Sommario - Libri Professionali

Transcript

Sommario - Libri Professionali
u:/LINOTIPO_H/06-wki/Utet_Riviste_cod_Civ/Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_321_322.3d 26/4/2010 14:53 pagina 321
Sommario
LE RECENTISSIME
A cura di Luigi A. Scarano
323
I COMMENTI
AFFIDAMENTO DELLA PROLE E USUFRUTTO GIUDIZIALE
di Giovanni Bonilini
327
L’INVALIDITÀ DEGLI ATTI POSTI IN ESSERE DALL’AMMINISTRATORE DI SOSTEGNO E DAL BENEFICIARIO
DELLA MISURA DI PROTEZIONE
di Mauro Tescaro
335
LE SENTENZE ANNOTATE
ACCORDI PATRIMONIALI FRA CONIUGI E VALORE PROBATORIO DEL VERBALE DI UDIENZA DEL GIUDIZIO DI SEPARAZIONE
Cassazione civile, sez. III, 19 novembre 2009, n. 24436
commento di Claudia Irti
340
VERSO LA TUTELA GIURIDICA DELLE FAMIGLIE OMOSESSUALI?
Tribunale di Ferrara, (ord.) 16 dicembre 2009
commento di Arcangelo Giuseppe Annunziata e Roberto Francesco Iannone
344
I ‘‘JEANS’’: PROTEZIONE ANTISTUPRO PER LA DONNA?
Cassazione penale, sezione III, 21 luglio 2008, n. 30403
commento di Simona Paola Bracchi
353
DISTRUZIONE DI UN TESTAMENTO OLOGRAFO
Cassazione civile, sezione II, 28 dicembre 2009, n. 27395
commento di Vincenzo Barba
356
IL CASO
AUTONOMIA DEI CONIUGI E TRASFERIMENTI MOBILIARI ED IMMOBILIARI NEI PROCEDIMENTI DI SEPARAZIONE
E DI DIVORZIO
commento di Francesca Romana Fantetti
369
LE RASSEGNE
LA REMISSIONE PER TESTAMENTO
di Nicola Di Mauro
375
Famiglia, Persone e Successioni 5
321
maggio 2010
u:/LINOTIPO_H/06-wki/Utet_Riviste_cod_Civ/Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_321_322.3d 26/4/2010 14:53 pagina 322
SOMMARIO
L’OSSERVATORIO DELLE CORTI SUPERIORI
Cassazione civile, sezione I, 26 febbraio 2010, n. 4757
commento di Luigi A. Scarano
385
L’OSSERVATORIO DI MERITO
Tribunale Rimini, (ord.) 16 febbraio 2010
commento di Antonio Costanzo
388
L’OSSERVATORIO LEGISLATIVO
L’ACCESSO ALLE CURE PALLIATIVE E ALLA TERAPIA DEL DOLORE
di Irene Ambrosi e Marta D’Auria
398
INDICI
400
‘‘Le riviste ipertestuali’’
www.lerivisteipertestuali.it
# 2010 Wolters Kluwer Italia S.r.l.
Strada I, Palazzo F6
20090 Milanofiori Assago (MI)
Direttori:
Giovanni Bonilini
Massimo Confortini
Massimo Franzoni
Carlo Granelli
Giuseppe Vettori
Alessio Zaccaria
Redazione Giuridica:
Corso Vittorio Emanuele II, 44 – 10123 Torino
Telefono 011.818221 – Telefax 011.81822301
Sito internet: www.utetgiuridica.it
Email: [email protected]
‘‘Famiglia, Persone e Successioni’’
Direzione scientifica:
Giovanni Bonilini
Salvatore Patti
Hanno collaborato:
Irene Ambrosi
Arcangelo Giuseppe Annunziata
Vincenzo Barba
Giovanni Bonilini
Simona Paola Bracchi
Antonio Costanzo
Marta D’Auria
Nicola Di Mauro
Francesca Romana Fantetti
Roberto Francesco Iannone
Claudia Irti
Luigi A. Scarano
Mauro Tescaro
‘‘Le Recentissime’’
‘‘L’Osservatorio delle Corti Superiori’’
a cura di Luigi A. Scarano
‘‘L’Osservatorio di merito’’
a cura di Antonio Costanzo
‘‘L’Osservatorio legislativo’’
a cura di Irene Ambrosi
322
Project editor:
Maria Cristina Bozzo
Redattori:
Maria Cristina Bozzo, Simonetta Scursatone,
Giuseppe Milano
Direzione tecnologie editoriali:
Gaetano Falcone
Realizzazione editoriale:
Novecento Media s.r.l. – Milano
Fotocomposizione:
LT77 s.r.l. – Milano
Stampa:
Centro Poligrafico Milanese S.p.a.
Casarile (Milano)
Per informazioni in merito a contributi, articoli e
argomenti trattati, scrivere a:
[email protected]
UTET GIURIDICA1 è un marchio registrato e concesso in licenza da UTET S.p.A. a Wolters Kluwer
Italia S.r.l.
L’elaborazione dei testi, anche se curata con scrupolosa attenzione, non può comportare specifiche
responsabilità per eventuali errori o inesattezze.
Direttore responsabile:
Antonella Loporchio
maggio 2010
Registrata al n. 5866 della Cancelleria del Tribunale di Torino in data 27 aprile 2005
Famiglia, Persone e Successioni 5
CONDIZIONI DI ABBONAMENTO
Abbonamento annuale (11 numeri più accesso riservato al sito www.lerivisteipertestuali.it) per il
2010 A 169,00 (ogni fascicolo A 17,00)
I prezzi indicati si intendono validi per l’Italia.
Per l’Estero è previsto l’aumento del 50%.
Le richieste di abbonamento o di singoli fascicoli
corredate dal corrispondente importo e dall’esatto
indirizzo per la spedizione dei fascicoli possono
essere inoltrate:
– direttamente all’Editore, utilizzando il c/c/p n.
467100 intestato alla Wolters Kluwer Italia S.r.l.
– Ufficio Abbonamenti – Viale Maresciallo Pilsudski, 124 - 00197 ROMA
– alle competenti Agenzie operanti sul territorio
nazionale.
EVENTUALI RICHIESTE PRIVE DEL RELATIVO PAGAMENTO NON SARANNO PRESE IN CONSIDERAZIONE
La ricevuta o il bollettino di c/c/p comprovante
l’avvenuto pagamento costituisce documento liberatorio per il cliente, ed ha inoltre valore a tutti
gli effetti di legge e/o fiscali.
L’abbonamento si intende rinnovato se non disdetto a mezzo raccomandata A.R., entro 60 giorni dal
mese di scadenza, da inviare alla sede della Wolters
Kluwer Italia S.r.l. Il rinnovo comporterà il pagamento del prezzo di abbonamento alle condizioni
di vendita in vigore all’atto del rinnovo stesso.
I titolari di abbonamento hanno diritto a ricevere
eventuali fascicoli – non recapitati per disguidi
postali – qualora vengano richiesti direttamente
all’Ufficio Abbonamenti entro i quattro mesi successivi alla data di pubblicazione, salva la disponibilità dei medesimi.
L’abbonamento decorre dal mese successivo alla
sottoscrizione.
Per informazioni su gestione abbonamenti, numeri arretrati, cambio di indirizzo, ecc., scrivere o telefonare a: "Ufficio Abbonamenti"
Telefono: 199100120 (costo massimo E 0,1425 al
minuto da rete fissa senza scatto alla risposta e
da rete mobile legato all’operatore utilizzato)
Fax: 199100150
E-mail: [email protected]
Per comunicazioni con l’Ufficio Abbonamenti è utile
indicare sempre il codice cliente/agenzia.
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_323_326.3d
na 323
23/4/
11:42
pagi-
LE RECENTISSIME
Le Recentissime
A cura di
Luigi A. Scarano
Magistrato
» Immigrazione
Cassazione civile, sezione I, 1º marzo 2010, n. 4868
Presidente Adamo – Estensore Macioce
1. Il quesito: può il cittadino italiano chiedere l’ingresso nello Stato del minore affidato in kafalah in base al d.lg. n. 286 del 1998 in tema
di ricongiungimento familiare? È altrimenti invocabile il d.lg. n. 30 del 2007, attuativo della Direttiva 2004/38/CE in tema di libera
circolazione e soggiorno nel territorio degli Stati membri?
2. La soluzione: la S.C. dà risposta negativa ad entrambi i quesiti,
con le precisazioni di seguito indicate.
La Corte d’Appello di Perugia, a conferma del provvedimento del
Tribunale di Spoleto, disponeva il rilascio al richiedente sig. A.E.K.,
cittadino italiano di origine marocchina, del visto di ingresso (negato dal Consolato d’Italia di Casablanca) nell’interesse della minore C.E.K., nata in Marocco, per il ricongiungimento familiare in
Italia al predetto istante e alla di lui moglie, ai quali la minore era
stata affidata secondo l’istituto della kafalah dai suoi genitori
sulla base della decisione del Tribunale di Ben Ahmed.
Sottolineato che il diniego del visto era fondato sul rilievo della
non applicabilità della previsione in tema di ricongiungimento di
cittadino italiano con familiari stranieri disciplinato dall’art. 2, 1º
co., lett. b), d.lg. 30 del 2007, non essendo la ricongiungenda
minore un «familiare a carico», il giudice dell’appello dava atto
che nella citata normativa del 2007, ratione temporis applicabile,
non si prevede la possibilità di un ricongiungimento come quello
in argomento bensı̀ solamente il ricongiungimento del cittadino
italiano al ‘‘familiare’’, in ipotesi di ingresso o trattenimento in
uno Stato diverso da quello del quale il richiedente ha la cittadinanza.
Nell’escludere l’applicabilità dell’art. 28, 2º co., d.lg. n. 286 del 1998
(ai sensi del quale la condizione dei familiari stranieri dei cittadini
italiani resta regolata dal d.p.r. n. 1656 del 1965, salvo le più favorevoli norme del t.u.), in quanto espressamente abrogato dall’art.
25, d.lg. n. 30 del 2007, al quesito relativo alla riconducibilità della
ipotesi sottoposta alla previsione del «familiare» di cui agli artt.
28, 2º co. e 29, 5º co., d.lg. n. 286 del 1998 la corte di merito
affermava doversi dare «una risposta in linea con l’orientamento
della S.C. palesato nelle sentenze 21395/2005, 7472/2008 e 18174/
2008», non ostando «profili di ordine pubblico ex lege n. 218 del
1995 trattandosi dell’unico istituto di protezione minorile del diritto islamico».
Avverso la suindicata pronunzia il Ministero degli affari esteri
proponeva quindi ricorso per cassazione, dolendosi in particolare
che il giudice dell’appello avesse erroneamente ed illogicamente
ritenuto il d.lg. n. 30 del 2007 applicabile «ai soli soggiorni dei
cittadini e dei familiari in stati diversi da quello di cittadinanza»,
laddove «il chiarissimo disposto» degli artt. 1, lett. a) e b), e 5,
attesta che la finalità propria di tale fonte normativa «è quella di
regolare l’ingresso ed il soggiorno in Italia dei familiari del cittadino italiano».
Lamentava che erroneamente si era ritenuto nel caso applicabile
la clausola della «legge più favorevole» di cui all’art. 28, 2º co. del
citato t.u., trattandosi di una comparazione tra termini disomogenei, atteso che la disposizione di cui all’art. 29, 5º co. (recante il
riferimento al «familiare»), più favorevole rispetto a quella restrittiva di cui al 2º co. (concernente l’«adottato», l’«affidato» e il
«sottoposto a tutela»), postula una situazione disomogenea rispetto a quella odiernamente in esame, ove il preteso ricongiungimento non riguarda il cittadino extracomunitario ed il suo «familiare» extracomunitario bensı̀ il cittadino italiano e il «familiare» straniero.
Si doleva non essersi dai giudici di merito altresı̀ considerato che,
vertendosi in tema di ricongiungimento con un cittadino italiano,
si sarebbe dovuta evidenziare la esclusività dell’istituto della adozione internazionale, posto che «per la presa in carico di un minore extracomunitario» la l. n. 184 del 1983 prevede esclusivamente gli istituti dell’adozione internazionale o dell’affidamento di
minore straniero che si trovi già in Italia, e non anche l’affidamento internazionale né la tutela internazionale, tra le quali secondo
l’orientamento della giurisprudenza di legittimità può ricomprendersi la kafalah.
Si finirebbe altrimenti per applicare «in via diretta» il diritto islamico ai cittadini italiani.
Ma se nell’ordinamento islamico la kafalah è l’unico istituto di
protezione del minore orfano o abbandonato, nel diritto italiano
vigono diversi e cogenti principi, ed è vietato «aggirare» le «rigorose previsioni» dell’adozione internazionale.
Si doleva infine che fosse stata ravvisata la sussistenza del presupposto dell’abbandono proprio della kafalah, laddove «la minore aveva due genitori conviventi»; non vi era prova che costoro «la
avessero trascurata o vessata»; il richiedente era entrato in Italia
sin dal 1993 e la kafalah era stata stipulata solo nel 2004.
La S.C. ha ritenuto fondate le doglianze.
Osserva che l’orientamento interpretativo accolto in giurisprudenFamiglia, Persone e Successioni 5
323
maggio 2010
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_323_326.3d
na 324
23/4/
11:42
pagi-
LE RECENTISSIME
za di legittimità da Cass. n. 7472 del 2008, e dai giudici di merito
ritenuto meritevole di essere estensivamente applicato anche al
cittadino italiano di origine marocchina, si sostanzia nel principio
per il quale «la kafalah di diritto islamico, come disciplinata ...
dalla legislazione del Marocco, può fungere da presupposto per
il ricongiungimento familiare, e dare titolo allo stesso, in forza del
disposto dell’art. 29, 2º co., d.lg. n. 286 del 1998», essendosi in
particolare nell’occasione (cosı̀ come nella successiva Cass. n.
18174 del 2008) «inteso affermare che nell’affidamento nazionale
previsto da detta disposizione per consentire il ricongiungimento
chiesto dal cittadino extracomunitario dovesse ricomprendersi, ad
una lettura secundum constitutionem, il caso del minore affidato
(makful) ad una coppia o ad un singolo (kafil)».
Sottolinea che i giudici di merito hanno nell’impugnata decisione
affermato che anche al cittadino italiano può «applicarsi siffatta
interpretazione estensiva – le volte in cui richieda l’ingresso per
ricongiungimento di un minore affidatogli in kafalah – perché è
solo il richiamato art. 29, 2º co., che governa, anche per il cittadino, il ricongiungimento con un minore straniero a lui legato da
legami di sangue, o dalle varie equiparabili relazioni giuridiche tra
le quali si annovera la kafalah».
La S.C. afferma che siffatta prospettazione è invero erronea, in
quanto «la regolamentazione del rapporto di ingresso, transito
e circolazione del minore (familiare) extracomunitario con cittadino comunitario è contenuta esaustivamente nel d.lg. n. 30 del
2007 (ed anteriormente nel d.p.r. n. 54 del 2002 e nel, da questo
abrogato, d.p.r. n. 1656 del 1965)».
A tale stregua rimane nel caso in esame esclusa la possibilità di
applicazione diretta del d.lg. n. 286 del 1998.
Né è d’altro canto possibile argomentare «in termini di scelta del
regime più favorevole ai sensi dell’art. 28, 2º co. del cit. t.u. del
1998».
La Corte di legittimità pone al riguardo in rilievo che, all’atto di
regolare «nel titolo IV le condizioni per realizzare in favore dello
straniero avente diritto al soggiorno il diritto alla unità familiare»,
il legislatore del 1998 ha dovuto invero prendere atto che nell’ipotesi in cui «straniero» è il «familiare» (coniuge, ascendente e
discendente, figlio minore ecc.) e richiedente l’unità familiare è il
cittadino italiano, non è possibile farsi riferimento «allo schema
del ricongiungimento, anche in forza della espressa esclusione di
cui all’art. 1, 2º co.», ed ha fatto pertanto rinvio alla diversa disciplina dell’ingresso, soggiorno e circolazione negli Stati membri
della CEE di cui al d.p.r. n. 1656 del 1965.
All’art. 28, 2º co. si è infatti disposto il rinvio a tale normativa, con
salvezza delle «disposizioni più favorevoli» del t.u.; e all’art. 29, 5º
co. è stata dettata ex professo una clausola più favorevole, disponendosi che, oltre a quanto previsto dall’art. 28, 2º co. i familiari
del cittadino italiano o comunitario hanno diritto di ingresso in
quanto siano al seguito del medesimo.
Quale norma espressamente di rinvio, il suddetto art. 28, 2º co.,
non è stato invero toccato dall’abrogazione della normativa richiamata, essendosi invece verificate due successive sostituzioni,
in breve sequenza, delle norme regolanti l’ingresso, la circolazione
e il soggiorno dei cittadini comunitari e dei loro familiari, dapprima con il d.lg. n. 52 del 2002 ed il t.u. approvato con il d.p.r. n. 54
del 2002 (il cui art. 15 abroga il testo del 1965 e contiene in quadro
sinottico, la tavola di corrispondenza delle disposizioni abrogate e
sostituite); quindi con il d.lg. n. 30 del 2007 (adottato in attuazione della direttiva 2004/38/CE), che a sua volta abroga (art. 25, 2º
maggio 2010
324
Famiglia, Persone e Successioni 5
co.) sia i decreti nn. 52, 53, 54 del 2002 che il (già abrogato) d.p.r. n.
1656 del 1965.
A tale stregua, e come consentito dal «rinvio aperto» operato
dall’ancora vigente art. 28, 2º co., del citato t.u., alla data di presentazione dell’istanza di rilascio di visto di ingresso da parte
dell’A.E.K. (aprile 2007) il d.lg. n. 30 del 2007 era entrato in vigore,
essendo stato pubblicato nella G.U. del 27.3.2007.
Tale decreto, osserva la S.C., contiene «previsioni certamente afferenti alla circolazione ed al soggiorno di cittadini dell’UE e dei
loro ‘‘familiari’’ in Paesi diversi da quelli dei quali i primi sono
cittadini, ma anche, e necessariamente, all’ingresso nel nostro
Paese ... dei familiari stranieri dei cittadini italiani, altrimenti pervenendosi alla aberrante conclusione per la quale il nostro Paese
ha attuato la direttiva CE del 2004 solo limitando circolazione e
soggiorno degli altri cittadini e dei loro familiari e lasciando ai
propri cittadini prima piena libertà di ottenere l’ingresso dei propri familiari extracomunitari e poi il conseguente diritto di vederli
circolare e soggiornare nei Paesi dell’Unione alla stregua delle
regole impartite».
Gli artt. 1, 1º co., lett. a), art. 3, 1º co., e 5, 1º co., d.lg. n. 30 del 2007,
costituisce del resto espressione della volontà di attuare una disciplina comune, ed in modo uniforme, agli ingressi, alla circolazione ed ai soggiorni nell’ambito dei Paesi aderenti tanto dei
cittadini quanto dei loro familiari, e quindi ovviamente, e come
previsto dalla stessa norma di rinvio di cui all’art. 28, 2º co., cit.
t.u., dei cittadini italiani e dei loro familiari stranieri.
Orbene, pone in rilievo la Corte di legittimità, nella nozione di
«familiare» di cui all’art. 2, 1º co., lett. b), n. 3, e nella disposizione
«di salvezza» di cui all’art. 3, 2º co., lett. a), d.lg. n. 30 del 2007
sono compresi, «oltre ai discendenti diretti infraventunennio ‘‘a
carico’’ del cittadino e del suo coniuge o partner», certamente
anche «i minori adottati od adottandi che fanno ingresso in Italia
acquisendo lo status di minore in affidamento familiare alla stregua delle previsioni del titolo III della l. n. 184 del 1983 (come
modificata dalla l. n. 476 del 1998 di esecuzione della Convenzione de L’Aja 29.5.1993)».
Le suindicate norme non riguardano invece i minori che non siano
discendenti diretti propri o del coniuge/partner, né siano legati da
vincolo parentale per ragioni di sangue e a carico o in convivenza
nel Paese straniero con il cittadino, ma alla stregua della disciplina propria dello Stato di cittadinanza, si trovino in una situazione
di affidamento che, come nel caso della legislazione del Marocco
sulla kafalah, sia dettato per la protezione materiale ed affettiva
del minore, senza che peraltro risulti posta in essere un rapporto
di tipo «familiare» previsto dalla Direttiva 2004/38/CE.
Non vi è dunque, sottolinea la Corte di legittimità, alcuna possibilità di ritenere che la richiesta di ingresso del minore affidato in
kafalah possa essere accolta operando, anche per il richiedente
cittadino italiano, l’interpretazione estensiva della previsione di
cui all’art. 29, 2º co., d.lg. n. 286 del 1998, il quale trova applicazione esclusivamente in caso di istanza di ricongiungimento di
cittadino straniero regolarmente soggiornante in Italia.
Né tale norma è altrimenti applicabile quale «norma più favorevole».
L’art. 28, 2º co., deve essere infatti interpretata nel rispetto dei
suoi limiti, che sono quelli «di delineare le condizioni (di ingresso,
di soggiorno, di circolazione) per realizzare l’unità familiare e
quindi nel senso di rendere applicabili le norme afferenti le modalità di ricongiungimento, con esclusione evidente della possibi-
u:/LINOTIPO_H/06-wki/Utet_Riviste_cod_Civ/Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_323_326.3d 26/4/2010 14:54 pagina 325
LE RECENTISSIME
lità di sostituire con le proprie peculiari previsioni quelle proprie
di ciascun paese dell’Unione Europea individuanti il familiare beneficiario».
Qualsiasi sia la sua fede e la sua originaria nazionalità, il cittadino
non può, afferma la S.C., invocare alcun ricongiungimento con il
minore straniero che «non passi attraverso le regole di ingresso,
soggiorno e circolazione dettate dal d.lg. n. 30 del 2007 a disciplinare – in attuazione della Direttiva CE del 2004 – il rapporto
con il proprio familiare (nel senso dianzi precisato)».
La S.C. pone per altro verso in rilievo come in giurisprudenza di
legittimità si è già avuto modo di affermare (e al riguardo fa
richiamo a Cass. n. 21395 del 2005) che l’affidamento in kafalah
non costituisce in capo al kafil alcun potere di rappresentanza
legale, né attribuisce alcuna veste di tutore, realizzando semplicemente una attribuzione di custodia (per certi versi assimilabile
all’affidamento familiare) a seguito di una determinazione familiare di affidamento omologata dal Tribunale (secondo la normativa del Marocco).
Attribuzione che, sottolinea la Corte di legittimità, «non si scorge
come possa essere assimilata alla nozione del rapporto-familiare
delineato tanto dalla norma di rinvio di cui all’art. 28, 2º co., più
volte citato quanto dalla normativa di riferimento, ed applicabile
in via esclusiva, di cui al d.lg. 30 del 2007».
A tale stregua, osserva la S.C., non può riconoscersi invero pregio
all’interpretazione estensiva nel caso operata dal giudice dell’appello, né essa può ritenersi altrimenti fondata su ragioni di equità,
atteso che nella sfera delle norme dirette alla realizzazione della
unità familiare del cittadino extracomunitario regolarmente soggiornante vanno ricomprese posizioni, assimilate all’affidamento
familiare, che nell’ordinamento giuridico di provenienza sono le
uniche che attuano esigenze di protezione del minore (non essendo ivi regolamentata l’adozione, nel senso e con i contenuti previsti dall’ordinamento internazionale).
Laddove non vi è per converso esigenza alcuna di perseguire siffatta finalità a beneficio del cittadino italiano, che non abbia
alcun rapporto di familiarità con il minore straniero (che si trovi
in stato di abbandono), e che voglia il medesimo includere – come
figlio – nel proprio nucleo familiare, assumendone la rappresentanza ad ogni effetto.
Soccorre infatti in tale ipotesi l’istituto dell’adozione internazionale posta dalla l. n. 184 del 1983 (con le successive integrazioni
attuative della Convenzione de L’Aja del 1993), «la quale rappresenta l’unico ragionevole punto di equilibrio tra le esigenze di
protezione dei minori stranieri abbandonati e le richieste di inserimento familiare dei cittadini, e cioè una sintesi, che per la delicatezza delle posizioni coinvolte e per la cogenza della attuazione
di norme sopranazionali, impedisce alcuna elusione o disapplicazione».
» Amministrazione di sostegno
Cassazione civile, sezione I, 1º marzo 2010, n. 4866
Presidente Luccioli – Estensore Schirò
1. Il quesito: qualora una persona sia affetta da «disturbo schizofrenico misto», costituente «severo impedimento» alla cura dei suoi
bisogni e alla gestione dei propri interessi, va nell’interesse della medesima disposta l’interdizione, l’inabilitazione o l’amministrazione
di sostegno? Assumono relativamente a quest’ultimo rilievo ostativo la mancata richiesta al riguardo da parte dell’interessato e la
mancata indicazione da parte del medesimo della persona da nominarsi quale amministratore di sostegno?
2. La soluzione: quanto al primo quesito la S.C. pone in rilievo che
la peculiarità dell’amministrazione di sostegno rispetto agli altri
istituti va individuata non già con riguardo al diverso, e meno
intenso, grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri
interessi del soggetto carente di autonomia, quanto piuttosto alla
maggiore idoneità di tale strumento ad adeguarsi alle esigenze
del medesimo, in relazione alla flessibilità ed alla maggiore agilità
della relativa procedura applicativa. Appartiene all’apprezzamento del giudice di merito la valutazione della conformità di tale
misura alle suindicate esigenze, tenuto conto della complessiva
condizione psico-fisica del soggetto da assistere e di tutte le circostanze caratterizzanti la fattispecie.
La S.C. dà quindi risposta negativa al secondo quesito.
La Corte d’Appello di Roma rigettava il gravame interposto dal
sig. V.D.L. avverso la sentenza del Tribunale di Roma che, in accoglimento della richiesta del p.m., aveva dichiarato la sua interdizione.
Il giudice dell’appello argomentava anzitutto dalle consulenze
tecniche espletate in primo e in secondo grado, dalle quali aveva
evinto che il grado di limitazione della capacità di intendere e di
volere del V.D.L. fosse tale da giustificarne l’interdizione legale ex
art. 414 c.c., non potendo farsi invero luogo a declaratoria di ina-
bilitazione, essendo il medesimo affetto da un disturbo mentale
grave e cronico, individuato dal primo consulente in una forma di
«schizofrenia disorganizzata con impoverimento della personalità»; e dal secondo consulente in un «disturbo schizoaffettivo misto», tale da costituire per l’interessato severo impedimento alla
cura dei propri bisogni e alla gestione dei propri interessi.
Il secondo consulente aveva in particolare illustrato la funzionalità del provvedimento interdittivo non solo alle esigenze di tutela
e di oculata gestione delle risorse patrimoniali del V.D.L., ma anche a quelle di «contenimento materiale e psicologico», versando
il medesimo in «scadute condizioni generali di salute», essendo
notevolmente in sovrappeso, oltre che «trascurato nella persona»,
tanto da necessitare di «un più efficace controllo del peso», di «un
controllo costante della pressione», nonché di «una attenta valutazione del trofismo degli arti inferiori».
Siffatte condizioni la corte di merito aveva inteso come deponenti
per l’esclusione «della sussistenza delle condizioni di parziale capacità di intendere e di volere costituenti il presupposto per una
pronuncia di inabilitazione».
Né aveva ritenuto d’altro canto configurabili i presupposti per
l’applicazione dell’amministrazione di sostegno.
Ravvisandola finalizzata ad affiancare e sostenere la persona nella
Famiglia, Persone e Successioni 5
325
maggio 2010
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_323_326.3d
na 326
23/4/
11:42
pagi-
LE RECENTISSIME
cura dei suoi reali bisogni quotidiani, e non solo a sostituirla nella
gestione dei suoi interessi patrimoniali, aveva ritenuto che per
farsi luogo alla relativa adozione le condizioni del beneficiario
debbono essere tali da consentire al medesimo di personalmente
chiedere, o quanto meno accettare, il sostegno de quo.
Aveva ritenuto altresı̀ la necessità che risultasse già individuata, o
almeno individuabile, la persona idonea ad esercitare in concreto
il mandato eventualmente conferito, laddove nel caso il V.D.L. non
aveva invero indicato la persona da nominare, nè i bisogni che
l’amministratore di sostegno, meglio del tutore, avrebbe potuto
aiutare a soddisfare.
Avverso tale decisione il V.D.L. proponeva quindi ricorso per cassazione, dolendosi in particolare della ravvisata insussistenza nel
caso dei presupposti legittimanti l’adozione della misura dell’amministrazione di sostegno, non essendosi tenuto invero conto che
la l. n. 6 del 2004 ha «configurato l’interdizione come istituto di
carattere residuale», giacché le altre misure di protezione limitano meno pesantemente l’autonomia e la libertà del soggetto
debole.
Lamentava di non essere affetto invero da un’infermità totale, o
comunque grave e costante nel tempo, deducendo che, dopo aver
conseguito una laurea in storia e filosofia, aveva lavorato per circa
venticinque anni presso l’Istituto Nazionale di Statistica.
Si doleva, ancora, che la mancata richiesta da parte sua della
nomina dell’amministratore di sostegno e la mancata indicazione
delle necessità da affrontarsi da parte del medesimo nonché della
persona idonea a svolgere tale funzione non fossero invero ostative al riguardo.
La S.C. ha ritenuto fondate le doglianze.
Osserva che l’amministrazione di sostegno ha la finalità di offrire
a chi si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di
provvedere ai propri interessi uno strumento di assistenza che ne
sacrifichi nella minor misura possibile la capacità di agire, distinguendosi, con tale specifica funzione, dagli altri istituti a tutela
degli incapaci, quali l’interdizione e l’inabilitazione, non soppressi,
ma solo modificati dalla l. n. 6 del 2004 attraverso la novellazione
degli artt. 414 e 427 c.c.
Pone in rilievo che, rispetto a tali istituti, l’ambito di applicazione
dell’amministrazione di sostegno va individuato con riguardo non
già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia, ma tenendosi piuttosto alla maggiore idoneità di tale
strumento ad adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa
procedura applicativa.
Sottolinea come appartenga all’apprezzamento del giudice di merito la valutazione della conformità di tale misura alle suindicate
esigenze, tenuto conto della complessiva condizione psico-fisica
del soggetto da assistere e di tutte le circostanze caratterizzanti
la fattispecie.
Rileva che tali principi sono stati nel caso invero disattesi dalla
corte di merito.
maggio 2010
326
Famiglia, Persone e Successioni 5
Stigmatizza che, nel confermare l’interdizione disposta dal giudice di prime cure, il giudice dell’appello non abbia tenuto in alcun
conto che, nell’ambito delle misure di protezione delle persone
prive in tutto o in parte di autonomia, dopo l’entrata in vigore
della l. n. 6 del 2004 l’interdizione può trovare applicazione al
maggiore di età o al minore emancipato in condizioni di abituale
infermità di mente tali da renderlo incapace di provvedere ai
propri interessi, quando ciò sia assolutamente necessario per assicurarne l’adeguata protezione (art. 414 c.c.), dovendo comunque
perseguirsi l’obiettivo della minore limitazione possibile della capacità di agire, attraverso l’assunzione di provvedimenti di sostegno temporaneo o permanente.
Osserva che la corte di merito non ha in alcun modo valutato,
come invece suo compito, la conformità della misura dell’amministrazione di sostegno alle esigenze del soggetto bisognoso, alla
stregua della peculiare flessibilità dell’istituto, della maggiore agilità della relativa procedura applicativa, della complessiva condizione psico-fisica del soggetto, di tutte le altre circostanze caratterizzanti il caso di specie.
La S.C. esclude, per altro verso, che costituisca condizione necessaria per l’applicazione della misura dell’amministrazione di sostegno la circostanza che il beneficiario personalmente richieda o
quantomeno accetti il sostegno e indichi la persona da nominare.
Indipendentemente dalla constatazione che – tramite il difensore
– nella specie il V.D.L., come risulta anche dalla sentenza impugnata, già nel corso del giudizio di appello aveva manifestato,
tramite il proprio difensore, la propria disponibilità ad accettare
tale misura), la S.C. pone al riguardo in rilievo che a norma dell’art.
406 c.c. (nel testo introdotto dall’art. 3, 1º co., l. n. 6 del 2004), il
ricorso per l’amministrazione di sostegno può essere proposto,
oltre che dallo stesso beneficiario, anche da uno dei soggetti
indicati all’art. 417 c.c., e dai responsabili dei servizi sociali e sanitari direttamente impegnati nella cura e nell’assistenza della
persona, qualora a conoscenza di fatti tali da rendere opportuna
l’apertura del relativo procedimento.
Neppure rileva, osserva conclusivamente la Corte di legittimità, il
fatto che il beneficiario non abbia indicato la persona da nominare
quale amministratore di sostegno, atteso che giusta il disposto di cui
all’art. 408 c.c. in mancanza di tale indicazione, ovvero in presenza di
gravi motivi, la nomina può essere comunque disposta dal G.T.
Cosı̀ come del pari inconferente è il riferimento alla mancata
indicazione, da parte del beneficiario, delle concrete incombenze
da assolversi da parte dell’amministratore di sostegno.
Ai sensi dell’art. 405, 5º co., nn. 3 e 4, c.c. è infatti il G.T. ad
indicare, nel proprio decreto di nomina l’oggetto dell’incarico,
gli atti che l’amministratore di sostegno ha il potere di compiere
in nome e per conto del beneficiario, nonché di quelli che il beneficiario può compiere solo con l’assistenza del medesimo.
Fermo restando che nell’applicazione della misura deve aversi
riguardo alle esigenze del beneficiario stesso, alla cui cura e al
cui interesse deve essere esclusivamente orientata la scelta dell’amministratore di sostegno (art. 408, 1º co.).
&
u:/LINOTIPO_H/06-wki/Utet_Riviste_cod_Civ/Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_327_334.3d 26/4/2010 14:56 pagina 327
I COMMENTI
» Affidamento della prole
Affidamento della prole
e usufrutto giudiziale
Giovanni Bonilini
Professore ordinario di Diritto civile
»
SOMMARIO
1. Considerazioni introduttive – 2. Usufrutto giudiziale, e nuova disciplina dell’affidamento della prole – 3. Scioglimento della comunione, e usufrutto
giudiziale – 4. Segue: la divisione dei beni prima comuni – 5. L’oggetto dell’usufrutto giudiziale – 6. L’affidamento della prole quale presupposto di
nascita dell’usufrutto – 7. L’usufrutto giudiziale come modo d’essere del mantenimento e, in genere, della cura dei figli minori d’età – 8. Usufrutto,
usufrutto legale, usufrutto giudiziale – 9. La durata dell’usufrutto giudiziale – 10. Segue: la revisione della sentenza costitutiva dell’usufrutto – 11. Cenni
su altre vicende del diritto di usufrutto
1. Considerazioni introduttive
A
i sensi dell’art. 194, cpv., c.c., «Il giudice, in relazione alle
necessità della prole e all’affidamento di essa, può costituire a favore di uno dei coniugi l’usufrutto su una parte dei
beni spettanti all’altro coniuge».
Trattasi dell’unica fattispecie di usufrutto, che, avendo riguardo
alla sua nascita, possa essere qualificata, in senso tecnico,
«usufrutto giudiziale». Il che non esclude, però, che siano rintracciabili altre ipotesi, in cui la sentenza del giudice si attesta,
in definitiva, come costitutiva del diritto di usufrutto(1).
È verosimile, che il legislatore della Novella del 1975, introducendo, con percorso accidentato(2), il cosı̀ detto usufrutto giudiziale, non abbia punto previsto lo scarso favore, che, in oltre
un trentennio, gli è stato riservato.
L’istituto, che trova scarna disciplina normativa nell’art. 194, cpv.,
c.c., non è stato neppure vivificato dalla giurisprudenza del merito, come testimonia l’esiguo numero delle pronunzie edite(3).
Indiretta conferma, questa, di un’applicazione sporadica dell’i(1) V., infra, par. 8.
(2) Cfr. Cass., 9.4.1994, n. 3350, in Famiglia e dir., 1994, 403 ss., con
commento di G. BONILINI, L’usufrutto giudiziale del genitore affidatario e
in Dir. famiglia, 1995, 482 ss., con nota di A. LEPRE, Profili problematici
dell’usufrutto giudiziale ex art. 194, 2º co., c.c., la quale dà cenno, nella
motivazione, delle incertezze mostrate dal legislatore nel configurare l’istituto dell’usufrutto giudiziale.
Per un richiamo ai Lavori preparatorii, v. M. FINOCCHIARO, Commento all’art.
194 c.c., in A. FINOCCHIARO - M. FINOCCHIARO, Diritto di famiglia. Commento sistematico della l. 19.5.1975, n. 151, I, Milano, 1984, 1183 ss.
(3) Trib. min. Roma, 25.6.1984, in Giur. it., 1985, I, 2, c. 328 ss., con nota
di GIUS. AMATO, Usufrutto giudiziale e scioglimento della comunione legale
dei beni; in Nuova giur. civ. commentata, 1985, 256 ss., con Commento di T.
De Fusco; in Giur. merito, 1985, 1082 ss., con nota di M. FINOCCHIARO,
Osservazioni sull’art. 194, 2º co., c.c.; in Dir. famiglia, 1984, 1051 ss.
V., inoltre, Trib. min. Catania, 29.6.1992, in Dir. famiglia, 1992, 741 ss., la cui
massima, però, dice più di quanto non si ricavi dal dispositivo della sentenza.
(4) Cass., 9.4.1994, n. 3350, cit.
(5) Fra i non numerosi contributi, v.: G. BONILINI, L’usufrutto giudiziale
del genitore affidatario, cit.; G. BONILINI, Genitore affidatario e usufrutto
giudiziale, in Nuova giur. comm., 1995, II, 35 ss.; P. PENNISI, Il c.d. usufrutto
giudiziale, in Riv. dir. civ., 1997, II, 689 ss.
Nelle opere di carattere generale, v., almeno: P. SCHLESINGER, Commento all’art. 194
c.c., in Comm. Carraro, Oppo e Trabucchi, I, 1, Padova, 1977, 449; A. ATTARDI, Aspetti
processuali del nuovo diritto di famiglia, ivi, I, 2, 996; F. CORSI, Il regime patrimoniale
stituto, evidenziata, altresı̀, dalla Suprema Corte, nell’unica
sentenza di legittimità, che, a quanto mi consta, è possibile
registrare sino ad oggi(4).
Si deve dare atto, inoltre, che anche la dottrina si è occupata
dell’usufrutto giudiziale con parsimonia(5).
Già ad un esame sommario, si rivelano molteplici gli interrogativi, che l’applicazione dell’usufrutto giudiziale suscita all’interprete. Fra questi, non è di poco conto quello che attiene alla
sua durata(6), oggetto, peraltro, dell’unica sentenza della Suprema Corte di cassazione, cui ho prima accennato, la quale si
occupa, preliminarmente, dell’individuazione dei presupposti
della costituzione del diritto, anche per disvelare la ratio dell’istituto.
2. Usufrutto giudiziale, e nuova disciplina
dell’affidamento della prole
I
l giudice può procedere alla costituzione dell’usufrutto, come si vedrà, più approfonditamente, in prosieguo(7), solo in
della famiglia, I, I rapporti patrimoniali tra coniugi in generale. La comunione legale,
in Tratt. Cicu e Messineo, continuato da L. Mengoni, Milano, 1979, 199 ss.; G. GABRIELLI, I rapporti patrimoniali tra coniugi. Corso di diritto civile, Trieste, s.d., ma
1981, 179 ss.; L. BARBIERA, La comunione legale, in Tratt. Rescigno, 3, II, Torino, 1982,
527 ss.; A. DE MONTIS, Divisione dei beni della comunione, in La comunione legale, a
cura di C.M. Bianca, II, Milano, 1989, 998 ss.; E. VITALI, Commentario al diritto delle
persone e della famiglia, Milano, 1990, 662 s.; F. MASTROPAOLO - P. PITTER, Commento
all’art. 194 c.c., in Comm. Cian, Oppo e Trabucchi, III, Padova, 1992, 372 ss.; C.M.
BIANCA, Diritto civile, VI, La proprietà, Milano, 1999, 623 ss.; M. PALADINI, Lo scioglimento della comunione legale e la divisione dei beni, in Tratt. Bessone, t. II, Torino,
s.d., ma 1999, 454 ss.; G. GENNARI, Lo scioglimento della comunione, in Tratt. Zatti, III,
Milano, 2002, 418 ss.; A. VENDITTI – M. GORINI, Lo scioglimento, in Il diritto di famiglia,
II, Il regime patrimoniale della famiglia, Trattato diretto da G. Bonilini e G. Cattaneo,
continuato da G. Bonilini, Torino, s. d., ma 2007, 2ª ed., 320 ss. Per interessanti cenni
problematici, v. G. CIAN, Introduzione sui presupposti storici e sui caratteri generali
del diritto di famiglia riformato, in Comm. Carraro, Oppo e Trabucchi, I, 1, Padova,
1977, 60; L. BIGLIAZZI GERI, Usufrutto, uso e abitazione, in Tratt. Cicu e Messineo,
continuato da L. Mengoni, Milano, 1979, 52, nt. 58, e 96; G. CATTANEO, Corso di diritto
civile. Effetti del matrimonio, regime patrimoniale, separazione e divorzio, Milano,
1988, 98.
V., inoltre: T. AULETTA, Il diritto di famiglia, Torino, s. d., ma 2008, 9ª ed., 181 s.;
G. BONILINI, Manuale di diritto di famiglia, Torino, s. d., ma 2006, 4ª ed., spec.
125; A. PINO, Il diritto di famiglia, Padova, 1984, 2ª ed., 129.
(6) V., infra, par. 9.
(7) V., infra, parr. 3-4 e 6.
Famiglia, Persone e Successioni 5
327
maggio 2010
u:/LINOTIPO_H/06-wki/Utet_Riviste_cod_Civ/Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_327_334.3d 26/4/2010 14:56 pagina 328
I COMMENTI
presenza di figli minori di età, ché solo gli stessi sono affidabili
a un genitore o ad entrambi.
Viene subito spontaneo l’interrogativo, pertanto,
se la recente rivisitazione normativa
dell’affidamento della prole abbia inciso anche
sull’usufrutto giudiziale.
Merita preliminarmente rilevare, quindi, che l’usufrutto giudiziale, che pur si lega all’affidamento della prole (l. 8.2.2006, n.
54), onde ne costituisca mezzo di sostentamento e di cura, è
previsto da una norma (art. 194, cpv., c.c.), che non è stata
toccata – non saprei dire se consapevolmente, oppure no –
dalle recenti modifiche normative in tema di affidamento,
che hanno profondamente inciso sulle disposizioni racchiuse
negli artt. 155 ss. c.c.(8).
Codesta, nuova, normativa, ridisegna, altresı̀, il profilo del concorso dei genitori alle spese necessarie al mantenimento, alla
cura, all’istruzione e all’educazione dei figli. L’art. 155, cpv., c.c.,
invero, stabilisce che il giudice valuta, prioritariamente, la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori,
non escludendo, ovviamente, che lo stesso decida a quale dei
genitori i figli vadano affidati.
La norma prosegue stabilendo che il giudice fissa, inoltre, «la
misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al
mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli», prendendo atto, ove non siano contrarii all’interesse dei
figli, degli accordi intervenuti tra i genitori.
La norma, affidata all’art. 155, cpv., c.c., stabilisce che il giudice
«Adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole»(9).
Si rammenti, inoltre, che l’art. 155 quinquies c.c. stabilisce ora,
espressamente, il dovere di soccorso dei genitori ai figli maggiorenni non indipendenti economicamente(10).
Si rammenti, infine, che, ai sensi dell’art. 4, cpv., l. n. 54/2006,
le nuove norme sull’affidamento della prole si applicano non
solo al caso di separazione personale dei coniugi, ma, altresı̀, a
quelli di scioglimento, di cessazione degli effetti civili e di nullità del matrimonio, e, inoltre, «ai procedimenti relativi ai figli
di genitori non coniugati».
Orbene, non essendo stata abrogata la norma racchiusa nell’art. 194, cpv., c.c., né potendosi sostenere, all’evidenza, che
essa sia stata implicitamente abrogata dall’intervenuta riforma
delle norme sull’affidamento dei figli minori d’età, reputo che
si possa sostenere che, «in relazione alle necessità della prole e
all’affidamento di essa» (art. 194, cpv., c.c.), il giudice, con le
precisazioni svolte successivamente, possa ancóra oggi costi(8) Al riguardo, v., per tutti, G.F. BASINI, L’affidamento condiviso, in Il
diritto di famiglia, I, t. 2, Famiglia e matrimonio, Trattato diretto da G.
Bonilini e G. Cattaneo, continuato da G. Bonilini, Torino, s. d., ma 2007, 2ª
ed., 1021 ss.
(9) Ampia trattazione, al riguardo, in G.F. BASINI, L’affidamento condiviso,
cit., 1048 ss.
(10) Al riguardo, v., per tutti, G.F. BASINI, L’affidamento condiviso, cit.,
1076 ss.
(11) Sull’oggetto dell’usufrutto, v., infra, par. 5.
(12) V., infra, parr. 3 ss.
(13) Per il rilievo che la costituzione giudiziale dell’usufrutto determina
un’eccezione al principio della parità della quote, v. V. DE PAOLA - A. MACRÌ, Il
nuovo regime patrimoniale della famiglia, Milano, 1978, 214 s. e A. DE
MONTIS, Divisione dei beni della comunione, cit., 998.
V. anche M. GORINI, Commento all’art. 194 c.c., in Cod. famiglia ipertestuale, a
cura di G. Bonilini e M. Confortini, Torino, s.d., ma 2009, 467, la quale sottolinea
come l’usufrutto giudiziale debba essere inquadrato tra i provvedimenti posti a
tutela della prole e rappresenti una deroga al principio della parità, previsto
all’art. 194, 1º co., c.c.
maggio 2010
328
Famiglia, Persone e Successioni 5
tuire, in favore del genitore affidatario, l’usufrutto «su una parte
dei beni spettanti all’altro» genitore(11), sebbene non si possa
negare che l’usufrutto giudiziale, come ha goduto, sino ad oggi,
di scarsissima fortuna applicativa, verosimilmente, non ne godrà in futuro.
Si torna a ripetere, però, che la piena sopravvivenza della norma, che lo governa, rende ancóra sicura la possibilità di giovarsene, nei limitati confini in cui esso è previsto(12), che si deve
ora passare ad esaminare.
3. Scioglimento della comunione, e usufrutto
giudiziale
C
on dubbia collocazione topografica, il potere di costituzione giudiziale dell’usufrutto a favore del genitore affidatario della prole, su una parte dei beni spettanti all’altro
(coniuge e) genitore, è previsto dopo la norma, secondo cui
la divisione dei beni della comunione legale si effettua ripartendo in parti eguali l’attivo e il passivo(13). Prodromo della
divisione, non può che essere lo scioglimento della comunione
legale dei beni, regolata dall’art. 191 c.c.
Si ritiene(14) che
l’azione di costituzione giudiziale
dell’usufrutto possa essere proposta,
solo se sia già intervenuta una causa,
«definitiva o allo stato irrevocabile»,
di scioglimento della comunione legale
dei beni, che sia compatibile, altresı̀,
con la costituzione dell’usufrutto.
Inciso, quest’ultimo, almeno a prima vista, di sicura utilità,
dato che lascia intendere, ad esempio, che, pur sciogliendosi,
la comunione legale, per morte di uno dei coniugi, non ne
consegue, tuttavia, la costituibilità dell’usufrutto(15).
Del resto, già parte della dottrina(16) ha avuto cura di rimarcare che la possibilità di costituire quel diritto si affaccia solo
nei casi in cui si abbia la cessazione della convivenza coniugale, vuoi a ragione della separazione personale dei coniugi,
vuoi a causa della cessazione del loro matrimonio per sentenza(17).
Ipotesi, queste, nelle quali, non solo si scioglie la comunione
legale dei beni, ma diviene attuale l’esigenza di affidamento dei
figli minori di età, che, come si vedrà meglio più avanti, è
indefettibile presupposto della costituzione giudiziale del diritto di usufrutto(18).
(14) Cass., 9.4.1994, n. 3350, cit.
(15) In dottrina, v., particolarmente, F. CORSI, Il regime patrimoniale della
famiglia, I, I rapporti patrimoniali tra coniugi in generale. La comunione
legale, cit., 199, il quale rileva, come l’obbligo di mantenimento dei figli
cessi con la morte dell’obbligato, ed a favore degli stessi subentrino le
regole successorie.
(16) F. CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, I, I rapporti patrimoniali tra coniugi in generale. La comunione legale, cit., 199; G. GABRIELLI, I
rapporti patrimoniali tra coniugi. Corso di diritto civile, cit., 181; F. MASTROPAOLO - P. PITTER, Commento all’art. 194 c.c., cit., 375.
(17) Non manca, però, chi propende per la costituzione del diritto anche
in altri casi, quale quello dello scioglimento della comunione a seguito di
separazione giudiziale dei beni, ex art. 193 c.c.: A. DE MONTIS, Divisione dei
beni della comunione, cit., 999.
Critiche alla tesi restrittiva, sono formulate da L. BARBIERA, La comunione
legale, cit., 527 s. V. anche P. SCHLESINGER, Commento all’art. 194 c.c., cit., 449.
(18) V., infra, par. 6.
u:/LINOTIPO_H/06-wki/Utet_Riviste_cod_Civ/Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_327_334.3d 26/4/2010 14:56 pagina 329
I COMMENTI
4. Segue: la divisione dei beni prima comuni
S
ciolta la comunione legale per le cause sopra indicate, si
può procedere alla divisione dei beni prima comuni. In
relazione ad essa, può altresı̀ porsi l’esigenza di chiedere la
costituzione dell’usufrutto.
Si osserva che, stante la competenza del tribunale per i minorenni(19), non sarà possibile la costituzione di quel diritto, contestualmente alla divisione(20).
Immediata, è la domanda se quella costituzione
presupponga, inderogabilmente, che la divisione
dei beni prima comuni abbia già avuto luogo,
e sia attuale, quindi, l’individuazione dei «beni
spettanti all’altro coniuge», su una parte dei quali,
appunto, costituire il diritto reale di usufrutto.
Alcuni interpreti rispondono affermativamente(21); non di meno, è prevalente l’opinione, che, facendo leva sulla ratio della
norma – che si indirizza a proporre un ulteriore strumento per
far fronte alle necessità della prole –, prospetta la costituibilità
dell’usufrutto su parte dei beni ancóra comuni(22), ma destinati
ad essere attribuiti in proprietà solitaria ad uno dei coniugi
mediante la divisione.
Giova rilevare, che anche la Suprema Corte(23) si è soffermata
su questo interrogativo, sostenendo che la proponibilità dell’azione diretta a costituire il diritto di usufrutto è condizionata
dalla «pendenza» di un procedimento, convenzionale o giudiziale, di divisione.
Inequivoca, infatti, è, secondo la richiamata pronunzia, la formula legislativa, che allude ai «beni spettanti», non già ai «beni
assegnati o attribuiti», che presupporrebbe l’esaurimento del
procedimento divisorio.
La migliore dottrina, peraltro, osserva che, anteriormente alla
divisione, non vi sono beni spettanti all’uno o all’altro coniuge,
quindi non vi sono beni suscettibili di essere gravati da usufrutto a favore dell’uno e a carico dell’altro coniuge; ne discende, che la previsione dell’usufrutto giudiziale nell’àmbito della
norma sulla divisione dei beni della comunione, conferma la
(19) In questo senso, invero, è l’art. 38 disp. att. c.c., ai sensi del quale,
sono di competenza del tribunale per i minorenni, anche i provvedimenti
contemplati dall’art. 194, 2º co., c.c.
La norma è stata vivacemente criticata; per tutti, v. C. GRASSETTI, Commento
all’art. 155 c.c., in Comm. Carraro, Oppo e Trabucchi, I, 1, Padova, 1977, 298. V.
anche le osservazioni di F. MASTROPAOLO - P. PITTER, Commento all’art. 194 c.c., cit.,
374.
(20) Cfr. F. CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, I, I rapporti patrimoniali tra coniugi in generale. La comunione legale, cit., 200 e A. DE
MONTIS, Divisione dei beni della comunione, cit., 999.
Si osserva, fra l’altro, che, ove la divisione sia contenziosa, la competenza è
del tribunale ordinario, sicché potrà aversi «un procedimento nel procedimento»: M. FINOCCHIARO, Commento all’art. 194 c.c., cit., 1185.
In tema, v. anche M. GORINI, Commento all’art. 194 c.c., cit., 468, la quale ben
mette in luce il panorama dottrinale e giurisprudenziale sulla natura contenziosa, o di volontaria giurisdizione, del procedimento diretto alla costituzione dell’usufrutto, e sulla natura di decreto, o di sentenza, del provvedimento, con il
quale il procedimento si conclude. Al riguardo, v. anche P. PENNISI, Il c.d. usufrutto giudiziale, cit., 732 ss.
(21) Si vedano le osservazioni di L. BARBIERA, La comunione legale, cit., 527.
(22) Cosı̀, soprattutto, P. SCHLESINGER, Commento all’art. 194 c.c., cit., 449.
V. anche G. CIAN, Introduzione sui presupposti storici e sui caratteri generali del
diritto di famiglia riformato, cit., 60; G. GABRIELLI, I rapporti patrimoniali tra
coniugi. Corso di diritto civile, cit., 181; T. AULETTA, Il diritto di famiglia, cit., 182.
(23) Cass., 9.4.1994, n. 3350, cit.
(24) C.M. BIANCA, Diritto civile, VI, La proprietà, cit., 624.
(25) F. CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, I, I rapporti patrimoniali tra coniugi in generale. La comunione legale, cit., 200.
scelta legislativa di inserire la costituzione di quel diritto tra le
vicende della divisione(24).
5. L’oggetto dell’usufrutto giudiziale
La norma, affidata all’art. 194, cpv., c.c., è chiara
nell’individuare, quale oggetto del diritto
di usufrutto, una parte dei beni spettanti
all’altro coniuge.
Beni, questi, già facenti parte della comunione legale(25).
La Suprema Corte, nella pronunzia più volte richiamata, conferma, correttamente, che solo un bene, o più beni determinati,
o un’universitas – che non esauriscano, però, la quota da attribuire al coniuge non affidatario –, possano essere dedotti a
oggetto dell’usufrutto, e giustifica la limitazione quantitativa,
chiaramente posta dalla legge, con l’esigenza di effettuare un
bilanciamento di interessi, che implica l’indispensabile considerazione, altresı̀, del diritto di proprietà, che permane in capo
al coniuge onerato(26).
Non si manca di sottolineare(27), peraltro, che l’usufrutto non
dovrà essere costituito al solo scopo di provvedere all’abitazione della prole(28) – al cui riguardo, del resto, è oggi specificamente destinata la disposizione dell’art. 155 quater c.c.(29) –,
ma per far fronte a qualsivoglia necessità, sicché potrà essere
accóncio l’usufrutto, che cada su di un bene fruttifero, onde
siano beneficati i figli delle relative rendite.
Si osserva, esattamente, che usufrutto giudiziale e assegnazione della casa familiare possono essere complementarı̂(30).
6. L’affidamento della prole quale presupposto di
nascita dell’usufrutto
L
o sfondo normativo del cosı̀ detto usufrutto giudiziale –
vale a dire gli artt. 194, cpv., c.c. e 38 disp. att. c.c. – rende
sicuro, peraltro, che il giudice possa procedere alla sua costituzione, solo in presenza di figli minori di età, ché solo gli stessi
sono affidabili(31).
Come rileva la Suprema Corte(32), il riferimento, operato dall’art.
194, cpv., c.c., all’affidamento della prole, deve intendersi in senso
Quanto al diritto di usufrutto di quota, v. G. GABRIELLI, I rapporti patrimoniali
tra coniugi. Corso di diritto civile, cit., 179 s.
(26) Cosı̀, Cass., 9.4.1994, n. 3350, cit.
(27) P. SCHLESINGER, Commento all’art. 194 c.c., cit., 449; F. MASTROPAOLO - P.
PITTER, Commento all’art. 194 c.c., cit., 373.
(28) Nel senso, però, che può essere accolta la domanda della madre
separata, affidataria dei figli minori, e comproprietaria, insieme con il
marito, dell’appartamento nel quale vive con la prole, di costituzione in
proprio favore, ai sensi dell’art. 194, cpv., c.c., dell’usufrutto sulla quota di
tale bene appartenente al coniuge, qualora ciò si riveli necessario per
garantire alla prole il diritto di vivere in modo indisturbato in un’abitazione idonea a favorirne la crescita equilibrata, considerando che tale diritto
non potrebbe esserle adeguatamente assicurato per mezzo dell’ospitalità
offerta dai nonni materni, dato che, in tal caso, i minori non avrebbero la
sicurezza e la garanzia di vivere stabilmente nella propria abitazione, v.
Trib. min. Roma, 25.6.1984, cit.
In dottrina, v. M. PALADINI, Lo scioglimento della comunione legale e la divisione dei beni, cit., 455, il quale ben sottolinea che le caratteristiche dell’istituto
in esame hanno comportato, di fatto, la sussistenza, in sede applicativa, del
rischio della sovrapposizione con il diverso istituto dell’assegnazione della casa
familiare.
(29) V., diffusamente, G.F. BASINI, L’affidamento condiviso, cit., 1060 ss.
(30) F. MASTROPAOLO - P. PITTER, Commento all’art. 194 c.c., cit., 376.
(31) Per tutti, v. G. CATTANEO, Corso di diritto civile, cit., 98 e F. MASTROPAOLO - P. PITTER, Commento all’art. 194 c.c., cit., 375.
Forti critiche alla dottrina che «sopravaluta il significato del richiamo all’affidamento della prole», sono mosse da L. BARBIERA, La comunione legale, cit., 527.
(32) Cass., 9.4.1994, n. 3350, cit.
Famiglia, Persone e Successioni 5
329
maggio 2010
u:/LINOTIPO_H/06-wki/Utet_Riviste_cod_Civ/Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_327_334.3d 26/4/2010 14:56 pagina 330
I COMMENTI
tecnico-giuridico, quale si ricava, oggi, dagli artt. 155 ss. c.c.(33).
Riferimento normativo, questo, che consente sia di individuare il
soggetto legittimato a chiedere la costituzione dell’usufrutto – il
genitore affidatario, appunto(34) –, sia di condizionare la costituzione di quel diritto alla presenza di figli minori di età, in relazione
ai quali soltanto, invero, è attuabile l’affidamento.
La sentenza, che costituisce l’usufrutto, può essere pronunziata
solo nel caso in cui il giudice accerti che il costituendo diritto
reale è idoneo a meglio assicurare il soddisfacimento delle esigenze della prole(35). Sul punto, si soffermano ampiamente
giurisprudenza e dottrina(36).
Merita ricordare, che gli interpreti si dànno carico di tratteggiare il complesso di strumenti giuridici approntati dal nostro
ordinamento per soddisfare le esigenze della prole(37).
L’obbligo dei genitori di mantenere, curare, istruire, educare la
prole, posto limpidamente dall’art. 30 Cost., può attuarsi variamente; i molteplici strumenti adottabili tendono a rendere effettiva la realizzazione degli interessi, morali e materiali, della
prole sino al raggiungimento della loro indipendenza economica, che, com’è noto, non coincide, necessariamente, con
l’acquisto della maggiore età(38).
Quell’obbligo trova la sua fondamentale espressione codicistica negli artt. 155 ss. c.c.(39); inoltre, trova, nell’art. 155, 4º co.,
c.c., una modalità attuativa, e, appunto, ne conosce un’ulteriore, per mezzo della norma contemplata dall’art. 194, cpv., c.c.
È stato osservato, peraltro, che è pienamente giustificata la
tendenza legislativa, secondo cui si prevedono situazioni di
diritto reale finalizzate alle esigenze di natura familiare(40); disegno, questo, che conosce un tratto peculiare, appunto, nella
previsione dell’art. 194, cpv., c.c.(41).
nostante la quiescenza, o lo scioglimento, del rapporto matrimoniale, permane in capo ai coniugi in quanto genitori. Modo
d’essere, che può concorrere, altresı̀, ad illustrare l’ampia previsione normativa dell’art. 155 c.c.
Occorre anche ricordare, però, che parte della dottrina(42) tende a rilevare, dell’usufrutto giudiziale, la natura di misura cautelare, che presuppone che il coniuge non affidatario si sottragga al proprio obbligo di mantenimento dei figli(43).
A mio avviso, non v’è dubbio che, indirettamente, l’istituto consegua anche questo risultato, dato che dota il genitore affidatario
della titolarità di un diritto reale, risparmiandogli la snervante
attività di cooperazione con il genitore non affidatario; non di
meno, mi pare che la finalità dell’istituto non possa limitarsi a
codesto risultato(44), salvo ipotizzare l’incapacità dell’ordinamento giuridico di assicurare il rispetto di quell’obbligo, giusta le varie
norme deputate alla sua salvaguardia, ivi compresa quella prevista dall’art. 570 c.p. (art. 12 sexies, l. n. 898/1970)(45).
7. L’usufrutto giudiziale come modo d’essere del
mantenimento e, in genere, della cura dei figli
minori d’età
S
Il giudice, invero, in relazione alle medesime esigenze, può
costituire l’usufrutto a favore del genitore affidatario, sicché
mi pare che l’istituto in esame si presenti come un modo d’essere dell’obbligo di mantenimento, cura e istruzione, che, no-
e è vero, come a me sembra, che l’usufrutto giudiziale
possa essere costituito a favore del genitore affidatario come modo d’essere – in concorso, o in alternativa, ad altri –
dell’obbligo di mantenimento e di cura della prole, ne dovrebbe discendere il suo carattere generale. Vale a dire: il legislatore
dovrebbe contemplarlo come possibilità a favore di qualsivoglia genitore affidatario. Ben potrebbe fare alla bisogna, inoltre,
in ordine alle esigenze dei figli sı̀ maggiori di età, ma che non
abbiano ancóra raggiunto l’indipendenza economica, e che
non vi siano prossimi, i quali sono oggi destinatarii delle provvidenze contemplate dall’art. 155 quinquies c.c.(46).
Nel senso, del resto, che il legislatore dovrebbe contemplare
l’usufrutto giudiziale quale possibilità a favore di qualsivoglia
genitore affidatario, opinano alcuni interpreti(47).
Non manca chi, peraltro, propende per l’applicabilità della norma, racchiusa nell’art. 194, cpv., c.c., anche all’ipotesi, non
contemplata espressamente, di quiescenza o cessazione del
vincolo matrimoniale senza scioglimento della comunione,
perché è operante tra i coniugi il regime della separazione
(33) Al riguardo, v., per tutti, G.F. BASINI, L’affidamento condiviso, cit.,
1021 ss.
(34) Si vedano F. MASTROPAOLO - P. PITTER, Commento all’art. 194 c.c., cit.,
374. Sul problema della legittimazione ad agire, v. anche G. GABRIELLI, I
rapporti patrimoniali tra coniugi. Corso di diritto civile, cit., 180. Cfr.,
inoltre, M. FINOCCHIARO, op. ult. cit., 1185 e G. GENNARI, Lo scioglimento
della comunione, cit., 419.
(35) Su codesta valutazione di opportunità da parte del giudice, cfr. A.
ATTARDI, Aspetti processuali del nuovo diritto di famiglia, cit., 996 e G.
GABRIELLI, I rapporti patrimoniali tra coniugi. Corso di diritto civile, cit.,
180. V. anche F. MASTROPAOLO - P. PITTER, Commento all’art. 194 c.c., cit.,
374.
(36) Per tutti, v. F. CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, I, I rapporti
patrimoniali tra coniugi in generale. La comunione legale, cit., 199 ss. e F.
MASTROPAOLO - P. PITTER, Commento all’art. 194 c.c., passim.
Quanto alla giurisprudenza, v., supra, nt. 3.
(37) In generale, v., in dottrina, fra tanti, C.M. BIANCA, Diritto civile, II, La
famiglia. Le successioni, Milano, 2005, 4ª ed., 183 ss. e 236 ss.
Cfr. anche T. AULETTA, Il diritto di famiglia, cit., 235 ss. e G. B, Manuale di
diritto di famiglia, cit., spec. 189 ss. e 224 ss.
(38) Sul punto, anche la giurisprudenza è, oggi, pacifica; per adeguati
riferimenti, si veda M. BASILE, Commento all’art. 147 c.c., in Comm. Cendon, I, Torino, 1991, 398 s.
Si rammenti, peraltro, che dispone ora, inequivocabilmente, l’art. 155 quinquies c.c., al qual riguardo, v., supra, nt. 10.
(39) In merito al superamento, attuato dalla normativa ora affidata ai
novellati artt. 155 ss. c.c., anche di quella racchiusa nell’art. 6 della l. n.
898/1970, v. G.F. BASINI, L’affidamento condiviso, cit., 1023.
(40) F. MASTROPAOLO - P. PITTER, Commento all’art. 194 c.c., cit., 372.
V. anche, però, sulla natura del diritto di abitazione nella casa familiare, G.F.
BASINI, L’affidamento condiviso, cit., 1060 ss.
(41) F. MASTROPAOLO - P. PITTER, Commento all’art. 194 c.c., cit., 372 ss., ivi,
richiami.
(42) T. AULETTA, Il diritto di famiglia, cit., 182.
(43) Cosı̀, T. AULETTA, Il diritto di famiglia, cit., 182.
Sulla funzione di garanzia dell’adempimento di un obbligo, v. anche F. CORSI,
Il regime patrimoniale della famiglia, I, I rapporti patrimoniali tra coniugi in
generale. La comunione legale, cit., 201 e F. MASTROPAOLO - P. PITTER, Commento
all’art. 194 c.c., cit., 375.
(44) V. anche T. DE FUSCO, Commento, cit., 260.
(45) Al riguardo, v. P. ZAGNONI BONILINI, Violazione degli obblighi di assistenza familiare, in Tratt. dir. penale, Parte speciale, VI, dir. da A. Cadoppi,
S. Canestrari, A. Manna, M. Papa, Torino, s. d., ma 2009, 501 ss. e P. ZAGNONI
BONILINI, La tutela penale del coniuge divorziato e dei figli in seguito alla
pronunzia di divorzio. La nuova disciplina in caso di affidamento condiviso, in Il diritto di famiglia, I, t. 2, Famiglia e matrimonio, Trattato diretto
da G. Bonilini e G. Cattaneo, continuato da G. Bonilini, Torino, s. d., ma
2007, 2ª ed., 898 ss.
(46) Per l’esame della norma racchiusa nell’art. 155 quinquies c.c., v.,
almeno, G.F. BASINI, L’affidamento condiviso, cit., 1076 ss.
(47) V., ad esempio, L. BARBIERA, La comunione legale, cit., 527 s.
In giurisprudenza, v. Trib. min. Roma, 25.6.1984, cit.
In definitiva, anche la previsione della
costituzione giudiziale dell’usufrutto, su una
parte dei beni del genitore non affidatario della
prole, mira a configurare uno strumento idoneo
a realizzare le necessità della prole affidata.
maggio 2010
330
Famiglia, Persone e Successioni 5
u:/LINOTIPO_H/06-wki/Utet_Riviste_cod_Civ/Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_327_334.3d 26/4/2010 14:56 pagina 331
I COMMENTI
dei beni, ché sussistono, anche in questa ipotesi, le medesime
esigenze di tutela della prole presenti nella fattispecie espressamente disciplinata dalla norma in esame. Diversamente opinando, infatti, occorrerebbe rilevare l’illegittimità costituzionale di codesta norma(48).
Si rammenti, che anche la giurisprudenza del merito, nelle rare
occasioni in cui si è pronunziata, ha rilevato che la norma,
racchiusa nell’art. 194, cpv., c.c., non ha carattere eccezionale,
ed è applicabile ogni qual volta si renda necessario, per assicurare alla prole minorenne, e al coniuge affidatario, migliori
condizioni materiali, morali e psicologiche di vita, anche allo
scopo di attenuare il più possibile il danno incombente sui figli
per la disgregazione del nucleo domestico di appartenenza(49).
A ben vedere, però, a me pare che la norma, racchiusa nell’art.
194, cpv., c.c., confini l’usufrutto giudiziale, seppur impropriamente, ad alcune ipotesi soltanto(50).
La sede topografica della disposizione che lo contempla, e la
serie di presupposti, limpidamente enunziati dal legislatore,
che vincolano il giudice nella costituzione del diritto di usufrutto, invero, ne fanno un istituto eccezionalmente attuabile(51).
La Suprema Corte(52), del resto, non ha mancato di richiamare,
al riguardo, l’art. 14 disp. prel., statuendo che l’art. 194, cpv.,
c.c. non può applicarsi oltre i casi, e i tempi, in esso considerati.
Fondamentale, è la circostanza che l’istituto sia contemplato in
abbinamento alla divisione dei beni della comunione legale,
che porta a riconoscere – in concorso con altri segni: si pensi
all’espressione «su una parte dei beni spettanti all’altro coniuge», che postula un preliminare procedimento divisorio – che
non si potrà procedere alla costituzione giudiziale dell’usufrutto, allorquando i coniugi vivessero in regime di separazione dei
beni al momento dello scioglimento, o della cessazione degli
effetti civili, o della quiescenza, del rapporto coniugale, che,
appunto, costituiscono le sole ipotesi capaci di comportare
l’affidamento dei figli minori d’età.
A ben vedere, però, occorre anche osservare che, giusta l’art. 4
della l. n. 54/2006, le norme sull’affidamento della prole si
applicano, altresı̀, in caso di annullamento del matrimonio.
Orbene, dato che esso comporta, ex art. 191 c.c., anche lo scioglimento della comunione legale dei beni tra i coniugi, si può
ritenere che l’art. 194, cpv., c.c. debba applicarsi, inoltre, in
ipotesi di affidamento dei figli minori di età di genitori, il cui
matrimonio sia stato annullato.
Sembra, invece, che cosı̀ non possa essere, in relazione all’affidamento della prole di genitori non coniugati, in relazione ai
quali, è sı̀ vero che si applicano oggi, per espressa previsione
normativa (art. 4, l. n. 54/2006), le norme sull’affidamento della
prole, ma è anche vero che, riguardo agli stessi, non può insorgere la comunione legale dei beni.
All’evidenza, il mancato coordinamento delle norme previgenti
con quelle introdotte dalla Novella del 2006, realizza un’ingiustificata, irrazionale, disparità di trattamento.
Si può rilevare, in definitiva, che è certo inopportuno ancorare
la costituzione del diritto in esame alla sussistenza di una fattispecie complessa, quale emerge dall’art. 194, cpv., c.c., ma mi
pare indubbio che, secondo la norma richiamata, il giudice
competente, in assenza dei presupposti dalla medesima delineati, non possa correttamente procedere alla costituzione del
diritto reale in esame.
Certo, sarebbe stato conveniente configurare, legislativamente,
l’usufrutto giudiziale in termini generali, vale a dire come generale
modalità attuativa dell’obbligo di mantenimento e di cura dei figli
minori di età affidati ad uno dei genitori, ma è altrettanto sicuro,
che i segni normativi vigenti depongono, inequivocabilmente, per
la limitazione del suo àmbito applicativo. Appare anche evidente,
al riguardo, che potrebbe oggi essere investita, della questione di
costituzionalità della norma in esame, nella parte in cui determina una disparità di trattamento, la Corte costituzionale.
Giova sottolineare, non di meno, che, a favore della costituibilità
limitata di quel diritto, stante la norma vigente, milita, altresı̀, la
circostanza che, se è vero che il diritto di usufrutto giudiziale può
rivelarsi utile per le esigenze della prole, è anche sicuro, però, che
essa va valutata in relazione a chi, coattivamente, viene a conoscere la qualità, anziché di proprietario pieno, di nudo proprietario di una parte dei beni già oggetto di comunione legale.
Si rammenti, peraltro, che non si deve trascurare di considerare
che il diritto in esame potrebbe presentare, in concreto, un
impaccio, per il titolare della proprietà, di lunga data, ove fosse
costituito a fronte di prole in tenera età.
(48) A. LEPRE, Profili problematici dell’usufrutto giudiziale ex art. 194, 2º
co., c.c., cit., 490.
Nel senso che l’usufrutto giudiziale può essere costituito, altresı̀, nell’ipotesi
in cui i coniugi siano in regime di separazione dei beni, v. anche A. MORA, Il
contratto di divisione, Milano, 1995, 188 ss.
(49) Cosı̀, Trib. min. Catania, 29.6.1992, cit., e Trib. min. Roma, 25.6.1984, cit.
(50) Nel medesimo senso, v., fra gli altri, M. PALADINI, Lo scioglimento
della comunione legale e la divisione dei beni, cit., 454 ss.
(51) Cfr. G. GABRIELLI, I rapporti patrimoniali tra coniugi. Corso di diritto
civile, cit., 180 e F. MASTROPAOLO - P. PITTER, Commento all’art. 194 c.c., passim.
(52) Cass., 9.4.1994, n. 3350, cit.
(53) Sull’opportunità della sua trascrizione, v. F. CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, I, I rapporti patrimoniali tra coniugi in generale. La
comunione legale, cit., 201 e M. BASILE, Commento all’art. 194 c.c., in
Comm. Cendon, I, Torino, 1991, 491.
V., inoltre, G. G, I rapporti patrimoniali tra coniugi. Corso di diritto civile, cit.,
182 s. e F. MASTROPAOLO - P. PITTER, Commento all’art. 194 c.c., cit., 374.
Nel senso che, ove oggetto dell’usufrutto giudiziale siano immobili o mobili
iscritti in pubblici registri, occorre procedere, al fine della opponibilità ai terzi,
alla trascrizione del relativo decreto, v. anche A. VENDITTI – M. GORINI, Lo scioglimento, cit., 321, nt. 176.
In tema, v., inoltre, P. PENNISI, Il c.d. usufrutto giudiziale, cit., 729 ss., il quale si
occupa, altresı̀, del trattamento fiscale (ivi, 731 s.).
(54) Nel senso, invece, che si tratta di decreto motivato, v. P. PENNISI, Il c.d.
usufrutto giudiziale, cit., 739.
L’usufrutto – in quanto diritto reale, che comporta
la facoltà di godimento di un bene in capo ad un
soggetto diverso dal suo proprietario – comporta,
di necessità, un forte affievolimento dell’interesse
dei potenziali acquirenti verso il bene sul quale
cade, determinando un freno alla sua
commerciabilità, vóto sicuro del nostro sistema.
Non si può trascurare di considerare, infine, che il vincolo, nel
caso di specie, non è già eletto dal proprietario del bene, sul quale
cade, ma, in definitiva, il più delle volte, è subı̀to dallo stesso
soggetto. Il che rafforza il rilievo, che il giudice non possa fare
ricorso alla norma, posta dall’art. 194, cpv., c.c., se non nei ristretti
confini della fattispecie indicata nella medesima.
8. Usufrutto, usufrutto legale, usufrutto giudiziale
I
l titolo costitutivo del diritto di usufrutto(53), dunque, è, nel
caso in esame, una sentenza(54). Per questa ragione, esso è
denominato giudiziale.
