Il profilo nazionale degli immigrati imprenditori in Italia

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Il profilo nazionale degli immigrati imprenditori in Italia
Cnel
Consiglio Nazionale
dell’Economia
e del Lavoro
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Il profilo nazionale degli immigrati imprenditori in Italia
COPERTINA CNEL FEBBRAIO:Layout 1 08/03/12 10:56 Pagina 1
Il profilo nazionale degli immigrati
imprenditori in Italia
28 novembre 2011
Il profilo nazionale degli immigrati imprenditori in Italia
Roma, 28 novembre 2011
Progetto di ricerca di rilevante interesse nazionale (PRIN 07), cofinanziato dal Ministero
dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, dal CNEL e dalle Università di Milano, Pavia e
Catania.
Responsabile nazionale prof. Antonio M. Chiesi, Università degli Studi di Milano.
Curatrice del rapporto Dr. Deborah De Luca.
Gruppo di ricerca:
Unità di Milano: prof. Maurizio Ambrosini, dr. Ferruccio Biolcati Rinaldi, dr. Eleonora Castagnone, prof. Antonio M.
Chiesi, dr. Deborah De Luca, Università degli Studi di Milano, dr. Maria Fabbri, Università degli Studi di Trento,
Federica Santangelo, Università di Bologna.
Unità di Pavia: prof. Antonio Mutti, Università degli Studi di Pavia, dr. Marco Rinaldini, Università di Modena e
Reggio Emilia.
Unità di Catania: Prof. Michelina Cortese, dr. Maurizio Avola, Università di Catania.
Ha partecipato al coordinamento generale il dr. Elio Ciaccia, consigliere del CNEL.
Contributi tecnici: dr. Giuseppe Bea, CNA, dr. Carlo Catena, Centro Studi CNA Nazionale, dr. Antonio Payar,
Confartigianato, dr. Angela Fucilitti, INPS, dr. Francesco Di Maggio, già responsabile Direzione flussi migratori, INPS.
La ricerca si è avvalsa della collaborazione di esperti, rappresentanti di associazioni imprenditoriali, dirigenti aziendali.
Si ringraziano in particolare: Luca Galli, segretario generale Confartigianato di Prato, Alessandro Ligabue, dirigente
Credito Emiliano, Antonietta Mundo, responsabile coordinamento generale statistico attuariale INPS.
2
INDICE
Presentazione
4
1. Premessa
6
PRIMA PARTE
2. Il ruolo degli imprenditori immigrati nello sviluppo della piccola impresa in Italia
3. I fattori di diffusione dell’imprenditorialità straniera sul territorio italiano
8
25
SECONDA PARTE
4.
5.
6.
7.
8.
9.
Commercianti cinesi a Catania: risorse competitive e strategie imprenditoriali
Imprenditori egiziani nel settore edile a Milano
Imprenditori nord africani nel settore metalmeccanico a Modena Reggio Emilia
Imprenditori cinesi nel settore delle confezioni e dell’abbigliamento a Prato
Imprenditori marocchini nel settore del “food” a Torino
Imprenditori immigrati a Trento: trasporti ed edilizia a confronto
32
58
73
114
137
159
TERZA PARTE
10. Percorsi e strategie imprenditoriali di fronte alla crisi
11. Considerazioni sugli imprenditori di successo
175
200
Riferimenti bibliografici
202
3
Presentazione
Cons. Giorgio Alessandrini, Presidente Vicario ONC-CNEL
Il profilo nazionale degli immigrati imprenditori in Italia
Questa ricerca sulla Imprenditoria degli immigrati in Italia, coordinata dal prof. Antonio
Chiesi dell’Università degli Studi di Milano e cofinanziata dall’ONC-CNEL, evidenzia quanto
questa realtà dell’immigrazione sia protagonista di una forte integrazione economica, sociale e
culturale, e veicolo di iniziative di cooperazione allo sviluppo con i Paesi di origine. Va rilevato
come un aspetto prezioso perché integrazione e cooperazione sono le sfide a tutto campo di nuove
politiche lungimiranti per l’immigrazione.
Nel panorama dei recenti studi condotti a livello locale sull’imprenditorialità immigrata in
Italia, il lavoro che ho il piacere di presentare contiene diversi elementi di novità, dal punto di vista
dell’approccio, dei risultati e delle possibili linee di intervento che esso suggerisce.
Si tratta di uno studio sistematico condotto a livello nazionale, da cui emerge un profilo
complessivo dell’imprenditorialità immigrata, colta nei suoi successi – nonostante lo scoppio della
grande crisi – ma anche nei suoi insuccessi. Per la prima volta, accanto alla conferma di alcune
caratteristiche già emerse in studi d’area, condotti nel Nord e Centro Italia, vengono delineate
alcune caratteristiche della diffusione dell’imprenditorialità immigrata anche al Sud.
Questa diffusione presenta aspetti diversi a seconda di tre importanti fattori: il settore di
attività, la collocazione territoriale delle imprese e la nazionalità dei titolari. Rimane confermata la
stretta correlazione tra nazionalità e specializzazione settoriale, soprattutto per alcuni gruppi etnici,
mentre la diffusione territoriale dipende ovviamente da fattori economici – come il livello di reddito
pro-capite della provincia – ma soprattutto da fattori sociali legati alla capacità di accoglienza del
territorio e alla dotazione di quello che una consolidata letteratura chiama “capitale sociale”.
La coesione sociale a livello locale e il livello di sviluppo e di benessere economico sono le
chiavi per spiegare la diseguale diffusione dell’imprenditorialità immigrata nelle “cento Italie” dei
distretti. In prospettiva internazionale, emerge però anche una specificità tutta italiana: la diffusione
della micro impresa, caratteristica strutturale della nostra economia, ha rappresentato un terreno
propizio per lo sviluppo dell’imprenditorialità immigrata, più che in altri paesi europei.
Nei meccanismi di creazione di impresa analizzati emergono soprattutto processi di
progressiva sostituzione di piccola imprenditorialità autoctona, come nei servizi a basso valore
aggiunto e nella piccola distribuzione. Nell’attività industriale ed edilizia questa sostituzione è
spesso fortemente integrata nelle filiere di sub fornitura. Il fenomeno dell’integrazione nelle catene
pregiate dell’innovazione distrettuale è tuttavia rarissimo, anche perché gli stessi imprenditori
autoctoni fanno fatica a mantenere le posizioni e i più forti e dotati hanno adottato a loro volta
strategie di uscita dall’ambito locale attraverso la costituzione di reti organizzative transnazionali.
Nonostante la forte eterogeneità sociale ed economica, il progetto ha permesso di delineare i
tratti essenziali del profilo complessivo degli imprenditori immigrati, che emergono da un mare di
centinaia di migliaia di partite IVA, imprese individuali, lavoratori formalmente autonomi che
lavorano per un solo “cliente”. L’analisi condotta ha permesso di individuare significative
differenze tra i singoli e coloro che hanno dipendenti e che spesso creano lavoro anche per gli
italiani. In generale, il rapporto con gli italiani è legato ad una più elevata probabilità dell’azienda di
resistere o di trarre addirittura beneficio dalla crisi. Solo i cinesi sembrano perseguire con successo
la consolidata strategia di forte integrazione con legami co-etnici internazionali e relativo
isolamento rispetto agli italiani. Questi imprenditori non possono però fare a meno di consulenti
fiscali o del lavoro italiani, in attesa forse, che la seconda generazione formata in Italia fornisca
queste competenze entro la cerchia etnica.
4
La riconferma delle specificità etniche non nasconde tuttavia ciò che gli imprenditori
immigrati condividono con gli italiani in termini di analisi della congiuntura, preoccupazioni,
richieste e suggerimenti, modi per uscire dalla crisi. Gli imprenditori immigrati, al pari degli
autoctoni, considerano la reputazione l’asset più importante e vogliono puntare sulla qualità
piuttosto che sul prezzo, temono la concorrenza degli stranieri, piuttosto che quella degli italiani e
come questi ultimi, temono la dipendenza da pochi clienti. Il problema della crescita della piccola
impresa tocca in egual modo imprenditori immigrati e autoctoni.
La ricerca ha anche mostrato che gli imprenditori immigrati più solidi mantengono più
frequentemente rapporti economici con il paese di origine. Questo aspetto può avere implicazioni
positive, soprattutto per i paesi di origine, ma anche la nostra economia potrebbe giovarsi di
crescenti rapporti con paesi che hanno recentemente dimostrato di aspirare ad una maggiore
democrazia.
Porre il problema del contributo che questa ormai importante componente dell’economia
nazionale può dare allo sviluppo del paese, significa anche abbandonare la preoccupazione
“integrazionista” che ha accompagnato le prime analisi sull’imprenditorialità immigrata, prendere
atto che la nostra economia non può più farne a meno e rinnovare il dibattito sul contributo che la
piccola impresa in generale può dare al rilancio dell’economia italiana.
5
1. Premessa
Questo volume riporta i risultati complessivi di un complesso progetto di ricerca pluriennale,
che ha impegnato le Università di Milano, Pavia e Catania e si è giovato della collaborazione
operativa, nonché del cofinanziamento del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro,
attraverso l’Organismo Nazionale di Coordinamento per le politiche di integrazione sociale degli
stranieri. Il progetto ha coinvolto a livello locale anche le principali Associazioni di rappresentanza
degli interessi degli artigiani e della piccola impresa, in particolare Confartigianato e CNA.
Nonostante la consolidata tradizione internazionale di studi e ricerche sulla diffusione e la
specificità del comportamento imprenditoriale tra i membri di differenti gruppi etnici, in Italia
questo ambito di indagine si è sviluppato grazie a ormai numerosi studi settoriali o locali, che
tuttavia rimangono ancora a forte carattere esplorativo. La mancanza di sistematicità di questi studi
impedisce comunque di delineare un profilo nazionale del fenomeno e dei soggetti protagonisti di
uno sviluppo locale che non sembra risentire della crisi globale iniziata nella seconda metà del
2008.
Il progetto ha utilizzato criticamente le teorie specifiche sviluppate negli anni recenti in
ambito europeo, che suggeriscono di combinare sia fattori di domanda (vacancy chain, ethnic
enclave, ethnic economy) che di offerta (propensione al rischio e dotazione di capitale sociale,
capitale umano e strategie di accumulazione ‘originaria’ del capitale economico). Inoltre,
l’attenzione al ruolo giocato dal capitale sociale, alla costruzione dei rapporti fiduciari coetnici e
interetnici e all’acquisizione della reputazione ha permesso di arricchire le interpretazioni teoriche
sopra richiamate e di contribuire all’innovazione teorica nell’ambito della letteratura
sull’imprenditorialità etnica.
Il progetto prevedeva diverse fasi.
Una prima fase si è basata su diverse fonti istituzionali o associative (Unioncamere, INPS,
Archivio CNA-Caritas) allo scopo di analizzare l’andamento nel tempo per settore, per nazionalità
del titolare e per provincia di insediamento, la tendenza alla specializzazione settoriale e alla
crescita occupazionale. Questa fase è stata favorita anche dall’utilizzo sistematico di ricerche
recenti promosse dal CNEL stesso, come quelle pubblicate annualmente sugli indici di integrazione
degli immigrati in Italia.
In una seconda fase, accanto all’analisi delle imprese, condotta con un approccio
quantitativo basato sul confronto tra le basi di dati disponibili sono stati condotti studi di sfondo in
sei aree locali, dove la presenza di imprese di immigrati è più diffusa e caratterizzata settorialmente.
La terza fase ha riguardato una campagna di interviste, realizzate tra marzo a settembre
2010, rivolte ad imprenditori immigrati nelle sei aree locali individuate, allo scopo di rilevare le
principali caratteristiche dell’attività imprenditoriale, del contesto familiare, di selezionati
atteggiamenti e del network delle relazioni interpersonali. L’approccio quantitativo ha rappresentato
la base dell’analisi della dotazione di capitale sociale, umano ed economico e del rapporto tra queste
risorse e la dinamica aziendale. Specifica attenzione è stata dedicata al prestigio e ad altre
caratteristiche rilevanti dei contatti interpersonali che costituscono il capitale sociale
dell’imprenditore.
La quarta fase è stata svolta con approccio qualitativo ed è stata rivolta ad un sotto-campione
di imprenditori di successo, allo scopo di approfondire la storia aziendale e biografica del titolare, le
strategie adottate, i rapporti con il paese di orgine, gli atteggiamenti rilevanti riguardanti l’attività di
gestione dell’azienda e le sue prospettive, nonché gli aspetti motivazionali e valoriali.
Il presente rapporto rappresenta la prima illustrazione complessiva e dettagliata dei risultati
della ricerca.
Il volume è aperto da una riflessione di sintesi, scritta da Antonio Chiesi, sul ruolo
dell’imprenditorialità immigrata nello sviluppo della piccola impresa in Italia. Segue un’analisi
6
critica delle basi dati disponibili. I capitoli successivi sono dedicati ciascuno ad una delle sei aree
territoriali emblematiche dello sviluppo imprenditoriale degli immigrati. In particolare il quarto
capitolo, scritto da Maurizio Avola e Anna Cortese, analizza la realtà commerciale cinese a Catania,
soffermandosi sulle strategie di adattamento locali e globali. Il quinto capitolo, scritto da Federica
Santangelo, si focalizza sugli imprenditori egiziani che operano nel settore edile a Milano e
aggiorna alla situazione di crisi attuale lo studio di un gruppo di imprenditori già da tempo oggetto
di attenzione da parte dei ricercatori. Il sesto capitolo, scritto da Matteo Rinaldini, offre una
panoramica dettagliata dell’evoluzione della presenza immigrata a Modena e Reggio Emilia,
analizzandone il ruolo nell’ambito dell’economia locale, prima di focalizzarsi sul settore
metalmeccanico. Il settimo capitolo, redatto da Maria Fabbri, si occupa di una realtà già oggetto di
diversi studi, quella del settore tessile cinese a Prato. Il capitolo aggiorna l’analisi alla situazione
attuale, valutando le prospettive future di una realtà estremamente dinamica. L’ottavo capitolo,
scritto da Eleonora Castagnone, è dedicato al settore alimentare a Torino e si focalizza
sull’esperienza dei marocchini. Il nono capitolo, scritto da Anita Da Col e Deborah De Luca, ha
come oggetto l’imprenditorialità immigrata a Trento, confrontando la situazione dei due settori
economici più rappresentativi della realtà locale, quello edile e quello dei trasporti, in cui le imprese
di immigrati mostrano un notevole radicamento.
Il decimo capitolo, scritto da Deborah De Luca, propone infine un’analisi complessiva dei
dati raccolti, soffermandosi su alcuni aspetti centrali dell’imprenditorialità immigrata e mettendo in
luce le differenze tra i diversi gruppi etnici e tra i diversi settori di attività, nonché il ruolo chiave
della dimensione di impresa.
L’undicesimo capitolo, scritto da Antonio Mutti, sviluppa alcune considerazioni nate dagli
approfondimenti qualitativi suggeriti dalle esperienze di imprenditori di successo.
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PRIMA PARTE
2. Il ruolo degli imprenditori immigrati nello sviluppo della piccola
impresa in Italia
Antonio M. Chiesi*
1. La piccola impresa in Europa
La sostanziale stagnazione dell’economia italiana dopo la grande crisi, ma anche il basso
livello di sviluppo prima, appaiono in qualche modo come un paradosso, se si pensa che l’Italia è il
paese con la maggiore diffusione assoluta di piccola imprenditorialità in Europa e che la
Commissione europea ha più volte sottolineato il ruolo propulsivo che la piccola impresa può
giocare per lo sviluppo in Europa1.
La definizione europea di SME è stabilita in meno di 250 addetti ovvero meno di € 50
milioni di fatturato, per imprese indipendenti, cioè non controllate da attori economici di maggiore
dimensione.
Tab. 1 - Classificazione europea delle SME:
classe di dimensione n. dipendenti
Media impresa
50-249
Piccola impresa
10-49
Micro impresa
< 10
Imprese individuali
0
Fonte: Eurostat
Le tabb. 2 e 3 mostrano che le SME in Europa sono 20,9 milioni, pari al 99,8% del totale
delle imprese, con una relativa maggiore concentrazione nel settore della distribuzione. In
particolare le micro-imprese rappresentano oltre il 90% del totale. Le SME danno occupazione a
90,6 milioni di lavoratori, compresi i titolari, cioè rappresentano il 66,7% del totale dei posti di
lavoro. Il loro contributo alla creazione di ricchezza è stato pari a 3.617 miliardi nel 2008, pari al
58,6% del valore aggiunto totale prodotto dall’economia europea2, con una produttività pro-capite
di € 39.900, contro 56.600 delle grandi imprese. La produttività del lavoro rimane correlata
positivamente con la dimensione aziendale ed è alla base dell’attenzione delle Autorità europee, che
riconoscono il grande contributo occupazionale delle SME, ma anche l’apparente difficoltà relativa
soprattutto delle micro imprese.
* Università Statale di Milano
1
Nel giugno 2008 in ambito europeo è stata approvata la comunicazione Small Business Act (SBA) for Europe, che
riconosce il ruolo centrale occupato dalle SME nell’economia europea e auspica un rafforzamento del ruolo da esse
giocato, la promozione del loro ulteriore sviluppo e la relativa creazione di posti di lavoro, contribuendo alla soluzione
di problemi che le affliggono, a prescindere dal Paese in cui operano, mediante: la semplificazione amministrativa e
burocratica, l’accesso alle fonti di finanziamento, l’accesso a nuovi mercati di sbocco, la difesa delle condizioni per una
corretta concorrenza, la formazione delle competenze e della capacità imprenditoriali, la protezione della proprietà
intellettuale, l’incoraggiamento della ricerca e dello sviluppo, il sostegno a livello regionale e locale. Al di là della
effettiva efficacia delle misure che a livello europeo potranno essere prese in questa direzione, è opportuno sottolineare
come queste posizioni ricalchino ciò che da tanti anni viene predicato e talvolta perseguito in Italia.
2
Tutti i settori di attività, tranne le attività finanziarie.
8
Tab. 2 – Le SME in Europa 27
Fonte: Eurostat, Size Class Analysis, 2011.
L’Italia contribuisce a questo quadro generale con 3.947.000 SME3, di cui il 94,5% micro
imprese, contro l’83,0% della Germania, e rientra in un modello “mediterraneo”, condiviso in parte
da Spagna, Portogallo, Grecia e Cipro, caratterizzato da una accentuata atomizzazione delle
dimensioni aziendali. L’Italia è il paese europeo in assoluto con il maggiore numero di imprese, che
rappresentano quasi il 19% del totale Europa27, soprattutto per l’elevato peso delle imprese
individuali (20,4% a livello nazionale).
Tab. 3 – Il peso delle SME in Europa 27
Fonte: Eurostat, Size Class Analysis, 2011.
Di fronte alla crisi le piccole imprese, in tutta Europa, hanno risposto mediamente con
maggiore difficoltà, a causa della più bassa produttività del lavoro pro-capite. Tuttavia, come
3
Diverse fonti discordanti, ancorché ufficiali, riportano altrettante stime dalla consistenza delle SME in Italia. Qui
preme ricordare che sono escluse dal computo le professioni e le attività finanziarie e che il criterio di computo è
omogeneo per tutti i paesi europei, garantendo quindi una corretta comparazione internazionale.
9
emerge dalla tab. 3, al loro interno si riscontrano importanti differenze di produttività ante-crisi.
Infatti le imprese di medie dimensioni, pur mostrando livelli di produttività inferiori alle grandi,
mantengono un notevole vantaggio rispetto alle micro. Queste ultime presentano livelli molto
inferiori alla media anche perché, in tutti gli Stati, tendono a concentrarsi nei settori a minore
produttività, a prescindere dalla dimensione aziendale4. Non sono disponibili dati sulla produttività
delle imprese individuali, ma è plausibile pensare, estrapolando sulla base del rapporto
dimensione/produttività, che il loro livello sia ancora più basso. Questo infatti giustifica la
diminuzione assoluta delle imprese individuali registrato a seguito della crisi.
In mancanza di dati aggiornati post-crisi, provenienti da Eurostat a livello complessivo
dell’Europa, per illustrare questo fenomeno passiamo ai soli dati italiani, fonte Unioncamere.
Come illustrato nel cap. 3, già a partire dalla fine del secolo scorso in Italia si assiste ad un
aumento vistoso delle società di capitale tra le piccole imprese e ad una stabilità del numero delle
imprese individuali. Queste ultime cominciano ad avere una dinamica negativa già prima dello
scoppio della grande crisi. Questi andamenti possono essere interpretati come movimento di
progressivo rafforzamento della popolazione delle SME, poiché il peso delle imprese meno
produttive inizia a scendere e aumenta invece il peso di quelle di maggiore dimensione, come sono
in genere le società di capitale.
I dati Unioncamere, integrati da Caritas/CNA per le imprese di immigrati e aggiornati a
giugno 2010 ci dicono che il NI 1997=100 dei diversi tipi di impresa, a metà 2010 sale a 172,6 per
le società di capitale, scende a 97,6 per le imprese individuali e scenderebbe addirittura a 90,8,
senza l’apporto delle imprese di immigrati.
In sostanza, la resistenza delle micro imprese e delle imprese individuali allo shock della
grande crisi è dovuto in parte alla progressiva sostituzione di imprenditori autoctoni con
imprenditori immigrati.
Prima di affrontare questo aspetto, che è al cuore dell’indagine complessiva presentata in
questa monografia, è però opportuno riprendere il dibattito sulle cause della persistenza della micro
impresa in Italia.
2. La persistenza e diffusione delle micro-imprese in Italia5
Gli studiosi si sono a lungo interrogati sulla diffusione della micro-impresa in Italia, che
rappresenta una specificità unica nel panorama europeo. Le ragioni del persistente nanismo
nell’epoca della globalizzazione sono state individuate nelle caratteristiche strutturali dell’economia
italiana e nelle barriere istituzionali, che comportano costi crescenti di gestione al superamento di
una certa soglia dimensionale.
Il primo aspetto si inserisce a sua volta entro il filone interpretativo che sottolinea come, a
seguito della fine del fordismo e della produzione di massa nell’ultimo quarto del secolo scorso, la
tecnologia e i mutamenti del mercato abbiano favorito una diminuzione della dimensione media
ottimale delle imprese nelle economie occidentali (Piore e Sabel 1984, Sengenberger et al. 1990). In
questo processo globale l’Italia si sarebbe anzi giovata di una struttura industriale preesistente già
orientata alla piccola impresa, rafforzata dalle economie di rete locale e propensa all’integrazione
mediante controlli proprietari di scala più elevata. In sostanza già durante la fase fordista, quella
italiana appariva come un’economia maggiormente caratterizzata da un’ampia offerta
imprenditoriale, cui corrispondeva una struttura occupazionale che lasciava ampio spazio agli
indipendenti.
La grande impresa manageriale ha avuto invece in Italia un ruolo storico relativamente
modesto, con conseguente sottosviluppo dell’occupazione alle dipendenze. Diversi studiosi
ritengono quindi che la struttura produttiva italiana sia maggiormente basata sul binomio mercato –
4
5
Ci riferiamo in particolare ai comparti della distribuzione, ristorazione, alberghiero e dei servizi alla persona.
Questo paragrafo riprende in buona parte le considerazioni svolte in Chiesi (2009).
10
imprenditori (piccoli) che sul binomio gerarchie – manager e che le imprese siano inserite in un
contesto economico, sociale e istituzionale tale da indurle a strategie di buy piuttosto che di make, di
esternalizzazione piuttosto che di internalizzazione. Questa scelta a sua volta è stata favorita dalle
economie esterne e dal capitale sociale che ha caratterizzato a lungo i distretti industriali6.
Questi aspetti aiutano a comprendere perché l’Italia, più di altri paesi Sud-europei è
caratterizzata da un basso tasso di occupazione e da un’elevata percentuale di lavoratori
indipendenti sul totale della popolazione attiva. I posti di lavoro dipendente offerti da imprese e
istituzioni sono relativamente meno numerosi che negli altri paesi dell’area euro. In Italia nel 2005
il tasso di occupazione è del 57,6% contro il 65,2% di EU25 e il peso degli indipendenti sul totale
degli occupati è del 26,7%, contro il 15,8%. Conseguentemente gli occupati dipendenti sul totale
della popolazione in età di lavoro sono il 33,1% contro il 45,2%. E’ quindi evidente che tante
imprese piccole o piccolissime, mettono a disposizione molti posti di lavoro autonomo, ma creano
poca occupazione alle dipendenze. La loro struttura di gestione è fondata sull’occupazione
familiare, più che sul ricorso al mercato del lavoro esterno e la loro gestione è affidata al
proprietario, più che a un manager di professione.
Un altro filone interpretativo cerca di spiegare il nanismo delle imprese italiane – non tanto
individuando gli equivalenti funzionali alla crescita dimensionale – ma piuttosto gli ostacoli
immediati alla crescita, che sono consistiti a lungo in una serie di vincoli imposti dalla legge sulle
aziende medie e grandi:
a) obbligo della giusta causa di licenziamento oltre i 15 addetti;
b) obbligo di assunzione di soggetti tutelati dalla legge oltre i 15 addetti;
c) riconoscimento delle rappresentanze sindacali oltre i 15 addetti;
d) obbligo di applicazione di norme più complesse riguardanti la sicurezza oltre i 15 addetti;
e) obbligo di conferimento all’INPS delle somme accantonate per il TFR in capo alle imprese
oltre i 50 addetti.
Bisogna però ricordare che, in vari modi e in tempi diversi, i primi due vincoli sono stati attenuati e
successivamente aboliti già a partire dagli anni ’90. Permane il terzo vincolo, in un contesto di
relazioni industriali di progressiva diminuzione dell’influenza del sindacato sui luoghi di lavoro. Il
quarto vincolo è stato invece introdotto nel 1994 e il quinto nel corso del 2006. In sostanza, benché
mutevole, il sistema dei vincoli normativi costituisce un fattore che non può essere trascurato.
Alcuni studi hanno però mostrano che l’influenza esercitata da questa normativa sulle varie
soglie dimensionali delle imprese non presenta chiare evidenze empiriche (Anastasia 1999), tranne
che – in misura modesta e per lo meno fino agli anni ’90 – per la soglia dei 15 addetti (Accornero
1999). Le evidenze a disposizione complicano comunque il quadro interpretativo, perché in
quest’ultimo studio fanno emergere anche soglie su dimensioni che non possono essere ricondotte
alla normativa.
A parte i vincoli di legge, esistono importanti condizioni, derivanti dal funzionamento o dal
mancato funzionamento delle istituzioni, che possono indurre le piccole imprese a non crescere. In
proposito un tema ricorrente nel dibattito è rappresentato dal regime fiscale riservato alle piccole
imprese, alla pratica dell’elusione fiscale e alla portata dell’evasione tout court. Se è vero che la
situazione è molto mutata rispetto a quella studiata da Pizzorno (1974) con riferimento alle
agevolazioni e alla protezione accordata per ragioni di consenso politico alla piccola impresa,
espressione dei ceti medi, i dati sulle denunce dei redditi mostrano un persistente vantaggio fiscale
dei lavoratori indipendenti, degli imprenditori e dei professionisti sugli occupati alle dipendenze.
Nei decenni a cavallo dei due secoli il mix di inasprimenti fiscali accompagnati da scarsa efficacia
dei controlli e i condoni a scadenza quasi prevedibile hanno probabilmente favorito la piccola
impresa, più in grado di sfuggire ai vincoli normativi. Il risultato sulle statistiche fiscali è
impressionante, poiché la povertà ufficiale si concentra tra gli imprenditori, i professionisti e gli
agricoltori, che per il 26,3% hanno dichiarato al fisco nel 2004 meno di 6.000 euro, mentre oltre i
6
A loro volta le piccole imprese tendono a compensare la piccola dimensione con l’appartenenza ad un gruppo.
11
100.000 euro compaiono praticamente solo lavoratori dipendenti. Nel contempo però il prelievo
IVA e IRAP tendeva ad aumentare ad un ritmo superiore al PIL7.
Un’altra importante ragione per non voler crescere può consistere nei differenziali retributivi
a favore della piccola impresa, come dimostrano le ormai datate ricerche di Contini e Revelli
(1992), confermate dal successivo studio di Anastasia (1999), che mostra retribuzioni
costantemente inferiori dell’11% circa tra gli operai della piccola impresa rispetto alla media
nazionale e addirittura del 26% tra gli impiegati. Questi risultati, basati su fonte INPS, si riferiscono
tuttavia alle retribuzioni ufficiali, cui corrispondono i contributi previdenziali e non possono fare
luce sui fuoribusta, la cui diffusione potrebbe compensare in tutto o in parte le differenze
evidenziate.
Uno dei fattori che gioca invece tradizionalmente a sfavore della piccola impresa è la
possibilità di accesso ai finanziamenti. Tuttavia è stato sottolineato che le piccole aziende sono
molto restie a ricorrere a capitali esterni (Scanagatta 1999) e fanno affidamento
sull’autofinanziamento soprattutto perché hanno paura di perdere il controllo o anche solo
l’autonomia nella gestione, che vedrebbe l’interferenza di esterni finanziatori. La paura di
interferenze esterne può portare a scegliere di non crescere.
Questo tipo di scelta, che sottostà ai meccanismi che stiamo discutendo, fa emergere la
questione del ruolo giocato dalle preferenze dell’imprenditore. Queste vengono normalmente
trascurate dalla letteratura economica, ma sono invece tradizionalmente presenti nell’approccio
sociologico (Schumpeter 1912, Sargant Florence 1964, Storey 1994). Accornero (1999) fornisce
dati a sostegno dell’ipotesi che la piccola dimensione aziendale sia tipica degli imprenditori che
provengono dalla gavetta e che sono motivati da aspettative di promozione di ceto, che
concepiscono l’impresa soprattutto come luogo di lavoro qualificato, che identificano l’impresa con
la famiglia, il capitale investito con il patrimonio familiare, la proprietà con il controllo e
l’affidamento a competenze manageriali esterne come un’intromissione e un pericolo per
l’autonomia propria e della propria famialia.
Il discorso di Accornero è tuttavia rivolto al passato, spiega in modo convincente come è
nata e quale è stato il ruolo della piccola impresa originata negli anni ’70 e ’80 da una classe di
imprenditori cresciuti dal basso, in buona parte provenienti dalle fila degli operai nelle regioni
industrializzate e dei mezzadri nelle regioni della Terza Italia non ancora industrializzata. Il profilo
del piccolo imprenditore di prima generazione è quello di una persona accentratrice, con grande
esperienza pratica, indefessa vocazione al lavoro prolungato e spirito di autonomia8, ma con basso
titolo di studio e che teme il gap culturale che lo separa dal dirigente.
Questo profilo, in sostanza, sottolinea che, accanto alla volontà di sfruttare razionalmente le
opportunità di mercato – come prevede la teoria economica delle preferenze date dell’imprenditore
– esisterebbe anche la motivazione ad evitare interferenze esterne alla famiglia o addirittura il
timore di perdere il controllo effettivo della propria attività.
Abbiamo discusso poco sopra che:
a) i vincoli presi in considerazione dalla letteratura non producono effetti di soglia dimensionale
empiricamente consistenti;
b) le motivazioni imprenditoriali non sono esclusivamente dettate dal desiderio di massimizzare
l’efficienza aziendale, come imporrebbero le aspettative di ruolo imprenditoriale, per dirla in
termini sociologici. Esistono altre motivazioni dettate dal fatto che l’imprenditore è anche un
membro familiare e pertanto è motivato da aspettative di ruolo che privilegiano gli interessi
relativi allo status sociale e alla preservazione della sicurezza economica del nucleo nel lungo
periodo.
7
Si vedano in proposito i dati riportati nella pagina dedicata al fisco sul Sole 24 Ore del 14 agosto 2006.
Questi tratti rappresentano un profilo abbastanza costante dei pregi e dei limiti della piccola imprenditorialità italiana,
come dimostrano i risultati raggiunti dalla pionieristica indagine condotta negli ani ’50 da Pizzorno a Rescaldina
(Pizzorno 1960).
8
12
Ciò che l’imprenditore decide di fare non implica necessariamente un’alternativa tra questi due
obiettivi – perché non sono indipendenti tra loro9 – ma piuttosto una mediazione continuamente
rivista e aggiustata a seconda, appunto, dei vincoli/opportunità esterni, ma anche interni
all’organizzazione aziendale, alla demografia familiare e alla fase del corso di vita del nucleo di
convivenza.
Per queste ragioni proponiamo un’ipotesi di lavoro che non nega né le ragioni istituzionali,
né quelle relative agli aspetti motivazionali, ma assume che il legame tra azienda e famiglia svolge
un ruolo positivo nella fase di fondazione e sviluppo dell’impresa, ma diventa un fattore di
debolezza quando l’impresa deve crescere e competere a livello globale. E’ quindi un potente
fattore che favorisce la nascita delle imprese, ma allo stesso tempo è destinato a frenarne lo
sviluppo nel lungo periodo. Infatti il mutamento del rapporto tra impresa e famiglia determina
anche un mutamento nelle preferenze degli imprenditori e quindi è alla base di strategie diverse, più
difensive, avverse al rischio e maggiormente attratte dal rent seeking. Il fatto che il capitalismo
italiano sia stato e sia tutt’ora eminentemente familiare rende questa ipotesi particolarmente
rilevante.
In sostanza, date le caratteristiche morfologiche in termini di numeri, dimensioni e assetto
proprietario familiare, gli immigrati hanno trovato in Italia terreno relativamente più fertile che in
altri paesi europei, per attivare e sviluppare attività di micro-impresa e impresa individuale.
3. Il tessuto di micro-imprese in Italia, terreno favorevole allo sviluppo dell’imprenditorialità
immigrata
Anche se il problema della spiegazione della diffusione e della persistenza storica delle
micro imprese nell’economia italiana rimane comunque aperto, di fatto questa diffusione ha
rappresentato un terreno favorevole alla nascita e allo sviluppo dell’imprenditorialità immigrata, più
che in altri paesi europei. I dati del capitolo 3 mostrano una significativa correlazione tra presenza
di piccola impresa autoctona e diffusione dell’imprenditoria immigrata in quasi tutti i paesi europei
e dove negli ultimi due decenni le piccole imprese autoctone hanno diminuito il loro peso
sull’occupazione totale, così è stato anche per le imprese di immigrati, che hanno visto ridurre il
loro contributo specifico all’occupazione degli immigrati (si vedano in particolare i casi della
Grecia, dell’Irlanda e del Portogallo, come esempi più evidenti di questa tendenza, e dell’Italia,
nonostante l’aumento assoluto delle imprese con titolare straniero).
Rimandiamo al capitolo successivo per la discussione del problema della determinazione
numerica delle imprese di immigrati, al di là dell’apparente precisione dei dati istituzionali
pubblicati ormai regolarmente dagli organi di stampa. Abbiamo deciso di accantonare questo
problema che dipende dall’eterogeneità delle fonti istituzionali, dai problemi del loro reale
aggiornamento, dal fatto che queste fonti nascono da esigenze amministrative e fiscali, piuttosto che
censuarie, dal problema della definizione di chi sia imprenditore, lavoratore autonomo,
amministratore o altro. Confrontando di volta in volta diverse fonti, siamo arrivati alla conclusione
che la diseguale presenza delle imprese di immigrati sul territorio nazionale dipenda principalmente
da tre fattori: il livello di benessere economico provinciale, misurato attraverso il PIL locale procapite, il grado di integrazione locale degli immigrati, misurato attraverso l’indice di integrazione
sociale pubblicato annualmente dal CNEL, e la dotazione locale di capitale sociale, misurato
attraverso una serie di indicatori elaborati nel corso del Progetto ministeriale di rilevante interesse
nazionale – PRIN (Chiesi 2005, 2008).
9
Diversi approfonditi studi storici sul rapporto tra impresa e famiglia hanno mostrato che fare prevalere gli interessi
dell’azienda su quelli della famiglia, non solo viene giudicato riprovevole anche nelle fasi del capitalismo rampante, ma
può comportare seri rischi anche per l’azienda stessa. I casi più diffusi vedono però prevalere gli interessi della famiglia
su quelli dell’azienda, con esiti alla lunga esiziali per la prima (Romano 1985), o in cui l’attaccamento alla tradizione
familiare porta l’impresa alla rovina (Levi 1984).
13
E’ interessante segnalare che dei tre indicatori, due sono relativi alla sfera sociale
(integrazione sociale e capitale sociale), uno soltanto è riconducibile alla sfera dell’economia locale
(PIL pro-capite). Ma è ancor più interessante sottolineare che due di questi indicatori, in particolare
la dotazione locale di capitale sociale e di capitale economico, sono ampiamente riconosciuti dalla
letteratura come fattori di successo di qualsiasi tipo di attività imprenditoriale, autoctona o
immigrata.
Peso delle imprese di immigrati sul totale delle imprese nelle provincie italiane
Per rendere più concreto il nostro discorso, anticipiamo sopra la figura che verrà
ampiamente presentata e commentata nel capitolo 3. Essa illustra il peso percentuale delle imprese
di immigrati sul totale delle imprese, cioè il contributo che l’imprenditorialità immigrata fornisce
alle economie provinciali e dimostra che la concentrazione è maggiore al Nord e nelle aree dei
distretti industriali, con qualche attenuazione di questa regola per le provincie del Nord-Est.
In conclusione, poiché esiste una correlazione significativa tra diffusione delle imprese di
autoctoni e diffusione delle imprese di immigrati, possiamo concludere che le piccole imprese
autoctone e quelle degli immigrati condividono in gran parte gli stessi fattori che ne spiegano la
presenza. A livello aggregato, le une non sono alternative alle altre, bensì complementari10.
Approfondiremo questo aspetto nel paragrafo 5, dopo avere illustrato in modo schematico il profilo
e le risorse di cui gli imprenditori immigrati possono fare conto nella loro attività, con particolare
riferimento alla dotazione delle tre forme di capitale: capitale economico, culturale e sociale.
10
Come si vedrà nei capitoli dedicati alle analisi specifiche di area e di settore, questo non significa che gli imprenditori
immigrati non possano trovarsi nella posizione di fare diretta concorrenza agli imprenditori autoctoni. Si veda in
particolare il caso della piccola distribuzione nel Catanese.
14
4. Le risorse degli imprenditori immigrati e le tre forme di capitale
Come qualsiasi imprenditore, in qualsiasi mercato, anche gli imprenditori immigrati che
operano in Italia possono giovarsi di un mix delle tre forme di capitale. La loro specificità consiste
tuttavia nel giovarsi di queste risorse attraverso meccanismi in gran parte differenti dagli
imprenditori autoctoni.
Specifichiamo anzitutto cosa debba intendersi per tre forme di capitale, cioè capitale
economico, culturale e sociale.
Il capitale economico consiste nella disponibilità di risorse monetarie, che possono essere
investite in impianti, macchinari, materie prime e semilavorate, prodotti finiti, acquisto di
manodopera, prestazioni e consulenze, ecc…In linea di massima il capitale economico è fungibile,
ma può essere immobilizzato ed è soggetto ad un progressivo consumo, che richiede operazioni di
ammortamento per poter essere ricostituito.
Il capitale culturale consiste nel complesso delle conoscenze e delle esperienze che
l’imprenditore ha acquisito mediante programmi di formazione formale o informale e mediante
l’apprendimento delle pratiche decisionali e dei comportamenti appropriati per la soluzione di
problemi riguardanti l’attività di tutti i giorni. In linea di principio, particolare rilevanza assume per
gli imprenditori immigrati la conoscenza delle lingue e, secondo una consolidata letteratura, la
socializzazione alle attività economicamente rilevanti avuta nell’ambito della famiglia di origine
(Bagnasco 1977, Trigilia 1986). A differenza del capitale economico, che implica un utilizzo
esclusivo, il capitale culturale è personale, ma anche condiviso, e tende ad aumentare attraverso la
trasmissione delle informazioni e dei giudizi tra le persone.
Il capitale sociale è meno univocamente definito nella letteratura (Chiesi 2008). Ai nostri
fini seguiamo tuttavia la definizione prevalente (Coleman 1990, Lin 2001, Mutti 2002, Flap 2002),
che si riferisce alla dotazione individuale di relazioni sociali relativamente stabili e basate sulla
reputazione, un grado di essere mobilitate dal soggetto per raggiungere i propri scopi. Poiché le
relazioni interpersonali si basano sulla condivisione di elementi culturali, esiste una correlazione tra
capitale culturale e capitale sociale (Bourdieu 1980), ma i due tipi di risorsa devono essere tenuti
analiticamente distinti e rilevati empiricamente con strumenti diversi (Chiesi 2005).
Commentiamo ora i principali risultati emergenti dall’indagine condotta nel corso del 2010,
relativa ad un campione di 200 immigrati imprenditori a livello nazionale. Dopo averne delineato
alcuni tratti socio-anagrafici essenziali ne discuteremo la loro capacità di accesso alle tre forme di
capitale e le loro strategie per ottenerle.
Tra gli studiosi dei fenomeni migratori sono ben note le difficoltà di campionamento di
popolazioni di immigrati. La pratica di ricerca ormai consolidata anche in Italia ha sempre evitato la
costruzione di campioni probabilistici, a causa della difficoltà a reperire elenchi completi delle
popolazioni di riferimento, degli ostacoli nel reperimento dei soggetti, della difficoltà a motivarli
nell’intervista11. Per questo, anche nel nostro caso, si è fatto ricorso ad una tecnica di
campionamento misto, partendo dagli elenchi delle camere di commercio e degli iscritti alle
maggiori associazioni artigiane e di piccola impresa e integrando le liste con la tecnica snow ball. Si
tratta quindi di una campione non probabilistico, entro cui sono state garantite quote in grado di
assicurare la presenza dei gruppi di nazionalità e dei settori più coinvolti dal fenomeno. La
descrizione delle caratteristiche socio-anagrafiche dei soggetti campionati ha quindi più un valore di
verifica della rappresentatività del campione che un valore descrittivo del fenomeno12.
11
Nella nostra indagine quest’ultima difficoltà è stata affrontata anche con il ricorso di intervistatori co-etnici, meglio in
grado di instaurare una relazione fiduciaria, necessaria premessa dell’intervista.
12
Come illustrato nel capitolo 10, il profilo emergente nella nostra indagine trova conferme parziali in diverse indagini
pregresse a livello regionale.
15
4.1. Elementi essenziali del profilo socio-demografico
Il nostro campione comprende imprenditori provenienti dalla sponda Sud del Mediterraneo,
dai paesi dell’Est europeo (quindi include anche paesi neo-comunitari come la Romania13), paesi
dell’Africa sub-sahariana e paesi asiatici (essenzialmente la Cina e il sub-continente indiano),
rispettando quindi le provenienze che maggiormente hanno espresso capacità imprenditoriali. Un
aspetto caratterizzante della nostra indagine consiste principalmente nell’individuazione di
imprenditori propriamente detti, cioè di titolari di imprese con dipendenti, accanto a un
sottocampione di controllo di lavoratori autonomi, titolari di imprese individuali che dichiarano di
non avere dipendenti14. I settori considerati sono quelli in cui la realtà dell’imprenditoria immigrata
è più consolidata nel nostro paese, nell’ordine: edilizia, commercio, industria metalmeccanica,
industria tessile e abbigliamento, servizi.
Nel 10% dei casi si tratta di imprenditrici, concentrate soprattutto nella popolazione cinese,
mentre nelle altre nazionalità il genere maschile comprende quasi tutti gli intervistati. L’età media è
di 41 anni, l’arrivo in Italia risale in media a 18 anni fa15, gran parte sono inseriti in nuclei di
convivenza (85% sposati) con figli (80%). Alcuni sono sposati con italiane, soprattutto gli egiziani,
a conferma di precedenti indagini condotte a livello locale (Chiesi e Zucchetti 2003, Abbatecola
2004). L’origine sociale conferma i risultati di precedenti indagini condotte a livello locale: nel 37%
dei casi gli intervistati provengono da famiglie di commercianti, dirigenti, piccoli imprenditori e
professionisti, nel 18% dei casi l’occupazione paterna è tecnica o impiegatizia. La provenienza da
ambienti sociali urbani (82%) e relativamente privilegiati è confermata dal fatto che il 91% degli
intervistati dichiara di avere goduto di condizioni economiche originarie superiori alla media (34%)
o in linea con la media. Le condizioni economiche originarie possono spiegare in parte le
motivazioni all’emigrazione, poiché il 41% degli intervistati cita il desiderio di promozione.
Tuttavia sono altrettanto presenti motivazioni dettate dalla necessità di reagire ad un peggioramento
della situazione (si pensi alle vicende dei Paesi dell’Est nell’ultimo decennio del secolo scorso o a
vicende familiari direttamente riferite nelle interviste), poiché un altro 43% dichiara di essere
emigrato per risolvere problemi economici. In questi dati si intravedono pertanto sia condizioni
potenzialmente favorevoli all’attività imprenditoriale (relativo benessere), sia risposte ad una
perdita di status. Non si può sottovalutare tuttavia anche un terzo fattore (che interessa il 26% degli
intervistati), che richiama direttamente la propensione al rischio e all’avventura e che, secondo la
letteratura classica sull’imprenditorialità è alla base degli atteggiamenti tipici di un’elevata
propensione al rischio (Schumpeter 1912).
Semplificando e rimandando al capitolo 10 per l’illustrazione delle grandi differenze tra
settori e nazionalità degli intervistati, possiamo così riassumere il percorso “medio” della carriera
dei nostri imprenditori: studio nel paese di origine dove la maggior parte sviluppa anche esperienze
lavorative alle dipendenze, in genere a livello qualificato, emigrazione in Italia all’età di 24 anni,
lavoro generico alle dipendenze in Italia, avvio dell’attività imprenditoriale a 33 anni. Occorre
sottolineare che il mettersi in proprio non rappresenta un’alternativa alla disoccupazione, solo una
minoranza ridotta, al momento di fondare l’azienda era disoccupato (12%). Anche se un’altra
minoranza è stata indotta a mettersi in proprio dal precedente datore di lavoro italiano, la maggior
parte degli intervistati ha aperto un’attività per libera scelta, allo scopo di guadagnare di più, essere
autonomo e non avere capi e valorizzare le proprie capacità e conoscenze nel settore. Il 77% degli
intervistati ha fondato l’azienda, il 21% l’ha rilevata e il 2% l’ha ereditata.
Il profilo aziendale collettivo che emerge dall’indagine vede il 35,5% dei casi definibili
come lavoratori autonomi, perché privi di personale alle dipendenze, e il restante 64,5% titolari di
13
Occorre ricordare che buona parte degli imprenditori romeni intervistati ha iniziato l’attività prima dell’entrata della
Romania nella UE.
14
La presenza di lavori autonomi, piuttosto che di imprenditori è riscontrabile soprattutto nel settore della piccola
distribuzione.
15
Questa lunga esperienza nel nostro paese è in parte conseguenza dei criteri di individuazione della popolazione di
riferimento.
16
impresa con un occupazione media di 3,7 addetti, con un range che va da 1 a 28. Se al personale
dipendente aggiungiamo le collaborazioni previste dall’ordinamento italiano (parasubordinati,
consulenti, stagionali, ecc..) l’occupazione media sale di un addetto, con un range da 1 a 36. La
tabella seguente mostra il contributo occupazionale delle imprese con addetti, suddiviso per tipo.
Occupazione media delle imprese con addetti
(dipendenti e collaboratori per tipo)
familiari
connazionali
altri stranieri
italiani
Totale
media addetti
1,11
1,32
0,79
0,49
3,71
composizione %
30
36
21
13
100
Come per la piccola impresa autoctona, il ruolo della famiglia nella fondazione e soprattutto
nella gestione dell’azienda è molto importante. Ben il 58% degli intervistati dichiara di avere un
parente a sua volta titolare d’impresa, nel 19% dei casi familiari o parenti hanno contribuito a
fornire il capitale iniziale. Un terzo degli imprenditori coinvolgono familiari o parenti nell’attività
aziendale e il 30% dell’occupazione totale generata dal campione di imprese analizzate riguarda
familiari.
L’indagine ha rilevato alcuni indicatori sintetici del grado di sviluppo tecnologico
dell’azienda. Si tratta di indicatori elementari. Ormai diffusi anche nella piccola e nella micro
impresa: soltanto nel 38,0% dei casi viene utilizzata la posta elettronica, la disponibilità di un sito
internet si limita al 15,0%, il ricorso alla pubblicità interessa il 19,0% dei casi, l’utilizzo di un
marchio che richiama la nazionalità del titolare il 16,5%. Gli imprenditori si differenziano
ovviamente per un maggiore ricorso a tutti e tre questi strumenti, rispetto ai lavoratori autonomi, ma
le differenze non sono enormi (posta elettronica 39,5% contro 35,2%, sito internet 18,6% contro
8,5%), tranne che per il ricorso alla pubblicità (24,8% contro 8,5%) e l’utilizzo di un marchio
(24,0% contro 2,8%).
4.2. Le modalità di accesso al capitale economico
Per quanto riguarda l’accesso al capitale economico, emerge anzitutto che i capitali
necessari per l’avvio dell’attività non sono considerati dagli intervistati un aspetto di primaria
importanza. Ciò dipende da una serie di fattori che possono variare da settore a settore e per area
territoriale, ma che vedono sempre al primo posto l’elevata capacità di autofinanziamento, resa
possibile da un periodo relativamente lungo di occupazione alle dipendenze, che rende possibile una
fase di “accumulazione originaria”. In questo modo il 66,8% degli intervistati non ha avuto bisogno
di capitali di terzi e un restante 10,6% coinvolge familiari e parenti nel rischio di impresa.
Un altro risultato importante che emerge dall’indagine riguarda la capacità del sistema
creditizio locale di sostenere gli investimenti di avvio. In sostanza gli imprenditori riescono ad
ottenere prestiti dalle banche con una frequenza leggermente superiore a quella con cui li ottengono
da familiari e parenti (9,0% contro 8,5%). Naturalmente la capacità di giovarsi di credito bancario è
diversa a seconda della dimensione aziendale e l’importanza della disponibilità di capitale aumenta
gradualmente con le dimensioni e raggiunge punteggi importanti oltre la soglia dei 5 addetti.
Un altro fattore che riduce l’importanza dell’accesso ai capitali può essere dovuto al fatto
che molte attività avviate dagli immigrati non richiedono un’elevata dotazione di capitale iniziale
(Ambrosini, 2005). Nel nostro campione, questo è certamente vero per il piccolo commercio, ma
non per l’attività industriale metalmeccanica o dell’abbigliamento.
17
La domanda di capitale aumenta invece nel corso dello sviluppo aziendale, poiché il 69,5%
degli intervistati dichiara di avere avuto bisogno di prestiti e nel 30,5% dei casi di essersi rivolto a
banche o ad associazioni di categoria, facendo quindi emergere l’importanza di istituti come confidi
e consorzi e canali agevolati o convenzionati, tipici del tessuto locale di piccola impresa. La
disponibilità di credito bancario dipende ovviamente dal settore, ma soprattutto dall’area territoriale
in cui operano le imprese: maggiore disponibilità in aree distrettuali come quella trentina e pratese,
seguita dalla realtà milanese, ad un livello leggermente più basso nelle aree torinese e di Modena e
Reggio, minima a Catania, dove è la metà della media complessiva.
4.3. L’acquisizione di capitale culturale
Per quanto riguarda la dotazione e l’accesso al capitale culturale, facciamo riferimento ad un
primo indicatore approssimativo, dato dal titolo di studio formale ottenuto, ma lo integriamo con
l’anzianità dell’attività imprenditoriale, come indicatore dell’esperienza specifica e con la
conoscenza delle lingue straniere, in particolare dell’italiano. La preparazione scolastica media dei
soggetti è di 12,4 anni di studio, che ha permesso loro di ottenere un titolo prevalentemente
conseguito nel paese di origine. Si deve notare che la percentuale di laureati (16%) è sensibilmente
superiore a quella rilevata nell’indagine nazionale condotta all’inizio degli anni 2000 su un sottocampione di piccoli imprenditori italiani del settore meccanico (Chiesi 2005). L’esperienza
imprenditoriale, misurata sulla base dell’anzianità di funzione è di oltre 7 anni. La conoscenza delle
lingue, soprattutto dell’italiano, rappresenta ovviamente un aspetto importante del bagaglio
culturale degli intervistati, ma non riguarda tutti gli intervistati. Nella realtà imprenditoriale cinese
di Prato emerge infatti la possibilità di esercitare l’attività imprenditoriale senza bisogno di sapere
l’italiano, attraverso una serie di collaborazioni e di assunzioni di personale autoctono.
La tabella seguente riassume i vari parametri di rilevazione del capitale culturale e mostra
anche le profonde differenze che attraversano gli immigrati indagati, a seconda della nazionalità e a
seconda che siano imprenditori o lavoratori autonomi.
Parametri di dotazione del capitale culturale tra gli intervistati
Anni studio
% laureati
% diplomati
Anni esperienza
imprenditoriale
% conoscenza
- lingua italiana
- terza lingua
Totale
12,4
16
56
Egitto
14,3
39
89
Est Europa Senegal
13,3
9,6
18
16
64
47
Marocco Cina autonomi imprenditori
12,8 9,7
12,5
12,3
14
0
18
16
60
8
68
52
7,3
10,7
4,9
7,5
6,1
5,4
7,5
7,1
98
76
100
76
100
79
100
90
100
89
84
20
100
80
97
74
Le disaggregazioni mostrano ampie differenze, che non sono giustificabili con il settore, ma
che devono essere ricollegate al retroterra culturale di provenienza e alla composizione delle reti di
rapporti interpersonali che gli intervistati instaurano, come vedremo nel paragrafo successivo.
4.4. La dotazione di capitale sociale
Per quanto riguarda la dotazione e l’accesso al capitale sociale, facciamo riferimento alle
informazioni ottenute in una serie di domande relative ai rapporti con collaboratori, clienti,
fornitori, parenti, connazionali, ecc…
I dati sulle relazioni interpersonali praticate nell’esercizio dell’attività, sono stati rilevati con
la tecnica sociometrica cosiddetta name generator (Lin 2001), cioè chiedendo all’intervistato di
indicare le persone cui fa ricorrentemente riferimento nello svolgimento di una serie di funzioni
18
legate all’attività imprenditoriale16. Per ogni nome citato sono state chieste una serie di informazioni
in grado di delinearne il profilo sociale (genere, occupazione, residenza), con particolare riferimento
al grado di affinità culturale con l’intervistato (se parente, connazionale, italiano o straniero con
altra nazionalità).
I risultati complessivi mostrano che l’ampiezza del network di relazioni aumenta con la
dimensione aziendale, è maggiore tra gli imprenditori piuttosto che tra i lavoratori autonomi, è
leggermente maggiore tra le imprese che hanno meglio resistito alla crisi in termini di tenuta del
fatturato.
Tuttavia, i risultati più interessanti si ottengono analizzando la composizione per nazionalità
della rete di relazioni interpersonali. La maggioranza relativa di appartenenti al network è italiana
(39,6%), i familiari e parenti vengono al secondo posto (37,4%), i connazionali rappresentano solo
il 18,9% e gli stranieri non connazionali sono trascurabili (4,1%).
Per assicurare il successo negli affari, l’importanza di avere buoni rapporti con gli italiani è
del resto esplicitamente dichiarata e giudicata più importante dei rapporti con i connazionali e
addirittura con i familiari. Inoltre le relazioni interpersonali vengono giudicate più importanti
dell’adesione formale a qualche associazione di categoria. Ciò nonostante gli imprenditori
intervistati non trascurano l’associazionismo, soprattutto nelle aree distrettuali dove gli interessi
economici sono maggiormente organizzati, come Modena, Reggio e Trento, ma comunque
privilegiano le associazioni italiane di categoria, piuttosto che quelle tra connazionali.
5. I livelli di integrazione economica e sociale degli imprenditori immigrati
L’analisi dei livelli di integrazione economica e sociale degli imprenditori intervistati può
essere distintamente condotta sui due livelli, ricordando che essi non sono indipendenti tra loro,
come dimostrato di seguito nel cap.3.
L’integrazione economica ha a che fare con il grado di cooperazione/competizione negli
affari, sia a livello orizzontale – con la concorrenza autoctona e multietnica – sia a livello verticale –
analizzando i rapporti a monte con i fornitori e a valle con i clienti.
Il 66,5% dei casi i clienti sono soprattutto italiani. Nella metà dei casi il numero dei clienti
non supera il 5. Gli imprenditori possono fare conto su un numero più elevato di clienti (39,9% oltre
10 clienti) e in questo modo rispondono meglio alla crisi, mentre i lavoratori autonomi subiscono
più spesso una dipendenza idiosincratica da un solo cliente (35,2%)17. In sostanza i dati raccolti ci
dicono che il tipo di integrazione economica degli intervistati rischia di essere subalterna e precaria.
Per quanto riguarda i fornitori, il legame funzionale con le imprese autoctone sembra ancora
maggiore, poiché ben il 77,3% dei casi si rivolge a ditte italiane. La costruzione di reti co-etniche di
subfornitura interessa solamente l’11,1% dei casi, soprattutto le imprese con dipendenti (15,7%),
mentre la partecipazione dei lavoratori autonomi è trascurabile (2,8%). Naturalmente questa
situazione complessiva nasconde differenze significative a seconda del settore di attività, poiché nel
comparto della meccanica e dei trasporti il legame con fornitori italiani è elevatissimo, se non
esclusivo, mentre si riduce sensibilmente nell’abbigliamento (produzione e vendita), che rispecchia
l’organizzazione “cinese” della filiera e del commercio in generale.
Un altro importante aspetto dell’integrazione economica passa attraverso le strategie di make
or buy, relative alle funzioni contabili, amministrative e di applicazione della normativa. La figura
sottostante mostra come tra le cinque funzioni analizzate, soltanto quella delle competenze
informatiche sia prevalentemente internalizzata (in genere è il titolare stesso che se occupa), mentre
tutte le altre tendono ad essere esternalizzate, con ricorso di gran lunga prevalente a consulenti
italiani (soprattutto la consulenza fiscale e contabile). Questo dimostra che le imprese di immigrati
16
Le funzioni analizzate sono le seguenti: partnership, credito, informazioni riguardanti il reperimento di personale,
rapporti di consulenza.
17
Infatti, circa un terzo di questi, al momento dell’intervista (seconda metà 2009), non ha lavoro e prende in
considerazione l’idea di ritirarsi.
19
alimentano un mercato delle consulenza aziendali di cui ancora si giovano soprattutto gli autoctoni,
che riescono a instaurare rapporti fiduciari, al di là delle barriere etniche e talvolta della lingua18. La
figura mette però in luce il fatto che molte imprese praticano strade alternative al ricorso al
consulente privato e si rivolgono alle associazioni imprenditoriali locali, allo stesso modo delle
imprese autoctone. In particolare, ad esempio, un’impresa di immigrati su tre si rivolge ai servizi
delle associazioni di categoria per la consulenza in materia di sicurezza e igiene.
Ancora una volta, i lavoratori autonomi mostrano comportamenti diversi dagli imprenditori.
I primi sono più propensi ad internalizzate o a rivolgersi alle associazioni di categoria, i secondi
ricorrono più sovente alla consulenza italiana e talvolta di co-etnici.
In sostanza l’integrazione economica degli immigrati imprenditori passa attraverso il
rapporto con gli operatori italiani. I lavoratori autonomi subiscono maggiormente un’integrazione
subalterna, ma tendono a reagire rivalutando il ruolo che le associazioni di categoria svolgono
tradizionalmente anche per gli autoctoni.
Da chi vengono svolte le seguenti funzioni aziendali?
100%
90%
2,7
8,0
26,0
80%
70%
3,5
29,3
3,4
26,5
3,1
34,2
34,2
3,2
60%
Consulente coetnico
50%
40%
Associazione di categoria
Consulente italiano
65,5
30%
64,4
47,9
69,4
Azienda
54,8
20%
10%
0%
14,7
5,0
2,9
contabilità
paghe e
contributi
1,0
consulenza consulenza normativa di
fiscale
informatica sicurezza
L’integrazione sociale si rifà in gran parte al concetto già elaborato dal CNEL, anche se per
ragioni di complessità non abbiamo potuto inserire nelle interviste individuali tutte le dimensioni
del concetto stesso.
Abbiamo tuttavia raccolto una serie di variabili che possono delineare importanti aspetti
dell’integrazione sociale degli intervistati. Un primo aspetto riguarda l’ottenimento della
cittadinanza italiana, che riguarda il 14% degli intervistati e il 4,5% vive con un/una partner di
nazionalità italiana19. Tra coloro che hanno famiglia, l’83,9% ha figli. Il numero dei figli è
mediamente superiore a quello della famiglia media italiana, poiché quasi la metà (47,4%) ha
almeno tre figli. Questi dati mostrano un buon livello di radicamento sociale, per immigrati che,
ricordiamo, sono mediamente in Italia da 18 anni.
Un altro aspetto dell’integrazione sociale è la propensione ad assumere collaboratori italiani.
Questa decisione dimostra sia l’importanza attribuita dagli imprenditori al ruolo di interfaccia che
gli italiani spesso possono svolgere, sia alla mancanza di pregiudizio degli italiani a lavorare alle
dipendenze di un immigrato. Il 6,6% delle imprese intervistate ha attualmente assunto dipendenti
18
Come è emerso dalle interviste preliminari condotte nell’area di Prato, con riferimento alle imprese cinesi nel settore
abbigliamento, molti commercialisti italiani si sono specializzati in modo esclusivo in nella consulenza “etnica”.
19
Nell’89,4% dei casi il/la partner è della stessa nazionalità dell’intervistato.
20
italiani e il 5,1% si avvale di rapporti di collaborazione con italiani. Se si considera l’intera vita
aziendale, il 22,2% dei casi ha assunto personale italiano in passato. In totale gli italiani assunti
nell’arco dell’esistenza delle 200 imprese è stato di 169.
6. I problemi degli imprenditori italiani sono in buona parte condivisi anche dagli imprenditori
immigrati
Come emerge dal cap.10: “Le iniziative più frequentemente suggerite riguardano
informazioni e corsi che gli imprenditori immigrati ritengono utili per la propria attività (29
citazioni). Oltre ai corsi di italiano e di formazione per la gestione dell’attività, uno dei problemi più
segnalati in questo ambito sono le diverse norme che bisogna conoscere. Al secondo posto,
troviamo indicazioni relative a politiche da attuare, come la semplificazione amministrativa ed in
particolare del permesso di soggiorno (28). Tuttavia, vengono suggeriti anche interventi più ‘attivi’,
come la promozione di incontri tra imprenditori e la costituzione di reti tra imprese. Inoltre,
vengono chiesti anche più diritti politici (possibilità di votare) e previdenziali (trattamento
pensionistico fruibile anche tornando a vivere nel Paese di origine). Un'altra difficoltà segnalata da
alcuni imprenditori è la diffidenza e le discriminazioni subite dagli italiani, sia dalle istituzioni che
dai privati (26). Oltre a questi aspetti, più marcatamente peculiari del vissuto dell’imprenditore
immigrato, numerosi sono anche gli imprenditori che, non diversamente dagli autoctoni, chiedono
una riduzione delle tasse (20) e agevolazioni finanziarie e creditizie (22). Infine, meno frequenti ma
sempre riconducibili a problemi comuni a tutti gli imprenditori, sono l’invocazione di maggiori
controlli (11) per evitare comportamenti sleali (ma un paio di persone chiedono invece minori
controlli, chiamando in causa di nuovo la discriminazione verso gli immigrati) e di un aiuto per
recuperare i crediti e i pagamenti dei clienti che tardano ad arrivare (9)”.
7. Cosa possono fare (e cosa devono evitare di fare) gli immigrati per contribuire allo sviluppo
economico dell’Italia
Integrati nell’economia nazionale, attivi sul mercato da molti anni, gli imprenditori
immigrati condividono con i loro partner e concorrenti autoctoni una visione abbastanza precisa
della loro collocazione sul mercato e dei punti di forza e di debolezza della loro azienda.
Tra i punti di forza, al primo posto viene citata la reputazione sul mercato, presso clienti e
fornitori. Quasi la metà degli intervistati concorda su questo aspetto, che ritroviamo anche in altre
indagini svolte sulla piccola impresa italiana.
Opinioni sui punti di forza e di debolezza della propria azienda
Punti di forza:
Reputazione
Qualità prodotti/servizi
Prezzi bassi
Flessibilità
Costi bassi
Punti di debolezza:
Concorrenza altre aziende immigrati
Dipendenza da pochi clienti
Concorrenza azienda italiane
Difficoltà accesso al credito
Scarsa conoscenza P.A. e norme
Diffidenza della società italiana
Scarse conoscenze professionali
Totale
48,0
45,5
38,0
27,0
12,6
46,0
19,7
19,7
16,2
8,6
10,6
1,0
Imprenditori
48,8
55,8
41,9
25,6
7,8
43,0
11,7
16,4
17,2
8,6
12,5
0,0
Autonomi
46,5
26,8
31,0
29,6
21,4
51,4
34,3
25,7
14,3
8,6
7,1
2,9
21
In sostanza emerge che le piccole imprese di immigrati, al pari di quelle autoctone,
considerano la reputazione l’asset più importante a disposizione e vogliono puntare sulla qualità
piuttosto che sul prezzo, temono la concorrenza degli altri stranieri, più che degli italiani e la
dipendenza da pochi clienti.
Queste opinioni sono in parte differenti se si tengono distinti o piccoli imprenditori dai
lavoratori autonomi. In sostanza questi ultimi appaiono strutturalmente più fragili, perché più
esposti alla concorrenza tra stranieri e in parte anche degli italiani, per la maggiore dipendenza da
pochi clienti, per il fatto che possono fare meno affidamento sulla qualità e devono quindi
maggiormente utilizzare la leva della compressione dei costi. In compenso, anche se le percentuali
di risposta sono basse, gli autonomi sembrano essere meno preoccupati dell’accesso al credito e
della diffidenza della società italiana nei confronti degli stranieri.
8. Cosa possono fare i piccoli imprenditori immigrati in Italia per lo sviluppo dei paesi di
emigrazione, con particolare riferimento all’area del Mediterraneo meridionale
Pur essendo soprattutto coinvolto in relazione con partner italiani, il 16% degli intervistati
mantiene rapporti d’affari con aziende del Paese d’origine. Questa percentuale non elevatissima
riguarda soprattutto gli imprenditori e meno i lavoratori autonomi. Attraverso questi rapporti la
maggior parte degli intervistati acquista beni o servizi, ma altri vendono anche prodotti e servizi ed
altri fanno investimenti. Ad avere rapporti con il Paese di origine sono prevalentemente cinesi e
senegalesi. L’aspetto transnazionale dell’attività imprenditoriale è più evidente per le attività
commerciali non alimentari, mentre per gli altri settori o nazionalità, benché non manchino casi di
interesse (ad esempio nell’edilizia), il fenomeno rimane marginale.
Questa situazione si presta ad una considerazione di tipo congiunturale. Come segnalato, le
interviste sono state condotte a cavallo tra 2009 e 2010, cioè nel periodo più acuto della crisi che ha
colpito l’economia italiana, come il resto del mondo occidentale. Diversi paesi originari degli
immigrati hanno risentito meno della crisi, come in Cina, mentre l’area del Sud Mediterraneo è stata
interessata da movimenti di tipo politico sociale il cui esito è incerto, ma che hanno avuto come
motivazione il desiderio di acquistare maggiore democrazia e libertà. Se in campo economico il
processo di modernizzazione avrà come sbocco elementi di liberalizzazione dei mercati dei paesi
che si affacciano a Sud del Mediterraneo, questo potrà comportare una crescita economica che
aumenterà la concorrenza con le imprese italiane sui settori tecnologicamente meno avanzati, ma
anche una riduzione dei differenziali negli standard di vita e nel reddito pro-capite, allentando in
questo modo la pressione demografica e quindi la qualità dei flussi migratori. Con l’aumento
dell’interscambio il problema degli aiuti si trasformerà sempre di più in un problema di partnership.
Per questa ragione occorre che le imprese aumentino le dimensioni, per poter essere in grado di
operare su scala internazionale. Questa sfida riguarda in modo diverso, ma con le stesse
opportunità, le imprese di entrambe le sponde del Mediterraneo.
9. Conclusioni
Le piccole imprese di immigrati, pur presentando ritmi di sviluppo molto elevati, nonostante
la crisi, si trovano di fronte, al pari di quelle autoctone, al dilemma della crescita, per poter
competere in prospettiva globale, o della ricerca di nicchie e rapporti idiosincratici per poter
sopravvivere nel breve periodo. Come abbiamo cercato di evidenziare, ambedue le strategie sono
presenti nel nostro campione e passano in gran parte attraverso la dimensione aziendale. Si può
quindi affermare che, in qualche misura, le imprese di immigrati, prepotentemente diffuse
nell’ultimo ventennio in Italia, rappresentano uno specchio in cui sono visibili anche tanti problemi
della piccola impresa autoctona: il problema dell’adeguatezza dimensionale di fronte alla crisi, il
problema dell’emancipazione dal conto-terzismo, il problema della presenza all’estero.
22
I comportamenti imprenditoriali che abbiamo visto, e che vengono meglio illustrati nel
capitoli successivi, valorizzando le specificità locali come chiave di lettura dell’economia italiana in
generale, comprendono strategie tipiche del processo di inserimento che la letteratura chiama
vacancy chain e di cui la piccola distribuzione di prossimità è l’esempio più emblematico: i piccoli
esercizi commerciali gestiti da famiglie italiani non hanno retto al ricambio generazionale, per
scarsa motivazione dei figli, per scarsa incentivazione economica, poiché i guadagni sono
decrescenti e impongono lunghi tempi di lavoro. In questa situazione gli immigrati si sono spesso
sostituiti agli autoctoni, grazie alla grande voglia di lavorare, che deriva da un desiderio di riscatto
sociale, più che economico, e alle più modeste aspettative reddituali, che derivano dai differenziali
di potere d’acquisto tra Italia e paese di origine. E’ vero che molti imprenditori immigrati hanno
saputo inserire elementi innovativi nella loro attività20, ma il vero elemento di successo è spesso
costituito dall’offerta a basso prezzo21 su un mercato che rimane come sempre di quartiere.
Allo stesso modo, soprattutto nell’edilizia e nei distretti della meccanica, abbiamo trovato
imprenditori che si inseriscono nella filiera della subfornitura a partire dal livello più basso, in cui il
lavoro autonomo, fatica a differenziarsi da un lavoro dipendente, sotto mentite spoglie. Da qui,
però, alcuni hanno già cominciato a risalire la filiera con l’arma della qualità, dell’affidabilità del
lavoro svolto e della reputazione. Tutti ingredienti che fanno venire in mente quello che succedeva
in Lombardia negli anni di metà secolo scorso, quando i dipendenti più intraprendenti venivano
spinti dal datore di lavoro a mettersi in proprio e a fondare un loro laboratorio o ad organizzare una
loro squadra (Pizzorno 1960).
Ma nella nostra indagine abbiamo trovato anche le reti lunghe di chi opera triangolazioni a
livello globale, sfruttando gli andamenti dei prezzi differenziati e mutevoli su continenti diversi,
come a Prato nel distretto del tessile abbigliamento (vedi cap. 7).
In sostanza, se si vuole che la piccola impresa contribuisca allo sviluppo economico, si deve
chiedere agli imprenditori immigrati quello che va chiesto alle micro-imprese autoctone: crescere.
Altrimenti la presenza degli imprenditori immigrati rischia di innescare una competizione al
ribasso, in cui scarsa innovazione e bassi costi/prezzi, portano ad una diminuzione della produttività
del sistema.
In conclusione, i risultati della ricerca mostrano che gran parte degli imprenditori intervistati
ha conquistato la cittadinanza economica ed è stato incluso in modo irreversibile nel tessuto delle
piccole imprese che operano in Italia, con l’auspicio che queste piccole imprese diventino
progressivamente medie imprese.
Il percorso verso la cittadinanza sociale, a parte i pochi che godono della cittadinanza
italiana, è più lungo e forse coinvolgerà la seconda generazione, quella dei figli nati in Italia, che
parlano l’italiano, come prima o seconda lingua, che si preparano nelle scuole e tra poco nelle
università, che rileveranno l’azienda, e come i figli dei piccoli imprenditori italiani riproporranno il
problema della motivazione e trasmissione delle capacità imprenditoriali.
Per essi indugiare ulteriormente nel riconoscimento dei diritti politici nuocerebbe anzitutto a
noi italiani.
Per concludere questo capitolo di presentazione, torniamo alle indicazioni formulate dall’UE
per lo sviluppo della SME e vediamo se, alla luce dei risultati della nostra indagine, esse sono
applicabili anche alle piccole imprese di immigrati in Italia.
La UE sottolinea l’importanza della semplificazione amministrativa e burocratica, l’accesso
alle fonti di finanziamento, l’accesso a nuovi mercati di sbocco, la difesa delle condizioni per una
corretta concorrenza, la formazione delle competenze e della capacità imprenditoriali, la protezione
della proprietà intellettuale, l’incoraggiamento della ricerca e dello sviluppo, il sostegno a livello
regionale e locale.
20
Basti pensare, ad esempio, al settore alimentare, dove l’offerta etnica ha saputo ibridarsi con successo, come avviene
per le pizzerie-creperie-kebab (vedi cap.8).
21
Gli esempi più visibili nella grandi città sono, oltre ai ristoranti cinesi e giapponesi (gestiti da cinesi), i parrucchieri.
23
La semplificazione amministrativa e burocratica viene citata tra le cose auspicabili da molti
imprenditori intervistati. Questo tema è quindi comune al fare piccola impresa a prescindere dalla
nazionalità del titolare.
Il problema dell’accesso alle fonti di finanziamento è forse più pressante per gli autoctoni
che per gli immigrati. Questo aspetto non deve sembrare paradossale, se si pensa al fatto che le
imprese di immigrati operano prevalentemente in settori a bassa intensità di capitale, che spesso gli
immigrati utilizzano canali alternativi al credito bancario, sia basati sull’alta propensione al
risparmio e quindi all’auto-finanziamento, sia basati sugli aiuti derivanti dall’attivazione di legami
forti.
Anche l’accesso a nuovi mercati di sbocco, riguarda maggiormente la piccola impresa
autoctona, che si trova in una situazione più difensiva, piuttosto che le imprese di immigrati, che
sono un fenomeno emergente e dimostrano di intuire e sfruttare le intersezioni e gli interstizi del
mercato. Si tratta però prevalentemente di un mercato di prossimità, spesso giocato nelle
opportunità offerte dai processi di vacancy chain, piuttosto che mercato di vasto respiro. Solo i
cinesi di Prato mostrano di saper sfruttare le reti lunghe degli affari multinazionali, ma per loro vale
più che per altri la questione del rispetto delle regole di una corretta concorrenza, come emerge
dalla nostra indagine, ricorrentemente da altre condotte in precedenza a livello locale e dai
documentati rapporti della Guardia di Finanza.
La formazione delle competenze e delle capacità imprenditoriali viene ripetutamente
sottolineato dai responsabili della politica economica europea, nazionale e locale. Nella nostra
indagine l’amor proprio e il legittimo orgoglio degli intervistati è alla base di dichiarazioni che
negano fabbisogni specifici a riguardo. Tuttavia il nostro campione è formato da imprenditori che in
qualche modo “hanno sfondato”. Sarebbe utile sapere cosa pensino delle carenze di expertise tutti
quelli che hanno assunto un rischio imprenditoriale e che non hanno avuto successo.
La protezione della proprietà intellettuale sembra qualche cosa di estraneo alle strategie dei
nostri imprenditori immigrati, sia perché la maggior parte è impegnato in attività intellettualmente
povere, sia perché – di nuovo occorre citare i cinesi di Prato – essi stessi sfidano i limiti della
normativa sulla proprietà intellettuale.
Anche l’incoraggiamento della ricerca e dello sviluppo sembra qualcosa di molto distante
dalle realtà analizzate. E’ evidente che questo tema – che in linea di principio, a causa della diversa
distribuzione settoriale delle imprese, interessa maggiormente le piccole italiane, piuttosto che
quelle di immigrati – non può essere affrontato in termini di aiuti o agevolazioni alla singola
impresa, ma andrebbe affrontato “alla tedesca”22.
Infine, la questione del sostegno a livello regionale e locale dovrebbe essere affrontata
coerentemente con il precedente obiettivo della difesa di corrette condizioni di concorrenza,
evitando tentazioni protezionistiche e particolaristiche, quindi anzitutto evitando differenze tra
imprese a seconda della nazionalità del titolare. Come abbiamo cercato di dimostrare all’inizio del
capitolo, è però evidente che il sostegno locale deve essere rivolto alla crescita dimensionale delle
imprese. Infatti la crescita può favorire un aumento della produttività e quindi rendere più
competitive imprese che altrimenti rischiano di non reggere alla competizione globale, a
prescindere dalla nazionalità del titolare.
22
Ci si riferisce in particolare alla rete degli istituti Fraunhofer, che sviluppano partnership tra pubblico e privato,
coinvolgendo il territorio locale, per lo viluppo assistito di innovazione e applicazioni innovative nelle SME tedesche.
24
3. I fattori di diffusione dell’imprenditorialità straniera sul territorio
italiano
Antonio M. Chiesi*
Secondo Infocamere, le persone nate all’estero, che dichiarano di ricoprire cariche in attività
di imprese registrate presso le Camere di Commercio sono 351.674 all’inizio del 2010. Una recente
ricerca della Fondazione Leone Moressa (2011) sostiene che gli imprenditori immigrati hanno
raggiunto la ragguardevole cifra di 621.830 unità al 30 settembre 2010. Le elaborazioni
periodicamente pubblicate da Caritas, con l’ausilio dell’Ufficio Studi CNA, ci danno invece una
consistenza di 213.300 ditte individuali. Tutte queste fonti si caratterizzano per la loro apparente
precisione, ma risultano fortemente divergenti.
Infatti, pur provenendo sempre da Infocamere, queste cifre presentano una serie di problemi
riferibili: 1. alla necessità di escludere gli stranieri provenienti da paesi ad economia forte, che non
possono essere assimilati agli immigrati23, 2. alla impossibilità di escludere una parte non stimabile
di imprese che, pur risultando regolarmente iscritte, non sono più operative24, 3. alla probabilità che
parte dell’attività imprenditoriale degli immigrati si svolga all’ombra dell’economia informale, 4.
alla probabilità che – soprattutto a seguito delle modalità di regolarizzazione introdotte con la
sanatoria del 2002 (cosiddetta legge “Bossi-Fini”) – una parte delle registrazioni non corrisponda ad
attività imprenditoriali, ma solamente alla necessità di riconoscimento pro-forma. Riteniamo che la
combinazione di questi fattori provochi di fatto una sovra-stima dei lavoratori autonomi e degli
imprenditori immigrati, come in parte confermato dalle difficoltà di reperimento degli intervistati in
tutte e sei le aree di approfondimento, che fanno parte di questo progetto.
In Italia, le imprese che svolgono una regolare attività sono iscritte ad almeno tre basi di dati
obbligatorie: il registro delle imprese presso le Camere di Commercio, l’elenco dei soggetti di
imposta presso il Ministero delle Finanze, l’elenco dei titolari di contribuzione sociale presso
l’INPS. In questi ultimi due basi di dati gli elenchi si dividono in persone giuridiche, nel caso di
società di capitale o in persone fisiche, nel caso di ditte individuali.
La possibilità di incrociare queste basi di dati darebbe la possibilità di controllare
l’affidabilità delle diverse fonti. In realtà questo controllo non è stato fin ora possibile a causa delle
diverse politiche di gestione e disponibilità del dato a terzi adottate dagli Enti. In particolare i dati
provenienti da Unioncamere sono da tempo oggetto di analisi da parte degli studiosi, sia a livello
aggregato, sia a livello di micro-dato, consentendo di arrivare a contattare il titolare d’impresa. Al
contrario, la base di dati INPS è rimasta fin ora inaccessibile a terzi, anche per quanto riguarda
informazioni riassuntive e aggregate, sulla base di una interpretazione molto ristretta della
normativa sulla privacy, che non tiene neppure conto delle regole previste per l’accesso e il
trattamento dei dati a fini scientifici.
Un altro aspetto che rende opache le apparentemente precise statistiche sulle imprese e sugli
imprenditori immigrati riguarda la definizione stessa di imprenditore. I dati sui cui si è fin ora
concentrata l’attenzione degli studiosi riguarda la ditte individuali, cioè i lavoratori autonomi.
* Università Statale di Milano
23
Basti pensare ad esempio che a metà 2010, i dati Infocamere segnalano la presenza in Italia di oltre 130.000 imprese
di questo tipo, su un totale di circa 366.000 riferibili a stranieri.
24
Nonostante l’introduzione nel 2005 delle cancellazioni d’ufficio, effettuate per le imprese non più operative, che non
vengono cancellate dai titolari, l’esperienza di chi ha utilizzato i dati camerali per costruire campioni rappresentativi
delle popolazioni di imprese, mostra un persistente divario tra imprese registrate e imprese operanti sul territorio.
Questo divario è più o meno ampio a seconda della provincia.
25
Minore attenzione è stata dedicata alla rilevazione e al conteggio dei titolari di imprese con almeno
un addetto alle dipendenze.
La letteratura sull’imprenditorialità è concorde nel separare analiticamente la figura del
lavoratore autonomo da quella dell’imprenditore, anche se la strada più comune per diventare
imprenditore è quella di aprire un’attività in proprio. In particolare, come è noto, esistono diverse
definizioni di imprenditore, a seconda della disciplina e della teoria di riferimento. Alcune di queste
definizioni, come quelle che si riferiscono alle funzioni imprenditoriali come l’assunzione di rischio
e lo sviluppo dell’innovazione, non possono essere utilizzate come base di partenza per
l’identificazione di popolazioni rilevanti, perché non esistono informazioni già pronte e aggiornate
sull’attribuzione di queste funzioni. Le definizioni che insistono sulla funzione di combinazione dei
fattori produttivi implicano la disponibilità di capitale e lavoro e quindi dovrebbero escludere i
lavoratori autonomi che non si avvalgono di lavoro alle dipendenze o che non impiegano capitale
proprio o di terzi. Al contrario dell’esercizio della funzione innovativa e di assunzione di rischio,
l’individuazione della funzione di combinazione dei fattori è empiricamente semplice da rilevare:
basta individuare i titolari di imprese di capitale che si avvalgono di personale alle dipendenze.
Se si utilizzasse questa accezione più ristretta, alla luce delle fonti istituzionali comunemente
utilizzate, il fenomeno dell’imprenditorialità immigrata apparirebbe ancora molto secondario, se
non marginale25.
Al contrario, prendere in considerazione il complesso del “lavoro autonomo” significa
attribuire una funzione imprenditoriale a una realtà molto eterogenea, fatta di collaborazioni
coordinate e continuative che spesso mascherano rapporti di lavoro dipendente, che più raramente
configurano casi di incipiente imprenditorialità e che talvolta rappresentano l’esito di scorciatoie
burocratiche attivate per poter ottenere un regolare permesso di soggiorno, come suggerisce la
distribuzione territoriale delle sanatorie in occasione dell’applicazione della cosiddetta legge BossiFini nel 200226.
Nelle ricerche sull’imprenditorialità immigrata, la necessità di fare riferimento alle fonti
istituzionali, impone di partire dalle definizioni giuridiche. Con riferimento al concetto di lavoratore
in proprio, abbiamo a disposizione le ditte individuali, su cui si basa gran parte delle stime in
oggetto. Con riferimento al concetto di imprenditore, abbiamo i dati sui titolari di impresa, il cui
utilizzo è molto più recente, a causa di numerose incertezze definitorie, dovute al fatto che gli
sportelli delle Camere di Commercio si limitano a registrare le dichiarazioni degli interessati.
Un’indagine esplorativa su queste dichiarazioni è stata fatta da Carlo Catena del Centro
Studi CNA Nazionale, nell’ambito del nostro progetto. Il quadro emergente induce alla massima
prudenza nel considerare il conteggio dei titolari di impresa. Dall’indagine emerge che a livello
nazionale vengono utilizzate ben 333 differenti denominazioni per descrivere la posizione di
responsabilità dei singoli immigrati nelle imprese. Di queste definizioni solo il 5,1% è riconducibile
al titolare dell’impresa, il 17,7% agli amministratori, l’8,1% ai soci e il restante 69,1% ad “altre
forme” non riconducibili a posizioni di titolarità imprenditoriale27.
Un ulteriore modo per mettere in dubbio la validità dei dati sull’imprenditorialità immigrata
è quello di verificare il totale delle imprese italiane che emergono dalle stesse fonti. Se dovessimo
dare credito al numero di persone immigrate che dichiarano di ricoprire cariche in attività di
25
Un’elaborazione condotta per questo progetto dal Centro studi CNA Nazionale su dati CNA-Informatica al 10 marzo
2010, riferiti ai soli cittadini nati in paesi extra comunitari ad economia debole, al netto della stima degli italiani nati
all’estero e rimpatriati, rileva, accanto a 198.696 ditte individuali, soltanto 171 imprese con forma giuridica diversa
(società di capitale, società di persone, cooperative e altre forme).
26
Si veda più avanti per una stima quantitativa di questo fenomeno che riguarda il problema n. 4, prima citato.
27
A titolo di esempio si citano alcune denominazioni generiche che mostrano come spesso non si tratti di posizioni
imprenditoriali, ma di coadiuvanti familiari a vario titolo (coniuge, tutore, erede, collaboratore familiare, usufruttuario,
madre esercente la patria potestà), dipendenti (delegato, dipendente, direttore, dirigente, preposto, ispettore, gerente,
tesoriere, capocantiere), figure previste nei fallimenti (commissario liquidatore, curatore fallimentare, custode di
sequestro giudiziario, sequestratario) oppure denominazioni improprie (elettore, coltivatore diretto, fattore,
capodelegazione).
26
imprese registrate alle Camere di Commercio (n. 351.674 a inizio 2010), dovremmo a maggior
ragione assumere come attendibile il numero totale per tutte le imprese che operano a livello
nazionale, che è di 8.119.377. Questo numero, pur non considerando i titolari di imprese
individuali, è molto superiore al totale dei lavoratori in proprio, rilevati dall’indagine sulle forze di
lavoro (3.546.000), per non parlare di coloro che l’ISTAT definisce imprenditori (261.000)28.
Quindi, in definitiva, i dati sulle ditte individuali, pur mantenendo i limiti anzidetti, sono più
affidabili, ma si riferiscono prevalentemente a lavoratori autonomi, non a imprenditori propriamente
detti. I dati sui titolari di imprese, pur essendo più correttamente attribuibili a funzioni
imprenditoriali, presentano gravi problemi di affidabilità.
Tenendo presenti questi limiti, consideriamo ora soltanto le ditte individuali di immigrati dei
paesi extraeuropei a reddito basso e confrontiamo il loro andamento nel tempo con il totale delle
imprese che operano in Italia. Dall’andamento esposto in fig. 1 emerge che a partire dalla fine del
secolo scorso assistiamo ad un aumento del peso delle attività imprenditoriali vere e proprie, mentre
il lavoro autonomo declina in assoluto.
Fig. 1 – Andamento delle imprese in Italia (NI 1997= 100)
170
160
150
140
Società di capitale
130
Indiv - autoctoni
120
Indiv - immigrati
110
100
90
80
1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009
Fonte: elaborazioni su dati Movimprese
Questo declino sarebbe maggiore se non si fosse verificata una parziale sostituzione di ditte
individuali autoctone con ditte di immigrati. In particolare fatto a 100 il totale delle imprese di
capitale nel 1997, il totale delle ditte individuali e delle ditte individuali al netto di quelle con
titolarità straniera, nel 2009 le prime crescono del 63,2%, le seconde diminuiscono del 2,7%, ma il
calo raggiungerebbe il 7,9%, se non ci fosse un effetto di sostituzione generato dall’immigrazione.
Viene quindi confermato anche in Italia l’effetto di rimpiazzo esercitato dal lavoro autonomo
immigrato, rispetto a quello autoctono in progressivo declino storico (Chiesi e Zucchetti 2003,
Light 1981, Aldrich et al. 1989).
28
E’ quindi fuorviante dichiarare che i soli imprenditori immigrati sono in Italia oltre 600.000 (Sole 24 Ore del 4
gennaio 2011), se l’ISTAT stima che il totale degli imprenditori che operano in Italia sia meno della metà, compresi gli
autoctoni.
27
Fig. 2 – Proporzione di lavoratori autonomi tra nativi e immigrati in diversi paesi
Fonte: elaborazioni su dati Eurostat fino al 2002 e OECD nel 2009
E’ già stato sottolineato come la presenza di imprenditorialità immigrata dipenda anche da
fattori istituzionali, legati alle politiche economiche e del lavoro che in ogni paese possono
influenzare la presenza del lavoro autonomo in generale (Chiesi e Zucchetti 2003). La fig. 2
confronta il tasso di occupazione in proprio sul totale dei paesi analizzati e il tasso specifico degli
stranieri. L’indice di correlazione tra i due tassi è significativo e raggiunge il valore di 0,723 (18
paesi su 36 osservazioni). In sostanza, dove il lavoro autonomo è più diffuso, anche gli stranieri si
giovano di questa opportunità occupazionale e viceversa, dove è meno presente. La figura mostra
anche consistenti variazioni nel tempo dei tassi. In particolare in paesi come la Gran Bretagna, il
Canada, la Spagna e il Portogallo, il peso dei lavoratori autonomi aumenta nell’intervallo di tempo
considerato, mentre diminuisce considerevolmente negli Stati Uniti, in Svezia e in Irlanda e
moderatamente in Germania, Danimarca e in Italia. Inoltre, in Italia, come in Grecia, in Irlanda e in
Portogallo, al contrario della Gran Bretagna, gli immigrati risultano discriminati, rispetto agli
autoctoni, nelle opportunità di lavoro autonomo.
Un altro aspetto importante, che i dati sulle ditte individuali pongono in evidenza e che gli
ormai numerosi studi a livello locale tendono ancora a trascurare, è l’estrema differenziazione della
presenza delle imprese di immigrati sul territorio nazionale. La diffusione locale non è solamente
correlata con la presenza di attività economiche, perché si adatta alle ben note disparità territoriali
della penisola, ma ne amplifica gli effetti. Il peso delle ditte individuali di immigrati sul totale
raggiunge infatti il valore massimo in provincia di Prato (13,93%) e il valore minimo in provincia di
Potenza (0,03%), con una media del 2,54% nel 2008 e una deviazione standard molto elevata
(2,04)29. I restanti valori intermedi, espressi in quintili, sono illustrati in fig. 3. La mappa mostra a
colpo d’occhio una maggiore concentrazione delle ditte individuali nelle grandi aree urbanizzate del
Nord e del Centro e soprattutto nelle aree distrettuali.
29
Il peso di tutte le ditte individuali, comprese quelle di italiani sul totale dell’occupazione provinciale presenta invece
una distribuzione molto meno disuguale. Infatti pur andando da un massimo del 18,5% ad un minimo del 7,8%, con una
media del 10,6%, presenta una deviazione standard molto più contenuta dell’1,65%.
28
Fig. 3 – Peso % delle imprese di immigrati sul totale (30.06.08)
Fonte: elaborazioni su dati CNA - Infocamere
Se, invece delle ditte individuali, utilizziamo i dati sui titolari di imprese di nazionalità
extra-comunitaria o neo-comunitaria, otteniamo valori mediamente più elevati, ma che confermano
una distribuzione territoriale altamente disuguale. Il peso dei titolari di azienda stranieri sul totale
delle imprese sale infatti in provincia di Prato al 27,16%, confermando il primo posto di questa
provincia, mentre il valore minimo viene raggiunto in provincia di Taranto (2,97%), con una media
del 9,51% e una deviazione standard che rimane molto elevata (3,71)30.
Per spiegare una distribuzione territoriale così disuguale dei lavoratori autonomi immigrati e
delle cariche sociali ricoperte da immigrati, utilizziamo una base di dati a livello provinciale, che ci
permette di analizzare le relazioni tra le due distribuzioni studiate (ditte individuali e cariche sociali)
e una serie di variabili indipendenti relative a tre dimensioni che rappresentano altrettante ipotesi
esplicative. Il confronto tra due variabili dipendenti ci permette, al contempo, di valutare la bontà
dei due indicatori di imprenditorialità immigrata.
Una prima ipotesi riguarda il rapporto con l’economia locale e assume che le ditte
individuali di immigrati trovino maggiori opportunità di sviluppo dove più elevato è il livello di
reddito del territorio (PIL pro-capite a livello provinciale nel 2007). Una seconda ipotesi riguarda la
capacità di integrazione sociale che il territorio è in grado di garantire agli immigrati in generale
30
I due tassi di imprenditorialità sono positivamente correlati tra loro (0,699), ma il tasso di correlazione presenta una
covarianza che non arriva neppure al 50%, suffragando il sospetto che i due indicatori siano inquinati da altre
dimensioni che non hanno a che fare con l’imprenditorialità immigrata. Il fatto che in alcune recenti ricerche i due dati
vengano sommati, significa solo che il risultato ingloba la somma degli errori.
29
(indice di integrazione degli immigrati nelle provincie italiane elaborato dal Cnel nel 200931). Una
terza ipotesi riguarda il ruolo giocato dalla disponibilità di capitale sociale sul territorio (indice di
dotazione di capitale sociale32 delle provincie italiane (Chiesi 2005). E’ importante sottolineare
come di queste tre variabili, soltanto una abbia una valenza prettamente economica, mentre le altre
due riguardano più direttamente sia la bontà delle relazioni sociali tra autoctoni e immigrati sia
l’attenzione al benessere comune e la solidarietà tra gli italiani.
