Gianni Biondillo - Ciofs-Fp

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Gianni Biondillo - Ciofs-Fp
Gianni Biondillo
1.
Della mia Lucania, del peperone crusco e del desinare
dell’anima
venerdì 10 agosto
Raggiunta Eboli verrebbe facile la battuta. Quindi la evito.
Stiamo entrando in Basilicata, lascio Cristo alle mie spalle,
fermo lì dai tempi di Carlo Levi, scrittore che tanto quanto ha
amato queste terre altrettanto inconsapevolmente le ha fissate
ad un tempo eterno, quasi incapaci di emanciparsi dalla potenza
letteraria delle parole dell’esule torinese. Torno in Lucania –
preferisco chiamarla così, per abitudine infantile, quando da
bambino scrutavo una vecchia mappa dell’Italia che non
conosceva ancora la divisione fra Abruzzo e Molise – dopo
davvero troppi anni.
Per quegli strani e misteriosi intrecci che la vita sa tramare, la
Lucania, per me milanese figlio di siciliana e di campano, è una
terra che appartiene al mio immaginario domestico. Ci venni
per lungo tempo da studente d’architettura, ospite di Mimmo,
un caro amico di Bernalda, girai in lungo e in largo Matera, i
Sassi, all’epoca ancora spopolati dalla falsa coscienza di una
nazione che s’era accorta di avere la miseria in casa (ed ecco
ancora Levi, le sue parole potenti, troppo spesso pelosamente
male interpretate). Era proprio in quegli anni che
quell’accrocchio, quell’accozzaglia all’apparenza indistinta di
grotte abitate dalla preistoria sino ai giorni nostri, veniva
dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Ero passato di
là nel nome del mio giovanile amore per Pasolini. Usando Il
Vangelo secondo Matteo come mappa, strada strada iniziai ad
ammirare il vocabolario di architettura millenaria che mi si
poneva di fronte, una sorta di catalogo di infinite soluzioni
pratiche, logiche, poetiche: la gronda, il gradino, la porta, il
muro, la volta… giravo con quella ingordigia tipica dei
vent’anni, per la murgia, per la gravina, misurando le pietre e le
architetture neorealiste già in abbandono, senza la dovuta
manutenzione, quelle che avevo studiato sui libri di Storia
dell’architettura contemporanea all’università. Poi negli anni fu
un continuo ritorno: fra distese di ulivi, castelli federiciani,
viadotti plastici e favolistici, polittici veneti, chiesette
bizantine, vette alpine. L’ultima volta che girai per la Lucania
avevo appresso mia moglie e ancora non sapevamo che fosse
incinta della nostra prima figlia. I conti si fanno in fretta: sono
13 anni ormai. Ed eccomi di nuovo, qui, ma in una parte della
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regione che non ho mai visto. Torno, insomma, in un posto
dove non sono mai stato.
Fortunatamente non sono solo. Gaetano sarà il mio Virgilio
personale, mi farà da cicerone e da confidente, sarà il mio
punto di riferimento, mangeremo assieme e assieme berremo il
vino aspro di questi posti. E poi lui guida. Non è poco per uno
come me che non ha neppure la patente!
Gaetano è di Latronico, me la indica dalla macchina in corsa,
ancora poco ed entreremo nel territorio del parco. Il Pollino si
dipana con un confine irregolare e sfrangiato, frutto di cecità
politica piuttosto che di buon senso, su tre province e due
regioni. È il parco più esteso che abbiamo in Italia e neppure lo
sappiamo, per capirci è grande quanto l’intera Valle d’Aosta.
Questi dati io, ovviamente, neppure li conoscevo prima d’oggi.
È Gaetano che me li snocciola, senza però sembrare un
professorino puntuto: me li enumera con quell’amore per la
materia che saprebbe rendere interessante ogni argomento
trattato. Principali corsi d’acqua, altitudini, flora, fauna… non
sto neppure a prendere appunti, non ho voglia di riportare qui i
dati, come se dovessi scrivere una guida noiosa che utilizza
materiale di seconda mano. Meglio la fonte originaria, allora.
A conti fatti non so bene cosa sia venuto a fare qui. Non so
scrivere guide turistiche, non so elaborare elegiache descrizioni
che possano servire all’escursionista o al curioso di passaggio:
c’è chi lo sa fare meglio e bene. Molto meglio di me, in ogni
caso. Sono qui, starò qui per una settimana circa, ancora una
volta in Lucania, forse per togliermi di dosso quei residui di
luoghi comuni incrostati nel mio immaginario. Sono una mente
semplice, non so parlare di nulla che non abbia visto con i miei
occhi. Questo, insomma, è il diario di un viandante che cerca di
mettere alla prova le idee preconcette che ha di un territorio a
lui sconosciuto. La scrittura in fondo è sostanzialmente questo:
un atto di conoscenza che si maschera di finzione.
La Basilicata (e non la chiamo casualmente così) a pensarci
bene è una specie di buco nero dell’immaginario nazionale.
Stretta fra regioni ingombranti, caciarone, popolose, sembra
non abbia un’identità precisa. Persino arrivarci è più
complicato di quanto si possa immaginare, si fa prima ad
arrivare in Sicilia o in Sardegna. Niente aeroporti, pessimi
collegamenti ferroviari (spesso inesistenti) e l’eterno cantiere
della Salerno Reggio Calabria che la lambisce appena. A ovest
non è abbastanza campana, a est non abbastanza pugliese. I
dialetti sembrano tutti sbagliati, difformi dalle parlate della
commedia dell’arte. Ovviamente non è abbastanza campana o
pugliese perché non è né campana né pugliese. È lucana! Ma
provate a chiedere ad un “italiano qualunque” dove si trovi
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Melfi o Maratea, Potenza o Matera e di certo sbaglieranno
regione. Qualcosa di simile accade anche con le Marche. Per
molti Urbino è in Umbria, Ascoli negli Abruzzi. E similmente
alle Marche, la bellezza della Basilicata sta proprio nel suo
essere terra di mezzo, terra di confine (oltre che di confino!).
Non è tanto la coerenza territoriale che caratterizza queste terre,
è proprio la continua diversità. Tutti i panorami sono possibili
qui. Tutti i sapori, tutte le lingue, tutti i colori. Una specie di
Minitalia, dal mare alle cime innevate, a disposizione di
chiunque. Basterebbe saperlo.
Nel frattempo siamo arrivati in prossimità del lago di Monte
Cotugno, una enorme invaso artificiale che ha le acque color
carta da zucchero. Farò tappa qui stanotte e le notti successive,
ospite di un agriturismo che ha un’eleganza quasi toscana. Dal
terrazzamento la vista sul lago impressiona. L’enorme diga in
terra battuta (la più grande d’Europa) in fondo a sinistra sembra
non fare sforzo alcuno a contenere l’enorme massa idrica. La
Basilicata è una regione fortunata in un Sud mediamente a
rischio idrico. Colma di fiumi e corsi d’acqua dà da bere oltre
che a se stessa, anche alle popolazione e alle coltivazioni del
nord della Calabria e di buona parte della Puglia (cosa
sarebbero le viti o gli ulivi pugliesi senza l’acqua lucana? Che
cosa sarebbe di quel paesaggio?).
Ma prima di prepararci per la cena decidiamo di fare una visita
al centro storico di Senise (e, sì!, non faccio altro che pensare
all’attore americano, quello di CSI NY, Gary Sinise. Dieci a
uno che la sua famiglia era originaria di qui e che a Ellis Island
avranno confuso il Comune di provenienza col cognome,
perdendo, nel Nuovo Mondo, l’identità familiare, ma
acquistando quella più ampia di un intero territorio). Il paese è
in fibrillazione, stanno montando le luminarie per la festa di
San Rocco - santo protettore della peste, culto molto seguito da
queste parti -, con in contemporanea una sagra del peperone di
Senise. Che ovviamente io manco ne conoscevo l’esistenza –
beata ignoranza – ma che qui non perdono tempo a raccontarmi
che si tratta di un peperone particolare, I.G.P., unico nel suo
genere, e come a dimostrarne l’importanza persino estetica,
“folkloristica”, mi mostrano la serie infinita di “serte” (specie
di ghirlande di peperoni messe ad essiccare) che fanno bella
mostra sui balconi del centro. Interi, a scaglie, in polvere, nei
sughi, nei salumi, nella carne: peperone di Senise ovunque!
“Ma devi mangiare quello crusco”, continuano a dirmi. Ormai
giro per il paese come un drogato alla ricerca di una dose.
Provo a spiegare ai miei ospiti che io il peperone lo amerei
anche, ma poi non riesco a digerirlo. “Quello arrostito non si
digerisce” (“arrostuto”, si dice al paese di mia moglie, buono
come una delizia degli dei e perfettamente indigeribile) “ma
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quello crusco si digerisce, fidati”. Ok, va bene. Ma che diavolo
vuol dire crusco?
Finalmente troviamo un pusher. Mi porge una dose di zafaran
crusch. Un peperone crusco. In pratica un peperone svuotato e
immerso nell’olio bollente. Addentandolo scrocchia, sembra
una patatina fritta al gusto di paprica. La retorica culinaria
imporrebbe descrizioni minuziose del sapore provato,
dell’inebriante aroma, del raffinato retrogusto. Non ho mai
scritto di cucina, non ne sono capace. So che a me piace. E che
non m’è rimasto sullo stomaco.
Poi ci pensa Enza a ricordarmi che non siamo qui solo per
desinare collo stomaco ma anche coll’anima. Mi porta a
visitare la chiesa di San Francesco. Uno dei tanti, infiniti
gioielli sconosciuti dell’Italia minore. Anche qui non ho alcuna
voglia di riportare le sue parole appassionate, mi sentirei quasi
un pornografo. Enza ama davvero quello che racconta, e lo fa
con la competenza di una laureata in Beni Culturali. Con lei mi
diletto a sfoggiare il mio vocabolario da storico
dell’architettura in pectore, abortito sul nascere da
un’università baronale che m’aveva espulso dal corpo
accademico ben prima che io pensassi solo di entrarci.
La chiesa è di fondazione medievale, ma un rifacimento
barocco, controriformistico, le ha dato una veste chiara e gaia
ben poco francescana. In fondo all’unica aula, proprio
nell’abside, noto dapprima un coro ligneo, credo di noce,
tarlato dal tempo e dallo scalpello dell’artigiano. Bello. Non
raffinato, ma pieno di buona volontà. E poi l’enorme polittico
di Simone da Firenze, che, mi spiega Enza, da Firenze non ci
veniva affatto, anche se così è firmato sulla fascia centrale.
Forse non era nativo toscano, ma di certo quell’arte l’aveva
frequentata. Non ostante la doratura bizantina, e un certo gusto
tardo gotico nelle decorazioni, l’incarnato della madonna in
trono, dei putti, dei santi e l’intera architettura della
composizione è di un rinascimento maturo. Qui. Nel buco nero
dell’Italia. Che forse non è per nulla nero: nero è solo il nostro
sguardo opaco, pieno di pregiudizi. La Basilicata è davvero una
regione da scoprire. Lo stanno facendo in questi anni, prima di
noi, tedeschi, olandesi, americani. Sarebbe ora di iniziare a
farlo anche noi italiani. Ne vale davvero la pena.
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2.
Dei popoli viaggianti, dell’abitare una lingua e dell’arte
contemporanea
sabato 11 agosto
Franca è una di quelle che è tornata. Per amore. O meglio: è
tornata perché il marito amava troppo la sua terra ed ha
preferito lasciar perdere la sua specializzazione d’ingegneria
meccanica e tornare, da Roma, qui in Basilicata; e lei, per amor
suo lo ha seguito. L’amore per un amore. Una specie di amore
al quadrato insomma. Me lo racconta mentre apre per me solo
la sede del Museo della Cultura Arbëreshe di San Paolo
Albanese. Il museo è piccolo, ha la classica sequela di oggetti
tipici di tutti i musei della cultura contadina che si possono
incontrare un po’ dappertutto nel Sud Italia. Un museo a ben
vedere noioso, didascalico, senza quella capacità di stupire, di
interagire col pubblico che hanno molti dei musei che ho
visitato in giro per l’Europa. Ma Franca è albanese, arbëreshe,
di nascita e per come la vedo non è il museo, è lei quella che mi
interessa.