Famiglia, Persone e Successioni 5
331
maggio 2010
u:/LINOTIPO_H/06-wki/Utet_Riviste_cod_Civ/Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_327_334.3d 26/4/2010 14:56 pagina 332
I COMMENTI
Allo stato, l’usufrutto giudiziale costituisce la sola ipotesi(55),
in cui la fonte del diritto di usufrutto è una pronunzia giudiziale, ove si escluda, correttamente, la sentenza, che costituisca il diritto ex art. 2932 c.c., data la diversità della fattispecie, in presenza della quale, quest’ultima norma può trovare applicazione. Fattispecie, invero, quest’ultima, che trova
forza, comunque, in un atto della volontà, seppur non adempiuto(56).
Codesto diritto viene costituito, con sentenza,
in capo al coniuge, o ex-coniuge, affidatario
della prole, se, ed in quanto, possa rivelarsi idonea
modalità di soddisfacimento delle necessità
della stessa.
In quanto modo d’essere del mantenimento e della cura dei
figli affidati, il titolare del diritto di usufrutto trova un vincolo di
destinazione: anzitutto, quel soggetto dovrà utilizzare il bene, a
fini abitativi, in concorso con la prole; ove fruttifero, i suoi
redditi andranno destinati a sopperire alle necessità – di educazione, istruzione, mantenimento, cura – della prole(57).
Non v’è dubbio che, in quanto usufrutto, il suo titolare abbia
sia il diritto all’uso, sia il diritto al reddito; non di meno, essi
sono finalizzati.
In quanto usufrutto, ha sicuri i tratti del diritto regolato dagli
artt. 978 ss. c.c., quindi anche quello dell’inalterabilità della
destinazione economica del bene(58).
Va sottolineato, però, come, rispetto all’usufrutto, per cosı̀ dire,
ordinario, vi sia un quid pluris: la funzionalizzazione dell’uso,
e/o del reddito ricavato, al soddisfacimento dei bisogni della
prole affidata(59).
Il che, con immediatezza, lo avvicina all’usufrutto legale, che
compete ai genitori di figli minori di età, ex artt. 324 ss. c.c.(60),
pur non potendosi confondere con esso.
Nonostante non sia ignota, in dottrina, la tesi, che ravvisa, nell’istituto in esame, una figura di usufrutto legale(61), a me pare
che ne sia errata l’assimilazione piena(62).
Non è privo di rilievo, anzitutto, che sia scomparso, nel testo
definitivo dell’art. 194, cpv., c.c., l’aggettivo «legale»(63).
Assorbente è, soprattutto, la circostanza che l’usufrutto in esame non nasca ogni qual volta risulti integrata la fattispecie di
legge, ma, appunto, solo quando il giudice, nell’esercizio del
suo potere decisionale, ne pronunzi la costituzione, che porta a
(55) Nel medesimo senso, v. P. PENNISI, Il c.d. usufrutto giudiziale, cit., 715 ss.
(56) Cfr. G. PUGLIESE, Usufrutto, uso e abitazione, in Tratt. Vassalli, Torino,
1972, 2ª ed., 255 ss., spec. 258.
(57) Cfr. T. AULETTA, Il diritto di famiglia, cit., 182.
(58) Nel medesimo senso, v. A. VENDITTI - M. GORINI, Lo scioglimento, cit.,
322.
(59) Che l’usufrutto giudiziale non sia perfettamente sovrapponibile all’usufrutto ordinario, regolato dagli artt. 978 ss. c.c., concordemente ritiene
la dottrina. Fra gli altri, v. F. CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, I, I
rapporti patrimoniali tra coniugi in generale. La comunione legale, cit., 201
e A. DE MONTIS, Divisione dei beni della comunione, cit., 999.
(60) V., di recente, G.F. BASINI, L’usufrutto legale dei genitori, in Il diritto di
famiglia, II, Il regime patrimoniale della famiglia, Trattato diretto da G.
Bonilini e G. Cattaneo, continuato da G. Bonilini, Torino, s. d., ma 2007, 2ª
ed., 561 ss.
(61) L. BARBIERA, La comunione legale, cit., 528.
(62) Cosı̀, anche F. CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, I, I rapporti patrimoniali tra coniugi in generale. La comunione legale, cit., 201.
(63) Cfr. F. CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, I, I rapporti patrimoniali tra coniugi in generale. La comunione legale, cit., 201, nt. 119 e
M. FINOCCHIARO, Commento all’art. 194 c.c., cit., 1184.
(64) V., soprattutto, L. BIGLIAZZI GERI, Usufrutto, uso e abitazione, cit., 52,
nt. 58, e 96.
maggio 2010
332
Famiglia, Persone e Successioni 5
dover rimarcare una non lieve differenza con l’usufrutto disciplinato dagli artt. 324 ss. c.c.
Non di meno, come già è stato sottolineato in dottrina(64), i
suoi tratti morfologici sono tali da proporre un accostamento
all’usufrutto legale: come in quest’ultimo, il titolare del diritto
conosce un vincolo: la destinazione dei frutti al soddisfacimento dei bisogni di determinati soggetti. Nell’usufrutto legale, detti bisogni non sono già soltanto quelli del minore-nudo proprietario, ma dell’intera famiglia(65), e di questo usufrutto, il
giudice terrà conto nel provvedimento di affidamento della
prole (cfr. art. 155, 4º co., c.c.).
Nell’usufrutto giudiziale, invece, dei bisogni sono
portatori i figli affidati al coniuge-genitore
usufruttuario.
Riprendendo una felice sintesi, l’usufrutto legale non ha tanto
natura di diritto individuale di godimento, bensı̀ «di funzione
familiare e più in generale di ufficio di diritto familiare»(66).
Anche l’usufrutto giudiziale – in relazione al quale si è fatta
emergere l’atipicità(67), e se ne sono segnalate le caratteristiche
originali(68) – viene costituito per l’assolvimento di una funzione familiare, mostrando tratti di apparentamento con l’usufrutto legale dei genitori.
L’usufrutto giudiziale ha anche profili di comunanza con l’usufrutto ordinario — nel senso che, in quanto usufrutto, partecipa
della sua essenza –, divergendone(69), però, grandemente, nella
disciplina.
Permane, non di meno, un istituto a sé stante, con una sua
fisionomia, dato che «si caratterizza per la destinazione prioritaria dei frutti ai bisogni della famiglia, qui ristretta al coniuge
affidatario e ai figli affidati»(70).
Occorre rilevare, inoltre, che esso è privo di una sua, specifica,
disciplina. In suo soccorso, però, potranno chiamarsi, a volta a
volta, le norme poste a disciplina delle altre specie di usufrutto
contemplate dall’ordinamento giuridico, che appaiano più
adeguate(71).
In quanto vicino all’usufrutto legale dei genitori, ad esempio,
non si manca di sostenere l’incedibilità, altresı̀, dell’usufrutto
giudiziale(72). Ben si osserva, invero, che la funzione dell’usufrutto giudiziale giustifica l’applicazione analogica delle norme,
che prevedono l’incedibilità e l’inespropriabilità dell’usufrutto
legale(73).
Cfr., altresı̀, G. GABRIELLI, I rapporti patrimoniali tra coniugi. Corso di diritto
civile, cit., 180 ss. e T. AULETTA, Il diritto di famiglia, cit., 182.
(65) Sull’usufrutto legale, v., almeno, G.F. BASINI, L’usufrutto legale dei
genitori, cit., 561 ss.; A.C. PELOSI, Usufrutto legale dei genitori, in Noviss.
Dig. It., App., VII, Torino, 1987, 1047 ss. e A. DE CUPIS, Usufrutto (dir. vig.),
in Enc. dir., XLV, Milano, 1992, 1111 ss., spec. 1117.
(66) A.C. PELOSI, Usufrutto legale dei genitori, cit., 1048. V. anche A. DE
CUPIS, Usufrutto (dir. vig.), 1117.
(67) Cfr. E. VITALI, Commentario al diritto delle persone e della famiglia,
Milano, 1990, cit., 662.
(68) F. MASTROPAOLO - P. PITTER, Commento all’art. 194 c.c., cit., 372.
(69) Cfr. G. GABRIELLI, I rapporti patrimoniali tra coniugi. Corso di diritto
civile, cit., 182 e L. BIGLIAZZI GERI, op. cit., 96.
(70) C.M. BIANCA, Diritto civile, VI, La proprietà, cit., 623.
(71) Nel senso che è discussa la riconducibilità dell’usufrutto giudiziale
alla disciplina dell’usufrutto, per cosı̀ dire, ordinario, v. R. CATERINA, Usufrutto, uso, abitazione, superficie, in Tratt. Sacco, s. d., ma 2009, 50.
(72) Cosı̀, F. CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, I, I rapporti
patrimoniali tra coniugi in generale. La comunione legale, cit., 201 e T.
AULETTA, Il diritto di famiglia, cit., 182.
V., inoltre, A. VENDITTI - M. GORINI, Lo scioglimento, cit., 323.
(73) C.M. BIANCA, Diritto civile, VI, La proprietà, cit., 624.
u:/LINOTIPO_H/06-wki/Utet_Riviste_cod_Civ/Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_327_334.3d 26/4/2010 14:56 pagina 333
I COMMENTI
Si esclude, inoltre, che il coniuge affidatario possa rinunziare al
diritto, senza un nuovo provvedimento del giudice(74).
Si ritiene, infine, che il coniuge sia dispensato dal prestare idonea garanzia(75).
9. La durata dell’usufrutto giudiziale
L
’art. 194, cpv., c.c. tace riguardo alla durata dell’usufrutto
giudiziale, né essa può ricavarsi, con mero automatismo,
dall’accostamento all’usufrutto legale, che, com’è noto, si estingue al compimento della maggiore età dei figli, o al momento
in cui gli stessi divengano, per matrimonio, emancipati (artt. 84
e 390 c.c.).
Che possa sostenersi, anche riguardo all’usufrutto
giudiziale, che si tratta di diritto ad tempus,
nessuno nega.
In dottrina, si trova sostenuta sia la tesi, secondo cui l’usufrutto
giudiziale cessa al raggiungimento della maggiore età della prole(76), sia quella, secondo cui esso non può che estinguersi al
raggiungimento, da parte dei figli affidati, dell’autosufficienza
economica(77), che non coincide, necessariamente, con il momento di acquisto della maggiore età.
Efficacemente, si è osservato che, in ragione della funzione
dell’istituto, la durata dell’usufrutto giudiziale è commisurata
alla durata dell’obbligo di mantenimento del genitore non affidatario(78).
Si reputa, inoltre, esattamente, che anche la morte del figlio
prima del raggiungimento della maggiore età (o dell’autosufficienza economica), costituisca causa di estinzione del diritto(79).
Analogamente dicasi per il venir meno, in qualsiasi tempo,
delle necessità del figlio(80); ad esempio, perché questi abbia
ricevuto una donazione, nel qual caso, dovrebbe potersi procedere alla revisione delle disposizioni date nel provvedimento
costitutivo dell’usufrutto(81).
La Suprema Corte, nella decisione già più volte richiamata(82),
è giunta alla conclusione, secondo cui
l’usufrutto giudiziale si estingue al
raggiungimento della maggiore età della prole, in
base a considerazioni sia di ordine testuale, sia di
ordine sistematico.
Quanto alle considerazioni di ordine sistematico, giudicate determinanti dalla sentenza richiamata, esse ruotano intorno alla
circostanza che è competente, per la costituzione dell’usufrutto, il tribunale per i minorenni, come è espressamente previsto
dall’art. 38, primo comma, disp. att. c.c. Attribuzione di competenza, che, per i giudici di legittimità, appare razionalmente
giustificata, in quanto connessa alla particolare specializzazione del giudice minorile. Nel caso in cui si ammetta, però, osserva sempre la Suprema Corte, che il provvedimento di costituzione dell’usufrutto conserva efficacia oltre il compimento
della maggiore età della prole, dovrebbe riconoscersi che il
giudice dell’eventuale, relativa, controversia, non potrebbe
che essere il tribunale per i minorenni, senza che permanga,
però, in tale ipotesi, alcuna connessione tra specializzazione
del giudice e interessi coinvolti in giudizio, di cui ora sarebbero
portatori soggetti non più minori di età.
L’argomentazione è incalzante, pur non apparendo, a mio avviso, assorbente. Il Supremo Collegio, peraltro, manca di porsi
l’interrogativo sulla sorte del diritto di usufrutto costituito a
fronte dell’affidamento di più figli in minore età; ipotesi, questa, certo non ignota all’esperienza.
Si potrebbe, a prima vista, verbalizzare la regola, secondo cui,
ove siano più i figli, in relazione alle esigenze dei quali sia stato
costituito l’usufrutto, esso si estingue con il compimento della
maggiore età dell’ultimo nato(83). Del resto, anche l’art. 171,
cpv., c.c. prevede, riguardo al fondo patrimoniale, che esso dura
fino al compimento della maggiore età dell’ultimo figlio(84).
Non si può trascurare di considerare, però, che, se l’usufrutto
può essere stato valutato adeguato a fronte di più figli minori
affidati, è possibile che divenga sproporzionato, a mano a mano che gli stessi raggiungano la maggiore età, rimanendo in vita
rispetto alle esigenze di un minor numero di soggetti. Problema, questo, che, intuitivamente, si scioglie, ove si ammetta che
il provvedimento di costituzione del diritto possa essere, a volta
a volta, oggetto di revisione da parte del giudice(85).
10. Segue: la revisione della sentenza costitutiva
dell’usufrutto
I
Quanto alle prime, se è vero, come si è accertato, che la costituzione del diritto postula l’affidamento dei minori di età ad
uno dei genitori, il medesimo affidamento non può che cessare
al raggiungimento, da parte degli stessi figli, della maggiore età,
il che fa venir meno la sussistenza di uno degli essenziali presupposti, sui quali si fonda la sentenza costitutiva del diritto in
esame.
l profilo della durata dell’usufrutto giudiziale, meglio di altri
evidenzia che una più corretta, attenta, previsione legislativa, avrebbe potuto valorizzare le potenzialità di questo istituto.
Va riconosciuto, però, che l’art. 194, cpv., c.c., non è che una
delle numerose norme, che denunziano assenza di ponderazione legislativa, e difetto di coordinamento.
Cercando di sciogliere l’interrogativo sulla durata del diritto di
usufrutto giudiziale, occorre ribadire che è indubbiamente forte l’osservazione, secondo cui le esigenze, che codesto istituto
può soddisfare, raramente cessano al raggiungimento della
maggiore età della prole. Al riguardo, peraltro, dispone ora,
con chiarezza, l’art. 155 quinquies c.c.(86).
(74) Cosı̀, F. MASTROPAOLO - P. PITTER, Commento all’art. 194 c.c., cit., 376.
(75) Si vedano A. VENDITTI - M. GORINI, Lo scioglimento, cit., 323.
(76) Si vedano: A. ATTARDI, Aspetti processuali del nuovo diritto di famiglia, cit., 997; F. CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, I, I
rapporti patrimoniali tra coniugi in generale. La comunione legale,
cit., 201; A. DE MONTIS, Divisione dei beni della comunione, cit., 1000;
M. PALADINI, Lo scioglimento della comunione legale e la divisione dei
beni, cit., 456.
(77) P. SCHLESINGER, Commento all’art. 194 c.c., cit., 449; E. VITALI, Commentario al diritto delle persone e della famiglia, cit., 662; T. AULETTA, Il
diritto di famiglia, cit., 173.
(78) C.M. BIANCA, Diritto civile, VI, La proprietà, cit., 625.
(79) F. CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, I, I rapporti patrimoniali tra coniugi in generale. La comunione legale, cit., 201.
(80) G. GABRIELLI, I rapporti patrimoniali tra coniugi. Corso di diritto civile,
cit., 182 e F. MASTROPAOLO - P. PITTER, Commento all’art. 194 c.c., cit. 376.
(81) V., infra, par. 10.
(82) Cass., 9.4.1994, n. 3350, cit.
(83) V. anche A. VENDITTI - M. GORINI, Lo scioglimento, cit., 323, testo e nt.
189.
(84) Per una prima informazione, v. G. BONILINI, Manuale di diritto di
famiglia, cit., 130 ss., spec. 133.
(85) V., infra, par. 10.
(86) V., supra, nt. 10.
Famiglia, Persone e Successioni 5
333
maggio 2010
u:/LINOTIPO_H/06-wki/Utet_Riviste_cod_Civ/Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_327_334.3d 26/4/2010 14:56 pagina 334
I COMMENTI
Non meno forte, però, è l’argomento testuale, che fa dell’usufrutto giudiziale un istituto ancorato all’affidamento dei figli
minori di età, sicché il raggiungimento, da parte degli stessi,
della maggiore età, ne dovrebbe decretare, fatalmente, l’estinzione.
Non può sfuggire, peraltro, che occorra anche
tutelare l’interesse di chi risulti onerato
dell’usufrutto, sicché riemerge l’esigenza
della tutela proprietaria.
Forse inconsapevolmente, il legislatore ha configurato l’usufrutto giudiziale nei termini angusti, che traspaiono dall’art.
194, cpv., c.c., proprio per non rendere particolarmente onerosa la posizione del genitore-nudo proprietario, ed è forse in
prospettiva di un bilanciamento con le esigenze della proprietà privata, che si può rintracciare una ragione convincente dell’estinzione di quel diritto, in ogni caso, al compimento
della maggiore età della prole affidata(87), liberando da un
impaccio, di non poco momento, la proprietà del genitore
non affidatario, senza, non di meno, che ciò equivalga a far
cessare, automaticamente, ogni obbligo di mantenimento e
cura dei figli, come espressamente riconosce, oggi, l’art. 155
quinquies c.c.
Giova infine sottolineare – date la presenza di esigenze destinate a mutare nel tempo, e la possibilità che ad esse si risponda
con redditi, che possono anch’essi variare nel tempo, altresı̀ a
ragione della circostanza che i beni, posti ad oggetto del diritto
di usufrutto, possono conoscere una variazione nella capacità
di dare reddito –, che l’intera vita di quel diritto dovrebbe poter
conoscere un’agevole possibilità di revisione, del resto contemplata, in generale, dall’art. 155 ter c.c.
Norma, questa, che consente a ciascun genitore di chiedere al
(87) Si veda A. ATTARDI, Aspetti processuali del nuovo diritto di famiglia,
cit., 997, ad avviso del quale, il raggiungimento della maggiore età da parte
della prole, rappresenta il limite, entro il quale la previsione dell’art. 194,
cpv., c.c. è destinata ad operare.
(88) Sul problema, v. anche T. DE FUSCO, Commento, cit., 261, la quale
propone un richiamo al modello, di cui all’art. 440 c.c.
(89) Al riguardo, v. P. PENNISI, Il c.d. usufrutto giudiziale, cit., 727 ss.
maggio 2010
334
Famiglia, Persone e Successioni 5
giudice la revisione, altresı̀, delle disposizioni relative alla misura e alla «modalità» del contributo concernente la prole(88).
11. Cenni su altre vicende del diritto di usufrutto
M
erita ricordare, infine, che ulteriori interrogativi potrebbero essere suscitati dall’applicazione dell’usufrutto
giudizialmente costituito a favore del genitore affidatario.
Giova accennare, almeno, alle possibili conseguenze, che si
rannodano all’abuso del diritto da parte del genitore affidatario
(arg. ex art. 1015 c.c.)(89); ai permanenti poteri e doveri dell’altro genitore-nudo proprietario in ordine al bene, o ai beni, sui
quali l’usufrutto grava (arg. ex artt. 1005 ss. c.c.); alla locazione
del bene medesimo, contratta dall’usufruttuario (arg. ex art.
999 c.c.), che potrebbe avviarsi come di non breve durata, specie ove il bene locato sia destinato ad attività commerciali(90).
Un altro interrogativo, che va posto, è quello relativo alle possibili eccedenze reddituali(91). In altri termini, esso concerne la
destinazione di quanto rimanga, soddisfatte le esigenze della
prole, del reddito percepito in conseguenza del godimento concesso ad altri del bene posto ad oggetto del diritto di usufrutto(92).
Verosimilmente, il problema di un’eccedenza reddituale, nella
maggior parte dei casi, non si porrà; ma non è del tutto remota
l’eventualità che il bene, sul quale è costituito l’usufrutto, inizialmente dia un reddito bastevole alle necessità della prole e,
successivamente, un reddito ben maggiore – ad esempio, a
ragione delle variate condizioni di mercato –, tale da determinare un’eccedenza.
Ancóra una volta, deve potersi riconoscere che, anche a questo
riguardo, permanga, in capo al genitore-nudo proprietario, la
legittimazione a chiedere la revisione della sentenza costitutiva
&
dell’usufrutto(93).
(90) Rispetto all’usufrutto retto dagli artt. 978 ss. c.c., v., almeno, A. DE
CUPIS, Usufrutto (dir. vig.), passim.
(91) L’interrogativo se lo pone anche P. PENNISI, Il c.d. usufrutto giudiziale,
cit., 718.
(92) Problema, com’è noto, che viene in parte risolto, dall’art. 328 c.c.,
riguardo all’usufrutto legale. Al riguardo, v., almeno, A.C. PELOSI, Usufrutto
legale dei genitori, cit., 1049.
(93) V., supra, par. 10.
u:/LINOTIPO_H/06-wki/Utet_Riviste_cod_Civ/Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_335_339.3d 26/4/2010 14:56 pagina 335
I COMMENTI
» Amministrazione di sostegno
L’invalidità degli atti posti in essere
dall’amministratore di sostegno
e dal beneficiario della misura
di protezione
Mauro Tescaro
Avvocato e Ricercatore di Diritto privato
»
SOMMARIO
1. Osservazioni introduttive – 2. Il 1º co. dell’art. 412 c.c.: gli atti compiuti dall’amministratore di sostegno in violazione di disposizioni di legge – 3. Segue:
gli atti compiuti dall’amministratore di sostegno «in eccesso rispetto all’oggetto dell’incarico» e in eccesso rispetto «ai poteri conferitigli dal giudice» –
4. Il conflitto di interessi tra amministratore di sostegno e beneficiario – 5. Il 2º co. dell’art. 412 c.c.: l’annullabilità degli atti posti in essere dal
beneficiario dell’amministrazione di sostegno – 6. L’annullabilità per incapacità naturale – 7. La disciplina dell’azione di annullamento
1. Osservazioni introduttive
L
a sorte degli atti posti in essere in violazione della disciplina
dedicata all’amministrazione di sostegno si desume, principalmente, dall’art. 412 c.c., il quale, sancendone, nei termini che si
illustreranno, l’annullabilità, sembra collocarsi in armonia con il
sistema, che, com’è noto, tradizionalmente, in materia di incapacità, appunto a siffatta categoria fa riferimento(1). Non appena,
però, si passi dal piano delle classificazioni generali a quello dell’analisi dettagliata della normativa, debbono essere constatate
peculiarità, invero notevoli, tali da porre in dubbio la correttezza
del giudizio appena espresso(2), posto che si tratta di peculiarità
che appaiono suscettibili di essere ridimensionate, anche lı̀ dove
si proceda a una paziente, minuziosa opera di interpretazione
‘‘correttiva’’, solo in misura limitata.
2. Il 1º co. dell’art. 412 c.c.: gli atti compiuti
dall’amministratore di sostegno in violazione
di disposizioni di legge
è il suo dato letterale, potrebbe essere riferito anche alle previsioni
di cui all’art. 410 c.c., dove si contemplano i doveri dell’amministratore di sostegno di tenere conto dei bisogni e delle aspirazioni
del beneficiario, nonché di informare tempestivamente, nelle ipotesi ivi rispettivamente indicate, il beneficiario dell’amministrazione e il giudice tutelare circa gli atti da compiere(3).
Ma le conseguenze cui questa lettura condurrebbe sono inaccettabili: essa implica, infatti, l’annullabilità di un amplissimo novero di atti di estremamente difficoltosa, se non impossibile individuazione a priori, nonché l’assoggettamento dell’amministratore
di sostegno – il cui ufficio sembra, tra l’altro, doversi considerare
gratuito(4) – a oneri probatori davvero «diabolici» (si pensi alla
necessità, per costui, allo scopo di salvaguardare la validità degli
atti compiuti, di precostituirsi sempre la prova del corretto adempimento dell’obbligo informativo appena menzionato)(5). Appare, perciò, decisamente preferibile l’interpretazione restrittiva
adottata da chi ritiene che, considerato il richiamo (anche) agli
artt. 374, 375 e 376 c.c. compiuto dal 1º co. dell’art. 411 c.c.,
l riferimento, contenuto nel 1º co. dell’art. 412 c.c., agli atti
compiuti in violazione di disposizioni di legge, per quello che
l’espressione «disposizioni di legge» vada riferita,
sostanzialmente, alle sole regole procedimentali
relative agli atti posti in essere dal tutore,
(1) Sul punto, cfr., per esempio, GORGONI, L’amministrazione di sostegno:
profili sostanziali, in Riv. dir. priv., 2006, 663.
(2) In argomento, cfr. BONILINI, Dell’amministrazione di sostegno, in
Comm. Schlesinger, Milano, 2008, 465, secondo il quale «l’invalidità in
esame [...] suscita non pochi dubbı̂, e disagi interpretativi».
(3) Per questa opinione, v., tra gli altri, CAMPESE, L’istituzione dell’amministrazione di sostegno e le modifiche in materia di interdizione e inabilitazione, in Famiglia e dir., 2004, 130; ROPPO - DELLACASA, in L’amministrazione di sostegno, a cura di Patti, cit., 157 s.; in argomento, cfr., altresı̀,
GORGONI, op. cit., 665 ss.
(4) In forza del richiamo di cui al 1º co. dell’art. 411 c.c., dovrebbe
ritenersi senz’altro applicabile, all’ufficio dell’amministratore di sostegno
– non sembrando sussistere particolari problemi di compatibilità –, pure
l’art. 379 c.c., relativo alla gratuità dell’ufficio del tutore, cosı̀ che il primo
dovrebbe considerarsi, alla pari del secondo, non solo doveroso, ma anche
gratuito (salve, peraltro, la possibilità di ottenere la corresponsione di
un’equa indennità, nonché la possibilità di ricorrere all’ausilio di persone
stipendiate: v. il 2º co. dell’art. 379 c.c.). Per questa opinione, v., per esempio, BONILINI, in BONILINI - CHIZZINI, L’amministrazione di sostegno, cit., 184
s. In senso contrario rispetto all’opinione appena illustrata, v., peraltro,
Trib. Ancona 14.6.2005, in Famiglia e dir., 2006, 533, secondo cui «all’amministratore di sostegno spetta un indennizzo comprensivo – oltre che
delle spese affrontate per l’amministrazione del patrimonio dell’amministrato – anche della «remunerazione» (da determinare in via equitativa)
per l’attività di cura della persona direttamente espletata dall’amministratore, dovendo l’art. 379, 1º co., c.c., essere sottoposto ad una interpretazione evolutiva e correttiva alla cui stregua sia consentito di derogare alla
regola della gratuità dell’ufficio».
(5) Per considerazioni di questo tipo, v. BONILINI, op. ult. cit., 257; ROMOLI,
in L’amministrazione di sostegno, a cura di Patti, cit., 129.
I
Famiglia, Persone e Successioni 5
335
maggio 2010
u:/LINOTIPO_H/06-wki/Utet_Riviste_cod_Civ/Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_335_339.3d 26/4/2010 14:56 pagina 336
I COMMENTI
e cioè, precisamente, al relativo regime di autorizzazioni(6).
Autorizzazioni che, si trova spesso ripetuto, debbono essere
necessariamente preventive, in quanto nessuna utilità potrebbe avere un controllo successivo al compimento dell’atto(7).
Non tutte le eventuali difformità, poi, che si dovessero constatare tra le medesime autorizzazioni e il contenuto dell’atto
compiuto potrebbero ritenersi rilevare, bensı̀ solo quelle sostanziali e relative ad aspetti essenziali(8).
Lı̀ dove, invece, si tratti di difformità inidonee a ripercuotersi
sulla validità degli atti posti in essere, rimarrebbero comunque
esperibili altri rimedi, e cosı̀, in particolare, potrebbero essere
chieste la rimozione e la sospensione dall’ufficio ai sensi dell’art. 384 c.c. (richiamato dall’art. 411, 1º co., c.c.)(9), oppure
potrebbe essere fatta valere la responsabilità per i danni cagionati al beneficiario il cui patrimonio non sia stato amministrato
con la diligenza del buon padre di famiglia, in violazione di
quanto richiesto dall’art. 382 c.c. (a sua volta richiamato dall’art. 411, 1º co., c.c.)(10).
Ciò considerato, la portata normativa dell’art. 412 c.c., per la
parte ora in esame, sembrerebbe doversi intendere ridotta all’inclusione, nel novero dei legittimati attivi all’azione di annullamento, anche del pubblico ministero, che nell’art. 377 c.c.
non è contemplato(11).
giuridica del beneficiario sprovvista di qualsiasi plausibile giustificazione, e contrastante con la finalità, perseguita dalla l. n.
6 del 2004, di proteggere il più efficacemente possibile la persona privata in tutto o in parte di autonomia, non può che
sostenersi, coerentemente con i noti princı̀pi generali in materia di falsus procurator (si vedano, in particolare, gli artt. 1398 e
1399 c.c.), che l’atto va considerato come inefficace(12).
Un esempio di atto posto in essere dall’amministratore di sostegno in eccesso rispetto «ai poteri conferitigli dal giudice»
potrebbe essere invece rappresentato dal caso in cui il giudice
tutelare abbia attribuito all’amministratore il potere di vendere
un bene del beneficiario e l’amministratore lo abbia venduto a
un prezzo inferiore a quello minimo indicato dal giudice o, in
mancanza di indicazioni in proposito, inferiore a quello di mercato.
4. Il conflitto di interessi tra amministratore
di sostegno e beneficiario
U
si pensi, per fare un esempio, all’ipotesi in cui il giudice tutelare
avesse attribuito all’amministratore di sostegno il potere di
vendere un bene del beneficiario, privando quest’ultimo della
relativa capacità d’agire, e l’amministratore, invece, lo abbia
alienato per mezzo di un contratto di permuta.
Quando non sia questo il caso (si pensi, sempre per fare un
esempio, alla vendita di un bene cui il giudice tutelare non
aveva in alcun modo fatto riferimento nel decreto di nomina
dell’amministratore, né in successivi provvedimenti), considerato come la semplice annullabilità dell’atto, che rimarrebbe
intanto efficace, si risolverebbe in una aggressione alla sfera
na fattispecie certamente di notevole importanza, che il
legislatore del 2004 non ha però preso in considerazione,
è quella del conflitto di interessi(13) tra amministratore di sostegno e beneficiario.
Al fine di prevenire un conflitto di questo genere, non essendo
stata prevista la nomina di un pro-amministratore di sostegno(14), si potrebbe affidare il compimento dell’atto a un curatore speciale, la cui nomina da parte del giudice tutelare potrebbe ritenersi consentita non solo in applicazione dell’art.
411, ult. co., c.c., che consente di estendere al beneficiario,
nel provvedimento con il quale viene nominato l’amministratore di sostegno, o anche successivamente, «effetti, limitazioni
o decadenze, previsti da disposizioni di legge per l’interdetto o
l’inabilitato» (il riferimento dovrebbe essere compiuto, in questo caso, al 2º co. dell’art. 360 c.c.), ma anche ai sensi del 2º co.
dell’art. 410 c.c., dove si prevede che, in caso – tra l’altro – di
atti dannosi per il beneficiario, il giudice tutelare «adotta con
decreto motivato gli opportuni provvedimenti», nonché in forza del 4º co. dell’art. 410, secondo il quale «il giudice tutelare
può, in ogni tempo, modificare o integrare, anche d’ufficio, le
decisioni assunte con il decreto di nomina dell’amministratore
di sostegno»(15).
Nel caso, poi, in cui non si sia proceduto alla nomina di un
curatore speciale, o, ciononostante, sia stato compiuto un atto
in conflitto d’interessi, ricordando le regole di cui all’art. 1394
c.c., potrebbe essere affermata l’annullabilità dell’atto, subordinatamente alla conoscenza o conoscibilità del conflitto da
parte del terzo.
Si è però dubitato che le regole appena esposte possano considerarsi riguardare, quanto meno nella loro interezza, oltre alla
rappresentanza volontaria, pure la rappresentanza legale, e,
cosı̀, l’amministrazione di sostegno. In particolare, si è negato
(6) Per questa opinione, v., tra gli altri, BONILINI, op. ult. cit., 258.
(7) In argomento, cfr., per tutti, PASQUILI, sub artt. 374, 375 e 376 c.c., in
Comm. Zaccaria, Padova, 2008, rispettivamente 854, 858 e 860.
(8) V. BONILINI, Dell’amministrazione di sostegno, cit., 469.
(9) V. DELLE MONACHE, Prime note sulla figura dell’amministrazione di
sostegno: profili di diritto sostanziale, in Nuova giur. comm., 2004, II, 48.
(10) In argomento, cfr. BONILINI, in BONILINI - CHIZZINI, L’amministrazione
di sostegno, cit., 245 ss.
(11) V. DELLE MONACHE, op. cit., 55.
(12) Per tutte queste considerazioni, v., amplius, DELLE MONACHE, op. cit.,
56 s. In argomento, cfr. altresı̀ GORGONI, I nuovi rimedi a tutela delle persone
prive di autonomia, in Obbligazioni e contratti, 2008, 635 s., e, da ultimo,
BUGETTI, L’attitudine dell’amministrazione di sostegno a realizzare l’adeguata protezione degli interessi patrimoniali del beneficiario, in Nuova giur.
comm., 2009, I, 970.
(13) Per un’aggiornata trattazione di ampio respiro sul conflitto di interessi, v., per tutti, GRANELLI - STELLA (a cura di), Il conflitto di interessi nei
rapporti di gestione e rappresentanza, Milano, 2007, passim.
(14) Salvo non si voglia intendere che la nomina di un pro-amministratore di sostegno possa considerarsi ammissibile in virtù di quanto previsto
nel 4º co. dell’art. 411 c.c.: per una posizione di questo tipo, v., nella
giurisprudenza di merito, Trib. Modena, 16.10.2006, in CENDON - ROSSI,
Amministrazione di sostegno, I, Torino, 2009, 661 s.
(15) V. BONILINI, Dell’amministrazione di sostegno, cit., 373 s.
3. Segue: gli atti compiuti dall’amministratore
di sostegno «in eccesso rispetto all’oggetto
dell’incarico» e in eccesso rispetto «ai poteri
conferitigli dal giudice»
A
nche con riferimento agli atti posti in essere dall’amministratore di sostegno «in eccesso rispetto all’oggetto dell’incarico», si dovrebbe procedere a una lettura restrittiva dell’art.
412 c.c. Precisamente,
annullabili dovrebbero ritenersi solo gli atti
esorbitanti dall’ambito dell’incarico attribuito
all’amministratore, ma che risultino essere stati
posti in essere in luogo di quelli che nell’incarico
medesimo erano stati compresi:
maggio 2010
336
Famiglia, Persone e Successioni 5
u:/LINOTIPO_H/06-wki/Utet_Riviste_cod_Civ/Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_335_339.3d 26/4/2010 14:56 pagina 337
I COMMENTI
che in materia di rappresentanza legale possa trovare applicazione la regola che subordina l’annullabilità alla conoscenza o
riconoscibilità del conflitto da parte del terzo: ciò in quanto si
tratterebbe di requisiti che presuppongono una possibilità di
reazione da parte del rappresentato che non potrebbe ritenersi
sussistente in un soggetto abbisognevole di protezione(16). Gli
atti posti in essere dall’amministratore di sostegno in conflitto
di interessi con il beneficiario dovrebbero perciò ritenersi senz’altro annullabili, a prescindere dalla conoscenza o riconoscibilità del conflitto(17).
A ben vedere, l’interpretazione appena esposta
non coglie, però, il significato della norma in tutta
la sua portata:
l 2º co. dell’art. 412 c.c. sancisce l’annullabilità degli atti
posti in essere dal beneficiario della misura di protezione
quando compiuti «in violazione delle disposizioni di legge o di
quelle contenute nel decreto che istituisce l’amministrazione
di sostegno».
Si tratta di una previsione che, in prima battuta, sembrerebbe
poter essere riferita, per quanto riguarda l’amministrazione sostitutiva, agli atti ricadenti nell’area dell’incapacità, per come
delineata dal decreto di nomina dell’amministratore di sostegno di cui all’art. 405 c.c. (e, eventualmente, dai successivi
provvedimenti di cui al 4º co. dell’art. 407 c.c.), nonché, per
quanto riguarda l’amministrazione di assistenza, agli atti, parimenti ricadenti in detta area, in relazione ai quali siano mancati il consenso dell’amministratore e/o le prescritte autorizzazioni giudiziali(18).
alle stesse conclusioni si sarebbe, infatti, potuti pervenire anche là dove il citato 2º co. dell’art. 412 c.c. si fosse limitato a fare
riferimento alla violazione delle disposizioni contenute nel decreto istitutivo dell’amministrazione di sostegno, e non avesse,
invece, in alcun modo menzionato anche la violazione di disposizioni di legge.
Si potrebbe, allora, immaginare che quest’ultimo richiamo sia
volto a rendere applicabili quelle previsioni legislative che, in
relazione a particolari fattispecie, richiedono, per il compimento di determinati atti, non la semplice capacità di agire, senza
ulteriori qualificazioni, ma, più specificamente, la capacità di
agire «piena», che potrebbe, in effetti, intendersi mancare pure
in capo al beneficiario di un’amministrazione di sostegno, essendo costui in linea di principio sı̀ capace di agire, ma – almeno secondo l’opinione che a noi sembra maggiormente persuasiva(19) – non pienamente, considerati gli ambiti (per quanto,
eventualmente, anche molto ristretti) in relazione ai quali egli
viene, sia pure eccezionalmente, privato della stessa(20).
Esempi di previsioni di questo genere(21) possono essere ravvisati nell’art. 701 c.c., che richiede «la piena capacità di obbligarsi» per la nomina ad esecutore testamentario, nell’art. 230
bis c.c., che subordina la possibilità di esercitare il diritto di
voto spettante al partecipante all’impresa familiare alla sussistenza della «piena capacità di agire», nonché nell’art. 774 c.c.,
ai sensi del quale «non possono fare donazione coloro che non
hanno la piena capacità di disporre dei propri beni»(22).
(16) V., anche per ulteriori riferimenti, SACCO - DE NOVA, Obbligazioni e
contratti, II, in Tratt. Rescigno, 10, 3ª ed., Torino, 2002.
(17) Per questa tesi, v., BONILINI, in BONILINI - CHIZZINI, L’amministrazione
di sostegno, cit., 230 ss, e NAPOLI, L’amministrazione di sostegno, in Tratt.
Alpa e Patti, Padova, 2009, 173. In argomento, cfr. anche BULGARELLI, Amministrazione e conflitto di interessi, in Dir. e giust., 2005, n. 46, 58 ss.
(18) Cfr. DELLE MONACHE, op. cit., 57; VENCHIARUTTI, in L’amministrazione
di sostegno, a cura di Ferrando, cit., 170.
(19) L’amministrazione di sostegno sembra infatti comportare, in ogni
caso, una qualche, sia pure eventualmente anche solo minima, deminutio
di capacità per il beneficiario: ciò può trarsi già dall’art. 1, l. n. 6 del 2004,
che, richiedendo la «minore limitazione possibile della capacità d’agire»,
dà per scontato che una limitazione comunque si determini (sul punto, v.
NAPOLI, in L’amministrazione di sostegno, a cura di Patti, cit., 12; DELLE
MONACHE, sub Nota introd. al Capo I, Titolo XII, Libro I c.c., in Comm. Cian
e Trabucchi, 9ª ed., a cura di Cian, Padova, 2009, 485; in argomento, cfr.,
altresı̀, tra i tanti, POZZOLI, ibidem, secondo cui «l’interdizione esclude la
capacità del soggetto, l’inabilitazione la limita, l’amministrazione di sostegno la modella»); a ragionare diversamente, del resto, non si spiegherebbero nemmeno le forme di pubblicità previste per la nuova misura (per
considerazioni di questo tipo, v. BONILINI, op. ult. cit., 166; su una linea di
pensiero sostanzialmente analoga, v., altresı̀, DELLE MONACHE, Prime note
sulla figura dell’amministrazione di sostegno: profili di diritto sostanziale,
cit., 31 e 46), che non sembrano poter essere escluse dal giudice (ma v., in
senso contrario, Trib. Modena, 22.7.2008, in ID., sub Nota introd. al Capo I,
Titolo XII, Libro I c.c., cit., 486). L’ampia discrezionalità concessa al giudice
nella determinazione dei poteri spettanti all’amministratore di sostegno,
lo stesso favor legislativo per la maggiore conservazione possibile della
capacità dei soggetti, anche se bisognosi di assistenza, nonché la formulazione letterale di talune disposizioni di legge, soprattutto quella di cui al
1º co. dell’art. 409 c.c. – ai sensi della quale «il beneficiario conserva la
capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza
esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministratore di sostegno» –, dove
la limitazione della capacità del beneficiario sembrerebbe essere collegata
alla sola ipotesi in cui vengano conferiti all’amministratore di sostegno
poteri di «rappresentanza esclusiva» (per la valorizzazione della disposizione appena citata, v., per esempio, LISELLA, in L’amministrazione di sostegno, a cura di Ferrando, cit., 126; FERRANDO, in L’amministrazione di
sostegno, a cura di Patti, cit., 39 s., peraltro in termini dubitativi; VENCHIARUTTI, op. cit., 166), hanno, peraltro, fatto propendere parte della dottrina,
nonché certa giurisprudenza, anche della Suprema Corte, per l’ammissibilità, accanto all’amministrazione di sostegno (parzialmente) incapaci-
tante, anche di una amministrazione di sostegno per nulla incapacitante,
avente per contenuto l’attribuzione all’amministratore, in relazione a un
beneficiario dotato di un grado di lucidità mentale sufficiente per attendere alla cura, pur in concreto difficoltosa, dei propri interessi, di poteri di
rappresentanza non esclusivi, bensı̀ meramente concorrenti con la persistente legittimazione del beneficiario stesso (v. ex multis, C.M. BIANCA, in
L’amministrazione di sostegno, a cura di Patti, cit., 2 s.; FERRANDO, in Soggetti deboli e misure di protezione, a cura di Ferrando-Lenti, Torino, 2006,
28 s.; CALÒ, Notariato, 2004, 402; SCOTTI, Notariato, 2006, 395; LISELLA, op.
cit., 126 s.; CENDON, in L’amministrazione di sostegno, a cura di Ferrando,
cit., 64; in giurisprudenza, si sono espresse nello stesso senso Cass.,
12.6.2006, n. 13584, in motivazione, nonché, sempre in motivazione, Cass.,
29.11.2006, n. 25366; v., altresı̀, nella giurisprudenza di merito, per esempio, Trib. Parma [decr. n. 536 e decr. n. 537] 2.4.2004, in Notariato, 2004,
397). Si tratterebbe, nella sostanza, di una sorta di rappresentanza analoga
a quella di fonte negoziale, con la sola particolarità della sussistenza di un
controllo del giudice tutelare sull’attività del rappresentante (in questo
senso, cfr. CENDON, op. cit., 55; in giurisprudenza, v., altresı̀, per esempio,
Trib. Pinerolo, 4.11.2004, in Fam. pers. succ., 2005, 273). Questa impostazione non può, però, a ben vedere, andare esente da critiche. L’art. 404 c.c.
richiede, infatti, che l’amministrazione di sostegno venga disposta per fare
fronte a una vera e propria impossibilità, e non a una mera difficoltà del
beneficiario di curare i propri interessi (in argomento, v., amplius, BONILINI,
op. ult. cit., 227 s.). Inoltre, la formulazione letterale del 1º co. dell’art. 409
c.c. non può – a nostro avviso – essere enfatizzata, ben potendo l’aggettivo
«esclusivo» ivi contenuto intendersi come del tutto pleonastico, come senz’altro è, del resto – essendo inconcepibili compiti di assistenza non necessari –, l’aggettivo «necessaria» che la stessa disposizione utilizza in
relazione all’assistenza (per questa osservazione, v. DELLE MONACHE, sub
Nota introd. al Capo I, Titolo XII, Libro I c.c., cit., 486). Tutto ciò considerato, si può concludere che mancano sufficienti indicazioni normative per
riconoscere essere stata introdotta, nel nostro ordinamento, anche un’amministrazione di sostegno non incapacitante (v., ancora, DELLE MONACHE,
ibidem).
(20) Per una opinione sostanzialmente corrispondente, cfr. MARCOZ, in
Soggetti deboli e misure di protezione, a cura di Ferrando-Lenti, cit., 228.
(21) Secondo MARCOZ, op. cit., 228 s.
(22) Anche se l’applicabilità di quest’ultima previsione ai soggetti sottoposti ad amministrazione di sostegno è assai controversa: a coloro
che accolgono la soluzione affermativa (v., tra gli altri, ROMOLI, op.
cit., 134 s. Per una rassegna delle diverse opinioni sul punto, cfr. MARCOZ, Riv. notariato, 2006, 1495 ss.; SCOTTI, op. cit., 402 s.) si contrappone,
5. Il 2º co. dell’art. 412 c.c.: l’annullabilità degli atti
posti in essere dal beneficiario dell’amministrazione
di sostegno
I
Famiglia, Persone e Successioni 5
337
maggio 2010
u:/LINOTIPO_H/06-wki/Utet_Riviste_cod_Civ/Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_335_339.3d 26/4/2010 14:56 pagina 338
I COMMENTI
6. L’annullabilità per incapacità naturale
a legittimazione attiva a proporre le azioni di annullamento appena esaminate è attribuita, dal 1º co. dell’art. 412
c.c., per quanto riguarda gli atti compiuti dall’amministratore
di sostegno, all’amministratore stesso(26), al pubblico ministero, al beneficiario dell’amministrazione(27), ai suoi eredi e ai
suoi aventi causa(28); il 2º co. del medesimo articolo attribuisce,
invece, la legittimazione attiva di cui si tratta, per quanto riguarda gli atti compiuti dal beneficiario, sempre a tutti i soggetti appena indicati, ma con l’eccezione del pubblico ministero(29).
La legittimazione del pubblico ministero di cui al 1º co. dell’art.
412 c.c. deve considerarsi sussistente anche rispetto all’azione
di annullamento degli atti posti in essere in violazione degli
artt. 374-376 c.c., nonostante che l’art. 377 c.c. – applicabile
all’amministrazione di sostegno in forza del rinvio operato dal-
l’art. 411 c.c. – non inserisca detto soggetto nel novero dei
legittimati attivi(30).
La prescrizione delle azioni di annullamento in discorso è stata
fissata al compimento del termine di cinque anni, decorrente
dal momento in cui lo stato di sottoposizione all’amministrazione di sostegno sia cessato(31).
La previsione appena citata, riecheggiando quanto previsto
nell’art. 1442, 2º co., c.c.(32), che, per l’azione di annullamento
del contratto per incapacità legale, fa decorrere il termine di
prescrizione, pure quinquennale, dalla cessazione dello stato di
interdizione o inabilitazione, o dal raggiungimento della maggiore età, potrebbe allora essere classificata, alla pari di quella
da ultimo menzionata(33), come una delle poche, eccezionali
previsioni derogatorie rispetto a quello che le prevalenti dottrina e giurisprudenza continuano a considerare il principio generale in materia di decorrenza della prescrizione, e, cioè, quello – che si pretenderebbe di potere desumere dall’art. 2935 c.c.
– della rilevanza dei soli impedimenti di carattere giuridico(34).
L’azione di annullamento di cui all’art. 412 c.c., per quanto
concerne gli aspetti dal medesimo articolo non regolati, sembra poi doversi intendere sottoposta, almeno in linea di principio, alla disciplina generale dell’azione di annullamento, e
cosı̀, in particolare, alla regola temporalia ad agendum perpetua ad excipiendum (art. 1442, ult. co., c.c.)(35), a quella che
ammette la convalida degli atti annullabili (art. 1444 c.c.)(36),
a quella che sancisce l’opponibilità a qualsiasi terzo – salva
peraltro la possibilità, ricorrendone i relativi presupposti, di
invocare le tutele di cui agli artt. 1153, nel caso in cui siano
coinvolti beni mobili non registrati, 2690, n. 3, nel caso in cui
siano coinvolti beni mobili registrati, e 2652, n. 6, c.c., nel caso
in cui siano coinvolti beni immobili(37) – dell’annullamento
che dipende da incapacità legale (art. 1445 c.c.)(38) e anche a
quella secondo la quale, in caso di annullamento del contratto
per incapacità di uno dei contraenti, l’incapace non è tenuto a
restituire la prestazione ricevuta, se non nei limiti in cui essa è
stata rivolta a suo vantaggio (art. 1443 c.c.)(39).
infatti, chi ritiene anche il beneficiario dell’amministrazione di sostegno
di regola capace di donare, salve solo le limitazioni di cui ai co. 2º e 3º
dell’art. 411 c.c., e salva la possibilità che il giudice espressamente
estenda all’amministrazione di sostegno la limitazione di cui all’art.
774 c.c. – che, di per sé, non la riguarderebbe – facendo applicazione
del potere attribuitogli dal 4º co. dell’art. 411 c.c. (v. BONILINI, op. ult.
cit., 315 s.).
(23) In argomento, cfr., per esempio, MARCOZ, in Soggetti deboli e misure
di protezione, a cura di Ferrando-Lenti, cit., 220 s. In generale, sull’incapacità naturale, sia consentito rinviare a TESCARO, sub art. 428 c.c., in
Comm. Zaccaria, cit., 984 ss.
(24) Sulla quale v. infra, par. 7.
(25) Per questa considerazione, v. BONILINI, op. ult. cit., 27 s. Per quanto
concerne la fattispecie appena considerata, MARCOZ, op. ult. cit., 221, ipotizza, addirittura, una inversione dell’onere della prova in favore del beneficiario dell’amministrazione di sostegno.
(26) La legittimazione attiva dell’amministratore di sostegno non sussiste, però, nelle ipotesi di cui all’art. 378 c.c., applicabile all’istituto in
esame, ma solo in quanto con esso compatibile, ai sensi del 1º co. dell’art.
411 c.c., e questo poiché la prima previsione esclude, dal novero dei legittimati attivi all’azione di annullamento ivi disciplinata, il tutore: v. BONILINI, Dell’amministrazione di sostegno, cit., 478 s.
(27) Alla domanda se il promuovimento, da parte del beneficiario, dell’azione di annullamento, debba oppure non essere preventivamente autorizzato, si è risposto, in dottrina, in senso affermativo, in considerazione
dell’art. 374, n. 5), c.c., applicabile – non sembrando sussistere problemi di
compatibilità – all’amministrazione di sostegno ai sensi del 1º co. dell’art.
411 c.c.: v. BONILINI, op. ult. cit., 479.
(28) Rimanendo pertanto esclusi, dal novero dei legittimati attivi, i creditori, che potrebbero peraltro chiedere l’annullamento in via surrogatoria: v., ancora, BONILINI, op. ult. cit., 480.
(29) Circa le possibili spiegazioni di questa diversità di formulazione,
probabilmente comprensibile alla luce dell’esigenza, perseguita dalla previsione in esame, di controllare l’attività dell’amministratore di sostegno,
più che di tutelare gli interessi del beneficiario, v., BONILINI, op. ult. cit., 477
s. Per quanto a noi sembra, comunque, la diversità in parola è stata positivamente sancita in modo sufficientemente chiaro da precludere all’interprete di superarla, tanto nel senso di negare la legittimazione attiva del
pubblico ministero per le ipotesi di cui al 1º co. quanto nel senso di
ammetterla anche per le ipotesi di cui al 2º co.
(30) Sul punto, v. CAMPESE, op. cit., 130.
(31) Salvo che la cessazione dell’amministrazione di sostegno non coincida con il passaggio all’interdizione o all’inabilitazione, nel qual caso,
dovendosi coordinare il 3º co. dell’art. 412 c.c. con il 2º co. dell’art. 1442
c.c., il dies a quo della prescrizione dell’azione di annullamento sembra
dover essere spostato in avanti, e fatto coincidere con la cessazione dello
stato di interdizione o di inabilitazione: v. CAMPESE, op. cit., 131, nt. 21.
(32) Secondo ROMOLI, op. cit., 138, la norma di cui all’art. 412, ult. co., c.c.
costituirebbe addirittura «una sorta di interpretazione autentica» del 2º co.
dell’art. 1442 c.c.
(33) Come rilevato da VITUCCI, La prescrizione, I, in Comm. Schlesinger,
Milano, 1990, 161, infatti, «quale che ne sia la portata, anche la regola
dettata per le ipotesi di incapacità dall’art. 1442 capoverso è discordante
dal criterio della possibilità legale».
(34) Per l’illustrazione delle comuni convinzioni in materia di decorrenza
della prescrizione in genere, nonché per una critica delle stesse e, altresı̀,
per la prospettazione di una diversa interpretazione diretta ad assegnare,
sia pure entro determinati limiti, una maggiore rilevanza agli impedimenti
di mero fatto all’esercizio dei diritti, sia consentito rinviare a TESCARO,
Decorrenza della prescrizione e autoresponsabilità, Padova, 2006, passim.
(35) In generale, sull’argomento, v. G. GABRIELLI, Temporalia ad agendum
perpetua ad excipiendum, in Riv. dir. civ., 2008, 713 ss.
(36) In argomento, v., amplius, NAPOLI, L’amministrazione di sostegno, in
Tratt. Alpa e Patti, cit., 173.
(37) In argomento, cfr., per tutti, ZACCARIA, sub art. 1445 c.c., in Comm.
Cian e Trabucchi, cit., 1523.
(38) Su questi temi, cfr., per tutti, BONILINI, op. ult. cit., 481 ss.
(39) Sul punto, cfr. BUGETTI, op. cit., 968.
G
li atti posti in essere dal beneficiario di un’amministrazione di sostegno in relazione ai quali la legge o il giudice
tutelare non lo abbiano privato della capacità possono, eventualmente, là dove ne sussistano i presupposti, essere annullati
anche in applicazione della regola generale di cui all’art. 428
c.c., concernente l’incapacità naturale(23).
L’unica particolarità da segnalare a questo proposito sembra
essere costituita dalla maggiore facilità rispetto a quanto di
consueto accade, per il soggetto in relazione al quale sussista
un decreto di nomina di un amministratore di sostegno, di
dimostrare la «mala fede dell’altro contraente» richiesta dal 2º
co. dell’art. 428 c.c. per l’annullamento dei contratti, in considerazione della pubblicità(24) cui va assoggettato il decreto di
cui si è detto, perlomeno là dove dallo stesso sia possibile desumere l’esistenza di problemi, per quanto riguarda l’autonomia del beneficiario, di una certa consistenza(25).
7. La disciplina dell’azione di annullamento
L
maggio 2010
338
Famiglia, Persone e Successioni 5
u:/LINOTIPO_H/06-wki/Utet_Riviste_cod_Civ/Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_335_339.3d 26/4/2010 14:56 pagina 339
I COMMENTI
Si tratta, nel suo complesso, di una disciplina che rischia di
creare notevoli problemi con riguardo alla tutela dell’affidamento dei terzi, ben maggiori di quelli connessi alla disciplina dell’annullabilità degli atti in materia di interdizione e
inabilitazione, e questo per due ordini di ragioni: innanzi
tutto, per il fatto che, mentre sia l’interdetto che l’inabilitato
versano, almeno d’ordinario, in condizioni di incapacità facilmente riconoscibili all’esterno, non altrettanto vale in ogni
caso per i beneficiari dell’amministrazione di sostegno; in
secondo luogo, e soprattutto, perché, mentre la disciplina
dedicata all’interdizione e all’inabilitazione può dirsi, almeno
con riguardo alla maggior parte dei casi, compiutamente delineata dalla legge(40),
(40) Anche se, là dove il giudice si avvalga del potere, attribuitogli dal
nuovo 1º co. dell’art. 427 c.c., di stabilire «che taluni atti di ordinaria
amministrazione possano essere compiuti dall’interdetto senza l’intervento ovvero con l’assistenza del tutore, o che taluni atti eccedenti l’ordinaria
amministrazione possano essere compiuti dall’inabilitato senza l’assistenza del curatore», pure la disciplina dell’interdizione e dell’inabilitazione
risulterebbe in realtà desumibile non solo dalla legge, ma anche da provvedimenti giudiziali.
(41) Cfr., DELLE MONACHE, Prime note sulla figura dell’amministrazione di
sostegno: profili di diritto sostanziale, cit., 57.
(42) Ai sensi dei co. 7º e 8º dell’art. 405 c.c., il decreto di apertura dell’amministrazione e quello di chiusura della medesima devono essere annotati non solo, a cura del cancelliere, nel registro delle amministrazioni di
sostegno, appositamente istituito presso l’ufficio del giudice tutelare (v.
l’art. 47 disp. att. c.c., come modificato dalla l. n. 6 del 2004, dove si
stabilisce che presso l’ufficio del giudice tutelare debbono essere tenuti
non solo un registro delle tutele dei minori e degli interdetti e un registro
delle curatele dei minori emancipati e degli inabilitati, ma anche un registro delle amministrazioni di sostegno), bensı̀ pure, a cura dell’ufficiale di
stato civile competente, in margine all’atto di nascita del beneficiario. Solo
la prima annotazione è richiesta anche per «ogni altro provvedimento
assunto dal giudice tutelare nel corso dell’amministrazione di sostegno»
(si pensi, in particolare, al 4º co. dell’art. 407 c.c., dove è previsto che «il
giudice tutelare può, in ogni tempo, modificare o integrare, anche d’uffi-
cio, le decisioni assunte con il decreto di nomina dell’amministratore di
sostegno»; rimangono, invece, senz’altro escluse dall’onere di pubblicità in
esame tutte le attività endoprocedimentali che non si traducano in un
provvedimento: in questo senso, v., per esempio, CASSANO, Il regime di
invalidità e pubblicità degli atti nell’amministrazione di sostegno. Il punto
della giurisprudenza a due anni dall’entrata in vigore della legge, in Vita
notarile, 2006, 946): in considerazione di ciò, è stata posta in rilievo la
necessità, per i terzi, là dove intendano conoscere l’esatta portata delle
limitazioni apportate dal giudice tutelare alla capacità del beneficiario, di
consultare, oltre agli atti dello stato civile – che possono dare contezza solo
dell’apertura e dell’eventuale chiusura dell’amministrazione –, anche il
registro di cancelleria. Quest’ultimo, però, non è liberamente accessibile
a coloro che non siano parti del procedimento, ma solo dietro richiesta
motivata al tribunale (e, ovviamente, solo là dove detta richiesta venga
favorevolmente accolta: per queste osservazioni, v. CHIZZINI, in BONILINI CHIZZINI, L’amministrazione di sostegno, cit., 476 s., il quale, ciò considerato, conclude che «di fatto, l’unico strumento realmente operativo sarà
quello della esibizione del provvedimento costitutivo da parte dell’amministratore di sostegno»). Con la conseguenza che, mentre il registro di
cancelleria conterrà «una repertoriazione di tutte le vicende processuali,
del divenire completo dell’ufficio», negli atti dello stato civile si troveranno, invece, solo «le informazioni essenziali» (CHIZZINI, op. cit., 478; per la
precisa elencazione delle annotazioni da effettuare nel registro delle amministrazioni di sostegno, v. il testo del nuovo art. 49 bis disp. att. c.c.).
quella dettata per l’amministrazione di sostegno
è per larghissima parte legata alle decisioni
di volta in volta assunte dal giudice tutelare,
decisioni la cui conoscibilità da parte dei terzi risulta alquanto
problematica(41), considerata la disciplina che è stata prevista a
proposito della pubblicità degli atti in materia di amministra&
zione di sostegno(42).
Famiglia, Persone e Successioni 5
339
maggio 2010
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_340_343.3d
na 340
23/4/
11:41
pagi-
L E S E N T E N Z E A N N OTAT E
» Accordi tra coniugi
Accordi patrimoniali fra coniugi
e valore probatorio del verbale
di udienza del giudizio
di separazione
Claudia Irti
Avvocato e Docente di Diritto privato e della famiglia
SINTESI
a) Accordi patrimoniali fra coniugi che trovano nella separazione
mera occasione
b) Valore probatorio del verbale di udienza in un giudizio di
separazione
Le intese di natura patrimoniale raggiunte dalle parti nel corso
La sentenza in commento, richiamando precedente giurisprudenza
dei procedimenti di separazione che non possono essere ricompre-
conforme, torna ad affermare che al verbale di udienza deve a tutti
se nel novero di quelle che costituiscono il contenuto necessario
gli effetti essere riconosciuta natura di atto pubblico, facente fede fino
dell’accordo di separazione, contribuiscono alla formazione del c.d.
a querela di falso. A norma di quanto stabilito dall’art. 2699 c.c. l’atto
«contenuto eventuale» dell’accordo medesimo che, a seconda dei
pubblico è, infatti, il documento redatto da un notaio o da altro pub-
casi, può comprendere pattuizioni di varia natura, molte delle
blico ufficiale specificamente autorizzato ad attribuirgli pubblica fede,
quali trovano occasione, ma non necessariamente causa, nella
qualifica che non può essere negata al giudice – o al cancelliere nel-
separazione.
l’espletamento delle sue funzioni di ausiliario del giudice – che sottoscrive le dichiarazioni recepite nel verbale di udienza.
Cassazione civile, sezione III, 19 novembre 2009, n. 24436
Pres. Morelli – Rel. Uccella – R.C. c. V.S.
Giudizio di separazione – Accordo fra coniugi di natura patrimoniale – Locazione di immobile ad uso diverso da quello abitativo –
Verbale di udienza – Valore probatorio – Atto pubblico
Il verbale di udienza è un atto pubblico fino a querela di falso. Le pattuizioni di natura patrimoniale in esso contenute non sono irrilevanti
per le parti anche se non fatte proprie nella sentenza che definisce il relativo giudizio di separazione, nel corso del quale furono rilasciate.
»
SOMMARIO
1. Il caso – 2. Il contenuto degli accordi patrimoniali fra coniugi in sede di separazione – 3. Il valore probatorio del verbale di udienza
Svolgimento del processo
1.- Il Tribunale di Nola, con sentenza 22.5.2003, dichiarava risolto per
inadempimento dell’Associazione Nefertari, di cui rappresentante legale era R.C., il contratto di locazione, intercorso tra V.S., proprietario dello
stesso e marito della R., per inadempimento da parte dell’Associazione
nella corresponsione del canone annuale di lire un milione in ordine alle
semestralità giugno 1999 – giugno 2002, per la somma complessiva di
lire tre milioni, pari ad euro 15491,37 (erroneamente indicato, trattandosi, come si evince dagli atti di euro 1549,37: v. sentenza impugnata p. 2).
Il Tribunale rigettava, peraltro, la domanda riconvenzionale dispiegata
dalla R.
Questa domanda si fondava sul fatto che il V., in pendenza del giudizio
di separazione tra di lui e la moglie R.C. aveva raggiunto un accordo con
maggio 2010
340
Famiglia, Persone e Successioni 5
la stessa, in virtù del quale, tra l’altro, egli rinunciava ad ogni ragione e
spettanza per i canoni relativi all’occupazione dell’immobile da parte
dell’Associazione, gestita dalla R. e si era impegnato a stipulare un
nuovo contratto di locazione.
2.- Contro la sentenza sopra indicata proponeva appello la R. quale
rappresentante legale dell’Associazione ed in proprio.
Resisteva all’appello il V.
La Corte di Appello di Napoli con sentenza del 15.7.2004 rigettava l’appello della R. nella qualità di rappresentante legale dell’Associazione e
dichiarava inammissibile l’appello proposto dalla R. in proprio.
Avverso questa decisione propone ricorso per Cassazione la R. nella
predetta qualità ed in proprio «ai fini dell’integrità del contraddittorio»,
articolando quattro motivi.
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_340_343.3d
na 341
23/4/
11:41
pagi-
L E S E N T E N Z E A N N OTAT E
Resiste con controricorso il V., che alla fine propone ricorso incidentale
sulle spese, anche se come tale il ricorso non riporta alcun numero di
registro generale.
La ricorrente ha depositato memoria.
I due ricorsi vanno riuniti ex art. 335 c.p.c.
1.- Ai fini della decisione ritiene il Collegio di premettere quanto segue.
Emerge chiaramente dalla sentenza impugnata, nonché dagli scritti
difensivi (ricorso e controricorso) che, nella pendenza di un giudizio di
separazione tra i coniugi V.S. e R.C. all’udienza del 17.4.2001 le parti
raggiungevano un accordo, componendo ogni questione di natura patrimoniale.
In quella sede, infatti, i coniugi raggiunsero una intesa sul mantenimento delle figlie minori e il V. rinunciava ad ogni ragione e spettanza
per i canoni relativi all’occupazione dell’immobile condotto dalla Associazione Nefertari di cui rappresentante legale era la moglie R.C.
Avendo la R. richiesto di poter godere di un ulteriore immobile, rispetto
a quello fino ad allora condotto dalla Associazione di cui ella era rappresentante legale, il V. si impegnava espressamente a stipulare un
nuovo contratto entro il 30.4.2001 per la durata di sei anni più sei,
comunque fermo quanto raggiunto in ordine alla non dovuta corresponsione del canone a compensazione di parte dell’assegno originariamente previsto in sede presidenziale.
Il Tribunale di Nola con la sentenza sopra indicata dava atto dell’accordo
raggiunto dai coniugi all’udienza del 17.4.2001.
Questa sentenza «riportò unicamente gli accordi relativi alla separazione, all’assegno alimentare ed al regime dell’affidamento dei figli, non
potendo chiaramente recepire accordi che erano estranei all’oggetto
della causa», per cui «questi ultimi non potevano ritenersi vincolanti
per le parti» (p. 6 - 7 sentenza impugnata).
Posta questa premessa, osserva il Collegio che il ricorso meriti accoglimento per quanto di ragione e nei termini che seguono.
2. Con il primo motivo (violazione o falsa applicazione degli artt. 115 e
116 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 e omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione su tale decisivo e prospettato punto della
controversia in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5), la ricorrente si
duole del fatto che erroneamente la Corte del merito ha ritenuto la
mancata sottoscrizione degli accordi di cui al verbale di udienza del
17.4.2001.
Infatti, il verbale venne sottoscritto, tanto è che con sentenza del
25.5.2005 la stessa Corte adita ex art. 395 c.p.c., n. 4 ha rilevato il palese
errore contenuto nella sentenza soggetta a ricorso, anche se poi ha
dichiarato inammissibile la domanda per non essere l’errore di fatto
l’unico motivo di rigetto del gravame (p. 6 ricorso).
Si duole, inoltre, del fatto che sarebbero stati violati gli artt. 115 e 116
c.p.c. perchè il giudice dell’appello non avrebbe esaminato le prove in
modo unitario e globale, in quanto gli accordi erano stati sottoscritti.
Questo motivo va accolto nei termini seguenti.
Il punto centrale del ricorso parte dalla motivazione con cui il giudice
dell’appello ha rigettato il ricorso dell’Associazione.
Ha ritenuto la Corte territoriale che le pattuizioni tra il V. e la R. fossero
state di natura strettamente patrimoniale e come tali non potendo
trovare ingresso nella decisione del giudice non potevano per le parti
ritenersi vincolanti.
In sostanza, non essendo state tenute in considerazione dal giudice di
prime cure non spiegavano efficacia vincolante per le parti e, quindi,
nessun obbligo giuridico incombeva al V. di rispettarle.
Del pari, quelle pattuizioni non sarebbero valide perchè non sottoscritte
tra le parti e perché il verbale che le contiene non sarebbe un atto
pubblico (p. 7 sentenza impugnata).
3.- Osserva il Collegio che questa motivazione in parte già si è rilevata
errata, a seguito della sentenza revocatoria della stessa Corte, che ha
riconosciuto che le parti in effetti avevano sottoscritto il verbale di
udienza, ma poi ha dichiarato la inammissibilità della revocatoria in
quanto non rilevante l’errore ai fini della decisione.
Ma, ora, essendo il punto espressamente evidenziato come censura dal
secondo motivo (p. 8 - 9 del ricorso), essa motivazione risulta errata in
punto di diritto circa il disconoscimento al verbale di udienza della
natura di atto pubblico.
Al riguardo, e premesso che non coglie nel segno quanto dedotto dal
resistente e cioè che il verbale di udienza non sarebbe atto pubblico
perchè non sottoscritto dal cancelliere (p. 9 controricorso), secondo
quanto statuito in modo consolidato dalla giurisprudenza di questa
Corte (v. tra le tante, e di recente, Cass. n. 9389/2007), va posto in
rilievo che il verbale di udienza è un atto pubblico che fa fede fino a
querela di falso (già Cass. n. 1639/1989 ed abbastanza recente Cass. n.
11541/2002).
Avendo, quindi, la Corte territoriale evitato di prendere in esame il
verbale contenente l’accordo di natura strettamente economico per
questi due motivi da essa ritenuti rilevanti, se ne deve dedurre che la
sentenza in punto di rigetto dell’appello dell’Associazione nei confronti
della sentenza di primo grado si mostra carente di motivazione per
omesso esame dell’incidenza che nei confronti dell’Associazione quel
verbale avrebbe potuto avere.
Infatti, da un lato si ritiene nella sentenza impugnata che le pattuizioni
di natura economica contenute nel verbale fossero irrilevanti nel giudizio di sfratto per morosità perché non fatte proprie nella sentenza di
separazione passata in giudicato, dall’altro si afferma che quel verbale
contenente le pattuizioni non fosse valido – e ciò è smentito dalla
sentenza revocatoria – perché l’accordo non sarebbe stato sottoscritto
e che quel verbale non rivestisse la natura di atto pubblico facente fede
fino a querela di falso: il che non è corretto sotto il profilo interpretativo, attesa la giurisprudenza sopra richiamata.
In altri termini, il giudice dell’appello non ha affrontato il contenuto del
verbale e, quindi, non ha valutato l’incidenza dello stesso nei confronti
dell’Associazione.
Ne consegue che il ricorso va accolto in ordine al primo e secondo
motivo, restando assorbito il terzo ed il quarto che ne è una specificazione, anche se contiene poi un profilo (relativo alla applicabilità degli
artt. 1372 e 1411 c.c.), peraltro non espressamente dedotto avanti al
giudice dell’appello.
La sentenza impugnata va, quindi, cassata in ordine ai motivi accolti e
nei termini in cui sono stati accolti, con assorbimento degli altri motivi
e del ricorso incidentale circa il governo delle spese, con rinvio alla Corte
di Appello di Napoli in diversa composizione che provvederà anche sulle
spese del presente giudizio di cassazione.
Il ricorso della R. in proprio, anche se proposto ai meri fini della integrazione del contraddittorio, va dichiarato inammissibile in quanto avuto riguardo al terzo motivo ritiene il Collegio che in sostanza la R. abbia
svolto una censura su cui ha interesse che la corte decida, ma che non
poteva esprimere perchè il suo intervento in appello in proprio correttamente è stato deciso dal giudice dell’appello, come inammissibile,
non essendo ella stata parte nel giudizio di primo grado se non nella
qualità di rappresentante legale dell’associazione.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi; dichiara inammissibile il ricorso della R. in
proprio; accoglie per quanto di ragione e nei limiti delle censure accolte
il ricorso dell’Associazione Nefertari; cassa con rinvio alla Corte di Appello di Napoli in diversa composizione, che provvederà anche sulle
spese del presente giudizio di cassazione; dichiara assorbito il ricorso
incidentale del V.
1. Il caso
Le questioni analizzate nel presente commento sono emerse in
una controversia avente ad oggetto la risoluzione di un contratto
di locazione di immobile ad uso diverso da quello abitativo per
mancata corresponsione del canone di locazione da parte di un
soggetto giuridico, un’associazione, al proprietario dell’immobile, marito del legale rappresentate dell’associazione in questione.
Nel corso del giudizio di separazione fra coniugi il proprietario
Motivi della decisione
Famiglia, Persone e Successioni 5
341
maggio 2010
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_340_343.3d
na 342
23/4/
11:41
pagi-
L E S E N T E N Z E A N N OTAT E
dell’immobile e la di lui moglie avevano raggiunto un accordo in
virtù del quale, tra le altre pattuizioni, il marito rinunciava ad
ogni ragione e spettanza per i canoni di locazione relativi all’immobile occupato dall’associazione di cui la moglie era legale
rappresentante, impegnandosi a stipulare con la medesima un
nuovo contratto di locazione. Suddette pattuizioni – contenute in
un verbale di udienza (poi risultato) regolarmente sottoscritto
dalle parti e dal cancelliere – non venivano prese in considerazione dai giudici investiti della controversia in materia di locazione – sia di primo che di secondo grado – in quanto, essendo
state ritenute estranee all’oggetto della causa di separazione, non
erano state riportate nella definitiva, relativa sentenza e non potevano, appunto per questo, ritenersi per le parti vincolanti.
Cassa la Suprema Corte il giudizio della Corte di Appello per
omesso esame dell’incidenza che nei confronti dell’Associazione
il verbale contenente le pattuizioni di cui sopra avrebbe potuto
avere, tenuto conto che – come statuito in modo consolidato
dalla giurisprudenza di legittimità – il verbale di udienza è un
atto pubblico facente fede fino a querela di falso.
2. Il contenuto degli accordi patrimoniali fra coniugi in sede
di separazione
La sentenza in commento pone in rilievo, seppure in via indiretta, una prima tematica relativa alla varietà di contenuti che gli
accordi patrimoniali raggiunti fra i coniugi in sede di separazione
possano presentare.
Alcune pattuizioni di contenuto patrimoniale – quali, ad esempio, le intese relative all’assegno di mantenimento per il coniuge
e per i figli – costituiscono, unitamente alle decisioni riguardanti
questioni di carattere personale – quali l’espressa manifestazione
della volontà di separarsi e l’indicazione delle modalità di gestione dei rapporti con la prole (tempi di permanenza presso ciascun
genitore, scelta del luogo di residenza abituale, etc.) –, il contenuto necessario dell’accordo di separazione.
Questo viene tenuto distinto dal c.d. «contenuto eventuale» dell’accordo che, a seconda dei casi, può comprendere pattuizioni
di varia natura, molte delle quali trovano occasione, ma non
necessariamente causa, nella separazione(1).
Nonostante parte della dottrina(2) neghi la fondatezza di suddetta distinzione, la giurisprudenza l’ha più volte accolta(3) riconoscendo validità a tutti gli accordi patrimoniali ritenuti «espressione di una libera autonomia contrattuale»(4), purché gli stessi
non entrino in contrasto con quelle pattuizioni che costituiscono
il contenuto essenziale dell’accordo di separazione(5).
Nel caso di specie, in verità, l’accordo di cui trattasi viene raggiunto dalle parti in udienza, «nella pendenza di un giudizio di
separazione», ovvero – se ne evince – nel corso di una separazione giudiziale. In quella sede – si legge nella narrazione – «le parti
raggiungevano un accordo componendo ogni questione di natura patrimoniale», inclusa un’intesa sul mantenimento della prole.
La sentenza che concludeva il giudizio, tuttavia, faceva propri i
soli accordi relativi alla separazione, al mantenimento e al regime di affidamento dei figli, «non potendo recepire accordi che
erano estranei all’oggetto della causa».
