Scarica il pdf - Salvatore Zeno
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- Chi sono, dove sono, dove andrò Salvatore Zeno Da qualche giorno non si tirava su un granché dal pelo dell’acqua, ma a lui poco importava, ormai era al fango dell’ultima salpata. Fissava i gabbiani e il cielo inerte, quando il sacco calava sopra le loro teste e penzolando copriva il sole ancora caldo. Un sole che tremava e faceva sembrare l'orizzonte più vicino. Pensava di aver capito, si diceva "Finalmente! Ancora due ore e sarà finita". Non avrebbe più avuto a che fare col mal di mare impertinente, con parole appena ascoltate che gli giungevano insignificanti in testa. Niente più puzza di pesce, salsedine che brucia la pelle, e soprattutto, niente più notti insonni: "Ora che ho i soldi," continuava, "posso andarmene. Sacco pieno o sacco vuoto". Più volte Stefano fissò l'orizzonte mentre scartavano il pesce dai rifiuti; ogni volta che lo faceva pensava di perdere tempo e, come un mantra, gli tornava in mente 'il sacco pieno e il sacco vuoto'. Nemmeno lui sapeva il perché, o forse lo taceva a se stesso. Fatto sta che passò a impilare le cassette ricolme in ghiacciaia, e fino all’ultima, quella sensazione di pieno e vuoto allo stesso tempo gli riempì lo stomaco. Quando ebbe finito mise la testa fuori e si rese conto di vivere qualcosa che era fuori dall'ordinario: lo stridio dei gabbiani scendeva col vento, strisciava contro la murata di quercia e lo colpiva in pieno. Il rumore del motore, che è pari a alla presenza di una persona a largo delle coste, era sparito all'improvviso, rapito. Luciano era seduto a poppa da solo, rassettava la rete, e mordendosi le labbra sembrava rispondesse al proprio tic 'Sì Signore, sono qui'. Degli altri due non c'era traccia. Il peschereccio era muto nel bel mezzo del mare, e per volere delle correnti fuggiva dal porto e dall'Isola Zannone verso Mezzogiorno. Tutto, intorno, era fermo: il cielo non sciamava nel blu che l'avrebbe portato alla notte e il mare, piatto e dormiente, vi si specchiava scatenando uno di quei colori nati con la qualità di un dono, che magnificano la vista. Tutto intorno era fermo. Luciano si massaggiava la lunga barba canuta, con l'aria particolare di chi sa cosa significa stare al mondo. Stefano incrociò il suo sguardo, gli si fece rapidamente vicino e aprì bocca col tono comprensibilmente agitato. «Dove stanno gli altri? Perché nel ponte non c'è nessuno?» gli domandò, intravedendo in lui la risposta a ogni domanda. «Staranno in cucina» gli rispose Luciano. Stefano andò in cucina, non trovò nessuno e tornò da Luciano col sangue bollente. «Non c'è nessuno in cucina. Dove stanno?» «Beh,» disse Luciano, «se non stanno in cucina non lo so.» «Cazzate» lo ammonì Stefano. «Siamo io e te. Dove stanno?» «Staranno nella rete?» domandò Luciano, neanche fosse una domanda come un'altra. «Cazzate. Dove stanno? Dimmelo!» «Che c'è? Nun me credi ragazzi'?» Stefano strinse le mani, spalancò gli occhi e disse: «La rete» indicandola «è vuota.» Luciano si fece una risata, il suo viso di un morbido olivastro aprì la via all'inimmaginabile. «Questo lo pensi tu. La rete è piena piena. Guarda bene.» Stefano passò dall'irritazione alla curiosità infantile, si pulì per bene le mani sulla maglietta e, a guardarla bene, la rete pareva muoversi per davvero. «Sei stato tu!» disse. «A fare?» «A muovere la rete.» «Sono sotto i tuoi occhi. Sono immobile.» «Allora com'è che è vuota e si è mossa come fosse piena?» Luciano rise ancora, questa volta con gli occhi stretti: si guardava dentro affacciato a un balcone che dà sul cuore. «Tecnicamente hai ragione ragazzi', la rete è vuota» e smise di ridere. Stefano replicò di nuovo su di giri, negli occhi aveva le tinte del dolore. «Mi stai prendendo per il culo. Dove cazzo stanno mio padre e mio fratello?» Luciano non rispose. Stefano gli prese la rete dalle mani e cominciò a guardare bene all'interno, come se i lumi non fossero già abbastanza grandi. Vi infilò anche la testa, ma niente di niente. «Dove li hai messi?» «Dove sono sempre stati» rispose Luciano impassibile. Allora Stefano prese un coltello e rabbioso squarciò la rete da parte a parte. La distese lungo la poppa, si inginocchiò pensando fossero diventati così piccoli suo padre e suo fratello da doverli cercare fra le onde delle maglie. Ma niente, non c'era niente e nessuno. Era triste e spaventato. E ciò non lo liberava, si sentiva disturbato da una sensazione fastidiosa che lo stringeva fra il centripeto e il centrifugo. Alla fine, su tutto, ebbe la meglio la tristezza, e silenziose due lacrime caddero dagli occhi e s'infilarono in due lumi vicini fra loro. «Che sta succedendo nonno?» domandò. Luciano puntò lo sguardo dove non poteva distinguere la differenza fra cielo e mare. Poi guardò in alto, e pensò a quel tipo di differenze che non si intuiscono sebbene si rivelino a noi. Pensava, come si