Catalogo della mostra
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Catalogo della mostra
San Fedele Arte Galleria San Fedele Via Hoepli 3 a-b 20121 Milano Premio Arti Visive San Fedele 2008/2009 27 maggio - 10 luglio 2009 mostra a cura di Andrea Dall’Asta S.I., Angela Madesani, Daniele Astrologo, Luca Barnabé, Ilaria Bignotti, Chiara Canali, Matteo Galbiati, Chiara Gatti, Massimo Marchetti, Barbara Sorrentini, Michele Tavola, Fabio Vittorini, Francesco Zanot, Giuseppe Zito S.I. opere giovani artisti Luca BONFANTI, Chiara BONIARDI, Giuseppe BUFFOLI, Elena BUGADA, Paolo CAVINATO, Marco FERRARIS, Ettore FRANI, Cesare GALLUZZO, Tamas JOVANOVICS, Giovanni MANTOVANI, Marco MENGHI, Daniela NOVELLO, Patrizia NOVELLO, Fabrizio POZZOLI, Giulia RONCUCCI, Alessandro SANNA, Natalia SAURIN, Gaia SCARAMELLA, Carlo Michele SCHIRINZI, Serena VESTRUCCI opere giovani filmmakers Francesco AZZINI, Tommaso MELIDEO, HOTEL NUCLEAR testi in catalogo Daniele Astrologo, Luca Barnabé, Ilaria Bignotti, Chiara Canali, Giovanni Chiaramonte, Daniela Cristofori, Andrea Dall’Asta S.I., Matteo Galbiati, Gabriella Gilli, Giuseppe Guzzetti, Chiara Gatti, Angela Madesani, Massimo Marchetti, Silvano Petrosino, Barbara Sorrentini, Michele Tavola, Francesco Zanot, Giuseppe Zito S.I. giuria Premio Arti Visive San Fedele Giovani Artisti Daniela Annaro, Tullio Brunone, Giuseppina Caccia Dominioni Panza, Cristina Chiavarino e Lorenza Gazzerro, Andrea Dall’Asta S.I., Rosella Ghezzi, Paolo Lamberti, Matteo Lorenzelli, Angela Madesani, Giovanni Pelloso, Dario Trento e Daniele Astrologo, Ilaria Bignotti, Chiara Canali, Matteo Galbiati, Chiara Gatti, Massimo Marchetti, Michele Tavola e Francesco Zanot giuria Premio Arti Visive San Fedele Giovani Filmmakers Marco Bechis, Andrea Dall’Asta S.I., Giancarlo Grossini, Marina Spada, Stefano Zara, Giuseppe Zito S.I. e Luca Barnabé, Barbara Sorrentini, Fabio Vittorini giuria Premio Rigamonti Giorgio Braghieri, Gabriele Caccia Dominioni, Claudio Composti, Andrea Dall’Asta S.I., Manuela Gandini, Alberto Pellegatta Emilio, Maria Teresa e Michele Rigamonti conferenze di Letizia Battaglia, Luisito Bianchi, Nella Magen Cassouto, Erri De Luca, Paula Luttringer Segreteria organizzativa M. Chiara Cardini redazione catalogo Matteo Galbiati, Simone Saibene Progetto grafico Donatello Occhibianco Allestimento Umberto Dirai Ringraziamenti Dario Bolis, Cristina Chiavarino, Lorenza Gazzerro, Bianca Longoni L’UOMO E IL SUO DESTINO Ogni edizione del Premio San Fedele mette al centro della riflessione temi “pesanti”. Impegno che viene assolto anche quest’anno con “L’uomo e il suo destino”. Una tematica affrontata efficacemente da Dall’Asta e Petrosino, in questa pubblicazione, alla quale mi permetto di aggiungere una personalissima riflessione, distante dagli aspetti filosofici, ma che intercetta la domanda rispetto a quale futuro ci attende e la gira ai giovani artisti in concorso. Già perché se ci astraiamo dal concetto di destino per focalizzarci su quello di futuro, dobbiamo porci la domanda di come le giovani generazioni vivano quest’epoca difficile; i ragazzi di oggi hanno potenziaGiuseppe Guzzetti lità e strumenti probabilmente superiori a quelli di cui disponevano i giovani di generazioni precedenti, Presidente Fondazione Cariplo ma pagano il peso di un contesto sfavorevole, di incertezza. Eppure è proprio in questo che devono trovare la capacità di reagire: solo i giovani, con la loro forza, il loro impeto, il loro trascendente entusiasmo possono cambiare lo stato delle cose in cui vivono, mutando le insicurezze in scelte coraggiose. Quello che non possono attendersi è che siano gli altri a prendersi il fardello per conto loro; gli altri, quelli che probabilmente hanno la responsabilità di aver portato il sistema fino a questo punto, devono affiancarsi e sostenerli. Allora il destino diverrà futuro chiaro e florido. La via d’uscita esiste. La strada è in salita, ma c’è. L’uomo e il suo destino L’uomo e il suo destino La mostra che conclude il percorso 2008/2009 del Premio San Fedele compiuto dai giovani artisti e dai giovani filmmakers riflette bene le incertezze e le inquietudini, le speranze e i desideri del mondo giovanile di oggi. In questo senso, luci e ombre sembrano intrecciarsi nelle opere dei giovani senza soluzione di continuità. Il tema è stato sviluppato nelle più diverse modalità. Andrea Dall’Asta S.I. Giovani artisti Direttore Galleria San Fedele Daniela Novello, vincitrice del concorso per la seconda volta consecutiva, presenta la scultura Tols_Child’s first birthday, costituita da quattro scatole di tufo alle quali sono sovrapposte quattro scatole di piombo. Il lavoro trae spunto da un rito religioso che si svolge in Corea e chiamato “Tol”, vale a dire “il primo compleanno”. All’età di un anno, il bimbo, posto di fronte a quattro oggetti racchiusi nelle scatole di piombo (libro, ago e filo, riso, arco e freccia) ne sceglie istintivamente uno che deciderà il senso della sua vita (saggezza, longevità, abbondanza e coraggio). Se ciascuno di noi nasce dalla terra, luogo che accomuna ogni uomo, il destino prende strade singolari. Paolo Cavinato, secondo classificato, in Viandante propone la metafora del viaggio attraverso un’installazione che gioca sul contrasto tra esterno, costruito come una sorta di città/specchio, fatta di antri, porte, passaggi, una sorta di castello labirintico in cui l’occhio si perde nell’osservazione dei continui scarti visuali, e interno concepito come una lunga strada, una via interiore che siamo chiamati a riconoscere. Alla complessità dell’esterno corrisponde una via di luci e di ombre in cui siamo chiamati a vivere la definitività delle nostre scelte. Fabrizio Pozzoli, terzo classificato, concepisce un’opera, Everyone - no one, costituita da una figura in piedi sull’ultimo gradino di una scala in legno, circondata da un numero imprecisato di sedie, chiara allusione al fatto che ogni uomo è chiamato a uscire dalla propria solitudine per vivere in una comunità, “scendendo” dalla scala sulla quale si è collocato. La figura, in filo di ferro, è collegata con un filo di rame a una sfera, simbolo originario di un caos da cui ciascuno di noi nasce e verso il quale approda. Tamas Jovanovics, menzione speciale dei giovani curatori-tutors, in Nonostante, presenta invece un’installazione di diciotto quadri solo apparentemente uguali, attraversati da centinaia di righe colorate. Se la struttura esterna dell’opera è variabile, la posizione dei quadri non obbedisce a regole precise. La struttura interna resta infatti intatta, coerente. Come se il destino dell’uomo, malgrado le differenze di ciascuno, fosse accomunato da una solidarietà e da una unità che superano le differenze individuali. Alessandro Sanna, vincitore del Premio Paolo Rigamonti, presenta invece cinque disegni realizzati a inchiostro di china che, attraverso una rielaborazione digitale, diventano un libro dal titolo Hop, Hop, Hope. Il protagonista è un omino dai semplici tratti, colto nell’istante di saltare. Attraverso il salto che ciascun uomo compie verso il proprio destino, l’uomo può intraprendere due strade. Può accedere a una libertà che lo porta in cielo, vibrando nell’aria e trasformandosi in uccello leggero, o precipitare nell’abisso dei propri fallimenti, trasformandosi questa volta in serpente. Altri lavori giocano sul filo di un destino, concepito come riconoscimento, attesa, sorpresa, impossibilità, inevitabilità… Giovanni Mantovani, in Mutamenti di luce, ci fa partecipi del fatto che per riconoscere le presenze della nostra vita occorre uno sguardo attento alle discontinuità provocate dalla luce, che rivela e nasconde realtà che ci proiettano verso l’infinito. Simona Vestrucci in Pensi di continuare? fotografa il volto di un giovane colto mentre ruota il proprio volto in un atteggiamento tra la sorpresa e l’inquietudine di chi si interroga sul senso della propria vita. Se Marco Menghi, in Metrò Praga, ci fa intuire un destino dell’uomo nell’ambiente sotterraneo di una metropolitana come in una sospensione dello spazio e del tempo, Luca Bonfanti, in Sul destino, riflette sulle possibilità dell’uomo di fronte alla vita: dove andare? Quali sono i criteri delle nostre scelte? Lo stato di inquietudine di fronte alla vita emerge ancora in numerose opere, come nel lavoro di Carlo Michele Schirinzi, Ballata Naufraga, che medita sulla vita dell’uomo come a un perenne pellegrinaggio, a partire dal diluvio universale alle moderne e drammatiche “arche” che solcano il Mediterraneo. O ancora nel lavoro di Chiara Boniardi, in L’uomo e il suo destino, una scultura in ferro e acciaio in cui un tubolare inserito all’interno di una lastra piegata in corten ha una libertà incerta di movimento-roteazione che fa supporre l’incertezza dell’uomo di determinare il suo destino. Gaia Scaramella compone un’opera di undici incisioni, riflettendo sul tema della Via Crucis e cercando di cogliere il nesso tra il dolore di Cristo e la sofferenza dell’uomo di oggi, rivisitato attraverso l’esperienza personale dell’autrice. Patrizia Novello in Senza titolo riporta una frase tratta dal libro di Anders Nilsen Don’t go where I can’t follow e riflette sul divenire incessante e immutabile di un tempo che si ripete senza che nulla cambi sotto il sole, come direbbe il libro di Qoelet. Se Giuseppe Buffoli, in Hai mai pensato che un bambino non beve, perché per lui non esiste la morte, tiolo tratto da una citazione dal libro Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese, riflette sul destino della vita e su quanto resta alla fine del suo cammino – è forse l’anima? – Ettore Frani presenta un dittico, Audi, filia, in cui rappresenta il germinare della vita da uno stato indifferenziato e indistinto di caos. Cesare Galluzzo, invece, compone un trittico Ciò che non si vede è eterno - in cui rappresenta una sorta di dialettica tra Destino intimo-Destino indecifrabile-Destino eterno: il destino appare come l’inevitabile, ciò da cui non si può sfuggire. Destino come ripetizione del medesimo, dell’uomo che non fa che ripetere il proprio cammino, appare nella fotografia di Marco Ferraris dal titolo Ritorno a Versailles. Omaggio a Luigi Ghirri. In un trittico concepito come video installazione interattiva, Giulia Roncucci in Dilated Pupil affronta il tema dell’identità e del rapporto con l’alterità. Il lavoro si propone di riflettere sul proprio destino inteso come successione di visioni di sogno, sequenze di immagini che affiorano dal nostro inconscio. Le immagini sono circolari come le pupille dei nostri occhi, che non sono altro che pozzi profondi la cui superficie d’acqua è come la retina sulla quale vengono impresse le immagini. Infine i video. Se Elena Bugada, in Il destino dell’uomo, riflette sulla dialettica dell’uomo che scrive il proprio destino e del destino che scrive sull’uomo - il destino appare come parola scritta sul volto dell’uomo che inesorabilmente invecchia fino a morire - Natalia Saurin, in Dance dance dance, racconta la storia di un’anziana signora che nel silenzio della sua cucina si trova a dialogare con i propri ricordi che invadono la quotidianità. Realtà e sogno in questo modo si fondono in un istante generando una danza primordiale che mette in relazione la vita dell’uomo con i moti del firmamento del cielo. Il destino dell’uomo è quello di concludersi in una danza, che imita quella delle stelle, che da sempre si svolge nell’universo. Premio Paolo Rigamonti Quest’anno, per la prima volta, al premio per giovani artisti e giovani filmmakers, oltre ai selezionati dai giovani curatori e dai critici cinematografici, si aggiunge il Premio Rigamonti, in ricordo del giovane artista Paolo Rigamonti, tragicamente scomparso alcuni anni fa. Per il Premio sarà donata una statua appositamente realizzata da Hidetoshi Nagasawa. La statua che Nagasawa ha realizzato per il premio Rigamonti rappresenta una barca dalla quale “nasce” un albero. La barca è il simbolo del viaggio che ciascuno compie all’interno di una comunità. L’albero è il simbolo della vita che ogni uomo coltiva, perché sia fecondo e porti frutti. Un grazie sincero al giovane artista Paolo che ricordiamo con affetto e amicizia. Grazie per la sua generosa vitalità, per il suo appassionato e sincero amore per l’arte, ben lontano dalle troppo facili strumentalizzazioni commerciali che contaminano il mondo artistico. Grazie alla famiglia Rigamonti che con questa iniziativa vuole premiare quei giovani che ricercano nell’espressione estetica il luogo di una verità che non viene da noi ma che da sempre vive in noi. È la verità di chi, come Paolo, ha scoperto nell’espressione artistica il luogo della propria vocazione di uomo. Il tema del Premio San Fedele di quest’anno è complesso, carico di implicazioni. E i giovani artisti o aspiranti L’uomo e il suo destino tali, che ad esso hanno partecipato hanno realizzato lavori diversi tra loro. Nonostante le differenze, in molti di questi lavori è possibile scorgere un filo rosso. Questo filo rosso è un profondo senso di humanitas nella sua accezione classica. Così nell’opera di Paolo Cavinato (II classificato) in cui è una sorta di strumento prospettico, che si può guardare dall’interno e dall’esterno. Nell’opera è un piccolo essere umano, un viandante che si inoltra. Sembra una metafora dell’esistenza. Solo ciò che è vicino ci è noto, oltre non si sa. Anche il lavoro di Marco Menghi ruota intorno a una riflessione sulla prospettiva e sulla percezione dell’uomo. È ambientato nella metropolitana, luogo sotterraneo, terra di studio di etnologi e filosofi. Un percorso è anche quello del lavoro di Fabrizio Pozzoli (III classificato). Qui l’uomo è come su un palcoscenico al quale è arrivato tramite una scala, è il percorso esistenziale, attraverso vari stadi. L’essere umano è a metà del percorso. In basso è un gomitolo: il caos esistenziale, al quale l’uomo è collegato da un filo. La sua è un’opera metaforica, anche semplice, se si vuole, che riesce, tuttavia, a offrire un’idea molto chiara delle posizioni dell’artista in tal senso. Le sedie sono poste come in una spirale, una forma che racchiude in sé, per usare le sue stesse parole, le immagini di espansione-restringimento, crescita-regresso, sviluppo-decadimento. TOL_ Child’s first birthday è il titolo del lavoro di Daniela Novello, anche quest’anno vincitrice del Premio. Ha realizzato quattro scatole di piombo, soltanto simili fra loro. Il punto di partenza è un rito coreano: Tol o Il primo compleanno. Qui Novello, virtuosa dei materiali, che riesce, però, a non esserne mai compiaciuta, mette a fuoco la terza fase del rito, che prevede che il bambino di un anno, messo di fronte a quattro oggetti, ne scelga istintivamente uno. Si tratta di libro (saggezza), ago e filo (longevità), riso (abbondanza di cibo), arco e frecce (coraggio e carattere da guerriero). In una situazione di questo tipo, il bambino è fautore del suo stesso destino. A partire da questo spunto ha creato un’installazione composta da quattro scatole di piombo uguali tra di loro e su ogni coperchio ho scritto il nome di uno degli oggetti sopra citati. Quello di Giuseppe Buffoli è un lavoro di matrice esistenziale sul tempo e la memoria, in cui vari elementi si combinano: una lastra di ferro con le misure del suo corpo, lasciata ad arrugginire, legna arsa del suo stesso peso, dalla quale si ricava cenere. È quello che resta del nostro corpo dopo la morte, unica certezza della nostra esistenza. La cenere, quindi, è stata impastata e dall’impasto è stata ricavata una livella di 68 cm. È come un percorso tra vita e morte. La traccia del suo corpo, è stata stampata a secco su carta, lasciando una sorta di sindone. Quello di Patrizia Novello è un riferimento letterario, ma prima di tutto esistenziale sul destino dell’uomo. La sua è una pittura in cui sono le lettere scritte da una vecchia macchina da scrivere. Una storia d’amore con un triste destino. Di matrice letteraria e poetica è anche il lavoro pittorico sulla perdita di Ettore Frani. «È l’uomo a scrivere il proprio destino. Ed è il destino a scrivere sull’uomo», scrive Elena Bugada nel suo testo di accompagnato al video. Una mano scrive sulla pelle del volto di un uomo: tra Greenaway e Ketty La Rocca. Angela Madesani Storico e critico dell’arte Nessun furto di idee, piuttosto la consapevolezza di porsi su un cammino. E la storia dell’arte è anche il punto di partenza del lavoro di Carlo Michele Schirinzi, un artista che opera con diversi mezzi: dalla fotografia al video. Qui è una koiné linguistica in cui la cronaca si srotola tra profezie e storie bibliche. È una riflessione sul tempo della storia dell’arte, in cui espressioni diverse si fondono in un insieme, quasi disturbato dalle ferite inferte dall’artista alla pellicola. Qui sono l’affresco della Basilica di Santa Caterina d’Alessandria a Galatina e il mosaico pavimentale della Cattedrale dei Martiri ad Otranto: due rappresentazioni del Diluvio Universale. Elementi, spunti tornano nel corso del tempo in luoghi diversi. Si pensi, in tal senso, allo storico dell’arte lituano Jurgis Baltrusaitis. In tutto questo Schirinzi non perde di vista il soggetto del lavoro: l’uomo e la speranza, forse utopica, di un destino di gioia. Mi piace leggere un riferimento ai temi della storia dell’arte, anche classica, con il Giano bifronte nell’opera fotografica di Serena Vestrucci, in cui si riflette sulla ciclicità dell’esistenza. Natalia Saurin, che in altre occasioni avevamo trovato in un agrodolce gastronomico tra cucina e psicodrammi da coppie frustrate, qui affronta il tema del destino attraverso l’esperienza di una vecchia, quanto saggia signora, che rappresenta l’ineluttabilità della vita. Il linguaggio è completamente diverso, fortemente legato alla tradizione della scultura, ma la riflessione alla quale si giunge non è poi così lontana nell’opera di ferro di Chiara Boniardi, in cui la vita-tubolare - e la forzalastra - si congiungono e interagiscono. Il lavoro di Giovanni Mantovani nasce da un frangente casuale. La scoperta di una diversità all’interno di una situazione nota. Microstorie, piccoli mutamenti, ai quali il più delle volte non facciamo caso, in grado di determinare scelte e percorsi distinti. Mantovani è un uomo schivo, riservato, la sua è un’osservazione attenta dei minimi, dei dettagli che offrono, però una risposta diversa alla nostra esistenza. Quella di Giulia Roncucci è un’installazione complessa in cui il ricordo, la memoria sono poste in relazione con il concetto di interattività. Qui sta la forza e l’intelligenza del suo lavoro, che non si limita a un’indagine del passato, attraverso i documenti, ma si pone in relazione con chi guarda, chiedendone un intervento attivo e in tal modo condizionando il destino degli eventi e dunque dell’uomo. “La vita è come una scatola di cioccolatini – diceva Forrest Gump – non sai mai quello che ti capita”. Tutto sta La vita è una scatola alla scelta di un momento. Quella stuzzicata dalla bellezza di piccole praline ben confezionate, allineate sotto strati di veline, avvolte dentro carte luccicanti che, a scartarle, svelano decorazioni di glasse e ripieni cremosi o croccanti. Piaceri del palato, dal sapore a volte dolce altre più amaro. Come i gusti della vita, appunto. Imprevedibili, pronti a rivelarsi solo dopo averli sciolti in bocca. Una visione fatalista del destino, la visione di Forrest, il celebre personaggio uscito dalla macchina da presa di Spielberg. Fatalista… ma voluttuosa. Bene, anche Daniela Novello ci avverte che la vita è una scatola. Ma nel suo caso a fare la differenza non è la tentazione fortuita affidata a un godimento innescato dagli occhi, ma una preferenza forse più consapevole Chiara Gatti che qui ha il gusto della predestinazione. Il destino per Daniela Novello non ha nulla a che fare con la finezza Critico d’arte del cioccolato fondente, ma con il potere semantico di un solo semplice oggetto. Un oggetto emblematico che, come una carta dei tarocchi, attende nell’ombra d’essere estratto dal mazzo, prima mossa di una partita con la vita. Per dirla con Schopenhauer “Il destino mescola le carte e noi giochiamo”. Ispirato a un antico rito religioso, tipico della Corea del Sud, il lavoro di Daniela Novello ha proprio il retrogusto dei culti iniziatici. Il rito, allestito in occasione del primo compleanno di ogni bambino, prevede, infatti, che il bambino debba compiere una scelta fra quattro oggetti, ognuno dei quali foriero di un destino diverso per il suo futuro. C’è il libro, immagine per eccellenza della saggezza, e ci sono l’ago e il filo, simboli eterni di longevità; c’è il riso in segno d’abbondanza e, ancora, un arco con le frecce, elemento profetico del guerriero. Quattro oggetti, apparentemente insignificanti, ma che, toccati dalla predilezione di una mano innocente, diventano sigilli di un fato ineluttabile. Daniela Novello, forte dei suoi materiali da “scultrice-scultrice” (avrebbe detto Testori) – dalla pietra, il tufo color caramello ruvido e scavato dall’effetto tattile, al piombo che le sue mani piegano e stendono come fosse pasta sfoglia – ha dato vita a un’opera che è un condensato di simbologia e carica espressiva. Ha ricostruito per noi l’antico rito di iniziazione, immaginando l’altare sacro di una cerimonia tribale e ponendoci davanti a quattro fatidiche scatole, ognuna delle quali contiene idealmente proprio uno dei quattro gingilli allegorici. E allora eccoci tutti davanti alla scelta dell’iniziato. Tutti nel ruolo del bambino eletto. Tutti in fila davanti a un bivio. Ma, attenzione a bendarsi gli occhi prima di allungare la mano verso il futuro che ci tocca. Prima di accarezzare i coperchi ben sagomati delle scatole di Daniela Novello e affondarci le dita dentro, come Harry Potter nel sacchetto del drago spinato. Un pescaggio a occhi chiusi, insomma. Scelta fatale! Già perché, posti di fronte agli oggetti premonitori, solo ai puri di cuori potrà essere mostrato il vero cammino. Cieco dinanzi all’esperienza, mondato delle sovrastrutture stratificate nel tempo dalla vita, anche l’adulto può forse recuperare ciò che di genuino conserva ancora nel profondo. Quella parte di sé non corrotta come l’animo dei bambini che, sul filo dell’istinto, gli indichi un destino ancora possibile. Non è mai troppo tardi per una scelta come questa. Il destino, si sa, è capriccioso fino alla morte. E sul fondo della scatola di cioccolatini c’è ancora un gusto da scartare. Il viandante Il Viandante di Paolo Cavinato è un’opera che funziona secondo due meccanismi diversi, producendo significato nel dialogo tra le differenti fruizioni di superfici e spazi. All’esterno, l’incastro neoplasticista di elementi cubici specchianti con cui Cavinato articola il parallelepipedo genera una tensione nello sguardo. Su di una sequenza di forme definite e date una volta per tutte nel tempo e nello spazio, come quelle minimaliste di Judd o Morris, Cavinato imprime una forza drammatica che produce slittamenti, compressioni, squarci, come se la razionalità del progetto fosse stata sconvolta dal subentrare di logiche contraddittorie e imprevedibili. Il fatto che tra queste pieghe si sviluppino dettagli illusionistici Massimo Marchetti a disegnare una città stilizzata, non è meno rilevante del modo in cui le nostre fattezze si riflettono sulle Critico d’arte superfici di questo corpo disteso, per