Sempre in narrazione, è doveroso precisarlo, si da atto del fatto
che la rinuncia del marito ai canoni di locazione dovuti dall’associazione rappresentata dalla moglie era stata concessa «a compensazione di parte dell’assegno originariamente previsto in sede presidenziale» a favore di quest’ultima; sembrerebbe dunque
trattarsi di un accordo che, pur non trovando nel giudizio di
separazione vera e propria causa – se non altro in quanto diretto
a regolamentare rapporti con un soggetto estraneo al giudizio in
questione –, oltre ad avere in esso trovato origine, ne ha in parte
influenzato l’esito, condizionando le altre intese patrimoniali – in
particolare l’entità dell’assegno attribuito alla moglie – poi fatte
proprie dalla sentenza di separazione.
Sennonché proprio quest’ultimo aspetto potrebbe sollevare qualche dubbio in merito alla legittimità del richiamato accordo.
Come sopra puntualizzato, si è soliti riconoscere validità e piena
efficacia a quelle pattuizioni di natura patrimoniale raggiunte fra
i coniugi in corso di separazione che costituiscono il c.d. contenuto eventuale dell’accordo, fin tanto che le stesse non entrano
in contrasto con le altre intese – patrimoniali e non – che ne
realizzano il c.d. «contenuto essenziale», tra le quali sicuramente
rientra la determinazione del quantum dell’assegno.
Il fatto che la parte beneficiaria dell’assegno rinunci a quota
parte di quest’ultimo in ragione dell’ottenimento di un vantaggio
del tutto indiretto (cancellazione dei canoni di locazione dovuti
da un’associazione da lei rappresentata) potrebbe, allora, apparire non solo «anomalo», ma fin anche illegittimo, specialmente a
chi attribuisce al diritto al mantenimento natura di un diritto
indisponibile(6).
Il dibattito sul punto è aperto(7), tuttavia appare condivisibile la
posizione di chi sostiene che ben possa la parte beneficiaria procedere ad una rinuncia dell’assegno di mantenimento – in ragione di valutazioni rimesse a soggettive considerazioni – fin tanto
che suddetta rinuncia non arrivi a pregiudicare il suo diritto a
ricevere quanto necessario per soddisfare le fondamentali esigenze di vita(8); ovvero, in altri termini, a quella quota parte di
assegno di mantenimento che arrivi a coincidere con un eventuale assegno alimentare, il quale, come noto, trovando la propria fonte nell’incapacità del coniuge che versa in stato di biso-
(1) In dottrina tra i primi FALZEA, La separazione personale, 1943, Milano,
98 ss.
(2) JEMOLO, Contenuto dell’atto di separazione consensuale dei coniugi, in
Riv. dir. civ., 1972, II, 207 s.; più di recente SALA, Accordi successivi all’omologazione della separazione ed autonomia negoziale dei coniugi, in Dir.
famiglia, 1995, 1488 ss., nota a Trib. Marsala, 23.12.1994.
(3) Si vedano Cass., sez. I, 15.5.1997, n. 4306, in Nuova giur. comm., 1999,
I, 278 (nota di Zanuzzi) e Cass., sez. I, 15.3.1991, n. 2788, in Foro it., 1991, I,
c. 1787.
(4) SESTA, Diritto di famiglia, 2003, 234 ss., in particolare a 235.
(5) Quando suddette pattuizioni – come accade il più delle volte – hanno
ad oggetto trasferimenti immobiliari, il tema maggiormente dibattuto –
tanto dalla dottrina quanto dalla giurisprudenza – è quello che concerne
la possibilità o meno di attribuire al verbale di separazione consensuale la
valenza di titolo idoneo alla trascrizione; in tema OBERTO, I trasferimenti
mobiliari e immobiliari in occasione di separazione e divorzio, in Famiglia
e dir., 1995, 155 ss.; in particolare con riferimento alle pattuizioni aventi al
oggetto la casa familiare ci sia concesso rinviare al nostro lavoro Affidamento condiviso e casa familiare, Napoli, 2010, (in corso di pubblicazione),
125 e ss.
(6) In particolare si discute, sia in dottrina che in giurisprudenza, sulla
rinuziabilità o meno dell’assegno di mantenimento: a fronte di chi sostiene che l’assegno di mantenimento trovi il suo fondamento nell’art. 143 c.c.
e, quindi, rientri tra i diritti e doveri dei coniugi inderogabili, dunque,
irrinunciabili (da che ne consegue la nullità di qualsiasi pattuizione tramite la quale il coniuge, pur trovandosi nelle condizioni per beneficiare di
detto assegno, vi abbia rinunciato), si contrappone chi sostiene che, cosı̀
come i coniugi sono liberi di determinare il quantum dell’assegno, sono
parimenti liberi di escludere pattiziamente la corresponsione dello stesso.
(7) Si veda per tutti C.M. BIANCA, Diritto civile, II, La famiglia, le successioni, Milano, 2005, 229.
(8) Ibidem, 229.
maggio 2010
342
Famiglia, Persone e Successioni 5
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_340_343.3d
na 343
23/4/
11:41
pagi-
L E S E N T E N Z E A N N OTAT E
3. Il valore probatorio del verbale di udienza
Le pattuizioni che qui rilevano – concernenti la rinuncia da parte
del marito ai canoni di locazione dell’immobile locato all’associazione rappresentata dalla moglie a parziale compensazione di
parte dell’assegno di mantenimento originariamente previsto in
sede presidenziale a favore di quest’ultima – risultano, allora,
potersi ascrivere a quella categoria di accordi che nel giudizio
di separazione non trovato causa, ma occasione, e restano
espressione di una volontà contrattuale raccolta in un verbale
di udienza – «documento» cui tanto la dottrina quanto la giurisprudenza riconoscono ormai da tempo valore di atto pubblico –,
la cui validità e rilevanza prescinde dal fatto che le stesse siano
state poi trasfuse nella sentenza che definiva il relativo giudizio.
La sentenza in commento, richiamando precedente giurisprudenza conforme(9), torna ad affermare che al verbale di udienza
deve a tutti gli effetti essere riconosciuta natura di atto pubblico,
facente fede fino a querela di falso.
A norma di quanto stabilito dall’art. 2699 c.c. l’atto pubblico è,
infatti, il documento redatto da un notaio o da altro pubblico
ufficiale specificamente autorizzato ad attribuirgli pubblica fede,
qualifica che non può essere negata al giudice – o al cancelliere
nell’espletamento delle sue funzioni di ausiliario del giudice(10) –
che sottoscrive le dichiarazioni recepite nel verbale di udienza.
Tra le formalità che devono essere rispettate affinché l’atto sia
valido assume un rilievo particolare la sottoscrizione dell’ufficiale rogante(11), ma, per quanto attiene il verbale di udienza, la
giurisprudenza di legittimità ha già avuto modo di affermare
che l’eventuale mancata assistenza del cancelliere nella formazione del processo verbale di udienza o l’omessa sottoscrizione
del verbale stesso non comportano, comunque, l’inesistenza o la
nullità del relativo atto, «in quanto la funzione del cancelliere ha
soltanto natura integrativa di quella del giudice e le predette
mancanze non incidono sull’idoneità dell’atto al raggiungimento
degli scopi cui è destinato»(12).
Correttamente, dunque, la Corte, non avendo rilevato la presenza
di elementi che giustifichino la mancata valutazione, da parte dei
giudici del merito, degli accordi assunti in corso di udienza di
separazione dalle parti di quel giudizio, accoglie il ricorso dell’Associazione, cassando con rinvio la decisione della Corte di
Appello, per omesso esame dell’incidenza che nei confronti dell’Associazione quel verbale avrebbe potuto avere.
&
(9) Cass. 2.8.2002, n. 11541, in Giust. civ. mass., 2002, 1438.
(10) Cosı̀ Cass. 15.5.1997, n. 4306, in Nuova giur. comm., 1999, I, 278 e ss.,
con nota di Zanuzzi.
(11) PATTI, Prova documentale, artt. 2699-2720, in Comm. Scialoja e Branca, 1996, 30 ss., in part. 35.
(12) Cosı̀ Cass. 20.4.2007, n. 9389, in Giust. civ. mass., 2007, 4.
gno di provvedere al proprio mantenimento, è espressamente
irrinunciabile ex art. 447 c.c.
Famiglia, Persone e Successioni 5
343
maggio 2010
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_344_352.3d
na 344
23/4/
11:41
pagi-
L E S E N T E N Z E A N N OTAT E
» Fa m i g l i a d i f a t t o
Verso la tutela giuridica
delle famiglie omosessuali?
Arcangelo Giuseppe Annunziata
Avvocato e Dottorando di ricerca in Diritto privato
Roberto Francesco Iannone
Dottorando di ricerca in Diritto privato
SINTESI
a) La rilevanza giuridica delle unioni omosessuali? La parola passa
alla Consulta
omosessuale.
Nell’ordinamento italiano non esiste alcuna norma che vieti espressa-
Alcuni Stati europei hanno aperto il matrimonio a persone dello stesso
mente il matrimonio tra persone dello stesso sesso; pertanto, gli artt.
sesso (Olanda, Belgio, Spagna, Norvegia, Svezia), altri hanno istituito
107, 108, 143, 143 bis e 156 bis sono contrari alle norme costituzionali di
partnerships riservate a coppie omosessuali (ad esempio, Germania,
cui agli artt. 2, 3, 10, 2º co., 13, 29 e 117 Cost.». Il Tribunale di Ferrara ha
Regno Unito), altri ancora (come nel caso dei Pacs francesi) hanno
ritenuto la questione di legittimità costituzionale delle norme su ci-
previsto una disciplina dei patti di convivenza, aperta sia alle coppie
tate non manifestamente infondata e ha trasmesso gli atti alla Corte
di sesso diverso, sia a quelle dello stesso sesso.
Costituzionale.
In tale contesto, resta inspiegabile il silenzio del legislatore italiano
b) Una lettura costituzionalmente orientata di famiglia
ove si consideri che recenti direttive comunitarie hanno affermato il
hanno sentito la necessità di affrontare e disciplinare la questione
Nessun principio costituzionale si pone come ostacolo ad una regolamen-
principio per cui il rispetto del diritto alla libertà di circolazione all’in-
tazione delle unioni omosessuali, anzi non deve trascurarsi che la Costi-
terno dell’Unione Europea passa anche attraverso la tutela delle rela-
tuzione vive nella storia e deve essere letta in relazione alle trasforma-
zioni affettive.
zioni economiche, sociali e culturali. A ben vedere neppure l’art. 29 Cost.
È sintomatico come in Italia resti comunque diffusa la convinzione
costituisce un ostacolo al riconoscimento di siffatte unioni. Difatti, se è
dell’esistenza di una regola inespressa concernente la necessaria dif-
vero che la funzione dell’art. 29 Cost. è quella di accordare tutela primaria
ferenza di sesso tra i nubendi.
alla famiglia legittima, ciò non significa che si debba negare rilevanza e
d) Prospettive de iure condendo
riconoscimento ad altre forme di convivenza.
Il legislatore italiano è, dunque, chiamato ad adempiere all’obbligo
Ostacolare il diritto a sposarsi (a qualunque coppia al di là delle ten-
(costituzionale) di tutelare la pari dignità e i diritti (esistenziali) delle
denze sessuali) si traduce, dunque, in una lesione dell’art. 2 Cost., che
persone (al di là di ogni discriminazione) con la previsione di una
implica la libertà di scegliere autonomamente, al riparo da qualsiasi
modalità di riconoscimento formale dell’unione tra persone dello stes-
interferenza dello Stato, la persona con cui dividere la propria vita, e
so sesso, prendendo come esempio (o coniandone dei nuovi) i modelli
dell’art. 3 Cost. che vieta ogni discriminazione irragionevole.
variamente declinati nei diversi Paesi europei.
c) L’isolamento dell’Italia dal contesto europeo
L’assoluta carenza di tutela derivante dal mancato riconoscimento le-
Nel panorama europeo, salta agli occhi l’isolamento dell’Italia di
gislativo del diritto di formalizzazione delle unioni di fatto (e si badi
fronte ad una realtà che muta ovunque. In Europa, a parte l’Italia,
bene di qualunque forma di convivenza) determina un insanabile e
l’Austria, l’Irlanda e la Grecia, quasi tutti i Paesi membri dell’Unione
non più tollerabile contrasto con i principi e i valori costituzionali.
Tribunale Ferrara, (ord.) 16 dicembre 2009
Pres. Maiorano – Rel. Stigliano
Richiesta di pubblicazioni matrimoniali presentata da coppia dello stesso sesso – Rifiuto del Comune – Rilevanza giuridica coppie
omosessuali – Dignità della persona – Lettura costituzionalmente orientata di famiglia
Il diritto di contrarre matrimonio è un momento essenziale di espressione della dignità umana, esso deve essere garantito a tutti senza
discriminazioni derivanti dal sesso o dalle condizioni personali (quali l’orientamento sessuale), con conseguente obbligo dello Stato di
intervenire in caso di impedimenti all’esercizio.
maggio 2010
344
Famiglia, Persone e Successioni 5
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_344_352.3d
na 345
23/4/
11:41
pagi-
L E S E N T E N Z E A N N OTAT E
Di conseguenza non pare non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143
bis e 156 bis, 231 c.c. nella parte in cui non consentono che le persone dello stesso sesso possano contrarre matrimonio, per contrasto con gli
artt. 2, 3, 29 Cost.
»
SOMMARIO
1. Il fatto – 2. Una lettura costituzionalmente orientata per arginare un pregiudizio – 3. L’isolamento dell’Italia nel contesto europeo – 4. Conclusione
Osserva
hanno proposto ricorso avverso il provvedimento datato 25.3.2009 con
il quale l’ufficiale dello stato civile del Comune di Ferrara ha rifiutato di
procedere alla pubblicazione di matrimonio dalle stesse richiesta, ritenendo che: «l’ordinamento giuridico italiano non consente né disciplina
il matrimonio tra persone dello stesso sesso»;
l’art. 29 Cost. dispone che «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio» e che il costituente
ha inteso far riferimento al tradizionale rapporto di coniugio inteso tra
soggetti di sesso diverso, secondo una concezione che, prima ancora
della legge, trova il suo fondamento nel sentimento, nella cultura, nella
storia della nostra comunità nazionale;
alla luce di questo si deve intendere che la diversità di sesso è elemento
essenziale nel nostro ordinamento per poter qualificare l’istituto del
matrimonio;
il Ministero dell’Interno con circolare M.i.a.c.e.l. n. 2 del 26.3.2001 si è
espresso sull’argomento che «non è trascrivibile il matrimonio celebrato
all’estero tra omosessuali, di cui uno italiano, in quanto contrario alle
norme di ordine pubblico».
Le ricorrenti rilevano che nel nostro ordinamento non esisterebbe un
divieto espresso di matrimonio tra persone dello stesso sesso, non essendo previsto tra i requisiti per contrarlo di cui all’art. 84 c.c. la disparità di sesso e che la circolare del Ministero degli Interni citata nel
provvedimento si riferirebbe all’ordine pubblico internazionale e non
all’ordine pubblico interno, che invece andrebbe richiamato nel caso
di specie.
Inoltre le ricorrenti sostengono che, in ogni caso, l’interpretazione letterale delle norme codicistiche posta a fondamento dell’atto di diniego
da parte del Comune sarebbe contraria alla Costituzione italiana, ed in
particolare agli artt. 2, 3, 10 2º co., 13, 29 e 117.
Sulla base di tali argomenti le ricorrenti hanno chiesto al Tribunale, in
via principale, di ordine all’ufficiale di stato civile del comune di Ferrara
di procedere alla pubblicazione del matrimonio rifiutata e, in via subordinata, di sollevare la questione di legittimità costituzionale, previa
positiva valutazione della rilevanza e non manifesta infondatezza, degli
artt. 107, 108, 143, 143 bis e 156 bis c.c. rispetto agli artt. 2, 3, 10 2º co., 13,
29 e 117 Cost., rimettendo gli atti alla Corte Costituzionale.
Con il ricorso si chiede, quindi, che il Tribunale si pronunci in ordine alla
riconoscibilità del diritto delle persone omosessuali di contrarre matrimonio con persone del proprio sesso.
In via preliminare va osservato che in mancanza di modifiche legislative
in materia, il nostro attuale ordinamento non ammette il matrimonio
tra omosessuali.
Infatti, pur non esistendo una norma definitoria espressa, l’istituto del
matrimonio, cosı̀ come previsto nell’attuale sistema giuridico italiano, si
riferisce indiscutibilmente solo al matrimonio tra persone di sesso diverso: se è vero che il codice civile non indica espressamente la differenza di sesso fra i requisiti per contrarre matrimonio, diverse sue norme, fra cui quelle menzionate nel ricorso e sospettate d’incostituzionalità, si riferiscono al marito e alla moglie come ‘‘attori’’ della celebrazione (107 e 108), protagonisti del rapporto coniugale e autori della
generazione (artt. 231 ss.).
La medesima distinzione di sesso tra i coniugi si rinviene in numerosissime altre disposizioni (143, 143 bis, 143 ter, 156 bis ecc.) e specificamente in quelle che disciplinano il concreto atteggiarsi dei diritti e
doveri dei coniugi tra loro e verso i figli, nonché nello stesso ordinamento sullo stato civile emanato con il d.p.r. n. 396/2000, laddove
prevede, nell’art. 64 lett. e), che l’atto di matrimonio deve specificamen-
te indicare «la dichiarazione degli sposi di volersi prendere rispettivamente in marito e in moglie».
Pertanto il chiaro tenore delle norme sopra indicate esclude la possibilità di un matrimonio tra persone dello stesso sesso e ciò si spiega con
una consolidata e ultramillenaria nozione di matrimonio come unione
di un uomo e di una donna.
Peraltro, come hanno già esattamente evidenziato il Tribunale di Venezia e la Corte d’Appello di Trento, d’altra parte non si può ignorare il
rapido trasformarsi della società e dei costumi avvenuto negli ultimi
decenni, nel corso dei quali si è assistito al superamento del monopolio
detenuto dal modello di famiglia tradizionalmente intesa ed al contestuale sorgere spontaneo di forme diverse, seppur minoritarie, di convivenza, che chiedono protezione ispirandosi al modello tradizionale e
come quello mirano ad essere considerate e disciplinate: si tratta di
nuovi bisogni, legati anche all’evoluzione della cultura e della civiltà,
che sollecitano tutela e riconoscimento, imponendo un’attenta meditazione sulla persistente compatibilità della normativa vigente con i principi costituzionali.
Il primo riferimento costituzionale con il quale confrontarsi, suggerito
anche dalle ricorrenti, è sicuramente quello di cui all’art. 2 Cost., nella
parte in cui riconosce i diritti inviolabili dell’uomo (diritti già proclamati
dalla Costituzione ovvero individuati dalla Corte Costituzionale) non
solo nella sua sfera individuale ma anche, e forse soprattutto, nella
sua sfera sociale, ossia, secondo la formula della norma, «nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità», fra le quali indiscutibilmente la famiglia deve essere considerata la prima e fondamentale
espressione.
La famiglia è infatti la formazione sociale primaria nella quale si esplica
la personalità dell’individuo e nella quale vengono quindi tutelati i suoi
diritti inviolabili, conferendogli uno status (quello di persona coniugata)
che assurge a segno caratteristico all’interno della società e che conferisce un insieme di diritti e di doveri del tutto peculiari e non sostituibili
tramite l’esercizio dell’autonomia negoziale.
Il diritto di sposarsi configura un diritto fondamentale della persona
riconosciuto sia a livello sopranazionale (artt. 12 e 16 della Dichiarazione
Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, artt. 8 e 12 Cedu e ora l’artt. 7
e 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea proclamata
a Nizza il 7.12.2000), sia dall’art. 2 Cost.: è un diritto inteso sia nella sua
accezione positiva di libertà di contrarre matrimonio con la persona
prescelta (cosı̀ anche C. Cost. n. 445/2002), sia in quella negativa di
libertà di non sposarsi e di convivere senza formalizzare l’unione (cosı̀
C. Cost. 13.5.1998, n. 166).
La libertà di sposarsi (o di non sposarsi) e di scegliere il coniuge autonomamente riguarda la sfera dell’autonomia e dell’individualità ed è
quindi una scelta sulla quale lo Stato non può interferire, a meno che
non vi siano interessi prevalenti incompatibili; ora, nell’ipotesi in cui
una persona intenda contrarre matrimonio con altra persona dello stesso sesso nessun pericolo di lesione ad interessi pubblici o privati di
rilevanza costituzionale, quali potrebbero essere la sicurezza o la salute
pubblica, appare verificarsi.
L’unico diritto che corrisponde anche ad un indiscutibile interesse sociale è quello dei figli di crescere in un ambiente familiare idoneo: è
evidente, però, che tale interesse potrebbe incidere esclusivamente sul
diritto delle coppie omosessuali coniugate di avere figli adottivi, diritto,
che è un diritto distinto, e non necessariamente connesso, rispetto a
quello di contrarre matrimonio.
Il secondo parametro di riferimento da prendere in esame, strettamente connesso al precedente, è quello di cui all’art. 3 Cost., che vieta ogni
Famiglia, Persone e Successioni 5
345
maggio 2010
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_344_352.3d
na 346
23/4/
11:41
pagi-
L E S E N T E N Z E A N N OTAT E
discriminazione irragionevole, conferendo a tutti i cittadini «...pari dignità sociale, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione,
di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali», impegnando lo
Stato a «... rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che
limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il
pieno sviluppo della persona umana...».
Poiché il diritto di contrarre matrimonio è un momento essenziale di
espressione della dignità umana, esso deve essere garantito a tutti,
senza discriminazioni derivanti dal sesso o dalle condizioni personali
(quali l’orientamento sessuale), con conseguente obbligo dello Stato
d’intervenire in caso di impedimenti all’esercizio.
Ne consegue che se lo scopo del principio di cui all’art. 3 Cost. è vietare
irragionevoli disparità di trattamento, la norma che esclude, o comunque non consente alle persone omosessuali, dal diritto di contrarre
matrimonio con persone dello stesso sesso, cosı̀ seguendo il proprio
orientamento sessuale (né patologico, né illegale), non ha alcuna giustificazione razionale, soprattutto se raffrontata con l’analoga situazione delle persone transessuali, che, ottenuta la rettificazione di attribuzione di sesso in applicazione della l. 14.4.1982, n. 164 possono contrarre
matrimonio con persone del proprio stato di nascita.
Al riguardo va rammentato che la coerenza con la Costituzione della
legge n. 164/1982 è stata riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la
sentenza n. 161 del 6.5.1985 e che le valutazioni espresse dalla Corte
sulla norma sospettata d’incostituzionalità confortano la tesi qui sostenuta, essendo stata riconosciuta la legittimità costituzionale non tanto
sulla base del fatto che i soggetti abbiano compiuto e portato a termine
un trattamento medico chirurgico e che vi sia stato il provvedimento
del Tribunale, che attribuisce il sesso opposto, ma in base al fatto che la
Corte ha definito l’orientamento del transessuale come «naturale modo
di essere» sostenendo che la legge sospettata d’incostituzionalità «si è
voluta dare carico di questi ‘‘diversi’’ producendo una normativa intesa
a consentire l’affermazione della loro personalità e in tal modo ad
aiutarli a superare l’isolamento, l’ostilità e l’umiliazione che troppo
spesso li accompagnano nella loro esistenza. Cosı̀ operando il legislatore italiano si è allineato agli orientamenti legislativi, amministrativi e
giurisprudenziali, già affermati in numerosi Stati, fatti propri, all’unanimità dalla Commissione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (decisione 9.5.1978, nel caso Daniel Oosten Wijck contro Governo belga) e
la cui adozione in tutti gli Stati membri della Comunità è stata caldeggiata con una proposta di risoluzione presentata al Parlamento Europeo
nel febbraio 1983. La l. n. 164 del 1982 si colloca, dunque, nell’alveo di
una civiltà giuridica in evoluzione, sempre più attenta ai valori di libertà
e dignità, della persona umana».
Non vi è dubbio che la l. n. 164 del 1982 ha profondamente mutato i
connotati dell’istituto del matrimonio civile consentendone la celebrazione tra soggetti dello stesso sesso biologico ed incapaci di procreare,
valorizzando cosı̀ l’orientamento psicosessuale della persona e dunque
oggi l’identità di sesso biologico non può essere invocata per escludere
gli omosessuali dal matrimonio.
Se è vero, infatti, che fattore meritevole di tutela è l’orientamento
psicosessuale della persona, non appare in alcun modo giustificata la
discriminazione tra coloro che hanno naturale orientamento psichico
che li spinge ad una unione omosessuale, e non vogliono pertanto
effettuare alcun intervento chirurgico di adattamento, né ottenere la
rettificazione anagrafica per conseguire un’attribuzione di sesso contraria al sesso biologico, ai quali è precluso il matrimonio, e i transessuali
che sono ammessi al matrimonio pur appartenendo allo stesso sesso
biologico ed essendo incapaci di procreare.
In sintesi la parità di diritti per i cittadini omosessuali potrà dirsi realizzata solo se sarà loro consentito di scegliere di regolare la propria vita
e i loro propri rapporti giuridici e patrimoniali optando fra le stesse
alternative che sono a disposizione dei cittadini transessuali ed eterosessuali.
In realtà le opinioni contrarie al riconoscimento alla libertà matrimoniale tra persone dello stesso sesso, per giustificare la disparità di trattamento invocano ragioni etiche, legate alla tradizione o alla natura,
d’altra parte, però non solo i costumi familiari si sono radicalmente
maggio 2010
346
Famiglia, Persone e Successioni 5
trasformati, ma soprattutto quando si discute di diritti fondamentali,
ogni difesa formale della libertà, priva di un reale supporto giuridico
strutturale, è debole e priva di effettività.
Un terzo parametro di riferimento, anch’esso strettamente connesso
con gli altri due, è proprio il disposto dell’art. 29, 1º co. della Costituzione, invocato al contrario (anche nel caso specifico dall’Ufficiale di Stato
civile di Ferrara) come principale dato normativo per negare il matrimonio omosessuale: laddove si afferma che la Repubblica riconosce i
diritti della famiglia come «società naturale fondata sul matrimonio» si
ritiene, infatti, che con tale espressione si sia inteso tutelare il solo
nucleo legittimo di carattere tradizionale, ossia l’unione di un uomo
ed una donna suggellata dal vincolo giuridico del matrimonio.
La famiglia costituzionalmente tutelata e riconosciuta, intesa come
società naturale, è, quindi, solamente quella fondata sul matrimonio:
dunque qualsiasi altro tipo di «famiglia» (nel senso di associazione
totale di vita tra due persone) non fondata sul matrimonio non solo
non ha riconoscimento e tutela costituzionale, ma è anche da ritenersi
«innaturale».
Infatti se la norma costituzionale impone di privilegiare la famiglia
fondata sul matrimonio appare difficile negare che, prevedendo espressamente una norma apposita, il legislatore costituente ha inteso riconoscere alla famiglia fondata sul matrimonio un ruolo particolare, per
cosı̀ dire rafforzato.
Deve chiedersi, dunque, se gli omosessuali hanno o non hanno il diritto
ad avere una famiglia (nel senso di associazione dotale di vita tra due
persone non semplicemente diretta a soddisfare in via privata degli
affetti, ma avente un interesse pubblico il cui atto fondativo deve essere serio, consapevole, responsabile e dichiarato di fronte alla comunità) come tutti gli altri cittadini, vale a dire una famiglia fondata sul
matrimonio.
Sul punto deve premettersi che il testo della norma non limita l’istituto
del matrimonio a persone di sesso diverso: in questo senso, i nostri
costituenti, già nel 1945, si sono comportati in modo molto diverso
dai costituenti di altri Paesi affini al nostro che, invece, hanno specificato espressamente che i coniugi devono essere di sesso diverso (e che
per questo, in anni più recenti, si sono trovati di fronte a difficoltà
maggiori di quanto non presenti il nostro testo costituzionale).
Naturalmente, è inutile sostenere che i padri fondatori della nostra
Costituzione avessero in mente l’eventualità di estendere il matrimonio
anche a persone dello stesso sesso o all’eventualità che in un futuro si
sarebbe posto al legislatore ordinario questo problema: essi, semplicemente, non hanno specificato l’esigenza della diversità di sesso perché
per essi era naturale che il matrimonio fosse possibile soltanto tra
persone di sesso diverso.
Questo riferimento all’intenzione del legislatore costituente non è, però, un argomento decisivo, poiché deve porsi il problema di come interpretare oggi una disposizione in sé neutra, scritta in anni molto diversi
dai nostri, in presenza di un contesto sociale di riferimento che certamente ha poco a che fare con quello dell’Italia (e dell’Europa) attuale.
È evidente che il problema interpretativo si accentra soprattutto sul
termine «naturale» che compare nell’articolo della Costituzione dato
che tale termine costituisce di fatto l’unico limite che la norma pone
al riconoscimento costituzionale della famiglia come società fondata
sul matrimonio.
A questo proposito, va da sé che non può essere attribuito al termine
naturale ciò che viene ritenuto tale da una particolare concezione ideologica, religiosa o altro: l’uso di un tale criterio interpretativo sarebbe
aberrante in uno Stato che si è fondato costituzionalmente in contrapposizione (e superamento) del modello dello Stato etico, quale che sia
questa etica.
Si asserisce che il termine naturale non può che riferirsi alla famiglia
come tradizionalmente intesa perché questa tradizione segna l’identità
tipica della società italiana e siccome questa tradizione da un punto di
vista storico-religioso ammette soltanto la famiglia eterosessuale, l’art.
29 deve essere interpretato di conseguenza: una norma non può essere,
però, interpretata oggi solo alla luce del suo significato storico poiché di
solito, accade il contrario e cioè che una norma, storicamente datata,
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_344_352.3d
na 347
23/4/
11:41
pagi-
L E S E N T E N Z E A N N OTAT E
debba essere interpretata alla luce dei bisogni e dei dati del presente
ovvero, in senso storico, sı̀, ma evolutivo.
In realtà, le interpretazioni dottrinali sono concorsi nel ritenere che
naturale vada inteso come dato pregiuridico, attestante la preesistenza
e l’autonomia della famiglia, come comunità originaria, dallo Stato, che
il diritto positivo si limita appunto a riconoscere e che la famiglia è un
dato sociologico, che la Costituzione non crea ma si limita a tutelare
(durante i lavori costituenti si affermò che: «Escluso che qui ‘‘naturale’’
abbia un significato zoologico o animalesco, o accenni ad un legame
puramente di fatto, non si vuol dire con questa formula che la famiglia
sia una società creata al di fuori di ogni vincolo razionale ed etico. Non è
un fatto, la famiglia, ma è appunto un ordinamento giuridico e quindi
qui ‘‘naturale’’ sta per ‘‘razionale"»).
Una società complessa e articolata può presentare, però, diversi modelli
di convivenza, come quella eterosessuale o quella omosessuale e il
riferimento al concetto di naturale non basta in una società che può
presentare tanti modelli naturali (nel senso letterale di «realtà fenomeniche»).
Occorre, quindi, individuare un criterio oggettivo che porti a selezionare
il modello o i modelli rilevanti e scartare quello che non lo è o addirittura a censurare quello che, benché naturale, possa essere avvertito
come negativo: questo criterio non può stare se non dentro la Costituzione, nei principi che la fondano.
La Costituzione italiana del dopoguerra non è certamente eticamente
orientata, sebbene si fondi, ovviamente, su dei valori e non potrebbe
esistere altrimenti e, date le esperienze del passato, il valore principale
fondante è indubbiamente il rispetto della dignità della persona, di
ciascuna persona, sia presa in sé come valore assoluto, sia presa in
rapporto agli altri, con i quali essa convive e si confronta.
Di conseguenza non appare conforme alla dignità della persona privare
qualcuno della possibilità di fondare una famiglia in ragione di un
criterio come quello dell’orientamento sessuale, di un criterio, cioè,
che, come quello della razza, della nazionalità, dell’origine etnica,
ecc., non fa parte delle scelte individuali, ma è dato, inerente, connaturato, congenito.
Il fatto che la tutela della tradizione non rientri nelle finalità dell’art. 29
Cost. e che famiglia e matrimonio si presentino come istituti di carattere aperto alle trasformazioni che necessariamente si verificano nella
storia, è poi indubitabilmente dimostrato dall’evoluzione che ha interessato la loro disciplina dal 1948 ad oggi.
Il codice civile del 1942 recepiva un modello di famiglia basato su di un
matrimonio indissolubile e su di una struttura gerarchica a subordinazione femminile; basti pensare al fatto che l’art. 143 parlava solo di
obblighi reciproci e non di diritti, alla potestà maritale dell’art. 144, al
dovere del marito di proteggere la moglie di cui all’art. 145, all’istituto
della dote.
Tale caratterizzazione autoritaria e gerarchica si traduceva, sul fronte
penale, nella repressione del solo adulterio femminile, nella responsabilità penale del marito solamente per abuso dei mezzi di correzione nei
confronti della moglie, nella previsione del delitto d’onore, nell’estinzione del reato di violenza carnale a mezzo del matrimonio riparatore.
Sono ben noti gli interventi della Corte Costituzionale a tutela dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi fra cui la storica sentenza n.
126/1968 che, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 559, 1º
co., e 2 c.p. che puniva il solo adulterio della moglie, ha sottolineato
proprio il mutamento della società, superando cosı̀ il proprio orientamento precedente solo di pochi anni, con il quale, richiamandosi al
«tradizionale concetto della famiglia, quale tuttora vive nella coscienza
del popolo», aveva dichiarato non fondata la medesima questione (sentenza n. 64/1961).
Anche in questo caso è stata proprio la Corte Costituzionale ad aprire la
strada ad una riforma del diritto di famiglia, attuata con la legge del
1975, effettivamente in linea con i principi di eguaglianza morale e
giuridica dei coniugi superando la tradizione ultramillenaria secondo
la quale la donna nell’ambito della famiglia doveva rivestire un ruolo
subordinato.
Ancora, vanno menzionati la mancata «istituzionalizzazione dell’indis-
solubilità del matrimonio e la conseguente introduzione legislativa del
divorzio, nonché la progressiva attuazione per via legislativa (da ultimo
con la l. 54/2006) del principio costituzionale di eguaglianza tra figli
legittimi e figli naturali: tutti esempi che dimostrano come l’accezione
costituzionale di famiglia, lungi dall’essere ancorata ad una conformazione tipica ed inalterabile, si sia al contrario dimostrata permeabile ai
mutamenti sociali, con le relative ripercussioni sul regime giuridico
familiare».
Le considerazioni che precedono sul significato dell’espressione «società
naturale» e sull’estraneità della tutela del «matrimonio tradizionale»
alle finalità dell’art. 29 Cost. portano a ritenere prive di fondamento
quelle tesi che giustificano il divieto di matrimoni tra persone dello
stesso sesso ricorrendo ad argomenti della procreazione.
Al riguardo sarebbe sufficiente sottolineare come né la Costituzione, né
il diritto civile prevedano la capacità di avere figli come condizione per
contrarre matrimonio, ovvero l’assenza di tale capacità come condizione
di invalidità o causa di scioglimento del matrimonio, essendo matrimonio e filiazione istituti nettamente distinti.
Se cosı̀ non fosse le persone sterili non potrebbero sposarsi e, quindi,
non potrebbero formare una «famiglia» costituzionalmente tutelata.
Una volta escluso che sulla disposizione dell’art. 29 Cost. possa trovare
fondamento il trattamento differenziato delle coppie omosessuali rispetto a quelle eterosessuali, si ritiene che tale norma, proprio nel
momento in cui attribuisce tutela costituzionale alla famiglia legittima,
contribuendo essa, grazie alla stabilità del quadro delle relazioni sociali,
affettive ed economiche che comporta, alla realizzazione della personalità dei coniugi, lungi dal costituire un ostacolo al riconoscimento
giuridico del matrimonio tra persone dello stesso sesso, assurge indubbiamente ad ulteriore parametro, unitamente agli artt. 2 e 3, in base al
quale valutare la costituzionalità del divieto.
È sulla base di tutte queste considerazioni esposte che il Tribunale è
giunto al convincimento della non manifesta infondatezza della questione di illegittimità costituzionale, pur parzialmente modificando i
parametri di riferimento rispetto a quelli indicati dalle ricorrenti, delle
norme di cui agli artt. 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143 bis, 156 bis e 231 c.c.,
laddove siano incompatibili, o non consentono che le persone di orientamento omosessuale possano contrarre matrimonio con persone dello
stesso sesso; valuterà la Corte, qualora ritenesse la questione fondata,
se vi sia la necessità di estendere la pronuncia anche ad altre disposizioni legislative interessate in via di consequenzialità ai sensi dell’art.
27, l. n. 87/1953.
In punto di rilevanza, si osserva che l’applicazione delle norme indicate
è evidentemente ineliminabile nell’iter logico-giuridico che questo remittente deve percorrere per la decisione: infatti, in caso di dichiarazione di fondatezza della questione cosı̀ come sollevata, il rifiuto alle
pubblicazioni, la cui richiesta dimostra inequivocabilmente la volontà
di contrarre matrimonio, dovrebbe ritenersi, in assenza di altra causa di
rifiuto, illegittima, mentre, in caso di non accoglimento, l’attuale stato
della normativa imporrebbe una pronuncia di rigetto del ricorso.
Per completezza si osserva che, a fronte del rifiuto alla pubblicazione da
parte dell’ufficiale dello stato civile, essendo la pubblicazione una formalità necessaria per poter procedere alla celebrazione del matrimonio,
non è individuabile alcun altro procedimento nell’ambito del quale
valutare la questione.
P.Q.M.
Visti gli artt. 134 Cost., la l. cost. 9.2.1948, n. 1 e 23 ss., l. 11.3.1953, n. 87;
- dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale degli artt. 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143 bis e
156 bis, 231 c.c. nella parte in cui non consentono che le persone dello
stesso sesso possano contrarre matrimonio, per contrasto con gli artt. 2,
3, 29º co., Cost.;
- dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale,
sospendendo il procedimento in corso;
- ordina che a cura della cancelleria la presente ordinanza sia notificata
alle parti, al Pubblico Ministero e al Presidente del Consiglio dei Ministri
e che ne sia data comunicazione ai Presidenti delle due Camere del
Parlamento.
Famiglia, Persone e Successioni 5
347
maggio 2010
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_344_352.3d
na 348
23/4/
11:41
pagi-
L E S E N T E N Z E A N N OTAT E
1. Il fatto
L’Ufficiale dello Stato civile presso il Comune di Ferrara rifiutava
di procedere alla pubblicazione del matrimonio fra le due donne,
motivando il diniego sull’assunto che l’ordinamento giuridico
italiano non consente il matrimonio tra persone dello stesso sesso anche in considerazione della Circolare del Ministero dell’Interno che ha ritenuto non trascrivibile il matrimonio celebrato
all’estero tra omosessuali, di cui uno italiano, in quanto contrario
a norme di ordine pubblico.
Avverso tale provvedimento gli aspiranti «coniugi» ricorrevano
innanzi al Tribunale di Ferrara richiedendo, in via principale,
un provvedimento che ordinasse all’ufficiale di Stato civile di
procedere alle pubblicazioni matrimoniali, deducendo che:
nell’ordinamento italiano non esiste alcuna norma che vieti
espressamente il matrimonio tra persone dello stesso sesso ed,
in via subordinata, sollevando questione di legittimità costituzionale degli artt. 107, 108, 143, 143 bis e 156 bis, per contrarietà alle
norme costituzionali di cui agli artt. 2, 3, 10, 2º co., 13, 29 e 117
Cost. Il Tribunale, ritenendo la questione non manifestamente
infondata, trasmetteva gli atti alla Corte Costituzionale.
2. Una lettura costituzionalmente orientata per arginare
un pregiudizio
L’ordinanza in esame investe una tematica tra le più delicate nel
panorama socio-culturale e (ovviamene) giuridico del momento.
La questione della possibilità, secondo la normativa vigente, di
celebrare un matrimonio fra persone dello stesso sesso è questione già trattata da altri Tribunali italiani(1), che finora hanno
sempre negato le pubblicazioni alle coppie omosessuali sostenendo, come nel caso del Tribunale di Firenze (sent. 2757/
2007), che il matrimonio non fosse un diritto fondamentale, e
che dunque non fosse meritevole di una autonoma tutela costituzionale.
In ordine alla discussa ammissibilità del matrimonio tra coppie
omosessuali, il quadro normativo di riferimento sembra, in prima analisi, non lasciare soluzioni diverse all’interprete se non
ripudiare ogni schema alternativo all’istituto delineato dal codice
civile(2).
Sebbene non esista alcuna norma che ponga un esplicito divieto
a tale tipo di unioni, gli artt. 107 e 108 c.c. fanno riferimento a
«marito e moglie» quali protagonisti del rapporto coniugale(3),
come del resto gli artt. 143 e 232 c.c.
La famiglia, inoltre, è senza dubbio, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2 e 29 Cost., «la formazione primaria nella quale
si esplica la personalità dell’individuo». Tuttavia, non può essere
messo in discussione che il diritto di sposarsi e di fondare una
famiglia costituiscono diritti fondamentali della persona(4) che la
Costituzione garantisce a tutti in funzione di eguaglianza, come
momento essenziale di espressione della dignità umana senza
discriminazione alcuna, compresa quella derivante dal sesso o
da condizioni personali, come ad esempio l’orientamento sessuale (artt. 2 e 3 Cost.)(5).
Nessun principio costituzionale, quindi, si pone come ostacolo
ad una regolamentazione delle unioni omosessuali; anzi non deve trascurarsi che la Costituzione vive nella storia e deve essere
letta in relazione alle trasformazioni economiche, sociali e culturali. Neppure l’art. 29 Cost. costituisce un ostacolo al riconoscimento di siffatte unioni. Difatti, se è vero che la funzione dell’art.
29 Cost. è quella di accordare tutela primaria alla famiglia legittima, ciò non significa che si debba negare rilevanza e riconoscimento ad altre forme di convivenza(6).
L’art. 2 Cost., se intesa come norma aperta(7) e non semplicemente riassuntiva di altre, risulta idonea a garantire, in via immediata, tutela giuridica a tutte quelle forme associative che si
sviluppano nella realtà sociale in vista della piena realizzazione
della personalità dei singoli(8).
(1) Cfr. fra le tante Trib. Latina, 10.6.2005, in Nuova giur. comm., 2006, 91100: «Il matrimonio tra persone dello stesso sesso contrasta con la storia, la
tradizione, la cultura della comunità italiana, secondo una valutazione recepita dal legislatore e trasfusa nelle norme di legge, sia di rango costituzionale,
sia ordinarie, già ripetutamente richiamate, di cui il giudice deve essere solo
fedele interprete, indipendentemente dalle sue convinzioni personali, e che
nessuna interpretazione evolutiva, pure ove fosse in sintonia con il comune
sentire, potrebbe, oltre certi limiti superare ... omissis ... D’altronde anche
nell’ambito degli Stati membri della CE il riconoscimento del matrimonio
omosessuale rappresenta l’eccezione, per cui non può certamente dirsi che
una novità normativa di tale rilievo possa ritenersi tranquillamente accettata
ed anzi proprio la singolarità di tale legislazione la pone non in linea con i
principi condivisi di diritto internazionale».
(2) BILOTTA, La famiglia omosessuale e la sua tutela giuridica, in I soggetti
deboli nella famiglia e nelle istituzioni socio sanitarie. Biopotere e diritti
della persona, a cura di Piccinini, Napoli, 2007, 41.
(3) Trib. Latina, 10.6.2005, cit.; BONINI BARALDI, Il matrimonio fra cittadini
italiani dello stesso sesso contratto all’estero non è trascrivibile: inesistente,
invalido o contrario all’ordine pubblico?, in Famiglia e dir., 2005, 418.
(4) Cfr. ad esempio, C. Cost., 12.11.2002, n. 445, in Corriere giur., 2002,
1656; Cass., S.U., 6.12.1985, n. 6128, in Foro it., 1986, I, 396, con nota di
Quadri; in Giur. it, 1986, I, 1, 672, con nota di Barbiera. Si veda anche App.
Roma, 18.10.2006, in Famiglia e dir., 2007, 476.
(5) FERRANDO, Il matrimonio gay: il testimone passa alla Consulta, in Resp.
civ. e prev., 2009, 1905 ss.
(6) Si veda, tuttavia, LIPARI, La categoria giuridica della «famiglia di fatto»
e il problema dei rapporti personali al suo interno, in AA.VV., La famiglia di
fatto, Atti del convegno di Pontremoli, 1976, 56 e 57, ove si afferma che,
ferma restando l’impossibilità di negare ogni rilievo all’atto matrimoniale,
giacché, in tal caso, verrebbe ad essere svuotato di contenuto l’art. 29
Cost., qualora tra i due momenti (società naturale e matrimonio) «dovesse
esistere una imprescindibile correlazione, la famiglia verrebbe negata come società naturale e integralmente rimessa alla discrezione del legislatore»; cfr. DOGLIOTTI, Famiglia di fatto, in Digesto civ., VIII, Torino, 1992, 193,
che ritiene ipotizzabile, in virtù della medesima funzione assolta anche
alla luce dell’art. 30 Cost., l’applicazione dell’art. 31 Cost.
(7) In passato è stato sollevato il quesito se la norma di cui all’art. 2 Cost.
dovesse considerarsi come norma di chiusura, cioè riassuntiva (in un’unica norma preliminare) di tutti i diritti e le libertà fondamentali tutelati
espressamente dalla Costituzione, ovvero come disposizione di apertura
che consente di attribuire rilevanza giuridica ad altre libertà e valori personali non espressamente tutelati dalla Carta fondamentale, ma che, fatti
propri dalla coscienza sociale, vengono progressivamente riconosciuti dalla giurisprudenza e dal legislatore ordinario. Nettamente prevalente è oggi
la seconda tesi (in tal senso si veda: BARBERA e FUSARO, Corso di diritto
pubblico, Bologna, 2004, 82 ss.), in base alla quale l’art. 2 Cost., riconoscendo e garantendo i diritti inviolabili dell’uomo, ha la funzione di tutelare e garantire tutti quei diritti naturali e quei valori di libertà non ancora
tradotti in specifiche norme costituzionali, ma che emergono distintamente nell’evoluzione del costume sociale e di cui il giudice e l’interprete si
fanno carico. Sul versante della giustizia costituzionale, tuttavia, va sottolineato che la Corte, piuttosto che utilizzare direttamente l’art. 2 Cost.
come norma aperta, spesso ha introdotto nel nostro ordinamento i c.d.
nuovi diritti, interpretando estensivamente il catalogo dei diritti già riconosciuti (si pensi al diritto alla vita, che è stato ritenuto il presupposto
implicito di tutti gli altri diritti); oppure tenedone conto nel giudizio di
bilanciamento fra interessi (si pensi al diritto all’abitazione, che può rientrare nei limiti derivanti dalla funzione sociale della proprietà); oppure
ancora interpretando le norme costituzionali sui diritti alla luce delle numerose convenzioni internazionali e regionali in materia. Secondo alcuni
autori (si veda in particolare: BIN e PITRUZZELLA, Diritto costituzionale, Torino, 2009, 74 ss.), poi, accettando la lettura dell’art. 2 Cost. quale «catalogo
aperto dei diritti» ed allargando l’insieme dei diritti fondamentali, non si fa
altro che restringere l’ambito di effettivo godimento, in quanto ognuno di
essi sarà costretto a bilanciarsi con un maggior numero di interessi potenzialmente confliggenti.
(8) PERLINGIERI, Sulla famiglia come formazione sociale, in Rapporti personali nella famiglia, a cura di Perlingieri, Napoli, 1982, 39; D’ANGELO, La
famiglia di fatto, Milano, 1989, 323 ss., ove ulteriormente si afferma che
«tra i diritti inviolabili dell’uomo, richiamati con formula indeterminata
dalla predetta norma, può ben essere ricompresso il diritto di convivere ad
modum coniugii, espressivo di una fondamentale libertà della persona,
maggio 2010
348
Famiglia, Persone e Successioni 5
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_344_352.3d
na 349
23/4/
11:41
pagi-
L E S E N T E N Z E A N N OTAT E
Ostacolare il diritto a sposarsi (a qualunque coppia al di là delle
tendenze sessuali) si traduce, dunque, in una lesione dell’art. 2
Cost., che implica la libertà di scegliere autonomamente, al riparo da qualsiasi interferenza dello Stato, la persona con cui dividere la propria vita. Né, d’altra parte, può essere trascurato l’art. 3
Cost., che vieta ogni discriminazione irragionevole. Ed allora appare evidente che, costituendo il diritto a contrarre matrimonio
espressione della dignità umana, esso deve essere garantito a
tutti, senza discriminazioni derivanti dal sesso o dalle condizioni
personali. L’unico diritto di rilevanza costituzionale con cui il
riconoscimento della coppia omosessuale potrebbe confliggere
è quello dei figli a crescere in un ambiente familiare idoneo.
Tuttavia, come è stato giustamente osservato(9), il diritto di adozione rappresenta un problema distinto ed ulteriore rispetto a
quello della rilevanza giuridica delle unioni omosessuali.
In realtà, il problema del riconoscimento giuridico delle convivenze tra persone dello stesso sesso va individuato più che sul
piano giuridico su quello più propriamente culturale e sociologico.
Negli ordinamenti che si rifanno alla tradizione romanistica e
cristiana, infatti, la differenza di sesso tra gli sposi costituisce
requisito fondamentale del matrimonio(10). Ciò perché il matrimonio viene tradizionalmente considerato come l’unione tra un
uomo ed una donna, orientata alla procreazione e alla crescita
dei figli(11).
Da un punto di vista antropologico e sociologico, quindi, il matrimonio non può essere inteso solo come un istituto giuridico,
poiché nell’immaginario collettivo incarna il simbolo dell’unione
tra un uomo e una donna. L’istituto della famiglia rappresenta,
infatti, un’area dove il sentimento morale è l’anima e i costumi
appaiono più forti del diritto. Ne consegue, pertanto, che il peso
della tradizione finisce per portare l’interprete a perdere talvolta i
contatti con l’evoluzione del diritto positivo.
La questione della rilevanza giuridica delle unioni omosessuali
deve, quindi, affrontarsi, sul piano normativo, attraverso una interpretazione sistematica ed assiologia e, sotto il profilo sociologico e antropologico, mediante una coerente ed autentica lettura
della realtà attuale, scevra da condizionamenti di tipo ideologico
e politico(12).
Soltanto in tale prospettiva si potrà prendere consapevolezza
della urgente necessità di una tutela (specifica e diversificata)
dei diversi modelli di famiglia non fondata sul matrimonio(13),
che ormai da tempo esistono nel vigente contesto culturale e
sociale.
Va dato atto, infatti, che il progresso della sensibilità comune ha
ormai felicemente emancipato l’omosessualità dal ghetto di
emarginazione, se non di aperta repressione, in cui ideologie
autoritarie del passato l’avevano confinata, facendo comprendere e rispettare alla generalità dei consociati un modo d’essere,
socialmente diffuso(14).
Tra l’altro, non bisogna dimenticare che si tratta di un processo
evolutivo stabilito dalla Risoluzione 16.3.2000 del Parlamento
Europeo(15) (art. 54) e avvalorato dalla Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea (art. 9)(16).
Nel nostro ordinamento, la Corte Costituzionale ha di recente
ritenuto legittimo lo Statuto della Regione Toscana, là dove prevede il riconoscimento di altre forme di convivenza al di fuori del
matrimonio(17).
A livello di formazione secondaria vanno sottolineate, poi, le
iniziative di alcuni Comuni, come nel caso di La Spezia, che ha
«aperto» il registro delle unioni civili (nel 2006) alle coppie omosessuali. La finalità essenzialmente anagrafica dei registri civili
rende, tuttavia, puramente simbolico tale intervento, se non si
traduce poi nell’acquisizione concreta (e dunque nel riconoscimento) di diritti. Si tratta in ogni caso di interventi che manifestano una nuova tendenza culturale che sta lentamente e pro-
alla quale, peraltro, è garantito tanto il diritto di formare una famiglia
legittima quanto il diritto di non formarla, cioè la libertà matrimoniale
nel suo contenuto positivo e negativo, quanto il diritto di procreare»; GAZZONI, Dal concubinato alla famiglia di fatto, Milano, 1983, 146 ss. V., in
giurisprudenza, Cass. pen., 31.3.1994, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1996, 371,
con nota di PEYRON, ove si afferma che la convivenza di fatto costituisce un
diritto di libertà tutelato costituzionalmente ex artt. 2, 18 e 29 Cost., e,
come tale, di carattere assoluto e tutelabile erga omnes.
(9) FERRANDO, Il matrimonio gay: il testimone passa alla Consulta, cit.,
1905 ss.
(10) FERRANDO, Il matrimonio gay, il giudice, il legislatore, in Resp. civ. e
prev. 2008, 2344 ss.
(11) Sacra Romana Rota, 19.12.1994, in Ius Ecclesiae, 1996, 601: «Le tendenze omosessuali, in quanto sono radicate in un’anomala struttura della
personalità, si oppongono all’essenza stessa del matrimonio e alle sue
proprietà, poiché impediscono a coloro che ne sono affetti di sperimentare
l’amore coniugale ordinato alla prole, di fare uso del matrimonio per raggiungere questo fine modo humano, di conservare la fedeltà coniugale in
un vincolo perpetuo ed esclusivo nonché di costituire un consorzio di
tutta la vita ordinato al reciproco bene ed aiuto. Ciò va detto riguardo al
vero omosessuale, a quello cioè che si trova in uno stato patologico di
istinto sessuale. Allo psichiatra, infatti, non sfugge quale sia la prevalenza
delle tendenze, quali episodi (anche reiterati) debbano essere attribuiti ad
una anomala struttura psichica o piuttosto ad un’occasione meramente
transeunte o temporanea. Per distinguere l’omosessuale costituzionale da
quello occasionale non è un argomento decisorio ed assoluto la maggiore
o minore assiduità e frequenza delle relazioni sessuali con persone dello
stesso sesso. La manifestazione dell’anomalia costituzionale dell’omosessuale può essere rara, tanto da sembrare agli inesperti una mera deviazione occasionale, poiché de facto furono poche le occasioni di persone e di
luoghi in cui la persona affetta potesse esercitare attività omosessuale. In
questi casi, in effetti, gli atti omosessuali – anche se rari e non frequenti –
sono potuti essere messi in atto in una reale circostanza favorevole e
possono rivelare implicitamente la costante condotta omosessuale che si
rende palese ogniqualvolta si presenta l’opportunità idonea. Per provare
l’incapacità non è sufficiente l’esistenza in una o l’altra delle parti di epi-
sodi reiterati di attività omosessuale, messi in atto sia prima che durante la
vita coniugale. Va invece comprovata la sua inversione strutturale dell’appetito erotico-sessuale, cioè una congenita tendenza primaria verso il proprio sesso, la quale rende impossibile la vicendevole donazione coniugale
da cui scaturisce il consorzio di tutta la vita ‘‘indole sua naturali ad bonum
coniugum atque ad prolis generationem et educationem ordinatum’’. Chi
soffre tale tendenza strutturale, quindi, si rende incapace di prestare l’oggetto del consenso».
(12) In particolare sull’approccio sistematico ed assiologico dell’interprete, v. PENNASILICO, L’interpretazione dei contratti tra relativismo e assiologia,
in Rass. dir. civ., 2005, 725; PERLINGIERI, Il diritto civile nella legalità costituzionale, Napoli, 2006, 214; ID., Scuole tendenze e metodi. Problemi di
diritto civile, Napoli, 1989, 116; BIANCA, Diritto civile, 1, La norma giuridica
i soggetti, Milano, 1978, 150, il quale osserva l’importanza fondamentale
dei principi costituzionali nell’interpretazione della legislazione ordinaria;
CRISAFULLI, La Costituzione e le sue disposizioni di principio, Milano, 1952,
29; MORTATI, Costituzione (Dottrine generali), in Enc. dir., XI, Milano, 1962,
925; GARUTTI e MACIOCE, Il danno da lesione dei diritti della personalità.
Profili generali, in Rass. dir. civ., 1984, 40 ss.
(13) Le ragioni poste alla base della famiglia di fatto sono molteplici. Sul
problema, v. V. ROPPO, Il giudice nel conflitto coniugale: la famiglia tra
autonomia e interventi pubblici, Bologna, 1981, 196.
(14) Tra i contributi che si occupano di convivenze omosessuali v.: TORINO, Nuovi modelli familiari. Il diritto ad essere genitori, Roma, 2003; D’ANGELI, Il fenomeno delle convivenze omosessuali: quale tutela giuridica, in
Quaderni riv. dir. civ., Padova, 2003; MARELLA e GRILLINI, Stare insieme. I
regimi giuridici della convivenza tra status e contratto, Napoli, 2001; RODOTÀ, Premessa, in Manuale dei diritti degli omosessuali Menzione (a cura
di), Milano, 1996, 23 ss.
(15) Risoluzioni 8.2.1994, 16.3.2000, 4.9.2003; Risoluzione 14.1.2009. Al
riguardo si è parlato di una progressiva opera di persuasione istituzionale:
si veda PIGNATELLI, Nozione di matrimonio e disciplina delle coppie omosessuali in Europa, in Foro it., 2005, V, c. 260 ss
(16) BONINI BARALDI, Società pluraliste e modelli familiari: il matrimonio
di persone dello stesso sesso in Olanda, in Familia, 2001, I, 419.
(17) C. Cost., 2.12.2004, n. 372, in Giur. cost., 2004, 4022 ss.
Famiglia, Persone e Successioni 5
349
maggio 2010
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_344_352.3d
na 350
23/4/
11:41
pagi-
L E S E N T E N Z E A N N OTAT E
gressivamente trovando un riconoscimento formale, sebbene a
carattere settoriale(18).
Restando all’interno del nostro ordinamento, il divieto di nozze
tra omosessuali sembra violare, come si è detto, gli artt. 2 e 3
Cost. e tanto a portato i giudici di merito a sollevare questioni di
legittimità costituzionale delle norme codicistiche che sembrerebbero impedire il matrimonio tra individui dello stesso sesso(19).
Sotto il profilo strettamente sociologico poi viene in rilievo la
constatazione che la finalità procreativa svolge ormai solo un
ruolo tendenziale nel giustificare l’instaurazione del matrimonio (si pensi alle coppie sterili)(20). La prevalente valenza dell’istituto va individuata nella funzione di solidarietà sociale e
morale che assolve, ingiustamente preclusa alle coppie omosessuali. Sul piano antropologico il valore simbolico del matrimonio non può indurre ad eludere il diritto positivo italiano.
La norma – implicita nel nostro sistema – che esclude gli omosessuali dal diritto di contrarre matrimonio con persone dello
stesso sesso, cosı̀ seguendo il proprio orientamento sessuale,
non sembra avere alcuna giustificazione razionale, soprattutto
se raffrontata con l’analoga situazione delle persone transessuali, che, ottenuta la rettificazione di attribuzione di sesso in
applicazione della l. 14.4.1982, n. 164, possono contrarre matrimonio con persone del proprio sesso di nascita. Del resto, in
Italia il matrimonio civile non è più istituzionalmente orientato alla procreazione. L’impotenza che, nella prospettiva tradizionale, costituiva di per sé causa di invalidità del matrimonio
ora lo è solo quando sia materia di un errore tale da incidere
sullo svolgimento della vita coniugale (art. 122 c.c.). Ed allora
appare evidente che, per giustificare l’esclusione delle unioni
omosessuali, è necessario addurre argomentazioni razionali e
non fondate sulla ‘‘natura’’(21).
E mentre è ormai tramontata nella passata legislatura qualunque ipotesi (sbiadita) di Pacs, Dico e quant’altro, i giudici della
Consulta dovranno confrontarsi con questa nuova interpretazione costituzionalmente orientata, moderna, attuale di famiglia, che arriva dalle aule dei tribunali; organi sempre più de-
putati a supplire, laddove la politica, da anni, costantemente,
fallisce.
Nell’inerzia del legislatore, la materia ora è devoluta alla Corte
Costituzionale che dovrà decidere se abrogare quelle norme del
Codice civile che, nel disciplinare il matrimonio, fanno esplicito
riferimento a «marito» e «moglie», oppure se interpretare tali
norme – in assenza di uno specifico divieto di matrimonio fra
persone dello stesso sesso – come idonee a consentire il matrimonio fra omosessuali. I giudici della Consulta, nell’affrontare la
delicata questione, non potranno non tenere presente che «la
famiglia moderna ha trovato nei sentimenti una ragione fondativa immateriale, oltrepassando il confine della naturalità materiale della derivazione biologica; ormai, essa affonda le proprie
radici sul terreno dell’affettività»(22) e su tale vincolo solidaristico
fonda e infonde dignità al progetto di vita comune amalgamando
i singoli componenti del gruppo.
La c.d. «depatrimonializzazione» del diritto civile che ha già condotto ad una rilettura innovativa di molti istituti codicistici, resasi necessaria a seguito dell’avvento della Costituzione(23), permette di spostare l’attenzione su nuove basi fondative delle relazioni familiari. «Le ragioni a fondamento della nuova famiglia,
che vanno individuate e sottoposte a continuo collaudo, sono
l’affettività e solidarietà, endiadi indissolubili, che va oltre la specialità ed eccezionalità delle situazioni. Il riconoscimento di un
ruolo tanto preminente a questi valori li fa assurgere a criterio di
valutazione dei comportamenti e di creazioni delle regole nuove,
capaci di rispondere alle continue domande di giustizia che pervengono da un corpo sociale in costante trasformazione»(24).
(18) DEL PRATO, Matrimonio, famiglia, parentele: prospettive di inizio secolo, in Studi in onore di A. Palazzo, Tratt. dir. priv., Mazzarese e Sassi (a
cura di), Torino, 2009, 232 ss.
(19) Cfr. Trib. Venezia, ord., 3.4.2009, in Corriere merito, 2009, 731; in
Foro it., 2009, 7-8, 1, c. 2233; in Giur. it., 2009, 2693; in Nuova giur.
comm., 2009, 9, 1, 911, con nota di Buffone: «La norma – implicita
nel nostro sistema – che esclude gli omosessuali dal diritto di contrarre
matrimonio con persone dello stesso sesso, cosı̀ seguendo il proprio
orientamento sessuale (né patologico, né illegale), non ha, allo stato,
alcuna giustificazione razionale, tenuto conto del rapido trasformarsi
della società e dei costumi avvenuto negli ultimi decenni. È perciò
rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale degli artt. 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143 bis e 156 bis
c.c., nella parte in cui, sistematicamente interpretati, non consentono
che le persone di orientamento omosessuale possano contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso, per contrasto con gli artt. 2, 3, 29
e 117, 1º co., Cost.». V, inoltre, App. Firenze, (ord.), 3.12.2009, inedita: «Il
diritto di contrarre matrimonio è un momento essenziale di espressione
della dignità umana, esso deve essere garantito a tutti senza discriminazioni derivanti dal sesso o dalle condizioni personali (quali l’orientamento sessuale), con conseguente obbligo dello Stato di intervenire in
caso di impedimenti all’esercizio. Privare qualcuno della possibilità di
fondare una famiglia in ragione dell’orientamento sessuale lede la sua
dignità...»; App. Trento, ord., 29.7.2009, in Corriere giur., 2010, 1, 100,
con nota di NASCIMBENE: «Va rimessa alla Corte costituzionale, in quanto
non manifestamente infondata, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143 bis, 156 bis c.c. in rapporto agli
artt. 2, 3 e 29 Cost., nella parte in cui, complessivamente valutati, non
consentono agli individui di contrarre matrimonio con persone dello
stesso sesso».
(20) Si ritiene sussistente una fecondità di affetti nella coppia omosessuale, equiparabili alla coppia eterossessuale: BOTTINO e DANNA, La gaia
famiglia. Omogenitorialità: il dibattito e la ricerca, Trieste, 2005.
(21) ZANETTI, Le coppie di fatto tra diritto e morale, in Elementi di etica
pratica. Argomenti normativi e spazi del diritto, (a cura di) Zanetti, Carocci, Roma, 2003, 159.
(22) MAZZÙ, La famiglia degli affetti, in Studi in onore di A. Palazzo, Tratt.
dir. priv., Mazzarese e Sassi (a cura di), II, Persona Famiglia e successioni,
Torino, 2009, 527 ss.
(23) Cfr. DIONISI, Verso la depatrimonializzazione del diritto privato, in
Rass. dir. civ., 1980, 644; PERLINGIERI, Il diritto civile nella legalità costituzionale, cit., 715; ID., Scuole tendenze e metodi. Problemi di diritto civile,
cit., 175; PENNASILICO, L’operatività del principio di conservazione, in Rass.
dir. civ., 2003, 702; GALGANO, Il diritto privato tra codice e costituzione,
Bologna, 1999, 15. Criticamente osserva che il progressivo rafforzamento
della difesa degli interessi della persona non corrisponde ad un impoverimento del contenuto patrimoniale del diritto privato, DE CUPIS, Sulla
«depatrimonializzazione» del diritto privato, in Riv. dir. civ., 1982, II, 482.
Per una ricostruzione della graduale penetrazione dei valori costituzionali
nella cultura giuridica italiana, v.: RODOTÀ, Ideologie e tecniche della riforma
del diritto civile, in Riv. dir. comm. e obbligazioni, 1967, I, 83-125; RESCIGNO,
Per una rilettura del Codice civile, in Giur. it., 1968, IV, c. 224; MORTATI,
Costituzione, Dottrine generali e Costituzione della Repubblica italiana, in
Enc. dir., XI, Milano, 1962, 140; PERLINGIERI, Norme costituzionali e rapporti
di diritto civile, in Rass. dir. civ., 1980, 98; RESCIGNO, Diritti civili e diritto
privato, in AA.VV., Attualità e attuazione della Costituzione, Roma-Bari,
1979, 232; RODOTÀ, Ipotesi sul diritto privato, in Il diritto privato nella
società moderna, Bologna, 1971, 15.
(24) MAZZÙ, La famiglia degli affetti, cit., 559.
(25) LIOTTA Sulla rilevanza formale della «famiglia» di fatto, nota di com-
maggio 2010
350
Famiglia, Persone e Successioni 5
3. L’isolamento dell’Italia nel contesto europeo
Come si è detto (e come è a tutti noto), il legislatore italiano non
è ancora intervenuto a disciplinare compiutamente la nuova
realtà sociale rappresentata dalle convivenze di fatto e in particolar modo quelle tra omosessuali. Tuttavia, la famiglia di fatto
ha trovato comunque indiretto riconoscimento in norme eterogenee che ricollegano alla convivenza alcuni effetti giuridici rilevanti(25).
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_344_352.3d
na 351
23/4/
11:41
pagi-
L E S E N T E N Z E A N N OTAT E
Il fenomeno della convivenza ha assunto negli ultimi anni una
rilevanza sociale altissima, al punto tale da mettere in discussione, entro certi limiti, la stessa sopravvivenza della famiglia tradizionale riconosciuta dall’art. 29 Cost.(26).
Il legislatore italiano sembra non voler prendere atto dei mutamenti che progressivamente investono gli Stati dell’area comunitaria. In Europa la Carta di Nizza(27) (ora parte del nuovo Trattato europeo di Lisbona) dispone all’art. 9 che «il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo
le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio». Non solo il
diritto di sposarsi viene riconosciuto in modo disgiunto dal diritto di fondare una famiglia, diritto che viene tutelato anche al di
fuori di vincoli formali, ma cade anche il riferimento alla differenza di sesso tra gli sposi, in base al disposto di cui all’art. 12
della Convenzione europea. L’art. 21, d’altra parte, nell’enunciare
il principio di eguaglianza [secondo la formula, già contenuta nel
Trattato di Amsterdam (art. 13)], pone espressamente il divieto di
discriminazione in base alle «tendenze sessuali».
Sebbene la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo riconosca
come meritevoli di tutela i diritti degli omosessuali, la Corte di
Strasburgo ha sempre riconosciuto agli Stati la facoltà di decidere
con ampio margine di discrezionalità in merito al riconoscimento dei rapporti omosessuali(28).
Solo dopo l’evoluzione di molti ordinamenti Europei la Corte di
Strasburgo ha iniziato ad attuare una linea interpretativa più
estensiva.
L’esperienza europea, prima fra tutte quella francese, dimostra
come siano sempre più numerosi gli Stati che non solo ammettono gli accordi tra conviventi, ma ne prevedono anche la registrazione, rendendoli in tal modo idonei a spiegare i propri effetti
non solo all’interno del rapporto ma anche verso i terzi(29).
Salta agli occhi l’isolamento dell’Italia di fronte ad una realtà che
muta ovunque. In Europa, a parte l’Italia, l’Austria, l’Irlanda e la
Grecia, quasi tutti i Paesi membri dell’Unione hanno sentito la necessità di affrontare e disciplinare la questione omosessuale(30).
Alcuni Stati europei hanno aperto il matrimonio a persone dello
stesso sesso (Olanda, Belgio, Spagna, Norvegia, Svezia), altri hanno
istituito partnerships riservate a coppie omosessuali (ad esempio,
Germania, Regno Unito), altri ancora (come nel caso dei Pacs francesi) hanno previsto una disciplina dei patti di convivenza, aperta
sia alle coppie di sesso diverso, sia a quelle dello stesso sesso(31).
In Olanda è stato ammesso, ufficialmente dal 1.4.2001, il matrimonio anche omosessuale, con la recente legge del 21.12.2000, (di
riforma del diritto di famiglia), inaugurando il primo esempio nel
vecchio continente d’irrilevanza assoluta dell’elemento sessuale ai
fini della celebrazione delle nozze, di talché vi è, in quel Paese, un
solo istituto qualificato come matrimonio, «al quale possono accedere un uomo e una donna, due donne, due uomini». In Belgio, con
mento a Cass., 8.2.1977, n. 556, in Dir. famiglia, 1977, 517. L’art. 6, l.
13.3.1958, n. 365 sulla protezione degli orfani di guerra, dispone che l’assistenza è estesa ai figli naturali non riconosciuti «quando la madre e il
presunto padre abbiano notoriamente convissuto a modo di coniugi nel
periodo legale del concepimento». L’ordinamento penitenziario, poi, attraverso l’art. 30, l. 26.7.1975, n. 354, prevede la possibilità per il detenuto di
fruire di permessi che gli consentano di fare visita al familiare o convivente
in pericolo di vita. Ancora più recentemente, altre disposizioni legislative,
quali la legge 20.10.1990, n. 302 sulle vittime del terrorismo, che prevede
una ristoratoria non solo a favore della famiglia delle vittime, ma anche a
favore di persone a esse legate da vincoli familiari, compreso il convivente
more uxorio. Ancora la l. 17.2.1992, n. 179, in materia di edilizia residenziale pubblica, il cui art. 17 dispone che nelle cooperative, ove deceda
l’assegnatario, il convivente more uxorio e i figli abbiano diritto a subentrare nell’assegnazione, anche se si sottolinea la necessità che la convivenza perduri da almeno due anni (alla data del decesso dell’assegnatario) per
il subentro del convivente. In materia previdenziale la l. 13.3.1968, n. 313
«Riordinamento della legislazione pensionistica di guerra» nell’art. 42 parifica, ai fini pensionistici la donna convivente da almeno un anno con il
militare deceduto a causa di guerra, alla moglie. La l. 22.5.1978, n. 194,
recante «Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione
della gravidanza», all’art. 5 sancisce la partecipazione al procedimento
della persona indicata come padre del concepito, indipendentemente
dal fatto che sia o meno unito in matrimonio con la gestante. L’art. 44,
3º co., l. 4.5.1983, n. 184 «Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei
minori» sostituito dall’art. 25 l. 28.3.2001, n. 149 «Modifiche alla l. 4.5.1983,
n. 184 recante ‘‘Disciplina dell’affidamento e dell’adozione dei minori’’
nonché al Titolo VIII del Libro primo del Codice Civile» che stabilisce
l’adozione in determinate situazioni, nelle ipotesi di cui alle lett. a), c) e
d) anche da parte di coppie non coniugate. L’art. 4, d.p.r. n. 223 del 1989
«Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente», attribuisce rilevanza ai fini anagrafici anche alla famiglia di fatto.
Ed infine, la l. 5.4.2001, n. 154, recante misure di protezione contro gli
abusi familiari, la quale introducendo gli artt. 342 bis e 342 ter c.c., nel
definire l’evento dannoso che comporta l’applicazione delle misure di
protezione (la più importante delle quali è l’ordine di allontanamento),
discorre di «grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente».
(26) PERLINGIERI, La famiglia senza matrimonio tra l’irrilevanza giuridica e
l’equiparazione alla famiglia legittima, in AA.VV., Una legislazione per la
famiglia di fatto?, Napoli, 1988, 36 ss.
(27) Il diritto di sposarsi viene riconosciuto dalla Carta di Nizza «secondo
le leggi nazionali che ne garantiscono l’esercizio», intendendosi in tal modo riservare agli Stati ampi margini di discrezionalità nel conformare la
disciplina del matrimonio alle specifiche tradizioni, culture, ideali in ciascuno presenti. Nelle note che accompagnano il testo si precisa, infatti,
che l’art. 9 «non vieta né impone la concessione di uno status matrimoniale tra persone dello stesso sesso». Resta peraltro fermo che «eventuali
limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti» dalla Carta
«devono essere previsti dalla legge e devono rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà» (art. 52).
(28) Commissione Europea S. c. Regno Unito, 14.5.1986; Commissione
Europea Rosoli c. Germania, 10.2.1996. In entrambi i casi la commissione
ha negato il diritto del partner di un soggetto deceduto, di succedere a
questi nel contratto di locazione dell’immobile abitato. Sia nel Regno Unito che in Germania all’epoca dei fatti gli ordinamenti non riconoscevano
tale diritto al partner omosessuale superstite; v. Rivista internazionale dei
diritti dell’uomo, I diritti degli omosessuali nella convenzione europea dei
diritti dell’uomo e nel diritto comunitario, 2000, 104; DEFILIPPI, BOSI e HARVEY, La convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, Commentata e annotata, Napoli, 2006, 457.
(29) Il Pacs in Francia e il confronto con la situazione italiana: v. PICCALUGA, Famiglia di fatto e concubinage: la recente disciplina del patto sociale
di solidarietà (pacs), in Famiglia e dir., 2000, 417 ss.; AMBANELLI, La disciplina del pacte civil de solidarité e del concubinage, in Nuova giur. comm.,
2001, II, 75.
(30) Cfr. Goldwin c. Regno Unito, 17.7.2002. La Corte, pur riferendo il
diritto di sposarsi ad un uomo e una donna, evidenzia la necessità di
intendere questi termini in un’accezione evolutiva, non ancorata esclusivamente a caratteri biologici, capace dunque di comprendere chi ha subito una modificazione di sesso. Sui diritti delle coppie omosessuali, si
veda anche Karner c. Austria, 24.7.2003, e più recentemente E. B. c Francia,
Grande Camera, 22.1.2008; C. Cost. tedesca, 17.7.2002. Al riguardo, si veda
WASMUTH, La convivenza registrata tra persone dello stesso sesso in Germania e l’orientamento giurisprudenziale della Corte costituzionale tedesca, in
Familia, 2003, 503. Sul riconoscimento normativo delle unioni omosessuali, v.: Danimarca (l. n. 372/1989), Norvegia (l. n. 40/1993), Svezia (l.