Il risultato del modello di regressione lineare, che spiega il 49,6% della varianza, è illustrato
nella prima parte della tab. 1. Il peso delle ditte individuali di immigrati sul totale delle imprese
dipende soprattutto da fattori sociali, anche se la dimensione economica, catturata sommariamente
dal PIL procapite, svolge un ruolo significativo, ma non prioritario, come dimostra il valore
relativamente più basso del coefficiente β. La variabile più importante è rappresentata dalla
dotazione di capitale sociale a livello locale, mentre un ruolo esplicativo importante viene giocato
anche dalla capacità di integrazione degli immigrati in generale nel territorio.
La seconda parte della tab. 1 mostra il risultato dell’applicazione dello stesso modello al
tasso relativo alle cariche sociali. La varianza spiegata è leggermente superiore (53,4%), ma viene
significativamente modificata l’importanza delle variabili indipendenti. In particolare l’indicatore di
integrazione degli immigrati non è più significativo, la dotazione di capitale sociale rimane
significativa, ma riduce il proprio potere esplicativo, mentre acquista importanza centrale il
benessere economico locale con un coefficiente β quasi raddoppiato.
Tab. 1 – Determinanti del peso delle ditte individuali e dei titolari
di impresa immigrati sul totale delle imprese a livello provinciale
Variabile dipendente:
Ditte individuali/totale imprese
PIL provinciale pro-capite (2007)
Indice CNEL di integrazione immigrati
(2009)
Dotazione locale di capitale sociale (2000)
Ditte individuali/tot. imprese
β
t
Sig.
.259
2.105
.038
.275
3.126
.002
.308
2.700
.008
Titolari/tot. imprese
β
t
Sig.
.488 4.134 .000
.119 1.406 .163
.218
1.987
.050
Il modello sopra illustrato, applicato separatamente alle ditte individuali e ai titolari di
cariche in società ci permette di giungere alle seguenti conclusioni:
a) la distribuzione dell’imprenditorialità immigrata sul territorio nazionale appare in generale più
diseguale della già forte disuguaglianza dell’imprenditorialità autoctona e contribuisce quindi ad
accentuare la ben nota contrapposizione del tessuto economico, che vede da una parte le aree
sviluppate del centro-nord e dall’altra quelle meridionali, le aree urbane caratterizzate dallo
sviluppo dai servizi alla persona e dall’altra i piccoli centri, le aree distrettuali e quelle che sono
state sempre escluse dai processi di industrializzazione;
b) questa diseguale distribuzione dipende ovviamente da fattori economici, poiché, come tutte le
imprese, anche quelle degli immigrati, non fanno eccezione alla legge per cui la loro
sopravvivenza dipende dalle condizioni di mercato e dai livelli della domanda. Questo spiega
perché come tutti gli operatori economici, anche gli immigrati prosperano dove i redditi procapite sono superiori;
31
L’indice è ricavato annualmente per il CNEL da un’equipe del Dossier Statistico Immigrazione di Caritas/Migrantes,
ed è basato sulla combinazione di tre indicatori multidimensionali relativi al grado di attrattività territoriale, di
inserimento sociale e di inserimento occupazionale (CNEL 2010).
32
L’indice di dotazione di capitale sociale è calcolato su base provinciale combinando quattro diversi indicatori
mediante l’analisi delle componenti principali. I quattro indicatori riguardano la densità delle associazioni culturali e del
tempo libero, il tempo dedicato al volontariato e alle attività a favore della comunità, la diffusione dei quotidiani e il
tasso di partecipazione al referendum costituzionale del 2001. Questi quattro indicatori mostrano una elevata covarianza
(67%), che permette di estrarre un unico componente principale (Chiesi 2007).
30
c) tuttavia anche fattori prettamente sociali giocano un ruolo primario. In particolare appare
evidente l’influenza positiva esercitata dalla dotazione di capitale sociale a livello locale, ma
anche il livello di integrazione degli immigrati in generale e delle loro famiglie, non solo e
specificamente degli imprenditori o dei lavoratori in proprio;
d) in particolare emerge l’importanza della dotazione di capitale sociale, che è stata misurato
sulla base di indicatori che si rifanno all’impostazione suggerita da Putnam (1993), che
definisce il capitale come un bene pubblico presente a livello locale, che implica coesione
sociale, solidarietà e senso civico;
e) un ruolo minore, ma non trascurabile, è giocato dalla qualità dell’integrazione sociale degli
immigrati nella comunità locale, in termini di accesso al lavoro e alla cittadinanza, densità
demografica, frequenza di matrimoni e ricostituzione dei nuclei di convivenza attraverso i
ricongiungimenti, presenza di immigrati nelle scuole locali. In sostanza questo indicatore può
incoraggiare la formazione di imprenditorialità grazie alla creazione di un ambiente favorevole
all’insediamento di immigrati e alla creazione di una domanda di beni e servizi a loro destinati,
che può raggiungere la massa critica di quella che in altri paesi a più antica immigrazione è stata
denominata economia etnica (Bonacich e Modell 1980);
f) dai dati emerge chiaramente che la combinazione di fattori sociali ed economici gioca in modo
diverso a seconda delle ditte individuali e delle imprese più strutturate. Per diffondersi, le prime
si basano maggiormente sulla dimensione sociale della coesione e dell’integrazione, le seconde
sono prevalentemente legate alle condizioni economiche locali;
g) un altro importante risultato dell’indagine emerge comparando il comportamento delle
imprese in generale con quelle degli immigrati in particolare. La diffusione delle imprese in
generale non è correlata con il PIL pro-capite, quindi non dipende dal livello di sviluppo
economico locale (0,044, sig. .688), mentre il peso delle imprese di immigrati sul totale è
correlato in modo significativo con il livello di sviluppo locale (rispettivamente 0,537 per le
ditte individuali e 0,662 per i titolari di impresa, entrambi con sig. .000).
31
SECONDA PARTE
4. Commercianti cinesi a Catania: risorse competitive e strategie
imprenditoriali∗
Maurizio Avola e Anna Cortese**
1. L’imprenditorialità degli immigrati cinesi in Italia fra sfide globali e inserimento locale
L’analisi dell’imprenditorialità33 degli immigrati negli ultimi decenni si è andata
progressivamente arricchendo sia sul piano della riflessione teorica che su quello dell’indagine
empirica, approdando a modelli interpretativi sempre più articolati che guardano alle modalità di
interazione fra fattori da domanda e fattori da offerta per individuare su entrambi i versanti mix
virtuosi di condizioni facilitatrici e sinergie positive fra la struttura delle opportunità offerte dalla
società ospitante e il bagaglio di risorse individuali e collettive attivabili dagli immigrati. Le
classiche impostazioni supply side, che interpretano l’imprenditorialità alla luce sia del ruolo delle
risorse culturali, etniche e di classe di cui gli immigrati dispongono (teorie culturaliste e delle
middleman minorities, teoria delle reti etniche e dell’economia di enclave), sia della posizione che
essi occupano all’interno della struttura occupazionale della società ricevente (teoria dello
svantaggio e della mobilità bloccata), sono state integrate con quelle demand side, che hanno
cercato di leggere il fenomeno a partire dagli stimoli derivanti dalle trasformazioni delle economie
avanzate e dei sistemi di regolazione politica delle attività economiche, dall’emersione di nuovi stili
di vita e di consumo, dai processi di segmentazione del mercato del lavoro e dalle strategie di
mobilità occupazionale dei lavoratori autoctoni34. Gli esempi più noti di tale tentativo di
integrazione sono riconducibili al modello interattivo proposto da Waldinger, Aldrich e Ward
(1990) e all’approccio della mixed embeddedness che ha ispirato i programmi di ricerca di
Kloosterman e Rath (2001)35.
Abbandonando la prospettiva spesso monocausale che ha caratterizzato gli approcci originari e
superando visioni ipersocializzate o iposocializzate degli attori, questi tentativi di sintesi si rivelano
potenzialmente molto utili per rendere conto della pluralizzazione dei modelli di imprenditorialità
immigrata osservabili nei diversi contesti nazionali e locali (Martinelli, 2003). In particolare, è
l’approccio della mixed embeddedness ad apparire più fecondo da questo punto di vista, poiché
rispetto al modello di Waldinger, appiattito sulla dimensione etnica dell’imprenditorialità (sia sul
versante dell’offerta che su quello della domanda), presta maggiore attenzione alla definizione della
struttura delle opportunità con la quale gli immigrati si trovano ad interagire nelle società ospitanti:
dalle caratteristiche dei mercati (settore, dimensioni, grado di apertura, potenzialità di sviluppo,
modelli di istituzionalizzazione, ecc.), alla loro accessibilità, legata indissolubilmente alla
regolazione politica che stabilisce sovente vincoli o limiti al libero esercizio dell’attività economica
sulla base della cittadinanza (Codagnone, 2003). L’incorporazione differenziata delle attività degli
immigrati imprenditori nei mercati nazionali, regionali e locali viene quindi interpretata come il
∗
Una versione più sintetica di questo saggio si trova nel n. 2/2011 della rivista Mondi Migranti.
Università di Catania. Sebbene questo lavoro sia frutto di una riflessione comune, a Maurizio Avola sono attribuibili i
paragrafi 1, 2 e 3, mentre ad Anna Cortese i paragrafi 4, 5 e 6. Alla ricerca hanno altresì partecipato Davide
Arcidiacono, Antonella Barone, Maria Covato e Anna Orofino. A loro vanno i più sentiti ringraziamenti.
33
D’ora in avanti si utilizzeranno indistintamente i termini imprenditore, lavoratore autonomo o indipendente. Sul piano
analitico si tratta di figure diverse, tuttavia, dal punto di vista empirico è tutt’altro che semplice ricondurre a tale
distinzione una pluralità di situazioni di confine. Si veda in merito il capitolo precedente, redatto da Antonio Chiesi.
34
Per una rassegna puntale della letteratura sul tema si rimanda ad Ambrosini (2005).
35
In effetti, anche l’ipotesi della successione ecologica, tradizionalmente accomunata agli approcci supply side, deve
essere interpretata alla luce delle dinamiche di interazione tra fattori da offerta (la presenza di immigrati orientati al
lavoro autonomo) e da domanda (i mutamenti strutturali delle economie avanzate che creano opportunità di inserimento
negli interstizi abbandonati dagli autoctoni) (cfr. Ambrosini, 2005).
**
32
risultato di processi di radicamento nei quali gli immigrati sfruttano le proprie risorse, in particolare
etniche, per attivare le opportunità che via via l’ambiente offre loro, adattandovisi o contribuendo a
modificarlo creando opportunità prima inesistenti o latenti (Klosterman, Rath, 2003). Tuttavia,
come è stato sottolineato, questa prospettiva dualistica, proprio per la sua complessità stenta a
tradursi in specifici programmi di ricerca: il contributo di Klosterman e Rath resta una mera
proposizione teorica (Ambrosini, 2005; Codagnone, 2003) e così pure la promettente interazione tra
paradigma dell’azione e della struttura (Barberis, 2008; Storti, 2009). Pur con queste difficoltà
l’approccio della mixed embeddedness potrebbe rivelarsi utile per l’analisi del caso italiano.
Indubbiamente, il venir meno nel 1998 dei vincoli normativi che regolavano l’accesso al lavoro
autonomo degli immigrati nel nostro paese ha rappresentato un impulso decisivo per lo sviluppo
diffuso dell’imprenditorialità immigrata in Italia36 sottolineando la rilevanza dei fattori istituzionali;
tuttavia, solo lo sguardo incrociato sulla domanda a livello territoriale e settoriale e sull’offerta, sul
piano dei tassi d’imprenditorialità dei diversi gruppi nazionali di immigrati, ha permesso di
ricostruire un’immagine articolata dei modelli di incorporazione delle attività autonome degli
immigrati nei sistemi locali, come già da tempo evidenziato per il lavoro dipendente (Ambrosini,
1999; Avola, 2009; Reyneri, 2005).
Un caso particolarmente interessante, in tal senso, è rappresentato dalle dinamiche
dell’imprenditoria cinese in Italia. La sterminata letteratura sull’emigrazione cinese ha sempre
sottolineato il ruolo giocato dagli orientamenti culturali e dall’appartenenza etnica come risorse
individuali e collettive decisive per spiegare il successo imprenditoriale dei chinese overseas
soprattutto nel Sud-Est asiatico e in certa misura nel Nord America e in Europa, tanto da arrivare a
parlare di capitalismo confuciano (Redding, 1993; Yao, 2002), familismo imprenditoriale (Chang,
Chiang, 1996; Wong, 1985), guanxi37 economy (Gold, Guthrie, Wank, 2002; Yang, 1994). Inoltre,
la comune origine dei flussi che caratterizzano buona parte dell’immigrazione cinese nel nostro
paese, l’area di Wenzhou nella provincia orientale dello Zhejiang, ha contribuito ad accrescere
ulteriormente l’enfasi sul background culturale e relazionale che sosterrebbe lo sviluppo delle
attività autonome gestite dai cinesi in Italia.
I numerosi studi sull’imprenditoria cinese in Italia condotti a livello locale, tanto nelle aree
metropolitane, quanto in quelle distrettuali, sebbene abbiano sempre enfatizzato la rilevanza della
dimensione culturale e delle relazioni etniche nell’orientare i modelli di imprenditorialità dei cinesi,
hanno altresì messo in evidenza come questi siano “negoziati” nel tempo con il contesto
socioeconomico di inserimento che struttura dinamicamente opportunità e vincoli, via via ridefiniti
dalla presenza degli immigrati.
In un’area storica di insediamento come la periferia fiorentina, ad esempio, l’accesso come
terzisti nella pelletteria è avvenuto in continuità con la struttura produttiva preesistente, ma il
processo sostituzione degli autoctoni si è progressivamente arrestato quando sia il mercato, sia
“l’ospitalità” della comunità locale, hanno raggiunto un certo livello di saturazione (Tassinari,
Tomba, 1996; Tomba, 1999). A Prato, invece, l’arrivo dei cinesi negli anni novanta è stato
funzionale ai mutamenti in atto nel distretto: offrendo flessibilità, rapidità di consegna e bassi
prezzi, le micro-imprese cinesi si sono moltiplicate in pochi anni e hanno accompagnato la
diversificazione della produzione e lo sviluppo del pronto moda (Ceccagno, 2003; Colombi, 2002).
Anche qui, però, nel corso del tempo diverse cose sono cambiate, poiché l’elevata concorrenza ha
comportato una continua rincorsa sui prezzi e un abbattimento della redditività, inducendo un
mutamento delle strategie imprenditoriali: alcuni hanno puntato sulla diversificazione dell’attività
passando dalla subfornitura monofase a quella plurifase per tentare di “fidelizzare” la clientela; altri
36
I dati Infocamere e quelli ISTAT rilevano rispettivamente che il numero di titolari di impresa e quello di lavoratori
indipendenti stranieri cresce costantemente dalla fine degli anni novanta fino ad oggi. Tuttavia, nello stesso periodo,
considerata la consistente crescita del numero di immigrati presenti in Italia, sia l’incidenza dei titolari di impresa sulla
popolazione straniera che quella dei lavoratori indipendenti sul totale degli stranieri occupati diminuisce lievemente
(quest’ultima tendenza riguarda anche gli autoctoni).
37
Guanxi in cinese significa relazioni sociali.
33
hanno cambiato comparto o settore o sono usciti dal distretto; infine, per i dipendenti aspiranti
laoban (padroni) i progetti imprenditoriali sono diventati meno fluidi e certi rispetto a quelli vissuti
dai pionieri (Ceccagno, 1998; Ceccagno, Rastrelli, 2008).
Anche una ricerca comparata nei distretti tessili modenesi e vicentini ha messo in evidenza
l’importanza dell’interazione reciproca tra contesto e imprenditorialità immigrata. Mentre nel
vicentino i processi di delocalizzazione all’estero decisi dalle grandi aziende locali hanno di fatto
anticipato l’arrivo delle imprese cinesi, limitandone l’inserimento, nel carpigiano i terzisti della
Repubblica Popolare hanno permesso di rilocalizzare nell’area distrettuale fasi di produzione che in
precedenza erano state dirottate verso le aree meridionali e, come a Prato, hanno sostenuto “la
competitività nel cambiamento dei mercati globali, assorbendo i rischi distrettuali delle
trasformazioni in atto e a loro volta socializzandoli all’interno di reti etnicizzate” (Barberis, 2008:
221).
Tra le aree metropolitane quella milanese vanta la storia più antica di inserimento nel lavoro
autonomo dei cinesi e, come Prato, una tradizione di ricerca importante (Chiesi, Zucchetti, 2003;
Cologna, 2000; 2002; Cologna, Mauri, 2004; Farina et al., 1997). Se oggi il loro inserimento è
decisamente meno concentrato dal punto di vista settoriale e più diversificato per modelli di impresa
rispetto ai casi distrettuali analizzati, ciò è legato non solo alle specificità socio-economiche della
città, ma anche ad un processo di adattamento progressivo ad una realtà che è profondamente
mutata nel tempo. I laboratori di confezioni e pelletteria, alcuni dei quali attivi sin dal secondo
dopoguerra al servizio di committenti italiani, sono stati affiancati da imprese etniche e/o esotiche
con mercati in espansione in un contesto dove l’immigrazione ha raggiunto una massa critica
importante e i gusti dei consumatori si sono orientati prima che altrove alla ricerca di nuovi sapori
ed esperienze (i ristoranti tipici rappresentano il principale esempio in tal senso, in secondo luogo
gli esercizi alimentari). Una rilevanza crescente hanno assunto anche le attività commerciali e i
pubblici esercizi “aperti senza connotazioni etniche di prodotto e di mercato (Ambrosini, 2005), che
hanno alimentato un processo di diversificazione rispetto all’imprenditoria autoctona dalle valenze
non univoche: sostituzione, complementarietà, concorrenza.
Sebbene il fenomeno dell’imprenditorialità cinese sia più recente e meno importante sul piano
quantitativo, un panorama simile in termini di differenziazione della penetrazione nell’economia
locale ed evoluzione nel tempo si rileva anche a Torino (Berzano et al., 2010). Coerentemente con
la struttura produttiva locale, la manifattura tessile non ha mai assunto una grande rilevanza ed è
stata così la ristorazione a giocare un ruolo di traino rispetto al settore alimentare e al commercio al
dettaglio che si sono diffusi negli ultimi anni in ogni angolo e mercato della città (Genova, 2010).
Altro tipico esempio di specializzazione urbana è quella romana. Qui è stata innanzitutto la
vocazione turistica internazionale della città a fare dei ristoranti tipici l’avanguardia
dell’imprenditoria cinese. Tuttavia, oggi è il commercio ad occupare la stragrande maggioranza dei
cinesi, soprattutto all’ingrosso: data la sua posizione strategica, per molti commercianti cinesi che
operano in diverse aree del nostro paese Roma è diventata, infatti, uno dei più importanti centri di
approvvigionamento di svariati prodotti (abbigliamento, calzature, pelletteria, oggettistica per la
casa, ecc.) che giungono in Italia dalla Cina passando soprattutto dal porto di Napoli38 (Cristaldi,
Lucchini, 2007).
In definitiva, le ricerche sul tema ci offrono uno spaccato profondamente differenziato che si
presta ad uno schema interpretativo complesso, come quello proposto dalla mixed embeddedness,
che privilegia l’interazione della dimensione culturale ed etnica dell’imprenditorialità con le
specificità socioeconomiche dei contesti territoriali e con i mutamenti del mercato e della società
d’accoglienza (stili di vita, di consumo, di lavoro, processi di mobilità sociale, ecc.). Semmai, in
uno scenario sempre più condizionato dai processi di globalizzazione, occorrerebbe indirizzare
l’analisi anche al di là dello spazio sociale ed economico definito dai confini istituzionali e
normativi delle società d’accoglienza. In quasi tutti i contesti considerati, infatti, emerge come
38
Non a caso la dislocazione spaziale degli esercizi all’ingrosso si concentra prevalentemente in prossimità del G.R.A.,
facilitando così il collegamento con il porto partenopeo.
34
l’ossessiva ricerca dell’autonomia e del successo che guida quella che potremmo definire la
business migration dei cinesi si sia sempre più orientata a sfruttare le relazioni con una madrepatria
che cambia e che è diventata una tra le più importanti potenze industriali del mondo.
Un passo avanti, da questo punta di vista, può essere offerto dal filone di studi sul
transnazionalismo. Si tratta di un approccio variegato ispirato originariamente da alcune ricerche
antropologiche (Glick Schiller, Basch e Blanc-Szanton, 1992) che enfatizza, sul piano culturale,
politico ed economico (Portes, Guarnizo e Landolt, 1999), la doppia appartenenza dei migranti alle
aree di origine e a quelle di destinazione. Pur nei limiti che sono stati sottolineati (Waldinger e
Fitzgerald, 2004; Waldinger, 2010), il transnazionalismo può rappresentare una chiave di lettura
complementare (Boccagni, 2007) per l’analisi di alcuni aspetti che caratterizzano le migrazioni
contemporanee, a partire proprio dall’imprenditorialità. Al riguardo, è stato sottolineato il crescente
attivismo di alcuni immigrati che, sfruttando le risorse relazionali e di mediazione tra “qua” e “là”
di cui dispongono e che l’esperienza migratoria può contribuire ad ampliare, si pongono come
intermediari nello scambio di beni e servizi tra paesi di origine e di accoglienza, operando in
mercati etnici, esotici o totalmente aperti (Ambrosini, 2008; 2009; Portes, Haller, Guarnizo, 2002;
Peraldi, 2002; Storti, 2009). Se solo una minima parte delle attività autonome gestite dagli
immigrati si configura come transnazionale, d’altra parte l’attivismo di alcuni gruppi di immigrati
come intermediari commerciali tra due mondi è antica quanto le migrazioni, come ci insegnano
l’ampia letteratura sulle diaspore e l’approccio delle middleman minorities di Bonacich (1973; cfr.
Ambrosini, 2009; Boccagni, 2009). Tuttavia, è evidente che rispetto al passato la globalizzazione ha
rivoluzionato sotto molteplici punti di vista le relazioni tra “qua” e là”: non si tratta solo di un
ampliamento quantitativo degli scambi di merci, servizi, simboli, esperienze, ecc., veicolati
dall’apertura dei mercati, dalle nuove tecnologie dell’informazione e della telecomunicazione, dalle
migrazioni internazionali (Appadurai, 1996; Cohen, 1997), ma piuttosto di un mutamento della
natura stessa delle relazioni che può intaccare gli assetti di potere consolidati fra aree di esodo e
paesi di arrivo. È quello che sta per certi aspetti avvenendo nello scenario dei rapporti tra Italia e
Cina: le attività di import-export, che rappresentano l’ultima e più redditizia frontiera
dell’imprenditoria cinese in molte realtà della penisola (Berzano et al., 2010; Ceccagno, Rastrelli,
2008; De Luca, 2003), stanno contribuendo a cambiare tanto il profilo della bilancia commerciale
fra i due paesi, quanto i rapporti competitivi fra commercianti cinesi ed autoctoni.
Da questo punto di vista, non si tratta più solo della capacità di aspiranti laoban di insinuarsi
negli interstizi del mercato locale come sostituti funzionali di modelli imprenditoriali che gli
autoctoni hanno difficoltà a riprodurre o come interpreti di nuove domande etniche e/o esotiche
emerse in una società che cambia. Piuttosto, la repentina espansione di imprese commerciali cinesi,
che sono diventate più numerose di quelle manifatturiere e vendono all’ingrosso e al dettaglio
prodotti made in China, rimette in discussione i modelli interpretativi sinora prevalenti. Soprattutto
se si considera quanto tale crescita sia stata importante in molte realtà meridionali ed in particolare
in Sicilia (Ceccagno, Rastrelli, 2008) dove il commercio rappresenta un vero e proprio core
business. Se, da un lato, queste dinamiche recenti rimandano alla nota funzione specchio
dell’immigrazione di cui i Wenzhouren (cinesi originari dell’area di Wenzhou), con la loro capacità
di adattamento, sono stati protagonisti in ogni angolo della penisola, dall’altro, se si considera che
in ambiti come la commercializzazione di capi e accessori di abbigliamento le imprese cinesi sono
riuscite ad imporre la loro concorrenza a quelle autoctone fino ad estrometterle dal mercato, impone
una riflessione sulle specifiche risorse con cui si gioca una competizione che supera lo spazio
socioeconomico definito dalle società di accoglienza.
La nostra ipotesi è che le relazioni dirette o indirette, in buona misura esclusive ed escludenti che
i commercianti cinesi residenti all’estero riescono ad intrattenere con gli industriali della
madrepatria e con i connazionali che operano nei distretti italiani, rafforzino un modello
imprenditoriale “nazionale” che sfrutta la sinergia positiva fra capacità di produzione e di
distribuzione chiudendo la filiera da monte a valle. Un modello competitivo fondato sulla
flessibilità, sull’isomorfismo mimetico e sulla compressione del costo del lavoro che i cinesi
35
riescono a riproporre in realtà e contesti territoriali assai distanti e che spiazza sia i migranti
imprenditori di più antico insediamento che non possono contare su una filiera transnazionale, sia
gli autoctoni che scontano il doppio svantaggio delle difficoltà di attivare reti lunghe per cogliere le
opportunità della globalizzazione e dell’essere ancorati a modelli di impresa comunque più
“evoluti” e costosi.
Seguendo questa prospettiva ci è sembrato di particolare interesse affrontare l’analisi
dell’imprenditorialità cinese in una città come Catania dove l’espansione di aziende commerciali
all’ingrosso e al dettaglio gestite da immigrati della Repubblica Popolare ha assunto proporzioni
assai rilevanti. A tal fine, da un lato, abbiamo ricostruito l’evoluzione della presenza e
dell’imprenditorialità degli immigrati cinesi in provincia di Catania, utilizzando dati istituzionali;
dall’altro, abbiamo cercato di definire tanto i profili degli imprenditori, quanto i modelli
organizzativi e le strategie competitive delle imprese catanesi del made in China attraverso
interviste semistrutturate che hanno coinvolto 20 cinesi titolari di imprese commerciali all’ingrosso
e al dettaglio39 e 14 testimoni privilegiati40.
2. Il successo del commercio made in China a Catania
Abbandonata definitivamente l’aspirazione a diventare la Milano del Sud ed esauritosi il boom
edilizio dei decenni post-bellici, quella catanese è oggi un’area metropolitana che, nonostante abbia
conosciuto di recente una fase di intenso sviluppo di importanti realtà produttive high-tech (Buttà,
Schillaci, 2003), mostra una spiccata vocazione terziaria, in particolare commerciale (Palidda,
2009). Come molte altre aree del Mezzogiorno è caratterizzata da un’elevata parcellizzazione del
sistema produttivo e da gravi squilibri occupazionali, con preoccupanti livelli di disoccupazione e di
diffusione del lavoro irregolare e/o instabile che coinvolgono soprattutto donne e giovani. In questo
contesto, l’immigrazione è cresciuta più lentamente che nel resto del paese, ma ha comunque
raggiunto livelli significativi41. A partire dagli anni ottanta la provincia etnea ha accolto
prevalentemente migranti provenienti dall’area maghrebina, dalle Mauritius, dallo Sri Lanka e dal
Senegal; negli anni novanta la presenza di questi gruppi nazionali è ulteriormente cresciuta
(soprattutto mauriziani e srilankesi), ma si è fatta importante anche la presenza degli albanesi.
Nell’ultimo decennio, invece, il panorama dell’immigrazione catanese è profondamente mutato: i
gruppi storici registrano una presenza ormai stabile o addirittura in declino (mauriziani e
senegalesi), mentre accanto al vero e proprio boom di immigrati rumeni si segnala una crescita
consistente dei cinesi. Gli immigrati dalla Repubblica Popolare alla fine degli anni novanta erano
poco più di un centinaio, ma nel 2009 rappresentano il quarto gruppo nazionale della provincia, con
quasi 1.500 residenti: nel 1999 la loro incidenza sul totale degli stranieri non raggiungeva la metà
della media nazionale, oggi la supera abbondantemente (6,3 contro 4,4%), facendo salire Catania
dall’ultimo al primo quartile nella graduatoria delle province italiane (Fig. 1).
L’inserimento occupazionale dei lavoratori extra-comunitari che appartengono ai gruppi
nazionali tradizionalmente più numerosi (mauriziani e sri lankesi)42 si è realizzato con l’ingresso nel
mercato delle collaborazioni domestiche che si è progressivamente trasformato in una nicchia
etnicizzata che ha protetto questi lavoratori dai rischi di disoccupazione, ma generalmente ha
frenato la loro mobilità occupazionale e i passaggi al lavoro autonomo (Avola, Cortese, Palidda,
39
L’unità di Catania, pur mantenendo la struttura originaria, ha integrato con specifici approfondimenti qualitativi i
questionari utilizzati per l’indagine nazionale.
40
Si tratta sia di testimoni istituzionali (rappresentanti associazioni datoriali, camera di commercio, forze dell’ordine,
autorità portuale), sia di testimoni che operano in modo specifico con imprenditori cinesi (imprenditori autoctoni clienti
e fornitori di ditte cinesi, avvocati, commercialisti, intermediari immobiliari).
41
Al 31 dicembre 2009 si contano in provincia di Catania 23.411 stranieri residenti (circa il doppio rispetto all’inizio
degli anni duemila e il triplo rispetto ai primi anni novanta) , pari al 2,2% della popolazione totale, lontano dalla media
nazionale del 7,0% e comunque al di sotto del dato regionale 2,5% e di quello del Mezzogiorno (2,7%).
42
Considerando tutti gli stranieri, i rumeni rappresentano dal 2007 il primo gruppo nazionale della provincia, anche se
nell’area metropolitana prevalgono ancora i mauriziani e gli sri lankesi.
36
2003; 2005), lasciandoli ai margini del rapido sviluppo di imprenditorialità immigrata degli anni
duemila. Già alla fine degli anni novanta gli immigrati senegalesi, invece, mettevano a frutto le
risorse di capitale sociale tratte dall’inserimento in comunità coese (Scidà, 1993) per sostituirsi ai
marocchini nell’esercizio di attività commerciali e costruire percorsi di mobilità occupazionale
dall’ambulantato “di rifugio” irregolare al commercio su suolo pubblico con regolare licenza, per
approdare in alcuni casi all’avvio di esercizi commerciali per la vendita al dettaglio e all’ingrosso di
prodotti etnici (Avola, Giorlando, 2004; Covato, 2007).
Fig. 1 – Incidenza immigrati cinesi su totale stranieri (valori %)
Fonte: elaborazioni su dati ISTAT.
Solo negli anni duemila i dati camerali registrano, però, un rapido sviluppo della
microimprenditorialità a Catania che offre agli stranieri nuove opportunità di competere in mercati
ambiti dall’imprenditoria autoctona: l’incidenza del commercio ambulante sulle attività autonome
degli immigrati resta predominante, ma si profila una crescita considerevole di attività
imprenditoriali più strutturate nel commercio al dettaglio e all’ingrosso e nei servizi “metropolitani”
e una progressiva articolazione delle tipologie di imprese.
Fig. 2 – Ditte individuali con titolare nato in Cina. Provincia di Catania
Fonte: elaborazioni su dati Infocamere.
37
I protagonisti assoluti di questa nuova fase sono gli immigrati cinesi. Da poche unità registrate
alla fine degli anni novanta, le ditte individuali con titolare nato in Cina43 hanno raggiunto quota
561 nel 2010, con una crescita costante nel corso degli anni ben superiore rispetto a quella
comunque importante fatta registrare da ditte con titolari nati in paesi extra-comunitari, cosicché
l’incidenza delle prime rispetto alle seconde è aumentata progressivamente passando dall’1,1 al
21,4% (fig. 2)44.
Se l’aumento di ditte con titolare extracomunitario e soprattutto di quelle cinesi non si arresta
nemmeno negli anni della crisi economica, le ditte con titolare nato in Italia, invece, fanno segnare
un continuo calo a partire dal 2007, con la scomparsa nel giro di quattro anni di quasi 9.000 unità (12,6%).
La rilevanza dell’imprenditorialità cinese a Catania assume un significato straordinario se si
osserva il fenomeno in ottica comparata con il resto del territorio regionale e nazionale. Come
mostra la tab. 1, la quota di ditte individuali con titolare nato in un paese extra-UE sul totale delle
ditte individuali a Catania è più bassa sia della media regionale che soprattutto di quella nazionale.
Considerando solo i cinesi, invece, il dato catanese non solo è più elevato di quello siciliano, ma
anche non molto distante da quello del resto del paese. Tuttavia, informazioni ancor più rilevanti si
ottengono analizzando i settori di attività. I cinesi, infatti, sono titolari del 2,5% delle ditte
individuali registrate nel commercio a Catania, mentre nell’intero territorio nazionale si fermano
all’1,9%. La specificità del loro inserimento è altresì confermata da una graduatoria di fatto inversa
considerando la totalità degli extra-comunitari.
Tab. 1 – Incidenza delle ditte individuali sul totale per paese di nascita del titolare,
settore di attività e area territoriale. Anno 2010
Extra-UE
Cina
Totale
Totale
Catania
4,1
0,9
Sicilia
4,8
0,7
Italia
7,9
1,1
Fonte: elaborazioni su dati Infocamere.
Extra-UE
Commercioa
9,4
12,3
12,5
Cina
Commercio
2,5
2,3
1,9
a) La classificazione dei dati camerali suddivide il settore in “commercio al dettaglio”, “commercio all’ingrosso” e “commercio,
manutenzione e riparazione di autoveicoli e motocicli”. Quest’ultima voce è stata esclusa dal nostro conteggio.
Come ricordato nel paragrafo precedente, l’inserimento degli immigrati cinesi in Italia è stato
caratterizzato per lungo tempo dall’avviamento di micro-imprese nel settore manifatturiero,
prevalentemente nelle confezioni e nella pelletteria. Dal 2005, però, le ditte individuali cinesi attive
nel commercio in Italia hanno superato quelle manifatturiere e rappresentano oggi il 46,6% del
totale (contro il 42,7%). Si tratta di un fenomeno complesso ed eterogeneo, che spazia dal
commercio ambulante su aree pubbliche a veri e propri centri commerciali al dettaglio e
all’ingrosso interamente made in China, la cui espansione è frutto di un duplice processo: da un
lato, la diversificazione delle attività nelle aree di più antico insediamento del Centro-Nord;
dall’altro, l’evoluzione territoriale della presenza cinese, che negli ultimi anni ha coinvolto anche le
regioni meridionali. A differenza di quanto avvenuto nel resto del paese, al Sud la struttura delle
43
In questo studio si è deciso di lavorare esclusivamente con i dati dei titolari di ditte individuali piuttosto che con quelli che fanno
riferimento alle persone che occupano una qualche carica “imprenditoriale” in senso lato (rappresentanti legali, soci e altre cariche in
imprese di capitali, società di persone diverse dalle ditte individuali, cooperative, ecc.). Tale scelta è stata dettata sia dai maggiori
dubbi che ruotano attorno all’equiparazione di tali altre cariche con posizioni imprenditoriali in senso stretto rispetto alla titolarità di
una ditta individuale (di nuovo si rimanda al capitolo precedente), sia dalla considerazione che tra i cinesi “imprenditori” in senso
lato a Catania i titolari di ditte individuali rappresentano comunque il 90,9% del totale.
44
Purtroppo, tra i limiti dei dati camerali uno dei più rilevanti è proprio il criterio attraverso il quale si definisce la nazionalità, basato
sul luogo di nascita e non sulla cittadinanza. In questo modo vengono conteggiati coloro che, nati all’estero, sono di fatto italiani
(immigrati di ritorno). Correggere i dati è molto complicato e implica comunque procedure arbitrarie. Sulla base di precedenti stime
effettuate su file di dati individuali, la quota di immigrati di ritorno nati in paesi extra-Ue tra i titolari di ditte individuali a Catania è
piuttosto elevata (circa il 40%) (Covato, 2007). Considerato ciò, l’incidenza dei cinesi sarebbe ben più elevata di quella qui riportata.
38
opportunità non ha mai favorito un radicamento manifatturiero dell’imprenditoria immigrata sul
modello distrettuale, così l’inserimento dei cinesi è più recente e sperimenta un’accelerazione negli
anni in cui il commercio diventa un’alternativa strategica sia per molti laoban che vedono
continuamente diminuire la redditività dei loro laboratori di fronte ad una concorrenza divenuta
esasperata, sia per i lavoratori dipendenti che per le stesse ragioni vedono minacciati i loro progetti
di mobilità attraverso il passaggio al lavoro autonomo nel settore manifatturiero (Ceccagno,
Rastrelli, 2008). In questo modo, inizia un processo migratorio all’inverso, che dal Centro-Nord
spinge molti cinesi a cercare opportunità in nuovi mercati come quelli meridionali, cui nel tempo si
aggiungono flussi in entrata direttamente dalla madrepatria. Il risultato è che oggi anche il più
remoto dei comuni meridionali ha il suo esercizio commerciale cinese e la Sicilia è la regione
protagonista di questo sviluppo, registrando il più alto numero di ditte individuali nel settore dopo
la Lombardia.
Le imprese commerciali rappresentano in Sicilia ben il 98,4% delle ditte individuali con titolare
nato in Cina (il 97,7% a Catania). Tale concentrazione settoriale riguarda anche gli immigrati di
altre nazionalità, seppur in misura più contenuta (tre ditte su quattro sia a Catania che in Sicilia), ma
assume un significato diverso. Così come a Catania, anche nel resto dell’isola per molti degli
immigrati appartenenti ai gruppi nazionali più attivi nel lavoro indipendente, sia di immigrazione
più antica (marocchini e senegalesi) che più recente (bengalesi), l’inserimento in questo settore
passa dall’ambulantato, che si configura come un vero e proprio “rifugio etnicizzato”. Solo in
pochi, tuttavia, riescono ad approdare ad attività più strutturate con l’apertura di esercizi
commerciali al dettaglio e/o all’ingrosso, comunque quasi esclusivamente nelle città più grandi, le
uniche realtà dove riescono a trovare spazi di mercato per una clientela autoctona, attratta da
prodotti dell’artigianato etnico, o immigrata, in particolare ambulanti che rivendono prodotti etnici
o merci di scadente fattura (anche contraffatte) nei mercati cittadini o nelle spiagge più affollate nel
periodo estivo. Per i cinesi, invece, il percorso appare diverso. Sin dall’inizio, infatti, il loro arrivo
coincide con l’avvio di attività commerciali strutturate in segmenti di mercato, soprattutto la vendita
di capi e accessori di abbigliamento, ancora importanti per gli autoctoni e in cui gli altri immigrati
non hanno mai trovato spazi significativi.
In questo processo di rapida penetrazione nel mercato siciliano Catania ha una sua specificità. La
vocazione commerciale della provincia etnea nel panorama regionale è nota sia per il peso che il
settore assume nell’economia locale (in termini tanto di attività che di occupati), sia per il ruolo
strategico di hub che rifornisce grossisti e dettaglianti di buona parte dell’isola. I cinesi si sono
inseriti nell’economia del territorio sfruttandone appieno le opportunità e hanno fatto di Catania il
quinto polo nazionale, dopo quelli storici di Milano e Firenze-Prato e quelli più recenti di Napoli e
Roma, della distribuzione made in China in Italia. Questo ruolo strategico assunto dalla provincia
etnea è confermato non solo dal numero complessivo di esercizi commerciali, il più alto dell’isola e
tra i più elevati a livello nazionale, in crescita costante da più di dieci anni a fronte della crisi
attraversata dal settore in provincia45, ma soprattutto dal peso assunto dalle attività all’ingrosso. A
Catania, infatti, si trovano 169 esercizi cinesi di questo tipo, l’85,8% di quelli registrati sull’intero
territorio regionale, che riforniscono non solo dettaglianti connazionali e extra-comunitari in genere,
ma anche autoctoni, tanto della provincia quanto del resto della regione. Il progressivo ampliamento
dei mercati di sbocco ribalta di fatto i tradizionali rapporti distributivi che hanno caratterizzato a
partire dagli anni ottanta l’inserimento nel commercio da rifugio degli immigrati e che trovavano
nei grossisti locali o comunque nazionali i loro fornitori esclusivi di beni non etnicamente
connotati46.
45
Dal 2006 al 2010 si registra una contrazione di oltre 3.000 ditte individuale pari al 13,2%, che sale al 16,1%
considerando solo quelle con titolare nato in Italia.
46
Appare molto interessante, in tal senso, l’iniziativa di una famiglia di imprenditori cinesi del settore che ha promosso
di recente l’avviamento di un imponente centro commerciale all’ingrosso per operatori no food denominato
“Cinamercato” che con i suoi oltre 15.000mq potrà ospitare fino a 150 box esclusivamente destinati al made in China.
Oltre ad essere il più importante progetto imprenditoriale finora realizzato nella città etnea, l’iniziativa è rilevante per il
39
Tale specializzazione dell’imprenditoria cinese a Catania è ben evidenziabile dai dati riportati
nella tab. 2: mentre una ditta individuale su tre registrata nel commercio nella provincia etnea opera
nell’ambito della distribuzione all’ingrosso, tale rapporto scende a una su dieci in Sicilia
(escludendo Catania ciò avviene nella misura dell’1,9%) e una su cinque nell’intero territorio
nazionale. Inoltre, a Catania il peso specifico dell’ingrosso è addirittura superiore rispetto a quanto
avviene per le ditte con titolare italiano.
L’analisi dei dati istituzionali, in definitiva, evidenzia un modello di inserimento che ricalca la
vocazione del territorio nell’ambito regionale, mettendo ancora una volta in luce la funzione
specchio dell’immigrazione e in particolare la grande adattabilità dell’imprenditoria cinese al
contesto. Tuttavia, almeno due questioni restano ancora aperte. Innanzitutto, quali sono i fattori che
hanno permesso agli immigrati cinesi una colonizzazione senza conflitto di alcuni spazi di mercato
in un contesto difficile. In secondo luogo, come sono riusciti nel tempo a ribaltare i rapporti di forza
con l’imprenditoria autoctona affermandosi come protagonisti della distribuzione low cost.
Tab. 2 – Incidenza dell’ingrosso sul totale delle ditte individuali commerciali per paese di nascita del
titolare e area territoriale. Anno 2010
Cinesi
Extra-Ue
Catania
33,6
13,7
Sicilia
10,0
4,9
Italia
19,9
14,4
Fonte: elaborazioni su dati Infocamere.
Italiani
31,3
25,2
34,3
Totale
29,6
22,6
31,7
Per cercare di dare una risposta agli interrogativi sollevati, un primo passaggio necessario è
quello di ricostruire il profilo degli imprenditori cinesi operanti nel territorio catanese.
3. Profili di commercianti cinesi: biografie deboli, progetti forti, carriere mobili
Nel corso della nostra ricerca abbiamo intervistato un campione non rappresentativo di 20 cinesi
titolari di attività commerciali al dettaglio e all’ingrosso di capi e accessori di abbigliamento. Il
primo obiettivo dell’indagine è stato quello di ricostruire il profilo degli imprenditori e l’evoluzione
delle loro carriere, nel tentativo di trarre indicazioni in merito al ruolo giocato dalle risorse (umane,
relazionali, economiche, motivazionali, ecc.) individuali, familiari ed etniche, nel sostenere il
percorso migratorio e l’accesso al lavoro indipendente. L’avvio di attività autonome da parte degli
immigrati, così come l’accesso al lavoro qualificato, infatti, viene spesso concepito come l’esito di
un percorso promozionale per cui risulta fondamentale il possesso di determinate credenziali
educative e professionali, l’accumulazione di risorse finanziarie, l’integrazione sociale, culturale ed
economica nel contesto di accoglienza (conoscenza della lingua, delle leggi, dei mercati, sviluppo di
un capitale relazionale non esclusivamente etnico, ecc.)47 (Bagaglini, 2010, Reyneri, 2007).
Tuttavia, le numerose ricerche sugli immigrati cinesi hanno smentito la validità di molti degli
assunti suddetti. La nostra indagine conferma che siamo di fronte a delle biografie che possiamo
considerare particolarmente deboli. In primo luogo, tutti gli intervistati, 11 uomini e 9 donne di età
compresa tra i 25 e i 57 anni, provengono da famiglie di basso status sociale, di origine contadina o
operaia, fatta eccezione per due soli uomini i cui genitori erano piccoli commercianti ed un altro il
cui padre era un impiegato pubblico. Inoltre, nessuno è in possesso di particolari credenziali
educative e/o professionali: solo in sei sono arrivati all’equivalente italiano del diploma, mentre gli
altri si sono fermati alle medie inferiori o hanno concluso solo il ciclo della scuola primaria; sul
versante lavorativo, invece, tra coloro che hanno iniziato a lavorare nella madrepatria solo due
intervistati possono vantare esperienze di lavoro autonomo, mentre tra chi ha lavorato alle
dipendenze nessuno si è spinto al di là di mansioni operaie (condizioni che sono rimaste tali anche
suo elevato valore simbolico, poiché sorge all’interno della nuova area commerciale all’ingrosso della città, la più
grande area di distribuzione del Mezzogiorno.
47
Ragion per cui l’anzianità della presenza nel contesto di accoglienza è una variabile spesso decisiva.
40
in Italia prima dell’avvio della prima attività indipendente). Infine, sul versante dell’integrazione
socioculturale, il nostro campione conferma quanto consolidato nella letteratura sui cinesi in Italia e
recentemente misurato da una ricerca comparata a livello nazionale (Cesareo, Blangiardo, 2009):
scarsa conoscenza della lingua italiana, relazionalità confinata all’interno delle reti etniche,
partecipazione associativa inesistente.
A fronte di tale debolezza delle biografie, i percorsi migratori degli imprenditori intervistati sono
sorretti da progetti forti e strategie mirate, dove l’avvio di attività indipendenti rappresenta
l’obiettivo ultimo verso il quale sono finalizzati tutti gli sforzi individuali e familiari. Su questo
versante, appare interessante la condivisione di una comune origine territoriale che come sostenuto
da un’ampia letteratura assume un significato tutt’altro che secondario, configurandosi come un
orientamento normativo che sostiene l’azione dei singoli. Tutti gli intervistati provengono, infatti,
dal Sud-Est dello Zhejiang, in particolare dalla prefettura di Wenzhou, un’area a vocazione
artigianale e commerciale, dove la resistenza alla collettivizzazione dimostrata dai suoi abitanti e gli
scarsi investimenti statali nell’economia locale (Cologna, 2000), nonché l’isolamento geografico,
avrebbero di fatto favorito lo sviluppo di forme di gestione autonoma delle attività già prima delle
riforme promosse da Deng Xiaoping (Tomba, 1999; Zocchi, 2002). Tali condizioni sarebbero alla
base di una sorta di vantaggio competitivo che i Wenzhouren valorizzano dopo il 1979, soprattutto
durante il nuovo corso di apertura al mercato e di ripresa delle migrazioni internazionali dopo il
1979: è il “modello di Wenzhou” (Liu, 1992; Parris, 1993; Pieke, Mallee, 1999), definito da elevata
propensione agli affari, mobilità, flessibilità e intensità del lavoro, ecc., che questi “ebrei cinesi”
(Berzano et al., 2010) avrebbero rapidamente esportato sia all’interno che all’esterno della
madrepatria attivando le reti di guanxi, familiari e di tongxiang48 (Tomba, Tassinari, 1996). Il
progetto migratorio di ogni Wenzhouren, quindi, sarebbe chiaro sin dalle origini, scandito da una
successione lineare di fasi che partono dalla programmazione familiare del viaggio sino all’avvio
dell’impresa, passando attraverso un inserimento nel paese ospitante alle dipendenze di un’impresa
di un parente o di un compaesano, che consentirebbe di scontare il debito contratto per
l’emigrazione e iniziare ad accumulare risorse economiche e cognitive necessarie per l’avvio di
un’attività autonoma. Rispetto a questo progetto, tornare a casa senza essere diventato laoban
sarebbe un fallimento, poiché per i tongxiang “questo solo è ritenuto lo status simbolico al quale è
associata e che sanziona […] la mobilità sociale ascendente alla quale tutti aspirano” (Hassoun,
1996: 25-26).
In effetti, i percorsi migratori che abbiamo ricostruito ricalcano fedelmente questo modello,
anche se emerge una distinzione iniziale tra chi ha deciso autonomamente di uscire dalla Cina per
soddisfare il desiderio di mobilità sociale e di miglioramento delle proprie condizioni economiche e
chi invece lo ha fatto per ricongiungersi con i genitori che si trovavano già in Italia (generalmente
gli intervistati più giovani). Anche i primi, tuttavia, arrivano nel nostro paese perché è già presente
un parente e in questo modo l’inserimento occupazionale è immediato e comunque confinato
all’interno di imprese gestite da parenti o da tongxiang. C’è quasi da stupirsi nello scoprire che
Luciano49, quarantaduenne commerciante all’ingrosso di calzature che era stato a lungo in
Germania, venga chiamato dalla sorella in Italia per andare a lavorare presso la bancarella di un
amico catanese, oppure che Monica, 32 anni e titolare da cinque di un ingrosso di scarpe, dopo
qualche anno in Italia, abbia avuto un’esperienza come cameriera in un pub gestito da italiani fra le
tante alle dipendenze di connazionali. Ad eccezione di questi due casi i percorsi occupazionali sono
sempre scanditi da passaggi tutti interni alla rete parentale o di connazionali: chi raggiunge i parenti
nell’area di Firenze-Prato (1 su 2), sperimenta un inserimento come operaio nei laboratori di
pelletteria o di confezionamento di articoli di abbigliamento; chi arriva invece a Napoli o in altre
città della penisola, inizia il percorso occupazionale nelle cucine dei ristoranti cinesi o direttamente
48
Il termine fa riferimento a coloro che provengono dallo stesso villaggio/città (Ceccagno, 1998). Tra i nostri
intervistati si rilevano sostanzialmente due gruppi di tongxiang: quelli provenienti dalla città di Wenzhou e dintorni e
quelli originari della contea di Wencheng, un’area più interna poco distante dal principale centro della prefettura.
49
È curioso notare che tutti gli intervistati si facciano chiamare con nomi italiani.
41
come addetto alle vendite in esercizi commerciali made in China. Il primo impiego assolve una
funzione decisiva per pagare gli eventuali debiti di viaggio e accumulare parte delle risorse
necessarie per avviare un’attività in proprio. Tuttavia, il passaggio al lavoro autonomo appare
piuttosto rapito e accessibile, considerato che 3 su 4 avviano la propria impresa entro cinque anni
dall’arrivo in Italia e solo 1 su 5 dopo aver svolto più di un anno di lavoro alle dipendenze.
L’avvio della prima attività autonoma rappresenta un momento cruciale dell’esperienza
migratoria. A seconda dei casi, questo passaggio può comportare un salto doppio o triplo, poiché la
mobilità occupazionale verticale è affiancata da quella settoriale e/o geografica. Solo due
intervistati, infatti, ripercorrono il tradizionale percorso da operaio a laoban terzista compiuto da
quella generazione di migranti cinesi in Italia che tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni
novanta si è insediata nei distretti del tessile. Per gli altri, quasi tutti arrivati in Italia tra la fine degli
anni novanta e l’inizio degli anni duemila, il passaggio al lavoro indipendente avviene con l’avvio
di una qualche attività commerciale: bancarelle nei mercati cittadini, negozi al dettaglio, piccoli
ingrossi. La logica della continua compressione dei costi imposta dalle dinamiche produttive globali
e il sovraffollamento e la competizione esasperata dei connazionali, ha ridotto nel tempo la
redditività delle aziende cinese, inducendo molti a seguire vie diverse, più rapide e meno faticose
per raggiungere l’unico vero obiettivo, quello di avviare la propria impresa, diventando autonomi e
accrescendo le opportunità di guadagno nel minor tempo possibile. Le motivazioni sono forti e
talvolta sopperiscono alle risorse scarse: si ricorre così ai prestiti dei parenti, a quelli degli amici,
con formule che nel tempo possono generare vantaggi anche per il creditore, come ci spiega Leo, 25
anni, che gestisce con il padre un ingrosso di abbigliamento:
Siamo sempre stati aiutati da amico di Roma. Mio padre con questo amico già si conosceva quando era piccolo in Cina,
lui dato opportunità mio padre di venire qua, poi ha dato una mano per fare iniziare lavoro qua a Catania. Ha prestato un
po’ di soldi, anche con la merce, perché lui ha ingrosso, noi andiamo da lui e lui per inizio attività sempre fare sospeso,
manda 10 colli, tu cominci a vendere, quello che si vende loro ti mandano se tu lavori bene paghi, se non lavori bene ti
manda un altro tipo di merce.
Catania diventa per molti la meta ideale per intraprendere il nuovo percorso, un avamposto di
imprenditorialità senza radicamento in quel Mezzogiorno ancora poco esplorato. Infatti, 4 su 5 si
trasferiscono nella provincia etnea per aprire direttamente la propria attività e quasi per tutti si tratta
della prima esperienza di lavoro autonomo. Ad esclusione di Marco che impiega sei anni dal suo
arrivo per avviare il suo ingrosso di calzature (arriva però a Catania appena ventenne), di Leo che
subentra nell’attività avviata dal padre dopo otto anni che si era trasferito in città con i genitori e di
Antonella che avvia un ingrosso di abbigliamento con il marito dopo aver lavorato come commessa
per un connazionale, tutti gli altri nel giro di qualche mese inaugurano i propri esercizi commerciali.
Non si tratta, però, di iniziative del tutto azzardate. Ancora una volta, la rete parentale e di
tongxiang assume un ruolo decisivo per ridurre l’incertezza che accompagna tale fase. Alcune di
queste attività rappresentano una forma di diversificazione degli investimenti di familiari già
presenti, in altri casi, invece, la propria rete fornisce informazioni dirette o indirette sulla possibilità
di sfruttare un mercato in espansione:
Io chiamato amici, qua zona buona, sono perfetto… come tu se vuoi un lavoro chiami amici. Anche i genitori chiedono
se questo lavoro buono, come va, se si sta bene… informazione (Paolo, 28 anni, titolare di un negozio di
abbigliamento).
Abbiamo provato in Germania e a Roma ma è stato difficile trovare un negozio adatto alle nostre esigenze. A Roma ne
avevamo trovato uno che poteva andare bene, ma chiedevano una buona uscita troppo alta, non era conveniente. Così
abbiamo deciso di venire a Catania. [...] Noi siamo stati i primi a venire qui, dai clienti della fabbrica avevamo sentito
dire che in Sicilia c’era possibilità di lavoro con le borse, a Catania abbiamo subito trovato questo negozio che andava
bene (Elisa, 44 anni, gestisce con il marito un ingrosso di pelletteria).
La ricerca quasi ossessiva del successo spinge questi imprenditori a esplorare, a valutare vincoli
ed opportunità economiche delle loro scelte, a non arrendersi di fronte alle avversità. Un idealtipo di
42
homo œconomicus per il quale il mercato diventa il principale se non l’unico riferimento che guida
il progetto migratorio e una carriera che per definizione diviene mobile. Ieri Prato, oggi Catania,
domani chissà. L’importante è non fermarsi e non cedere alle “tentazioni” che potrebbero far
perdere di vista il vero obiettivo di ogni Wenzhouren:
Questo tipo di lavoro, all’ingrosso, è di passaggio, quando noi guadagniamo soldi facciamo un investimento in Cina
sempre su commercio, comprare immobili in Cina, poi dopo tot anni lo vendiamo, poi compriamo altri e vendiamo, in
mezzo guadagniamo la differenza. Se c’è un posto dove posso guadagnare di più cambio subito (Leo, 25 anni, gestisce
un ingrosso di capi di abbigliamento con il padre).
Forse aprire altro negozio. Dove non si sa, ancora devo scegliere, anche fuori: Milano, Roma, dove c’è posto buono.
Qua lascio qualcuno e faccio avanti e indietro (Alessandro, 24 anni, titolare di un negozio di abbigliamento).
Penso di aprire un nuovo negozio, in un altro paese sempre in Italia, però ancora non lo sappiamo dove, vediamo dove è
buono, andiamo a vedere, dobbiamo girare (Luigi, 47 anni, titolare di un negozio di abbigliamento).
[Dopo quelli nella nostra regione abbiamo intenzione di] aprire altri ingrossi a Pechino, Shangai, Hong Kong. Sì ci
vuole, però piano, piano perché è difficile (Mimì, 57 anni, titolare di ingrosso di abbigliamento che da qualche anno
esporta vini siciliani nello Zhejiang).
4. Colonizzazione senza conflitti
Come in altre realtà territoriali anche a Catania solidarietà parentali, orientamenti acquisitivi,
flessibilità e mobilità hanno rappresentato le principali risorse socioculturali che hanno favorito la
transizione al lavoro autonomo degli immigrati cinesi. Tuttavia, i fattori che hanno agito dal lato
dell’offerta, proprio perché comuni e trasversali rispetto ad esperienze e fasi migratorie diverse, non
riescono a spiegare la specificità della crescita esplosiva dell’imprenditoria cinese nel capoluogo
etneo, né il progressivo ribaltamento dei suoi rapporti competitivi con i commercianti autoctoni. I
“meccanismi sociali” (Bianco, 2001; Elster, 1983) che hanno regolato questi processi di
mutamento, senza generare conflitti manifesti ed attivando “capacità individuali” in una dimensione
collettiva, mettono in gioco, piuttosto, relazioni inedite, definite nello spazio e nel tempo, fra
variabili di contesto, dinamiche istituzionali e strategie degli attori economici che configurano un
processo emblematico di costruzione sociale di imprenditoria immigrata mixed embedded
(Kloosterman, Rath, 2001).
Sul versante della domanda, il sistema di opportunità che si offrono all’imprenditoria cinese a
Catania negli anni duemila nel settore della distribuzione è strutturato da sincronismi e connessioni
che travalicano i confini locali mettendo in comunicazione spazi sociali assai distanti. La forte
propensione alla mobilità che abbiamo rilevato anche fra i nostri intervistati stabilisce intersezioni
variabili fra i mercati globali, regionali e locali con cui si misurano gli imprenditori cinesi
nell’evoluzione delle loro carriere lavorative e nell’esercizio delle loro attività. Come abbiamo già
rilevato, quasi tutti gli intervistati raggiungono l’Italia tra la fine degli anni novanta e l’inizio del
decennio successivo e si trasferiscono a Catania entro la prima metà degli anni duemila. Le loro
scelte migratorie e imprenditoriali si inquadrano, pertanto, in uno scenario economico definito
dall’intreccio fra tre differenti processi di cui sono stati partecipi: in primo luogo, lasciano il paese
di origine muovendosi nel solco degli ingenti flussi di popolazione e di merci che dalla Cina si
dirigono verso l’Europa grazie al successo del modello di sviluppo trainato dalla domanda dei paesi
occidentali e sostenuto “dal basso” dall’imprenditorialità reticolare (Hamilton, 2006; Trigilia,
2009); il secondo processo che gli intervistati sperimentano all’arrivo nel nostro paese riguarda,
invece, la progressiva saturazione di tradizionali “nicchie etnicizzate” colonizzate dai cinesi nelle
aree metropolitane (De Luca, 2003; Cologna, Mauri, 2004; Cologna et al., 2005; Cristaldi,
Lucchini, 2007) e nei distretti industriali (Ceccagno, Rastrelli, 2008); infine, a Catania gli immigrati
cinesi si misurano con la destabilizzazione degli assetti economici e di potere consolidati e si
avvantaggiano della vulnerabilità dell’imprenditoria commerciale tradizionale, sottoposta per tutti
gli anni novanta al fuoco incrociato della crisi occupazionale “lunga”, che comprime i redditi delle
43
famiglie, e della penetrazione tardiva e massiccia della grande distribuzione nel territorio etneo. Si
tratta di processi strutturalmente interrelati poiché l’aggressività del capitalismo cinese ha
accelerato la trasformazione dei modelli tradizionali di integrazione degli immigrati nelle economie
locali50, consolidando nei territori a più alta concentrazione di popolazione cinese un funzionamento
“a fisarmonica” del mercato del lavoro che continua ad attrarre ingenti flussi di manodopera dalla
Repubblica Popolare e a garantire all’imprenditorialità immigrata nuovi spazi in settori in
espansione, ma “libera” al contempo un’offerta di lavoro autonomo che si trasferisce nelle regioni
meridionali senza creare disoccupazione, né conflitti, perché veicolata e sostenuta tanto dalle
solidarietà forti delle reti parentali, che garantiscono risorse finanziarie e alimentano nuove catene
migratorie, quanto dai legami deboli delle reti professionali di clienti e imprenditori, costruite nelle
aree di primo insediamento, che hanno contato di più per i “pionieri”51.
Tuttavia, ancora a metà degli anni novanta nel Mezzogiorno la ricettività delle economie locali
per le imprese cinesi non appariva scontata anche per attività a bassa soglia di accesso come quelle
commerciali, in particolare a Catania, dove la crisi economica e la disoccupazione assumevano
durata e dimensioni assai più drammatiche che nel resto del paese per l’inattesa sinergia fra vincoli
economici e fattori politico-istituzionali52, che prosciugava i tradizionali polmoni occupazionali
dell’economia locale, travolgeva i vertici dell’imprenditoria e destabilizzava il tradizionale modello
di sviluppo basato sul gonfiamento di settori speculativi e sulla spartizione clientelare delle risorse
pubbliche (Palidda, 2008).
Ricostruendo la fase di arrivo degli immigrati cinesi a Catania, tutti gli operatori economici
locali che abbiamo intervistato riferiscono delle difficoltà delle imprese commerciali e di un calo
delle vendite di articoli di abbigliamento che si traduce per dettaglianti e grossisti in una
straordinaria crisi di liquidità che trascina i più deboli nei circuiti dell’usura:
La presenza di commercianti immigrati si consolida soprattutto negli anni novanta con la crisi del commercio
tradizionale, accelerata anche dall’apertura dei primi centri commerciali. Molte nostre piccole imprese in quel periodo
erano enormemente indebitate e hanno trovato conveniente cedere le proprie attività agli immigrati [cinesi] che si sono
presentati direttamente con le valigette di denaro e hanno comprato le attività e l’autorizzazione (funzionario di
Confcommercio).
Anche alla fine del decennio allorché si profilano i primi segnali di inversione della congiuntura
negativa, la struttura delle opportunità che si offrono agli immigrati nel commercio resta
ambivalente, poiché la possibilità di sostituire operatori locali in attività in declino si coniuga con
prospettive oltremodo incerte di espandere gli spazi di mercato al di fuori della grande
distribuzione, ma soprattutto con le poderose barriere di accesso imposte dalla segmentazione etnica
che tradizionalmente aveva confinato gli immigrati nelle nicchie marginali del commercio itinerante
e dell’ambulantato di rifugio, riservando ai catanesi le attività più stabili e redditizie del commercio
low cost, esercitate con regolare licenza su suolo pubblico o nei negozi al dettaglio e all’ingrosso
che si addensavano attorno all’area di attrazione del mercato cittadino di piazza Carlo Alberto. Qui
lo strutturale squilibrio fra la numerosità di competitori locali esperti del settore e la saturazione
50
Le ricerche locali hanno rilevato tanto nei distretti, quanto nelle aree metropolitane difficoltà per le imprese cinesi,
imputabili non solo al sovraffollamento dei mercati di nicchia e alla concorrenza esacerbata fra connazionali, ma altresì
all’intensificarsi dei flussi di importazione diretta di manufatti dalla Cina (Cristaldi, Lucchini, 2007; Ceccagno,
Rastrelli, 2008) che l’Unione Europea ha cercato di arginare con l’accordo di Shanghai (2005).
51
Le testimonianze dei nostri intervistati lasciano ipotizzare che le reti professionali di connazionali e non abbiano
contato di più per i “pionieri” dell’immigrazione cinese a Catania. Ad esempio, una commerciante all’ingrosso di
accessori in pelle, giunta a Catania negli anni novanta dopo aver gestito un laboratorio di pelletteria in Toscana e
principale artefice del radicamento nel capoluogo etneo di una rete di imprese familiari, dichiara di essere stata
informata da un cliente abituale delle opportunità di investimento a Catania.
52
In questa fase a Catania gli effetti della congiuntura sfavorevole si cumulavano con quelli delle politiche di
risanamento finanziario e con la fine dell’intervento straordinario, ma la svolta decisiva era segnata dal blocco degli
appalti pubblici e dalla paralisi dell’edilizia e del suo indotto, causate dalla campagna di moralizzazione della vita
politica nazionale (tangentopoli) e dall’inasprirsi delle azioni di contrasto alla criminalità mafiosa dopo gli attentati ai
giudici Falcone e Borsellino.
44
degli spazi logistici era regolamentata da un sistema consolidato e legittimato di controlli capillari
formali e informali in cui si insinuavano pratiche collusive dei commercianti con alcuni segmenti
delle istituzioni di controllo pubblico e con le organizzazioni criminali che gestiscono il racket delle
estorsioni.
Per aprire una breccia in queste poderose barriere sociali e istituzionali gli immigrati cinesi
mettono in campo le risorse finanziarie risparmiate nella fase di primo insediamento e integrate da
prestiti familiari, ma soprattutto pratiche di transazione monetaria rigorose e puntuali con pagamenti
di ammontare elevato e solo in contante, ma del tutto inusuali e particolarmente appetibili in un
mercato radicato nell’economia sommersa e afflitto da una grave crisi di liquidità. Così i nuovi
arrivati si conquistano la “benevolenza” dei commercianti locali e il “riconoscimento” delle
organizzazioni che controllano il territorio, poiché l’acquisizione a prezzi elevati delle licenze
comporta anche la loro protezione. È il primo tassello per spiegare l’inserimento non conflittuale
dei cinesi nelle attività commerciali della città:
Loro vengono qua già con i soldi altrimenti non potrebbero neppure entrare. […] Pagano con i soldi, assegni poco o
niente, anche perché nel loro lavoro fanno molto nero, allora con i soldi contanti chiudono il tutto. Hanno comunque un
conto corrente in banca, ma per pagarsi solo la merce fatturata, poi il nero… Sono pagatori puntuali, puntualissimi. Se il
catanese sa che lo devono pagare il 10 ci va il 9 e loro lo pagano (mediatore immobiliare).
Io escludo che i cinesi paghino il pizzo. Se tale taglieggiamento c’è, c’è sulla bancarella, ma sotto forma di
intermediazione. Ovvero io che ho la bancarella alla fiera non la vendo, ma la cedo al cinese sotto pagamento di una
quota che in qualche modo comprende anche altre forme di tutela, quindi anche il pizzo (avvocato P.).
Tutti i testimoni privilegiati che abbiamo interpellato sottolineano come sin dall’inizio la partita
fra commercianti catanesi e cinesi si giochi intorno all’acquisizione di immobili in locazione e
licenze per l’esercizio del commercio su suolo pubblico nell’area del mercato cittadino:
Per i cinesi è facile insediarsi, perché arrivano qui, danno anche centomila euro per una bottega che a loro piace, il
catanese si fa due conti, si dice “io ora sto lavorando poco, non faccio niente” e se ne esce e, se la bottega è la sua, si
piglia anche una bella mensilità e campa cent’anni. È così che si sono conquistati il mercato, a suon di soldi (mediatore
immobiliare).
La disponibilità finanziaria dei cinesi e la tenacia con cui perseguono i loro obbiettivi diventano
proverbiali e sollecitano la cupidigia dei venditori, fino ad alimentare nella zona della fiera cittadina
una vera e propria “bolla immobiliare” e la lievitazione abnorme dei prezzi delle licenze. Lo
testimonia anche un ex commerciante che all’inizio degli anni novanta ha ceduto il suo esercizio a
una coppia di cinesi, ricavandone un buon guadagno, ma soprattutto la possibilità di inventarsi una
nuova e lucrosa professione “sommersa” di intermediario nelle transazioni con i cinesi:
Io ho iniziato venti anni fa [l’attività di mediatore immobiliare] quando ho dato il primo locale ai cinesi, diciamo che ho
iniziato per caso, anzi per sbaglio, non è che era il mio lavoro, sono stati loro a portarmi a farlo. […] Io dal mio negozio
in piazza Carlo Alberto avevo notato che c’erano due cinesi che avevano aperto un negozietto vicino l’Odeon, quindi
fuori zona [della fiera]. La moglie di questo cinese faceva avanti indietro nel mio locale per andare in bagno. Ogni
giorno passava e mi diceva: “Senti io ti do trenta milioni, tu te ne vai?”. Questa tanto ha fatto che alla fine ci è riuscita
perché ogni giorno mi rompeva le scatole, ogni giorno, ogni giorno, ogni giorno. […] Mi hanno dato una buona uscita
per comprare l’attività e io così ho ceduto il locale, poi ogni giorno incominciano ad arrivare due cinesi, facevano sosta
in questo negozio perché si appoggiavano lì, e due cinesi alla volta, due cinesi alla volta, non conoscendo nessuno, si
sono rivolti a me e mi dicevano: “Parla con quello, ci interessa quel locale”. […] Pagano di più, perché il catanese
pensa: “Chissi i soldi l’hanu, ne buscano ‘na marea” e perciò gli fa un prezzo più alto. Infatti, ca non si pò cattari
[acquistare] più nenti cu sti cinisi, è aumentato tutto (intermediario commerciale).
L’italiano ha fatto un business con i cinesi, ha lucrato tantissimo. Se io qualche anno fa avessi comprato un posteggio
alla fiera più di tre, quattro mila euro non valeva. Loro lo hanno venduto settanta, ottantamila euro, anche centomila.
[…] Erano stamberghe, alcune persino stalle, gli edifici che popolavano la piazza Carlo Alberto e ora sono diventati dei
negozi a spese dell’imprenditore cinese che ha rilevato e ristrutturato quegli immobili (commercialista A.).
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D’altra parte, questa inattesa immissione di liquidità nell’economia catanese fa crescere
nell’opinione pubblica la diffidenza rispetto all’origine dei capitali cinesi, soprattutto fra chi non ha
sperimentato direttamente transazioni o rapporti professionali con i nuovi arrivati o si sente
minacciato dalla loro “concorrenza sleale”53; una diffidenza ingigantita anche da un errore
prospettico, poiché molti non sanno che quegli stranieri che al loro arrivo avviano con tanta rapidità
un’attività commerciale hanno accantonato i loro risparmi lavorando duramente in altre aree del
paese e sono giunti a Catania solo dopo aver maturato un progetto realistico per fare impresa,
generalmente sostenuto da finanziamenti concessi dall’intera rete parentale. Un funzionario di
Confcommercio esclude categoricamente che i commercianti cinesi possano ricavare le loro risorse
finanziarie da risparmi personali e prestiti familiari e li etichetta ripetutamente nel corso
dell’intervista con l’appellativo di “soldati” al servizio di fantomatiche organizzazioni localizzate in
Italia, ma manovrate dal governo della madrepatria:
Un’organizzazione ha gestito il loro ingresso in Italia. […] Sono soldati inviati di un’organizzazione molto grande che è
installata in Toscana, a Prato, o a Roma o a Milano, perché è lì che la merce viene prodotta, e che si è occupata di creare
una distribuzione capillare della loro merce distribuendo risorse umane.[…] Si tratta di un processo organizzato che
parte dalla loro nazione, installandosi e costruendo realtà significative che hanno messo in crisi il settore del tessile
italiano in alcune aree che ora in gran parte sono in mano loro. […] Il resto del paese è diventato la rete distributiva di
questi prodotti.
Accuse ben più gravi di corruzione di pubblici ufficiali, di riciclaggio di capitali illeciti e di
collusione mafiosa avanza un grossista catanese di tappeti che teme di dover subire in futuro la
concorrenza dei cinesi nel suo settore di attività:
I cinesi sono molto chiusi e ciò nonostante riescono ad ottenere qualsiasi permesso, qualsiasi autorizzazione, qualsiasi
bottega che a loro interessa. Questo potere gli deriva non tanto dalle relazioni, ma dalla corruzione che riescono a
sviluppare tramite il denaro. […] I loro soldi hanno una provenienza che non è certo quella delle banche. […] A loro
fare fatturato non interessa, i loro veri interessi sono legati al riciclaggio di denaro illecito proveniente dalla malavita.
Poi non ti so dire se è malavita cinese, malavita catanese o tutte e due. Ma la realtà secondo me è quella. Basta guardare
la fiera di Catania, oggi è tutta in mano ai cinesi, questo è un grosso segnale perché ci fa capire che la mafia cinese è
molto più potente della nostra.
Accuse fermamente smentite da un giovane avvocato che assiste molti imprenditori cinesi:
Tutti questi capitali sono frutto essenzialmente del loro lavoro, e lavorano tanto, e delle ristrettezze in cui riescono a
vivere e quindi riescono a risparmiare enormi quantità di denaro. Poi tra di loro si aiutano e si prestano i soldi. Loro
hanno uno spirito di solidarietà reciproca che gli italiani non hanno. Se io ti chiedo dei soldi perché mi voglio aprire
un’attività ci penso due volte prima di darteli. Loro invece lo fanno. […] Io escludo che ci sia la “mafia cinese”, . […]
se ci fosse, non ci sarebbero tentati furti o scippi davanti ai negozi dei cinesi come invece accade. Non se ne sa niente
perché loro non denunciano (avvocato P.).
Rispetto a questo quadro di vincoli strutturali e pregiudizi etnici, non si può ipotizzare che il
successo dell’insediamento degli imprenditori cinesi a Catania sia riconducibile all’apertura della
società di accoglienza, né solo alla mappa delle opportunità di contesto o alle risorse individuali
messe in campo dai nuovi arrivati; piuttosto, un tale successo si costruisce nell’interazione fra
commercianti catanesi e cinesi che si confrontano sul mercato esprimendo culture e strategie
53
Fra i nostri testimoni privilegiati i funzionari pubblici, gli esponenti delle Forze dell’ordine (dalla Questura alla
Guardia di finanza, all’Autorità portuale) e i rappresentanti delle associazioni di categoria (da Confcommercio alla
CNA) sono quelli che ci hanno fornito le informazioni più generiche e stereotipate sui cinesi a Catania.
Clamorosamente alcuni esponenti delle Forze dell’ordine (fra i più impegnati nelle azioni di contrasto di traffici illeciti
e di merci contraffatte che hanno coinvolto cinesi) non sospettavano nemmeno l’esistenza di flussi migratori di cinesi
dal Nord al Sud. Secondo i responsabili degli “sportelli immigrati”, attivi presso la Confcommercio, la CNA e la
Camera di Commercio di Catania, i cinesi rappresentano una quota assai minoritaria della loro utenza. Come riscontrato
in altri contesti (De Luca, 2003; Colombi, 2002), sono i consulenti (legali, contabili, immobiliari), invece, i più
informati sull’imprenditoria cinese. Si tratta generalmente di giovani professionisti che si sono conquistata la fiducia di
una clientela quasi esclusivamente cinese poiché ne difendono i diritti con grande impegno ed entusiasmo.
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imprenditoriali diverse. Inizialmente, le risorse competitive degli immigrati si misurano con
l’avidità e i pregiudizi degli attori locali che sottovalutano le capacità imprenditoriali dei nuovi
arrivati e non sono disposti in alcun modo a riconoscerli come loro competitori, ma solo come
acquirenti sprovveduti che possono essere facilmente gabbati. Muovendosi in una prospettiva a
breve termine, i commercianti catanesi cercano nelle transazioni con i cinesi una fonte di rendita o
capitali freschi per l’ipotetico avvio di un nuovo esercizio in altre zone della città, ma non riescono
nemmeno a ipotizzare l’inserimento di “stranieri” nei segmenti più redditizi del commercio. Al
riguardo, la testimonianza di un consulente che vanta un’ampia clientela di imprese cinesi prefigura
la contrapposizione fra due diversi modelli imprenditoriali, quello “predatorio” dei commercianti
catanesi, quello “acquisitivo” dei loro interlocutori cinesi:
C’è stato il fenomeno della vendita del posto o dell’attività. All’epoca l’italiano ha pensato bene di incamerare i soldi,
invece di continuare la sua attività e magari investirci sopra. Quindi, non è che sono stati costretti o qualcuno li ha
indotti, ma sono loro stessi che hanno ceduto spazi. […] Il loro interesse è stato tutto riversato nel prendere quei soldi,
mentre per il cinese quello è stato un investimento che poi col prodotto giusto gli ha permesso di realizzare enormi
guadagni, perché loro comprano ad un centesimo e vendono a cinque (commercialista A.).
Pertanto, i commercianti locali commettono un errore di previsione clamoroso, ma ben presto
sono costretti a fare i conti con la “colonizzazione cinese” di tutta l’area commerciale che gravita
attorno a piazza Carlo Alberto, una concentrazione spaziale degli esercizi che rapidamente evolve
verso un tendenziale monopolio delle attività, soprattutto nel commercio all’ingrosso di accessori e
capi di abbigliamento low cost:
La presenza cinese come grossisti è rilevante sul territorio, non fosse altro che per aver colonizzato l’area del mercato.
[…] E’ una realtà oggi che Piazza Carlo Alberto è popolata solo da una sparuta minoranza di commercianti italiani che
mantengono fino a che possono, ma che non sono più competitivi (commercialista A.)
È abbastanza triste andare alla fiera di Catania è accorgersi che è tutta in mano ai cinesi. […] Mentre prima c’era sui
banchi molto prodotto italiano. Ora di prodotto italiano non c’è più niente. Si vende solo prodotto cinese (fornitore di
cinesi).
Matura, così, con un avvio in sordina ed un’evoluzione galoppante, una competizione che si
rivelerà del tutto asimmetrica e vantaggiosa per i cinesi che volgeranno a loro favore i pregiudizi
etnici e le aspettative di ruolo ingenerose dei loro antagonisti, come suggerisce la ricostruzione
icastica di un intermediario commerciale locale:
All’inizio i commercianti locali quando io ci andavo e gli dicevo che c’era un cinese interessato alla loro attività si
mettevano a ridere e dicevano: “Ma c’hanu a fari…sti cinisi! [che potranno mai fare questi cinesi]”; ma c’hanu a fari e
c’hanu a fari e intanto loro si pigliano tutto il mondo. D’altra parte, i catanesi si pigliano i soldi, e ora stanno senza
negozi, senza bancarelle e senza niente ed il mercato oggi è nelle mani dei cinesi. Oggi io mi piglio centomila euro, ma
alla lunga te li mangi, perché col fatto che ci sono loro tu non puoi fare più niente.
L’acquisizione di posizioni di forza delle imprese cinesi nel commercio all’ingrosso smentisce
l’ipotesi della successione ecologica (Aldrich, Reiss, 1976), poiché i nuovi arrivati non si limitano a
“subentrare” agli autoctoni in nicchie di mercato poco redditizie, rendendo più remunerative
imprese in sofferenza, ma le utilizzano come trampolino di lancio per accedere ad attività più
complesse e strutturate con mercati in espansione, da cui giungono ad “escludere” i competitori
locali. In realtà, i cinesi riescono a “forzare” la mappa ambivalente delle opportunità di contesto
costruendo un percorso di inserimento strategicamente orientato in una duplice direzione: la
definizione appropriata della logistica e l’accelerazione delle procedure di avvio dell’attività.
Le loro scelte logistiche ricalcano prassi e sequenze già consolidate in altre realtà urbane e
metropolitane (da Milano e Torino a Roma, da Napoli a Messina): la concentrazione nelle zone più
frequentate dei centri cittadini per garantirsi visibilità ed attrarre clientela, la dislocazione dei
capannoni per la vendita all’ingrosso in prossimità delle principali infrastrutture di trasporto, la
penetrazione nei quartieri periferici per catturare la domanda di una clientela di ceto popolare:
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Catania aveva tutte le caratteristiche ideali per favorire l’insediamento del commercio cinese: un grosso porto e un
grosso mercato, quello di piazza Carlo Alberto. […] I cinesi sono riusciti ad inserirsi in un tessuto commerciale fertile.
Si sono poi spostati su Misterbianco [zona commerciale limitrofa al capoluogo], ma si sono accorti che non era
commercialmente forte come la fiera di Catania che gode di una posizione strategica rispetto a tutti i mezzi di trasporto
e vie di comunicazione: c’è l’aeroporto, il porto, la stazione, l’autostrada. Credo che i cinesi vadano molto anche a
provare, a sperimentare i diversi mercati, scopri spesso che sono stati ovunque. […] Loro provano ed eventualmente si
spostano a secondo delle opportunità e delle prospettive di sviluppo (commercialista F.).
Anche l’insediamento preferenziale in piazza Carlo Alberto spesso non è esclusivo, perché
alcune famiglie avviano più di un esercizio commerciale in zone diverse della città, ed è comunque
esposto ad un costante flusso di “mobilità esplorativa”. Riproponendo le antiche tradizioni delle
diaspore commerciali e delle middleman minorities (Bonacich, 1973; Cohen, 1997), a Catania i
cinesi rifuggono da ogni ancoraggio duraturo, raramente acquistano immobili, ma li acquisiscono in
locazione e ricorrono al subaffitto per aggirare il vincolo di un contratto a lunga scadenza:
La maggior parte sono affitti, anche perché oggi ci sono, domani non ci sono e si vogliono mantenere mobili, appena
vedono che il lavoro non gli rende prendono e se ne vanno da qualche altra parte. […] Fanno generalmente contratti
lunghi, se sono botteghe fanno sei più sei, se sono depositi quattro anni, se sono abitazioni quattro anni. [Ma il turnover
è elevato] Arriva un cinese va da un altro cinese che ha l’attività e gli dice: “Tu quando hai speso di buona uscita
ottantamila euro? Ora si vende di meno, si lavora di meno, quindi eccoti cinquantamila”. Chiddu esci e chiddu trasi
[Uno esce e l’altro entra] e si prende il contratto. Ogni giorno ci sono cambiamenti e spostamenti di questo genere.
Cambiano sempre, chi se ne vuole andare in Spagna, chi in Francia, loro sono in tutto il mondo. Poi si spostano anche
all’interno sempre di Catania: c’è stato un cinese che se ne è andato da qui [dalla fiera] e ha aperto un negozio di
dettaglio e ingrosso in viale Rapisardi [quartiere popolare più periferico] dove sta facendo soldi a palate (mediatore
immobiliare).
La seconda dimensione delle strategie di inserimento degli imprenditori cinesi riguarda
l’accelerazione dei tempi di avvio dell’attività commerciale e comporta il superamento di ostacoli e
discriminazioni burocratiche, che i nuovi arrivati riescono a fronteggiare mobilitando le reti
familiari o di connazionali, ma anche rivolgendosi sin dall’inizio a consulenti professionali, una
prassi inusuale fra gli immigrati di diversa provenienza, ma anche fra gli autoctoni che
generalmente preferiscono rivolgersi alle associazioni di categoria ed espletare personalmente gli
adempimenti burocratici:
Il cinese spesso viene da un’esperienza di lavoro dipendente in fabbrica, magari a Prato, e decide di riscattare quello che
gli spetta e di spostarsi in una città come Catania. A quel punto l’iter è il seguente: inizialmente, affittano un posteggio
alla fiera, magari tra loro stessi cinesi che gli danno la gestione, oppure da un italiano, cominciano così a lavorare e si
mettono anche in regola dal punto di vista amministrativo; tra l’altro è l’ospitalità presso un loro connazionale che gli
permette di operare come ambulanti, perché senza la residenza a Catania loro non potrebbero operare
commercialmente, né richiamare familiari; una volta ottenuto il permesso di soggiorno, si fanno la residenza in città e
possono svolgere l’attività che vogliono. Poi, piano, piano prendono un negozio all’ingrosso o al dettaglio e con i
rapporti che hanno con Prato e Roma si riforniscono di merce (commercialista A.).
Tuttavia, l’agibilità dei diritti e l’accesso ai pubblici uffici sono garantiti agli imprenditori cinesi
soprattutto dai giovani professionisti che li assistono costantemente, con tenacia e determinazione
per difenderli da abusi e discriminazioni, perché soddisfatti del rapporto di lealtà e fiducia che
hanno stabilito con i loro clienti:
Attualmente l’80% dei miei clienti sono stranieri perché io ormai preferisco lavorare con gli stranieri, perché quanto
meno a fine mese ti pagano. […] I cinesi sono clienti persino più affidabili dei commercianti catanesi, ormai in Sicilia
tutti si adagiano e nessuno vuol pagare. I cinesi invece capiscono di fronte ad un problema chi li può aiutare e poi
pagano, anche se un prezzo inferiore al prezzo di mercato, ma pagano. […] Sono anche più fedeli, se si trovano bene, ti
consigliano agli amici e agli altri parenti, se vedono che sei affidabile, che corrispondi alle loro esigenze puntualmente
(commercialista F.).
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Io mi occupo principalmente di cinesi, in particolare cinesi che hanno problemi con il reddito54, io sono perennemente
in guerra con la Questura di Catania, […] perché gli immigrati qua non hanno garantiti i diritti essenziali, li vedono
come carne da macello. […] La legge sull’immigrazione stabilisce che lo straniero ha gli stessi diritti dell’italiano di
fronte alla Pubblica Amministrazione, purtroppo questa legge non viene mai applicata, anzi viene elusa costantemente e
gli stranieri sono costantemente sottoposti agli abusi della Questura. […] Lo stesso clima si sente e si percepisce allo
sportello unico per l’immigrazione. Se io vado allo sportello e gli chiedo informazioni su una certa pratica, loro ti
rispondono che non possono rilasciare informazioni. […] In questo campo comunque ci si imbatte in tutto e di più:
patronati incompetenti, avvocati ignoranti che truffano i clienti… (avvocato P.).
Io ho combattuto per loro molte battaglie, in Questura, con i vigili, e ognuna di queste per me rappresenta un motivo di
orgoglio. […] Cerco in qualche modo di occuparmi di tutti i problemi che loro possono avere nel quotidiano: dai
controlli della Polizia, della Finanza, della Questura sono davvero bersagliati in continuazione. Certo la nostra attività
principale è di tipo contabile, seguiamo tutta l’attività di un’impresa immigrata, da quando nasce a quando assume
(commercialista A.).
L’attività dei consulenti non riguarda solo i rapporti con la PA o l’assistenza legale, ma anche la
partecipazione alle transazioni e la risoluzione informale delle controversie, poiché i cinesi
rifuggono dal denunciare i ripetuti abusi subiti da parte di truffatori, vicini intolleranti ed estorsori e
preferiscono restare “invisibili”:
Gli stranieri non sono per le denunce. Amano chiarire, come i vecchi mafiosi catanesi, odiano le denuncie. Non gli
interessa e non hanno fiducia nella giustizia italiana, perché non hanno buoni rapporti con la polizia. Lo straniero
quando arriva si rapporta con loro, con lo Stato, con l’Ufficio stranieri. Basta vedere come sono trattati, cioè da animali,
e capisci perché non fanno mai una denuncia. Se non hai alcuna fiducia nelle istituzioni non farai mai una denuncia
(avvocato P.).
Non vogliono essere visibili, pensano: “Meno ci facciamo sentire, meglio è”, anche a costo di subire dei torti” (ufficiale
della Guardia di finanza).
È così che i consulenti diventano gli sponsor e i garanti degli imprenditori cinesi, i loro principali
“diffusori di fiducia” nei circuiti degli operatori economici locali, una funzione preziosa non
soltanto per l’avvio dell’impresa, ma anche successivamente per i clienti “di successo” che
intendono esplorare nuove prospettive economiche cimentandosi con le attività di import-export,
come è avvenuto ad un nostro intervistato che esporta vino in Cina ed è riuscito a contattare una
rosa di produttori vinicoli etnei proprio grazie all’intermediazione del suo commercialista:
Abbiamo un rapporto ottimo con un mio cliente che ho sempre seguito io, dal 2000 almeno, tant’è che mi ha invitato in
Cina per il matrimonio del figlio. Lui, oltre ad avere un negozio [jeanseria] su Catania, acquista vini in Sicilia e li
esporta in Cina. Abbiamo cambiato strategia commerciale, dato che il mercato cinese è molto più ampio e permette
possibilità di crescita di gran lunga maggiori che da noi. […] Così, l’ho accompagnato a fare un giro delle cantine che ci
sono sull’Etna, fin quando abbiamo trovato un fornitore abbastanza affidabile, con una grossa produzione. […] Io sono
stato l’intermediario di questa operazione (commercialista F.).
In sintesi, l’efficacia delle scelte logistiche, la rapidità dei tempi di avvio dell’attività e
l’affidabilità, garantita dai consulenti e dimostrata nelle “generose” transazioni iniziali, connotano il
percorso di inserimento “in sordina” degli imprenditori cinesi nella realtà catanese, creando le
premesse per l’articolazione di modelli organizzativi e strategie competitive su cui si costruiscono
nel tempo nuove dimensioni di consenso e di esorcizzazione dei potenziali conflitti con gli operatori
economici locali.
5. Modelli organizzativi e strategie di impresa per una competizione globale
I risultati della nostra indagine hanno confermato per le imprese cinesi gli stessi tratti distintivi
dei modelli organizzativi e delle strategie competitive già rilevati in altre realtà territoriali. Anche a
54
Si tratta della soglia di reddito che l’imprenditore immigrato deve raggiungere per richiamare dalla Cina un lavoratore, soglia che
la Questura e l’Ufficio stranieri della Provincia di Catania hanno impropriamente innalzato (come riconosciuto con sentenza del
TAR), equiparandola a quella richiesta a chi assume un lavoratore domestico.
49
Catania si ripropone il modello dell’impresa familiare che comporta: flessibilità, appiattimento
gerarchico e scarsa differenziazione dei ruoli funzionali; sovrapposizione dei tempi di vita e di
lavoro, con un prolungamento abnorme di calendari e orari delle attività, in particolare nel
commercio all’ingrosso dove sono meno regolamentati; confini labili fra formale e informale,
soprattutto nella definizione dello statuto del rapporto di impiego e della retribuzione.
Tutte le imprese che abbiamo contattato, senza distinzione per tipo di attività, sono ditte
individuali gestite da una coppia di coniugi, entrambi impegnati a tempo pieno nell’azienda (per
60/90 ore settimanali), tanto da rendere problematica l’attribuzione individuale del ruolo
imprenditoriale, anche perché il riconoscimento giuridico della titolarità spesso dipende da
appartenenze familiari o da fattori burocratici (ad esempio dall’opportunità per uno dei due partner
di regolarizzare per primo il soggiorno, la residenza o la condizione di dipendente presso un’altra
impresa)55. La cooperazione di altri familiari alla gestione dell’impresa, invece, non è scontata e
non dipende solo da fattori demografici (numerosità della famiglia, età di genitori e figli), ma
soprattutto dall’anzianità e dal dinamismo dell’azienda: le imprese pioniere, nate alla fine degli anni
novanta e con un giro d’affari più ampio sono quelle che dichiarano la collaborazione di
parenti/connazionali, non solo per esigenze funzionali, ma soprattutto perché attraverso la regolare
assunzione di familiari e l’anticipazione di capitali promuovono la creazione di reti di imprese
fondate su rapporti di parentela allargata. Diversamente che nel modello tradizionale di impresa
familiare, infatti, per i cinesi le funzioni economiche della famiglia non si esauriscono all’interno
dell’azienda, ma si proiettano verso l’esterno, strutturando strategie di penetrazione capillare e
diversificata nel mercato56:
Sono famiglie cinesi, di sei, sette persone, però non è che gestiscono un solo negozio, […] chi gestisce il banchetto alla
fiera, chi l’ingrosso. Loro si sparpagliano, ogni attività è gestita solo da una persona o due persone. Iniziano con uno,
poi diventano due e ognuno si gestisce la propria attività (mediatore immobiliare).
Al di fuori di questa strategia, invece, il riconoscimento giuridico del contributo dei familiari alle
attività aziendali è meno frequente ed è diffuso il lavoro nero, poiché spesso gli imprenditori cinesi
ritengono gli oneri contributivi sul lavoro dipendente troppo onerosi, ma soprattutto iniqui, se il
dipendente è uno straniero che non potrà fruire della pensione. Non a caso i consulenti dichiarano
un doppio registro nella definizione dei rapporti di impiego: prevalentemente regolare per gli
eventuali dipendenti italiani, più spesso irregolare per i familiari dell’imprenditore:
Il lavoro nero è molto diffuso nelle imprese cinesi, ma è anche vero che il fatto che si tratta di aziende a conduzione
familiare spesso rende le cose molto più ambigue dal punto di vista della relazione contrattuale. [...] I cinesi che hanno
attività strutturate quando assumono tendono a farlo in maniera regolare, credo che dipenda anche dal giro d’affari
dell’azienda stessa (commercialista A.).
I cinesi non vogliono pagare l’INPS, perché ritengono che non ci sia alcuna forma di reciprocità, perché chi torna in
Cina non avrà diritto alla pensione; allora loro si chiedono perché devono pagare l’INPS, per loro è una cosa
incomprensibile (avvocato F.).
I cinesi nelle loro attività spesso impiegano lavoratori italiani. Nei negozi al dettaglio, come commesse, molte ragazze
le vedi. Io ho parlato con molte di loro e sono contentissime. Una mi ha detto che preferisce lavorare con loro perché
ogni venti del mese, e a volte persino prima, le danno 700 euro. Dove lo trovi un commerciante a Catania che ti dà
questi soldi? Un commerciante della via Etnea ti dà 400, 500 euro al massimo. Al dettaglio poi ci sono i normali orari di
negozio, dalle otto alle tredici e dalle sedici alle diciotto, non c’è quello stacanovismo tipico dei cinesi che all’ingrosso
lavorano ogni giorno compresa la domenica. […] Poi loro [i titolari] lavorano come dannati anche venti ore al giorno,
55
La moglie di Luigi (47 anni, commerciante al dettaglio di abbigliamento), ad esempio, è partita da sola dalla Cina, lasciando il
marito e tre figli e raggiungendo per prima l’Italia. In Sardegna ha ottenuto il permesso di soggiorno lavorando regolarmente come
dipendente in un negozio gestito da un connazionale. Solo così successivamente ha potuto richiamare la famiglia e avviare un
esercizio commerciale a Catania, dove il fratello e altri parenti operano come grossisti.