cui noi stessi diventiamo la struttura che stiamo osservando, qualcosa che sta tra un pezzo meccanico e un glaciale progetto architettonico. È chiaro che quest’aggregato è la “città dell’Uomo”, ma aggiornata al XXI secolo, conformata ad un luogo a più livelli dove la nostra immagine viene incessantemente piegata e liquefatta, rilanciandoci un’identità sempre più flessibile che si plasma nelle nicchie di geografie parallele, dalla famiglia alle macrocomunità dei social network. È una meditazione plastica sulle complicazioni e sulle incognite che sorgono quando ci interfacciamo col mondo. Ma l’opera prevede che dall’esplorazione di un lato aperto della struttura scopriamo uno spazio nascosto sotto la superficie. Nell’architettura dell’interno, la resistenza e l’impenetrabilità delle forme esteriori si smaterializzano in una dimensione atemporale e assoluta dove campeggia la piccola figura dell’Uomo di fronte al tragitto della vita. Innanzitutto si può osservare come in questa profondità torni quell’ordine che era stato sconvolto al di fuori. La percezione di un difficile confronto con noi stessi nel mondo lascia quindi spazio a una silenziosa contemplazione che si sottrae al mondo, in una radicale intimità rischiarata da luce propria. L’Uomo si osserva all’orizzonte riflesso in uno specchio, quello è il suo destino: se stesso, e immaginiamo come avvicinandosi scorgerà sempre più chiaramente ciò che egli è già. È un dettaglio importante questo del riflesso: la sagoma che osserviamo e in cui ci identifichiamo si trova in una situazione molto simile alla nostra quando esperiamo la superficie dell’opera, ma con il beneficio di avere un’immagine finalmente intera di sé. Non si tratta più di una scultura, ma di una scena: il cannocchiale prospettico restituisce un punto di vista sulla verità di quello che siamo. È una dimensione, quella spirituale, che si può considerare solo “in prospettiva”, restituendo all’esistenza la profondità e la complessità di un percorso, a differenza della transitorietà del riflesso delle nostre fattezze nella dimensione mondana. Ma allo stesso tempo l’espediente scenico obbliga la nostra posizione, torniamo ad essere padroni di un’immagine uniforme solo perché ne siamo irrimediabilmente separati. È l’esperienza di una distanza che si potrà ricomporre solo “dopo”, al vertice di quel destino. Con l’opera Everyone-no one di Fabrizio Pozzoli si è di fronte a un’installazione plastica. Il senso della plasticità Everyone-no one non va inteso nella sua accezione etimologica, in quanto proprietà della materia di farsi duttile sotto la pressione delle mani, ma va letto nella capacità fisica della scultura di occupare un volume nello spazio. Nel caso di Pozzoli il volume è così articolato ed esteso da rompere lo schema univoco della statuaria. Everyone-no one schiude una dimensione ambientale che ricorre a certi impianti scenografici per inquadrare in termini teatrali l’intera installazione. Un’esigenza dettata dal desiderio di argomentare il tema dell’uomo e del suo destino con mezzi che non siano solo di pertinenza della tradizione scultorea. Un’apertura verso un approccio polimaterico e multimediale portato a livello ambientale, per fare emergere il valore simbolico della rappresentazione e Daniele Astrologo toccare così il nodo dell’esistenza. Ciò detto va precisato che il significato ultimo del lavoro ruota attorno alla Critico d’arte figura centrale della composizione, l’uomo stante sulla sommità della scala. Il suo atteggiamento è di colui che osserva e medita sull’avvenire, sul proprio destino e così facendo pensa anche al passato, alla propria origine perché il gomitolo posto al suolo, ai piedi della scala, è a un tempo la sorgente e la foce del corso della vita, della sua vita. Dalla sfera parte un filo che va a congiungersi con l’uomo all’altezza del ventre. Il riferimento al cordone ombelicale è d’obbligo e porta a riflettere sulla funzione nutritiva esercitata dalla matassa la cui massa sostanzia, a forza d’intrecci, la struttura dell’uomo, anch’essa costituita dalla tessitura dei fili. Si è di fronte a un processo in atto, a uno sviluppo senza soluzione di continuità perché l’intreccio avviene nel segno della vita e della morte: l’uomo tende a quel gomitolo e da esso proviene. In questo modo la forma sferica, oltre a contenere la dimensione originaria chiusa nel suo mistero, enuclea quel fine ultimo che dà senso al sentiero percorso. Ma non è tutto, perché attorno a questi punti estremi ruotano altri elementi che confermano ed articolano l’analisi fino ad ora svolta. Tutto attorno sono numerose sedie disposte a spirale. In questo modo si imprime un andamento biunivoco perché può essere letto in termini esplosivi o implosivi. Detto altrimenti la spirale racchiude in sé più tensioni che assumono di volta in volta l’identità di evoluzione/involuzione, espansione/restringimento, progressione/regressione, insomma qualcosa che si fa o si disfa, si avvolge o si svolge, comunque in atto secondo un divenire irreversibile perché presieduto da un tempo escatologico. Le sedie, così collocate in circolo attorno al divenire dell’essere umano che si appresta a discendere i gradini della scala, stabiliscono una pausa di riflessione e di giudizio rispetto alla via intrapresa. La diversità dei momenti con i rispettivi giudizi trova conferma nella diversità delle singole sedie ciascuna delle quali è caratterizzata da un proprio vissuto. La figura centrale, l’uomo, nell’intraprendere il proprio corso, passa attraverso degli stadi segnati da riflessioni e da giudizi espressi da se stesso e dagli altri. In questo modo la vita non rischia di implodere in un solipsismo ego-referenziato ma neanche di disperdersi tra i diversi punti di vista degli astanti assisi. L’uomo tende al proprio destino in nome dell’equilibrio interiore ben simboleggiato dal rapporto tra la figura centrale della composizione e la sfera, inizio e fine di ogni cosa. L’ineffabilità del Destino nonostante tutto… La sostanza e la severità della pittura di Tamas Jovanovics – non di meno da tutta la sua ricerca artistica – si mantiene anche in quest’opera nell’alveo di un lessico concentrato su asserzioni astratte a sottolineare la sua dichiarata vocazione al minimalismo concettuale. L’apparenza, come la definisce l’artista stesso, di una pittura così concisa e disciplinata, mai da lui tradita, non deve però assolutamente distrarre, né allontanare, dal suo essere voce di un osservante rispetto di contenuti profondi che ad essa associa. Una pittura che é sempre occhio attento e vigile sull’esperienza umana; una riflessione costantemente aperta al pensare e al riflettere. Quel velo di materia colorata, che si esterna sul supporto della tela quale manifestazione di un evento visivo Matteo Galbiati carico di contenuti e ricco di suggestioni, nel pur essenziale rigore del linguaggio formale, districato attra- Critico d’arte verso un congetturare ribollente prima e una composizione disciplinata poi, trova voce per parlare ora anche dell’Uomo, del Destino e del loro reciproco compenetrarsi e influenzarsi. Diciotto piccole tele, icone simbolo della variabilità dell’azione umana, si disseminano sulla parete in un’impaginazione che lentamente cede il proprio ordine ad un caos incipiente. Il campo limitante della tela diventa lo spazio circoscritto dell’uomo e del suo agire, indice della sua determinazione al farsi da sé e al desiderio di autocontrollo e autogoverno. Diciotto tele sono esempi di altrettante possibili storie umane. L’una naturalmente differente da ciascuna delle altre. Guardando con attenzione, però, nell’intimo del loro corpo, nel profondo della loro anima, nel tempo a scadenza della loro esistenza, le vediamo solcate, marcate e dominate dai segni dell’infinita, inalterabile e intoccabile volontà di un magister superiore. Il Destino, come più generalmente lo si chiama. L’errare e il decidere liberi dell’uomo inevitabilmente devono fare, più o meno consapevolmente, i conti con l’esperienza di incidenti-avvenimenti accadibili ed evenutali, il cui verificarsi solo marginalmente si imputa all’influenza di proprie autonome scelte. Le frequenze colorate, le rigorose sottolineature di rette infinite e pluricromaticamente definite, procedono ordinate ed imperturbabili in casualità predefinite che, per destino, inviolabili si rendono tangenti o penetranti alle vicende umane. Il loro movimento resta trascendente rispetto al variare delle storie in cui le riscontriamo. La loro incombenza sovrasta quindi l’umano divenire. Il destino superiore, già stato scritto e determinato, si ritrova come evento costante ed immutabile. L’uomo può solo minimamente muoversi senza intaccare e condizionare una volontà interna che é stata per lui, in qualche modo, misteriosamente predeterminata. Il destino emerge da quelle vibrazioni cromatiche nelle linee parallelamente disposte in spettri cangianti, metafora evidente dei suoi infiniti accadimenti, circostanze ed eventi che oltrepassano la limitatezza della sorte umana e del suo circoscritto luogo di possibilità. L’uomo e la coerente azione del (suo) destino si fanno parte e quantità di un infinito più grande. Là dove il Destino si origina e genera per poi passare oltre, imperturbabile, il pulsare vitale dell’uomo e del suo tempospazio delimitato. Continua nel senza tempo e nel senza luogo che si carica di un mistero ancora più profondo, incomprensibile e impensabile. Continua là dove tutto pare finire o, magari, ineffabilmente iniziare di nuovo. Salta, salta... e spera! Che la speranza, si sa, è l’ultima a morire. Salta, salta! Che è per questo che sei venuto al mondo e non ti resta che saltare e sperare. Salta, salta! Che la vita è guerra che tutti dobbiamo fare. Salta, HOP, HOP, HOPE (salta, salta e spera) salta! Che la vita è una battaglia e cade pure chi non sbaglia. Salta, salta! Che la vita è una scommessa e appena fatta l’hai già persa. Salta, salta! E soprattutto spera. L’omino stilizzato di Sanna, realizzato con eleganti quanto semplici tratti neri, che si contrae e si distende, per contrarsi di nuovo e distendersi un’altra volta, ancora e ancora, nel continuo atto di saltare, senza sapere se riuscirà a spiccare il volo o si schianterà ingloriosamente a terra, sembra parafrasare una celebre storiella africana. Ogni giorno, nella savana, al levare del sole, un leone si sveglia e spera di riuscire a correre più veloce Michele Tavola della gazzella per sfamarsi e sopravvivere. Ogni giorno, nella savana, una gazzella si sveglia e spera di riuscire Critico d’arte a correre più veloce del leone per salvarsi e sopravvivere. Ogni giorno, nella savana, che tu sia leone o gazzella, devi correre e sperare di farlo abbastanza velocemente. La vita è una savana o, per usare un’immagine più usata, una giungla. E ti tocca correre o, se preferisci, saltare. E sperare. Perché per quanto ci si affanni, la fatica fatta potrebbe non bastare. L’opera si dipana come la striscia di un fumetto: in tre mosse l’uomo si prepara, flette le ginocchia e spicca il salto, inevitabile e incerto, verso il suo destino. A questo punto le strade si dividono e le possibilità sono due. Una, verso l’alto, che porta in cielo e alla fortuna, lo vede trasformarsi in uccello leggero che si libra nell’aria e si perde all’orizzonte. L’altra, verso il basso, che porta agli abissi e al fallimento, ha come esito la spiacevole metamorfosi in serpente. A Sanna bastano pochi segni per creare immagini forti, poetiche ed evocative, immediatamente intelligibili. Con il minimo indispensabile, con l’essenziale, arriva diretto al cuore del problema. Senza fronzoli, con uno stile sobrio ed efficace, e senza retorica, con un linguaggio chiaro e ben calibrato. Ma non è tutto. L’omino che salta diventa anche il personaggio di un piccolo libro senza parole. Solo un sedicesimo, pieno di tratti neri sintetici e veloci che riempiono le pagine di uomini che saltano e sperano, pronti a trasformarsi in uccelli o serpenti. E una volta arrivati all’ultima pagina, seguendo le istruzioni, lo si deve capovolgere e ripercorrere la strada a ritroso. Sanna ci tiene a mostrare e dimostrare che è sempre e comunque un illustratore (non chiamatelo artista, per carità, lui che si sente artigiano ed è visceralmente legato al suo mestiere, potrebbe offendersi) e le sue invenzioni, le sue immagini, in qualche modo sono destinate a diventare una storia. Il risultato è un libro d’artista originale e innovativo, che per ora esiste in sei soli esemplari ma che attende le attenzioni di un editore intelligente e intraprendente. Ciò che non si vede è eterno Ricostruire un’idea, attraverso la sua frantumazione. O meglio, la sua precisa, chirurgica frammentazione in tre parti. Realizzare un’opera, anelando alla sua scomparsa: dichiarando la sua presenza mediante la sospensione del giudizio, l’assenza della soluzione. Perchè è eterno solo – necessariamente – ciò che non si mostra alla vista. Il lavoro di Cesare Galluzzo realizzato per quest’edizione del Premio Arti Visive San Fedele è semplice, nella sua complessa tripartizione. Ilaria Bignotti Crudele, nella sua innocente dichiarazione d’intenti. Critico d’arte Come il Destino, in relazione all’Uomo: così il giovane artista pare spiegare – o meglio, lasciar intendere! – attraverso il trittico presentato, che si compone di un plico di grandi fogli bianchi (una sorta di album ancora da scrivere?), di una tavola di legno dipinto di bianco e protetto da plexiglas, di un sacchetto di plastica contenente cenere e collocato su un supporto. Sono tre le forme del Destino affidate alle parti che idealmente (s)compongono il tutto: così, il “destino intimo”, ovvero il plico di carte piegate stretto in una morsa, nel suo bianco ripetersi di fogli in paziente attesa, è in realtà già tutto scritto; benché invisibile è predestinato; è pubblico e al contempo privato, come il tokonoma1; è il segreto celato, l’invisibilità e l’indescrivibilità del presente, ciò che non si conosce, ma non per questo è necessariamente inesistente. Il profilo ligneo, che si mostra bianco e nudo (o mostra un mistero trattenendolo), è “destino indecifrabile”: come indecifrabile ci appare la privazione di ogni riferimento, il pensiero orientale del vuoto, l’idea dello spazio tra le cose, l’essere liberi, la segretezza di ciò che non esiste, e quindi esiste nella sua segretezza. “Destino eterno” è il supporto contenente cenere: punto d’arrivo, fine e inizio, morte e nuova vita nel tempo, inafferrabilità incorporea che, come corpo, si rigenera disperdendosi nel tempo. Se il risultato proviene da più opere, confluite in un unico progetto, ciò è dovuto, come precisa l’artista, dalla necessità di “procedere togliendo”, ovvero di ridurre, concettualmente, una serie di considerazioni ben più complesse attorno alla vastità del tema proposto dal Premio. Galluzzo arriva a questo attraverso un percorso composito: da un lato, culturalmente, decide di misurare la sua visione del mondo, per naturale discendenza occidentale, con la filosofia ed il pensiero orientali, non tanto per “scegliere una direzione”, quanto per far scaturire il conflitto che genera creazione. Dall’altro, purifica e al contempo contagia la pittura con l’architettura, la superficie con la profondità, verificando nello spazio e con lo spazio il valore del linguaggio visivo bidimensionale. Da qui la scelta di un’opera che è in relazione, ovvero si struttura, con consapevole chiarezza, in relazione alla verticalità della parete-supporto, alla profondità dell’ambiente-contenitore, all’incidenza e presenza del fruitore. Un’opera come corpo in relazione ad altri corpi. Un’opera come attesa rivelante di attese successive. Nulla di più semplice, nulla di più complesso. Semplice, propriamente “piegato una sola volta”. Eppure, come scrisse un filosofo2, basta una piega per generare una duplice direzione. Così, semplice e complesso hanno un punto in comune. sem esso pl com ice Essi si incrociano e divergono attraverso una flessione, che è riflessione. Essere e Nulla accolgono in sé la medesima contraddizione: l’impossibilità di una luce senza ombra; ma l’ombra che circonda la luce non può essere Nulla. Come un foglio bianco, quando attende la scrittura, è scrittura; come la cenere, quando attende di diventare forma, è vita e morte assieme; così il legno bianco, opaco, attende la trasparenza del vetro, che concede lo sguardo al di là, oltre. Il Destino, per dichiararsi, aspetta l’Uomo. E viceversa. Nulla di più semplice, nulla di più complesso. Nella casa tradizionale giapponese è una sala privata e, allo stesso tempo, pubblica – è usata per l’accoglienza degli ospiti – nella quale si 1 conserva, su una o più mensole, una pergamena il cui contenuto cela un segreto. I. Valent, “Del Semplice”, in “Linguaggi della psicosi. Linguaggi della complessità”, a cura di G. Valent, Métis Editrice 1991, pp. 119-128. 2 Elogio della polvere Ora la perdita, per crudele che sia, non può nulla contro il possesso: lo completa, se volete, lo afferma: non è, in fondo, che una seconda acquisizione - questa volta tutta interiore - e altrettanto intensa. Rilke Molti cercarono invano di dire gioiosamente il più gioioso; qui, finalmente, nel lutto esso si esprime. Hölderlin Chiara Canali La pittura di Ettore Frani non è gridata, sfacciata, vistosa, ma si risolve sulle note dell’invisibile, della mancanza, Critico d’arte dell’assenza che diventa presenza come icona dell’irriproducibile. Ettore Frani appartiene alla categoria degli artisti che considerano la pittura una sorta di ierofania dell’insondabile, di rivelazione di una dimensione altra, nascosta all’apparenza delle cose reali. Proprio per questo è così evidente una consonanza con la poetica dell’ineffabile, che come la parola del Poeta, e del Vate per eccellenza (Dante), non trova i giusti strumenti per rapportarsi con un’entità assoluta. Nel costruire le sue opere, realizzate ad olio su mdf e allestite in dittici, trittici, polittici, secondo una scansione che rimanda agli allestimenti sacri delle teche, delle predelle e delle pale d’altare, l’artista si ricollega all’esperienza del primo cristianesimo quale forma di azzeramento e tabula rasa, quale ricerca del vuoto come “necessità di deserto entro il quale sia ancora possibile domandare con voce di silenzio”. La pittura di Frani si colloca nel tentativo di ricostruire una perdita, nello sforzo di colmare una frattura tramite pigmento e olio, dove la polvere che si deposita sulla superficie dell’opera vela e ri-vela un simulacro di realtà. La metafora della polvere è antichissima, e si lega all’origine, alla materia e al tempo. La polvere ha una doppia appartenenza, come si evince nelle opere di Frani, di materia inerte per antonomasia, scarto privo di vita che si deposita cadendo per forza di gravità, e granello tanto leggero da volteggiare nell’aria come un essere in volo, opaca e luminosa, impenetrabile e rifrangente, aderente e libera. Per questa via la polvere può spingersi a rappresentare la materia dello spirito stesso, sostanza ultrasottile, superraffinata, subliminale, imprendibile, irrefrenabile. “Un passaggio al limite” come lo definisce Gaston Bachelard, che sotto la cifra della perdita e della mancanza, accoglie le tracce di un continuo errare tra presenza ed assenza. Il dittico Audi, filia si ricollega a un classico della spiritualità del Cinquecento del mistico S. Giovanni d’Avila, consigliere di santa Teresa d’Avila, di sant’Ignazio di Loyola e di san Pietro d’Alcantara, che istruisce sul modo di udire Dio e sfuggire i linguaggi del mondo, della carne e del demonio. In un inesauribile grido di silenzio la pittura della polvere si sforza di rivelarsi e manifestarsi, mentre attesta il destino di quel frutto malato che è l’uomo. Il passaggio è determinante perché sulla soglia di una modernità che esce dalla metafora e assume le vesti della metonimia, prende la polvere per polvere e la rappresenta prima in quanto tale per poi simularla fino all’indicibilità, in attesa di un’impossibile rivelazione che ci mostri il vero più vero del vero. “Un quieto altare del nulla”, dice Ettore Frani, “dove l’ascolto si appresta al colloquium muto-spezzato tra l’uomo e il suo destino; tra il frutto e l’albero che l’ha custodito”. La fotografia è uno strumento di misurazione. Affiancando immagini in cui l’inquadratura rimane invariata, Mutamenti di Luce attraverso uno schema operativo e compositivo tipico del suo mezzo, con questa serie Giovanni Mantovani sottopone a una valutazione quantitativa due elementi fondamentali della grammatica del proprio linguaggio: il tempo e la luce. Il tempo, in queste immagini, non riguarda soltanto la durata della posa che ha consentito a ognuna di imprimersi sulla pellicola, ma anche l’intervallo che separa ciascun fotogramma da quello successivo. In una delle sue Verifiche, Ugo Mulas descriveva lo scorrere del tempo semplicemente osservando il progredire della serie numerica stampata sulla pellicola. Nelle fotografie di Mantovani la medesima funzione è svolta dalla luce che disegna sul pavimento una forma geometrica di cui si documenta l’inesorabile trasforma- Francesco Zanot zione. Il destino della fotografia corrisponde a quello del suo autore: entrambi sono inevitabilmente sottoposti Storico e critico della fotografia all’azione del tempo. Per ciò che riguarda la fotografia, questo processo prende avvio e si sviluppa ogni volta per mezzo della luce, soggetto principale del lavoro di Mantovani sottoforma di proiezione. Come accade all’interno degli Skyspace di James Turrell, straordinarie macchine per guardare al pari della camera oscura o della macchina fotografica, l’opera si genera automaticamente a partire da una struttura rigorosamente definita (le pareti delle installazioni di Turrell corrispondono ai margini invariabili del campo di ripresa di Mantovani). A differenza degli interventi dell’artista americano, qui si delinea una chiara scansione narrativa (incongruente con la fotografia quando viene presentata singolarmente): da sinistra a destra, il poligono individuato dal fascio di luce muta impercettibilmente e si sposta verso destra. Il climax corrisponde al terzo fotogramma, nel quale compare, emergendo dall’ombra sulla sinistra del quadro, la punta di una matita rossa. Questa matita, ancora più evidente nello scatto successivo, è l’indicatore che descrive il rapporto che la fotografia intrattiene con la realtà. Presente nello stesso punto anche nelle due immagini precedenti, non vi poteva essere distinta a causa dell’oscurità entro cui era avvolta. Era lì, di fronte all’obiettivo, che tuttavia non ha potuto documentarla. La fotografia è rivelazione: prima di tutto di se stessa e delle modalità del suo funzionamento. Il suo destino è la discriminazione (fra ciò che si vede e ciò che non si può vedere). Il Premio Giovani Filmmakers, giunto alla sua seconda edizione, ha selezionato quest’anno tre lavori. La maggior L’uomo e il suo destino parte degli artisti partecipanti ha messo in rilievo l’importanza del rapporto uomo-natura nella ricerca sul tema: L’uomo e il suo destino. Végétation Colonisatrice, del gruppo Hotel Nuclear (Mathilde Marie Neri Poirier e Giancarlo Bianchini), vincitore del Premio, accostando un sofisticato montaggio audio a suggestive immagini dal sapore post-apocalittico, ha ricercato il destino dell’uomo in un