Citochine e immunomodulatori nell`artrite reumatoide: dalla
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Citochine e immunomodulatori nell`artrite reumatoide: dalla
5-6/2005 Anno 8 - Maggio-Giugno Citochine e immunomodulatori nell’artrite reumatoide: dalla patogenesi alla terapia. Manuela Catuogno Daniela Bompane La brucellosi dei mammiferi marini Guglielmo Gargani Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) Art. 1, comma 1 DCB Milano Nutrizione e neurotrasmissione Antonio D’Alessandro Annalisa Aggio PREVENZIONE Orlistat: non solo obesità Duccio Morelli DERMATOLOGIA PLASTICA Editoriale Antonino Di Pietro “Pelle sana”: uno studio italiano sulla popolazione sana riguardo ad abitudini di vita e di trattamento della cute, con particolare attenzione al fenomeno della “pelle sensibile” Adele Sparavigna, Michele Setaro, Antonino Di Pietro Valutazione dell’affidabilità e dell’efficacia dell’acido polilattico per il trattamento della lipoatrofia facciale associata ad infezione da HIV Francesco Bruno www.isplad.org Antonio Di Maio Meetings Gallery Scripta M E D I C A Volume 8, n. 5-6, 2005 81 Citochine e immunomodulatori nell’artrite reumatoide: dalla patogenesi alla terapia. Scripta MEDICA Direttore Responsabile Pietro Cazzola Direzione Marketing Armando Mazzù Sviluppo e Nuove Tecnologie Antonio Di Maio Registrazione Tribunale di Milano n.383 del 28/05/1998 Iscrizione al Registro Nazionale della Stampa n.10.000 Redazione e Amministrazione Scripta Manent s.n.c. Via Bassini, 41 - 20133 Milano Tel. 0270608091 - 0270608060 Fax 0270606917 E-mail: [email protected] Manuela Catuogno, Daniela Bompane pag. La brucellosi dei mammiferi marini Guglielmo Gargani pag. Nutrizione e neurotrasmissione Antonio D’Alessandro, Annalisa Aggio pag. 83 93 99 PREVENZIONE Orlistat: non solo obesità Duccio Morelli pag. 107 pag. 113 Consulenza Amministrativa Cristina Brambilla Consulenza grafica Piero Merlini Impaginazione Felice Campo Stampa Parole Nuove s.r.l. Brugherio (MI) È vietata la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo, di articoli, illustrazioni e fotografie pubblicati su Scripta MEDICA senza autorizzazione scritta dell’Editore. L’Editore non risponde dell’opinione espressa dagli Autori degli articoli. DERMATOLOGIA PLASTICA Editoriale Antonino Di Pietro “Pelle sana”: uno studio italiano sulla popolazione sana riguardo ad abitudini di vita e di trattamento della cute, con particolare attenzione al fenomeno della “pelle sensibile” Adele Sparavigna, Michele Setaro, Antonino Di Pietro ARCHIVIO ITALIANO DI UROLOGIA E ANDROLOGIA RIVISTA ITALIANA DI MEDICINA DELL’ADOLESCENZA JOURNAL OF PLASTIC DERMATOLOGY INFORMED, CADUCEUM, IATROS, EUREKA 114 Valutazione dell’affidabilità e dell’efficacia dell’acido polilattico per il trattamento della lipoatrofia facciale associata ad infezione da HIV Francesco Bruno Edizioni Scripta Manent pubblica inoltre: pag. pag. 117 www.isplad.org Antonio Di Maio Meetings Gallery Diffusione gratuita. Ai sensi della legge 675/96 è possibile in qualsiasi momento opporsi all’invio della rivista comunicando per iscritto la propria decisione a: Edizioni Scripta Manent s.n.c. Via Bassini, 41 - 20133 Milano 118 pag. 119 pag. Scripta M E D I C A Volume 8, n. 5-6, 2005 83 Citochine e immunomodulatori nell’artrite reumatoide: dalla patogenesi alla terapia. Manuela Catuogno, Daniela Bompane Patogenesi dell’artrite reumatoide L’artrite reumatoide (AR) è una patologia cronica articolare a carattere infiammatorio, caratterizzata istologicamente da infiltrazione macrofagica e linfo-monocitaria e da fenomeni d’intensa angiogenesi e proliferazione tissutale. Le prime fasi sono caratterizzate da un’intensa flogosi a carico della sinovia, successivamente, nelle fasi avanzate di malattia, la proliferazione del panno sinoviale e l’aberrante attivazione delle cellule del metabolismo osseo provocano la formazione di erosioni dell’osso subcondrale, determinando la distruzione dei capi ossei e l’anchilosi. A tutt’oggi non è stato ancora identificato un unico fattore eziologico quale causa dell’AR, tuttavia lo sviluppo delle conoscenze in campo immunologico hanno permesso di interpretare una grande parte dei meccanismi patogenetici. La storia naturale dell’AR si può sintetizzare in 3 distinte fasi: quella iniziale o di induzione della malattia (initiation), quella di mantenimento della medesima (perpetuation) ed infine quella di distruzione tissutale (terminal destruction) (1). Negli ultimi anni, l’identificazione del sistema dei Toll-like receptors (TLRs) responsabili dell’immunità naturale o non-antigene specifica (2), ha portato al riconoscimento di una serie di fenomeni coinvolti nell’iper-attivazione aspecifica delle cellule sinoviali in risposta a diversi fattori che, pur non essendo identici, condividono ligandi simili (3, 4), in grado di stimolare la stessa classe di TLRs. Questi recettori hanno una struttura omologa ad una Cattedra e Divisione di Reumatologia Università “La Sapienza”, Roma Direttore: Prof. Guido Valesini proteina della Drosophila chiamata Toll ed hanno la capacità di attivare i fagociti in risposta a differenti componenti microbici. L’identificazione di questo sistema consente di spiegare le correlazioni tra l’attivazione del sistema dell’immunità innata e di quella acquisita, fornendo anche una solida alternativa alla teoria, non sempre applicabile, del mimetismo molecolare. Il riconoscimento dei PAMPs (pathogen associated molecular patterns) attiva nelle cellule che esprimono i TLRs una cascata intra-cellulare che, tramite l’attivazione del fattore di trascrizione NF-kB (nuclear factor kB) determina la produzione di anticorpi polireattivi, citochine e chemochine infiammatorie (5, 6). Questo tipo di risposta, fisiologicamente finalizzata ad un’efficace eliminazione dei patogeni (7) potrebbe determinare, in un soggetto geneticamente predisposto, il primum movens per l’instaurarsi di meccanismi di richiamo ed attivazione cellulare che esitano nella perpetuazione del processo infiammatorio. L’identificazione su fibroblasti sinoviali di soggetti con AR, di specifici TLRs e l’aumentata espressione di integrine, metalloproteinasi e citochine pro-infiammatorie (IL-6 e IL-8) a seguito della loro stimolazione, supporta ulteriormente questa teoria (8). Lo studio degli aspetti istologici della sinovia reumatoide ha focalizzato l’attenzione su una serie di sistemi più complessi, legati specificamente all’attivazione dell’immunità acquisita (interazione specifica tra cellule helper e cellule antigene specifiche). La sinovia reumatoide presenta, infatti, a livello istologico una componente linfocitaria preponderante, che è presente peraltro anche nei modelli murini di artrite collageno-indotta e di artrite da adiuvante (9). Tra le molecole fisiologicamente Scripta M E D I C A Volume 8, n. 5-6, 2005 84 coinvolte nella linfoneogenesi, ne rientrano alcune usate oggi come target molecolari nel trattamento dell’AR: il TNF (tumor necrosis factor) α e β. Entrambi appartenenti alla famiglia del TNF, queste due molecole svolgono in realtà ruoli molto diversi nella maturazione del tessuto linfoide e si sono dimostrate efficaci bersagli terapeutici, in modelli sperimentali e nel trattamento clinico di pazienti affetti da AR (10-12). Il TNFα sembra essere maggiormente coinvolto nei processi di maturazione delle cellule follicolari dendritiche, nei fenomeni di amplificazione e mantenimento della struttura linfoide. Il TNFβ o Linfotossina-α (LT-α), al contrario, svolge un ruolo chiave nei fenomeni di amplificazione dei segnali implicati nella produzione di chemochine ritenute fondamentali per lo sviluppo delle strutture linfatiche (13). Lo specifico ruolo di queste due molecole nella dinamica di sviluppo degli infiltrati infiammatori che si formano in corso di AR è tuttora affascinante oggetto di studio. IL TNFα è in grado stimolare il rilascio di citochine infiammatorie (IL-1, IL-6, IL-8 e GM-CSF o granulocyte-macrophage colony stimulating factor) (14) e fattori angiogenetici (15); di mediare l’induzione di molecole di adesione quali ICAM-1 (intercellular adhesion molecule -1) e VCAM-1 (vascular adhesion molecule-1); di indurre il rilascio di metalloproteinasi bloccando quello dei loro inibitori (16); sembra infine capace di regolare, direttamente o tramite l’attivazione del sistema RANK/RANKL (receptor activator of NFκB/receptor activator of NF-κB ligand), la differenziazione degli osteoclasti che è alla base del processo erosivo (17). Non ci sono invece dati circa il ruolo specifico della LT-α nell’AR, è interessante però notare come case-report sul successo terapeutico di etanercept (in grado di bloccare sia il TNFα che la LT-α) in pazienti resistenti al trattamento con infliximab (che agisce inibendo solo il TNFα), suggeriscono la possibilità che la LTα possa svolgere un ruolo specifico nella patogenesi della sinovite o di alcune sue forme, indipendente dal TNFα ma comunque importante per lo sviluppo e la perpetuazione del processo infiammatorio. A fianco di queste limitate osservazioni clini- che, ci sono evidenze sperimentali che indicano come nella sinovia reumatoide, l’espressione di RANKL, coinvolta con il suo recettore RANK nella realizzazione del danno erosivo, sembri colocalizzare preferenzialmente con un subset di linfociti T CD3+/CD4+ disposti in aggregati con organizzazione di tipo follicolare (18,19), suggerendo un’elegante spiegazione molecolare all’associazione clinica tra le forme più severe di AR (maggiormente erosive) e il pattern istologico di tipo follicolare (20). La sinovite reumatoide è caratterizzata da un punto di vista istologico dall’ispessimento del lining, dall’infiltrazione cellulare e da una spiccata neoangiogenesi necessaria per la formazione del panno sinoviale. Diverse molecole risultano coinvolte nella proliferazione vascolare, tra queste l’E-selectina, l’integrina alfaVbeta3 (direttamente coinvolta nella formazione delle erosioni ossee), citochine proinfiammatorie e molecole regolatorie quali l’Angiopoietina-1 e il VEGF (vascular endothelial growth factor) (21). L’ipotesi della patogenesi T-mediata dell’AR si basa sulla dimostrazione di uno specifico richiamo nelle articolazioni di un certo numero di linfociti T, cui verrebbe presentato un antigene di origine sconosciuta da parte di cellule dendritiche o antigen presenting cells (APC). Le prime osservazioni a sostegno di questa teoria furono quelle relative alla presenza a livello sinoviale di linfociti con fenotipo memory/helper (CD3+CD4+CD45RO+) (22) cui seguirono gli studi sul ruolo delle molecole di homing nella migrazione specifica nella sinovia e sul ruolo degli stessi linfociti T nello stimolo osteoclastogenico (23). In questa visione la persistenza dell’infiammazione sarebbe legata ad un fenomeno denominato spreading antigenico che consiste nel coinvolgimento di un numero via via crescente di epitopi verso cui si orienta la risposta immune. Numerose molecole sono state proposte quali possibili autoantigeni dell’AR e tra queste merita di essere menzionata la chaperonina BiP (immunoglobulin binding protein), proteina espressa nel reticolo endoplasmatico cellulare, dimostratasi capace di stimolare Scripta MEDICA Citochine e immunomodulatori nell’artrite reumatoide 85 specificamente la risposta immune di linfociti T presenti nel liquido sinoviale dei malati (24). I linfociti CD3+/CD4+, attivati dal contatto con l’antigene e da molecole di