56
Ad esempio, Elisa, commerciante pioniera, gestisce con i familiari un grande ingrosso di pelletteria con un mercato più che
regionale e sta affiancando il figlio nell’avvio di un negozio al dettaglio in un’altra zona della città, con l’intenzione di cederglielo;
inoltre, in pochi anni ha già finanziato almeno altri quattro esercizi commerciali (per diverse tipologie di prodotti), gestiti da parenti,
come abbiamo rilevato intervistando i diretti interessati.
50
ma lo fanno perché è la loro azienda. Personalmente io tutto questo sfruttamento non lo vedo. Il vero sfruttamento c’è
tra italiani e italiani, ma tra italiani e cinesi non esiste (avvocato P.).
D’altra parte, il modello organizzativo delle imprese cinesi non è molto distante da quello
radicato nelle tradizioni del commercio locale sul doppio versante del ricorso al lavoro nero e delle
collaborazioni familiari:
Ritengo che il lavoro nero sia altrettanto diffuso presso le aziende locali, così come la tendenza a far lavorare membri
della propria famiglia. Certo queste tendenze forse sono più evidenti nel caso dei commercianti immigrati
(commercialista A.).
Una tale affinità contribuisce a consolidare il riconoscimento sociale dell’impresa cinese che
viene percepita come una realtà nota e rassicurante in un contesto locale caratterizzato dal
familismo come meccanismo diffuso di regolazione dei processi economici. Pertanto, la presenza di
donne e bambini nei locali dell’esercizio commerciale, spesso contigui con l’abitazione, così come
gli scorci dell’intreccio fra vita quotidiana e impresa vengono generalmente interpretati come segni
di un modello “arcaico” di impresa, retaggio di “arretratezza” e svantaggio socioculturale; un
modello che gli osservatori locali ritengono di aver definitivamente “superato” e che contribuisce ad
esorcizzare i loro timori per la concorrenza aggressiva dei cinesi.
In realtà, le nuove attività dei cinesi sono figlie del capitalismo flessibile contemporaneo, poiché
amplificano i vantaggi delle imprese familiari tradizionali, senza riproporne le rigidità:
l’organizzazione del lavoro, la divisione dei ruoli e l’attribuzione dei compiti non sono
univocamente dettate dalle norme del patriarcato e dai diritti di proprietà, che restano, piuttosto,
subordinati al primato del mercato e alla logica dell’efficienza funzionale, tanto nell’attribuzione
delle posizioni gerarchiche, quanto nella regolazione dei rapporti di genere e fra le generazioni sul
lavoro. Nelle imprese più strutturate parentela e consanguineità non garantiscono l’accesso a
posizioni gerarchiche superiori che vengono riservate a dipendenti italiani, se i familiari sono
ritenuti inadeguati:
A volte i cinesi trattano gli italiani meglio dei loro connazionali. Figurati che una mia cliente cinese ha messo a dirigere
un italiano perché si era accorta che il fratello, che era un mulo a scaricare merce, non riusciva invece a svolgere
mansioni di tipo dirigenziale. E quindi ci ha messo un italiano. Perciò suo fratello scarica tir interi di merce, l’altro
cugino fa le consegne e questo italiano gestisce, perché loro non guardano in faccia nessuno. Loro gli danno 1300 euro
al mese, due giorni di riposo e vitto e alloggio con contratto. Parliamo certamente di una società grossa che guadagna
miliardi. Tu metteresti mai un italiano a dirigere e tuo fratello a scaricare la merce? Io credo di no. Per questo loro sono
bravi, perché hanno un’attenzione agli affari che gli altri non hanno (avvocato P.).
Anche nei rapporti fra le generazioni l’autorità paterna è subordinata all’imperativo della
competitività; allorché il titolare dell’impresa familiare riconosce che le capacità gestionali del
giovane figlio sono mature e gli cede l’attività, non interferisce in alcun modo sulle sue scelte
imprenditoriali, pur continuando ad affiancarlo sul lavoro:
Ho sempre lavorato per mio padre, però, una volta che io ho lavorato per lui, mi ha lasciato tutto quello che ha lui.
Quello che voglio fare io lui passa, non deve uscire più niente dalla sua bocca: se io dico domani devo andare qua,
“Mario vai”, se dico devo fare questo, “fai” (Mario, 28 anni, imprenditore di seconda generazione, ingrosso e dettaglio
di pelletteria, tre fratelli tutti commercianti).
Infine, le trasformazioni dell’economia cinese e l’esperienza dell’emigrazione hanno
profondamente mutato la condizione occupazionale delle donne (Rai, 1999; Blanchard, Warnecke,
2010) e i tradizionali rapporti di genere all’interno della famiglia cinese (Ceccagno, 1998), facendo
emergere un inatteso protagonismo femminile. Nelle imprese familiari che abbiamo analizzato le
donne condividono con gli uomini compiti gravosi (persino di facchinaggio), ma anche funzioni
strategiche per l’esercizio commerciale, soprattutto se si tratta di giovani figlie che hanno studiato
in Italia e sanno dialogare con enti e istituzioni locali oltre che con i consulenti, negoziare con i
clienti, mantenere contatti continui con i fornitori per informarli dell’andamento delle vendite e
51
ricalibrare gli approvvigionamenti. Svolgendo tutte queste funzioni, ad esempio, Angela, la figlia
ventenne di Elisa (commerciante all’ingrosso di pelletteria), si è conquistata la fiducia e il rispetto di
tutti i suoi interlocutori, sperimentando uno straordinario percorso emancipativo che resta però
dimezzato: per volere dei genitori ha dovuto rinunciare al progetto di continuare gli studi dopo il
diploma, nonostante i brillanti risultati scolastici, e dovrà attendere il matrimonio per definire i suoi
orizzonti professionali.
Questa inedita flessibilità dei rapporti familiari che non interferisce con gli orientamenti
acquisitivi e con la trasmissione di un’etica del lavoro tradizionale, le istanze emancipative di
giovani e donne che si esprimono nell’attaccamento al lavoro e, infine, la valorizzazione di nuove
competenze delle seconde generazioni che si intreccia con l’antica gratuità del lavoro familiare sono
tutti fattori che contribuiscono ad abbattere il costo del lavoro nell’impresa familiare cinese. Un
vantaggio competitivo che si coniuga, da un lato, con la capacità di mobilitare risorse di capitale
sociale e reti di connazionali per transazioni vantaggiose interregionali e transnazionali, dall’altro,
con una strategia del profitto fondata sull’ampliamento della scala delle vendite e sul contenimento
dei guadagni unitari, in una sinergia che rende “invincibili” gli imprenditori cinesi nella
competizione sul prezzo. Nel commercio all’ingrosso di capi e accessori di abbigliamento low cost i
nuovi arrivati hanno sbaragliato i competitori locali, costringendoli alla chiusura o al declassamento
dell’attività (ambulantato), sono diventati così i principali fornitori dei dettaglianti italiani e stranieri
fino a coprire gran parte del mercato regionale e a proiettarsi anche verso quello maltese:
Le quantità che vendono [i grossisti cinesi] sono enormi. […] I nostri, vengono qua e caricano ventimila, trentamila
euro di merce e se la vendono a Misterbianco (area commerciale ai confini con la città), perché trovano il prezzo più
basso di quando i catanesi andavano a Napoli a comprare. Da loro trovi a meno. Loro il 50% lo importano da Roma,
dagli altri cinesi, altri vanno a comprare direttamente in Cina per avere il prezzo ancora più basso e riescono a vendere a
chiunque; poi c’è anche il pronto moda, che viene invece da Prato e da Firenze. Una cosa di questa [l’intervistato indica
una gonna] il commerciante italiano a Napoli la prende dieci euro e la rivende a quindici euro. Dal cinese tu trovi la
stessa roba fatta con manodopera cinese e tessuto italiano. Loro te la fanno quattro euro, si vende qua all’ingrosso sei
euro, l’ambulante la vende dieci. Napoli praticamente muore (mediatore immobiliare).
I cinesi non hanno molti concorrenti: qualche italiano che in qualche modo riesce a importare direttamente dalla Cina
oppure qualche grosso gruppo della grande distribuzione […] che ha la forza di poter vendere il prodotto, magari
cinese, ma dandogli la parvenza di un’altra qualità in un contesto di vendita più accurata, e su questo fanno la vera
concorrenza al cinese. Non c’è altro (commercialista A.).
Ormai tutti comprano dai cinesi e diciamo pure che non hanno concorrenti che non siano comunque cinesi. L’altra volta
mio marito ha incontrato uno dei nostri vecchi fornitori locali che aveva venduto tutto e si era comprato un camion ed
ora gira i paesi a vendere qualcosa (commerciante catanese).
Tuttavia, come sottolineano i diretti interessati oltre che i loro consulenti e clienti abituali, il
successo dei commercianti cinesi a Catania non dipende solo dalla capacità di competere sul prezzo,
ma da tacite abilità e articolate strategie che si giocano sul doppio registro della diversificazione e
dell’adattamento al mercato. Le strategie di diversificazione riguardano tanto le attività, quanto le
tipologie di prodotto e i target di clientela. Sul primo versante, l’estensione delle attività familiari
spesso non segue traiettorie lineari e gerarchiche (dall’ambulantato al commercio al dettaglio e
all’ingrosso per approdare all’import-export), poiché anche i grossisti che hanno enormemente
ampliato il loro giro d’affari raggiungendo mercati extra locali e proiettandosi verso l’esportazione
in Cina difficilmente rinunciano al punto vendita al dettaglio nella zona della fiera (Mimì, 57 anni,
commerciante all’ingrosso di abbigliamento che da qualche anno esporta vini siciliani nello
Zhejiang); mentre quelli che hanno costruito le loro fortune solo sul commercio all’ingrosso in
alcuni casi affiancano all’attività principale la vendita al dettaglio di prodotti più ricercati destinati
ad una clientela più esigente per garantirsi guadagni unitari più elevati:
Già sto aprendo un altro negozio, un negozio al dettaglio di abbigliamento, calzature e pelletteria. Cercherò di trattare
un prodotto medio-alto. Nel negozio a dettaglio c’è più guadagno, qui compri 5 euro e vendi 5.50, c’è poco guadagno. [I
negozi] li tengo tutti e due. Mia moglie vuole fare negozio a dettaglio (Mario, 28 anni, commerciante di pelletteria).
52
Per i commercianti cinesi, infatti, la diversificazione delle attività familiari non serve solo ad
articolare la mappa delle opportunità e a frazionare i rischi, ma soprattutto ad accrescere la
“prossimità” al consumatore, moltiplicando le “postazioni” atte a coglierne le preferenze e
registrarne le variazioni di gusto. La capacità di analizzare l’andamento di mercati variabili
rappresenta la competenza di base su cui gli imprenditori cinesi costruiscono l’efficacia delle loro
strategie:
Loro [i cinesi] girano e guardano e puntano determinati negozi e sanno dove la loro presenza con merce a poco prezzo
risulta vincente. Loro, prima di scegliere, guardano tutto il quartiere, girano, perlustrano, studiano (avvocato P.).
I commercianti italiani non sono più competitivi perché non sanno fare ricerca di mercato. I cinesi, invece, sanno fare
ricerca di mercato, sanno di cosa ha più bisogno un territorio e di conseguenza cosa devono prendere (commercialista
A.).
Come testimonia una commerciante catanese, a differenza dei suoi precedenti fornitori, gli
imprenditori cinesi riconoscono la sovranità dei gusti del consumatore, non cercano di “convincere”
i clienti, ma ne rispettano le scelte, puntando su un rapporto qualità/prezzo vantaggioso e sull’ampio
assortimento della merce:
Se io dicevo che non mi piaceva un modello e quindi non lo compravo, gli italiani erano pressanti e quasi, quasi si
offendevano. Invece, il cinese non è mai pressante, ti lascia scegliere.
Gli imprenditori di successo coniugano l’attenzione agli stimoli del mercato con la capacità di
rispondere “con appropriatezza” alla variabilità dei gusti di una clientela sempre più ampia e
variegata, particolarmente sensibile all’andamento delle mode. Questo mix di competenze e
orientamenti strategici non sempre viene apprezzato dagli operatori economici locali, soprattutto se
la flessibilità dell’impresa cinese si traduce nell’invisibilità della struttura organizzativa. In questi
casi, ancora una volta, riemerge il fumus del pregiudizio e la “novità” della strategia imprenditoriale
viene interpretata come arretratezza, insipienza, pressappochismo. Così ad esempio, l’intervista al
“competente” responsabile del marketing dell’azienda vinicola che rifornisce un imprenditore
cinese che esporta vino in Cina e lo distribuisce attraverso una rete diffusa di piccoli negozi one
shop, testimonia di un “dialogo fra sordi” che sta compromettendo un’iniziativa che si prefigurava
assai promettente per entrambe le parti:
[All’inizio] scetticismo e paura erano prevalenti, però allo stesso tempo c’era anche tanta voglia di provare. […] Ora
però c’è un problema. Loro hanno un approccio alla vendita del vino come se fossero capi d’abbigliamento e questo li
ha portati a scendere anche nella qualità che loro ci richiedevano, scendendo sempre di più sul prodotto di primo prezzo.
Il che è sbagliato perché l’andamento dovrebbe essere al contrario. […] Il nostro approccio è che lavori sempre sugli
stessi prodotti e cerchi di fidelizzare. […] Loro, invece, fanno l’inverso, tengono lì i prodotti, non li spingono e
cambiano continuamente formati, etichette, colori, eccetera. Proprio come se fossero capi d’abbigliamento. […] Poi
bisogna dire che il nostro cliente è uno che si è inventato un mestiere dal nulla e che forse non ha gli strumenti anche
per svilupparlo. […] Il problema fondamentale è la mancanza di chiarezza. Una volta fatto un accordo, l’accordo viene
modificato in itinere un sacco di volte. Io non voglio dire che siano inaffidabili, perché se uno guarda all’arco temporale
dei sei anni in qualche modo lo sono stati, ma tu devi riuscire a pensare che sono affidabili guardando al futuro e questo
con loro non è facile, perché non sappiamo cosa faranno domani, se vorranno, se potranno. […] La nostra valutazione
attuale è che loro siano un po’ in difficoltà, che loro improvvisino molto. […] Sembra esserci una totale mancanza di
progetto. […] Pensano che ci sia l’affare e lo fanno. […] Non riescono a seguire tutte le procedure come si deve e
quindi rischiano di affondare. […] La nostra idea è quella di inquadrarli e fare in modo che facciano quel percorso
evolutivo che noi crediamo sia giusto fare. […] L’auspicio è che loro si rendano disponibili ad una collaborazione a più
teste e che loro capiscano i loro limiti, cioè quelli di non avere una struttura e una organizzazione.
Se per gli imprenditori cinesi i rischi della fluidità possono diventare elevati in attività complesse
e poco esplorate come quelle dell’import-export, nella vendita all’ingrosso di capi di abbigliamento
l’attenzione al mercato e le strategie dell’appropriatezza si traducono in prassi consolidate di
diversificazione della gamma dei prodotti e del target di clientela che accrescono i vantaggi
53
competitivi delle imprese e definiscono nuove convergenze con le strategie dei dettaglianti.
Garantendo ai propri clienti un vasto assortimento di merci differenziate per costo e qualità,
aggiornato anche settimanalmente, i grossisti cinesi favoriscono la flessibilità e
l’individualizzazione delle strategie di vendita dei dettaglianti che mirano a differenziarsi dai loro
competitori e a fidelizzare la loro clientela restando al passo con l’evoluzione della moda, senza
sacrificare la qualità del prodotto:
Al mercato ci riforniamo tutti dai cinesi, i grossisti ormai sono quelli. […] I fattori sono il prezzo e la capacità di
copiare prodotti di moda, se fosse solo il prezzo basso probabilmente non venderebbero. Poi dal commerciante cinese
tu trovi sempre nuovi arrivi, cose nuove, un grande assortimento, non solo in un periodo dell’anno, ma ogni settimana,
da gennaio a dicembre […] che è quello che la gente vuole. […] Bisogna evitare di avere tutti la stessa merce. Il mio
compito è scegliere cercando di dare una linea diversa dagli altri. […] Comunque loro stessi, i grossisti cinesi cercano
tra loro di differenziarsi. […] Non è vero che hanno tutti le stesse cose e che siano cose tutte di bassissima qualità,
esistono delle differenze. Per noi che lavoriamo con i clienti abituali in quanto siamo a posto fisso differenziare per
costo e per qualità è importantissimo, dobbiamo garantirci uno standard di prodotto di un certo tipo per far tornare i
clienti (commerciante catanese cliente di cinesi).
Per i cinesi la risorsa più importante sta nella ricerca continua del prodotto giusto e nel monitoraggio del fabbisogno,
portano sempre un prodotto nuovo, un assortimento nuovo. E poi hanno diversi target, oggi il prodotto cinese non lo
compra più solo la famiglia meno abbiente, ma anche la famiglia medio-borghese, perché oggi il prodotto cinese è
molto vario e non è solo un prodotto di scarsa qualità (commercialista A.).
Anche fra i nostri intervistati alcuni grossisti puntano più di altri sulla possibilità di estendere i
vantaggi del low cost a produzioni diversificate di qualità. Per loro indicatori di successo e di
distinzione diventano la commercializzazione del made in Italy e la capacità di adeguarsi
rapidamente all’andamento delle mode, attraendo prevalentemente una clientela italiana, come
avviene con la vendita degli articoli del pronto moda prodotti nei laboratori cinesi dei distretti. Ne
deriva un totale ribaltamento delle logiche dell’ethnic business, poiché imprese “aperte”
(Ambrosini, 2005), che commercializzano articoli di gusto occidentale, cercano di emanciparsi in
ogni modo dal marchio etnico che non evoca atmosfere esotiche, ma solo cattiva qualità:
Noi vendiamo merce più buona, gli altri [connazionali] vendono merce economica cinese, noi vendiamo merce italiana
firmata, io ho sempre portato qualità, ho sempre portato marchio. Poi il negozio è aperto da tanto tempo e tutti ci
conoscono. […] Soprattutto italiani, sai perché? Perché i cinesi 9 su 10 non capisce il marchio, gli italiani quando già ti
leggono un marchio un po’ gli suona questa cosa (Mario, 28 anni, grossista e dettagliante di pelletteria).
Tenere merce diversa dagli altri, non c’è altro. Io non sento quello che c’è fuori; non mi interessa se altri dicono là c’è a
meno, se a te piace la mia merce prendi, a me non mi interessa se uno vende 1.50, io sempre 3 euro (Monica, 32 anni,
ingrosso calzature).
D’altra parte, muovendosi con destrezza su mercati altamente instabili e concorrenziali, gli
imprenditori cinesi riescono a “rassicurare” la loro clientela con la loro affidabilità e con la buona
reputazione che deriva dal rigoroso rispetto dei termini delle transazioni:
Sono ottimi pagatori, tempi di consegna immediati, la merce ti permettono di controllartela là davanti. […] Per loro la
parola vale più di un assegno. I cinesi hanno la parola. Pagano. Alla scadenza pagano (avvocato P.).
I cinesi sono riusciti a conquistarsi la fiducia degli operatori economici locali perché nel momento in cui si riesce a
superare la loro diffidenza iniziale per loro subentra quasi un patto d’onore (commercialista A.)
Sono sicuramente molto affidabili e disponibili. Io sono stata una dei primi a rivolgermi a un grossista cinese [...] e
quindi c’è un rapporto storico e di fiducia reciproca. [...] Non ho mai avuto difficoltà con i cinesi perché quando è
capitato che la merce era difettosa loro lo hanno riconosciuto e l’hanno subito cambiata. [...] Mentre il fornitore
nazionale a garanzia voleva un assegno posdatato, invece, il cinese si fida. Naturalmente, hanno preso delle botte perché
qualcuno ne ha approfittato, ora hanno imparato e ora sanno di chi si devono fidare e di chi no (commerciante catanese
cliente di cinesi).
54
Questi codici di comportamento, ancor più delle appartenenze etniche, hanno contribuito ad
alimentare le reti di guanxi dei commercianti cinesi e a “fluidificare” i rapporti con i connazionali
che li riforniscono, sia direttamente dalla madrepatria che in Italia (a Roma, Napoli, Firenze)57:
[I loro fornitori] sono cinesi, la fabbricazione è cinese, ma spesso fanno venire la merce da Roma, Napoli o Firenze, più
di tutti da Roma (commerciante catanese).
Solo il grande imprenditore cinese consolidato riesce a fare arrivare merce direttamente dalla Cina. […]
L’abbigliamento le borse e le calzature ormai non arrivano solo dalla Cina, arriva molto da Prato (commercialista A.).
Hanno una rete di relazioni commerciali che coinvolge l’Italia, Malta, così come il loro paese di provenienza
(commercialista F.).
Proprio in ragione delle loro strategie imprenditoriali, i commercianti cinesi a Catania si
configurano come moderni alfieri dell’“economia dell’appropriatezza” (Butera, 1987), “formiche
transnazionali” del capitalismo flessibile a breve termine, oltre che della globalizzazione dal basso
(Ambrosini, 2009). Il loro successo dipende sia dalla capacità di analisi e adattamento al mercato,
sia dalla dotazione di capitale sociale e non solo dalle strategie di contenimento dei costi e dei
prezzi di vendita. È un mix di risorse competitive che sembra venire da lontano, poiché ripropone i
tratti distintivi del modello di sviluppo capitalistico che in Cina è stato “promosso dal basso” dai
reticoli di microimprese che producono low cost e “trainato dalla domanda occidentale” di articoli
per la persona e per la casa soggetti alla variabilità delle mode; l’apparato produttivo cinese ha
imparato a soddisfare una tale domanda più appropriatamente di altri competitori asiatici grazie alla
flessibilità e all’isomorfismo mimetico dell’imprenditoria locale, attivati dall’iniziativa delle grandi
catene di distribuzione americane ed europee che hanno governato un processo di cooperazione
economica transnazionale di cui si sono accaparrati i maggiori profitti (Gereffi, 2005; Gereffi,
Humphrey, Sturgeon, 2005; Hamilton, 2006; Trigilia, 2009).
Al riguardo, l’espansione recente degli esercizi commerciali cinesi anche in aree non ancora
esplorate, come quelle del nostro Mezzogiorno, rappresenta una via di integrazione economica
transnazionale “alternativa” a quella gestita dai big buyers occidentali nel secolo scorso: ricucendo
su scala globale le diverse fasi della filiera di produzione e distribuzione di merci cinesi, le
“formiche dell’appropriatezza”, da un lato, estendono i vantaggi del basso costo del lavoro e della
flessibilità anche al commercio di prossimità, senza subire i vincoli di costo che derivano dagli stili
di vita dell’area di insediamento, dall’altro, tendenzialmente riconducono l’intera “catena globale
del valore” della produzione di articoli di moda sotto il controllo di capitali nazionali che
direttamente o indirettamente danno un ulteriore impulso allo sviluppo economico della Repubblica
Popolare; un contributo che deriva dal reinvestimento nella madrepatria di capitali accumulati
all’estero, fenomeno ben noto che è emerso anche nell’ambito della nostra indagine, ma soprattutto
dalla crescita della domanda occidentale di prodotti cinesi alimentata dai commercianti immigrati.
Pertanto, l’efficacia delle strategie locali dell’imprenditoria immigrata contribuisce a rafforzare la
competitività dell’economia cinese sui mercati globali.
Rispetto a questo quadro di competizione aggressiva locale e globale non si registrano nella
realtà catanese forti tensioni sociali o aperti conflitti con i commercianti autoctoni, poiché attorno al
crescente primato delle imprese cinesi si strutturano nuove forme di segmentazione del mercato e di
complementarietà delle attività. Permane la specializzazione dei cinesi nella vendita all’ingrosso di
capi e accessori di abbigliamento a basso costo, ma con una maggiore stratificazione interna per
ampiezza dei mercati di sbocco e diversificazione del prodotto: gli imprenditori pionieri con
precedenti esperienze manifatturiere e/o una posizione centrale nelle reti di imprese parentali sono
quelli che realizzano i maggiori profitti, rifornendosi anche direttamente in Cina e controllando
57
Il riconoscimento condiviso delle regole di mercato spiega perché nelle interazioni economiche tra cinesi la
riproduzione di relazioni fiduciarie nei rapporti “verticali” con i fornitori non entri in contraddizione con la
competizione “orizzontale” fra imprenditori che si confrontano sugli stessi mercati.
55
ampi mercati, non solo regionali; si accentua, invece, la competizione sul prezzo fra i grossisti che
hanno avviato l’attività alla vigilia della crisi e fra i dettaglianti che si rivolgono al mercato locale. I
commercianti stranieri che appartengono ai gruppi nazionali di più antico insediamento (senegalesi
e maghrebini) restano prevalentemente confinati nell’ambulantato e nella vendita di merce
contraffatta fornita soprattutto da cinesi che cercano di sottrarsi ai rischi di commercializzarla
direttamente. Infine, i dettaglianti italiani continuano a fare buoni affari con i cinesi, ma scivolando
verso posizioni più subalterne e spazi più limitati: alcuni, quelli che vendono su suolo pubblico,
riescono a garantirsi la sopravvivenza dell’attività proprio rifornendosi da cinesi; altri, i più
spregiudicati, riescono a realizzare lauti guadagni, occultando la provenienza della merce cinese per
venderla a prezzi elevati.
Inizialmente c’era un conflitto tra l’imprenditore locale e l’imprenditore cinese. […] Questo è in gran parte superato
perché si è stabilizzato un certo status quo, un quieto vivere, dove ognuno opera nella sue aree d’influenza, ed ha
sviluppato una sua clientela (commercialista A.).
[I commercianti catanesi] si lamentano dicendo che è tutta colpa dei cinesi se non c’è lavoro, ma alla fine rimane tutta
chiacchiera, perché poi sono loro stessi che lavorano con la merce cinese, perché se dovessero lavorare con merce
italiana potrebbero starsi a casa. Sono loro che oggi come oggi ci permettono di lavorare. […] Inoltre, qui tutti i
commercianti locali, anche non di Catania, ma dei paesi, vanno a comprare dai cinesi e poi mettono questi prodotti in
vetrina spacciandoli per italiani. Così ci guadagnano ancora di più, perché la comprano a pochissimo e la comprano
anche in nero e spacciandola per italiana la vendono a prezzi molto più alti (commerciante catanese).
La complementarietà delle attività e la convergenza degli interessi esorcizzano il conflitto latente
fra commercianti catanesi e cinesi, ma a prezzo di un sostanziale ribaltamento dei loro rapporti
competitivi che nel tempo rischia di incrinare gli equilibri raggiunti, come segnala enfaticamente un
grossista catanese, fornitore saltuario di un commerciante cinese, che stigmatizza la concorrenza
sleale sul prezzo dei nuovi arrivati e preconizza il loro futuro dominio sull’economia locale:
I cinesi è vero che ti portano i soldi, ma sei costretto a svendere il tuo prodotto per accaparrarti liquidità. La cosa molto
più grave è che […] sono capaci di venderlo a un prezzo uguale a quello che hanno pagato e quindi sono in grado di
distruggerti quel mercato che tu sei riuscito magari a costruirti in più di 10/20 anni. […] E tutto questo alla fine porterà
al fatto che un giorno noi lavoreremo sotto di loro. […] Loro stanno scopiazzando di qua e di là, stanno cercando di
capire cosa va e cosa non va, appena l’avranno capito saranno loro a diventare i nostri padroni, perché loro tendono a
sopraffarti, perché hanno la potenza economica per poterlo fare. Non dobbiamo permetterlo, non devi dare spazio!
6. Conclusioni
La rapida espansione della presenza di commercianti cinesi a Catania interseca una trama di
sincronismi fra processi di sviluppo locali e nazionali territorialmente distanti, ma interconnessi
nell’evoluzione delle biografie, dei percorsi migratori e delle carriere lavorative delle popolazioni
migranti. Questo sistema di sincronismi e intersezioni ha definito tanto la mappa delle opportunità
con cui si sono confrontati gli immigrati cinesi a Catania, quanto il profilo delle risorse culturali e di
capitale sociale che hanno sostenuto i loro progetti imprenditoriali. Tuttavia, gli esiti di tali progetti
non si possono dedurre meccanicamente dal bilancio di opportunità e risorse; piuttosto, il successo
dei commercianti cinesi si costruisce nell’interazione con gli operatori economici locali e nel
confronto fra modelli imprenditoriali contrapposti e fra corsi di azioni in continua evoluzione.
La colonizzazione repentina dell’area commerciale più strategica della città da parte delle
imprese cinesi non provoca conflitti manifesti poiché soddisfa gli interessi di tutte le parti in gioco,
ma sancisce il primato del modello imprenditoriale “acquisitivo” dei cinesi, strategicamente
orientato ad una localizzazione rapida ed efficace, rispetto al modello “predatorio” a breve termine
dei commercianti catanesi che sottovalutano clamorosamente le capacità imprenditoriali dei nuovi
arrivati non riconoscendoli in alcun modo come loro competitori. Anche successivamente, allorché
le imprese cinesi manifestano tutta la loro competitività aggressiva, monopolizzando la vendita
all’ingrosso di capi e accessori di abbigliamento, i commercianti catanesi continuano a trarre
56
guadagno dal loro successo, a prezzo però di un ribaltamento inatteso dei loro rapporti di forza sul
mercato che contraddice l’ipotesi della successione ecologica.
Il successo dei commercianti cinesi non dipende solo dalla straordinaria capacità di competere
sul prezzo, esaltando la flessibilità dell’impresa familiare e l’efficacia del capitale sociale nelle
transazioni con i connazionali, ma da un mix di competenze tacite e strategie di diversificazione e
adattamento al mercato che ne definisce il profilo imprenditoriale: si configurano come moderni
alfieri dell’“economia dell’appropriatezza”, “formiche transnazionali” del capitalismo flessibile a
breve termine e della globalizzazione dal basso. Ricucendo su scala globale le diverse fasi della
filiera di produzione e distribuzione di merci cinesi, i nuovi imprenditori, da un lato, estendono i
vantaggi del basso costo del lavoro e della flessibilità anche al commercio di prossimità, dall’altro,
tendenzialmente riconducono l’intera “catena globale del valore” della produzione di articoli di
moda sotto il controllo di capitali nazionali che direttamente o indirettamente danno un ulteriore
impulso allo sviluppo economico della Repubblica Popolare.
Tuttavia, se l’efficacia delle strategie locali dell’imprenditoria immigrata contribuisce a
rafforzare la competitività dell’economia cinese sui mercati globali, non si può escludere in linea di
principio l’ipotesi che il dinamismo delle imprese cinesi a Catania possa funzionare come volano
dell’economia locale, rafforzando una complementarietà meno asimmetrica fra le imprese catanesi e
straniere nel settore commerciale, ma soprattutto aprendo il sistema produttivo locale ai mercati
cinesi, grazie al potenziamento delle attività import-export. Una tale prospettiva, però, si scontra
attualmente con una doppia criticità. La prima riguarda l’evoluzione dell’imprenditorialità cinese a
Catania: in uno scenario reso più precario dalla crisi economica e in ragione della crescente
stratificazione del sistema delle imprese cinesi, nei segmenti meno redditizi del commercio low cost
si ripropongono le stesse condizioni di sovraffollamento e competizione esasperata, già rilevate in
altre aree del paese, che tendono a ridurre gli spazi di mercato per i dettaglianti catanesi e rendono
più precarie le imprese cinesi avviate alla vigilia della crisi; si potrebbero, perciò, inceppare gli
effetti moltiplicativi delle relazioni di complementarietà, lasciando presagire nuovi flussi di mobilità
di lavoratori cinesi verso nuove frontiere. D’altra parte, la possibilità di espandere le attività di
import-export gestite dai cinesi si scontra non solo con l’attuale esiguità del fenomeno, ma
soprattutto con la chiusura e i pregiudizi della società locale: gli operatori economici catanesi
stentano a riconoscere il profilo imprenditoriale dei commercianti cinesi e le valenze innovative
delle loro strategie; le associazioni di categoria dimostrano scarsa capacità di dialogare con gli
imprenditori immigrati su un piano di parità; le pubbliche istituzioni sovraccaricano i costi di
transazione delle imprese cinesi, sottoponendole a discriminazioni e controlli occhiuti.
La sfida resta comunque aperta e su questo doppio binario i policy makers potrebbero essere
chiamati a nuovi esperimenti di integrazione fra politiche di inclusione degli stranieri e politiche di
sviluppo locale.
57
5. Imprenditori egiziani nel settore edile a Milano
Federica Santangelo*
Il presente capitolo intende inquadrare il fenomeno dell’imprenditorialità immigrata nella
provincia di Milano, focalizzandosi sul settore edile e in particolare sugli egiziani. È noto che le
dimensioni dei flussi migratori hanno contribuito consistentemente a modificare il mercato del
lavoro del nostro paese. Insieme al delinearsi di una domanda strutturale di lavoro extracomunitario
(Girardi 2004) si registra però anche un aumento di offerta di lavoro da parte di titolari
extracomunitari che segnala un mutamento nel fenomeno delle migrazioni e nei progetti degli
stranieri (Zucchetti 2002).
Nel primo paragrafo si darà il quadro della presenza straniera in provincia di Milano e della
consistenza di quella egiziana in particolare. Nel secondo paragrafo sarà presentato il contesto in cui
l’imprenditorialità egiziana nel settore edile si è sviluppata. Nell’ultimo paragrafo, invece, saranno
analizzati i principali esiti delle 40 interviste condotte a imprenditori e lavoratori autonomi di
nazionalità egiziana sul territorio milanese e a due testimoni privilegiati58.
5.1. La migrazione in provincia di Milano
Nel corso dei primi anni ‘70 del secolo scorso l’Italia assiste per la prima volta a flussi
migratori in entrata. È però il 1981 che segna formalmente il passaggio del nostro paese da area di
emigrazione ad area di immigrazione, come dimostrato dai dati del censimento del 1981. Il saldo
del movimento migratorio diventa, infatti, positivo per la prima volta. Da sempre la Lombardia è
stata una meta altamente desiderabile per gli stranieri, il che non stupisce visto che la presenza
straniera si colloca sul territorio in maniera difforme, concentrandosi soprattutto nelle zone a più
elevato sviluppo economico, vale a dire dove le opportunità di trovare un impiego sono più alte
anche per gli stranieri. Secondo i dati dell’ISTAT, in Lombardia soggiornano la maggior parte degli
stranieri regolari (il 23,2% del totale nazionale). E quasi la metà di questi, (il 35,6% nel 2009, ma
una percentuale superiore al 40 negli anni precedenti), risiede nella provincia di Milano (grafico 1).
La popolazione straniera residente in provincia di Milano e proveniente da paesi in via di
sviluppo o da aree dell’est Europeo ha subito dal 1998 al 1° luglio 2007 un aumento del 242%
(Blangiardo, 2009). Questo aumento ha però coinvolto in misura minore gli immigrati provenienti
dal nord Africa. La popolazione residente proveniente dall’est Europa, infatti, è aumentata del
499%, contro il 145% di quella nord africana e il 361% di quella proveniente dall’America Latina
(in posizione intermedia si collocano gli asiatici con un aumento, dal 1998 al 2007, della
popolazione residente del 207%) (Blangiardo, 2009).
*Università di Bologna
58
Si tratta di un esponente sindacale di nazionalità egiziana e di un mediatore culturale afferente al centro islamico di
viale Jenner.
58
Grafico 1 Numero di stranieri residenti presenti in Italia
(totale). Anni 2002-2009
4500000
4000000
3500000
3000000
2500000
Italia
2000000
Lombardia
1500000
Milano prov.
1000000
500000
0
2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009
Fonte: Elaborazioni su dati ISTAT
Il grafico 2 è la fotografia riferita al 2009 della presenza straniera residente in provincia di
Milano. In termini assoluti sono le popolazioni asiatiche a scegliere Milano e dintorni più
frequentemente, seguite dalle popolazioni dell’America Latina. I nord africani si collocano al terzo
posto in termini di numerosità assoluta. Tuttavia, se si orienta la lente di ingrandimento sulle
singole cittadinanze, si rileva che al primo posto si collocano quanti provengono da un paese
europeo, i romeni, seguiti da una popolazione del nord Africa: gli egiziani. Infatti, questi
costituiscono rispettivamente l’11,2 e il 9,9% degli stranieri regolarmente residenti, seguiti dai
filippini (9,2%) e dai peruviani (7,2%) (grafico 2). In provincia di Milano almeno un residente su
dieci proviene da un altro paese.
Grafico 2 Numero di stranieri residenti presenti in provincia
di Milano (totale) secondo la provenienza. Anno 2009
120.000
103.422
100.000
79.463
80.000
60.000
71.136
Est Europa
55.009
Nord Africa
America Latina
40.000
Asia
19.165
20.000
Altri Africa
0
Est
Europa
Nord America
Africa Latina
Asia
Altri
Africa
Fonte: Elaborazioni su dati ISTAT
59
Grafico 3 Stranieri residenti presenti in provincia di Milano
(totale) secondo il paese di provenienza (prime dieci
nazionalità). Anno 2009
50000
45000
40000
35000
30000
25000
20000
15000
10000
5000
0
Roma nia
Egitto
Filippine
Perù
Ecuador
Alba nia
Ma rocco
Cina Rep.
Popolare
Sri La nka
Ucra ina
Fonte: Elaborazioni su dati ISTAT
La popolazione egiziana non ha seguito i flussi migratori del resto del nord Africa verso i
paesi arabi se non quando, nel 1971, l’emigrazione temporanea e permanente in altri paesi viene
riconosciuta un diritto costituzionale (Cortese 2010). È alla fine degli anni settanta che l’Italia
prende piede quale meta dei flussi migratori dall’Egitto e si tratta principalmente di individui con
titoli di studio elevati. Molti di loro, impegnati nelle guerre arabo-israeliane, avevano perduto in
paese la possibilità di usare il proprio titolo di studio e si sono rivolti al nostro paese. I dati ISTAT
sui residenti in Italia denotano un certo squilibrio di genere. A una presenza egiziana maschile pari
a 56834 unità alla fine del 2009 corrisponde una presenza femminile di 25230 soggetti. Il dato
mette in luce la struttura dei flussi migratori egiziani che prevedono la partenza prima dei soggetti
maschi e solo in seconda battuta il ricongiungimento con le consorti, che, come si avrà modo di
evidenziare in seguito attraverso l’analisi delle interviste condotte, sono normalmente scelte in
patria dopo il consolidamento della posizione economica e sociale degli uomini nel paese ospite. In
altre parole, per la componente egiziana, il processo migratorio sembrerebbe essere ancora piuttosto
“giovane”, in quanto vede come protagonisti soprattutto i maschi adulti – giovani o sposati – che si
insediano nella società di arrivo come lavoratori. Le donne egiziane inoltre vivono in modo
piuttosto isolato, sono casalinghe e dipendono economicamente dal marito. In molti casi soffrono di
nostalgia per il paese di origine e aspirano a farvi rientro (Coslovi 2005).
La Lombardia è la regione di residenza per ben il 71% degli egiziani presenti sul territorio
nazionale, e di questi il 69,1% risiede in provincia di Milano (in altre parole Milano accoglie quasi
un egiziano migrante su due).
60
Grafico 4 Egiziani residenti in Italia (totale). Anni 2002-2009
90000
80000
70000
60000
50000
40000
30000
Egiziani in Italia
20000
Egiziani in Lombardia
10000
Egiziani in prov. di Milano
0
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
Fonte: Elaborazioni su dati ISTAT
Come mostra il grafico 4, dal 2002 la presenza egiziana nel nostro paese è più che
raddoppiata, ciononostante, la quota di soggetti che ha scelto la Lombardia e in particolare la
provincia di Milano è rimasta costante (in media sono sette su dieci gli egiziani che scelgono la
Lombardia, la metà degli egiziani regolarmente residenti in Italia predilige vivere e lavorare in
provincia di Milano).
Con gli anni ’80 i flussi migratori egiziani vedono la partenza dal paese di origine
prevalentemente di operai non specializzati con titoli di studio inferiori. Nel nostro paese è proprio a
partire da quegli anni che si sviluppano le prime attività autonome intestate a titolari egiziani. La
provenienza per entrambi i flussi migratori è principalmente da aree metropolitane come Il Cairo e
Alessandria e dai comuni sul delta del Nilo.
Un terzo periodo di migrazione degli egiziani è identificabile dopo le regolarizzazione del
1998. In questo caso le spinte motivazionali verso l’Italia sono meno di natura culturale e più
strettamente legate al raggiungimento di miglioramenti economici in un lasso temporale
possibilmente breve. Oltre a livelli di studio inferiori tra gli egiziani di recente migrazione si
individuano anche provenienze da piccoli villaggi e da aree agricole, non solo metropolitane
(Coslovi 2005).
L’inserimento dei migranti egiziani è piuttosto stabile, nonostante secondo l’opinione e le
conoscenze dei testimoni privilegiati intervistati, i progetti migratori siano quasi sempre di breve
periodo. L’Egitto è percepita come una nazione ricca e in grado di offrire un futuro, i migranti
quindi hanno l’obiettivo di assicurarsi in breve tempo una sicurezza economica per sé e la propria
famiglia per fare ritorno al paese. In effetti, si vedrà, che anche coloro che nel tempo hanno
completamente perduto il desiderio di vivere in Egitto, e si sono inseriti con successo, continuano
ad avere intensi rapporti con il paese d’origine, non solo in termini relazionali, ma anche e
soprattutto economici. I motivi che portano ad abbandonare progetti di breve periodo e a inserirsi
permanentemente nella società italiana sono addebitabili principalmente alle difficoltà di
riadattamento agli stili di vita ormai estranei del paese d’origine (Coslovi 2005). Esiste tuttavia
anche un motivo di natura economica: chi abbandona l’Egitto con la speranza di migliorare la
propria situazione economica, non riuscendovi, vive come un grave fallimento il rientro al paese
che sarebbe etichettato come un’onta da conoscenti e familiari. D’altro canto coloro che riescono ad
assicurarsi un minimo di stabilità economica, sono visti in Egitto come i ricchi e sarebbero costretti
a mantenere stili di vita talmente tanto elevati da temere che diventino del tutto insostenibili. In rari
61
casi di grave insuccesso, i lavoratori egiziani rimandano nel paese d’origine almeno la famiglia
affinché abbia il necessario al sostentamento.
Diverso è però il caso della minoranza cristiana copta e cattolica. Come un intervistato ha
chiaramente sottolineato e come altre ricerche testimoniano (Ambrosini e Abbatecola 2002;
Abbatecola, 2004), in Egitto tali minoranze subiscono forme gravi di discriminazione.
L’appartenenza religiosa, segnalata nella carta d’identità, impedisce a copti e cattolici di ambire a
posizioni occupazionali di rilievo. I progetti migratori, in questo caso, risultano già in partenza di
lungo periodo e sono caratterizzati dall’obiettivo dell’Italia quale meta ideale di libertà religiosa e
professionale. In provincia di Milano sono proprio gli immigrati di origine copta quelli che
registrano indici di integrazione più elevata (Blangiardo 2009).
Gli egiziani non si presentano con caratteri comunitari forti. Il centro islamico di viale
Jenner come la chiesa copta di via Senato sono punti di riunione e unione su base religiosa, più che
di appartenenza nazionale e le scelte abitative sono disperse e non organizzate su base etnica,
contrariamente a quanto avviene per altre comunità come quella cinese. I reticoli informali
attraverso cui si attivano risorse materiali e immateriali di sostegno sono formati prevalentemente
da vincoli di parentela (Ambrosini e Abbatecola 2002; Abbatecola, 2004), proprio per questo sono
stati definiti una non-comunità. Ciononostante, e forse anche per questo, la comunità egiziana non
solo risulta ben integrata nel nostro paese, ma è anche una delle nazionalità fra le quali risultano
meno diffuse forme di criminalità violenta. Come ben mostrano i dati del grafico 5 relativo alle
rapine (ma ciò è vero anche per gli omicidi volontari e i tentati omicidi), dal 2004 al 2009, la
percentuale di egiziani fra gli autori di reati violenti è modesta. Tenendo conto che gli egiziani
costituiscono in Lombardia una quota considerevole delle presenze straniere, le percentuali
presentate risultano in proporzione ancora più ridotte.
Grafico 5 Rapine in Lombardia secondo la nazionalità
dell’autore. Valori percentuali. Anni 2004-2009
100%
90%
80%
70%
60%
Italia
50%
Altri paesi
40%
Egitto
30%
20%
10%
0%
2004
2005
2006
2007
2008
2009
Fonte: Elaborazioni dell’autore su dati della P.S.
Nel nostro paese, inoltre, la comunità egiziana non ha fondato associazioni forti su base
etnica, ne esistono alcune in grandi città come Torino, Milano, Bologna e Reggio Emilia. Tuttavia
sono deboli e non integrate a livello nazionale. Inoltre non si pongono come obiettivo prioritario il
mantenimento dei contatti con le comunità di origine, ma piuttosto la promozione dell’integrazione
in Italia e la custodia della cultura e della lingua araba (Coslovi 2005).
Nel contesto provinciale, secondo un recente rapporto ISFOL (Marucci 2009), nonostante in
confronto alle altre regioni italiane in Lombardia sia presente un numero consistentemente più
62
elevato di beneficiari rispetto all’obiettivo 3 della programmazione 2000-2006 FSE59 (Fondo
Sociale Europeo) tra di essi compare però una quota piuttosto bassa di stranieri, solo il 6%. Da
tempo la Lombardia ha adottato politiche volte a riconoscere i diritti e doveri degli immigrati come
cittadini lavoratori60. In questo senso le scelte in termini di politiche sociali non sono state rivolte al
tamponamento di situazioni di emergenza per individui a rischio, quanto piuttosto a riforme
strutturali del mercato del lavoro che consentissero un pieno inserimento della componente
straniera, che ancora prima della programmazione 2000-2006 era già stata monitorata attraverso la
costituzione dell’Osservatorio sull’Immigrazione. Ciononostante, i tre progetti analizzati nel
rapporto ISFOL si rivolgono a ristretti ambiti riguardanti il livello di conoscenze linguistiche,
l’aiuto di adolescenti in difficoltà e infine l’incontro di domanda e offerta di lavoro qualificato per
l’assistenza e la cura di anziani e bambini. Scarse o inesistenti sono le pratiche e le attività rivolte
alla formazione di lavoro autonomo e indipendente come pure alla promozione dell’inserimento
lavorativo.
5.2. Gli imprenditori egiziani in provincia di Milano
Nel momento dell’arrivo nel paese ospitante, di solito i migranti si inseriscono nelle
posizioni occupazionali definite dalle tre D (dirty, dangerous e demanding) (Reyneri, 2002). La
scelta di investire nell’avviamento di una propria impresa, dunque, potrebbe essere vista nell’ottica
del raggiungimento di mobilità sociale e dell’emancipazione da lavori precari e svalorizzanti. In
altre parole, il lavoro autonomo e un’impresa propria sarebbero gli strumenti attraverso cui si cerca
di superare lo svantaggio occupazionale e la discriminazione sociale che gli stranieri subiscono nel
paese ospitante. Altri autori suggeriscono, invece, che l’imprenditorialità sia strettamente legata ai
valori e alle tradizioni apprese nel paese d’origine e che sia per questo maggiormente diffusa in
alcuni gruppi etnici piuttosto che in altri. Secondo un’altra prospettiva, i migranti si inserirebbero in
alcune nicchie di mercato sulla base delle risorse attivabili mediante il radicamento nella società
ospitante dei coetnici (le strutture di rete sarebbero in questo caso un vincolo, limitando il campo di
attività ai settori in cui sono già presenti altri connazionali, e allo stesso tempo una risorsa). Le
imprese immigrate potrebbero sorgere anche e soltanto sulla base delle opportunità economiche e
istituzionali del mercato, o in sostituzione ad attività imprenditoriali degli autoctoni. I fattori
esaminati potrebbero influenzare congiuntamente la scelta di mettersi in proprio (Codagnone
2003a). In alcuni settori, inoltre, il lavoro autonomo potrebbe essere indotto dalla necessità di
diversificazione del rischio economico e dalla volontà di ridurre il costo sociale del lavoro. In
particolare nel settore edile gli stranieri potrebbero essere costretti ad aprire ditte individuali, pur
rimanendo strettamente legati all’azienda da cui si dividono per ogni committenza (Ambrosini
2000).
Ciò su cui c’è accordo è che anche nel nostro paese il fenomeno dell’imprenditorialità
immigrata stia progressivamente raggiungendo dimensioni di un certo rilievo. Dal 2003 al 2008 le
attività autonome con titolare straniero sono triplicate, passando da 56421 a 165114, secondo i dati
Unioncamere. Il tasso di imprenditorialità più elevato è associato ai cinesi, seguiti da senegalesi,
59
Relativo allo sviluppo e all'adeguamento di nuovi sistemi di formazione professionale nell'ambito delle politiche
relativa all'istruzione, alla formazione e all'occupazione.
Le principali linee d'intervento sono:
• predisposizione e sviluppo di politiche finalizzate al reinserimento nel mercato del lavoro dei disoccupati di
lungo periodo.
• politiche volte alla promozione delle pari opportunità tra uomini e donne
• interventi e misure ai fini dell'incremento delle opportunità occupazionali
• politiche di prevenzione della disoccupazione, tramite l'introduzione di misure formative miranti a favorire la
flessibilità e l'adattabilità dei lavoratori in rapporto alle nuove esigenze provenienti dal mercato del lavoro
• potenziamento del patrimonio tecnico-cognitivo dei soggetti in cerca di occupazione
• interventi miranti all'evoluzione e allo sviluppo dei sistemi scolastici e formativi
60
Si veda la L.r. del 4 luglio 1988, n. 38: “Interventi a tutela degli immigrati extracomunitari in Lombardia e delle loro
famiglie”
63
siriani ed egiziani (con circa un’impresa ogni dieci residenti egiziani). I settori delle costruzioni e
del commercio sono quelli in cui si registra la presenza più numerosa di titolari stranieri. Milano,
Roma e Torino sono le province in cui si concentra il maggior numero di imprese straniere.
A fronte di una stagnazione del sistema imprenditoriale nazionale dal 2005 al 2009 nel
settore delle costruzioni e in quello manifatturiero si registra in Lombardia un aumento percentuale
delle ditte a titolare straniero che ammonta rispettivamente al 65,4% e al 57,4% (CESPI 2009).
Al giugno 2008 quasi la metà delle imprese immigrate presenti sul territorio regionale
(37.147) avevano sede nella provincia milanese (17.297). Inoltre, delle 5072 imprese con titolari di
nazionalità egiziana più del 77% hanno sede in provincia di Milano. Gli egiziani non sono solo la
nazionalità fra cui in termini assoluti l’imprenditorialità straniera è maggiormente diffusa (seguiti da
cinesi, rumeni e marocchini) in provincia di Milano, ma tendono a specializzarsi nel settore edile (il
60% dei titolari di attività autonome di nazionalità egiziana in provincia opera, infatti, nel settore
delle costruzioni (Ethnoland, 2008)). Gli egiziani devono competere con gli imprenditori rumeni e
albanesi fra i quali si registra la rappresentanza più consistente nel settore edile (rispettivamente il
76,9% e il 76,4%).
I dati provenienti dalla Camera di commercio ed elaborati dall’Irer attestano che in provincia
di Milano il 2,7% degli imprenditori artigiani attivi al 2006 è di nazionalità egiziana (seguiti da
romeni, 1,0%, e albanesi, 0,8%). In nessun’altra provincia della regione l’incidenza di una
nazionalità sul totale supera i due punti percentuali (i romeni raggiungono infatti il 2,0% a Lodi,
albanesi e cinesi toccano l’1,9% rispettivamente a Cremona e Mantova).
Le ricerche (Abbatecola 2004) che si sono concentrate sugli egiziani attivi nel settore della
ristorazione hanno evidenziato che le imprese egiziane sono di tipo “aperto”. Sulla base della
tipologia proposta da Ambrosini (1994) le imprese aperte si pongono sul mercato in concorrenza
con la altre già presenti sul mercato e gestite da autoctoni. Non offrono prodotti etnici né la loro
clientela è di tipo etnico. Si tratta insomma di pizzerie e ristoranti (per lo più a gestione familiare).
La “non comunità” egiziana prevalentemente quella che è arrivata in Italia con la prima e con la
seconda ondata migratoria sceglie il lavoro autonomo per consolidare la propria posizione
economica, non per coprire uno svantaggio occupazionale. E ciò deriva da uno spirito orientato alla
libera iniziativa e al lavoro ereditato dalla cultura e dalla famiglia di origine con elevata probabilità
di classe media.
La ricerca svolta da Codagnone nel 2003 (2003b) proprio sugli egiziani nel settore edile
rilevava che l’inserimento degli egiziani in questo settore derivava sì da spazi lasciati liberi da
imprenditori italiani, ma anche da spazi creati dall’evoluzione del settore edilizio “in attività
ancillari … di supporto a condizioni favorevoli” (p.143) in cui gli egiziani potevano altresì investire
il considerevole capitale umano di cui disponevano. I risultati di Codagnone sono stati confermati
anche da un più recente studio di area condotto dal CESPI (2005).
I testimoni privilegiati intervistati nel corso della presente ricerca riportano che la
specializzazione settoriale degli egiziani nel settore della ristorazione sia stato influenzato da fattori
di opportunità di offerta del mercato e da fattori culturali. I pionieri delle migrazioni egiziane infatti
avrebbero potuto scegliere tra l’edilizia, la ristorazione e le attività di servizio orientate alla pulizia.
Questa terza opportunità veniva però scartata per motivi culturali perché ritenuta inadatta a soggetti
maschi.
In quanto soggetti vulnerabili per condizioni economiche, per difficoltà di convalida dei
titoli di studio acquisiti in patria e per barriere linguistiche sono costretti a scegliere come prima
occupazione nel paese ospitante posizioni occupazionali di basso profilo e scarsa qualifica. Non è
sorprendente quindi notare che il settore edile sia quello in cui gli stranieri sono sovra rappresentati.
I dati sulle forze lavoro dell’ISTAT del primo trimestre 2008 rilevano una considerevole
partecipazione straniera nel settore edile, di cui la maggior parte è impiegata nelle regioni
settentrionali. A fronte di una contrazione dei dipendenti del settore, gli immigrati evidenziano
invece un aumento del 5%. Alla sovra rappresentazione degli immigrati nel settore delle costruzioni
si affianca anche il primato negativo nei tassi di infortunio (Galossi e Mora 2008).
64
5.3. Gli imprenditori egiziani nel settore edile
In questo paragrafo saranno esposti i principali risultati emersi dalle interviste di area
condotte nella provincia di Milano a 40 imprenditori egiziani61 attivi nel settore edile e a due
testimoni privilegiati, un esponente sindacale e un mediatore culturale legato al centro islamico di
viale Jenner. Quattro nominativi sono stati forniti dagli elenchi degli iscritti alla Confartigianato
della regione Lombardia. Altri contatti sono stati individuati dai due testimoni privilegiati e, infine,
si è proceduto con la tecnica a palla di neve. Si tratta esclusivamente di uomini, la maggior parte dei
quali islamici. Tre intervistati sono cattolici, uno copto.
In tabella 1 sono fornite le principali caratteristiche anagrafiche degli intervistati secondo il
periodo in cui sono migrati verso l’Italia.
Tabella 1 Caratteristiche anagrafiche secondo l’anno di arrivo in Italia
Età media
dal 1970 al 1989
51,1
dal 1990 al 1997
43,4
dal 1998 al 2002
35,4
Titolo di studio
Lic. Media inf.
Avviamento professionale
Diploma
Laurea
1
1
10
7
1
0
5
8
0
0
6
1
Sposato
No
Sì
Separato/divorziato
Di cui con partner italiana
0
17
2
3
0
14
0
2
3
4
0
0
Totale
19
14
7
Il primo dato interessante è che non si registra una diminuzione nei livelli di studio a
seconda delle ondate migratorie. Ciononostante, nell’ultimo flusso il numero di laureati è
considerevolmente diminuito. Nonostante i limiti di rappresentatività del campione selezionato, il
mediatore culturale intervistato ha sottolineato il fatto che l’Egitto è una nazione con una lunga
storia, dove la prima università di medicina è stata aperta nel 1908, e dove nel 1958 è stato costruito
il primo caccia veloce. Si tratta in altre parole di una nazione in cui l’istruzione ha un grande valore.
Il 25% degli egiziani è laureato. Il numero così elevato di alti livelli di istruzione non riesce d’altro
canto ad essere assorbito dal mercato locale, costringendo molti ad abbandonare il paese d’origine.
Chi ha un titolo di studio inferiore alla terza media è considerato analfabeta. Sotto questa luce, si
può affermare che in effetti l’ultima ondata migratoria è caratterizzata da livelli di istruzione
mediamente inferiori, essendo sottorappresentati i laureati.
Tra il momento dell’arrivo in Italia e quello di apertura dell’attività in proprio (tabella 2)
trascorre un tempo che va riducendosi in maniera inversa all’arrivo in Italia. In altre parole, tanto
più recente è l’arrivo in Italia, minore è il tempo che trascorre prima che si decida di aprire una ditta
in proprio.
61
29 interviste sono state condotte dall’autrice, 10 da Deborah De Luca, un’intervista è stata seguita da entrambe.
65
Tabella 2 Tempo intercorso tra l’arrivo in Italia e l’apertura della ditta secondo il
periodo di migrazione
da 1 a 5 anni
da 6 a 10 anni
> 10 anni
Media
Totale
dal 1970 al 1989
4
3
12
13,1
19
dal 1990 al 1997
3
6
5
8,9
14
dal 1998 al 2002
4
3
0
5,1
7
Secondo l’esponente sindacale, nonostante gli egiziani arrivino in Italia con una
professionalità già acquisita nel paese di origine, il campo dell’edilizia risulta molto cambiato. È il
settore in cui mettersi in proprio ha i costi minori, non necessitando di investimenti in materiali o
tecnologie. Inoltre, il sistema dei subappalti è spesso l’unico modo per gli stranieri per riuscire a
lavorare, nonostante specialmente in questi ultimi anni di crisi, capiti spesso che siano anche i primi
a non essere pagati. A oggi è più difficile imparare sul campo, accumulare esperienza e
professionalità on the job (testimone privilegiato). Questo potrebbe parzialmente spiegare la
maggiore velocità con cui si formano le imprese individuali fra gli arrivati dopo il 1998, grazie
anche alla legge Turco-Napolitano che proprio nel corso del 1998 ha eliminato il vincolo della
reciprocità per le ditte individuali. Come ricordato, tuttavia, la rete informale parentale svolge un
importante effetto traino. È perciò plausibile supporre anche che, fra quanti sono arrivati in tempi
più recenti, il tempo di avvio di un’attività autonoma diminuisca visto il minore isolamento dei
nuovi. Sono solo sei intervistaii su 40 a dichiarare di aver avuto bisogno di prestiti di familiari o
amici per avviare la propria attività. Solo uno di questi si è rivolto al sistema bancario. È importante
notare che gli intervistati in qualche modo legati al centro islamico (poco più di una decina) alla
domanda sulla necessità di ottenere prestiti nel corso della loro attività imprenditoriale hanno
reagito, negandolo, in modo alquanto perentorio. La religione islamica, infatti, non consente in
nessun modo l’accesso al sistema creditizio. Fra l’altro l’ABI (2009) rileva che oltre un quarto delle
imprese con titolare straniero non utilizza i canali finanziari offerti dagli istituti bancari. Il ruolo
della rete etnica è evidenziabile attraverso l’esame delle risposte a due diverse domande: l’aver
appreso la gestione dell’azienda da parenti o connazionali e l’importanza delle relazioni familiari e
in generale etniche nella gestione dell’azienda. Solo 8 intervistati su 40 dichiarano di non avere
nessuna persona da cui hanno imparato qualcosa e la quota è inversamente proporzionale all’arrivo
in Italia. È infatti solo uno tra gli intervistati arrivati dopo il 1998. Per gli ultimi arrivati è
importante il ruolo dei parenti, quando invece per i pionieri risulta fondamentale il ruolo di italiani
o, al più di connazionali (tabella 3):
Tabella 3 Imprenditori che affermano di aver imparato da qualcuno nella gestione
dell’azienda secondo il periodo di migrazione. Valori %
dal 1970 al 1989
Hanno imparato da:
familiari
20
connazionali
27
italiani
87
dal 1990 al 1997
dal 1998 al 2002
46
18
64,
50
17
33
Per quanto riguarda l’utilità delle relazioni con familiari e connazionali nella gestione
dell’azienda, i giudizi espressi dagli intervistati sono molto oscillanti. È loro richiesto di fornire un
voto compreso fra uno e dieci (dove uno indica il non aver avuto alcun aiuto dalla rete familiare e
dieci, all’opposto, il massimo aiuto possibile), ma qualunque valore medio non sarebbe attendibile
data, appunto, l’alta variabilità delle risposte. Qualora ci si chieda per quanti la famiglia è almeno
sufficiente nell’utilità fornita nella gestione aziendale, ebbene almeno per la metà degli intervistati
66
le relazioni familiari sono state utili. Tuttavia, non è chiaro se tale utilità sia intesa in termini
materiali (prestiti finanziari, fornitura di manodopera) o simbolici (sostegno morale nell’avvio
dell’investimento). L’attività imprenditoriale può infatti essere aiutata anche dalla presenza di
un’economia informale e dalla possibilità di auto sfruttamento dei connazionali o dei parenti (Laj
2006), questo aspetto risultava anzi fondamentale nelle precedenti ricerche effettuate nel settore
della ristorazione. Tuttavia la presenza di parenti e familiari come dipendenti e collaboratori è del
tutto assente sia nella prima sia nell’ultima ondata migratoria del campione intervistato e marginale
nella seconda (solo due imprenditori hanno fra i propri collaboratori dei familiari). Otto intervistati
hanno invece dei dipendenti connazionali, ma nessuno di questi è arrivato dopo il 1998. Per poter
escludere che vi sia un effetto, anche solo informale, dell’appartenenza etnica nella scelta di
condurre una ditta propria è necessario analizzare ancora almeno tre aspetti approfonditi nel corso
dell’intervista: le origini sociali dell’intervistato, i motivi che lo hanno condotto in Italia e la
carriera lavorativa in Italia.
Tabella 4 Classe sociale di origine secondo il periodo di migrazione62. Valori %
BO
CMI
PB
CO
N
dal 1970 al 1989
21
26
378
16,
dal 1990 al 1997
21
14
36
29
19
14
dal 1998 al 2002
29
57
0
14
7
Come si può notare (tabella 4) l’unica differenza di rilievo tra gli imprenditori appartenenti
alle differenti ondate migratorie è la sottorappresentazione tra coloro giunti in Italia dopo il 1998
della piccola borghesia, alla quale appartiene invece poco più di un intervistato su tre arrivato in
Italia negli anni precedenti. Durante il colloquio tuttavia molti degli intervistati hanno chiarito che il
padre, nonostante avesse un lavoro come dipendente svolgeva anche piccole attività in proprio
legate alla coltivazione della terra e alla vendita al dettaglio, cui, date le ampie dimensioni familiari
(gli intervistati hanno in media 4 fratelli o sorelle) loro amavano affiancarsi, iniziando a lavorare fin
da adolescenti. Quattro intervistati su cinque, inoltre, (indipendentemente dal periodo migratorio)
affermano di avere altri parenti titolari di imprese. Le origini sociali degli intervistati non sembrano
confermare quanto emerso nelle precedenti ricerche: non si tratta di individui appartenenti a classi
medie impiegatizie che si siano impoverite. A conforto di tale affermazione è stata sottoposta agli
intervistati un’altra domanda sulle condizioni economiche della famiglia rispetto alla media delle
famiglie del luogo in cui risiedevano in Egitto. Solo tre intervistati (appartenenti alle prime due
ondate migratorie) confessano che la loro famiglia sopportava condizioni economiche peggiori di
quelle degli altri. Quattordici intervistati affermano che la loro famiglia stava meglio o molto
meglio delle altre.
Si vedrà come sono cambiati nel tempo i fattori di spinta migratoria: se motivi economici,
desiderio di promozione e spirito di avventura contano per più di un intervistato su quattro, la
differenza sostantiva tra gli immigrati della prima ondata migratoria e quelli della seconda e terza è
che i primi molto più frequentemente degli altri sono arrivati in Italia quasi per sbaglio, o per caso.
A seguito di rapporti di scambio con le università tedesche (e in un caso con quella austriaca) alcuni
degli intervistati arrivati qui fra il 1970 e il 1989 si fermavano in Italia in attesa dell’inizio dei corsi
in Germania. Trovando lavoro e ritenendo che le condizioni di vita ed economiche fossero
favorevoli, rinunciavano ai corsi in Germania per stabilirsi permanentemente nel nostro paese. In un
62
Lo schema di classe utilizzato è quello sviluppato da Cobalti e Schizzerotto dove BO corrisponde alla borghesia, CMI
alla classe media impiegatizia, PB alla piccola borghesia e CO alla classe operaia. Rispetto allo schema originario la
differenziazione tra piccola borghesia urbana e agricola e tra classe operaia urbana e agricola è stata abolita.
67
solo caso l’intervistato riferisce di essere partito verso la Germania e di aver poi usato da lì i suoi
contatti tedeschi affinché lo aiutassero a trovare lavoro in Italia. Un intervistato ricorda di essere
arrivato in Italia solo ed esclusivamente per i mondiali di calcio nel 1990, ha seguito una partita in
Sicilia e dopo essere arrivato qui, ha semplicemente deciso di rimanere. In otto casi, fra cui anche
quello di un imprenditore di successo, la prima tappa estera è stato un paese arabo dove la domanda
di manodopera specializzata egiziana era molto elevata. Che il percorso degli appartenenti alla
prima ondata migratoria sia stato diverso e in linea di continuazione rispetto al percorso di studi lo
dimostra il fatto che due intervistati su cinque non lavorassero nel paese d’origine. Proporzione
consistentemente inferiore fra chi appartiene alla seconda e terza ondata.
In un caso un intervistato riferisce di aver lavorato in Egitto per un grande azienda
statunitense per la quale svolgeva ricerche nel campo del marketing. È stato purtroppo costretto ad
abbandonare il lavoro perché l’azienda è stata osteggiata per motivi religiosi e non è stato più in
grado di trovare un’occupazione che gli garantisse la medesima posizione. È stato spinto quindi a
dirigersi verso l’Italia nella speranza che un paese, che credeva fortemente cattolico, potesse
garantirgli libertà e opportunità professionali. Ha dovuto purtroppo abbandonare l’idea di usare la
sua laurea in economia e ha iniziato a svolgere un lavoro come venditore di bibite al cinema. In
seguito è diventato il tutto fare all’interno di un museo (dal facchinaggio al consulente per impianti
delle mostre). Alle dipendenze di un italiano ha appreso il lavoro di ristrutturazione edile e di
muratura. Decise di avviare una ditta propria dopo aver compreso di avere successo come
dipendente e di non essere al contempo libero di praticare la religione a cui teneva enormemente
perché sfruttato dal datore di lavoro. Sul lavoro desiderava sì essere autonomo, ma anche creare una
dimensione familiare. Prima della crisi la sua azienda era arrivata ad avere 18 dipendenti, fra cui
anche un italiano. È felicemente sposato con una donna italiana da cui ha avuto un figlio ed è
perfettamente integrato nella sua comunità dove però l’influenza etnica e nazionale è quasi del tutto
irrilevante.
Tabella 5 Motivi di attrazione verso l’Italia secondo il periodo di migrazione. Valori %
parenti
connazionali
facilità d'ingresso
prossimità culturale
opportunità di lavoro
dal 1970 al 1989
26
16
21
16
32
dal 1990 al 1997
36
29
7
14
14
dal 1998 al 2002
43
29
14
57
14
I motivi che hanno attratto verso l’Italia gli altri intervistati offrono un quadro abbastanza
chiaro del fatto che, nonostante la ridotta numerosità e la non rappresentatività del campione, le
ondate migratorie sembrano influenzare le caratteristiche dei progetti migratori. Se i primi sono stati
influenzati principalmente dalle opportunità lavorative, le ultime ondate sono state influenzate dalla
presenza di connazionali e parenti. L’Italia è stata scelta per la prossimità culturale da quattro dei
sette intervistati che sono arrivati dopo il 1998, confermando quanto era stato dichiarato da uno dei
testimoni privilegiati. Con la televisione e con il contatto dei successi dei pionieri, il nostro paese è
stato visto come una meta ambita. L’Italia e il suo stile di vita sono diventati un gruppo di
riferimento per i nuovi migranti egiziani. La facilità d’ingresso ha invece avuto uno scarso peso per
i soggetti, salvo per i pionieri, arrivati a cavallo di qualsiasi regolamentazione.
La provincia milanese è stata la prima e sola meta per la stragrande maggioranza degli
intervistati. Il primo lavoro in Italia è per tutti gli intervistati un’occupazione di bassa manovalanza,
per molti già nel settore delle costruzioni: si passa dal lavapiatti al macellaio, dall’operaio al
muratore, dall’addetto ai traslochi alla manutenzione nei circhi. Nessuno dei migranti appartenenti
alla prima ondata è stato assunto alle dipendenze di un parente o connazionale, al contrario ciò si è
verificato in sette dei 21 casi delle due successive ondate.
68
I motivi che spingono, dopo aver accumulato conoscenze sul lavoro, a mettersi in proprio
sono per la maggior parte il bisogno di guadagnare di più, la voglia di essere autonomi e la necessità
di valorizzare le proprie capacità. In dieci casi è stato il precedente datore di lavoro a consigliare di
aprire una partita iva e mettersi in proprio. Tuttavia nella maggior parte dei casi il consiglio è andato
a vantaggio di chi lo ha ricevuto e non si trattava di una necessità in cambio di lavoro, nel noto
meccanismo di subappalto ed esternalizzazione del settore per ridurre i costi del lavoro. Solo in un
caso si dichiara il desiderio di seguire le tradizioni familiari. Si tratta però di un caso molto
particolare. Arrivato nel 1974 in Italia si è sposato e ha in seguito divorziato da una donna italiana.
È uno dei nove figli di una famiglia in cui il decesso del padre aveva provocato un drammatico
appesantimento della situazione finanziaria. Quattro dei suoi fratelli sono in Italia. Tutti laureati con
titolo di studio valido anche nel nostro paese, salvo lui che si è fermato al diploma. La ditta
individuale di ristrutturazioni che ha aperto e conduce dal 2006 (dopo essere stato per molti anni
attivo nella ristorazione dove ha anche rivestito il ruolo di direttore responsabile di un complesso
alberghiero) versa oggi in gravissime difficoltà economiche. La natura del problema in questo caso
è che l’intervistato si è appoggiato a pochi grandi clienti con i quali ha svolto lavori molto
impegnativi, redditizi e di un certo prestigio. Essendosi però sempre appoggiato ad una sola grande
ditta risente più degli altri della crisi in corso.
Sedici degli intervistati dichiarano di non avere dipendenti in questo momento (tabella 6). Si
noti però che solo in 6 casi si tratta di ditte individuali e gli intervistati dichiarano infatti che il
numero dei dipendenti è rimasto costante negli ultimi tre anni, si tratta di artigiani falegnami e
idraulici. Nei restanti casi invece il numero di dipendenti è diminuito a causa della crisi in corso.
Fra i dipendenti non emergono reti etniche consolidate. Di fatto il numero di dipendenti
connazionali non supera e non si differenzia dal numero di dipendenti di altre nazionalità. Solo
cinque intervistati dichiarano di aver dato lavoro a dipendenti italiani (anche nel passato), ma la
maggior parte degli intervistati afferma di essersi appoggiato ad artigiani italiani per molti dei lavori
svolti, creando quindi un indotto anche per altri imprenditori o lavoratori autonomi nati nel nostro
paese.
Tabella 6 Numero di dipendenti
nessuno
1 dipendente
da 2 a 5 dipendenti
da 6 a 10 dipendenti
> 10 dipendenti
Totale
N
16
3
15
4
2
40
%
40
7
38
10
5
100
Tabella 7 Nazionalità dei dipendenti
nessuno
solo egiziani
egiziani e stranieri
anche italiani
Totale
N
16
15
6
3
40
%
40
38
15
7
100
Nonostante clienti e fornitori siano prevalentemente italiani, per più della metà degli
intervistati con dipendenti questi sono connazionali (tabella 7).
69
Tabella 8 Durata dell’impresa
N
7
20
13
10,7
40
Da 1 a 4 anni
da 5 a 10 anni
> 10 anni
Media
Totale
%
18
50
32
100
Nonostante le difficoltà dovute alla crisi, le imprese sembrano piuttosto solide giacché
quattro su cinque sono attive da almeno cinque anni (tabella 8). Si noti che le imprese più giovani in
due casi coinvolgono soggetti arrivati in Italia nel corso delle prime due ondate migratorie.
In effetti la crisi attuale sta avendo degli effetti piuttosto consistenti per quasi 3 imprenditori
su quattro (tabella 9). La categoria meno colpita, salvo i due casi di imprenditori di successo, è
quella dei piccoli artigiani (falegnami e idraulici). Tre degli intervistati hanno affiancato all’attività
principale legata all’edilizia, attività di tipo commerciale come colorificio e attività nei servizi come
un’impresa di pulizia. Ciò consente loro una diversificazione dei rischi imprenditoriali.
Tabella 9 Andamento del fatturato e del numero di dipendenti negli ultimi tre anni
Aumentati o costanti
Diminuiti
Totale
N
11
29
40
%
27
73
100
Tabella 10 Numero di clienti
nessuno o uno
da 2 a dieci
>10
Totale
N
11
22
7
40
%
27
55
18
100
Gli imprenditori che stanno affrontando difficoltà più severe avendo solo uno o nessun
cliente sono undici (tabella 10). Uno di loro in particolare, la cui attività consiste nella costruzione
di ponteggi, è stato costretto a mandare la moglie e i tre figli in Egitto. Con il denaro della sua
attività ha acquistato una casa in provincia, ma non ha ora abbastanza danaro per far fronte alle
spese di prima necessità e alle rate del mutuo. In Egitto, invece, è riuscito a comprare una casa e un
terreno così da poter far fronte almeno in patria alle esigenze e ai bisogni della moglie e dei figli.
Tabella 11 I principali concorrenti secondo il periodo migratorio. Valori %
Nessuno
Connazionali
Altri stranieri
Italiani
Tutti
dal 1970 al 1989
59
5
26
5
5
dal 1990 al 1997
36
21
36
0
7
dal 1998 al 2002
15
14
57
14
0
Nonostante la scarsa numerosità del campione si è scelto di rappresentare la tabella 11
secondo il periodo migratorio. In essa sono riportate le risposte alla domanda: “quali concorrenti
teme di più?” Come si può notare, indipendentemente dal periodo di arrivo in Italia, gli altri
stranieri attivi nel settore edile sono sentiti come pericolosi concorrenti per gran parte degli
70
intervistati. Sostengono infatti che l’apertura a lavoratori provenienti dall’est Europa che applicano
prezzi così bassi da non garantire margini di guadagno stia spiazzando il mercato edilizio.
Ciononostante la sensazione di minaccia proveniente dai flussi migratori più recenti provenienti
dall’Europa orientale varia secondo il tempo di permanenza in Italia. Sono i nuovi arrivati a subirla
maggiormente. Oltre la metà degli imprenditori arrivati tra il 1970 e il 1989 dichiara invece di non
temere nessuno in particolare, né italiani né stranieri. Tali differenze possono essere addebitabili
alla maggiore vulnerabilità delle giovani imprese. Tuttavia, una seconda spiegazione può essere
quella fornita da uno degli intervistati. Consapevole del fatto che la crisi sta producendo i suoi
effetti su tutta la popolazione, sa anche che per un lavoro di ristrutturazione gli individui scelgono il
preventivo più basso. Ciononostante, afferma di rifiutarsi perentoriamente di abbassare i prezzi,
perché ciò svalorizzerebbe il suo lavoro e lo renderebbe di qualità inferiore. Aggiunge inoltre che le
nuove ditte possono praticare prezzi più competitivi al ribasso perché sfruttano la manodopera
irregolare senza d’altro canto formarla adeguatamente. In questo senso i giovani imprenditori
soffrono maggiormente la concorrenza sia perché non hanno consolidato la loro posizione sul
mercato sia perché non possono ancora fare affidamento sulla qualità e l’esperienza del proprio
lavoro.
A tutti gli intervistati è stato chiesto quali azioni politiche considerassero importanti per
aiutare e sostenere l’imprenditorialità straniera. Un intervistato si è preoccupato della sua pensione,
chiedendosi se quanto lo stato italiano preleva in forma fiscale per la futura pensione potrà essergli
restituito quando, e se, in vecchiaia tornerà in Egitto. Un altro chiede una semplificazione per i
permessi di soggiorno. La grande maggioranza degli intervistati però lamenta un’eccessiva
pressione fiscale e il troppo elevato costo del lavoro. Inoltre, vorrebbe maggiori tutele rispetto ai
crediti esigibili. D’altro canto tali problemi sono comuni ai lavoratori autonomi, indipendentemente
dalla nazionalità di appartenenza. Tutti gli intervistati infatti, anche uno degli imprenditori di
successo hanno crediti, anche di notevole entità che non riescono a incassare. Uno dei nominativi
segnalati dall’esponente sindacale, per esempio, fino a due anni fa aveva una ditta con più di venti
dipendenti ed elevatissimi fatturati. Oggi invece non lavora da quasi un anno. e le grandi imprese
per le quali ha lavorato continuano a non pagargli quanto gli spetterebbe. Nella stessa condizione
versa anche il costruttore di ponteggi cui si accennava prima. Piuttosto diffusa è l’idea che in queste
circostanze nel nostro paese non ci siano sufficienti difese e che specie gli immigrati di recente
arrivo si trovino soli di fronte alla burocrazia.
Nonostante le grandi difficoltà, è solo una piccola minoranza (circa sei imprenditori) che
pensa che in futuro sarà costretto a chiudere la propria azienda.
Fra i trentaquattro imprenditori con figli, oltre la metà preferirebbe che i figli studiassero e
trovassero un lavoro diverso dal proprio, solo due di loro aspira ad un rientro in patria delle nuove
generazioni.
Conclusioni
La provincia di Milano accoglie in Italia il gruppo più numeroso di cittadini stranieri di
nazionalità egiziana. Il tasso di imprenditorialità degli egiziani risulta in provincia piuttosto elevato
ed è particolarmente vivace nei settori della ristorazione e dell’edilizia.
I risultati della presente ricerca confermano parzialmente quelli a cui sono giunti precedenti
lavori: la comunità egiziana appare più una “non comunità”. I soggetti intervistati non partecipano
alle attività di associazioni etniche, salvo quelle di tipo religioso che però non connotano
l’appartenenza nazionale.
Progetti migratori di breve periodo tendono a trasformarsi in percorsi di stabilizzazione e
integrazione permanente nella società ospitante, nonostante tutti gli intervistati mantengano stretti
rapporti con il paese d’origine e investano nell’acquisto di una casa in Egitto. Quattro dei soggetti
intervistati mantengono anche rapporti d’affari con imprese all’estero. Si tratta tuttavia di attività
non collegate a quella svolta in Italia e di natura prevalentemente finanziaria.
71
Le attività imprenditoriali sono di tipo aperto: si sfruttano cioè segmenti di mercato
nazionale che si sono liberati (o che non sono svolti dagli italiani) con clientela e fornitori
tipicamente italiani. La scelta di autonomia è il risultato di una costrizione dell’esternalizzazione del
mercato edilizio solo in un caso. La rete informale dei connazionali, ma anche le opportunità offerte
dal mercato sono i motivi che stanno dietro alla scelta di specializzazione settoriale degli egiziani.
Ciò è ampiamente dimostrato dal fatto che la maggior parte dei dipendenti dei soggetti intervistati
appartengono alla stessa nazione.
Si è però notato che alcune differenze sono emerse nella struttura delle relazioni quando si è
tenuto distinto il periodo migratorio. I pionieri (arrivati nella seconda metà degli anni settanta) e
coloro che li hanno immediatamente seguiti (fino al 1989) hanno avuto minori possibilità di attivare
le risorse e i legami nazionali e parentali, ciononostante hanno potuto contare su un più elevato
capitale culturale rispetto a chi li ha seguiti. Inoltre, la classe sociale d’origine, nella maggior parte
dei casi medio elevata, ha probabilmente fornito lo spirito d’intraprendenza necessario a superare le
difficoltà linguistiche e gli svantaggi economici e sociali subiti all’arrivo in Italia prima, e la volontà
di avviare e mantenere un’attività in proprio in seguito. Si potrebbero definire le loro attività
imprenditoriali come “imprese aperte radicate”. Si tratta di iniziative solide, nonostante le difficoltà
settoriali.
Nonostante la scarsa numerosità degli imprenditori arrivati dopo le regolarizzazioni del 1998
le attività svolte appaiono sempre tipiche di imprese aperte, che questa volta potremmo definire
“strumentali”, invece che radicate. L’arrivo in Italia è stato per lo più agevolato dalla presenza di
connazionali e parenti. L’Italia rappresenta un mito di successo economico in un breve lasso di
tempo. In questo senso l’attività in proprio è strumentale al raggiungimento di questo obiettivo e
continua a risentire della condizione di straniero (anche nei confronti dei potenziali concorrenti)
nonostante sia rivolta a un mercato italiano.
Coloro che sono arrivati tra il 1990 e il 1998 si collocano in una posizione intermedia: sono
vicini agli imprenditori radicati (in termini di capitale culturale), ma a quelli strumentali in termini
di spinte attrattive verso l’Italia e come questi ultimi hanno potuto affidarsi a una rete etnica,
tipicamente parentale, più solida.
I soggetti che intraprendono un percorso migratorio sono, in linea generale, diversi da coloro
che restano in patria. Resta da comprendere se le differenze rilevate in questa indagine siano il
frutto di tali diversità che connotano per ovvie ragioni i pionieri più degli altri o se si tratti invece di
differenze legate al periodo di permanenza. In altre parole: il radicamento e l’integrazione (non solo
in campo sociale, ma anche e soprattutto in campo economico) che si delineano nelle imprese e
nelle attività autonome gestite dagli egiziani arrivati fino al 1989 sono da ricondurre alle loro
caratteristiche individuali (capitale culturale, origini sociali, spirito di intraprendenza) o piuttosto
sono stati determinati dal fatto che essendo in Italia da più tempo hanno ormai abbandonato
qualunque progetto di rientro in patria? In questo secondo caso ci si aspetterebbe la stessa
evoluzione anche fra gli imprenditori delle ondate successive.
72
6. Imprenditori nord africani nel settore metalmeccanico a Modena e
Reggio Emilia
Matteo Rinaldini∗
Introduzione
Il presente capitolo si suddivide in tre parti. La prima parte riguarda le caratteristiche del contesto
socioeconomico e politico-istituzionale in cui si situano i processi di immigrazione. La seconda
parte, invece, è dedicata alla descrizione dell’evoluzione dei processi migratori nei territori di
Modena e Reggio Emilia. La terza parte, infine, riguarda il fenomeno dell’imprenditoria degli
immigrati a Modena e Reggio Emilia. Ai risultati della ricerca sugli imprenditori marocchini,
tunisini ed egiziani del settore metalmeccanico che si è svolta sul territorio di Modena e Reggio
Emilia è dedicato l’ultimo paragrafo.
1 – Il tessuto socioeconomico e politico-istituzionale di Modena e Reggio Emilia
1.1 I sistemi distrettuali di Modena e Reggio Emilia e il nuovo scenario di crisi economica
Specificità importante dei processi di immigrazione nelle province di Modena e Reggio Emilia è il
loro radicamento in un “territorio a industria diffusa” (Rinaldini, 2003). Si tratta di processi
migratori che si insediano in territori in cui il tessuto produttivo si contraddistingue per essere
costituto da una molteplicità di imprese manifatturiere di piccole e medie dimensioni. In Emilia
Romagna e in particolare a Modena e Reggio Emilia, quindi, il mercato del lavoro manifatturiero
risulta essere un mercato del lavoro importante in cui si inseriscono gli immigrati. Ciò non significa
che anche nel mercato del lavoro dell’agricoltura, del terziario, del lavoro di cura e delle costruzioni
in senso stretto del territorio reggiano e modenese non siano presenti ingenti quote di lavoratori
immigrati. Tuttavia, a differenza di altre aree del paese, il settore manifatturiero di questi territori ha
esercitato in passato ed esercita ancora oggi una grande forza attrattiva nei confronti della
manodopera straniera. La presenza dei distretti industriali e le opportunità di lavoro prodotte dai
sistemi distrettuali di Modena e Reggio Emilia sono spesso state indicate come importanti
determinanti della forza d’attrazione che il territorio esercita sui flussi migratori. Conviene, quindi,
soffermarsi brevemente sul significato di distretto industriale e sulle caratteristiche che assume
questa particolare forma economica nel territorio modenese e reggiano.
La letteratura economica e sociologica sui “distretti industriali” è vasta. Con il trascorrere degli anni
si sono moltiplicati gli sforzi per dare una definizione precisa di “distretto industriale” e in alcuni
casi si è giunti alla messa a punto di specifiche procedure di tipo quantitativo per l’identificazione di
ciò che può essere definito distretto e di ciò che invece non può essere definito tale (Sforzi, 1990).
Secondo diversi studiosi, tuttavia, la definizione di distretto non è riducibile all’interno di una pura
operazione di carattere statistico in quanto il distretto non risulta essere rappresentato solo
dall’apparato produttivo (che peraltro di per sé, nel caso si tratti di un distretto, pone il problema dei
confini settoriali), ma anche da un ambiente di relazioni sociali e di valori difficilmente misurabile
(Brusco e altri, 1997). In alternativa ad un approccio di natura quantitativo, quindi, è stato proposta
(Brusco e altri, 1997) una definizione di distretto industriale di più ampio respiro, in grado di
contenere anche valutazioni di carattere qualitativo, largamente sovrapponibile al concetto di
Sistema Produttivo Locale nell’accezione che Brusco ne ha dato: un insieme di imprese concentrate
in un territorio delimitato, che producono direttamente o indirettamente per uno stesso mercato
finale (Brusco, 1989). Una tale definizione, tuttavia, lascia significativi margini di discrezionalità
∗
Università di Modena e Reggio Emilia
73
nello stabilire ciò che risulta essere sistema distrettuale e ciò che non risulta esserlo e, soprattutto,
apre alla possibilità di formulare tipizzazioni distrettuali esponendosi a rischi di ambiguità
terminologiche. Il dibattito sulla definizione di distretto, dunque, non si è mai potuto considerare
esaurito così come ancora in atto è la discussione sull’identificazione delle aree territoriali
considerabili aree distrettuali. La stessa applicazione del concetto di “distretti industriali” ai clusters
di imprese presenti sul territorio emiliano romagnolo è stata da più parti e a più riprese sottoposta a
operazioni di precisazione e riclassificazione. Non essendo questa la sede per passare in rassegna in
modo esaustivo il concetto di sistema distrettuale, né essendo intenzione di chi scrive riportare le
numerose analisi della genesi, della struttura e della evoluzione dei distretti industriali emiliani, ci si
limiterà a riportare la definizione di distretto industriale fornita da Becattini e a tracciare per grandi
linee le caratteristiche peculiari che presentano i distretti industriali emiliani.
Secondo Becattini (1979) la morfologia di un sistema distrettuale può essere riconducibile a tre
livelli: a) l’apparato produttivo; b) le istituzioni di collegamento tra apparato produttivo e comunità
distrettuale; c) la cultura e i valori presenti nelle istituzioni di base ed elementari funzionali al
comportamento distrettuale. Questi tre livelli, secondo lo stesso studioso, risultano interagire tra
loro e proprio tale interazione costituisce “l’identità del distretto”, ossia la prima delle risorse
distintive di un distretto industriale. La seconda delle risorse distintive, invece, è rappresentata dalle
“risorse diffuse di organizzazioni produttive specificatamente orientate”, ovvero squadre di imprese
organizzate intorno a imprese finali. La terza delle risorse distintive è costituita dalle “risorse di
organizzazioni degli interessi per la mediazione tra una distribuzione del reddito che ha il consenso
sociale e la competitività del distretto”. La quarta delle risorse distintive è costituita dalle “risorse di
saper fare e saper apprendere come mediazione e mezzo di trasmissione tra la tradizione e il
progresso tecnico”. La quinta risorsa, infine, è costituita dall’insieme di istituzioni di base o
elementari e dal contesto politico-culturale in grado di trasmettere e tramandare valori e cultura
funzionali alla riproduzione del distretto. Un distretto così definito comporta due importanti
implicazioni: in primo luogo la sostanziale immobilità delle risorse necessarie a far sì che possa
nascere un sistema distrettuale; in secondo luogo il fatto che gli aspetti culturali e valoriali a cui tale
definizione fa riferimento – ai quali in una certa misura è possibile legare, come è stato fatto, anche
concetti come capitale sociale e coesione sociale – risultano essere innervati in un tessuto sociale
derivante da processi culturali e socio-economici di lunga durata (a la Braudel) e non tanto da
politiche intenzionali. Tutto ciò renderebbe il distretto industriale, da una parte, una forma
economica particolarmente delicata, in quanto il sistema distrettuale si regge su un preciso
equilibrio tra risorse e interazioni, ma anche una forma economica dinamica e agile e, quindi, in
grado di adattarsi a diversi scenari competitivi; dall’altra una forma economica non riproducibile
(né tanto meno trasferibile), in quanto il sistema distrettuale rappresenta il prodotto (almeno in una
certa misura) di risorse immobili, la cui genesi e combinazione sono fondate su un principio di
“ambiguità causale” e di path dependence , ma allo stesso tempo e, anzi, proprio per questo, anche
una forma economica attrattrice di forze esterne, le quali per sfruttarne il potenziale sono costrette a
perseguire strategie di investimento nell’area distrettuale e non strategie di disgregazione e
sradicamento di parte di essa dal contesto. Proprio a partire da ciò che si è riportato sopra o dalla
sua parziale messa in discussione si è sviluppato, a partire dagli anni settanta, un ampio dibattito che
di volta in volta ha toccato diversi aspetti del distretto industriale riducibili a due aree
problematiche: le condizioni necessarie per la riproducibilità nel tempo e nello spazio del distretto
industriale e le rispettive politiche (non solo economiche in senso stretto) di sostegno, promozione e
sviluppo; le trasformazioni necessarie del sistema distrettuale per la sostenibilità del vantaggio
competitivo a fronte dei mutamenti che hanno preso piede proprio a partire dagli anni settanta e i
rispettivi costi economici e sociali che tali cambiamenti comportano (tra i quali anche lo
snaturamento della forma economica distrettuale).
Al di là del dibattito che si è sviluppato negli ultimi quaranta anni sui sistemi distrettuali, è
largamente condiviso il fatto che una caratteristica importante del tessuto produttivo dell’area
reggiana e modenese è la presenza di sistemi distrettuali con diverse specializzazioni. I principali e
74
più noti distretti industriali dell’area sono quelli delle macchine agricole (zona di Modena e Reggio
Emilia), del tessile e abbigliamento (zona di Carpi e Correggio) e della ceramica (zona di Sassuolo
e Scandiano). Bertini (1995) individua tre caratteri essenziali della via all’industrializzazione di un
“territorio a industria diffusa” come quello emiliano: a) uno sviluppo industriale “endogeno”,
ovvero uno sviluppo basato su risorse materiali e immateriali tradizionalmente presenti sul
territorio; b) uno sviluppo industriale “indigeno”, ovvero uno sviluppo portato avanti
principalmente da attori locali fortemente legati al territorio; c) uno sviluppo industriale
“spontaneo”, ovvero uno sviluppo basato sulle relazioni individuali e collettive tra attori situati sul
territorio piuttosto che su grandi decisioni di investimenti provenienti dall’esterno. In letteratura,
inoltre, sono frequentemente indicati diversi altri fattori genetici caratteristici dei distretti reggiani e
modenesi tra i quali: il passato agricolo e, in particolare, la diffusione della forma di produzione
mezzadrile e della rispettiva cultura; la presenza, sempre nel passato (negli anni cinquanta), di
“impianti incubatori” (di cui le OMI reggiane costituiscono un esempio calzante); il ruolo svolto
dalle istituzioni politiche, amministrative ed economiche del territorio per agevolare la condivisione
delle risorse presenti nel distretto; un clima di relazioni industriali particolarmente favorevoli (dove
per favorevoli non si intende necessariamente a-conflittuali) (Bertini, 1995; Bianchi, 1997; Brusco,
1989; Nuti, 1992). Oltre che sugli aspetti genetici, molti studiosi si sono poi concentrati sulle
caratteristiche che hanno assunto con il passare del tempo i distretti emiliani e in particolare quelli
modenesi e reggiani. Anche in questo caso la letteratura è vasta, ma la raccolta di ricerche curata da
Cossentino, Pyke e Sengenberger (1997) offre la possibilità di sintetizzare, seppur con una
inevitabile operazione riduzionista, alcune importanti caratteristiche dei distretti industriali emiliani
così come si presentavano nell’ultimo decennio del secolo scorso. Gli autori, rifacendosi ai
contributi di ricerca di diversi altri studiosi, sottolineano diversi aspetti di rafforzamento delle entità
distrettuali emiliane e altri aspetti di potenziale logoramento. Tra i primi sono annoverati: il
persistente dominio all’interno dei sistemi distrettuali delle piccole imprese; la capacità dei distretti
modenesi e reggiani di mantenere la capacità competitiva sui mercati internazionali acquisita in
passato e la conferma della loro integrazione nel mercato globale; la produzione della crescita del
reddito in misura superiore rispetto alla media nazionale (nei settori di appartenenza dei distretti); la
creazione all’interno di sistemi distrettuali di occupazione in misura significativamente maggiore
rispetto alla media nazionale anche durante le congiunture economiche negative; la capacità dei
sistemi distrettuali di mantenere un basso tasso di disoccupazione (molto più basso di quello
nazionale). Tra gli aspetti di potenziale logoramento, invece, sono indicati: l’aumento della
concentrazione industriale e dunque la risposta alla pressione competitiva globale attraverso una
maggior influenza delle imprese maggiori sulle imprese minori; la tendenza all’entrata all’interno
dei sistemi distrettuali di imprese multinazionali attraverso la graduale acquisizione di imprese
locali; la presenza sempre più significativa all’interno dei distretti di processi di decentramento
produttivo verso aree del mondo dove è possibile trarre vantaggio da più bassi costi del lavoro. A
questi aspetti di potenziale logoramento delle entità distrettuali pare necessario aggiungere anche il
ruolo più leggero delle istituzioni politiche ed amministrative del territorio che non sembravano più
in grado di esercitare la stessa funzione esercitata nei decenni precedenti e il brusco cambiamento
delle relazioni industriali rispetto al passato (Brusco e Russo, 1992). Alla vigilia del nuovo secolo,
dunque, lo stato di salute dei distretti di Modena e Reggio Emilia si presentava in chiaroscuro. Negli
anni successivi le tendenze di trasformazione individuate durante gli anni novanta si rafforzarono e
sempre più spesso si sarebbe parlato di crisi strutturale in riferimento ad alcuni distretti del territorio
(come quello del tessile e abbigliamento di Carpi e Correggio) o di inadeguatezza del concetto di
distretto per descrivere ciò che erano diventate le realtà produttive territoriali. Allo stesso tempo,
però, si consolidarono anche le tendenze che, come scritto sopra, durante gli anni novanta erano
state ritenute essere indicatori di consolidamento e maturazione dei sistemi distrettuali di Modena e
Reggio Emilia.