ponte sospeso tra tecnologia e natura, residuati post-bellici e vegetazione, oblio e risveglio. Gli autori hanno avuto il coraggio di porsi domande di senso circa il destino dell’uomo, non cercando risposte assolute, ma basate su un dialogo, sulla curiosità, su una relazione difficile ma possibile, simboleggiata da una caratteristica animazione delle immagini, che sfuma e rende vivi confini e fessure degli oggetti ripresi. Protagonista del video è il paesaggio, costituito da rovine belliche e vegetazione sullo sfondo dell’oceano Atlantico. È un paesaggio interiore disabitato ma non deserto, perché visitato in quanto luogo di ricerca interiore. Le rovine di un passato bellico sono brandelli di una storia che non riesce ancora a trovare il proprio senso, ma che non rinuncia a cercare. “L’architettura del paesaggio utilizzato, in questo caso il muro sull’Atlantico in Normandia, mostra una profonda ferita - scrivono gli autori - destinata per vie naturali a cicatrizzarsi grazie a un lento riassorbimento operato da parte dell’Oceano e dall’azione del tempo, che sempre finisce per vincere.” Francesco Azzini, secondo classificato e menzione speciale dei critici-tutors (Barbara Sorrentini, Luca Barnabé e Fabio Vittorini), con il documentario Noi ci siamo già, ha anch’egli toccato da vicino il tema di un rapporto rispettoso dell’uomo con la natura, necessario al compimento del destino umano. All’interno degli eloquenti silenzi dell’Appennino tosco-emiliano ha inserito le interviste a una coppia che quasi trent’anni fa aveva già intuito la necessità di un’inversione di tendenza nello sviluppo dell’umanità, adottando uno stile di vita sostenibile in armonia con la natura. Stile di vita che però oggi rischia paradossalmente di essere spazzato via proprio dall’istallazione in quella zona di una centrale eolica. “Se Dio ha fatto il Paradiso, noi ci siamo già” - dice Jimmi Della Greta della sua vita in mezzo ai boschi insieme alla compagna, Simona, e ai due figli. Prima che arrivasse la strada che li collega al resto del mondo (bisogna però percorrerla con un 4x4) camminavano ogni giorno 9 km. Ora si prospetta l’arrivo di 14 pale eoliche alte quanto un grattacielo di 20 piani (150 metri) e ciascuna rumorosa come una sega elettrica. Cosa pensano di fare Jimmy e Simona? Forse dovranno rivedere quella scelta radicale che fecero insieme ventisette anni fa venendo a vivere tra i lupi e le capre. L’eolico è veramente un’energia “pulita”? Che interessi commerciali e speculativi ci sono dietro le famose pale eoliche? Hand Code, di Tommaso Melideo, giunto terzo classificato, ricerca il destino dell’uomo nel suo modo di usare quell’interfaccia col mondo che è il corpo, soprattutto gli occhi, il naso, la bocca e le mani, passando per la Giuseppe Zito Filmmaker possibilità di un uso distruttivo delle cose e arrivando alla conclusione che il destino dell’uomo è nel palmo delle sue mani. Si tratta di un cortometraggio che unisce videografia, animazione e stop motion. “L’iride del corpo è una sorta di spettro della nostra identità - scrive l’autore - la mano una mappa delle nostre fatiche e dei nostri sbagli, la bocca il mezzo con cui si possono dare ordini deprecabili. [...] Mi sono soffermato su questi elementi, immaginandomi, attraverso un’animazione scarna, le paure e le prove che attendono due bambini di mondi opposti. Non c’è storia. Ci sono sensazioni che voglio sussurrare oppure urlare.” Un ronzio elettronico. Dal nero emergono le lettere bianche VC. L’acronimo in doppia consonante rimanda Végétation colonisatrice a VC(-1), usato tra i film maker per indicare la compressione dei filmati video in alta definizione, al Venture Capital dell’inglese business e, ancora più prosaicamente, raddoppiando idealmente la prima lettera, al cesso. In realtà, le immagini schiudono in sette minuti una V(égétation) C(olonisatrice), vegetazione colonizzatrice, sospesa tra realtà ferita e cupa, sogno asettico, fumetto metafisico, fantascienza. Il fascino dei lavori del collettivo Hotel Nuclear sta proprio nel lasciare aperta ogni possibile porta di senso, nel moltiplicare il significato probabile di un solo segno iconico-sonoro. Il dettaglio di un’inquadratura amplificata dai rumori, spesso, ha la potenza di un quadro vivente. Un frammento di pochi secondi - disturbato da frequenze radio - ha il Luca Barnabé respiro di una sequenza (ambigua). La prima immagine di VC mostra una piantina che si muove al vento. È Critico cinematografico sorta tra le macerie del bunker “muro sull’Atlantico”, in Normandia. Ora sembra l’unica creatura animata della Storia. La schiuma dell’Oceano, lontana, pare immobile, come le nuvole nere del cielo, quasi uno specchio rovesciato delle macerie postbelliche. In animazione digitale si agitano solo alcuni frammenti degli edifici, i muri, le ombre. Perfino il corpo femminile che vediamo tagliare le macerie e la spiaggia, diretta verso il mare e risucchiata dall’orizzonte, si muove in maniera irreale. Al ralenti o a scatti ritmati di montaggio. Silhouette scura con un cappuccetto nero stretto sul capo, affascinante corpo di morte, Esther Williams sulla Luna, fantasma dell’umanità. L’unico gabbiano sembra uno sfregio sul cielo. Vibrano solo i corpi inanimati. Alcuni cartelli di dialogo, da film muto, ritmano VC in una rilettura distorta, drogata e asettica del Piccolo principe. Ultime squame di poesia. “Sono curioso, come vedi. Se vuoi dialogare perché no?”. Chi sta parlando senza emettere alcun suono? A chi? I rumori di fondo si rivelano residui di una conoscenza aliena, brusii lontani che parevano sepolti e ora riecheggiano lugubri. Cinema stratificato, racconto di deriva, commiato. Riascoltiamo: le voci americane da radio news, coretti di bambini, un commentatore da cinegiornale Luce che celebra enfatico un evento sportivo. Infine si leva il canto del Campo Testaccio, coro dei tifosi romanisti dei primi anni Trenta: “Quanno che incomincia la partita, ogni tifosetta se fa’ ardita, grida Forza Roma! A tutto spiano co’ la bandieretta in mano…”. Il messaggio ormai è chiaro: il mondo in pieno (s)fascio. L’uomo e la guerra lasciano macerie su un paesaggio lunare ai confini del mondo. Cattedrali in rovina nel deserto, voci vuote e classi morte. Végétation colonisatrice come mater domina dalla lingua verde che fende le mura del tempo. Il tempo e la natura colonizzatrice ci risucchieranno. HAND CODE In primissimo piano si vede un occhio in movimento rotatorio, prima su un volto bianco e poi su un volto nero. Nella sequenza dopo c’è un naso, che sembra di pongo e ancora in primissimo piano una bocca, con dei baffi che spazzolano il labbro superiore. Si intravedono i denti un po’ scuri, forse di un fumatore. L’autore Tommaso Melideo sostiene che i codici del nostro corpo raccontano chi siamo, che l’iride dell’occhio è una sorta di spettro della nostra identità e che la mano è una mappa delle nostre fatiche e dei nostri sbagli. Attraverso un occhio si può carpire la storia di una persona e dalla sua mano che lavoro fa o che vita conduce. Da una stretta di mano, continua Melideo per spiegare il senso del suo lavoro, si apprendono molte cose, da uno sguardo Barbara Sorrentini ancor di più. La bocca, invece, è il mezzo con cui si danno ordini, spesso deprecabili. L’aspetto più interessante, Critico cinematografico e forse cinematografico di questo lavoro difficile da definire, è il contrasto tra il volto nero e quello bianco che si intuisce intorno all’occhio. Quelle immagini accostate, anche se per pochi secondi, dicono molto. Per esempio spiegano quel dualismo, di cui parla Melideo, che fatica a convivere e che ancora è oggetto di scontri e disparità. Suggeriscono dei mondi differenti e delle culture, che pur essendo distanti, hanno lo stesso punto di osservazione. Dai dettagli dei volti in movimento, all’improvviso si passa a un’animazione trasparente come l’acqua, che poi diventa grigia per mostrare disegni di guerra, di progresso, di fuga. Per l’autore si tratta di un’animazione scarna che rappresenta le paure e le prove che attendono due bambini di due mondi opposti. Ed è lì che arriva la stretta di mano, metaforica e riparatrice. Ma quello che resta più impresso è un senso di angoscia per quell’occhio in gabbia, che si agita freneticamente nel tentativo di volare via. La vita si risveglia all’improvviso, si ricorda di questo o di quell’individuo che l’ha vissuta silenziosamente per Noi ci siamo già anni, immaginando per sé un certo destino, piomba su di lui con la rapidità e la ferocia un uccello predatore. Di colpo quel destino cambia, smette di essere quello che era, deve essere ripensato: la sua elaborazione è lenta e difficile come quella di un trauma. Nel suo terso racconto per immagini Noi ci siamo già, un po’ documentario un po’ poesia percettiva, Francesco Azzini sottopone alla nostra attenzione la storia di un gruppo di famiglie che vivono da venticinque anni sulle montagne del Falterona, dove ha origine l’Arno che bagna Firenze e Pisa, in mezzo a una natura incontaminata con la quale hanno stipulato un patto di reciproco rispetto. La loro scelta di vita è stata fin dall’inizio impegnativa e radicale: in assenza di collegamenti alla rete nazionale dell’elet- Fabio Vittorini tricità e del gas, hanno deciso di mantenersi autosufficienti per quanto riguarda l’energia e il riscaldamento. Critico cinematografico La loro giornata è austera: si svegliano presto la mattina, danno da mangiare agli animali da cortile, lavorano Docente di Letteratura Comparata la terra, fanno il bucato utilizzando una lavatrice a pedali da loro inventata. Vivono dei frutti della loro terra Università IULM, Milano e in perfetta armonia con essa e fra di loro. Un bel giorno di pochi mesi fa, però, scoprono che il Comune di San Godenzo ha approvato il piano energetico di una ditta del Nord Italia che fa parte delle Grandi Opere e prevede la costruzione ai margini dei loro terreni di quattordici pale eoliche di 105 metri di altezza per 40 di larghezza. Uno scempio che mette in discussione la loro quasi trentennale scelta di vita maturata sul Falterona incontaminato e le spinge a mobilitarsi per scongiurare la realizzazione di questo progetto faraonico… Il lavoro di Azzini parte dai suoni che producono queste persone lavorando nel loro territorio per arrivare ai suoni delle pale eoliche già costruite in Secchieta/Pratomagno e alte solo (!!) 25 metri: nel frattempo le immagini ci hanno accompagnato, con un’austerità che ricorda certi documenti di Ermanno Olmi, in un mondo a lungo risparmiato dalle minacce/seduzioni del progresso e che ora, malgrado la sua integrità mai venuta meno, si trova sull’orlo di un precipizio. Il destino scelto di distanza dall’umanità e dai suoi affari si trova di colpo trasformato in un destino in cui la distanza è stata violata e subito irrimediabilmente perduta. Premio Arti Visive San Fedele Statuetta realizzata da Lucio Fontana nel 1951 per i premi del Centro Culturale San Fedele Giuria premio giovani artisti Daniela Annaro Tullio Brunone Giuseppina Caccia Dominioni Panza Cristina Chiavarino e Lorenza Gazzerro Andrea Dall’Asta S.I. Rosella Ghezzi Paolo Lamberti Matteo Lorenzelli Angela Madesani Giovanni Pelloso Dario Trento e Daniele Astrologo Ilaria Bignotti Chiara Canali Matteo Galbiati Chiara Gatti Massimo Marchetti Michele Tavola Francesco Zanot i t s i t ar i n a v o i g o i o l l e prem v o N a l e i n o t 1. Da a n i v a C o l o a i l 2. P o z z o P o i z i r b 3. Fa vic o n a v a mas J a T e l a peci S e n o i Menz s DANIELA NOVELLO TOLS_ Child’s first birthday 2009 piombo e tufo installazione 4 elementi 31x20x20 cm cad Photo courtesy: Jurgen Becker Paolo CAVINATO Il Viandante 2009 cartoncino, carta, specchi, luci con timer, ferro 175x60x330 cm Fabrizio POZZOLI everyone - no one 2009 filo di ferro, legno, sedie, filo di rame 350x600x600 cm circa Tamas JOVANOVICS Nonostante 2009 matita colorata fissata e verniciata su tela, telai in alluminio 18 quadri ciascuno di 30 cm x 30 cm x 3.4 cm, dimensioni totali 116 cm x 236 cm x 3.4 cm Premio Paolo Rigamonti Statuetta realizzata da Hidetoshi Nagasawa nel 2008 per il Premio Paolo Rigamonti della Galleria San Fedele Giuria Premio Paolo Rigamonti 2008/2009 Giorgio Braghieri Gabriele Caccia Dominioni Claudio Composti Andrea Dall’Asta S.I. Manuela Gandini Rosella Ghezzi Alberto Pellegatta Emilio, maria teresa e michele Rigamonti i t n o rigam o l o a p premio SANNA o r d n a s Ales Alessandro SANNA HOP, HOP, HOPE 2008 disegni a inchiostro di china su carta 5 tavole, 25x35 cm cad, 2 tavole, 25x17,5 cm cad libro (in 6 copie firmate e numerate) prototipo realizzato digitalmente con rilegatura metallica i t a n o i selez BUFFOLI e p p e s DI Giu Cesare ONIAR B a r a RANI i F h Ettore ANTI C F ON GHI B ERRARIS MEN F Luca o o c c Mar DA Mar A G U aia B G MANTOVANI Elena atalia SAURIN CCI N Giovanni I C C U C GALLUZZO Giulia RON erena VESTRU S IRINZI Patrizia NOVELLOarlo Michele SCH C SCARAMELLA Luca BONFANTI Sul Destino 2008 stampa lambda 70x100 cm Chiara BONIARDI l’uomo e il suo destino 2009 acciaio CorTen invecchiato naturalmente, acciaio Inox satinato 150x57x23 cm Giuseppe BUFFOLI Hai mai pensato che un bambino non beve, perché per lui non esiste la morte? 2009 ferro, carta, cenere, livelle dimensioni variabili, lastra di ferro 171,5x45,5, stampa calcografica 200x70 cm, livella 68 cm Elena BUGADA Il destino dell’uomo 2009 Dvd b/n sonoro durata 2’27” Marco FERRARIS Ritorno a Versailles - omaggio a Luigi Ghirri 2008 stampa fotografica digitale montata su forex e plexiglass 50x70 cm Ettore FRANI Audi, filia 2009 olio su MDF laccato bianco dittico composto da tavola 30x30 cm e da tavola 120x100 cm; allestimento 120x160 cm Cesare GALLUZZO Ciò che non si vede è eterno 2009 legno dipinto, carta, plexiglass e cenere 3 elementi, 53x50x5 cm, 120x52x5 cm, 3x18x28 cm Giovanni MANTOVANI Mutamenti di Luce 2009 fotografie, stampe da negativo in medio formato 50x50 cm cad Marco MENGHI senza titolo 2008 fotografia 50x70 cm Patrizia NOVELLO Again 2009 tempera e pastello a olio su tela 120x90 cm Photo courtesy: Jurgen Becker Giulia RONCUCCI l’uomo e il suo destino (dilated pupil) 2009 video-installazione interattiva (3 monitor) dimensioni variabili Natalia SAURIN dance dance dance 2009 video (4:3), Dvd durata 4’20” Gaia SCARAMELLA via crucis 2009 polittico di 11 tavole bulino, puntasecca, acquaforte, acquatinta, ceramolle, maniera nera, incisore elettrico 52x5,20x5 cm Carlo Michele SCHIRINZI Ballata naufraga 2009 polittico di 7 elementi lambda da negativo trattato manualmente carta brilliant montata su forex, legno e vetro 23x245x4 cm Serena VESTRUCCI Pensi di continuare? 2009 fotografia a colori stampata su banner 178x150 cm Premio Arti Visive San Fedele Statuetta realizzata da Lucio Fontana nel 1951 per i premi del Centro Culturale San Fedele Giuria premio giovani filmmakers Marco Bechis Andrea Dall’Asta S.I. Giancarlo Grossini Marina Spada Stefano Zara (AIAF) Giuseppe Zito S.I. e Luca Barnabé Barbara Sorrentini Fabio Vittorini s r e k a m m l i f i n a v o i g r a o i e l m c e pr l Nu e t o H 1. AZZINI o c s e c n 2. Fra so Melideo a m m o T 3. ciale e p S e n Menzio ini z z A o c Frances HOTEL NUCLEAR VC – Végétation Colonisatrice 2008 video colore durata 7’46” FRANCESCO AZZINI Noi ci siamo già 2009 hdv durata 20’50” distribuzione HULOT TOMMASO MELIDEO hand code 2009 stop motion, animazione, digital video mini dv durata 3’43” GIOVANI ARTISTI sezione didattica nel Museo della sua attività professionale nell’ambito dell’Università di Nyiregyhaza ed Scienza e della Tecnologia Leonardo del reportage e del ritratto. Nel 2008 è composta di tre strutture Luca Bonfanti da Vinci a Milano. viene selezionato da Luca Beatrice per tridimensionali in acciaio e alluminio. Nasce a Desio, Milano, nel 1973, Ha preso parte a varie collettive la rivista Arte fra le giovani promesse Nel 2009 è stato selezionato per dove vive e lavora. tra le quali si ricordano: Naturarte, liguri. Ad aprile dello stesso anno un Artist in Residence di tre mesi a S’appassiona alla fotografia che per Modus Operandi, Menotrenta presso espone per Filippo Fettucciari Arte e a New york presso l’Harlem Studio un periodo costituirà la sua attività lo Spazio Hajech di Milano; Nuove Maggio viene selezionato da Fabrizio Fellowship by Montrasio Arte. professionale principale. È oggi proposte 2 presso la Galleria Cortina. Boggiano per la sezione giovani alla Vive e lavora a Londra. titolare di un’agenzia di pubblicità Vive e lavora a Milano. Biennale di Fotografia di Alessandria. Vive e lavora a Madrid. “Bimage Communication”. Giovanni Mantovani È inoltre presidente dell’associazione Elena Bugada artistica “ART.LAB” e membro degli Nata nel 1976, consegue il diploma Ettore Frani la Cattedra di Arti Visive con indirizzo artisti del Museo della permanente di Restauro di Tele Tavole e Sculture Nasce nel 1978 a Termoli (CB). Fotografia alla Libera Accademia di di Milano, dell’associazione nazionale lignee presso gli Istituti S. Paola Consegue il diploma di Pittura presso Belle Arti di Brescia, dove dal 2008 fotografi professionisti Tau Visual di Mantova nel 1999. l’Accademia di Belle Arti di Urbino è assistente al corso di Tecniche e dell’associazione International Si diploma in Arti Visive (Accademia nel 2002. Completa gli studi con il fotografiche. Advertising Association “IAA”. Vince L.A.B.A., Brescia) nel 2007 e ottiene biennio di specializzazione in Pittura Dal 2004 espone in mostre collettive. alcuni premi. Tra le segnalazioni: la specializzazione in Fotografia all’Accademia di Belle Arti di Bologna Vive a Manerbio. premiofotografico.org, organizzato nel 2009. Dal 2002 espone in dove si laurea nel 2007. Dal 1997 dall’associazione italiana fotografi collettive in varie gallerie italiane espone in personali e collettive in Marco Menghi professionisti, presentato presso la e nel 2005 presso l’Università statale numerose gallerie e musei italiani. Nasce a Milano nel 1986. Triennale di Milano. di Barcellona. Vive e lavora Roma. Frequenta il Liceo artistico “Umberto Nato nel 1976, è laureando presso Vive e lavora in provincia di Mantova. Chiara Boniardi Boccioni”. Nel 2005 vince il Premio Cesare Galluzzo Boccioni e nel 2006 partecipa alla Nasce a Milano nel 1974. Paolo Cavinato Nato nel 1987, consegue il diploma mostra Il Viaggio presso la Galleria Frequenta l’Accademia di Belle Arti di Nato nel 1975, è diplomato in di maturità artistica al Liceo Umberto San Fedele. Brera dove, dopo aver vinto più borse Scenografia presso l’Accademia di Boccioni nel 2006. Dallo stesso anno, Vive e studia e lavora a Milano. di studio nel 1995, 1996 e nel 1997, Brera a Milano. Ha presentato video e espone in collettive e personali. si diploma in Scultura nel 1999 con installazioni in alcuni spazi espositivi Frequenta ora i Corsi in Architettura Daniela Novello lode. Nel 2004 si laurea al Biennio milanesi (Palazzo della Triennale, Ambientale al Politecnico a Milano. Nata a Milano nel 1978, si diploma Specialistico di secondo livello PAC, Smau, C/O Care of). Nel 2005, Vive e lavora a Milano. in Pittura presso l’Accademia di all’Accademia di Belle Arti di Brera. partecipa alla mostra Home, curata Contemporaneamente svolge attività da Charles Esche e Vasif Kortun, Tamas Jovanovics 2003. Attualmente collabora con di insegnamento. Ha partecipato a evento speciale della Biennale Nato nel 1974, consegue la laurea la Cattedra di Tecniche del marmo numerose mostre collettive. d’Istanbul. Nel 2006 è invitato in e il PhD in Fine Art all’Accademia e delle pietre dure all’Accademia di Vive e lavora tra Milano e Verona. Cina, per BigScreen Italia e partecipa di Budapest (1997 e 2004) e la Belle Arti di Brera. Espone in mostre alla mostra Intimate Spaces a New laurea e il PhD all’Università di personali e collettive dal 1999. Nel Giuseppe Buffoli york. Nel 2008 vince il Terzo Premio Aix Marsiglia in Francia (1999 e 2008 vince il Premio Artivisive Nasce a Chiari (BS) nel 1979. del Premio Fondazione Arnaldo 2004). Dal 1999 partecipa a mostre San Fedele. Vive e lavora a Milano. Frequenta Scultura presso Pomodoro. Vive e lavora a Mantova. collettive in numerose gallerie e Belle Arti di Brera di Milano nel musei d’Europa. Dal 2003 espone Patrizia Novello Milano. Nel 2006 vince il secondo Marco Ferraris in personali a Budapest, Londra, Nata a Milano nel 1978, consegue premio al Concorso d’Incisione Nato a Genova nel 1978, fotografa Milano e New york. Nel 2007 vince il Diploma di Laurea presso l’Accademia Sandro e Marialuisa Angelini da sempre per passione e desiderio un concorso per la realizzazione di di Belle Arti di Brera di Milano, organizzato dall’Accademia Carrara di conoscenza. Dopo la laurea in un Public Art Project in Ungheria. nel corso di Restauro dell’Arte di Bergamo. Nel 2009 realizza una psicologia nel 2005 con una tesi L’opera site specific (compiuta nel Contemporanea nel 2003. scultura permanente per la nuova sulla percezione visiva, comincia la 2008) è stata collocata su tre facciate Nel 2008 viene invitata da R. Bedarida l’Accademia di Belle Arti di Brera di Biografie degli artisti a New york nel progetto di residenza Lavora come illustratore per retrospettive (Torino Film Festival, Milano. Inizia da subito a collaborare d’artista Harlem Studio Fellowship Il Sole24ore. Ha esposto in importati Pesaro Film Festival, Taranto Film come scultore teatrale con i grandi by Montrasio Arte. Dal 2002 espone mostre colletive e personali in Italia Festival, Festival del Cinema Europeo). cantieri di scenografia di Milano. in personali e collettive in numerose e all’estero. Vince il Premio Andersen Vive e lavora ad Acquarica Collabora con Oloart, Koine’, Quinte di gallerie in Italia e all’estero. come migliore illustratore nel 2009. del Capo, Lecce. Carta, Centro Multimedia Provincia di Natalia Saurin Serena Vestrucci Loescher Editore Torino. Fabrizio Pozzoli Nata nel 1976, consegue la laurea in Nata nel 1986, consegue la laurea Dal 1999 espone in personali e Nato a Milano nel 1973. Conseguito Architettura al Politecnico di Milano in Pittura presso l’Accademia di collettive in Italia, fa parte dal 2000 il diploma di maturità scientifica, nel 2003, in parallelo frequenta per Brera di Milano nel 2009. Nello del gruppo artistico Koinè. Vive e compie stages negli Stati Uniti e in un anno Bellas Artes in Spagna stesso anno inizia a lavorare per la lavora a Missaglia (Lecco). Inghilterra. Tra il 1995 e il 1996 lavora (Salamanca). Nel 2000 riceve una ArtistsAnonymous Gallery, come aiuto scenografo. Nel 1999 Borsa di Studio da parte di Zone a Berlino, e la Galerie Ron Mandos, Hotel Nuclear si iscrive alla Scuola del Fumetto Attive per un workshop TPW con ad Amsterdam. Sempre nel 2009 Mathilde Marie Madeleine Neri di Milano. Del 2000 sono le prime Amy Arbus, e una borsa di studio per partecipa alla mostra collettiva presso Poirier nasce a Noyon (Francia) nel opere in filo di ferro. Tra il 2000 e il frequentare l’Università dell’Immagine la Hochschule fur Bildende Kunste di 1982. Consegue il diploma di Arte 2009 espone in mostre personali e a Milano. Nel 2001 entra a far parte Dresda e all’esposizione Salon Primo, della Decorazione Pittorica all’istituto collettive in Europa, Asia e Stati Uniti. del gruppo musicale performativo a Milano. Vive e lavora a Berlino. statale d’ arte Morgagni di Forlì Vive e scolpisce a Milano. Allun. Dal 2005 oltre alla fotografia Vive e lavora a Milano. Lecco. Nel 2005 scrive e disegna per nel 2004. Nello stesso anno con Giancarlo Bianchini è fondatrice del inizia a realizzare opere video, espone Giulia Roncucci in personali e collettive in Italia e Si laurea in “Nuove Tecnologie all’Estero. Vive e lavora a Milano. dell’Arte” presso l’Accademia di GIOVANI FILMMAKERS collettivo artistico Hotel Nuclear con il quale ricerca e struttura azioni Francesco Azzini performative, video installazioni e Belle Arti di Brera di Milano, dove Gaia Scaramella Nasce nel 1974 a Firenze. Dopo ambientazioni sonore articolate in attualmente frequenta il biennio Nasce a Roma il 18 Febbraio 1979. la maturità artistica si iscrive alla svariate discipline artistiche tra cui specialistico. Partecipa a numerose Si ricordano nel 2007 Dio ed io, facoltà di Architettura. Nel 1994 cinema, video arte e teatro. iniziative ed esposizioni. Con la a cura di Marco Tonelli, presso la partecipa al Concorso universitario Dal 2005 con il collettivo Hotel sceneggiatura per il cortometraggio Galleria Z2O-Sara Zanin, Roma, L’Autoprodotto appassionandosi al Nuclear collabora con diverse “I fiori Blu” ha vinto nel 2001 Gaia Scaramella, mostra di grafica, mondo del video creativo. formazioni di ricerca teatrale in Italia il concorso promosso da Comunità presso il Castello dei Da Peraga, Nel 1998 lavora nel film americano e all’estero, attualmente è iscritta alla Nuova in collaborazione con Tele+ Vigonza, Padova. Up at the villa, reparto del suono. Facoltà di Lettere e Filosofia nel corso e con il Comune di Milano. Nello stesso anno vince il Primo Nel 2001 prima esperienza come di Tecniche e Culture del Costume e premio grafica italiana 2007 a microfonista nel film italiano della Moda, polo di Rimini. Vigonza. Vive e lavora a Roma. Né terra né cielo. Lavora come fonico Vive e lavora a Roncofreddo (FC). Alessandro Sanna e microfonista per il cinema e la Nato nel 1975, vive e lavora a Ostiglia in provincia di Mantova. Carlo Michele Schirinzi televisione. Firenze: dall’immobilismo Ha illustrato libri scritti da David Nato nel 1974, consegue la laurea all’immobiliarismo è uno dei suoi Grossman, Italo Calvino, Roberto in Scenografia all’Accademia di Belle numerosi corti che riceve menzioni Piumini, Gianni Rodari, Vivian Arti di Bari nel 1999. I suoi lavori speciali e segnalazioni internazionali Lamarque. Nel 2006 vince il Premio fotografici, esposti in personali e da diversi Festival Europei. Andersen nella categoria “miglior collettive presso gallerie e musei, sono Nel 2006 Azzini inventa Cortomobile, libro fatto ad arte” con il libro “Hai realizzati con graffi ed asportazioni il cinema più piccolo del mondo! mai visto Mondrian?”