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Sommario Antonio Paolucci 9 Jared Brown & Anistatia Miller13 C’era una volta il Negroni 19 di Luca Picchi IL CONTE CAMILLO IL SUO MONDO, IL SUO STILE 1. Un sorso di storia27 Firenze, culla del cocktail Negroni 27 Quattro passi nella storia 31 dei locali fiorentini L’ora del Vermouth 40 L’offerta dei caffè42 2. Il Casoni e Fosco Scarselli45 Il Vermouth al Casoni 45 Fosco Scarselli versa il primo 46 Negroni Dal Negroni alla 19a buca 49 L’Affaire Negroni e la gloria 51 di Fosco Note sull’origine dei cocktail54 3. Sulle tracce del conte57 Disciplina e avventura 57 nella formazione del conte Dalle colline di Fiesole 61 alle praterie del West New York nella Golden age of cocktails64 Ritorno in patria 68 Rientro a Firenze 70 Gli ultimi anni 73 Bob Davis Ricorda: lost in Italy76 4. Genesi e fortuna del Negroni81 Nelle mani del barman 81 Una parte di Gin, una parte di Campari, una parte 84 di Vermouth di Torino Fortuna del Negroni 89 Nel dopoguerra il Negroni decolla 92 Dolce vita, vacanze romane e boom del Negroni 95 Il primo twist e la fama 97 internazionale Anche James Bond ordina un Negroni 100 Il ruolo delle associazioni nella salvaguardia e nella diffusione dei cocktail102 NEGRONI TWIST AND CLASSIC 1. Tecniche di miscelazione e varianti del cocktail Negroni 109 L’antica magia del ghiaccio112 Build over ice 116 Mix and strain 118 Shake and strain 120 E adesso tocca a voi 121 • Americano122 • Negroni124 • Florentine Cardinal126 • Negroni sbagliato128 • The Boulevardier Count improved130 • Hanky Panky132 • Negroni insolito134 2. Negroni Hall of Fame137 • Samuele Ambrosi, Belle époque138 • Flavio Angiolillo, Perigord Negroni140 • Salvatore Calabrese, Negroni svegliato142 • Simone Caporale, Unfinished business144 • Luca Cinalli, Amaroni146 • Dario Comini, Negroni in falsa noce148 • Tony Conigliaro, Death in Venice150 • Luca Cordiglieri, Rosie152 • Domenico Costanzo, Negrete154 • Dale DeGroff, Fancy Nancy aka Old flame156 • Giampiero “Peter” Dorelli, Inferno158 • Jacopo Falleni, Casanova160 • Marco Faraone, Mascalzone latino162 • Giuseppe Gallo, Galone164 • Jerry Thomas Project, Negroni del professore166 • Francesco Lafranconi, Just for friends168 • Mauro Lotti, Negroni di Charlie170 • Mauro Mahjoub, Tegroni172 • Ago Perrone, Yellow submarine174 • Fulvio Piccinino, Desiderio bianco176 • Marco Russo, Negroni steccato178 • Jorge Alberto Soratti, Pisconi180 • Massimo Stronati, Negroni dopato182 ANIMA, MENTE E CUORE GIN, BITTER E VERMOUTH Gin. Lo spirito nobile187 All’origine, il ginepro 188 L’alcol e la legge 189 L’attuale offerta di gin 191 Bitter. Unico e italiano Le radici di un successo Il nuovo corso di Campari Il Campari soda Campari oggi Il Bitter nel primo Negroni 195 196 199 205 207 207 Vermouth. Figlio del Vinum Hippocraticum Le origini Il Vermouth di Torino Le grandi aziende italiane Martini & Rossi Altri produttori A voi la scelta 209 210 211 213 214 217 217 Biografia Indice dei nomi Ringraziamenti 218 219 221 C’era una volta il Negroni Camillo Negroni con una gardenia all’occhiello. Un foglio bianco e una penna nervosa che sta per riscrivere la storia di uno dei più celebrati drink: il cocktail Negroni. Tante idee che si rincorrono, tante storie e opinioni che costellano il firmamento del mondo della miscelazione, questo magico universo dove il barman si muove con agilità e maestria, evocando antiche miscele o reinterpretando i classici di un tempo. Il barman, quello “vero”, è l’erede di tradizioni e tecniche che affondano le radici nel tempo, passando dagli strumenti più rudimentali, come le prime cannucce di paglia usate da Egizi e Sumeri per succhiare bevande, o un pezzo di legno intarsiato per pestare foglie di menta dentro un coccio, per giungere al rachide di una penna che serviva come una prima bitter bottle per aromatizzare e una stir per mescolare. Il barman è il pronipote di alchimisti e menestrelli, sa sorridere, ascoltare, parlare quando deve e, con la sua presenza discreta, essere pronto a soddisfare i desideri del palato di clienti e amici. Patron dei salotti più belli ed eleganti, il barman è un istrione dalle mille sfaccettature, si adatta bene ai capricci dei clienti più esigenti e quando trova un amico, questo sarà per sempre. 