il XVIII la strada è lunga.
Probabilmente era morto, anzi, speravo davvero che fosse morto.
Ebbi qui un'ottima occasione per lasciar perdere ma la sprecai miseramente. Ero così sicuro
della mia supposizione che cercai di verificarla. Così capitai sul volumetto di Arturo Reghini
Le parole sacre e di passo dei primi tre gradi e il massimo mistero massonico, maledetto lui!
5. Verba dimissa.
Il Reghini passa per essere un crastone nel campo degli studi massonici ed esoterici in
generale e così mi misi a leggerlo con estrema attenzione, ma già a pagina 4 cominciai a
capire che qualcosa non stava andando per il verso giusto.
L'analisi delle cerimonie e delle leggende rituali dei varii gradi mostra all'evidenza l'ispirazione dai
Misteri pagani, gli Eleusini e gli Isiaci in specie ...
Insomma, ritrovavo il dato fondamentale della mia costruzione all'inizio della prefazione, ci
pensate? Tuttavia mi dissi: "Beh, peggio di così non può andare, armati di santa pazienza e
prosegui, vedrai che prima o poi verrà fuori l'ebraico." Invece, a pagina 10, venne fuori ben di
peggio.
Secondo quanto affermano autorevoli scrittori dell'Ordine le parole dell'Ordine (parte almeno) una
volta non erano ebraiche. Il Ragon dice che verso la fine del XVIII secolo si credette bene a scopo
templare di giudaizzare tutte le parole dell'Ordine. L'affermazione è categorica quantunque non si
veda la necessità di questo ingiudeamento per collegare la massoneria coll'Ordine dei cavalieri del
Tempio e quantunque certe parole, come Jakin, Bohaz e simili, non possano essere, pel loro carattere
essenzialmente ebraico, versione da altra lingua in ebraico. Sappiamo però con sicurezza che nel
1760 oltre alle parole ebraiche, si trovavano anche alcune parole greche; ce lo dice un autorevole
scrittore massonico, il barone Tschoudy, che scriveva nel 1766. Ed un altro autore, il Bernard, nella
sua Secret Discipline dice: "per un singolare lapsus linguae, i moderni hanno sostituito Tubalcain
nel 3° grado per Tymboxein, da seppellirsi". Questo Tymboxein è evidentemente la parola greca
tymbochéin o meglio tymbochoéin che significa effettivamente alzare un tumulo. Anche l'Hutchinson,
nel suo Spirit of Masonry, la cui prima edizione porta la sanzione dei Grandi Ufficiali della Gran
Loggia, eletti nel 1774, riporta nella lingua greca non soltanto il distico [sic] tymbochoéo = struo
tumulum, pronunciato nell'avanzare al grado di maestro, ma anche la parola di passo del secondo
grado, e la parola stessa di Acacia, che sarebbe semplicemente l'akakía, l'innocenza. Non sembra
dunque avventato il supporre che la giudaizzazione a scopo templare affermata dal Ragon, sia
consistita in una versione dal greco in ebraico.
Capito? Per quanto facessi, non riuscivo più a uscire dalla trappola in cui mi ero cacciato da
solo. I miei vecchi Anfibalo & Co. erano prosperi e all'opera ancora alla fine del Settecento
quando, probabilmente perché il vero significato greco delle parole stava diventando
trasparente, decisero di camuffarle con l'ebraico, secondo la loro inveterata usanza.
Naturalmente, nemmeno io capivo il significato del riferimento di Ragon ai Templari, ma non
era questo che mi preoccupava al momento. Quel che mi preoccupava era che i segni di
sopravvivenza dell'antica società si stavano avvicinando un po' troppo al tempo in cui vivo io:
non mi piace dividere il mio cortile spazio-temporale con certa gente, gente che si tramanda
segreti da migliaia di anni e non vuol saperne di avere una carta d'indentità e una partita
I.V.A.!
Devo dire che, nel frangente, mi dimostrai molto meno intelligente di Reghini il quale,
smentendo elegantemente se stesso, evita di cacciare il naso dove non dovrebbe e prosegue
con l'ebraico come se quanto ha scritto un attimo prima non contasse nulla.
Comunque non è certamente il caso di estendere l'affermazione del Ragon alle tre parole sacre:
Jakin, Bohaz, e Mach Benach. Jakin e Bohaz sono i nomi perfettamente ebraici delle due colonne
situate secondo la Bibbia all'entrata del Tempio di Salomone; e sono già ricordate in scritti massonici
della prima metà del XVIII secolo, p. e. l'opuscolo citato precedentemente dice che "in loggia si
trovano due pilastri Jachin e Boaz che rappresentano la forza e la stabilità della Chiesa di tutte le
età; e così pure le riporta l'antico scritto del Pritchard ed il libro che ha per titolo: Jachin and Boaz
or an authentic key to the door of freemasonry.
Visto come si fa ad aggirare l'ostacolo? Ma io, a differenza sua, avevo sulla groppa quel popo'
di roba che ho già detto e presi seriamente l'affermazione di Ragon sull'ebraicizzazione di
tutte le parole dell'Ordine.
Innanzitutto, notai che in origine le parole massoniche non dovevano mai essere scritte, ma
solo ed esclusivamente pronunciate, e questo si accordava perfettamente con la preminenza
dell'aspetto fonico nella lingua segreta. Secondariamente mi balzò agli occhi che le parole
sacre dei primi due gradi sono collegate tra loro, essendo anche i nomi delle due colonne
all'ingresso del tempio. È importante sottolineare a questo proposito che, in Masonry
dissected del Pritchard (1788), Boaz e Jachin sono la domanda e la risposta del primo grado:
collegate, dunque, anche nel discorso. Naturalmente, non misi affatto in dubbio che avessero
un perfetto significato ebraico, la loro ebraicizzazione avrebbe richiesto esattamente questo.
Mi occupai piuttosto di vedere se potessero averne uno greco altrettanto perfetto, o anche di
più.
Ora, la parola sacra del primo grado, ossia Boaz (Bohaz, Booz), vale bóasa, forma dorica
dell'indicativo aoristo di boáo, grido, invoco; dunque: "Io invoco...", mentre quella del
secondo, Jachin (Jakin), vale Iákchon, accusativo di Iákchos, Iacco, Bacco, Dioniso, nome
che era anche contemporaneamente il grido d'invocazione al dio; dunque: "...Iacco". Esse
formavano dunque una frase perfettamente coerente: "Invoco Iacco", la quale testimoniava
esplicitamente di un'eredità dionisiaca nei rituali massonici4. E, a proposito di colonne,
ricordai pure che non solo nel tempio di Salomone, ma anche nel santuario cabirico di
Samotracia, sacro a Cibele, l'ingresso è fiancheggiato da due colonne, queste ultime in forma
di statue di divinità itifalliche (cioè con il sesso in erezione), con le braccia tese verso l'alto,
che dovevano impedire l'ingresso ai non iniziati. Lo scrittore cristiano Ippolito, nel suo
Refutatio omnium haeresiarum, dice che queste erano rappresentazioni dell'uomo primordiale
e del rinato Pneumatico, l'uomo spirituale della stessa natura dell'uomo primigenio. Dioniso
era collegato ai misteri di Samotracia in quanto i Coribanti erano stati i suoi custodi. Mi tornò
in mente il testo di Ateneo con la sua menzione, in uno stesso contesto, di Cadmo - fondatore
dei misteri di Samotracia - e delle cerimonie di Dioniso. Ricordai infine che lo storico
Diodoro Siculo parla di una lingua molto antica, usata come lingua sacra e di culto proprio
dagli abitanti dell'isola di Samotracia.
Per la parola di passo del secondo grado pensavo di poter contare sul Reghini, visto che in
questo caso sembrava assecondare l'etimo greco, ma mi sbagliavo gravemente. Egli
cominciava riportando l'opinione di Hutchinson.
L'applicazione, dice egli [Hutchinson], che vien fatta tra i massoni della parola Sibboleth, è come una
testimonianza del mantenimento inviolato del loro voto, e della loro fede incorrotta colla fratellanza.
E per rendere i loro lavori e le loro frasi più oscure ed astruse, essi le hanno scelte in modo che, per
l'accettazione nella scrittura od altrimenti possano imbarazzare (puzzle) l'ignorante con una doppia
implicazione. Così Sibboleth, se noi avessimo adottato i misteri eleusini, corrisponderebbe come ad
una confessione della nostra professione, implicando essa spighe di grano; ma essa ha la sua
etimologia o derivazione dai seguenti composti nella lingua greca, come è adottata dai massoni, cioè
Sibo, Colo, e Lithos, lapis, così Sibolithon, Sibbolithon, Colo lapidem, implica che essi serbano e
tengono inviolate le loro obbligazioni, come il Juramentum per Jovem lapidem, il giuramento più
obbligante presso i pagani.
Spirito davvero contorto questo Hutchinson: stava di sicuro cercando di dirmi qualcosa tra le
righe, dato che insisteva tutto il tempo sul tenere i patti e le obbligazioni, cosa che non
c'entrava nulla col colo lapidem con cui traduceva la parola di passo.
Infatti, Scibboleth non ha nulla a che vedere con Sibbolithon in quanto è perfettamente
omofono a symbolé, patto, convenzione, che è proprio ciò che cerca di dirci Hutchinson.
Reghini, dal canto suo, faceva un ragionamento del tutto inconsistente. Poiché Scibboleth in
ebraico vale "spiga", allora la parola greca originaria doveva essere il termine per spiga:
stáchys. In definitiva il gran crastone degli studi massonici non sapeva proprio niente,
ignorando del tutto la lingua segreta. Non aveva nemmeno capito che l'ebraicizzazione
doveva servire proprio a mascherare il senso della corrispondente espressione greca, non a
divulgarlo! Insomma, che utilità ci sarebbe stata nel tradurre semplicemente parole da una
lingua all'altra? Ma poi - mi dissi - cosa c'entrerebbe un simbolo di morte e rinascita col
secondo grado? Semmai col terzo!
A me invece le cose cominciavano a sembrar chiare: l'apprendista non ha parole di passo
perché non ha ancora cominciato a capire la convenzione (symbolé) ermeneutica che è il
segreto della parola perduta. Intuii che la famosa parola perduta massonica non era null'altro
che il significato esatto della lingua criptica usata dagli iniziati.
Così il "dirozzare la pietra grezza" - compito precipuo dell'apprendista - mi pareva giocare sul
suono del termine inglese stone - non bisogna scordarsi la lingua originale in cui i termini
erano espressi - che rinvia al verbo greco sténo, gemo, sospiro, mi lamento, e all'aggettivo
stenós, stretto, angusto, tenue, insignificante, meschino, scarso. Così l'apprendista deve
dirozzare la scarsità, l'angustia, di cui soffre e che fa sì che egli si lamenti e invochi (bóasa),
tuttavia senza sapere bene chi. Per contro il compagno sa a chi rivolgersi (Iákchon) perché è
colui che ha inteso la convenzione (symbolé). Il suo compito è affinare lo strumento
principale della conoscenza: i cinque sensi. Qui il gioco è sul termine "senso", perché ci sono
sensi fisici e sensi linguistici: ai quattro di Dante - letterale, allegorico, morale ed anagogico la massoneria sembrava aggiungerne un quinto. Strano. Andai a vedere a quale dei sensi fisici
veniva assegnato il quinto posto: era il gusto. Capite? Il gusto! In effetti gente priva di gusto
non potrà mai padroneggiare la musicalità della lingua segreta. Altro che esercitare i sensi
fisici, qui si parlava invece di affinare la competenza semantica!
Passai così al terzo grado, soffermandomi innanzitutto sul nome del personaggio leggendario
che l'iniziando deve impersonare per essere raised to master, elevato a maestro. Hiram Abiff
valeva éran, terza persona singolare aorista di áiro, qui nel senso intransitivo, mi innalzo;
dunque: "Egli s'innalza...", e bafé, dativo di bafé, bagno, immersione, tintura, tempra, forza;
dunque: "...per mezzo del bagno". Anche nell'altra versione di Hiram Abi, esso sostituiva
semplicemente alla parola bafé la parola ébe, vigore della giovinezza, valendo in questo caso:
"Egli s'innalza al vigore": Ebe era la dea greca della giovinezza eterna. Mi ricordai di Eduino,
édyn, "Mi sono immerso", come dire Hiram Abiff.
Mi sembrava del tutto trasparente e sensato, ma per sicurezza diedi una controllatina al mai
abbastanza lodato Grande lessico del nuovo testamento edito da Paideia, il quale mi confermò
che bagni sacrali si ritrovano un po' in tutti i culti misterici, da quelli eleusini a quelli
bacchici, nella religione egizia, nel culto di Iside fuori dall'Egitto, nei misteri di Mitra, nei
giochi Apollinari e nelle feste Pelusie.
In tutti i casi esse illustrano il fatto che nella religione antica, anche oltre l'ambito delle nostre
conoscenze dirette, si faceva grande ricorso, particolarmente nell'oriente, a lustrazioni, con impiego
di acqua. [...] Quanto alla Babilonia, alla Persia, all'India, cerimonie sacrali nell'acqua sono
testimoniate ripetute volte già in un'epoca molto antica. Accanto al Gange, l'Eufrate ebbe una
importanza religiosa che è paragonabile a quella del Giordano per gli Ebrei e i cristiani.
La stessa opera aggiungeva qualcosa di molto interessante sul significato che pareva fosse
attribuito all'operazione.
In questo caso si tratta di un'elevazione della vita, di immortalità. Non è un caso che questo
collegamento concettuale appaia proprio nella mistica ermetica, dunque in Egitto, una delle due terre
del mondo antico in cui scorrevano grandi fiumi. Come nell'altra terra, Babilonia, l'acqua vale come
mezzo principale per gli esorcismi, come acqua di vita, così in Egitto si può distinguere una forma
(forse più antica) dell'abluzione dei re e dei morti, in cui, come mostrano i geroglifici annessi oppure
quelli usati per rappresentare le gocce d'acqua si mira a una revivescenza. In queste manifestazioni
non si fa mai una distinzione netta tra il fluido vitale scomparso, e perciò da sostituirsi, del morto,
l'acqua miracolosa del Nilo e lo sperma divino. Anche il morto Osiride viene asperso e dalla sua
salma escono arbusti. Il dio si identifica col Nilo e il morto (rettamente trattato) col dio. Il concetto
della reviviscenza si dissolve nel concetto, diffuso in tutti i popoli, della rinascita. Ma questo concetto
spesso ha come presupposto l'idea di una morte, il più delle volte soltanto accennata simbolicamente.
[...] Da ciò appare come possibile che anche battesimi misterici siano stati intesi come morte
volontaria e divinizzazione. Tuttavia sarebbe avventato generalizzare questa conclusione. In Apuleio
la vera iniziazione compiuta nel tempio, che rappresenta la morte e la divinizzazione cultuale, è
preceduta da un doppio lavacro, compiuto in terme pubbliche, e che soltanto nella seconda parte è
sacrale. Perciò per il "battesimo" traspare il concetto della purificazione. Ma nella misura in cui la
somiglianza del riti non favorisce una confluenza dei due concetti, non esiste un collegamento molto
stretto fra purificazione e reviviscenza. Ambedue i concetti, della purificazione e della reviviscenza, se
si trascurano accenni del tutto insignificanti, non vengono intesi in senso morale, ma semplicemente
in senso rituale e magico.
Insomma, era chiaro che Hiram Abi o Abiff era l'iniziato che si eleva al vigore giovanile o che
s'innalza per mezzo del bagno rigenerante: entrambe espressioni che - come abbiamo visto, si
riferiscono al medesimo contesto. E compresi il valore simbolico delle due colonne itifalliche
di Samotracia e del "rinato Pneumatico" di Ippolito: il genitale maschile è qualcosa che si
alza, che si muove verso l'alto. A questo proposito c'era qualcosa nel libronzo di un tal
Giovanni Feo, intitolato Prima degli Etruschi.
Nel culto di Cibele, Ermes itifallico era uno "spanditore di anime". Le anime, essenze spirituali,
erano equiparate a farfalle e falene. In una pittura vascolare attica a figure nere è chiaramente
espresso il senso di tale simbolismo: si vede un personaggio barbuto e itifallico che emette il seme,
raffigurato come gocce che si tramutano in una farfalla. E, forse, non si tratta solo di una simbologia
poetica. Hermes essenzialmente è un generatore e portatore di qualcosa di luminoso, un
illuminatore... Così lo definisce Kerényi. Nella relazione tra sperma e farfalla è proprio quel
qualcosa di luminoso recato dal dio a svelare il senso recondito del simbolismo. Le farfalle, e in
particolare le falene, sono magneticamente attirate dalla luce, che per loro rappresenta un completo
veicolo di moto e vitalità. Secondo molti naturalisti per le farfalle la luce è una sorta di nutrimento
essenziale e primario. Tale relazione non è sfuggita agli antichi Greci, acuti osservatori dei fenomeni
naturali. L'analogia ermetica tra sperma e farfalla rivela il principio ultimo e creatore del quale
Hermes è segreto patrono: la luce.
Tuttavia la mia decifrazione mi ripropose sorprendentemente la questione, evocata da Ragon e
che io avevo del tutto trascurato, del rapporto tra massoneria e templarismo. Infatti la parola
Bafomet vale bafén mathón, colui che ha conosciuto il bagno, presentando così un significato
strettamente analogo al precedente. Dalla mia lettura la strana affermazione di Ragon risultava
persino rafforzata, in quanto se ne deduceva che l'introduzione della leggenda di Hiram Abiff
in massoneria indicava un'immissione, o una manifestazione in essa della tradizione templare.
Hiram Abiff era pure il Bafomet massonico. Ma, buon dio, Templari nel XVIII secolo? No,
vabbe' - mi dissi - almeno di questo non mi voglio occupare! Nel caos in cui stavo, ci
mancavano pure i Poveri cavalieri di Cristo e del tempio di Salomone!
Passai quindi alla parola sacra del terzo grado. Il Reghini ne dava due, usate alternativamente
a seconda dei riti, Mak-Benak (Mac-Benak, Mac-Benah, Mac-Bena, Mac-B'nah) e Moabon
(Mahhabon, Mahabone), affermando che la seconda doveva essere una deformazione della
prima. Sbuffai per l'irritazione perché questa faccenda della deformazione m'inseguiva fin da
sant'Adhabell, sembrava che i massoni fossero tutti sordastri e dislessici. Avevo ormai capito
il trucchetto. Tutte le volte che gli esegeti ufficiali non riuscivano a spiegare una parola se la
cavavano dicendo che beh, era una deformazione, e la trasformavano in un'altra che
credevano invece di comprendere. Ma io volevo giocare onestamente, fino alla fine.
Mak-Benak per me era costituita da tre parole greche: máches, genitivo di máche, battaglia,
lotta anche di parole, schermaglia; boés, genitivo di boé, grido, parola, suono, musica, canto;
e ánax, signore. Il termine valeva dunque: "Signore della battaglia del suono (della parola)".
Naturalmente, poiché significati diversi confliggono nella forma fonica delle espressioni
linguistiche, soprattutto se si camuffano parole di una lingua dentro altre parole di un'altra
lingua, divenire maestro doveva pur implicare il dominio di tale tecnica espressiva. Rendersi
"signore della battaglia del suono" non significava quindi nient'altro che "rapire Armonia".
Moabon, dal canto suo, non m'apparve affatto una deformazione del precedente ma come
costituito da due parole greche: myón, participio indicativo di myéo, insegno, inizio; e ancora
boén, accusativo di boé, il cui senso ho già dato. Il termine valeva dunque: "Colui che
insegna il (inizia al) suono (della parola)". È sorprendente notare come entrambe le frasi
presentino una singolare sovrapposizione di senso. Anche se non derivano una dall'altra,
Mak-Benak e Moabon significano più o meno la stessa cosa: il maestro è signore della
battaglia del suono, del bisticcio fonetico, della lingua criptica iniziatica che ora possiede
perfettamente e che può insegnare. Tra l'altro, queste lievi differenze attestavano un uso vivo
della lingua greca e non una semplice trasmissione pedestre e ignara fatta da sordastri
dislessici. Dietro questi giochi c'erano degli autentici poeti del concetto, veri signori della
battaglia del suono. Cosa volete che vi dica? Ero semplicemente ammirato.
Il Reghini mi dava due versioni, a seconda dei riti, anche della parola di passo del terzo grado:
Tubalkain e Giblin (Giblim). Naturalmente il Tymboxein sponsorizzato dal Bernard,
dall'Hutchinson, e al loro seguito da lui stesso, c'entrava come i cavoli a merenda. Che senso
ha in un contesto esplicito di resurrezione e rigenerazione avere una parola di passo che recita:
"io preparo il mio sepolcro, faccio la mia tomba nelle polluzioni della terra, sono sotto l'ombra
della morte"? Per non parlare di Giblin che Reghini, facendo sempre lo stesso errore logico di
ritradurre semplicemente in greco parole ebraiche, fa derivare da télos, fine. Ma che fine, che
fine, se tutto il grado parla di un nuovo inizio!
Tubalkain era per me costituito da tre parole greche: theoú, genitivo di theós, dio; boulén,
accusativo di boulé, volontà; ed écho, ho, possiedo, conosco. Il termine valeva dunque:
"Conosco il volere divino". Come non ripensare al brano di Diogene Laerzio sulla pretesa dei
Magi di essere gli unici a venir ascoltati dagli dei perché, in qualche modo, parlavano la stessa
loro lingua? Mi pareva pacifico che colui che si è elevato per mezzo del bagno rigenerante - o
al vigore giovanile - e che si è reso signore della battaglia del suono, conosca anche l'esatto
volere degli dei, visto che pretende di parlarci vis-à-vis.
Giblin stava invece chiaramente per Kybélen, accusativo di Kybéle, Cibele. Quest'ultima
parola, chiaramente fuori contesto, attestava comunque un'influenza dei misteri di Cibele
nella massoneria. D'altra parte ero informato della stretta connessione - filologicamente
accertata - tra i misteri di Samotracia, quelli di Cibele e quelli di Dioniso, e pure del fatto che
Cibele e Demetra erano considerate grandi protettrici del culto di quest'ultimo. Compresi la
collocazione originaria della parola Giblin rifacendomi al rituale contenuto in The Grand
mystery of free-masons discovered wherein are the several Questions put to them at their
meetings and Installations, London, printed from T. Payne, 1724, nel quale si legge: "D.
Datemi la parola di Gerusalemme. R. Giblin. D. Datemi la parola universale. R. Boaz. D.
Qual è la parola giusta od il punto giusto di un massone? R. Adieu." Soprattutto nell'ultima
risposta che prescrive, questo rituale sfiora il ridicolo. Sfido chiunque a trovare un
corrispondente ebraico per la parola "Adieu", che è invece evidentemente francese. Il Reghini,
nella menzione che ne fa, afferma che esso non contiene parole sacre o di passo ma un altro
genere di parole: di Gerusalemme, ecc. Tuttavia - osservai io - Gerusalemme sta per ierós
lémma, parola sacra - quindi la parola sacra c'era e come, malgrado Reghini -, che Giblin sta
per Kybélen, accusativo di Kybéle, Cibele, che Boaz sta per bóasa, invoco, e che infine il
ridicolo Adieu sta per óida, io so. A questo punto tutto il dialogo diventa comprensibile, in
particolare chi risponde dichiara: "Cibele invoco. Io so." Ciò appare come del tutto analogo
allo scambio rituale del primo e secondo grado, là si trattava di Dioniso, qui di Cibele.
Che dirvi se non che al termine della mia fatica ero sconvolto. Il ventilatore girava pigro come
sempre, ma il marcio c'era ormai finito dentro e mi stava grandinando addosso. Sì - urlava la
mia mente scatenata - sì! E Salomone è stato scelto perché il suo nome vale teloúmenos,
participio passato della forma passiva di teléo, uno dei cui significati è "io inizio ai misteri";
teloúmenos è dunque l'iniziato, come nell'espressione tipica teloúmenos megáloisi télesi,
iniziato a grandi misteri, sì! E Ivah, nel quarto grado del rito scozzese, è eyói, semplicemente
il grido entusiastico dei seguaci di Dioniso, evoè, altro che forma contratta di Iavé! Sì e poi sì!
TRISMEGISTO E STRAMALEDETTO SÌ! Avevo la bufera nel cervello, qualcosa
nell'ordine fondamentale del funzionamento dei miei neuroni si era irrimediabilmente
guastato.
6. Una conclusione sensata.
Una banale ricerchina cominciata per caso aveva liquefatto il mio mondo: più niente era quel
che sembrava. Essa aveva ucciso in me quanto di più sacro e innocente, di più fondamentale
c'è per un essere umano: la fiducia cieca che ha nella propria lingua naturale. Nella nostra
vita, nella nostra terra, tra la nostra gente siamo usi a parlare, ma ancor più siamo usi a
comprendere ed essere compresi. È per noi ovvio avvicinarci a un perfetto sconosciuto e
dirgli: "Scusi...", assaporando in anticipo la certezza assoluta che egli si girerà sollecito
rispondendo: "Prego?" E "scusi" e "prego" voglion dire esattamente "scusi" e "prego".
Oppure, viaggiando in uno scompartimento ferroviario, esercitare il nostro voyeurismo
auricolare sulla conversazione privata di due compagni di viaggio, sicuri di capirla, o di
carpirla, esattamente. Quasi mai ci rendiamo conto dell'importanza di ciò, del fatto che fonda
tutta la nostra esistenza: la certezza della koiné.
Io me ne rendevo conto ora, giusto un secondo dopo averla persa. In che lingua parlava
davvero la gente? Cioè, non tutta, ma come distinguere quella gente dall'altra? A mia
insaputa, mentre vivevo e scambiavo parole con gli altri, credendo di capire e venir capito,
ogni tanto c'era chi mi parlava attraverso, chi mi parlava sopra, chi mi parlava di lato dicendo
cose che credevo di capire e non capivo, alle quali rispondevo cose che a loro volta venivano
intese in tutt'altro modo. Fui travolto dal senso di un'ingiustizia cosmica, irrimediabile. Man
mano che la temperatura febbrile della mia mente saliva mi figuravo di chiedere il quotidiano
all'edicolante sotto casa e di vedergli piegare la testa di lato come fanno gli uccelli, mentre
strideva: "Katadye, affonda!", o addirittura di accostarmi a mia moglie chiedendole: "Mi
ami?" per sentirmi rispondere: "Miméomai, sto fingendo." La mia mente non aveva più terra
solida sotto i piedi, era travolta da un vento infernale fatto di fischi, strida, suoni insinuanti e
del tutto incomprensibili.