. Lavora con le manuali direttamente praticati sulla (www.cortomobile.it) case editrici più importanti europee. pellicola analogica. I suoi video, Nel 2007 realizza il libro interattivo selezionati da festival internazionali Tommaso Melideo “Mostra di pittura” con la coedizione dedicati alla sperimentazione digitale, Nato nel 1975, consegue la laurea in Corraini - Centre Pompidou. hanno ricevuto riconoscimenti e scenografia all’Accademia di Brera a Altre opere Giovani artisti Maria Rebecca Ballestra Alex Bombardieri Marco Bongiorni ATLANTIS Noi fummo quello che voi siete Beijn John Titor stampa Lambda e siamo quello che voi sarete inchiostro e stampa inkjet su carta 9 fotografie 20x20 cm cad ferro, bronzo, polimetilmetacrilato, gomma, carta 38x31 cm 48x120x40 cm Daniele Bordoni Luca Casonato Daniela Cavallo Grande Generatore Caorle, Italia, 2008 Terra tecnica mista su carta stampa a getto di pigmento montata stampa fotografica su plexiglass 275x150 cm su alluminio e fissata su telaio in legno 80x100 cm 120x100x5 cm Pablo Chiereghin Orsola Clerici Giacomo Colosi L’uomo e il suo destino Radici Cartoncini performance - trittico, dett acrilico, gesso, matita su tela video 80x60 cm cad 130x120 cm 3’56’’ Michela Comisso Matteo Confalonieri Davide Corona Fuori i secondi. Tra un respiro e l’altro Baraka La strada non presa slideshow + audio acrilico e argento su lino olio su tela 6’16’’ 90x90 cm 30x60 cm Matteo Cremonesi Gabriele Croppi Mauro De Carli Le grand jeu Fughe n°1 PORT@LPARADISO stampa inkjet su carta fotografica applicata su alluminio stampa Lambda e acrilico installazione. Scultura in gesso, volantini, 120x124 cm 80x120 cm banner pubblicitario, sito web 180x250x150 cm Katia Dilella Donato Faruolo Fiorese Cinzia Angolo di città Il fastidio di esserci La Creazione acrilico su tela fotografie digitali su bilaminato intaglio su legno di pioppo, inchiostro, 100x150 cm 20x20 cm cad acrilico su multistrato 158x37x3 cm Matteo Fossati Matteo Gianmarinaro Alessandra Giotto Vaso di Pandora: origine di un suono Dal cuore di zucchero Transitions scultura in legno di cedro cera, zucchero e video video 50x50x120 cm 14x74x116 cm 6’22’’ 3’44’’ Luca Lo Coco Eleonora Magnani Renzo Marasca Ormai si chatta fra componenti della stessa famiglia… Metamorfosi The same day Domine quo vadimus? gomma siliconica olio spray collage su tela stampa digitale su pannello di alluminio fra lastre di perspex, 180x90 cm circa 150x120 cm viti, cerniere e cavi in acciaio inox 70x140 cm variabili Massimiliano Alessio Miglierina Franco Napoli Andrea Mori Nuvole in viaggio Silenzi dentro e fuori di noi L’uomo e il suo destino stampa a getto d’inchiostro di frame da web cam acrilico su tela e tavola + registrazione sonora 2 cumuli di terra, fogli di cellulosa e terra 60x90 cm 80x80x6,5 350x100x60 cm Diego Parolini Michele Ravasio Denise Sampietro Tuo per sempre (Virtual Death) Qui la tua casa:tra la vecchia Fiera e Citylife What are you thinking about? stampa digitale su dibond e metacrilato 6 fotografie bianco e nero specchi, stampe digitali, fototessere, 45x30 cm 30x40 cm cad bendaggio, carta da lucido adesiva 92x110 cm Giovani filmmakers SUITECASE Rita Casdia Giulia Forgione Destinazioni White sex IMAGINE performance musicale - casse stereo dvd Animazione amplificatore, lettore cd 2’ Dvd dimensioni variabili 3’30” Catrina Zanirato Giumarnic (G. Nocera, M. Cerrato, N. Merlino) Antonello Novellino Anno 2115, missione Luna-Terra rapporto esplorativo dESTINO GUERRA 3 stampe digitali video animazione Unico comandamento: ammazza tutti i deboli 33x50 cm, 48x50 cm, 33x50 cm Dvd dvd 11’ 12’ Premio Arti Visive San Fedele 2008/2009 l’uomo e il suo destino Interventi di: Letizia Battaglia Don Luisito Bianchi Nella Magen Cassouto Giovanni Chiaramonte Daniela Cristofori Erri De Luca Gabriella Gilli Paula Luttringer Silvano Petrosino Da ottobre 2008 a marzo 2009 si è svolto un ciclo di seminari e di reading dal titolo “(Ri)cercando germogli di compassione”. I testi che compaiono in questo catalogo sono trascrizioni degli interventi, non riviste dagli autori se non per l’apporto delle note. La figura del «destino» sembra essere caratterizzata da due tratti fondamentali; da una parte essa allude al tutto, all’idea di intero e di totalità: si parla per l’appunto del «destino dell’uomo», del «destino di una vita», del «destino del mondo», e con questo si vuole indicare non un aspetto o un momento particolare di un’esistenza, ma il suo senso globale, complessivo. Dall’altra parte nell’idea di «destino» si esprime anche il rinvio ad un compimento, al giungere al termine di una traiettoria, di un percorso. Di fronte a questi due tratti, quello della «completezza» e quello del «compimento», non c’è uomo che non resti profondamente coinvolto (come non interrogarsi sul senso, sulla direzione, della propria vita e dell’esistenza in generale? Come non cercare un legame tra tutti gli esistenti e tra i diversi momenti della propria esistenza?), ma anche irrimediabilmente spiazzato (come è possibile parlare di un «tutto»? E chi è mai in grado di individuare con chiarezza il senso che la propria vita ha assunto o sta assumendo?). L’inquietudine che accompagna tali interrogativi ha spesso portato a due atteggiamenti opposti eppure in qualche modo connessi tra di loro; c’è chi ha sostenuto che non ha alcun senso parlare di «destino» poiché tutto è in divenire, tutto è coinvolto in una continua trasformazione o, come oggi spesso si afferma soprattutto il riferimento al carattere postmoderno della società del nostro primo mondo, tutto è «liquido», «fluido». All’opposto vi è chi ha sottolineato la futilità di ogni interrogazione su questo tema osservando che il destino, se esiste, allude precisamente ad una struttura fissa, immobile, a qualcosa di immodificabile che sfugge alla libera decisione dei singoli. È all’interno di questa seconda prospettiva che si è spesso stabilito un nesso d’essenza tra l’idea di «destino» e il concetto di «natura»: «era nella natura delle cose», «era destino che accadesse», il che significa che non si poteva fare altrimenti, che non si poteva evitare ciò che è accaduto, che le cose sono andate proprio come dovevano andare. In conclusione, non vale la pena pensare al destino dato che il pensiero non ha alcun potere su di esso; come ricorda Seneca: Qualcuno dirà: «Che mi giova la filosofia, se c’è un destino immutabile? Che giova, se c’è un dio che ci governa? Che giova, se è il caso che comanda? Ciò che è stato preordinato non può essere mutato e niente si può fare contro gli eventi fortuiti. O c’è un dio che ha prevenuto ogni mia decisione e ha stabilito che cosa debbo fare, oppure c’è la fortuna che nulla concede alle mie decisioni»1. La riflessione intorno al destino sarebbe dunque inutile, sarebbe una riflessione destinata ad interrompersi ancor prima di cominciare. Eppure bisogna riconoscere che una simile conclusione rischia sempre di lasciarsi sfuggire qualcosa di essenziale della questione qui in oggetto. In effetti, coloro che insistono su quella che considerano e presentano sempre come una pura e semplice evidenza – ripeto: non c’è alcun destino, e se ci fosse non sarebbe conoscibile, e se anche fosse conoscibile non sarebbe in alcun modo modificabile – non si fermano mai a questa constatazione, a questa presa d’atto, ma proseguono con determinazione nel loro ragionamento traendo da una tale supposta evidenza delle precise e spesso gravi conseguenze. In tal senso è come se il tema del destino ogni volta attivasse una riflessione molto più ampia di quella relativa all’eventuale conoscenza ed individuazione di un lontano e misterioso disegno finale, coinvolgendo così – ecco il punto che a me sembra essenziale – non tanto le cose future quanto piuttosto quelle presenti. Da questo punto di vista si deve avere l’onestà di affermare che la riflessione sul destino è sempre una riflessione sul presente, così come si deve affermare che la riflessione sul presente implica sempre un qualche riferimento alla figura del destino, soprattutto quanto quest’ultima viene negata o concepita come una mera illusione. Per tentare di chiarire questo snodo essenziale del nostro tema citerò qui di seguito una celebre ode di Orazio ed un passo tratto dal libro della Sapienza. Scrive Orazio: Non indagare (non si può), Leuconoe, la nostra sorte, lascia stare i calcoli babilonesi, accetta quel che capita, che tu viva altri inverni o che sia l’ultimo questo che fiacca il mare contro gli argini. Sii saggia, pensa a bere e non illuderti. Mentre parliamo il tempo ingorda scivola: goditi l’oggi e del domani infischiati2. Nel secondo capitolo della Sapienza si dice: La nostra vita è breve e triste; non c’è rimedio, quando l’uomo muore, e non si conosce nessuno che liberi dagli inferi. Siamo nati per caso e dopo saremo come 1 L.A. Seneca, Lettere a Lucilio, trad. it. di G. Monti, 2 Orazio, Tutte le opere, trad. it. di R. Ghiotto e M. Rizzoli, Milano 2000, lettera 16, p. 139. Scaffidi Abbate, Newton Compton, Roma 1992, p. 51. Natura e destino Silvano Petrosino Docente di Semiotica e Filosofia Morale Università Cattolica, Milano se non fossimo stati. È un fumo il soffio nelle nostre narici, il pensiero è una scintilla nel palpito del nostro cuore. Una volta spentasi questa, il corpo diventerà cenere e lo spirito si dissiperà come aria leggera. Il nostro nome sarà dimenticato e nessuno si ricorderà delle nostre opere. La nostra vita passerà come le tracce di una nube, si disperderà come nebbia scacciata dai raggi del sole e disciolta dal calore. La nostra esistenza è il passare di un’ombra e non c’è ritorno alla nostra morte, poiché il sigillo è posto e nessuno torna indietro. Su, godiamoci i beni presenti, facciamo uso delle creature con ardore giovanile! Inebriamoci di vino squisito e di profumo, non lasciamo sfuggire il fiore della primavera (…) Lasciamo dovunque i segni della nostra gioia perché questo ci spetta, questa è la nostra parte. Spadroneggiamo sul giusto povero, non risparmiamo le vedove, nessun riguardo per la canizie ricca d’anni del vecchio. La nostra forza sia regola della giustizia, perché la debolezza risulta inutile3. Ecco lo snodo a cui ho fatto cenno e sul quale vorrei richiamare l’attenzione: non ci si limita mai ad affermare «non si può indagare la sorte, è impossibile prevedere ciò che avverrà», oppure «la vita è breve e triste, si è nati per caso e presto si verrà dimenticati, la nostra esistenza è il passare di un’ombra», ma subito, proprio a partire e in forza di una simile descrizione, si prosegue e si afferma – come se anche questa fosse una semplice evidenza, quella che conseguirebbe logicamente dalla precedente descrizione – quindi «su, godiamoci i beni presenti, non lasciamoci sfuggire il fiore della primavera, la nostra forza sia regola della giustizia perché la debolezza risulta inutile», oppure «accetta 3 Sapienza, 2, 1-11. quel che capita, sii saggio, goditi l’oggi e del domani infischiati (carpe diem, quam minimum credula postero)». Ma in questo modo, nell’istante stesso in cui si suggerisce di tagliar corto e di non perdere tempo in inutili riflessioni («lascia stare i calcoli babilonesi»), in verità si rilancia inevitabilmente e forse inavvertitamente quell’interrogazione che invece si voleva chiudere: infatti, che cosa mai potrà significare per l’uomo «godi oggi»? Come è possibile, ad esempio, godere l’oggi infischiandosi del domani, non tenendo conto del domani? Il godimento dell’oggi non implica forse, proprio per essere dell’«oggi» e per essere «godimento», il rinvio all’ieri e al domani? Che tipo di saggezza (sapias) è quella che pensa all’oggi riuscendo a non pensare al domani? Un tale pensiero, e la saggezza ch’esso genera, è in verità possibile, o invece il pensiero – cioè ancora una volta l’umano –, proprio in quanto pensiero, è sempre la scena dell’intrecciarsi di una trama che lega e collega, il «qui» ed il «là», l’«ora» e l’«allora»? E ancora: in che senso il «godere» è un «diritto», qualcosa che «spetta» come se fosse un dovuto, e per godere non si rischia forse di fare «uso» dell’altro, delle altre creature? Infine, che nesso sussiste tra il concetto di «godimento» e quell’idea di «forza» che il testo della Sapienza introduce, inquietantemente, come «regola della giustizia»? È di fronte a queste domande, e al fondo drammatico ch’esse rivelano, che la figura del «destino» si impone e non cessa di interrogare il soggetto con un’insistenza che, come accennavo, è riconducibile non tanto alla curiosità relativa ad un «come finirà questa storia?», quanto piuttosto alla ricerca di un punto di osservazione e di interpretazione relativi all’azione presente; in altre parole si potrebbe anche dire che ogniqualvolta l’uomo si interroga sul suo «destino», fosse anche per negarne l’esistenza o per rifiutarne il concetto, in verità si sta interrogando sul suo «presente» cercando così di rispondere ad un’esigenza che non attende certamente il futuro per investirlo con tutta la sua inquietudine. A tale riguardo, per riprendere i temi e il lessico dei due brani citati, si potrebbero forse riassumere nel seguente modo i molti interrogativi sopra ricordati: che cosa significa cogliere/ godere l’attimo/oggi (e più precisamente: che cos’è l’«oggi» e che cosa è il «godimento»)? E poi, la ricerca del proprio godimento descrive adeguatamente il modo d’essere dell’uomo? Volendo spingere ancora oltre la sintesi ci si potrebbe forse limitare a chiedere: può l’uomo vivere da uomo, e dunque anche godere, senza «spadroneggiare» e senza compiere il male? Senza avere in alcun modo la pur minima pretesa di rispondere a questioni così complesse, vorrei tuttavia indicare la direzione verso la quale è necessario guardare, a mio avviso, per confrontarsi con simili tematiche. Mi permetto a tale riguardo di riprendere alcuni passaggi di un’analisi che ho tentato di articolare più ampiamente in un’altra occasione4. Mi sembra che si debba distinguere il modo d’essere del «vivente» dal modo d’essere dell’«uomo»; per chiarire una simile differenza (il modo d’essere dell’uomo non si risolve mai in quello del semplice vivente) è necessario passare da due ulteriori distinzioni: quella tra «intelligenza» e «ragione», e quella tra «bisogno» e «desiderio». In breve: la 4 S. Petrosino, Capovolgimenti. La casa non è una tana, l’economia non è il business, Jaca Book, Milano 2008, si vedano in particolare le pp. 9-71 ragione deve essere distinta dalla semplice intelligenza; quest’ultima può essere interpretata in relazione alla capacità di concentrarsi su un determinato qualcosa allo scopo, in particolare, di superare la difficoltà che lo affligge; tale difficoltà sta di fronte all’intelligenza come il problema rispetto al quale essa ha sempre una sapere chiaro e distinto: infatti, benché non sempre l’intelligenza sia in grado di risolvere tutti i problemi in cui si imbatte, ogni problema è di per sé risolvibile dal sapere di cui essa si dimostra e, soprattutto, si dimostrerà capace (l’intelligenza è per sua natura problem solving). La ragione invece, più originariamente ancora che dall’attenzione verso quel qualcosa e verso la difficoltà che l’accompagna, è caratterizzata dall’attenzione che si rivolge o si apre alla totalità all’interno della quale quelle singolarità emergono. In questa apertura la ragione si rivela massimamente come logos: la ragione è logos proprio perché in essa il gesto del legare e del collegare (di cui anche l’intelligenza si dimostra capace) si esaspera e si perfeziona muovendosi, in linea di principio, verso la totalità dei legami e verso il legame stesso come totalità. Tuttavia – ed è questo il suo secondo carattere essenziale – la ragione apre alla totalità sempre e solo come a ciò che manca, come a quell’alterità radicale ch’essa stessa non è mai in grado di circoscrivere e determinare totalmente. In tal senso la ragione, più che dalla capacità di risolvere un problema, si rivela nella capacità di riconoscere una questione, e quest’ultima è proprio ciò rispetto alla quale il soggetto non è mai in grado di avere un sapere chiaro e distinto; infatti, a differenza del problema che sta sempre di fronte a colui che lo riconosce allo scopo di risolverlo, la questione opera come la scena irriducibilmente aperta che avvolge il soggetto rilanciando di continuo la sua interrogazione. È in questo senso che il culmine del sapere della ragione, o se si preferisce l’espressione più alta dell’intelligenza umana in quanto ragione, coincide con un non sapere: essa sa di non sapere, e ha tale sapere proprio perché è certa di non ingannarsi a proposito di ciò a cui con insistenza apre: la totalità. Analogamente il desiderio deve essere letto sempre in rapporto con il bisogno. L’uomo è un vivente; la forza primordiale che spinge ogni vivente all’apertura e alla relazione, forza rispetto alla quale egli non può far altro che obbedire, è il conatus stesso della vita, è lo slancio incontenibile generato dai propri bisogni, dalle esigenze della nutrizione e della riproduzione, e dall’istanza di godimento che non a caso è ad essi sempre connessa. Anche l’uomo, come ogni altro vivente, è definito dai bisogni, la sua vita, come ogni altra vita, si raccoglie attorno ad un insieme di bisogni che esigono con forza di essere soddisfatti; il godimento è il frutto della soddisfazione dei bisogni: l’uomo, in quanto vivente, si muove, cioè vive, andando alla ricerca del proprio godimento. Tuttavia – ecco l’ipotesi sulla quale non si finirà mai di discutere – a differenza di ogni altro vivente, l’uomo non si esaurisce nei suoi bisogni, i suoi bisogni non lo definisco mai totalmente, poiché egli è anche abitato dal desiderio. Ciò che accomuna il bisogno e il desiderio sono l’evidenza di una mancanza e la tensione che quest’ultima puntualmente genera; ma mentre nel bisogno il soggetto ha sempre un sapere chiaro e distinto a proposito di ciò di cui sente la mancanza (e di conseguenza il mancante fin dall’inizio gli appartiene, sebbene non ancora nella forma del posseduto ma solo in quella del possedibile), così come ha sempre la certezza che la tensione generata dalla mancanza si esaurirà una volta che il mancante sarà posseduto, nel desiderio il soggetto manca di ciò che non sa o anche non sa di che cosa manca, e l’unica certezza di fronte alla quale la sua esperienza con insistenza lo pone è quella relativa al rilancio stesso che il desiderio riceverà da parte di tutto ciò che in un primo momento prometteva di soddisfarlo. Il soggetto sa che desidera, ma non sa mai che cosa desidera, e ogni qualvolta crede o sogna di avere individuato l’oggetto del proprio desiderio, ecco che quest’ultimo, l’oggetto, con rigore fallisce, puntualmente non mantiene le promesse, e il desiderio si acuisce. Il possesso di un oggetto mette così fine al bisogno corrispondente, ma non soddisfa mai il desiderio, esso fallisce rispetto al desiderio poiché sempre lo esaspera invece di placarlo, e ciò avviene non perché quell’oggetto sia mancante di qualcosa, ma perché il desiderio non è mai relativo alla mancanza di qualcosa, ma al soggetto stesso che è mancanza (da non confondere con una pura e semplice assenza). Si deve quindi affermare che il soggetto desidera sempre ciò di cui non ha bisogno, così come si deve riconoscere che è proprio dalla sua esperienza ch’egli è destinato ad eccedere, con assoluto rigore, la legge dei bisogni e della loro soddisfazione: rispetto ad una simile legge, il desiderio è sempre fuorilegge, esso non può che essere trasgressione. L’uomo, dunque, non è semplicemente un vivente perché, oltre ad essere un organismo caratterizzato da bisogni e dalla pulsione a godere, è anche e soprattutto aperto alla ragione e soggetto al desiderio. Certo, anche l’uomo, come ogni altro vivente, deve lottare per vivere, e la pulsione a godere è la più sorprendente sollecitazione verso questa lotta, tuttavia il riferimento alla lotta e la pulsione a godere non sono in grado, da soli, di leggere ed interpretare il modo d’essere proprio dell’uomo. In conclusione, la ragione e il desiderio travagliano il soggetto con un’inquietudine che non è più quella che accompagna la lotta per la sopravvivenza a cui ogni vivente si vede costretto dai propri bisogni, ma è quella di un’apertura che, al di là di ogni ambiente ed indifferente ad ogni oggetto, è destinata a restare essenzialmente aperta dato che rispetto ai modi e ai contenuti di una sua eventuale chiusura egli sa di non avere alcun sapere. Perché questa lunga digressione che forse ci ha distratto dal tema qui in oggetto, quello del destino? Inoltre, le ultime considerazioni