Si è già scritto quanto la propensione all’export sia risultata essere un carattere centrale dei sistemi
distrettuali emiliani. Proprio questa caratteristica negli anni precedenti alla crisi del 2008 sembra
75
essersi accentuata. Rispetto al 2001, nel 2008 la crescita dell’export delle imprese del territorio
modenese si attestava poco al di sotto del 40%, variazione tra le più significative nel panorama
nazionale. Le quote più consistenti del mercato estero risultavano essere intercettate dal settore
meccanico tradizionale (i cui prodotti da soli hanno intercettato quasi un terzo dei mercati esteri
modenesi), dal settore ceramico (nonostante negli ultimi anni abbia perso una parte del suo appeal
estero), dal settore dei mezzi di trasporto e in misura minore dal settore del tessile e abbigliamento e
dal settore alimentare (Venuti, 2009). Risultava simile la tendenza per quel che riguarda l’export
delle imprese reggiane nello stesso arco di tempo considerato (2001 - 2008), anche se in questo caso
già nel 2007 si registrava una flessione delle esportazioni (dunque un anno prima della crisi
economica). Nel caso reggiano le quote più consistenti del mercato estero risultavano essere
intercettate dal settore dei macchinari industriali (i cui prodotti da soli intercettano quasi un terzo
dei mercati esteri reggiani), dal settore dell’abbigliamento, dal settore delle apparecchiature
elettriche ed elettroniche e dal settore alimentare (Freddi, 2010). In generale, negli ultimi 15 anni la
destinazione delle esportazioni modenesi e reggiane ha subito un significativo mutamento: a un
calo, seppur lieve fino all’ultimo periodo, della proporzione delle esportazioni destinate ai Paesi
dell’Unione Europea, ha corrisposto la crescita delle esportazioni verso i Paesi extra UE (in
particolare Turchia, Russia, USA e Marocco), passati dal 5% nel 1995 al 10% nel 2009 (Freddi,
2010; Venuti, 2009). La produzione e il fatturato del settore industriale dell’area reggiana e
modenese hanno conosciuto a partire dall’inizio del nuovo secolo anni di costante crescita. La
natimortalità delle imprese, altro indicatore importante della salute dei sistemi distrettuali,
registrava ogni anno saldi positivi (ISTAT; Sistema Unioncamere Emilia Romagna). Riguardo al
livello di PIL pro-capite delle aree considerate, fino al 2008 le provincie di Modena e di Reggio
Emilia si posizionavano costantemente all’interno delle prime 10 province italiane. Questo dato,
unito al fatto che il tasso di disoccupazione nelle province di Modena e Reggio Emilia registrava fin
dalla fine degli anni novanta livelli frizionali, che da anni si registrava un tasso di occupazione tra i
più elevati nel Paese pur in presenza di un tasso di attività elevato sia per le donne che per gli
uomini, restituisce un quadro dell’area modenese e reggiana di inizio secolo che riflette un alto
livello di benessere diffuso (Freddi, 2010; Venuti, 2009).
Solo con la crisi economica iniziata nel 2008 gli indicatori hanno cominciato a registrare elementi
di criticità. Nel 2009 il volume delle esportazioni è calato drasticamente rispetto agli anni
precedenti. Sia i dati ISTAT che quelli Unioncamere hanno registrato un calo costante del’export
delle imprese del territorio durante il corso del 2009 e timide riprese durante il 2010. La tendenza ad
un complessivo calo del volume delle esportazioni, tuttavia, non sembra essere circoscritta ai
territori del reggiano e del modenese, ma sembra essere diffusa in tutte le province della regione
Emilia Romagna (e in generale di tutto il Paese). Gli indicatori di produzione e fatturato hanno
mostrato durante il 2009 e il 2010 una forte flessione, anche se molto differente a seconda dei
settori di riferimento: il settore agroalimentare, ad esempio, ha mostrato una sostanziale tenuta; il
settore metalmeccanico e quello ceramico sono andati in grande sofferenza; il settore dell’edilizia e
delle costruzioni ha, invece, registrato un crollo verticale sia per quel che riguarda la produzione
che per quel che riguarda il fatturato al punto che in molti intravedono nei dati congiunturali del
settore il preludio di un cambiamento strutturale. Ciò che inoltre appare come un cambiamento
importante rispetto al passato è il saldo negativo della natimortalità delle imprese registratosi nel
2009 dopo molti anni di saldo positivo (ISTAT; Sistema Unioncamere Emilia Romagna).
Nelle graduatorie per provincia relative al PIL pro-capite nel 2009 la provincia di Modena si
collocava in terza posizione a livello regionale, ma Reggio Emilia, che sembra essere stata colpita
in modo più pesante dalla crisi economica, registrava nel 2009 il terzo più basso valore di PIL procapite della regione. Per la prima volta dopo molti anni, inoltre, il tasso di disoccupazione è
significativamente cresciuto attestandosi al 5% nella provincia di Reggio Emilia e al 5,2% nella
provincia di Modena (i tassi di entrambe le province, tuttavia, erano - e sono ancora oggi - ancora
molto più bassi rispetto al tasso di disoccupazione italiano che si attestava nello stesso anno al
7,8%). Ciò che sembra però rappresentare più di ogni altro indicatore lo stato di sofferenza in cui
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versa il sistema socioeconomico modenese e reggiano sono i dati relativi alla cassa integrazione:
nell’area modenese e reggiana l’ammontare delle ore di CIGO e CIGS nel 2009 risulta essere tra le
più elevate d’Italia.
E’ evidente, quindi, che oggi la realtà modenese e reggiana pur registrando performance
economiche superiori alla media nazionale risulta essere in grande sofferenza. Se la crisi economica
determini o meno la necessità di “ripensare” strutturalmente il tessuto produttivo dei sistemi
distrettuali è materia di dibattito, come del resto è materia di dibattito se la crisi economica sia
destinata ad innestare trasformazioni in tutto il contesto socio-economico del territorio a partire
proprio da quelle istituzioni che hanno contraddistinto in passato i sistemi distrettuali emiliani.
1.2 Il tessuto socio-economico e istituzionale di Modena e Reggio Emilia a fronte del fenomeno
immigrazione
Al di là delle trasformazioni del tessuto produttivo che la crisi economica è destinata o meno a
produrre o ad accentuare nelle aree di Modena e Reggio Emilia, questi due territori sono riusciti nel
passato recente e ancora oggi riescono ad esercitare una notevole forza attrattiva nei confronti dei
flussi migratori. In diverse occasioni, nel descrivere le peculiarità dell’inserimento degli immigrati
nel tessuto sociale dell’area reggiana e modenese, è stata sottolineata l’importanza del ruolo del
tessuto istituzionale locale.
Sin dalla fine degli anni ’80, il momento in cui l’Emilia Romagna ha cominciato a conoscere le
prime consistenti ondate di immigrati stranieri, le province di Modena e Reggio Emilia si sono
distinte per la prontezza con cui hanno attivato iniziative e strategie di inserimento sociale dei nuovi
arrivati. Uno dei caratteri distintivi dei territori in questione è stato quello di non limitarsi ad un
approccio emergenziale verso la questione migrazione, ma di andare oltre adottando un approccio di
integrazione strutturale e riconvertendo risorse e strutture in rapporto a nuove tipologie di problemi
che i nuovi arrivati ponevano (Mottura e Rinaldini, 2003). Nel sostenere ciò non ci si riferisce
unicamente alle strutture amministrative delle due province, ma anche a gran parte delle
organizzazioni del territorio coinvolte in diversa misura nella governance locale. Già a partire dagli
anni ’90 le Amministrazioni locali delle due province si sono mostrate fortemente attive in questo
senso. Nel modenese il Comune di Nonantola è stato il primo Comune in Italia ad introdurre il
consigliere comunale aggiunto straniero (eletto dai residenti immigrati) e per molti anni è stato
l’unico Comune ad avere sperimentato questa forma di rappresentanza. Nel 1993 a Modena è stato
istituito il Forum provinciale dell’immigrazione e nel 1996 è nata la Consulta Comunale degli
stranieri residenti come organo della Giunta e del Consiglio comunale. Sempre nel 1996 il CNEL ha
definito Modena “laboratorio nazionale per le politiche migratorie” (Ibidem, 2004). Nel reggiano
durante gli stessi anni sembra essere stata la Provincia ad avere assunto un ruolo da protagonista sul
tema immigrazione (Ibidem, 2004).
Un indubbio merito della legge Turco-Napolitano è stato quello di avere istituito delle risorse
dedicate al tema dell’integrazione sociale degli immigrati (il Fondo Nazionale delle Politiche
Migratorie che durerà dal 1999 al 2003 per poi confluire nel Fondo Nazionale Politiche Sociali). A
partire, quindi, dall’anno 2000, la Regione Emilia-Romagna ha potuto proporre annualmente
(dapprima avendo solo le Province come soggetti attuatori) un “Programma regionale delle attività
per l’integrazione degli immigrati” attraverso risorse previste a livello nazionale, integrate da
risorse regionali per un ammontare di circa 2.500.000 euro l’anno (Stuppini, 2010). Nei primi anni
di programmazione la Regione ha destinato più del 50% delle risorse disponibili a tre aree di
intervento: a) una serie di interventi in ambito scolastico; b) la realizzazione ed il consolidamento di
centri specializzati ed informativi per cittadini stranieri che i comuni hanno realizzato
prevalentemente su base distrettuale individuando una sede centrale ed alcuni sportelli decentrati
nei comuni più piccoli (si tratta di una rete diffusa su tutto il territorio che oggi conta 140 centri
informativi su 341 comuni); c) il consolidamento e lo sviluppo delle attività specifiche di
mediazione interculturale nei servizi (Ibidem, 2010). Successivamente all’approvazione della Legge
189/2002 (Legge Bossi Fini) la Regione Emilia Romagna ha deciso di modificare il proprio
77
impianto normativo in materia di immigrazione. Nel corso del 2003 si è sviluppata un’intensa fase
di confronto con tutti i soggetti interessati e la legge regionale è stata definitivamente approvata dal
Consiglio regionale nel marzo 200463.A seguito dell’approvazione della Legge Regionale 5/2004, la
Regione ha approvato due programmi triennali di attività: il primo, varato nel febbraio 2006, ha
coperto il triennio 2006/2008; mentre il secondo, varato nel dicembre 2008, ha coperto il triennio
2009/2011 (Ibidem, 2010).
Nel primo programma triennale la Regione ha finalizzato gli sforzi nell’implementazione delle
azioni di rilevazione delle implicazioni di una materia che si stava sviluppando ed articolando
sempre di più per poter svolgere al meglio la propria funzione di programmazione. Il secondo
programma triennale della Regione si è focalizzato, invece, sull’obiettivo della coesione sociale.
Dal punto di vista amministrativo il tentativo è stato quello di evitare un’eccessiva frammentazione
dei progetti, con il rischio di una loro dispersione e di un’eccessiva separazione tra accesso ai
servizi e nuove progettualità. Sono state quindi individuate tre grandi priorità generali:
alfabetizzazione, mediazione ed antidiscriminazione (Stuppini, 2010). A partire dai primi anni del
secolo, quindi, la Regione Emilia Romagna ha svolto una azione di orientamento e coordinamento
delle politiche e degli interventi in materia di immigrazione. Il principio base a cui l’azione della
Regione si è ispirata è stato quello di evitare la costruzione di un sistema di welfare (ma anche
sanitario e scolastico) parallelo per gli stranieri. Con il passare del tempo e con la creazione di nuovi
strumenti di governance locale, l’intreccio tra livello comunale, provinciale e regionale sembra
essere diventato più stretto e più complesso. In altri termini i Piani di Zona, i Piani Territoriali di
Intervento e i Tavoli di Concertazione hanno svolto sempre di più la funzione di integrazione tra i
diversi livelli amministrativi e tra diverse zone amministrative e, soprattutto, hanno assunto un
ruolo centrale nell’indirizzare le politiche e gli interventi rispetto alla questione immigrazione e nel
coinvolgimento di attori e organizzazioni del territorio. Non a caso un altro tratto distintivo dei
territori provinciali di Modena e Reggio Emilia (e in generale di tutta l’Emilia Romagna) è il
coinvolgimento e la forte interdipendenza tra gli enti locali e gli attori del privato sociale presenti
sul territorio non solo a livello di finanziamento economico ma anche a livello progettuale e
gestionale degli interventi. Ciò non significa naturalmente che tutti gli interventi e le azioni messe
in atto durante gli ultimi anni siano state frutto di concertazione e accordi tra i diversi attori e gli
enti locali. E’ vero, tuttavia, che nelle province di Modena e Reggio Emilia gli interventi promossi
da quella parte del terzo settore (associazioni di volontariato, cooperative sociali, ecc …) che si
occupa in diverso modo di immigrazione risultino essere fortemente integrati con l’azione delle
Amministrazioni locali. Le stesse associazioni degli immigrati nelle due province rappresentano una
realtà importante (anche su un piano meramente numerico) con la quale le istituzioni del territorio
sembrano avere costruito negli anni un solido rapporto (anche se non privo di elementi di criticità)
(Mottura, 2003; Mottura, Pintus e Rinaldini, 2011).
Relativamente alle organizzazioni sindacali, è noto come in Emilia Romagna risulti esserci il tasso
di sindacalizzazione della popolazione immigrata più alto in Italia (Caritas/Migrantes, 2010).
Diversi studi hanno enfatizzato come i sindacati in Emilia Romagna siano stati tra i primi in Italia a
prendere atto dei cambiamenti che si stavano verificando a causa dei processi di immigrazione tra la
popolazione e come abbiano avuto la capacità di organizzare le proprie strutture per far fronte a tali
trasformazioni fin dalla fine degli anni ottanta (Basso, 2004; Mottura e Pinto, 1996). Il rapporto tra
la popolazione immigrata e la CGIL dell’Emilia Romagna, la confederazione territoriale che conta
in termini assoluti più iscritti immigrati in Italia, è stata in più occasioni studiato (Mottura, 2002;
Mottura, Cozzi e Rinaldini, 2010; Rinaldini, 2008). All’interno di questo scenario le CGIL dei
territori di Modena e Reggio Emilia si distinguono per avere le percentuali di iscritti immigrati più
alte in regione, per essere centri di aggregazione per gli immigrati residenti sul territorio (iscritti e
non iscritti) (Pintus e Rinaldini, 2010) e per essere state tra le prime strutture territoriali in regione
63
L.R. N.5/2004. BUR N.40 del 25 marzo 2004. La legge contiene un impianto culturale basato sul concetto di parità di
diritti e doveri in una linea di “interculturalità”. Non si iscrive, quindi, nel filone culturale delle affirmative actions di
stampo anglosassone (cioè dare di più, in termini di garanzie minime, ai soggetti più deboli).
78
ad essersi attrezzate per accogliere e rappresentare quelli che sono stati definiti da Mottura e
Rinaldini (2009) i “nuovi soggetti sociali” per il sindacato. Anche le associazioni imprenditoriali del
territorio hanno mostrato negli anni passati una certa sensibilità nei confronti del fenomeno
immigrazione. Oltre ai numerosi studi promossi a partire dagli anni novanta, spesso le associazioni
imprenditoriali della regione sono state coinvolte all’interno di pratiche di governance locale e
altrettanto spesso sono state protagoniste nel dibattito pubblico sulla questione immigrazione.
Nonostante ciò, non si sono registrati, fatta eccezione per lo sportello CNA-World della
Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa, interventi specifici
delle organizzazioni imprenditoriali sulle proprie strutture locali per far fronte alla crescita della
popolazione immigrata in regione (né nei confronti dei lavoratori impiegati nelle imprese associate,
né nei confronti degli imprenditori immigrati). Indubbiamente il susseguirsi di governi di sinistra e
centro-sinistra nelle due province di Modena e Reggio Emilia (oltre che della Regione Emilia
Romagna) ha lasciato un segno sul sistema governance che si è sviluppato in queste aree territoriali
e in particolare sul tipo di politiche in materia di immigrazione che sono state implementate a livello
locale. La questione di quanto la continuità politica a livello amministrativo abbia influito sul tipo di
approccio al fenomeno migratorio meriterebbe di essere indagata più a fondo, ma per tutto ciò che è
stato scritto sopra anche in riferimento ai distretti industriali territoriali, è lecito domandarsi, come
fanno Mottura e Rinaldini (2003), se la ricchezza economica delle due città, basata su un tessuto
industriale e produttivo moderno, e il peso della tradizione politica di sinistra che in passato ha
messo al centro il valore della solidarietà dei lavoratori stiano alla base del fatto che spesso i
lavoratori immigrati, oltre ad essere stati ricercati (wanted) risultino essere stati, almeno in un primo
momento, anche benvenuti (welcome). E’ altrettanto lecito domandarsi, tuttavia, quanto questo tipo
di governance e questo tipo di orientamento nei confronti degli immigrati e della questione
immigrazione siano destinate a rimanere tali a fronte delle profonde trasformazioni del tessuto
produttivo che si sono verificate in questi ultimi anni (e di cui si è accennato nelle pagine
precedenti), del continuo incremento della popolazione immigrata (come si capirà nelle pagine
successive), dei cambiamenti avvenuti su un piano politico-culturale all’interno degli stessi partiti di
sinistra e di centro-sinistra e, non ultimo per importanza, della crescita a livello locale delle
formazioni politiche di destra e centro-destra. Nelle tornate elettorali più recenti, infatti, i partiti di
centro destra sono indiscutibilmente cresciuti e hanno aumentato il loro peso sul territorio. Nei due
comuni capoluogo lo schieramento di centro-sinistra, pur mantenendo una larga maggioranza, è
arretrato elettoralmente a favore dei partiti dello schieramento opposto. Alcune amministrazioni
comunali delle provincie di Modena e Reggio Emilia, inoltre, hanno cambiato segno e sono oggi
amministrati da partiti di centro-destra. E’ la Lega Nord in particolare ad essere sorprendentemente
cresciuta negli ultimi anni soprattutto a Reggio Emilia. L’immigrazione è stata una delle principali
questioni su cui le ultime campagne elettorali a livello locale si sono concentrate. Grande spazio,
infatti, è stato dato al fenomeno migratorio e alle caratteristiche che presenta la presenza immigrata
sul territorio. Ciò che è stato notato dopo i risultati elettorali, tuttavia, è che la crescita elettorale
della Lega Nord nei comuni delle due provincie non sembra presentare delle correlazioni
significative rispetto alla presenza degli immigrati. In altri termini la crescita elettorale della Lega
Nord non è avvenuta nei comuni dove la presenza degli immigrati risulta essere più alta. Al
contrario la Lega Nord si è affermata in particolare nei comuni della zona della montagna e nelle
aree del distretto ceramico, dove la presenza degli immigrati è tra le più basse. Tuttavia, è stato fatto
notare, in quelle zone si è registrata negli ultimi anni una crescita della popolazione immigrata
maggiore rispetto ad altre zone del territorio di Modena e Reggio Emilia e questo potrebbe avere
avuto un certo peso nell’affermazione della Lega. E’ interessante, comunque, il fatto che sia nel
caso di Modena che nel caso di Reggio Emilia le criticità attribuite al fenomeno immigrazione
all’interno dei discorsi pubblici dei diversi schieramenti durante il periodo elettorale non solo sono
state le stesse, ma hanno anche mostrato la medesima tendenza a trasformarsi verso una direzione
precisa. Il binomio criminalità-immigrazione, infatti, pur rimanendo una costante all’interno dello
spettro delle problematiche individuate dallo schieramento dei partiti di centro-destra a livello
79
locale è stato gradualmente assunto come problema anche dallo schieramento di centro-sinistra
(anche se a dire il vero è stato declinato in termini differenti rispetto allo schieramento opposto).
Contemporaneamente nel discorso portato avanti dallo schieramento di centro-destra sembra trovare
sempre più spazio la questione immigrazione e welfare locale. Non a caso la questione a cui il
centro-destra ha rivolto l’attenzione durante le recenti elezioni amministrative è stato quello
dell’accesso degli immigrati alle case popolari e dei figli degli immigrati agli asili nido e alle scuole
dell’infanzia comunali. Il protrarsi del momento di crisi economica lascia supporre che queste
tematiche siano destinate ad essere sempre più presenti ed oggetto di confronto all’interno
dell’arena politica locale. Andall (2007), tuttavia, ben prima dell’inizio della crisi economica
internazionale, attraverso l’esposizione dei risultati di una ricerca sulle condizioni di lavoro degli
immigrati impiegati in piccole imprese effettuata in una regione italiana caratterizzata dalla
presenza di distretti industriali, sosteneva che fattori come la trasformazione della regolamentazione
del mercato del lavoro e le nuove politiche in materia di immigrazione contribuivano in modo
significativo a peggiorare le condizioni di lavoro degli immigrati impiegati nelle piccole imprese
dei sistemi distrettuali. Proprio questi fattori, secondo Andall, contribuirebbero a minare alla base la
coesione sociale che ha contraddistinto i contesti in cui i distretti industriali si sono sviluppati. Tutto
ciò, quindi, rappresenterebbe un problema per i sistemi distrettuali e per il mantenimento del loro
livello di competitività a prescindere dal periodo di crisi.
2 – Il fenomeno migratorio a Modena e Reggio Emilia
2.1 Evoluzione dei flussi di immigrazione straniera a Modena e Reggio Emilia
Durante gli anni novanta le province di Modena e Reggio Emilia si sono affermate come territori
fortemente attrattivi nei confronti dei flussi migratori internazionali. L’inizio del fenomeno di
immigrazione però è situabile almeno due decenni prima: già durante gli anni settanta, infatti, a
Modena e Reggio Emilia i flussi migratori provenienti dall’estero si sovrapponevano a quelli
provenienti dalle regioni del sud Italia e nel corso della prima parte degli anni ottanta la presenza di
immigrati stranieri aumentò costantemente (Rinaldini, 2008)64. A cavallo della L. 943/86 e della
relativa micro-sanatoria, la presenza la popolazione immigrata a Reggio Emilia e a Modena, come
in tutto il resto d’Italia, crebbe considerevolmente. Se nella prima parte del decennio l'incremento
medio annuo di cittadini stranieri in Italia aveva segnato il 9%, nel biennio 1987-1988 l'incremento
si attestò al 22%. In Emilia Romagna si verificò la stessa tendenza leggermente più accentuata: si
passò da un incremento medio annuo dell'8% durante la prima parte degli anni ottanta ad un
incremento del 23% nel biennio 1987-198865. All’interno della regione i centri industriali di Parma,
Modena, Reggio Emilia e Bologna cominciarono a distinguersi come poli attrazione per i flussi
migratori (Montanari, 1990).
Gli anni immediatamente seguenti il 1990, in un clima politico-sociale diviso tra atteggiamenti
allarmistici e solidaristici, la sanatoria legata alla L. 39/1990 (Legge Martelli) portò alla
regolarizzazione di più di 200.000 immigrati su tutto il territorio nazionale. Nello stesso periodo si
64
I primi immigrati stranieri provenivano prevalentemente dai paesi del nord Africa (in particolare dall’Egitto e dal
Marocco) (Einaudi, 2007; Grappi e Spagni, 1981). La quantificazione dell’entità del fenomeno migratorio in questa
prima fase costituisce un aspetto problematico in quanto le cifre disponibili sono contraddittorie. Le rilevazioni non
erano effettuate dagli Enti Locali in maniera sistematica e questo ha comportato inevitabilmente un gap di conoscenza
del fenomeno sul piano quantitativo. Solo a partire dai primi anni ‘80 sono stati svolti studi e sono state effettuate
rilevazioni e analisi dei dati disponibili. Il censimento del 1971, tuttavia, aveva mostrato che in Emilia Romagna
risiedevano già a quella data 7.358 stranieri. Dieci anni dopo il numero di stranieri residenti in regione era raddoppiato:
al censimento del 1981 gli stranieri erano 16.086 (Montanari, Angeli e Pasquini, 1987).
65
Più che di una vera e propria crescita della presenza reale degli immigrati, si trattò dell’emersione da una condizione
di irregolarità di una parte di immigrazione che fino ad allora era sfuggita alle rilevazioni.
80
registrò un incremento importante degli stranieri nel territorio di Reggio Emilia e Modena66.
Nonostante la sensazione diffusa fosse quella di una crescita sostenuta e veloce degli arrivi degli
immigrati, si trattava in realtà dell’emersione di immigrati da una situazione di irregolarità del
soggiorno più che del vero e proprio arrivo di “nuovi immigrati” dall’estero. Ciò che, tuttavia,
cominciava ad emergere con sempre più nitidezza era il fatto che, in un quadro generale in cui gli
immigrati, una volta acquisito il permesso di soggiorno, tendevano a spostarsi verso il nord Italia,
Reggio Emilia e Modena esercitavano nei confronti di questa “migrazione nella migrazione” una
forte forza attrattiva. Tutte le regioni della “terza Italia” con i relativi centri urbani di media
dimensione e i tessuti produttivi ad industria diffusa svolgevano una funzione attrattiva nei
confronti dei flussi migratori e i territori di Reggio Emilia e di Modena, in cui le piccole e medie
imprese manifatturiere da anni avevano cominciato a lamentare carenza di manodopera, si
ponevano come meta ideale per un flusso di immigrati in cerca di una stabilizzazione lavorativa.
Dal 1991 al 1998 i cittadini stranieri residenti nella provincia di Reggio Emilia che possedevano un
permesso di soggiorno passarono da 6.142 a 13.308 unità, mentre a Modena da 8.373 a 15.238
(RER, 2005).
Quattro anni dopo, successivamente alla sanatoria legata alla Legge 40/1998 (Legge TurcoNapolitano, in seguito trasfusa nel T.U. 286/1998) e alla vigilia della Legge 189/2002 (Legge
Bossi-Fini) gli immigrati regolarmente residenti nelle province di Modena e Reggio Emilia erano
rispettivamente 23.605 e 20.200 (RER, 2005). Se gli anni a cavallo del secolo furono anni di
importante crescita della popolazione immigrata sul territorio delle due province (in un contesto
italiano che vedeva una crescita sostenuta su tutto il territorio nazionale), fu il periodo successivo
alla Legge 189/2002 (Legge Bossi-Fini) e alla rispettiva sanatoria che ha segnato un passaggio
decisivo per il volume della presenza degli immigrati a Reggio Emilia e a Modena.
Nella provincia di Reggio Emilia alla fine del 2003 gli immigrati residenti risultavano quintuplicati
rispetto al 1993. In un solo anno, inoltre, la popolazione immigrata sul territorio crebbe di circa
10.000 unità (da 20.000 nel 2002 a più di 30.000 nel 2003). A Modena nello stesso anno si registrò
un trend simile: più 13.000 unità (da 25.000 a più di 38.000) (RER, 2005). Negli anni successivi le
provincie di Modena e Reggio Emilia hanno registrato una incidenza di residenti immigrati sul
totale della popolazione residente tra le più elevate in Italia. Al 31/12/2007, in un quadro nazionale
di forte crescita della popolazione immigrata, gli immigrati regolarmente residenti a Reggio Emilia
e a Modena ammontavano rispettivamente a 52.420 e a 67.320, l’anno dopo a 59.429 e 76.282 e al
31/12/2009 a 64.511 e 82.596 (RER, 2010). Le due provincie di Reggio Emilia e Modena
possedevano nel 2009 l’incidenza in percentuale dei cittadini stranieri sul totale della popolazione
provinciale più elevata in regione dopo Piacenza (rispettivamente del 12% e dell’11,5%)67. A
partire dal 2008 Reggio Emilia e Modena, rispetto alle altre province dell’Emilia Romagna, hanno
registrato il maggior numero di cittadini stranieri residenti con un permesso di soggiorno di lunga
durata (Reggio Emilia, 17.873; Modena, 18.018) e le incidenze in percentuale più alte di possessori
di un permesso di lunga durata sul totale della popolazione immigrata (Reggio Emilia, 18,6%;
Modena, 18,8%).
Nell’ultimo decennio il numero di acquisizioni della cittadinanza italiana nelle due province è
risultato essere in termini assoluti secondo e terzo solo a Bologna (ma se si considera il numero di
acquisizioni della cittadinanza rispetto al numero di immigrati residenti in provincia, Modena e
Reggio Emilia si collocano tra le prime posizioni in Italia).
Una differenza significativa tra Modena e Reggio Emilia riguarda i primi cinque paesi di
provenienza degli immigrati: a Modena i primi cinque paesi di provenienza degli immigrati
66
A Reggio Emilia al 31-08-1990, circa due mesi dopo l’entrata in vigore della sanatoria, risultavano presenti 3.813
cittadini stranieri e al 30.06.1991, solo dieci mesi dopo, il numero era salito a 5.074; a Modena si registrò un aumento di
proporzioni simili anche se l’incidenza degli stranieri sul totale della popolazione risultava più bassa rispetto a quella
che si registrava a Reggio Emilia (Zanaboni e Guerra, 2000).
67
In molti comuni del modenese e del reggiano l’incidenza degli immigrati sul totale della popolazione provinciale oggi
supera abbondantemente il 15% e in alcuni anche il 20%.
81
risultano essere Marocco, Romania, Albania, Tunisia e Ghana; a Reggio Emilia invece risultano
essere Marocco, Albania, India, Cina e Romania. In generale l’incidenza della componente rumena
sul totale della popolazione immigrata nelle due province è cresciuta notevolmente a partire dal
2003. Incrementi simili hanno riguardato la componente moldava e quella ucraina (anche se tali
componenti non rientrano all’interno delle prime cinque nazionalità presenti nelle due province).
Risultano evidenti, quindi, le caratteristiche del recente cambiamento della popolazione immigrata
presente sul territorio per quel che riguarda le provenienze geo-culturali: nonostante la componente
magrebina della popolazione immigrata (e più in generale la componente nord-africana) mantenga
ancora oggi il primato, negli ultimi anni la componente della popolazione immigrata proveniente
dai paesi dell’Europa centro-orientale (e più in particolare dai paesi ex-socialisti) risulta essere in
forte crescita.
Già da diversi anni nell’area reggiana e modenese circa il 50% degli immigrati regolarmente
residenti erano donne. Nel complesso dunque si è registrato un processo di sostanziale equilibrio tra
i generi, anche se la composizione di genere varia molto da una nazionalità all’altra: nettamente
prevalenti le donne tra gli immigrati ucraini e moldavi; rapporto tra generi sostanzialmente
equilibrato tra gli immigrati rumeni; negli altri gruppi nazionali, invece, la componente maschile
risulta essere sempre prevalente (RER, 2010).
Reggio Emilia e Modena risultano essere anche le due province in Emilia Romagna con le
percentuali maggiori di minori stranieri sul totale della popolazione immigrata residente. Nel 2008 a
Reggio Emilia i minori stranieri rappresentavano il 25,7% del totale degli immigrati residenti,
mentre a Modena il 24,7% (nel 2008 la media regionale era del 23,1%). I minori stranieri inseriti
nel sistema scolastico (comprensivo degli asili nido e delle scuole dell’infanzia) nelle due province
risultano essere a Reggio Emilia il 6,85% del totale dei minori inseriti e a Modena il 6,56%.
E’ evidente, dunque, che il fenomeno migratorio nelle provincie di Reggio Emilia e Modena si
presentava alla vigilia della crisi come un fenomeno fortemente dinamico (e, come si capirà meglio
nei prossimi paragrafi, anche complesso). Le caratteristiche dell’immigrazione nei territori di
Modena e Reggio Emilia sono mutate diverse volte durante i 30 anni passati. In riferimento al solo
dato quantitativo, ciò che risulta significativo è la velocità con cui il fenomeno dell’immigrazione è
nato, si è affermato ed è cresciuto nell’area presa a riferimento e soprattutto la capacità del tessuto
economico e sociale di assorbire un così grande flusso di nuovi venuti. Non ci si scordi, infatti, che
parallelamente al flusso di immigrati stranieri Reggio Emilia e Modena in questi ultimi trenta anni
hanno rappresentato la meta anche di un ingente flusso migratorio proveniente dal sud Italia.
Reggio Emilia è una delle città capoluogo (oltre che una delle province) in Italia la cui popolazione
residente è cresciuta di più negli ultimi 15 anni. La popolazione delle due province, quindi, è
cambiata profondamente e proprio all’interno di questo generale cambiamento demografico si
inserisce l’immigrazione straniera. Rispetto ai dati qualitativi del processo, invece, è evidente che le
caratteristiche dei flussi migratori nei territori di Modena e Reggio Emilia lasciano trasparire la
stabilizzazione del fenomeno e il radicamento della popolazione immigrata. Nemmeno la crisi
economica degli ultimi anni, infatti, sembra avere scalfito la forza attrattiva delle due province
emiliane nei confronti dei flussi migratori.
2.2 L’inserimento degli immigrati nel mercato del lavoro e nella struttura occupazionale locale
Le prime presenze di lavoratori stranieri all’interno del tessuto produttivo delle provincie di
Modena e di Reggio Emilia sono collocabili nella seconda metà degli anni settanta (Einaudi, 2007;
Capecchi, 1978; Grappi e Spagni, 1981; Rinaldini, 2003). Già nei primi anni ottanta era chiaro che
il tessuto produttivo del territorio esprimeva un fabbisogno lavorativo a cui l’offerta di lavoro locale
non riusciva a rispondere. Fin da allora il tessuto industriale del territorio si dimostrava
particolarmente attrattivo nei confronti della manodopera straniera.
Durante la prima parte degli anni ottanta la provincia di Reggio Emilia deteneva il primato
regionale per quel che riguarda gli stranieri occupati nel settore industriale (Rinaldini, 2003). Alla
fine degli anni ottanta l’incidenza degli avviamenti lavorativi degli immigrati nel settore industriale
82
sul totale degli avviamenti lavorativi degli immigrati nello stesso settore a Reggio Emilia e a
Modena era del 67% (le più alte di tutta la regione) (Minardi, 1991). Dieci anni dopo, alla fine degli
anni novanta, era evidente che l’inserimento degli immigrati nel mercato del lavoro locale di tutta la
regione Emilia Romagna aveva assunto una dimensione strutturale. Il passaggio della legge BossiFini fu, tra le altre cose, anche un momento chiarificatore delle caratteristiche della posizione che
gli immigrati andavano a ricoprire nella struttura occupazionale. Secondo l’Osservatorio del
Mercato del Lavoro dell’INAIL, tra il 2000 e il 2001 furono effettuate in regione 60.072 nuove
assunzioni di lavoratori immigrati. Negli anni successivi si è registrato un costante aumento del
numero delle assunzioni: 72.573 nel 2002; 87.534 nel 2003 (anche per effetto anche della
sanatoria); 85.224 nel 2004 (pari al 10,9% delle assunzioni totali registrate in regione)
(Caritas/Migrantes, 2005).
Nello stesso periodo Reggio Emilia e Modena registrarono un aumento sorprendente delle
assunzioni di lavoratori immigrati (all’incirca +3.000 all’anno) e soprattutto parallelamente
all’aumento generale delle assunzioni di lavoratori stranieri continuavano i processi di
femminilizzazione e di terziarizzazione della componente immigrata dei lavoratori. A Reggio
Emilia per esempio nel 2002 le assunzioni di donne immigrate mostrarono un drastico incremento
del 57%, mentre quelle maschili aumentarono solo del 19% (Osservatorio Economico della
Provincia di Reggio Emilia, n.82). Allo stesso tempo si creò proprio in questo periodo per la prima
volta dall’inizio del fenomeno migratorio nella regione emiliano romagnola un equilibrio tra
assunzioni di lavoratori stranieri nel settore dei servizi e assunzioni di lavoratori stranieri nel settore
industriale. Nel valutare le ragioni di tale riequilibrio tra le assunzioni dei due settori si deve tenere
conto dell’esplosione/emersione durante la sanatoria del 2002 del fenomeno badanti.
Quattro anni più tardi sulla base della banca dati INAIL nel 2006 risultavano occupati in Emilia
Romagna 227.000 lavoratori dipendenti stranieri, il 15,3% del numero complessivo di occupati (nel
2005 la percentuale era del 14,4%) (Caritas/Migrantes, 2007). Se si considera la componente dei
soli lavoratori stranieri dipendenti registrati nella banca dati dell’INAIL, il raffronto tra l’Italia e
l’Emilia Romagna mostra significative differenze per quel che riguarda la provenienza degli
immigrati. I lavoratori non-comunitari presenti in Emilia Romagna si concentravano
prevalentemente nei settori dell'industria, delle costruzioni, nel settore alberghiero, nei servizi alle
imprese e in agricoltura (Caritas/Migrantes, 2007). I dati INAIL, tuttavia, sottostimano, per un
difetto strutturale della rilevazione, il fenomeno delle lavoratrici che svolgono attività di cura alla
persona in ambito domestico (le badanti). Un altro corpo di dati in grado di fornire informazioni
preziose riguardo la capacità di attrazione del tessuto produttivo regionale nei confronti dei flussi di
forze di lavoro immigrate (tenendo conto anche delle dimensioni del lavoro di cura) è quello che
riguarda le quote annuali. Il numero delle domande di assunzione di immigrati extracomunitari
presentate in Emilia Romagna durante il 2007 era secondo solo a quello della Lombardia e a livello
provinciale presentava dei picchi nelle città di Reggio Emilia e Modena. Nonostante ogni anno la
maggioranza delle domande di assunzione presentate all’apertura delle quote fossero (e sono ancora
oggi) destinate ad essere respinte, le domande rappresentavano (e rappresentano ancora oggi) nella
gran parte dei casi lavoratori immigrati che già lavoravano - o per lo meno risiedevano
irregolarmente - sul territorio regionale. Le analisi dei diversi mercati del lavoro provinciali
all’interno della regione svolte alla stessa data, inoltre, mettevano in luce come la presenza degli
immigrati risultasse essere in rapporto di quasi perfetta proporzione inversa rispetto ai tassi di
disoccupazione provinciali: minore era il tasso di disoccupazione - Reggio Emilia, Modena,
Bologna - maggiore era la presenza di immigrati (Caritas/Migrantes, 2008). Va aggiunto che
sempre per le stesse analisi le tre province di Bologna, Modena e Reggio Emilia accoglievano la
larga maggioranza dei lavoratori dipendenti stranieri presenti in regione, anche se le province in cui
la presenza di immigrati e l’occupazione degli immigrati era stata storicamente inferiore (Ferrara,
Ravenna, Forlì e Cesena) registravano in quegli anni una forte crescita degli occupati immigrati. In
altri termini l’asse della Via Emilia si confermava un polo d’attrazione interno alla regione (a sua
volta un polo d’attrazione nel contesto italiano) anche se contemporaneamente cresceva il processo
83
di distribuzione territoriale degli immigrati e il loro inserimento lavorativo nelle altre province
emiliano romagnole.
Tra gli studiosi dei processi migratori in Italia sembra essere ormai assodato il fatto che la presenza
di un tessuto di piccole e medie imprese manifatturiere nelle province di Parma, Reggio Emilia,
Modena e Bologna ha offerto agli immigrati opportunità di lavoro significativamente migliori non
solo rispetto a quelle presenti in altre aree del paese, ma anche rispetto a quelle presenti in altre
province della stessa Regione Emilia Romagna. Nel quinquennio 2004-2008 Reggio Emilia è
risultata essere la terza provincia in regione per numero totale di lavoratori dipendenti non
comunitari e Modena la seconda (RER, 2010). Se i dati e le analisi riportate sopra indicano
chiaramente quanto quello dell’Emilia Romagna sia risultato essere per gli immigrati un mercato
del lavoro ricco di opportunità è necessario anche tenere presente che diverse fonti, compresi gli
stessi dati ISTAT, indicano la larga diffusione di contratti di lavoro non-standard tra gli immigrati
che lavoravano in Emilia Romagna. I dati dell’Osservatorio regionale sul fenomeno migratorio a
giugno del 2009 fanno emergere quanto sia diffuso il lavoro in somministrazione degli immigrati
non comunitari in Emilia Romagna rispetto al resto d’Italia. Se la percentuale di lavoratori interinali
non comunitari in Italia a giugno del 2009 era del 16,86%, in Emilia Romagna era del 20,56%. Il
settore economico in cui i lavoratori interinali non comunitari risultavano essere maggiormente
impiegati nel 2008 è quello industriale (64,74%) e in misura molto minore quelli del commercio
(8,55%), dei servizi alle imprese (7,70%) e dell’alberghiero e ristorazione (6,43%) (RER, 2010).
In questo senso Reggio Emilia e Modena, secondo la stessa fonte, rappresentavano realtà avanzate
all’interno della Regione. Reggio Emilia, infatti, era la seconda provincia della regione per numero
di lavoratori interinali non-comunitari (e la prima per incidenza di lavoratori immigrati interinali sul
totale dei lavoratori interinali presenti in provincia) e Modena la terza (la prima provincia era
Bologna) (RER, 2010). Il significativo inserimento degli immigrati nella fascia del mercato del
lavoro atipico regionale in realtà non costituiva una vera e propria novità degli ultimi anni. Nel
2003, la Regione Emilia Romagna pubblicò i risultati di una ricerca sul lavoro interinale in regione
che permisero di fare emergere, tra le altre cose, una significativa sovra-rappresentazione dei
contratti in somministrazione lavoro tra gli immigrati e soprattutto una sovra-rappresentazione
ancora più significativa di alcune nazionalità rispetto ad altre (RER, 2003). Tre anni dopo, nel 2006,
la stessa Regione Emilia Romagna pubblicò i risultati dell’analisi dei dati dei Centri per l’impiego
della regione sul 2004 riguardanti la tipologia dei rapporti di lavoro degli immigrati non-comunitari.
Dai dati emergeva ancora una volta in modo piuttosto evidente che il peso in percentuale dei
contratti di lavoro a tempo determinato non era affatto insignificante. Circa il 50% dei soggetti
considerati possedeva un contratto a tempo determinato, circa il 44% possedeva un contratto a
tempo indeterminato e circa il 6% ne possedeva uno di inserimento lavorativo (RER, 2006). Dagli
stessi dati inoltre emergeva il fatto che per quel che riguarda gli avviamenti al lavoro, il rapporto tra
contratti a tempo determinato e contratti a tempo indeterminato era di due a uno e che il raffronto
con il dato relativo agli italiani restituiva differenze significative (RER, 2006). E’ evidente, quindi,
che l’inserimento degli immigrati nel mercato del lavoro è stato accompagnato e si è intersecato con
il graduale processo di flessibilizzazione di quest’ultimo.
La crisi economica internazionale degli ultimi anni sembra avere accentuato le tendenze
occupazionali degli anni precedenti. A fronte di una costante alta presenza di lavoratori immigrati
nel mercato del lavoro e nella struttura occupazionale delle due province, la cui incidenza sul totale
dei lavoratori dipendenti continua ad essere più alta rispetto a quella nazionale e regionale (si veda
la tabella riportata sotto), sembra che negli ultimi due anni sia aumentata considerevolmente la
componente di lavoratori immigrati con contratti non-standard.
84
Assicurati netti. Distribuzione dei lavoratori dipendenti per area di provenienza in Emilia
Romagna, Reggio Emilia e Modena. Dati aggiornati a giugno 2009.
Italia
%
Ue
%
Extra Ue %
Totale
165.201 82,2
6.689
3,3 29.090
14,47
200.980
Reggio Emilia
215.748 80,4
12.150
4,5 40.531
15,1
268.429
Modena
1.303.010 81,1
90.494
5,6 212.439
13,23
1.605.943
Emilia Romagna
Fonte: RER, 2010 su dati INAIL
A giugno del 2009 i lavoratori stranieri con un contratto di somministrazione lavoro nella provincia
di Modena ammontavano a quasi 3.100 su un totale di 11.716 lavoratori interinali e nella provincia
di Reggio Emilia a quasi 3.500 su un totale di 10.739. L’incidenza dei lavoratori stranieri con un
contratto di somministrazione nelle due provincie emiliane risultava essere decisamente superiore
rispetto a quella nazionale e nel caso di Reggio Emilia di molto superiore anche a quella regionale.
Assicurati netti. Distribuzione dei lavoratori con contratto di somministrazione per area
di provenienza in Emilia Romagna, Reggio Emilia e Modena. Dati aggiornati a giugno
2009.
Italia
%
Ue
% Extra Ue
%
Totale
7.255
67,6 594
5,5 2.890
26,9 10.739
Reggio Emilia
8.647
73,8 725
6,2 2.344
20,0 11.716
Modena
44.385
72,4 4.348
7,1 12.613
20,6 61.346
Emilia Romagna
Fonte: RER, 2010 su dati INAIL
2.3 Le interpretazioni riguardo l’inserimento degli immigrati nel mercato del lavoro locale e il loro
posizionamento nella struttura occupazionale
La breve ricostruzione dei processi migratori e dell’inserimento degli immigrati nel mercato del
lavoro locale che è stata fatta nelle pagine precedenti fa emergere una realtà caratterizzata da una
spiccata capacità di attrazione nei confronti dei flussi. La veloce e consistente crescita di
manodopera immigrata, la femminilizzazione della componente immigrata del mercato del lavoro e
la graduale terziarizzazione di tale componente parallela ad una persistente presenza di immigrati
nelle piccole e medie imprese manifatturiere (ciò che caratterizza in modo netto Reggio Emilia e
Modena da altre realtà italiane) sono le principali caratteristiche che emergono dai dati
precedentemente riportati. Inoltre, come si è scritto, l’inserimento degli immigrati nel mercato del
lavoro locale ha accompagnato e si è intrecciato con le trasformazioni di quest’ultimo e in
particolare con la ricerca di flessibilità attraverso l’istituzione e la regolamentazione di diverse
tipologie di rapporto di lavoro. Se i dati, quindi, sono in grado di restituire un quadro piuttosto
nitido delle capacità attrattive che il tessuto produttivo locale possiede nei confronti dei flussi
migratori, durante i tre decenni passati diversi studi hanno tentato di andare oltre, fornendo
interpretazioni più articolate dell’incontro tra manodopera immigrata e tessuto produttivo locale.
2.3.1 L’attrazione di lavoratori immigrati come risposta al fabbisogno locale di lavoro qualificato:
affermazione e declino di una interpretazione dell’inserimento degli immigrati nel mercato del
lavoro locale
Lo studio di Grappi e Spagni, già citato nelle pagine precedenti, tentava già nel 1981 di avanzare
una ipotesi sul motivo per cui nelle piccole e medie imprese manifatturiere di Reggio Emilia fossero
occupati molti immigrati stranieri rispetto alle altre province italiane (Grappi, E. e Spagni, P.,
1981). Dallo studio (una indagine su un campione di alcune centinaia di immigrati provenienti da
paesi nord africani) emergeva il fatto che l’estrazione sociale di quei primi immigrati (soprattutto la
componente egiziana, ma anche quella marocchina) era prevalentemente urbana, che in media la
loro scolarizzazione era piuttosto elevata e che il mestiere svolto nel paese di origine prima della
migrazione era spesso quello di operaio in una piccola impresa o di artigiano. Il tessuto produttivo
del territorio di Reggio Emilia e il suo apparato di piccole e medie imprese - e in particolare di
85
piccole e medie imprese metalmeccaniche - secondo gli autori, risultava essere funzionale ai
requisiti dell’offerta di lavoro dei soggetti immigrati. In altri termini i soggetti immigrati sarebbero
stati attratti dalla possibilità di attutire il trauma dell’esperienza migratoria attraverso la
prosecuzione della loro specifica carriera lavorativa e la capitalizzazione della professionalità
acquisita in passato nei paesi di origine. Ciò era reso possibile dal fatto che le imprese avevano
iniziato ormai da alcuni anni ad avere difficoltà a reperire manodopera autoctona qualificata ed
erano quindi alla ricerca di altri bacini di manodopera. In effetti, i risultati della ricerca mostravano
che più del 65% dei soggetti immigrati compresi nel campione analizzato ricoprivano la mansione
di operai qualificati e sembravano andare a soddisfare proprio il tipo di fabbisogno lavorativo che le
imprese lamentavano non riuscire a colmare con la manodopera locale (Ibidem, 1981)68. Lo studio
di Grappi e Spagni ebbe sicuramente il merito di mettere in luce fin dall’inizio dei processi di
immigrazione quale sarebbe stata una peculiarità locale: il massiccio inserimento lavorativo degli
immigrati nel settore manifatturiero reggiano e in particolare nel tessuto di piccole e medie imprese
metalmeccaniche. D’altra parte lo stesso studio tendeva a enfatizzare la questione dell’incontro tra
una domanda e una offerta di lavoro specializzato e sulla base di tale enfatizzazione azzardava una
generalizzazione e una previsione che in futuro che si sarebbe rivelata vera solo parzialmente (per
non dire in piccola parte). Negli anni successivi, infatti, la domanda di operai qualificati e
specializzati da parte delle imprese del territorio si sarebbe rivelata inevasa e sempre più immigrati
furono assunti all’interno delle imprese come operai generici. Diverse indagini della seconda metà
degli anni ottanta, infatti, restituivano un quadro differente rispetto a quello di inizio decennio69. Gli
immigrati erano prevalentemente inquadrati con basse qualifiche e l’ascesa professionale era spesso
estremamente lenta se non inesistente. Gli Osservatori della Provincia di Reggio Emilia che
uscirono durante gli anni novanta confermarono che la larga maggioranza (sempre oltre il 70%)
degli immigrati era avviata al lavoro come operaio non specializzato nonostante una parte
significativa di essi fosse in possesso di una scolarizzazione medio alta (Zaniboni e Guerra, 2000).
In altri termini più passava il tempo, più l’immigrazione assumeva una dimensione significativa e
più era evidente che gli immigrati non si inserivano prevalentemente nei segmenti specializzati del
mercato del lavoro industriale locale e che dunque non fossero tali segmenti a costituire l’elemento
di attrazione nei confronti dei flussi.
2.3.2 Il capitale umano e gli skills degli immigrati: diverse interpretazioni sulle loro caratteristiche
e sulla capacità di valorizzarli da parte del tessuto produttivo locale
Quando, nel 2000, l’API di Reggio Emilia ha svolto una indagine sulle piccole e medie imprese e i
lavoratori immigrati, ciò che si è scritto sopra era piuttosto evidente (API, 2000). Obbiettivo
dell’indagine dell’API era quello di capire le dimensioni quantitative e i caratteri fondamentali della
presenza di lavoratori immigrati nel sistema produttivo locale e parallelamente di cogliere gli
atteggiamenti, le reazioni e le proposte degli imprenditori. L’indagine riguardava 300 aziende
aderenti all’API di Reggio Emilia (il 57% dell’insieme delle imprese associate) rappresentative per
settore produttivo, classe di addetti e comune di insediamento. La dimensione media delle imprese
era di 28,4 dipendenti. Ben 163 delle 300 imprese considerate dichiaravano di avere lavoratori
immigrati alle proprie dipendenze. Sul totale di 8.507 dipendenti delle imprese considerate
dall’indagine 656 erano lavoratori immigrati ed erano occupati prevalentemente in imprese di media
dimensione (dai 20 ai 75 dipendenti). Le imprese con il più alto numero di dipendenti immigrati
68
Nello studio in questione si trova scritto: “… almeno nella nostra provincia è la norma, imbattersi in lavoratori che già erano capaci
di operare ad un tornio, una fresa; che erano addirittura collaudatori, ingegneri meccanici, elettronici ecc… una risposta a questo …
sta proprio nel tipo di manodopera richiesta nei settori industriali della nostra provincia, una manodopera quasi mai generica… e per
lo più in grado di lavorare in una moderna industria …” (Grappi e Spagni, 1981, p. 7) e più avanti “… questi lavoratori hanno
raggiunto una certa specializzazione tecnica (che poi vuol dire lavorare in fabbrica o in una industria con una certa mansione) e
tramite amici o parenti vengono a conoscenza che in Italia e precisamente a Reggio Emilia c'è richiesta di tornitori e saldatori …”
(Grappi e Spagni., 1981, p. 87)
69
Ci si riferisce in questo caso a diverse indagini svolte da CGIL, CISL e UIL di Reggio Emilia che tuttavia sconfinavano anche in
territorio modenese. Il materiale non è edito, ma è comunque possibile reperirlo presso l’archivio storico della Camera del Lavoro di
Reggio Emilia.
86
appartenevano al settore metalmeccanico, a quello ceramico e a quello edile. Riguardo le qualifiche,
il 99% dei lavoratori immigrati risultavano essere operai e l’1% impiegati. L’indagine restituiva
meno informazioni certe riguardo il livello di qualifica dei lavoratori immigrati occupati nelle
imprese considerate, ma un approfondimento condotto su un campione di 150 operai immigrati
metteva in luce che la larga maggioranza di questi era inquadrata al 2° e al 3° livello (operai
generici). Sul totale dei 656 lavoratori immigrati dipendenti delle imprese considerate, l’81,5%
possedeva un contratto a tempo indeterminato e il 18,5% una forma contrattuale di lavoro nonstandard (formazione lavoro, apprendistato, contratto a tempo determinato, interinale, ecc…). Gli
imprenditori intervistati durante l’indagine, inoltre, segnalavano una forte crescita negli ultimi anni
di immigrati assunti attraverso le (da poco create) agenzie interinali. Gli immigrati in altri termini
erano inseriti in segmenti dequalificati del mercato del lavoro e della struttura occupazionale locale
e aumentava tra di essi la parte che era occupata attraverso contratti di lavoro non-standard (anche
se rimaneva fortemente minoritaria). Dalle interviste con gli imprenditori emergeva che
l’assunzione di lavoratori immigrati era motivata soprattutto dalla indisponibilità per ragioni
demografiche, sociali e culturali di manodopera autoctona sul mercato del lavoro. Il reperimento di
manodopera immigrata risultava avvenire attraverso canali informali ed i principali motivi per cui
gli imprenditori non volevano assumere immigrati o per cui operavano una selezione rispetto a
particolari nazionalità erano riconducibili a dinamiche di “discriminazione statistica”. Oltre a tutto
ciò, l’indagine dell’API rilevava il fatto che tendenzialmente gli immigrati erano assunti da quella
fascia di imprese che avevano apportato innovazioni al processo produttivo e che negli ultimi anni
erano cresciute in termini di addetti. In altri termini i risultati dello studio tendevano a falsificare la
correlazione positiva che molti ricercatori e studiosi avevano individuato in passato (e avrebbero
continuato a sostenere anche in futuro come si vedrà più avanti) tra “impiego di lavoratori
immigrati” e “scarsa propensione all’ innovazione da parte delle imprese”. Allo stesso tempo lo
studio indicava che gli immigrati andavano a ricoprire quasi unicamente quelle figure lavorative
scarsamente qualificate il cui fabbisogno, insieme a quello di figure operaie più qualificate,
aumentava a fronte della espansione dell’impresa. La ricerca dell’API, nelle conclusioni, rilevava
un problema nel gap esistente tra alte professionalità e alta formazione (ma anche in senso più
generale skills) richieste dal tessuto produttivo (e soprattutto dal suo sviluppo) e bassa
professionalità e formazione che gli immigrati in genere possedevano. Non a caso le dimensioni
critiche individuate e su cui il rapporto finale dell’indagine raccomandava di concentrare gli
interventi erano quelle della lingua italiana e della formazione professionale (API, 2000).
Due anni dopo la ricerca dell’API, Mottura ha svolto e coordinato una ricerca per conto dell’IRESCGIL Emilia Romagna sulle condizioni di lavoro e i percorsi di inserimento sociale degli immigrati
in Emilia Romagna (Mottura, 2002). L’obbiettivo della ricerca era quello di colmare le lacune di
ordine conoscitivo sulle condizioni e le strategie degli immigrati nel mercato del lavoro, all’interno
della struttura occupazionale e più in generale nel tessuto sociale in cui i soggetti erano situati. Per
raggiungere tale obbiettivo furono realizzate 1654 interviste attraverso un questionario strutturato
con soggetti immigrati che lavoravano e risiedevano in Emilia Romagna e 35 colloqui guidati con
altrettanti soggetti immigrati al fine di approfondire questioni specifiche emerse nel corso del lavoro
di campo. Quella di Mottura è stata senza ombra di dubbio una delle ricerche più importanti, per
dimensione e per ricchezza di informazioni rilevate, che sono state realizzate sulla questione
immigrazione e lavoro in Emilia Romagna. Non a caso negli anni successivi numerosi studiosi
hanno fatto riferimento al rapporto finale di ricerca o addirittura hanno utilizzato il database che è
stato costruito con le informazioni ricavate dalle interviste strutturate. La ricerca, naturalmente,
faceva riferimento all’area regionale, ma molti dei dati furono raccolti nella provincia di Reggio
Emilia e di Modena. Si tenga conto, infatti, che 629 dei 1.654 lavoratori immigrati intervistati con il
questionario strutturato erano occupati e risiedevano a Reggio Emilia e 403 a Modena70. Il rapporto
70
Non a caso nel 2001, a ricerca ancora in corso a livello regionale, ma a rilevazione già conclusa nella provincia reggiana, il gruppo
di ricerca coordinato da Mottura decise di elaborare, analizzare e rendere pubblici i dati e le informazioni rilevate sulla condizione di
lavoro e i percorsi di inserimento sociale degli immigrati occupati e residenti a Reggio Emilia (Mottura, 2001). I dati della stessa
87
di ricerca che ne derivò fece emergere una molteplicità di questioni riguardi il profilo socio
anagrafico dei soggetti, al percorso migratorio dei rispondenti, alle condizioni di lavoro degli
immigrati e al rapporto tra gli immigrati e le organizzazioni sindacali. Per quel che riguarda la
scolarizzazione, la formazione e i passati (nel paese di origine) profili socio-professionali dei
soggetti intervistati la ricerca fece emergere aspetti molto interessanti e originali. Circa la metà del
campione considerato era in possesso di un titolo di studio superiore a quello equivalente alla
licenza elementare, mentre circa il 50% era in possesso della licenza elementare. Molto bassa quasi insignificante - era la percentuale di coloro che non avevano avuto alcuna formazione
scolastica. Il 36% dei soggetti era in possesso di un livello di scolarizzazione intermedio
(equivalente alla licenza media o alla scuola professionale) e l’11% di un livello di scolarizzazione
superiore (equivalente al diploma di scuola superiore non professionale e alla laurea universitaria).
Inoltre, circa il 25% degli intervistati aveva dichiarato di possedere anche un titolo di studio
italiano. Il 58% degli intervistati risultava occupato in patria nel momento in cui aveva deciso di
intraprendere l’impresa migratoria e il 23% era studente. Solo il 15% dei soggetti risultava essere
disoccupato al momento dell’emigrazione. Un terzo di coloro che risultavano occupati al momento
dell’emigrazione risultava lavoratore autonomo (in ordine decrescente: commercianti, addetti ai
servizi, agricoltori e artigiani), mentre i restanti due terzi erano lavoratori dipendenti (occupati nei
settori dei servizi, dell’industria, del commercio e dell’agricoltura). Gli intervistati, quindi,
risultavano avere maturato esperienze lavorative in patria, possedere competenze professionali
eterogenee e avere un tasso di scolarizzazione per niente insignificante. Non si trattava, quindi, di
una componente di forza lavoro le cui caratteristiche potevano essere ricondotte in modo
semplicistico a categorie quali la bassa scolarizzazione e l’assenza di esperienze professionali. In
altri termini generalmente non ci si trovava certamente di fronte a figure professionali altamente
qualificate (ma d’altronde assumere l’alta qualificazione professionale in termini assoluti, com’è
noto, risulta essere un’operazione che nasconde insidie), ma nemmeno a soggetti privi di una
qualsiasi formazione scolastica o privi di skills professionali. Il problema, tuttavia, era quello di
come tali soggetti erano in grado di spendere il proprio bagaglio di formazione scolastica e di
esperienze professionali nel mercato del lavoro e nella struttura occupazionale locale e questo è
stato certamente uno degli elementi più problematici che la ricerca di Mottura ha fatto emergere. La
ricerca metteva in luce lo stesso nodo problematico della ricerca dell’API del 2000 - l’incrocio tra
tipo di offerta e tipo di domanda di lavoro - ma giungeva a delle conclusioni rovesciate rispetto a
quelle di quest’ultima. Dalla ricerca di Mottura, infatti, emergeva non tanto la scarsità di offerta di
lavoro professionalizzato o la presenza di una bassa scolarizzazione tra gli immigrati, ma piuttosto
la difficoltà del tessuto economico a valorizzare le competenze presenti sul territorio e la situazione
di stallo in cui si trovano i percorsi lavorativi dei migranti. Degli intervistati che possedevano la
laurea universitaria solo 2 lavoravano negli uffici, 54 lavoravano in produzione e i restanti
lavoravano nei magazzini (o in comparti affini). La proporzione era più o meno la stessa tra gli
intervistati che possedevano licenza media superiore (anzi, tra questi nessuno lavorava negli uffici).
La ricerca di Mottura metteva in evidenza che agli evidenti, seppur moderati, miglioramenti delle
condizioni contrattuali e di qualifica non corrispondevano miglioramenti per quel che riguardava il
tipo di lavoro, le mansioni e i ruoli dei lavoratori immigrati. Risultava evidente, quindi, che la
struttura occupazionale dei lavoratori immigrati rifletteva una “… perdurante sottovalutazione delle
risorse, in termini di competenze e professionalità presenti (e/o attivabili) tra gli immigrati, nonché
ancora uno scarso impegno a determinare le condizioni opportune … per farle emergere e metterle a
frutto …” (Mottura, 2002, p. 37).
L’analisi che Gilberto Serravalli ha svolto nel 2002 utilizzando lo stesso database relativo a Reggio
Emilia costruito dalla ricerca di Mottura riguardava un aspetto strettamente legato alla questione
dell’inserimento degli immigrati nella struttura occupazionale locale (Serravalli, 2002). Partendo
dall’assunzione del fatto che l’”effetto di domanda” risultava essere l’elemento esplicativo
ricerca relativi a Modena, invece, sono stati lavorati da Marra, il quale è giunto a risultati molto simili rispetto a quelli relativi a
Reggio Emilia (Marra, 2004).
88
principale riguardo i flussi migratori a Reggio Emilia, la ricerca di Serravalli tentava di rispondere
ad una questione direttamente conseguente, ovvero se il sistema economico e sociale reggiano fosse
anche capace di integrare i lavoratori immigrati. Per rispondere a tale interrogativo Serravalli ha
adottato un paradigma che sottolinea l’importanza e la centralità dei “processi cumulativi”. Tale
paradigma, particolarmente adatto ai contesti in cui è rilevante la mancanza di informazioni e
conoscenze reciproche, risulterebbe particolarmente adeguato allo studio delle relazioni di lavoro in
cui sono coinvolti gli immigrati, in quanto si suppone che da una parte gli immigrati non abbiano
una vasta conoscenza del contesto sociale, culturale e istituzionale in cui sono collocati e dall’altra i
datori di lavoro non abbiano conoscenze dei nuovi lavoratori con cui instaurano un rapporto. In un
contesto tale possono innescarsi “processi cumulativi” per i quali il successo o il fallimento
professionale dell’immigrato e l’integrazione o l’esclusione sociale risultano essere “processi auto
poietici”. Un’importante variabile di integrazione è naturalmente il tempo di permanenza del
soggetto nel contesto, in quanto si assume che maggiore è il tempo trascorso dal soggetto nel
contesto, maggiori dovrebbero essere le informazioni che il soggetto è in grado di assumere;
esistono però una molteplicità infinita di altre variabili che possono influenzare il segno (negativo o
positivo) dei processi cumulativi, così come possono rallentare o accelerare tali processi. Ad
esempio i “fattori socio-anagrafici” dei soggetti o le “prime mosse” - le prime decisioni o azioni più
o meno fortuite nel nuovo contesto - sono considerati in genere variabili importanti.
Chiarito il paradigma di riferimento, Serravalli, sulla base dei dati disponibili ha costruito una
variabile sintetica del miglioramento delle condizioni di lavoro dal momento del primo contatto con
l’impresa nella quale lavoravano i soggetti immigrati nel momento dell’intervista; successivamente
ha classificato il totale degli intervistati in tre categorie omogenee sulla base della variabile sintetica
di miglioramento costruita in precedenza e ponderata per il tempo di permanenza in Italia dei
soggetti; infine ha provato la validità (e la fertilità in termini di informazioni prodotte) del modello
dei processi cumulativi. I calcoli effettuati indicavano che il 17% degli intervistati aveva migliorato
le condizioni di lavoro dal momento del primo contatto con l’impresa al momento in cui si era
svolta l’intervista (aveva realizzato, dunque, processi cumulativi di segno positivo), il 43% le aveva
peggiorate (ma in realtà le aveva peggiorate in termini assoluti solo il 10% e dunque solo il 10%
aveva realizzato processi cumulativi di segno negativo) e il 40% le aveva mantenute uguali. In altri
termini i risultati restituivano un quadro che indicava che il 73% dei soggetti intervistati mostrava
non avere realizzato processi cumulativi di segno positivo (non migliorava le proprie condizioni di
lavoro in termini assoluti), né avere realizzato processi cumulativi di segno negativo (non
peggiorava le proprie condizioni di lavoro in termini assoluti). Ciò che più risultava interessante
dalle elaborazioni eseguite è il fatto che il miglioramento delle condizioni di lavoro risultava solo in
parte correlato con l’anzianità di presenza in Italia e con l’anzianità aziendale dei soggetti. Le
elaborazioni, infatti, mostravano che era la “prima mossa” ad essere particolarmente importante per
innescare processi cumulativi di segno positivo. In particolare i processi cumulativi di segno
positivo sembravano essere attivati dal trovare un lavoro nel settore industriale, in particolare nel
settore metalmeccanico, in un’impresa superiore ai 15 dipendenti; un lavoro che comportasse
mansioni in produzione, ma da svolgere con strumenti complessi o con macchine manovrate
dall’operatore e il cui apprendimento non fosse misurabile in termini di tempo in poche settimane.
Allo stesso tempo sembravano essere di primaria importanza anche alcune specifiche “condizioni
soggettive”, quali essere maschio tra i 30 e i 40 anni, essere sposato con più di un figlio e possedere
un livello di scolarizzazione relativamente alto. La nazionalità, invece, non risultava influire affatto
sull’attivazione dei processi cumulativi virtuosi. In definitiva, la somma di queste due condizioni uno specifico tipo di lavoro e la combinazione di particolari fattori socio-anagrafici - davano luogo
a “processi cumulativi” virtuosi che vedevano i soggetti coinvolti raggiungere più di altri alcuni
risultati di integrazione quali: il ricongiungimento della famiglia, l’affitto di una abitazione non
condivisa con altri nuclei famigliari, un contratto di lavoro a tempo indeterminato, la
sindacalizzazione e l’attività sindacale, oltre che miglioramenti salariali, di orario, di qualifica e in
ordine al tipo di lavoro svolto. Questi risultati facevano emergere con nitidezza alcune dimensioni
89
critiche del mercato del lavoro reggiano, del tessuto produttivo locale e in particolare della sua
capacità di integrare socialmente ed economicamente gli immigrati stranieri. Infatti, se da un punto
di vista quantitativo il problema secondo Serravalli era come giudicare il fatto che meno del 20%
migliorava le proprie condizioni lavorative, da un punto di vista qualitativo lo studio metteva in luce
una vasta tipologia di soggetti immigrati (donne di tutte le età, uomini al di sotto dei 30 anni e al di
sopra dei 40 anni, donne e uomini non sposate, bassamente scolarizzati/e, assunti/e in imprese al di
sotto dei 15 dipendenti, nel settore dei servizi, ecc …) a forte rischio di rimanere per un periodo più
o meno prolungato al di fuori di traiettorie di integrazione nel tessuto sociale locale. Il rischio
generale individuato dall’autore dello studio, dunque, era che a fronte di una non brillante capacità
del sistema produttivo locale di valorizzare il potenziale umano degli immigrati, potessero avere
luogo squilibri sociali ed economici “… che devono essere guardati con estrema attenzione in un
sistema locale che ha avuto nell’inclusione e nell’equilibrio distributivo i suoi caratteri distintivi,
cruciali anche per la propria efficienza economica …” (Serravalli, 2002, p. 56).
2.3.3 “Immigrazione o innovazione”: dilemma o errata impostazione del problema?
Come è stato scritto sopra, il fatto che la larga disponibilità di manodopera immigrata sul mercato
del lavoro costituisca un elemento inibitore per le traiettorie di innovazione tecnologica e
organizzativa è stata ed è tutt’oggi un’interpretazione molto diffusa tra gli economisti. Fin
dall’inizio dei processi di immigrazione, il dilemma “immigrazione o innovazione” è spesso stato
presente nei dibattiti e nelle riflessioni relative alle prospettive future di sviluppo del tessuto
produttivo locale e questo è vero sia in ambito accademico che in ambito imprenditoriale, sindacale
e politico-amministrativo.
Nel 2003 Murat e Paba riflettendo su alcuni dati relativi all’incontro tra imprese italiane e
manodopera straniera sostenevano proprio che le imprese italiane e in particolare le piccole e medie
imprese dei distretti industriali delle regioni della terza Italia correvano il rischio di impiegare la
manodopera straniera per ridurre i costi evitando in questo modo di mettere in atto processi di
ristrutturazione aziendale. La disponibilità di manodopera immigrata, secondo i due economisti,
permetterebbe alle imprese dei distretti industriali del territorio emiliano romagnolo di far fronte
alla crescente competizione internazionale, almeno sul breve o brevissimo periodo, attraverso
l’abbattimento del costo del lavoro ed evitare in questo modo costosi processi di ristrutturazione
aziendale e di innovazione di processo finalizzati all’aumento della produttività. D’altra parte
l’impiego di lavoratori immigrati sarebbe anche, secondo gli stessi, una alternativa per le imprese
dei distretti alla delocalizzazione della produzione come strategia di contenimento dei costi. Le
conclusioni di Murat e Paba erano che il protrarsi di una strategia di questo tipo sul lungo periodo
avrebbe inevitabilmente condannato le imprese locali a perdere competitività sul piano
internazionale e che una via d’uscita per evitare il peggio sarebbe stata quella di agire sulla
regolazione degli accessi degli immigrati al territorio in favore di una migrazione high skilled. A
prescindere dal fatto che in molti (fuori e dentro l’ambiente accademico) hanno criticato questa
modellizzazione del rapporto tra innovazione e immigrazione (in alcuni casi assumendo
problematicamente gli assunti e i concetti che stanno alla base di questo modello; in altri casi
mettendo in discussione la direzionalità della relazione causale o la relazione causale stessa
costitutiva del modello; in altri casi ancora criticando le implicazioni a livello di politiche
migratorie che questo modello più o meno esplicitamente introduce), questa visione del rapporto tra
sviluppo d’impresa e immigrazione non ha mai smesso di essere un punto di riferimento di
amministratori, politici e rappresentanti delle parti sociali a livello locale.
A dimostrazione della persistente presenza nella riflessione sul mercato del lavoro locale del
dilemma innovazione o immigrazione, diversi anni dopo, nel 2008, Barberis ha posto la questione
dei percorsi di inserimento lavorativo degli immigrati nel tessuto produttivo dei distretti industriali
emiliani in termini di ricorso alla manodopera straniera come uno degli indicatori del
perseguimento di strategie di labour intensive. I processi di indebolimento dei diritti e di diffusione
di forme di lavoro atipico che si sono sviluppati e hanno intersecato i processi migratori, infatti,
90
portano Barberis a sostenere che il sistema economico locale tenda a privilegiare il ricorso ad
attività di labour intensive piuttosto che strategie di innovazione organizzativa e tecnologica.
Nonostante ciò, il mismatch quali-quantitativo tra manodopera locale e imprese determinato
dall’orientamento di una crescente parte di popolazione autoctona verso altre aspettative e formative
e occupazionali aprirebbe spazi, secondo l’autore, non solo di inserimento degli immigrati in
segmenti del mercato del lavoro caratterizzati dalle “3 D” ma anche in segmenti medi (Barberis,
2008). Quindi se da una parte una strategia competitiva generale basata sul labour intensive e
l’inserimento dei processi migratori in una tale strategia genererebbe criticità inedite per il contesto
distrettuale (o forse criticità antiche) - come la comparsa (o la ricomparsa) dei working-poor dall’altra il mismatch quali-quantitativo offrirebbe agli immigrati possibilità di inserimento sociale
relativamente stabile oltre che percorsi professionali ascendenti.
Già a metà degli anni novanta, tuttavia, uno studio sui lavoratori immigrati nelle piccole e medie
imprese bolognesi mise in luce i limiti di una tale impostazione del problema applicata ad un
contesto come quello del tessuto produttivo dell’Emilia Romagna (Lugli e Tugnoli, 1994). Dallo
studio in questione emerse che la propensione ad assumere manodopera immigrata non era presente
solo in quelle imprese del bolognese che non avevano realizzato o che non avevano in progetto
alcuna innovazione (Lugli e Tugnoli, 1994). I risultati della ricerca sul campo, inoltre, misero in
luce che la realizzazione di innovazioni da parte delle imprese non escludeva la propensione delle
stesse ad impiegare lavoratori immigrati. Anzi, l’analisi dei dati e delle informazioni raccolte
escludeva l’esistenza di una associazione tra presenza o meno di strategie di innovative (di prodotto,
di processo e organizzativa) e impiego di manodopera immigrata; al contrario la necessità di ricerca
di maggiore flessibilità lavorativa determinata dalle innovazioni tecnologiche e organizzative
introdotte, risultava essere un volano per l’impiego di manodopera immigrata da parte delle
imprese. Lo stesso studio, tuttavia, metteva in guardia da un differente rischio riscontrato. La
crescente flessibilizzazione dei mercati interni nelle imprese che avevano effettuato interventi di
innovazione produceva, infatti, una duplice esigenza: quella della ricerca di una flessibilità
funzionale da realizzarsi attraverso il reperimento di figure professionali, altamente qualificate,
stabili, per le quali la polivalenza professionale assumesse un ruolo cruciale all’interno
dell’organizzazione; e quella della ricerca di flessibilità numerica, di cui la precarietà del posto di
lavoro e la scarsa qualificazione professionale sono un elemento costitutivo. La ricerca effettuata
fece emergere che l’assunzione di manodopera immigrata da parte delle imprese,
indipendentemente dalla loro propensione all’innovazione, era fortemente ricercata per rispondere
alla seconda esigenza e molto meno per rispondere alla prima. Sulla base di tutto ciò venivano
delineati due possibili scenari futuri: il primo, di alto profilo, della competizione fondata sulla
qualità, il cui presupposto fondamentale sarebbe stato l’attuazione di un’intensa politica formativa e
di alti salari nell’obbiettivo di favorire la cooperazione tra lavoratori ed impresa; il secondo, di
basso profilo, della competizione sul prezzo, i cui presupposti sarebbero stati la pressione verso il
basso dei salari, la deregolamentazione del mercato del lavoro e lo scarso investimento in
formazione del personale; e per quel che riguarda i lavoratori immigrati lo studio concludeva: “… È
evidente che si tratta di scelte aperte il cui esito è largamente indipendente dalla considerazione del
ruolo svolto dalla manodopera immigrata; ma è altrettanto vero che la larga disponibilità di forza
lavoro straniera scarsamente qualificata può favorire, se non sufficientemente contrastata, la
seconda opzione, con gravi conseguenze negative non solo limitatamente al mercato del lavoro ma
anche sulla tenuta competitiva di tutto il sistema. Pertanto è il modello formativo, in concomitanza
con l’azione sindacale e legislativa, che può favorire l’evoluzione del mercato del lavoro verso
l’uno o l’altro scenario: solo un impegno decisivo delle imprese e degli attori istituzionali a favore
della polivalenza e della qualificazione professionale della forza lavoro può consentire di avviare il
sistema produttivo sulla strada della competizione di qualità. Ma questo impegno non può
prescindere dal coinvolgimento in tale processo di valorizzazione della risorsa lavoro dei segmenti
di manodopera straniera, sia per il raggiungimento di obbiettivi di estensione dei diritti civili e di
91
giustizia sociale … sia per evitare che la formazione di un mercato secondario del lavoro su base
etnica apra la strada ad una più accentuata frammentazione … dello stesso” (Lugli e Tugnoli, 1994).
3 – Le imprese degli immigrati a Modena e Reggio Emilia
3.1 Le imprese degli immigrati a Modena e Reggio Emilia: un fenomeno relativamente trascurato
Prima dei risultati dell’analisi dei dati e delle informazioni che sono state raccolte può essere utile
inquadrare il fenomeno dell’imprenditoria degli immigrati nei territori di Modena e Reggio Emilia
attraverso una rassegna degli studi e delle ricerche che sono state pubblicate a riguardo negli anni
passati.
Gli studi che hanno per oggetto gli imprenditori immigrati nei territori di Modena e Reggio Emilia e
in generale in Emilia Romagna non sono numerosi. A fronte di una vasta produzione di studi e
ricerche sull’imprenditoria degli immigrati sul territorio nazionale, infatti, la questione degli
imprenditori immigrati all’interno dei sistemi distrettuali emiliano romagnoli è stata relativamente
trascurata. L’attenzione di studiosi e ricercatori si è rivolta a partire dagli anni novanta e per un
lungo periodo ad altre aree del Paese, in particolare Lombardia (Ambrosini, 1995; Ambrosini e
Abbatecola, 2004; Ambrosini, 2009; Baptiste e Zucchetti, 1994; Chiesi e Zucchetti, 2003;
Zucchetti, Corvo e Perla, 1999), Piemonte (Castagnone, 2008; Camera di Commercio di Torino e
FIERI, 2008; Luciano, 1995; Santi, 1995) e in misura minore Lazio e Toscana (Ceccagno, 2003).
Solo negli ultimi anni si è riposta l’attenzione sull’imprenditoria degli immigrati nella regione
Emilia Romagna a fronte di una costante crescita del fenomeno a livello locale (rispetto
all’ultimissimo periodo si vedano le pagine successive). Nonostante ciò diverse indagini effettuate a
livello nazionale durante gli anni passati hanno messo in evidenza l’importanza che ricopre il
territorio emiliano romagnolo rispetto alla distribuzione delle imprese degli immigrati. Le indagini
sistematiche condotte dalla CNA e riportate ogni anno all’interno del Rapporto Immigrazione della
Caritas hanno da tempo registrato una significativa presenza di imprese di immigrati nel territorio
regionale. Nel 2010, inoltre, all’interno dello stesso Rapporto Immigrazione della Caritas è stato
ritenuto necessario inserire un approfondimento sulle imprese degli immigrati nei distretti
industriali emiliani (Caritas, 2010). Anche gli ultimi monitoraggi sull’imprenditoria straniera della
Fondazione Leone Moressa individuano l’area della Regione Emilia Romagna come un territorio ad
alta densità di imprese immigrate. Allo stesso modo i rapporti pubblicati negli scorsi anni da
Nomisma, Adiconsum, CRIF e Unioncamere (2007; 2009) hanno messo in evidenza la vivacità
dell’imprenditoria degli immigrati nel contesto emiliano romagnolo. Il rapporto di Nomisma, CRIF
e Unioncamere del 2009, inoltre, ha messo in luce tre caratteri dell’attuale fenomeno
dell’imprenditoria degli immigrati: l’eterogeneità dei modelli imprenditoriali perseguiti dagli
immigrati; la difficoltà nel definire il rapporto tra le imprese degli immigrati e il mercato creditizio
strutturato o non-strutturato; la forte integrazione delle imprese degli immigrati nel tessuto
economico e con gli attori istituzionali del territorio in cui sono situate. Sassatelli (2009) prendendo
spunto da questi risultati generali dell’indagine di Nomisma, CRIF e Unioncamere del 2009 ritiene
ad oggi insufficiente su un piano esplicativo la dicotomia “modello marginale” versus “modello di
qualità” per spiegare le tendenze imprenditoriali perseguite dagli immigrati e soprattutto, visti i
livelli di integrazione di queste ultime con il contesto economico e istituzionale locale, associa
direttamente la virtuosità dello sviluppo delle imprese degli immigrati al comportamento
complessivo del sistema economico del territorio e dei servizi di orientamento, accompagnamento e
assistenza agli attori economici che quest’ultimo offre. Successivamente alla pubblicazione del
rapporto, i territori di Modena e Reggio Emilia hanno acquisito una visibilità mediatica rispetto al
tema dell’imprenditoria degli immigrati mai avuta in passato proprio grazie alla supposta virtuosità
dell’integrazione tra imprenditoria degli immigrati e sistema economico e istituzionale locale (nel
2010 in effetti si possono contare decine di articoli su quotidiani locali e nazionali che mettono in
evidenza quanto nelle due province emiliane sia in crescita l’imprenditoria degli immigrati. Un
92
articolo emblematico in questo senso è quello pubblicato su “Il Sole-24 Ore” del 28 giugno 2010).
In generale le indagini e i rapporti di ricerca citati sopra evidenziano il fatto che in anni di crisi
economica conclamata la decrescita del numero di imprese italiane sembra essere stata bilanciata
dalla crescita delle imprese di immigrati. In altri termini tanto a livello nazionale quanto a livello
dei singoli territori la crescita delle imprese degli immigrati sembra avere limitato i danni rispetto
alla diminuzione del numero delle imprese degli italiani e del numero del totale delle imprese.
Rispetto invece alle province di Modena e Reggio Emilia gli studi e le ricerche che si concentrano
specificatamente su quest’area territoriale si contano sulle dita di una mano e sono tutti
relativamente recenti. Le ricerche in particolare hanno riguardato il territorio di Modena e i
rispettivi sistemi distrettuali (che, tuttavia, trascendono dai confini amministrativi) (Barberis, 2008;
Marra, 2008; Nomisma, 2010), mentre ad oggi non risultano essere state effettuate ricerche di
questo tipo relative alla provincia reggiana.
La ricerca di Marra (2008) è stata fatta su un campione di sessanta imprese a titolare straniero in
provincia di Modena. Obbiettivo della ricerca era quello di rilevare le caratteristiche soggettive
degli imprenditori immigrati. Il quadro che emerge dalla ricerca è che in generale gli intervistati
hanno intrapreso a fronte dell’impossibilità di migliorare la loro condizione lavorativa ed
economica attraverso il lavoro dipendente, inserendosi negli spazi del tessuto produttivo locale
lasciati “vuoti” (vacancy chain) dagli imprenditori autoctoni. Tutto ciò risulta più evidente in alcuni
settori piuttosto che in altri, ma si delinea come una caratteristica intersettoriale. I settori in cui allo
stesso tempo risulterebbe chiara anche la tendenza da parte degli immigrati a capitalizzare le
esperienze lavorative accumulate in anni di lavoro dipendente sarebbero quelli del ceramico e del
metalmeccanico. Rispetto alla vocazione imprenditoriale, Marra sottolinea che, pur esistendo una
certa correlazione tra specializzazione produttiva ed origine nazionale, tale correlazione non sembra
essere giustificabile con categorie quali la “tradizione” o la “propensione culturale”. Sono, infatti, i
migrant network (e l’attivazione di processi di training etnici) e le caratteristiche del contesto
produttivo in cui questi sono collocati che sembrano avere un peso maggiore nella scelta degli
immigrati di una specifica nazionalità a imprendere in un determinato settore piuttosto che in un
altro. Rispetto alle criticità, infine, la ricerca di Marra rileva una certa difficoltà ad accedere al
credito e alle “risorse aggiuntive” (bandi pubblici, leggi a sostegno dell’impresa, ecc …) da parte
degli imprenditori immigrati non solo a causa di un gap informativo le cui responsabilità sono
attribuite dall’autore della ricerca alle istituzioni economiche e amministrative locali.
Due anni dopo un’indagine di Nomisma (2010) svolta sul territorio modenese ha rilevato le stesse
criticità della ricerca di Marra, con l’aggiunta del fatto che ciò di cui gli imprenditori immigrati
sembrano avvertire maggiormente la mancanza sono i servizi di formazione, pur essendo in gran
parte iscritti ad associazioni di categoria che tra le loro attività hanno la formazione degli
imprenditori. Un ulteriore elemento di debolezza delle imprese degli immigrati risulta essere la
dimensione ridotta (per numero di dipendenti, ma anche per fatturato) delle imprese. Nonostante ciò
dall’indagine emerge anche che le imprese degli immigrati risultano essere profondamente integrate
con il territorio e nel tessuto imprenditoriale locale. In particolare: la percentuale di imprese che
risultano vendere su tutto il territorio nazionale e non solo a livello locale risulta essere
significativa; oltre il 60% risulta rivolgersi a fornitori dislocati al di fuori della provincia modenese;
solo l’8% degli imprenditori risulta avere una clientela composta esclusivamente da immigrati.
Le due indagini di cui si sono riportati sinteticamente i risultati sopra hanno fatto emergere, quindi,
una situazione imprenditoriale degli immigrati in provincia di Modena con luci ed ombre. Entrambi
gli studi, tuttavia, si sono concentrati prioritariamente sugli imprenditori immigrati, tralasciando il
contesto in cui si sono inseriti gli stessi imprenditori e non cogliendo quindi la complessità
dell’interazione tra trasformazioni del tessuto produttivo locale e nuovi imprenditori.
Lo studio di Barberis (2008), che prende in considerazione i sistemi distrettuali di Modena e di
Vicenza, si focalizza sulla posizione e sulla funzione che le imprese degli immigrati ricoprono e
svolgono all’interno di sistemi distrettuali e ha il merito di assumere questi ultimi non come entità
statiche e date una volta per tutte, ma piuttosto come contesti articolati e permanentemente in
93
evoluzione. Barberis adotta una prospettiva basata su una visione dinamica dei sistemi distrettuali
(in cui disgregazione, disembedding, e ricreazione, re-embedding, delle strutture del distretto
possono coesistere, almeno potenzialmente, come parti di un unico processo di trasformazione), la
quale a sua volta rimanda ad un modello di embeddedness relazionale (tra attori tradizionali e nuovi
attori) e multidimensionale (in un continuum che ha ai suoi estremi le dimensioni di
overembeddedness e underembeddedness). Infatti, considerare il carattere relazionale, il carattere
multidimensionale e soprattutto l’incrocio tra questi due caratteri dell’embeddedness permette di
individuare diverse possibili articolazioni dell’assetto che i sistemi distrettuali stanno assumendo
come ad esempio le modalità attraverso le quali sono integrati gli attori economici immigrati
all’interno del sistema. Barberis, attraverso le analisi del database camerale e diverse interviste a
testimoni privilegiati, giunge alla conclusione che a fronte di un evidente processo di disembedding
dei sistemi distrettuali, la presenza degli imprenditori immigrati si inserisce in un processo di reembedding le cui tendenze oggi appaiono essere, anche se in misura diversa, duplici: da un lato,
quella in cui gli imprenditori immigrati contribuiscono alla ricostituzione di alcune economie
distrettuali attraverso forme di breaking-out (apertura di nuovi mercati esteri, nuova cultura del
lavoro, individuazione di nicchie di mercato inesplorate e/o inattese, innovazioni di prodotto, ecc
…) determinando così uno stiramento e una riarticolazione del sistema distrettuale, ma non
necessariamente un suo indebolimento; dall’altro lato, quella in cui gli imprenditori immigrati si
inseriscono all’interno delle economie distrettuali attraverso forme di breaking-in offrendo alle
imprese una alternativa alla delocalizzazione delle attività produttive faticose, ad alta densità di
manodopera e a bassa intensità di capitale e permettendo alle imprese autoctone di concentrarsi sul
controllo del prodotto (marketing, design, progettazione, ecc …). Entrambe le tendenze offrono
vantaggi funzionali ai sistemi distrettuali, ma alla lunga possono porre dei problemi sia su un piano
di competitività economica del sistema, sia, se le si osserva attraverso la prospettiva
dell’embeddedness, su un piano sociale. La seconda tendenza, infatti, può determinare una dinamica
di competizione interna al distretto sui costi del lavoro che, oltre ad investire in modo diretto o
indiretto tutto il sistema economico locale, avrebbe ricadute anche sull’integrazione sociale degli
immigrati che paradossalmente potrebbero risultare embedded all’interno di una dimensione
economica ma dis-embedded su un piano sociale (in quanto sarebbero facilmente identificati come
capri espiatori per l’abbattimento del livello di benessere socioeconomico diffuso). La prima
tendenza, invece, può apparire come una traiettoria di sviluppo preferibile, ma l’esito della
riarticolazione delle strutture fondamentali distrettuali e del tessuto socioeconomico tradizionale
non è scontato né su un piano economico, né tantomeno su un piano sociale e soprattutto la
trasformazione andrebbe orientata e guidata dagli attori istituzionali del territorio che tuttavia oggi
più che mai non sembrano essere in grado di gestire un passaggio di tale portata.
Se quello che è stato riportato sopra sono i risultati a cui sono giunti i pochi studi che sono stati
svolti sul territorio modenese e reggiano, nelle pagine successive sono presentati i dati estrapolati
dal Sistema Infocamere relativi agli imprenditori stranieri a Modena e Reggio Emilia. La
ricostruzione su un piano quantitativo del fenomeno dell’imprenditoria degli immigrati sul territorio
risulta essere una utile introduzione ai dati e alle informazioni raccolte durante la fasi di ricerca sul
campo, a cui è dedicato il paragrafo terzo del presente capitolo.
3.2 Le imprese a titolare straniero a Modena e Reggio Emilia sulla base dei dati del sistema
camerale locale
Le imprese individuali a titolare straniero nelle province di Modena e Reggio Emilia nel 2005
ammontavano rispettivamente a 3.315 e 4.281 imprese. Nel 2009 le imprese individuali a titolare
straniero erano invece 4.555 a Modena (+1.240) e 5.442 a Reggio Emilia (+1.161). Nell’arco del
periodo 2005-2009, quindi, le imprese individuali a titolare straniero sono cresciute in termini
assoluti più a Modena che a Reggio Emilia all’interno di un contesto regionale che ha visto crescere
il numero di imprese straniere nello steso periodo di 8.435 unità. Ciò che risulta particolarmente
interessante è il fatto che nello stesso periodo in cui le imprese individuali a titolare straniero sono
94
cresciute, il numero di imprese individuali a titolare italiano è diminuito (e la stessa tendenza è
possibile riscontrarla a livello regionale). Anche nel periodo in cui la crisi economica è stata più
avvertita dal tessuto economico locale, le imprese individuali a titolare straniero, a differenza di
quelle a titolare italiano, hanno continuato a crescere (a Reggio Emilia, tuttavia, il 2009 si è
concluso con un sostanziale pareggio).
Tab.1 - Imprese individuali a titolare straniero, a titolare italiano e totale delle imprese
individuali in Emilia Romagna, Reggio Emilia e Modena. Serie storica 2005 - 2009.
2005
2006
2007
2008
2009
Imprese Imprese Imprese Imprese Imprese Imprese Totale Totale Totale
a tit.
a tit.
a tit.
a tit.
a tit.
a tit. imprese imprese imprese
straniera straniera straniera italiano italiano italiano
ER
MO
RE
ER
MO
RE
ER
MO
RE
3.315
4.281 241.591 35.304 29.131 264.362 38.622 33.424
22.713
25.756
3.748
4.846 238.005 34.966 28.905 263.809 38.717 33.761
28.450
4.194
5.274 234.450 34.680 28.351 262.941 38.877 33.631
30.246
4.445
5.443 229.857 33.539 27.779 260.173 37.986 33.228
31.148
4.555
5.442 224.800 32.810 27.028 256.012 37.367 32.476
Fonte: Sistema Infocamere
Il totale delle imprese individuali nei territori di Modena e Reggio Emilia nel 2009 è
rispettivamente di 37.363 e 32.476, numeri inferiori rispetto a quelli del 2005. La crescita del totale
delle imprese individuali nel territorio di Modena, infatti, si è interrotta nel 2007, anno in cui le
imprese individuali raggiunsero la quota di 38.877. A Reggio Emilia, invece, la crescita del numero
di imprese si interruppe un anno prima, nel 2006, anno in cui le imprese individuali del territorio
raggiunsero quota 33.761. Se si prende a riferimento però solo il numero delle imprese individuali a
titolare italiano nel territorio modenese e reggiano la tendenza alla decrescita in termini assoluti è
collocabile in anni ben più lontani. In altri termini è possibile affermare che negli anni scorsi la
crescita del totale delle imprese individuali è attribuibile in misura prevalente - e successivamente
esclusivamente - alla crescita del numero delle imprese individuali a titolare straniero. Negli ultimi
anni, inoltre, la diminuzione del numero di imprese individuali nel territorio di Modena e Reggio
Emilia risulterebbe molto più forte se le imprese individuali a titolare straniero non crescessero.
