come i bambini costruiscono le conoscenze sull`evoluzione

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come i bambini costruiscono le conoscenze sull`evoluzione
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO BICOCCA
Facoltà di Scienze della Formazione
Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione
COME I BAMBINI COSTRUISCONO
LE CONOSCENZE SULL’EVOLUZIONE
A SCUOLA: UN’ESPERIENZA IN CLASSE
Relatore:
Prof. Dietelmo Pievani
Correlatore:
Dott. Marcello Sala
Tesi di laurea di:
Francesca Mazzocchi
Matricola
076568
A.A. 2008/2009
2
INDICE
1. INTRODUZIONE ..........................................................................................pag. 3
2. SFONDI CULTURALI. ....................................................................................... 6
2.1
Sfondo filosofico-pedagogico ..................................................................... 6
2.1.1
Costruttivismo: un quadro generale .................................................. 6
2.1.2
Piaget: animismo e finalismo ........................................................... 8
2.1.3
La formazione delle conoscenze secondo Piaget............................... 9
2.1.4
L’autopoiesi di Maturana e Varela come ipotesi pedagogica .......... 11
2.1.5
I “giochi linguistici” di Wittgenstein .............................................. 12
2.1.6
Vygotskij: conoscenza come interiorizzazione
dell’interazione sociale................................................................... 14
2.1.7
Il ruolo dell’adulto e la “zona di sviluppo prossimale”
di Vygotskij ................................................................................... 16
2.1.8
Bruner: il contesto culturale e il registro narrativo .......................... 17
2.1.9
Pontecorvo: la conversazione a scuola come luogo
di costruzione della conoscenza...................................................... 20
2.2
3
Sfondo epistemologico ............................................................................. 22
2.2.1
Perché l’evoluzione? ...................................................................... 22
2.2.2
Nodi epistemologici della teoria dell’evoluzione ............................ 23
LA RICERCA..................................................................................................... 31
3.1
Scelte metodologiche................................................................................ 31
3.1.1
Una ricerca qualitativa e “micropedagogica”................................. 31
3.1.2
Strategie di osservazione: l’ascolto................................................. 32
3.1.3
Il setting......................................................................................... 34
3.1.4
Trascrizione della conversazione e commenti................................. 36
3
3.2
Realizzazione e risultati........................................................................... 36
3.2.1
La scuola e la classe ....................................................................... 36
3.2.2
La conversazione ........................................................................... 37
3.2.3
I temi evoluzionistici emersi dalla conversazione ........................... 72
3.2.4
Le dinamiche di interazione con l’adulto in rapporto
alla costruzione di conoscenza da parte dei bambini ....................... 86
4
CONCLUSIONI ................................................................................................. 96
5
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................ 99
4
1. INTRODUZIONE
Con questa ricerca mi sono proposta di rispondere a domande relative al tipo di dinamica messa in atto dai bambini per costruire conoscenze su uno specifico argomento quale
quello dell’evoluzione dei viventi. Come sfondo di riferimento c’è l’idea costruttivista
che la conoscenza non rappresenta in modo fedele un ordine esterno indipendente
dall’osservatore ma è costruita come relazione tra soggetto e oggetto.
In campo pedagogico ho assunto come riferimento le idee espresse nei loro lavori da
studiosi quali Piaget, Vygotskij e Bruner e in recenti ricerche realizzate da Pontecorvo e
Sala, per indagare su come le interazioni fra i bambini stessi e fra i bambini e gli adulti
possano influire sui processi di costruzione di significato e di apprendimento in un contesto scolastico, processi in cui il contesto culturale e di comunicazione sociale influisce
sulle modalità e sui contenuti della conoscenza.
La prospettiva con la quale è stata realizzata questa ricerca è di tipo epistemologico genetico: si propone di studiare le caratteristiche dei processi di conoscenza scientifica non
all’interno della prassi della comunità scientifica, ma come si manifestano nel corso dello sviluppo mentale dei bambini che è anche inserimento nella cultura, avendo sempre
presente quindi le “abitudini” epistemologiche insite nel nostro sistema culturale.
La ricerca è stata realizzata analizzando una conversazione in una classe quinta elementare; lo scopo era comprendere come i bambini interagendo in un contesto di comunicazione riuscissero a costruire conoscenza attorno all’argomento proposto: l’evoluzione
degli esseri viventi. Questa scelta del focus della ricerca è dovuta all’influenza che la
teoria dell’evoluzione riveste tutt’ora sia in campo scientifico, sia nella vita quotidiana;
le idee evoluzioniste risultano però di difficile comprensione alla maggior parte delle
persone ed è quindi interessante proporle ai bambini, soggetti profondamente coinvolti
nei processi di acquisizione della cultura e di costruzione delle conoscenze.
Le ipotesi che hanno guidato questa ricerca per quanto concerne l’apprendimento dei
bambini e l’interazione con l’adulto sono:
-
il processo che conduce i bambini alla costruzione di nuove conoscenze è un
processo sociale, che si fonda su uno sfondo culturale di riferimento comune;
5
-
per comprendere questo processo è necessario partire da ciò che i bambini stessi
propongono e domandano, in un contesto di interazione;
-
è possibile che i bambini apprendano un argomento anche complesso non rimanendo passivi davanti ad esso, ma al contrario essendo stimolati al confronto e
alla cooperazione.
Nel contesto della ricerca sono sorte domande a cui ho cercato risposta:
-
Che funzioni svolge l’adulto nel ruolo di conduttore di un gruppo classe durante
l’esplorazione di un determinato argomento? Che strumenti utilizza e come si rivelano utili tali strumenti?
-
Qual è la strategia migliore per comprendere i bambini e farsi comprendere?
-
Quali sono le strategie efficaci per stimolare e sostenere il gruppo?
-
Attraverso quali modalità di interazione e organizzazione i bambini riescono a
dare risposta alle domande?
-
Come influisce il contesto culturale sociale sul processo conoscitivo?
Per quanto concerne più strettamente l’apprendimento della teoria dell’evoluzione, esistono ricerche (Toneatti, 2008) che si interrogano sull’origine di misconcezioni ampiamente diffuse, confutano l’ipotesi che esistano fasi di sviluppo delle idee
sull’evoluzione (creazionismo – lamarckismo - darwinismo) legate all’età e sostengono
invece che determinanti siano le esperienze e i contesti di apprendimento, ricavandone
anche progetti di sperimentazione scolastica specifica. A partire da queste acquisizioni,
le domande a cui mi interessa rispondere sono diverse e presuppongono una ricerca di
tipo qualitativo, che abbia come focus il gruppo in situazione di co-costruzione di conoscenza:
-
È possibile affrontare un tema complesso come quello evoluzionistico con dei
bambini?
-
Quali dei molti nodi di rilevanza epistemologica della teoria dell’evoluzione verranno affrontati dai bambini? Quali saranno considerati i più importanti? Verso
quali i bambini si mostreranno più curiosi?
-
Quali conoscenze i bambini possiedono già sull’argomento? quali concezioni
esprimono?
6
-
Partendo dalle loro idee, è possibile rinegoziare i significati giungendo a delle
teorie più adeguate scientificamente?
Le strategie di interpretazione della conversazione sono fondamentali per rispondere a
queste domande e una “pedagogia dell’ascolto” appare la modalità più adatta a cogliere
tutta la ricchezza di ciò che i bambini hanno costruito in questa interazione.
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2. SFONDI CULTURALI
Il presente lavoro poggia sullo sfondo di ricerche e teorie formulate da illustri pedagogisti, psicologi, biologi e ricercatori e su un confronto con i nodi epistemologici fondamentali della teoria dell’evoluzione.
In questo capitolo non intendo esporre, riassumendole, queste teorie, ma riportarne quegli elementi che mi sono serviti come strumenti per la presente ricerca, per interpretare e
dare un significato alle mie osservazioni dirette.
2.1 SFONDO FILOSOFICO-PEDAGOGICO
2.1.1 COSTRUTTIVISMO: UN QUADRO GENERALE
“La più singolare caratteristica umana è l'attitudine ad apprendere. L'apprendere è cosi profondamente insito nell'uomo, da essere quasi involontario, ed alcuni studiosi del
comportamento umano hanno perfino sostenuto che la peculiarità della nostra specie è
una particolare attitudine ad apprendere […]” (Bruner 1966, pag.177)
La maggior parte degli autori a cui farò riferimento possono essere considerati costruttivisti.
Questo quadro teorico nasce gradualmente nel corso degli anni ’80 e scaturisce dal crollo dell’idea che la conoscenza possa essere oggettivamente appresa. Nasce soprattutto
come esigenza di abbandonare un cognitivismo H.I.P. (Human Information Processing)
che non ha mai del tutto rinunciato ad alcune componenti meccanicistiche proprie del
comportamentismo.
Sono tre i concetti principali che caratterizzano l'attuale costruttivismo: il primo è che la
conoscenza è prodotto di una costruzione attiva del soggetto; il secondo è che ha carattere “situato”, ancorato nel contesto concreto; e infine il terzo è il fatto che si svolge attraverso particolari forme di collaborazione e negoziazione sociale.
In primo piano viene posta la “costruzione del significato” sottolineando il carattere attivo, polisemico, non predeterminabile di tale attività.
Il costruttivismo recupera alcuni concetti, che risalgono agli inizi del secolo ed hanno
seguito la progressiva crisi del positivismo e del neopositivismo. La conoscenza come
costruzione attiva del soggetto è un concetto presente in gran parte della ricerca psico-
8
pedagogica di questo secolo: Piaget, Vygotskij e Bruner, in questo senso possono essere
considerati costruttivisti.
Il costruttivismo pone il soggetto che apprende al centro del processo formativo, in alternativa ad un approccio educativo basato sulla centralità dell'insegnante, unico e indiscusso detentore di un sapere universale, astratto e indipendente dal contesto di riferimento.
Perciò, la conoscenza è intesa come il prodotto di una costruzione attiva da parte del
soggetto ed è strettamente collegata alla situazione concreta in cui avviene l'apprendimento; essa nasce dalla collaborazione sociale e dalla comunicazione interpersonale.
Secondo Bruner (Bruner, 1990), infatti, la conoscenza è un "fare il significato", è un'operazione d'interpretazione creativa che lo stesso soggetto attiva tutte le volte che vuole
comprendere la realtà che lo circonda ed è per questo che non esistono conoscenze "giuste" e conoscenze "sbagliate", come non esistono stili e ritmi di apprendimento ottimali.
Uno degli scopi fondamentali del costruttivismo è accettare e promuovere il confronto
derivante da più prospettive individuali.
L'apprendimento non è visto solo come un'attività personale, ma come il risultato di
una dimensione collettiva d'interpretazione della realtà. La nuova conoscenza si costruisce non solo in base a ciò che è stato acquisito in passate esperienze ma anche e soprattutto attraverso la condivisione e negoziazione di significati espressi da una "comunità
di interpreti".
Nel costruttivismo si assume che la formazione sia un'esperienza situata in uno specifico contesto: il soggetto, spinto dai propri interessi, costruisce attivamente una propria
concezione della realtà attraverso un processo di integrazione di molteplici prospettive
offerte.
Oggi il costruttivismo è parte essenziale della cultura filosofica contemporanea,
persuasiva e stimolante per molti, discutibile per altri:
• come teoria della conoscenza risponde a domande del tipo: cosa significa co-
noscere? come avviene il processo della conoscenza? quale rapporto c'è fra conoscenza e realtà?
• come teoria dell'apprendimento diffusa presso psicologi e pedagogisti rispon-
de a domande del tipo: come funziona la nostra mente? come apprendiamo?
9
• infine come metodologia didattica, per ora ancora in via di definizione, cerca di
rispondere a domande del tipo: quali sono le caratteristiche di un insegnamento efficace
nel promuovere apprendimento? Si ritiene necessario mettere in primo piano i soggetti
per “sapere quello che sanno”, utilizzando il contesto della comunicazione didattica come situazione “ecologica” per lo studio dello sviluppo.
2.1.2 PIAGET: ANIMISMO, FINALISMO
Grazie alle sue ricerche, Piaget individua un elemento presente in ogni bambino:
l’animismo diffuso; tale termine indica la tendenza a considerare i corpi come vivi e dotati di intenzioni. L’incapacità del bambino di motivare i suoi giudizi lo porta a usare
tale tendenza come un vero e proprio schema di spiegazione.
Il pensiero del bambino, secondo Piaget, parte da un’incapacità nel distinguere tra corpi
viventi e corpi inerti, o meglio tra chi crea moto e chi lo subisce. Egli riporta un esempio chiarificatore:
“talvolta […] un fanciullo ha detto che le piante ‘crescono’, ma questo era per lui un
modo di concepire il fatto che sono animate da un movimento proprio: il moto della
crescita era messo sullo stesso piano del moto delle nuvole o degli astri.” (Piaget 1926,
pag. 183).
Per i bambini infatti quasi tutti i corpi nascono e crescono: il loro pensiero parte
dall’idea di una vita universale. Piaget fa notare come la distinzione fra azioni intenzionali e movimenti meccanici non sia innata e anzi presuppone una riflessione molto evoluta:
“Nessuna esperienza positiva può infatti costringere uno spirito ad ammettere che le
cose non sono né per noi né contro di noi, e che il caso e l’inerzia regnano nella natura.” (Piaget 1926, pag.185).
Quando un bambino cercherà di spiegarsi il comportamento imprevisto di un oggetto,
gli attribuirà intenzionalità. L’animismo gli serve per spiegarsi l’obbedienza delle cose
all’uomo che egli crede onnipotente.
All’interno dell’innatismo diffuso, Piaget colloca il “finalismo infantile”, un atteggiamento che viene usato dai bambini per spiegare quasi tutto: la regolarità della natura, la
fisica…
“Un tale orientamento mostra abbastanza chiaramente quanto l’universo infantile sia
permeato, nelle grandi linee come nei minuti particolari, di intenzionalità.” (Piaget
10
1926, pag. 186).
Ancora scrive Piaget,
“La causa con cui il bambino cerca di spiegare i fenomeni, è un’intenzione creatrice e
questo spiega anche l’universale intenzionalità attribuita dal fanciullo alla natura.” (ibidem)
Tutti questi atteggiamenti (in particolare l’animismo) sono spiegati da Piaget anche in
termini linguistici: se il bambino non riesce a esprimere con sufficiente precisione il suo
pensiero, lo forzerà:
“Questo continuo disaccordo fra pensiero parlato e pensiero implicito fa sì che un fanciullo appaia all’interrogatorio ora più ora meno animista di quel che realmente è.”
(Piaget 1926, pag. 195)
2.1.3 LA FORMAZIONE DELLE CONOSCENZE SECONDO PIAGET
Piaget si propone di rispondere a diversi interrogativi sulla formazione dell’intelligenza
nel bambino, sulla sua eventuale presenza fin dalla nascita, sulla possibilità che sia il
frutto dell’accumularsi di molteplici esperienze o che sia il risultato dell’interazione
dell’organismo con l’ambiente. Scegliendo quest’ultima ipotesi, Piaget spiega
l’intelligenza come mezzo efficace di cui l’uomo dispone per agire sulla realtà circostante, ampliando così la portata del suo adattamento biologico, attraverso i processi di
assimilazione e di accomodamento (Piaget, 1937).
Lo sviluppo dell’intelligenza è quindi caratterizzato da un equilibrio dinamico fluttuante
(omeostasi): quando una nuova informazione non risulta immediatamente interpretabile
in base agli schemi esistenti il soggetto entra in uno stato di disequilibrio e cerca di trovare un nuovo equilibrio modificando i suoi schemi cognitivi incorporandovi le nuove
conoscenze acquisite. Questo equilibrio si realizza fra un processo di assimilazione dei
dati dell’esperienza a schemi mentali (inizialmente di ordine percettivo motorio e successivamente predicativi) già presenti nell’individuo, e un processo di accomodamento
cioè di modificazione degli schemi in funzione della realtà assimilata, quando
l’esperienza è eccessivamente nuova e non si può adattare ad essi. Queste due funzioni
complementari, garantendo un equilibrio tra continuità e cambiamento, guidano gli
scambi tra organismo e ambiente e determinano l’adattamento e l’accrescersi del patrimonio dell’individuo, che rende possibili successivi e sempre più avanzati adattamenti.
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L’adattamento come accordo del pensiero con le cose, costituisce la “prima invariante
funzionale” a cui si affianca l’organizzazione come accordo del pensiero con se stesso,
costituendo la “seconda invariante funzionale”. Infatti qualsiasi comportamento intelligente presuppone un’organizzazione che rappresenta la tendenza del funzionamento cognitivo a costruire delle strutture/sistemi che essendo totalità organiche presentano leggi
e proprietà peculiari. In un sistema il tutto non è soltanto la somma delle parti, ma
l’agire di ciascun elemento è strettamente correlato agli altri e ciascuna trasformazione
che si realizza interessa il sistema organizzato nel suo insieme. Lo sviluppo cognitivo
appare come un processo orientato al raggiungimento di stati di equilibrio sempre maggiori, attestando un elevato grado di coerenza nello sviluppo raggiunto da un bambino
in un preciso momento relativamente a differenti competenze e abilità. Il soggetto non
può quindi compiere consistenti progressi senza che ciò abbia comportato una modificazione di tutta la struttura. Essendo una invariante funzionale, l’organizzazione è attestata a tutte le età, seppur muti progressivamente le sue forme di organizzazione.
Un esempio chiaro dell'azione di questi processi si trova nello sviluppo del linguaggio
verbale dove vi è un vivace alternarsi di processi di assimilazione e di accomodamento.
È questa interazione fra i due processi che permette il progressivo adattamento del linguaggio personale al linguaggio socializzato, e quindi alla realtà che quest'ultimo serve
a descrivere.
I concetti di assimilazione e accomodamento non sembrano essere sufficienti a spiegare
quello che succede nella comprensione e nell’uso delle rappresentazioni culturali relative all’evoluzione.
Piaget è certamente uno dei più grandi pedagogisti e un riferimento alle sue teorie è imprescindibile in qualsiasi ricerca di sfondo pedagogico. Piaget descrive lo sviluppo del
pensiero del bambino a seconda delle età, ma non si occupa degli aspetti culturali e sociali che possono influenzare il comportamento e l’apprendimento dei bambini. Per
questo farò riferimento ad altre teorie.
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2.1.4 L’AUTOPOIESI DI MATURANA E VARELA COME IPOTESI PEDAGOGICA
Humberto Maturana e Francisco Varela, biologi cileni, elaborano il concetto di autopoiesi (Maturana - Varela, 1980), termine coniato unendo le parole greche autos (se
stesso) e poiesis (creazione, produzione). La domanda di partenza per questi due autori
è la seguente: “Che cosa è comune a tutti i sistemi viventi, per cui noi li qualifichiamo
come viventi?” o più semplicemente “che cos’è un vivente?”. La risposta è la constatazione che gli organismi viventi differiscono dalle macchine in quanto producono se
stessi.
Un organismo vivente cercherà di rigenerarsi mantenendo inalterata la propria organizzazione, ovvero le relazioni che connettono le diverse componenti del sistema. Un vivente si identifica con la sua attività di auto-produzione e questa stessa è la sua specificità: Maturana e Varela la chiamano “unità autopoietica”. Fondamentale è che i sistemi
autopoietici subordinano tutti i cambiamenti al mantenimento della propria organizzazione. Come scrive Marcello Sala:
“Un sistema autopoietico, diciamo un passero, non può non mantenere la propria organizzazione, perché è ciò per cui è un passero […]. Per mantenere la propria organizzazione, per restare passero, il passero, di fronte a delle perturbazioni che possono
giungere dall’esterno, può andare incontro a dei cambiamenti, può cambiare la propria
struttura, vale a dire ciò che in questo momento materialmente e individualmente costituisce la sua organizzazione ‘da passero’ […], in altre parole può apprendere.” (Sala,
2007, p.26).
Un altro termine utilizzato da Maturana e Varela è “accoppiamento strutturale”: indica
il processo continuo di reciproche perturbazioni tra organismo e ambiente. Questo si
realizza nel caso in cui le influenze reciproche innescano ristrutturazioni che non distruggono l’organizzazione del sistema. In queste reciproche interazioni, la struttura
dell’ambiente non determina i cambiamenti nell’essere vivente, ma è l’essere vivente a
determinare la forma, la direzione e la modalità del suo stesso cambiamento, imprescindibilmente dalla propria struttura.
“Dunque l’ambiente innesca solamente i cambiamenti strutturali. Il senso del cambiamento è quello del mantenimento dell’identità dell’essere vivente” (Sala 2007, p. 27).
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Poiché la distinzione tra organismo e ambiente dipende dal dominio cognitivo
dell’osservatore, questo discorso può valere per ogni organismo e quindi
l’accoppiamento strutturale è la base per una co-evoluzione tra organismi.
Marcello Sala, sulla base di questa teoria, suggerisce tre ipotesi pedagogiche:
“La prima nasce dal considerare che l’autoorganizzazione è generatrice di senso; la
perturbazione in sé non porta alcun significato: innesca ma non determina il cambiamento strutturale; ciò equivale a dire, in contesto educativo, che il contenuto
dell’apprendimento non sta nell’insegnamento, ma nell’esito del processo di modificazione dell’identità cognitiva del soggetto […], che esso è capace di mettere in moto, e la
forma di questo processo dipende dalla storia del soggetto.
La seconda idea è che questo senso, ovvero la forma dell’apprendimento, appare nella
descrizione di un osservatore niente affatto passivo; in campo educativo questo osservatore è un insegnante che modifica ‘strategicamente’ il proprio intervento in base alle
informazioni che ricava dall’osservazione ma, se l’insegnante modifica il proprio comportamento significa che non è solo osservatore: è contemporaneamente attore, ovvero
interagisce con i suoi allievi. E allora ecco la terza idea: l’apprendimento dipende dal
mantenimento dell’accoppiamento strutturale tra insegnante e allievi, la possibilità cioè
di essere reciprocamente fonte di perturbazioni che innescano cambiamenti.” (Sala,
2007, p.32)
2.1.5 I “GIOCHI LINGUISTICI” DI WITTEGENSTEIN
Quella dei “giochi linguistici” è una teoria proposta da Ludwig Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche (Wittgenstein, 1953), e questo modo di definire i contesti comunicativi socialmente condivisi mi sembra il più aderente al ruolo che svolgono nelle conversazioni oggetto di questa ricerca.
La teoria dei giochi linguistici vuole sostituire a una visione del linguaggio, "specchio
del mondo", "immagine della realtà", una in cui il carattere denotativo del linguaggio è
solo una delle tante sue funzioni, dei suoi impieghi. Wittgenstein rivede anche la sua
concezione di significato che così definisce:
“il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio” (Wittgenstein, 1953,
par. 43)
Ma l'uso non è una regola che si possa imporre al linguaggio, è la consuetudine delle
sue tecniche. Cade così anche l'aspirazione a ricercare un linguaggio perfetto, d'altra
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parte dove c'è un senso c'è anche ordine perfetto, anche nella più vaga delle proposizioni.
Non ha quindi senso studiare i fenomeni linguistici in modo generale e generalizzante
prescindendo dagli infiniti usi possibili delle parole e considerando solo i nomi, come
aveva fatto Agostino "pensando che il resto si aggiusterà in qualche modo".
Al principio delle Ricerche filosofiche, Wittgenstein asserisce che quasi mai le parole
funzionano come nomi, ovvero come etichette che incolliamo in modo rigido ed univoco sugli oggetti. Se le cose stessero sempre in questi termini, i problemi della definizione e della comunicazione espressiva risulterebbero molto più difficili: ma le cose non
stanno così. Sia nel linguaggio scientifico sia (e in misura ancora maggiore) in quello
ordinario, le parole si configurano piuttosto come mobili costrutti, come fluidi strumenti
il cui significato muta in rapporto alle funzioni specifiche cui sono destinati. Ed è proprio la funzione, la funzione pratica del linguaggio, che deve essere concepita in maniera totalmente innovativa: una maniera non più univoca, ma pluralistica. In effetti, come
sottolinea con particolare energia Wittgenstein, lo scopo degli enunciati linguistici non è
solo quello di raffigurare il mondo o di descriverlo:
"Si pensa che l'apprendere il linguaggio consista nel denominare oggetti. E cioè: uomini, forme, colori, dolori, stati d'animo, numeri, ecc. Come s'è detto, il denominare è simile all'attaccare a una cosa un cartellino con un nome. Si può dire che questa è una
preparazione all'uso della parola. Ma a che cosa ci prepara? " (Wittgenstein, 1953,
par. 26)
La definizione di “giochi linguistici” sottolinea che il linguaggio è un'attività: creare
nuovi linguaggi equivale a creare nuove "forme di vita":
“la parola ‘gioco linguistico’ è destinata a mettere in evidenza il fatto che parlare un
linguaggio fa parte di un’attività, o di una forma di vita” (Wittgenstein, 1953, par. 23)
Con tale denominazione egli intendeva probabilmente evidenziare, da un lato, il carattere sociale e artificiale (nel senso, non negativo, di non-naturale, di elaborato culturalmente dall'uomo) dell'agire linguistico, e dall'altro lato il fatto che questo agire, nonostante la sua apparente gratuità e la sua relativa imprevedibilità, ha determinati fini ad
esso immanenti, e soprattutto rispetta (come tutti i giochi) determinate regole. Ed è proprio laddove impiega la nuova definizione del fatto linguistico come gioco che Wittgenstein torna a sottolineare in modo molto efficace il fondamentale principio della pluralità delle funzioni linguistiche e degli asserti proposizionali. Wittgenstein stesso indica
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alcuni esempi di giochi linguistici: dare ordini, eseguirli, descrivere un oggetto, riportare un evento, riflettere su un evento, recitare cantare, fare uno scherzo o raccontarlo,
tradurre da una lingua all'altra, chiedere, ringraziare, augurare, pregare... Anche la matematica rientra nei giochi linguistici perché essa implica l'agire secondo determinate
regole. La varietà dei giochi linguistici è tale che essi non possono essere ricondotti a un
concetto comune: essi hanno fra loro somiglianze e relazioni diverse
"con le nostre proposizioni noi facciamo le cose più diverse" (Wittgenstein 1953, par.
27).
Un celebre esempio addotto nelle Ricerche filosofiche (par. 27) riguarda il linguaggio
esclamativo. Wittgenstein menziona le seguenti esclamazioni: "acqua! Via! Ahi! Aiuto!