Quella notte mi sbronzai, lo ammetto, ma solo allo scopo di dormire. Mi svegliai pesto, con la
lingua ruvida, gli occhi gonfi, un cerchio alla testa e il ricordo vividissimo di un sogno. C'era
acqua, solo acqua dovunque ma non molto profonda perché in mezzo stava ritta una gru, con
l'unica zampa visibile appena sommersa. Immobile e di profilo, mi fissava con il suo occhio
rotondo. Poi l'occhio mi catturò e si fece sempre più grande. Mentre cominciavo a scivolarci
dentro, la gru scosse la testa come per scagliarmi via e, mentre ritornavo al mio posto, si
trasformò in una donna bellissima. Quando mi vide i suoi occhi ebbero un lampo, tese le mani
e cominciò a gridare. Ma dalla sua bocca non usciva alcun suono, o lei era muta, o io ero
sordo. Il suo sguardo implorava, le vene del suo collo si gonfiavano nello sforzo, così mi
mossi verso di lei e sprofondai.
Decisi di aver bisogno di una pausa e nel week-end partii per la casa in collina, portando con
me solo gli appunti. Così finii per ritrovarmi seduto davanti al vecchio camino scoppiettante,
con le mani che cincischiavano i fogli arricciati dal calore.
Cos'ho in mano, mi chiesi. Qualcosa che viene dal fondo dei tempi - risposi - da qualche
luogo orientale, qualcosa che canta e canta e si nasconde. Che quando il suo rifugio diviene
inadatto migra, sempre cantando, poi torna a nascondersi. Che significa questo, domandai.
Che ho i Cibelíti5, i Cábali6, i Cabálii7, i Cálibi8, i Cábiri dell'antichità, i cabalieri e i
ghibellini del medioevo, i cabalisti del rinascimento, ma soprattutto ho finalmente i Pelásgi, i
pelárgi9, i gheráni, i gherái10, gli antichi, le gru! Ho preso le gru per la lingua, non basta?
Sii sincero - mi dissi - cos'hai in mano? Niente - risposi - perché non resta più niente. Qualche
allusione, tre righe di papiro e i sogni di un poeta.
Così i miei appunti finirono alle fiamme che, divorandoli, guizzarono in modo strano, come
se un uccello di fuoco si lanciasse verso l'alto. Ma fu solo l'impressione di un istante, si sa che
le fiamme non si mettono in posa.
Poi, naturalmente, piansi, ma il fuoco asciugava le mie lacrime prima che la bocca potesse
gustarle. Piansi per me, i miei appunti, piansi per i Cábali, i Cábiri e i cabalieri, per i Pelásgi
e i gherái, piansi per tutta la memoria del mondo distrutta ma viva - incomprensibilmente nei sogni. Piansi per la poesia sempre negletta e per la povera gru, immobile a fissarmi nel
basso e immenso mare primordiale. Avevo fatto tutto quello che potevo, andai stancamente a
dormire.
Volete sapere se sognai? Sì, sognai. Sognai di stare in piedi su una collina guardando in alto,
mentre sopra di me passava un volo di gru. La loro formazione a Y si stagliava gloriosa
nell'azzurro del mattino e le gru cantavano, cantavano volando attraverso il tempo. Ma io non
vedevo affatto una Y bensì un immenso gamma greco in scrittura corsiva, per forma identico
alla Y ma per suono invece alla G11...
La mattina mi svegliai sereno. Sapevo perfettamente la conclusione della vicenda, che ripassai
a memoria. Sant'Anfibalo era un errore di trascrizione. I deipnosofisti era un libro di cucina.
Le parole della massoneria erano rigorosamente ebraiche. Ma soprattutto la gente diceva quel
che capivo e capiva quel che dicevo. Ero felice di aver liberato le gru bruciando tutto: nessuno
doveva saperne nulla.
Ma come - chiederete - e questo scritto, allora? Boh, per quanto mi riguarda state leggendo un
apocrifo.
Parola da interpretare come vi ho insegnato, s'intende.
Note
1
Ashmole fu iniziato alla massoneria nel 1646.
2
Naturalmente, in questo contesto la parola "cabala" non viene dall'ebraico kabbalah, tradizione,
bensì dal greco kobaléia, buffoneria, bindoleria, marioleria, imbroglio, derivante da kóbalos, parola
frigia che significa folletto o genio malefico; bindolo, furbesco, ciarlatano, mariuolo, astuto. La
cabala fonetica è dunque la kobaléia fonetiké, l'imbroglio fonetico. Così, la lingua "degli uccelli", in
greco orníthon , è la lingua arréton, la lingua "delle cose segrete, che non si devono divulgare".
3
Come è noto questo eroe era figlio dell'egizio Agenore che, emigrato nella terra di Canaan, sposò
Telfassa. In effetti pare che il nome di Cadmo derivi dall'ebraico qedem, oriente. In ogni caso egli è
l'erede di due tradizioni. Di lui si sa che fu pure l'istitutore dei Misteri di Samotracia. In effetti
Kádmos, vale Kadmílos, uno dei Cábiri. Cosa non secondaria, in Grecia era tradizionalmente indicato
come colui che vi importò i caratteri della scrittura, originariamente fenici.
4
"A Cnosso compare il nome i-wa-ko, la cui lettura in greco potrebbe essere Iakos, Iachos ma anche
Iakchos; a Cnosso e a Pilo più spesso si trova i-wa-ka. A questa forma è forse da collegare un nome di
Sirio: Iakar, parola che in greco suona del tutto straniera. Per i due nomi - Iakar e Iakchos - si può far
riferimento a una storia egizia. Iachen o Iachim era il nome di un uomo saggio e pio che viveva in
Egitto, si dice sotto il re Senyes. Può anche darsi che quest'uomo sia stato una figura divina. Di lui si
raccontava che mitigasse per mezzo del fuoco la forza ardente di Sirio nel periodo del suo sorgere
mattutino, e che in tal modo estinguesse le epidemie che scoppiavano in quel medesimo periodo.
Quando morì fu eretto per lui un santuario sepolcrale e i sacerdoti, dopo aver compiuto debiti sacrifici,
prendevano dal suo altare il fuoco per compiere la stessa operazione. Sembra che si trattasse di un
rituale magico consistente nel portare in giro il fuoco per contrastare il fuoco esiziale della stella."
(Kerenyi K., Dioniso, Adelphi, p. 91)
5
Seguaci del culto di Cibele.
6
Popolo libico, stanziato nella parte interna della regione di Euesperides, nella zona dell'oracolo di
Ammone.
7
Popolo asiatico, stanziato in Lidia.
8
Popolo stanziato tra la costa del mar Nero e il monte Ararat, famoso per la lavorazione del ferro. È
interessante studiare sui documenti i rapporti tra tutti i popoli che ho menzionato.
9
I Greci svilupparono un naturale e particolarissimo gusto per le parole, i giochi di parole, i doppi
sensi, le allegorie e i simbolismi. Un curioso esempio è dato dalla parola "Pelasgi", che può essere
tradotta in "popoli del mare", da "pélagos", che vuol dire "mare", ma anche "gru", da "pelargós".
10
Graeci significa "coloro che venerano la Vegliarda", presumibilmente la dea della Terra di Dodona
che ha nome Graia. Le Graie, secondo lo scoliaste di Eschilo, avevano forma di cigni, probabile errore
per "gru" - il cui nome, oltra a "pelargós", è anche "ghéranos" - dovuto all'erronea interpretazione di
una figura sacra, poiché cigni e gru sono uccelli sacri e volano in formazione a Y.
11
Per quelli che preferiscono pensare che le gru volano in formazione a V, o a triangolo, e non a Y,
segnalo serenamente che la gamma maiuscola presenta proprio questa forma angolare. Dal suono della
G sembra proprio non si possa fuggire... La lettera G è particolarmente venerata in massoneria.
----[L'autore, che preferisce mantenere riservatezza sulla propria persona, pubblica
su questo stesso numero di Episteme un commento concernente la "simbolica
templare"]
Ατοπον
Relazioni spazio-temporali e metafisica tradizionale
(Bruno d'Ausser Berrau)
Nella lingua greca c'è una parola che esprime ciò che è straordinario e desta meraviglia;
questa parola è τοπον. Prima di vedere più da vicino il perché il suo significato sia, per vie
di non immediata intuizione, connesso con lo spazio e le sue peculiarità, è opportuno
prenderne in considerazione la struttura specifica: intanto è evidente come tale parola sia
composta da due precisi morfemi; il prefisso - con funzione privativa ed il tema τ∉πος, il
quale è un luogo, un posto ma nell'accezione più ampia è, appunto, lo spazio. L'analisi
radicale di τ∉π [−ος],1 ci fa intravedere la sua prossimità al lat. stupeo (s-tup-eo), e lo stupor
è ciò che ci colpisce da cfr. al ted. stumpf (s-tumph),2 smussato, troncato,
spuntato ovvero un qualcosa risultato dall'azione del colpire e, di conseguenza, è
evidente l'affinità col gr. τ⇔πτω, colpire, m'anche con lo strumento
τ⇔µπ νον, timpano, tamburo, nel quale s'è infisso un −µ− eufonico ma, su
quest'aspetto acustico del problema, ci sarà modo di tornare più avanti. Le conferme
linguistiche di queste, apparentemente, strane relazioni tra i concetti d'estensione e di
percussione, si spingono ancora più avanti: in ambito indoeuropeo, c'è l'esplicito skr. tup,
tuph, to hurt3 mentre gli stessi componenti radicali si ritrovano, di nuovo proposti nella
loro accezione spaziale, anche in un contesto semitico: accad. ţuppu, tavola, ţap'um,
disteso, reso ampio, il vb. ebr. ţāphach, ‫חפט‬, to extend, spread ma anche lato sensu - l'ar. ţapha´,
, be full, abound.
Qui giunti, è necessario avere presente che lo spazio è il luogo dell' ⇐λη,4 di quella
substantia, che è il supporto di tutti i mondi e di tutti gli stati costitutivi della manifestazione
universale. In termini aristotelici, esso è <<il limite immobile che abbraccia
un corpo>>;5 nel nostro caso, il corpo è l'intera manifestazione e pertanto lo spazio,
inteso al più alto livello d'universalizzazione, è l'insieme di tutte le estensioni particolari. Una
di queste è quella propria alla modalità corporea e, ad essa, attualmente, apparteniamo: una
sua forma di astrazione è ciò che viene preso in considerazione dalla geometria euclidea, il
cui oggetto è quindi una fattispecie dell'estensione tridimensionale.
Del resto, Platone è ancora più esplicito di Aristotele quando, nel TIMEO,6 fa coincidere lo
spazio con la materia, definendo, con l'affermazione che non c'è spazio dove non
c'è materia, il postulato di qualsivoglia cosmologia tradizionale o, detto altrimenti,
escludendo il vuoto dalle possibilità di manifestazione. 7 Naturalmente, la materia in questione
non è l'oggetto delle speculazioni dei fisici moderni8 ma è, appunto, quell'assolutamente
indeterminata ⇐λη, la quale sostanzia tutti gli stati d'esistenza. Essa è quindi una mera
potenzialità la cui attuazione sarà il Cosmo. Lo spazio s'articola dunque in un Cosmo 9 ma,
perché ciò avvenga, è necessario un incipit, il quale ordini il χ ος "informe e vuoto"10 che è
lo stato iniziale. Questo momento principiale è rappresentato dall'espressione sonora, dal
Verbo.11 Esso, attraverso l'imperativo del <<fiat lux!>>12 determina l'azione di quel "raggio
celeste" che, colpendo la ⇐λη, provoca una vibrazione armonica in grado di percorrerla
totalmente: così facendo, mediante il passaggio dalla potenza all'atto, ne induce
l'organizzazione in un'indefinita molteplicità di stati e modalità che, in tal modo, vanno a
comporre l'Esistenza. Chiaramente, qui, il suono, espresso in una condizione logicamente
anteriore alla manifestazione, deve essere inteso in senso puramente analogico rispetto a
quello percepibile dai nostri sensi. Esso, per le dottrine tradizionali, è una qualità dell'etere
mentre, per le scienze d'oggi, è una vibrazione che si propaga in un medium (aria, acqua,
metalli…le attuali teorie non ammettono l'etere) con onde di pressione, percepibili
dall'orecchio umano soltanto all'interno di un preciso spettro di frequenze. Pertanto, il suono
concepito dagli antichi13 è l'archetipo d'ogni vibrazione anche di quelle che l'odierna fisica
attribuisce all'ambito delle frequenze elettromagnetiche: è per questo dunque che la luce - il
lampo creatore - è generata dal Verbo: si potrebbe dire come questa concezione vibratoria del
Cosmo sia uno dei pochissimi ancorché parziali punti di contatto tra le dottrine pre-moderne e
le attuali concezioni della fisica. Questo suono inoltre non è prodotto nel momento stesso in
cui agisce (il <<fiat!>>), esso - è opportuno ripetere - precede la manifestazione: è come un
oggetto posto nell'oscurità; la folgore primordiale lo rivela per mezzo del cosmo e quando la
manifestazione si sarà riassorbita nel suo Principio e torneranno le tenebre, quale tuono
silente, continuerà ad essere nell'eternità. <<In principio era il Verbo, e il
Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio>>:14 al momento
dell'illuminazione già era e quando questa cesserà, immodificato, ancora sarà.
Sul piano microcosmico, un processo analogo è quello dell'iniziazione; in tale fattispecie, il
fiat lux della cosmogenesi, ha il suo omologo nella trasmissione del quid15 costitutivo
dell'influenza spirituale: esso verrà allora ad essere l'ordinatore dell'oscuro caos psichico,
caratteristico della condizione interiore d'ogni profano.
È per tutte queste ragioni che, anche sul piano della lingua, lo spazio è connesso al
colpire ed alla vibrazione acustica.
A questo punto, si può ritornare a quell' τοπον dal quale è iniziata
quest'indagine. Áτοπ∅α, in
greco,
sta
dunque
ad
indicare
stranezza,
eccentricità, stravaganza ed assurdità; quindi, τοπον è qualcosa di
singolare, di straordinario e d'incredibile; in altri termini, la parola connota
ciò che è fuori posto. Sino ad ora s'è visto, come, ai significati ordinari - quelli
recepiti dal linguaggio comune - altri e più pregnanti appaiono a chi indaghi dietro il
proscenio: la straordinarietà scaturisce dunque dal venir meno del contenitore del Cosmo
che, per la sua consustanzialità alla materia prima, implica, al verificarsi, il rientro
dell'intera manifestazione nello stato indifferenziato; parimenti, in un ordine interno al
Manifestato, tale è la sorte, all'esaurirsi di un ciclo particolare, d'ogni stato o grado
dell'esistenza, il quale verrà così ad essere riassorbito in quello che è, ad esso,
ontologicamente superiore.
Nel particolare del terrestre mondo corporeo, lo spazio, unitamente al tempo, alla materia,
alla forma ed alla vita è uno dei fondamentali parametri costitutivi di questa modalità
d'esistenza. Con evidenza, il suo annullamento provoca straordinarie conseguenze, tant'è che,
storicamente - anche sul piano sociale quindi - le rappresentazioni d'ordine utopico 16 se non
sono confinate in un ambito esclusivamente sacrale, sono suscettibili d'essere poste quale
progetto d'emendamento di situazioni politiche e religiose esistenti. Cosicché, in alcuni casi,
dalla mera prospettiva ideale, queste visioni, per virtù di volontà fortemente determinate,
sono state espresse con veri e propri interventi, provocando violente trasformazioni della
società senza però che la componente, volta allo scardinamento del reticolo costituito dalle
leggi soggiacenti questa realtà, potesse davvero superarlo e vincerlo. Il risultato di
quest'illusione è sempre stata l'affermazione della supremazia delle leggi ed il fallimento del
sogno.
L'attuale condizione umana, appartenente allo stato grossolano, ha invece suo principio e sua
fine nello stato sostanziato dalla materia subtilis; quello che, nel mondo iranico, è conosciuto
come Nâ-Kojâ-âbâd,17 lett. il paese-del-non-dove ovvero l'esatto equivalente del
nostro utopia. Per raggiungere questa condizione, non si può quindi passare per l'intervento
concreto finalizzato alla terrena realizzazione della città ideale ma si deve aver presente come
ciò appartenga a quello che Corbin chiama mundus imaginalis:18 esso sarà raggiunto quando il
<<tempo oscuro e denso>> (kathîf), nel quale l'umanità è precipitata con la Caduta,
giungerà, dopo uno scorrere sempre più accelerato, ad una fine improvvisa.19
Terminata allora la successione e contrattosi il tempo ad un istante, ogni cosa verrà a
coesistere nella simultaneità20 con la conseguenza che, a quel punto, il tempo si troverà mutato
in spazio.
Ciò implica una dilatazione di quest'ultimo, tale da provocarne l'elevazione ad una potenza
superiore, inoltre, con l'annullamento della successione temporale - la quale, come già detto, è
una delle caratteristiche fondamentali dell'esistenza corporea - anche la durata transita ad una
diversa modalità di svolgimento.
Ove si voglia comprendere l'intima natura delle realtà finora prese in esame, s'impongono
adesso alcuni approfondimenti di natura concettuale.
Il Cosmo - anche se, per adesso, la nostra attenzione è, soprattutto, rivolta a quella sua
porzione rappresentata dal mondo sensibile o empirico - è, come abbiamo veduto,
contrassegnato dall'estensione. Per poi meglio intenderne le caratteristiche è opportuno
aggiungere come esso sia un continuum (συνεχƒς) ovvero un <<qualcosa che è
divisibile in parti sempre divisibili>>:21 la presenza dell'etere ne
conferma l'omogeneità con i corpi parimenti continui e continuità c'è in tutti i fenomeni, quali
il movimento (κ∅νησις) di cui questi corpi sono manifestazione. Insomma, è la continuità
dell'estensione il fondamento di tutte le altre continuità, che contraddistinguono questa
modalità dell'esistenza formale. In tale continuità deve essere compreso il tempo. Esso è
continuo di per sé e non soltanto nella sua rappresentazione spaziale (necessaria perché è
soltanto pel suo tramite che è possibile misurarlo), secondo quanto, imperfettamente, afferma
Cartesio quando lo descrive costituito da una successione di istanti discontinui e con una
creazione, quindi, assurdamente sempre in azione per rimediare alle soluzioni, appunto, di
questa continuità. La bizzarria cartesiana appare ancor più evidente nel caso sia considerato il
precitato fenomeno del movimento. In quest'ultimo sono all'opera due continuità: quella
relativa alla sua condizione spaziale e l'altra attinente alla condizione temporale. È evidente
com'esso non sarebbe s'una delle due fosse discontinua. Il famoso argomento di Zenone
d'Elea deve, con molta probabilità, essere inteso a contrario, proprio quale espressa volontà
del filosofo di mostrare così l'incompatibilità del movimento con le nemiche tesi atomistiche e
quindi quale palese dimostrazione della loro assurdità.22
Le suddette considerazioni ci permettono di capire che anche molti altri fenomeni correlati ad esempio l'accrescimento - ricadono nell'ordine del continuo. Su un piano più
nettamente filosofico, John Dewey afferma che la legge di continuità <<significa
comunque esclusione della completa rottura da un lato e della
semplice
ripetizione
o
identità
dall'altro;
nega
la
riducibilità del "più alto" al "più basso", come nega le
separazioni e gli spacchi netti. Il crescere e svilupparsi di
una natura vivente dal seme alla maturità, illustra bene il
significato della parola>>.23
Insomma, qualsivoglia continuo, per la sua stessa natura, non può ammettere l'esistenza di
un "ultimo elemento" perché dal punto di vista dei "componenti" esso è, in quanto tale, un
insieme indefinito. È chiaro allora come ogni variazione abbia la sua "fine", il suo "stato
ultimo", il suo "limite", non in se stessa - perché, in realtà,24 non c'è un valore ultimo dei
valori successivi della variabile - ma "al di fuori", con un saltus ovvero una discontinuità
necessaria. In quale senso, non c'è davvero un valore ultimo della variabile?
L'affermazione sembra contraddire gli elementari presupposti dell'algoritmo: noi sappiamo
che, nel calcolo differenziale, si cercano i limiti di un rapporto i cui due termini decrescono
simultaneamente secondo una certa progressione e tale che il rapporto stesso conservi un
valore fisso. Nel calcolo integrale, si cercano i limiti di somme i cui addendi crescono
indefinitivamente mentre il valore di ciascuno di essi, altrettanto indefinitivamente, decresce;
è, infatti, necessario che entrambe le condizioni siano riunite affinché la somma resti una
quantità finita. Il limite quindi di una quantità variabile è stabilito essere una quantità fissa
verso la quale la variabile s'approssimerà fino a che la loro differenza sia sempre minore di
qualsiasi, ipotizzabile quantità. Ciò che è importante sottolineare è come, ai meri fini del
calcolo, il limite, allorché non si trovi tra i dati del problema, sia stabilito in una precisa
quantità fissa mentre ciò che è necessario sapere, sia invece di capire se la quantità variabile
che, indefinitivamente, s'avvicina al valore fisso del limite possa raggiungere questo valore
quale conseguenza della variazione stessa. Tornando al nostro "scandaloso" assunto,
dobbiamo perciò comprendere perché il limite non debba essere inteso quale ultimo termine
di una variazione continua. Non è dunque una questione di calcolo quella che qui ci poniamo
ma, sia ben chiaro, un tema concettuale ed è solo questo che ora c'interessa.
È allora sul calcolo e sul suo ruolo centrale nelle matematiche contemporanee, che
s'impongono adesso alcune riflessioni. Riflessioni, le quali investono ciò che è oggi la
matematica nel suo insieme ma che, soprattutto, vogliono riferirsi a com'essa sia intesa da
certi suoi ufficiali cultori. E ciò, affinché meglio si possa comprendere il significato delle
nostre precedenti puntualizzazioni.
Lasciamo pertanto la parola al Carnap25 e vediamo com'egli distingua il calcolo da un sistema
semantico nel senso che <<…mentre gli enunciati di un sistema
semantico sono interpretati, asseriscono qualcosa, perciò sono
veri o falsi, entro un calcolo gli enunciati sono considerati
da un punto di vista esclusivamente formale>>. E, nell'ultimo aggettivo,
sta proprio il punctus dolens: il calcolo, dunque, con i suoi procedimenti più o meno artificiali
e sempre più elaborati, ha dato luogo alla proliferazione di un'abnorme inflazione formale,
che ha portato a sviluppi totalmente indipendenti da ogni significazione profonda e tali da
raggiungere forme d'assoluta autoreferenza. Esso è arrivato a produrre una specie di
complicato gioco per virtuosi dell'astratto ma nel quale il contenuto di realtà - in specie
quando s'applica alla fisica - ovvero d'effettiva conoscenza della natura è ridotto, di fatto,
quasi a niente. Il motivo, di quella che al fondo è anche una scelta e che risiede nella volontà
di coloro, i quali, secoli addietro, hanno creato le premesse di ciò che siamo soliti chiamare
mondo moderno, sta nel loro spirito pragmatico, che trova, nelle possibilità del calcolo, una
sorprendente moltitudine di ricadute utilitarie e tecnologiche. Il perché poi, pure astrazioni
possano portare a risultati empirici, implica uno sviluppo di considerazioni sulla natura intima
del reale che ci porterebbero fuori dal tema presente.
Chi non s'è mai occupato di quest'aspetto della modernità fa forse fatica a rendersi conto di
come, sul piano intellettuale, i processi distruttivi siano stati devastanti: il numero non solo ha
perduto la sua valenza simbolica ma sul piano stesso della quantità ossia su quello meramente
matematico, ad esso, s'è semplicemente sostituita la cifra che lo rappresenta. Non per niente,
oggi, altro non si fa che parlare del digit e della digitalizzazione di tutto il possibile: è come se
al discorso nella sua congruenza concettuale, si sostituissero meri giochi di lettere. Il paragone
non è casuale, sia perché le cifre stanno ai numeri come le lettere alle parole (vd. ad es. le
lingue semitiche dove non c'è differenza di categoria),26 sia perché se la veste del numero è la
cifra, quella della parola sono le lettere. Proseguendo in quest'ordine di relazioni, si può
aggiungere che, allora, il corpo del numero ne sarà la forma geometrica (a riprova i numeri
triangolari, pentagonali ed altro dei pitagorici) come della parola ne è, invece, il significato.
La perdita di tutte queste congruenze, implicanti anche il valore "ideografico" di lettere e
cifre, ha portato a considerare ogni notazione come solo convenzionale dando così all'arbitrio
valore fondante. Pertanto, aspetti, quali quelli in argomento, sono, allo stato attuale delle
matematiche, ampiamente incompresi proprio perché il metodo infinitesimale non è solo un
calcolo e, in alcun modo, può definirsi un semplice metodo d'approssimazione. La presenza di
questa valenza metafisica deriva dal fatto, volutamente ignorato anche se risaputo, che
Leibnitz, nonostante alcuni evidenti limiti dottrinari del suo pensiero, aveva ricevuto precise
influenze dai suoi diretti contatti con alcuni ambienti di carattere esoterico 27 ed esattamente
rosacrociano:28 è da lì, che viene la sua attenzione critica nei confronti dell'intuizionismo
psicologistico di Cartesio.29 Secondo Leibnitz la verità può essere colta in sé stessa e non è
funzione del soggetto percettore….ma anche questo discorso ci porterebbe troppo lontano.