costimolazione espresse dalle APC determinerebbero, tramite il rilascio di molecole solubili e l’interazione cellulare diretta, l’attivazione dell’endotelio, di macrofagi e di sinoviociti simil-fibroblasti, con il successivo richiamo di cellule immunitarie e la strutturazione dell’infiltrato sinoviale con l’aggregazione e proliferazione dei linfociti B. Il concetto dell’homing o ricircolo selettivo di cellule infiammatorie, ed in particolar modo dei linfociti T, nei tessuti dai quali è stato loro presentato originariamente l’antigene, ha trovato nelle patologie infiammatorie articolari notevoli applicazioni. Numerosi dati sperimentali hanno infatti dimostrato a livello sinoviale la presenza di linfociti attivati e stimolati in altri distretti anatomici, sedi di infiammazione cronica nello stesso organismo. (25). Le chemochine, molecole appartenenti alla famiglia delle citochine con prevalenti proprietà chemotattiche, sono state considerate in numerosi lavori come le molecole maggiormente coinvolte nel selettivo recruitment a livello tissutale. Questo fenomeno si realizza in realtà tramite un complesso sistema d’interazione con specifici recettori espressi dai diversi subset cellulari e le chemochine sembrano essere coinvolte non solo nel fenomeno della migrazione ma anche in quello della strutturazione stessa dell’infiltrato e nello switch delle risposte immuni in senso Th1/Th2 (26). Per ciò che concerne le cellule B è stato identificato un potente fattore regolatorio denominato BAFF (B cell activating factor of the TNF family) o BLyS; si tratta di una proteina di 285 amminoacidi, appartenente alla famiglia del TNF, presente in forma transmembrana sulla superficie di cellule della linea monocitaria. Tale proteina sembra essere implicata nell’iperproduzione anticorpale in corso di Sindrome di Sjögren e LES. Topi transgenici che presentano un’aumentata produzione di BLyS sviluppano una sindrome che può considerarsi un modello sperimentale di LES; al contrario, l‘inibizione della produzione di BLyS, in animali norma- li, determina un’incapacità maturativa delle cellule B cui consegue una ridotta produzione immunoglobulinica. Elevati livelli di BLyS sono stati inoltre rilevati nel liquido sinoviale di soggetti affetti da AR rispetto a soggetti sani o con lesioni traumatiche (27). L’inibizione di tale molecola potrebbe rappresentare una valida strategia terapeutica nell’AR. Al momento sono in corso trial clinici che ultilizzano sia anticorpi umanizzati anti-BLyS sia recettori solubili Introduzione alla terapia Negli ultimi anni, la ricerca scientifica ha portato alla nascita di nuove terapie per la cura dell’artrite reumatoide; tutto ciò è stato dettato da diversi fattori: i progressi nella comprensione della fisiopatologia e della storia naturale della malattia, la miglior conoscenza della biologia delle citochine, la necessità di un trattamento sempre più precoce ed aggressivo ed i recenti sviluppi della biotecnologia. Oltre ai farmaci di fondo tradizionali, cosiddetti DMARDs (disease-modifying anti-rheumatic drugs), utilizzati da molti anni nella terapia delle malattie reumatiche, sono oggi disponibili farmaci biologici, capaci di bloccare singoli target molecolari sia solubili che di superficie. Al fine di valutare la risposta ai vari farmaci usati nella cura dell’AR, la maggior parte degli studi clinici utilizza i criteri ACR (American College of Rheumatology). Tali criteri indicano la percentuale di riduzione rispettivamente del 20%, del 50% e del 70%, del numero di articolazioni dolenti e tumefatte e di almento tre dei seguenti parametri: la valutazione globale da parte del paziente della attività di malattia, del dolore, la capacità funzionale (HAQ); la valutazione da parte del medico dell’attività di malattia ed il livello della Proteina C reattiva (28). Anti-TNFα nell'artrite reumatoide Il TNFα è una citochina prodotta da monociti attivati, macrofagi e linfociti T che si lega a 2 recettori: tipo 1 (p55) e tipo 2 (p75) Scripta M E D I C A Volume 8, n. 5-6, 2005 86 espressi su molti tipi cellulari, giocando, come già detto, un ruolo chiave nel processo infiammatorio. Nei pazienti con AR i livelli di TNFα nel liquido sinoviale risultano 4-5 volte più elevati rispetto a quelli riscontrati nel sangue periferico, tale discrepanza non è riscontrabile nei controlli. (29). La neutralizzazione del TNFα può quindi determinare un’importante soppressione dell’infiammazione a livello sinoviale, rendendo i farmaci anti-TNFα un attraente target per un’immunoterapia mirata nei pazienti con AR. D’altra parte, il fenomeno della cosidetta TNF-resistenza suggerisce che, perlomeno in alcuni pazienti, altri pathway molecolari permangano attivi nel corso della patologia ed assumano un ruolo nella progressione del processo infiammatorio in assenza del TNF. Tra gli effetti collaterali più frequentemente descritti in letteratura meritano di essere citati: le infezioni (soprattutto quella tubercolare), le reazioni di ipersensibilità immediata e ritardata, l’insorgenza di disordini demielinizzanti simil-sclerosi multipla, la comparsa di autoanticorpi sierici (in particolare anticorpi anti-nucleo, anti-dsDNA e anti-cardiolipina) con possibile sviluppo di sindromi lupus-like ed un aumento degli indici di funzionalità epatica (30). Il ruolo di questi farmaci sul- l’aumentato rischio d’insorgenza delle neoplasie e l’insufficienza cardiaca risulta essere ancora un tema controverso. Attualmente sono disponibili in commercio 3 farmaci anti-TNFα: due anticorpi monoclonali di cui uno chimerico e uno interamente umano (rispettivamente infliximab e adalimumab) e un recettore solubile (etanercept). Il tasso di risposta al trattamento dei diversi farmaci anti-TNFα in monoterapia e in associazione al methotrexate dei pazienti con AR sulla base dell’ACR 20, 50 e 70 è riportato nella Tabella 1. I dati presentati si riferiscono al dosaggio dei farmaci usati nella pratica clinica per il trattamento dell’AR (infliximab 3 mg/kg per via endovenosa ogni 8 settimane, etanercept 25 mg per via sottocutanea 2 volte a settimane e adalimumab 40 mg per via sottocutanea a settimane alterne). Infliximab L’infliximab è un’IgG1 chimerica anti-TNFα contenente la porzione legante l’antigene murina e la regione costante umana. Esso lega il TNFα solubile e di membrana con elevata affinità, riducendo il legame del TNFα al suo recettore. L’infliximab è in grado di provocare la lisi delle cellule che esprimono il TNFα essenzialmente attraver- Tabella 1. Tasso di risposta agli anti-TNFα in monoterapia o in combinazione con methotrexate. Studio Terapia N° pazienti ACR 20 (% pazienti) ACR 50 (% pazienti) ACR 70 (% pazienti) Moreland et al. Placebo 80 11 5 1 Etanercept 78 59 40 15 Placebo+Methotrexate 30 27 3 0 Etanercept+Methotrexate 59 71 39 15 Placebo+ Methotrexate 84 20 5 0 Infliximab+ Methotrexate 83 50 27 8 Placebo 110 19 8 2 Adalimumab 113 46 22 12 Placebo+ Methotrexate 62 15 8 5 Adalimumab+Methotrexate 67 67 55 27 Weinblatt et al. Maini et al. Abbott Laboratories Weinblatt et al. Modificata da Olsen NJ et al., NEJM 2004 Scripta MEDICA Citochine e immunomodulatori nell’artrite reumatoide 87 so 2 meccanismi: uno anticorpo-mediato e uno complemento-mediato. (31) Il suo utilizzo è attualmente approvato per il trattamento dell’AR e del morbo di Crohn, anche se viene utilizzato con successo anche in altre patologie autoimmuni quali le spondiloartropatie, le vasculiti e la malattia di Behçet. Il dosaggio è di 3 mg/kg al tempo 0, 2, 6 e successivamente ogni 8 settimane per l’AR, mentre per le spondiloartropatie è di 5 mg/kg al tempo 0, 2, 4 e successivamente ogni 6 settimane per via endovenosa. Per le risposte incomplete la dose di mantenimento può essere progressivamente aumentata fino a 10 mg/kg. L’emivita è di circa 9 giorni. C’è una notevole variabilità individuale per quanto attiene alla farmacocinetica dell’infliximab. Si è visto che, riducendo l’intervallo tra le infusioni, ad es. ogni 6 settimane, aumentano i livelli del farmaco più efficacemente rispetto ad un aumento del dosaggio. (32) L’utilizzo in monoterapia del farmaco si è rivelato nettamente più efficace rispetto al placebo, sebbene in questi pazienti è più frequente lo sviluppo di autoanticorpi antiinfliximab, ragione che ha portato all’associazione con methotrexate. (33). L’efficacia e la risposta dose-correlata dell’infliximab è stata valutata in un ampio studio coinvolgente 428 pazienti che ricevevano il farmaco al dosaggio di 3 o 10 mg/kg ogni 4 o 8 settimane in associazione al methotrexate. È interessante notare come il tasso di risposta ACR 50 sia simile dopo 24 settimane di trattamento in tutti i gruppi, mentre risulti significativamente più basso dopo 54 settimane nel gruppo ricevente 3 mg/kg ogni 8 settimane (21%) rispetto a quelli trattati con 10 mg/kg ogni 8 e 4 settimane (39% e 38% rispettivamente) (Tabella 1). (34, 35) Etanercept L’etanercept è una proteina di fusione formata dal dominio extracellulare del recettore tipo 2 del TNFα (p75) e dalla porzione Fc di un’IgG1 umana. Questa proteina dimerica è in grado di legare sia il TNFα che il TNFβ impedendo l’interazione con i rispettivi recettori. L’etanercept è registrato per la terapia dell’AR, dell’artrite cronica giovanile, dell’artrite psoriasica, della spondilite anchilosante e della psoriasi. Il dosaggio è di 25 mg 2 volte alla settimana o 50 mg una volta alla settimana per via sottocutanea. L’emivita è di circa 4 giorni (36). Per quanto riguarda i pazienti con incompleta risposta al methotrexate, si osserva un significativo miglioramento associando a tale monoterapia l’etanercept rispetto al placebo (Tabella 1). (37). Adalimumab L’adalimumab è un anticorpo monoclonale ricombinante anti-TNFα completamente umano, strutturalmente indistinguibile da un’IgG1k umana (38). È in grado di legare il TNFα con elevata affinità riducendo il legame di questo con i suoi recettori e determinando la lisi delle cellule che lo esprimono sulla loro superficie. L’adalimumab viene utilizzato per il trattamento dell’AR multiresistente. Il dosaggio è di 40 mg a settimane alterne per via sottocutanea. L’emivita varia dai 6 ai 13.7 giorni. L’adalimumab sembra avere un effetto additivo quando somministrato in associazione al methotrexate, determinando un significativo aumento della risposta ACR 20 rispetto ai pazienti che ricevono solamente methotrexate più placebo (Tabella 1). (39) Anakinra L’interleuchina 1 (IL1), prodotta dai monociti, dai macrofagi e da cellule del lining sinoviale, possiede effetti anti-infiammatori tra cui l’induzione dell’interleuchina 6 e della ciclo-ossigenasi 2. L’azione dell’IL1 è downregolata dall’antagonista del suo recettore che è un inibitore naturale che compete per il legame ai recettori dell’IL1. Nei topi knockout per tale antagonista, si sviluppa un’artrite cronica con caratteri simili all’AR (40). Anakinra è un prodotto ricombinante dell’antagonista del recettore di tipo I dell’IL1, espresso in una varietà di tessuti; nei pazienti con AR vi sono bassi livelli di questo antagonista a livello dello spazio articolare, rispetto alla quota di IL1 (41). Questo farmaco possiede una struttura identica alla forma non glicosilata della proteina endoge- Scripta M E D I C A Volume 8, n. 5-6, 2005 88 Tabella 2. Percentuali di risposta a 24 settimane alla terapia con anakinra. Livello di risposta* Placebo* Anakinra 150 mg* Placebo** Anakinra Anakinra 1 mg/kg+MTX** 