(e la clinica) - Fare anima nell`epoca della `nuda vita`

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(e la clinica) - Fare anima nell`epoca della `nuda vita`
Il migrante ci aiuta a pensare il mondo (e la clinica) - Fare anima nell’epoca della ‘nuda vita’
Martedì 15 Giugno 2010 15:23
Fabrice Olivier Dubosc Didatta scuola di Psicoterapia
→
etno-sistemico-narrativa Roma Vice-presidente Interculture International Foundation  
Siamo abituati a pensare la conoscenza come possibilità di conoscere tutto – e a partire da una
frammentazione specialistica dei saperi. Approcci più sistemici propongono invece una visione
centrata sull’interdipendenza dei fenomeni e sulla circolarità dei processi inseriti in una loro
relatività contestuale che già Bateson ci insegnava a esplorare alle ricerca di pattern relazionali e
relativi a un dato
contesto, dimensione che oggi Raimon Panikkar ci ha insegnato a non confondere con un
qualunquismo etico che deprime le aspirazioni.
Credo che rispetto al miraggio di un sapere esaustivo, per cui una lettura in più, un’ intuizione in
più ci permetterebbero un salto paradigmatico, un anello di congiunzione, una mirabile sintesi, si tratti oggi di dar conto delle articolazioni dei pensieri e delle culture, delle somiglianze e delle
differenze, cioè dei campi
omeomorfi in cui cogliamo
le forme specifiche l’ethos
di
ciò che costituisce l’umano. Il confronto di un campo omeomorfo con un altro per aprire
prospettive di comprensione ma senza alcuna pretesa di assimilazione (la cosiddetta
abduzione
) ricerca un
pattern che connette
senza ipotizzare regole universali, senza pretendere di costruire sintesi che in realtà assimilano
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gli altri alla propria visione, pratica, teoria o disciplina. Meglio dar conto del proprio
parzialissimo contributo, del proprio cammino, dei collegamenti e delle intuizioni interdisciplinari
ben sapendo che non possono che
sfiorare
il
corpus
sempre più inaccessibile dei saperi nella loro pluralità e totalità.
E per osare dar conto di questi percorsi della vita e del pensiero è necessaria una sorta di
fiducia nella possibile corrispondenza della propria esperienza con quella altrui. Che si
risocializzi insomma, al di là della ricerca accademica, un’idea di ricerca a un tempo personale,
politica e terapeutica - capace di confrontarsi col mondo e con i suoi conflitti e saperi a partire
dalla finitezza dell’esperienza ma ricollegando nuovamente tale microcosmo con un
macrocosmo complesso, a un tempo secolarizzato, simbolico e multidimensionale. Insomma
bisogna ‘pensare per sé’ e ‘partire da sé’, pensare a partire dal pensiero degli altri e ‘pensare
insieme’ senza essere gregari.
***
La questione migrante interpella a tutto tondo le nostre difficoltà e le nostre risorse rispetto al
fare anima e al fare mondo. Edouard Glissant, poeta e saggista, ricolloca la capacità di leggere
il reale nella capacità di frequentare una coscienza immaginativa e poetica che lungi dall’essere
atavica (nel senso dell’identitarismo rigido delle culture statiche) è tuttavia radicata
nell’esperienza primordiale e collettiva dell’umanità. La “creolizzazione delle lingue e degli
immaginari” questa è la sfida che Glissant lancia a partire da una percezione poetica ‘nomade’.
Percezione in qualche misura originaria che cerca parole per l’inconcepibile fin dalla preistoria
delle letterature e parla attraverso le ere e gli arcipelaghi del mondo nella molteplicità delle
lingue: si ‘srotola’ di era in era e di luogo in luogo: “poema che non è universale ma che vale
per ciascuno e ovunque” [Glissant 2009].
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Il mio lavoro con pazienti migranti (e non) mi costringe costantemente a riflettere su quali siano
le sfide specifiche di questa epoca per la clinica.
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Il primo nodo critico prende forma da una sorta di allergia a una visione delle culture (e delle
terapie) localista e ghettizzante. Ma anche dalla consapevolezza che il colonialismo culturale si
esprime anche attraverso visioni che si vogliono universali, meta-culturali, valide per tutte le
culture e si riduce invece a una forma di etnocentrismo a-critico che pretendendo di imporre un
ordine ‘scientifico e oggettivo’ nella sua povertà concettuale mette in ombra le diversità e i
saperi degli altri. Mi sembra che il lavorìo del pensiero contemporaneo più fertile offra invece
molti elementi per coniugare in una prospettiva pluralista le diverse visioni che si propongono di
agire localmente ma pensando con il mondo.
Un secondo nodo critico di una certa importanza è che qualsiasi dispositivo non può riflettere
solo sugli scarti dolorosi con l’origine di cui è portatore ogni migrante ma deve confrontasi
anche con le sfide ineludibili che il migrante si trova ad affrontare nel Paese d’accoglienza e in
un mondo in cui la cultura che prevale è quella del consumo come motore impersonale dei
desideri. Bisogna insomma comprendere le motivazioni che lo hanno portato a pensare la
migrazione ma anche le sfide presenti che gli lanciano il contesto e la condizione in cui si trova
a viverla.