23.6.1994), Germania (l. 16.2.2001), Olanda (l. 1.4.2001), Belgio (l.
1.6.2003), Regno Unito (Civil Partnerships Act, 2004), Spagna (l.
30.6.2005). Va rilevato che la Risoluzione del 14.1.2009 ha invitato gli Stati
membri che si sono dotati di una legislazione relativa alle coppie dello
stesso sesso a riconoscere le norme adottate da altri Paesi e quelli che non
lo hanno ancora fatto ad eliminare le discriminazioni che incontrano le
coppie in ragione del proprio orientamento sessuale. In ambito internazionale, v.: Corte Suprema del Massachussetes - Goodrige v. Department of
Public Health, 18.11-2003, in merito si veda MARELLA, Il matrimonio gay
sbarca sulla East Coast, in www.infoleges.it; Corte Suprema della California
Re: Marriage Cases, 15.5.2008. La traduzione dei passi è disponibile in
Famiglia e dir., 2008, 761, con nota di Faletti. Sull’esperienza americana,
si veda MONTALTI, Il matrimonio tra persone dello stesso sesso è un diritto
fondamentale? Due recenti pronunce in Massachussetes dopo Lawrence v.
Texas, in Politica del diritto, 2004, 687 ss. Si veda anche BONINI BARALDI, Le
nuove convivenze tra discipline straniere e diritto interno, Milano, 2005; ID.,
Le nuove convivenze: profili internazionalprivatistici, in Il nuovo diritto di
famiglia, Tratt. Ferrando (a cura di), II, Rapporti personali e patrimoniali,
Bologna, 2008, 1109 ss.
(31) PESCARA, Le convivenze non matrimoniali nelle legislazioni dei principali Paesi europei, in Il nuovo diritto di famiglia, II, op. cit., 967 ss.
Famiglia, Persone e Successioni 5
351
maggio 2010
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_344_352.3d
na 352
23/4/
11:41
pagi-
L E S E N T E N Z E A N N OTAT E
la legge del 23.11.1998 che ha novellato il Codice civile, entrata in
vigore il 1.1.2000, è stata istituita la convivenza legale («cohabitation
légale»), definita come la situazione di vita comune di due persone
che hanno fatto la dichiarazione di coabitazione. Tra gli scopi principali della legge, che è destinata a disciplinare indifferentemente
rapporti eterosessuali e omosessuali, vi è quello di introdurre nel
Codice civile un nuovo capitolo sulla coabitazione legale, istituto
destinato alle coppie che, per qualsiasi ragione, non vogliano o non
possano contrarre matrimonio.
In Portogallo, la legge dell’11.5.2001, n. 7 che «Adopta medidas de
protecão das uniões de facto», abrogando la precedente normativa (l. n. 135 del 1999 del 28.8.1999), ha esteso alle coppie di
fatto, dotate di una certa stabilità, a prescindere dal sesso e
non richiedendo alcuna formale dichiarazione, diversi diritti
analoghi a quelli derivanti dal matrimonio.
A completamento di questo processo evolutivo, il Belgio, con la l.
13.2.2003, ha introdotto il matrimonio fra persone dello stesso
sesso. Analoghi diritti sono oramai riconosciuti nella «cattolicissima Spagna». In Germania, la Lebenspartnerschaftsgesetz del
16.2.2001 ha introdotto l’istituto della convivenza registrata(32).
In virtù di queste considerazioni resta inspiegabile il silenzio del
legislatore italiano ove si consideri che recenti direttive comunitarie hanno affermato il principio per cui il rispetto del diritto alla
libertà di circolazione all’interno dell’Unione Europea passa anche attraverso la tutela delle relazioni affettive(33).
È sintomatico come in Italia resti comunque diffusa la convinzione dell’esistenza di una regola inespressa concernente la necessaria differenza di sesso tra i nubendi(34).
4. Conclusione
Il processo sociale (e culturale) che ha portato alla rilevanza delle
convivenza di fatto (indipendentemente dal sesso dei conviventi)
deve necessariamente essere letto da più prospettive, perché il
problema giuridico delle convivenze deve essere interpretato (e a
nostro avviso adeguato) in tante direzioni quanti sono i possibili
modelli di convivenza. Difatti, sarebbe un errore equiparare sic et
simpliciter le unioni omosessuali con quelle etero-sessuali, per il
semplice motivo che le prime si trovano in una situazione di
«inferiorità normativa» rispetto alle seconde, non potendo accedere in alcun modo all’istituto matrimoniale (non precluso alle
coppie etero).
La stessa esperienza europea rispetto al riconoscimento delle
unioni di fatto (anche omosessuali) dimostra una tendenza di
flessibilità (normativa), suggerendo al Parlamento europeo una
sorta di equivalenza tra matrimonio e altre forme di tutela
delle unioni, partnerships, patti civili e di solidarietà o simili(35).
In tal modo viene riconosciuta ai legislatori nazionali una certa
«dose» di discrezionalità nei modi in cui provvedere alla regolamentazione anche delle coppie omosessuali, nel segno di un
pluralismo che tuttavia non può (e non deve) tradursi in una
mancata tutela dei diritti fondamentali(36).
Il legislatore italiano è, dunque, chiamato ad adempiere all’obbligo (costituzionale) di tutelare la pari dignità e i diritti (esistenziali) delle persone (al di là di ogni discriminazione) con la previsione di una modalità di riconoscimento formale dell’unione
tra persone dello stesso sesso, prendendo come esempio i modelli (o coniandone dei nuovi) variamente declinati nei diversi
Paesi europei.
L’assoluta carenza di tutela derivante dal mancato riconoscimento legislativo del diritto di formalizzazione delle unioni di fatto (e
si badi bene di qualunque forma di convivenza) determina un
insanabile e non più tollerabile contrasto con i principi e i valori
costituzionali.
&
(32) Sul riconoscimento normativo delle unioni omosessuali: Danimarca
(l. n. 372/1989), Norvegia (l. n. 40/1993), Svezia (l. 23.6.1994), Germania (l.
16.2.2001), Olanda (l. 1.4.2001), Belgio (l. 1.6.2003), Regno Unito (Civil
Partnerships Act, 2004), Spagna (l. 30.6.2005). Va rilevato che Risoluzione
del 14.1.2009 ha invitato gli Stati membri che si sono dotati di una legislazione relativa alle coppie dello stesso sesso a riconoscere le norme
adottate da altri Paesi e quelli che non lo hanno ancora fatto ad eliminare
le discriminazioni che incontrano le coppie in ragione del proprio orientamento sessuale.
(33) Si veda la direttiva 2003/86/EC che si occupa del diritto al ricongiungimento familiare nonché la direttiva 204/38/EC sul diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente.
(34) Cass., 14.2.1975, n. 569, in Giur. it., 1976, I, 1, c. 484; Cass., 22.2.1990,
n. 1304, in Mass. Foro it., 1990, Matrimonio, c. 150.
(35) FERRANDO, Il matrimonio gay: il testimone passa alla Consulta, cit.,
1905 ss.
(36) FERRANDO, op. ult. cit., 1905 ss.
maggio 2010
352
Famiglia, Persone e Successioni 5
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_353_355.3d
na 353
23/4/
11:41
pagi-
L E S E N T E N Z E A N N OTAT E
» Violenza sessuale
I «jeans»: protezione antistupro
per la donna?
Simona Paola Bracchi
Avvocato
SINTESI
a) Configurazione del reato di violenza sessuale
penale), che statuiva: «è un dato di comune esperienza che è quasi im-
Si prospetta la configurazione del reato di violenza sessuale nei con-
possibile sfilare anche in parte i jeans di una persona senza la sua fattiva
fronti di donna che indossa i ‘‘jeans’’ e la sua effettiva sussistenza.
collaborazione, poiché trattasi di una operazione che è già assai difficol-
b) Evoluzione giurisprudenziale
tosa per chi li indossa», sino alla recente sentenza n. 30403/2008 (sez. III
Nel corso degli ultimi anni si è assistito al cambiamento dell’orientamen-
penale), secondo la quale la violenza sessuale non può essere esclusa per
to giurisprudenziale della Cassazione: dalla sentenza n. 1636/1999 (sez. III
la mera circostanza che la vittima indossasse i pantaloni jeans.
Cassazione penale, sezione III, 21 luglio 2008, n. 30403
Pres. Lupo
Art. 609 bis c.p. – Violenza sessuale – Abbigliamento della vittima – Irrilevanza del capo di abbigliamento ‘‘Jeans’’ – Compatibilità
La violenza sessuale può sussistere anche nei casi in cui la vittima indossi i jeans: il fatto che la vittima indossasse i jeans non è ostativo al
toccamento interno delle parti intime, essendo possibile farlo penetrando con la mano dentro l’indumento, non essendo questo paragonabile a una specie di cintura di castità.
»
SOMMARIO
1. Premessa – 2. Evoluzione giurisprudenziale – 3. Conclusioni
Svolgimento del processo
Con sentenza dell’11.5.2005 il G.i.p. presso il Tribunale di Padova condannava T. con la concessione delle attenuanti generiche e ritenuta l’ipotesi lieve
di cui all’ult. co. dell’art. 609 bis c.p., alla pena – sospesa – di un anno di
reclusione in ordine al reato di cui agli artt. 81 cpv. 609 bis c.p. per avere più
volte compiuto con violenza atti di libidine nei confronti di Caia e, per
ultimo, toccandola sul seno, sui fianchi, sul sedere e nelle parti intime,
entrando con le mani sotto i pantaloni della donna.
La condanna si basava sulle dichiarazioni della L., ritenute lineari, pacate, non contraddittorie e non dovute a rancore, e su quelle del fidanzato cui la prima aveva raccontato fatti, e del padre, informato da detto
fidanzato.
Veniva proposto appello per l’imputato, sostenendo che:
a) il giorno dell’episodio più grave era stata la donna a telefonare al T.
perché venisse a casa per pranzare;
b) dopo il suo arrivo si era seduta a guardare la televisione con i pantaloni sbottonati ed il T. si sedeva accanto a lei senza che nulla succedesse: poi ella andava in camera a chiudersi i pantaloni;
c) il padre e la madre erano separati, e la seconda aveva iniziato una
relazione con il T. prima di tale separazione, donde l’ipotesi che la L. non
avesse detto la verità avendo mantenuto buoni rapporti con il genitore;
d) ella stessa aveva dichiarato di non essere stata in grado di conoscere
la volontarietà degli episodi verificatisi prima dell’1.7.2004;
e) la pena era superiore al minimo edittale nonostante la lieve entità
dei fatti, ed ingiustificatamente era stata negata la sospensione di essa.
Chiedeva l’assoluzione per insussistenza del fatto.
La Corte di Venezia rigettava l’impugnazione, motivando come segue:
1) quanto agli intenti calunniosi erano mere ipotesi difensive prive di
riscontri, non risultando a causa dell’imputato una limitazione del rapporto affettivo della ragazza con il padre;
2) gli elementi essenziali raccontate da essa, dal fidanzato e dal padre
sostanzialmente coincidevano;
3) erano irrilevanti le discordanze sulla successione dei palpeggiamenti,
sulle loro modalità, ecc., contenute nelle dichiarazioni del padre e del
fidanzato, essendo dovute ad inesattezza di ricordi o all’assenza di
specifiche domande sui vari punti;
4) il fatto che solo il fidanzato abbia parlato di una masturbazione
prima dei toccamenti non significava che la ragazza ed il padre l’avessero escluso, non avendolo semplicemente riferito;
5) che ella non fosse scappata rientrava nella libertà di comportamento
individuale, e non costituiva un fatto provocatorio, o comunque inducente alla perpetrazione dei reati;
6) che indossasse i pantaloni di tipo jeans non escludeva il toccamento
delle parti intime, facilmente raggiungibili senza sfilarli, e comunque
entrando con le mani dentro di essi;
7) la pena era adeguata per la convivenza con la vittima e la giovane età
di questa (inferiore ai 16 anni, ma non erano state contestate le relative
aggravanti);
8) poteva essere concesso il beneficio della non menzione.
Avverso tale sentenza proponeva ricorso il difensore, deducendo che:
a) la Corte aveva valutato con estrema superficialità le dichiarazioni
della ragazza, sia in sé che in raffronto con gli altri elementi;
Famiglia, Persone e Successioni 5
353
maggio 2010
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_353_355.3d
na 354
23/4/
11:41
pagi-
L E S E N T E N Z E A N N OTAT E
b) aveva ammesso le discrasie, ma le aveva giustificate con mere congetture;
c) il riscontro costituito dalle dichiarazioni del fidanzato e del padre non
era tale, in quanto la fonte era l’autrice delle prime dichiarazioni;
d) era impossibile che, indossando la ragazza dei jeans ed essendo
seduta, si infilasse la mano sotto i pantaloni e si toccasse la vagina;
e) quanto alla pena, non si poteva compensare la mancata contestazione delle aggravanti con l’aumento di essa, a parte che la Corte aveva
confuso l’art. 609 ter con l’art. 609 septies c.p., solo il secondo dei quali
contemplava il fatto commesso dal convivente, per cui si procedeva
d’ufficio, mentre il primo prevedeva l’aggravante, in caso di vittima
infrasedicenne, solo per l’ascendente, il genitore anche adottivo ed il
tutore, ma non anche per il convivente.
Chiedeva pertanto l’annullamento dell’impugnata sentenza.
Motivi della decisione
Dalla motivazione della sentenza impugnata, sinteticamente riportata in
punto di fatto, risulta che la Corte territoriale ha esaurientemente trattato
tutti gli aspetti facenti ora oggetto del ricorso, per cui non si ravvisa alcuno
dei vizi di cui all’art. 606, 1º co., c.p.p., ed, in particolare, quello di cui alla lett.
e): infatti, pur essendo astrattamente possibile dare a tutte le considerazioni svolte diverse interpretazioni, quelle di cui trattasi non sono certamente viziate da irragionevolezza, avendo una loro coerenza logica. D’altra
parte, i motivi di gravame non si basano su elementi non presi in esame
dalla Corte territoriale, bensı̀ su una rilettura difensiva dei medesimi: ma il
giudizio di legittimità non può mai risolversi nella rivisitazione dell’iter
ricostruttivo del fatto, dovendo limitarsi alla mera constatazione dell’eventuale travisamento della prova, che consiste nell’utilizzarne una inesistente
o un risultato di essa inconfutabilmente diverso nella sua oggettività da
quello effettivo. Quindi, restano estranei al sindacato di questa Corte i rilievi
1. Premessa
L’argomento della presente nota è assai spinoso, visto l’ondivago
orientamento della Corte di Cassazione, la quale, negli ultimi
dieci anni, si è espressa in termini francamente non sempre
condivisibili agli occhi dei giuristi.
Anzi, vi è da sottolineare che, in un arco temporale non estesissimo – circa dieci anni – il Supremo Collegio ha modificato più
volte il proprio convincimento in tema di violenza sessuale su
soggetto indossante «jeans».
Come è noto, i «jeans» sono il capo d’abbigliamento più comunemente usato da entrambi i sessi e da persone di qualsiasi età;
trattasi, infatti, di un prodotto commerciale reclamizzato e pubblicizzato in tutto il mondo (famoso, tanto per intenderci, quasi
quanto la bibita «coca-cola») e di uso pressoché quotidiano.
2. Evoluzione giurisprudenziale
Nell’anno 1998 (6.11.1998), la Cassazione penale, sezione terza,
con una sentenza che fece scalpore, non solo nel mondo giuridico ma anche in quello sociale, statuı̀ che un soggetto (nella
fattispecie concreta, donna) indossante un paio di jeans non
poteva essere stuprato, poiché trattasi di pantaloni che non si
possono togliere, nemmeno in parte, senza una «fattiva collaborazione» della presunta vittima.
Più specificamente, la Corte annullò, per vizio di motivazione, la
sentenza di condanna emessa nei confronti di un imputato che si
dichiarava innocente, poiché la donna era consenziente e ciò
sulla base, tra l’altro, del fatto che la donna indossava i jeans e
che «è un dato di comune esperienza che è quasi impossibile
sfilare anche in parte i jeans ad una persona senza la sua fattiva
collaborazione, poiché trattasi di un’operazione che è già assai
difficoltosa per chi li indossa».
maggio 2010
354
Famiglia, Persone e Successioni 5
in merito al significato di detta prova ed alla sua capacità dimostrativa, non
potendosi accedere ad una diversa lettura dei dati processuali o ad una
diversa loro interpretazione, essendo in questa sede precluso il controllo
sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati processuali, e rimanendo suo unico oggetto i vizi di cui al citato art. 606 c.p.p.
Vero è che, basandosi la sentenza impugnata essenzialmente sulle dichiarazioni della L. l’attendibilità di questa andava rigorosamente valutata: ma è quel che ha fatto la Corte territoriale, dando compiuta valutazione degli elementi per cui l’ha ritenuta attendibile e motivando
sulla irrilevanza delle eccepite diversità su punti non essenziali delle
varie dichiarazioni. Ed il fatto che la ragazza indossasse pantaloni del
tipo jeans non era ostativo al toccamento interno delle parti intime,
essendo possibile farlo penetrando con la mano dentro l’indumento,
non essendo questo paragonabile a una specie di cintura di castità.
Quanto alla pena, la Corte territoriale l’aveva irrogata in relazione alla
giovane età della L., ed alla convivenza familiare dell’imputato. Contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso, non trattavasi di «compensazione» con la mancata contestazione dell’aggravante di cui all’art. 609
ter c.p. Infatti vero è che tale aggravante non era applicabile nella
specie, riguardando solo gli ascendenti, i genitori anche adottivi ed i
tutori, mentre l’art. 609 septies c.p., prevede solo la procedibilità d’ufficio in caso di convivenza: ma la Corte territoriale, pur con l’erroneo
accenno alla anzidetta mancata contestazione, aveva in realtà tenuto
conto dell’età e della convivenza quali elementi connotanti la gravità
del fatto in relazione ai limiti di pena del reato contestato.
Ne consegue il rigetto del ricorso, come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Omissis.
Non può che stupire una siffatta motivazione, poiché, cosı̀ argomentando, sarebbe necessario operare un’impossibile distinzione tra i vari capi d’abbigliamento, escludendo, a priori, qualsiasi
paio di pantaloni estremamente fasciante la figura (femminile) o
qualsiasi vestito tubolare avvolgente il corpo (si pensi, all’uopo,
all’abito da sera indossato da Audrey Hepburn nel famoso film
«Colazione da Tiffany»).
È evidente, comunque, che la sentenza era corretta laddove, in parte
motiva, ricordava il principio, peraltro valido per qualsiasi fattispecie criminosa, secondo il quale il giudice di merito deve procedere
«a un rigoroso esame delle dichiarazioni accusatorie per affermarne
(n.d.r. della presunta persona offesa) l’attendibilità».
In effetti, il concetto introdotto dalla Suprema Corte, ossia l’utilizzo di un indumento impossibile da sfilare senza la «fattiva
collaborazione» del soggetto che lo indossa, creava una sorta di
barriera, dietro la quale l’imputato poteva trincerarsi, in nome di
un consenso magari inesistente della vittima, poiché era concretamente irrealizzabile la condotta criminosa prevista e punita
dall’art. 609 bis c.p.
Siffatto pensiero della Corte veniva confermato anche nell’anno
successivo, convincimento, peraltro, assai mortificante per le
donne, additate come «soggetti consenzienti», in virtù di un criterio distintivo costituito dall’abbigliamento «jeans», assurto a
dignità di pantalone «anti-stupro».
Profonde furono, invero, le perplessità riguardo alle citate sentenze, poiché portatrici di un contenuto socio-antropologico distorto della relazione comportamentale tra uomo e donna: l’idoneità della condotta del soggetto a compromettere la libertà di
autodeterminazione della donna nella sua sessualità era valutata
non alla stregua di un’oggettività di comportamento invasivo,
bensı̀ dalla soggettività della collaborazione della vittima, a fron-
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_353_355.3d
na 355
23/4/
11:41
pagi-
L E S E N T E N Z E A N N OTAT E
te dell’indumento «stretto ed aderente alla pelle» indossato
(jeans).
In altri termini, se una donna indossava il capo d’abbigliamento
«jeans», era difficilmente credibile che subisse violenza, giacché
una qualche forma di consenso, più o meno espressa, doveva
esservi stata.
Quindi, una simile prospettazione aveva portato alla creazione di
un pericoloso scrimen nell’ambito della fattispecie della violenza
sessuale a seconda dell’abbigliamento del soggetto passivo.
Negli anni successivi, il Supremo Collegio ebbe l’occasione di
riaffrontare lo spinoso tema dell’indossamento dei jeans e cambiò radicalmente il proprio iniziale orientamento, statuendo che
una violenza sessuale era tale, indipendentemente dal capo di
vestiario indossato dalla vittima(1).
Recentemente, poi, con la sentenza n. 30403 del 2008(2), la Corte
ha motivato il rigetto del ricorso presentato dall’imputato (a seguito di una condanna della Corte d’Appello di Venezia) sulla
base del «fatto che la ragazza indossasse pantaloni di tipo jeans
non era ostativo al toccamento interno della parti intime, essendo possibile farlo penetrando con la mano dentro l’indumento,
non essendo questo paragonabile ad una specie di cintura di
castità».
3. Conclusioni
Chi scrive, peraltro, ritiene assai umiliante la citazione di uno
strumento, utilizzato negli scorsi secoli, quale la cintura di castità
(1) Cfr. Cass. pen., (sent.) n. 40542/2007.
(2) Cfr. Cass. pen., sez. III, (sent.) n. 30403, 10.6.-21.7.2008.
che altro non era se non un mezzo di controllo, da parte dell’uomo, nei confronti della donna in costanza di matrimonio; tuttavia, l’avere svincolato il concetto di «atti sessuali» da quello di
«consenso della vittima» e di «fattiva collaborazione», legato al
capo d’abbigliamento utilizzato dalla persona offesa appare un
indirizzo ermeneuticamente corretto.
È, invero, di un segnale di civiltà giuridica l’aver sancito che la
qualificazione di una condotta come violenza sessuale può sussistere a prescindere dal capo d’abbigliamento indossato dalla
persona offesa.
Naturalmente, è un indubbio spunto di riflessione l’argomento
della rilevanza od irrilevanza dell’abbigliamento indossato dalla
vittima in una società come l’Italia – ormai divenuta, da diversi
decenni, realtà multirazziale, multietnica e multiculturale – con
riferimento a determinate fattispecie criminose(3) contemplate
dall’ordinamento italiano.
È da ritenersi che l’argomento sarà, in prosieguo di tempo, oggetto di attento studio e di ulteriore elaborazione, sia in dottrina,
sia sul piano giurisprudenziale; ciò in considerazione del fatto
che sempre più comunità straniere si insediano in Italia, portando con sè un bagaglio di costumi e tradizioni culturali estremamente vario e diversificato.
A ciò consegue che anche la figura del giurista si evolverà, assumendo sempre più il difficile ma innovativo ruolo – a questo
punto, imprescindibile – di «mediatore culturale» oltre a quello
tradizionale di interprete della legge.
&
(3) Cfr., ad esempio, Trib. Cremona, (sent.) 27.11.2008, n. 776, che ha
trattato il tema del riconoscimento e dei «veli» della donna musulmana.
Famiglia, Persone e Successioni 5
355
maggio 2010
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_356_368.3d
na 356
23/4/
11:41
pagi-
L E S E N T E N Z E A N N OTAT E
» Te s t a m e n t o o l o g r a f o
Distruzione
di un testamento olografo
Vincenzo Barba
Professore associato di Istituzioni di Diritto privato e di Diritto civile
SINTESI
1) Il caso
fatto ignorato, ma fatti ai quali l’ordinamento assegna un preciso
Tizia redige due esemplari di un medesimo testamento olografo, con i
significato giuridico. Il fatto descritto nella fattispecie, ancorché non
quali istituisce erede universale l’estranea Caia. Una delle due schede
dichiarativo, può ascriversi al genere del negozio giuridico.
testamentarie viene conservata in casa di Tizia, mentre l’altra viene
4) Testamento e scheda testamentaria
affidata a una legale di fiducia della testatrice. Prima della sua morte
Quando il legislatore chiede, che il testamento sia scritto per intero,
Tizia distrugge la scheda testamentaria conservata presso la propria
datato e sottoscritto di mano del testatore reclama soltanto il facien-
abitazione. Apertasi la successione di Tizia, le sue tre figlie Sempronia,
dum, ossia l’agire umano dello scrivere, ma non anche il factum, ossia
Mevia e Calpurnia, avviano, contro Caia, un giudizio affinché venga
il prodotto di quell’attività. Esige da parte del testatore il gesto dello
accertata la revocazione del testamento olografo e aperta la succes-
scrivere per intero, del datare e del sottoscrivere. Ciò soltanto è ba-
sione legittima a loro favore. Caia contesta la pretesa delle figlie,
stevole perché quell’atto valga come olografo.
assumendo che la distruzione di uno dei due esemplari non può valere
quale revocazione del testamento olografo.
5) Revocazione del testamento olografo pel mezzo della distruzione et similia
2) La decisione della Cassazione
Ciò che viene revocato mediante la distruzione et similia del testa-
Il Supremo Collegio, assumendo che la norma di cui all’art. 684 c.c.
mento olografo non è il documento, ossia la scheda testamentaria,
configura la distruzione del testamento olografo come un comporta-
bensı̀ l’atto, ossia il testamento. Riferire l’effetto di revocazione alla
mento concludente avente valore legale, conchiude che nell’ipotesi in
scheda testamentaria avrebbe poco senso. Quest’ultima, infatti, non
cui esistano due esemplari dello stesso testamento, la distruzione di
soltanto non è il testamento, ossia l’atto produttivo dell’effetto che si
uno non comporta la revocazione del testamento, perché la presun-
intende revocare, ma è addirittura quella cosa sulla quale si appunta il
zione non può operare, essendo il testatore ben consapevole dell’esi-
comportamento del testatore avente valore di revocazione.
stenza dell’altro originale.
6) Distruzione di un testamento olografo
3) La norma di cui all’art. 684 c.c.
Se un soggetto redige due esemplari di un medesimo testamento ologra-
La regola in parola collega al fatto della distruzione, lacerazione o
fo non ha fatto due testamenti, ma un unico testamento, il cui contenuto
cancellazione dell’olografo compiute dal testatore con l’intenzione di
ha deciso, qualunque sia la ragione posta a fondamento di questa scelta,
revocare l’atto, l’effetto della revocazione, ossia una vicenda di estin-
di documentarlo per due volte. Unico è il testamento, molteplici sono le
zione della delazione testamentaria, chiamando indietro la delazione
schede testamentarie. Se è vero che il testamento è uno e che la revoca-
legittima, precedentemente derogata. La regola contenuta nell’art.
zione del testamento è un effetto che incide sull’atto, ma non anche sulla
684 c.c. non pone una presunzione legale, perché in essa non è sot-
scheda testamentaria, soltanto oggetto del comportamento di revocazio-
tinteso un fatto ignorato, ma soltanto disciplinato l’effetto di un fatto
ne, allora non si dovrebbe poter dubitare che la distruzione anche di una
noto. La lacerazione, la distruzione o la cancellazione di un testamento
soltanto delle schede testamentarie, ove risulti compiuta dal testatore
olografo, infatti, non sono fatti noti dai quali è possibile risalire a un
con l’intenzione di revocare, determina la revocazione del testamento.
Cassazione civile, sezione II, 28 dicembre 2009, n. 27395
Pres. Rovelli – Est. Mazzacane – A.G. c. A.V. c. P.A. e A.R.
Successioni «mortis causa» – Successione testamentaria – Testamento in genere – Revocazione delle disposizioni testamentarie – Tacita
– Distruzione del testamento olografo – Natura di comportamento concludente – Sussistenza – Limite della prova contraria – Esistenza
di due originali – Distruzione di uno solo di essi – Applicabilità dell’art. 684 c.c. – Esclusione – Fondamento
L’art. 684 c.c. configura la distruzione del testamento olografo come un comportamento concludente – sia sotto l’aspetto della riconducibilità
della distruzione al testatore sia sotto quello della volontà negoziale di quest’ultimo – avente valore legale, salva la prova contraria in ordine alla
assenza della volontà di revoca. Nell’ipotesi in cui esistano due esemplari dello stesso testamento, la distruzione di uno non comporta la
revocazione del testamento, perché la presunzione non può operare, essendo il testatore ben consapevole dell’esistenza dell’altro originale.
maggio 2010
356
Famiglia, Persone e Successioni 5
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_356_368.3d
na 357
23/4/
11:41
pagi-
L E S E N T E N Z E A N N OTAT E
»
SOMMARIO
1. Il caso – 2. L’effetto della c.d. revocazione – 3. La ipotizzata presunzione della norma e la distribuzione dell’onere della prova – 4. I fatti sui quali si
fonda l’eccezione che impedisce l’effetto della revocazione – 5. La natura giuridica della distruzione, lacerazione e cancellazione – 6. L’atto e il
documento testamentario – 7. La revocazione è del testamento, ma per tramite della scheda testamentaria – 8. L’esistenza di due schede testamentarie
identiche
Svolgimento del processo
Con atto notificato il 4/7.7.2003 P.A. impugnava dinanzi alla Corte di
Appello di Roma la sentenza del Tribunale di Roma del 25.3.2003 che, in
accoglimento della domanda ivi proposta da A.V., A.G. e A.R., figlie ed
eredi legittime della defunta Pa.An., dichiarava revocato ai sensi dell’art.
684 c.c. il testamento olografo della predetta «de cuius» pubblicato per
notaio Parenti in Roma il (omissis) – contenente l’istituzione dell’appellante quale erede universale – per effetto dell’accertata distruzione, ad
opera della Pa., di uno dei due originali della scheda testamentaria
(ovvero quello in proprio possesso, essendo l’altro stato da lei affidato
ad una esecutrice testamentaria) nei quali erano state redatte le sue
disposizioni di ultima volontà. L’appellante deduceva in particolare, a
sostegno del gravame, l’erronea ed illegittima valutazione della prova
riguardante la presunta volontà della Pa. di revocare il suddetto testamento come desumibile dalle deposizioni testimoniali e dalle altre risultanze istruttorie, e chiedeva la riforma della sentenza impugnata
mediante il rigetto della domanda proposta in primo grado dalle controparti.
Si costituivano in giudizio A.V., G. e R. contestando il fondamento del
gravame di cui chiedevano il rigetto. Con sentenza del 23.11.2004 la
Corte territoriale, in riforma della decisione di primo grado, ha rigettato
la domanda proposta in primo grado da A.V., G. e R. tendente alla
declaratoria di revoca del testamento olografo di Pa.An. del (omissis)
ed ha interamente compensato tra le parti le spese di entrambi i gradi
di giudizio.
Avverso tale sentenza A.G. ha proposto un ricorso per cassazione articolato in quattro motivi cui la P. ha resistito con controricorso. A.V. ha
chiesto con controricorso l’accoglimento del ricorso proposto da A.G.; il
difensore di A.R. ha partecipato alla discussione orale.
Le parti hanno successivamente depositato delle memorie.
Motivi della decisione
Con il primo motivo la ricorrente, denunciando violazione o falsa applicazione dell’art. 684 c.c., censura la sentenza impugnata per aver
ritenuto che, in caso di disposizione testamentaria olografa redatta in
duplice originale, la distruzione di uno solo dei due originali non rientrerebbe nell’ambito di operatività dell’art. 684 c.c., non potendosi desumere da tale circostanza anche una sorta di distruzione virtuale dell’altro; inoltre erroneamente la Corte territoriale ha considerato superfluo valutare le cause che hanno di fatto determinato l’impossibilità
della «de cuius» di estendere materialmente anche al secondo originale
la propria volontà testamentaria, nonchè la redazione da parte della Pa.
di un successivo testamento olografo del (omissis).
A.G. rileva che l’ipotesi della distruzione di un solo di due originali di un
testamento olografo si sottrae alla previsione dell’art. 684 c.c. solo
qualora la distruzione del documento contenente la volontà testamentaria sia avvenuta inavvertitamente, ovvero senza la volontà di revocare
il testamento stesso; nella fattispecie, invece, era emerso inconfutabilmente che la Pa. aveva volontariamente distrutto il documento in propria presenza, e che la mancata distruzione del secondo originale era
stata determinata da un impedimento materiale.
Con il secondo motivo la ricorrente, deducendo omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione, afferma che erroneamente il giudice di
appello ha richiamato a sostegno del suo assunto la lontana pronuncia
di questa Corte del 13.12.1942, n. 431, trascurando di considerare che
nella fattispecie ivi esaminata era emerso che la testatrice, che aveva
distrutto uno dei due originali del proprio testamento olografo, in realtà
non era affetta da alcuna grave e debilitante malattia che le impedisse
di distruggere entrambi i due documenti olografi redatti; al contrario
nella vicenda che aveva dato luogo alla presente controversia l’impos-
sibilità di distruggere l’originale in possesso dell’avvocatessa Alba Torrese, nominata dalla Pa. sua esecutrice testamentaria, era stata determinata dalla interruzione dei rapporti tra la Torrese e la «de cuius»,
nonché dall’aggravarsi della malattia che aveva impedito alla Pa. di
ritirare il secondo originale depositato appunto presso lo studio legale
della suddetta avvocatessa.
Con il terzo motivo A.G., deducendo vizio di motivazione, assume che il
convincimento espresso dalla Corte territoriale è comunque superato
dal rilievo che la «de cuius» con un secondo testamento olografo pubblicato il (omissis) aveva di fatto revocato il precedente testamento del
(omissis), cosicché il giudice di appello avrebbe dovuto, prescindendo da
ogni valutazione sulla validità formale di tale secondo documento,
quantomeno confermare l’esistenza della volontà revocatoria della Pa.
Con il quarto motivo la ricorrente, denunciando vizio di motivazione,
evidenza il mancato apprezzamento da parte della sentenza impugnata
di tutti gli elementi acquisiti nel corso del giudizio quali il definitivo
ricongiungimento affettivo tra la «de cuius» e le sue figlie, l’aggravamento delle condizioni di salute della Pa. nell’ultimo periodo della sua
vita, la volontà di quest’ultima di revocare le proprie iniziali disposizioni,
la distruzione dell’originale della prima scheda testamentaria e la redazione di un nuovo testamento da parte della Pa. nel quale la stessa
espressamente aveva manifestato la propria volontà di revocare ogni
precedente disposizione.
Le enunciate censure, da esaminare contestualmente per ragioni di
connessione, sono infondate e, sotto uno specifico profilo, in parte
inammissibili.
La Corte territoriale ha ritenuto che l’ipotesi della distruzione da parte
del tastatore di uno solo dei due originali di un testamento olografo da
lui precedentemente redatto non rientra nell’ambito della previsione di
cui all’art. 684 c.c. in quanto il fatto materiale della distruzione di un
solo esemplare non può spiegare alcuna efficacia relativamente all’altro
esemplare rimasto intatto; in proposito ha affermato che la presunzione di revoca contemplata dalla norma ora menzionata non può valere
se non nei limiti del fatto (ovvero la distruzione del testamento), e
pertanto, nel caso di pluralità di esemplari, se non per quello o per
quelli effettivamente distrutti, cosicché non è lecito desumere dalla
distruzione di uno degli esemplari una specie di distruzione virtuale
degli altri; ed invero, allorché un soggetto redige il proprio testamento
in più esemplari, deve presumersi che voglia che anche solo uno di essi,
quantunque gli altri siano stati smarriti o distrutti, resti pienamente
efficace, e ciò a maggior ragione allorché, come nella specie, sia stato
affidato in custodia uno di tali esemplari a persona di sua fiducia nominata esecutrice testamentaria.
Tale convincimento è condivisibile in quanto frutto di una corretta
interpretazione dell’ambito di operatività dell’art. 684 c.c.
Occorre muovere dalla premessa che il codice civile del 1865 non prevedeva una norma espressa che statuisse gli effetti conseguenti alla
distruzione da parte del testatore di un testamento olografo, e che l’art.
684 c.c. introdotto con il codice civile approvato con r.d. 16.3.1942, n. 262
ha consentito di superare le difficoltà che si frapponevano nel configurare, nella distruzione dell’olografo, una revoca tacita, avuto riguardo al
principio della tassatività dei casi di revoca che ispirava il codice civile
del 1865.
Ciò posto, in base all’art. 684 c.c. il testamento olografo distrutto, in
tutto o in parte, si considera in tutto o in parte revocato, a meno che si
provi che fu distrutto da persona diversa dal testatore, ovvero si provi
che il testatore non ebbe l’intenzione di revocarlo.
Orbene, premesso che secondo la dottrina maggioritaria ed anche la
giurisprudenza (Cass., 9.1.1973, n. 10) tale previsione configura un negozio di revoca tacita o presunta al verificarsi della distruzione del testa-
Famiglia, Persone e Successioni 5
357
maggio 2010
u:/LINOTIPO_H/06-wki/Utet_Riviste_cod_Civ/Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_356_368.3d 26/4/2010 14:57 pagina 358
L E S E N T E N Z E A N N O TAT E
mento, occorre a tal punto analizzare i termini di tale presunzione,
tenendo presente che ai sensi della norma in esame la mera irreperibilità della scheda testamentaria non consente di presumere la sua
revoca; una volta quindi provata la distruzione del testamento, in base
all’art. 684 c.c. opera anzitutto la presunzione della sua imputabilità al
testatore e poi l’ulteriore presunzione dell’intenzione di quest’ultimo di
revocarlo (la già menzionata sentenza di questa Corte 9.1.1973, n. 10 fa
riferimento ad una presunzione di volontà fondata sulla considerazione
che la distruzione sia normalmente riconducibile all’attività materiale
ed all’intento del testatore di revocare il testamento).
In definitiva, quindi, l’art. 684 c.c. configura la distruzione del testamento come un comportamento concludente – sia sotto l’aspetto della
riconducibilità della distruzione al testatore sia sotto quello della volontà negoziale di quest’ultimo – avente valore legale, salva la prova
contraria in ordine all’assenza della volontà di revoca.
Alla luce della delineata struttura dell’art. 684 c.c. occorre ora esaminare la questione oggetto della presente controversia relativa alla distruzione da parte del testatore di uno solo dei due originali del testamento olografo da lui redatto.
Questo fatto, comportando la permanenza dell’originale non distrutto
della scheda testamentaria, da luogo ad una fattispecie che non può
essere ricondotta nell’ambito di operatività dell’art. 684 c.c.; tale norma,
infatti, conferisce rilievo alla distruzione del testamento quale comportamento idoneo a presumere l’intento di revoca della scheda testamentaria da parte del testatore per effetto del venir meno, a seguito della
distruzione, dell’esistenza stessa del documento in cui è contenuto il
testamento olografo; in altri termini il legislatore ha attribuito rilevanza
alla distruzione della scheda testamentaria quale fatto che incide, vanificandolo, sul valore rappresentativo del documento che racchiude la
volontà testamentaria, documento che, come già ritenuto da questa
Corte, costituisce la forma insostituibile del negozio testamentario (vedi
a tale ultimo riguardo Cass., 15.7.1965, n. 1524); nel caso in esame, invece,
che prevede la sussistenza dell’altro originale non distratto del testamento olografo, manca il presupposto stesso della presunzione di revoca,
ovvero il venir meno dei due documenti in originale entrambi rappresentativi, indipendentemente l’uno dall’altro, della volontà testamentaria,
infatti se, come si è in precedenza affermato, la presunzione di revoca
prevista dall’art. 684 c.c. per effetto della distruzione del testamento
riguarda, oltre che l’imputabilità di essa al testatore, anche la sua intenzione di revocare quest’ultimo distruggendolo, è evidente che nel caso di
due originali dello stesso testamento tale presunzione non può normalmente operare, essendo il testatore ben consapevole dell’esistenza dell’altro originale della scheda testamentaria, cosicché la distruzione di uno
soltanto degli originali non può di per sé configurare un comportamento
inequivocabile in proposito, posto che tale distruzione può verificarsi
indipendentemente da qualsiasi intento di revoca, come quando ad
esempio il tastatore abbia in un secondo tempo considerato inutile lasciare integro uno dei due originali per aver ritenuto l’altro originale di
per sé sufficiente a racchiudere la propria volontà testamentaria.
Sotto tale profilo non può essere condiviso il diverso assunto sostenuto da
A.G. e A.V. e sviluppato anche nelle memorie illustrative secondo cui l’esistenza di un secondo originale del testamento olografo intatto non era
sufficiente ad impedire l’effetto della revoca del testamento stesso, essendo altresı̀ necessario provare che la distruzione di esso non fosse opera
della Pa. o che quest’ultima non avesse avuto l’intenzione di revocarlo; al
contrario nella fattispecie non sussiste lo stesso fatto costitutivo idoneo a
far scattare la presunzione di revoca del testamento, ovvero la sua distruzione in entrambi gli originali in cui la Pa. lo aveva redatto, rilievo tanto più
pertinente alla luce della circostanza che la testatrice, come osservato dalla
Corte territoriale, aveva affidato l’originale del suo testamento rimasto
intatto a persona di sua fiducia (ovvero l’avvocatessa Torrese) nominata
esecutrice testamentaria. D’altra parte la stessa ricorrente, mostrandosi
consapevole dell’ostacolo all’accoglimento del proprio assunto circa la revoca del testamento in questione costituito dalla presenza dell’altro originale, ha evidenziato, come si è visto nell’esposizione dei motivi, una pretesa impossibilità della Pa. a distruggere l’originale in possesso dell’avvocatessa Torrese dovuta al deteriorarsi dei rapporti intrattenuti con quest’ultima ed all’aggravarsi delle sue condizioni di salute; al riguardo
peraltro è appena il caso di rilevare che tali circostanze, comunque estremamente generiche, non appaiono seriamente ostative all’acquisizione
dell’originale in questione, non essendo stato neppure dedotto che la Pa.
avesse chiesto la restituzione del documento alla suddetta professionista,
e che quest’ultima avesse frapposto un inequivocabile rifiuto alla riconsegna alla Pa. della scheda testamentaria in suo possesso.
Né a diverse conclusioni può giungersi richiamando la diversa ipotesi in
cui, esistendo due originali dello stesso testamento, in quello rimasto in
possesso del testatore figurino cancellature inesistenti nell’altro originale, e ritenendo che colui che invoca l’efficacia delle disposizioni cancellate in uno dei due originali ha l’onere di provare che le cancellature
non furono opera del testatore ovvero che esse avvennero senza l’intenzione di revocarlo: in tal caso, infatti, non vi è alcuna certezza che
tali cancellature possano configurarsi come manifestazioni di un intento di revoca, ben potendo essere rivelatrici di un semplice proposito di
porre in essere in un secondo momento la revoca stessa, considerato
che anche in questo caso il testatore che cancella alcune disposizioni
testamentarie sull’originale in suo possesso è consapevole della permanenza dell’altro originale (ancora diversa è invece l’ipotesi in cui le
suddette cancellature operate in epoca successiva alla redazione del
testamento diano luogo ad una nuova manifestazione di volontà testamentaria, integrando i requisiti previsti per il testamento olografo dall’art. 602 c.c. configurando cosı̀ una revoca espressa del precedente
testamento ex art. 680 c.c.). Infine devono ritenersi inammissibili i
profili di censura relativi ad una pretesa revoca espressa del testamento
in questione per effetto della avvenuta redazione da parte della Pa. di
un successivo testamento olografo pubblicato il (omissis); tale questione, implicante un accertamento di fatto (la cui soluzione resta comunque condizionata alla configurabilità come testamento del relativo documento, questione, come è pacifico, oggetto di altro giudizio tra le
stesse parti pure pendente dinanzi a questa Corte), non risulta trattata
nella sentenza impugnata, cosicché la ricorrente aveva l’onere – in
realtà non assolto – al fine di evitare una statuizione di inammissibilità
per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta deduzione della
questione dinanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale
atto del giudizio precedente lo avesse fatto, per dar modo a questa
Corte di controllare «ex actis» la veridicità di tale assunto, prima di
esaminare nel merito la questione stessa.
Il ricorso deve quindi essere rigettato; ricorrono giusti motivi, avuto
riguardo alla natura complessa delle questioni oggetto della controversia, per compensare interamente tra le parti le spese di giudizio.
P.Q.M.
La Corte:
rigetta il ricorso e compensa interamente tra le parti le spese di giudizio.
1. Il caso
Il caso sottoposto alla decisione della Suprema Corte di Cassazione è di facile intelligenza.
E il titolo scelto per questa nota a sentenza, ben lungi dal voler,
genericamente, descrivere, aspira a sintetizzarne il contenuto.
Sicché la scelta della preposizione «un» ha, qui, il valore di numerale cardinale e non di articolo indeterminativo.
Tizia, avendo intenzione di disporre delle proprie sostanze per il
tempo in cui avrebbe cessato di vivere, decide di confezionare un
testamento olografo.
Raccolte le sue volontà, redige due esemplari di un medesimo
testamento olografo: uno dei quali conserva in casa propria, l’altro dei quali affida, siccome depositaria, a una legale di sua fiducia.
Prima di morire, è stato accertato dai giudici del merito e ciò
costituisce la premessa di fatto e il presupposto di diritto della
maggio 2010
358
Famiglia, Persone e Successioni 5
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_356_368.3d
na 359
23/4/
11:41
pagi-
L E S E N T E N Z E A N N OTAT E
che tale distruzione può verificarsi indipendentemente da qualsiasi intento di revoca, come quando ad esempio il testatore
abbia in un secondo tempo considerato inutile lasciare integro
uno dei due originali per aver ritenuto l’altro originale di per sé
sufficiente a racchiudere la propria volontà testamentaria».
lite e delle decisioni che sono rincorse sull’accaduto storico, Tizia
ha volontariamente distrutto il testamento olografo che Ella teneva presso la propria abitazione e con il quale aveva istituito
erede universale l’estranea Caia.
Tolta ai vivi Tizia, si apre la di lei successione e si procede alla
pubblicazione del testamento olografo che la de cuius aveva affidato, in vita, alla legale.
Le figlie di Tizia, Sempronia, Mevia e Calpurnia, avviano, contro
Caia, un giudizio innanzi al Tribunale civile di Roma, affinché
venga accertata la revocazione del testamento olografo e aperta
la successione legittima a loro favore. Caia contesta la pretesa
delle tre figlie, assumendo che la distruzione di uno dei due
esemplari non può valere quale revocazione del testamento olografo. Chiede, quindi, che venga dichiarata erede universale.
Il Tribunale civile di Roma, considerato revocato il testamento,
dichiara aperta la successione legittima a favore delle tre figlie di
Tizia.
Avverso questa decisione propone appello Caia.
La Corte territoriale, in accoglimento della domanda dell’appellante, dichiara efficace il testamento olografo e, per conseguenza,
erede universale, Caia.
Avverso la decisione della Corte romana, ricorrono in Cassazione
le figlie di Tizia.
La Corte di Cassazione, rigettando la domanda delle ricorrenti,
conferma la sentenza di appello.
Il Supremo Collegio, assumendo che la norma di cui all’art. 684
c.c. configura la distruzione del testamento olografo come un
comportamento concludente avente valore legale, conchiude
che «nell’ipotesi in cui esistano due esemplari dello stesso testamento, la distruzione di uno non comporta la revocazione del
testamento, perché la presunzione non può operare, essendo il
testatore ben consapevole dell’esistenza dell’altro originale».
Sul punto si legge in motivazione: «se, come si è in precedenza
affermato, la presunzione di revoca prevista dall’art. 684 c.c. per
effetto della distruzione del testamento riguarda, oltre che l’imputabilità di essa al testatore, anche la sua intenzione di revocare
quest’ultimo distruggendolo, è evidente che nel caso di due originali dello stesso testamento tale presunzione non può normalmente operare, essendo il testatore ben consapevole dell’esistenza dell’altro originale della scheda testamentaria, cosicché la distruzione di uno soltanto degli originali non può di per sé configurare un comportamento inequivocabile in proposito, posto
2. L’effetto della c.d. revocazione
Il problema giuridico che anima la decisione in commento, per
quanto, a prima vista, possa apparire esclusivamente legato al
tema della revoca tacita e, quindi, a quello del comportamento
concludente avente valore legale e a quello delle prove presuntive, finisce, in realtà, per invadere, prepotentemente, un territorio
eletto e arduo di teoria generale del diritto. E, paradossalmente,
proprio in quello, ossia il rapporto tra atto e documento, ci pare
che possa (rectius: debba) cercare e trovare la propria soluzione.
Occorrerà muovere l’indagine dall’esegesi della singolare disposizione di legge che regola il caso: l’art. 684 c.c., il quale, cosı̀,
recita: «Il testamento olografo distrutto, lacerato o cancellato, in
tutto o in parte, si considera in tutto o in parte, revocato, a meno
che si provi che fu distrutto, lacerato o cancellato da persona
diversa dal testatore, ovvero si provi che il testatore non ebbe
l’intenzione di revocarlo»(1).
Ancor prima di verificare quale significato giuridico debba assumere il fatto della distruzione, lacerazione o cancellazione del
testamento olografo(2), ossia quale sia la sua natura giuridica,
non sarà inutile un’analitica della regola. Nella quale, muoveremo, quindi, disimpegnandosi, per l’innanzi, dal tema della qualificazione giuridica del fatto.
Tanto singolare è la costruzione della fattispecie, quanto particolare la vicenda di rapporto giuridico collegata al verificarsi di un
fatto corrispondente a quello descritto nella prima.
Il modello di effetto che consegue al modello di fatto descritto
nella disposizione di legge che si indaga è quello della revocazione(3). Ossia quell’effetto, non sempre facilmente collocabile all’interno delle consuete e tradizionali vicende di rapporto giuridico, consistente nella privazione di efficacia o, più esattamente,
nel ripristino della situazione qua ante.
Non si tratterebbe, propriamente, di una consueta vicenda di
costituzione, modificazione o estinzione di un rapporto giuridico, assoluto o relativo, quanto, piuttosto, della eliminazione(4) di
effetti che l’atto abbia già generati(5).
Il che, però, tradotto nella materia successoria e, in particolare, in
(1) Il tema trova i suoi studi più fecondi nella produzione scientifica
appena anteriore all’entrata in vigore del nuovo codice civile e, quindi,
vigendo il vecchio codice che non prevedeva una norma di contenuto
identico o analogo a quello dell’attuale art. 684 c.c. Sia consentito il rinvio
a M. ALLARA, Il testamento, Padova, 1934; ID., La revocazione delle disposizioni testamentarie, Torino, s.d. (ma 1951); MOTTA, Lacerazione volontaria
del testamento olografo, in Foro it., 1929, I, cc. 854 ss.; G. DEIANA, Distruzione del testamento olografo, in Foro it., 1935, I, cc. 1027 ss.; F. CARNELUTTI,
Distruzione o destinazione alla distruzione della scheda del testamento
olografo, in Foro it., 1937, IV, cc. 97 ss.; M. FERRARA, Distruzione e ricostruzione di testamento olografo, in Foro it., 1937, I, cc. 590 ss.; C. GANGI,
Distruzione, lacerazione, o cancellazione del testamento, effettuata dal testatore, in Giur. it., IV, 1938, cc. 81 ss.; L. CARRARO, Distruzione della scheda
dell’olografo e revoca del testamento, in Foro it., 1938, IV, cc. 256 ss.; L.
VIVANTI, La lacerazione del testamento olografo come manifestazione di
volontà, in Foro it., 1949, IV, cc. 98 ss.
(2) C. GANGI, Distruzione, lacerazione, o cancellazione del testamento,
effettuata dal testatore, cit., c. 90, considera la distruzione et similia idonee
a valere come revoca tacita non soltanto del testamento olografo, ma
anche di altri testamenti. Per codesta ragione l’A. propose di approvare
un testo di legge che, come l’originaria formulazione, non facesse riferimento specifico al testamento olografo, ma al testamento in genere. Alla c.
92, cosı̀, scrive l’A., sintetizzando, normativamente, il proprio pensiero:
«l’art. 221 del progetto definitivo dovrebbe secondo me, essere modificato
nel modo seguente ‘‘se il testatore distrugge, lacera o cancella in tutto o in
parte il testamento, o compie su di esso altri atti con cui si suole manifestarsi l’intenzione di revocarlo, il testamento si considera in tutto o in
parte revocato, salvo che l’intenzione di revocarlo resti esclusa. Spetta a
coloro che vogliono avvalersi del testamento, di provare che la distruzione,
lacerazione o la cancellazione di esso non fu opera del testatore ma di terzi
da lui non incaricati, o nel caso che essa fu opera del testatore, che questi
non ebbe l’intenzione di revocarlo"».
(3) Sia consentito osservare che, vigente il vecchio codice, in assenza di
una norma analoga all’attuale 684 c.c., si discuteva in dottrina di quale
fosse l’effetto della distruzione. Non vi era concordia. Secondo alcuni,
infatti, la distruzione determinava l’inesistenza, secondo altri l’annullamento e secondo altri, ancora, la eliminazione stessa delle dichiarazioni
di ultima volontà. Sul punto, per sintesi, il riferimento è a L. CARRARO,
Distruzione della scheda dell’olografo e revoca del testamento, cit., cc. 256
ss. e a G. D’AMICO, Revoca del testamento, in Enc. dir., XL, Milano, 1989, 248251.
(4) Sulla fattispecie a efficacia impeditiva ed eliminativa le pagine di M.
ALLARA, Vicende del rapporto giuridico, fattispecie, fatti giuridici, rist. con
prefazione di Irti, Torino, 1999, e quelle di G. BENEDETTI, Dal contratto al
negozio unilaterale, Milano, 1969.
(5) Osserva F. CARNELUTTI, Distruzione o destinazione alla distruzione
Famiglia, Persone e Successioni 5
359
maggio 2010
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_356_368.3d
na 360
23/4/
11:41
pagi-
L E S E N T E N Z E A N N OTAT E
quella del testamento, complica notevolmente la questione. Non
solo perché la parola «revocazione» descrive, indistintamente, sia
la fattispecie sia l’effetto, quanto perché, mentre è facile intendere il senso della revoca di una proposta contrattuale, dacché
quest’ultima, al momento in cui giunge a conoscenza del destinatario in contemplazione del quale è emessa, produce i suoi
effetti, seppure essi siano soltanto procedimentali e mai sostantivi, più difficile intendere il senso della revocazione di un testamento, ossia di un atto che, per definizione, non sembrerebbe,
per sua naturale vocazione, aver prodotto, al momento del suo
confezionamento e, comunque, prima della morte del soggetto,
alcun effetto(6).
Ciò segna la differenza tra la revoca della proposta e la revocazione del testamento, alle quali, non crediamo per un caso, il
legislatore abbia consegnato l’uso di due parole, seppure simili
e vicine tra loro, nondimeno non identiche.
La revoca della proposta descrive una vicenda estintiva degli
effetti prodotti dalla proposta contrattuale. La revocazione del
testamento, invece, attende a un diverso significato. Il cui senso
ci pare possa cogliersi meglio se si abbia riguardo al significato
vernacolare e originario della parola. La quale deriva dal latino
revoco, il cui significato non è, per l’appunto, corrispondente a
quello assunto nell’oggi dalla medesima forma verbale italiana,
descrivendo, in passato, il risuscitare, il richiamare, il chiamare
indietro, o il volgere indietro: il noto ad vitam revóco.
Non è proprio esatto che il testamento prima della morte del suo
autore non produca alcun effetto(7). Per avvedersene, sarà bastevole, senza che sia necessario se non un lapidario e superficiale
richiamo, porre mente al rapporto tra delazione legittima e testamentaria.
Noto, infatti, che l’eredità si devolve per legge o per testamento e
che non si fa luogo alla prima se non quando manca, in tutto o in
parte, la seconda(8).
La vita giuridica di ciascun soggetto, pel tramite della sua capacità giuridica, è già presidiata da parte dell’ordinamento giuridico da precise regole che ne governano la successione mortis
causa. Senza necessità di ricordare le leziose e amare parole di
Emilio Betti sul «breve tratto della vita dell’uomo» e sui «confini
dalla culla alla tomba», è fuor di dubbio che il legislatore, indipendentemente dalla consapevolezza che ciascuno abbia o possa
avere, ha già ordinata la successione mortis causa di ciascuno
con le regole sulla successione legittima.
Una sola è la possibile reazione dell’individuo: confezionare un
testamento per sottrarsi alla disciplina della successione legittima.
Il testamento, dunque, seppur inefficace, perché destinato a divenirlo soltanto con la morte del suo autore, produce un fondamentale effetto giuridico: sottrae, nei limiti consentiti dalla legge,
la successione del soggetto alle regole della successione legittima, altrimenti incombente.
Più semplice, con questa avvertenza, ipotizzare il significato della
revocazione del testamento.
Il soggetto che aveva sottratta la propria successione alle regole
della successione legittima, affidandola a quella di una certa
successione testamentaria, adesso alla prima o a una diversa
successione testamentaria intende restituirla. Più chiaro è, quindi, il senso dell’uso della parola revocazione. Essa elimina una
intera disciplina, riportando la successione a un altro complesso
di regole. Ecco perché, allora, il legislatore discorre di revocazione e non di revoca. Perché per effetto di un atto o un fatto ascrivibile al genere della revocazione, il soggetto si limita a chiamare
indietro la disciplina precedentemente derogata.
L’effetto revocazione, volendolo, dunque, piegare, alle consuete
vicende di rapporto giuridico, mette capo a una vicenda di estinzione. La quale, però, differentemente dal caso della revoca della
proposta contrattuale, non determina la mera estinzione degli
effetti già prodotti dall’atto, bensı̀ la estinzione della delazione
testamentaria, chiamando indietro la delazione legittima, precedentemente derogata con il testamento.
della scheda del testamento olografo, cit., c. 99, «tra la dichiarazione revocabile e la dichiarazione irrevocabile questa è la differenza: che la seconda
basta che ci sia stata e la prima occorre che ci sia ancora quando ha da
spiegare i suoi effetti; in altri e forse più corretti termini che non ci sia di
mezzo tra il suo sorgere e il suo valere qualcosa che la distrugge».
(6) In questo senso sembra orientato, G. DEIANA, Distruzione del testamento olografo, cit., il quale scrive «la disposizione testamentaria prima
della morte dell’autore non produce alcun effetto». Utile la considerazione
di F. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, VI, Diritto delle
successioni per causa di morte, Milano, 1962, 212: «Il testamento originario
è, già per sua natura, inefficace, sino al momento della morte del testatore;
ma può aggiungersi l’inefficacia, in dipendenza della revocazione; essa
impedirà che si produca la futura efficacia, dovuta all’evento «morte del
testatore». L’inefficacia, dipendente dalla revoca, è dovuta a ragione specifica e diversa da quella che è propria ad ogni testamento; e opera nel
periodo che corre tra la confezione di esso e la morte del testatore».
(7) Sugli effetti del testamento e per una analitica dei medesimi, il rinvio
è a M. ALLARA, Principi di diritto testamentario, Torino, 1957, parte terza,
capitoli I e II, 145 ss.
(8) Il problema del rapporto tra delazione legale e delazione testamentaria è, prima di tutto, un problema di fonte. Chiaramente L. MENGONI,
Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione legittima, in
Tratt. Cicu e Messineo e continuato da Mengoni, XLIII, 1, Milano, 1993,
3, scrive: «La distinzione tra due tipi (o specie) di successione a causa di
morte è frutto di un traslato. Propriamente non esistono tipi diversi di
successione, la natura di questa essendo sempre eguale, ma tipi diversi
di fattispecie cui la successione è ricollegata dall’ordinamento giuridico, e
correlativamente discipline diverse della successione». È discusso, infatti,
se il testamento sia soltanto occasione della delazione ovvero anche fonte
immediata e diretta di essa. Per un’efficace sintesi dei problemi, C. CICALA,
La delazione dell’eredità, in Tratt. dir. successioni e donazioni, diretto da
Bonilini, I, La successione ereditaria, Milano, 2009, 1049-1068. Taluni negano che il testamento possa essere considerato fonte immediata e diretta
della delazione (tra i molti, L. FERRI, Successioni in generale, artt. 456-511,
in Comm. Scialoja e Branca, Roma - Bologna, 1965, 83; R. NICOLÒ, La
vocazione diretta e indiretta, in ID., Raccolta di scritti, I, Milano, 1980, 19;
G. GROSSO e A. BURDESE, Le successioni. Parte generale, in Tratt. Vassalli, XII,
1, Torino, 1977, 74 s.), la quale riposerebbe sempre e comunque nella
legge, mentre altri affermano che legge e testamento andrebbero collocati
sul medesimo piano (F. SANTORO-PASSARELLI, Vocazione legale e vocazione
testamentaria, in Riv. dir. civ., 1942, 193; L. MENGONI, Successioni per causa
di morte. Parte speciale. Successione legittima, cit., 5, il quale osserva che
titolo non è mai la legge, ma determinate fattispecie previste dalla legge:
«Se, anziché dal punto di vista della fattispecie, ci poniamo dal punto di
vista della fonte della qualificazione formale, cioè della norma che stabilisce il collegamento a determinati fatti della complessa modificazione giuridica in cui si svolge la successione, allora nessuna distinzione è più
possibile: causa, in questo senso, della successione è sempre la legge,
non meno della successione testamentaria che della successione legittima»; N. IRTI, Disposizione testamentaria rimessa all’arbitrio altrui, Milano,
1967, 19).
(9) Secondo M. FERRARA, Distruzione e ricostruzione di testamento olografo, cit., c. 595, la distruzione del testamento olografo non mette capo a
un’ipotesi di revoca tacita, ma di inesistenza vera e propria. «Operata
legalmente la distruzione autentica del documento, non può sopravvivere
la dichiarazione già regolarmente scritta dell’ultima volontà abrogata da
un insindacabile potere non formale di disposizione». Nella colonna 598
precisa, cosı̀, il suo pensiero: «Nella vera revoca, anche tacita, vi è dualismo di esistenza non simultanea tra l’atto disvoluto e invalidato appunto
perché esistente e l’atto disvolente, che deve togliergli efficacia. [...] Nella
maggio 2010
360
Famiglia, Persone e Successioni 5
3. La ipotizzata presunzione della norma e la distribuzione
dell’onere della prova
Se l’effetto descritto nella norma è quello della revocazione e il
fatto quello della distruzione(9) lacerazione o cancellazione del
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_356_368.3d
na 361
23/4/
11:41
pagi-
L E S E N T E N Z E A N N OTAT E
testamento olografo, il suo operare si gioca sul concorrere, alternativo, della prova di due diversi fatti.
I quali, occorrerà subito avvertire, anche ai fini di una corretta
impostazione del problema relativo alla distribuzione dell’onere
della prova tra le parti che controvertano sull’applicazione della
norma, non sono costruiti, contrariamente a quanto si è soliti
leggere o ipotizzare, in termini negativi, bensı̀ positivi.
Onde si eviti che la norma possa valere, occorre non già che non
si provi, bensı̀ che si provi che il testamento fu distrutto, lacerato
o cancellato da persona diversa dal testatore o che il testatore
non ebbe l’intenzione di revocarlo(10).
Prescindendo per un attimo dal diverso ruolo e dalla fondamentale portata delle due prove contrarie, le quali attendono alla
verificazione di modelli antipodici, l’uno, puramente fattuale,
intorno a un mero accaduto storico, l’altro deontologico, e, quindi, solo indirettamente e mediatamente fondato su avanzi della
storia, il loro essere costruite in chiave positiva ha una straordinaria importanza.
Colui che invochi l’applicazione della norma si deve, infatti, li-
mitare ad allegare il fatto della lacerazione, distruzione e cancellazione del testamento olografo, senza necessità di dover dimostrare altro. Viceversa, è colui che voglia negare il valere della
norma che è onerato di dover provare il ricorrere di almeno
uno, essendo elementi di fattispecie alternativa, dei due fatti impeditivi(11).
Colui che invochi la regola in parola non ha, quindi, necessità di
dimostrare che la lacerazione la cancellazione o la distruzione
del testamento olografo non sia stata compiuta da persona diversa dal testatore o che quest’ultimo ebbe l’intenzione di revocarlo(12). Perché codesti fatti non costituiscono il fondamento del
diritto di colui che invoca la revocazione, bensı̀ fatti sui quali si
fonda l’eccezione di chi vorrebbe impedirla(13).
Rimane da chiarire, però, se quella descritta nella norma di cui
all’art. 684 c.c. sia realmente una presunzione.
La risposta presuppone un chiarimento intorno al significato
giuridico della parola, dietro la quale, come è noto, si raccolgono
fenomeni assai diversi(14): la presunzione legale assoluta(15), la
presunzione legale relativa e la presunzione semplice.
distruzione completa vi è, invece, una disattuazione intrinseca dell’atto,
cioè un radicale annientamento delle manifestazione della volontà e dei
rispettivi atti, che si fondono nel nulla, producendo la inesistenza dell’olografo distrutto: vi è un assorbimento abolitivo del già esistente atto nell’atto distruttivo». Ovvio il dissenso nei riguardi di codesta opinione. La
quale non soltanto ci pare confonda atto e documento, ma soprattutto, e
ciò è maggiormente grave, ipotizza che l’inesistenza dell’atto, anziché essere originaria, possa essere successiva. Ciò importerebbe che un atto
prima esistente, potrebbe, successivamente, dirsi inesistente. Ma il che è
giuridicamente non concepibile, almeno se l’inesistenza indica, come crediamo che debba indicare, l’impossibilità di considerare il valere giuridico
di un certo atto o di un certo fatto. Una volta che si sia affermata l’esistenza dell’atto si consegna alla storia giuridica un accaduto storico. Nessun comportamento successivo sarebbe capace di incidere su quel passato. Esso potrà incidere soltanto nel suo tempo. Sarebbe, quindi, incapace
di far affermare l’inesistenza dell’atto prima accertato esistente, ma soltanto di privarlo di efficacia.
(10) In questo senso, Cass., 24.2.2004, n. 3636, in Foro it., 2005, 1, 2857, ha
affermato che «Posto che la pubblicazione del testamento olografo, pur
non essendo configurabile come requisito di validità o di efficacia, è atto
preparatorio esterno necessario per la sua coattiva esecuzione, chi ha
interesse a far valere le disposizioni testamentarie e non possa produrne
l’originale deve proporre domanda di accertamento dell’esistenza del testamento e della sua persistenza al momento della morte del de cuius,
fornendo la prova che l’irreperibilità del documento non sia espressione
e conseguenza della volontà di revoca dell’atto da parte del testatore».
(11) Sul dibattito relativo alla distribuzione dell’onere della prova sia
consentito il richiamo alle considerazioni di GANGI, Distruzione, lacerazione, o cancellazione del testamento, effettuata dal testatore, cit., cc. 87-90, il
quale, però, riferisce degli orientamenti agitatisi intorno al testo originario
della disposizione; un testo parzialmente diverso da quello effettivamente
approvato e vigente. È da credere che la modificazione dell’originaria disposizione sia dipesa proprio dal quel proficuo dibattito. Nel quale l’A.
intervenne, ipotizzando l’esistenza di una presunzione e avanzando una
soluzione corrispondente a quella che oggi crediamo debba essere seguita.
Sia per il caso di distruzione che per quello di lacerazione o di cancellazione. Secondo l’A. spetta a chi intende valersi del testamento distrutto,
lacerato o cancellato «provare che quell’operazione che è stata fatta su di
esso, non è stata fatta dal testatore o, se fu fatta dal testatore, non fu da lui
fatta coll’intenzione di revocarlo».
(12) Cosı̀, GIU. AZZARITI, La revocazione, in AA. VV., Tratt. Rescigno, VI,
Successioni, 2ª ed., Torino, 1997, 307.
(13) Cosı̀, Cass., 4.2.1998, n. 12290, in Giur. it., 1999, 2035, con nota di
Bergamo, nella cui massima si legge: «In caso di distruzione (cui è equiparata l’irreperibilità), lacerazione o cancellazione del testamento, vi è una
presunzione iuris tantum di revoca, per cui incombe su chi vi ha interesse
l’onere di provare che esso fu distrutto, lacerato o cancellato da persona
diversa dal testatore».
(14) Nonostante l’importanza del tema, qui non sarà possibile che un
fugace riferimento ai contributi dottrinali più significativi, tra i quali piace
di rinviare, anche per il corredo bibliografico, oltre che per la condivisione
dell’impostazione, alla voce di M. TARUFFO, Presunzioni, I, Diritto processuale civile, in Enc. giur., XXIV, Roma, 1991, e al contributo ID., Presunzioni,
inversioni, prova del fatto, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1992, 733 ss. V.
ANDRIOLI, Presunzioni, in Noviss. Dig. It., XIII, Torino, 1966, 766 ss. Importanti, per la connessione del tema, le considerazioni di S. PUGLIATTI, Fin-
zione, in Enc. dir., Milano, XVII, 1968, 658 ss. Tra le opere di carattere più
ampio si rinvia a L. RAMPONI, La teoria generale delle presunzioni nel diritto
civile italiano, Torino, 1890; R. SACCO, Presunzione, natura costitutiva o
impeditivi del fatto, onere della prova, in Riv. dir. civ., 1957, I, 399. S. PATTI,
Prove. Disposizioni generali. Artt. 2697-2698, in Comm. Scialoja e Branca,
Bologna – Roma, 1987.
(15) Secondo S. PUGLIATTI, Finzione, cit., 658, la presunzione legale assoluta coincide con la finzione giuridica. «Col termine ‘‘finzione’’ si allude al
risultato di un processo mentale che, in quanto immaginato o inventato,
non corrisponda puntualmente ad una specifica realtà». F. CARNELUTTI,
Sistema di diritto processuale civile, I, Padova, 1936, 816, fonda la distinzione in ciò: nella presunzione il legislatore collega a un fatto un certo
effetto, perché secondo l’id quod plerumque accidit il primo è indice del
secondo; mentre nella finzione il legislatore collega a un fatto certe conseguenze malgrado, secondo l’esperienza, essi non abbiano nulla in comune. Convince l’atteggiamento critico di M. TARUFFO, op. ult. cit., 2, il
quale osserva che in entrambi i casi le norme dettano una disciplina
«senza affermare espressamente la verità ‘‘presunta’’ o ‘‘finta’’ di un fatto».
A. DE CUPIS, Sulla distinzione tra presunzioni legali assolute e finzioni giuridiche, in Giust. civ., 1982; II, 230, osserva «che le presunzioni legali assolute hanno il proprio fondamento e il proprio riscontro nella normale
realtà, e solamente a volte contrastano colla realtà del caso concreto, operando, nei confronti di questo, alla stregua di una finzione giuridica; 2) che
le finzioni giuridiche in senso stretto intese, non marginalmente ma pienamente contrastano colla realtà, uguagliando un fatto astrattamente previsto ad altro sempre diverso». Si osservi che quanti condividano le teorie
sulla finzione e ne ammettano l’esistenza muovono da concezioni dualistiche e naturalistiche, che presuppongono la realtà come un termine fisso
sul quale il diritto si limita a sopraggiungere. A. DE CUPIS, op. ult. cit., 227
ss., spiega – con ciò motivando il suo dissenso verso la tecnica della presunzione – «Queste finzioni creano nell’ordinamento una verità legale,
pienamente contraria alla verità reale». Tale precisazione induce il nostro
dissenso verso quella impostazione, e ci persuade a preferire alla (teoria
della) finzione la figura della presunzione legale assoluta. Le ragioni del
nostro dissenso sono diverse da quelle manifestate da De Cupis. La norma
la quale equiparasse, ai suoi effetti, due fatti tra loro diversi e naturalmente
non equiparabili («Ai fini della presente legge il fatto B si considera come
fatto A»), non finge alcunché, ma si limita, più semplicemente, a estendere
la disciplina prevista per il fatto A anche al fatto B. Essa, quindi, è una
porzione di norma e attende di essere completata con l’altra, che collega a
quel fatto un certo effetto («Se A, allora E»). La norma «Ai fini della presente legge il fatto B si considera come fatto A» significa null’altro che «Se
B, allora E». La norma che pone la «finzione» rende due fattispecie equivalenti, collegando alle medesime lo stesso effetto (sulle fattispecie equivalenti M. ALLARA, Vicende del rapporto giuridico, fattispecie, fatti giuridici,
cit., 86). Ammettere la finzione impone una precisa scelta di metodo:
condivisione della cc.dd. teoria dualistica: per cui il diritto è proiezione
logica della natura ed esso non può annullarne le differenze. L’idea è che
fatti naturalisticamente diversi non possono produrre un medesimo risultato giuridico, perché ciò non sarebbe «giusto». Ove ciò accada, il giurista è
costretto a giustificare la scelta. Esemplare di questa tendenza la pagina di
A. DE CUPIS, op. ult. cit., 228, là dove reca l’esempio della adozione speciale,
la quale è equiparata alla nascita in costanza di matrimonio. L’A. avverte
l’esigenza di spiegare e giustificare la scelta del legislatore. Solo se si consideri l’artificialità del diritto ci si rende conto che «figlio legittimo» è mera
qualificazione giuridica, la quale, perché tale, può dipendere da una plu-
Famiglia, Persone e Successioni 5
361
maggio 2010
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_356_368.3d
na 362
23/4/
11:41
pagi-
L E S E N T E N Z E A N N OTAT E
Con le prime due espressioni si descrivono vere e proprie norme
giuridiche sostanziali(16), in loro compiute e conchiuse, mentre
con la terza una mera norma procedurale(17), avulsa dal fatto
sostanziale da provare, in attesa di essere riempita di un qualunque contenuto proveniente dall’esterno e, quindi, capace di
un’indefinita applicazione.
Se quella posta nell’art. 684 c.c. fosse, realmente, una presunzione(18), non potrebbe esservi dubbio che essa, per essere una
norma giuridica dotata di un preciso contenuto precettivo, non
potrebbe essere una presunzione semplice, e, ammettendo la
prova contraria, potrebbe essere, alternativamente, o una presunzione legale assoluta, se quelle prove contrarie fossero tassative, o una presunzione legale relativa, se le prove contrarie ammesse non dovessero considerarsi tassative.
Tuttavia, l’ipotesi ricostruttiva della presunzione legale, sia essa
assoluta o relativa, pur essendo largamente condivisa e accreditata, non soddisfa.
Perché nel caso che ci occupa difettano i tratti propri della presunzione: ossia l’esistenza di un fatto noto dal quale è possibile
risalire a uno ignorato(19).
Nella norma non è sottinteso un fatto ignorato(20), ma soltanto
disciplinato l’effetto di un fatto noto. La lacerazione, la distruzione o la cancellazione di un testamento olografo, infatti, non sono
fatti noti dai quali è possibile risalire a un fatto ignorato, ma, più
semplicemente, fatti ai quali l’ordinamento assegna un preciso
significato giuridico(21).
Ragionando diversamente, dovremmo ipotizzare che il fatto
ignorato da trarre sarebbe proprio la revocazione del testamento.
Ma essa, abbiamo tentato di chiarire, ben lungi dall’essere un
4. I fatti sui quali si fonda l’eccezione che impedisce l’effetto
della revocazione
L’effetto della revocazione è escluso se si dimostri, alternativamente, che il testamento fu distrutto, lacerato o cancellato da
persona diversa del testatore ovvero se si provi che il testatore
non ebbe l’intenzione di revocarlo.