Prendiamo dunque le nostre quantità infinitesimali: esse saranno sempre più piccole ma mai
davvero nulle perché se diventassero eguali a zero, pel concetto stesso di quantità,
cesserebbero d'essere tali perdendo anche la caratteristica di variabili e questo, oltre a
contraddire il principio di continuità, fa sì che una variabile, sempre, differisca dal suo
limite. Tutto questo detto, niente però impedirà che, e nel calcolo, e in qualsivoglia altra
situazione il limite possa essere raggiunto ma non era certo questo quello che volevamo
negare quanto piuttosto che, in alcun modo, il passaggio al limite possa essere
concepito come la conclusione di una variazione continua: il risultato non è pertanto
raggiungibile per gradi, analiticamente, ma d'improvviso.
E qui subentra l'altra accezione aristotelica della συνεχƒια da intendersi quale
contiguità; del resto, per "definire", "limitare" una qualsivoglia condizione è implicito
che ci se ne debba trovare "al di fuori" ma, parimenti, c'è continuità tra gli insiemi i cui limiti
si "toccano" e dal cui "contatto" scaturisce una qualche unità, 30 che sarà poi quella di un
insieme superiore nel quale essi tutti rientreranno. È come se, in due modalità d'esistenza
sovrapposte, ciò che nell'inferiore è presente quale semplice tendenza, trovasse la sua piena
realizzazione nel transfert alla modalità superiore. Un altro modo insomma d'intendere il
passaggio dalla potenza (δ⇔ναµις) all'atto (ƒντελƒχεια ).31 E la corretta intuizione della
relazione esistente tra potenza ed atto è alla base della comprensione quindi anche del
concetto stesso di movimento.32
Il pensiero logico-matematico contemporaneo ha abbandonato la cristallina chiarezza di
queste concettualizzazioni, fatto salvo Peirce,33 il quale, in maniera esplicita, nella sua
contestatazione alla definizione di continuo, proposta da Cantor,34 espressamente le
richiama. In effetti, da parte di quest'ultimo, la formulazione del concetto di continuum è
paradossale poiché lo vuole far scaturire dall'immagine stessa del discontinuo, cioè da un
insieme di punti o di posizioni e, nel caso si prendesse in considerazione la continuità
temporale, ovviamente, da quella di un insieme di istanti (cfr. supra a proposito di Cartesio).
Nel calcolo, con semplici regole pratiche, la discontinuità si verifica al momento del
risultato, quand'avviene il passaggio dalle quantità variabili a quelle fisse: è, come abbiamo
visto, proprio tale brusco evento a rendere palese che siamo in presenza di un cambiamento
di modalità. Ma la percezione del transfert può essere resa anche con un altro esempio: in
una prova di materiali - diciamo, sottoposti alle sollecitazioni di tensione - la rottura non è,
infatti, in alcun modo assimilabile alla tensione stessa, che sarà evidenziata dalla semplice
deformazione dell'oggetto: lo status che ne risulterà sarà allora totalmente "altro". Ecco,
dunque, di nuovo, un istantaneo passaggio di modalità. La condizione propria, nell'ambito
del sensibile, alle quantità variabili è quindi perfettamente assimilabile a quella del
"divenire" - identico alla Manifestazione universale - rispetto al Principio. Nello specifico
della modalità sensibile, avviene allora che il suo principio immediato sia in altra modalità e
quest'ultima sarà, appunto, quella che gli scolastici chiamavano materia subtilis e della quale
né Cartesio, né i suoi amici Gesuiti sapevano più bene cosa fare e cosa pensare. È pertanto
evidente come ogni modalità trovi la sua ragion sufficiente nella "successiva" ed essendo
questi stati, logicamente, in quantità indefinita, l'insieme di essi sarà il predetto "divenire" il
cui rapporto complessivo col Principio è quello già illustrato.
Da tutto ciò, consegue che, con la fine dei tempi, questo presente mondo terrestre si
troverà proiettato nel paese-del-non-dove ovvero in uno dei Keshvar,35 il cui settuplice
insieme configura la totalità dell'imago Terræ - ancorché con nomenclatura e simbolismi
differenti - nella geografia sacra di molte tradizioni. Nei termini di una rappresentazione
geometrica, la pregnanza simbolica dell'insieme cambia secondo come questi "continenti"
siano rappresentati: se la loro disposizione è su una linea ne verrà esaltata la valenza
temporale, se invece si trovano su una superficie, sarà la simultaneità ontologica ad avere la
prevalenza. Va da sé, che il tempo rettilineo, dominante le moderne concezioni occidentali, è
sempre il meno adatto a fornire un supporto metafisico efficace. In effetti, la rappresentazione
più "fedele" della loro "collocazione" può essere resa dalla croce a tre dimensioni. 36 Oltre a
non inficiare la simultaneità ontologica, c'è congruenza tra i sette Keshvar ed i sette parametri
di essa: le sei direzioni37 dello spazio, più il centro.
L'accenno al tempo rettilineo oggi dominante, impone però alcune precisazioni: tale
concezione sembra, in qualche modo, messa in crisi dalle teorie relativistiche nelle quali si
tratta, appunto, proprio di un "complesso spazio-temporale", il che - è indubbio - può
apparire, formalmente, vicino a ciò che è argomento di queste pagine. La prossimità è però
illusoria perché, nelle equazioni del movimento, al tempo è dato un ruolo dimensionale con il
suo aggiungersi alle tre coordinate pertinenti le tre dimensioni dello spazio (x, y, z e t) e ciò
corrisponde, indubbiamente, ad una rappresentazione geometrica non altrimenti definibile che
rettilinea. Ma, a voler essere precisi, c'è ancora un aspetto assai singolare dell'intera questione;
a svolgere il ruolo di quarto parametro non è semplicemente t ma, in certe notazioni, quello
che, in matematica, è chiamato un numero immaginario: t = − 1 . Nonostante che tale
dizione sia frutto di pura convenzionalità è davvero curioso che, per il transfert al mundus
imaginalis, il tempo debba diventare "immaginario" o, in altri termini, debba cessare d'esistere
come successione sicché <<la trasmutation du temps en espace n'est proprement réalisable
qu'à la "fin du monde".>>38
A livello individuale, questo transito è segnato per i più dalla morte; ben più arduo e raro il
caso di chi, come Dante, <<i vivi piedi così sicuro per lo inferno
freghi>>.39 È però questa una possibilità aperta soltanto a coloro la cui iniziazione
(µ⇔ησις, τελετ″, initium ) non sia stata confinata alla mera virtualità ma sia essa, invece,
divenuta il motore di un atteggiamento pienamente attivo ossia abbia rappresentato
l'accendersi nell'individuo di un vero e proprio processo di realizzazione spirituale, cosicché,
tale passaggio al limite abbia infine comportato il possesso dell'integralità dello stato umano
in tutte le sue valenze sottili o psichiche che dir si voglia.
Ma l'antico µ⇔στης non vedeva in questa possibilità altro che un primo risultato ovvero il
conseguimento del fine dei piccoli misteri. Un risultato, diremmo così conservativo:
esso è l'alternativa a quella seconda morte,40 nella quale sta il senso vero dell'inferno
ed alla quale, in termini cristiani, si sfugge - appunto - soltanto con la salvezza. Ma il fine
ultimo dell'uomo è quello di ricongiungersi al Principio ed allora il percorso non potrà che
essere inverso a quello cosmogonico. In tal modo, soltanto chi vedrà nello stesso Paradiso una
prigione potrà giungere al compimento dei grandi misteri ed ottenere la Liberazione e
l'Unione.41
Note
1
La fondamentale radice indoeuropea è biconsonantica. La triconsonanantica è un più tardo sviluppo
scaturito da un gioco di anfissi.
2
In entrambi questi casi il pref. s- ha valore intensivo.
3
Sir Monier Monier-Williams, THE SANSKRIT-ENGLISH DICTIONARY, Delhi, 1995.
4
L'interesse, dell'uso di questa parola per indicare la materia primigenia, risiede nel fatto che essa
(⇐λη) sta per legno e pertanto è significativa di una fase arcaica della civiltà ossia di quando, per
un'ancor minore solidificazione del mondo, il simbolismo costruttivo vedeva il Grande Architetto
dell'Universo (il massonico G∴A∴D∴U∴) operare come carpentiere (skr. takşa, gr. τƒκτων)
piuttosto che come muratore. Detto G∴A∴D∴U∴ è il Grande Ingegnere di Sant'Agostino, dal
quale, egli afferma, ha origine ogni umano ingenium.
5
PHYS. IV. 4. 212a 20. Nella lingua cinese, spazio si dice kôngjiân, dove kông è vuoto ma anche
cielo e jiân è in mezzo; il che ben rende l'immagine di un contenitore, rafforzata quest'ultima
dalla stessa grafica dell'ideogramma jiân.
52b; in 51a, si precisa inoltre come la ⇐λη sia τ∈ µεταληπτικ∉ν, ovvero suscettibile di
partecipare (sottint. alla forma).
6
7
Cfr. Aristotele, PHYS. IV. 8. 214b 11. Il vuoto e, come ad esempio, il silenzio fanno entrambi
parte, nella loro ultima natura, delle possibilità del Non-Manifestato.
Con φ⇐σις anche gli antichi intendevano la scienza della natura e, parimenti, quest'ultima
coincideva col Cosmo ma la somiglianza con la terminologia attuale non deve trarre in inganno: il
problema è che il loro Cosmo non collimava per niente con le teorie di adesso, soprattutto perché il
mondo sensibile si limitava ad esserne soltanto un'infinitesima parte. Questo ci fa capire come una
lettura degli autori pre-moderni, effettuata senza alcuni riferimenti concettuali possa essere molto
fuorviante.
8
κ∉σµος, exprime originellement la notion d' ordre, de mise en ordre (P. Chantraine,
DICTIONNAIRE ÉTYMOLOGIQUE DE LA LANGUE GREQUE, Klincksieck, 1990). L'etimo è incerto; forse in
κ∉σµ [−ος], si può ritrovare il pref. ξ◊ν−, insieme (cfr. lat. simul), che proviene dal mic. kusu,
insieme, nello stesso tempo ed ipotizzare un *kosum[os], ciò che è messo
insieme (sottint. ordinatamente).
9
10
Cfr. in GEN. 1.2, the status of the primæval earth: ‫ ;והבו והת‬ebr. bohu, ‫והב‬, emptiness: HEBREW &
ENGLISH LEXICON OF OLD TESTAMENT, Oxford U.P. Qui, vuoto sta a ribadire il concetto d'informe
(tohu, ‫והת‬, formlessness, emptiness) nel senso di vuoto di forme: il mero vuoto non
può, infatti, essere informe ma solo vuoto. A riprova di questa "pienezza", in skr. âkâśa è sia a free
or open space, sia the ether ovvero quel quinto e principiale elemento da quale gli altri
quattro sorgono e che permea di sé tutto il Cosmo: la sua scomparsa dalla fisica contemporanea è stata
un ulteriore segno del distacco di questa dalla visione tradizionale. Χ ος è lett. l'abisso, il
vuoto; dalla √χαν e dalla quale χ νος, bocca, χ νης, aperto, cfr. il td. der Gaumen,
palato.L'etimo è in un i.e. *ghen- avente un generico senso di spalancare, aprire.
11
GV. 1.1 e ss; GEN. 1.1-5.
12
GEN. 1.3.
13
Per il mondo classico, sono note - testimoniate dalla scala che porta il suo nome - le conoscenze
acustiche di Pitagora. Parimenti noto è che, secondo espresse affermazioni di Aristotele, fosse l'urto
dei corpi sonori con l'aria a provocarne la conseguente percezione auditiva mentre la propagazione
ondulatoria del suono appare tra le nozioni di fisica possedute da Vitruvio, il quale ne paragonava la
diffusione a quella dei cerchi in uno specchio d'acqua colpito da un qualche oggetto.
14
GV. 1.1.
In ar. esso è barakt, ≈♣ζ⊥, lett. benedizione,da cfr. con l'ebr. barakah, ‫הכרב‬, significativamente
prossimo a baraq ‫קרב‬, fulmine. Curiose le altre conseguenze linguistiche: tale quid è, di norma,
ricevuto in ginocchio e, non a caso, sempre in ebr. barake è inginocchiarsi mentre barah è
scegliere e, in effetti, solo un prescelto può far parte di un gruppo esoterico. Da ciò, appare
evidente, come, in terra d'Italia, l'antico uso muratorio (in Massoneria la lingua sacra di rif. è l'ebr.) di
definire baracca la Loggia di cantiere, fosse connesso con questa basilare destinazione sacrale ed
altrettanto evidente si rivela il perché, per gli estranei al mestiere ossia per coloro che ne percepivano
soltanto la destinazione pratica, essa non sia poi stata altro che una baracca, entrando così nell'uso
comune.
15
16
Lo stesso processo in atto in -τοπον è riscontrabile nella più nota utopia, dove, la negazione
avviene apponendo allo stesso tema τ∉π[−ος] l'avv. ο⇔−, non.
17
L'espressione è stata utilizzata per primo da Sohrawardî. Conosciuto in Iran quale Shaykh al-Ishrâq
(maestro aurorale) morì, nel 587/1191, ad Aleppo, all'età di trentasei anni, vittima della bigotta
intolleranza exoterica. Egli, nel resuscitare la saggezza della spiritualità zoroastriana, espresse
un'esperienza estatica di Dio <<Luce delle Luci>> e, fedele al platonismo, prese a fondamento
dei suoi insegnamenti una metafisica impostata su una prospettiva gnostica nella quale le Luci
Angeliche s'oppongono alle Tenebre.
18
H. Corbin, CORPS SPIRITUEL ET TERRE CÉLESTE, Buchet/Chastel, 1979. Il senso dell'espressione non ha
niente a che vedere con la fantasia nell'accezione riduttiva e semplicistica quale oggi la s'intende
nel linguaggio, non solo corrente m'anche in quello scientificamente motivato: detto mondo non è
quindi un epifenomeno degli stati d'onirismo più o meno lucido di un singolo o di una collettività ma è
una realtà oggettiva presente nella molteplicità dei gradi di realtà costituenti la possibilità universale.
L'ontologia di questo mondo intermediario permette di superare l'ossessione incarnazionista di gran
parte della teologia contemporanea, la quale, con le sue storicizzazioni irremovibili è stata, a sua volta,
una tra le cause scatenanti del materialismo e del razionalismo.
19
Qui s'intende fare riferimento al termine di quello che la dottrina indù dei cicli chiama Manvantara
o età di un'umanità.
20
<<il punto a cui tutti li tempi sono presenti>> (PAR. XVII. 18).
21
Aristotele, PHYS. VI. 2. 232b 24: è, di per sé, questa definizione, un'esclusione della possibilità di
qualsivoglia atomismo; cfr. ibidem, 231a 24.
22
Va da sé che, su questo nostro livello di realtà, l'esistenza del movimento sia indiscutibile; così,
come vale per qualsivoglia mutamento, è altrettanto intuibile che esso non abbia in se stesso la propria
ragion sufficiente ma la trovi soltanto in quel <<Motore Immobile>> (<<tutto ciò che si
muove è mosso da qualcosa>>, Aristotele in PHYS. VII. 1. 256a 14), che regge l'intera
Manifestazione. Parimenti, dallo stesso superiore punto di vista, la molteplicità si riduce all'Unità da
cui procede come, appunto, può leggersi nel simbolismo matematico sotteso alla formazione della
serie dei numeri.
23
In LOGIC, ch. II. trad. it. Einaudi, Torino, 1973, p. 59. Peccato che - com'è frequente nei pensatori
moderni - ad una corretta affermazione metafisica: l'impossibilità che il maggiore scaturisca dal
minore, s'affianchi - senza mostra alcuna di una percezione dell'intima contraddittorietà - la pacifica
accettazione evoluzionistica (il trasformismo darwinista) con tutto il corollario migliorista di una
rassicurante continuità dell'evoluzione, quale immancabile portatrice di sviluppo e di
progresso per tutta l'umanità.
24
S'intende, ovviamente, in un senso filosofico e meglio metafisico, non sul piano delle procedure di
calcolo il cui scopo è soltanto quello d'ottenere un risultato. Vd. infra.
25
Rudolph Carnap, FOUNDATIONS OF LOGIC AND MATHEMATIC, trad. it. Paravia, Torino, 1956.
26
Ad esse, si può aggiungere il greco che, dalle relazioni lettere/numeri, sviluppò le pratiche della
∅σοψηϕ∅α.
27
28
Analoghi interessi in Newton, i cui scritti alchemici superano in quantità quelli scientifici.
Un interessante preannuncio del metodo infinitesimale presso gli antichi è testimoniato dal
ritrovamento, avvenuto nel 1906, di una lettera di Archimede a Eratostene, dove s'espone un metodo
euristico fondato su un principio analogo a quello degli indivisibili:
ζΑρχιµ″δους περℜ τν µηχανικν θεωρηµ των πρ∈ς ζΕρατοστƒϖην ♣φοδος.
29
In PRINCIPIA PHILOSOPHIÆ (I. 58) afferma che il numero <<…non esiste fuori del nostro
pensiero…>> affermazione che può essere vera solo se chi la fa confonde, appunto, il numero con
la cifra. Non pago Cartesio poi prosegue: <<… come non esistono tutte le altre
idee generali che gli Scolastici comprendono sotto il nome di
universali>> ancora una volta dimostrando la sua irrimediabile cecità metafisica. È soltanto
avendo ben presente la differenza concettuale tra numero e cifra che si può allora comprendere
l'affermazione aristotelica (METAPH. XIV. 3. 1090a 21) che <<le cose sono esse stesse
numeri>> ovvero <<composte di numeri come di loro elementi>>.
30
Aristotele, METAPH. XI. 12. 1069a 5 e ss.
31
È nel senso di questo procedere gerarchico delle modalità (grossolana e sottile) dell'esistenza che
Aristotele può definire l'anima <<quale ƒντελƒχεια di un corpo organico>> (DE AN. II. 1.
1050a 23), mettendo così bene in evidenza la direzione dell'iter nella prospettiva del "riassorbimento"
del Manifestato nel suo Principio. Tutto quest'ordine di considerazioni trova ampio sviluppo nello
studio di R. Guénon, LES PRINCIPES DU CALCUL INFINITÉSIMAL, Gallimard, 1946. D'analoga impostazione è
un'indagine sul simbolismo matematico degli stati molteplici dell'essere, affrontata da Enrico
Barazzetti, in L'ESPACE SYMBOLIQUE, Archè, 1997.
32
Formulata da Aristotele - in PHYS. III. 1. 201a 10 - come << l'ƒντελƒχεια di ciò che è in potenza>>.
33
in COLLECTED PAPERS; CHANCE, LOVE AND LOGIC, II. 3 (trad. it. Taylor, Torino, 1956): Charles Sanders
Peirce (1839 / 1914) fu spirito inquieto ed anticonformista che, nonostante una precoce genialità, per
gli altalenanti rapporti col mondo accademico, fu, da quest'ultimo, sempre tenuto ai margini. Nel 1935,
assai dopo la sua morte, i molti inediti furono parzialmente raccolti e pubblicati. Si precisa però come
- sebbene tali studi siano ricchi di spunti d'indubbio interesse - egli fosse remoto da una prospettiva
che potremmo chiamare tradizionale, basti considerare che la sua visione gnoseologica, da lui definita
fallibilismo, comporta una metafisica ipotetica fondata sull'ineliminabilità del caso.
Nella genesi di alcuni aspetti del pensiero contemporaneo, il suo ruolo è importante per aver fornito le
basi filosofiche sulle quali la semeiotica ha potuto svilupparsi quale disciplina autonoma.
34
Georg Cantor, in MATHEMATISCHEN ANNALEN : <<Date su una retta r due classi C e
C' di punti tali che:
1°, ogni punto di C sia a sinistra di ogni punto di C';
2°, preso un qualsiasi segmento y, si possa trovare un segmento
minore di y di cui un estremo sia un punto di C e l'altro un punto
di C';
esiste allora sulla retta r un punto di separazione delle due
classi>>.Trad. it. in N. Abbagnano, DIZIONARIO DI FILOSOFIA, UTET, Torino, 1971.
35
Per il ruolo di questi aspetti non sensibili della Terra nell'economia sacrale delle dottrine iraniche (il
rif. prevalente è al Mazdeismo), vd. H. Corbin, op. cit. supra n. 18.
36
Nella raffigurazione piana (cfr. Corbin, op. cit.), sei di essi sono collocati, secondo la rosa dei venti,
in una disposizione anulare mentre il settimo ne costituisce il cerchio interno. Coassiale però a
quest'ultimo, c'è un nucleo ulteriore; tale medius orbis prende il nome di Airyanem Vaejah o Culla
degli Ari. Nella parte anulare di questa geographia imaginalis, all'Occidente, si trova il Keshvar
denominato Arezahi: ciò è notevole, in quanto in ebr. arez, ‫ ץרא‬è la terra e gli Ebrei, anche nel
nome, ´ibry, ‫ ירבע‬esprimono un'origine "occidentale". Infatti, alla √ ‫ רבע‬è connesso il senso di
qualcosa <<…qui est placé derrière ou au-delà, ce qui est éloigné, caché, dissimulé, privé du jour; ce
qui passe, ce qui termine, ce qui est occidental, etc. les Hébreux, dont le dialecte est évidemment
antérieur à celui des Arabes, en ont dérivé ‘ibry, (‫ירבע‬, ebreo) et les Arabes, ‘arab (]ζ ,
arabo) par une transposition de lettres qui leur est très-ordinaire dans ce cas. Mais soit qu'on
prononce ´ibry, soit qu'on prononce ‘arab, l'un ou l'outre mot exprime toujours que le peuple qui
le porte se trouve placé ou-delà, ou à l'extrémité, ou aux confins, ou au bord occidental d'une
contrée>>. (in Fabre d'Olivet; LA LANGUE HÉBRAÏQUE RESTITUÉE, L'Age d'Homme, 1985). Per metafora
tratta dal senso d'oscurità connesso al tramonto; stessa origine può essere attribuita a ♣ρεβος, cfr.
anche l'accad. erebu, tramonto.
37
Non si deve dimenticare come, sia le direzioni, sia la forma, siano tra le caratteristiche qualitative
dello spazio mentre uno degli scopi del calcolo differenziale sta proprio nel determinare le direzioni
delle tangenti in ogni punto di una curva e come, appunto, l'insieme di esse permetta di definirne la
forma.
38
R. Guénon, LE RÈGNE DE LA QUANTITÉ ET LES SIGNES DES TEMPS, Gallimard, 1945, Ch. XXIII.
39
INF. XVI. 33.
40
Cfr. INF. I. 115-117: <<Ove udirai le disperate strida, Vedrai li antichi
spiriti dolenti, Che la seconda morte ciascun grida>>
41
Nell'Induismo esse sono, rispettivamente: Moksha (o Mukti) e Yoga.
----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 1 di Episteme]
[email protected]
Solvet saeclum in favilla
In attesa del Dies Irae?
(Bruno d'Ausser Berrau)
In Europa, con il definitivo consolidarsi delle moderne forme di pensiero, dal XVIII sec.,
vennero sempre più in evidenza due diversi atteggiamenti culturali, che dettero luogo ad un
loro apparente antagonismo: da una parte il razionalismo dell'ambiente degli enciclopedisti,
dall'altra, il plateale sentimentalismo evidenziato da un Rousseau.
In effetti, fu proprio il mixing di questi ingredienti a costituire il catalizzatore, soprattutto sul
piano sociale, del successivo movimento rivoluzionario e, poiché tutto quanto esiste ha una
causa, ciò è uno degli incontestabili indizi, che stanno a rivelare la fondamentale unità
d'ispirazione di ambedue, quali espressioni di una precisa, sottesa ed operante ideologia
antitradizionale.
Tale, soltanto in apparenza strano connubio, ha poi permesso un approccio, ai problemi
della conoscenza, impensabile fino a qualche secolo prima. Cosicché, tuttora, a livello
filosofico, dietro le forme di un espresso razionalismo possono essere percettibili, quali
effettive scaturigini del pensiero, un sentimentalismo ed un volontarismo così virulenti e
passionali1 d'avere la pretesa di negare ogni possibilità conoscitiva a metodi diversi dai
propri.
E, lo spirito di negazione è una costante tra i tratti distintivi della mentalità moderna. In realtà,
tra chi abbia tali atteggiamenti, si tratta, sul piano del fenomeno psicologico, semplicemente
dell'esternazione dell'odio2 per tutto ciò che, in costoro, sia intuito oltrepassare le rispettive
capacità di comprensione intellettuale.3
È stata questa una situazione, la quale ha, globalmente, caratterizzato il sec. XIX. Con l'inizio
del secolo successivo, si sono, progressivamente, ripudiati i fondamenti teorici derivanti dal
meccanicismo cartesiano ed il cui logico sviluppo ha infine portato a posizioni filosofiche
radicalmente materialistiche. Quest'abbandono, s'è spinto sino ad attaccare la concezione
stessa di materia, sulla quale, è venuta edificandosi quella che, assai impropriamente, è oggi
definita <<fisica classica>> ma che noi, per evitare ogni equivoco col mondo antico
e tradizionale, avremmo preferito chiamare <<fisica moderna>>. Di conseguenza ed in
conformità ad altre attuali tendenze, agli sviluppi ultimi della medesima, si sarebbe potuto
attribuire l'appellativo di <<post-moderna>>. In ogni caso, in questo breve studio, per
evitare le difficoltà espositive, insite nella variazione di un lessico ormai corrente, ci
atterremo, rinunciando ad una maggior precisione concettuale, alle dizioni generalmente in
uso.