2 mg/kg+MTX** ACR 20 27% 43% 23% 42% 35% ACR 50 8% 23% 4% 24% 17% ACR 70 4% 9% 0% 10% 7% Modificata da Olsen NJ et al, NEJM 2004; *Bresnihan et al. Arthritis Rheum 1998; **Cohen et al. Arthritis Rheum 2002 na eccetto che per l’aggiunta di una metionina N-terminale; data la sua breve emivita, è necessaria la somministrazione sc giornaliera (100 mg/die). In trials randomizzati controllati coinvolgenti più di 900 pazienti con AR, anakinra, da solo o in combinazione con il methotrexate, si è dimostrato più efficace rispetto al placebo ed in grado di rallentare il danno radiologico (42, 43) (Tabella 2). Sembra essere aumentato il rischio di infezioni, soprattutto batteriche; in uno studio su 1000 pazienti, la percentuale di infezioni serie è risultato pari al 2,1% nel gruppo ricevente il biologico,rispetto allo 0,4% del gruppo del placebo (44). midollari e viene perso quando avviene la differenziazione in plasmacellule. Vi sono quattro possibili meccanismi d’azione con i quali potrebbe agire l’anti-CD20: dopo il legame alla porzione extracellulare del CD20, potrebbe attivare il complemento e provocare la lisi della cellula bersaglio; potrebbe permettere la citotossicità cellulare anticorpo-dipendente attraverso il riconoscimento della porzione Fc da parte dei recettori presenti sulle cellule citotossiche; potrebbe alterare la capacità della cellula B di rispondere all’antigene o ad altri stimoli; potrrebbe innescare l’apoptosi (45). In un trial randomizzato controllato multicentrico (46), una breve somministrazione di rituximab (1000 mg al giorno 1 e al giorno 15), sia da solo sia in combinazione con il methotrexate e con la ciclofosfamide, ha portato ad un miglioramento significativo dei sintomi della malattia (Tabella 3). Gli eventi avversi si sono verificati soprattutto durante la prima infusione. Nei gruppi riceventi il rituximab vi era una prolungata deplezione delle cellule B periferiche; tuttavia, a 24 e a Rituximab Il ruolo delle cellule B nella patogenesi dell’AR non è ancora stato chiarito a pieno; esse producono autoanticorpi, nella fattispecie il Fattore Reumatoide; si comportano da cellule presentanti l’antigene nei confronti dei linfociti T; producono citochine (IL6 e l’IL10) che possono alterare la funzione di altre cellule del sistema immunitario. Appare quindi razionale l’utilizzo del rituximab, anticorpo monoclonale chiTabella 3. merico anti-CD20, apRituximab: percentuale di risposta a 24 settimane. provato per il trattaLivello MTX Ritux Ritux+Cyclo Ritux+MTX mento del linfoma nondi risposta (n=40) (n=40) (n=41) (n=40) Hodgkin a basso grado ACR 20 38% 65% 76% 73% o follicolare a cellule B. Il CD20 è in antigene di ACR 50 13% 33% 41% 43% superficie espresso sulle ACR 70 5% 15% 15% 23% cellule pre-B e sulle cellule B mature; non è Modificata da Edwards JCW, NEJM 2004 espresso sui precursori Scripta MEDICA Citochine e immunomodulatori nell’artrite reumatoide 89 Tabella 4. Efficacia del CTLA4Ig a sei mesi. Livello di risposta Placebo + MTX (n=119) CTLA4Ig 2 mg/kg + MTX (n=105) CTLA4Ig 10 mg/kg + MTX (n=115) ACR 20 35,3% 41,9% 60% ACR 50 11,8% 22,9% 36,5% ACR 70 1,7% 10,5% 16,5% Modificata da Kremer JM, NEJM 2003 48 settimane, l’incidenza delle infezioni era simile al gruppo del placebo; i livelli di immunoglobuline risultavano soltanto minimamente ridotti, mentre il titolo anticorpale antitetanico (misura dell’immunità acquisita) non risultava influenzato. CTLA4Ig Le cellule T hanno bisogno di due segnali per essere attivate: il primo segnale è antigene-specifico ed è mediato dal legame del TCR con una molecola MHC presente sulla cellula presentante l’antigene; il secondo segnale è mediato da molecole di costimolazione, in particolare il CD28 presente sui linfociti T e il CD80 o il CD86 presente sulle APC; in presenza di questo segnale le cellule T proliferano e producono citochine in grado di attivare altre cellule infiammatorie, come i macrofagi. Il CTLA4 (cytotoxic Tlymphocyte-associated antigen 4) è espresso sulle cellule T dopo la loro attivazione, possiede un’alta avidità di legame sia con il CD80 che con il CD86, dalle 500 alle 2500 volte maggiore rispetto al CD28. Il CTLA4Ig è una proteina di fusione che comprende il dominio extracellulare del CTLA4 umano e la regione costante della catena pesante di una IgG1 umana. Questo farmaco si lega al CD80 e CD86 presenti sulle APC, impedendone il legame con il CD28: viene così meno il secondo segnale necessario per un’attivazione ottimale dei linfociti T. Uno studio randomizzato controllato (47) ha mostrato l’efficacia di questa molecola, in combinazione con il methotrexate, nel migliorare in maniera significativa segni e sintomi di pazienti con AR e la loro qualità di vita; ciò si osservava soprattutto ai dosaggi più elevati del farmaco (Tabella 4). Inoltre, tale molecola è stata ben tollerata e la percentuale di sospensione della terapia dovuta ad eventi avversi è risultata sovrapponibile al gruppo del placebo. Bibliografia 1. Firestein GS, Zvaifler NJ. How Important Are T Cells in Chronic Rheumatoid Synovitis? T Cell–Independent Mechanisms From Beginning to End. Arhritis & Rheumatism 2002; 46:298 2. Medzhitov R, Janeway CA Jr. Innate immunity: impact on the adaptive immune response. Curr Opin Immunol 1997; 9:4 3. Van der Heijden I, Wilbrink B, Tchetverikov I, Schrijver IA, Schouls LM, Hazenberg MP, et al. Presence of bacterial DNA and bacterial peptidoglycans in joints of patients with rheumatoid arthritis and other arthritides. Arthritis Rheum 2000; 43:593 4. Wilkinson NZ, Kingsley GH, Jones HW, Sieper J, Braun J, Ward ME. The detection of DNA from a range of bacterial species in the joints of patients with a variety of arthritides using a nested, broad-range polymerase chain reaction. Rheumatology (Oxford) 1999; 38:260 5. 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(1) su campioni di siero prelevati da mammiferi marini fra il 1989 e il 1995 lungo le coste inglesi e gallesi mise in evidenza la presenza di anticorpi specifici anti-brucella nel campione prelevato nel 1990 da un delfino comune (Delphinus delphis). Queste ricerche dimostrarono l’esistenza di infezione brucellare nei mammiferi marini in un periodo precedente alle osservazioni che l’avevano provocata, quelle di Ross e coll. (2), che nel 1994 riferirono di avere coltivato, in Scozia, da foche, delfini, focene, per lo più rinvenuti morenti sulle spiagge, e da una lontra investita da un veicolo, coccobacilli immobili, Gram negativi, a lento sviluppo: il sospetto immediato, che si trattasse di microbi del genere Brucella, fu ben presto confermato da indagini sia batteriologiche convenzionali, sia biomolecolari. Quasi contemporaneamente Ewalt e coll. (3) isolarono microrganismi simili da un feto abortito di delfino tursiope (Tursiops truncato) cresciuto in cattività sulle coste della California e, poco dopo, nel gennaio febbraio 1995, Forbes e coll. (4) da linfonodi di 4 foche degli anelli (Phoca hispida) all’isola di Baffin e nel marzo del 1996 da una foca della Professore emerito di Microbiologia Università degli Studi di Firenze E.mail guglielmo@gargani Groenlandia (Phoca groenlandica) alle isole Magdalen (golfo di San Lorenzo, Canada). Nel 1998 Claverau e coll. (5) e nel 1999 Tryland e coll. (6) riportano l’isolamento dello stesso microrganismo da fegato e milza di due diversi esemplari di balenottera minore (Balaenoptera acutorostrata). Fu così completato il campo di ospite di queste brucelle, che si estende in due ordini Cetacea (delfini focene e balene) Pinnipeda (foche). L’isolamento da un animale prevalentemente terrestre, ma con abitudini legate agli specchi d’acqua, la lontra (Lutea lutea famiglia Mustelidae) è rimasto finora unico (Tabella 1). Caratteri ed inquadramento tassonomico I microrganismi hanno la tipica forma coccobacillare, sono immobili, privi di capsula, Gram negativi; si sviluppano sui terreni comunemente usati per le brucelle, ma più lentamente degli isolati terresti (fino a 8-10 giorni); quelli dalle foche, e l’unico da una lontra, sono dipendenti, almeno in coltura primaria, dal CO2. Le colonie su mezzo solidificato sono convesse, lucide, di colore simile a quello del miele, a margini regolari; quelle dalle foche sono più piccole rispetto a quelle dai cetacei. Tutti gli isolati producono ureasi, ma non H2S, crescono sui terreni con fucsina basica, tionina, safranina, alle concentrazioni standard indicate per i test di identificazione. L’antigene A (saggiato mediante agglutinazione su vetrino contro sieri Scripta M E D I C A Volume 8, n. 5-6, 2005 94 Animale Dipendenza da CO2 Produzione Sviluppo di H2S su fucsina Sviluppo su tionina Lisi da fago Bk2* Antigene prevalente Foche + – + + + A Lontra + – + + + A Delfino – – + + + A** Focena – – + + + A Tabella 1. Caratteri “tradizionali” degli stipiti. Da Foster et al. (modificato). * Il comportamento nei confronti del fago Tb non è riportato perché irregolare **L’isolato da un delfino in cattività di Ewalt e coll aveva antigene M prevalente. monospecifici) è predominante secondo Foster e coll. (7), mentre l’isolato di Ewalt (1) avrebbe M predominante (Tabella 1). D’altra parte lo studio antigene del lipolisaccaride con anticorpi monoclonali, secondo Baucheron e coll. (8) ha confermato la prevalenza dell’antigene A, sia pure con un profilo non esattamente sovrapponibile a quello dello stipite tipo 544. Gli stipiti di Foster (7) sono tutti lisati dal fago BK2 ed hanno un comportamento variabile rispetto a Iz e Tb. Il profilo metabolico, secondo Foster e coll. (7) valutato con il metodo al tetrazolio di Broughton e Jahans (9), differenzia tutti questi isolati da quelli analoghi da animali terrestri, dimostrando comunque l’appartenenza al genere Brucella. A partire dal 1998 vari studi molecolari hanno confermato questa classificazione; Clavereau e coll. (1998) (5), studiando il genoma dall’isolato da una balenottera minore, mise in evidenza l’alto grado di omologia delle sequenze con quelle note delle altre Brucella sp. e, dalla combinazione dei risultati PCR-RFLP con un probe specifico IS6501, un profilo caratteristico ai geni OMP2, che codificano una porina. Nel 2000 Bricker e coll. (10) dimostrarono in 27 isolati una specifica IS711. L’ anno successivo Cloeckaert, Verger ed altri (11) confermarono la stretta relazione fra stipiti terrestri e stipiti marini, ma con una divergenza maggiore, 77% contro 90% di omologia DNA/DNA delle specie terresti fra loro. Nomen specie Ospiti principali Area geografica Br. melitensis Uomo, caprini, ovini (bovini) Mediterraneo, Medio Oriente, Arabia Saudita, Sud America Br. abortus Bovini (uomo) Ubiquitaria Br. suis Maiali, roditori (uomo) Nord America, Nord Europa ex U.R.S.S. (stati meridionali) Br. canis Cane (uomo) Nord America, Europa, Giappone, Cina Br. ovis Ovini (caprini) Australia, Nuova Zelanda, Sud Africa Br. neotomae Ratti Deserti nord americani Aree caucasiche Br. pinnipedae Foche, lontre Nord America, Nord Europa Br. cetaceae Delfini, balene Nord America, Nord Europa Oceano Pacifico Tra parentesi: isolamenti infrequenti Tabella 2. Br. melitensis: nomenspecie, animali principali ospiti e prevalente area geografica. Scripta MEDICA La brucellosi dei mammiferi marini 95 Caratteri distintivi sono in evidenza nel locus omp2: in 5 delle 6 specie di origine terrestre si trova una copia di omp2a ed una di omp2b; fa eccezione la Br. ovis con due copie di omp2a e non omp2b; gli stipiti da delfini, balene