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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MACERATA FACOLTÀ DI LINGUE E LETTERATURE STRANIERE EN CO-TUTELLE AVEC L’UNIVERSITÉ DE PARIS VIII-SAINT DENIS * * * ÉCOLE DOCTORALE EN ÉTUDES FÉMININES LANGUES ET LITTÉRATURES COMPARÉES SCRIVERE L’ESILIO. Esilio, identità e lingua in opere di scrittrici contemporanee. Candidate SECCARDINI Gabriela Directeurs de recherche: Prof.ssa Marina CAMBONI (Università di Macerata) Prof.ssa Nadia SETTI (Université de Paris VIII-Saint-Denis) Date de soutenance: 24/01/2008 UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MACERATA FACOLTÀ DI LINGUE E LETTERATURE STRANIERE IN CO-TUTELA CON L’UNIVERSITÀ DI PARIS VIII-SAINT DENIS * * * DOTTORATO IN LINGUE E LETTERATURE COMPARATE TESI DI DOTTORATO SCRIVERE L’ESILIO. Esilio, identità e lingua in opere di scrittrici contemporanee. DOTTORANDA Gabriela Seccardini Sotto la direzione delle relatrici Prof.ssa Marina Camboni (Università di Macerata) Prof.ssa Nadia Setti (Université de Paris VIII-Saint-Denis) Anno Accademico 2006/2007 Alla mia Mamma INDICE. INTRODUZIONE p. 1 PARTE I QUADRO TEORICO-CONCETTUALE: FIGURE DELL’ESPATRIO, CARATTERISTICHE DELL’ESILIO E CATEGORIE INTERPRETATIVE p. 11 1 - L’ESILIO p. 13 1.1 L’esilio p. 13 1.2 Migranti: esilio, emigrazione, espatrio p. 17 1.3 L’esilio: “un grande tema letterario” p. 24 1.4 L’esilio come condizione tra-due p. 29 2 - MODELLI SPAZIALI DELLA CULTURA p. 37 2.1 Tema della cultura e rappresentazione spaziale della cultura p. 37 2.2 Il ruolo della frontiera p. 49 2.3 Esilio, spazio e frontiera p. 56 2.4 Lo spazio e le pratiche spaziali p. 59 3 - IDENTITÀ, LINGUA E MEMORIA p. 65 3.1 Identità multiple e transnazionalismo p. 65 3.2 L’identità per i soggetti in esilio p. 68 3.3 La lingua e lo spazio linguistico p. 70 3.4 Lingue in contatto, bi- e pluri-linguismo, politica linguistica e nazionalismi p. 78 3.5 Lingua e colonizzazione p. 82 3.6 Il tempo, l’assenza e la memoria p. 88 3.7 L’esilio e la memoria p. 102 SCHEMA DELLE CATEGORIE PER L’ANALISI DELL’ESILIO p. 112 PARTE II SCRIVERE L’ESILIO p. 115 1 - NARRATRICI SULLE ORME DI SHAHRAZADE: SCRITTRICI NORD-AFRICANE E MEDIO-ORIENTALI CONTEMPORANEE p. 117 1.1 Shahrazade p. 117 1.2 L’analisi spaziale p. 125 2 - IL SAPERE E LA SCRITTURA COME ESILIO PER MALIKA MOKEDDEM p. 131 2.1 Malika Mokeddem p. 131 2.2 Ici/là bas p. 132 2.3 “Le savoir est pour moi le premier exil” p. 141 2.4 La serva e l’ospite p. 146 2.5 Dalla lettura alla scrittura. Il deserto e il mare. La lingua. p. 151 3 - LA SCUOLA, IL LUOGO COMUNE DI PARTENZA PER L’ESILIO p. 161 3.1 La scuola p. 161 3.2 La strada, luogo di aggressioni p. 171 4 - L’ESILIO NELLA LINGUA FRANCESE DI ASSIA DJEBAR p. 175 4.1 Perché scrivere? p. 176 4.2 L’esilio nella lingua francese p. 181 5 - “LIFE IS TRESPASSING”. FATIMA MERNISSI E L’ATTRAVERSAMENTO DEGLI HUDUD p. 187 5.1 La donna dal vestito di piume p. 187 5.2 La casa p. 188 5.3 Lo spazio della narrazione p. 196 5.4 L’harem e Shahrazade p. 198 6 - “MY HOUSE HAD A MAGIC DOOR”: ELMAZ ABINADER, DONNA ARABO-AMERICANA TRA DUE MONDI p. 207 7 - GLI SPAZI DELL’ESILIO E DEL RITORNO DI DUE SCRITTRICI IRANIANE: AZAR NAFISI E MARJANE SATRAPI p. 217 8 - IL LUOGO COMUNE DEI DIRITTI UMANI 233 p. 8.1 Tre modi per affermare i diritti delle donne p. 233 8.2 Affermare se stesse p. 235 8.3 Denunciare la negazione dei diritti delle donne p. 240 CONCLUSIONI p. 251 BIBLIOGRAFIA p. 257 SITOGRAFIA p. 272 INTRODUZIONE. Perché all’interno della scrittura dell’esilio, le scrittrici di cultura islamica del Maghreb e della regione medio-orientale costituiscono un gruppo così cospicuo? Che cosa determina i loro modi particolari di rappresentare la condizione dell’esilio, così diversi da quelli occidentali? Perché tante donne arabo-musulmane dichiarano di sentirsi costrette a scegliere l’esilio? La risposta a questi interrogativi va ricercata nelle dinamiche socio-politiche e culturali che, nel corso dei secoli, hanno interessato queste regioni. Le scrittrici hanno ovviamente una precisa nazione d’origine, sono cresciute in uno specifico contesto storico-culturale e nelle loro opere vi fanno continuo riferimento. Se scelgono l’esilio è proprio perché vivono tale scelta con profonda convinzione, che diventa presa di posizione di forte socio-politico e culturale. Le donne degli ultimi decenni del XX secolo che vivono in Maghreb e in Medio-Oriente si sono ritrovate ai margini degli spazi pubblici e politici e escluse dai luoghi di potere. Di conseguenza, quelle tra loro che maggiormente si rendevano e si rendono conto della propria condizione cercano di ribellarsi e di affermare il proprio punto di vista sulla vita, la società, il paese e la cultura. Molte tra queste si sono sentite costrette ad una forma di esilio intra-muros per sottrarsi alle regole della famiglia, della tradizione e dello stato e guardare ad un altrove, che potesse loro dare la speranza, se non la sicurezza, di vivere secondo le proprie idee, le proprie aspettative di vita e per poter liberamente dedicarsi alla ricerca della felicità personale. Il fatto di scegliere un paese occidentale come luogo di accoglienza e di esilio e la lingua di adozione come lingua in cui scrivere indica che le donne originarie di queste regioni guardano all’Europa e/o agli Stati Uniti come luoghi di diritti, libertà, democrazia, modernità. Questi paesi vengono scelti come luoghi d’esilio perché percepiti come stati in cui le donne possono muoversi, esprimersi e scrivere più liberamente. Le algerine Malika Mokeddem, Assia Djebar, Leila Sebbar, la tunisina Fawzia Zouari e la fumettista iraniana Marjane Satrapi hanno scelto la Francia come terra d’esilio. L’iraniana Azar Nafizi, la libanese Elmaz Abinader e la marocchina Laila Lalami si sono recate negli Stati Uniti. Un’altra scrittrice iraniana, Marsha Mehran vive in Irlanda. Questo elenco di scrittrici è chiaramente limitato, diversi altri nomi vi si potrebbero difatti aggiungere. Sono molte le donne che, emigrate, espatriate, fuggite, hanno sentito il bisogno di scrivere la loro storia, sia in forma di autobiografia, sia in forma di romanzo. La narrazione delle cause dell’esilio, come pure delle sue possibilità nasce dal bisogno di raccontare soprattutto quello che si configura come momento di rottura culturale. La patria di origine, la sua cultura, le sue tradizioni sono sempre presenti nelle storie. Ma i racconti, autobiografici o di finzione, sono scritti in inglese o in francese, a dimostrano del fatto che molte donne emigrate sono state scolarizzate, oppure preferiscono, esprimersi nella lingua d’adozione piuttosto che nella lingua madre. Questo lavoro è articolato in due parti. Nella prima ho messo a fuoco gli aspetti portanti dell’esilio come esperienza biografica, politica e letteraria. Nella seconda parte ho messo in luce le rappresentazioni dell’esilio che emergono dai testi di autrici maghrebine e medio-orientali, evidenziando tra l’altro i punti di convergenza e le differenze tra le due regioni. Centrale, in entrambe le parti è la connessione fra lingua e esilio. Il metodo usato è quello comparatistico, che permette di avvicinare e far dialogare testi che provengono da aree e paesi differenti e che sono scritti anche in lingue diverse. Inoltre, affronto l’analisi dei testi servendomi di un approccio interdisciplinare: il mio scopo, infatti, non è semplicemente di analizzare le scritture dal loro punto di vista letterario, ma come testi della cultura secondo la definizione del semiologo russo Jurij M. Lotman, ovvero come prodotti creati in uno spazio, tempo e società definiti. Da un lato, l’approccio comparatistico rispecchia la realtà delle letture personali: secondo lo studioso italiano Armando Gnisci, la letteratura comparata “è la sola disciplina concretamente capace di corrispondere al vissuto delle nostre letture”. Allo stesso tempo, spiega Gnisci, viene incontro alla presenza plurale di letterature del nostro tempo e rispecchia l’offerta letteraria alla quale ogni lettore si trova di fronte entrando in libreria oggi. La mondializzazione non è, infatti, un fenomeno che interessa solo l’economia o la politica, bensì tutti gli aspetti della vita umana, tra cui anche la cultura e la letteratura, che è una delle principali espressioni umane. L’approccio comparatistico concepisce la letteratura come un fenomeno culturale mondiale, dunque come ‘letterature’ al plurale. La letteratura/le letterature sono pensate come un fenomeno culturale transnazionale, che ha bisogno di strumenti analitici che diano voce alla polifonia, al dialogo interculturale. Inoltre, “la comparatistica induce a pensare ed educa a vedere la letteratura/letterature come un immenso e multiplo discorso”. L’approccio comparatistico così definito non persevera nell’eurocentrismo del comparatismo degli anni cinquanta per considerare tutte le espressioni letterarie “alla pari/nelle differenze delle culture attraverso il discorso letterario”. La comparatistica più recente si è difatti arricchita dell’apporto fondamentale di nuove discipline quali gli studi postcoloniali, culturali, gli studi di area e i women studies. I più recenti studi di comparatistica ritenengono difatti elitario il tradizionale approccio critico ad un canone letterario ristretto che teneva ai margini molto produzione letterarie e culturale. Emblematico il testo Death of a Discipline, della studiosa Gayatri Spivak, che ritiene morto il comparatismo tradizionale e propone un nuovo discorso sul metodo degli studi di area, degli studi culturali e sulla letteratura comparata. Spivak denuncia l’eurocentrismo degli studi comparatistici così come erano stati definiti nel secondo dopoguerra e dichiarati nei rapporti dell’ACLA (American Comparative Literature Association) anche se nel terzo rapporto, del 1993, il Presidente Berheimer rimetteva in discussione i principi e gli interessi della letteratura comparata inclusi nei primi due rapporti dell’Associazione (il primo del 1965 e il secondo 1975). Spivak sostiene la necessità di sviluppare un metodo comparatistico capace di dare voce e descrivere la realtà mondiale e mondializzata e di creare ponti tra le varie parti del mondo. “Attraversare i confini” è per la studiosa la vera essenza del nuovo comparatismo. Si tratta di un attraversamento di confini non solo tra le varie letterature e culture, ma anche tra le varie discipline. La metafora dell’attraversamento si applica anche a una comparatistica, rappresentata come disciplina che riconfigura e ripensa continuamente se stessa e i propri confini. Secondo Spivak, il rinnovamento del comparatismo è una questione etica, cioè riguarda il modo di considerare le opere provenienti dalle varie aree geografiche della terra. Il comparatismo deve, in sostanza, abbandonare l’ottica eurocentrica, o occidentale e farsi più democratica, facendo dialogare insieme le scritture di qualsiasi origine. Inoltre, è una questione etica perché la polifonia di voci e idee rende esplicito che la vita, la politica, la società, la cultura, e la letteratura non sono fatte di certezze. Propone così una disciplina che si faccia modello etico di una realtà fondata sul dialogo e sull’ascolto reciproco: “lasciamo che la letteratura ci insegni che non vi sono certezze, che il processo è aperto e che è salutare che sia così”. Il dialogo a più voci è salutare perché mostra più vie, più punti di vista e aiuta a allargare la mente e a far progredire l’umanità. Se la letteratura è “maestra di finesse umana”, come la definisce Josif Brosdkij, ogni scrittura letteraria è una voce che si aggiunge al dialogo dell’umanità, apportandovi l’eccezionalità di un’esperienza personale e di donare un insegnamento a chi legge. Può trattarsi di insegnamenti morali, come pure di condivisione di esperienze. Le voci delle donne scrittrici qui analizzate narrano realtà spesso sconosciute o conosciute solo superficialmente e attraverso canali a volte non sufficienti a cogliere tutte le sfaccettature di quella realtà. La narrazione e il dialogo tra le narrazioni aiuta anche a stabilire scambi, contatti e relazioni che vanno a incidere sull’identità degli individui che leggono. La studiosa americana Susan Stanford Friedman definisce la narrazione “a multiplicitous form of meaning-making thought”. La narrazione, asserisce, è alla base della formazione dell’identità dei soggetti: identity is literally unthinkable without narrative. People know who they are through the stories they tell about themselves and others. Inoltre, i testi narrativi costituiscono dei documenti di primaria importanza nell’espressione della cultura da cui si originano: narrative texts – whether they are verbal or visual, oral or written, fictional or referential, imaginary or historical, constitute primary documents of cultural expressivity. Narrative is a window into, mirror, constructor, and symptom of culture. Cultural narratives encode and encrypt in story form the norms, values, and ideologies of the social order. Seguendo l’insegnamento di Friedman, si è cercato di basare questo lavoro anche su un altro tipo di dialogo, quello tra teoria e narrativa. Ciò significa che, laddove le teorie mutuate dalle scienze umanistiche e sociali non risultavano sufficienti a spiegare tutti gli aspetti dei testi analizzati, si è fatto ricorso ad altri testi letterari per ampliarle. La letteratura comparata, inoltre, si propone come metodo che ricerca i ‘luoghi comuni’ delle letterature del mondo, sviluppa cioè un discorso attorno alla polifonia, al dialogo tra i mondi e ne ritrova le somiglianze e le affinità nella distanza, nelle differenze. Come spiega Édouard Glissant, scrittore e critico antillano, capita che a volte si legga in un giornale o in un libro di origine lontana la stessa idea che si era pensata: questo accade perché, in fondo, le esperienze umane, con tutte le particolarità del luogo e del momento, sono simili ovunque. Pour moi les lieux communs ne sont pas des idées reçues, ce sont littéralement des lieux où une pensée du monde rencontre une pensée du monde. Il nous arrive d’écrire, d’énoncer ou de méditer une idée que nous retrouvons, dans un journal italien ou brésilien, sous une autre forme, produite dans un contexte différent par quelqu’un avec qui nous n’avons rien à voir. Ce sont des lieux communs. C’est-àdire, les lieux où une pensée du monde confirme une pensée du monde. Nel presente lavoro, ho cercato di isolare dalle letture i vari ‘luoghi comuni’ in cui si ritrovano le scrittrici prese in considerazione. È la condivisione dei discorsi quella implicitamente contenuta nella locuzione proposta da Glissant. Attraverso l’analisi dei testi, ho voluto mostrare come le autrici propongano, attraverso percorsi di scrittura personali, delle idee e delle rappresentazioni dell’esilio che possono essere condivise in più regioni e aree del mondo, nel caso specifico il Maghreb e il Medio-Oriente. Luoghi comuni risultano la lettura e la scrittura, unificabili nel bisogno di narrazione che emerge dalle produzioni delle scrittrici. Attraverso la costruzione del dialogo tra i testi delle autrici qui analizzate emergono anche luoghi fisici comuni, come la casa e la scuola, punti di riferimento fondamentali per queste donne. La ricerca dei ‘luoghi comuni’ permette di ricostruire dei punti di analogia e le modalità dello “stare insieme alla pari/nelle differenze” dei differenti testi e degli autori e delle autrici. Il mio lavoro critico, quindi, è consistito nel far dialogare voci diverse e di ravvicinare le esperienze grazie a questa comunicazione a distanza. A questo dialogo letterario comparato è poi affiancato un approccio interdisciplinare, fatto che permette di inserire nella lettura, delle scritture come della realtà, più punti di vista, che corrispondono alle varie discipline utilizzate a supporto all’interpretazione dei testi, che in questo modo non vedono separato il loro rapporto con la vita, i luoghi, gli eventi storici. Ogni disciplina introduce, infatti, un punto di vista differente, dando un più ampio orizzonte all’interpretazione degli eventi e apportando le proprie competenze specifiche. L’interdisciplinarietà, come la comparatistica, è dunque un approccio fondamentale particolarmente per quanto riguarda la tematica al centro di questo lavoro. L’esilio, infatti, ha a che fare con tutti gli aspetti della vita di una persona. L’esilio è una questione politica, in quanto la persona si ritrova a dovere vivere e lavorare in un ambiente spesso molto diverso da quello in cui è nata, vissuta e al quale è abituata. È una questione sociale e culturale, perché l’esilio catapulta un individuo in una società e in una cultura con leggi, regole, comportamenti e pensieri a volte in netto contrasto con quelli che abbandona. È una questione geografica, perché l’esilio implica sempre un movimento (o, come vedremo, anche una limitazione al movimento), un attraversamento di territori e di frontiere, e conduce l’esiliata/o a dover interagire con un differente spazio/luogo e il suo clima (geografico, ma anche umano, sociale, culturale ecc.). È una questione linguistica, perché nella maggior parte dei casi l’esilio comporta uno spostamento da una nazione ad un’altra, complicato dal fatto che si è costretti a vivere a contatto con una società che spesso non parla la stessa lingua. Tante sono dunque le discipline che concorrono ad un’esauriente spiegazione del fenomeno dell’esilio. Questo lavoro si concentra su scritture di donne e si avvale di alcune teorie e approcci sviluppati nell’ambito dei gender studies che, come asserisce Elena Gajeri costituiscono un’autentica frontiera del sapere contemporaneo il cui intento è comprendere le differenti visioni del mondo e le diverse poetiche/politiche che caratterizzano i discorsi degli uomini e delle donne. Se il femminismo ha insegnato a guardare dalla prospettiva delle donne, i gender studies hanno minato il mito della neutralità del soggetto e introdotto il concetto che ogni attività e pensiero umano è sessuato. Perciò definire la specificità dell’esperienza dell’esilio al femminile e definire in cosa è affine e in cosa diverge dall’esperienza maschile costituisce il nodo portante di questo lavoro. Prendendo inoltre in esame scrittrici che vengono da regioni del mondo che solo da qualche decennio si sono liberate dal giogo coloniale, si avvale dell’apporto degli studi postcoloniali. Questo lavoro tocca anche alcuni spetti del discorso geo-politico e dei diritti umani. Gli studi sui diritti umani costituiscono una disciplina di recente istituzione, la cui necessità è stata sentita a causa degli enormi sconvolgimenti che stanno avvenendo sul palcoscenico planetario. Le guerre, con il loro lascito di prigionieri, torture, rapimenti, sparizioni, profughi, rifugiati; la globalizzazione, con i flussi migratori, che sono diventati una delle caratteristiche più rilevanti dell’assetto mondiale contemporaneo, sono tutti fattori che hanno fatto sì che i riflettori fossero puntati sulla questione dei diritti umani e sull’importanza di trovare accordi e protocolli sovranazionali che ne assicurino il rispetto da parte di tutti gli attori della scena internazionale, a partire dai singoli Stati. Gli ultimi anni hanno visto sorgere molti centri di ricerca sui diritti umani. Si tratta di una disciplina trasversale, in quanto il discorso sui diritti umani interessa a tutto tondo la vita degli individui. Si possono quasi pensare come una prospettiva dalla quale leggere molti eventi e questioni sociali, tra cui la letteratura. Leggere una scrittura dal punto di vista dei diritti umani significa guardarla come un documento sociale e sociologico capace di portare alla luce, raccontare e far conoscere ad un pubblico più o meno vasto un problema. Una narrazione può essere interpretata come una denuncia di violazioni di diritti umani, oppure come una richiesta di maggiore attenzione da parte della comunità internazionale su un problema specifico di una o più persone, di un gruppo o di una categoria. La letteratura diviene in questo caso testimonianza e atto d’accusa. L’attenzione alla storia, alla politica, alla cultura delle regioni di origine è fondamentale e senza questo approfondimento non è possibile capire le ragioni della scelta dell’esilio, della nazione occidentale e della lingua occidentale. Delle due parti di questo lavoro, la prima, Quadro teorico-concettuale: figure dell’espatrio, caratteristiche dell’esilio e categorie interpretative, mette in luce gli aspetti teorici per l’analisi delle scritture dell’esilio e le caratteristiche dell’esperienza e della narrazione dell’esilio, anche in relazione ad altre figure dell’espatrio. Si individuano le categorie teoriche da tenere in considerazione ogni volta che si è di fronte a questa tematica. La seconda parte, Scrivere l’esilio, costituisce la vera e propria analisi e il tentativo di far parlare direttamente i testi e di farli dialogare tra loro, facendo emergere i luoghi comuni e le differenze che caratterizzano ciascuna autrice. Per concludere questa introduzione riporto infine le parole di Susan Stanford Friedman, che condensano insieme l’importanza delle narrazioni e quella della pratica critica, riaffermando l‘importanza culturale di chi delle narrazioni discute e dialoga. The stories they tell matter. So do the stories we tell about them. PARTE I QUADRO TEORICO-CONCETTUALE: FIGURE DELL’ESPATRIO, CARATTERISTICHE DELL’ESILIO E CATEGORIE INTERPRETATIVE. CAPITOLO 1. L’ESILIO. 1.1 L’esilio. Esilio. Una parola che tutti riconoscono, di cui tutti credono di saper dare una definizione immediata. La diffusione di questo termine e di idee ad esso legate fanno apparire l’esilio un’esperienza facile da situare, definire, riconoscere. A prima vista, dunque, lavorare sull’esilio sembra un’impresa non troppo ardua, ma quando ci si addentra nella questione e si tenta di dare una definizione ragionata del termine, dei concetti che definisce e della realtà a cui si riferisce, se ne riconosce la complessità. Manca, difatti, una chiara definizione di esilio, di letteratura dell’esilio, e di letteratura della migrazione. La stessa espressione “letteratura dell’esilio” è ambigua. È un’espressione-cappello che dice poco, dal momento che le esperienze dell’esilio sono molteplici e spesso molto personali. Le scritture di autori e autrici in esilio, a loro volta, possono trattare dell’esilio come possono invece non occuparsene esplicitamente. Nella definizione di letteratura dell’esilio è importante, quindi, specificare se con questa espressione ci si riferisce all’esilio come tema delle narrazioni o se, più in generale, si intende tutta la produzione di autori e autrici che si trovano a vivere in una nazione differente dalla loro madrepatria. Per quanto riguarda gli studi sistematici e analitici sull’esilio ve ne sono pochi e questi sono a loro volta non esaustivi, come ammettono gli stessi teorici. In The Anatomy of Exile, Paul Tabori, studioso ungherese emigrato e residente a Londra, che pure rifiuta di considerarsi “esiliato”, così definisce il termine: An exile is a person compelled to leave or remain outside his country of origin on account of well-founded fear of persecution for reasons of race, religion, nationality or political opinion; a person who considers his exile temporary (even though it may last a life time), hoping to return to his fatherland when circumstances permit—but unable or unwilling to do so as the factors that made him an exile persist. In seguito, tuttavia, Tabori stesso si è sentito insoddisfatto della definizione, troppo stretta per inglobare tutte le esperienze reali dell’esilio. La difficoltà nell’affrontare l’esilio in modo teorico analitico sta anche nel fatto che negli scritti degli “esuli” l’esilio appare più come una auto-definizione che come una categoria oggettiva, appare, cioè, come un’auto-percezione, una descrizione che una persona si dà o rifiuta, in base alla percezione e all’immagine di sé. L’assenza di una definizione teorica del concetto di esilio e la qualità soggettiva dell’esperienza dell’esilio sono il motivo per cui esistono numerose definizioni letterarie dell’esilio, che possiamo trarre da scritture più o meno autobiografiche. Forse ha ragione, allora, la scrittrice croata Dubravka Ugrešić a sostenere che “l'esilio è una condizione letteraria; non solo fornisce una ricca lista di citazioni letterarie, ma è una citazione letteraria”. Infine, la maggior parte dei tentativi di definire l’esilio in modo analitico è stata fatta da scrittori e da scrittrici, come testimoniano il testo Dall’esilio del poeta russo Josif Brodskij e Pour une ontologie de l’exil della scrittrice ceca Vera Linhartová. Restano comunque pochi i contributi teorici sull’argomento. La questione da affrontare è se si possano utilizzare i termini esilio e esiliato/a in modo analitico, scientifico, a prescindere dalle auto-rappresentazioni individuali e se sia possibile uno studio sistematico di tali esperienze o se, al contrario, l’esilio è destinato a rimanere un concetto “cappello”. Sembra esserci una discrepanza tra l’esilio come categoria analitica e come concetto teorico e le molteplici esperienze di esilio che si sono succedute nella storia, sia individuali, sia di comunità intere. Il termine esilio ha una forte connotazione storica, legato com’è ad eventi che si sono succeduti nei secoli. L’esilio nasce come concetto politico, legato a questioni di politica e di potere e si configura come l’allontanamento dalla casa, dalla famiglia e dalla patria, spesso come forma di punizione da parte di un regime oppressivo. Nell’antica Roma, uomini politici o intellettuali scomodi al potere venivano banditi dal territorio romano e mandati a finire i propri giorni agli estremi confini del mondo conosciuto, spesso in una zona di frontiera tra il mondo ‘civilizzato’ dei romani e quello dei ‘barbari’, dove non potevano più nuocere al centro del potere. Celebri casi di esilio nel mondo classico sono stati, ad esempio, quello di Cicerone o del poeta Ovidio. Un altro celebre esilio è quello cantato nella Divina Commedia, nel XVII Canto del Paradiso, dove Dante profetizza a se stesso il proprio esilio. Esilio per eccellenza, legato questa volta non al singolo ma ad un’intera comunità, è quello del popolo ebreo, costretto a lasciare la patria e a disperdersi su vasti territori. In questo caso, gli ebrei costituiscono una nazione in esilio e il termine “esilio” si con/fonde con un altro concetto molto dibattuto recentemente nell’ambito di studi letterari, studi culturali, scienze sociali e studi della migrazione, cioè quello di “diaspora”. I due concetti spesso si sovrappongono. Le narrazioni letterarie raccontano di un esilio differente. Incentrate come sono sull’esperienza del singolo, l’esilio viene descritto attraverso gli occhi di chi lo vive o sente di viverlo. L’esilio che emerge dalla letteratura è strettamente legato all’immagine che l’autore o l’autrice ha di sé come soggetto che si muove nel mondo e alla direzione verso cui vuole orientare la propria vita. L’esilio ha a che fare con le emozioni, i sentimenti, le paure e le angosce individuali; con la possibilità di inserimento/integrazione in un nuovo contesto sociale, politico, linguistico, possibilità legata sia al soggetto che si sposta, sia alla realtà che questo incontra. Per tentare di superare la confusione generata dalle varie connotazioni assunte dal termine esilio intendo distinguere tra esilio come esperienza storica e politica, da un lato, e, dall’altro, esilio come categoria concettuale e come metafora dell’estraneamento, della disappartenenza e della deterritorializzazione, similmente a quanto indicato da Avtar Brah nell’analisi di “diaspora”. Ovviamente, le due possono sovrapporsi e riferirsi alle due facce di un’unica esperienza, ma è bene tenere a mente tale distinzione per riconoscere le varie componenti dell’esilio. Per quanto riguarda l’esilio, dunque, non si può far altro che arrischiare una teoria. “To ‘risk’ a theory, so it is with exile”, come afferma Angela Ingram nell’introduzione al volume Women Writing in Exile. In Questions of Travel, la studiosa Caren Kaplan spiega come il postmodernismo abbia prodotto una lunga serie di discorsi che si riferiscono al periodo modernista e che individuano nell’esilio la forma per antonomasia dei movimenti degli individui e la loro scelta di abitare altrove. A causa di questi discorsi della critica postmodernista, l’esilio, nel corso del tempo, ha finito per assumere la connotazione di condizione artistica, in un certo senso bohemienne, di poeti, letterati/e, artisti/e che di spostavano soprattutto verso le grandi capitali europee, soprattutto Parigi, con Roma e Londra, considerate i maggiori centri di produzione della cultura del tempo. L’esilio, in altre parole, è diventata un “historical construct of modern displacement”, insieme ad altri termini, quali viaggio, immigrazione, nomadismo e così via. Travel is very much a modern concept, signifying both commercial and leisure movement in a era of expanding Western capitalism, while displacement refers us to the more mass migrations that modernity has engendered. Nell’analisi di Kaplan, i discorsi postmodernisti hanno creato una sorta di mito dell’esilio, per cui questo finisce per essere pensato come condizione del singolo, piuttosto che di una comunità o di un gruppo. In genere, l’esiliato/a è un/a intellettuale o artista, e la sua condizione è associata a sentimenti di nostalgia, perdita e spaesamento. Inoltre, l’esilio viene narrato attraverso una forma artistica e per questo ancora di più si configura come condizione eccezionale, lontana dalla vita delle persone “normali”. Sembra che solo gli/le intellettuali o gli uomini e le donne d’arte possano godere della prerogativa di esiliato/a, mentre questi/e sono quasi immuni dallo stato di migranti e profughi. Few of the writers included in critical assessments of Euro-American high modernism are referred to as immigrants or refugees. Their dislocation is expressed in singular rather than collective terms, as purely psychological or aesthetic situations rather than as a result of historical circumstances. In conclusione, l’immagine dell’esilio che deriva dai discorsi critici sul modernismo è in un certo senso viziata dall’aura romantica che gli viene associata, troppo distaccata dalla realtà dell’esperienza storica e politica degli individui che vivono la condizione dell’esilio. The modernist trope of exile works to remove itself from any political or historically specific instances in order to generate aesthetic categories and ahistorical values. 1.2 Migranti: esilio, emigrazione, espatrio. È necessario rivalutare gli aspetti meno romanzati e mitici che fanno parte dell’esperienza dell’esilio, soprattutto perché il XX è stato un secolo di notevoli flussi di persone da un punto all’altro del pianeta, che si spostano per i più svariati motivi. Migration, in its endless motion, surrounds and pervades almost all aspects of contemporary society. As has often been noted, the modern world is in a state of flux or turbulence. It is a system in which the circulation of people, resources and information follow multiple paths. Le agenzie di stampa, i bollettini di guerra, i telegiornali sono pieni di riferimenti ad esuli, migranti, espatriati, profughi, sfollati e richiedenti asilo, senza alcuna differenziazione tra le diverse situazioni che gli individui si trovano a vivere e a causa delle quali sono costretti a cambiare luogo di residenza. Questi stessi termini vengono talvolta utilizzati senza una chiara ed univoca definizione per cui spesso si genera confusione. Innanzitutto, si distinguono le varie figure in base alle motivazioni della partenza dalla casa o dalla patria. Queste possono essere dovute a situazioni politiche, sociali, culturali o personali, e nei vari casi gli individui vengono differentemente connotati. Secondo le definizioni che ne dà Amnesty International, i migranti sono coloro che lasciano il proprio Paese per un lungo periodo di tempo. Fra questi, alcuni decidono volontariamente di cercare un lavoro o una nuova vita altrove (i migranti economici), altri, invece, scappano da situazioni di guerre, carestie o catastrofi naturali, nel qual caso si parla di profughi. Si parla invece di rifugiati riferendosi a coloro che sono costretti a fuggire perché hanno il fondato timore di essere individualmente perseguitati dal loro governo o da altri gruppi organizzati per motivi di opinione politica, religione, etnia, nazionalità, provenienza, sesso, orientamento sessuale, o per altri motivi. Coloro che fuggono cercano quindi protezione presso un altro governo; quando richiedono che sia loro concessa questa protezione, cioè sia loro concesso lo status di rifugiato, si chiamano richiedenti asilo. Gli sfollati sono coloro che a causa di guerre, carestie o catastrofi naturali fuggono dalla propria abitazione e vanno ad abitare altrove, ma nello stesso Stato. Per Edward Said, profughi e rifugiati costituiscono una creazione del XX secolo e sono termini con una forte connotazione politica. Refugees […] are a creation of the twentieth-century state. The word “refugee” has become a political one, suggesting large herds of innocent and bewildered people requiring urgent international assistance […]. Gli espatriati, invece, sono persone che scelgono volontariamente di lasciare il proprio paese. Gli analisti sono d’accordo nel riconoscer loro una connotazione completamente diversa, non legata ad eventi politici né catastrofi naturali o guerre. Per Said, Expatriates voluntarily live in an alien country, usually for personal or social reasons. Anche Mary McCarthy, in “Exiles, Expatriates and Internal Emigrés” discosta completamente l’espatriato dalle altre figure, considerandolo una sorta di artista ed edonista, non interessato alle questioni politiche e non attaccato sentimentalmente al proprio paese. The expatriate is a hedonist. He is usually an artist or a person who thinks he is artistic. He has no politics or, if he has any, […] he has acquired it from the country he has adopted. The average expatriate thinks about his own country rarely and with great unwillingness. He feels he has escaped from it. Il termine esule, in tutto questo panorama, contiene connotazioni differenti. Said, che pure riconosce che la persona a cui viene impedito di fare ritorno alla propria casa possa essere considerata in esilio, sottolinea da un lato l’elemento politico, legato all’origine storica dell’esilio come messa al bando, al confino da un determinato territorio, e dall’altro come ciò che caratterizza l’esiliato sia la condizione psicologica e sentimentale in cui si ritrova. Exile originated in the age-old practice of banishment. Once banished, the exile lives an anomalous and miserable life, with the stigma of being an outsider. […] “exile” carries with it, I think, a touch of solitude and spirituality. Said mette dunque subito in evidenza i sentimenti associati all’esilio, cioè il senso di separazione, solitudine e perdita: “True exile is a condition of terminal loss”. Exile is strangely compelling to think about but terrible to experience. It is the unhealable rift forced between a human being and a native place, between the self and the true home: its essential sadness can never be surmounted. In tutto questo panorama, e tenendo in mente la flessione verso l’aspetto artistico ed edonistico assunto dalla parola esilio in riferimento al periodo modernista, è necessario rivalutare il termine per utilizzarlo nelle istanze di oggi. Le rappresentazioni dell’esilio nelle scritture contemporanee delle donne maghrebine e medio-orientali non sono staccate dalla realtà che circonda le autrici, anzi sono a questa intimamente legate. L’esilio, infatti, comincia proprio dalle condizioni sociali, culturali e politiche in cui le scrittrici si trovano a vivere. Le difficoltà, le privazioni, i soprusi che queste donne devono affrontare quotidianamente le portano, alla fine, a vedere l’esilio come l’unica soluzione e via per riprendere in mano la propria vita. Non vi è nulla di estetico, edonistico o a-storico nel loro esilio. Al contrario, per comprendere a pieno le loro ragioni è fondamentale immergersi nella storia, nella cultura e nella società in cui sono nate e vissute. Una delle più sistematiche e convincenti analisi dell’esilio è stata fatta dalla scrittrice cèca Vera Linhartová, che propone, nella sua lingua di adozione, il francese, una vera e propria ‘ontologie de l’exil’. Secondo Linhartová la nozione di esilio ha senso solo nelle società sedentarie (non avrebbe ragione di esistere tra le popolazioni nomadi). Nomade è colui che “change lieu sur cette terre, sans se soucier d’usages et de convenances, car le choix du lieu est pour lui une question de préférence et de nécessité intime, non d’obligation”. Linhartová si addentra a spiegare il senso di esilio. Que veut dire le mot ‘exil’? D’origine latine, exilium, il signifie littéralement: ‘hors d’ici’, ‘hors de ce lieu’. Il implique donc l’idée d’un lieu privilégié parmi tous, d’un lieu idéal et sans pareil. Linhartová traccia l’evoluzione storica del concetto di esilio, strettamente legato alla configurazione socio-politica e storica (come precisa l’autrice, l’etichetta “esilio” spesso viene utilizzata in modo superficiale, ma in realtà designa un insieme di situazioni, comportamenti, fenomeni molto differenti tra loro). Linhartová opera una prima distinzione, di ordine storico, tra esilio forzato e esilio volontario. All’inizio, nella Grecia e nella Roma classica, scrive, l’esilio è stato istituito come pena, strumento di repressione, condanna. E’ questo il caso dell’esilio forzato, che si configura come allontanamento obbligato dalla propria comunità, esclusione e conseguente perdita di tutti i diritti di cittadinanza. In tempi più recenti, nei regimi totalitari, il cittadino viene considerato proprietà dello Stato, di conseguenza l’esilio diventa una scelta volontaria: l’esilio volontario diventa strumento di ribellione allo stato. A sua volta, l’esilio volontario può essere concepito in due modi differenti. Da un lato, può essere inteso “comme une fuite devant une adversité et une menace immédiate; il sera alors vécu comme un temps suspendu, provisoire, en attendant le retour improbable vers le lieu et le temps d’avant la rupture”. È il caso di coloro che fuggono a causa della guerra o di persecuzioni dovute a motivi ideologici e/o politici, e che, nel tempo dell’esilio, sono sempre con lo sguardo e le orecchie rivolti in direzione del proprio paese e attendono un cambiamento politico per poter ritornare. Di tale condizione Salman Rushdie scrive, utilizzando la lingua inglese come per tutte le sue opere, nel romanzo Satanic Verses, in cui racconta la condizione di un imam, un esule politico, nel suo appartamento di Londra. La casa dell’imam è “a rented flat”, perché non ha intenzione di comprarlo e di trasferirvisi. È una sala d’aspetto, un luogo di transito, in cui egli dimora nella costante attesa del ritorno. L’esule vive in una condizione sospesa, sia nel tempo, tra il passato e il futuro atteso con ansia, che nello spazio, nella terra straniera che non vede l’ora di lasciare. Who is he? An exile. Which must not be confused with, allowed to run into, all the other words that people throw around: émigré, expatriate, refugee, immigrant, silence, cunning. Exile is a dream of glorious return. Exile is a vision of revolution: Elba, not St Helena. It is an endless paradox: looking forward by always looking back. The exile is a ball hurled high into the air. He hangs there, frozen in time, translated into a photograph; denied motion, suspended impossibly above his native earth, he awaits the inevitable moment at which the photograph must begin to move, and the earth reclaim its own. These are the things the imam thinks. His home is a rented flat. It is a waiting-room, a photograph, air. (SV, pp. 205-206) Una simile condizione, sentita intensamente come di transito, di sospensione in attesa del ritorno, è vissuta come spaesamento. L’imam non pensa ad alcun tentativo di integrazione, di avvicinamento, o comprensione del mondo che lo accoglie e che è sentito come esterno/estraneo. Questo mondo straniero, opposto alla patria, viene identificato dall’imam come il male, “the evil”: The curtains, thick golden velvet, are kept shut all day, because otherwise the evil thing might creep into the apartment: foreignness, Abroad, the alien nation. (SV, p. 206) La città straniera è una “hated city” perché “[it] humiliates him by giving him sanctuary, so that he must be beholden to it” (SV, p. 206). Ed è per l’esule “a point of pride to be able to say that he remained in complete ignorance of the Sodom in which he had been obliged to wait; ignorant, and therefore unsullied, unaltered, pure” (SV, pp. 206-207). L’imam di Rushdie rappresenta la concezione che l’Islam fondamentalista ha del mondo cosiddetto occidentale, ritenuto il grande Satana, un mondo corrotto e perverso, una concezione che non esaurisce certamente i punti di vista sul mondo esterno, la terra ospitante, ma che ben illustra l’atteggiamento ideologico di distacco, separazione e giudizio dell’esule verso la terra che lo ospita. Tornando all’analisi di Linhartová, l’esilio volontario può, però, anche configurarsi come “point de départ vers un ailleurs, inconnu par définition, ouvert à toutes les possibilités; et dans cette optique, il sera vécu comme un temps plein, comme un commencement sans but définit […] ”. Ma per Linhartová, in questo secondo caso il termine esilio è inappropriato: pour qui part sans regret et sans le désir de revenir en arrière, le lieu qu’il vient de quitter a une bien moindre importance que le lieu où il va arriver. Il ne vivra plus « hors de ce lieu », mais s’engagera sur le chemin […] vers cet ailleurs […]. Tout comme le nomade, il sera « chez lui » partout où il posera le pied. Per Linhartová questa condizione non può essere definita esilio, ma si tratta di uno stato permanente di vita altrove. In questo caso il soggetto è piuttosto un nomade, aperto a tutte le possibilità dell’altrove. Manca invece ogni sorta di ottimista attesa dalla terra di arrivo per coloro che subiscono l’esilio. Per Linhartová, infatti, nell’esilio subito, la “principale caractéristique consiste sans doute dans l’expectative que le temps suspendu prenne fin et dans l’espoir de retrouver le statu quo antérieur”. La definizione del nomade che dà Linhartová è condivisa dalla filosofa femminista Rosi Braidotti che, nel volume Nomadic Subjects, distingue le tre figure di esule, migrante e nomade. Per Braidotti, il nomade è distinto sia dall’esule che dal migrante perché nelle sue dislocazioni non è spinto da motivazioni politiche né economiche. Il migrante si sposta per una ragione ben definita, generalmente di natura economica, ed è una figura legata alle distinzioni di classe nella società. The migrant is no exile: s/he has a clear destination: s/he goes from one point in space to another for a very clear purpose. Europe today is a multicultural entity; the phenomenon of economic migration has created in every European city a set of foreign “sub-cultures”, in which women usually play the role of the loyal keepers of the original home culture. […] The migrant bears a close tie to class structure; in most countries, the migrants are the most economically disadvantaged groups. Economic migration is at the heart of the new class stratification in the European Community today. L’esule è invece, per Braidotti, colui che si sposta per ragioni politiche e generalmente non si può associare alle classi sociali meno elevate. By contrast, the exile is often motivated by political reasons and does not often coincide with the lower classes. Il nomade si oppone ad entrambe le figure perché contiene una nozione positiva, ottimistica del futuro e della vita. L’identità del nomade è legata a questa visione della vita e si configura come un’identità di transizione e cambiamento. The nomad does not stand for homelessness, or compulsive displacement; it is rather a figuration for the kind of subject who has relinquished all idea, desire, or nostalgia for fixity. This figuration expresses the desire for an identity made of transitions, successive shifts, and coordinated changes, without and against an essential unity. In conclusione, ciò che caratterizza il/la nomade, è il movimento e l’attraversamento delle frontiere, e la mancanza di una destinazione. Essere nomade “is about crossing boundaries, about the act of going, regardless of the destination”. 1.3 L’esilio: un grande tema letterario. “Don’t you have any luggage?” “No, I only have lifeage!” Dubravka Ugrešić Dubravka Ugrešić è una scrittrice croata nata nel 1949 a Zagabria, che vive in una condizione di doppio esilio, di cui racconta in Vietato Leggere. Il suo è esilio volontario innanzitutto: ha difatti lasciato la Croazia nel 1993 per attriti con il governo Tuđman, che l’accusava di essere una “strega” e di tradire la Croazia. A causa delle sue affermazioni e i suoi lavori di letterata contraria al nazionalismo del governo, Ugrešić veniva accusata dalla propaganda di stato di ledere gli interessi del paese, di istigare alla dissidenza e compromettere l’operato della propaganda stessa. Come un tempo si bruciavano le streghe sul rogo, così la propaganda nazionalista croata aveva cercato, con metaforici roghi o spingendoli a lasciare il paese, di far tacere gli/le intellettuali che non si erano schierati/e dalla parte del governo, non avevano accettato di scrivere articoli elogiativi sul suo operato ed osavano apertamente sfidare l’autorità. Ugrešić era una di queste voci dissidenti, denunciando l’assenza di un’informazione alternativa a quella del governo e accusandolo di forgiare notizie false e di manipolarle a proprio favore. Non solo roghi metaforici aveva usato la propaganda contro le donne giornaliste e letterate che avevano osato contraddirla, ma nel 1992 sul settimanale Globus, il giornalista filogovernativo Slaven Letica aveva accusato cinque letterate croate, tra cui Ugrešić, di essere moderne “streghe”. Sentitasi abbandonata nella sua lotta per la cultura, la verità e la coerenza professionale anche da vecchi compagni e colleghi, nel 1993 ha preferito scegliere l’esilio: “I invested my own money in the purchase of my broom. I fly alone”. Ancora prima di essere un esilio volontario, una fuga dalla Croazia, quello di Ugrešić è un esilio ‘forzato’ dalla sua patria, la ex-Yugoslavia. La scrittrice, come molti altri connazionali, si è ritrovata privata del proprio Paese, scomparso come realtà geo-politica e nazionale. Quella che era prima la Yugoslavia è diventata ex-Yugoslavia, cioè un “ex-Paese”, che non esiste più. La exYugoslavia fa, così, parte di un più vasto “mondo ex”, come viene definito da Pedrag Matvejevic. Insieme con la Yugoslavia è finito anche un sogno, un progetto politico: il progetto multinazionale della pacifica convivenza tra più popoli, tra più nazioni della Penisola Balcanica. Dopo la scissione violenta e drammatica, i documenti, le carte d’identità e i passaporti non sono stati più validi, sono diventati carta da riciclare, così come da riciclare sono le identità che essi veicolavano. Identità che, forse, sono da ricercare altrove, su altri spazi e, magari, sullo spazio della pagina che si scrive. Se questa ricerca si trasferisce sulla pagina, la scrittura diviene specchio di questa identità frantumata, spezzata, interrotta, che porta in sé anche il sapore dell’esilio in cui viene creata. Dubravka Ugrešić, in uno dei suoi ultimi libri, Vietato leggere, afferma che “l’esilio è un grande classico tra i temi letterari” e prosegue: La storia cristiana del mondo ha inizio con un racconto sull’esilio. Esilio è inoltre la parabola del figliol prodigo, del tradimento, della cacciata e della punizione, il mito del doppio e dello scambio dei ruoli, il mito di Odisseo, la storia di Faust e del Diavolo che offre la possibilità di un’altra vita, esilio è la favola dell’allontanamento da casa, la ricerca della strada di casa e il ritorno a casa (Il mago di Oz), esilio è la fiaba russa di Ivan lo Scemo. (VL, p. 179) L’esilio è un grande tema letterario che è stato affrontato innumerevoli volte e sotto molteplici aspetti da una grande quantità di scrittori e scrittrici e poeti, esiliati per motivi politici o che si sono allontanati dalla terra di origine perché impossibilitati a restare da circostanze storiche o personali. La storia letteraria è ricca di apporti di scrittori in esilio. Certo, non tutti hanno esplicitamente scritto della loro condizione di esiliati, ma una gran parte lo ha fatto. La scrittura, difatti, non può prescindere dalle condizioni di vita di chi scrive. Come scrive Ugrešić, l’esilio è anche uno stile. A suo parere gli scritti degli esuli sono riconoscibili per lo stile frammentario: Esilio è inoltre uno stile, una strategia narrativa. Una vita in pezzi può essere raccontata solo in frammenti (Rilke), e “certi generi e certi stili non possono essere, per definizione, praticati in esilio”. (VL, p. 179) Gli scrittori e le scrittrici in esilio vivono in una condizione di perdita della patria, della famiglia, di una parte della propria esistenza, dovute ad una frattura che si è verificata nella loro vita. La partenza è una frattura, che marca un taglio con la linearità di un’esistenza prima della partenza. Come spiega Salman Rushdie in Imaginary Homelands, quando si guarda al passato, che già in sé è un tempo che non esiste più, per narrarlo, ciò non può avvenire che in modo frammentario, a pezzi. Questo perché la narrazione coinvolge la memoria, che per definizione è fallibile e, soprattutto, frammentaria. Uno scrittore o una scrittrice che scrive della patria dal di fuori si ritrova, continua Rushdie, “to deal in broken mirrors, some of whose fragments have been irretrievably lost”. Il racconto di una vita spezzata parlerà ovviamente di fratture, cesure, di un prima e un dopo, ai quali sono associati luoghi diversi. Il viaggio e la partenza costituiscono la prima, grande cesura nella vita di un esule e la sua memoria sembra condannata a percorrere cammini avanti e indietro dal luogo di partenza a quello dell’esilio. “La storia cristiana del mondo ha inizio con un racconto sull’esilio”, afferma Ugrešić. L’esilio, dunque, è un grande tema della letteratura già a partire dai testi sacri, non solo nella Bibbia, quindi per il mondo cristiano, ma si estende anche al mondo islamico attraverso i racconti contenuti nel Corano. L’exil a toujours été au coeur de la création littéraire, comme il a toujours été une des marques des sociétés humaines. Dès le premier couple humain, dès le premier groupe social l’homme a connu l’exil. È suggestiva l’analisi che dell’esilio fa Jean-Pierre Makouta-Mboukou, il quale nell’introduzione al suo libro Littératures de l’exil specifica che il concetto di esilio implica sempre una cacciata ed è perciò legato alla figura di un capo, di un creatore. Il primo ad aver cacciato dalla terra qualcuno è stato Dio, il creatore, che ha bandito Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre. Makouta-Mboukou estende la nozione di ‘creatore’ fino ad includere, oltre ai creatori e alle creatrici letterari/e, i “creatori politici”. In questo modo lo studioso comprende tutti i tipi possibili di esiliato/a. Initialement nous n’avons pensé qu’à l’exil des créateurs: écrivains, poètes. Chemin faisant nous avons élargi la notion de créateurs en y englobant les créateurs politiques, les bâtisseurs de cités ou d’empires, etc. L’exil des créateurs ainsi envisagé fournit à l’histoire de l’humanité tous les types d’exilés possibles, comme si par essence l’homme n’était destiné qu’à être déplacé, déchu du jardin originel, chassé de son pays, de sa maison, coupé de sa culture, de sa civilisation, de sa langue ; comme s’il était perpétuellement destiné à être exilé dans les territoires et dans l’histoire des autres ; dans les idéologies étrangères (économique, sociale, financière) ; dans les humanismes, c'est-à-dire, dans les visions du monde des autres ; dans la foi et les spiritualités des autres ; pire, dans la langue des autres. Comme si, en un mot, la vie de l’homme était une permanente a-culturation, à défaut d’être une heureuse acculturation. La storia biblica del genere umano comincia con la cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre. La Bibbia racconta anche di molti altri esili, di Caino, punito per aver ucciso il fratello Abele; di Abramo, di Agar, di Giacobbe e Giuseppe; l’esilio di Mosé e del popolo di Israele. Anche il testo sacro dell’Islam, il Corano, parla di esilio, quello di Mohammed, che a causa dell’ostilità degli abitanti di Mecca, di cui egli ha violentemente criticato la religione politeista, deve abbandonare la città e scappare a Medina. Nell’antichità, l’esilio continua ad essere un tema presente nella letteratura: lo ritroviamo nei testi ispirati alla religione politeista greca, l’Odissea e l’Eneide; in quelli dei poeti dell’antichità, come Ovidio, e via via nel corso dei secoli. Il tema dell’esilio è diventato in questo modo un vero topos letterario e culturale. Tutte le figure di esiliati sono accomunati da almeno un elemento: la sensazione di instabilità, di ricerca costante, una sorta di erranza. Come afferma Makouta-Mboukou, “Tout véritable exil est nécessairement une errance”: L’espace de l’exilé est avant tout un espace qui ne conduit nulle part. L’exilé y erre. Et cette errance est une véritable persécution. Tous les exilés dont nous avons étudié l’espace l’ont ainsi ressenti : les enfants d’Israël et Moïse, Ulysse, Enée, Ovide, Marot, Du Belley, Satan, Pèlerin, Rousseau, etc. 1.4 L’esilio come condizione tra-due. L’esilio, cioè l’allontanamento dalla casa, dalla patria, dai familiari, la perdita delle sicurezze legate al passato, si configura come la condizione di sentirsi fuori, altrove, privati di qualcosa. Che ciò derivi da una scelta forzata o volontaria, da un’esigenza personale o da costrizione esterna (causata da condizioni socio-economiche, politiche, da guerre o altro), l’esiliato è colui o colei che sente di vivere in una condizione sospesa e non definita, tra due terre, due culture, due stati, due lingue. Talvolta anche più di due. L’esiliato a volte ha la sensazione di essere un soggetto intrappolato in una condizione in cui nessuna opzione è possibile: sulla nuova terra in cui si è esiliati si prova nostalgia per la madrepatria e ci si sente stranieri, perché non si appartiene a quel popolo, a quella nazione e a quella lingua. Ma allo stesso modo si prova un senso di alienazione e spaesamento quando ci si trova in patria: anche qui ci si sente estranei, stranieri, non si condividono le idee, le scelte, i modi di vivere e di pensare della gente, si sogna di essere in un altro luogo, dove diverse sono le regole e i valori della società. Questo sentimento di spaesamento, per il quale non esiste soluzione, è espresso da un personaggio di un’opera teatrale del drammaturgo francese Bernard-Marie Koltès, dal titolo Le Retour au désert. In quest’opera ambientata in una città della provincia est della Francia, Mathilde, dopo quindici anni passati in Algeria, torna alla casa paterna, dove abita ormai il fratello Adrien con la sua famiglia. Nata in Francia, ma avendo passato gran parte della sua vita ad Algeri, Mathilde rivendica la libertà degli esseri umani di viaggiare, di spostarsi, di non dover dimorare per sempre nel luogo in cui il destino li ha voluti far nascere. “Mes racines? Quelles racines? Je ne suis pas une salade; j’ai des pieds et ils ne sont pas faits pour s’enfoncer dans le sol!”. Ma allo stesso tempo, voler rifiutare le radici causa un costante rifiuto del luogo in cui ci si trova nel presente, poiché tale luogo risulta sempre essere inadeguato alle aspettative dell’individuo. « Quelle patrie ai-je, moi? Ma terre, à moi, où est-elle ? Où est la terre où je pourrais me coucher ? En Algérie, je suis une étrangère et je rêve de la France; en France, je suis encore plus étrangère et je rêve d’Alger. Est-ce que la patrie, c’est l’endroit où l’on n’est pas ?... » Mathilde vive una situazione di scissione e di doppio desiderio tra la Francia e l’Algeria. Il suo spirito ricerca costantemente la tranquillità della patria, della casa, ma nessuna delle due terre è in grado, da sola, di soddisfare tale aspirazione. La patria cui non riesce ad approdare è forse proprio quella assente, l’altrove che manca, quell’altrove che completa il qui e ora. Mathilde arriva così alla conclusione che, forse, la sua patria, il luogo che è suo, in cui si riconosce, è proprio il senso di mancanza, di incompletezza della sua condizione. Tale sensazione risuona come un ritornello nella mente e nel cuore dell’individuo in esilio, come in tutti coloro che si trovano “spaesati”. Il termine italiano spaesato, come fa notare Iain Chambers, significa privato del paese, della nazione, dunque straniero e perso: “To be a stranger in a strange land, to be lost (in Italian spaesato – ‘without a country’)”. Gli/le spaesati/e gli/le esiliati/e si riconoscono in questo ritornello, come quello che si ripete, con qualche leggera variazione, nelle pagine di introduzione al volume A New World Order di Caryl Phillips: I recognise the place, I feel at home here, but I don’t belong. I am of, and not of, this place. Le opere da me prese in considerazione in questo lavoro disegnano una mappa dell’esilio che si configura generalmente come allontanamento necessario dalle condizioni socio-politiche e culturali di vita. L’esilio rappresentato in queste scritture è sempre un esilio volontario, sebbene sia una scelta che costa dolore e sofferenze. La scrittrice algerina Malika Mokeddem, ad esempio, sceglie l’esilio come fuga per non farsi soffocare dal peso delle tradizioni e delle condizioni sociali che considera insostenibili per le donne in Algeria. Altre scrittici e artiste, come le iraniane Azar Nafisi e Marjane Satrapi, se da un lato abbandonano la propria terra e la propria famiglia a causa della guerra, dall’altro, una volta che questa è conclusa, non riescono più a vivere nelle condizioni socio-politiche e culturali in cui ritrovano il loro paese e sono costrette ad auto-esiliarsi, rispettivamente negli Stati Uniti e in Francia, per poter vivere nel rispetto delle libertà personali. Nel loro caso l’esilio è la condizione tra-due: è allo stesso tempo il nonessere-là e l’essere-qua. Prendendo in prestito le parole di Mokeddem, si può dire che per queste scrittrici l’esilio è uno stato indefinito tra “ici” e “là bas”. L’esilio è un evento fisico e psichico, è la condizione di trovarsi tra due spazi/lingue/culture. Si è partiti ma la memoria è costante compagna, i ricordi della terra lasciata, della casa, dei familiari sono sempre presenti. Inoltre, la terra di origine lascia sempre un marchio in ognuno di noi, se non altro perché vi abbiamo trascorso l’infanzia, che è il periodo in cui si formano i primi ricordi, si forma il carattere della persona che sarà, gli affetti e le sensazioni. Si impara a conoscere il mondo attraverso i suoni, le vibrazioni, gli odori del luogo di origine, come pure nella e attraverso la lingua in cui si è immersi, che è poi la lingua materna. Nancy Huston, scrittrice di origine canadese che vive da molti anni a Parigi e scrive soprattutto in francese, così parla di questo marchio indelebile che ha lasciato in lei il grande Nord, la sua terra di origine: […] mais alors pas du tout la même chose de passer dans un pays les vingt-cinq premières ou vingt-cinq autres années de sa vie. Le Nord, le Grand Nord a laissé sur moi sa marque indélébile. A quoi ressemble cette marque, de quelle nature est-elle ? En quoi suis-je encore l’enfant de mon pays ? En tout : pour la simple raison que j’y ai passé mon enfance. Or rien ne rassemble à l’enfance. On n’en a pas deux, et, quoi qu’on en dise, même avec la maladie d’Alzheimer, on n’y retombe pas. Nell’esilio si giunge su un altro territorio, al quale non si arriva mai veramente: “Tout le temps où je vivais en Algérie je rêvais d'arriver un jour en Algérie, j'aurais fait n'importe quoi pour y arriver, avais-je écrit, je ne me suis jamais trouvée en Algérie”. Cixous scrive il suo sentimento di disappartenenza, la sua impossibilità di toccare, di raggiungere l’Algeria, pur essendovi nata e cresciuta, quasi come in un incubo, uno sforzo continuo e, comunque, inutile. Huston invece ci parla dell’impossibilità di raggiungere la ‘francesità’, ma con un atteggiamento meno tragico, più tranquillo e rilassato; nelle sue parole non sentiamo il dolore della separazione come in quelle di Cixous. Huston non vi arriverà mai proprio perché non ha avuto un’infanzia francese. Même si je vis en France depuis plus longtemps que, par exemple, mes enfants (haha, ça va de soi), je ne serai jamais aussi française qu’eux. Dans la famille, tout le monde est français mais, c’est comme l’égalité, il y en a qui sont plus français que d’autres. […]. « Vous sentiez-vous française maintenant ? me demande-t-on souvent. (Les expatriés : éternellement exposés aux questions stupides.) Cela voudrait dire quoi, se sentir français ? A quoi le reconnaîtrais-je, se ça devait m’arriver un jour? Altre volte, invece, la mancata integrazione nel paese di arrivo è vissuta più traumaticamente, quando ad esempio è l’ostilità degli abitanti del luogo che non offre una vera possibilità di inserimento, di approdo definitivo. L’esilio resta un’erranza nell’altrove, una ricerca continua. Dunque, per alcune scrittrici la condizione di esilio è dolorosa, altre vi trovano comunque aspetti positivi, pur nel dolore della perdita: “Les exilés, eux, sont riches. Riches de leurs identités accumulées et contradictoires.” Ma un elemento rimane: la rottura, la separazione, la cesura tra un qui e un là, un “ici” e un “là-bas”, tra il presente e la terra d’infanzia: L’exil géographique veut dire que l’enfance est loin; qu’entre l’avant et le maintenant, il y a rupture. Une existence ici, et une là-bas. “Ici” e “là-bas” denotano due spazi oppositivi, di cui uno è lo spazio dell’oppressione e l’altro della libertà e della speranza. Per Malika Mokeddem la lettura di romanzi occidentali o la fuga in cima alla duna dietro la casa diventano il luogo delle possibilità di realizzare i propri sogni. Per Azar Nafisi e Marjane Satrapi la casa è stata ‘espropriata’ al controllo dei legittimi proprietari a causa delle continue incursioni del regime della Repubblica Islamica nello spazio privato. È per questo che è necessario andare a ricavare uno spazio ancora più circoscritto all’interno dello spazio domestico, uno spazio dove nascondersi dagli occhi e dalle orecchie del regime, uno spazio dove potersi togliere il chador, comportarsi secondo le proprie idee e leggere opere censurate dal regime. Questo spazio rappresenta la prima forma dell’esilio politico dall’Iran, la prima tappa nella via dell’allontanamento dalla patria. Quando questo spazio non è più sufficiente o sufficientemente sicuro e impenetrabile, bisogna optare per un altro tipo di esilio, che comporta l’allontanamento geografico dalla patria. La Francia e gli Stati Uniti non rappresentano la casa che queste donne non trovano in patria, ma la possibilità di realizzare le proprie aspettative e i propri sogni, di vivere una vita in linea con le proprie idee, e soprattutto libera dagli impedimenti e dagli ostacoli di un regime oppressivo come quello iraniano o di una tradizione troppo pesante per le donne, come quella del Maghreb. Per queste donne, lo sguardo è naturalmente rivolto all’Ovest, all’Europa o agli Stati Uniti. Alcune di loro vi hanno studiato e trascorso alcuni anni delle propria formazione (Nafisi negli Stati Uniti, Satrapi in Austria), altre, nel Maghreb, hanno studiato il francese e la cultura, la storia, la letteratura della Francia al posto di quelle arabe. Per Assia Djebar e Malika Mokeddem imparare, scrivere e parlare la lingua francese rappresentano già di per sé un successo personale e sociale. Il semplice fatto di andare a scuola e poi all’università è da considerarsi una conquista, specialmente per una ragazza, in un’Algeria in cui solo i bambini venivano fatti studiare. È da sottolineare comunque come l’esilio sia caratterizzato, in ogni caso, dalla forte presenza della patria, della famiglia, della società e della cultura di origine. Non si sceglie l’esilio per sottrarsi per sempre all’influenza della patria. Lo si sceglie con l’idea, seppur vaga, che un giorno si possa far ritorno in una patria differente, migliore o, forse, di poter essere d’aiuto per tale trasformazione. La nuova terra è caricata di aspettative che non hanno nulla a che vedere con il tenore di vita. Queste donne non sono come coloro che emigrano per trovare ricchezze e una vita più agiata, ma vogliono sfuggire all’oppressione che subiscono in quanto donne e in quanto appartenenti ad una società che non permette all’individuo di sviluppare le proprie potenzialità. Fawzia Zouari, nata in Tunisia, dottoressa in letteratura francese e comparata, è giornalista a Parigi dove vive dal 1979. Nel romanzo La Retournée, in cui una giovane donna ritorna nel villaggio natio in Tunisia dopo quindici anni perché ha ricevuto un telegramma che le annuncia la morte della madre, la parola “esilio” compare già alla seconda pagina, insieme con le ragioni di questa scelta: Je sais ce qui m’a fait fuir mon pays: c’est cette masse mascoline compacte et déterminée, barrant l’horizon! L’esilio per le donne maghrebine è la via di fuga per sottrarsi ad una società in cui la parte maschile domina il genere femminile. Si studia il francese, come Mokeddem e Djebar, o si parte per la Francia o gli Stati Uniti per imparare soprattutto la cultura, insieme alla lingua, e fare propri i modi di essere di una società in cui le donne hanno libertà di movimento, possono uscire. Si parte per imparare, per acquisire i modi delle donne nella terra di Francia o d’America, per poter poi tornare, perché non vi è esilio senza speranza del ritorno, cambiate, arricchite. Si parte per imparare a camminare a testa alta di fronte a tutti, Que se passe-t-il? Tant d’années de liberté de l’autre côté de la Méditerranée ne m’ont donc pas appris à regarder les miens droit dans les yeux ? Pourquoi serais-je partie, si ce n’est pour arracher mon ombre de la leur, me défaire du poids de leurs préceptes et de l’emprise de leurs versets ? CAPITOLO 2. MODELLI SPAZIALI DELLA CULTURA. 