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Sommario
Antonio Paolucci 9
Jared Brown & Anistatia Miller13
C’era una volta il Negroni
19
di Luca Picchi
IL CONTE CAMILLO
IL SUO MONDO, IL SUO STILE
1. Un sorso di storia27
Firenze, culla del cocktail
Negroni
27
Quattro passi nella storia
31
dei locali fiorentini
L’ora del Vermouth
40
L’offerta dei caffè42
2. Il Casoni e Fosco Scarselli45
Il Vermouth al Casoni
45
Fosco Scarselli versa il primo
46
Negroni
Dal Negroni alla 19a buca
49
L’Affaire Negroni e la gloria
51
di Fosco
Note sull’origine dei cocktail54
3. Sulle tracce del conte57
Disciplina e avventura
57
nella formazione del conte
Dalle colline di Fiesole
61
alle praterie del West
New York nella Golden age
of cocktails64
Ritorno in patria
68
Rientro a Firenze
70
Gli ultimi anni
73
Bob Davis Ricorda: lost
in Italy76
4. Genesi e fortuna del Negroni81
Nelle mani del barman
81
Una parte di Gin, una parte
di Campari, una parte
84
di Vermouth di Torino
Fortuna del Negroni
89
Nel dopoguerra il Negroni
decolla
92
Dolce vita, vacanze romane
e boom del Negroni
95
Il primo twist e la fama
97
internazionale
Anche James Bond ordina
un Negroni
100
Il ruolo delle associazioni
nella salvaguardia e nella
diffusione dei cocktail102
NEGRONI
TWIST AND CLASSIC
1. Tecniche di miscelazione
e varianti del cocktail
Negroni
109
L’antica magia del ghiaccio112
Build over ice
116
Mix and strain
118
Shake and strain
120
E adesso tocca a voi
121
• Americano122
• Negroni124
• Florentine Cardinal126
• Negroni sbagliato128
• The Boulevardier
Count improved130
• Hanky Panky132
• Negroni insolito134
2. Negroni Hall of Fame137
• Samuele Ambrosi,
Belle époque138
• Flavio Angiolillo,
Perigord Negroni140
• Salvatore Calabrese,
Negroni svegliato142
• Simone Caporale,
Unfinished business144
• Luca Cinalli,
Amaroni146
• Dario Comini,
Negroni in falsa noce148
• Tony Conigliaro,
Death in Venice150
• Luca Cordiglieri,
Rosie152
• Domenico Costanzo,
Negrete154
• Dale DeGroff,
Fancy Nancy aka Old flame156
• Giampiero “Peter” Dorelli,
Inferno158
• Jacopo Falleni,
Casanova160
• Marco Faraone,
Mascalzone latino162
• Giuseppe Gallo,
Galone164
• Jerry Thomas Project,
Negroni del professore166
• Francesco Lafranconi,
Just for friends168
• Mauro Lotti,
Negroni di Charlie170
• Mauro Mahjoub,
Tegroni172
• Ago Perrone,
Yellow submarine174
• Fulvio Piccinino,
Desiderio bianco176
• Marco Russo,
Negroni steccato178
• Jorge Alberto Soratti,
Pisconi180
• Massimo Stronati,
Negroni dopato182
ANIMA, MENTE E CUORE
GIN, BITTER E VERMOUTH
Gin. Lo spirito nobile187
All’origine, il ginepro
188
L’alcol e la legge
189
L’attuale offerta di gin
191
Bitter. Unico e italiano
Le radici di un successo
Il nuovo corso di Campari
Il Campari soda
Campari oggi
Il Bitter nel primo Negroni
195
196
199
205
207
207
Vermouth. Figlio del Vinum
Hippocraticum
Le origini
Il Vermouth di Torino
Le grandi aziende italiane
Martini & Rossi
Altri produttori
A voi la scelta
209
210
211
213
214
217
217
Biografia
Indice dei nomi
Ringraziamenti
218
219
221
C’era una volta
il Negroni
Camillo
Negroni con
una gardenia
all’occhiello.
Un foglio bianco e una penna nervosa che sta per riscrivere la storia di uno dei più celebrati drink: il cocktail
Negroni. Tante idee che si rincorrono, tante storie e
opinioni che costellano il firmamento del mondo della
miscelazione, questo magico universo dove il barman si
muove con agilità e maestria, evocando antiche miscele
o reinterpretando i classici di un tempo.