19 La scoperta di una vecchia fotografia, tanti anni fa, risvegliò in me una passione e una forza che non sapevo di possedere. La sensazione di avere trovato un flebile filo conduttore che mi portava sulle tracce del fantomatico conte Camillo Negroni generò la mia voglia di indagare. E così fu. Oggi, a sedici anni da quella scoperta, la voglia di “sapere” è ancora viva e mi stimola il fatto che ogni particolare, ogni dettaglio, anche il più insignificante, potrebbe essere una nuova traccia. Una foto della Firenze della fine degli anni Dieci del Novecento. Al centro, il palazzo Rucellai-Navone, all’angolo tra via della Spada e via della Vigna Nuova. A destra, su via de’ Tornabuoni, spicca la grande insegna della Drogheria Profumeria Casoni. 20 Queste sono le prerogative dei barman, e quella che raccontiamo è la storia che ha fatto incontrare tanti anni fa un conte e un giovane barman che, su suggerimento del suo cliente-amico, a sua insaputa componeva un drink destinato a fare epoca. Molti dei vecchi barman che mi hanno lasciato un po’ di se stessi e che ricordo con rispetto e devozione, mi hanno raccontato la storia del cocktail Negroni, con le loro verità e i loro ricordi; io, ascoltando molte leggende diverse che aleggiavano su questo drink, un giorno decisi che era giunta l’ora di ricercare, di dare voce a tutti quei maestri che non c’erano più e che mi avevano detto: «Il cocktail Negroni è nato a Firenze e Negroni era un nobile fiorentino». L’autore al lavoro. Una storia, quella del cocktail Negroni, legata a un personaggio eclettico e originale, la cui vita è costellata di episodi avventurosi, di frequentazioni nobili e importanti, di vite che si intrecciano lasciando segni profondi. L’irripetibile mondo che ebbe come protagonista il conte Negroni e l’amico barman Fosco Scarselli rivive oggi nelle pagine di questo libro e nei ricordi di una nobile famiglia, insieme a quei barman che ogni giorno mescolano i tre magici ingredienti, adagiati su un letto di ghiaccio cristallino, e completano con la fetta d’arancia a suggellare una delle miscele più conosciute al mondo. Tutto ha una storia; gli uomini che hanno creato il Negroni e quelli che lo hanno reso celebre, gli ingredienti che lo compongono, i barman che lo hanno preparato allora e quelli che lo offrono adesso. A far da cornice al nostro racconto è un luogo che somiglia a un legno intarsiato da mille artistici colpi di scalpello a sagomare la forma del giglio rosso simbolo di Firenze che ritroviamo in molte parti del mondo, dalla Francia all’America. Firenze, la magica città di Dante, di Brunelleschi, di Botticelli, di Michelangelo e quanti altri ancora potrei citare solo per dire che è unica. Negli angoli bui di una città medievale con un piede nel nuovo secolo, nasce il cocktail Negroni, pri21 Negroni’s Party al Sonesta Hotel di New Orleans, luglio 2011. In quest’occasione, dentro la vasca in primo piano è stato creato il Negroni più grande della storia. Da sinistra, William Perbellini, Francesco Lafranconi, Giuseppe Gallo, Agostino Perrone, Jacopo Falleni, Marco Faraone, Luca Picchi e Mauro Mahjoub. mordiale tentativo di imitare “in stile americano” un modo di bere nuovo, moderno e delizioso. Sublimazione del palato, gioia alla vista, sorseggiare un Negroni invita a socializzare, avvicina la gente, ci trasporta, con un’aurea nobile di fascino e un po’ misteriosa, al tempo che fu. Uscendo da un caffè fiorentino dopo aver bevuto un Negroni, svoltando l’angolo di un chiasso alla fioca luce di un lampione lontano, talvolta si può scorgere la fugace ombra di un signore che cammina con un cappello scuro in testa e in mano il bastone. Probabilmente abbiamo visto l’ombra del conte. A fronte, Luca Picchi. 