2.1 Tema della cultura e rappresentazione spaziale della cultura. Lo spazio non è vuoto, bensì denso di soggetti, di luoghi, di proiezioni umane e di relazioni e movimenti tra questi. Juriji M. Lotman, semiologo russo del XX secolo, è il primo autore a proporre un modello spaziale come descrizione della cultura e dei processi culturali. La cultura è pensata da Lotman in termini di un modello basato su un’organizzazione spaziale. Una delle particolarità universali della cultura umana, connessa forse alle proprietà antropologiche della coscienza dell’uomo, sta nel fatto che il quadro del mondo assume tratti spaziali. La stessa costruzione dell’ordinamento del mondo è pensata immancabilmente sulla base di una struttura spaziale che ne organizza tutti gli altri livelli. In tal modo, tra le strutture metalinguistiche e la struttura dell’oggetto si stabilisce una relazione di omeomorfismo. Sicché i modelli spaziali intervengono come un metalinguaggio, e la struttura spaziale del quadro del mondo come un testo. […] Essendo […] la caratteristica spaziale una componente immancabile, e insieme la più formale, di ciascuno dei quadri del mondo appartenenti alla cultura umana, essa diviene quel livello del contenuto del modello culturale universale, che rispetto agli altri interviene come piano dell’espressione. Attraverso il modello spaziale Lotman dà un ordine visivo, geometrico al mondo. Nell’opera Tipologia della cultura, scritta a quattro mani con Boris Uspenskij, troviamo ben quattro differenti definizioni di cultura. Innanzitutto, la cultura è il patrimonio non naturale che una particolare società decide di tramandare. Noi intendiamo la cultura come memoria non ereditaria della collettività, espresso in un determinato sistema di divieti e prescrizioni. Questa prospettiva tratta la cultura come un sistema, un codice con precise norme strutturali: La cultura è […] un insieme di segni organizzato in un certo modo. Proprio il momento dell’organizzazione, che si manifesta come somma di regole, restrizioni, imposte al sistema, è il connotato che definisce la cultura. L’eredità trasmessa dalla cultura si configura, per Lotman, come l’insieme degli elaborati o prodotti umani, ordinati e trasmessi secondo una certa lingua. La lingua della cultura, modellata su una lingua naturale, è costitutiva di una specifica società o epoca. Una cultura si autorappresenta come una totalità che si contrappone da un lato alla natura, dall’altro alla non-cultura. La cultura si contrappone non solo alla natura […], ma anche alla non-cultura, a quella sfera, cioè, che funzionalmente appartiene alla cultura, ma non ne adempie alle regole. Nella sua analisi Lotman mette in evidenza come in ogni cultura siano presenti dinamiche di inclusione ed esclusione: tutto ciò che segue e si adatta alle regole imposte dalla cultura è accettato, incluso, e allo stesso tempo tutto ciò che diverge da tale sistema di leggi è considerato fuori dalla sfera culturale, al di là del limite/confine che definisce la cultura. La cultura si organizza al proprio interno, individuando un centro (gli assi portanti, le regole che definiscono la cultura stessa) e i margini. Tratto fondamentale nel modello lotmaniano di cultura è inoltre la presenza di una frontiera, che divide lo spazio in due parti distinte, lo spazio interno da quello esterno (IN/ES): lo spazio interno è chiuso ed organizzato (fornito di struttura) mentre quello esterno è aperto e non organizzato (privo di struttura). Lo spazio interno è inoltre continuo e si interrompe in corrispondenza della frontiera. Tale linea di demarcazione tra i due spazi distinti non appartiene a nessuno dei due, o meglio, può appartenere all’uno o all’altro a seconda dei casi. Inoltre, la frontiera è immaginata come una linea chiusa che circoscrive un insieme di punti finiti nello spazio IN, in contrapposizione allo spazio infinito ES. Il punto di vista della cultura è interno, contrappone cioè semanticamente “noi” a “altri”. Il modello lotmaniano distingue tra due specie di testi, immobili (fissi) e mobili. Da una parte, Lotman individua i testi fissi, che caratterizzano la struttura del mondo, “rispondono alla domanda: come è organizzato?”. Lo spazio è organizzato, come si è visto, innanzitutto dalla linea di demarcazione della frontiera, ma anche da altre strutture che seguono le categorie di vicinanza, continuità, e le opposizioni sopra/sotto, destra/sinistra, concentrico/eccentrico, inclusivo/esclusivo. Dall’altra parte, vi sono i testi mobili, dinamici, che descrivono il movimento del soggetto nel mondo e sono caratterizzati dalla presenza di un intreccio. Anche gli esseri umani nella cultura, come i personaggi dei testi, si distinguono in fissi e mobili. I primi si presentano come quelli che non sono in grado di mutare il proprio ambiente, di interferire con la struttura della cultura. I personaggi mobili, invece, sono gli eroi, coloro che si spostano da un ambiente ad un altro, attraversano la frontiera e sono in grado di distruggere le rigidità della struttura o crearne una nuova. Rappresentano l’elemento dinamico della cultura, la possibilità di cambiamento delle regole e delle strutture fisse. Lotman introduce anche il concetto di orientamento, che consiste nel punto di vista. L’orientamento, secondo Lotman, può essere “diretto”, quando il punto di vista coincide con lo spazio interno, e la direzione del vettore va da IN verso la frontiera e verso l’esterno; oppure “inverso”, se il punto di vista coincide con lo spazio esterno e la freccia è diretta da ES verso la frontiera e verso IN. Tale distinzione si traduce anche negli opposti punti di vista, tra noi e l’altro/gli altri. Il modello spaziale descritto da Lotman, come pure le dinamiche al suo interno, rappresentate particolarmente dall’eroe che attraversa lo spazio, sono di grande utilità per lo studio della letteratura e in particolar modo per le scritture dell’esilio. Dal punto di vista del paese d’arrivo, l’esiliato/a può essere pensato/a in termini dell’eroe lotmaniano, colui o colei che attraversa la frontiera che circoscrive la cultura del paese di origine e/o di arrivo (secondo se si prende come orientamento ES→IN – cioè dall’esterno verso il paese di accoglienza – o IN→ES – cioè dal proprio paese verso l’esterno). Il modello lotmaniano, però, rimane statico e si basa su una concezione egocentrica della cultura: la cultura appartiene esclusivamente a chi è all’interno, nello spazio IN, e tutto ciò che è fuori rientra nel campo, se non della natura, quanto meno nella non-cultura. Altri studiosi e nuove teorie che si sono sviluppate nell’ambito degli studi umanistici e delle scienze sociali, quali gli studi post-coloniali, l’antropologia, gli studi culturali, i women studies, e altri, hanno invece mostrato che è necessario non limitarsi a prendere in esame le rappresentazioni nazionaliste eurocentriche e colonialiste della cultura. Non esiste solo una cultura, bensì più culture che interagiscono. Il modello di Lotman, per quanto utile, richiede delle modifiche che lo rendano più dinamico e che offrano una rappresentazione della complessità delle dinamiche. Il modello spaziale lotmaniano si sviluppa su una superficie bidimensionale, potremmo dire su una concezione dello spazio propria della geometria euclidea, dove manca la dimensione temporale. Il suo modello si sviluppa, infatti, su un piano fisso, immobile, dove solo qualche elemento isolato riesce a muoversi attraverso lo spazio. La cultura, al contrario, non è immobile, bensì in constante evoluzione, si arricchisce inesauribilmente di sempre nuovi elementi. Quello di cui abbiamo bisogno per descrivere le dinamiche, i movimenti, gli scambi, i transfer è un modello più complesso e articolato, che prenda in considerazione tutti gli elementi che concorrono all’aspetto reale della/e cultura/e. La definizione che il critico e semiologo bulgaro Tzvetan Todorov dà di cultura ci aiuta a comprendere cosa manca all’analisi lotmaniana. Todorov parte da una definizione che sembra molto ricalcare la concezione di Lotman, ma poi aggiunge elementi che rivelano la complessità della categoria di cultura. La cultura, spiega Todorov, è l’insieme delle rappresentazioni che si hanno del mondo: è un’immagine, un’interpretazione del mondo ed è un fatto collettivo, che riguarda almeno due, ma normalmente una grande quantità, di esseri umani. Ces représentations, comme le nom l’indique, sont une image, donc une interprétation du monde; posséder une culture signifie qu’on a à sa disposition une pré-organisation du monde, un modèle miniature, une carte en quelque sorte, qui nous permet de nous y orienter. La culture est à la fois mémoire commune (nous apprenons la même langue, la même histoire, les mêmes traditions) et règle de vie commune (nous parlons de manière à nous faire comprendre, nous nous conduisons en accord avec les codes en vigueur dans notre société) ; elle est tournée en même temps vers le passé et le présent. Come Lotman, anche Todorov considera la cultura un insieme di regole (linguistiche, morali, giuridiche, ecc.) che sono trasmesse e apprese, e in questo senso la cultura si configura come memoria collettiva. Ma subito dopo, aggiunge che vi sono altri due tratti essenziali della cultura: in primo luogo, la molteplicità delle culture che ad ogni dato istante formano il carattere e l’identità di ciascun essere umano, e, in secondo luogo, che il tempo, la diacronia, sono importanti, cioè che tutte le culture sono soggette al cambiamento. Todorov spiega nel modo seguente il suo concetto di “pluralité dans la synchronie”: Chaque individu participe de cultures multiples et chaque culture est sujette au changement. Prenons d’abord le premier : un individu quelconque fait partie de nombreux groupes humains, il partage donc la culture de chacun d’eux et il est pourvu d’identités multiples. Certains de ces groups s’emboîtent les uns dans les autres. Par exemple, un Français provient toujours d’une région, mettons qu’il est berrichon, mais d’un autre côté il partage plusieurs de ses traits avec tous les européens : il participe donc à la fois des cultures berrichonne, française et européenne. D’autres ensembles sont en intersection : tel individu se reconnaît à la fois dans la culture méditerranéenne, chrétienne et européenne. Á l’intérieur d’une seule entité géographique, les stratifications culturelles sont multiples il y a la culture des adolescents et celle des retraités, la culture des médecins et celle des balayeurs de rues, la culture des femmes et celle des hommes, des riches et des pauvres. Dall’altra parte riconosce che le culture sono caratterizzate da “mobilité dans la diachronie”: le culture, continua Todorov, cambiano inevitabilmente, sebbene alcune siano maggiormente predisposte di altre, o almeno disposte ad ammettere il cambiamento. I cambiamenti nelle culture, secondo Todorov, avvengono per due fattori distinti: per le tensioni interne a ciascuna cultura, che, come si è visto, ne ingloba o si interseca con altre, e per contatti esterni. Les cultures sont toujours susceptibles de changer, même s’il est certain que les cultures dites « traditionnelles » le font moins volontiers et moins vite que celles qu’on appelle « modernes ». Ces changements ont des raisons multiples. Puisque chaque culture en englobe d’autres, ou est en intersection avec d’autres, ses différents ingrédients forment un équilibre instable. Á côté de ces tensions internes, il y a aussi les contacts externes, avec les cultures voisines ou lointaines, qui provoquent à leur tour des infléchissements ; à quoi s’ajoutent les pressions exercées par l’évolution d’autres séries constitutives de l’ordre social : l’économique, le politique, le physique. Ces changements sont d’autant pus faciles que les cultures – mémoire commune, règles de vie communes – se forment par agglutination et addition, et ne possèdent pas la rigueur d’un système. Diversamente da Lotman, Todorov non riconosce un carattere sistematico alle culture, che proprio perché non irrigidite da rigorose codificazioni, non cambiano in maniera sistematica, ma per assimilazione o aggiunta di nuovi elementi. Le culture, conclude Todorov, possono essere paragonate al lessico di una lingua, piuttosto che alla sua sintassi: le regole rimangono invariate, ma si possono sempre aggiungere nuove parole. Dall’osservazione di Todorov si deduce che i mutamenti all’interno di una cultura sono resi visibili anche dalle modifiche e dalle integrazioni che sono apportate al suo lessico. I nuovi vocaboli che entrano nell’uso comune e quotidiano di una lingua sono le spie di una certa tendenza che sta interessando la società che le ha coniate o prese in prestito. Nel caso di paesi ex potenze coloniali si riscontra a volte la preferenza per espressioni mutuate dalla lingua delle popolazioni un tempo colonizzate. È il caso, ad esempio, di alcune parole arabe che sono entrate nell’uso comune dei francesi, come tabīb (medico) o bled (paese, usato per lo più per indicare la madrepatria in Nord Africa o Medio Oriente). Oppure il caso dell’espressione usata nell’inglese d’America, passed away, che ha pressoché sostituito il più crudo died e che è un prestito dalla lingua creola dei Neri d’America. Integrando le definizioni di Todorov al modello di Lotman è possibile raggiungere un maggiore livello di complessità. Innanzitutto l’unico insieme IN della rappresentazione spaziale della cultura deve essere piuttosto costruito come molteplici insiemi IN1+IN2+…+INn, che, secondo i casi, si intersecano, sono concentrici, ne inglobano altri e cosi via. I livelli di inglobamento sono essi stessi molteplici (ad esempio, regionale – nazionale – sovranazionale). Ogni individuo, inoltre, raccoglie in sé diverse culture in base a nazionalità, genere, razza, classe, età, impiego, casta, ecc. Un tale approccio alla cultura si fa sempre più urgente, spiega Todorov, perché al momento attuale siamo di fronte ad un’accelerazione, sempre crescente e mai raggiunta nel passato, di contatti e interazioni tra le culture. Il modello presentato da Todorov, sebbene descriva la dinamicità delle culture, non spiega però come avvengono le interazioni tra le culture. Inoltre, parlando di agglomeramento e addizione di elementi all’interno di una cultura, non tiene conto del fatto che spesso gli elementi, i prestiti, i transfer, come pure gli esseri umani che si muovono da uno spazio culturale ad un altro, che passano da una cultura ad un’altra, non restano inalterati, ma si modificano, facendo interagire il mondo culturale di origine con quello di arrivo. Il prestito non solo si aggiunge alla cultura, ma ne influenza il corso, modifica, sebbene in minima parte, la visione del mondo di quella cultura. Accogliendo in sé un elemento prima considerato estraneo, “altro”, la cultura non solo si accresce di quell’elemento, ma si apre, sebbene impercettibilmente, verso questo “altro”. Ovviamente ci sono vari livelli di apertura, ma colui che accoglie non resta comunque inalterato da tale processo. Per descrivere le dinamiche ora delineate è utile, da una parte, riprendere e integrare la nozione di frontiera, o confine, e di zona di confine o zona di contatto già presente in Lotman; dall’altra, aggiungerei la pratica e il concetto di negoziazione. Lo studioso che le ha teorizzate in un sistema che tiene conto della dinamicità delle culture è l’indiano Homi Bhabha, le cui teorie si sono sviluppate nell’ambito degli studi post-coloniali. Basandosi sulle nozioni di spazio e frontiera, Bhabha ha proposto un approccio teorico che presenta culture contigue divise da una frontiera. Questa frontiera, però, non si configura come una linea, ma diventa spazio, lo spazio in-between. Tale spazio, che si situa tra due culture, diventa lo spazio della negoziazione, caratterizzato da creatività, dinamismo, prese di posizione verso un’autorità politica o culturale. La visione di Bhabha è molto ottimista rispetto alle dinamiche di interazione, sincretismo, contrattazione tra culture che possono avvenire in questo spazio, in cui, proprio per il loro decentramento, l’autorità prestabilita perde il proprio potere e nuove forme di autorità si sviluppano. Ciò che avviene nella zona di confine è, con le parole di Bhabha A turning of boundaries and limits into the in-between spaces through which the meanings of cultural and political authority are negotiated. Bhabha definisce il confine come dotato di una doppia faccia, come quella del dio romano bi-fronte Giano. Come Giano, anche l’elemento o il soggetto che si trovano nello spazio tra le due culture, ha due volti, ognuno rivolto ad una delle due culture. In termini spazio-temporali, il terzo spazio può essere considerato la zona di movimento, di transito, di passaggio del soggetto, il cui doppio sguardo è rivolto contemporaneamente al passato e al futuro, per non dimenticare da dove viene e non perdere di vista la direzione verso cui ci vuole muovere. E ancora, in termini dello spazio dell’identità, il soggetto che si muove nel terzo spazio ha lo sguardo rivolto all’interno e all’esterno, verso la propria identità e, contemporaneamente, verso l’altro, l’estraneo, il diverso. La linea di frontiera è mobile e si traduce sul piano del terzo spazio, in un continuo dialogo con l’altro, che viene accolto, incorporato e mediato. Questo processo influenza e modifica il soggetto stesso che si muove come pure lo spazio culturale, politico, sociale che accoglie questi processi di movimento e dialogo. The boundary is Janus-faced and the problem of outside/inside must always itself be a process of hybridity, incorporating new “people” in relation to the body politic, generating other sites of meaning and, inevitably, in the political process, producing unmanned sites of political antagonism and unpredictable forces for political representation. L’ibridazione per Homi Bhabha è un processo di incontro, mescolanza, creolizzazione e creazione. Si tratta di un processo durante il quale da più elementi di diversa origine si crea un organismo nuovo, un soggetto nuovo: “neither One nor the Other, but something else besides, in-between”. Il processo di ibridazione è dunque strettamente collegato allo spazio in cui avviene, lo spazio interstiziale, in-between. L’ibridazione costituisce anche un processo di traslazione/traduzione, in cui elementi non-omogenei vengono trasposti da un luogo ad un altro, da un primo spazio culturale ad un nuovo spazio culturale, che Bhabha chiama “the third space”: The importance of hybridity is not to be able to trace two original movements from which the third emerges, rather hybridity […] is the ‘third space’ which enables other positions to emerge. This third space displaces the histories that constitute it, and sets up new structures of authority, new political initiatives, which are inadequately understood through received wisdom […]. The process of cultural hybridity gives rise to a something different, something new and unrecognizable, a new area of negotiation of meaning and representation. Per Bhabha il terzo spazio è “the precondition for the articulation of cultural difference”. Questo terzo spazio, caratterizzato da “productive capacities”, è dunque lo spazio della creatività e della creazione, della proposizione, in cui si sviluppano nuove alternative e nuove possibilità. È uno spazio in cui nella cultura sia l’individuo che il testo ‘altro’ diventano soggetti, prendono possesso di sé e possono articolare il proprio discorso, la narrazione della propria identità. È lo spazio della possibilità dell’emancipazione del sottomesso, che diventa soggetto e agente della propria vita e dunque ha una forte valenza positiva e propositiva. Bhabha, inoltre, propone di dare importanza all’interstizio, allo spazio minimo che si crea tra i due spazi, alla crepa, la faglia, e intravede in questa spaccatura una grande forza di riforma del sistema imposto dall’autorità. The interstitial passage between fixed identifications opens up the possibility of cultural hybridity that entertains difference without an assumed or imposed hierarchy. […] “Beyond” signifies spatial distance, marks progress, promises the future. Bhabha propone un modello spaziale di interpretazione della cultura in cui lo spazio liminale e ai margini acquista potere, grazie alla ri-negoziazione delle relazioni di forza che avviene nel processo di ibridazione. Frutto di questo processo è una ri-locazione della forza produttrice di cultura. In una visione eurocentrica la cultura era immaginata come costituita da un centro, che deteneva il potere e l’autorità sulla periferia. Gli studi post-coloniali hanno contestato questo punto di vista e rivendicato un potere contrattuale nelle interrelazioni tra culture. Nel modello proposto da Bhabha, che si inserisce in questo filone di teorici, i margini vengono rivalutati, assumono potere e, anzi, diventano essi stessi centro, grazie al potere creativo di cui sono dotati. A proposito dei margini potremmo dire, con le parole di Donna Haraway, “the bastard race teaches about the power of the margins”. Negoziazione è sinonimo di interazione, di scambio, di “agency”, che caratterizzano i margini, lo spazio in-between. Bhabha conclude, it is the “inter” – the cutting edge of translation and negotiation, the in-between space – that carries the burden of the meaning of culture. It makes it possible to begin envisaging national, anti-nationalist histories of the “people”. And by exploring this Third Space, we may elude the politics of polarity and emerge as others of our selves. Un modello teorico in cui vengono rappresentate le dinamiche, i movimenti degli elementi o dei soggetti attraverso lo spazio è fornito dalla teoria del polisistema dello studioso israeliano Itamar Even-Zohar. Questa teoria, che prende origine dal Formalismo russo degli anni Venti del XX secolo, in parte coincide con il modello lotmaniano e le teorie semiotiche, ma rende conto degli elementi che passano da una cultura all’altra e degli effetti che questi transfer hanno sulle culture di origine e arrivo, in breve, sulle dinamiche di interazione tra le culture. La teoria del polisistema non è limitata al campo letterario, ma anzi vede la letteratura come un’attività che non è isolata dal resto delle attività umane nella società. Questa teoria fornisce quindi una descrizione dei processi di produzione dei testi della cultura, che prende in considerazione le interferenze delle varie sfere settoriali (sistemi, come ad esempio quello letterario, politico, sociale, economico ecc.) di cui è composta, e allo stesso tempo descrive le dinamiche interne a ciascuno di questi sistemi. Come Lotman, anche Even-Zohar prende in considerazione l’insieme di leggi ed elementi (che siano singoli, composti o modelli generali) che governano la produzione dei testi e che egli definisce repertoires. Secondo Even-Zohar i testi, nel sistema letterario, non partecipano alla canonizzazione delle regole del sistema, ma si configurano piuttosto come il prodotto di tali processi. Ciò che interessa gli autori, secondo lo studioso, è che i propri testi vengano considerati come manifestazioni di un certo modello da seguire, e di conseguenza, diventino rappresentazioni di tale modello. Quando una regola o una struttura viene assunta come modello per la composizione di altri testi nella produzione contemporanea, si può affermare che tale struttura si trova al centro del sistema. D’altra parte, quando dei testi sono considerati di buona qualità ma non sono assunti come modelli da seguire dai produttori dei testi contemporanei, essi si spostano dal centro alla periferia (questa condizione non è apprezzata dagli autori). La conclusione di questo discorso è che “it is not through their texts that writers acquire positions in the literary system”, ma quando questi vengono considerati “as acceptable models for making new texts”. Ciò che dà dinamicità al polisistema, che è l’insieme dei singoli sistemi nel modello di Even-Zohar, sono, come si è già detto, i transfer, cioè i movimenti di elementi o funzioni da un luogo all’altro all’interno del polisistema. Questi movimenti possono avvenire dal centro verso la periferia o viceversa, e da una periferia a quella di un altro sistema, sempre all’interno dello stesso polisistema. I transfer sono dunque correlati alla nozione di cambiamento e trasformazione all’interno del polisistema, per cui Even-Zohar propone delle regole generali che descrivano tale relazione. Egli distingue, inoltre, tra repertori (cioè l’insieme delle regole che definiscono un sistema) innovatori e conservatori. Il cambiamento avviene quando un modello innovatore diventa dominante nell’insieme delle regole che strutturano il sistema (repertoire). La fase seguente sarà una perpetuazione di questo nuovo modello, che condurrà alla stabilizzazione e ad un nuovo conservatismo. Un altro concetto fondamentale introdotto dalla teoria dello studioso israeliano è quello di interferenza, che descrive attraverso quali transfer e quali dinamiche avvengono i contatti tra le culture e, di conseguenza, i cambiamenti. Even-Zohar considera importanti in questi processi i testi considerati minori, come la letteratura per l’infanzia o le traduzioni: In short, it is a major goal, and a workable possibility for the Polysystem theory, to deal with the particular conditions under which a certain literature may be interfered with by another literature, as a result of which properties are transferred from one polysystem to another. For instance, if one accepts the hypothesis that peripheral properties are likely to penetrate the center once the capacity of the center (i.e., the repertoire of the center) to fulfill certain functions has been weakened (Shklovskij's second law), then there is no sense in denying that the very same principle operates on the inter-systemic level as well. Similarly, it is the polysystemic structure of the literatures involved which can account for various intricate processes of interference. For instance, contrary to common belief, interference often takes place via peripheries. When this process is ignored, there is simply no explanation for the appearance and function of new items in the repertoire. Semiliterary texts, translated literature, children's literature--all those strata neglected in current literary studies-are indispensable objects of study for an adequate understanding of how and why transfers occur, within systems as well as among them. Literatures are never in non-interference. 2.2 Il ruolo della frontiera. Le frontiere svolgono un ruolo fondamentale, riconosciuto da tutti I teorici fin qui considerati. Nel modello spaziale di Lotman, le frontiere sono i punti di contatto tra la periferia di una cultura e la non cultura o natura. Sono come membrane attraverso le quali avvengono dinamiche osmotiche, il passaggio di elementi dall’una verso l’altra e viceversa. Il limite di questa analisi è che tutto ciò che è esterno ad una cultura rimane tale, cioè non-cultura. La divisione dello spazio è immobile, il modello non ammette cambiamenti. Todorov aggiunge l’elemento dinamico al modello e definisce la presenza simultanea di più culture. Le frontiere sono, di conseguenza, il punto di contatto e di scambio tra culture paritarie. Gli scambi avvengono inter pares. Nella concezione di Bhabha le frontiere capovolgono addirittura le relazioni di forza nel modello spaziale e diventano in un certo senso centrali. Infatti, è proprio nello spazio che si apre tra le due culture il luogo di creazione, interazione e sovvertimento dell’autorità costituita. Le frontiere, nella definizione della studiosa Susan Stanford Friedman, sono “material borders among nation-states, the technologies of enforcement, the controls and markers of citizenship, and the structures of inclusion and exclusion that are enabled by borders as lines on a map backed by armies and laws”. Le nozioni di frontiera e confine sono ambivalenti in quanto contengono sia l’idea positiva dell’attraversamento, del passaggio al di là, che quella negativa di chiusura, di contenimento, di ostacolo al libero movimento. La frontiera geopolitica tra gli stati mette in atto una complessa dinamica burocratica di documenti di identità, passaporti, visti e permessi di transito e di soggiorno. La frontiera è l’ultimo baluardo del territorio di uno stato ed è il luogo che vede combinarsi la burocrazia con le forze di controllo militari. Non bisogna, infatti, dimenticare che le frontiere, i confini dello stato, sono sempre controllati dalle forze armate che impongono il rispetto della legalità in materia di movimento transnazionale. Allo stesso tempo, le sempre maggiori difficoltà burocratiche ad ottenere i documenti necessari al transito o al soggiorno in un determinato paese pone la questione dei diritti umani: il diritto del singolo individuo al movimento, il diritto di asilo politico, il diritto di essere accolto quando si trova in pericolo di vita nel proprio paese, ecc. In questa prospettiva, lo stesso esilio si configura come privazioni di diritti fondamentali dell’essere umano, così come vengono sanciti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 e ampliati nelle carte e dichiarazioni firmati a livello transnazionale sotto la tutela delle Nazioni Unite. La nozione di frontiera e quella dell’attraversamento delle frontiere, inoltre, possono contenere una dimensione metaforica, possono, cioè, diventare concetti atti a descrivere dinamiche di movimenti attraverso confini figurati, quali quelli culturali, linguistici, sociali, religiosi, di genere, psicologici e immaginari. Inoltre, le frontiere non sono immobili, bensì combinano allo stesso tempo caratteristiche opposte. Le frontiere sono Fixed and fluid, impermeable and porous. They separate but also connect, demarcate but also blend differences. Absolute at any moment in time, they are always changing over time. They promise safety, security, as sense of being at home; they also enforce exclusions, the state of being alien, foreign, and homeless. They protect but also confine. They materialize the law, policing separations; but as such, they are always being crossed, transgressed, subverted. Borders are used to exercise power over others but also to empower survival against others. They regulate migration, movement, travel – the flow of people, goods, ideas, and cultural formations of all kinds. They undermine regulatory practices by fostering intercultural encounter and the concomitant production of syncretic heterogeneities and hybridities. They insist on purity, distinction, difference but facilitate contamination, mixing, creolization. Mentre i confini, dunque, sono linee immaginarie che hanno conseguenze materiali, diversa cosa, sebbene correlata, sono le “zone di confine”, o “zone di contatto”. Il termine inglese borderland indica un’area prossima al confine, che si situa da entrambe le parti di quest’ultimo, e che è caratterizzata da una storia di scambi, incontri e scontri che hanno prodotto nel corso del tempo un’osmosi da entrambe le parti. Pensando in termini di una geometria euclidea applicata alla teoria degli studi letterari, le zone di confine, o borderlands, si trovano quindi a cavallo tra due spazi considerati distinti e unitari al loro interno e dove tale zona di confine viene pensata in termini di zona marginale o di periferia, o come baluardo contro una minaccia esterna. Ad esempio, l’impero Austro-Ungarico aveva creato una zona di confine, chiamata Krajina che, nella lingua serbo-croata significa letteralmente ‘confine militare’ e che costituiva il baluardo contro la minaccia turca da oriente. Paradossalmente, però, questa zona di confine o contatto, invece che essere il sito di scontri di elementi opposti, è al suo interno caratterizzata da elementi simili, proprio per la lunga serie di contatti che si sono avuti nel passato. Susan Stanford Friedman definisce borderlands Ambiguously demarcated areas with complicated histories, where different peoples and cultures have intermingled over time, often in the context of competing state powers and institutional regulation. Borderlands have been the sites of hatred and murderous acts akin to the grating of continental tectonic plates and their occasional violent eruptions. They can also be locations of utopian desire, reconciliation and peace. Borderlands are a “contact zone” where fluid differences meet, where power is often structured asymmetrically but nonetheless circulates in complex and multidirectional ways, where agency exists on both sides of the shifting and permeable divide. La frontiera diventa quindi luogo di scambio, interazione e dialogo. Per questo è anche il luogo in cui si mette in discussione l’identità. L’identità è legata alla frontiera, alle borderlands, perché si crea e ricrea costantemente. Dal momento che l’identità è relazionale, cioè il prodotto delle interazioni tra l’individuo e l’ambiente (sociale, culturale, politico, ecc.) circostante, le relazioni che avvengono sulla frontiera o nei pressi di questa marcano l’identità. La frontiera deve essere pensata come linea di demarcazione tra qualsiasi tipo di diversità. Come spiega Susan Friedman, esistono “frontiers between all differences”, che diventano “the locations of movement in which routes produce roots and routes return to roots”. Riprendendo la fortunate frase coniata da Clifford, “routes/roots”, Friedman stabilisce la relazione tra frontiere, percorsi e origine. La frontiera, ossia lo spazio dei contatti, degli scambi, dell’incontro con l’alterità diventa il luogo della negoziazione tra le differenze, dello scambio reciproco di esperienze e visioni del mondo. Diventa così anche il luogo in cui colui o colei che si avventura verso la frontiera, che viaggia (routes) si apre alla diversità e si rimette in discussione il proprio bagaglio culturale (roots). La metafora del bagaglio si addice più d’ogni altra all’individuo che viaggia attraverso le frontiere e porta con sé, come bagaglio, semplicemente se stesso, la propria identità, la propria vita. Come scrive Dubravka Ugrešić, “la vita è l’unico bagaglio che portiamo con noi”. La scrittrice chicana Gloria Anzaldùa nella sua opera Borderlands/La Frontera—The New Mestiza, ha definito l’identità del suo popolo un’“identità di frontiera”. Appartenente ad un popolo diviso e incapace di trovare la propria identità, un popolo emarginato perché situato ai margini, Anzaldùa propone una nuova prospettiva, un nuovo modo per leggere la frontiera e gli esseri che la popolano. Anzaldùa guarda alla frontiera come ad uno spazio da abitare, che ha diritto di cittadinanza a pieno titolo. È un luogo d’incontro e di dialogo, in cui poter superare le differenze. La frontiera può diventare uno strumento per decostruire le ideologie dominanti e allo stesso tempo proporre una nuova visione della vita. Living on borders and in margins, keeping intact one’s shifting and multiple identity and integrity, is like trying to swim in a new element, an “alien” element. A prima vista la locuzione “keeping intact one’s shifting and multiple identity” sembra una contraddizione, in cui i due aggettivi, “intact” e “shifting”, sembrano indicare significati opposti. Ad una lettura più approfondita si comprende che si tratta invece di preservare la libertà di cambiare, di evolvere, di mutare, senza essere intrappolati in definizioni e categorie che ostacolano il libero divenire di ogni essere umano. L’identità è come un organismo biologico, che cresce, muta. Assumere, riconoscere e convivere con un’identità di frontiera significa accettare il cambiamento, cioè quell’elemento “cangiante” come costituente della propria identità; significa riconoscere il cambiamento come parte integrante di sé stessi, che dà senso alla propria vita, al contrario della stabilità, dell’immobilità e dell’esclusione di ogni elemento esterno/estraneo/diverso, ‘altro’. La visione di un essere di frontiera di avvicina alla concezione del ‘soggetto nomade’ della filosofa femminista Rosa Braidotti: nel suo testo Nomadic Subjects propone infatti un’identità, un modo di essere, un’attitudine mentale al nomadismo. Per essere creativo, il pensiero deve essere agile, libero, fecondarsi con la differenza. Un concetto vicino a quello di zona di frontiera è contact zone, espressione coniata dalla studiosa Mary Louise Pratt nel suo libro Imperial Eyes: Travel and Transculturation. Pratt definisce il concetto di contact zone come segue: Social spaces where disparate cultures meet, clash, and grapple with each other, often in highly asymmetrical relations of domination and subordination – like colonialism, slavery, or their aftermaths as they are lived out across the globe today. […] [The contact zone is] the space of colonial encounters, the space in which peoples geographically and historically separated come into contact with each other and establish ongoing relations, usually involving conditions of coercion, radical inequality, and intractable conflict. […] [The contact zone] is an attempt to invoke the spacial and temporal copresence of subjects previously separated by geographic and historical disjunctures, and whose trajectories now intersect. La nozione contact zone di Pratt mette al centro dell’analisi la questione coloniale e si interessa, conseguentemente, di incontri e interazioni tra soggetti che avvengono in una situazione fortemente marcata dalle relazioni di potere. Per questo studio sull’esilio, poiché la terra dell’esilio spesso coincide con quella dell’antico (o neo) colonizzatore, almeno nei casi qui analizzati, l’incontro tra il soggetto in esilio e la terra ospitante spesso si configura come una sorta di riproduzione, in chiave contemporanea, della relazione coloniale. Alcuni studiosi preferiscono utilizzare il termine ‘soglia’ per indicare il punto di contatto, di dialogo e di scambio attraverso i confini, mentre considerano questi ultimi il simbolo e luogo di divisione e conflitto. Lo studioso Johann Drumbl scrive che “la soglia è il confine visto nella prospettiva dinamica del suo superamento, è il luogo della creatività”. Nel presente lavoro verranno analizzate delle opere in cui è fondamentale il concetto di soglia inteso da questo punto di vista, dell’attraversamento, cioè, di un limite, di un confine tra due spazi opposti e ben definiti. La soglia si può manifestare metaforicamente sotto forma di una porta, di una finestra, una terrazza; può essere addirittura rappresentata dall’immagine di una crepa su un muro. Il varcare la soglia può essere un attraversamento sereno oppure una trasgressione di limiti imposti e mal sopportati dal soggetto. Ad esempio, l’autobiografia della sociologa marocchina Fatima Mernissi, che si intitola Dreams of Trespass, contiene già dal titolo la promessa di una narrazione che descrive il movimento, o il sogno, la proiezione del soggetto verso un al di là, un oltre, un altrove. Si vedrà, inoltre, che l’autrice, nel primo capitolo intitolato “My Harem Frontiers” situa se stessa, la sua casa e la sua città in un luogo di confine, in una zona di frontiera, che, pur essendo ancora nello spazio islamico, è molto più vicina ad una capitale cristiana, Madrid: cioè, già dall’incipit si afferma l’importanza dei concetti e delle realtà di frontiera, confine e attraversamento per l’economia della narrazione. La studiosa Mae Henderson, nell’introduzione al testo Borders, Boundaries and Frames. Cultural Criticism and Cultural Studies, scrive a proposito degli abitanti delle frontiere e del significato dell’attraversamento dei confini e dei limiti: Borderland inhabitants are always considered transgressors and aliens. For, although “to transgress” literally translates as “to step across”, it also carries with it legal and moral connotations – as in “trespass” – which are essentially negative. Therefore, breaking down structures of resistance not only speaks to breaching the ramparts that bolster the system of containment and categorization, as Derrida insists; it also concerns the modifying of the limits in order to transform the unknown or forbidden (metaphorical borderlands) into inhabitable, productive spaces for living and writing. Anche la scrittura, come la vita, può assumere un’identità di frontiera, può essere un soggetto di confine, transfrontaliero, transnazionale, può farsi portavoce di esigenze che scaturiscono da un’esistenza sui bordi o ai margini. ‘Margini’ è la parola che usa Trinh Minh-Ha per esprimere le idee riferite ai soggetti che si trovano in una condizione di mezzo, tra due spazi, sul bordo. In Framer Framed la scrittrice e cineasta Vietnamita scrive che “each work generates its own constraints and limits”, applicando così il termine margini alla scrittura, oltre che all’esistenza reale. I concetti di frontiera, confine, soglia, borderland e contact zone, insieme con le metafore che da questi si possono trarre, sono fondamentali per l’analisi della letteratura dell’esilio. Tali scritture attraversano le frontiere, sono transfrontaliere, trans-nazionali, in quanto, come si è detto, valicano i confini di una nazione. C’è una tensione tra il punto di arrivo e quello di partenza, c’è un costante guardare indietro. Infine, gli scrittori e le scrittrici in esilio che scelgono di scrivere nella lingua del paese di arrivo, si trovano anche in una condizione di creazione tra due lingue. La frontiera e l’attraversamento della frontiera per gli scrittori e le scrittrici può diventare poetica transfrontaliera. In ogni modo, Mireille Calle-Gruber ricorda che attraversare la frontiera non significa annullarla. Essa rimane presente, simbolo e marca dell’incontro tra le diversità. […] franchir la frontière, c’est la maintenir frontière ; ce n’est pas l’abolir, tout le contraire. Passer la frontière, c’est la passer sans cesse, non pas une fois pour toutes, mais toutes les foies une autre. Le second postulat : toute frontière est intérieure. Même la plus extérieure, la plus géographique, la plus matérialisée – mur, enceinte, harem, voile, écriture. 2.3 Esilio, spazio e frontiera. L’esilio è l’allontanamento, imposto o volontario, di un soggetto dalla propria patria causato da un’intolleranza, che può essere politica, religiosa o ideologica. L’esilio implica dunque un movimento del soggetto da un luogo ad un altro. È un movimento attraverso lo spazio. Ogni movimento implica due punti, due luoghi o localizzazioni nello spazio, che sono il punto di partenza e il punto di arrivo. Per l’esule, il punto di partenza è innanzitutto la patria, da cui viene espulso (anche nel caso dell’esilio volontario, il soggetto viene comunque espulso, nel senso che si ritrova in una condizione insostenibile, altrimenti non sceglierebbe l’esilio). Con la patria e il luogo da cui parte, l’esiliata o l’esiliato perde anche il contesto fisico ed emotivo in cui si trovano la casa e la famiglia, in cui una comune lingua madre contribuisce alla coesione sociale e al senso di identità. Il punto di arrivo è rappresentato dal paese di adozione, con tutto ciò che questo rappresenta in termini personali, politici, sociali, culturali e linguistici. Per le scrittrici provenienti dal mondo arabo-islamico l’esilio si configura inoltre come la segregazione della donna all’interno della casa, e dunque diventa una limitazione al movimento verso l’esterno e l’estero. Anziché oltrepassare le frontiere nazionali, l’esilio di queste donne è vissuto all’interno dello spazio domestico. Le società musulmane, infatti, sono fortemente caratterizzate da divisioni basate sul genere, e queste vengono organizzate spazialmente: Gender in Muslim societies, for instance, is spacially organized and bounded (in contrast to the organization of gender in modern American society), creating a sharp differentiation between “inside” and “outside”, located within a broader terrain of a borderless, potentially global community (umma). Si può considerare una condizione di esilio metaforico anche quella cui si arriva compiendo, volontariamente o forzatamente, un movimento che allontana da un gruppo sociale. L’esilio, infatti, è un’esperienza individuale, che interessa il soggetto singolo e non un gruppo o una comunità. Ciò vale anche se si sente parlare del popolo ebreo esiliato, dei dissidenti sovietici e in generale dagli stati dell’Europa dell’est, dell’esilio dal Sud Africa dei simpatizzanti dell’African National Congress dalla fine degli anni Cinquanta al 1990. In questi casi, il concetto di esilio si sovrappone ad un altro concetto utilizzato per descrivere i movimenti di comunità, cioè la diaspora. L’esilio, dunque, presuppone un movimento, che si concretizza, come si è detto sopra, nel passaggio da una nazione ad un’altra, o da uno spazio sociale ad un altro. Il movimento dell’esilio implica necessariamente un attraversamento di confini e frontiere. Nel Vocabolario della lingua italiana, il ‘confine’ è definito come “limite, termine, pietra, sbarra, steccato che delimita una proprietà. Linea costruita naturalmente o artificialmente a delimitare i limiti di un territorio, di una proprietà o la sovranità di uno stato”. Ogni volta, quindi, che ci si trova di fronte ad una proprietà (dalla più piccola e privata a quella di uno stato) si è costretti a confrontarsi con un confine. La proprietà presuppone un controllo e quando si tratta di uno stato questo controllo si concretizza in controllo delle forze militari. Nel caso dell’esilio più classico, quello in cui si è espulsi o si decide volontariamente di abbandonare la propria patria, l’esule attraversa le reali frontiere geopolitiche che separano gli stati. L’attraversamento delle frontiere da parte dell’esule è uni-direzionale: dall’interno, cioè dalla patria, dalla casa, dalla famiglia, ci si sposta verso l’esterno. Si tratta di un movimento uni-direzionale perché l’esilio esclude il ritorno, almeno in un futuro prossimo o prevedibile, il che provoca un costante senso di perdita e di nostalgia caratteristico dei soggetti in esilio. L’esilio-isolamento, al contrario, come si è visto, si configura come impossibilità, impedimento ad oltrepassare la frontiera, il limite imposto da altri, dalla società, ecc. Ne sono esempio quelle donne che nelle società arabomusulmane sono relegate agli spazi considerati femminili e i cui movimenti negli spazi esterni, pubblici, sono limitati, controllati, mai totalmente liberi ed emancipati. Il corpo stesso della donna musulmana che esce in strada velata può essere letto come un corpo che si muove in uno spazio paradossale: geograficamente è fuori, ma psicologicamente e fisicamente, il velo la separa dallo spazio esterno e la donna può muoversi al sicuro come tra le pareti domestiche. Il velo rappresenta una frontiera sia fisica che interiore, psicologica. 2.4 Lo spazio e le pratiche spaziali. I concetti e le metafore fin qui discussi, ossia frontiera, borderland, contact zone, sono legati a quello di spazio, perché è nello spazio che tali concetti e metafore hanno un senso. Lo spazio è una categoria astratta che possiamo utilizzare per analizzare l’esilio attraverso la formulazione di un modello spaziale teorico che mette in relazione lo spazio, da un lato, e, dall’altro, le categorie di cultura, identità e lingua. Benché sia possibile dare definizioni specifiche di ognuna di tali categorie, queste spesso interagiscono e si sovrappongono l’una all’altra quando si tratta di definire un soggetto, nel nostro caso il soggetto in esilio. Oltre a queste categorie, sarà necessario integrare nel modello teorico i concetti di nazione/nazionalismo/identità nazionale e memoria. Queste ultime categorie possono essere, nel nostro studio, considerate trasversali, in quanto interessano tutte le altre: ogni nazione individua uno spazio, che a seconda dei casi, può essere considerato contiguo o in opposizione ad un altro. Ogni nazione, inoltre, è anche il sito di una determinata cultura, è un elemento dell’identità e del senso di appartenenza di un individuo, ed è generalmente associata ad una lingua nazionale o del gruppo etnico che la parla all’interno di una nazione. La memoria interessa lo spazio nel senso che è legata ad eventi nel passato o nel presente che si svolgono e sono localizzati in uno spazio preciso, che può essere una nazione, un luogo, come la casa, o lo spazio pubblico contrapposto allo spazio privato. La memoria è associata all’identità, dal momento che quest’ultima si riscrive ogni giorno, si modifica con l’esperienza, è retrospettiva, “identity is retrospective”, nella definizione che dà la filosofa femminista Rosi Braidotti. Infine, la memoria, intesa come memoria collettiva, è anche parte della cultura che, come vedremo, viene definita da più studiosi memoria di una comunità che viene tramandata. La memoria è un elemento fondamentale delle scritture dell’esilio, dal momento che l’esilio, in quanto perdita, è indissolubilmente legato al passato, alla vita prima della frattura che è l’esilio. La patria che l’esule abbandona e il paese di arrivo possono essere pensati in termini spaziali, in cui l’esule è il soggetto, il vettore che si muove dall’uno verso l’altro, attraversando una o più frontiere. In questa prospettiva la patria diventa lo spazio di partenza, mentre lo stato ospitante è lo spazio di arrivo. Tra la patria e lo stato ospitante vi sono diverse frontiere. Innanzitutto vi possono essere frontiere geopolitiche da attraversare prima di arrivare a destinazione. Ma esistono anche altri tipi di frontiere, meno nettamente definite della linea di demarcazione dei confini e meno fisiche e tangibili dell’ufficio del controllo dei passaporti. Esistono tante frontiere quante sono le differenze tra stati, ad esempio la frontiera culturale, quella linguistica, quella religiosa, ecc.: esiste, cioè, tutto un insieme di frontiere che il soggetto deve attraversare per passare dal proprio stile di vita che corrisponde a quello della sua patria allo stile di vita in atto nello stato che lo accoglie. Per quanto riguarda la concettualizzazione dello spazio come categoria teorica per gli studi letterari, parto dal lavoro di alcuni geografi e antropologi, le cui teorie possono essere adattate all’analisi letteraria. Tali approcci delle scienze sociali sono molto utili per osservare le scritture dell’esilio in particolare, e di narrazioni di altre forme di movimento, quali diaspora, migrazione, espatrio, nomadismo ecc, proprio perché vi aggiungono l’elemento primo in cui tali movimenti avvengono, lo spazio appunto. Le recenti teorie della geografia mettono l’accento sul fatto che lo spazio non è mai vuoto o neutro, bensì pieno, denso. Susan Stanford Friedman scrive che lo spazio si configura come Generative of situation, relation, and social being; marked by formations of power and resistance. Not a static essence, space in these terms is a location of historical overdetermination, a site for the production of communal and individual identities. L’antropologo James Clifford riprendendo la definizione di Michel de Certeau, ritiene che lo spazio non sia ontologicamente dato, non è pre-esistente, ma viene definito dai movimenti che avvengono attraverso di esso, dalle relazioni tra le cose o dalla pratica discorsiva: “Space” is never ontologically given. It is discursively mapped and corporeally practised. An urban neighbourhood, for example, may be laid out physically according to a street plan. But it is not a space until it is practiced by people’s active occupation, their movements through and around it. Da queste citazioni si comprende come non si possa pensare allo spazio senza pensarlo in termini sociali, ovvero come popolato da soggetti, individui che interagiscono. Anzi, sono esattamente i soggetti con i loro movimenti e azioni, spostamenti e interazioni con gli altri soggetti e con i luoghi a definire lo spazio che li circonda. Ciascun soggetto inoltre, non è un elemento vuoto, ma porta con sé un mondo. Si può quindi dire che, attraverso il soggetto, nello spazio interagiscono, vengono a contatto e dialogano anche la cultura, le identità e le lingue. Clifford, sempre mutuando da de Certeau, parla di “pratiche spaziali” proprio per sottolineare l’idea che lo spazio è definito dalle pratiche che avvengono su e attraverso di esso, cioè i movimenti, le relazioni e i discorsi relativi allo spazio. Come l’antropologo, anche il teorico della letteratura deve fare la sua ricerca “sul campo”, osservare le pratiche spaziali degli autori, specialmente quando si tratta di autori in e dell’esilio, che hanno alle spalle l’esperienza del movimento, dell’espatrio, dell’attraversamento di frontiere, della relazione con altri autori nelle stesse condizioni o con altri espatriati, immigrati, viaggiatori. Spesso, infatti, i soggetti che si trovano a vivere lontano dalla propria patria per i più svariati motivi, tendono a ritrovarsi, raggrupparsi tra loro, scambiare e rinvigorire i ricordi della patria, che diventa così spazio reale e immaginato al contempo. Inoltre, il teorico della letteratura deve anche studiare i movimenti dei personaggi dei testi, dal momento che anche questi si muovono nello spazio, instaurano relazioni con i luoghi e le persone. Per quanto riguarda i soggetti in esilio, che si tratti di autori o di personaggi dei romanzi, questi mettono in relazione, sia attraverso i loro corpi sia nella loro mente e nel loro immaginario, luoghi e spazi differenti, li fanno incontrare e dialogare. Il corpo diventa il sito di questo dialogo/comunicazione/negoziazione tra luoghi e spazi che possono essere reali o immaginari, o entrambe le cose contemporaneamente. Lo spazio, infatti, secondo il tipo di relazioni che vi si instaurano, si configura di volta in volta come spazio fisico/geografico, politico o geopolitico, sociale, culturale, linguistico, religioso, di genere etc. Inoltre, lo spazio può essere sia reale, cioè fisico, tangibile, dove effettivamente avvengono le interazioni e i movimenti, oppure immaginario, quando è pensato dal soggetto lontano. Lo spazio immaginario è uno spazio mentale, che viene associato ad idee o sentimenti. Nel caso dei soggetti in esilio, la patria diventa spesso uno spazio immaginario, nel quale accadono eventi o sul cui sfondo il soggetto proietta desideri e aspirazioni. Un altro concetto introdotto da James Clifford, molto utile per descrivere le dinamiche dei soggetti in esilio, è la coppia omofona roots/routes. La sua associazione dei due termini, opposti ma omofoni in inglese, descrive la negoziazione a livello identitario tra le proprie origini, cioè l’identità originaria, e ciò che avviene durante il viaggio, lo spostamento. Per l’antropologo, un concetto fondamentale e modello di vita dello studioso deve essere quello del ‘dwelling in displacement’: infatti, dal punto di vista dello studio dell’antropologia, afferma Clifford, questo modello di vita è il più adatto per lo studio di tale disciplina. Possiamo mutuare tale concetto per lo studio dei soggetti in esilio e delle loro scritture. Questo ci permette anche di affrontare il discorso sulla casa. Che cosa significa e dove si localizza la casa per il soggetto in esilio? La casa è un idea che ritorna spesso negli scritti degli esuli, come ricordo, come mancanza, come ricerca. Ad esempio, la scrittrice croata Dubravka Ugrešić descrive con una particolare attenzione la serie di case, appartamenti, cucine prese in affitto e poi abbandonate, sottolineando come la biografia dell’esiliato/a possa essere raccontata solo attraverso questi luoghi e attraverso oggetti concreti, perché la vita in esilio è un continuo ricreare la propria casa, è un ‘dwelling in displacement’, è un continuo far i conti e convivere con ‘routes’, ossia la strada e i nuovi luoghi a cui questa ci conduce, e ‘roots’, la memoria, i ricordi e la nostalgia di ciò che è stato abbandonato. Un altro esempio è quello fornito dall’autobiografia dell’Iraniana Marjane Satrapi, questa volta una scrittura particolare, il fumetto: la ragazza, mandata a studiare al liceo a Vienna perché in Iran era cominciata la guerra, al rientro in patria la trova cambiata, non la riconosce più. Marjane, dopo l’esperienza dello spaesamento, al rientro non si sente più a casa nella sua vecchia casa, tutto è cambiato, le strade sono cambiate, le persone e le idee sono cambiate. Allo stesso tempo, l’esule, Marjane, ama il proprio paese, ma non sopporta la deriva islamista e nazionalista presa dai governanti del paese. In una tale situazione, l’Iran resta la casa, la patria, ma è necessario distinguere, da un lato, la casa così come è immaginata o voluta e, dall’altro, quello che è diventata. Inoltre, l’esperienza nel mondo occidentale europeo, considerato all’avanguardia e progredito, ha fatto capire al soggetto in esilio che anche l’occidente è pieno di aspetti negativi come pure di immagini distorte del mondo orientale. Da questo esempio si comprende anche, come già detto, l’importanza di considerare le categorie di nazione/nazionalismo nello studio delle scritture dell’esilio. Un ulteriore concetto da tener presente nello studio dell’esilio è ciò che lo studioso australiano Nicos Papastergiadis definisce ‘the turbulence of migration’. Spostando il concetto dalla migrazione all’esilio, che ha in comune con la prima molti aspetti, quali lo spaesamento, il viaggio, lo spostamento a livello linguistico, ‘the turbulence of migration’ vuole descrivere gli effetti sul soggetto del viaggio, dello spostamento. CAPITOLO 3. IDENTITÀ, LINGUA E MEMORIA. 