focene hanno due copie di omp2b, mentre quelli dalle foche e l’unico da una lontra hanno una copia di omp2a ed una di omp2b; tutti gli stipiti di origine marina hanno comunque un marcatore particolare a livello di omp2b. I due gruppi, uno formato da stipiti di animali che passano parte dell’anno sulla terra ferma, l’altro da stipiti di mammiferi esclusivamente marini, possono venir considerati nomenspecie: Br. pinnipidae e Br. cetaceae, con soppressione della Br. maris o Br. delphini di Miller (12), confermate nel 2004 da Vizcaino e coll. (13) che hanno identificato un ulteriore marcatore di Br. cetaceae a livello del gene omp2b. Queste nomenspecie, che comunque hanno, a mio parere, un Tabella 3. Specie di mammiferi marini ed aree geografiche di isolamento delle due nomenspecie Br pinnipedae e Br. cetaceae maggior livello di differenziazione rispetto alle specie terrestri, che non di queste fra loro, non sono da considerare tassonomiche ma, come queste, utili per l’epidemiologia della brucellosi. Un esempio recente di questa utilizzazione è stata la identificazione in U.S.A: di due stipiti marini in casi di neuro-brucellosi in pazienti provenienti dal Perù (14), che ha fatto ipotizzare una particolare catena epidemiologica. Nella Tabella 2 sono presentate le attuali nomenspecie, incluse le due dai mammiferi marini, della singola tassonomica Br. melitensis, in rapporto ai rispettivi ospiti ed aree geografiche di diffusione, incluse le due nuove da mammiferi marini. L’ isolato di Ewalt e coll. (3), con antigene dominante M potrebbe essere una ulteriore nomenspecie, definita finora da questo solo carattere fenotipico e comprendente questo solo stipite. Famiglia Specie Nome italiano Area geografica Autore Pinnipedae Phoca vitulina Foca comune Coste scozzesi Coste N. Inghilterra Foster et al. (7) Maratea et al. (17) Halichocerus gripsus Foca grigia Coste scozzesi Foster et al. (7) Cystophora cristata Foca dal cappuccio Coste scozzesi Foster et al. (7) Phoca ispida Foca degli anelli Canada Forbes et al. (4) Phoca groenlandica Foca della Groenlandia Canada Forbes et al. (4) Tursiopsis truncato Tursiope * California Ewalt et al. (2) Lagenorhincus acutus Lagenorinco acuto Scozia Foster et al. (7) Stenella coeruleoalba Stenella striata Scozia Foster et al. (7) Balaenoptera acutorostrata Balenottera minore Norvegia Atlantico, Canada Claverau et al. (5) Odontocetes Phocoena Focena Scozia Foster et al. (7) Mustelidae Lutea lutea** Lontra Scozia Foster et al. (7) Cetaceae *Animale in cattività; **Caso unico Scripta M E D I C A Volume 8, n. 5-6, 2005 96 Famiglia Specie Nome italiano Area geografica Autore Pinnipideae Cystophora crestata Foca dal cappucio Nord Atlantico Tryland et al. (6) Phoca groenlandica Foca della Greoenlandia Nord Atlantico New England Maratea et al. (17) Phoca hispida Foca degli anelli Nord Atlantico Tryland et al. (6) Pinnipedi ? Nord Atlantico Pacifico, Artico Nielsen et al. (16) Phoca vitulina Foca comune New England Inghilterra, Galles Maratea et al. (23) Foster et al. (7) Jepson et al. (1) Halichoerus grypsus Foca grigia Inghilterra, Galles Jepson et al. (1) Stenella coeruleoalba Stenella striata Inghilterra Galles Mediterraneo Jepson et al. (1) Van Bressem et al. (18) Delphinus delphi Delfino comune Inghilterra Galles Jepson et al. (1) Tursiops truncatus Tursiope Inghilterra, Galles Mediterraneo Sud Pacifico Jepson et al. (1) Van Bressem et al. (18) Lagenorhincus obscurus Peru Sud Pacifico Van Bressem et al. (18) Delphinus capensis Perù Sud Pacifico Van Bressem et al. (18) Nord Atlantico Nord Est Pacifico Tryland et al. (6) Ohishi et al. (15) Van Bressem et al. (18) Nord Atlantico Tryland et al. (6) Nord Atlantico Tryland et al. (6) Cetacea Delfininae Misticeti Balaenoptera acutorostrata Balenottera minore Balaenoptera physalis Balaenoptera borealis Balenottera boreale Orcinus orca Odontocetes Phoceninae Inghilterra, Galles Jepson et al. (1) Globicefala melas Balena pilota? Inghilterra, Galles Nord est Pacifico Jepson et al. (1) Orcinus orca Balenottera di Edel Nord est Pacifico Ohishi et al. (15) Phocoena phocoena Focena comune Nord Atlantico Foster (7) Phocoena pinnipennis Focena del Pacifico Coste peruviane Van Bressem et al. (18) Ursus maritimus Orso bianco Svalbard, mare di Barents Tryland et al. (23) Specchio tassonomico mammiferi marini Ordine Pinnipedi Famiglia Focili Famiglia Obenidi (trichechi) Famiglia Otarie Ordine Cetacei sottordine Misticeti: famiglie Balenii, Balenotteridi (Balenottera). Rachianettidi sottordine Odontoceti Famiglie Focenidi, Delfinidi Altre. Specchio del sito OMP 2 nelle brucelle Br. melitensis Br. abortus Br. suis Br. canis Br. neotomae omp2a omp2b Br. ovis 2 siti omp2a Br. pinnipidae omp2a e omp2b Br. cetaceae 2 siti omp2b Tabella 4. Specie di animali sierologicamente positivi Scripta MEDICA La brucellosi dei mammiferi marini 97 Varietà di ospite e distribuzione geografica Le specie animale e le aree geografiche da cui sono state isolate Brucella e quelle con positività sierologica sono presentate rispettivamente nelle Tabelle 3 e 4 Le brucelle sono state identificate in 4 specie di foche, 3 di delfini, quattro di balene, una di focena ed in una singola lontra, tutte del nord Atlantico o dell’Artico; il caso californiano riguardava infatti un delfino in cattività. Oltre questi esistono i risultati di Ohishi e coll. (15), che, mediante sonde molecolari hanno individuato in lesioni delle gonadi di Balenottera minore nel Nord Pacifico sequenze caratteristiche delle brucelle dei mammiferi marini. Ampie indagini sierologiche dimostrarono una diffusione ancor maggiore dell’infezione fra i mammiferi marini: nel 1999 ricerche eseguite da Tryland e coll. (6) su 1386 campioni di siero da 4 specie di foche e 3 di balene raccolti fra il 1983 ed il 1996 nell’Atlantico settentrionale (Islanda, Norvegia, penisola di Kola, Svalbard mare di Barents e area del “pack”, misero in evidenza anticorpi specifici in tutte le specie ad eccezione della foca barbuta (Erignatus barbatus). Altre indagini sierologiche (2001) ne dimostrarono presenza in campioni da 33 cetacei e 61 pinnipedi su 2780 campioni da 8 specie dei primi e 6 dei secondi, raccolti fra il 1984 e il 1997 negli Oceani Atlantico, Artico Pacifico. Benché non vi fossero indagini batteriologiche, un test competitivo ( C-ELISA) con anticorpi monoclonali, suggerì, per la diversità di titolo, la effettiva presenza di due biovar antigenicamente distinte (16). Fra il 1998 ed il 2000 Maratea e coll. (17) isolarono, lungo le coste della Nuova Inghilterra Brucella sp. da due esemplari di Foca comune (Phoca vitulinica) su 4 e da 3 di Foca groenlandica (Phoca groenlandica) su 9 esaminati e dimostrarono anticorpi specifici in vari esemplari delle medesime, in assenza di lesioni anatomiche evidenti .I mammiferi marini portatori di brucella si trovano prevalentemente nei mari freddi attorno al circolo polare artico, fino alle coste inglesi e gallesi in Europa e a quelle della Nuova Inghilterra in America. Nel Pacifico meridionale positività sierologica di alcuni cetacei è stata dimostrata sulle coste peruviane e nel Mediterraneo sulle coste spagnole (18) L’infezione brucellare dei mammiferi marini non è limitata all’emisfero settentrionale: nel 2000 è stato comunicato che anticorpi brucellari sono dimostrati in 5 di 16 foche nell’Antartico e si suppone che l’infezione si stia diffondendo, anche se finora non risulta alcun effetto patologico conclamato (19). Manifestazioni patologiche Le espressioni patologiche di questa infezione sembrano infrequenti: aborti, con perdita del feto in seguito a placentite, sono stati osservati sulle coste californiane nel 1999 in due “bottlenose dolphins” (Tursiops truncatus) (12), con isolamenti dai materiali patologici di microrganismi che gli Autori attribuiscono ad una nuova specie B. delphini, probabilmente sovrapponibile alla Br. pinnipidae di Cloeckaert e coll. (11); fenomeni neuropatologici sono recentemente (2002) descritti da Gonzales e coll. (20) in tre esemplari di delfini Stenella coeruleoalba, nei quali fu identifica meningoencefalite non suppurativa, con coltura positiva di brucelle e anticorpi specifici. Nel 2003 lesioni negli organi sessuali furono riscontrate da Ohishi e coll. (21) in balene del Pacifico Nord Occidentale. Nel medesimo anno Sohn e coll. (14) hanno descritto neurobrucellosi in due pazienti (casi del tutto indipendenti fra loro) provenienti dal Perù dai quali furono isolate brucelle, su base biomolecolare strettamente correlate con Br. pinnipidae. Considerazioni Le brucelle da mammiferi marini sono potenzialmente patogene per i mammiferi terrestri: un caso di infezione di laboratorio è riportato da Brew et al. (22), ma i soli casi di infezione umana sono finora quelli di Sohn e coll. (14) mentre nessun caso è segnalato in individui che per varie ragioni hanno contatti più o meno stretti con i delfini. L’infezione sperimentale di vacche in gravidanza fu comunque ottenuta da Rhiyan e coll. (2001) (23). La sola osservazione epidemiologica di un possibile passaggio di infezione da mammiferi Scripta M E D I C A Volume 8, n. 5-6, 2005 98 marini a mammiferi terrestri è di Tryland e coll. (23) che rilevano presenza di anticorpi brucellari in orsi polari delle isole del mare di Barents (senza alcun cenno di patologia riproduttiva), prospettando una infezione per via alimentare, in quanto la principale fonte di nutrimento di questi animali è costituita da foche (Phoca groenlandica e Phoca hispida), nei quali è stata più volte dimostrata l’infezione brucellare. Non vi sono state ricerche colturali e quindi, in mancanza di isolati, la catena infettiva da mammiferi marini a mammiferi terrestri è del tutto ipotetica. La possibilità di aborti con la conseguente liberazione di brucelle con il liquido placentale, come avviene nei mammiferi domestici, potrebbe diffondere l’infezione e provocare danni alla già depauperata fauna marina, ma per quanto riguarda la medicina umana la brucellosi dei pinnipedi e dei cetacei è al momento attuale solo una curiosità scientifica, interessante per illustrare le possibili selezioni di linee genetiche del genere Brucella, con specificità per le più varie specie animali, al di là del campo tradizionale dei ruminanti. Bibliografia 1. Jepson PD, Brew S, MacMillan AP, et al. Antibodies to Brucella in marine mammals around the coast of England and Galles Vet Rec 1997; 141:513 2. Ross HM, Foster G, Reid RG, et al. Brucella species infection in sea mammals. Vet Rec 1994; 134:359 3. Ewalt DR, Payeur JB, Martin BM, et al. Characteristics of a Brucella species from a bottlenose dolphin (Tursiops truncatus). Vet Diagn Invest 1994; 6:448 4. 