22 23 IL CONTE CAMILLO il suo mondo, il suo stile 1 Un sorso di storia Firenze, culla del cocktail Negroni Il primo passo per ricostruire la genesi del cocktail NeVista della Cupola groni è lasciarsi trasportare dalla fantasia nella seconda del Brunelleschi metà dell’Ottocento e calarsi nell’atmosfera che si redalla Torre spirava allora a Firenze. Perché fiorentini erano colodi Arnolfo ro che lo hanno creato: il conte Cammillo Negroni e in Palazzo Vecchio. il barman Fosco Scarselli. E perché il conte nacque e Al centro, crebbe proprio in quegli anni. il Grand Hotel, La città si trovava al centro di grandi cambiamenti: oggi St. Regis, in piazza gli Asburgo-Lorena, granduchi di Toscana, se ne erano Ognissanti, andati senza colpo ferire e Firenze divenne, per un breai primi del ve ma intenso periodo, la capitale del neonato Regno Novecento. d’Italia, ereditando il titolo da Torino nel 1865. Questo comportò non soltanto l’insediamento del Re d’Italia con la corte, del Governo e di tutto il suo seguito, ma anche l’arrivo in città di una nutrita schiera di facoltosi stranieri che, a vario titolo, rappresentavano gli interessi dei rispettivi Stati. I molti che scelsero di restare nel capoluogo toscano quando i centri del potere si spostarono definitivamente a Roma risiedevano in lussuose dimore acquistate negli antichi palazzi rinascimentali fiorentini o nelle ville sulle verdi colline attorno alla città dei gigli. In breve si formò un giro mondano che celava non solo raffinati 27 Via della Vigna Nuova e via della Spada, con in mezzo il Palazzo Rucellai-Navone prima del restyling dell’architetto Coppedè. La piazza del Mercato Vecchio all’inizio dei lavori di riqualificazione. 28 divertissements, ma anche affari di notevole interesse politico ed economico, oltre a una florida produzione artistica e culturale. Nei salotti finemente arredati, tea, chocolate and coffee erano serviti in pregiate porcellane inglesi o tedesche con perizia e maestria da esperti e selezionati maggiordomi, vanto di ciascun casato. I pomeriggi erano dedicati al ricevimento, mentre la sera si organizzavano feste con eleganti cene e balli che non terminavano prima dell’alba. Maestre di cerimonia erano le grandi signore, mogli dei padroni di casa, abilissime nel tessere una fitta rete di liaisons tra aristocratici, politici e finanzieri, accademici, artisti e letterati. La vita del popolo era ben altra cosa, naturalmente, ma anch’essa stava per andare incontro a profondi cambiamenti dato che, dopo tre secoli di immobilismo urbanistico, in quegli anni veniva discusso e varato il cosiddetto Piano Poggi che doveva, nel volgere di breve tempo, rivoluzionare la struttura viaria e architettonica della città medievale per rendere Firenze idonea al suo ruolo di capitale. Il progetto prevedeva due distinte fasi: la prima avrebbe reso la città più moderna e comodamente percorribile, con l’abbattimento dell’intera cerchia muraria sulla riva destra del fiume e la creazione dei Grandi Viali, salvando soltanto alcune delle antiche porte di accesso con l’intento di creare anche piazze e giardini pubblici; la seconda fase doveva “ripulire” il centro storico da quella degradata