Il barman, quello “vero”, è l’erede di tradizioni e tecniche
che affondano le radici nel tempo, passando dagli strumenti più rudimentali, come le prime cannucce di paglia usate da Egizi e Sumeri per succhiare bevande, o un
pezzo di legno intarsiato per pestare foglie di menta dentro un coccio, per giungere al rachide di una penna che
serviva come una prima bitter bottle per aromatizzare e
una stir per mescolare. Il barman è il pronipote di alchimisti e menestrelli, sa sorridere, ascoltare, parlare
quando deve e, con la sua presenza discreta,
essere pronto a soddisfare i desideri del
palato di clienti e amici. Patron dei
salotti più belli ed eleganti, il barman è un istrione dalle mille
sfaccettature, si adatta bene
ai capricci dei clienti più
esigenti e quando trova
un amico, questo sarà
per sempre.
19
La scoperta di una vecchia fotografia, tanti anni fa, risvegliò in me una passione e una forza che non sapevo
di possedere. La sensazione di avere trovato un flebile
filo conduttore che mi portava sulle tracce del fantomatico conte Camillo Negroni generò la mia voglia di
indagare. E così fu. Oggi, a sedici anni da quella scoperta, la voglia di “sapere” è ancora viva e mi stimola il
fatto che ogni particolare, ogni dettaglio, anche il più
insignificante, potrebbe essere una nuova traccia.
Una foto della
Firenze della fine
degli anni Dieci
del Novecento.
Al centro,
il palazzo
Rucellai-Navone,
all’angolo tra via
della Spada
e via della Vigna
Nuova.
A destra, su via
de’ Tornabuoni,
spicca la grande
insegna della
Drogheria
Profumeria
Casoni.
20
Queste sono le prerogative dei barman, e quella che
raccontiamo è la storia che ha fatto incontrare tanti
anni fa un conte e un giovane barman che, su suggerimento del suo cliente-amico, a sua insaputa componeva un drink destinato a fare epoca.
Molti dei vecchi barman che mi hanno lasciato un po’
di se stessi e che ricordo con rispetto e devozione, mi
hanno raccontato la storia del cocktail Negroni, con le
loro verità e i loro ricordi; io, ascoltando molte leggende
diverse che aleggiavano su questo drink, un giorno decisi
che era giunta l’ora di ricercare, di dare voce a tutti quei
maestri che non c’erano più e che mi avevano detto: «Il
cocktail Negroni è nato a Firenze e Negroni era un nobile
fiorentino».
L’autore al lavoro.
Una storia, quella del cocktail Negroni, legata a un
personaggio eclettico e originale, la cui vita è costellata di episodi avventurosi, di frequentazioni nobili e
importanti, di vite che si intrecciano lasciando segni
profondi.
L’irripetibile mondo che ebbe come protagonista il
conte Negroni e l’amico barman Fosco Scarselli rivive
oggi nelle pagine di questo libro e nei ricordi di una
nobile famiglia, insieme a quei barman che ogni giorno mescolano i tre magici ingredienti, adagiati su un
letto di ghiaccio cristallino, e completano con la fetta
d’arancia a suggellare una delle miscele più conosciute
al mondo.
Tutto ha una storia; gli uomini che hanno creato il
Negroni e quelli che lo hanno reso celebre, gli ingredienti che lo compongono, i barman che lo hanno
preparato allora e quelli che lo offrono adesso.
A far da cornice al nostro racconto è un luogo che
somiglia a un legno intarsiato da mille artistici colpi di
scalpello a sagomare la forma del giglio rosso simbolo
di Firenze che ritroviamo in molte parti del mondo,
dalla Francia all’America. Firenze, la magica città di
Dante, di Brunelleschi, di Botticelli, di Michelangelo
e quanti altri ancora potrei citare solo per dire che è
unica.
Negli angoli bui di una città medievale con un piede nel nuovo secolo, nasce il cocktail Negroni, pri21
Negroni’s Party
al Sonesta Hotel
di New Orleans,
luglio 2011.