Lei porta con sé, sulla sua pelle, quella cultura che vorrebbe
mostrarmi nelle teche, negli oggetti quotidiani che, se non
usati, divengono lettera morta. Quindi la sottopongo ad un
fuoco di fila di domande alle quali, educatamente, non si
sottrae. Ha voglia di parlare, di interagire, di mostrare il suo
orgoglio d’appartenenza senza arroganza, spesso, anzi, con una
modestia che commuove. “Ho imparato l’italiano andando a
scuola” mi dice. La sua seconda lingua. Perché qui, da quasi
cinquecento anni si parla un albanese del sud, in parte
cristallizzato a quell’epoca, in parte mutato col mutare dei
tempi e dei contatti con gli abitanti e i dialetti del vicinato.
“L’albanese moderno è molto diverso dalla nostra lingua” mi
spiega, “ma se mi ci impegno lo capisco, un po’ come un
italiano che intuisce uno spagnolo se gli parla lentamente”. Mi
racconta della lavorazione della ginestra, di come i suoi nonni
riuscissero a trasformarne la fibra in un filato per farne abiti,
sacchi, coperte. Mi mostra i costumi tradizionali esposti ma ci
tiene a dire che alcuni di questi abiti sono ancora usati
quotidianamente dalle ultime vecchiette che girano per il paese.
Nulla di folkloristico, insomma, ma vita quotidiana. Dopo di
loro, probabilmente più nessuno vestirà così: mi sento nel cuore
di un cambiamento epocale, ineluttabile. Come se stessi
assistendo alla morte di una stella nel firmamento. In fondo è
inevitabile, è inutile vivere di nostalgie per gli usi altrui. La
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storia di quegli abiti, di quegli attrezzi di lavoro, è anche la
storia - per quanto gloriosa, per quanto leggendaria - di miserie,
di fame, di fatica.
Immaginiamo, dagli studi di Ernesto De Martino in poi, la
Basilicata come una terra immobile, relegata da noi in un
eterno medioevo. Ma ciò che aveva affascinato l’antropologo
oggi, prendiamone atto, non esiste più. Ed è giusto che sia così.
Trovo snob il modo di vedere questa regione, questo insistere
sull’idea che sia un popolo di vecchi, con usi e costumi sepolti
nella notte dei tempi, questa idea mortuaria, funebre, fatta di riti
contadini e tradizioni fossilizzate, che piacciono tanto ai
cittadini frenetici del nord, lettori estatici di scrittori
“meridionalisti”, così “autentici”, così “esotici”. C’è chi ci
marcia su tutto ciò. C’è chi ha fatto la sua fortuna artistica, in
un eterno, infinito neorealismo fatto di piccoli Rocco
Scotellaro, di verghismi degli stenterelli, di Franceschi Jovine
in pectore, di “buon selvaggi”, di briganti televisivi, di salsicce
lucaniche e sagre popolari del fagiolo o della porchetta.
Ma questo non lo dico a Franca perché lei non fa parte di
questa risma di persone. Lei, semplicemente, parla, canta, ama,
sogna in arbëreshe.
Neppure una settimana fa ero in un’enclave ligure della
Sardegna. Da Pegli negli stessi anni della fuga dall’Albania di
questa gente, una comunità di pescatori di corallo s’era
trasferita in Tunisia, a Tabarka. Due secoli dopo furono cacciati
(“fuori di qui, stranieri che ci rubate il lavoro!”) e perciò il re
sabaudo donò loro due isole in Sardegna: Sant’Antioco e San
Pietro. Girare per quelle strade dal piano regolare, piemontese,
e sentire parlare in un ligure stretto, o mangiare la focaccia
proprio come potrei farlo a Genova, mi aveva straniato. Qui è
ancora più affascinante. La resilienza di una cultura supera le
più incredibili avversità. In fondo noi, prima ancora di un
luogo, di un paese, tutti noi abitiamo una lingua. È quella, su
ogni cosa, che ci forma, che ci identifica. Ogni volta che muore
una lingua muore un mondo. Ogni volta che una lingua resiste,
resiste la diversità, la molteplicità, la ricchezza dell’umano.
Ovviamente nulla resta immobile e uguale a se stesso, sarebbe
contrario alla vita stessa. La comunità arbëreshe subì
persecuzioni, su tutto religiose. Furono “cattolicizzati” a forza.
Ma residui di resistenza culturale restarono intrisi nei gesti e
nelle abitudini di questa gente. Si mischiarono col nuovo per
diventare altro (che è in fondo il modo migliore per conservare
le cose). Nella chiesa principale mi viene fatto osservare un
affresco scoperto da poco: mostra un’ostia quadrata e una
scritta in greco. Nulla di che dal punto di vista artistico, ma
dimostra come ancora nell’Ottocento il legame col rito
bizantino fosse forte. E lo dimostra il fatto che agli inizi del
Novecento la chiesa cattolica, dopo tanto inutile sottomettere,
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trovò una sorta di compromesso, inventando da zero la Chiesa
Cattolica italo-greca di rito bizantino. Come a dire: se non
riusciamo a piegarvi del tutto, vi inglobiamo. Mantenete le
vostre abitudini orientali, basta che vi dichiarate cattolici. Don
Francesco, l’attuale presbitero, ha preso con fin troppo zelo il
compito conferitogli. Sta, negli anni, riempiendo la chiesa, che
ha tutto l’aspetto di una tipica chiesa cattolica, di icone
bizantine. Lui stesso è un pittore e studioso raffinato e molte
delle immagini sacre poste sull’iconostasi (che non c’era mai
stata prima) le ha dipinte lui stesso. “Dietro, nella parte
riservata al clero, s’è fatto aiutare dalla figlia”, mi viene detto.
Figlia? Ah, già… me l’ero dimenticato: i preti di rito bizantino
possono avere una moglie, possono avere figli. Ed essere
cattolici. Giusto per far capire che la chiesa di Roma è molto
più pratica e malleabile di quanto immaginiamo!
Don Francesco vive con un po’ di fastidio la presenza di statue
sacre all’interno della chiesa, vorrebbe ci fossero solo icone.
Vorrebbe, insomma, ripristinare un passato perfetto,
inamovibile. Illogico: ormai, dopo secoli di culto, la comunità
arbëreshe ama le sue statue così cattoliche, così italiane, che
senso ha imporre così tanto integralismo di ritorno? Mi
avvicino alla statua di San Rocco, santo veneratissimo in questa
parte del sud Italia. Mi mostra la ferita sulla coscia, e piuttosto
che ad un bubbone della peste lo associo ai turgori delle
punture di zanzare e di tafani che mi stanno mangiando vivo in
questi giorni. Ad ognuno la sua pena, insomma.
I quotidiani fanno a gara a spaventarci con i nomi poco vezzosi
dati alle roventi vampate di questa estate: Nerone, Caligola,
Lucifero… ma fortunatamente pare che la temperatura si stia
abbassando, il caldo sembra più sopportabile. Me ne sono
accorto questa mattina, prima di salire a San Paolo, quando
Gaetano mi ha accompagnato a vedere il cantiere di un’opera
d’arte contemporanea. “Sarà un teatro vegetale” mi spiega,
“ideato da Giuseppe Penone”. Scopro così che esiste da
qualche anno un’associazione che cerca di portare i linguaggi
della modernità nel cuore del Pollino. Arte Pollino, si chiama
l’iniziativa. Il progetto di Penone è ancora in fieri, ma le
polemiche non sono mancate. D’altronde se c’è una cosa che
sappiamo fare bene, noi italiani, è polemizzare su tutto: “a che
serve quella cosa? Rovina il parco, lo deturpa!” Inutile dire che
di quei due capannoni al di là del greto del Sarmento, orribili e
impattanti, nessuno ha mai avuto da ridire. Siamo così, ciò che
è meschino, anonimo, senza qualità, non ci disturba. Ci dà
fastidio il nuovo quando è davvero nuovo, quando è visione,
sogno, speranza. Siamo un popolo di lagnosi conservatori che
fingono di amare l’arte nel nome del nostra antica, gloriosa,
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tradizione, la stessa che quando era “nuova” veniva denigrata e
derisa.
Gaetano mi vede interessato alla questione. Decide perciò di
farmi fare un mini tour di arte contemporanea nel Pollino. Mi
porta a Latronico, e scopro così dell’esistenza di quella che
forse è la più grande installazione di Anish Kapoor in Italia. Un
taglio in una collina di riporto, una ferita di cemento armato,
che mostra al suo interno il ventre della terra. Poche cose, come
è tipico di questo artista, che devono essere riempite dalle
nostre sensazioni emotive. Qui, nella terra dei briganti e dei riti
agricoli, nelle lande dove Cristo manco c’è pure arrivato, qui
nei paesi che eternamente muoiono, nel nostro immaginario
rovinistico e romantico, qui, si dà uno schiaffo a pregiudizi, si
guarda verso il mondo, verso Londra, verso NYC. Inutile dire
che il progetto, quando fu presentato, venne osteggiato dai
buon pensati locali. “Ma chi diavolo è ‘sto Kapoor, perché non
hanno chiamato un artista locale?” (forse perché l’arte quando è
“locale”, non è arte ma ornamento? Forse perché un artista e
solo lui, sa vedere quello che noi, a casa nostra, non abbiamo
mai saputo vedere?).
Ma non ci sono stati solo i propugnatori dei monumenti a Padre
Pio versione king size, ben inteso. Ed è questa la cosa bella di
questa storia. Ci sono stati ragazzi, e non solo loro, che hanno
amato e difeso il progetto. L’arte, poi, sa sempre pescare dove
meno ci si immagina. Lo capisco incontrando Romeo,
l’imprenditore edile che aveva ottenuto l’appalto dei lavori. Un
uomo sulla sessantina, dalla parlata dialettale facile. Lui, che
Kapoor ovviamente neppure lo conosceva. E che quando ha
visto il progetto s’era messo le mani nei capelli: ma che cavolo
è questa cosa? (non riporto le parole esatte, per buona
educazione, ma le si possono immaginare). Poi però, con quella
praticità che hanno le persone abituate a tirarsi su le maniche,
s’era messo di buzzo buono. E s’è entusiasmato. “Non è per i
soldi” mi dice, mentre beviamo un bicchiere d’acqua sulfurea
(Latronico è città di terme), “che in fondo per me è stata una
perdita. Ma era per la sfida. Faccio strade, ponti, case, quando
mi ricapitava una cosa così?”
All’inaugurazione dell’opera Kapoor, prima ancora di salutare
il sindaco o le autorità locali, andò ad abbracciare questo
artigiano del cemento dagli occhi azzurri, questa faccia da
contadino dalla parlata greve. Lo ringraziò per il lavoro fatto.
“E’ una brava persona” mi dice Romeo. “Uno semplice…” rido
alle sue parole. Poi mi racconta di quando Kapoor lo invitò a
Londra per la sua retrospettiva alla Royal Accademy. La storia
è talmente esilarante che non vale davvero la pena leggerla.
Occorre sentirla dalla sua voce.
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È quasi sera Gaetano corre contro il tempo per portarmi a San
Severino Lucano prima del tramonto. C’è un’ultima cosa che
vuole farmi vedere in questo minitour d’arte contemporanea.
Superiamo il paese e dopo l’ennesimo tornante ho come una
visione onirica: sulla cima di una collina, nel cuore del parco,
di fronte ad una vista che toglie in fiato, una giostra meccanica
fa bella mostra di sé. “È un’installazione di Carsten Höllen”, mi
viene spiegato da Giovanni, un attempato dipendente
comunale. Cosa può fare l’arte, mi dico. Giovanni di Höllen
non sapeva nulla. Gli fu chiesto di organizzare la logistica per il
trasporto di questo ammasso di ferraglia, di questo vecchiume
più adatto alle discariche che alla installazione. E lui lo fece,
con zelo. Poi comprese. Capì l’ironia del gesto, intuì che una
vecchia giostra spagnola degli anni Cinquanta, messa lì,
spiazzante, fosse a modo suo un gesto poetico. Se ne innamorò.
Ad ogni turista, passante, studioso d’arte che voleva visitarla
subito si dava da fare per accompagnarlo, farlo salire nei
carrelli sospesi, mettere in moto il marchingegno. Dare vita al
sogno infantile e visionario. “Una volta ci feci salire una
studentessa dell’Accademia, col suo ragazzo. Era il suo
compleanno. In piena notte, sotto le stelle. Non se lo
dimenticherà mai per tutta la vita.”