accozzaglia di gente che viveva nel ghetto attorno alla piazza del Mercato Vecchio, fulcro di questo piccolo mondo e cuore dell’antico castrum romano di Fiorenza, segnalato ancora oggi dalla colonna dell’Abbondanza. In tale area fu allestita piazza Vittorio Emanuele II, oggi piazza della Repubblica, con il lungo corridoio a loggia sul lato ovest, al centro del quale troneggia l’arco trionfale su cui è scolpita un’epigrafe che recita: «L’antico centro della città da secolare squallore a vita nuova restituito». Al di là di questo arco inizia via degli Strozzi che porta all’angolo di via de’ Tornabuoni, dove il Palazzo Rucellai-Navone, come una prua di nave che fende le onde del mare, ne separa il prosieguo in due parti: via della Vigna Nuova e via della Spada. Proprio qui, sull’angolo di destra guardando il palaz- Veduta di piazza della Repubblica, già piazza Vittorio Emanuele II, con il monumento al primo re d’Italia, ricollocato nel 1932 al centro del piazzale d’ingresso al parco delle Cascine. La foto è del 1893. 29 passare da quell’incrocio così caratteristico e unico si sentiva un po’ speciale. Era così allora ed è così anche adesso. Senza dimenticare che, al tempo, nelle vicinanze c’erano dimore che accoglievano uomini soli, offrendo loro spensierati momenti per poche lire, come ad esempio il bordello tenuto da Madama Saffo, che si trovava in via delle Belle Donne ed era il più rinomato di Firenze. Met venimaximos sanihil liquass imaxima gnatus. Nam volume ndantOlores eum fugia vel molo torum volupta temperro offici totatium doluptassi rehendi gnatecea dis pedis eum vel issitas Ecco come si presentava via degli Strozzi attorno al 1890, vista di qua dall’arco monumentale aperto su piazza Vittorio Emanuele II. 30 zo, a cavallo del 1900 c’era l’insegna di un locale che, come vedremo meglio più avanti, avrà un ruolo centrale nella nostra storia. Si trattava di una drogheria, o come si diceva allora un “appalto” (nome dato a quegli esercizi che oltre a profumi, spezie, cioccolata, dolciumi e altre prelibatezze vendevano anche tabacchi e prodotti alcolici), dove si poteva mangiare uno stuzzichino e bere del buon vino, del Vermouth o qualche altro liquore sopraffino. Il fondatore Ugo Casoni aveva scelto un angolo strategicamente perfetto dal punto di vista commerciale per aprire il suo esercizio. Quel crocevia era attraversato da finanzieri, avvocati, politici, banchieri, nobili e meno nobili, funzionari e regnanti. Chiunque si trovasse a Quattro passi nella storia dei locali fiorentini Per quanto già ricca di storia, la suddetta Drogheria Casoni non era, all’epoca dei fatti che ci interessano, né il locale più antico né quello più rinomato della città. Risalendo ancora indietro nel tempo, il primo esercizio che aprì a Firenze fu un “acquacedrataio” in Porta Rossa all’inizio del Settecento. Gli acquacedratai, che anticiparono di poco l’apertura dei caffè, offrivano, insieme a cedrate e limonate, tazze di cioccolata e anche una strana bevanda importata dai veneziani dal lontano Oriente, che i Turchi chiamavano Kuebwa. Gli italiani la ribattezzarono “vino islamico”. Questo infuso ottenuto dalla polverizzazione del seme tostato della Coffea, una pianta della famiglia delle Rubiacee, non fu all’inizio ben accetto a causa del suo gusto amaro, che ricordava più un veleno che una bevanda rinfrancante. L’accademico Francesco Redi, nelle vesti di medicopoeta, scriveva sul finire del Seicento: … Beverei prima il veleno che un bicchiere, che fosse pieno dell’amaro e rio caffè. Colà tra gli Arabi E tra i Giannizzeri Liquor sì ostico, Sì nero e torbido Gli schiavi ingollino… 31 Nonostante l’opinione sprezzante dello studioso, il successo del caffè fu rapido e dilagante. Gli italiani