La vivacità dell’imprenditoria degli immigrati nei territori di riferimento è facilmente osservabile
anche dal loro peso in percentuale sul totale delle imprese (si sta facendo riferimento sempre alle
sole imprese individuali). Come è possibile osservare dal grafico seguente, il peso in percentuale
delle imprese individuali a titolare straniero sul totale delle imprese individuali a partire dal 2005
cresce costantemente sia in Emilia Romagna, sia a Modena, sia a Reggio Emilia, fino ad arrivare
nel 2009 rispettivamente al 12,2%, al 12, 2% e al 16,8%. A Modena il peso in percentuale delle
imprese individuali a titolare straniero sul totale delle imprese si attesta in tutti gli anni presi in
considerazione sul livello della media regionale. A Reggio Emilia invece il peso in percentuale
delle imprese individuali a titolare straniero sul totale delle imprese individuali si attesta in tutti gli
anni presi in considerazione a livelli molto superori rispetto alla media regionale.
95
Percentuale di imprese a titolare straniero sul totale delle imprese a Reggio Emilia, Modena
ed Emilia Romagna. Serie storica 2005 - 2009
2009
16,8%
12,2%
12,2%
2008
16,4%
11,7%
11,6%
2007
15,7%
10,8%
10,8%
2006
14,4%
9,7%
9,8%
2005
12,8%
8,6%
8,6%
Inc.% imprese a tit. stran in ER
Inc.% imprese a tit. stran. a MO
Inc.% imprese a tit. stran. a RE
Se si osservano le variazioni percentuali annue del numero delle imprese individuali a titolare
straniero a Modena, a Reggio Emilia e in Emilia Romagna è evidente il loro stato di salute
soprattutto se si prendono come termine di confronto le variazioni in percentuale annue delle
imprese individuali a titolare italiano e quelle del totale delle imprese individuali. Come è possibile
osservare dai tre grafici riportati di seguito, a Modena, a Reggio Emilia e in Emilia Romagna le
variazioni percentuali annue delle imprese individuali a titolare straniero degli ultimi anni sono
sempre state in territorio positivo a differenza delle variazioni percentuali annue delle imprese
individuali a titolare italiano e del totale delle imprese individuali che sono sempre state in territorio
negativo per quel che riguarda l’Emilia Romagna e vi sono entrate a partire dal 2007 per quel che
riguarda Modena e Reggio Emilia. Dagli stessi grafici emerge tuttavia il rallentamento della crescita
del numero delle imprese individuali a titolare straniero in tutti i territori presi in considerazione,
soprattutto a partire dal 2007.
Variazione percentuale annua delle imprese individuali a titolare
straniero, italiano e totale imprese individuali in Emilia Romagna. Serie
storica 2006 - 2009
16,0%
14,0%
12,0%
10,0%
8,0%
6,0%
4,0%
2,0%
0,0%
-2,0%
-4,0%
13,4%
10,5%
6,3%
3,0%
-0,2%
-0,3%
-1,1%
-1,5%
-1,5%
-2,0%
-2,2%
Var.% 2006/2005
Var%. 2007/2006
Var.% 2008/2007
Var.% 2009/2008
Imprese a tit. stran. a ER
Imprese a tit. italiano a ER
-1,6%
Totale imprese a ER
Variazione percentuale annua delle imprese individuali a titolare
straniero, italiano e totale imprese individuali a Reggio Emilia. Serie
storica 2006 - 2009.
14,0%
12,0%
10,0%
8,0%
6,0%
4,0%
2,0%
0,0%
-2,0%
-4,0%
13,2%
8,8%
3,2%
1,0%
-0,4%
-1,2%
0,0%
-2,3%
-0,8%
Var.% 2006/2005
-1,9%
Var.% 2007/2006
Imprese a tit. stran. a RE
-2,0%
Var.% 2008/2007
Imprese a tit. italiano a RE
-2,7%
Var.% 2009/2008
Totale imprese a RE
96
Variazione percentuale annua delle imprese individuali a titolare
straniero, italiano e totale imprese individuali a Modena. Serie storica
2006-2009
13,1%
14,0%
12,0%
10,0%
8,0%
6,0%
4,0%
2,0%
0,0%
-2,0%
-4,0%
-6,0%
11,9%
6,0%
4,2%
0,4%
0,2%
-1,6%
-2,3%
-0,8%
-1,0%
Var.% 2006/2005
-3,3%
Var.% 2008/2007
Var.% 2007/2006
Imprese a tit. stran. a MO
Imprese a tit. italiano a MO
-2,2%
Var.% 2009/2008
Totale imprese a MO
Nel 2009 Modena e Reggio Emilia si distinguono per avere un elevato numero di imprese
individuali a titolare straniero non solo rispetto alle altre province dell’Emilia Romagna, ma anche
rispetto a tutte le altre province italiane (Tabella 2). Con il 16,8% di imprese individuali a titolare
straniero sul totale delle imprese Reggio Emilia si colloca al 5° posto tra le province italiane e
Modena con il 12,2% al 23° posto (4.555 imprese a titolare straniero su 37.367 imprese individuali
totali). A livello nazionale, prima di Reggio Emilia si collocano solo le province di Prato, Firenze,
Milano e Trieste.
Tab. 2 - Imprese individuali per provenienza del titolare e incidenza di imprese a titolare
immigrato sul totale. Prime 15 province. Anno 2009.
Prov.
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
PRATO
FIRENZE
MILANO
TRIESTE
REGGIO EMILIA
PISA
ROMA
RIMINI
LODI
TERAMO
GENOVA
GORIZIA
PARMA
MASSA CARRARA
TORINO
UE
Non UE
416
2.493
3.005
202
629
502
6.985
592
360
540
675
116
569
415
6.141
5.355
8.216
17.957
1.384
4.813
2.928
17.746
2.043
1.016
2.420
5.126
717
2.869
1.083
10.443
Italiana
10.513
42.894
96.164
7.569
27.028
19.335
142.414
16.127
8.530
18.983
37.290
5.369
22.264
9.801
109.648
Non
class.
2
5
30
21
6
2
192
11
12
4
71
7
4
75
14
Tot. straniera
5.771
10.709
20.962
1.586
5.442
3.430
24.731
2.635
1.376
2.960
5.801
833
3.438
1.498
16.584
Totale
16.286
53.608
117.156
9.176
32.476
22.767
167.337
18.773
9.918
21.947
43.162
6.209
25.706
11.374
126.246
Perc. str.
su tot.
35,4
20,0
17,9
17,3
16,8
15,1
14,8
14,0
13,9
13,5
13,4
13,4
13,4
13,2
13,1
Fonte: Sistema Infocamere
Entrambe le province risultano avere un peso in percentuale di imprese individuali a titolare
straniero sul totale delle imprese individuali superiore rispetto alla media italiana (che, infatti,
risulta essere il 9,6%, 323.070 su 3.369.390). E’ bene tenere presente, tuttavia, che la vitalità
dell’imprenditoria degli immigrati nelle province di Modena e Reggio Emilia si colloca in un
contesto regionale che presenta, relativamente all’imprenditoria degli immigrati, caratteristiche
analoghe. Superiore alla media italiana, infatti, risulta essere anche la percentuale delle imprese
individuali a titolare straniero sul totale delle imprese individuali dell’intera regione Emilia
Romagna con il 12,2%. Nel 2009, l’Emilia Romagna risulta essere la 4° regione in Italia per
percentuale di imprese individuali a titolare straniero dopo Toscana, Lombardia e Liguria. Inoltre,
se si prende in considerazione la percentuale relativa alla distribuzione delle imprese individuali a
97
titolare straniero tra le regioni italiane, l’Emilia Romagna con il 9,64% risulta essere la 3° regione
in Italia dopo Lombardia e Toscana. In altri termini in Italia quasi una impresa individuale a titolare
straniero su dieci è situata in Emilia Romagna.
Per quel che riguarda la distribuzione delle imprese individuali a titolare straniero per settori
produttivi, nel 2009 la netta maggioranza delle imprese di Modena e Reggio Emilia risultano
appartenere al settore delle costruzioni. In particolare, a Reggio Emilia le imprese del settore delle
costruzioni rappresentano il 56,4% del totale delle imprese individuali a titolare straniero (tab. 3) e a
Modena il 40,1% (tab. 4). In regione, invece, le imprese del settore delle costruzioni rappresentano
il 47,0% del totale delle imprese individuali a titolare straniero. La vocazione produttiva prevalente
dell’imprenditoria degli immigrati nella regione Emilia Romagna e nei territori di Modena e Reggio
Emilia, dunque, è piuttosto evidente ed è simile alla tendenza che si registra nelle altre regioni del
nord Italia. Tuttavia se si prendono in considerazione i settori prevalenti a cui appartengono le
imprese individuali a titolare straniero che per dimensione seguono quello delle costruzioni emerge
chiaramente il peso che hanno le imprese individuali a titolare straniero appartenenti al settore delle
attività manifatturiere nelle province di Modena e Reggio Emilia e questa è certamente una
caratteristica specifica di questi due territori. A Reggio Emilia le imprese manifatturiere
rappresentano il 19,3% del totale delle imprese individuali a titolare straniero (tab. 3) e a Modena il
20,3% (tab. 4). Percentuali così elevate di imprese manifatturiere tra le imprese individuali a titolare
straniero non sono presenti in nessuna altra provincia dell’Emilia Romagna e, in generale, è difficile
riscontrarle in altre province italiane. Nella stessa regione Emilia Romagna le imprese
manifatturiere rappresentano solo l’11,8% del totale delle imprese individuali a titolare straniero
(percentuale però tra le più elevate rispetto alle altre regioni italiane). L’altro settore largamente
prevalente nelle due province di riferimento è quello del commercio all’ingrosso e al dettaglio
anche se la differenza del peso in percentuale sul totale delle imprese individuali a titolare straniero
che si registra a Modena (22,2%) e in generale in Emilia Romagna (24,0%) è significativamente più
alto di quello che si registra a Reggio Emilia (14,2%).
Tab. 3 - Imprese individuali a titolare immigrato suddivise per settori. Reggio Emilia
2009
Settore
F Costruzioni
C Attività manifatturiere
G Commercio all'ingrosso e al dettaglio; riparazione di aut...
I Attività dei servizi di alloggio e di ristorazione
N Noleggio, agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imp...
H Trasporto e magazzinaggio
S Altre attività di servizi
J Servizi di informazione e comunicazione
A Agricoltura, silvicoltura pesca
M Attività professionali, scientifiche e tecniche
K Attività finanziarie e assicurative
R Attività artistiche, sportive, di intrattenimento e diver...
L Attività immobiliari
P Istruzione
X Imprese non classificate
B Estrazione di minerali da cave e miniere
E Fornitura di acqua; reti fognarie, attività di gestione d...
Q Sanità e assistenza sociale
Totale
UE Non UE Tot. stran. %
367
2.704
3.071
56,4
36
1.017
1.053
19,3
98
674
772
14,2
27
111
138
2,5
15
86
101
1,9
14
64
78
1,4
26
36
62
1,1
6
47
53
1,0
16
25
41
0,8
12
15
27
0,5
6
12
18
0,3
3
9
12
0,2
1
7
8
0,1
2
1
3
0,1
2
2
0,0
1
1
0,0
1
1
0,0
1
1
0,0
629
4.813
5.442 100,0
Fonte: Sistema Infocamere
98
Tab. 4 - Imprese individuali a titolare immigrato suddivise per settori. Modena 2009
Settore
F Costruzioni
G Commercio all'ingrosso e al dettaglio; riparazione di aut...
C Attività manifatturiere
I Attività dei servizi di alloggio e di ristorazione
H Trasporto e magazzinaggio
N Noleggio, agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imp...
S Altre attività di servizi
A Agricoltura, silvicoltura pesca
M Attività professionali, scientifiche e tecniche
J Servizi di informazione e comunicazione
K Attività finanziarie e assicurative
R Attività artistiche, sportive, di intrattenimento e diver...
X Imprese non classificate
L Attività immobiliari
P Istruzione
Q Sanità e assistenza sociale
Totale
UE
356
120
81
31
22
21
35
29
10
6
4
2
1
4
3
1
726
Non UE
1.469
890
842
159
158
104
46
41
45
46
11
7
8
3
3.829
Tot
1.825
1.010
923
190
180
125
81
70
55
52
15
9
9
7
3
1
4.555
%
40,1
22,2
20,3
4,2
4,0
2,7
1,8
1,5
1,2
1,1
0,3
0,2
0,2
0,2
0,1
0,0
100,0%
Fonte: Sistema Infocamere
Per quel che riguarda le nazionalità dei titolari stranieri di imprese individuali nel 2009, a Reggio
Emilia la nazionalità cinese risulta essere quella prevalente con il 17,7%, seguita da quella albanese
con il 15,8%, da quella tunisina con il 12,2% e da quella marocchina con l’11,3% (tab. 5). Il 56,9%
dei titolari stranieri di imprese individuali in provincia di Reggio Emilia appartengono alle prime
quattro nazionalità. A Modena, sempre nel 2009, le prime quattro nazionalità dei titolari stranieri di
imprese individuali risultano essere le stesse che a Reggio Emilia, ma in ordine differente: in questo
caso infatti la nazionalità prevalente risulta essere la marocchina con il 18,2%, seguita dalla cinese
con il 16,7%, dalla tunisina con il 9,5% e dall’albanese con il 9,4% (tab. 6). Il 53,8% dei titolari
stranieri di imprese individuali in provincia di Modena appartengono alle prime quattro nazionalità.
Tab. 5 - Titolari immigrati di
imprese individuali a RE (prov.).
Prime 4 nazionalità. Anno 2009.
Tab. 6 - Titolari immigrati di
imprese individuali a MO (prov.).
Prime 4 nazionalità. Anno 2009.
Nazionalità N.
CINA
962
ALBANIA
862
TUNISIA
662
MAROCCO
614
Altri
2.348
Totale
5.448
Nazionalità N.
MAROCCO
831
CINA
760
TUNISIA
433
ALBANIA
427
Altri
2.106
Totale
4.557
Fonte: Sistema Infocamere
% su totale
di impr. a titolare
straniero
17,7
15,8
12,2
11,3
43,1
100
% su totale
di impr. a titolare
straniero
18,2
16,7
9,5
9,4
46,2
100
Fonte: Sistema Infocamere
Nel 2009 le nazionalità prevalenti tra i titolari stranieri di imprese individuali nei territori di
Modena e Reggio Emilia rispecchiano le nazionalità prevalenti tra i titolari stranieri di imprese
individuali di tutta la Regione Emilia Romagna. Tuttavia a livello regionale cambia il peso di
ciascuna nazionalità e soprattutto alle prime quattro nazionalità non appartiene oltre il 50% dei
titolari stranieri di imprese individuali come si registra invece nelle due province prese in
considerazione. Le nazionalità albanese, marocchina e cinese risultano essere anche tra le prime
quattro nazionalità dei titolari stranieri di imprese individuali a livello nazionale. Tuttavia a livello
99
nazionale la seconda nazionalità tra i titolari stranieri di imprese individuali risulta essere quella
rumena con il 10,8%, che in Emilia Romagna occupa una posizione molto inferiore.
3.3 La ricerca: gli imprenditori metalmeccanici marocchini, tunisini ed egiziani nella province di
Modena e Reggio Emilia
In questo paragrafo sono esposti i risultati della ricerca effettuata nell’area di Modena e Reggio
Emilia sugli imprenditori marocchini, tunisini ed egiziani nel settore metalmeccanico. La ricerca si
è svolta nella primavera/estate del 2010 (anche se le ultime interviste sono state effettuate
nell’autunno dello stesso anno). La tecnica d’intervista utilizzata è stata quella di una intervista
strutturata svolta face to face. Contemporaneamente sono state svolte alcune interviste semistrutturate con alcuni osservatori privilegiati che vivono o lavorano sul territorio.
Il campionamento dei soggetti a cui somministrare il questionario è stato fatto sulla base della
tecnica snow-ball basandosi sulle reti di relazione tra immigrati e/o autoctoni. Nella prima fase
l’individuazione dei punti di partenza delle catene è stata individuata nelle associazioni di categoria
dei due territori (CNA, API, Confartigianato, Confindustria) alle quali è stato richiesto di fornire i
recapiti telefonici degli associati di origine marocchina, tunisina ed egiziana della categoria
metalmeccanica. Solo alcune delle associazioni hanno fornito elenchi di nominativi con i rispettivi
numeri di telefono. In particolare è la CNA che ha messo a disposizione il maggior numero di
nominativi di soggetti a cui richiedere la disponibilità per svolgere una intervista. Le altre
associazioni di categoria o non hanno mai risposto o hanno dichiarato di non avere iscritti con le
caratteristiche richieste o hanno fornito elenchi di nominativi di soggetti che si sono rivelati
irrintracciabili. Si è deciso quindi di attivare anche altri punti di partenza delle catene e per la
precisione il centro interculturale Mondinsieme, l’Associazione Egiziana di Montecchio e la FIOMCGIL. I primi due punti di partenza hanno dato qualche risultato ma non quelli sperati all’inizio.
Nota a parte merita il punto di partenza della FIOM-CGIL. La richiesta che è stata fatta alla FIOMCGIL è consistita nel domandare gli indirizzi o i numeri di telefono degli imprenditori (artigiani e
non) di origine marocchina, tunisina ed egiziana contenuti nel proprio database. La FIOM-CGIL,
infatti, possiede un database informatizzato in cui sono contenute diverse informazioni sugli iscritti,
comprese le informazioni relative alle imprese in cui gli iscritti sono impiegati tra cui anche il nome
e cognome del titolare, la sua nazionalità, il numero di telefono e l’indirizzo dell’impresa. In altri
termini se anche un solo lavoratore di una “impresa X” risulta essere tesserato alla FIOM-CGIL di
Modena o di Reggio Emilia, il nome dell’”impresa X” e le informazioni relative al titolare
dovrebbero risultare presenti sul database. Dal database in questione non è risultato nessun nome
che potesse ricondurre ad una delle tre nazionalità di cui si era alla ricerca. Questo punto di
partenza, dunque è risultato fallimentare. Tenuto conto però del tasso di sindacalizzazione che la
FIOM-CGIL registra sui due territori di Modena e Reggio Emilia, il fatto che nel database non fosse
registrata nessuna impresa a titolare marocchino, tunisino o egiziano appare come un dato di per sé
interessante e su cui riflettere. Il punto di partenza più efficace, quindi, è stato indubbiamente quello
della CNA.
Successivamente si sono contattati telefonicamente i soggetti di cui si è avuto il nominativo e il
numero di telefono. In molti casi la disponibilità a svolgere una intervista è stata negata. I motivi
per il rifiuto a svolgere l’intervista sono stati diversi: qualcuno si è dichiarato non in grado di
svolgere una intervista in lingua italiana; qualcun altro ha sostenuto di non fidarsi; altri hanno
sostenuto di essere “stanchi di fare interviste di questo tipo”; altri ancora hanno dichiarato di essere
troppo impegnati in quel periodo e hanno continuamente rimandato l’intervista. Quelli che hanno
accettato di svolgere l’intervista, tuttavia, si sono dimostrati disponibili a rispondere a tutte le
domande e si è instaurato un clima favorevole tra intervistato e intervistatore. Le interviste si sono
svolte prevalentemente durante i finesettimana o durante giorni lavorativi nel tardo pomeriggio nei
luoghi più disparati: nei luoghi di lavoro, nei bar, nelle gelaterie, in un ufficio dell’Università di
Reggio Emilia, a casa dell’intervistato, ecc … Ciò è dovuto al fatto che al momento del contatto si è
100
lasciato scegliere all’intervistato il luogo che riteneva più adatto per svolgere l’intervista. Unici due
elementi critici rispetto allo svolgimento delle interviste è stato quello della scarsa conoscenza della
lingua italiana da parte di alcuni soggetti e della renitenza da parte di molti dei soggetti intervistati a
fornire all’intervistatore nominativi di imprenditori metalmeccanici marocchini, tunisini e/o
egiziani. Al momento della chiusura della fase di rilevazione, le interviste agli imprenditori
metalmeccanici effettuate sono risultate essere complessivamente 29: 20 marocchini, 7 tunisini e 2
egiziani. Due tra gli intervistati avevano la doppia cittadinanza, ma nessuno di loro è nato in Italia.
Tutti gli intervistati sono maschi compresi tra una età di 26 e di 64 anni.
Prima di dar conto di alcuni risultati della ricerca e di illustrare alcune riflessioni a caldo, risulta
utile fornire un quadro il più possibile esaustivo di quali siano le dimensioni e le caratteristiche
dell’imprenditoria degli immigrati marocchini, tunisini ed egiziani nel territorio di Modena e
Reggio Emilia attraverso alcune elaborazioni sui dati contenuti nel Sistema Infocamere.
3.3.1 I dati provenienti dal sistema camerale locale sulle imprese a titolare marocchino, tunisino ed
egiziano delle province di Modena e Reggio Emilia.
Secondo i dati provenienti dal Sistema Infocamere, quindi, nel 2009 i gruppi nazionali marocchino
e tunisino risultano essere tra quelli a maggiore vocazione imprenditoriale nel territorio reggiano e
modenese. Molto meno rappresentata tra i titolari stranieri di imprese individuali è la nazionalità
egiziana, la quale nelle province di Modena e Reggio Emilia conta circa mezzo migliaio di
imprenditori.
Per quel che riguarda la nazionalità marocchina, la tabella che segue mostra che nel 2009 il settore
maggiormente rappresentato nelle due province di riferimento (il dato è aggregato) è quello delle
costruzioni con il 38,5%; segue di poco il settore del commercio al dettaglio e all’ingrosso con il
37,8% e le attività manifatturiere con l’11,1% (tab. 7). Come si capirà meglio in seguito, gli
imprenditori marocchini nei due territori si concentrano in misura molto minore che gli imprenditori
tunisini ed egiziani nel settore delle costruzioni.
Tab. 7 - Imprese individuali a titolare di nazionalità marocchina in
provincia di Modena e Reggio Emilia. Disaggregazione per settore.
Anno 2009
Attività
F Costruzioni
G Commercio all'ingrosso e al dettaglio; riparazione di aut...
C Attività manifatturiere
H Trasporto e magazzinaggio
N Noleggio, agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imp...
I Attività dei servizi di alloggio e di ristorazione
J Servizi di informazione e comunicazione
S Altre attività di servizi
M Attività professionali, scientifiche e tecniche
A Agricoltura, silvicoltura pesca
K Attività finanziarie e assicurative
R Attività artistiche, sportive, di intrattenimento e diver...
X Imprese non classificate
B Estrazione di minerali da cave e miniere
L Attività immobiliari
Totale
N
556
546
160
69
38
29
21
12
4
2
2
2
2
1
1
1.445
Percentuale
38,5
37,8
11,1
4,8
2,6
2,0
1,5
0,8
0,3
0,1
0,1
0,1
0,1
0,1
0,1
100,0
Fonte: Sistema Infocamere
Tra i 160 titolari marocchini di imprese individuali che risultano appartenere al settore
manifatturiero, 130 (l’81,2%) possiedono imprese metalmeccaniche (tab. 8). La larga maggioranza
di queste risultano essere imprese di fabbricazione di prodotti in metallo.
101
Tab. 8 - Imprese individuali a titolare di nazionalità marocchina in provincia di Modena e
Reggio Emilia. Disaggregazione per attività del settore manifatturiero. Anno 2009
Attività
C 25 Fabbricazione di prodotti in metallo (esclusi macchinari ...
C 33 Riparazione, manutenzione ed installazione di macchine ed...
C 10 Industrie alimentari
C 16 Industria del legno e dei prodotti in legno e sughero (es...
C 28 Fabbricazione di macchinari ed apparecchiature nca
C 23 Fabbricazione di altri prodotti della lavorazione di miner..
C 14 Confezione di articoli di abbigliamento; confezione di ar...
C 22 Fabbricazione di articoli in gomma e materie plastiche
C 32 Altre industrie manifatturiere
C 24 Metallurgia
C 29 Fabbricazione di autoveicoli, rimorchi e semirimorchi
C 30 Fabbricazione di altri mezzi di trasporto
No
106
13
8
8
8
7
3
2
2
1
1
1
Percentuale
66,2
8,1
5,0
5,0
5,0
4,4
1,9
1,3
1,3
0,6
0,6
0,6
Fonte: Sistema Infocamere
Anche per quel che riguarda i titolari tunisini di imprese individuali, nel 2009 il settore
maggiormente rappresentato nelle due province di riferimento (anche in questo caso il dato è
aggregato) è quello delle costruzioni con il 83,5%; segue a distanza il settore delle attività
manifatturiere con il 7,1% e quello del commercio all’ingrosso e al dettaglio con il 4,1% (tab. 9).
Nel caso della nazionalità tunisina, quindi, nel territorio di Modena e Reggio Emilia si registra una
forte concentrazione dei titolari di imprese individuali nel settore delle costruzioni, mentre gli altri
settori sembrano avere un carattere più residuale.
Tab. 9 - Imprese individuali a titolare di nazionalità tunisina in
provincia di Modena e Reggio Emilia. Disaggregazione per settore.
Anno 2009
Attività
F Costruzioni
C Attività manifatturiere
G Commercio all'ingrosso e al dettaglio; riparazione di aut...
H Trasporto e magazzinaggio
N Noleggio, agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imp...
I Attività dei servizi di alloggio e di ristorazione
S Altre attività di servizi
M Attività professionali, scientifiche e tecniche
J Servizi di informazione e comunicazione
X Imprese non classificate
A Agricoltura, silvicoltura pesca
Totale
N
914
78
45
28
9
7
5
4
2
2
1
1.095
Percentuale
83,5%
7,1%
4,1%
2,6%
0,8%
0,6%
0,5%
0,4%
0,2%
0,2%
0,1%
100,0%
Fonte: Sistema Infocamere
Tra i 78 titolari tunisini di imprese individuali che risultano appartenere al settore manifatturiero, 60
(l’81,2%) possiedono imprese metalmeccaniche (tab. 10). Anche in questo caso la larga
maggioranza di queste risultano essere imprese di fabbricazione di prodotti in metallo.
102
Tab. 10 - Imprese individuali a titolare di nazionalità tunisina in provincia di Modena e
Reggio Emilia. Disaggregazione per attività del settore manifatturiero. Anno 2009
Attività
C 25 Fabbricazione di prodotti in metallo (esclusi macchinari ...
C 16 Industria del legno e dei prodotti in legno e sughero (es...
C 23 Fabbricazione di altri prodotti della lavorazione di miner..
C 33 Riparazione, manutenzione ed installazione di macchine ed...
C 14 Confezione di articoli di abbigliamento; confezione di ar...
C 28 Fabbricazione di macchinari ed apparecchiature nca
C 10 Industrie alimentari
C 13 Industrie tessili
C 31 Fabbricazione di mobili
C 32 Altre industrie manifatturiere
N
53
6
4
4
3
3
2
1
1
1
Percentuale
21,0
2,4
1,6
1,6
1,2
1,2
0,8
0,4
0,4
0,4
Fonte: Sistema Infocamere
Infine, per quel che riguarda i titolari egiziani di imprese individuali, nel 2009 il settore
maggiormente rappresentato nelle due province di riferimento (anche in questo caso il dato è
aggregato) è quello delle costruzioni con il 87,5%, seguito a distanza dal settore del commercio
all’ingrosso e al dettaglio con il 4,6%, da quello dei servizi di alloggio e ristorazione con il 3,0%; il
settore delle attività manifatturiere in questo caso rappresenta solo il 2,8% (tab. 11). Anche nel caso
della nazionalità egiziana, quindi, nel territorio di Modena e Reggio Emilia si registra una forte
concentrazione dei titolari di imprese individuali nel settore delle costruzioni.
Tab. 11 - Imprese individuali a titolare di nazionalità egiziana in
provincia di Modena e Reggio Emilia. Disaggregazione per settore.
Anno 2009
Attività
F Costruzioni
G Commercio all'ingrosso e al dettaglio; riparazione di aut...
I Attività dei servizi di alloggio e di ristorazione
C Attività manifatturiere
H Trasporto e magazzinaggio
N Noleggio, agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imp...
J Servizi di informazione e comunicazione
L Attività immobiliari
R Attività artistiche, sportive, di intrattenimento e diver...
Totale
N
434
23
15
14
5
2
1
1
1
496
Percentuale
87,6
4,6
3,0
2,8
1,0
0,4
0,2
0,2
0,2
100,0
Fonte: Sistema Infocamere
Tra i 14 titolari egiziani di imprese individuali che risultano appartenere al settore manifatturiero, 9
possiedono imprese metal meccaniche e tutte risultano essere imprese di fabbricazione di prodotti in
metallo (tab. 12).
Tab. 12 - Imprese individuali a titolare di nazionalità egiziana in provincia di
Modena e Reggio Emilia. Disaggregazione per attività del settore manifatturiero.
Anno 2009
Attività
C 25 Fabbricazione di prodotti in metallo (esclusi macchinari ...
C 10 Industrie alimentari
C 29 Fabbricazione di autoveicoli, rimorchi e semirimorchi
C 23 Fabbricazione di altri prodotti della lavorazione di miner..
N
9
2
2
1
Percentuale
64,3
14,3
14,3
7,1
Fonte: Sistema Infocamere
103
3.3.2 Le interviste con gli imprenditori marocchini, tunisini ed egiziani del settore metalmeccanico
nelle province di Modena e Reggio Emilia
Questa parte del rapporto è dedicata, come è già stato anticipato sopra, ai primi risultati della ricerca
che si è svolta a Modena e Reggio Emilia. Ci si limiterà a fare una analisi descrittiva dei dati
raccolti rimandando per analisi più raffinate e complesse ad ulteriori approfondimenti futuri. Questa
sede, tuttavia, sembra essere la più adeguata anche per fare alcune riflessioni anche sulla base dello
svolgimento delle interviste e sulle note a margine che l’intervistatore ha prodotto.
Essendo molte le informazioni che si sono prodotte attraverso la somministrazione dei questionari è
stato necessario operare una selezione degli argomenti. Nelle prossime pagine ci si limiterà a riporre
l’attenzione, quindi, sugli aspetti socio anagrafici, sui percorsi migratori e sulle carriere degli
imprenditori immigrati intervistati. Infine si dedicheranno le ultime pagine alle caratteristiche delle
imprese di cui sono titolari gli intervistati.
3.3.2.1 Capitale culturale, provenienza famigliare e sociale degli intervistati
In generale gli imprenditori intervistati risultano possedere un livello di scolarizzazione medio-alto:
in 3 casi su 29 gli intervistati hanno dichiarato di avere conseguito una laurea, in 14 casi un
diploma, in 10 casi la licenza media o l’avviamento professionale; solo in 2 casi gli intervistati
hanno dichiarato di possedere la licenza elementare. La larga maggioranza dei titoli di studio sono
stati conseguiti dagli intervistati nei paesi d’origine (Marocco, Tunisia ed Egitto), ma 6 tra i
diplomati e i laureati hanno dichiarato di avere acquisito il diploma o la laurea in Italia o in Francia.
Tab.13 Titolo di studio degli intervistati
N
licenza elementare
licenza media
avviamento professionale
diploma
laurea
Totale
%
2
6
4
14
3
29
6,9
20,7
13,8
48,3
10,3
100,0
Su 29 intervistati, 5 hanno dichiarato di conoscere due lingue (la lingua madre e l’italiano); 15
intervistati hanno dichiarato, invece, di conoscere una terza lingua oltre all’italiano e alla lingua
madre e ben 9 intervistati hanno sostenuto di conoscere quattro o più lingue.
Questi due dati sembrano indicare che il capitale culturale degli intervistati, in generale, sia
tendenzialmente alto. Gli imprenditori durante le interviste hanno spesso sostenuto che possedere
una formazione scolastica, al di là del riconoscimento dei titoli di studio, e sapere parlare più lingue
ha rappresentato in passato e rappresenta ancora oggi un fattore che ha facilitato la loro attività
lavorativa e in particolare quella imprenditoriale.
24 dei 29 imprenditori intervistati sono risultati essere di estrazione urbana: 17 delle famiglie di
origine degli intervistati vivevano in città con oltre un milione di abitanti, mentre 7 in città al di
sotto del milione di abitanti; solo 5 degli intervistati hanno dichiarato che la famiglia d’origine
viveva in piccoli paesi di poche migliaia di abitanti e nessuno abitava in campagna.
Le famiglie d’origine degli intervistati sembrano appartenere in parte al proletariato urbano e in
parte al ceto medio cittadino. Alla domanda “Come definirebbe le condizioni economiche della sua
famiglia di origine rispetto a quelle delle altre famiglie locali?” le risposte degli intervistati sono
risultate nettamente polarizzate (tab.13): solo 5 tra gli intervistati ritengono che la famiglia d’origine
avesse condizioni economiche un po’ peggiori delle altre; 20 intervistati (quasi il 70%) ritengono,
invece, che la famiglia d’origine avesse condizioni economiche più o meno uguali alle altre, mentre
104
in 4 sostengono che la loro famiglia d’origine avesse condizioni un po’ migliori o molto migliori
delle altre. Significativo è il fatto che nessuno degli intervistati ha dichiarato che la propria famiglia
d’origine avesse condizioni economiche molto peggiori rispetto alle altre famiglie.
L’occupazione prevalente del padre degli intervistati è risultata essere quella dell’operaio (tab.14);
solo in 4 tra i 29 intervistati hanno dichiarato che l’attività prevalente del padre fosse l’attività
agricola; il restante degli intervistati ha indicato come attività del padre svariate professioni
(commerciante, artigiano, impiegato, dirigente, insegnante, ecc…).
Tab.13 Condizioni economiche della
famiglia di origine degli intervistati
N
molto migliori
un po' migliori
più o meno come le
altre
un po' peggiori
Totale
Tab.14 Occupazione prevalente del
padre degli intervistati
%
1
3
3,4
10,3
20
69,1
5
29
17,2
100,0
N
contadino
operaio
commerciante
artigiano
impiegato
insegnante
dirigente
altro
Totale
4
10
2
2
3
2
1
5
29
%
13,8
34,6
6,9
6,9
10,3
6,9
3,4
17,2
100,0
In 9 tra gli intervistati (il 31%) hanno dichiarato di avere parenti titolari di altre imprese. Se l’alta
presenza di intervistati che hanno dichiarato di avere parenti titolari di altre imprese può essere
interpretata come l’esistenza di una propensione/tradizione famigliare ad intraprendere, dall’altra è
necessario interpretare questo dato con estrema cautela. A ben vedere, infatti, tra coloro che hanno
risposto affermativamente alla domanda “ha parenti titolari di altre imprese” solo 1 soggetto ha
risposto indicando in un genitore il parente titolare di impresa. La maggioranza dei parenti indicati
come titolari di altre imprese, infatti, sono risultati essere fratelli, sorelle e cugini e nella larghissima
maggioranza dei casi l’attività imprenditoriale da parte di parenti è stata avviata durante una
esperienza di immigrazione e non nel paese di origine.
Coerentemente con ciò che è largamente condiviso all’interno dei migration studies, gli immigrati
intervistati non sembrano appartenere alla fascia più povera della popolazione del loro paese
d’origine. Anche dal dato relativo al tipo di attività che gli intervistati stavano svolgendo al
momento della partenza dal proprio paese d’origine si ricava la stessa impressione: 11 intervistati,
infatti, hanno dichiarato che al momento della partenza stavano studiando, 16 che stavano
lavorando e solo 2 che erano in cerca di lavoro (corrispondente ad una percentuale inferiore al 7%).
Alla domanda poi “ha mai lavorato al proprio paese”, il numero di chi ha risposto affermativamente
sale a 17. Tra questi, 10 hanno iniziato a lavorare solo dopo il compimento della maggiore età e solo
6 prima dei quindici anni (una percentuale certamente bassa se contestualizzata nei paesi d’origine
degli intervistati). Le professioni di coloro che hanno dichiarato di avere lavorato nel paese
d’origine sono risultate essere molto diverse. Quelle che, tuttavia, registrano percentuali più alte
sono l’idraulico (3 casi), l’operaio (3 casi) e il muratore (2 casi). I settori in cui gli intervistati
stavano lavorando nel momento in cui sono partiti dal proprio paese sono risultati essere le
costruzioni e la lavorazione di metalli e la meccanica.
3.3.2.2 La partenza dal paese d’origine, l’arrivo in Italia, il percorso migratorio e l’attuale
condizione di residenza degli intervistati
Dalle interviste si evince chiaramente che tra i fattori di spinta che hanno svolto un ruolo
determinante per la decisione di emigrare presa dagli intervistati al momento della partenza dal loro
paese d’origine, i fattori legati alla condizione economica e sociale risultano essere i maggioritari.
105
Osservando, infatti, la tabella che riporta le risposte che gli intervistati hanno dato alla domanda
“cosa l’ha spinto a partire dal suo paese d’origine?” (era lasciata la possibilità agli intervistati di
fornire più di una risposta) risulta chiaro come in 19 tra gli intervistati hanno dichiarato che tra i
motivi della partenza “i problemi economici” abbiano rappresentato un elemento importante.
Sempre in 19 hanno indicato “il desiderio di promozione”, risposta più complessa, ma che ha
sempre a che fare con la condizione sociale dei soggetti nei paesi d’origine. Significativo è anche il
fatto che “desiderio di libertà” e “spirito di avventura” siano stati i fattori di spinta indicati
rispettivamente da 11 e 16 degli intervistati. Nessuno tra gli intervistati ha dichiarato che tra i
motivi di spinta siano rientrati fattori politici.
Tab.15 Fattori di spinta
Tab.16 Fattori di attrazione
Motivi
economici
politici
studio
libertà
avventura
promozione
ricongiung.
Motivi
presenza di parenti
presenza di connaz
facilità d'ingresso
prossimità culturale
opport. di lavoro
N. intervistati % sul totale
che
degli
hanno risposto intervistati
19
65,5
0
0,0
1
3,4
11
37,9
16
55,2
19
65,5
2
6,9
N. intervistati % sul totale
che
degli
hanno risposto intervistati
8
27,6
15
51,7
7
24,1
16
55,2
9
31,0
Rispetto all’età che gli intervistati avevano quando sono partiti dal loro paese d’origine, in 10
avevano meno di 21 anni, in 9 da 21 a 25 anni, in 6 tra 26 e 30 anni e in 4 avevano oltre 30 anni. La
larga maggioranza degli intervistati (in 24 casi su 29, l’82,8% del totale), inoltre, ha dichiarato che
l’Italia è stato il primo paese d’immigrazione, mentre quattro tra i soggetti intervistati hanno
dichiarato di avere fatto una esperienza migratoria in altri due paesi europei (Francia e Germania)
prima di arrivare in Italia.
Riguardo, invece, ai fattori di attrazione, osservando la tabella che riporta le risposte che gli
intervistati hanno dato alla domanda “cosa l’ha attratta verso l’Italia” (anche in questo caso era
lasciata la possibilità agli intervistati di fornire più di una risposta) è interessante notare che 16 di
loro hanno risposto “prossimità culturale”; la risposta “presenza di connazionali” è stata data da 15
intervistati e in 8 hanno risposto “presenza di parenti”; solo 9 intervistati hanno risposto
“opportunità di lavoro” e solo in 7 hanno risposto “facilità di ingresso”. In generale sembra
delinearsi una certa debolezza dei fattori di attrazione strutturali e, di converso, una certa forza dei
fattori culturali/soggettivi e delle strutture a livello meso quali possono essere le reti dei migranti.
Dalle risposte, infatti, emerge l’importanza che le reti di connazionali e le reti famigliari rivestono
all’interno del processo decisionale che porta gli immigrati a scegliere il paese di destinazione e il
peso che può avere nella scelta della destinazione la percezione della cultura presente nel paese (in
realtà, al termine cultura gli intervistati attribuivano significati molto differenti).
La tabella successiva mostra il periodo in cui gli intervistati hanno dichiarato di essere arrivati in
Italia. Ben oltre la metà di loro risultano essere arrivati in Italia prima del 1992 (e hanno almeno 20
anni di immigrazione alle spalle) e 26 intervistati su 29 (l’89,6% del totale) è arrivato in Italia prima
del 1999.
Tab.17 Anno arrivo in Italia degli intervistati
N
1971-1986
1987-1992
1993-1998
1999-2002
2003-2010
Totale
%
3
16
7
1
2
29
10,3
55,3
24,1
3,4
6,9
100,0
106
Oltre la metà degli intervistati è arrivata direttamente nelle province in cui al momento
dell’intervista viveva e lavorava (Modena e Reggio Emilia) e non hanno mai cambiato la loro
residenza; 14 intervistati, invece, hanno dichiarato di avere abitato per periodi più o meno lunghi
anche in altre province italiane. Napoli e Palermo sembrano essere le due città (o province) che
hanno rappresentato le tappe italiane intermedie per la maggior parte degli intervistati che non
risiedono da sempre a Modena e Reggio Emilia.
Gli intervistati risultano essere altamente stabilizzati sul territorio. La quasi totalità degli intervistati
(28 su 29) al momento dell’intervista era coniugato e in un caso è risultato divorziato. Solo in un
caso la nazionalità dei partner non è risultata la stessa degli intervistati. 28 intervistati su 29, inoltre,
sono risultati avere figli. A differenza delle famiglie d’origine degli intervistati, in generale famiglie
numerose, le famiglie che gli intervistati hanno costituito tendono ad essere famiglie più ristrette: 17
degli intervistati che hanno dichiarato avere figli, infatti, non ne hanno più di due. Quasi tutti gli
intervistati hanno dichiarato di vivere con le loro famiglie, ma anche il nucleo abitativo rispecchia il
ridimensionamento della famiglia: solo 9 degli intervistati hanno dichiarato di vivere con quattro o
più perone (prevalentemente i/le figli/e e la partner).
3.3.2.3 La carriera lavorativa e l’inizio dell’attività imprenditoriale
Tutti gli intervistati hanno dichiarato che prima di avviare l’attività imprenditoriale hanno svolto
altri lavori. Per la totalità dei soggetti con cui si è svolta l’intervista il primo lavoro svolto in Italia è
stato alle dipendenze di un datore di lavoro italiano. I settori di attività del primo lavoro in Italia che
hanno svolto gli intervistati risultano essere i più svariati, ma in 25 (circa l’86% del totale) hanno
comunque dichiarato di avere lavorato in settori appartenenti al macrosettore secondario; le
professioni prevalenti risultano essere l’operaio (15 casi su 29) e il muratore (5 casi su 29).
Tab.18 Settore del primo lavoro in Italia
Tab.19 Primo lavoro in Italia
N
agricoltura, caccia pesca estrazione minerali
commercio
lavorazione dei metalli e meccanica
altro manifatturiero
costruzioni
ristorazione e alberghiero
Totale
2
1
13
5
7
1
29
%
7,5
3,0
45,5
17,0
24.0
3,0
100
N
bracciante agricolo
fornaio
operaio
saldatore
meccanico
idraulico
muratore
lavapiatti
Totale
2
1
15
1
2
2
5
1
29
%
7,5
3,0
52,5
3,0
7,5
7,5
17,0
3,0
100
Per quasi un terzo degli intervistati, il primo lavoro che hanno trovato in Italia è stato il lavoro che
hanno svolto fino a diventare imprenditori. Gli altri intervistati (20 soggetti), invece, hanno
cambiato due o più lavori prima di avviare l’attività imprenditoriale di cui erano titolari al momento
dell’intervista: tra questi 20 casi, in 13 hanno cambiato da 2 a 4 lavori, in 5 da 5 a 7 lavori e in 3 da
8 a 10 lavori.
Tra i 20 soggetti intervistati che hanno svolto due o più lavori, oltre la metà ha dichiarato che il
lavoro più importante (per durata) svolto successivamente al primo lavoro in Italia è stato quello di
operaio e il settore prevalente in cui hanno dichiarato di essere stati impiegati è quello della
lavorazione dei metalli e della meccanica. Ciò che è interessante notare è il fatto che, al di là del
numero di lavori cambiati, l’ultimo lavoro svolto dagli intervistati prima di avviare l’attività
imprenditoriale di cui erano titolari al momento dell’intervista è nella quasi totalità dei casi un
lavoro da operaio in una impresa del settore della lavorazione dei metalli e della meccanica. In altri
termini, l’inserimento nel mercato del lavoro del settore metalmeccanico è avvenuto a diverse
velocità a seconda dei casi, ma almeno una esperienza passata da lavoratore dipendente in una
107
impresa metalmeccanica sembra essere una ricorrenza frequente nella biografia lavorativa degli
intervistati.
Nella tab.20 sono riportati gli anni che sono passati dall’arrivo in Italia degli intervistati all’avvio
dell’attività imprenditoriale. Nel campione di imprenditori immigrati a cui è stato somministrato il
questionario, in media, dall’arrivo in Italia all’avvio dell’impresa, sono passati 10 anni e mezzo. Dal
sesto al decimo anno di presenza in Italia sembra essere il periodo in cui più di un terzo degli
intervistati ha avviato la propria impresa.
Tab.20 Anni trascorsi dall'arrivo in Italia all'avvio impresa
N
Fino a 5 anni
6-10 anni
11-15 anni
Oltre 15 anni
Totale
%
6
10
6
7
29
20,7
34,5
20,7
24,1
100,0
Quasi tutti gli intervistati, 26 su 29 (circa il 90%), hanno dichiarato che nel momento in cui hanno
avviato l’attività imprenditoriale stavano lavorando e solo in 3 erano in cerca di occupazione. Quasi
tutti gli imprenditori intervistati, 26 su 29 (sempre circa il 90%) hanno utilizzato capitale proprio
(spesso i propri risparmi o la propria liquidazione) per avviare l’attività, la quale, sempre per quasi
tutti gli intervistati, 28 su 29, è stata fondata ex-novo e non rilevata da altri.
Tab.21 Stato occupazionale degli intervistati al
momento dell'avviamento dell'attività
N
in cerca di occupazione
lavorava
Totale
%
3
26
29
10,3
89,7
100,0
Il dato sullo stato occupazionale degli intervistati al momento dell’avviamento dell’attività, alla luce
dei motivi che hanno spinto gli stessi intervistati ad intraprendere, conviene leggerlo in chiaroscuro.
Ai soggetti del campione, infatti, è stato richiesto di indicare i tre motivi principali che li hanno
spinti ad avviare l’attività imprenditoriale e di attribuirgli un ordine di importanza.
Tab.22 I tre motivi di avvio dell’impresa
Primo motivo
guadagnare di più
lavoro più regolare
essere autonomo
valorizzare capacita e conoscenze
consiglio precedente datore di lavoro
non ho trovato altro lavoro
riparo da razzismo e diffidenza
seguire tradizioni familiari
non mi volevano come dipendente, ma
come artigiano
stare più vicino alla famiglia/ottenere
ricongiungimento
rinnovare permesso soggiorno
Totale
N
12
1
2
2
3
6
-
%
41,5
3,4
6,9
6,9
10,3
20,7
3
10,3
N
5
5
7
7
3
1
1
-
%
17,3
17,3
24,1
24,1
10,4
3,4
3,4
-
29
Secondo motivo
100,0
29
100,0
Terzo motivo
N
4
3
2
8
%
14,8
11,1
7,4
29,7
3
4
1
-
11,1
14,8
3,7
1
3,7
1
27
3,7
100,0
108
La tabella 22 mostra i motivi che hanno spinto ad imprendere gli immigrati intervistati. Per quanto
riguarda il primo motivo, prevale il “guadagnare di più” (12 risposte su 29). Tuttavia sempre tra i
primi motivi citati, la risposta “non ho trovato altro lavoro” è stata indicata da 6 intervistati su 29, e
le risposte “non mi volevano come dipendente, ma come artigiano” e “consiglio del precedente
datore di lavoro” sono state indicate da 3 intervistati. E’ opportuno precisare che la risposta
“consiglio del precedente datore di lavoro” è stata data con una certa dose di ironia da parte degli
intervistati, nel senso che nonostante gli intervistati abbiano specificato che non gli è stato posto un
vero e proprio aut-aut da parte degli ex-datori di lavoro, per diversi motivi la scelta di mettersi in
proprio è stata fortemente condizionata dagli imprenditori per i quali stavano lavorando. In altri
termini, il confine tra “dare un consiglio” e “persuadere” nei racconti che gli intervistati hanno fatto
a margine dell’intervista è risultato molto sottile. A rafforzare questa impressione sta anche il fatto
che non pochi tra coloro che hanno deciso di mettersi in proprio sulla base di un consiglio da parte
dell’ex datore di lavoro (ma anche tra coloro che hanno deciso di mettersi in proprio per guadagnare
di più) hanno dichiarato che si sono pentiti della scelta che hanno fatto.
Rispetto ai secondi motivi, invece, la risposta maggioritaria è stata “essere autonomo” (indicata da 7
intervistati su 29), seguita da “guadagnare di più”, “avere un lavoro più regolare” e “valorizzare le
mie capacità” (ciascuna risposta è stata indicata da 5 intervistati). La quinta risposta maggiormente
rappresentata è ancora “non ho trovato altro lavoro” (indicata da 3 intervistati).
Rispetto ai terzi motivi, infine, “valorizzare le proprie capacità” rappresenta la risposta
maggioritaria (indicata da 6 intervistati), seguita da “per guadagnare di più” (indicata da 4
intervistati), “non ho trovato altro lavoro” (indicata da 4 intervistati), “avere un lavoro più regolare”
e “consiglio del precedente datore di lavoro” (ciascuna risposta è stata indicata da 3 intervistati).
Al di là di questi ultimi dati, che meriterebbero, alla pari di altri, un maggior approfondimento, ciò
che è scritto sopra si rispecchia nelle risposte che gli intervistati hanno fornito in un’altra parte
dell’intervista: quella che aveva l’obbiettivo di rilevare il ruolo giocato durante la fase di start-up e
di sviluppo dell’impresa da alcuni precisi fattori come ad esempio la conoscenza della lingua
italiana, la professionalità, la conoscenza di lingue straniere, il sostegno della famiglia, ecc … Dalle
analisi emerge che la conoscenza della lingua italiana, la “voglia di lavorare” e la professionalità
rappresentano per gli intervistati gli aspetti che hanno giocato un ruolo di primaria importanza
nell’avviamento e nella gestione dell’attività imprenditoriale; l’istruzione, la conoscenza di altre
lingue oltre a quella italiana, i capitali iniziali e il sostegno della famiglia sono anch’essi aspetti che,
anche se in misura minore, sono risultati importanti nelle esperienze da imprenditori degli
intervistati; la tradizione e le esperienze professionali della famiglia, invece, si caratterizzano per
essere considerati dagli intervistati fattori scarsamente importanti nell’avviamento e nella gestione
dell’impresa; secondo gli intervistati, infine, non risultano essere stati di nessuna importanza i
rapporti con le associazioni e le istituzioni autoctone e/o connazionali. Quest’ultimo dato sulle
associazioni, tuttavia, risulta essere contradditorio rispetto al tessuto relazionale che gli intervistati
hanno sostenuto di avere sviluppato sul territorio e che, come si capirà più avanti, sembra
comprendere anche le associazioni di categoria e le istituzioni locali.
3.3.2.4 Le caratteristiche dell’impresa
Le imprese di cui sono titolari gli intervistati naturalmente rientrano tutte all’interno del settore
metalmeccanico. Le attività che le imprese svolgono, tuttavia, risultano essere molto differenti. A
conferma di ciò che è già largamente ribadito dalla letteratura sui distretti, ovvero la labilità dei
confini dei settori produttivi delle imprese di un sistema distrettuale, durante lo svolgimento della
ricerca si sono incontrati titolari di imprese che per la loro natura si collocavano al confine di
diversi settori produttivi. Talvolta gli imprenditori stessi, pur confermando che la propria impresa si
occupava di lavorazione di materiale ferroso e metallico o di manutenzione e montaggio di
macchinari, sostenevano di svolgere prevalentemente la propria attività in un settore diverso rispetto
109
a quello metalmeccanico. Di fronte a questo scenario complesso e articolato si è deciso di valutare
di volta in volta se in effetti l’impresa di cui era titolare l’immigrato che stava per essere intervistato
potesse rientrare all’interno della definizione “metalmeccanica”. Nonostante questa selezione,
basata ovviamente anche sulla sensibilità dell’intervistatore, le imprese i cui titolari sono stati
intervistati sono comunque risultate molto diverse rispetto al settore produttivo di riferimento. Di
fatto è possibile affermare che 5 degli immigrati imprenditori intervistati risultano operare nel
settore dei macchinari di climatizzazione, di aspirazione e degli impianti idraulici e fotovoltaici.
Non si tratta solo di imprese di montaggio degli impianti e dei macchinari, ma anche della
fabbricazione a livello artigianale di componenti dei sistemi suddetti. Un secondo gruppo, costituito
da 12 imprenditori, invece risulta svolgere attività di riparazione e collaudo di vere e proprie
macchine industriali (a bassa tecnologia) o produrre alcuni componenti di queste ultime. Questo
secondo gruppo, tuttavia, risulta essere molto eterogeneo al proprio interno a partire dal fatto che i
settori delle imprese che utilizzano i macchinari (e dunque i settori dei committenti) sono almeno
tre: il metalmeccanico, il ceramico e l’agroalimentare. Infine il terzo gruppo, costituito da 12
imprenditori, è un gruppo di imprese collocabili al confine tra il metalmeccanico e l’edilizia e
comprende le imprese che trattano, trasformano e costruiscono strutture in metallo, ma che
svolgono questa attività spesso presso i cantieri di costruzione o comunque in stretto contatto con
imprese del settore edile. Sarebbe interessante elaborare i dati raccolti a partire dalla segmentazione
sub-settoriale che si è illustrata sopra, ma lo scarso numero di casi non permette di svolgere analisi
significative in questo senso. L’eterogeneità delle imprese che si sono ricomprese nel campione,
tuttavia, è un elemento da tenere in considerazione per l’interpretazione dei dati che seguono.
21 dei 29 imprenditori immigrati che sono stati intervistati hanno dichiarato di non avere
dipendenti, 5 di avere un dipendente, 2 di averne due e 1 di averne quattro. Il mercato del lavoro da
cui attingono le imprese degli immigrati intervistati, tuttavia, risulta essere composto solo da
immigrati: nessuno degli intervistati ha, infatti, sostenuto di avere dipendenti italiani e solo due
intervistati hanno dichiarato di avere avuto dipendenti italiani in passato. I dipendenti delle imprese
degli immigrati intervistati risultano essere prevalentemente connazionali (tra cui anche qualche
famigliare) e in misura minore stranieri non connazionali. Lo stesso è possibile affermare per i
collaboratori.
Se emerge una certa debolezza di relazioni tra le imprese degli immigrati intervistati e la
popolazione autoctona per quel che riguarda il mercato del lavoro (le cui ragioni non è stato
possibile approfondire né da parte della domanda, né da parte dell’offerta), per quel che riguarda la
rete relazionale utilizzata dagli imprenditori immigrati per acquisire competenze e risorse per
gestire l’impresa soprattutto in fase di start-up risulta essere molto più articolata. Quasi due terzi
degli intervistati, infatti, hanno dichiarato che ci sono state persone da cui hanno imparato a gestire
la propria impresa. Ciò che risulta essere interessante è il fatto che la larga maggioranza degli
intervistati ha dichiarato che tra queste persone da cui hanno imparato a gestire e a condurre la
propria impresa ci sono molti italiani. Molto pochi, invece, sono coloro che hanno indicato stranieri
e connazionali (compresi i famigliari) tra le persone da cui hanno imparato a gestire l’impresa. Non
sembra essersi verificato in misura consistente, quindi, un processo di ethnic training all’attività
imprenditoriale come è emerso, invece, in altre esperienze di ricerca, ma piuttosto un trasferimento
di competenze tra soggetti autoctoni e stranieri. Dalle note delle interviste, inoltre, emerge che
spesso gli italiani da cui gli intervistati hanno dichiarato di avere appreso i rudimenti del proprio
lavoro risultano essere ex-datori di lavoro ed ex-colleghi di lavoro. In altri termini sembra che
durante il periodo da lavoratore dipendente che tutti gli intervistati hanno passato prima di
imprendere sia avvenuta una trasmissione di saperi pratici, spesso on the job, da parte di ex-colleghi
ed ex-datori di lavoro: si tratta in alcuni casi della trasmissione di saperi gestionali e organizzativi,
in altri casi della trasmissione di competenze relazionali e di contatti e conoscenze (prevalentemente
con fornitori e clienti), in altri casi ancora di “saperi di contenuto del lavoro”. Coerenti con ciò che è
stato scritto sopra sono i risultati derivanti dalla batteria di domande relative al tessuto relazionale
degli intervistati e all’importanza che queste rivestono nella gestione dell’impresa. Dall’analisi di
110
queste domande emerge chiaramente come le relazioni con gli italiani siano considerate di gran
lunga più importanti rispetto alle relazioni con i connazionali e con gli immigrati di altre
nazionalità. Anche le relazioni con i famigliari, in generale, sembrano essere considerate meno
importanti rispetto a quelle con gli italiani.
La rete relazionale dalla quale gli imprenditori intervistati hanno dichiarato di attingere risorse di
diversa natura per gestire l’impresa sembra comprendere anche il tessuto istituzionale locale e non
essere costituita solo da rapporti informali tra soggetti individuali. Per esempio per gestire la
contabilità dell’impresa, le paghe, i contributi e gli obblighi fiscali 8 intervistati su 29 hanno
dichiarato di rivolgersi ad un commercialista italiano, ma, soprattutto, 20 intervistati su 29 hanno
dichiarato di rivolgersi ad una associazione di categoria. Anche alle domande relative alla tipologia
di associazioni a cui gli imprenditori si sono rivolti in passato per avere assistenza o consulenza, gli
intervistati hanno indicato nelle associazioni di categoria italiane quelle che hanno fornito il
supporto più significativo.
In generale, quindi, gli imprenditori immigrati intervistati sembrano essere relativamente integrati
nel tessuto relazionale e non a caso considerano la dimensione relazionale e in particolare le
relazioni con gli autoctoni un elemento fondamentale per il successo o per lo meno per la
sostenibilità dell’attività imprenditoriale. Un elemento di criticità che emerge dalle interviste,
tuttavia, è quello dell’accesso al credito: più di un terzo degli imprenditori immigrati intervistati
hanno dichiarato di avere avuto bisogno di richiedere prestiti per lo sviluppo della propria attività
imprenditoriale; in particolare 8 degli intervistati hanno dichiarato di essersi rivolti ad istituti
bancari (una quota significativa se si conta che, come molti intervistati hanno dichiarato, esistono
fattori culturali e religiosi per i mussulmani che non facilitano l’accesso al credito presso le banche
occidentali); nonostante ciò pochi degli intervistati che hanno richiesto finanziamenti alle banche
hanno dichiarato di avere ottenuto prestiti.
In generale le imprese degli intervistati sembrano essere inserite in un mercato che si estende su
un’area territoriale più vasta di quella provinciale (tab.23). Solo 7 intervistati hanno dichiarato di
vendere prevalentemente i propri prodotti all’interno della provincia in cui ha sede l’impresa,
mentre 11 intervistati hanno sostenuto di vendere prevalentemente i propri prodotti all’interno della
regione Emilia Romagna, 8 in più regioni d’Italia (prevalentemente, ma non esclusivamente regioni
settentrionali) e 3 anche all’estero.
Tab.23 Area territoriale in cui l'azienda vende
prevalentemente i propri prodotti
N
provincia
regione
in più regioni italiane
anche all'estero
Totale
7
11
8
3
29
%
24,1
37,9
27,7
10,3
100,0
La larga maggioranza delle imprese degli immigrati intervistati non risultano essere monocommittenti: solo 7 tra le imprese degli intervistati, infatti, risultavano avere al momento dello
svolgimento dell’intervista un solo committente/cliente; in 20 tra i 29 intervistati, invece, hanno
dichiarato che al momento dell’intervista la propria impresa aveva dai 2 ai 5 committenti; 2
intervistati, infine, hanno dichiarato di avere dai 6 ai 10 committenti.
Per quel che riguarda invece i fornitori (tab.24), gli intervistati hanno dichiarato che in genere la
rete di fornitori di materie prime, attrezzi e materiali da lavoro, strumenti, macchinari e mezzi di
produzione (gli intervistati hanno fatto riferimento ad una molteplicità di materiali a causa della
varietà della tipologia di imprese i cui erano titolari. I fornitori, di conseguenza, sono risultati essere
soggetti molto diversi tra loro: imprese manifatturiere, imprese di lavorazione delle materie prime,
esercizi di commercio all’ingrosso, esercizi di commercio al dettaglio, ecc …) è collocata
111
all’interno della provincia in cui ha sede l’impresa (per 21 dei 29 intervistati) e in misura minore in
altre province della regione o in altre regioni italiane.
Tab.24 Area territoriale in cui sono situati i
fornitori dell'azienda
N
comune
provincia
regione
in più regioni italiane
Totale
2
21
4
2
29
%
6,9
72,4
13,8
6,9
100,0
Tab.25 Numero di clienti
N
uno
da 2 a 5
da 6 a 10
Totale
7
20
2
29
%
24,1
69,0
6,9
100,0
Gli intervistati hanno dichiarato che sia nel caso dei fornitori che in quello dei committenti si tratta
sempre di aziende il cui titolare è italiano. Tuttavia, in 4 casi gli intervistati hanno dichiarato che in
passato hanno avuto rapporti d’affari anche con aziende del paese d’origine e che in tutti e quattro
questi casi la ragione è stata la vendita di prodotti o servizi della propria impresa. La rete di imprese
in cui sono inseriti gli imprenditori immigrati, quindi, sembra essere relativamente densa ed estesa.
Inoltre sembra emergere una rete di rapporti tra imprese, come tradizione all’interno delle aree
distrettuali, caratterizzata dalla compresenza di strategie di competizione e di cooperazione (talvolta
con gli stessi soggetti). Spesso durante le interviste gli imprenditori hanno raccontato episodi di
“risposta alle richieste del mercato” enfatizzando la loro capacità di collaborazione con altre
imprese e la capacità di attivare la rete di piccole e micro imprese in cui evidentemente sono situati.
Spesso si trattava della descrizione di strategie che prevedevano la costruzione in tempi rapidissimi
di “una squadra di imprese” per far fronte ad una commessa insostenibile (non tanto per quantità o
per ristrettezza dei tempi, ma piuttosto per la complessità e l’eterogeneità delle lavorazioni
richieste) da parte di una singola impresa. Tutto ciò secondo gli intervistati è reso possibile dal fatto
che esistono rapporti consolidati di collaborazione tra imprese sul territorio. A conferma di ciò,
stanno le risposte che gli intervistati hanno dato alle domande relative alla natura dei rapporti con
gli altri gli imprenditori. Solo 7 degli intervistati hanno dichiarato di non avere rapporti con
imprenditori connazionali e solo in 2 hanno dichiarato di non averne con imprenditori italiani. Ciò
che, tuttavia, risulta ancor più interessante è il fatto che solo 3 degli intervistati hanno dichiarato di
avere rapporti di concorrenza con imprenditori connazionali, così come solo in 3 hanno dichiarato
di avere rapporti di concorrenza con imprenditori italiani, mentre 19 intervistati hanno sostenuto di
avere rapporti di collaborazione con imprenditori connazionali e ben in 24 di avere rapporti di
collaborazione con imprenditori italiani.
Da un’altra batteria di domande, inoltre, emerge che la maggioranza degli intervistati non sembra
temere la concorrenza. Alla domanda su quali siano i concorrenti più temibili, oltre la metà degli
intervistati (16 su 29) ha risposto “nessuno”, in 6 “gli italiani” e in 6 “gli albanesi o gli stranieri
originari dai paesi dell’Europa dell’est”.
3.3.2.5 Le imprese e la crisi economica
Come è stato scritto sopra, durante gli ultimi anni di crisi economica le imprese degli immigrati nel
territorio di Modena e Reggio Emilia hanno registrato, stando ai dati del Sistema Infocamere, una
tenuta maggiore rispetto alle imprese italiane dello stesso territorio. Le interviste con gli
imprenditori immigrati marocchini, tunisini ed egiziani hanno rappresentato la possibilità di
esplorare anche la performance delle imprese durante l’attuale crisi economica. Un tema di questo
genere meriterebbe un maggiore approfondimento, ma è possibile ricavare qualche informazione
anche dai risultati di una parte delle interviste che sono state svolte.
Secondo gli intervistati i punti di forza delle proprie imprese durante una fase di crisi economica
come quella presente risultano essere principalmente due: la buona reputazione che si sono costruiti
rispetto ai committenti e la flessibilità che possono garantire di fronte alle richieste del mercato.
112
Solo meno della metà degli intervistati ha indicato nei prezzi più bassi uno di motivi di
competitività della propria impresa in un momento di crisi e ancora meno sono stati quelli che
hanno indicato nel mantenimento di bassi costi un elemento su cui puntare in un momento di crisi
economica.
Tab.26 I punti di forza dell’impresa di
fronte all'attuale crisi economica
Tab.27 I punti di debolezza dell’impresa di fronte
all'attuale crisi economica
Prezzi bassi
Qualità del prodotto
Buona reputazione
Flessibilità
Mantenimento
di
bassi costi
Concorrenza di aziende imm.
Concorrenza di aziende it.
Difficoltà di accesso al credito
Scarsa conoscenza della PA
Scarse conoscenze professionali
Diffidenza della società it.
Dipendenza da pochi clienti
Altro
N. intervistati
che hanno
risposto
13
11
18
16
8
% sul
totale
44,8
37,9
62,1
55,2
27,6
N. intervistati
che hanno
risposto
10
9
6
6
4
6
19
4
% sul totale
degli
intervistati
34,5
31,0
20,7
20,7
13,9
20,7
65,5
13,9
Rispetto invece ai punti di debolezza (tab.27), la maggioranza degli intervistati ha indicato nella
dipendenza da un numero limitato di committenti il maggiore problema che in un periodo di crisi
economica sono costretti ad affrontare; la concorrenza delle imprese di altri immigrati risulta essere
il secondo punto di debolezza maggiormente avvertito dagli intervistati e la concorrenza di aziende
italiane il terzo; seguono la difficoltà dell’accesso al credito, la scarsa conoscenza della Pubblica
Amministrazione e la diffidenza della società italiana.
In 20 tra i 29 imprenditori intervistati hanno dichiarato che rispetto al periodo precedente alla crisi
economica il numero di dipendenti è rimasto costante. Questo dato è da prendere con cautela dal
momento che comprende anche gli intervistati che non hanno mai avuto alle loro dipendenze
qualcuno. 8 imprenditori intervistati, invece, hanno dichiarato che rispetto al periodo pre-crisi i
dipendenti sono diminuiti e solo in un caso si è registrato un aumento del numero di dipendenti.
Per quel che riguarda il fatturato, invece, 18 dei 29 imprenditori immigrati intervistati hanno
dichiarato che dal periodo precedente la crisi economica al momento dell’intervista il volume del
fatturato è diminuito; 8 degli intervistati hanno sostenuto che il volume di fatturato è rimasto
costante rispetto a tre anni prima; 3 intervistati, infine, hanno dichiarato che il volume di fatturato è
aumentato.
Rispetto al futuro la totalità degli imprenditori marocchini, tunisini ed egiziani intervistati hanno
dichiarato di non avere intenzione di cedere l’azienda a terzi, né tanto meno ai figli. Tuttavia 8 di
loro ritengono che sia probabile che ad un certo punto siano costretti a chiudere la propria impresa
ed escludono che tale dismissione possa coincidere con l’avviamento di un’altra attività
imprenditoriale nello stesso settore o in un settore diverso, ma piuttosto che possa coincidere con la
ricerca di un lavoro da dipendente.
113
7. Imprenditori cinesi nel settore delle confezioni e dell’abbigliamento
a Prato
Maria Fabbri∗
1. Immigrazione a Prato
In Toscana la presenza di popolazione straniera ha ormai assunto le caratteristiche di un fenomeno
strutturale di crescente rilevanza, in primo luogo da un punto di vista demografico e in particolare
nelle province centrali e nell’area fiorentino-pratese, lungo la cosiddetta traiettoria della “Toscana
dell’Arno”, tra Firenze, Prato e Arezzo (Callia, 2009).
Nel periodo compreso tra il 1995 e il 2002 l’incremento nella presenza di migranti più significativo
ha riguardato le aree prossime al capoluogo di Regione e soprattutto la Provincia pratese, dove la
popolazione straniera è quasi quadruplicata con un incremento del 290% (Paletti, Russo, 2010).
L’insediamento e la rapida crescita della comunità straniere hanno avuto un impatto
rilevante sulla società pratese anche in considerazione del fatto che questa presenza risulta
nell’intera provincia spesso legata a un progetto migratorio di lungo termine, se non di definitivo
stanziamento (Giovani, Valzania, 2004).
Il fenomeno appare ancora più significativo se lo si considera in relazione ad alcune caratteristiche
del contesto: la Provincia di Prato è infatti una provincia ancora relativamente giovane, istituita solo
nel 1992; si estende su una superficie piuttosto limitata, di 365 kmq, e con una popolazione
complessiva al 1° gennaio 2009 di 246.034 abitanti (ISTAT), con una crescita demografica in attivo
grazie proprio al saldo positivo degli stranieri (28.971, secondo ISTAT al 1° gennaio 2009).
Alla fine del 2009 la provincia di Prato contava 31.450 residenti stranieri (Rapporto Statistico
Immigrazione Caritas Migrantes, 2010) con un’incidenza del 12,7% sulla popolazione totale, valore
non solo superiore alla media regionale ma ai primi posti nella graduatoria nazionale: grazie a
questa presenza la città in circa cinquanta anni si è trasformata da Comune di medie dimensioni alla
terza città del centro Italia.
Attualmente Prato è quindi la Provincia toscana che registra la presenza più significativa di migranti
sul proprio territorio, seconda solo al capoluogo regionale (Ministero dell’Interno, Conferenza dei
Prefetti, 2009): questi stranieri rappresentano 110 etnie diverse ma provengono soprattutto da paesi
a forte pressione migratoria asiatici, africani e dell’Europa centro-orientale: il 22,5% di loro ha
meno di 15 anni e solo l’1,5% ne ha più di 64, con una popolazione attiva pari al 76% (conto il
65,5% degli italiani).
Figura 1: stranieri residenti a Prato (Bracci, 2008)
∗
Sociolab
114
In particolare nell’area del distretto pratese71 risulta molto rilevante soprattutto la presenza
cinese che anche a livello nazionale costituisce numericamente la quarta comunità straniera in Italia,
con un’incidenza sulla popolazione straniera del 4,4% (Caritas, 2010).
La migrazione cinese in Italia si è articolata in quattro flussi principali.
Il primo flusso intorno al 1918, con l’arrivo a Milano dei primi piccoli gruppi di cinesi originari
dello Zhejiang e dallo Shandong, provenienti in larga parte dalla Francia, dove avevano lavorato
durante la prima guerra mondiale nelle fabbriche a corto di personale; gradualmente la stabilità
economica raggiunta da questi primi migranti cinesi, in prevalenza uomini giovani, ha permesso
loro di iniziare a chiamare familiari ma anche conoscenti dalla madrepatria.
L’attività principale dei nuovi arrivati è in questi anni quella dell’impiego nella vendita ambulante
di prodotti tessili ma mantiene forti connotati di precarietà; solo in un secondo momento molti
cominciano ad impiegarsi come lavoratori salariati, specie nelle fabbriche tessili, e la comunità
comincia lentamente a crescere e a stabilizzarsi in particolare a Milano, a Torino e a Bologna.
Negli anni del boom economico che investe la società italiana, l’immigrazione cinese è però ancora
poco consistente e si concentra principalmente nelle città industriali del Nord Italia e a Roma e
comunque resta non comparabile a quella di molte metropoli straniere, dove già da tempo esistono
zone ad alta concentrazione etnica, meglio conosciute come chinatowns.
Il secondo flusso che ha interessato l’Italia è quello proveniente dal Fujian, iniziato alla fine degli
anni ’80 e anche in questa circostanza generato da un processo di migrazione a catena dalla Cina, a
seguito della politica di apertura del governo di Deng Xiaoping e delle sue scelte più flessibili anche
in materia di espatrio che permettono un’inversione rispetto alla tendenza che aveva caratterizzato
la Cina negli anni precedenti e aprono una nuova fase dell’emigrazione cinese. Proprio in questi
anni l’arrivo di immigrati cinesi in Italia comincia a crescere notevolmente, sia come approdo
indiretto, dopo aver soggiornato più o meno a lungo in altri paesi europei, che come approdo diretto
dalla madrepatria.
Sono però gli anni ‘80 e ’90 che vedono il maggior flusso di cittadini cinesi nel nostro paese: questo
flusso interessa molte regioni anche al centro e in parte al sud Italia. In dieci anni la presenza di
cittadini cinesi sul territorio nazionale passa dalle 2.036 unità nel 1982 alle 22.112 del 1992, in un
contesto generale di maggior afflusso di immigrati e di ampie regolarizzazioni, attraverso l’uso di
sanatorie (Guercini, 1999) e in particolare per la chiusura delle grandi industrie e delle miniere di
Stato nella Repubblica Popolare che spinge molti cinesi a una scelta migratoria, basata sempre su
pattern di catena parentale.
In questo periodo in Italia nascono e si sviluppano numerose attività commerciali e si diffondono i
laboratori tessili cinesi, dando vita a importanti centri produttivi: si moltiplicano i laboratori,
71
Tutti i comuni di quella che poi è diventata l’area della provincia pratese hanno avuto il loro primo grande sviluppo
già tra il XIII e il XIV secolo, con l’ascesa di un dinamico ceto produttivo e commerciale. A partire dall’800 si assiste
però nella zona allo sviluppo delle attività legate al settore tessile e all’abbigliamento come ambiti peculiari
dell’economia locale. Come descritto da Dei Ottati (1995), il distretto si configura negli anni cinquanta del ‘900,
centrandosi su un numero ridotto di attività di lanifici e su un secondo circuito composto da artigiani e da piccoli
commercianti. Solo la deliberazione consiliare n. 69 del 21 Febbraio 2000 ha però riconosciuto all’area pratese (con
l’aggiunta dei comuni di Agliana, Calenzano, Campi Bisenzio, Montale e Quarrata) la qualifica di distretto industriale
specializzato nelle produzioni del tessile e dell’abbigliamento, che attualmente occupano più di un terzo degli addetti e
che hanno fatto di Prato il modello di distretto industriale in Toscana (Lazzaretti, Storai, 1999). Attualmente il sistema
locale del lavoro, comprende sia i nove comuni della provincia (Cantagallo, Carmignano, Montemurlo, Poggio a
Caiano, Prato, Vaiano, Vernio) che i due comuni di confine del pistoiese, mentre il sistema di produzione tessile ha
un’estensione territoriale maggiore, definita distretto industriale, e si estende a tre comuni del pistoiese (Quarrata,
Montale, Agliana) e a due comuni di confine con l’area fiorentina (Campi Bisenzio e Calenzano)
115
soprattutto dediti alla lavorazione del pellame e dei tessuti, e iniziano a comparire anche le prime
attività legate alla ristorazione.
L’ultimo flusso si è verificato negli anni 2000 e ha visto una migrazione più diversificata, spesso
non vincolata a legami forti ma anche decisa da singoli individui con livelli di scolarizzazione più
alta, il cui progetto migratorio è spesso finalizzato non solo al ricongiungimento parentale ma anche
alla ricerca di capitali o a personali strategie professionali (Cologna, 2006).
È però il terzo flusso quello a cui si lega lo sviluppo della comunità cinese di Prato che ha avuto
infatti inizio intorno ai primi anni ’90: da questo momento in poi riveste un ruolo di catalizzatore di
investimenti e di manodopera cinese, divenendo sede di una tra le maggiori comunità d’Italia.
Tra il 1990 e il 1991, l’anagrafe comunale pratese registra l’arrivo di quasi 1.000 cittadini cinesi e il
numero dei residenti passa dai 38 del 1989 ai 1.009 del 1991, con un insediamento di massa
favorito dall'approvazione di alcune disposizioni di legge che prevedevano la regolarizzazione degli
immigrati (legge Martelli).
Questo flusso viene alimentato per altro non solo dagli arrivi provenienti dalla Repubblica Popolare
Cinese ma anche dai numerosi trasferimenti da varie città italiane o europee: in particolare il
movimento interno cinese verso Prato ha avuto origine dall’area della piana fiorentina, dalla zona
oggi popolarmente conosciuta come Chinatown, il quartiere cinese tra Firenze, Signa, Poggio a
Caiano, Brozzi e la periferia di Peretola, dove i migranti cinesi, provenienti in maggioranza da aree
rurali delle province meridionali di Zhejiang e Fujiang (Bellandi, Biggeri, 2005), si erano inseriti
lavorativamente nel settore della pelletteria (Fondazione Michelucci, 1995).
La maggior parte dei cinesi presenti sul territorio pratese proviene ancora oggi da una zona
circoscritta del Zhejiang, tradizionalmente nota per lo spirito imprenditoriale e la forte inclinazione
al sacrificio per il raggiungimento del successo economico dei suoi abitanti, e in particolar modo
dalla città di Wenzhou: questa comunità costituisce il gruppo straniero più numeroso a Prato,
seguito da albanesi, pachistani, marocchini e rumeni.
La comunità cinese ha avuto a Prato caratteristiche e modalità di sviluppo senza precedenti, con una
dimensione significativa quanto quella di Parigi, e si caratterizza per una permanenza strettamente
legata a una vita lavorativa intensa ma anche per una forte mobilità e una certa precarietà, pur con
tendenze ad un insediamento sempre più stabile (Bracci, Parpajola, Sambo, 2009). La tendenza
sarebbe confermata a partire dal fatto che se in passato solo gli uomini ne erano protagonisti, oggi
sono interi gruppi familiari a spostarsi, per arrivare fino al dato eloquente dei bambini nati a Prato
da genitori cinesi che vede oggi più di 1.300 nati, circa il 18% della comunità locale.
2. Stranieri e impresa a Prato
Una così rilevante presenza ha avuto riflessi importanti anche sul tessuto economico e
produttivo locali, nel quadro di una regione in cui gli stranieri hanno un ruolo determinante
nell’economia, con un considerevole rapporto tra il valore aggiunto immigrato sul valore aggiunto
totale dell’area (16,7%).
In modo particolare il riferimento è qui al fenomeno dell’imprenditoria straniera, in relazione al
quale l’intera Toscana si pone tra le prime posizioni a livello nazionale, e che raggiunge livelli
significativi di presenza in alcune Province, come appunto quella pratese con un dato del 23,9%
(Paletti, Russo, 2010).
Al 31 dicembre 2008 risultavano iscritte alla Camera di Commercio di Prato 7.460 imprese con
almeno una persona straniera avente carico e un trend di crescita costante dal 199972, a fronte di una
72
Nel 1999 le ditte individuali cinesi iscritte al registro Imprese erano 952, 1502 nel 2003, 2507 nel 2005, 3040 nel
2007 e 3435 nel 2008, a fronte di una diminuzione delle imprese locali.
116
diminuzione delle imprese individuali locali. In circa dieci anni il numero di imprese a conduzione
non comunitaria si è dunque quintuplicato e oggi nella provincia di Prato un’impresa su quattro
risulta guidata da un imprenditore immigrato (Callia, 2009): indicatori questi di una crescente
stabilizzazione e della capacità imprenditoriale straniera di modellarsi sul distretto locale.
Figura 2: Imprese con titolare immigrato per regione (Unioncamere, 2009)
La ricerca empirica sul tema ha però evidenziato come proprio nella realtà toscana siano
ancora poche le imprese a carattere propriamente “etnico”, orientate cioè a fornire ai connazionali
prodotti o servizi connotati etnicamente (Ambrosini, 2001 a; FIERI, 2005), mentre si assiste invece
a quella che viene definita come specializzazione etnica delle attività in alcuni contesti locali.
L’imprenditoria straniera in Toscana è infatti caratterizzata da una tipica concentrazione territoriale
e settoriale, con evidente rilievo in proposito del distretto tessile di Prato e di alcuni sistemi locali
della provincia di Firenze nel settore delle confezioni (Beudò, Giovani, Savino, 2008).
Il riferimento è qui all’attività della comunità cinese che nel corso degli ultimi venti-venticinque
anni si è insediata lungo l’asse dell’Arno che unisce la periferia e i Comuni della cintura a nord
ovest di Firenze con la Provincia di Prato e prosegue poi verso la Provincia di Pistoia.
La presenza delle attività cinesi ha raggiunto in questa zona rapidamente una visibilità rilevante,
connessa soprattutto alla tendenza a concentrare le proprie attività in aree ben definite (la zona di
via Pistoiese e quella del Macrolotto), che si sono sviluppate dal punto di vista produttivo in modo
omogeneo e coeso. Queste aree hanno assunto caratteristiche urbanistiche e architettoniche molto
precise e ben identificate dalla collettività locale, che sono cambiate nel tempo con il modificarsi
della natura dell’attività e dell’organizzazione produttiva della comunità cinese, passando dai
laboratori-abitazione di dimensioni medie o piccole, caratterizzati dalla contiguità tra famiglia e
impresa (Guercini, 1999), per micro imprese a carattere familiare, con frequente commistione tra
luogo di vita e di lavoro, ai capannoni industriali per aziende vere e proprie, dove però nella
maggior parte dei casi permangono una serie di forti criticità legate alle condizioni di lavoro e alla
legalità delle modalità di gestione.
117
Le aziende cinesi hanno fin da subito mostrato non solo di essere estremamente flessibili e
competitive nella produzione, con manodopera disponibile ad ogni orario, ritmi intensi di lavoro e a
bassissimo costo, ma anche di sapersi sviluppare come aziende autonome rispetto al polo produttivo
pratese, capaci di avvantaggiarsi dell’effetto trainante dei servizi, delle competenze e del dinamismo
del tessuto imprenditoriale e del sistema economico locali, sfruttandone al massimo le
caratteristiche.
3. L’impresa cinese-pratese
La forte propensione all’imprenditorialità della comunità cinese in Italia73 ha nel contesto
provinciale pratese un caso emblematico che evidenzia al meglio come a differenza di altre
nazionalità, la scelta migratoria per i cinesi si leghi strettamente allo spirito imprenditoriale
piuttosto che al lavoro subordinato, in una dinamica in cui pare che sia proprio la dimensione
imprenditoriale a richiamare nuovi flussi e non viceversa e a rappresentare il primo gradino della
scala dell’integrazione.
Le ditte individuali iscritte nel 1999 al Registro Imprese pratese erano 952, cifra considerevole se
paragonata a quella relativa alle altre etnie presenti sul territorio che non risultano altrettanto
interessate all’imprenditoria e lavorano prevalentemente come dipendenti all’interno delle aziende
pratesi, come nel caso dei pakistani che lavorano nelle tessiture e nelle filature. Il dato cresce a 1502
nel 2003, a 2507 nel 2005, per poi arrivare a 3040 nel 2007 e a 3435 nel 2008 (Calandi, Cialdini,
Menaldi, 2010).
I dati dell’Osservatorio del Comune di Prato confermano una straordinaria crescita
dell’imprenditoria cinese proprio tra il 2002 ed il 2005, periodo che oltre alla nascita di numerose
ditte individuali (Caserta e Marsden, 2003) vede anche una crescita più contenuta di società di
capitali, concentrate soprattutto nei settori del commercio e delle confezioni, con una ridotta
capacità di capitalizzazione, intorno ai 20.000 euro74 (Marsden, Caserta, 2010; Bracci, Parpajola,
Sambo, 2009) ma che confermano una crescente diffusione verso forme societarie più evolute a
testimonianza di acquisizione di competenze e di conoscenze dei meccanismi del sistema
burocratico e di lavoro.
73
I dati forniti dalla Confederazione Nazionale dell’Artigianato relativi al 2007 riportano la presenza in Italia di 19.044
aziende cinesi su un totale di 141.143 aziende di cittadini stranieri, con un’incidenza del 13,5%.
74
Nel manifatturiero quasi l’80% delle società cinesi si colloca al di sotto dei 15.000 euro e nel tessile si caratterizzano
quasi sempre per la scarsa disponibilità di risorse.
118
Figura 3: Numero imprese cinesi- Provincia di
Prato (Marsden, Caserta, 2010)
I dati della Camera di Commercio, analizzati alla fine del 2009 (Marsden, Caserta, 2010), registrano
un tasso di crescita delle aziende cinesi intorno al 13% rispetto al 2008, che per altro in questi anni
di crisi, compensa il tasso di crescita negativo registrato in quasi tutti i comparti italiani, in
particolare nel manifatturiero. Sempre secondo questi dati, nel settembre 2009 le imprese orientali
erano 4.336 con una crescita del 10,6% rispetto allo stesso mese del 2008, con un ulteriore crescita
registrata a fino dicembre.
A gestire l’insieme di queste aziende sono oggi a Prato oltre 4.700 imprenditori, in larga
maggioranza (70,13%) tra i trenta e i cinquanta anni di età, prevalentemente di sesso maschile, ma
con una partecipazione femminile comunque molto elevata (40,07%), specie nelle fasce di età
superiore. La presenza delle donne è in crescita costante, interessa tutti i settori di attività ma si
concentra nel manifatturiero (Marsden, Caserta, 2010) e sembra confermare nei ruoli
imprenditoriali l’equilibrio di genere che caratterizza le migrazioni cinesi dal punto di vista
quantitativo, per cui le donne possono precedere, accompagnare o seguire i mariti e le rispettive
famiglie (Bracci, Parpajola, Sambo, 2009).
Figura 4: Imprese cinesi a conduzione straniera (Bracci, 2008)
Seguendo la classificazione di Ambrosini-Schellenbaum (1994), la maggioranza di queste
imprese cinesi rientra nella categoria dell’impresa aperta, che produce o offre beni e servizi non
tipicamente etnici e destinati ad un mercato aperto.
119
Del resto, come Ceccagno (2004) ha evidenziato parlare di economia etnica nel caso delle imprese
cinesi a Prato significa ignorare la rete di relazioni tra piccole imprese cinesi e committenti italiani:
un sistema di relazioni, più o meno dirette, che si lega alle origini della presenza cinese nella zona.
Lo sviluppo della comunità cinese a Prato si accompagna infatti alla crescita di un settore
specifico di attività imprenditoriale, in relazione con il nucleo originario di aziende di maglieria e
confezioni presenti sul territorio in alcune zone ai margini del Comune (Toccafondi, 2005), e si
connette a una graduale evoluzione del sistema di impresa.
Infatti negli anni ‘90 la necessità del distretto locale di affrontare alcuni cambiamenti nel
sistema produttivo per fare fronte alla concorrenza di paesi con manodopera a basso costo offre
spazio all’insediamento delle imprese cinesi, specie nella forma di laboratori di subfornitura,
specializzati in fasi di lavorazione ad alta intensità di lavoro (Ceccagno, 2003): in pochi anni le
impresi cinesi si moltiplicano, grazie anche all’entrata in vigore della legge 40/98 che liberalizza
l’accesso degli extracomunitari all’esercizio del lavoro autonomo, e vanno a sostituire ruoli che la
popolazione locale non era più disposta a svolgere all’interno della tipologia industriale che produce
in pronto moda (Calandi, Cialdini, Menaldi, 2010), ovvero confezioni a costi contenuti prodotte in
tempi brevissimi seguendo l’evoluzione della moda di mese in mese.
Le interviste con i testimoni privilegiato hanno delineato un quadro di sviluppo particolare
dell’imprenditoria cinese nel contesto pratese: un “caso nazionale” di imprenditoria straniera
all’interno di un distretto locale con caratteristiche che ne hanno facilitato la diffusione.
Il distretto pratese si è infatti distinto fin dalle origini per uno sviluppo “dal basso”, con diffusione
di aziende di dimensioni medio-piccole, specializzate in fasi e in grado di avvantaggiarsi della
prossimità territoriale per sfruttare economie esterne all’impresa ma di fatto interne al sistema
(Cialdini, Landi, 2010) nella produzione di beni a basso contenuto tecnologico, attribuendo
importanza all’interno della realtà manifatturiera alla piccola impresa e alle attività artigiane. Come
evidenziato da Dei Ottati (1995), l’organizzazione complessiva del distretto resta ancora oggi
largamente basata sulla divisione del lavoro tra le imprese finali-committenti, che curano l’acquisto
di materie prime e di semilavorati, la progettazione dei campionari e la commercializzazione dei
tessuti o dei filati, e le imprese di fase, generalmente specializzate in una sola fase del processo
produttivo (filatura, orditura, tessitura, tintura, finissaggio) che si occupano della manifattura dei
prodotti e dei semilavorati.
Proprio nell’ambito della committenza si sono inserite inizialmente le aziende cinesi,
plasmandosi sul cosiddetto “modello delle costellazioni” in cui le imprese-guida, generalmente
lanifici, “governano” le costellazioni, mentre le altre imprese hanno bassa propensione alla crescita
e restano sostanzialmente funzionali alla costellazione stessa (Dei Ottati, 1995).
Secondo l’analisi fornita dalla teoria della vacancy chain (Ambrosini, 2001 b), che evidenzia i
meccanismi di sostituzione attraverso i quali gli imprenditori autoctoni escono da mercati
considerati maturi o a bassa redditività, lasciando così spazio all’iniziativa dei nuovi arrivati, varie
caratteristiche del sistema produttivo locale avrebbero dunque facilitato questo sviluppo: la natura
dello spazio di specializzazione produttiva del settore delle confezioni che permette l’accesso per la
facilità di acquisizione delle competenze industriali, confrontate a quelle richieste del tessile
tradizionale; le basse soglie di entrata dal punto di vista del capitale necessario iniziale; un contesto
politico-amministrativo con limitate barriere normative, burocratiche e organizzative rispetto ad
altri contesti nazionali; la facilità di formazione, talvolta interpretata dagli imprenditori locali in
termini di mero sfruttamento del patrimonio di saperi locali all’insegna del “sono venuti qui e
hanno imparato tutto” (INT1); la facile reperibilità di spazi e macchinari per avviare le ditte e la
possibilità di inserirsi in un mercato già attivo; nonché la natura peculiare del ciclo produttivo
120
locale, fondato sulla centralità della famiglia e sull’auto-sfruttamento (Bracci, 2008)75. In proposito,
secondo un approccio mixed embeddedness, Ceccagno (2003) ha evidenziato come, in alcuni
distretti industriali italiani, i cinesi abbiano adattato i propri valori di riferimento alle esigenze del
mercato locale.
Inoltre, sulla base di considerazioni culture bound approach 76, il sistema pratese presenta alcuni
aspetti che possono aver sostenuto lo sviluppo dell’imprenditoria cinese sia per la presenza di tratti
comuni della cultura di impresa locale con quella migrante, con riferimento al forte individualismo
e allo spiccato spirito competitivo, sia per la diffusione di meccanismi di relazione e di modalità di
gestione economica informali che avrebbero di fatto facilitato le imprese cinesi a inserirsi e
consolidarsi nel tessuto produttivo, adeguandosi e talvolta esasperando elementi e pratiche già
esistenti.
I testimoni privilegiati hanno infatti evidenziato nelle interviste l’importanza nello sviluppo delle
aziende cinesi di alcune caratteristiche relazionali del contesto: la tradizione locale di larghe fasce di
economia sommersa, connesse al cosiddetto “nerone” (INT4), termine gergale per indicare la tipica
modalità di transizione economica locale; l’esistenza di aree grigie di impresa, in primo luogo
quella dei contoterzisti; una certa tolleranza da parte delle istituzioni locali in una provincia ancora
giovane, senza risorse e strutture adeguate per far fronte alle esigenze e alle criticità legate a una
presenza definita da alcuni “enorme in termini assoluti ma insostenibile in termini relativi” (INT1).
Infine come è stato evidenziato (Becattini, 2000; Marchetti, 2004; Bracci, 2008) la crescita di
queste imprese rievoca le modalità di nascita e sviluppo del distretto pratese e mostra rilevanti
affinità con il sistema produttivo locale: fortissima applicazione al lavoro, abilità manuale,
radicamento familiare, frequente impiego del lavoro femminile (con donne molto spesso titolari di
azienda) e di minori, oltre al fatto che questa comunità migrante avrebbe al pari di quella locale del
passato un riferimento fondamentale nei valori della cultura familiare come fulcro del sistema
lavoro.
Il tessuto sociale e produttivo di Prato sembrerebbero quindi aver reso disponibili per gli immigrati
cinesi oltre a risorse professionali, infrastrutture e una nicchia di mercato anche il sostegno di un
sistema di valori molto simile a quello che aveva favorito la nascita e la crescita dei distretti
industriali di piccola impresa: il lavoro come strumento di riscatto sociale ed economico, l’attitudine
al rischio imprenditoriale e sociale, la propensione per il lavoro autonomo e la mobilità nel mercato
del lavoro con l’ambizione a mettersi in proprio appena se ne ha l’opportunità sulla base di progetti
migratori che pongono al centro un percorso lavorativo operaio-imprenditore (laoban), in cui il
lavoro autonomo è visto come una reale opportunità di crescita sociale ed è il fine ultimo della
maggioranza dei cinesi che migrano (Ambrosini, 2001 b):
“una migrazione focalizzata sul lavoro che per il lavoro sacrifica ogni altro tipo
di interesse, molto simile alla condizione dei pratesi degli anni '50 con i telai
sempre accesi, le vasche per tingere i tessuti in condizioni di non grande
sicurezza e per cui oggi certe condizioni di vita e di lavoro dei laboratori cinesi
sono inaccettabili […] una fame di fare impresa, di incrementare il proprio
benessere e una sorta di effetto traino di emulazione tra i giovani per cui tutti
vogliono fare impresa e progredire" (INT2);
75
Si rileva però come alcune analisi (Rastrelli, 1999) abbiano evidenziato come lo scenario mediatico “schiavi padroni”, sia invece spesso basato su un patto, fondato sulla condivisione di tradizioni comuni e in cui ciascuna delle
parti ha ruoli e guadagni definiti; ciò non significa, ovviamente, che non vi siano casi di sfruttamento vero e proprio, sia
dal punto di vista lavorativo che da quello umano.