3.1 Identità multiple e transnazionalismo. La definizione di cultura data da Tzvetan Todorov come una “serie d’appartenances” accosta la cultura al senso di appartenenza. La definizione che dà lo studioso bulgaro identifica la cultura come qualcosa che è vicino all’identità del soggetto: ciascun essere umano è abitato contemporaneamente da più culture e a queste egli sente di appartenere. La definizione di Todorov si avvicina al concetto di identità così come la esprime il premio Nobel per l’economia Amartya Sen. Quest’ultimo parla di identità plurali, l’insieme delle quali costituisce l’identità complessa di ogni singolo individuo: In our normal lives, we see ourselves as members of a variety of groups – we belong to all of them. The same person can be, without any contradiction, an American citizen, of Caribbean origin, with African ancestry, a Christian, a liberal, a woman, a vegetarian, a long-distance runner, a historian, a schoolteacher, a novelist, a feminist, a heterosexual, a believer in gay and lesbian rights, a theatre lover, an environmental activist, a tennis fan, a jazz musician, and someone who is deeply committed to the view that there are intelligent beings in outer space with whom it is extremely urgent to talk (preferably in English). Each of these collectivities, to all of which this person simultaneously belongs, gives her a particular identity. None of them can be taken to be the person’s only identity or singular membership category. Given our inescapably plural identities, we have to decide in the relative importance of our different associations and affiliations in any particular context. Riconoscere la complessità, la molteplicità delle identità che compongono l’essere umano, continua Sen, è fondamentale se si vuole instaurare pace ed armonia nel mondo contemporaneo. Inoltre, è importante comprendere che tali identità sono trasversali, cioè che ciascuna individua gruppi o collettività umane che non sono limitate ad una cultura, civiltà o nazione. Ci sono delle identità che individuano comunità transnazionali, mettono in comunicazione soggetti che appartengono a nazioni, lingue, tradizioni diverse. Tali identità trasversali, in altre parole, scavalcano i limiti e le frontiere tra stati, nazioni, civiltà, creando delle solidarietà transnazionali che si basano su una grande varietà di elementi, che possono essere il genere, il colore della pelle, il lavoro, gli hobby o la pratica di uno sport, la passione per un certo tipo di cultura, teatro, arte, musica, etc. Tale approccio alla questione dell’appartenenza identitaria degli essere umani mette l’accento sulla responsabilità di ciascuno nei confronti delle scelte relazionali, e sulle relazioni stesse. Sono i singoli soggetti che scelgono (liberamente) con chi intessere relazioni, a quale gruppo o comunità appartenere. L’imposizione di un’identità unica, unidimensionale, che spesso coincide, nel mondo contemporaneo, con la presunta identità religiosa, è una violenza che si compie su un individuo, imprigionandolo in schemi fissi, in opposizione l’uno all’altro. Tale violenza è, sempre secondo Sen, all’origine della violenza nel mondo contemporaneo tra cosiddette civiltà opposte, identificate esclusivamente in base all’elemento religioso. The politics of global confrontation is frequently seen as a corollary of religious or cultural divisions in the world. Indeed, the world is increasingly seen, if only implicitly, as a federation of religions or of civilizations, thereby ignoring all the other ways in which people see themselves. Underlying this line of thinking is the odd presumption that the people of the world can be uniquely categorized according to some singular and overarching system of partitioning. Civilizational or religious partitioning of the world population yields a “solitarist” approach to human identity, which sees human beings as members of exactly one group (in this case defined by civilization or religion, in contrast with earlier reliance on nationalities and classes). Con queste argomentazioni Sen risponde alla diffusa concezione che vede il mondo come un insieme di religioni, civiltà o culture in opposizione l’una all’altra, e che ignora completamente le altre forme di identità che gli esseri umani possiedono e giudicano importanti. Tale tendenza ad immaginare il mondo suddiviso come un insieme di popoli che si oppongono l’un l’altro a causa delle differenti religioni professate è alla base dei più violenti conflitti cui assistiamo nel mondo contemporaneo. L’idea delle identità trasversali di Sen si propone come una risposta alla visione conflittuale del mondo. In particolare, il Premio Nobel critica la nozione dello “scontro di civiltà”, teorizzata dallo scienziato politico statunitense Samuel Huntington nell’articolo apparso sulla rivista Foreign Affairs nel 1993 e successivamente sviluppata nel libro The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, del 1996. Il modello di Huntington presuppone la concezione della cultura come una civiltà, che risulta un’entità chiusa e continua al proprio interno, che può essere descritta in un certo senso attraverso il modello della cultura che propone Lotman, un modello in cui tutto ciò che non rispecchia le regole e i canoni della cultura stessa è considerato altro, diverso, nemico. L’identità dei soggetti appartenenti all’una e all’altra cultura è ridotta ad unidimensionale, è appiattita all’aspetto religioso. È importante, come dicevo prima, tenere in considerazione la libera scelta degli individui di intrecciare relazioni con altri esseri umani in base alle proprie inclinazioni, aspettative, progetti, passioni, ecc. Nel mondo contemporaneo, più che nel passato, esistono tecnologie che permettono lo scambio di comunicazioni, messaggi, notizie, grazie alla telefonia cellulare, alle comunicazioni satellitari e ad internet. Tali comunicazioni danno la possibilità di intessere strette relazioni con qualsiasi località del globo (che sia industrializzato e in cui siano state portate tali tecnologie) con estrema facilità. Grazie a queste tecnologie è, inoltre, possibile sviluppare connessioni e reti tra persone, fondare gruppi o comunità di carattere culturale, linguistico, politico, artistico, ecc, che esulano dai limiti fisici e geografici della distanza. Queste tecnologie, che possono essere considerate anche come modalità capaci di creare comunità, sono fondamentali quando si vogliano studiare i soggetti che si muovono da un luogo all’altro del globo, e in particolare i soggetti in esilio. Queste persone, spaesate, spesso allontanate dalla propria famiglia, dai propri cari, dalla comunità di appartenenza, cercano di ricrearsi una comunità sul luogo in cui sono arrivati. Questa può configurarsi come una comunità i cui membri condividono la stessa situazione politico-personale di espatriati, oppure che condividono la stessa patria, o la stessa lingua. Attraverso le tecnologie della comunicazione è possibile addirittura stabilire contatti con chi è rimasto nella nazione di origine. Inoltre, attraverso le persone, sono gli stessi luoghi o spazi che vengono messi o mantenuti in contatto e grazie a questi contatti si possono creare reti transnazionali, o “comunità immaginarie”. 3.2. L’identità per i soggetti in esilio. Sen parla dell’importanza di riconoscere il dovuto spazio alle scelte individuali. In questa prospettiva, è importante tenere in considerazione la risposta della comunità quando un individuo richiede di farne parte. Questa risposta è di grande importanza quando si studiano i soggetti migranti, in particolare, come nella presente analisi, l’individuo in esilio. Qui entra in gioco l’elemento nazionale. La categoria di nazione/nazionalismo è rilevante nell’analisi teorica dell’esilio ed interseca in modo trasversale tutte le altre (spazio, cultura, identità, lingua). La nazione, infatti, è un’identità cultuale collettiva. Per l’esiliato/a, che ha abbandonato la patria e risiede in un paese altro, si pone il problema di scegliere a quale identità nazionale identificarsi, di riflettere e comprendere a quale paese sente di appartenere. A volte, tale sentimento di appartenenza è rivolto verso la propria patria, ma non la patria come è al momento attuale, la cui politica o ideologia è stata la causa dell’impossibilità di rimanervi. Il pensiero dell’esule va, dunque, verso una patria del passato, prima che qualche terribile evento la cambiasse; l’esule guarda alla tradizione, alla storia o ai miti del passato, ad una memoria collettiva di ciò che è stato quel paese che si interseca con la memoria individuale. Ma l’assenza fisica dalla terra di origine, come spiega Salman Rushdie in Imaginary Homelands, implica una perdita (di memoria, di conoscenza, ecc.) che fa sì che chi si è allontanato non possa far altro che creare nella propria mente una madrepatria immaginaria, che sarà anche il suo progetto per il futuro. But if we do look back, we must also do so in the knowledge – which gives rise to profound uncertainties – that our physical alienation from India almost inevitably means that we will not be capable of reclaiming precisely the thing that was lost; that we will, in short, create fictions, not actual cities or villages, but invisible ones, imaginary homelands, Indias of the mind. Ma la vita dell’esule è anche caratterizzata da un altro elemento. Non solo l’esule vive fuori dalla propria patria, ma ha scelto un’altra residenza, per sempre o in attesa del ritorno. La distanza tra l’esiliato/a e la terra di origine è uno spazio in cui si inseriscono, oltre che la memoria, anche lo Stato ospite, con le sue strutture politiche, sociali, ideologiche, la lingua, la cultura, in breve, tutti gli aspetti della vita di un paese e dei suoi cittadini. Senza dubbio, vivere immerso in una cultura, in una lingua, in un sistema socio-politico-religioso differenti ha influenze sull’individuo e sulla percezione della propria identità. L’identità, infatti, oltre ad essere molteplice e sfaccettata sul piano sincronico, è caratterizzata anche da uno sviluppo diacronico. L’identità non è fissa, ma cambia, evolve nel tempo, con le esperienze che la persona vive. L’identità è una costante negoziazione. Le esperienze si moltiplicano per chi viaggia, per chi attraversa spazi, più di quanto accada a chi rimane in un luogo per tutta la vita. Madan Sarup, filosofo di origine indiana, afferma che Identity is changed by the journey. Nei casi in cui l’esule abbia la libertà di scegliere in quale paese vivere il proprio esilio, tale scelta è da tenere in considerazione perché può rivelare aspetti interessanti dell’identità e del senso si appartenenza dell’individuo. Infatti, la scelta di dove essere esiliato/a può derivare da una più o meno forte identificazione con gli ideali che una nazione rappresenta. In altre parole, nella scelta della terra del proprio esilio (dove ci sia la possibilità di una scelta libera, e non dipendente da fattori politici o burocratici quali, ad esempio, la possibilità di ottenere asilo politico e un visto di soggiorno) concorrono elementi di affinità, identificazione e condivisione di idee, ideologie, valori con il paese stesso. Ad esempio, la Francia, con i suoi storici ideali rivoluzionari di Liberté, Égalité, Fraternité, è stata un approdo mitico per gli esiliati dall’Europa dell’Est nel corso del Novecento e tuttora continua ad esserlo per i migranti provenienti dalle ex colonie. Anche gli Stati Uniti continuano a richiamare grandi numeri di migranti, espatriati, esiliati, rifugiati o cervelli in fuga, per il fatto di essere, fin dall’inizio della loro storia moderna, il luogo che rappresenta la libertà personale, la possibilità di costruirsi un futuro, il luogo mitico della democrazia e del progresso sociale, culturale, scientifico e tecnologico. Come scrive Josif Brodskij, l’esiliato/a non può che essere tale in un paese più liberale di quello da cui proviene: Da una tirannia si può essere esiliati solo in una democrazia. Il soggetto in esilio, diversamente da chi emigra, non può tornare in patria. I migranti spesso ritornano nel proprio paese per le vacanze e, con i mezzi a disposizione al giorno d’oggi per i trasporti, è molto più facile. L’esiliato, per definizione, si vede esclusa la possibilità di fare ritorno. 3.3 La lingua e lo spazio linguistico. Come Lotman ha messo in evidenza a proposito della rappresentazione spaziale della cultura e nel rapporto della cultura con il luogo, anche la lingua ha una sua dimensione spaziale. Si parla di geografia anche per quanto riguarda le lingue e la linguistica, e questa scienza ha fornito gli strumenti, le carte e le metafore per lo studio delle differenze linguistiche e dei mutamenti delle lingue. Le lingue cambiano nello spazio e nel tempo, scrive il linguista Georges Drettas: Éléments fondamentaux de la culture des groupes humains, elles naissent, évoluent en se transformant avec leurs locuteurs, puis certaines disparaissent laissant des traces gravées à la limite du désert ou, pour le plus grand nombre, s’effaçant à jamais dans un oubli que les mythes eux-mêmes ne comblent pas. […] La géographie fournit la modélisation dominante à la linguistique issue de la grammaire comparée. La faculté de langage, caractéristique propre de l’espèce, se réalise dans des langues naturelles qui ne cessent de se différencier dans le temps. L’ensemble est défini d’abord comme un phénomène spatial, avant d’être explicitement reconnu comme un fait social. Come spiega Drettas, fin dalla fine del XIX secolo la dialettologia ha preso in prestito gli strumenti di rappresentazione propri della geografia del clima, nello specifico le linee isoterme della seconda sono diventate modelli per le isoglosse, cioè linee immaginarie che delimitano le aree in cui una lingua è parlata. I fenomeni linguistici sono rappresentabili attraverso modelli spaziali e metafore proprie della geografia: si parla di atlanti, di geografia linguistica, o geolinguistica, per definire quella branca della linguistica che si occupa di studiare l’estensione nello spazio dei fenomeni linguistici, come pure di frontiere linguistiche. Ogni lingua, quindi, occupa e determina uno spazio, ma allo stesso tempo segue i movimenti dei parlanti. Le lingue si spostano, migrano, “vanno in esilio” proprio come i loro locutori, che le portano nel viaggio con sé. Metaforicamente, si può dire che la lingua entra nella valigia del soggetto che si sposta, espatria, emigra o va in esilio. La langue […] se déplace aussi aisément que l’être humain qui la possède. Et cet être parlant, communément désigné sous le nom de locuteur, peut en avoir plusieurs, de langues. Grazie agli spostamenti dei locutori, le lingue entrano in contatto tra loro, sia attraverso la prossimità geografica delle aree delimitate dalle isoglosse, sia attraverso i commerci, i viaggi, le migrazioni o attraverso le guerre e le conquiste coloniali succedutesi nel corso della storia. La francofonia, ad esempio, è una diretta conseguenza delle conquiste coloniali. In questa prospettiva, l’esilio implica un cambiamento di spazio linguistico, che può causare conseguenze traumatiche, senso di smarrimento e perdita d’orientamento. Spesso, infatti, nel passaggio da una lingua ad un’altra il parlante si trova a disagio, incapace di esprimere i concetti, le idee, le sensazioni e i sentimenti in modo esauriente. In quella che può essere chiamata ‘autotraduzione’, ossia in quella pratica attraverso la quale ci si auto traduce, si cercano parole ed espressioni in un’altra lingua che possano trasporre i pensieri formulati nella lingua primaria. Pensieri, emozioni, sensazioni sono molto delicati e il processo di traduzione come pure quello dell’auto-traduzione, può causare delle perdite di senso e significato. Nella traduzione qualcosa può andare perduto per sempre, come vuole dimostrare la scrittrice di origine polacca Eva Hoffmann, emigrata con la famiglia all’età di sette anni prima in Canada e poi negli Stati Uniti. Nella sua autobiografia Lost in Translation, attraverso esempi della sua storia personale di bambina sbarcata in una terra anglofona, racconta del suo shock culturale quando si è trovata nell’impossibilità di esprimere l’interezza dei suoi pensieri, delle sue sensazioni, come pure l’essenza stessa delle cose. La realtà della Polonia non era esprimibile attraverso le parole e i suoni della nuova lingua. Nell’atto della auto-traduzione qualcosa viene indiscutibilmente perso, che sia la fluidità, la spontaneità della lingua e dell’espressione o la capacità di fare dell’ironia. Sembra esserci uno scarto tra ciò che si esprime nella lingua madre, tra i concetti e i referenti della lingua madre, e quello che si riesce a dire in una lingua acquisita successivamente, per quanto bene la si parli e la si conosca. Bertold Brecht, in esilio negli Stati Uniti nel periodo 1945-46, scriveva in Ecrits sur la politique et la société, che “I do not say what I want to say, but what I am able to” . So, if you want to really hurt me, talk badly about my language. Ethnic identity is twin skin to linguistic identity – I am my language. “I am my language”, afferma Gloria Anzaldùa, che dedica gran parte del proprio libro Borderlands/La Frontera alla questione linguistica. La lingua è un elemento molto importante di ciascun essere umano. È l’elemento con cui si esprime, comunica con gli altri della sua specie. La lingua è lo spazio primario in cui si nasce: ogni essere umano che viene al mondo, nasce all’interno di uno spazio linguistico, viene nutrito dai suoni della lingua materna. Le sonorità di quella lingua lo accompagneranno per l’intera vita, anche se cambierà paese, viaggerà, parlerà lingue diverse, le sonorità, la musicalità della lingua prima non saranno mai dimenticati. Il legame tra l’essere umano e la lingua madre è dunque molto radicato in quanto la comunicazione, l’esprimersi, è una necessità della persona, e la lingua madre è il mezzo più naturale attraverso il quale farlo. La lingua materna delimita dunque uno spazio, che si può definire come spazio linguistico. La lingua madre è lo spazio familiare per eccellenza, come la casa, uno spazio in cui ci si sente a proprio agio, ci si muove naturalmente, ci si sente al sicuro. Ci si sente protetti e rilassati e le parole vengono naturalmente, senza sforzo, senza necessità di un esercizio mentale. Parlare la lingua madre è un atto naturale. La lingua materna costituisce una sorta di matrice sensitiva, un insieme di vibrazioni, sonorità che circondano l’essere umano fin già nel ventre materno, che lo cullano e lo ospitano. Su questo concetto è diversa la posizione del filosofo ebreo franco-algerino Jacques Derrida. Nel testo Le monolinguisme de l’autre, in cui affronta il problema dell’identità culturale dalla prospettiva della questione linguistica, Derrida afferma che la lingua non si possiede, che nessun essere umano può dire di avere una ‘propria’ lingua, perché questa gli viene donata da un essere altro da sé. Derrida, ebreo nato in Algeria, si considera un individuo privo di una lingua sua, in quanto la lingua che egli parla, e che gli è stata trasmessa in dono dalla madre, è la lingua francese. In quanto ebreo, la lingua francese non è la lingua dei suoi antenati, bensì è una lingua dell’altro. Derrida alla fine giunge ad affermare che questa situazione di disappartenenza della lingua è “una struttura universale” perché “rappresenta o riflette una sorta di ‘alienazione’ originaria che istituisce ogni lingua come lingua dell’altro: l’impossibile proprietà di una lingua”. Si può dire che la lingua costituisce uno spazio di accoglienza, un’ospitalità. Solo in un secondo momento arriva l’apprendimento della lingua, lo studio cosciente e ragionato della lingua come sistema con le sue regole. Si apprendono le regole sia della lingua materna che delle lingue straniere. L’accoglienza data dallo spazio linguistico può essere rappresentata tramite la metafora della casa: la lingua viene pensata come una casa che si abita come una dimora. Ad esempio, la scrittrice algerina Assia Djebar, che scrive le sue opere in francese, lingua appresa a scuola da bambina, considera questa lingua come una casa in cui abita: Ainsi, le français est en train de me devenir vraiment maison d’accueil, peut-être meme lieu de permanence où se perçoit chaque jour l’éphémère de l’occupation. Mais enfin, j’ai fait le geste augural de franchir moi-meme le seuil, moi librement et non plus subissant une situation de colonisation. Si bien que cette langue me semble désormais maison que j’habite […]. Assia Djebar ha una situazione diversa da quella di Jacques Derrida. Djebar, come altri scrittori e scrittrici maghrebini francofoni, sono meglio descritti dal bilinguismo, così come lo analizza Abdelkebir Khatibi nella sua opera Du bilinguisme. Questi hanno, infatti, “un accesso alla lingua detta materna”: l’arabo dialettale, che appartiene agli antenati, la lingua che si parla in famiglia, nell’ambito domestico. Il Maghreb risuona anche di sonorità berbere, la lingua più antica e autoctona del Nord-Africa. A queste lingue, prevalentemente orali, si è aggiunta la lingua francese, conseguenza della colonizzazione, che è entrata nella vita del Maghreb, nelle scuole e nell’amministrazione, con le differenze da paese a paese. Derrida, al contrario, in quanto ebreo franco-maghrebino, non può rivendicare la lingua araba come di sua proprietà, né della sua famiglia. Non può neanche rivendicare il diritto di proprietà sulla lingua francese, che non appartiene ai suoi antenati. Il francese, per lui è la lingua dell’altro che gli è stata data dalla madre. Il monolingue di cui parlo parla una lingua di cui è privato. Non è la sua, il francese. Poiché è dunque privato di ogni lingua, e non ha più altra possibilità a cui ricorrere – né l’arabo, né il berbero, né l’ebraico, né alcuna delle lingue che degli antenati avrebbero parlato –, tanto che questo monolingue è in qualche modo afasico (forse scrive proprio perché è afasico), egli è gettato nella traduzione assoluta, in una traduzione senza polo di riferimento, senza lingua originaria, senza lingua di partenza. Non ci sono per lui che lingue d’arrivo, se vuoi […] La lingua ci accoglie e ci immerge nelle sue sonorità. Per il neonato, generalmente è la madre che se ne fa veicolo, lo culla nelle sonorità della sua propria lingua. All’inizio della sua autobiografia, Out of Place, in cui racconta la propria condizione di vita in esilio, Edward Said afferma l’esistenza di un legame tra lingua ed esperienze vissute: Everyone lives life in a given language; everyone’s experiences therefore are had, absorbed, and recalled in that language. The basic split in my life was the one between Arabic, my native language, and English, the language of my education and subsequent expression as a scholar and a teacher, and so trying to produce a narrative of one in the language of the other – to say nothing of the numerous ways in which the languages were mixed up for me and crossed over from one realm to the other – has been a complicated task. Ciascuna esperienza è legata ad una sola lingua, quella in cui avviene l’esperienza stessa, perché è difficile per Said tradurre un’esperienza vissuta in una lingua in un’altra. La condizione dell’esilio, invece, implica spesso la necessità della traduzione. L’esilio è in se stesso un’esperienza linguistica, è una condanna alla privazione della lingua madre, del mezzo naturale di esprimersi, e a doversi adattare a vivere, comunicare, dialogare, in una nuova lingua. Per lo studioso egiziano di islamistica Nasr Hamid Abu Zayd, condannato a lasciare l’Egitto e vivere in esilio in Olanda, “l’esilio non è un luogo”. Per lui, l’esilio non è una questione geografica, di distanza, perché con i mezzi a disposizione al giorno d’oggi le distanze sono facilmente percorribili e ravvicinate. Per Abu Zayd l’esilio è un’“esperienza linguistica”. L’esilio non è più una questione di distanza; esistono telefono, fax e posta elettronica. L’esilio non è un luogo. Credo che l’esilio sia oggi un’esperienza linguistica: la condanna ad usare e alla fine a pensare in una lingua diversa dalla madrelingua […]. Anche altri autori in esilio vivono la condizione dell’esilio come strettamente legata alla lingua del paese in cui si trovano a vivere e, allo stesso tempo, alla possibilità di usare solo limitatamente la lingua di origine. Tale condizione però è vissuta in modo differente a seconda dei casi. Per alcuni, l’allontanamento dalla lingua madre e dalle sue sonorità, dallo spazio linguistico materno si può dire, è vissuto come un trauma, come una sofferta privazione di una parte di se stessi e della propria identità. Per altri, al contrario, l’avvicinamento alla nuova lingua, pur con qualche difficoltà iniziale, non costituisce un grosso problema. Anzi, talvolta le due lingue, quella materna da cui ci si allontana e quella del paese ospite, vivono in simbiosi, si alimentano a vicenda, interferiscono e apportano novità una all’altra. La lingua del paese ospite diventa a sua volta una lingua ospite, si fa spazio di accoglienza. Sono molti gli autori e le autrici, infatti, che scelgono di scrivere ed esprimersi nella lingua ospite, che di volta in volta viene definita lingua di adozione, o lingua “matrigna”, come il francese per la scrittrice algerina Assia Djebar. Per molte delle autrici e autori qui analizzati, scrivere in francese o in inglese, piuttosto che nella lingua madre, non è vissuto come una privazione, un dolore, una violenza, bensì come una libera scelta. Motivazioni personali, di libertà o di capacità di meglio esprimere se stessi o le proprie idee, hanno portato all’adozione della lingua altra. Talvolta è stato il pubblico a cui ci si voleva rivolgere a determinare la scelta. La scrittrice ceca Linhartová scrive : J’ai donc choisi le lieu où je voulais vivre mais j’ai aussi choisi la langue que je voulais parler. Souvent, on prétend que, plus que quiconque, un écrivain n’est pas libre de ses mouvements, car il reste lié à sa langue par un lien indissoluble. Je crois qu’il s’agit là encore d’un de ces mythes qui servent d’excuses à des gens timorés […]. L’écrivain n’est pas prisonnier d’une seule langue. […] mes sympathies vont aux nomades, je ne me sens pas l’âme d’un sédentaire. Un altro personaggio che ha lasciato la sua terra natia, la Romania, per vivere in Francia, Cioran ha scritto che "non viviamo in un paese, ma in una lingua". Tutti questi esempi dimostrano come la lingua sia percepita come un vero e proprio spazio, che può essere abitato, vissuto, praticato e la lingua materna, quella nelle cui sonorità si è nati, rappresenta la nostra casa uditiva. Un altro aspetto dell’esilio linguistico è messo in luce da Amara Lakhous, un giovane scrittore algerino che vive e lavora in Italia. Rivolgendosi a Julio Monteiro Martins, autore brasiliano da anni trasferitosi in Italia, che scrive anch’egli in italiano, Lakhous distingue l’esilio compiuto di quest’ultimo dal suo personale esilio incompiuto. Scrivere nella propria lingua per Lakhous equivale a trovarsi in una situazione in cui la scelta dell’esilio non è stata ancora attuata al cento per cento, perché l’esilio completo e compiuto si ha solo quando si decide di abbandonare anche la propria lingua: Adesso ho capito, il tuo esilio, caro Julio, è compiuto, la differenza fra me e te è che tu vivi un esilio concluso (la separazione dal Brasile e dal portoghese) mentre io vivo in un esilio incompiuto, sto combattendo la tentazione della lingua italiana, scrivo in Arabo e traduco quello che scrivo per uscire dall'isolamento, scrivo nella mia lingua d'origine perché è il ponte che mi lega alla mia memoria, al mondo di ieri, come diceva Stefan Zweig, è la lingua/ponte/sale che salvaguarda il prolungamento della ferita, che la ferita rimanga aperta, testimone del nostro scandalo, lo scandalo dell'upupa che fa i suoi bisogni nel proprio nido. 3.4 Lingue in contatto, bi- e pluri-linguismo, politica linguistica e nazionalismi. Au début, il n’y avait qu’une seule langue. Les objets, les choses, les sentiments, les couleurs, les rêves, les lettres, les livres, les journaux, étaient cette langue. Je ne pouvais pas imaginer qu’une autre langue puisse exister, qu’un être humain puisse prononcer un mot que je ne comprendrais pas. Ci sono persone per le quali esiste solo una lingua, almeno fino ad una certa età della vita. Persone che hanno vissuto e usato sempre una ed una sola lingua, per le quali i sentimenti, le cose, i colori, le emozioni possono essere espresse solo attraverso le parole di quella lingua, perché in un'altra lingua non sono le stesse. La traduzione comporterebbe una perdita irrimediabile. Le condizioni e il luogo o paese di nascita sono elementi fondamentali che determinano l’esperienza linguistica e il modo di rapportarsi di una persona alla lingua o alle lingue. La citazione qui sopra è tratta dal racconto autobiografico L’Analphabète di Agota Kristof, scrittrice nata in Ungheria nel 1935, in un paesino di nome Csikvand. Nel 1956, al momento dell’occupazione dell’Ungheria, scappa in Svizzera, dove comincia una nuova vita come operaia e dove è costretta ad imparare il francese. Quando aveva nove anni la sua famiglia si era trasferita in una città di frontiera al confine con la Germania e a quel punto la bambina ungherese aveva cominciato a capire che esistono persone che possono parlare anche altre lingue, diverse dalla sua. Ma i parlanti tedeschi, alle sue orecchie, erano parlanti di una lingua ‘nemica’: Quand j’avais neuf ans, nous avons déménagé. Nous sommes allés habiter une ville frontière où au moins le quart de la population parlais la langue allemande. Pour nous, les Hongrois, c’était une langue ennemie, car elle rappelait la domination autrichienne, et c’était aussi la langue des militaires qui occupaient notre pays à cette époque. Un an plus tard, c’étaient d’autres militaires étrangers qui occupaient notre pays. La langue russe est devenue obligatoire dans les écoles, les autres langues étrangères interdites. Personne ne connaît la langue russe. Les professeurs qui enseignaient des langues étrangères : l’allemand, le français, l’anglais, suivent des cours accélérés de russe pendant quelques mois, mais ils ne connaissent pas vraiment cette langue, et ils n’ont aucune envie de l’enseigner. Et de toute façon, les élèves n’ont aucune envie de l’apprendre. On assiste là à un sabotage intellectuel national, à une résistance passive naturelle, non concertée, allant de soi. Poche righe dopo, Kristof afferma che anche la lingua francese, che parla da oltre trent’anni e nella quale scrive ed è scrittrice riconosciuta ed apprezzata, resta comunque una lingua nemica: Je parle le français depuis plus de trente ans, je l’écrit depuis vingt ans, mais je ne le connais toujours pas. Je ne le parle pas sans faute, et je ne peux l’écrire qu’avec l’aide de dictionnaires fréquemment consultés. C’est pour cette raison que j’appelle la langue française une langue ennemie, elle aussi. Il y a encore une autre raison, et c’est la plus grave : cette langue est en train de tuer ma langue maternelle. Le lingue possono essere percepite come nemiche, per varie ragioni, ma molto spesso perché sono associate ad eventi storici o personali negativi, tristi o legati ad avvenimenti di oppressione. Nel caso di Kristof, il tedesco e, successivamente, il russo sono le lingue del nemico, dei militari invasori, di popoli che hanno privato la nazione ungherese della propria libertà. L’esperienza linguistica degli esseri umani è molto varia da persona a persona. Alcuni nascono in paesi dove il bilinguismo è la norma, per cui crescono con le sonorità di più lingue contemporaneamente, pur mantenendone una sola come lingua materna. Inoltre, a seconda dei casi, le lingue ‘altre’ possono configurarsi o meno come lingue nemiche. Un’esperienza che nel corso della storia ha fatto interagire le lingue, le ha messe fianco a fianco, è stata la colonizzazione, che per i colonizzati somiglia all’invasione militare sovietica dell’Ungheria e degli altri paesi dell’Europa Orientale. Le lingue entrano in contatto tra loro in vari modi. I soggetti che migrano, che viaggiano, che commerciano con l’estero, che espatriano per i più svariati motivi sono uno dei principali fattori che portano in contatto e fanno interagire lingue differenti. Lo stesso corpo umano diventa il sito in cui le lingue si incontrano, si conoscono, dialogano tra loro. Nel caso della colonizzazione, le grandi potenze coloniali hanno imposto la propria lingua alle popolazioni che via via hanno sottomesso. Così ancora al mondo d’oggi sappiamo come sia importante la francofonia, e come tante nazioni nel mondo parlano, oltre alla propria lingua nazionale o al proprio dialetto, anche la lingua dell’antico colonizzatore. La colonizzazione, d’altro canto, è stata un evento terribile per chi l’ha subita e la lingua è stato il più potente mezzo di colonizzazione. Forzare un popolo ad usare una lingua diversa da quella materna significa modificare con la forza il suo modo di pensare, vedere e concepire il mondo; significa inscrivere nella sua mente una cultura differente. Metaforicamente, tale esperienza può essere descritta come un forzato allontanamento del locutore dalla propria casa, poiché, come si è visto prima, la lingua in cui è nato può essere descritta come una casa. Significa de-localizzare il parlante, spaesarlo a forza, cacciarlo dalla sua casa e imporgli di “abitare” in un altro luogo, che non conosce bene, che non gli è familiare, in cui potrebbe non sentirsi a proprio agio. Attraverso la lingua, il colonizzatore impone le proprie strutture, le proprie gerarchie e il proprio ordine del mondo, che si riflettono nelle strutture linguistiche. La lingua diventa il mezzo attraverso il quale tale ordine gerarchico si perpetua, grazie all’interiorizzazione delle strutture linguistiche da parte del popolo sottomesso. La lingua si fa anche veicolo dei valori insiti in una cultura, per cui la lingua europea nei secoli del colonialismo ha imposto i valori europei ai popoli sottomessi. La lingua stabilisce rapporti di potere. La lingua concepita come gerarchicamente più elevata è solo quella parlata dal colonizzatore, la lingua standard (sia essa il British English o il francese di Francia); tutte le altre varianti sono marginalizzate e individuano parlanti di livello inferiore, proprio perché riconosciute all’istante come ‘diverse’. I rapporti di potere si delineano anche attraverso i differenti modi e accenti locali in cui la lingua dell’oppressore viene interiorizzata, parlata e scritta. La nozione di ‘differenza’, elaborata dalla teoria femminista, può essere applicata ad altre forme di marginalizzazione/sottomissione. Secondo la teoria femminista, il concetto di ‘differenza’ è luogo di forti tensioni, dal momento che il pensiero occidentale si articola secondo opposizioni binarie, dove il primo termine di paragone è definito come ‘neutro’ Qualsiasi soggetto ‘altro’ è immediatamente riconosciuto come ‘deviante dalla norma’, anomalo e perciò diverso nel senso negativo del termine. Seguendo il pensiero di Braidotti, il diverso ha qualcosa in meno, manca di alcune caratteristiche, da cui la connotazione negativa, peggiorativa del termine: essere ‘diverso da’ equivale, nella logica europea occidentale, ad essere ‘meno di’: In European history, this ‘difference’ has been predicated on relations of domination and exclusion: to be ‘different from’ came to mean to be ‘less than’. Difference thus acquired both essentialistic and lethal connotations, which have reduced entire categories of people – branded as the ‘others’ – to the status of disposable bodies: slightly less human and consequently considerably more mortal. In this dialectic scheme of thought, difference or otherness is a constituitive axis which marks off the sexualized other (woman), the racialized other (the native) and the naturalized other (animals, the environment or earth). These others, however, are constitutive in that they are expected to confirm the same in His superior position. Tale teoria femminista della differenza, inizialmente concepita per decostruire il discorso patriarcale maschile che relega le donne ad una posizione di ‘altra’, ‘diversa’, può venire estesa anche ad altre forme di minoranze/diversità, come appunto alle popolazioni autoctone delle regioni colonizzate o ai parlanti di lingue che esulano dalla cosiddetta lingua standard. La lingua del colonizzatore ha, dunque, da un lato permesso alle popolazioni locali di entrare a far parte del sistema economico, produttivo, burocratico, ecc., della potenza coloniale, ma dall’altro lato il rapporto che tali popolazioni hanno con la lingua del colonizzatore è ambiguo, perché contiene anche forti echi e connotazioni negative legate alla dura esperienza della colonizzazione. 3.5 Lingua e colonizzazione. La negoziazione con la lingua dell’altro è sempre un’esperienza molto personale, evidente dalla vasta gamma di esperienze che si trovano narrate nei romanzi e nei discorsi autobiografici. Il rapporto con la lingua dell’altro è sempre comunque problematico, e comporta una continua negoziazione. Homi Bhabha parla di estraneità della lingua, la sensazione che prova il migrante di essere escluso dalla lingua dell’altro anche dopo averla imparata: He learnt twenty words of the new language. But to his amazement at first, their meaning changed as he spoke them. He asked for coffee. What the words signified to the barman was that he was asking for coffee in a bar where he should not be asking for coffee. È come se l’uso delle parole di un’altra lingua ci fosse negato, come se non avessimo il diritto di usarle, di appropriarcene. A questo Bhabha oppone il diritto alla scrittura e alla narrazione, ossia “tutte quelle forme di comportamento creativo che ci permettono di rappresentare la vita che conduciamo, di interrogarci sulle convenzioni e i costumi che ereditiamo”. Il diritto, cioè, di autorappresentarsi, di portarsi sulla pagina, di esporsi ed esporre le proprie idee e la propria identità. La lingua demarca l’identità. L’uso che facciamo del linguaggio e il nostro accento riflettono nel mondo la nostra identità e ci ‘localizzano’. “Il diritto alla narrazione”, continua Bhabha, “presuppone che ci sia un impegno a creare ‘spazi’ per la diversità culturale e regionale”. Inoltre, come afferma Hannah Arendt, il linguaggio è sia discorso sia azione, è un atto linguistico, di conseguenza è solo attraverso la parola, scritta o pronunciata, che il soggetto può dirsi e agire. Il colonialismo è stato ovunque un trauma per le popolazioni assoggettate e, per quanto riguarda più da vicino il mondo arabo-islamico, ha costituito una violenta irruzione dell’Occidente. Le potenze coloniali hanno, infatti, cercato di instaurare con la forza il modello di vita europeo in quelle regioni, e ciò ha comportato forti squilibri a livello economico, sociale e culturale, piuttosto che una vera modernizzazione. L’occidentalizzazione forzata ha causato gravi danni alle nazioni, particolarmente in Algeria, dove la lotta per l’indipendenza e il successivo cammino per ricostruire la pura società algerina sono stati lunghi e sanguinosi e non hanno ancora trovato una soluzione definitiva al giorno d’oggi. Nel mondo arabo-islamico, per quanto riguarda i rapporti con le potenze coloniali e, conseguentemente, l’atteggiamento nei confronti della lingua della colonizzazione, si individuano due macro-regioni: il Maghreb, ossia il mondo arabo occidentale, costituito da Marocco, Algeria, Tunisia (e Mauritania), e il Mashreq, il mondo arabo orientale, comprendente Libia, Egitto, il Medio Oriente e i paesi della Penisola Arabica. Le due macro-regioni hanno storie e processi evolutivi della società differenti, fin dai tempi della conquista musulmana, e il loro divario si è accresciuto nel tempo, diventando ancora più marcato dopo le lotte per l’indipendenza e con il sorgere degli stati nazionali. Lo spartiacque fondamentale per lo studio delle civiltà del mondo arabo, infatti, è di norma tra prima e dopo le rispettive indipendenze. Isabella Camera d’Afflitto, una delle principali studiose italiane della letteratura araba, spiega i limiti della prospettiva occidentale nel mondo arabo: Si continua a parlare di mondo arabo come se fosse un tutt’uno, ma già all’inizio del XX secolo le differenze e le peculiarità appaiono sempre più chiare, e con il passare le tempo le differenze si accentuano, anche se gli eventi continuano ad intrecciarsi. E diventa sempre più opportuno parlare di “letterature arabe” al plurale, perché ogni paese ha una produzione letteraria specifica, che rispecchia la sua storia politica e sociale. La questione linguistica ha ovviamente una rilevante importanza per quanto riguarda la letteratura di queste regioni. Grazie, o a causa, della colonizzazione, questi paesi sono stati il luogo di incontro, scontro, scambio di due o più lingue, per cui uno dei retaggi di questo trauma storico è oggi una situazione di bilinguismo, o multilinguismo o almeno presenza di più lingue che coabitano, più o meno pacificamente. C’è inoltre la questione se le opere in francese o in inglese prodotte da persone di origine araba debbano essere considerate appartenenti alla letteratura araba oppure, rispettivamente, a quelle francese/francofona o inglese/anglofona. In questo lavoro prendo esplicitamente in esame le opere prodotte da scrittrici provenienti dalle regioni del cosiddetto mondo arabo-islamico che hanno scelto come propria lingua di espressione il francese o l’inglese. In quasi tutti i casi che verranno proposti in questo lavoro, la scelta di adottare una lingua per l’espressione letteraria diversa dalla lingua madre è conseguente ad uno spostamento geografico, che si associa in un certo modo anche ad un avvicinamento verso la cultura del paese di provenienza della lingua. Per la grande, fondamentale importanza che la lingua ricopre nei rapporti di potere e di autodefinizione del soggetto e della sua identità, gli scrittori e intellettuali da tempo riflettono approfonditamente sulle ragioni e sulle conseguenze della scelta della lingua letteraria, ottenendo spesso risposte differenti e personali. Si tratta comunque sempre di una risposta alla colonizzazione, in tutti i suoi aspetti, politico, sociale, economico o linguistico. Per i sostenitori della tesi che anche la letteratura francofona debba essere annoverata a pieno diritto tra la letteratura araba in generale “l’appartenenza ad una determinata cultura va ben al di là dell’uso di una certa lingua, comprendendo un’esperienza, un legame culturale e anche affettivo con un paese e la sua cultura, le persone, le atmosfere”. L’identità di un popolo e di ciascun individuo, se da una parte sono estremamente legati ad una data lingua madre, come si è visto sopra, dall’altra non si esaurisce in questa e vi sono individui che preferiscono o si trovano più a loro agio ad esprimere i legami, gli affetti, e i sentimenti verso il proprio popolo, la propria terra e la propria nazione in una lingua acquisita, studiata sui libri o tra i banchi di scuola. Anche perché è proprio la scuola che, come si vedrà anche successivamente nell’analisi delle autrici, viene percepita come luogo di apprendimento e di formazione di una propria identità autonoma. È a scuola che le ragazzine imparano a pensare e formano il proprio carattere. Ritroviamo spesso il racconto dei giorni di scuola e le esperienze relative alla scuola nei racconti e nelle autobiografie delle scrittrici, che le presentano come momenti fondamentali per la formazione del proprio carattere e delle proprie idee sulla vita, sulle tradizioni, sull’organizzazione familiare e sul lavoro. Conoscendo tutto ciò, non meraviglia che molte autrici preferiscano esprimersi nella lingua che più strettamente è legata ai ricordi della scuola e alle letture che hanno riempito i loro giorni e hanno modellato il proprio modo di pensare. L’istruzione delle bambine e delle giovani donne nel mondo arabo, come sempre è accaduto nel passato in altre regioni del mondo, va di pari passo con una sempre maggiore presa di coscienza della propria condizione e della possibilità di scelte alternative a quelle offerte, o spesso imposte, dalla tradizione e dalla società in cui scrivono. La questione linguistica, e in particolare per quanto riguarda l’espressione scritta e la produzione letteraria, è molto sentita in Maghreb, molto più che nelle altre regioni arabe, e in particolare in Algeria, dove i francesi hanno più fortemente attuato una dearabizzazione della popolazione autoctona. La scuola in Maghreb era completo dominio della lingua francese, e se qualcuno veniva trovato a parlare in arabo veniva punito, cosa che ci viene descritta in molti romanzi e autobiografie. In Algeria, ad esempio, la francesizzazione dell’amministrazione della società è stata una vera e propria politica della colonizzazione. Ma nonostante ciò, non c’è risentimento verso la lingua francese tra gli autori e le autrici francofone. Inoltre, gli scrittori e le scrittrici maghrebine francofone mostrano un profondo attaccamento e amore verso la propria cultura, la propria gente, la propria terra, e “l’utilizzo della lingua francese non ha impedito loro di restare profondamente arabi o berberi”. In più, gli scrittori e le scrittrici francofoni utilizzano un francese puro, perfetto, raffinato, studiato, come strumento per “affermare la propria dignità nei confronti del colonizzatore”. Si scrive in francese meglio dei francesi. Per quanto riguarda i popoli che hanno subito la colonizzazione, varie strategie vengono messe o sono state messe in atto per contrastare la colonizzazione linguistica. Alcuni scrittori soprattutto dell’Africa sub-sahariana e meridionale, mirano ad affrancarsi dal retaggio coloniale cercando spazi di espressione nelle lingue locali, pre-coloniali. In un’intervista per una rivista francese, Nadine Gordimer, scrittrice Sudafricana, sottolinea l’importanza di creare le condizioni perché i giovani scrittori possano esprimersi nella lingua madre, perché la lingua del colonizzatore non permette di esprimere fino in fondo i propri sentimenti e le emozioni più profonde; ma conclude che, dopo tutto, la scelta della lingua attraverso la quale esprimersi deve essere una scelta personale: Nous ne pouvons pas avoir une littérature sud-africaine faite uniquement en anglais ou en afrikaans, qui sont toutes les deux des langues européennes. Nous devons absolument créer des conditions pour que les Noirs puissent s’exprimer dans leur langue maternelle. Car ce sont dans les langues maternelles que se trouvent les émotions, les sentiments les plus profonds. Je ne suis pas en train de dire que les Noirs doivent abandonner l’anglais. Chacun devrait pouvoir s’exprimer dans la langue de son choix. Personale è, ad esempio, la scelta di Assia Djebar, che scrive in francese, la lingua del colonizzatore dell’Algeria in cui è nata e cresciuta. Ma il suo uso della lingua francese non esprime sottomissione al francese/alla Francia e alla cultura che queste realtà rappresentano (da cui l’ironica definizione del francese come ‘lingua dell’antico colonizzatore’). Al contrario, per Djebar la lingua francese si definisce come strumento di liberazione e di contro-colonizzazione: utilizzare il francese meglio dei francesi e portare l’‘altro da loro’ a casa loro. Questo lavoro si propone di comprendere che cosa ha spinto le scrittrici a scegliere la lingua dell’antico colonizzatore, quali sono le strategie di appropriazione e i fini di tale scelta, le dinamiche di “abrogation and appropriation”. La questione linguistica si è posta urgentemente al momento dell’indipendenza. In alcuni paesi questa questione si è risolta senza troppi traumi, mentre in Algeria, ad esempio, la questione linguistica è stata caricata di valenza nazionalistica. 3.6 Il tempo, l’assenza e la memoria nell’esilio. Qualsiasi movimento, viaggio, spostamento nello spazio non può prescindere dal tempo. Il tempo è una categoria usata nella geografia fisica ed umana, che studia le interazioni delle comunità sul territorio nel corso del tempo, cioè le interazioni tra spazio e essere umano. Il tempo aggiunge una dimensione dinamica ai modelli spaziali di interazione individuo/spazio, mettendo in luce le differenze o le continuità tra gli avvenimenti/eventi nei vari punti dello spostamento. Nell’analisi dello spostamento dell’esilio diviene categoria essenziale. Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno m’interroga, lo so. Se dovessi spiegarlo a chi m’interroga, non lo so. Con questa frase quasi paradossale, Sant’Agostino dichiara la difficoltà di collegare due procedimenti percettivi: da un lato la percezione naturale del tempo che scorre e dall’altro, la sensazione di non riuscire a concettualizzarla adeguatamente. Lo stesso Sant’Agostino (Cap. XI) ha definito il presente come qualcosa di intermedio tra il ‘non essere più’ (=passato) e il ‘non essere ancora’ (=futuro). Di certo la percezione del fluire del tempo rimane nel soggetto, nella sua memoria. La memoria presente è legata al tempo passato, cioè un tempo che non è più, che è assente. La memoria, quindi, colma un’assenza. Nel corso del XX secolo, soprattutto grazie alla rivoluzione del pensiero che si è avuta grazie alla Teoria della Relatività di Einstein, è cambiato il modo tradizionale di pensare al tempo. L’idea di fondo è che, come spiega lo scienziato Stephen Hawking nel suo famoso libro Dal Big Bang ai buchi neri, il tempo non sia separato completamente dallo spazio e da esso indipendente, ma che sia combinato con esso a formare un’entità chiamata spazio-tempo. È un fatto di comune esperienza che si può descrivere la posizione di un punto nello spazio per mezzo di tre numeri o coordinate. […] Un evento è qualcosa che accade in un particolare punto nello spazio e in un particolare tempo. È perciò possibile specificarlo per mezzo di quattro numeri o coordinate. Questa quarta coordinata consiste proprio nel tempo, ovvero il momento in cui si verifica un determinato evento. Nella Teoria della Relatività, non esiste un tempo unico assoluto, ma ogni individuo ha la propria misura personale del tempo, che dipende da dove si trova e da come si sta muovendo. Il tempo è dunque legato alla percezione personale dell’individuo, è sempre un tempo percepito. La realtà fisica è dipendente dall’osservatore e con esso interagisce. Sino all’inizio di questo secolo si credette in un tempo assoluto. In altri termini, ogni evento poteva essere etichettato da un numero chiamato “tempo” ad esso associato in un modo unico, e ogni buon orologio avrebbe concordato con ogni altro nel misurare l’intervallo di tempo compreso fra due eventi. La scoperta che la velocità della luce appare la stessa ad ogni osservatore, in qualsiasi modo si stia muovendo, condusse però alla teoria della relatività, nella quale si dovette abbandonare l’idea che esista un tempo unico assoluto. Ogni osservatore avrebbe invece la sua propria misura del tempo quale viene misurato da un orologio che egli porta con sé: orologi portati da differenti osservatori non concorderebbero necessariamente fra loro. Il tempo diventò così un concetto più personale, relativo all’osservatore che lo misurava. Lo scorrere del tempo viene dunque percepito diversamente a seconda del sistema di riferimento, dicono i fisici. Tradotto in linguaggio letterario, possiamo dire che la percezione del tempo è diversa a seconda dello spazio in cui ci si trova. Tenendo presente questa idea nel caso degli esuli, se ne deduce che la percezione del tempo è diversa nei due spazi, di partenza e di arrivo. Dubravka Ugrešić, osservando lo smarrimento del suo personaggio quando dal suo esilio in Olanda fa un breve rientro nella natia Zagabria, trova che “la percezione del tempo” è diversa. Per coloro che se ne vanno, lo spazio “laggiù” rimane ancorato alla memoria, ai ricordi, e nella loro mente non cambia, non può e non deve cambiare, quasi non ne abbia il diritto. Per coloro che se ne vanno per una ragione dolorosa come la guerra, la povertà o la persecuzione, lo spazio abbandonato rimane sospeso nel tempo e serba una nostalgia e un fascino legato al momento del distacco, che si configura come una vera e propria lacerazione. È il trauma di doversene andare che dona valore emotivo, affettivo, al “laggiù”. La ferita della lacerazione non si chiude e continua a far male, riproponendo immagini di un sé non diviso fra un là e un tempo perduto e il qui del vissuto presente. Nell’autobiografia di Hoffman, la scrittrice da adulta ritorna ad analizzare la propria storia di emigrazione e la sua esperienza di esilio. Attraverso la rievocazione delle sue sensazioni di nuova arrivata, la scrittrice dimostra che il passato, lo spazio e la lingua del passato sono una componente fondamentale dell’identità di una persona e che perderle, annullarle, equivale ad annullare quella persona. Emigrata all’età di tredici anni con la sua famiglia in Canada, a Vancouver, si ritrova di colpo privata del suo passato. Hoffman rivela che i suoi affetti, nei primi mesi dopo l’arrivo sul nuovo continente, sono tutti rivolti alla Polonia, alla natia Cracovia, agli amici e alle persone care che facevano parte dalla sua vita laggiù. Si è detto, a proposito della definizione di Sant’Agostino, che il passato è un tempo che non è più, è dunque ‘assenza’. Dalle narrazioni degli scrittori che raccontano dell’esilio si evince sempre il loro attaccamento al passato, allo spazio abbandonato. Con un paradosso, potremmo affermare che la vita dell’esule è ‘colma di assenze’. In Etrangers à nous-mêmes, Julia Kristeva afferma che L’exilé […] s’attache fièrement à ce qui lui manque, à l’absence, à quelque symbole. […] Le rejet d’un coté, l’inaccessible de l’autre : si l’on a la force de ne pas y succomber, il reste à chercher un chemin. Eva Hoffman, nel romanzo autobiografico Lost in Translation, poeticamente comunica la propria condizione di esule che, pur camminando per le strade di Vancouver, ha la mente, il cuore e gli occhi pieni solamente delle immagini della sua amata Polonia, ormai abbandonata. Si sente ‘incinta’ della Polonia lontana, assente: As I walk the streets of Vancouver, I am pregnant with the images of Poland, pregnant and sick. […] The largest presence within me is the welling up of absence, of what I have lost. This pregnancy is also a phantom pain. Questa assenza domina la mente del soggetto in esilio, che sente forte la frattura temporale nella propria vita, una vita “prima” dello spaesamento e una nuova vita “dopo”, che corrispondono all’opposizione spaziale tra “qui” e “là” o “laggiù”. Eva Hoffman scrive: Loss is a magical preservative. Time stops at the point of severance, and no subsequent impressions muddy the picture you have in mind. The house, the garden, the country you have lost remain forever as you remember them. Nostalgia – the most lyrical of feelings – crystallizes around these images like amber. Arrested within it, the house, the past, is clear, vivid, made more beautiful by the medium in which it is held and by its stillness. (LT, p. 115) Quella di Eva Hoffman è un’esperienza comune a molti/e espatriati/e e ciò che alla fine vuole comunicare la scrittrice è la sensazione, viva e dolorosa, che la perdita del passato e dello spazio-tempo della Polonia, della patria e della lingua madre si tramuta nella sensazione della perdita di sé e di un’identità precisa. Arrivata sul nuovo continente, si sente molte volte ripetere dalla gente che la circonda che ormai il passato è da dimenticare, che non serve più a nulla, che anzi il Canada è un luogo migliore e che c’è tutto da guadagnare nel dimenticarsi al più presto del passato e a ricominciare una nuova vita nel presente, nello spazio Americano, capace di offrire molto alla realizzazione personale, e nella lingua inglese. Ma per la giovane Eva non è possibile sbarazzarsi del passato, perché a questo è legata la sua persona, quello che lei è. La sua identità è legata al tempo, ma l’impossibilità di mettere i due tempi in comunicazione l’uno con l’altro, il tempo del passato e il tempo del presente, che equivale a mettere in comunicazione la sua identità e la sua esistenza del passato con quelle del presente, la immobilizzano in un presente quasi a-temporale. Dunque, le prime impressioni dell’arrivo nella nuova terra sono di perdita, assenza, immobilismo. Mrs Steiner suggests […] I should not cling to the ways of the past. That makes me want to defend Mrs Witeszczack even more. Not everything there is old fashion, not everything here better! But everyone encourages me to forget what I left behind. […] Can I really extract what I’ve been from myself so easily? Can I jump continents as if skipping rope? […] I couldn’t repudiate the past even if I wanted to, but what can I do with it here, where it doesn’t exist? (LT, p. 115-116) L’emigrazione, lo spaesamento si traducono quindi in perdita del passato, dello spazio natio e dello spazio linguistico materno. Gli esuli sono come bottiglie vuote, come immagina un altro scrittore, Khader Abdolah, un iraniano che vive in esilio in Olanda. Nel romanzo Il viaggio delle bottiglie vuote l’autore utilizza questa immagine come metafora per il soggetto in esilio che, come bottiglie lanciate nel mare degli eventi, sballottate dalle onde, si ritrovano alla fine spaesate, disperse e svuotate, perdono pian piano la memoria. I ricordi si fanno confusi e si dimenticano nomi, colori e dettagli. Ma è la stessa identità della persona ad essere a rischio, se si affievoliscono i ricordi e se la memoria viene meno. Ma chi sarei stato senza i ricordi della mia terra natale? Come avrei potuto qui, in questo paese umido, cercare il significato delle parole senza che la stufa della mia casa paterna ardesse nella mia mente? La vita precedente alla cesura, alla ferita, alla partenza costituisce una parte fondamentale della persona, dell’identità del soggetto che arriva in un nuovo spazio. Il passato non può venir annullato completamente, né tale perdita è auspicabile dal punto di vista dell’esule, che si troverebbe perso/a, senza più sapere chi è. Per questo è fondamentale trovare un mezzo per conservare la memoria, mettere a punto una ‘tecnologia della memoria’. Per gli scrittori, tale ‘tecnologia della memoria’ consiste nel raccontare storie, la propria o quella di altri esuli. Eva Hoffman si sente intrappolata nella dicotomia, nello iato spaziotemporale tra qui/laggiù e passato/presente. Questa condizione incide sulla percezione di sé e della propria identità, perché si rende conto che, se perdesse i ricordi e la memoria di ciò che è stata, perderebbe anche sé stessa: I can’t afford to look back, and I can’t figure out how to look forward. In both directions, I may see a Medusa, and I already feel the danger of being turned into stone. Betwixt and between, I am stuck and time is stuck within me. Time used to open out, serene, shimmering with promise. If I wanted to hold a moment still, it was because I wanted to expand it, to get its fill. Now, time has no dimension, no extension backward or forward. I arrest the past and I hold myself stiffly against the future; I want to stop the flow. As a punishment, I exist in the stasis of a perpetual present, that other side of “living in the present”, which is not eternity but a prison. I can’t throw a bridge between the present and the past, and therefore I can’t make time move. (LT, pp. 116-117) Questa immagine del tempo bloccato, questa condizione di stasi dell’esilio richiama un’altra immagine lettereraria. Si tratta della descrizione di un altro esule che vive un tempo di stasi nell’attesa del tempo del ritorno. Salman Rushdie nel romanzo The Satanic Verses descrive, con lo stile proprio della narrazione letteraria, questa sospensione temporale in cui vive l’esule: The exile is a ball hurled high into the air. He hangs there, frozen in time, translated into a photograph; denied motion, suspended impossibly above his native earth, he awaits the inevitable moment at which the photograph must begin to move […]. (SV, pp. 205-206) L’esilio è dunque una condizione sospesa, un tempo bloccato; si attende con ansia il ritorno, e lo sguardo è sempre rivolto al futuro, ma un futuro di un tempo circolare, che prospetta un ritorno alla condizione di partenza, del passato. Diversa è invece la percezione del tempo per coloro che rimangono “laggiù”. Per loro, il tempo scorre e la vita deve andare avanti, non può rimanere legata, intrappolata al passato. Specialmente nelle terre che sono state colpite da eventi drammatici quali guerre, terrorismo ecc., la gente pensa alla ricostruzione, ad alleviare i dolori e a rimarginare le ferite, sia fisiche sia morali, pensa alla vita quotidiana e alle piccole necessità di tutti i giorni. Nel romanzo Il ministero del dolore, Ugrešić descrive una scena a bordo dell’aereo che sta riportando la protagonista ad Amsterdam, il luogo del suo esilio. Rientrata per una settimana nella natia Zagabria, rimane negativamente colpita da ciò che ha visto e dal fatto di essersi persa tra vie che conosce benissimo, perché è stato loro cambiato nome. La protagonista ha una discussione con un uomo seduto accanto a lei a proposito della divergenza di percezione temporale e di memoria storica tra gli esuli e coloro che sono rimasti in patria. “Si tratta di percezione del tempo. Andandosene non si cambia solo il luogo, ma anche il tempo, il tempo interiore. In questo momento il tempo a Zagabria passa molto più velocemente del suo tempo interiore. Lei è come imbottigliata in una sua dimensione temporale. Per lei la guerra è successa ieri, vero?” “Ma cosa dice! È successa ieri! E non è ancora finita!” montai in collera. “Ma non per chi è rimasto in patria! Per loro il suo “ieri” è storia antica. Si ricorda dei vecchi emigranti croati che all’inizio degli anni Novanta calarono in Croazia dal Canada, dall’Australia, dall’Europa occidentale, dall’America del Sud? Tutti quei croati arrabbiati, semicriminali, legionari, assassini su commisione, perdenti vari che risposero al richiamo della tromba di Tuđman?” “Sembravano usciti da un museo storico di provincia.” “C’è il pericolo che fra qualche anno anche noi facciamo quest’effetto sui nostri compatrioti. Perciò occorre dimenticare il più presto possibile”. “Ma chi ricorderà allora?” […] “La gente non è fatta per le disgrazie, mi creda. Le persone non sono in grado di identificarsi con le catastrofi di massa. Semplicemente non possono restare legate stabilmente alla sfortuna. Neppure alla propria”. Ma c’è un ulteriore fattore temporale che distingue l’esule dalle persone rimaste in patria. Con l’esilio, il soggetto che espatria si ritrova in uno spazio molto diverso in termini socio-politici, culturali o tecnologici. Il movimento spaziale diventa, per l’esule, anche attraversamento di frontiere culturali, spesso si ritrova in paesi che hanno sviluppato un grado più avanzato in termini di tecnologia, sviluppo industriale, cammino socio-politico. Il tempo politico, sociale e culturale scorre diversamente nei vari paesi, per cui per un soggetto, come l’esule o il migrante, cambiando lo spazio di residenza, che, in termini scientifici possiamo chiamare il sistema di riferimento, cambia anche la prospettiva da cui guarda agli eventi. Questo sistema di riferimento è costituito da tutto l’insieme di elementi che costituiscono la vita sociale e privata in un determinato paese e/o comunità. Se ripensiamo a quanto scritto da Josif Brodskij, cioè che “da una tirannia si può essere esiliati solo in una democrazia”, sembra vi sia, implicito in questa idea, il fatto che la scelta dell’esilio si configuri come scelta di uno spazio immaginato più libero, più democratico, capace di offrire all’individuo maggiori possibilità di vivere secondo le proprie aspirazioni e ideali. Cioè, l’esilio, o meglio la scelta di dove essere esiliati, ha in qualche modo a che fare con l’immagine mentale che l’individuo ha del paese che sceglie come destinazione. Per uno scrittore che va in esilio prendere questa strada è forse come un tornare a casa – perché egli si avvicina a quegli ideali che l’hanno ispirato fin dall’inizio. Una vera e propria scelta tuttavia per l’esule è possibile solo nel migliore dei casi. Al giorno d’oggi, infatti, spesso molti esuli, profughi o rifugiati devono combattere contro artificiose burocrazie per ottenere il permesso di risiedere in un determinato paese, per cui la scelta personale è ridotta al ventaglio di paesi che questa possibilità offrono effettivamente. Comunque, l’idea di Brodskij è utile in quanto mette in luce un altro aspetto che contrappone i due spazi dell’esilio, quello di partenza e quello di arrivo. Oltre al divario spaziale sentito dall’individuo, i due spazi sono differenti anche da un punto di vista più ampio, sociale, collettivo. Spesso si tratta di spazi (paesi, regioni, etc) che si trovano a diversi stadi di sviluppo e, nella rappresentazione mentale comune, alcuni si trovano “più avanti” rispetto ad altri. Questa metafora del linguaggio, ormai talmente logora che non la si riconosce neanche più come tale, deriva da una concezione ben precisa del tempo e della rappresentazione mentale che gli individui hanno dello scorrere del tempo e della storia in generale. Si tratta di una metafora che prende origine dalla concezione del cosiddetto mondo ‘occidentale’, che ha una visione evoluzionistica della storia e che è proiettato nel futuro e nello sviluppo. Sembra esserci una vera e propria ossessione del tempo e del futuro nelle società ‘occidentali’, che lottano contro il tempo: contro la vecchiaia e per l’allungamento della vita, ossessionati dalla lotta contro il tempo negli spostamenti e nella trasmissione delle informazioni. Non tutte le società sono così, ma in qualche modo, da qualche decennio, con la globalizzazione e la mondializzazione dell’economia, della finanza, della politica, della cultura e dei modelli sociali, il modello occidentale sembra il più ‘forte’ o perlomeno il più aggressivo e contagia il resto del pianeta. Tale è la lettura che fa del mondo occidentale la sociologa marocchina Fatima Mernissi, che apre il suo libro Donne del Profeta con un capitolo, “Il musulmano e il tempo”, in cui pone a confronto due diverse, anzi, opposte concezioni del