Bello! No!". È evidente che queste locuzioni adempiono a compiti espressivi che nulla
hanno a che fare con la funzione denominativa: le prime di esse esprimono un'invocazione, le seconde un ordine (o una "preghiera"), la terza un lamento, e così via. Il che
dimostra, appunto, per riprendere un'espressione di Wittgenstein poc'anzi citata, che col
linguaggio noi letteralmente "facciamo le cose più diverse".
2.1.6
VYGOTKSIJ:
CONOSCENZA
COME
INTERIORIZZAZIONE
DELL’INTERAZIONE SOCIALE
Il pensiero di Lev Semenovich Vygotskij si sviluppa nei primi decenni del Novecento,
ma viene scoperto dalla comunità scientifica occidentale con trent’anni di ritardo. Nonostante ciò la sua attualità non smette di stupire. Vygotskij parte dagli assunti della filosofia marxista per articolare, parallelamente ad essa, una teoria storico-sociale dello
sviluppo ontogenetico dell’uomo nel contesto culturale moderno.
Nella teoria vygotskijana, pensiero e linguaggio non si sviluppano parallelamente, né
dal punto di vista ontogenetico, né da quello filogenetico. Questi due livelli evolutivi
però si intersecano più volte nel loro cammino, e così facendo permettono all’organismo
in evoluzione (al bambino) di integrare processi complessi all’interno di un sé in costruzione.
Ogni funzione, nello sviluppo culturale, appare due volte, prima a livello interpersonale
(nel linguaggio) e poi a livello intrapersonale (nel pensiero). È questa funzione di mediazione tra mondo esterno e pensiero che l’autore ritiene specifico compito del linguaggio egocentrico prima, e del linguaggio in generale poi. Egli prospetta tre stadi del-
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lo sviluppo linguistico: linguaggio esteriore, linguaggio egocentrico e linguaggio interiore. Il primo momento consiste in un apprendimento di tipo imitativo; nel secondo il
bambino utilizza la sua capacità linguistica per interiorizzare gradualmente il linguaggio, fino a farlo diventare mentale e quindi autonomo. A questo punto il linguaggio diventa uno strumento del pensiero.
Secondo Vygotskij lo sviluppo dell’essere umano è un processo sociale, cioè avviene
grazie e attraverso lo scambio relazionale del bambino con le altre persone interagenti
nella sua quotidianità. In questo scambio il bambino partecipa come soggetto attivo, dotato di intenzioni e di iniziative che si manifestano nella sua esperienza concreta. Questo
processo è eminentemente culturale, cioè avviene in un contesto storico ben definito, a
livello sociale, relazionale e di condivisione di significato. In questo “cammino” il bambino fa uso degli strumenti, o artefatti, che si sono sviluppati durante l’evoluzione filogenetica della società a cui appartiene. Questi strumenti possono essere tecnici oppure
psicologici (simbolici). Di questi ultimi fa parte il linguaggio. La mente, il cui sviluppo
consiste nel padroneggiare le strutture simboliche, diviene quindi uno strumento di mediazione tra il mondo esterno e quello interno, in continua comunicazione. Questa mediazione permette al soggetto di attribuire un significato all’esperienza e di contribuire
con la sua acquisizione al proprio sviluppo.
Vygotskij colloca quindi il linguaggio al centro della “linea sociale di sviluppo” (storica), e fa interagire questa con la “linea naturale di sviluppo” (genetica) tramite la “mediazione semiotica”. Quest’ultima viene articolata dall’individuo tramite l’uso di determinati strumenti, che l’autore chiama “artefatti”, per evidenziare che si sono formati
storicamente attraverso le modifiche che l’uomo ha apportato all’ambiente nella sua evoluzione, e si sono accumulati nel bagaglio culturale di ogni specifico gruppo sociale.
La cultura è il medium speciespecifico dell’essere umano, e il linguaggio è il suo strumento prediletto.
Anche i meccanismi centrali di regolazione si sviluppano dall’esterno all’interno: fondamentale è perciò ancora la relazione con adulti e pari. Il bambino diventa autonomo
prendendosi progressivamente carico delle varie funzioni meta-cognitive necessarie al
proprio apprendimento. L’origine di queste funzioni si situa nelle interazioni sociali:
all’inizio un esperto o un pari stimola l’attività sociale e progressivamente, interagendo,
si arriva ad una condivisione delle funzioni che permettono di risolvere i problemi.
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Vygotskij tratta anche la specificità della costruzione delle conoscenze riguardo a problemi scientifici. In merito egli osserva che i bambini sono più capaci di completare frasi causali e avversative quando sono in gioco concetti scientifici rispetto a quando si
tratta di nozioni della vita quotidiana. I concetti scientifici possono svilupparsi nei bambini sulla base di generalizzazioni elementari. Lo studioso coglie il rapporto che lega le
conoscenze spontanee ai sistemi di conoscenze che sono trasmessi dalla scuola.
L’interdipendenza reciproca tra queste due, segnala la necessità che
“mentre questi ultimi si devono stanziare della ricca esperienza personale che caratterizza i primi, questi per converso hanno bisogno di arrivare a una presa di coscienza
del sistema di relazioni logiche in cui possono essere inseriti” (Pontecorvo, 1991,
pag.174)
2.1.7 IL RUOLO DELL’ADULTO E LA “ZONA DI SVILUPPO PROSSIMALE”
Per Lev Vygotskij le funzioni psicologiche che richiedono controllo consapevole devono prima essere usate e praticate inconsciamente nello scambio sociale, per poi essere
“interiorizzate”. In ogni momento dello sviluppo di un soggetto vi sono funzioni psicologiche in maturazione che non operano ancora da sole, ma possono farlo se sostenute e
attivate da forme di interazione e di regolazione offerte da un altra persona.
L’acquisizione di una determinata funzione o capacità non avviene secondo un modello
“tutto-o-niente”. Tra l’incapacità di fare qualcosa e la capacità di eseguirla in maniera
autonoma vi è un passaggio intermedio, un’area di negoziazione sociale dei significati
che l’autore chiama “zona di sviluppo prossimale” ovvero
“la distanza tra il livello effettivo di sviluppo, così com’è determinato da problemsolving autonomo, e il livello di sviluppo potenziale, così com’è determinato attraverso
il problem-solving sotto la guida di un adulto o in collaborazione con i propri pari più
capaci” (Vygotskij, 1934).
In questa posizione il bambino è in grado di risolvere un problema con l’aiuto/sostegno
di un altro individuo socialmente più competente (un adulto o un bambino più grande).
La zona di sviluppo prossimale definisce quelle funzioni che non sono ancora mature
nel bambino ma che sono alla portata del suo processo di maturazione. Il livello effettivo di sviluppo invece definisce le funzioni che sono già maturate (competenze individuali).
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Lo sviluppo della conoscenza, secondo Vygotskij, avviene in modo disomogeneo: si
sviluppano di più certi settori e meno altri; tale sviluppo permette di comprendere meglio i vari tipi di intelligenza e le varie propensioni stilistiche. Nella pratica educativa, il
soggetto educante dovrebbe spostare la propria attenzione da quello che il bambino è in
grado di fare da solo a quello che potrebbe fare se aiutato dall’insegnante o dai compagni. Mirare la proposta didattica nella zona di sviluppo prossimale e organizzare in modo efficace gli aiuti e la riflessione meta-cognitiva, diventa uno degli aspetti cruciali
dell’apprendimento. È dunque efficace quel processo di insegnamento-apprendimento
che precede e trascina lo sviluppo, ma allo stesso tempo è possibile insegnare al bambino solo ciò che egli è già capace di apprendere.
Clotilde Pontecorvo ha documentato questa dinamica ad esempio nel caso della argomentazione, che nasce come strategia efficace nella risoluzione di conflitti tra soggetti e
diventa, per il soggetto, il nucleo di sviluppo del ragionamento.
2.1.8 BRUNER: IL REGISTRO NARRATIVO E IL CONTESTO CULTURALE
Bruner nei suoi scritti affronta due temi chiave per la presente ricerca e in particolare
per l’analisi della conversazione: le caratteristiche del registro narrativo e l’importanza
dello sfondo culturale di riferimento.
Lo studioso sostiene che una delle forme di discorso più diffuse e più potenti nella comunicazione sia appunto quella della narrazione. Tale struttura è insita nell’interazione
sociale ed è anche ciò che spinge il bambino ad assimilare le forme grammaticali e che
di conseguenza ne determina la priorità. Bruner identifica quattro componenti grammaticali fondamentali alla base dell’efficacia della narrazione:
“richiede in primo luogo un mezzo per mettere in rilievo l’azione umana […]. In secondo luogo, richiede che sia stabilito e mantenuto un ordine sequenziale […]. In terzo
luogo, la narrazione richiede anche sensibilità verso ciò che è canonico, e verso ciò che
viola i canoni, nell’interazione umana. Infine, richiede qualcosa di simile alla prospettiva del narratore […].” (Bruner, 1992, pagg. 82-82).
Lo studioso approfondisce il primo punto spiegando come il principale interesse linguistico di un bambino si focalizza sull’azione umana e in particolare sull’interazione umana. Il “rendere lineare” è insito in tutte le strutture grammaticali: i bambini iniziano presto a padroneggiare le forme grammaticali e lessicali proprio per collegare le sequenze
19
che articolano. Il terzo requisito consiste nell’attitudine che i bambini mostrano nel concentrare l’attenzione su ciò che è inusuale, tralasciando l’usuale: sono molto attenti
all’insolito. Egli cita anche degli studi nei quali è stato dimostrato che le preposizioni
logiche vengono comprese più facilmente dal bambino se sono inserite in una storia:
“La mia ipotesi, […] è che oltre a possedere una predisposizione ‘innata’ e primitiva
per l’organizzazione narrativa, che ci permette di comprenderla e di usarla velocemente e facilmente, la cultura non tarda a fornirci nuove capacità di narrazione […]”
(Bruner, 1990, pag. 84).
C’è un altro elemento che negli scritti di Bruner ha un ruolo fondamentale, la cultura:
“[…] la mente non potrebbe esistere senza la cultura” (Bruner, 1996, pag. 17)
Infatti, spiega, l’evoluzione della nostra mente è legata allo sviluppo di un modo di vivere in cui la “realtà” è rappresentata tramite un sistema simbolico condiviso con la comunità culturale. La cultura modella la mente dei singoli individui, prosegue Bruner, la
sua espressione è infatti legata all’attribuzione di significati alle cose a seconda delle
situazioni: tali significati sono nella mente e hanno origine e rilevanza nella cultura in
cui sono stati creati. Un individuo non può operare da solo nella ricerca dei significati
perché occorre sempre l’ausilio dei sistemi simbolici della propria cultura:
“Da questo punto di vista l’apprendimento e il pensiero sono sempre situati in un contesto culturale e dipendono sempre dall’utilizzazione di risorse culturali.” (Ibidem)
Il significato non è mai dato; è sempre un’operazione interpretativa, ricca di ambiguità,
sensibile al contesto, un “fare significato”. Bruner fa un esempio molto significativo a
riguardo:
“Nell’interpretazione di un testo, il significato di una parte dipende da un’ipotesi sui
significati del tutto, il cui significato a sua volta scaturisce dalla valutazione del significato delle parti che lo compongono.” (Bruner, 1996, pag. 20)
La realtà esterna può essere conosciuta solo attraverso l’intersoggettività, che è la comprensione della mente altrui, dei sistemi simbolici a cui quest’ultima fa riferimento. Non
bisogna inoltre dimenticare il ruolo che le emozioni e i sentimenti rivestono nel processo del fare significato e nell’interpretazione della realtà.
Cosa comporta la presenza di uno sfondo culturale durante un processo educativo?
“[…] l’educazione è una delle principali espressioni dello stile di vita di una cultura, e
non semplicemente una preparazione a esso.” (Bruner 1996, pag. 27)
20
Secondo Bruner, ci sono due versanti da tenere in considerazione: su quello “macro”
bisogna guardare alla cultura come sistema di valori, di diritti, di scambi, di obblighi, di
opportunità e di potere mentre su quello “micro” bisogna tenere in considerazione come
le richieste di un sistema culturale possono influenzare coloro che operano al suo interno e quindi concentrarsi sul modo in cui gli individui costruiscono i significati che permettono loro di adattarsi al sistema, con costi personali e aspettative.
Bruner indica quattro principi che riguardano il modo in cui la cultura entra a far parte
della realtà quotidiana.
Il primo principio, è quello della prospettiva. Le interpretazioni del significato riflettono le storie degli individui e le forme canoniche in cui la cultura ricostruisce la realtà:
niente è quindi libero da influenze culturali ma allo stesso tempo gli individui non sono
semplicemente specchi della loro cultura.
“La vita in una cultura, dunque, è un’interazione fra le versioni del mondo che le persone si vanno formando sotto l’influsso del clima istituzionale dominante e le versioni
che sono il prodotto delle loro storie individuali.” (Bruner 1996, pag. 28).
Il secondo principio è quello delle limitazioni. Lo studioso ne indica due tipi: una è relativa alla natura stessa del funzionamento della mente umana e l’altra è dovuta ai sistemi simbolici accessibili alla mente umana e soprattutto al linguaggio e alle nozioni
proprie di una specifica cultura. La prima riguarda il modo in cui si è sviluppata la nostra capacità di conoscere, pensare, sentire e percepire:
“Per quanti sforzi di immaginazione facciamo, non possiamo costruirci un concetto di
sé che non individui una certa influenza causale degli stati precedenti su quelli successivi […], ci dobbiamo concepire come dei ‘soggetti’, spinti da intenzioni che hanno origine da noi stessi.” (Bruner 1996, pag. 29).
La seconda limitazione è relativa ai sistemi simbolici, al linguaggio e ai sistemi di notazioni specifici di una determinata cultura:
“il pensiero prende forma dal linguaggio in cui viene formulato o espresso.” (Bruner
1996, pag. 32)
Il principio del costruttivismo è espresso magnificamente dalla frase
“la realtà si crea, non si trova” (Bruner 1996, pag. 33);
ciò significa che la costruzione della realtà è il prodotto del fare significato.
L’ultimo principio è quello dell’interazione:
21
“È soprattutto attraverso l’interazione con gli altri che i bambini scoprono cos’è la cultura e come concepire il mondo.” (Ibidem).
L’essere umano è l’unica specie che insegna deliberatamente ai suoi simili. Fondamentale è anche la predisposizione all’intersoggettività: questa è possibile grazie al linguaggio e grazie alla nostra capacità di capire il significato del contesto in cui vengono pronunciate le parole e vengono compiute le azioni.
2.1.9 PONTECORVO: LA CONVERSAZIONE A SCUOLA COME LUOGO DI
COSTRUZIONE DELLA CONOSCENZA
Il riferimento alle ricerche di Clotilde Pontecorvo e del suo gruppo è dovuto al suo interesse a come si costruisce la conoscenza nel contesto sociale della scuola.
La studiosa descrive la scuola come contesto sociale “naturale”, opponendosi al sistema
didattico attuale fondato sull’ipotesi ingenua che apprendimento coincida con la trasmissione di sapere da un insegnante onnisciente ad un alunno che passivamente assorbe. Una critica molto dura viene rivolta all’idea che l’apprendimento sia il risultato esclusivo di un’attività individuale, un processo “che non si vede”, che avviene
all’interno di ciascuno studente e che quindi non può essere esplicitamente attivato in
classe.
La prospettiva con cui la Pontecorvo considera la scuola è quella dell’apprendimento
mediato dall’interazione sociale; una particolare attenzione è rivolta infatti agli aspetti
che possono essere oggetto di negoziazione tra insegnante e allievo e tra allievi stessi e
“che si manifestano nell’interazione sociale così come essa si svolge nei contesti scolastici.” (Pontecorvo 1991, pag. 15)
La ricercatrice parla dell’interazione in classe come un tipo di conversazione che segue
le regole generali di una qualsiasi conversazione e tratta la comunicazione sociale e il
lavoro di gruppo come il più importante potenziale educativo: l’interazione dev’essere
dunque caratterizzata dalla discussione, dal confronto delle opinioni e dalla produzione
di argomentazioni.
Pontecorvo basa tale teoria in primo luogo sull’idea che lo sviluppo sia in stretta interrelazione con l’educazione e che tale interrelazione si esplichi nella centralità del rapporto
tra sociale e individuale; in secondo luogo, sull’idea che lo sviluppo cognitivo sia sempre sostenuto e mediato da strumenti culturali: sistemi di segni, simbolici, strumenti cul-
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turali, uso della lingua scritta. Lo sviluppo, secondo Pontecorvo, che si rifà a Bruner,
avviene quindi nel contesto di una cultura e attraverso la comunicazione e lo scambio
con gli altri.
Secondo Pontecorvo
“il progredire verso una più complessa organizzazione cognitiva dipende da ciò che il
soggetto già sa e dalle possibilità che gli sono offerte di confrontare questa conoscenza,
sia con i fenomeni […] sia con gli altri bambini e con l’insegnante.” (Pontecorvo 1991,
pag. 181).
L’attenzione è diretta verso la specificità dei discorsi che è determinata dall’insieme delle condizioni di contorno in cui si svolge la conversazione ed è ciò che dà luogo alle diverse pratiche sociali di tipo discorsivo. Si osserva la sorprendente permeabilità di ciascuno e la conseguente possibilità di un pensiero costruito collettivamente: un esempio
tipico è la ripresa (più o meno esplicita) di un tema introdotto da un altro bambino allo
scopo di apportarvi piccole modifiche, integrazioni.
Ovviamente non è da tralasciare il patrimonio di conoscenze di ognuno, che fonda la
base sul quale i bambini elaborano e discutono le loro ipotesi, ma ciò non significa valutare il singolo componente del gruppo sulla base delle idee che egli riporta:
“il patrimonio di conoscenze spontanee o quotidiane del bambino costituisce una base
per la costruzione di nuove e più sistematiche conoscenze.” (Pontecorvo, 1991, pag.
175)
L’ipotesi generale è che l’apprendimento può avvenire nel contesto sociale della scuola
solo nel momento in cui si assume come centrale il rapporto tra le conoscenze preesistenti dei bambini e i nuovi sistemi di conoscenza apportati dall’esperto che ha quindi il
compito di aiutare i bambini a generalizzare, a distaccarsi dalla singola situazione. Questo ovviamente implica una comprensione reciproca che si basa sulla condivisione della
cultura di riferimento:
“Il presupposto […] è che le abilità di ragionamento informale che i bambini utilizzano
negli scambi tra loro possono operare come un legame tra il senso comune […] e una
conoscenza che tende a diventare più scientifica” (Pontecorvo 1991, pag. 177)
23
2.2 SFONDO EPISTEMOLOGICO
2.2.1 PERCHÈ L’EVOLUZIONE?
Le motivazioni che hanno portato alla scelta di tale tema sono molte. Prima di tutto va
ricordato che la teoria dell’evoluzione non è solo una teoria che investe il campo biologico, ma ha influenzato profondamente il modo di concepire l’esistenza di ognuno. Per
esprimere l’importanza di tale pensiero riprendo il bellissimo libro “Un lungo ragionamento” con cui Ernst Mayr rende omaggio a Darwin; egli scrive:
“La forza d’urto del darwinismo sulle nostre opinioni è stata così grande che è quasi
impossibile per un uomo moderno […] ricostruire il modo di pensare di quel periodo
predarwiniano.” (Mayr, 1991, pag. 13)
e ancora:
“La rivoluzione intellettuale compiuta da Darwin andò ben al di là dei confini della
biologia, provocando il crollo di convinzioni profondamente radicate nella coscienza
degli uomini del suo tempo.” (Ibidem).
Darwin ha influenzato la nostra visione del mondo perché, grazie alla forza delle sue
intuizioni,
“egli ha posto domande cruciali sulle nostre origini e, con le sue rivoluzionarie teorie,
ha fornito risposte illuminanti, spesso capaci di scuotere il mondo.” (Mayr, 1991, pag.
9).
Grazie alla riscoperta dei taccuini scritti da Darwin, si può seguire passo per passo come
lo scienziato arrivò alla formulazione della teoria dell’evoluzione. Egli si pose moltissime domande cruciali e proprio questa capacità di formulare tali domande e la sua tenacia nel cercare risposte sono alla base della sua grandezza scientifica. Darwin inoltre,
“era instancabile nel formulare nuove ipotesi sui problemi che di volta in volta erano
oggetto della sua indagine” (Mayr, 1991, pag. 21);
infatti procedette formulando e poi rifiutando una teoria dopo l’altra finché ebbe
“l’illuminazione decisiva”; Darwin stesso scrisse:
“Quindici mesi dopo l’inizio della mia ricerca sistematica, lessi per diletto il libro di
Malthus sulla popolazione e poiché, date le mie lunghe osservazioni sulle abitudini degli animali e delle piante, mi trovavo nella buona disposizione mentale per valutare la
lotta per l’esistenza cui ogni essere è sottoposto, fui subito colpito dall’idea che, in tali
condizioni, le variazioni vantaggiose tendessero a essere conservate, e quelle sfavore-
24
voli ad essere distrutte. Il risultato poteva essere la formazione di specie nuove. Avevo
dunque ormai una teoria su cui lavorare.” (citato in Mayr, 1991, p.84)
Un’altra particolarità della teoria dell’evoluzione è la sua difficile accettazione da parte
sia del mondo scientifico che della gente comune: fra i biologi, scrive Mayr, ci sono volute quasi tre generazioni perché venisse accettato senza riserve, mentre fra i nonbiologi l’idea è tuttora impopolare:
“E qui si pone un’importante interrogativo: in che modo Darwin poté arrivare a
un’idea che non solo era totalmente in contrasto con il pensiero della sua epoca, ma
era anche così complessa che ancora oggi, dopo un secolo e mezzo, è largamente fraintesa” (Mayr, 1991, pag. 85).
L’interesse di queste riflessioni per la presente ricerca sta nella possibilità di istituire un
parallelismo tra il procedere dei bambini e quello di Darwin e degli altri scienziati che
lo seguirono nella formulazione della teoria dell’evoluzione: porsi domande cruciali,
mettere in campo le conoscenze culturali di ognuno, gli studi fatti, le osservazioni provenienti dalla propria vita quotidiana, formulare ipotesi e rifiutarle al fine di trovarne
una che risponda alle domande e che sia a prova di confutazione.
La teoria dell’evoluzione è un esempio significativo del procedere dello scienziato nel
processo della scoperta-invenzione: è questo infatti che accomuna bambini e scienziati
di fronte a cose non ancora note.
2.2.2 NODI EPISTEMOLOGICI DELLA TEORIA DELL’EVOLUZIONE
In una conversazione con i bambini non è possibile affrontare tutti gli elementi cardine
della teoria dell’evoluzione e si è quindi scelto di non proporre temi specifici al gruppo,
ma di cogliere sul momento quanto emergesse.
Questa scelta è basata sulla convinzione che non sempre i bambini sono pronti a costruire conoscenza su un certo argomento (vedi “zona di sviluppo prossimale” di Vygotskij)
e che l’interesse sarebbe stato sicuramente maggiore se le tematiche trattate fossero
quelle suscitate dalle domande o dalle idee espresse dai bambini stessi. Il conduttore del
gruppo ha avuto quindi il compito di ricollegare quanto emergeva dal gruppo a temi riguardanti la teoria dell’evoluzione e questo ha permesso al gruppo di “fare scoperte”,
ma è anche accaduto che il gruppo non comprendesse alcune domande che gli sono state
proposte. Come vedremo è significativo notare come i bambini hanno sempre cercato di
25
formulare ipotesi per rispondere alle domande o alle osservazioni poste, tranne nel momento in cui la domanda non risultava chiara.
Vediamo in sintesi i nodi epistemologici che sono stati toccati, riferendoci al libro “La
teoria dell’evoluzione” (Pievani, 1996).
L’EVOLUZIONE DELLA TERRA
“L’evoluzione degli esseri viventi affonda le proprie radici nella storia fisica del nostro
pianeta […]” (Pievani, 2006, pag 17).
Molti cambiamenti hanno interessato la struttura fisica della Terra dalla sua nascita: il
tempo di rotazione dell’asse terrestre è diminuito, la disposizione delle terre emerse si è
modificata, nuove rocce si sono formate grazie alle eruzioni vulcaniche, gli agenti atmosferici hanno modificato per un tempo lunghissimo le terre emerse. La superficie della
Terra è attualmente in continuo movimento, generando terremoti o eruzioni. La veste
attuale con cui si mostra il nostro pianeta è quindi frutto di incessanti trasformazioni
iniziate circa 4,5 miliardi di anni fa. Già prima di Darwin i geologi avevano capito che
era necessario un lungo lasso di tempo perché si realizzassero tali cambiamenti; Darwin
stesso confidava in una simile antichità perché
“aveva bisogno di una grande quantità di tempo evolutivo per giustificare la lenta diversificazione delle specie.” (Ibidem).
Pievani sottolinea la co-evoluzione fra esseri viventi e pianeta tramite l’esempio della
“crisi dell’ossigeno”, ovvero il momento in cui la fotosintesi cambiò le regole del gioco:
da una vita solo marina iniziarono a comparire le prime forme di vita aerobiche mentre
molti altri organismi morirono. Questo esempio
“mostra in modo evidente che la struttura fisica della Terra ha sì condizionato fin
dall’inizio la vita, ma che l’evoluzione degli organismi a sua volta ha trasformato i parametri fisici fondamentali del pianeta, modificando la composizione chimica
dell’atmosfera […].” (Pievani, 2006, pag. 24).
L’ADATTAMENTO
Inizierei col ricordare che nella teoria darwiniana dell’evoluzione l’adattamento è legato
alla selezione naturale, concetto che però non è stato affrontato durante la conversazione, ad esclusione di una parentesi finale su mutazioni vantaggiose o svantaggiose.
Il termine adattamento porta con se un’implicazione molto importante:
26
“nel corso dell’evoluzione gli organismi non sono soggetti passivi plasmabili a piacimento e […] la selezione non agisce quasi mai come un supremo ingegnere che punta
all’ottimalità standard.” (Pievani, 2006, pag. 73).
Un altro punto fondamentale su cui Pievani si sofferma è appunto il fatto che il termine
“adattamento” non corrisponde al termine “perfezione” e questo per vari motivi: prima
di tutto
“è un processo e prodotto sempre incompiuto, provvisorio, contingente rispetto ai cambiamenti ambientali che possono rimettere in moto il meccanismo selettivo a favore di
altri adattamenti.” (Ibidem);
per secondo, bisogna considerare che
“un carattere adattativo per una specie può non esserlo per un’altra” (Pievani, 2006,
pag. 74).
Del resto, scrive Pievani, nemmeno l’ambiente si presenta come un tutto lineare e semplice da risolvere:
“le pressioni selettive sono spesso multiple e interdipendenti.” (Ibidem).