In quest’occasione,
dentro la vasca
in primo piano
è stato creato
il Negroni più
grande della
storia. Da sinistra,
William
Perbellini,
Francesco
Lafranconi,
Giuseppe Gallo,
Agostino Perrone,
Jacopo Falleni,
Marco Faraone,
Luca Picchi e
Mauro Mahjoub.
mordiale tentativo di imitare “in stile americano” un
modo di bere nuovo, moderno e delizioso.
Sublimazione del palato, gioia alla vista, sorseggiare
un Negroni invita a socializzare, avvicina la gente, ci
trasporta, con un’aurea nobile di fascino e un po’ misteriosa, al tempo che fu.
Uscendo da un caffè fiorentino dopo aver bevuto un
Negroni, svoltando l’angolo di un chiasso alla fioca
luce di un lampione lontano, talvolta si può scorgere
la fugace ombra di un signore che cammina con un
cappello scuro in testa e in mano il bastone.
Probabilmente abbiamo visto l’ombra del conte.
A fronte, Luca
Picchi.
22
23
IL CONTE
CAMILLO
il suo mondo, il suo stile
1
Un sorso di storia
Firenze, culla del cocktail Negroni
Il primo passo per ricostruire la genesi del cocktail NeVista
della Cupola
groni è lasciarsi trasportare dalla fantasia nella seconda
del Brunelleschi metà dell’Ottocento e calarsi nell’atmosfera che si redalla Torre
spirava allora a Firenze. Perché fiorentini erano colodi Arnolfo
ro che lo hanno creato: il conte Cammillo Negroni e
in Palazzo
Vecchio.
il barman Fosco Scarselli. E perché il conte nacque e
Al centro,
crebbe proprio in quegli anni.
il Grand Hotel,
La città si trovava al centro di grandi cambiamenti:
oggi St. Regis,
in piazza
gli Asburgo-Lorena, granduchi di Toscana, se ne erano
Ognissanti,
andati senza colpo ferire e Firenze divenne, per un breai primi del
ve ma intenso periodo, la capitale del neonato Regno
Novecento.
d’Italia, ereditando il titolo da Torino nel 1865.
Questo comportò non soltanto l’insediamento del Re
d’Italia con la corte, del Governo e di tutto il suo seguito, ma anche l’arrivo in città di una nutrita schiera
di facoltosi stranieri che, a vario titolo, rappresentavano gli interessi dei rispettivi Stati.
I molti che scelsero di restare nel capoluogo toscano
quando i centri del potere si spostarono definitivamente
a Roma risiedevano in lussuose dimore acquistate negli antichi palazzi rinascimentali fiorentini o nelle ville
sulle verdi colline attorno alla città dei gigli. In breve si
formò un giro mondano che celava non solo raffinati
27
Via della Vigna
Nuova e via della
Spada, con in
mezzo il Palazzo
Rucellai-Navone
prima del restyling
dell’architetto
Coppedè.
La piazza del
Mercato Vecchio
all’inizio
dei lavori di
riqualificazione.
28
divertissements, ma anche affari di
notevole interesse politico ed economico, oltre a una florida produzione artistica e culturale.
Nei salotti finemente arredati, tea,
chocolate and coffee erano serviti in pregiate porcellane inglesi o
tedesche con perizia e maestria da
esperti e selezionati maggiordomi,
vanto di ciascun casato. I pomeriggi erano dedicati al ricevimento, mentre la sera si organizzavano
feste con eleganti cene e balli che
non terminavano prima dell’alba. Maestre di cerimonia erano le
grandi signore, mogli dei padroni di casa, abilissime nel
tessere una fitta rete di liaisons tra aristocratici, politici e
finanzieri, accademici, artisti e letterati.
La vita del popolo era ben altra cosa, naturalmente,
ma anch’essa stava per andare incontro a profondi
cambiamenti dato che, dopo tre secoli di immobilismo urbanistico, in quegli anni veniva discusso e varato il cosiddetto Piano Poggi che doveva, nel volgere
di breve tempo, rivoluzionare la struttura viaria e architettonica della città medievale per rendere Firenze
idonea al suo ruolo di capitale.