concede chi può vedere dall'alto senza poter volare, che Stefano avesse bisogno di ali. «So come ti senti ragazzi'.» Ma subito Stefano lo zittì. «Che ne sai tu?» e si alzò. Furioso andò da suo nonno e lo afferrò per la camicia, un lembo venne via e gli rimase fra le dita come niente fosse. «Che ne sai?» insisteva, e un altro lembo di camicia era venuto via. «So che non c'è niente di quello che vorresti in quella rete, forse» disse voltandosi. Poi si sedette stringendo le mani alle ginocchia. «Pare non ci sta niente, ma lì dentro stanno tuo padre e tuo fratello. Lì dentro stanno tutti, e tutti i ricordi da che sei nato, i tuoi e i loro.» «Sei impazzito!» esclamò Stefano «Che cazzo significa?» «No, non lo sono. Lo direi fossi in te. Quindi, in un certo senso, siamo pari. Per questo ti capisco. Ma non ti capisco quando dici di non vederli nella rete. Ora torniamo dispari. Loro ci sono, li vedo anch'io che con gli occhi ormai ci riesco a parlare poco.» Qua e là i colori della sera ferma in una fotografia chiazzavano la figura di Luciano. Partiva da lui un'aurea di raccolta e spiegazione che gli solcava la pelle. Stefano ascoltandolo lo squadrò dalla testa ai piedi. «Come fanno a esserci se non ci sono? Voglio vederli» domandò a suo nonno. Un vento improvviso si alzò, il mare si increspava come tirato su da un pennello, e Luciano e Stefano si trovarono in pochi secondi dentro un quadro. Il peschereccio ruotava su se stesso, spruzzi d'acqua salivano a bordo e atterravano su di loro. Stefano premette le labbra e sentì in una goccia che il mare era dolce; sorrise. La rete cominciò a lievitare da sé e si aprì ad abbracciarli. Non ebbero tempo di chiedersi se fosse magia o meno, come la vera magia ai confini dei sogni vorrebbe. Fu così che anche il peschereccio cominciò a lievitare, gli spruzzi d'acqua li bloccavano ai fianchi e in un niente formarono delle cascate che scorrevano verso il cielo. Dalla rete uscì una musica e un profumo che restituiva al mare il sale che aveva perso. Poi fu il turno di un pallone, di dieci bambini che si rincorrevano e sparivano oltre le cascate d'acqua. «Nonno!» Fu il turno di una culla vuota, di scarpine nuove e mai usate. La musica si trasformò dopo in una voce femminile e nel corpo che la conteneva, una donna vestita di rosso che dalle sirene non aveva niente da imparare. Uscì una signora anziana che guardò Luciano come se lo conoscesse. Lui provò a parlare ma la voce gli si fermò in gola. Stefano corse da lei vedendola zoppicare e l'accompagnò dal nonno. Ma anche lei sparì, facendo spazio a un ulivo. Ai suoi piedi un agricoltore, poi un altro, poi un altro. La luce dava campo alla dimensione inesistente della profondità. Stefano stava entrando in un altro mondo. Decise di tornare nella rete, di affacciarsi, e vide la sua scuola, i suoi amici, i suoi insegnanti. Si voltò e anche il nonno non c'era più. Al suo posto c'era un porticciolo dove distingueva tanti uomini operosi fra le barche e il mercato. Sentiva le loro voci cantare al tempo della freschezza. Corse verso di loro, i suoi amici ricomparvero e lo afferrarono volando ali ai piedi. Appena atterrati sparirono immediatamente risucchiati dall'aria. Stefano era rimasto solo, e il mercato prese a sgretolarsi su se stesso. Divenne tutto bianco intorno a lui, il respiro diventava affannoso e il bianco cresceva, il bianco da scrivere e gonfiato dalla sparizione dei ricordi. D'un tratto s'udì una voce. «Aho!» Stevano era da un’altra parte. Non c'erano più le cascate d'acqua che abbracciavano il peschereccio, artisti invisibili avevano sfumato i colori in quelli propri della sera dopo il tramonto e già alcune luci accese sulla collina respiravano. Fu dipinto tutto così in fretta, dal cielo a rivoli d'acqua che scendevano e scrosciavano lungo la dorsale, e il bianco da riscrivere venne riscritto: tinte armoniose fuse al selvaggio, filamenti d'aria aprirono lentamente le nuvole scoprendo il cielo là dove le stelle più luminose erano acquattate. «Aho!» insistette questa voce. Stefano ascoltava il rumore del motore quando si sentì toccare la spalla. «Cazzo stai a fa?» «Niente» rispose a suo fratello. «Niente.» «Ambè! Spicciati, siamo all'imboccatura.» Stefano restò fermo. Il suo viso riverberava la fine di un giorno. Abbracciò suo fratello prendendolo alla sprovvista. «Beh?» disse questi. «Ti voglio bene» disse Stefano. «Sì, pure io. E metti quel pallone in cuccetta. Spicciati! Ti avevo detto di non portarlo a mare. L’allenamento è sabato.» Qualcosa aveva appena cambiato tono in Stefano, regalandogli il presente in una sensazione vera. Non si sentiva più solo nel suo universo buio. Ciò che è vero diventa vero a volerlo pensò, e l'universo buio si nutre dello sguardo di chi vuol vedere le sue stelle. Così prese il pallone, lo lasciò in cuccetta e in undici passi fu a prora a guardare i delfini saltare. Sabato, alla fine dei conti, era vicino.