Occorre fermare la distinzione tra i due fatti impeditivi della
revocazione(23).
I quali si collocano, come anticipavamo, su piani diametralmente
ralità di fatti. Il diritto è sovrano di collegare a qualunque fatto qualunque
effetto, ciò nel solo rispetto delle regole sulla produzione giuridica. Le
norme, pure strutture, possono essere colmate di tutti quei contenuti voluti dall’uomo (cosı̀ H. KELSEN, Lineamenti di dottrina pura del diritto, rist.
Torino, 1999, 63 ss. e, recentemente, approdando a una visione giuridica
nichilista, i saggi di N. IRTI, Il salvagente della forma, Bari, 2007). Il legislatore non finge, ma disciplina. Le norme cc.dd. di finzione, allora, si
risolvono null’altro che in una mera tecnica legislativa di economia del
linguaggio. In luogo di collegare a un fatto un certo effetto o una certa
disciplina, per semplicità, il legislatore preferisce equiparare il nuovo fatto
a quello già disciplinato. In tale guisa si crea un’altra norma che collega al
nuovo fatto, quell’effetto già preveduto per il fatto precedentemente disciplinato.
(16) P. CALAMANDREI, La genesi logica della sentenza civile, in Riv. critica
scienze sociali, 1914, 128, osservava «delle presunzioni legali assolute che
non ammettono prova in contrario non è qui il caso di parlare, perché esse
non tendono a disciplinare l’attività del giudice nell’accertamento del fatto, ma costituiscono norme di diritto sostanziale».
(17) Questa affermazione, si avverte sin da subito, è già il segno della
condivisione di un certo orientamento, sicché essa stessa è già professione
di una ricostruzione. M. TARUFFO, op. ult. cit., 1, avverte chiaramente «di là
di ogni illazione banalmente psicologistica su quello che potrebbe essere il
ragionamento che conduce il legislatore ad affermare in una norma che un
determinato fatto deve essere presunto, vale la constatazione che quando
la legge stabilisce presunzioni manca solitamente la struttura inferenziale
del ragionamento presuntivo cui allude l’art. 2727». Contrario S. PATTI, op.
ult. cit., 126 s., il quale aderisce all’idea che distingue presunzioni legali
assolute da finzioni giuridiche, sulla base di un giudizio di «avvicinamento
alla realtà». Tanto più probabile è la derivazione del fatto ignoto, da quello
noto, tanto più è plausibile sostenere che si sia in presenza di una presunzione legale e non di una finzione. Con le parole dell’A., «pur trovandoci in un territorio di confine, nel caso delle presunzioni iuris et de iure
non sempre si ravvisa quindi «la violenza nei confronti della realtà» che
caratterizza invece le finzioni, essendo in esse normalmente insita una
razionalità che è assente nel caso della finzione». Si osservi, inoltre, che
tale ricostruzione, ossia che la presunzione debba sempre essere costituita
dall’accostamento di due fatti, la prova di uno dei quali (quello noto) vale
prova dell’altro (quello ignoto), induce l’A. anche in una ulteriore distinzione: quella tra presunzioni legali relative e norme sulla ripartizione dell’onere della prova o «presunzioni improprie» o «verità interinali».
(18) G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, II, Milano, 1983, 550, riferisce
delle due principali opinioni in dottrina in merito alla natura presuntiva
della norma. Secondo una prima chiave di lettura ci troveremmo di fronte
a una presunzione assoluta e una relativa. Sarebbe consentito provare
soltanto che la distruzione et similia non furono compiute dal testatore,
mentre non sarebbe consentito provare, accertato che la distruzione fu
compiuta dal testatore che egli non ebbe l’intenzione di revocarlo. Secondo un’altra impostazione, alla quale l’A. aderisce, entrambe le presunzioni
sarebbero relative e ammetterebbero la prova contraria. Ovvio il dissenso
verso la ricostruzione proposta. Perché non ci pare che in questo caso si
sia in presenza di una vera e propria presunzione, ma, più semplicemente,
di una norma che distribuisce l’onere della prova tra i contendenti. Solo
per inciso, ci pare opportuno osservare che mancherebbero, nell’una come nell’altra, i tratti propri della presunzione.
(19) Diverso sarebbe stato se il nostro codice, similmente a quanto fa il
codice civile tedesco al par. 2255, avesse disposto: «Se il testatore ha distrutto il documento del testamento o l’ha alterato nel modo indicato, si
presume che egli abbia avuto l’intenzione di annullare il testamento». In
questo qual caso sarebbe stato possibile discorrere di una norma presuntiva. Perché la legge avrebbe immediatamente istituito un collegamento
tra il fatto noto e l’atto ignorato, dal primo ricavato.
(20) Contrari F.S. AZZARITI, G. MARTINEZ, GIU. AZZARITI, Successioni per causa
di morte e donazione, 6ª ed., Padova, 1973, 605, secondo i quali «non può
quindi negarsi che dalla distruzione si ricavi una presunzione che il testamento siasi voluto realmente revocare»; R. CALVO, La revocazione delle
disposizioni testamentarie, in AA.VV., Diritto delle successioni, a cura di
Calvo e Perlingieri, Napoli, 2008, 2, 1127. A. PALAZZO, Le successioni, 2,
Successione testamentaria. Comunione. Divisione, in Tratt. Iudica e Zatti,
Milano, 2000, 826, il quale considera la regola una presunzione relativa la
quale consente dal fatto noto della distruzione, lacerazione o cancellazione del testamento olografo di risalire e ricostruire la volontà del de cuius in
ordine alla revoca. Ciò consente all’A. di escludere che si sia in presenza di
un negozio di attuazione o di un negozio presuntivo e di ricondurre l’ipotesi nei fatti di prova.
(21) In senso contrario C. GANGI, Distruzione, lacerazione, o cancellazione
del testamento, effettuata dal testatore, cit., c. 91, il quale reputa che la
norma, sull’esempio del codice tedesco, ponga una presunzione semplice
di revoca.
(22) Questa ipotesi si deve a F. SANTORO-PASSARELLI, Dottrine del diritto
civile, 6ª ed., Napoli, 1959, 136, ma già in D. BARBERO, Sistema istituzionale
del diritto privato italiano, 5ª ed., II, Torino 1958, n. 1137, 1061. Per un’analisi critica sulla figura del negozio di attuazione L. CAMPAGNA, I negozi di
attuazione e la manifestazione dell’intento negoziale, Milano, 1958.
(23) Secondo F. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, VI,
maggio 2010
362
Famiglia, Persone e Successioni 5
atto o un fatto, è, propriamente, l’effetto. Quell’effetto che consiste nella estinzione della delazione testamentaria, e, di conseguenza, nel ad vitam revócare la delazione legittima alla quale
non si poteva, in tutto o in parte, far luogo fin tanto che esisteva
quella testamentaria.
Negare che l’art. 684 c.c. ponga una presunzione legale relativa
ha una importante ricaduta concettuale. Perché questo radicato
convincimento è stato, ed è tutt’ora, un’imprescindibile pregiudizio che vizia ogni ragionamento sulla natura e la qualificazione
giuridica del fatto della distruzione, cancellazione e lacerazione
del testamento olografo.
Non v’è alcuno, infatti, che non possa scorgere come dietro l’idea
che i fatti descritti nella norma servano alla legge per togliere da
essi la prova di fatto ignorato e che quest’ultimo consti proprio
nella revocazione, si celi la pre-comprensione stessa del fatto, il
quale non potrebbe essere riconducibile al genere del negozio
giuridico e sarebbe costretto a rifluire nelle categorie della revoca
tacita o del mero comportamento volontario o, ancora, del negozio di attuazione(22).
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_356_368.3d
na 363
23/4/
11:41
pagi-
L E S E N T E N Z E A N N OTAT E
opposti, essendo il primo un mero accaduto storico, il quale
attende di essere dimostrato con una prova diretta o indiretta,
mentre il secondo una vera e propria valutazione giuridica, come
tale, dimostrabile soltanto in via indiretta(24) e presuntiva.
Altra è la prova che l’attività consistita nella distruzione, lacerazione o cancellazione del testamento non sia stata compiuta dal
testatore(25), altra è la prova che il testatore, pur avendo compiuto l’atto, non ebbe l’intenzione di revocare il testamento.
Il primo, in quanto puro fatto, perché tale è, inevitabilmente, la
distruzione, lacerazione o cancellazione del testamento olografo
da parte di un qualunque soggetto, sia esso il testatore o un terzo,
non attende altro dalla prova di sé medesimo(26). Esso è, certamente, un fatto passato, che non essendo più, sfugge alla nostra
percezione, ma che, nondimeno, ci è possibile conoscere attraverso ciò che ancora residua; attraverso la prova diretta, data, a
esempio, da una videoregistrazione, o la prova indiretta, data, a
esempio, dal ricordo di un testimone o dalla semplice presunzione tolta da materiale storico sopravvissuto(27).
Il secondo, invece, in quanto giudizio, perché tale è, inevitabilmente, un elemento psicologico, quale quello della intenzione, non si può costruire con il puro elemento normativo, né
con una rappresentazione immeditata e diretta. Nessuna fonte
storica è capace di provare, direttamente e immediatamente,
l’intenzione del soggetto. E qualunque materiale storico che
possa essere sopravvissuto non sarà mai in grado di darne
immediata percezione. Ciò significa che la prova deve, di necessità, essere sempre indiretta e presuntiva. Perché la fonte
della prova non coincide, né può mai coincidere, con il fatto
da provare. Anche perché ciò che deve provarsi non è, in questo caso, un vero e proprio fatto, bensı̀ un elemento soggettivo
e psicologico o, meglio sarebbe dire, il giudizio sopra un certo
comportamento(28).
Anche il ricordo di un testimone che racconti di aver udito il
testatore dichiarare di voler revocare il testamento che, per co-
5. La natura giuridica della distruzione, lacerazione e
cancellazione
Di là della profonda differenza che segna questi due fatti alternativi, essi ci pare che abbiano una straordinaria importanza al
fine di poter compiere il giudizio di qualificazione del fatto di
distruzione, lacerazione e cancellazione(29). Perché se, a contrario, la prova di uno di questi fatti esclude l’effetto revocatorio, ciò
significa che, di là della distribuzione dell’onere della prova tra
coloro che controvertano sul valere della norma, e del loro diverso instrumentario probatorio, essi delineano tratti fondamentali
dei fatti descritti nella fattispecie. Riconoscendo, cosı̀, la necessità che i fatti descritti nell’art. 684 c.c. debbano essere non soltanto imputabili al testatore, ma anche intenzionali.
La necessità del loro carattere intenzionale ci pare che sia, davvero, determinante ai fini della qualificazione giuridica(30) del
fatto di distruzione et similia.
Ovvio che si è in presenza di veri e propri comportamenti(31) e
non già di fatti di linguaggio(32). Ciò soltanto, però, non è neces-
Diritto delle successioni per causa di morte, cit., 216, la norma di cui all’art.
684 c.c., a eccezione dei due casi espressamente previsti, porrebbe una
presunzione iuris et de iure di volontà di revoca. «Invece, costituisce presunzione semplice (e quindi suscettibile di prova contraria) il fatto che la
distruzione, lacerazione o cancellazione non sia stata opera del testatore, o
sia stata effettuata dal testatore, ma con l’intenzione di non revocarlo». La
tesi non convince. Perché delle due l’una: o si tratta di una presunzione
legale assoluta, rispetto alla quale sono ammesse soltanto le due prove
contrarie tassativamente stabilite dalla legge (cfr. art. 2728, 2º co., c.c.) o si
tratta di una norma che pone una presunzione relativa e, in tal caso,
dovrebbero essere ammesse tutte le possibili prove contrarie.
(24) Per una sintesi, S. SATTA e C. PUNZI, Diritto processuale civile, 12ª ed.,
Padova, 1996, 221 s.
(25) Chiaramente, G. BONILINI, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, 4ª ed., Torino, 2006, 294, rileva che la norma sia mal formulata «dato
che non ha ragione d’essere la presunzione di revoca, ove la distruzione sia
stata operata da un terzo; in questo caso, dunque, la distruzione non
impedisce che possa essere ricostruito il documento, e che il negozio
possa produrre i suoi effetti. Si rammenti, peraltro, che la distruzione da
parte del terzo, può determinarne l’indegnità a succedere».
(26) Secondo G. D’AMICO, Revoca del testamento, cit., 253, la norma di cui
all’art. 684 c.c. porrebbe una «presunzione di provenienza del testatore dei
comportamenti in esame». Non mancando di rilevare che «meglio avrebbe
fatto il legislatore a lasciare libero il giudice di regolare di volta in volta la
distribuzione dell’onere probatorio sulla base di adeguate praesumpitiones
hominis, ricavate dalle circostanze dei singoli casi concreti».
(27) Si consideri, tuttavia, che la giurisprudenza tende a semplificare
l’onere probatorio di colui che non voglia valersi di un testamento, consentendogli di provare che il testamento non fu distrutto, lacerato o cancellato direttamente dal testatore, anche mediante la prova che la distruzione sia dipesa dal caso o da un fatto naturale o che il testatore non ebbe
la possibilità materiale di distruggere il documento.
(28) G. D’AMICO, Revoca del testamento, cit., 255, precisa che la lacerazione, distruzione o cancellazione del testamento olografo, non essendo di-
retti a manifestare l’intento di revocazione «possono assumere valore concludente rispetto ad un tale intento solo se inseriti nella cornice delle
circostanze d’insieme che li accompagnano».
(29) La norma è considerata dalla maggioranza della dottrina eccezionale
e, quindi, la elencazione dei fatti descritti, tassativa. Per coloro che muovono da questa impostazione, fatti diversi dalla distruzione, cancellazione
o lacerazione non debbono assumere rilevanza. Il problema riguarda,
principalmente, le ipotesi del c.d. appallottolamento o del trovarsi la scheda testamentaria nel cestino della carta straccia. Coloro che considerano la
norma tassativa debbono escludere che possano avere rilievo fatti diversi
da quelli espressamente descritti. In questo senso, molto rigoroso è il
pensiero di C.M. BIANCA, Diritto civile, 2, La famiglia - Le successioni, 3ª
ed., Milano, 2001, 731, il quale scrive: «la volontà di revoca che non si sia
manifestata attraverso la distruzione del testamento è irrilevante in considerazione del principio di formalità». In giurisprudenza si segnala, Cass.,
6.5.1965, n. 834, in Mass. Giur. it., 1965, la cui massima, cosı̀, suona: «I casi
di revoca tacita del testamento previsti dall’art. 684 c.c. sono di stretta
interpretazione e non possono essere estesi per analogia. Ciò non esclude,
peraltro, la varietà dei comportamenti e delle circostanze che in concreto
possono condurre alla revoca del testamento, sempreché quei comportamenti possano ricondursi agli schermi tipici contemplati dallo stesso art.
684 c.c.».
(30) Sul tema della qualificazione e del comportamento concludente
necessario il richiamo all’importante lavoro di V. SCALISI, La revoca non
formale del testamento e la teoria del comportamento concludente, Milano,
1974.
(31) L. BARASSI, Le successioni per causa di morte, Milano, 1941, 299, preferisce la figura del fatto concludente, il quale «prende colore dalla volontà
che l’ha determinato; se deve essere un fatto concludente bisogna che
abbia in sé gli indici rivelatori della volontà di cui si vuol riconoscerlo
come espressione».
(32) F. CARNELUTTI, Distruzione o destinazione alla distruzione della scheda
del testamento olografo, cit., cc. 99 e s., «Un modo del disfare una dichiarazione è naturalmente quello di fare una dichiarazione contraria. Questa
desta ragione, distruggeva, non offrirà una prova diretta della sua
intenzione di revocarlo. Perché anche nel ricordo di un testimone, che pure riferisca di avere udita una tale dichiarazione del
testatore, non v’è la prova diretta della di lui intenzione, che nella
specie poteva anche mancare, ma una prova de relato. Manca
quel rapporto di immediatezza tra la prova, ossia la testimonianza, e il giudizio da provare.
I fatti sui quali si fonda l’eccezione che impedisce l’effetto della
revocazione, pur se alternativi, e, quindi, con limitato riferimento
alla loro efficacia impeditiva, equiparati quoad effectum, di guisa
che la prova anche di uno soltanto di essi è sufficiente a impedire
il valere della norma, meritano, dunque, di essere collocati, limitatamente al profilo probatorio e, soprattutto, a quello sostanziale, su piani distinti e distanti, esaltando la differenza tra un fatto e
il giudizio su alcuni fatti.
Famiglia, Persone e Successioni 5
363
maggio 2010
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_356_368.3d
na 364
23/4/
11:41
pagi-
L E S E N T E N Z E A N N OTAT E
sario né sufficiente per escludere la loro natura negoziale(33). La
quale, con tutte le importanti conseguenze che da essa discendono, non riposa certamente sulla struttura (rectius: sulla forma)(34) del fatto.
Il comportamento è, certamente, diverso dalla dichiarazione(35):
non v’è l’evadere del pensiero da se stesso e il suo oggettivarsi per
assolvere la funzione di far conoscere qualcosa ad altri, ma un semplice atto a evento materiale che, pur non mirando a far conoscere
alcunché, realizza, nondimeno, un mutamento del mondo esteriore(36). Ma, il suo essere un comportamento non esclude che esso sia
qualificabile in termini di negozio giuridico(37). E, anzi, il nostro
codice civile è popolato di numerosi comportamenti negoziali.
La possibilità della qualificazione in termini di negozio giuridico,
non preclusa ontologicamente anche ai comportamenti, seppure
ciò importi evidenti limitazioni in ordine al potere determinativo
degli effetti, deve, dunque, togliersi facendo uso dei consueti
criteri. Impedita dall’economia complessiva di questo lavoro, la
possibilità di ripercorrere i difficili itinerari intorno ai criteri per
discernere tra atti giuridici in senso stretto e negozi giuridici(38),
alle note distinzioni fondate sulla libertà del sé e la libertà del
come(39), o sulla pura rilevanza dell’intento(40), o sull’effetto dispositivo e l’effetto innovativo(41), crediamo di dover preferire,
anche per la sua stretta attinenza al dato positivo, il criterio basato sul rapporto tra fattispecie ed effetti(42). Occorre, cioè, fer-
è la revoca, la quale è pertanto una specie del genere dichiarazione. Che
poi la dichiarazione enunci il proposito di disfare la dichiarazione precedente o semplicemente lo attui, per il suo contenuto contrario al contenuto di quella, riguarda la differenza tra la revoca espressa e la revoca
tacita». Nello stesso senso, sempre ragionando sul codice previgente, C.
GANGI, Distruzione, lacerazione, o cancellazione del testamento, effettuata
dal testatore, cit., c. 85, il quale considera, senz’altro, la distruzione, lacerazione o cancellazione del testamento olografo un caso di revoca tacita,
osservando che il problema è quello di stabilire se a tale revoca tacita
possa considerarsi valida ed efficace nel nostro ordinamento giuridico.
Alla colonna successiva l’A. rifiuta l’idea che una tale revoca non possa
essere efficace. Non soltanto perché il codice non distingue tra revoca
espressa e revoca tacita, ma soprattutto perché se v’è prova della volontà
del testatore di volerlo revocare, non si potrebbe conservare a quell’atto la
efficacia che, altrimenti, gli sarebbe propria. E alla colonna, ancora, successiva osserva: «Le forme stabilite dagli artt. 917 e 919 riguardano non già
qualsiasi specie di revoca, ma soltanto quella preveduta dal legislatore, la
revoca cioè riguardante un testamento che continui materialmente a sussistere e che potrebbe produrre effetti giuridici». Non potrebbero, dunque,
riguardare il caso di distruzione, perché non esisterebbe più il documento.
(33) In senso contrario, il lavoro di G. GIAMPICCOLO, Su alcun figure di c.d.
revoca tacita del testamento, in Riv. dir. civ., 1961, I, 527 ss. e spec. 531-533,
il quale preferisce discorrere di comportamenti legalmente tipizzati. Categoria, che come è noto, per l’A. raccoglie, insieme, tre sottospecie: il negozio, l’atto in senso stretto e il fatto semplice. Le ipotesi descritte nell’art.
684 c.c. non sarebbero, per l’A. riconducibili al genere del negozio, ma
dell’atto. Ciò perché secondo l’A. il procedimento di tipizzazione si limita
ad assicurare un effetto che appare, socialmente opportuno. «L’atto non
rileva più per un suo ipotetico contenuto di volontà, né come espressione
di provata autonomia, ma quale semplice presupposto di un effetto in
tutto preordinato dalla legge». Non convincono, però, le motivazioni in
base alle quali, secondo l’A., non rilevi, nel caso dell’art. 684 c.c. l’intento
del soggetto. Al riguardo scrive: «Anzitutto perché, secondo comune esperienza, è intanto raro che a quella condotta possa in realtà non corrispondere l’intento di una revoca; [...] In secondo luogo perché, anche diversamente argomentando, non risponderebbe comunque ad una corretta interpretazione degli oneri di privata autonomia mantenere in vigore, in
quelle condizioni, il testamento». Conclude quindi: «non conta l’intento,
conta il risultato consapevolmente perseguito dal soggetto; e a questo
unicamente guarda la legge, allorché stabilisce l’inefficacia delle disposizioni testamentarie». Ci pare che le due argomentazioni, che tendono alla
conclusione, non possano cogliere nel segno. Non la prima, la quale è un
mero dato statistico. Non la seconda, la quale è, soltanto, una valutazione
di politica legislativa e non di stretto diritto positivo. Per contro, invece,
crediamo che la rilevanza attribuita, normativamente, alla intenzione di
revocare il testamento, debba sospingere verso la categoria del negozio
giuridico. Per usare le parole e la classificazione dell’A., nel caso dell’art.
684 c.c. non reputiamo che il legislatore si limiti ad assicurare un effetto,
ma crediamo che attribuisca un significato a un certo comportamento
nella misura in cui esso sia realmente sorretto dal corrispondente intento.
Di talché la distruzione del testamento a opera del testatore che non ebbe
l’intenzione di revocarlo non vale, certamente, a revocare l’atto. Per usare
le parole dell’A., ci sembra che nel caso di cui all’art. 684 c.c. ricorra
proprio un’ipotesi di negozio in cui rileva l’intento dell’autore. Non pare
che si possa dubitare che il testatore, o chi per lui, essendo, per definizione, mancato ai vivi, «possa far valere un eventuale difetto di intento; e allo
stesso modo sarà rilevante, se contestuale e riconoscibile, la protesta di
una contraria volontà».
(34) La parola «forma» è qui tolta nel significato usato da E. BETTI, Teoria
generale del negozio giuridico, 2ª ed., Torino, 1952, 127 ss.: «La forma,
attraverso la quale l’atto giuridico che è il negozio si rende riconoscibile
agli altri, può essere quella della dichiarazione o quella di un comportamento puro e semplice, senza valore di dichiarazione».
(35) Sulla distinzione tra dichiarazione e comportamento, sia consentito
il rinvio a E. BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, 2ª ed., cit., 12 s. e a
G. BENEDETTI, Il diritto comune dei contratti e degli atti unilaterali tra vivi
aventi contenuto patrimoniale. Studi. Parte generale, Napoli, 1991, 107 ss.
(36) E. BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, 2ª ed., cit., 128, scrive:
«A differenza della dichiarazione il comportamento puro e semplice non fa
assegnamento sulla collaborazione psichica altrui affermando un’esigenza
da appagare nell’altrui confronto. [...] Esso [il comportamento] è caratterizzato dal fatto che esaurisce il suo risultato in una modificazione oggettiva socialmente riconoscibile e rilevante dello stato di fatto preesistente.
Esso opera ed attua di fatto un regolamento di privati interessi, senza
mirare a renderlo noto ad altri, pur concretandosi, come ogni atto, in un
mutamento del mondo esteriore riconoscibile nell’ambiente sociale». G.
BENEDETTI, Il diritto comune dei contratti e degli atti unilaterali tra vivi
aventi contenuto patrimoniale. Studi. Parte generale, cit., 122 ss. distingue
tra comportamenti che realizzano e attuano direttamente un certo assetto
di interessi, per i quali la legge esclude rilevanza di ogni atto dichiarativo, e
i comportamenti i quali, invece, non attuano direttamente il programma e
richiedono l’utilizzazione di particolari strumenti logici, come l’inferenza
necessaria. Ai primi è riservato il nome di attuazioni, mentre ai secondi
quello di comportamenti concludenti.
(37) In senso contrario, S. ROMANO, Atti e negozi giuridici (maggio-giugno
1945), in ID., Frammenti di un dizionario giuridico, cit., 5, il quale esclude
dalla categoria le azioni giuridiche materiali. «Per conseguenza considererei atti giuridici soltanto le pronunce, manifestazioni o dichiarazioni, di
mero contenuto psicologico, sia di volontà, sia di rappresentazioni [...] sia
di sentimenti [...]».
(38) Per una più compiuta trattazione e per i riferimenti bibliografici, sia
consentito di rinviare al nostro La rinunzia all’eredità, Milano, 2008, cap.
III, sezione II, 301 ss.
(39) In questo senso, F. SANTORO-PASSARELLI, Dottrine generali del diritto
civile, 9ª ed., Napoli, 1989, 106.; C.M. BIANCA, Diritto civile, 3, Il Contratto,
Milano, 1984, 16.
(40) In questo senso, D. BARBERO, Sistema istituzionale del diritto privato
italiano, I, Torino, 1955, 309: «Definiamo dunque l’"atto giuridico’’, non già
‘‘manifestazione di volontà’’, ma una manifestazione, o meglio ancora, un
comportamento volontario del soggetto a cui il diritto riconnette dati effetti giuridici in quanto appunto e perciò solo ch’esso è volontario». M.
SEGNI, Autonomia privata e valutazione legale tipica, Padova, 1972, affida
la distinzione tra atti e negozı̂ non in base alla possibilità di una volontà
contraria, ma in funzione del ruolo assegnato dalla legge alla volontà,
intesa come intento di inserirsi nel traffico giuridico, di incidere su un
conflitto di interessi, di dare una nuova sistemazione a una situazione o
sfera di interessi. L. CARIOTA FERRARA, Le successioni per causa di morte, I,
Parte generale, 1, Principi. Problemi fondamentali, Napoli, 1955, 25, il
quale nell’indagare il fatto giuridico in senso stretto ne segna la distinzione
rispetto all’atto e al negozio, avvertendo che in quest’ultimo, soltanto,
«[...]vi è una rispondenza tra effetti, che l’ordinamento ricollega ad essi,
e volontà od intento dei soggetti, ovvero, se si vuole, regolamento d’interessi da essi attuato». L. BIGLIAZZI GERI, U. BRECCIA, F.D. BUSNELLI, U. NATOLI,
Diritto civile, I, 2, Torino, 1987, 449.
(41) V. PANUCCIO, Le dichiarazioni non negoziali di volontà, Milano, 1966,
24 s., sebbene l’A. finisca con il rilevare che tale criterio valga non tanto per
distinguere gli atti giuridici in senso stretto dai negozı̂ giuridici, quanto
piuttosto gli atti giuridici dalle dichiarazioni non negoziali di volontà. Poiché queste ultime si accentrano nelle sole partecipazioni di volontà dell’avente diritto, sarebbe lecito concludere che la distinzione stessa tra atti e
negozı̂ giuridici finisce con l’interessare il giurista come «distinzione tra
negozi e partecipazioni di volontà dell’avente diritto». Nonostante, altrove,
ravvisi la distinzione, non sembra insensibile a questo criterio F. SANTOROPASSARELLI, Atto giuridico, a) Diritto privato, in Enc. dir., IV, Milano, 1959,
208 s., il quale osserva che «la dispositività diviene perciò un indice caratteristico della natura negoziale e serve per l’appunto come criterio discretivo di ipotesi apparentemente fra loro molto simili». Anche V. SCALISI, Il
negozio giuridico tra scienza e diritto positivo, cit., 69, sebbene, però, per
l’A. la circostanza che il negozio è atto destinato a produrre effetti innovativi è piuttosto un corollario della sua essenza, più che un tratto che ne
fonda la categoria.
(42) Cosı̀, M. ALLARA, Vicende del rapporto giuridico, fattispecie, fatti giuridici, Rist. con prefazione di N. Irti, Torino, 1999, 119 s., distingue i fatti
giuridici a efficacia corrispondente al contenuto del fatto stesso e a effi-
maggio 2010
364
Famiglia, Persone e Successioni 5
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_356_368.3d
na 365
23/4/
11:41
pagi-
L E S E N T E N Z E A N N OTAT E
menti puramente attuativi, quale a esempio la occupazione, la
capacità di realizzare l’effetto. Ciò ci pare possa collocare la distruzione, la lacerazione e la cancellazione del testamento olografo nel genere dei negozi(46). Ossia di quegli atti, i quali, ove
siano privi dell’intento, sono inidonei a realizzare l’effetto giuridico.
Ragionando diversamente, e quindi, escludendo che la distruzione et similia del testamento olografo siano negozi giuridici, si
svuoterebbe di significato il senso della regola contenuta all’art.
684 c.c. nella parte in cui esclude che si dia revocazione nel caso
in cui si provi che il testatore non ebbe quella intenzione. Delle
due l’una: o i comportamenti realizzano direttamente l’effetto di
revocazione e, allora, l’intento deve essere irrilevante, come irrilevante è nel caso dell’occupazione, ovvero essi non realizzano
direttamente l’effetto di revocazione e, allora, l’intento deve essere rilevante, come rilevante è nel caso della convalida del negozio annullabile.
mare l’attenzione sull’atteggiamento che il legislatore esprime
nella regolamentazione dell’attività giuridica dei soggetti privati.
Non può sfuggire, infatti, come diverso può essere il ruolo e la
rilevanza che l’ordinamento giuridico riconosce, di volta in volta,
al potere determinativo degli effetti, ossia all’intento spiegato
verso la realizzazione di un certo risultato. In alcuni casi si conferisce alle parti il potere di determinare, seppur entro certi limiti, gli effetti, mentre in altri casi si comprime tale potere, fino
quasi ad annullarlo.
La circostanza che la distruzione, lacerazione e cancellazione del
testamento olografo debbano essere intenzionali, ossia che deve
esservi l’intenzione del testatore di voler la revocazione del testamento, ci sembra determinante(43). Non si tratta di comportamenti che attuano immediatamente e direttamente un programma(44), ma di comportamenti che reclamano, di necessità,
per la verificazione dell’effetto descritto dalla norma, l’esistenza
di una precisa intenzione del testatore dispiegata in quella precisa direzione(45). Il comportamento consistente nella lacerazione, distruzione o cancellazione del testamento olografo non attua, né realizza di per sé l’intento di revocare, perché questo non
ammette esecuzione di fatto. Il comportamento non realizza, di
per sé, la revocazione del testamento; l’effetto si esaurisce in un
fenomeno puramente giuridico.
Se il testatore distruggesse il proprio testamento, dichiarando,
contestualmente, di non volerlo, perciò, revocare, non si potrebbe dire che quel comportamento abbia generato l’effetto della
revocazione. Il nudo comportamento, sciolto dalla intenzione
che deve sorreggerlo, non ha, a differenza dei casi dei comporta-
6. L’atto e il documento testamentario
Svolte queste preliminari considerazioni, ci pare possibile avvicinarci al caso deciso dalla Suprema Corte di Cassazione. La
soluzione del quale, come abbiamo avvertito in premessa, interseca, più che i problemi propri della natura giuridica della revoca
e della prova dei fatti posti a fondamento dell’azione e dell’eccezione, il difficile tema, di teoria generale, relativo al rapporto tra
atto e documento.
Rapporto già storicamente difficile(47); complicato, in materia
testamentaria, dal carattere rigorosamente formale dell’atto di
cacia non corrispondente. Se c’è corrispondenza dell’elemento oggettivo e
tale corrispondenza è cospicua si discorre di negozio. «È ovvio che sia il
tipo di vicenda del rapporto che il contenuto di quest’ultimo sono in
funzione del contenuto del negozio; da ciò consegue come l’indagine diretta ad accertare, nei casi concreti, la fattispecie negoziale si presenti più
delicata dell’indagine diretta all’accertamento delle altre fattispecie».
«Fuori del campo negoziale il fenomeno della corrispondenza dell’elemento oggettivo può presentarsi in maniera meno accentuata, riguardando
tale corrispondenza non già il tipo di mutamento del rapporto, ma soltanto il contenuto di quest’ultimo».
(43) Scrive G. DEIANA, Distruzione del testamento olografo, cit., c. 1030,
«la manifestazione di volontà che si desume da quest’atto [distruzione]
non può quindi che configurarsi come negozio di revoca». Si deve considerare, però, che per l’A. questa manifestazione di volontà era da
considerarsi inefficace. Perché, nel previgente codice, il negozio di revoca era formale e non era prevista una norma analoga a quella oggi
contenuta nell’art. 684 c.c. La lacerazione, la distruzione e l’appallottolamento della scheda testamentaria fatte dal testatore con l’intenzione
di revocare l’atto, sono negozi giuridici di revoca. Ma, «per diritto italiano la volontà di revocare dichiarata in questo modo non produce i
suoi effetti perché mancante delle forme stabilite dalla legge». Nel senso
che non sia ammessa una revoca tacita del testamento anche L. CARRARO, Distruzione della scheda dell’olografo e revoca del testamento, cit., c.
261. Critico F. CARNELUTTI, Distruzione o destinazione alla distruzione
della scheda del testamento olografo, cit., c. 97, il quale, riferendosi allo
scritto di Deiana, si rammarica che «alcune idee [da lui] esposte intorno
alla distinzione tra documento e dichiarazione [...] [siano servite] su
questo tema a ragionar male e a decider peggio». Carnelutti porta a
compimento il suo pensiero e osserva che la considerazione generale
sulla distinzione tra atto e documento è solo una premessa di un ragionamento che attende un completamento e che da sola non basta per
risolvere il problema del valore da assegnare all’atto di distruzione del
testamento olografo. Secondo l’A. una dichiarazione fatta per mezzo di
un testamento olografo non esiste con la sola documentazione, occorrendo, altresı̀, la sua emissione. «La dichiarazione per documento autografo risulta non solo dalla formazione, ma altresı̀ dalla emissione del
documento e il rapporto tra documentazione e dichiarazione si precisa
in questi termini: la documentazione è un atto necessario ma non sufficiente a costituire la dichiarazione; più precisamente ancora la documentazione è un presupposto della dichiarazione». Questo svolgimento
induce l’A. a concludere che chi distrugge un testamento olografo compie un’attività contraria alla emissione e, perciò, impedisce alla dichiarazione di poter valere, in quanto la medesima, coerentemente con ciò
che afferma la giurisprudenza, può dirsi inefficace o, meglio ancora,
inesistente.
(44) Osserva G. D’AMICO, Revoca del testamento, cit., 252, «deve riconoscersi che la volontà di togliere efficacia alle disposizioni testamentarie è
una volontà distinta ed autonoma rispetto alla volontà di distruggere la
scheda, e che solo ad essa può farsi risalire l’inefficacia del testamento».
Ne consegue, secondo l’A. che la volontà che si desume dall’atto di distruzione e che determina l’inefficacia della scheda non può che essere qualificata in termini di negozio giuridico.
(45) F. CARNELUTTI, Distruzione o destinazione alla distruzione della scheda
del testamento olografo, cit., cc. 100 e s., al fine di cogliere l’essenza del
problema osserva che ciò che conta non è il fatto consistente nella mancanza della scheda testamentaria, ma l’atto del testatore che la distrugge.
«A tale atto non è possibile disconoscere un valore analogo a quello della
revoca; se, come ho detto, la revoca è una sottospecie della dichiarazione e
consiste pertanto in un disfare, o più precisamente, in un disdire, sembra
difficile negare che chi, anziché disdire, disfa ciò che ha fatto per dire, disfa
ciò che ha fatto per dire, non compia un atto equivalente al disdire».
(46) In questo senso G. DEIANA, Distruzione del testamento olografo, cit., c.
1030; F. CARNELUTTI, Distruzione o destinazione alla distruzione della scheda
del testamento olografo, cit., c. 100, discorre, più genericamente di atto, al
quale deve attribuirsi la medesima efficacia della revoca; C. GANGI, Distruzione, lacerazione, o cancellazione del testamento, effettuata dal testatore,
cit., c. 85, discorre di revoca tacita; G. D’AMICO, Revoca del testamento, cit.,
252; C.M. BIANCA, Diritto civile, 2, La famiglia - Le successioni, 3ª ed., cit.,
730, preferisce la tesi della revoca presunta. Contrario A. PALAZZO, Le successioni, 2, Successione testamentaria. Comunione. Divisione, 2ª ed., cit.,
826, il quale riconduce l’ipotesi ai cc.dd. fatti di prova.
(47) Ma chiaro già in una esemplare pagina di F. CARNELUTTI, Lezioni di diritto
processuale civile, II, Padova, 1923, 549 s., il quale scrive: «Può anche essere che
la formazione di un documento della dichiarazione sia posta dalla legge come
condizione della efficacia (validità) della dichiarazione stessa, es. art. 1314
c.c.: ma neppure in questo caso è autorizzata la confusione tra documento
e dichiarazione in quanto il requisito di forma di quest’ultimo è, in tal caso, la
formazione del documento, non il documento medesimo: in altri termini ciò
che importa per la efficacia della dichiarazione è lo scrivere ciò che importa
per la prova è lo scritto, o ancora ciò che decide per l’efficacia della dichiarazione è l’esistenza del documento al momento della dichiarazione, mentre ciò
che decide per la prova è l’esistenza del documento al momento del processo.
La scissione tra i due termini si presenta in piena luce nei casi in cui la prova
della dichiarazione venga data con mezzi diversi dal documento (es. articoli
1348 c.c.): il requisito di forma sta nello scrivere il requisito di prova sta nello
scritto; ora il fatto dell’aver scritto non è dimostrabile solo col documento, ma
Famiglia, Persone e Successioni 5
365
maggio 2010
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_356_368.3d
na 366
23/4/
11:41
pagi-
L E S E N T E N Z E A N N OTAT E
ultima volontà. Al punto tale che, proprio il rigore formale che
governa la materia, ammettendo, oltre i casi dei testamenti speciali, soltanto tre tipi di testamento e, per ciascuno di essi, il
rispetto di precise regole sulla forma dell’atto, ha indotto una
crescente confusione dell’uno con l’altro(48). In un processo di
identificazione sempre più serrato e di cui la decisione in commento ci sembra vittima.
Ma altro è l’atto e la sua forma, altro il documento.
Fermando l’attenzione sul solo testamento olografo, appare chiaro che la norma di cui all’art. 602 c.c. segna la misura esclusiva
dell’essere di quel testamento per il diritto: ne delinea la struttura, marcando gli elementi e i caratteri, che permettono a quel
fatto di valere(49) siccome testamento olografo. Un atto con il
quale un soggetto dispone delle proprie sostanze per il tempo
in cui avrà cessato di vivere vale, giuridicamente, come testamento olografo, purché sia scritto per intero, datato e sottoscritto
di mano del testatore.
La volontà testamentaria non può (rectius: non deve) esprimersi
diversamente.
Quando il legislatore chiede, che il testamento sia scritto per
intero, datato e sottoscritto di mano del testatore reclama, però,
soltanto il faciendum, ossia l’agire umano dello scrivere, ma non
anche il factum(50), ossia il prodotto di quell’attività. Esige da
parte del testatore il gesto dello scrivere per intero, del datare e
del sottoscrivere(51). Ciò soltanto è bastevole perché quell’atto
valga come olografo(52).
Ciò nondimeno, nessuno può dubitare che l’attività materiale di
colui che scriva lasci un segno. Il quale non è altro dal prodotto
generato da quella attività. Il quale è, per l’appunto, il documento, ossia il supporto materiale sul quale si sono impressi i grafemi
tracciati dal soggetto durante il suo agire.
In ciò la differenza sostanziale tra atto e documento, tra testamento e scheda testamentaria.
Il testamento non è, e non potrebbe essere, la carta sul quale il
testatore ha impresso di propria mano i segni grafici, dacché ciò
è, propriamente, la scheda testamentaria.
Il testamento come atto si risolve nell’emettere la dichiarazione
scrivendo per intero e di mano del testatore le disposizioni di
ultima volontà, datandole e sottoscrivendole(53).
Se cosı̀ non fosse, non si potrebbe spiegare perché l’ordinamento
giuridico consente la ricostruzione di atti che siano stati accidentalmente distrutti. Ciò vale per gli atti di stato civile (art. 452 c.c.)
e per gli stessi contratti formali (art. 2725, cpv, c.c.).
Se l’atto coincidesse con il documento, la sua distruzione accidentale dovrebbe importare la sua invalidità o, addirittura, la sua
stessa inesistenza.
Cosı̀ non è, perché l’atto o il negozio non sono il documento.
«Occorre rammentare, ancora una volta, che altro è lo scrivere,
altro il documento; altro l’esprimersi per iscritto, altro la cosa che
accoglie e reca i segni grafici. Se lacero il foglio di carta, distruggo
il documento, ma non sopprimo dalla storia degli uomini lo scrivere, la forma grafica in cui si espresse l’autore. La forma sta
nello scrivere; e questo ha l’effimera labilità del muto contegno
e della parola detta. Nessuna forma dura nel tempo; tutte appartengono al passato»(54).
Tutto ciò non è, però, chiaro nella sentenza della Cassazione, la
quale confonde la forma dell’atto con il documento, istituendo
una relazione di identità tra i due termini.
Si legge, infatti, in un passaggio decisivo della sentenza, presupposto della stessa decisione, che il documento «costituisce la
forma insostituibile del negozio testamentario» e ancora che la
norma di cui all’art. 684 c.c. «conferisce rilievo alla distruzione
del testamento quale comportamento idoneo a presumere l’intento di revoca della scheda testamentaria da parte del testatore
per effetto del venir meno, a seguito della distruzione, dell’esistenza stessa del documento, in cui è contenuto il testamento
olografo».
La svista è evidente e grossolana: la Cassazione confonde il faciendum secondo diritto, ossia il doversi fare il testamento olografo per scrittura di mano del testatore, con il factum, ossia con
l’avanzo dell’attività compiuta.
anche con prove diverse (per es. per testimoni)». ID., Distruzione o destinazione alla distruzione della scheda del testamento olografo, cit., c. 98, precisa il
proprio pensiero. Distingue tra scrittura eterografa e scrittura autografa.
«Quando la dichiarazione si fa per documento eterografo la documentazione
è una condizione della dichiarazione quando, invece, si fa per documento
autografo, ne è un presupposto». «Pertanto la dichiarazione per documento
autografo risulta non solo dalla formazione, ma altresı̀ dalla emissione del
documento e il rapporto tra documentazione e dichiarazione si precisa in
questi termini: la documentazione è un atto necessario ma non sufficiente
a costituire la dichiarazione». Traslando il ragionamento al testamento olografo alla c. 99 scrive: «il suo presupposto è dunque la formazione del documento, non la sua esistenza; in altri termini la esistenza del documento al
momento in cui la dichiarazione è sorta, non al momento in cui deve valere».
Nello stesso senso anche L. CARRARO, Distruzione della scheda dell’olografo e
revoca del testamento, cit., c. 259.
(48) Emblematica la posizione di MOTTA, Lacerazione volontaria del testamento olografo, cit., c. 854, il quale, nel caso di istruzione dell’olografo,
collega l’inefficacia del testamento al venir meno della forma prescritta.
(49) Avverte N. IRTI, Il contratto tra faciendum e factum, in Rass. dir. civ.,
1984, 938-955, e in ID., Idola liberatis, Milano, 1985 e ora in ID., Studi sul
formalismo negoziale, Padova, 1997, da cui le citazioni, 97, «Il termine
tecnico ‘‘validità’’ ha una straordinaria trasparenza: appunto un ‘‘valere
per’’, e non un grezzo e banale accadere».
(50) N. IRTI, Il contratto tra faciendum e factum, cit., passim, spec. 103.
(51) Per questa ragione la giurisprudenza considera la cancellazione della
sottoscrizione, ossia di una formalità, idonea a revocare il testamento. Si legge,
infatti, in Cass., 29.1.2004, n. 1668, in Guida dir., 2004, 7, 48, «Con la cancellazione della sottoscrizione apposta su una scheda testamentaria, l’atto di
ultima volontà viene a essere revocato in toto. Ne consegue che ove il testatore
intenda utilizzare tale scheda, nelle parti non cancellate, per redigere un
nuovo testamento, dovrà, ai fini della validità dello stesso, apporvi una nuova
sottoscrizione, non potendo utilizzare la sottoscrizione originariamente apposta».
(52) Cosı̀ G. DEIANA, Distruzione del testamento olografo, cit., c. 1027, il
quale avverte la distinzione tra l’atto e il documento. «Ciò che il nostro
diritto richiede è che la dichiarazione venga fatta scrivendo; la posteriore
distruzione del testamento non toglie che questa formalità sia stata osservata. Gli avversari avrebbero ragione, solo se riuscissero a provare che le
formalità non consistono soltanto nell’emettere la dichiarazione scrivendo
e nell’apporre la firma e la data sul documento, ma inoltre nella conservazione della scheda».
(53) Chiaramente, G. BONILINI, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, 4ª ed., cit., 211, «non si manca di sottolineare l’ambivalenza del
termine testamento, che evoca sia il negozio giuridico, sia il materiale –
come regola, la ‘‘carta’’ –, attraverso il quale la volontà è dichiarata. Con il
termine testamento si allude, al contempo, al negozio giuridico e al documento, e la distinzione si appalesa subito utile, non foss’altro perché consente di riconoscere che l’accidentale, eventuale, distruzione del documento, non caduca, necessariamente, il negozio».
(54) N. IRTI, Il contratto tra faciendum e factum, cit., 113.
maggio 2010
366
Famiglia, Persone e Successioni 5
7. La revocazione è del testamento, ma per tramite della
scheda testamentaria
Il distinguere il testamento dalla scheda testamentaria, ossia l’atto dal documento, consente di impostare il problema della revocazione del testamento olografo pel fatto della sua distruzione,
lacerazione o cancellazione.
La revocazione, in queste ipotesi, è data da un comportamento al
quale abbiamo riconosciuta natura negoziale. Si tratta, allora, di
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_356_368.3d
na 367
23/4/
11:41
pagi-
L E S E N T E N Z E A N N OTAT E
zione e l’oggetto dell’effetto di revocazione giustifica la necessità
dell’intenzione. Perché il nudo gesto di distruzione, lacerazione o
cancellazione, accanendosi sul documento e non sull’atto, è incapace di realizzare la revocazione dell’atto, essendo capace soltanto di lasciarla inferire. Ed essa, proprio perché implicata secondo spirito di coerenza, consente di provare, onde se ne eviti la
conseguenza, che al compimento dell’atto non si è accompagnata l’intenzione di revocarlo.
capire, al fine di tentare una soluzione del caso in esame, su cosa
incida il negozio di revoca, ossia quale sia il referente oggettivo
dell’effetto.
Ciò che viene revocato, non potrebbe essere altrimenti, non è il
documento, ossia la scheda testamentaria, bensı̀ l’atto, ossia il
testamento.
Riferire l’effetto di revocazione alla scheda testamentaria avrebbe
poco senso. Quest’ultima, infatti, non soltanto non è il testamento, ossia l’atto produttivo dell’effetto che si intende revocare, ma
è addirittura quella cosa sulla quale si appunta il comportamento
del testatore avente valore di revocazione.
Questa considerazione spiega, tra l’altro, perché la distruzione et
similia del testamento olografo, o meglio sarebbe dire della scheda testamentaria olografa, non possa attuare o realizzare l’intento di revocare.
Il comportamento non si indirizza immediatamente e direttamente all’atto (il testamento) che si intende revocare, ma al documento di quell’atto (scheda testamentaria), cioè a una cosa,
diversa dall’atto, la quale ha soltanto la funzione di documentarne l’esistenza.
Se fosse giuridicamente pensabile un fatto immediatamente capace di incidere sul testamento e non sulla scheda testamentaria,
esso non sarebbe neppure un comportamento concludente(55),
qual è la revocazione di cui discorriamo, ma sarebbe una vera e
propria attuazione(56), come l’occupazione. Sarebbe, infatti, capace di realizzare e attuare direttamente l’assetto di interessi,
escluderebbe la rilevanza di qualunque atto dichiarativo e non
richiederebbe il ricorso a particolari strumenti logici come l’inferenza necessaria.
Le cose stanno, però, diversamente.
La revocazione del testamento olografo si realizza, nell’ipotesi
descritta all’art. 684 c.c., per mezzo di un comportamento concludente consistente nella distruzione, lacerazione o cancellazione della scheda testamentaria.
L’effetto di revocazione riguarda l’atto, ossia il testamento, perché la revocazione del testamento olografo determina l’estinzione della delazione testamentaria e, per conseguenza, l’ad vitam
revocare la precedente delazione.
La fattispecie di revocazione consta, invece, di un comportamento che il testatore consuma non sull’atto, ormai consegnato al
passato e, quindi, non più modificabile, ma sulla scheda testamentaria, ossia su quel documento che residua e conserva traccia dell’atto.
Soltanto la distonia tra l’oggetto del comportamento di revoca-
8. L’esistenza di due schede testamentarie identiche
Se un soggetto, decidendo di disporre delle proprie sostanze per
il tempo in cui avrà cessato di vivere, redige due esemplari di un
medesimo testamento olografo non certamente ha fatto due testamenti.
Ha fatto, piuttosto, un unico testamento, il cui contenuto ha
deciso, qualunque sia la ragione posta a fondamento di questa,
non sempre, bizzarra, scelta, di documentarlo per due volte.
La distinzione istituita tra testamento e scheda testamentaria,
ossia tra atto e documento, non lascia adito a dubbi.
Unico è il testamento, molteplici sono le schede testamentarie.
L’unicità del testamento, indipendentemente dal numero delle
schede testamentarie che ne documentino la confezione, è il
presupposto logico per capire il quid iuris nel caso in cui il testatore, volontariamente e intenzionalmente, ossia con l’intenzione di revocare il testamento, distrugga una soltanto delle due
schede testamentarie.
Se è vero che il testamento è uno e che la revocazione del testamento è un effetto che incide sull’atto, ma non anche sulla scheda testamentaria, soltanto oggetto, nell’art. 684 c.c., del comportamento di revocazione, allora non dovrebbe potersi dubitare che
il testamento si debba considerare revocato.
Nel momento in cui il soggetto personalmente e intenzionalmente distrugge una scheda testamentaria l’effetto della revocazione deve dirsi compiuto(57).
Il testamento perde, in quell’istante, la sua efficacia.
Né può assumere rilevanza la circostanza che sussista un’altra
scheda testamentaria.
Per avvedersene potrebbe giovare un argomento a contrario.
Supponiamo che il testatore abbia confezionato una sola scheda
testamentaria e che essa sia stata distrutta per mano di un terzo.
Nessuno dubiterebbe del fatto che in questo caso il testamento
non sia revocato e che, quindi, pur mancando il documento,
nondimeno il testamento esista ancora. Ci sarà, certamente,
una difficoltà nella ricostruzione della volontà testamentaria rac-
(55) Onde si eviti un addebito dogmatico, vogliamo precisare che usiamo
l’espressione comportamento concludente non, già nel significato criticato da G. D’AMICO, Revoca del testamento, cit., 252, ma per contrapporre
questo comportamento, indipendentemente dal profilo qualificatorio in
termini di negozio, a quello delle attuazioni.
(56) G. D’AMICO, Revoca del testamento, cit., 252, tralasciando di considerare le critiche sulla stessa ammissibilità della figura del negozio di attuazione, osserva che la distruzione non, in ogni caso esser considerata tale,
perché manca delle caratteristiche proprie e delle peculiarità di disciplina
della figura.
(57) In senso contrario già V. POLACCO, Delle successioni. Lezioni tenute
nella R. Università di Roma negli anni accademici 1922-1923, 1923-1924, II,
Roma, 1928, 53, il quale scrive «Può darsi che il testamento fosse stato
scritto in più esemplari. Allora, annullatone uno od alcuni e lasciandone
sussistere altri, è razionale adottare quanto dispone il codice austriaco al §
721: ‘‘Se di più documenti conformi un solo sia stato annullato, non si può
indurre da ciò che la disposizione sia stata revocata"». Anche GIU. AZZARITI,
La revocazione, cit., 307; MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale,
VI, Diritto delle successioni per causa di morte, 9ª ed., cit., 216. R. CALVO, La
revocazione delle disposizioni testamentarie, cit., 1129, pur distinguendo
l’atto dal documento, esclude che la distruzione di una sola scheda testamentaria valga a revocare il testamento. E cosı̀ scrive: «Delle due l’una: o il
testatore effettua una revocazione espressa che va ad incidere sull’unica
determinazione volitiva originaria oggetto di riproduzione, oppure deve
preoccuparsi di sopprimere la totalità dei documenti incorporanti la medesima determinazione stante l’autosufficienza del valore rappresentativo
di ciascuna scheda». La conclusione diviene tuttavia meno rigorosa se si
considera che alla pagina seguente, pur non disconoscendo il carattere
tassativo della disposizione non esclude che l’appallotolamento della
scheda e altre condotte simili non possono aprioristicamente considerarsi
incapaci di produrre l’effetto della revocazione. Perché «qui la ricerca della
volontà reale deve prevalere non solo nell’interpretazione della scheda
integra, ma anche con riguardo all’interpretazione della volontà ablativa».
Se, allora, la «volontà reale» deve prevalere anche nell’interpretazione «della volontà ablativa», non si capisce perché si debba aprioristicamente
escludere che la distruzione di un solo esemplare, che pure potrebbe
dimostrare una «vera volontà ablativa» non possa essere capace dell’effetto di revocazione.
Famiglia, Persone e Successioni 5
367
maggio 2010
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_356_368.3d
na 368
23/4/
11:41
pagi-
L E S E N T E N Z E A N N OTAT E
chiusa nella scheda andata distrutta, ma vinto e superato questo
tema probatorio, il problema sostanziale troverà la sua piana
soluzione e la successione dovrà dirsi devoluta per quel testamento.
Mutatis mutandis, la conclusione non può essere diversa nel
simile e opposto caso di volontà testamentaria documentata in
due identiche schede.
La moltiplicazione dei documenti non può mai significare moltiplicazione degli atti, ma soltanto moltiplicazione dell’attività di documentazione. Essendo unico il testamento, esso dovrà dirsi revocato una volta che, per il diritto, esista un fatto o un atto idoneo a
produrre l’effetto della revocazione dell’atto testamentario. Nel caso di specie il fatto idoneo all’effetto di revocazione è la distruzione,
imputabile e intenzionale, della scheda testamentaria.
Al pari di come non potrebbe dubitarsi che un testamento del quale
esistano due schede testamentarie debba dirsi revocato se con un
testamento successivo il testatore, pur senza indicare l’esistenza di
due diverse identiche schede, abbia, senza null’altro aggiungere,
dichiarato di voler revocare il precedente testamento.
L’esistenza di due schede testamentarie non impedisce, come
invece, sembrerebbe voler far intendere la decisione in commento, la astratta applicabilità della norma contenuta nell’art. 684
c.c. La quale, al fine dell’effetto di revocazione, non pretende
che il testatore abbia distrutto tutte le schede testamentarie,
ma semplicemente che abbia distrutto una scheda testamentaria
e che ciò abbia personalmente fatto con l’intenzione di revocare
il testamento.
L’esistenza di due schede testamentarie apre al più, ma il tema
non è neppure lambito dalla decisione della Cassazione, un problema di prova in ordine alla volontà di revocazione(58).
Si potrebbe, infatti, dubitare che il testatore, il quale abbia distrutto soltanto una delle due schede testamentarie, ebbe l’intenzione di revocare il testamento.
La distruzione et similia del testamento olografo sono, infatti,
comportamenti concludenti, che, in quanto tali, non attuano
né realizzano la revocazione, ma la distruzione della scheda testamentaria da revocare. Perché producano l’effetto normativo, è
indispensabile, allora, un’inferenza necessaria, che consenta di
attribuire al testatore una certa posizione giuridica non dichiarata, né direttamente attuata dal comportamento, ma soltanto
implicata.
Nel caso di testatore che abbia confezionato due schede testamentarie identiche, la distruzione di una soltanto di esse potrebbe rendere più agevole il provare che quegli, pur avendo compiuto l’atto di distruzione, lacerazione o cancellazione di una
sola scheda testamentaria, non ebbe l’intenzione di revocare il
testamento(59).
Se, come è accaduto nel caso di specie, v’è la prova che il testatore ebbe l’intenzione di revocare il testamento, escludere che la
distruzione anche soltanto di una scheda testamentaria possa
valere quale revoca del testamento è conclusione non soltanto
dogmaticamente inaccettabile, perché frutto di una confusione
tra forma e documento, ma addirittura illegale, perché in violazione di una precisa norma di legge(60).
&
(58) Il tema era già avvertito in G. DEIANA, Distruzione del testamento olografo, cit., cc. 1029 e s., il quale osserva: «questa volontà può mancare. Es. il
testatore distrugge la scheda per non permettere che un terzo la legga; per
intimorire l’erede dinanzi a cui esegue la distruzione, ripromettendosi di
rifare il documento, oppure credendo senz’altro che ne esista un altro».
(59) Si potrebbe anche ipotizzare che l’esistenza di una scheda testamentaria, ulteriore a quella andata distrutta, determini una inversione dell’onore della prova. Se, nell’ipotesi di unica scheda testamentaria colui che
voglia far accertare la revocazione del testamento deve limitarsi ad allegare
il fatto della distruzione, mentre grava in capo a colui che voglia escludere
la revocazione l’onere di provare che la distruzione non fu opera del testatore o che quegli non ebbe l’intenzione di revocare il testamento, le
cose potrebbero significativamente cambiare nel caso di duplicità di schede. L’esistenza di una scheda testamentaria, infatti, si potrebbe dire idonea
a determinare la inversione dell’onere della prova. Nel senso che colui che
invochi l’effetto della revocazione, proprio in ragione dell’esistenza di un
altro documento, potrebbe trovarsi costretto non già a semplicemente
allegare la distruzione del testamento, ma anche a provare, egli stesso,
che la distruzione del testamento fu opera del testatore e quegli ebbe
l’intenzione di revocarlo. Sta, comunque, di fatto, che ove pure si volesse
accedere a questa ricostruzione, nondimeno la soluzione del caso di specie non muterebbe. Perché di là del soggetto che avesse l’onere di provare
la imputabilità e la intenzionalità della distruzione della scheda testamentaria, risulta provato, dai giudici di merito, che nel caso di specie la distruzione di una scheda fu compiuta dal testatore e che quella ebbe l’intenzione di revocarlo.
(60) In un caso la Cassazione (Cass., 22.11.1995, n. 12098, in Giur. it.,
1997, I, 1, 238) è stata chiamata a pronunciarsi sul valore da attribuire a
una fotocopia di una scheda testamentaria olografa. Ha affermato che il
mancato rinvenimento dell’originale, legittima la presunzione di revoca
del testamento da parte del de cuius, a meno che non si provi che il
testamento esisteva al momento dell’apertura della successione.
maggio 2010
368
Famiglia, Persone e Successioni 5
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_369_374.3d
na 369
23/4/
11:40
pagi-
IL CASO
» Separazione e divorzio
Autonomia dei coniugi
e trasferimenti mobiliari
ed immobiliari nei procedimenti
di separazione e di divorzio
Francesca Romana Fantetti
Avvocato
SINTESI
»
a) Sulla possibilità di configurare accordi tra coniugi aventi ad
oggetto beni immobili in vista della separazione o del divorzio
separazione consensuale anche ai fini della trascrizione in merito agli
I patti tra coniugi nell’ambito della separazione o del divorzio perse-
rattere negoziale dell’accordo sulla separazione.
guono spesso il fine di addivenire ad una divisione amichevole di un
consistente patrimonio immobiliare o mobiliare. Non esistono, tutta-
c) I trasferimenti in favore della prole alla luce della Legge sull’affidamento condiviso
via, norme specifiche che prevedano la facoltà dei coniugi di operare
Le recenti disposizioni in materia di separazione dei genitori ed affi-
detti trasferimenti.
damento condiviso dei figli prevedono che il giudice prenda atto, se
b) Sui trasferimenti mobiliari o immobiliari nel procedimento di
separazione o divorzio
non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i geni-
La giurisprudenza ha ammesso la liceità dei trasferimenti mobiliari ed
possibilità di un accordo contenente l’impegno di uno dei coniugi, al
immobiliari attuati in sede di separazione e di divorzio. In questo
fine di concorrere al mantenimento del figlio minore, di trasferire in
quadro, è stata affermata la natura di atto pubblico del verbale di
suo favore, la piena proprietà di un bene immobile.
atti di trasferimento di diritti immobiliari, e si è messo in luce il ca-
tori, adottando ogni altro provvedimento relativo alla prole. Di qui la
SOMMARIO
1. La regolamentazione dei rapporti patrimoniali tra coniugi nell’ambito della separazione e del divorzio – 2. I trasferimenti mobiliari ed immobiliari in
sede di procedimento di separazione e di divorzio – 3. Gli accordi tra i genitori relativi a trasferimenti in favore della prole alla luce della l. 8.2.2006, n. 54
1. La regolamentazione dei rapporti patrimoniali tra coniugi
nell’ambito della separazione e del divorzio
Gli accordi con cui un coniuge fa acquistare – o si obbliga a fare
acquistare – all’altro – o ad un terzo – la proprietà o un altro
diritto reale su uno o più beni determinati possono rientrare
nella regolamentazione dell’assetto patrimoniale dei propri
rapporti e del coniuge nell’ambito della separazione o del divorzio(1). Nella conclusione di tali accordi l’intento pratico perseguito dalle parti è per lo più quello di realizzare una sorta di
capitalizzazione una tantum del contributo al mantenimento
del coniuge separato ex art. 156 c.c. o dell’assegno di divorzio ex
art. 5, 6º co., l. 1.12.1970, n. 898 ovvero, in qualche caso, del
contributo per il mantenimento dei figli minori. Spesso l’intento perseguito dai coniugi nell’attribuirsi uno o più beni in oc-
casione della separazione o del divorzio è quello di pervenire ad
una divisione amichevole di un consistente patrimonio immobiliare o mobiliare.
Non esistono norme specifiche che prevedano espressamente la
facoltà dei coniugi di operare trasferimenti di diritti, sono invece
numerose le disposizioni che mettono in risalto l’autonomia negoziale dei coniugi e la possibilità che gli stessi hanno di definire in
maniera non contenziosa il loro conflitto. Tali norme sono individuabili nelle disposizioni di cui all’art. 711, 3º co., c.p.c. ove si
stabilisce che, in mancanza di esito positivo della conciliazione,
si dia atto nel processo verbale del consenso dei coniugi alla separazione e delle condizioni riguardanti i coniugi stessi e la prole,
nell’art. 4, 13º co., l. divorzio (1.12.1970, n. 898) – cosı̀ come modificato dall’art. 8, l. n. 74/1987 – che prevede che la domanda
(1) L’oggetto del trasferimento possono essere non solo gli atti traslativi
della proprietà su qualsiasi tipo di beni – immobili, mobili registrati e non,
universalità di mobili, titoli di credito – ma anche quelli che hanno ad
oggetto quote di comproprietà o costituzioni di iura in re aliena. In particolare possono essere menzionati i diritti di usufrutto, uso, abitazione, ed
anche un pegno od un’ipoteca concessi a garanzia dell’adempimento di
obbligazioni assunte in sede di separazione e di divorzio. Il trasferimento
può inoltre avere ad oggetto diritti quali la cessione di un credito. In
dottrina si leggano i contributi di V. CARBONE, Autonomia privata e rapporti
patrimoniali tra coniugi (in crisi), in Famiglia e dir., 1994, 143 ss.; e P.
CARBONE, I trasferimenti immobiliari in occasione della separazione e del
divorzio, in Notariato, 2005, 622 ss.
Famiglia, Persone e Successioni 5
369
maggio 2010
☛
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_369_374.3d
na 370
23/4/
11:40
pagi-
IL CASO
congiunta dei coniugi di scioglimento o di cessazione degli effetti
civili del matrimonio – indicante compiutamente le condizioni
inerenti alla prole ed ai rapporti economici – sia proposta con
ricorso al tribunale in camera di consiglio, nonché nell’art. 5, 8º
co., l. divorzio – come modificato dall’art. 10, l. n. 74/1987 – in base
al quale, su accordo delle parti, la corresponsione può avvenire in
unica soluzione ove questa sia ritenuta equa dal tribunale e che, in
tale caso, non possa essere proposta alcuna successiva domanda
di contenuto economico.
L’ambito in cui si tratta di trasferimenti di diritti – piucchè di
accordi di carattere patrimoniale – è quello fiscale ove si disciplina l’imposta di registro delle sentenze di scioglimento o di
cessazione degli effetti civili del matrimonio e quelle di separazione personale, ancorché portanti condanne al pagamento di
assegni od attribuzioni di beni patrimoniali, nonché quelle che
modificano tali condanne od attribuzioni – articolo unico, l.
10.5.1976, n. 260 in tema di interpretazione autentica dell’art.
8 della tariffa, allegato a), parte prima del d.p.r. 26.10.1972, n.
634 in materia di imposta di registro sulle sentenze di divorzio e
di separazione personale –. Tali disposizioni aventi carattere
tributario sono da porsi poi in collegamento con l’art. 19, l.
6.3.1987, n. 74 che stabilisce l’esenzione dall’imposta di bollo,
di registro e da ogni altra tassa di tutti gli atti, i documenti ed i
provvedimenti relativi al procedimento di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, nonché ai procedimenti anche esecutivi e cautelari diretti ad ottenere la corresponsione o la revisione degli assegni di cui agli
artt. 5 e 6, l. 1.12.1970, n. 898(2).
La giurisprudenza di legittimità, chiamata ad esprimersi su accordi aventi efficacia – tanto reale che obbligatoria – conclusi in
occasione di separazioni consensuali – sia legali che di fatto –,
ha sinora ammesso la possibilità di trasferimenti immobiliari
configurando la convenzione come un contratto atipico meritevole di tutela da parte dell’ordinamento giuridico ex art. 1322
c.c., non in contrasto con l’ordine pubblico, caratterizzato da
una causa sua propria, ben distinta tanto da quella liberale che
da quella propria delle convenzioni matrimoniali(3). È stata in
tal modo riconosciuta la possibilità dell’inserimento nei verbali
di separazione consensuale dell’obbligo o dell’effettivo trasferimento dei beni, mobili od immobili, pattuito dalle parti(4).
Requisito fondamentale per un valido trasferimento in sede di
separazione consensuale o di divorzio su domanda congiunta –
cosı̀ come per la relativa assunzione di impegno – è dato dalla
sussistenza di una causa risultante dall’atto stesso del trasferimento. A tale proposito gli accordi traslativi sono stati di volta
in volta inquadrati dalla dottrina e dalla giurisprudenza quali
donazioni – dazioni prive di corrispettivo –, transazioni poste in
essere nell’ambito di un componimento dell’insieme degli interessi coinvolti nella crisi coniugale, atti con funzione solutoria
– Erfullungsvertrag – dell’obbligazione di mantenimento – in
particolare dazioni in pagamento –, atti tipici connotati da
una «causa familiare» volta a regolare gli assetti personali e
patrimoniali della crisi familiare, od anche negozi determinativi
del contenuto di obblighi legali(5). L’esigenza di definire conclusivamente i rapporti nati con il matrimonio ed ancora pendenti all’atto della crisi coniugale ha di fatto spinto ad attribuire
(2) C. Cost., 15.4.1992, n. 176, in Giust. civ., 1992, I, 1658 ss., in cui la
Corte ha dichiarato incostituzionale l’art. 19, l. 6.3.1987, n. 74 nella parte in
cui non comprende nell’esenzione da tributo le iscrizioni di ipoteca giudiziale a garanzia di obbligazioni assunte dal coniuge nel corso del procedimento; C. Cost., 10.5.1999, n. 154, in Vita notarile, 1999, 1225 ss. in cui
la Corte ha esteso l’applicazione dell’esenzione da tutte le imposte e tasse
per il divorzio anche agli atti, documenti e provvedimenti concernenti il
procedimento di separazione specificando che sono agevolati tutti gli atti
diretti alla sistemazione degli interessi dei coniugi, della famiglia e dei figli;
C. Cost., 11.7.2002, n. 202, in Dir. e giustizia, 2003, 30, 42 ss. in cui la Corte
ha esteso il beneficio fiscale ai provvedimenti emessi in applicazione dell’art. 148 c.c. a favore dei figli. Cass., sez. trib., 30.5.2005, n. 11458, in Giust.
civ. mass., 2005 in cui si afferma che nella ipotesi di trasferimento di
immobili in adempimento di obbligazioni assunte in sede di separazione
personale dei coniugi, l’art. 19, l. 6.3.1987, n. 74 – norma speciale rispetto a
quella di cui all’art. 26, d.p.r. 26.4.1986, n. 131 –, alla luce delle sentenze
della C. Cost. 10.5.1999, n. 154 e 15.4.1992, n. 176, deve essere interpretato
nel senso che l’esenzione dall’imposta di bollo, di registro e da ogni altra
tassa di tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili
del matrimonio si estende a tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti
relativi al procedimento di separazione personale dei coniugi, in modo da
garantire l’adempimento delle obbligazioni che i coniugi separati hanno
assunto per conferire un nuovo assetto ai loro interessi economici, anche
con atti i cui effetti siano favorevoli ai figli. Nella fattispecie la Corte di
Cassazione ha ritenuto applicabile, in un caso riguardante il trasferimento
gratuito da parte del padre separato alle figlie della propria quota di proprietà della casa di abitazione, in ottemperanza ad una obbligazione assunta in sede di separazione consensuale, non la normativa generale sugli
atti di trasferimento di beni immobili tra coniugi o tra parenti in linea
retta, ma la normativa speciale sugli atti esecutivi di atti di separazione
personale tra coniugi.
(3) Ex plurimis, Cass., 12.4.2006, n. 8516, in Fam. pers. succ., 2006, 483 in
cui la Corte afferma la validità delle clausole dell’accordo di separazione
che, nell’ambito di una complessiva regolamentazione dei rapporti patrimoniali tra i coniugi, prevedano il trasferimento di beni immobili, ovvero
la costituzione di diritti reali minori ed in particolare il diritto di abitazione. Tali clausole sono espressione dell’autonomia negoziale delle parti ed
integrano veri e propri contratti atipici.
(4) Si legga Cass., 11.11.1992, n. 12110, in Dir. famiglia, 1993, 471 in cui si
afferma che ha natura attributiva – e non di mera dichiarazione di scienza
– se riveste la forma scritta, voluta dalla legge (art. 1350 c.c.) non integrando né una donazione né una convenzione matrimoniale – la clausola con
cui i coniugi, nel verbale di separazione, ad integrazione del regolamento
dei reciproci rapporti patrimoniali in funzione della separazione, si attribuiscono, senza versamento di corrispettivo, certi beni, anche immobili.
(5) Tali accordi risultano difficilmente riconducibili a tipi negoziali disciplinati dal codice civile. Qualora a seguito della crisi familiare sia
alienata con atto scritto la piena proprietà di un determinato immobile
non è evidente il requisito della causa, non si perfeziona una vendita
perché l’avente causa non paga un prezzo, non vi è una transazione
perché non si pone necessariamente fine ad una lite facendosi reciproche concessioni, né sussiste una causa solvendi se l’attribuzione non è
fatta per estinguere un debito quale è l’obbligo di corrispondere l’assegno di mantenimento o di divorzio. Gli interessi molteplici che emergono nel momento patologico del rapporto familiare rendono molto incerta la qualificazione degli atti traslativi e difficile l’individuazione della
loro causa. Per i diversi orientamenti si leggano BIANCA, Commento all’art. 5 l. divorzio, in Comm. Cian, Oppo e Trabucchi, VI, 1, Padova, 1993;
DI MAJO, Causa ed imputazione negli atti solutori, in Riv. dir. civ., 1994, I;
P. CARBONE, I trasferimenti immobiliari in occasione della separazione e
del divorzio, in Riv. notariato, 2005, 6; IEVA, Trasferimenti mobiliari e
immobiliari in sede di separazione e di divorzio, in Riv. notariato, 1995,
I, 447 ss.; OBERTO, I contratti della crisi coniugale, Milano, 1999; ID., I
trasferimenti mobiliari e immobiliari in occasione di separazione e divorzio, in Famiglia e dir., 1995; ID., Prestazioni «una tantum» e trasferimenti
tra coniugi in occasione di separazione e divorzio, Milano, 2000; DORIA,
Autonomia privata e «causa» familiare. Gli accordi traslativi tra i coniugi
in occasione della separazione personale e del divorzio, Milano, 1996; ID.,
Convenzioni traslative in occasione della separazione personale e l’interesse del coniuge, in Dir. famiglia, 1992; ID., Atti di disposizione tra coniugi
e causa familiare, in Vita notarile, 2001, I; RUSSO, Gli atti determinativi di
obblighi legali nel diritto di famiglia, Le convenzioni matrimoniali ed
altri saggi sul nuovo diritto di famiglia, Milano, 1983. In giurisprudenza
Cass., 23.12.1988, n. 7044, in Giur. it., 1990, I, 1, 1320; Cass., 12.5.1994, n.
4647, in Riv. notariato, 1995, 953; Cass., 5.9.2003, n. 12939, in Riv. notariato, 2004, 468; Cass., 5.7.1984, n. 3940, in Dir. famiglia, 1984; Cass.,
21.12.1987, n. 9500, in Corriere giur., 1988, 144; Cass., 14.3.2006, n.
5473, in Nuova giur. comm., 2007, I, 371, in cui si afferma che le attribuzioni in sede di separazione consensuale e di divorzio congiunto rispondono ad uno spirito di sistemazione dei rapporti originati dalla crisi
coniugale che sfugge sia dalla connotazione in termini di donazione,
sia in termini di vendita – attesa anche l’assenza di un prezzo corrisposto
– ed assume i caratteri dell’onerosità o della gratuità in ragione dell’eventuale ricorrenza o meno, nel concreto, dei connotati di una sistemazione – solutorio – compensativa – più ampia e complessiva, di tutta
quell’ampia serie di possibili rapporti aventi significati patrimoniali maturati nel corso della quotidiana convivenza matrimoniale.
maggio 2010
370
Famiglia, Persone e Successioni 5
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_369_374.3d
na 371
23/4/
11:40
pagi-
IL CASO
agli aspetti patrimoniali della crisi regole sue proprie nel segno
anche di una accentuata negoziabilità rispetto alle relazioni
patrimoniali normali tra i coniugi.