sviluppate non rischiano di tradire una concezione utopica dell’uomo del tutto estranea alle sue reali condizioni di vita? Infatti, si potrebbe sostenere, l’uomo, come ogni altro vivente, non è forse sempre inchiodato al proprio godimento, destinato, per l’appunto, dalla vita stessa alla ricerca ostinata del proprio godimento? Eccoci così giunti di fronte a quello che a me sembra essere il punto focale della nostra riflessione. Ritorniamo al destino e decliniamolo nel senso della destinazione, di un movimento sempre orientato. Tale dinamismo, in verità, non coinvolge affatto solo l’uomo, ma, come ho già accennato, tutto ciò che vive; esso è la vita stessa. Da questo punto di vista si deve affermare che tutto ciò che vive ha evidentemente un destino, ha una sua intima destinazione; quale? Mi sembra che la risposta ad un simile interrogativo non sia difficile: ogni vivente è mosso da una forza che lo spinge a permanere e a svilupparsi; si tratta di ciò che gli stoici chiamavano ormé (la tendenza di ogni ente alla propria conservazione), e che Spinoza, ad esempio, ha chiamato conatus essendi (l’essenza stessa, essenza attuale, di ogni cosa). Il filosofo olandese ha anche precisato il significato di questa tendenza a perseverare nel proprio essere descrivendola anche in termini di «appetito». Ora, è proprio in relazione all’idea di «appetito» che a me sembra legittimo introdurre il riferimento al «godimento»; in tal senso, come ho già ricordato, si potrebbe sostenere che la vita in generale, e dunque anche l’uomo, non ha altro destino se non quello di godere: tutto ciò che vive, compreso l’uomo, si muoverebbe andando alla ricerca, sempre e solo, del proprio godimento. Tuttavia al realismo di questa analisi si è sempre opposta un’altra ipotesi; come ho brevemente accennato più sopra, l’uomo, a differenza di ogni altro vivente, è definito non solo dall’intelligenza ma anche dalla ragione (luogo dell’apertura alla totalità), così come non solo è agitato da bisogni che esigono con forza di essere soddisfatti, ma è anche abitato da un desiderio che non si sa mai come soddisfare (si tratta dell’inquietudine su cui ha così tanto insistito Agostino). All’interno di una tale ipotesi non si nega affatto la rilevanza dell’appetito, non si censura ciò che ho anche definito la «pulsione a godere», ma si sostiene che questa innegabile dimensione della vita non permettere mai di descrivere adeguatamente il modo d’essere dell’uomo. Questo modo d’essere rappresenterebbe dunque una sorta di pietra d’inciampo, di salto o di complicazione all’interno del mero fluire della «nuda vita», come se l’uomo fosse l’unico vivente in grado – non per una sorta di masochismo ma proprio per restare fedele alla specificità del proprio modo d’essere (ragione e desiderio) – di ridimensionare e talvolta addirittura di rinunciare al proprio godimento. L’insistenza di Heidegger sulla necessità di distinguere il modo d’essere delle cose e degli altri viventi (riconducibile a quella ch’egli definisce la «semplice presenza») dal modo d’essere dell’uomo deve essere accolta e letta anche in questo senso: l’uomo, in quanto uomo, non è mai definito solo dalla ricerca del proprio godimento, nel suo modo d’essere si rivela dell’altro, l’uomo è sempre aperto all’altro del godimento. In estrema sintesi si potrebbe forse dire che ciò che definisce lo specifico modo d’essere dell’uomo, determinando di conseguenza il suo eccentrico modo di vivere e di comportarsi, è di essere sempre abitato da un’alterità che sfugge, inquietandola, alla legge del godimento; come già sottolineavo, rispetto a questa legge (che senza alcun dubbio ordina e domina la nuda vita) il desiderio dell’uomo (e il desiderio è solo dell’uomo) si configura come un evento eccentrico, come quell’eccedenza che è sempre fuorilegge, che è sempre una forma di trasgressione (e questo, bisogna riconoscerlo, sia nel senso del male che in quello del bene). Ma allora quale sarebbe il destino dell’uomo? Se la ricerca del proprio godimento non è mai in grado di leggere ed interpretare la totalità dell’umano, se la legge del godimento non riesce mai ad ordinare la scena aperta dal modo d’essere dell’uomo, se questa scena è sempre più ampia, più profonda e più complessa di quella in cui il semplice vivente si trova coinvolto, allora in quali termini si potrà mai parlare del destino dell’uomo? Verso che cosa l’uomo, in quanto uomo, si muove? Giunti a questo punto, tento, nei termini più sintetici, la seguente risposta: l’uomo è in cammino verso il suo stesso essere uomo, o anche: il destino dell’uomo non è nient’altro che quello di diventare uomo. Tale risposta si fonda su questa premessa: non si nasce uomo, ma lo si diventa, che è poi un altro modo per sottolineare lo scarto rappresentato dal modo d’essere dell’uomo rispetto al modo d’essere del semplice vivente: l’uomo nasce come ogni altro vivente, e da un certo punto di vista vive come ogni altro vivente (si nutre e si riproduce), ma a differenza di ogni altro vivente egli è anche chiamato a vivere secondo il modo che gli è proprio, e questo modo è abitato dalla chiamata a diventare uomo. In tal senso, per ritornare al titolo di questo intervento, si può affermare che la natura dell’uomo è quella di avere un destino diverso da quello che segna la nuda vita: se l’uomo «deve» qualcosa, se vi è un «dovere» che intimamente lo riguarda, questo non è innanzitutto quello del godere, ma essenzialmente quello di diventare uomo, o meglio, è quello di diventare se stesso come uomo, se stesso e dunque uomo. È ciò che Nicodemo, uno studioso, un intellettuale, un maestro, un sapiente, dura fatica a comprendere: si nasce sempre due volte, o più precisamente: l’uomo è chiamato sempre a rinascere, a nascere una seconda volta, e questa «seconda nascita» coincide con il compiersi stesso del suo destino di uomo: C’era tra i farisei un uomo chiamato Nicodemo, un capo dei Giudei. Egli andò da Gesù, di notte, e gli disse: «Rabbi, sappiamo che sei un maestro venuto da Dio; nessuno infatti può fare i segni che tu fai, se Dio non è con lui». Gli rispose Gesù: «In verità, in verità ti dico, se uno non rinasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio». Gli disse Nicodemo: «Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre per rinascere?». Gli rispose Gesù: «In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quel che è nato dalla carene è carne e quel che è nato dallo Spirito è Spirito. Non ti meravigliare se t’ho detto: dovete rinascere dall’alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è chiunque nato dallo Spirito». Replicò Nicodemo: «Come può accadere questo?». Gli rispose Gesù: «Tu sei maestro in Israele e non sai queste cose? (…)5 Per l’appunto, come si può nascere un seconda volta, come può questa altra nascita essere ciò che ancora ci attende come un destino, come può una nascita appartenere al futuro, «come può accadere tutto questo»? Una tale ipotesi non è forse frutto della pura fantasia, di una mera illusione? Ritorna il «realismo» del brano della Sapienza citato in apertura; ma così ritorna anche e sempre l’altra grande possibilità, quella di sperare in una promessa, quella di vivere la vita stessa come una promessa. Ora, come può l’uomo vivere da uomo, secondo la sua dignità di uomo, senza scegliere tra queste due idee «sorelle»: l’illusione e la promessa? Come può egli vivere nel presente, cioè nella sua «ora» e nel suo «qui» di uomo, senza scegliere 5 Giovanni, 3, 1-10. tra queste due ultime possibilità: «la vita è illusione», «la vita è promessa»? La chiamata a questa scelta non si rivolge forse solo uomo, al cuore dell’uomo, come se la natura stessa dell’uomo fosse destinata a questo appello e da subito abitata dall’urgenza di rispondere ad esso? Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: «Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire sì che lo possiamo eseguire?». Non è al di là del mare, perché tu dica: «Chi attraverserà per noi il mare per prendercelo e farcelo udire sì che lo possiamo eseguire?». Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica (…) io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza6. C’è qualcuno che desidera la vita e brama lunghi giorni per gustare il bene?7. 6 Deuteronomio, 30, 11-19. 7 Salmi, 33, 13. L’Infinito nell’uomo Giovanni Chiaramonte Fotografo e storico della fotografia Prologo berlinese Io sono fotografo: sono quindi un uomo la cui identità è scrivere con la luce grazie ad una macchina; un uomo il cui compito è rappresentare il mondo, e il modo in cui l’uomo abita il mondo, attraverso un’immagine sindonicamente impressa dall’energia primigenia della natura stessa che la scienza, la tecnica, l’industria in secoli di elaborazione e di evoluzione mi consentono oggi di utilizzare in piena libertà creativa. Lo strumento della mia arte mi ha fatto così diventare testimone e complice del Moderno, perché la scrittura della luce che è la fotografia è stata resa possibile soltanto a partire dalla messa a punto dell’obbiettivo e del metodo scientifico fatti da Galileo. L’obbiettivo è infatti lo strumento che, confermando attraverso la visione l’ipotesi di Copernico e facendo scoprire la posizione fisica della terra e dell’uomo nello spazio e nel tempo dell’universo, ha aperto alla modernità la via della conoscenza e del dominio sulla natura. La mia visione dell’architettura scaturisce dalle ragioni del Razionalismo milanese, il quale ha insegnato a progettare e a costruire secondo l’interpretazione italiana del Moderno, in cui la forma come dato della storia diviene momento costitutivo dell’invenzione del nuovo. Una interpretazione polemicamente contestata nel corso del dibattito critico, come fa ancora recentemente Oriol Bohigas, il quale afferma di non credere “in un’ideologia architettonica mediterranea, e, ove questa possa essere individuata, si tratta comunque di un’ideologia reazionaria… Ogni qualvolta si faccia un riferimento al Mediterraneo si fa un riferimento antimoderno, perché la modernità non è mediterranea, ma centroeuropea: i mediterranei hanno semplicemente imitato l’architettura moderna elaborandone una propria variante, essenzialmente climatologica, adatta alla struttura geologica e ambientale tipica di certe zone, ma nel momento in cui la mediterraneità ha assunto connotazioni ideologiche, queste sono state assolutamente antimoderne, o, riferendomi agli ultimi anni, postmoderne”1. Io invece ho considerato la mia fotografia come opera del Moderno, secondo la declinazione iconica del Realismo, la quale, per quanto mi riguarda, è l’esperienza e la rappresentazione dell’infinito nel non determinato e nel non determinabile che è l’esistenza del mondo e dell’uomo nel suo essere evento, avvenimento, storia. Posso indicare col nome di realismo infinito2 il percorso della mia fotografia, perché l’atto in cui l’immagine viene alla luce si genera in questa esperienza e con questa modalità di visione. Il realismo infinito è l’accoglienza dell’oggetto da parte del soggetto, è la comprensione dell’Altro da parte dell’io in una relazione che lascia entrambi nella loro irriducibile differenza e identità, ed è la trascrizione di ciò che è dato nel mondo davanti agli occhi e dentro gli occhi dell’uomo in immagine che lo rappresenta. Io credo che solo nella referenzialità dell’immagine al Reale come dato, si riesca ad evitare alla cultura del Moderno la riduzione a Ismo, la caduta in quel pensiero negativo, distruttore e iconoclasta, in azione nel secolo breve in maniera così tragica da far scrivere ad Alain Finkielkraut: “il Moderno è colui a cui il passato pesa. 2 G. Chiaramonte, Dolce è la luce, p. 10, Edizioni della Il Sopravvissuto è colui a cui il passato manca”3. Nella mia esistenza il passato non è mai stato giudicato e rifiutato come un peso, ma è stato accolto con la gioia e con la responsabilità dell’erede di un dono ed il tempo che passa è stato vissuto come una novità senza fine, perché il passato non è mai venuto meno nell’atto creativo del presente. La frase di Finkielkraut indica forse il giusto significato alla provocatoria affermazione di Aldo Rossi, da me sempre condivisa, in cui l’architetto milanese rifiuta di essere considerato un postmoderno per il semplice fatto di non essere mai stato un moderno. Il riconoscimento attribuito alla mia fotografia dal mondo dell’architettura viene quindi nel segno dell’opera dell’uomo intesa come dono della memoria e del ricordo, compresa come vocazione singolare dell’io e vissuta come libertà della persona nella risposta alla chiamata di un altro che indica un altrove sconosciuto da raggiungere, un percorso imprevedibile e inatteso da perseguire lungo il cammino della conoscenza e della creazione. Un altro che nella mia esistenza ha avuto il nome dell’architetto Pierluigi Nicolin il quale, nella primavera del 1983, mi chiese di collaborare alla rivista «Lotus International», dopo aver visto allo Studio Marconi di Milano Giardini e paesaggi, un’opera in due sezioni: una in bianconero dedicata ai giardini in Sicilia nelle perdute campagne dell’infanzia, un’altra a colori tracciata nei viaggi della giovinezza attraverso le figure del paesaggio italiano. Certo una piccola opera, maturata però in otto anni di lavoro nella scelta di praticare la fotografia come arte del contemporaneo e come immagine di vita contemplativa, nella genealogia di Alfred Stieglitz e Paul Strand sino a Minor White, escludendo qualsiasi declinazione Meridiana, Firenze 2003 3 A. Finkielkraut, Nous autres modernes, Parigi 2005 1 O. Bohigas, Milano Italia, in «Archphoto broadcast», maggio 2002 professionale o commerciale. Dopo un primo servizio su Piazza della Vittoria a Brescia di Marcello Piacentini, mi ritrovai a Berlino, pieno di dubbi rispetto all’incarico di dare immagine significativa e ragione formale al nuovo aspetto che stava assumendo la città tedesca, grazie ai progetti dell’IBA, diretta da Josef Kleihues. Vittorio Magnago Lampugnani e Marco De Michelis mi aiutarono nel corso delle riprese e, nell’onda di accese discussioni sulla condizione umana tra Moderno e Postmoderno, mi suggerirono di visitare quanto rimaneva ancora in piedi di Karl F. Schinkel. Così, dopo i cantieri di Aldo Rossi, Rob Krier, Oswald M. Ungers sovrastati dall’angelo di Tiergarten, attraverso le rovine di Anhalter Bahnhof e il vuoto di Potsdamer Platz solcato dall’avveniristica metropolitana magnetica che terminava con la stazione di Andreas Brandt, mi sono inoltrato sino a Glienicke. Qui mi sono inaspettatamente trovato dentro la scena sublime del paesaggio italiano innalzata con marmi e busti di imperatori romani esiliati sulle acque dell’Havel dal lontano Mediterraneo. Nel cuore del Nord dove era sorta la parabola del Moderno, in una rinnovata e paradossale unità di tempo e luogo propria della drammaturgia occidentale, tra le costruzioni del passato e del presente che mettevano in posa davanti all’obbiettivo figure di città diverse e segnate da destini opposti, eppure chiamate con l’identico nome di Berlino, ho compreso che la mia visione poteva restituire un’immagine attendibile dell’edificazione in corso, soltanto a partire dalle tracce delle demolizioni e delle cancellazioni inferte al corpo e al suolo vivo della città dagli ismi del Moderno, nelle ideologie dei partiti politici, delle guerre tra opposti imperialismi e, più semplicemente, in quelle delle pianificazioni urbanistiche dell’architettura. Paesaggio Importante nella maturazione della mia coscienza civile sono state le immagini e le riflessioni dell’architetto, poi regista, Alberto Lattuada nel volumetto Occhio Quadrato, pubblicato nel 1941 grazie a Ernesto Treccani nelle Edizioni Corrente. Nelle ventisei fotografie i luoghi del riposo dell’uomo non rispecchiano splendore né solennità alcuna e la breve sequenza di immagini inizia con architetture fatiscenti, immerse negli spazi che si aprono poco oltre gli archi delle porte sopravvissute alle demolizioni dell’antica cerchia dei bastioni, e chiude con industrie in rovina abbandonate tra le distese che si allargano a perdita d’occhio al di là della figura ancora compatta e lineare della città di Milano. Con queste immagini di Lattuada compaiono nella fotografia italiana gli spazi desolati e le distese informi cui è stato dato il nome di periferia; in essa, per davvero e non solo metaforicamente, l’occhio dell’uomo si perde nel disagio del cuore, incapace di riconoscere memorie del passato in cui dimorare, e si smarrisce nell’inquietudine della coscienza, impossibilitata a trovare aspetti del presente in grado di generare identità e appartenenza. Occhio quadrato segna una svolta importante per la cultura dell’Italia, essendo a tutti gli effetti la prima opera della grande stagione del Neorealismo. Nella lezione di American Photographs di Walker Evans, che proprio la rivista “Corrente” aveva recensito nel 1939, Lattuada comprende che nell’epoca moderna l’acme del dramma dell’uomo, il problema dell’abitare il mondo, si situa nello sguardo, ovvero all’interno del tema dell’immagine. Dall’invenzione di Galileo nella dilatazione dello sguardo data dall’obbiettivo tra microscopio e telescopio, l’uomo si è scoperto nella solitudine della sua finitezza, al limite dei due abissi insondabili del vicino e del lontano, del piccolo e del grande, sospeso con testimonia Blaise Pascal tra due infiniti; ma se è l’infinito la forma propria della realtà come può l’immagine, nella finitezza insuperabile della sua rappresentazione rivelare con verità la forma reale del mondo? Di fronte a questa domanda, che pone il problema fondamentale della coscienza moderna, Lattuada segue le ragioni del cuore di Pascal e, con Walker Evans fa propria la consapevolezza dell’infinito inteso come il senso che genera e trascende ogni figura finita riaffermando sia la centralità dell’uomo e del suo sguardo, sia la necessità del realismo nella visone fotografica che deve fissare con fedeltà obbiettiva le apparenze del visibile. Scrive Lattuada: “L’assenza dell’amore ha generato agli uomini molte calamità che si sarebbero potute evitare. Invece che la pioggia d’oro dell’amore è scesa sugli uomini la cappa nera dell’indifferenza. Ed ecco che gli uomini hanno perduto gli occhi dell’amore e non sanno più distinguere alcuna cosa, brancolano in una oscurità di morte (…) Quanto siano grandi in questa faccenda le colpe degli spiriti eletti, degli artisti, dei sacerdoti della poesia, è difficile dire. Assenze, fughe, ritorni, polemiche, confusioni di ogni specie (…) Invece io credo che sia proprio questo il necessario momento di tornare a esporsi in posizioni indifese, di abbandonare, sia pure per breve tempo, il lavoro della spietata analisi e delle troppo pedantesche ricerche di stile, di rompere il guscio che fa da custodia ad un preteso determinato modernismo e rinnovare il flusso d’amore che muove gli uomini verso l’unità (…) Nel fotografare ho cercato di tenere sempre vivo il rapporto dell’uomo con le cose. La presenza dell’uomo è continua; e anche là dove son rappresentati oggetti materiali il punto di vista non è quello della pura forma, ma è quello dell’assidua memoria della nostra vita e dei segni che la fatica di vivere lascia sugli oggetti che ci sono compagni.”4 Altrettanto importante è la vicenda di Giuseppe Pagano: il suo vedere nella normalità della casa rurale italiana, e non nella eccezionalità del monumento urbano, un possibile fondamento del Moderno, realizzando lui stesso le fotografie per la mostra in Triennale e il suo conseguente prendere atto che lui, architetto, si sarebbe procurato “forse un giorno il pane quotidiano come illustratore fotografico, quando Interlandi, Pensabene, Ojetti e Dalla Porta avranno partita vinta contro l’architettura moderna e soffocheranno le arti ufficiali italiane nel sudario delle care memorie e delle false tradizioni”5. Importante per me soprattutto la testimonianza resa da Pagano nel giorno della sua cattura da parte della banda nazifascista Kock quando confessa: “Io cerco i segni veri, i più sicuri:/ quel sorriso dell’amico che torna,/ la mano tesa di chi pesa il bene/ nello sguardo dell’uomo che si affida,/ la forza vera che vince e perdona/ come il vento che scorda la sua forza./ Sia questo amore il premio a tanto sangue”6. Decisiva nella messa a fuoco della mia visione è stata l’opera di Paul Strand, il vero iniziatore del Moderno in fotografia: nel suo rifiuto della Nuova Trinità creata 4 A. Lattuada, Occhio quadrato, p. XIII-XIV, Milano 1941 5 C. De Seta (a cura di), Giuseppe Pagano fotografo, p. 156, Milano 1979 6 M. Gramigni (a cura di), Giuseppe Pagano Architetto. Poesie, p. 19, Milano 2002 dall’idolatria e dall’ideologia del Novecento, “la Macchina come Dio, l’Empirismo Materialista come Figlio, la Scienza come Spirito Santo”, egli comprende che “ il fotografo ha unito le vie dei veri ricercatori della conoscenza, la via intuitiva ed estetica, la via concettuale e scientifica. Nello stabilire il controllo intellettuale su una macchina, il fotografo ha svelato il muro distruttivo e fittizio di antagonismo eretto tra queste due vie”7. Ed anche questo americano di New York deve percorrere, con l’amico Cesare Zavattini, le vie del paesaggio italiano per realizzare a Luzzara il suo volume più celebre, Un Paese8, ispirato dalla trama poetica di Edgar Lee Masters nell’ Antologia di Spoon River. Il senso della mia opera è emerso lentamente, nel comprendere il modo e il nome in cui la labirintica complessità del paesaggio italiano dona forma ad ogni sguardo che lo guarda. I termini paese e paesaggio derivano dalla radice indoeuropea pak, che ha il duplice significato di seppellire e piantare, e la forma della penisola italiana è stata plasmata, come noi oggi la vediamo, secondo un’evoluzione antropologica in cui il gesto dello scavare il perimetro geometrico della tomba in cui si seppellisce il cadavere precede di quasi mezzo milione di anni il gesto del piantare il seme di un vegetale. Al tumulo, forma artificiale eretta nel visibile della natura originaria, e all’albero, piantato con ordine nel caos dell’esterno, corrispondono nella natura invisibile del mondo interiore le immagini della memoria e del ricordo come elementi di quella dimensione in cui si costituisce l’identità dell’uomo come persona. Nello sguardo trascendente dell’uomo 7 P. Strand, Photography and the New God, in Broom, 1922 8 P. Strand, Un Paese, Torino 1955 attraverso l’inerte e ostile materia della natura, la coscienza crea, proietta e plasma nell’esterno un’immagine nuova e viva del mondo. E, nella mia esperienza, l’immagine è propriamente la coscienza che l’uomo ha di non poter coincidere con la realtà della natura data, neppure con quella realtà che lui stesso è, nella consapevolezza della propria vita come di una dimensione irriducibile alla morte. L’atto creativo del fotografare passa così attraverso l’atto del ricordo. Mosso dalla volontà cosciente e consapevole dell’io, l’atto del ricordo è infatti una rievocazione personale messa in opera nel dinamismo della libertà: esso permette di affrontare la realtà nella totalità dei suoi aspetti e, quindi, nella totalità dei sentimenti, dei pensieri, delle decisioni che essa suscita nel cuore dell’uomo. L’atto del ricordo pone l’io di fronte al dramma della libertà, alla scelta tra il male e il bene, e dona la possibilità di volgere all’edificazione