Guardo questo disco volante, questa astronave aliena nel
tramonto che arrossa le cime del Pollino. Sento la magia del
posto. Ma non ci posso salire sopra. Giovanni non ha più le
chiavi, lui che faceva tutto per pura passione ha dovuto cedere
alla protezione civile la gestione dell’opera. Non mi metto
neppure a cercare un addetto, probabilmente sarà alla sagra del
paese. La burocrazia, come sempre, quando arriva distrugge
ogni cosa. Sogni compresi.
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3.
Di fiumi che non si vedono o cambiano nome e della mia
esperienza acquatica.
domenica 12 agosto
Gaetano mi mostra dove nasce il fiume Mercure. Che non si
vede. C’è e non c’è. Dapprima non capisco, quello che vedo è
un pianoro fra vette dai nomi curiosi (fra tutti il Monte
Grattaculo), come fa a nascere un fiume qui? Gaetano allora mi
mostra delle strane fenditure nell’erba, poi gruppi di pietre
come a segnalare pozze, cavità. Capisco così che sono nel bel
mezzo di un avvallamento di racconta delle acque. Neve in
inverno, piogge, rivoli sottotraccia: il Mercure nasce carsico
intride la terra permeabile, scava nella pancia della montagna,
cerca uno sfogo, nel suo viaggio tortuoso, sale verso nord, per
poi finalmente apparire dalle parti di Viggianello, infine curva
verso sud ovest, alla ricerca del mare.
Mercure mi sembra un nome dalla etimologia interessante.
Gaetano mi racconta di eremiti, di grotte, di Laure del
Mercurion, mentre passeggiamo in una faggeta. Mi distraggo.
Amo i boschi di faggio. Sono folti e rigogliosi senza essere
oppressivi. La luce del sole attraversa le frasche, crea giochi di
chiaroscuro riposanti. Il microclima qui sotto, all’ombra di
alberi alti anche quindici, venti metri, è perfetto per una
passeggiata. Ogni tanto appaiono gruppi di viandanti, ma non
sembrano tipici trekkinisti. Non lo sono, infatti. Sono
escursionisti della domenica, di quelli che se potessero
arriverebbero in macchina pure sulla cima del Pollino; vestiti in
modo inadeguato, quasi fossero a passeggio per le vie del
centro cittadino, o sulla spiaggia di Riccione. Una coppia
davanti a noi porta, una maniglia a testa, una pesante borsa
frigo, lui è più alto di lei e più ci avviciniamo e più sentiamo il
loro scambio acceso su come tenere la borsa, su chi deve alzare
il braccio e chi abbassarlo per mantenere la borsa perfettamente
orizzontale. Manca solo che appoggino una bolla metrica per
valutarne il grado d’inclinazione. Ci avviciniamo e non osiamo
salutare, come invece è d’uopo fra escursionisti sconosciuti. I
due sono ai ferri corti, ancora pochi minuti e probabilmente si
rinfacceranno difetti, alito cattivo, tradimenti passati. Sono qui
perché d’estate, di domenica è obbligatorio essere qui, per
mangiare come lupi famelici le cose comprate al supermercato,
ma è chiaro che se potessero evitare questo rito collettivo se ne
starebbero volentieri davanti al televisore. La natura, per loro, è
una cosa indifferente, inutile, neppure alzano lo sguardo per
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ammirare il bosco. Fra un paio di giorni sarà ferragosto, e terre
così belle e fragili saranno invase da orde barbariche che
useranno questi posti come un semplice fondale da usare per
reiterare gli stessi gesti quotidiani fatti in cucina o nel giardino
di casa.
Sembro uno snob? Come faccio ad essere così sicuro di quello
che scrivo? È che non c’è volta che, in posti come questi, non
abbia vissuto la ferita di pianori sommersi di lattine vuote,
bottiglie di plastica abbandonate, sacchi di spazzatura gettati
dietro le siepi. Portare queste cibarie, all’andata, pesa. Ma al
ritorno, mangiato come cinghiali, sembra che la spazzatura pesi
ancora di più: occorre liberarsene in fretta, quasi fosse una
colpa, una vergogna.
Ormai i due litigiosi viandanti staranno già divorziando, li
abbiamo lasciati da molto tempo alle nostre spalle. Siamo sul
Piano Ruggio, sull’ossimorico Belvedere del Malvento. Oltre è
la Calabria. Che è, evidentemente, solo una distinzione
amministrativa, il Parco è un corpo unico, coerente, la natura
non conosce delimitazioni burocratiche. Sulle rocce alla mia
sinistra vedo i miei primi pini loricati. Sono alberi dal fusto
tormentato, di una bellezza differente rispetto ai faggi di prima.
Più sofferta, faticosa. Crescono su pendii vertiginosi, spaccano
la pietra cercano il sole. “Ne vedremo altri, più da vicino” mi
assicura Gaetano. Al ritorno ci fermiamo al rifugio Fasanelli.
Qui tutto è lindo quasi fossimo in Austria. Viene voglia di
stendersi, godersi il sole, dormicchiare sull’erba. Invece
proseguiamo per Rotonda, alla ricerca del fiume Mercure. Che
d’improvviso smette di esistere. Carsismo? No. Cambio di
Regione. In Calabria lo stesso corso d’acqua prende il nome di
Fiume Lao.
Lao River. Roba da film sulla guerra in Indocina.
Il tempo a disposizione è quello che è, il tanto decantato
panificio di Rotonda dove trovare squisitezze uniche, data
l’ora, è chiuso. Oggi è domenica e ce lo siamo dimenticati,
lungo la strada troviamo solo negozi chiusi. Poi a Laino Borgo,
sotto un sole meridiano, incontriamo un bar con le insegne
aperte. Ci fondiamo dentro e chiediamo un panino. Il gestore
sgrana gli occhi: “Io ve lo posso fare” ci dice dispiaciuto “ma
con il pane, però”. Per tre secondi non capisco di cosa stiamo
parlando: e con cosa si fa un panino se non con il pane? Mi
sembra un dialogo degno di Ionesco. Poi capisco: filologico
fino allo stremo, nel suo regime tassonomico il panino è il
bocconcino di pane – dicasi modenese, rosetta, all’olio, etc. –
mentre il pane, è “il Pane”, con la P maiuscola. La forma di
pane, quella dei contadini, da tagliare a fette. Ovvio che per noi
la distinzione, sarà la fame, è degna della discussione scolastica
sul sesso degli angeli. Va bene tutto, basta che sia
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commestibile. Ci sediamo fuori ad osservare il panorama,
birretta alla mano. Finché arriva il “panino”. Porchetta e
melanzane sottolio. Avessi un dietologo personale ne sentirei
sicuramente fin da qui le urla e gli strali. Menomale che non ce
l’ho, così non mi sento in colpa mentre addento tale
prelibatezza. E chi se ne frega del colesterolo.
Mi auguro solo che non ci sia uno specchio, penso, entrando
nello spogliatoio. Non saprei reggere la vista di tale scempio.
Gli specchi sono opere del demonio, non dimentichiamocelo.
Noi siamo fatti per non guardarci, dobbiamo riconoscerci nello
sguardo degli altri. Specchiarsi significa cadere nella tentazione
di noi stessi, morire di narcisismo. Insomma non voglio
vedermi, penso, ormai in mutande. Poi la smetto con questi
pensieri da filosofo della domenica. Sto infilandomi la prima
muta della mia vita, nera, extralarge. Faccio una fatica boia,
tiro indietro la pancia, infilo le braccia. Ora, inguainato di tutto
punto, nero come un corvo, manca solo un mantello rosso e
sembro un supereroe bolso, che ormai veleggia sulla
cinquantina: uno spettacolo deprimente. Niente specchi, però,
quindi esco dal camerino sollevato. Il mantello non me lo
danno, ma mi forniscono di casco, giacca impermeabile e
giubbotto salvagente. Sono pronto per la mia prima esperienza
di rafting. Sperando anche che non diventi l’ultima!
In realtà i ragazzi del Lao Canyon Rafting sono bravi,
professionali e sanno metterti subito a tuo agio. La nostra guida
parla italiano con uno spiccato accento sudamericano. La cosa
mi incuriosisce. Vengo così a scoprire che Ariel è uruguaiano
ed ha conosciuto dalle sue parti Luca, Andrea e Raffaele (detto
Raffo), amanti della disciplina che avevano girato per mesi nel
Sud America, un po’ per perfezionare le tecniche, un po’ per
imparare la lingua. E così altrettanto hanno fatto Ariel, Pedro e
Sebastiano Garcia, venuti qui per le stesse ragioni. Una sorta di
“Programma Erasmus del rafting”, autoprodotto, che, grazie
anche all’aiuto di Antonio, ha permesso loro di aprire questa
attività. Una storia così lontana dagli stereotipi del sud
indolente, vecchio, moribondo.
Riceviamo le minime istruzioni di base ed entriamo in acqua
col gommone. Sul nostro, oltre a me, Gaetano ed Ariel,
piazzato a poppa, c’è una giovane coppia. Lui è posto sulla
destra della prua, lei gli sta dietro. Partiamo.
Sono anni che ragiono sul tema del paesaggio. Sul distinguerlo
dal territorio, dal panorama, dagli scenari. Il paesaggio resta
comunque qualcosa che ha a che fare con lo sguardo, col punto
di vista. Sta negli occhi di chi guarda, quasi di più che nella sua
realtà oggettiva. Sta nella capacità di leggerne la complessità, la
ricchezza, le costanti e le varianti. Sta, su tutto, nella curiosità:
quella che il nostro compagno dallo spiccato accento pugliese
12
non ha affatto. Ci rendiamo subito conto che a lui di seguire le
istruzioni che Ariel ci impartisce non interessa affatto. Neppure
alza gli occhi – da qui la vista è mozzafiato - cerca l’emozione,
lui, l’adrenalina. Urla come uno scemo, si piega in avanti verso
il pelo dell’acqua, fa scherzi idioti con la pagaia. Noto che il
nervosismo di Ariel, persona che alla partenza sembrava il
ritratto della pace interiore, sta salendo. Per lui il rafting è una
passione, ma sa anche che non è un gioco. Il nostro compagno
pugliese, con il suo temperamento guascone ci mette
continuamente in situazioni complicate. Non rema quando gli
viene chiesto, lo fa quando gli viene proibito. Si sposta di
continuo, almeno un paio di volte, con le sue spacconate, ci fa
incagliare nelle rocce. Ariel urla, lo rimbrotta, gli spiega che un
gommone non si guida come una macchina, che questa non è
una gara, che dobbiamo seguire le leggi dell’idrodinamica, lui
finge di aver capito, sguardo da cane bastonato, poi ricomincia
daccapo con le sue intemperanze. Persino la compagna, rossa di
vergogna, cerca di dirgli qualcosa.
“Mollalo” vorrei dirle io. “Se te lo tieni ti renderà la vita
impossibile”. Ma me ne sto zitto. Sulla mia testa passa il
viadotto della Salerno Reggio Calabria. La vista da qua sotto è
impressionante. Il viadotto Italia l’avevo già visto, dall’alto,
una specie di segno logico nell’orografia, un esempio di land
art autentico, perfettamente disegnato nel suo essere scarno,
essenziale e al contempo monumentale, ma da qui, da sotto,
nell’orrido calcareo tutto diventa addirittura sublime. Al
pugliese non gliene frega niente. Urla ad Ariel se ci sono rapide
da superare, se si può andare più veloci: Ariel lo stoppa, ma lui
neppure lo ascolta. Ci incagliamo di nuovo. Non conosco lo
spagnolo ma ho la certezza di aver distinto delle bestemmie. Le
stesse che sto pensando io, nel mio idioma. Dalla roccia
cerchiamo di rimuovere il gommone, il pugliese – direi barese
da certe vocali strascinate –, sua sponte, spinge da dentro con la
pagaia sulla parete rocciosa, il gommone s’allontana repentino,
Ariel cerca di immobilizzarlo, acqua fin sopra la cintola. Io e
Gaetano restiamo sullo spuntone. Non ci resta che gettarci in
acqua per raggiungere l’imbarcazione. Per fortuna all’andata
un’anima pia mi aveva legato con degli elastici gli occhiali
dietro la nuca. Scivolo dalla roccia convinto che il fondale sia
basso. Non lo è, ci entro dentro con tutta la testa, ma gli
occhiali non mi scappano.