Senza dubbio l’individuazione di una causa tipica del negozio
patrimoniale di separazione consensuale, di un contratto vero e
proprio di definizione degli aspetti patrimoniali in occasione
della crisi coniugale che includa ogni forma di costituzione e
di trasferimenti di diritti patrimoniali compiuti – a titolo gratuito o con controprestazione – in seno ad una separazione
consensuale cosı̀ come a disciplinare i rapporti tra divorziati o
divorziandi – si adatta in maniera più consona al riconoscimento che il legislatore attribuisce alla autonomia privata delle parti
anche nella fase processuale della crisi coniugale. Ciò anche
tenuto presente che la determinazione dell’assetto dei rapporti
patrimoniali tra coniugi separati non costituisce oggetto necessario della sentenza di separazione giudiziale né tantomeno
consensuale, e che il tribunale può disporre in merito solo in
presenza di una apposita domanda di parte – a differenza di
quanto avviene per le condizioni riguardanti la prole – con la
conseguenza che il regolamento dei rapporti patrimoniali tra i
coniugi può anche essere affidato ad accordi stragiudiziali, od
anche essere oggetto di una specifica e separata domanda giudiziale.
La giurisprudenza più recente si è diretta inoltre nel senso di
assecondare tale tendenza ove, in tema di rapporti tra accordi
diretti a regolamentare la vita separata e provvedimento di
omologa, si è mostrata decisamente aperta all’ammissione sia
delle cosiddette convenzioni a latere, precedenti o coeve al verbale omologato, sia riguardo ai patti modificativi degli accordi
omologati, sia pure alla stessa separazione di fatto.
I limiti entro cui è consentito ai coniugi di inserire accordi di
ordine patrimoniale in seno ad un verbale di separazione consensuale o di un complessivo accordo posto alla base di una
richiesta di divorzio su domanda congiunta sono da individuare, riguardo alla separazione consensuale, con riferimento all’art. 711 c.p.c. in quelle condizioni della separazione cui sono
da ascrivere tanto le pattuizioni dirette a regolare la vita futura
da separati, quanto quegli accordi alla vigenza dei quali gli
stessi coniugi condizionano il loro assenso alla separazione
consensuale(6). Tale requisito sarà riscontrabile una volta accertato che l’accordo risponde alla causa tipica della definizione
consensuale della crisi coniugale. Diversamente riguardo alle
intese caratterizzate da diverse cause autonome, esse saranno
inseribili nel verbale solo ed a condizione che traggano fondamento da pretese reciprocamente vantate ed alla cui soluzione i
2. I trasferimenti mobiliari ed immobiliari in sede
di procedimento di separazione e di divorzio
Come è noto, l’accordo di separazione costituisce una manifestazione dell’autonomia negoziale dei coniugi. Nella separazione consensuale alcuna giurisprudenza ravvisa uno dei momenti
di più significativa emersione della negozialità nel diritto di
famiglia. La centralità dell’intesa tra i coniugi – negozi giuridici
familiari, accordi e convenzioni in senso stretto – trova la propria spiegazione nello studio della sua evoluzione storica per il
solo consenso dei coniugi. Nel nostro ordinamento giuridico
infatti l’istituto della separazione consensuale nasce in presenza di un comune consenso da parte dei coniugi sottoposto al
vaglio in sede giurisdizionale relativamente alla serietà dei motivi che inducevano i coniugi a separarsi(7).
A fronte del progressivo affievolimento del controllo sulle ragioni della separazione è emerso il rilievo della natura negoziale
dell’atto fondamentale in cui si sostanzia la separazione consensuale, cioè l’accordo con cui le parti decidono di porre fine
alla coabitazione. Ed in tale contesto si è teso a considerare in
maniera sempre più riduttiva l’omologazione quale elemento
costitutivo o comunque condicio iuris degli effetti dell’accordo
negoziale. Conformemente a tale evoluzione la stessa giurisprudenza ha teso a riconoscere la progressiva validità degli accordi
patrimoniali tra coniugi in crisi conclusi al di fuori del procedimento di separazione personale nelle forme di convenzioni a
latere anteriori e coeve al verbale di separazione, degli accordi
diretti a modificare le condizioni della separazione, e degli accordi diretti a disciplinare una separazione di fatto. Le decisioni
si sono cioè collocate nell’ottica della piena liceità dei trasferimenti mobiliari ed immobiliari attuati in sede della separazione
e del divorzio ammettendo, dapprima, la possibilità di inserire
una donazione nel verbale di separazione consensuale, successivamente di consentire la creazione di un diritto reale di abitazione in un verbale di separazione, e venti anni fa avallando
l’interpretazione – alla stregua di un vero e proprio negozio
traslativo – della dichiarazione contenuta nel verbale di separazione personale consensuale con cui era stata a suo tempo
riconosciuta al coniuge la proprietà esclusiva di un immobile
confermando la valutazione dei giudici di seconde cure secon-
(6) La giurisprudenza di legittimità si è pronunciata a tale proposito nel
senso di individuare un contenuto tipico che comprende oltre al consenso
a vivere separati, tutte le altre clausole eventualmente necessarie al fine
della instaurazione del nuovo regime di vita, ovvero in ordine all’assegno
di mantenimento, all’affidamento e mantenimento della prole, alla frequentazione dei figli ed alla assegnazione della casa familiare ed un contenuto atipico che comprende gli accordi non direttamente collegati ai
diritti ed agli obblighi che derivano dal perdurante matrimonio. Le prime
intese apparterrebbero alla categoria delle convenzioni di famiglia, quali
figure giuridiche distinte dai contratti e caratterizzate da un sostanziale
parallelismo di interessi e volontà – come tali sottratte alla disciplina dei
contratti –, le seconde costituirebbero espressioni di libera autonomia
contrattuale. In tal modo la Corte di Cassazione, con il richiamo alla figura
del contenuto atipico, si mostra molto più aperta rispetto alla esigenza che
vi sia sempre una pretesa che generata dal rapporto coniugale o comunque ad esso collegata, fornisca il suo motivo determinante, dato che finisce con il legittimare l’inserimento nel verbale di separazione consensuale
di tutti quegli accordi che pur trovando sede ed occasione nella separazione consensuale, non hanno causa in questa in quanto non sono direttamente collegati ai diritti ed agli obblighi che derivano dal perdurante
matrimonio. Cass., 22.11.2007, n. 24321, in Famiglia e dir., 2007, 46 ss., in
cui si afferma che gli accordi di separazione consensuale tra i coniugi
possono contenere, oltre che un contenuto necessario, attinente allo stesso consenso alla separazione, ai patti relativi alla prole ed al mantenimento del coniuge economicamente più debole, un contenuto eventuale, solo
occasionalmente collegato ai primi, ed attinente pattuizioni patrimoniali
tra i coniugi, che configurano non una convenzione matrimoniale ma un
contratto atipico, valido sempre che non incida negativamente sui diritti e
doveri nascenti dal matrimonio e che comunque – ove se ne configuri
l’invalidità – non può essere impugnato nelle forme del procedimento
camerale ex art. 710 c.p.c., che presuppone da un lato l’intervento di
sopravvenienze, dall’altro la validità della separazione consensuale, ma
con un ordinario giudizio di cognizione.
(7) La separazione quale rimedio eccezionale perché lesivo dell’indissolubilità del vincolo matrimoniale nonché eversivo dell’ordine sociale si
sarebbe potuta attuare solo in presenza di situazioni gravi la cui valutazione andava sottratta ai privati. Il codice civile del 1865 stabiliva la regola
in base alla quale la separazione per il solo consenso dei coniugi non può
avere luogo senza l’omologazione del tribunale. Nella relazione al codice si
specificava che la disposizione normativa voleva rispondere all’esigenza di
impedire separazioni capricciose o che fossero oggetto di passeggeri rancori.
coniugi intendano condizionare il proprio assenso alla separazione. I trasferimenti de quibus pertanto – tanto nella forma
obbligatoria che in quella reale – trovano attuazione in occasione della crisi coniugale e possono essere eventualmente inseriti nel verbale d’udienza presidenziale di separazione.
Famiglia, Persone e Successioni 5
371
maggio 2010
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_369_374.3d
na 372
23/4/
11:40
pagi-
IL CASO
do cui tale riconoscimento, lungi dall’esprimere, come ritenuto
dal tribunale, una mera dichiarazione di scienza, configurasse
invece una volontà negoziale attributiva del bene al coniuge nel
quadro di un complessivo regolamento di interessi.
Successivamente la giurisprudenza di legittimità ha affermato
la natura di atto pubblico del verbale di separazione consensuale anche ai fini della trascrizione in merito agli atti di trasferimento di diritti immobiliari e messo in luce il carattere
negoziale della separazione consensuale(8). La questione della
forma dei trasferimenti mobiliari ed immobiliari dall’uno all’altro coniuge in sede di separazione e di divorzio rileva unicamente in relazione al procedimento di separazione consensuale
in quanto sia la separazione giudiziale che il divorzio su domanda congiunta si concludono con sentenza, ovvero con un
titolo idoneo al prodursi sia dell’effetto reale ex art. 2908 c.c. sia
ai fini della pubblicità nei registri immobiliari ex artt. 2645 e
2657 c.c.(9).
In sede di separazione consensuale i trasferimenti patrimoniali
vengono inseriti nel relativo verbale d’udienza che si forma nel
corso dell’udienza presidenziale e che, ai sensi dell’art. 711, 3º
co., c.p.c., dà atto del consenso dei coniugi alla separazione e
delle condizioni riguardanti i coniugi stessi e la prole. Il cancelliere, sotto la direzione del giudice, redige tale documento indicando a tutti gli effetti, nei casi e nei modi previsti dalla legge, le
attività proprie e quelle degli organi giudiziari e delle parti.
Oltre che nei casi specificamente indicati dalla legge, il cancelliere è tenuto a compilare il processo verbale di tutti gli atti che
compie con l’intervento di terzi interessati e nel medesimo fa
risultare le attività da lui compiute, quelle delle persone intervenute nell’atto e le dichiarazioni da esse rese(10). Egli deve poi
sottoscrivere il processo verbale il cui contenuto ricomprende
anche le dichiarazioni ricevute – artt. 130 c.p.c., 57, 1º co., c.p.c.,
44, disp. att. c.p.c. e 126, cpv., c.p.c. Dall’attività certificativa
espressa nel verbale discende senza dubbio la qualifica di pubblico ufficiale del cancelliere e che gli atti da questi redatti – o
formati con il suo concorso – costituiscono atti pubblici ex art.
2699 c.c. direttamente trascrivibili. Le clausole del verbale con-
tenenti negozi traslativi, veri e propri contratti idonei ex art.
1376 c.c. ad operare l’immediato trasferimento dei diritti che
ne formano oggetto – dotati ovviamente della forma richiesta ex
art. 1350, n. 1, c.c. – formano parte integrante – pur non essenziale – delle condizioni riguardanti i coniugi stessi di cui all’art.
711, 3º co., c.p.c. e costituiscono atti pubblici ex art. 2699 c.c. e
titoli idonei per la trascrizione ex art. 2657 c.c.(11). Il presidente
– cosı̀ come il tribunale in fase di omologa – avvalendosi dei
poteri di direzione tanto dell’udienza che della redazione del
processo verbale – art. 738 c.p.c. – potrà impedire che si dia atto
delle intese affette da nullità – per mancato rispetto dei presupposti fattuali e delle formalità richieste dalla legge – e competerà al tribunale rifiutarne l’omologazione. I poteri di cui il tribunale dispone si sostanziano nella assunzione di informazioni,
richiesta di produzione di documenti, esperimento di una consulenza volta ad accertare gli aspetti tecnici sulla base dei quali
possa essere formulata una valutazione in merito alla regolarità
dei beni immobiliari in oggetto.
La questione del momento da cui far decorrere l’acquisto di
efficacia di tali negozi è controversa ravvisando al riguardo alcuna giurisprudenza un criterio ermeneutico individuato nell’inizio dell’esecuzione spontanea, ad esempio con la consegna
delle chiavi o con l’invito ad eventuali conduttori dell’immobile
trasferito a corrispondere il canone di locazione al destinatario
dell’attribuzione con decorrenza dalla data della sottoscrizione,
altro indirizzo è tuttora nel senso di ritenere l’inserimento nel
verbale come l’evidente volontà di condizionare alla omologazione l’efficacia del trasferimento medesimo. Gli accordi tra
coniugi aventi effetto traslativo – costitutivo, modificativo od
estintivo – di diritti reali immobiliari sono soggetti a trascrizione ex art. 2657 c.c.(12). Il verbale contenente gli accordi conclusi
in sede di udienza di separazione consensuale in quanto atto
pubblico – anche riguardo a clausole che dispongano trasferimenti immediati di diritti reali immobiliari – è da considerare
pertanto titolo idoneo per l’esecuzione delle formalità pubblicitarie.
L’art. 14 d.p.r. 26.10.1972, n. 635 recante la disciplina delle
(8) Cass., 4.2.1941, n. 345; Cass., 12.6.1963, n. 1594; Cass., 7.6.1966, n.
1495; Cass., 11.11.1992, n. 12110 e Cass., 15.5.1997, n. 4306, in Famiglia e
dir., 1997, 417 ss.
(9) In tema di divorzio v. Trib. Verona, 16.11.1987, in Giur. it., 1989, I, 2,
909 ss.
(10) Per quanto concerne la dichiarazione sostitutiva prevista dall’art. 40
cpv. della legge citata in relazione agli immobili costruiti in data anteriore
al 1.9.1967, il cancelliere risulta essere espressamente menzionato tra i
pubblici ufficiali legittimati ai sensi dell’art. 4, l. 4.1.1968, n. 15 a ricevere
la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà. Trib. Cagliari, 2.10.2000,
in Riv. giur. sarda, 2001, 785, in cui si stabilisce la necessità che il verbale di
separazione menzioni gli estremi della licenza edilizia o gli altri requisiti
richiesti dalla l. n. 47/1985. Il tribunale cioè, nel recepire la volontà dei
coniugi di compiere un trasferimento immobiliare in seno al verbale di
separazione consensuale, svolge funzione analoga a quella dell’ufficiale
rogante, è perciò nullo il trasferimento se dal predetto verbale non risultino gli estremi della licenza edilizia o della concessione in sanatoria, o la
dichiarazione sostitutiva di atto notorio attestante la preesistenza dell’opera al giorno 1.9.1967, od ancora se non sia allegata copia della domanda
di sanatoria munita degli estremi di avvenuta presentazione, ai sensi dell’art. 40, l. 28.2.1985, n. 47.
(11) Al contrario vi è un indirizzo che tende a negare al verbale di separazione consensuale nella parte relativa ad eventuali trasferimenti immobiliari da un coniuge all’altro la dignità di atto pubblico sostanzialmente
per l’assenza di alcune caratteristiche che però non sembrano sufficienti
ad indurre a ritenere che tale documento sia privo dei requisiti necessari
ex art. 2699 c.c. Si leggano Trib. Napoli, 21.9.2001, in Gius., 2002, 1879, in
cui si afferma non omologabile l’accordo raggiunto dai coniugi in sede di
separazione consensuale con cui si prevede il trasferimento dall’uno all’altro di un diritto reale immobiliare; Trib. Bari, 10.4.2008, in Fam. pers.
succ., 2008, 563, in cui il tribunale ha rigettato la domanda congiunta di
divorzio tra le cui condizioni vi era un trasferimento immobiliare moti-
vando che, in forza dell’autonomia contrattuale e dell’interpretazione degli artt. 711 c.p.c. e 4, 16º co., l. divorzio, le parti del processo di separazione o divorzio, ad integrazione delle consuete clausole – relative a figli,
assegni, casa coniugale –, possono raggiungere davanti al giudice accordi
con i quali si obbligano a trasferire tra loro, od in favore dei figli, diritti reali
immobiliari od a costituire iura in re aliena su immobili, ricorrendo cosı̀
ad una tecnica che consente di applicare l’art. 2932 c.c. e di porre rimedio
ad eventuali inadempimenti successivi alla pattuizione; non possono invece raggiungere accordi con effetti reali, in quanto lo strumento della
dichiarazione a verbale ricevuta dal cancelliere differisce profondamente
dall’atto pubblico redatto dal notaio ai sensi della legge notarile e non offre
le stesse garanzie, e ciò in contrasto col precetto costituzionale dell’effettività della tutela giurisdizionale – artt. 3, 2º co., e 24 Cost. –.
(12) Cass. 15.5.1997, n. 4306, in Famiglia e dir., 1998, 81 ss. in cui si
afferma che sono pienamente valide le clausole dell’accordo di separazione che riconoscano ad uno od ad entrambi i coniugi la proprietà
esclusiva di beni mobili o immobili, ovvero ne operino il trasferimento
a favore di uno di essi al fine di assicurarne il mantenimento. Tale
accordo di separazione, in quanto inserito nel verbale d’udienza – redatto da un ausiliario del giudice e destinato a far fede di ciò che in
esso è attestato –, assume forma di atto pubblico ai sensi e per gli effetti
dell’art. 2699 c.c., e, ove implichi il trasferimento di diritti reali immobiliari costituisce, dopo l’omologazione che lo rende efficace, titolo per
la trascrizione a norma dell’art. 2657 c.c., senza che la validità dei
trasferimenti siffatti sia esclusa dal fatto che i relativi beni ricadono
nella comunione legale tra coniugi; Cass., 8.3.1995, n. 2700, in Dir.
famiglia, 1995, 1390 in cui si afferma che nel procedimento per la
separazione consensuale, di cui all’art. 711 c.p.c., il provvedimento di
omologazione del tribunale, operando sul piano del controllo, ha lo
scopo di attribuire efficacia all’accordo privato dall’esterno, senza operare alcuna integrazione della volontà negoziale delle parti; Trib. Verona, 16.11.1987, in Giur. di Merito, 1989, I, 38.
maggio 2010
372
Famiglia, Persone e Successioni 5
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_369_374.3d
na 373
23/4/
11:40
pagi-
IL CASO
imposte ipotecarie e catastali corrispondente al previgente
art. 19, 1º co., l. 25.6.1943, n. 540 – richiamato dall’art. 2671
c.c. – stabilisce che il cancelliere è tenuto a richiedere la
trascrizione dei provvedimenti ed anche degli atti dallo stesso
ricevuti, ove rientrino nelle categorie soggette a tale formalità. La trascrizione va richiesta nel termine di trenta giorni
«dalla data della redazione o della pubblicazione», dunque
dall’attività negoziale compiuta dalle parti in presenza del
cancelliere e da quella giurisdizionale posta in essere dal giudice. Il titolo idoneo per effettuare la trascrizione sembra cosı̀
essere costituito dal verbale e non dal decreto di omologazione che soddisferebbe invece la diversa esigenza di opporre
ai terzi la cessazione del regime legale eventualmente operata
dalla separazione dei coniugi – art. 2647 c.c. –.
Relativamente ai trasferimenti immobiliari in occasione dello
scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio sono configurati come una sorta di modalità di esercizio della facoltà concessa alle parti ex art. 5, 8º co., l. divorzio di corrispondere in un’unica soluzione l’assegno divorzile,
indipendentemente dalla circostanza che la procedura abbia
carattere contenzioso o congiunto. Tale disposizione esprime
chiaramente la rilevanza attribuita al ruolo della volontà nella
fase patologica del rapporto coniugale, contemperando la libertà dell’autonomia privata e la tutela del coniuge privo di
redditi propri adeguati. Si tratta in sostanza di veri e propri
contratti tra i coniugi che risultano essere vincolanti per il
giudice. Nel procedimento di divorzio il tribunale «sente»
unicamente i coniugi senza l’esperimento di alcun tentativo
di conciliazione verificando l’esistenza dei presupposti di legge in tema di affidamento e di condizioni relative ai figli
minori. Riguardo agli accordi patrimoniali tra i coniugi il tribunale è cioè chiamato a svolgere una mera attività di controllo – non essendo attribuito alcun potere di modifica dei
medesimi –, analogamente all’attività posta in essere in sede
di omologazione delle condizioni della separazione consensuale. Il tribunale cioè, a fronte di una prestazione una tantum, si limita a dare atto dell’accordo intervenuto tra i coniugi sia riguardo agli impegni di carattere obbligatorio che
per gli eventuali trasferimenti attuati direttamente in sede di
verbale.
Nel procedimento congiunto il trasferimento avviene dunque
per effetto della volontà delle parti manifestata dinanzi al
collegio e documentata nel relativo verbale d’udienza in maniera analoga a quanto si verifica riguardo alla separazione
consensuale. Il titolo in forza del quale va operata la trascrizione sembra essere costituito quindi, anche in tale caso, non
già dal provvedimento del giudice ma dal verbale, ed il momento traslativo deve essere rimesso alla volontà dei contraenti nel senso che gli stessi potranno fare decorrere gli
effetti del trasferimento dalla data di sottoscrizione del verbale. In caso di contestazioni si deve invece stabilire, sulla
base degli elementi a disposizione, se le parti abbiano inteso
condizionare il trasferimento al passaggio in giudicato della
sentenza od alla annotazione della medesima a margine dell’atto di matrimonio – momento dal quale decorre lo scioglimento e la cessazione degli effetti civili del matrimonio e da
cui si acquista lo status personale di divorziato, mentre gli
altri effetti della sentenza di divorzio decorrono dal passaggio
in giudicato della sentenza –.
Nel procedimento contenzioso, diversamente da quello con
procedura su domanda congiunta, la sentenza conserva intatto
il proprio valore costitutivo e determinativo in quanto nel giu-
dizio è valutata la correttezza della determinazione operata dai
coniugi alla luce del complesso di statuizioni di ordine patrimoniale, e la si inserisce – recependola – in un assetto che trova
la propria fonte nella determinazione del giudice anziché nella
volontà delle parti. Il giudizio del giudice priva in tale ipotesi
l’accordo del carattere contrattuale sovrapponendo un elemento esterno alla volontà dei privati.
3. Gli accordi tra i genitori relativi a trasferimenti in favore
della prole alla luce della l. 8.2.2006, n. 54
L’art. 155, 2º co., c.c. come novellato dalla l. 8.2.2006, n. 54,
recante le disposizioni in materia di separazione dei genitori
ed affidamento condiviso dei figli prevede che il giudice prenda
atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori, adottando ogni altro provvedimento relativo
alla prole. La medesima disposizione di legge, al 6º co., dispone
che salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti,
ciascuno dei genitori provveda al mantenimento dei figli in
misura proporzionale al proprio reddito. Il giudice in tale caso
stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità da
determinare considerando le attuali esigenze del figlio, il tenore
di vita goduto dallo stesso in costanza di convivenza con ambedue i genitori, i tempi di permanenza presso ciascuno di essi,
le risorse economiche di ciascun genitore, la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.
L’art. 158, 2º co., c.c. prevede l’accordo dei coniugi relativamente all’affidamento ed al mantenimento dei figli. La norma di cui
all’art. 155 ter c.c. in tema di revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli prevede che i genitori abbiano il
diritto di chiedere in ogni tempo la revisione delle disposizioni
concernenti l’affidamento dei figli, l’attribuzione dell’esercizio
della potestà su di essi e delle eventuali disposizioni relative alla
misura ed alla modalità del contributo; infine l’art. 9, l.
1.12.1970, n. 898 come novellato dall’art. 13, l. 6.3.1987, n. 74,
in materia di divorzio, stabilisce la possibilità di revisione, sopraggiunti motivi giustificati, delle disposizioni concernenti
l’affidamento dei figli e di quelle relative alla misura e modalità
dei contributi da corrispondere successivamente alla sentenza
che ha pronunciato la cessazione degli effetti civili del matrimonio. La norma di cui all’art. 155 c.c. sembra in realtà prevedere due tipi di accordi, i primi, quali mera espressione del
modo scelto dai genitori per l’adempimento dei propri doveri
verso i figli, i secondi, come veri e propri accordi di tipo contrattuale.
Come è noto, i genitori sono tenuti ad adempiere l’obbligo di
mantenimento nei confronti dei figli minori e sino al raggiungimento della loro indipendenza economica ove maggiorenni,
salvo inerzia colpevole dei medesimi per il mancato raggiungimento dell’autosufficienza. I genitori possono dunque stipulare
accordi volti a regolare l’obbligo di mantenimento dei figli, accordi che devono essere, come stabilito dal legislatore, liberi e
sottoscritti. La sussistenza dell’accordo dei genitori avente ad
oggetto il mantenimento del figlio sottrae dunque al giudice il
dovere di adottare un provvedimento perequativo, salvo nei casi
di richiesta espressa o di modifica sostanziale delle condizioni
che legittimino l’accordo ed, in ogni caso, tenuto conto il principio generale dell’interesse della prole. La giurisprudenza di
legittimità ha affermato sia la validità della clausola della separazione consensuale con cui uno dei genitori si impegna a trasferire al figlio un immobile a titolo di contributo al manteniFamiglia, Persone e Successioni 5
373
maggio 2010
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_369_374.3d
na 374
23/4/
11:40
pagi-
IL CASO
mento, sia la non ammissibilità dell’adempimento in unica soluzione(13). È stata cioè riconosciuta la validità della clausola
dell’accordo di separazione contenente l’impegno di uno dei
coniugi, al fine di concorrere al mantenimento del figlio minore, di trasferire in suo favore, la piena proprietà di un bene
immobile, avendo ritenuto trattarsi di pattuizione che dà vita
ad un contratto atipico, distinto dalle convenzioni matrimoniali
e dalle donazioni, e volto a realizzare interessi meritevoli di
tutela secondo l’ordinamento giuridico, ai sensi dell’art. 1322
c.c. Tale pattuizione pertanto è stata riconosciuta non soggetta
né alla risoluzione per inadempimento, a norma dell’art. 1453
c.c., né all’eccezione di inadempimento, ai sensi dell’art. 1460
c.c., non essendo ravvisabile, in un siffatto accordo solutorio sul
mantenimento della prole, quel rapporto di sinallagmaticità tra
le prestazioni che è il fondamento dell’una e dell’altra, atteso
che il mantenimento della prole costituisce obbligo ineludibile
di ciascun genitore, imposto dal legislatore e non derivante, con
vincolo di corrispettività, dall’accordo di separazione tra i coniugi – tale accordo potendo, al più, regolare le concrete modalità di adempimento di quell’obbligo –(14).
Riguardo l’adempimento in un’unica soluzione, nel silenzio del
legislatore, la giurisprudenza prevalente è stata propensa a non
ammettere che i genitori, in sede di separazione, possano
adempiere ai doveri di contribuzione con tale modalità a favore
dei figli, ritenendo possibile unicamente quella della prestazione periodica di cui all’art. 155, 4º co., c.c. L’adempimento in
un’unica soluzione dell’obbligo a contribuire al mantenimento
della prole – ove anche ammesso unicamente con efficacia rebus sic stantibus – rischia di pregiudicare l’interesse del figlio
minore e di porlo in una situazione ritenuta deteriore rispetto a
quella nella quale verrebbe a trovarsi in caso di fissazione di un
assegno periodico di mantenimento, dato che sposterebbe sul
genitore affidatario anche l’onere di agire per la modifica delle
condizioni di separazione, al fine di fare fronte alla sempre
possibile perdita di valore del contributo del non affidatario(15).
Per quanto attiene alle modalità di adempimento dell’obbligo
di contribuire al mantenimento, all’istruzione ed all’educazione
dei figli, il tribunale impone quindi solitamente – per non dire
nella quasi totalità dei casi – la corresponsione di una somma
periodica di denaro. Si ritiene in tal modo di porre come prevalenti le esigenze e gli interessi dei figli, pur ammettendo l’espressione dell’autonomia privata dei coniugi individuandola
in quei negozi che, pur trovando sede in occasione della separazione consensuale, non hanno causa in questa, in quanto non
sono direttamente collegati ai diritti ed agli obblighi che derivano dal perdurante matrimonio, non si configurano come
convenzioni di famiglia, – quali figure giuridiche distinte dai
contratti e caratterizzate da un sostanziale parallelismo di interessi e volontà –, ma costituiscono espressioni di libera autonomia contrattuale. Alcuna giurisprudenza ha inquadrato l’impegno a trasferire un immobile in favore della prole nello schema del contratto a favore di terzi(16).
È giocoforza constatare che l’inquadramento della fattispecie in
oggetto nel contratto a favore di terzo ha posto una serie di
problemi in ordine sia al riconoscimento del figlio nella veste
di terzo beneficiario ex art. 1411 c.c. essendo egli parte del
negozio stesso sia in ordine anche al diritto di paralizzare l’eventuale revoca o modifica della stipulazione in suo favore mediante dichiarazione di volere profittare della medesima ex art.
1411 cpv. c.c. La prestazione satisfattiva dell’obbligo di cui agli
artt. 30 Cost., 147 e 148 c.c. sembra peraltro sottrarsi ad un
inquadramento tipico prospettandosi piuttosto alla stregua di
un atto dovuto. A fronte delle ipotesi menzionate è dato constatare che il prius rimane costituito dall’obbligo di entrambi i
genitori di fornire direttamente al figlio i mezzi necessari per il
mantenimento, l’istruzione e l’educazione, consentendo in tal
modo di realizzare quella condivisione di vita, nel dispiegarsi
del rapporto genitori-figli pur in presenza di una crisi coniugale, che costituisce il fulcro della ratio dell’attuale discipli&
na(17).
(13) Tra i beni oggetto del trasferimento possono annoverarsi non soltanto gli atti traslativi della proprietà o di altri diritti reali, ma anche quote
di comunione su tali diritti relativi a qualsiasi tipo di beni – immobili,
mobili registrati e non, universalità di mobili, titoli di credito – ed anche
atti aventi ad oggetto la costituzione di iura in re aliena, ovvero diritti di
usufrutto, uso abitazione, – cosı̀ come anche un pegno od un’ipoteca
concessi a garanzia dell’adempimento di obbligazioni assunte in sede di
regolamento pattizio della crisi coniugale –, nonché cessioni di un credito,
o di pacchetti azionari o di quote di fondi di investimento o titoli di stato.
(14) Cass., 17.6.2004, n. 11342, in Giust. civ., 2005, I, 415 ss. Nella fattispecie il padre, che aveva assunto l’impegno di trasferimento dell’immobile, convenuto in giudizio per l’esecuzione specifica ai sensi dell’art. 2932
c.c., aveva chiesto la risoluzione della pattuizione deducendo l’inadempimento della madre all’obbligazione, dalla stessa assunta nel medesimo
accordo di separazione tra coniugi, di consentire che la figlia vedesse e
frequentasse il genitore.
(15) Trib. Modena, 11.7.2005, in Fam. pers. succ., 2005, 492 ss. Peraltro in
precedenza App. Milano, 6.5.1994 aveva affermato la ammissibilità dell’adempimento in unica soluzione dell’obbligo al mantenimento del figlio
minore posto a carico del genitore in sede di separazione consensuale con
la costituzione a favore dell’altro coniuge dell’usufrutto su di un immobile,
trasferito, per la nuda proprietà al figlio medesimo.
(16) A. FINOCCHIARO e M. FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, I, 406 ss.;
SESTA, Contratto a favore di terzo e trasferimento dei diritti reali, in
Riv. trim. dir. e proc. civ., 1993, 965; Trib. Vercelli, 24.10.1989; App.
Torino, 9.5.1980; Cass., 21.12.1987, n. 9500, in Riv. dir. civ., 1989, II,
233 ss. in cui si afferma che allorché taluno, in sede di separazione
coniugale consensuale, assume l’obbligo di provvedere al mantenimento di un figlio minore, impegnandosi a tal fine a trasferirgli un determinato bene immobile, pone in essere con il coniuge un contratto
preliminare a favore di terzo. Quando poi in esecuzione di tale obbligo,
dichiara per iscritto di trasferire al figlio tale bene, avvia il processo
formativo di un negozio che, privo della connotazione dell’atto di liberalità, esula dalla donazione ma configura una proposta di contratto
unilaterale, gratuito ed atipico, che, a norma dell’art. 1333 c.c., in mancanza del rifiuto del destinatario entro il termine adeguato alla natura
dell’affare e stabilito dagli usi, determina la conclusione del contratto
stesso e, quindi, l’irrevocabilità della proposta; App. Genova, 21.12.1987,
in Dir. famiglia, 1998, 572 ss. in cui è stata affermata valida la clausola
inserita nel verbale di separazione consensuale con cui uno dei genitori
si impegna a trasferire ad un figlio minore un immobile, allo scopo di
onorare il proprio obbligo di mantenimento, avendosi in tale caso, un
contratto preliminare a favore di un terzo per cui, in caso di inadempimento, il figlio sarà legittimato ad agire al fine di ottenere una sentenza
costitutiva che tenga luogo del contratto definitivo. Contra, Cass.,
25.9.1978, n. 4277 in cui la Corte, in relazione alla clausola inserita
all’interno di un accordo di separazione consensuale tra coniugi in base
alla quale il marito si obbligava a mettere a disposizione del figlio e
della moglie, per tutta la durata della loro vita, un’abitazione, ad integrazione dell’assegno di mantenimento dovuto ai medesimi, negò l’applicazione della disciplina del contratto a favore di terzi rifiutando di
riconoscere nelle intese in oggetto natura contrattuale.
(17) App. Napoli, 24.1.1997, in Gius, 1997, 1002, in cui la Corte afferma
che le modalità dell’obbligazione di contribuire al mantenimento del coniugi e dei figli possono formare oggetto di pattuizioni esclusivamente per
quanto riguarda il mantenimento del coniuge, non anche il mantenimento
dei figli. Nella specie si è ritenuta valida la pattuizione di adempiere l’obbligazione mediante accollo interno di debito per quanto riguardava il
credito di mantenimento del coniuge, ritenuto conseguentemente estinto,
non per quanto riguardava il credito per il mantenimento dei figli.
maggio 2010
374
Famiglia, Persone e Successioni 5
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_375_384.3d
na 375
23/4/
11:40
pagi-
LE RASSEGNE
» Te s t a m e n t o
La remissione per testamento
Nicola Di Mauro
Notaio e Dottore di ricerca in Diritto civile
SINTESI
»
a) Disposizioni testamentarie e rapporto obbligatorio: la remissione per testamento
missione per testamento, la dottrina più moderna, partendo da un’in-
Nell’ambito delle disposizioni testamentarie dirette a provocare l’e-
un debito’’, ha dimostrato come la remissione per testamento sia sı̀
terpretazione più ampia della locuzione ivi contenuta ‘‘liberazione da
stinzione di un rapporto obbligatorio preesistente, di cui il testatore
disciplinata dalla norma citata, ma anche che l’art. 658 c.c., in realtà,
è il titolare della situazione giuridica soggettiva attiva, assume sicu-
prevede la disciplina generale di tutte quelle ipotesi in cui il testatore
ramente un’indubbia rilevanza scientifica, anche in considerazione
vuole realizzare tout court la liberazione da un debito del soggetto che
della sua notevole portata applicativa, la c.d. remissione per testa-
cosı̀ intende beneficiare per testamento.
mento.
d) L’art. 658 c.c. e la remissione per testamento
b) La remissione in generale
Sempre in revisione critica degli orientamenti tradizionali, la dottrina
La remissione in generale, nel contesto della teoria generale delle
più moderna ha posto in evidenza che la remissione per testamento
obbligazioni, sebbene appaia prima facie un istituto privo di significa-
non si realizza, come si è sempre creduto, attraverso l’attribuzione da
tive problematiche giuridiche, stante la semplicità del dettato norma-
parte del testatore al debitore del suo credito con conseguente ope-
tivo che la disciplina, in realtà presenta molteplici aspetti controversi e
ratività della causa estintiva dell’obbligazione nota come confusione,
ancora non del tutto chiariti dalla dottrina e dalla giurisprudenza,
bensı̀ anche e soprattutto con l’esclusiva dichiarazione unilaterale del
quali quelle relative all’individuazione della sua causa, della sua fun-
testatore di rimettere il debito, come prevede l’art. 1236 c.c., che inte-
zione, della sua struttura, del suo modo di perfezionamento, del ruolo
gra null’altro se non una vera e propria disposizione testamentaria,
della volontà del debitore e dei suoi rapporti con la rinunzia al credito.
giacché unilaterale, da valere dopo la morte del testatore e da questi
c) La liberazione da un debito di cui all’art. 658 c.c.
sempre revocabile, da sussumere nella categoria del legato disciplina-
A fronte dell’orientamento tradizionale che identifica nella fattispecie
ta dall’art. 658 c.c., e quindi, come tale, rifiutabile da parte dell’ono-
disciplinata dall’art. 658 c.c. solo ed esclusivamente un’ipotesi di re-
rato-debitore.
SOMMARIO
1. Disposizioni testamentarie e rapporto obbligatorio – 2. Profili generali della remissione: la funzione – 3. Segue: la struttura – 4. La remissione per
testamento: le tesi tradizionali – 5. Segue: una diversa ricostruzione: la remissione per testamento e la più ampia portata normativa contenuta nell’art.
658 c.c. – 6. Segue: la disciplina della remissione testamentaria – 7. Segue: la remissione per testamento al vaglio della giurisprudenza di legittimità
1. Disposizioni testamentarie e rapporto obbligatorio
La dottrina che si è occupata dei rapporti tra vicende del rapporto obbligatorio e successione testamentaria, ha messo in evidenza come il testamento possa essere fonte, sia costitutiva(1), sia
modificativa ed estintiva di un rapporto obbligatorio(2).
In particolare, si è sostenuto(3) che, in subiecta materia, sarebbe
possibile enucleare una categoria generale, quella delle disposizioni testamentarie relative a rapporti obbligatori che si suddivi-
de in due sub categorie: quella delle disposizioni testamentarie
relative a rapporti obbligatori creati ex novo per testamento e
quella delle disposizioni testamentarie relative ad un rapporto
obbligatorio preesistente, le cui due species sarebbero le disposizioni testamentarie modificative del rapporto obbligatorio(4) e le
disposizioni testamentarie estintive del rapporto obbligatorio(5).
Le due species sarebbero entrambe già desumibili dalla disciplina
di cui agli artt. 658 e 659 c.c.(6), ma non cosı̀ come sino ad oggi
(1) Sui rapporti obbligatori che trovano la loro fonte nel testamento, si v.
CRISCUOLI, Le obbligazioni testamentarie, Milano, 1965, passim.
(2) Sulla modifica ed estinzione del rapporto obbligatorio per testamento
cfr. DI MAURO, Le disposizioni testamentarie modificative ed estintive del
rapporto obbligatorio, Milano, 2005, passim (da cui si cita), ora anche in
ID., Le disposizioni modificative ed estintive del rapporto obbligatorio, in
Tratt. dir. successioni e donazioni dir. da Bonilini, II, La successione testamentaria, Milano, 2009, 803 ss.
(3) Cfr. DI MAURO, op. cit., 179 s.
(4) Si è cercato di dimostrare che possono essere oggetto di una disposizione testamentaria, in particolare: la delegazione passiva (DI MAURO, op.
cit., 457 ss.) ed attiva (ivi, 513 ss.), l’espromissione (ivi, 477 ss.), l’accollo
(ivi, 490 ss.), il trasferimento del credito (ivi, 495 ss.).
(5) Anche in tal caso si è provato a dimostrare come possa essere oggetto
di una disposizione testamentaria, segnatamente: l’esatto adempimento
(DI MAURO, op. cit., 309 ss.), la datio in solutum (ivi, 279 ss.), la cessione del
credito in luogo dell’adempimento (ivi, 300 ss.), la novazione (ivi, 303 ss.,
371 ss.), la compensazione (ivi, 328 ss.), la confusione (ivi, 334 ss., 374 ss.),
l’impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile al debitore (ivi, 335
ss.), la remissione (ivi, 349 ss.), l’adempimento diretto e indiretto dell’obbligo altrui (ivi, 401 ss., 408 ss.).
(6) Sulle norme ora richiamate, più in generale, per tutti si v.: BONILINI,
Dei legati, in Comm. Schlesinger, diretto da Busnelli, Artt. 649-673, 2ª ed.,
Milano, 2006, rispettivamente 317 ss. e 333 ss. (da cui si cita) e ora anche in
ID., Il legato, in Tratt. dir. successioni e donazioni. dir. da Bonilini, II, La
successione testamentaria, Milano, 2009, rispettivamente 557 ss. e 566 ss.
Famiglia, Persone e Successioni 5
375
maggio 2010
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_375_384.3d
na 376
23/4/
11:40
pagi-
LE RASSEGNE
restrittivamente interpretati, bensı̀ sulla base di una rilettura
estensiva delle locuzioni «liberazione da un debito» contenuta
nella prima norma(7) e «per soddisfare il legatario (creditore)
del suo credito» contenuta nella seconda norma(8).
Tra le ipotesi di disposizioni testamentarie estintive del rapporto obbligatorio, assume sicuramente un’indubbia rilevanza
scientifica, anche in considerazione della sua notevole portata
applicativa, la c.d. remissione per testamento, della quale ci
occuperemo in questa sede, data altresı̀ l’inesistenza, salvo
rare eccezioni(9), di contributi specifici della dottrina sulla figura in questione.
2. Profili generali della remissione: la funzione
Come si rilevava testé, sotto il profilo teorico-applicativo, l’ipotesi più interessante di estinzione di un rapporto obbligatorio in
cui il testatore sia il titolare della situazione giuridica soggettiva
attiva è rappresentata indubbiamente dalla remissione per testamento(10), anche in considerazione delle rilevanti problematiche
connesse al fatto di essere ricondotta comunemente alla figura
del legato di liberazione da un debito, disciplinata dall’art. 658, 1º
co., c.c.
Com’è noto, la remissione(11), disciplinata dagli artt. 1236 ss. c.c.
tra i modi di estinzione dell’obbligazione diversi dall’adempimento, è stata, ed è tuttora, fonte di accese dispute in dottrina
ed in giurisprudenza, nonostante la formulazione all’apparenza
semplice dell’art. 1236 c.c., il quale si limita a disporre che la
dichiarazione del creditore di rimettere il debito estingue l’obbligazione quando è comunicata al debitore, salvo che quest’ultimo
dichiari di non volerne profittare.
Difatti, se ci si dovesse fermare semplicemente ad una sua lettura
logico-grammaticale, non parrebbero porsi rilevanti problemi in-
terpretativi, giacché potrebbe agevolmente trarsi la convinzione,
che l’ordinamento giuridico italiano vigente consenta ad un soggetto, il creditore, di estinguere un rapporto obbligatorio di cui è
parte (in quanto titolare della relativa situazione giuridica soggettiva attiva), mediante una sua autonoma dichiarazione di volontà, il cui contenuto è quello di rimettere il debito, che, una
volta comunicata al debitore, produce detta estinzione, che verrebbe posta, tuttavia, nel nulla dalla contraria dichiarazione del
debitore di non volerne profittare.
Ma cosı̀ non è, ed anzi, al contrario, la remissione pone, sul piano
teorico, molteplici ardue problematiche, come quelle dell’individuazione della sua causa(12), della sua funzione, della sua struttura, del suo modo di perfezionamento, del ruolo della volontà
del debitore e dei suoi rapporti con la rinunzia al credito.
Questioni sulle quali si è detto di tutto e il contrario di tutto,
tant’è che il dibattito teorico sulla remissione si è andato sviluppando in maniera talmente vasta ed articolata che negli anni, più
che giungere a conclusioni nitide, si è prodotto piuttosto quel
negativo risultato di creare un’enorme confusione sull’argomento, proprio per l’eccessivo affollamento di teoriche diversissime
tra loro che giungono a conclusioni assolutamente divergenti e
difficilmente conciliabili.
Cosı̀, a fronte dell’orientamento decisamente prevalente(13), secondo cui la remissione nient’altro sarebbe se non una species
del genus rinunzia(14), caratterizzata dal particolare oggetto di
quest’ultima, ossia un credito, sı̀ da ritenere che la remissione
costituirebbe l’unico schema rinunciativo in materia di diritti di
credito(15), altra parte della dottrina(16), rigettando sostanzialmente l’equiparazione tra rinunzia al credito e remissione del
debito, ha sostenuto, viceversa, l’autonomia e differenza, sia tipologica, sia funzionale, tra le due: la prima sarebbe soltanto
(7) Cfr. DI MAURO, op. cit., 9 ss., 230 ss., 354 ss.
(8) Cfr. DI MAURO, op. cit., 9 ss., 232 ss.
(9) Cfr. DI MAURO, Legato di liberazione da un debito e remissione mortis
causa: appunti sull’art. 658 c.c., in Giust. civ., 1997, I, 3099 ss.: ID., Le
disposizioni testamentarie modificative ed estintive del rapporto obbligatorio, cit., 340 ss: ID., Le disposizioni modificative ed estintive del rapporto
obbligatorio, cit., 828 ss.
(10) La quale, giova sin da ora ricordarlo, potrà riguardare, come per la
remissione per atto inter vivos, la remissione del debito relativo a qualsiasi
tipo di obbligazione sia essa di dare o non dare, di facere o non facere (cfr.
BONILINI, op. cit., 325).
(11) Sulla figura della remissione in generale si vedano, per le voci enciclopediche: GIACOBBE, GUIDA, Remissione del debito (dir. vig.), in Enc. dir.,
XXXIX, Milano, 1988, 767 ss.; TILOCCA, Remissione del debito, in Noviss. Dig.
It., XV, Torino, 1968, 389 ss.; LUMINOSO, Remissione, in Enc. giur., XXVI,
Roma, 1991, 1 ss.; STANZIONE, Remissione, in Digesto civ., XVI, Torino,
1997, 577 ss. Per i commentari: PELLEGRINI, Dei modi di estinzione dell’obbligazione diversi dall’adempimento, in Comm. D’Amelio e Finzi, Libro
delle obbligazioni, I, artt. 1230-1259, Firenze, 1948, 143 ss.; PERLINGIERI,
Dei modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento, in
Comm. Scialoja e Branca, sub artt. 1230-1259, Bologna-Roma, 1975, 160
ss.; Per le opere in generale sulle obbligazioni e per i trattati: C.M. BIANCA,
Diritto civile, 4, Le obbligazioni, Milano, 1990, 461 ss.; BRECCIA, Le obbligazioni, in Tratt. Iudica e Zatti, Milano, 1991, 707 ss.; DI PRISCO, I modi di
estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento, in Tratt. Rescigno, 9,
I, 2ª ed., Torino, 1999, 366 ss.; BARASSI, La teoria generale delle obbligazioni,
III, Milano, 1964, 180 ss. Opere specifiche sulla remissione sono: TILOCCA,
La remissione del debito, Padova, 1955, passim; PERLINGIERI, Remissione del
debito e rinunzia al credito, Napoli, 1968, passim e da ultimo STANZIONE,
SCIANCALEPORE, Remissione e rinunzia, Milano, 2003, passim. La figura de
qua viene esaminata anche nelle opere che si occupano tout court del più
generale fenomeno dell’estinzione dell’obbligazione come: ALLARA, Le fattispecie estintive del rapporto obbligatorio, Torino, 1952, passim; PERLINGIERI, Il fenomeno dell’estinzione nelle obbligazioni, Napoli-Camerino, 1972,
passim. Trattano della figura della remissione anche: BENEDETTI, Struttura
della remissione. Spunti per una dottrina del negozio unilaterale, in Riv.
trim. dir. e proc. civ., 1962, 1291 ss.; CICALA, L’adempimento indiretto del
debito altrui, Napoli, 1968, passim; DONISI, Il problema dei negozi giuridici
unilaterali, Napoli, 1972, passim; FERRI, Rinunzia e rifiuto nel diritto privato, Milano, 1960, passim.
(12) La individuazione della causa della remissione è oggetto di vivace
dibattito, in quanto, secondo alcuni, essa sarebbe essenzialmente gratuita,
cioè priva di alcun corrispettivo (cfr. C.M. BIANCA, op. cit., 468-470; PERLINGIERI, Dei modi di estinzione, cit., 171 ss., spec. 175; BARASSI, op. cit., 182 ss.);
secondo altri, invece, la remissione sarebbe un negozio a causa neutra
(cosı̀ Cass., 14.3.1995, n. 2921, in Giust. civ., 1995, I, 1450; Cass., 5.8.1983,
n. 5260, in Rep. Foro it., 1983, Obbligazione in genere, n. 40; TILOCCA, Remissione, cit., 399; DI PRISCO, op. cit., 372, nt. 19) o variabile (cfr. in tal senso
ALLARA, op. cit., 259, 261), nel senso che l’atto, considerato in sé e per sé,
potrebbe essere giustificato da una o da un’altra causa, e segnatamente o
donandi oppure solvendi (cosı̀ TILOCCA, op. ult. cit., 398). La remissione,
difatti, può essere sia onerosa, sia gratuita, giacché la gratuità non è elemento essenziale della remissione ed è la legge stessa all’art. 1240 c.c. a
prevedere un’ipotesi di remissione onerosa (DI PRISCO, op. loc. cit.); secondo altri ancora, si tratterebbe di un negozio a causa astratta (cosı̀ GIACOBBE,
GUIDA, op. cit., 771) o generica (Cass., 14.3.1995, n. 2921, cit.; GIACOBBE,
GUIDA, op. loc. cit.), ossia svincolato dal requisito della causa, nel quale,
pertanto, la causa sarebbe irrilevante ai fini della validità del negozio.
(13) In dottrina, aderiscono alla soluzione secondo cui si tratta di una
rinunzia: TILOCCA, op. ult. cit., 391; GALGANO, Diritto civile e commerciale, II,
1, 4ª ed., Padova, 2004, 113, 115; C.M. BIANCA, op. cit., 466; BRECCIA, op. cit.,
710. In giurisprudenza: Cass., 9.6.1964, n. 1426, in Mass. Giur. it., 1964, cc.
458 s.; Cass., 10.5.1967, n. 959, ivi, 1967, c. 361; Cass., 6.5.1955, n. 1272, in
Giust. civ., 1955, I, 1079; Cass., 18.10.1976, n. 3559, in Mass. Giur. it., 1976,
c. 864; Cass., 5.8.1983, n. 5260, cit.
(14) Nell’ ambito dell’orientamento che si esamina si ricorre, in alcuni
casi, alla figura della rinunzia abdicativa (TILOCCA, La remissione del debito,
cit., 51 ss.; BENEDETTI, op. cit., 1309 ss.; cosı̀ anche Cass., 4.10.2000, n. 13169,
in Rep. Foro it., 2000, Obbligazione in genere, n. 50, 63), in altri, a quella
delle rinunzia traslativa (FADDA, La teoria del negozio giuridico, Lezioni,
Napoli, 1898, 102; BENSA, Lezioni sulle donazioni, Genova, 1926, 77 ss.;
SCUTO, Le donazioni, Catania, 1928, 103 ss.) e, infine, in altri, alla rinunzia
sui generis, avente i caratteri di entrambe le precedenti (cfr. MATTEUCCI,
Recensione a Tilocca, in Riv. dir. civ., 1957, I, 480; MESSINEO, Manuale di
diritto civile e commerciale, III, 9ª ed., Milano, 1959, 512).
(15) Si v. TILOCCA, Remissione, cit., 391.
(16) Questa seconda impostazione fa capo principalmente a PERLINGIERI,
Remissione del debito e rinunzia al credito, cit., 88, 128: ID., Dei modi di
estinzione, cit., 213 ss. cui aderiscono: DONISI, op. cit., 90, nt. 55; STANZIONE,
Remissione, cit., 578; STANZIONE, SCIANCALEPORE, op. cit., 281 ss.; MACIOCE,
Rinunzia (dir. priv.), in Enc. dir., XL, Milano, 1989, 932; T. MONTECCHIARI,
I negozi unilaterali a contenuto negativo, Milano, 1996, 160 ss.
maggio 2010
376
Famiglia, Persone e Successioni 5
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_375_384.3d
na 377
23/4/
11:40
pagi-
LE RASSEGNE
dismissiva del credito(17) – nel senso cioè di semplice perdita da
parte del creditore della titolarità del diritto – mentre la seconda
sarebbe, invece, direttamente estintiva dell’obbligazione(18), e,
quindi, tipicamente ed essenzialmente finalizzata all’estinzione
dell’intero rapporto obbligatorio.
Difatti, la perdita del diritto andrebbe tenuta distinta dall’estinzione dello stesso, dato che quest’ultima si presenterebbe come
fattispecie di portata più ampia rispetto alla prima, perché, se è
vero che all’estinzione del diritto consegue necessariamente la
perdita del diritto stesso in capo al suo titolare, è altresı̀ vero che
non ad ogni ipotesi di rinunzia del diritto consegue automaticamente l’estinzione del rapporto obbligatorio: la conferma di questo modo di ragionare sarebbe da rinvenire nella disciplina della
solidarietà attiva di cui all’art. 1301, 2º co., c.c., dove la remissione al debitore da parte di uno dei creditori solidali estingue parzialmente l’obbligazione, che, viceversa, in caso di rinunzia al
credito, rimarrebbe intatta ed esigibile per l’intero da parte degli
altri creditori solidali(19).
In altre parole, ad una concezione che identifica la funzione della
remissione nella semplice perdita da parte del creditore della
titolarità del credito, cui consegue (anche quale effetto collegato)
la liberazione del debitore per effetto dell’estinzione dell’obbligazione a seguito del venir meno di uno dei termini del rapporto,
si oppone quella che, invece, la identifica nella diretta estinzione
dell’intero rapporto obbligatorio(20), poiché la funzione della remissione non si esaurisce nella perdita da parte del creditore
della titolarità del diritto, ma consiste anche necessariamente
nella liberazione del debitore dall’obbligo dell’adempimento e,
quindi, sostanzialmente, nell’estinzione del rapporto obbligatorio(21).
3. Segue: la struttura
Dal diverso modo di intendere la remissione in rapporto alla
rinunzia al credito, discende una differente prospettazione della
ricostruzione della struttura della remissione, in considerazione
anche del ruolo che si voglia far assumere alla volontà del debitore all’interno del meccanismo remissorio e, quindi, dell’individuazione di quale sia il concreto interesse sotteso alla stessa.
Su quest’ultimo punto, difatti, secondo alcuni, il negozio remissorio tutelerebbe prevalentemente un interesse del creditore(22),
in quanto sarebbe espressione del principio secondo il quale chi
è titolare di un diritto vi può rinunziare liberamente invito debitore.
Secondo altra prospettiva, invece, ciò che verrebbe tutelato sarebbe, all’opposto, l’interesse del debitore: questo interesse si
sostanzierebbe, in concreto, in quello di costui a poter adempiere
la prestazione dovuta(23) o, in altre parole, a non subire la liberazione e, quindi, a conseguire la libertà senza adempimento(24),
ossia a non essere liberato mediante remissione in conseguenza
dell’invasione della propria sfera giuridica(25), di tal guisa che
sarebbe tutelato l’interesse a non essere leso nel proprio prestigio
od onore, cioè a non subire una sorta di umiliazione, offesa da
parte del creditore(26).
In realtà, sembra argomentazione più convincente quella proposta da chi ritiene, con risoluzione mediatrice tra i contrapposti
orientamenti, che nell’art. 1236 c.c. si realizzerebbe piuttosto un
equo contemperamento tra l’interesse del debitore e quello del
creditore, in quanto la norma citata ricondurrebbe ad unità di
tutela due opposti interessi e, segnatamente, quello del creditore
a poter liberamente disporre del proprio diritto di credito e quello del debitore a non ottenere la liberazione da proprio debito in
contrasto con la propria dignità, oppure che non sia ritenuta
opportuna, per cui non voluta da costui(27).
Sulla scorta delle precedenti considerazioni, pertanto, relativamente alla struttura della remissione, per chi l’equipara o l’identifica con la rinunzia al credito – in modo tale da assegnare
preminenza qualificante all’iniziativa del creditore, ponendo la
figura del debitore liberato in una posizione temporalmente e
funzionalmente successiva e secondaria – questa sarebbe necessariamente unilaterale (cosı̀ come tutte le ipotesi di rinunzia), nel
senso cioè che la remissione sarebbe un negozio unilaterale recettizio che si perfeziona con la sola volontà del creditore(28), e,
quindi, produrrebbe immediatamente l’effetto estintivo del rapporto obbligatorio, ancorché esso sia rifiutabile dal debitore.
In questa ottica unilaterale – confortata in ciò dalla Relazione al
codice civile n. 574, che in tal senso si esprime(29) – il ruolo del
debitore consisterebbe in un mero requisito di efficacia, ossia
atterrebbe alla fase della stabilità o stabilizzazione degli effetti
della remissione già prodottisi e non alla fase perfezionativa della
stessa(30), in quanto la dichiarazione di remissione avrebbe efficacia immediata, nel senso di produrre immediatamente l’estinzione del rapporto obbligatorio(31), sul quale effetto potrebbe
(17) La funzione della rinunzia sarebbe quella della mera dismissione di
un diritto, da parte del titolare, al solo scopo di separare dal proprio patrimonio un’entità giuridica attiva (cosı̀ BOZZI, Rinunzia (dir. pubbl. e priv.),
in Noviss. Dig. It., XV, Torino, 1968, 1147), per cui non vi sarebbe una
diretta funzione estintiva-liberatoria nella rinunzia al credito, ma tale effetto estintivo liberatorio sarebbe solo eventuale ed indiretto.
(18) Questa sarebbe la funzione diretta della remissione, ossia la estinzione del rapporto obbligatorio tout court.
(19) Per una serrata critica alla posizione di Perlingieri, si veda TILOCCA,
Remissione, cit., 395-398, spec. 396, dove si afferma l’artificiosità e l’astrattezza dell’ipotesi richiamata di cui all’art. 1301, 2º co., c.c.
(20) Si veda cosı̀ già CICALA, op. cit., 191 s.
(21) Son queste, in termini, le parole di PERLINGIERI, Dei modi di estinzione, cit., 183. La tesi poggia principalmente sull’indicazione, ai fini della
individuazione della funzione del negozio remissorio, di quale sia la sua
minima unità effettuale – intesa come la sintesi degli effetti essenziali e
diretti – essendo indifferenti, a tal fine, invece, gli effetti riflessi e quelli
secondari o eventuali, e che viene individuata nell’estinzione del rapporto
obbligatorio per intero.
(22) Cfr. BARASSI, op. cit., 184; MICCIO, Delle obbligazioni in generale, in
Comm. cod. civ., III, 1, Torino, 1966, 412.
(23) Cfr. RESCIGNO, Obbligazioni (diritto privato): a) nozioni, in Enc. dir.,
XXIX, Milano, 1979, 197.
(24) Cosı̀ TILOCCA, op. ult. cit., 405.
(25) Cfr. in tal senso CICALA, op. cit., 71, 181 ss., spec., 186; DI PRISCO, op.
cit., 378.
(26) Cfr. GALGANO, op. cit., 114; MICCIO, op. cit., 422; CICALA, op. cit., 186; DI
PRISCO, op. loc. cit.
(27) Cfr. GIACOBBE, GUIDA, op. cit., 768.
(28) Cosı̀ per la dottrina: GALGANO, op. cit., 114; C.M. BIANCA, op. cit., 463;
TILOCCA, op. ult. cit., 12 ss.; BENEDETTI, op. cit., 1305; DI PRISCO, op. cit., 370;
GIACOBBE, GUIDA, op. cit., 773. In giurisprudenza si vedano: Cass., 22.2.1995,
n. 2021, in Giur. it., 1995, I, 1, c. 1654; Cass., 9.6.1964, n. 1426, cit.; Cass.,
10.5.1967, n. 959, cit.; Cass., 5.8.1983, n. 5260, cit.; Cass., 18.10.1976, n.
3559, cit.; Cass., 24.6.1968, n. 2111, in Dir. fall., 1968, II, 1024; Cass.,
6.5.1955, n. 1272, in Giust. civ., 1955, I, 1079. Ciò comporterebbe come
conseguenza ulteriore che, ai fini della capacità d’agire, l’unico soggetto
da prendere in considerazione sarebbe il creditore, e giammai il debitore,
la cui eventuale incapacità non rileverebbe ai fini della produzione dell’effetto estintivo a lui favorevole: tutt’al più, potrebbe assumere rilievo nel
caso in cui il debitore fosse incapace e volesse procedere a non profittare
della remissione.
(29) Relazione al codice civile, n. 574, 120, secondo cui la remissione è
considerata un atto unilaterale. Tuttavia, la volontà del debitore non è
senza effetto, perché, pur non essendo elemento di perfezione del negozio
remissorio, può impedire che questo produca le sue conseguenze giuridiche se il debitore dichiara di non volerne profittare, al pari di ogni dichiarazione recettizia la remissione si perfeziona con la sua comunicazione
alla persona cui è diretta.
(30) Cfr. Relazione al c.c. cit., n. 574, 120.
(31) Si cfr., in termini, la Relazione al c.c. cit., n. 574, 120; in dottrina si
vedano BENEDETTI, op. cit., 1309 e C.M. BIANCA, op. cit., 464, secondo cui il
Famiglia, Persone e Successioni 5
377
maggio 2010
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_375_384.3d
na 378
23/4/
11:40
pagi-
LE RASSEGNE
agire, in senso contrario, il debitore con un atto di rifiuto(32),
allorquando abbia interesse a non ricevere un beneficio dal creditore.
A fronte di questa impostazione che ricostruisce la remissione
quale negozio unilaterale rifiutabile, vi è quella che, invece, ritiene la partecipazione del debitore un elemento essenziale per la
perfezione del negozio remissorio, che, non potendo essere degradata a mero requisito di efficacia, concorre al perfezionamento della fattispecie, di tal guisa che la natura contrattuale(33) della
figura di cui all’art. 1236 c.c. - per alcuni per molti versi accomunabile a quella dell’art. 1333 c.c. - ne uscirebbe cosı̀ delineata,
e ciò anche in considerazione del fatto che tale soluzione risulterebbe coerente con la ratio della citata norma, cosı̀ come individuata in precedenza e, segnatamente, nell’equo contemperamento degli interessi, sia del debitore, sia del creditore, che troverebbero la loro composizione proprio nella remissione(34).
Corollario di questa impostazione è quello secondo cui l’effetto
estintivo non si produrrà immediatamente, ma solo al momento
del perfezionamento della fattispecie, quindi, solo quando sia
decorso il congruo termine di cui all’art. 1236 c.c., nel senso cioè
che, dal momento della comunicazione del creditore, fino al
momento del decorso del detto congruo termine, l’estinzione
non si sarà ancora verificata, ancorché, una volta perfezionatasi
la remissione, questa si considererà verificata retroattivamente
dal momento della dichiarazione stessa(35).
L’affermata natura contrattuale della fattispecie remissoria, come
disciplinata dall’art. 1236 c.c., tuttavia, non comporta necessariamente che la stessa debba essere realizzata esclusivamente
con tale struttura.
Difatti, sempre l’orientamento testé analizzato(36), ha ritenuto di
poter sostenere – sulla base dell’assunto più volte ricordato della
variabilità della struttura delle fattispecie, e, segnatamente, di
quelle estintive, a fronte di una medesima funzione a seconda
dell’interesse concreto perseguito dalle parti nel concreto rapporto obbligatorio – che, nell’esercizio del loro potere di autonomia privata, rilevando l’art. 1236 c.c. come norma dispositiva e
non inderogabile, le parti potrebbero realizzare la funzione estintiva remissoria, sia tramite lo schema contrattuale, sia tramite lo
schema dell’atto unilaterale(37).
4. La remissione per testamento: le tesi tradizionali
Premessi questi brevi cenni sulla remissione in generale – i quali
non hanno alcuna pretesa di completezza sull’argomento, ma
risultano solo propedeutici a quanto si dirà in seguito – e passando ora, pertanto, ad esaminare da vicino l’ipotesi della remissione per testamento(39), va rilevato in prima battuta che, in
realtà, il tema in oggetto viene sempre preso in considerazione
in modo fugace dalla dottrina, e ciò, sia da parte degli studiosi del
diritto testamentario, sia da parte di quelli del diritto delle obbligazioni, se non, addirittura, in molti casi del tutto ignorato, sia
dagli uni(40), sia dagli altri(41).
E nell’ambito del panorama degli autori che hanno affrontato ex
professo il problema, si riscontrano, poi, due differenti, e tra di
loro distanti, orientamenti.
Difatti, secondo una prima prospettiva(42) – a dire il vero minoritaria – il legato di liberazione da un debito, nonostante le indubbie similitudini ed affinità, non sarebbe assimilabile alla remissione per una serie di motivi, quali quelli basati sulle seguenti
considerazioni:
1) il legato di liberazione da un debito, determinando il trasferimento mortis causa del diritto di credito a favore del debitore e,
quindi, essendo un legato traslativo del diritto di credito direttamente al debitore (lego a Tizio il credito, la somma che mi deve)(43), non consente di poter parlare in tal caso di remissione,
perché saremmo innanzi ad un normale legato con effetti attributivi o traslativi di un credito (legato di credito) cui consegue, in
considerazione del particolare tipo di soggetto cui il credito viene
ceduto – ossia il debitore stesso – l’estinzione del rapporto obbligatorio per confusione(44);
consenso del debitore non è richiesto, poiché la remissione produce un
effetto a lui favorevole. In giurisprudenza si vedano: Cass., 9.6.1964, n.
1426, cit., secondo cui l’accettazione del debitore ha unicamente la funzione di rendere irrevocabile la remissione, non quella di perfezionarla;
Cass., 22.3.1967, n. 657, in Rep. Foro it., 1967, Obbligazioni e contratto, n.
353, c. 1670, secondo cui, per l’efficacia della remissione, non è necessaria
l’accettazione del debitore; Cass., 10.5.1967, n. 959, cit.
(32) Si ritiene che l’atto di rifiuto sia un negozio unilaterale recettizio
(cfr.: C.M. BIANCA, op. cit., 475; ALLARA, op. cit., 254; TILOCCA, op. ult. cit., 8687; BRECCIA, op. cit., 710; BENEDETTI, op. cit., 1309; FERRI, op. cit., 40 ss.) che
opererebbe quale condizione risolutiva (BRECCIA, op. cit., 710; C.M. BIANCA,
op. loc. cit.; BENEDETTI, op. cit., 1309 e cosı̀ la giurisprudenza, per la quale si
veda Cass., 5.8.1983, n. 5260, cit.) ovvero sospensiva (cosı̀ FERRI, op. cit., 41)
della remissione, pur sempre negozio unilaterale.
(33) Sostengono la natura contrattuale CARIOTA FERRARA, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, Napoli, 1949, 141 ss. e PELLEGRINI, op. cit.,
131 ss. In buona sostanza, l’accettazione da parte del debitore si sostanzierebbe in un’accettazione tacita corrispondente alla decorrenza di quel
congruo termine. E già prima FADDA, BENSA, Note a Windscheid B., Diritto
delle Pandette, cit., 399, secondo cui la remissione è un contratto formato
dalla dichiarazione del creditore e del debitore (espressa, tacita o per atti
concludenti). In giurisprudenza vedi anche Cass., 23.4.1969, n. 1324, in
Giur. it., 1970, I, 1, c. 950.
(34) Si veda PERLINGIERI, op. ult. cit., 193 ss.
(35) Cfr. in termini PERLINGIERI, op. ult. cit., 197 s.
(36) Cfr. in termini PERLINGIERI, op. ult. cit., 208; DONISI, op. cit., 152 ss.
(37) Questa posizione di mediazione e di apertura ha avuto qualche
seguito anche in giurisprudenza, tant’è che Cass., 14.3.1995, n. 2921, cit.
(ma, già prima, in termini generali, sulla rinuncia Cass., 5.2.1969, n. 387, in
Riv. dir. comm. e obbligazioni, 1970, II, 14) ha potuto sostenere che la
remissione possa essere costruita come negozio unilaterale o con una
differente struttura e, in base all’autonomia negoziale delle parti, presentarsi in concreto con lo schema del contratto.
(38) Il riferimento è ad LUMINOSO, op. cit., 8.
(39) Sul punto si veda anche DI MAURO, Legato di liberazione da un debito
e remissione mortis causa: appunti sull’art. 658 c.c., cit., passim.
(40) Per le opere in materia di diritto testamentario ad esempio si vedano
i silenzi di MASI, Dei legati, artt. 649-673, in Comm. Scialoja e Branca,
Galgano, Roma-Bologna, 1979, 78-84; GANGI, La successione testamentaria
nel vigente diritto italiano, II, 2ª ed., Milano, 1952, 84 s.; PEREGO, I legati, in
Tratt. Rescigno, 6, II, 2ª ed., Torino, 1997, 241 s.; TRABUCCHI, Legato, in
Noviss. Dig. It., IX, Torino, 1963, 614.
(41) Tra gli studi in materia di remissione, ad esempio, non se ne occupano STANZIONE, Remissione, cit., passim; STANZIONE, SCIANCALEPORE, Remissione e rinunzia, cit., passim; LUMINOSO, op. cit., 8, accenna solo al problema ma non prende posizione.
(42) Si vedano, in particolare: TILOCCA, Remissione, cit., 399, nt. 1, e, sulla
sua scia, CAPOZZI, Successioni e donazioni, II, Milano, 2009, 1181 ss., spec.
1183, nonché CARAMAZZA, Delle successioni, artt. 587-712, in Comm. De
Martino, 2ª ed., Novara, 1981, 392 s.
(43) Cosı̀, espressamente, ad es., GIANNATTASIO, Delle successioni. Successioni
testamentarie, in Comm. cod. civ., II, 2, Torino, 1964, 289, da cui è tratto l’esempio del testo nonché TILOCCA, op. loc. ult. cit., secondo cui il legatum
liberationis determina il trasferimento mortis causa del diritto di credito a
favore del debitore; CAPOZZI, op. loc. cit., secondo cui la seconda ipotesi (il
legato di liberazione dal debito) è pur sempre un legato di credito.
(44) Giunge a queste espresse conclusioni, in particolare, TILOCCA, op. loc.
ult. cit.
maggio 2010
378
Famiglia, Persone e Successioni 5
Merita, da ultimo, di essere segnalata, tra i due opposti schieramenti, quella posizione teorica che risulta anch’essa in un certo qual
modo mediatrice degli stessi, ancorché chiaramente rivelatrice del
disagio in cui sembra trovarsi il pensiero scientifico sul tema de qua.
Sul punto, si è messo in debita evidenza come nella remissione
non si potrebbe parlare, né di una bilateralità piena, né di una
unilateralità pura, con ciò ponendo in luce il vero nocciolo del
problema che da anni continua a creare quella sorta di (apparentemente insolubile) stallo teorico in cui versa la dottrina(38).
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_375_384.3d
na 379
23/4/
11:40
pagi-
LE RASSEGNE
2) il legato di liberazione da un debito rappresenta in ogni caso
una disposizione liberale a titolo particolare a favore del debitore, dove, viceversa, la remissione è atto che riguarda solo la sfera
del creditore e si ripercuote soltanto di riflesso in quella del debitore e, perciò, non include in sé alcuna finalità tipica di avvantaggiare il debitore(45);
3) sul piano della disciplina positiva, la remissione esige che la
dichiarazione liberatoria sia portata a conoscenza del debitore
che, non deve accettarla, ma può rinunziarvi, quindi è un negozio giuridico unilaterale recettizio che produce i suoi effetti nel
momento in cui la manifestazione di volontà del suo autore
giunge a conoscenza del destinatario, mentre nel legato di liberazione da un debito l’effetto è automaticamente prodotto al
momento della morte del testatore, in quanto il legato de qua
produce i suoi effetti con la pubblicazione del testamento, con
effetto a far data dall’apertura della successione, senza che, a tal
fine, occorra portarlo a conoscenza del legatario e, quindi, sarebbe un negozio giuridico unilaterale non recettizio(46).
A quest’ultimo orientamento si contrappone quello che sembra
contare maggiori adesioni in dottrina, avallato altresı̀ espressamente anche dalla Corte di Cassazione nel suo unico precedente
specifico edito sulla questione(47), e secondo il quale il legato di
liberazione da un debito e la remissione (testamentaria) sono
figure coincidenti, tal che il primo si identifica con la seconda
e viceversa.
A ben vedere, infatti, la maggioranza degli studiosi, sia del diritto
delle obbligazioni, sia del diritto testamentario giungono alla
medesima conclusione, sebbene da angolature diverse: i primi,
partendo dalla prospettiva dell’esame della forma della remissione, si sono limitati a segnalare che essa possa essere sia espressa(48) sia tacita(49), dove quella espressa può a sua volta essere
per atto tra vivi o per atto di ultima volontà e, in questo secondo
caso, prende il nome di legato di liberazione(50); i secondi, viceversa, affrontando la disamina del legato di liberazione da un
debito di cui all’art. 658 c.c., si sono limitati ad affermare tout
court che esso attui o realizzi una vera e propria remissione
mortis causa(51): e in quest’ultimo senso si esprime anche la
manualistica più diffusa(52) e la rara giurisprudenza(53).
In realtà, il limite più evidente che presentano le due ultime
opinioni ora richiamate, nonostante possano essere ritenute come quelle prevalenti o dominanti nel pensiero scientifico sul
tema de qua, anche e specialmente in virtù dell’espressa adesione fatta ad esse da parte della Corte di Cassazione(54), risiede nel
fatto di poggiare su affermazioni alquanto apodittiche, che danno l’impressione di essere motivate solo sulla base di tralaticie
assonanze effettuali tra le due figure, o sulla base di una mera
trasposizione, retaggio degli studi del diritto romano, dell’equiparazione degli effetti del legatum liberationis con quelli della
remissio. In altre parole, si pone in risalto solo l’identità degli
effetti che, per questa via – e solo per questa – condurrebbe,
poi, all’identificazione tra di loro delle due figure, ancorché
non ci si è premurati di verificare ulteriormente, invece, e in
chiave sistematica, attraverso un più completo raffronto tra le
due discipline, se, in concreto, altre affinità ovvero diversità, potessero rilevarsi sul piano strutturale e su quello applicativo, tali
da confermare o no in modo appropriato la proposta equiparazione.
Tant’è che, poi, è sembrato gioco facile alla dottrina avversa –
che, invece, ha affrontato tale disamina – credere di poter contraddire la proposta equiparazione.
(45) In termini TILOCCA, op. loc. ult. cit. e, sulla sua scia, CAPOZZI, op. loc.
cit., secondo il quale la remissione è normalmente, ma non necessariamente, una liberalità, in quanto, ad esempio, si potrebbe rimettere il debito anche solo per (proprie del creditore) ragioni fiscali.
(46) È questa la posizione di CARAMAZZA, op. cit., 392 s., il quale (ivi, 393),
nel momento in cui afferma quanto riportato nel testo, al contempo non
sembra credere a pieno al fatto che quanto sostenuto costituisca poi un
reale ostacolo di carattere giuridico all’assimilabilità delle due figure, poiché suggerisce che, se la scheda testamentaria che contiene il legatum
liberationis è stata portata regolarmente a conoscenza del legatario (si
faccia il caso di testamento olografo in forma di lettera spedita al legatario), il legato acquista il valore di una immediata remissione.
(47) Si tratta di Cass., 15.5.1997, n. 4287, in Giust. civ., 1997, I, 3097. E v.
anche Cass., 4.4.1985, n. 2306, in Appendice a DI MAURO, op. cit., 530 ss.,
che, en passant, sostiene che il legato di liberazione da un debito, cioè da
un debito del legatario verso il defunto regolato dall’art. 658 c.c., si risolve
in una remissione mortis causa.