Il progetto prevedeva due distinte fasi: la prima avrebbe reso la città più moderna e
comodamente percorribile, con
l’abbattimento dell’intera cerchia
muraria sulla riva destra del fiume
e la creazione dei Grandi Viali,
salvando soltanto alcune delle antiche porte di accesso con l’intento
di creare anche piazze e giardini
pubblici; la seconda fase doveva
“ripulire” il centro storico da quella degradata accozzaglia di gente che viveva nel ghetto attorno alla piazza
del Mercato Vecchio, fulcro di questo piccolo mondo e
cuore dell’antico castrum romano di Fiorenza, segnalato ancora oggi dalla colonna dell’Abbondanza. In tale
area fu allestita piazza Vittorio Emanuele II, oggi piazza della Repubblica, con il lungo corridoio a loggia sul
lato ovest, al centro del quale troneggia l’arco trionfale
su cui è scolpita un’epigrafe che recita: «L’antico centro
della città da secolare squallore a vita nuova restituito».
Al di là di questo arco inizia via degli Strozzi che porta all’angolo di via de’ Tornabuoni, dove il Palazzo
Rucellai-Navone, come una prua di nave che fende le
onde del mare, ne separa il prosieguo in due parti: via
della Vigna Nuova e via della Spada.
Proprio qui, sull’angolo di destra guardando il palaz-
Veduta
di piazza della
Repubblica,
già piazza
Vittorio
Emanuele II, con
il monumento al
primo re d’Italia,
ricollocato nel
1932 al centro
del piazzale
d’ingresso al parco
delle Cascine.
La foto
è del 1893.
29
passare da quell’incrocio così caratteristico e unico si
sentiva un po’ speciale.
Era così allora ed è così anche adesso.
Senza dimenticare che, al tempo, nelle vicinanze c’erano dimore che accoglievano uomini soli, offrendo loro
spensierati momenti per poche lire, come ad esempio
il bordello tenuto da Madama Saffo, che si trovava in
via delle Belle Donne ed era il più rinomato di Firenze.
Met venimaximos
sanihil liquass
imaxima gnatus.
Nam volume
ndantOlores eum
fugia vel molo
torum volupta
temperro offici totatium doluptassi
rehendi gnatecea
dis pedis eum vel
issitas
Ecco come
si presentava
via degli Strozzi
attorno al 1890,
vista di qua
dall’arco
monumentale
aperto su piazza
Vittorio
Emanuele II.
30
zo, a cavallo del 1900 c’era l’insegna di un locale che,
come vedremo meglio più avanti, avrà un ruolo centrale nella nostra storia. Si trattava di una drogheria, o
come si diceva allora un “appalto” (nome dato a quegli esercizi che oltre a profumi, spezie, cioccolata, dolciumi e altre prelibatezze vendevano anche tabacchi e
prodotti alcolici), dove si poteva mangiare uno stuzzichino e bere del buon vino, del Vermouth o qualche
altro liquore sopraffino.
Il fondatore Ugo Casoni aveva scelto un angolo strategicamente perfetto dal punto di vista commerciale per
aprire il suo esercizio. Quel crocevia era attraversato da
finanzieri, avvocati, politici, banchieri, nobili e meno
nobili, funzionari e regnanti. Chiunque si trovasse a
Quattro passi nella storia dei locali fiorentini
Per quanto già ricca di storia, la suddetta Drogheria Casoni non era, all’epoca dei fatti che ci interessano, né il
locale più antico né quello più rinomato della città.
Risalendo ancora indietro nel tempo, il primo esercizio
che aprì a Firenze fu un “acquacedrataio” in Porta Rossa
all’inizio del Settecento. Gli acquacedratai, che anticiparono di poco l’apertura dei caffè, offrivano, insieme a
cedrate e limonate, tazze di cioccolata e anche una strana bevanda importata dai veneziani dal lontano Oriente, che i Turchi chiamavano Kuebwa. Gli italiani la ribattezzarono “vino islamico”. Questo infuso ottenuto
dalla polverizzazione del seme tostato della Coffea, una
pianta della famiglia delle Rubiacee, non fu all’inizio
ben accetto a causa del suo gusto amaro, che ricordava
più un veleno che una bevanda rinfrancante.
L’accademico Francesco Redi, nelle vesti di medicopoeta, scriveva sul finire del Seicento:
… Beverei prima il veleno
che un bicchiere, che fosse pieno
dell’amaro e rio caffè.