si lasciarono presto ammaliare da questa bevanda che riscalda e corrobora grazie alle sue sostanze nervine. E fiorirono i caffè intesi come locali in cui si serviva il nero infuso, ma naturalmente anche vini, liquori e altre prelibatezze. Veduta dal ponte Santa Trinita di via de’ Tornabuoni e della Colonna della Giustizia in una cartolina di fine Ottocento. In particolare a Firenze nel corso del Settecento e ben oltre la metà dell’Ottocento aprirono decine di caffè, che non erano soltanto luoghi d’incontro per la gente comune: quasi tutti gli esercizi di un certo livello mettevano a disposizione spazi arredati con gusto sobrio ed elegante dove letterati, poeti, filosofi, pittori, politici e nobili si incontravano per confrontarsi e dissertare. Così la cultura e l’arte moderna entrarono a far parte della storia quoti- diana di quei locali e alcuni di questi, ancora esistenti, ce lo ricordano nel loro silenzioso splendore. Nel 1733 aprì in via de’ Calzaiuoli una Bottega di pani e dolci di proprietà della famiglia Gillj, di origine svizzera. Ad oggi questa è l’insegna di bar-pasticceria più antica di Firenze. Successivamente, l’esercizio si spostò in via degli Speziali dove, accanto alla pasticceria e alla caffetteria, trovarono posto anche la vendita di rosolio e assenzio. La famiglia Frizzoni subentrò ai Gillj nel 1890 e dette uno slancio artistico e culturale al caffè che accolse, tra i tanti clienti famosi, personaggi del calibro del pittore macchiaiolo Silvestro Lega e del poeta premio Nobel Giosuè Carducci. Infine Gilli (nel frattempo, l’insegna si era italianizzata perdendo la “J”) si spostò nella sede dove ancora oggi si trova, l’attuale piazza della Repubblica, e negli anni Dieci e Venti divenne uno dei luoghi di ritrovo di artisti come Carlo Carrà e Umberto Boccioni, tra i maggiori esponenti del movimento futurista, e di talentuosi scrittori come Alberto Viviani e Aldo Palazzeschi. In via Larga, oggi via Cavour, di fronte al Teatro della Compagnia, si trovava invece il Caffè Michelangiolo. Qui si riunivano i facinorosi politici e soprattutto coloro che disprezzavano l’amministrazione del Granduca. Dopo il 1855 la clientela cambiò e, poco prima che Firenze divenisse capitale, fu frequentato da artisti e pittori che disquisivano del “vero” e del “bello”. Come una targa ricorda ancora, Il Michelangiolo si ritrovò così ad essere il salotto dei Macchiaioli, esponenti di uno dei più importanti movimenti pittorici dell’Ottocento italiano e antagonisti dei teorici della vicina Accademia d’Arte, che si riunivano al Caffè birreria San Marco, tuttora esistente nell’omonima piazza. L’altro storico, e più che mai artistico, caffè di Firenze è il Giubbe Rosse, inaugurato nell’ultimo decennio 32 33 L’interno del Caffè Michelangiolo in via Larga (oggi via Cavour) in una caricatura ad acquarello del 1860 circa. L’autore è Adriano Cecioni, assiduo frequentatore di quella sala animata dai Macchiaioli. dell’Ottocento con l’insegna di Caffè-birreria dei fratelli Reininghaus su quella rinnovata e spoglia piazza che un tempo aveva ospitato il vecchio ghetto. I suoi due ingressi erano sormontati da un severo fregio in legno che ricordava l’austerità degli antichi popoli nordici, e in effetti il locale fu da subito ritrovo di clienti tedeschi, austriaci, svizzeri, russi e francesi. Qui era in gran voga il gioco degli scacchi e spesso importanti personalità, tra cui Gordon Craig, André Gide, Lenin, si mescolavano agli avventori. Nel 1933 fu dedicato un libro a questo caffè e alla “rivoluzione culturale nella Firenze 1913-15”; l’autore Alberto Viviani, colpito dalle monture del personale del locale, intitolò l’opera, appunto, Giubbe Rosse. Da allora il locale prese questo nome e