Risaliti pagaiamo, più mogi. Da dietro guardo il mio compagno
barese. Sembra continuamente distratto, incapace di
concentrarsi sulle cose. Non credo ci sia in lui il desiderio di
rovinarci l’esperienza. Non credo neppure ci sia cattiveria,
arroganza, prepotenza. In lui riconosco un modo d’essere di
certi italiani, purtroppo molto numerosi. Un modo infantile di
vivere le cose. Un continuo desiderio di appagamento
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immediato, senza visione del futuro, senza comprendere il
senso del lavoro collettivo. Uno di quei tipi che da ragazzini,
nelle partitelle di calcio, volevano sempre segnare, che non
passavano mai la palla, convinti di poter e saper fare tutto da
soli. Un individualista puro, che magari può aiutarti, darti una
mano, come è capitato, quando si rende conto di un pericolo, e
che però è capace di non rendersene conto affatto perché non
ne ha neppure la percezione. Tutto diventa un gioco, per questa
tipologia nazionale, tutto diventa soddisfazione del basso
ventre, senza troppa elaborazione intellettuale, senza alcuna
sensibilità. Puro irresponsabile desiderio di felicità personale.
Egoismo, insomma.
Poi ci tocca scendere dal gommone ancora una volta, per
costeggiare una strettoia di rocce a piedi: Ariel, da solo,
trascina il gommone come Atlante il globo terracqueo e lo
porta al di là del salto. Noi da sopra possiamo solo gettarci in
acqua per raggiungerlo. La corrente è forte, mi consigliano di
gettarmi verso sinistra. Lo faccio in una posa ridicola, con le
dita della destra che puntano gli occhiali al naso, come stessi
meditando chissà quale pensiero profondo anche durante il
lancio nel vuoto. Scompaio nell’acqua, tenendomi fissi gli
occhiali quasi fossero il codino del barone di Münchhausen col
quale poi tirarmi fuori; riappaio giusto in tempo per sentire le
grida: “Troppo in là”, vado sotto. L’acqua è gelida, ma la
sensazione in fondo è piacevole, riappaio. “Lo stiamo
perdendo” dice qualcuno, neppure fossimo in una medical
fiction americana. Pesco nel mucchio una mano tesa e
finalmente tocco il fondo con i piedi. Posso risalire a bordo.
Tornando verso casa facciamo una pausa a Viggianello, dove
incrociamo Valentina, una ragazza che vive e lavora qui (quanti
ragazzi in Basilicata! Inizia ad avere la mancanza dei
rassicuranti vecchi moribondi neorealisti!). Diventa inevitabile
fermarsi al bar. Raccontiamo le nostre gesta acquatiche con
quel tono che dissimula indifferenza ma che è pieno di un
orgoglio un po’ fesso. Ormai ha tramontato, siamo stanchi, ci
inerpichiamo verso Senise per alcune strade interne, fra boschi
e tornanti. Poi, quasi in mezzo alla carreggiata, vediamo un
Gufo che ci osserva. Le luci della macchina fanno scintillare i
suoi enormi occhi. Con calma apre le ali e spicca il volo. Un
Gufo. Chi l’aveva mai visto un gufo?, penso. Neppure dieci
minuti dopo un cucciolo di volpe taglia la carreggiata e si ferma
sulla destra. Ci guardiamo tutti e due, per un tempo breve ed
infinito assieme. Ho in mano la macchina fotografica ma
neppure l’accendo. Quando me ne rendo conto la sporgo dal
finestrino, ma l’animale scompare nel buio. La poesia non
accetta interruzioni prosaiche.
14
4.
Del pastore che si fece artista, di una magia infantile e di
‘quel paese là’.
lunedì 13 agosto
Giovanni Marino era un pastorello cresciuto coi nonni a Teana.
A sedici anni aveva raggiunto il padre, emigrato in Argentina, e
lì s’era messo a fare il muratore. Non gli dispiaceva disporre le
cose nello spazio, crearlo, dal nulla. Iniziò a ragionarci sopra, a
studiare nei corsi serali del Circulo de Bellas Artes di Buenos
Aires la materia. Non gli bastava, fu perciò la volta della
Scuola Politecnico. Poi da privatista si laureò Professor
Superior. Trasvolò in Spagna e poi a Parigi. Erano gli anni
Cinquanta, divenne un artista. Installò le sue realizzazioni in
giro per l’Europa, una è tutt’ora di fronte alla residenza del
Presidente della Repubblica francese. Usò come nom de plume
Marino da Teana. Perché, non ostante tutto, non volle mai
perdere le sue radici.
Scopro questa storia qui, a Teana, mentre visito le cinque
sculture che in vecchiaia il suo paese d’origine ha voluto
distribuire in vari punti dell’abitato. Un modo di riallacciare un
legame flebile, per smentire l’antico adagio che nessuno è
profeta in patria, per ringraziarlo di tutto quell’amore per
queste terre che l’antico pastorello aveva serbato con sé, come
una riserva aurea della sua coscienza. Sculture astratte,
geometriche, di marmo, di corten arrugginito. Tutto il contrario
del figurativismo becero che ogni giunta comunale italiana che
(non) si rispetti propugna nelle sue piazze. Di Marino di Teana,
ben inteso, i teanesi nulla sapevano prima di questa tardiva
scoperta. E di certo avranno storpiato il naso vedendo installare
queste opere. Ma il gusto si educa con l’esempio, non c’è altro
modo. Come si suol dire: “nessuno nasce imparato”.
Il sindaco del comune viene a sapere che sono in giro a fare
fotografie e con una gentilezza tipica di queste terre decide di
accompagnarmi, assieme ad un paio di amici. Uno di questi,
verrò poi a scoprire, gli fu avversario alle elezioni. Ma se vivi
in un posto di un migliaio di anime, l’avversità politica non è
mai così netta e definitiva. Il gruppetto mi marca stretto, già
che c’è mi porta in chiesa per mostrarmi orgoglioso le
ghirlande di spighe di grano intrecciate su impalcature di legno
che durante la festa della Madonna vengono portate sul capo
dai teanesi. Giusto per farmi capire di cosa si tratta il Sindaco
sfodera un IPhone e mi mostra la ripresa video. Riti agricoli
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osservati da un oggetto tecnologicamente avanzato. Eppure non
c’è alcuna contraddizione.
In una piazzetta appartata, mentre fotografo l’opera dal titolo
L’Alba (ma quella che ho preferito, per inciso, è l’Omaggio a
Lao Tse) noto un vecchietto seduto sulla panchina. Si gode
l’ombra di un albero. Attacca bottone. “È di Marino di Teana”
mi conferma. Mi avvicino, inizia così un dialogo vagamente
surreale fra uno scrittore milanese che fotografa pezzi di ferro
arrugginiti (ché quello è, ai suoi occhi, ciò che abbiamo di
fronte) è un vecchio signore che comunica solo in dialetto
stretto. Ammette di non capire il mio interesse per quella
robaccia. Però vuole farmi sapere che Marino vive in Francia.
“Viveva” gli dico, “ormai è morto”. Non ci crede. Glielo
confermo. “È morto a gennaio di quest’anno.” Sbuffa. “Suo
fratello vive qui, ma non mi detto niente.” (inutile cercare di
riportare l’idioma aspro di queste terre, non ho abbastanza
padronanza filologica). Il mio interlocutore si chiama
Vincenzo. Scoprirò poi che viene chiamato Don Vincenzo in
paese, ma io, lì, sotto le fresche frasche, intesso subito un
rapporto così intimo - di quelli che possono capitare solo in un
vagone ferroviario fra due sconosciuti - che non rispetto le
buone maniere meridionali che pure conosco.
Vincenzo ha quasi novant’anni, mi dice. Faccio due conti
veloci: è quasi coetaneo di Marino, nato nel 1920. Si saranno
pure conosciuti da ragazzetti. Poi uno è rimasto qui, l’altro è
partito. Vincenzo qui c’è rimasto per davvero. Tranne che per il
militare non s’è mai spostato da Teana. Ha avuto due figli, un
maschio e una femmina, ha sgobbato per tutta una vita ed ora,
per passare il tempo, intreccia ceste con i vimini. “Ne vuoi
vedere uno?” mi chiede. Si alza, andiamo assieme verso casa
sua. Il gruppo che mi seguiva – Sindaco, amico/avversario,
Gaetano, etc.- e che era rimasto appartato lontano da noi due, ci
vede andar via e non capisce. Ai loro occhi forse sembriamo
due marziani, due mondi lontanissimi in piena collisione.
D’istinto offro il braccio a Vincenzo.
I suoi cestini sono graziosi, ma per quanto cercasse di
vendermeli li lascio lì, non saprei dove metterli in valigia. Però
gli prometto che se torno con la famiglia vengo a cercarlo. “So
dove trovarti” gli dico, Sulla panchina di fronte a Marino di
Teana.” Lui annuisce, sorridendo, poi aggiunge: “Non è che i
tuoi amici vogliono comprarsi un cestino?”
Mai cedere alle tentazioni. Anzi, per la precisione: mai
accettare un invito a pranzo da un sindaco lucano. Quello che
dovrebbe essere un pasto frugale per me, qualcosa che serve a
bloccare il languore, per poi rimettersi in marcia, diventa, in
queste condizioni, una vera e propria gimcana enogastronomia.
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In fondo lo sapevo, lo dovevo immaginare. Ma di fronte a tanta
gentilezza, di fronte all’invito, sventurato risposi.
Due ore di tavola imbandita, quanto meno, oltre che a
preservarci dal caldo torrido del primo pomeriggio, mi hanno
permesso di chiacchierare con chi il territorio lo conosce e
amministra tutti i giorni.
La discussione passa da un argomento ad un altro,
repentinamente. Vengo a scoprire che la Basilicata è come una
piattaforma che galleggia sul petrolio. Per quanto le royalties
che incamerano siano basse rispetto alle concessioni che
mediamente i petrolieri elargiscono persino in Africa, questa
attività estrattiva, aggiunta al fatto che questa terra abbevera le
regioni limitrofe, fa sì che la Basilicata, in fondo, non sia una
realtà povera. I soldi non mancherebbero: manca la capacità di
sfruttarli, di metterli in circolo. Manca la cultura. E dove non
c’è cultura non c’è sviluppo.
Mentre se ne parla, superato un antipasto pantagruelico, arriva
un piatto di mischiglio al pomodoro e basilico. Una pasta
povera fatta di mistura di farine di legumi e cereali vari. Scatta
una discussione sull’origine del mischiglio. Fardella, il paese
confinante, ha dichiarato in pompa magna di esserne
l’inventore, ma quel paese, mi viene detto, neppure esisteva
cento anni fa. E il mischiglio è un piatto tipicamente contadino,
che esiste dalle notte dei tempi. Li guardo incredulo. Ma
davvero credono sia una cosa importante? Parlano tanto di
promuovere il territorio e si accapigliano per una cosa così?
Sarà colpa del vino, non so, ma non tengo a freno la lingua:
“Finitela con questa retorica delle tradizioni. Avete sul vostro
territorio un tartufo bianco che potrebbe fare invidia ad Alba e
non lo sa nessuno, chi se ne frega della primogenitura del
mischiglio!”
A pomeriggio inoltrato, salutato gli ospiti, scendiamo verso San
Severino Lucano. Gaetano guida lentamente, il pranzo l’ha
stremato. Ma ha voglia di parlare. Mi parla delle frustrazioni di
chi cerca di portare una ventata nuova in questa terra che ama
in modo smisurato. Lo dice con rabbia, ma senza orgoglio. Mi
piace. Io amo la rabbia e odio l’orgoglio. Il primo è un
sentimento autentico, viscerale, il secondo una costruzione
retorica, falsa. La tradizione, per chi ha rabbia, è il terreno di un
corpo a corpo costruttivo, vivo, pieno di speranza. Per chi ha
orgoglio, invece, è solo retorica passatista, conservazione,
vigliaccheria. Stiamo tornando a San Severino perché, con
rabbia, Gaetano non ha accettato l’idea che io non fossi salito
sulla giostra di Hollen. Era stufo della retorica meridionalista e
lamentosa, una sorta di coperta calda e accogliente dove potersi
avvolgere per lamentarsi che tutto, qui, non funzioni. Ha
chiamato la protezione civile, ha mosso mari e monti affinché
17
io vivessi questa esperienza. Ed infatti eccomi qui, sul
seggiolino che sale, lento, con una lentezza esasperante. Il
panorama è semplicemente strepitoso. Rifaccio il giro di giostra
una manciata di volte, non vorrei più scendere. Poi a terra il suo
sguardo interrogativo chiede di essere sciolto.
“Com’è” mi chiede, quasi scusandosi di avermi riportato qui.
“Meraviglioso”.