Colà tra gli Arabi
E tra i Giannizzeri
Liquor sì ostico,
Sì nero e torbido
Gli schiavi ingollino…
31
Nonostante l’opinione sprezzante dello studioso, il successo
del caffè fu rapido e dilagante. Gli italiani si lasciarono presto ammaliare da questa bevanda che riscalda e
corrobora grazie alle sue sostanze nervine. E fiorirono i
caffè intesi come locali in cui si serviva il nero infuso,
ma naturalmente anche vini, liquori e altre prelibatezze.
Veduta dal ponte
Santa Trinita
di via
de’ Tornabuoni
e della Colonna
della Giustizia
in una cartolina
di fine Ottocento.
In particolare a Firenze nel corso del Settecento e ben
oltre la metà dell’Ottocento aprirono decine di caffè, che
non erano soltanto luoghi d’incontro per la gente comune: quasi tutti gli esercizi di un certo livello mettevano a
disposizione spazi arredati con gusto sobrio ed elegante
dove letterati, poeti, filosofi, pittori, politici e nobili si incontravano per confrontarsi e dissertare. Così la cultura
e l’arte moderna entrarono a far parte della storia quoti-
diana di quei locali e alcuni di questi, ancora esistenti, ce
lo ricordano nel loro silenzioso splendore.
Nel 1733 aprì in via de’ Calzaiuoli una Bottega di
pani e dolci di proprietà della famiglia Gillj, di origine
svizzera. Ad oggi questa è l’insegna di bar-pasticceria
più antica di Firenze. Successivamente, l’esercizio si
spostò in via degli Speziali dove, accanto alla pasticceria e alla caffetteria, trovarono posto anche la vendita
di rosolio e assenzio. La famiglia Frizzoni subentrò ai
Gillj nel 1890 e dette uno slancio artistico e culturale
al caffè che accolse, tra i tanti clienti famosi, personaggi del calibro del pittore macchiaiolo Silvestro Lega e
del poeta premio Nobel Giosuè Carducci. Infine Gilli
(nel frattempo, l’insegna si era italianizzata perdendo
la “J”) si spostò nella sede dove ancora oggi si trova,
l’attuale piazza della Repubblica, e negli anni Dieci e
Venti divenne uno dei luoghi di ritrovo di artisti come
Carlo Carrà e Umberto Boccioni, tra i maggiori esponenti del movimento futurista, e di talentuosi scrittori
come Alberto Viviani e Aldo Palazzeschi.
In via Larga, oggi via Cavour, di fronte al Teatro della
Compagnia, si trovava invece il Caffè Michelangiolo.
Qui si riunivano i facinorosi politici e soprattutto coloro che disprezzavano l’amministrazione del Granduca.
Dopo il 1855 la clientela cambiò e, poco prima che Firenze divenisse capitale, fu frequentato da artisti e pittori che disquisivano del “vero” e del “bello”. Come una
targa ricorda ancora, Il Michelangiolo si ritrovò così ad
essere il salotto dei Macchiaioli, esponenti di uno dei
più importanti movimenti pittorici dell’Ottocento italiano e antagonisti dei teorici della vicina Accademia
d’Arte, che si riunivano al Caffè birreria San Marco,
tuttora esistente nell’omonima piazza.
L’altro storico, e più che mai artistico, caffè di Firenze è il Giubbe Rosse, inaugurato nell’ultimo decennio
32
33
L’interno
del Caffè
Michelangiolo
in via Larga
(oggi via Cavour)
in una caricatura
ad acquarello
del 1860 circa.
L’autore
è Adriano
Cecioni, assiduo
frequentatore
di quella sala
animata dai
Macchiaioli.
dell’Ottocento con l’insegna di Caffè-birreria dei fratelli Reininghaus su quella rinnovata e spoglia piazza
che un tempo aveva ospitato il vecchio ghetto. I suoi
due ingressi erano sormontati da un severo fregio in
legno che ricordava l’austerità degli antichi popoli
nordici, e in effetti il locale fu da subito ritrovo di
clienti tedeschi, austriaci, svizzeri, russi e francesi. Qui
era in gran voga il gioco degli scacchi e spesso importanti personalità, tra cui Gordon Craig, André Gide,
Lenin, si mescolavano agli avventori.