76
Approccio che si focalizza sul ruolo delle culture nazionale e locale nella formazione dei caratteri dei vertici aziendali,
dei comportamenti imprenditoriali e dei criteri di gestione dell’impresa.
121
“il cinese viene qui con un'idea ben precisa che è quella di partire dipendente ma
di finire autonomo e imprenditore di se stesso: un progetto di vita che lo deve
portare ad essere titolare di un'aziende con un'idea del lavoro e del mettere a
lavorare le persone prettamente asiatica, con una grandissima spinta ideale e
culturale basata sullo spirito di sacrificio, il senso del gruppo e anche una certa
aggressività imprenditoriale” (INT3).
L’insieme e l’interazione di questi elementi avrebbero offerto alla comunità cinese particolari
opportunità per dare vita a una realtà di insediamento produttivo pressoché unica per intensità e
dimensioni e portato Prato a costituire il caso emblematico del cosiddetto modello dell’industria
diffusa, con oltre la metà dei lavoratori stranieri inserita nell’industria tessile locale (Giovani,
Savino, Valzania, 2006).
A partire dalla fine degli anni ’80 si è infatti verificato un graduale effetto di sostituzione di imprese
italiane nelle fasi più intensive e meno qualificate dell’attività distrettuale, come quelle relative alle
confezioni, sostenuto anche dalla “funzione di scivolo” che la sostituzione ha svolto per gli
imprenditori pratesi, svolgendo spesso un ruolo di ammortizzatore sociale per gli artigiani locali che
decidevano di fuoriuscire dal precario settore della subfornitura manifatturiera, incentivati anche
alla possibilità di una “buonuscita” ricavata dalla vendita di strutture, locali e macchinari agli
imprenditori cinesi.
I testimoni privilegiati intervistati confermano questa visione per cui che le imprese gestite da cinesi
poggiano le proprie fondamenta proprio sulla specializzazione dei mercati di fase che caratterizza il
distretto e per cui i cinesi sarebbero riusciti, partendo dall’assorbimento di un comparto non centrale
ma significativo e attraverso una graduale evoluzione imprenditoriale sia a livello economico che
organizzativo
“a farsi un varco, lavorando 24 ore su 24, in alcune micro fasi del processo
e hanno poi realizzato una sorta di scalata alla filiera” (INT1).
Si rileva però che secondo una diffusa interpretazione locale, alcuni cittadini cinesi avrebbero però
successivamente individuato nel distretto pratese un luogo privilegiato da presidiare per produrre o
commercializzare articoli di abbigliamento, in modo da poter utilizzarne i vantaggi esistenti e le
risorse consolidate: la rete di servizi, la logistica, le numerose imprese di subfornitura, la rete di
relazioni e l’immagine nella filiera della moda mondiale (Bellandi, 2004), nonché il forte
radicamento locale di competenze artigiane e industriali, unito al determinante ruolo delle
istituzioni e delle associazioni nell’azione di riorganizzazione territoriale.
Le aziende cinesi di confezioni si collocano a valle nel distretto tessile pratese, allungando la filiera
con aziende di piccole dimensioni nel settore delle confezioni e della maglieria, soprattutto in
cotone, comparto produttivo in precedenza marginale nel distretto pratese77, che è divenuto molto
competitivo rispetto ad altri poli sia italiani che europei, annullando però anche la concorrenza delle
micro imprese artigiane locali rimaste nel settore, i cosiddetti “prontisti” (Ceccagno, 2003):
“il settore delle confezioni di pronto moda per tanto tempo non ha
interessato i pratesi. La filiera del tessile locale partiva dai famosi ‘cenci’,
dal recupero del cotone e soprattutto della lana, quindi dalla rigenerazione
dei tessuti fino ad arrivare alla vendita del tessuto ma non è mai arrivata a
questo settore: è sempre restata nel tessile tradizionale e sui recuperi. I
77
La produzione locale si articolata su produzioni differenti: ha riguardato tra gli anni ’50 e ’60 i tessuti di lana cardata
per abbigliamento invernale, ricavati soprattutto da fibre riciclate, i cosiddetti “cenci”; ha visto emergere negli anni ’70
la lavorazione di fibre tessili naturali vergini, sintetiche e artificiali per la maglieria, le “maglie”; per negli anni ’90
differenziarsi ulteriormente per far fronte alla prima grande crisi del cardato pratese con innovazioni tecnologiche di
rilievo.
122
cinesi hanno occupato una fetta di mercato libera e piano piano si sono
allargati, arrivando a ‘sgomitare’ su altri settori” (INT3).
Il settore è dunque quello del pronto moda, una produzione rapida e che richiede un continuo
ricambio di collezioni, in cui l’intero ciclo manifatturiero di un capo di abbigliamento fino alla
distribuzione non richiede più di una settimana. Questa nuova specializzazione del distretto si è
basata sulla capacità degli imprenditori cinesi di coniugare le caratteristiche dell’economia locale
con le proprie aspirazioni imprenditoriali e le caratteristiche socioculturali del gruppo, sostenute
però dalla loro capacità di acquistare fiducia nel distretto per riconosciute affidabilità, precisione e
rapidità nelle consegne e nella correzione degli errori, per cui la loro capacità di fidelizzazione del
cliente si baserebbe principalmente sugli ampi margini rispetto al rapporto qualità-tempo nella
consegna della merce, non di rado legati a dure condizioni di lavoro e a ritmi produttivi serrati
(Guercini, 1999; Barrocci, Liberti, 2004).
Il modello di produzione è quello indicato dalla letteratura sul tema come “modello
Wenzhou o Zhejiang” (Rastrelli, 1999; Marsden, 2002), basato sulla piccola impresa, con una forte
divisione dei processi lavorativi e caratterizzato da dinamismo e flessibilità (Ceccagno, 2002;
Colombi, 2002), spesso associati a un “deficit di qualità” e alle degenerazioni del lavoro nero
(Bracci, Parpajola, Sambo, 2009).
Si tratta di aziende di dimensioni mediamente piccole, nella maggioranza dei casi con non più di
cinque dipendenti (Marsden, Caserta, 2010), che lavorano su fasce basse di prodotto e si rivolgono
alla distribuzione su larga scala e in particolare ai mercati ambulanti, “con venditori che vengono da
tutta europea a rifornirsi a Prato di prodotti cinesi, pagando cash!” (INT1). Queste aziende si sono
aperte un varco nell’ambito di un settore sviluppatosi rapidamente in risposta a nuovi paradigmi di
consumo della moda e basato sul riassortimento veloce e sui prezzi contenuti e si rendono
competitive utilizzando soltanto in piccola parte materie prime di aziende locali e sempre più con
l’acquisto di semilavorati dall’estero e dalla stessa Cina.
Il percorso delle aziende cinesi sul territorio pratese le vede dunque inizialmente comparire
come contoterziste, in fasi circoscritte della filiera (cucitura, stiratura); poi affermarsi come
produttrici loro stesse di capi a basso costo; infine divenire in alcuni casi fornitrici europee di
produzioni di origine cinese (ma made in Italy). Un percorso da contoterzisti a pronto modisti
(instant fashion), quindi da committenti a imprenditori, rispondendo a una precisa strategia
imprenditoriale e a nuove domande di mercato.
Se all’inizio degli anni ’90 parlare di imprenditoria straniera a Prato significava però
sostanzialmente parlare dei laboratori di confezioni di cinesi, oggi, dopo vent’anni, anche questa pur
restando la specializzazione etnica ancora evidente, si presenta nel distretto come un fenomeno più
vasto e complesso che investe differenti settori di attività.
Nell’ambito dell’imprenditoria cinese, le confezioni hanno infatti mantenuto un ruolo trainante ma i
piccoli laboratori di produzione hanno incontrato crescenti difficoltà a conquistare o a mantenere la
propria posizione sul mercato e si è assistito all’inserimento in nuovi settori, spesso per una
strategia familiare di diversificazione imprenditoriale, per cui alla gestione di uno o più laboratori di
confezioni si affianca l’avvio, da parte di un membro della stessa famiglia, di esercizi commerciali
o di altri tipi di imprese (Marsden, 2002).
Questo processo di diversificazione delle attività imprenditoriali gestite da cittadini di origine
cinese, in parte sicuramente legato alla ricerca di nuovi mercati in reazione alla concorrenza interna
ed internazionale; si presta a una duplice interpretazione: da una parte, evoluzione dell’esperienza di
migrazione; dall’altra, come ulteriore tendenza verso un’organizzazione autarchica della comunità,
sempre più capace e interessata a rispondere in modo autonomo alle esigenze specifiche dei suoi
membri in termini di produzione e vendita di beni e servizi (Marchetti, 2004; Savino,2003):
123
“la comunità cinese a Prato è riuscita a costituire un ambiente quasi
autosufficiente in termini di necessità primarie: hanno farmacie,
oreficerie..., usufruiscono dei servizi pubblici, della scuola e dell'assistenza
medica ma su molte cose sono riusciti a diventare autonomi. Siamo già ai
grandi magazzini di abbigliamento e di generi alimentari, alla grande e
media distribuzione, al commercio al dettaglio di qualsiasi tipo e ai servizi”
(INT3).
Dal 1998 al 2000 il panorama dell’imprenditoria cinese si è dunque notevolmente diversificato: il
numero degli esercizi commerciali quadruplica ampiamente, arrivando a superare l’ottantina, e
fanno la loro comparsa sul mercato anche diverse ditte che offrono ai membri della comunità
differenti tipi di servizi. Già dal 2001, l’inserimento in nuovi settori diviene l’elemento emergente
nello sviluppo dell’imprenditoria cinese, mentre diminuisce il ruolo delle confezioni, che mostrano
una crescita assai limitata e riducono nettamente la loro incidenza percentuale sul totale delle ditte
cinesi attive nella provincia.
Dal 2001 2002 la diversificazione delle attività produttive ha dato vita anche a un cambiamento
nelle relazioni di alcuni di questi imprenditori cinesi con la madrepatria, con l’intensificarsi di
attività di importazione di semilavorati e di import-export.
L’imprenditoria cinese si spinge dunque oggi oltre i confini del settore delle confezioni e si afferma
anche nella ristorazione e nel commercio e, pur ancora in modo marginale, nelle costruzioni e
alcune indagini sul distretto pratese (Colombi, 2002; Ceccagno, 2003) hanno segnalato recenti
traiettorie di diversificazione produttiva, che riguardano attività commerciali collegate alla filiera
produttiva dell’abbigliamento, oltre ad attività commerciali rivolte non solo alla comunità etnica,
ma anche alla più ampia clientela autoctona.
Nonostante il trend di crescita nelle registrazioni, sembra permanere un alto tasso di
mortalità tra le imprese cinesi, specie tra quelle di sussistenza (Ceccagno, 2002), in evidenza in
particolare a partire dal 2000 e un’analisi compiuta sui dati del 2002 ha fatto emergere il dato di una
vita media delle imprese cinesi di circa due anni e otto mesi, contro una media di poco più di
quattro anni dell’insieme delle aziende straniere e di circa dodici anni e mezzo di quelle italiane
(Caserta, Marsden, 2003).
Infatti, pur con alcune imprese nel settore delle confezioni e del tessile in grado di vantare una
discreta anzianità aziendale di circa dieci anni, il rapporto 2007 della Camera di Commercio
indicava che la quota di aziende con meno di due anni di attività superava ampiamente il 50%”
(Caserta, Marsden, 2007).
4. Le risorse di rete nell’imprenditoria cinese
Una caratteristica fondamentale del sistema di impresa cinese, evidenziata dalle numerose
ricerche empiriche sul tema, concerne il radicamento del sistema di impresa nelle reti di relazioni
comunitarie e familiari e come i legami forti influiscano su vari aspetti dello sviluppo del lavoro
autonomo, sia nella fase di avvio che in quella di reclutamento della manodopera e dei capitali.
Infatti, nonostante Ceccagno (2003) rilevi un trend di crescita nel numero di dipendenti cinesi in
aziende italiane, la netta maggioranza di cinesi lavora ancora per imprese cinesi.
Alcune ricerche sull’argomento hanno sostenuto che nella comunità cinese sia in corso un processo
di apertura al territorio locale, citando proprio una graduale diffusione di dipendenti italiani in
aziende cinesi (Marsden, Caserta, 2010) ma alcune analisi (banca dati Idol, in Bracci, Parpajola,
Sambo, 2009) circoscrivono molto l’ambito di questa apertura, limitandola ad alcuni reparti e
spiegando il fenomeno solo come scelta strumentale di porre rimedio non solo ai problemi di lingua,
ma anche alle difficoltà nella contabilità e nelle questioni normative. Nella quasi totalità dei casi,
124
infatti, gli addetti delle imprese a conduzione cinese sono cinesi; l’unica presenza italiana si rivela
nelle mansioni impiegatizie all’interno di aree specifiche: amministrazione, commerciale, contabile
e di design o in legami di consulenza in ambito fiscale, legale. La situazione nelle imprese italiane è
speculare: nell’indagine curata da Zanni (2007), solo una delle 164 imprese italiane intervistate ha
dichiarato di avere tra i propri addetti dei lavoratori di nazionalità cinese (0,6%).
La struttura imprenditoriale cinese tende quindi a basarsi su una strategia di inserimento nel
mercato del lavoro tramite un’enclave socio economica di natura etnica, creando nel mercato di
lavoro dei comparti al tempo stesso connessi e separati su cui si intersecano rapporti familiari e che
secondo alcuni intervistati costituiscono “una vera e propria enclave economica, con 15.000
addetti, che fa derivare un'enclave sociale” (INT4) in cui il passaparola e la raccolta di notizie tra
amici e parenti costituiscono una modalità ordinaria di reclutamento e generano il cosiddetto effetto
trascinamento (Bracci, Parpajola, Sambo, 2009).
Questa caratteristica “reticolare” sembrerebbe confermata anche dalla concentrazione di
queste aziende in un’area strategica dal punto di vista dell’economia pratese, come quella del
Macrolotto nella zona industriale di Iolo, con un’inversione di tendenza, rilevata anche dalle
associazioni economiche locali, rispetto alla logica d’insediamento tradizionale delle imprese locali
che tenderebbe invece a prediligere la lontananza dalla concorrenza.
Savino, Valzania e Bruscaglioni (2005) evidenziano in un loro saggio questa peculiarità
dell’impresa cinese sul fronte organizzativo, incentrato su risorse etniche di tipo fiduciario e
solidaristico, all’interno di un sistema di relazioni che è stato definito in termini di “network etnico”
(Calandi, Cialdini, Menaldi, 2010). Al riguardo, la letteratura ha indagato con particolare attenzione
il legame tra azione economica, assimilazione socio-culturale e appartenenza etnica, evidenziando
nel caso dell’etnia cinese la propensione a muoversi all’interno del proprio gruppo etnico, in termini
di reperimento e distribuzione di risorse (Colombi, Guercini, Marsden, 2002; Ceccagno, 2006), con
particolare riferimento al fatto che le imprese di proprietà cinese tendono ad assumere
principalmente connazionali, spesso parenti o comunque persone molto vicine alla propria cerchia
familiare.
In proposito la letteratura evidenzia soprattutto la centralità della cultura della guanxi78
rispetto all’uso del denaro contante nella comunità cinese: entrare nella guanxi di un cinese è infatti
come entrare a far parte di una famiglia allargata e questo implica anche una serie di modalità di
aiuto reciproco, basati su vincoli di mutua fiducia e su un’etica del ricambiare i favori spesso di
natura economica, con contributi monetari su cui i cinesi basano di frequente l’avvio di un’attività
imprenditoriale:
“si tratta di un sistema di finanziamenti informale di microcredito tra
parenti e amici stretti, chi non sostiene in questo modo viene visto male,
come un soggetto non degno di stima: è una sorta di consuetudine, somiglia
ai sistemi arabi, e si presta più facilmente se il progetto imprenditoriale
sembra valido ma sono legami di tipo familiare e di amicizia, non
comunitari” (INT2).
L’azienda diventa per i cinesi uno strumento per il conseguimento di più elevati livelli di benessere
per la famiglia, e questa connessione influenza le politiche di gestione e l’organizzazione delle
attività (Guercini, 1999).
Sempre questa “famiglia allargata” sembra determinare in misura considerevole le scelte
imprenditoriali dei migranti cinesi (Marsden, 2002): fin dagli anni ’90 la crescita delle famiglie, la
78
Il termine Guān xì ha nella lingua cinese vari significati: relazione, vincolo, rapporto, importanza, significato, causa
ma anche amicizia. La letteratura evidenzia che l’uso dei contanti nella comunità cinese è legato alla cultura della
guanxi: entrare nella guanxi di un cinese è come entrare a far parte di una famiglia allargata e implica anche una serie di
modalità di aiuto reciproco, spesso di natura economica, attraverso le quali i cinesi costruiscono il proprio futuro.
125
moltiplicazione del numero di aziende e l’inserimento in nuovi settori di attività avrebbero infatti
proceduto in modo parallelo, tramite la realizzazione di strategie imprenditoriali decise all’interno
delle famiglie stesse, ad esempio sperimentando l’inserimento in nuovi settori da affiancare a
un’attività già consolidata nel settore delle confezioni, con un approccio molto pragmatico
all’autoreferenzialità che permette scambio di informazioni su opportunità e spazi lavorativi
(Ceccagno, 2002):
“sia l'idea, che l'analisi del mercato, che i finanziamenti nascono dalla
relazione familiare: uno straniero non ha relazioni sociali nel paese in cui
arriva e questo è uno svantaggio: io non ho uno zio avvocato, una zia
dottoressa e solitamente sono i familiari che aiutano i parenti a venire in
Italia e poi forniscono un sostegno economico ma anche idee. Se un
soggetto apre un'attività e vede che può andare sia per aprire un mercato
ma soprattutto per solidarietà, ti dà un'idea” (INT2).
In una forte corrispondenza tra valori familiari e valori produttivi, la famiglia allargata diventa
quindi il fulcro dell’attività imprenditoriale cinese e si è parlato in proposito di “familismo
imprenditoriale” (Università di Udine, 2005): questa famiglia è infatti il punto di riferimento per il
reperimento delle risorse economiche che permettono l’avvio dell’attività imprenditoriale, fonte di
reclutamento di forza lavoro e origine delle motivazioni necessarie (Colombi, 2002). La rete di
relazioni individuata dall’appartenenza al guanxi permette quindi non solo di avviare e di sostenere
ma anche di diversificare l’attività imprenditoriale, distribuendone i rischi d’impresa all’interno e
realizzando così una gestione autoreferenziale.
Tutti i testimoni privilegiati hanno confermato la centralità del capitale sociale in termini di
reti familiari e del gruppo di riferimento per la definizione delle strategie imprenditoriali cinesi,
alcuni hanno però evidenziato che se inizialmente il modello dominante delle imprese cinesi
operanti nel distretto era caratterizzato da una totale partecipazione della famiglia a tutti gli aspetti
della vita aziendale e da un’assunzione in prima persona delle funzioni produttive da parte dello
stesso imprenditore, molto più articolata è la realtà attuale. Ne darebbe conferma la crescita del
fenomeno della richiesta di finanziamenti alle banche, sebbene sembri riguardare soprattutto la
fascia di imprenditori cinesi più istruita e con una permanenza in Italia di più lungo periodo79,
mentre la maggior parte sarebbe ancora estranea al circuito tradizionale del credito bancario,
preferendovi il circuito parallelo di micro-credito etnico.
Come ricordato da Marsden e Caserta nella loro recente ricerca (2010), proprio lo studio
della diaspora fujianese in Europa ha portato a parlare di “globalizzazione cinese” (Pieke, 2004),
come fenomeno che vede l’estensione verso l’esterno di un sistema mondiale con la Cina al centro
(Ceccagno, 2002), evidenziando come questa migrazione stessa avvenga nel contesto di dense reti
con un ruolo fondamentale delle risorse di capitale sociale, non solo come veicolo di flussi di
persone ma anche di informazioni, di beni, di denaro e di altre risorse: una rete di contatti creata dai
migranti che non considera più le migrazioni unidirezionali ma come un movimento continuo su più
direzioni, secondo un approccio transnazionale che prende in considerazione i network oltre il
contesto d’insediamento (CeSPI, 2006).
La rete viene dunque a costituire per la comunità cinese migrante anche la base per una sorta di
“carriera di mobilità sociale e spaziale” e dare così vita a un processo aperto in uno spazio
sovranazionale, che genera percorsi imprenditoriali cosmopoliti:
79
Significativa è l’apertura di una nuova filiale della Credem nella zona a maggiore concentrazione di popolazione
cinese, avvenuta alla fine del 2008. La filiale si rivolge principalmente ai cittadini cinesi e impiega personale cinese e
personale italiano capace di parlare il cinese; altre banche hanno invece assunto mediatori linguistici per facilitare la
relazione con la clientela cinese.
126
“l'architettura del modello sociale imprenditoriale è fortemente modulare,
organizzato per reti di clan che sviluppano una capacità di intervenire sul
mercato che ha uno spettro europeo, richiamando flussi da tutta Europa su
base familiare: magari vado a Prato due mesi a fare le maglie, poi due mesi
a Parigi a fare le borse...per noi andare a Firenze è una tragedia, mentre
per il figlio di un cinese prendere l'aereo per andare a lavorare a Parigi è
normale” (INT4).
Questo sistema di relazioni permetterebbe quindi al migrante cinese di costruire un progetto di vita
e di alimentare aspirazioni non limitate ad un unico contesto territoriale, ma di riferirsi piuttosto a
un’ampia area di partenza e di transito, spesso in stretta connessione anche con la madrepatria (Bin
Wu, 2009), dando origine a vaste reti commerciali internazionali a dimensione globale tramite una
forte propensione alla mobilità internazionale (Ceccagno, 2002).
La rete quindi oltre ad assumere un’importanza cruciale nello sviluppo dell’imprenditoria
cinese nei vari territori, prevalentemente sotto l’aspetto del ruolo svolto dai legami familiari e
comunitari che contribuiscono a definire le strategie imprenditoriali, costituisce lo schema della
natura globale del fenomeno migratorio cinese, articolando una pluralità di network tra aziende e
realtà locali, non solo in varie aree italiane ma estendendosi anche verso altri paesi europei e verso
la Cina stessa.
La ricerca sul tema (Marsden, Caserta, 2010) ha evidenziato cambiamenti nel ruolo e
nell’immagine dell’imprenditore cinese, in primo luogo più interessato alla ricerca e
all’innovazione, ma rilevando anche cambiamenti nei network imprenditoriali con una crescente
interazione con le realtà economiche e la società locali:
“ci sono contatti e legami economici e socio-economici, stabiliti soprattutto
su interessi di aziende italiane che si servono di aziende cinesi in una lotta
al ribasso dei prezzi, anche da parte di grandi marchi” (INT3),
pur nel permanere di numerosi problemi e difficoltà a stabilire relazioni produttive tra le due
comunità imprenditoriali e a consolidare strumenti in tal senso:
“c’è un substrato di aziende pratesi dei filati che hanno rapporti con i
cinesi e si era anche cercato di fare un consorzio per la realizzazione di
capi di abbigliamento sport casual, realizzato da cinesi con tessuti italiani,
ma non è andato avanti: non sono riusciti nemmeno a coinvolgerli” (INT1);
“il mercato cinese è parallelo a quello del tessuto pratese, nel senso che
non c'è una concorrenza diretta rilevante sulla produzione, ma è mancata
anche la collaborazione, probabilmente sia perché le attività sono su due
livelli di mercato differenti ma anche per la mancanza di volontà, per una
forte diffidenza che porta a evidenziare i problemi e a mantenere chiuse le
due comunità, senza nemmeno cercare di promuovere un incontro per la
ricerca di una soluzione comune per uscire dalla crisi” (INT2);
Al tempo stesso è stato evidenziato che un pur contenuto aumento delle interazioni con la società
locale e la trasformazione di processi gestionali e organizzativi si connettono alla richiesta da parte
degli imprenditori cinesi di un maggior riconoscimento all’interno della società locale (Marsden,
Caserta, 2010).
5. Prospettive dal distretto pratese
Secondo alcuni degli intervistati, non è azzardato sostenere che l’insediamento e lo sviluppo
dell’imprenditoria cinese abbia garantito in parte, pur con considerevoli cambiamenti, la continuità
127
di esistenza del distretto pratese a fronte dei mutamenti globali, posticipando la crisi dell’economia
locale. La cosiddetta “crisi pratese” sarebbe quindi potuta giungere in anticipo sui tempi senza lo
sviluppo del pronto moda, evoluzione di un modello imprenditoriale in grado di creare un ampio
mercato europeo.
Una presenza così numerosa e, a detta degli attori collettivi presenti sul territorio, comunque
difficile da valutare con certezza e spesso fortemente sottostimata dai dati statistici a causa del
fenomeno della clandestinità, ha però generato inevitabilmente nel corso del tempo tensioni a livello
della comunità locale e in particolare nel mondo imprenditoriale del distretto.
Numerose sono infatti le lamentele del mondo imprenditoriale locale rispetto alla presenza
cinese, nonostante molteplici siano stati negli anni gli interventi dell’Amministrazione Comunale
per cercare di superare una gestione emergenziale del problema, andando verso la programmazione
di interventi più strutturali, quali la riqualificazione delle periferie produttive e la progettazione di
aree artigianali, in grado di tenere conto delle particolari esigenze del modello produttivo cinese
(Comando Generale della Guardia di Finanza, 2006). Sempre in questo approccio di intervento
proattivo, fin dal 1993, solo un anno dopo la costituzione della neo provincia di Prato,
l’Amministrazione comunale pratese si è dotata di un proprio Centro di Ricerca e Servizi per
l’Immigrazione con un profilo di ricerca-intervento e compiti di studio, accoglienza e servizio per
gli immigrati presenti nella comunità locale80. Nel 2002, inoltre, l’Assessorato comunale alla
Cultura è stato affiancato dall’Assessorato alla Multicultura: esperienze queste che per molti anni
hanno fatto di Prato un vero e proprio laboratorio nazionale sul tema dell’integrazione:
“Prato è un'eccezione che non fa tendenza ma è un'avanguardia che
precede quello che accadrà in altri territori e questo poteva servire portare
avanti un dibattito” (INT4).
Iniziative istituzionali a parte, in città, pur in assenza di episodi di rilievo connessi
all’intolleranza, si rileva un certo separatismo a livello di società civile, per cui i rapporti tra i
membri delle due comunità rimangono più formali che sostanziali ed esistono molte difficoltà
(Ceccagno 2004). La percezione da parte della comunità locale sarebbe infatti quella di una
situazione di assoluta emergenza, priva non solo di risposte ma anche di ascolto a livello nazionale:
“Prato è una provincia giovane e ancora sottodimensionata per la presenza
delle istituzioni che sono in affanno per i controlli: non c'è proporzione tra
quello che noi possiamo fare e quello che sta succedendo, occorre un
intervento statale urgente” (INT1).
Soprattutto negli ultimi anni la tensione per gli effetti prodotti sul tessuto imprenditoriale pratese
dalla crisi economica e finanziaria globale si intrecciano sempre con più frequenza alle vicende
politiche nazionali e locali e sembrano fomentare il diffuso malessere locale:
“la chiusura della prima generazione per problemi linguistici e per un
interesse focalizzato sul lavoro e nel tempo l'aumento della comunità hanno
esteso il peso delle differenze che insieme all'avvento della crisi ha
aumentato la diffidenza e prodotto malessere, espresso anche dal risultato
delle ultime elezioni. In questo momento c'è l'incontro tra due chiusure a
livello sociale, culturale, economico e anche urbanistico” (INT2);
“vent'anni fa lo stereotipo del cinese era di quello sull'apino con le ruote
sgonfie che guida, carico di roba, con le infrandito o i mocassini neri con il
calzino bianco e ci si rideva su, oggi minimo minimo il cinese al più basso
livello gerarchico della sua fabbrica ha il furgone e poi si cominciano a
80
L’attività del centro partita nel 1994 si è conclusa nel 2006 ma la ricerca sull'imprenditoria cinese prosegue in parte
tramite la Camera di commercio
128
vedere le Mercedes, i Suv, le BMW, le Audi da 60-70.000 € e questo suscita
invidia sociale: ci si chiede come possano aver fatto e improvvisamente si
vede il cinese irregolare che ha rubato il lavoro” (INT3);
“gli elementi di protesta sono legati allo sviluppo dell'imprenditoria cinese
e all'aumento della concorrenza ma anche a un clima generale di
atteggiamento verso gli stranieri in Italia che ha determinato uno
spostamento dell'opinione pubblica e della posizione politica della città”
(INT5).
I testimoni privilegiati sottolineano come per anni Prato sia stata il contesto di
un’interazione priva di elementi di conflittualità o di manifestazioni organizzate di protesta sul tema
della presenza cinese, nonostante una diffusa lamentazione a livello di senso comune e che solo
negli ultimi due anni si è sviluppato un discorso pubblico sul tema, motivato dal convergere della
crisi locale del settore, pur già conclamata da tempo, con quella globale:
“la sostanziale aconflittualità era dovuta al funzionamento dei meccanismi di
integrazione economica, in parte riconducibili ad alcune peculiarità cittadine
nella percezione del migrante, prima interno poi straniero, ma in cui il contante
ha sempre facilitato i rapporti” (INT6).
A seguito dell'esplosione della crisi economica le espressioni generali di malcontento (“i cinesi
stanno sempre meglio e noi sempre peggio”81) avrebbero quindi assunto toni più decisi, si sarebbero
indirizzati specialmente verso le modalità dell'imprenditorialità cinese, tema veicolato in modo
ambivalente in modo da associare a livello di pubblica opinione la crisi di Prato con la presenza
cinese82, non di rado intrecciando il tema con quello del pregiudizio etnico.
La crisi avrebbe generato dinamiche di conflitto precedentemente assorbite o ammortizzate
dal sistema economico locale, producendo anche segnali politici forti che tendono a riassumere
l’analisi della crisi con l’attribuzione di responsabilità alla presenza cinese.
Tutti gli intervistati infatti riconducono il recente avvicendamento di colore
nell’amministrazione cittadina, con l’elezione di un sindaco di centro-destra per la prima volta nella
storia della città e l’inasprimento delle misure “anti-cinesi” (ad esempio, i blitz anti illegalità con gli
elicotteri) in controtendenza rispetto agli anni precedenti 83, proprio alla capacità di questa parte
politica di tradurre e sintetizzare il passaggio da un sentimento di relativa estraneità tra le due
comunità a una preoccupazione per il futuro di Prato percepita in termini di “assedio cinese”
(Pieraccini, 2008), come sintetizza lo slogan elettorale di centro-destra “Martini [presidente della
Regione] + Carlesi [ex Sindaco di centro-sinistra] = cinesi”.
Questo nuovo discorso pubblico sull’emergenza imposta dall’affermarsi dell’imprenditoria
cinese si sviluppa sul tema della concorrenza sleale, con cornici interpretative distinte ma spesso
intrecciate tra loro e principalmente sostenute dagli esponenti della realtà imprenditoriale locale,
soprattutto da quelli che non hanno rapporti commerciali con la comunità cinese, che dichiarano di
temere possibili contagi, come si evidenzia in un recente documento dell’Unione industriale
pratese: “Confronti fra le performance delle imprese cinesi e delle imprese italiane sono
improponibili giacché i costi delle une, irregolarmente alleggeriti di oneri fiscali e contributivi, sono
imparagonabili a quelli delle altre. Fare impresa, in sostanza, è facile se ci si autoesonera da costi
che invece continuano a gravare, con estrema pesantezza, sulle imprese corrette: quelle stesse che
con le imposte che versano alimentano i bilanci di Stato ed enti locali, e quindi welfare, scuola,
cultura, sanità e quanto altro occorre ad una comunità civile ed avanzata. Il timore del contagio
dell’illegalità cinese anche alle imprese italiane è forte oggi come non mai, a causa delle difficoltà
81
Luigi Caroppo, Chinatown, la “rivolta” pratese sul Financial Times, La Nazione, 10 febbraio 2010
Si veda in proposito il caso dell’iniziativa "Prato non deve morire" del 28 febbraio 2010.
83
Guy Dinmore, “Tuscan town turns against Chinese immigrants, Financial Times, 9 febbraio 2010
82
129
delle imprese corrette e della maggior contiguità dei ‘due distretti’ conseguente l’entrata
dell’imprenditoria cinese anche nel settore tessile. Le imprese italiane vengono mortificate dalla
vicinanza con realtà che conseguono successi economici straordinari alimentati dall’illegalità; sono
verosimili le tentazioni di possibile emulazione che, ove si concretizzassero, farebbero apparire il
ricorrente dibattito sull’etica del distretto come un mero esercizio di teoria travolto dalla realtà”84.
La prima cornice interpretativa riguarda la denuncia dell’imprenditoria cinese in termini di
illegalità diffusa nelle transazioni economiche; propensione al dumping sociale, soprattutto per
l’utilizzo di manodopera clandestina e minorile e violazione delle condizioni igieniche e di
sicurezza precarie, mancanza di tutele lavorative e situazioni di vero e proprio sfruttamento di
connazionali in clandestinità connesse a sistemi di riscatto progressivo dei debiti contrati per la
migrazione; mancato rispetto della proprietà intellettuale, oltre alle più generali questioni connesse
al fenomeno dell’immigrazione irregolare e del lavoro nero85 (Ceccagno, 2002).
La violazione delle regole, economiche e giuridiche, sarebbe dunque la principale risorsa
competitiva di questa imprenditoria secondo una lettura del fenomeno che sostiene lo sviluppo di un
“distretto parallelo” di un’economia etnica gestita su modelli organizzativi e culturali
esclusivamente orientali, quindi nella migliore delle ipotesi percepiti come inconciliabili con quelli
locali: un “distretto nel distretto”, una realtà economica su nuovi segmenti di mercato, in buona
parte sommersa e a totale gestione cinese (Bonacchi, Giunta, 2006) che non rispetta le norme della
società locale e diventa quindi anche una minaccia in termini di sicurezza e ordine pubblico:
“si preme molto sul tasto della legalità e delle regole e la crisi mette in
evidenza l'imprenditoria cinese alla ricerca di colpevoli” (INT3).
In questo quadro di forte allarme, alcuni dei testimoni privilegiati intervistati hanno però
sottolineato la complessità del problema dell’illegalità connessa all’imprenditoria cinese e il rischio
della diffusione di una visione che sostenga l’esistenza di un fenomeno di illegalità etnica, spesso ad
uso e consumo mediatico, che tende a confondere e assimilare aspetti, presenti ma molto diversi,
quali sommerso e reti criminali (Bracci, Parpajola, Sambo, 2009) spesso con una trattazione
superficiale di eventi e di comportamenti, che seppur presenti, non devono essere generalizzati
come uniche modalità lavorative cinesi; senza per altro tenere conto del fatto che il tema
dell’irregolarità lavorativa riguarda anche molte imprese italiane, specie di piccole dimensioni, e
che più in generale l’Italia è un paese che si distingue per una peculiare cultura della legalità
(Ceccagno, 2002).
Inoltre in molti hanno evidenziato le contraddizioni di queste denunce, in quanto certe
caratteristiche improprie dei sistemi lavoro dell’imprenditoria cinese avrebbero negli anni procurato
considerevoli vantaggi competitivi alle imprese italiane committenti che tramite un atteggiamento
“compiacente” avrebbero trovato risposta alle proprie esigenze di flessibilità (Ceccagno, 2002;
Ambrosini, 2001 b) “creando un intreccio di reciproci interessi nel quale, anche in contrasto con le
parti della nostra normativa in materia di lavoro e di diritti sindacali, sono saltate molte delle regole
del tradizionale modo di produrre. In sostanza, invece di delocalizzare in all’estero, i committenti
hanno potuto beneficiare di una ‘delocalizzazione in loco’, in cui le imprese cinesi adottano ritmi e
modalità di lavoro tipiche di zone a basso sviluppo, rimanendo però a portata di mano” (Barrocci,
Liberti, 2004, 96).
84
Allarme degli Industriali: “Imprese corrette mortificate dalla concorrenza di quelle sleali. Rischio di contagio
dell’illegalità cinese alle nostre aziende” http://www.notiziediprato.it/2011/01
85
Secondo Ceccagno (2002) con lavoro nero (heigong) i cinesi si riferiscono solo alla presenza di clandestini all’interno
delle imprese e non al frequente scollamento tra il lavoro e il pagamento delle imposte.
130
La seconda cornice interpretativa riguarda invece tema della irregolarità nella produzione e
la saturazione dei mercati con prodotti di scarsa qualità ed è alimentata dalle criticità che
caratterizzano il contesto economico globale e che hanno acutizzato la crisi locale.
Del resto, nel quadro di peculiarità del sistema produttivo locale che risultano spesso vincoli
nelle potenzialità di sviluppo del distretto (propensione alla crescita delle imprese per filiazione,
scarso investimento tecnologico), sono proprio i settori del tessile e dell’abbigliamento quelli che
hanno infatti avvertito in modo più forte gli effetti della crisi globale attuale (Bellandi, Biggeri,
2005):
“si confonde l'argomento delle irregolarità delle aziende cinesi con la vera
causa della crisi delle imprese del tessile pratese che è legata alla
globalizzazione e alla concorrenza dei paesi in via di sviluppo che hanno
ridimensionato il mercato e richiede un rinnovamento del sistema e così si
parla di concorrenza sleale che va a ledere soprattutto la ricchezza sociale
della città” (INT2).
La perdita di competitività, esplosa dal 2000, a seguito della crisi dell’economia statunitense
e per l’accrescersi della competizione dei paesi asiatici, ha visto in generale in Toscana le
esportazioni passare dall’8,3% al 6,9% del totale nazionale e nello specifico le esportazioni di
prodotti tessili pratesi diminuire in termini reali del 45%.
Nel 2008 con una variazione delle esportazioni dell’area sul peso del totale di quelle toscane
dal 13,4% del 2001 all’8,2% Prato si è posizionata come la provincia italiana con le performance
peggiori (Unioncamere, 2009), arrivando nell’aprile 2011 a ottenere il riconoscimento dello stato di
crisi da parte del Governo, dopo più di un anno di attesa.
In particolare, le imprese del distretto pratese (straniere e non) subiscono la competitività
delle aziende tessili e di confezioni cinesi localizzate in Cina che immettono sul mercato
quantitativi ingenti di merce a prezzi molto bassi, dando vita ad aree manifatturiere specializzate
che potrebbero portare alla nascita di distretti manifatturieri in quei luoghi.
Questa concorrenza esterna si somma poi alla concorrenza interna che proviene da tutte
quelle imprese, spesso cinesi, nel settore della moda che hanno già operato strategie di
internazionalizzazione produttiva con partner cinesi e che realizzano prodotti made in Italy in Italia
ma con semilavorati che provengono dall’estero:
“la signora che in Germania compra il vestitino ‘made in Italy’ al mercato ,
crede veramente che sia fatto in Italia e invece lo hanno fatto come
semilavorato i cinesi in Cina e terminato quelli a Prato ” (INT1).
La ricerca sul tema ha però mostrato che, per quanto negli ultimi anni sia cresciuto in misura
notevole l’import dalla Cina di prodotti finiti, è difficile stabilire se stia realmente soppiantando il
circuito produttivo locale (Bracci, Parpajola, Sambo, 2009) e se quindi effettivamente “i cinesi
rubino il lavoro”.
La terza cornice riguarda le denunce di molti imprenditori locali rispetto alla mancanza di
relazioni positive dell’imprenditorialità cinese con il territorio e definisce il fenomeno in termini di
un’invasione da parte di una comunità che utilizza servizi e strutture del distretto ma non porta
benefici e non costruisce benessere:
“’impresa etnica, autoreferenziale e rimesse all'estero sono i tre elementi
che chiudono il cerchio e che delineano la volontà di non immettere capitali
verso l'interno, quindi anche verso la città, anche sotto l'aspetto delle
aziende:talvolta si trovano imprenditori cinesi che non sono proprietari
nemmeno dei macchinari ma li prendono in affitto, questo soprattutto nel
mondo del lavoro nero” (INT3).
131
I vantaggi derivanti dall’affermazione imprenditoriale della presenza cinese sarebbero, secondo le
interpretazioni più rosee di alcuni degli intervistati, comunque distribuiti in modo diseguale e a
vantaggio esclusivo di pochi locali operanti su settori specifici, come quello immobiliare o dei beni
di lusso:
“per i commercianti di Prato sarebbe un problema se i cinesi decidessero di
andare via, perché spendono molto nei negozi di lusso alla ricerca di un
modello di consumo griffato” (INT1).
Questa mancata riconoscenza e redistribuzione verso il territorio “ospite” viene per altro aggravata
dall’esistenza di un intenso flusso di rimesse verso la madrepatria, spesso tramite un “uso creativo”
del canale dei money transfer (Bracci, Parpajola, Sambo, 2009), di circa l’80% delle risorse,
valutato intorno ai 590.000 euro all’anno per l’intera regione dal Ministero, con un 78,6%
proveniente da Prato (Paletti, Russo, 2010) ammontare stimato a livello locale in cifre ben superiori:
in questo quadro nella percezione degli imprenditori locali, l’imprenditoria cinese non solo non
restituirebbe parte degli utili alla città ma addirittura le sottrarrebbe risorse.
Un’ultima interpretazione del malcontento è quella che porta gli imprenditori pratesi, pur
consapevoli della natura dell’attività manifatturiera cinese non in diretta concorrenza con le
preesistenti aziende tessili del luogo ma in posizione complementare e persino di estensione della
filiera, a lamentare non tanto la mancanza di interazione con le imprese orientali quanto la
percezione di ingiustizia. Le carenze di integrazione da parte delle aziende cinesi, in termini di
mancato rispetto di regole, accordi, consuetudini accettate invece dalle aziende autoctone
alimenterebbero secondo alcuni intervistati le recriminazioni degli operatori locali sul fatto che:
“in un periodo di crisi, avendo difficoltà nel fare indagini sulla comunità
cinese, le istituzioni preposte continuano a fare controlli massicci sulla
comunità italiana, con accanto le aziende cinesi che fanno di tutto e
nessuno li controlla e allora viene la rabbia in corpo!” (INT1);
Il tema della disparità nei controlli è oggetto di continue discussioni e polemiche in ambito locale a
livello politico, mediatico e di opinione pubblica locali anche in termini della denuncia di un
abbandono da parte delle istituzioni nazionali e di un’oggettiva difficoltà nel garantire un efficace
monitoraggio come evidenzia con un esempio un intervistato:
"loro hanno una lingua per cui lo spostamento di un accento cambia il
significato di una parola, per cui un'impresa che ha un nome, ad esempio
‘Ma’, resta per due anni, che è il tempo necessario per la nostra
legislazione per rimanere senza il controllo da parte delle istituzioni, poi
invece di ‘Ma’, si chiama ‘Maa’ che si scrive nello stesso modo ma è un
altra parola, l'indirizzo è lo stesso e per altri due anni non hanno controlli e
poi magari diventano ‘Maaa’...loro conoscono le nostre leggi a tal punto
che sanno dribblare tutti i problemi legati alla rendicontazione, mentre noi
non conosciamo niente su di loro” (INT1).
Per cercare di superare le difficoltà di relazione tra le due comunità imprenditoriali, facilitare
il dialogo e creare collaborazione, alcune associazioni di categoria hanno promosso iniziative di
apertura alle imprese cinesi (servizi di mediazione culturale, traduzione di siti internet), per quanto
alcuni intervistati segnalino come esse stesse non si siano sempre mostrate capaci di contrastare
alcuni luoghi comuni:
“spesso sul tema hanno giocato su un doppio pedale, riconoscendo da una
parte il possibile ruolo dell'imprenditoria cinese ma al tempo stesso
puntando spesso il dito verso i cinesi per rispondere delle carenze e delle
criticità del sistema locale” (INT6).
132
Al momento però l’unico iscritto all’associazione locale degli industriali risulta Xu Qui Lin, “caso
virtuoso” dell’imprenditoria cinese-pratese, ormai noto alle cronache locali per il suo ruolo
pionieristico (Ceccagno,2002), titolare della nota azienda di abbigliamento Giupel spa, produttrice
di giubbotti di pelle e di stoffa con un fatturato di 15 milioni di euro nel 2003, con 24 dipendenti, di
cui la metà cinesi e l'altra metà italiani, che esporta il 30% del fatturato86.
Alcuni intervistati hanno però sottolineato anche la mancanza di supporto all’integrazione da
parte delle organizzazioni della società civile che rappresentano la comunità e l’impresa cinesi a
livello locale. A Prato esistono infatti gruppi di interesse di azione collettiva (Associazione
Amicizia cinesi, Associazione del commercio cinese, Associazione dello Fujian, Associazione
buddisti cinesi in Italia) che però tendono a rappresentare interessi speciali o lobby, piuttosto che
interessi pubblici, e non sono luoghi di partecipazione in quanto privi di agende politiche, ad
eccezione di Associna, che raduna i cinesi di seconda generazione e ha forti contatti con varie realtà
del terzo settore.
Riguardo alle prospettive di interazione tra le due realtà di impresa, per il momento ancora
fenomeno residuale, fondamentalmente le visioni sono di due tipi.
Da un lato vi è chi tende ad evidenziare soprattutto i tratti di separatezza ed estraneità; per cui Prato
sarebbe considerato dalla comunità imprenditoriale cinese solo come una sorta di “polo logistico”,
una piattaforma per l’import dalla Cina e l’export verso i mercati nazionali ed europei (Bracci,
Parpajola, Sambo, 2009) con la commercializzazione di manufatti cinesi in un percorso di
internazionalizzazione produttiva che sembra precludere lo sviluppo di relazioni:
“già nel 1995 abbiamo cercato di stabilire i primi contatti, per organizzare
degli incontri tra operatori cinesi e italiani per creare connessioni, perché
già si profilava una presenza massiccia: ne abbiamo fatti uno nel 1995 e
uno nel 1996 tramite dei loro commercialisti che facevano da intermediari
ma non è mai nato niente, non siamo mai riusciti ad avere operatori cinesi
dell'abbigliamento. Cerchiamo di invitarli anche alle nostre attività, senza
separazioni di nazionalità ma come imprenditori, ma fino adesso i nostri
inviti sono andati a vuoto[...], perché loro hanno un'economia etnica e i
loro riferimenti sono chiusi nei loro circuiti finanziari, nelle loro storie e
non hanno interesse a fare cose con noi" (INT1)
Questa prospettiva arriva a ipotizzare una sorta di “diaspora, guidata da un progetto politico cinese”
(INT3). Le imprese cinesi di Prato sarebbero quindi una sorta di articolazione di una filiera
produttiva che parte dalla Cina:
“una ‘filiera globale’, in cui Prato costituisce una sorta di ‘testa di ponte’:
produco il tessuto in Cina, lo faccio passare via Taiwan per evitare i dazi,
lo vengo a tingere nelle tintorie cinesi a Prato, lo confeziono, lo imbusto e
lo spedisco ai distributori del nord Europa. Si tratta di una filiera con fasi
in tutto il pianeta, per cui Prato sarebbe il presidio tessile della Cina sul
mercato europeo. Questa è la ragione per cui questa imprenditoria non si
svilupperà mai producendo benessere e crescita collettiva del sistema
imprenditoriale autoctono e di crescita dell'occupazione generale” (INT4).
Per i sostenitori di questa posizione i contatti con l’imprenditoria cinese sono di fatto impossibili da
ipotizzare e l’unica soluzione viene offerta da scelte protezionistiche, norme rigide sulla
concorrenza e severità nei controlli sulla legalità.
86
A livello artigianale si contano invece solo 60 aziende iscritte alla Confartigianato e 50 alle CNA, nonostante il trend
di crescita nelle registrazione delle ditte cinesi.
133
Dall’altro lato si collocano i sostenitori di una tesi sostanzialmente funzionalista, che tende a
sottolineare le interazioni tra le imprese cinesi ed il contesto locale, con molti legami economici e
convenienze reciproche sia pure evidenziando la distribuzione non uniforme dei benefici della
presenza, la tendenza della comunità cinese ad essere autoreferenziale (Asel, 2006) e le difficoltà
nella relazione con un soggetto collettivo di non facile comprensione da un punto di vista culturale e
con l’eterno problema del gap linguistico87.
I legami tra imprenditoria autoctona e cinese possono svilupparsi sia pure solo in una prospettiva di
legame economico, sulla base di un interesse che sembra aver da sempre contraddistinto
l’atteggiamento verso la comunità cinese del sistema economico locale:
“mi ha sempre colpito la capacità dei pratesi di cogliere le potenzialità dei
cinesi come clientela, stabilendo interrelazioni e creando rapporti fin
dall'inizio della loro presenza. Nel ‘94 ricordo le prime pubblicità di negozi
pratesi in cinese: a Firenze i cinesi sono arrivati prima anche se con una
minore incidenza ma non ho mai visto questo fenomeno che considera
l’altro come strumento di mercato ma che permette comunque di creare
forme di mixité” (INT5).
Del resto, come sottolineato da alcuni intervistati, la relazione tra le due comunità
imprenditoriali pur limitata esiste già o nei confronti di imprese consolidate che possono contare su
un vasto numero di dipendenti e su una solida organizzazione, dotate di un certo potere di
contrattazione con la società locale e i cui titolari vivono spesso da anni sul territorio, conoscendone
i meccanismi (Ceccagno 2002) o talvolta invisibile, perché basata sull’illecito
“con meccanismi fiduciari basati sul tipico ruolo di facilitatore delle
relazioni che ha sempre avuto il denaro a Prato” (INT6),
come nel caso di affitti in nero, ordini evasi, mutui accondiscendenti, richieste di consegne in tempi
fuori mercato, senza però che si traduca necessariamente né in un’effettiva integrazione socioculturale, né in un’efficace relazione di mercato.
In conclusione, due contrapposte prospettive di sviluppo vengono oggi configurate dagli
attori interessati dal fenomeno. Da una parte uno scenario in cui una comunità cinese sempre più
auto-referenziale, incapace di lasciare effetti positivi apprezzabili sul territorio, renderà l’apparato
produttivo originario più anemico, fragile ed esposto a una concorrenza crescente da parte di
imprese localizzate nei paesi emergenti. Dall’altra la possibilità di un’integrazione consistente fra le
due comunità, non tanto a livello culturale, quanto a livello economico, viene sostenuta come
strumento sia per uscire dalla crisi, allungando alla filiera per arrivare al capo finito, che per
promuovere la convivenza pacifica:
“le prospettive per il futuro dipendono molto dal fatto se decideranno di
fare un up-grading del prodotto per andare su prodotti più alti, allora ci
potrebbe essere una buona collaborazione, altrimenti sarà impossibile”
(INT1).
Se pur oggi l’imprenditoria cinese si concentra ancora nel settore delle confezioni e
dell’abbigliamento, come attività complementare e differenziandosi quindi dall’attività prevalente
del distretto pratese che riguarda invece la produzione di tessuti e stoffe, prevalentemente di lana, la
possibilità della realizzazione di una filiera allargata a valle, integrando produzione di tessuti e di
confezioni, potrebbe infatti aumentare la competitività del distretto pratese, realizzando a pieno la
già parziale evoluzione da distretto del tessile tradizionale a polo integrato della moda, spostandolo
87
Un ruolo particolare nello sviluppo di relazioni imprenditoriali sembra essere legato all’abbattimento della barriera
linguistica, ad esempio tramite la scolarizzazione delle nuove generazioni, attraverso il superamento di quello che
Ceccagno definisce “lessico funzionale ridotto” (Ceccagno, 2003).
134
sulla realizzazione di un prodotto finito e confezionato, più concorrenziale in un mercato controllato
dai distributori, ed evitando la creazione di un distretto parallelo.
Pur davanti al rischio che le posizioni dominanti assunte dall’imprenditoria cinese, legate
alla concorrenza nell’ambito dell’economia globalizzata, combinate alle decisioni e agli slogan forti
della nuova amministrazione comunale, determinino un atteggiamento di sempre maggior chiusura
a livello locale con una graduale affermazione della sindrome da “invasione”, tutti gli intervistati
concordano sulle potenzialità di un’integrazione economica con l’imprenditoria cinese in regola per
la creazione di un distretto unico.
In generale, nonostante le voci di un graduale abbandono del territorio da parte della
comunità per trasferire altrove la produzione e non rinunciare così alla competitività di alcune
forme di economia illegale, pur in un periodo di crisi e con il graduale inasprirsi dell’atteggiamento
delle istituzioni locali, tutti gli intervistati propendono per la possibilità che il fenomeno
dell’imprenditoria cinese permanga sul territorio in maniera consistente.
Il passo del superamento della relazione solo economica è però valutato da tutti i testimoni
privilegiati come ancora lontano per l’assenza nell’imprenditorialità cinese del tradizionale fulcro
dell’economia locale individuato nel rapporto tra economia di distretto e sentimento di appartenenza
e di orgoglio cittadino in un tessuto produttivo fortemente basato sulle relazioni a cui dovrebbe
supplire un intervento da
“parte istituzionale per dare il senso di un progetto che, come ha detto il
Vescovo, dovrebbe rispondere all’interrogativo ‘in che città vogliamo
vivere d'ora in poi?’, perché non possiamo dichiarare guerra a 20.000
persone! che città è una città che dichiara guerra a 20.000 dei suoi
abitanti?!” (INT3).
6. Une breve riflessione conclusiva
L’ampia ricerca empirica e le numerose analisi esistenti sul caso dell’imprenditoria cinese a
Prato confermano l’elevata propensione imprenditoriale e la forte tensione verso l’affermazione
economica e sociale degli immigrati cinesi, che proprio in questo contesto territoriale e distrettuale
hanno creato una realtà di aziende senza paragoni in Italia, già a partire dalla fine degli anni ’80.
Come evidenziato, questi imprenditori stranieri si sono concentrati su un settore produttivo
specifico, trasformandolo da produzione con una posizione marginale nel distretto locale ad ambito
produttivo di un polo competitivo non solo a livello nazionale ma in tutta Europa.
L’imprenditoria cinese ricopre quindi oggi un ruolo cruciale nel contesto pratese e, pur non
rappresentando più un fattore di novità, rimane ancora un elemento di notevole rilievo per la
comprensione della futura evoluzione dell’ambiente distrettuale locale. Va però considerato che se
fino a tempi recenti nell’area pratese la presenza di attività imprenditoriali cinesi mostrava un trend
di aumento, alimentando la concorrenza interna a vantaggio del mercato locale, il proliferare di
queste micro-imprese ne ha gradualmente ridotto i margini di guadagno, aggravandone una
situazione già di per sé spesso precaria. A questa criticità si sommano l’inevitabile saturazione del
mercato e l’impatto della crisi globale e iniziano così a venire elaborate ipotesi relative al possibile
abbandono del territorio da parte della comunità imprenditoriale cinese. Questa opzione potrebbe
costituire un rischio concreto di impoverimento delle potenzialità del tessuto produttivo locale che
solo l’uscita dall’autoreferenzialità economica di questi soggetti imprenditoriali, se affiancata anche
dall’inversione di tendenza rispetto all’isolamento sociale della comunità cinese, potrebbero
scongiurare.
Se negli anni ’90 la presenza di queste imprese ha costituito un elemento di ampliamento
della varietà nella composizione del distretto, capace di influenzarne i caratteri e di dotarlo di
135
risorse competitive nuove; nell’attuale panorama economico in costante evoluzione queste aziende
potrebbero invece svolgere un ruolo fondamentale nell’elaborare strategie di sviluppo e di risposta
alla crisi del settore e alla sfavorevole congiuntura economica globale: gli imprenditori cinesi
diventano quindi per l’economia pratese attori chiave che sarebbe controproducente allontanare.
Vari interrogativi si pongono quindi al riguardo non solo di quella che sarà la specifica
evoluzione dell’imprenditoria cinese e sulle ricadute di questo sviluppo sulla realtà economica
locale ma in particolare sull’aspetto dell’evoluzione delle relazioni tra quelle che ancora oggi si
presentano come due comunità imprenditoriali distinte e sui se e sui come l’imprenditoria cinese
potrebbe diventare da “distretto parallelo”, con modelli organizzativi e culturali propri, a parte
integrante, per quanto peculiare, del tessuto produttivo locale, specie nell’ipotesi che una sinergia
tra le due realtà imprenditoriali presenti sul territorio riesca a fornire una risposta alla crisi del
sistema produttivo locale tradizionale e a creare le condizioni per rispondere alle sollecitazioni
interne ed esterne imposte dalla nuova fase dell’economia globale. Un simile cambiamento richiede
in primo luogo lo sviluppo di un network alternativo a quello puramente etnico, dove i rapporti con
l’esterno siano intensi e di natura diversificata e dove le relazioni con la popolazione autoctona
siano potenziate anche oltre ai percorsi economici della filiera allargata del tessile. Questo per non
correre il rischio di un’integrazione “monca” in cui l’inserimento nel mercato di lavoro non si
accompagna a percorsi di integrazione sociale, in termini di diritti, di doveri e di relazioni e in cui lo
sviluppo dell’imprenditoria straniera costituisce un indicatore di capacità di inserimento del tessuto
economico e di stabilizzazione in atto smentito però dalla realtà delle relazioni sociali.
Il ritardo politico a livello nazionale in termini di mancata percezione del fenomeno e di
scarsa tempestività negli interventi e l’attuale atteggiamento dell’Amministrazione locale centrato
sulla sicurezza non sembrano però sostenere un simile approccio, facendosi spesso promotori di
comportamenti adattivi e scelte tampone verso situazioni di disagio o di conflitto.
Per favorire questo processo di networking occorrerebbe innanzitutto approfondire la
conoscenza relativa ai bisogni di qualificazione e di formazione di queste realtà imprenditoriali, per
sostenerne l’ingresso sul mercato con modalità regolari e dare spazio ad azioni e a processi positivi
di integrazione al riguardo. Inoltre il fenomeno richiede un aggiornamento continuo e costante delle
analisi sia a livello locale, a cui gli enti e le istituzioni del Comune e della Provincia provvedono da
anni con un prezioso lavoro di monitoraggio, sia in termini di un impegno di ricerca anche in
prospettiva comparata per consentire di arrivare a nuove letture e interpretazioni e contribuire anche
al superamento del modello di distretto locale tradizionale in favore di un sistema a rete
maggiormente integrato a livello regionale.
136
8. Imprenditori marocchini nel settore del “food” a Torino
Eleonora Castagnone*
1. L’imprenditoria straniera a Torino
1.1 Il contesto economico
Fin dagli anni ’70, il Piemonte, e la provincia di Torino in particolare (dove si concentra più di uno
straniero su due), rappresentano un importante luogo di afflusso di migranti dall’estero. La regione
si colloca oggi tra le aree italiane a più alto tasso di immigrazione, includendo 377.241 stranieri pari
al 8,9% del totale sull’Italia, con un’incidenza sulla popolazione complessiva dell’area del 8,5%
(Caritas, 2010). I flussi e la composizione dei migranti in quest’area si sono nel corso dei decenni
progressivamente diversificati e articolati.
Di pari passo anche le amministrazioni locali, assieme a un importante contributo del terzo settore,
si sono attrezzate negli ultimi decenni nell’elaborazione di politiche locali e misure volte alla
gestione del fenomeno migratorio e all’integrazione delle nuove componenti della popolazione.
Attualmente l'insieme degli stranieri residenti in Piemonte si caratterizza per una marcata tendenza
alla stabilizzazione, accompagnata dalla consistente crescita di nuovi arrivi, soprattutto dall'Europa
orientale e in particolare dalla Romania. Si assiste poi alla stabilizzazione sul territorio di molte
famiglie immigrate, che i ricongiungimenti familiari, l'acquisto della casa, l'iscrizione dei figli alle
scuole italiane mettono in evidenza.
Per quanto riguarda l’inserimento nel mercato del lavoro, dei 133.000 stranieri occupati in Piemonte
rilevati nel 2007 (Di Monaco, 2008), 5.000 lavorano nell’agricoltura (attività concentrata soprattutto
nelle province di Asti e Cuneo), 60.000 nell’industria e 67.000 nei servizi. La presenza degli
stranieri nell’agricoltura e nell’industria rappresenta circa il 9% dell’occupazione complessiva,
mentre nei servizi rappresenta il 5,8%.
In una prospettiva di genere, sono soprattutto gli uomini stranieri a lavorare nei settori primario e
secondario, nei quali superano abbondantemente il 10% dell’occupazione totale maschile, mentre le
donne straniere che lavorano nell’industria rappresentano circa il 5% del totale dell’impiego
femminile in questo settore. Nei servizi avviene il contrario: gli uomini stranieri costituiscono il
4,8% dell’occupazione maschile, mentre le donne straniere il 6,8% dell’occupazione femminile
(ibidem). Se la presenza degli stranieri è largamente prevalente nel lavoro manuale e dequalificato,
è da segnalare tuttavia uno spazio crescente, sia pure in specifici comparti, come quello
sociosanitario, per figure con un buon livello professionale: le procedure di assunzione di personale
straniero paramedico salgono fra il 2007 e il 2008 da 1.200 a 1.800 circa88. Nell’area dell’assistenza
le figure di media qualificazione (ausiliari e assistenti domiciliari o nelle istituzioni) tendono poi a
sostituire il personale più generico (ibidem).
Accanto al lavoro subordinato, poi, il lavoro autonomo sta assumendo un peso sempre più
importante nell’inserimento e nella mobilità lavorativa dei migranti in questa zona, così come nel
resto d’Italia.
La provincia di Torino costituisce, secondo l’ultimo rapporto Camera di Commercio di TorinoFIERI (2011), il terzo polo di maggiore attrazione delle attività imprenditoriali dei cittadini
stranieri, con un totale di 30.122 imprese, pari al 4,8% del totale sull’Italia, dopo Milano (10,5%) e
Roma (9,1%).
*Università Statale di Milano e FIERI
88
Questo dato va letto alla luce del passaggio allo status di comunitari dei romeni, condizione che ha permesso ai
lavoratori di questo gruppo di essere assunti direttamente dalle aziende ospedaliere, anziché attraverso cooperative.
137
Il contesto economico torinese ha costituito un fertile terreno di coltura per la creazione e lo
sviluppo di attività autonome da parte dei nuovi cittadini. A partire dagli anni ’80, infatti, un sempre
più spinto fenomeno di outsourcing ha fatto dell’affidamento esterno di funzioni prima gestite
internamente, una strategia determinante per le aziende e le industrie torinesi, prima fra tutte la
FIAT. Questo processo ha stimolato nell’ultimo trentennio lo svilupparsi di un tessuto composto
essenzialmente da piccole e medie imprese. Ne è derivata una frammentazione delle unità
imprenditoriali, con la conseguente diffusione di ditte individuali (che attualmente costituiscono il
53% sul totale delle imprese nella provincia torinese) e una decrescita sensibile del volume delle
attività: il numero medio degli impiegati è passato da 9,7 nel 1971 a 5,4 nel 1996, secondo i dati
della Camera di Commercio di Torino (2008).
Anche a Torino, come in molte altre città europee, si sono insediate significative concentrazioni di
immigranti che costituiscono ambienti favorevoli per l’installazione di negozi e servizi specializzati
da parte di operatori stranieri. Così numerosi migranti hanno saputo cogliere le opportunità offerte
dalla domanda crescente generatasi non solo in seguito all’aumento della popolazione straniera, ma
anche per la crescente richiesta da parte di italiani, avviando attività in proprio. Un’altra parte dei
lavoratori autonomi si è invece affiancata ai titolari italiani, e, attraverso un fenomeno di
sostituzione, è andata a inserirsi in quei settori tradizionalmente occupati dagli italiani, e spesso
progressivamente disertati da questi ultimi. Si tratta, analogamente ai lavori subordinati, soprattutto
dei cosiddetti mestieri delle “3 d” (Castels, 2002, 152): dirty, dangerous, demanding, sporchi,
pericolosi, gravosi.
Guardando più nel dettaglio alle attività autonome, quasi il 60% delle posizioni imprenditoriali è
costituito da titolari di imprese individuali, seguiti dalle società di persone (26,3%) e dalle società di
capitale (il 12,3%): l’impresa individuale è pertanto la forma giuridica che ancora riveste un ruolo
preponderante fra gli imprenditori stranieri e che registra il maggior incremento in termini di
consistenza rispetto al 2009 (+7,1%). In valori assoluti, le imprese individuali con titolari di
nazionalità straniera ammontano nella provincia di Torino a 15.742 unità: oltre 15 imprenditori
individuali stranieri ogni 100 italiani (CCIAA-FIERI 2010).
Fig.1 - Imprese individuali in provincia di Torino (valori in migliaia). Anni 2000-2010.
Nell’analisi di Unioncamere (2007: 31) la rapida crescita dell’imprenditoria straniera avvenuta negli
ultimi in Italia anni ha infatti fatto degli immigrati “l’attore fondamentale per la tenuta della piccola
dimensione produttiva”. Come già da molti osservato, infatti, anche a Torino la crescita di attività a
titolare straniero ha permesso nel complesso di contrastare un possibile declino quantitativo
138
dell’insieme delle imprese ed ha accresciuto con il tempo sensibilmente il proprio peso sul totale. Il
grafico successivo rappresenta l’andamento delle attività individuali a titolare italiano e quelle a
titolare straniero nella Provincia di Torino.
La crescita di consistenza rispetto all’anno precedente è stata del +8,6%, per le imprese straniere, a
fronte di un numero stazionario di titolari italiani di imprese individuali. Nonostante si registri un
rallentamento nella crescita, imputabile ad un più generale effetto crisi di cui ha risentito anche
l’iniziativa imprenditoriale nel suo complesso, tale incremento è stato comunque determinante nel
garantire la crescita del numero di imprese individuali nel complesso (+1%).
Per quanto riguarda le principali aree di provenienza degli imprenditori stranieri a Torino, queste
sono l’Europa dell’Est e l’Africa mediterranea. Dopo un periodo di netta predominanza
dell’imprenditoria proveniente dall’Africa mediterranea, a partire dal 2004 tale componente è stata
raggiunta e poi sorpassata dagli imprenditori di nazionalità est europea: questi ultimi oggi hanno
acquisito lo stesso peso percentuale (oltre il 44%) che, dieci anni prima, detenevano i piccoli
imprenditori nord africani. Analogamente si è assistito ad un graduale calo degli imprenditori
asiatici (dal 17% del 2000 al 10,4% del 2010), mentre gli imprenditori dell’America Latina, così
come quelli dell’Africa subsahariana, hanno registrato un trend oscillante: fra il 2000 ed il 2002 il
peso percentuale dei titolari latino-americani è sceso dal 4% al 3%, si è mantenuto costante sino al
2006, per poi ricominciare lentamente a crescere (nel 2010 il peso è del 4,6%); gli imprenditori
dell’Africa Sub-Sahariana sono passati da un peso del 21% nel 2000 hanno visto aumentare la
propria presenza (dal 12% al 21% del totale), dal 2002 hanno progressivamente perso consistenza,
fino a segnare il 10,3% nel 2010. (CCIAA-FIERI, 2011).
Tab.1 Imprenditori con ditte individuali in provincia di Torino per area geografica di
provenienza al 31 dicembre
Guardando alle dieci nazionalità più consistenti per numerosità, resta preponderante la quota di
imprenditori romeni, con un peso superiore ad un terzo del totale. Ad essi fan seguito i marocchini,
che costituiscono poco meno di un quarto dei titolari di ditte individuali stranieri nel complesso. Le
nazionalità che completano la classifica restano comunque più distanziate rispetto alle prime due:
così i cinesi (6,9%) in terza posizione e, a scendere, albanesi (5,5%), nigeriani (4,8%) e senegalesi
(3,7%); in coda gli imprenditori di nazionalità tunisina (2,7%), egiziana (2,6%), moldava (2%),
peruviana (1,5%), brasiliana (1,3%) e del Bangladesh (1,1%). Tutte le principali nazionalità nel
139
corso del 2009 hanno manifestato un incremento di consistenza, compreso fra il +1% delle imprese
individuali brasiliane, ed il +20,5% di quelle moldave e del Blangladesh (CCIAA-FIERI, 2011).
Tab.2 Imprese individuali straniere in provincia di Torino per principali nazionalità. Anno
2010
Tab.3 Settore di attività degli imprenditori individuali. Anno 2010 (valore %)
L’incrocio delle attività con le nazionalità di provenienza (tab.3) mette poi in evidenza alcune
specializzazioni produttive: i tre quarti degli imprenditori dell’Est Europa operano nel settore delle
costruzioni; la stessa percentuale dei titolari dell’Africa Sub-Sahariana e quasi il 60% dei nord
africani svolge attività commerciali, prevalentemente commercio ambulante e al dettaglio in attività
di vicinato. Anche gli imprenditori asiatici prediligono il commercio (62,2%) e le attività di
ristorazione (il 14,2%), mentre la comunità latino americana mostra una maggiore diversificazione
delle proprie attività imprenditoriali: vi è sì una convergenza nei due settori principali – costruzioni
140
con il 39,1% e commercio con il 23,8% - ma risulta la presenza nell’industria manifatturiera (5,6%)
e nei servizi - dai trasporti (8,7), ai servizi di pulizia e noleggio (7,2%), a quelli di servizi di
informazione e comunicazione (3,2%) (CCIAA-FIERI, 2011).
1.2 Il contesto istituzionale: politiche e azioni rivolte all’imprenditoria straniera a Torino e
provincia
Le azioni di sostegno all’imprenditoria straniera promosse dalle amministrazioni locali torinesi sono
state fin dall’inizio concepite attraverso un prinicipio di inclusività e indifferenziazione,
considerando cioè questa componente come parte integrante del più ampio sistema economico
territoriale e agendo per integrarla al suo interno. Secondo questo approccio, dunque, non sono state
intraprese iniziative specifiche, quanto piuttosto azioni diffuse e indirizzate all’imprenditoria del
territorio nel suo insieme. La maggior parte di queste sono finalizzate soprattutto a fornire servizi o
facilitazioni rivolti allo start-up e alla gestione di impresa attraverso servizi di informazione e
consulenza amministrativa e legale, programmi di orientamento e accompagnamento, corsi di
formazione, erogazione di finanziamenti e forme agevolate di accesso di credito.
I principali soggetti che hanno attivamente contribuito a tali azioni di sostegno sono89:
1) Le amministrazioni locali:
Come già accennato le ammistrazioni locali torinesi forniscono servizi alle imprese del territorio in
maniera indistinta. Queste sono:
- La Provincia di Torino, attraverso il MIP (Mettersi in Proprio), un servizio di supporto alla
creazione di nuove imprese. Le azioni del MIP sono volte a diffondere una cultura imprenditoriale,
a stimolare la nascita di idee d'impresa e a favorire la creazione e lo sviluppo di nuove attività di
successo. Il servizio è finanziato attraverso fondi dell'Unione Europea, del Ministero del Lavoro e
della Regione Piemonte.
- Il Comune di Torino, attraverso: 1) l’Assessorato al Commercio, 2) l’Assessorato al Lavoro, 3)
l’Assessorato all’Integrazione.
Il primo ospita lo Sportello Unico per le Imprese, che è incaricato di offrire servizi di orientamento,
consulenza, sosegno finanziario, alle imprese locali.
Il secondo è responsabile degli aspetti di formazione professionale e dell’allocazione delle risorse
finanziarie erogate dai Fondi Strutturali e dal Ministero del Lavoro (ex Legge n.266/1997).
Per quanto riguarda il terzo, anche se le misure specifiche di sostegno all'imprenditoria non fanno
parte delle attività dell’Assessorato all’Integrazione, questo ha un mandato nel coordinamento delle
diverse politiche di integrazione, oltre a svolgere informalmente un ruolo attivo nel supporto alla
creazione di imprese e di associazioni di migranti. Un esempio è quello dell’associazione “Hatun
Wasi” composta da donne peruviane che vendono cibo nel Parco della Pellerina, molto frequentato
da questa comunità nei fine settimana e in occasione delle festività. Negli ultimi mesi, in
particolare, il Comune di Torino ha avviato un percorso di assistenza per sostenere la conversione
dell’associazione in una cooperativa sociale, organizzando incontri fra i vari membri con le banche
o con istituzioni che forniscono servizi di supporto all’imprenditoria (Tarantino, 2010).
89
La rassegna dei soggetti è tratta dal rapporto “"Ethnic Entrepreneurship. Turin case study. Cities for Local
Integration Policies (CLIP)”, (Tarantino, 2010).
141
2) Le Agenzie di Sviluppo Locale:
Se gli assessorati hanno una funzione principalmente politica, gli attori con un ruolo più attivo sia
nella fase di progettazione, sia nella fase di esecuzione e attuazione delle politiche, sono le Agenzie
di Sviluppo Locale. Si tratta di entità orientate alla promozione dello sviluppo economico e sociale
di aree e quartieri della città. In diversi casi, tali agenzie sono il risultato della collaborazione tra
diverse istituzioni pubbliche e attori privati locali. Queste concepiscono progetti e servizi per
migliorare la competitività delle piccole e medie imprese locali e la capacità dell’area di intervento
di attrarre capitali. Ciascuna di questa agenzie è attiva in quartieri caratterizzati da un’alta
concentrazione di migranti.
- The Gate90: si occupa di interventi a favore dello sviluppo economico, sociale, culturale,
promozionale e di trasformazione, riqualificazione fisica pubblica e privata dell’area di Porta
Palazzo e Borgo Dora. Una parte delle attività dell’agenzia è orientata proprio all’imprenditoria
straniera (botteghe, macellerie, bazar, negozi di abbigliamento e casalinghi) e all’area mercatale in
particolare (il quartiere ospita il mercato all’aperto più grande d’Europa), di cui si parlerà oltre.
- L’Agenzia di Sviluppo Locale di San Salvario91: ha come obiettivo il miglioramento della qualità
della vita nei suoi aspetti sociali, economici, ambientali, culturali e della vivibilità per tutti i
cittadini del quartiere San Salvario. Si fonda sull’ eterogeneità dei partecipanti, dei quali valorizza
le esperienze e i saperi, con l’obiettivo condiviso della conservazione dell’esistente e di una
riqualificazione del quartiere basata sulla sostenibilità sociale ed economica. L’Agenzia promuove e
organizza azioni per la valorizzazione delle risorse dell’area e svolge inoltre attività di consulenza
tecnica, informazione, orientamento e supporto.
- L’Agenzia di Sviluppo di Via Arquata
L'Agenzia per lo Sviluppo di Via Arquata nasce nel 2000 come risultato del lavoro di un tavolo
sociale avviato nel 1998, formato oggi da cooperative, sindacati e associazioni di volontariato e
associazioni di cittadini che vivono e lavorano in via Arquata. Nello stesso periodo il Comune di
Torino, in collaborazione con la Regione, la ASL, l'ATC e l'allora Provveditorato agli Studi, avviò
in questa zona della città un programma di riqualificazione urbana approvato dal Ministero dei
Lavori Pubblici. Il progetto prevede interventi sul tessuto urbano, ma anche e soprattutto azioni di
accompagnamento e sostegno sociale.
3) La Camera di Commercio, oltre a servizi di sostegno economico, formazione imprenditoriale,
consulenza e orientamento rivolti alle imprese del territorio nel loro complesso, ha concepito un
dizionario-guida in 8 lingue (italiano, inglese, francese, arabo, romeno, spagnolo, albanese e cinese)
“Le parole dell’Impresa” diviso in otto aree tematiche (L’impresa in generale; Leggi e Regolamenti;
Gli Istituti, gli Albi e le Autorizzazioni; Il Sistema Fiscale e Tributario; Il Diritto del Lavoro; la
Normativa Ambientale e di Sicurezza del Lavoro; Il Mercato; La Gestione Economica e
Finanziaria) rivolto a imprenditori stranieri già attivi o in fase di avvio dell’impresa.
Dal 2009 la Camera di Commercio ha inoltre attivato un servizio sperimentale di mediazione
culturale per aiutare i cittadini stranieri di lingua araba e romena a orientarsi sui temi imprenditoriali
e facilitare il loro rapporto con enti e istituzioni sul territorio.
La CCIAA ha infine stabilito un osservatorio permanente sul fenomeno delll’imprenditoria straniera
in provincia di Torino in stretta collaborazione con l’istituto di ricerca FIERI (Forum Internazionale
ed Europeo di Ricerca sull’Immigrazione). Dal 2004 ad oggi sono stati prodotti quattro rapporti di
ricerca su questo tema, che hanno previsto un aggiornamento statistico annuale sul quadro del
90
91
Si veda a proposito: www.comune.torino.it/portapalazzo/
Si veda a proposito: www.sansalvariosviluppo.it
142
fenomeno nel territorio torinese, accanto a un approfondimento qualitativo su vari settori e
nazionalità rilevanti92.
4) L’Agenzia delle Entrate (Divisione Regionale Piemonte) ha promosso con INPS e la Camera di
Commercio di Torino il progetto “Fare Impresa - Istruzioni per i Nuovi Cittadini”. Il progetto ha
istituito una scuola per aspiranti imprenditori e ha preso avvio nel febbraio del 2010. Le lezioni si
svolgono su base mensile (due ore al mese), sono suddivise in moduli e affrontano le questioni più
importanti per l’avvio di impresa, la gestione quotidiana dell’attività, l’adempimento degli obblighi
fiscali e previdenziali. Il progetto è stato sostenuto anche da associazioni di volontariato nella zona
di Torino che si occupano di stranieri, come il Sermig, l'associazione italo-egiziana Cleopatra e la
Caritas di Torino.
5) Anche le associazioni di categoria hanno saputo cogliere la sfida sollevata dalle nuove fila di
imprenditori fornendo servizi attività ad hoc, attraendo al tempo stesso nuovi iscritti:
Il CNA (Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa) è attiva sul
territorio piemontese da numerosi anni, con attività pionieristiche all’interno del sistema CNA
nazionale. Si tratta in particolare del progetto “Dedalo”, servizio di supporto ed assistenza alla
creazione d’impresa da parte di immigrati, fra cui l’accesso al credito, la formazione, il disbrigo di
formalità amministrative e burocratiche (compresi i servizi per il rinnovo dei permessi di soggiorno,
la richiesta di ricongiungimenti familiari, la definizione delle pratiche relative ai permessi di
soggiorno, etc.). Oggi Dedalo è diventato un modello d’intervento per 25 simili progetti sul
territorio nazionale con la denominazione di CNA World che ne rappresenta la naturale evoluzione;
il progetto è stato inoltre premiato come una delle migliori 12 pratiche europee in occasione della
conferenza "Imprenditorialità tra immigrati e minoranza etniche" organizzata dalla Commissione
Europea a Bruxelles il 5 marzo 2008. L’apporto iniziale della Regione Piemonte, della Provincia di
Torino e la collaborazione con la Camera di commercio di Torino hanno favorito la creazione di
uffici territoriali dedicati al tema dell’immigrazione, offrendo servizi in funzione delle specifiche
leggi, dei diritti sociali e della creazione d’impresa.
Il CNA è stato inoltre promotore di progetti pioneristici di sostegno all’imprenditoria transnazionale
nel quadro di progetti di co-sviluppo. Il primo ha coinvolto la comunità marocchina e si è avvalso
della collaborazione dell’ONG (Organizzazione Non Governativa) Re.te, il secondo ha implicato il
gruppo senegalese (e in particolare imprenditrici donne) ed è stato effettuato in collaborazione con
l’ONG CISV.
In particolare rispetto al Marocco la CNA ha portato a termine a dicembre 2008 un progetto di
accompagnamento alla creazione di impresa da parte di migranti marocchini residenti in Piemonte
nel proprio paese d’origine (“Promozione di nuove imprese da parte di immigrati marocchini nella
Provincia di Khouribga”), finanziato dalla Regione Piemonte e dalla Camera di Commercio di
Torino, che ha visto tra i partner coinvolti anche la Provincia di Khouribga, la Camera di
Commercio di Khouribga e l’Istituto Euromediterraneo Paralleli.
API-TO (Associazione della Piccola e Media Impresa di Torino e Provincia) svolge anche un ruolo
importante per la PMI del territorio e più recentemente ha avviato il “Progetto Straniero e
Imprenditore” che offe servizi alle imprese già avviate, così come allo start up di nuove attività.
92
Si vedano a proposito il sito di FIERI: http://www.fieri.it/lavoro.php e della Camera di Commercio di Torino:
http://www.to.camcom.it/studi
143
6) Gli istituti di credito e micro-credito:
Dal punto di vista dell’accesso al credito, diverse banche si sono mobilitate a Torino per migliorare
le proprie politiche e i propri servizi rivolti alla clientela straniera. Due banche in particolare, Intesa
San Paolo e Unicredit si sono distinte in questo senso, aprendo delle agenzie con servizi dedicati ai
clienti di origine straniera in due dei quartieri della città a più alta concentrazione di popolazione
immigrata.
Non mancano anche varie inziative di microcredito. Fra queste si può citare PerMicro, un servizio
promosso dalla Fondazione CRT in collaborazione con il Comune di Torino e in partnership con
Banca Etica; oppure il progetto Dieci Talenti della Fondazione Don Mario Operti, in collaborazione
con l'Ufficio Pastorale Sociale e del Lavoro, che, attraverso un finanziamento della Compagnia di
San Paolo, fornisce microcredito per l’avvio di impresa. Per un più ampio ed esaustivo rapporto sul
microcredito a Torino si rimanda al documento della Camera di Commercio “Il Microcredito a
Torino e in Piemonte. Studio di fattibilità di un modello subalpino”93.
7) I soggetti del co-sviluppo e la promozione dell’imprenditoria transnazionale.
Come già prima sottolineato le Ong torinesi CISV e Re.Te. hanno contribuito, in virtù del loro ruolo
da ponte fra contesti di provenienza e zone di residenza dei migranti all’estero, a iniziative di
sostegno all’imprenditoria transnazionale in collaborazione con soggetti del mondo privato
(associazioni di categoria) e di quello pubblico (istituzioni locali).
Anche l’Ong di Milano COOPI e l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), hanno
in passato promosso iniziative di sviluppo all’imprenditoria transnazionale dei migranti nel quadro
di progetti di co-sviluppo rivolti specificamente all’imprenditoria senegalese94. In entrambi i casi
sono stati finanziate iniziative basate su Torino (Castagnone, 2006; Stocchiero, 2008).
8) Le associazioni di migranti
Per quanto riguarda i migranti, va infine rilevato che sul territorio torinese manca quasi del tutto un
associazionismo costituito su base comunitaria (nazionalità comune) o settoriale (appartenenza al
medesimo comparto) di carattere economico-imprenditoriale che sia stato in grado di convogliare
coesione interna ai gruppi professionali, da un lato, e di farsi interlocutore delle istituzioni,
dall’altro. La stessa comunità marocchina, la più antica e la più numerosa, nonché quella con il più
alto tasso imprenditoriale sul territorio, non è mai riuscita, salvo timidi tentativi perlopiù
fallimentari, a organizzarsi in questo senso. In seguito verrà presentata una breve rassegna delle
associazioni imprenditoriali marocchine e della loro funzione economica sul territorio.
93
Disponibile all’indirizzo: http://images.to.camcom.it/f/Studi/Mi/Microcredito.pdf
L’Ong COOPI ha promosso nel 2005 il progetto “Il rafforzamento del capitale sociale nell’ambito del fenomeno
migratorio senegalese” per sostenere iniziative transnazionali a livello imprenditoriale e associativo. La peculiarità di
questa iniziativa è stata di dare impulso alla creazione di un comitato organizzativo di associazioni migranti, enti locali,
associazioni di categoria (una Camera di commercio italo-senegalese) per la selezione delle iniziative da sostenere, e
per la costituzione di una rete di soggetti interessati a promuovere interventi di co-sviluppo fra Senegal e Italia
(Castagnone, Ferro, Mezzetti, 2008).
Per quanto riguarda l’OIM di Roma, nel quadro del programma MIDA (Migration for Development in Africa) questa ha
sostenuto azioni di sviluppo da parte di migranti di Senegal, Ghana e Etiopia residenti in Italia. Il progetto ha previsto
iniziative di sostegno all’imprenditoria transnazionale, individuale e collettiva, progetti e interventi di carattere sociale a
partire dalle associazioni dei senegalesi in Italia e iniziative di ricerca e promozione di strumenti finanziari per la
canalizzazione delle rimesse nel paese di origine (Castagnone, Ferro, Mezzetti, 2008).
.
94
144
2. La migrazione marocchina a Torino
La migrazione marocchina in Italia ha inizio a partire dalla fine degli anni Settanta. Si tratta nei
primi tempi di una migrazione a forte composizione maschile, caratterizzata da un alto tasso di
irregolarità e da una elevata mobilità territoriale, composta da lavoratori non specializzati (operai
impiegati nell’agricoltura e nell’industria) e commercianti ambulanti. Nel corso degli anni si assiste
a una crescita costante di questo flusso e a una diversificazione della sua composizione: cominciano
a giungere in Italia individui provenienti anche dalle zone urbane del Marocco e con un più elevato
tasso di scolarizzazione. L’Italia, da paese di ripiego rispetto alle tradizionali destinazione europee,
e in particolare a quella francese, diventa progressivamente una delle principali mete di destinazione
dei flussi da questo paese.
Anche le zone di provenienza evidenziano una diversificazione progressiva. Tradizionalmente, la
regione di Chaouia Ouardigha e più precisamente la provincia di Khouribga collocata al centro del
Marocco rappresentava la principale area di emigrazione marocchina destinata all’Italia. A partire
dagli anni ’90, tuttavia, vi sono nuovi punti di partenza: le due regioni di Tadla-Azilal, in
particolare, la località di Fkih Ben Saleh della provincia di Beni Mellal e la provincia di Settat.
Nonché, sempre di più, altre regioni, come la Grande Casablanca, Rabat-Salé-Zemmour-Zaer o
Marrakech-Tensift-El Haouz (Mghari, Fassi Fihri, 2010).
La migrazione marocchina si caratterizza poi progressivamente, a partire dalla fine degli anni ’90,
per una crescente femminilizzazione, frutto soprattutto dei ricongiungimenti famigliari, come si
vedrà meglio oltre. Secondo un recente rapporto dell’OIM (Mghari, Fassi Fihri, 2010), i marocchini
richiedenti il ricongiungimento familiare, con famiglia di 3 o più persone rappresentano il 12,1% sul
totale dei richiedenti.
All’inizio del 2009 i residenti marocchini in Italia superano per la prima volta le 400.000 unità.
Questi risultano a fine 2010 la terza comunità più rilevante a livello nazionale (403.592), dopo
romeni (796.477) e albanesi (441.396) (dati ISTAT). Incidono per quasi metà (46%) sulla
collettività complessiva africana in Italia e il 66% su quella nord-africana.
In un processo di calo dell’incidenza sul totale dei soggiornanti dei Paesi del Nord Africa dal 18 al
15%, la collettività marocchina ha mantenuto un tasso di crescita costante, pari al 10% (Dossier
Caritas, 2009).
La presenza femminile (tab.4), come già accennato, ha subìto una forte evoluzione, passando da
83.292 unità nel 1992 (con un tasso del 9,8% sulla presenza maschile), a 258.571 presenze nel
2007, quadruplicando così il proprio peso percentuale sul totale della comunità (37%).
Tab.4 Presenza femminile marocchina in Italia: serie 1992-2007
1992
1997
2002
2007
N 83.292 115.026 167.334 258.571
% sul
9,8
20,6
32,0
37,0
totale
Fonte: dati ISTAT
Tale femminilizzazione progressiva è il risultato di tre processi concomitanti e complementari: il
potenziamento del ricongiungimento familiare, l’impatto delle nascite in Italia, che comporta un
maggiore equilibrio tra maschi e femmine, e infine, l’emergere della migrazione delle donne sole
nel corso degli ultimi decenni (Mghari, Fassi Fihri, 2010).
Dal punto di vista dell’inserimento nel mercato del lavoro, i dati dell’ISTAT sulla forza lavoro
(ISTAT, 2008), evidenziano come gli uomini siano principalmente muratori e manovali
nell’edilizia, venditori ambulanti, saldatori, operai degli alti forni, magazzinieri, falegnami, addetti
145
alle macchine, operai agricoli. I marocchini, per altro, lavorano più frequentemente nei servizi
d’igiene e pulizia oppure sono agenti qualificati nei servizi sanitari, impiegati nel settore alberghiero
e della ristorazione in qualità di cuochi, nonché operai nell’industria tessile.
E’ importante rilevare che, nel triennio 2005-2007, tra i datori di lavoro che hanno presentato una
richiesta di autorizzazione ad assumere lavoratori stranieri nell’ambito dei decreti flussi, 131.000
sono stranieri residenti in Italia (un quarto delle richiesta) e fra questi i più numerosi sono cinesi
(19.429) e marocchini (17.926). Come ricorda il rapporto OIM (2010), non è escluso che in alcuni
casi si tratti di ricongiungimenti familiari «nascosti» (in un terzo dei casi si tratta di assunzioni nel
settore del lavoro domestico).
Secondo il Rapporto Caritas (2009) gli occupati provenienti dal Marocco sono concentrati
soprattutto nel nord ovest (40,2%) e nel nord est (32,3%) della penisola e in particolare in
Lombardia (23,4%), Emilia Romagna (15,8%), Piemonte (14,8%) e Veneto (14,1%).
La comunità marocchina inizia a installarsi nel capoluogo della regione piemontese verso la metà
degli anni ‘80. Si trattava, principalmente, di migranti provenienti dalla provincia di Khouribga, la
cui prima esperienza in Italia era stato l’inserimento come lavoratori stagionali al sud (Sicilia,
Campania e Puglia) o il commercio ambulante. I primi ad arrivare erano soprattutto uomini maturi,
agricoltori spinti all’esodo da problemi connessi alla siccità, i quali, secondo le dinamiche note della
catena migratoria, si sono fatti in seguito raggiungere da artigiani e da giovani operai della loro
regione d’origine, disponibili a lavorare nell’edilizia e nell’agricoltura, spesso celibi e senza alcuna
qualifica. Seguono quindi le partenze di studenti e di persone con un livello di formazione più
elevato, alcuni dei quali diventeranno, con il passare del tempo, mediatori, educatori e operatori
sociali per sostenere la comunità marocchina nel suo percorso d’integrazione nella società italiana.
Alcuni quartieri di Torino, fra i quali in particolare Porta Palazzo e San Salvario, sono stati e sono
ancora fortemente marcati dalla presenza marocchina e dai commerci avviati da questo gruppo
(magazzini, bazar, macellerie, ristoranti, kebabberie, ecc.) (FIERI-CCIAA 2008; 2009).
La Provincia e la città di Torino rappresentano oggi il primo polo di attrazione dell’immigrazione
marocchina in Italia, con rispettivamente 18.543 e 17.532 individui residenti in queste aree a inizio
2009, complessivamente 58.811 nella regione piemontese (ISTAT).
I primi flussi nella città hanno origine a partire dagli inizi degli anni ’80 e coinvolgono in
particolare marocchini originari della provincia di Khouribga e di alcune aree contigue della
provincia di Settat e Benlismane, zone rurali tra le più colpite dagli squilibri economici del paese.
La maggior parte degli immigrati marocchini presenti in Piemonte sono ancora oggi originari di
questa regione.
Secondo il rapporto dell’OIM (Mghari, Fassi Fihri, 2010) la destinazione piemontese è scelta dal
24,4% dei marocchini provenienti dalla regione di Chaouia-Ouardigha, dal 18% dalla regione della
Grande-Casablanca, il 5,4 dalla regione di Tadla-Azilal (presenti in larga misura il Lombardia), il
16,3% dalla regione di Rabat-Salé-Zemmour-Zaer, il 7% dalla regione di Marrakech-Tensift-El
Haouz.
146
Stranieri suddivisi per le principali nazionalità - 2008
PAESE
MAROCCO
ALBANIA
PERU'
CINA POP
MOLDOVA
EGITTO
NIGERIA
FILIPPINE
BRASILE
TUNISIA
PROVINCIA di
TORINO
23.895
9.713
7.500
5.829
3.808
3.242
2.807
2.748
2.524
1.948
COMUNE
TORINO
di % residenti a TORINO
16.175
4.988
6.301
4.225
2.371
2.973
2.406
2.472
1.697
1.497
68%
51%
84%
72%
62%
92%
86%
90%
67%
77%
* al primo gennaio 2008
Fonte: BDDE Regione Piemonte
Elaborazione dell'Ufficio Statistica della Provincia di Torino
Guardando agli immigrati complessivamente residenti nel territorio torinese, il Marocco risulta il
primo gruppo extra-europeo, mentre se allarghiamo la classifica anche ai gruppi neo-europei, questo
risulta secondo solo al collettivo romeno che continua a detenere il primato sia nella provincia, che
nella città di Torino, con rispettivamente 44.158 e 25.600 presenze nel 2008.
Entrando più in dettaglio nella composizione del gruppo marocchino, le donne rappresentano il 40%
del totale (percentuale leggermente al di sopra di quella nazionale, sopra riportata) e i minori il
25,6% (Osservatorio interistituzionale sugli stranieri in provincia di Torino, 2008).
Nel 2007 gli allievi del Marocco iscritti a tutti i livelli scolastici in Provincia di Torino sono stati
4.532, dei quali 2.600 nati già in Italia (ibidem). Questi ultimi dati confermano una tendenza alla
ricomposizione famigliare in Italia e a una stabilizzazione e a un radicamento sempre più forte della
comunità marocchina nel territorio torinese.
Come per le altre comunità, l’incidenza dei proprietari è aumentata nel corso dell’ultimo decennio e
la propensione a comprare casa è stata forse incoraggiata dalla preoccupazione di non dover più
subire discriminazioni di tipo etnico durante la ricerca di un alloggio da affittare.