Il suo volto si distende. “Non sai quante polemiche” mi
dice,“non sai le cose che hanno detto, che hanno scritto...”
“Sono venuto per dividere, non per unire” gli dico parafrasando
il Vangelo. “Appuntati sul petto ogni polemica, come una
conquista sul campo.”
Questo fa l’arte. Altrimenti è ornamento, intrattenimento,
decoro. Nulla sull’intrattenere o decorare, sono attività
necessarie e piacevoli, ma se un’opera non divide, se non fa
discutere, se non semina dubbi, a che serve? L’arte, tutta l’arte,
ci regala ogni volta uno sguardo nuovo sul mondo, c’è chi, di
fronte a questa sensazione d’inadeguatezza si chiude a riccio,
citando con orgoglio la tradizione come scudo protettivo, come
braghettone che copre le pudenda, e chi, con gioia e con rabbia,
cerca di entrare in risonanza con quello sguardo inatteso,
inedito. Nuovo e perciò miracoloso.
La digestione del pranzo mi occupa l’intero pomeriggio, a sera,
prima di risalire in masseria, facciamo una passeggiata sul
Lago artificiale di Monte Cotugno. Sembriamo una coppietta
che si vuole infrattare, ci ridiamo sopra. Il posto ha un suo
fascino inespresso, potrebbe essere rimesso in gioco,
riprogettato.
“Che paese è quello?” chiedo, poi, indicando verso una cima.
Sorride. “È… insomma, è ‘quel paese là’, ti ricordi che ne
avevamo parlato?”
‘Quel paese là’ non si chiama così, ovviamente. Ha un suo
nome, ben preciso, da secoli. Ma da secoli non viene mai
nominato dagli abitanti della regione. Di questa storia ne ero
venuto a conoscenza un quarto di secolo fa, quando, cercando
di visitare proprio ‘là’ una chiesa progettata da una architetto
napoletano, Nicola Pagliara, mi accorsi che il nome del comune
era tabù per tutti: chiedere una indicazione stradale sembrava la
più ardua delle imprese. Quel nome non doveva essere
pronunciato. Portava sfortuna. A suffragare tali superstizioni
venivo subissato di prove certe, scientifiche, di amici che,
appena nominatolo, gli si bucava la gomma, o inciampavano
rovinosamente. Gli abitanti di ‘quel paese là’, alla fine hanno
fatto buon viso a cattivo gioco. Che in antichità fosse un covo
di fattucchiere, di megere atte a produrre filtri malefici (così
dice la leggenda) in fondo non è mica colpa loro. Il pregiudizio
o lo fai a pezzi a colpi di testate contro il muro, oppure ci
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giochi, lo aggiri. Così, se un abitante di ‘quel paese là’ si
ritrova a fare la fila in un ufficio regionale, gli basta dire da
dove proviene che tutti gli fanno largo, saltando la coda piè
pari. E proprio in questi giorni, osservando a Senise un cartello
che pubblicizzava gli eventi estivi di quel Comune, con
un’ironia davvero encomiabile, c’era scritto: “Sogno di una
notte d’estate a… quel paese.” Geniale! (propongo a questo
punto di andare oltre; per il prossimo anno consiglio
all’assessore al tempo libero una mia personale variante:
“Questa estate andate tutti… a quel paese!”).
La digestione sta facendo gli straordinari, ormai ho un mal di
testa colossale. Basta abbuffate, va bene l’ospitalità ma il mio
apparato digerente non è più attrezzato per tali prove
iniziatiche. Mando Gaetano a casa e chiedo ad Antonella solo
un tè caldo per cena. Me lo porta con un piattino di biscotti fatti
in casa.
Mi piace Antonella. Gestisce lei da quest’anno la masseria.
Viene da Potenza ed ha un fare pratico, concreto, che spesso
cozza con i tempi dilatati della provincia profonda. Da quello
che mi ha raccontato vive sola, con suo figlio Nicola, un
ragazzino di dodici anni dalla faccia vispa e buona che lo fa
sembrare più piccolo. Non le chiedo nulla del padre, se li ha
lasciati andare ci ha di certo perso lui e ci hanno guadagnato
loro. I biscotti sono buoni. Un bimbo di neppure due anni di un
tavolo a fianco mi trotterella vicino, gli faccio ciao con la mano
e lui risponde con la sua impegnandosi come se stesse
risolvendo una equazione differenziale. Mi rendo conto che
sono ormai a metà del mio viaggio nel Pollino, è sera, sono
solo, e mi manca la mia famiglia.
Sarà meglio andare a letto e dormirci sopra. Domani sarà una
giornata lunga e di certo non andremo a ‘quel paese là’. Che,
detto per inciso, si chiama Colobraro.
19
5.
Di tesori nella grotta, sorelle sfortunate, imbecilli, riti
antichi e gioie del palato
martedì 14 agosto
La prima cosa a cui penso è un caveau. File ordinate di lingotti
d’oro. Ma è ancora poco. Penso allora al tesoro dei quaranta
ladroni, solo che non ho avuto bisogno di dire “apriti sesamo”
per entrare in questa grotta con la volta a botte scavata in una
roccia di una masseria di Chiaromonte. Ad aprire la stanza del
tesoro ci ha pensato Maria. Sulla parete d’ingresso un
igrometro valuta l’umidità relativa, l’antro è scarsamente
illuminato. Tutto attorno, adagiati su bancali di legno,
stagionano decine, centinaia di forme di formaggio. Il profumo
nell’aria è inebriante. “E pensare che io neppure sapevo come
si faceva il formaggio” mi dice Maria. E mi racconta della sua
passione nata per caso, seguendo l’azienda agricola del marito.
Non voleva fare i soliti formaggi, quelli di produzione standard,
da supermercato, voleva un prodotto speciale, di qualità. Niente
latte vaccino, solo capra e pecora. E solo latte crudo. “I nostri
animali pascolano liberi e brucano anche erbe officinali, se
pastorizzassimo il latte ne annulleremmo d’un colpo tutta la
fragranza.”
Passione. Ecco una parola che ricorre spesso nei miei pensieri
in questi giorni. Ho conosciuto persone appassionate, pronte a
combattere per un’idea, anche contro tutti, contro il comune
sentire. Maria non ha un mercato interno, locale. Le sue forme
non costano di più di formaggi dozzinali che spesso si trovano
nei negozi o nelle sagre. Semplicemente non ha ancora trovato
il modo di far sapere al mondo (perché è al mondo che
dovrebbe rivolgersi, non ai suoi concittadini) quale miracolo
alchemico sta producendo.
Apre per me una forma e io mi sento quasi in colpa, mi porge
una piramide allungata di formaggio. Lo addento. La
consistenza non è morbida. È, piuttosto, friabile, vagamente
gessosa. Ai primi morsi sembra quasi non abbia sapore. È
sciapo. Poi la saliva causata dalla masticazione produce una
reazione chimica e pare di assistere ad un miracolo gustativo: il
latte, prima, poi le erbe officinali, il fieno, solo un vago
accenno di salatura. Ne assaggio ancora. Ciò che noto è che
non sento il bisogno di bere. Alcuni formaggi sono salati più
per coprire le magagne che per insaporire. Qui è una
degustazione in punta di fioretto, elegante e arcaica. Il
formaggio non ha retrogusti fastidiosi, non pesa, dopo averlo
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ingerito non torna a disturbare l’alito. Sono sinceramente
impressionato. Quale modo migliore per iniziare la giornata?
Qui pare che Epeo, il costruttore del cavallo di Troia, decise di
fondare Lagaria. Terra del mito, Valsinni. Borgo bello,
attorcigliato al monte e sovrastato dal castello feudale. Ma qui
non sono per le pietre, ma per le parole. Qui sono per venire a
salutare una sorellina sfortunata.
Isabella cara, sorella di parole, di versi, madre illibata di tutti
noi scribacchini, donna violentata dalla brutalità del mio sesso,
dai tuoi fratelli meschini, che non meritano d’essere ricordati
per nome. Che l’oblio li danni per sempre, bestie intrise di
orgoglio di schiatta, maschi volgari come tutti i maschi che
ancora oggi uccidono donne per una diceria, per preservare
l’onore della famiglia, per rimarcare i senso del possesso di un
sesso su un altro.
Qual era la tua colpa, Isabella? Quale l’onta? Hai vissuto
reclusa dentro questo castello, esclusa pure da tua madre, da tua
sorella, invisa dai maschi di casa, a causa delle tue stramberie:
la passione per le creature del mondo, per il monte, per il
fiume. La vergogna, per i tuoi carnefici stava nel tuo essere più
intelligente, più sensibile, migliore, assolutamente migliore di
loro.
Se lo so, se so di te, Isabella Morra - poetessa alta, moderna,
vicina – lo devo a Benedetto Croce. Anche solo per questo non
riuscirò mai a criticarlo più del dovuto (come feci e come
tutt’ora faccio, di tanto in tanto). Anzi, dovrei rileggerlo, oggi,
con meno passione, con meno rabbia. E se è vero, come lui
crede, che con Diego - don Diego Sandoval De Castro - nulla ci
fu, solo uno scambio di parole alate, di versi, di puro pensiero,
me ne dispiaccio ancor di più. Almeno avessi potuto consumare
il tuo corpo nell’abbandono dei sensi, sorellina. Avessi potuto,
almeno per una notte, evitare di struggerti per un padre che non
tornava da Parigi, speranzosa ti salvasse dall’idiozia del natio
borgo. Avessi potuto amare, nella carne, negli umori, quanto
più giusto sarebbe stato. Morire così, santa della poesia, a soli
venticinque anni, non lo merita nessuno. Le colpe dei padri
ricadono sui figli. Non sconteremo mai abbastanza la nostra
vergogna nei tuoi confronti.
Sul sentiero ai piedi della Timpa delle Murge, dopo un’ora di
cammino, i tafani non ci hanno ancora abbandonato: Gaetano
continua a scacciarli nervoso, io propendo per un atteggiamento
zen. I tafani non ci sono, non ci sono, non ci sono. Invece ci
sono, eccome! Sembrano vecchi amici fastidiosi che non
vogliono lasciare casa tua anche se s’è fatto tardi e caschi dal
sonno. Lì, pronti ad un altro giro di birra o di poker mentre tu ti
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guardi lo sport in tv stramazzato sul divano, augurandoti che
quegli impiccioni scompaiano d’incanto.
Il bosco si apre su un pianoro. Tutto attorno è una serie di
fuochi spenti, melanomi maligni sulla cute del parco. Sotto un
faggio c’è persino una piccola discarica di spazzatura, bottiglie
di plastica, lozioni per capelli, vetri. Residui di un campeggio
assai numeroso e, con impunità volgare, persino firmati: fra la
sporcizia scorgo uno striscione improvvisato, fatto in una serata
a cantare attorno al fuoco, sottoscritto dal Gruppo Scout di
Martina Franca. Non male per chi afferma di amare la natura.
Io, di mio, non ho mai amato gli scout. Questa ne è l’ennesima
conferma.
Nei pressi della sorgente Catusa alcune persone arrostiscono
carne, mangiano e bevono attorno ad un falò: che qui, in Zona
A (“di altissimo interesse naturalistico”) è proibitissimo.
Provare a dirglielo è inutile, neppure lo capirebbero. Lo so,
avrei dovuto chiamare la Guardia Forestale. Ma so anche che i
militari sarebbero arrivati ore dopo, si sarebbero seduti affianco
a quei cinque mangiatori di carne arrostita (che sono venuti fin
quassù in macchina. Anzi, con quattro macchine!), si sarebbero
bevuti un bicchiere di vino con loro, li avrebbero rimbrottati e
poi, spento il fuoco, se ne sarebbero tornati in sede, sbuffando
per la scocciatura. Altro che rimbrotto. Io su queste cose
divento manicheo: un fuoco in Zona A è vietato. Indi: arresto
immediato per flagranza di reato. Punto.
A Terranova del Pollino scopro che pure gli alberi si sposano.
È un rituale antico, agricolo, nato nella notte dei tempi e poi
inglobato dalla chiesa, che come al solito fagocita e cristianizza
ciò che non può eliminare. Un lungo e monumentale faggio (il
marito) viene scelto nel bosco, sbozzato e ripulito della
corteccia, viene poi trainato in paese da carri di buoi.
Altrettanto si fa con un piccolo abete (la moglie) al quale non
vengono tolti corteccia e rami. I due fusti poi vengono uniti,
legati assieme, in un vincolo matrimoniale e infine innalzati in
piazza. Resteranno lì per l’intero anno, a proteggere i raccolti.