Nel 1933 fu dedicato un libro a questo caffè e alla
“rivoluzione culturale nella Firenze 1913-15”; l’autore
Alberto Viviani, colpito dalle monture del personale
del locale, intitolò l’opera, appunto, Giubbe Rosse. Da
allora il locale prese questo nome e successivamente
divenne il punto di ritrovo di grandi pittori e letterati
tra cui Papini, Palazzeschi, Soffici, Rosai, Carrà, Montale, De Robertis, Saba, Gadda, Vittorini, Quasimodo
e tanti altri ancora.
Firenze la raffinata arte birraia della Boemia e fecero di
quel locale il punto di vendita della bionda bevanda,
prima di trasformarlo in caffè. All’inizio del secolo era
uno dei locali più grandi di Firenze, con ben tredici
sporti entro i quali splendevano luminose specchiere e cristallerie. C’era il palchetto dell’orchestrina che
allietava i clienti, rappresentati soprattutto da uomini
d’affari, banchieri e commercianti, ma anche da personaggi del calibro di Giuseppe Ungaretti e dei futuristi
della seconda generazione.
Di fronte al Caffè Paszkowsky c’era una volta il Gambrinus, che per anni è stato un locale veramente straordinario. Ispirato al leggendario patrono della birra, aprì
nel 1894 col nome di Caffè Gambrinus Halle. Dall’ingresso di via de’ Vecchietti si accedeva a una grande sala
dove troneggiava un’immensa statua di Gambrinus,
circondato da grandi piante che creavano un giardino
d’inverno. Dotato di ristorante, sala per le feste danzanti e una panoramica terrazza sul tetto, era considerato
all’inizio del secolo uno dei locali più eleganti di Firenze, e si dice che vi sia scoccata la prima scintilla del movimento futurista. Trasformato dalla famiglia Furlan in
L’ingresso
del Caffè-birreria
dei fratelli
Reininghaus
in piazza Vittorio
Emanuele II,
in una foto
del 1900 circa.
Di particolare
interesse l’insegna
che sottolinea
l’offerta di Punch.
Il locale, poi noto
come Giubbe
Rosse, sarà per
molti anni
il ritrovo favorito
degli intellettuali
a Firenze.
Rimanendo su questa piazza è d’obbligo ricordare un
altro locale famoso, nato come birreria: il Caffè Paszkowsky. Nel 1904 la famiglia di Karol Paszkowsky
acquistò i locali del Bar Centrale, aperto nel 1896
all’angolo tra via Brunelleschi e piazza Vittorio Emanuele II. Polacchi d’origine, i Paszkowsky portarono a
34
35
Cinema Centrale Gambrinus nel 1922, fu distrutto da
un incendio nel 1950. Poi riaperto, ha definitivamente
cessato la sua attività nel 2007 e al suo posto oggi si
trova l’Hard Rock Cafe Firenze.
L’interno
dell’elegantissimo
Caffè Doney
in una cartolina
del secondo
Dopoguerra.
36
Poco più avanti, nel Palazzo Altoviti Sangalletti in via
de’ Tornabuoni, aprì nel 1822 quello che s’impose
come il più aristocratico dei locali fiorentini: il Caffè
Doney, frequentato da una clientela altolocata e prestigiosa. Molti clienti appartenevano al giro del vicino Gabinetto Vieusseux e del Circolo dell’Unione. Era spesso
affollato da inglesi, ma vi si potevano udire le lingue
più disparate. Gli splendidi saloni con soffitti a volta e
doppie colonne centrali, che gli valsero anche il nome
di Caffè delle Colonne, riecheggiavano lo stile impero.
Dai cinque sporti si godeva la vista su via de’ Legnaioli e
sul via vai delle carrozze. Da quelle che vi si fermavano
davanti scendevano ora una nobildonna o un importante membro del Governo, ora il re in persona o noti
letterati come Theophile Gautier e Gabriele D’Annunzio, che ne era follemente affascinato.
Ristrutturato e ammodernato più volte, simbolo di
una Firenze straordinariamente raffinata del tempo
che fu, Doney ha chiuso definitivamente i battenti nel
1986, lasciando in tutti quelli che lo ricordano un senso di amara nostalgia.