Gli aspetti alternativi e dirompenti, sul piano stesso della comprensione della realtà fisica,
sono stati però tali che, in luogo di una Weltanschauung positivistica, dalle apparenze di
stabile fondamento e solida strutturazione, è poi venuta ad imporsi non più una forma
ancorché illusoria di conoscenza, bensì quella che ha costituito solo una critica della
medesima ossia una mera teoria del conoscere. Una gnoseologia4 dunque: con tutta la
lontananza, che, etimologicamente, tale definizione comporta, rispetto a ciò che si dovrebbe
invece manifestare in un profondo superamento delle forme esteriori. Sarebbe quindi
necessaria quella penetrazione intellettuale, che esige come lo spirito di chi cerca abbia in se
stesso, proprio in virtù dell'essere ogni effettiva conoscenza identificazione, 5 le corrispondenti
possibilità ricettive. Ma, non aveva, del resto, affermato Kant, nella CRITICA DELLA RAGION PURA,
che <<la filosofia non è uno strumento per estendere la
conoscenza ma una disciplina per circoscriverla>>?
Tra quelli che, infatti, potremmo chiamare i "vantaggi" delle precedenti dottrine fisiche, oggi
travolte dalla "marcia inarrestabile del progresso", c'era la possibilità di visualizzare il corso
degli eventi naturali, stante però la pretesa che tali immagini rappresentassero l'effettiva,
intima dinamica del mondo fenomenico: come vedremo sono proprio le sopravvenute nuove
concezioni, che hanno distrutto questa semplicistica illusione.
I cosiddetti principi, sui quali si fonda la fisica classica, sono, pur essi, mere ipotesi
estrapolate soltanto in parte da situazioni di fatto e senza che una reale esperienza abbia avuto
modo di verificarle effettivamente. Prendiamo, ad esempio, il "principio" d'inerzia: mancante
com'è d'alcun effettivo riscontro empirico, esso potrebbe unicamente riferirsi ad una materia
priva di qualsivoglia proprietà ma tale condizione è soltanto quella della totalmente
indeterminata materia prima (cfr. infra) però la natura di quest'ultima non ha niente a che
vedere con quella della materia presa in esame dalla fisica moderna. A fronte della totale
astrazione6 ovvero della completa irrealtà gnoseologica di questo supposto principio, la fisica
classica si comporta "come se"7 e se ne serve nella misura in cui esso può essere utile … ed
utile è ma non è "vero".
L'utile s'è quindi sostituito alla precedente preminenza del fine, vale a dire quando
questo sorgeva dalla natura essenzialmente metafisica dello spirito umano. In tal senso, il
concetto s'estende ben al di là dei tempi relativi al nascere delle dottrine fisiche, che lo vedono
oggi primeggiare. Esso appare assai prima con l'english Utilitarianism, allorché Bentham8
dichiarava di voler fare dell'etica una <<scienza
esatta
come
la
9
matematica>>, mettendo così, per l'incipiente pensiero positivistico, una delle basi ma
fornendo un'olistica e possente chiave interpretativa per la nascente visione economicistica 10
della storia, proprio perché l'utile era inteso come <<tutto ciò che appaga un
bisogno>>.
L'evento principale - in grado di far emergere quelle che, in tanto riposata costruzione,
venuta a piena e soddisfatta maturazione sul finire dell'Ottocento, erano invece le interne,
irrisolvibili contraddizioni del sistema - si manifesta nella formulazione della cosiddetta
teoria della Relatività.11 Teoria, che ha portato alle ultime e, a questo punto, rivoluzionarie
conclusioni una fisica fondata sul ruolo centrale dell'esperienza.
Per dovere di precisione, è giusto far presente come questi schemi temporali debbano essere
intesi in funzione prevalentemente espositiva perché, è proprio entro un articolato sistema di
ricerche, il quale può essere già fatto risalire al 1890, che poi s'arriva a quella tappa
rappresentata dall'ipotesi quantistica di Planck (1900). Congettura, che fu quindi formulata
qualche anno prima della Relatività Speciale (1905).
Tale supposizione consisteva nel fare dell'energia una grandezza discreta piuttosto che
continua, sicché essa, in qualunque processo fisico - sia che fosse stata emessa, assorbita o
scambiata da un sistema ad un altro - doveva, in ogni caso, essendosi stabilito un preciso
nesso tra i modelli matematici e l'informazione numerica indispensabile alla descrizione dei
fenomeni, risultare multipla di un certo valore elementare e non ulteriormente divisibile. È
nel 1913, che Bohr partì da qui per disegnare quel nuovo modello d'atomo, in grado di
schiudere la strada all'avvento dei più recenti sviluppi della fisica.
Dalla stessa base concettuale di partenza, sorge anche una difficoltà epistemologica troppo
spesso trascurata da chi, appunto sull'esperienza, voglia fondare un'effettiva comprensione
del reale: qualsivoglia ipotesi o, in altri termini, qualunque modello della realtà, proprio
perché la rappresentazione matematica di eventi, essendo per sua natura, col trascurarne
alcuni a favore di altri giudicati più significativi, sempre costretta ad una scelta, implica, per
ciò stesso, una sicura semplificazione, sicché l'assunto, a motivo dell'inevitabile presentarsi
di altre ipotesi che, degli stessi fatti, potranno dare un'altrettanto sufficiente spiegazione, non
potrà mai essere assolutamente confermato in via sperimentale.12
La più evidente testimonianza in tal senso è proprio la formulazione della teoria di Planck,
per la quale, tutta una serie di fenomeni, legati alla luce, può essere meglio compresa ove
s'assuma che l'energia sia distribuita nello spazio con discontinuità e qui fu proprio Einstein
che, in uno specifico lavoro,13 suggerì come detta distribuzione potesse avvenire sotto forma
di "pacchetti" di radiazione luminosa.14
Tale suggerimento permetteva quindi di spiegare alcuni casi particolari del fenomeno
fotoelettrico; casi che restavano irriducibili alle leggi derivanti dalla sola teoria ondulatoria.
Questa presa d'atto rese complementari i concetti d'onda e di corpuscolo e, di conseguenza,
le due teorie su essi basate. Ciò fu poi generalizzato 15 da Bohr in vero e proprio principio di
complementarità (1925-30): con la sua applicazione era messo in crisi ogni normale
percorso logico; in questi termini, s'esprimeva, infatti, l'incompatibilità della meccanica
quantistica con la causalità. Una descrizione spazio-temporale rigorosa ed un'altrettanto
rigorosa sequenza causale, relativa a processi individuali, non possono realizzarsi
simultaneamente ed una delle due deve essere trascurata.
Questo punto di vista della fisica quantistica, per essere rettamente inteso, deve abbinarsi
all'altro; quello derivato dal principio d'indeterminazione formulato da Heisenberg (1927):
nella fisica atomica, a differenza di quant'avviene in quella classica, l'interazione tra
l'oggetto e l'osservatore non può essere considerata trascurabile, perché, su quel piano, la
discontinuità degli eventi può produrre variazioni non adeguatamente controllabili e
relativamente grandi. Ciò fa sì che le esperienze, eseguite per la determinazione di una
grandezza, rendano illusoria la conoscenza delle altre ottenute in precedenza. L'influenza,
che le ultime esercitano sull'intero sistema, è inverificabile e quindi i valori, ricavati per le
prime, possono venirne alterati. Ove, in modo quantitativo, si valuti questa perturbazione, si
scopre, in virtù della conoscenza di alcune variabili, un limite di esattezza finito e che non
può essere superato.16
In tal modo, insieme a Bohr, Heisenberg contribuisce al crollo del principio di causalità, 17 il
quale - poiché l'indeterminazione anche di una sola parte sta significare come, dello stato
presente di un sistema, non possiamo avere nient'altro che una conoscenza relativa - viene, a
questo punto, ad essere sostituito da un inevitabile ma nettamente antinomistico e senz'altro
nichilista18 principio di probabilità.
Il metodo della ponderazione fra probabilità, si basa sull'induzione dalle conseguenze alle
cause e, in senso più generale, dai fatti alla loro genesi ma, così facendo, si potrebbe essere
persuasi d'accostarsi ad una conoscenza certa, la quale diventerebbe invece sicura soltanto
con un'impossibile esperienza totale mentre l'ordine probabilistico, cui noi possiamo
accedere, è nient'altro che una comunque limitata accumulazione di dati e quindi soltanto
un'ombra dell'indefinita potenzialità dell'esperibile. Quest'imperfetta relazione della
comunicazione scientifica con il suo oggetto fa sì che la metafora dell'ombra sia qui del tutto
appropriata: in astronomia, ad esempio, si sono trattate le ombre come oggetti provvisti di
una geometria propria, di un'esistenza autonoma e senza che si sia nemmeno iniziato a
parlare della complicatissima forma della luce che le circonda. Fare così è molto, molto più
semplice ma una disciplina, che alle ombre dà quello status non è più, per ciò stesso,
coerentemente materialistica giacché tali forme sono eminentemente immateriali. 19 In questa
fattispecie ma, parimenti, per qualsivoglia scienza, è un errore logico far dipendere il
concetto di materialistica "esattezza20 scientifica", che di per sé implica l'esaustività, dal
ricorso al decisamente umbratile strumento probabilistico.
In questa sommaria disamina, non può essere tuttavia trascurato il fatto come, in seguito
all'approfondirsi dello studio delle particelle, tra Einstein ed i fisici quantistici,
cominciassero a sorgere netti contrasti: era, infatti, parere del primo che il modello di
riferimento, a ragione del ruolo del campo, fosse dato, per le forze in essere tra le particelle
(elettriche, magnetiche, gravitazionali, di scambio), dal calcolo tensoriale. I quantisti
dibattevano invece in merito al contrasto tra la possibilità di descrizione, solo mediante la
teoria ondulatoria, delle proprietà d'interferenza della radiazione mentre s'imponeva
l'utilizzo di quella corpuscolare per spiegare le proprietà dello scambio tra energia ed
impulso e fra radiazione e materia.
Oggi, seguendo la componente pragmatica, utilitaristica, che - di fatto - domina la scienza, la
scelta teoretica s'indirizza quindi verso il modello interpretativo più consono alla fattispecie
delle applicazioni prese in considerazione.21 Di conseguenza, siamo adesso arrivati al puro
ed esplicito rifiuto che la conoscenza sia una categoria universale e, pertanto, questo fa sì
che essa non possa essere indagata e criticata come tale ma che ci si debba contentare
dell'analisi delle condizioni e dei limiti di validità dei procedimenti d'indagine nonché, sul
piano espositivo, di quelli inerenti allo stesso strumento linguistico.
Qui giunti, appare inevitabile un riferimento a Wittgenstein, 22 il quale, in ordine al tema del
linguaggio ed all'insieme delle problematiche logico-matematiche di matrice neo-positivista,
ha portato contributi della massima importanza anche perché è su essi che s'è venuta
costruendo tutta la più recente filosofia analitica anglosassone.
L'approccio empirico, che è la base di partenza del pensiero moderno, trova in quest'autore
la sua più completa realizzazione: se qualsivoglia conoscenza non può che derivare
dall'esperienza e, per la precisione, dall'esperienza sensibile, sarà logico credere - come
avviene per Wittgenstein - che il cosmo sia la totalità dei fatti e, con ciò, intendendo la
totalità dei fatti che ricadono sotto i nostri sensi. Il fatto sarà allora il sussistere di stati di
cose ed il pensiero non potrà che essere l'immagine - nel senso d'immagine speculare - di
questi stessi fatti. Questa specularità ha poi la caratteristica d'organizzarsi secondo logica e,
pertanto, il pensiero sarà la proposizione munita di senso e funzione della verità delle
proposizioni elementari. Le proposizioni logiche sono tautologiche e la stessa logica è
immagine speculare del mondo, essendo non un a sé della mente ma, per com'essa è,
connaturata al mondo.
Questo modo di considerare le cose, presuppone che la sensazione sia, di per sé, totalmente a
posteriori ma così non è proprio perché è essa la traduzione, operata dal mentale, di
un'oggettività esterna. Nell'acquisizione alla coscienza del fatto empirico, l'intelletto ha
dunque un ruolo che, in virtù della sua mediazione, in realtà, lo rende indipendente
dall'esperienza, facendone un a priori.23 L'alterazione in questione è, tra l'altro, sottesa alla
stessa metafora dello specchio: ciò che è speculare a qualcosa non è, ad essa, sovrapponibile
e, proprio perché ripropone quant'avviene per le nostre mani, speculari ma difformi; tale tipo
di simmetria è chiamato chirosimmetrico.
Poiché, tra i principi primi ed i fatti c'è la stessa opposizione che esiste tra l'universale e
l'individuale, si comprende da dove scaturisca l'impressionante dilatarsi delle dimensioni di
un inarrestabile impoverimento intellettuale acceso, partendo dalle premesse logiche del
Wittgenstein, con le culturalmente drammatiche conclusioni del suo pensiero: ma la forza
appartiene alle idee che, per la conformità a l'esprit du temps, si presentano con le vesti della
limpidezza e dell'evidenza e, quand'anche il fatto che le ha generate sia illusorio, l'esistenza
dell'illusione come tale è ancora una realtà ed allora il cerchio, ermeticamente, si chiude
intorno a quella dimensione esperienziale, sicché la filosofia non potrà più avere alcuna
legittima autonomia dottrinaria ma dovrà limitarsi soltanto ad un'attività di supposta
chiarificazione logico-linguistica.
Se le parole del linguaggio denominano gli oggetti e le proposizioni sono solo connessioni di
tali denominazioni, Wittgestein - di fronte alla sempre più sfuggente natura dell'oggetto nella
fisica e del suo rapporto con l'osservatore - rivede il suo iniziale concetto di una cristallina
purezza della logica inerente al mondo e, considerandolo anch'esso un pregiudizio
appartenente all'eredità kantiana della <<cosa in sé>>, passa a stimare il linguaggio
quale un'aperta pluralità di forme espressive. Esse stesse, nient'altro che un'aperta funzione
degli impieghi resisi, di volta in volta, necessari (una <<cassetta degli
utensili>>) ma che, mai, possono risultare contenibili in una forma logica unitaria. Tutto
non è nient'altro che gioco (ein Sprachspiel), a linguistic game: poiché tale, egli nega loro
ogni possibilità di vera spiegazione e riflessione ma entrambe, ove si presentino, sono pur
sempre meri giochi ancorché contraddistinti da quella loro definita specificità.
A conferma, quindi, di questa nettissima deriva, verso la totale abdicazione d'ogni ruolo della
funzione intellettuale, si può riassumere la situazione, dicendo come, dalla conoscenza, siamo
passati alla sua critica e, da questa, ad una metodologia, la quale non è altro che critica
della scienza. Quest'ultima intesa nell'accezione più riduttiva, propria all'insieme delle
tecniche della ricerca scientifica.
Dando qui per scontata l'informazione sulle particolareggiate vicissitudini relative alle origini
ed ai concetti basilari di quella fatale innovazione post-moderna, conclusasi nei due esiti noti
come Relatività speciale (RS) e Relatività generale (RG), ai fini del presente studio, ci si può,
per adesso, limitare a sintetizzarla in questi termini:
- La RS, si basa sulla considerazione che la scelta di un particolare sistema di riferimento
spazio-temporale, rispetto a cui si possa definire il moto di un punto, sistema indispensabile
per effettuare misure, determini sì i risultati di queste stesse misure ma che, non essendoci, in
assoluto, un sistema privilegiato come aveva, sino allora, creduto la fisica (se non nel campo
della meccanica, certo in quello dell'elettromagnetismo, almeno nell'interpretazione "eterista"
dell'800), sia sempre necessario: da un lato, specificare il sistema in ordine al quale le misure
sono effettuate; dall'altro, trovare le formule di trasformazione che mettono in correlazione le
coordinate di un sistema con quelle di un altro, e quindi le misure di certe quantità fisiche
determinate all'interno di un sistema con le misure delle medesime quantità determinate
all'interno di un altro.24 Diversamente detto, la geometria, adatta a spiegare il mondo fisico,
deve essere spazialmente e temporalmente variabile: con questo criterio, intendendone anche
il significato matematico, si giunge al compimento concettuale dell'idea stessa di
trasformazione. La misura trova così un fondamento e, per essa, riappaiono le quantità fisiche
concrete. La RG è, essenzialmente, per l'uso di generalizzate coordinate e funzioni delle
stesse, l'estensione di questo principio di relatività a tutti i sistemi e non solo a quelli
propriamente inerziali presi in considerazione dalla RS. Di fatto, la RG è una teoria della
gravitazione, nella quale, quest'ultima è concepita come una deformazione dello spaziotempo. Inoltre con il suo specifico concetto di campo, la RG fa sì che la materia non sia più,
come nella fisica classica, qualcosa di puramente rispecchiabile ed osservabile ma un
qualcosa da modificare attraverso l'azione.
In ogni caso, tra Einstein ed i quantisti, la palma della dissolvenza spetta a questi ultimi,
poiché, dopo gli entusiasmi iniziali, il più maturo Einstein era spinto a ricercare, rispetto al
dominante probabilismo degli altri, una teoria generale del campo, nella quale si
conservasse la rigida causalità della fisica classica: era questo insomma, l'indizio, in chi
ormai consapevole dell'abisso gnoseologico che aveva contribuito a provocare, di un preciso
senso d'allarme e della conseguente attenzione per un qualcosa paragonabile a ciò che, in
qualche modo, rendesse possibile l'affermazione dell'esistenza - oltre la nostra mutevole e
transeunte esperienza - di una realtà già data.
Per i quantisti, non è invece nascosta ignoranza l'accettazione della mancanza di regolarità
nei sistemi atomici ma mera presa d'atto di una realtà, obiettivamente ed in toto, lontana
dall'immagine che se ne facevano le idee aprioristiche della fisica classica: non possono
esistere leggi generali, che spieghino l'intima realtà dei fenomeni ma è la natura stessa
dell'esperienza a ricondurla al particolare ed all'individuale e, di conseguenza, anche tutto il
nostro agire nel descrivere e misurare non può sfuggire a quest'insondabilità dell'oggetto.
Dal nostro punto di vista, ferma restando, per questo tipo di teorizzazioni, la loro posizione
quale palese espressione di un'ulteriore discesa verso una progressiva perdita d'ogni retto
intendimento della realtà ultima dell'intero systema naturae, esse rappresentano però la
dimostrazione dei limiti semplicistici e della fondamentale falsità anche dell'arrogante
positivismo d'ascendenza cartesiana, che è prevalso sino alla loro comparsa.
Significativo è che la Relatività s'imposti, allo stesso modo di Galileo e Newton, sul problema
del moto. È su esso, infatti, che, non a caso, si fonda anche tutta la fisica tradizionale: 25
Aristotele diceva che la natura ovvero ciò che avviene all'interno della sfera cosmica è <<la
sostanza delle cose che hanno il principio del movimento in se
stesse>>.26 Si può pertanto affermare come, ciò che contraddistingue la manifestazione
ossia la ϕυσις / natura, sia proprio la κινησις e come qualsivoglia ϑεωρια debba tenerne
conto. Al contrario, la quiete ed il silenzio, nella loro condizione assoluta, appartengono metafisicamente - soltanto alle possibilità del non manifestato.
Nella fisica tradizionale, come consegue dal genere di spostamenti 27 inerenti ad ognuno dei
cinque elementi,28 il moto svolge la sua funzione principale 29 nel determinare la composizione
delle sostanze e quindi dei corpi. Essa è, pertanto, una fisica qualitativa proprio nel senso
che stabilisce, tra gli stessi elementi costitutivi del cosmo, una netta gerarchia di
quest'ordine. Per meglio fissare i termini della questione, non è inutile ricordare che,
nonostante l'identità del vocabolo, gli elementi tradizionali niente abbiano da spartire con la
tavola di Mendeleev, essendo - se così possiamo esprimerci - nient'altro che la classificazione
delle differenti modalità vibratorie, nelle quali, la materia, in logica successione, si rende
percepibile a ciascuno dei nostri cinque sensi. Da qui, sorgeva tutto quel complesso e
codificato insieme di relazioni, che, legando macrocosmo a microcosmo, giustificava le
concezioni proprie alla medicina antica. I corpi sono, a loro volta, soggetti a cinque
condizioni:30 lo spazio, il tempo, la materia, la forma e la vita. Formulando altrimenti: un
corpo è una forma materiale, vivente31 nel tempo e nello spazio.
È proprio questo modo di rapportarsi d'ogni parte col tutto 32 ed infine del ricomporsi d'ogni
interno mutamento nella chiusa economia della sfera cosmica, che, nonostante la predetta
importanza del moto, determinava, nell'antichità, il mancato sviluppo di una dinamica 33
mentr'era ben sviluppato lo studio dei problemi dell'equilibrio dei corpi naturali ovvero di
tutto ciò che va sotto il nome di statica come, appunto, già avveniva con Archimede.
Tale disciplina - specie in ambito architettonico - trovava espressione attraverso un complesso
e tramandato insieme di rapporti proporzionali, i quali, pur nella loro relativa approssimazione
numerica, con efficacia, surrogavano gli strumenti di calcolo venuti in uso, per la progressiva
aritmetizzazione della matematica,34 soltanto in epoca moderna. Ogni edificio, di un certo
rilievo strutturale e monumentale, veniva pertanto edificandosi secondo concatenazioni,
scaturenti da un principio d'identità ed omologazione. Al fondo, di quest'apparente limitazione
dei mezzi disponibili, si collocava invece una precisa scelta di carattere simbolico; essa, nella
potenza unificante del Λογος,35 vedeva così riassunta la polimorfa immagine del Cosmo e,
quali epifenomeni della basilare invarianza della natura, tendeva pertanto a privilegiare tutte
quelle tecniche, che s'avvalessero delle relazioni di similarità ed autosimiglianza. È per
quest'aspetto applicativo che, in quella geometria, la squadra (γνωµων)36 ed il compasso
(διαβητης)37 - permettendo, con costruzioni costituenti una vera e propria algebra
geometrica, di portare a compimento pressoché tutte le principali operazioni - assumevano
entrambi una funzione primaria.38 Funzione che, in seguito, in virtù della principalità degli
algoritmi da essa generati, permise gli sviluppi computazionali dell'algebra e dell'analisi. La
verifica dell'invarianza e dell'identità, nonostante il mutare delle grandezze, è stato un
momento della percezione della realtà metafisica che compendia il molteplice nell'unità. Era
quindi in virtù dello stesso processo analogico che, pur nella sostanziale differenza, era
ritenuta sussistere un'identità essenziale tra l'artefice e l'opera. L'oggetto doveva valutarsi
come lo specchio fedele del soggetto, dando così ragione, nelle antiche ritualità corporative,
alla parte imprescindibile del "capolavoro" nell'attribuzione della maestria.
In seguito, col D'Alembert, allorché questi dimostrò come ogni problema di dinamica possa
essere ricondotto a quello di un equilibrio di forze, il ruolo principiale della statica venne
nuovamente in luce anche se, del suo rango, non più si percepivano le importantissime
implicazioni cosmologiche e metafisiche.
Quest'osservazione ci ripropone il tema dei cosiddetti principi della fisica classica (cfr. supra)
nonché della particolare prospettiva nella quale essi sono collocati: nello specifico, "il
principio d'eguaglianza d'azione e reazione" non appare nient'altro che l'abusiva assunzione, al
rango appunto di principio, di quella che, proprio per com'è presa in considerazione, è solo la
modesta fattispecie meccanica della legge universale, determinante l'equilibrio di tutte le forze
naturali. Non siamo quindi alla presenza di un qualcosa pertinente al solo mondo sensibile ma
di ciò che può diventare, appunto, un principio, soltanto quando lo s'intenda investire, in
tutti i suoi stati e modalità, l'interezza del Manifestato.
Entrando in qualche dettaglio, il concetto della fondamentale staticità del Cosmo, ci può
permettere di meglio comprendere il senso ultimo delle sue leggi nonché di valutare la
distorsione dell'ottica secondo la quale esse sono considerate dai moderni: nella
rappresentazione, tramite due opposti vettori, di due forze in equilibrio e con la rispettiva
attribuzione a questi di due coefficienti proporzionali, eguali quindi ma di segno diverso, oggi
s'afferma che, in tale situazione, le due forze s'annullino.
Ciò è però, in via concettuale ed empirica, assolutamente falso perché, ove una delle due
sia soppressa, si vedrà che - illico et immediate - l'altra agirà. Un qualche imbarazzo, può
allora scaturire dal fatto che, la somma algebrica dei due coefficienti dia, pur sempre, zero
sicché questo sembrerebbe obbligarci a concludere che, in realtà, la condizione d'equilibrio sia
assimilabile alla non esistenza mentre, dal punto di vista tradizionale - al contrario - è proprio
nell'equilibrio che trova assetto lo status complessivo dell'Esistenza o del Cosmo che dire si
voglia.
L'apparente contraddizione tuttavia scompare se il problema è posto diversamente: quale
prima mossa, deve essere superato il contesto della sola meccanica ma questo passo deve
giungere sino a comprendere la totalità delle forze in essere ovvero di quelle che, nel
Manifestato, agiranno a tutti i livelli ontologici.
Su questo piano di massima universalizzazione, tali forze potranno allora distinguersi in due
grandi categorie: l'attrattiva e la repulsiva. Casi particolari di questa classificazione saranno ad esempio - varie, possibili coppie di forze: contrattive/espansive, centripete/centrifughe,
esplosive/implosive, traenti/contraenti, coagulanti/solventi… Inoltre, i rispettivi ruoli,
all'interno delle coppie, potranno invertirsi a seconda che l'osservatore prenderà in
considerazione o il punto d'applicazione, o quello d'origine.
È tutto ciò nient'altro che un riflesso della dualità cosmica, espressa, in via principiale, con
essentia e substantia ma sulla quale ritorneremo tra poco: affinché ci sia equilibrio, sarà
dunque necessario che queste forze siano equivalenti per la quantità mentre la qualità
impedisce che possano essere definite eguali. Prendiamo il caso della contrazione/dilatazione:
le due forze si caratterizzeranno con coefficienti proporzionali all'azione da esse prodotta, di
modo che, nella prima, il valore sarà superiore all'unità, inferiore nella seconda. I rispettivi
coefficienti staranno ad esprimere il rapporto di densità esistente nel medium prima e dopo
l'azione di ognuna delle due forze considerate; tale mezzo, allorché non subisce l'effetto
d'alcuna sollecitazione ed in virtù del principio di ragion sufficiente, si supporrà omogeneo.