tempo. Fatima Mernissi legge la propria società musulmana come ossessionata dal passato e dal tempo dei morti, sofferente di un “mal del presente”, che soccombe di fronte ad un mondo occidentale, forte e combattivo perché dominato dal pensiero del futuro e del progresso. I musulmani soffrono del “mal del presente”. […] noi musulmani [lo] percepiamo come un desiderio di morte, un desiderio di essere assenti, di essere altrove. E fuggire verso il passato è un modo di essere assenti. Un’assenza suicida. (HP, p. 21) Per i musulmani, il tempo è un “tempo-ferita” e ci si rifugia nel passato perché è il riferimento di un tempo sacro, ideale, un tempo che si aspetta e si vorrebbe far ritornare. È il tempo in cui ha vissuto il Profeta Mohammed, il tempo della stesura del Libro Sacro, il Corano. Immaginando metaforicamente il tempo come una freccia, per gli occidentali questa freccia corre verso il futuro, per i musulmani invece è rivolta al passato. Si vorrebbe un annullamento del tempo e il presente diventa un’assenza del passato. È un’assenza. Se rileggiamo sotto questa luce il passo di Salman Rushdie che descrive l’Imam esule, siamo in grado di scoprire un altro livello interpretativo. Quel tempo sospeso in cui si trova l’imam in esilio è più di una semplice sospensione dovuta alla residenza (temporanea) in un altro paese. Si configura, invece, come un’intera esistenza che vive il presente come una perenne attesa di un ritorno alle condizioni del passato. Mernissi e altri studiosi come lei (come ad esempio, Samir Kassir in L’infelicità araba) leggono questa ossessione dei musulmani verso il passato come la loro condanna e causa dell’infelicità e del vittimismo arabo. L’infatuazione dei politici moderni per gli antenati, in una tradizione araba in cui il culto degli avi è legato all’istituzionalizzazione dell’autoritarismo, diventa estremamente sospetta in un momento in cui abbiamo più che mai bisogno di sorvegliare strettamente l’investimento delle nostre energie attuali. Perché vogliamo dirigerci verso il tempo morto, proprio in un momento in cui la sola battaglia che conta è quella del futuro? Le società che ci minacciano nella nostra identità sono completamente ipnotizzate dal futuro e ne fanno una scienza, che dico, un’arma di dominio e controllo. (HP, p. 23) Grazie al controllo del tempo, all’aumento della velocità (degli spostamenti e degli scambi di comunicazioni e informazioni) l’Occidente è diventato “la civiltà planetaria” (HP, p. 23), secondo Serge Moscovici, che “si impone come irresistibile e […] annulla tutte le altre omogeneizzandole”: Se si guarda ciò che è successo da un secolo a questa parte, si osserva che la civiltà occidentale è davvero la prima civiltà del tempo. La prima civiltà, cioè, in cui il tempo svolge un ruolo determinante, soprattutto come misura delle cose. Misuriamo tutto in termini di tempo: il lavoro, le distanze, la Storia (…). Temporalizziamo tutto (…), anche le cose che si supponeva sfuggissero nello spazio: la nozione di velocità, che è la principale ossessione della nostra civiltà. È un modo di temporalizzare lo spazio. Il tempo occidentale, continua Mernissi, regola e “standardizza i comportamenti, quali che siano il luogo e la cultura, e manifesta il suo dominio […]. Oggi la dominazione si insinua con la presenza familiare dell’orologio” (HP, p. 23). È l’orologio la metafora del potere di oggi, secondo Mernissi, un potere anche e soprattutto politico. Il potere politico si basa sul controllo del tempo, per cui oggi si può parlare di ‘cronopolitica’, che ha sostituito la tradizione ‘geopolitica’ che si basava, al contrario, sul controllo dello spazio. La geopolitica era una scienza che faceva perno sulla difesa del tangibile, il territorio, le frontiere, e le ricchezze che vi si trovano. Oggi essa è sostituita dalle leggi della cronopolitica, uno scenario-tempo in cui il potere passa per la corsa al controllo del fluido: il fiume di segni, la circolazione di informazione e di liquidità. […] Il nuovo imperialismo che domina noi non-Occidentali, non si manifesta più con l’occupazione fisica. Il nuovo imperialismo non è neanche economico, è più insidioso: è una maniera di contare, calcolare, valutare. (HP, p. 24) Il tempo nel mondo contemporaneo è regolato dal Coordinated Universal Time, l’ora del meridiano di Greenwich e calcolata con l’orologio atomico. “Les Occidentaux, les seules avec les Japonais”, spiega Mernissi, sono gli unici al mondo a padroneggiare la tecnologia necessaria per istituire un sistema di queste dimensioni: synchroniser les horloges à l’echelle de la planate, que seul un reseau étroitement tissé et minutieusement rebrodé sur ce que nous pensons être “le ciel” pouvait faire. Esclusi dalla possibilità di gestire in alcun modo il tempo globale, il tempo unico che regola e coordina il pianeta, i musulmani soffrono, secondo Mernissi, del dramma dell’esilio del tempo. […] nous n’existons pas. Nous n’existons que dans le territoire temporel des Occidentaux. C’est là que se situe cette perte di douloureuse de notre identité : l’exil temporel. La colonisation la plus horrible est celle qui s’installe dans votre temps. […]. Voilà l’age de l’homme scientifique qui n’a plus peur de la mort […] Un age d’où nous, Arabe set musulmans, sommes exilés, reduits à des consommaurs de gadgets. Esiliati dal tempo della modernità e ossessionati dalla sacralità del passato, i musulmani sono condannati a resistere alla modernità, a viverla come una minaccia e a leggere la storia e i progressi dell’umanità come una degenerazione della società e un allontanamento dagli insegnamenti del Profeta Mohammed. Ed è per lo stesso motivo che le società musulmane restano ancorate ad una lettura testuale e non contestualizzata del Testo sacro, perché “la morbosa ricerca del passato ci impedisce di leggerlo” (HP, p. 26). Mernissi definisce anche che cosa intende con i termini ‘noi musulmani’. Mernissi spiega che usa tale locuzione non per riferirsi alla fede individuale, all’Islam come scelta personale: Per me esser musulmano significa appartenere a uno Stato teocratico. In questo senso ciò che l’individuo pensa è secondario […]. Essere musulmano è uno stato civile, una carta nazionale, un passaporto, un codice di famiglia, un codice preciso delle libertà pubbliche. La confusione tra Islam come fede, come scelta personale, e Islam come legge, come religione di Stato, in buona parte, io credo, fu la causa del fallimento dei movimenti di ispirazione marxista e in generale della sinistra nei paesi musulmani. (HP, pp. 26-27) Il tempo, legato com’è alla religione e al sacro, pone il problema della democrazia e dell’esercizio delle libertà politiche nei paesi musulmani, molti dei quali sono o sono divenuti stati teocratici in cui il governo è imprescindibile dalla religione. È la religione a costituire la base dei codici penale, civile, della famiglia. I testi sacri non vengono contestualizzati, ovvero non sono interpretati alla luce del presente e coloro che detengono il potere hanno interesse a che si continui a trarne un messaggio letterale (se non deviato) ancorato al tempo della loro stesura. In altre parole, gli stati musulmani hanno rifiutato, nel corso dei secoli, cambiamenti e modernizzazioni in ambito politico sociale e culturale, con la scusa che erano contrari alla legge coranica, per cui ora appaiono, nel contesto globale, ad un grado meno progredito rispetto al mondo occidentale, soprattutto per quanto riguarda la condizione femminile, dei diritti umani e delle libertà individuali. Immaginando, com’è nozione comune, il tempo come una freccia, o una retta, il mondo occidentale si trova in una posizione più avanzata. Nei paesi musulmani una delle questioni più attuali e impellenti è quella della democrazia, delle libertà individuali, dei diritti umani e della condizione femminile. Scrive Mernissi: Torniamo a coloro che leggono nei testi del VII secolo la necessità di privare metà della popolazione musulmana, le donne, dell’esercizio dei loro diritti politici. Bisogna capire perché, per loro, il problema del tempo è legato al problema della democrazia, dell’esercizio delle libertà politiche da parte di tutti i cittadini, a prescindere dal sesso; bisogna capire in che modo il “mal di presente” da una parte, il rifiuto della democrazia dall’altra, si combinino, si coniughino con il sessuale; in che modo tre nozioni normalmente considerate indipendenti, e cioè il rapporto con il tempo, il rapporto con il potere e il rapporto con il femminile, si articolino come discorso sull’identità. (HP, p. 27) Mernissi spiega che il problema della condizione femminile si è riattualizzato al momento dell’indipendenza dal giogo coloniale. Durante i decenni della colonizzazione, gli Stati musulmani erano quasi scomparsi, si sono “trovati in qualche modo femminilizzati, velati, annullati, inesistenti” (HP, pp. 2728). Costretti a ridefinirsi al momento dell’indipendenza, si trovarono obbligati a ridefinire il cittadino. Precipitandosi sulla scena internazionale, questi Stati, per essere riconosciuti dalle potenze ex-coloniali, hanno dovuto firmare la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Ma riconoscendo alla donna musulmana pieni diritti umani, si metteva in discussione tutto il sistema sociopolitico degli stati musulmani, basati da secoli sulla sottomissione della donna. La metamorfosi della donna musulmana, da oggetto velato, nascosto, emarginato, ridotto all’inerzia, in soggetto di diritto costituzionale, ha annullato le soglie che definivano l’identità-gerarchia che organizzava la politica e la sfera sessuale. (HP, p. 28) Inoltre, il riconoscimento della donna come soggetto costituzionale avente diritti è ancora più difficile dal momento che la società musulmana non concepisce il concetto stesso di individuo. Nell’Islam non esiste la nozione di individuo, perché ciò che riconosce è la comunità, il gruppo: “muslim”, infatti, significa ‘sottomesso’ a Dio, alla sua sola volontà. L’individualità e l’iniziativa privata sono scoraggiate in una tale società. Tanto più crea scompiglio se ad affermare tale individualità è un soggetto femminile. Gli Stati musulmani, legati al passato e alle regole del passato, si trovano nella necessità di tracciare confini ben netti, definiti, che mantengano ordine sociale e politico. Perciò, al contrario dell’Occidente, che fonda il suo potere sul controllo del tempo, gli stati musulmani si concentrano sul controllo dello spazio, o meglio degli spazi, e li definiscono per mezzo di confini e limiti che danno un ordine ben strutturato entro cui far muovere i soggetti. La stessa Mernissi nella sua autobiografia Dreams of Trespass mette in risalto la problematica dei confini, particolarmente sentita proprio dalle donne, nelle società musulmane: sono gli hudud, che al contempo limitano ma proteggono il soggetto. L’ordine, preservato dai limiti e dalla barriere, è un aspetto fondamentale della società musulmana, che concorda con la freccia del tempo rivolta al passato. L’ordine preserva intatto il passato. Al contrario, ogni cambiamento nella società crea disordine e scompiglio. Ogni volta che si valica una soglia, ogni volta che viene oltrepassato un limite si crea disordine e ci si allontana dalla perfezione del passato. Questa evoluzione degli eventi sembra in un certo senso seguire una legge fisica, quella della freccia del tempo termodinamica. Secondo tale legge, la freccia del tempo non è reversibile, e con il passare del tempo, aumenta il disordine (o entropia). Un esempio è dato da una tazza che da un tavolo cada sul pavimento, frantumandosi. Nella vita comune, sappiamo che quei frantumi non potranno tornare a ricomporsi come prima della caduta. Prima si aveva l’ordine della materia, con la caduta è aumentato il disordine, e l’orientamento degli eventi non è reversibile. Per riprendere il discorso sul tempo nella sua complessità dobbiamo quindi aggiungere che l’individuo in esilio guarda al proprio movimento come ad un attraversamento di una frontiera non solo spaziale, territoriale, e geo-politica, ma anche temporale. La prospettiva da cui osserva gli avvenimenti globali, il sistema di riferimento, è differente proprio per tutti questi fattori appena descritti. Si noterà che le scrittrici di cui si analizzano le opere in questo lavoro hanno scelto il proprio spazio dell’esilio. Gli scrittori e le scrittrici, come afferma Brodskij, sono tra gli individui privilegiati nell’ampio contesto di persone spaesate, dislocate, profughe, ecc, e questo lo dimostra. Ciò non toglie, ovviamente, che restino affezionate al paese natio, che, come nel caso di Eva Hoffman, provino nostalgia o ammirazione per la propria terra e per aspetti specifici della propria cultura di origine. Si può essere fortunati e capitare “nel luogo più bello dove essere esiliati”, ma la nostalgia per la patria non svanisce, come scrive l’autrice libanese Ghada Samman: Io e mio marito eravamo terribilmente tristi, non perché ci trovavamo a Parigi, il luogo più bello dove essere esiliati, ma perché non eravamo in Libano. Il movimento dell’esilio porta a nuove prospettive, apre gli occhi su nuove realtà e modi di vivere. Questa doppia conoscenza, doppia visione è uno degli aspetti positivi della condizione dell’esule (come si è visto). Ma le origini, le radici rimangono sempre un aspetto fondamentale dell’identità degli individui, ed eserne privati, come nel caso di Hoffman, equivale ad una perdita di se stessi. Preservare almeno la memoria delle origini è dunque una questione di preservare la propria identità. 3.7 L’esilio e la memoria. Il movimento attraverso frontiere spaziali e temporali per non diventare smarrimento e trasformarsi in perdità di sé e della propria identità ha bisogno di appigli, di punti di riferimento, che gli esuli trovano nei ricordi e nella memoria. Ed è la memoria che ha un ruolo importante in tutti gli scritti di esilio/esiliati. In Vietato leggere, Ugrešić dedica un capitolo, dal titolo “La vita senza coda”, alla condizione dell’esilio e dello scrittore esiliato. Il capitolo contiene una serie di definizioni dell’esilio: alle proprie, Ugrešić aggiunge quelle di altri scrittori che, avendo sofferto per l’allontanamento dalla patria, hanno conosciuto la condizione di esiliati e ne hanno parlato. Una dopo l’altra, si accumulano definizioni in un continuum di osservazioni e citazioni letterarie. Il titolo, “La vita senza coda”, ci immerge subito in una dimensione dell’esilio, quella della mancanza di appigli solidi al passato: la coda simbolizza una traccia, un segno che rimane dietro, nel passato, a cui si può sempre ricorrere, fare riferimento, per ritrovarsi, per capire se stessi e il proprio passato. L’esiliato, in quanto staccato/strappato a forza dalla propria terra d’origine, dalla casa, dal passato, ha perso questi punti di riferimento capaci di dare sicurezza morale. È probabilmente per questo che l’esiliato deve fare leva sulla memoria. Ed è sulla memoria che pone l’accento Josif Brodskij. La memoria, credo, è un surrogato della coda che abbiamo perso per sempre nel felice processo dell’evoluzione. Dirige i nostri movimenti, emigrazione compresa. […] Eppoi, più uno ricorda più è vicino, forse, a morire. Brodskij sembra raffigurare la memoria come una sorta di timone che governa una barca, la dirige, la mantiene sulla rotta. Un libro che parli dell’esilio e della condizione dell’esiliato/a non può prescindere dall’essere un libro sulla memoria, dunque. Quale migliore luogo per conservare la memoria di un museo? Nel suo libro Il Museo della resa incondizionata, Dubravka Ugrešić conduce il lettore attraverso un vero e proprio museo dove si vedono immagini e foto, si ascoltano aneddoti e racconti, si incontrano personaggi con le loro biografie e le loro storie. Tali personaggi sono anch’essi degli esiliati, dei nomadi, degli immigrati, dei profughi, che sono stati costretti, per vari motivi, a lasciare la propria casa, la propria patria, la famiglia, gli affetti e vivono ora in un altro luogo, parlano altre lingue nel lavoro e nella vita quotidiana, anche se quando si incontrano e si riconoscono (perché ci si riconosce sempre, pur non essendosi mai incontrati), tornano a parlare la propria lingua, felici di essersi ritrovati, di poter condividere la propria condizione con qualcun altro. Di profughi, esiliati, immigrati è piena l’Europa, afferma Ugrešić: ve ne sono talmente tanti che “a casa non è c’è (rimasto) nessuno”. Uno degli oggetti più comuni per chi si sposta è la valigia, e uno dei luoghi più spesso incontrati è l’aeroporto. In questo scenario, Ugrešić giocando con le parole inglesi, immagina di trovarsi in un aeroporto, di fronte ad un agente di polizia che, vedendola senza valigie, si meraviglia e le domanda il motivo di quell’assenza. L’autrice risponde con una neologismo: “Don’t you have any luggage?” “No, I only have lifeage!” “La vita è l’unico bagaglio che portiamo con noi”, continua l’autrice sullo stesso adagio. L’unico bagaglio che l’esule si trascina dietro è la propria vita, il proprio corpo e la memoria. La memoria coincide con la vita, è ciò che rimane del tempo vissuto, è l’età della vita, life-age. L’esilio è un museo personale, dove si raccolgono gli oggetti comprati e abbandonati (perché non si può portarli sempre con sé nelle valigie ad ogni spostamento). L’esilio è la serie degli stessi oggetti comprati e ricomprati più volte, la serie delle camere, delle cucine, degli appartamenti presi in affitto. La biografia dell’esiliato/a può essere raccontata solo attraverso questi oggetti concreti, perché la vita in esilio è un continuo ricreare la propria casa. La biografia dell’esiliato è raccontata anche dalla serie di visti e timbri sul passaporto. In fondo, la vita dell’esule è possibile rintracciarla soltanto attraverso una serie di elementi misurabili. Che potevo ribattere? Che l’esilio, o almeno quello che io vissi in maniera sempre più stremata, è uno stato incommensurabile. Che l’esilio è uno stato che, in realtà, si può descrivere attraverso circostanze misurabili – timbri sul passaporto, luoghi geografici, distanze, indirizzi temporanei, esperienza con varie procedure burocratiche per ottenere il visto, denaro speso chissà quante volte per comprare una nuova borsa da viaggio –, ma una descrizione come questa significa poco. Che l’esilio è la storia delle cose che ci lasciamo alle spalle, un compra e vendi di asciugacapelli, piccole radio da quattro soldi, pentolini per il caffè… Che l’esilio significa cambiare voltaggio e hertz, una vita con il trasformatore, altrimenti ci bruceremmo. Che l’esilio è la storia dei nostri appartamenti presi in affitto temporaneamente, delle prime mattinate solitarie durante le quali stendiamo la piantina della città, vi cerchiamo il nome della nostra via, disegniamo un cerchietto a matita […]. (MRI, pp. 165-166) Tutte queste serie, queste successioni di foto, immagini, oggetti, luoghi, incontri, personaggi sono l’unico appiglio per ricostruire nella memoria e nella scrittura la biografia dell’esule, e la propria autobiografia di esule. Museo della resa incondizionata non è classificabile entro uno dei generi della letteratura. Non è definibile come romanzo, perché non ha un inizio e una fine, non c’è una storia che si sviluppa dalla prima all’ultima pagina. Possiamo definirlo un’opera postmoderna, che contiene elementi autobiografici e narrativi, riflessioni e racconti. Il libro è costruito sulla base di una “poetica dell’album di famiglia”, come suggerito dal titolo del primo capitolo della seconda parte (MRI, p. 31). Si tratta di una poetica del dettaglio, del frammento, che rispecchia il processo di funzionamento della memoria. La memoria, infatti, non è lineare, ma procede a salti spazio/temporali, per associazione di idee, immagini. Un ricordo ne solleva un altro. Il testo è composto da sette parti. La prima, terza, quinta e settima, che hanno un titolo in corsivo e in tedesco, constano di paragrafi piuttosto brevi e numerati, come se si trattasse di didascalie poste di fianco agli oggetti esposti in un museo. Queste parti del testo non raccontano una storia, ma costituiscono una serie di sketches, descrizioni, immagini, che si richiamano l’un l’altro per associazione di idee. Non è assenza di ordine o logica, ma una concatenazione che esula dalla tradizionale concatenazione temporale. Rispecchia piuttosto il funzionamento del cervello umano e della memoria. Spesso, addirittura, nel corso della lettura, sembra di aver già letto le stesse frasi. Non si tratta di un’impressione: nel testo ricorrono a volte paragrafi interi, ripetuti due o tre volte, con minime variazioni. Le parti di numero pari (seconda, quarta e sesta) sono più lunghe e coerenti al loro interno e sviluppano delle storie. Nel museo immaginario, questi capitoli rappresentano delle sale monotematiche, in cui si approfondisce la trattazione di un soggetto. Come l’autrice stessa afferma nel corso di un’intervista, questo testo segue il principio del montaggio o collage, il cui senso è costituito dalla contiguità. Costituisce, in chiave letteraria, quello che gli artisti creano attraverso le installazioni di elementi, materiali, oggetti, come quelle dell’inglese Richard, amico dell’autrice, di cui si parla nel testo stesso. Non c’è dunque, una temporalità, un ordine spazio-temporale, una cronologia rintracciabile all’interno della scrittura. Ci si chiede, allora, in che tempo vive l’autrice, in quale storia collettiva si inserisce la sua vita, dopo che nel 1993, scegliendo l’esilio, si è sottratta alla storia del suo Paese, la Croazia. Lo stesso discorso del tempo vale anche per lo spazio. Non c’è unità di spazio, bensì l’autrice si muove su una serie di territori differenti, traccia percorsi sulla mappa personale, pianta bandierine in corrispondenza delle città visitate. Tali bandierine, però, restano solo una conquista personale, tracciano una mappa dei luoghi attraverso i quali si è transitato, ma non rappresentano una conquista. Gli antichi conquistatori conquistavano i territori. Al contrario, gli esuli transitano, quasi senza essere notati, senza radicarsi. La poetica dell’album di famiglia, del frammento, rappresenta, dunque, l’unico modo di raccontare una vita in esilio, anch’essa frammentata, spezzata. È importante ricordare, sebbene per frammenti, per immagini. È importante avere istituzioni come i musei e la letteratura, testi che assicurano la conservazione della memoria e la preservino dal logoramento e soprattutto dalla manipolazione. Il potere, la censura, i governi, le guerre spesso si arrogano il diritto di riscrivere la storia/le storie, di confiscare la memoria. La scrittura ha anche questa missione, di far ricordare, di mantenere viva la memoria della storia, delle storie di individui, popoli, nazioni, generi, classi di individui. L’esilio è la vita con il trasformatore sempre in mano, afferma Dubravka Ugrešić, altrimenti ci bruceremmo. Munito/a del trasformatore, metafora dell’adattamento, l’esule si sposta, arriva su nuovi territori, e osserva, vive, si adatta costantemente alle nuove condizioni, al nuovo ambiente, alla nuova lingua. Il trasformatore è la metafora per dire che il modo in cui l’esule si inserisce nel flusso della vita del territorio in cui arriva è uguale a quello della spina inserita nella corrente di elettricità. Per non rimanere fulminato/a, annientato/, l’esule è costretto/a ad adattarsi, negoziare, venire a compromessi con il nuovo spazio che trova. La relazione esule/spazio di arrivo non è senza problemi. I problemi di adattamento/integrazioni sono diversi e variano a seconda della provenienza dell’esule, dal ‘grado di diversità’ che porta iscritta sul e nel proprio corpo (colore della pelle, accento, genere, etnia, religione etc.). L’esilio dà anche il senso di spaesamento, smarrimento, sensazione aumentata dall’incontro di altri individui altrettanto de-localizzati. Dal momento che l’intensità degli spostamenti e delle de-localizzazioni delle persone nel mondo attuali ha raggiunto livelli molto elevati, spesso passeggiare per le vie di una particolare città non trasmette più il senso di quella nazione, bensì si ha la sensazione di trovarsi in un incrocio di razze, popoli, nazioni. Sensazione che danno, ad esempio, le grandi metropoli e città “globali”, come Berlino. Berlino è una città mutante. Berlino ha una sua faccia occidentale e una orientale: a volte l’occidentale appare in quella orientale e l’orientale in quella occidentale. Sulla faccia di Berlino si riflettono le immagini olografiche di altre città. Se mi incammino verso Kreuzberg, arriverò in un angolo di Istambul, se mi dirigo con la S-Bahn fino ai confini di Berlino, arriverò alla periferia di Mosca. (MRI, p. 156) Le nazioni si spostano anche attraverso le sonorità delle lingue e attraverso i nomi di caffè che si incontrano inattesi durante le peregrinazioni. Ugrešić sembra suggerire che nell’esilio, tutte le nazioni/nazionalità sono mischiate, o meglio, che il mondo è talmente pieno di gente come lei che in qualsiasi grande città ci si rechi è possibile rintracciare la grande varietà di etnie, nazionalità, razze, lingue, culture, religioni ecc. In Kantstrasse, dove in molti posti si parla russo, esiste il caffé Paris. In Savignyplatz si trova il caffé Kant, e subito a lato il caffé Hegel. “Hegel” è scritto da una parte dell’insegna in caratteri latini, e dall’altra in caratteri cirillici. […]. Nella zona di Berlino Est esiste il caffè Pasternak. […]. A Kreuzberg esiste il caffé Esilio. Dall’altro lato della strada: il caffé Consolato. (MRI, p. 156) I due Caffé, Esilio e Consolato, si trovano proprio uno di fronte all’altro, a sottolineare l’impossibilità di sottrarsi a questa legge dell’esilio. C’è un’amara ironia in quest’ultima frase, che ricorda il costante legame tra la condizione dell’esiliato/a e le procedure amministrative e burocratiche dei Consolati e delle Ambasciate, delle lunghe trafile e ore passate nelle sale d’attesa per richiedere visti e permessi di soggiorno, di visita, di lavoro. In mezzo a tutta questa umanità in transito, spaesata (che, come ricorda Iain Chambers, in italiano vuol dire “privata del proprio Paese”), l’esiliato intellettuale (poeta, scrittore, etc) ci rammenta Brodskji, è un privilegiato. Vi sono migliaia di persone costrette a lasciare la propria terra a causa di situazioni politiche, socioeconomiche, guerre e altri disastri naturali. In rapporto a queste, l’intellettuale in esilio gode di molti privilegi. Anche Edward Said mette bene in chiaro che non si può pensare agli esiliati solo in termini di intellettuali, scrittori, poeti, perché la Terra è piena di gente che ha dovuto abbandonare la propria casa; d’altra parte, però, dice anche che non deve sorprendere il fatto che molti tra gli esiliati siano romanzieri, intellettuali, persone impegnate politicamente o giocatori di scacchi: Much of the exile’s life is taken up with compensating for disorienting loss by creating a new world to rule. It is not surprising that so many exiles seem to be novelists, chess players, political activists, and intellectuals. Each of these occupations requires a minimal investment in objects and places a great premium on mobility and skill. The exile’s new world, logically enough, is unnatural and its unreality resembles fiction. L’esule di Said viaggia leggero, non è ingombrato da pesanti bagagli, è caratterizzato piuttosto dalla mobilità e dall’abilità che porta in sé, e in questo, somiglia all’esule di Dubravka Ugrešić, per cui, come si è gia visto nel paragrafo precedente, “la vita è l’unico bagaglio che portiamo con noi”. Said si chiede ancora come mai la letteratura dell’esilio sia diventata un topos così importante: How is it that the literature of exile has taken its place as a topos of human experience alongside the literature of adventure, education, or discovery? Said ricorda un’altra figura importante del XX secolo, il filosofo e critico ebreo tedesco Theodor Adorno, che nell’autobiografia scritta in esilio riflette sul fatto che “the only home truly available now, though fragile and vulnerable, is in writing”. La scrittura come casa è un'altra delle definizioni che si ritrovano nella letteratura di autori e autrici esuli. La scrittura e la lingua diventano la casa per chi vive in esilio. Per chi si ritrova senza un luogo proprio, un luogo che possa rappresentare la propria vita, il passato, gli affetti, la famiglia, la scrittura è l’attività che mette in comunicazione con il solo “luogo” “fisso”, se stessi e il proprio corpo, il proprio vissuto, la propria memoria. Dove il fuori, l’esterno è il nuovo, il diverso, l’estraneo, scrivere la propria esperienza intima, rappresenta il dialogo con se stessi, con i propri ricordi. Inoltre, la lingua in cui si scrive è fondamentale, perché la lingua crea tutto un mondo intorno a sé. La facilità, la naturalezza con cui si parla la lingua madre si trasforma nel senso di familiarità, di intimità con questo mondo. Alcuni/e scrittori e scrittrici scelgono la scrittura nella lingua di adozione, per altri motivi, come vedremo in seguito in questo lavoro. Altri/e scrittori e scrittrici in esilio, scelgono di continuare a scrivere nella propria lingua, la lingua madre, che li culla con le sue sonorità e dona loro l’illusione di essere a casa, nella patria. C’è chi addirittura dopo anni di esilio, torna in patria, ma non la riconosce, non vi ritrova ciò che aveva lasciato: la realtà non combacia con i ricordi e allora ci si ritrova in un doppio esilio. Vorrei a questo proposito citare gli interventi di due scrittrici, una iraniana l’altra irachena, al convegno Scritture svelate. Parole e donne dal Maghreb all’Iran, tenutosi nel gennaio 2006. Goli Taraghi racconta che la sua vita, da tre decenni, da quando è fuggita dall’Iran, è stata una continua esperienza di dualità, di frattura, di tensione tra due paesi, di un viaggio, un’altalena tra l’Iran e gli Stati Uniti, dove si è rifugiata e ha studiato e insegnato. “L’esperienza della dualità è il cuore di tutto ciò che scrivo”. La dualità esterna/esteriore che ha vissuto, cioè la dualità territoriale e spaziale, riflette una dualità più interiore, quella tra modernità e tradizione, così come sono rappresentate dagli Stati Uniti e dall’Iran. Si aggiunge a questa il continuo passaggio linguistico, il transito tra le due lingue, il persiano e l’inglese di adozione. La scrittrice confessa che il suo destino di dualità ha origini ancora precedenti, che sono rintracciabili fin dall’infanzia, fin dal suo nome proprio. Si presenta e firma i suoi libri con il nome di Goli, ma il suo nome ufficiale, quello che la identifica in tutti i documenti, è un altro, Zohre. È stato suo padre a darle il nome di Zohre, che vuol dire “progresso”, mentre la madre, amante della natura, la chiamava Goli, “fiore”. Due nomi che evocano due mondi opposti. Il padre, che rappresentava per lei la razionalità e il rigore della religione, le insegnava l’obbligo della preghiera e del chador, mentre la madre la conduceva nei bar e nei ristoranti, e la portava con sé nei suoi viaggi a Parigi. Dopo dieci anni negli Stati Uniti, dove ha studiato filosofia, ha insegnato all’università e ha pubblicato due libri, torna in Iran, ma non riconosce più la sua terra. Il paese era passato attraverso la Rivoluzione islamica e tutto era cambiato. Per Goli Taraghi, vivere ora in Iran è come vivere un doppio esilio: come ci si può sentire a casa in un luogo in cui non si conoscono più i nomi delle strade, perché tutto è stato modificato? Si cerca allora rifugio nell’unico luogo familiare rimasto, il suono delle parole persiane. E in perfetto accento di American English dichiara: “My home is the Persian language”. Un’altra esule le fa eco, in lingua araba questa volta. Si tratta dell’irachena Alya Mamdouh, scappata dalla sua città natale, ma da cui non si è mai staccata con il cuore e con il pensiero. “Abito a Parigi, ma abito lontano.. a Baghdad”. Baghdad è “la copia originale dei miei testi, tutto avviene là”. Il corpo di Alya per le vie di Parigi non è altro che un’illusione ottica, un ologramma, perché Alya continua a vivere e camminare tra le vie della capitale irachena, il suo pensiero continua a percorrerne le strade, ad abitarne le case. È il dolore, la nostalgia che percorre tutto l’intervento della scrittrice, e allo stesso tempo l’amore per la sua terra e la sua città. Ma nella sofferenza della perdita subìta a causa l’esilio, la scrittrice ritrova forza in una nuova patria, una patria che non ha confini: la patria formata dalla comunità delle donne come lei. “Io non faccio distinzione tra le donne del mio Paese e quelle degli altri Paesi. Tutte le donne sono il mio Paese”. Tutto questo è esilio. L’esperienza dell’esilio è vasta, personale, differente per ciascuno, con alcuni punti in comune, ma molto varia. Come dimostrano i testi di Dubravka Ugrešić, l’esilio non è riassumibile in uno slogan, in una definizione, ma ha bisogno di tante definizioni, tante citazioni. Schema: CATEGORIE E SOTTO-CATEGORIE PER L’ANALISI TEORICA DELL’ESILIO: 1. SPAZIO/TEMPO 2. IDENTITA 3. CULTURA 4. LINGUA + 5. MEMORIA e 6. NAZIONALISMO = categorie trsversali TIPI DI SPAZIO: 1. fisico/geografico 2. politico/geopolitico 3. sociale 4. culturale 5. linguistico 6. religioso 7. di genere → diritti umani = spazio/linguaggio trasversale Inoltre lo spazio può essere reale, immaginario o entrambe le cose contemporaneamente. SOTTOCATEGORIE: 1. SPAZIO / TEMPO Frontiere: terre di frontiera, attraversamento delle frontiere, margini Tipi di frontiere che esistono (esistono tante frontiere quante sono i tipi di spazio): 1. fisica 2. geopolitica 3. linguistica 4. sociale 5. razziale 6. di genere 7. culturale 8. religiosa Life in between: “Life-on-the-hyphen” “Third space” (bhabha) “Third geography” (Azade Seyan) Divisione di genere/sesso degli spazi Architettura (delle case, palazzi, spec. Nel mondo islamico, separa lo spazio per le donne da quello per gli uomini: Mernissi, Djebar Donne d’Algeri nei loro appartamenti) Interazione/Relazioni fra i soggetti che si muovono nello spazio Casa Patria: nostalgia, memoria, desiderio, idealizzazione, narrazione della, tradizione Homeland vs. hostland (acculturation, integration, racism, discrimination, hostility to the assimilation of the new arrived) Ritorno: desiderio, sogno, pianificazione, resistenza al ritorno Queste ultime quattro categorie (casa, patria, paese di arrivo e ritorno) sono implicate nella dinamica roots/routes (Clifford). 2. IDENTITA’ Corpo: percezione del proprio corpo e come questo viene letto dagli altri (es. colore, accento linguistico – “body with an accent”) Genere Razza Lingua/e: mono-, bi-, multi-linguismo; “body with an accent” Origini Viaggio (“Identità is changed by the journey”, Sarup; “Identity is retrospective”, Braidotti) Identità nazionale Senso di appartenenza 3. CULTURA Tradizioni Origini Cultura materiale Memoria (la cultura di una nazione è la memoria collettiva; A. Seyan: “culture is memory”, “culture is seen … in its interaction with other cultures” Cultura nazionale 4. LINGUA Lingua madre Lingue acquisite Mono, bi e multilinguismo Accento come marchio sul corpo Traduzioni Transfers (Even-Zohar) PARTE II SCRIVERE L’ESILIO CAPITOLO 1. NARRATRICI SULLE ORME DI SHAHRAZADE: SCRITTRICI NORD-AFRICANE E MEDIO-ORIENTALI CONTEMPORANEE. 1.1 Shahrazade. Adriana Cavarero, filosofa, spiega che la narrazione è una pratica da sempre legata al genere femminile, è un’arte “tutta muliebre”, sia che sia legata all’oralità che alla scrittura. La narratrice per eccellenza della tradizione araba è incarnata dalla figura di Shahrazade, l’eroina delle Mille e una notte. Questa figura corrisponde, nel mondo occidentale, ad altre figure femminili da sempre collegate alla narrazione e alla poesia, a partire dalla “diva” invocata da Omero, o la musa Calliope, sino alle “vecchie streghe o sagge nutrici, nonne o cicogne, fate o sibille”. Tutte stanno in ogni punto dell’immaginario letterario a testimoniare le fonti e le pratiche femminili del narrare. Un’unica tradizione sembra quindi unire Oriente ed Occidente. Le donne sono all’origine di ogni racconto e “del potere incantatore di ogni storia” e Shahrazade viene riconosciuta in entrambe le tradizioni come la narratrice per antonomasia. Shahrazade è naturalmente importante nella storia della letteratura nel mondo arabo, che prende in considerazione la voce narrante. Nella Postfazione a Parola di donna, corpo di donna, antologia di racconti di donne arabe da lei curata, Valentina Colombo spiega che, fino alla comparsa di Shahrazade, la letteratura, in particolare la prosa, nel mondo arabo era stata appannaggio degli uomini. Dove comparivano donne, queste erano puramente viste come oggetti, corpi da descrivere, da adorare o da maledire, ma comunque sempre oggettificati dall’osservatore maschile. Con la comparsa di Shahrazade è invece una donna che prende la parola e da oggetto diventa soggetto della narrazione, assumendone anche il controllo. Da questo momento la voce di una donna non è più una facoltà fisiologica, bensì uno strumento narrativo che le consente di contribuire in prima persona all’ambito letterario. Anche per questo aspetto, come per il precedente, Shahrazade sembra mettere d’accordo Oriente e Occidente. Il canone della letteratura occidentale, come hanno ben spiegato Virgina Woolf e tante femministe dopo di lei, è stato per secoli dettato da scrittori e poeti uomini. La storia delle donne e la letteratura, in Oriente come in Occidente, ha dunque dei tratti comuni, che indicano nella direzione dell’esclusione delle donne dai canoni letterari o dalla scena pubblica, sociale e privata. Shahrazade è una presenza quasi costante anche nelle scritture di autrici del mondo islamico contemporaneo. Inscrivendosi nella lunga tradizione narrativa, le scrittrici maghrebine e medio-orientali di oggi invocano Shahrazade quale loro musa perché le accompagni nel loro atto di scrivere la propria storia o le storie di altri personaggi che esse vogliono raccontare. La scrittrice iraniana Azar Nafisi sembra voler chiedere gli auspici alla musa della narrazione Shahrazade, la cui figura compare brevemente all’inizio e alla fine del suo romanzo Reading Lolita in Tehran. Oltre che musa e protettrice della narrazione, Shahrazade viene ricordata per introdurre un tema fondamentale della narrazione, sia orale che scritta: l’importanza dell’immaginazione, capace di creare spazi di libertà e aiutare a sopravvivere in condizioni socio-politiche e culturali opprimenti. I formulated certain general questions for them to consider, the most central of which was how these great works of imagination could help us in our present trapped situations as women. We were not looking for blueprints, for an easy solution, but we did hope to find a link between the open spaces the novels provided and the closed ones we were confined to. In questa citazione si rintracciano tre termini attorno ai quali verterà l’intera analisi del presente lavoro: la narrazione, coadiuvata dall’immaginazione, e lo spazio creato dal discorso delle donne e nel quale esse si muovono. Affrontiamo inizialmente il tema della narrazione, significativo perché implica la presa di parola delle donne che segue una precedente situazione di silenzio, reale quanto culturale. Silenzio e voci si intrecciano per creare il discorso delle donne che hanno intenzione di affermarsi come soggetti. Azar Nafisi, riferendosi alle centinaia di vergini e di donne uccise dal sovrano prima della comparsa di Shahrazade, riconosce che queste “have no voice in the story, are mostly ignored by the critics. Their silence, however, is significant”. È un silenzio forte, ripetuto, che viene infine vendicato dalla presa di parola di Shahrazade, che spezza il ciclo della morte e conquista piano piano il diritto di vivere grazie al discorso e all’uso accorto della forza delle parole. La filosofa femminista Teresa De Lauretis in Sui generis così definisce la scrittura: La scrittura è lo spazio pubblico attraverso cui le donne possono entrare in contatto con le altre donne […], partecipare insieme ad esse alla costruzione di un discorso comune e offrire questo discorso a qualunque donna voglia ricominciare a scriverlo. Per fare ciò, le donne devono partire dal “parlare di sé, in proprio nome, muovere da una soggettività che, qui e ora, definisce il proprio campo d’azione”. Per costruire il proprio discorso, le donne, secondo De Lauretis, devono imparare a “parlare contemporaneamente il linguaggio degli uomini e il silenzio delle donne”. È quello che fanno le scrittrici prese in considerazione in questo lavoro: partono da se stesse, dalla loro posizione a margine, interstiziale rispetto alla società in cui sono nate, lungo le fessure in cui riescono ad intrufolarsi, per lavorare, da lì, a creare un sempre maggior spazio, modificando così il significato e il rapporto fra gli spazi e proponendo una nuova visione del mondo. Per “parlare il silenzio delle donne”, riprendendo l’espressione di De Lauretis, è innanzitutto necessario prendere coscienza di sé come soggetti individuali e politici. Assia Djebar dà la parola al silenzio di tante donne, racconta le loro storie sottraendole all’oblio. Scrivere “à force de me taire” è il paradosso vitale che muove la mano di Djebar nell’atto del narrare le sue storie. Scritta o pronunciata, la parola ha il potere di creare, di rendere presente, visibile e consistente una realtà o un soggetto che altrimenti sarebbe cancellato dal mondo, dalla società. Con Cavarero aggiungiamo, ha inoltre la funzione di svelare il disegno che sta dietro agli accidenti della vita che possono sembrare sconnessi e senza significato. L’atto di scrivere e di nominare rende il soggetto percepibile, agli altri e a se stesso, così come narrare una storia è l’opposto dell’oblio, della cancellazione di un mondo. La presa di parola da parte di chi è stato oscurato, reso invisibile e condannato al silenzio è un riscatto del diritto di ognuno ad essere ascoltato e a chiedere giustizia per sé e per gli altri. Shahrazade è diventata un’eroina per le donne perché usa la parola per opporsi alla logica di violenza del sovrano. La sociologa marocchina Fatima Mernissi le dedica molte pagine e molte riflessioni, sia nella sua autobiografia Dreams of Trespass che nei suoi saggi, dove analizza i punti forti della strategia di Shahrazade e ne mostra tutta l’intelligenza. But it was then that Mother told me about the need to chew my words before letting them out. “Turn each word around your tongue seven times, with your lips tightly shut, before uttering a sentence,” she said. “Because once your words are out, you might lose a lot.” Then I remembered how, in one of the tales from A Thousand and One Nights, a single misspoken word could bring disaster to the unfortunate one who had pronounced it and displeased the caliph, or king. Sometimes, the siaf, or executioner, would even be called in. However, words could save the person who knew how to string them artfully together. That is what happened to Scheherazade, the author of the thousand and one tales. The king was about to chop off her head, but she was able to stop him at the last minute, just by using words. I was eager to find out how she had done it. (DT, p. 10) Mernissi spiega come, nella traduzione dall’arabo al francese del testo di Le mille e una notte, nel passaggio, cioè, dalla cultura araba a quella europea, si sia perso qualcosa della vera natura di questa figura, trasformata e resa più docile e innocua dal pensiero europeo nei confronti delle donne. Mernissi, infatti, spiega che Shahrazade nel mondo arabo non è la nostra bellissima e innocua intrattenitrice di uomini, bensì una figura forte e dotata di una sottile intelligenza. I was amazed to realize that for many Westerners, Scheherazade was considered a lovely but simple-minded entertainer, someone who narrates innocuous tales and dresses fabulously. In our part of the world, Scheherazade is perceived as a courageous heroine and is one of our rare female mythical figures. Scheherazade is a strategist and a powerful thinker, who uses her psychological knowledge of human beings to get them to walk faster and leap higher. Like Saladin and Sindbad, she makes us bolder and more sure of ourselves and of our capacity to transform the world and its people. (DT, p. 15, nota 2) La bambina Fatima si chiede, allora, “how does one learn how to tell stories which please kings?” (DT, p. 16) e la madre le risponde che “that was a woman’s lifetime work”: This reply did not help me much, of course, but then she added that all I needed to know for the moment was that my chances of happiness would depend upon how skillful I became with words. (DT, p. 16) Shahrazade è la figura mitica per eccellenza, colei che possiede le qualità per sovvertire la logica dell’oppressione e della violenza degli uomini nei confronti delle donne (e, per estensione, di tutte le minoranze). Shahrazade riuscì a sopravvivere perché la sua strategia si rivelò vincente: usò il proprio cervello per intessere delle storie capaci di catturare l’interesse del sovrano e rinviare la propria condanna a morte. Mernissi spiega che Shahrazade doveva avere tre doti straordinarie perché riuscì a far cambiare idea al suo carnefice. Cambiare la mente di un assassino pronto ad ucciderti, narrandogli delle storie, è un’impresa straordinaria che esigeva dalla potenziale vittima il possesso di tre doti strategiche: una vasta riserva di informazioni, una lucida comprensione della mente criminale, e molto sangue freddo per agire. La prima dote è di natura intellettuale: si tratta di avere pronta una dovizia di conoscenza dalla quale selezionare le storie. La cultura enciclopedica di Shahrazad è descritta nelle prime righe del libro: “Shahrazad aveva letto i libri di letteratura, filosofia e medicina. Conosceva a memoria la poesia, aveva studiato i resoconti storici, ed era ferrata nei proverbi degli uomini e nelle massime di saggi e re. Era intelligente, ben informata, saggia e raffinata. Aveva letto e aveva imparato” […]. La seconda dote è di natura psicologica: un uso del linguaggio tale da cambiare la mente di un pazzo criminale. Servirsi del dialogo per disarmare l’omicida […]. L’ultima dote richiesta è il sangue freddo, la capacità di controllare le proprie paure al punto di continuare a pensare con lucidità e poter agire indipendentemente da esse, in modo da condurre la dinamica dell’interazione invece di essere condotti dall’aggressore. […] Se si fosse spogliata, come le vamp hollywoodiane o le odalische di Matisse, e si fosse stesa passivamente nel letto del furioso re, sarebbe stata uccisa, perché a quell’uomo non serviva il sesso, gli serviva una psicoterapeuta. Alla fine, il re comprende di aver sbagliato nell’usare tanta violenza nei confronti delle donne e che la violenza e la barbarie possono avere una fine solo nel momento in cui si riesce a stabilire un dialogo tra coloro che detengono il potere e coloro che ne sono privi, quando gli uomini impareranno a dialogare con le donne, gli esseri umani loro più vicini e con i quali condividono il letto e i momenti di intimità. I discorsi su pace e serenità, come quelli sulla democrazia e sulla pluralità, nel mondo islamico sono sempre legati ai discorsi sui diritti delle donne. Nelle Mille e una notte, che è vecchia di secoli, Shahryar ammetteva ufficialmente che odiare le donne era una malattia e che un uomo normale dovrebbe usare le parole al posto della violenza per risolvere le sue contese. È questa capacità, da parte di una donna intelligente, di analizzare la sua situazione e di influire sui pensieri degli uomini, portandoli al dialogo e all’abbandono della violenza, ciò che conferisce alla Shahrazad orientale le credenziali di un moderno mito civilizzatore, un simbolo del trionfo della ragione sulla violenza. La più potente arma in mano alle donne non è la sessualità ma l’intelletto e la capacità di usarlo nei migliore dei modi. Si racconta e si scrive, dunque, per vincere la morte violenta, per civilizzare l’uomo, come fa Shahrazade, ma anche per ricordare e far ricordare, per non lasciar che le infinite esistenze che passano nel cammino della vita scompaiano senza lasciar alcuna traccia dietro di sé. Ogni autobiografia, come pure ogni biografia, racconta la storia di una vita per tracciare un’immagine complessiva della parabola dell’esistenza, guarda, cioè, al passato per narrarlo, raccogliendo in un’unità organica una grande quantità di dettagli che altrimenti rimarrebbero slegati e la cui totalità rimarrebbe incomprensibile. Questo è, riassunto, il nocciolo della concezione della narrazione da Adriana Cavarero esposta in Tu che mi guardi, tu che mi racconti. L’autrice apre l’introduzione a questo testo rievocando una storia contenuta nell’opera di Karen Blixen, La mia Africa. È la storia di un uomo che abitava vicino ad uno stagno. Una notte fu svegliato da un forte rumore e immediatamente uscì e si diresse verso lo stagno. Nell’oscurità non riusciva a distinguere nulla, per cui correva a destra e a manca seguendo i rumori e inciampò e cadde più volte. Alla fine riuscì a trovare una falla sull’argine dello stagno, da cui uscivano acqua e pesci, e si mise a ripararla, per poi rientrare a casa e rimettersi a dormire. Al mattino si affacciò alla finestra e vide che le orme che i suoi passi avevano tracciato durante la notte avevano disegnato sul terreno la figura di una cicogna. L’idea che struttura questa storia è che “il percorso di ogni vita alla fine si lasci guardare come un disegno che ha senso”. Non si tratta di un disegno progettato, previsto o controllato, perché gli ostacoli e gli imprevisti della vita non possono essere previsti o progettati, però voltandosi indietro a osservare il passato di un’esistenza si può delineare un disegno. Il significato del racconto sta infatti proprio in questo semplice risultare che non consegue ad alcun progetto, e nell’unità figurale del disegno. Detto altrimenti, il disegno – non dei tratti confusi, ma l’unità di una figura – non è ciò che guida fin dall’inizio il percorso di una vita, bensì ciò che tale vita si lascia dietro, senza poterlo mai prevedere e neanche immaginare. La cicogna si vede solo alla fine, quando chi l’ha tracciata con la sua vita o altri spettatori, guardano dall’alto, vedono le orme lasciate sul terreno. […] Il significato che salva la vita di ognuno dal mero succedersi degli eventi non consiste in una determinata figura, consiste però esattamente nel lasciarsi dietro una figura, ossia qualcosa di cui si possa scorgere l’unità del disegno nel raccontarne la storia. Come il disegno, la storia viene appunto dopo gli avvenimenti e le azioni, da essi risulta. Il racconto svela una storia, ne rintraccia l’unità e mette in correlazione tutti gli elementi. In altre parole, il significato di un’esistenza è visibile, osservabile, solo a conclusione del racconto. Il disegno si lascia osservare attraverso la scrittura e la lettura (o l’ascolto) insieme. È la scrittura che, mentre si scrive, traccia le linee del disegno. La scrittura è dunque una traccia, come la traccia della penna sul foglio. Derrida definisce la scrittura una “trace coupante”: è un’incidere con la penna il foglio, è un lasciare una traccia fisica del disegno dietro di sé. La penna, nel suo muoversi lungo le righe del foglio, traccia un cammino. Questa immagine richiama l’idea del movimento e della fisicità del corpo che scrive. La scrittura, da questa ottica, diventa movimento della mano e, per estensione, del corpo della donna o dell’uomo che scrive. Il movimento è un aspetto fondamentale della riflessione sull’atto di scrivere per molte autrici maghrebine e medio-orientali, come si vedrà più approfonditamente nel corso dell’analisi in questo lavoro. In questo lavoro, attraverso le narrazioni e autobiografie delle autrici, ho cercato di rintracciare il disegno che lasciano dietro di sé le loro esistenze. Dalla lettura si delineano disegni che rappresentano l’esilio e che possono essere raggruppati in tre tipi. Il primo è l’esilio come sapere, un sapere che può avere diverse fonti, quali i racconti e le storie ascoltate nell’infanzia dai membri più adulti della famiglia, l’andare a scuola e l’istruirsi e, terzo, il piacere/bisogno della lettura di romanzi. Il secondo disegno che racconta l’esilio lo rappresenta come l’atto della scrittura. La terza rappresentazione dell’esilio lo identifica come una condizione linguistica, l’esilio come immersione e utilizzo di una lingua diversa dalla lingua madre. Ovviamente, l’esilio è una questione di spazio e di movimento nello spazio, per cui nell’analisi di queste tre rappresentazioni dell’esilio è importante integrare l’analisi spaziale. 1.2 L’analisi spaziale Come si è detto poco sopra, nella citazione di Nafisi si intreccia il discorso della narrazione con il discorso sugli spazi. Sempre in Sui generis, De Lauretis definisce il concetto di soggetto eccentrico in riferimento alle donne. Si tratta di un soggetto in continuo movimento e in libera uscita rispetto ai rigidi confini assegnati al femminile. Le donne, cioè, si trovano nella necessità di fuggire dallo spazio e dagli schemi ad esso assegnati dalla cultura tradizionale e per farlo il primo passo consiste nel riconoscersi come soggetto escluso dallo spazio pubblico gestito dagli uomini. Attraverso l’analisi delle opere in questo lavoro mi propongo di mettere in luce la relazione delle donne con lo spazio e i luoghi in cui si muovono. Guardando lo spazio dall’ottica socio-culturale del genere femminile, la mia analisi vuole individuare l’esistenza di differenze di genere nella percezione dello spazio e nel modo di usufruirne, cercando di comprendere se e in quale misura lo spazio viene modificato nella sua struttura tradizionale dalle azioni delle donne che quotidianamente vi si muovono, accudiscono la casa e la famiglia, escono e lavorano. In questa prospettiva di genere, metterò a fuoco in particolare la percezione dello spazio nella situazione di esilio che, come si è già detto nella Parte I, è un’esperienza fortemente legata al movimento nello spazio, all’attraversamento di limiti e confini e all’allontanamento dal luogo di origine. Finora ho posto l’accento sull’esperienza geografica, fisica e sensoriale dello spazio vissuto. Ma lo spazio è anche una costruzione mentale. È un luogo immaginato, meno fisico, eppure ugualmente reale, dal momento che, sebbene rappresenti solo un’immagine del pensiero, influisce sui comportamenti, sul modo di muoversi attraverso lo spazio, di viverlo in parte o nella sua interezza. Per quanto riguarda lo spazio fisico, si può pensare a differenti livelli di estensione: lo spazio domestico/familiare e le divisioni al suo interno; l’opposizione spazio privato/spazio pubblico; lo spazio nazionale e quello transnazionale. Nel caso delle due ultime tipologie, intendo indirizzare l’attenzione sul modo in cui questi interagiscono, quali interferenze vi siano tra lo spazio della nazione, con i suoi miti, la sua lingua nazionale, la storia, la politica, ecc, e lo spazio sovranazionale, uno spazio in cui più nazionalità, culture, lingue, tradizioni, mentalità, filosofie politiche ed economiche vengono a contatto, si scontrano o si fondono, diventano trasversali. Le due tipologie di spazio, fisico e mentale, spesso si sovrappongono ed è difficile distinguerle. Lo spazio domestico, ad esempio, che è reale, definito dai muri della casa, diventa spazio mentale quando viene associato ad ideali, valori, o identifica lo spazio di un genere (donne o uomini) piuttosto che di un altro. In altre parole, gli spazi, e con essi i singoli luoghi, non sono neutri, ma sempre associati a ideali, valori, tipologie sociali che li caricano di significato. Spesso tali significati vengono ereditati dalla tradizione, dal passato, di cui la famiglia o le istituzioni si fanno interpreti e perpetuatori. La tradizione e l’accumularsi di secoli di storia hanno radicato nella mentalità di gran parte delle civiltà umane l’idea che lo spazio domestico, familiare, fosse ‘naturalmente’ destinato al genere femminile, mentre lo spazio esterno, pubblico, dovesse essere prerogativa del genere maschile. Sotto queste forme predominanti del pensiero comune scorrono però altre idee, che a volte affiorano attraverso voci che contestano lo status quo e il pensiero comune. Le scritture analizzate in questo lavoro pongono in primo piano la questione degli spazi, delle loro divisioni e delle problematiche sociopolitiche e culturali ad essi collegati. Attraverso il romanzo o l’autobiografia vengono raccontate alcune esperienze di donne che mettono in luce gli ostacoli, le sofferenze e i problemi che incontrano relativamente alla percezione spaziale. Lo spazio fisico, la percezione dello spazio e la sua divisione sono imprescindibilmente collegati alla mentalità e alla cultura di colui o colei che fruisce di quello spazio. Inoltre, data l’inscindibilità dello spazio dalla coordinata temporale, come si è detto nella Parte I di questo lavoro, si può affermare che la percezione dello spazio-tempo e le conseguenti modalità di fruizione dello stesso dipendono in larga misura dalla cultura. Un aspetto dello spazio-tempo legato alla cultura è quello delle distanze. Le distanze sono sempre relative, e inoltre essendo percorribili in un dato lasso di tempo, spesso vengono pensate in termini temporali. I tempi dei vari spostamenti, però, sono variabili, dipendono dalla modalità di questi, per cui la distanza varia nel corso delle epoche e in base alle tecnologie di trasporto che queste producono. Emigrare o andare in esilio nel 1950 costituiva un’esperienza diversa, in termini di vissuto della distanza geografica, dalla stessa esperienza nel 2005. Rovesciando il discorso, e data appunto la stretta relazione tra le due coordinate di spazio e tempo, il tempo è spesso, anche nel linguaggio comune, descritto in termini spaziali. È comune sentir affermazioni che riguardano epoche differenti descritte in termini di distanza, come vicine, prossime o lontane. È necessario pensare allo spazio anche in termini tridimensionali, per cui ogni corpo occupa un volume. La fisica ci insegna che ogni corpo nello spazio esercita una forza gravitazionale sui corpi circostanti proporzionale alla sua massa. Ogni corpo, ossia ogni persona, oggetto e luogo, esercita quindi sul mondo esterno una certa forza di attrazione, che non dipende necessariamente dalla massa fisica di cui è composto. In altri termini, gli individui, come pure i luoghi e le differenti tipologie di spazio, esercitano sul mondo circostante forze di attrazione, sebbene seguano leggi differenti rispetto a quelle della fisica. Un corpo esile e sottile, ad esempio, può occupare molto spazio: Yassi was sprawled on the couch, in her usual place between Manna and Azin, making me wonder again how such a tiny body could take up so much space. Quando si parla di esilio, si parla ovviamente di distanze e spesso addirittura di lontananze (termine meno neutro di distanza, in quanto già implica l’idea di una grande distanza, incolmabile, e perciò si associa al sentimento di nostalgia). Nell’esilio le distanze sono la distanza dalla casa, dal suolo natio, dalla patria, dalla lingua madre, quella dalla famiglia, dagli amici e dalla comunità in cui ci si riconosce. Le nuove tecnologie dei trasporti e della telecomunicazione riducono in parte, nel mondo contemporaneo, il problema delle distanze e delle lontananze, ma non possono risolverlo. Oltre alla distanza da quel “laggiù” della patria, vi è un altro tipo di distanza nell’esilio. È una distanza culturale, mentale, che può far più male delle grandi lontananze geografiche. Si tratta della distanza che isola, che emargina dalla comunità in cui si giunge. Può assumere la forma della discriminazione, del razzismo, o semplicemente di distacco, di mancata integrazione nella comunità. Oppure può trattarsi di una percezione culturale della distanza e dello spazio occupato dai corpi, che può mettere in imbarazzo. Penso ai gesti e ai movimenti delle persone durante una comunicazione, come ad esempio quelli di cui parla Eva Hoffman in Lost in Translation: I learn my new reserve from people who take a step back when we talk, because I’m standing too close, crowding them. Cultural distances are different, I later learn in a sociology class, but I know it already. I learn restraint from Penny, who looks offended when I shake her by the arm in excitement, as if my gesture had been one of aggression instead of friendliness. I learnt it from a girl who pulls away when I hook my arm through hers as we walk down the street – this movement of friendly intimacy is an embarrassment to her. CAPITOLO 2. IL SAPERE E LA SCRITTURA COME ESILIO. 2.1 Malika Mokeddem. Malika Mokeddem è una scrittrice e un medico nefrologo che dalla natia Algeria ha scelto di completare gli studi e di vivere in Francia. Da un villaggio nel deserto, pur amando la propria terra, sceglie volontariamente l’esilio, come ella stessa lo definisce, che vede come sola via di fuga per non lasciarsi soffocare e annullare dall’oppressione che la società e le tradizioni algerine riservavano alle donne e alle ragazze. Il percorso che pian piano la porta a compiere il distacco dalla famiglia, dalla casa, dal deserto e, infine, dall’Algeria si compie per tappe, lentamente, iniziando fin dai primi anni di vita. Malika Mokeddem discende dai nomadi del deserto algerino, gli ‘uomini blu’, ma cresce negli anni Cinquanta a Kenadsa, un piccolo villaggio ai limiti del deserto. I suoi genitori sono diventati sedentari, tradendo, secondo l’autrice, le radici nomadi degli antenati. L’unica rappresentante del popolo del deserto che rimane alla famiglia è la nonna paterna di Mokeddem, che racconta alla nipote le storie dei lunghi cammini del popolo Tuareg. Mokeddem frequenta la scuola superiore e diventa sorvegliante delle altre ragazze, ottenendo così il suo primo lavoro retribuito, e contemporaneamente comincia ad abitare presso il collegio della scuola. Negli anni Settanta si iscrive alla Facoltà di Medicina nella città di Orano, fatto che l’allontana ancora di più dalla famiglia e da casa. Nel 1977, in seguito agli attacchi degli integralisti islamici, lascia l’Algeria e continua gli studi in Francia, a Parigi. Ottenuta la laurea, sceglie di andare ad esercitare la professione di medico nefrologo a Montpellier, nel sud della Francia, dove risiede tutt’ora. Sebbene la sua storia personale l’abbia condotta e tenuta lontano dalla patria per lunghi anni, le sue opere letterarie non possono fare a meno di riferirsi costantemente all’Algeria, al deserto, alla sua famiglia, alla società algerina e ai nomadi del deserto da cui discende e in cui ritrova le proprie radici. La scrittura la riporta a casa, nei luoghi familiari della sua infanzia. In altre parole, dalla sua scrittura filtra la lacerazione che l’autrice prova per essere dovuta scappare dalla sua terra. Le radici dell’esilio di Mokeddem partono da lontano, dalla sua infanzia. Uno dei suoi ultimi lavori, pubblicato nel 2003 ed intitolato La Transe des insoumis, è una scrittura autobiografica in cui Mokeddem narra le vicende della propria vita, ripercorrendo il cammino che l’ha portata alla drammatica scelta dell’auto-esilio. Mokeddem scrive per se stessa, perché ha bisogno della scrittura come spazio vitale e per rimettere insieme i frammenti sparsi della sua esistenza. Ai lettori e alle lettrici spetta invece il compito di individuare nella storia il disegno composto dagli eventi della sua esistenza. Il disegno che Mokeddem si lascia alle spalle è un’immagine che contiene in sé la rottura, la divisione. La narrazione è infatti organizzata in un’alternanza di capitoli dal titolo “Ici” e “Làbas”. 