successivamente divenne il punto di ritrovo di grandi pittori e letterati tra cui Papini, Palazzeschi, Soffici, Rosai, Carrà, Montale, De Robertis, Saba, Gadda, Vittorini, Quasimodo e tanti altri ancora. Firenze la raffinata arte birraia della Boemia e fecero di quel locale il punto di vendita della bionda bevanda, prima di trasformarlo in caffè. All’inizio del secolo era uno dei locali più grandi di Firenze, con ben tredici sporti entro i quali splendevano luminose specchiere e cristallerie. C’era il palchetto dell’orchestrina che allietava i clienti, rappresentati soprattutto da uomini d’affari, banchieri e commercianti, ma anche da personaggi del calibro di Giuseppe Ungaretti e dei futuristi della seconda generazione. Di fronte al Caffè Paszkowsky c’era una volta il Gambrinus, che per anni è stato un locale veramente straordinario. Ispirato al leggendario patrono della birra, aprì nel 1894 col nome di Caffè Gambrinus Halle. Dall’ingresso di via de’ Vecchietti si accedeva a una grande sala dove troneggiava un’immensa statua di Gambrinus, circondato da grandi piante che creavano un giardino d’inverno. Dotato di ristorante, sala per le feste danzanti e una panoramica terrazza sul tetto, era considerato all’inizio del secolo uno dei locali più eleganti di Firenze, e si dice che vi sia scoccata la prima scintilla del movimento futurista. Trasformato dalla famiglia Furlan in L’ingresso del Caffè-birreria dei fratelli Reininghaus in piazza Vittorio Emanuele II, in una foto del 1900 circa. Di particolare interesse l’insegna che sottolinea l’offerta di Punch. Il locale, poi noto come Giubbe Rosse, sarà per molti anni il ritrovo favorito degli intellettuali a Firenze. Rimanendo su questa piazza è d’obbligo ricordare un altro locale famoso, nato come birreria: il Caffè Paszkowsky. Nel 1904 la famiglia di Karol Paszkowsky acquistò i locali del Bar Centrale, aperto nel 1896 all’angolo tra via Brunelleschi e piazza Vittorio Emanuele II. Polacchi d’origine, i Paszkowsky portarono a 34 35 Cinema Centrale Gambrinus nel 1922, fu distrutto da un incendio nel 1950. Poi riaperto, ha definitivamente cessato la sua attività nel 2007 e al suo posto oggi si trova l’Hard Rock Cafe Firenze. L’interno dell’elegantissimo Caffè Doney in una cartolina del secondo Dopoguerra. 36 Poco più avanti, nel Palazzo Altoviti Sangalletti in via de’ Tornabuoni, aprì nel 1822 quello che s’impose come il più aristocratico dei locali fiorentini: il Caffè Doney, frequentato da una clientela altolocata e prestigiosa. Molti clienti appartenevano al giro del vicino Gabinetto Vieusseux e del Circolo dell’Unione. Era spesso affollato da inglesi, ma vi si potevano udire le lingue più disparate. Gli splendidi saloni con soffitti a volta e doppie colonne centrali, che gli valsero anche il nome di Caffè delle Colonne, riecheggiavano lo stile impero. Dai cinque sporti si godeva la vista su via de’ Legnaioli e sul via vai delle carrozze. Da quelle che vi si fermavano davanti scendevano ora una nobildonna o un importante membro del Governo, ora il re in persona o noti letterati come Theophile Gautier e Gabriele D’Annunzio, che ne era follemente affascinato. Ristrutturato e ammodernato più volte, simbolo di una Firenze straordinariamente raffinata del tempo che fu, Doney ha chiuso definitivamente i battenti nel 1986, lasciando in tutti quelli che lo ricordano un senso di amara nostalgia. Altro storico locale del centro è il Caffè Rivoire, aperto nel 1872 in via Vacchereccia, a due passi da piazza della Signoria, sotto l’insegna di Fabbrica di cioccolato. L’esercizio iniziò la sua attività al piano terra del nuovissimo edificio neogotico detto Palazzo Lavison, edificato tra il 1858 e il 1870. La costruzione fu eretta