Osservo da sottoinsù l’erezione arborea. È affascinante, sembra
una installazione d’arte contemporanea che si vede anche a
chilometri di distanza. Un ago infilzato nel cuore del paese, una
pertica che collega cielo e terra. A Terranova avevo notato che
il fusto del faggio era a sezione circolare. Appena giungiamo a
Rotonda vedo un altro di matrimonio arboreo (detto “L’a’ pitu
e la rocca”), forse ancora più monumentale. Qui la sezione del
faggio è quadrata e l’innesto superiore più preciso.
Ma non sono a Rotonda per il rito arboreo. E neppure per
l’elefante preistorico ritrovato per caso in un campo circa
trent’anni fa. Non che non lo meriti, è un pezzo unico in Italia,
esposto in modo dozzinale e senza poesia in uno scatolone
22
edilizio che prima era sicuramente una scuola ed ora sembra un
deposito di vecchiume.
Sono qui per inseguire una storia (cos’altro sa fare, in fondo,
uno scrittore?). A raccontarmela ci pensa Fabio. Sembra (e
“sembra” è davvero necessario) che alla fine dell’Ottocento, ma
forse (forse) più probabilmente durante la campagna d’Africa,
alcuni rotondesi in cerca di ventura, o più probabilmente di un
rancio nell’esercito, abbiano - conquistato (e poi
definitivamente perso) l’Impero - riportato a Rotonda un
curioso vegetale simile nella forma e nel colore ad un
pomodoro. Ma che era, invece, una melanzana. Solanum
aethiopicum, in effetti si chiama scientificamente. Sta di fatto
che questa piccola melanzana rossa ha attecchito qui a
Rotonda. Qui e solo qui, questo è il fatto curioso. E a furia di
coltivarlo e passarselo di famiglia in famiglia, ormai è
diventato un prodotto tipico di Rotonda.
Io, come al solito, non ne sapevo nulla, dico a Fabio. Ma lui mi
rinfranca: “Non ne sa nulla nessuno. Io la vendo in Svizzera,
all’estero. In Italia la grande distribuzione uccide prodotti così
particolari.” Poi mi racconta di quando un imprenditore
americano, assaggiata la crema di melanzana rossa, voleva
farne un business vendendola nel circuito medio-alto degli
States. “Solo che la loro richiesta era impossibile. Per
soddisfarla avremmo dovuto coltivare a melanzane rosse
l’intera Basilicata!”
Ma sarà poi così buona, mi chiedo, o è la solita tiritera
localistico-patriottarda?
A sciogliere l’enigma ci pensa Peppe. Gaetano mi porta nel suo
piccolo ristorante. In realtà siamo passati solo per salutare, il
viaggio di ritorno sarà lungo ed è quasi ora di cena. Ma mentre
stringo la mano al titolare, la moglie Angela ha già
apparecchiato per due. Proviamo a farle capire che siamo di
passaggio, ma in fondo sappiamo che è inutile. Gaetano è un
amico e io sono suo ospite. E l’ospite è sacro.
”Solo un assaggio” proviamo a dire. Arriva nel frattempo il
vino. Un Aglianico meno brusco di quelli che ho bevuto
fin’ora, più morbido, più piacevole. Ecco poi finalmente la
melanzana tagliata ad insalata e condita con olio d’oliva e sale.
Ha il cuore bianco, solo la scorza è rossa. Ne prendo un po’ e
l’adagio su una fetta di pane. Gaetano mi guarda, come spesso
fa in questi giorni, in attesa dell’oracolo. In effetti devo avere
un’espressione degna della Sibilla cumana. Mentre mastico ho
uno sconvolgente deja vu. Meno di due mesi fa ero in Etiopia, a
seguito di una missione umanitaria organizzata dalla ONG
Coopi. Ero lì ed ho mangiato qualcosa… qualcosa che aveva
questo sapore. Certo, senza olio d’oliva, senza la foglia di
alloro, ma, era proprio questo.
“Com’è?” mi chiede insistente Gaetano.
23
“Buonissimo” rispondo, e la sua fronte si distende.
Poi arriva un tortino con una vellutata di crema di melanzana
rossa. A descrivermela è Antonella, una delle due figlie di
Peppe.
“C’è pure del guanciale, o della salsiccia” dico io, in estasi
culinaria. Ma Antonella nega. Cerca anzi il ricettario per farmi
leggere gli ingredienti. Nasce fra di noi una divertente
discussione, dove io faccio la parte del grand gourmet. Dalla
cucina arriva anche Flavia, l’altra figlia, che dopo la laurea,
caduta sulla strada di Damasco, ha deciso di seguire le orme del
padre e s’è messa di buzzo buono a studiare ristorazione.
Me lo conferma: “Hai ragione. Mettiamo una salsiccia ogni
chilo e mezzo di composto. Complimenti, non se ne accorge
quasi nessuno.”
Ovvio che ora mi sento come fossi l’erede naturale di Luigi
Veronelli o Carlin Petrini, ma al di là dei vaneggiamenti, la
verità è che questo tortino è la cosa più buona che abbia mai
mangiato da quando sono qui in Basilicata. Finita la cena –
dopo un primo di pasta fatta in casa col sugo di melanzana
rossa e un dolce di ricotta e melanzana rossa candita (da
leccarsi le dita!) – vado a dirlo a Peppe. Vado a ringraziarlo. Mi
stringe la mano, quasi intimidito, quando invece dovrei essere
io a sentirmi timido e grato di fronte a tale maestro di gioie
culinarie.
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6.
Del ferragosto in famiglia, i tafani, i pini loricati e della
Madonna del Pollino
mercoledì 15 agosto
Il ferragosto si passa con la famiglia. La mia famiglia, in questo
momento, è a Maddaloni, in provincia di Caserta, paese natale
di mia moglie. Ma le tradizioni devono essere rispettate e io le
rispetto. Oggi faremo un’escursione sul massiccio del Pollino
con Gaetano, sua moglie Rosita, il fratello di Rosita, Giovanni
e la moglie Graziella. Insomma, mi pare una buona alternativa
alla solitudine.
Raggiungiamo in macchina il rifugio Pino loricato, a dieci
minuti dalla Madonna del Pollino, ma decidiamo di non andare
subito al santuario. Vogliamo fuggire dall’orda barbarica che
sta invadendo, già alle prime ore del mattino quest’area.
Fin dalla strada avevamo visto la massa transumante risalire il
crinale della montagna, come un fiume di esoscheletri di
acciaio, vetro e gomma. Gente, gente dappertutto. Con griglie,
borse termiche, salsicce, damigiane. È ferragosto, e ferragosto
si passa in famiglia. Solo che qui le famiglie sembrano
smisurate, preindustriali. Vengono da mezza Basilicata, da
mezza Puglia. È curioso come gli italiani si riempiano la bocca
di parole come “tradizione”, “territorio”, “ambiente”, e poi non
hanno neppure la sensibilità di lasciare le macchine nei
parcheggi appena sottostanti. Arrivano fin quassù – dove i loro
nonni giungevano a piedi, nel nome di una fede autentica e
sentita per la Madonna del Pollino – superando ogni ostacolo,
parcheggiano la macchina ovunque, sotto gli alberi, sui prati,
poi distendono i plaid proprio di fronte al muso
dell’automobile, neppure avessero paura che gliela rubassero,
incapaci di fare pochi passi a piedi, si sdraiano sfiniti (di cosa?
D’aver guidato fin qui?), fra i miasmi dei tubi di scappamento e
sono felici. In mezzo a quello che loro credono sia “la natura”.
Siamo diventati ricchi troppo in fretta. Ingurgitiamo cibo come
cammelli che riempiono le gobbe, terrorizzati dall’idea che
tutto questo ben di Dio ci venga tolto d’incanto. Del soffio del
vento, del verso degli uccelli, del frusciare delle foglie non ce
ne frega niente. Copisti maldestri dei riti dei nostri avi,
maldestri e coscientemente disonesti, veniamo qui e officiamo
il nostro nuovo, pantagruelico, rito di abbondanza.
Gaetano soffre alla vista di tutto ciò, è più integralista di me.
No, anzi: più puro. Io in fondo posso anche interpretare la parte
del milanese snob che bacchetta i meridionali invadenti. Lui
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invece è di queste terre, vederle così deturpate da questa sorta
di piaga biblica lo deprime.
Superato il pianoro il sentiero inizia a stringersi e si fa pietroso.
Poi sale, dove nessuna macchina, neppure un fuoristrada, può
arrivare; girata una cresta ci lasciamo le grida, la musica a palla
delle autoradio, i rumori molesti alle spalle. “Da qui in poi” ci
dice rassicurandoci, “non incontreremo più nessuno”.
In effetti è così, per lungo tempo. Niente casino, niente fastidi.
No, non è vero. Ci sono i tafani. Sarà che è estate, che fa caldo,
che stanotte ha piovuto e l’ambiente è umido, sarà che gli
armenti vagano liberi nei pascoli, ma tutti questi tafani che ci
girano attorno assomigliano ad un monito: davvero credevate
che la natura vi avrebbe salvato dalla barbarie? La natura si
disinteressa di voi animi nobili, ha le sue logiche che non
prevedono l’estatica contemplazione pacificata del mondo. Gli
insetti vi sovrastano di numero e di specie, ricordatevelo:
erediteranno la Terra!
Quindi, per quanto si sia riusciti a sfuggire dalla molestia
umana, come un allegorico memento, mentre saliamo nel
sentiero e il cuore inizia a pompare sangue al cervello, odiosi
tafani ci seguono, si posano su di noi, ci ronzano sulla testa. Per
fortuna la giornata ci regala solo vaghi sprazzi di sole torrido
che fa capolino ogni tanto, fra nuvole basse che invece
elargiscono frescura e ombra. Un escursionista sa che
camminare in queste ore del tardo mattino, sotto un sole
giaguaro è davvero dispendioso in termini di liquidi. Per me,
tra l’altro, lo è comunque. Ho la tshirt inzuppata di sudore.
Colpa di una mamma che mi obbligava da bambino a pulire il
piatto, ché era un insulto per i bambini in Africa buttare il cibo.
Io la fame nel mondo, col mio sacrificio, non l’ho debellata, ma
ora in compenso porto i miei cento chili circa di peso corporeo
(fatti più di ciccia che di muscoli) come una punizione inferta
dall’indifferente mondo occidentale.
Il sentiero sembra ben segnato, sale senza mai davvero
inerpicarsi, si susseguono boschi di cerri e di lecci, umbratili e
freschi, è insomma un sentiero impegnativo ma non difficile. Ci
porterei volentieri la mia famiglia, qui, mentre sto come un
abusivo, passeggiando con un’altra famiglia. Che mi tratta
come fossi uno di loro: si ride, si fanno battute, ci si scambiano
borracce e pistacchi.
Poi incontriamo due escursionisti attorno alla sessantina. Non
sembrano appartenere alla tipologia che ci siamo lasciati alle
spalle. Ci avviciniamo: sono piemontesi (“siamo montagnini”
ci dice il maschio), attrezzati di tutto punto, con bastoncini
telescopici e scarponcini tecnici. Vanno di buon passo, ma si
lamentano per la segnaletica dei sentieri alquanto lacunosa.
Gaetano da loro indicazioni. Due parole ancora e ripartono,
senza regalarmi il classico intercalare piemontese - “nèe” - da
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commedia dell’arte. “Questi sono i turisti che vorrei vedere
qui” mi dice Gaetano. “Gente che ama davvero la montagna,
che la rispetta.”
Circa un’ora dopo li incontreremo di nuovo. Ameranno pure la
montagna, ma il senso dell’orientamento non è certo il loro
forte. La donna ormai sembra affranta, ingobbita, invecchiata di
dieci anni, mentre il marito continua a spiegarci che sono tre
mesi che camminano per i sentieri di mezza Italia, ma che qui i
sentieri sono segnati male ed è facile perdersi (e Gaetano,
buono come un pezzo di pane che gli ripete indicazioni,
scorciatoie, indirizzi). Li vediamo scendere e indirizzarsi verso
la meta. Nel silenzio perfetto della valle si sentono solo le loro
voci che discutono, lei, quasi lo sapesse, mi regala pure un
“nèee” strascicatissimo.
Poi Gaetano ci chiede di voltare le spalle, alziamo gli occhi: il
faggeto ormai fatica a salire, la quota è troppo alta, l’aria troppo
fredda per queste piante. Là, in cima, fra rocce bianche e
scoscese, troneggiano solo i pini loricati.