(48) È chiaro che la remissione espressa non richieda formule sacramentali (cosı̀ Cass., 10.6.1994, n. 5646, in Giur. it., 1995, I, 1, 222, secondo cui la
remissione deve comunque contenere una inequivoca manifestazione di
volontà volta alla rinuncia della prestazione), né debba essere fatta necessariamente per iscritto, vigendo qui il principio della libertà delle forme
(cosı̀ Cass., 5.8.1983, n. 5260, cit., è un negozio non soggetto a particolari
requisiti di forma, nemmeno ad probationem; in dottrina C.M. BIANCA, op.
cit., 473; BRECCIA, op. cit., 712; GIACOBBE, GUIDA, op. cit., 785 s.), anche se, ai
soli fini probatori, a mio avviso, in un ottica tuzioristica, non sarebbe del
tutto inutile la forma scritta: quest’ultima, tuttavia, si rende necessaria
quando nel caso concreto si debba rimettere un credito relativo ad un
rapporto obbligatorio nascente da un contratto per il quale il codice preveda espressamente la forma scritta ad substantiam ex art. 1350 c.c.; di-
fatti, quanto meno in questo caso, la forma da adottare per la remissione
dovrebbe essere speculare a quella dell’atto sulla quale va ad incidere, in
ossequio ad un principio di simmetria formale (in senso analogo GIACOBBE,
GUIDA, op. cit., 785).
(49) Sull’ammissibilità di detta figura in giurisprudenza si vedano, ad
esempio: Cass., 4.3.1966, n. 647, in Mass. giur. it., 1966, c. 278; Cass.,
25.8.1969, n. 3022, ivi, 1969, c. 1325. La conferma, sul piano positivo,
deriverebbe dal fatto che proprio il legislatore si sia fatto carico di disciplinare in due specifiche norme, gli artt. 1237 e 1238 c.c., alcune ipotesi
(ma con elencazione non chiusa) in cui, per un verso, da un determinato
comportamento del creditore, come la restituzione volontaria del titolo
originale del credito ovvero la consegna volontaria della copia esecutiva
del titolo di credito, si fa operare la presunzione, rispettivamente iuris et de
iure ovvero iuris tantum, della volontà di rimettere il debito, per l’appunto
per facta concludentia (in giurisprudenza si vedano anche ex plurimis
Cass., 7.11.1969, n. 3633, ivi, 1969, c. 1443; Cass., 15.12.1986, n. 7503, in
Rep. Foro it., 1986, Obbligazione in genere, n. 16) mentre, viceversa, per
altro verso, si è stabilito che, invece, la rinunzia alle garanzie dell’obbligazione non faccia presumere di per sé la remissione del debito.
(50) Cosı̀ DI PRISCO, op. cit., 383; MATTEUCCI, op. cit., 479.
(51) Cosı̀ A. GIORDANO MONDELLO, Legato (dir. civ.), in Enc. dir., XXIII,
Milano, 1973, 764; G. AZZARITI, Le successioni e le donazioni. Libro secondo
del codice civile, Padova, 1982, 508; BRUNELLI e ZAPPULLI, Il libro delle successioni e donazioni, 2ª ed., Milano, 1951, 402.
(52) Cosı̀ MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, VI, 9ª ed.,
Milano, 1962, 517; TORRENTE, SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, 14ª
ed., Milano, 2004, 936; GAZZONI, Manuale di diritto privato, 10ª ed., Napoli,
2003, 501.
(53) Cosı̀ Cass., 15.5.1997, n. 4287, cit. e Cass., 4.4.1985, n. 2306, cit.
(54) Cosı̀ Cass., 15.5.1997, n. 4287, cit. e Cass., 4.4.1985, n. 2306, cit.
5. Segue: una diversa ricostruzione: la remissione
per testamento e la più ampia portata normativa contenuta
nell’art. 658 c.c.
Orbene, con ciò non si vuole minimamente aderire al primo degli
orientamenti, quello negativo, e, quindi, sostenere che il legato di
liberazione di debito non possa realizzare una ipotesi di remissione per testamento o, invertendo la prospettiva, che la remissione non possa essere effettuata per testamento.
Anzi, al contrario, pur aderendo all’opinione prevalente, riteniamo che la stessa vada tuttavia opportunamente integrata o, melius, maggiormente sviluppata, in quanto va messo in debita evidenza e chiarito sin da subito, che la remissione per testamento è
sı̀ ammissibile ed è un legato di liberazione da un debito, ma non
è il legato di liberazione da un debito: in altre parole, si vuole
sottolineare che ciò che non convince delle su riferite opinioni è
Famiglia, Persone e Successioni 5
379
maggio 2010
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_375_384.3d
na 380
23/4/
11:40
pagi-
LE RASSEGNE
proprio l’asserita ed esclusiva identificazione e/o equiparazione
tra remissione e legato di liberazione da un debito, ossia l’equazione liberazione da un debito=remissione testamentaria, in
quanto è ragionevole sostenere, in contrario, che il legato di liberazione da un debito non è solo, ma può essere anche, una
remissione per testamento, dove, viceversa la remissione pura
per testamento è un legato di liberazione da un debito(55).
La figura del legato di liberazione da un debito consiste, proprio
in virtù della generica previsione della locuzione legislativa liberazione da un debito di cui all’art. 658 c.c., in qualsiasi disposizione di ultima volontà a titolo particolare in virtù della quale
perviene al debitore legatario il vantaggio patrimoniale che deriva dall’esenzione dall’obbligo di soddisfare una preesistente obbligazione.
Né più, né meno, costituisce una categoria generale che ricomprende nel suo alveo svariate ipotesi con le quali si consegue
l’effetto della liberazione di un soggetto, il legatario, da un debito(56).
E, siccome la liberazione da un debito ex legato può presentarsi
in svariate forme, tra cui, appunto, anche quella della diretta
liberazione da parte del creditore del proprio debitore (rimetto
il debito, rinunzio al credito), ma non solo(57), allora, soltanto
quando il testatore proceda direttamente, con apposita disposizione testamentaria, alla remissione, sia espressa, sia per facta
concludentia(58), si potrà parlare di remissione per testamento
vera e propria(59).
E ciò, sia quando il testatore dichiari per testamento di rimettere
il debito al proprio debitore ovvero di rinunziare al proprio credito, sia quando, invece, restituisca, o rectius, faccia restituire,
alla sua morte, direttamente al debitore il titolo originale del
credito.
In altre parole, si vuole sottolineare che la vera e propria remissione per testamento, speculare a quella prevista dall’art. 1236 e
dall’art. 1237, 1º co., c.c., ricorre soltanto nell’ipotesi in cui vi sia
la diretta liberazione ad opera del testatore del proprio debitore
attraverso la dichiarazione di rimettergli il debito ovvero di rinunziare al proprio credito (remissione testamentaria espressa)(60), oppure a mezzo della restituzione del titolo originale
del credito (remissione testamentaria tacita o per facta concludentia): si tratterà, in entrambi i casi, di un legato di liberazione
da un debito ad efficacia diretta o immediata(61), ancorché nel
secondo caso possa intravedersi un legato obbligatorio(62).
D’altronde, la stessa Corte di Cassazione, chiamata a giudicare su
di una fattispecie concreta integrante proprio una mera (e vera)
remissione di un debito, ne ha affermato l’ammissibilità, e la
conseguente validità, riconducendola nell’alveo dell’art. 658
c.c., con ciò sconfessando in modo indiretto l’opinione avversa
riportata sub 1)(63).
E, difatti, sulla scorta di quanto si è fin qui detto, e cosı̀ impostato
il problema, possono, quindi, ritenersi superabili quelle obiezioni
sopra ricordate e sollevate, sebbene ciascuna su piani diversi, da
parte della dottrina che nega l’equiparazione tra il legato di liberazione da un debito e la remissione e che, per questa via, perviene a negare l’ammissibilità di una remissione per testamento.
Degli argomenti da questa addotti in contrario, i primi due, quelli
sub 1) e sub 2) si fondano in realtà, il primo su di un equivoco,
mentre il secondo su di una equiparazione che oramai da anni
viene considerata, in modo non più revocabile in dubbio, come
errata e per la quale non sembra qui nemmeno più necessario
spendervi altre parole, in quanto si tratterebbe di ripetere ulteriormente le osservazioni già svolte in altra sede sull’inutilità in
tema di legato, di qualsiasi riferimento alla necessità della sussistenza in esso del profilo della liberalità a fini della sua qualificazione giuridica in tal senso(64).
Invece, quanto al primo aspetto, si può osservare che esso si basa
su di un equivoco ricorrente in dottrina, che è quello di voler
identificare il legato di liberazione da un debito nella sola figura
del legato traslativo del diritto di credito al debitore (lego a Tizio
il credito, la somma che mi deve)(65), per cui, cosı̀ ragionando,
apparirebbe scontato affermare che non potrebbe parlarsi in tal
caso di una remissione(66), ma soltanto di una confusione conseguente al trasferimento del credito in capo ad un soggetto
particolarmente qualificato dal fatto di essere il debitore stesso(67).
L’equivoco nasce in realtà dal fatto che il legislatore ha regolato
in una stessa norma, sia il legato di credito, sia il legato di liberazione da un debito, dove non solo la medesima collocazione,
ma anche l’utilizzo in essa della congiunzione disgiuntiva o (il
legato di un credito o di liberazione da un debito), sembrerebbe
accreditare proprio la tesi che in entrambe le ipotesi saremmo di
(55) Cosı̀ DI MAURO, op. cit., 353 s.
(56) È pacifico, poi, che la liberazione possa riguardare un debito di
qualsiasi natura (dare, facere, non facere) ed avere ad oggetto solo una
parte del debito, ovvero, tutti i debiti, o, ancora, i soli interessi o parte di
essi o dall’eventuale penale, dalla solidarietà con altri debitori, dall’obbligo
di pagare ad una determinata scadenza o di adempiere in un’unica soluzione (sul punto cfr.: GANGI, op. cit., 84; MASI, op. cit., 81; CARAMAZZA, op. cit.,
393; PEREGO, op. cit., 242 s.; 687; BONILINI, op. cit., 325 s.).
(57) Il legato di remissione d’un debito o di liberazione può essere fatto
in più maniere, come quando si lega la liberazione in termini ovvero
quando si lega al debitore ciò che egli deve o quando si vieta al proprio
erede di esigere la cosa dovuta (BONILINI, op. cit., 327).
(58) Il legato di remissione d’un debito o di liberazione può farsi espressamente o tacitamente.
(59) Cosı̀ DI MAURO, op. cit., 354 s.
(60) Come si può notare, si sono equiparate le ipotesi in cui il testatore
dichiari di liberare o di rimettere il debito e quella di rinunziare al credito, e
ciò per una ragione di carattere pratico, perché crediamo che, nella realtà,
distinguere tra l’ipotesi di rinunzia al proprio diritto di credito e la remissione
– che dal punto di vista logico-grammaticale sarebbe fattibile (dichiaro di
rimettere, rimetto oppure rinunzio), e, dal punto di vista giuridico, come è
stato dimostrato, sarebbe plausibile, – risulta impresa ardua, anche perché,
dal comune sentire dei consociati, la fine distinzione giuridica prospettata
non è percepibile, anzi è più familiare agli stessi il termine di rinunzia che
quello di remissione e per cui, anche quando l’ operatore giuridico (ad es. il
notaio), volesse prospettare alle parti simile distinguo, sarebbe difficile renderlo comprensibile, specie se si tiene presente che la distinzione rileverebbe
solo in quella remota ipotesi della solidarietà attiva di cui all’art. 1301, 2º co.,
c.c., che, forse non a torto, è stata ritenuta artificiosa ed astratta (Sostiene
espressamente l’artificiosità ed astrattezza di questa ipotesi, come esemplare
della necessità della distinzione tra rinunzia e remissione, TILOCCA, Remissione, cit., 396), di tal guisa che, se si volesse accogliere tale distinzione, essa
rileverebbe dal punto di vista pratico, solo allorquando il testamento fosse
fatto per atto di notaio, rimanendone esclusi, per ovvi motivi ontologici, i
testamenti olografi e segreti.
(61) Si vedano sul punto: GANGI, op. cit., 126; GROSSO, Efficacia diretta e
efficacia obbligatoria del legato, in Riv. trim dir. e proc. civ., 1954, 12; A.
GIORDANO MONDELLO, op. cit., 764; MASI, op. cit., 82; BONILINI, op. cit., 328 s.;
C.M. BIANCA, Diritto civile, 2, La famiglia. Le successioni, 4ª ed., Milano,
2005, 802. Per le ipotesi di remissione attuata indirettamente dal testatore
a mezzo di un legato obbligatorio si veda infra oltre nel testo.
(62) Cosı̀ DI MAURO, op. cit., 355 s.
(63) Cosı̀ Cass., 15.5.1997, n. 4287, cit.
(64) Cosı̀ DI MAURO, op. cit., 273 ss.
(65) Cosı̀ espressamente, ad es., GIANNATTASIO, op. loc. cit., da cui è tratto
l’esempio del testo nonché: TILOCCA, op. loc. ult. cit., secondo cui il legatum
liberationis determina il trasferimento mortis causa del diritto di credito a
favore del debitore; CAPOZZI, op. loc. cit., secondo cui la seconda ipotesi (il
legato di liberazione dal debito) è pur sempre un legato di credito.
(66) Ma in senso contrario, senza piena coscienza della problematica,
GIANNATTASIO, op. loc. cit., il quale, nonostante la qualifica di legato traslativo per il legato di liberazione dal debito, lo definisce pur sempre remissione del debito.
(67) In tal senso, espressamente, TILOCCA, op. loc. cit.
maggio 2010
380
Famiglia, Persone e Successioni 5
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_375_384.3d
na 381
23/4/
11:40
pagi-
LE RASSEGNE
fronte ad un’ipotesi di legato traslativo del credito, con la precisazione che la peculiarità del secondo risiederebbe soltanto nel
fatto che il soggetto cui viene trasferito il credito è proprio lo
stesso debitore: e ciò spiegherebbe il perché della previsione da
parte del legislatore di una disciplina unitaria, cioè in un’unica
norma, delle due ipotesi(68).
Per non tacer del fatto che il 2º co. dell’art. 658 c.c., con il
prevedere a carico dell’erede solo l’obbligo di consegnare al
legatario i titoli del credito legato che si trovavano presso il
testatore, potrebbe stare ad indicare significativamente proprio
che il legislatore abbia voluto prendere in considerazione, in
entrambi i casi, solo quel tipo di legato con effetti immediatamente traslativi, diretti come appunto il legato di credito, in
quanto solo in tal senso potrebbe essere spiegata l’indicazione
del citato capoverso(69).
Quindi, in altre parole, il legislatore italiano, avrebbe disciplinato nell’art. 658 c.c. in entrambi i casi solo un legatum nominis, nel senso cioè di prevedere il legatum nominis puro e il
legatum nominis che realizza in via indiretta anche un legatum
liberationis.
E se questa fosse la sola e vera ipotesi di legato di liberazione dal
debito sarebbero allora corrette ed ineccepibili le conclusioni cui
pervengono quelle opinioni le quali sostengono che siffatta ipotesi niente avrebbe a che vedere con l’istituto della remissione,
per l’operatività in questo caso dell’istituto della confusione.
In realtà da una attenta lettura della norma in questione, non
sembra poter essere legittimata questa interpretazione restrittiva,
ma, anzi, deve ragionevolmente ritenersi, e in ciò confortati anche dall’autorevole pensiero espresso in tal senso della Suprema
Corte, che si tratta di due ben distinte fattispecie sebbene contenute in una stessa norma.
Difatti, premesso che già dalla diversa terminologia adoperata
dal legislatore per descrivere il legato di credito e il legato di
liberazione da un debito, dove il primo è qualificato per l’oggetto
(del legato), mentre il secondo lo è per l’effetto che (il legato) è
chiamato a produrre, può trarsi una prima confortante conferma
che trattasi necessariamente di due distinte figure giuridiche
autonome, va tuttavia ulteriormente osservato che l’utilizzo della
congiunzione disgiuntiva o, non sembra che possa essere inteso
come ricorso ad uno strumento utile per introdurre un secondo
termine che sia spiegazione o precisazione del primo, con valore,
quindi, esplicativo, bensı̀ sembrerebbe che debba essere correttamente inteso come strumento teso a disgiungere i due termini,
che, pertanto, si escludono a vicenda, proponendo, in definitiva,
un’alternativa tra gli stessi(70).
La disgiuntiva si riferisce alla proposizione semplice iniziale legato e non alla proposizione composta legato di un credito, di tal
guisa che il legislatore sembrerebbe aver voluto dire nell’incipit
della norma de qua nient’altro che il legato di un credito oppure,
o anche il legato di liberazione da un debito – o con altra formula
il legato di un credito o quello di liberazione da un debito –, cosı̀
tenendo distinte le due figure(71).
Se si pone, inoltre, a confronto l’attuale formulazione dell’art.
658, 1º, co., c.c. (il legato di un credito o di liberazione di un
debito ha effetto per la sola parte del credito o del debito che
sussiste al tempo della morte del testatore) con quella del corrispondente 1º co. dell’art. 844 del codice civile del 1865 (il legato
di un credito o di liberazione di un debito ha effetto per la sola
parte che sussiste al tempo della morte del testatore), se ne desume che, se la seconda poteva ingenerare il detto equivoco,
viceversa, la prima lo dissipa integralmente proprio con quell’aggiunta (... del credito o del debito ...) che rafforza ulteriormente la
distinzione tra le due figure(72); certo è che il legislatore attuale,
piuttosto che riportare tralaticiamente la formulazione della precedente norma e porre quell’aggiunta a specificazione della distinzione, avrebbe potuto, viceversa, compiere uno sforzo ulteriore riformulando quanto meno l’incipit della norma, ad esempio, nel seguente modo: Il legato di un credito e il legato di
liberazione da un debito hanno effetto ...(73).
Ma ancorché ciò non sia stato detto, né fatto, è certamente indubbio che, ciò nonostante, argomenti contrari a tale modo di
ragionare non si possano trarre da questa omissione, in quanto
non appare per nulla credibile, né giustificabile in alcun modo,
poter ritenere che il legislatore italiano non avesse come nota
quella classica distinzione della tradizione giusromanistica tra
il legatum nominis ed il legatum liberationis, e che addirittura,
invece, avrebbe fuso in un’unica norma due istituti giuridici storicamente da sempre distinti tra loro, conglobandoli in una unica
nuova figura, con ciò travisando, e andando contro la interpretazione classica tradizionale costante che da sempre aveva distinto e continua a distinguere le due figure, ponendole su due
piani diversi e che ritiene che il legatum liberationis in senso
proprio sia solo quello puro, facendo rientrare la figura del legatum nominis ad effetto liberatorio in quelle ipotesi improprie o
indirette di legatum liberationis(74).
Se, dunque, le figure richiamate dall’art. 658 c.c. sono ontologicamente diverse tra loro e non sono altro che uno il legatum
nominis e l’altro il legatum liberationis di antica memoria, resta
da spiegare per quale motivo il nostro legislatore, allora, le abbia
volute disciplinare in un’unica norma.
In realtà, il fatto che si ritrovino disciplinate in una stessa norma
due fattispecie diverse si spiega agevolmente rilevando che il
legislatore ha accomunato due ipotesi diverse tra loro solo in
considerazione dello stesso oggetto sul quale le stesse sembrano
destinate ad incidere, ossia un credito (e) del testatore(75).
Difatti, nella formulazione dell’art. 658 c.c. il legislatore sembra
aver tenuto presente solo – e non poteva essere altrimenti –
quella che era a suo avviso (ed è) l’ipotesi normale(76), ossia
quella dei crediti appartenenti al testatore, di tal guisa che è
sembrato allora opportuno disciplinare in una stessa norma
quelle che rappresentano entrambe manifestazioni negoziali,
sebbene diverse, della disposizione del proprio credito da parte
del testatore, potendosi disporre del proprio credito cedendolo
ovvero rinunziandovi, e regolamentando di esse, perché ad entrambe comune, una vicenda particolare, ossia l’incidenza sulle
stesse del decorso del tempo dalla data di confezione del testa-
(68) In termini CAPOZZI, op. loc. cit. e cfr., altresı̀ DI MAURO, op. cit., 357 s.
(69) Cosı̀ DI MAURO, op. cit., 358.
(70) Cosı̀ DI MAURO, op. cit., 358 s.
(71) Cosı̀ DI MAURO, op. cit., 359.
(72) L’art. 844 del codice civile del 1865 era la mera trasposizione
dell’art. 834 del Codice Albertino che recitava: il legato di un credito
o di liberazione di un debito non ha effetto, se non per la parte che se
ne trova sussistere al tempo della morte del testatore. E cosı̀ anche
l’art. 815 del codice estense. Da segnalare, per la sua peculiarità, è
anche il testo dell’art. 802 del Codice Parmense, che dedicava un apposito articolo alla sola figura del legato di liberazione da un debito e
secondo cui quando sia legata la liberazione da debiti deve solo intendersi di quelli esistenti al tempo del testamento, e non dei contratti
posteriormente.
(73) Cosı̀ DI MAURO, op. cit., 359 s.
(74) Cosı̀ DI MAURO, op. cit., 360.
(75) Cosı̀ DI MAURO, op. loc. cit.
(76) Lo rileva anche TRABUCCHI, op. cit., 614.
Famiglia, Persone e Successioni 5
381
maggio 2010
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_375_384.3d
na 382
23/4/
11:40
pagi-
LE RASSEGNE
mento fino alla apertura della successione, al fine di poter cosı̀
indicare quale sia l’esatta individuazione del quantum, e se del
caso, dell’an di detti legati, stabilendo, sul punto, che l’importo
del credito che si cede o che viene estinto è quello esistente alla
morte del testatore(77), di tal guisa che quelli sarebbero inefficaci
se già estinti, ovvero efficaci solo per il residuo se estinti parzialmente o, ancora, efficaci anche per il maggior valore di cui eventualmente si fossero incrementati(78).
Il che del resto risulta essere coerentemente in linea con la maggior parte delle altre norme in tema di legato che, ripetutamente
e a fini volta per volta diversi, si preoccupano di indicare nel
momento dell’apertura della successione il dies a quo per la produzione di tutta una serie di effetti ovvero per stabilire il quantum e/o l’an di un certo legato(79).
Infine, nemmeno altro valido argomento contrario potrebbe ricavarsi dall’art. 658, 2º co., c.c., la cui lettera, sebbene sembra
riferirsi unicamente al legato di credito, in realtà, viceversa, pare
ben adattarsi anche all’ipotesi di pura liberazione del debito non
conseguente cioè ad un legato traslativo(80): difatti, ad esempio,
una volta rimesso il debito che il testatore vantava verso il legatario, è normale che il legatario voglia ottenere indietro i titoli del
credito legato che si trovassero presso il testatore, cui è obbligato
l’erede(81).
Quindi, per quanto sin ora detto, la collocazione in una medesima norma delle due differenti ipotesi non sembra poter legittimare alcuna conclusione di diritto, nel senso di identificare il
legato di liberazione da un debito con il solo legato traslativo
del credito a favore del debitore.
Se allora le cose ragionevolmente appaiono spiegabili solo in tal
modo, sembra che possano venire a cadere le premesse su cui
poggia la principale tesi negatrice della remissione per testamento, nel senso cioè che se il legato di liberazione da un debito non
si identifica esclusivamente con il legato direttamente traslativo
del credito al debitore, il quale, quindi, viceversa, nient’altro sarebbe se non una mera sotto-specie (indiretta o impropria) del
primo, quest’ultimo, essendosi affrancato da quella indebita
equiparazione e qualificandosi principalmente per l’effetto (generico) che con esso è possibile conseguire (la liberazione da un
debito), rivela a pieno quella sua ampia portata – più volte qui
sottolineata –, che è talmente lata da poter ricomprendere sicuramente nel suo alveo quell’ipotesi di liberazione dal debito –
che d’altronde è quella che maggiormente gli si avvicina tra tutte
le altre – che è la remissione(82).
6. Segue: la disciplina della remissione testamentaria
Se a questo punto dell’indagine, può sicuramente ritenersi acquisito che, in linea teorica generale, non vi sono ostacoli a che
nella categoria del legato di liberazione da un debito possa farsi
rientrare anche la remissione per testamento, occorre scendere
sul piano delle concrete discipline positive, ponendo a confronto
quella dettata per la remissione inter vivos dagli artt. 1236 ss. c.c.,
con quella prevista per il legato di liberazione da un debito dall’art. 658 c.c. e, più in generale, per il legato, (o viceversa), al fine
di individuare le affinità, ma, non di meno, le singole peculiarità
dell’una rispetto all’altra.
Si può subito rilevare che in entrambe le fattispecie in esame ci
troviamo di fronte ad una dichiarazione di volontà negoziale
unilaterale proveniente dal creditore, cui consegue la liberazione
del debitore e la correlata contemporanea estinzione del relativo
rapporto obbligatorio, salvo il potere, in entrambi i casi, per il
debitore, di rinunziarvi: queste osservazioni potrebbero farci
concludere qui il discorso, e in senso positivo, apparendo de
plano le due figure identiche tra di loro, sia sul piano funzionale,
sia sul piano strutturale, di tal guisa che si potrebbe a ragione
dire che la remissione può essere per atto tra vivi o mortis causa
e, in questo secondo caso, sarebbe un legato di liberazione dal
debito(83).
Sennonché, per poter correttamente giungere alla superiore conclusione, occorre tenere in debito conto di due differenze sostanziali riscontrabili dall’esame delle norme dettate per i due istituti,
al fine di verificare se le stesse possano incidere o no sul processo
di qualificazione giuridica della fattispecie.
La prima è che nella remissione inter vivos la dichiarazione liberatoria del creditore estingue l’obbligazione quando è comunicata al debitore (art. 1236 c.c.), mentre, nella remissione per
testamento ex art. 658 c.c., trattandosi di un legato, l’effetto estintivo è automatico e si produce al momento dell’apertura della
successione ex art. 649 c.c., a prescindere dall’eventuale comunicazione al debitore legatario ai sensi dell’art. 623 c.c. (ed è
questa, in sostanza, l’obiezione indicata come sub 3) in precedenza)(84).
La seconda, strettamente collegata alla prima, è che nella remissione inter vivos il debitore può dichiarare entro un congruo termine di non volerne profittare (art. 1236 c.c.), mentre
nella remissione per testamento la facoltà di rinunzia soggiacerebbe al diverso termine certo che è quello prescrizionale di
dieci anni(85).
Se dovessimo ritenere elementi qualificanti la fattispecie remissoria tout court quelli che dell’art. 1236 c.c. abbiamo testè indicati, allora dovremmo necessariamente concludere per l’evidente
inconciliabilità della stessa con un legato di liberazione da un
debito, proprio in virtù delle rilevate diverse modalità operative
di tale ultima figura: finiremmo cosı̀ per ritenere assorbente e
prevalente la disciplina della prima su quella del secondo, per
cui la dichiarazione remissoria contenuta in un testamento andrebbe qualificata, non come disposizione testamentaria (legato
di liberazione da debito), bensı̀ come atto inter vivos con efficacia post mortem(86).
Ma cosı̀ ragionando, andremmo sicuramente contro la lettera
della norma e torneremmo al punto di partenza, nel senso cioè
che avremmo espulso un’altra volta, sebbene per vie diverse, la
dichiarazione remissoria per testamento dall’alveo dell’art. 658
(77) La norma, cosı̀ stabilendo, rende i due legati, delle disposizioni a
contenuto variabile ed eventuale, la cui precisa entità quantitativa sarà
determinata solo alla morte del testatore (cosı̀ CARAMAZZA, op. cit., 391).
(78) Si pensi alla rivalutazione monetaria ovvero alla maturazione di
interessi remunerativi di un capitale (cfr. DI MAURO, op. cit., 360 s.).
(79) Si vedano a tal proposito oltre il citato art. 658, 1º co., gli artt. 649, 2º
co., 651, 2º co., 654, 1º co., 656, 1º co., 667, 1º co., 669, 1º co., 670, 1º co., e
per implicito l’art. 657. Fa eccezione, invece, l’art. 653 che si pone in
contrasto con la segnalata tendenza.
(80) Cosı̀ anche A. GIORDANO MONDELLO, op. cit., 764.
(81) Rileva A. GIORDANO MONDELLO, op. loc. cit., che il fatto che in questo
caso il legislatore non abbia sostituito all’espressione erede quella più
comprensiva di onerato, come, invece, ha fatto in altre ipotesi, si spiegherebbe con lo scopo della norma di delimitare l’obbligo dell’onerato, per
modo che tale delimitazione appare tanto più evidente nell’ipotesi tipica
in cui l’obbligo predetto è ridotto alla minima espressione. Cosı̀ già prima
GROSSO, op. cit., 14.
(82) Cosı̀ DI MAURO, op. cit., 361 s.
(83) Cosı̀ DI MAURO, op. cit., 362 s.
(84) Cosı̀ DI MAURO, op. cit., 363 s.
(85) Cosı̀ DI MAURO, op. cit., 364.
(86) In questo senso sembrerebbe orientato il pensiero di BIGLIAZZI GERI,
BRECCIA, BUSNELLI, NATOLI, Diritto civile, 4, t. 2, Le successioni a causa di
morte, in Il sistema giuridico italiano, Torino, 1996, 174.
maggio 2010
382
Famiglia, Persone e Successioni 5
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_375_384.3d
na 383
23/4/
11:40
pagi-
LE RASSEGNE
c.c., ossia dalla categoria del legato di liberazione da un debito,
dove, viceversa, la stessa – come si è avuto già modo ripetutamente di dimostrare – sembra rappresentare, invece, proprio, se
non l’unica, la principale ipotesi di liberazione da un debito per
testamento, cui voleva riferirsi il legislatore(87).
Pertanto, non essendo revocabile in dubbio il contrario, ossia
che, ai sensi dell’art. 658 c.c., tra le ipotesi di legato di liberazione
da un debito sia da ricomprendere anche quella della remissione
(per testamento), bisognerà allora concludere nel senso che il
legislatore, avendo sicuramente tenuto ben presente le differenze
di disciplina tra la remissione inter vivos e quella mortis causa(88), abbia voluto affermare che, in caso di remissione testamentaria, la disciplina testamentaria sia assorbente e prevalente
su quella del corrispondente atto inter vivos(89), non ritenendo
evidentemente quei due elementi su ricordati come qualificanti
la fattispecie remissoria tout court – ma, tutt’al più, necessari
solo per quella per atto inter vivos – e quindi, anche a prescindere
dalla considerazione se possa ritenersi o no un valido succedaneo della comunicazione ex art. 1236 c.c., quella prevista in campo testamentario dall’art. 623 c.c.(90), data la naturale non recettizietà del negozio testamentario(91).
Quindi, in definitiva, se ai fini della qualificazione giuridica di un
certo atto quale remissione è necessario e sufficiente che si tratti
di una dichiarazione (manifestazione) di volontà unilaterale proveniente dal creditore di liberare un soggetto da un debito, di
rimetterglielo con il conseguente voluto effetto dell’estinzione
dell’obbligazione, è chiaro, poi, che, a seconda che detta dichiarazione sia effettuata per atto inter vivos ovvero per atto mortis
causa, non si può immaginare di pretendere che anche la disciplina di aspetti non qualificanti la fattispecie debba essere uguale
e, quindi, insensibile ad una differente forma: vi saranno necessariamente dei profili di disciplina differenti, nell’un caso o nell’altro, e legati però solo ad aspetti non qualificanti la fattispecie,
che necessariamente dovranno tenere in debito conto degli opportuni ed inevitabili adattamenti cui la particolare forma prescelta costringe, non sconvolgendo, tuttavia, i caratteri essenziali
e qualificanti della fattispecie(92).
D’altra parte, la peculiarità di una fattispecie rispetto all’altra,
cioè della remissione per testamento rispetto a quella inter vivos,
dovrà ben pur sussistere, altrimenti, se vi fosse totale coincidenza
anche di disciplina degli aspetti non qualificanti la fattispecie,
allora ricadremmo pure nel primo caso sempre in un atto inter
vivos, tuttavia, con efficacia post mortem.
Ma cosı̀ non è, e, pertanto, se, allora, strutturalmente e funzionalmente le due figure finiscono per identificarsi e cambia parte
della disciplina solo in considerazione della diversa forma utilizzata ossia a seconda che si tratti di atto inter vivos ovvero mortis
causa, può concludersi che in definitiva la remissione per testamento è una vera e propria disposizione testamentaria (e non un
atto inter vivos con efficacia post mortem) patrimoniale, che si
realizza attraverso un legato di liberazione da un debito e la
disciplina ad essa applicabile sarà data dal coacervo composto
dalle norme di cui agli artt. 1236 e ss. c.c. – per quanto compatibili come nel caso dell’art. 1239 c.c. –; dall’art. 658 c.c. e in
particolare sia dal 1º co. per cui la remissione avrà effetto per
la sola parte del debito che sussiste al tempo della morte del
testatore, sia dal 2º co. per cui l’erede (o l’onerato) sarà tenuto
a consegnare al legatario i titoli del credito rimesso che si trovano
presso il debitore; e, infine, naturalmente, dalle norme generali in
tema di legato, tra le quali assume qui particolare rilevanza quella sull’immediata operatività della disposizione liberatoria a far
data dall’apertura della successione ex art. 649 c.c. con la possibilità di rinunziare ad essa e nel termine (prescrizionale) di dieci
anni(93).
(87) Cosı̀ DI MAURO, op. loc. cit.
(88) Come, per quello che qui ci interessa, l’aspetto dell’ineliminabilità,
in quanto fenomeno immanente alla successione mortis causa, della produzione degli effetti a partire dal momento dell’apertura della successione,
e non da altro, nonché della conseguente naturale non recettizietà del
testamento.
(89) Cosı̀ anche C.M. BIANCA, Diritto civile, 4, L’obbligazione, cit., 462 nt. 3.
(90) Si vedano, in dottrina, per la non necessarietà, in tal caso, della
comunicazione al debitore: C.M. BIANCA, Diritto civile, 2, La famiglia. Le
successioni, cit., 802; BONILINI, op. cit., cit. 164. Mentre, sulla affermazione
che la disciplina della rinunzia al legato prevalga sulla regola della rinunzia
entro un congruo termine nella remissione integrale, cfr. C.M. BIANCA, Diritto civile, 4, L’obbligazione, cit., 462, nt. 3.
(91) Sul punto, diffusamente, BIGLIAZZI GERI, Delle successioni testamentarie, artt. 587-600, in Comm. Scialoja e Branca, Galgano, Libro secondo.
Delle successioni, Roma-Bologna, 1993, 63 ss. Cfr. altresı̀ DI MAURO, op.
cit., 364 s.
(92) Cosı̀ DI MAURO, op. cit., 365 s.
(93) Cosı̀ DI MAURO, op. cit., 366.
(94) Si tratta di Cass., 15.5.1997, n. 4287, cit.
(95) Difatti, si sono occupate della remissione testamentaria in riferimento alla figura del legato di liberazione dal debito, ammettendone entrambe la validità e, quindi, l’identificazione delle due figure, nel senso che
il legato di liberazione da un debito è una remissione mortis causa, anche
Trib. Roma, 11.3.1988 (inedita) e App. Roma, 26.8.1994 (anch’essa inedita),
che corrispondono alle sentenze relative ai gradi di giudizio precedenti e
propedeutici alla sentenza della Cassazione che qui si prende in considerazione. Si v. anche Cass., 4.4.1985, n. 2306, cit.
(96) Va precisato che, nell’esaminare alcune raccolte di giurisprudenza, nonché quanto riportato dallo stesso ufficio del Massimario della
Cassazione a piè della massima relativa alla sentenza Cass., 15.5.1997,
n. 4287, si è rilevato un erroneo richiamo, quale precedente relativo
all’art. 658 c.c., alla sentenza della Corte di Cassazione del 4.10.1968,
n. 3101, in Foro it., 1968, I, c. 1598. In realtà, sebbene la massima di
quella sentenza reciti che è valido ed efficace il legato a favore del
proprio debitore, ancorché il debito non sussista, ovvero sia stato estinto, e, quindi, sembri riferirsi alla figura di cui all’art. 658 c.c., la lettura,
viceversa, del testo della sentenza, consente di mettere in evidenza, e in
modo più che chiaro, l’errore del massimante dell’epoca (recte: È valido
ed efficace il legato a favore del proprio creditore ...) in quanto la controversia decisa dalla S.C. aveva ad oggetto la figura descritta al successivo art. 659 c.c., il c.d. legato di debito, ossia quel legato disposto dal de
cuius (debitore di una certa somma verso un terzo) in favore del proprio
creditore. Pertanto la citata sentenza n. 4287 del 1997 è l’unico precedente relativamente alle pronunce della Corte di Cassazione sull’art.
658 c.c.
7. Segue: la remissione per testamento al vaglio della
giurisprudenza di legittimità
A supporto della ragionevolezza delle affermazioni sin qui svolte
si può segnalare che, anche la giurisprudenza di legittimità, sembra aderire a questa impostazione, in quanto l’ammissibilità e la
validità della remissione (pura) per testamento (o remissione
testamentaria), ha trovato, come più volte qui ricordato, un’autorevole conferma in sede giurisprudenziale, proprio ad opera
della Corte di Cassazione in quella sentenza già richiamata(94),
la quale, costituendo il solo precedente giurisprudenziale edito(95) sull’argomento(96), merita di essere esaminata più da vicino proprio in virtù della sua unicità.
Per ben comprendere il ragionamento della Suprema Corte è
opportuno riepilogare, se pur brevemente, la fattispecie concreta
su cui era stata chiamato a pronunciarsi il giudice di legittimità:
Tizia, ricca possidente affida in vita l’amministrazione del proprio patrimonio mobiliare ed immobiliare al figlio Caio il quale,
nel corso della gestione a lui affidata, dispone del suddetto patrimonio anche in modo illegittimo, ossia appropriandosi di vari
cespiti.
Tizia muore lasciando una scheda testamentaria del seguente
Famiglia, Persone e Successioni 5
383
maggio 2010
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_375_384.3d
na 384
23/4/
11:40
pagi-
LE RASSEGNE
tenore letterale: «Io Tizia nelle piene facoltà mentali revoco ogni
altro testamento. Mio figlio Caio ha già preso più del dovuto,
lascio erede universale mia figlia Sempronia».
Ai fini della corretta qualificazione giuridica di detta disposizione
testamentaria, occorre premettere che, nel caso concreto, il rapporto obbligatorio sulla quale la stessa era destinata ad incidere,
era rappresentato, come riconosce la stessa Suprema Corte, da
un mandato senza rappresentanza conferito dalla madre al figlio,
avente ad oggetto la gestione del patrimonio, immobiliare e non,
di costei. In tal caso, le obbligazioni nascenti dall’esecuzione del
contratto di mandato a carico del figlio mandatario erano principalmente due: ai sensi dell’art. 1713, 1º co., c.c.: a) quella di
rendere al mandante il conto del suo operato (c.d. obbligo del
rendiconto) e, non meno importante della prima, b) quella di
rimettere al mandante tutto ciò che il mandatario aveva ricevuto
a causa del mandato(97).
Quindi, si era in presenza di un’obbligazione (un debito) di fare
(obbligo del rendiconto) e un’obbligazione (un debito) di dare o
consegnare (obbligo di rimettere quanto ricevuto) a carico del
mandatario cui corrispondevano i relativi diritti di credito vantati
dalla mandante nei suoi confronti.
La testatrice (mandante), nella regolamentazione dei propri interessi post mortem, con quella specifica disposizione testamentaria aveva voluto, in concreto, nonostante l’ambigua formulazione letterale, esonerare il mandatario dall’adempimento di
quelle obbligazioni contrattuali ex mandato a suo carico, in pratica liberarlo da detti debiti, rimettendoglieli attraverso un legatum liberationis (art. 658, 1º co., secondo inciso c.c.): difatti, si
legge nella citata sentenza che oggetto del legato di liberazione
dal debito consisteva nell’esonero del proprio debitore dalla prestazione dovuta (c.d. remissio mortis causa), e più specificamente
nell’esonero (remissio) dalla prestazione del rendiconto della gestione mobiliare ed immobiliare affidata a Caio e dalla restituzione degli immobili medesimi dei quali quello si era sine titulo
appropriato(98).
Per questa via, quindi, la Corte di Cassazione rende delle affermazioni importanti, speculari a quelle da noi indicate in precedenza, ossia, da un lato, che la remissione del debito è concepibile quale valido oggetto di una particolare disposizione testamentaria e, dall’altro, che detta figura vada qualificata giuridicamente come rientrante nella più ampia definizione di cui all’art.
658, 1º co., secondo inciso, c.c., quale legato di liberazione da un
debito(99) e, pertanto, è a tutti gli effetti una vera e propria disposizione testamentaria tipica, nominata, e non un atto inter
vivos con efficacia post mortem: e, quindi, che il legato di liberazione da un debito non si identifica con il legato traslativo del
credito al debitore, ma ha una sua spiccata autonomia rispetto al
legato di un credito e, infine, che il legato di remissione soggiace
alla disciplina del testamento quanto alla rinunziabilità da parte
del debitore.
Quanto si è fin qui detto riguarda, come da premessa, solo la
remissione direttamente operata in modo espresso dal testatore
relativamente ad un proprio credito nella scheda testamentaria,
che non esclude dal suo alveo anche, come accennato, la remissione diretta per facta concludentia o tacita, la quale ricorre nel
caso in cui il testatore disponga che venga restituito al proprio
debitore il titolo originale del credito, cui, poi, provvederà l’erede
ai sensi dell’art. 658, 2º co., c.c.: quindi, se ne può trarre la conclusione che non è vero che solo la remissione espressa possa
essere per atto tra vivi o per atto di ultima volontà, in quanto
anche quella tacita può essere effettuata per atto di ultima volontà o inter vivos(100).
In entrambi i casi di remissione testamentaria diretta, espressa o
tacita, si tratterà di un legato con efficacia liberatoria o estintiva
diretta, ancorché per l’ipotesi di remissione tacita sembrerebbe
configurarsi un’ipotesi di legato obbligatorio(101).
Ciò detto, tuttavia, nulla esclude che anche la remissione per
testamento di un credito vantato dal testatore possa essere effettuata in altro modo, non diretto, ossia allorquando il testatore
non proceda egli stesso direttamente a rimettere il proprio credito, bensı̀, nulla disponendo in ordine alla sorte del credito de
quo, si limiti ad imporre all’erede o al legatario che siano subentrati nella titolarità del citato credito del de cuius in virtù della
successione (testamentaria o, anche, solo legittima), l’obbligo di
provvedere alla remissione del debito al legatario(102).
Si tratterà, in tal caso, di un legittimo e valido legato obbligatorio di
attività negoziale con cui l’onerato è obbligato a procedere alla
conclusione del negozio remissorio: è chiaro che qui il legato di
remissione non avrà efficacia estintiva diretta ed immediata, ma
sarà dotato solo di efficacia obbligatoria, ossia creerà in capo al
legatario-debitore il diritto di credito ad ottenere dall’onerato quella
prestazione, cui quest’ultimo viene obbligato dal testatore(103). &
(97) Cfr. sul punto LUMINOSO, Mandato, commissione, spedizione, in Tratt.
Cicu e Messineo, XXXII, Milano, 1984, 346 ss.
(98) Cosı̀ Cass., 15.5.1997, n. 4287, cit.
(99) Si v. anche Cass., 4.4.1985, n. 2306, cit.
(100) Cosı̀ DI MAURO, op. cit., 369 s.
(101) Cosı̀ DI MAURO, op. cit., 370.
(102) Voglio che il debito di Caio venga a costui rimesso (ad es. da Tizio,
erede o legatario): v. DI MAURO, op. loc. cit.
(103) Cosı̀ DI MAURO, op. loc. cit. L’adempimento di detto obbligo, come
si è detto, potrà essere rafforzato dal testatore con la previsione di una
penale testamentaria o, in modo ancor più pregnante, attraverso la
previsione di un meccanismo condizionale, sia esso risolutivo ovvero
sospensivo, relativamente ad una o a più o a tutte le attribuzioni effettuate a favore dell’erede o del legatario onerato di tale obbligo (sul
punto v. amplius DI MAURO, Condizioni illecite e testamento, Napoli,
1995, 121 ss.).
maggio 2010
384
Famiglia, Persone e Successioni 5
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_385_387.3d
na 385
23/4/
11:39
pagi-
L’ O S S E RVAT O R I O D E L L E C O RT I S U P E R I O R I
L’osservatorio delle
Corti Superiori
Luigi A. Scarano
Magistrato
» Comunione legale
Cassazione civile, sezione I, 26 febbraio 2010, n. 4757
Pres. Vittoria – Est. Dogliotti – P.M. Golia
Famiglia – Matrimonio – Rapporti patrimoniali tra coniugi – Comunione legale – Scioglimento – Domanda giudiziale di scioglimento della comunione – Proponibilità – Condizioni – Separazione personale dei coniugi – Passaggio in giudicato della relativa
sentenza – Necessità – Esclusione – Conseguenze – Proponibilità
della domanda di scioglimento della comunione legale nelle more del giudizio di separazione – Sussistenza – Fondamento
Il passaggio in giudicato della sentenza di separazione giudiziale (o
l’omologazione di quella consensuale), che rappresenta il fatto costitutivo del diritto ad ottenere lo scioglimento della comunione
legale dei beni, non è condizione di procedibilità della domanda
giudiziale di scioglimento della comunione legale e di divisione dei
beni, ma condizione dell’azione. Conseguentemente, la domanda è
proponibile nelle more del giudizio di separazione personale, essendo sufficiente che la suddetta condizione sussista al momento della
pronuncia. (Massima ufficiale).
1.
Nelle more del procedimento di separazione personale, il sig. C.G.
chiedeva lo scioglimento della comunione legale intercorrente con
la moglie sig.ra B.Z.
In corso di causa interveniva il passaggio in giudicato della sentenza di separazione personale dei coniugi.
Con sentenza non definitiva del 2000 il Tribunale di Ravenna, rigettata l’eccezione di improcedibilità della domanda, dichiarava lo
scioglimento della comunione legale, rimettendo le parti aventi
all’istruttore per le operazioni di divisione.
Con successiva sentenza del 2001 il tribunale pronunziava la divisione dei beni mobili tra le parti, rimettendo ulteriormente la causa in istruttoria, per la vendita della casa familiare.
Il gravame interposto dalla B.Z., che ribadiva l’eccezione di improcedibilità della domanda, veniva quindi accolto dalla Corte d’Appello di Bologna, che dichiarava improponibile la domanda di
scioglimento della comunione.
Avverso la suddetta decisione proponeva quindi ricorso per cassazione il C.G., dolendosi in particolare della nullità della sentenza o
del procedimento, per essere stata ritenuta improponibile la domanda di scioglimento della comunione e di conseguente divisione dei beni, benché la sentenza di separazione personale fosse,
nelle more, passata in giudicato.
2.
La S.C. ha ritenuto fondata la doglianza.
Precisa anzitutto che la questione concerne la proponibilità della
domanda di scioglimento della comunione legale «ove, all’atto introduttivo del relativo giudizio, fosse ancora pendente la causa di
separazione personale, ma il passaggio in giudicato della relativa
sentenza sia intervenuto anteriormente alla decisione in primo
grado sulla domanda stessa».
Osserva che la Corte di legittimità ha già avuto modo di pronunziarsi al riguardo, seppur non molto frequentemente, e spesso esaminando la diversa fattispecie costituita dall’introduzione e pronunzia del giudizio di scioglimento della comunione prima del
passaggio in giudicato della sentenza di separazione personale
dei coniugi o dell’omologa di quella consensuale, in tali occasioni
orientandosi per l’improponibilità della domanda.
Avverte tuttavia l’esigenza di rimeditare la questione.
Pone in rilievo come il ritenere che il passaggio in giudicato della
sentenza di separazione, sicuro presupposto dello scioglimento
della comunione, debba precedere la domanda di divisione dei
relativi beni, significa evidentemente qualificare tale giudicato come presupposto processuale (o condizione di procedibilità dell’azione) anziché condizione dell’azione, «accogliendosi questa distinzione, che non trova preciso, esplicito riscontro nel codice di
rito, ma viene comunemente seguita da giurisprudenza e dottrina,
pressoché unanimi».
Sottolinea che i presupposti del processo attengono all’esistenza
stessa del processo, nonché alla sua validità e procedibilità, e devono sussistere prima della proposizione della domanda.
Se pertanto l’esistenza del processo richiede che la domanda sia
rivolta ad un Giudice, e debba evidentemente consistere in una
richiesta di tutela giurisdizionale, i profili di validità del processo
e di proponibilità della domanda attengono al potere-dovere del
giudice di pervenire ad una pronuncia di merito.
«Presupposti processuali», afferma la S.C., «sono dunque la giurisdizione, la competenza e la legittimazione processuale, il potere
del soggetto che propone la domanda nonché del soggetto nei cui
confronti la domanda è proposta di compiere gli atti processuali».
Le «condizioni dell’azione», spiega ulteriormente la Corte di legittimità, «sono i requisiti di fondatezza della domanda, necessari
affinché l’azione possa raggiungere la finalità concreta cui essa è
diretta (e cioè il Giudice possa eventualmente pronunciare nel
senso favorevole all’attore); la cui mancanza non esclude ab origine l’esistenza del processo, ma impedisce che questo si concluda
con una pronuncia favorevole all’attore stesso)», sicché è sufficiente che tali condizioni esistano al momento della pronunzia, e non
necessariamente a quello della domanda.
Tra le «condizioni dell’azione», osserva la S.C., trova sicuro riscontro normativo «l’interesse ad agire (art. 100 c.p.c.), volto al perseguimento della tutela giurisdizionale, a garanzia dell’interesse sostanziale per cui si propone la domanda: una situazione giuridica
soggettiva di vantaggio, il cui riconoscimento viene posto ad oggetto della pretesa fatta valere in giudizio». Interesse che «deve
essere concreto (collegato all’esistenza di un pregiudizio reale, e
non meramente potenziale, per il diritto azionato), ed attuale, nel
senso che dovrà esistere al momento della pronuncia».
Altra condizione dell’azione è costituita dalla «legittimazione ad
agire e a contraddire (art. 81 c.p.c.)», consistente «nella identità
tra la persona dell’attore e quella cui la legge conferisce nel caso
concreto il potere di agire per quel determinato fine cui tende la
domanda proposta, nonché l’identità della persona del convenuto
con quella nei cui confronti tale potere di agire è attribuito».
Famiglia, Persone e Successioni 5
385
maggio 2010
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_385_387.3d
na 386
23/4/
11:39
pagi-
L’ O S S E RVAT O R I O D E L L E C O RT I S U P E R I O R I
Ulteriore condizione dell’azione è la «esistenza del diritto», nonché
la «necessità che la fattispecie dedotta in giudizio si trovi oggettivamente a coincidere con una fattispecie prevista e tutelata da una
disposizione normativa».
Orbene, sottolinea la S.C., prevedendo l’art. 191 c.c. la separazione
personale (giudiziale o consensuale) tra le cause di scioglimento
della comunione legale, in giurisprudenza di legittimità si è costantemente ritenuto che tale scioglimento si perfeziona con il
passaggio in giudicato della sentenza di separazione giudiziale (o
l’omologa di quella consensuale).
A tale stregua, sottolinea la Corte di legittimità, si è invero individuato nel «passaggio in giudicato della sentenza di separazione
giudiziale» o nell’omologa della separazione consensuale «il momento in cui sorge l’interesse ad agire, concreto ed attuale, volto
scioglimento della comunione e alla divisione», che «può anche
riguardarsi come il fatto costitutivo del diritto ad ottenere tale
scioglimento e la conseguente divisione».
«Tali elementi», conclude la S.C., debbono invero propriamente
«qualificarsi come condizioni dell’azione», e «non già come presupposti processuali».
«Il passaggio in giudicato (o l’omologa), come elemento decisivo
della vicenda costitutiva del diritto allo scioglimento della comunione legale», comporta infatti «che tale vicenda debba ritenersi
compiutamente realizzata, con la conseguenza che l’eventuale carenza o incompletezza originaria diviene irrilevante, perché sostituita dalla realizzazione compiuta del fatto costitutivo del diritto
azionato, e non può precludere la pronuncia di merito: ciò che
sempre accade ove, nelle more del giudizio, si realizzi uno dei
requisiti, prima carente o inesistente, previsto dalla legge per l’accoglimento di una domanda giudiziale».
D’altro canto, osserva la Corte di legittimità, «la regola per cui la
sopravvenienza in corso di causa di un fatto costitutivo del diritto
rimuove ogni ostacolo alla decisione del merito della domanda, e il
più generale principio circa la necessità di esistenza delle condizioni di accoglimento della domanda al momento della decisione,
appaiono espressione dell’ancor più generale principio di economia processuale».
3.
Con la sentenza in commento, e nell’enuziare il principio di cui in
massima, la S.C. viene a mutare il proprio orientamento in tema di
proponibilità della domanda di declaratoria dello scioglimento
della comunione legale.
Contra, per l’affermazione che lo scioglimento della comunione
legale dei beni fra i coniugi si verifica ex nunc soltanto con il
passaggio in giudicato della sentenza di separazione, non spiegando effetti – al riguardo – il precedente provvedimento presidenziale
(provvisorio e funzionalmente limitato) con cui i coniugi siano
stati autorizzati ad interrompere la convivenza, con la conseguenza, fra l’altro: 1) che, se in pendenza del procedimento di separazione personale il diritto allo scioglimento della comunione legale
dei beni dei coniugi non è ancora sorto (per non essersi compiutamente realizzata la correlativa vicenda costitutiva), neppure –
evidentemente – esiste un interesse, attuale e concreto del coniuge
a reclamarne la tutela giudiziale; 2) che la declaratoria di scioglimento della comunione non possa essere richiesta antecedentemente alla formazione del giudicato sulla separazione dei coniugi,
e la domanda in tale senso eventualmente formulata prima di tale
data va dichiarata – come tale – improponibile, v. Cass., 23.6.1998,
n. 6234, in Foro it., 1999, I, 655 ss., con nota di Cipriani; in Corriere
giur., 1999, 1, 63 ss., con nota di MONTANARI, Dipendenza di cause
maggio 2010
386
Famiglia, Persone e Successioni 5
«per successione cronologica» e sospensione del procedimento ex art.
295 c.p.c., ove si è altresı̀ esclusa la possibilità di farsi ricorso al
provvedimento di sospensione del relativo procedimento, «in
quanto un provvedimento di tal fatta si porrebbe estraneo al paradigma normativo di cui all’art. 295 c.p.c., il quale rende ricollegabile l’istituto della sospensione solo ad un rapporto ‘‘sincronico’’
di interdipendenza logica tra due coevi giudizi, suscettibili di proseguire altrimenti in modo autonomo, e giammai ad un rapporto
‘‘diacronico’’ di succedaneità logico-giuridica tra due giudizi il secondo dei quali (quello – in tesi – pregiudicato), proprio perché
subordinato, nella sua promuovibilità, ad un determinato esito
dell’altro, non possa – per definizione – entrare con quello in contraddizione». Analogamente v. Cass., 6.10.2005, n. 19447.
Nel senso che lo scioglimento della comunione legale dei beni fra
coniugi si verifica, con effetto ex nunc, dal momento del passaggio
in giudicato della sentenza di separazione ovvero dell’omologazione degli accordi di separazione consensuale, non spiegando, per
converso, alcun effetto, al riguardo, il provvedimento presidenziale
di cui all’art. 708 del codice di rito (autorizzativo dell’interruzione
della convivenza tra i coniugi), attesone il contenuto (del tutto
limitato) e la funzione (meramente provvisoria), v. altresı̀ Cass.,
2.9.1998, n. 8707, in Vita notarile, 1998, 1605 ss.; Cass., 7.3.1995,
n. 2652; Cass., 17.12.1993, n. 12523, in Nuova giur. comm., 1994, I,
651 ss., con nota di REGINE, Acquisto effettuato da uno dei coniugi
con riserva di proprietà e decorrenza degli effetti della separazione
personale come causa di scioglimento della comunione, ove si è
sottolineato che la cessazione della convivenza dei coniugi, ancorché autorizzata con i provvedimenti provvisori adottati a norma
dell’art. 708, 3º co., c.p.c. non osta a che i beni successivamente
acquistati dai coniugi medesimi ricadano nella comunione legale,
ai sensi dell’art. 177, 1º co., lett. a), c.c.; Cass., 18.9.1998, n. 9325;
Cass., 11.7.1992, n. 8463, in Dir. famiglia, 1993, 83 ss.; Cass.,
29.1.1990, n. 560, in Dir. famiglia, 1990, 807 ss. e 1123 ss., con nota
di DALL’ONGARO, La separazione dei coniugi ed il momento nel quale
debba venir meno il regime della comunione legale dei beni; in Foro
it., 1990, I, 2238 ss.; in Arch. locazione, 1990, 729 ss.
Per l’esclusione della proponibilità domanda giudiziaria di divisione dei beni prima del passaggio in giudicato della pronuncia di
separazione personale di coniugi v. Cass., 25.3.2003, n. 4351.
In ordine alla precisazione per la quale la sentenza del giudice di
merito che, in relazione ad una domanda di scioglimento di una
comunione coniugale (e di conseguente divisione), ne sancisca
l’inammissibilità per mancato passaggio in giudicato della sentenza sulla separazione personale e, nel contempo, la rigetti nel merito, consta, in realtà, del tutto legittimamente, di due distinte
pronunce, poste, tra loro, in rapporto di alternatività condizionata,
poiché la prima contiene una statuizione pregiudiziale di inammissibilità, mentre la seconda si fonda sulla (implicita) condizione
negativa della ipotetica non correttezza giuridica della precedente
pronuncia pregiudiziale, v. Cass., 8.11.1997, n. 11031.
Per l’affermazione secondo cui ai fini dell’opponibilità ai terzi degli
effetti dello scioglimento della comunione derivante dalla separazione personale dei coniugi, con riferimento ai negozi di acquisto
di beni immobili (o mobili registrati) contenenti la dichiarazione
del coniuge acquirente del proprio status di separato, deve ritenersi necessaria la sola trascrizione della relativa nota nei registri immobiliari, e non anche l’annotazione del provvedimento di separazione a margine dell’atto di matrimonio (richiesto, invece, ex art.
193 c.c., con riferimento tassativo alle ipotesi di scioglimento della
comunione di cui al precedente art. 191), v. Cass., 28.11.1998, n.
12098, in Giust. civ., 1999, I, 2373 ss., con nota di M. FINOCCHIARO, La
pubblicità nel «nuovo» regime patrimoniale della famiglia. Un’altra
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_385_387.3d
na 387
23/4/
11:39
pagi-
L’ O S S E RVAT O R I O D E L L E C O RT I S U P E R I O R I
rivoluzione tradita; in Nuova giur. comm., 1999, I, 636 ss., con nota
di MOSCA, Lo scioglimento della comunione legale a seguito della
separazione personale dei coniugi e le ripercussioni dell’eventuale
riconciliazione sul loro regime patrimoniale; in Riv. notariato, 1999,
375 ss., con nota di GAMMONE, La vexata quaestio dell’annotazione
della separazione personale nel registro di Stato civile: la prima
sentenza di Cassazione; in Vita notarile, 1999, 202 ss.; in Foro it.,
1999, I, 1946 ss.
Si è in giurisprudenza di legittimità per altro verso osservato che la
separazione personale, quale causa di scioglimento della comunione, è rimossa dalla riconciliazione dei coniugi, da cui deriva il
ripristino del regime di comunione originariamente adottato. In
applicazione dei principi costituzionali di tutela della buona fede
dei contraenti e della concorrenza del traffico giuridico (artt. 2 e 41
Cost.), occorre peraltro distinguere tra effetti interni ed esterni del
ripristino della comunione legale e, conseguentemente, in mancanza di un regime di pubblicità della riconciliazione, la ricostituzione della comunione legale derivante dalla riconciliazione non
può essere opposta al terzo in buona fede che abbia acquistato a
titolo oneroso un immobile dal coniuge che risultava unico ed
esclusivo del medesimo, benché lo avesse acquistato successivamente alla riconciliazione: v., (con riferimento a fattispecie cui non
era ratione temporis applicabile l’art. 69 d.p.r. n. 396 del 2000, che
ha previsto l’annotazione a margine dell’atto di matrimonio delle
dichiarazioni con le quali i coniugi separati manifestano la loro
riconciliazione) Cass., 5.12.2003, n. 18619, in Famiglia e dir.,
2004, 253 ss., con nota di SESTA, Riconciliazione, ripristino automatico della comunione legale e opponibilità ai terzi di buona fede;
in Contr., 2005, 79 ss., con nota di VALIGNANI, Comunione legale e
riconciliazione; in Corriere giur., 2004, 471 ss., con nota di FINELLI,
Riconciliazione tra i coniugi, ripristino della comunione legale e
tutela dei terzi acquirenti; in Notariato, 2004, 364 ss., con nota di
TOSCANO, Per la prima volta la Cassazione sugli effetti esterni della
riconciliazione; in Riv. notariato, 2004, 996 ss., con nota di FAIETA,
Ricostituzione della comunione legale per effetto della riconciliazione e tutela dei terzi; in Dir. famiglia, 2004, 401 ss., con nota di A.
AMBROSIO, Riconciliazione tra coniugi separati e tutela patrimoniale
dei terzi; in Guida dir., 2004, f. 1, 49 ss., con nota di PISELLI, Solo una
nuova forma di pubblicità degli atti può garantire sicurezza nei
rapporti giuridici; in Giur. it., 2005, 40 ss., con nota di MARSEGLIA,
In difetto di segnalazione esterna, gli effetti della riconciliazione
rimangono perimetrati all’interno della coppia; in Vita notarile,
2004, 285 ss.
Nel senso che, costituendo ex art. 191 c.c. la separazione personale
dei coniugi causa di scioglimento della comunione dei beni, una
volta che la medesima risulta rimossa dalla riconciliazione si ripristina automaticamente tra le parti il regime di comunione originariamente adottato, con esclusione di quegli acquisti effettuati
durante il periodo della separazione, v. altresı̀ Cass., 12.11.1998,
n. 11418, in Corriere giur., 1999, 190 ss., con nota di SCHLESINGER,
Separazione dei coniugi ed effetti della riconciliazione sulla comunione legale; in Foro it., 1999, I, 1953 ss., con nota di NICOLUSSI,
Riconciliazione e comunione dei beni; in Guida dir., 1998, f. 46, 22
ss., con nota di M. FINOCCHIARO, La mancanza di qualsiasi forma di
pubblicità pregiudica le esigenze di tutela dei terzi; in Nuova giur.
comm., 1999. I, 636 ss., con nota di MOSCA, Lo scioglimento della
comunione legale a seguito della separazione personale dei coniugi
e le ripercussioni dell’eventuale riconciliazione sul loro regime patrimoniale; in Dir. famiglia, 1999, 1059 ss., con nota di PARENTE,
Scioglimento della comunione legale per separazione personale e
ricostituzione per riconciliazione; in Giust. civ., 1999, I, 1033 ss.,
con nota di RENGA, Effetti della riconciliazione dei coniugi sul regime patrimoniale; in Dir. famiglia, 1999, 582 ss., con nota di DI
SAPIO, Effetti della riconciliazione sul regime patrimoniale della famiglia: ... dalle staccionate alle bandierine, passando da cadmo ad
armonia; in Riv. notariato, 1999, 686 ss., con nota di FOCOSI, Comunione legale e riconciliazione successiva alla separazione personale dei coniugi.
&
Famiglia, Persone e Successioni 5
387
maggio 2010
u:/LINOTIPO_H/06-wki/Utet_Riviste_cod_Civ/Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_388_397.3d 26/4/2010 14:57 pagina 388
L’ O S S E RVAT O R I O D I M E R I T O
L’osservatorio
di merito
Antonio Costanzo
Magistrato
» Separazione personale dei coniugi
Tribunale Rimini, (ord.) 16 febbraio 2010
Pres. Est. Talia
Separazione personale dei coniugi – Ordinanza presidenziale –
Provvedimenti provvisori – Affidamento della figlia minore – Impossibilità temporanea di affidamento ai genitori – Applicazione
analogica dell’art. 6, 8º co., l. divorzio – Affidamento temporaneo
della minore al servizio sociale – Collocazione temporanea della
minore presso il padre – Compiti del servizio sociale
Si ravvisa, in base ad elementi obiettivi e concreti, un’impossibilità temporanea di affidamento ai genitori o ad uno di essi, il
giudice della separazione può disporre, in applicazione analogica
dell’art. 6, 8º co., l. n. 898/1970, l’affidamento temporaneo al
servizio sociale con collocazione del minore presso uno dei genitori. (Nella specie, con ordinanza ex artt. 708-709 c.p.c. ma
senza definire la fase presidenziale, il presidente ha autorizzato
i coniugi a vivere separati; ha affidato temporaneamente al
servizio sociale una bambina di un anno e mezzo, collocata
presso il padre; ha assegnato al servizio compiti di indirizzo,
vigilanza, valutazione e sostegno, in previsione di una futura
collocazione della minore presso la madre se non pregiudizievole
per la figlia).
1. Il problema
A quattro anni dall’entrata in vigore della l. n. 54/2006 i giudici di
merito continuano ad interrogarsi sull’ammissibilità di un affidamento eterofamiliare disposto dal giudice della separazione e a
cercare le soluzioni più adeguate a tutelare i minori quando neppure l’affidamento esclusivo è praticabile. L’ordinanza 16.2.2010
del presidente del Tribunale di Rimini affronta esattamente questi
temi.
Ad una prima lettura, il testo del novellato art. 155 c.c. era sembrato a taluni porre una alternativa secca: affidamento ad entrambi i genitori o ad uno solo di essi. In altri termini: non è più possibile l’affidamento al terzo.
Peraltro, come già rilevato (v., se vuoi, COSTANZO, La regolamentazione dei rapporti familiari, in Graziosi, a cura di, I processi di
separazione e di divorzio, Torino, 2008, 156, o i commenti a Trib.
min. Milano, decr., 6.10.2006, in Fam. pers. succ., 2007, 82; Trib.
Bologna, 1.10.2007, n. 2378, in Fam. pers. succ., 2008, 849, confermata da App. Bologna, 16.5.2008, n. 757, ibidem, 2008, 943; v.
inoltre ARCERI, L’affidamento condiviso, 2007, Milano, 2007, 37),
in assenza di elementi contrari l’ampia previsione contenuta
nell’art. 155, 2º co., c.c. («adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole») e la centralità dell’interesse del minore consentono di superare l’ostacolo rappresentato dalla mancata riproposizione della formula contenuta nel previgente art. 155, 6º co.,
maggio 2010
388
Famiglia, Persone e Successioni 5
c.c. (che cosı̀ recitava: «In ogni caso il giudice può per gravi
motivi ordinare che la prole sia collocata presso una terza persona o, nella impossibilità, in un istituto di educazione») e di
ritenere non implicitamente abrogato dalla l. n. 54/2006, ed anzi
compatibile col complesso di norme in vigore dal 16.3.2006,
l’art. 6, 8º co., l. divorzio («In caso di temporanea impossibilità
di affidare il minore ad uno dei genitori, il tribunale procede
all’affidamento familiare di cui all’articolo 2 della legge
4.5.1983, n. 184»; l’8º co. era richiamato dal 10º co. dello stesso
art. 6, l. divorzio in tema di «attuazione dei provvedimenti relativi all’affidamento»). Secondo questa interpretazione, che ha
trovato vari riscontri nella giurisprudenza di merito (oltre alle
decisioni già citate, v. Trib. Reggio Emilia, 26.9.2008, n. 1468,
in www.giuraemilia.it), il giudice della separazione (o del divorzio, art. 4, 2º co., l. n. 54/2006) può disporre l’affidamento del
minore ad un terzo, di regola un ente pubblico, o ad altri soggetti della cerchia parentale (ad es., i nonni: cosı̀ Trib. Reggio
Emilia, (ord.) 24.8.2009, in Fam. pers. succ., 2010, 154; cfr. già
Cass., 7.2.1995, n. 1401, in Giur. it., 1996, I, 1, 538).
Deve però sempre ricordarsi che affidamento, nel senso recepito
dalla l. n. 54/2006, e collocazione (v. il previgente art. 155, 6º co.,
c.c., sopra richiamato) del minore si pongono su piani diversi:
dunque, il minore può essere affidato ad un terzo (di regola, il
servizio sociale territorialmente competente) ma rimanere ad
abitare presso uno dei genitori (come nel caso regolato dal provvedimento qui esaminato); o, viceversa, essere affidato ad entrambi i genitori ed avere la abituale residenza presso altri soggetti (ad es., i nonni, come nel caso di divorzio su domanda
congiunta deciso da Trib. Bologna, 23.11.2006, n. 7995, in
www.giuraemilia.it); o, ancora, essere collocato presso i terzi
affidatari (come nel caso regolato, in via provvisoria e con ordinanza del giudice istruttore, da Trib. Reggio Emilia, ord.
24.8.2009, in Fam. pers. succ., 2010, 154, che delinea una singolare ipotesi di affidamento alla coppia di nonni paterni, investiti
del ruolo di coaffidatari dei nipoti).
I due profili – da un lato, quello dell’individuazione di un nuovo
ambiente (etero)familiare o dell’inserimento del minore in una
comunità di tipo familiare o in un istituto di assistenza e, dall’altro,
quello dell’esercizio della potestà sul minore – sono tenuti distinti
dall’art. 2, l. n. 184/1983 (cui fa rinvio l’art. 6, 8º co., l. divorzio: v.
anche l’ordinanza presidenziale qui in esame) e dalle disposizioni
immediatamente successive (artt. 3-5, l. n. 184/1983).
Resta dunque da chiarire cosa significhi affidare ad un terzo il figlio
di una coppia separata o divorziata.
In alcuni casi, il giudice, applicando il novellato art. 155 c.c., ha
espressamente attribuito al terzo (in tutto o in alcuni ambiti, o
sotto determinate condizioni: ad es., la previa consultazione dei
genitori) l’esercizio della potestà sul minore ad esso affidato (cfr.,
in vario senso, i seguenti provvedimenti, tutti già citati: Trib. min.
Milano, decr., 6.10.2006; Trib. Bologna, 1.10.2007, n. 2378, confermata da App. Bologna, 16.5.2008, n. 757; Trib. Reggio Emilia, ord.,
24.8.2009; v. inoltre Trib. Genova, 17.4.2007, in www.famigliaegiustizia.it).
L’ordinanza in esame, invece, non prende espressa posizione sul
punto ma fa leva, da un lato, sulla temporaneità dell’affidamento
al servizio sociale (cui attribuisce «compiti ... di indicazione delle
linee di indirizzo e di vigilanza sempre che la regolamentazione
concreta delle relazioni non realizzi una radicale esclusione di en-
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_388_397.3d
na 389
23/4/
11:50
pagi-
L’ O S S E RVAT O R I O D I M E R I T O
trambi i genitori»), dall’altro, sulla necessità di non estromettere o
escludere (verosimilmente, dalle decisioni di maggiore importanza; o forse dagli incontri con la figlia?) i genitori. La pendenza del
giudizio di separazione, e dunque la possibilità di un immediato
intervento (anche ex officio) di un giudice pronto ad assumere le
decisioni di maggiore importanza nell’interesse del minore, rendono nel caso di specie – ed in fatto – più agevole la soluzione dei
problemi che altrimenti si porrebbero se l’affidamento al servizio
sociale fosse disposto in sentenza ma non fosse chiaro a chi spetta
l’esercizio della potestà.
Ad ogni modo, non bisogna dimenticare che qui la situazione di
difficoltà temporanea riguarda una «famiglia d’origine» (cfr. l’art. 4,
l. 4.5.1983, n. 184) per definizione non più coesa, proprio perché la
coppia coniugale è entrata in crisi ed è giunta alla separazione o si
avvia al divorzio.
La decisione in esame riveste particolare interesse:
a) sul piano processuale:
a’) considerata l’estrema delicatezza del caso, il giudicante, all’esito della seconda udienza, adotta provvedimenti provvisori (v.
l’espresso richiamo anche all’art. 709 c.p.c.) relativi ai rapporti
personali ed economici (questi ultimi, per il vero, sono subordinati ad un mutamento radicale della collocazione della minore e
dunque non immediatamente efficaci), ma non chiude la fase
regolata dall’art. 708 c.p.c. né assegna i termini per atti integrativi e fissa a breve una nuova udienza, sempre per la comparizione davanti al presidente. Questa soluzione riflette una prassi
ricorrente soprattutto nei casi più problematici e mira a consentire un approfondimento istruttorio (anche con acquisizione di
informazioni o ascolto del minore) o una messa a punto di
parziali intese tra le parti o l’avvio di un percorso di mediazione
(cfr. l’art. 155 sexies, 2º co., c.c.), ma più spesso conduce alla sola
pronuncia dell’autorizzazione dei coniugi a vivere separati (rilevante, ad es., ai fini del computo del triennio per la domanda
divorzile); qui invece, in presenza di una situazione complicata e
conflittuale, il presidente emette statuizioni provvisorie sı̀, ma
assai incisive, destinate ad essere riesaminate dopo un trimestre
di prova. Nel caso di specie, la relativa brevità del rinvio e l’atteggiamento assunto dalle parti in udienza sdrammatizzano il
problema della reclamabilità o meno di un simile provvedimento interlocutorio: è demandata alla sensibilità e al prudente apprezzamento del giudice, attento a valutare la concreta realtà dei
rapporti e la condotta (ma anche il senso di responsabilità) delle
parti, stabilire se seguire questa via oppure definire immediatamente la fase presidenziale, dando (con ordinanza sicuramente
reclamabile in appello) gli opportuni provvedimenti nell’interesse della prole e dei coniugi e magari fissando a breve la prima
udienza davanti al giudice istruttore (se del caso, anche prima
dello scadere dei termini per il deposito di atti integrativi) per
una ravvicinata verifica del funzionamento delle statuizioni
provvisorie (questa seconda soluzione sarà verosimilmente preferita quando – come talora accade nei tribunali più grandi – le
regole tabellari operanti presso l’ufficio giudiziario stabiliscano
la coincidenza tra magistrato che svolge le funzioni presidenziali
e quello nominato quale giudice istruttore);
a’’) il giudice si interroga circa la competenza del tribunale ordinario ad emettere provvedimenti di affidamento al terzo;
b) sul piano sostanziale:
b’) l’ordinanza accoglie una lettura ampia delle norme attributive
dei poteri del giudice della separazione (lettura di cui la prevalente
giurisprudenza di merito non aveva mai dubitato), richiamando in
particolare Cass., 10.10.2008, n. 24907, la quale, pur senza fare
menzione espressa della l. n. 54/2006 e dunque con riferimento
al precedente quadro normativo, ha respinto «una concezione angusta e formalistica non solo del più generale riparto di competenze fra Tribunale ordinario (quale giudice della separazione o del
divorzio), e Tribunale per i minorenni, ma degli stessi confini dei
provvedimenti in concreto assumibili – in sede di separazione o di
divorzio – in materia di affidamento dei figli minori, dal Tribunale
ordinario»;
b’’) non è frequente la collocazione di un bambino cosı̀ piccolo (un
anno e mezzo) presso il padre;
b’’’) il giudice afferma la possibilità di un affidamento (temporaneo) al terzo anche nel corso di una separazione e giunge a
tale risultato in forza dell’applicazione analogica dell’art. 6, 8º
co., l. divorzio (non viene fatto espresso richiamo alla lata formula dell’adozione di ogni opportuno provvedimento nell’interesse del minore, desumibile dall’art. 155, 2º co., c.c.). L’ordinanza in esame ritorna più volte sul concetto di temporaneità della
situazione che esclude l’affidamento anche ad uno solo dei genitori (cfr. gli artt. 2-5, l. 4.5.1983, n. 184) e dunque dell’affidamento al terzo (di «ruolo del tutto contingente» assegnato al
servizio sociale del comune dalla Corte d’Appello di Roma parla
Cass., 10.10.2008, n. 24907, cit.). Peraltro, tutti i provvedimenti
relativi ai minori sono dati rebus sic stantibus. L’analisi della
motivazione e del dispositivo dell’ordinanza in commento (v.
le prescrizioni alle parti e al servizio sociale e la previsione sub
condicione di un contributo a carico del padre, stabilito oltretutto ex officio) fanno allora pensare ad un provvedimento ponte in
attesa di un già programmato cambio della collocazione (dal
padre alla madre: si consideri anche l’età della minore) e del
regime di affidamento: è questo un caso in cui all’affidamento
condiviso può arrivarsi solo alla fine di un percorso, al quale il
giudice ha chiamato entrambi i genitori, col sostegno del servizio sociale. Significativo il passaggio in cui, illustrata la particolare situazione di fatto, il giudice osserva che nella specie «l’affidamento condiviso si pone quale mero obiettivo che si ritiene
raggiungibile, laddove l’affidamento della minore in via esclusiva
alla madre, oltre a non offrire garanzie adeguate per le ragioni
sopra esposte, preluderebbe di fatto a una pressoché certa, e allo
stato non giustificata, esclusione del B dalla relazione genitoriale
con la figlia; l’affidamento paterno porrebbe verosimilmente
problemi sul piano relazionale e di gestione della quotidianità».