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J Wildl Dis 2001; 37:523 Scripta M E D I C A Volume 8, n. 5-6, 2005 99 Nutrizione e neurotrasmissione Antonio D’Alessandro1, Annalisa Aggio2 Introduzione ni dipendenti dalla dieta, nella sintesi di neurotrasmettitori e nel loro rilascio possono La trasmissione dell’impulso nervoso avviene essere associate a modificazioni funzionali e attraverso la sintesi ed il rilascio di sostanze comportamentali. Appurato, quindi, che la definite “neurotrasmettitori”. dieta può modificare il comportamento, è Sono stati identificati numerosi composti importante individuare le basi biochimiche chimici a possibile azione neurotrasmettitridi questa relazione. ce. La capacità della cellula neuronale nel Le modificazioni nella sintesi di neurotrasintetizzare questi composti è in parte dipensmettitori sono legate all’apporto di precursodente dalla disponibilità dei precursori nella ri con la dieta, all’introduzione alimentare di dieta; infatti, per alcune sostanze neurotrasostanze ad azione coenzimatica (vitamine e smettitrici, la sintesi è influenzata dalle consali minerali) o all’ingestione di sostanze sitocentrazioni eattive contenute matiche dei renegli alimenti. Proteine alimentari lativi precursori Tra i nutrienti conassunti con gli tenuti negli alialimenti. menti assunti con Aminoacidi È logico pensala dieta, le proteine re, quindi, che rivestono, in tal Aminoacidi Neurotrasmettitori Neuropeptidi l’apporto alisenso, un ruolo neurotrasmettitori derivati a basso pm mentare possa primario, agendo da aminoacidi influenzare in sulla sintesi dei maniera signifineurotrasmettitori, Glicina Catecolamine Encefaline cativa la capain quanto contenGlutamato Serotonina Angiotensina I cità della cellugono precursori Aspartato Istamina Sostanza P la nervosa nel disponibili. GABA Acetilcolina sintetizzare una Come illustrato quantità ottinella Figura 1 le Figura 1. male di neuroproteine assunte Proteine alimentari come trasmettitori. con la dieta vengoprecursori di neurotrasmettitori. Le modificaziono scisse ad aminoacidi che fungono da precursori per: Specialista in Scienza dell’Alimentazione a. neurotrasmettitori derivati da aminoacidi; (Indirizzo Dietetico), L’Aquila b. aminoacidi neurotrasmettitori; Specialista in Scienza dell’Alimentazione c. peptidi a basso peso molecolare. (Indirizzo Nutrizionistico), L’Aquila 1 2 Scripta M E D I C A Volume 8, n. 5-6, 2005 100 Figura 2. Rapporti tra dieta, barriera ematoencefalica e metabolismo cerebrale. Proteine alimentari Aminoacidi precursori Barriera ematoencefalica Aminoacidi precursori Enzimi Sintesi neurotrasmettitori Funzione cellula nervosa La sintesi dei neurotrasmettitori avviene grazie all’opera di enzimi specifici, i quali presentano una affinità per il loro substrato relativamente bassa, operando quindi con efficienza inferiore all’optimum, non essendo questo mai completamente saturato. Non esiste, inoltre, un rigido sistema di feedback tra l’interno del neurone ed il torrente circolatorio, capace di mantenere costanti i livelli di mediatore. Esiste, pertanto, una stretta dipendenza tra la quantità di precursori presenti nel torrente circolatorio, che varia a seconda dell’apporto alimentare, e la quantità di neurotrasmettitori sintetizzati (Figura 2). È stato, però, evidenziato come sia importante che i diversi aminoacidi disponibili siano tra loro in rapporto quantitativo ben preciso per un corretto funzionamento dei sistemi di trasporto a livello della barriera ematoencefalica. Ciò è legato al fatto che i carriers presenti a livello delle cellule endoteliali della membrana ematoencefalica sono comuni per molti aminoacidi, per cui l’uptake di carriers è regolato non solo dalla quantità degli aminoacidi disponibili, ma anche dai rapporti quantitativi dei diversi aminoacidi. Dalla scelta degli alimenti di natura proteica può, dunque, dipendere l’entità della trasmissione dell’impulso nervoso. È importante, pertanto, analizzare a fondo il contributo delle proteine alimentari alla sintesi di neurotrasmettitori. Nella Figura 3 sono indicati i principali neuromediatori proteico dipendenti. Le normali variazioni nella disponibilità di triptofano, tirosina o colina conseguenti all’assunzione di alimenti, esercitano una notevole influenza sulla sintesi neuronale di serotonina, catecolamine e acetilcolina. Il triptofano, precursore della serotonina cerebrale, è un aminoacido essenziale e, come tale, non viene sintetizzato dall’organismo, ma proviene dalla quota proteica introdotta con la dieta. È assorbito a livello inteFigura 3. Neuromediatori dieta-dipendenti. Precursori Tirosina Neurotrasmettitori Dopamina, catecolamine Triptofano Serotonina Colina Acetilcolina H-tyr-gly-gly-phe-met-OH Encefaline Scripta MEDICA Nutrizione e neurotrasmissione 101 Figura 4. Sintesi della serotonina H H C C N H NH2 TH H H L-triptofano H H C C NH2 N AADD H COOH 5-idrossitriptofano H H OH C C H N NH2 H Serotonina stinale e circola nel sangue in parte (10-20%) come quota libera, in parte legato ad un trasportatore di aminoacidi neutro(80-90%). La somministrazione di triptofano nell’animale da esperimento, anche a piccole dosi, determina un evidente aumento della produzione Figura 5. Effetti delle diete a diverso contenuto aminoacidico sulla sintesi di serotonina cerebrale. di serotonina. Il meccanismo biochimico della sintesi di serotonina è illustrato in Figura 4. L’enzima triptofanoidrossilasi catalizza la trasformazione del triptofano in 5OH triptofano; quest’ultimo viene rapidamente decarbossilato in presenza dell’enzima AAAD (aromatic aminoacid decarboxilase) in serotonina. Si potrebbe pensare che, maggiore è l’apporto proteico alimentare, maggiore sarà la sintesi di serotonina: al contrario, un pasto ricco di proteine deprime la sintesi cerebrale di serotonina. La spiegazione è nel fatto che un pasto ricco di proteine ha un notevole contenuto di aminoacidi elettricamente neutri (tirosina, fenilalanina, leucina, isoleucina e valina), che agiscono in competizione con il triptofano vs il carrier della barriera ematoencefalica. Pertanto, paradossalmente, un pasto altamente proteico ritarda l’uptake del triptofano a livello cerebrale, poiché aumenta la concentrazione plasmatica degli aminoacidi che competono con esso (Figura 5). Triptofano plasmatico (µg/ml) 30 25 20 10 5 0 x 0 x 0 0 x Triptofano cerebrale (µg/g) 30 25 20 10 5 0 x 0 0 x x 0 Triptofano cerebrale (µg/g) x x Dieta proteica mista 0 0 Dieta con proteine prive di aminoacidi neutri 0.9 0.8 0.7 0.6 0.5 0 x x 0 x 0 0 1 ore dopo i pasti 0 2 Scripta M E D I C A Volume 8, n. 5-6, 2005 102 Proteine alimentari (aminoacidi) ++ Carboidrati (secrezione insulinica) – + + Tir, Fen, Leu, Isoleu, Valori ematici Triptofano ematico Quota ematica Triptofano Tir, Fen, Leu, Isoleu, Val + – Triptofano cerebrale Serotonina cerebrale Se si somministra insulina, che ha l’effetto di potenziare il passaggio di aminoacidi neutri attraverso la membrana delle cellule, con conseguente riduzione dei corrispondenti livelli sierici, si ha un’aumentata sintesi di serotonina. Ne deriva che un pasto ricco di carboidrati, inducendo la dismissione di insulina e riducendo, quindi, la concentrazione sierica degli aminoacidi neutri, modifica il rapporto triptofano/aminoacidi neutri a favore del primo (Figura 6); a questo punto sarà maggiore la quantità di triptofano disponibile ad essere trasformato in serotonina, che passerà la barriera ematoencefalica. Il ricorso a frequenti spuntini a base di carboidrati potrebbe essere dovuto ad un fisiologico “bisogno” di mantenere elevati i livelli di serotonina cerebrale. Attraverso la sintesi di serotonina, il triptofano alimentare può essere responsabile di modificazioni comportamentali. La letteratura a riguardo è notevole ed evidenzia come vi sia una relazione tra livelli di serotonina cerebrali ed attività locomotoria, comportamento aggressivo, disturbi del sonno e della percezione sensoriale. Esperienze condotte su ratti Sprague-Dawley hanno evidenziato come una dieta priva di triptofano, somministrata per poche settimane, induce in ratti giovani un comportamento aggressivo, contrariamente ad osservazioni di altri Autori nelle quali tale azione non si manifesta in così breve tempo in animali adulti, a probabile dimostrazione che il sistema nervoso in età adulta è meno sensibile, rispetto ai primi anni di vita, a restrizioni o variazioni dietetiche. Le cellule nervose ricavano la noradrenalina e la DOPA a partire dalla tirosina e l’acetilcolina a partire dalla colina; la velocità con cui gli enzimi tirosina idrossilasi e colina acetiltransferasi producono rispettivamente DOPA e acetilcolina può essere modulata modificando i livelli cerebrali di precursori. La quantità di tirosina cerebrale, al pari della serotonina, aumenta notevolmente dopo ingestione di sola tirosina o di tirosina asso- Figura 6. Influenza della dieta sulla sintesi di serotonina cerebrale. Scripta MEDICA Nutrizione e neurotrasmissione 103 ciata a carboidrati; un pasto ad alto contenuto proteico aumenta, infatti, la tirosina plasmatica, senza modificare la sintesi delle catecolamine. I livelli encefalici di colina aumentano, invece, in corrispondenza dell’aumento plasmatico di colina successivo all’ingestione di lecitina; l’uptake di colina nel cervello è, infatti, catalizzato da un sistema di trasporto macromolecolare che ha una elevata affinità per la colina. Tuttavia, se un neurone catecolaminergico o colinergico non è stimolato frequentemente, esso risponde scarsamente all’aumento di tirosina o colina disponibile; se, invece, il neurone è fisiologicamente attivo, un incremento dei livelli dei precursori determina un’ aumentata sintesi di DOPA e acetilcolina. Per tali motivi, composti contenenti tirosina o colina sono stati utilizzati per il trattamento di malattie neurologiche. I neurotrasmettitori peptidici entrano in gioco in sistemi comportamentali di vitale importanza, quali quelli implicati nei meccanismi di trasmissione e modulazione del dolore e nei processi neuronali che stanno alla base dell’umore, della memoria, dell’apprendimento, dell’appetito, della regolazione della pressione arteriosa e della temperatura corporea. Sono tutti peptidi a basso peso molecolare che intervengono nella regolazione dell’omeostasi in modo diverso e, di norma, interagendo con altri peptidi o neurotrasmettitori. Non solo le proteine e gli aminoacidi, ma anche i lipidi possono esercitare degli effetti sul meccanismo della neurotrasmissione. Una prolungata carenza dei PUFA della serie n-3 nella dieta, infatti, puo’ indurre disturbi neurologici clinicamente rilevabili, a causa di disturbi della trasmissione dopaminergica a livello dell’ ippocampo. Esperimenti in vivo su modelli animali hanno evidenziato un incremento dei livelli basali di DOPA ed un decremento nei livelli basali dei suoi metaboliti DOPAC (acido 3,4-diidrossifenilacetico) e HVA (acido omovanillico) in ratti nutriti con dieta carente di acido α-linolenico rispetto ai controlli. Il rilascio di DOPA dai siti di deposito vescicolari, dopo stimolazione con tiramina, era inferiore del 90% nei ratti carenti rispetto ai controlli. Studi radiografici effettuati nelle medesime regioni cerebrali hanno evidenziato una riduzione del 60% dei siti vescicolari contenenti carriers di monoamine, negli animali a dieta carente. Nell’ ippocampo, inoltre, sono stati rilevati livelli di cAMP significativamente più elevati nei ratti carenti rispetto ai controlli. Queste osservazioni dimostrano come vari siano i fattori in grado di modificare la trasmissione dopaminergica e, quindi, il comportamento, in caso di carenza prolungata di PUFA della serie n-3 nella dieta. Anche l’esposizione all’etanolo si è rivelata in grado di interferire nel meccanismo della neurotrasmissione dopaminergica. Nei ratti esposti cronicamente all’alcol etilico, infatti, è stato evidenziato un incremento della risposta dei recettori D1 sia da un punto di vista biochimico che comportamentale. L’esposizione all’ alcol in epoca prenatale, inoltre, induce nella prole di animali da esperimento una riduzione del legame del 3H-glutammato con i propri recettori ippocampali, con una conseguente