Sempre in assenza d'ogni stimolo e con la densità immodificata, il rapporto sarà, con
evidenza, eguale all'unità: ne consegue che, per essere in equilibrio, anche la risultante di due
forze agenti su un punto, dovrà avere per coefficiente l'unità.
Adesso, è ben chiaro dove stia, concettualmente, l'errore, che provocava la contraddizione di
un equilibrio equivalente alla non esistenza, espressa, appunto, dallo zero della somma
algebrica: l'operazione corretta da eseguire è, infatti, un prodotto. Così, con i due coefficienti,
rappresentati da numeri l'uno inverso dell'altro, esso, quale condizione d'equilibrio, darà
l'unità.39
La centralità del moto scende, con il sorgere della fisica moderna, di un gradino nella scala
ontologica e si limita a porsi gli argomenti della meccanica ossia quelli concernenti le
relazioni ed i reciproci movimenti dei corpi tra loro. Dal tema quindi di una conoscenza,
diretta alla comprensione dell'intima natura del reale, si passa a quello di una sua mera
descrizione. È Newton che, avendo chiaramente per obiettivo la concezione aristotelica della
fisica, nega che essa debba essere una scienza delle cause ma vuole che sia solo una
chiarificazione ed un'illustrazione dell'ordine naturale.
A mano a mano che veniamo analizzando la successione degli episodi filosoficamente
rilevanti, nel senso di quelli che più nettamente hanno segnato l'allontanamento dalle
concezioni cosmologiche tradizionali, ci appare evidente come, in definitiva, non abbia, poi,
molto significato porsi il problema di quanto, con queste, la R e la fisica quantistica si
trovino in contrasto. È la rottura operata, secoli fa, dalla nascita della fisica moderna, che
contiene, in nuce, tutti i successivi sviluppi. È quindi proprio alla fase teorica,
immediatamente precedente le nuove concezioni, che esse, con l'esporre una visione del
mondo assai più complessa di quella generata dal semplicismo razionalista, portano un vero
scompiglio. Su un piano inferiore ed a chiusura dell'intera operazione, si sviluppa una specie
di speculare riproposizione di un qualcosa che può, appunto, apparire l'immagine invertita di
ciò che, nella sua complessità, aveva preceduto il sorgere del mondo moderno.
Tornando al moto in sé, sappiamo come, dal punto di vista delle antiche concezioni, spazio e
tempo ne siano le condizioni necessarie ma non le cause: in realtà, stante la sua principalità,
sono entrambi solo gli effetti per i quali esso ha modo di manifestarsi. Non deve poi essere
dimenticato che anche il moto è, a sua volta, effetto di quella Causa totale, concepibile quale
Potenza universale illimitata e incondizionata, nella quale si sintetizzano tutte le possibili
cause secondarie.
Di quanto, mediocremente, questo concatenamento causale possa oggi apprezzarsi, il poco
che, sui "principi" elaborati da Bohr e da Heisenberg, abbiamo riferito è però sufficiente per
darcene un'idea.
A livello della massima universalizzazione, lo spazio sarà l'insieme di tutte le estensioni
particolari. Una di queste è quella propria alla modalità corporea e, ad essa, attualmente,
apparteniamo mentre una sua forma d'astrazione40 è ciò che viene preso in considerazione
dalla geometria euclidea, il cui oggetto è quindi una fattispecie dell'estensione
tridimensionale.
Tale concezione dello spazio trova un qualche riscontro nelle moderne geometrie non
euclidee. Queste, avendolo fatto dipendere da parametri variabili in maniera continua, sono
riuscite a metterne in luce un'idea più ampia: è perciò che esso si presenta quale spazio della
geometria classica soltanto per particolari valori. La RS ne trae la conclusione che, in via
d'approssimazione, la rappresentazione dell'universo fisico debba rispondere a postulati
diversi da quelli dello spazio di Euclide e che perciò dell'eventuale diversità non si possa, in
ogni caso, giudicare a priori ma soltanto, ovviamente, per via d'esperienza.
In definitiva, spazio e tempo si trasformano da costanti in misure metriche e cronometriche:
infatti, nello stesso spirito empirico della fisica classica, Einstein ha scrupolosamente
analizzato le operazioni fisiche dalle quali si era partiti per giungere alla formulazione di
quei principi e, così facendo, è riuscito a metterne in evidenza, aspetti prima negletti e tali
che, se fino allora, nella concettualizzazione dei risultati, ci s'esprimeva in termini di
proprietà, in seguito ciò è potuto avvenire soltanto in termini di operazioni. Pertanto, non si
può certo affermare che, con la R, si sia verificato un allontanamento dal metodo
sperimentale; è anzi più giusto sostenere che, con questi criteri, sia invece avvenuto il
transito ad una sua superiore valenza.
Affrontiamo prima il concetto di misura. In seguito, vedremo le due succitate aggettivazioni. 41
Il nostro materia è identico al lt. materia, il quale ha l'etimo nel vb. metiri,42 misurare
ma la misura così intesa è, prima di tutto, una determinazione, che non potrà però applicarsi
all'assoluta indeterminazione della υλη o materia prima. Questa potrà quindi riferirsi solo
alla materia secunda43 ossia al dominio della quantità continua. A tale ambito, com'abbiamo
visto, appartengono - quali effetti del moto - spazio e tempo: è il movimento, a mettere
dunque in relazione il tempo con lo spazio, cosicché è per quest'ultimo, che si può ottenere la
misurazione del primo.
In tal senso, è giusto non considerare più due costanti il tempo e lo spazio; il problema sorge
però quando dalla misura, quale mera determinazione, si passa alla misura quantificata in
forma metrica e cronometrica. È questo un modo, nel moderno tentativo di ridurre ogni cosa
alla quantità, d'avvicinarsi il più possibile alla quantità pura rappresentata dalla
discontinuità del numero ma che, per ciò stesso, non potrà mai trovare un perfetto riscontro
nel mondo corporeo stante la sua appartenenza all'ambito del continuum e la quantità
continua è, in primis, rappresentata, appunto, dalle grandezze d'ordine spaziale e temporale.
Da qui, tutti gli irrisolvibili paradossi prodotti dall'intera teoria.
Riassumendo: tutto il procedere, metodologicamente, non si discosta, nel suo punto
fondamentale rappresentato dall'esperienza44 da quello della fisica classica ed essa ha, per
strumento principe, la misura, la quale, nella sua espressione numerica, è la forma estrema
d'ogni determinazione. L'oggetto consiste nei fenomeni del mundus corporeus ma
quest'ultimo è però soltanto un epifenomeno della materia secunda, a sua volta, fenomeno
accessorio della materia prima, che è potenza pura ed in cui niente è distinto ed attualizzato.
La differenza è che questa materia (υλη) sia da situare non solo "sotto" al nostro mondo
com'avviene, appunto, per la secunda ma sotto tutti i possibili mondi della Manifestazione
universale: essa è, perciò, quella substantia che, con l'essentia, costituisce i due estremi nei
quali si polarizza il Creato.45 Tale substantia, per essere una potenzialità assolutamente
indistinta ed indifferenziata, sarà pertanto anche totalmente inintelligibile. Le sostanze
relative e che da essa discendono, saranno partecipi, ognuna sul proprio piano, di
un'analoga condizione, sì da comportare, per la materia, oggetto della nostra fisica, il
prender parte, in una misura (determinazione) corrispondente, a tale inattingibilità: è quindi
per questo che, con procedimenti analitici, supportati dall'estrema matematizzazione ovvero
da un maximum di determinazione, di tutti i processi conoscitivi, si venga oggi a creare
un'irrisolvibile eterogeneità tra gli strumenti utilizzati e ciò che, con essi, si vorrebbe
conoscere: senza dimenticare come, in realtà, questa fondamentale inintelligibilità faccia sì
che, indirizzando analiticamente l'indagine scientifica dalla parte del polo sostanziale della
manifestazione, non ci sia alcunché da conoscere mentre è solo partendo dal polo essenziale
e per via sintetica che la struttura del Cosmo possa essere compresa.
Non è dunque la sola Relatività, con annessi e connessi, ad annodarsi negli inestricabili lacci
di paradossi e contraddizioni,46 in grado di smontare qualsiasi struttura logica intuitivamente
accettabile ma è la stessa scienza moderna che appare, metodologicamente, priva d'ogni
reale capacità esplicativa. L'unica sua verità essendo - e non è poco - la forza socialmente
dirompente delle sue straordinarie applicazioni utilitaristiche: 47 è su esse che s'è costruito
l'immane scenario, nato da quell'altrettanto immensa potenza d'illusione che la sottende e la
guida e che già Francis Bacon suggeriva gemellando sapere e potere.
È anche assai interessante costatare come, quest'aspetto dissolvente della R, risultato
demolitore nei confronti della fisica classica, abbia aperto le porte ad una serie di possibili
valutazioni ed amplificazioni di carattere nettamente neo-spiritualista, le quali, nel mondo
accademico - nonostante l'avversione dello stesso Einstein, manifestatasi con un profondo
impegno a favore della metodologia scientifica ed in contrasto con l'ondata d'irrazionalismo
e di sfiducia nella stessa scienza che la divulgazione delle sue ipotesi aveva generato in molti
ambienti - accendevano un entusiasta concerto interpretativo dai toni decisamente pseudometafisici.
È infatti Eddington,48 che, per primo, vedendo nelle conseguenze della R un trasferimento
dell'oggetto principale della fisica, dalla materia alla struttura, tanto da poterla ormai
definire come una scienza delle relazioni, trova in ciò un'esatta congruenza con
l'atteggiamento fondamentale dello spirito umano, inteso sempre alla ricerca del permanere
nel cosmo di una trama architettonica, che ne rifletta l'intima armonia. È sulla stessa strada
che alcuni fisici contemporanei, quali Capra49 e Hawking,50 suggeriscono d'intendere
l'universo come una dinamica trama di eventi correlati.51
Il motivo è che ormai il punto di massima "solidificazione" del mondo è stato superato: la
quantità continua, che costituiva il suo apparentemente saldissimo supporto,52 è stata
polverizzata nella discontinuità dalla stessa raffinatezza formale53 dello strumento
matematico, essendo proprio il numero ciò che, compiutamente, rappresenta la quantità
pura:54 le particelle sub-atomiche possono pertanto essere interpretate quali processi
piuttosto che come oggetti cosicché non resta davvero più niente di solido e di propriamente
materiale su cui appoggiarsi.
È questa la ragione dell'impossibilità, da parte dei fisici, rimasti fedeli ad una visione rétro
della disciplina, di giungere, con gli strumenti contestativi a loro disposizione, a smontare un
qualcosa che è stato logicamente prodotto dallo stesso sviluppo conoscitivo del quale, sul
piano scientifico, essi sono pur sempre, con volenterosa e diligente aderenza, totalmente
partecipi.
Nonostante che la ristrettezza ed il semplicismo, impliciti nella loro forma mentis, li renda
immuni dalle ultime, nefaste influenze dello pseudo-spiritualismo, cui il disordine e l'opera
distruttiva delle più recenti concezioni scientifiche hanno aperto sempre più ampi e comodi
varchi, nel disastro intellettuale qui brevissimamente delineato, la fondamentale
corresponsabilità dell'intera comunità scientifica resta totale ancorché il ruolo, sempre più
marginale di attardati e dispersi epigoni di un orgoglioso "ieri" che fu, ce li faccia apparire
nella luce ambigua di un patetico eroismo ereticale.
Note
1
Il sentimento genera il desiderio, il quale è, pertanto, eminentemente impulsivo mentre tende ad
essere riflessiva la volontà, cosicché, il momento della deliberazione, che precede l'azione, appare
come una lotta di idee ma sono idee ricche di carica sentimentale e non potrebbe essere diversamente
perché quest'ultima è assente soltanto sul piano delle idee pure e qui ne siamo ben lontani.
2
Odio non è parola eccessiva; basti pensare a Nietzsche che, ne LA VOLONTÀ DI POTENZA, afferma
<<…"tutto è vano" non è soltanto la credenza che tutto meriti di morire
ma consiste nel mettere la mano in pasta per distruggere…>>.
3
Nell'antropologia tradizionale l'uomo - a sua volta immagine della struttura cosmica - ha
un'architettura tripartita e gerarchicamente ordinata in intelletto (o spirito), ragione (ambito psichico) e
corpo (ambito del sensibile). Il tutto si riassume nell'elemento gerarchicamente superiore, poiché la
sensazione stessa, benché sia derivante dall'interazione di cause esterne con la coscienza è, di per sé,
un fatto interno. Il giudizio poi, col ragionamento, attraverso analisi e sintesi, elabora i dati acquisiti da
quest'ultima, altrimenti definibile senso intimo, attraverso il filtro aprioristico rappresentato
dall'intelletto. Per l'aspetto storico-filosofico del tema della tripartizione; cfr. il ns. JANUA INFERNI
comparso sul n. 1 di questa stessa rivista.
4
Esemplare in tal senso l'opera di Ernst Cassirer (1874 / 1945). Importante è poi rilevare in lui - per le
tematiche inerenti l'"evanescenza" della materia e che affronteremo più avanti - la perdita di
"spessore" del mondo fisico: essa è resa evidente dal trasferirsi, dell'oggettività del conoscere, da
quella che egli ritiene una pretesa realtà sostanziale esterna, alle immediate, interiori relazioni
funzionali, proprie alla stessa attività conoscitiva del pensante.
5
Cfr. infra il concetto compagnonico di "capolavoro". Va da sé che tale conoscenza è esclusivamente
acquisibile in un contesto di gnosi i cui contenuti spazino nell'intero arco che va dalla metafisica sino
alle scienze tradizionali e che sono noti alla cultura occidentale sotto il titolo di philosophia perennis,
alla cui valenza universale e non sottomessa al tempo anche il Cusano accenna nel suo riferirsi alla
<<religio una in rituum varietate>>.
6
L'astrazione consiste nell'isolare, col pensiero, una qualità da un oggetto dato: nella fattispecie, esso
è, appunto, la materia delle osservazioni scientifiche. Si passa poi ad un grado superiore d'astrazione
quando, s'isolerà un modo di questa stessa qualità …e così via…. sino a che, attraverso questo
reiterato processo "astrattivo", non si giunga a quel grado d'irrealtà rappresentato dalla materia
totalmente indeterminata qui presa in considerazione.
7
In effetti - stricto sensu - l'interpretazione del "come se" è caratteristica della scuola di Joseph
Vaihinger (1852/1933): il pensiero è ridotto a funzione organizzativa del sentire. Principi e concetti
sono, pertanto, da intendere solo quali modelli ordinativi ma privi di una reale aderenza alla realtà.
Ancora una volta, la giustificazione di tutto è l'utilità.
8
Jeremy Bentham (1748/1832).
9
AN INTRODUCTION TO THE PRINCIPLES
Clarendon Press, 1996.
OF
MORALS AND LEGISLATION Edited by J. H. Burns and H. L. A. Hart,
10
I fondatori della scienza economica, Thomas R. Maltus (1766/1834) e David Ricardo (1772/1823),
furono esplicitamente utilitaristi.
11
Nello stesso periodo, giunge a compimento, anche una serie di idee matematiche apparse intorno al
principio del XIX sec.
12
Queste considerazioni sono tanto più vere oggi, quando, per l'uso generalizzato del computer, che
opera in modo digitale con sequenze di cifre, prefissate e di lunghezza finita, i processi matematici
trascendenti debbono essere sostituiti da espressioni algebriche, traducibili in operazioni aritmetiche
elementari e per le quali, ai fini del risultato, sarà sufficiente, una volta raggiunto un certo grado
d'approssimazione, interrompere l'iter computationis verso il valore limite. È per questa ragione che,
col calcolo automatico, nel contesto di un generale riduzionismo dell'intera matematica, s'aggrava
l'errore implicito nel passaggio dal continuo al discreto.
13
ÜBER EINEN DIE ERZEUGUNG UND VERWANDLUNG DES LICHTES BETREFFENDEN HEURISTISCHEN GESICHTPUNKT.
14
Evidente rivincita delle congetture corpuscolari di Newton.
15
Se l'astrazione è essenzialmente analisi (cfr. supra n. 5), la generalizzazione, permettendo di
comprendere in uno stesso concetto, indefinite idee particolari, è essenzialmente sintesi: in questo caso
però i due "oggetti" alternativi, onda e corpuscolo, non danno luogo ad un terzo "oggetto" (un modello
di compendio) ma soltanto ad un utilitaristico principio compromissorio tra le due concezioni che li
hanno costruiti.
16
Cfr. DIE PHYSIKALISCHEN PRINZIPIEN DER QUANTENTHEORIE, 1930, I.1.
17
Sostenuto anche da Einstein.
18
È l'espressione interpretativa della realtà (le premesse si trovano già in Democrito; cfr. anche Dante,
INF. IV.136), maggiormente aderente a quella negazione attiva, che perfettamente corrisponde alla
natura ed alla volontà di coloro nei quali, lo spirito dissolvente del tempo presente, più compiutamente
s'incarna. Vd. anche F.W. Nietzsche, DIE WILLE ZUR MACHT, XV. § 24.
19
Esse, poiché stabiliscono una relazione di conformità tra la parte ed il tutto, sono (solo) una forma
ma con alcune proprietà: esistono grazie alla luce e pertanto hanno una dinamica, sono una cosa
unitaria ma prive di struttura pur risultando, nel frattempo, piatte (the shadow) m'anche tridimensionali
(the shade). Cfr. Roberto Casati, LA SCOPERTA DELL'OMBRA, Scienza - Oscar Saggi, Mondadori, 2001.
20
Definire esatto un qualcosa è molto impegnativo avendo il significato di privo di errori e
conforme al vero. Da exactum, p.p. di exigere, nel senso di pesare (-agere) esattamente
(ex-).
21
Illuminante questa considerazione di Einstein: <<Per il fisico, un concetto ha
valore soltanto quando è possibile discernere se esso, nel caso
concreto, conviene o no>>; trad it. SULLA TEORIA SPECIALE E GENERALE DELLA RELATIVITÀ,
Bologna, 1921, p. 18.
22
Ludwig J. Wittgestein (1889/1951); da ricordare soprattutto: TRACTATUS
Torino, 1968 e RICERCHE FILOSOFICHE.
23
LOGICO-PHILOSOPHICUS,
trad. it.
Cfr. supra n. 2 et infra n. 37.
24
In altri termini: il sistema di riferimento determina le misure ma esprimendole in ordine al grado di
realtà definito dalle sue specifiche caratteristiche e questo sino a che, con la fisica quantistica, per
l'influenza accordata all'interazione dell'osservatore, si mette in dubbio anche l'effettiva
determinazione di esse: cfr. die Unbestimmtheitsrelationen di Heisenberg.
25
Per esemplificare la costanza, in tutte le culture, di questa centralità del moto, basti la citazione del
noto testo cinese denominato I KING o libro dei mutamenti, nel quale, l'alternarsi delle linee
intere e spezzate, che vengono così a formare sessantaquattro esagrammi, era concepito come
un'immagine del continuo trapassare cosmico da un fenomeno all'altro. Naturalmente, non si tratta,
come rozzamente pensava lo stesso Leibnitz, del preannuncio estremo-orientale ed applicativo del
sistema binario.
26
MET., V, 4, 1015a 13.
27
Sostanziale: generazione e corruzione. Qualitativo: mutamento. Quantitativo: aumento e
diminuzione. Il primo, implicante la traslazione dei corpi, è quello fondamentale perché è ad esso che
gli altri tre possono essere ricondotti. Le reazioni degli elementi, sottomessi a questi movimenti,
generano le differenti sostanze.
28
I quali, enumerati secondo l'ordine del rispettivo sviluppo, sono: etere, aria, fuoco, acqua, terra. A
loro volta, essi procedono dalla reazione della υλη al moto vibratorio che percorre tutto il cosmo. Sul
piano della condizione umana, le sue modificazioni complesse corrispondono ai diversi tipi di
sensazione.
29
Esso è appunto quella vibrazione originaria provocata da quella prima percussione della quale
abbiamo scritto in ΑΤΟΠΟΝ, il precedente articolo apparso sul questo stesso numero della rivista.
30
A livello cosmologico, il ripetersi del numero cinque, spiega perché il pentalfa sia, dall'antichità, il
simbolo di tutte queste relazioni. Nel Pitagorismo, in corrispondenza dei vertici erano collocate le
lettere Υ, Γ, Ι, ΕΙ, Α, le quali erano disposte in modo che, lette in senso antiorario (polare/celeste),
davano υγιεια, salute, salvezza. Altra lettura: Y, cfr. infra n. 36; Γ, cfr. infra n. 35; I,
l'Unità; EI, in gr. sono!Che costituisce la risposta all'ingiunzione <<conosci te stesso!>>;
A, la base grafica del simbolo stesso, grafica che è retta da una precisa legge d'armonia, tant'è che ogni
elemento del pentalfa viene ad essere la sezione aurea di un altro.
31
In quest'accezione la vita (βιος ) è di ogni corpo ancorché, in forma privilegiata, si manifesti in
quelli che oggi siamo soliti limitare, per l'esclusione del mondo minerale, ai vegetali ed agli animali.
32
Da qui la capacità di leggere i signa rerum.
33
Essa nasce, di fatto, con Galilei e Newton.
34
La matematica del mondo classico era quella "solida", caratteristica dei popoli sedentari e, di
conseguenza, costruttori, dove il numero - com'avveniva nel Pitagorismo - era legato alle forme
geometriche (le progressioni dei numeri poligonali) mentre presso i nomadi semiti, ebrei ed arabi, esso
era considerato aritmeticamente come la Kabbalah e la Ilmul-hurûf - la scienza delle lettere (e dei
numeri) - stanno a dimostrare. Questo non è senza relazione col ruolo, prima degli arabi e poi dei
matematici ebrei, nei più importanti sviluppi algoritmici della matematica occidentale. La "solidità"
della matematica classica trova conferma anche a livello linguistico: calculus è una pietra, il sassolino
per fare di conto mentre, sul piano medico, è qualsivoglia formazione litica interna al corpo ma che,
dal punto di vista simbolico, diventò, con l'avvento dell'Ermetismo, il riferimento fisiologico
dell'alchemica <<pietra nascosta dei saggi>> ovvero quel luz (ebr. per mandorla) nel
cui interno, essendo un osso indistruttibile, dopo la morte, l'anima resterebbe nascosta sino al giorno
della resurrezione.
35
La scienza del calcolo dei rapporti, in una prospettiva unitaria del sapere, era chiamata, appunto,
λογισµος e, come la polisemia di altri termini matematici sta a dimostrare, da essi era contesto anche
il discorso etico e politico: ad esempio la υπερβολη e la ελλειψις, sono sì le sezioni coniche ma,
rispettivamente ed in ben più ampia accezione, anche l'eccesso e la mancanza. Cfr. Paolo Zellini,
MATEMATICA E ETICA, in MATEMATICA E CULTURA a cura di Michele Emmer, Springer, 2000.
36
Per questi argomenti cfr. l'omonimo GNOMON (Adelphi, 1999) di Paolo Zellini. È significativa la
connessione etimologica del nome dello strumento con γιγνοµαι e γνωσις, tant'è che la prima
accezione di γνωµων è conoscitore, indagatore, interprete. È poi da notare, come la
stessa lettera iniziale γ, nella sua forma maiuscola Γ, rappresenti una squadra e, precisamente, i due
lati dell'angolo retto (del triangolo rettangolo 3-4-5) di quella a branche diseguali. Squadra, che aveva
una notevole importanza nella Massoneria operativa, dove la Loggia non poteva iniziare i suoi lavori
se non con il concorso di tre maestri in grado d'unire a triangolo, tre bacchette aventi le suddette
proporzioni. In ogni caso, ancor oggi, the jawel del Past Master riproduce, su questo stesso triangolo,
la dimostrazione grafica - per tre scacchiere di 9, 16 e 25 case - del teorema relativo al quadrato
dell'ipotenusa.
Il nome greco di questo secondo strumento consiste nell'associazione di δια− e
-βητης ← βαινω (marciare). Del resto anche l'italiano compasso, viene dal lt. parlato
compassare, misurare a passi (cum + passus) e quindi esprime lo stesso concetto sotteso al
movimento degli arti e ripreso da quello dei due gambi divaricabili. La biforcazione ( δια) dell'iter sul
quale si trova a marciare (βαινω) l'uomo di conoscenza (γνωµων), ci rimanda al celebre aneddoto del
sofista Prodico di Ceo (nel suo perduto Ωραι, secondo il riassunto fattone da Senofonte nei
Memorabili, II, 1. 21-34), nel quale Eracle è presentato di fronte al bivio tra il sentiero del piacere e
quello della virtù ma, tra i due, egli non esita a scegliere il secondo. Tutto questo, nella gnosi antica,
era anche strettamente collegato ai significati sottesi alla lettera Υ, copia grafica dello strumento ed
immagine dei due percorsi che si prospettavano all'iniziando: ovvero i piccoli (τα µικρα, a Agre) ed i
grandi misteri (τα µεγαλα, a Eleusi).
37
38
A tutt'oggi, nell'ancorché non più operativa ma speculativa Massoneria, la squadra ed il compasso
appaiati sono le insegne dell'istituzione.
39
Definire l'equilibrio con l'unità corrisponde al fatto che, da questa, si dipartono le due serie opposte
dei numeri interi e dei loro inversi e di conseguenza, l'analogia d'assetto dei numeri positivi e di quelli
negativi, rende evidente l'artificiosità della posizione centrale assegnata in quest'ultimo caso allo zero.
Ciò non toglie l'importanza, ancora una volta empirica, che questa notazione convenzionale ha nei
nostri processi di calcolo. Per tutto questo tema cfr. il Ch. XVII di R. Guénon, LES PRINCIPES DU CALCUL
INFINITÉSIMAL, Gallimard, 1951.
40
Cfr. supra n. 5.
41
I.e.: metriche e cronometriche.