2.2 Ici/Là-bas. ‘Ici’ e ‘Là-bas’ sono due termini spaziali oppositivi che individuano la frattura della vita di Mokeddem, una vita che, come l’autrice stessa afferma, è una vita in esilio. La frattura spaziale si accompagna ad una frattura temporale. Il ‘qui’ è anche il tempo presente della vita di Mokeddem a Montpellier, nel sud della Francia, dove abita in una casa su una falesia di fronte al mar Mediterraneo. Al di là del mare, dall’altra parte di quello spazio, si stende l’Algeria, il deserto, quel ‘là-bas’ che è relegato, ormai, al passato, all’infanzia e alla prima giovinezza dell’autrice. Essendo uno degli ultimi libri pubblicati dall’autrice, La Trance des insoumis contiene proprio quelle chiavi di lettura capaci di aprire le porte che lasciano intravedere il disegno lasciato dalle vicende della donna. Allo stesso tempo, La Trance des insoumis può essere letto in chiave intertestuale, per la sua ricchezza di riferimenti espliciti alle tematiche trattate negli altri romanzi, agli episodi in essi raccontati e agli aneddoti legati alla loro pubblicazione. La Trance des insoumis è, inoltre, il primo libro di Mokeddem scritto in prima persona, in cui l’autrice si rivela intimamente, racconta se stessa, le sue paure, le sue convinzioni, le sue scoperte del mondo. È un’autobiografia e una trasgressione rispetto alla tradizione in cui il genere narrativo e quello autobiografico rappresentano uno scandalo perché svelano l’intimità della persona. Il romanzo, in quanto mette in scena la persona che lo scrive, è stato un genere tabù nel mondo arabo fino alla metà del XX secolo. Tanto più il tabù vale per una donna, relegata nel chiuso dello spazio domestico, costretta a nascondere il suo aspetto e la sua identità nello spazio pubblico della strada come della scrittura. L’autrice percepisce la propria esistenza come non lineare, fatta di una serie di rotture, fratture, partenze, e molteplici ritorni, reali o immaginati. Si tratta dunque di una scrittura, di una narrazione spezzata. Come afferma Dubravka Ugrešić, la vita di uno scrittore o una scrittrice in esilio è una vita spezzata e può essere raccontata solo con uno stile frammentato, spezzato. Per Ugrešić l’organizzazione del racconto di una vita in esilio è quindi necessariamente alineare. Sta allora a chi ascolta o legge raccogliere gli elementi e vederne l’unità. L’unità è visibile attraverso la frammentarietà, la frammentazione e la dispersione che appaiono a chi vive la vicenda in prima persona. Nella dimensione del qui e ora sono presenti entrambe le dimensioni spazio-temporali: ‘ici’ incorpora anche il ‘là-bas’. Come la protagonista de L’interdite, Malika potrebbe dire “je n’en suis jamais vraiment partie. J’ai seulement incorporé le désert et l’inconsolable dans mon corps déplacé. Ils m’ont scindée”. Il qui è anche il laggiù, perché l’Algeria, il deserto, l’infanzia sono vivi come memoria del corpo. Come scrive il sociologo Madan Sarup, emigrato dall’India in Gran Bretagna all’età di nove anni, “the migrant is here and there”. Inoltre, la vita presente è il risultato di tutte le tappe e le scelte compiute nel passato. Il passato continua a vivere e contribuisce a forgiare la persona del presente, anche quando l’individuo lotta per affrancarsi dal proprio passato. L’identità, come afferma la filosofa femminista Rosi Braidotti, è retrospettiva: attraverso il racconto o l’auto-narrazione, si può arrivare a comprendere meglio se stessi, ripercorrendo le tappe che hanno costituito il proprio cammino fino al momento e al luogo (il punto spazio-temporale) in cui inizia la narrazione. Ad ogni momento, girandosi indietro per guardare il disegno della propria vita, si può vedere quel disegno modificato, più dettagliato, più preciso. Ogni giorno, senza aspettare necessariamente la fine di un’esistenza, ci si può affacciare alla finestra del proprio passato per cercare di scorgere il disegno e capire meglio se stessi o gli altri. Questo è ancora più vero per le persone che si spostano, che viaggiano e che non passano l’esistenza in un solo luogo, aggiunge Madan Sarup. Identity is changed by the journey; our subjectivity is recomposed. In the transformation, every step forward can also be a step back. Il racconto autobiografico dell’esule, nel suo stile spezzato, nella rappresentazione di una personalità divisa, riflette anche i luoghi differenti che segnano le tappe della vita. Mokeddem abita a Montpellier, ai margini della città e della collettività in cui si compie il suo esilio francese. Mokeddem abita in Francia, ma nell’estremità meridionale, ai bordi del mare, un mare che con la sua liquidità, fluidità, la unisce alla sponda opposta, alla fluidità delle dune del deserto algerino. Mokeddem osserva entrambe le terre da una posizione a margine e per questo può guardarle con un certo distacco e una coscienza critica. Li mette a confronto per cercare gli aspetti positivi e i limiti di entrambi. Collocandosi ai limiti del territorio francese, la sua casa può essere pensata come un estremo di un continuum costituito dal Mediterraneo, che dall’estremità opposta continua ad essere connesso, in un perpetuo scambio negoziale che alimenta la creatività. È questo il terzo spazio di cui scrive Bhabha. Un altro binomio di parole fondamentali della narrazione di Mokeddem è composto da “coupure”/“rupture”, che riprende e rafforza l’idea della frattura spazio-temporale ‘ici’/‘là-bas’. Il concetto di rottura è strettamente connesso ad altre due parole-chiave del testo, ‘letto’ e ‘libro’. In Algeria, nella casa paterna, i libri e le letture rappresentavano la rottura con la famiglia: il libro era il mezzo che Mokeddem usava per erigere un muro di separazione tra sé e il resto della famiglia. I libri erano muri invalicabili, che creavano una divisione tangibile tra Mokeddem e la sua famiglia e le permettevano di ritagliarsi uno spazio tutto per sé, dove gli altri non potevano entrare perché privi delle chiavi di accesso alla lettura: l’alfabetizzazione. In Francia, è di nuovo il bisogno che Malika prova per i libri e la scrittura a separare senza possibilità di appello la donna dal suo compagno, un francese di nome Jean-Louis. Quello dei libri è uno spazio che Mokeddem ricerca costantemente, uno spazio dove potersi prendere cura di sé, dove poter far valere le opinioni personali, dove condurre un’esistenza che rispecchi le proprie convinzioni e le proprie aspettative, e non rassegnarsi ad essere schiava di spazi che non ammettono futuro. Per Mokeddem, come per la piccola Dalila, alter ego dell’autrice, del romanzo L’interdite, la ricerca dello spazio può divenire una malattia. Una persona che cerca lo spazio è una persona sempre in cammino “et qui veux pas vivre comme tout le monde”. La Transe des insoumis si apre con una frase che rivela una rottura. “Il est parti ce matin” (TI, p. 15): si tratta della partenza di Jean-Louis dalla casa e dal letto che avevano condiviso per diciassette anni. Il testo dunque prende inizio da una fine. Anzi, la fine della relazione dà all’autrice la forza di un nuovo doppio inizio: da una parte, comincia una nuova vita, dall’altra intraprende la stesura della sua nuova opera. Il testo continua con “Je suis seule dans le lit” (TI, p. 15), frase che subito tesse insieme le immagini di rottura, solitudine e letto. L’immagine della rottura all’inizio del testo ne suggerisce una simile, che viene alla mente se, sull’esempio della scrittrice americana contemporanea Ursula K. Le Guin, compariamo lo studioso di letteratura ad un archeologo. L’archeologo studia le civiltà del passato attraverso i frammenti e le rovine che trova nel terreno, tracce di esistenze che sono passate sulla terra. Il critico letterario studia le civiltà e le identità delle persone attraverso le storie che queste hanno raccontato e cerca di tracciare il disegno della loro vita. In questa ottica, per i critici i libri costituiscono le rovine. Quando si pensa ai resti archeologici, vengono in mente ruderi e rovine contrassegnate inevitabilmente da qualche rottura e qualche crepa. Anche nel caso di La Transe des insoumis si è subito messi di fronte ad una rottura metaforica. “Casser, rompre, j’ai toujours su” (TI, p. 27), rivela Mokeddem. Le rotture, i tagli hanno scandito le tappe della vita dell’autrice. Questa ultima rottura, rappresentata dalla separazione con il proprio uomo, è però differente dalle altre, poiché si tratta della prima volta in cui l’autrice rimane sul luogo degli eventi che hanno determinato questa crisi. C’est la première fois que je reste sur les lieux d’une rupture. (TI, p. 25) È la casa che fa la differenza a Montpellier. Nel corso della sua vita, ad ogni rottura con la famiglia e la società, Mokeddem si era sempre allontanata, fisicamente o mentalmente, dal luogo o dalle persone con cui si trovava in disaccordo e che desiderava lasciarsi alle spalle. Sentiva di trovarsi in un luogo che non le apparteneva e a cui sentiva e sapeva di non appartenere. Al contrario, la rottura della relazione con Jean-Louis non provoca una fuga da parte di Mokeddem, che rimane, questa volta, sul luogo della rottura e non si lancia in un’altra fuga. Toutes ces ruptures, ces amputations pour arracher d’abord, pour sauvegarder ensuite le droit de décider pour moi-même. A chaque instant. Cette répétition a fini par extorquer une part d’ivresse à la traversée des détresses. Elle a gorgé de volupté les refus. Seulement je n’en peux plus. J’ai quitté ma famille, le désert, plusieurs amours algériennes, le pays… C’est la première fois que je reste sur les lieux d’une rupture. Mais c’est ma maison. J’ai mis longtemps à trouver ce site. J’ai eu le coup de foudre, au premier regard, pour ses arbres, ses murets en pierre, sa situation en nid d’aigle au bord d’une falaise. L’architecte l’a dessinée d’après mes directives. Il a dû maintes fois revoir sa copie jusqu’à ce qu’elle corresponde parfaitement à mes attentes. J’en ai tracé moi-même les terrasses, sculpté le jardin… On me dit souvent que ma maison est à mon image, arabe et méditerranéenne. Sitôt que j’y ai habité, je me suis mis à écrire. Comme si l’écriture avait attendu ce lieu-là pour enfin venir. (TI, pp. 25-26) L’immagine della casa come nido, scrive Bachelard, dà l’idea di guscio, calore, protezione, riposo e tranquillità. Il nido è il luogo del ritorno, della fedeltà e dell’intimità; contiene tutti i valori della casa. Citando Michelet, Bachelard ricorda che “La casa è la persona stessa, la sua forma”: casa e colui o colei che vi abitano hanno la stessa forma, si somigliano. Mokeddem questa volta non fugge perché ora ha finalmente il suo nido, il suo rifugio. In quel “J’ai mis longtemps à trouver ce site” si legge non solo l’attenzione, la cura impiegata per scegliere proprio quel luogo e non un altro, ma anche qualcosa di più. Trovare quel luogo è stato come trovare se stessa ed è a partire da questo ritrovamento che il tempo della vita passato a cercarlo può essere riconquistato. Cessare di essere il tempo di rottura e di fughe per divenire il tempo della tessitura, della scoperta di un percorso nomade, del movimento come scelta e non come fuga. Non appena ha cominciato ad abitare questa casa non ha più avuto bisogno di partire, perché alla fuga territoriale si è sostituito un nomadismo mentale. La scrittura è la sua fuga, il suo viaggio di nomade. Giunta nel suo spazio, in uno spazio liminale, sulla costa del Mediterraneo, su una terra-che-è-quasi-mare, può voltarsi e guardare all’Algeria che il mare unisce alla Francia. Dopo essere fuggita prima dal deserto, poi dall’Algeria, aveva infine scelto di lasciare anche Parigi, la grande città del nord, per ritornare un po’ più verso le proprie origini. Il 1985 era stato l’anno delle “grandes routes” (TI, p. 70), l’anno in cui si era incamminata verso il sud della Francia, verso un luogo più prossimo all’Algeria. Dopo l’allontanamento, il riavvicinamento. Sempre a distanza di sicurezza, però. Rimane nella terra straniera, più prossima al suo spirito e alla sua identità, ma si riavvicina, geograficamente e spiritualmente, al deserto e alla sua patria, alle sue origini. La casa è “mon désert prolongé” (TI, p. 26), rappresenta, cioè, una parte delle sue origini e della sua identità che ha attraversato il mare e l’ha raggiunta sul suolo francese. Il compagno è partito e l’autrice si ritrova sola nel letto. La narrazione ha inizio dal letto. L’autrice scrive nel letto e del letto. Via via, la scrittura si sofferma sui vari letti che hanno popolato le notti insonni di Mokeddem, letti che, unici compagni, hanno condiviso con lei la solitudine delle sue letture. Un libro sull’insonnia, giustamente, non può prescindere dal parlare di letti. Sono letti di solitudine, di amore, di esilio, di morte e di scrittura. Si parla dei letti della sua casa e quelli nel suo studio medico, c’è il letto dei suoi pazienti, come pure il suo letto privato. Il letto della poeta che abita di fianco allo studio medico di Mokeddem, nel centro di Montpellier. Poi ci sono i letti dell’infanzia, a cominciare dal giaciglio in terra, il letto comune a tutta la famiglia, nella piccola casupola nel deserto algerino; si racconta del giaciglio accanto alla nonna che, nelle ore di insonnia, all’insaputa degli altri componenti della famiglia, raccontava a Malika le sue storie; si parla del primo vero letto acquistato dai suoi genitori, di quello del collegio al liceo e quelli delle camere universitarie ad Oran. Il letto è un’immagine così ricorrente nel testo perché è il luogo in cui è cominciata tutta la storia di ribellione, rotture e allontanamento di Mokeddem, che l’ha portata fino all’esilio. Ed è il luogo in cui Mokeddem legge e scrive le sue storie. Il letto è lo spazio della solitudine, della lettura e della scrittura. Dal momento che la lettura e la scrittura sono due rappresentazioni dell’esilio per Mokeddem, il letto diventa un luogo dell’esilio. Il primo letto che incontriamo è anche l’ultimo di tutti per cronologia. Si tratta del letto che lui, il compagno ora partito, ha fatto con le sue mani. Sembra di leggere tra le righe il riferimento ad un altro letto famoso della storia della letteratura, il letto che Ulisse aveva intagliato con le proprie mani da una quercia, e attorno al quale aveva poi costruito la camera nuziale per sé e Penelope. Il letto di Mokeddem è un letto che ha una memoria e proprio per questo bisogna romperlo, farne legna per il fuoco, distruggerlo per distruggere la memoria che contiene. Casser le lit! Il faut casser ce lit qu’il a fait de ses mains. Casser ce lit de mes mains. Démanteler lame par lame ce radeau abandonné dans une chambre vide. Casser, rompre, j’ai toujours su. (TI, p. 27) La decisione è difficile da prendere, sofferta: distruggere il letto che il compagno ha costruito con le proprie mani significa cancellare la memoria che quel letto contiene, rompere con il passato, capire che quel passato è ormai giunto a termine. Ma significa anche, d'altronde, accettare che il motivo per cui la storia d’amore è finita è più importante dell’amore stesso. Il compagno non poteva più sopportare la passione di Malika per la lettura e la scrittura. La scrittura la porta troppo lontano da lui, su altri orizzonti, la allontana da lui e dal mondo che hanno in comune. La scrittura, così importante, persino indispensabile a Malika per non soffocare, ora soffoca lui. Comment un seul homme peut-il être l’amour, l’amant, l’ami, le frère, la mère, le fils ? une tribu à lui seul ? Jean-Louis a été tout ceux-là pour moi pendant dix-sept ans. Je me sens orpheline de lui, l’homme multiple. Je promets de ne plus me laisser aller à une telle dépendance. Ne plus jamais masquer tous les manques par une unique présence. Dans l’obscurité, je pense à ma tribu de naissance. Je ne l’ai pas quittée par rejet ou par goût d’aventures. Je me suis coupée d’elle pour ne pas mourir d’étouffement. Maintenant, je me sépare de l’homme que j’aime parce que c’est lui qui suffoque de me voir le corps et le mental chevillés à l’écriture. Il dit que l’écriture m’emporte moi en le laissant sur place. (TI, pp. 23-24) La separazione e la solitudine elementi costitutivi della vita di Mokeddem. Ora la scrittura, da lei così tanto amata, la separa dall’uomo amato. La separa perché la porta via, lontano. Mokeddem, attraverso le parole che scrive, vola verso coste lontane, che la trascinano via. Entrambi gli amori, quello del compagno e quello della sua scrittura, erano per lei un bisogno. Ma il secondo si rivela, alla fine, più duraturo, una necessità vitale, alla quale non può rinunciare. Dunque il pensiero di distruggere il letto costruito da Jean-Louis è doloroso, ma alla fine la risoluzione è presa e Malika passa all’azione. Il sabato pomeriggio, l’inizio del fine settimana, il momento generalmente dedicato allo shopping, Malika smonta e distrugge il letto. È un gesto quasi neutro, meccanico, che non le costa gioia né dolore, perché “le chagrin était dans la prise de cette décision” (TI, p. 51). Solo un piccolo incidente viene a turbare l’automatismo delle azioni, una piccola scheggia si infila appena sotto l’unghia dell’indice della mano. Una piccola scheggia di ricordo cerca di rimanere attaccata ancora alla memoria, e ci vuole tempo per estrarla. Poi l’incidente è dimenticato per tutto il resto pomeriggio, impegnato negli acquisti per rinnovare la camera e per scegliere un letto ancora più grande, che esalti la sua solitudine: Il me faut un lit plus grand pour bien m’y sentir seule. Pour effacer l’absence. Accroître la surface afin de capter, de piéger un peu de sommeil. (TI, p. 51) La sequenza delle azioni dello smantellamento del letto e delle riflessioni su come ri-ammobiliare la stanza è descritta in dettaglio: mostra lo smantellamento simbolico degli ultimi ricordi della vita insieme all’uomo amato e, allo stesso tempo, un momento importante per ricominciare una nuova vita in cui, come colei che naviga in solitario, muove per ritornare a se stessa. 2.3 “Le savoir est pour moi le premier exil”. “Lire toute la nuit et dormir le matin, vivre décalée des autres” (TI, p. 116). In questa citazione si concentra uno dei temi principali dell’opera La Transe del insoumis, cioè l’intimo rapporto dell’autrice con l’insonnia, la sua passione/bisogno della lettura e la costante ricerca della solitudine. I tre elementi si rimandano l’un altro e costituiscono il primo nucleo dell’esilio della scrittrice. Mokeddem racconta come, negli anni della prima infanzia, sente un forte bisogno di starsene lontano dagli altri fratelli e di rintanarsi, di notte, nel letto della nonna. Inizialmente contrastato dai genitori, il desiderio di Malika di stare vicino alla nonna viene infine accettato, non tanto per accontentarla, ma perché, con la sua veglia notturna e i suoi movimenti per la stanza, la piccola disturba il resto della famiglia. La nonna paterna, che abita nella stessa casa, ma non dorme nella stessa stanza con il resto della famiglia, è l’unica presenza con cui Malika si sente in sintonia. Vegliare, distesa nel letto accanto a lei che le racconta le sue favolose storie de “les hommes qui marchent”, dona tranquillità alla bambina. Il letto della nonna diventa così un trampolino verso orizzonti lontani, il punto da cui lanciarsi per seguire con l’immaginazione i percorsi dei nomadi e apprendere da loro insegnamenti di vita e un’etica del viaggio. L’avvicinamento alla nonna rappresenta una prima tappa nel progressivo cammino di Mokeddem verso la sua libertà. Lo spostamento spaziale riflette la vicinanza affettiva e mentale tra la nonna e la nipote e, per contrasto, accentua la separazione dai genitori e dai fratelli, mentre vegliare quando tutti gli altri dormono segna una frattura nella condivisione di un tempo comune. L’allontanamento spaziale, reso evidente dall’interporre questa distanza tra lei e la famiglia, si trasforma pian piano anche in un allontanamento temporale: leggere la notte e dormire il giorno la sottrae alla condivisione del tempo della famiglia. La sottrae, inoltre, dall’aiutare la madre nelle faccende domestiche, lei, la più grande di tutti i fratelli, e femmina. Fare i lavori di casa mentre i bambini non ne sono coinvolti la fa sentire schiava della famiglia, soprattutto nei confronti dei fratellini maschi più piccoli. Questa prima ribellione avviene all’età di tre anni e mezzo o quattro e rappresenta la prima conquista importante di Mokeddem perché, con il diritto di vegliare la notte, di non dormire come tutti gli altri, ha conquistato il diritto ancora più importante di non uniformarsi, di essere diversa e di seguire la propria vocazione, sottraendosi al senso di oppressione che le dà la famiglia. Simbolo di questa oppressione e frustrazione è la dura e pesante coperta di lana sotto la quale dorme tutta la famiglia e che a lei, Malika, non dona ristoro ma solo un senso di soffocamento. La passione per le storie aumenta nel tempo, fino a far traslare l’oggetto del desiderio dalla voce narrante della nonna alla carta stampata. Dal momento in cui Mokeddem va a scuola ed impara a leggere, si rende conto di avere a disposizione un nuovo e più potente strumento per isolarsi dalla famiglia, e soprattutto dalla madre. Mokeddem, infatti, è l’unica a saper leggere. La sua sete di racconti orali diventa fame di libri, quei racconti sulla carta che sono passpartout per mondi fantastici, via di uscita dalla stretta morsa dello spazio domestico. Come dice la stessa autrice, infatti, il sapere costituisce il suo primo esilio. Il sapere è rappresentato dai libri che divora avidamente uno dopo l’altro, che prende in prestito in biblioteca e di cui è estremamente gelosa e allo stesso tempo orgogliosa. Il sapere è esilio perché la isola dal resto della famiglia e dalla società misogina, le permette di istruirsi, di apprendere quelle competenze ed abilità che saranno fondamentali per riuscire a farsi forza e uscire dalla stretta sorveglianza della famiglia, per camminare libera e raggiungere le proprie mete. Le savoir est pour moi le premier exil. Unique car irrévocable. Il m’a sortie d’une histoire figée dans la nuit des temps pour me précipiter seule, démunie, gueule ouverte sur le macadam de ce milieu du xxe siècle pas encore mien. Souvent hostile. La notion d’exil ne pouvait se rattacher à un territoire pour mes aïeux nomades. Elle traduisait déjà l’exclusion volontaire ou supportée du groupe familial. […] Avant une quelconque conscience des discriminations sociales c’est d’abord celles des parents qui ont provoqué ma révolte, nourri mon désarroi, entamé ma dissidence. (TI, p. 158) Inscrivendo la propria storia in quella delle popolazioni nomadi, Mokeddem individua una forma di esilio non legata ad un territorio geografico. Linhartovà afferma che l’esilio comincia ad esistere nel momento in cui le società da nomadi diventano sedentarie e il territorio diventa uno spazio circoscritto che definisce un particolare popolo e la sua autorità. In questa prospettiva, l’esilio ha senso solo per coloro che hanno un forte attaccamento al luogo e al territorio. Per chi, al contrario, discende da popolazioni nomadi, per le quali il significato dell’esistenza è il cammino, il movimento, non ha senso parlare di esilio in termini territoriali. Sentendosi parte di una tradizione nomade, Mokeddem ha interiorizzato il nomadismo spaziale degli antenati, che è divenuto per lei nomadismo mentale. Le ragioni per la sua scelta dell’esilio sono da rintracciare in questa discendenza nomade e nel suo bisogno di non sentirsi legata né alla terra, né alla famiglia, né ad un uomo. Aux amants d’une soir je dis: « Je ne suis que de passage. Je repars demain. » Je n’ai aucune envie de m’attacher. Un homme pour moi c’est une terre. (TI, p. 206) Mokeddem, giunta in Francia, conquista quella libertà di movimento che, come donna, non aveva in patria. E allo stesso modo, non si sente pronta ad attaccarsi ad un uomo, che ella associa metaforicamente alla terra. Solitamente, nella letteratura e nel pensiero comune, è la donna ad essere paragonata alla terra, immagine che si associa alla fertilità e alla madrepatria. Mokeddem ribalta questa concezione ed è lei stessa, donna, che, interiorizzata l’etica del nomadismo dei popoli del deserto da cui discende, reclama per se stessa il diritto di non lasciarsi legare a nessuno. La lettura era stata la prima conquista di bambina, la conquista di mondi dell’immaginazione, il varco di orizzonti lontani. Una passione e un bisogno insieme. Muoversi nei territori dell’immaginazione l’ha portata a percorrere, dopo anni, il cammino dalla lettura alla scrittura, la naturale evoluzione del desiderio di indipendenza e di sviluppare le proprie inclinazioni senza ostacoli. La scrittura, l’autonarrazione è una ricerca di se stessi, delle proprie origini, della propria identità. Les livres sont mes lits debout entre moi et le monde, des mondes où les mots se couchent au bord de l’infini. (TI, p. 55) Libri e letti si intrecciano, i loro confini si toccano e sfumano, impregnandosi l’uno dell’essenza dell’altro. Entrambi rappresentano il momento dell’evasione mentale, l’allontanamento dal mondo fisico che la circonda, della fuga nei mondi immaginati. I libri sono lo schermo, lo scudo che la separa dal mondo esterno, detestato. I libri sono il muro che Mokeddem leva a barriera contro quel mondo. I libri le servono da filtro attraverso cui leggere il mondo, la sua vita e quella degli altri, la sua identità attraverso occhi diversi, attraverso una prospettiva più consona alla propria sensibilità, che non rispecchia quella delle persone che la circondano. In secondo luogo, i libri rappresentano la barriera che la isola, la divide, la separa dal resto della famiglia, soprattutto dalla madre, che un giorno rivelerà ad un giornalista: Entre ma fille et moi, il y a toujours eu un livre. Même quand elle arrivait enfin à s’endormir, elle mettait son livre ouvert sur son visage. (TI, p. 109). Vivere con un libro davanti al volto è l’atteggiamento prevalente di Mokeddem: “Où que je m’assoie un livre reste dressé tout contre mon visage” (TI, p. 119). Allo stesso tempo, i libri sono anche la sua porta magica per entrare in un altro mondo: ogni pagina che gira è una nuova porta che si apre su un nuovo luogo, una nuova vita, lasciando tutti gli altri al di fuori. La fuga e l’evasione erano necessarie alla bambina Malika, che non poteva addormentarsi se non entrando nelle vite di qualcun altro, vivendo un’altra vita parallela, mentale, una vita altra. Un livre à la main. La lecture écarte les préoccupations. Je ne peux m’endormir qu’avec la vie des autres. Dans une autre vie. (TI, p. 45) I libri rappresentano il primo rifugio dagli obblighi familiari, la fuga verso altri orizzonti e allo stesso tempo preparano in nuce, nell’immaginazione, quella che sarà poi la fuga fisica, spaziale dall’Algeria. L’unica persona della famiglia per la quale il libro non rappresenta una barriera è la nonna. Sebbene analfabeta, la nonna rappresenta la narrazione orale, il racconto dei nomadi. Grazie a questo, la nonna è capace di vedere “al di là dell’orizzonte”, al di là delle parole, e comprende Malika e il suo bisogno di leggere. La nonna ha tale sensibilità perché è stata educata dalla vita nomade, dall’etica dei nomadi, che è l’etica del viaggio, del movimento, che contraddice l’etica del popolo stanziale. Mokeddem vive dunque una vita in un certo senso parallela a quella della sua famiglia, non si interseca con quella dei fratelli e dei genitori. È una vita marginale e diversa, che la scrittrice descrive con il termine “décalée”, che si può tradurre come sfalsata/sfasata. Il coinvolgimento nella vita sociale, nella scuola prima, e nell’ambiente universitario poi, esaspera il senso di esclusione che Mokeddem sente gravare sulla sua persona. Non è più solo la famiglia a non comprendere le sue necessità e ad emarginarla. Pian piano si rende conto che è l’intera società algerina a non essere in grado di soddisfare le sue esigenze e le sue aspettative: in una parola, non può renderla felice, né concederle lo spazio perché possa costruire la sua felicità. La vita vissuta in Algeria è quella di chi si sente “décalée”, e per questo “differente”, “étrangère”, “en marge”, una marginalità scelta come presa di distanza da una società i cui valori non può condividere. Dalla sua marginalità, Mokeddem elabora una propria visione della vita, che necessariamente si rivela differente da quella degli altri, cresciuti nella ‘normalità’ e nella passiva accettazione delle regole e delle tradizioni. Il suo isolamento e la sua marginalità, se da un lato la separano dal gruppo, dal suo spazio fisico come da quello culturale, le permettono di godere di una posizione privilegiata, di aprirsi uno spazio critico a partire dal quale affermare la propria differenza. Quella differenza, scrive Bhabha, è anche lo spazio della creazione, della doppia visione verso l’interno e verso l’esterno, il margine che diventa spazio, il terzo spazio in cui può prendere forma una visione alternativa a quella fornita come unica e immutabile dalla società. Dalla sua prospettiva ‘sfalsata’, Mokeddem si accorge di ingiustizie e soprusi che gli altri non vedono. Da questa capacità di vedere, notare e giudicare fatti, eventi, azioni e tradizioni in modo differente dagli altri individui della sua società nasce in lei anche la rabbia che la spinge alla ribellione e alla lotta per portare il cambiamento nella propria vita. La lotta di Mokeddem è insieme individuale e collettiva, in quanto confluisce nella battaglia per l’emancipazione delle donne algerine per il riconoscimento delle loro capacità e del loro diritto ad istruirsi, ad avere una carriera ed un futuro lavorativo come gli uomini. Attraverso la narrazione della propria esperienza, l’autrice contesta la condizione delle donne in Algeria. Come si ritrova anche in altre autrici maghrebine, ad esempio negli scritti della marocchina Fatima Mernissi, è solo attraverso l’esperienza personale di un grande dolore o la consapevolezza di aver subito una grave ingiustizia che una donna può sviluppare le ali e, insieme, la capacità e la forza per volare via. 2.4 La serva e l’ospite. Malika Mokeddem non si è mai sentita a casa all’interno della sua famiglia. Si accorge di essere esclusa dal cerchio di affettività e amore che cinge una vera e propria famiglia. Si sente esterna, marginale rispetto a quello che la famiglia rappresenta. Madre e padre non sono coloro che possono darle affetto, amore e protezione: “pas d’amour, sauf celui de grand-mère” (TI, p. 128). Soprattutto la figura della madre assume connotazioni negative per la scrittrice. In un’intervista sulla rivista elettronica di letteratura della migrazione El-Ghibli, Mokeddem rivela che la madre per lei rappresentava “tutto ciò che io non volevo essere”. Mia madre non rivestiva nessun interesse per me e mia nonna, perché era occupata, in ogni senso: aveva le mani occupate, il ventre sempre occupato dalle gravidanze, ed era anche occupata, colonizzata, come lo era l’Algeria. Così io e mia nonna comunicavamo nonostante mia madre; il nostro dialogo la evitava. La nonna, invece, rappresentava per Mokeddem la famiglia, le radici e una figura di donna di cui seguire l’esempio. Non potendo aspirare a diventare una donna simile alla madre, di cui non condivideva le scelte e la visione della vita, per Mokeddem la nonna era l’unica persona con cui si sentiva in sintonia “perché anche lei era una donna in esilio come me”. La nonna, come Mokeddem, viveva nelle/delle parole, viveva attraverso i suoni e le storie che narrava. La nonna “era una poetessa e una cantastorie ben inserita nella tradizione orale”. Ma grand-mère comme moi s’est retranchée derrière les mots. Elle est une ascète, une femme pieuse au verbe vagabond, poète. La quête des mots lui fait guetter leur impact dans les yeux des autres. (TI, p. 128) Uno dei più grandi insegnamenti che Mokeddem riceve dalla nonna attraverso i racconti è quello di scoprire il grande potere posseduto dalla parola, quando questa viene ben usata. Ma i momenti in cui apprezzavo di più le sue parole erano quelli in cui diventavano sferzanti, i momenti in cui la parola rimetteva in discussione l’ordine costituito. Ho capito molto più tardi che la forza della sua parola derivava appunto dal disturbo che arrecava […]. Quelle che scaturiscono dalla bocca della nonna di Mokedddem sono parole che posseggono la forza capace di sovvertire l’ordine imposto, di recare disturbo, proprio come le storie di Shahrazade o ancora della nonna di Mernissi: “Le donne illetterate come Jasmina erano più sovversive di quelle istruite” Le storie e le parole, dunque, da un lato univano Mokeddem alla nonna, dall’altro la separavano dal resto della famiglia, soprattutto dalla madre. La figura del padre rimane piuttosto nell’ombra in La Transe des insoumis, fino alla fine, quando lo si ritrova vecchio e stanco, al momento del ritorno di Mokeddem in visita alla famiglia dopo molti anni di assenza. Il graduale ma costante allontanamento di Mokeddem dalla famiglia è dovuto al senso di non appartenenza al mondo familiare che la circonda e ha origine dal fatto di non sentirsi amata ma, addirittura, sfruttata dalla madre perché la aiutasse a badare ai fratelli maschi più piccoli. Ribellandosi alla funzione di schiava in cui la madre l’aveva relegata, Mokeddem cerca di ritagliarsi uno spazio per sé. Tale spazio non rimane in seno alla famiglia, ma si configura come una posizione marginale, quella dell’ospite, dell’invitata. “Invitée” è una parola fondamentale nel testo e rappresenta la condizione di estranea che l’autrice sente di vivere, prima nella casa dei genitori e in seguito nel suo esilio in Francia. Il termine “ospite” contiene in sé l’idea dell’accoglienza in seno ad una comunità, familiare o sociale. L’ospite è un individuo che viene inserito ma, allo stesso tempo, rimane estraneo. Come un’ospite, Mokeddem è qualcosa di altro rispetto alla comunità da cui proviene. È come se le sue origini venissero da un luogo diverso, proprio come un visitatore, la cui presenza implica l’idea del movimento e della provenienza da un altro luogo. Soprattutto, gli invitati sono trattati con tutto rispetto, con stima e alta considerazione. È questo aspetto ad essere centrale per Mokeddem, perché la figura dell’ospite si oppone a quella della serva. La serva che diventa ospite si affranca dalla dipendenza della famiglia e marca una vittoria significativa lungo il cammino per la propria liberazione. Da bambina, dopo vari tentativi, Mokeddem riesce ad impossessarsi delle chiavi della stanza degli ospiti e lì si rifugia a leggere, chiudendosi dentro a chiave così da non essere disturbata dalla famiglia. La stanza degli ospiti diventa il suo rifugio, il suo battello per solcare orizzonti e mondi lontani. Cette victoire d’être enfin seule, bien seule, des heures et des jours durant, est si décisive qu’elle décuple ma joie autant que ma ténacité. J’ai fait mes premiers pas sur la voie de la liberté. Reste à ne pas m’en laisser arracher. Barricadée dans la pièce des invités, je ressasse : « Jamais servante, non. Je suis l’Invitée ». Je m’impose en Invitée dans ma famille. Au milieu de l’oralité, je vis rencognée dans les livres. Les livres sont mes seuls convives. Je leur ai même installé trois étagères dans la pièce des invités. C’est ma petite révolution à moi. Le signe que je suis en train de devenir étrangère aux miens. Retranchée de leurs jours en plus de leurs nuits. Une vie en marge. L’idée m’obsède. Ses promesses ne sont pas exemptes de mélancolie. (TI, p. 120) Il significato dell’atto di imporsi come invitata nella casa dei genitori, impossessandosi della camera degli ospiti, si comprende a fondo se si accosta l’immagine dell’ospite a quella di serva, che rappresenta i sentimenti di Malika nei confronti del resto della famiglia. Prima di una serie di fratelli e sorelle, Malika si sente serva dei fratelli maschi più piccoli, spesso chiamata dalla madre ad aiutarla nelle faccende domestiche. Questo si associa al fatto che Mokeddem si sente deprivata delle attenzioni e dell’affetto materno, rivolti ai più piccoli. Dal suo punto di vista, il rapporto con la madre si riduce al suo essere più che aiutante, serva dei fratelli maschi più piccoli e perciò discriminata perché femmina. Quando Mokeddem torna in Algeria, dopo anni di assenza, a visitare la famiglia, le viene naturalmente offerta la camera degli ospiti. Il suo è un ritorno in veste di ospite nella casa paterna, è un ritorno di passaggio, di poche ore. È un ritorno molto toccante, per il fatto di rivedere i genitori, soprattutto il padre anziano e malato. Ma allo stesso tempo è una vittoria: la stanza di cui da bambina Mokeddem si era impossessata di nascosto e contro la volontà dei genitori, anni dopo diventa un diritto acquisito. Mokeddem ritorna da invitata anche nel proprio Paese, l’Algeria, da scrittrice affermata: è la scrittrice algerina in esilio che viene invitata a partecipare agli incontri e alla conferenze. L’esilio, la fuga verso un paese altro, al di là del mare, le ha fatto guadagnare anche prestigio e fama in patria. Passo dopo passo, Mokeddem ha tagliato tutti i legami che la tenevano connessa alla sua tribù familiare, sostituendo ai legami familiari altri legami non imposti, i legami di amicizia e d’amore scelti liberamente. Più volte Mokeddem nel suo racconto fa riferimento alle amicizie, sottolineando come le persone di cui si è circondata in Francia siano state frutto di una sua scelta e non hanno nulla a che vedere con i legami imposti della famiglia. Anche il compagno che si è scelta rappresenta, con la sua nazionalità francese, un ulteriore distacco dalla famiglia, che era contraria a questa unione. Jean-Louis ha finito per rappresentare, per l’autrice, tutta una tribù, tutta la gamma di legami familiari con i quali aveva rotto tempo prima. Come per le relazioni interpersonali, così anche il rapporto tra individuo e la sua patria/nazione per Mokeddem è dinamico, in costruzione. Si tratta di una ricerca personale. Non è pre-determinato e non determina la personalità e l’identità dell’individuo, non fissa ruoli e status. L’individuo deve essere libero di muoversi, di instaurare legami che lo soddisfano e che riflettono il suo essere, le sue convinzioni e la sua personalità. Allo stesso modo, anche i rapporti con la famiglia e con le generazioni passate in un certo senso vengono scelti. Mokeddem rivendica la sua filiazione dalle popolazioni nomadi del deserto, iscrive la sua discendenza nella loro. Anche in questo caso si tratta di una filiazione scelta e non imposta. Tra le varie possibili, Mokeddem sceglie di essere la discendente della nonna paterna e di conseguenza dei nomadi. Segue le loro orme e i loro insegnamenti, e diventa una nomade anche lei. In futuro, in Francia, riproduce le migrazioni periodiche delle popolazioni del deserto nel suo spostarsi regolare tra i due poli di Montpellier e Perpignan, dove ha fissato le sue due distinte attività. Il me plait d’avoir une ville distincte pour chacune de mes activités. La distance qui les sépare me convient. Ma migration entre ces deux lieux, Montpellier et Perpignan, me permet d’évacuer les préoccupations de l’une afin de mieux pouvoir plonger à corps perdu dans l’autre. J’aime dire que je fais ma transhumance entre l’écriture et la médicine. J’aime penser que je garde inscrit en moi le mode de vie de mes aïeux bergers des hautes plateaux. Mon père, lui, est devenu gardien d’un puits dans le désert. Mon puits à moi c’est l’écriture au milieu des garrigues et des rocailles d’une autre terre. Ma vie est un flux tendu entre deux villes, deux activités, deux pôles captivants. (TI, p. 220) 2.5 Dalla lettura alla scrittura. Il deserto e il mare. La lingua. Il sapere è per Mokeddem il primo esilio. Se, come dice Marguerite Duras, leggere con avidità è già scrivere, ne consegue che la scrittura è la naturale continuazione di questo primo esilio. La scrittura è un’attività che ha bisogno di solitudine, come la navigazione, come la lettura. I libri, come battelli, hanno solcato i mari dell’immaginazione di Malika bambina e l’avevano trasportata lontano. “Non c’è naviglio come un libro / per portarci in terre lontane”, scrive Emily Dickinson: THERE is no frigate like a book To take us lands away, Nor any coursers like a page Of prancing poetry. This traverse may the poorest take Without oppress of toll; How frugal is the chariot That bears a human soul! Le tre attività, scrittura, lettura e navigazione, hanno in comune il racconto: anche la navigazione, infatti, si narra, c’è sempre un diario di bordo sulle navi. Come in un diario di bordo, Mokeddem scrittrice ripercorre le rotte della sua vita, sia quelle reali che quelle immaginate, le annota, ne prende coscienza, e la scrittura diventa per lei una sorta di cura dalle sofferenze e dalla nostalgia. Attraverso la scrittura Mokeddem può ritornare ai territori della sua infanzia e finalmente muoversi e percorrerli in libertà, libertà che le era stata negata come bambina e come donna. “L’écriture est mon territoire”, scrive Mokeddem nel romanzo Le Siècle des sauterelles. E in un’intervista su Le Quotidien d’Algérie, spiega il significato del deserto nella sua vita e nella sua scrittura: Le désert est simplement mon enfance et mon adolescence, pour moi l’écriture est une réappropriation du désert, parce que pendant toute mon adolescence je me sentais tellement enfermée que je lisais des livres qui me racontaient des ailleurs, je n’étais plus dans le désert alors que j’y vivais, et maintenant que j’en suis loin, j’ai besoin de le sillonner, et d’y revenir par l’écriture. Je crois que ces espaces se prêtent très bien à l’écartèlement de l’imagination. Attraverso la scrittura, Mokeddem si riconcilia con il proprio passato, con le tradizioni e la storia della sua terra, mentre il sentimento di chiusura e prigionia si trasforma in sentimento di libertà. L’écriture […] libère la marche dans le sable d’une certaine tradition, transforme l’oralité, affranchit la femme d’une histoire accablante. Pour lui, écrire c’est transformer une vieille expérience collective rétrograde en une nouvelle vie personnelle qui néanmoins englobe ce passé. Per ritornare all’Algeria e al deserto è stato necessario l’esilio. Solo dopo anni di allontanamento, di fughe e di ribellioni, e solo grazie allo spazio, alla solitudine e alla distanza fornite dall’esilio, Mokeddem ha potuto incominciare a scrivere, rivisitare il passato e i territori della sua infanzia e riappacificarsi con essi. Scrivere equivale a muoversi in libertà, attività possibili solo sulla terra dell’altro. La scrittura di Mokeddem viene necessariamente in un secondo tempo. In un primo tempo, c’è stato il bisogno di vivere, di immergersi nell’alterità. Si tratta di un’alterità geografica, culturale, linguistica e fisica. Innanzitutto, le è stato necessario poter sperimentare con il proprio corpo la libertà di muoversi fisicamente per le strade della città straniera e provare la felicità di sentirsi finalmente libera. Je vis dans les rues de Paris. Je marche dans Paris des journées entières, une partie de la nuit. Je me fais la java. Je n’ai jamais autant flâné dans une ville, encore moins au désert. Du reste, j’ai plutôt l’impression de planer. J’ai des semelles de vent dans les tourbillons de rêveries, des griseries. Je me déboussole à becqueter sur les terrasses parmi des nuées d’oisifs, de buveurs de soleil. Je les épie et je me dis : « Ils ne peuvent imagines ce que représente pour moi le simple droit de pouvoir déguster une bière dehors. Sans être insultée. Embarquée par des flics ignares ». (TI, pp. 205206) Un ulteriore cammino l’ha condotta, negli anni, verso la scrittura: si tratta del suo percorso universitario e professionale della medicina. Mokeddem dichiara che la medicina per lei è stata un cammino tra la lettura e la scrittura. La médicine, face révélée de la douleur, n’a été qu’un chemin assigné entre la lecture et l’écriture. (TI, p. 110) Il percorso di studi l’ha avvicinata anche alla lingua dell’altro, il francese, appresa a scuola e interiorizzata con la lettura dei romanzi. La lingua francese contiene l’eco delle evasioni di Mokeddem bambina; è una lingua impregnata di traversate, esplorazioni di terre lontane fatte a partire dalle pagine dei libri. È grazie a questa lingua che per la prima volta Mokeddem ha intravisto la possibilità di allontanarsi dalla famiglia, di rompere i lacci che la incatenavano ad una concezione di vita nella quale non si riconosceva. È stata la lingua francese la sua unica amica d’infanzia, l’unica presenza, oltre alla nonna, ad accompagnarla e guidarla nelle sue peregrinazioni notturne al di là della pesante coperta di lana, sopra le dune, lontano, su terre straniere. Le parole francesi, con le loro sonorità che raccontavano di mondi lontani, hanno nutrito l’immaginazione e l’esigenza di altrove. L’hanno educata al cammino metaforico, all’esplorazione dell’alterità e l’hanno accompagnata nella traversata, così come i racconti dei nomadi l’hanno educata all’etica del viaggio. Per questo la lingua francese rappresenta un territorio trasversale che unisce le due sponde del Mediterraneo, crea un ponte attraverso il mare tra l’Algeria e la Francia. Elle [la langue française] est fulgurance rutilante quand elle écume et culmine aux cimes de l’intelligence ; quand, avec pugnacité, elle se rengorge et brandit le cimeterre étincelant d’une rhétorique affûtée. Reine des débats, elle devient le premier éclat, la première arme du combat des rebelles, leur dernier refuge quand toutes les autres libertés ont été enchaînées. […] Elle m’a cueillie et recueillie enfant démunie. Avec générosité, elle m’a offert ses résonances aux miroitements inconnus. Alors, subjuguée, j’ai marché vers ses envoûtements, comme aimantaient souvent mes pas candides les mirages de mon désert. Mais, avec elle, point de désillusion, aucune aridité. Chaque page de livre parcourue m’était fortune thésaurisée. L’educazione all’alterità e al corpo altro si era tradotta, nella giovinezza, nella scelta della facoltà di medicina. La professione di medico rappresenta una forma di avvicinamento al corpo degli altri e insieme la volontà di curarlo, guarirlo. Il corpo malato dell’altro, sembra dire Mokeddem, può essere meglio compreso da chi ha conosciuto il male e può empaticamente stargli vicino, capirlo e prendersene cura. Il corpo dei suoi pazienti rappresenta per Mokeddem una terza alterità, a fianco di quella geografica e linguistica. Nella professione medica interviene la lingua scientifica che, per Mokeddem, è la lingua dell’ascolto e dell’accoglienza del malato, invitato nello studio medico e fatto accomodare sul lettino, perché possa parlare e confidare le sue ansie, i suoi dolori, le sue sofferenze. Ritorna l’immagine del letto come luogo di storie. Il lettino su cui è sdraiato il paziente è un luogo di congiunzione e di esilio, cioè dell’incontro di due esseri, il malato e il medico, che condividono la stessa esperienza della lontananza. La sofferenza fisica, congiunta alla nostalgia dell’esilio, si trasforma in parole, in racconto, che viene raccolto da chi lo aiuterà a guarire. Le choix de la médecine, ce corps à corps avec le mal d’autrui, n’est pas un hasard. Et puis c’est une langue étrangère, traversière, qui m’a cueillie dès l’enfance pour me frotter à l’altérité. C’est la langue de l’Autre qui est devenue l’intime. C’est elle qui a pallié les carences de la langue de l’enfance. C’est elle qui a continué à me nourrir, à me guider, à m’éclairer quand la mère a tu même ses condamnations. Quand la grand-mère a disparu. C’est elle qui maintenant palpite mes écrits. De refuge en repère, les livres des autres ont habité ma solitude. Ils ont habité mes luttes. Ils ont mis du rêve dans les habits de la misère. Ils ont transformé ma véhémence en ténacité. En résistance. Ils m’ont inscrite à part entière, dans le chemin de l’écriture. A présent la mienne porte ma dérive de mémoire au plus loin des crispations. L’écriture s’impose en ultime liberté de l’infamille. Elle est ma partition d’expatriée, ma fugue de tout enfermement. Mais pour poursuivre l’inachevé, elle n’en tisse pas moins un rapport puissant avec tous les partisans, les artisans du livre. Quelque chose qui tient des amarres du marin. (TI, p. 179) Lingua, professione e luogo sono connessi, formano un’unica componente. Lo studio di Mokeddem si trova nel mezzo del quartiere degli immigrati di Montpellier, ovvero il luogo degli altri rispetto ai francesi, e rappresenta simbolicamente un punto di unione e di forza. È come se Mokeddem si volesse circondare, nella sua professione, delle sue origini, dello spazio della sua lingua madre. Je me raccroche à l’écriture, à l’activité de mon cabinet. Celui-ci est au sein du quartier immigré, commerçant de la ville. C’est, bien sûr, par choix que j’ai ouvert un cabinet là. Une décision importante, prise il y a cinq ans. En plus de l’écriture, me vouer à cette population. Pendant des années à l’hôpital, mes confrères m’avaient appelée de tous les services lorsqu’ils se trouvaient face à l’un de mes compatriotes ininterrogeables faute de parler français. Mes compatriotes se révélaient le plus souvent marocains – ils représentent la majorité de la communauté maghrébine dans la région – parfois tunisiens ou d’ailleurs. Qu’importent les quelques variantes d’accent ou de prononciation. Ils étaient tous semblables ces hommes et ces femmes couchés dans des hôpitaux et incapables d’exprimer leur mal. Leurs yeux s’allumaient et demandaient miséricorde aux premiers mots arabes que je leur adressais. Je prenais le temps de les écouter, de les examiner, de leur expliquer les investigations et traitements à subir pour les rassurer. Seule la promesse d’une autre visite me délivrait des sollicitations, des mains qui tentaient de me retenir encore auprès de lits convertis en autant d’exils dans l’exil. (TI, p. 65) La lingua familiare diventa una casa, un rifugio sicuro per i malati, che si sentono protetti e amati. La lingua ha il potere di creare uno spazio familiare, dato dalla possibilità della comunicazione, del riconoscimento reciproco e l’esilio diventa un po’ meno doloroso. Gli immigrati vivono un doppio esilio: all’esilio territoriale, geografico, si associa l’esilio linguistico, che marca dolorosamente l’esclusione. L’impossibilità di esprimersi, di farsi capire e di capire a loro volta rende molto più soli ed esalta il sentimento di lontananza. Agli occhi dei medici francesi, chiunque parli arabo diventa automaticamente estraneo/straniero/diverso e viene sbrigativamente affidato a Mokeddem, perché identificato come suo compatriota. Con ironia, l’autrice gioca su questa parola, ‘compatriota’, ed evidenzia come, nella sua esperienza, la Francia sembra non fare attenzione alle differenze nazionali degli immigrati, facendo degli stranieri un’unica massa. La lingua condivisa crea dunque vicinanza, familiarità e permette la comunicazione, allo stesso modo in cui il contrario, cioè il parlare lingue diverse, può trasformarsi in separazione, lontananza e incomprensione reciproca. Nello stesso tempo in cui il medico ascolta e cura i suoi pazienti, questi ultimi a loro volta rappresentano la cura per Mokeddem e le permettono di guarire dalla sofferenza del suo esilio. Mokeddem rivede in loro i nomadi del mondo contemporaneo, i loro sguardi rievocano il mondo da cui è fuggita, ma al contempo la re-inscrivono nella genealogia delle genti del deserto. Si ritrova in un ambiente familiare, in mezzo a gente come lei: Ce sont eux qui me soignent tous les jours. Ils me confirment que j’ai continué sans rien renier, pas même la pauvreté. Ils introduisent dans ma profession une vision, une dimension maghrébines. Ils me font m’y exprimer dans ma langue de l’enfance. Leur quartier déploie en permanence autour de moi des saveurs, ses senteurs familières. Familières, c’est le mot. Mais le bienfait le plus profond me vient de leurs regards. […] Les mêmes yeux ont entrepris de restaurer ici ce qui avait été saccagé là-bas. Au temps du lycée, quand le choix de la médecine s’est imposé, je m’étais longtemps imaginée toubib des nomades. Je n’allais pas m’occuper des gens de la ville ! je ne toucherais pas aux corps dont les regards m’étaient déjà une brutalité ! le verbe nostalgique de ma grand-mère, la vie recluse de ma famille au pied d’une dune, face à des immensités jamais franchies, une adolescence blessée, le désenchantement des rêves qu’avait nourris l’attente de l’indépendance, avaient suscité en moi l’illusion que la liberté était dans le mode de vie abandonné par mes parents, celui des nomades. C’est loin du désert, dans un autre Sud, dans une ville au bord de la Méditerranée, à Montpellier, que je suis devenue toubib des nomades de mon temps, les immigrés. (TI, pp. 123-124) Un ulteriore elemento necessario alla scrittura per Mokeddem si è rivelato la casa e la sua vita appartata. È significativo che la scrittura sia venuta immediatamente, non appena Mokeddem si è sistemata nella sua nuova casa di Montpellier. La casa, che le somiglia e che si trova sul bordo del Mediterraneo, è l’unico luogo che le permette di scrivere. È come se solo in un luogo sul bordo, ai margini, sia dato scrivere. Préparer ce nouveau nid me permet de revenir un peu à moi-même, d’envisager la solitude à partir d’un berceau sur mesure. De me remémorer celle d’autrefois. Première conquête transportée par les livres. Dès que j’ai saisi un livre, j’ai été ailleurs. Le livre a été mon premier espace inviolable. Ni mon père mi ma mère ne savaient lire. Ils ne pouvaient donc contrôler ce que je puisait dans ce cocon de papier. Quand je ne leur disputais pas quelque autre liberté, je mettais le silence subversif de la lecture entre eux et moi. J’ai été seule avec les livres des Autres. Je le serais encore davantage avec les miens. (TI, p. 52) La casa rappresenta un nido e una culla, una culla su misura, da cui cominciare una nuova vita, un nuovo percorso di rivisitazione del proprio passato attraverso la scrittura. I luoghi, dunque, sono importanti nell’economia del testo, così come per la vita della protagonista. Dietro la scelta di ogni luogo c’è una precisa ragione, non sono scelti a caso, così come non è stata scelta a caso la facoltà di medicina: “Il n’y a pas de hasard” (TI, p. 26), “C’est, bien sûr, par choix” (TI, p. 65). Come un nido d’aquila, la casa è arroccata e appartata, isolata come la stessa Mokeddem. Je vis en retrait sur mon rocher. Je ne suis d’aucune mondanité dans la ville de Montpellier. Je ne l’ai jamais été. Je vis en marge. Dans le silence et la paix de ma maison. Jalouse de ma solitude […]. (TI, p. 221) La falesia sulla quale è arroccata la casa di Mokeddem rappresenta un luogo speculare alla costa algerina, come se la scrittrice guardasse all’Algeria (e a se stessa, alla sua identità di allora e alle sue origini) trovandosi all’interno di uno specchio. Mokeddem e la sua scrittura sono lo specchio dell’Algeria e del deserto, guardate però con la consapevolezza critica dell’esule che conosce anche realtà diverse da quella di origine. La qualità cristallina, traslucida, diafana del mare dona quella lucidità necessaria a vedere senza impedimenti al di là del mare, mantenendo quella distanza e quel filtro critico indispensabili per osservare l’altra sponda senza esserne invischiati, senza subire pressioni personali, psicologiche, morali di alcun genere, e mantenendo, di conseguenza, la capacità di scrivere liberamente. Per questo Mokeddem ha potuto iniziare a scrivere solo dopo aver raggiunto l’altra sponda, solo nell’esilio. Il mare è un elemento che ricorre spesso in La transe des insoumis e per interpretarlo è di aiuto il precedente romanzo dell’autrice, N’zid. La protagonista di questa storia è Nora, una donna di madre algerina e di padre irlandese, che si risveglia a bordo di una barca sperduta nel mezzo del Mediterraneo, stordita, con sulla testa un ematoma che le arriva fin sulla fronte. Nora si rende conto di aver perso la memoria, non ricorda il suo nome né la sua storia, ma scopre di essere esperta nel navigare, e il romanzo l’accompagna nel suo vagare nel Mediterraneo alla ricerca della sua identità e del suo passato. In N’zid, il mare Mediterraneo è uno spazio liquido, che, fedele all’etimologia del nome, riempie il vuoto che separa le terre, avvicinandole. Ha questa duplice funzione, di separare e avvicinare al contempo. Il mare è caro all’autrice per quel suo non essere mai immobile. Il mare è caratterizzato da un continuo movimento nello spazio dato dalle onde. L’acqua, attraverso canali, fiumi, mari e stretti, crea una rete di connessioni tra le terre. Elemento fluido, può prendere qualsiasi forma, non avendone una propria, e per questo si fa metafora di un’identità cangiante, modellabile, in movimento. Il mare, con la sua immagine di una distesa d’acqua e con le sue onde che si susseguono regolari ma mai identiche, richiama un’altra immagine speculare, un mare di sabbia, il deserto, come nell’incubo della protagonista di N’zid. Peu à peu toute cette fureur liquide a commencé à devenir rouge, un rouge sang. La tempête s’est muée en vent de sable. La mer s’est coagulée en désert. Elemento comune, che mette in comunicazione il mare e il deserto, è il vento, che crea e rimodella costantemente onde e dune. Spesso ricordata nei due testi, la tramontana, il vento del nord, richiama alla memoria, per opposizione, lo scirocco, il vento caldo del deserto. Sola nella sua casa in cima alla falesia, Mokeddem si mette in ascolto della tramontana: La tête vide, un crabe dans le ventre, je prête l’oreille à la tramontane. Les hurlevents [sic] fouettent les chênes verts, griffent les amandiers en fleurs, les micocouliers encore dénudés. Je pense toujours au vent de sable dans la tramontane. Surtout en cette saison, la sienne. Ce soir de débout mars 1994, le vent, l’errance entre les lits, la solitude peutêtre me ramènent au désert. Là-bas, le sirocco donne au printemps une odeur de poussière. (TI, pp. 16-17) Il vento è soffio, sospiro, voce. Creazione. Come il Verbo del Signore ha creato l’universo, il soffio del vento incide la roccia della falesia, crea le onde del mare che vi si infrangono, modella le dune del deserto. Il vento, come l’acqua, unisce, avvicina, e dal deserto algerino raggiunge Mokeddem in attesa sulla riva opposta, a Montpellier, il primo lembo di terra francese raggiunto dal vento algerino. Attraverso il mare, il vento trasporta i granelli di sabbia del deserto e, con questi, le voci dei nomadi che narrano le loro storie. Mokedden si mette in ascolto di queste voci per poi narrarle, per trasformare l’oralità in scrittura. Gli elementi naturali si fanno voce e corpo. Come Dio creò Abramo plasmandolo dall’argilla umida, cosi Mokeddem dà voce e corpo alle storie dei nomadi plasmando la sabbia del deserto con l’acqua del mare. Dà vita, sulla pagina scritta, ai suoi progenitori. Il verbo francese écrire, come insegna Assia Djebar, contiene al suo centro la parola cri, l’urlo, la voce (“L’amour, ses cris” (“s’écrit”)”). La voce del vento del deserto si iscrive/urla sul foglio bianco. La scrittura è un tracciato: è la penna che solca la pagina, come il vento incide le rocce e modella le dune, come la barca solca il mare e lascia una scia, come le carovane dei nomadi solcano le dune lasciando tracce nella sabbia. Il vento simboleggia l’ispirazione, che sospinge e guida la scrittura, come la tramontana sospinge e guida la barca in N’zid, barca che ha il nome di Tramontane. La traccia è qualcosa che non viene perduto, ma resta per sempre, come un testo che può essere letto e riletto. L’immagine della scrittura come tracciato richiama l’idea del cammino delle carovane del deserto: la scrittura diventa il suo modo di camminare nel mondo. Tracce. Delle carovane. Della scia delle navi. Delle voci nel vento. Dell’inchiostro sul foglio. Mokeddem, attraverso i suoi libri, ripercorre la propria esistenza e quella dei suoi progenitori, per osservare, alla fine, il disegno che quelle tracce formano nel loro insieme e per trovare la propria identità. Grazie alla fluidità della scrittura, come a quella del mare, può modellare la propria identità. Mare e scrittura sono speculari nel loro non essere mai fissi. La loro fluidità costituisce il terzo spazio (Bhabha), lo spazio delle possibilità, della creazione, dell’invenzione di molteplici identità possibili. È lo spazio delle identità non fisse/fissate, bensì mobili. La scrittura e il mare sono uno spazio beyond: oltre le frontiere, rappresentano lo spazio transfrontaliero, dove gli individui meticci, come la protagonista di N’zid, irlandese-algerina, e gli individui marginali, stranieri, diversi, come Mokeddem, possono negoziare la propria identità tra le diverse culture che li abitano. Scrittura e mare sono accomunati anche dalla loro capacità di dare vita. L’acqua è tradizionalmente il simbolo del principio della vita, della nascita o rinascita, della capacità o possibilità di rigenerarsi, di purificarsi. Il titolo N’zid in arabo significa nasco, come l’autrice che rinasce ad ogni nuovo libro. N’zid ha anche un secondo significato, continuo, aggiungo: ogni nuovo libro che Mokeddem porta a termine aggiunge nuove tracce e un pezzo al disegno della sua vita. L’itinerario letterario e di esilio di Mokeddem, dalla lettura alla scrittura, passando per la professione medica e attraverso l’esperienza dell’alterità, lascia intravedere “une solide foi dans l’écriture comme processus transformationnel, comme transfert et restructuration d’une histoire donnée”. Scrivere significa, per Mokeddem, conquistare una pagina di vita, significa rinascere e continuare (i due significati di N’zid) il cammino dell’esistenza. Écrire, noircir le blanc cadavéreux du papier, c’est gagner une page de vie, c’est reprendre un empan de souffle à l’angoisse, c’est retrouver par-dessus le trouble et le désarroi, un pointillé d’espoir. L’écriture est le nomadisme de mon esprit sur le désert de ses manques, sur les pistes sans autre issue de la nostalgie, sur les traces d’une enfance que je n’ai jamais eue. CAPITOLO 3. LA SCUOLA, IL LUOGO COMUNE DI PARTENZA PER L’ESILIO. 