Anche i dati relativi alle richieste di cittadinanza, importante indicatore di integrazione, oltre che
frutto di una permanenza stabile sul territorio, rafforzano questo quadro: fra il 2006 e il 2008 le
richieste annuali di naturalizzazione avanzate dalla popolazione marocchina sono più che
raddoppiate, aumentando il loro peso sul totale delle richieste di 10 punti percentuali (27,49 nel
2006 e 37,63 nel 2008).
Tab.5 Richieste cittadinanza dei cittadini marocchini in Provincia di Torino
2006
N
% sul totale
delle richieste
2007
N
% sul totale
delle richieste
2008
N
% sul totale
delle
richieste
488
27,5 805
34,7 1083
37,6
Fonte: Osservatorio Interistituzionale sugli Stranieri in Provincia di Torino, 2008
147
Va tuttavia aggiunto che l’acquisizione della cittadinanza non esclude progetti di rientro, anzi
spesso è funzionale a un re-inserimento al paese di origine o alla circolazione, permettendo di
acquisire una libera mobilità fra quest’ultimo e l’Italia, soprattutto quando parenti stretti ancora vi
risiedono. È stato infatti sottolineato come una situazione giuridica sottoposta a periodici e incerti
rinnovi inibisca la propensione al rientro in patria, rendendolo irreversibile in mancanza del rinnovo
dei documenti di soggiorno in Italia. Per le stesse ragioni l’ottenimento del passaporto italiano può
essere un importante strumento per gli imprenditori che già operano fra il mercato italiano e quello
del paese di origine. Oppure per coloro che, pur tentando un ritorno produttivo in Marocco,
vogliano lasciare aperta l’opportunità di circolare in Europa senza ostacoli burocratici.
Dal punto di vista culturale e religioso, i marocchini rappresentano poi la componente musulmana
più importante nel territorio piemontese (e nazionale) e l’identità religiosa è senza dubbio uno degli
elementi più significativi di questo gruppo. Non a caso, è nell’ambito religioso, con la costituzione
di associazioni di ispirazione islamica e la fondazione e conduzione di diverse sale di preghiera, che
la comunità marocchina ha espresso maggiormente le proprie potenzialità associative.
Per quanto riguarda l’associazionismo laico, va detto che le potenzialità di questa comunità, in
teoria piuttosto significative, data l’ampia popolazione di origine marocchina in città e l’anzianità
dell’insediamento, sono rimaste perlopiù inespresse: le associazioni sono numericamente marginali
e non sembrano coinvolgere che in minima misura la popolazione di origine marocchina (Capello,
2008).
Le associazioni attualmente più attive sul territorio torinese sono o di tipo volontaristico, fortemente
centrate su obiettivi di solidarietà interna e di mutuo soccorso fra i membri, oltre che alla
promozione culturale del paese di origine; o di tipo cooperativistico, con un più spiccato indirizzo
alla fornitura di servizi e di prestazioni professionali al settore pubblico nella mediazione culturale.
Appartiene al primo gruppo l’associazione AMECE95 (Association Maison d’Enfant pour la Culture
et l’Education), costituitasi a Torino nel 2000 con l’obiettivo di organizzare e fornire servizi e
attività di supporto di inserimento sociale (sostegno scolastico, azioni di dialogo tra più generazioni,
sensibilizzazione delle famiglie, ecc.) ai bambini e ai giovani ricongiunti in Italia dall’Africa
Mediterranea e dal Marocco in particolare (in virtù soprattutto della loro maggiore presenza
numerica).
Al secondo gruppo è invece riconducibile la cooperativa sociale Sanabil. Questa gestisce a Torino e
in Provincia interventi di accompagnamento alla fruizione dei servizi presenti sul territorio, di
assistenza educativa e di mediazione culturale in ambito scolastico ed extrascolastico. La
cooperativa è a componente nazionale mista, ma ha una forte connotazione marocchina, essendo il
suo presidente e fondatore, Said Raouia, un cittadino originario del Marocco. La cooperativa è nata
nel 1992 su iniziativa di un gruppo di cittadini stranieri e italiani, che avevano maturato nel paese di
origine o in Italia esperienza nel campo del lavoro sociale e che si sono uniti in gruppo per fornire
servizi nel settore dell’immigrazione, dapprima informalmente e in seguito attraverso la forma
cooperativistica.
Il caso di Sanabil racconta anche in maniera esemplare un aspetto dell’organizzazione comunitaria
marocchina a Torino, dove, accanto a un numero ridotto di associazioni ancora poco autonome,
debolmente strutturate e dalla fragile partecipazione associativa, spiccano alcuni figure eminenti di
origine marocchina, che hanno nel corso degli anni ricoperto ruoli di spicco nel dialogo con le
istituzioni e hanno assunto posizioni di responsabilità soprattutto nell’ambito di associazioni miste.
Si tratta di figure individuali, legate soprattutto alla mediazione e all’intervento sociale, spesso con
esperienze di lavoro sociale maturate in Marocco, che hanno cominciato a ottenere visibilità
pubblica nel panorama torinese verso la metà degli anni ’90. In questo periodo infatti nasce la figura
del mediatore culturale nell’ambito dei servizi pubblici e numerosi corsi di formazione hanno creato
e immesso sul mercato figure professionali in questo settore. Proprio in questo periodo nascono
95
http://www.amece.it/
148
alcune delle prime associazioni miste di immigrati formati nella mediazione culturale, con
l’obiettivo di strutturarsi per fornire servizi e prestazioni al settore pubblico.
Per riprendere il caso marocchino, la ridotta strutturazione e istituzionalizzazione della vita
comunitaria di questo gruppo va comunque ricondotta, almeno in parte, al prevalere del principio e
della pratica della qaraba (a un tempo parentela e vicinato sociale), ovvero alla centralità, che
persiste anche nell’esperienza migratoria, dei legami famigliari, di parentela e di “vicinato sociale”
(Persichetti 2003, Capello 2008). Si può ipotizzare che il prevalere di questi legami abbiano in
qualche maniera inibito l’insorgere di organizzazioni comunitarie laiche di tipo associativo.
Una parziale, ma significativa eccezione a questo ultimo punto, si riscontra, come si è detto,
nell’ambito religioso. Nel corso degli anni, i migranti marocchini sono riusciti a mettere in piedi
numerose sale di preghiera e centri religiosi islamici, dimostrando una sicura capacità organizzativa
(Schmidt di Friedberg, 2002). Non a caso i promotori di alcune di queste realtà religiose si sono
spesso presentati, e sono stati percepiti, in particolare dalle autorità locali, come rappresentanti e
leader dell’intera comunità.
La presenza di associazioni religiose e di sale di preghiera ci ricorda dell’importanza cruciale
dell’identità musulmana, che si rivela peraltro anche in fenomeni minimi ma centrali per le nostre
indagini, come l’acquisto e il consumo di carne halal, macellata ritualmente. In questo settore, la
macellazione islamica e della vendita di carne halal i marocchini hanno conquistato una notevole
egemonia, grazie alla condizione di maggioranza all’interno della comunità islamica torinese e in
parte alla relazione privilegiata con le sale di preghiera e gli imam.
La progressiva stabilizzazione dei migranti nel territorio torinese non ha indebolito i legami
transnazionali con il paese di origine. È invece proprio tramite i legami con il Marocco, che la
comunità si definisce e costruisce la propria identità. I legami transnazionali assumono diverse
forme: possiamo distinguere tra legami sociali che uniscono i migranti alle loro famiglie e agli altri
membri del vicinato sociale nelle diverse località di origine; legami economici, che si manifestano
in primo luogo mediante le rimesse e gli investimenti in Marocco; e infine legami simbolici ed
identitari.
Il processo migratorio marocchino a Torino, nonostante pluridecennale, è ancora oggi attivo e
fluido. Accanto a persone arrivate negli anni ’80 si trovano neo-immigrati, e ovviamente la
differente temporalità migratoria si traduce facilmente in differenze rispetto alle opportunità di
lavoro e di vita. Analogamente, per quanto tutti i migranti siano sottoposti a una generale
subordinazione politica e sociale che conduce a un’inclusione subalterna all’interno della società di
accoglienza, vi sono comunque notevoli distinzioni tra i migranti marocchini rispetto alla
condizione socioeconomica. Gli imprenditori e i commercianti, in particolare, si distinguono per il
loro status all’interno della comunità. Anche se, da un punto di vista strettamente economico, si
tratta perlopiù di attività non particolarmente redditizie che rientrano in larga misura nella fascia più
bassa del mondo del lavoro autonomo, e pur trattandosi spesso di attività di ripiego o di rifugio, non
vanno comunque trascurate le maggiori possibilità economiche e il maggior riconoscimento sociale
(almeno intracomunitario) che queste imprese possono comportare. Decisivo in questo senso è la
capacità di queste persone di offrire lavoro a parenti, amici e connazionali, dando vita a legami
diadici, di tipo almeno in parte clientelare. Anche per questo motivo, gli imprenditori e i
commercianti possono ricevere un certo riconoscimento sociale, e un conseguente status, all’interno
della comunità.
3. L’imprenditoria marocchina a Torino
Dal punto di vista del lavoro autonomo, il tasso di imprenditorialità della comunità marocchina nel
suo complesso si dimostra alto: globalmente il 18,7% della popolazione presente nella Provincia di
Torino è lavoratore autonomo o imprenditore, come evidenzia la tab.6.
149
Secondo l’Osservatorio Interistituzionale sugli Stranieri in Provincia di Torino (2007), che offre
dati scorporati per sesso relativi al 2007, il tasso maschile (21,2%) risulta quasi il doppio di quello
femminile (11,3%). Questo dato è in contrasto con gli stereotipi, che vogliono le donne di
quest’area relegate ai lavori di casa o impiegate come dipendenti presso attività famigliari. In effetti
una recente letteratura sta mettendo in evidenza i processi di femminilizzazione delle migrazioni dal
Maghreb, anche con processi migratori autonomi, e una crescente partecipazione alla sfera
produttiva nel contesto di approdo da parte delle donne.
Tab.6 Tasso imprenditorialità marocchina in Provincia di Torino nel 2007
Maschi
% sul totale
Femmine
% sul totale Totale
% sul totale della
(numero degli uomini
(numero
delle donne
popolazione marocchina
posizioni)
posizioni)
3.365
21,2
583
11,3 3.948
18,7
Fonte: Osservatorio Interistituzionale sugli Stranieri in Provincia di Torino, 2007
Il numero di posizioni imprenditoriali marocchine risulta poi a fine 2009 il secondo più alto nella
Provincia di Torino (3.522 posizioni), dopo quelle della comunità romena (4.858 posizioni), che
continua a essere la più numerosa nel territorio preso in considerazione. Le attività del Marocco
rappresentano inoltre il 24,3% del totale delle imprese avviate da cittadini immigrati (FIERI,
CCIAA, 2010).
Tab.7 Posizioni imprenditoriali marocchine al 31 dicembre 2009
% sul
% sul
Comune
totale
Provincia
totale
di Torino
comune
di Torino provincia
Agricoltura, silvicoltura e pesca
2
0,1
8
0,2
Industria
110
3,1
146
3,2
Costruzioni
470
13,1
683
14,8
Commercio all'ingrosso e al dettaglio
2.140
59,7
2.731
59,0
Trasporto e magazzinaggio
113
3,1
150
3,2
Attività dei servizi alloggio e ristorazione
210
5,9
276
6,0
Servizi di informazione e comunicazione
91
2,5
104
2,3
Attività finanziarie e assicurative
1
0,0
1
0,0
Attività immobiliari
6
0,2
8
0,2
Attività professionali, scientifiche e
tecniche
25
0,7
29
0,6
Nol., ag. di viaggio, servizi di supp. alle
imprese
118
3,3
135
2,9
Istruzione
1
0,0
1
0,0
Sanità e assistenza sociale
30
0,8
33
0,7
Attività art., sport., di intratten. e divertim.
1
0,0
4
0,1
Altre attività di servizi
73
2,0
78
1,7
Imprese non classificate
197
5,5
235
5,1
TOTALE
3.588
100,0
4.622
100,0
Fonte: elaborazione FIERI su dati Camera di commercio di Torino
Per quanto riguarda la distribuzione per settore economico, si conferma una spiccata
specializzazione di questa comunità nel comparto del commercio (2.140 posizioni imprenditoriali
150
nel Comune di Torino, 2.731 nella Provincia, che costituiscono in entrambi i casi quasi il 60% del
totale delle imprese marocchine). Seguono per numero di attività tre settori: le imprese edili, fra il
13 e il 14%; le attività manifatturiere, in gran parte rosticcerie, circa il 6%; le imprese nel comparto
dei trasporti, magazzinaggio e comunicazione (con una componente importante di phone center,
internet point e agenzie di money transfer), circa il 6%.
Dalla tabella 7 si nota poi una localizzazione delle imprese individuali straniere ancora
prevalentemente Torino-centrica, con il 70% delle imprese aventi sede in città. Dal punto di vista
dell’organizzazione interna alle imprese, il già citato principio della qaraba ha una certa pregnanza
anche in riferimento all’imprenditoria marocchina. Una buona parte delle attività è segnata dalla
logica culturale che presiede a questo tipo di rapporti: è all’interno della famiglia allargata che gli
imprenditori attingono nuova forza-lavoro a basso costo ed alta fedeltà; non di rado, gli stessi
rapporti tra commercianti e clienti tendono a improntarsi secondo la prospettiva della qaraba, che
comporta rapporti stabili, fiducia e reciprocità. E’ per il fatto che, con il tempo, il cliente e il
commerciante, magari provenienti dalla stessa località marocchina, diventano parte della rete di
qaraba (nel suo significato di amicizia e solidarietà), che il cliente continua a fare acquisti in quello
specifico negozio e il proprietario può, in alcuni casi, permettersi di vendere a credito o di abbassare
i prezzi.
Dal punto di vista dell’associazionismo imprenditoriale, come già prima messo in evidenza, si
evidenzia la difficoltà da parte della comunità marocchina a strutturarsi in forme organizzative
stabili.
Vale la pena ricordare l'esperienza di alcune associazioni marocchine di imprenditori di Torino, che
sono state costituite alcuni anni, con alla base forti legami con la scena politica del Marocco.
L'Associazione Hassania, per esempio, ha rappresentato a lungo l'altro lato dell'immigrazione
marocchina in Italia, essendo ufficialmente supportato da re Hassan II, e ha preso parte, per lo più
negli ultimi anni, a numerosi incontri organizzati dalla Camera di Commercio di Torino. Hassania
non è l'unica associazione di imprenditori marocchini a Torino. Il Presidente della Associazione
Musulmani delle Alpi è un piccolo imprenditore marocchino che non ha preso parte a molti eventi
pubblici, a causa della sua forte critica al governo di Rabat (Tarantino, 2010).
Alcuni tentavi di sostegno istituzionale in questo senso sono stati compiuti da The Gate, l’agenzia di
sviluppo locale di San Salvario, che ha accompagnato la nascita di un’associazione di commercianti
marocchini del quartiere che avevano richiesto la consulenza a questo scopo.
Il gruppo di commercianti ha seguito un ciclo d’incontri formativi, sulla legislazione italiana in
materia di associazionismo e sulla costruzione dello Statuto dell’associazione; in seguito si è
formalmente costituita l’associazione “MEDITERRANEO – Unione dei Commercianti e Artigiani
del Marocco”. L’associazione, nelle sue finalità dichiarate, voleva essere di valorizzazione al ruolo
sociale del commercio marocchino a Porta Palazzo e promuovere scambio e confronto con il
territorio. Tuttavia in seguito, a causa di una forte conflittualità interna, si è sciolta dopo un anno
circa.
Un’altra iniziativa di sostegno all’associazionismo è stata quella promossa sempre da The Gate per
la costituzione di una cooperativa di addetti al montaggio/smontaggio dei banchi, componente
essenziale nel funzionamento del mercato, da sempre però relegata al settore informale. L’iniziativa
promossa dall’Agenzia di Sviluppo Locale “The Gate” ha avuto sin dall’inizio come interlocutore
privilegiato Said, operatore da oltre vent’anni del mercato di Porta Palazzo (La Stampa, 3 marzo
2010). Si tratta di un caso interessante, perché Said riassume nella sua storia gli elementi di una
carriera di successo, giocata tutta all’interno del mercato di Piazza della Repubblica: partendo da
montatore-smontatore assunto in nero e successivamente impiegato come aiutante in un banco
dell’ortofrutta, ha infine acquisito una licenza mettendosi in proprio. Nel corso degli anni ha poi
acquisito un ruolo sempre più rilevante nell’intermediazione fra domanda e offerta dei lavoratori del
mercato, collocando tanti connazionali appena approdati a Torino in cerca di lavoro e aiutandone
altri all’avvio di attività in proprio nell’ambito del mercato. Ancora oggi Said svolge a Porta
Palazzo la funzione del “broker”: funge da collettore di informazioni nei due sensi (aspiranti
151
lavoratori e datori di lavoro), da garante dell’affidabilità dei patrocinati, da mediatore in caso di
conflitti e incomprensioni (Bertolani, 2003, in Ambrosini, 2005). Proprio in virtù di questa
posizione privilegiata all’interno del contesto mercatale e del suo riconosciuto capitale sociale, Said
ha cominciato farsi portavoce delle istanze dei suoi connazionali e colleghi e ad assumere un ruolo
istituzionale nelle relazioni fra questi ultimi e l’amministrazione locale.
4. La componente marocchina nel comparto alimentare
Il cibo è uno degli oggetti di consumo più densi di significati. Questo assume inoltre nell’esperienza
migratoria un ruolo particolare, in quanto viene a costituire il legame simbolico e al tempo stesso
materiale con il contesto di origine. Per gli immigrati di oggi, così come per quelli di ieri, il cibo
rappresenta un filo rosso che collega la propria esperienza attuale con quella precedente, con i
ricordi relativi alla casa, alla famiglia, ai luoghi d’origine. Ritualizza ricorrenze e festività.
Favorisce l’incontro con parenti e connazionali. Si presta come un veicolo per trasmettere elementi
della cultura d’origine. In alcuni casi, quando il cibo si incontra con la sfera del sacro, segna il
confine tra il puro e l’impuro, tra il permesso e il proibito. Diventa in tal modo un influente mezzo
per ribadire appartenenze culturali e differenze religiose (Ambrosini, Castagnone, 2009).
La formazione di minoranze immigrate ormai stabilmente insediate e composte sempre più da
famiglie ha contribuito a costituire un sempre più vasto bacino di domanda di beni alimentari
provenienti dalle zone di origine. Negli ultimi due anni il valore complessivo dei consumi degli
immigrati in Italia è aumentato del 60%, passando dai 25 miliardi del 2007 ai 40 miliardi del 2009,
secondo una stima di Visconti, direttore del master in Marketing e Comunicazione dell'Università
Bocconi di Milano. Di questi, circa 15 miliardi di euro sarebbero destinati alla spesa alimentare. A
tali dati va poi aggiunto la crescente domanda di questi beni proveniente dalla popolazione italiana,
che sta dimostrando una crescente apertura e interesse nei confronti dei cibi detti “etnici”, o che
sarebbe più appropriato definire “esotici”.
Va ricordato che il cibo, e soprattutto la ristorazione, sono da parecchi decenni un tipico ambito di
espressione dell’iniziativa economica degli immigrati. Il settore offre la possibilità di carriere
interne, avviate dal basso, dalle mansioni più umili favorite dall’elevato turn-over del personale,
rese possibili dai ridotti investimenti necessari. La pesantezza del lavoro, l’incidenza degli infortuni,
gli orari antisociali, il modesto prestigio sociale ricavabile (tranne il caso dei ristoranti più rinomati
e degli chef di successo) ne fanno un ambito poco appetibile per l’offerta di lavoro nazionale. In tal
modo, un certo numero di lavoratori immigrati, che in genere arrivano nel settore per caso, spinti
dalla necessità, trovano occasione di inserirsi, apprendere il mestiere, perfezionarsi, e ad un certo
punto riescono a rilevare l’attività, o ad aprirne una in proprio. Una volta aperta una breccia
nell’offerta locale di ristorazione, la possibilità di contare sulla collaborazione fedele, poco esigente
e altamente flessibile di familiari e connazionali rappresenta un’importante risorsa competitiva
(Waldinger e Al., 1990). Nello stesso tempo, la cucina offre possibilità di apprendimento per i
parenti più giovani e volonterosi, che a loro volta potranno dar vita a nuovi ristoranti in altre aree
urbane. Anche nel caso dei mercati ambulanti molti operatori hanno potuto accedere al lavoro
autonomo grazie a carriere giocate internamente al settore, dapprima come addetti al
montaggio/smontaggio dei banchi, successivamente come garzoni tuttofare, fino all’acquisto di una
licenza propria.
Per quanto riguarda i dati relativi alla filiera alimentare, l’insieme del comparto della ristorazione,
della produzione96 e del commercio, nel 2008 vede 602 imprese individuali gestite da titolari
96
Nei registri camerali la “produzione” manifatturiera vede l’imprenditoria straniera occupata principalmente nella
produzione di prodotti di panetteria, pasticceria fresca e altri prodotti alimentari (l’1,6%) e nel confezionamento di
vestiario ed accessori (l’1,2%): la prima attività è più diffusa fra i nord africani, la seconda fra gli asiatici. I dati qui
152
stranieri che rappresentano il 3,7% del totale di imprese individuali straniere. Il numero di attività in
questo comparto è quasi quadruplicato dal 1998 al 2008, anche se il peso specifico del settore sul
totale delle attività imprenditoriali straniere si è molto ridotto, segno di una penetrazione degli
imprenditori stranieri anche in altri settori.
L’intero comparto del cibo (imprese con titolare italiano e straniero) ha registrato negli ultimi 10
anni un discreto aumento (+16%), tuttavia la maggior crescita delle imprese straniere nel settore
(+250%) rispetto a quelle gestite da nazionali, ha determinato un aumento del peso delle ditte
individuali straniere sul comparto del cibo che passa dall’1,2% del 1998 al 3,7% del 2008.
Numero di imprese individuali straniere nel comparto del cibo etnico
Settore
Ristorazione
Produzione
Commercio
Totale
1998
93
28
51
172
1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008
111 111 121 126 135 140 149 148 162 163
50
66
80
98 112 135 139 165 188 227
51
58
68
93 106 131 164 177 194 212
212 235 269 317 353 406 452 490 544 602
% su totale imprese
individuali straniere
15,30% 13,50% 8,90% 7,80% 7,40% 6,70% 5,80% 5,30% 5,00% 4,60% 4,50%
% straniere su totale
imprese individuali nel
comparto del cibo
1,20% 1,50% 1,70% 1,90% 2,10% 2,30% 2,60% 2,80% 3,00% 3,30% 3,70%
Fonte: elaborazione FIERI su dati Camera di commercio di Torino
I marocchini sono fra i protagonisti di questo processo. Preso complessivamente, il comparto del
cibo facente capo a questi ultimi, è del 30%, con una crescita negli ultimi otto anni di 15,4 punti
percentuali (CCIAA-FIERI, 2009).
Tab. 8 Imprese individuali marocchine del settore del food in Provincia di Torino al 2008
Settore
N
%
Comm. ambulante
77
47,8
Comm. dettaglio
19
11,8
Comm. ingrosso
1
0,6
Ristoranti
6
3,7
Produzione
58
36,1
di cui: produzione di prodotti di panetteria e di pasticceria
fresca
28
e: produzione di altri prodotti alimentari (gastronomie)
27
Altro
3
TOTALE
219
101
Fonte: elaborazione FIERI su dati Camera di commercio di Torino
presentati si riferiscono in particolare alla produzione alimentare e includono in grande maggioranza attività di
produzione (e vendita) di prodotti di panetteria (pane e pizza al taglio) e di gastronomia, e di kebab.
153
Questo gruppo in particolare ha saputo collocarsi a vari livelli della filiera e in particolar modo nel
commercio ambulante di ortofrutta (dove detiene quasi il 50% delle attività intestate a stranieri) 97.
Si tratta di un’attività a base generalmente familiare, che richiede un modesto capitale fisso,
comporta orari pesanti e richiede una disponibilità a tollerare condizioni di lavoro gravose. Così nel
tempo, a Torino come altrove, ai commercianti locali si sono avvicendati operatori provenienti dalle
successive ondate migratorie. Per questi lavoratori autonomi un banco al mercato è stato un
investimento consapevole, in una strategia di promozione sociale. Tuttavia nella ricerca condotta
nel 2010 da FIERI in collaborazione con la Camera di Commercio di Torino, è emersa anche la
valenza di ripiego o di rifugio dei lavoratori che hanno intrapreso una carriera nei mercati, in un
mercato del lavoro depresso, in attesa di tempi migliori. Diversi operatori intervistati in questo
contesto hanno espresso una preferenza al ritorno al lavoro subordinato in fabbrica, garanzia di un
reddito più sicuro e stabile, e dunque di migliori condizioni di vita per sé e per le proprie famiglie.
Nell’ambito del commercio seguono poi le attività di prossimità (oltre 11% delle attività gestite da
marocchini nel settore alimentare). Si tratta di bazar/macellerie, minimarket, botteghe, che
propongono prodotti alimentari legati alla preparazione dei piatti tradizionali (cous-cous, riso,
spezie, salse, ecc.) e di carne halal.
La produzione di prodotti alimentari rappresenta poi una fetta importante delle attività marocchine
nel food, arrivando a coprire il 36% delle licenze di questo tipo. Si tratta, come evidenziato nella
tabella sovrastante che presenta i dati delle attività registrate presso la Camera di Commercio,
soprattutto di attività di street food: gastronomie da asporto – e in particolare kebabberie “caratterizzati dal basso prezzo, dall’elevata copertura del territorio e dalla ridotta qualità
gastronomica” (Napolitano, Scialpi, 2009, 1). In questa categoria rientrano anche attività di
pianificazione e pasticceria, nella quale un certo numero di marocchini si sta specializzando a
Torino.
Inferiore è l’apporto nella ristorazione, pari a meno del 4%. Le attività già censite a Torino in studi
precedenti (FIERI, CCIAA, 2009) hanno individuato esclusivamente ristoranti che offrono una
cucina popolare rivolta soprattutto a connazionali.
Il commercio all’ingrosso di generi alimentari resta, infine, un’attività marginale per il gruppo
marocchino (meno dell’1%).
Risulta così che gli approvvigionamenti delle materie prime per le attività di ristorazione e i prodotti
venduti al dettaglio nei commerci cittadini, provengono o dai canali “tradizionali” (grande
distribuzione organizzata) o dalle piattaforme di distribuzione all’ingrosso specializzate in prodotti
“etnici” che fanno riferimento soprattutto a Milano. La regolamentazione e i controlli delle merci di
importazione hanno particolarmente influito su questo versante, spingendo ristoratori e
commercianti a rifornirsi prevalentemente in ambito nazionale, o a mobilitarsi per produrre
direttamente sul territorio torinese. Questo ultimo caso si è prodotto a Torino nella coltivazione
della menta e di erbe aromatiche che un commerciante marocchino ha trapiantato nella cintura
torinese, abbattendo così i costi di importazione e sopperendo ai relativi rischi. La menta prodotta
viene poi smerciata presso macellerie e bazar e a rivenditori al dettaglio che operano informalmente
ai margini del mercato di Porta Palazzo.
97
Le licenze per commercio ambulante sono di due tipi:
Tipo A. Autorizzazione a posteggio fisso, assegnata per l’utilizzo di posteggi in aree di mercato e rilasciata dal Comune
in cui sono disponibili dei posti contestualmente alla concessione decennale del posteggio stesso. Consente anche
l’attività in forma itinerante nel territorio regionale in cui viene rilasciata (ovviamente nei periodi di non occupazione
del posteggio di cui si è titolari) nonché la partecipazione alle fiere su tutto il territorio nazionale.
Tipo B. Rilasciata dal Comune di residenza del richiedente, consente l’esercizio in forma itinerante in tutto il territorio
nazionale, nelle fiere, nei mercati ma limitatamente ai posteggi non assegnati o provvisoriamente non occupati dai
titolari (fonte: sito FIVA www.fiva.it).
154
Anche nel food, il commercio si rivela dunque per i cittadini originari del Marocco come una vera e
propria specializzazione settoriale. Importante è, oltre che dal punto di vista numerico, l’impatto
urbano che questi commerci hanno avuto sui quartieri in cui sono sorti (soprattutto San Salvario e
Porta Palazzo). Si tratta infatti di commerci di prossimità, botteghe, negozi di quartiere, realtà
profondamente radicate nel tessuto urbano. Qui la dimensione economica è fittamente intrecciata a
quella sociale. Il ruolo di centri di aggregazione e punto di riferimento per gli stranieri si interseca a
quello di snodo di rotte commerciali, “fra una logica di razionalizzazione economica dello scambio,
che tende alla fluidità e alla divisione degli ordini mercantili, e una logica – a prima vista
economicamente aberrante – che aggroviglia e sovrappone i prodotti, le sequenze, i ritmi, gli ordini
sociali” (Péraldi, 2005).
Risulta così evidente come le pratiche di consumo si intreccino con quelle della territorializzazione
della città e va a tal proposito considerato come nell’area di Porta Palazzo queste attività abbiano
profondamente segnato lo spazio pubblico, introducendo nuove e complesse dinamiche sociali e
economiche, nonché modellandone il paesaggio urbano. E’ stato inoltre sottolineato il decisivo
protagonismo dell’imprenditoria straniera nel processo di rivitalizzazione commerciale complessiva
dell’area.
Proprio in virtù della vivacità sociale cui la proliferazione di negozi e commerci “etnici” ha
contribuito a dare impulso (non senza aspetti critici) in alcune aree della città (in particolare Porta
Palazzo e San Salvario), a un insieme di iniziative orientate in una direzione che Rath (2007) ha
definito di “etnicizzazione dell’industria del divertimento”. Come già accaduto anche in altre città
europee, anche a Torino il turismo urbano e l’industria del divertimento stanno infatti tentando di
valorizzare la diversità urbana come risorsa per attrarre pubblico e consumatori eterogenei.
Così, in una recente intervista apparsa su La Stampa (03/03/2010) l’Assessore al Commercio
Altamura ha espresso la volontà politica di trasformare Porta Palazzo in “una piccola Barcellona”,
promuovendo a piazza della Repubblica “il clima vivace delle ramblas e della Boqueria” e
inserendo Porta Palazzo “in un nuovo e organizzato tour turistico che partirà dal Mao e, passando
per il Quadrilatero Romano, arriverà nella piazza del mercato più grande d’Europa». Il legame con
Barcellona nasce da un gemellaggio con la città spagnola, che ha dato avvio a varie iniziative di
cooperazione e di valorizzazione del mercato torinese di Porta Palazzo e di quello della Boqueria
nella capitale catalana: il progetto MedEmporion98 e il Torino Food Market Festival99.
Oltre ai progetti promossi dall’amministrazione comunale, altre iniziative hanno preso piede a
livello della società civile torinese, sempre nell’ottica della valorizzazione delle aree di Porta
Palazzo e di San Salvario, e delle loro peculiarità sociali, culturali ed economiche. Si tratta del corso
di formazione per migranti operatori di turismo responsabile in Torino, un’innovativa esperienza
promossa dall’Agenzia Viaggi Solidali, dall’Istituto Paralleli e dal Centro Interculturale della Città
di Torino che intende stimolare il coinvolgimento delle comunità di migranti presenti sul territorio
torinese come risorsa attiva nel settore turistico. Fino ai più consolidati “multieathnik walk tour”
“Turisti per casa”100, organizzati da Vittorio Castellani, alias Chef Kumalé, vere e proprie visite
guidate ai luoghi d'incontro e di consumo dei "nuovi torinesi", tra moschee, hammam, ethno shops,
asian & afro markets e suq mediorientali con degustazioni itineranti di world food.
98
Si veda: www.medemporion.eu
Si veda: www.foodmarketnet.org
100
Si veda: www.ilgastronomade.com
99
155
4.1 Gli imprenditori marocchini intervistati a Torino
Nel corso del 2010, 40 imprenditori marocchini operanti nel settore del food sono stati intervistati a
Torino101, nell’ambito della ricerca PRIN “Il profilo nazionale degli imprenditori immigrati in
Italia” del Dipartimento di Studi Politici e Sociali dell’Università degli Studi di Milano. Il
reclutamento degli intervistati è avvenuto a partire dai contatti segnalati da alcuni rappresentanti
della comunità. Questi hanno svolto un ruolo di intermediazione, informando i potenziali intervistati
sulla natura e gli obiettivi della ricerca e accertandosi della loro disponibilità a partecipare alla
ricerca, per poi introdurli agli intervistatori. Successivamente ulteriori contatti sono stati generati
secondo la tecnica “snowball”. Questa fase di preparazione dell’intervista attraverso rapporti
fiduciari intra-comunitari è stata fondamentale, non solo nel reperimento dei soggetti, ma anche al
fine di un buon esito dei colloqui, in termini di disponibilità all’intervista, a rispondere alle
domande, a fornire eventuali nominativi di conoscenti per lo svolgimento di ulteriori questionari.
In linea con i dati complessivi sopra presentati, i titolari di impresa intervistati sono concentrati (29
su 40) soprattutto nel commercio (sia ambulante, con banchi di ortofrutta nei mercati rionali, sia nel
commercio fisso in negozio – bazar e/o macellerie). Segue poi il settore della produzione
alimentare, che, con un totale di 7 attività (rosticcerie, vendita di kebab e pizza al taglio). Fra questi
troviamo anche un panificio specializzato nella produzione di pasticceria marocchina. Sono stati
infine intervistati 4 titolari di ristoranti, che offrono una cucina tradizionale marocchina.
Tab.9 Anno avvio attività per settore di attività (valori assoluti)
199520012006Settori attività
2009
2000
2005
Commercio
6
10
13
di cui commercio ambulante
3
6
7
di cui bazar e/o macellerie
3
4
6
Produzione
0
5
2
Ristorazione
1
1
2
Totale
7
16
17
Tot
29
16
13
7
4
40
Gli individui intervistati - 37 uomini e 3 donne – hanno un’età compresa fra i 25 e i 50 anni.
Tab.10 Fasce di età (valori assoluti)
10
25-30
12
31-40
18
40-50
40
Tot
Sono giunti in Italia in un’età compresa fra i 14 e i 34 anni a partire dagli inizi degli anni ’80. Il
gruppo più consistente (20) è giunto negli anni ’90.
101
Le interviste sono state effettuate da Carlo Capello (Università di Torino) e Melissa Blanchard (Università di Trento)
con il coordinamento di Eleonora Castagnone (FIERI e Università di Milano).
156
Tab.11 Anno arrivo in Italia per età alla partenza (valori assoluti)
Età alla
19801990partenza
1989
1999
2000-2007 Totale
0
8
1
14-19
9
5
3
6
20-24
14
2
5
3
25-29
10
0
4
2
30-34
6
Tot.
7
20
12
39
Fra i 40 intervistati, 27 sono arrivati direttamente in Italia, mentre gli altri 12 hanno compiuto
migrazioni precedenti in Francia (9), in Grecia (1), in Libia (1) e in Svizzera (1).
Il grado di istruzione del campione è di livello medio: la maggioranza (34) ha un titolo di studio
medio o superiore; quattro (4) posseggono un diploma universitario; e, agli estremi, uno (1) è
collocato nella fascia di coloro che non hanno avuto accesso a nessuna scolarizzazione o di livello
elementare e uno (1) è in possesso di un titolo post-universitario.
Tab.13 Titolo di studio (valori assoluti)
Nessuna scolarizzazione o
1
licenza elementare
17
Licenza media
17
Diploma superiore
4
Laurea
1
Post laurea
Tot.
40
Per quanto riguarda la situazione occupazionale in Marocco precedente alla partenza, 22 erano
occupati, 14 studenti e solo 2 disoccupati. Inoltre 27 avevano già lavorato al paese di origine (di cui
10 nel commercio e 7 nella ristorazione, in particolare).
Per quanto concerne l’esperienza lavorativa in Italia, per 38 individui su 40, quello attuale non è il
primo lavoro in Italia. La maggior parte (34) aveva ricoperto funzioni di lavoro dipendente,
soprattutto presso italiani (29), un numero assai inferiore (4) presso un parente o presso un
connazionale non parente (1).
Tab.14 Posizione del primo lavoro in Italia (v.a)
Autonomo
4
Dipendenze di un parente
4
Dipendenze connazionale non
parente
1
Dipendenze italiano
29
Totale
38
Al momento dell’avvio dell’attività autonoma in corso in Italia, 31 erano occupati, 8 disoccupati, 1
studente/inoccupato.
157
Tab.16 Anni trascorsi fra l’arrivo in Italia e l’apertura dell’impresa
attuale, in base al periodo di arrivo in Italia (valori assoluti)
Periodo di arrivo in Italia
1980-89
1990-99
2000-07
Tot
1-5
0
2
9 11
6-10
2
9
3 14
+10
6
8
0 14
Media
12,9
8,8
4,7
Totale
8
19
12 39
Le attività gestite dai titolari intervistati sono state avviate soprattutto a partire dalla fine degli anni
’90, come mostra la tab.16. Coloro che sono arrivati fra gli anni ’80 e gli anni ’90 hanno impiegato
infatti più tempo a passare al lavoro autonomo (in media rispettivamente 12,9 e 18,8 anni).
Va infatti qui ricordato che è solo con il Testo Unico sull’immigrazione del 1998 che viene abolito
il vincolo di reciprocità previsto dalla precedente legislazione, agevolando lo sviluppo
dell’imprenditorialità straniera. Fino a tale data sussisteva la cosiddetta clausola di reciprocità. Tale
norma, introdotta nel codice civile del 1942, prevedeva la possibilità di svolgere in Italia un’attività
imprenditoriale solo ai cittadini stranieri provenienti dai Paesi che concedevano tale opportunità
anche all’immigrato italiano. Questo non significa che il lavoro autonomo di individui stranieri
fosse del tutto assente: già prima della scadenza della clausola di reciprocità, coloro che non
rientravano nelle quote stabilite dal sistema italiano, facevano in alcuni casi ricorso alla creazione di
impresa attraverso prestanome italiani. La legge 40/98, conservando tale vincolo solo per la
costituzione di società per azioni, ha in parte agevolato lo sviluppo della microimprenditorialità
immigrata. A questo si affianca, nello stesso periodo, una parziale liberalizzazione del settore
commerciale. Gli individui giunti a partire dagli anni 2000 hanno infatti dimezzato il periodo
intercorso fra l’arrivo in Italia e l’apertura dell’attività, rispetto a quelli giunti nel decennio
precedente.
158
9. Imprenditori immigrati a Trento: trasporti ed edilizia a confronto
Anita DaCol e Deborah De Luca*
1. Introduzione
Il rapporto annuale 2010 del CINFORMI102 sull’immigrazione in Trentino traccia un quadro in cui
permane costante la concentrazione del lavoro nelle basse qualifiche: 8 immigrati su 10 sono
inquadrati come operai, meno di uno su dieci figura nel ruolo di impiegato o quadro e sempre meno
di uno su dieci opera come lavoratore autonomo. Mentre tra i lavoratori comunitari il lavoro
impiegatizio triplica la sua incidenza facendo scendere al 70% la quota del lavoro operaio, tra i
lavoratori extra comunitari è proprio il lavoro autonomo a rappresentare la principale alternativa al
lavoro operaio e, forse, anche la via per non perdere il permesso di soggiorno (Ambrosini,
Boccagni, Piovesan, 2010).
Il lavoro autonomo diventa quindi insieme rifugio e opportunità per gli immigrati: nonostante il
settore abbia registrato per la prima volta una flessione rispetto al trend di crescita degli anni
precedenti, non sono state riscontrate nemmeno perdite significative. Nel rapporto si commenta
questo dato come “risultante di andamenti in parte divergenti tra i diversi settori: calano le attività
manifatturiere e soprattutto i trasporti, rimangono stazionarie le costruzioni, crescono leggermente il
commercio e l’industria alberghiera” (Ambrosini, Boccagni, Piovesan, 2010, pag.118).
I numeri di titolari resta quindi sui livelli del 2009, con oltre 2000 persone nate all’estero alla guida
di ditte insediate in Trentino. Il 78,6% provengono da un paese extracomunitario. Le due comunità
più numerose che superano il 10% sono quella marocchina (13,2%) e quella albanese (10,8%),
mentre i titolari di impresa rumeni si attesta al terzo posto con l’8,8%. Complessivamente le
percentuali indicate dalla tabella relativa ai dati nazionali (tab.1) mostrano una rilevante
diversificazione tra le provenienze, visto che nessuna componente arriva al 20% e solo le prime due
superano il 10%.
* Anita DaCol è consulente in attività di formazione, counseling e ricerca, Deborah De Luca lavora all’Università
Statale di Milano. Benché il capitolo sia frutto del lavoro comune delle due autrici, Anita DaCol, che ha anche curato la
somministrazione dei questionari agli imprenditori immigrati, ha redatto il primo paragrafo e Deborah De Luca i
rimanenti paragrafi.
102
Il Cinformi è il Centro informativo per l'immigrazione, una unità operativa del Servizio per le politiche sociali e
abitative della Provincia Autonoma di Trento. Facilita l’accesso dei cittadini stranieri ai servizi pubblici e offre
informazioni e consulenza sulle modalità di ingresso e soggiorno in Italia nonché supporto linguistico e culturale. Il
Cinformi svolge attività anche nel campo della comunicazione tra gli attori sociali, della casa, dello studio e della
ricerca, dell'accoglienza delle persone che necessitano di protezione internazionale e umanitaria
159
Tab.1 – Titolari di imprese attive nati all’estero, per principali nazionalità. Provincia di Trento
– 30.09.2010
Gruppi nazionali
V.A.
%
Marocco
Albania
Romania
Macedonia
Tunisia
Serbia-Montenegro
Germania
Cina
Moldova
Pakistan
295
241
198
119
119
114
90
72
62
55
13,2
10,8
8,8
5,3
5,3
5,1
4,0
3,2
2,8
2,5
Paesi con forte componente italiana:
Svizzera
205
Argentina
54
Cile
53
Totale
312
Altro
564
Totale
2.241
fonte: elaborazioni Cinformi su dati Camera di Commercio di Trento
9,1
2,4
2,4
13,9
25,2
100,0
Costruzioni e commercio risultano i settori maggiormente rappresentati, seguendo la tendenza
nazionale nonostante il divario sia più rilevante. Si confermano anche le specializzazioni etniche
emerse negli anni precedenti: gli imprenditori immigrati dell’est europeo si concentrano soprattutto
nel settore edile, con una presenza dell’80% degli albanesi, seguiti dai rumeni e dai macedoni,
mentre i marocchini e i cinesi operano prevalentemente nel commercio.
Tab. 2 – Titolari di imprese attive nati all’estero. Prime 10 nazionalità per settore, Provincia di
Trento, Imprese attive al 30/09/2010
Gruppi
nazionali
Marocco
Albania
Romania
Macedonia
Tunisia
SerbiaMontenegro
Germania
Cina
Moldova
Pakistan
Altri Paesi
Totale
Attività
manifatturiere
25
12
6
28
7
6
11
8
1
1
67
175
Costruzioni
Commercio
16
193
145
76
70
60
210
9
20
4
16
14
19
12
43
9
251
894
24
42
6
15
212
572
Alberghi,
Ristoranti
4
6
9
4
2
5
4
7
0
3
65
109
Trasporti
Altro
Totale
30
9
1
4
19
12
10
12
17
3
5
14
295
241
198
119
119
114
5
0
5
12
42
139
27
3
7
15
239
352
90
72
62
55
876
2.241
fonte: elaborazioni Cinformi su dati Camera di Commercio di Trento
160
Tab. 3 – Titolari di imprese attive nati all’estero. Distribuzione per settore delle prime 10
nazionalità: percentuali di riga, Provincia di Trento, Imprese attive al 30/09/2010
Gruppi
Attività
Costruzioni Commercio
Alberghi,
nazionali
manifatturiere
Ristoranti
Marocco
8.5
5.4
71.2
1.4
Albania
5.0
80.1
3.7
2.5
Romania
3.0
73.2
10.1
4.5
Macedonia
23.5
63.9
3.4
3.4
Tunisia
5.9
58.8
13.4
1.7
Serbia7.9
52.6
12.3
4.4
Montenegro
Germania
12.2
21.1
26.7
4.4
Cina
11.1
16.7
58.3
9.7
Moldova
1.6
69.4
9.7
0.0
Pakistan
1.8
16.4
27.3
5.5
Altri Paesi
7.6
28.7
24.2
7.4
Totale
7.8
39.9
25.5
4.9
Fonte: elaborazioni Cinformi su dati Camera di Commercio di Trento
Trasporti
Altro
Totale
10.2
3.7
0.5
3.4
16.0
10.5
3.4
5.0
8.6
2.5
4.2
12.3
100.0
100.0
100.0
100.0
100.0
100.0
5.6
0.0
8.1
21.8
4.8
6.2
30.0
4.2
11.3
27.3
27.3
15.7
100.0
100.0
100.0
100.0
100.0
100.0
Dal momento che, oltre all’edilizia, nella nostra indagine empirica ci siamo occupati del settore dei
trasporti, è interessante notare che, benché la maggior parte delle principali nazionalità si
concentrino, come abbiamo visto, nel settore delle costruzioni o nel commercio, vi sono delle
eccezioni. Infatti, per pakistani, tunisini e marocchini, quello dei trasporti rappresenta il secondo
settore di specializzazione, mentre per i serbi e i moldavi è il terzo settore di attività. Queste
nazionalità sono tutte presenti nel campione di imprenditori immigrati intervistati in Trentino.
2. L’indagine empirica: peculiarità e somiglianze tra gli intervistati
Benché raramente sia oggetto di studio comparato relativamente a questi specifici argomenti, l’area
di Trento ha rappresentato un caso particolarmente interessante nell’ambito della ricerca Gli
imprenditori immigrati in Italia, presentando alcune peculiarità nel confronto con le altre aree di
indagine esaminate.
In primo luogo, la composizione del campione è più diversificata, sia rispetto al settore di attività
sia rispetto alla nazionalità. Infatti, dei 42 imprenditori intervistati a Trento, 29 sono attivi nel
settore dei trasporti, 12 nell’edilizia e uno nel settore metalmeccanico. Le nazionalità degli
intervistati sono ancora più varie: 11 sono nordafricani (marocchini, tunisini e algerini), 25 est
europei e albanesi, 6 asiatici (indiani, pachistani e bangladeshi). Questa diversità è importante
perché, ad esempio, permette di confrontare gli edili trentini con quelli di Milano, ma anche perché
nell’analisi dati complessiva evita una completa sovrapposizione tra area, nazionalità e settore,
permettendo di distinguere, almeno in alcuni casi, il differente ruolo dei tre aspetti103. Inoltre, l’area
di Trento è l’unica in cui sono presenti in maniera consistente imprenditori dell’est Europa, che
ormai a livello nazionale sono sempre più diffusi. Infine, anche se in maniera limitata, è possibile
avere un’idea dei cambiamenti nella provenienza nazionale dei flussi migratori in Trentino. Infatti,
tra coloro che sono immigrati prima del 1989 prevalgono i nord africani (9 casi su 12), tra coloro
che sono arrivati tra il 1990 ed il 1997 vi sono soprattutto est europei ed albanesi (12 casi su 14),
mentre dopo il 1998, pur continuando ad arrivare in maggioranza est europei (11 su 16), cresce
anche la componente asiatica (4 su 16).
In secondo luogo, l’area trentina si contraddistingue per l’importante ruolo svolto dalla locale
associazione degli artigiani, a cui molti degli intervistati sono iscritti e che è particolarmente
rappresentativa sul territorio, sia tra gli imprenditori italiani sia tra quelli immigrati.
103
In realtà, vista la bassa numerosità dei casi, generalmente ci siamo limitate a distinguere tra i due principali settori e
solo raramente abbiamo confrontato le nazionalità o le singole aree.
161
A fronte di queste differenze nella composizione del campione e nei rapporti con le associazioni di
categoria locali, non vi sono particolari differenze nel percorso migratorio e nelle caratteristiche
socio-demografiche tra gli imprenditori immigrati intervistati a Trento e gli altri. L’età media è pari
a 41 anni circa. Sono in Italia in media da circa 16 anni. Nella grande maggioranza dei casi sono
sposati con connazionali e hanno figli (oltre il 90% del campione). Inoltre, 33 intervistati hanno la
cittadinanza straniera, 8 hanno la doppia cittadinanza e uno ha la cittadinanza italiana. 17 intervistati
provengono da famiglie in condizioni economiche migliori rispetto alle altre, 19 da famiglie in
condizioni simili alle altre e 6 da famiglie in condizioni peggiori delle altre. Riguardo alla
professione paterna, alcuni operavano nel settore edile (8 casi) o nei trasporti (6 casi), come operai,
come artigiani o imprenditori. Tuttavia, non vi è una piena corrispondenza tra questi casi e l’attività
successivamente svolta dall’intervistato, poiché solo in 4 casi vi è corrispondenza nel settore edile e
in altri 4 casi vi è corrispondenza nel settore dei trasporti. La grande maggioranza degli intervistati,
dunque, ha intrapreso un’attività diversa da quella svolta dal padre e non è raro, nel caso dei
trasporti, che non vi sia nemmeno una pregressa esperienza propria in quello specifico settore.
Nel complesso, tuttavia, il 45% degli intervistati in Trentino avevano un padre che svolgeva
un’attività autonoma come commerciante (17%), artigiano (9%) o imprenditore (19%). Tra gli altri
intervistati, la percentuale scende al 34% e si tratta soprattutto di commercianti (23%), mentre pochi
sono artigiani (7%) e ancor meno imprenditori (4%). I padri degli intervistati a Trento, dunque, più
frequentemente potrebbero aver trasmesso competenze utili per la futura gestione della propria
attività. Nel complesso, comunque, solo il 40% degli imprenditori immigrati a Trento ha almeno un
parente titolare di impresa, mentre nelle altre aree la percentuale sale al 63%. L’ipotesi di fattori
imitativi nell’avvio dell’impresa non è dunque supportata se si prendono in considerazione non solo
il padre, ma anche gli altri legami di parentela. Inoltre, mentre tra gli immigrati residenti nelle altre
aree, l’impresa degli altri familiari è collocata in circa la metà dei casi in Italia, tra gli immigrati a
Trento l’impresa dei parenti è più spesso al Paese d’origine o in altri Paesi stranieri. L’imprenditore
immigrato in Trentino, dunque, può contare meno spesso su informazioni o consigli relativi
all’avvio e alla gestione dell’impresa in Italia da parte di parenti che hanno avuto esperienze
imprenditoriali nello stesso contesto geografico. Vedremo poi in seguito che questo dato è
confermato anche dalla composizione delle reti sociali degli imprenditori.
Fig.1 – Livello di istruzione degli intervistati trentini
rispetto a quelli delle altre aree (% - N=200)104
50
45
45
39
37
40
35
30
25
21
24
19
20
15
10
10
5
5
0
Fino lic.media
Qual.professionale
Trento
104
Diploma
Laurea e oltre
Altre aree
Il valore del Chi quadro è pari a 18,62 con 5 gradi di libertà e sig=.002
162
Oltre a quella già citata, le principali differenze/particolarità del campione trentino sono l’assenza di
donne nel campione (ma così accade anche a Milano e Modena Reggio Emilia) dovuta alla scelta di
indagare settori a forte prevalenza maschile e l’elevata presenza nel campione di persone in
possesso della qualifica professionale, titolo posseduto da circa un quarto degli imprenditori
immigrati in Trentino e che permette di attribuire loro competenze professionali specifiche apprese
già durante il percorso scolastico (fig.1). Viene confermata comunque anche nel campione trentino
una prevalenza dei diplomati, comune anche alle altre aree, mentre più bassa è la percentuale di
laureati.
3. Il percorso migratorio
Prima di analizzare il percorso migratorio degli intervistati, è bene ricordare che non provenivano,
nella grande maggioranza dei casi, da famiglie in condizioni economiche più difficili rispetto a
quelle della media della popolazione. Eppure, non possiamo fare a meno di notare che il 14% degli
immigrati a Trento era in cerca di occupazione (il 31% studiava ed il 55% lavorava), mentre nelle
altre aree, solo il 5% degli intervistati si trovava senza lavoro (il 41% studiava, l’1% era casalinga
ed il 53% lavorava). Inoltre, il 38% degli intervistati non ha mai lavorato nel Paese di origine (sono
il 32% nelle altre aree). Per circa 4 su 10 degli immigrati attualmente residenti a Trento, la prima
esperienza lavorativa è dunque avvenuta nel contesto di immigrazione.
In effetti, notiamo che le possibili difficoltà a trovare lavoro ed in generale, i fattori economici,
rappresentano per gli immigrati in Trentino la motivazione alla migrazione più citata (mentre tra gli
altri intervistati prevale il desiderio di promozione), seguita dai fattori politici (indicati in particolare
dal 40% degli est europei, mentre è un fattore decisamente di secondaria importanza per gli altri
intervistati) e solo al terzo posto troviamo il desiderio di promozione (fig.2). In generale, è possibile
affermare che le motivazioni espressive sono decisamente secondarie nella decisione di emigrare,
mentre un’assoluta centralità è attribuita alle crisi politiche ed economiche che hanno interessato in
particolare l’Albania e l’est Europa dai primi anni ’90, periodo in cui, come abbiamo visto, gli
immigrati provenienti dall’est Europa hanno iniziato ad arrivare in provincia di Trento.
Fig.2 – Fattori di spinta all’emigrazione degli intervistati trentini
rispetto a quelli delle altre aree (risposta multipla - %)105
60
50
40
52
46
40
32
26
30
21
20
18
10 10
10
3
7
5
Trento
Avventura
Libertà
Ricongiungimento
Promozione
Fattori politici
Fattori economici
0
Altre aree
105
Il valore del Chi quadro relativamente ai fattori politici è pari a 23,72 con un grado di libertà e sig=.000. Per il
desiderio di promozione il valore del Chi quadro è pari a 8,20 con un grado di libertà e sig=.004. Per lo spirito di
avventura, il Chi quadro è pari a 12,59 con un grado di libertà e sig=.000.
163
Nella maggior parte dei casi (83% contro il 73% delle altre aree) dopo aver lasciato il proprio Paese
gli intervistati sono arrivati direttamente in Italia. Ciò, però non significa che siano arrivati
direttamente a Trento. Questo è accaduto, infatti, per circa metà degli intervistati trentini (52%,
contro il 61% delle altre aree). Gli altri hanno invece abitato per lo più in grandi città (Milano,
Roma, Napoli, Torino). Il desiderio di lasciare queste prime destinazioni, oltre a migliori
opportunità di lavoro, potrebbe anche dipendere da una preferenza per città di minori dimensioni,
dal momento che solo il 22% degli immigrati in Trentino abitava in precedenza in una grande città
con più di un milione di abitanti (rispetto al 46% delle altre aree esaminate), mentre la maggioranza
abitava in una città o in un piccolo paese (78% contro il 48% delle altre aree106). In media, gli
intervistati sono arrivati in provincia di Trento dopo circa 2 anni dall’arrivo in Italia, mentre nelle
altre aree l’arrivo nella provincia è avvenuto in media dopo quasi 4 anni.
Nel complesso, i fattori di attrazione verso l’Italia citati dagli intervistati a Trento si distinguono
solo in parte rispetto a quelli indicati nelle altre aree (fig.3).
Fig.3 – Fattori di attrazione verso l’Italia degli intervistati trentini
rispetto a quelli delle altre aree (risposta multipla - %)107
60
48
50
40
40
33
29
30
21
20
25
18
14
13
10
5
0
Parenti
Facilità ingresso
Opportunità
lavoro
Trento
Connazionali
Prossimità
culturale
Altre aree
Il caso più rilevante è rappresentato dalla facilità di ingresso, molto più spesso indicata dagli
immigrati in Trentino rispetto a quelli delle altre aree. Contrariamente alle nostre attese, però non
sono gli immigrati dell’est Europa ad indicare più frequentemente questa motivazione, bensì
tunisini e algerini. La motivazione più frequente è, comunque, a Trento come nelle altre aree, la
presenza di parenti, mentre molto meno rilevanti rispetto alle altre aree sono la presenza di
connazionali e la prossimità culturale.
4. Il percorso occupazionale e l’avvio dell’attività
Come abbiamo accennato in precedenza, tra i nostri intervistati vi sono persone che hanno avviato
la loro attività in diversi settori. La diversa appartenenza settoriale permette di distinguere anche i
percorsi occupazionali precedenti all’attuale lavoro autonomo.
106
Il valore del Chi quadro è pari a 12,28 con 3 gradi di libertà e sig=.006.
Il valore del Chi quadro relativamente alla facilità di ingresso è pari a 9,11 con un grado di libertà e sig=.003. Per la
prossimità culturale il valore del Chi quadro è pari a 4,42 con un grado di libertà e sig=.035
107
164
Molto lineare è il percorso dell’imprenditore proprietario di una carpenteria metallica che faceva il
carrozziere al Paese di origine, ma che ha iniziato la sua esperienza migratoria lavorando in una
carpenteria metallica alle dipendenze di un italiano. Questa è stato la sua unica esperienza
lavorativa prima di mettersi in proprio.
Dei 12 imprenditori edili, 4 avevano già lavorato nel settore edile al Paese di origine, mentre tre non
avevano mai lavorato e gli altri cinque svolgevano professioni molto diverse (pasticcere, cameriere,
commerciante, poliziotto, operaio meccanico).
All’arrivo in Italia, tre dei quattro precedentemente occupati nell’edilizia hanno continuato a
lavorare nello stesso settore, mentre uno ha lavorato per 10 anni nel settore della ristorazione per
poi avviare la propria attività edile. Altri tre intervistati hanno iniziato a lavorare nel settore edile al
loro primo lavoro in Italia (uno di questi ha poi fatto l’autista prima di tornare all’occupazione
iniziale – cartongessista - mettendosi in proprio), tre hanno iniziato a fare esperienza nel settore
edile nel corso della loro occupazione prevalente, uno nel corso dell’ultimo lavoro ed, infine, un
intervistato ha avviato l’impresa edile senza aver mai avuto alcuna precedente esperienza nel
settore.
Dei 29 imprenditori nei trasporti, solo due avevano già lavorato come autisti nel Paese di origine. 13
non avevano mai lavorato prima di emigrare, mentre gli altri svolgevano lavori diversi. I due già in
precedenza autisti hanno continuato ad esserlo anche alla prima occupazione in Italia (che per
entrambi è stata anche l’unica prima di avviare l’attività in proprio). Gli altri, invece, hanno svolto
inizialmente occupazioni in altri settori, prevalentemente nell’edilizia e nella ristorazione. Sei hanno
lavorato come autisti nella loro occupazione prevalente, altri 4 nella loro ultima occupazione prima
di avviare l’attività. Ciò significa che meno della metà degli imprenditori nel settore dei trasporti
avevano un’esperienza pregressa nel settore, mentre gli altri hanno iniziato direttamente con il
lavoro autonomo.
Questa maggiore ‘casualità’ nell’approdo ad un’attività nel settore dei trasporti rispetto al settore
edile emerge anche dall’analisi delle motivazioni che hanno portato all’avvio dell’attività. Mentre
tra gli edili prevale il desiderio di guadagnare di più o di valorizzare le proprie capacità (due terzi
degli edili scelgono queste due opzioni), tra gli autotrasportatori accanto al desiderio di guadagnare
di più vi è quello di essere autonomo e non avere capi (oltre la metà sceglie una di queste due
opzioni), e successivamente la possibilità di avere un lavoro regolare o quello di cogliere
un’occasione che è capitata (un quinto delle risposte) oppure altre motivazioni slegate comunque
dai contenuti del lavoro ma più legate a contingenze (problemi di salute o familiari, perdita del
precedente lavoro, ecc.), mentre solo un intervistato sceglie la possibilità di valorizzare le proprie
capacità.
Mentre il percorso edilizio appare dunque più ‘ragionato’ e lineare, il percorso verso l’attività di
trasporto sembra spesso più che altro un tentativo, un desiderio di provare qualcosa di diverso dopo
le precedenti delusioni professionali. Questo è esplicitamente dichiarato da un intervistato che alle
dipendenze aveva lavorato nel sociale e si è messo in proprio cercando un lavoro che fosse più
fisico e meno coinvolgente a livello psicologico e mentale, pensando – sbagliandosi - che sarebbe
stato meno faticoso108. Inoltre, il settore dei trasporti è visto talvolta come un’opportunità – tra le
altre opzioni possibili – che garantisce buone possibilità di guadagno. Vedremo, in seguito, che in
effetti questa supposizione non è sbagliata.
Tornando al confronto tra l’area trentina e le altre, è interessante notare che, mentre tutti gli
intervistati trentini hanno fondato la propria azienda personalmente, tra gli altri solo il 71% ha fatto
lo stesso, mentre il 27% l’ha acquisita da altri e il 2% l’ha ereditata109.
Un altro aspetto rilevante è relativo ai capitali utilizzati per fondare l’azienda (fig.4). Infatti, nelle
altre aree si utilizza soprattutto capitale proprio, e secondariamente, capitale di familiari oppure
prestiti di familiari e conoscenti, mentre le banche hanno un ruolo assolutamente marginale. Invece,
108
109
Commento tratto dal questionario n.85.
Il valore del Chi quadro è pari a 15,88 con 2 gradi di libertà e sig=.000.
165
a Trento un imprenditore su quattro ha chiesto prestiti alle banche. Questa scelta è stato compiuta
soprattutto dagli imprenditori provenienti dall’est Europa e dall’Albania.
Fig.4 – Capitale utilizzati per fondare l’azienda dagli intervistati
trentini rispetto a quelli delle altre aree (%- N=200)110
80
70
60
50
40
30
20
10
0
69
57
26
7
Capitale
proprio
12
Capitale
familiari
7
13
4
Prestiti
familiari o
connazionali
Trento
Banche
3
2
Altro
Altre aree
Non vi sono, invece, particolari differenze tra Trento e le altre aree riguardo al periodo di
fondazione dell’azienda e agli anni trascorsi in media tra l’arrivo in Italia e la creazione
dell’impresa. L’azienda è stata fondata dagli immigrati trentini in media da circa sei anni e mezzo
(altre aree: 7 anni e mezzo) e gli imprenditori hanno atteso in media circa 9 anni e mezzo prima di
avviare la propria attività (anche nelle altre aree il periodo è lo stesso). Quale che sia stato il loro
percorso occupazionale precedente, dunque, gli imprenditori immigrati in Trentino hanno dunque
atteso alcuni anni prima di intraprendere la carriera del lavoro autonomo, in modo da migliorare la
propria conoscenza della lingua e del mercato del lavoro locale, nonché di stringere legami utili per
la propria attività futura.
5. L’impresa: caratteristiche e andamento
Le imprese trentine hanno in media 2,8 dipendenti. Nel 26% dei casi non hanno nessun dipendente,
nel 62% dei casi hanno fino a 5 dipendenti e nel 10% dei casi hanno fino a 10 dipendenti. Solo
un’impresa supera questa soglia, con 19 dipendenti. Le imprese edili sono mediamente più grandi di
quelle dei trasporti: in media hanno 4,4 dipendenti, contro i 2,2 delle imprese di trasporti. La
maggiore dimensione aziendale degli edili dipende anche dal fatto che tra di esse non vi è alcuna
azienda senza dipendenti, mentre nei trasporti il 38% degli intervistati è un lavoratore autonomo.
Familiari e parenti sono presenti in circa metà delle imprese, mentre molto rara è la presenza di
dipendenti o collaboratori italiani (solo in 5 imprese su 42). Nel complesso, nelle imprese degli
immigrati a Trento, vi è una maggiore collaborazione di familiari e parenti rispetto a quanto accade
nelle altre aree, dove solo in poco più di un’impresa su quattro si osserva la collaborazione di
familiari e parenti111. Benché meno rilevante nel fornire il capitale iniziale necessario all’avvio
dell’impresa, l’aiuto dei familiari si evidenzia nell’area trentina soprattutto come contributo
concreto alla gestione dell’impresa.
110
111
Il valore del Chi quadro è pari a 19,63 con 5 gradi di libertà e sig=.001.
Il valore del Chi quadro è pari a 16,96 con 6 gradi di libertà e sig=.009
166
Dipendenti
Fatturato
Fig.5 – Andamento (2007-2010) del fatturato e dei dipendenti delle
imprese immigrate trentine rispetto a quello delle altre aree (%- N=200)112
24
Trento
36
40
15
Altre aree
66
9
Trento
33
17
Altre aree
50
6
0
60
34
10
20
Aumentato
30
40
Diminuito
50
60
70
costante
Gestione che, nonostante l’attuale crisi economica, presenta dei risultati abbastanza positivi,
decisamente più positivi rispetto alle altre aree, sia per ciò che concerne l’andamento del fatturato
che per quanto riguarda la situazione dei dipendenti (fig.5).
Solo un terzo degli imprenditori immigrati a Trento registra un calo di fatturato rispetto al 2007,
mentre nelle altre aree esaminate si trovano in questa situazione i due terzi degli intervistati. Inoltre,
metà delle imprese trentine dichiara di aver assunto persone negli ultimi tre anni, mentre meno di
un’impresa su 10, nelle altre aree, ha aumentato il numero dei propri dipendenti.
Naturalmente, ci siamo domandati i motivi di questi migliori risultati riscontrati nell’area trentina.
Una prima spiegazione potrebbe essere legata al contesto territoriale e, quindi, alle opportunità e ai
vantaggi offerti da una realtà economica in cui la Provincia autonoma riveste un ruolo centrale,
riuscendo in qualche modo ad attutire gli effetti della crisi che, almeno nel caso del settore edilizio,
risente almeno in parte della consistenza degli investimenti pubblici.
In effetti, ci siamo anche chiesti se fossero presenti eventuali differenze tra i settori di attività degli
imprenditori intervistati. Gli imprenditori dei trasporti sembrano essere in una situazione migliore
rispetto a quelli dell’edilizia, sia in termini di dipendenti che, soprattutto, in termini di fatturato.
Infatti, solo per un trasportatore su 10 il numero dei dipendenti è diminuito contro un terzo degli
edili. Inoltre, per metà degli edili il fatturato è inferiore rispetto al 2007, mentre meno di un terzo
dei trasportatori si trova nella stessa situazione. Tuttavia, è importante ricordare che questo
confronto tra i settori è un confronto relativo e interno all’area trentina. Ad esempio, confrontando il
settore edile a Trento e a Milano (area in cui sono stati intervistati prevalentemente imprenditori
immigrati operanti nell’edilizia, si veda cap.5), pur con una numerosità molto ridotta si notano
enormi differenze sia nell’andamento del fatturato che in quello dei dipendenti, poiché circa tre
quarti delle imprese milanesi dichiarano di aver visto diminuire sia il proprio fatturato sia i propri
dipendenti nel triennio 2007-2010.
Un altro aspetto interessante che vale la pena di sottolineare riguarda invece la partecipazione ad
associazioni. Come già anticipato, una delle peculiarità del caso trentino è proprio l’elevata
partecipazione associativa. In effetti, solo 6 imprenditori non sono iscritti ad alcuna associazione, né
di tipo economico, né di tipo culturale, sportivo o di altro genere. I dati indicano che coloro che
sono associati hanno risultati migliori sia in termini di dipendenti sia in termini di fatturato. La
112
Il valore del Chi quadro nel caso del fatturato è pari a 24,97 con 2 gradi di libertà e sig=.000. Per il numero di
dipendenti, il valore del Chi quadro è pari a 48,37 con 2 gradi libertà e sig=.000.
167
differenza è ancora più evidente (e statisticamente significativa) utilizzando tutte le interviste agli
imprenditori (si veda cap.10). L’aiuto fornito dalle associazioni, come vedremo anche in seguito,
non solo è un valido contribuito alla gestione dell’impresa in vari ambiti, ma è anche correlato
positivamente con l’andamento dell’impresa stessa. E se la scelta di iscriversi o meno ad
un’associazione può dipendere anche dalla dimensione aziendale (De Luca, 2005), nel caso trentino
sono iscritti ad associazioni – economiche e non - anche molti imprenditori con nessun dipendente.
Prima di occuparci più direttamente dell’esperienza associativa, osserviamo altre caratteristiche
delle imprese immigrate a Trento.
In primo luogo, gli imprenditori immigrati a Trento lavorano molto: in media 59 ore a settimana
rispetto alle 50 degli imprenditori delle altre aree113. Inoltre, ha una clientela molto più dispersa sul
territorio, che non si limita mai al comune o quartiere (come accade per metà delle imprese nelle
altre aree), ma comprende almeno la provincia e spesso altre regioni italiane (fig.6).
Fig.6 – Localizzazione dei dipendenti e dei fornitori delle imprese
immigrate trentine rispetto a quello delle altre aree (%- N=200)114
0
3
0
Fornitori
Trento
95
2
8
Altre aree
19
9
33
31
2
17
Trento
29
52
Clienti
0
8
Altre aree
0
12
15
15
20
Comune
50
40
Provincia
Regione
60
80
Altre regioni
Estero
100
I clienti sono nel 98% dei casi italiani (è così solo per il 58% delle imprese nelle altre aree). I
clienti, però, sono poco numerosi: il 36% degli imprenditori immigrati in Trentino ha un solo
cliente (contro il 9% delle altre aree) ed il 41% ne ha al massimo cinque (sono il 27% nelle altre
aree). La numerosità e la localizzazione della clientela dipendono anche dalla tipologia di impresa.
A Trento mancano gli esercizi commerciali che possono generalmente contare su una clientela vasta
e spesso localizzata nel comune o nel quartiere dove è situato il negozio. La mono-committenza è
comunque spesso un segno di debolezza e dipendenza dell’impresa, che garantisce all’azienda un
basso livello di autonomia, aumenta i rischi di crisi e trasforma l’imprenditore in un mero
contoterzista.
Per ciò che concerne i fornitori, per gli imprenditori immigrati in Trentino sono sempre italiani (è
così per il 71% degli imprenditori nelle altre aree) e sono quasi sempre collocati entro i confini
provinciali (fig.6). I legami con gli italiani e con il contesto locale, almeno in ambito lavorativo,
sono dunque frequenti e molto importanti. Le imprese degli immigrati trentini sono indubbiamente
delle imprese ‘aperte’ (secondo la definizione di Ambrosini, 2005). Del resto, solo il 2% degli
113
Il test F ha un valore di 5,28 con un grado libertà e sig=.023
Il valore del Chi quadro nel caso dei clienti è pari a 48,61 con 5 gradi di libertà e sig=.000. Nel caso, invece, dei
fornitori, il valore del Chi quadro è pari a 52,35 con 5 gradi libertà e sig=.000.
114
168
intervistati in Trentino afferma di utilizzare un marchio che sottolinea la propria nazionalità, mentre
il 20% degli imprenditori nelle altre aree lo fa115.
6. Le relazioni sociali e associative
Nella gestione dell’azienda, gli imprenditori immigrati in Trentino utilizzano molto di più le
associazioni di categoria rispetto agli imprenditori delle altre aree studiate. Mentre nelle altre aree la
figura di riferimento per eccellenza è quella del consulente italiano, generalmente il commercialista,
a Trento gli imprenditori immigrati si dividono quasi sempre equamente tra il commercialista e
l’associazione di categoria, che risulta particolarmente utilizzata in riferimento all’adempimento e
alla conoscenza di norme in materia di igiene, sicurezza o altro (fig.7).
Nel complesso, il 79% del intervistati in Trentino è iscritto ad un’associazione di categoria italiana
(contro il 29% degli imprenditori intervistati nella altre aree116), mentre il 17% è iscritto ad una
associazione di connazionali culturale, religiosa o di altro genere ed il 10% ad un’associazione
culturale, religiosa, ecc. italiana117.
Fig.7 – Soggetti utilizzati nella gestione aziendale dalle imprese
immigrate trentine rispetto a quelle delle altre aree (%- N=200)118
80
70
68
73
68
55
60
57
56
4951
45
50
69
44
40
30
20
24
21
11
8
10
24
19
22
0
0
5
17 14
0
0
Altre
aree
Trento
Contabilità
Altre
aree
Trento
Paghe e contributi
Consulente italiano
Altre
aree
Trento
Obblighi fiscali
Associazione
Altre
aree
Trento
Norme
Altro
Del resto la rilevanza e l’utilità del rapporto con l’associazione di categoria è esplicitamente
riconosciuta dagli imprenditori stessi, i quali attribuiscono alle relazioni con le associazioni italiane
un voto di importanza119 medio molto elevato (5,6), inferiore soltanto a quello attribuito alle
relazioni con i familiari (5,7). Nelle altre aree, invece, le associazioni di categoria italiane ricevono
un voto di importanza medio molto più basso (2,2)120. Tutti gli intervistati, invece, attribuiscono un
voto molto basso alle associazioni di connazionali (in entrambi i casi inferiore a 2) che – dove
esistono - spesso sono comunque troppo piccole e poco rappresentative per essere davvero utili agli
115
Il valore del Chi quadro è pari a 7,69 con un grado di libertà e sig=.006
Il valore del Chi quadro è pari a 33,96 con un grado di libertà e sig=.000.
117
Escludendo l’associazione di categoria, l’appartenenza alla altre forme associative è simile a quella delle altre aree
esaminate.
118
Il valore del Chi quadro nel caso della contabilità è pari a 13,02 con 3 gradi di libertà e sig=.005. Nel caso di paghe e
contributi, il valore del Chi quadro è pari a 11,78 con 3 gradi libertà e sig=.008. Nel caso di obblighi fiscali, il valore del
Chi quadro è pari a 9,33 con 3 gradi libertà e sig=.025. Nel caso di norme, il valore del Chi quadro è pari a 31,82 con 3
gradi libertà e sig=.000.
119
Voto da 1 a 10.
120
Il valore di F relativo alle associazioni italiane è pari a 42,14 con un grado di libertà e sig=.000.
116
169
imprenditori stranieri. Poco importanti sono anche le relazioni con i connazionali (3,0121) e gli altri
stranieri (2,3), mentre le relazioni con gli italiani si collocano al terzo posto (voto medio 5,3).
L’importanza della famiglia e della conoscenza di italiani sono confermate anche dalle valutazioni
fornite in relazione all’importanza di diversi aspetti nell’avvio e nella gestione dell’azienda (tab.4).
Tab.4 – Voto medio di importanza (da 1 a 10) attribuito ad
alcuni aspetti inerenti alla propria attività imprenditoriale a
Trento e nelle altre aree (tra parentesi, deviazione standard)
Aspetti valutati
Trento
Altre aree
Conoscenza lingua italiana122
9,7 (0,7)
8,3 (2,6)
Voglia di lavorare
9,6 (1,5)
9,5 (1,5)
Professionalità ed esperienza
9,2 (2,0)
8,3 (2,7)
123
Sostegno della famiglia
8,7 (2,7)
6,9 (3,4)
Conoscenza di italiani
8,3 (2,8)
7,1 (3,5)
Capitali iniziali124
7,9 (3,4)
6,2 (3,5)
Istruzione
7,1 (3,7)
7,3 (3,1)
Tradizione ed esperienze familiari
5,7 (4,1)
5,7 (4,0)
125
Aiuto associazioni italiane
5,0 (3,9)
1,7 (2,8)
Aiuto associazioni connazionali
1,6 (2,1)
1,0 (2,2)
N
42
158
Al contrario, l’aiuto delle associazioni italiane non ottiene una valutazione media particolarmente
elevata, anche se la variabilità dei giudizi è molto elevata. Tuttavia, il voto medio degli intervistati
trentini è significativamente più elevato rispetto a quello degli altri, così come accade per il
sostegno della famiglia che, come abbiamo visto in precedenza, collabora più frequentemente alla
gestione dell’impresa. Inoltre, più rilevante è anche il ruolo attribuito ai capitali iniziali che, come
sappiamo, sono stati più frequentemente reperiti tramite prestiti. Il reperimento del capitale
economico, dunque, si conferma un elemento chiave per l’avvio e la gestione dell’impresa, più del
capitale culturale. Infatti, sia l’istruzione sia le tradizioni ed esperienze familiari ottengono dei voti
medi inferiori a quello attribuito al capitale. Ai primi tre posti, comunque, sia per gli immigrati a
Trento che per gli altri troviamo la conoscenza dell’italiano, la voglia di lavorare e la professionalità
(quest’ultimo aspetto rimanda alla valutazione dei propri punti di forza, che analizzeremo in
seguito).
Tornando invece a soffermarci sul capitale sociale degli imprenditori immigrati a Trento, oltre alle
relazioni con le associazioni di categoria, rapporti peraltro preminentemente di natura economica,
gli imprenditori immigrati a Trento non hanno delle reti sociali particolarmente sviluppate, o quanto
meno non più di quanto lo siano quelle degli imprenditori nelle altre aree esaminate. L’ampiezza
media della rete sociale è di 1,4 contatti (il valore medio è 1,7 nelle altre aree).
Il 31% degli imprenditori intervistati a Trento ha almeno un socio (il 32% nelle altre aree). Non è
però la prevalenza di imprese individuali a differenziare il campione trentino dagli altri, quanto più
il fatto che solo il 57% degli intervistati in Trentino cita persone da cui ha imparato molto per la
gestione dell’azienda, mentre nell’altre aree la percentuale è del 72%. Ad essere diverso è
soprattutto il ruolo dei familiari, che vengono molto meno spesso citati dagli imprenditori immigrati
in Trentino rispetto agli altri. Un’altra importante differenza riguarda invece le persone utili per
ricevere prestiti (fig.8).
121
Nelle altre aree i rapporti con i connazionali ottengono un voto medio pari a 4,9. Il valore di F è pari 11,30 con un
grado di libertà e sig=.001.
122
Il valore di F è pari a 12,61 con un grado di libertà e sig=.000.
123
Il valore di F è pari a 10,32 con un grado di libertà e sig=.002.
124
Il valore di F è pari a 8,42 con un grado di libertà e sig=.004.
125
Il valore di F è pari a 39,91 con un grado di libertà e sig=.000.
170
Fig.8 – Soggetti a cui le imprese immigrate trentine si sono
rivolte per prestiti rispetto alle altre aree (%- N=200)126
71
47
43
25
27
18
22
di cui
familiari
Trento
Altre aree
0
di cui italiani
Rivolto a
banche o
associazioni
Rivolto a
persone
2
7
di cui
connazionali
33
24
Nessun
prestito
80
70
60
50
40
30
20
10
0
Infatti, non solo all’avvio dell’impresa, ma anche durante la gestione della stessa, gli imprenditori
immigrati a Trento chiedono molto più spesso prestiti sia a persone sia, soprattutto, a banche o
associazioni di categoria. Inoltre, non si rivolgono quasi mai a familiari o connazionali ma sempre
ad italiani (prevalentemente banche o associazioni, ma anche altre persone). Anche da questo punto
di vista, dunque, si confermano i forti legami economici che gli imprenditori hanno con le
istituzioni italiane, banche o associazioni di categoria che siano.
Gli scarsi legami con i connazionali non familiari, oltre ad essere supposti a causa del basso voto di
importanza attribuito a questo tipo di relazioni e dalla sporadica presenza di connazionali utili nella
rete di relazione, emergono anche dalla domanda relativa ai rapporti con gli altri imprenditori. Il
43% degli intervistati a Trento dichiara di non avere rapporti con imprenditori connazionali, mentre
risponde allo stesso modo solo il 28% degli imprenditori nelle altre aree. I rapporti sono comunque
quasi sempre di collaborazione. Ovviamente, questo dato non stupisce ricordando che clienti e
fornitori degli intervistati trentini sono quasi sempre italiani. Infatti, sembra quasi più sorprendente
il fatto che il 24% dichiari di non avere rapporti con imprenditori italiani. Inoltre, il 14% definisce i
rapporti esistenti come rapporti di concorrenza, mentre per il 62% prevale la collaborazione.
7. Problemi e prospettive delle aziende
Abbiamo visto che la maggioranza degli imprenditori immigrati in Trentino ritiene che i rapporti
con gli altri imprenditori siano prevalentemente di collaborazione e non di concorrenza. Ma quanto,
nel complesso temono la concorrenza? E, oltre alla concorrenza degli altri, quali sono le difficoltà
che si trovano a dover affrontare?
Un terzo degli intervistati dichiara di non temere alcuna concorrenza (sono il 43% nelle altre aree),
mentre il 14% teme la concorrenza degli italiani, il 2% di tutti e il 51% degli altri stranieri. Spesso
gli altri stranieri vengono accusati di concorrenza sleale, di non rispettare le regole, ecc., mentre agli
italiani non vengono imputati questi tipo di comportamenti. Gli imprenditori intervistati si pongono,
implicitamente o esprimendolo chiaramente, nel novero di coloro che rispettano le regole e si
trovano perciò ad affrontare costi che non consentono di praticare tariffe troppo basse, mentre i
126
Il valore del Chi quadro è pari a 7,82 con 2 gradi di libertà e sig=.020. Il totale delle tipologie di persone (familiari,
connazionali, italiani) è inferiore al totale di chi ha chiesto prestiti perché vi sono alcune risposte mancanti.
171
concorrenti sleali vengono identificati in imprese prevalentemente site in paesi dell’est non ancora
comunitari, appartenenti a imprenditori stranieri o italiani che attraverso tali società riescono ad
aggirare normative europee sempre più restrittive. La norma più onerosa127 per buona parte degli
imprenditori immigrati intervistati si riferisce al superamento dell’esame obbligatorio per l’accesso
alla professione di autotrasportatore di merci per conto terzi, la quale prevede per gli
autotrasportatori privi di diploma di scuola media superiore di essere ammessi all’esame solo dopo
aver frequentato un apposito corso professionale di circa 150 ore. Alcuni degli intervistati hanno
risolto il problema di ottenere questa idoneità grazie all’impegno delle proprie mogli, socie
dell’impresa, che hanno studiato centinaia di pagine e superato la prova mentre i mariti hanno
potuto evitare di sospendere l’attività lavorativa. Qualche altro intervistato ha invece dichiarato di
voler cambiare attività perché non si sentiva in grado di affrontare uno sforzo così importante, per le
difficoltà linguistiche presenti in questa prova e per l’impiego di tempo necessario a superarla. In
effetti, i problemi nel superamento di questo esame sono indicati da alcuni degli imprenditori
intervistati tra i punti di debolezza dell’azienda, mentre tra le indicazioni emerse allo scopo di
sostenere gli imprenditori immigrati diversi auspicano un aiuto o una semplificazione dell’esame
stesso.
Fig.9 – Punti di debolezza delle imprese immigrate trentine
rispetto alle altre aree (risposta multipla - %)128
52
44
24
19
21
Trento
Diffidenza
società
italiana
Dipendenza
pochi clienti
Concorrenza
immigrati
8
12
17
12
8
Scarsa
conoscenza
PA e norme
19
Accesso
credito
24
30
20
10
0
Concorrenza
italiani
60
50
40
Altre aree
La diversa rilevanza dei due tipi di concorrenza emerge anche dal fatto che, mentre la concorrenza
degli italiani viene citata come punto di debolezza dalle imprese solo da un quarto degli intervistati,
quella degli altri immigrati è temuta in metà dei casi (fig.9). Nel confronto con le altre aree, vale la
pena di segnalare due considerazioni. La prima è che gli imprenditori residenti in Trentino tendono
ad indicare più punti di debolezza rispetto a quanto non facciano gli altri. Infatti, tranne nel caso
dell’accesso al credito (che come abbiamo visto è ampiamente più utilizzato a Trento che nelle altre
aree), tutti gli altri aspetti vengono indicati con maggiore frequenza (anche se in alcuni casi la
differenza è minima) dagli immigrati trentini. La seconda considerazione riguarda la diffidenza
della società italiana che è sentita da un intervistato su cinque. Se questa diffidenza sia reale o solo
percepita, se sia dovuta al particolare contesto locale o meno non possiamo stabilirlo. Ciò che
emerge da un’analisi più dettagliata è che questo problema viene manifestato soprattutto da est
127
Le modalità di accesso alla professione di autotrasportatore di merci conto terzi sono disciplinate dal Decreto
Legislativo n. 395 del 22 dicembre 2000, il quale prevede tra i requisiti il possesso dell'idoneità professionale che si
consegue attraverso il superamento di un esame scritto da sostenere presso l'apposita Commissione Provinciale nel cui
territorio gli interessati hanno la residenza anagrafica.
128
Il valore del Chi quadro relativo alla diffidenza della società italiana è pari a 6,59 con un grado di libertà e sig=.010.
172
europei e albanesi, e meno dalle altre nazionalità. E’ importante ricordare che queste nazionalità,
così come gli asiatici, sono presenti solo in questa aree di indagine, mentre i nord africani, che meno
spesso indicano questo problema, sono presenti anche in altre aree indagate (Milano, Torino,
Modena e Reggio Emilia). Questo dato rappresenta un altro indicatore del fatto che, al di fuori delle
relazioni economiche e istituzionali, l’integrazione sociale nel contesto locale non è sempre facile.
La buona integrazione economica ed il relativo successo di questi imprenditori, invece, sono invece
confermati dall’analisi dei punti di forza (fig.10).
Mentre gli intervistati nelle altre aree puntano molto sui prezzi bassi e sul contenimento dei costi,
gli imprenditori immigrati in Trentino privilegiano la qualità dei prodotti e dei servizi offerti e
fanno affidamento nella maggior parte dei casi sulla buona reputazione conquistata presso i loro
clienti. Questa strategia si rispecchia nell’elevato voto medio attribuito all’importanza della
professionalità nella gestione della propria azienda.
Fig.10 – Punti di forza delle imprese immigrate trentine rispetto
alle altre aree (risposta multipla - %)129
70
60
50
40
30
20
64
55
44
46
43
29
21
16
10
10
0
0
Buona
reputazione
Qualità
prodotti/
servizi
Flessibilità
Trento
Prezzi bassi
Mantenere
bassi costi
Altre aree
Puntare sulla qualità e sulla reputazione è senza dubbio una buona strategia per ottenere dei risultati
positivi ed affrontare meglio la crisi. In effetti, quando vengono direttamente interrogati
relativamente alle conseguenze della crisi sulla propria azienda, se circa la metà degli imprenditori
ritiene che la propria azienda uscirà rafforzata dalla crisi (risultato simile a quello emerso nelle altre
aree), un imprenditore su cinque pensa di continuare come sta facendo attualmente che, nella
maggior parte dei casi vuol dire comunque avere un numero di dipendenti - e, in parte, un fatturato in crescita o costante. Nel complesso, gli imprenditori appaiono fiduciosi nella tenuta e nella
capacità di ripresa della propria azienda. Pochissimi intendono chiudere o vendere l’azienda o anche
proseguire l’attività in un altro settore.
Infine, nessun intende cedere l’attività ai propri figli. Del resto, l’87% degli intervistati auspicano
che i figli trovino un lavoro diverso dal proprio e solo il 10% vorrebbe che in futuro gestissero
l’azienda (il 3% vorrebbe che tornassero in patria).
8. Conclusione
Il confronto tra i questionari somministrati agli imprenditori immigrati in Trentino e le altre aree
oggetto di studio in questa ricerca ha permesso di evidenziare alcune caratteristiche peculiari di
estremo interesse.
129
Il valore del Chi quadro relativo ai prezzi bassi è pari a 18,29 con un grado di libertà e sig=.000. Il valore del Chi
quadro relativo alla buona reputazione è pari a 5,65 con un grado di libertà e sig=.017. Il valore del Chi quadro relativo
al mantenere bassi i costi è pari a 7,65 con un grado di libertà e sig=.006.
173
In primo luogo, gli imprenditori intervistati sembrano reagire positivamente alla crisi economica. La
crescita di fatturato e/o di dipendenti rispetto al 2007 non è un fenomeno così raro come negli altri
casi di studio esaminati, ma riguarda invece una quota consistente di imprese. Anche le previsioni
per il futuro dell’azienda sono abbastanza ottimistiche e decisamente orientate verso una
prosecuzione dell’attività.
Il ruolo della famiglia è rilevante non tanto dal punto di vista economico come fornitore di capitali,
quanto come aiuto concreto nella gestione dell’impresa. Dal punto di vista dei capitali, invece,
molto più che altrove vengono utilizzate le banche e le associazioni di categoria.
Il ruolo delle associazioni di categoria è del resto fondamentale anche nella gestione dell’impresa e
spesso contende il primato a quello che è solitamente la figura chiave nell’aiutare l’imprenditore
immigrato a gestire la propria attività secondo le norme e le procedure della legislazione italiana: il
commercialista.
L’importanza del legame con gli italiani e con le associazioni italiane è generalmente riconosciuta
dagli intervistati stessi, anche se in questo riconoscimento prevalgono nettamente le considerazioni
di tipo economico, mentre poco sappiamo riguardo all’integrazione sociale, anche se il frequente
riferimento alla diffidenza degli italiani può portare a pensare che vi siano maggiori difficoltà in
questo ambito che non per ciò che concerne l’integrazione economica che ci sembra aver
conseguito buoni risultati.
L’insediamento degli intervistati appare comunque abbastanza stabile sia per l’assoluta
predominanza di soggetti coniugati con figli conviventi, sia per la ridottissima quota di coloro che
auspicano un ritorno dei figli al Paese di origine. Non necessariamente, però, questa stabilizzazione
implica un passaggio generazionale anche a livello aziendale. Anzi, in realtà, sono davvero pochi
gli intervistati che si augurano che i figli proseguano la propria attività, caratterizzata spesso da
lunghi orari di lavoro e grande fatica.
174
TERZA PARTE
10. Percorsi e strategie imprenditoriali di fronte alla crisi
Deborah De Luca*
In questo capitolo, ci concentriamo sui risultati complessivi che emergono dall’indagine,
svolta su un campione non probabilistico130 di imprenditori immigrati. In totale, sono stati
intervistati 200 imprenditori immigrati residenti in sei aree geografiche distinte, di nazionalità
differente e operanti in settori diversi (tab. 1). La scelta delle aree, dei settori e delle nazionalità da
intervistare ha tenuto conto della concentrazione territoriale e settoriale delle specifiche nazionalità.
Alcuni casi sono già noti e studiati, come gli imprenditori edili egiziani a Milano (Chiesi e
Zucchetti, 2003), i cinesi attivi nel tessile a Prato (Ceccagno, 1998) o i marocchini nel settore
alimentare a Torino (CCIIAA e Fieri, 2009). Altri, invece, sono dedicati a realtà meno conosciute
ma di particolare interesse per diverse ragioni. Il caso di Trento è stato scelto per il forte e peculiare
radicamento della locale associazione artigiana nella realtà imprenditoriale immigrata,
numericamente consistente soprattutto nei settori dell’edilizia e dei trasporti. Il caso di Modena e
Reggio Emilia si caratterizza per la concentrazione dei marocchini nel settore metalmeccanico, con
una nicchia di specializzazione nelle macchine per la produzione del formaggio parmigiano
reggiano. L’ipotesi è che sia in atto un lento processo di sostituzione dell’imprenditorialità
autoctona in questo distretto produttivo, così come è avvenuto in passato nel distretto pratese.
Infine, a Catania è stato proposto il confronto fra i commercianti cinesi e senegalesi, le due
nazionalità più propense al lavoro autonomo.
Tab. 1 – Caratteristiche delle aree territoriali analizzate131
Area:
Torino
Milano
Trento
Modena-Reggio
Prato
Catania
Altre aree
Totale
Settore
Alimentare
Edilizia
Trasporti/edilizia
Metalmeccanico
Tessile
Commercio
Alimentare/tessile
Contesto
Urbano
Urbano
Distrettuale
Distrettuale
Distrettuale
Urbano
Nazionalità prevalente
Marocco
Egitto
Est Europa
Marocco
Cina
Cina e Senegal
Romania
N. interviste
40
43
42
29
5
39
2
200
Dal momento che i 200 imprenditori intervistati non rappresentano un campione casuale degli
imprenditori immigrati operanti in Italia ma, come abbiamo visto, sono la combinazione di singoli
studi di particolare interesse, ci siamo domandati quanto possano essere rappresentativi
dell’imprenditorialità immigrata presente sull’intero territorio nazionale. Un confronto tra i nostri
*Università di Milano
130
Il campione è stato costruito allo scopo di ottenere una rappresentatività sull’intero territorio nazionale, partendo da
varie popolazioni in parte sovrapposte. Per le sei aree analizzate sono state utilizzate le liste delle locali associazioni
artigiane e della piccola industria e gli iscritti alle Camere di Commercio. In un caso è stata utilizzata anche la lista dei
clienti di un istituto di credito locale. A causa dell’elevato numero di nomi irrintracciabili e dei rifiuti, il campione è
stato successivamente integrato con una procedura snow ball, che ha permesso di raggiungere la consistenza desiderata
attraverso la presentazione di imprenditori conosciuti da coloro che erano già stati intervistati. Questa procedura, pur
violando la regola dell’indipendenza tra le singole estrazioni, ha permesso di raggiungere casi non registrati nelle fonti
istituzionali.
131
L’intervista n.199 riguarda un imprenditore rumeno di successo residente in provincia di Mantova (vedi par.4, tab.5),
mentre l’intervista n.200 è riferita ad una imprenditrice rumena operante nel settore tessile/calzature, pure vincitrice di
un riconoscimento, che non avendo dipendenti al momento dell’intervista, non è stata inserita tra gli imprenditori di
successo
175
dati e quelli raccolti in una ricerca condotta nel 2007 sull’imprenditorialità artigiana immigrata in
Lombardia, in cui sono stati intervistati 299 artigiani immigrati (Zanfrini et al., 2008) ha
evidenziato la presenza di numerosi aspetti in comune, e suggerito che l’esistenza di differenze
dovute in parte alla differente composizione settoriale delle attività autonome svolte dagli
intervistati (Chiesi, De Luca, Mutti, 2011).