della vita e non alla desolazione e alla distruzione della morte, il fluire delle azioni. Come testimonia il giardino esoterico di Bomarzo9, il ricordo è decisione d’amore e di misericordia, rischio di fede e di speranza che riporta il cuore dal dolore per un evento ormai trascorso, morto e definitivamente chiuso in se stesso, all’apertura di una nuova vita in una diversa forma, espressione del presente. Il movimento del cuore innescato dal ricordo, attraverso il dato obbiettivo della memoria, consente agli occhi di vedere oltre il confine euclideo dell’apparenza e di guardare, nell’uomo e nel mondo, alla verità del destino mettendo finalmente a fuoco un immagine compiuta e definitiva della realtà: un’immagine visibilmente viva e profonda come l’infinito e l’eternità che si rispecchiano in essa. Un’immagine che 9 Accanto alla casa inclinata, in un cippo di pietra vi è la seguente epigrafe: Sol per sfogar il core scaturendo dal cuore più profondo della libertà della persona, si illumina dall’interno come il fondamento stesso dell’identità dell’uomo. L’immagine allora genera, comprende e accomuna in un unico piano spazio temporale il suo creatore, il soggetto rappresentato e colui che la guarderà nel corso del tempo. In una tomba etrusca del centro Italia, alla porta reale che permette di scendere nella dimora sotterranea dei morti corrisponde, in asse ottico perfetto, la porta virtuale di un affresco che fa risalire lo sguardo alla superficie, verso la dimora dei vivi sotto il cielo. In questo doppio movimento della visione che, nel mistero dell’immagine, unisce natura e cultura, io penso sia sorta la concezione del mondo come dato reale e la conseguente dimensione speculare e mimetica della rappresentazione: in quell’incessante approfondimento teorico che, lungo i secoli e le diverse civiltà succedutesi sulla penisola, ha portato all’invenzione della prospettiva a Firenze e all’invenzione dell’obbiettivo a Venezia. In questa trama della storia vive e si compie l’opera della mia fotografia. Deserto “Da quando un bimbo nacque in una mangiatoia c’è da dubitare che sia accaduto qualcosa di così grande con così poco clamore”10. Con queste parole tratte da Alfred Whithead, Hannah Arendt “introduce Galileo e la scoperta del telescopio sulla scena del mondo moderno”. Per la filosofa tedesca, naturalizzata americana, l’invenzione di Galileo genera “l’alienazione della terra che accompagna l’intero sviluppo delle scienze naturali nell’età moderna e l’allontanamento 10 A. Whitehead, La scienza e il mondo moderno, Milano 1945 dalla prossimità terrestre promosso dalla scoperta del globo come totalità”11. La corretta distinzione metodologica che Galileo aveva posto tra la sapienza della Rivelazione biblica e neotestamentaria e la conoscenza scientifica, espressa nell’affermazione che “l’intenzione dello Spirito Santo... (è) d’insegnarci come si vadia al cielo e non come vadia il cielo”12, si è infatti andata via via smarrendo lungo il percorso della modernità; o meglio lungo gli itinerari culturali ed esistenziali di artisti e di movimenti che hanno via via ritenuto di essere i soli interpreti della modernità e dei suoi processi. In questi ambiti di riferimento e di egemonia culturali si sono abbandonate assai presto le ragioni del simbolo e non si sono più comprese né la realtà dell’immagine speculare-prospettica, né la verità della sua dimensione poetica, realtà e verità che sono state alla base delle scoperte di Galileo13. La non visibilità e degli angeli e dei demoni e di Dio sulle lenti degli strumenti di osservazione umana è stata così intesa, o meglio fraintesa, come la non realtà delle apparizioni attestate nelle tradizioni pagane, da quelle etrusche a quelle greche e romane, e come la non esistenza del Dio di Abramo e della sua corte celeste, testimoniata nella tradizione ebraica e cristiana, dal libro della Genesi sino ai Vangeli della Resurrezione. Le gesta delle figure divine nei poemi di Omero e Virgilio, le azioni degli angeli delle gerarchie celesti di Dionigi Areopagita e Dante Alighieri14, come pure tutte le storie dei santi costellate di miracoli e visioni, nei modi e nei mondi osservati dall’obbiettivo della modernità, diventano così leggende 11 H. Arendt, Vita activa, p. 195, Milano 2003 12 G. Galilei, Lettera a Madama Cristina , in Opere, Firenze 1968 13 A. Parronchi, Studi sulla dolce prospettiva, Milano 1964 14 R. Guardini, Studi su Dante, Brescia 1986 senza alcuna credibilità e senza alcuna forza di consolazione nel dramma delle vicende umane. In Clarel, che è sinora il primo e unico poema tentato nella modernità, Herman Melville esprime una disperata nostalgia per “Quelle leggende che, va confessato,/ Li portavano più vicino al cielo/ Più vicino lo univano alla loro speranza/ Verso quello che santi e veggenti testimoniavano/ Più vicino di quanto il telescopio di Galileo/ Possa avvicinarlo ora alla prosaica Scienza”.15. In un paradossale rovesciamento delle parti, là dove la Chiesa Cattolica comprende assai presto il proprio errore e riconosce di fatto la giustezza della ragione di Galileo e del suo metodo fondando la Specola Vaticana e promuovendo in ogni modo gli studi e le osservazioni astronomiche, il laico e gnostico Melville al culmine del Positivismo ottocentesco, si riconosce invece nella ragione della condanna pronunciata due secoli prima dalla Curia Romana: “Scienza e Fede possono unirsi?/ O è giusto quell’istinto clericale/... il cui strenuo volere/ Fece recitare al pallido Galileo/ I Salmi Penitenziali vestito di/ Sacco; che oggi vorrebbe spegnere/ Quelle potenti energie adesso create nei laboratori d’Occidente?”16. Con amara consapevolezza, io constato con Melville come l’immagine del deserto silenzioso e infinito, messa a fuoco dalla lente di Galileo, si sia degradata a immagine di un nichilismo deicida e iconoclasta, e osservo come quest’immagine devastante si sia riversata da lì sin dentro il cuore dell’uomo e come, attraverso di esso, sia travalicata nelle sue azioni, cominciando a far diventare vuota come un deserto l’immagine della sua vita interiore, rischiando di far cadere in rovina 15 H. Melville, Clarel, p. 115, Torino 1999 16 H. Melville, op. cit., pp. 285-286 l’immagine del suo mondo esteriore. Credo sia questa la ragione del fascino perverso che le rovine, a partire da Piranesi e dal primo Romanticismo, hanno esercitato su tanta cultura dell’Occidente: dalle false rovine nell’Isola dei Pavoni a Berlino o nel Giardino Inglese a Caserta, sino alle vere rovine di intere città come Palermo o Venezia. “Gettando lo guardo/ sulla landa lunare dell’angoscia”, molti sulla via di questa modernità finiscono inevitabilmente per esclamare con Melville: “L’uomo fiorì dai deserti; nella ferita del dolore o della prova soverchiante/ Ai deserti egli torna per necessità;/ Sì, questi, come vuota casa abbandonata/ Allora chiamano...”17. I deserti di acqua e di sabbia che da allora diventano scena ed, ancora più spesso, tema necessario e decisivo nell’arte del Novecento: negli scritti di Wystan Auden e Antoine de Saint-Exupery, nelle fotografie di Edward Weston ed Ansel Adams, come nei film di Michelangelo Antonioni e Wim Wenders sino al Lightning Fields di Walter De Maria in New Mexico. Solo la rappresentazione del deserto, nell’apertura dell’immagine alla contemplazione della realtà senza definizione e senza determinazione che è l’infinito, può ormai alzare lo sguardo dell’uomo al compimento del suo destino e distogliere il suo cuore dall’istinto che lo rinserra e lo chiude nel falso e cieco orizzonte dell’immobile finitezza. Basta immaginare l’arco della traiettoria tracciata dalle opere di questi autori per comprendere come il dramma esistenziale dell’epoca moderna sia stato in gran parte causato proprio da quel dinamismo sempre operante nella cultura e definito, da Melville, istinto clericale, ovvero animale: istinto che corrompe e perverte non solo il versante 17 H. Melville, op. cit., p. 191 religioso del pensiero e dell’agire dell’uomo ma anche il suo versante laico, sia esso ideologico, sia esso estetico, sia esso filosofico o scientifico. Animale Spesso in questi anni ho interrotto le mie lezioni, o le mie conferenze, chiedendo all’improvviso ad uno degli ascoltatori che avevo di fronte una definizione sulla natura dell’uomo. Come risposta ho avuto per lo più imbarazzati silenzi, mentre solo qualcuno ha avuto il coraggio e l’onestà intellettuale di dichiarare la definizione che giaceva nascosta, non detta e non dicibile, nell’intimo del pensiero: “L’uomo è un Animale”; un animale non solo per genere e specie, ma anche per natura e destino, un animale superiore e complesso giunto in cima alla scala evolutiva naturale, e magari all’inizio di una nuova evoluzione artificiale permessa dall’ingegneria genetica nel cyborg, ma pur sempre un animale ontologicamente uguale a tutti gli altri animali apparsi e scomparsi sulla Terra nel corso degli eoni e delle ere. Senza la presenza di quel Vivente che è Dio, e che è Dio perché Verbo e Parola incarnati, l’uomo è solo. E l’uomo rimane solo un animale che appare in un universo deserto e che scompare in un silenzio perenne dove non si può pronunciare né ascoltare parola alcuna dotata di senso: un universo la cui forma è puro meccanismo, universo in cui ogni forma è pura funzione che l’uomo può riuscire a replicare, ma che, in quanto meccanismo e funzione, rimane un simulacro alla ricerca del proprio destino in quanto originale perduto18, come il Pinocchio di Collodi o i replicanti di Ridley Scott in Blade 18 P. Costantini - G. Chiaramonte, Luigi Ghirri. Niente di antico sotto il sole, p. 47, Torino 1997 Runner. Un simulacro drammaticamente consapevole della propria identità di creatura e per questo motivo tutto teso alla ricerca di un padre in grado di dare senso e ragione all’esistenza, finalmente capace di poter dischiudere la porta della vita oltre ogni cancellazione e ogni chiusura portate dalla morte. L’arco di questa traiettoria culturale si conclude quindi nella morte dell’arte profetizzata da Hegel e compiutasi tra Duchamp e Warhol nel “grado Xerox della cultura” contemporanea registrato da Jean Baudrillard, il grado in cui la proliferazione assoluta delle immagini “corrisponde al grado zero dell’arte”. “Questa è la strada dell’arte moderna da tempo”, dice il pensatore francese, “a differenza dell’arte classica non esercita il dominio simbolico della presenza e della trascendenza, esercita solo il dominio simbolico della sparizione”19. A questo punto il discorso sarebbe finito, ma così non può essere, perché c’è un’altra traiettoria della modernità. O meglio, vi è la stessa traiettoria ma che deve essere semplicemente osservata da un punto di vista opposto; cercando, trovando e mettendo a fuoco, da questo nuovo punto d’osservazione, un punto diverso dall’infinito celeste scrutato sinora, un punto nel finito terrestre che diventa visibile anche in un semplice specchio: l’uomo, che, nella tradizione dell’Occidente, diventa visibile e reale solo attraverso la propria immagine riflessa nello specchio20. 19 J. Baudrillard, La sparizione dell’Arte, p. 18, Milano 1988 20 J. Baltrusaitis, Lo specchio, Milano 1981, Paris 1979. AA.VV., Lo Specchio e il Doppio. Dallo stagno di Narciso allo specchio televisivo, Milano 1987 A. Nava (a cura di), Las Meninas, Milano 1997 Jane Boyd-Philip F. Ester, Visuality and Biblical Text. Interpreting Velazquez “Christ with Martha and Mary” as a Test Case, Firenze 2004 Un punto opposto a quello denunciato dalla Harendt nella sua critica al Moderno: “manipoliamo sempre la natura da un punto dell’universo che si trova fuori della terra. Senza risiedere realmente dove Archimede desiderava risiedere... ancora legati alla terra dalla condizione umana, abbiamo trovato un modo di agire sulla terra e dentro la natura terrestre come se ne disponessimo dall’esterno, dal punto di Archimede. E anche a rischio di mettere a repentaglio i processi naturali della vita, esponiamo la terra alle forze cosmiche universali estranee alla sua natura”21. Gettato nella vita della natura, l’animale, in maniera conforme all’istinto, ne accetta ogni forma e ogni figura e ogni limite, anche quel limite apparentemente invalicabile che è la morte: non così l’uomo. Dalle industrie litiche di due milioni di anni fa lungo il fiume Olduvai nel cuore dell’Africa, sino all’industria informatica dei giorni nostri nella Silicon Valley in California, l’uomo può, e deve, essere definito come l’essere vivente che per sua natura modifica, transforma, transfigura, trascende ogni forma, ogni figura, ogni limite della natura, anche la forma, la figura e il limite della morte: nella parola e nella memoria, nell’atto della sepoltura e nel rito religioso22 e, sopra tutto, nella creazione dell’arte, l’unica invenzione che definisce con certezza l’uomo come tale, ben oltre e ben al di là dell’invenzione di qualsiasi strumento, di qualsiasi tecnica, di qualsiasi scienza, di qualsiasi filosofia. “Il male si fa senza sforzo, naturalmente, per fatalità”, afferma Charles Baudelaire, “ma il bene è sempre il prodotto di un’arte”23 che supera e vince ogni dinamismo dell’istinto animale. 21 H. Arendt, op. cit., p. 194 22 F. Facchini e P. Magnani (a cura di), Miti e Riti della Preistoria, Milano 2000 23 C. Baudelaire, Il pittore della vita moderna , in Opere, p. 1309, Milano 1996 “Insomma, perché ogni modernità acquisti il diritto di diventare antichità, occorre che ne sia tratta fuori la bellezza misteriosa che vi immette, inconsapevole, la vita umana”24. Con geniale consapevolezza, Stanley Kubrick in 2001 Odissea nello spazio mette in evidente connessione gli occhi luminosi del ghepardo che sbrana i primi ominidi, con gli occhi-oblò luminescenti dell’antropomorfa navetta spaziale che scende sulla luna, e con gli obbiettivi delle telecamere attraverso cui Hal 9000, “il calcolatore algoritmico euristicamente programmato”25, scruta l’equipaggio umano del Discovery fino a prendere la decisione di ucciderlo per garantire il felice esito della missione scientificamente pianificata. Il comportamento della belva, il movimento dell’astronave, la decisione del computer sono rispettivamente governati dall’istinto animale, dal meccanismo tecnologico, dall’intelligenza artificiale, ed essi sono quindi intrinsecamente diversi ed ultimamente avversi alla vita dell’uomo, contrari alla vera natura della sua identità che è apertura imprevista e imprevedibile all’infinito del possibile e della libertà. Quell’infinito, quel possibile, quella libertà che la vita dell’uomo rispecchia e rivela nel mistero dell’arte, nell’enigma di un’opera che riesce a superare ogni limite del tempo, della distanza, della morte: nelle parole di Omero e di Shakespeare che lette e rilette hanno ancora qualcosa da dire di nuovo sulla condizione contemporanea, nelle pitture delle grotte di Lascaux o della Cappella Sistina che viste e riviste hanno sempre qualcosa di diverso da mostrarci tra le dimensioni del presente, nelle musiche di Vivaldi e dei Beatles che ascoltate e riascoltate animano emozioni e sentimenti 24 C. Baudelaire, op. cit., p. 1286 25 A. Clarke, 2001: Odissea nello spazio, p. 101, Milano 1987 mai prima esperimentati. Angelo “Mi son ripromesso di sentire Fritz Lang che dice la mort n’est pas une solution”26, confessa in un breve scritto del 1977 Wim Wenders che, sin dall’inizio della sua opera, ha coniugato la creazione artistica con la ricerca esistenziale del senso e del destino nella vita dell’uomo. “Sono semplicemente cristiano”, dichiara il regista tedesco, “è stata una lunga ricerca, attraverso le scienze, attraverso le altre fedi. E ho scoperto che l’unica posizione che rispondeva alle mie domande, l’unica soluzione decente alle mie inquietudini, l’unica risposta agli interrogativi dei miei film era la religione, era la fiducia nell’esistenza di Dio... Ho ritrovato questo sentimento religioso durante la lavorazione di Così lontanto così vicino. Il cielo sopra Berlino era una fiaba. Nel mio secondo film sugli angeli, gli angeli non rappresentano più una metafora, ma qualcosa per me molto reale. Perché ci sono gli angeli, ci sono gli esseri che ti impediscono di cadere, tutti hanno sperimentato l’intervento di un angelo. Io sono stato salvato dalla morte...”27.Questa dichiarazione, fatta da Wenders al quotidiano “La Repubblica” il 10 luglio 1994, ci spinge così a concentrare la nostra attenzione verso Il cielo sopra Berlino. Proprio nel suo porsi consapevolmente come fiaba, proprio nel suo concepire la figura dell’angelo come semplice metafora, questo film del 1987 rende visibile e inequivocabile che la verità e la realtà scaturiscono nell’opera e dall’opera, a prescindere dall’esperienza o 26 W. Wenders, Stanotte vorrei parlare con l’angelo, p. 106, Milano 1989, Frankfurt a.M. 1986 27 I. Bignardi, Wenders, i mille volti del cinema totale, in La Repubblica, 10 luglio 1994 dal pensiero dell’artista stesso perché, con Italo Calvino, ogni artista di ogni luogo e di ogni tempo può solo affermare “... questo: le fiabe sono vere”28. Wenders realizza il suo film a Berlino, dopo Paris, Texas e la prima lunga permanenza americana, in un momento decisivo dell’architettura europea che aveva nel programma berlinese dell’IBA, diretto da Josef Kleihues, il suo punto forte. Un momento in cui a Berlino stavano progettando e costruendo sia i riconosciuti maestri, sia i più giovani protagonisti, da James Sterling e Vittorio Gregotti a Léon e Rob Krier, da Alvaro Siza a Mario Botta, in un laboratorio assolutamente unico di idee, ipotesi, realizzazioni. Quasi al termine del mandato dell’IBA, e due anni dopo l’uscita del film di Wenders, Berlino diventa la scena dell’ultimo atto in cui si chiude la tragedia del secolo breve e delle sue guerre tra le nazioni d’occidente e d’oriente per l’egemonia sul mondo: come tra le rovine del Reichstag del 1945 si era dissolta nel sangue l’ideologia nazifascista, così nella caduta del muro di Berlino nel novembre del 1989 s’infrange definitivamente, e senza vittime apparenti, l’altra ideologia portante della modernità, quella dell’utopia marxista-leninista. Nel prologo del film la prima immagine che s’illumina è quella di un foglio e sopra il vuoto di questa superficie una mano traccia un segno che si fa parola da ascoltare e scrittura da leggere: sul bianco assoluto della carta, sul totalmente altro della luce, il gesto dell’uomo appare come oscura linea d’ombra, come esile opacità di cenere. Il prologo situa di fatto Il cielo sopra Berlino dentro il millenario tema della tradizione mistica occidentale secondo cui soltanto la luce eterna e infinita del Verbo 28 Fiabe italiane raccolte e trascritte da Italo Calvino, Torino 1956 che è Dio, e che risuona nella parola viva, può illuminare di senso l’uomo e il corpo mortale della sua esistenza e della sua opera. Dopo i titoli di testa che seguono al prologo, tra le grigie nuvole delle immagini in bianco e nero traspare per un istante il sole che, in dissolvenza, si trasforma in occhio singolare che guarda il mondo dall’alto; e in un lento movimento di discesa, dagli squarci tra le nubi, vediamo quindi la città come il condensarsi e il farsi materia della luce e della visione celeste. Sulla cupola della Gedaechtniskirche in Europaplatz, emblematica rovina della storia tedesca e della vicenda umana, l’angelo in figura d’uomo alato contempla dall’alto di quel tragico punto il mondo e viene scorto dal basso unicamente nello sguardo tra spesse lenti d’occhiale di una bimba che lo indica con gioia, tra la cecità e l’indifferenza della gente che le passa accanto. Nei successivi fotogrammi di questa lenta e maestosa sequenza, le immagini fanno librare ancora il nostro sguardo nel cielo sconfinato, per farlo poi dolcemente inclinare e quindi rapidamente precipitare verso i palazzi e, attraverso le finestre, dentro le stanze, e, attraverso i muri e le porte verso i corpi delle persone, fin dentro il cuore dei loro nascosti pensieri e sentimenti. Dall’esterno celeste che sovrasta la città, grazie alle immagini di Wenders, noi entriamo all’interno delle case, nel centro di quella dimensione esistenziale e personale che ogni abitazione di muratura davvero è: scena di un dramma in cui ogni uomo è protagonista, luogo di un destino in cui ognuno di noi in ogni istante può perdersi nella propria solitudine o ritrovarsi in compagnia del bene di un altro. “Il tratto fondamentale che caratterizza la casa... deve essere identificato senza esitazioni nell’apertura, o se si vuole nell’accoglienza, o se si vuole ancora nell’ospitalità; in tal senso, se da un certo punto di vista la casa è sempre costituita da un edificio che chiude e in cui ci si rinchiude, da un altro punto di vista è anche ciò nella cui chiusura viene sempre accolta e ospitata un’apertura: la casa è una chiusura che opera come accoglienza e ospitalità di un’apertura”29. L’angelo che attraversa Il cielo sopra Berlino non è l’angelo terribile dell’infinito e dell’indicibile che, nelle Elegie Duinesi30 di Rainer Maria Rilke, trascende ogni figura e che attraverso la dissoluzione della morte riporta ogni vivente al grembo dell’eterno che è non-luogo, ovvero dimenticanza e silenzio, dimensione di nessuna memoria, di nessuna parola, di nessuna immagine. Nell’angelo, l’occhio di Wenders diventa invece occhio che penetra la superficie del mondo, entra in ogni corpo e materia e rende visibile e dicibile ogni nascosto pensiero e ogni non detta parola d’amore di ognuno verso l’altro, custodendoli e salvandoli. L’angelo di Wenders è quindi l’angelo della visione e dell’ascolto, figura drammaticamente sospesa tra il bianconero dello spirito e il colore della carne, figura la cui identità è percezione pura che trapassa ogni confine, ogni istinto, ogni meccanismo, ogni legge, e che, per ciò, redime il cuore di ogni uomo e dona senso ad ogni cosa nel mondo. Percezione che supera la soglia del già visto e del già detto e che si muove per indicare, nella realtà e nella verità del visibile e del dicibile, la possibilità e la libertà verso il non ancora visto, verso il non ancora detto, ovvero 29 S. Petrosino, Economia non è businesss. L’ordine della casa e il senso filosofico della differenza, p. 25, in Colloqui, n. 1-2/2003 30 R. Guardini, Rainer Maria Rilke, Brescia 1974 verso la vita. Nella Descrizione di un film indescrivibile del 1986, Wenders rivendica giustamente che il suo film non vuole “affatto narrare una STORIA DI UNITà bensì, la cosa più difficile: UNA storia della DUALITA’...”31. Così, oltre ogni intenzione iniziale e oltre ogni consapevolezza, egli finisce per narrare la storia di Dio e dell’uomo, la storia dell’io e dell’Altro, arrivando ad accogliere il mistero della Trinità. È a partire da questa storia, e dentro questa storia, che l’uomo può abitare il mondo, ritrovando in ogni luogo se stesso. Immagine Per Oswald Mathias Ungers, che in quegli anni aveva edificato a Berlino alcuni dei suoi progetti più significativi, nella traiettoria della modernità che si è posta fuori da questa storia, l’architettura è diventata “soltanto una parte del generale processo di produzione... le si è negato persino il diritto di un suo proprio linguaggio, di una possibilità di espressione artistica. Il suo ruolo si è ridotto ad un puro funzionalismo, al soddisfacimento di bisogni basati sull’utilità, sull’aderenza allo scopo