3.1 La scuola. Il libro è la figura metonimica della scuola, del sapere e dell’istruzione. Per una donna come Mokeddem l’istruzione è molto importante poiché rappresenta l’unico mezzo per costruirsi una propria vita, secondo le proprie scelte, senza dover sottomettersi a nessuno. Malika Mokeddem definisce il sapere come il suo primo esilio: Le savoir pour moi est le premier exil. (TI, p. 158) L’istruzione è per lei, come per molte altre autrici maghrebine, il mezzo quasi unico attraverso cui le donne possono sperare di emanciparsi dagli uomini e dalla famiglia, per sperare di entrare un giorno nel mondo del lavoro e rendersi indipendenti. Già nel 1911, una giovane insegnante inglese di nome Dora Marsden, impegnata nelle rivendicazioni femministe del primo Novecento in Gran Bretagna, scriveva nella rivista da lei fondata The Freewoman che Women require two fundamental things: education and money; the first is available whenever the second is. The women who made opportunities for the first can organise labour which will make available the second. And with education and money, if there is anything worth while in women, it will find its way out. Dora Marsden, analizzando la situazione del suo tempo in Gran Bretagna, identificava l’istruzione e l’indipendenza economica come base di partenza per l’emancipazione delle donne e il loro potere di affermare se stesse come soggetti attivi nella società. Quello che valeva per le donne europee all’inizio del XX secolo vale anche per le donne del Nord Africa. Non è un caso che l’egiziano Qasìm Amin, il nome più importante nel mondo arabo per quanto riguarda gli albori della battaglia a favore dell’emancipazione femminile, fece dell’istruzione delle ragazze uno dei pilastri della sua lotta. Il merito di aver parlato per primo del diritto delle donne all’istruzione nel mondo arabo va all’intellettuale siriano Butrus al-Bustani che, nel 1849, tenne una serie di conferenze di carattere sociale, tra le quali una dal titolo L’istruzione delle donne. Egli sosteneva che l’istruzione femminile era l’elemento principale attraverso il quale la società araba poteva progredire e svilupparsi. Ma dopo di lui, fu Qasim Amin a fare grande scalpore nel mondo arabo per le sue rivendicazioni a favore dell’emancipazione femminile. Grazie al periodo passato in Francia, a Montpellier, dove studiò giurisprudenza, si rese conto che le donne arabe vivevano in una condizione di inferiorità rispetto alle donne in Occidente. Tornato in Egitto, nel 1899 pubblicò il suo famoso libro dal titolo La liberazione della donna, in cui metteva l’accento sull’importanza di far studiare le bambine e le ragazze per far progredire il mondo arabo. Nel libro l’autore invitava le donne a liberarsi dall’imposizione di portare il velo, che secondo lui non era esplicita in nessuna parte del Corano e non era altro che un ostacolo alla piena partecipazione delle donne alla vita attiva della nazione e quindi al suo progresso. Amin rivendicava l’emancipazione femminile a tutto tondo, collegava cioè il diritto all’istruzione con il diritto al lavoro remunerato delle donne, come pure rivendicava un giusto rapporto tra uomo e donna all’interno dell’istituzione del matrimonio. Come afferma Isabella Camera d’Afflitto, “l’importanza del suo ruolo sta nell’aver saputo trattare la questione femminile a partire dalla sari’ah”, cioè mostrando che le rivendicazioni per l’emancipazione femminile non erano contro la legge coranica, ma anzi nel pieno rispetto della religione islamica. Riagganciando la libertà delle donne ai principi e ai valori della società araba, Amin sosteneva la necessità che l’emancipazione femminile nel mondo arabo dovesse assumere caratteri propri e non dovesse semplicemente essere un’emulazione degli europei, che avevano esagerato liberalizzando troppo i costumi delle donne. In seguito, un altro intellettuale arabo, il tunisino al-Tahir a-Haddad (1899-1935) riprese gli stessi temi dell’emancipazione femminile e propose riforme la cui eco raggiunse presto tutto il Maghreb. Grazie ai dibattiti sulla questione dell’emancipazione femminile, soprattutto in Egitto, Siria e Libano le donne cominciarono a crearsi un proprio spazio nella società, nella cultura e nel giornalismo, attraverso riunioni in salotti femminili in cui si discuteva di letteratura e cultura, circoli di letterate e la pubblicazione di riviste femministe e di libri. In Egitto con il passare del tempo, le donne riuscirono anche a farsi largo nella sfera politica e ad avere all’interno dei partiti la sezione femminile (il primo nel 1919). Nello stesso anno in cui Marsden cominciava la pubblicazione di The Freewoman, il 1911, in Egitto un’altra donna, Bahitat alBadiyat, pubblicava un libro intitolato Le donne che raccoglieva tutti i suoi articoli. Bahitat al-Badiyat è la figura che, al pari di Qasim Amin, gettò le basi dell’emancipazione delle donne in Egitto e nel mondo arabo. Il nodo centrale del suo impegno fu l’istruzione. L’istruzione delle bambine e delle ragazze è fondamentale per le conseguenze sulla struttura sociale e per le rappresentazioni dei ruoli di genere. In Algeria l’istruzione per le bambine cominciò a diffondersi negli anni Quaranta del XX secolo, si intensificò alla vigilia dell’indipendenza e subì un’ascesa dopo il 1962. In un saggio che fa parte di un’opera sull’Algeria e la questione linguistica nel paese, Omar Carlier afferma che, grazie all’istruzione di massa delle bambine, in meno di venti anni era stato rimesso in discussione il modello della differenza sessuale vecchio di mille anni, sostenuto da secoli di tradizioni e da precetti religiosi. Sebbene nel 1962 solo il dieci per cento di tutti i bambini in età scolare in Algeria avesse intrapreso il cammino verso le scuole francesi, e sebbene la maggior parte di questi fossero maschi, Malika Mokeddem fu una di loro, circostanza che l’autrice stessa definisce come un miracolo (TI, p. 125). Conquistarsi il diritto di andare a scuola non era infatti scontato. Era un atto di sfida alla società e ai valori precostituiti di questa. Soprattutto, per una figlia andare a scuola equivaleva ad essere sempre più indipendente dalla famiglia e sempre meno controllabile dal padre nei suoi movimenti. Ancora peggio se, per andare a scuola, ci si doveva spostare dal villaggio alla città, che rappresentava un luogo pubblico per eccellenza, in cui la ragazza poteva essere vista da sconosciuti. Mokeddem racconta il momento in cui ha portato al padre i documenti da firmare per potersi iscrivere al liceo. Il padre, che rappresenta l’autorità familiare, ha una reazione di rabbia, perché il gesto della figlia viene in un primo momento vissuto come sfida alla sua autorità paterna: […] pris de rage, mon père a roulé les feuillets en boule, les a jeté à l’autre bout de la pièce: « Il est hors de question que tu puisse passer la journée loin de ma surveillance ! ». (TI, p. 118) È grazie all’aiuto di una straniera, una francese, come sottolinea Mokeddem, che è riuscita a vincere la sua battaglia. Si tratta di “une bataille sans nom” (TI, p. 117) perché è una battaglia di cui non si era ancora mai parlato, nuova, rivoluzionaria, ma nascosta, di cui la società sembrava tacere l’urgenza. È possibile combattere e vincere una simile battaglia solo grazie all’aiuto da fuori: è la direttrice del liceo della città vicina che, venuta a conoscenza della reazione di Mohammed Mokeddem, il padre di Malika, si reca nella sua casa per parlare e cercare di convincerlo. Ci riesce facendo leva sui sentimenti nazionalistici del padre, che sosteneva la guerra dell’Algeria contro la Francia. La donna, straniera, istruita e che condivide con il padre di Mokeddem l’idea di un’Algeria libera ed indipendente, sottolinea la stretta relazione tra la possibilità di un futuro per l’Algeria e il progresso sociale del suo popolo, che sta nell’istruzione delle future generazioni. La direttrice non fa un discorso di genere, non pone in evidenza le donne, ma semplicemente la necessità per tutto il popolo di istruirsi per poter dare al paese una schiera “d’enseignants, de médecins, d’ingénieurs” (TI, p. 118) e soprattutto di lottare contro “les mentalités rétrogrades, l’obscurantisme” (TI, p. 118). In questo episodio emerge la figura della straniera, la francese, a testimonianza dell’idea che, per uscire dalla propria condizione di arretratezza, l’Algeria avesse bisogno dell’elemento esterno. D’altra parte, con la scelta di continuare gli studi, Mokeddem lancia un segnale inequivocabile: un futuro alternativo per le donne algerine, oltre al “péril du mariage” (TI, p. 119), sta nell’avvicinarsi alla Francia e ai suoi valori. La Francia e la lingua francese sono elementi fondamentali che caratterizzeranno la vita e l’esilio, per Mokeddem come pure per le altre scrittrici. L’avvicinamento e l’ammirazione per il mondo francese, la sua cultura e la sua lingua comincia dagli anni della scuola. Vissuta con gioia, la scuola è per lei lo strumento per sottrarsi al controllo della sua famiglia e della società algerina e diventare pian piano una donna forte ed indipendente, che può decidere da sola della sua vita. E’ la strada verso la libertà: Le collège dans la ville d’à coté, c’est la journée entière hors de la maison, loin de toute la famille. Ma délivrance. Je suis la seule fille du village à y aller. Nous ne sommes que quatre filles du secondaire pour toute la région. Les trois autres se marient rapidement. Je demeure seule parmi plus de quarante-cinq garçons. Cette exception illustre combien cet acquis est fragile. (TI, p. 118) La frequenza della scuola è un cammino duro, conquistato giorno per giorno con sacrifici e con alti prezzi da pagare. Grazie all’opportunità offertale dai professori del liceo, ottiene il suo primo lavoro e i suoi primi stipendi in qualità di controllore delle ragazze. Lo stipendio non lo tiene per sé, ma lo consegna ogni mese al padre. Attraverso questo gesto, Mokeddem adulta sente di aver acquistato la propria libertà dalla famiglia pagandola stipendio dopo stipendio: come gli schiavi, Mokeddem sente di essersi guadagnata la libertà: Salaire après salaire, j’ai acheté ma liberté. Comme une esclave. Ma liberté et ma solitude. Les deux vont ensemble. Pour moi, elles ont grandi ensemble dans cet exil magnifique, le savoir. (TI, p. 158) Il sapere è l’unico luogo in cui nessuno dei suoi familiari può entrare. I genitori e la nonna, difatti, non sono andati a scuola perciò non possono decifrare i segni stampati sulle pagine. Mokeddem non solo è consapevole di fare qualcosa di importante per il proprio avvenire, ma sa di poter essere di esempio alle molte altre ragazze algerine che verranno dopo di lei. Con un chiaro richiamo al Flaubert che asserisce “Mme Bovary, c’est moi!”, Mokeddem scrive “Ce lycée, c’est moi”, identificandosi completamente nella scuola e nel sapere che questa rappresenta: « Ce lycée, c’est moi. C’est l’avenir que je m’y prépare. […] Moi, j’ouvre la voie aux générations futures des filles du désert ». On se blinde comme on peut dans une société tout en canines aux abois. Et l’apatride n’en est plus à une contradiction près. (TI, p. 139) La scuola e la lingua francese, sul suolo algerino, sono già esilio, e preparano l’esilio geografico di Mokeddem, il suo abbandono della patria. A differenza di altre scrittrici algerine, come Assia Djebar o Leila Sebbar, che hanno la fortuna di nascere e crescere con genitori che credono profondamente nell’importanza dell’istruzione delle bambine e dell’apprendimento della lingua francese, per Mokeddem la scuola è una vittoria che conquista a fatica e questo la differenzia dalle sue colleghe al liceo: elles, elles n’ont pas eu à batailler pour être là. Issues de milieux moins défavorisés, les résolutions des parents ont, ici, devancé leurs aspirations. (TI, p. 135) Nel Maghreb, come nel mondo islamico in generale, l’istruzione racchiude il seme di una rivoluzione ancora più sottile. La scuola ha il potere di far conquistare alle donne la libertà di movimento, fattore molto importante per la società nord-africana in cui una delle questioni fondamentali che concernono il genere femminile è proprio quello della restrizione delle libertà personali, il movimento fisico nei luoghi pubblici. L’atto di andare a scuola assicura la possibilità per una bambina di uscire di casa, camminare sulla stessa strada dei bambini, dei ragazzi e degli uomini. Malika Mokeddem ribadisce l’importanza di questo aspetto in varie opere, tra le quali il romanzo L’interdite. In una scena, la bambina di nome Dalila, che vive con la famiglia a Tammar, un piccolo villaggio con costruzioni in pietra nel deserto algerino, discute con la protagonista del romanzo, Sultana, medico che lavora in Francia e che ha scelto l’esilio, come Mokeddem, per sfuggire alle condizioni insopportabili per le donne in Algeria. La discussione verte su vari aspetti delle società algerina e francese, per la curiosità della piccola di sapere come si vive dall’altra parte del Mediterraneo. Se da una parte Sultana è la stessa Mokeddem, Dalila, con le sue silenziose ribellioni alle ingiustizie della società e alle angherie dei fratelli più grandi, e con il suo amore per la solitudine e la forza che la caratterizza, sembra rappresentare l’autrice stessa da bambina e tutte le bambine algerine con la voglia di emanciparsi. Dalila esclama: Tu as personne qui veut te marier bessif et t’empêcher d’étudier et de marcher et trouver l’espace que tu veux. Un po’ prima, a proposito della sorella Samia, Dalila riferisce che “Samia, elle veut seulement étudier et marcher dans les rues quand elle veut et être tranquille”. Abilmente, queste brevi esclamazioni tessono insieme l’opportunità di studiare con la possibilità di camminare liberamente e di scegliere altrettanto liberamente il percorso da seguire per realizzare le proprie inclinazioni, i propri sogni e trovare il proprio spazio nel mondo. Il sapere per Mokeddem, come pure per altre scrittrici maghrebine, è legato all’apprendere la lingua francese. Non solo queste ragazze vanno a scuola e imparano a leggere e a scrivere, ma imparano a farlo in francese. Come se da sola, la propria lingua e la propria cultura non fosse in grado di garantire l’emancipazione delle donne, come se all’arabo mancassero le parole per tracciare questo percorso. L’istruzione dona alle donne le capacità di prendere coscienza della propria condizione e delle proprie capacità e, una volta ottenuta questa, di avere la forza di re-impossessarsi del proprio corpo e dei movimenti di questo nello spazio. Attraverso l’istruzione, le donne riescono a riprendersi il diritto di decidere su se stesse e sul proprio corpo e a riprendere possesso dello spazio su cui hanno diritto come esseri umani. La questione del movimento legato al corpo femminile è fondamentale nel pensiero e nell’opera di un’altra scrittrice algerina, Assia Djebar. Scrittrice e regista nata nel 1936 a Cherchell, Assia Djebar ora vive tra Francia e Stati Uniti. Nel 2005 è stata nominata membro dell’Academie Française, la più importante associazione di intellettuali francesi. Sostenitrice dell’emancipazione femminile nel mondo islamico, autrice di numerosi romanzi, racconti e poesie e produttrice di vari film, Djebar sottolinea lo stretto rapporto tra lo studio, in particolare lo studio della lingua francese, e l’atto di uscire fuori, di camminare liberamente per la strada. “Solo il cammino contava”: è il cammino, il movimento l’atto simbolo della libertà del corpo della donna. Il y eut d’abord ma sortie au-dehors; le scandale de mon age nubile, la mobilité de mon corps de femme. Sans me rendre compte alors à quel point ma voix avait à se tasser, à se terrer, parce qu’ensoleillée. Solitude du départ. Sortie du harem, au début des années cinquante – pour les centaines, ou les quelques milliers de Maghrébines comme moi – grâce à l’étude di français considéré comme chance. « Elle sort, disait la mère de sa fille, heureuse ou frileuse de cette chance orpheline, elle sort parce qu’elle lit! » C'est-à-dire, en traduisant de l’arabe dialectal, qu’elle « étudie ». Comme si le français des autres devenait stèle immenses profilées à l’horizon, la marche du corps étant dirigée vers ce but. Comptait la marche seule : un trajet individuel dans le silence concerté. Come per Malika Mokeddem, anche per Assia Djebar, tutto ha inizio dal primo giorno di scuola. Il suo romanzo L’Amour, la fantasia si apre con la descrizione del primo giorno di scuola, quando lei e suo padre, che la tiene per mano, si avviano insieme verso l’istituto francese. Fillette arabe allant pour la première fois à l’école, un matin d’automne, main dans la main du père. Anna Rocca, analizzando la relazione padre-figlia nella scrittura di Djebar, sottolinea come questa immagine sia “innovatrice, de complicité” e contrasti “avec le regard des voisins du village qui prédit la ranger que représente une femme qui écrit”. Conducendo per mano la bambina alla scuola francese, il padre era consapevole di marciare controcorrente, di scontrarsi con le convenzioni di una società per la quale mantenere le donne nell’ignoranza e nell’analfabetismo era sinonimo di tenere metà della popolazione sotto stretta sorveglianza, evitando problemi e ribellioni. Villes ou villages aux rouelles blanches, aux maisons aveugles. Dès le premier jour où une fillette « sort » pour apprendre l’alphabet, les voisins prennent le regard matois de ceux qui s’apitoient, dix ou quinze ans à l’avance : sur le père audacieux, sur le frère inconséquent. Le malheur fondra immanquablement sur eux. Toute vierge savante saura écrire, écrira à coup sûr « la » lettre. […] Voilez le corps de la fille nubile. Rendez-la invisible. Transformez-la en être plus aveugle que l’aveugle, tuez en elle tout souvenir du dehors. Si elle sait écrire ? Le geôlier d’un corps sans mots – et le mots écrits son mobiles – peut finir, lui, par dormir tranquille : il lui suffira de supprimer les fenêtres, de canetage l’unique portail, d’élever jusqu’au ciel un mur orbe. Si la jouvencelle écrit ? Sa voix, en dépit du silence, circule. Un chiffon froissé. […] L’écrit s’envolera par le patio, sera lancé d’une terrasse. (AF, pp. 11-12) Djebar abilmente intreccia, nel quadro che dipinge del suo primo giorno di scuola, gli sguardi, i movimenti, i gesti e pensieri dei diversi attori sulla scena. Tutto intorno vi sono gli sguardi, invisibili (“maisons aveugles”) eppure troppo presenti, dei vicini, che sembrano lanciare i loro malauguri da dietro le finestre. Lo sdegno e i timori dei vicini, testimoni della prima sortita della bambina che si incammina verso l’istruzione, sono causati dalla concezione che per una donna imparare sia sinonimo di una vita sfortunata, di pericoli, e soprattutto che quella bambina possa crescere con idee strampalate, strane, pericolose per il mantenimento dello status quo della società. Il padre cammina diritto e fiero per la sua strada, non curante o forse fin troppo deciso a contestare con la sua scelta la tradizione che vuole che ragazze rimangano al proprio posto nel gineceo: […] je marche, fillette, au dehors, main dans la mains du père. Soudain, une réticence, un scrupule me taraude : mon ‘devoir ’ n’est-il pas de rester ‘en arrière’, dans le gynécée, avec mes semblables ? Adolescente ensuite, ivre quasiment de sentir la lumière sur ma peau, sur mon corps mobile, un doute se lève en moi : ‘Pourquoi moi ? Pourquoi à moi seul, dans la tribu, cette chance ? (AF, p. 239) La risposta alla domanda della piccola Djebar la dà lei stessa, attraverso la descrizione del padre. Questa occasione è toccata a lei e non ad altre, perché suo padre è diverso dagli altri padri. Lui è istitutore alla scuola francese, non solo, come dirà in Vaste est la prison, è “instituteur indigène” per i bambini indigeni, ai quali insegna la lingua e la cultura francese. Celui-ci, un fez sur la tête, la silhouette haute et droite dans son costume européen, porte un cartable, il est instituteur à l’école française. Fillette arabe dans un village du Sahel algérien. (AF, pp. 11-12) Anche il suo aspetto, vestito con un completo alla moda europea, lascia trasparire la sua missione di istruire i bambini algerini secondo il modello francese e in francese. Assia Djebar è stata fortunata, è lei stessa a riconoscerlo, per aver avuto un padre che, grazie alla sua modernità, ha compreso l’importanza di assicurare l’istruzione alla propria figlia e, così facendo, l’ha sottratta al destino di una vita di clausura. L’istruzione e la lingua francese per Djebar sono dunque un dono del padre, come lo è stato il suo esempio di camminare diritto sulla strada a dare sicurezza alla figlia. La lingua e la scrittura che ne conseguirà sono doni che il padre ha lasciato, come preziosa eredità, alla figlia. Il gesto paterno di tenere la “fillette arabe” per mano è dunque un indicare una strada personale da percorrere per tutta la vita. 3.2 La strada, luogo di aggressioni. La strada, però, è il luogo in cui le donne e i loro corpi sono esposti agli sguardi degli uomini. Sebbene accompagnata dalla figura maschile per eccellenza, il padre, percepiamo nella descrizione del primo giorno di scuola che comunque quegli sguardi esistono, quelle voci continuano a lanciare le loro offese e le loro critiche. Sono sguardi che feriscono, che incutono timore e oltraggiano. La strada è il luogo dell’oltraggio alle donne che sfidano le regole e le tradizioni comunemente accettate. Andare a scuola equivale, infatti, a voler sfidare le tradizioni che vogliono la donna analfabeta e rinchiusa in casa ad occuparsi delle faccende domestiche e della cura dei figli. Andare a scuola equivale a camminare senza il velo, a svelarsi. Andare a scuola per imparare il francese è una sfida ancora più grave, perché indica la volontà di distanziarsi, di “modernizzarsi”. Se una bambina accompagnata dal padre è in un certo senso difesa, una bambina che cammina per la strada sola per andare a scuola diventa sicuramente oggetto e bersaglio di oltraggi da parte dai maschi. Lo sguardo degli uomini arabi sui corpi delle donne è insopportabile, pesante, come denunciano molte scrittrici nelle loro opere. Samia, elle dit ça. Elle dit, ici les gens regardent pas. Ils zyeutent. Ils ont leurs yeux collés sur ta peau, collés sur toi jusqu’au sang, comme des sangsues, comme des sauterelles, partout sur toi, même sous tes habits et même, ça fait des boules dans ta poitrine. Ça te fait tromper les pieds pour te faire tomber. La strada è il primo luogo di assalto e oltraggio alle donne, oltraggio che parte dallo sguardo, ma che si fa poi gesto, voce, insulto, fino a prendere a volte anche la forma di una violenza fisica. Sultana, la protagonista del L’interdite, al ritorno in Algeria dopo anni di esilio, ritrova negli uomini gli stessi sguardi pesanti, gli stessi gesti e le stesse abitudini di quando era partita: Je regarde la rue, effarée. Elle grouille encore plus que dans mes cauchemars. Elle inflige, sans vergogne, son masculin pluriel et son apartheid féminin. Elle est grosse de toutes les frustrations, travaillée par toutes les folies, souillée dans sa laideur par un soleil blanc de rage, elle exhibe ses vergetures, ses rides, et barbote dans les égouts avec tous ses marmots. […] Je n’ai pas oublié que les garçons de mon pays avaient une enfance malade, gangrenée. Je n’ai pas oublié leurs voix claires qui ne tintent que d’obscénités. Je n’ai pas oublié que, dès leur plus jeune age, l’autre sexe est déjà un fantôme dans leurs envies, une menace confuse. Je n’ai pas oublié leurs yeux séraphiques, quand leur bouche en cœur débite les pires insanités. Je n’ai pas oublié qu’ils rouent de coups les chiens, qu’ils jettent la pierre et l’injure aux filles et aux femmes qui passent. Je n’ai pas oublié qu’ils agressent, faute d’avoir appris la caresse, fut-elle celle du regard, faute d’avoir appris à aimer. Anche un’altra scrittrice algerina ci parla della strada come il luogo delle aggressioni attuate attraverso gli sguardi e gli insulti. Si tratta di Leïla Sebbar, nata in un villaggio algerino da padre algerino e madre francese della Dordogna, e residente in Francia da molti anni. In un’autobiografia dell’infanzia in Algeria, dal titolo Je ne parle pas la langue de mon père, Sebbar racconta dei ripetuti episodi di aggressioni verbali subite da parte dei ragazzini arabi nei confronti suoi e delle sue due sorelle allorché si recavano a scuola, vestite con mini gonne all’ultima grido in Europa i cui modelli la madre faceva giungere da Parigi. Sebbar adulta si domanda se il padre, istitutore alla scuola francese del villaggio (come il padre di Djebar) e che non ha mai insegnato alle figlie la lingua araba, si era mai reso conto degli affronti che subivano quotidianamente le figlie; se lui come uomo si era mai reso conto che l’Algeria non è un luogo dove si ha rispetto per le bambine e le donne. Mon père a-t-il jamais su qu’on insultait ses filles, depuis le premier quartier de l’enfance, à Eugène-Étienne-Hennaya près de Tlemcen, jusqu’au Clos-Salembier, le quartier des « Arabes », presque un bidonville, le repaire des « terroristes » contre la France et, plus tard, celui des jeunes voyous désœuvrés c contre la nomenklatura algérienne, sa police et son armée, acharnées à tirer sur les émeutiers dans les rues de la capitale, sur ordre de la présidence… Mon père n’a pas su que des garçons injuriaient ses filles, ou le savait-il, mais il ne pouvait garder ses filles séquestrées, comme d’autres pères qui leur avaient interdit l’école, les écoles, coraniques et françaises, parce qu’elles auraient côtoyé des garçons, et le chef de famille lui-même aurait contrevenu aux règles de la partition des sexes, les écoles n’étaient pas mixtes, mais le chemin de l’écoles était le même, la tradition n’avait pas tracé la rue féminine séparée de la rue masculine jusqu’aux bâtiments scolaires, les filles, même si des frères les accompagnaient, étaient en danger et elles mettraient en danger l’honneur de la famille… La strada in Algeria è dunque il luogo dell’affronto, dell’aggressione, degli insulti rivolti alle donne, sia per coloro che conoscono l’arabo, sia per coloro che non lo parlano e sono per questo riconosciute come diverse, per avere magari un genitore proveniente dall’estero, in particolare dall’Europa. Mokeddem e Djebar comprendono gli insulti, comprendono i significati degli sguardi e dei gesti. Leila Sebbar, come pure Hélène Cixous, non comprendono le parole che vengono loro rivolte dai ragazzi per la strada, ma possono percepirne il significato profondo. La strada diventa così quel luogo comune in cui le scritture delle donne maghrebine si incontrano per articolare insieme la loro ribellione, per rivendicare il loro diritto a camminare liberamente per la strada senza timore di essere offese, oltraggiate, con parole, sguardi o gesti. È il luogo dal quale sono escluse perché non possono esservi liberamente, senza subire oltraggi e attacchi. CAPITOLO 4. L’ESILIO NELLA SCRITTURA. Nella seconda parte di questo lavoro, intitolata “Scrivere l’esilio”, ho introdotto la figura di Shahrazade, benché la mitica narratrice non si cimentasse nella scrittura, ma nel racconto orale. Ciò non toglie che Shahrazade rimanga la narratrice di riferimento, colei che racconta le storie, lette ascoltate, comunque apprese da altri, intessendole in un discorso personale. La sua abilità sta nel dare organizzazione alla grande quantità di racconti e nello scegliere abilmente le parole e le interruzioni al momento giusto. Non solo, ma Shahrazade mostra di possedere una cultura eccezionale, di aver letto e studiato molto. La sua poderosa memoria, inoltre, le mette a disposizione storie, personaggi e nozioni nei campi più disparati. Perché questa scelta di Shahrazade come immagine rappresentativa di donne che scrivono le proprie storie nel XX e nel XXI secolo? La risposta è proprio la connessione tra Shahrazade e la cultura orale di cui si fa trasmettitrice. La fonte della narrazione di Shahrazade, come viene messo in evidenza all’inizio delle Mille e una notte, è esattamente la grande quantità di storie di cui era ricca la cultura popolare. Le scrittrici raccolte in questo lavoro hanno questo in comune con Shahrazade: la loro scrittura trae origine dall’oralità, dalle narrazioni delle storie popolari ascoltate da bambine dalla bocca di nonne, madri e zie. Sono, queste, voci di donne che riempiono le loro teste, come scrive più volte Assia Djebar, che proprio a questo vero assedio di voci dedica un’intera raccolta di saggi: Ces voix qui m’assiègent… en marge de ma francophonie. Oralità e scrittura sono legate, ci fanno capire queste scrittrici, la seconda non esisterebbe senza la prima. L’oralità si ritrova nella descrizione delle scene sulla terrazza di un harem, dove si ritrovano le donne e i bambini per ascoltare le storie ed impersonarle attraverso la recita teatrale. E’ di questo che ci racconta Fatima Mernissi in Dreams of Trespass. E’ ancora a questo narrare che si riferisce Malika Mokeddem, quando rievoca le storie della nonna. La cultura popolare diventa sapere attraverso gli insegnamenti che le storie offrono. Questo sapere, poi, si accresce grazie all’istruzione istituzionalizzata nelle scuole, dove si legge, si studia e si organizzano le conoscenze. Ci sono voluti secoli prima che le donne nel mondo arabo imparassero a prendere in mano una penna. Quanto precede la scrittura lo possedevano già: l’immaginazione e la fantasia. Assia Djebar si chiede cosa sarebbe successo se Shahrazade avesse scritto le sue storie, anziché raccontarle. Peut-être n’aurait-elle eu besoin que d’une nuit, et pas de mille, pour se libérer? (CVQA, p. 77) 4.1 Perché scrivere ? La scrittura è lo strumento che una donna ha per liberarsi. Sembrerebbe questa la logica conseguenza dell’affermazione di Assia Djebar a proposito di Shahrazade e del suo ipotetico romanzo. Per Assia Djebar, la donna nell’islam è “exilée de l’écriture” (CVQA, p. 76). “Dès les premier temps de l’islam, on a peu à peu expulsé les femmes de l’écriture comme pouvoir” (CVQA, pp. 75-76). Sono state private della possibilità di scrivere, cioè dello spazio pubblico che la scrittura rappresenta. Eppure erano le donne le “détentrices privilegiées de l’écriture” (CVQA, p. 75) nella cultura berbera che aveva preceduto l’islamizzazione del Nord-Africa. È alle donne che si deve “une des plus anciennes cultures écrites […], l’alphabet « tifinagh » des Tuaregs” (CVQA, p. 75). Quindi, il compito delle donne consiste nel recuperare quel passato che le aveva viste attive partecipanti della vita sociale. Pourquoi écrire? J’écris contre la mort, j’écris contre l’oubli… J’écris dans l’espoir (dérisoire) de laisser une trace, une ombre, une griffure sur un sable mouvant, dans la poussière qui vole, dans le Sahara qui remonte… J’écris parce que l’enfermement des femmes, dans sa nouvelle manière 1980 (ou 90, ou 2000) est une mort lente parce que la non-solidarité (présente) avec les femmes du monde arabe se fait dos tourné à un passé peut-être de silence, mais certainement pas d’entr’aide… J’écris parce que je ne peux pas faire autrement, parce que la gratuité de cet acte, parce que l’insolence, la dissidence de cette affirmation me deviennent de plus en plus nécessaires. J’écris à force de me taire. J’écris au bout ou en continuation de mon silence. Nelle prime due righe di questa citazione è racchiusa la duplice essenza della scrittura per Assia Djebar. Scrivere è, per lei, in primo luogo un atto di ribellione: scrive contro la morte, l’oblio, il silenzio. In secondo luogo, scrivere è movimento: è lasciare una traccia dietro di sé, è muovere la mano che tiene la penna e corre sul foglio. La mano che percorre le righe della pagina compie un atto fisico, lascia segni, incide il foglio, al pari dell’immagine evocata da Derrida quando parla della “trace coupante”. Qui Djebar disegna con le parole un’immagine che, come in una dissolvenza filmica, passa dal bianco della superficie del foglio al giallo sabbia della distesa del deserto. Nello stesso tempo, la mano che si muove sul foglio diventa corpo della donna che cammina, sola, attraverso il deserto. “Écrire est une route à ouvrir” (CVQA, pp. 11 e 17) è la frase che Djebar ha inserito, all’apertura e alla fine del poema “Entre corps et voix” che introduce il volume Ces voix qui m’assiègent. Si scrive con il corpo e, scrivendo, ci si espone agli altri. Attraverso la scrittura, la donna porta se stessa sulla scena pubblica, dà voce alla propria condizione, ai propri pensieri e ai propri sentimenti. Scrivere vuol dire, dunque, diventare un soggetto reale nella società, con esigenze e bisogni propri. È un atto insolente e dissidente (“l’insolence, la dissidence de cette affirmation”) perché va contro la condizione assegnata tradizionalmente alle donne, cioè tale da non poter assumere il controllo della propria vita, da non avere l’opportunità di conoscere e, dunque, rivendicare i propri diritti e, soprattutto, non prendere coscienza di sé come individualità distinte dal gruppo, dalla tribù. Oui, la femme est exilée le plus souvent de l’écriture : pour ne pas s’en servir, elle, comme individu, pour ne pas connaître ses droits dans la cité, pour ne pas redevenir mobile […] (CVQA, p. 76) Le donne sono state allontanate dai centri di potere degli uomini, “exilées de l’écriture” (CVQA, p. 76). Da questa definizione segue che, se una donna prende la parola e comincia a scrivere, lo fa dalla posizione/condizione di esiliata. ‘In esilio’ vuol dire che le donne nel mondo arabo-musulmano si trovano all’esterno, bandite da un certo territorio della cultura. Volendo rappresentare la loro posizione attraverso il modello spaziale della cultura proposto da Lotman, le donne si troverebbero in punti non definiti, ma comunque esterni all’area che circoscrive lo spazio della cultura degli uomini. Da questa posizione le donne che scrivono producono testi che vanno a formare uno spazio culturale alternativo. Tale spazio è quello di colei che è stata esiliata dalla cultura, ma allo stesso tempo costituisce una condizione per scrivere. “Car il me faut vraiment de l’espace pour écrire”, afferma Assia Djebar. Esilii sono le fughe, i silenzi, le assenze, le reticenze: mes absences, mes silences, mes réticences, mes refus anciens ou récents que je ne comprend pas toujours, du moins sur le moment; j’ajouterais même mes fuites (car il me faut vraiment de l’espace pour écrire): je dirais donc plutôt mes exils! Si è detto che la scrittura di Assia Djebar è “une écriture ‘contre’”. La parola “contre”, a sua volta, individua due movimenti della scrittura. Da una parte descrive l’opposizione, la lotta della parola contro l’oblio, il silenzio, la repressione e la segregazione, l’invisibilità delle donne nella società e nella cultura. La scrittura è per la donna l’arma con cui lotta contro la segregazione all’interno della casa e della famiglia, contro il ruolo esclusivo di madre e moglie, assegnatole quale fosse l’unica modalità di realizzazione del suo essere . Le danger gît là : la femme qui peut écrire (on écrit d’abord pour soi, car l’écriture amène le dialogue avec soi) cette femme risque d’expérimenter un pouvoir étrange, le pouvoir d’être femme autrement que par l’enfantement maternel. (CVQA, p. 76) “Contre” descrive una scrittura che metaforicamente batte contro i muri e le porte sbarrate degli harem; contro la casa che spesso nel Maghreb e in MedioOriente rappresenta è una prigione mascherata. Ma è una scrittura che non nega la voce agli uomini, oltre che alle donne. Dà voce a quegli uomini che condividono con le loro compagne, mogli, figlie e parenti il destino di esuli. È una scrittura che parla anche di profughi e di esuli che, prigionieri del passato, intrappolati in una situazione da cui non riescono a tirarsi fuori, urtano contro muri invisibili: “Ci sono quelli che dimenticano o che, semplicemente, dormono, e poi ci sono quelli che continuano a urtare contro i muri del passato […]”. “Sono loro i veri esuli”. I muri del passato sono la guerra, che ha costretto molti algerini e algerine a lasciare la propria terra e vivere una vita da esiliati in Francia, spesso senza conoscerne la lingua. Ma i muri contro cui il vero esule o la vera esule sbatte sono anche i muri della tradizione, delle mentalità troppo strette. Gli esuli, uomini e donne insieme, costituiscono un’intera comunità che condivide la condizione di essere privata del potere politico, sociale, culturale. Protagonista di uno degli ultimi romanzi di Djebar, La Disparition de la langue française, è infatti un uomo algerino, Berkane, che rientra in patria dopo venti anni passati in esilio in Francia a causa della guerra e della situazione sociale del paese. Il secondo significato della parola ‘contre’ è quello che si ritrova nell’espressione francese ‘tout contre’, cioè vicino, a fianco. La scrittura di Assia Djebar si affianca ai corpi di tante donne che non hanno potuto esprimersi o mostrarsi, nel passato come nel presente. Si mette in ascolto delle voci di tante altre donne, dei loro racconti, dei loro lamenti, dei loro pianti e dei loro canti e cerca di liberare nello spazio pubblico coloro che hanno avuto esistenza solo nel segreto delle case, delle stanze o dei cuori. Le opere di Assia Djebar sono scritte “entre le cri et l’écrit: tel est le lieu”, afferma Mireille Calle-Gruber. La scrittura si origina dal silenzio, come dai ‘gridi’ delle donne: “L’amour, ses cris” (“s’écrit”)” (AF, p. 299), scrive (grida) Assia Djebar. E ancora: Certes, dans l’écrit, il y a aussi « les cris », le cri-magma de tous les cris : la douleur donc… (CVQA, p. 61) “Le cri” è un grido di dolore: la scrittura traduce in parole il dolore, quello del mutismo imposto dalla legge del silenzio e dell’invisibilità delle donne. Da una parte sta dunque il bisogno, l’urgenza di scrivere, “parce que je ne peux faire autrement” (CVQA, p. 63), dall’altra l’impossibilità di parlare, di lasciare una traccia scritta. Je peux résumer celle-ci rapidement : Ecrire pour moi se joue dans un rapport obscur entre le « devoir dire » et le « ne jamais pouvoir dire », ou disons, entre garder trace et affronter le loi de l’ « impossibilité de dire », le « devoir taire », le « taire absolument ». (CVQA, p. 65) 4.2 L’esilio nella lingua francese. “Entre cri et écrit”, “entre mot et écriture”, “entre corps et voix”. La ripetizione di queste espressioni dimostra che la scrittura di Djebar può esistere solo in questo luogo interstiziale, fra un’emozione o un sentimento e la sua espressione. A questa serie si aggiunge un secondo spazio interstiziale, quello che si apre tra le lingue, l’arabo e il francese: “l’entre-deux-langues et l’alphabet perdu” (CVQA, p. 30). Assia Djebar è una scrittrice ‘francofona’, cioè autrice di opere in lingua francese benché lei stessa provenga da una nazione diversa dalla Francia. Essere francofono significa “être à l’intérieur et à l’extérieur de la littérature française, être en dialogue avec elle”. Per Djebar, però, come per tutti gli scrittori e le scrittrici del Maghreb, la situazione linguistica è più complessa e non può essere sbrigativamente descritta dall’espressione “tra due lingue”. Gli scrittori e le scrittrici del Maghreb hanno per lo meno quattro lingue a loro disposizione per esprimersi. Innanzitutto l’arabo classico, la lingua del Corano e della religione. Seconda è la lingua francese, la lingua “dell’excolonizzatore”, la lingua ufficiale dell’amministrazione fino all’indipendenza, e la lingua che si apprendeva a scuola. La terza lingua del Maghreb è l’arabo dialettale, la lingua “che non si scrive o che ognuno può scrivere come crede, lingua viva e in movimento”. Vi è inoltre un quarto linguaggio, specificamente femminile, il linguaggio del corpo. In una terra e in una cultura in cui la parola è negata alle donne, “un linguaggio fatto di segni corporei e spaziali sostituisce il verbo. Linguaggio muto che si nutre dello spazio della segregazione, codice inespresso sotteso ai rapporti fra i sessi […]”. La scrittura di Assia Djebar si nutre di tutte queste quattro lingue che lei, donna, algerina e istruita nella lingua francese, ha a disposizione. L’arabo è per lei la “langue maternelle avec son lait, sa tendresse, mais aussi sa diglossie” (CVQA, p. 34.). L’arabo di cui parla Djebar però, non è l’arabo classico, che non ha mai imparato a padroneggiare come lingua di scrittura e di comunicazione. È piuttosto l’arabo dialettale, quello che si parla a casa, in famiglia, attraverso cui la madre culla e alleva il bambino o la bambina, quello in cui si comunica tra amici. Il francese è la “langue marâtre […], ou langue adverse pour dire l’adversité” (CVQA, p. 34). Arabo dialettale e francese per Djebar “s’entrelacent ou rivalisent, se font face ou s’accouplent mais sur fond de cette troisième – langue de la mémoire berbère immémoriale, langue non civiliste, non maitrisée, redevenue cavale sauvage…” (CVQA, p. 34). La terza lingua per Djebar è rappresentata dal berbero, l’antica lingua del Nord-Africa, prima che questa terra subisse l’arabizzazione e l’islamizzazione, con la conseguente imposizione della lingua araba. Echi berberi però sopravvivono nell’arabo dialettale, oltre che nella scrittura antica berbera. L’alfabeto tifinagh, l’alfabeto perduto, è stato dimenticato dalle popolazioni del Maghreb, eccetto che dai Tuareg (CVQA, p. 34), asserisce Djebar. La lingua berbera è anche uno scrigno che contiene […] son trésor à demi ébréché, de légendes, de contes, de mythes, de proverbes, d’une poésie dilapidée, dépensée de plus en plus dans les sables, ou la solitude, ou surtout dans le regard des femmes encore méprisées… (CVQA, p. 34) Poi c’è la quarta lingua, la lingua delle donne. Si tratta di una lingua Il s’agit d’une « langue des femmes » à usage parallèle, le plus souvent clandestine t occulte, par rapport à l’arabe ordinaire, celui de la communauté (pour ne pas dire la « langue des hommes »). (CVQA, p. 36) Djebar scrive con tutte queste lingue, linguaggi ed echi nella testa, queste voci di donne e degli antenati berberi che la assediano dai secoli passati. È grazie al suo lavoro come regista, che Djebar ha appreso, a poco a poco, ad avvicinarsi alle donne, ad ascoltare i loro racconti, in un arabo della città come quello delle montagne. Progressivamente, questo ascolto si è trasformato in poetica. Mon écoute d’alors […] m’introduisait peu à peu à un véritable art poétique […]. (CVQA, p. 38) Djebar ascolta storie in arabo ed echi berberi, ma scrive in francese. Il francese è l’unica lingua in cui sa e può esprimersi con la scrittura. È la lingua che ha appreso a scuola e l’unica che ha scritto, fin da bambina. Appreso alla scuola algerina, il suo è un “français grandi au milieu d’autres langues”, che ha accompagnato Djebar negli anni della formazione. Quella di Djebar è una francografia che si è sviluppata all’interno di un’arabo-fonia. La scrittura in francese è quindi scrittura in esilio dalla lingua materna, che non può essere scritta all’inizio, ma può essere recuperata più tardi attraverso un ulteriore ascolto: […] mon écriture en langue française est devenue une francophonie où graphie et oralité se répondent comme deux versants face à face. Comme si la (ou parfois les) langue maternelles perdue à l’écrit, dans un premier temps, revenait par un écho plus vibrant, multiplié, intensifié […]. (CVQA, p. 38) Il francese è lingua “mise à disposition” e non scelta inizialmente (CVQA, p. 28). Allo stesso modo, il ritmo e lo stile narrativo non sono scelti, bensì imposti dall’uso della lingua francese, che ha le sue proprie leggi ritmiche e musicali. Le voci dei personaggi dei romanzi, però, sono udite in arabo dialettale o in berbero. Les multiples voix qui m’assiègent – celles de mes personnages dans mes textes de fiction –, je les entends, pour la plupart, en arabe, en arabe dialectal, ou même en berbère que je comprends mal, mais dont la respiration rauque et le souffle m’habitent d’une façon immémoriale. (CVQA, p. 29) Scrivere in francese in Algeria, per Djebar si tramuta in uno sforzo continuo di tra-duzione (nel senso di trans-portare) le voci arabe e berbere in francese, “en trouver l’équivalence, sans les déformer” (CVQA, p. 29). Oui, ramener les voix non francophones – les gutturales, les ensauvagées, les insoumises – jusqu’à un texte français qui devient enfin mien. (CVQA, p. 29) È parere di Djebar che se gli scrittori e le scrittrici francofoni del Maghreb cercano di far trasparire nelle loro parole l’oralità araba il francese che ne risulta, benché perfetto dal punto di vista grammaticale, sarà “un français légèrement dévié, puisque entendu avec une oreille arabe ou berbère”, perché è scritto “tout contre un marmonnement multilingue” (CVQA, p. 29). È così che l’espressione “entre”, il ‘fra’ le lingue, l’in-between come direbbe Bhabha, diventa spazio: entre diventa antre (CVQA, p. 33), con un gioco fonico che la lingua francese permette, cioè antro, spazio che si allarga tra le varie lingue e permette la scrittura del dialogo, delle comunicazione tra queste. La lingua francese, comunque, resta una lingua straniera e come tale proviene da ‘fuori’, da uno spazio esterno al territorio dell’Algeria e allo spazio della lingua araba, esterno allo spazio della casa e della famiglia in cui si parla il dialetto arabo. L’atto di imparare a leggere e scrivere il francese si trasforma in un movimento verso l’esterno, ma anche in un movimento di rottura e di separazione dalla cultura algerina della segregazione femminile. È così che si comprende ancora più a fondo “le scandale” della “sortie eau-dehors” (CVQA, p. 69) di Assia Djebar e, con lei, di tutte le ragazze maghrebine che camminano per la strada e vanno a scuola: “Il y eut d’abord ma sortie au-dehors; le scandale de mon age nubile, la mobilité de mon corps de femme.” (CVQA, p. 69). “ « Elle sort », disait la mère de sa fille […] « elle sort parce qu’elle lit! »” (CVQA, p. 69). Il francese rappresenta così una lingua di libertà, che permette alla donna scrittrice di liberarsi, sia mentalmente che fisicamente, dalla stretta della tradizione. Ma nel Nord-Africa non solo le scrittrici ma anche molti scrittori hanno adottato il francese al posto dell’arabo, perché usare la lingua dell’altro rappresenta, tra l’altro, un mezzo di liberazione. Per le donne, scrive Assia Djebar, tramite la scrittura si libera anche il corpo. Per lei stessa scrivere è uno svelarsi un uscire e camminare per la strada, esponendosi ai raggi del sole per godere del suo calore. Perciò, afferma: “j’aspire à une écriture au-dehors, au soleil!” (CVQA, p. 68). Ma vie toute entière serait une lente circonférence, je bougerais lentement mais constamment, dans ma tête et dans mon corps […]. (CVQA, p. 67). Le ragioni per scegliere di scrivere in una lingua piuttosto che in un’altra possono essere le più disparate. Etel Adnan scrittrice, poeta e artista di origine libanese, nella breve autobiografia To Write in a Foreign Language, spiega che, alla domanda sul perché si scelga di non scrivere nella propria lingua non esiste una risposta singola e univoca: There are no answers to such questions. […] There are a growing number of writers who use an “international” language, like English, who use in fact another language than their own because of history, or because of exile, or because of personal taste. Anche Djebar prova insofferenza per una simile domanda, perché “si vous etes ainsi interpellée, c’est, bien sur, pour rappeler que vous venez d’ailleurs” (CVQA, p. 7). Per Djebar, il francese si è imposto nella sua scrittura come conseguenza della storia particolare del suo paese e della sua condizione di doppio esilio, cioè del suo essere donna esiliata dalla scrittura e algerina costretta a scrivere in francese. Interpretando le parole di Etel Adnan, si può dire che ogni lingua rappresenta un particolare destino. L’utilizzo della lingua francese – asserisce Djebar le apre la strada verso un destino di libertà, con la sua scrittura apre un cammino su cui possono avviarsi, con lei le altre donne, quelle di cui scrive, come quelle che la leggono. Pour quelle vérité… […] Dirais-je aujourd’hui que pour moi, écrire – Ecrire de la seule écriture qui me pousse, et M’habite, et me commande, écrire en français Mais pour inscrire tout de même voix Des aïeules et vérités inversées, renversées, Dans leurs jeux d’ombre et de réalité, Ce serait cela, écrire en francophonie, Sur les marges, A la frontière, au plus loin de soi-même, de nous, D’eux, là-bas, autrefois ennemis L’écriture double Les vérités doubles et se réfléchissant en contraire Ecrire en francophonie En francographie En francographie En soubresauts entre la langues des origines déchirées, dépenaillées, lambeaux de mémoire Et le français qui résiste, mon français qui, malgré moi, fait, en moi, le grand écart, Pour réparer, bien sûr, Pour renaître, hier et demain, Pour quelle vérité… CAPITOLO 5. “LIFE IS TRESPASSING”. FATIMA MERNISSI E L’ATTRAVERSAMENTO DEGLI HUDUD. “To live is to open closed doors. To live is to look outside. To live is to step out. Life is trespassing.” (Fatema Mernissi) 5.1 La donna dal vestito di piume. Per le donne scrittrici analizzate in questo lavoro, all’inizio dell’esilio c’è sempre una storia, un racconto o una fantasia che risale ai tempi dell’infanzia. In mancanza della possibilità di uscire, evadere fisicamente dalla propria condizione di semi-prigioniere nella “maison et prison” (CVQA, p. 89), come scrive Assia Djebar, le donne maghrebine si rifugiano nei racconti, nella narrazione di storie fantastiche, che narrano di donne e di uomini che si avventurano in terre lontane. “Entre les murs, malgré les murs, la langue de poésie ouvre passages inouïs”, scrive Mireille Calle-Gruber a proposito della scrittura di Djebar. “Le poète fait don de langue : aux lettrés, certes, et plus encore aux analphabèthes”. Attraverso le storie, i canti e le poesie nel mondo maghrebino e musulmano le donne si sottraggono agli ostacoli e ai limiti ad esse imposte nella realtà quotidiana e vagano per terre lontane, incontrando genti straniere. Si tratta spesso di storie e leggende appartenenti alla stessa tradizione popolare che ha prodotto le fantastiche storie delle Mille e una notte, e che collega passato e presente in un comune amore/bisogno di esplorare l’altrove e l’Altro, di immaginare mondi diversi. È parlando con gli stranieri che ci si apre sul mondo e si diventa intelligenti. Come Sinbad. Le storie, i racconti e le letture sono il mezzo per attraversare le frontiere, vere o immaginate, solcare orizzonti, e incontrare le genti del mondo. La lettura o l’ascolto di una storia equivale a viaggiare e conoscere lo straniero e l’estraneo, ad aprire la mente al diverso. “Viaggiare è il modo migliore per conoscere e accrescere la tua forza”, diceva Jasmina, mia nonna, che era illetterata e viveva in un harem, una tradizionale abitazione familiare dalle porte sbarrate che le donne non erano autorizzate ad aprire. Jasmina, la nonna materna di Mernissi, era una donna illetterata, ma molto saggia. La sua storia preferita, che più di tutte amava raccontare alla nipote, era quella della donna dal vestito di piume. La nonna era convinta che tutte le donne possedessero le ali e che facessero male a non usarle (HO, p. 8). Per la nonna […] la donna dovrebbe vivere come una nomade, sempre all’erta, pronta a migrare anche quando è amata, perché […] l’amore può fagocitarla e diventare la sua prigione. (HO, p. 9) 5.2 La casa. Nel romanzo autobiografico Dreams of Trespass Fatima Mernissi racconta la sua infanzia nel Marocco degli anni ‘40 del XX secolo, prima dell’indipendenza dalla Francia. L’autrice ripercorre i primi anni della sua vita, le sue prime scoperte e le esperienze vissute nell’harem di Fez, la casa in cui è nata. Descrive gli abitanti della casa, gli uomini, gli altri bambini e soprattutto molte donne, alcune delle quali emergono come figure forti e coraggiose, capaci di impartire preziosi insegnamenti a figli, figlie e nipoti attraverso i loro racconti e i loro esempi. L’harem della famiglia Mernissi è prima di tutto un luogo chiuso, squadrato, in cui l’architettura troppo regolare dà un senso di soffocamento. La prima cosa che percepiamo dalle parole dell’autrice sono i confini, le spesse mura, le pesanti porte e le squadrate e spigolose geometrie, vere e proprie barriere che non lasciano spazio alla libertà di movimento. Tutto il primo capitolo, come il testo in generale, è costruito sul tema delle barriere e delle frontiere, e di come fare per superarle. Car c’est bien de frontière qu’il est question, de seuils, de limites, mais aussi du passage – des passages de la navette qui noue fil autobiographique et fil historial. Questa affermazione di Mireille Calle-Gruber sintetizza il romanzo di Assia Djebar Vaste est la Prison, una prigione “si vaste […] qu’on ne saurait en sortir”. Ma le frontiere, le soglie, i limiti, come pure i passaggi attraverso e al di là di quelle sono temi ricorrenti nelle scritture delle donne maghrebine. La casa che imprigiona, la soglia agognata, le frontiere da oltrepassare diventano luoghi comuni in cui si ritrovano le scrittrici del Nord-Africa. Insieme alla narrazione e alla scrittura come luogo di esilio e insieme passaggio, porta che si apre verso spazi di libertà. è luogo comune nel senso attribuito all’espressione da Glissant. Mernissi, Djebar e Mokeddem, scrivono in una lingua altra e anche in un alfabeto diverso da quello della lingua araba. E’ “un alphabet” adottato “pour passer les frontières”, scrive Djebar, citando Dobzynski nell’epigrafe all’inizio della seconda parte di Vaste est la prison. Mernissi usa alternativamente per le sue opere l’inglese o il francese. Il suo romanzo Dreams of Traspass originariamente è in inglese, poi tradotto, o meglio riscritto, in francese. Come si comprende dal titolo dell’opera, per Fatima Mernissi vivere significa scardinare le porte chiuse, valicare la soglia e passare dall’altra parte. Significa guardare al di là dei muri, delle porte massicce, delle sbarre alla finestre. Guardare al di là, ma solo avendo visto e vissuto sulla propria pelle l’al-di-qua, avendo vissuto la chiusura, la privazione della libertà. Solo dal di dentro, dopo aver preso coscienza di tale privazione, una donna può riuscire a sviluppare in se stessa la forza di rompere le catene, distruggere i muri e farsi crescere le ali per volare via. Dreams of Trespass ci dà le chiavi di lettura della condizione delle donne arabe nella seconda metà del XX secolo in Marocco, una condizione determinata dalla separazione delle sfere di azione tra donne e uomini, che corrisponde alla separazione degli spazi destinati a ciascuno dei due gruppi sociali. L’opera racconta delle frontiere sacre dell’Islam, gli hudud, e dell’opposizione di ordine e caos. L’ordine, per l’Islam, è dato dal rispetto dei limiti stabiliti da tali frontiere sacre, che secondo la concezione tradizionale sono state tracciate da Dio e sono, per questo, invalicabili. Il mancato rispetto degli hudud genera caos, disordine ed ogni sorta di problemi. Dreams of Trespass è un testo che racconta l’architettura dell’harem, più precisamente, dei due harem che fanno parte dell’infanzia della piccola Fatema Mernissi: la casa paterna, a Fez, che è anche la casa dove abita con la sua famiglia, e l’harem dei nonni materni, in campagna. C’è una grande attenzione e una precisa descrizione dell’architettura della casa, che diventa metafora della società, delle possibilità e dei divieti, delle divisioni in gruppi sociali distinti e degli obblighi di ciascuno. Il testo comincia con il situare la nascita della piccola Fatima a Fez, nello spazio storico e culturale del Marocco del 1940. I was born in a harem in 1940 in Fez, a ninth-century Moroccan city some five thousand kilometres west of Mecca, and one thousand kilometres south of Madrid, one of the dangerous capitals of the Christians. The problems with the Christians start, said Father, as with women, when the hudud, or sacred frontier, is not respected. I was born in the midst of chaos, since neither Christians nor women accepted frontiers. (DT, p. 1) Già nelle prime righe dell’opera vediamo quattro spazi, uno incluso nell’altro come le matriosche russe: domestico, cittadino, nazionale e sovranazionale. Vi è, in primo luogo, lo spazio dell’harem, che è lo spazio familiare, domestico, contenuto nel secondo spazio, che è quello della città di Fez, a sua volta appartenente alla nazione marocchina (“Moroccan city”), inquadrata nell’area geopolitica sovranazionale. La nascita della piccola Fatima viene raccontata dalla prospettiva spaziale geopolitica e storica transnazionale, in un Marocco che nel 1940 si trova all’estremità del mondo arabo-musulmano, limitrofo alla contigua regione cristiana. L’autrice lega così la vicenda personale umana alle vicende pubbliche politiche a livello nazionale e sovranazionale. Il Marocco, e Fez in particolare, fanno parte dello spazio dell’Islam, ma si trovano alla sua periferia, cinque volte più vicino a Madrid che alla Mecca. Dall’altra parte c’è lo spazio cristiano, ossia l’Europa, che si trova poco a nord, rappresentata dagli spagnoli e, un po’ più lontano, dai francesi. Fez e il Marocco sono quindi alla frontiera tra i due mondi, in una borderland, una zona di confine dove i contatti sono più facili, gli scontri e, insieme, gli attraversamenti, più probabili. Dove, di conseguenza, le barriere, i limiti sono più fastidiosi, sentiti come ostacoli al movimento naturale. È per questo che in posti di confine come Fez, non appena una frontiera viene tracciata, subito nasce quasi spontaneo il desiderio di oltrepassarla. Suggestiva l’ironia che viene dall’accostamento e dalla similitudine tra i nemici cristiani e le donne. Guardando dalla prospettiva degli uomini musulmani, entrambi i gruppi danno problemi perché minacciano le frontiere proibite. La prospettiva di genere rappresenta un ulteriore piano spaziale che viene introdotto nell’incipit del romanzo. Si tratta di uno spazio mentale, in cui le donne vengono considerate appartenenti ad un altro gruppo sociale e per questo motivo devono essere relegate in spazi appositamente riservati per loro. Se i cristiani devono essere mantenuti fuori dai confini nazionali, le donne devono, al contrario, essere mantenute all’interno delle mura domestiche. La divisione dello spazio in base al genere attraversa tutto il testo, rispecchiata e insieme rappresentata nelle divisioni architettoniche dei luoghi. Il fatto che Mernissi racconti la propria nascita situandola nel bel mezzo del disordine socio-politico e culturale (“I was born in the midst of chaos”), segnala la sua enfasi sulla discrepanza fra il destino metastorico della bambina, già segnato dal luogo e dalla cultura in cui nasce, e il suo storico trovarsi coinvolta nelle vicende di ridefinizione dell’ordine socio-politico e culturale del Marocco, da cui sarà influenzata. Gli hudud sono ciò che non è permesso. Saper riconoscere il punto esatto in cui cominciano gli hudud fa parte dell’educazione dei piccoli, rispettarli equivale ad obbedire agli adulti. Gli hudud separano ciò che è permesso da ciò che non lo è: To be a Muslim was to respect the hudud. And for a child, to respect the hudud was to obey. […] The hudud was whatever the teacher forbade. (DT, p. 3) Allah ha creato ordine ed equilibrio tra i mondi, allargando la linea di demarcazione tra cristiani e musulmani e facendone uno spazio, che ha poi riempito di acqua per renderlo ancora più difficile da attraversare: When Allah created the earth, said Father, he separated men from women, and put a sea between Muslims and Christians for a reason. Harmony exists when each group respects the prescribed limits of the other; trespassing leads only to sorrow and unhappiness. (DT, p. 1) Il mare qui è lo spazio che divide, separa, e, dunque, che dà ordine, mentre continua il parallelismo tra due nemici degli uomini musulmani, i cristiani e le donne. Le frontiere cominciano dalla casa, dalla famiglia, e si espandono fino ad occupare la strada, la città, lo stato e le regioni sovranazionali. Una linea, invisibile ma molto palpabile, demarca, all’interno della casa, la divisione tra uomini e donne, spazi di azione legati al genere. Al di fuori della casa, la strada è quasi esclusivo dominio degli uomini. La divisione che esiste nella sfera privata viene riproposta dalla società anche nella divisione degli spazi esterni, cittadini, come ad esempio negli hammam, nei cinema, etc. Per le donne dell’harem di Fatema la sfida, comunque, comincia all’interno della casa, dal momento che è già molto difficile avere il permesso di attraversarne la soglia, dove sta di guardia il portiere Ahmed. Lo spazio cittadino si fa anche spazio di scontri tra marocchini e soldati francesi, mentre a livello statale, lo spazio nazionale del Marocco subisce una divisione interna: soldati stranieri, francesi e spagnoli, che appartengono a due gruppi, due tribù, differenti, si sono spartiti il territorio nazionale, che non aveva mai subito separazioni né rotture da quattromila anni, ben prima della venuta dell’Islam. Ora, il Marocco è diviso in due, la parte settentrionale e quella meridionale, e tra le due, i soldati europei hanno segnato una frontiera, nei pressi della città di Arbaoua: Then, when neither was able to exterminate the other, they decided to cut Morocco on half. They put soldiers near ‘Arbaoua and said from now on, to go north, you needed a pass because you were crossing into French Morocco. If you did not go along with what they said, you got stuck at ‘Arbaoua, an arbitrary spot were they had built a huge gate and said that it was a frontier. (DT, p. 2) La frontiera è dunque una linea del tutto arbitraria, che esiste solo nelle teste di chi la traccia: “The frontier was an invisibile line in the mind of warriors” (DT, p. 2). Non solo, la frontiera oltre che arbitraria, si fa segno e rappresentazione del potere: il potere di colui che impone la propria visione del mondo e delle sue frontiere agli altri: Cousin Samir, who sometimes accompanied Uncle and Father on their trips, said that to create a frontier, all you need is soldiers to force others to believe in it. In the landscape itself, nothing changes. The frontier is in the mind of the powerful. (DT, pp. 2-3) Dal punto di vista di chi detiene il potere, dunque, i confini servono a mantenere l’ordine e soggiogare i cittadini, nonostante siano presentati come un modo per difendere i cittadini, soprattutto i più deboli, le donne e i bambini. A Fatima bambina, ad esempio, non è permesso andare con suo padre, suo zio e Samìr, suo cugino coetaneo, a verificare effettivamente il luogo in cui sono i confini perché, in quanto femmina, è incapace di difendersi: I could not go and see this for myself because Uncle and Father said that a girl does not travel. Travel is dangerous and women can’t defend themselves. (DT, p. 3) Le donne e le bambine devono accontentarsi di ubbidire: ubbidendo alla maestra, ai genitori, agli zii, come pure e soprattutto ai dettami della religione, sono sicure di non valicare i sacri hudud e di rimanere all’interno del giusto. Education is to know the hudud, the sacred frontiers […]. To be a Muslim was to respect the hudùd. And for a child, to respect the hudùd was to obey. […] once […] I asked Cousin Malika, who was two years older than I, if she could show me where the hudùd actually was located. She answered that all she knew for sure was that everything would work out fine if I obeyed the teacher. (DT, p. 3) I cittadini hanno due scelte possibili: accettare passivamente obbedendo e senza farsi troppe domande, o fare di tutto per capire e cercare l’esatta collocazione di tali confini. L’obbedienza è la virtù principale richiesta ad ogni buon musulmano e ogni buona musulmana. La stessa parola araba Islàm significa ‘sottomissione’, ‘obbedienza’ a Dio. La piccola Fatima, pur accettando di obbedire, decide di impegnarsi a cercare questi confini. But since then, looking for the frontier has become my life’s occupation. Anxiety eats at me whenever I cannot situate the geometric line organizing my powerlessness. (DT, p. 3) Gli hudùd non sono solo un’immagine mentale, esistono nella realtà quotidiana, a cominciare dalla casa. Ogni età ed ogni momento della giornata ha i suoi confini, marcati dalle regole stabilite dai genitori e dal resto dei familiari e dalla disposizione architettonica, rigorosamente geometrica e simmetrica. My childhood was happy because the frontiers were crystal clear. The first frontier was the threshold separating our family’s salon from the main courtyard. I was not allowed to step out into that courtyard in the morning until Mother woke up, which meant that I had to amuse myself from 6 a.m. to 8 a.m. without making any noise. I could sit on the cold white marble threshold if I wanted to, but I had to refrain from joining in with my older cousins already at play. “You don’t know how to defend yourself yet,” Mother would say. “Even playing is a kind of war”. (DT, pp. 3-4) Dalla geometria regolare degli spazi e dell’architettura dell’abitazione è impossibile sfuggire. Ogni particolare è funzionale a mantenere l’ordine, la distinzione tra i ranghi, le età ed i generi. Tutto sottostà a regole precise, a controlli rigidi, perfino le luci delle scale vengono improrogabilmente spente alle nove di sera da Ahmed, il portinaio, che ne controlla tutti gli interruttori e che segnala “that everyone on the terrace was going in and all traffic ought to be officially stopped.” (DT, p. 18). L’autrice fornisce una descrizione particolareggiata dell’architettura della casa, delle sue geometrie, delle sue aree e del salone e, soprattutto, degli elementi che bloccano l’uscita, i muri, le porte, i pesanti battenti e le inferriate alle finestre. Sembra che ciò che rimane maggiormente impresso alla vista della bambina siano proprio gli elementi che ostruiscono il passaggio, limitando la libertà di movimento dei soggetti che vivono all’interno dell’abitazione, e allo stesso tempo di preservandoli dagli sguardi esterni. L’unico elemento di cui si può fruire senza filtri è il cielo, ma anch’esso “strictly square-shaped, like all the rest, and solidly framed in a wooden frieze of fading gold-and-ocher geometric design” (DT, p. 5). Lo spazio dell’harem è dovunque rigidamente squadrato e ad ogni settore della casa è stata assegnata una funzione ben precisa, come ben definiti sono i soggetti che possono muovervisi e usufruirne. La casa ha una pianta squadrata, nel cui centro si apre il cortile, mentre i quattro lati sono occupati dagli appartamenti (DT, pp. 5-7). Il cortile è lo spazio pubblico per eccellenza, lo spazio delle interazioni tra i vari componenti della famiglia, uno spazio non riservato ma che tutti possono attraversare. Di fronte all’appartamento della famiglia di Fatima Mernissi è situato quello della famiglia dello zio, il fratello del padre, di sua moglie e dei loro sette figli. Alla sinistra è situato l’appartamento della nonna paterna, Làlla Màni, anziana ed austera signora che non permette ai bambini di camminare sul suo tappeto coi i piedi bagnati e non ama il chiasso e gli schiamazzi dei bambini. Sul lato destro del cortile si trova “the largest and most elegant salon of all – the men’s dining room, where they ate, listened to the news, settled business deals, and played cards” (DT, p. 7). La casa è costituita di tre piani, più una terrazza, “all whitewashed, spacious, and invitino” (DT, p. 17). Al terzo piano, di fianco alla terrazza, c’è la piccola e spoglia stanza di una zia della famiglia, la zia Habiba, relegata lassù perché annessa alla famiglia non direttamente, ma in qualità di divorziata. Eppure, in tutta questa perfetta geometria, le cui regole ferree sembrano non lasciare alcun spazio alla ribellione, alla fuga, alla libertà di movimento, la narratrice ci indica che esistono vie di fuga, scappatoie segrete o semisegrete, stanze e stratagemmi che creano uno spazio di evasione. 