Un’epifania.
Disturbata solo dal solito nugolo di tafani, che non ci mollano
mai, neppure fossero una muta di cani affettuosi. “Noi stiamo
andando lì” ci dice la nostra guida, ispirata. “Sulla Serra del
Crispo”. 2053 metri d’altitudine e ancora un’ora di cammino.
Maledetti bambini dell’Africa, dovevano morire proprio
quando io cenavo da infante nella mia casa di periferia
sottoproletaria milanese? Fosse stato per me gliel’avrei spedito
tutti i giorni gli avanzi del cibo, mica si sarebbero formalizzati,
no? E invece eccomi qui, col cuore che bussa alle tempie e i
pantaloni appiccicatici perché mia madre da bambino mi
stimolava i sensi di colpa!
Non molto lontano da dove siamo scorgiamo tre figure
muoversi verso di noi. Una famiglia, ma non sembrano del
posto. Non sembrano neppure italiani, si muovono agili,
eleganti, quasi fossero usciti di casa con un Martini dry ancora
in mano.
“Facciamoci fare una foto di gruppo da quei signori” dico.
L’idea piace. Ci avviciniamo e glielo chiedo. “I don’t
understand italian” ci dice il padre di famiglia. Ma il mio
allungare la macchina verso di lui gli fa comprendere cosa
vogliamo. Ci fa una foto. Due, per sicurezza. Gli restituisco il
favore con la sua digitale. Poi ci scambiamo qualche
convenevole. “Da dove venite?” chiedo. “From the USA” ci
rispondono. Philadelphia. Che cavolo ci fa una famiglia di
Philadelphia il 15 di agosto sul Pollino? La cosa stupisce pure
Gaetano, che col mestiere che fa di turisti qui ne vede più di
tutti noi messi assieme. Col mio inglese rustico cerco di
intavolare una discussione. I tre ci spiegano che erano al mare,
a Maratea e che volevano un posto tranquillo, dove non ci
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fossero turisti. È per questo che hanno scelto il Pollino. Lo so,
sembra quasi un insulto: vengo qui perché non ci viene
nessuno. Ma a modo suo è un complimento. Vengo qui perché
non sopporto l’orda barbarica dei miei connazionali
statunitensi, arroganti, volgari e mangia salsicce. Tutto il
mondo è paese, sembra che stia parlando dei nostri
connazionali che abbiamo lasciato più a valle.
Alla fine alla Serra di Crispo ci arriviamo veramente. Attorno a
noi, fra le pietraie, s’innalzano i pini loricati.
Sono alberi strani. La cosa più lontana dall’idea platonica di
albero, quella che ogni bambino del mondo disegna appena gli
dai in mano due matite colorate. Sono asimmetrici, torti, con le
chiome che sembrano cespugli d’aghi, e la corteccia a scaglie,
come un carapace. Alcuni solitari, che svettano controluce,
sembrano (notare la contraddizione) giganteschi bonsai
giapponesi.
“In Italia li puoi trovare solo qui, sul Pollino” mi dice Gaetano.
“Altrimenti devi andare in Bosnia”. In effetti, rispetto i nostri
più tipici castagni, i radiosi pini selvatici, i familiari ulivi, gli
infiniti pioppi, le monumentali querce, questi pini loricati sono
alberi difficili, ostici, malmostosi. Gonfi di resina, sopportano
condizioni estreme. Comprese quelle imposte dall’imbecillità
umana: pensate che al più antico e monumentale – Zi’ Peppe –
vecchi di mille anni, fu dato fuoco proprio il giorno
dell’istituzione del Parco, come sfregio. Ma lui, morto,
rinsecchito, è ancora lì, scultura naturalistica, fantasma
concreto che urtica le nostre coscienze. “Ti piacciono?” mi
chiede la mia guida, con quel velo d’ansia che ormai ho
imparato a conoscere.
Che devo dire? Sono belli i pini loricati? Ha senso chiederselo?
Per quello che può significare, sì, sono belli. Sono belli perché
sono etici. Sono una lezione di filosofia, i pini loricati. Un
esempio di morale. Nelle difficoltà, nelle avversità, riuscire a
crescere, lenti e inesorabili, densi di resine e di significati,
ognuno diverso e tutti simili, duri a morire, millenari. Il
simbolo perfetto dell’Italia che vorrei; che è, quando lo è: etica
e perciò estetica.
Ridiscesi visitiamo il santuario. La piccola madonnina
rinchiusa nella teca di legno e cristallo, graziosa nella sua
semplicità popolare e naïf, mi riappacifica dal restauro
dozzinale e appariscente dell’edificio, che ormai di storico non
ha più nulla. Questo è il cuore della devozione dell’intero
territorio, fra Basilicata e Calabria. Dire Pollino, per molti,
soprattutto i più anziani, significa Santuario della Madonna del
Pollino. Che bisogno c’era, mi chiedo, di diffonde con gli
altoparlanti, sia dentro la chiesa che sul piazzale, tutta questa
musica che finge d’essere sacra ma che, zuccherosa e blasfema,
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assomiglia piuttosto a quella di sottofondo dei centri
commerciali? Davvero se ne sentiva il bisogno? Davvero si
rende così più sacro un luogo già sacro di suo?
Per noi la tradizione è una trapunta elastica, da tirare e
modellare come più ci piace. Abbiamo un patrimonio di musica
sacra vecchio di secoli, alto e nobile, però decidiamo di
diffondere nell’aria queste canzoncine di Natale scaricate da
internet. Se esiste un inferno in questo momento so chi ci
manderei.
Qualche decina di metri più in là troneggia una scultura in
bronzo, nuova nuova, raffigurante la madonna che porge il
bambinello verso l’abitato di San Severino. È un’opera della
scultrice olandese Daphnè Du Barry. Scultura conciliante,
senza infamia e senza lode, di buon artigianato ma senza
guizzi. Con quel figurativismo standard che non impegna, che
non fa discutere. Consolatoria. C’è negli artisti di arte sacra
contemporanea una profonda contraddizione: hanno dettato il
gusto per secoli ed ora non riescono più ad intercettarlo. Si
rifugiano nel già detto, nel già sentito, spaventati all’idea di
scandalizzare (non ostante Gesù stesso si dichiarasse “pietra
dello scandalo”). Eppure non mancano nel mondo cattolico,
anime inquiete, scrittori e artisti complessi e sofferti. Ma a loro
non si chiede nulla. Si preferisce dichiarare default,
rifugiandosi nel già detto, spesso storpiandolo in una parodia
trash, come la musica che continuo a sentire, in sottofondo, dal
piazzale, mentre sarebbe bastato il soffio del vento, il battito
d’ali di un falco, per sentirmi davvero immerso nel sacro, come
una creatura, fra le creature di Dio.
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7.
Dell’arte della zampogna, della processione di San Rocco e
del confine che persiste
giovedì 16 agosto
Passeggiamo mani in tasca per la strada principale di San
Costantino Albanese, sotto un sole che si preannuncia crudele.
Dopo la tregua meteorologica di ieri l’estate ha ripreso a
sbiancare i muri e segnare i vicoli di ombre nere e ben definite.
Scritte in italiano ed arbëreshe, murales naïf che ricordano
storie antiche, lapidi a ricordo del grande condottiero, padre
della patria perduta, Gjeorgj Kastrioti Skanderbeg, morto nel
1468 e rimpianto infinitamente, di generazione in generazione.
Un intero popolo che fonda la sua identità sulla nostalgia, trovo
tutto ciò a modo suo infinitamente romantico. Siamo qui giusto
il tempo di un caffè, perché poi dobbiamo uscire dall’abitato
per scendere verso una casa ai piedi del greto del fiume.
Qui abita e lavora Quirino. Una specie di eremita vagamente
freakettone, mio coetaneo. Capelli lunghi, sale e pepe, jeans ed
occhi mobili e azzurrissimi. Non so bene cosa facesse anni fa
nella vita Quirino. Sta di fatto che ad un certo punto ha deciso
che s’era rotto le scatole di stare nel caos del paese (per me,
milanese, poco più che un grande cortile di un qualunque
quartiere di periferia) e di dedicarsi al tornio. Quirino è
falegname. Ma non dà giustizia questa definizione. Quirino è
un uno spirito curioso. Un giorno, dall’oggi al domani, ha
deciso di imparare a costruire zampogne tradizionali. Poi di
imparare a suonarle. E ora, fra sagre e feste paesane, sta
girando mezza Lucania, per farsi “una suonata” fra amici (con
relativa annaffiata di vino). Quirino, voce calma di chi ha già
visto tutto del mondo, mi mostra la sua bottega: l’odore dei
trucioli di legno inebria le nari, il caos organizzato la fa
assomigliare all’antro di uno stregone. Un grande poster di un
condottiero pellerossa su una parete, poi, stese su un cavo, pelli
di capra. “Servono per il sacco della zampogna” mi spiega.
Apre un armadio e mi mostra il suo tesoro: zampogne a chiave
di varie misure, alcune con canne lunghe un metro e mezzo
circa. Sono venuto a trovarlo mentre cercava di ammorbidire
un’ancia doppia che gli serve per le ciaramelle, specie di flauti
(ma Quirino mi correggerebbe: “aerofoni”) che qui in Lucania
si suonano in coppia, come si vede in certi vasi dell’antica
Grecia.
Parliamo di strumenti a fiato, ad ancia singola, come il clarino,
o doppia, come l’oboe. È sempre molto preciso, competente.
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Mi spiega la differenza con le zampogne spagnole, o le
cornamuse scozzesi. Mi fa provare lo strumento, mi racconta
dei legni d’acero o d’olivo che usa. Discutiamo di basso
continuo, di scale pentatoniche, del sacco d’aria che riproduce
una respirazione circolare che invece i suonatori sardi fanno
senza l’ausilio di mezzi tecnici. Parlerei per ore con lui ma,
dispiaciuto, ci deve lasciare. “Devo andare a San Paolo” si
scusa. “Oggi c’è la processione e devo fare una suonata.”
Quello che non sa è che alla processione ci andiamo pure noi;
era proprio la nostra meta di oggi.
16 agosto, San Rocco, è mezzogiorno e il rito nella chiesa
madre non volge al termine. La chiesa è colma di fedeli. La
stessa che avevo visto, vuota e un po’ impersonale, pochi giorni
fa oggi rifulge di religiosità, passione, fede. Fra la folla
incontro di nuovo Franca, ci salutiamo. Mi spiega che questo è
un giorno importante per San Paolo, per la prima volta è venuto
ad officiare il rito il nuovo Vescovo da Lungro (la sede
vescovile del rito cattolico bizantino) e il paese è in gran
spolvero. Fra la folla riconosco alcune vecchie beghine vestite
con l’abito tradizionale. L’aria è colma d’incenso, i preti e il
vescovo appaiono e scompaiono dall’iconostasi. Il rito è in
greco e ciò lo rende ancora più misterioso.
Fuori, sul piazzale, intanto, si sono riuniti sia chi non è riuscito
ad entrare in chiesa, sia i curiosi venuti a vedere la processione.
Tutti spalmati sotto i cornicioni delle case, alla ricerca di
un’ombra sempre più rara. Al centro della piazza campeggia un
marchingegno di legno e spighe di grano, che verrà poi portato
a spalle per il paese. Alcuni signori con la parannanza e un
falcetto in mano provano alcuni passi della danza del grano.
Uno di questi, alto e distinto, con indosso un paio di pantaloni
di gabardine, si rivolge ad un’amica - vestita come fosse
appena uscita da una discoteca di Rimini - con uno spiccato
accento del nord, ma quando conversa con i suoi colleghi di
danza la parlata si fa più lucana. Probabilmente vive a Milano,
o Bergamo, lavora lì, come impiegato di banca: tutto l’anno a
discutere di bond e di spread, ma poi, quando torna qui è come
se innaffiasse ogni volta di nuova linfa le radici rinsecchite
della sua identità.
Arrivano i zampognari, fra questi riconosco Quirino che mi
strizza l’occhio. Si mettono in posa per una foto con i danzatori
e una massa di fotografi occasionali sfidando il solleone
tracimano nel centro della piazza e scattano centinaia di
fotografie al gruppo, neppure fossero una rock band o le più
alte cariche politiche del G8.
In piazza c’è di tutto. Tutti vestiti, ognuno a modo suo, a festa.