minore trasmissione nervosa glutammato - mediata. Parimenti, l’esposizione prenatale ad alcol può indurre nella prole di animali da esperimento alterazioni nella neuromodulazione dei recettori di GABA (acido gammaaminobutirrico), cui si associa anche una differente risposta alle benzodiazepine; può, inoltre, alterare la neurotrasmissione mediata da serotonina in diverse regioni dell’encefalo, in maniera irreversibile. Tale alterazione, inoltre, potrebbe indurre disturbi del comportamento alimentare in individui geneticamente predisposti. Fino a che punto, allora, l’alimentazione può modulare la sintesi di neurotrasmettitori? È un campo di indagine ancora poco esplorato, sul quale si va man mano focalizzando l’attenzione di molti ricercatori ed esperti. Basta solo segnalare, ad esempio, come in alcuni testi di algologia vengano indicati i principi alimentari ad effetto antalgico. Vi figura al primo posto il triptofano, capace di aumentare la concentrazione cerebrale di endorfine; la D-fenilalanina e la D-leucina in associazione potrebbero inoltre risultare utili Scripta M E D I C A Volume 8, n. 5-6, 2005 104 in alcune forme dolorose (osteoartrosi, nevralgia post-erpetiche), in quanto i due amminoacidi contribuiscono all’inibizione della carbossipeptidasi, l’enzima che degrada encefalina ed endorfina. La direzione è, dunque, quella giusta: bisogna soltanto rimuovere completamente l’antica nozione della “insensibilità” delle strutture nervose alle variazioni quantitative e qualitative della razione alimentare assunta, al fine di appurare se e come sia possibile coadiuvare le attuali terapie neurologiche e psichiatriche con un uso mirato dei vari nutrienti. Bibliografia 1. Allan AM, Wu H, Paxton LL, Savage DD. Prenatal ethanol exposure alters the modulation of the gamma-aminobutyric acid A1 receptor-gated chloride ion channel in adult rat offspring. J Pharmacol Exp Ther 1998; 284:250 2. Chalon S, Delion-Vancassel S, Belzung C, Guilloteau D, Leguisquet AM, Besnard JC, Durand G. Dietary fish oil affects monoaminergic neurotransmission and behavior in rats. J Nutr 1998; 128:2512 3. Cowen PJ, Clifford EM, Walsh AE, Williams C, Fairburn CG. Moderate dieting causes 5-HT2C receptor supersensitivity. Psychol Med 1996; 26:1155 4. Delion S, Chalon S, Guilloteau D, Besnard JC, Durand G. 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Kawai K, Yokota N, Sera H, Tanra AJ, Yamawaki S, Scripta M E D I C A Volume 8, n. 5-6, 2005 107 Orlistat: non solo obesità Francesco Morelli La sindrome metabolica L’esperienza clinica e gli studi epidemiologici hanno evidenziato che sovente più fattori di rischio cardiovascolare sono presenti in uno stesso individuo e che tale condizione accelera lo sviluppo dell’aterosclerosi e delle sue complicanze. Da un’analisi prospettica dei dati dello studio PROCAM (Prospective Cardiovascular Munster) è infatti emerso che per gli uomini di età compresa tra 40 e 65 anni la presenza di diabete o di ipertensione aumenta di 2,5 volte l’incidenza di infarto miocardico, mentre tale incremento è di 8 volte quando essi si associano tra loro, e di 19 volte quando si aggiunge qualche alterazione del profilo lipidico (1). La co-esistenza nello stesso soggetto di differenti anomalie metaboliche (dislipidemia, ipertensione, insulino-resistenza, obesità e stato pro-trombotico) è stata, nel corso degli anni, variamente denominata dai diversi Autori (“sindrome X”, “sindrome dell’insulino-resistenza”, “sindrome del quartetto mortale”), ma attualmente il termine più utilizzato è quello di “sindrome metabolica” (2-6). Diabetologia e Malattie Metaboliche Ospedale Campostaggia Poggibonsi ASL 7 Area Senese Recentemente l’IDF (International Diabetes Federation) ha indicato i criteri per identificare i pazienti con questa sindrome (7) (Tabella 1). Come si può facilmente notare l’obesità centrale è considerata una componente essenziale della sindrome metabolica. L’elemento patogenetico comune delle alterazioni della sindrome metabolica è ritenuta essere l’insulino-resistenza (8). Obesità ed insulino-resistenza sono due condizioni che sono spesso associate nello stesso paziente, ma non esiste concordanza sui loro rapporti causali, cioè se l’obesità concorra all’insorgenza dell’insulino-resistenza, oppure se l’incremento ponderale possa essere un epifenomeno dell’insulino-resistenza. Tuttavia, qualunque sia il meccanismo che lega tra loro le varie componenti della sindrome metabolica è noto che l’obesità viscera- Tabella 1. Diagnosi clinica di sindrome metabolica secondo le linee guida dell’IDF (7). SINDROME METABOLICA Obesità centrale (definita come circonferenza vita) Uomini Europei ≥ 94 cm Donne Europee ≥ 80 cm Più due dei seguenti quattro fattori: Aumento trigliceridi Riduzione colesterolo HDL Uomini Donne ≥ 150 mg/dL (≥ 1,7 mmol/L) o specifico trattamento per questa alterazione lipidica < 40 mg/dL (< 1,03 mmol/L) < 50 mg/dL (< 1,29 mmol/L) o specifico trattamento per questa alterazione lipidica Aumento pressione arteriosa ≥ 130/≥ 85 mm Hg o trattamento per ipertensione precedentemente diagnosticata Aumento glicemia a digiuno ≥ 100 mg/dL (≥ 6,1 mmol/L) o diabete di tipo 2 precedentemente diagnosticato Scripta M E D I C A Volume 8, n. 5-6, 2005 108 le (indicata dal valore della circonferenza vita) promuove l’intolleranza glucidica, l’ipertensione e la dislipidemia (9). È quindi da ritenere che l’obesità viscerale abbia effetti metabolici multipli che contribuiscono ad aumentare il rischio cardiovascolare: ciò ha indotto alcuni Autori a suggerire che la sindrome metabolica potrebbe essere denominata anche “sindrome del grasso viscerale” (10). Degna di nota è l’osservazione che recenti indagini hanno evidenziato che nei soggetti a basso rischio di cardiopatia ischemica (< 10% a 10 anni secondo l’equazione di Framingham) l’obesità viscerale si associa ad una maggiore progressione dell’aterosclerosi coronarica subclinica, indicando la necessita anche in questi individui di un intervento terapeutico precoce (11). Il tessuto adiposo come organo endocrino In passato al tessuto adiposo venivano assegnati un ruolo di depo- sito passivo del grasso ed una funzione meccanica di sostegno. Oggi è invece noto che esso è un componente importante del sistema endocrino producendo varie proteine secretorie denominate, nel complesso, adipocitochine (9). Quest’ultime comprendono l’adiponectina, il sistema angiotensinogeno/angiotensina II, il tumor necrosis factor-α (TNF-α), l’interleuchina-6 (IL-6), l’inibitore di tipo 1 dell’attivatore del plasminogeno (9). Come è facile notare, si tratta di elementi che possono contribuire tutti allo sviluppo della cardiopatia coronarica (12-16). In aggiunta a ciò occorre ricordare che nei soggetti obesi è spesso elevata la concentrazione plasmatica di acidi grassi liberi, reperto che sovente è osservabile nelle prime fasi di sviluppo dell’insulino-resistenza (9). Occorre inoltre sottolineare che per il tessuto adiposo sono state evidenziate differenti attività metaboliche a seconda delle sedi corporee: ciò potrebbe spiegare il maggior contributo dell’obesità viscerale allo sviluppo del rischio coronarico (17). Orlistat per il trattamento dell’obesità e degli altri fattori di rischio cardiovascolare ad essa associati Molti studi hanno evidenziato che il calo ponderale (in particolare quello determinato da una modificazione dello stile di vita) sembra essere efficace nel migliorare il quadro metabolico complessivo e nel ridurre la morbilità cardiaca nei soggetti obesi o affetti da intolleranza glicemica, ad alto rischio di eventi cardiovascolari (18-22). Tuttavia, la riduzione del peso corporeo ed il suo mantenimento a lungo termine sono spesso difficili da raggiungere e sono pochi i pazienti che riescono a mantenere il calo ponderale ottenuto in breve tempo grazie ad una dieta ipocalorica (23-25). Il trattamento farmacologico con orlistat, un inibitore delle lipasi Tabella 2. Prevalenza della sindrome metabolica e dei suoi componeti al termine dello studio ORLICARDIA (28). Pazienti a dieta n = 32 Diabete mellito (%) Obesità centrale (%) Ipertensione (%) Ipertrigliceridemia Bassi livelli di HDL-C (%) Sindrome metabolica (%) Sindrome metabolica a 4-5 componenti (%) 100 97 56 41 66 91 53 Pazienti trattati con orlistat + dieta n = 94 Valore di p 100 81 32 46 52 65 41 1,0 0,0001 0,0001 0,2036 0,0072 <0,00O1 0,0173 Scripta M E D I C A Volume 8, n. 5-6, 2005 Orlistat: non solo obesità 109 Tabella 3. Variazioni dei lipidi plasmatici negli studi a un anno con orlistat (29). Pazienti obesi a basso rischio Parametro Colesterolo tot. N. studi (dimensione campione) WMD, OR - PL (95% IC) Pazienti diabetici N. studi (dimensione campione) Pazienti obesi ad alto rischio N. studi (dimensione campione) WMD, OR - PL (95% IC) WMD, OR - PL (95% IC) 5 (2679) –0,32 (–0,39, –0,25)* 4 (1729) –0,37 (–0,47, –0,26)* 2 (908) –0,24 (–0,41, –0,07)* 5 (2679) –0,25 (–0,31, –0,19)* 4 (1729) –0,25 (–0,35, –0,15)* 2 (908) –0,19 (–0,30, –0,09)* 4 (1799) –0,03 (–0,06, 0,01) 4 (1729) –0,03 (-–0,05,–0,01)* 1 (376) 0,02 (–0,06, 0,02) LDL/HDL 4 (1799) –0,18 (–0,26, –0,11)* 4 (1729) –0,14 (–030, 0,02) 1 (532) –0,15 (–0,30, 0,00)* Trigliceridi 3 (1581) 0,00 (–0,17, 0,16) 4 (1729) –0,20 (-–0,35, –0,05)* 1 (376) (mmol/L) LDL colesterolo (mmol/L) HDL colesterolo (mmol/L) 0,11 (–0,1, 0,32) (mmol/L) OR = orlistat; PL = placebo; WMD = differenza media riscontrata * = effetto significativo a favore di orlistat, p ≤ 0,05 gastriche e pancreatiche, si è rivelato efficace nell’indurre una significativa perdita del peso corporeo, tuttavia finora non erano completamente noti i suoi effetti sugli altri componenti della sindrome metabolica (26, 27). Una recente indagine, lo studio ORLICARDIA (The ORLIstat and CArdiovascular Risk profile in patient with metabolic syndrome and type 2 DIAbetes study), condotta su 134 pazienti con sindrome metabolica e diabete di tipo 2 ha evidenziato che il trattamento con orlistat (120 mg tre volte/die per 6 mesi) abbinato ad una dieta ipocalorica ha determinato, rispetto alla sola dieta, la modificazione di molti fattori di rischio cardiovascolare (28) (Tabella 2). In particolare, al termine del 6° mese di follow up, il 35% dei pazienti trattati con orlistat non soddisfaceva più i criteri di defini- zione della sindrome metabolica, rispetto al 9% dei pazienti sottoposti alla sola dieta ipocalorica (p <0,0001). Il risultato più importante di questo studio è stato tuttavia una significativa riduzione (p<0,0001) di eventi cardiovascolari a 10 anni nel gruppo orlistat (–50%) rispetto al gruppo dieta ipocalorica (–4,5%). Gli effetti di orlistat sul profilo lipidico sono stati oggetto di un’ampia meta-analisi in cui sono stati presi in considerazione 28 trials clinici controllati (29). Questa indagine ha messo in luce che il trattamento con orlistat migliora significativamente le concentrazioni lipidiche plasmatiche in tutti i pazienti obesi, indipendentemente dalle comorbidità (Tabella 3). Pertanto i dati emersi dagli studi clinici controllati indicano chiaramente che l’effetto terapeutico di orlistat non si limita al calo ponderale, ma si estende anche al miglioramento degli altri componenti della sindrome metabolica. Tuttavia quando si analizzano i risultati degli studi clinici controllati esiste sempre la possibilità che essi, essendo conseguiti in gruppi di pazienti selezionati, si possano discostare da quanto si verifica nella pratica clinica quotidiana, in