5.3 Lo spazio della narrazione. Come sottolinea la critica americana Susan Stanford Freidman nel saggio “Unthinking Manifest Destiny: Muslim Modernities in Three Continents”, Like the locked doorway, this interior female space is an architectural representation of gender relations, in this case the domestic space of intimacy to which women are confined. Paradoxically, this space is both claustrophobic, but also the site of women’s storytelling, for which Scheherazade […] is the prototype. La stanza della zia Habiba, pur piccola e spoglia, attira sempre le donne e i bambini della famiglia. Non è la stanza, ovviamente, a creare curiosità e desiderio, bensì la grande abilità della zia a raccontare storie. Il potere della parola e della narrazione affascina ed incanta, e allo stesso tempo attiva la sua forza in chi ascolta. So, on these graceful nights, we could fall asleep listening to our aunt’s voice opening up magic glass doors, leading to moonlit meadows. And when we awoke in the morning the whole city lay at our feet. Aunt Habiba had a small room, but a large window with a view that reached as far as the Northern mountains. (DT, p. 19) È sufficiente una finestra e il suo panorama a far viaggiare le menti. Ed è proprio il viaggio della mente che prepara il successivo viaggio reale. La zia Habiba sa come affascinare e incantare chi l’ascolta, conosce i segreti della narrazione, perciò si presenta come una moderna incarnazione di Shahrazade, “Scheherazade’s living avatar”. She knew how to talk in the night. With words alone, she could put us onto a large ship sailing from Aden to the Maldives, or take us to an island where the birds spoke like human beings. Riding on her words, we travelled past Sind and Hind (India), leaving Muslim territories behind, living dangerously, and making friends with Christians and Jews, who shared their bizarre foods with us and watched us do our prayers, while we watched them do theirs. (DT, p. 19) Il viaggio comincia nella mente, nel pensiero, nell’educazione al viaggio e all’incontro con altre persone, altri luoghi e altre culture. Il viaggio è non solo inteso nel suo significato di spostamento geografico, anch’esso importante, ma come viaggio interiore, alla scoperta delle proprie potenzialità e dei propri desideri, delle proprie capacità di realizzare sogni e aspirazioni, di sviluppare la propria personalità senza subire arresti e pressioni dagli altri, dalla società, dalla tradizione o dalla religione. Basta uno spiraglio, una piccola finestra che dall’ultimo piano abbraccia un vasto orizzonte per far intravedere all’animo ben educato tutte le potenzialità che può sviluppare. La stanza della zia Habiba, il panorama che si allarga fino alle montagne e le storie che vengono raccontate in quello spazio richiamano da vicino il salotto in cui la professoressa Nafisi tiene il seminario segreto che costituisce il cuore del romanzo Reading Lolita in Teheran. Mernissi svela che i racconti della zia Habiba made me long to become and adult and an export storyteller myself. I wanted to learn how to talk in the night. (DT, p. 19) Ed effettivamente, Mernissi, da adulta, diventata sociologa e professoressa universitaria, mettendo in pratica gli insegnamenti ricevuti nell’infanzia, è riuscita a realizzare i sogni della bambina che ascoltava le storie meravigliose della zia. Ha seguito le orme delle eroine delle storie che ascoltava sulla terrazza, viaggiando per il mondo e raccontando a sua volte storie che, insieme alla storia delle sue vicende personali, infondono speranza in altre donne. Oltre che le orme delle eroine delle storie, Mernissi ha seguito le tracce segnate delle donne della sua famiglia, ha imparato a ricavare spazi di libertà nella rigorosa geometria concepita, al contrario, per tenere tutto sotto costante controllo e, soprattutto, per non lasciare spazio al movimento delle donne. Mernissi ha imparato che non è sufficiente ascoltare le storie per essere una donna libera, ma è necessario poi mettere in pratica gli insegnamenti che se ne ricavano. Le rigide geometrie dell’harem, come pure le divisioni in termini spaziali delle relazioni tra i generi, nel tempo sono state assimilate dalla coscienza delle donne, interiorizzate a tal punto che le donne hanno finito col perdere la capacità di pensare che possa esistere un altro ordine delle cose del mondo. About hudud, Fatima learns that the walls of the harem are only the external manifestation of the ‘harem within’, the rules and prohibitions that are learned gradually over time. 5.4 L’harem e Shahrazade. Lo spazio per eccellenza vietato alle donne è lo spazio pubblico esterno alla casa-harem. Our house gate was a definite hudùd, or frontier, because you needed permission to step in or out. Every move had to be justified and even getting to the gate was a procedure. (DT, p. 21) Lo spazio interno all’harem è ben protetto, sia dall’architettura sia dal portiere che, come un ufficiale di frontiera, controlla costantemente che le regole di entrata/uscita vengano rigorosamente rispettate. Our house gate was a gigantic stone arch with impressive carved wooden doors. It separated the women’s harem from the male strangers walking in the streets. (Uncle’s and Father’s honor and prestige depended on that separation, we were told.) Children could step out of the gate, if their parents permitted it, but not grownup women. (DT, p. 22) L’intera narrazione di Mernissi ruota attorno all’immagine dell’harem e a tutto ciò che esso significa e rappresenta. Non a caso il romanzo, narrato in prima persona, inizia con l’affermazione “I was born in a harem”. Se l’harem è innanzitutto lo spazio chiuso e sacro, lo è perché che protegge dal nemico, dagli estranei. Ma la parola “harem” contiene molto più significati, e molto diversi a seconda di chi la pronuncia. In Scheherazade goes West, or: The European Harem (L’harem e l’occidente), Mernissi esplora a fondo la realtà dell’harem e le opposte concezioni che di questo hanno i musulmani, da un lato, e gli occidentali dall’altro. L’indagine porta la studiosa a prendere in considerazione le rappresentazioni di harem prodotte da artisti occidentali e musulmani. Ciascun uomo possiede nella fantasia un harem personale, ma ciò che Mernissi alla fine scopre è che dietro la diversità delle rappresentazioni occidentali e orientali, vi è una base culturale diversa, cioè una opposta concezione del rapporto uomo-donna. La parola ‘harem’ contiene significati molto diversi per gli arabi e per gli occidentali. Mernissi racconta della sua incredulità le prime volte in cui, girando per l’Europa per presentare Dreams of Trespass, si sentiva rivolgere, da parte dei giornalisti europei, domande ironiche e maliziose sull’harem. Per me, la parola “harem” non solo è sinonimo di famiglia come istituzione, ma non mi passerebbe mai per la testa di associarlo allo spasso o all’ilarità. Dopo tutto, l’origine stessa del termine arabo si riferisce, in senso strettamente letterale, al peccato, alla pericolosa frontiera dove piacere e legge sacra collidono. Harām significa illecito e peccaminoso. Harām è tutto ciò che è proibito dalle leggi religiose. L’opposto è halāl, ciò che è permesso. Evidentemente, varcando la frontiera con l’Occidente, la parola araba harām deve aver perduto questo taglio peccaminoso, dato che gli occidentali sembrano associarlo all’euforia, all’assenza di limiti. Per loro, l’harem è un luogo dove il sesso è libero da tutte le ansie. (HO, pp. 15-16) Nell’immaginario degli occidentali, l’harem “era un festino orgiastico in cui gli uomini sperimentavano un autentico miracolo: ottenere il piacere sessuale senza difficoltà o resistenza da parte di donne da loro ridotte in schiavitù” (HO, p. 16). Questa concezione ha fatto presa nell’immaginario di europei e americani. Pittori famosi come Ingres, Matisse, Delacroix o Picasso hanno dipinto le donne nell’harem riducendole a odalische, mentre “abili produttori hollywoodiani […] esibivano succinte danzatrici del ventre, liete di servire i loro padroni” (HO, p. 17). Gli artisti musulmani, al contrario, sono stati molto più realisti nei confronti della realtà dell’harem, aspettandosi dalle donne un’acuta coscienza della disparità nell’istituzione dell’harem, e pertanto una scarsa disposizione a impegnarsi nel soddisfare i desideri dei loro aguzzini. […] Nelle miniature, così come in letteratura, i musulmani rappresentano le donne come agenti attive, mentre Matisse, Ingres e Picasso le mostrano nude e passive. (HO, pp. 17-18). ‘Odalisca’ è il termine di origine turca che l’Occidente ha adottato per designare la schiave dell’harem. Tale termine ha una connotazione spaziale, in quanto viene da “oda”, che significa “stanza”, dunque odalisca indica “la donna della stanza”, ovvero la donna schiava (HO, p. 33). È proprio la concezione opposta della donna e delle sue relazioni con l’uomo che sta alla base della discrepanza nell’immaginario tra occidentali e musulmani. I primi si immaginano “sicuri di sé e senza alcuna paura delle donne” (HO, p. 18), mentre i musulmani si vedono insicuri. Nelle immagini occidentali dell’harem, le donne non hanno ali, né cavalli, né archi e frecce. I loro harem dipinti, al contrario di quelli musulmani, non parlano di guerra tra i sessi, con le donne che resistono, mandano in aria i piani degli uomini e a volte diventano le padrone del gioco, confondendo Califfi e imperatori. (HO, p. 20). Le donne musulmane sono immaginate dotate di una forte personalità e un’acuta intelligenza, ma allo stesso tempo sono temute perché hanno il potere di destabilizzare l’ordine maschile attraverso la possibilità dell’adulterio. Le qualità che più attraggono gli uomini arabi verso le donne sono, spiega Mernissi, non tanto la bellezza fisica, quanto le abilità di intrattenitrici nello scambio della comunicazione. La loro [degli occidentali] Shahrazad mancava della più potente arma erotica che la donna possieda, il nutq, la capacità di tradurre il pensiero in linguaggio e di penetrare il cervello di un uomo iniettandovi dei termini accuratamente selezionati. La Shahrazad orientale non danzava […]. Non faceva altro che pensare e infilare, parola per parola, storie che avrebbero dissuaso il marito dall’ucciderla. […] La Shahrazad orientale è puramente cerebrale e questa è l’essenza della sua attrazione sessuale. Nelle storie originali quasi non si fa menzione dell’aspetto fisico di Shahrazad; ciò che, invece, viene reiteratamente sottolineata è la sua cultura. La sua unica danza è il gioco del linguaggio nel cuore della notte; per dirla in arabo, samar. Samar è una delle molte parole arabe cariche di sensualità; significa semplicemente parlare nella notte. (HO, p. 3). Si spiega così quanto Mernissi afferma in Dreams of Trespass, – dove ricorda che da bambina il suo sogno, oltre che di percorrere grandi distanze e incontrare altre culture e gente straniera, era quello di imparare a parlare nella notte, come la zia Habiba (DT, p. 19). Per una donna, possedere una tale abilità significava poter raggiungere la felicità, per la raggiunta capacità di stregare gli uomini con la magia della parola. Mernissi continua sottolineando che, nel mondo arabo, il rapporto erotico tra un uomo e una donna ha origine dalla sensualità delle parole, poiché nasce dal piacere del dialogo e della comunicazione tra i due esseri. La donna è valorizzata per le qualità intellettuali che possiede: “negli harem musulmani, veri o immaginari che siano, il confronto cerebrale con le donne è necessario a raggiungere l’orgasmo” (HO, p. 25). In un certo senso, l’adulterio o, meglio, la possibilità dell’adulterio della donna è una sorta di potere preventivo che questa ha per rovesciare l’ordine stabilito dall’uomo. L’adulterio è alla base delle vicende che fanno da quadro alle Mille e una notte, dove l’ira del sovrano Shahryar è scatenata proprio dalla scoperta che la moglie l’aveva tradito con uno schiavo. Questo tradimento, spiega Mernissi, sembra condensare la tragedia dell’harem: il fatale bisogno della donna di rovesciare la gerarchia costruita dal marito che l’ha rinchiusa, schierandosi e accoppiandosi con il suo schiavo maschio. Il tradimento del marito da parte della donna è implicito nella stessa struttura dell’harem. Sono proprio le gerarchie costruite dagli uomini, e le frontiere erette per dominare le donne, che hanno determinato il loro fatale comportamento. Nelle scene dei crimini legate all’adulterio, presenti nelle Mille e una notte, le frontiere dell’harem si rivelano porose, fragili, facilmente aggirabili, cancellabili: gli uomini possono vestirsi da donne e andarsene in giro senza essere notati. (HO, p. 42). Nella stessa istituzione dell’harem è dunque presente il seme della trasgressione dei suoi limiti e delle sue regole. È come dire che le gerarchie sono fatte per essere rovesciate, le frontiere per essere trasgredite e le porte dell’harem forzate. Ciò è possibile proprio grazie all’ingegno e all’intelligenza delle donne, che gli uomini cercano di tenere a freno con mura, sbarre e limiti. L’adulterio, però, non è l’arma più adatta a ribellarsi alle gerarchie imposte dagli uomini. La storia della Mille e una notte lo dimostra: la moglie del re fallisce nella sua rivolta poiché viene fatta uccidere dal marito. L’importante insegnamento che Shahrazade offre alle donne tutte, non solo musulmane, è che “il solo uso del corpo, ovvero del sesso privo della mente, non aiuta minimamente la donna a cambiare la sua situazione” (HO, p. 47). La ribellione della prima moglie del sultano era fallita perché si era limitata ad una politica del corpo e del sesso, concedendosi ad uno schiavo. Così facendo, la donna aveva limitato la sua opposizione all’interno della logica stabilita dal marito e si era intrappolata da sola nella posizione di schiava legata al corpo e, perciò, perdente. Non era sul piano della politica del corpo che la donna avrebbe dovuto ribellarsi, ma avere la forza di rovesciare tale logica, ed imporne una propria, come è riuscita a fare Shahrazade. Shahrazad insegna alle donne che la sola arma efficiente alla loro portata è coltivare l’intelletto, acquisire conoscenza e aiutare gli uomini a liberarsi del loro narcisistico bisogno di semplificata omogeneità. C’è bisogno di confrontarsi con il diverso, e di insistere sui limiti da riconoscere e rispettare, perché un dialogo possa almeno avere inizio. Per imparare ad apprezzare la fluidità di un dialogo bisogna accettare che il risultato della battaglia non sia rigidamente prefissato, che vincitori e perdenti non siano definiti già in partenza. (HO, p. 47). La storia di Shahrazade insegna al mondo contemporaneo che le donne, nel mondo musulmano non sono recluse e velate perché considerate deboli, bensì perché sono temute dalle gerarchie degli uomini come soggetti che, se lasciati liberi di muoversi e di esprimersi a piacimento, saranno in grado di sovvertire l’ordine delle cose imposto da chi detiene e vuole mantenere il potere e lo status quo. L’Islam, infatti, come cultura e come sistema legale, è intriso dell’idea che il femminile sia un potere incontrollabile, ed è per questo che assistiamo agli appassionati, se non isterici, dibattiti sui diritti delle donne nei parlamenti musulmani, dall’Indonesia a Dakar, perché le donne sono l’emblema stesso della differenza. Qualunque dibattito sulla democrazia è un dibattito sul pluralismo. E nessun dibattito sul pluralismo può aver luogo nella società musulmana senza focalizzarsi ossessivamente sulle donne, perché sono loro che rappresentano l’altro, il diverso, lo straniero all’interno della Umma, la comunità musulmana. (HO, pp. 2122). Le donne destabilizzano l’ordine degli uomini per la loro diversità. Nella società musulmane, sono costrette a rendersi invisibili, a nascondere la propria diversità dietro un muro, una finestra, un velo, per mantenere agli occhi di guarda dall’esterno la finzione dell’omogeneità della Umma. L’harem serve a celare la donna agli occhi degli estranei, a nasconderla a sguardi indiscreti, come pure a proteggerla, preservando, insieme all’incolumità della donna, anche l’onore del marito. Mentre i bambini possono attraversare il pesante portone dell’harem, le donne adulte non possono farlo, perché la strada è il luogo dove la donna può incontrare lo sguardo degli altri uomini, e questi potrebbero voler interagire con lei. Un mezzo usato per difendere e preservare la donna da questi contatti con i soggetti maschili è il velo. Il velo è un harem mobile. Il velo da indossare ogniqualvolta si esca dallo spazio domestico e si vada per strada, che spazio pubblico per eccellenza, nasconde, o protegge la donna come una sorta di muro mobile metaforico. Sì che la donna velata porta nello spazio esterno la stessa separazione che vive all’interno delle mura domestiche. Le donne musulmane vivono questo paradosso: da un lato l’Islam predica il principio basilare dell’uguaglianza e dall’altro lato, le donne vivono una condizione di profonda disuguaglianza sessuale. Nessuno contesta il principio, considerato divino, dell’uguaglianza tra uomo e donna: Anche i più estremisti non osano argomentare che le donne sono inferiori, e le donne musulmane sono allevate con un forte senso dell’eguaglianza quale maggiore virtù dell’Islam. (HO, p. 23). Grazie a tale principio alcune donne sono riuscite a farsi largo e conquistarsi un proprio spazio pubblico e politico diventando leader politici, come ad esempio Benazir Bhutto nel Pakistan. Ma alle donne “viene […] attribuita una condizione minoritaria che ne restringe i diritti legali, negando loro l’accesso allo spazio decisionale” (HO, p. 22). Sono gli uomini che stabiliscono e modificano le leggi, come pure è a loro che spetta l’interpretazione del testo sacro. Le donne, nel mondo islamico, sono mantenute in una condizione minoritaria anche perché sono temute dagli uomini. L’indagine di Mernissi, tuttavia, non si limita a illustrare il mondo delle donne islamiche ma pone il lettore e la lettrice occidentali (per loro è scritto il libro, infatti) di fronte ad uno specchio, in cui vedono riflessi se stessi e la loro cultura, visti attraverso il filtro speciale degli occhi di una straniera. La sociologa marocchina rovescia il giudizio, ilare e negativo, che l’Occidente è solito dare dell’harem e della cultura musulmana, soprattutto per quanto concerne la condizione femminile. Individua altresì un harem più subdolo e impalpabile in cui sono racchiuse le donne occidentali. L’harem delle donne occidentali, sentenzia Mernissi, è la taglia 42! (HO, p. 170). Mentre l’uomo musulmano usa lo spazio per stabilire il dominio maschile escludendo le donne dalla pubblica arena, l’uomo occidentale manipola il tempo e la luce. Egli dichiara che la bellezza, per una donna, è dimostrare quattordici anni. Se osi dimostrarne cinquanta, o peggio sessanta, sei inaccettabile. Puntando il riflettore sulla donna bambina e mettendola in cornice come ideale di bellezza nelle proprie immagini, egli condanna la donna matura all’invisibilità. […] Le donne devono apparire belle, ovvero infantili e senza cervello. Se una donna appare matura e sicura di sé, e pertanto permette ai suoi fianchi di espandersi come i miei, è condannata a essere brutta. (HO, p. 173) Mernissi giudica “questo chador occidentale definito dal tempo” ancora “più pazzesco di quello definito dallo spazio” (HO, p. 174) e ancora più pericoloso perché invisibile e “mascherato da scelta estetica” (HO, p. 174). Gli atteggiamenti degli occidentali sono decisamente più pericolosi e sottili di quelli musulmani, perché l’arma usata contro la donna è il tempo. Il tempo è meno visibile, più fluido, dello spazio. […] Gli Ayatollah mettono l’accento su di te come donna, insistendo sul velo. Qui [a New York], se hai i fianchi larghi, sei semplicemente fuori dal quadro. Scivoli nel margine della nullità. Puntando il riflettore sulla femmina preadolescente, l’uomo occidentale vela le donne più vecchie, quelle della mia età, avvolgendole nel chador della bruttezza. Questa idea mi dà i brividi, perché trasforma l’invisibile frontiera in un marchio impresso direttamente sulla mia pelle. (HO, p. 174) Nel mondo musulmano, quindi, è lo spazio ad essere manipolato per privare le donne dei loro diritti sociali, civili, politici ed economici, che corrisponde alla manipolazione del tempo nelle regioni occidentali. Sono due sistemi che gli uomini hanno escogitato per ottenere il medesimo scopo, relegare le donne nell’impotenza decisionale, nella marginalità e nell’invisibilità. Il tempo è usato contro le donne a New York allo stesso modo in cui a Teheran lo spazio è usato dagli Ayatollah iraniani: per far sentire le donne non gradite e inadeguate. L’obiettivo rimane identico in entrambe le culture: le donne occidentali che consumano il tempo, guadagnano esperienza con l’età e divengono mature, sono dichiarate brutte dai profeti della moda, proprio come le donne iraniane che consumano lo spazio pubblico. (HO, p. 174) Lo spazio, in conclusione, è l’elemento che viene manipolato dagli uomini nelle regioni arabo-musulmane per tenere sotto controllo le donne, per escluderle dalla gestione della cosa pubblica, della legge e di qualsiasi regola che riguardi la società, la famiglia, la politica. Relegando le donne fuori da ogni spazio pubblico, in cui è compreso anche lo spazio politico e decisionale, le donne sono mantenute in una sorta di esilio: esilio dalla possibilità di accedere al potere, esilio dalla possibilità di incidere sulle decisioni in materia giuridica. Pur essendo direttamente interessate dalle decisioni dei legislatori, le donne sono escluse dal prender parte al processo legislativo. Vivono nel chiuso delle pareti domestiche, al confino dalla vita sociale, economica e politica del paese. Si tratta di un vero esilio interno, una messa al bando dal potere che si realizza non attraverso l’allontanamento geografico degli individui scomodi (come nel più classica delle concezioni dell’esilio), bensì di un confino all’interno del tessuto sociale. Allo stesso tempo, questo spazio dell’esilio è anche lo spazio da cui si origina e muove la ribellione delle donne musulmane. Ogni ribellione si attua, ovviamente, rovesciando dalla prima causa di oppressione, per cui l’oppressione a livello spaziale si combatte con la creazione o la conquista di un proprio spazio di azione. Come spiega Susan Stanford Friedman, le radici del femminismo e della ribellione delle donne si rintracciano all’interno dell’harem, nello spazio dell’esilio a cui la cultura islamica condanna le donne. […] the roots of Mernissi’s feminism lie indigenously within the harem, within the restrictions against which the women rebelled, within the space where she learned how to remake the world with words, like Scheherazade. Per le scrittrici islamiche imparare a volare significa parlare nella notte, ovvero gestire e calcolare la forza della parola e della narrazione. Per tutte, però, esiste una sola via che porta alla narrazione libera: l’ istruzione. Già camminare sulla strada per andare a scuola, significa il primo attraversamento di frontiera, l’inizio della conquista dello spazio aperto e dei luoghi pubblici. CAPITOLO 6. “MY HOUSE HAD A MAGIC DOOR”. ELMAZ ABINADER, DONNA ARABO-AMERICANA TRA DUE MONDI. Dal pesante portone dell’harem descritto da Fatima Mernissi spostiamo lo sguardo su un’altra porta, un’altra soglia. Quelle della casa di Elmaz Abinader , che ci racconta una storia diversa da quella vissuta nel Marocco degli anni 1940. Emigrata dal Libano negli Stati Uniti con la sua famiglia, Elmaz Abinader è narratrice, poeta ed artista. Nel breve racconto autobiografico Just Off the Main Street, Elmaz Abinader racconta della sua esperienza di emigrata dal mondo arabo al mondo occidentale. Diversamente da Mernissi, che racconta la sua vita sul suolo del Marocco come esperienza d’esilio, per Abinader all’esilio proprio della donna nella cultura islamica si aggiunge l’esilio associato all’emigrazione e quindi al cambiamento dello spazio nazionale. Gli spazi che popolano la vita della giovane Elmaz sono, dunque, inseriti in due differenti contesti nazionali: lo spazio domestico, la casa, è come se fosse ancora parte integrante del Libano, mentre lo spazio esterno, pubblico, è sentito come lo spazio dell’America e dell’americanità. L’identità e la vita di Elmaz Abinader sono rappresentati, quindi, come duplice specchio delle due anime delle culture in cui vive o ha vissuto, unite e tuttavia distinte dal trattino. Il trattino, in inglese hyphen, è quel segno linguistico che “simultaneously separates and connects, contests and agrees”. L’esperienza di Abinader può essere definita come “life on the hyphen” poiché questa scrittrice arabo-americana fa parte di quella categoria di scrittori che possono essere definiti hyphenated-Americans. Tale locuzione sintetizza la situazione di quanti emigranti, esiliati o espatriati, vivono la loro esperienza come un continuo attraversamento di frontiere e una continua negoziazione tra due terre, sue culture, due modi distinti di guardare alla vita. La vita “on the hyphen”, inoltre, è caratterizzata anche dal costante attraversamento della frontiera linguistica. Nella Parte I di questo lavoro si è detto, infatti, che, in qualsiasi movimento che coinvolge l’attraversamento di frontiere nazionali è implicito lo spostamento da uno spazio linguistico ad un altro. Il racconto della scrittrice libano-americana è anche un racconto della coabitazione, o compresenza, di due lingue differenti nel corpo del soggetto che attraversa le frontiere nazionali. Nel suo studio sulle letterature dell’esilio, Writing Outside the Nation, Azad Seyhan definisce la vita sul luogo in cui due culture-luoghi-lingue si uniscono e separano come vita senza possibilità di ritorno: Almost all the writers discussed in this study express the sentiment that neither a return to the homeland left behind nor being at home in the host country is an option. They need an alternative space, a third geography. This is the space of memory, of language, of translation. La locuzione “life on the hyphen” è quindi metafora che rappresenta la vita di persone dislocate, che attraversano costantemente la soglia che separa due culture, due spazi nazionali e due lingue, valicando frontiere sociali, politiche e linguistiche, in un processo di costante traduzione. È come se tali soggetti vivessero costantemente in una sorta di borderland, uno spazio in-between, caratterizzato da scambi, interazioni, dialogo e negoziazione, che spesso avvengono addirittura non solo all’interno della coscienza individuale, ma nello spazio del corpo. Il corpo, dotato di volume, è spazio che occupa uno spazio. Meena Alexander, una donna asiatico-americana, scrive nel suo trattato poetico Alphabets of Flesh: One is marked by one’s body. Su questo, la studiosa Susan Friedman commenta che “No matter what passport one carries, the body that looks “foreign” is subject to a variety of gazes – from the curious and rude to the dangerous and violent”. Come tutti i tratti visibili del corpo (genere, razza, colore, ecc) anche l’accento o la pronunzia delle parole sono segni che connotano il corpo. Il corpo è anche il documento che presentiamo al mondo, la nostra carta d’identità. Di conseguenza, l’accento con cui pronunciamo le parole delle varie lingue, diventa un elemento fondamentale di questo documento corporeo. Come afferma Abu Zayd, l’esilio è prima di tutto una questione linguistica. Per questo, la questione dell’accento è importante sia nelle esperienze di immigrati ed esuli, sia per chi le studia. La porta della casa della famiglia Abinader in Pennsylvania è una porta magica, che separa due mondi distinti: “When I was young, my house had a magic door” (JOMS, p. 1). Non ci troviamo più davanti ai massicci battenti dell’harem di Mernissi che sbarrano, che impediscono l’uscita. Questa soglia viene attraversata continuamente, quotidianamente, più volte al giorno. Eppure, c’è qualcosa che non passa, che non può passare attraverso la porta: My family scenes filled me with joy and belonging, but I knew none of it could be shared on the other side of that door. (JOMS, p. 3) Questa magica porta della casa della famiglia Abinader divide due mondi. All’esterno vi è il mondo della piccola città di provincia della Pennsylvania, con le sue caratteristiche standard, la banca, i negozi lungo la via principale, tra i quali vi sono quelli che appartengono alla famiglia della scrittrice. Del mondo esterno fa parte anche la scuola, il luogo dell’interazione con gli altri bambini. Al rientro a casa dopo la scuola e dopo aver passato la giornata fuori, immersa nel mondo americano, una volta attraversata la soglia, Elmaz si trova immersa in un altro mondo, lontano, in un’altra dimensione. Ad accogliere la giovane in questo mondo si presentano per primi i profumi della cucina dell’oriente, con le sue spezie e gli odori caratteristici. I profumi sono dunque il primo elemento che contraddistingue questo mondo orientale, familiare, conosciuto e amato, che avvolge l’individuo regalandogli un piacevole senso di appartenenza e familiarità: Drawing me from the entrance, down the hall, to the dining room, was one of my favorite smells. (JOMS, p. 2) Il profumo è nell’aria, è parte dell’atmosfera che respiriamo; costituisce la semiosfera del mondo cui apparteniamo. Guidandola e orientandola, il profumo delle spezie e degli aromi arabi fa reimmergere la giovane Elmaz, nel mondo delle sue origini. “Se désorienter, c’est perdre l’est”, scrive l’autrice di origine canadese Nancy Huston. I profumi arabi, al contrario, orientano, aiutano a far ritrovare il mondo lontano, l’est per l’appunto. Come una bussola, il profumo guida verso il centro della casa, la cucina dove la famiglia si riunisce, si nutre. Luogo delle affettività, la cucina rappresenta amore, affetto familiare, senso di appartenenza. Cucinare per qualcuno non è solamente un atto finalizzato alla nutrizione; è un atto di amore, di accoglienza e di condivisione della casa. Come scrive Marsha Mehran, scrittrice iraniana che ha fatto della cucina persiana la protagonista di un altro romanzo dell’esilio, Cooking is a perfect expression of love. When you give of yourself through a dish, you aren’t just feeding somebody’s physical hunger, but a deeper longing for home, for a safe place to rest. Dopo una giornata nel mondo esterno, a scuola, circondata dagli altri bambini, che non sono come lei, varcando la soglia magica Elmaz si sente a casa. Lo si comprende da quel “one of my favorite smells”, che esprime tutta la familiarità che sente permeare la casa e la sua gioia al rientro, mentre le parole della madre di Elmaz ci raccontano l’affettività e l’amore che regnano nella casa: By the time I arrived home from school in the afternoon, the house smelled of Arabic bread and loaves and loaves of the round puffy disks leaned against each other in rows on the table. She made triangles of spinach pies, cinnamon rolls, and fruit pies filled with pears from the trees growing on our land. Before greeting me, she looked up, her face flour-smudged, and said, “There are 68 loaves. You can have one.” (JOMS, p. 2) Ancor prima di salutare la figlia, sapendo di farle piacere, la madre le offre la possibilità di gustare una delle pagnotte che ha preparato. La voce della madre ci fa immergere nelle sonorità del mondo all’interno della casa, in quella lingua araba che lo caratterizza: Behind the magic door, the language shifted as well. Mother-to-daughter orders were delivered in Arabic – homework, conversations, and the rosary, in the most precise English possible. (JOMS, p. 3) Se l’identità, l’appartenenza, le origini sono costituite dalla condivisione di profumi, sapori e lingua all’interno della casa, all’esterno, sono altri gli elementi che identificano il soggetto o, meglio, attraverso cui gli altri ci identificano. È nell’incontro con l’americanità che, per Abinader, l’illusione dell’uguaglianza si infrange. E’ lo scontro con chi fa notare che si è diversi, che il corpo è marcato a proiettare una luce inquietante sulle origini e a mettere in dubbio l’interezza dell’identità acquisita. Il colore della pelle, dei capelli e i peli del corpo sono i segni esteriori dell’identità, costituiscono la prima carta di identità che viene esibita e percepita dagli altri: In these moments of social exchange, the illusion of similarity between me and the girls on my class floated away, bubble light. Despite sharing the same school uniform, being in the Brownies, singing soprano in the choir, and being a good speller, my life and theirs were separated by the magic door. And although my classmates didn’t know what was behind that portal, they circled me in the playground and shouted “darkie” at my braids trying to explode into a kinky mop, or “ape” at my arms bearing mahogany hair against my olive pale skin. (JOMS, p. 2) Si passa in Abinader dall’illusione dell’uguaglianza (“At that moment, frozen in second grade, at the threshold of the store, I saw no difference between my father, uncle, and the people who passed by” (JOMS, p. 2) alla forzata presa di coscienza della propria differenza a causa dei commenti dei bambini a scuola. Non solo i tratti somatici, ma anche il modo di parlare, l’accento sono caratteristiche che possono svelare, tradire la differenza: Looking different was enough; having a father with a heavy accent already marked me, dancing in circles would bury me as a social outcast. (JOMS, p. 3) Avere un padre che parla la lingua del luogo con un forte accento diventa un marchio della differenza. Gli stranieri che si ritrovano a vivere, per svariati motivi, in una nuova terra, spesso hanno voglia di nascondere la propria differenza, di sbarazzarsi più o meno dei tratti che tradiscono l’origine, e lo fanno imitando i gesti, i movimenti, il modo di vestire degli abitanti del luogo. Nonostante tutti gli sforzi, la lingua rimane un elemento quasi impossibile da imitare perfettamente. Come spiega la scrittrice Nancy Huston, originaria del Canada anglofono che vive in Francia e scrive i suoi romanzi in francese, lo straniero imita, si ingegna a mettersi una maschera per integrarsi al meglio, confondersi tra gli altri: Dans le théâtre de l’exil, on peut se “dénoncer” comme étranger par son apparence physique, sa façon de bouger, de manger, de s’habiller, de réfléchir et de rire. Petit à petit, consciemment ou inconsciemment, on observe, on s’ajuste, on commence à censurer les gestes et les attitudes inappropriés… Mais le plus gros morceau, si l’on aspire à se fondre dans la masse d’une population nouvelle, c’est bien évidemment la langue. Ma la lingua resterà quasi sempre impossibile da imitare al cento per cento; per quanto uno si sforzi, ci sarà sempre una minima traccia che svelerà la vera identità di chi ha commesso quel piccolo errore: L’étranger, donc, imite. Il s’applique, s’améliore, apprend à maîtriser de mieux en mieux la langue d’adoption… Subsiste quand même, presque toujours, en dépit de ses efforts acharnés, un rien. Une petite trace d’accent. Un soupçon, c’est le cas de le dire. Ou alors une mélodie, un phrasé atypiques… une erreur de genre, une imperceptible maladresse dans l’accord des verbes… Et cela suffit. Les Français guettent… ils sont tatillons, chatouilleux, terriblement sensibles à l’endroit de leur langue… c’est comme si le masque glissait… et vous voilà dénoncé ! On entraperçoit le vrai vous que recouvrait le masque et l’on saute dessus : Non, mais… vous avez dit « une peignoire » ? « un baignoire » ? « la diapason » ? « le guérison »? J’ai bien entendu, vous vous êtes trompé? Ah, c’est que vous êtes un alien ! Vous venez d’un autre pays et vous cherchez à nous le cacher, à vous travestir in Français, en francophone… Mais on est malins, on vous a deviné, vous n’êtes pas d’ici… La coscienza della differenza dà, all’inizio, un senso di solitudine - “It was dizzying and my stomach squirrel-squealed in loneliness” (JOMS, p. 2) -, ma alla fine l’esclusione passiva, cioè il fatto di subire l’esclusione, si rovescia, diventa un’esclusione attiva. Se, da un lato, gli altri non riconoscono Elmaz come una di loro, nello stesso momento sono questi ultimi a diventare estranei/esterni al suo mondo. Non conoscono il mondo racchiuso dalla “magic door”, né tanto meno il mondo più vasto che esso rappresenta, il mondo dell’Oriente: When Arabic bread comes out of the oven, it is filled with air and looks like a little pillow; as it cools, the bread flattens to what Americans recognize as "pita" bread. (JOMS, p. 2) Ciò che passa dell’Oriente e dell’arabità nel mondo Americano è qualche immagine, qualche prodotto, ma solo in una forma standardizzata: solo dopo che il pane si è raffreddato e appiattito, gli americani sono in grado di riconoscerlo, solo dopo, cioè, che questo ha assunto una forma fruibile, identificabile con un prodotto acquistabile al supermercato, al quale è stato assegnato un nome americano; in un certo senso, solo dopo che il pane è stato ‘depurato’ dall’arabità d’origine, e americanizzato come “pita bread”! L’appartenenza e il riconoscimento delle origini diventa orgoglio. Ma sembra sempre che il proprio mondo dell’arabità sia rinchiuso, circoscritto: come prima lo era all’interno della porta magica, all’Università Abinader lo ritrova in una tra le stanze dette ‘nazionali’. Si tratta della Syria-Lebanese Room, la stanza siriano-libanese che rimane chiusa a chiave, visitabile solo dietro esplicita richiesta. È una stanza bellissima, ricca, lussuosa. Abinader si sente orgogliosa di appartenere a quel mondo, di farne parte, mentre la maggior parte dei suoi colleghi e colleghe americani ne sono esclusi: At the moment we entered, our breath froze. The room was covered in Persian rug designs, glass multi-colored lights, brass tables, and cushions against the wall around the perimeter. It was lush and exotic and suddenly the pride of being associated with this palace worked its way inside of me. In charge of my own identity in college, I announced my heritage, wrote about my grandmother, cooked Arabic food for my friends, and played the music of Oum Khalthoum at gatherings at my house. (JOMS, p. 4) Tutta questa passione per mostrare le origini e la propria identità alla fine non serve ad altro che a rendere Abinader esotica: It wasn’t long before I understood that my display of my Arab-ness served to exoticize me. (JOMS, p. 4) Pur essendo diventata scrittrice, la sua scrittura avveniva ancora “inside the door” (JOMS, p. 4), il che la escludeva dal mondo circostante (“I did not feel welcome outside the door” (JOMS, p. 4). Ritrova una comunità con scrittori e artisti americani di colore. Individui con una personalità doppia, scissa tra due lingue, due culture, due nazioni si ritrovano in una comunità che si interroga costantemente su questioni comuni: I found African-American, Latino, Native American writers, whose voices resounded about some of the same issues: belonging, identity, cultural loneliness, community, and exoticization. (JOMS, p. 4) La soluzione che trova, alla fine, come scrittrice, come attivista e come donna, sta non nell’escludere un mondo a favore dell’altro. È nella negoziazione, nel compromesso, nella dualità, nella doppia sensibilità che, giorno dopo giorno, un soggetto può ritrovare la propria casa, l’appartenenza. È l’appartenenza alla comunità di scrittori e artisti americani di colore che le fa ritrovare il senso di sicurezza: I found a community: American writers and artists of color often travel the same terrain as I do, living with dual sensitivities, negotiating where one culture I inhabit conflicts with my other culture, looking for a place that is home. (JOMS, p. 5) “Home” è nell’abitare la frontiera, nel vivere il conflitto, nello spazio-tradue. Le persone che hanno da tempo abitato questo spazio conflittuale e ambiguo hanno sviluppato una doppia sensibilità, sono abituate a fare i conti costantemente con i due spazi opposti. Ed è proprio in quello spazio-tra-due che si sentono “a casa”, in uno spazio, cioè, che permette una tensione continua dell’individualità, uno spazio che fa si che ci si rimetta sempre in discussione. Tale è la condizione della persona scissa in due che descrive Nancy Huston: “Ah, me dis-je, cette personne est cassée un deux; elle a donc une histoire.” Car celui qui connaît deux langues connaît forcément deux cultures aussi, donc le passage difficile de l’une à l’autre et la douloureuse relativisation de l’une par l’autre. Et ça a toutes les chances d’être quelqu’un de plus fin, de plus « civilisé », de moins péremptoire que les monolingues impatriés. La fine della storia ci porta in un villaggio tranquillo, dove gli abitanti lasciano le porte aperte, metafora dell’accoglienza e dell’assenza di paure verso l’altro. Dove gli abitanti hanno imparato ad attraversare quella soglia, a lasciare che il mondo fuori e il mondo dentro si mescolino, dialoghino tra loro: I have a new small town. It's not anywhere in particular, or maybe it's everywhere. In this village, people live with their doors open, moving back and forth over the threshold of what has been exclusive to what will some day be inclusive. CAPITOLO 7. GLI SPAZI DELL’ESILIO E DEL RITORNO IN READING LOLITA IN TEHRAN DI AZAR NAFISI E PERSEPOLIS DI MARJAN SATRAPI. Il romanzo Reading Lolita in Tehran della scrittrice iraniana Azar Nafisi racconta di un altro spazio della narrazione e dell’esilio. Nafisi, professoressa universitaria iraniana, è emigrata negli Stati Uniti quando la situazione privata e professionale in Iran le è divenuta insostenibile a causa delle sempre maggiori ingerenze dei “guardiani dell’Islam” nella vita dei cittadini e in particolare delle donne. Gli Stati Uniti fanno dunque da sfondo all’esilio di Azar Nafisi, e si contrappongono all’Iran, la patria tanto desiderata ma perduta. L’esilio dell’autrice costituisce la cornice del romanzo Reading Lolita in Tehran. Spazio e tempo sono le coordinate fondamentali attorno a cui ruotano le vicende autobiografiche dell’autrice, che si intrecciano indissolubilmente alle vicende pubbliche e politiche della Repubblica dell’Iran. Il romanzo comincia con i fatti che si sono svolti nel 1995, ossia in un tempo passato rispetto al presente in cui vive l’autrice, al qui e ora della sua vita negli Stati Uniti. Le vicende narrate si riferiscono al biennio che va dal 1995 al 1997, anni durante i quali Nafisi organizza e tiene un seminario segreto di letteratura inglese e americana nel salotto della propria casa per sette delle sue migliori studentesse dell’Università di Teheran. Si è ormai ritirata dall’insegnamento pubblico perché non accetta le imposizioni dei capi religiosi e in questo modo, pur di nascosto continua ad esercitare la sua funzione di docente, che è anche funzione di critica del sistema vigente. Il romanzo si sviluppa attraverso un continuo movimento avanti e indietro nel tempo, con salti temporali nel passato e nel futuro che colmano i vuoti narrativi e forniscono al lettore informazioni più dettagliate sui vari personaggi che via via si incontrano. Il biennio si chiude con la partenza di Nafisi dall’Iran. Il romanzo autobiografico, basato sul sostrato di realtà, si intreccia con la fantasia: l’autrice chiarisce che “the facts in this story are true insofar as any memory is ever truthful” (RLT, “Author’s note”), ma nello stesso tempo i tratti dei singoli personaggi sono confusi e mischiati, per proteggere “friends and students, baptizing them with new names and disguising them perhaps eve from themselves, changing and interchanging facets of their lives so that their secrets are safe” (RLT, “Author’s note”). Dunque, il primo piano spaziale che si individua nel romanzo è a livello transnazionale, e riguarda la contrapposizione di due luoghi nella mappa del mondo l’Iran e Stati uniti, e di due tempi, il presente e il passato. Gli Stati Uniti rappresentano il qui e ora, il momento della scrittura. Here and now in that other world that cropped up so many times in our discussions, I sit and reimagine myself and my students, my girls as I came to call them reading Lolita in a deceptively sunny room in Tehran. (RLT, p. 6) L’Iran rappresenta il laggiù e l’allora, che rivive attraverso i ricordi, la memoria. Implicita nella narrazione del passato c’è dunque la concezione che la parola e la scrittura hanno il potere di rievocare, di far rivivere il passato, le persone conosciute, incontrate e amate. Tale potere lo hanno sia le parole delle opere letterarie studiate durante il seminario, sia il romanzo di Nafisi. Per questo motivo spesso l’autrice, nel corso della narrazione, si rivolge direttamente al lettore, a cui chiede di provare ad immaginare realmente il gruppo dei personaggi. I need you, the reader, to imagine us, for we won’t really exist if you don’t. (RLT, p. 6) Su un altro piano, si individua un altro luogo, quello più intimo e familiare, lo spazio della stanza dove si tiene il seminario, ogni giovedì mattina. Manna, una delle ragazze del gruppo, aveva proposto di intitolare il seminario “a space of our own”, in onore e memoria di Virginia Woolf, “a sort of communal version of Virginia Woolf’s room of her own” (RLT, p. 12). Il salotto diventa lo spazio per sé che le componenti del gruppo riescono a ricavare nello spazio politico dell’Iran, che, trasformatosi in Repubblica Islamica nel 1979, le aveva escluse dalla cosa pubblica. Le ragazze cercano di sottrarsi alla loro condizione di esiliate in patria, attraverso l’alternativa di una scelta che le vede libere nel chiuso del salotto. Questo spazio, benché chiuso, attraverso la lettura dei libri proibiti, si trasforma per loro in una soglia verso un mondo di libertà, una porta magica che si apre su un altro mondo. L’altro mondo è, in primo luogo, il nuovo mondo, l’America così come viene percepita attraverso le letture dei romanzi e immaginata quale terra di libertà e democrazia. Il salotto racchiuso dalle quattro pareti rappresenta, per traslazione metaforica, uno spazio infinitamente aperto, che abbraccia infiniti altri mondi quanti sono i libri letti dalle ragazze. Se lo spazio fisico è limitato dalle quattro pareti, quello immaginario infatti si allarga all’infinito, si estende fino all’orizzonte, e diventa termine oppositivo per quello spazio che sta al di là delle pareti e che dovrebbe essere più ampio, l’Iran, ma che in realtà opprime e limita le libertà dei cittadini. The second photograph belonged to the world inside the living room. But outside, underneath the window that deceptively showcased only mountains and the tree outside our house, was the other world, where the bad witches and furies were waiting […]. (RLT, p. 24) Vi sono due “altri” mondi, collegati dal filo invisibile delle parole delle opere della letteratura e dall’opera dell’immaginazione. Lo spazio della stanza del seminario è uno spazio democratico e libero, racchiuso nello spazio dell’oppressione e della censura che l’Iran è diventato. Ma “altro” è un termine di relazione, oltre che un termine oppositivo, e ‘l’altro’ mondo sarà, di volta in volta, il salotto o l’Iran, a seconda del punto di vista del momento: How can I create this other world outside the room? I have no choice but to appeal again to your imagination. (RLT, p. 26) Per riuscire a sopportare di vivere in quell’oppressione, le ragazze cercavano qualsiasi via di fuga, qualsiasi spiraglio che potesse presentarsi. An absurd fictionality ruled our lives. We tried to live in the open spaces, in the chinks created between that room, which had become our protective cocoon, and the censor’s world of witches and goblins outside. Which of these two worlds was more real, and to which did we really belong? We no longer knew the answers. Perhaps one way of finding out the truth was to do what we did: to try to imaginatively articulate these two worlds and, through that process, give shape to our vision and identity. (RLT, p. 26) Una finestra o una crepa nel muro era uno spazio sufficiente per fuggire, per mettere una distanza tra loro e il regime degli Ayatollah. È necessario crearsi uno spazio, una distanza dal quel “mondo del censore”, per costruirsi una propria vita e una propria identità. Anche qui ritroviamo quello spazio in-between di cui parla Homi Bhabha, l’unico spazio che possa fornire la forza per cambiare. Per creare tale spazio è necessario mettere una certa distanza tra se stessi e lo spazio dal quale ci si vuole distaccare o da cui si vuole fuggire. Si tratta della distanza che l’esilio è capace di creare, sia l’esilio di chi prende le valigie e se ne va, sia quello di chi rimane e si crea uno spazio all’interno e chiuso: Perhaps it is only now and from this distance, when i am able to speak of these experiences openly and without fear, that I can begin to understand them and overcome my own terrible sense of helplessness. In Iran a strange distance informed our relation to these daily experiences of brutality and humiliation. There, we spoke as if the events did not belong to us; like schizophrenic patients, we tried to keep ourselves away from that other self, at once intimate and alien. (RLT, p. 74) La distanza, sia geografica sia temporale data dall’esilio offre la possibilità della scrittura. Questa distanza le permette di guardare con il distacco necessario alla propria condizione presente e passata, di vedere il valore relativo delle cose e delle esperienze. Car ses hôtes dédaigneux n’ont pas la distance qu’il possède, lui, pour se voir et les voir. L’étranger se fortifie de cet intervalle qui le décolle des autres comme de luimême et lui donne le sentiment hautain non pas d’être dans la vérité, mais de relativiser et de se relativiser là où les autres sont en proie aux ornières de la monovalence. Ma prima di ricercare l’isolamento, le ragazze del seminario, come le altre donne iraniane, erano state espropriate della propria identità e del proprio passato, ridotte a esuli nel proprio paese. These students, like the rest of their generation, were different from my generation in one fundamental aspect. My generation complained of a loss, the void in our lives that was created when our past was stolen form us, making us exiles in our own country. Yet we had a past to compare with the present; we had memories and images of what had been taken away. But my girls spoke constantly of stolen kisses, films they had never seen and the wind they had never felt on their skin. This generation had no past. Their memory was of a half-articulated desire, something they had never had. (RLT, p. 76) Le due generazioni di donne, comunque, pur nella loro diversità, sono accomunate dal senso di mancanza, di assenza, che come si è visto nella Parte I di questo lavoro, è un elemento che caratterizza da vicino ogni esperienza di esilio. Nafisi stessa, dalla lontananza del suo esilio statunitense, scrive: “This is Tehran for me: its absences were more real than its presences” (RLT, p. 5). La distanza è necessaria per creare quel distacco attraverso il quale guardare alla patria, al popolo che si è lasciato in modo oggettivo e meno coinvolto. Allo stesso tempo, come si è detto, gli esuli sono presi dalla nostalgia della casa e della patria, che non li abbandona mai. [… ] the picture of home loomed large. It was mine and I could constantly conjure it, and relate to the world through its hazy image. (RLT, p. 86) L’immagine della patria è un’immagine confusa, la nostalgia riempie la distanza che separa di nebbia e distorce i ricordi e la percezione del presente vissuto in quella terra. Nell’esilio, le informazioni e le notizie dalla patria giungono filtrate dai media o dagli scambi epistolari con amici e parenti, non sono informazioni di prima mano. La distanza, dunque, può falsare la percezione della realtà, non sempre renderla più chiara. There were discrepancies, or essential paradoxes, in my idea of “home”. There was the familiar Iran I felt nostalgic about, the place of parents and friends and summer nights by the Caspian Sea. Yet just as real was the other, reconstructed, Iran about which we talked in meeting after meeting, quarrelling about what the masses in Iran wanted. (RLT, p. 86) L’esule rimpiange i luoghi, le persone, i sapori e l’atmosfera della patria e della casa abbandonate e a volte cerca di ricreare quel mondo, trasportarlo nel nuovo mondo, per renderlo un po’ meno estraneo, per sentirsi un po’ più a casa propria. During my first years abroad – when I was in school in England and Switzerland, and later, when I lived in America, I attempted to shape other places according to my concept of Iran. I tried to Persianize the landscape and even transferred for a term to a small college in New Mexico, mainly because it reminded me of home. You see, Frank and Nancy, this little stream surrounded by trees, meandering its way through a parched land, is just like Iran. Just like Iran, just like home. What impressed me most about Tehran, were the mountains and its dry yet generous climate, the trees and flowers that bloomed and thrived on its parched soil and seemed to suck the light out of the sun. (RLT, pp. 82-83) I racconti, insieme ai ricordi, sono forse la cosa più cara che è dato avere all’esule. Non appena si trova qualcuno disposto a stare a sentire, ad ascoltare i racconti, la mente vola verso la casa e crea e ricrea incessantemente nuovi racconti e nuove storie. Un altro scrittore iraniano, Khader Abdallah, ci parla dell’importanza delle storie per l’esule. Il viaggio delle bottiglie vuote è un romanzo pieno di assenze, pieno di vuoti, come vuote sono le bottiglie del titolo, metafora dell’esule. Bolfazl, il protagonista, però, ha la testa piena di storie: “Ero solo uno straniero con delle storie in testa”. Le storie colmano l’assenza perché non hanno mai fine, bensì durano per sempre, non fuggono né si estinguono: Ma non si può scrivere la parola fine a un racconto. I racconti hanno le loro leggi. Non se ne può cambiare il corso. Un racconto o è morto o vivrà fino alla fine dei tempi. Lo stesso accade per la storia di René, amico del protagonista: “per lui era finita, ma non per il racconto. Lui venne a depositarsi nel vuoto dei miei ricordi”. Ai ricordi, alla memoria è legata l’identità dell’esule: Ma chi sarei stato senza i ricordi della mia terra natale? Come avrei potuto qui, in questo paese umido, cercare il significato delle parole senza che la stufa della mia casa paterna ardesse nella mia mente? I ricordi, la memoria danno sollievo e forza all’esule che si ritrova in una terra inospitale, non accogliente, i cui abitanti sono ostili o, nella migliore delle ipotesi, indifferenti. Ma, come afferma Nafisi, il vero significato dell’esilio si scopre solo al ritorno. I had never felt this sense of loss when I was a student in the States. In all those years, my yearning was tied to the certainty that home was mine for the having, that I could go back anytime I wished. It was not until I had reached home that I realized the true meaning of exile. As I walked those dearly beloved, dearly remembered streets, I felt I was squashing the memories that lay underfoot. (RLT, p. 145) Il vero significato dell’esilio sta nel fatto che, al ritorno, non si riconosce più il proprio paese, ci si sente estranei in patria. Ciò può avvenire in vari modi. Innanzitutto, il primo impatto con la propria terra passa attraverso il filtro di dogane e dei controlli di bagagli e documenti da parte degli agenti della polizia di frontiera. L’aeroporto dovrebbe essere il simbolo dell’uscio di casa, quando la casa è la patria. L’aeroporto dovrebbe per primo accogliere l’espatriato che sogna di tornare a casa, offrendogli come dono per il ritorno il senso di appartenere a quei luoghi. Ma il tempo scorre sia per l’esiliato sia per la patria, cosicché ad accogliere l’esule, dopo i lunghi anni trascorsi all’estero, non è un aspetto familiare, ma luoghi trasformati, irriconoscibili. A young woman stands alone in the midst of a crowd at the Tehran airport, backpack on her back, a large big hanging from one shoulder, pushing an oversize carry-on with the tips of her toes. She knows that her husband of two years and her father must be somewhere out there with the suitcases. She stands in the customs area, teary-eyed, desperately looking for a sympathetic face, for someone she can cling to and say, Oh how happy, how glad, how absolutely happy I am to be back home. At long last, here to say. But no one so much as smiles. The walls of the airport have dissolved into an alien spectacle, with giant posters of an ayatollah staring down reproachfully. Their mood is echoed in the black and bloodred slogans: death to America! Down with imperialism & Zionism! America is our number-one enemy! Not having registered as yet that the home she had left seventeen years before, at the age of thirteen, was not home anymore, she stands alone, filled with emotions wriggling this way and that, ready to burst at the slightest provocation. I try not to see her, not to bump into her, to pass by unnoticed. Yet there is no way I can avoid her. (RLT, p. 81) La giovane donna sola è Nafisi stessa, che guarda a se stessa come dal di fuori. Usa la terza persona per descriversi, astuzia grammaticale che riflette lo spaesamento che prova: si sente spaesata nel luogo che riteneva, da sempre, la propria casa, il luogo più intimo di una persona. Per cui, non riconoscendo i luoghi della sua infanzia, della sua storia personale, non riconosce più nemmeno se stessa, si trova di fronte ad un’estranea, e può per questo osservarla con distacco. Ha smarrito la propria identità perché ha perso, di colpo, con il contatto con il suolo patrio, la propria storia: i resti della sua storia che si intrecciano a quella della nazione sono stati cancellati, come spazzati via dai colpi della scopa di una strega cattiva, che ha cancellato i colori e l’allegria e ridipinto tutto il quadro di grigi e di visi senza sorriso. The dream has finally come true. I was home, but the mood in the airport was not welcoming. It was sober and slightly menacing, like the unsmiling portraits of Ayatollah Khomeini and his anointed successor, Ayatollah Montazeri, that covered the walls. It seemed as if a bad witch with her broomstick had flown over the building and in one sweep had taken away the restaurants, the children and the women in colourful clothes that I remembered. This feeling was confirmed when I noticed the cagey anxiety in the eyes of my mother and friends, who had come to the airport to welcome us home. (RLT, p. 82) Il senso di familiarità e di appartenenza sono stati anch’essi di colpo cancellati, insieme ai vestiti colorati, ai bar e i ristoranti. Le stesse sensazioni e gli stessi sentimenti sono quelli che prova un’altra giovane iraniana, dopo ben soli quattro anni di vita in esilio in Europa, in Austria. Marjane Satrapi, in Persepolis, la propria autobiografia a fumetti, descrive il proprio ritorno in Iran e racconta le sensazioni provate, che sembrano rispecchiare quelle di Nafisi. Après quatre années de vie à Vienne, me revoilà à Tehéran. Dès mon arrivée à l’aéroport de Mehrabad et à la vue du premier douanier, je sentis immédiatement l’irrépressif de mon pays. Tu n’as rien d’interdit ? journaux de mode, cassettes, alcool, porc, … Non monsieur ! Remets bien ton voile ma sœur ! […] Frère et sœur sont des termes utilisés en Iran par les représentants de la loi pour donner des ordres aux gens, sans les offender. Il rientro in patria non corrisponde alle aspettative di chi ritorna. Già al momento dell’entrata si percepisce che non si calpesta più lo stesso suolo della partenza. L’aeroporto