Infine gli stessi esservi viventi non sono completamente liberi di adottare qualsiasi strategia adattativa bensì sono vincolati da costrizioni fisiche e da vincoli strutturali ereditati.
EXAPTATION
Questo concetto (traducibile con “cooptazione funzionale”) è la risposta alla domanda:
come può la selezione naturale dare origine a organi che ancora non esistono? Come è
possibile che abbia originato un organo complesso come l’occhio o come le ali?
Normalmente, per originare un cambiamento, bastano i meccanismi di accumulo di piccoli miglioramenti dovuti alla selezione naturale: vengono privilegiati quegli aggiustamenti che arrecano un vantaggio differenziale agli organismi che li possiedono.
In altri casi invece entra in azione un vero e proprio cambiamento di funzione: Pievani
riporta l’esempio delle penne che inizialmente sarebbero state adibite a funzioni di termoregolazione e poi essere cooptate per il volo. Perché vi sia la possibilità di tale cooptazione di funzione bisogna ipotizzare che in natura ci siano più organi che possano assolvere una stessa funzione e, viceversa, che un organo possa assolvere più funzioni,
aggiungendone di nuove a quelle già esistenti.
“il fenomeno dell’exaptation evidenzia come ogni tratto possa essere adattativo per una
certa funzione presente, ma irradiare al contempo una gamma di effetti potenziali pos-
27
sibili, alcuni dei quali con conseguenze benefiche che la selezione naturale potrebbe
prima o poi vedere e cooptare.” (Pievani, 2006, pag. 78).
Pievani ci mostra un’accezione più radicale di tale concetto, introdotta da Gould e Vrba
(Gould- Vrba, 1982), con la quale s’includono anche quei casi in cui vengono cooptate
strutture originariamente sviluppatesi senza alcuna ragione adattativa. Questa accezione
porta con se l’ipotesi che esista un “pool exattativo” a cui la selezione naturale può far
riferimento per far fronte a nuove necessità ambientali.
“Il fenomeno dell’exaptation, […] ci mostra come nell’evoluzione difficilmente un adattamento è stato fin dall’inizio costruito ‘per’ assolvere alla funzione corrente […]. Insomma: non tutto in natura serve a qualcosa, ma tutto può sempre tornare utile.” (Pievani 2006, pag. 77-79)
IL SOGGETTO DELL’EVOLUZIONE: INDIVIDUO, POPOLAZIONE
Prima di rispondere a questa domanda, occorre cercare di definire il termine “evoluzione”:
“Per evoluzione intendiamo il cambiamento […] degli organismi nel corso delle generazioni.” (Pievani, 2006, pag. 13)
Nell’epoca predarwiniana tale termine era invece riferito allo sviluppo individuale nel
corso della vita; come ci ricorda Pievani, questa distinzione è fondamentale perché sono
due concetti molto diversi: una cosa è lo sviluppo del singolo organismo nel corso della
vita (ontogenesi), un’altra è la trasformazione delle specie attraverso le generazioni (filogenesi).
Oggi quando si parla di evoluzione si parla sempre di popolazioni di organismi,
“cioè una serie di popolazioni che si succedono l’un l’altra accumulando modificazioni.” (Ibidem)
intendendo per “popolazione” un gruppo locale di organismi della stessa specie, che si
incrociano tra loro e condividono il medesimo patrimonio di caratteristiche genetiche.
SPECIAZIONE
Il termine “speciazione” viene usato per indicare la nascita di una nuova specie. Occorre
dunque chiarire cosa significa “specie”:
“Sembra paradossale, ma l’oggetto principale di studio degli evoluzionisti, le specie,
sfugge ancora a una definizione univoca.” (Pievani, 2006, pag. 87).
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Nel 1942 Mayr connesse l’isolamento geografico all’isolamento riproduttivo e propose
queste nozione di specie:
“Una specie è una comunità riproduttivamente chiusa, cioè una popolazione di organismi che si incrociano e si scambiano geni solo fra loro e non con popolazioni imparentate.” (citato in Pievani, 2006, pag. 89).
Tale definizione è la più usata, ma presenta anch’essa delle eccezioni o dei “casi irrisolti”: esistono oggi differenti nozioni di specie.
Ma dove ha origine una nuova specie?
Mayr intuì che il processo di speciazione ha luogo nel momento in cui si interrompe il
flusso genico fra due popolazioni (a causa di una barriera di tipo geografico o di una
migrazione) finché diventano reciprocamente infeconde. La barriera geografica si trasforma dunque in barriera riproduttiva e ciò ha come conseguenza la nascita di una nuova specie.
CONTINGENZA
Quando si parla di mutazioni, spesso viene usato l’aggettivo “casuali”, ma questo può
risultare fuorviante. Pievani (Pievani, 2006), specifica come “casuali” non significhi che
non hanno cause ma che raramente queste sono individuabili e che comunque non esistono schemi ripetuti o correlazioni riconoscibili. Con questo aggettivo si vuole soprattutto indicare l’indipendenza tra mutazioni e potenziale effetto positivo o neutro che esse avranno sul portatore all’interno della popolazione. Ciò implica che le mutazioni non
possono né essere orientate secondo il contesto ambientale né prevedere cambiamenti
futuri.
“sarebbe forse preferibile definire le mutazioni “contingenti” rispetto al contesto di evoluzione e di sviluppo, piuttosto che casuali” (Pievani 2006, pag. 52).
Le ragioni per cui alcune specie si estinguono e altre sopravvivono contengono elementi
di contingenza rispetto all’aspetto ecologico.
Questo aggettivo può essere usato, segnala lo studioso, anche per il fenomeno della deriva genetica e degli eventi storici accidentali che rendono imprevedibile il corso della
storia naturale.
“L’adattamento è sempre locale, incompiuto e contingente.” (Pievani, 2006, pag. 117).
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GRADUALISMO
Fu probabilmente grazie ai ‘tordi beffeggiatori’ che Darwin concepì tale teoria. Egli inizialmente non pensava che l’evoluzione fosse un processo graduale bensì il risultato di
un salto mutazionale. Queste tre diverse specie di uccelli, presenti su diverse isole delle
Galapagos, avevano suggerito allo scienziato che le specie sfumano l’una nell’altra, in
modo lento, continuo e graduale. (Mayr, 1991).
L’introduzione di questa nuova
ipotesi è
da
legare al definitivo
rifiuto
dell’essenzialismo da parte di Darwin. Infatti l’evoluzione per salti mutazionali è una
conseguenza necessaria dell’essenzialismo:
“Se si crede sia nell’evoluzione sia nell’invariabilità dei tipi, si può vedere il cambiamento evolutivo solo come una produzione improvvisa di tipi nuovi.” (Mayr 1991, pag.
55).
Darwin introdusse invece un concetto di evoluzione del tutto nuovo: in ogni generazione si producono variazioni, e l’evoluzione dipende dalla sopravvivenza di tali individui
fino al momento della riproduzione. Egli era inizialmente convinto che i mutamenti fossero prodotti direttamente come risposta ai cambiamenti dell’ambiente:
“I cambiamenti che avvengono nelle specie devono essere molto lenti, dato che i cambiamenti fisici sono lenti” (Citato in Mayr 1991, pag. 57).
A chi obietta che i cambiamenti dovrebbero essere osservabili, egli risponde:
“La selezione naturale, poiché agisce solo accumulando una dopo l’altra tante piccole
variazioni favorevoli, non può mai produrre modificazioni grandi e improvvise; può agire soltanto con passi piccolissimi e lenti” (Citato in Mayr 1991, pag. 58).
Questa teoria si è mostrata adeguata scientificamente se pensata in un ottica popolazionale e se non confusa con il ritmo dell’evoluzione. Darwin era consapevole che questa,
talvolta procede rapidamente e talvolta comprende periodi di stasi completa: egli infatti
non ha mai detto niente sulla velocità con cui tale cambiamento si verifica. Questo argomento verrà affrontato da Gould e Eldredge nel 1972 con la formulazione della teoria
degli “equilibri punteggiati”.
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L’EREDITARIETA’
L’ereditarietà è alla basa della teoria dell’evoluzione: senza questa non potrebbe esistere
la selezione naturale. Che qualcosa si eredita è nella nostra cultura, è intuitivo, lo si può
vedere nella vita di ogni giorno (come fa notare chiaramente il gruppo dei bambini); ma
che cosa si eredita?
Lamarck sosteneva che ad essere ereditati erano i caratteri degli organi che venivano
utilizzati maggiormente, mentre non venivano ereditati quelli che non venivano utilizzati. Questa concezione è rimasta anche dopo che il mondo scientifico ha smentito tale
teoria e sussiste tutt’ora nella nostra cultura. Come ci ricorda Pievani, lo stesso Darwin
non escludeva che la dinamica dell’uso e del disuso si potesse integrare con il meccanismo della selezione naturale, facendo ereditare i caratteri acquisiti.
Oggi, grazie alla genetica mendeliana si sa che non è così: ci sono caratteri che si ereditano con maggiore frequenza e altri con minore, ma si tratta sempre di caratteri innati e
non acquisiti.
La variazione ereditaria è descritta da Pievani come il primo motore dell’evoluzione.
Darwin ne ricavò l’idea da tre constatazioni empiriche: gli organismi si riproducono e ci
sono dei caratteri individuali che variano all’interno della popolazione; la prole eredita
alcuni tratti dei genitori, variazioni comprese; tali variazioni sono spontanee e non direzionate.
“Oggi noi diciamo che in una popolazione alcuni organismi nascono con mutazioni ereditabili che permettono loro di sopravvivere meglio e quindi di riprodursi con più
frequenza e facilità […]. Più alta è l’ereditabilità di un tratto, maggiore sarà la sua ‘risposta alla selezione’.” (Pievani, 2006, pag. 58).
Durante la conversazione si è cercato di ragionare anche sull’idea che un carattere che si
rivela adattativo è l’effetto contingente della relazione con l’ambiente e non la causa
(finale) della selezione e che perciò, cambiando il contesto ambientale si possono rivelare adattativi caratteri che nel contesto precedente erano disadattativi (malformazioni).
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GENI E PANGENESI
La base fisica della trasmissione dei caratteri ereditari era ignota a Darwin che ipotizzò
l’esistenza di “gemmule” presenti nel sangue che in qualche modo registrassero i cambiamenti intervenuti nel corpo dell’organismo e ne trasmettessero l’informazione attraverso il sangue alla generazione successiva. In questo senso Darwin aderì alla teoria lamarckiana dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti.
Oggi sappiamo che le basi materiali della trasmissione ereditaria si trovano nei geni.
Nei gameti dei genitori, gli alleli (le diverse versioni dei geni che incidono sul fenotipo)
si separano per poi ricongiungersi casualmente nella prole, rimescolandosi di generazione in generazione. Il gene, nella genetica mendeliana, è considerato un’entità discreta
che si trasmette ricombinandosi in diversi genotipi, ma mantenendo la propria integrità.
Il codice genetico è universale.
“Al cuore di questa universalità dei meccanismi di funzionamento della vita eucaristica
sta il fatto che la base fisica dell’ereditarietà, impacchettata nel nucleo cellulare, è fondamentalmente la stessa in tutti gli organismi.” (Pievani 2006, pag. 32).
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3. LA RICERCA
3.1 LE SCELTE METODOLOGICHE
3.1.1 UNA RICERCA QUALITATIVA E “MICROPEDAGOGICA”
La presente ricerca può essere considerata di tipo qualitativo e “micropedagogico”.
Secondo la pedagogista Susanna Mantovani (Mantovani, 1995), nella maggior parte
delle situazioni indagabili in ambito scolastico l’approccio sperimentale si rivela spesso
inadeguato o riduttivo, mentre l’approccio qualitativo, fondato sull’osservazione e la
descrizione, risulta confacente alla complessità dei rapporti educativi e alla soggettività
che li caratterizza.
Il rapporto educativo può essere indagato in modo scientifico senza limitarsi a strumenti
di analisi soggettiva, ma ricorrendo a metodi e strumenti qualitativi o clinicosperimentali che siano, da una parte, abbastanza descrittivi da non perdere la complessità delle situazioni educative e dall’altra, sufficientemente rigorosi da permettere il controllo intersoggettivo. L’autrice ritiene infatti che non si possono considerare irrilevanti
o non scientifiche quelle ricerche che, indagando su contesti specifici, non si avvalgano
di campioni significativi, di gruppi di controllo o di calcoli statistici, e che quindi non
percorrano tutte le tappe del metodo sperimentale.
In questi tipi di ricerche è fondamentale che la figura del ricercatore abbia determinate
caratteristiche: saper ascoltare, assumere un atteggiamento non valutativo, mantenere la
congruenza fra ciò che si dice e ciò che si pensa.
Anche la “micropedagogia” (Demetrio, 1992) si preoccupa di spiegare l’importanza di
una ricerca di tipo qualitativo; micropedagogico è infatti uno spazio/tempo determinato
entro cui si realizza un intervento formativo, luogo in cui gli individui realizzano esperienze di apprendimento che ne modificano caratteristiche iniziali. La micropedagogia è
pedagogia di ciò che è direttamente osservabile e frazionabile, i cui obiettivi sono di ingrandire il frammento, di entrare in contatto con l’osservato, di scoprire le relazioni tra
le parti, per accrescere la conoscenza di una fenomenologia formativa che si svolge per
ingrandimenti e focalizzazioni. Gli ingrandimenti forniscono le miniature, rappresentazioni uniche di situazioni studiate. Le miniature esperienziali dove l’educazione è lo
33
svolgimento dentro e mediante l’esperienza, come narrazioni di quanto è accaduto nel
corso dell’evento di formazione.
La micropedagogia è l’intersezione di specifici paradigmi che focalizzano l’esperienza
di formazione: il pragmatismo che pone l’accento sulle esperienze sociali del soggetto;
lo storicismo che si propone di scoprire il modo di pensare del soggetto; la teoria della
gestalt che ritiene l’ambiente importante per la comprensione del comportamento del
soggetto; il paradigma costruttivista che sottolinea il ruolo del soggetto nella formazione
di sé, ritenendo che l’organizzazione dei processi conoscitivi e di apprendimento sia
soggettiva. Le situazioni micropedagogiche possono essere indagate solo con la ricerca
qualitativa che ha per fine la comprensione dei fenomeni sociali, individuali e situazionali dei fatti umani, attraverso l’attenzione per il particolare. L’oggetto della ricerca
qualitativa è la fenomenologia dei processi formativi, ossia eventi che generano cambiamento. La ricerca individua le componenti del sistema, mediante ingrandimenti e analizzando i cambiamenti relazionali e attribuzionali che le azioni provocano nei soggetti.
3.1.2 STRATEGIE DI OSSERVAZIONE: L’ ”ASCOLTO”
La ricerca si propone di osservare come si costruiscono le conoscenze in un contesto
sociale interattivo, senza testare le conoscenze pre-gresse, le misconcezioni ecc.
Cambia l’atteggiamento con cui si osserva il discorso: ponendo attenzione alla situazione, lo si considera in funzione del contesto in cui è prodotto, come esito delle domande
che sono state poste e delle azioni sociali che sono state realizzate attraverso il dialogo.
Si cerca di capire in che modo il contenuto del discorso è determinato dal contesto sociale nel quale si svolge; si studia quindi come i partecipanti considerano il pensiero, il
ricordo, la comprensione altrui nello specifico contesto in cui queste attività cognitive
vengono socialmente sollecitate, negoziate e talvolta, ridefinite.
In coerenza con quanto detto finora non si utilizzano categorie prefissate per interpretare.
Il dialogo
“è un luogo dove si elaborano conoscenze; […] un luogo dove si costruiscono teorie”
(Sala, 2004, pag. 55),
34
pertanto l’ascolto della registrazione richiede un’attenzione pronta a lasciarsi colpire,
che ritorna più volte su uno stesso passaggio, che scova stereotipi e pregiudizi. Si cerca
di cogliere l’individualità di ogni personaggio e l’apporto che questo ha dato al gruppo.
L’ “ascolto”, ovvero il tentativo da parte dell’adulto di comprendere e non di spiegare
ciò che i bambini dicono, diventa dispositivo pedagogico.
Sala chiarisce che in questo caso l’ascolto è una strategia d’osservazione, ma (quasi paradossalmente) grazie all’udito, col quale viene esercitata: è meno selettiva, più aperta,
ricettiva che non quella che si esercita con la vista. Si tratta di ricevere tutto nei dettagli
senza selezionare nulla in partenza, anche a rischio di non comprendere:
“riconoscere è tranquillizzante ma non sempre è ‘vero’, cioè adeguato alla relazione
con quel bambino, con quella bambina, quella classe.” (Sala, 2007, pag. 115)
È stata da subito scartata l’idea di una ‘griglia’ di osservazione; questo strumento è utile
e prezioso nel momento in cui ci sia la necessità di verificare una specifica ipotesi, scoprire determinati elementi legati a precise circostanze; funge da filtro. Ma questo accade
solo nel momento in cui, per l’appunto, ci siano ipotesi ed elementi precisi, predeterminati, predefiniti. In caso contrario tale griglia rischia di focalizzare l’attenzione solo su
alcuni elementi, e di tralasciarne altri o di nascondere lo sfondo. Inoltre il contesto della
conversazione è dinamico, ricco di relazioni: separando i singoli elementi, si perde il
senso del tutto, lo sfondo di senso.
La scelta è stata quindi quella di tenere uno sguardo aperto, di lasciarsi colpire, stupire,
rimanendo consapevoli delle proprie idee, emozioni, reazioni, ‘lenti culturali’ e
dell’influenza che queste possono avere sull’osservazione. Queste non sono eliminabili
in quanto sono un medium inevitabile per la nostra percezione:
“non possiamo osservare la realtà se non dalle premesse incorporate nella nostra identità, premesse biografiche, caratteriali, soprattutto culturali;” (Sala, 2007, pag. 39).
Si tratta dunque di un’osservazione critica, realizzata soprattutto a posteriori.
L’influenza dell’osservatore nel contesto della conversazione non è eliminabile. Occorre
dunque che venga presentata ed accettata dal gruppo e, così facendo, rimanga al di sotto
del ‘livello di attenzione’.
Tutto ciò, come segnala Sala, corrisponde all’idea della teoria dell’autopoiesi che
l’osservatore è consapevole di far parte del sistema che osserva,
35
“ma che sa distinguere il dominio dei cambiamenti strutturali interni al sistema dal
dominio delle interazioni tra sistema e il suo ambiente, sa metterli in relazione, perché
li vede contemporaneamente” (Sala, 2007, pag.40);
tali corrispondenze sono da attribuire, all’attività cognitiva dell’osservatore alla quale
dunque si devono riferire anche i significati dati.
3.1.3 IL SETTING
La richiesta di una ricerca in classe è stata consegnata alla scuola circa due settimane
prima dell’intervento; la classe di conseguenza sapeva che sarebbero arrivati dei ricercatori a porre domande su argomenti di tipo scientifico, ma non conosceva nello specifico
il tema che si sarebbe trattato e neanche che modalità d’interazione ci sarebbe stata.
La conversazione si è tenuta in un aula diversa da quella in cui la classe segue abitualmente le lezioni. L’aula era stata preparata mettendo le sedie in modo circolare e disponendo alla base di ognuna un numero identificativo: la scelta della disposizione delle
sedie è significativa perché permette a tutti i componenti del gruppo di guardarsi reciprocamente e, allo stesso tempo, permette ad ogni bambino di avere attenzione e “importanza” nello spazio di interazione; il numero identificativo serviva ai ricercatori per
una più facile trascrizione della conversazione. All’interno del cerchio era posto un cestino di vimini con all’interno l’apparecchio per l’audio-registrazione. La scelta del cestino rispondeva anche all’esigenza pratica di sottrarre il registratore all’attenzione dei
bambini, riducendone il possibile effetto di condizionamento sulla spontaneità della
conversazione.
Un altro registratore era posto di fianco alla ricercatrice, posizionata dietro ai bambini,
seduta su dei tavoli ed equipaggiata di blocco e penna al fine di segnare gli autori dei
vari interventi per poi poterli riconoscere nella fase di ‘sbobinamento’ del nastro.
Il gruppo sapeva di essere audio-registrato ma ha dimostrato di disinteressarsene velocemente. Il “bastone della parola” (un bastoncino di legno contorto e levigato) veniva
passato da un bambino al suo vicino in senso orario con la funzione di indicare chi solo
poteva intervenire in quel momento.
Era un giovedì pomeriggio e il tempo a disposizione era di circa due ore.
L’insegnante era presente durante la conversazione, ma non è mai intervenuta nel merito se non per riprendere qualche comportamento inadeguato al contesto scolastico o
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comunque disturbante nei confronti del gruppo; in alcuni casi ha anche condotto fuori
dall’aula i soggetti in questione per brevi periodi di tempo.
Prima di realizzare questa ricerca in classe, è stata discussa la scelta di come strutturare
(o non strutturare) l’intervento e di quali tematiche (pertinenti alla teoria
dell’evoluzione) affrontare. La scelta è stata quella di seguire gli sviluppi della conversazione senza imporre una linea guida e senza forzare gli alunni verso specifiche tematiche: questo per permettere ai bambini di co-costruire una conoscenza sulla teoria
dell’evoluzione nella “zona di sviluppo prossimale” restando in un contesto di ricerca e
non in uno di “lezione didattica” o di “interrogazione”.
La persona che ha condotto la conversazione si è presentata come un esperto di temi
scientifici e ha chiarito subito lo scopo dell’intervento:
“Quello che vorrei fare con voi è una conversazione su temi scientifici.” (tratto dalla
registrazione).
Con questa presentazione ha determinato uno specifico contesto d’interazione basato
sulla ricerca, che si differenzia da quello di una quotidiana lezione didattica. L’esperto
ha condotto la conversazione stando spesso all’interno del gruppo talvolta in piedi, talvolta rannicchiato.
All’inizio della conversazione ha dato le ‘regole del gioco’; la scelta di quest’ultime intendeva facilitare la comunicazione all’interno del gruppo e lasciare la possibilità ad ognuno di esprimere il suo punto di vista: dopo che un bambino ha parlato deve aspettare
un intero giro prima che “il bastone della parola” torni nelle sue mani e che quindi possa
esprimere nuovamente la sua opinione; questo può portare a due conseguenze, una positiva e una negativa, per lo sviluppo della conversazione: il bambino non dice la prima
cosa che gli viene in mente, ma prepara il suo intervento per l’intera durata del giro; tuttavia questo può indurre il bambino a mantenersi concentrato su quello che sta pensando
e a disinteressarsi di quanto dicono gli altri. Come scrive M. Sala:
“Cerco di costruire una situazione stimolante che li coinvolga, li provochi, e poi, quanto l’ambiente è caldo e la voglia di dire la propria è divenuta incontenibile, propongo
loro di mettersi in circolo seduti a terra. Si può intervenire soltanto quando giunge il
proprio turno seguendo il circolo: ognuno può decidere se intervenire o meno, ma chi
segue non può parlare finché non gli è stata esplicitamente passata la parola.” In questi dialoghi emerge tutta l’importanza della circolarità come dimensione simbolica,
democratica, di ascolto: “ gli sguardi di tutti si incontrano”.” (Sala, 2004, p. 53).
37
A livello strumentale, questo sistema, impedendo il sovrapporsi delle voci, facilita la
trascrizione della conversazione e la successiva analisi del discorso.
3.1.4 TRASCRIZIONE DELLA CONVERSAZIONE E COMMENTI
La conversazione è stata audio-registrata e l’alternarsi dei turni di parola sono stati annotati sul momento dalla ricercatrice.
Con i numeri vengono identificati i singoli bambini, con M. l’esperto che ha il compito
di condurre la conversazione e con F. l’osservatrice. Quando dall’ascolto della registrazione non è possibile riconoscere l’autore di un intervento si è usato il segno -.
I puntini ... indicano pause (a volte seguite da un nuovo inizio di frase con diversa struttura).
Il segno [...] indica invece una parte di discorso che è risultata non intellegibile in fase
di ascolto della registrazione.
Il testo restituisce integralmente il contenuto della registrazione. Ho limitato gli interventi redazionali allo stretto necessario a rendere comprensibile la comunicazione, cercando di non sovrapporre mie interpretazioni a quanto dicono i bambini.
Al testo della conversazione sono interpolati, in carattere corsivo, interventi di commento “locali”, che si riferiscono a dettagli significativi, mentre i commenti che suggeriscono ipotesi interpretative su processi di conoscenza o dinamiche complessive sono collocate nei capitoli successivi.
3.2 REALIZZAZIONE E RISULTATI
3.2 1 LA SCUOLA E LA CLASSE
La ricerca è stata svolta nella Scuola Elementare Rodari di Bareggio, un paese di circa
sedicimila abitanti in provincia di Milano.
Difficile è stata la scelta della classe con cui svolgere la conversazione: il dubbio era se
scegliere una classe prima o seconda, nella quale di evoluzione non si era parlato, oppure una classe dei restanti anni, in cui l’evoluzione fosse stata affrontata o trattata come
argomento di studio. Si è deciso di scegliere una quinta in modo che le conoscenze didattiche non influenzassero troppo il pensiero dei bambini (essendo stata trattata in terza
non era un ricordo così ‘fresco’) e si potesse avere una conversazione molto attiva e par-
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tecipata che con le prime classi sarebbe stata più difficile (a causa dell’età dei bambini)
e probabilmente sarebbe occorso un tempo maggiore di due ore.
3.2.2 LA CONVERSAZIONE
[M. è l’esperto, F. l’osservatrice, i bambini sono identificati con numeri]
M: Quello che vorrei fare con voi è una conversazione su temi scientifici. Prima però le
regole del gioco...
“Regole del gioco” nel senso che ci sono delle regole. Le regole sono: parla soltanto
chi ha in mano il bastone della parola che è questo [mostra un piccolo ramo di legno
levigato]; seconda regola: il bastone della parola gira, quindi, lui lo passa a lui…
quando lo avete in mano potete parlare o non parlare, però poi lo dovete passare e,
per parlare, dovete aspettare che ritorni; quindi pensateci prima a quello che volete
dire.
L’argomento che volevo proporvi è quello dell’evoluzione...
7: Quale evoluzione? dell’uomo?