42
Metior, mensus sum, metiri. Cfr. il skr. mâtrâ, misura. È qui importante chiarire un errore
ampiamente diffuso ovvero quello di far derivare materia da mater quand'è vero esattamente il
contrario: giustamente il Meillet (DICTIONNAIRE ÉTYMOLOGIQUE DE LA LANGUE LATINE) osserva che materia è la
<<substance dont est fait la mater>> confermando, con evidenza, la principalità della
materia ed infatti continua, specificando ancor meglio il senso della cosa: <<c'est-à-dire le
tronc de l'arbre considéré en tant que producteur de rejetons>>.
Purtroppo però, non sempre le conoscenze linguistiche vanno di pari passo con le capacità logiche. Le
risorse caratteriali, necessarie per sfuggire al plagio di un certo soffocante conformismo accademico,
sono poi ancor più rare. Subito dopo, infatti, l'autore nell'adeguarsi alle idées reçues sull'argomento,
prosegue con l'affermare che il termine <<dérive de mater>> mentre ha testé dimostrato
esattamente il contrario.
43
È però necessario precisare come la materia secunda non coincida con il mondo corporeo del quale
s'occupa la nostra fisica ma ne sia, in un certo senso, la radice ovvero le qualità sensibili che si
manifestano sono soltanto la "proiezione" di forme ad essa inerenti.
44
È bene fare però presente quanto singolare, indiretto ed ipotetico sia il ruolo dell'esperienza nella
Relatività. Gli esperimenti ideali, dei quali Einstein si serve - in entrambe le R - non sono
empiricamente realizzabili ma, in virtù di una catena deduttiva, discesa da lontane osservazioni
effettive, traggono tutto il loro valore dalle conseguenti implicazioni logiche che vengono così a
sottendere. In altri termini, quella relativistica non è un'esperienza classicamente intesa ma una sua
forma ideale e trasposta che appare nuova ed inusitata.
45
Secondo un'altra immagine essi sono i due poli della sfera cosmica. Cfr. anche lo yang e lo yin della
cosmologia estremo-orientale.
46
L'applicazione del "principio" di complementarità è sempre attiva: anche per la R,
s'afferma che, ad un certo livello operativo, diciamo pure "grossolano", vengano a mancare
le ragioni di non ricorrere all'impostazione pratica e concettuale implicita alla fisica
classica. Nel contempo, la critica relativistica della simultaneità contraddice il concetto, che
è l'a priori stesso dell'esperienza, sviluppando poi, grazie ad un raffinato convenzionalismo
matematico, che elimina ogni possibile riferimento antropomorfico, impressionanti derive
sillogistiche, sfocianti letteralmente nel fantastico: ecco perché il solido mondo del positivista
è travolto da concetti fisici che non possono più essere ridotti a meri contenuti percettivi.
47
Il discorso, specie per le matematiche pure, deve escludere un'immediata, esplicita intenzionalità per
l'utile poiché, in diversi campi e sul momento, la loro applicabilità quasi mai appare prevedibile ma è
solo col trascorrere del tempo che essa tende a rivelarsi.
48
Arthur Stanley Eddington (1882/1944); direttore dell'Osservatorio di Cambridge è uno tra i primi ad
aver formulato l'ipotesi del Big Bang.
49
Fritjof Capra (Vienna, 1939); studioso della fisica delle alte energie ha tenuto lezioni a Stanford ed
all'Imperial College di Londra. Il suo IL TAO DELLA FISICA si caratterizza proprio per quest'anomala
rivisitazione della metafisica, sia orientale, sia occidentale: tanto per esemplificare, i più alti stati,
conseguibili dalla realizzazione spirituale, sono descritti quali esperienze - attingibili fuori della
sequenza temporale - del continuum spazio-temporale ipotizzato dalla R. In effetti, l'allontanarsi della
fisica dalla realtà sensibile la spinge in un'area situata al di sotto e non al di sopra di essa.
50
Stephan W. Hawking (Oxford, 1942); titolare della Lucasian Chair a Cambridge, si è dedicato ad un
tentativo di sintesi cosmologica inteso all'unificazione delle teorie quantistiche con la gravità
attraverso la RG.
51
E qui, di nuovo, torna il pensiero a Bacone ed al suo schematismus latens.
52
La solidità comporta la corporeità; n'è, anzi, l'apice concettuale. Quest'ultima, a sua volta, implica lo
spazio e quand'anche si volesse, cartesianamente ed erroneamente, ridurre all'estensione, facendo dello
spazio un modo della quantità, ci si collocherebbe, pur sempre, nell'ambito della quantità continua.
53
È attraverso innumerevoli procedure, nelle quali il più spinto convenzionalismo genera una specie di
gioco, che avviene la riduzione di tutta la matematica al calcolo. Il motivo pel quale tutto ciò ha oggi
grande importanza, sta in due esiti soltanto apparentemente contraddittori: per primi vengono i risultati
pratici, cui queste procedure possono permettere di giungere. Sul piano però della teorizzazione,
affascinano invece proprio tutti quei paradossi concettuali che sorgono in abbondanza dall'aver
confuso la natura profonda dei numeri con le cifre, le quali dovrebbero soltanto rappresentarli. È
questo l'errore di coloro che - come i prigionieri di Platone - scambiano l'ombra per la realtà. Cfr.
anche E. Husserl, secondo il quale, ne L'ORIGINE DE LA GEOMETRIE (P.U.F., Paris, 1962), il senso del
τελος ossia del fine della ricerca conoscitiva, dovrebbe coesistere con quello della verità principiale
(αληϑεια), quand'invece, più ci s'allontana da quest'inizio, l'analitica molteplicità del sapere
contemporaneo tende irrimediabilmente a smarrirsi.
54
Qui s'intendono i numeri nell'accezione quantitativa ed ordinaria del termine e non quelli cui fa
riferimento Pitagora (cfr. supra, n. 33). Numeri che, per le loro valenze analogiche e simboliche, sono
invece puramente qualitativi, assimilandosi in tutto alle idee platoniche. Non sono, parimenti, neppure
quelli presi in considerazione dalla matematica del Cusano, da lui valorizzata, proprio poiché permette
di fare le congetture più attendibili, come la disciplina che meglio s'avvicina alla verità delle cose.
----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 1 di Episteme]
[email protected]
Il ruolo del trasferimento tecnologico nello sviluppo sostenibile
(Umberto Lucia)
"… Ognuno di noi è su questa terra per una breve visita:
egli non sa il perché,
ma assai spesso crede di averlo capito.
Siamo qui per gli altri uomini:
anzitutto per coloro dal cui benessere dipende la nostra felicità,
ma anche per quella moltitudine di sconosciuti
alla cui sorte ci incatena un vincolo di simpatia …"
Albert Einstein
Introduzione
Le nuove teorie sullo sviluppo focalizzano la loro attenzione sul ruolo che riveste
l'innovazione tecnologica a supporto della crescita economica.
Sin dalla metà degli anni '80 le teorie sullo sviluppo sono state soggette ad un nuovo interesse
soprattutto per la complessità cui è soggetta l'analisi delle correlazioni alla base della crescita
economica.
Alcune di esse si fondano sul principio dell'accumulo di capitale. In questo modello la
funzione produzione incorpora due fattori convenzionali, il lavoro ed il capitale. La crescita si
realizza risparmiando sui costi attuali in funzione di quelli futuri. Per conseguire la crescita le
economie incrementano i loro investimenti netti ed i loro capitali. Assumendo che il livello
numerico della popolazione resti invariato insieme al potenziale lavoro applicato, allora
aumentando il capitale per unità di forza lavoro si ottiene un incremento di crescita
economica: maggiore è l'investimento in produzione, maggiore è la produttività e la crescita
economica raggiunta. Questo modello, però, presenta un forte limite: come risultato del
processo di accumulo di capitale e della diminuzione del ricavo, ad un certo istante le
economie raggiungono il loro stato stazionario, l'equilibrio di crescita. Allo stato stazionario
la crescita viene interamente determinata dall'innovazione tecnologica. Tale modello, però,
non riesce a fornire una spiegazione al processo che genera l'innovazione tecnologica,
assumendolo come elemento esterno al sistema economico e per sua natura esogeno. Inoltre
questo modello non riesce a fornire alcuna spiegazione alla crisi economica che si è originata
in Unione Sovietica.
Altre teorie tendono a fornire modelli in grado di descrivere un maggior numero di situazioni
economiche empiriche. Esse si basano sulla nozione di "economie fondate sulla conoscenza"
(knowledge-based economies) ed evidenziano l'importanza dei processi di acquisizione
operativa della professionalità, della ricerca, della formazione e della imprenditorialità del
"capitale uomo". In esse si accetta il principio di diminuire i proventi del fattore di
accumulazione, riflettendo il ruolo fondamentale del mercato. Queste teorie privilegiano
l'investimento in ricerca come funzione di produzione. La tecnologia, però, non rappresenta
un bene privo di limitazioni; infatti queste teorie, per ottenere risultati economicamente
rilevanti, devono introdurre la necessità di sistemi razionali di innovazione. Questi sistemi,
però, chiusi rispetto alla comunicazione di informazioni, limitano la crescita tecnologica
stessa, frenando i processi innovativi e, quindi, anche la stessa crescita economica. Inoltre
questi modelli non riescono a fornire spiegazioni alla situazione economica di alcuni stati
dell'Africa.
In questo lavoro si cercherà di sviluppare un modello fenomenologico di analisi dello
sviluppo che non presenti i limiti delle teorie precedenti e che sia conforme alle linee guida
dello sviluppo sostenibile. Si vuole giungere ad un modello che connetta i vari fattori che
influenzano lo sviluppo, in modo da ottenere una metodologia di analisi e, quindi, anche di
intervento nelle operazioni di trasferimento tecnologico.
Ricerca e Sviluppo (sostenibile) è un settore di indagine non classificabile come ricerca di
base, ma neppure come ricerca applicata. Una gran parte della crescita economica è dovuta
all'incremento della produttività totale, all'accumulo delle conoscenze ed all'innovazione che
permettono di combinare tra loro gli stessi input di base in forme più efficienti. Occorre
sviluppare ricerche applicative multidisciplinari, soprattutto su linee orizzontali ed
interdisciplinari.
Il concetto di sostenibilità è strettamente connesso agli sviluppi della politica e della
comunità. Infatti la politica garantisce le attività di gestione e di regolamentazione strutturale,
mentre lo sviluppo della comunità garantisce la qualità della vita per le attuali generazioni
senza privare le generazioni future e le persone, ovunque, del loro diritto ad un pianeta
vivibile ed ecologico.
Lo sviluppo sostenibile come concetto e paradigma è il sintomo culturale di una cambiamento
storico che si realizza in tutte le società come elemento caratterizzante dell'ultimo decennio
del XX secolo. Questo concetto implicitamente concretizza differenti aspirazioni filosoficosociali quali democrazia, comunità, pace, diversità, diritti umani, uguaglianza del genere
umano, giustizia economica e sociale, ecologia: si contrappone alla prevalente ortodossia
della attuale crescita economica, della crescente riproposta di un'ottica antropocentrica e dei
valori materialisti, richiedendo un nuovo contratto sociale e proponendo un nuovo
atteggiamento culturale.
Il significato dello sviluppo sostenibile
Il concetto di sostenibilità non si riferisce solo alle problematiche ecologiche, ma anche e
soprattutto a più ampi e necessari cambiamenti sociali, politici e culturali che richiederanno lo
sviluppo di nuovi metodi, attitudini individuali e abilità professionali.
Evidenze dell'interferenza umana con il mondo naturale sono visibili in ogni ecosistema.
Esempi significativi sono rappresentati dalla presenza dei CFC (clorofluorocarburi) nella
stratosfera oppure dal cambiamento del corso dei principali fiumi del pianeta.
Sin da quando, circa diecimila anni fa, l'Uomo abbandonò la vita nomade, ha sempre
manipolato il mondo naturale per soddisfare le sue necessità. E' difficile stimare i tempi, la
natura e l'entità del cambiamento globale indotto dall'Uomo, soprattutto nel periodo postindustriale. I motivi sono i seguenti:
1 - la meccanizzazione sia industriale sia agricola nell'ultimo secolo ha determinato un
incremento della produttività e della produttività del lavoro con conseguente incremento del
benessere e dei servizi;
2 - l'entità numerica della popolazione non ha paragoni storici. Inoltre la disuguaglianza
globale è significativa; infatti il benessere è distribuito solo a circa un quarto della
popolazione mondiale come si evince da uno studio dell'Indira Gandhi Institute of
Development Research riassunto nella seguente Tabella:
Tabella 1
Disuguaglianze nel consumo globale: consumo nei Paesi Industrializzati (dati 1992)
75 %
92 %
70 %
86 %
81%
80 %
48 %
60 %
Uso di energia
Automobili
Emissioni di CO2
Rame ed alluminio
Carta
Ferro ed acciaio
Coltivazione di cereali
Fertilizzanti artificiali
3 - la natura stessa dei cambiamenti non ha precedenti: l'inventività umana in ambito
industriale ha introdotto prodotti e materiali inquinanti nell'ambiente; infatti alcuni materiali
non sono naturalmente presenti e la loro introduzione è avvenuta con tempi non naturali.
Al fine di poter estrapolare scenari evolutivi e previsionali delle attività produttive ed
ecologiche è fondamentale una analisi mirata alla comprensione della attuale situazione
evolutiva.
Il concetto di sostenibilità è connesso a quello di stato stazionario del sistema economico
introdotto nel XIX secolo dagli economisti della politica; infatti per John Stuart Mill al
termine di stazionario non si deve associare il significato di staticità, ma esso è riferito
all'equilibrio tra risorse di produzione e risorse naturali con riferimento alla equità di accesso
alle risorse naturali per le generazioni successive.
Chiarezza sul concetto di sostenibilità
Il concetto di sviluppo sostenibile non è un concetto autoreferente, ma è contestualizzato in
ambito socio-politico: questo implica la necessità di chiarezza nella definizione di
sostenibilità. Tutti gli autori concordano su tre concetti correlati a quello di sviluppo
sostenibile:
1. la necessità di arrestare la degradazione ambientale e lo squilibrio ecologico
2. la necessità di non impoverire le generazioni future
3. la necessità di una buona qualità della vita e dell'equità tra le generazioni attuali .
La chiarezza riguardo una accurata definizione di sviluppo sostenibile è cruciale per
comprendere:
1. quali problematiche enfatizzare
2. quali necessità ed interessi debbano avere la priorità
3. chi deve essere coinvolto nell'assumere le decisioni .
Dalla chiarezza su questi punti si può derivare:
1. quale struttura debba essere costruita per perseguire le finalità
2. quale politica debba essere adottata per sostenere le azioni
3. quali strumenti debbano essere impiegati per conseguire gli obiettivi .
Verso la sostenibilità
Il primo passo concreto sul fronte della sostenibilità è stata la Conferenza sull'Ambiente e lo
Sviluppo tenuta a Rio de Janeiro nel 1992. I risultati ottenuti durante la Conferenza sono stati
condensati in cinque documenti ufficiali:
1 - la Dichiarazione di Rio
2 - l'Agenda 21
3 - la Convenzione sulla Biodiversità
4 - la Convenzione sul Clima
5 - i Principi della Foresta .
In particolare l'Agenda 21:
1. è stata incentrata sullo sviluppo dei Paesi con particolare attenzione a quelli del Sud del
mondo, ma in essa si sottolinea come siano proprio i Paesi del Nord a doversi assumere la
responsabilità di modificare il loro modello di sviluppo, sia per combattere i problemi del
cambiamento climatico globale sia per rimuovere gli ostacoli esterni alla sostenibilità del Sud
del globo, come ad esempio i debiti, le politiche economiche e quelle agricole, ribadendo così
i risultati delle analisi dell'Istituto Internazionale per l'Ambiente a lo Sviluppo
2. ha messo in evidenza le necessità di cambiamenti nella sovranità economica nazionale in
quanto l'internazionalizzazione dei mercati finanziari ha diminuito la capacità dei governi di
amministrare la propria economia
3. ha messo in evidenza il ruolo e la responsabilità delle corporazioni transnazionali,
evidenziandone il ruolo di forze primarie alla base della globalizzazione economica. La loro
potenzialità consiste nel poter essere al tempo stesso sia un ostacolo sia un motore di
cambiamento. Infatti, in base ai dati diffusi dalla Banca Mondiale, le corporazioni
transnazionali controllano circa il 70% del commercio mondiale, e sono responsabili di circa
la metà dell'emissione totale di CO2 .
L'Agenda 21 è un documento utile perché:
1. è una fonte di tematiche di discussione finalizzate allo sviluppo sostenibile
2. introduce la necessità di approcci olistici e di strategie integrative
3. sollecita alla collaborazione ed alla partecipazione .
L'Agenda 21 rappresenta il primo e maggiore successo delle autorità locali nel tentativo di
ottenere il riconoscimento del loro ruolo come la chiave di volta per realizzare la sostenibilità;
infatti almeno due terzi delle azioni previste nell'Agenda 21 richiede il coinvolgimento dei
governi locali. Benché la maggior parte delle conferenze facciano alcuni riferimenti alle
differenti strutture sociali contemporanee ed alla loro evoluzione, due conferenze mondiali
delle Nazioni Unite sullo sviluppo sociale appaiono fondamentali al riguardo, The Social
Summit (Copenhagen, 1994) e Habitat II The City Summit (Istanbul, 1996). Entrambe
affrontano marcatamente i problemi sociali: i senza tetto, i disoccupati, la criminalità, la
povertà, l'esclusione sociale, la congestione urbana da traffico, ecc.. Si è focalizzata
l'attenzione sui metodi, sulle azioni necessarie a raggiungere e garantire l'equità sociale e sulla
definizione delle regole sostenibili in un mondo urbanizzato. Inoltre si sono suggerite
innovazioni di procedure e di organizzazione per raggiungere la sostenibilità.
Il trattato di Maastricht
Il documento che più di tutti ha indotto una forte spinta nel dibattito sulla sostenibilità è stato
il Trattato sull'Unione Europea (Maastricht, 1992) che definisce le azioni dell'Unione
Europea verso una dimensione ambientalistica della sostenibilità. Fondamentali, anche se non
decisive, appaiono le politiche di cooperazione per lo sviluppo e quelle economiche
dell'Unione Europea, i mercati interni ed i fondi strutturali. Nel trattato si evidenziano la
coesione sociale e la protezione dell'ambiente come le condizioni principali per la crescita
economica sostenibile: questo è un obiettivo politico che permette di realizzare il Singolo
Mercato Europeo per gli Stati Membri e non, quindi, lo sviluppo economico sostenibile.
Il Quinto Programma Quadro di Azione Ambientale introduce un approccio integrato e
strategico allo sviluppo sostenibile a livello di Unione Europea in cinque settori chiave:
1. industria
2. trasporti
3. agricoltura
4. energia
5. turismo .
In questo contesto si sono individuate quattro aree di priorità:
1. gestione sostenibile delle risorse naturali
2. aspetti socioeconomici di sostenibilità
3. accessibilità sostenibile
4. pianificazione sostenibile .
L'approccio concettuale e gestionale si deve basare su una analisi globale del sistema
economico, produttivo e sociale, intendendo tale realtà come Sistema Complesso,
interconnesso e dinamico. Un esempio in questo senso è fornito dal trasporto pubblico: si
continua a tentare di ridurre i tempi minimi di percorrenza degli spostamenti necessari per
raggiungere il luogo di lavoro, mentre l'atteggiamento più corretto nel senso della sostenibilità
sarebbe quello di costruire un sistema che riduca le necessità di spostamento per svolgere il
proprio lavoro.
Cambiamenti per le autorità locali
La struttura della ecopoli prospettata da Sybrand Tjallingi fornisce un approccio olistico verso
la gestione e la progettazione urbana. Tale approccio all'ecosistema evidenzia la necessità di
dover fondere una mentalità ecologica ad un approccio globale al sistema.
A questo risultato fornisce un ulteriore ampliamento Herbert Girardet che amplia la visione
introducendo la necessità della equità.
Tabella 2
Principi guida della ecopoli secondo Tjallingi
Città della responsabilità
Creazione di condizioni per
operare nel mercato
Creazione di condizioni per
cooperare
Relazioni
ecologicamente
visibili
Rafforzamento
Città della vita
Città della partecipazione
Prevenzioni nell'economia in Utilizzo del potenziale culturale
uso
e naturale locale
Riutilizzo
Strutture fisiche per la gestione
dei flussi
Risorse rinnovabili
Habitat umani differenziati
Responsabilità per quantità e Habitat naturali differenziati
qualità di flussi
In questo contesto è possibile rilevare che il concetto di sostenibilità implica anche quello di
innovazione al quale si contrappongono alcuni ostacoli:
1. fattori strutturali e psicologici
2. difficoltà a comprendere l'innovazione ed il rifiuto parziale ad essa
3. carenza di conoscenze e di informazione
4. inerzia strutturale
5. carenza di fondi economici .
Le decisioni di Kyoto
La Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici applicata nella
Conferenza Mondiale sull'Ambiente di Rio è stata ratificata dall'Italia il 15 gennaio 1994. Essa
contiene una serie di obblighi per finalità generali, così riassumibili:
1. a breve termine: azioni finalizzate alla limitazione dei possibili mutamenti climatici globali
indotti da attività umane, a mezzo di interventi sulle cause principali di tali cambiamenti
2. a medio termine: azioni finalizzate alla mitigazione degli effetti climatici globali a mezzo di
interventi di prevenzione dei danni e di minimizzazione delle conseguenze negative,
prevedibili e conseguenti, ai mutamenti climatici, sull'ambiente naturale, su quello
antropizzato e sullo sviluppo socioeconomico
3. a lungo termine: azioni finalizzate a consentire e favorire l'adattamento dell'umanità ai
mutamenti climatici e ad un nuovo ambiente naturale globale differente da quello attuale .
Gli obblighi possono essere così sintetizzati:
1. di natura politica e socioeconomica nazionale nei settori più rilevanti delle attività umane
(energie, processi industriali, produzione agroalimentare, gestione dei rifiuti)
2. di natura politica e socioeconomica internazionale per la cooperazione internazionale tra i
paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo o con economia in transizione
3. di natura tecnico-scientifica per la partecipazione a programmi di natura tecnico-scientifica
internazionale per lo studio dell'ambiente globale e dei suoi mutamenti climatici, per
l'osservazione della Terra e del clima, per lo sviluppo dell'innovazione tecnologica nei settori
produttivi, industriali ed energetici
4. di natura culturale e sociale per la diffusione dell'informazione sui problemi ambientali e
climatici .
Nella Convenzioni impegni ed obblighi non sono espressi in azioni concrete da effettuare,
modalità operative di attuazione e tempi da rispettare, ma sono espressi in termini generali.
Nella Convenzione viene istituito un organo definito La conferenza delle Parti, al quale viene
demandato il compito fondamentale di dare attuazione dei principi e degli impegni generali
contenuti nella Convenzione stessa.
Il Protocollo di Kyoto, approvato nel 1997, è un atto esecutivo che esprime gli impegni
urgenti e prioritari inerenti a settori di economie nazionali. Il Protocollo di Kyoto è indirizzato
esclusivamente ai Paesi sviluppati ed a quelli ad economia in transizione, mentre non pone
restrizioni a quelli in via di sviluppo. Il Protocollo individua e definisce operativamente solo
una parte molto limitata degli impegni da attuare. Esso rappresenta un punto di partenza
fondamentale, non solo nella direzione delle problematiche connesse ai cambiamenti
climatici, ma anche e soprattutto nel quadro più generale dello sviluppo sostenibile. Il
Protocollo ha posto e sancito la centralità sia dei problemi del clima globale nello sviluppo
socioeconomico mondiale sia di quelli connessi allo sviluppo sostenibile per il futuro del
nostro pianeta e per la sopravvivenza stessa dell'umanità. Tale Protocollo deve essere inteso
come il punto di partenza per poter iniziare ad affrontare i problemi del clima e dello sviluppo
sostenibile, ma anche per la cooperazione mondiale. Il Protocollo impegna i Paesi
industrializzati e quelli ad economia in transizione a ridurre complessivamente del 5% le
principali emissioni antropogeniche dei gas che possono alterare l'effetto serra naturale del
nostro pianeta nel periodo compreso tra il 2008 e 2012. I gas individuati sono: anidride
carbonica, metano, protossido di azoto, fluorocarburi idrati, perfluorocarburi e esafluoruro di
zolfo. La riduzione richiesta è riferita al 1990 per i primi tre gas (anidride carbonica, metano,
protossido di azoto) ed al 1995 per gli altri (fluorocarburi idrati, perfluorocarburi e
esafluoruro di zolfo).
Nessun tipo di limitazioni per le emissioni di gas ad effetto serra viene imposto ai paesi in via
di sviluppo perché tale vincolo rallenterebbe o condizionerebbe il loro sviluppo
socioeconomico; infatti ogni limitazione alle emissioni di gas serra avrebbe ripercussioni sulla
produzione e sul consumo energetico, sull'agricoltura, sull'industria e su ogni altro settore
produttivo con conseguente aumento di oneri finanziari e costi aggiuntivi: questo avrebbe una
ricaduta negativa sul loro processo di sviluppo.
Il Protocollo di Kyoto individua i seguenti settori come prioritari:
1. energia, sia nei processi connessi con la combustione di combustibili fossili per la
produzione energetica sia come emissioni non controllate di fonti energetiche di origine
fossile
2. processi industriali
3. agricoltura
4. rifiuti (loro gestione e smaltimento) .
Si è introdotta la necessità di forestazione intesa sia come riforestazione sia come
afforestazione.
Pertanto la riduzione di emissioni deve essere intesa come riduzioni delle emissioni nette, cioè
come bilancio netto tra quanto complessivamente aggiunto all'atmosfera e quanto
complessivamente da essa sottratto.