è divenuto quel luogo di transito dove tutto è tenuto sotto stretto controllo. All’aeroporto, soglia e frontiera si confondono e diventano la stessa cosa, luogo protetto e armato, che divide lo spazio interno da quello esterno, considerato ostile e minaccioso. L’aeroporto in cui sbarcano Nafisi e Satrapi appare molto diverso da quello descritto dalla filosofa Rosi Braidotti, per la quale invece i luoghi di transito sono degli spazi liberi, sospesi, delle zone inbetween: I do have special affection for the places of transit that go with traveling: stations and airport lounges, trams, shuttle buses, and check-in areas. In between zones where all ties are suspended, and time stretched to a sort of continuous present. Oases of nonbelonging, spaces of detachment. No-(wo)man’s lands. Il rientro delle due esuli avviene in uno spazio diverso, mutato, trasformato dal tempo e dagli avvenimenti. Il tempo è trascorso sia per l’esule sia per la società iraniana. Ma per l’esule, l’immagine della patria rimane congelata nella mente, legata al tempo della partenza. In patria, invece, il tempo ha continuato a portare mutamenti, la società ha continuato a cambiare (nel bene o nel male). Di conseguenza, al rientro, l’esule si trova a dover riaggiustare le proprie immagini, a modificare le idee che aveva sulla propria patria, la propria città. Spesso le città sono divenute irriconoscibili, e ci si perde fra vie, strade e muri che non si riconoscono, in cui non si è più capaci di orientarsi né di muoversi in modo appropriato, proprio come è successo a Dubravka Ugrešić, di ritorno nella sua nativa Zagabria. Oltre alle immagini del mondo esterno, c’è da rivedere il proprio modo di vestirsi, di comportarsi, la propria gestualità: bisogna imparare ad indossare il velo, a portare lunghi abiti pesanti. Il n’y avait pas que le voile auquel je devais me réhabituer, il y avait aussi tout le décorum : la présentation des martyrs par des fresques murales de vingt mètres de haut ornées de slogans les honorant, comme “le martyr est le cœur de l’histoire” ou “j’espérais être un martyr moi-même” ou encore “le martyr est vivant à jamais”. Surtout après quatre ans passés en Autriche où on voyait plutôt sur les murs “Meilleures saucisses à vingt schillings”, le chemin vers la réadaptation me paraissait très long. Il y avait aussi les rues … beaucoup avaient changé de nom. Elles s’appelaient désormais avenue du martyr machin ou la rue du martyr truc. C’était très déstabilisant. L’esiliata rappresentata nelle opere di Satrapi e Nafisi vive dunque un doppio esilio. Prima viene mandata o sceglie di lasciare la propria casa e la patria. Successivamente, sognando per lungo tempo di rientrare, quando vi fa effettivamente ritorno, non riconosce più il paese che aveva lasciato. Entrambe le scrittrici, Nafisi e Satrapi, scelgono l’esilio come unica soluzione per sopravvivere, e scelgono infine la scrittura come spazio per denunciare il regime ed esporre al mondo le sofferenze e le violenze che questo ha fatto al popolo. Entrambe le scrittrici mostrano contemporaneamente il loro profondo attaccamento all’Iran, l’orgoglio di essere iraniane, il loro senso di identificazione con una certa idea di Iran, che non corrisponde, però all’Iran in cui si trovano a vivere nel presente. Spazio privato e spazio pubblico si confondono. Lo spazio dove ci si sente a casa, ci si sente al sicuro, è solo lo spazio all’interno delle pareti domestiche. Fuori è lo spazio della violenza, della paura, della repressione da parte del regime. Ma vi sono continue incursioni del regime perfino tra le pareti domestiche, nello spazio dell’intimità, attraverso le perquisizioni, le repressioni delle feste private e i controlli nelle case. Per poter avere libertà bisogna ritagliarsi uno spazio ancora all’interno dello spazio privato. Lo spazio della casa della famiglia Satrapi, così come quello del salotto di Nafisi dove avveniva il seminario segreto, è il solo a garantire la libertà di pensiero e di parola. In casa le donne svestono i panni imposti loro dal regime, tolgono i veli e i chador per sentirsi libere e a proprio agio. Nel loro esilio interno vivono una libertà che non può essere mostrata all’esterno, pena la repressione. I genitori di Marjane, a loro volta, decidono di mandarla a studiare all’estero perché temono per la sua incolumità. La giovane, difatti, ripete nello spazio pubblico le idee che sente in casa, rompendo così la barriera tra lo spazio privato e lo spazio pubblico, e portando idee rivoluzionarie in quest’ultimo, a rischio della sua incolumità. Il chador e il velo che coprono i capelli e il divieto di mostrare anche un solo ciuffo o un centimetro in più di pelle sotto il vestito sono vissute da entrambe le artiste come un’altra modalità imposta di annullamento: Sometimes, almost unconsciously, I would withdraw my hands into my wide sleeves and start touching my legs or my stomach. Do they exist? This stomach, this leg, these hands? Unfortunately, the Revolutionary Guards and the guardians of our morality did not see the world with the same eyes as me. They saw hands, faces and pink lipstick; they saw strands of hair and unruly socks where I saw some ethereal being drifting soundlessly down the streets. (RLT, p. 168) L’estrema conseguenza dell’esilio rappresentato da Nafisi e Satrapi e, in particolare, dell’essere esiliati in patria, nel proprio spazio, è quella di sentirsi annullati, inesistenti. This was when I went around repeating to myself, and to anyone who cared to listen, that people like myself had become irrelevant. This pathological disorder was not limited to me; many others felt they had lost their place in the world. I wrote, rather dramatically, to an American friend: “You ask me what it means to be irrelevant? The feeling is akin to visiting your old house as a wandering ghost with unfinished business. Imagine going back: the structure is familiar, but the door is now metal instead of wood, the walls have been painted a garish pink, the easy chair you loved so much is gone. Your office is now the family room and your beloved bookcases have been replaced by a brand-new television set. This is your house, and it is not. And you are no longer relevant to this house, to its walls and doors and floors; you are not seen. (RLT, p. 169) Le continue interferenze dello Stato nella vita privata dei cittadini hanno l’effetto di modificare anche la percezione dello spazio domestico, che diviene estraneo, come estranea è la patria in cui l’esule è ritornata. L’annullamento del soggetto nello spazio pubblico prosegue inglobando anche lo spazio della casa. La scrittura, allora, ha lo scopo di salvare dall’annullamento, di ri-iscrivere la persona nel mondo e, nello stesso tempo, può farsi ponte, legame con la patria perduta. Tappeto volante che permette di viaggiare là dove le barriere imposte dalle frontiere, dalle dogane e dalla politica non permettono più di tornare, la scrittura si fa rivisitazione della propria terra, sotto un’altra forma rispetto a quella del ritorno fisico e geografico. È un ritorno immaginato, metaforico, che conserva quella distanza dell’esilio da cui guardare con più distacco agli eventi, ma allo stesso tempo trasuda tutta la nostalgia di colei che si trova in esilio. Se la memoria strappa all’oblio il passato con la scrittura si fa rivivere addirittura il presente. L’Iran attuale, per essere capito dall’esterno, dalla comunità internazionale, ha bisogno di essere spiegato da chi lo conosce veramente a fondo, da chi ci è nato e vissuto. In questo la scrittura diventa anche un atto politico. Come i romanzi delle scrittrici nordafricane, anche il romanzo di Azar Nafisi, Reading Lolita in Tehran, parla della necessità di raccontare le storie delle donne, di usare la parola e la scrittura per mostrare il punto di vista femminile, per renderlo pubblico e per non continuare la pratica di nascondere le donne come fanno gli Ayatollah, ricoprendole con il chador iraniano. Il testo di Nafisi, che ho già analizzato dal punto di vista spaziale, considerandolo come romanzo autobiografico e di finzione, presenta anche un terzo piano interpretativo, che è quello di un’opera di critica letteraria. In primo luogo perché l’autrice propone sue interpretazioni dei libri di cui parla, ma ancor più perché è un testo intriso di commenti sulla funzione della letteratura. Ho evidenziato come l’autrice si rivolga spesso al lettore direttamente, chiedendo la sua collaborazione: senza lo sforzo immaginativo di chi legge, le scritture resterebbero inutili pezzi di carta senza potere. Se chi legge non immagina il gruppo delle ragazze, riunite nel salotto, queste non esistono. L’unico modo perché esistano e, soprattutto, perché la loro esperienza non venga annullata e, ancora una volta, nascosta e resa invisibile, è la narrazione e l’atto di lettura del lettore. La funzione delle scritture è quella di stimolare l’immaginazione e la riflessione, di far conoscere realtà che altrimenti rimarrebbero taciute, invisibili, nel silenzio. Per Nafisi, la letteratura ha un forte potere sovversivo (RLT, p. 94), nel senso che stravolge il lettore, lo turba, costringendo a guardare alla realtà da un’ottica differente da quella consueta. In questo, la narrativa è come l’esilio: trasporta chi legge molto lontano, interponendo una distanza tra la realtà e la storia che viene raccontata, fa smarrire la strada, conducendo il lettore lontano dallo spazio familiare, lo fa sentire estraneo nella sua casa. I wrote on the board one of my favourite lines from the German thinker Theodor Adorno: “The highest form of morality is not to feel at home in one’s own home”. I explained that most great works of the imagination were meant to make you feel like a stranger in your own home. The best fiction always forced us to question what we took for granted. It questioned traditions and expectations when they seemed too immutable. I told my students I wanted them in their readings to consider in what ways these works unsettled them, made them a little uneasy, made them look around and consider the world, like Alice in Wonderland, through different eyes. (RLT, p. 94) Nafisi racconta di quando, durante una delle sue lezioni all’Università di Teheran, aveva fatto leggere Il grande Gatsby, libro che aveva dovuto subire un vero e proprio processo nella sua classe, da parte di favorevoli e contrari. Che gli studenti ritenessero il libro straordinario o lo considerassero immorale, la professoressa era felice perché il libro aveva svolto perfettamente il suo compito: era riuscito ad infiammare gli animi dei ragazzi e delle ragazze e a far parlare di sé. Non urlavano per Lenin o Khomeini, litigavano per un libro! Questa, secondo Nafisi, è la vittoria della letteratura. Un buon romanzo è quello che riesce a far sì che il lettore instauri un rapporto empatico coi personaggi e lo induca a riflettere sugli eventi che scuotono il mondo. A novel […] can be called moral when it shakes us out of our stupor and makes us confront the absolutes we believe in. (RLT, p. 129) Un buon romanzo è anche una lezione di democrazia, in quanto dà a tutti i personaggi una voce. We can’t experience all that others have gone through, but we can understand even the most monstrous individuals in works of fiction. A good novel is one that shows the complexity of individuals, and creates enough space for all these characters to have a voice; in this way a novel is called democratic – not that it advocates democracy but that by nature is so. (RLT, p. 132) Come Assia Djebar, anche Nafisi riconosce la grande importanza della narrazione per non tacere e non dimenticare i soprusi, i torti subiti, le violenze che avvengono nel mondo e le migliaia di vittime e di voci che vengono fatte tacere. Lolita belongs to a category of victims who have no defence and are never given a chance to articulate their own story. As such, she becomes a double victim: not only her life but also her life story is taken from her. We told ourselves we were in that class to prevent ourselves from falling victim to this second crime. (RLT, p. 41) Attraverso il romanzo Reading Lolita in Tehran, lo spazio della “stanza tutta per noi” si trasferisce sullo spazio della pagina scritta che diventa luogo per parlare di sé, della propria condizione e della privazione dei diritti civili e politici che le donne e la società iraniana subisce sotto il regime islamista. Ma è lo stesso spazio del romanzo a costituire per Azar Nafisi una piattaforma da cui lanciare accuse al governo che attanaglia la società iraniana, e che le vite individuali. They invaded all private spaces and tried to shape every gesture, to force us to become one of them, and that in itself was another form of execution. (RLT, p. 77) Attraverso la scrittura, al contrario, si può continuare a proporre una visione diversa, lottare per i propri diritti e quelli di tutte le donne. Nafisi si scaglia ripetutamente contro uno dei maggiori soprusi alla libera scelta delle donne nelle regioni musulmane, il matrimonio combinato. Ma, ottimisticamente, fa la rilevare che la situazione degli anni ’90 in Iran non deve essere considerata come immutabile e immutata, perché lei stessa ha potuto vivere in una società molto diversa rispetto quella che è toccata alle sue allieve, una sola generazione dopo. Le leggi e la situazione politica, soprattutto la condizione delle donne, variano molto velocemente, e ciò dimostra che sono legate ai cambiamenti di regime e all’alternanza di chi detiene il potere, e non a principi politici e religiosi solidi. At the start of the twentieth century, the age of marriage in Iran – nine, according to the sharia laws – was changed to thirteen and then later to eighteen. My mother had chosen whom she wanted to marry and she had been one of the first six women elected in Parliament in 1963. When I was growing up, in the late 1960s, there was little difference between my rights and the rights of women in Western democracies. But it was not the fashion then to think that our culture was not compatible with modern democracy and human rights. We all wanted opportunities and freedom. This is why we supported revolutionary change – we were demanding more rights, not fewer. (RLT, p. 261) CAPITOLO 8. IL LUOGO COMUNE DEI DIRITTI UMANI. 8.1 Tre modi per affermare i diritti delle donne. Dalla lettura dei testi analizzati in questo lavoro è emerso un ulteriore luogo comune di cui parlano e in cui si ritrovano le autrici, luogo comune nel senso attribuito all’espressione da Édouard Glissant. Si tratta del discorso sui diritti umani e, in particolare, sui diritti delle donne che queste autrici articolano nelle loro scritture. Tale discorso viene svolto a vari livelli. Innanzitutto, il solo fatto di scrivere, in quanto donne, la propria autobiografia o dei romanzi in cui le protagoniste sono altrettante donne, implica la presa di coscienza di sé come soggetto attivo e come individuo distinto dall’insieme della società. In quanto individui, le donne che scrivono nella società islamica dimostrano di distanziarsi dai dettami della tradizione e dei governi che le vogliono soggetti segregati. Lo stesso gesto della scrittura esprime una visione differente della società e della vita. Ancora più rilevante è tuttavia il fatto che le opere qui analizzate trattano espressamente dei diritti umani nel senso più esteso del termine e di quelli delle donne in particolare. Mettono difatti in scena episodi di soprusi e violenze e denunciano la negazione nei paesi delle loro autrici o autori dei basilari diritti umani. Si tratta, in alcuni casi, di testi scritti per perorare la causa dei diritti umani, che cercano nuove modalità discorsive, oltre che concretamente proporre visioni alternative della realtà. In terzo luogo, è significativo sottolineare che questi discorsi vengono articolati in lingua inglese o francese, cioè in due delle lingue occidentali storicamente più legate alla difesa dei diritti umani. Il francese è la lingua in cui, nel 1948, è stata redatta a Parigi la Dichiarazione Universale dei Diritti umani, e la Francia è una delle nazioni che fin dalla sua costituzione moderna, seguita alla rivoluzione del 1789, si è prefissa gli ideali di libertà, fraternità e uguaglianza. La lingua inglese è la lingua della Gran Bretagna, ma anche degli Stati Uniti, terra di emigrazione ed esilio per Azar Nafisi e Elmaz Abinader. Come la Francia, così anche gli Stati Uniti si sono dotati, al momento della fondazione della federazione, di una Costituzione che metteva in primo piano il rispetto di alcuni diritti umani, primo fra tutto il diritto al perseguimento della felicità. Questi tre aspetti, cioè scrivere in quanto donne, scrivere per denunciare la negazione dei diritti umani e per proporre nuove strade, e, terzo, scrivere in inglese o francese, sono elementi che si collegano l’un l’altro. Scrivendo di se stesse o di altre donne “nascoste”, “invisibili”, queste scrittrici, che provengono dalla cultura islamica, espongono vite private all’occhio pubblico e, così facendo, rivendicano un proprio spazio nella società. Scrivere vuol dire pubblicare non solo nel senso di rendere pubblica una storia, ma anche nel senso di servirsi di una casa editrice che stampi e diffonda il testo ad un vasto pubblico. Gli editori di questi romanzi sono francesi o statunitensi, per cui queste narrazioni vengono lette, esposte, ad una comunità internazionale, che spesso non è a conoscenza della realtà da cui queste storie provengono. L’edizione europea o statunitense de-localizza la storia narrata e la trasforma in testimonianza di un mondo diverso che, a sua volta, guarda all’occidente e a questo vuole destinare il proprio racconto. Allo stesso tempo, il racconto è anche rivolto alle donne del proprio paese che vanno a scuola e imparano a leggere in inglese o francese, perché possano essere ispirate a seguire le orme tracciate da loro conterranee. 8.2 Affermare se stesse. Si è affermato in precedenza che scrivere implica la presa di coscienza di sé come individuo. Le autrici e le loro protagoniste parlano in prima persona, si rivelano e si svelano, si sbarazzano del velo, reale o figurato, per dire la propria verità. Si tratta di una forte presa di posizione, particolarmente per il mondo arabo, dove l’individualità è tenuta sotto stretta sorveglianza, scoraggiata, sia per gli uomini che per le donne. Tanto più forte e sconcertante è l’affermazione di sé per una donna, che tradizionalmente è nascosta e velata. È un parlare in prima persona, un dire e scrivere “io”, “je”, “I” (accompagnati da aggettivi “mon”, “my” etc, e da tutti gli embrayeurs du discours, secondo la definizione di Benveniste). La scelta del romanzo, e soprattutto dell’autobiografia, è in se stessa un atto di ribellione e rottura con la tradizione che punta al primato della comunità sul singolo. La letteratura araba non ha una tradizione di romanzi proprio per questo motivo, come spiega Tahar Ben Jelloun, scrittore francofono di origine marocchina. Per avere il primo vero romanzo arabo bisogna attendere le opere di Nagib Mahfuz, alla metà del XX secolo: La société arabe n’a pas reconnu l’individu en tant que subjectivité, entité singulière qui s’exprime. La révolution française de 1789 a instauré l'individu comme une émergence essentielle qu'il faut respecter ; la Déclaration des Droits de l'Homme a daté l'émergence de l'individu dans la société occidentale. A partir du moment où un individu s’exprime et que son expression est respectée c'est-à-dire écoutée, il peut devenir un personnage de roman, il peut lui-même être romancier, il peut lui-même saisir sa société à travers des individualités. Or, dans le monde arabe, ce qui est reconnu c’est surtout la famille, le clan, la tribu. Romanzo e autobiografia, nel mondo arabo islamico, fino a poco tempo fa erano considerati dei veri e propri tabù, pratiche da evitare e condannare in quanto spazi in cui l’intimità viene messa a nudo: Genre romanesque et récit autobiographique représentent, en effet, tous les deux, le surgissement de la personne comme une rupture face à l’unanimité du groupe dans le conformisme de ses normes morales. Le lotte di oggi nel mondo arabo sono dirette a cambiare questa percezione, sono lotte per l’individuo, continua Ben Jelloun. Si è già parlato della rilevanza sociale e storica dell’estensione dell’istruzione alle ragazze nel Maghreb e quanto questa fosse legata alla cultura e alla lingua francese. Per le scrittrici del Maghreb, usare la lingua francese non significa semplicemente prendere in prestito parole di un’altra lingua e usarle come se si stesse parlando nella lingua madre. Non si tratta, cioè, di fare un discorso equivalente nelle due lingue. Significa, invece, usare la lingua e l’espressione, scritta o orale che sia, in un modo nuovo, diverso da quello che la lingua araba permetterebbe. Usare il francese equivale ad impregnarsi della cultura e dei modi dei francesi, e, con il tempo, esserne modificati. In L’amour, la fantasia Assia Djebar racconta alcuni episodi di cui è stata testimone da bambina e che vede come protagonisti i propri genitori. Se ne evince, quindi che, grazie all’utilizzo di una nuova lingua, si può arrivare a rompere con le consuetudini e addirittura a compiere piccole ma significative rivoluzioni socioculturali. Nel corso degli anni della sua infanzia, i genitori, ciascuno a suo modo, sono stati i punti di riferimento che hanno guidato Djebar a rendersi conto che ciò che la società le prometteva e stabiliva non era incontestabile; che gli individui hanno la facoltà di pensare e ragionare con la propria testa, che un mondo diverso è possibile e che per ottenerlo è necessario cominciare dalle cose più piccole e semplici. Innanzitutto, il padre diventa la sua figura di riferimento primaria, colui che per primo rompe con la mentalità che lo circonda, portando la figlia primogenita a scuola. Il padre, istruito secondo la cultura europea, crede nell’istruzione femminile, nel diritto delle bambine di ricevere le stesse opportunità rispetto ai compagni maschi. Crede nella possibilità delle donne di riscattarsi e di emanciparsi dalla situazione di chiusura e invisibilità in cui sono costrette. Djebar racconta di come, nella cultura in cui è nata, fosse consuetudine delle donne non nominare mai lo sposo con locuzioni del tipo “mon mari” o chiamarlo per nome (AF, p. 54). Si usava, invece, il pronome “il”, “lui”, che manteneva una distanza quasi reverenziale tra gli sposi e non creava l’idea di coppia e di intimità tra i due soggetti. Nel corso degli anni di matrimonio, la madre di Djebar aveva imparato progressivamente il francese, spronata dal fatto che il marito era istitutore alla scuola francese, ed era in grado di conversare con le mogli dei colleghi del padre, per la maggior parte coppie venute dalla Francia e che abitavano nei caseggiati riservati agli insegnanti della scuola. Pian piano, Assia comincia a rendersi conto che, in queste conversazioni, la madre aveva abbandonato la consuetudine araba e si riferiva al marito con espressioni del tipo “mon mari est venu, est parti… Je demanderai à mon mari” (AF, pp. 54-55). Probabilmente, ipotizza l’autrice, all’inizio per la madre non doveva essere stato facile, ma con il passare del tempo aveva preso confidenza con questo modo di parlare e si sentiva sempre più a proprio agio nel nominare in modo diretto il proprio sposo, tanto da farlo con disinvoltura anche nelle conversazioni con le sorelle e le cugine. Une écluse s’ouvrit en elle, peut-être dans ses relations conjugales. Des années plus tard, lorsque nous revenions, chaque été, dans la cité natale, ma mère, bavardant en arabe avec ses sœurs ou ses cousines, évoquait presque naturellement, et même avec une pointe de supériorité, son mari : elle l’appelait, audacieuse nouveauté, par son prénom ! Oui, tout de go, abruptement allais-je dire, en tout cas ayant abandonné tout euphémisme et détour verbal. […] Des années passèrent. Au fur et à mesure que le discours maternel évoluait, l’évidence m’apparaissait à moi, fillette de dix ou doux ans, déjà : mes parents, devant le peuple des femmes, formaient un couple, réalité extraordinaire ! (AF, p. 55) Queste righe di Djebar mostrano tutta la forza della parola, su vari livelli. Innanzitutto, dimostrano che il fatto di nominare dà consistenza e realtà alla cosa o al soggetto nominato. Madre e padre formano una coppia, il padre, nell’immaginario della bambina, si staglia, figura alta e ben tracciata, contro le altre figure degli uomini della famiglia che “se retrouvaient confondus dans l’anonymat du genre masculin” (AF, p. 56). Stravolgere le convenzioni sociolinguistiche dell’arabo si rivela un gesto affermativo forte, che progressivamente cambia la percezione della coppia, dunque dell’istituzione della famiglia, la cellula su cui si fonda l’intera società. La sostituzione di un semplice pronome nella frase può avere come conseguenza il mutamento della percezione di cosa sia una coppia e una famiglia. Non bisogna dimenticare da dove questa trasformazione si è originata: dall’uso della lingua francese e dalle conversazioni con donne e uomini provenienti dalla cultura francese. La rivoluzione all’interno della coppia araba non si ferma a quel punto. Djebar racconta anche di un altro evento, sconcertante per il mondo algerino di allora. Mentre il padre si trovava in viaggio, lontano, aveva mandato una cartolina alla famiglia, indirizzandola direttamente alla moglie. Scrivere il nome di una donna su una busta che sarebbe stata esposta agli occhi di tanti uomini estranei, impiegati delle poste delle varie città attraverso cui la cartolina sarebbe passata, era un atto impressionante per la società di allora. Il nome scritto equivaleva, infatti, ad esporre il corpo stesso della donna senza veli al pubblico sguardo. La révolution était manifeste: mon père, de sa propre écriture, et sur une carte qui allait voyager de ville en ville, qui allait passer sous tant et tant de regards masculins, y compris pour finir celui du facteur de notre village, un facteur musulman du surcroît, mon père avait donc osé écrire le nom de sa femme qu’il avait désigné à la manière occidentale : « Madame untel… » ; or, tout autochtone, pauvre ou riche, n’évoquait femme et enfants que par le biais de cette vague périphrase : « la maison ». […] Alors s’ébaucha, me semble-t-il, ma première intuition du bonheur possible, du mystère, qui lie un homme et une femme. Mon père avait osé « écrire » à ma mère. L’un et l’autre, mon père par l’écrit, ma mère dans ses nouvelles conversations où elle citait désormais sans fausse honte son époux, se nommaient réciproquement, autant dire s’aimaient ouvertement. (AF, pp. 57-58) Attraverso questo esempio, la scrittrice dimostra la portata che può avere l’apprendimento della lingua e degli usi europei. Djebar ne parla in termini di una vera e propria irruzione nella società algerina di un mondo altro, con il suo modo di pensare e di agire. La scrittrice dimostra che i timori di chi, nella società araba, vorrebbe impedire alla cultura europea di infiltrarsi in quella autoctona sono in un certo senso fondati, dal momento che il processo di cambiamento innescato dalla conoscenza e dall’avvicinamento alla nuova cultura è lento e quasi impercettibile, ma porta a risultati evidenti. Lo stesso discorso vale per Malika Mokeddem, nei cui romanzi troviamo sia la presa di parola in prima persona, sia la denuncia di violenze e violazioni dei diritti delle donne. Le protagoniste dei suoi romanzi, come pure la narratrice di La Transe des Insoumis, sono donne che dicono je (“D’où a-t-elle sorti ce “je”?”). Sono forti, come forte è la loro volontà di non lasciarsi sottomettere, di reagire alle convenzioni e alle tradizioni che le vorrebbero tranquille mogli e madri di famiglia. “Tu es forte, très forte” è un’affermazione che ricorre come un ritornello nel romanzo N’zid. Sono sole, benché ci sia sempre una o più presenze maschili che le accompagna, ma queste ultime rimangono marginali, di supporto. Questa solitudine, se da una parte riflette la scelta di vita personale dell’autrice, dall’altra pone l’accento sulla necessità di tutelare le esigenze, i bisogni, le aspirazioni e i diritti di ciascun individuo, come pure delle minoranze. Ciascun membro della comunità ha il diritto di essere rispettato e considerato per se stesso e di non venire sacrificato (soprattutto le donne) ai bisogni della famiglia, del clan o della tribù. Non è un caso che Mokeddem usa spesso la parola tribù per designare la sua numerosa famiglia e i suoi fratelli (in maggioranza maschi). La tribù, i legami di sangue e il sangue stesso sono elementi costitutivi della società araba e berbera (perché non bisogna dimenticare che la società maghrebina è un tessuto complesso di popolazioni di etnia araba ma anche berbera), che tradizionalmente sono strutturate intorno al clan, alla tribù. Ibn Khaldoun, il grande storico del Nord-Africa, nella sua opera I prolegomeni, scrive: La grande distinzione tra i popoli arabi e quelli che non sono arabi (che vivono a nord del Mediterraneo) è che i primi hanno il senso della competenza, dell’appartenenza etnica tribale, il legame del sangue, gli altri sottolineano l’importanza del territorio. La ribellione di Mokeddem si legge anche nella scelta delle parole e delle relazioni che intesse con le persone. La parola tribù è usata sempre negativamente, ha connotazioni dispregiative, che rivelano la posizione critica di Mokeddem nei confronti del sistema sociale che questa parola evoca, della sottomissione delle aspirazioni personali dell’individuo al bene comune della famiglia o del clan e soprattutto alla perpetuazione di norme e abitudini. Aucun groupe quel qu’il soit n’est jamais un bloc monolithique, moi, je porte mon attention à l’individu. A ce qu’il a dans le ventre. A ce qui l’accable. Pas à des communautés, des clans politiques. (TI, p. 196) Questa è un’affermazione programmatica di una pratica politica, di avvicinamento all’altro, al singolo in quanto individuo e non in quanto appartenente ad una comunità che si arroga il diritto di dargli un’identità prestabilita. Ciò è possibile e Mokeddem medico ce ne dà la prova: tra i suoi pazienti, sa bene che vi sono alcuni islamici. Ma questi trasgrediscono al boicottaggio richiesto dai gruppi islamici nei confronti della scrittrice e continuano a recarsi al suo ambulatorio, perché il rispetto e la fiducia acquisita in anni di lavoro ha la meglio su un’opposizione politica più distante dalla vita reale: Quelques-uns sont islamistes. Je le sais. J’en déduis que s’ils persistent à venir me consulter, c’est que le respect, la confiance l’emportent sur l’opposition, le fait qu’ils transgressent l’avis de boycott proféré à mon encontre en est une preuve irréfutable. (TI, pp. 195-196) 8.3 Denunciare la negazione dei diritti delle donne. I legami di sangue si possono trasformare in sangue versato per difendere l’onore della famiglia o del gruppo. Mokeddem narra per ben due volte, in due libri distinti, un episodio di cui era stata protagonista insieme alla sorella più giovane, ai tempi del liceo, la sera del 1° novembre del 1964, nel paese di Béchar, in Algeria. La famiglia aveva insistito che andasse anche lei, insieme agli altri, nella piazza del paese per assistere ai fuochi d’artificio in commemorazione dell’indipendenza dell’Algeria, perché “on ne laisse pas une fille de quinze ans seule dans une maison la nuit” (TI, p. 142). Quasi per ironia del destino (un destino che ha come sfondo l’Algeria e la sua società), la ragazza sarebbe stata molto più al sicuro in casa da sola, per come si sono svolti gli eventi, piuttosto che con tutta la famiglia sulla piazza. Le due sorelle arrivano dunque nella grande piazza squadrata. Questa viene descritta attraverso masse colorate, il bianco dei veli delle donne da un lato e il nero della folla degli uomini dall’altro. La marée blanche des haïks, les voiles des femmes, occupe la moitié. La foule sombre des hommes, l’autre. (TI, p. 142) In questo quadro bianco e nero, in cui i colori e la loro separazione danno il senso dell’ordine sociale, le due giovani arrivano a testa scoperta, provocando una violenta reazione da parte della folla degli uomini. È come se le due ragazze rappresentassero due atomi isolati che, entrando nel sistema ordinato, provocano scompiglio e caos. Nous venons à peine d’arriver que me parviennent des propos obscènes, des haleines chargées de vinasse. Un groupe de jeunes gens ivre s’est infiltré parmi les femmes pour se placer derrière nous. J’endure leurs grossièretés en bouillonnant mais sans broncher car les ronchonnement des femmes alentour m’accusent de les exposer à la honte, à la vulgarité par mon impudence à me présenter là nue en pleine nuit. On dit nue parce que sans voile. (TI, pp. 142-143) Non solo le due giovani sono il bersaglio dei gesti e delle espressioni oscene da parte di uomini, ma vengono accusate e insultate persino dalle altre donne della folla. Con questa scena, Mokeddem mette a nudo l’ipocrisia che si cela dietro i discorsi sul progresso e sulla liberazione dell’Algeria. All’indomani dell’indipendenza del paese, le donne si ritrovano, dal punto di vista dell’autrice, ancora a dover fare un lungo cammino per uscire dal timore reverenziale verso la tradizione e il modo di pensare comune. Le due ragazze, prese dal panico di fronte ai rabbiosi insulti della folla, scappano e cercano di raggiungere gli uomini della famiglia, ma vengono inseguite delle orde degli altri uomini che cominciano a lanciare pietre e ogni sorta di oggetti nella loro direzione. Fortunatamente, la voce di due uomini si leva alta, distinguendosi dal resto delle urla inferocite di quella notte, per venire in loro soccorso. La prima voce è quella di un fotografo, che le conosce da quando erano bambine e le chiama per nasconderle nel suo negozio. La seconda voce è quella di un giovane poliziotto che, avendo assistito a tutta la scena ma impossibilitato a proteggerle sulla piazza, raggiunge le due ragazze al commissariato e le difende, questa volta, dal commissario che era già pronto a condannarle per prostituzione. Il nous rejoint au commissariat hors d’haleine, choqué lui aussi. C’est lui qui dans une fureur magnifique explique ce qui s’est passé au commissaire bourru qui m’accuse déjà de prostitution. Si son supérieur avait ajouté un grognement de plus, il lui aurait défoncé la gueule tant il était indigné, survolté : « Des sauvages ! Nous sommes encore des sauvages ! Des dizaines d’hommes voulant lapider deux gamines dont le seul tort est de refuser… Elle reste à faire la révolution, la vraie ! ». (TI, p. 144) Narrato sia nel romanzo Les hommes qui marchent, alla terza persona come esperienza della protagonista Leila, sia, questa volta in prima persona, in La Transe des insoumis, questo è uno degli episodi più significativi per l’autrice, che attraverso queste scene mette in atto le dinamiche della società algerina all’indomani dell’indipendenza. Le donne sono descritte come coloro che perpetuano la propria condizione di segregate, mentre gli uomini appaiono come violenti e ubriaconi, che rovesciano le proprie frustrazioni nella violenza verso l’altro sesso, mentre allo stesso tempo dimostrano l’ipocrisia dei loro discorsi bevendo e fumando, atti che sono comunque contro i precetti religiosi. È la logica della violenza e dell’oltraggio che prevale nella società araba, dove si uccide per l’onore del proprio sangue. Mokeddem si ribella a questa logica del sangue. Scrive. Narra, racconta la storia del quasi-omicidio, non una ma ben due volte, prima come un’esperienza che appartiene ad un'altra donna, poi la riscrive alla prima persona e questa volta è il suo corpo che fa da testimone all’evento. Scrive per denunciare l’accaduto e allo stesso tempo per evitare che si ripeta. Scrive il suo messaggio al popolo algerino perché questo prenda coscienza dell’assurdità e dell’orrore di quell’atto. In questa prospettiva, i libri di Mokeddem rispecchiano ciò che scrive Tahar Ben Jelloun, nel saggio citato, a proposito de Le mille e una notte e della letteratura in generale. Si scrive, egli afferma, per impedire che venga commesso un omicidio. Le Mille et Une Nuits? Il s’agit, tout simplement, de cette phrase très simple : « Raconte-moi une histoire ou je te tue ». Et toute la littérature de l’humanité n’est faite que pour empêcher un meurtre, symbolique ou réel, enfin c’est ainsi que je la vois. Spiccano, nell’episodio, le due figure maschili che si schierano dalla parte delle ragazze e rappresentano quella piccola minoranza di uomini algerini in cui Mokeddem intravede l’unica speranza di cambiamento, legata a qualche “uomo intelligente”. Questa è un’idea che si ripete nei testi di Mokeddem, esplicitata anche in L’interdite e in Des rêves et des assassins. Je ne parle pas de Foued. Lui, Kamel, toi… Vous faites partie de ceux, si peu nombreux, hélas ! qui sauvent la gent masculine. Et nous réconcilient. Il y a ceux qu’on épouse quand les lâches nous lâchent. Et il y a ceux qui nous quittent parce que nous sommes des femmes de tête. Des êtres libres ! Parce qu’ils considèrent que la liberté ne convient pas aux femmes. (Des rêves et des assassins, p. 70) In un’Algeria in cui gli uomini sono “rois […] de détestation des femmes” (L’interdite, p. 51), quasi tutti di coloro, già in scarso numero, che hanno studiato e che possono prendere la difesa delle donne, se ne vanno, preferendo emigrare all’estero. Un personaggio maschile de L’Interdite così riassume la situazione della sua società, criticando gli uomini che fuggono lasciando le donne nella disperazione di dover affrontare da sole le ingiustizie cui sono sottoposte. Ensuite, ceux d’entre nous qui n’ont plus supporté cette vie-là, ont tout fui vers l’étranger. La belle affaire ! Tu sais, autant je comprends que les femmes aient envie de quitter ce foutu pays, autant je condamne les élites mâles qui le font. Je trouve leur lâcheté sans limite. Si jamais il leur reste encore une once de conscience, ils devraient revenir réparer ce qu’ils ont laissé faire tant qu’ils n’étaient pas touchés, tant que les privations et les barbaries n’étranglaient que les femmes. Ils doivent revenir pour affronter enfin la gangrène des mentalités. Heureusement qu’il y avait parmi nous quelques exceptions. (L’Interdite, p. 52) Per fortuna ci sono degli uomini che comprendono le donne e si schierano dalla loro parte, che amano le loro mogli e le loro figlie e cercano di proteggerle invece di disprezzarle. “Et puis, chez nous aussi y a des hommes qui aiment les femmes et le filles, comme Yacine, sauf qu’ils sont pas beaucoup”, commenta la piccola Dalila de L’Interdite (p. 98). La narrazione di Mokeddem si fa dunque espressione e denuncia di ingiustizie e soprusi, della violazione dei fondamentali diritti delle donne in Algeria. Allo stesso tempo, creando nella letteratura degli esempi, per quanto isolati, di persone che si battono contro lo stato delle cose, che protestano e che lottano, contribuisce ad indicare una possibile direzione da seguire. In questo, si può dire che Mokeddem si serve di quello che Homi Bhabha definisce come il “diritto alla narrazione”. Il grande dono della letteratura consiste nel dotare il linguaggio di uguaglianza e di diritti che si riassumono nel “diritto alla narrazione”: raccontare delle storie che creino il tessuto della storia e cambiare la direzione del suo corso. Poiché la narrazione è sia discorso sia azione, come ha osservato Hannah Arendt in Vita activa: la condizione umana, ed è il mezzo attraverso il quale ci riveliamo a noi stessi e agli altri. Con “diritto alla narrazione”, intendo tutte quelle forme di comportamento creativo che ci permettono di rappresentare le vite che conduciamo, di interrogarci sulle convenzioni e i costumi che ereditiamo, di discutere e propagare le idee e gli ideali che giungono a noi spontaneamente e di osare prendere in considerazione le più audaci speranze e paure sul futuro. La letteratura può far intravedere strade che una comunità sta aprendo e, allo stesso tempo, cercare nuove forze per proseguire in quella via. Come afferma Bhabha, “la narrazione non è solo una virtù sociale; è un segno in movimento della vita civica”. La letteratura è un indice del grado di libertà e di fruizione dei diritti umani e nello stesso tempo piattaforma per la loro promozione e la loro articolazione in linguaggio. Quelle società che voltano le spalle al diritto alla narrazione sono società caratterizzate da un silenzio assordante: società autoritarie, Stati di polizia, paesi xenofobi, nazioni traumatizzate dalla guerra o da difficoltà economiche; società sotto la scure della morte, nella morsa della distruzione della libertà. Quando non si tutela il diritto alla narrazione, si rischia di riempire il silenzio con sirene, megafoni, voci prepotenti sostenute da microfoni su podi che stanno molto più in alto delle persone che si confondono in una massa informe… Il diritto alla narrazione presuppone che ci sia un impegno a creare “spazi” per la diversità culturale e regionale, poiché è solo riconoscendo tali risorse culturali come “bene comune” che possiamo garantire che una democrazia si basi sul dialogo e sulla conversazione […]. Parlare il linguaggio dei diritti umani significa proporre una realtà nuova e, allo stesso tempo, trovare le parole per esprimere questa realtà che prima non c’era. Grazie all’immaginazione e alla creatività del linguaggio è possibile figurarsi quegli “‘spazi’ per la diversità culturale e regionale”, ancor prima di realizzarli concretamente. Significa, in altri termini, vedere con gli occhi della mente anticipando la realizzazione nella realtà: La difesa del diritto alla narrazione non deve solo essere attuata, ma anche essere vista. Per questo la libertà di pensiero è vista negativamente dai regimi che mirano a mantenere una società sotto un controllo rigido. Per questo motivo l’immaginazione e la libertà di espressione e di scrittura sono le prime vittime della censura e della repressione. L’immaginazione è, secondo la definizione di Mernissi, “le lieu de toutes les subversions” ed è la prima ad essere condannata quando chi detiene il potere si sente minacciato. Per questo gli scrittori e le scrittrici di romanzi sono spesso, insieme altre figure di intellettuali, i primi ad essere colpiti dalla censura e dalla persecuzione, specialmente nei paesi islamici. Basta ricordarne uno fra tutti, continua Mernissi, “le grand condamné du siècle, Salman Rushdie”. Egli è pericoloso per gli imam proprio perché è uno scrittore di narrativa. Son procès est celui de l’imaginaire, le refuge le plus indomptable de la singularité, le jardin secret de la personne qui échappe à toute censure, à tout compromis. On peut obliger un individu à se soumettre, on ne peut jamais contrôler son imaginaire. L’immaginazione è un processo che si configura come “lieu de la pensée qui se pose comme décollé du réel, comme évanouissement de l’être en soi, […] lieu de liberté que le groupe ne peut surveiller”. Sulle ali dell’immaginazione, una persona può viaggiare lontano, esplorare possibilità remote, e tornare a casa con proposizioni, suggerimenti e idee che scuotono e alterano il fragile equilibrio su cui si basa la società islamica. Si capisce ora ancora più in profondità il senso delle storie e delle letture, così care e così importanti per le scrittrici che abbiamo incontrato in questo lavoro. Attraverso l’immaginazione, la giovane Fatima e le altre donne dell’harem scavalcavano le mura e gli hudud; attraverso i racconti e le letture Mokeddem poteva incontrare i suoi antenati ed imparare da loro l’etica del viaggio e dell’incontro. Si è già parlato dell’importanza della scuola come primo passo verso la coscienza di sé come individuo e come prima forma di esilio. Il discorso di Mokeddem sull’esilio legato all’istruzione e alla condizione delle donne è anche intimamente legato al discorso sui diritti umani. Si tratta di tematiche che si intersecano e si intrecciano Il sapere e l’amore sono i due emblemi della libertà delle donne che Mokeddem individua, sono i “deux emblèmes mêmes de notre liberté”. Ces deux droits-là, nous, nous les avons eus à l’arraché. Ils sont notre réhabilitation dans la totalité de l’être. Dans sa dignité. Aimer, c’est se rendre forts de deux volontés pour affronter les hordes de l’intolérance. Savoir c’est s’enivrer l’esprit de lumières. Et comprendre que l’obscurantisme nous avilit tous. C’est s’approprier de la vie. Apprendre à la défendre, à dénoncer, à dire non. Non, nous ne serons ni rebuts ni déchus ni pions subalternes d’une communauté. (DRDA, p. 57) Un’idea che Mokeddem cerca di far passare con i suoi testi è che una società non sarà mai libera fino a quando non capirà che la sottomissione di una parte della popolazione significa opprimere tutti, che segregare e rendere le donne invisibili nella società non aiuta al progresso della nazione stessa. E che il fallimento delle idee di innovazione e dei tentativi di portare la cultura dei diritti delle donne può avere come unico risultato l’esilio di queste. Et dans ce drame de cendres et de sang, la plus abominable des violences c’est la ruine de l’espérance. C’est la faillite de la pensée qui fait de celles qui accèdent à l’instruction des exilées chez elles comme dans leur société. C’est ça l’exil ! Pour celles-ci, traverser les frontières, mettre les plus grandes distances entre elles et leur famille, entre elles et un pays qui leur refuse la liberté est une délivrance. (DRDA, p. 57) Scrivere è il primo passo nella ribellione della donna verso le imposizioni degli uomini della sua famiglia e delle convezioni sociali. La scrittura è vista come possibilità di fuga. Le parole, attraverso le lettere e i romanzi, volano lontano, su altre sponde e presagiscono la partenza di chi le scrive. Anche Assia Djebar intreccia il discorso dell’istruzione, della scrittura e dell’amore, gridando la sua rabbia contro la convenzione dei matrimoni combinati, che annullano l’individuo e il suo diritto di scegliere per la propria vita. - Jamais, jamais, je ne me laisserai marier un jour à un inconnu qui, en une nuit, aura le droit de me toucher! C’est pour cela que j’écris ! Quelqu’un viendra dans ce trou pour me prendre : il sera un inconnu pour mon père ou mon frère, certainement pas pour moi! Chaque nuit, la voix véhémente déroulait la même promesse puérile. Je pressentais que, derrière la torpeur du hameau, se préparait, insoupçonné, un étrange combat de femmes. (AF, p. 24) Anche il romanzo di Nafisi è un discorso sui diritti umani delle donne. La quarta ed ultima parte del romanzo, l’unica dedicata ad una scrittrice donna, l’inglese Jane Austen, rappresenta un discorso di denuncia di tutte le privazioni che le donne devono subire ad opera del regime islamico dell’Iran. La parola diritti è ripetuta molte volte, sempre per sottolineare il fatto che alle donne la legge iraniana non riconosce gli stessi diritti che agli uomini. Non hanno gli stessi diritti in tutti i campi della vita, sia negli ambiti pubblici che in quelli privati. Come Djebar, anche Nafisi tocca ripetutamente il problema della libertà nel matrimonio e della tradizione dei matrimoni combinati, pratica che toglie ogni diritto alla donna di decidere sulla propria vita. Inoltre, preme sull’idea dell’importanza di combattere per la libertà politica ma soprattutto per quella individuale. Alla base di tutti i diritti individuali sta il diritto alla felicità. “I was thinking about life, liberty and the pursuit of happiness, about the fact that my girls are not happy. What I mean is that they feel doomed to be unhappy”. “And how do you propose to go about making them understand that it is their right?” he asked. “Surely not by encouraging them to act like victims. They have to learn to fight for their happiness”. I continued to dig my boots deeper into the snow, struggling to keep pace with him at the same time. “But so long as we fail to grasp this, and keep fighting for political freedom without understanding its dependence on individual freedoms, on the fact that your Sanaz shouldn’t have to go all the way to Turkey to be courted, we don’t deserve those rights”. (RLT, p. 281) La promozione dei diritti delle donne passa dunque attraverso il dialogo, le relazioni e gli insegnamenti di altre donne. Il luogo per lo sviluppo della cultura dei diritti delle donne è l’interrelazione con le altre donne, che si realizza nel momento del seminario, del raccontarsi storie e vicende personali, spesso raccolte attorno ad un tavolino con tè e biscotti, come pure nel dialogo immaginario con le eroine storiche o con le figure letterarie. In Dreams of Trespass di Mernissi affiorano, sebbene velati, molti riferimenti agli insegnamenti e alla forza delle figure femminili che accompagnano l’infanzia di Fatima all’interno dell’harem, o meglio, dei due harem che lei conosce, quello della nonna paterna, e quello dei nonni materni, in campagna. La prima figura “femminista” che incontriamo è la mamma di Fatima, che, sebbene non istruita e relegata nell’harem, è a suo modo una figura che si ribella al conformismo sociale e alle tradizioni familiari e religiose che opprimono la donna. Allo stesso tempo, è proprio la madre che cerca di trasmettere le proprie idee di uguaglianza tra uomini e donne e di insegnare alla figlia a combattere per ciò in cui crede. Si tratta sicuramente di una donna con una forte personalità, che sa quello che vuole, non accetta di essere sottomessa al marito né alla famiglia ed è ben consapevole delle proprie capacità e sa far valere le proprie opinioni. Mother would not allow any publicly visible distinctions to be made between our salon and Uncle’s, although Uncle was the firstborn son, and therefore traditionally entitled to larger and more elaborate living quarters. Not only was Uncle older and richer than Father, but he also had a larger immediate family. […] But Mother who hated communal harem life and dreamt of an eternal tête-à-tête with Father, only accepted what she called the ‘azma (crisis) arrangement on the condition that no distinction be made between the wives. She would enjoy the exact same privileges as Uncle’s wife, despite their disparities in rank. (DT, pp. 5-6) Con il proprio esempio, fin dalla nascita la madre sembra indicare alla figlia la direzione da seguire e la forza delle proprie convinzioni nella parità di tutti gli esseri umani, a prescindere dal genere. Samìr and I were born the same day, in a long Ramadan afternoon, with hardly one hour’s difference. He came first, born on the second floor, the seventh child of his mother. I was born one hour later in our salon downstairs, my parents’ firstborn and although Mother was exhausted, she insisted that my aunts and relatives hold the same celebration rituals for me as for Samir. She had always rejected male superiority as nonsense and totally anti-Muslim – “Allah made us equal”, she would say. (DT, pp. 8-9) È lo stesso insegnamento che Fatima riceve, non a caso, dalla nonna Jasmina, la madre di sua madre, che deve aver parlato con le stesse parole alla figlia. Jasmina said that I should never accept inequality, for it was not logical. That was why she named her fat white duck Lalla Thor. (DT, p. 26) Le parole sono spesso seguite da azioni, che, come le parole, rivelano forza d’animo e di personalità. Le azioni sono le scelte che si compiono nelle varie età della vita, come pure si sceglie se lottare, difendersi e opporsi all’ingiustizia, o soccombere. È una piccola battaglia contro l’ingiustizia anche chiamare l’oca con il nome della prima moglie del marito per vendicarsi dei privilegi di lei. Sono le parole, le narrazioni e le scritture a forgiare la personalità. Attraverso queste, madri e nonne insegnano ai bambini e alle bambine a stare al mondo, nella società, a non lasciarsi sopraffare, a far sentire le proprie visioni, a “gridare e protestare” per i torti e i soprusi subiti. Attraverso le parole, le donne possono dunque difendere se stesse, come pure altri esseri più deboli, anzi possono imparare a difendere meglio se stesse attraverso la difesa dei più deboli. Inoltre, devono imparare a non fare affidamento sugli altri, ma prendere in mano la propria vita e le proprie idee ed imporsi e ribellarsi per se stesse. But Mother kept saying that I could not rely on Samir to do all the rebelling for me: “You have to learn to scream and protest, just the way you learnt to walk and talk. Crying when you are insulted is like asking for more”. She was so worried that I would grow up to be an obsequious woman that she consulted Grandmother Yasmina, known to be incomparable at staging confrontations, when visiting her on summer vacations. Grandmother advised her to stop comparing me with Samir, and to push me instead to develop a protective attitude toward the younger children. (DT, pp. 9-10) Con l’aiuto dell’immaginazione, le storie, le favole e le narrazioni hanno dunque il grande potere di sovvertire la realtà, di aprire spiragli e vie di fuga, che possono concretizzarsi come uno spiegare le ali e volarsene via dalla finestra, liquefarsi ed evadere attraverso la crepa di un muro, aprire la porta magica di un nuovo mondo nell’atto di voltare una pagina. I have a recurring fantasy that one more article has been added to the Bill of Rights: the right to free access to imagination. I have come to believe that genuine democracy cannot exist without the freedom to imagine and the right to use imaginative works without any restrictions. To have a whole life, one must have the possibility of publicly shaping and expressing private worlds, dreams, thoughts and desires, of constantly having access to a dialogue between the public and private worlds. How else do we know we have existed, felt, desired, hated, feared? (RLT, pp. 338-339) CONCLUSIONI Tutte le opere delle autrici analizzare in questo lavoro hanno in comune una dinamica interazione tra spazio aperto e spazio chiuso, dove nel chiuso si ricerca lo spazio aperto. Lo spazio della narrazione si configura come uno spazio interno, inscritto nello spazio chiuso dell’harem (Mernissi, Djebar), della famiglia (Mokeddem), del regime oppressivo (Nafisi, Satrapi), ma che grazie all’immaginazione, si allarga e supera le barriere fisiche e le frontiere socio-politiche e culturali. Grazie alla via di fuga rappresentata dall’immaginazione, queste donne trovano uno spazio interno allo spazio chiuso, nel quale sono padrone di se stesse e sfuggono ai controlli degli uomini. Si tratta di uno spazio di un esilio temporaneo, poiché, una volta concluso il tempo della narrazione del racconto (Mernissi), della lettura (Mokeddem) o della lettura seguita dalla discussione di gruppo (Nafisi), sono costrette a ritornare alla realtà, a far rientro dall’evasione immaginaria. Il rientro nello spazio chiuso della condizione femminile si carica, però, di una maggiore consapevolezza del proprio mondo, visto attraverso occhi che hanno conosciuto anche una realtà diversa. La lettura di romanzi appartenenti alla letteratura occidentale, degli Stati Uniti come di quella francese, si trasforma in esperienza quasi in prima persona di quei luoghi e di quella società e culture. In questo, si può paragonare la lettura ad una forma non di evasione ma di auto-esilio e di esplorazione alla fine del quale avviene il ritorno dell’esule in patria. Come si evince dai discorsi teorici di vari autori, come ad esempio Rushdie, Said, Trinh T. Minh-Ha e Linhartova, l’esilio come condizione racchiude elementi utopici e distopici. Da tutti emerge l’idea che, sebbene l’esilio da un lato sia una condizione di sofferenza e tristezza, dall’altro rappresenta una straordinaria apertura alla pluralità di visione, creatività, originalità data dall’opportunità di attraversare frontiere e calpestare nuove terre. Nell’esilio è presente, quindi, la distanza che permette di vedere attraverso una doppia prospettiva, quella di un individuo che, allo stesso tempo, si trova all’interno e all’esterno della società. Se il ritorno alla realtà corrisponde al rientro dell’esule, il tempo della lettura e della narrazione corrispondono al tempo passato in esilio. La lettura e la narrazione sono dunque, esse stesse, forme dell’esilio. Un esilio di questo tipo è molto diverso da quello che Rushdie chiama “internal exile” o “ghetto mentality”. Non si tratta, nel caso delle scrittrici, di un’ulteriore chiusura in uno spazio già di per sé limitato e senza apertura all’esterno, bensì di un ritagliarsi uno spazio interno da cui poi evadere in un’altra dimensione. Si è vista l’importanza dell’oggetto libro per le scrittrici Mokeddem e Nafisi. Il libro, per loro, è un concentrato di democrazia e libertà. È lo spazio dove potersi esprimere e realizzare se stesse. Il libro come oggetto di lettura è l’unico spazio possibile per una donna in Algeria o in Iran, paesi dominati da un regime che opprime e relega le donne ad una condizione di silenzio e invisibilità. La lettura, come afferma Mokeddem, è la prima forma di esilio per sottrarsi, attraverso l’immaginazione, ai controlli dei guardiani del paese. I libri per Mokeddem e il seminario di Nafisi e delle ragazze rappresentano lo spazio occidentale che penetra nel loro paese attraverso frontiere clandestine, le frontiere dell’immaginazione, che si concretizzano nelle metafore di finestre aperte, crepe e fessure sui muri. Attraverso quelle stesse crepe, le donne riescono a sfuggire ai controlli e ad esiliarsi, per quanto temporaneamente, in un altro mondo. Siamo in presenza, quindi, di un doppio movimento: il libro si fa veicolo, da un lato, dell’evasione clandestina e, dall’altro, del contrabbando di idee e visioni di una società diversa. Quando anche questo spazio della lettura non è più sufficiente, l’unica opzione che resta è l’esilio in un altro paese. Sia Mokeddem che Nafisi (e qualcuna delle ragazze che partecipavano al seminario) hanno scelto di lasciare il proprio paese per andare a vivere in Francia o negli Stati Uniti, optando quindi per l’auto-esilio. Solo una volta arrivate sul suolo straniero occidentale, possono avvicinarsi di nuovo al libro, questa volta attraverso la scrittura. Questa rappresenta un altro spazio e il libro si fa, questa volta, veicolo per una rivisitazione della patria abbandonata, per ripercorrerne le strade e le vicende. Si scrive per ritrovare lo spazio di origine, per colmare il vuoto e guarire la nostalgia lasciata dalla partenza. Come Nafisi, anche Satrapi, rientra in Iran attraverso il discorso fatto di parole e disegni del fumetto, e può farlo solo dall’esilio parigino, solo, cioè, dopo aver messo una distanza tra sé e il paese, distanza che le permette di rientrare a modo suo, con un linguaggio che, come dice Djebar, è finalmente il suo. La rivisitazione del proprio paese attraverso la scrittura è un punto in comune di tutte le scrittrici analizzate in questo lavoro, con l’eccezione di Fatima Mernissi, che è rimasta a vivere in Marocco, e di Abinader che, nel brano qui analizzato, parla piuttosto della propria esperienza nel nuovo mondo. Dall’esilio riempiono l’assenza della propria terra sostituendola con la scrittura, che la racconta e la rielabora. Se Mokeddem e Nafisi sono accomunate dal libro come spazio della libertà e della democrazia e veicolo per l’attraversamento delle frontiere, Mokeddem ha in comune con Djebar la fede nella scuola come primo luogo di liberazione della donna. Scuola è sinonimo di uscita e di movimento: dai primi passi lungo la via che conduce all’edificio scolastico, l’istruzione diventa via via il cammino verso l’auto-consapevolezza e l’acquisizione di quelle libertà che solo una donna istruita può ottenere. “Esce perché legge”, cioè perché studia, diceva la madre di Assia della figlia. Per Mokeddem e Djebar, la condizione femminile può essere rappresentata con la metafora dello spazio chiuso, caratterizzato dall’imposizione dell’immobilità e del silenzio. L’istruzione equivale, per le donne algerine, alla possibilità di uscire dalla casa, dal controllo familiare e, letteralmente, di muoversi camminando per la strada e in città da sole, senza la costante scorta di un uomo. Anche per Mernissi è fondamentale la dinamica tra lo spazio chiuso e squadrato dell’harem e lo spazio aperto della fantasia della narrazione. Questo spazio aperto è innanzitutto lo spazio del sogno creato dall’immaginazione, il dreams del titolo. In secondo luogo questo spazio permette letteralmente di immaginare, cioè vedere con gli occhi della mente la possibilità di oltrepassare le frontiere. Il terzo passo si attua nel realizzare quello che si è immaginato, cioè concretizzare questo passaggio di frontiere (trespass). Come lo spazio del seminario in Nafisi, il momento della narrazione e delle rappresentazioni teatrali in Mernissi rappresentano l’esilio delle donne, il momento e lo spazio in cui possono vivere secondo regole e leggi differenti da quelle del Marocco degli anni cinquanta in cui si trovano a vivere. Il racconto equivale al viaggio e all’incontro di stranieri, a comunicare con individui che portano in sé un’altra visione del mondo. L’esilio, dunque, per queste donne e scrittrici equivale alla via per l’autoliberazione, per uscire dallo spazio chiuso della tradizione, della società e delle leggi statali che reprimono la parte femminile dalla società. L’istruzione e l’apprendimento di una lingua occidentale e della cultura di libertà che questa veicola sono in questo strumentali. L’esilio non comporta un voltare le spalle al paese natio e ciò è dimostrato dalle continue rivisitazioni della patria attraverso la scrittura. Si tratta, però, di una rivisitazione fatta dalla prospettiva dell’altrove, poiché si scrive da un paese altro e in una lingua altra/dell’altro. La doppia prospettiva dell’“insider outside” permette di parlare con profonda conoscenza della realtà interna del paese di origine, avendo allo stesso tempo la prospettiva dell’altrove. Raccontare la patria con e attraverso la lingua inglese o francese significa guardare, letteralmente, ‘attraverso’ la cultura dell’altro. Solo dopo essersi allontanate dallo spazio chiuso, aver conquistato la libertà di movimento e la lingua dell’altro, queste scrittrici possono tornare nel proprio paese. E’ la lingua dell’altro che permette loro di ritornare a rivisitare i luoghi e le voci della terra d’origine e recuperarne gli elementi positivi. Solo a questo punto, la narrazione diventa veramente loro, “enfin mien”, prendendo in prestito le parole di Djebar (CVQA, p. 29). Nel testo di Abinader è la cultura materiale della tradizione che si fa luogo della narrazione. Gli odori della cucina libanese e i dolci suoni della lingua araba non costituiscono un ostacolo, una barriera alla realizzazione personale. La tradizione e la cultura del paese di origine viene rivalutata da Abinader grazie al fatto che la donna può attraversare la soglia di casa ogni giorno e può uscire liberamente. Riuscire ad apprezzare la tradizione e la cultura di origine deriva dalla consapevolezza di vivere nell’“hyphen”, nella condizione di transito che permette di vivere in un costante attraversamento di frontiere culturali e linguistiche. BIBLIOGRAFIA Testi primari • Abdolah, Khader, Il viaggio delle bottiglie vuote, Iperborea, Milano, 2001. • Abinader, Elmaz, Children of the Roojme. 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