Si tratta quindi di contestualizzare la questione migrante in relazione a parole importanti del
vocabolario filosofico contemporaneo sempre più emergenti anche a livello politico, parole
come “stato di eccezione”, “nuda vita,” “immunità” “biopotere” e “biopolitica.” Parole ormai
entrate nel vocabolario comune ma che la psicoanalisi comincia solo ora a integrare in una
riflessione sulla clinica contemporanea.
Si tratta anche di approfondire l’intuizione filosofico-politica di Hannah Arendt quando scrisse
che “i rifugiati sono l’avanguardia dei loro popoli”. [Arendt, 1943] Mi sembra che proprio le
contraddizioni vissute sulla propria pelle da rifugiati e migranti forzati li ponga in una posizione
del tutto particolare. Conoscono le ombre di due forme del potere: da un lato quella dei
dispositivi dell’appartenenza e dell’influenzamento delle culture cosidette ataviche e dall’altro
quelle della de-culturalizzazione capitalista. In questo senso sono uno specchio radicale della
condizione umana contemporanea.
L’intuizione geniale di Benjamin [ ] sul fatto che l’unico sguardo possibile sulla storia sia uno
sguardo capace di coglierne le rovine e la frammentazione come pure l’impotenza dello spirito a
riunificarla in una prospettiva di mondano trionfo mi sembra particolarmente importante a
questo proposito.
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Curare le persone a restituendole ai loro attaccamenti (ai loro proprietari come dice
provocatoriamente Tobie Nathan) può essere importante e tuttavia la sfida epocale di oggi
sembra configurarsi anche come un processo iniziatico collettivo in cui gli attaccamenti
precedenti vengono ‘sgusciati’ da una serie di processi. In breve:
1. Lo ‘stato d’eccezione’ viene sempre più utilizzato come strumento ‘ordinario’ del potere
sovrano – dalla catastrofe naturale all’emergenza migrazione – tutto fa brodo perché ogni
emergenza decretata è un’occasione per propiziare l’adesione populista; questo genere di
‘attaccamento’ costruito sull’ immunità dall’ altro ha aspetti difensivi e regressivi così palesi da
fare pensare a una casa costruita sulla sabbia.
2. Le seduzioni del ‘biopotere’ sempre più prendono in carico la fisicità della vita, giocando
anch’esse sulla paura riducendo spesso l’identità al mero istinto di sopravvivenza o alla difesa
religiosa del familismo come rifugio dalle possibili irruzioni dell’imprevisto.
Forse è per questo che trovo tanto significativa la riflessione di Agamben quando ci dice che il
rifugiato è forse la sola figura pensabile di ‘popolo’ dei nostri tempi, che ci permette di
“intravedere le forme e i limiti di una comunità politica a venire”… Un popolo e una comunità
non immunitarizzati, che re-inventano le forme dell’appartenenza a partire dall’esperienza
fondante della nuda vita.
Bisognerà riflettere in modo approfondito sul perché i rifugiati e gli internati nei CIE
costituiscano un’avanguardia deprivata di tutto che però ci lascia intravedere le forme e i limiti
di questa comunità a venire. Il paradosso sta nel fatto che la figura che oggi diventa
effettivamente portatrice di ‘diritti umani universali’ è proprio la figura di chi è ridotto a essere
umano ‘in generale’, cioè il rifugiato, il clandestino, il
senza diritti.
Il riferimento è di nuovo a una considerazione della Arendt per cui «la concezione dei diritti
umani basata sulla supposta esistenza di un essere umano in quanto tale è naufragata nel
momento in cui coloro che professavano di credere in essa si trovarono di fronte per la prima
volta a individui che avevano perso tutte le altre qualità e relazioni specifiche – a eccezione del
fatto di essere ancora umani.» [1996 p. 415].
Colpisce allora che il Cristo radicale dei Vangeli, il Logos, sia stato definito nel prologo di
Giovanni non come bios (vita culturalizzata) ma come zoè (nuda vita della sussistenza), come
eccedenza di vita, vita piena della promessa, ma
contemporaneamente
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come vita, esclusa, spogliata, umiliata, crocefissa. In questo senso il Cristo potrebbe diventare
paradigmatico in forme che nessuna istituzione ecclesiale ha ancora saputo consolidare nella
coscienza collettiva.
In altre parole che cosa rimane dell’uomo ‘in quanto tale’ quando sia stato spogliato, ‘sgusciato’
come dicono gli etnopsichiatri, da appartenenze, relazioni, professione, sesso, cittadinanza,
religione, origini ‘etniche’? Eppure è anche con questa condizione che dobbiamo fare i conti: ‘se
questo è un uomo’
scriveva Primo Levi e l’eco di questa forma di esclusione radicale che il nazismo ci ha mostrato
nel suo volto più infernale ritorna oggi nell’odissea di molti migranti. Non è forse la stessa
condizione di nuda vita che oggi ci rivela l’insufficienza di una formulazione che fa della
cittadinanza (o dell’appartenenza) il criterio dell’umano e non dell’umano il criterio per la
cittadinanza e per una pluralità di appartenenze possibili? Tutto ciò propone evidentemente
coordinate inedite a partire dalle quali ripensare la psicopatologia della vita quotidiana e
l’impatto sulla psiche collettiva del fenomeno migratorio.
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