M: Ah, aspetta, direi prima una cosa importante: io non sono un insegnante, quindi non
mi interessa assolutamente se rispondete giusto o no alle domande, perché sono domande che non hanno una risposta giusta; a me interessa sapere cosa pensate, quindi
ognuno è libero di dire quello che pensa. Vi accorgerete dalle domande che non è un
quiz: non vincete niente se rispondete giusto, semplicemente perché non c’è una risposta giusta… è una specie di intervista che vi faccio, per capire cosa ne sapete di
certe cose, ma anche cosa ne pensate; io non so cosa sapete già e cosa invece vi mettete a pensare adesso, quindi boh…
Va bene, allora l’argomento è l’evoluzione, quindi la prima domanda è: ne sapete
qualcosa? Ognuno di voi adesso dice che cosa ne sa sull’evoluzione, se ha un idea, se
ne ha sentito parlare, cosa pensa che sia…
Fondamentale in queste conversazioni è costruire una cornice di senso condivisa, ovvero esplicitare regole specifiche di un certo contesto sociale di interazione, definire i
ruoli dell’adulto o dell’esperto, indirizzare il comportamento verbale degli interlocutori, fornire uno sfondo comune. Citando C. Pontecorvo:
“ […] le specificità dei discorsi sono determinate dai contesti e dall’insieme delle con-
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dizioni al contorno in cui si svolgono e danno luogo di conseguenza e diverse pratiche
sociali di tipo discorsivo.” (Pontecorvo 1991, p. 68)
22: Boh!.
1: Io non l’ho mai sentita
2: Mah, che ne so?
F: Ma non a livello scolastico! Se qualcuno vi dice “evoluzione”, a voi cosa vi viene in
mente?
F. ribadisce il contesto della conversazione.
1: L’evoluzione degli uomini!!
Può essere che per i bambini sia più facile pensare a qualcosa che li riguarda da vicino
(di qui forme di antropocentrismo), oppure a qualcosa, come poi specificheranno, che
ha più probabilità di essere una risposta adeguata a una “interrogazione” ovvero a
una situazione in cui si deve mostrare quello che si è imparato a scuola.
F: Eh, vedi che ce l’hai fatta!
L’ambiente iniziale è molto freddo, c’è una parvenza di disinteressamento, c’è un clima
di tensione, o anche solo di attesa, di sospensione, probabilmente dovuta anche al contesto didattico, a un “gioco linguistico” (nel senso che al termine dà Wittgenstein; Wittgenstein, 1953) non ancora chiarito.
7: l’evoluzione dell’uomo! Nasce… cresce… e poi muore.
[Evidenzio in grassetto ciò che viene ripreso tra un intervento e l’altro].
Da subito si confonde evoluzione di specie con sviluppo individuale: uno dei nodi epistemologici fondamentali nella comprensione della teoria dell’evoluzione.
8: Io in storia ho sentito parlare dei dinosauri… che prima c’erano i dinosauri poi le
scimmie e poi sono diventate uomini…
M: In storia?
8: Sì.
M: Non in scienze?
10: Io ho sentito parlare dell’evoluzione dell’uomo in storia… l’uomo nasce, cresce e
poi… muore.
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11: Noi in storia abbiamo fatto l’evoluzione dell’uomo, ma anche l’evoluzione del
mondo e… va beh: che l’uomo nasce, cresce…
Il riferimento alle “materie” sembra confermare l’ipotesi che i bambini si percepiscano
in un contesto scolastico, che siano immersi nel “gioco linguistico” della interrogazione.
M: Sì, ma quella del mondo...?
11: Ah: che nascono i vegetali, poi iniziano a nascere gli animali, poi le scimmie poi ci
evolviamo noi, l’uomo.
Qui si tocca un altro nodo epistemologico fondamentale della teoria dell’evoluzione,
come visto in precedenza, quello della evoluzione “ad albero” delle specie viventi, che
si “scontra” con quanto afferma 11, probabilmente perché lo ha appreso, ovvero che
l’evoluzione ha seguito un “percorso” lineare e progressivo.
M: Mmm... quello che ha detto lei [11]… adesso, man mano che mi date le risposte,
cambio le domande... allora aspetta, perché a questo punto hanno detto due cose diverse: prima si è parlato dell’evoluzione dell’uomo e s’è detto “nasce, cresce e muore…”
lei [11] invece ha detto che ha sentito parlare dell’evoluzione del mondo; allora però
non è “nasce, cresce, muore” il mondo… ha detto una cosa diversa, avete sentito?
È sempre riportato un qualcosa che si è studiato a scuola, non ci sono esempi concreti,
di esperienze personali come ci saranno più avanti nella conversazione: il contesto è
momentaneamente ancora incentrato sulla didattica e sull’esposizione (come in un contesto di verifica).
M: Prima ci sono dei tipi di… diversi… Adesso andiamo avanti.
12: Io ho sentito parlare dell’evoluzione dell’uomo, che nasce scimmia e poi diviene
uomo primitivo e infine uomo di adesso.
È il primo intervento che riguarda l’evoluzione di una singola specie (anche se il linguaggio usato è ambiguo, 12 sembra riferirsi alla specie), in particolare della specie
dell’uomo e dei cambiamenti che si sono succeduti dall’antenato comune con le scimmie ad oggi.
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14: Anch’io ho sentito parlare dell’evoluzione dell’uomo, che secondo me è scimmia,
uomo primitivo, uomo moderno e ha sviluppato le capacità utensili, ha iniziato a fare
i templi…
Contesta la precedente specificazione e cerca di fornirne una ancora più specifica e
corretta. Anche qui emergono informazioni di fonte scolastica
17: Io ho sentito parlare anche dell’evoluzione del bruco, che prima era un bruco e poi
una larva e alla fine diventa farfalla.
Un primo esempio (anche se scorretto rispetto all’evoluzione) legato a un’esperienza
verificabile nel quotidiano, forse anche frutto di un osservazione personale.
19: Io ho sentito anche in storia l’evoluzione dell’uomo e poi anche in storia
l’evoluzione della posizione della Terra nel mondo... poi…
Prosegue in questi interventi quella che pare essere un’esibizione di tutto ciò che i
bambini hanno imparato a scuola: c’è chi porta osservazioni legate all’esperienza, c’è
chi associa l’evoluzione al solo genere umano e chi invece generalizza a tutti gli esseri
viventi e perfino non viventi, in un ampliamento di prospettiva sempre maggiore.
M: No: non ho capito… la posizione della Terra nel mondo in che senso?
19: Che prima era tutta attaccata e poi si è iniziata a staccare…
M: Allora quelle due cose che hanno detto loro sono due cose diverse: in un caso ha detto: l’evoluzione dell’uomo è “nasce, cresce, muore”; invece per l’evoluzione della
Terra avete tirato in ballo altre cose, lei [11] diceva il fatto che prima c’erano le piante… lui [19] si è ricordato che l’evoluzione della terra è il fatto che le terre, i continenti, prima erano attaccati, poi si sono staccati… è una cosa diversa…
Qui M. interviene “rispecchiando” e riformulando un atto linguistico oscuro, al fine di
chiarirlo. Questo, come afferma C. Pontecorvo, ha un effetto positivo nel favorire la
partecipazione e nel rendere più chiaro e più utilizzabile l’intervento successivo. Questa strategia è ricorrente in questa conversazione (Pontecorvo, 1991).
1: La Pangea…
M: Ma, in conclusione, l’evoluzione qual è fra queste?... Ah no! Sono quattro cose, mi
sono dimenticato: una è “nasce, cresce, muore”, l’altra era “scimmia, uomo primiti-
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vo, uomo moderno”, poi il fatto che “sulla terra c’erano alcune forme di vita, poi altre…” e poi “la terra che cambia la posizione dei continenti sul globo”.
20: Io invece mi ricordo delle scimmie, ma non mi ricordo invece più come si chiamano.
M: Va beh…
M. riassume al fine di chiarificare e focalizzare il discorso: nel momento in cui
l’intervento successivo rivela di non aver colto il focus della domanda, M. sminuisce
l’importanza dell’intervento al fine di riportare l’attenzione sulla precedente domanda.
21: Eh sì... e l’evoluzione penso sia che prima erano delle normali scimmie e poi si sono evolute per adattarsi all’ambiente…
L’idea è che evoluzione delle scimmie ancestrali (verso l’uomo) inizia da una diversità:
effettivamente, sul piano scientifico, la selezione naturale ha agito sulla variazione, e
quindi su scimmie che differivano dalla norma (si veda 3.2.3).
Compare questa nuova parola “adattamento” che entra nel lessico del gruppo e verrà
utilizzata successivamente più volte.
M: Questa è una parola nuova… A questo punto la domanda è: di quale, delle quattro
cose che abbiamo detto, parliamo? perché, al di là che le cose si chiamino “evoluzione”, “adattamento” ecc., di quale vogliamo parlare… La cosa che mi interessa di più
capire di quello che avete detto è… la faccenda dell’uomo, la scimmia… quando voi
dite che cambia… ditemi bene come avete detto... chi l’ha detto?
10: Nasce, cresce, muore?
M: No… com’è che hai detto esattamente?
8: Che c’erano i dinosauri, poi c’erano le scimmie che poi sono diventate uomini.
M. problematizza una definizione, cercando di comprendere e far comprendere realmente cosa possa significare tale parola: questo è fondamentale giacché le categorie di
pensiero attraverso le quali impariamo a descrivere il mondo, sono quelle del linguaggio che impariamo a usare e tali rappresentazioni influenzano a loro volta la comprensione.
M: Bene, fermo lì! quando lui [8] dice che sono diventati uomini, cosa sta dicendo veramente?... Preciso la domanda: “c’era una scimmia, e quella scimmia lì si è trasformata in uomo”: è questo che noi stiamo dicendo?
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Ritorna il nodo epistemologico della differenza tra evoluzione di specie e crescita
dell’individuo.
[confusione]
F: La domanda è: una mattina la scimmia si sveglia e si ritrova uomo?... è andata così?
In questo intervento, F. cerca di semplificare la domanda sia su un piano linguistico
che su un piano epistemologico riferendosi a una situazione più concreta.
[confusione]
M: Il punto importante della domanda è se quell’animale lì prima era una scimmia e poi
si è trasformato in uomo, quindi non c’è più la scimmia ma c’è l’uomo… Vorrei capire come pensate che succede che una scimmia diventa uomo… io non ho mai visto
una scimmia diventare uomo… può darsi che non l’abbia vista io oppure che forse…
M., cerca a sua volta di spostare il discorso in un ambito più esperienziale; ora
l’obiettivo è partire da un caso particolare che sia significativo di qualcosa di generale.
1: Sì, ma perché mangiano cose diverse!
Sembra ipotizzare che diverse tendenze alimentari possano essere la base per l’origine
di diverse specie. Se si tratta di tendenze ereditarie è un’idea corretta per la teoria evolutiva-genetica classica. Oggi addirittura ci sono evidenze scientifiche che le abitudini
alimentari possano essere ereditate con meccanismi epigenetici, cioè in qualche modo
lamarckiani (Jablonka – Lamb, 2005).
2: Le scimmie si sono evolute.
M: Sì, ma come?
2: Hanno una crescita, diventano più intelligenti! E il cranio…
M: Sì, tu stai usando il plurale “le scimmie”…
M. cerca di indirizzare sul focus della domanda, ignorando il resto dell’intervento di 2.
E’ un esempio di quello che Sala chiama “contenimento cognitivo” (Sala, 2007).
2: Le scimmie.
M: Invece lui [12] diceva “la scimmia”… allora stiamo parlando di una? di tutte? di un
gruppo?
È la stessa domanda fatta prima, solo proposta con parole diverse e con un esempio
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concreto: questa strategia di interazione può essere interpretata come un avvicinamento alla “zona di sviluppo prossimale” (Vygotskij, 1960).
1: Di una.
Altri: Di tutte.
M: Chiarisco bene la domanda: ciascuna scimmia è diventata uomo e questo è capitato
solo alle scimmie?
1: Noooo!
M: Ah, vedi che dobbiamo capirci bene!
1: Quella di oggi non si è trasformata.
Riporta a un esempio più delimitato e quindi più concreto, che pone una indiscutibile
verità, l’enunciazione più generale di M.. In questo momento la parola “diventare” usata prima, si scontra con un’evidenza empirica; alla modifica del termine (“trasformarsi”) si associa un chiarimento dell’idea (“non si è trasformata”).
M: Allora: a chi è capitata questa cosa di diventare, da scimmia, uomo?
2: Eh, a delle scimmie sì e a delle scimmie no…
È la spiegazione più logica e intuitiva ma, come si vedrà più avanti, difficilmente motivabile.
M: Ah bene, vedi, pian piano… va bene…
3: Io penso che la scimmia, prima era una scimmia normale poi pian piano ha cominciato a crescere… è diventato un pochino più intelligente scoprendo le altre cose
nuove e così piano piano con gli anni è diventato una persona…
Difficile dire se 3 ha colto le parole di M. “pian piano” come un suggerimento; qui viene esplicitato un altro nodo epistemologico della teoria dell’evoluzione: la teoria del
gradualismo.
M: Stai parlando della vita di una scimmia?
M. ancora una volta sceglie di riportare il focus del discorso sul precedente nodo epistemologico.
3: Sì.
45
M: Bene, dei cambiamenti che sono avvenuti… lui [3] ha descritto in maniera dettagliata dei cambiamenti che sono avvenuti nella vita di una scimmia. Sei d’accordo che
questo è capitato ad alcune scimmie e ad altre no?
3: Ad alcune sì e ad altre no.
4: Allora, io penso che prima hanno imparato a camminare pian piano nella savana poi
hanno iniziato un po’ a… a… alla caccia…
M: Questi cambiamenti succedono nella vita di una scimmia?
4: No anche di altre.
Evidentemente il linguaggio utilizzato non è chiaro; la domanda fatta da M. può essere
interpretata in più modi: stiamo parlando della vita di una determinata scimmia? o di
un branco di scimmie? o di generazioni di scimmie?
M: Di tante scimmie?… cioè: nella loro vita... nascono scimmie… poi man mano che
vivono cambiano... è così?
4: Quando anche stavano nella savana… e camminano e cacciano…
M: Sì, ma quindi questo succede da quando nascono a quando muoiono?
Adesso la domanda è stata resa più precisa.
4: Sì.
M: Va bene: ho capito.
5: Per me la scimmia si è evoluta… cioè… ha imparato delle cose…
M: Ma pensi anche tu che questo è avvenuto da quando è nata a quand’è morta? Durante la vita insomma?
5: Mmm... sì.
6: Per me la scimmia si è evoluta, ma solo alcune scimmie, non tutte, e si è evoluta perché prima la scimmia camminava su quattro zampe e poi pian piano su due.
M: Anche tu pensi “durante la vita”?
6: Sì.
Probabilmente i bambini non rispondono direttamente alla domanda di M. perché non
l’hanno compresa o perché non conoscono una risposta; esprimono comunque delle
loro idee, come se esplorassero il campo.
7: La scimmia ha imparato delle cose nuove, è diventata più intelligente, poi magari ha
fatto i figli che sono nati come lei… e così man mano…
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M: Aspetta, perché riguardo questa cosa qua… va beh, finiamo il giro poi ci ritorno
su…
Vi siete accorti cos’ha detto [7] di diverso dagli altri?
M. rimarca ciò che è stato detto al fine di far cogliere l’importanza di questa nuova idea emersa.
12: Sì.
M: Cosa?
12: Ha detto che la scimmia quando si è evoluta ha fatto i figli e perciò si è …
[confusione]
8 : Io penso che non è possibile che da quando nascono a quando muoiono… cioè che
nascono scimmie e muoiono uomini… succede nel corso degli anni, non è che una
nasce scimmia e poi diventa uomo... si sono adattate all’ambiente nel corso degli anni…
Da questo momento, tutti gli interventi che verranno terranno conto di questo nuovo
elemento: l’intervento di 8 mette in discussione la possibilità che il cambiamento avvenga nella vita di una singola scimmia e sposta il focus della discussione sulla dimensione temporale dell’evoluzione (quello che manca qui è l’idea del succedersi delle generazioni che sembrava essere presente nell’intervento di 12). Tuttavia, benché 8 abbia
introdotto nel campo della discussione degli elementi pertinenti, non è ancora stata
formulata un ipotesi. È interessante notare come bambini diversi contribuiranno alla
costruzione di un pensiero collettivo partendo da idee diverse, ma tutte necessarie come
elementi da mettere in relazione per costruire conoscenza su questo argomento.
M: Ecco questo… diciamo… chi parla dopo tenga conto di quello che è stato detto adesso - è importante! - mentre loro dicevano che questo cambiamento da scimmia a
uomo avviene nell’arco di una vita, cioè praticamente, sentendo quello che dicono
loro, nasce scimmia poi pian piano comincia a camminare a due zampe ecc… e muore uomo, cioè pian piano diventa uomo, nell’arco di una vita; loro invece hanno incominciato a tirare in ballo i figli… la domanda a questo punto diventa: ma questo
cambiamento da scimmia a uomo avviene nell’arco della vita, quindi nasce scimmia... sì alcune, non tutte… alcune nascono scimmie e muoiono uomini perché
nell’arco della loro vita c’è stato questo cambiamento, oppure cosa centrano i figli...
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che lui [12] ha cominciato a nominare… per cui d’ora in poi... tenete conto di questa
novità.
11: Secondo me, sono d’accordo con G. [8], ma non è che... nascono scimmie e muoiono uomini perché... non tutte sono diventate uomini… non tutte sono arrivate
all’evoluzione.
Quella che viene espressa da 11 è l’idea che ad evolvere non è l’intera specie, ma solo
una parte (vedi 3.2.3).
M: Allora: voi conoscete qualcuno che è nato scimmia ed è morto uomo?
Ulteriore riferimento a un esperienza di vita, a ciò che concretamente si è potuto osservare: il discorso passa da un piano completamente astratto a un piano concreto.
Molti: noooo!
M: E allora perché…? Va beh, ci arriviamo...
11: Allora, come avevano detto anche loro, solo alcuni gruppi di scimmie si evolvono e,
se non sbaglio, sono le scimmie antropomorfe… cioè, se io ero una scimmia e sono
diventata habilis… mio figlio si evolverà e andrà avanti con lo sviluppo.
Qui vengono ripresi i precedenti interventi di 8 e 12 e viene formulata un’ipotesi, cioè
che l’evoluzione sia un cambiamento attraverso le generazioni.
M: Ah: ecco allora cosa possono entrarci i figli! Cioè lei [11] dice: non è nell’arco di
una vita che uno nasce scimmia e diventa uomo, ma, se nasce scimmia può succedere
che comincia a cambiare un po’ e poi il figlio...
11: .... porta a termine la…
M: ... diciamo: parte da dove è arrivato il genitore...
11: ... il padre, sì...
M: ... e poi va avanti.
M. si mostra stupito, si fa “perturbare” dall’intervento della bambina e l’interazione
tra i due porta a una chiarificazione. Qui è presente quell’ “accoppiamento strutturale”
di cui parla la teoria dell’autopoiesi e che, secondo Sala, può essere attribuito, in chiave pedagogica, alla possibilità che nel rapporto tra esperto e bambini intercorrano reciproche perturbazioni che inneschino dei cambiamenti (Sala, 2007).
E quindi per avere tutto il cambiamento?
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11: ... e il nonno e il bisnonno…
M: Eh! E come si chiamano queste robe qua?
11: Cioè la famiglia, la…
M: La parola che usano gli scienziati è “generazione”…
Questa nozione non fa parte del sistema cognitivo dei bambini; nei precedenti interventi
essi si erano gradualmente avvicinati a tale nozione, tanto da permettere a M.
l’introduzione di un nuovo termine che possono assimilare grazie all’aiuto dell’adulto,
che lo introduce come se fosse un’ “etichetta” messa sopra un’idea appena espressa
dai bambini stessi: siamo di nuovo nella “zona di sviluppo prossimale” (Vygotskij,
1960).
12: Allora… perché le scimmie che vedo adesso non si evolvono in uomini? Magari
perché le scimmie antropomorfe non ci sono più… io non lo so questo.
La perturbazione reciproca continua finché quasi non s’invertono i ruoli: adesso è 12
che ha una domanda, delle perplessità, delle spiegazioni da cercare. Questo mostra
come il “gioco linguistico” attuale sia completamente diverso da quello iniziale: si è
infatti passati dall’ “interrogazione” alla “ricerca cooperativa”.
M: Ci sono ancora invece… Cioè lei [12] dice che, se le cose vanno come dice lei [11],
cioè che una scimmia cambia, poi fa e figli ecc…, le scimmie che ci sono adesso…
perché non cambiano?
M. opera uno spiazzamento: da questo suo intervento è evidente che la domanda è importante e che la risposta più semplice che poteva esserci, quella che si dà 12, non è
soddisfacente.
14: Allora io sono d’accordo con tutti quelli che hanno detto dei figli… di come si evolve la scimmia… e mi faccio la stessa domanda di C. [12]: perché le scimmie antropomorfe non si evolvono più? Forse perché il Rift non si fa più… cioè… il Rift…
Questo intervento mostra come i bambini “si ascoltano” nel senso profondo di “si
comprendono” e portano avanti lo stesso processo collettivo di costruzione di conoscenza (Sala, 2004; Sala, 2007). 14 riprende la domanda precedente e cerca di dare
una risposta più soddisfacente: lo fa mettendo in relazione cause ambientali con
l’evoluzione: sarà qualcosa che aveva studiato? È possibile vedere come in questo
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“gioco” della ricerca, i bambini rimettono in gioco in modo pertinente le informazioni
ricevute dall’ambiente (Sala, 2007).
M: Cos’è il Rift?
Con questa richiesta di informazioni M. da una parte cerca ulteriori spiegazioni per sé
(si è fatto “perturbare” e continua l’ “accoppiamento strutturale” – vedi 2.1.4), da
un’altra fa in modo che l’argomento di discussione sia chiaro anche agli altri bambini,
da un’altra ancora verifica che il “gioco linguistico” non sia tornato quello iniziale
dell’interrogazione in cui si citano cose studiate per ottenere approvazione.
14: La spaccatura… cioè alcune scimmie nell’epoca… hanno deciso di stare nella savana, invece altre si sono decise di andare nella foresta pluviale…
Da notare l’uso del termine “decidere” che suggerisce una intenzionalità; questa terminologia è scorretta dal punto di vista scientifico ma gli stessi scienziati usano questo
linguaggio in senso metaforico. Il problema è se i bambini sono consapevoli che si tratti
di una metafora (Sala, 2008).
M: Sì, ma che cos’è il Rift?
14: Il Rift è la spaccatura del terreno che ha fatto... in Africa… che …
[confusione]
M: Aspetta: ferma un attimo!… quello che stai dicendo è che questa cosa è successa
perché ci sono state condizioni diverse tra quelli che erano al di qua o al di là della
spaccatura… ecco il perché... quando si diceva “alcune sì e alcune no”… è perché alcune avevano certe condizioni ed altre no...?
Altro nodo chiave della teoria dell’evoluzione: la speciazione su base geografica. (Pievani, 2006)
17: Secondo me quello che ha detto S. [14] è giusto perché quando è avvenuta la spaccatura nel terreno, il Rift, alcune scimmie hanno deciso di rimanere nel proprio
habitat e non lasciarlo, mentre altre hanno deciso di cercare altre foreste dove vivere… per questo adesso l’uomo deriva dalla scimmia; invece quelle che hanno deciso
di rimanere nelle foreste sono rimaste com’erano prima... e adesso noi possiamo essere uomini grazie alla dinastia che ha permesso all’uomo di svilupparsi sempre di
più fino ad arrivare a noi.
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M: Mi sembra che questa cosa qua sia già stata detta… chi è che ha parlato di adattamento prima? Ci sono diversi modi di adattarsi… cioè, se cambia l’ambiente, può essere che uno si adatta… cambia adattandosi al nuovo ambiente, oppure può essere
che lascia il vecchio ambiente… migra... due cose che possono succedere... Quindi
una parte di quegli animali lì rimangono dove sono e, com’è cambiato l’ambiente,
cambieranno anche loro… se no non sopravvivono più, oppure possono decidere di
cercare un posto che sia come quello di prima e migrano.
Questo è un ulteriore esempio di uso della “zona di sviluppo prossimale”: M. parte dalla conoscenza che i bambini hanno costruito e integra con altre informazioni. È anche
un momento nel quale l’esperto (M.) entra nel “gioco linguistico” di insegnante.
19: Per me quello che ha detto S. [14] e C. [12] è giusto però… adesso non è che dobbiamo aspettare il Rift… perché… mmm… Questo andamento... diciamo…
dell’evoluzione dell’uomo... ci sono voluti tanti anni per... per il cambio
dell’aspetto… e questo… in ognuno diciamo…
Questo intervento mostra un accordo con quanto stato detto in precedenza, ma anche
delle perplessità: sembra che non riesca a spiegarsi come un evento ambientale possa
produrre dei cambiamenti su un così lungo periodo di tempo oppure che, al contrario,
la difficoltà sia quella di pensare il cambiamento su un periodo così lungo che non si
riesce neppure a immaginare a partire dalla percezione diretta o dalla ricostruzione
che si può fare a partire da quella (le proprie foto di quando si era piccoli, la piantina
nel vaso di casa, il cane di famiglia...).
M: Quindi noi non lo vediamo perché non viviamo abbastanza anni… cioè, se aspettiamo un po’, lo vediamo qualche cambiamento?
19: Però non in noi perché noi ormai abbiamo già fatto il nostro cambiamento… adesso
dobbiamo aspettare i nostri figli...
Con questo intervento si esplicita l’idea che l’uomo è attualmente in evoluzione e che
questa si manifesta nei cambiamenti tra una generazione e l’altra.
Da notare che non era stato 19 a introdurre il discorso delle generazioni, ma 12 e 11:
è come se questo discorso fosse diventato patrimonio della conoscenza del gruppo.
Naturalmente potrebbe essere che 19 lo pensasse già da prima.
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M: Quindi sei d’accordo con lei [11] che noi facciamo un pezzettino di cambiamento e
poi il figlio continua…
20: C’è anche il fatto che la scimmia una volta aveva il pollice così [mima] …
M: Ma secondo te cosa centra… cioè perché citi il pollice così?
…
F: M., facciamo fare un altro giro, che vedo che ci sono tante mani alzate?
[Tutti i bambini hanno le mani alzate e chiedono di poter fare un altro giro per poter
dire la loro opinione: l’ambiente si è evidentemente scaldato.]
M: Sì… poi faccio una domanda nuova a proposito di quello che avete detto…
21: Allora, secondo me, invece le scimmie antropomorfe che ci sono ancora non si evolvono perché non ne hanno più bisogno perché…
Qui sembra esserci un’idea finalistica e “animista” di evoluzione ( si veda 2.1.2).