Altro storico locale del centro è il Caffè Rivoire, aperto
nel 1872 in via Vacchereccia, a due passi da piazza
della Signoria, sotto l’insegna di Fabbrica di cioccolato. L’esercizio iniziò la sua attività al piano terra del
nuovissimo edificio neogotico detto Palazzo Lavison,
edificato tra il 1858 e il 1870. La costruzione fu eretta
dove un tempo c’era l’antica chiesa di Santa Cecilia,
con annesso un piccolo cimitero e la celebre loggia
detta “Tetto dei Pisani”, costruita nel 1392.
Enrico Rivoire (pronuncia indifferentemente Rivuar,
alla francese o Rivoire all’italiana), torinese ma originario della Savoia, era fornitore ufficiale della Real Casa
nella Torino capitale d’Italia.
Quando questa fu spostata
a Firenze nel 1865, Enrico
Rivoire decise di seguire il re
con la famiglia. Cinque anni
dopo, la capitale e il re si trasferirono nella città eterna,
ma egli preferì rimanere a
Un’insolita
immagine
dei primi anni
Ottanta con
il famoso tramvai
in piazza della
Signoria. Sullo
sfondo, il Caffè
Rivoire.
Inserzione
sul primo elenco
telefonico
di Firenze
del 1884.
37
Firenze, aprendo la sua fabbrica di cioccolato. Oggi il Caffè Rivoire è una delle
realtà più importanti della ristorazione
fiorentina ed è gestito dalla famiglia Bardelli, già proprietaria del Caffè Giacosa,
che lo acquistò nel 1979.
Questa pubblicità
di fine Ottocento
testimonia
dell’originale
collocazione degli
ingressi di Rivoire
che, al tempo,
erano tutti su via
Vacchereccia.
In via de’ Tornabuoni ai numeri 9 e 11
rosso, non lontano dal Casoni di cui
torneremo a parlare, c’era appunto il
Caffè Giacosa, che la famiglia fondò nel
1815. Dall’esterno la facciata dell’esercizio mostrava quattro sporti; il primo era
un ingresso con vetrina a sinistra dove si
esponevano i dolciumi e la pralineria di
cioccolato. Sul frontale della colonna una scritta spiccava su una lastra marmorea: Dépot de vins et liqueurs
étrangers; mentre la vetrina seguente mostrava una vasta gamma di bottiglie di vario tipo. Sul marmo della
colonna centrale si leggeva Fabrique de chocolat et thé
anglais. Il terzo sporto era un altro ingresso con vetrina
dove si esponevano differenti specialità al cioccolato e
la grande selezione di tè. L’ultimo sporto consisteva in
una finestra sulla strada dalla quale chi sedeva all’interno poteva godersi il passaggio, incorniciato da eleganti
tendaggi damascati. Una saletta impreziosita da stucchi
dorati, fine tovagliato, candelieri in cristallo e lampadari
di Murano era il ritrovo di una clientela scelta e raffinata, come il principe Ruspoli, i conti Della Gherardesca,
i Torricelli e i Corsi. Nel 1874 la famiglia Giacosa cedette l’attività al cavalier Antonio Bono e a Carlo Baudino, che mantennero il marchio Giacosa. Vent’anni
più tardi, Baudino lasciò l’intera proprietà ad Antonio
Bono.
della Real Casa / Casa Giacosa, fondata nel 1815.
Questa scritta figurava ancora sull’intestazione del caffè nel 1927, pochi anni prima che l’esercizio si trasferisse in via de’ Tornabuoni al numero 83 rosso, nei
locali dell’ex Casoni.
Ma con lo scorrere degli anni tramontava inesorabilmente il periodo d’oro dei principi, dei nobili e degli
intellettuali iniziato più di sessant’anni prima e il Giacosa, come tanti altri caffè di prestigio in città, iniziò
una fase di inesorabile declino. La difficile congiuntura
storica che avrebbe portato l’Italia nuovamente in guerra determinò la crisi dell’esercizio, che resistette a fatica.
La gente era d’improvviso diventata povera, impaurita,
triste, con poche speranze e tante incertezze per il futuro. Il locale, nonostante gli squilli di ripresa che dal
dopoguerra avrebbero portato al boom economico degli
anni Sessanta, fu messo in vendita più volte, finché la
famiglia Bardelli lo acquistò nel 1974, riportandolo agli
antichi fasti. Da allora e per quasi un trentennio Giacosa è rimasto uno dei caffè più rinomati a Firenze, punto
d’incontro di clienti fiorentini e stranieri.
