tecniche di redazione della memoria ex art. 416 cpc la memoria

Transcript

tecniche di redazione della memoria ex art. 416 cpc la memoria
TECNICHE DI REDAZIONE DELLA MEMORIA EX ART. 416 C.P.C.
LA MEMORIA DIFENSIVA (1): CONTESTARE SPECIFICAMENTE I FATTI E GLI
ARGOMENTI GIURIDICI
Nel merito: sul risarcimento dei danni
La lunga dissertazione di controparte in tema di danno esistenziale sembra tralasciare
che, per qualsivoglia fattispecie generatrice di responsabilità civile, al di fuori dei casi –
espressamente previsti dalla legge – di responsabilità oggettiva, non è sufficiente
provare l’esistenza di un danno purchessia. Il che, peraltro, come si è visto e si
ribadirà, in questa causa non è avvenuto. Com’è ampiamente noto, la fattispecie
generatrice di responsabilità civile (art. 2043 c.c.) si compone, tra l’altro, di tre
elementi indefettibili:
a) il fatto doloso o colposo;
b) il nesso di causalità;
c) il danno ingiusto.
Quanto al fatto doloso o colposo, la ricorrente individua due distinti episodi.
Il primo di essi è il crollo del controsoffitto della prima sede della Società di viale
Monza (vedi cap. II in fatto). Si è già rilevato che detta sede era stata presa in locazione
da società diversa dall’odierna convenuta (ASI s.r.l.) di cui la ricorrente era
amministratore delegato. Ne deriva che, se mai si volesse trovare una qualche colpa, ci
si dovrebbe rivolgere proprio alla società appena citata. Non consta, d’altro canto, che
la ricorrente, nonostante il proprio ruolo, si sia mai attivata, né presso ASI s.r.l., né
presso la convenuta, né presso altri, per segnalare alcun pericolo di crollo o proporre
dei nuovi lavori per incrementare la sicurezza. A quanto consta, le uniche rimostranze
della ricorrente avevano riguardato episodi di furto verificatisi nell’edificio.
Probabilmente, ciò derivava dal fatto che nessuno era a conoscenza del rischio.
Il secondo fatto che la ricorrente adduce per tentare di dare un fondamento alla
propria richiesta di danni è il licenziamento. Si è già ampiamente detto della piena
legittimità del licenziamento in sé. Com’è noto, è principio generale dell’ordinamento
che da un comportamento legittimo non possa derivare un danno ingiusto.
Controparte si dilunga – con atteggiamento a dir poco offensivo – nell’esporre le
conseguenze risarcitorie di un fatto di reato o di un comportamento lesivo di diritti
costituzionalmente protetti. Manca tuttavia la prova di un qualsivoglia comportamento
della convenuta che avrebbe determinato la lesione di tali diritti costituzionali, alla
luce dell’insegnamento costante della giurisprudenza secondo cui “il licenziamento di
un dirigente (non soggetto alla disciplina della Legge n. 604 del 1966 e Legge 300 del
1970), per dare luogo ad un danno risarcibile secondo il diritto comune deve concretarsi per la forma o per le modalità del suo esercizio, e per le conseguenze morali e sociali che
ne derivano - in un atto lesivo della dignità e dell'onore del lavoratore licenziato,
connotazione, questa, che non si identifica, nè può essere confusa con la mancanza di
giustificazione, e che non puo' essere presunta, dovendo essere rigorosamente provata,
ex articolo 2697 c.c. da chi l'alleghi come causa del lamentato pregiudizio di cui vanno
parimenti provati l'an e il quantum” (Cass., sez. lav., 27/12/2010, n. 24794, in
UnicoLavoro, sottolineatura e grassetto nostri). Per potersi riconoscere un danno
risarcibile secondo il diritto comune, sempre secondo il costante e condivisibile
insegnamento della Suprema Corte, si deve versare in un’ipotesi di c.d. licenziamento
ingiurioso. “Il carattere ingiurioso del licenziamento, che va rigorosamente provato da chi
lo deduce, deriva infatti unicamente dalla forma ingiuriosa in cui esso viene espresso o
dalla pubblicita' o da altre modalita' lesive con cui viene adottato (cfr., per tutte, Cass. 1
luglio 1997 n. 5850 e, piu' recentemente, Cass. 14 maggio 2003 n. 7479).