M: Aspetta! metto solo insieme quello che hanno detto alcuni di loro... insomma ve lo
ridico a modo mio e voi mi dite se ho capito bene; allora: certi cambiamenti succedono perché succede qualcosa di grosso, per esempio si apre un Rift, e mica succede
tutte le volte, quindi capita una volta e poi non capita più. Lui stava parlando del fatto che c’è stato questo grosso cambiamento, ci vuole del tempo per adattarsi a questa
nuova situazione, poi, una volta adattati, basta - no?- perché si dovrebbe cambiare
ancora se non succede niente… Ho capito bene?... Bene!
La chiave di volta è la forza che mette in moto l’evoluzione: M. e i bambini sono su due
piani diversi; i bambini dicono: “se l’ambiente cambia, noi decidiamo di cambiare, altrimenti che motivo avremmo di farlo?”; M. invece dice: “si cambia perché l’ambiente
è cambiato”. Se la responsabilità del cambiamento è nel primo caso attribuita al volere
dell’uomo, nel secondo caso dipende dalle condizioni ambientali. Ancora una volta ciò
potrebbe essere attribuito all’ “animismo” infantile di cui parla Piaget (Piaget, 1926),
ovvero a una fase “naturale” di sviluppo del bambino, dall’altra alla esposizione dei
bambini a un ambiente culturale che comunica sull’evoluzione parlando un linguaggio
animista.
M: Sentiamo prima qualcuno su quello che abbiamo già detto, poi vi introduco altre
domande…
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2: … che poi le scimmie sono diventate più... dopo tutta la rivoluzione sono diventate
più responsabili, hanno scoperto il fuoco, poi ci sono anche delle... cioè hanno trovato delle caverne e li hanno messo dentro come casa per riscaldarsi, e che mangiavano…
M: Quindi mi stai dicendo che i cambiamenti non sono solo fisici, tipo il pollice, ma
sono anche dei cambiamenti nel modo di comportarsi…
M. cerca di riformulare, attraverso il “rispecchiamento”, una frase oscura e ambigua,
rendendola utilizzabile anche dagli altri bambini: ovviamente potrebbe in questo modo
travisare il significato che ad essa voleva dare il bambino.
3: Io penso che noi camminiamo su due piedi perché loro, quando crescevano... le braccia non arrivavano più a terra e così hanno dovuto imparare a camminare soltanto
con due piedi.
Ha un’intuizione di un tema importante nell’evoluzione della teoria dell’evoluzione,
ovvero l’idea che non tutto nell’evoluzione si spiega come adattamento della forma alla
funzione (Gould – Vrba, 1982). M. però non coglie questo aspetto e sposta il fuoco del
discorso su un altro tema cruciale: il fatto che la variazione precede la selezione e
l’adattamento
M: Aspetta perché questa è una cosa nuova! Dimmi se ho capito bene: tu dici che prima
è successo che avevano le braccia più corte e allora a quel punto si trovano meglio a
camminare su due piedi… è così?
3: Sì.
M: Bene: è importante questa cosa nuova.
M. sottolinea l’importanza di questo nuovo elemento, ma i prossimi interventi sembrano
non coglierne l’importanza: potrebbe essere una valutazione sbagliata in termini di
“zona di sviluppo prossimale”. L’idea che il cambiamento casuale precede un possibile
processo di selezione e che l’adattamento sia la conseguenza di questo processo è troppo complessa e lontana dalle rappresentazioni culturali dominanti.
11: Allora io non ho capito il fatto, cioè il fatto del Rift; cioè ha detto che c’è la spaccatura, che c’è stata una volta e non ci sarà più... magari ci risarà, però non accadrà
niente.
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C’è qui un’idea di contingenza, e cioè che un evento possa essere individuato a posteriori come causa di una evoluzione, ma che non si tratti di una causa necessaria: in altre circostanze potrebbero accadere cose diverse. (si veda 3.2.3)
[confusione]
11: E poi, secondo me, una cosa da dire è che c’è stata questa spaccatura e da un lato
non ci sono più state delle foreste e perciò… per procurarsi il cibo e anche per vivere
dovevano cacciare, cioè dovevano usare le mani.
Tutto il discorso adesso ha per focus l’adattamento, ovvero il rapporto tra forma dei
viventi e funzioni per la sopravvivenza: questo è un altro elemento fondamentale del
pensiero evoluzionista.
M: La domanda è questa, ed è una domanda importantissima: se succede prima che
cambia l’ambiente e poi gli animali cambiano per adattarsi all’ambiente oppure succede che qualcosa negli animali ha un cambiamento e quello li costringe a cambiare
abitudini? Lui diceva “se la scimmia ha le braccia corte cammina male, allora comincia a camminare in piedi”; quindi prima è successo che è cambiato, dopo di che,
siccome cammina tutto in piedi e nella foresta si trova male, va nella savana… insomma prima c’è il cambiamento del corpo e dopo l’animale cambiato si trova un
ambiente adatto, oppure, al contrario, cambia l’ambiente e allora l’animale cambia
per vivere meglio nell’ambiente cambiato? Iniziamo il giro regolare… cosa ne pensate di queste due cose? È chiara la domanda o no?
M. torna sulla sua idea precedente, ma forse si è reso conto che deve essere costruita
collettivamente dai bambini.
-: Io non l’ho capita
appunto!
F: Posso provare io?
M: Dai…
F: Allora… ci sono due soluzioni... facciamo l’esempio dell’alzarsi in piedi: l’uomo
prima andava a quattro zampe poi si è alzato in piedi: la domanda è: si è alzato in
piedi per raggiungere gli alberi più alti, o comunque per cacciare più velocemente,
oppure si è alzato in piedi perché le braccia si sono accorciate, faceva fatica a cam-
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minare a quattro zampe e si è alzato in piedi? Qua la differenza è che in uno dei due
casi l’obiettivo non era raggiungere i rami più alti, è stata una cosa di fatto: uno non
riusciva ad andare a quattro zampe, perché è veramente scomodo con le braccia corte, e allora ha dovuto alzarsi e poi ha capito che poteva anche raggiungere le piante,
ma non era quello lo scopo… oppure lui ha fatto in modo di riuscire ad alzarsi in
piedi per raggiungere le piante? È più chiara la domanda?
F. cerca di riproporre la domanda precedentemente formulata da M., assumendo un
registro narrativo più vicino al pensiero dei bambini (si veda 2.1.8) senza però rendersi
conto che il problema è il non essere ancora nella “zona di sviluppo prossimale”
[confusione]
- : Io non ho ancora capito la domanda…
I bambini mostrano chiaramente che non siamo nella “zona di sviluppo prossimale”.
F: Magari seguendo il giro la capisci di più, però…
M: Vediamo se te la fanno capire meglio i tuoi compagni, perché… non è facile.
3: La scimmia… lei cresceva e invece le braccia non crescevano più perché una scimmia non è che cresce tanto tanto tanto e invece […] le gambe erano proprio più grandi delle mani e delle braccia e quindi c’è una differenza fra loro e ha dovuto camminare soltanto con i piedi… [sottolineatura mia]
In questo intervento si può notare il registro narrativo (forse incoraggiato
dall’intervento di F.); del resto corrisponde al “fare esempi” che è un modo efficace di
co-costruire conoscenza.
Da notare l’espressione “ha dovuto”: è la prima volta nella conversazione che viene
usato; al contrario dei termini “ha deciso” o “avere bisogno”, che sono ricorrenti, rimanda all’idea della scimmia-uomo che subisce un processo e non che lo agisce intenzionalmente. Verrà ripresa più avanti da altri bambini (sarà evidenziata con mie sottolineature)
M: Perfetto! Ti faccio ancora una domanda... è chiarissimo quello che hai detto… prima
è successo che le gambe fossero più lunghe delle mani; a quel punto era scomodo
camminare per terra, quindi si è alzato in piedi e si è abituato a vivere in un altro modo; la domanda a questo punto è: ma come mai a quella scimmia lì sono diventate le
braccia più corte delle gambe?…
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3: Perché ha cominciato ad andare… è andato a vedere delle nuove cose, così con i mesi
e con le settimane ha cominciato a mangiare meglio.
M: Questo dopo, ma io dicevo prima, quando si diceva...
F: No, forse sta dicendo che ha cambiato l’uso che faceva delle mani, avendole impegnate per...
M: Sì, sì, però quello dopo; la mia domanda era: ma all’inizio, quando incomincia…
perché le braccia gli sono diventate più corte?
3: Perché piano piano ce le aveva impegnate, perché era un pochino più grande... perché
doveva…
M: Ma è qualcosa che era successo… prima…va beh...
Non siamo nella “zona di sviluppo prossimale”: 3 non riesce a dare una risposta a ciò
che chiede M.: si tratta di un’idea molto difficile da costruire e da reperire dal contesto
culturale.
4: Quello che ha detto lui [3], che le scimmie avevano le mani troppo piccole, per me
prima di tutto perché, quando crescevano, le mani diventavano... prima erano più
grandi, perché se erano piccole come facevano a… non c’era bisogno di avere le mani… quindi ogni volta che crescevano, le loro mani… diventavano un po’ più… piccole.
M: Per chiarirvi un attimo la faccenda, facciamo che io sono una scimmia e cammino a
quattro zampe… [mima] per camminare a quattro zampe io devo avere la colonna
vertebrale piegata davanti... Supponiamo che io nasca con un difetto della colonna
vertebrale per cui non riesco a stare piegato… ce l’ho così, e non riesco più a stare
piegato – no?- a questo punto faccio fatica a camminare a quattro zampe… tutti i
miei antenati hanno sempre camminato a quattro zampe, hanno continuato a vivere
così… io però ho il problema che ho la schiena rigida, quindi faccio fatica. Allora a
questo punto o decido che non ce la faccio, non riesco a stare dietro agli altri, non
riesco a correre eccetera… mi metto da parte e muoio… oppure a questo punto dico:
beh, visto che sono così, che è un difetto... però adesso vi faccio vedere… con queste
zampe qui, bipede, perché non le adopero per prendere, per esempio, la frutta sui rami più in alto? Tutti i miei famigliari mangiano le cose che cadono per terra e non si
sono accorti che qui c’è della frutta da mangiare… capite cosa sto dicendo? Cioè siccome, per una malattia, ho la schiena più dritta, a questo punto mi metto a fare… mi
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adatto a una vita nuova… Questo era quello che cercavamo di spiegare prima. Oppure invece c’è l’altra cosa, cioè: tutti camminano a quattro zampe e a un certo punto
cambia l’ambiente... il Rift, tutte queste cose qui… poi non c’è più niente da mangiare tranne la frutta in alto, allora a questo punto decido di alzarmi in piedi per prendere la frutta? Avete capito che... - no?- una cosa succede prima e una dopo.
Per tentare di affrontare l’evidente difficoltà della comprensione dell’idea M. adotta un
registro più teatrale che narrativo.
5: Prima camminavano a quattro zampe e crescevano quindi le braccia non arrivavano
più a terra e, alzandosi in piedi, arrivavano più agli alberi e avevano più da mangiare.
6: Per me si sono alzati perché […] magari per terra non trovavano più da mangiare.
M: Una dice un’ipotesi e l’altra quell’altra: uno a uno.
6: Sì.
8: Per me si sono alzati per l’adattamento della specie: comunque questi sono andati
nella savana e nella savana non ci sono piante a terra… quindi per me è
l’adattamento della specie e poi...
M: Va bene.
9: Per me è come ha detto...
M: Scusa… non è che dovete scegliere per forza per una delle due cose: se ve ne viene
in mente un’altra, va benissimo.
9: Per me è come ha detto M. [6] che non c’era più cibo per terra, per cui si sono dovuti
alzare. [sottolineatura mia]
È possibile che abbiano presente il celebre esempio della giraffa usato in modo pressoché universale nella comunicazione dell’evoluzione? Se è così si ribadisce l’importanza
della comunicazione sociale nello sviluppo della conoscenza dei bambini.
10: Per me siccome l’ambiente è cambiato loro hanno dovuto cambiare, adattarsi a questo ambiente… siccome la... va beh... siccome si sono dovuti adattare e quindi sapendo che nella savana non c’è tanta vegetazione per terra, non c’è vegetazione in
terra e hanno dovuto mangiare quello che trovavano sugli alberi; e infatti quelli lì, le
scimmie che sono andate nei territori della savana, si sono evoluti e invece quelle che
sono rimaste nei territori delle foreste sono rimaste scimmie. [sottolineatura mia]
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Questo è un pensiero elaborato, che sicuramente utilizza informazioni acquisite
dall’esterno, ma il linguaggio appare quello tipico dei bambini. Anche qui la forza motrice, il focus della discussione, è l’adattamento.
M: Qua ci sono due modi di evolvere: un evoluzione è quella di cambiare per adattarsi
all’ambiente nuovo, l’altra evoluzione è di spostarsi per cercare un ambiente uguale a
quello di prima.
12: Io ho due domande…
M: Ferma un attimo! Gli scienziati sono quelli che si fanno le domande, non quelli che
danno… poi, se riescono a dare risposta, va bene… ma soprattutto si fanno le domande… Vai!
Questo intervento meta-comunicativo ha la funzione di rinforzare il “gioco” della ricerca.
12: Perché adesso le scimmie non si evolvono più? anche se ci sono le antropomorfe e
ho sentito del Rift… cioè, anche se adesso... cos’è che è cambiato... anche se c’è la
cultura… che sono andati nella foresta...
Già prima aveva fatto questa domanda. Evidentemente non essendo riuscito a trovare
una risposta, ha continuato a pensarci fino a questo momento, non seguendo il lineare
sviluppo del discorso del gruppo. L’intervento non lascia cadere una domanda che non
ha ancora avuto una risposta soddisfacente e che è cruciale per la comprensione
dell’evoluzione: se fosse vero che le scimmie antropomorfe non si sono evolute a partire
dall’antenato comune con l’uomo, sarebbe vero che l’evoluzione del mondo vivente è
finalizzata in modo lineare all’uomo (progresso). Il fatto che 12 problematizzi la cosa
aiuta a evitare una cattiva comprensione.
M: La tua domanda è “ma perché le scimmie antropomorfe si sono evolute e adesso non
si evolvono più?”. La risposta che ti hanno dato loro è che, siccome non è più cambiato l’ambiente in cui vivono, sono rimaste com’erano prima. Non ti convince?
12: Poi la seconda era che l’A. [11] ha detto che le scimmie adesso stanno bene come
sono e quindi non hanno più bisogno di evolversi, però anche un tempo magari le
scimmie stavano bene e allora perché si sono evolute, se stavano bene?
Incoraggiata dall’interazione, sembra trovare sicurezza rispetto all’intervento precedente e formula meglio la domanda.
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M: La risposta è che se le scimmie stavano bene non ci pensavano a cambiare, ma siccome è successa questa cosa del Rift... che si dovevano spostare... è cambiato tutto,
come dire... hanno dovuto, in qualche modo, per sopravvivere, hanno dovuto cambiare. Questa è la risposta che ti danno loro.
14: Io sono con C. [12] e G. [8] perché le scimmie... anche in storia dicono che è cambiato il territorio, il Rift... c’era molta vegetazione, dovevano cacciare, quindi a quattro zampe non potevano cacciare e prendere le frecce.
Non riuscendo a fornire una spiegazione sul suo accordo, cita gli studi scolastici.
15: Per me le scimmie hanno dovuto camminare sulle gambe perché le braccia erano
corte e non...
M: Allora qualcuno… la maggior parte di loro ha risposto che è cambiato l’ambiente e
l’animale si è adattato, però qualcuno pensa che prima è cambiato qualcosa
nell’animale e dopo quell’animale ha dovuto cambiare ambiente.
17: Secondo me l’uomo è riuscito ad alzarsi in piedi grazie all’evoluzione perché questa
storia [...] abbastanza il Rift, ha capito che stando in piedi poteva anche essere un
nuovo modo per cacciare meglio, per correre… per prendere [...]
Anche qui sembra tornare l’idea di evoluzione come progetto, un’ottica finalista.
L’adattamento, che è un elemento di fortissima rilevanza nelle formulazioni della teoria
dell’evoluzione, viene quasi sempre veicolato da un linguaggio finalistico “per adattarsi a...”. Però si può notare che 17, pur con un linguaggio che suggerisce la consapevolezza e la decisione (“ha capito che”), ha colto e accettato il capovolgimento: prima lo
stare in piedi e poi l’uso adattativo dello stare in piedi: è un capovolgimento difficile e
cruciale.
M: Questo… qua hai messo insieme un po’ le due cose.
18: [...] Non ha più trovato cibo per terra… e ha dovuto [...] [sottolineatura mia]
M: Tu sei per l’altra versione.
19: Beh, io penso che [...] perché certi un po’ crescevano però non [...] E poi quando la
G. [8] ha detto che [...] non c’è un Rift... magari sono solo più [...] adesso [...]
Molti: Non è vero…
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M: Va beh, non entriamo nei dettagli... quello che ha detto lui è che effettivamente una
cosa grossa di quel tipo lì [l’apertura del Rift] non è più capitata da milioni e milioni
di anni.
Se siete pronti, parto con un’altra domanda…
[confusione]
M: Allora… siccome fra un po’ andrò via mi interessa invece sapere una cosa importante che avete tirato fuori prima… La cosa importante era rispetto ai figli; ricordate che
prima il discorso era che il cambiamento non è tutto nella vita di un animale (nasce
scimmia e muore uomo); abbiamo cominciato a fare questo discorso che nasce
scimmia, cambia un pochino poi nascono i figli, cambiano un altro pochino e dai e
dai e dai… magari ci vogliono migliaia di generazioni… ricordiamo anche che ci vogliono migliaia di generazioni, non due o tre... Va bene, adesso la domanda sarà questa: cosa succede tra i padri e i figli? Facciamo un esempio... mmm… supponete che
due... facciamo un esempio che riguarda gli uomini… persone, signorino e signorina,
vanno in palestra tutti i giorni, fanno tutti i giorni esercizi eccetera eccetera... nel giro
di un anno, due anni… gli succedono dei cambiamenti; per esempio cosa succederà?
- : [...] muscolacci.
M: Si fanno i muscolacci; da una parte si fanno i muscolacci, dall’altra magari...
- : i muscoletti?
[confusione]
M: Va bene, concentriamoci sui muscolacci, che è la cosa più evidente: gli vengono i
muscolacci; poi questi due decidono di sposarsi, fanno dei figli… secondo voi… la
domanda è questa: i loro figli nascono coi muscolacci o no?
Molti: Nooo!
[confusione]
22: Secondo me sì, perché anche quando siamo andati... l’abbiamo visto: quando siamo
andati in storia... una volta gli Spartani erano dei valorosi guerrieri, gli facevano fare
subito la ginnastica per fare i figli e già diventavano forti; quindi secondo me potrebbero comunque nascere…
Per spiegare fa riferimento a ciò che ha studiato utilizzando informazioni acquisite: la
scuola, l’insegnante, i libri, sono sempre un riferimento autorevole, perciò di solito li si
usa quando si vuole accreditare la propria opinione di fronte al gruppo; ciò conferma
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che la costruzione di conoscenza avviene sempre in un contesto sociale e che non è possibile valutare ciò che ciascuno dice solo in termini cognitivi astraendo dalla situazione
relazionale.
1: Secondo me no, perché le cellule sono sempre quelle e non possono cambiare aspetto
fisico… secondo me no.
Esplicita il disaccordo con l’affermazione precedente, fornendo una giustificazione da
“esperto”, una spiegazione impeccabile dal punto di vista logico e che implica conoscenze sofisticate (genetica), ma che dà anche per scontato conoscenze che forse non
sono condivise.
2: Secondo me sì, perché volevano arrampicarsi sugli alberi… volevano…
11: Abbiamo cambiato domanda!
2: Come?
M: Aspetta… adesso la domanda è nuova, è cambiata, adesso è: se due persone vanno
in palestra e si fanno i muscolacci, i loro figli nascono con i muscolacci o no? Abbiamo chi dice sì e chi dice no…
2: Per me... per me… forse…
Qui 2 stava evidentemente aspettando la fine del giro per poter esprimere la propria
opinione sulla domanda precedente, perdendosi tutti i progressi fatti.
3: No, forse lo sport ci sarà... da piccoli vorranno andare a fare sport, eccetera, così come la mamma e il papà, però uno che nasce che ha già i muscoli no!… come uno che
è già da dieci anni in palestra no!
M: Aspetta però, facciamo… effettivamente la domanda fatta così è un po’… scusate: i
bambini appena nati hanno i muscolacci?
Tutti: Nooo!
M: Quindi la domanda è, diciamo... facciamola meglio… secondo voi i figli nascono,
non subito appena nati…
7: Arnold Schwarzenegger è nato così!
M: Forse quando Schwarzenegger è nato aveva i muscolacci così, però quello che voglio dire è se i figli che nascono, appena si sviluppano un po’… avranno i muscolacci
anche se non sono ancora andati in palestra? oppure dovranno andarci in palestra?
3: Io dico che… no.
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M: Rimani del tuo parere, bene... tu?
4: Dipende…
M: Da cosa?
4: Dipende… perché… dipende che papà… Per me non centra se è muscoloso o no…
però, quando cresce… noi ne abbiamo pochi di muscoli… nel senso che i bambini
crescono e dobbiamo aumentare i muscoli… ci alziamo…
Le idee espresse sono che i figli assomigliano ai genitori (“dipende che papà”), che
non si ereditano i caratteri acquisiti (“non c’entra se è muscoloso o no”) e che il confronto con i genitori non può essere fatto nei primi anni di vita, perché ovviamente il
bambino deve ancora crescere.
M: Ma avrà bisogno di andare in palestra oppure avrà già i muscoli senza doverci andare?
4: In palestra, se vuole che gli vengono un po’ di più, sì…
5: Per me quando è piccolo non nasce già muscoloso: deve andare in palestra.
6: Per me non nasce già muscoloso, però se vuole i muscoli da grande dovrà andare in
palestra…
M: Dovrà cominciare da capo?
6: Sì
M.: Non basta se ci sono già andati i genitori?
6: No
M: Va bene.
7: Io dico di sì perché quando si dice: “tu hai questi occhi, hai il naso di tua madre”…
anche il fisico può [...]
Riporta a un’esperienza concreta, personale, meno astratta. Tutta questa sequenza dimostra che, se una conoscenza la si costruisce attivamente attraverso un processo, ne
può venire fuori un’idea sicuramente meno “astratta”, che si pone cioè come una rappresentazione adeguata di una realtà e non solo come la memorizzazione di una verbalizzazione.
M: Gli scienziati direbbero: il tono muscolare è ereditario o… quello che dice lui – no?la somiglianza con i genitori... abbiamo delle cose che assomigliano ai genitori… al-
62
lora anche la muscolatura si prende dai genitori perché ci assomigliamo… o deve ricominciare a….
8: Secondo me non proprio nascono… non subito… non proprio con i muscolacci…
però che... neanche… cioè più forte di quello che ha la gente… non come se il padre
o la madre non fossero andati in palestra... per cui io direi che qualcosa hanno ereditato cioè andando in palestra…
9: Secondo me non nascono… è come ha detto la M. [4] e il M. [5], quando diventerà
grande dovrà andare in palestra per farsi i muscoli…
M: Deve ricominciare da capo…
10: Per me non può nascere con i muscoli però magari può ereditare dal papà o dalla
mamma la voglia di fare sport…
- : Io l’ho ereditata dal papà.
La discussione sull’ereditarietà o meno dei caratteri acquisiti sembra approdare a
un’idea corretta, e cioè che si può ereditare una propensione, ma non direttamente un
carattere che dipende dallo sviluppo a dall’apprendimento; idea che non è stata fornita
dall’esperto, ma viene costruita sicuramente utilizzando informazioni che i bambini
hanno acquisito dall’esterno, ma che hanno sottoposto a discussione e a confronto con
l’esperienza. E le due cose sono integrate una all’altra.
11: Per me dipende: cioè se... uno non è che eredita tutto comunque… cioè eredita qualcosa... questo bambino che nascerà assomiglierà al papà… magari i capelli diciamo… o proprio i muscoli.
M: Scusami… interrompo un attimo... perché – attenzione!- noi stiamo discutendo se i
figli ereditano i muscoli del papà fatti in palestra: questo stiamo discutendo... perché
diciamo: se la famiglia è sempre stata muscolosa da sempre, perché sono… quello è
un altro discorso… noi stiamo discutendo se i bambini possono ereditare dai genitori
i muscoli che si sono fatti in palestra... capito?
Ancora una volta è evidente come chi conduce non può mai dare per scontato che una
domanda chiara per lui lo sia anche per i bambini: dev’essere costantemente attento a
capire dalle reazioni se l’interpretazione data dai bambini corrisponde a quella che
l’esperto era intenzionato a passare.
11: Ah…
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M: Stiamo discutendo se si può ereditare una cosa che si è acquisita durante la vita... ad
esempio andando in palestra… Facciamo un altro esempio: un esperimento un po’
crudele che hanno fatto 100 anni fa. C’è stato un signore che ha preso un topo e gli
ha tagliato la coda… ha preso due topi… al topo femmina gli ha tagliato la coda, poi
gli ha fatti accoppiare… secondo voi i figli sono nati con la coda tagliata o con la coda lunga?
Molti: Lunga.
Molti: Tagliata.
11: Secondo me… nasce normale.
7: Magari nasce con una cosa in meno…
12: [...] oppure come ha detto S. [10] che magari nascono con la voglia di andare in palestra…
M: Nell’esempio della coda tagliata? Cosa ne pensi?
12: Anche se gli hanno tagliato la coda, non è cambiato niente… come ha detto S. [1] le
cellule rimangono quelle... nel senso che…
Stanno parlando dei geni e della loro trasmissione: un altro fondamento della moderna
teoria dell’evoluzione.
M: Quindi nascono con la coda lunga?
12: Sì… perché è come dire… la cellula… cioè la cellula che permette di fare la coda al
topo... ecco non è che, se tagli la coda, quando si sono accoppiati... la cellula va via…
M: Chiarissimo, va bene [...]
14: Secondo me può nascere con mezza coda… cioè eredita qualcosina dal padre e dalla
madre…
Dall’esperienza di vita quotidiana arriva un’idea che è della massima importanza anche a livello scientifico: i caratteri dei figli sono una ricombinazione di quelli dei genitori; è la fonte più importante della variazione su cui si esercita il processo di selezione
naturale.
15: Secondo me magari avranno più voglia di fare sport ma non nascono con i muscoli…
64
M: Va bene: non si ereditano i muscoli direttamente, ma si potrebbe ereditare la predisposizione allo sport…
[confusione]
M: Prendiamo l’esempio dei topi che è più facile – no?- tagliano la coda ai genitori... i
figli nascono con la coda o senza?