cui i farmaci vengono prescritti senza limitazioni di protocollo. Per quanto riguarda orlistat questo dubbio è stato fugato dallo studio XXL (30). Lo studio XXL è uno studio di sorveglianza post marketing condotto in Germania su 11.131 donne e 4.418 uomini (età media 48 anni, BMI 34, kg/m2, durata media dell’obesità 13,7 anni) a cui è stata raccomandata, da parte di medici di Medicina Generale, l’assunzione di 120 mg di orlistat tre volte al giorno. Scripta M E D I C A Volume 8, n. 5-6, 2005 110 Tutti i pazienti Pazienti non dislipidemici 15 12,6 Pazienti dislipidemici 11,1 9,4 10 Variazione (%) 5 Colesterolo totale Trigliceridi Colesterolo LDL 0 Colesterolo HDL –5 –8,1 –8,8 –10 –11,1 –10,6 –11,6 –13,5 –15 –14,4 –14,4 –18,3 –20 Pressione arteriosa sistolica Pressione arteriosa diastolica 0 –3,3 –5 –5,1 –5,9 –7,6 –10 –8,7 –12,9 Variazione della glicemia (%) Variazione (mmHg) 0 –5 –5,1 –7,5 –10 –15 –15 –15,0 Tutti i pazienti Tutti i pazienti Pazienti non ipertesi Pazienti non diabetici Pazienti ipertesi Pazienti diabetici Tabella 3. Studio XXL: effetto del trattamento con orlistat sui lipidi plasmatici, sulla pressione arteriosa e sulla glicemia (30). Dopo una media di 7,1 mesi di trattamento, tanto gli uomini quanto le donne hanno perso il 10,7% del loro peso iniziale ed è stato osservato un notevole miglioramento degli altri fattori di rischio cardiovascolare (Figura 1). Entrando nel dettaglio: si sono si ridotti del 13,5% e del 14,4%, i trigliceridi del 18,3%, mentre i livelli di colesterolo HDL sono aumentati del 12,6%; nei pazienti dislipidemici il colesterolo totale e il colesterolo LDL nei pazienti diabetici la glicemia si è ridotta del 15%. nei pazienti ipertesi la pressione sistolica media si è ridotta di 12,9 mmHg e la diastolica di 7,6 mmHg; I miglioramenti dei fattori di rischio cardiovascolare hanno comportato anche una diminuzione dei farmaci necessari a trattare le malattie concomitanti: circa 1/6 dei pazienti obesi ipertesi o diabetici ha interrotto l’assunzione, rispettivamente, degli antiipertensivi o degli antidiabetici orali ed 1/3 dei pazienti dislipidemici ha interrotto l’assunzione Scripta M E D I C A Volume 8, n. 5-6, 2005 Orlistat: non solo obesità 111 degli ipolipemizzanti. Questi risultati confermano pertanto quanto già osservato negli studi clinici controllati ed indicano che l’efficacia di orlistat non si limita all’obesità, ma si estende anche agli altri fattori di rischio cardiovascolare. Bibliografia 1. Assmann G, Schulte H. The Prospective Cardiovascular Munster (PROCAM) study: prevalence of hyperlipidemia in persons with hypertension and/or diabetes mellitus and the relationship to coronary heart disease. Am Heart J 1988; 116(6 Pt 2):1713-24 2. Kaplan NM. The deadly quartet. Upperbody obesity, glucose intolerance, hypertriglyceridemia, and hypertension. Arch Intern Med 1989; 149(7):1514-20 3. Reaven GM. Pathophysiology of insulin resistance in human disease. Physiol Rev 1995; 75(3):473-86 4. Grundy SM. Hypertriglyceridemia, insulin resistance, and the metabolic syndrome. Am J Cardiol 1999; 83(9B):25F-29F 5. Meigs JB. Invited commentary: insulin resistance syndrome? Syndrome X? Multiple metabolic syndrome? A syndrome at all? 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Diabetes Obes Metab 2005; 7(1):21-7 Scripta MEDICA Volume 8, n. 5-6, 2005 113 International-Italian Society of Plastic-Aesthetic and Oncologic Dermatology L e patologie dermatologiche e tutte le problematiche legate ad un corretto mantenimento della pelle sana sono argomenti di quotidiana importanza ed interesse per ogni medico. Un aggiornamento sulle ultime ricerche e terapie dermatologiche sarà sicuramente molto apprezzato tra chi deve essere sempre pronto a dare risposte concrete e scientifiche ai pazienti. Con impegno ed entusiasmo ho accolto l’invito dell’editore ad instaurare un collegamento diretto tra il mondo della dermatologia e il medico di famiglia, coinvolgendo in questa iniziativa l’ISPLAD. L’ ISPLAD è un’associazione che raccoglie oltre 1.800 dermatologi italiani e stranieri, essa è stata fondata in Italia cinque anni fa con l’intento di approfondire la conoscenza sui processi dell’invecchiamento cutaneo e tutte le patologie legate ad esso. Si prediligono e si studiano tutte le terapie non chirurgiche, ragione per cui si è coniato il termine di “Dermatologia Plastica”. La “plastica dermatologica” assume così il significato di “plasmare” e migliorare la pelle senza ricorrere a resezione dei piani profondi ma utilizzando mezzi dermatologici come i peeling, filler, laser, farmaci, ecc; cioè tutto ciò che è alternativo alla chirurgia. Ma su queste pagine si parlerà non solo di Dermatologia Plastica, ma di tutti i possibili problemi cutanei, in maniera utile alla pratica quotidiana di un medico. Si favorirà anche uno scambio di esperienze e si risponderà ad ogni richiesta di approfondimento su particolari patologie o terapie dermatologiche. Invito tutti i colleghi a collegarsi al sito www.isplad.org per instaurare un contatto diretto con l’ ISPLAD e partecipare ad iniziative di interesse generale. Sul sito è già attiva la sezione “Osservatorio Dermoplastico” ove si possono segnalare tutte le reazioni avverse che si osservano su pazienti sottoposti a terapie estetiche. Sono sicuro che queste pagine diventeranno un interessante e concreto momento di aggiornamento “sull’organo cute”, per questo non mancherà l’impegno e l’entusiasmo che sosterrà questo nuovo appuntamento mensile. Antonino Di Pietro Presidente ISPLAD Scripta MEDICA Volume 8, n. 5-6, 2005 114 “Pelle sana”: uno studio italiano sulla popolazione sana riguardo ad abitudini di vita e di trattamento della cute, con particolare attenzione al fenomeno della “pelle sensibile” ntroduzione I Negli ultimi anni, l’offerta del mercato di nuovi prodotti cosmetici, di trattamenti estetici, medici e chirurgici, ha avuto un forte incremento. Coerentemente all’aumentato numero di persone che si reputano “esperte” in questo campo, i dermatologi rappresentano il “primo livello” professionale per fornire i più appropriati consigli terapeutici, anche in assenza di malattie. Allo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica a questo importante concetto, l’International-Italian Society of PlasticAesthetic Dermatology (ISPLAD), ha deciso di promuovere la campagna “Pelle sana”. La campagna, descritta in questo lavoro, ha lo scopo di sensibilizzare la popolazione a consultare il dermatologo, anche in assenza di malattia, allo scopo di ricevere i consigli terapeutici più idonei per avere una pelle sana. Questo tipo d’atteggiamento permette spesso di formulare diagnosi precoci di malattie cutanee. I dati epidemiologici raccolti erano riferiti ad una vasta parte della popolazione italiana. La pelle sensibile (per alcuni autori “reattiva”), è stata definita come una condizione caratterizzata da una ridotta tolleranza cutanea a fattori esogeni come il freddo, il caldo, il vento e/o a frequenti e prolungate applicazioni di prodotti cosmetici topici. Le manifestazioni cliniche consistono prevalentemente in sintomi neurosensoriali come prurito, pizzicore e bruciore. Si può associare eritema e desquamazione. Poiché non sono presenti segni clinici evidenti sulla pelle, le manifestazioni non presentano le caratteristiche della Adele Sparavigna1 Michele Setaro1 Antonino Di Pietro2 La ricerca si è basata sui risultati ottenuti dal test all’acido lattico. Materiali e metodi dermatite da contatto. La sede del corpo più frequentemente colpita è il viso, specialmente le pieghe nasolabiali (1). Lo “stinging test” consiste nell’applicazione di una soluzione al 10% di acido lattico nella piega nasolabiale. È generalmente accettato come test per la sensibilità cutanea (2). La patogenesi della sensibilità cutanea non è ancora perfettamente spiegata. Alcuni studi hanno suggerito che essa è dovuta ad un danno della barriera cutanea, che assume una tendenza a “iperreagire” ad agenti topici, associati ad un’aumentata risposta neurosensoriale (3). Sono in numero estremamente esiguo gli studi epidemiologici effettuati sulla sensibilità cutanea. Uno studio epidemiologico effettuato in Gran Bretagna, con un’autovalutazione per mezzo di un questionario, suggeriva che circa la metà della popolazione aveva la pelle sensibile (4). Tuttavia l’autovalutazione, non rappresenta un parametro attendibile per un corretto giudizio sulle pelle sensibile (3). L’obiettivo del nostro studio era di raccogliere, nel territorio italiano, i dati epidemiologici in adulti sani, senza evidenti patologie. 1 Derming, Clinical Research and Bioengineering Institute Monza (Milano) 2 Dipartimento di Dermatologia, Ospedale L. Marchesi Inzago, (Milano) Lo studio era contrassegnato dalla sigla “Pelle sana 2003”, promossa dalla International-Italian Society of Plastic-Aesthetic Dermatology (ISPLAD), iniziato dall’Italia. Al pubblico veniva offerta una visita gratuita presso uno dei 462 dermatologi aderenti alla campagna, su tutto il territorio italiano. L’iniziativa era stata pubblicizzata a partire dai due mesi precedenti attraverso i media. L’utente interessato poteva fissare un appuntamento per una visita, per telefono o attraverso il sito ISPLAD (www.isplad.org). Soggetti. Erano inclusi nello studio, soggetti adulti con un range di età compreso fra i 18 e gli 80 anni, di entrambi i sessi, senza evidenti affezioni dermatologiche, provvisti del “Consenso Informato”. I criteri d’esclusione erano i seguenti: gravidanza, allattamento; scarsa collaborazione; alterazioni cutanee del viso, come cicatrici, ferite, malformazioni; malattie sistemiche; tutte le patologie dermatologiche; interventi chirurgici pregressi; trattamenti cosmetici (peeling, impianti, laser), effettuati nell’ultimo anno; trattamenti farmacologici. Esame clinico. Tutti i dermatologi che aderivano alla campagna, erano forniti del protocollo di ricerca, moduli e un kit diagnostico con il test Scripta MEDICA Volume 8, n. 5-6, 2005 115 all’acido lattico al 10%. In tutti i casi esaminati, venivano raccolte le informazioni ottenute dall’anamnesi: lo stile di vita e l’uso abituale di cosmetici, il livello di esposizione solare del volto. Inoltre veniva eseguito un esame obiettivo del volto con registrazione sulla relativa scheda. Stinging test. L’acido lattico veniva applicato in soluzione, sulle pieghe nasolabiali, domandando ai soggetti se accusavano una reazione locale dopo 3 minuti, secondo il metodo pubblicato da Issachar et al. (2). Soggetti che non riportavano alcuna reazione locale erano classificati come“non stingers”, coloro i quali accusavano disturbi del tipo bruciore o pizzicore venivano definiti come “stingers”. L’intensità dei sintomi veniva quantificata con una scala da 0 (= assente) a 3 (= molto intenso). Analisi statistica. La statistica relativa (media ±SD) ai principali risultati era così organizzata. La comparazione veniva effettuta in un numero dei seguenti sottogruppi: maschi e femmine; non fumatori e fumatori; “stingers” e “non stingers”; l’intera popolazione ed i pazienti portatori di una pelle non sensibile, sensibile, affetti da dermatite atopica, allergia, storia di reazioni cutanee ai cosmetici, storia di malattie dermatologiche, eritemi provocati da svariate cause (vino e freddo, sbalzi di temperatura, detergenti, acqua, cosmetici, traumi o emozioni), e nei confronti di soggetti con segni clinici evidenti: xerosi, desquamazione, eritema, lesioni