Unicamente in quanto originato da tali circostanze, il danno da licenziamento ingiurioso
eccede, infatti, quello risarcibile a seguito di licenziamento senza giusta causa o
ingiustificato, alla stregua della normativa legale e contrattuale applicabile” (Cass., sez.
lav., 11/6/2008, n. 15496, e, più recentemente, conforme Cass., sez. lav.,
25/11/2010, n. 23931). Da ciò derivano le affermazioni di controparte secondo le
quali il licenziamento della dott.ssa Tizia sarebbe stato comunicato con modalità
“inusuali, offensive e gravemente lesive della personalità e della reputazione
professionale della ricorrente” (così il ricorso, a p. 35). Senonché detta affermazione è
smentita dai fatti pacificamente ammessi anche dalla stessa ricorrente. La consegna
della lettera in un bar al di fuori del suo ufficio ebbe luogo per sua scelta, nonché per
l’attenzione prestata da Alfa alla tutela della riservatezza. E’ curioso che la pubblicità
venga considerata dalla S.C. come elemento qualificante il c.d. licenziamento
ingiurioso ed invece la ricorrente argomenti da premesse del tutto opposte. Non si
comprende quale parte del colloquio riservato e della lettera di licenziamento sia
inusuale. Il resto dell’affermazione è smentita dalla stessa natura oggettiva delle
motivazioni: a prescindere dalla percezione soggettiva e psicologica che la ricorrente
possa aver avuto, questa difesa si chiede dove possano essere rinvenute le offese nel
testo.
Altrettanto dubitabile è la presenza del nesso di causalità fra i comportamenti
asseritamente ingiusti della convenuta e il presunto danno che la ricorrente allega.
Come si evince dalla documentazione medica e peritale prodotta da controparte sub
docc. 30 e 31, infatti, ella è purtroppo affetta da diverse gravi patologie (già ricordate
al cap. VII in fatto), del tutto indipendenti dall’attività lavorativa con la convenuta.
Inoltre, la ricorrente stessa riferiva al medico del servizio pubblico (doc. 30 di
controparte) di aver già avuto un episodio depressivo in passato. Il che farebbe
dubitare della riconducibilità delle lamentate patologie psichiche a comportamenti
della convenuta (quand’anche dette patologie fossero state provate), invece che a una
predisposizione della dott.ssa Tizia a dette patologie, dovuta ad altri fattori della sua
vita (altre malattie, problemi personali, ecc.), anche ignoti a questa difesa. Inoltre, pare
a questa difesa strano che, seppur la ricorrente lamenti grave depressione e stress
conseguente al licenziamento, si sia rivolta ai medici soltanto il 19/1/2010, cioè oltre
due mesi dopo la consegna della lettera di licenziamento. Il fatto, poi, che il medico
pubblico riferisca che la ricorrente “è in causa con azienda” e che, contestualmente alla
(apparentemente unica) visita successiva al licenziamento, la dott.ssa Tizia si sia fatta
rilasciare un certificato medico, fa quantomeno sospettare che la visita fosse dovuta
più alla precostituzione di una prova da usare in questa causa che all’effettivo bisogno
di cure.
Nessuna prova offre, inoltre, la ricorrente a sostegno della propria asserzione secondo
cui ella avrebbe seguito una terapia farmacologica. Non risulta agli atti né che ella
abbia mai acquistato o altrimenti ottenuto i farmaci di cui narra, né tantomeno che li
abbia mai assunti.
Ciò fa presumere pertanto che mai alcuna terapia sia stata
seguita e, pertanto, si contesta specificamente l’affermazione di controparte.
Deve, inoltre, ribadirsi, l’integrale contestazione della relazione depositata dalla
ricorrente sub doc. 31, che omette qualsiasi spiegazione circa il nesso causale fra il
recesso dal rapporto di lavoro e la presunta malattia. Esso viene espresso in modo del
tutto apodittico e, a quanto sembra, si basa sui soli racconti della stessa dott.ssa
Tizia, sulla cui intrinseca inattendibilità non pare nemmeno necessario commentare.
Per concludere definitivamente in ordine alla sua totale inidoneità a costituire una
fonte di prova per questa causa, è sufficiente osservare che:
a) la citata relazione reca la data del 29/11/2010, cioè oltre un anno dopo l’ultimo
degli episodi che, ad avviso della dott.ssa Tizia, l’avrebbero danneggiata;
b) essa è evidentemente stata redatta al solo scopo di tentare di dimostrare in
causa che il presunto danno patito dalla ricorrente;
c) né essa, né le affermazioni ad essa connesse nel ricorso, sono supportate da
alcun genere di prova che dia almeno una parvenza di credibilità ai fatti narrati
e alle gravi conclusioni cui si perviene.
Anche con riferimento all’asserita esistenza di un danno ingiusto deve rilevarsi
l’assoluta carenza di prove. Alcune affermazioni della ricorrente sono poi veramente
poco serie e ci costringono ad entrare in argomentazioni che volentieri si sarebbero
lasciate fuori dal contraddittorio: (a) la Società dovrebbe risarcire la ricorrente perché
ella non avrebbe più potuto fare ciò che faceva prima (così a p. 41 del ricorso; ci si
chiede che cosa significhi tale affermazione); (b) altrove la ricorrente si spinge a
scrivere: “Le più modeste condizioni economiche imponevano inoltre di rinunciare
all'attività di aggiornamento professionale normalmente svolta in incontri e convegni e con
numerosi abbonamenti a riviste specializzate” (17.1 verso la fine).