[confusione]
Ora, a seconda di come la pensate, come la mettete con quello che si diceva prima
che il cambiamento evolutivo?… non avviene solo nell’arco di una vita… semplicemente c’è un piccolo cambiamento, poi i figli partono da lì, fanno un altro piccolo
cambiamento e quindi questa cosa, nel giro di tante, tante, tante generazioni fa un bel
cambiamento. Ora provate a mettere insieme le due cose... – no?- centra col fatto dei
muscoli, della coda tagliata? Perché, se siete d’accordo che i figli nascono con la coda normale anche se i genitori avevano la coda tagliata, allora i cambiamenti che sono avvenuti nei genitori non passano nei figli... e allora come funziona quella cosa
che i figli continuano a cambiare partendo da dove erano arrivati i genitori? Questo è
difficile - eh?- molto difficile…
17: Secondo me non centra perché… se i genitori sono nati già con la coda tagliata,
quindi già ce l’hanno[...] il figlio ce l’avrà.
Evidenzia la differenza tra la trasmissione di caratteri acquisiti e di caratteri ereditari,
come sarebbe la coda tagliata se i genitori fossero nati già con la coda tagliata.
19: Per me invece no [...] se l’hanno tagliata a tutti e due i genitori, per me il figlio nasce con la coda tagliata.
M: Naturalmente chi risponde che i figli nascono con la coda tagliata non ha difficoltà a
spiegare quel meccanismo là, perché se i figli nascono con la coda tagliata, i figli dei
figli nasceranno con la coda un po’ più corta... e così via… Il problema è per chi risponde invece che i figli nascono normalmente con la coda lunga… allora quel cambiamento che avviene un pezzettino per volta di generazioni in generazioni com’è
che succede?
M. cerca di ricollegare l’esperimento concreto (topi, coda) al discorso generale dei
cambiamenti passati di generazione in generazione.
19: Una cosa: ma i figli dei genitori con la coda tagliata… i figli dei figli dei figli... io
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non credo… perché se l’hanno tagliata a lui [...] il bambino del topo non può avere subito la coda…
Ha colto la relazione in questo modo: se tagliano la coda ai genitori, il figlio nascerà
con la coda un po’ più corta, il figlio del figlio ancora più corta e così via, fino a raggiungere la coda tagliata degli avi: come se il carattere del taglio della coda si potesse
trasmettere. È un’idea lamarckiana (l’acquisizione di caratteri acquisiti provoca
l’accumulo nelle generazioni successive), come ha suggerito M. nell’intervento precedente.
M: Allora non ho capito… prima dicevi che nasceva con la coda tagliata...
19: Secondo me non nasce con la coda tagliata, i suoi figli invece nasceranno con la coda un po’ più corta...
M: Ah… naturalmente l’esempio della coda… allora pensate a una situazione di questo
tipo: può essere che i predatori dei topi, se i topi hanno la coda lunga, li prendano per
la coda; quindi per i topi avere la coda corta potrebbe essere anche un vantaggio –
no?- scappano più facilmente; quindi, se nascessero con la coda più corta, potrebbe
essere anche un cambiamento… un vantaggio di un adattamento... il problema è se
nascono o no con la coda più corta.
20: Secondo me però nascono con la coda intera perché se no tutti i topi di quella famiglia lì sono [...]
M: Quello che vi posso dire è che l’esperimento l’hanno fatto davvero… e i topi nascevano con la coda lunga... e lui, questo signore, che era un po’ crudele devo dire, di
nuovo tagliava la coda ai figli e nascevano i nuovi figli e ogni volta nascevano con la
coda lunga.
M. opera uno spiazzamento, proponendo uno scenario nuovo e dal forte impatto emotivo e lo fa utilizzando un registro narrativo.
Questo ve lo dico io, così adesso, tenendo conto di questo, come spiegate la faccenda?... dobbiamo sempre spiegare come mai ad ogni generazione c’è un pezzettino di
cambiamento in più, che è quello che dicevano loro della scimmia che diventa uomo
non in una volta, nell’arco di una vita, ma solo un po’ e poi un pochino lo fa il figlio
e poi il figlio ancora eccetera… Ma se succede che non si può ereditare la coda ta-
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gliata, com’è che funziona questa faccenda… com’è che a ogni generazione cambia
un pochino?
[confusione]
M: No, aspetta aspetta! avete ragione, la domanda è difficile e bisogna spiegarsi bene…
[confusione]
M: Qualcuno ha detto: “la scimmia diventa uomo” non vuol dire che una scimmia nasce
scimmia e muore uomo; quando si dice così si intende dire che una scimmia per ragioni ambientali eccetera cambia un pochino... i figli di questa scimmia qui cambiano
un altro pochino e i loro figli un altro pochino... e dai e dai e dai, di generazione in
generazione, dopo mille anni… c’è un bel cambiamento, e dopo 10.000 anni, dopo
20.000, dopo un milione di anni; allora anche per diventare uomo si cambia un pezzettino per volta. La domanda è: se si cambia un pezzettino per volta, ma non si
cambia perché i figli ereditano la coda tagliata, com’è che i figli sono cambiati? perché i figli sono cambiati?
Sembra che M. sia ampiamente fuori dalla “zona di sviluppo prossimale”, probabilmente si è fatto trascinare dal fatto che alcuni interventi dei bambini contengono intuizioni di elementi importanti della teoria dell’evoluzione e attribuisce a tutto il gruppo
questa competenza; finisce così per assumere, come misura della competenza, la propria. Può anche essere che M., che per molti anni è stato docente di scuola media, sia
scivolato nel “gioco” dell’insegnare.
F: avete capito la domanda adesso?
Qualcuno: Sì.
Qualcuno: No.
M: Perché i figli sono cambiati? è una domanda difficilissima…
F: Provo a spiegarla io perché loro non l’hanno ancora capita... però un po’ di silenzio
per favore!
Allora… poniamo... siamo andati dalla scimmia all’uomo.. su questo non c’è dubbio... però abbiamo appena detto che al topo, veniva tagliata la coda, ma il figlio del
topo nasceva con la coda lunga - bene?- Se diciamo che per arrivare alla posizione
eretta come prima cosa alla scimmia si sono accorciate le braccia... ma poi se il figlio
ritorna a nascere scimmia... capite che non c’è un passaggio? Cioè non è che il figlio
nasce già con le braccia più corte... perché anche il topo nasceva sempre con la coda
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lunga... quindi il figlio nascerà sempre scimmia... e quindi com’è possibile che ci sia
questo cambiamento? Capite? È come se... non parliamo di scimmie e uomo... parliamo di un topo con la coda lunga e di un topo con la coda corta... cioè senza coda…
come siamo passati dal topo con la coda lunga al topo senza coda? Se ogni volta gliela tagli e il figlio nasce con la coda lunga? Capite? Non può essere un passaggio perché nasce sempre un topo con la coda lunga! Allora come funziona?
M: Guardate che la risposta è già stata data… da uno di voi… qualcuno ha detto una
cosa che potrebbe essere una risposta.
Anche qui, M. sembra considerare la risposta già data, che forse conteneva una intuizione, come significativa del livello raggiunto dalla co-costruzione di conoscenze ma a
quanto pare per i bambini non è così.
- : Le cellule?
F: Facciamo girare il bastone della parola?
21: Quella cosa lì che c’era il topo con la coda... che c’era il topo senza la coda lunga
anche se non gliel’hanno tagliata... il fatto che magari in un topo c’è stata questa malformazione… e poi... magari si è accoppiato con uno normale ed è andata avanti questa cosa con la coda corta visto che è un carattere ereditario…
Introduce la parola “malformazione” in cui il “mal“ generalizza una situazione relativa, ma è un’ottima spiegazione, perché la lega all’ereditarietà e antepone la variazione
all’adattamento
M: Mmm… avete sentito bene?
[confusione]
22: Per me… il fatto della coda lunga è perché nasce il topolino e c’ha la coda lunga…
perché il padre di un mio amico non c’ha un piede, però suo figlio è nato e aveva tutti
e due i piedi... quindi non vuol dire che se magari... siccome il padre del topo non
c’ha la coda il figlio non deve averla... magari ce l’avrà [...]
Spiega qualcosa di molto difficile facendo riferimento a un esempio tratto dal suo mondo esperienziale, ed è un esempio assolutamente pertinente; oltretutto esplicita la relazione tra i due casi.
M: Avete capito? Lui [21] ha fatto un ipotesi… lui dice: potrebbe essere che quel topo
lì non ha la coda corta non perché gliel’hanno tagliata... può essere che sia nato co-
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sì… allora se è nato così forse è una cosa ereditaria… e allora può darsi anche che
suo figlio nasca così… e lui [22] dice… io però conosco qualcuno che ha un problema del genere però il figlio è nato normale… quindi il problema è: si ereditano o non
si ereditano delle cose di questo tipo?
F: Io ho una domanda: questo papà del tuo amico, che tu sappia, è nato senza un piede?
22: È nato senza.
F: È nato senza, grazie.
M: Avete capito la differenza? Perché un conto è dire che glielo taglio… gli taglio la
coda io durante la vita… un conto è dire che è lui che è nato già col piede… senza un
piede in questo caso…
7: Però quello che è nato senza un piede... se lui [...]
M: Appunto! lui dice: “quello che conosco io era senza un piede, ma i suoi figli sono
nati normali”.
7: Ma io dico: il padre di quello che è nato senza un piede… avrà avuto il piede o no?
Seguendo il filo del discorso 7 si pone una domanda pertinente sulla base di un ragionamento sofisticato: se il padre è nato senza un piede e se questo carattere è ereditario,
come fa il figlio a non averlo ereditato? Per verificare se è un carattere ereditario, occorre sapere se anche il nonno lo aveva. È un esempio di come le idee dei bambini non
maturano spontaneamente seguendo fasi di uno sviluppo “naturale” e neppure vengano
semplicemente travasate nella loro mente dalla comunicazione sociale; le interazioni
sociali, e in particolare la conversazione, sono luoghi di co-costruzione di conoscenza..
[confusione]
1: Mio padre ha perso due dita perché gli sono caduti [...]
[confusione]
- : Ma chi se ne frega…
[confusione]
F: Chi ha il bastone? Prego…
M: [a 1] Vai avanti, vai avanti…
1: Io sono nato che le dita ce le ho ancora... quindi non è il fatto di coda o senza coda…
M: Bene, quindi il suo esempio, in realtà è simile a quello del topo… purtroppo a suo
padre gli è capitato un incidente, a quello del topo gli avevano tagliato la coda, però i
figli sono nati con le dita e con la coda, però lui [22] faceva un caso diverso - vi ri-
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cordate?- diceva che può essere una malformazione, non che gli è successo un incidente… lui fa una differenza... queste cose sono molto diverse: un conto è che capita
un incidente, un conto è una malformazione… e allora lui dice – ed è una domanda
interessate: ma, se è una malformazione, ce l’aveva anche il padre e il nonno? Perché, se capisco che ce l’aveva anche il padre e il nonno vuol dire che…
7: ... è un carattere ereditario.
È interessato a trovare una risposta alla domanda che si è fatto prima e arriva ad un
tale punto di comprensione che anticipa le parole di M.
M: ... che è un carattere ereditario. Però questa è la cosa importante: che se ce l’ha... se è
ereditario, allora ecco... si eredita, appunto…
2: Io ho visto... un giorno... alla televisione che una donna è nata... però era piccola e
adesso… ha fatto un figlio... e suo figlio è piccolo.
M: Quindi siamo sempre sul discorso che certi caratteri sono ereditari e certi no… in
realtà praticamente abbiamo fatto degli esempi diversi sulla sua domanda “ma questi
caratteri si ereditano o no?”. Mi sembra che abbiate detto questo: se sono cose che
cambiano durante la vita, incidenti, allora no; se non sono incidenti, in alcuni casi
sembra che si ereditano. Quello che dice lui [22] è una cosa che viene ereditata, quello che diceva lui [21] invece no... quindi sono casi diversi.
Tutti questi interventi, su suggerimento di quello di 22, consistono nel proporre esempi
pertinenti in base alle proprie esperienze; non si parla più di cose sentite a scuola. E il
risultato sembra essere la comprensione di idee per nulla semplici.
3: Io dico che se prendi un topo e gli tagli la coda, suo figlio non ce l’ha come il padre...
perché c’è una molecola che si prende da un corpo all’altro... e così la scimmia... ecco perché da scimmia nasceva ancora scimmia, perché [...], e poi il bambino della
scimmia [...]
M: Quello che lui [3] chiama “molecola” è lei [12] prima chiamava “cellula”, gli scienziati lo chiamano in un altro modo: gene.
Di nuovo un’ “etichetta” in linguaggio scientifico applicata a un’idea maturata dai
bambini stessi.
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F: La domanda che si sta un po’ perdendo qua è: ma se la scimmia fa una scimmia, e
questa scimmia fa una scimmia e questa scimmia fa una scimmia, l’uomo da dove
viene?
Molti: Dalla scimmia.
F: ma se la scimmia fa la scimmia?
[confusione]
3: Io penso che la scimmia è nata scimmia... sì però la madre della scimmietta che è piccolina... la sua madre fa qualcosa che lo impara... e l’aiuta a diventare [...]
Entra in gioco l’idea di insegnamento, di trasmissione e quindi di evoluzione culturale,
anche se qui è applicata scorrettamente a un carattere corporeo.
M: Ma... allora -giusto!- perché il problema era: se certe cose non si ereditano, come fa
il figlio a cambiare se deve ri-iniziare sempre da capo; allora lui [3] dice: “attenzione, perché ci sono anche delle cose che vengono insegnate”. Faccio un esempio: mio
papà faceva il ragioniere, ma non è che io sono nato che sapevo già fare i conti...
quella è una cosa che non si eredita, però mio padre potrebbe insegnarmi fin da piccolo a fare bene i conti…
Allora faccio un obiezione: d’accordo, lui [3] sta dicendo che il fatto che i figli possono andare un po’ più avanti dei genitori è perché gli vengono insegnate delle cose,
ma certi cambiamenti dell’uomo si possono insegnare?
3: Un po’ glielo insegna la mamma, un po’ è nel sangue, poi nel nostro sangue, nel sangue del bambino ci potrebbe essere già qualche cosa che è già programmato… potrebbe essere già lui così...
M: Sai chi faceva questa ipotesi? Uno scienziato che si chiamava Darwin.
Attraverso la co-operazione del gruppo, 3 riesce a formulare un ipotesi per nulla banale; ed é piuttosto sorprendente l’analogia con il pensiero di Darwin, indipendentemente
dal fatto che quella teoria si sia rivelata priva di base empirica e sia stata spazzata via
dalla genetica mendeliana.
- : Com’è che si chiama?
M: Darwin. È vissuto più di 100 anni fa e ha fatto questa ipotesi che sta facendo lui [3],
precisa identica, solo che allora non sapevano ancora tutte le questioni dei geni, della
genetica.
71
4: Un giorno sono andato al supermercato ho visto una signora che era molto piccola,
però aveva un figlio che era normale... e voglio dire una cosa: quello che diceva lui
[3], che nasce… io dico che un po’ ha ragione però... se una scimmia diventa uomo… non è che di colpo è diventata uomo: ha fatto un figlio... se la sua mamma è
ancora scimmia, non può essere come uomo.
Questo intervento ipotizza che l’evoluzione avvenga gradualmente e non “per salti” (si
veda 2.2.2), tema molto dibattuto sia da Darwin stesso che dagli scienziati che lo hanno
seguito. Sembra addirittura che 4 si contraddica: prima segnala una variazione notevole tra una generazione e l’altra e poi afferma che il cambiamento avviene lentamente.
M: Quindi sei d’accordo con lui [3], che certe cose si imparano durante la vita, dei
cambiamenti che si possono trasmettere… lui dice che si trasmettono attraverso il
sangue…
4: Non è che se un uomo fa un bambino... non è che... cioè se… se nasce… una scimmia normale fa un figlio... suo figlio diventa come lei… fa un figlio come…
M: Torniamo agli esempi precedenti: a te [4] è capitato di vedere una mamma molto
piccola e il figlio alto normale, invece lui [2] ha fatto un esempio in cui la mamma è
piccola e il figlio è piccolo anche lui: evidentemente ci sono delle cose che si ereditano e altre no... abbiamo escluso gli incidenti, ma anche delle cose che si possono
ereditare ce ne sono alcune che si ereditano e altre no.
5: Per me... quella cosa lì del topo… è che se il padre nasce con la coda corta, per me...
può anche lui nascere con la coda corta…
M: È stessa cosa che diceva lui [21]: può succedere non perché gliela tagliano ma può
succedere che nasce con la coda corta.
F: Ma qua la domanda è: da un topo con la coda lunga... può nascere un topo senza coda o no?
5: Per me no.
M: Lui [21] invece diceva che qualche volta può succedere… una malformazione.
6: Per me può nascere da un padre e una madre normali... può nascere anche un bimbo
diversamente abile.
L’idea che i figli non sono uguali ai genitori è la base della variazione, o per ricombinazione dei caratteri dei genitori o per mutazione: insieme a quella che i figli assomi-
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gliano ai genitori, è una delle premesse alla possibilità che si verifichi il processo di
selezione naturale.
M: Volevo fermarmi su questa cosa qui: che può nascere con una malformazione. Vi
ricordate quello che dicevo prima di quella scimmia che camminava male perché aveva la schiena dritta? Quello che è nato così, dal punto di vista delle scimmie, è un
diversamente abile, perché ha delle difficoltà, perché le scimmie corrono… lui ha solo due zampe... non riesce a correre a quattro zampe... Però cosa succede nel caso in
cui non c’è più da mangiare per terra, ma c’è da mangiare sugli alberi…
[confusione]
Quindi la malformazione è rispetto alla normalità, poi invece può cambiare... teniamo conto anche di questa cosa qua. Quindi la parola “diversamente abile” in questo
senso è molto interessante… perché una volta si diceva “dis-abile” perché non aveva
delle abilità... dire “diversamente abile” ci ricorda che però potrebbe succede qualcosa… cambia... il Rift… magari invece poi proprio quella malformazione può essere
un vantaggio…
Adesso siccome manca poco, facciamo l’ultimo giro...
M. cerca di arrivare all’idea di selezione naturale legata al contesto ambientale, il
grande motore dell’evoluzione.
[confusione]
F: Cerchiamo di andare un po’ spediti però…
8: Avete fatto la domanda “perché le scimmie si sono evolute in uomo e invece il topo,
se gli tagliavano la coda, rinasceva con la coda?”; secondo me perché le scimmie
c’era bisogno che si evolvevano perché dovevano adattarsi al nuovo ambiente, invece il topo non aveva cambiato ambiente, non aveva il bisogno di avere la coda tagliata…
Ritorna un’idea finalista dell’evoluzione (si veda 2.1.2).
Curioso il fatto che viene ripetuta la domanda, come a chiedere indirettamente “ho capito bene?” o come a volersi ricollegare direttamente con la domanda cancellando il
passaggio fatto sopra. Forse la spiegazione di 3 non soddisfa. 8, che cerca di giustificare il suo intervento ricollegandosi a ciò che era stato detto all’inizio. Questo indica
quanto sia importante tenere presente il contesto relazionale e sociale della conversa-
73
zione per interpretare i significati degli interventi.
M: Sì, hai ridetto… sono cose che avete già detto.
F: Posso dare un impulso? Allora la scimmia ha detto: ”io ho bisogno di cambiare, adesso cambio”? Tu lo puoi fare se vuoi? Se tu dici “io ho bisogno di volare perché il
cibo adesso è solo in cielo… da domani volo”, lo puoi fare? E quindi cos’è?... è la
scimmia che può decidere di cambiare? E il topo non può? E allora cos’è che ha provocato questo cambiamento?
F. cerca di riproporre la domanda fatta prima da M. in modo più provocatorio e più
semplice: l’intento è far capire che ci dev’essere un “motore” dietro tutta questa evoluzione.
- : Ma voi lo sapete?
[suona la campanella: la conversazione si chiude con i ringraziamenti di M. alla classe]
3.2.3 I TEMI EVOLUZIONISTICI EMERSI DALLA CONVERSAZIONE
Analizzando la conversazione avvenuta tra l’esperto e la classe emergono alcuni importanti temi della teoria dell’evoluzione; tali temi non sono stati scelti e imposti ma sono
scaturiti dai bambini nell’interazione con il conduttore.
Si è scelto di partire da una domanda molto generale (sapete qualcosa sull’evoluzione?)
per due motivi: in primo luogo per verificare quali conoscenze scolastiche e quali idee
avessero su questo tema, e in secondo luogo per costruire un contesto che si discostasse
dalla comune interrogazione per coinvolgerli in un “gioco linguistico” incentrato sulla
ricerca.
La seconda domanda fatta da M. che riguarda il perché l’uomo “diviene”, ha potuto essere formulata all’inizio della conversazione perché da subito i bambini hanno mostrato
di non credere in uno dei cardini del creazionismo: l’immutabilità della specie.
Si è passati quindi ad analizzare un nodo epistemologico chiave della teoria
dell’evoluzione, ovvero la differenza tra variazione individuale ed evoluzione di specie
(ontogenesi e filogenesi) introducendo anche il fattore temporale che, nel caso di bambini, mantiene un riferimento essenziale alla propria esperienza; è infatti da osservare
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che per i bambini l’idea della successione delle generazioni precede un’idea di tempo
come quantità misurabile e/o come riferimento assoluto lineare su cui collocare gli eventi: benché non riescano a comprendere del tutto cosa significhi 100 o 200 anni (figuriamoci milioni o miliardi) sanno perfettamente che loro sono nati dai genitori, che i genitori sono nati dai nonni ecc., ovvero l’idea di generazioni che si susseguono.
Una successiva domanda verteva sulle motivazioni che portano a tale cambiamento e
così è stata introdotta dai bambini l’idea di speciazione su base geografica e la consapevolezza che essa necessita di un tempo molto lungo per realizzarsi. Darwin stesso aveva indicato come causa delle resistenze all’accettazione della teoria dell’evoluzione la
difficoltà a rappresentarsi una serie di piccoli cambiamenti che si accumulano nel corso
di periodi di tempo di una durata che travalica le capacità dell’immaginazione umana:
“Però la causa fondamentale della nostra spontanea ripugnanza ad ammettere che una
specie abbia generato un’altra specie distinta deriva dal fatto che siamo sempre lenti
nel riconoscere qualsiasi grande cambiamento del quale non vediamo i gradi intermedi.
[…] L’intelletto non riesce ad afferrare bene un valore come cento milioni di anni; non
riesce a sommare e a concepire tutti gli effetti conseguenti a molte leggere variazioni
accumulate nel corso di un numero pressoché infinito di generazioni” (Darwin, 1859,
pag. 423).
Un bambino ha poi avuto un’intuizione di un tema importante nell’evoluzione della teoria dell’evoluzione, ovvero l’idea (Gould - Vrba, 1982) che non tutto nell’evoluzione si
spiega come adattamento della forma alla funzione. Purtroppo l’esperto non ha colto
questo aspetto e ha spostato il fuoco del discorso su un altro tema cruciale ad esso connesso: il fatto che la variazione precede la selezione e l’adattamento. Tale tema non è
però nella “zona di sviluppo prossimale” dei bambini e così non viene capito pienamente, come si può verificare dalle risposte evasive che sono state date.
La domanda successiva del conduttore ha cambiato discorso, indagando sulla possibilità
di ereditare caratteri acquisiti tramite l’esempio concreto dei due genitori che vanno in
palestra e la possibilità che i “muscolacci” vengano trasmessi agli eventuali figli. Da qui
si è sviluppata l’idea che alcuni caratteri sono ereditabili (ed esempio si è ipotizzato la
propensione allo sport) ed altri no. Un altro esempio sull’argomento ha chiarificato ulteriormente la domanda: l’esperimento (di Weismann) del topo a cui viene tagliata la coda. Da questo esempio i bambini hanno ipotizzato la presenza di geni (nella conversa-
75
zione chiamati “cellule”) che indipendentemente dalla mutilazione ricostruiranno la coda nella prole.
Nell’ultima domanda l’esperto ha cercato di ricollegare l’esperimento concreto (topi,
coda) al discorso generale, affrontato all’inizio della conversazione, dei cambiamenti
passati di generazione in generazione, azzardando anche l’ipotesi che la variazione potrebbe essere un vantaggio per l’individuo. I bambini, non trovando immediatamente
una risposta, hanno riportato molti esempi tratti dall’esperienza personale. È entrata anche in gioco l’idea di insegnamento, di trasmissione e quindi di evoluzione culturale,
anche se viene applicata scorrettamente a un carattere corporeo. Infine, attraverso la cooperazione del gruppo, un bambino è arrivato a formulare l’ipotesi dell’esistenza di un
“programma” che viene trasmesso di generazione in generazione “attraverso il sangue”:
é piuttosto sorprendente l’analogia con il pensiero di Darwin, indipendentemente dal
fatto che quella teoria si sia rivelata priva di base empirica e sia stata spazzata via dalla
genetica mendeliana.
EVOLUZIONE DELLA TERRA
“L’evoluzione degli esseri viventi affonda le proprie radici nella storia fisica del nostro
pianeta, stabilizzatosi e raffreddatosi circa 4,5 miliardi di anni fa.” (Pievani 2006, pag 17)
Interessante l’intervento di 19 [ricordiamo che i bambini nella conversazione vengono
identificati con un numero] che, a differenza degli interventi precedenti basati sull’ “evoluzione dell’uomo”, amplia lo sguardo sulle trasformazioni che ha subito la terra da
quando è nata ad oggi, affermando così che l’evoluzione non riguarda solo gli esseri
umani, ma anche il mondo fisico che ci circonda.
19: Io ho sentito anche in storia l’evoluzione dell’uomo e poi anche in storia l’evoluzione
della posizione della Terra nel mondo... poi…
M: No: non ho capito… la posizione della Terra nel mondo in che senso?
19: Che prima era tutta attaccata e poi si è iniziata a staccare…
M: Allora quelle due cose che hanno detto loro sono due cose diverse: in un caso ha detto:
l’evoluzione dell’uomo è “nasce, cresce, muore”; invece per l’evoluzione della Terra avete tirato in ballo altre cose, lei [11] diceva il fatto che prima c’erano le piante… lui [19] si
è ricordato che l’evoluzione della terra è il fatto che le terre, i continenti, prima erano attaccati, poi si sono staccati… è una cosa diversa…
1: La Pangea…
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Questa idea è sicuramente stata imparata a scuola o dai media, non viene da un esperienza personale del bambino o da un ragionamento logico; ciò non toglie che aver ampliato l’uso del termine “evoluzione” con questa affermazione è un passaggio molto importante che verrà poi utilizzato dagli altri bambini per associare il termine “evoluzione”
al termine “ambiente”.