Inoltre il Protocollo individua anche azioni operative a sostegno dello sviluppo sostenibile,
ovvero:
1. azioni di carattere generale per incrementare l'efficienza energetica nei settori più rilevanti
dell'economia nazionale e per incrementare le capacità di assorbimento dei gas serra rilasciati
in atmosfera
2. azioni di carattere politico-economico al fine di eliminare quei fattori di distorsione dei
mercati che favoriscono le emissioni di gas serra
3. azioni nel campo dell'agricoltura e delle fonti rinnovabili di energia
4. azioni di politica dei trasporti, di gestione dei rifiuti e di gestione e manutenzione nel
trasferimento di metano al fine di limitare e contenere le emissioni di metano e gas serra .
E' stato proposto un nuovo metodo attuativo per conseguire lo sviluppo sostenibile, il clean
development mechanism finalizzato alla cooperazione transnazionale al fine di promuovere il
trasferimento di tecnologie e di know how tra Paesi Ricchi e Paesi Poveri.
Gestione dell'innovazione tecnologica industriale
Al fine operare in funzione dei principi individuati nell'ambito dello sviluppo sostenibile
occorre valutare le metodologie utili nelle azioni locali e soprattutto quali siano i percorsi
tecnologici, politici, economici, sociali e culturali da seguire.
In questo contesto appare interessante sviluppare una analisi generale della gestione
organizzativa dei progetti industriali aziendali, intendendo l'azienda contestualizzata
nell'ambito socio-politico-culturale, quindi pensando l'azienda come un sistema complesso.
Il sistema produttivo viene valutato in funzione dei risultati ottenuti, cioè in funzione del
livello di qualità realizzata. Infatti ogni sistema produttivo si trova ad operare all'interno di
una realtà estremamente competitiva nella quale la speranza di sopravvivenza economica è
resa possibile dal miglioramento della qualità del prodotto all'interno dell'evoluzione dei
mercati, oltre che da condizioni di politiche economiche e sociali favorevoli. Pertanto il
sistema produttivo deve subire continue evoluzioni tecnologiche ed innovazioni strutturali al
fine di garantire il miglioramento della qualità del prodotto stesso.
Occorre considerare che organizzare un progetto di innovazione di un prodotto e della sua
relativa progettazione implica dover considerare sia il processo di modifica del prodotto
stesso sia del relativo sistema produttivo, contestualizzando questi processi innovativi
all'interno delle dinamiche di mercato sia dei prodotti sia delle nuove tecnologie. In
conseguenza l'evoluzione della progettazione nell'ambito di una stessa tecnologia determina
un continuo miglioramento delle prestazioni del sistema produttivo e quindi del prodotto
risultante.
L'evoluzione temporale del livello tecnologico descrive una curva di profilo simile a quella
rappresentata in Figura 1. Tale profilo è una curva monotona crescente con inizio ad un livello
minimo iniziale, il livello tecnologico iniziale, e raggiunge un valore limite superiore, il
livello tecnologico limite o di obsolescenza. La sua derivata prima, sempre positiva, è
crescente all'inizio della curva, presenta un punto in cui si annulla, massimo, nella parte
centrale e poi decresce nella parte di obsolescenza.
Figura 1
Profilo qualitativo di dinamica del livello tecnologico
Questa curva rappresenta gli sforzi delle aziende nella gestione dei processi innovativi
(progettazione, innovazione tecnologica, ecc.) per migliorare il proprio sistema produttivo.
In questo contesto si origina la necessità di disporre sia di metodi quantitativi per organizzare
i processi di innovazione sia di modelli che permettano di valutare l'evoluzione del livello
tecnologico del sistema produttivo, individuandone gli indicatori necessari in modo da poter
stimare il livello tecnologico raggiunto ed il relativo grado di saturazione. Un tale modello di
gestione ottimizzata del processo di innovazione del sistema produttivo deve permettere di
descrivere tale processo come un insieme ordinato di proposte di interventi mirati sul sistema
di produzione, finalizzate alla qualità di prodotto più prossima alle richieste del mercato.
Gli indicatori che vengono considerati in questo contesto sono le seguenti variabili, funzioni
del tempo:
1. il livello tecnologico del sistema produttivo, s(t)
2. il livello di qualità del prodotto offerto p(t)
3. l'obiettivo di qualità da raggiungere con le attuali tecnologie p*(t0), con t0 istante iniziale
dell'intervento considerato
4. le azioni di modifica, u(t), del sistema produttivo conseguente alle iniziative intraprese
nell'ambito del progetto di innovazione, definite come
unitamente alla condizione attesa
u(t) = B [p*(t0) - p(t)]
(1)
u(t) ≥ 0
(2)
dove B esprime la tendenza che presenta il sistema azienda a modificare la propria struttura
produttiva in seguito alle considerazioni di insufficienza tra prodotto offerto e prodotto
richiesto dal mercato, cioè p*(t0) - p(t) ≥ 0
5. lo sviluppo tecnologico, s(t), la cui variazione è data dalla relazione:
.
s (t ) = Λ s(t) + B [p*(t0) - p(t)]
(3)
unitamente alla condizione iniziale:
s(t0) = s0
dove Λ esprime l'inerzia del sistema produttivo rispetto alle innovazioni necessarie,
(4)
.
s (t ) =
ds(t)/dt la variazione temporale dello sviluppo tecnologico e s0 il livello tecnologico iniziale
6. la variazione del livello di qualità del prodotto, definita come:
.
p (t ) = A [p*(t0) - p(t)]
(5)
p(t0) = p0
(6)
unitamente alla condizione:
dove A esprime la spinta verso le innovazioni di prodotto e p0 è il livello del prodotto allo
stato iniziale dell'intervento di innovazione
7. il costo ragionevole del programma di innovazione tecnologica, c, definito come:
t0 + τ
∫s
c=
2
(t ) dt
(7)
t0
dove τ è l'orizzonte di innovazione, cioè l'intervallo di tempo necessario per realizzare il
processo innovativo, compatibile con i tempi determinati dal mercato .
Nell'analisi della gestione dei processi di innovazione tecnologica si opera analiticamente
minimizzando il costo espresso dalla relazione (7) rispetto all'orizzonte di innovazione τ, alla
spinta all'innovazione del prodotto A ed alla spinta all'innovazione del sistema produttivo B,
imponendo il vincolo p(τ) = p*(t0). Il risultato di questo metodo di analisi permette di
dimostrare e giustificare teoricamente un risultato ottenuto anche per mezzo di osservazioni
dirette sui sistemi produttivi, cioè: il ruolo dell'acquisizione di tecnologie da parte del mondo
produttivo, valutato in termini di sostenibilità e di incremento del lavoro, è controverso in
quanto solo nelle regioni economicamente meno favorite e nei periodi di recessione il
trasferimento tecnologico può essere utilizzato come unico elemento di traino dello sviluppo
economico.
L'analisi che qui si sta sviluppando, invece, vuole giungere a definire le condizioni per le
quali è efficace un intervento di trasferimento tecnologico nel processo innovativo in base a
valutazioni di conseguimento di miglioramenti socioeconomici per definite condizioni sociali,
economiche, politiche e culturali iniziali. Pertanto si minimizzerà il costo della relazione (7)
per definiti orizzonte di innovazione τ, spinta all'innovazione del prodotto A ed innovazione
del sistema produttivo B. In questo modo si ottiene:
.
s (t ) = 0
(8)
che, in base alla relazione (3) permette di ottenere:
p*(t0) - p(t) = - B-1Λ s(t)
che, facendo uso della relazione (5) invertita, conduce al risultato:
(9)
.
-1
p (t ) = - A B Λ s(t)
(10)
E' importante, ora, comprendere quali informazioni sul processo innovativo globale possono
essere dedotte dal risultato ottenuto (10).
Per prima cosa occorre precisare il significato di B -1. B-1 è l'inverso di B, cioè è l'inverso della
spinta verso l'innovazione del sistema produttivo, quindi esprime il freno all'innovazione del
sistema produttivo.
Dopo questa interpretazione formale occorre analizzare il segno algebrico che devono
assumere A, B-1 e Λ. Allora al fine di ottenere conseguenze socioeconomiche positive si ha
che:
1. A esprime la spinta verso l'innovazione del prodotto, quindi deve essere positiva
2. B-1 esprime il freno all'innovazione del sistema produttivo, quindi deve essere negativa
3. Λ esprime l'inerzia del sistema produttivo, che è sempre presente ed è per sua definizione
positiva .
In base a queste considerazioni il coefficiente di proporzionalità (-AB -1Λ) tra variazione del
.
livello di qualità del prodotto p (t ) e sviluppo tecnologico s(t), nella relazione (10) risulta
positivo, ottenendo come interpretazione che ogni azione di trasferimento tecnologico, per
ottenere miglioramenti socioeconomici, deve necessariamente produrre un incremento nel
livello di qualità del prodotto, cioè deve necessariamente rendere positiva la derivata
.
temporale p (t ) .
A questo punto, però, occorre cercare di comprendere quali siano le condizioni politiche,
sociali, economiche e tecnologiche che permettono di realizzare le condizioni ora imposte.
Per far ciò occorre individuare i fattori che influenzano s(t), Λ, A e B-1:
- lo sviluppo tecnologico, s(t), dipende fortemente da:
1. ricerca di base
2. ricerca applicata
3. formazione scolastica ed extrascolastica
4. industrializzazione dei risultati della ricerca
5. sviluppo di modelli e processi per migliorare ed ottimizzare gli impianti e le tecniche di
produzione
6. produzione, disponibilità e gestione energetica
7. gestione delle azioni di innovazione tecnologica
8. presenza di tecnici preparati e quindi il sistema della formazione
- l'inerzia del sistema produttivo, Λ, dipende fortemente da:
1. situazione economica
2. situazione politica
3. problematiche ambientali
4. localizzazione geografica
5. contesto culturale
6. presenza o meno di tecnici della conoscenza
7. struttura industriale
8. trasporti
9. capacità gestionali
10. utilizzo delle fonti energetiche
- la spinta verso l'innovazione del prodotto, A, dipende fortemente da:
1. mercati
2. politiche economiche e sociali
3. trasporti
4. contesto culturale
5. contesto socioeconomico (potere d'acquisto, costi di mercato, …)
6. servizi
7. presenza di tecnici della conoscenza
- il freno all'innovazione del sistema produttivo, B-1, dipende fortemente da:
1. politiche economiche e sociali
2. limiti tecnici e tecnologici
3. limiti di disponibilità energetiche
4. mercati
5. trasporti
6. limiti culturali che influenzano capacità gestionali
7. gestione dell'innovazione
8. limiti nella reperibilità di servizi
9. problematiche ambientali .
Il fatto che queste grandezze siano moltiplicate tra loro implica una interazione ed un legame
diretto tra differenti azioni sociali, politiche, economiche e tecnologiche.
Conclusioni
L'analisi qui esposta è stata sviluppata a partire dalle teorie e dai modelli oggi esistenti nel
contesto dello studio del ruolo del trasferimento tecnologico nello sviluppo economico e
sociale.
Si sono esposte le due principali scuole di pensiero presenti in letteratura: la prima che non
considera lo sviluppo tecnologico sostanziale nel contesto economico, se non quando il
sistema economico risulta stazionario, la seconda che considera la crescita tecnologica come
l'elemento principale dello sviluppo economico e sociale.
Al fine di comprendere i principi su cui fondare un nuovo approccio si sono presi in esame i
risultati dei convegni e dei congressi internazionali sullo sviluppo sostenibile e le implicazioni
di questi nel contesto globale. Si è così sviluppato un modello analitico tipico della fisicamatematica sia metodologicamente sia sostanzialmente. Infatti questo si basa sulle condizioni
storiche nelle quali si opera, su un periodo temporale nel quale i parametri sociali, economici
e politici sono ben definiti. Questo metodo di operare è l'approccio tipico della fisicamatematica applicata ai sistemi dinamici. Dato un sistema (in questo caso quello produttivo)
definito da parametri e grandezze caratteristiche del sistema in esame e delle sue interazioni
con il resto dell'universo (in questo caso l'inerzia del sistema produttivo rispetto alle
innovazioni necessarie, la variazione del livello di qualità del prodotto e lo sviluppo
tecnologico) si opera per mezzo del metodo di minima azione (in questo caso del costo
minimo) tipico dei sistemi lagrangiani, della termodinamica, della meccanica quantistica e
dell'elettromagnetismo, in sintesi della teoria dei sistemi.
Il risultato consiste nell'aver dimostrato analiticamente ed aver conseguentemente individuato
il legame diretto (l'interazione) tra condizioni politiche, sociali, economiche, tecniche,
tecnologiche e culturali, evidenziando i particolari effetti individuali ed il conseguente effetto
globale.
Ogni azione di innovazione dovrebbe avere origine dalle relazioni esistenti all'interno della
sostenibilità dello sviluppo da un lato, mentre dall'altro l'analisi dello sviluppo sostenibile
dovrebbe essere motore per l'innovazione di processo e di prodotto, ma soprattutto dovrebbe
generare una nuova cultura fondata sull'uomo e sul suo habitat.
Bibliografia
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Photosynthesis, BioScience, 34, 6 (1986) 368
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6 - K.T. Ulrich and S.D. Eppinger, Product Design and Development, McGraw-Hill, New York, 1995
7 - R. Barro e Xavier Sala-i-Martin, Economic Growth, McGraw-Hill, New York, 1995
8 - European Commission, Green Paper on Innovation, December 1995
9 - G.M. Grossman e E. Helpman, Innovation and Growth in the Global Economy, MIT Press, Boston,
1991
I.N.F.M. - Istituto Nazionale per la Fisica della Materia, Nucleo Applicativo
Corso Perrone 24, 16152 Genova, Italy
----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 4 di Episteme]
e-mail: [email protected]
REPRINTS
(Giorgio Piccardi nel suo studio)
Il tempo come coordinata
Gli studi di Giorgio Piccardi (1895-1972)
(Paolo Manzelli, Mariagrazia Costa)
Il concetto di tempo è un problema di grande rilievo per i fondamenti della chimica moderna,
poiché questo si pone in relazione alla irreversibilità dei processi chimici ed anche ai processi
"negentropici" di trasformazione molecolare nei sistemi aperti a scambi di energia e di
materia.
Giorgio Piccardi, direttore dell'Istituto di Chimica fisica dal 1947 al 1965 e
successivamente del Centro Universitario dei Fenomeni Fluttuanti, impostò le sue ricerche
sulla base della considerazione che il tempo, trattato generalmente come una misura, fosse da
considerare come una reale "coordinata", cioè come un parametro intrinseco alla dinamica dei
processi naturali. Considerando il tempo come una coordinata, Piccardi portò avanti il suo
lavoro scientifico al di fuori dei canoni tradizionali propri della chimica classica. Egli soleva
dire durante le sue lezioni che la termodinamica mette in evidenza l'impotenza dell'uomo nel
realizzare una macchina capace di moto perpetuo, proprio perché i processi spontanei sono
sempre irreversibili; infatti in natura un processo che va in una certa direzione, non andrà mai
spontaneamente nel verso opposto.
Per fissare in un contesto storico le ricerche innovative di Piccardi, che egli stesso
definiva di tipo "sperimentale-galileiano", ricordiamo un passo di Galileo dal "Dialogo sui
massimi sistemi": "...su una nave, muoventesi con quanta voglia velocità, purché il moto sia
uniforme e non fluttuante in qua ed in là, voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti
li nominati effetti, né da alcuno di quelli potrete comprendere se la nave cammina oppure sta
ferma".
I "sistemi fluttuanti" indicati da Piccardi nei suoi studi sulla dinamica dei processi
evolutivi, sono sistemi non-inerziali perché non liberi da forze o influssi esterni ed essendo
aperti a scambi di energia e/o materia, risentono delle variabili spaziali di tipo terrestre, solare
e cosmico. Tra i sistemi sensibili ai parametri esterni fluttuanti, Piccardi considerò la dinamica
di trasformazione di varie reazioni chimiche in soluzione acquosa e mise in evidenza alcuni
interessanti fenomeni che riguardano l'<<attivazione>> dell'acqua sotto l'influenza di campi
elettromagnetici ad onde lunghe. In relazione a tali esperimenti egli considerò che il tempo
non poteva essere considerato isotropo in ogni direzione dello spazio, né omogeneo per ogni
istante successivo, pertanto questo doveva considerarsi una reale coordinata.
Giorgio Piccardi, per rendere evidente che i suoi studi non potevano essere collocati
nel quadro della logica scientifica tradizionale, sottolineò come la constatazione che il tempo
è una coordinata, infirrni il dogma fondamentale della scienza tradizionale, secondo il quale
gli esperimenti sono validi solo se riproducibili. Infatti egli osservò che se non è possibile,
come nel caso dei fenomeni fluttuanti, controllare tutte le condizioni con cui un esperimento è
condotto, è necessario tener conto della coordinata tempo proprio perché le variabili spaziali
cambiano nel corso di esso. Piccardi sosteneva che anche nel caso di esperimenti che non
siano ripetibili nei risultati in ogni momento scelto a piacere, questi meritano di essere oggetto
di indagine scientifica; quanto sopra significa che il criterio di riproducibilità, come verifica di
validità scientifica, ammette delle eccezioni. In altre parole la riproducibilità degli esperimenti
non può essere quindi considerata in ogni caso una discriminante assoluta tra il vero ed il
falso nella scienza.
Giorgio Piccardi comprese che nella logica scientifica tradizionale, applicata a
fenomeni non-fluttuanti, ci si riferisce di norma a esperimenti rappresentabili in termini di
equazioni lineari, mentre nel caso dei fenomeni fluttuanti la linearità si perde, in quanto, non
essendo ipotizzabile una corrispondenza nella successione temporale dei rapporti tra causa ed
effetto, i parametri che influenzano l'esperimento non seguono un ordine sequenziale; infatti
un'azione trascurabile ad un determinato istante può diventare una causa determinante in un
istante successivo e definire un risultato che in questo modo non può essere lo stesso in
qualunque altro istante di tempo. Quanto sopra diviene più evidente quando si studiano
fenomeni che implicano l'azione di basse frequenze e quindi energie molto piccole e che non
rispondono ad effetti immediati di causa-effetto; queste azioni vengono generalmente
considerate come insignificanti, perché arbitrariamente si suppone che determinino
trascurabili perturbazioni del sistema. Ma osservava Piccardi, chi compie esperimenti, scevro
da ogni pregiudizio, guarda alla spiegazione scientifica dei processi naturali e non si
accontenta della misura delle quantità immediatamente misurabili, allora si rende conto che
lavora in un mondo di fenomeni molto "imperfetti", riguardo al fatto di considerare una
successione di immaginari istanti di tempo tutti perpetuamente uguali.
L'idea del tempo come successione di istanti equivalenti è invero il dogma di base
della scienza meccanicistica e tale concetto è praticamente indiscusso fino ad oggi; ma la
natura non si comporta secondo questi canoni. Tutti sanno, diceva a noi studenti, che un seme
va piantato nel terreno in certe stagioni e con la luna, ad esempio, calante se si vuole far
crescere bene la pianta, perché questa non germoglia e non cresce in un tempo qualsiasi scelto
a caso.
Lo sviluppo creativo della scienza, asseriva Piccardi, dovrà essere il frutto di.
esperimenti significativi e non semplicemente di quelli riproducibili nel tempo. La scienza
tradizionale infatti, tentando di fissare le condizioni di riproducibilità degli esperimenti, fa
riferimento solo a particolari variabili che sono controllabili in laboratorio. Così la
termodinamica prende in considerazione pressione, volume e temperatura di un sistema e
definisce delle funzioni che, allo stato di equilibrio, possono essere determinate tramite tali
variabili; agendo in tal modo tuttavia, essa esclude il fattore tempo, proprio perché gli
equilibri sono definibili in condizioni atemporali. A causa di ciò la termodinamica non può
dare alcuna indicazione ad esempio sulla velocità di trasformazione dei sistemi. Fissando
inoltre le classiche variabili di riferimento la termodinamica è costretta ad escludere le
influenze "attive" interne ed esterne al sistema. Così ad esempio i fenomeni fluttuanti, che
dipendono dalle condizioni fisiche dello spazio che ci circonda, ed i fenomeni catalitici interni
al sistema escono dalla portata dei suoi studi; dice Giorgio Piccardi: "...Non possiamo però
impedire le attività magnetiche delle macchie solari, che influenzano l'intensità della
radiazione solare, che a sua volta influenza i fenomeni biologici ed anche molti fenomeni
chimici, così come non possiamo fissare le variazioni del potenziale elettrico atmosferico che
si accompagna ai temporali, né le variazioni del campo magnetico terrestre e tanti altri
fenomeni naturali a carattere fluttuante, che in vari modi agiscono sulla natura e sulla vita del
nostro pianeta".
Quale relazione hanno tali fenomeni, che genericamente indichiamo come "spaziali",
con le attività di ricerca in laboratorio e più in generale con l'evoluzione della natura e della
vita? Quali sono i fenomeni biologici particolarmente sensibili alle variabili spaziali? E quali
sono le reazioni chimiche?
Piccardi in un suo scritto ricorda come il suo interesse fu rivolto a tali domande: "I
chimici si lamentano sovente della non buona riproducibilità di alcune loro operazioni, pur
avendo osservato tutte le modalità consuete, così accusano la giornata di essere cattiva o
sfortunata" ed in un altro passo rammenta: "Fin dal 1939 mi ero accorto dell'esistenza di una
relazione complessa tra eventi ambientali e fenomeni chimico fisici". Racconta inoltre di aver
acquistato a Londra uno "Storm-Glass", detto anche impropriamente "Barometro Chimico"
perché veniva usato come indicatore di buono o cattivo tempo; lo "Storm-Glass" è costituito
da un tubo di vetro chiuso alla fiamma, lungo 20cm e con diametro di circa 2cm, contenente
una soluzione idroalcolica di varie sostanze: cloruro ammonico, nitrato di potassio e canfora,
con un eccesso di canfora che costituisce un corpo di fondo. Né la pressione, né l'umidità
atmosferiche possono influenzare il sistema, soltanto la temperatura può far cristallizzare più
o meno la canfora; tuttavia anche a temperatura quasi costante (entro due gradi) si notano lo
stesso variazioni imponentissime, a volte crescono dal fondo bellissime arborescenze
cristalline, a volte si formano delle stelline nella parte superiore del tubo, altre volte i cristalli
si risciolgono.
Piccardi trovò diversi sistemi chimici sensibili alle condizioni ambientali e che
rispondevano ad esempio alle variazioni stagionali; tra i più semplici individuò la
precipitazione dell'ossicloruro di bismuto allo stato colloidale, ottenuta versando in acqua una
soluzione acida di tricloruro di bismuto. Questa reazione fu impiegata per i suoi test chimici,
atti a studiare i fenomeni ambientali fluttuanti.
La scienza generalmente si disinteressa delle correlazioni tra fenomeni ambientali ed
esperimenti di laboratorio, in quanto il metodo scientifico tradizionale tende a definire un
dominio cognitivo nel quale, tramite il controllo sperimentale di alcune variabili, sia possibile
garantire la riproducibilità dei fenomeni posti nelle stesse condizioni, indipendentemente dal
tempo nel quale vengono effettuati.
La termodinamica asserisce che solo lo stato di equilibrio può essere descritto tramite
funzioni di stato. Altresì lontano dalle condizioni di equilibrio sappiamo che la funzione
entropia varia sempre; questo è vero sia per un sistema isolato, dove l'entropia cresce fino al
raggiungimento dell'equilibrio, sia per un sistema aperto a scambi di energia e/o materia, dove
lontano dall'equilibrio, il valore dell'entropia può crescere o diminuire. La termodinamica
classica considera solo sistemi isolati e processi reversibili rispetto al tempo, il che in pratica
significa riferire i propri modelli ideali a processi infinitamente lenti; quindi questa è costretta
a dimenticare ogni studio relativo alla storia evolutiva dei sistemi fisici che agiscono in
condizioni lontane dall'equilibrio. In tal modo, sottolinea Piccardi, la storia evolutiva delle
reazioni chimiche, durante il periodo di transizione tra vari stadi, non assume alcuna
importanza scientifica.
Diversamente dai fenomeni presi in considerazione dalla termodinamica classica, i
fenomeni fluttuanti sono naturalmente irreversibili a causa degli effetti "spaziali". Infatti è
necessario considerare che la irreversibilità delle trasformazioni fisiche o chimiche può essere
dovuta a fattori interni oppure esterni. Del primo tipo sono ad esempio l'attrito e la dispersione
e degradazione dell'energia di un sistema, ma anche la reazione che si genera in opposizione
agli spostamenti dell'equilibrio, quando si perturba un sistema in equilibrio stazionario
(Principio di Le Chatelier).
I fenomeni fluttuanti implicano una irreversibilità del secondo tipo, poiché sono
causati da fattori esterni ambientali e cosmici, che evidentemente non possono essere
controllati in laboratorio e che non possono essere resi reversibili per mezzo del lavoro; ai
fenomeni fluttuanti quindi non sono applicabili i criteri della termodinamica classica.
Piccardi pensò che per lo studio dei fenomeni fluttuanti era necessaria una
metodologia di ricerca nuova ed anche differenti criteri di verificabilità scientifica. Egli dice:
"Nel caso dei fenomeni fluttuanti, non potendo fissare le condizioni in cui si svolge un
fenomeno, non possono considerarsi valide solo quelle esperienze che danno risultati costanti
quando vengono effettuate nelle stesse condizioni. I fenomeni fluttuanti infatti non sono
riproducibili a piacimento" e prosegue: "Il non poter riprodurre le condizioni in cui si svolge
una esperienza ci pone il problema di registrare l'istante ed il periodo di tempo in cui
l'esperimento si è svolto. Un'ora non è identica ad un'altra ora proprio perché i fenomeni sono
fluttuanti. La data e l'ora caratterizzano una situazione fisica che cambia nel corso del tempo.
Il tempo in chimica, biologia e fisica e forse in psicologia e sociologia non è soltanto una
durata, ma una coordinata".