Ecco allora che il giudice, applicato analogicamente – stante
l’identità di ratio – l’art. 6, 8º co., l. divorzio, conclude per la
soluzione «dell’affidamento temporaneo della minore al Servizio
Sociale perché la tenga collocata inizialmente presso il padre,
quindi, una volta che la madre abbia intrapreso un percorso di
valutazione neuro-psichiatrica presso una struttura pubblica e vi
siano garanzie di tipo medico in ordine alla mancanza di situazioni di potenziale pregiudizio per la prole, presso la madre con
disciplina, in entrambi i casi, della relazione con il genitore non
‘‘collocatario’’ e attivazione di un percorso di valutazione delle
capacità genitoriali di entrambi e di sostegno alla bi-genitorialità, con facoltà, ove necessario, di sospensione dei rapporti con i
nonni».
2. Il caso concreto
La vicenda è abbastanza complicata.
Le parti A e B, da poco coniugate e residenti in provincia di Rimini,
sono genitori di C, nata nell’estate del 2008.
Entrambi i coniugi hanno avuto figli da una precedente unione.
La signora A, che in un recente passato, dopo la nascita di C, aveva
tentato il suicidio, è madre di altre due bambine. La più grandicelFamiglia, Persone e Successioni 5
389
maggio 2010
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_388_397.3d
na 390
23/4/
11:50
pagi-
L’ O S S E RVAT O R I O D I M E R I T O
la, E, vive nel Lazio col padre F, mentre D, la seconda figlia di A e F,
nata nel 2007 poco più di un anno prima di C, vive con quest’ultima in provincia di Rimini insieme alla madre e al marito di lei.
Il signor B, con trascorsi di tossicodipendenza, ha un figlio, G, nato
nell’autunno del 2002. Con decreto 10.4.2007 ed a modifica di un
suo precedente decreto provvisorio, il Tribunale per i minorenni di
Brescia aveva accertato l’adeguatezza genitoriale di B nei confronti
del primo figlio G.
La convivenza tra i coniugi si interrompe bruscamente il 9.12.2009,
quando A lascia la casa familiare alla volta della Toscana, portando
con sé le figlie D, che ha due anni e mezzo, e C, quest’ultima di
circa sedici mesi. L’11.1.2010 la signora A presenterà il ricorso per
separazione, ma già nelle settimane precedenti era esploso il conflitto con accuse reciproche e prove di forza: ottenuta temporaneamente la consegna della minore in previsione di una visita medica,
B aveva infatti trattenuto C presso di sé, nella casa familiare. A
questo punto A chiede al presidente del tribunale di essere autorizzata a portare con sé la minore in Toscana, dove vivono i suoi
genitori. Dal canto suo, B lamenta l’inadeguatezza genitoriale della
moglie e le interferenze della suocera; chiede di non essere escluso
dalla vita della figlia; propone una soluzione consensuale, con assegnazione della casa familiare alla moglie e possibilità per lui di
mantenere una relazione frequente con la figlia senza ostacoli da
parte della suocera. La signora A risponde movendo pesanti accuse
al marito.
La prima udienza si svolge il 1.2.2010.
Alla seconda udienza dell’8.2.2010 il presidente richiama entrambe
le parti alla loro responsabilità di genitori. I coniugi si dichiarano
disponibili, nell’interesse della figlia, a seguire un percorso di sostegno alla genitorialità e se del caso a sottoporsi ad una valutazione anche di tipo neuro-psichiatrico; ad ogni modo A rifiuta,
adducendo esigenze di sicurezza personale, la proposta di assegnazione della casa familiare.
In via temporanea il presidente affida la minore al servizio sociale,
mantenendone la collocazione presso il padre, e fissa una nuova
udienza della fase presidenziale.
3. La decisione
3.1.
La prima parte dell’ordinanza da conto dello svolgimento della
fase presidenziale (due le udienze sino a quel momento tenute),
dei fatti quali prospettati dalle parti, della sommaria attività di
istruzione compiuta:
«Il Presidente
sciogliendo la riserva assunta all’esito dell’udienza presidenziale
dell’8.2.2010;
sentiti i coniugi A e B, ed i rispettivi difensori alle udienze
dell’1.2.2010 e dell’8.2.2010;
dato atto dell’esito negativo del tentativo di conciliazione e accertata la impossibilità, allo stato, della prosecuzione della convivenza
coniugale;
Premesso in fatto
1. I coniugi vivono separati di fatto dal 9.12.2009, allorché la A,
comunicando tramite missiva del proprio legale il deposito imminente della richiesta di separazione, si allontanava dalla casa coniugale sita in S. (località in provincia di Rimini, n.d.r.), portando
con sé le figlie C, nata dall’unione coniugale il 18.8.2008 e D (n.
6.6.2007), nata (unitamente a E collocata in V. [una località nel
Lazio, n.d.r.] presso il padre) da una precedente unione di fatto
con F, e si trasferiva in A. [una località in Toscana, n.d.r.] presso
l’abitazione dei genitori.
maggio 2010
390
Famiglia, Persone e Successioni 5
2. A seguito di tale allontanamento, il B, ottenuta in consegna, il
16.2.2009 in A., C per una medicazione da effettuarsi il giorno
successivo in Rimini, ne ometteva la prevista riconsegna alla madre (recandosi durante le vacanze natalizie in Brescia presso il
proprio patrigno, con regolare rientro, al termine delle festività,
unitamente alla figlia minore presso la casa coniugale in S.).
3. Seguivano denunce e querele reciprocamente proposte ai Carabinieri di A. e di S., con immediata attivazione da parte della A,
ancor prima del deposito del ricorso per separazione giudiziale
avvenuto solo in data 11.1.2010, della richiesta di cambio di residenza in A. per sé e per le due figlie minori.
4. I coniugi comparivano dinanzi a questo Presidente alle udienze
dei giorni 1 e 8.2.2010. In tale periodo, immutata la situazione di
fatto, la A faceva visita alla figlia, accompagnata dal proprio padre,
nel pomeriggio dell’1.2.2010, presenti il B e la ragazza incaricata
dal predetto nelle ore di sua assenza da casa per ragioni di lavoro,
in cambio di vitto e alloggio, della cura e assistenza della minore.
5. Con provvedimento del 13.2.2010 venivano disposti, ed esitati in
pari data tramite il Comandante della stazione dei Carabinieri di
S., accertamenti in via di urgenza a riscontro di alcune affermazioni rese dalle parti in udienza.
6. Il B, a giustificazione della mancata riconsegna della minore alla
madre, allegava da un lato esigenze di tutela della figlia a fronte di
una ritenuta grave inadeguatezza genitoriale della A (che in un
recente passato aveva tentato il suicidio vergando una lettera autografa, depositata in atti in copia e non disconosciuta), dall’altro il
fermo convincimento che, anche per le condotte gravemente
espulsive della suocera [...], avrebbe definitivamente perso ogni
rapporto con C.
a. Evidenziava il B l’incapacità della A, in presenza e sotto l’influenza della propria madre, di esercitare il ruolo materno di cura e
protezione delle figlie, lamentando, da parte soprattutto della suocera, comportamenti sistematici di esclusione di esso B dalla relazione affettiva con le minori per il tramite di modalità improprie e
pregiudizievoli per le minori stesse, come risultava dall’episodio da
lui denunziato, la sera stessa del 16.12.2009, ai Carabinieri di S.
(doc. 3 fasc. YY).
b. In particolare il B lamentava che, in tale circostanza, la suocera
era intervenuta bloccando in malo modo D (la seconda figlia di A,
n.d.r.) che, vissuta con lui e con la A fino a una settimana prima, gli
correva incontro per salutarlo, senza che la A né intervenisse né si
curasse di consolare la figlia chiusa piangente in camera.
c. Riferiva che il suo stipendio, come autista della (...), era di euro
800,00 al mese e che già aveva chiesto la possibilità di lavoro
straordinario, con esito negativo stante la crisi di settore. L’ammontare dello stipendio quale sopra indicato, a fronte della maggior somma di euro 1.700,00 mensili indicata dalla ricorrente (rif.
pag. 2 del ricorso), trova riscontro in quanto indicato dalla medesima A all’assistente sociale dello sportello del Comune di S. in
occasione della richiesta di aiuto del settembre 2009 (rif. relazione
Servizio Sociale del 29.1.2010, pag. 2).
d. Rappresentava inoltre di essersi organizzato per la gestione di C
offrendo a una ragazza, incontrata casualmente in Comune alla
ricerca di un lavoro, mansioni di cura della figlia in cambio di vitto
e alloggio presso la sua abitazione. Tale circostanza, come pure la
buona condotta morale della giovane (italiana e non straniera,
come prospettato dalla A all’udienza dell’8.2.2010 dopo che nel
pomeriggio dell’1.2.2010 aveva visto la figlia, presente anche tale
giovane), è confermata dagli accertamenti eseguiti dai Carabinieri
di S. il 13.2.2010.
e. Insisteva il B affinché non fossero adottati provvedimenti che lo
avrebbero inevitabilmente escluso dalla vita della propria figlia,
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_388_397.3d
na 391
23/4/
11:50
pagi-
L’ O S S E RVAT O R I O D I M E R I T O
ribadendo la proposta già formulata nel corso delle trattative per
una separazione consensuale, di assegnazione alla moglie della
casa coniugale con contributo mensile da parte sua per il pagamento del canone di locazione di euro 300,00 e possibilità per lui
di una relazione frequente con la minore senza interferenze da
parte della suocera.
f. Negava infine ogni accusa di strumentalizzazione dei sentimenti
di affetto per la figlia a fini persecutori e di stalking nei confronti
della A, come pure respingeva le pesanti insinuazioni relative a
sistematici pianti notturni della figlia, ovvero all’attualità di un
suo stato di tossicodipendenza e simili.
7. La A – giunta presso gli uffici giudiziari la prima volta in compagnia del padre e la seconda con la madre la quale, fuori dall’aula di
udienza, veniva ad alterco con il B – rivendicava il diritto a tenere
con sé la figlia per il fatto stesso della tenera età della minore,
senza formulare proposta alcuna in ordine alle modalità di esercizio della relazione paterna, a suo avviso pregiudizievole per lei e
per la figlia.
a. A sostegno di tale posizione di chiusura, accusava il B di
‘‘maltrattamenti e violenze psicologiche’’. Alla richiesta di indicare qualche episodio, la predetta riferiva unicamente dell’allontanamento di E (la prima figlia della signora A, n.d.r.) da parte
del B mentre lei allattava C, riportandosi di fatto alla denunzia
del 10.12.2009 relativa a condotte del B, agite con violenza verbale, ma relative a mere divergenze sul piano educativo: «... ha
iniziato a fare delle considerazioni più o meno soft inerenti il
mio atteggiamento con le bambine. Secondo lui ero troppo buona e accondiscendente». Attribuiva a tale eccesso di severità la
collocazione di E a V (nel Lazio, n.d.r.) presso il padre, con
versione riscontrata dal F (l’ex compagno di A, n.d.r.) il quale,
nell’agosto 2009, aveva altresı̀ modo di constatare di persona,
contrariamente a quanto riferitogli dalla A la buona relazione
tra il B e le sue due figlie (rif. denunzia presentata dal F alla
Questura di Roma, commissariato [...] il 29.1.2010 - doc. 8 fasc.
B). Tale allontanamento veniva viceversa ascritto, senza indicazione di condotte specifiche, a presunte attenzioni sessuali del B
nei confronti della minore tanto nel colloquio con l’assistente
sociale dello Sportello (rif. pag. 2 relazione 29.1.2010) quanto
nella relazione del Centro di Consulenza Famigliare di A. (in
Toscana, n.d.r.), prodotta all’udienza dell’8.2.2010.
b. In concomitanza con la crisi coniugale e con evidente accentuazione dopo la mancata riconsegna della figlia minore (affidata per legge, fino a provvedimento dell’autorità giudiziaria, ad
entrambi i genitori), la A ha formalizzato una serie di accuse
assai gravi e infamanti nei confronti del B, descritto ai Servizi
come ‘‘tossicodipendente seguito dal SERT’’, con ciò lasciandosi
intendere un dato concreto e attuale (che pare escluso dall’esito
degli accertamenti eseguiti tramite i Carabinieri il 13.2.2010)
laddove la vicenda si sarebbe conclusa con il decreto del Tribunale per i Minorenni di Brescia del 10.4.2007 che riconosceva
l’adeguatezza genitoriale del B nei confronti del figlio G, nato
da altra unione il [...] 2002 (doc. 11 fasc. B, successivo e assorbente rispetto al decreto provvisorio del 21.2.2006 prodotto dalla
difesa A); ha insinuato il sospetto che il predetto potesse aver
somministrato sostanze alla figlia mentre era a Brescia ovvero
che la bambina, secondo quanto riferitole da vicini non meglio
identificati, fosse maltrattata e piangesse tutte le notti (circostanza non riscontrata dai Carabinieri, che riferiscono anzi di
un padre attento al benessere della minore); pare addirittura
che la A abbia riferito al B dell’intenzione di accusarlo di averle
somministrato una dose eccessiva di sonnifero (denunzia per
calunnia presentata dal B il 1.1.2010) in occasione del tentativo
suicidiario, documentato dalla lettera autografa nella quale la A
scrive, tra l’altro: ‘‘... Non dò la colpa a nessuno perché neanche
B è cattivo ... Proteggete le mie bimbe perché io non ne avrei
avuto i mezzi. E (la prima figlia di A, n.d.r.) probabilmente sta
bene con padre, D con i miei genitori e C col suo papà (il signor
B, n.d.r.). Vi prego di non prendervela con B perché c’è solo da
prendersela col destino che non mi ha permesso di essere forte...’’.
8. In punto di fatto, rileva altresı̀ il contenuto della denunzia
presentata alla Questura di Roma – (...) il 29.1.2010 da F, di
professione doppiatore cinematografico, privo pertanto di cognizioni specifiche in materia psicologica (doc. 8 fasc. B). In tale
denunzia il F (che, stante la buona relazione mantenuta con la
A, non è verosimile, come viceversa asserito dalla difesa A, ipotizzare mendace solo per malinteso senso di complicità con il B)
lamenta il martellamento da parte della A, su entrambe le figlie,
in ordine alla ‘‘cattiveria’’ del B, e la circostanza che la predetta
non arrestasse tale inutile contumelia nonostante il turbamento
evidente della bambina più grande: ‘‘A per alcuni minuti, tempo
che è rimasta con la bambina, ha iniziato a parlare nuovamente
male del B riportando E [la prima figlia di A ed F, n.d.r.] in uno
stato di turbamento e in lacrime tanto è vero il fatto che E mi
riferiva che la madre non l’aveva neanche abbracciata’’. Segnala
inoltre condotte analoghe anche nei confronti della bambina
più piccola, usa a ripetere, a mo’ di cantilena ‘‘B è un uomo
cattivo’’.
9. Infine va dato atto che, all’udienza dell’8.2.2010, all’esito delle
contestazioni del Presidente in ordine al potenziale pregiudizio per
le minori di condotte quali quelle sopra descritte, entrambi i genitori si dichiaravano disposti, nell’interesse della figlia, a seguire
un percorso di sostegno alla genitorialità e, ove necessario, di valutazione anche di tipo neuro-psichiatrico, pur rifiutando la XX,
per sue esigenze di sicurezza personale, la proposta di assegnazione della casa coniugale».
3.2.
In fatto, il presidente rileva che entrambi i genitori manifestano, in
misura maggiore o minore, limiti e carenze a fronte dei quali sono
inopportuni sia l’affidamento condiviso che quello esclusivo, mentre appare più adeguata, sia pur in via meramente temporanea, la
soluzione dell’affidamento al servizio sociale:
«Osserva
10. Trattasi, ad evidenza, di una situazione assai complessa che
evidenzia pericoli di pregiudizio per la prole minore con riferimento alle condotte di entrambi i genitori. Al contempo, pur nella
difficoltà indotta dalla storia personale di ciascuno, entrambi i
genitori mostrano di possedere sentimenti di affetto autentici per
la figlia e dichiarano la propria disponibilità a seguire un percorso,
di necessità impegnativo e tuttavia ineludibile, in una situazione
conclamata di accesa conflittualità estesa al nucleo parentale allargato (che pare, per converso, privo di risorse) difficilmente reversibile, per evitare gravi e concreti pregiudizi per la figlia minore.
Può dunque formularsi giudizio prognostico favorevole in ordine
al recupero della genitorialità di entrambi, sempre però che tale
percorso sia adeguatamente gestito per il tramite di un forte intervento di sostegno alle capacità genitoriali, che vanno tutelate anche rispetto al rischio di dinamiche relazionali meramente distruttive ed irreversibili.
11. Da un lato vi è infatti l’elemento caratteriale di irruenza e
scarsa capacità di mediazione del B (ex tossicodipendente, riabilitato nella capacità genitoriale dal decreto del Tribunale per i
Minorenni di Brescia in data 10-20.4.2007), che è prevedibile
possa trovarsi in difficoltà nella gestione di una bambina in
Famiglia, Persone e Successioni 5
391
maggio 2010
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_388_397.3d
na 392
23/4/
11:50
pagi-
L’ O S S E RVAT O R I O D I M E R I T O
tenera età in concomitanza con il pesante impegno lavorativo di
camionista. Va comunque dato atto al predetto di elementi positivi, quali
a. la buona capacità di relazionarsi alla figlia, oggetto di accertamento diretto da parte dei Carabinieri tanto in Caserma, allorché
presentava denunzie, quanto negli accessi a sorpresa presso l’abitazione in conseguenza delle segnalazioni telefoniche di maltrattamenti in atto presentate dalla A;
b. l’attenzione costante ai profili di cura della minore e la capacità
di organizzarsi in tal senso, prima tramite i parenti a Brescia, quindi con il ricorso alla figura della ‘‘ragazza alla pari’’;
c. il desiderio sincero di una gestione civile della separazione, con
l’unica richiesta di non essere escluso dalla relazione affettiva con
la figlia, in coerenza del resto con il dato personalistico, testimoniato dall’impegno concreto e costante in occasione della vicenda
del figlio primogenito trattata dal Tribunale per i Minorenni di
Brescia.
12. Maggiore problematicità pone la valutazione delle capacità
genitoriali della A: preoccupa la rimozione da parte della predetta del tentativo di suicidio, liquidato semplicisticamente, anche dal contesto ambientale di riferimento, come mero effetto di
depressione post partum, in assenza di alcun serio tentativo di
analisi delle cause e di adeguate rielaborazioni tramite personale
medico specialistico piuttosto che tramite semplice operatore
sociale (rif. verbale di denunzia ai Carabinieri di A. (in Toscana,
n.d.r.) del 10.12.2009, pag. 2, primo capoverso e verbale di interazione e parziale modifica del 14.12.2009, primo periodo, nonché relazione del Centro di Consulenza Famigliare di A.). Cosı̀
pure, in assenza di ogni garanzia dell’effettivo superamento di
tale grave depressione, non è dato comprendere se le accuse
dalla predetta rivolte, in molti casi a posteriori, nei confronti
del B rispondano a dati di realtà o siano piuttosto frutto di
rielaborazione mnestica, spontanea ovvero indotta ab externo,
o rappresentino infine un tentativo di strumentalizzazione dell’Autorità giudiziaria allo scopo di ottenere l’affidamento esclusivo della figlia e l’eliminazione definitiva di ogni relazione con
il B.
13. Se a ciò si aggiunge che, in concomitanza con l’elevatissima
conflittualità con il B insorta negli ultimi due mesi, la A ha
tenuto nei confronti delle altre due figlie E e D, condotte obiettivamente pregiudizievoli quali quelle denunziate da F alla Questura di Roma - (...) il 29.1.2010 (doc. 8 fasc. B) con improprio, e
non necessario, martellamento delle predette sulla ‘‘cattiveria’’
del B determinando turbamento psicologico della maggiore e
instaurazione di un clima non favorevole a un sereno sviluppo
psicologico per la secondogenita risulta evidente la necessità di
un serio percorso di sostegno alla bi-genitorialità accompagnato
da indagine psico-diagnostica che dia garanzie dell’effettivo superamento da parte della A della fase depressiva e dell’acquisizione di consapevolezza, da parte di entrambi i genitori, degli
effetti pregiudizievoli per la prole di condotte astrattamente idonee a determinare una situazione inquadrabile nella Sindrome
di Alienazione Parentale.
14. In presenza di tale situazione di fatto, l’affidamento condiviso
si pone quale mero obiettivo che si ritiene raggiungibile, laddove
l’affidamento della minore in via esclusiva alla madre, oltre a non
offrire garanzie adeguate per le ragioni sopra esposte, preluderebbe di fatto a una pressoché certa, e allo stato non giustificata,
esclusione del B dalla relazione genitoriale con la figlia; l’affidamento paterno porrebbe verosimilmente problemi sul piano relazionale e di gestione della quotidianità.
15. Unica soluzione adeguata, ad avviso del giudicante, in premaggio 2010
392
Famiglia, Persone e Successioni 5
senza di una situazione siffatta nella quale è dato ravvisare una
impossibilità temporanea di affidamento ai genitori quale quella
prevista dall’art. 6, 8º co., l. n. 898/1970 – da ritenersi applicabile
analogicamente, stante l’assoluta identità di ratio, al giudizio di
separazione – è quella dell’affidamento temporaneo della minore al Servizio Sociale perché la tenga collocata inizialmente presso il padre, quindi, una volta che la madre abbia intrapreso un
percorso di valutazione neuro-psichiatrica presso una struttura
pubblica e vi siano garanzie di tipo medico in ordine alla mancanza di situazioni di potenziale pregiudizio per la prole, presso
la madre con disciplina, in entrambi i casi, della relazione con il
genitore non ‘‘collocatario’’ e attivazione di un percorso di valutazione delle capacità genitoriali di entrambi e di sostegno alla
bi-genitorialità, con facoltà, ove necessario, di sospensione dei
rapporti con i nonni».
3.3.
A questo punto, il presidente esamina due questioni in diritto. La
prima riguarda il riparto di competenze tra giudice della separazione e giudice minorile rispetto all’affidamento dei minori al servizio sociale; la seconda, il fondamento normativo e i presupposti
dell’affidamento dei minori al terzo:
«16. Si pone, in diritto, la duplice questione, del riparto delle competenze tra Tribunale per i Minorenni e Tribunale Ordinario in
caso di pendenza di giudizi di separazione e divorzio e della possibilità, per il giudice della separazione o del divorzio, di disporre
l’affidamento della prole al Servizio Sociale.
17. Tradizionalmente, si è affermato che ‘‘In tema di affidamento di
minori, dovendo il discrimine tra la competenza del Tribunale ordinario e quella del Tribunale dei minorenni essere individuato in
riferimento al petitum ed alla causa petendi, rientrano, ai sensi del
combinato disposto degli artt. 333 c.c. e 38 disp. att. c.c., nella
competenza del Tribunale dei minorenni le domande finalizzate
ad ottenere provvedimenti cautelari e temporanei idonei ad ovviare a situazioni pregiudizievoli per il minore, anche se non di gravità
tale da giustificare la declaratoria di decadenza dalla potestà genitoriale, di cui all’art. 330 c.c., mentre rientrano nella competenza
del Tribunale ordinario, in sede di separazione personale dei coniugi, di annullamento del matrimonio o di ‘‘pronunzie’’ ex lege n.
898 del 1970, le pronunzie di affidamento dei minori che mirino
solo ad individuare quale dei due genitori sia più idoneo a prendersi cura del figlio’’.
18. In applicazione di tale principio, con sentenza n. 3765 del
15.3.2001, è stato ritenuto rientrante nella competenza del Tribunale per i minorenni il provvedimento di affidamento di minore al padre, da questo richiesto, in considerazione dei cattivi
rapporti che il figlio aveva con la madre, con il suo convivente e
con la nonna, siccome finalizzato ad eliminare, attraverso l’allontanamento del minore dal domicilio della madre, i pregiudizi
di natura psicologica che tale convivenza comportava per il ragazzo.
19. Con ordinanza n. 25290 del 16.10.2008 - Rv. 605415 - Presidente: Salmé G. Estensore: Del Core S. Relatore: Del Core S. P.M. Velardi M. (Conf.) è stata ritenuta la competenza del Tribunale per i
minorenni in ordine all’affidamento di un minore al servizio sociale, disposto su segnalazione dell’ufficio comunale in pendenza
del procedimento di separazione tra i genitori.
20. Trattasi, in entrambi i casi, di pronunzie emesse con riferimento a procedimenti definiti prima dell’entrata in vigore della legge
sull’affidamento condiviso n. 54 del 2006, cosı̀ che è evidente, soprattutto per quanto la pronunzia più risalente, la necessità di una
rivisitazione della parte finale della massima.
21. Per restare peraltro al tema che qui rileva, della possibilità
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_388_397.3d
na 393
23/4/
11:50
pagi-
L’ O S S E RVAT O R I O D I M E R I T O
per il Tribunale ordinario di disporre l’affidamento temporaneo
della prole al Servizio Sociale, va altresı̀ richiamata l’ordinanza
della sezione I della Cassazione n. 24907 del 10.10.2008 Presidente Luccioli - Estensore Fittipaldi, cosı̀ massimata: ‘‘Deve
escludersi che in sede di separazione (come di divorzio) in materia di affidamento di figli minori il tribunale ordinario possa,
esclusivamente, affidare gli stessi a uno o all’altro dei genitori
con divieto di assumere provvedimenti più articolati i quali pur
senza pretermettere radicalmente i genitori, si facciano carico
del contingente interesse dei minori stessi. (Nella specie, con
pronuncia ritenuta corretta dalla S.C., la Corte di Appello aveva
affidato i figli minori al servizio sociale del Comune, con collocamento degli stessi presso la madre e prescritto che le parti e i
minori si sottoponessero al programma di recupero indicato dal
Ctu, incaricando il servizio sociale di attivarsi per l’attuazione
dell’intero programma indicato dal consulente).
22. Nella motivazione, la Corte osserva: ‘‘Con il primo motivo,
nel denunciare violazione degli artt. 155 e 333 c.c., ed art. 38
disp. att. c.c., la ricorrente lamenta: a) come il provvedimento
con cui la Corte Territoriale ha affidato i minori al servizio sociale sarebbe da ritenersi evidentemente pronunciato ex art. 333
c.c., (essendo questa l’unica norma che consente al Giudice la
scelta del provvedimento ritenuto più idoneo alla tutela della
prole nell’ambito della più ampia discrezionalità) ed – in quanto
tale – violerebbe perciò il principio secondo cui tale norma non
solo sia riferita alla esclusiva competenza del Tribunale per i
minori, ma presupponga, per l’adozione dei provvedimenti relativi, sempre il preventivo parere del Pubblico Ministero (cosa –
nella fattispecie – non avvenuta); b) più in particolare, in sede di
separazione personale dei coniugi, la norma delimitante l’ambito dei poteri della Corte di Appello avrebbe dovuto essere semmai l’art. 155 c.c., che pone al Giudice il dovere – in sede di
pronuncia della separazione – di dichiarare a quale dei coniugi
siano affidati i figli, e semmai di ordinare che siano collocati
presso una terza persona, ma giammai di affidarli a soggetti
diversi dai genitori; ciò in quanto il discrimine fra la competenza
del tribunale ordinario e la competenza del Tribunale per i minorenni, in tema di affidamento di minori, non andrebbe individuato nell’esistenza o meno del rapporto di coniugio fra i genitori del minore medesimo, ma in riferimento al petitum ed alla
causa petendi, per cui, ai sensi del combinato disposto dell’art.
333 c.c., e art. 38 disp. att. c.c., rientrerebbero certamente nella
competenza del Tribunale per i minorenni, le domande finalizzate ad ottenere provvedimenti cautelari temporanei idonei ad
ovviare a situazioni pregiudizievoli per il minore (anche se non
di gravità tale da giustificare la declaratoria di decadenza dalla
potestà genitoriale, di cui all’art. 330 c.c.), mentre rientrerebbero
nella competenza del tribunale ordinario, in sede di separazione
personale dei coniugi, di annullamento del matrimonio o di
pronunzie ex L. n. 898 del 1970, le decisioni aventi ad oggetto
l’affidamento dei minori, prescindenti dalla sussistenza di situazioni pregiudizievoli per i minori stessi, alle quali ultime si dovrebbe (e potrebbe) ovviare solo con il richiesto provvedimento
giudiziario, di carattere cautelare; c) più in particolare ancora, i
provvedimenti resi in sede di separazione potrebbero avere carattere solo contingente e mirante solo ad individuare quale dei
genitori sia più idoneo a prendersi cura dei figlio, al fine di
consentirgli una crescita tranquilla ed equilibrata. Il motivo si
rivela del tutto destituito di fondamento, in quanto prende le
mosse da una concezione angusta e formalistica non solo del
più generale riparto di competenze fra Tribunale ordinario (quale giudice della separazione o del divorzio), e Tribunale per i
minorenni, ma degli stessi confini dei provvedimenti in concreto
assumibili – in sede di separazione o di divorzio – in materia di
affidamento dei figli minori, dal Tribunale ordinario; confini che
si arresterebbero sulla soglia della alternativa secca fra i due
genitori e precluderebbero del tutto, al giudice ordinario, di assumere provvedimenti più articolati i quali, pur senza pretermettere radicalmente i genitori, si facciano carico del contingente interesse dei minori stessi. Un tal limite non esiste, né è dato
rinvenirlo in nessuna disposizione codicistica in tema di separazione, nè nella legislazione in tema di divorzio (l. n. 898 del
1970, e sue successive modificazioni), né – tantomeno – in una
ricostruzione sistematica del complesso di disposizioni normative che disciplinano l’"affido’’ dei figli minori in sede di pronuncia di separazione dei coniugi o di ‘‘divorzio’’, ricostruzione che
non può di certo condursi ad una lettura riduttiva dell’interesse
dei minori alla adozione della soluzione più compiuta e confacente, realizzata nel rispetto del primario criterio della ‘‘concentrazione’’ e dell’"organicità’’ dei provvedimenti. Non si può non
percepire come la Corte territoriale – con ampia ed articolata
motivazione rimandante ai contenuti della relazione peritale –
nella specie, non abbia fatto altro che – di fronte alle evidenti e
gravi inadeguatezze della G. e delle gravi (anche se incolpevoli)
difficoltà relazionali del B. – disegnare un ruolo del tutto contingente ai Servizi Sociali del Comune, chiamati all’"affido’’ in
un contesto di precise prescrizioni e di oneri aventi di mira
l’esclusivo interesse delle minori, che lasciano del tutto impregiudicata la ‘‘collocazione’’ logistica delle minori stesse presso
l’abitazione coniugale assegnata alla G.; ruolo, in ogni caso, naturalmente del tutto modificabile nel ricorso dei presupposti e
delle procedure di cui all’art. 710 c.p.c., e della L. n. 898 del
1970, art. 9’’.
23. Dalla lettura della motivazione delle due recenti pronunzie
rapportate alle concrete situazioni di fatto sottoposte all’esame
della Corte, si trae peraltro il convincimento che si tratti di un
contrasto giurisprudenziale solo apparente. Elemento qualificante
dell’ordinanza del 10.10.2008, in base alla quale si riconosce anche
al giudice della separazione, chiamato sempre più spesso ad intervenire in situazione di elevata conflittualità nell’interesse preminente della prole, il potere di stabilire una regolamentazione più
organica, è costituito infatti dalla mancata totale estromissione
almeno di uno dei due genitori, ponendo in luce la motivazione
come sia rimasta ferma la ‘‘collocazione logistica’’ delle minori
presso la madre e come i genitori non siano stati radicalmente
pretermessi.
24. Va altresı̀ considerato che, ai sensi dell’art. 6, 8º co., della legge
sul divorzio ‘‘In caso di temporanea impossibilità di affidare il
minore ad uno dei genitori, il tribunale procede all’affidamento
familiare di cui all’articolo 2 della legge 4.5.1983, n. 184.’’.
25. In applicazione di tale disposizione è consentito al Tribunale,
sul presupposto di una temporanea impossibilità di affidamento a
uno dei genitori, l’affidamento etero-familiare disciplinato dall’art.
2, l. 4.5.1983, n. 184. A maggior ragione deve ritenersi consentito
l’affidamento endo-familiare ai parenti entro il quarto grado. L’identità di ratio fonda l’applicazione analogica della disposizione
anche nei procedimenti di separazione.
26. Presupposto imprescindibile per l’applicazione di tale norma è
dunque la temporanea impossibilità di affidamento a uno dei genitori.
27. In applicazione dei principi enunciati da Cass. n. 24907/2008
e in un’ottica di interpretazione sistematica si ritiene pertanto
possibile, anche in sede di separazione personale dei coniugi,
sussistendo l’imprescindibile presupposto di una impossibilità
Famiglia, Persone e Successioni 5
393
maggio 2010
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_388_397.3d
na 394
23/4/
11:50
pagi-
L’ O S S E RVAT O R I O D I M E R I T O
ritenuta meramente temporanea in base ad elementi concreti ed
obiettivi, disporre l’affidamento della prole al Servizio Sociale
con compiti sostanziali di indicazione delle linee di indirizzo e
di vigilanza sempre che la regolamentazione concreta delle relazioni non realizzi una radicale esclusione di entrambi i genitori.
28. Di conseguenza va disposto l’affidamento temporaneo della
minore al Servizio Sociale – Area Tutela Minori perché la tenga
collocata inizialmente presso il padre, quindi – una volta che la
madre abbia intrapreso un percorso di valutazione neuro-psichiatrica presso una struttura pubblica e vi siano attestate garanzie
mediche in ordine alla mancanza di situazioni di potenziale pregiudizio per la prole, presso la madre con disciplina, in entrambi i
casi, della relazione con il genitore non ‘‘collocatario’’ e attivazione
di un percorso di valutazione delle capacità genitoriali di entrambi
e di sostegno alla bi-genitorialità, con facoltà, ove necessario, di
sospensione dei rapporti con i nonni.
29. Si dispone comunque, per quanto di eventuale competenza, la
trasmissione di copia del presente provvedimento nonché di tutti
gli atti alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni dell’Emilia–Romagna e al Pubblico Ministero in sede.
30. Per quanto concerne le questioni economiche, in mancanza di
richiesta di assegno perequativo da parte della A, si dispone che il
B corrisponda alla A, a titolo di contributo al mantenimento della
figlia e con decorrenza dalla mensilità in cui la minore sarà collocata presso la madre, l’assegno mensile di euro 250,00 rivalutabile
annualmente secondo gli indici Istat, oltre al 50% delle spese
straordinarie di tipo medico e scolastico previamente concordate,
con esclusione di spese di baby sitter».
3.4.
Ecco, infine, il dispositivo:
«Per questi motivi
in via temporanea e urgente con riserva di successiva adozione dei
provvedimenti conclusivi della fase presidenziale, visti gli artt. 155,
708-709 c.p.c.
1. autorizza i coniugi A e B a vivere separati con l’obbligo del
mutuo rispetto;
2. dispone l’affidamento temporaneo della figlia minore C (n.
[...]2008) al Servizio Sociale di Rimini - settore Tutela Minori –
perché la tenga collocata inizialmente presso il padre, quindi –
una volta che la madre abbia intrapreso un percorso di valutazione
neuro-psichiatrica presso una struttura pubblica e vi siano attestate garanzie mediche in ordine alla mancanza di situazioni di potenziale pregiudizio per la prole, presso la madre con disciplina, in
entrambi i casi, della relazione con il genitore non ‘‘collocatario’’ e
attivazione di un percorso di valutazione delle capacità genitoriali
esteso a una valutazione psicodiagnostica di entrambi, nonché di
sostegno alla bi-genitorialità, con facoltà, ove necessario, di sospensione dei rapporti con i nonni e con richiesta di relazione
entro il 10.5.2010 salvo urgenze;
3. dispone che il B corrisponda alla A, a titolo di contributo al
mantenimento della figlia e con decorrenza dalla mensilità in cui
la minore sarà collocata presso la madre, l’assegno mensile di euro
250,00 rivalutabile annualmente secondo gli indici Istat, oltre al
50% delle spese straordinarie di tipo medico e scolastico previamente concordate, con esclusione di spese di baby sitter;
4. dispone l’immediata trasmissione di copia del presente provvedimento nonché di tutti gli atti alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni dell’Emilia–Romagna per quanto di
eventuale competenza.
Fissa
maggio 2010
394
Famiglia, Persone e Successioni 5
per la comparizione delle parti dinanzi a sé l’udienza del 18.5.2010
h. 12.00.
Manda
alla cancelleria per gli adempimenti e l’immediata comunicazione
del presente provvedimento tramite fax al Servizio Sociale, al P.M.
presso il Tribunale Ordinario, al P.M. presso il Tribunale per i minorenni e ai difensori delle parti».
4. Altri riferimenti
L’ordinanza del Tribunale di Rimini passa in rassegna e analizza
alcune decisioni della Suprema Corte: Cass., 15.3.2001, n. 3765, in
Giust. civ., 2001, 2658 (l’impugnazione riguardava una decisione
del giudice minorile); Cass., (ord.) 16.10.2008, n. 25290 (che ha
dichiarato la competenza del Tribunale per i minorenni in ordine
all’affidamento di un minore al servizio sociale, disposto su segnalazione dell’ufficio comunale in pendenza del procedimento di
separazione tra i genitori); Cass., 10.10.2008, n. 24907, in Foro it.,
2009, I, 836 (affidamento dei minori al servizio sociale e collocazione presso la madre, assegnataria della casa familiare, nel giudizio di separazione).
In materia di affidamento all’ente locale disposto dal giudice
della separazione, v. anche Cass., 28.5.2008, n. 14042, relativa a
controversia decisa nel merito prima della riforma dell’affidamento condiviso: «È consolidato nella giurisprudenza di questa
Corte il principio secondo il quale il giudice del merito non è
tenuto a giustificare diffusamente le ragioni della propria adesione alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, ove manchino contrarie argomentazioni delle parti o esse non siano specifiche, potendo, in tal caso, limitarsi a riconoscere quelle conclusioni come giustificate dalle indagini svolte dall’esperto e
dalle spiegazioni contenute nella relativa relazione, mentre
non può esimersi da una più puntuale motivazione, allorquando
le critiche mosse alla consulenza siano specifiche e tali, se fondate, da condurre ad una decisione diversa da quella adottata
(v., tra le altre, Cass., sent., n. 26694 del 2006). Nella specie, la
Corte di merito ha assolto in modo compiuto il proprio obbligo
di motivazione delle ragioni dell’adesione alle conclusioni cui
era pervenuto il c.t.u., pur diverse da quelle che lo stesso consulente aveva tratto circa tre anni addietro, in occasione del
giudizio di primo grado. Al riguardo, nella sentenza impugnata
si dà atto, da un lato, dell’affermazione del c.t.u. in ordine alla
adesione dei consulenti di parte alla delineata soluzione della
sistemazione logistica dei due fratelli nel senso da ciascuno di
essi auspicato, con affidamento degli stessi all’ente locale; dall’altro, della ferma opposizione alla richiamata soluzione da parte della difesa del B. Ciò posto, il giudice di secondo grado ha,
anzitutto, dato conto della ragionevolezza della modifica delle
conclusioni del c.t.u., in quanto intervenuta a notevole distanza
di tempo, ed avuto riguardo all’acuirsi delle tensioni tra le parti,
con il conseguente, inevitabile pregiudizio per lo sviluppo dei
figli. Quindi, dopo una analitica descrizione delle posizioni che
sulle risultanze della relazione del c.t.u. avevano assunto i consulenti di parte e le parti medesime, la Corte di merito ha accuratamente dato conto del proprio convincimento al riguardo,
stigmatizzando la incapacità dei coniugi – dei quali non ha,
comunque, sottaciuto la astratta idoneità ad essere destinatari
dell’affidamento dei figli – di pervenire, allo stato, ad un rasserenamento dei loro rapporti nell’interesse degli stessi figli, inferendone la necessità, al fine di non compromettere l’equilibrato
sviluppo dei ragazzi, di assegnarne l’affidamento ad un terzo, e,
segnatamente, all’Ente locale di residenza. Ha, infine, precisato
u:/LINOTIPO_H/06-wki/Utet_Riviste_cod_Civ/Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_388_397.3d 26/4/2010 14:58 pagina 395
L’ O S S E RVAT O R I O D I M E R I T O
il giudice di seconde cure che una siffatta statuizione, escludendo ogni ‘‘valenza premiale’’ nei confronti dell’uno o dell’altro dei
coniugi, sottolineava, al contrario, la negatività del comportamento di entrambi con riferimento alla permanente conflittualità delle loro relazioni».
Facendo applicazione del novellato art. 155 c.c. e dell’art. 317 bis
c.c., Trib. min. Milano, (decr.) 6.10.2006, in Fam. pers. succ.,
2007, 82, ha affidato il minore al Comune di residenza, ha mantenuto il collocamento prevalente del figlio presso la madre e
stabilito l’esercizio disgiunto della potestà dai parte dei genitori
potestà relativamente alle decisioni di ordinaria amministrazione: «ritenuto che, nel caso di specie, entrambi i genitori non
abbiano raggiunto tale consapevolezza e, pur manifestando forte
legame affettivo nei confronti del figlio non ne riescono a rispettare i bisogni e l’individualità, con grave danno psico-evolutivo
per lo stesso. Ritenuto che neppure vi siano i presupposti per
avviare i genitori ad un percorso di mediazione familiare necessitando piuttosto ciascuno di un percorso terapeutico individuale che li aiuti anche a rafforzare le rispettive capacità genitoriali;
ritenuto pertanto che, allo stato, si renda necessario un affidamento del minore all’ente territoriale che, mantenendo il collocamento prevalente del minore presso la madre, garantisca comunque un’ampia regolamentazione di rapporti tra F. e il padre,
come meglio specificato in dispositivo, monitorando l’evoluzione della situazione e inducendo i genitori a confrontarsi in riferimento alle decisioni da assumere in relazione alla educazione
e alla salute del minore di particolare rilevanza, fermo restando
un esercizio disgiunto della potestà da parte dei genitori con
riferimento alle decisioni di ordinaria amministrazione nei periodi che ciascuno di essi trascorrerà con il figlio; l’affidamento
all’ente si rende anche necessario per evitare trasferimenti di
residenza dei genitori quantomeno per i prossimi tre anni; ritenuto che l’affidamento del minore al Comune di residenza sia
provvedimento che l’Autorità giudiziaria possa adottare anche in
applicazione dell’art. 155 c.c. riformato che prevede che il giudice adotti i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa e che possa
adottare ‘‘[...] ogni altro provvedimento relativo alla prole’’; [...]
P.Q.M. Visti gli artt. 317 bis c.c., 155 c.c. come modificato dalla l.
8.2.2006, n. 54, 737 c.p.c. provvedendo in via definitiva: affida il
minore al Comune di [...], con collocamento presso la madre e
limitazione dell’esercizio della potestà da parte di entrambi i
genitori come sopra indicato, con esercizio disgiunto della potestà da parte dei genitori con riferimento alle decisioni di ordinaria amministrazione nel periodo di convivenza di ciascun genitore con il figlio; dispone che l’ente affidatario garantisca una
regolamentazione dei rapporti tra il minore ed il padre più ampia possibile prevedendo in ogni caso che il signor F. possa
sentire telefonicamente il figlio quando lo desideri e possa vederlo e tenerlo con sé, come di seguito indicato; 1) i fine settimana, alternati con la madre, dal venerdı̀ pomeriggio, prelevandolo dalla scuola, alla domenica sera quando lo riaccompagnerà
dopo cena presso l’abitazione materna; 2) il padre potrà accompagnare il figlio a scuola e andarlo a riprendere quando la madre
sarà impedita a farlo in base ai turni di lavoro; 3) una settimana
nel periodo delle vacanze natalizie, alternando con la madre la
settimana comprendente il giorno di Natale ovvero la settimana
comprendente Capodanno e 6 gennaio, iniziando con Capodanno 2007; 4) le festività pasquali ad anni alterni, iniziando con
Pasqua 2007; 5) altre festività o ponti alternati con la madre; 6)
durante il periodo estivo il minore trascorrerà un mese anche
non consecutivo, con il padre. Prescrive ai genitori di non tra-
sferire la residenza per almeno un triennio e di intraprendere un
percorso terapeutico o di sostegno alla genitorialità individuale;
prescrive ai genitori di seguire le indicazioni degli operatori, di
non denigrare davanti al figlio la figura dell’altro genitore, di
mantenere comportamenti di rispetto reciproco».
Si veda inoltre Trib. Genova, 17.4.2007, in www.famigliaegiustizia.it: «L’incapacità manifestata dai coniugi di farsi carico delle
sofferenze dei figli, non consente di modificare il regime di affido vigente che sembra essere l’unico idoneo a tutelare il bambino in relazione alla necessità di contenere il conflitto dei genitori nelle scelte educative e organizzative per il minore, di
vigilare sulla prosecuzione del percorso di sostegno terapeutico
presso il NOAC e di avviare – qualora ritenuto sempre necessario
dai servizi affidatari – l’inserimento di un educatore al quale
sino ad ora la sig.ra P. si è opposta. La scelta di un affido eterofamiliare appare possibile anche alla luce della nuova formulazione dell’art. 155 c.c. – come novellato dalla l. n. 54/2006 –
che, secondo un’interpretazione costituzionalmente compatibile
con l’art. 30, 2º co., Cost., consente di affermare i poteri del
Tribunale ordinario investito della causa di separazione o di
divorzio di procedere ad un affido (e collocazione) eterofamiliare, quando i genitori, anche per una causa transitoria, non siano
capaci di assolvere i compiti a loro attribuiti dall’art. 147 c.c.;
invero, l’art. 155 c.c. nel prevedere che il giudice ordinario debba
valutare prioritariamente la possibilità che i figli minori restino
affidati ad entrambi i genitori o stabilire a quali dei genitori
debbano essere affidati, indica come opzione prioritaria la scelta
di un affido congiunto ad entrambi i genitori o, nei casi previsti
dall’art. 155 bis c.c., ad un solo di essi; la disposizione, tuttavia,
non esclude nel corso della causa di separazione o di divorzio
l’adozione di diversi provvedimenti a tutela della prole e, anzi, la
stessa affermazione di chiusura (adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole), conferma la mancanza di tassatività nell’indicazione degli interventi relativi ai figli minori che potranno
avere un fondamento normativo anche al di fuori dell’art. 155
c.c. (cosı̀ l’art. 2 l. n. 183/1983 in materia di affido e collocazione
eterofamiliare). Questo Collegio ritiene di confermare la collocazione del minore presso il sig. B. A tale proposito i Servizi affidatari hanno sollecitato la scelta di un genitore prevalente di
riferimento, evidenziando che entrambi i genitori hanno singolarmente risorse e limiti e possano essere considerati entrambi
adeguati. La conferma del padre come genitore collocatario è
dettata non da una valutazione d’inidoneità della sig.ra P., ma
dalla maggiore concretezza e collaborazione che il padre ha manifestato nei confronti del servizio affidatario nonché dall’esigenza di stabilizzare la situazione del minore che risulta in fase
di miglioramento grazie al sostengo scolastico; la sig.ra P., dopo
avere negato il proprio assenso all’affido educativo, ha espresso
la sua aperta contrarietà a che il servizio continui ad occuparsi
del nucleo familiare, ritenendosi sufficientemente autonoma
nella gestione del figlio; tale aspetto sconsiglia la collocazione
presso madre che non garantirebbe un proficuo intervento del
servizio affidatario. (...) P.Q.M. Definitivamente pronunziando,
ogni contraria istanza, azione ed eccezione disattesa; affida il
figlio minore (...), nato a (...) 1997, ai Servizi Sociali del Comune
di G. - Distretto IV V, affinché gli operatori dei servizi supportino
nei compiti educativi e psicologici i genitori separati, svolgano
monitoraggio sulle condizioni del minore e sulla prosecuzione
del percorso terapeutico presso il servizio pubblico; dispone la
collocazione del figlio minore presso il padre; dispone che il
padre provveda integralmente al mantenimento dei figli F. e A.
[...]».
Famiglia, Persone e Successioni 5
395
maggio 2010
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_388_397.3d
na 396
23/4/
11:50
pagi-
L’ O S S E RVAT O R I O D I M E R I T O
Per App. Bologna, 16.5.2008, in Fam. pers. succ., 2008, 943, se è
precluso l’affidamento condiviso, come pur quello monogenitoriale, allora va confermata la decisione di primo grado che, all’esito
del giudizio di separazione, ha affidato ex art. 155, 2º co., c.c. i
minori ai servizi sociali e ha limitato l’esercizio della potestà da
parte della madre, genitore collocataria, alla sola ordinaria amministrazione. La sentenza impugnata era Trib. Bologna, 1.10.2007, n.
2378, in Fam. pers. succ., 2008, 849, commentata anche da MENGOZZI, La residenza abituale come criterio di competenza giurisdizionale: un nuovo compito comunitario per i giudici italiani, in
Questioni dir. fam., 2008, 38, e ROSSI, Ragioni valide per negare
sia l’affidamento condiviso, sia quello esclusivo, ma con quali effetti?, in www.personaedanno.it.
Secondo Trib. Reggio Emilia, (ord.) 24.8.2009, in Fam. pers. succ.,
2010, 154, a fronte dell’inadeguatezza dei genitori il giudice istruttore della causa separazione può, in via provvisoria, affidare i minori agli ascendenti attribuendo a loro il potere di assumere le
decisioni sia ordinarie che – previa consultazione coi genitori –
straordinarie nell’interesse dei minori ed il compito di favorire i
rapporti dei ragazzi con entrambi i genitori: nella specie, il giudice
istruttore ha affidato i due minori ai nonni paterni, che hanno
accolto i nipoti presso la loro abitazione, ed ha posto a carico di
ciascuno dei genitori l’obbligo di versare un assegno mensile agli
affidatari.
Sul riparto di competenza tra giudice minorile e giudice della separazione, v. il commento a Trib. Min., decr. 4.2.2010, in Fam. pers.
succ., 2010, 231. V. anche C. Cost., 5.3.2010, n. 82.
5. Un caso diverso
Non tutti i processi sono uguali e tollerano allo stesso modo le
ordinarie scansioni previste dal codice di rito.
Quando la separazione (o il divorzio) coinvolgono anche i figli
minori d’età occorre una particolare attenzione.
Se esigenze di celerità e approfondimento lo consigliano, nulla
esclude che il presidente, emessa l’ordinanza ex art. 708 c.p.c. e
adottati i provvedimenti provvisori, fissi davanti al giudice istruttore un’udienza ben anteriore alla scadenza dei termini per atti
integrativi, ad esempio per disporre con urgenza una c.t.u.: ovviamente, la scelta tra fase presidenziale lunga (articolata su più
udienze: si veda l’ordinanza del Tribunale di Rimini ora esaminata) e rapido passaggio alla fase davanti al giudice istruttore,
con anticipazione di incombenti istruttori rispetto alle cadenze
delineate dall’art. 183 c.p.c., è anche influenzata dal modo in cui
sono organizzati gli uffici giudiziari e ripartiti gli affari tra i magistrati (cfr. CURTÒ, Profili organizzativi e ordinamentali, in
AA.VV., Le prassi giudiziali nei procedimenti di separazione e divorzio, Torino, 2007, 233). Quando è lo stesso magistrato a svolgere le funzioni di presidente e di istruttore la seconda opzione è
più facilmente praticabile.
Si veda, ad es., Trib. Bologna, (ord.) 23.12.2008: «Il presidente, sciogliendo la riserva; sentiti i procuratori e le parti in persona comparsi all’udienza presidenziale 11.12.2008; esaminati i documenti
di causa; visto l’art. 708 c.p.c.; rilevato che dall’unione delle parti
(unite in matrimonio contratto il [...] 2001) sono nati la figlia [x]
([...] 2003) e i gemelli [y] e [z] ([...] 2005);
ritenuto che
– gli elementi in atto sono qui oggetto di cognizione sommaria;
– le parti, in ordine ai fatti di causa, offrono due prospettazioni
radicalmente contrastanti e che andranno sottoposte a verifica;
– in particolare, andrà approfondito il tema relativo alla cura dei
minori;
maggio 2010
396
Famiglia, Persone e Successioni 5
– il livello del conflitto entro le mura domestiche appare assai
elevato;
– occorre nuovamente richiamare entrambi i genitori alle loro responsabilità verso i figli, in tenera età;
– in primo luogo occorre autorizzare i coniugi a vivere separati:
tenuto conto dell’età dei minori, dell’ubicazione della casa familiare (di proprietà peraltro della signora [...]) e della vicinanza dell’abitazione della madre della ricorrente, della disponibilità di altro
immobile in capo al convenuto, la casa di [...] viene assegnata alla
signora [...], che vi abiterà coi minori: il signor (...), pertanto, si
trasferirà altrove;
– allo stato non si ravvisano affidabili elementi per derogare al
regime dell’affidamento condiviso: premesso che i minori manterranno la residenza privilegiata presso la casa familiare, ed in attesa
di un approfondimento istruttorio allo stato non realizzabile, appare opportuno limitare il pernottamento presso il padre alla sola
(x);
– i minori continueranno a frequentare anche i nonni paterni, che
abitano a [...];
– l’attrice è (... attività di lavoro, n.d.r.) e il convenuto (...attività di
lavoro, n.d.r.);
– occorre avvalersi dell’ausilio di un esperto per una messa a fuoco
dei problemi riguardanti la relazione tra i genitori e le modalità di
affidamento dei minori;
– la convocazione del c.t.u. va disposta con urgenza, senza vincoli
derivanti dalle scansioni processuali;
– il rispetto dei provvedimenti provvisori è parametro di valutazione della condotta dei genitori;
– le questioni trattate in udienza dovranno essere approfondite nel
corso dell’istruttoria;
– è opportuno che le parti, con l’aiuto del c.t.u., trovino un accordo;
– i provvedimenti provvisori verranno successivamente messi a
punto con l’ausilio del c.t.u.;
P.Q.M.
visto l’art. 708, 3º co., c.p.c.
autorizza i coniugi a vivere separati;
affida ad entrambi i genitori i minori, che manterranno la residenza privilegiata presso la casa familiare;
assegna alla madre la casa familiare: il padre, pertanto, si trasferirà
immediatamente altrove;
dispone che il padre veda e tenga con sé i figli ogni mercoledı̀ (dal
24.12.2008) dalle 16,30 alle 20,00 (li riporterà a casa della madre),
ogni sabato dalle 10,00 alle 19,30, inoltre a settimane alterne (dal
3.1.2009) (x) starà col padre dalle 10,00 del sabato alle 19,30 della
domenica; durante le prossime festività natalizie, i minori staranno
col padre anche il 26.12.(dalle 10 alle 14,30) e il 6.1.(dalle 10 alle
16);
nomina giudice istruttore il dr. (...);
dispone c.t.u. e nomina a tal fine il dott. [...] con studio in (...);
fissa per la comparizione del c.t.u. l’udienza 13.1.2009 ore 13;
dispone che il signor (...) con decorrenza gennaio 2009 versi alla
signora (...) entro il giorno 5 di ogni mese e un assegno mensile di
euro 900,00 con automatica rivalutazione annuale secondo indici
Istat;
invita i genitori a cooperare tra loro nell’interesse dei minori e a
collaborare col c.t.u.;
fissa sin d’ora l’udienza di comparizione (dei soli procuratori) e
trattazione per il giorno 26.3.2009 ore 12;
assegna termine: a) al ricorrente di trenta giorni dalla comunicazione
del presente provvedimento per il deposito in cancelleria di memoria
integrativa che deve avere il contenuto di cui all’art. 163, 3º co., nn. 2),
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_388_397.3d
na 397
23/4/
11:50
pagi-
L’ O S S E RVAT O R I O D I M E R I T O
3), 4), 5) e 6) c.p.c.; b) al convenuto sino a dieci giorni prima dell’udienza di comparizione e trattazione per la costituzione in giudizio ai
sensi degli artt. 166 e 167, 1º e 2º co., c.p.c., nonché per la proposizione
delle eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio;
avverte parte convenuta che la costituzione oltre il suddetto termine implica le decadenze di cui all’art. 167 e che oltre il termine
stesso non potranno più essere proposte le eccezioni processuali e
di merito non rilevabili d’ufficio;
rinvia la causa all’udienza 13.1.2009 ore 13 per la comparizione del
c.t.u.;
ordina la comunicazione degli atti al p.m.
Si comunichi a mezzo fax alle parti e al c.t.u.».
In altri casi, e ciò vale soprattutto nei giudici divorzili, la prima
udienza davanti al giudice istruttore può essere fissata anche per la
precisazione delle conclusioni in vista della sentenza non definitiva sul vincolo.
&
Famiglia, Persone e Successioni 5
397
maggio 2010
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_398_399.3d
na 398
23/4/
11:39
pagi-
L’ O S S E RVAT O R I O L E G I S L AT I V O
L’osservatorio
legislativo
Irene Ambrosi
Magistrato
Marta D’Auria
Dottore di ricerca in Diritto amministrativo
» Diritto alla salute
L’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore
»
SOMMARIO
1. La l. 15.3.2010, n. 38: finalità e ambito applicativo – 2. Definizioni – 3.
Strategia di tutela del malato – 4. Semplificazione in merito alla prescrizione degli oppiacei
1. La l. 15.3.2010, n. 38: finalità e ambito applicativo
Dopo un lungo e tormentato iter, il Parlamento ha emanato la
legge n. 38/2010(1), recante «Disposizioni per garantire l’accesso
alle cure palliative e alla terapia del dolore» in vigore dal 4.4.2010.
Nell’immediatezza dell’approvazione della legge il Ministro della
salute ha espresso «la soddisfazione del governo e quella mia personale anche come medico, perché riteniamo sia un traguardo
importante» in quanto la legge, ha spiegato «migliora la qualità
della vita»(2) dei malati e aiuta le loro famiglie.
Dai dati pubblicati sul sito del Ministero della Salute risulta che
attualmente i malati terminali in Italia – che ogni anno necessitano
di cure palliative – sono 250 mila, 160 mila sono oncologici e 90
mila con altre patologie: patologie cardiache, respiratorie, neurologiche e infettive.
La legge esprime una precisa concezione del sostegno alla persona
malata, che viene collocata all’interno del contesto familiare e delle strutture sociali.
Le strutture e l’offerta dei servizi di sostegno in tale ambito è stata
articolata attraverso due reti distinte: una rete nazionale per le cure
palliative e una rete nazionale per la terapia del dolore. La struttura
a rete si pone come la migliore risposta alla domanda di servizi sul
territorio, perché capace di mobilitare tutte le risorse che compongono un servizio complesso come l’offerta di cure palliative e terapie antalgiche e di ottimizzarne la gestione sul territorio. L’ideazione di reti di erogazione «è volta a garantire la continuità assistenziale del malato dall’ospedale al suo domicilio ed è costituita
dall’insieme delle strutture sanitarie, ospedaliere, territoriali e assistenziali, delle figure professionali e degli interventi diagnostici e
terapeutici disponibili nelle Regioni, dedicati all’erogazione delle
(1) L. 15.3.2010, n. 38, in G.U. 19.3.2010, n. 65. La legge è stata approvata
in terza lettura: i voti a favore sono stati 476, nessuno contrario, solo due le
astensioni. Poco prima della definitiva approvazione vi è stato uno scontro
accesissimo in ordine alla copertura finanziaria ritenuta, soprattutto da
diverse parti dell’opposizione, ancora insufficiente.
maggio 2010
398
Famiglia, Persone e Successioni 5
cure palliative e al controllo del dolore in tutte le fasi della malattia. Si creeranno quindi servizi di assistenza domiciliare, day hospice e centri di assistenza specialistica di terapia del dolore»(3).
La legge, composta da una dozzina di disposizioni, esprime sin dal
primo articolo e chiaramente la sua finalità consistente nel tutelare
«il diritto del cittadino» ad accedere sia alle cure palliative sia alla
terapia del dolore.
In particolare, le disposizioni sono volte ad assicurare il rispetto
della dignità e dell’autonomia della persona umana, il bisogno di
salute, l’equità nell’accesso all’assistenza, la qualità delle cure e la
loro appropriatezza riguardo alle specifiche esigenze. Vengono in
proposito espressamente indicati i princı̀pi fondamentali che le
strutture sanitarie, erogatrici delle cure palliative e della terapia
del dolore, debbono rispettare nell’assicurare il programma di cura
individuale per il malato e per la sua famiglia: in primo luogo, la
tutela della dignità e dell’autonomia del malato, senza alcuna discriminazione; in secondo luogo, la tutela e la promozione della
qualità della vita fino al suo termine; infine, l’adeguato sostegno
sanitario e socio-assistenziale della persona malata e della famiglia
(art. 1).
L’attuazione della legge in materia di cure palliative e terapia del
dolore costituisce «obiettivo prioritario» del Piano Sanitario Nazionale ai sensi dell’art. 1, commi 34 e 34 bis, l. n. 662/1996(4) e
successive modificazioni (art. 3).
Costituisce una rilevante novità la semplificazione introdotta dalla
legge in esame in materia di prescrizione dei farmaci impiegati
nella terapia del dolore (art. 10).
2. Definizioni
La legge fornisce alcune interessanti definizioni finalizzate a chiarire il significato da attribuire al trattamento sanitario del «malato»
terminale e di quello cronico. Chiarisce che per «cure palliative»
s’intende «l’insieme degli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata sia al suo nucleo familiare,
finalizzati alla cura attiva e totale dei pazienti la cui malattia di
base, caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici» e che per
«terapia del dolore» si tratta dell’«insieme di interventi diagnostici
e terapeutici volti a individuare e applicare alle forme morbose
croniche idonee e appropriate terapie farmacologiche, chirurgiche,
strumentali, psicologiche e riabilitative, tra loro variamente integrate, allo scopo di elaborare idonei percorsi diagnostico-terapeutici per la soppressione e il controllo del dolore» (art. 2).
3. Strategia di tutela del malato
L’attuazione della disciplina in materia di cure palliative e terapia
del dolore è affidata alle Regioni nel quadro delle linee guida predisposte dall’esecutivo volte ad assicurare l’omogeneità dei livelli
di assistenza su tutto il territorio nazionale (art. 3, 2º co.).
La verifica dei livelli di assistenza è demandata al controllo del
Comitato Permanente già istituito dall’Intesa Stato, Regioni e Province autonome il 23.3.2005 il quale valuta annualmente lo stato di
(2) Dichiarazioni di Ferruccio Fazio in www.ministerosalute.it.
(3) In tal senso, il Relatore on De Lillo nell’illustrazione dell’AS 1771.
(4) L. 23.12.1996, n. 662, «Misure di razionalizzazione della finanza pubblica».
{a}Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_398_399.3d
na 399
23/4/
11:39
pagi-
L’ O S S E RVAT O R I O L E G I S L AT I V O
attuazione della presente legge, con particolare «riguardo all’appropriatezza e all’efficienza dell’utilizzo delle risorse e alla verifica
della congruità tra le prestazioni da erogare e le risorse messe a
disposizione» (art. 3, 4º co.).
La tutela del malato in tale ambito è assicurata mediante una
complessa strategia.
In primo luogo, mediante campagne di comunicazione promosse
dal Ministero della salute, d’intesa con le regioni e le province
autonome di Trento e di Bolzano, nel triennio prossimo (20102012), destinate a informare i cittadini sulle modalità e sui criteri
di accesso alle prestazioni e ai programmi di assistenza in materia
di cure palliative e di terapia del dolore connesso alle malattie
neoplastiche e a patologie croniche e degenerative, mediante il
coinvolgimento e la collaborazione dei medici di medicina generale e dei pediatri di libera scelta, delle farmacie pubbliche e private nonché delle organizzazioni private senza scopo di lucro impegnate nella tutela dei diritti in ambito sanitario ovvero operanti
sul territorio nella lotta contro il dolore e nell’assistenza nel settore
delle cure palliative (art. 4).
L’avvio di campagne di informazione ha come specifico intento
quello di diffondere: «nell’opinione pubblica la consapevolezza
della rilevanza delle cure palliative» in relazione sia ai malati maggiori di età sia a quelli minori «al fine di promuovere la cultura
della lotta contro il dolore e il superamento del pregiudizio relativo
all’utilizzazione dei farmaci per il trattamento del dolore, illustrandone il fondamentale contributo alla tutela della dignità della persona umana e al supporto per i malati e per i loro familiari» (art. 4).
Molto significativa è la possibilità di prescrizione della terapia contro il dolore per i minori atteso che la valorizzazione della personalità ed il riconoscimento di spazi di autonomia all’individuo in
età evolutiva, con particolare riferimento agli adolescenti, è imposta dagli strumenti internazionali e comunitari. In particolare, l’art.
24 della Carta dei diritti fondamentali di Nizza del 2000 prescrive
come necessaria l’opinione del minorenne in tema di consenso
alla terapia quale integrazione del consenso espresso dal legale
rappresentante e l’art. 6 Convenzione di Oviedo 4.4.1997 stabilisce
la partecipazione del minore, nei limiti in cui è possibile, alle prescrizioni sanitarie che lo riguardano(5).
In secondo luogo, la strategia viene attuata mediante l’attivazione da parte del Ministero della salute di due «reti» una a livello
regionale e una a livello nazionale volte alla rilevazione sui presı̀di ospedalieri e territoriali e sulle prestazioni assicurate in ciascuna regione dalle strutture del Servizio sanitario nazionale
nell’ambito delle cure palliative e della terapia del dolore (art.
5, 1º co.). Rilevante, per il suo carattere operativo, è la previsione
dell’avvio di una specie di censimento delle strutture di assistenza ai malati in fase terminale e delle unità di cure palliative e
della terapia del dolore domiciliari presenti in ciascuna regione,
finalizzato a definire la rete per le cure palliative e la rete per la
terapia del dolore, con particolare riferimento ad adeguati standard strutturali qualitativi e quantitativi, ad una pianta organica
adeguata alle necessità di cura della popolazione residente e ad
una disponibilità adeguata di figure professionali con specifiche
competenze ed esperienza nel campo delle cure palliative e della
terapia del dolore, anche con riguardo al supporto alle famiglie
(art. 5, 5º co.).
Degna di rilievo, inoltre, è la prescrizione che stabilisce l’obbligatorietà della rilevazione del dolore all’interno della cartella clinica
con particolare riferimento alle caratteristiche del dolore rilevato e
della sua evoluzione nel corso del ricovero, nonché la tecnica antalgica e i farmaci utilizzati, i relativi dosaggi e il risultato antalgico
conseguito (art. 7). La norma sembra tenere conto del recente
orientamento della giurisprudenza di legittimità espresso in tema
di danno alla persona conseguente a responsabilità medica secondo cui «l’omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, sul quale sia possibile intervenire soltanto con un intervento
cosiddetto palliativo, determinando un ritardo della possibilità di
esecuzione di tale intervento, cagiona al paziente un danno alla
persona per il fatto che nelle more egli non ha potuto fruire di tale
intervento e, quindi, ha dovuto sopportare le conseguenze del processo morboso e particolarmente il dolore, posto che la tempestiva
esecuzione dell’intervento palliativo avrebbe potuto, sia pure senza la risoluzione del processo morboso, alleviare le sue sofferenze»
(Cass., 18.9.2008, n. 23846).
Infine, è demandato al Ministero della salute di redigere un rapporto annuale finalizzato a rilevare l’andamento delle prescrizioni
di farmaci per la terapia del dolore, a monitorare lo stato di avanzamento delle due reti su tutto il territorio nazionale e il livello di
omogeneità e di adeguatezza delle stesse e a formulare proposte
per la risoluzione dei problemi e delle criticità eventualmente rilevati, anche al fine di garantire livelli omogenei di trattamento del
dolore su tutto il territorio nazionale nonché di informare con una
Relazione il Parlamento sui risultati rilevati (artt. 9 e 11).
4. Semplificazione in merito alla prescrizione degli oppiacei
Nel quadro delle finalità promosse dalla legge in esame, viene
introdotta la semplificazione della classificazione delle sostanze
stupefacenti destinate all’utilizzo farmaceutico e delle procedure
di prescrizione delle stesse sostanze destinate all’impiego antidolore. La semplificazione incide sulle tabelle allegate al Testo Unico
in materia di stupefacenti d.p.r. n. 309/1990.
In particolare, i farmaci analgesici e gli oppiacei diventano più
facili da prescrivere, basterà il ricettario ordinario e non sarà più
necessario quello speciale per oppioidi e cannabinoidi. Viene introdotta la possibilità che tale assistenza sia erogata anche per
l’assistenza domiciliare o in day hospice.
Viene previsto, inoltre, un margine di autonomia per il farmacista
di dispensare farmaci per i quali le ricette prescrivano un quantitativo che, in relazione alla posologia indicata, superi teoricamente
il limite massimo di terapia di trenta giorni «ove l’eccedenza sia
dovuta al numero di unità posologiche contenute nelle confezioni
in commercio» (art. 10, 1º co.).
&
(5) La Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina ratificata
con l. 28.3.2001, n. 145.
Famiglia, Persone e Successioni 5
399
maggio 2010
u:/LINOTIPO_H/06-wki/Utet_Riviste_cod_Civ/Fps_2010/0120_10_FPS-05_2010/Definitivo/FPS_400_400.3d 26/4/2010 16:34 pagina 400
Indici
INDICE DEGLI AUTORI
Ambrosi Irene
L’osservatorio legislativo.....................................................................
Annunziata Arcangelo Giuseppe
Verso la tutela giuridica delle famiglie omosessuali? ....................
Barba Vincenzo
Distruzione di un testamento olografo............................................
Bracchi Simona Paola
I «jeans»: protezione antistupro per la donna?...............................
Bonilini Giovanni
Affidamento della prole e usufrutto giudiziale ...............................
Costanzo Antonio
L’osservatorio di merito......................................................................
D’Auria Marta
L’osservatorio legislativo.....................................................................
Di Mauro Nicola
La remissione per testamento ...........................................................
Fantetti Francesca Romana
Autonomia dei coniugi e trasferimenti mobiliari ed immobiliari
nei procedimenti di separazione e di divorzio ...............................
Iannone Roberto Francesco
Verso la tutela giuridica delle famiglie omossessuali?...................
Irti Claudia
Accordi patrimoniali fra coniugi e valore probatorio del verbale
di udienza del giudizio di separazione ............................................
Scarano Luigi A.
Le Recentissime ...................................................................................
L’osservatorio delle Corti Superiori .................................................
Tescaro Mauro
L’invalidità degli atti posti in essere dall’amministratore di sostegno e dal beneficiario della misura di protezione .........................
398
maggio 2010
400
Famiglia, Persone e Successioni 5
388
344
344
356
353
327
388
398
375
369
344
340
323
385
335
INDICE CRONOLOGICO
DEI PROVVEDIMENTI
Corte di Cassazione
Cassazione civile, sezione I, 1º marzo 2010, n. 4868 .....................
Cassazione civile, sezione I, 1º marzo 2010, n. 4866 .....................
Cassazione civile, sezione I, 26 febbraio 2010, n. 4757 .................
Cassazione civile, sezione II, 28 dicembre 2009, n. 27395............
Cassazione civile, sezione III, 19 novembre 2009, n. 24436 .........
Cassazione penale, sezione III, 21 luglio 2008, n. 30403 ..............
Tribunale
Tribunale Rimini, (ord.) 16 febbraio 2010 ......................................
Tribunale Ferrara, (ord.) 16 dicembre 2009 ....................................
323
325
385
356
340
353
INDICE ANALITICO
Accordi tra coniugi
Accordi patrimoniali fra coniugi e valore probatorio del verbale
di udienza del giudizio di separazione (Cassazione civile, sezione
III, 19 novembre 2009, n. 24436), di Claudia Irti...........................
Affidamento della prole
Affidamento della prole e usufrutto giudiziale, di Giovanni Bonilini ......................................................................................................
Amministrazione di sostegno
Cassazione civile, sezione I, 1º marzo 2010, n. 4866, Le Recentissime, a cura di Luigi A. Scarano..................................................
Cassazione civile, sezione I, 26 febbraio 2010, n. 4757, L’osservatorio delle Corti Superiori, a cura di Luigi A. Scarano ..................
L’invalidità degli atti posti in essere dall’amministratore di sostegno e dal beneficiario della misura di protezione, di Mauro Tescaro.......................................................................................................
Diritto alla salute
L’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore, L’osservatorio legislativo, di Irene Ambrosi e Marta D’Auria........................
Famiglia di fatto
Verso la tutela giuridica delle famiglie omosessuali? (Tribunale di
Ferrara, (ord.) 16 dicembre 2009), di Arcangelo Giuseppe Annunziata e Roberto Francesco Iannone ...................................................
Immigrazione
Cassazione civile, sezione I, 1º marzo 2010, n. 4868, Le Recentissime, a cura di Luigi A. Scarano..................................................
Separazione e divorzio
Autonomia dei coniugi e trasferimenti mobiliari ed immobiliari
nei procedimenti di separazione e di divorzio, di Francesca Romana Fantetti.......................................................................................
Separazione personale dei coniugi
Tribunale Rimini, (ord.) 16 febbraio 2010, L’osservatorio di merito, a cura di Antonio Costanzo ......................................................
Testamento
La remissione per testamento, di Nicola Di Mauro.......................
Testamento olografo
Distruzione di un testamento olografo (Cassazione civile, sezione II, 28 dicembre 2009, n. 27395), di Vincenzo Barba.................
Violenza sessuale
I ‘‘jeans’’: protezione antistupro per la donna? (Cassazione penale, sezione III, 21 luglio 2008, n. 30403), di Simona Paola Bracchi
340
327
325
385
335
398
344
323
369
388
375
356
353