Quella che è, in effetti. Solo che, tranne alcune vecchine negli
abiti tradizionali, e qualche ragazza che indossa il costume con
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poca naturalezza, tutti gli altri sembrano pronti per andare ad
un matrimonio a Porto Cervo piuttosto che a seguire un rito
devozionale. Ci sono i carabinieri in grand’uniforme, neppure
fossimo in una commedia rosa con Vittorio De Sica, il vigile
urbano, i curiosi in pantaloncini e tshirt; un paio di ragazze
sfoggiano tacchi vertiginosi e minigonne inguinali. Sacro e
profano, antico e contemporaneo, kitsch e sublime.
In un angolo i musicanti tentano gli strumenti, ed alcuni
danzatori improvvisano una danza del falcetto. E ci credono. Ci
credono davvero, non è semplicemente una rappresentazione
folkloristica ad uso di noi intrusi secolarizzati. Danzano il loro
rito precristiano, agricolo, pagano, che farà da apripista
all’intera processione.
Poi finalmente dalla chiesa esce il baldacchino, sotto il quale
viene portata a spalle la teca contenente la statua di San Rocco.
Il vescovo, col copricapo di tradizione orientale, e i preti in
parata dietro di lui. La danza del falcetto apre la sfilata e si
inerpica nelle strade dell’abitato. Segue il baldacchino e il
corpo clericale, con i canti polifonici arbëreshe delle beghine.
Dietro alla fila dei fedeli, la banda paesana di ottoni. Insomma,
un’orgia di sonorità, di strumenti, di mondi e tradizioni tutte
assieme. Un patchwork, una stratificazione spesso incongrua,
superfetazioni della storia che se però venissero eliminate
edulcorerebbero fino all’omologazione il serpente devozionale
che si snoda nel ventre vivo del paese. Che ora, qui, è vivo.
Qui, ora, dichiara la sua romantica lotta di retroguardia, contro
la morte per indifferenza, contro il distacco dalla nostalgia che
li lega tutti assieme, non individui ma popolo.
La nuova tappa è Terranova del Pollino. Qui si dice che le
strade non andavano oltre. Oltre, per capirci, c’è la Calabria.
Ad accoglierci è Federico che sembra l’oste dei fumetti, dei
cartoni animati: gioviale, opulento, chiacchierone. Mi farà fare
un’escursione nei gusti della Lucania, dagli antipasti fino al
caffè. Vino compreso, un Aglianico del Vulture davvero
notevole. Mangio e rifletto su quanto la sua cucina gli somigli.
Se quella di Peppe, a Rotonda, era poetica, meditabonda,
ispirata, questa è gioiosa, aperta, mediterranea. Forse a sprazzi
didascalica, senza però mai essere stucchevole. Fin troppo
generosa, però. Dopo due ore di titillazione delle papille
gustative dichiaro forfait. Sto invecchiando, me ne rendo conto.
A vent’anni avrei ricominciato daccapo, goloso impenitente,
ora voglio solo sgranchirmi le gambe per digerire un po’ tutto
questo ben di Dio.
La macchina di Gaetano non è un fuoristrada. E fuori da
Terranova, scendendo verso sud, proprio come nella antica
diceria, la strada smette d’essere asfaltata. Siamo in una specie
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di terra di nessuno, non più Basilicata, non ancora Calabria.
Nessuna delle due regioni si decide a collegare Terranova del
Pollino a San Lorenzo Bellizzi. Quindi dico a Gaetano di
fermarsi un attimo. Ha senso proseguire, ha senso dare retta
alle mie paturnie un po’ capricciose? È che ho un cugino, che
fa l’imbianchino in Brianza, che è nato a Cerchiara di Calabria.
Non ci torna da vent’anni, mi racconta sempre dei suoi ricordi
d’infanzia, fatti di miseria, di pane buono da spezzare con le
mani e di un monastero bellissimo costruito sulla roccia, Santa
Maria delle Armi. Avevo letto da qualche parte che là dentro si
conserva una madonna acheropita. Cioè, tradotto dal greco,
dipinta da mani non umane. Una icona dipinta da un angelo.
Pura poesia.
“Quella è Cerchiara” mi indica Gaetano, qui sul confine fra le
due regioni, in un parco, quello del Pollino, che non concepisce
confini amministrativi ma unisce terre, fiumi, paesi, li fonde, li
esalta.
Penso sempre che in un bel posto, uno di quelli che vorresti
rivedere nella vita, ti devi sempre lasciare qualcosa dietro, così
hai una scusa per tornarci. La macchina di Gaetano non è un
fuoristrada, e con la sua voglia di trasmettermi l’amore per la
sua terra ha percorso per me, in questa settimana, qualcosa
come 3.000 chilometri: è come essere partiti da Bolzano,
andare in Sicilia per poi tornare indietro. La massa calcarea
della Timpa Falconara alla nostra destra riluce nel cielo
azzurro. La strada è una pietraia. La macchina di Gaetano non
potrebbe farcela.
“Torniamo indietro” gli dico. “Torniamo a casa.”
33
8.
Dei commiati e della fine del viaggio
venerdì 17 agosto
Rosita l’ho abbracciata, ieri sera. Stamattina ho salutato
Antonella e suo figlio Tommaso, mentre stipavo il bagagliaio
della macchina di Gaetano delle mie valigie e della borsa zeppa
di depliant, libri, mappe, souvenir che sistematicamente
riempio ad ogni viaggio. Anche Maria ho salutato, facendo una
deviazione sulla strada del ritorno. Stava preparando la ricotta,
me ne ha fatto assaggiare un po’, ancora calda. Prima di
lasciarla ha voluto regalarmi una forma di pecorino. Ho cercato
di pagargliela ma era come se la stessi insultando. “L’ospite è
sacro”, insisteva a dirmi.
Molti invece sono quelli che non ho potuto salutare. Fabio, di
Rotonda, che mi ha fatto pervenire alcuni vasetti di melanzana
rossa sott’olio (“l’ospite è sacro”), Pier Paolo, gestore di un
albergo a San Severino Lucano, col quale avrei voluto
continuare a chiacchierare di politica, innovazione, del ruolo
della cultura nello sviluppo territoriale e del dovere dell’artista
d’essere libero senza atteggiarsi da avversario.
E poi avevo promesso a Valentina una cena a Viggianello che
invece è saltata, per non parlare del pranzo a Latronico con
Romeo, rimandato di giorno in giorno, sono certo, dato il
personaggio, che sarebbe stato qualcosa di memorabile. Tante
le persone conosciute, poco il tempo. “Una scusa per tornare
sul Pollino” mi dice Gaetano, “Ormai sei di casa”. Poi mi
indica un punto sulla strada: “qui finisce il parco.” Tutto
finisce, si sa. Peccato.
Ci dirigiamo verso l’autostrada Salerno Reggio Calabria,
l’eterna incompiuta. In Campania vedrò moltiplicarsi
l’edificato, i paesi si faranno sempre più grossi, gonfi,
purulenti, fino a quando giunti nel casertano, dalle “mie parti”,
tutto esploderà in una indistinta colata di cemento che
annichilisce natura, paesaggio, aria.
Sto lasciando la Basilicata, la mia Lucania infantile, e penso
che l’idea che sia una terra antica è, a conti fatti, un’immagine
retorica come un’altra. Se penso, appunto, alla periferia infinita
che è diventata l’area fra Napoli e Caserta, a come siano riusciti
a spendere il territorio, a invecchiarlo, a sfinirlo, la Basilicata
mi appare al contrario come una terra fanciulla, una terra
adolescente, che sta crescendo, che dovrà fare le solite malattie
della gioventù ma che forse può prevenirne altre, quelle
inevitabili della maturità, della senescenza.
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I lucani non sono migliori del resto degli italiani,
semplicemente non sono riusciti a devastare la loro regione
perché sono pochi, e le dimensioni in Italia contano. Quasi
seicentomila abitanti, un quinto di quelli di Roma. Per molti
questo non aver peso politico, non essere bacino di voti
appetibile, è un problema. Forse invece queste stesse persone
dovrebbero capire che questa condizione potrebbe essere la
loro fortuna. In buona parte del suo territorio la Basilicata non
ha conosciuto ancora il conto salato che si deve pagare per
ottenere, con le parole di Pasolini, “uno sviluppo senza
progresso”. Potrebbe fare di questo suo ipotetico stato di
arretratezza - molto ipotetico e molto auto inflitto – una
occasione. Se è una terra adolescente, una terra che deve ancora
crescere, starà ai lucani decidere se sarà una crescita armoniosa,
elegante - come quella di certe ragazze che fanno nuoto o
atletica, non fumano e sorridono alla vita - o se ripeteranno gli
errori dei loro vicini di casa, dove il tasso di obesità è il più alto
d’Italia, metafora perfetta di un’opulenza che volendo
dimenticare la miseria del passato in realtà dimentica anche,
anzi disprezza, l’eredità storica, artistica, culturale antica di
millenni.
“Potrei intitolare il mio diario ‘La terra dei tafani’, che ne
pensi?” chiedo d’improvviso, rompendo il silenzio.
“Mi piace, anche se forse non è molto chiaro il senso.”
“Un buon modo per far venir voglia di leggere.”
Ho conosciuto il Pollino in una delle settimane più calde del
decennio. I tafani ne erano una sorte di indicatore climatico.
Solo sulle vette, all’ombra dei pini loricati, non ne abbiamo mai
incontrati. Chiaro che questo Pollino, questo raccontato in
queste pagine, è uno dei mille possibili Pollino. Cosa avrei
scritto se fossi venuto in primavera? (immagino la fioritura, la
festa dei colori, l’aria frizzante). Cosa, d’inverno? (il nitore
delle cime, le ciaspole ai piedi, sulla neve, il calore dei rifugi).
“Oggi è venerdì 17” dico a Gaetano, cambiando argomento,
“un giorno perfetto per mettersi in viaggio.” Poi faccio tutti gli
scongiuri di rito, enfatico.
“Non ti facevo così scaramantico.”
Infatti non lo sono. Sto giocando. Rido dei pregiudizi,
innanzitutto dei miei. Cerco di mascherare la malinconia
dell’abbandono con una battuta. Ormai siamo usciti dal casello
di Caserta Sud, ancora un quarto d’ora e sarò dalla mia
famiglia. Mi chiederanno del viaggio, dell’esperienza, delle
cose incontrate, viste, conosciute. In fondo sto scrivendo questo
diario anche per loro.
“Tanto dovrai tornare sul Pollino, non te lo dimenticare. Con
tutta la tua famiglia” persevera Gaetano, mentre mi aiuta a
portare i bagagli in casa. Ad attenderci c’è mia moglie che ha
già apparecchiato. Insiste con falsa durezza, quasi impartendo
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un ordine, affinché Gaetano resti a pranzo da noi. Ma lui aveva
già preso un altro impegno e si scusa, sinceramente, sapendo
benissimo quanto sia poco carino rifiutare un invito a tavola,
non solo in Lucania. Alla fine lo lasciamo andare, però con in
mano una busta di mozzarelle di bufala appena confezionate.
“L’ospite è sacro” gli dico, porgendogliela. “Anche qui, a casa
mia.” Anche qui nel resto d’Italia, quella che ce la può, ce la
deve fare.
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INDICE
1. Della mia Lucania, del peperone crusco e del desinare
dell’anima
(Matera), Latronico, Senise
2. Dei popoli viaggianti, dell’abitare una lingua e dell’arte
contemporanea
San Paolo Albanese, Latronico, San Severino Lucano
3. Di fiumi che non si vedono o cambiano nome e della mia
esperienza acquatica.
fiume Mercure, Piano Ruggio, rifugio Fasanelli, Laino Borgo,
gole del Lao, Viggianello
4. Del pastore che si fece artista, di una magia infantile e di
‘quel paese là’.
Teana, San Severino Lucano, Lago di Monte Cotugno
5. Di tesori nella grotta, sorelle sfortunate, imbecilli, riti
antichi e gioie del palato
Chiaromonte, Valsinni, Timpa delle Murge, Terranova del
Pollino, Rotonda
6. Del ferragosto in famiglia, i tafani, i pini loricati e della
Madonna del Pollino
Rifugio Pino loricato, Serra del Crispo, Santuario della
Madonna del Pollino
7. Dell’arte della zampogna, della processione di San Rocco
e del confine che persiste
San Costantino Albanese, San Paolo Albanese, Terranova del
Pollino, Timpa della Falconara, (Cerchiara Calabra)
8. Dei commiati e della fine del viaggio
Autostrada Salerno Reggio Calabria, Maddaloni
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