e sull’economicità”32. Anche per Ungers il principio della transformazione e della transfigurazione è il principio fondamentale dell’architettura e dell’abitare, ma “ciò presuppone in primo luogo il riconoscimento del fatto che le realtà spirituali, materiali e naturali possono assumere non un’unica condizione, bensì si possono presentare in forme differenziate... “, infatti, “ognuno di questi concetti descrive una qualità specifica della differenziazione ...”33 che si ottiene 31 W. Wenders, op. cit., p. 148 32 O.M. Ungers, Architettura come tema, in Quaderni di Lotus, p. 9, Milano 1982 33 O.M. Ungers, op. cit., p. 13 “... grazie all’immaginazione creativa”34. È l’immaginazione creativa dell’uomo a discernere e a salvare le qualità specifiche ed essenziali delle forme e delle figure che fondano lo stupore e la meraviglia del mondo. “Quando Schopenhauer scrive che il mondo è rappresentazione”, continua l’architetto tedesco, “egli intende dire che non esiste alcun oggetto in sé, ma soltanto un soggetto che vede e percepisce l’oggetto. Il mondo è dunque un oggetto soltanto in relazione al soggetto ed al punto di vista di chi guarda o, per dirla con Schopenhauer, è rappresentazione... Senza una rappresentazione della realtà essa si presenta come una massa insensata e amorfa di fatti che esistono senza un rapporto reciproco; essa appare priva di ordine, incomprensibile e perciò caotica ... Se invece il processo di progettazione prende le mosse da un’immagine rappresentativa che si pone alla base come principio di organizzazione del tutto, allora è possibile sviluppare all’interno di questa immagine tutta la ricchezza della fantasia”. Così, conclude Ungers, “progettare per immagini rappresentative rende possibile il passaggio dal pensiero pragmatico al pensiero creativo, dallo spazio metrico dei numeri allo spazio visionario dei sistemi coerenti”35. L’organo che rende possibile la costruzione non è la mano, l’organo che rende possibile la rappresentazione non è il cervello, come l’organo che rende possibile la visione non è l’occhio, ma il cuore dove, attraverso la mano, attraverso il cervello, attraverso l’occhio, l’io dell’uomo incontra il tu dell’altro e di Dio. Qui nel cuore, dove il pensiero diviene sentimento, volontà, azione, qui l’angelo veglia e illumina come atrio della presenza che ha creato il mondo e l’uomo, come prima stanza di ogni casa e 34 O.M. Ungers, op. cit., p. 15 35 O.M. Ungers, op. cit., p. 107 come prima casa di ogni città. Qui soltanto l’uomo può ritrovare se stesso, perché soltanto qui egli può dire, come Dylan Thomas: “Io sono ritrovato”36. Nella nitida e luminosa messa a fuoco dell’obbiettivo, nella cristallina precisione di una profondità di campo che si estende dal primo piano sino all’infinito, si deve salvaguardare nell’immagine la verosimiglianza della scena solo per dare al mondo una nuova possibilità, solo per dare un nuovo ancora a quel mondo che è l’uomo e a quell’uomo che sono io e a quell’io che, insieme e nello stesso momento, è un noi. Attraverso lo sguardo, attraverso la visione, soltanto l’immagine può salvare l’uomo riflettendo la totalità e l’infinito della vita eterna di cui è somiglianza; come soltanto l’immagine può perdere l’uomo, riflettendo la maschera mortale del suo voler essere solo se stesso. Nella marea di immagini che inondano e appiattiscono il mondo nell’epoca della globalizzazione, bisogna allora distinguere con coraggio la verità dell’immagine dalla falsità del simulacro. Affermare che l’uomo è immagine “non vuole dire automaticamente assolvere qualsiasi tipo di rappresentazione”, scrive Jean-Jacques Wunenburger, “vuol dire solo scommettere sulla promessa che l’immagine, meglio forse della sensazione e del concetto, sia, sotto certi aspetti e in certe occasioni, la promessa di un pensiero profondo. Può così accadere che quanto vi sia di più esteriore possa familiarizzarci con quanto vi sia di più intimo. L’immagine, in questo senso, costituisce lo specchio privilegiato della vita dello spirito”37. 36 D. Thomas, Poesie, p. 143, Torino 1970 37 J.J. Wunenburger, Filosofia delle immagini, pp. 402403, Torino 1999 Il Colombre Daniela Cristofori Gabriella Gilli Università Cattolica, Milano 17 gennaio 2009 - Giornata di formazione Ai partecipanti al Premio San Fedele 2009, sia Giovani Artisti che Giovani Registi, è stata offerta la possibilità di partecipare a una giornata di formazione, sabato 17 gennaio 2009, sul tema dell’anno in corso, ovvero “Il destino dell’uomo”. L’obiettivo della Giornata di Formazione è stato quello di offrire ai partecipanti del Premio San Fedele un’occasione di coinvolgimento attivo in dinamiche di gruppo, al fine di riflettere congiuntamente sul tema proposto. Un’iniziativa di questo genere è stata una novità nelle proposte formative e informative che tradizionalmente accompagnano il percorso del Premio San Fedele, con la conduzione della giornata da parte di Daniela Cristofori e di Padre Andrea Dall’Asta, sotto la supervisione di Gabriella Gilli. Il metodo della proposta è stato un metodo dialogico, co-costruttivo, che utilizza tecniche attive, tese al coinvolgimento diretto dei partecipanti e alla loro sollecitazione nella costruzione di una conoscenza considerata come frutto di una partecipazione di tutti (lontana, quindi, dalla concezione di una conoscenza di cui solo alcuni sono i detentori). Caratteristica metodologica cruciale è l’utilizzo del gruppo inteso sia come veicolo della riflessione e dell’esperienza sia come destinatario di dinamiche tese a rinsaldare i legami tra i partecipanti. Le fasi della proposta sono state le seguenti: - alle ore 14.30: Apertura e saluto ai partecipanti. Introduzione al lavoro in gruppo e sul gruppo e spiegazione degli obiettivi della proposta. - In dettaglio, è stato comunicato che la proposta intende offrire uno spazio esperienziale accanto alle altre iniziative offerte dal Centro San Fedele nel corso dell’iter del Premio Giovani Artisti. - Illustrazione degli obiettivi generali della proposta. La proposta ha inteso favorire la riflessione sul tema del destino dell’uomo, a partire da un’esperienza e, in particolare, un’esperienza di gruppo (il gruppo dei partecipanti al Premio). Infatti, il fatto di essere partecipanti a un premio d’arte non necessariamente implica l’attenzione alla dimensione “gruppale”; invece, la proposta formativa vuole porre l’attenzione proprio al gruppo come dimensione ineludibile e foriera di creatività, come contesto entro cui si snodano le esperienze e il percorso del Premio Giovani Artisti. D’altra parte, quasi tutte le esperienze di ciascuno di noi avvengono all’interno di un gruppo, o in relazione - concreta o pensata - a un gruppo. Mettere a fuoco la potenza del contesto gruppale può anche far riflettere sui modi e le condizioni in cui il gruppo può influenzare la creatività artistica, favorendola o inibendola. - breve premessa teorica. Molto in sintesi sono stati enunciati alcuni concetti fondamentali dello studio psicosociale sui gruppi. È stato ricordata la nozione di Kurt Lewin di gruppo come totalità dinamica, che sottolinea il legame di interdipendenza dei partecipanti al gruppo; il concetto di confini del gruppo, che ne preserva l’identità; la nozione di famiglia come gruppo specifico e sui generis, e quella delle funzioni dei vari gruppi: scolastici, sportivi, ecc. che costellano lo sviluppo e la vita di ciascuno di noi. Il gruppo è, che ne siamo consapevoli o no, un luogo di relazioni profonde. È più della somma delle sue parti; richiede impegno, fatica, a volte dolore e sofferenza. Eppure non ci possiamo sottrarre, forse è nel destino dell’uomo il fatto di essere inserito nel sociale, di appartenere, volente o nolente, a uno, o più, gruppi. Il gruppo risponde in maniera potente alle aspettative umane. Gli esseri umani ricercano nel gruppo una base sicura, un’appartenenza, una risposta ai propri bisogni di base e di socializzazione. È l’intermediario tra l’individuo e la società. È un luogo dove si confrontano le diversità, un laboratorio dove ci si può esercitare nel confronto con gli altri. È una risorsa preziosa. È un luogo di cambiamento. - Noi, quindi, nasciamo in un contesto, un contesto fatto di relazioni, spesso organizzate in modo da creare gruppi. Queste relazioni sono alla base del processo creativo e portano al cambiamento e il gruppo è un luogo di cambiamento. - In gruppo si scambiano e si cambiano idee. - Inoltre si crea sempre sotto lo sguardo di un altro, sguardo da intendersi sia concretamente (quando si lavora effettivamente insieme, in gruppo), sia metaforicamente; in effetti, la creazione artistica è, in qualche modo, anche inconsapevolmente, “dedicata” a qualcuno, a un altro-da-sé (o una parte di sé) a cui si chiede di fungere da pubblico, da destinatario della creazione. Questa premessa costituisce la spiegazione del motivo per cui è stata proposta l’attività formativa. Presentazioni metaforiche dei partecipanti. Ai partecipanti è stato chiesto di presentarsi agli altri membri del gruppo, con modalità creative, scegliendo: 1 animale e 1 colore che rappresentassero al meglio ciascuna persona. Lo scopo di questa modalità di presentazione è stato quello di sollecitare le persone a utilizzare il pensiero associativo e proiettivo. Illustrazione della esercitazione “Il Colombre” e consegne. È stata presentata l’esercitazione scelta per l’attività formativa. Si tratta di un testo narrativo, un breve racconto di Dino Buzzati intitolato “Il Colombre”. Tale testo è stato scelto perché attinente al tema che ha ispirato l’edizione 2009 del Premio Giovani Artisti, vale a dire “Il destino dell’uomo”. I conduttori hanno suddiviso il gruppo in tre sottogruppi. Quindi hanno letto il testo (in circa 12 minuti), omettendo il finale. Hanno poi esplicitato la consegna, che prevedeva, per ogni sottogruppo, l’individuazione di un possibile finale della storia. In seguito, ogni sottogruppo avrebbe presentato agli altri sottogruppi il finale che aveva elaborato. La modalità di tale presentazione non sarebbe stata verbale, bensì costituita da un mezzo espressivo non verbale - una foto/scultura animata - rappresentativo del finale della storia. I conduttori hanno sottolineato che le attività dei partecipanti non avrebbero previsto in alcun modo giudizi, valutazioni, attribuzioni di valore comparato, né da parte dei conduttori stessi né da parte di nessun altro. Inoltre, i conduttori sono rimasti a disposizione dei sottogruppi, nella fase di elaborazione del finale del racconto, offrendo, nel caso, suggerimenti e consigli per la realizzazione scenica della foto/ scultura. Al termine della elaborazione del finale da parte di tutti i sottogruppi, e dopo una breve pausa, ciascun sottogruppo ha messo in scena il finale prescelto. I conduttori hanno aiutato il “regista” del gruppo a comporre o ultimare la foto. Gli altri hanno osservato e, ad opera ultimata, sono intervenuti con commenti e osservazioni. Le varie “sculture” sottolineavano un aspetto comune all’interpretazione del finale del racconto: l’impossibilità di sottrarsi al proprio destino in termini di “incontro”. In questo senso, il destino è apparso come un “incontro” che nessuno può evitare. E questo incontro dice la verità della nostra vita. Alle 17.30 l’esperienza è terminata. Una breve valutazione è stata poi compiuta dagli animatori e da alcuni giovani, considerando come effettivamente l’utilizzo di esercitazioni attive e di gruppo come quella del Colombre: - facilita l’utilizzo di modalità espressive di comunicazione, - rappresenta una occasione di “gioco” e di novità sia individuale sia relazionale, - sollecita una dinamica di gruppo più libera, ludica e inconsueta, - costituisce, grazie al testo prescelto, una modalità esperienziale per riflettere sul tema del destino dell’uomo, contribuendo pertanto al percorso formativo proposto dalla Galleria San Fedele in relazione al Premio Giovani Artisti e Filmmakers. Donne e impegno politico LETIZIA BATTAGLIA Dal 1972 al 1974 ho vissuto a Milano. Ho cominciato a fare fotografia per accompagnare i miei articoli e poterli così vendere meglio. Appena riuscì a fare qualcosa qui a Milano mi chiamarono da Palermo e mi offrirono una cosa meravigliosa. Cioè di organizzare e dirigere il servizio fotografico del quotidiano “L’Ora”, un mestiere che in genere non veniva affidato a una donna, specialmente in una terra del sud. Quindi sono ritornata in Sicilia, a Palermo. Non avevo una coscienza antimafia, ero solo una persona onesta. Volevo soltanto lavorare, guadagnare il pane, potermi rendere autonoma. Avevo anche tre figli da mantenere. Sono ritornata a Palermo credendo che avrei fatto un brillante lavoro come cronista, fotografa… Fotoreporter a tempo pieno all’interno di un quotidiano non ce n’erano -forse non ce ne sono neanche ora- perché è un lavoro molto duro, stancante che quasi non ti permette di vivere. Comunque ho iniziato questo lavoro per mestiere. Ricordo il primo servizio che feci: mi mandarono a fotografare una famiglia povera senza marito con dei bambini. Poi andai alla partita di calcio, all’elezione della miss… Poi ci fu il primo omicidio e io tremando, con un senso di nausea, di vomito, di dolore e di incredulità, cominciai a fotografare il mio primo morto di mafia. Le fotografie che scattai erano quasi tutte mosse, orribili. Però ce n’era una buona, al giornale andava bene e così la pubblicarono. Senza che io potessi saperlo era cominciata una vera e propria guerra tra mafiosi e contro lo stato. Per cui giorno dopo giorno aumentavano le tragedie di povertà, di corruzione, e i morti ammazzati. Qualche volta arrestavano qualcuno e lo processavano ma in genere poi veniva liberato. Non c’era molta volontà di fermare il sistema mafioso come non ce n’è neanche ora. Ed è successo che, siccome avevo la camera oscura vicino alla cucina, trovavo tutto questo dolore nella mia casa: nel mio mangiare, nel mio dormire, nel mio vedere la televisione… Il mio privato era pieno di immagini che anche ora guardo continuando a stare male. Non riesco ad accompagnare qualcuno a guardare queste fotografie perché non potete immaginare cosa significa incontrare una persona che non si muove più, che è ferma. Non perché sia diventata vecchia ma perché una mano violenta ha deciso che la sua giovane vita o che la sua vecchia vita doveva finire così. E allora queste fotografie riempirono la mia casa. Non si può vivere felicemente se sai che stanno avvenendo queste cose nella tua città. E tra i morti, tantissimi, cominciarono ad ammazzare anche gente che stimavo. Poliziotti bravi come Boris Giuliano che voglio ricordare. Era il capo della squadra mobile. Era meraviglioso, era veramente per la città, non faceva politica nel suo lottare contro la mafia. E lo ammazzarono. Prendeva il caffé ogni mattina in un bar e lo uccisero. Quando lo vidi a terra come una piccola cosa, una pezza vicino alla cassa, fui contenta che non me lo fecero fotografare. Tanti giornalisti, giudici e poliziotti furono ammazzati. Ma anche donne, bambini, tutti ammazzati perché avevano visto. Ho una foto che non ho ancora voluto mostrare ed è quella di un bambino ammazzato vicino a una pompa di benzina, ucciso perché aveva visto qualcosa. In quel periodo capii che queste fotografie non potevano essere pubblicate solo sui giornali. Altri fotografi come me Incominciavano a prendere coscienza. Non pensavamo in realtà che veramente sarebbe scoppiata una guerra civile perché c’era troppo dolore, troppa miseria e donne che piangevano –indimenticabile il dolore delle madri o dei figli. Volevamo scioccare la gente. Il mio gruppo di lavoro accettò la mia proposta, altri fotografi no. E così esponemmo queste foto in piazza, nel pieno centro di Palermo. E la gente corse, si radunò per vedere le facce degli assassini -anche quando sapevano chi erano gli assassini-, le facce del dolore e della morte. Così è cominciata questa storia. Abbiamo pensato ingenuamente che con le fotografie potevamo raccontare che c’era una parte del popolo siciliano che non voleva la mafia, una parte della Sicilia che lotta contro la mafia e che magari non lo sa fare perché tutti i governi che si sono succeduti non hanno voluto debellare la mafia. Perché la mafia è servita anche a mantenere intatto il potere politico. PAULA LUTTRINGER Sono nata in Argentina nel 1955, a La Plata, e sono stata vittima della dittatura militare. Nel 1977, dopo cinque mesi di detenzione clandestina, sono emigrata in Brasile e poi in Francia. Ho cominciato a dedicarmi interamente alla fotografia nel 1992 quando sono ritornata nel mio Paese. Dal 2000 sono legata al progetto El lamento de los muros. Sono fotografie di dettagli delle prigioni clandestine accompagnate da testi e cioè dai ricordi delle donne che hanno vissuto l’esperienza della prigionia durante le persecuzioni militari del regime. Attraverso le immagini e la scrittura ho voluto ricostruire la storia di donne che hanno vissuto la mia stessa esperienza: ritrovare la mia esperienza attraverso il racconto di queste donne e poi, attraverso le immagini, comunicare queste emozioni agli altri. Durante il mio lavoro ho dovuto ricercare i centri di detenzione clandestini. E spesso sono state le donne che di volta in volta mi hanno dato il nominativo di altre donne e di altri prigioni. Si è creata una sorta di catena per ricostruire una storia cancellata. Il mio progetto quindi non è mai concluso ma continua ad andare avanti perché si realizza in una ricerca continua. Il mio intento non è tanto quello di raccontare la Storia ma di comunicare i piccoli dettagli, le emozioni, le sensazioni, gli odori legati a questo vissuto terribile. Nei confronti della dittatura militare in Argentina, in questi anni i governi hanno emanato una serie di amnistie e indulti. Non sono io che devo perdonare, ma quelli che hanno commesso le torture, gli omicidi. La società argentina non cerca vendetta ma rimangono una serie di problemi grandi e irrisolti. Per esempio quello dei bambini figli di persone desaparecidas, adottati poi dai militari. C’è un processo, ancora in atto, per far sì che questi bambini possano ritrovare le loro vere famiglie. Bisogna che questo processo non si arresti. Dopo trent’anni bisogna che una serie di processi riguardanti quel periodo storico vadano avanti e che le persone coinvolte, i torturatori, i militari, chiedano perdono, cosa che non è ancora stato fatto. Personalmente mi sembra importante creare un dialogo. Non tanto esigere il perdono, ma creare un dialogo, affinché si possa partecipare al dolore dell’altro. Per questo è necessario saper ascoltare. Spesso accade che quando qualcuno ha vissuto una situazione di dolore, gli altri lo vogliano rimuovere. Per questo c’è bisogno di attenzione, di compartecipazione al dolore degli altri e, naturalmente, chi ha provato esperienze di questo tipo le deve poter comunicare. Anche se è difficile vedere le cicatrici, queste continuano a sopravvivere nella vita delle persone. Persone che continuano ad aver bisogno di essere guarite. Ricordare è importante per qualsiasi democrazia, non solo in Argentina. NELLA MAGEN CASSOUTO 17 settembre 1971 era la vigilia del capodanno ebraico ed ero a casa con i miei due bambini, di due anni e di un mese. Qualcuno ha bussato alla porta. Quando ho aperto trovato davanti a me un ufficiale dell’esercito che non conoscevo. Non mi ricordo esattamente come ha messo in parole il suo pensiero, ma ho capito che mio marito era morto. Nell’ebraismo abbiamo una cosa che si chiama shivà: è un modo di salutare il defunto. Si sta insieme per sette giorni, si guardano vecchie foto e si parla molto. Quindi nei giorni seguenti a quella notizia è venuta mia madre, la famiglia di mio marito… Nella settimana successiva però mi sono ritrovata da sola. Ed è stato in quel momento che ho avuto piena conoscenza della mia nuova vita da vivere. Avevo 23 anni. Mi chiedevo continuamente “cosa faccio della mia vita?”. Negli anni successivi la cosa sulla quale mi ero completamente concentrata era crescere i miei figli nel miglior modo possibile. Più tardi mi sono risposata. Ho messo al mondo un altro figlio e mi sono separata. Quando i bambini sono cresciuti sono uscita da questo trauma. Mi sono trovata di fronte a due possibilità: la vendetta o un’altra strada. La tendenza di voler vendicare è un po’ ciclica. In Israele si ripete continuamente. Sempre si troverà una ragione per giustificare una vendetta. Per questo ho deciso di andare in tutt’altra direzione. Sono entrata a far parte del gruppo Parent Circle che ha come scopo il dialogo, il perdono, la misericordia. Si partecipa alle sofferenze dell’altro con approfondimenti sulla storia e la cultura di ognuno dei partecipanti, imparando a conoscersi meglio. Ad esempio uno degli esercizi che si fa è quello di mettersi uno di fronte all’altro, un palestinese di fronte a un ebreo. Uno racconta la sua storia. E poi si scambiano i ruoli. E colui che fino a quel momento ha ascoltato racconta di nuovo la storia, per comprendere quanto realmente ha capito, quanto ha davvero ascoltato. Penso che solo se ognuno di noi è disposto a rinunciare di vedere l’altro in maniera prevenuta può esserci un cambiamento. Solo attraverso la conoscenza della storia e della cultura dell’altro avremo la possibilità di vivere uno al fianco dell’altro, in serenità. La messa dell’uomo disarmato Don Luisito Bianchi Avevo dieci anni quando un prete di ottanta mi domandò: “Vieni in seminario?”