dove un tempo c’era l’antica chiesa di Santa Cecilia, con annesso un piccolo cimitero e la celebre loggia detta “Tetto dei Pisani”, costruita nel 1392. Enrico Rivoire (pronuncia indifferentemente Rivuar, alla francese o Rivoire all’italiana), torinese ma originario della Savoia, era fornitore ufficiale della Real Casa nella Torino capitale d’Italia. Quando questa fu spostata a Firenze nel 1865, Enrico Rivoire decise di seguire il re con la famiglia. Cinque anni dopo, la capitale e il re si trasferirono nella città eterna, ma egli preferì rimanere a Un’insolita immagine dei primi anni Ottanta con il famoso tramvai in piazza della Signoria. Sullo sfondo, il Caffè Rivoire. Inserzione sul primo elenco telefonico di Firenze del 1884. 37 Firenze, aprendo la sua fabbrica di cioccolato. Oggi il Caffè Rivoire è una delle realtà più importanti della ristorazione fiorentina ed è gestito dalla famiglia Bardelli, già proprietaria del Caffè Giacosa, che lo acquistò nel 1979. Questa pubblicità di fine Ottocento testimonia dell’originale collocazione degli ingressi di Rivoire che, al tempo, erano tutti su via Vacchereccia. In via de’ Tornabuoni ai numeri 9 e 11 rosso, non lontano dal Casoni di cui torneremo a parlare, c’era appunto il Caffè Giacosa, che la famiglia fondò nel 1815. Dall’esterno la facciata dell’esercizio mostrava quattro sporti; il primo era un ingresso con vetrina a sinistra dove si esponevano i dolciumi e la pralineria di cioccolato. Sul frontale della colonna una scritta spiccava su una lastra marmorea: Dépot de vins et liqueurs étrangers; mentre la vetrina seguente mostrava una vasta gamma di bottiglie di vario tipo. Sul marmo della colonna centrale si leggeva Fabrique de chocolat et thé anglais. Il terzo sporto era un altro ingresso con vetrina dove si esponevano differenti specialità al cioccolato e la grande selezione di tè. L’ultimo sporto consisteva in una finestra sulla strada dalla quale chi sedeva all’interno poteva godersi il passaggio, incorniciato da eleganti tendaggi damascati. Una saletta impreziosita da stucchi dorati, fine tovagliato, candelieri in cristallo e lampadari di Murano era il ritrovo di una clientela scelta e raffinata, come il principe Ruspoli, i conti Della Gherardesca, i Torricelli e i Corsi. Nel 1874 la famiglia Giacosa cedette l’attività al cavalier Antonio Bono e a Carlo Baudino, che mantennero il marchio Giacosa. Vent’anni più tardi, Baudino lasciò l’intera proprietà ad Antonio Bono. della Real Casa / Casa Giacosa, fondata nel 1815. Questa scritta figurava ancora sull’intestazione del caffè nel 1927, pochi anni prima che l’esercizio si trasferisse in via de’ Tornabuoni al numero 83 rosso, nei locali dell’ex Casoni. Ma con lo scorrere degli anni tramontava inesorabilmente il periodo d’oro dei principi, dei nobili e degli intellettuali iniziato più di sessant’anni prima e il Giacosa, come tanti altri caffè di prestigio in città, iniziò una fase di inesorabile declino. La difficile congiuntura storica che avrebbe portato l’Italia nuovamente in guerra determinò la crisi dell’esercizio, che resistette a fatica. La gente era d’improvviso diventata povera, impaurita, triste, con poche speranze e tante incertezze per il futuro. Il locale, nonostante gli squilli di ripresa che dal dopoguerra avrebbero portato al boom economico degli anni Sessanta, fu messo in vendita più volte, finché la famiglia Bardelli lo acquistò nel 1974, riportandolo agli antichi fasti. Da allora e per quasi un trentennio Giacosa è rimasto uno dei caffè più rinomati a Firenze, punto d’incontro di clienti fiorentini e stranieri. Nel luglio del 2001 il Caffè Giacosa, oggi situato in via della Spada, è stato trasformato dallo stilista Roberto Cavalli in una lussuosa