Secondo Piccardi il metodo capace di rendere indipendente l'osservazione dal
particolare individuo a cui capita di farla, in modo da avere una verifica oggettiva, cioè non
legata ad un certo osservatore, può essere ottenuto mediante un adatto sistema di indagine
scientifica che egli iniziò ad applicare nei suoi studi, quello detto dei "test chimici". Nei test
chimici si utilizza il metodo del confronto comparativo differenziale di sistemi in evoluzione
che si trovino nelle stesse condizioni rispetto alle variabili classiche, temperatura, pressione
ed umidità, ed indicando il tempo, data, ora e minuto, in modo che possano essere studiati
statisticamente i fenomeni osservati, al fine di analizzare l'eventuale periodicità
dell'andamento.
Certamente i test chimici corrispondono ad osservazioni di fenomeni non in equilibrio,
cioè di eventi dinamici in atto, tipo la nucleazione e la flocculazione di un precipitato dentro
una provetta. Piccardi distinse qualitativamente due tipi di precipitazione: quella di tipo "T"
durante la quale si osserva formarsi rapidamente un precipitato a carattere fioccoso e quella di
tipo "R" quando il precipitato si forma con un leggero ritardo ed ha carattere polverulento.
Dice Piccardi: "Il test è dinamico, perché il conteggio dei "T" e degli "R" si effettua durante
l'evoluzione del sistema e non quando questa è terminata e quindi non si notano più le
differenze osservabili tra un precipitato e l'altro". Infatti mentre le misure quantitative possono
essere fatte solo all'equilibrio, le osservazioni qualitative devono essere condotte su sistemi in
evoluzione, con metodi opportunamente standardizzati e differenziati. Così nel caso della
precipitazione di un prodotto chimico, la pesata di questo va effettuata quando la reazione è
terminata ed il precipitato è sedimentato completamente, mentre le differenze nella dinamica
del processo possono essere apprezzate soltanto mentre il sistema è in evoluzione, creando dei
riferimenti differenziali che permettano un confronto.
Certamente le osservazioni qualitative, visibili nel processo dinamico, vengono
ignorate dalla metodologia quantitativa, mentre sono le uniche che possono dare indicazioni
utili per tentare di capire i fenomeni fluttuanti. A noi studenti Piccardi faceva questo esempio:
"Se nevica, grandina o piove acqua gelata, per una misura quantitativa sono la stessa cosa, ma
non è così per chi si preoccupa dei raccolti della terra; dare significato ai fenomeni osservati è
un compito della scienza", e aggiungeva con la sua impeccabile sagacia tutta fiorentina, "ma
ancora la scienza deve imparare a trattare con la qualità dei fenomeni osservati e comprendere
che un sorriso non è uno dei tanti modi di mostrare i denti per contarli".
La descrizione degli eventi in termini qualitativi puri e semplici esce dal quadro
cognitivo e metodologico della scienza accademica, perché l'osservazione qualitativa è
fondata sulla rilevazione sensoriale diretta che, afferma Piccardi, non è sinonimo di
imprecisione, perché la soggettività delle qualità osservate può essere adeguatamente
eliminata per confronto. Certamente è noto che Galileo per primo considerò i fenomeni
limitati all'osservazione sensoria come qualità secondarie e spesso trascurabili in quanto
imperfette rispetto ad una impostazione scientifica; ma invero procedendo senza rivalutare
l'osservazione diretta, la scienza moderna rischia di considerare eccezioni di poco conto
fenomeni generali e ben visibili, solo perché non rientrano nella metodologia tradizionale di
ricerca, od anche solo perché non sono associabili a nessuna precedente interpretazione
scientifica.
Piccardi, nel corso delle sue lunghe ricerche, notò un fatto nuovo che riguardava
l'acqua e scrive a tale proposito: "Un dielettrico polarizzato induce per semplice contatto
nell'acqua ed in altri liquidi polari delle modificazioni di tipo non-elastico, nel senso che
queste modificazioni persistono per un lungo tempo dopo che è cessato il contatto con il
dielettrico". Considerando che il fenomeno osservato poteva essere importante, invece di
scartare la "strana" osservazione la utilizzò nei suoi test per differenziare il sistema: chiamò
quest'acqua modificata nelle proprietà acqua "attivata". Precedentemente il confronto
avveniva osservando i processi di flocculazione sia in ambiente aperto sia entro una camera
schermata da lastre di rame, che ha la proprietà di limitare gli influssi di tipo elettromagnetico
presenti nello spazio. I test chimici si arricchirono così della possibilità di fare confronti tra
batterie di esperimenti condotti sia con acqua "attivata" che "normale" ed anche con e senza
schermo di rame.
Giorgio Piccardi si domandò spesso quale fosse la portata dei fenomeni fluttuanti, Si
rammaricava del fatto che "una grande massa di ricercatori fisici, chimici e biologi non si
poneva questa domanda" e scriveva: "...eppure dal punto di vista generale non si può ignorare
l'esistenza di condizioni fisiche ambientali importanti, che non si possono né fissare in
laboratorio, né dominare nella vita". Per essere capaci di inoltrarsi in campi poco esplorati
dalla scienza egli fece presente, in alcune relazioni generali, che il problema non è soltanto di
ordine scientifico, ma soprattutto di educazione scientifica; infatti ritenne che lo spirito di
ricerca del nuovo doveva essere stimolato in un insegnamento della scienza che chiarendone i
limiti, permetta sempre agli studenti di essere in condizioni di intendere ciò che non gli è
stato, né poteva ancora essergli insegnato.
NOTA BIBLIOGRAFICA: Tutta la documentazione sulle ricerche di Giorgio Piccardi è
reperibile presso la Biblioteca di Chimica dell'Università di Firenze.
*****
Il precedente saggio è stato pubblicato per la prima volta in Atti del V Convegno Nazionale di
Storia e Fondamenti della Chimica, Accademia Nazionale delle Scienze detta dei XL, Roma,
1994. http://www.filosofia.unibo.it/gnfsc/Perugia.htm .
N.d.R. - Le ricerche di Giorgio Piccardi, e soprattutto la "filosofia della scienza" che le
ispiravano, sono state per quel che ci risulta generalmente trascurate dagli "epistemologi", con
un'importante notevole eccezione. P.K. Feyerabend cita infatti lo scienziato italiano nel suo
La scienza in una società libera (1978; I ed. it. Feltrinelli, Milano, 1981): "L'attività solare
influisce sulla vita, come del resto si sa già da molto tempo. Quel che sorprende è la natura
delicata di questa influenza. Variazioni nel potenziale elettrico degli alberi dipendono non
solo dall'attività media del Sole ma anche da singole protuberanze e perciò di nuovo dalla
posizione dei pianeti. Piccardi, in una serie di ricerche estese su un periodo di più di
trent'anni, ha trovato variazioni nella frequenza di reazioni chimiche standardizzate che non
potevano essere spiegate né dalla meteorologia né da condizioni di laboratorio. Egli e altri
ricercatori sono inclini a credere che <<i fenomeni osservati siano connessi primariamente a
mutamenti nella struttura dell'acqua usata negli esperimenti>>" (p. 143).
----"Paolo Manzelli" <[email protected]>
"Maria Grazia Costa" <[email protected]>
Una riunione del 1989 a Garda, nell'abitazione dell'Arch. Zorzi,
in un'atmosfera densa di speranza ed entusiasmo...
Da sinistra a destra, Roberto Monti, Piero Zorzi, Stefan Marinov, Umberto Bartocci, Omero Speri.
Atomo, Energia, Uomo
(Omero Speri, Piero Zorzi)
Se dovessimo rappresentare in un solo insieme queste tre entità, l'atomo, l'energia, l'uomo, le
rappresenteremmo forse con quanto espresso in un foglio del Codice Atlantico di Leonardo da
Vinci. Egli in piccolo spazio disegna come si può costruire un buon acciarino. Su una
superficie solida dimensiona una grossa molla ad arco e delle leve, onde con piccolo ma
continuo sforzo si possa sommare energia. All'estremità della molla in adatta sede fissa una
pietra focaia ed un'altra più grande la fissa rigida sulla base dell'acciarino; il tutto perché, ad
un piccolo spostamento dell'arresto, possa dare, in un istante, tutta l'energia immagazzinata, e
formare nello sfregamento delle due pietrine una scintilla.
Di lato vi è una scrittura speculare non del tutto comprensibile, ma allo specchio appare il
pensiero di quel grande uomo di un tempo. E' la sublimazione del pensiero, è l'arte. Non si
ferma al meccanismo, vivifica l'insieme e lo porta in un'altra dimensione, immaginando un
colloquio vero e proprio tra la pietra e l'acciarino. Facendo quasi poesia scrive:
Disse la pietrina all'acciarino "Perché mi percuoti? Perché mi strascichi?" Rispose
l'acciarino "Stai buona, stai al sacrificio vedrai che da te nascerà una scintilla, che farà cose
meravigliose!".
La pietrina stette al sacrificio e con la scintilla si accese un gran fuoco.
Ma non si fermò nemmeno qui il pensiero di Leonardo ed ancora aggiunge "Questo vale ...
per chi si dedica alla ricerca".
Non si limita, attivo, ad organizzare e controllare le forze dei materiali per concentrarle in.
un punto, non si limita contemplativo a fare della poesia facendo parlare la pietra; ma da
grande filosofo, ne trae analogie e la fa diventare massima per se stesso e per gli altri. Come
cioè si debbono allo stesso modo elaborare e controllare "con sacrificio" le forze della psiche
onde conoscere la natura ed il misterioso che la compenetra e ci compenetra. Quella elaborata
scintilla la fa diventare stella di per se stesso e per tutti i solitari navigatori del pensiero.
Nella storia dell'uomo c'è sempre stato uno "strascicare" per stare nell'analogia
dell'acciarino, uno "strascicare" intellettivo continuo per capire cos'è l'ultima essenza delle
cose, che cos'è l'energia, chi è l'uomo.
Anticamente Democrito pensa ad un quid indivisibile che deve comporre tutte le cose e lo
chiama atomo.
Dopo migliaia di anni 1'uomo nell'analizzare la materia scopre un "chemi", un segreto,
scopre che c'è un quid indivisibile che chiama, ricordando il filosofo antico, "atomo".
All'inizio di questo secolo, ecco che, penetrando sempre più nell'infinitamente piccolo, si
accorge che non solo quell'ipotetico "ATOMO" che aveva fondato si rompe, ma anche tutte le
particelle che lo compongono. Il Premio Nobel Rubbia, che studia da alcuni anni lo sfasciarsi
degli atomi e delle particelle subatomiche dice che "queste ultime incontrandosi ad alta
energia, alcune, spariscono senza una logica, ed altre appaiono senza sapere da dove e
perché". Dice che vi è un mistero curioso oltre 1'atomo, un mondo sconosciuto.
Ritornando all'atomo ipotizzato dall'uomo del ventesimo secolo, cerchiamo almeno di
averne una certa misura. Dire che ha un diametro circa pari a 1/5000 della lunghezza d'onda
della luce è poco, dire che un atomo di ossigeno pesa gr. 0,00...26 [ = 16/(6.2*1023) ] e' niente,
ma forse esprimere in misura 1'energia che questo racchiude ce lo fa conoscere meglio.
Cercheremo con un calcolo di esprimere questo pensiero. L'equivalenza fra massa ed energia
è diventata con l'era atomica realtà, la formula ipotizzata da Leibniz nel 1700 oggi è diventata
legge. Quindi con ∆Mc2 = ∆E considerando la massa di atomo di ossigeno eguale a 2,6*10 -23
gr ne ricaviamo che 2,6*10-23*9*1020 gr*cm2/sec2 = E cioè
2,6*9*10-3 gr*cm2/sec2 = 23,4*10-3 gr*cm2/sec2 = 23,4 mgr*cm2/sec2 .
Debbo decomporre 100 atomi di ossigeno per avere un'energia [forza viva, ovvero massa
per velocità al quadrato] pari a quella di 2,34 gr che si muovono alla velocità di 1 cm/sec. Una
cosa trascurabile, si potrà dire, eppure dalla decomposizione totale di 100 atomi non
otteniamo energia maggiore, l'equivalente dell'energia che possiede la mia penna dopo uno
spostamento di 1 cm in 1 secondo. Considerando invece di decomporre un grammo di
ossigeno o di qualsiasi massa, noi possiamo invece osservare l'immensità del1'energia
racchiusa calcolando la trasformazione di un grammo massa. Abbiamo che: M = 1 e quindi
1*9*1020 gr*cm2/sec2 = E , e cioè un'energia che potrebbe essere paragonata a quella
posseduta da una nave di 90.000 tonnellate dopo uno spostamento di 10 5 cm in un secondo, e
cioè di 1 Km in un secondo! [si rammenti che la velocità compare al quadrato nell'espressione
dell'energia].
L'infinitamente piccolo che diventa immenso.
Se pensiamo poi che in un cm di aria vi sono 50 milioni di miliardi di miliardi di atomi, il
nostro pensiero si smarrisce allo stesso modo di quando guardando il cielo pensiamo al
numero senza fine delle stelle.
Sempre di più 1'atomo appare medio proporzionale tra l'infinitamente grande delle stelle e le
quasi stelle, e 1'infinitamente piccolo delle particelle atomiche e subatomiche.
Se in relazione alle stelle 1'uomo diventa nulla, in merito invece all'infinitesimo di particelle
atomiche e subatomiche che le compongono diventa infinitamente grande. In un secondo, in
un palpito del suo cuore 100 milioni di miliardi di miliardi di atomi trasmettono parte della
loro energia che diventerà in lui vita e pensiero.
E qui vorrei condurre il nostro pensiero in un viaggio nell'interno di una foglia . Ecco il
microcosmo ivi racchiuso alla lente del nostro intelletto si spalanca a noi come un cielo
stellato e quelle meravigliose perle o stelle che ci sembrano quasi tutte simili, sono invece
mondi sconosciuti, sono l'atomo del carbonio, dell'ossigeno, dell'idrogeno, dell'azoto e molti
altri. Tra questi l'atomo del carbonio con accanto l'ossigeno, ecco che entrato nella foglia
sussulta e per mezzo della luce del sole diventa parte del fluido vitale, giocando quasi con
l'ala della luce si trasforma insieme ad altri atomi in dolce nettare, in una meravigliosa collana
di perle; forma il "glucosio" lasciando uscire dagli stami l'amico ossigeno che per lungo
tempo gli fu accanto. Ecco il nostro atomo chiave delle sostanze viventi, diventa alimento,
zucchero, nella fragoletta colta nel bosco da un bimbo, diventerà parte intrinseca delle sue
cellule e migrando nel sangue busserà alla porta di una cellula nervosa e diventerà, forse,
sempre in un gioco stupendo e misterioso, ricordo e quasi pensiero. Ecco il bimbo a sua volta
gioca, corre, ride, piange e nel suo tumulto di nuovo il nostro atomo di carbonio ritorna
assieme ad altro atomo di ossigeno, e dai polmoni del piccolo esce all'aria, libero come un
tempo.
Passerà dopo anni forse in un'altra foglia, in una farfalla, ancora in altre piante e ancora nel
torrente sanguigno di una rondine, in quello di una gazzella, in quello di un altro uomo. forse
nell'ala di un gabbiano diventerà penna per il suo volo. Viviamo di luce, dell'energia del sole.
Quanto ci accomuna la conoscenza di questo gioco degli atomi! Tutti gli esseri viventi, dai
microorganismi, dal filo d'erba, dalla formica all'elefante all'uomo sono in continua
elaborazione dell'energia proveniente dal sole. E' la risposta di ogni essere vivente alla luce
del sole. Tutta l'energia vitale che l'uomo elabora sulla terra proviene dal sole, diciamo vitale
intendendo 1'energia proveniente dalla sua alimentazione ed illuminazione.
Anche quella proveniente dal metano e petrolio è il residuo di quella energia non del tutto
decomposta contenuta negli esseri viventi vegetali ed animali vissuti tanti milioni di anni fa.
Dal 1946, quando iniziò l'era atomica con lo scoppio della bomba atomica ad Hiroscima,
iniziò anche lo sfruttamento del1'energia dell'atomo.
Quante meraviglie ha prodotto la scintilla intellettiva dell'uomo, stando al "sacrificio" è
riuscito a scoprire quella scintilla elettrica racchiusa nella materia ed elaborarla in modo
sublime.
Ne ha prodotto macchine di ogni tipo che aiutano 1'uomo nel lavoro e perfino nel calcolo
come nei computer. E' riuscito ad elaborare quell'energia a tal punto, che ormai in ogni
abitazione abbiamo una televisione a colori che ci trasmette immagini da qualsiasi angolo
della terra e dello spazio. Combinando gli atomi in vario modo ha prodotto materiali e materie
plastiche che competono con quelle naturali. Ancora ha prodotto farmaci per alleviare le
sofferenze dell'uomo ed altre infinite cose. Se oggi una astronave naviga nello spazio è frutto
della somma di mille pensieri di mille scintille scaturite tutte dalla forza del pensiero
dell'uomo.
Ma come quando l'uomo accendendo il primo fuoco si è scottato e magari ha incendiato la
sua dimora, così oggi similmente, ma in proporzione più grande, si è inquinato di prodotti di
scarto, di prodotti chimici, di onde elettromagnetiche, di tecnologie, di farmaci, di veleni,
rimanendone prigioniero. Navi di prodotti di scarto navigano in cerca di approdo.
Purtroppo lo sfruttamento dell'atomo e della sua energia, ci lascia e ci lascerà sicuramente
ancora profonde ferite, ma, siamo ottimisti, e con il controllo dell'energia a fusione nucleare
avremo energia pulita sufficiente per tutta 1'umanità. Su questa fusione atomica dell'idrogeno
nel 1974 abbiamo realizzato a misura d'uomo una esperienza e siamo riusciti ad ottenere
risultati meravigliosi. Ci è costata tempo e paura, ma abbiamo intravisto che questa sarà
sicuramente una strada per ottenere energia pulita ed a misura d'uomo*.
Sono sfuggiti all'uomo moderno due mostri anabolici: l'inquinamento e la sofistificazione
che insediandosi nella vita e nel1'atomo assieme alle radiazioni atomiche ci ammalano e ci
distruggono in compagnia di quell'arpia che è la fretta che ha cacciato la poesia della vita.
Nei prati i fiori, tra le messi le spighe, si protendono verso l'alto, e la luce dell'infinito si
precipita a riempirli di una vita meravigliosa, che sarà cibo ed energia per l'uomo. Perché
sciuparli?
Nel nuovo millennio l'uomo tornando alla natura distruggerà quei mostri e l'energia
dell'atomo pulito costruirà ancora infinite meraviglie e le ferite dell'umanità, come le guerre
non saranno che purtroppo molto tristi incidenti dì percorso. Speriamo che questo diventi
monito per un impegno per un futuro migliore.
Ma 1'atomo di oggi così apparentemente ben studiato ci riserva ancora delle sorprese. In
studi di avanguardia, il Prof. Louis Kervran dell'Università di Parigi, riprendendo quanto
aveva sperimentato nel 1830 Vauquelin, ha confermato che avvengono a livello biologico
delle trasmutazioni; elementi atomici che si trasformano in altri a debole energia. Una eresia
per lo studioso moderno, ma le prove che lui ed altri descrivono ci lasciano affascinati.
Ancora una volta la natura, sorniona, stupisce e ci dice che non la si può vincere, se non ci si
fa simili ad essa. "Natura non vincitur, nisi paretur".
La stessa pianta nel suo misterioso laboratorio riesce a trasformare l'azoto in silicio e
viceversa, come può trasformare il calcio in potassio ed in altri ancora. Studi erano già stati
fatti anche nel 1800, ma le tabelle sperimentali caddero dimenticate e si pensò che fossero
esperienze sbagliate e quindi era ridicolo rifarle. Nel 1966 il Prof. Baranger ha dimostrato che
nelle pietre ferruginose il ferro sotto l'azione di microorganismi poteva trasformarsi in
manganese, e che nei semi di germoglio il ferro aumenta ed il contenuto di manganese
sparisce. Lo stesso scienziato Teilhard de Chardin, conosciuto particolarmente per i suoi
lavori in paleontologia, afferma che "il mondo della roccia è un mondo più elastico e più
mobile di quanto non potesse sospettare la scienza di ieri. Oggi sappiamo che anche i minerali
delle rocce più solide si trovano in trasmutazione permanente...".
La natura compie, nella sua miriade di elaborazioni in silenzio la tessitura con la luce del
sole degli atomi ed anche la loro trasmutazione, quella che la tecnologia moderna crede da
sola poter fare. Abbiamo più volte ammirato la nascita di un fiore, abbiamo scorto con fatica a
livello di una foglia staccata l'ultimo pulsare di vita e ci siamo chiesti tanti perché. Come
riuscirà il liquido a salire nel capillare di una foglia? In qual modo la luce si piegherà a
produrre quei composti?
Decomponendo in modo controllato dei piccoli pezzi di foglia di spinacio, di mais, di ortica,
di ricino e di riso siamo arrivati dopo un anno ad analizzare delle spirali vere e proprie che
fanno a nostro avviso uno dei punti più interessanti nella conoscenza della morfologia
vegetale. Un tempo erano chiamate tracheidi e si credevano composte di cellulosa e lignina,
mentre sono a nostro avviso idrosilicati, che non solo servono al trasporto d'acqua ma devono
avere nella produzione del glucosio una parte importante, senz'altro vere e proprie fibre
ottiche naturali. Sarà bello conoscere la sintesi dell'azoto, dell'aria e dei rifiuti per ottenere
quegli amminoacidi, che tanto sono preziosi per la vita di tutti gli esseri viventi. Ma ancora
più bello sarà conoscere quelle trasformazioni biologiche che a livello atomico sono tanto
discusse oggi. Con la lente dell'intelletto l'uomo entrerà nell'infinitamente piccolo e sempre di
più apparirà la mano di quel Misterioso distante che tanto ci avvolge con la sua ala iridata.
Abbiamo fatto un cenno all'atomo e all'energia nel suo insieme e ... l'uomo?
L'Uomo era sempre presente in ognuna delle nostre considerazioni sulla materia e sulle
cose, mentre le ordinava e presidiava; era l'energia del suo pensiero, la più nobile. Che cosa è
questo essere uomo?
Un misterioso spirito, un'anima, un quid che presiede su un insieme di miliardi di miliardi di
miliardi di atomi ( 1027 ) che aggregati in meravigliosi arabeschi in vario ed irripetibile modo,
fanno da organo, da arpa, alla sua fantasia, alla sua libertà di pensiero. Riuscirà forse a
conoscere dove abitano le nubi e le condurrà al suo dominio ed avviarle alla loro casa: ma non
riuscirà a togliere il chiavistello a quella porta della totale conoscenza di tutte le cose.
E' quel meraviglioso "quid" che sa trarre dalla natura il Bello, vedi l'Artista, che sa scrutare
tra le cose il Vero, vedi lo Scienziato, che sa trarre tra gli uomini il Bene, vedi il Santo.
E' quello che è seppure in piccola cosa ognuno di noi; è quel "quid" che dirige atomi ed
energia con libertà verso il disordine o verso l'ordine, verso il finito o verso l'infinito.
Chi dipinge su telaio i rubati arcobaleni in volto umano,
non è di più
di chi foggia sandali per i nostri piedi,
non è di più
di chi volge in musica il murmure del tempo,
non è di più
di chi scrutando la natura fa scaturire la luce,
non è di più
di chi si china con amore a sollevare il fratello caduto nella polvere.
----Il precedente testo è tratto da una relazione dei due autori (purtroppo oggi entrambi
scomparsi) proposta al Convegno Nazionale organizzato dal Centro Studi per l'Uomo del
Terzo Millennio "Anthropos", Verona, 2 Ottobre 1988.
* NdR - Si fa qui criptico cenno al fatto che nel 1974 i due amici-ricercatori brevettarono un
loro dispositivo a proposito del cui funzionamento parlavano, in termini assolutamente
anticipatori, di "fusione fredda" (vedi le successive immagini, che riproducono le prime due
pagine dello storico brevetto).
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A proposito del Vexillum Templi, e altra simbolica templare...
(Sante Anfiboli)
Non nobis Domine, non nobis,
sed Nomini Tuo da gloriam
Avendo letto con interesse nei numeri 4 e 5 di Episteme gli articoli di Franco Baldini su
<<Semantiche mito-ermetiche in alcuni quadri di Guercino e Poussin>>, penso potrebbe
interessare i lettori della vostra rivista un'integrazione di quelle argomentazioni con analoghe
osservazioni di natura alchemico sul significato esoterico della simbolica templare.
Si sa infatti che lo stendardo templare - il famoso e misterioso gonfanon baussant - venne
descritto da Mathieu Paris nel 1254 come "d'argent au chef de sable". Era dunque bianco e
nero, ma in che modo? Su questo punto c'è molta confusione: qualcuno ha addirittura
avanzato - per analogia con il pavimento del tempio massonico - che esso fosse una specie di
scacchiera.
Eccone dunque un'immagine tratta da una miniatura medievale (1245), che fugherà
qualunque incertezza.
Si vede con chiarezza che esso è - almeno in qualche versione - molto semplicemente
bipartito, con il riquadro nero che sovrasta quello bianco il quale - a sua volta - è grande il
doppio del primo. Ci si domanderà ora se - in una figura di tale semplicità - possa essere
contenuto un qualche significato esoterico e, nel caso, quale esso sia.
A un simile quesito ognuno risponderà secondo le proprie propensioni e conoscenze.
Tuttavia, per un iniziato, non vi è dubbio alcuno. Il significato esoterico c'è ed è pure di gran
valore, e con esso c'è la prova che l'alchimia non era affatto trascurata nelle commanderies
templari.
Infatti nell'Opera alchemica il mercurio (bianco) deve appunto essere il doppio in peso del
solfo: questo nel baussant è chiaramente indicato. Inoltre, alla fine della Prima Opera il solfo
-completamente annerito (caput mortuum, scorie) - sovrasta il mercurio, esattamente come
nel baussant, che si rivela così una sintetica rappresentazione figurata della Prima Opera.
Ciò è confermato chiaramente dal nome stesso che i Templari davano al loro vessillo. Di
fronte al termine baussant chi conosce la cabala fonetica, la lingua degli uccelli, non può non
scoppiare a ridere, incantato dalla sottile concettualizzazione che esso esprime e che cont