. Gli risposi che mio padre non sarebbe stato d’accordo. Così lui disse: “Proverò io a parlargli”. E andammo da mio padre nel colorificio dove lavorava. Lui era all’avanguardia nel desiderio di volermi far crescere in totale libertà di scelta, disse soltanto: “O quest’anno o mai più”. Mio padre sapeva che avrei dovuto sostenere degli esami di ammissione importanti e io avevo soltanto la quarta elementare. Era il mese di agosto quando il seminarista anziano aveva parlato con mio padre e nell’ottobre di quello stesso anno ero già in seminario. Ero il più giovane. Sono stati gli anni più difficili. Ci fu la guerra, mi ammalai, ma ebbi la grazia e la fortuna di passare gli anni della giovinezza, gli anni più turbolenti, a casa mia, nella scelta di quella che poteva essere la mia strada. M’imbattei nel grande avvenimento, quello che ha determinato il corso della mia vita: la Resistenza. Gente che rischiava la propria vita. Sangue gratuitamente versato che sarebbe dovuto servire a creare le premesse di un mondo migliore. Questo avvenimento è stato determinante nella mia scelta, perché decisi di farmi prete per la sofferenza degli umili e il gemito dei poveri. Era un pensiero poco ortodosso perché c’era la salvezza delle anime anche allora. Però non ci badai. In seminario avevo tutte le premesse di diventare un prete borghese. Però, dopo alcuni anni trascorsi all’Università Cattolica di Milano, chiesi al vescovo di essere mandato in veste di prete diocesano in quei territori dove Cristo non era conosciuto. A Viboldone, dove c’era un distaccamento delle monache, avevano bisogno di un prete. Lì incontrai una priora gentilissima, di sangue bolognese, Margherita Marchi. Diventammo depositari dei nostri pensieri più profondi e grandi quanto era il suo cuore. Terminai gli studi nel 1956 e ritornai in diocesi rimettendomi a disposizione del vescovo. Lui mi mandò a Pizzighettone, zona industriale. Il mio mandato era comprendeva il compito di occuparmi della fabbrica di Biella e dei giovani che vi lavoravano. Nel 1964 mi arrivò una lettera del vescovo dal Concilio e dovetti andare a Roma, dove feci tre anni nell’ufficio formazione delle Acli. Terminati i tre anni ho riflettuto sulla mia futura destinazione. Erano dieci anni che parlavo di lavoro, però senza sapere che cosa fosse in realtà. Chiesi al vescovo se, per onestà, mi fosse consentito di andare in fabbrica. Lui ci pensò e dopo una settimana, mi rispose: “Trovati un vescovo”. Così andai a finire ad Alessandria. Mi presentai anche a un altro sacerdote che voleva condividere con me il lavoro. Trovai Spinetta Marengo a Montecatini. E il 5 febbraio incontrai il direttore di fabbrica. Fu il momento decisivo. In fabbrica mi resi conto cosa poteva significare questo mondo nuovo. Entrando in fabbrica vidi quest’umanità e potei condividerla. Cominciai a scrivere un diario. Era un testo che non doveva essere letto da altri. Era pieno di slanci verso l’alto e verso il basso. Conteneva il desiderio di trasmettere la dignità dell’uomo donata nell’affetto e nella fede di un Dio che si era fatto uomo: la dignità dell’uomo era il recipiente della dignità del figlio di Dio che si era fatto uomo. Il grande ostacolo di quei giorni era trasmettere questo messaggio ai miei amici. Perché la Chiesa si presentava come una potenza, come un potere. La fabbrica era fatta da persone senza potere. E in certi momenti era importante che il potere facesse harakiri se voleva diventare rispettoso della dignità dell’uomo. Questa mancanza di evangelizzazione della mia Chiesa era infatti di impedimento all’evangelizzazione del mondo. Di questo parlo nel mio diario. Giurai a me stesso che da quel giorno avrei studiato a partire dalla gratuità del Ministero. E da lì che nacque l’esigenza della gratuità come fatto ecclesiale, non come fatto personale. Era questo che a me importava. La messa dell’uomo disarmato è un libro sulla resistenza che prende il via l’8 settembre 1943. Mi sono frantumato in tanti personaggi all’interno di questo romanzo, e mi ritrovo ad esempio nel novizio Franco che, all’inizio del libro, si chiede se deve rimanere ancora in seminario o invece è chiamato all’esterno. Un altro personaggio importante è Rondine, il povero di Jahvé che impersona, appunto, il gemito dei poveri. La Messa dell’uomo disarmato è una rivisitazione della mia vita attraverso il filtro della memoria. Tutti i personaggi contenuti nel romanzo erano il contatto con la realtà quotidiana del mio paese. Non sono uno scrittore e, mentre scrivevo, appena un personaggio entrava nella mia storia io dovevo seguire il suo percorso. Così ho seguito anche Rondine, fino al suo funerale. Ho ripreso il funerale reale di un giovane partigiano e l’ho dedicato a Rondine perché il personaggio di Rondine voleva così. Al giro di boa de cinquant’anni ho rivissuto la mia vita attraverso il filtro della memoria, fino a quel momento. Ho riflettuto su tutte le esperienze che avevo vissuto per cogliere la parola insita nell’avvenimento, convinto che quest’ultimo contenga la parola che non solo la sacra scrittura esprime. Perché è un’immersione della storia come fu per Cristo che comincia la sua attraverso la discendenza di luce e di tenebra finché raggiunge l’utero della purissima per pura grazia: la gratuità della ragazzina di Nazaret. Il dono che dopo tanti anni di messa ricevetti fu quest’insegnamento: “Fate questo in memoria di me”. La mia esperienza è stata quella di vivere senza rinunciare a essere uomo, godendo anche delle notizie dell’inizio di giornata, le quali farebbero passare la voglia di essere uomo. Però il mondo nuovo è già qui, nel sangue che si rinnova. Finché ci sarà qualcuno che lo pensa, ecco, il mondo nuovo è già presente. Perché è dichiarato possibile. Le sante dello scandalo Figure bibliche femminili Erri De Luca Scrittore e saggista Itinerari verso la luce Quando ero operaio, per molti anni ho sfogliato le scritture sacre in antico ebraico un’ora prima di uscire per il lavoro: mi pareva così di afferrare qualcosa di nuovo ogni giorno prima di farmelo portare via dalla stanchezza. Credo di essere stato tra i pochi operai felici di svegliarsi presto. Quell’ora prima di uscire di casa era la mia caparra. Anche adesso che non faccio più quel mestiere ho custodito l’usanza. Ogni mattina accolgo le parole sacre. Capirle per me non è afferrarle ma essere raggiunto da loro, essere quieto e farmi agitare da loro. Perciò desidero restituire una parte minima del dono di poterle frequentare. Ho imparato l’ebraico antico perché l’Antico Testamento è stato scritto in quella lingua. L’originale che leggo io è lo stesso usato dalla Conferenza Episcopale Italiana. In ebraico c’è una differenza marcata tra maschile e femminile. Nella nostra lingua li si riconosce, maschile e femminile, dal terminale delle parole, dei sostantivi, degli aggettivi e anche dei pronomi. In ebraico c’è una marcatura maggiore di questa. Ce n’è una anche nel verbo: esistono forme verbali per il maschile e altre per il femminile. Da questo sappiamo per esempio che tutti i Comandamenti sono rivolti a un tu maschile. Noi leggiamo i verbi all’infinito. Non ammazzare, in ebraico è non ammazzerai. L’uomo è l’albero di trasmissione della scrittura. Alla donna nella scrittura sacra spetta invece l’albero di trasmissione della vita. Il maschile in ebraico si chiama zahar, che vuol dire il maschio, ed è la stessa radice del verbo ricordare. Questo è il maschio. E questo è il suo compito: qualcuno che deve trasmettere, ricordare, trattenere quella trasmissione e passarla alla generazione successiva. Il femminile in ebraico è invece molto più brusco, fastidioso alle nostre orecchie, nechebà, che vuol dire fessurata. Non è la fessura dove entra il maschio, ma la fessura da dove esce la vita. Può stupire all’interno della nostra società patriarcale che nell’ambito della maternità alle donne spettavano delle prerogative assolute, per esempio quella di dare il nome ai figli. Il primo figlio della storia è Caino ed è nominato da Eva. Sono le donne che mettono al mondo i figli e a loro spetta affibbiargli il nome. Sembra strano leggere che le donne potevano anche stabilire con chi il marito poteva giacere la notte. Rachele, ad esempio, stabilisce che per una notte suo marito Giacobbe vada a giacere con sua sorella Lea: quest’ultima era più fortunata e, a differenza della moglie, aveva dato dei figli a Giacobbe. Anche quando Sara non riesce a rimanere incinta adotta quella specie di inseminazione artificiale e la sua schiava, Agar, partorisce al posto suo. È Sara che decide che Abramo passi delle notti con Agar per avere un figlio. Perché lei non riusciva ad averne. Ai maschi spettava l’albero di trasmissione della legge della conoscenza della storia, e di tutte le implicazioni della scrittura sacra. Però tutte le lettere della scrittura sacra sono femminili. E quel testo conserva una vitalità che lo rende nuovo, a ogni lettura, perlomeno a me che lo continuo a leggere perché c’è dentro la vitalità femminile delle lettere. Una volta da giovane mi sono appuntato una frase che ho trovato in un libro di Hofmanstalle che diceva: “La profondità va nascosta. Dove? In superficie”. Mi piacque quella frase, la credevo giusta senza sapere perché. Ora ne comprendo il significato. La profondità dell’ebraico sta nella superficialità delle sue lettere. Le donne dello scandalo, le Sante dello scandalo. La prima si veste da prostituta per andare verso l’uomo che vuole incontrare. La seconda fa la prostituta, di professione e tradisce il suo popolo deliberatamente. La terza si va a infilare di notte dentro il giaciglio di un ricco possidente per farsi sposare. La quarta, peggio ancora, è sposata, ma tradisce il marito e fa in modo, insieme all’amante che il marito muoia. La quinta, pronta ad essere sposa, si trova incinta di un altro. Di queste cinque donne scandalose parla la scrittura sacra. Il Vangelo di Matteo, l’inizio, la prima pagina del cristianesimo, del Nuovo Testamento, inizia con un lungo elenco di nomi maschili che da Abramo scendono fino a Gesù. L’intenzione di Matteo è questa: innestare la nuova notizia del cristianesimo sul ceppo dell’antica, mostrare la discendenza, collegare la cristianità, la notizia di Cristo, a tutta la storia ebraica precedente. Cristo sta nella genealogia del Messia che passa attraverso la linea di Davide. Inoltre Matteo stabilisce che tra Abramo e Gesù ci siano quarantadue generazioni. La genealogia che troviamo scritta più avanti nel Vangelo di Luca, curiosamente, da Gesù risale fino ad Adamo. Tra Gesù e Abramo, Luca inserisce molti più nomi. Però Matteo vuole che siano quarantadue. Tutto il vagabondaggio di Israele e della storia di Israele termina con Gesù. Questo dice Matteo. Non ci sono due divinità, non c’è un Dio dell’antico e un Dio del Nuovo Testamento, non c’è una notizia del prima e una notizia del dopo. Quel libro è monoteista. Matteo esordisce come inizia il libro dell’Esodo “questi sono i nomi”, eliashmot, dice il libro. Dunque Matteo vuole ribadire ancora di più questo attaccamento. L’Esodo è il libro di fondazione del popolo ebraico. È il libro in cui quel popolo diventa popolo, riceve la legge, diventa nazione. E il cristianesimo per Matteo vuole essere questo: una rifondazione di quella notizia. Dunque onore a lui e a questa pagine. Matteo inizia con un elenco di nomi, una genealogia maschile nella quale ci sono cinque nomi di donne. Il primo che si incontra è quello di Tamar, una Cananea. Il secondo nome è quello di Rahav, una donna di Gerico. La terza è il nome di Rut, mohabita. La quarta è Batsheva, che è ebrea, sposa in prime nozze di un ittita, Uria. La quinta è Miriam Maria di Nazaret. Dunque ci sono tre donne che non appartengono al popolo di Israele: una cananea, una di Gerico e una mohabita. Sono inserite tre donne che apportano sangue misto. Il Messia, persino lui, è meticcio. Questa notizia poco risaputa e ripetuta è per me invece importante e allegra. La storia di Israele, dal momento dell’arrivo nella Terra Promessa, da quando si esaurisce la generazione che ha conosciuto il deserto, la manna e tutte le tribolazioni, ma anche i miracoli e continui prodigi, comincia a sbandare, a passare di nuovo al politeismo, a mischiarsi coi culti idolatri dei popoli intorno, culti molto meno esigenti, più allegri e festosi. E tutte le volte che Israele si distoglie dalla sua divinità, dal suo rapporto esclusivo con quella divinità, patisce i rovesci della storia: i popoli intorno diventano più forti lo soggiogano e lo ributtano in stato di schiavitù. In quello stato di servitù risorgono delle guide chiamate giudici, shoftim. I giudici riescono a riportare Israele al monoteismo e a farlo ritornare forte e saldo nel governo della sua regione. Le donne, queste tre donne straniere inserite dentro quell’elenco, che appartengono alla genealogia più pura, quella del Messia, queste tre donne straniere sono invece la testimonianza del contrario: vengono da altri popoli, ma vogliono essere madri in Israele, vogliono appartenere alla divinità unica alla quale hanno deciso di aderire e nella quale vogliono mettere a disposizione il loro grembo. Dunque sono degli esempi di fedeltà al contrario. Sono esempi di fedeltà femminile dentro una storia stracarica di infedeltà. 1. Tamar Tamar sposa un figlio di Giuda, il quale muore senza lasciare discendenza. La legge vuole che un fratello debba prendere il posto del morto per assicurare una discendenza con lo stesso nome del deceduto. Così Giuda da a Tamar il suo secondo figlio, Onan. Però Onan è uno che non vuole dare il suo nome, quindi disperde il seme, non si congiunge con Tamar. Quando Onan muore, Tamar è vedova per la seconda volta. Giuda ha un terzo figlio ma non vuole che si sposi con Tamar, perché è troppo giovane e vuole che passi un po’ di tempo… Giuda naturalmente non vuole rispettare quella promessa. Allora Tamar ricorre a uno stratagemma, forte, ardito, scandaloso: si veste da prostituta e si fa trovare su una strada che deve percorrere Giuda. A differenza della prostituzione moderna che si fa scoprendosi abbondantemente, la prostituzione allora si faceva coprendosi, le donne erano velate. Giuda non può riconoscere la donna che gli si offre. Siccome è di buon umore si concede a quella donna di passaggio. E siccome non ha niente con sé, le lascia in pegno un paio di cosucce sue, che verrà a prendere il giorno dopo il servo, portando il pattuito. Il giorno dopo il servo va a portare il pattuito e a riprendersi i pegni, ma non trova nessuna prostituta da quelle parti. Giuda si scorda dell’accaduto, ma non la natura. Tamar è incinta. Per quella legge lei è ancora legata, è ancora sposa, dunque è un’adultera. Dunque viene condannata. Giuda stesso è il giudice di quella comunità e la condanna a morte – in quel caso la condanna a morte che spetta a Tamar è di essere bruciata. Mentre la donna si avvia al luogo della sua esecuzione dice: “Sono incinta di colui al quale appartengono questi pegni”. Non lo ridicolizza davanti agli altri, però gli fa sapere la verità. E Giuda riconosce i suoi pegni. Si comporta da uomo, non fa finta di niente, accetta di fare una brutta figura di fronte alla comunità dicendo : ”È stata più giusta di me.” Riconosce addirittura a Tamar una giustizia superiore alla legge che lui voleva applicare e che è il motivo per cui sta al mondo: lui è al mondo perché appartiene a quel genere maschile che deve trasmettere e applicare leggi. Eppure Tamar è stata più giusta di lui. Giuda lo riconosce, lo ammette. Tamar è libera e partorirà due gemelli. Uno dei due, Perez, è nella genealogia del Messia. Perché la genealogia del Messia passa da Giuda, via Davide. 2. Rahav Rahav è una prostituta di Gerico. Non come Tamar che finge di esserlo. Rahav è una del mestiere. Abita a Gerico nel momento in cui Israele ha attraversato il Giordano ed è entrato nella Terra Promessa. Promessa, ma nient’affatto regalata. Perché si va a impiantare in un posto già abitato e pieno di idoli e di culti. La terra di Cana è un luogo affollato di altri popoli e di altri culti. Dunque si affaccia l’esercito d’Israele nella piana di Gerico, e più lontano c’è la città, Gerico, la città murata. Giosuè, il più grande condottiero dell’antichità, manda degli esploratori, infila delle spie dentro Gerico. Rahav nasconde queste spie, le protegge, le salva da una perquisizione. In cambio vuole appartenere a Israele. È certa, non per profezia ma per convinzione, che la sua città sarà distrutta. Così la donna chiede alle spie di salvare la sua casa, la sua famiglia insomma, in cambio di quella salvezza che lei ha accordato loro. Quando Gerico viene distrutta, Rahav e la sua famiglia vengono salvate perché fuori dalla sua finestra è appesa una stoffa rossa che protegge quella casa. Vuole la tradizione, non è scritto nella scrittura sacra, ma vuole la tradizione ebraica, che Rahav diventi moglie di Giosuè. Dunque una prostituta sta lì dentro quella genealogia perché è una che ha riconosciuto la grandezza superiore della divinità che stava arrivando, e ha voluto aderire a quel popolo con il suo corpo e con la sua carne. 3. Ruth Ruth è una donna della terra di Mohab. La terra di Mohab è di là dal Giordano mentre Isreaele sta tra il Giordano e il mare. C’è una grande carestia in Israele e una grande famiglia ebraica si trasferisce in terra di Mohab, dove c’è un po’ di cibo e la carestia è meno feroce. È il primo esempio di diaspora, di storia di abbandono della terra di Israele, quella terra conquistata, raggiunta, ottenuta quale Terra Promessa. Una piccola famiglia se ne va di lì, abbandona quella terra. E dunque passa un sacco di guai. Questa famiglia è composta da marito, moglie e due figli: il marito muore, i due figli che hanno sposato due cananee, due mohabite, muoiono tutti e due. Rimane la suocera, Naomi, moglie dell’ebreo che era andato in terra di Mohab e le due nuore. Naomi vuole ritornare in terra d’Israele, e a lei si attacca Ruth, sua nuora Naomi accetta malvolentieri di portarsi dietro Ruth, cerca di dissuaderla in tutti i modi, ma Ruth insiste, è tenace e va a lavorare nei campi al momento del raccolto. Il raccolto allora era lungo, partiva a maggio e finiva a settembre. Dunque Ruth, mentre lavora, viene notata dal proprietario, Boaz, che per accidente è anche parente della famiglia, e le concede, visto che lei sta facendo un’opera meritoria nei confronti della povera vedova Naomi, un po’ di spazio, di agio nella raccolta. Questa preferenza fa scattare a Naomi l’idea di far sposare Ruth a Boaz. Naomi suggerisce quindi a Ruth di andarsi nel letto notturno all’aperto dell’uomo. Quest’ultimo si sveglia di notte con quella ragazza vicino e la protegge. E così Ruth diventa sposa di Boaz, con questo gesto ardito e notturno con il quale si è offerta a un uomo potente e sconosciuto. 4. Batsheva Batsheva, è sposa di Uria, ittita, un soldato di Davide. Mentre Uria sta combattendo nelle guerre di Davide, quest’ultimo si incapriccia di Batsheva. Viene commesso adulterio. Batsheva rimane incinta. Quindi Davide adotta questo sotterfugio: fa richiamare dalla battaglia e dal posto dove sta combattendo Uria per un’ambasceria che gli voleva consegnare, lo fa richiamare in modo che Uria possa stare qualche notte in città, a dormire con la moglie e coprire con la sua presenza la gravidanza irregolare. Uria è un uomo tutto d’un pezzo e dice: “I miei compagni stanno combattendo, e io dovrei venire a fare festa con mia moglie? No, io dormirò fuori dalla casa di mia moglie”. Davide, fallito questo sotterfugio, deve ricorrere al peggiore dei mezzi: chiede al suo comandante di lasciare isolato Uria nella battaglia. Così Uria viene ucciso e Davide può sposare Betsabea. Il figlio di questa unione muore subito. È dannato. Ma il secondo figlio è niente di meno che Salomone, il più grande Re di Israele. Colui che avrà l’onore di costruire il primo tempio della divinità. Dunque c’è una provvidenza che striscia come una serpe, passa attraverso delle passioni, dei corpi, dei corpi femminili, per compiersi. Per far arrivare il seme a destinazione. Questa è una storia dura ma che illustra come il corpo femminile sia un messaggero di una volontà della quale le persone sono dei mezzi. 5. Miriam Maria In queste storie la divinità non si rivolge alle donne, non parla a loro. A differenza di quello che succede con il maschile, con la profezia maschile, in cui la divinità dice, irrompe dentro le vite di questi uomini scelti, e questi uomini scelti dalla divinità vengono completamente scombussolati e sconvolti dall’avvento della notizia. Molti uomini cercano addirittura una via di fuga, una resistenza. Mosè dice “io sono balbuziente” che era una bella giustificazione. Isaia dice “io sono impuro di labbra”. Così arriva subito un angelo che con un tizzone ardente gli dà una scottata alla bocca e così può ricevere la sua profezia. Geremia dice “sono troppo piccolo, come faccio, sono un bambino, un ragazzino, come faccio ad andare a parlare agli adulti?”. E anche quella obiezione viene superata. Anche Giona sente la notizia, quello che deve fare, e s’imbarca per la direzione opposta. A me è capitato di prendere il treno per la direzione opposta ma sempre per sbaglio. Alla fine anche se quella divinità ti avvia verso lo sbaraglio quello è l’unico indirizzo sicuro. Tutto il resto è peggio. Nessuna di quelle donne, pur non ricevendo nessuna notizia, si tira indietro. Rispondono tutte quante. Con una volontà fisica, forte, immediata, che non ha bisogno di nessuna mediazione. Per questo le chiamo le sante dello scandalo. Sono scandalose. Gli uomini sono mandati spesso contro dei poteri. Isaia contro il Ree, Giona contro Ninive, Mosé contro il faraone, vengono tutti scagliati contro dei poteri. Le donne vengono invece scagliate dentro e contro la legge per applicarla meglio. Per darle una forza e un significato. Sono tutte delle interpreti, fanno delle mosse ardite, eroiche, pazzesche. Ma fanno tutte delle mosse uniche per poter meglio applicare una legge che sta scritta nei loro cuori ma non sta scritta da nessuna parte. Appartengono tutte alla scrittura che leggiamo noi. Sono belle. Certo che sono belle. Però portano la loro bellezza con uno “spirito di servizio”. Sono delle serve di quella loro bellezza che è destinata ad altro scopo. Non delle reginette della loro bellezza. La bellezza è un mezzo per raggiungere altre destinazioni e aderiscono con una fedeltà che non si smuove. Sono più grandi dei profeti che si leggono nelle scritture sacre. L’ultima storia che racconterò è quella di Miriam Maria, dal Vangelo di Marco. Maria è una sposa promessa, improvvisamente incinta e non del suo fidanzato. Per quella legge è un’adultera. Faccio un passo indietro. L’iconografia cristiana vuole che Giuseppe sia anziano. Però né Matteo, né Luca dicono che Giuseppe è anziano. Dunque noi possiamo immaginarlo bello, giovane e innamorato. Quest’ultima è una caratteristica importante, che lo contraddistingue, perché Giuseppe si comporta molto da innamorato. Lui è uno del sud, della Giudea che è andato a lavorare al nord, a Nazaret. È un ragazzo che lavora presso un falegname. Ha il torto di essersi innamorato della più giovane e bella ragazza della zona, cosa che di solito dispiace agli autoctoni. E gli capita questa tegola sulla testa: la sua ragazza incinta di un altro. Ma lui la protegge. Accetta di sposarla, di coprire con il suo nome, con la sua onorabilità, distrutta in quella circostanza, la sua sposa, la sua innamorata. Giuseppe deve essere stato innamorato cotto per comportarsi così. Non può essere stato altrimenti. Nell’iconografia cristiana l’Annunciazione è un angelo che precipita nella stanza di Maria con il suo annuncio. Ma nella storia ebraica, l’angelo, il messaggero, è uno qualunque. Ha delle fattezze umane. Non è un extraterrestre. Non vola. Cammina. Non si riconosce fisicamente da un altro. E per questo che l’adesione di Maria, l’accettazione immediata di quella notizia grandiosa è più grande di quella che viene rappresentata con l’angelo che irrompe dentro la sua stanza. Perché a un angelo ubbidisce chiunque. Maria invece ha sentito lo shalom di un estraneo dentro la sua intimità, dentro la sua camera. Maria appartiene a quelle sante che si sono lanciate senza nessuna obiezione a obbedire al compito assegnatole. È una ragazzina e Giuseppe è degno di lei. È uno che accetta di essere padre secondo, marito secondo. Josef dal verbo jasaf, colui che aggiunge, dal verbo aggiungere. Giuseppe si aggiunge a questa storia. Accetta questo per amore di Maria. Il suo nome è dentro la genealogia di Matteo, dentro la genealogia di Davide. E Gesù è inscritto in quella genealogia perché è figlio di Giuseppe. In quella anagrafe viene iscritto da Giuseppe come figlio suo. Se non avesse fatto questa mossa il Messia sarebbe stato figlio di nessuno, anche se del più illustre dei nessuno. Ecco, ci sono state delle donne in quella storia che hanno cambiato i connotati alla legge, investendola della loro forza di natività, applicandola meglio e trasformandola. Quindi onore a Matteo che mette i nomi di queste cinque donne nella pagina di inizio del cristianesimo, nella genealogia più pura che è quella del Messia e dal cui ceppo non è ancora uscita l’ultima parola.