boutique dove è comunque rimasta viva la vecchia tradizione di caffetteria e di paCopertina del listino di Casa Giacosa del 1900. Confetteria, pasticceria, vini e liquori, restaurant, sala da thé / Fabbrica di cioccolata / Fornitori brevettati 38 39 Poster Vermouth Print.pdf sticceria: al suo interno il bar, che come un istrione si è trasformato in locale chic e alla moda, è meta del jet set che gravita intorno allo stilista e grazie all’inventiva di capaci barman ha sviluppato un eccellente “aperitif time”, con una drink list che propone tanti twist del famoso Negroni. Locandina pubblicitaria Gancia che promuove la loro creazione: il nuovo Vermouth bianco aveva uno stile di Vermouth dolce, morbido, vinoso e vanigliato, destinato a un pubblico femminile elegante. L’ora del Vermouth Sul finire dell’Ottocento, nei prestigiosi caffè fiorentini sopra descritti e in altri ancora che qui manca lo spazio di menzionare, nel tardo pomeriggio scoccava per i gentiluomini la cosiddetta “ora del vermutte”. La parola in italiano sarebbe stata vermut, dal tedesco wermut, cioè assenzio, ma dopo essere passata attraverso la Savoia s’impose con la grafia vermouth. I fiorentini, ereditando oltre alla capitale anche certi usi e costumi dai torinesi, lo accolsero di buon grado e lo ribattezzarono vermutte, secondo la loro parlata. L’aperitivo “nobile” era, indubbiamente, il Vermouth di Torino, un vino piemontese fortificato da un’infusione alcolica di erbe officinali aromatiche raccolte sulle pendici delle vicine Alpi e addolcito con caramello, ingrediente che gli conferisce la rossa colorazione. Si serviva puro e ben freddo in calicini eleganti e raffinati di piccola foggia, quasi per impreziosire una bevanda di rara bontà. Altro aperitivo che andava diffondendosi a partire dall’Italia settentrionale era il Bitter inteso come liquore, quindi contenente zucchero in quantità tale da bilanciare il pacchetto aromatico delle erbe, e dalla bassa gradazione alcolica. E ben presto prese piede la moda di consumare una combinazione di 40 23-10-2012 8:58:09 Vermouth e Bitter ancora oggi molto apprezzata: l’Americano. Con questo termine si intendeva non tanto una miscela ben definita con ingredienti fissi, piuttosto un concetto di fare e di bere un drink alla maniera degli americani. Molto interessante a tale proposito quello che riporta una monografia fondamentale sul Vermouth, a firma di Arnaldo Strucchi e pubblicata nel 1907: «[...] Vermouth al Bitter o Americano – è detto “americano” perché negli Stati Uniti si ha l’usanza di bere il Vermouth mescolato con liquori amari e Gin [...] formando una bibita chiamata “cocktail”. Molte e differenti possono essere queste preparazioni, a seconda del liquore Bitter che viene impiegato, essendovi di questo liquore innumerevoli qualità e con sapori diversi, con peraltro in tutte una base di amaro». Da questo si evince che nell’Italia settentrionale di allora, in particolare in Piemonte e in Lombardia, dove vino Vermouth e liquore Bitter erano diffusamente serviti quali aperitivo, ma ben presto anche a Firenze, qualche impavido oste o banconiere osò mescolare tali ingredienti, più per trasformare il servizio del Vermouth che per creare una miscela italiana ancora ben lontana dal chiamarsi cocktail. Con il diffondersi del semplice Americano, però, maturavano i presupposti per eccezionali sviluppi. C M Y CM MY CY CMY K Storico Vermouth di Torino Cocchi 1891. Manifesto stampato in 200 esemplari numerati in occasione della partecipazione di Giulio Cocchi al Salone del Gusto-Terra Madre, Torino ottobre 2012. Il calicino da cordiale in mano a una dama di bianco vestita, in una recente pubblicità del Vermouth Cocchi che rievoca l’eleganza di un secolo fa. 41