Ora, se si tiene
conto della remunerazione apicale pagata alla ricorrente nel corso dell’intero rapporto
di lavoro, degli importi di assoluto rilievo pagati come spettanze di fine rapporto (doc.
14 di controparte) e del fatto che essa stessa ci informa di essere coniugata a docente
universitario (oltre a non aver dimostrato alcun onere quali familiari a carico, mutui e
così via) pare veramente indubitabile che la ricorrente potesse ben permettersi di
continuare il proprio aggiornamento professionale e pertanto un’affermazione del tipo
di quella fatta dalla ricorrente può solo avere valore confessorio della volontaria
rinuncia a tale attività.
Per quanto concerne l’asserita durata della presunta malattia, essa è accertata nella
relazione sub doc. 31 di controparte senza alcuna motivazione, che pare tanto più
necessaria quando si tratta di accertare l’invalidità di un soggetto, e a maggior ragione
dopo che tale presunta invalidità sia già cessata. Anche in questo caso, soltanto il
racconto – necessariamente parziale – della dott.ssa Tizia sembra aver determinato il
parere dei suoi consulenti, che, pertanto, si contesta in quanto palesemente parziale e
immotivato. Non una sola considerazione medico-legale (a parte uno sfuggente
riferimento alla non meglio precisata “più accreditata nosografia psichiatrica”) si legge a
sostegno del parere dei consulenti. Per il resto, essi si limitano a riportare, talvolta
traducendolo in termini clinici, il racconto della ricorrente, senza analisi critica.
La quantificazione del danno prospettata nel ricorso (pp. 46-47), inoltre, appare a
questa difesa del tutto spropositata anche nell’ipotesi (irreale, come si è visto), in cui
un danno dovesse mai essere riconosciuto.
a) Il danno biologico viene liquidato nella misura massima possibile, nonostante si
alleghi un’invalidità parziale. Per giunta la quantificazione viene ulteriormente
personalizzata con l’aumento massimo possibile da tabella, il tutto a fronte di
un comportamento assolutamente neutro e corretto della convenuta;
b) Il danno esistenziale, domanda già di per sé priva di fondamento e sulle cui
(carenti) basi giuridiche questa difesa non ritiene di tediare oltre il Giudice, è
liquidato “in via equitativa” (p. 47 del ricorso). Controparte, tuttavia, dimentica
che la liquidazione in via equitativa presuppone la rigorosa prova di tutti i
singoli elementi concreti del danno, lasciando poi al giudice la quantificazione,
in quanto impossibile da provare. Nel ricorso, invece, un danno quantificato
nella cifra abnorme di centomila euro è genericamente fatto coincidere con
l’alterazione delle abitudini di vita (sempre a p. 47 del ricorso). Il riferimento,
poi, alla retribuzione – che nulla ha a che vedere con il danno esistenziale – è
segno evidente dell’affannosa ricerca di un criterio di liquidazione che
semplicemente non esiste perché non esiste il danno risarcibile.
LA MEMORIA DIFENSIVA (2): INVOCARE I POTERI ISTRUTTORI DEL GIUDICE
Nel merito, in subordine: l’aliunde perceptum
Dagli unici documenti pubblicamente reperibili si evince chiaramente che la
ricorrente ha svolto e svolge altra attività lavorativa dopo il licenziamento da parte
della convenuta (cfr. docc. 38 e 39). Quest’ultima, d’altro canto, non è in grado,
senza far luogo ad abusive intereferenze nella vita privata della ricorrente, di
procurarsi una documentazione dettagliata relativa ai redditi che la dott.ssa Tizia ha
percepito successivamente alla cessazione del rapporto di lavoro con la società. In
denegata ipotesi in cui il Giudice dovesse riconoscere l’illegittimità del licenziamento
della ricorrente, sarebbe quindi necessario accertare in maniera completa e veritiera
l’aliunde perceptum. A tal fine si chiede al Giudice di ordinare l’esibizione della
documentazione fiscale e contributiva che, sola, può assicurare una visione esuriente
della situazione reddituale.
Di conseguenza si chiede, in via meramente subordinata, nella denegata ipotesi che
alla ricorrente dovesse essere riconosciuto il diritto al pagamento di somme di denaro
aventi natura risarcitoria in conseguenza del licenziamento, che si tengano in debito
conto i redditi altrove percepiti nel lasso di tempo successivo al licenziamento stesso.