Nel luglio del 2001 il Caffè Giacosa, oggi situato in via
della Spada, è stato trasformato dallo stilista Roberto
Cavalli in una lussuosa boutique dove è comunque rimasta viva la vecchia tradizione di caffetteria e di paCopertina
del listino di Casa
Giacosa del 1900.
Confetteria, pasticceria, vini e liquori, restaurant, sala
da thé / Fabbrica di cioccolata / Fornitori brevettati
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Poster Vermouth Print.pdf
sticceria: al suo interno il bar, che come un istrione si
è trasformato in locale chic e alla moda, è meta del jet
set che gravita intorno allo stilista e grazie all’inventiva
di capaci barman ha sviluppato un eccellente “aperitif
time”, con una drink list che propone tanti twist del
famoso Negroni.
Locandina
pubblicitaria
Gancia
che promuove
la loro creazione:
il nuovo
Vermouth bianco
aveva uno stile
di Vermouth
dolce, morbido,
vinoso
e vanigliato,
destinato
a un pubblico
femminile
elegante.
L’ora del Vermouth
Sul finire dell’Ottocento, nei prestigiosi caffè fiorentini sopra descritti e in altri ancora che qui manca lo
spazio di menzionare, nel tardo pomeriggio scoccava
per i gentiluomini la cosiddetta “ora del vermutte”.
La parola in italiano sarebbe stata vermut, dal tedesco
wermut, cioè assenzio, ma dopo essere passata attraverso la Savoia s’impose con la grafia vermouth. I fiorentini, ereditando oltre alla capitale anche certi usi e
costumi dai torinesi, lo accolsero di buon grado e lo
ribattezzarono vermutte, secondo la loro parlata. L’aperitivo “nobile” era, indubbiamente, il Vermouth di
Torino, un vino piemontese fortificato da un’infusione alcolica di erbe officinali aromatiche raccolte sulle
pendici delle vicine Alpi e addolcito con caramello,
ingrediente che gli conferisce la rossa colorazione. Si serviva puro e ben
freddo in calicini eleganti e raffinati
di piccola foggia, quasi per impreziosire una bevanda di rara bontà.
Altro aperitivo che andava diffondendosi a partire dall’Italia settentrionale era il Bitter inteso come
liquore, quindi contenente zucchero in quantità tale da bilanciare il
pacchetto aromatico delle erbe, e
dalla bassa gradazione alcolica. E
ben presto prese piede la moda di
consumare una combinazione di
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Vermouth e Bitter ancora oggi molto apprezzata:
l’Americano. Con questo
termine si intendeva non
tanto una miscela ben
definita con ingredienti
fissi, piuttosto un concetto di fare e di bere un
drink alla maniera degli
americani. Molto interessante a tale proposito
quello che riporta una
monografia fondamentale sul Vermouth, a firma di Arnaldo Strucchi
e pubblicata nel 1907:
«[...] Vermouth al Bitter
o Americano – è detto
“americano” perché negli
Stati Uniti si ha l’usanza di bere il Vermouth mescolato con liquori
amari e Gin [...] formando una bibita chiamata
“cocktail”. Molte e differenti possono essere queste
preparazioni, a seconda del liquore Bitter che viene
impiegato, essendovi di questo liquore innumerevoli
qualità e con sapori diversi, con peraltro in tutte una
base di amaro».
Da questo si evince che nell’Italia settentrionale di allora, in particolare in Piemonte e in Lombardia, dove
vino Vermouth e liquore Bitter erano diffusamente
serviti quali aperitivo, ma ben presto anche a Firenze, qualche impavido oste o banconiere osò mescolare
tali ingredienti, più per trasformare il servizio del Vermouth che per creare una miscela italiana ancora ben
lontana dal chiamarsi cocktail.
Con il diffondersi del semplice Americano, però, maturavano i presupposti per eccezionali sviluppi.
C
M
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Storico Vermouth di Torino Cocchi 1891. Manifesto stampato in 200 esemplari numerati in occasione della partecipazione di Giulio Cocchi al Salone del Gusto-Terra Madre, Torino ottobre 2012.
Il calicino
da cordiale
in mano
a una dama
di bianco vestita,
in una recente
pubblicità del
Vermouth Cocchi
che rievoca
l’eleganza
di un secolo fa.
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