ADATTAMENTO
“[…] si tratta di un processo e prodotto sempre incompiuto, provvisorio, contingente rispetto ai cambiamenti ambientali che possono rimettere in moto il meccanismo selettivo a
favore di altri adattamenti. Un adattamento, benché ottimale in una nicchia ecologica, rimane sotto condizione: vale fino al prossimo cambiamento delle pressioni selettive.” (Pievani 2006, pag. 73)
21: Eh sì... e l’evoluzione penso sia che prima erano delle normali scimmie e poi si sono
evolute per adattarsi all’ambiente…
M: Questa è una parola nuova… A questo punto la domanda è: di quale, delle quattro cose
che abbiamo detto, parliamo? perché, al di là che le cose si chiamino “evoluzione”, “adattamento” ecc., di quale vogliamo parlare… La cosa che mi interessa di più capire di quello che avete detto è… la faccenda dell’uomo, la scimmia… quando voi dite che cambia…
ditemi bene come avete detto... chi l’ha detto?
10: Nasce, cresce, muore?
M: No… com’è che hai detto esattamente?
8: Che c’erano i dinosauri, poi c’erano le scimmie che poi sono diventate uomini.
Sarà presente in tutta la conversazione un’idea finalista, espressa dalla preposizione
“per” (“per adattarsi all’ambiente”). Ciò può non essere significativo di un pensiero finalista che caratterizza i bambini: tutta la comunicazione sociale, anche quella degli
scienziati, si esprime in questi termini.
Qui compare per la prima volta il termine “adattamento”, ma nonostante M. ne sottolinei l’importanza, i bambini non riescono ad associare tale parola al “divenire” (riprendo
la terminologia utilizzata dai bambini) degli uomini.
M: La domanda è questa, ed è una domanda importantissima: se succede prima che cambia
l’ambiente e poi gli animali cambiano per adattarsi all’ambiente oppure succede che
qualcosa negli animali ha un cambiamento e quello li costringe a cambiare abitudini? Lui
diceva “se la scimmia ha le braccia corte cammina male, allora comincia a camminare in
piedi”; quindi prima è successo che è cambiato, dopo di che, siccome cammina tutto in
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piedi e nella foresta si trova male, va nella savana… insomma prima c’è il cambiamento
del corpo e dopo l’animale cambiato si trova un ambiente adatto, oppure, al contrario,
cambia l’ambiente e allora l’animale cambia per vivere meglio nell’ambiente cambiato?
Iniziamo il giro regolare… cosa ne pensate di queste due cose? È chiara la domanda o
no?
[…]
3: La scimmia… lei cresceva e invece le braccia non crescevano più perché una scimmia non
è che cresce tanto tanto tanto e invece […] le gambe erano proprio più grandi delle mani e
delle braccia e quindi c’è un diverbio fra loro e ha dovuto camminare soltanto con i piedi…
M: Perfetto! Ti faccio ancora una domanda... è chiarissimo quello che hai detto… prima è
successo che le gambe fossero più lunghe delle mani; a quel punto era scomodo camminare per terra, quindi si è alzato in piedi e si è abituato a vivere in un altro modo; la domanda a questo punto è: ma come mai a quella scimmia lì sono diventate le braccia più
corte delle gambe?…
3: Perché ha cominciato ad andare… è andato a vedere delle nuove cose, così con i mesi e
con le settimane ha cominciato a mangiare meglio.
L’esperto cerca di guidare la co-costruzione dei bambini verso la comprensione del
meccanismo che sta alla base della selezione naturale e ne è premessa e condizione: la
variazione che di per sé non è direzionata all’adattamento.
Il gruppo non sembra comprendere la domanda che pone M. ed egli decide di provare a
spiegarla con un esempio:
M: Per chiarirvi un attimo la faccenda, facciamo che io sono una scimmia e cammino a quattro zampe… [mima] per camminare a quattro zampe io devo avere la colonna vertebrale
piegata davanti... Supponiamo che io nasca con un difetto della colonna vertebrale per cui
non riesco a stare piegato… ce l’ho così, e non riesco più a stare piegato – no?- a questo
punto faccio fatica a camminare a quattro zampe… tutti i miei antenati hanno sempre
camminato a quattro zampe, hanno continuato a vivere così… io però ho il problema che
ho la schiena rigida, quindi faccio fatica. Allora a questo punto o decido che non ce la
faccio, non riesco a stare dietro agli altri, non riesco a correre eccetera… mi metto da parte e muoio… oppure a questo punto dico: beh, visto che sono così, che è un difetto... però
adesso vi faccio vedere… con queste zampe qui, bipede, perché non le adopero per prendere, per esempio, la frutta sui rami più in alto? Tutti i miei famigliari mangiano le cose
che cadono per terra e non si sono accorti che qui c’è della frutta da mangiare… capite
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cosa sto dicendo? Cioè siccome, per una malattia, ho la schiena più dritta, a questo punto
mi metto a fare… mi adatto a una vita nuova… Questo era quello che cercavamo di spiegare prima.
Oppure invece c’è l’altra cosa, cioè: tutti camminano a quattro zampe e a un certo punto
cambia l’ambiente... il Rift, tutte queste cose qui… poi non c’è più niente da mangiare
tranne la frutta in alto, allora a questo punto decido di alzarmi in piedi per prendere la
frutta? Avete capito che... - no?- una cosa succede prima e una dopo.
Alla ripresentazione della domanda, il gruppo reagisce rispondendo con una delle due
ipotesi proposte, con una divisione abbastanza netta tra chi propende per la prima e chi
per la seconda (la maggioranza). In questo contesto sorge il dubbio che i bambini non
abbiano compreso fino in fondo la domanda: nessuno la specifica o chiede chiarimenti,
nessuno azzarda altre ipotesi; c’è semplicemente una scelta tra due possibilità non giustificate.
EXAPTATION
Non tutto nell’evoluzione si spiega come adattamento della forma alla funzione: ci sono
casi in cui vengono cooptate funzionalmente, ovvero assumono una nuova funzione
strutture che originariamente erano presenti come effetti collaterali di strutture adattative o che svolgevano funzioni diverse (Gould – Vrba, 1982).
L’argomento che si sta discutendo è l’evoluzione dalla scimmia all’uomo: in questo
contesto, 3 azzarda questa ipotesi:
3: Io penso che noi camminiamo su due piedi perché loro, quando crescevano... le braccia
non arrivavano più a terra e così hanno dovuto imparare a camminare soltanto con due
piedi.
È tra l’altro la prima volta che viene usato il termine “dovere”, che implica non una
scelta attiva, bensì un vincolo strutturale.
“Il fenomeno dell’exaptation, che possiamo tradurre come <cooptazione funzionale>,
ci mostra come nell’evoluzione difficilmente un adattamento è stato fin dall’inizio costruito <per> assolvere alla funzione corrente […] e come l’adattamento sia spesso un
compromesso con i vincoli strutturali degli organismi e con la loro storia pregressa.”
(Pievani 2006, pag. 77-78)
L’esperto sul momento non focalizza la discussione su questo concetto, non la coglie,
probabilmente perché la co-costruzione di conoscenze non è ancora giunta a una idea
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più basilare, il fatto che la variazione precede la selezione e l’adattamento, ed è su questa che si concentra.
INDIVIDUO, POPOLAZIONE, SPECIE
2: Le scimmie si sono evolute.
M: Sì, ma come?
2: Hanno una crescita, diventano più intelligenti! E il cranio…
M: Sì, tu stai usando il plurale “le scimmie”…
2: Le scimmie.
M: Invece lui [12] diceva “la scimmia”… allora stiamo parlando di una? di tutte? di un
gruppo?
1: Di una.
Altri: Di tutte.
M: Chiarisco bene la domanda: ciascuna scimmia è diventata uomo e questo è capitato solo
alle scimmie?
1: Noooo!
M: Ah, vedi che dobbiamo capirci bene!
1: Quella di oggi non si è trasformata.
M: Allora: a chi è capitata questa cosa di diventare, da scimmia, uomo?
2: Eh, a delle scimmie sì e a delle scimmie no…
[…]
M: Stai parlando della vita di una scimmia?
3: Sì.
M: Bene, dei cambiamenti che sono avvenuti… lui [3] ha descritto in maniera dettagliata dei
cambiamenti che sono avvenuti nella vita di una scimmia. Sei d’accordo che questo è capitato ad alcune scimmie e ad altre no?
3: Ad alcune sì e ad altre no.
È stato importante capire se i bambini si riferissero alla crescita, allo sviluppo individuale oppure a un cambiamento (un’evoluzione) che ha interessato un gruppo, una popolazione, una specie. Davanti all’evidenza empirica che non tutte le scimmie si sono
“trasformate”, nasce l’ipotesi di cambiamenti che riguardano solo alcuni esemplari e
non la totalità del gruppo. In questo momento la discussione è costruita su ipotesi e implicazioni logiche che i bambini fanno attivamente sulla base delle informazioni che
hanno e non è più un “esposizione” di quanto imparato a scuola.
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M: Anche tu pensi “durante la vita”?
6: Sì.
7: La scimmia ha imparato delle cose nuove, è diventata più intelligente, poi magari ha fatto
i figli che sono nati come lei… e così man mano…
M: Aspetta, perché riguardo questa cosa qua… va beh, finiamo il giro poi ci ritorno su…
Vi siete accorti cos’ha detto [7] di diverso dagli altri?
[…]
8 : Io penso che non è possibile che da quando nascono a quando muoiono… cioè che nascono scimmie e muoiono uomini… succede nel corso degli anni, non è che una nasce
scimmia e poi diventa uomo... si sono adattate all’ambiente nel corso degli anni…
[…]
M: Allora: voi conoscete qualcuno che è nato scimmia ed è morto uomo?
[…]
11: Allora, come avevano detto anche loro, solo alcuni gruppi di scimmie si evolvono e, se
non sbaglio, sono le scimmie antropomorfe… cioè, se io ero una scimmia e sono diventata habilis… mio figlio si evolverà e andrà avanti con lo sviluppo.
In questi scambi comunicativi si giunge a un presupposto cruciale della teoria
dell’evoluzione; partendo dall’idea che il termine “evoluzione” stia ad indicare lo sviluppo di un singolo organismo, i bambini comprendono che è impossibile che tale cambiamento avvenga in un singolo individuo e nell’arco di una vita: occorrono più generazioni per avere il passaggio da scimmia a uomo.
Interessante è anche l’intervento di 21:
21: Eh sì... e l’evoluzione penso sia che prima erano delle normali scimmie e poi si sono
evolute per adattarsi all’ambiente…
Egli infatti utilizza l’aggettivo ‘normale’ per distinguere le scimmie che non si sono evolute da quello che invece si sono evolute. Questo concetto è adeguato scientificamente in quanto la selezione naturale che ha portato alla specie umana ha coinvolto una popolazione che differiva dalla norma.
“Per evoluzione intendiamo il cambiamento (qualunque esso sia, morfologico o comportamentale) degli organismi nel corso delle generazioni. Non è sempre stato così: in
epoca predarwiniana <evoluzione> era un concetto associato allo sviluppo individuale
nel ciclo di vita […]. La distinzione è della massima importanza, perché lo sviluppo di
un singolo organismo nell’arco di una vita (ontogenesi) è un processo molto diverso
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[…] dalla formazione delle specie lungo migliaia di generazioni (filogenesi).” (Pievani
2006, pag.13)
Anche i bambini arriveranno a formulare l’ipotesi che l’evoluzione non coinvolga solo
l’aspetto morfologico ma anche quello comportamentale:
2: … che poi le scimmie sono diventate più... dopo tutta la rivoluzione sono diventate più responsabili, hanno scoperto il fuoco, poi ci sono anche delle... cioè hanno trovato delle caverne e li hanno messo dentro come casa per riscaldarsi, e che mangiavano…
M: Quindi mi stai dicendo che i cambiamenti non sono solo fisici, tipo il pollice, ma sono
anche dei cambiamenti nel modo di comportarsi…
SPECIAZIONE
È una bambina che pone una domanda e così facendo indirizza la discussione su come
nasce una specie, e anche sul perché non è possibile assistere in tempo reale alla nascita
di una specie:
14: Allora io sono d’accordo con tutti quelli che hanno detto dei figli… di come si evolve la
scimmia… e mi faccio la stessa domanda di C. [12]: perché le scimmie antropomorfe non
si evolvono più? Forse perché il Rift non si fa più… cioè… il Rift…
M: Cos’è il Rift?
14: La spaccatura… cioè alcune scimmie nell’epoca… hanno deciso di stare nella savana,
invece altre si sono decise di andare nella foresta pluviale…
M: Sì, ma che cos’è il Rift?
14: Il Rift è la spaccatura del terreno che ha fatto... in Africa… che …
[confusione]
M: Aspetta: ferma un attimo!… quello che stai dicendo è che questa cosa è successa perché
ci sono state condizioni diverse tra quelli che erano al di qua o al di là della spaccatura…
ecco il perché... quando si diceva “alcune sì e alcune no”… è perché alcune avevano certe
condizioni ed altre no...?
17: Secondo me quello che ha detto S. [14] è giusto perché quando è avvenuta la spaccatura
nel terreno, il Rift, alcune scimmie hanno deciso di rimanere nel proprio habitat e non lasciarlo, mentre altre hanno deciso di cercare altre foreste dove vivere… per questo adesso
l’uomo deriva dalla scimmia; invece quelle che hanno deciso di rimanere nelle foreste sono rimaste com’erano prima... e adesso noi possiamo essere uomini grazie alla dinastia
che ha permesso all’uomo di svilupparsi sempre di più fino ad arrivare a noi.
19: Per me quello che ha detto S. [14] e C. [12] è giusto però… adesso non è che dobbiamo
aspettare il Rift… perché… mmm… Questo andamento... diciamo… dell’evoluzione
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dell’uomo... ci sono voluti tanti anni per... per il cambio dell’aspetto… e questo… in ognuno diciamo…
Non v’è dubbio alcuno che il termine “Rift” e la spiegazione di cosa indica tale termine
sia una conoscenza di questa bambina (e anche di altri) che proviene dall’esterno, ma in
modo pertinente è immessa nella conversazione l’idea dell’associazione tra un grande
evento ambientale, lo spostamento di un gruppo di scimmie (migrazione) e la nascita
della specie umana.
In queste frasi nasce la consapevolezza di un tempo (non quantificabile) necessario per
passare da una specie all’altra (un bambino dice che occorrono “tanti anni”) e che questo “tempo” in realtà è successione di generazioni:
M: Quindi noi non lo vediamo perché non viviamo abbastanza anni… cioè, se aspettiamo un
po’, lo vediamo qualche cambiamento?
19: Però non in noi perché noi ormai abbiamo già fatto il nostro cambiamento… adesso dobbiamo aspettare i nostri figli...
---7: [...] poi magari ha fatto i figli che sono nati come lei… e così man mano…
---12: Ha detto che la scimmia quando si è evoluta ha fatto i figli e perciò si è …
Un problema che viene adombrato dall’intervento di un bambino è quello della distinzione tra speciazione per anagenesi, ovvero progressiva modificazione di tutta una specie, tanto che alla fine la specie ancestrale non esiste più, o per divergenza, processo che
dà origine a due o più specie (speciazione allopatrica):
11: [...] non tutte sono diventate uomini… non tutte sono arrivate all’evoluzione.
CONTINGENZA
Quando è stato chiesto al gruppo perché era avvenuto il cambiamento dalla scimmia
all’uomo, è stato risposto che la causa era di tipo ambientale: una grossa spaccatura nel
terreno. L’esperto ha sostenuto questa ipotesi, riprendendola, ampliandola e dandogli
importanza.
11: Allora io non ho capito il fatto, cioè il fatto del Rift; cioè ha detto che c’è la spaccatura,
che c’è stata una volta e non ci sarà più... magari ci risarà, però non accadrà niente.
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Con questa nuova ipotesi, viene messo in dubbio che un grosso cambiamento ambientale debba sempre provocare una mutazione o l’origine di una nuova specie. L’evoluzione
è contingente, non direzionata e non rispetta in modo necessario schemi di ricorsività.
Questo importante pensiero è stato formulato autonomamente da 11 ma non viene approfondito perché contemporaneamente si sta affrontando il problema del come avviene
l’adattamento.
GRADUALISMO
4: Un giorno sono andato al supermercato ho visto una signora che era molto piccola, però
aveva un figlio che era normale... e voglio dire una cosa: quello che diceva lui [3], che
nasce… io dico che un po’ ha ragione però... se una scimmia diventa uomo… non è che
di colpo è diventata uomo: ha fatto un figlio... se la sua mamma è ancora scimmia, non
può essere come uomo.
Questo intervento esplicita un’idea di evoluzione costante e graduale; 4 esclude che avvenga ‘di colpo’. Per rispondere alla domanda posta, che chiedeva di spiegare come può
essere avvenuto il passaggio da scimmia a essere umano, 4 aggiunge all’ipotesi che
l’evoluzione avvenga anche per trasmissione culturale (formulata da 3 nell’intervento
precedente) l’idea che avvenga per piccoli cambiamenti.
Interessante notare come nella stessa frase 4 porta un esempio che sembra testimoniare
una situazione di grande cambiamento intercorso tra una generazione e l’altra e contemporaneamente afferma che l’evoluzione avviene gradualmente. Sembra una contraddizione, ma oggi, alla luce delle ricerche sull’ “evo-devo”, sappiamo che le mutazioni, se
avvengono a un livello alto della gerarchia delle regolazioni dei geni, possono portare a
“salti” da una generazione all’altra, ma che la maggior parte di tali mutazioni è letale e
quindi non si manifesta.
EREDITARIETA’
M: […] adesso la domanda sarà questa: cosa succede tra i padri e i figli? Facciamo un esempio... mmm… supponete che due... facciamo un esempio che riguarda gli uomini… persone, signorino e signorina, vanno in palestra tutti i giorni, fanno tutti i giorni esercizi eccetera eccetera... nel giro di un anno, due anni… gli succedono dei cambiamenti; per esempio cosa succederà?
[…]
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M: […] gli vengono i muscolacci; poi questi due decidono di sposarsi, fanno dei figli… secondo voi… la domanda è questa: i loro figli nascono coi muscolacci o no?
Questa domanda, incentrata su un esempio reale, concreto permetterà ai bambini di
comprendere che ci sono caratteri ereditabili e caratteri non ereditabili: da questa distinzione coglieranno la differenza tra caratteri acquisiti e “malformazioni”.
I bambini partono dall’osservazione che c’è una somiglianza tra genitore e figlio, ma
che non si eredita tutto dal genitore; secondo la maggioranza, il tono muscolare fa parte
dei caratteri che non è possibile ereditare (anche se non motivano il perché).
M: Stiamo discutendo se si può ereditare una cosa che si è acquisita durante la vita... ad esempio andando in palestra… Facciamo un altro esempio: un esperimento un po’ crudele
che hanno fatto 100 anni fa. C’è stato un signore che ha preso un topo e gli ha tagliato la
coda… ha preso due topi… al topo femmina gli ha tagliato la coda, poi gli ha fatti accoppiare… secondo voi i figli sono nati con la coda tagliata o con la coda lunga?
Con questo ulteriore esempio l’esperto evidenzia una differenza molto importante: alcuni caratteri sono innati, altri acquisiti; chiarisce inoltre che quello di cui si sta parlando è
un carattere acquisito durante la vita e non innato.
Dopo aver ascoltato le varie ipotesi dei bambini, M. racconta il risultato
dell’esperimento: i topi continuavano a nascere con la coda e a questo punto opera un
collegamento con quanto detto all’inizio della conversazione: se il “cambiamento” non
è trasmissibile di generazione in generazione, com’è possibile che l’uomo si sia evoluto
dalla scimmia?
19: Una cosa: ma i figli dei genitori con la coda tagliata… i figli dei figli dei figli... io non
credo… perché se l’hanno tagliata a lui [...] il bambino del topo non può avere subito la
coda…
19 ipotizza che il figlio del topo con la coda tagliata nasca con la coda lunga perché non
è un cambiamento che avviene tutto in una volta, bensì di generazione in generazione (e
noi non la vediamo perché occorrono troppi anni). Riprende la spiegazione data in precedenza alla domanda “perché oggi le scimmie non si evolvono più?” e l’adatta
all’esempio del topo.
21: Quella cosa lì che c’era il topo con la coda... che c’era il topo senza la coda lunga anche
se non gliel’hanno tagliata... il fatto che magari in un topo c’è stata questa malformazio-
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ne… e poi... magari si è accoppiato con uno normale ed è andata avanti questa cosa con la
coda corta visto che è un carattere ereditario…
Introduce la parola “malformazione”; il prefisso “mal“ generalizza una situazione relativa al contesto e al punto di vista, ma è un’ottima spiegazione, perché la lega
all’ereditarietà e antepone la variazione all’adattamento.
I bambini ora comprendono che ciò che si trasmette di generazione in generazione sono
caratteri ereditari e non acquisiti durante la vita o con l’uso e il disuso.
M: […] lui fa una differenza... queste cose sono molto diverse: un conto è che capita un incidente, un conto è una malformazione… e allora lui dice – ed è una domanda interessate:
ma, se è una malformazione, ce l’aveva anche il padre e il nonno? Perché, se capisco che
ce l’aveva anche il padre e il nonno vuol dire che…
7: ... è un carattere ereditario.
Un’altro esempio che conferma questa ipotesi è l’intervento di 4, che riassume in un
unica frase il fatto che i figli assomigliano ai genitori,che non si ereditano i caratteri acquisiti e che il confronto con i genitori non può essere fatto nei primi anni di vita, perché ovviamente il bambino deve ancora crescere.
4: Dipende… perché… dipende che papà… Per me non centra se è muscoloso o no… però,
quando cresce… noi ne abbiamo pochi di muscoli… nel senso che i bambini crescono e
dobbiamo aumentare i muscoli… ci alziamo…
GENI
Durante la discussione sull’ereditarietà dei caratteri acquisiti emerge l’ipotesi che gli
organismi siano costruiti a partire da “cellule” o “molecole” che si trasmettono per via
ereditaria e che stanno alla base della creazione delle diverse parti del corpo: un’idea
che corrisponde bene a quella di gene. Probabilmente tale informazione è stata acquisita
dalla scuola o dai media: se è così, ci si può chiedere perché i bambini non usano i termini corretti. Può essere che non abbiano compreso fino in fondo cosa significhi questo
concetto, oppure che le informazioni siano state trasmesse in modo errato:
1: Secondo me no, perché le cellule sono sempre quelle e non possono cambiare aspetto fisico… secondo me no.
[…]
12: Anche se gli hanno tagliato la coda, non è cambiato niente… come ha detto S. [1] le cellule rimangono quelle... nel senso che…
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M: Quindi nascono con la coda lunga?
12: Sì… perché è come dire… la cellula… cioè la cellula che permette di fare la coda al topo... ecco non è che, se tagli la coda, quando si sono accoppiati... la cellula va via…
[…]
3: Io dico che se prendi un topo e gli tagli la coda, suo figlio non ce l’ha come il padre... perché c’è una molecola che si prende da un corpo all’altro... e così la scimmia... ecco perché da scimmia nasceva ancora scimmia, perché [...], e poi il bambino della scimmia [...]
M: Quello che lui [3] chiama “molecola” è lei [12] prima chiamava “cellula”, gli scienziati
lo chiamano in un altro modo: gene.
Interessante come ci sia da parte dei bambini una citazione pertinente di un concetto acquisito dall’esterno, all’interno di un discorso rielaborato da loro relativo a un caso concreto.
LA “PANGENESI”
3: Io penso che la scimmia è nata scimmia... sì però la madre della scimmietta che è piccolina... la sua madre fa qualcosa che lo impara... e l’aiuta a diventare [...]
M: Ma... allora -giusto!- perché il problema era: se certe cose non si ereditano, come fa il figlio a cambiare se deve ri-iniziare sempre da capo; allora lui [3] dice: “attenzione, perché
ci sono anche delle cose che vengono insegnate”. Faccio un esempio: mio papà faceva il
ragioniere, ma non è che io sono nato che sapevo già fare i conti... quella è una cosa che
non si eredita, però mio padre potrebbe insegnarmi fin da piccolo a fare bene i conti…
Allora faccio un obiezione: d’accordo, lui [3] sta dicendo che il fatto che i figli possono
andare un po’ più avanti dei genitori è perché gli vengono insegnate delle cose, ma certi
cambiamenti dell’uomo si possono insegnare?
3: Un po’ glielo insegna la mamma, un po’ è nel sangue, poi nel nostro sangue, nel sangue
del bambino ci potrebbe essere già qualche cosa che è già programmato… potrebbe essere già lui così...
M: Sai chi faceva questa ipotesi? Uno scienziato che si chiamava Darwin.
In queste risposte 3 formula una nuova ipotesi: l’ereditarietà ha una base fisica; infatti
ipotizza che i cambiamenti avvengano perché c’è qualcosa che si trasmette ai figli attraverso il sangue; una ipotesi simile era stata formulata dallo stesso Darwin nella teoria
della “pangenesi”:
“ciascuna parte del corpo, in ogni fase dello sviluppo, libera delle minuscole particelle, […] che circolano nell'organismo”
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e che
“nella maggioranza dei casi, finiscono per aggregarsi negli organi riproduttivi. […] Ne
deriva, così, una prole all'insegna della mescolanza dei caratteri dei genitori, benché di
tanto in tanto, sempre secondo l'ipotesi darwiniana, le gemmule non vengano utilizzate
immediatamente, ma restino latenti per poi ricomparire in un momento successivo dell'esistenza oppure nelle generazioni future.” (Jablonka – Lamb, 2005)
È davvero impressionate come queste ipotesi (quella del bambino e quella di Darwin) si
assomiglino ed è dunque curioso domandarsi come 3 sia arrivato alla formulazione di
tale ipotesi. Purtroppo non è possibile conoscere i procedimenti mentali messi in atto da
questo bambino, ma si può comunque cercare di fare delle osservazioni (senza ovviamente far riferimento a nessuna teoria) ragionandoci sopra. Dal momento che è da escludere che 3 possa avere compreso la teoria della pangenesi e anzi è alquanto probabile che
neppure la conosca, il suo pensiero potrebbe essere stato: se siamo simili ai genitori, la
somiglianza dev’essere “programmata” da qualche parte nel corpo. Se il “programma” è
una metafora che proviene dalla comunicazione dei media è interessante che 3 non citi,
come luogo in cui sia situato questo ipotesi programma, il DNA, che pure viene massicciamente proposto dai media, ma di cui 3 (come molte delle persone che ne parlano) non
sa nulla, ma faccia ricorso al sangue, che è invece una immagine profondamente radicata
nelle culture tradizionali.