L’obiettivo del presente capitolo è invece quello di utilizzare i dati complessivi raccolti nel
corso della nostra ricerca al fine di comprendere le motivazioni della scelta imprenditoriale, il ruolo
del capitale umano e sociale, il livello di integrazione raggiunto, i problemi e le difficoltà incontrate
e gli effetti della crisi. Questi temi, come vedremo nel primo paragrafo, sono già stati affrontati, con
esiti differenti, da diverse ricerche sull’imprenditorialità immigrata condotte a livello locale e
nazionale. Molti di questi temi sono stati affrontati anche nella ricerca oggetto del presente volume.
La nostra analisi si soffermerà sulla presenza di eventuali differenze in base ai settori di attività
svolta, alle diverse nazionalità di provenienza, alla dimensione di impresa e al diverso periodo di
arrivo in Italia.
In particolare, il secondo paragrafo riguarderà una descrizione generale delle caratteristiche
socio-demografiche degli intervistati, il terzo seguirà il percorso migratorio degli intervistati, il
quarto quello occupazionale. Il quinto paragrafo si concentrerà invece sulle motivazione all’avvio
dell’attività autonoma, il sesto sull’andamento delle imprese e sulle difficoltà che stanno
affrontando, il settimo sulla dotazione di capitale sociale e, infine, l’ottavo sulle prospettive future.
Inoltre, il capitolo si conclude con un breve approfondimento specifico relativo alla dimensione di
impresa ed alla sua importanza.
1. Le indicazioni provenienti dalle ricerche empiriche disponibili
Le prime ricerche sul fenomeno dell’imprenditorialità immigrata in Italia risalgono agli anni
Novanta e hanno generalmente riguardato singole città e/o specifiche nazionalità (Ambrosini e
Schellenbaum, 1994; Baptiste e Zucchetti, 1994; Campani, Carchedi e Tassinari, 1994; Luciano,
1995; Santi 1995; Farina, Cologna, Lanzani e Breveglieri, 1997; Ceccagno, 1998; Schmidt di
Freidberg, 1999). In alcune città o contesti territoriali, infatti, la crescita dell’imprenditorialità
immigrata ha destato l’interesse di studiosi e istituzioni per la particolare rapidità con cui è
avvenuta, o per la maggiore visibilità dovuta alla concentrazione in un territorio circoscritto e/o uno
specifico settore produttivo (come ad esempio nel caso dei cinesi a Prato). Nel complesso, queste
prime ricerche si sono focalizzate su gruppi nazionali che tuttora sono tra quelli che presentano i
maggiori tassi di crescita imprenditoriale: cinesi, egiziani, marocchini. Inoltre, si concentrano
prevalentemente su grandi città del Nord Italia, con la rilevante eccezione delle ricerche sui cinesi,
che riguardano uno specifico gruppo etnico, ma ne analizzano le caratteristiche e le peculiarità in
quanto tale, senza focalizzarsi necessariamente su uno specifico contesto territoriale.
Negli anni Duemila, oltre ad un aumento delle ricerche locali (tra le altre, segnaliamo
Pugliese et al. 2001; Marini, 2002; Chiesi e Zucchetti, 2003; Ceccagno, 2003; Lunghi, 2003;
Frisina, Gandolfi, Schmidt di Friedberg, 2004; Abbatecola, 2004; Strateghia, 2005; Fiorio e
Napolitano, 2006; Gallo e Gaudino, 2006; Laj e Ribeiro Corossacz, 2006; Rolfini, 2006; Barberis,
2008; Marra, 2008; Camera di commercio di Torino e Fieri, 2008, 2009; Ambrosini, 2009; Palumbo
e Coslovi, 2009; Berzano et al., 2010; Marsden e Caserta, 2010; Nomisma, 2010) iniziano a
comparire le prime ricerche che mirano ad analizzare il fenomeno dell’imprenditorialità immigrata
prendendo in esame l’intero territorio nazionale (Confartigianato, 2003; Caritas Migrantes 2006,
2007, 2008, 2009, 2010; Fondazione Ethnoland, 2009; Unioncamere, 2010) utilizzando i dati
Unioncamere/Cna.
Le numerose ricerche sviluppate a livello locale, di cui abbiamo fornito solo alcuni esempi
senza alcuna pretesa di fornire un elenco esaustivo, spesso condividono almeno in parte alcuni
obiettivi.
176
Anzitutto e principalmente per ciò che concerne le ricerche condotte da centri studi di
istituzioni e associazioni locali, il primo obiettivo è conoscitivo. Come per le ricerche nazionali,
anche molte ricerche locali utilizzano a tale scopo i dati delle Camere di commercio. Vengono
delineate l’entità del fenomeno, le sue principali componenti nazionali e settoriali, le sue
caratteristiche di fondo in termini di localizzazione e talvolta vengono anche calcolati i tassi di
sopravvivenza delle imprese nel tempo.
La maggior parte delle ricerche132, oltre all’eventuale analisi dei dati camerali, prevedono
anche la somministrazione di questionari semi-strutturati o la conduzione di interviste qualitative a
testimoni privilegiate e/o a imprenditori immigrati.
In questi lavori, sovente vengono indagate le motivazioni che hanno spinto gli immigrati ad
intraprendere la via del lavoro autonomo133. Considerando il punto di vista della struttura di
opportunità (Waldinger et al. 1990; Kloosterman e Rath, 2001), le ricerche italiane si concentrano
soprattutto sulla prospettiva della vacancy chain, ovvero la sostituzione degli imprenditori autoctoni
da parte degli immigrati in settori con ridotte possibilità di guadagno, bassi costi di ingresso e orari
di lavoro prolungati, che gli autoctoni abbandonano a favore di settori più attraenti, meno faticosi e
con maggiori possibilità di guadagno (Marini, 2002; Chiesi e Zucchetti, 2003). Questa è una delle
spiegazioni più utilizzate, dal momento che in Italia gli immigrati si concentrano nel commercio e
nell’edilizia o, secondariamente, in settori industriali ‘maturi’, come il tessile. Un altro aspetto
rilevante sono i cambiamenti avvenuti nell’economia urbana, che hanno favorito lo sviluppo di
piccole imprese nei servizi alla persona (Ambrosini, 2005). Inoltre, in alcune città, come Milano e
Roma, la consistenza della popolazione immigrata è ormai tale da permettere lo sviluppo
dell’impresa etnica, ovvero imprese che soddisfano esigenze specifiche di alcuni settori della
popolazione immigrata, come le macellerie islamiche, oppure dell’impresa intermediaria o prossima
(phone center, agenzie viaggio o agenzie immobiliari, ecc.) secondo la tipologia individuata da
Ambrosini (2005). Tuttavia, la maggior parte delle imprese degli immigrati sono ‘aperte’ cioè non
producono beni o servizi per un clientela etnica. Dal punto di vista dell’offerta, molte ricerche
hanno evidenziato come la scelta del lavoro autonomo non sia un’alternativa alla disoccupazione,
come suggerisce la teoria dello svantaggio (Collins et al., 1964), quanto più un tentativo di
migliorare la propria posizione occupazionale in risposta alla scarse opportunità e alle difficili
condizioni lavorative spesso offerte dal lavoro dipendente (Raijman e Tienda, 2000;
Confartigianato, 2003; Ambrosini, 2005). In altri casi, tuttavia, la scelta del lavoro autonomo non è
frutto di un vero e proprio progetto imprenditoriale, ma una soluzione che permette il passaggio
dall’economia sommersa a quella regolare tramite l’acquisizione di licenze (Frisina, Gandolfi e
Schmidt di Friedberg, 2004). O anche, l’attività autonoma viene intrapresa sotto la pressione del
precedente datore di lavoro (Martinelli, 2003). In quest’ultimo caso, appare più accettabile, benché
più pessimistica, la spiegazione fornita dalla teoria dello svantaggio.
In secondo luogo, attraverso le informazioni raccolte durante i colloqui con gli imprenditori
immigrati, viene ricostruito il percorso di carriera e il ruolo delle reti sociali nell’avvio e nella
gestione delle attività, il tipo di clientela, ecc. Il ruolo del capitale umano e del capitale sociale sono
ampiamente dibattuti e diversamente enfatizzati in vari studi (Sanders e Nee, 1996; Fernandez e
Kim, 1998; Mata e Pendakur, 1999). Diverse ricerche enfatizzano l’elevato livello di istruzione in
possesso degli immigrati presenti in Italia, anche se vi sono molte differenze in base alla nazionalità
(Chiesi e Zucchetti, 2003) al periodo di arrivo nel nostro Paese (Abbatecola, 2004; Marsden e
Caserta, 2010) e anche al genere (Strateghia, 2005). Inoltre, viene analizzato il ruolo del capitale
umano precedentemente acquisito - sia in termini di istruzione formale sia nel senso di precedenti
132
Ad esempio, Ambrosini e Schellenbaum, 1994; Baptiste e Zucchetti, 1994; Luciano, 1995; Schimdt di Freidberg,
1999; Marini, 2002; Chiesi e Zucchetti, 2003; Lunghi, 2003; Frisina, Gandolfi, Schmidt di Friedberg, 2004; Abbatecola,
2004; Strateghia, 2005; Camera di commercio di Torino e Fieri, 2008, 2009.
133
Sui problemi definitori legati al termine ‘imprenditore immigrato’ si veda Codagnone (2003). Qui si userà sia il
termine ‘lavoratore autonomo’ che il termine ‘imprenditore’.
177
esperienze lavorative - nella gestione dell’impresa (Marini, 2002; Chiesi e Zucchetti, 2003; Lunghi,
2003; Marsden e Caserta, 2010).
Anche l’importanza del capitale sociale viene diffusamente sottolineata nelle varie ricerche.
In particolare, viene evidenziato il ruolo dei parenti e dei connazionali, piuttosto che degli amici o
conoscenti italiani, nell’avvio dell’attività. La presenza di italiani nelle reti sociali dell’imprenditore
immigrato ha una duplice valenza: da un lato, viene rilevata come indicatore della possibilità di
superare i confini della comunità etnica (Portes, 1998), disponendo di risorse utili all’attività
imprenditoriale (Chiesi e Zucchetti, 2003; Abbatecola, 2004); dall’altro, viene utilizzata come
indicatore del livello di integrazione, non solo economica, ma anche sociale, degli immigrati
(Marini, 2002; Barberis, 2008; Berzano et al. 2010). Nel complesso, l’analisi delle reti appare
tuttavia limitata appunto alla distinzione tra familiari, altri connazionali, italiani ed eventualmente
altri stranieri.
Del resto, il tema dell’integrazione è spesso centrale nelle ricerche svolte ed, accanto ai
legami con singoli individui (stranieri o italiani), particolare attenzione viene dedicata al rapporto
con le associazioni ed altri enti ed istituzioni, prime fra tutti le associazioni di categoria e le banche
(Confartigianato, 2003; Chiesi e Zucchetti, 2003; Strateghia, 2005; Barberis, 2008; Cespi, 2009),
ma anche le associazioni di immigrati stessi e i luoghi di culto religioso (Abbatecola, 2004;
Barberis, 2008).
Infine, un altro tema affrontato è quello dei problemi e delle difficoltà incontrate, con la
burocrazia, le banche, la diffidenza e a volte la discriminazione da parte degli italiani. Questo
argomento è trattato anche da alcune delle ricerche a livello nazionale (Confartigianato, 2003;
Fondazione Ethnoland, 2009), anche se prevalentemente le ricerche nazionali si limitano al primo
obiettivo precedentemente elencato, ovvero a quello conoscitivo e descrittivo del fenomeno.
2. Le caratteristiche degli intervistati
Nella nostra ricerca, abbiamo cercato di mantenere una rappresentatività equilibrata dei
diversi settori, per cui il 29% opera nel settore edile, il 23% in quello alimentare134, il 15% nei
trasporti, il 13% nel metalmeccanico, il 12% nell’abbigliamento (quasi esclusivamente commercio,
tranne un’impresa di confezioni), il 6% opera nel commercio di oggettistica e artigianato etnico (di
seguito definito ‘altro commercio’) ed il restante 2% opera nei servizi. Osservando il dato
nazionale135, i primi due settori si confermano l’edilizia e il commercio. Quasi assenti sono invece,
nel nostro caso, le imprese di servizi (pulizie, phone center, ecc.).
Per ciò che concerne le nazionalità, i marocchini rappresentano il 32% del campione, seguiti
dagli egiziani (21%). Se a queste due nazionalità, che già costituiscono da sole la maggioranza
assoluta del campione, aggiungiamo i tunisini (7%), vediamo che i nord africani nel complesso
costituiscono il 60% dei casi. Inoltre, i cinesi rappresentano il 13% del campione e i senegalesi il
10%. Gli imprenditori provenienti dall’est Europa costituiscono, nel complesso, solo il 14% del
campione. Possiamo dire, dunque, che rispetto al dato nazionale, questi ultimi sono
sottorappresentati nella nostra ricerca.
Osservando la tab.2, vediamo che i gruppi etnici di più antica immigrazione sono gli
egiziani e gli altri nordafricani, mentre i marocchini si distribuiscono abbastanza equamente in tutti
e tre i periodi migratori considerati. I cinesi e gli est europei, invece, sono arrivati in Italia solo più
recentemente. Riguardo ai cinesi, notiamo comunque una differenza nel periodo di arrivo tra i cinesi
residenti a Catania e quelli abitanti a Prato. Mentre 16 su 20 (80%) dei cinesi residenti a Catania è
134
Il settore alimentare (48 imprese totali) è, al suo interno molto variegato, poiché 20 imprese sono attività
commerciali stabili (macellerie, gastronomie, pasticcerie, vendita alimentari ingrosso e dettaglio), 16 imprese sono
rappresentate da banchi di ortofrutta ai mercati rionali (ambulanti), 11 imprese sono bar o altre attività di ristorazione e,
infine, un’impresa svolge attività di panificazione. Per un'analisi dettagliata delle differenze interne al comparto nel caso
di Torino (dove si concentrano la maggior parte delle imprese del settore), si veda il capitolo di Eleonora Castagnone.
135
Il dato nazionale a cui facciamo riferimento qui e di seguito è quello riportato dalla Fondazione Ethnoland (2009)
178
arrivata in Italia dal 1998 in poi, 3 su 5 dei cinesi residenti a Prato sono arrivati nel periodo 19901998. Inoltre, a integrazione della bassa numerosità degli intervistati a Prato, possiamo citare i
risultati emersi dalla ricerca di Marsden e Caserta (2010), che su 75 cinesi intervistati a Prato,
rilevano che il 52% è arrivato nel 1999 o prima. In questo risultato, dunque, sembrano intrecciarsi i
diversi percorsi migratori all’interno del territorio nazionale (ad esempio, a Catania la presenza
cinese è diventata consistente solo in anni recenti136) e le diverse ondate migratorie in arrivo in Italia
(ad esempio, l’immigrazione est europea ed albanese è cresciuta molto negli ultimi due decenni137)
Tab. 2 – Nazionalità degli intervistati e anni di arrivo in Italia
(Valori assoluti)
Marocchini
Egiziani
Altri nordafricani
Cinesi
Est Europa e Albania
Senegalesi
Altro
Fino al
1989
18
21
9
3
2
8
1
1990-1997
24
14
3
5
14
3
2
Dal 1998
in poi
22
7
2
17
12
8
5
Totale
64
42
14
25
28
19
8
Dal momento che egiziani e altri nordafricani sono i due gruppi di più antica immigrazione,
non stupisce che siano anche quelli in cui sono maggiormente presenti persone con la doppia
cittadinanza (rispettivamente, il 23% degli egiziani e il 36% degli altri nordafricani). In generale,
l’84% degli intervistati ha la cittadinanza straniera, l’1% ha la cittadinanza italiana e il 15% ha la
doppia cittadinanza. Nessun cinese (e solo un senegalese) ha la doppia cittadinanza. Questo dato è
simile a quello riportato da Ambrosini (2008), che sottolinea l’importanza che la questione della
cittadinanza ha per gli stranieri residenti in Italia. In effetti, alcuni altri intervistati hanno dichiarato
di essere in attesa della cittadinanza o averne fatto richiesta o di avere l’intenzione di richiederla.
Soffermandoci brevemente sulle principali caratteristiche socio-demografiche, l’età media è
pari a circa 41 anni. I più anziani sono gli egiziani, che hanno in media 47 anni, mentre i più giovani
sono i cinesi (in media 35 anni circa).
Inoltre, notiamo che le donne rappresentano circa il 10% degli intervistati. Tuttavia,
considerando solo gli immigrati di nazionalità cinese, la percentuale di donne si avvicina al 50%,
mentre tra le altre nazionalità sono quasi assenti. Ciò dipende anche in parte dalla prevalente
presenza maschile in molti dei settori indagati, come ad esempio l’edilizia, i trasporti ed il
metalmeccanico.
Benché gli uomini prevalgano nettamente nel nostro campione, non si tratta di uomini soli,
ma di uomini che ormai hanno formato una famiglia o sono stati da questa raggiunti, segno di una
progressiva stabilizzazione del proprio progetto migratorio. Infatti, gli imprenditori intervistati sono
prevalentemente parte di nuclei familiari composti dal coniuge (85%) e dai figli (80% tra i nostri
imprenditori). Solo il 5% è sposato con italiani. Però, tra gli egiziani, il 13% è sposato con italiane.
Anche tra gli altri nord africani (tunisini e algerini), l’8% è sposato con italiane. Anche questa
differenza potrebbe essere collegata all’anzianità di residenza in Italia. Infatti, tra chi è arrivato
prima del 1990, l’8% è sposato con italiani/e, tra coloro che sono arrivati in Italia nel periodo 19901997 il 7% è sposato con italiani/e, ma solo l’1% di chi è arrivato dopo il 1997 è sposato con
italiani/e.
136
Si veda Avola e Cortese (2011).
Dati ISTAT sui permessi di soggiorno 1992-2007. Nel giro di 15 anni, i permessi di soggiorno dalla sola Albania
sono decuplicati. Nel 1997, l’Albania era il settimo Paese di provenienza degli immigrati con permesso di soggiorno,
nel 2007 è il primo (http://demo.ISTAT.it/altridati/permessi/serie/tab_5.pdf).
137
179
Un altro aspetto importante da considerare, come mostrano diverse ricerche sull’argomento
(tra gli altri, Sanders e Nee, 1996; Fernandez e Kim, 1998; Mata e Pendakur, 1999; Chiesi e
Zucchetti, 2003) è il ruolo del capitale umano. In quest’ambito, non facciamo riferimento soltanto
al grado di scolarizzazione, ma anche ad altre competenze utili (come la conoscenza di una o più
lingue straniere), al ruolo della socializzazione familiare al lavoro autonomo e/o al settore di attività
attuale o alla carriera lavorativa pregressa dell’intervistato (questi due aspetti verranno trattati nel
par.4).
Fig. 1 – Titolo di studio conseguito in base alla nazionalità degli intervistati (%) – N=192
Marocchini
37
Egiziani
7
Altri nordafricani
3
5
47
13
50
36
38
14
Cinesi
43
80
Est Europa e albanesi
7
29
Senegalesi
12
46
0%
Fino a licenza media
34
20%
31
9
40%
Qualifica professionale
8 0
18
53
Totale
7
16
41
60%
Diploma
17
80%
100%
Laurea o post-laurea
Contrariamente a quanto emerso in altre ricerche (Abbatecola, 2004; Marsden e Caserta,
2010), il livello di istruzione non varia in base al periodo di arrivo in Italia, bensì in riferimento alla
nazionalità di origine degli intervistati (fig.5.2). I più istruiti sono gli egiziani, quelli meno istruiti i
cinesi. Le altre nazionalità si collocano a livello intermedio tra queste due, con gli est europei che si
distinguono per l’elevata quota di persone in possesso di una qualifica professionale. La quasi
totalità degli intervistati ha conseguito il proprio titolo di studio nel Paese di origine. Solo il 6% ha
conseguito il proprio titolo in Italia e il 2% in Francia. Mentre in quest’ultimo caso si tratta di
intervistati provenienti dal nord Africa, tra coloro che hanno studiato in Italia vi sono, oltre a
maghrebini ed egiziani, anche alcuni cinesi.
La bassa dotazione di capitale umano dei cinesi emerge anche considerando il numero di
lingue conosciute dagli intervistati. Molti cinesi, infatti, conoscono solo cinese (16%) o cinese e
italiano (64%), mentre tra gli altri gruppi nazionali, la maggior parte degli intervistati conosce
almeno due lingue o anche di più, oltre alla lingua madre (almeno il 75%).
Riguardo alle condizioni economiche della famiglia di origine dell’intervistato, vi sono due
elementi importanti da considerare: l’occupazione del padre e l’autopercezione che l’intervistato ha
delle condizioni familiari confrontandole con quelle delle altre famiglie locali. Relativamente
all’occupazione del padre, nel 7% dei casi si tratta di un dirigente o di un professionista, nel 18%
dei casi di un commerciante o di un piccolo imprenditore, nel 12% di un gestore o proprietario nel
settore alberghiero e della ristorazione, nel 18% dei casi, di un tecnico o di un impiegato, nel 16%
di un contadino, nel 17% di un lavoratore qualificato nell’industria, nelle costruzioni o nei servizi e
nel 13% dei casi di un operaio generico.
Riguardo, invece, alla valutazione delle proprie condizioni economiche, il 34% degli
intervistati dichiara di provenire da una famiglia in condizioni migliori rispetto alle altre, il 57% si
180
colloca nella media e il 9% pensa che la sua famiglia stesse peggio delle altre. L’auto-collocazione
da parte degli intervistati nel contesto economico del paese di origine vede una presenza nettamente
minoritaria di persone con una situazione economica più critica rispetto a quella degli altri. Anzi, un
imprenditore su tre ammette che la propria famiglia viveva una condizione migliore rispetto agli
altri. Questo dato è coerente con gli studi che mostrano come gli imprenditori immigrati siano
spesso dotati di risorse umane e familiari di buon livello (Sanders e Nee, 1996). Tuttavia, ci sono
delle differenze in base alla professione svolta dal padre. Infatti, mentre oltre la metà dei figli di
piccoli imprenditori, tecnici e imprenditori si dichiarano in condizioni migliori rispetto alle altre
famiglie, i figli di lavoratori agricoli e operai generici si dichiarano in proporzione maggiore
rispetto alle altre categorie in condizioni peggiori rispetto alle altre famiglie (rispettivamente, il 16 e
il 19%).
Non sembra avere nessun effetto sulla percezione delle condizioni economiche della propria
famiglia di origine rispetto a quelle delle altre famiglia locali né la condizione lavorativa (o la
presenza/assenza) del padre, né la dimensione del nucleo familiare di convivenza, né il luogo di
abitazione della famiglia (campagna o città, più o meno grande).
Riguardo a quest’ultimo aspetto, nel complesso, la quota maggioritaria di intervistati
proviene da un contesto urbano (città o metropoli nell’82% dei casi). Anche relativamente a questo
aspetto, si evidenzia la peculiarità dei cinesi, che nel 56% dei casi vivevano in campagna o in un
piccolo paese.
3. Il percorso migratorio dell’intervistato
L’analisi delle caratteristiche socio-demografiche degli intervistati ha messo in luce aspetti
in comune, ma anche alcune differenze. In particolare, è emersa la peculiarità dei cinesi per ciò che
concerne la scarsa dotazione di capitale umano e la provenienza da un contesto non urbano.
Vediamo se eventuali differenze emergono anche nel percorso migratorio (trattato in questo
paragrafo), lavorativo (par.4) e imprenditoriale (par.5) degli intervistati.
Riguardo al primo aspetto, abbiamo in primo luogo analizzato i fattori di spinta a partire dal
proprio Paese di origine e quelli di attrazione verso l’Italia. Nel primo caso (fig.2) prevalgono le
ragioni economiche, seguite dal desiderio di promozione. Frequente anche il desiderio di avventura,
mentre meno rilevanti i problemi politici (citati però dal 36% degli intervistati provenienti da Est
Europa e Albania) e il ricongiungimento familiare (citato dal 40% dei cinesi). Tra gli altri motivi
addotti, emerge il desiderio di imitare amici e parenti già partiti, le informazioni in parte fuorvianti e
‘ingannevoli’ da questi ricevute, in alcuni casi motivi religiosi (cristiani in Egitto), motivi di studio
o problemi familiari (aiuto a parenti in difficoltà, separazione dal coniuge, ecc.).
181
Fig.2 – Fattori di spinta a partire dal proprio Paese (% - risposte multiple)
43
41
26
19
16
Ricongiungimento
familiare
Promozione
Libertà
Avventura
Problemi politici
Altro
10
8
Problemi
economici
50
45
40
35
30
25
20
15
10
5
0
Come abbiamo visto in precedenza, gli intervistati nella maggior parte dei casi non
provengono da famiglie in condizioni economiche peggiori rispetto a quelle delle altre famiglie
locali. Questo dato, tuttavia, nasconde realtà diverse. Secondo le stesse affermazioni degli
intervistati, essere come gli altri significa in alcuni casi semplicemente che la maggior parte della
popolazione locale versa in condizioni di estrema povertà. In altri casi, invece, gli intervistati
chiariscono che le condizione economiche della famiglia di origine, inizialmente buone o ‘nella
media’, sono peggiorate a causa di eventi improvvisi (morte del padre, difficoltà economiche
impreviste, ecc). In altri casi ancora, sembra che la motivazione sia stata più che altro il desiderio di
migliorare la propria posizione, più che la necessità di uscire dalla povertà (nel 19% dei casi, gli
intervistati hanno indicato sia problemi economici che desiderio di promozione). In effetti, chi
proviene da famiglie in condizioni migliori rispetto alle altre famiglie locali, cita come motivazioni
per la partenza un po’ più spesso la presenza di problemi politici, il desiderio di libertà o lo spirito
di avventura. In nessuno di questi casi, però, le differenze emerse sono statisticamente significative.
L’unica differenza significativa è che chi è in condizione economicamente migliori indica più
spesso altri motivi, specifici, per motivare la propria partenza138. Tali motivi, oltre ad essere in parte
riconducibili ai precedenti (motivi politici o religiosi, desiderio di avventura o libertà), appaiono
come occasioni o eventi non previsti e pianificati. Quindi, per le persone che provengono da
famiglie in condizioni difficili, possiamo ravvisare una maggiore consapevolezza e motivazioni più
legate alle condizioni economiche, per gli altri prevalgono elementi non ‘strumentali’, ma
‘espressivi’ o anche casuali.
Nel complesso, l’età media alla partenza era di circa 23 anni. Il 13% degli intervistati,
quando è partito era minorenne, mentre il 67% aveva tra i 18 e i 27 anni e il 20% aveva 28 anni e
oltre. L’età massima alla partenza è di 40 anni. Tra i minorenni, soprattutto cinesi (il 44% dei cinesi,
quando è partito, era minorenne), il 65% è partito per ricongiungersi con la famiglia.
L’Italia è stata la prima destinazione nel 75% dei casi. Negli altri casi, la prima destinazione
è stato un altro Paese europeo (in primis la Francia, con l’8% dei casi, e la Germania, con il 4%).
Altri intervistati (il 3%) sono partiti inizialmente verso il Medio oriente oppure verso la Libia (2%).
I principali fattori di attrazione verso il nostro Paese sono stati la presenza di parenti in Italia (47%
dei casi), la presenza di connazionali (26%), l’opportunità di trovare lavoro (24%), la facilità di
ingresso (18%) e la prossimità culturale (15%).
138
Il χ2 ha un valore di 9.45 con un grado di libertà e una significatività pari a 0.002
182
L’importanza di questi differenti aspetti varia considerevolmente in base al periodo di arrivo in
Italia (fig.3).
Infatti, tra coloro che sono arrivati prima del 1989, la presenza di connazionali e la facilità di
ingresso contano molto di più rispetto alla presenza di parenti, probabilmente raramente già presenti
in Italia. Queste persone rappresentano forse i primi migranti in Italia della propria famiglia. In
mancanza di parenti, ha invece acquisito maggiore importanza la presenza di legami più deboli,
quelli con i connazionali. Coloro che sono arrivati in Italia nel secondo e nel terzo periodo, invece,
danno maggiore rilievo ai legami forti, di parentela, avendo la possibilità di scegliere, poiché questi
ultimi sono ormai con più probabilità presenti sul territorio nazionale.
La facilità di ingresso, rispetto ad altri paesi europei, è quello che, a detta di molti
intervistati, è un altro aspetto che ha contribuito alla scelta dell’Italia soprattutto per i migranti del
primo periodo, per i quali comunque l’Italia ha rappresentato in alcuni casi comunque una scelta di
‘ripiego’, vista la difficoltà a stabilirsi in altri Paesi europei di più antica immigrazione, come la
Germania e la Francia.
Fig. 3 Fattori di attrazione verso l’Italia in base al periodo di arrivo (%- N=200)139
70
60
59
54
50
40
30
34
25
30
20
25
19
12
12
10
0
fino al 1989
presenza parenti
1990-1997
presenza connazionali
dal 1998 in poi
facilità ingresso
Una volta arrivati in Italia, il 60% degli intervistati ha sempre abitato nella stessa provincia.
Vi sono però delle notevoli differenze in base alla nazione di provenienza. Infatti, mentre l’83%
degli egiziani, il 68% degli est europei e il 67% dei marocchini ha abitato sempre nella stessa
provincia, solo il 20% dei cinesi e il 14% degli altri nordafricani hanno abitato sempre nella stessa
provincia. Tra i senegalesi, il 58% ha abitato sempre nella stessa provincia. La maggiore attrattività
di alcune città, come Milano o Torino rispetto ad altre come Modena o Catania è una spiegazione
che può valere solo in parte. Emblematico è il caso di Catania, dove possiamo fare un confronto tra
diverse nazionalità dal momento che sono stati intervistati sia cinesi che senegalesi. Mentre tra
questi ultimi, la maggior parte (circa 6 su 10) è arrivata direttamente in questa provincia, tra i cinesi,
solo 2 su 20 hanno fatto altrettanto140.
Le provincie principali dove i migranti hanno vissuto in precedenza sono Firenze, Napoli,
Roma e Milano, ma oltre a queste, gli intervistati hanno citato altre 26 provincie italiane, collocate
139
Il valore del χ2è significativo per la presenza di parenti e la facilità di ingresso. Nel primo caso, χ2 =17,68 con df=2,
nel secondo caso χ2 =8,62 con df=2
140
L’elevata mobilità dei cinesi, in cerca di nuovi spazi di mercato per le proprie attività commerciali, è sottolineata
anche da Avola e Cortese (2011).
183
prevalente al nord, ma anche vicino a Roma o Napoli o in Sicilia. Due terzi degli intervistati sono
comunque arrivati nella provincia di attuale residenza entro 3 anni dall’arrivo in Italia.
4. Il percorso occupazionale dell’intervistato
Una parte del capitale umano utile per l’attività imprenditoriale è collegata alle competenze
acquisite dagli intervistati nel corso della propria carriera lavorativa, sia tramite occupazioni alle
dipendenze che svolgendo attività in proprio.
Due terzi degli intervistati hanno svolto un’attività lavorativa nel Paese di origine. Spesso
tale attività era svolta saltuariamente o, comunque, senza abbandonare il percorso di studi. Infatti,
solo il 53% degli intervistati lavorava prima di emigrare, mentre il 39% studiava, il 7% cercava
lavoro e l’1% era casalinga.
Tra chi ha lavorato al Paese di origine (fig.4), la maggior parte degli intervistati svolgeva un
lavoro qualificato in agricoltura, edilizia o industria, seguiti dai commercianti, dai tecnici, impiegati
o insegnanti, da chi era occupato in lavori manuali generici, da chi lavorava nella ristorazione o nel
settore alberghiero e, infine, da chi svolgeva un lavoro qualificato nel terziario.
Rispetto all’occupazione svolta dal padre, notiamo una corrispondenza soprattutto tra coloro che
operano nel settore della ristorazione: il 47% dei figli che ha un padre in quel settore ha svolto
un’occupazione simile, in alcuni casi direttamente come coadiuvante nell’azienda di famiglia. Non
è così, invece, per i figli di commercianti, che hanno svolto diversi tipi di occupazione. Una discreta
concentrazione si osserva anche tra i figli di tecnici e impiegati, che hanno avuto lo stesso tipo di
occupazione nel 32% dei casi. Anche il 38% dei figli di operai generici è impiegato in occupazioni
simili141.
Fig.4 – Percorso occupazionale degli intervistati per macrocategoria occupazionale
(% - N Paese origine=132, N primo lavoro=197, N lav.prevalente=121)
50
43
45
40
35
35
30
26 25
25
20
15
10
21
17
16
11
16
17
14 15
17
10
9
5
1 2
5
0
Commerciante Lav.qualificati Lav.qualificati Lav.ristoraz
agr edil
servizi
alimentari
industria
Lavoro Paese d'origine
Primo lavoro Italia
Tecnici
impiegati
insegnanti
Lav manuali
generici
Lav. Prevalente Italia
Una volta arrivati in Italia (fig.4), vediamo che la maggioranza relativa degli intervistati ha
fatto il suo ingresso nel mondo del lavoro locale svolgendo occupazioni generiche, a scapito
soprattutto di occupazioni più qualificate e remunerate come quelle tecniche, impiegatizie e di
insegnamento. In tutti i casi considerati, si osserva che la maggioranza relativa degli intervistati ha
continuato a svolgere in Italia un’occupazione simile a quella che svolgeva nel Paese di origine,
141
Teniamo a sottolineare la valenza puramente descrittiva e indicativa di questi risultati, data la bassa numerosità del
campione e la presenza di un certo numero (seppur contenuto) di categorie occupazionali.
184
tranne nel caso dei tecnici, impiegati e insegnanti. Infatti, nel 55% dei casi (12 persone su 22),
questi ultimi hanno iniziato a lavorare svolgendo mansioni manuali generiche. Questa categoria di
persone è dunque quella che più frequentemente ha sperimentato una situazione di sottoccupazione.
Considerando le principali categorie occupazionali relative alla prima occupazione svolta in Italia,
notiamo comunque un’elevata congruenza con quella che sarà poi l’attività imprenditoriale attuale,
anche se questo percorso merita alcune precisazioni più dettagliate (tab.3).
Benché la maggioranza relativa degli imprenditori nel settore alimentare, abbia incominciato
lavorando nel commercio (alimentare), come dipendente o come commerciante, altri hanno invece
iniziato lavorando nell’ambito della ristorazione oppure con lavori generici (ad esempio, a Torino
molti venditori di ortofrutta hanno iniziato come facchini al mercato142). I lavoratori autonomi nel
settore metalmeccanico hanno invece iniziato quasi sempre nel proprio settore di attività, talvolta
già con mansioni qualificate, altre volte con occupazioni generiche. Lo stesso è accaduto
generalmente per gli imprenditori edili. Tra i commercianti dell’abbigliamento, molti hanno iniziato
come operai tessili generici, meno come commessi o commercianti. Al contrario, tra i commercianti
di altre tipologie, fin da subito è iniziata l’attività commerciale, generalmente ambulante. Infine, i
lavoratori autonomi nei trasporti provengono da occupazioni molto diverse e, nella maggioranza dei
casi, non qualificate.
Tab. 3 – Corrispondenza tra settore del primo lavoro in Italia e attività imprenditoriale
attuale (Valori assoluti - N=194143)
Settore impresa
Totale
Metal
meccanico
Edilizia
Trasporti
0
4
2
Abbigliamento
Altro
(confezioni e
commercio
commercio)
9
12
0
0
0
0
10
0
10
Metalmeccanico
3
14
2
7
0
0
26
Edilizia
3
5
32
6
0
0
46
Trasporti
Ristorazione e
alberghiero
Altro
0
0
4
2
0
0
6
8
1
8
5
4
0
26
11
7
7
6
2
1
34
Totale
44
27
57
28
25
13
194
Settore 1° lavoro
Commercio
Industria tessile o
pelletteria
Commercio
alimentare risto
bar
19
46
Sempre in riferimento al primo lavoro svolto in Italia, un altro dato interesssante è quello
relativo alla posizione occupazionale degli intervistati. L’11% ha svolto fin da subito il proprio
lavoro in posizione autonoma, l’11% alle dipendenze di un parente, il 6% alle dipendenze di un
connazionale, l’1% alle dipendenze di un altro straniero non connazionale e il 71% alle dipendenze
di un italiano. L’86% di coloro che hanno iniziato fin da subito in posizione autonoma sono
commercianti (la metà ambulanti). Inoltre, tre degli intervistati hanno avviato come primo lavoro in
Italia l’attuale attività imprenditoriale.
Riguardo al datore di lavoro, osserviamo delle significative differenze in base alla
nazionalità degli intervistati. A lavorare per parenti e connazionali, infatti, sono soprattutto i cinesi
(76%), mentre tra le altre nazionalità, almeno l’80% degli intervistati ha lavorato inizialmente per
italiani. Unica altra eccezione sono i senegalesi, i quali nel 68 dei casi hanno iniziato direttamente
con un lavoro autonomo (per lo più venditore ambulante).
142
Si veda a questo proposito il rapporto di Camera di commercio di Torino e Fieri (2009)
Il totale è minore di 200 perché 3 intervistati non hanno svolto alcun lavoro prima di avviare l’attività, mentre altri 3
sono attivi in settori diversi da quelli prevalenti e non sono presenti in tabella.
143
185
Se la quasi totalità degli intervistati (98%) ha svolto un lavoro diverso dall’attuale all’arrivo
in Italia, il 61% degli intervistati ha successivamente svolto ulteriori lavori diversi dal primo prima
di avviare l’attività. In media, dopo il primo, gli intervistati hanno cambiato lavoro 3,7 volte.
Senza ripercorrere l’intera carriera lavorativa di ciascun intervistato, l’attenzione si è
soffermata sul lavoro prevalente e non sull’ultimo lavoro svolto prima di avviare l’attuale attività,
poiché solo il 20% degli intervistati ha svolto un’ulteriore occupazione dopo quella prevalente.
Rispetto al primo lavoro svolto in Italia, notiamo che l’occupazione prevalente è più
frequentemente qualificata (la crescita si nota soprattutto nei servizi) e meno spesso generica. Nel
lavoro prevalente, gli intervistati sono nella maggior parte dei casi (84%) alle dipendenze di un
italiano, mentre non aumenta la quota di autonomi (10%). Nella maggior parte dei casi, quindi,
possiamo affermare che quella attuale è la prima attività in proprio.
5. L’avvio dell’attività imprenditoriale
Nel paragrafo precedente abbiamo visto che, nella maggior parte dei casi, gli imprenditori
hanno lavorato per alcuni anni alle dipendenze, svolgendo per lo più occupazioni nel settore in cui
avrebbero poi avviato l’attività in proprio. Gli anni necessari per acquisire esperienza e capitali
finalizzati all’apertura della propria impresa non sono pochi. Gli imprenditori da noi intervistati
hanno atteso in media 9 anni prima di iniziare l’attività e le imprese sono avviate in media da 7
anni. Tuttavia, questa tempistica varia molto in base al periodo di arrivo in Italia. Infatti, mentre
coloro che sono arrivati prima del 1990 hanno atteso in media 14 anni prima di fondare l’impresa,
chi è arrivato tra il 1990 il 1997 ha aspettato 10 anni e chi è arrivato dopo il 1998 solo 5 anni144.
Senza dubbio, la legge Turco Napolitano del 1998 che ha eliminato il vincolo di reciprocità per il
lavoro autonomo ha agevolato lo sviluppo imprenditoriale degli immigrati ed ha accelerato il
momento di avvio della propria attività, spesso principale possibilità di carriera per i lavoratori
immigrati.
L’87% degli intervistati lavorava prima di avviare l’attività. Il 12%, però era in cerca di
occupazione e l’1% studiava o era casalinga. L’attività sembra dunque rappresentare un’alternativa
alla disoccupazione solo in una minoranza di casi. In realtà, guardando alle motivazioni fornite per
l’avvio dell’impresa, si nota che alcuni citano il fatto di non aver trovato un altro lavoro, e non
sempre si tratta di coloro che erano in cerca di un’occupazione, ma anche di coloro che lavoravano.
Inoltre, altri sono stati consigliati dal precedente datore di lavoro. Il ‘consiglio’ in alcuni casi è
emerso essere più che altro quasi una costrizione, perché il datore di lavoro non poteva più
permettersi di avere un dipendente, ma lo avrebbe fatto comunque lavorare come artigiano. Oppure
il datore di lavoro non accettava che il dipendente svolgesse lavori extra nel suo tempo libero.
Per quanto interessanti e indicativi delle tendenza in atto in alcuni settori di attività, questi esempi
rappresentano comunque una minoranza di casi. La maggior parte ha aperto un’attività per
guadagnare di più, essere autonomo e non avere capi e valorizzare le proprie capacità e conoscenze
nel settore (tab.4).
144
Nel confronto tra medie, il valore di F è pari a 71,86 con df=2 e sig=0.000.
186
Tab. 4 –Motivi per avviare l’attività imprenditoriale (%)
Guadagnare di più
Essere autonomo, non avere capi
Valorizzare le proprie capacità
Avere un lavoro più regolare
Valorizzare conoscenze nel settore
Consigliato/costretto dal datore di
lavoro
Non ho trovato un altro lavoro
Far lavorare i miei familiari
Seguire tradizioni familiari
Lavoro autonomo mette al riparo
da razzismo e diffidenza
E’ capitata occasione giusta
Motivi familiari/ di salute
Altro
Totale
N
Primo
motivo
37
20
10
8
2
8
Secondo
motivo
17
21
17
13
13
5
Terzo
motivo
16
12
23
10
13
5
Motivo più frequente
(indice sintetico)145
49
33
24
17
11
11
5
1
2
0
4
2
3
0
6
3
6
2
8
3
4
0
3
2
2
100
199
1
1
3
100
165
0
3
1
100
107
3
2
2
200
Riguardo alle modalità di inizio dell’attività, il 77% degli intervistati ha fondato l’azienda, il
21% l’ha rilevata e il 2% l’ha ereditata. Vi sono delle differenze in base ai settori di attività
considerati. Infatti, gli imprenditori dei trasporti nel 100% dei casi hanno fondato la propria
azienda, mentre gli imprenditori nel settore alimentare nel 72% dei casi l’hanno acquisita. Nel
primo caso, ci sembra che l’auto impiego possa essere spiegato con quella che Zanfrini (2008)
definisce la “pluralizzazione dei regimi di partecipazione al lavoro” (pag.148). Si tratterebbe
dunque per lo più di imprese contoterziste, che per circa la metà dei casi del nostro campione lavora
per un solo cliente. Invece, nel commercio si assiste maggiormente ad un processo di sostituzione,
come emerge nei nostri dati in maniera evidente nel comparto dell’ortofrutta a Torino. In questo
contesto commerciale, infatti, la maggior parte degli intervistati dichiara di aver acquisito il banco
ortofrutta al mercato da un italiano, generalmente di origine meridionale, rappresentando così il
successivo anello di una catena sostitutiva che contribuisce a connotare questo tipo di attività come
“adatte all’ultimo arrivato”.
Benché tra le motivazioni dichiarate dagli intervistati la famiglia abbia un ruolo abbastanza
marginale (sia il seguire le tradizioni familiari, sia il poter far lavorare i familiari o altri aspetti
connessi alle gestione degli impegni familiari), ben il 58% degli intervistati dichiara di avere un
parente titolare di impresa. Nel complesso, il ruolo della famiglia come ispiratrice o come
collaboratrice attiva nell’attività imprenditoriale non è affatto marginale. Infatti, un terzo degli
imprenditori da noi intervistati coinvolgono familiari o parenti nella propria attività. In particolare,
nel 16% dei casi collabora il partner. Certo, non si tratta comunque della maggioranza delle
imprese, ma bisogna anche tener presente che nel complesso il numero dei dipendenti è molto basso
e molto spesso gli intervistati svolgono l’attività da soli. In media, le imprese intervistate hanno
2,27 dipendenti, però il valore mediano è 1 e l’88% delle imprese ha meno di 5 dipendenti.
145
Per costruire l’indice sintetico è stato assegnato un valore ‘3’ al primo motivo, un valore ‘2’ al secondo motivo e un
valore ‘1’ al terzo motivo.
187
Tab. 5 – Necessità di prestiti dichiarata dagli intervistati in base alla
nazionalità degli intervistati (%)
Totale
Non ho mai avuto bisogno di
prestiti
Sì, chiesti a parenti o amici
Sì, chiesti a banche o associazioni
Totale
N
Marocchini
Egiziani
43
53
50
27
30
100
200
22
25
100
64
24
26
100
42
Altri
Cinesi
nordafricani
29
32
21
50
100
14
48
20
100
25
Est
europei
21
Senegalesi
32
46
100
28
21
26
100
19
53
Per ciò che concerne le fonti di finanziamento, invece, il ruolo della famiglia è abbastanza
marginale. Infatti, i due terzi degli intervistati affermano di aver utilizzato prevalentemente capitali
propri, mentre gli intervistati hanno dichiarato di aver utilizzato prevalentemente capitali di
familiari o parenti nell’11% dei casi e prestiti sempre di familiari e parenti nell’8% dei casi. Anche
l’impatto dei prestiti bancari è secondario anche se non irrisorio, poiché è stato utilizzato nel 9% dei
casi. Pure riguardo alle fonti di finanziamento si notano alcune differenze in base alla nazionalità di
provenienza degli intervistati. In particolare, circa i due terzi dei cinesi ha fondato l’azienda grazie
capitale di familiari, prestiti di familiari o di connazionali. Invece, il 29% degli est europei e
albanesi ha chiesto prestiti alle banche. E’ importante ricordare, come già emerso nel capitolo di
Federica Santangelo su Milano, che i musulmani non possono, per motivi religiosi, chiedere prestiti
alle banche. Tuttavia, sia tra i marocchini che tra gli altri nord africani (esclusi gli egiziani), si rileva
qualche intervistato che ha chiesto prestiti alle banche all’avvio dell’attività.
Inoltre, è anche importante segnalare che, nel corso della propria attività (cioè
successivamente alla fase di avvio), il 30% degli intervistati dichiara di aver chiesto prestiti a
banche o associazioni di categoria, mentre il 27% ha chiesto prestiti a parenti o amici (tab.5). E’
dunque inferiore il numero di intervistati che non ha mai avuto bisogno di prestiti nel corso della
propria attività, rispetto a quanti hanno potuto contare solo sulla propria disponibilità economica
nella fase iniziale dell’attività. La probabilità di dover ricorrere a prestiti cresce infatti nel corso del
tempo. Anche in questo caso, marocchini, egiziani e senegalesi si discostano dagli intervistati di
altre nazionalità per una frequenza minore di richiesta di prestiti. Tuttavia, circa un quarto degli
intervistati appartenenti a queste nazionalità ha chiesto prestiti a banche o associazioni di categoria
(tab.5). Tra coloro che più frequentemente hanno dichiarato di aver chiesto prestiti, i cinesi si sono
rivolti per lo più a parenti o connazionali, mentre gli est europei e gli altri nord africani
prevalentemente alle banche o alle associazioni. Vale la pena segnalare che alcuni intervistati hanno
dichiarato di aver chiesto un prestito senza che venisse loro concesso, mentre altri hanno ammesso
di non averli nemmeno chiesti perché consapevoli di avere scarse probabilità di ottenerli.
Nel complesso, i capitali iniziali non sono considerati dagli intervistati un aspetto di
primaria importanza nell’avvio e nella gestione dell’attività imprenditoriale (tab.6). Ciò può
dipendere dal fatto che molte delle attività intraprese dagli immigrati non richiedono un’elevata
dotazione di capitale iniziale per essere avviate (Ambrosini, 2005) ed i capitali propri accumulati
nel tempo, come abbiamo appena visto, sono nella maggior parte dei casi sufficienti all’avvio
dell’impresa.
188
Tab. 6 – Elementi importanti per l’attività imprenditoriale
(Voto medio - scala da 1 a 10 – N=200)
Voglia di lavorare
Professionalità ed esperienza
Conoscenza lingua italiana
Sostegno dei familiari
Conoscenza di italiani
Istruzione
Capitali iniziali
Esperienze professionali della famiglia
Aiuto di associazioni italiane
Aiuto di associazioni di connazionali
Voto (DS)
9,5 (1,5)
8,4 (2,6)
8,6 (2,4)
7,3 (3,4)
7,3 (3,4)
7,2 (3,3)
6,5 (3,5)
5,7 (3,4)
2,4 (3,3)
1,1 (2,2)
L’aspetto più importante è senza dubbio la voglia di lavorare, elemento coerente con la più
volte citata capacità di auto sfruttamento (es. Morgan, 2001), ovvero di sottoporsi ad un lungo
orario lavorativo, come vedremo anche in seguito. Dopo questo aspetto, particolarmente rilevanti
risultano essere la professionalità e l’esperienza acquisite e la conoscenza della lingua italiana, il
sostegno dei familiari e la conoscenza di italiani. Poco rilevanti, invece, sono le esperienze
professionali della famiglia, in accordo con quanto già emerso in precedenza.
Anche riguardo a questi aspetti, emergono delle significative differenze in base alla
nazionalità degli intervistati. Ad esempio, i cinesi considerano l’istruzione molto meno importante
(media 4,8) rispetto a tutte le altre nazionalità. Questo risultato non stupisce se si considera il basso
livello di istruzione raggiunto dagli imprenditori cinesi. I capitali iniziali sono meno rilevanti per gli
egiziani e gli altri nordafricani rispetto agli altri gruppi considerati (rispettivamente, voto medio 5,3
e 5,5), i due gruppi nazionali che, insieme ai senegalesi, hanno contato maggiormente su capitali
propri all’inizio dell’attività. Al contrario, i capitali contano di più rispetto al valore medio per
cinesi (7,6) ed est europei (7,1) che hanno più frequentemente utilizzato prestiti di parenti e
conoscenti o banche per l’avvio dell’attività e, quindi, l’onere della restituzione del prestito
potrebbe aver contribuito ad una valutazione più elevata dell’importanza dei capitali iniziali. In
effetti, tra chi ha ricevuto prestiti da amici o conoscenti, i capitali ottengono un voto medio
significativamente più elevato sia rispetto a coloro che hanno utilizzato capitali propri che rispetto a
chi ha chiesto un prestito alla banca146. La professionalità e l’esperienza contano meno per cinesi e
senegalesi (rispettivamente in media 7,0 e 7,4), così come la conoscenza di italiani (rispettivamente
in media 3,9 e 5,9). Nel primo caso, i cinesi si contraddistinguono quale gruppo che ha impiegato in
media meno anni dall’arrivo in Italia per aprire l’impresa, mentre i senegalesi spesso hanno già
avviato altre imprese prima dell’attuale, quindi hanno iniziato l’attività autonoma (spesso
ambulante) con poco o nulla esperienza nel settore come lavoratore dipendente. Nel secondo caso,
quello della conoscenza di italiani, vedremo nel prossimo paragrafo se queste differenze sono
collegate al tipo di clientela e di fornitori a cui gli imprenditori immigrati si rivolgono, tenendo
presente che cinesi e senegalesi operano rispettivamente nel commercio dell’abbigliamento e
dell’oggettistica e dell’artigianato etnico.
La valutazione relativa agli elementi importanti per l’attività dell’impresa varia anche in
base alle dimensioni della stessa. Ad esempio, chi ha un’impresa con almeno 5 dipendenti
attribuisce un’importanza maggiore ai capitali iniziali (voto medio 7,5 contro il 5,5 di chi non ha
nessun dipendente e il 6,9 di chi ne ha da 1 a 4147). Anche in questo caso, ciò può essere dovuto al
fatto che, più spesso degli altri, questi imprenditori hanno dovuto chiedere prestiti a familiari, amici
o banche. Inoltre, danno molta più importanza al sostegno della famiglia (voto medio 9 contro il 6,8
146
147
Il valore di F è pari a 3,66 con due gradi di libertà e significatività pari a 0.028
Il valore di F è pari a 4,82 con due gradi di libertà e significatività pari a 0.009
189
di chi non ha nessun dipendente e il 7,2 di chi ne ha da 1 a 4148) e alle tradizioni e al sostegno
professionale della famiglia (voto medio 7,7 contro il 5 di chi non ha nessun dipendente e il 5,8 di
chi ne ha da 1 a 4149)
6. Andamento e criticità dell’attività imprenditoriale
Sia riguardo ai dipendenti, sia riguardo al fatturato l’andamento delle imprese riflette nei
nostri dati il peso della crisi economica, utilizzando come termine di paragone la situazione di 3
anni prima (2007). La situazione attuale appare difficile, e le imprese che sono riuscite a mantenere
un fatturato almeno costante sono una minoranza. Apparentemente meno difficile è la situazione
relativa ai dipendenti (fig.5). Tuttavia, è bene tener presente che il 48% degli intervistati che hanno
mantenuto costante il numero di dipendenti non ne ha nessuno. Il settore in cui la situazione, nel
complesso, appare più favorevole è quello dei trasporti, meno quello che presenta le maggiori
difficoltà è quello edile.
Anche nelle ore lavorate settimanalmente osserviamo delle differenze in base ai settori di
attività. In media, gli intervistati lavorano circa 52 ore a settimana, Infatti, solo il 30% si limita alle
normali 40 ore e anche coloro che lavorano da 41 a 50 ore sono solo il 15% degli intervistati. Ciò
significa che la maggioranza degli imprenditori del nostro campione lavora più di 50 ore alla
settimana. Tuttavia, mentre coloro che operano nel commercio (alimentari150, abbigliamento,
oggettistica e artigianato etnico) e nei trasporti lavorano 60 ore e più, gli imprenditori edili e
metalmeccanici lavorano in media, rispettivamente, 36 e 34 ore settimanali. Bisogna tener presente,
però, che nell’edilizia si registra una variabilità molto alta151, dovuta al fatto che alcuni intervistati
stavano lavorando poco o nulla nel periodo dell’intervista, mentre altri lavoravano molte ore.
Fig. 5 – Andamento del fatturato e dei dipendenti rispetto a tre anni prima (% - N=200)152
Dipendenti
Fatturato
15
54
24
16
31
60
Aumentato
Diminuito
Costante
Aumentato
Diminuito
Costante
Pure riguardo ai clienti e ai fornitori, vi sono importanti distinzioni in base ai settori di
attività. Nel complesso, la maggior parte lavora per clienti italiani (fig.6). Tuttavia, mentre coloro
che operano nel settore edile, metalmeccanico e dei trasporti hanno quasi esclusivamente clienti
italiani, molto più variegata è la clientela dei commercianti, che spesso si rivolgono sia a italiani sia
a stranieri. Ciò accade nel commercio dell’abbigliamento e pelletteria (il 54% dei loro clienti sono
esclusivamente stranieri o misti tra stranieri e italiani) e, in particolare, nel commercio alimentare e
ristorazione (qui la percentuale di clienti stranieri o misti sale al 78%) e nel commercio di oggetti
vari gestito dai senegalesi (i clienti non esclusivamente italiani sono l’85%). E’ in questo settore,
dunque, che sono maggiormente presenti le imprese etniche, prossime o allargate, mentre negli altri
148
Il valore di F è pari a 4,26 con due gradi di libertà e significatività pari a 0.015
Il valore di F è pari a 4,47 con due gradi di libertà e significatività pari a 0.013
150
E’ bene ricordare che il comparto alimentare, oltre ai commercianti, include anche attività di ristorazione e bar.
151
La deviazione standard è pari a 26,5.
152
Le imprese nate nell’ultimo anno sono state assegnate alla categoria ‘costante’.
149
190
casi le imprese sono quasi sempre aperte, secondo la tipologia individuata da Ambrosini (2005).
Questo dato aiuta anche a comprendere come mai senegalesi e cinesi attribuiscono in media meno
importanza alla conoscenza di italiani (si veda paragrafo precedente), che non sono determinanti per
la propria attività né come clienti né, come abbiamo visto, come erogatori di capitali.
La stesse differenze in base al settore di attività si riflettono anche relativamente al numero
di clienti. Infatti, la metà degli intervistati ha al massimo 5 clienti, il 16% ne ha tra 6 e 20, il 24% ne
ha tra 21 e 100 e il 10% ne ha più di centro. Tuttavia, se la maggioranza delle imprese non
commerciali ha per lo più fino a 5 clienti e raramente ne dichiara più di 10, tra i commercianti non
vi è nessuno che dichiara meno di 6-10 clienti e la maggior parte ne ha molti di più. Tra l’altro, per
molti esercizi commerciali (27) gli intervistati non hanno potuto rispondere alla domanda, dato un
flusso di clientela altamente variabile.
Fig. 6 – Nazionalità dei clienti (% - N=200) e dei fornitori (% - N=198)
90
77
80
70
67
60
50
40
30
19
20
10
7
11
7
10
2
0
Clienti
Italiani
Stranieri
Fornitori
Connazionali
Italiani e stranieri
Un’ulteriore differenza tra questi due gruppi di settori riguarda la collocazione delle
clientela di riferimento. Mentre i commercianti si rivolgono prevalentemente al quartiere o al
Comune dove è sita l’attività (ad eccezione del 28% dei commercianti di abbigliamento cinesi che
vendono anche o prevalentemente all’estero), per le aziende metalmeccaniche, edili e dei trasporti i
mercati sono più ampi e includono più frequente la provincia, la regione e le altre regioni.
Più differenziata è invece la situazione relativa ai fornitori. Anche in questo caso, i fornitori
sono in maggioranza italiani (fig.6). I fornitori sono prevalentemente italiani, oltre che per la quasi
totalità delle aziende non commerciali anche per la maggioranza dei commercianti alimentari (72%)
e per quelli dell’altro commercio (54%). Invece, tra i commercianti di abbigliamento, prevalgono i
fornitori connazionali (68%). Sulla localizzazione dei fornitori, invece vi è una maggiore
dispersione. Tuttavia, mentre negli altri settori i fornitori non sono reperiti oltre i confini
provinciali, nel commercio dell’abbigliamento e nell’altro commercio i fornitori si trovano
soprattutto in altre regioni italiane o all’estero. E’ in queste tipologie di commercio, dunque, che
maggiormente si manifestano legami economici che possono essere definiti transnazionali che
includono senza dubbio i rapporti con il Paese di origine (si veda a questo proposito il par.7), ma
non necessariamente si limitano a questo.
Un altro aspetto relativo alla gestione dell’impresa che abbiamo indagato è l’utilizzo di
nuove tecnologie o di pubblicità. Il 38% degli intervistati usa l’email nella sua attività, ma solo il
191
15% ha un sito internet, il 19% usa la pubblicità e il 17% utilizza un marchio che sottolinea la sua
nazionalità. L’email è usata molto poco dai commercianti alimentari e da altri commercianti (non
abbigliamento), mentre il sito internet è usato in misura maggiore dalle imprese edili, la pubblicità
dalle imprese edili e dalle varie categorie di commercianti (un po’ meno quelli alimentari) e il
marchio che sottolinea la nazionalità dai commercianti alimentari e da quelli dell’abbigliamento.
Nella gestione dell’impresa, la crisi attuale pesa molto, come abbiamo rilevato anche dal
confronto con ricerche simili precedenti alla crisi (Chiesi, De Luca, Mutti, 2011).
Il peso della crisi si rileva non solo dall’analisi dei punti di debolezza, ma anche da quella
dei punti di forza.
Nel primo caso, i nostri intervistati indicano come principali difficoltà la concorrenza di
altre aziende straniere (46%) e italiane (20%), l’eccessiva dipendenza da un numero limitato di
clienti (20%), l’accesso al credito (16%), mentre meno rilevanti sono la diffidenza della società
italiana (11%), la scarsa conoscenza della burocrazia (9%) e, soprattutto, le scarse conoscenze
professionali (1%). Oltre a quelli previsti, il 27% degli intervistati ha indicato altri punti di
debolezza della propria attività. Nella maggior parte dei casi, gli aspetti segnalati sono riconducibili
alla crisi economica oppure al ritardo nei pagamenti o alla scarsa affidabilità dei clienti. Altri aspetti
segnalati sono le tasse troppo elevate, la difficoltà a stare al passo con l’innovazione tecnologica,
difficoltà linguistiche, slealtà dei concorrenti. Tuttavia, è importante notare che il 9%, ovvero un
terzo di coloro che hanno indicato ‘altro’ nella loro risposta, ha dichiarato di non avere particolari
punti di debolezza.
Riguardo ai punti di forza, specularmente alla domanda precedente, in questo caso
segnaliamo che il 7% degli intervistati dichiara di non avere punti di forza, anche a causa della crisi.
Il punto di forza principale è invece la buona reputazione (48% degli intervistati), a seguire la
qualità dei prodotti/servizi (45%), al terzo posto i prezzi bassi (38%), al quarto posto la flessibilità,
intesa come la capacità di variare i ritmi di lavoro e di seguire le esigenze del cliente, e, infine, il
fatto di poter mantenere bassi i costi (13%). Nel nostro campione, la strategia di offrire prezzi bassi
è utilizzata soprattutto da coloro che operano nel commercio, sia alimentare che abbigliamento. In
questi settori, vista l’elevata concorrenza e sostituibilità dei beni offerti, è più difficile costruire una
buona reputazione e cercare di ottenere la fedeltà dei clienti. Tra gli aspetti indicati liberamente
dagli intervistati, segnaliamo l’onestà, la puntualità, l’affidabilità, l’unicità del prodotto.
L’enfasi sulla propria onestà contrapposta alla slealtà dei concorrenti ci porta ad analizzare il
problema della concorrenza. Benché il 41% degli intervistati dichiari di non avere particolari
problemi di concorrenza, il 27% teme soprattutto la concorrenza degli altri stranieri, il 15% dei
connazionali e solo l’11% degli italiani. Infine, il 6% dichiara di temere la concorrenza di tutti. A
temere i connazionali sono soprattutto cinesi e marocchini. Mentre i senegalesi temono soprattutto
la concorrenza asiatica, cinese in primis. Queste risposte suggeriscono che, nella percezione degli
intervistati, il mercato in cui operano vede prevalere nettamente gli operatori stranieri sugli italiani.
Gli italiani, anche quando sono presenti nello stesso settore, non sono visti come immediati e diretti
concorrenti. L’unica parziale eccezione è presente nel settore dei trasporti, in cui il 21% degli
intervistati dichiara di temere la concorrenza italiana.
La situazione economica delle imprese appare dunque estremamente diversificata. Ciò
dipende sia dai diversi settori in cui operano gli imprenditori, che sono investiti dalla crisi in
maniera differente, sia dalle strategie che i singoli mettono in campo. Ad avere meno problemi di
concorrenza sono infatti tendenzialmente coloro che puntano più sulla qualità dei prodotti e dei
servizi e sula buona reputazione, piuttosto che coloro che mantengono bassi i costi153.
Nonostante queste indicazione, nei rapporti con gli imprenditori, italiani o connazionali,
prevale la collaborazione e non la concorrenza. Con gli italiani, il 68% degli intervistati ha rapporti
di collaborazione, l’11% di concorrenza ed il restante 21% dichiara di non avere alcun rapporto.
Con i connazionali, il 58% degli intervistati ha rapporti di collaborazione, l’11% di concorrenza ed
153
Queste differenze, pur non irrilevanti in termini percentuali, non sono però statisticamente significative.
192
il 31% non ha rapporti. La concorrenza con gli italiani, viene ribadito anche qui, è maggiore per gli
imprenditori nei trasporti, mentre coloro che non hanno nessun rapporto sono soprattutto i
commercianti di abbigliamento. Riguardo ai connazionali, invece, la concorrenza è elevata nel
commercio alimentare ed i rapporti sono minori nei trasporti e nell’altro commercio.
L’importanza dei rapporti con gli italiani nel corso della propria attività verrà evidenziata
anche nel prossimo paragrafo.
7. L’ambito relazionale e i contatti con la madrepatria
Abbiamo indagato, nei paragrafi precedenti, il ruolo che la famiglia, ma anche gli amici e i
connazionali, hanno avuto nel percorso migratorio e nell’avvio dell’attività imprenditoriale. In
questo paragrafo soffermeremo la nostra attenzione sul ruolo delle relazioni sociali in senso ampio,
includendo non solo familiari amici, ma anche chiunque sia stato in qualche modo utile nello
svolgimento dell’attività imprenditoriale, comprese le associazioni di categoria e di altro genere.
Tab. 7 – Utilità delle relazioni sociali per l’attività imprenditoriale
(Voto medio - scala da 0 a 10 – N=199)
Relazioni con italiani
Relazioni familiari
Relazioni con connazionali non parenti
Relazioni con associazioni italiane
Relazioni con altri stranieri
Relazioni con associazioni di connazionali
Voto (DS)
6,2 (3,6)
5,9 (3,9)
4,5 (3,4)
2,9 (3,3)
2,7 (3,0)
1,6 (2,0)
La valutazione generale dell’utilità delle diverse relazioni per l’attività imprenditoriale è in
tutti gli ambiti abbastanza bassa (tab.7). Ciò è dovuto in parte alla frequente convinzione da parte di
molti intervistati di aver costruito la propria attività da soli, senza l’aiuto di nessuno. A seconda
della categoria di persone considerata, da un quinto ad oltre la metà degli intervistati hanno espresso
un voto pari a ‘1’, alcuni addirittura ‘0’ (categoria inizialmente non prevista nel questionario). La
categoria più utile è comunque quella degli italiani, seguita dai familiari e dai connazionali. Le
relazioni con i familiari sono ritenute più utili da coloro che sono arrivati in Italia più recentemente
(dal 1998 in poi)154.
Le due categorie meno utili sono le associazioni italiane e le associazioni di connazionali.
Osservando però la dimensione aziendale, si note però che le aziende con almeno 5
dipendenti considerano più utili sia le relazioni con i familiari (il voto medio è pari a 8, rispetto a
4,7 di chi non ha nessun dipendente e 6,2 di chi ha 1-4 dipendenti155) sia quelle con le associazioni
di connazionali (il voto medio è pari a 2,6, rispetto a 1,9 di chi non ha nessun dipendente e 1,1 di
chi ha 1-4 dipendenti156) e italiane (il voto medio è pari a 4,4, rispetto a 2,9 di chi non ha nessun
dipendente e 2,6 di chi ha 1-4 dipendenti157) L’altra eccezione è rappresentata dagli intervistati di
Trento, che attribuiscono alle associazioni italiane un voto medio pari a 5,6158. In effetti
l’importanza delle associazioni di categoria per i trentini è visibile anche nella gestione dell’attività
aziendale.
Infatti, se nel complesso, il 65% degli intervistati lascia gestire la propria contabilità a
consulenti italiani, il 4% a stranieri ed il 26% ad associazioni di categoria, considerando solo gli
intervistati trentini questa percentuale sale raggiungendo il 45%.
154
Il valore di F è pari a 3,7 con 2 gradi di libertà e sig=0.026.
Il valore di F è pari a 8,1 con 2 gradi di libertà e sig=0.000
156
Il valore di F è pari a 7,1 con 2 gradi di libertà e sig=0.001
157
Il valore di F è pari a 3,2 con 2 gradi di libertà e sig=0.042
158
Il valore di F è pari a 42,1 con un grado di libertà e sig=0.002
155
193
Anche osservando la percentuale di iscritti alle associazioni di categoria si nota la peculiarità
trentina. Nel complesso, il 40% degli intervistati è iscritto ad una associazione. Tuttavia, a Trento,
dove l’Associazione degli artigiani e piccole imprese è molto rappresentativa, il 79% degli
imprenditori sono iscritti ad una associazione di categoria. Solo un intervistato, residente a Prato, è
invece iscritto ad un’associazione economica di imprenditori connazionali. Un po’ più elevato è il
numero di iscritti ad associazioni ricreative, religiose, culturali di connazionali: si tratta di 31
intervistati (15%). Le associazioni religiose sono prevalenti (14 iscritti), seguite da quelle culturali
su base nazionale (13 iscritti), tra cui spiccano quelle senegalesi (8 iscritti). Infine, 11 intervistati
(5%) è iscritto ad associazioni culturali o sportive italiane. Sia in riferimento alle associazioni
culturali di connazionali sia considerando le associazioni di categoria italiane (gli unici due tipi di
associazioni con un numero non trascurabile di iscritti) si nota che coloro che sono arrivati in Italia
prima del 1990 sono più spesso iscritti ad una associazione rispetto a quelli che sono arrivati in
seguito. Come già emerso in precedenti ricerche, sono coloro che hanno già superato la fase
dell’inserimento lavorativo e sociale che partecipano più frequentemente a questo tipo di iniziative
(Ambrosini, 2008).
L’appartenenza associativa ha anche un legame significativo con l’andamento dell’impresa,
come sottolineato nel capitolo relativo agli imprenditori immigrati a Trento. Infatti, chi è iscritto ad
una associazione (di qualunque tipo, anche se sappiamo che per lo più si tratta di associazioni di
categoria) ha più frequentemente una crescita di dipendenti (24% contro il 7% di chi non è iscritto
ad alcuna associazione159) e di fatturato (25% contro 7%160).
Oltre ai contatti formali o istituzionali, abbiamo chiesto agli intervistati di riferire l’esistenza
di persone che si sono rivelate utili nella gestione dell’impresa (tab.8). Osservando le risposte degli
intervistati, emerge senza dubbio l’importanza degli italiani, che sono sempre la categoria più
numerosa, tranne nel caso dei soci (dove prevalgono i familiari) e delle persone da assumere (dove
prevalgono i connazionali). Il reticolo più numeroso è quello relativo alle persone da cui
l’intervistato ha imparato molto per la gestione dell’azienda, composto prevalentemente da italiani,
ma anche da familiari (il 69% degli intervistati ha citato almeno una persona in questo ambito). Al
secondo posto troviamo le persone a cui è stato chiesto un prestito (il 57% degli intervistati ha avuto
bisogno di prestiti, si veda tab.5), che sono prevalentemente italiane. Si tratta però spesso di
impiegati e dirigenti bancari, persone con cui i rapporti sono prevalentemente formali e talvolta solo
sporadici. Il reticolo più piccolo è quello relativo al reclutamento del personale.
Interessante è anche il fatto che solo il 12% degli intervistati non ha citato alcuna persona
che è stata in qualche modo utile nella sua attività. Quindi, al di la delle valutazioni soggettive
espresse genericamente dagli intervistati sull’utilità delle diverse relazioni sociali, la maggior parte
di essi ha ricevuto aiuto, consigli o insegnamenti da qualcun altro. Coloro che “hanno fatto tutto da
soli” sono, alla luce di questi risultati, una minoranza.
159
160
Il χ2 ha un valore di 12,66 con due gradi di libertà e una significatività pari a 0.002
Il χ2 ha un valore di 11,24 con due gradi di libertà e una significatività pari a 0.004
194
Tab. 8 – Incidenza delle reti sociali dell’intervistato (valori assoluti)161
Totale162
Soci
Persone da cui ha imparato molto
Persone che hanno indicato
collaboratori
Persone a cui ha chiesto prestiti
Altre persone rilevanti
Totale
Familiari
Connazionali
63
138
34
45
52
6
18
28
20
115
51
401
30
22
155
11
6
83
Italiani
3
70
12
65 (prev. Banche)
24
174
Altri
stranieri
5
7
6
0
0
18
Per concludere la nostra riflessione sul ruolo delle relazioni nella gestione dell’attività
aziendale, analizziamo l’incidenza dei rapporti d’affari con la madrepatria. Solo il 16% degli
intervistati intrattiene rapporti d’affari con aziende del Paese d’origine. La maggior parte di questi
acquista beni o servizi, ma vi sono alcuni intervistati che invece vendono prodotti e servizi ed altri
fanno investimenti. Ad avere rapporti con il Paese di origine sono prevalentemente cinesi e
senegalesi. L’aspetto transnazionale dell’attività imprenditoriale è più evidente per le attività
commerciali non alimentari, mentre per gli altri settori o nazionalità, benché non manchino casi di
interesse (ad esempio nell’edilizia), il fenomeno rimane estremamente marginale.
8. Le prospettive future
Abbiamo visto che la situazione delle imprese, di fronte alla crisi economica, non è facile e,
in alcuni settori, gli imprenditori intervistati appaiono particolarmente in difficoltà. Cosa prevedono
per il futuro?
Fig.7- Prospettive future per l’azienda (% - risposta multipla)
60
50
50
40
30
20
20
14
15
Chiuderà
questa,
aprirà altra
azienda
Attività in
diverso
settore
11
13
7
10
0
Azienda
rafforzata
Cederà
azienda a
terzi
Azienda
chiuderà
Lavoro
come
dipendente
Azienda ai
figli
Metà degli intervistati è abbastanza ottimista, poiché ritiene che la propria azienda uscirà
rafforzata dalla crisi (fig.5.13), l’altra metà invece, considera diverse alternative. Un intervistato su
161
La somma delle singole categorie è superiore al totale perché si poteva fare riferimento a più persone per lo stesso
ambito.
162
I totali corrispondono al numero di intervistati che hanno citato qualcuno in ciascuna delle categorie indicate. Non
sono equivalenti al totale di riga. In alcuni casi, infatti, sono state citate più persone nella stessa categoria, mentre nel
caso dei prestiti alcuni non hanno voluto specificare la nazionalità delle persone che hanno fornito il prestito.
195
cinque pensa che presto l’azienda chiuderà, per evitare altre perdite. Tra questi, la maggior parte
spera di trovare un lavoro migliore come dipendente, ma altri pensano comunque di aprire un’altra
attività, oppure di spostarsi in un altro settore. Nel complesso, la possibilità di cambiare attività è
spesso vista come probabile, insieme alla cessione dell’attività ai figli. Meno probabile è la
possibilità di cedere l’azienda a terzi.
I più ottimisti riguardo ad un rafforzamento dell’azienda alla fine della crisi sono i
commercianti nell’abbigliamento e gli edili, mentre i più pessimisti sono i metalmeccanici e,
soprattutto, i commercianti di altri prodotti (non abbigliamento e non alimentari). Questi ultimi
sono, al contrario, i più propensi a chiudere l’azienda, ad aprirne un’altra (insieme alle altre due
categorie di commercianti) o a proseguire l’attività in un altro settore (insieme ai commercianti di
abbigliamento). Infine, gli imprenditori edili sono quelli più propensi a passare la gestione
dell’attività ai figli.
Tuttavia, nel complesso circa un intervistato su quattro vorrebbe che i figli proseguissero
l’attività, mentre oltre i due terzi degli intervistati vorrebbero che i figli trovassero un lavoro diverso
e solo il 3% vorrebbe che tornassero in patria. Ad auspicare una loro futura gestione dell’azienda
sono soprattutto gli edili, come già emerso nella domanda precedente, e i commercianti di
abbigliamento.
Oltre la metà degli intervistati (53%) non pensa che le donne della propria famiglia potranno
avere un ruolo di responsabilità in azienda, il 25% invece sostiene il contrario e il 22% risponde che
le donne hanno già un ruolo di responsabilità in azienda. Queste ultime due opzioni sono scelte in
prevalenza dai cinesi, gruppo in cui anche i dati statistici mostrano una quota rilevante di
imprenditorialità femminile.
Infine, abbiamo chiesto agli intervistati di suggerire eventuali politiche o iniziative che
potrebbero sostenere gli imprenditori immigrati (fig.8). Non tutti gli intervistati hanno suggerito
qualcosa, ma circa tre intervistati su quattro hanno suggerito iniziative utili per semplificare ed
agevolare la loro attività. In realtà, non sempre si tratta di suggerimenti, ma anche di denuncie di
episodi di discriminazione o diffidenza nei loro confronti in quanto immigrati. In molti casi, però, i
loro problemi e difficoltà sono comuni alla maggior parte dei piccoli imprenditori.
Fig. 8 Politiche ed iniziative utili per sostenere gli immigrati (valori assoluti)
11
9
29
22
28
20
26
Offrire + informazioni e corsi
Politiche x immigrati/imprenditori
Diffidenza degli italiani
Ridurre tasse
Finanziamenti
Controlli
Recupero crediti
Le iniziative più frequentemente suggerite riguardano informazioni e corsi che gli
imprenditori immigrati ritengono utili per la propria attività. Oltre ai corsi di italiano e di
formazione per la gestione dell’attività, uno dei problemi più segnalati in questo ambito sono le
196
diverse norme che bisogna conoscere. Al secondo posto, troviamo indicazioni relative a politiche da
attuare, come la semplificazione amministrativa ed in particolare del permesso di soggiorno.
Tuttavia, vengono suggeriti anche interventi più ‘attivi’, come la promozione di incontri tra
imprenditori e la costituzione di reti tra imprese. Inoltre, vengono chiesti anche più diritti politici
(possibilità di votare) e previdenziali (trattamento pensionistico fruibile anche tornando a vivere nel
Paese di origine). Un'altra difficoltà segnalata da alcuni imprenditori è la diffidenza e le
discriminazioni subite dagli italiani, sia dalle istituzioni che dai privati. Oltre a questi aspetti, più
marcatamente peculiari del vissuto dell’imprenditore immigrato, numerosi sono anche gli
imprenditori che, non diversamente dagli autoctoni, chiedono una riduzione delle tasse e
agevolazioni finanziarie e creditizie. Infine, meno frequenti ma sempre riconducibili a problemi
comuni a tutti gli imprenditori, sono l’invocazione di maggiori controlli per evitare comportamenti
sleali (ma un paio di persone chiedono invece minori controlli, chiamando in causa di nuovo la
discriminazione verso gli immigrati) e di un aiuto per recuperare i crediti e i pagamenti dei clienti
che tardano ad arrivare.
9. L’importanza della dimensione di impresa
Dal momento che diverse ricerche (es. Codagnone, 2003) hanno messo in discussione
l’utilizzo del termine ‘imprenditore’ per delle realtà che di fatto spesso sono assimilabili al lavoro
autonomo, prima di concludere la nostra analisi vorremo focalizzare l’attenzione sulla dimensione
d’impresa. Come abbiamo visto in precedenza, il 36% degli intervistati non ha nessun dipendente, il
52% ne ha da 1 a 4 e il 12% ne ha 5 o più.
Tab. 9 – Necessità di prestiti dichiarata dagli intervistati in base alla
nazionalità degli intervistati (% - tranne ampiezza reti)
Ampiezza media reti164
Clienti in altre regioni/estero165
Un solo cliente166
Non teme nessun concorrente
Punto di forza qualità prodotti/servizi
Punto di forza: mantenere bassi i costi
Fatturato costante o in crescita167
Pensa che l’azienda uscirà rafforzata
dalla crisi168
Vorrebbe che i figli in futuro gestissero
azienda
N
Nessun
dipendente
2,00
20
24
32
27
21
34
38
Da 1 a 4
dipendenti
2,19
18
14
44
54
7
40
52
5 dipendenti
o più163
3,48
48
0
52
64
12
60
76
8
28
52
71
104
25
Nel par.5 abbiamo visto che la dimensione di impresa era legata ad una diversa valutazione delle
relazioni familiari e delle relazioni con associazioni italiane e di connazionali. In effetti, nel
complesso, al crescere della dimensione dell’impresa aumenta l’ampiezza delle reti sociali utili per
l’attività imprenditoriale (tab.9). Rimandando ad ulteriori analisi l’interpretazione di questo
163
In questa categoria sono state incluse anche le imprese scelte nel campione in quanto imprese di successo e, quindi,
con un numero di dipendenti generalmente superiore a 5 ( si tratta di 5 imprese in tutto). Tuttavia, anche escludendo
queste 5 imprese, i risultati non cambiano in modo significativo.
164
Il valore di F è pari a 8,87 con 2 gradi di libertà e significatività pari 0,000.
165
Il valore del , χ2 è pari a 10,71 con 2 gradi di libertà e significatività pari a 0,005
166
Il valore del , χ2 è pari a 46,93 con 14 gradi di libertà e significatività pari a 0,000
167
Il valore del , χ2 è pari a 18,86 con 4 gradi di libertà e significatività pari a 0,001
168
Il valore del , χ2 è pari a 11,11 con 2 gradi di libertà e significatività pari a 0,004
197
risultato, ci limitiamo qui a sottolineare che la dimensione di impresa non è solo collegata ad
un’ampia dotazione di capitale sociale, ma permette di osservare meglio come i lavoratori autonomi
o le micro-imprese reagiscono alla crisi economica.
Un primo aspetto considerato è che le imprese con 5 dipendenti o più hanno più frequentemente
clienti situati al di fuori del contesto locale, quindi in altre regioni o anche all’estero. Inoltre, le
imprese con più dipendenti hanno generalmente più clienti rispetto alle imprese più piccole.
Nessuna impresa con almeno cinque dipendenti ha un solo cliente, mentre un quarto dei lavoratori
autonomi vive una situazione di mono-committenza. Le imprese più grandi riescono dunque a
competere e ad adattarsi a mercati più variegati e geograficamente distanti e non dipendono da un
numero limitato di clienti. In effetti, gli imprenditori temono meno la concorrenza di altre imprese
rispetto ai lavoratori autonomi, segno di una presenza sui mercati più consolidata. Del resto, i primi
rispetto ai secondi, indicano anche più frequentemente la qualità dei prodotti/servizi come punto di
forza, mentre indicano meno la possibilità di mantenere bassi i costi.
Le imprese con dipendenti (e, soprattutto con almeno 5 dipendenti), sono dunque imprese con un
migliore posizionamento di mercato ed una competitività basata più sulle proprie capacità
imprenditoriali che sull’autosfruttamento. Peraltro, che la situazione di queste imprese sia migliore
rispetto a quelle senza dipendenti emerge anche dal dato sulla crescita del fatturato rispetto a 3 anni
prima, nonché dalle previsioni per il futuro dell’azienda. I micro-imprenditori sono più ottimisti
rispetto ai lavoratori autonomi circa il proseguimento ed il rafforzamento della propria attività e
considerano più frequentemente l’azienda come un patrimonio familiare, un investimento per il
futuro dei propri figli, senza necessariamente sperare che questi riescano a trovare un lavoro diverso
dal proprio.
E’ dunque nelle imprese con dipendenti (quelle che a pieno titolo sono definibili come ‘imprese’ e
non come mero lavoro autonomo) che riscontriamo con maggiore evidenza la presenza di
progettualità e di strategia imprenditoriale, ed una maggiore capacità di offrire risposte adeguate
alla crisi economica.
10. Conclusioni
Nella ricerca “Il profilo nazionale degli immigrati imprenditori” sono stati affrontati temi
molto diversi, che ripercorrono il percorso migratorio e imprenditoriale dell’intervistato.
Anche se le caratteristiche socio-demografiche degli imprenditori e le strategie di avvio
dell’impresa variano molto in base alla nazionalità degli intervistati, per altri aspetti, legati alle
caratteristiche e all’andamento dell’impresa, le differenze emerse appaiono maggiormente legate ai
diversi settori di attività.
Arrivati in Italia per la presenza di parenti o connazionali, ma anche per la relativa facilità di
ingresso, gli immigrati intervistati hanno generalmente trovato occupazione (magari non la prima,
ma quantomeno l’occupazione prevalente) nel settore dove poi hanno deciso di aprire la propria
attività. Ciò ha permesso loro di acquisire esperienza e professionalità. Sono pochi, invece, coloro
che hanno iniziato subito un’attività in proprio. In prevalenza si tratta di senegalesi che spesso
hanno cominciato il loro percorso lavorativo in Italia come venditori ambulanti.
Le motivazioni per l’avvio dell’attività in proprio sono generalmente collegate al desiderio
di migliorare la propria situazione dal punto di vista economico o dell’autonomia o della
valorizzazione delle proprie competenze. Sono, invece, relativamente pochi i casi in cui l’attività
autonoma ha rappresentato un’alternativa alla disoccupazione o un ‘suggerimento’ del precedente
datore di lavoro.
La dotazione di capitale umano varia molto in base alla nazionalità degli intervistati: i cinesi
non solo hanno un più basso titolo di studio, ma conoscono anche meno lingue straniere rispetto
agli altri gruppi nazionali considerati. Riguardo, invece, alle risorse di classe, la maggior parte degli
intervistati proviene da famiglie in condizioni economiche rispetto alle altre. La famiglia allargata
rappresenta non solo un punto di appoggio nel percorso migratorio, ma anche un’importante risorsa
198
in termini economici (soprattutto per ciò che concerne i cinesi) e di manodopera (non solo tra i
commercianti di abbigliamento cinesi, ma anche tra gli edili e i trasportatori).
Il capitale economico è costituito spesso, soprattutto all’inizio dell’attività da dotazioni e
risparmi propri. Tuttavia, nel corso dell’attività aumenta il ricorso a prestiti. Le richieste di prestiti
alle banche sono più frequenti tra gli est europei. In alcuni casi, lo scarso ricorso ai prestiti bancari è
giustificato da motivazioni culturali (soprattutto da parte degli egiziani), in altri si privilegia il
ricorso alle reti familiari e di parentela (nel caso dei cinesi).
Riguardo al capitale sociale, nelle reti degli imprenditori prevalgono i contatti con gli
italiani, anche se i familiari confermano la propria importanza. Nonostante gli imprenditori spesso
dichiarino di aver fatto “tutto da soli”, emerge dai dati raccolti la notevole importanza delle altre
persone soprattutto nella gestione dell’attività aziendale. Si tratta però solitamente (tranne nel caso
trentino) di contatti informali, di persone con cui l’imprenditore ha lavorato o con cui ha legami di
amicizia o parentela. Le associazioni e le istituzioni sono spesso assenti, solo un terzo degli
imprenditori è iscritto ad un’associazione di categoria e pochi ne riconoscono l’utilità. Non stupisce
che tra i principali suggerimenti proposti dagli intervistati per migliorare la condizione degli
imprenditori immigrati vi siano la richiesta di fornire maggiori informazioni, di organizzare corsi di
formazione, di aiutare gli imprenditori a fare rete. Gli imprenditori chiedono di non essere lasciati
soli ad affrontare la crisi, di trovare delle soluzioni comuni e condivise.
La crisi. Tra gli imprenditori immigrati prevale la fiducia, anche se la situazione non è facile
e in alcuni settori il calo dei dipendenti e del fatturato è notevole. Per il futuro non manca
l’ottimismo, la voglia di resistere, eventualmente cambiando attività. Ma sono proprio pochi quelli
che preferirebbero tornare al lavoro dipendente.
La crisi viene affrontata meglio dalle imprese (relativamente) più grandi: questo è quello che
emerge dal nostro breve approfondimento sul ruolo della dimensione di impresa. Le imprese più
grandi puntano più spesso sulla qualità del prodotto fornito che sui prezzi bassi, temono meno la
concorrenza, hanno più spesso un fatturato costante o in crescita e sono più ottimiste per il futuro.
La forza e solidità dell’impresa, nonché l’orgoglio dell’imprenditore stesso nei confronti della
propria attività è testimoniato anche dal fatto che molto più frequentemente si prevede di lasciare in
futuro la gestione dell’impresa ai figli.
Come già sottolineato da Chiesi nel secondo capitolo del presente volume, è dunque
auspicabile che le imprese immigrate crescano, che puntino su prodotti di qualità e non sulla
competizione di prezzo, che escano dal circuito della mono-committenza e che diversifichino la loro
clientela sul territorio.
Per fare questo, come efficacemente illustrato dal caso trentino, potrebbe essere utile una
maggiore rappresentatività delle associazioni e la creazione di consorzi e reti tra imprese, come del
resto auspicato dagli stessi intervistati. Ma questa è solo una delle possibili strategie da
intraprendere.
199
11. Considerazioni sugli imprenditori di successo
Antonio Mutti∗
Questo capitolo si concentra sull’analisi di una serie di interviste condotte su imprenditori di
successo, non solo appartenenti alle aree territoriali analizzate nei capitoli precedenti.
Va subito precisato che la definizione di imprenditore immigrato di successo qui adottata
riguarda quelle imprese che occupano personale dipendente (stabile e/o occasionale) non
esclusivamente familiare di almeno 3 unità e che hanno dato buona prova di profittabilità in un
ragionevole lasso di tempo (almeno 5 anni). La seconda precisazione riguarda la rappresentatività
degli imprenditori intervistati. Vista l’assenza di data base adeguati di queste figure imprenditoriali,
da cui poter estrarre un campione, le nostre 8 interviste non sono per nulla rappresentative
dell’imprenditorialità immigrata di successo in Italia. Ci siamo basati sulle indicazioni fornite dai
premi Money Gram 2010 attribuiti a imprenditori immigrati di successo. Ma, soprattutto, siamo
dipesi dalla disponibilità degli imprenditori che hanno accettato di farsi intervistare. Accanto al
questionario comune ai lavoratori autonomi intervistati abbiamo affiancato un questionario semistrutturato che permettesse all’imprenditore di esprimere in modo più aperto e diffuso valutazioni
sulla propria reputazione. Le interviste sono state somministrate agli imprenditori nel corso del
2010 nelle sedi delle imprese.
Tab. 1 – Caratteristiche degli imprenditori di successo intervistati
Sesso Provenienza
Età
Sede
Tipo di attività
impresa
Mi
Serramenti in alluminio
M
Egitto
55
M
Egitto
46
Mi
Lavori stradali
F
F
M
M
M
Colombia
Albania
Croazia
Romania
Romania
45
50
36
37
49
Mi
Mi
Tn
Tn
Mn
M
Senegal
37
Ct
Impresa di pulizie
Mediazione culturale
Costruzioni edili
Carpenteria metallica
Commercio all’ingrosso di
alimentari
Importazione e commercio
all’ingrosso di pesce
Anno
Numero
fondazione dipendenti
1985
4 stabili,
8 saltuari
2001
12 stabili,
1 saltuario
1998
28 stabili
2006
25 saltuari
2002
19 stabili
2005
3 stabili
2006
2 stabili,
4 saltuari
2001
3 saltuari
Di cui
italiani
1 sta.
4 sal.
1 sal.
2 sta.
6 sal.
10 sta.
0
0
0
1. Le condizioni di partenza
Un dato comune ai nostri intervistati è costituito dalla buona dotazione iniziale di varie
forme di capitale. Il discreto capitale economico familiare, denunciato da condizioni economiche di
partenza in media più elevate di quelle degli abitanti nel luogo di origine della famiglia e dalla
presenza di parenti che svolgono attività imprenditoriale nel paese d’origine o in Italia. Il capitale
umano di buon livello, caratterizzato da titoli di studio di scuola media superiore (4 intervistati) o
universitari (4 intervistati) associati a una buona padronanza della lingua italiana e spesso anche di
altre lingue. Il capitale sociale esteso costituito non solo dalla struttura familiare e parentale, ma
anche da una significativa presenza di italiani.
Dopo una fase iniziale di lavori precari e diversificati, l’aiuto alla costituzione dell’impresa
passa senz’altro attraverso il sostegno economico familiare. Si assiste però anche alla presenza di
italiani nella veste di imprenditori (presso cui hanno lavorato e acquisito le competenze
professionali) o conoscenti che aiutano il neoimprenditore a mettersi in proprio e a ottenere fidi
bancari. Le banche locali sono presenti nell’esperienza di questi imprenditori, e svolgono un ruolo
molto importante ai fini del loro successo imprenditoriale.
∗
Università di Pavia
200
2. La costruzione della reputazione
La buona reputazione è il frutto di un duro lavoro di emersione aiutato dalla presenza di
connazionali e di italiani. La qualità del prodotto, la puntualità nell’esecuzione dei compiti e nei
pagamenti, la fissazione di prezzi equi, oltre che un rapporto collaborativo con le maestranze
vengono considerati i principali fattori di successo dell’impresa. Gli intervistati appaiono
visibilmente orgogliosi di essere imprenditori immigrati di successo e di essere riusciti a
conquistare una buona reputazione tra clienti e fornitori.
Questo orgoglio e ottimismo portano a non percepire significative minacce alla reputazione.
Certo, vengono individuate situazioni di concorrenza sleale (specie da parte di altre etnie, ma senza
che si sia in presenza di un vero e proprio conflitto interetnico) o di maldicenze volte a danneggiare
la reputazione, ma nel complesso esse sono considerate poco efficaci. Una reputazione
faticosamente conquistata nel tempo non può essere distrutta da maldicenze perché l’imprenditore
può contare su una rete di fornitori e clienti che hanno consolidato la fiducia nei suoi confronti e
svolgono la funzione di diffusori della fiducia e della buona reputazione. La concorrenza elevata
viene, dunque, combattuta essenzialmente sulla qualità del prodotto offerto. La crisi economica
attuale è valutata come minaccia alla solidità aziendale a causa della potenziale insolvenza dei
clienti, più che della diminuzione del lavoro.
Questo senso di sicurezza e auto-gratificazione, indotto dal successo professionale, porta
anche a minimizzare il pregiudizio etnico. L’esistenza di diffidenza e razzismo (soprattutto
all’inizio dell’attività lavorativa) non viene però negata. Essa è piuttosto minimizzata per due ordini
di ragioni. Il primo è dovuto al fatto che alcuni italiani sono stati cruciali ai fini del successo
imprenditoriale dei nostri intervistati. Il secondo, invece, appare più il frutto di una sorta di
rimozione del problema da parte di chi ha finito per godere, rispetto ad altri immigrati, di una
situazione privilegiata sotto il profilo della riuscita economica.
3. Amicizie e vita sociale
Il successo professionale e la buona reputazione hanno senza dubbio favorito un maggiore
inserimento sociale dell’immigrato. Però prevale tra gli intervistati la tesi secondo cui un buon
inserimento sociale costituisce un prerequisito del successo, e cioè che, nella loro esperienza, esso
ha preceduto la possibilità di diventare imprenditori di successo. È significativo rilevare che 4
imprenditori maschi su 6 hanno sposato un’italiana.
Va inoltre sottolineato che, pur dichiarando la presenza di alcuni amici italiani, oltre a
familiari e connazionali, la vita sociale e associativa di questi imprenditori appare limitata. Questo
limite viene giustificato dal carattere pervasivo dell’attività lavorativa. È la mancanza di tempo che
impedisce una maggior attivismo sociale. Che sia questa la ragione vera, o che piuttosto nasconda
una reale difficoltà di integrazione sociale, sta di fatto che i nostri imprenditori appaiono segnati da
un buon inserimento nelle attività economiche, un’autostima elevata, ma una scarsa partecipazione
sociale. Queste caratteristiche paiono accumunare maschi e femmine.
201
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