3.2.4 LE DINAMICHE DI INTERAZIONE CON L’ADULTO IN RAPPORTO
ALLA COSTRUZIONE DI CONOSCENZA DA PARTE DEI BAMBINI
Secondo l’ipotesi di Sala (Sala, 2007), relativa alla teoria dell’autopoiesi, illustrata in
2.1.4, i bambini sono in grado di autoorganizzarsi, ma ciò non toglie importanza al ruolo dell’interazione con l’adulto. Egli ha infatti dei compiti fondamentali: garantisce e
definisce lo spazio di relazione, è garante della comunicazione di tutti perché sostiene la
comunicazione di ciascuno. Tale compito è affidato soprattutto al linguaggio non verbale del corpo. L’approvazione non dev’essere l’unica modalità di sostegno affettivo. Sala
ricorda l’importanza dello “spiazzamento”, della “perturbazione” come motore di apprendimento:
“[…] l’apprendimento parte dal significato affettivo-cognitivo che lo piazzamento ha
per chi lo subisce […]” (Sala 2007, pag. 177).
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Può accadere anche l’inverso, ovvero momenti in cui le azioni dei bambini siano perturbanti per l’adulto, capaci quindi di provocare ristrutturazioni.
Come si può notare, anche nella conversazione con la classe 5C, l’adulto svolge un ruolo fondamentale nel processo di co-costruzione di conoscenza. L’obiettivo non era di
fare un’indagine sulle conoscenze dei bambini di quinta elementare, ma di osservare
come co-costruiscono le loro conoscenze sull’evoluzione qui e ora in un contesto di interazione sociale, impostato secondo l’idea dell’autoorganizzazione. Di qui la scelta di
non dirigere la conversazione, ma di tenere presenti soltanto alcuni temi, da proporre ai
bambini in chiave problematica aperta, in quanto di interesse per la ricerca. Così si è
deciso di iniziare la conversazione con una ricognizione non tanto sulle pre-conoscenze
in modo analitico, ma su una idea generale di evoluzione.
M., il conduttore del gruppo, ha scelto di presentarsi come “esperto” e non come insegnante; tale scelta è fondamentale per la definizione del contesto (il “gioco linguistico”
in atto): a seconda di come percepiscono il ruolo dell’adulto e l’ambiente, i bambini
danno delle risposte coerenti con esso. Questo processo si può osservare nei primi
scambi della conversazione, nei quali i bambini mantengono un contesto di tipo scolastico, valutativo, non “fidandosi” della presentazione di M. come “esperto”: le risposte
sono riferite a precedenti lezioni didattiche e c’è timore nell’esprimere i propri pensieri.
L’esperto ha interagito con i bambini in diversi modi: talvolta indirizzando l’attenzione
su temi specifici onde evitare divagazioni dal tema di discussione, altre volte ignorando
degli interventi divagatori, spesso rispecchiando in modo più chiaro l’intervento di un
bambino o riassumendo quanto detto da più bambini, in modo da restituire in un unico
intervento le diverse opinioni o i diversi contributi dei bambini e, infine, attribuendo dei
termini specifici a delle idee proposte dai bambini ed espresse con il loro registro linguistico.
FOCALIZZAZIONE DELL’ATTENZIONE
Gli interventi nei quali l’esperto focalizza l’attenzione sono molti all’interno delle conversazione, ad esempio quando vengono introdotte parole o concetti nuovi:
21: Eh sì... e l’evoluzione penso sia che prima erano delle normali scimmie e poi si sono
evolute per adattarsi all’ambiente…
M: Questa è una parola nuova […]
-----
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M: […]Vi siete accorti cos’ha detto [7] di diverso dagli altri?
----M: Aspetta perché questa è una cosa nuova!
----M: Bene: è importante questa cosa nuova.
oppure quando è necessario specificare meglio un ipotesi o un concetto:
M: No: non ho capito… la posizione della Terra nel mondo in che senso?
---M: Bene, fermo lì! quando lui [8] dice che sono diventati uomini, cosa sta dicendo veramente?...
---M: Il punto importante della domanda è se quell’animale lì prima era una scimmia e poi si è
trasformato in uomo, quindi non c’è più la scimmia ma c’è l’uomo… Vorrei capire come
pensate che succede che una scimmia diventa uomo… io non ho mai visto una scimmia
diventare uomo… può darsi che non l’abbia vista io oppure che forse…
---M: Stai parlando della vita di una scimmia?
---M: Questi cambiamenti succedono nella vita di una scimmia?
---M: Sì, ma quindi questo succede da quando nascono a quando muoiono?
---M: Mmm… avete sentito bene?
---M: Avete capito? Lui [21] ha fatto un ipotesi […]
---M: Ma... allora -giusto!- […]
---M: Volevo fermarmi su questa cosa qui: che può nascere con una malformazione. […]
In altri episodi, è invece necessario far comprendere che un intervento non è pertinente
o semplicemente non è importante per la conversazione:
20: Io invece mi ricordo delle scimmie, ma non mi ricordo invece più come si chiamano.
M: Va beh…
----
90
20: C’è anche il fatto che la scimmia una volta aveva il pollice così [mima] …
M: Ma secondo te cosa centra… cioè perché citi il pollice così?... Va beh, non entriamo nei
dettagli...
“Se la conoscenza è una relazione tra soggetto e oggetto, la conoscenza scientifica richiede in primo luogo che l’attenzione sia rivolta a un oggetto, sia nella descrizione (il
come) sia nella spiegazione (il perché).” (Sala 2007, pag. 180).
ma i bambini non si pongono il problema di delimitare un oggetto e neppure se stanno
elaborando una spiegazione scientifica o no. È esigenza e compito dell’adulto indirizzare e limitare la ricerca attorno all’oggetto scelto onde evitare la dispersione del discorso:
Sala parla di “contenimento cognitivo” (Sala, 2007). E la reazione dei bambini è spesso
quella di affinare le osservazioni su un determinato oggetto.
OPPOSIZIONE E SPIAZZAMENTO
Il conflitto ha un ruolo fondamentale nella co-costruzione di conoscenza: l’esperto
dev’essere fonte di perturbazione dei sistemi cognitivi, di spiazzamento. Non si tratta di
un’opposizione basata su idee personali in merito ad una determinata questione, ma
semplicemente del rifiuto di accettare degli interventi come conclusivi e quindi della
possibilità di avanzare ulteriori richieste.
“E’ chiaro che una opposizione ha comunque un significato emotivo e affettivo nella relazione asimmetrica tra insegnante e bambini.” (Sala 2007, pag. 182)
e di questo bisogna sempre essere consapevoli, cercando di mantenere la giusta situazione emotiva che renda accettabile ai bambini questa dimensione critica irrinunciabile.
L’esperto fa spesso ricorso all’opposizione; ecco degli esempi:
8: Io in storia ho sentito parlare dei dinosauri… che prima c’erano i dinosauri poi le scimmie
e poi sono diventate uomini…
M: In storia?
8: Sì.
M: Non in scienze?
10: Io ho sentito parlare dell’evoluzione dell’uomo in storia… l’uomo nasce, cresce e poi…
muore.
----------2: Le scimmie si sono evolute.
M: Sì, ma come?
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2: Hanno una crescita, diventano più intelligenti! E il cranio…
Nella conversazione vi sono “spiazzamenti” cruciali perché, non dando per scontato ciò
che è problematico, permettono di focalizzare l’attenzione, mantenendo aperta la curiosità del gruppo.
12: Allora… perché le scimmie che vedo adesso non si evolvono in uomini? Magari perché
le scimmie antropomorfe non ci sono più… io non lo so questo.
M: Ci sono ancora invece… Cioè lei [12] dice che, se le cose vanno come dice lei [11], cioè
che una scimmia cambia, poi fa e figli ecc…, le scimmie che ci sono adesso… perché non
cambiano?
RISPECCHIAMENTO
L’esperto rimanda continuamente ai bambini ciò che ha capito dai loro interventi, cercando di renderli più chiari e comprensibili anche per gli altri bambini; il rischio è che la
sua interpretazione non corrisponda al significato che il bambino voleva dare alle proprie parole e che quindi possa creare confusione o incomprensione; ma spesso questo
meccanismo è d’aiuto per i bambini (come dimostrano ricerche della Pontecorvo), che
talvolta arrivano a formulare i loro interventi in modo più chiaro e completo:
M: Ah: ecco allora cosa possono entrarci i figli! Cioè lei [11] dice: non è nell’arco di una vita che uno nasce scimmia e diventa uomo, ma, se nasce scimmia può succedere che comincia a cambiare un po’ e poi il figlio...
11: .... porta a termine la…
M: ... diciamo: parte da dove è arrivato il genitore...
11: ... il padre, sì...
M: ... e poi va avanti.
E quindi per avere tutto il cambiamento?
11: ... e il nonno e il bisnonno…
M: Eh! E come si chiamano queste robe qua?
11: Cioè la famiglia, la…
---3: Io penso che la scimmia è nata scimmia... sì però la madre della scimmietta che è piccolina... la sua madre fa qualcosa che lo impara... e l’aiuta a diventare [...]
M: Ma... allora -giusto!- perché il problema era: se certe cose non si ereditano, come fa il figlio a cambiare se deve ri-iniziare sempre da capo; allora lui [3] dice: “attenzione, perché
ci sono anche delle cose che vengono insegnate”. Faccio un esempio: mio papà faceva il
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ragioniere, ma non è che io sono nato che sapevo già fare i conti... quella è una cosa che
non si eredita, però mio padre potrebbe insegnarmi fin da piccolo a fare bene i conti…
Allora faccio un obiezione: d’accordo, lui [3] sta dicendo che il fatto che i figli possono
andare un po’ più avanti dei genitori è perché gli vengono insegnate delle cose, ma certi
cambiamenti dell’uomo si possono insegnare?
3: Un po’ glielo insegna la mamma, un po’ è nel sangue, poi nel nostro sangue, nel sangue
del bambino ci potrebbe essere già qualche cosa che è già programmato… potrebbe essere già lui così...
M: Sai chi faceva questa ipotesi? Uno scienziato che si chiamava Darwin.
Le ripetizioni dell’esperto segnalano anche che l’informazione in questione è considerata importante dall’adulto.
RIASSUNTO
Questa operazione permette di avere un quadro complessivo chiaro di ciò che è stato
detto dai bambini, in modo da poter confrontare più facilmente le varie teorie; in questo
modo si evita il rischio che chi parla dimentichi gli interventi fatti e si concentri solo
sugli ultimi.
È un operazione che l’esperto fa molto di frequente. Ecco alcuni esempi:
M: Ma, in conclusione, l’evoluzione qual è fra queste?... Ah no! Sono quattro cose, mi sono
dimenticato: una è “nasce, cresce, muore”, l’altra era “scimmia, uomo primitivo, uomo
moderno”, poi il fatto che “sulla terra c’erano alcune forme di vita, poi altre…” e poi “la
terra che cambia la posizione dei continenti sul globo”.
-----M: Aspetta! metto solo insieme quello che hanno detto alcuni di loro... insomma ve lo ridico
a modo mio e voi mi dite se ho capito bene; allora: certi cambiamenti succedono perché
succed qualcosa di grosso, per esempio si apre un Rift, e mica succede tutte le volte,
quindi capita una volta e poi non capita più. Lui stava parlando del fatto che c’è stato
questo grosso cambiamento, ci vuole del tempo per adattarsi a questa nuova situazione,
poi, una volta adattati, basta - no?- perché si dovrebbe cambiare ancora se non succede
niente… Ho capito bene?... Bene!
----M: Quindi siamo sempre sul discorso che certi caratteri sono ereditari e certi no… in realtà
praticamente abbiamo fatto degli esempi diversi sulla sua domanda “ma questi caratteri si
ereditano o no?”. Mi sembra che abbiate detto questo: se sono cose che cambiano durante
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la vita, incidenti, allora no; se non sono incidenti, in alcuni casi sembra che si ereditano.
Quello che dice lui [22] è una cosa che viene ereditata, quello che diceva lui [21] invece
no... quindi sono casi diversi.
Anche Pontecorvo segnala che quando l’insegnante ripete o estende l’informazione introdotta da un bambino, il contenuto semantico del discorso può essere più facilmente
elaborato e compreso da tutti i partecipanti, questo anche perché l’informazione introdotta da un bambino ha molta probabilità di essere alla ‘portata’ degli altri bambini
(Pontecorvo, 1991).
INTRODUZIONE DI TERMINI SCIENTIFICI
Nel momento in cui i bambini sono riusciti a co-costruire un ipotesi, l’esperto interviene
indicando il nome scientificamente corretto di ciò di cui si sta parlando. Questa operazione è molto diversa dalla spiegazione didattica, nella quale prima viene presentato un
nuovo termine e dopo viene spiegato a livello teorico. In questa situazione invece si ribaltano i ruoli: ai bambini va il compito di portare nuove ipotesi, nuove scoperte, mentre all’adulto non rimane altro da fare che “etichettarle” correttamente.
Vediamo alcuni esempi:
M: ... diciamo: parte da dove è arrivato il genitore...
11: ... il padre, sì...
M: ... e poi va avanti.
E quindi per avere tutto il cambiamento?
11: ... e il nonno e il bisnonno…
M: Eh! E come si chiamano queste robe qua?
11: Cioè la famiglia, la…
M: La parola che usano gli scienziati è “generazione”…
---M: Gli scienziati direbbero: il tono muscolare è ereditario o… quello che dice lui – no?- la
somiglianza con i genitori... abbiamo delle cose che assomigliano ai genitori… allora anche la muscolatura si prende dai genitori perché ci assomigliamo… o deve ricominciare
a….
---M: Quello che lui [3] chiama “molecola” è lei [12] prima chiamava “cellula”, gli scienziati
lo chiamano in un altro modo: gene.
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CAMBIO DI REGISTRO LINGUISTICO
In momenti di particolare difficoltà, di stallo, o di incomprensione, è stata adottata la
tecnica di cambiare registro linguistico, passando a uno narrativo più vicino al pensiero
dei bambini o addirittura a uno più teatrale e intuitivo. Questo cambiamento spesso ha
aiutato il gruppo a comprendere meglio la domanda in questione.
Vediamo alcuni esempi:
M: Bene, fermo lì! quando lui [8] dice che sono diventati uomini, cosa sta dicendo veramente?... Preciso la domanda: “c’era una scimmia, e quella scimmia lì si è trasformata in uomo”: è questo che noi stiamo dicendo?
[confusione]
F: La domanda è: una mattina la scimmia si sveglia e si ritrova uomo?... è andata così?
---F: Allora… ci sono due soluzioni... facciamo l’esempio dell’alzarsi in piedi: l’uomo prima
andava a quattro zampe poi si è alzato in piedi: la domanda è: si è alzato in piedi per raggiungere gli alberi più alti, o comunque per cacciare più velocemente, oppure si è alzato
in piedi perché le braccia si sono accorciate, faceva fatica a camminare a quattro zampe e
si è alzato in piedi? […]
---M: Per chiarirvi un attimo la faccenda, facciamo che io sono una scimmia e cammino a quattro zampe… [mima] per camminare a quattro zampe io devo avere la colonna vertebrale
piegata davanti... Supponiamo che io nasca con un difetto della colonna vertebrale per cui
non riesco a stare piegato… ce l’ho così, e non riesco più a stare piegato – no?- a questo
punto faccio fatica a camminare a quattro zampe… tutti i miei antenati hanno sempre
camminato a quattro zampe, hanno continuato a vivere così… io però ho il problema che
ho la schiena rigida, quindi faccio fatica. […]
EFFETTI DELLA MODALITÀ DI INTERAZIONE DELL’ADULTO
Tramite le dinamiche d’interazione con l’adulto sopra descritte, i bambini sono riusciti a
co-costruire importanti ipotesi su temi evoluzionistici.
Un esempio concreto è quello relativo alla scoperta che l’evoluzione di una specie non
può avvenire nell’arco della vita di un singolo individuo, bensì sono necessarie diverse
generazioni perché ciò avvenga: i bambini, “perturbati” dagli interventi dell’esperto,
comprendono che è impossibile che un tale cambiamento avvenga così repentinamente.
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Questo concetto chiave della teoria dell’evoluzione non è dunque insegnato
dall’esperto, bensì co-costruito dai bambini con la sua guida.
Un altro caso similare è quello che riguarda l’ereditarietà di un carattere: i bambini, con
l’aiuto dell’esperto, hanno chiarito che alcuni caratteri ci sono sia nei genitori che nei
figli, ma non tutti:
7: Io dico di sì perché quando si dice: “tu hai questi occhi, hai il naso di tua madre”… anche
il fisico può [...]
[...]
M: Stiamo discutendo se si può ereditare una cosa che si è acquisita durante la vita... ad esempio andando in palestra…
A questo punto viene introdotto dall’adulto un nuovo termine: “carattere ereditario”.
Andando avanti con la conversazione, sarà sempre più evidente che i bambini hanno
fatto proprio il concetto di “ereditarietà di un carattere”: questo infatti, come già stato
detto, non è stato presentato dall’esperto, ma è stato co-costruito dai bambini tramite
ragionamenti logici, scontri di opinioni e racconti tratti dalla propria personale esperienza.
Il merito di queste scoperte va dato anche al “gioco linguistico” (Wittgenstein, 1953)
che è stato istituito dall’adulto e anch’esso co-costruito: un contesto di ricerca, nel quale
chiunque poteva dire ciò che pensava (ovviamente se pertinente alla conversazione)
senza che seguisse un giudizio di valore da parte dell’adulto. Creare un tale clima non è
stato semplice: nell’analisi della conversazione emerge come all’inizio i bambini non si
espongano sul piano delle conoscenze personali, ma cerchino di ricordare concetti insegnati a scuola; successivamente si passa a un piano di discussione basato sulla logica, su
ipotesi e confutazioni da parte dell’esperto, su accordi e disaccordi all’interno del gruppo; alla fine invece sono riportati esempi o ipotesi tratti dalla propria esperienza di vita,
dall’ambito culturale di riferimento, da ciò che si è sentito dai media. Ad esempio, il
ciclo di risposte sull’ereditarietà dei caratteri, che per l’appunto si conclude con la condivisione, da parte di alcuni bambini, di esperienze tratte dalla propria vita personale,
con esempi di parenti o amici che hanno subito amputazioni o che hanno malformazioni
dalla nascita, porterà il gruppo alla conclusione che ciò che si trasmette di generazione
in generazione sono caratteri non acquisiti bensì innati.
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Questa modalità del “fare esempi” appartiene all’epistemologia dei bambini che tendono a contestualizzare il pensiero in situazioni concrete esperienziali, ma anche alla prassi scientifica, perché il procedere induttivo generalizza a partire da esempi, e anche si
deve saper dedurre dal caso particolare affermazioni di carattere generale.
Interessante osservare fin dove si spinge questo “gioco linguistico”: ci sono momenti in
cui la perturbazione reciproca fra bambino e adulto è talmente forte da completare insieme delle frasi; addirittura c’è un episodio dove i ruoli (tra chi fa le domande e chi da
le risposte) sono invertiti:
12: Io ho due domande…
[…]
12: Perché adesso le scimmie non si evolvono più? anche se ci sono le antropomorfe e ho
sentito del Rift… cioè, anche se adesso... cos’è che è cambiato... anche se c’è la cultura…
che sono andati nella foresta...
M: La tua domanda è “ma perché le scimmie antropomorfe si sono evolute e adesso non si
evolvono più?”. La risposta che ti hanno dato loro è che, siccome non è più cambiato
l’ambiente in cui vivono, sono rimaste com’erano prima. Non ti convince?
12: Poi la seconda era che l’A. [11] ha detto che le scimmie adesso stanno bene come sono e
quindi non hanno più bisogno di evolversi, però anche un tempo magari le scimmie stavano bene e allora perché si sono evolute, se stavano bene?
M: La risposta è che se le scimmie stavano bene non ci pensavano a cambiare, ma siccome è
successa questa cosa del Rift... che si dovevano spostare... è cambiato tutto, come dire...
hanno dovuto, in qualche modo, per sopravvivere, hanno dovuto cambiare. Questa è la risposta che ti danno loro.
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4. CONCLUSIONI
Questa ricerca è stata guidata da ipotesi tratte dalla lettura di studiosi e ricercatori, (cap.
2) e a partire da domande (cap. 1), cui ora, sulla base di questa esperienza di conversazione in classe, cercherò di dare delle risposte.
Analizzando la conversazione, è stato possibile osservare come il processo che conduce
i bambini alla costruzione di nuove conoscenze è un processo sociale, che si fonda su
uno sfondo culturale di riferimento comune. Per comprendere questo processo è necessario partire da ciò che i bambini stessi propongono e domandano, in un contesto di interazione, altrimenti si rischia di uscire dalla “zona di sviluppo prossimale” creando pericolose incomprensioni.
È certamente importante avere ben presente i diversi sfondi culturali che caratterizzano
l’insegnante e gli allievi, ma ancora più importante è la strategia di interazione messa in
atto dall’adulto: come si può osservare nella conversazione, nei momenti in cui l’esperto
dichiara di “non capire”, i bambini si sforzano di riformulare in modo più adeguato i
loro pensieri. Questo può avvenire solo se l’adulto si mostra disposto all’ascolto, a essere a sua volta ‘perturbato’, a stupirsi, curioso di comprendere e non ansioso di riformulare nelle sue forme culturali ciò che i bambini esprimono.
Prima di tutto, dunque, l’adulto ha il compito di sostenere la conversazione, rispecchiando gli interventi dei bambini con lo scopo di renderli più comprensibili al gruppo,
riassumendo le diverse idee in modo che siano facilmente confrontabili, mantenendo
concentrata l’attenzione su un determinato argomento, creando momenti di conflitto cognitivo che mantengano aperte le aspettative dei bambini.
In secondo luogo, importanti sono le modalità di interazione e organizzazione che i
bambini utilizzano per rispondere alle domande; spesso ci sono state situazioni in cui un
membro del gruppo riprendeva l’intervento precedente chiarendolo, ampliandolo o esprimendo un disaccordo: così facendo, ogni bambino sembra partecipare alla costruzione di un pensiero collettivo, autoorganizzato, in grado di rispondere alle “perturbazioni” provocate dall’adulto.
La costante attenzione o partecipazione del gruppo è fondamentale in un processo di cocostruzione di conoscenze; come si è potuto osservare dalla conversazione, ogni bambi-
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no in qualche modo contribuisce e, più la curiosità è forte, più il gruppo ha bisogno di
risposte, più si attiva per trovarle.
Osservando la differenza che intercorre tra l’inizio e la fine della conversazione, ipotizzerei che fondamentale è il “gioco linguistico” che fa da sfondo all’interazione, così
come le “regole del gioco” che si istituiscono: sono infatti queste che, come si è visto,
hanno permesso a ogni componente del gruppo di partecipare, inducendolo nel contempo ad ascoltare le opinioni altrui.
Altre strategie dimostratesi efficaci durante l’interazione sono la continua problematizzazione degli interventi, la confutazione e soprattutto lo spiazzamento.
Per quanto riguarda le domande, esplicitate nell’introduzione, che vertono più specificatamente sul tema dell’apprendimento della teoria dell’evoluzione, i risultati di questa
ricerca sostengono la convinzione che non solo sia possibile affrontare argomenti complessi quali quelli evoluzionistici tramite la cooperazione dei e soprattutto fra i bambini,
ma che anzi questo sia un ottimo modo per facilitare il processo di apprendimento.
Gli aspetti dell’evoluzionismo proposti dal gruppo sono stati soprattutto quelli che riguardano più da vicino la vita dei bambini; è stato difficile ampliare il discorso da essere umano a esseri viventi e da individuo a specie. Gli esempi che sono stati portati sia
dall’esperto che dai bambini sono osservabili e rintracciabili nella quotidianità, con
l’eccezione dell’evoluzione fisica della terra.
L’argomento sui quali i bambini si sono mostrati più impazienti di esprimere e di confrontare la loro opinione è stato il tema dell’ereditarietà; probabilmente è perché su questo si concentrano una (seppur minima) conoscenza scolastica, esperienze vissute personalmente, temi di discussione attuali trattati dai mass media, uno degli elementi più
confusi della teoria dell’evoluzione (l’idea lamarckiana di eredità dei caratteri acquisiti,
fondata sull’uso/disuso, non è ancora scomparsa). Il ragionamento collettivo su tale tema ha condotto a una idea di ereditarietà abbastanza adeguata scientificamente.
Le conoscenze che i bambini possedevano sull’argomento erano molto confuse; è interessante inoltre notare come essi si riferiscano all’ “evoluzione” come un tema trattato
nell’ambito storico del programma didattico e come la loro concezione di “evoluzione”
sembra rifarsi alla famosa “marcia del progresso”, che vede raffigurati i cambiamenti
dai primi ominidi all’uomo moderno come un miglioramento progressivo e lineare. È
stato comunque evidente che le nozioni scolastiche su temi evoluzionistici erano abba-
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stanza limitate in questo gruppo, che ha dovuto velocemente far appello ad altre risorse
per poter rispondere alle domande poste dall’esperto.
Sono così entrate in gioco le conoscenze di ognuno, che accuratamente “focalizzate” e
“riassunte”, hanno permesso una serie di ragionamenti sviluppati in gruppo, che hanno a
loro volta condotto a una definizione più adeguata scientificamente delle ipotesi presentate in origine da un singolo bambino, giungendo persino alla formulazione di ipotesi
complesse associabili a quelle elaborate dallo stesso Darwin o dalla genetica mendeliana.
Capire come influisce il contesto culturale sociale sul processo conoscitivo è un compito complesso. A questo scopo sarebbe utile anche una ricerca che comparasse una stessa
serie di domande poste in diversi contesti culturali.
In definitiva quello che si può ricavare a questa ricerca è che, in un contesto di interazione sociale tra pari, le informazioni acquisite dai bambini nel bagno di comunicazione
in cui sono immersi possono entrare in un processo vivo di assimilazione e accomodamento dei sistemi cognitivi, in cui vengono rimesse in gioco e rielaborate anche esperienze personali, come esempi capaci di contestualizzare la conoscenza.
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