acneiche, iper- e ipopigmetazioni, iperseborrea. La correlazione tra l’età dei soggetti ed il test di provocazione (stinging), veniva calcolata mediante il coefficiente di Spearman. Risultati Soggetti. Il sito internet ha registrato un numero di 6.164 contatti e di 8.193 telefonate. Un numero di 4.865 soggetti riceveva una visita dermatologica gratuita. Sono stati registrati nelle apposite schede un totale di 2.101 casi, inviati dagli stessi dermatologi per uno studio statistico dei risultati ottenuti. Come richiesto dal protocollo, i casi riguardavano persone in buona salute, prive di alcuna patologia dermatologica apparente. La maggior parte delle visite furono effettuate nel nord (50,4%) e al centro Italia (42,1%). La maggior parte dei soggetti era rappresentato da donne (88,5%) e più della metà avevano un’età compresa fra 26 e 45 anni (51,7%). Erano poco rappresentati i soggetti molto giovani (18-25 anni = 11.5%) ed esiguo era il numero degli anziani (5,4%). L’età più rappresentata era di 42 ± 14,0 anni. Il loro fototipo (secondo la classificazione di Fitzpatrick), era generalmente III (54%) o II (28%); i fototipi IV e I erano meno frequenti, rispettivamente 12% e 5%. Gli altri fototipi erano rari (1%). All’incirca metà dei soggetti non erano fumatori (44,8%); soltanto 11.6% erano fumatori. I rimanenti soggetti erano ex fumatori o non avevano meglio specificato il loro rapporto con il fumo. Per quanto concerneva lo stile di vita e le abitudini, la maggior parte dei pazienti (60%), trascorreva il proprio tempo libero all’aria aperta e circa la metà praticava sport (44,2%). Alcuni pazienti lavoravano all’aria aperta (16,8%) o si esponevano a lampade UV (15,6%). Circa la metà dei pazienti riferiva che la propria pelle era sensibile al vino, al freddo, agli sbalzi di temperatura, micro-traumi o lamentavano arrossamenti legati all’emozione. Il 16,9% erano sensibili alla sola acqua. La maggior parte dei soggetti facevano uso di cosmetici. Circa il 60% utilizzava creme idratanti e la metà applicava creme schermanti dal sole, trucchi e latte detergente. Più di un terzo dei pazienti usava prodotti anti-aging. In circa un terzo dei pazienti erano state riscontrate aree iperpigmentate, eritema e/o iperseborrea e circa un quarto aveva delle aree ruvide e lesioni acneiche nel volto. Le lesioni desquamanti e ipopigmentate erano meno frequenti (rispettivamente 19,1% e 7,1%). Più di metà dei soggetti riferivano di avere una pelle sensibile (56%); 30,5% aveva una storia di reazione avversa ai cosmetici ed il 30,1% aveva avuto delle dermopatie; 19,6% aveva accusato reazioni allergiche e 4,4% aveva sofferto di dermatite atopica. Tutte la patologie dermatologiche riscontrate erano più comuni nei soggetti che avevano riferito di avere una pelle sensibile, rispetto a coloro i quali non avevano riportato alcuna reattività cutanea. La differenza dell’eritema era particolarmente marcata (25% contro 8,9%), così come era diversa la storia clinica di patologie (19% contro 10,5%), nella Scripta MEDICA Volume 8, n. 5-6, 2005 116 xerosi (17,9% contro 8,2%) e nelle desquamazioni (13,3%, contro 5,8%). Stinging test. La percentuale degli “stingers” era del 54,9%. Questo dato era leggermente più alto nei pazienti con pelle sensibile (59%), rispetto ai soggetti con pelle non-sensibile (48,4%). Non è stata riscontrata una differenza significativa tra i pazienti atopici (54%), allergici (49,5%), reattivi ai cosmetici (53,2%) o con una storia di malattie dermatologiche (55,5%). L’intensità dello “stinging” era inversamente proporzionale all’età dei soggetti esaminati (rs=0,91, p <0,001). Discussione L’analisi dei dati demografici e lo stile di vita dei soggetti coinvolti nella campagna, mostrano che solo una parte della popolazione italiana ha un interesse nel mantenere la propria pelle sana, principalmente le giovani donne che avevano già una vita sana e che avevano cura per la propria pelle. Soltanto l’11,6% erano fumatrici e solamente il 15,6% utlizzava lampade ad UV, due dei fattori più dannosi per la pelle. Per di più, la maggioranza (60%)di esse trascorreva il proprio tempo libero all’aria aperta e usava regolarmente creme cosmetiche o altri prodotti per la cura della pelle o per la fotoprotezione. Nei soggetti più anziani (5,4%) per un terzo, si notava, anche in relazione al loro stile di vita, delle aree iperpigmentate. Questi dati possono essere ascritti al fototipo degli italiani e alle condizioni climatiche del meridione italiano, dove l’esposizione solare ed il danno che ne consegue, sono molto più intensi. Questo studio mostra altresì che la prevalenza della pelle sensibile, definita come reazione positiva all’acido lattico nella popolazione italiana è alta, essendo sopra il 54,9%. Questa prevalenza, particolarmente elevata negli “stingers”, non sembra riflettere la reale situazione nella popolazione, poiché, verosimilmente, la campagna di informazione attira l’attenzione soprattutto di persone che già soffrono di pelle sensibile. La prevalenza di soggetti che riferivano di avere una pelle sensibile era senz’altro più alta (59,9%). Questo risultato è stato riscontrato principalmente nelle donne, che rappresentano circa il 90% del nostro studio. Questo dato è in accordo con i risultati già raccolti da precedenti studi epidemiologici, senza l’ausilio del test all’acido lattico. In uno studio epidemiologico condotto in Gran Bretagna, basato su questionari, 51,4% delle donne e 38,2% degli uomini, riportavano una pelle sensibile (4), in un altro studio condotto negli USA, basato su interviste telefoniche, il 52% delle persone contattate riferivano di avere una pelle sensibile indipendentemente dalla razza (5). Questa prima esperienza, che coinvolge il dermatologo italiano, può essere considerata positiva per quanto concerne la logistica della campagna e le numerose adesioni degli specialisti dermatologi. Per le campagne future, faremo tesoro di questa esperienza, cercando di perfezionare i protocolli, per una più efficace collaborazione degli utenti. Per concludere, lo studio ci ha dato il modo e l’occasione di “monitorare” in modo soddisfacente la salute e la sensibilità della pelle nella popolazione italiana. Ringraziamenti Questo progetto è stato realizzato grazie alla collaborazione ed al supporto dei Laboratori Vichy Italia. Speciali ringraziamenti vanno rivolti ai dermatologi che hanno aderito al progetto. Essi sono menzionati nel sito: www.isplad.org Bibliografia 1. Draelos ZD. Sensitive skin: perceptions, evaluation and treatment. Am J Contact Dermat 1997; 8:67 2. Issachar N, Gall Y, Borell MT, Poelman MC. pH measurements during lactic acid stinging test in normal and sensitive skin. Contact Dermat 1997; 36:152 3. Muizzuddin N, Marenus KD, Maes DH. Factors defining sensitive skin and its treatment. Am J Contact Dermatol 1998; 9:170 4. 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Questi interventi contribuiscono a migliorare la qualità di vita di questi pazienti, già molto provati per la grave malattia di base. Prima Dopo Introduzione. La sindrome lipodistrofica è associata esclusivamente alla HAART, contenente inibitori della proteasi o inibitori della trascrittasi inversa. Dei pazienti trattati con HAART, tra il 15% e l’80%, sviluppano una lipoatrofia facciale entro i 10 mesi dall’inizio del trattamento. Attualmente non esistono terapie ideali per i pazienti affetti da AIDS, nonostante lo stress psico-sociale, l’isolamento e la depressione che accompagnano la malattia. La maggior parte dei filler sembrano ben tollerati; tuttavia sono sempre possibili reazioni allergiche, infezioni, noduli, granulomi infiammatori e/o da corpo estraneo. L’acido polilattico (PLA; New-Fill, Biotech Industry SA, Luxembourg) è largamente impiegato in Europa e approvato dalla Food and Drug Administration (FDA), negli Stati Uniti, per l’aumento dei tessuti molli nella lipoatrofia facciale in pazienti infettati dall’HIV. L’obiettivo principale è quello di determinare l’affidabilità e l’efficacia del PLA per il potenziamento dermico della lipoatrofia facciale nei pazienti immunocompromessi, infettati dall’HIV, trattati con HAART. Metodi. Sessantuno pazienti immunodepressi infettati dall’HIV (52 bianchi, 7 afroamericani, 1 latino-americano ed 1 asiatico), erano sottoposti a trattamenti con PLA per più di 5 mesi, per lipoatrofia facciale. La severità della lipoatrofia era documentata e fotografata prima di ogni trattamento (ved. figura). Il monitoraggio delle possibili reazioni avverse ed il grado di miglioramento, era condotto dal paziente stesso, dal medico operatore e da un altro medico non operatore. Risultati. Al “follow up” del sesto mese, tutti i 61 pazienti HIV immunodepressi, notavano un netto miglioramento, con un “livellamento” del tegumento, una netta diminuzione delle concavità o delle depressioni e un complessivo, migliorato, aspetto estetico del viso, in media dopo 3 sedute di trattamento (ved. figura). Sebbene tutti i pazienti fossero molto soddisfatti dei risultati ottenuti, due di essi svilupparono delle papule intradermiche, palpabili, asintomatiche, nella regione infraorbitaria. Nel “follow-up” a lungo termine (18 mesi), 48 pazienti su 61 (79%), necessitavano una media di 3 visite per il potenziamento e 13 su 61 (21%), richiedevano dei trattamenti aggiuntivi dopo le 3 sessioni iniziali. Sebbene il giudizio del medico e del paziente fosse eccellente, il desiderio di ulteriori potenziamenti dermici era puramente soggettivo. In generale, le procedure erano ben tollerate, senza evoluzioni cliniche o reazioni avverse. * Dermatologo, Palermo Conclusioni. L’uso del PLA per trattare la lipoatrofia facciale risultava efficace, e con miglioramenti prolungati, nei pazienti infetti da HIV. L’effetto era di lunga durata, per un periodo maggiore di due anni. Non sono mai stati riportati casi di infezioni, allergie o serie reazioni avverse ed il trattamento è stato sempre ben tollerato. Scripta MEDICA Volume 8, n. 5-6, 2005 118 www.isplad.org Il sito ISPLAD nasce dall’esigenza di un’informarzione corretta e completa sulla Dermatologia Plastica. Esso, in breve tempo, è diventato un vero e proprio punto di riferimento non solo per i dermatologi, ma anche per altre categorie professionali: giornalisti che si collegano per avere informazioni aggiornate per le loro testate, manager delle più importanti aziende del settore che guardano con interesse alle iniziative dell’ISPLAD per intraprendere nuove strategie di marketing, e tantissimi utenti “comuni” che si collegano per avere le ultime notizie in tema di bellezza, di prevenzione e di salute. I dati parlano da soli perché il sito dell’ISPLAD registra ogni mese nuovi successi con una media dei visitatori di circa 22.000/mese. Risultati straordinari, frutto del grandissimo lavoro di aggiornamento e di continuo sviluppo. Tra le iniziative già presenti nel sito, meritano di essere ricordate: - L’esperto: un esperto risponde immediatamente on line alle domande ed alle problematiche poste dagli utenti. - Le convenzioni per i soci: è presente un elenco di tutte le convenzioni, stipulate con aziende di settori diversi, riservate agli associati ISPLAD. - Il consenso informato: si tratta di una sezione dedicata a questo importante tema con lo scopo di realizzare un documento utile e condiviso da tutti i dermatologi (sul sito dal mese di Ottobre, e su questa rivista nel numero di Settembre, sarà disponibile il “Modulo per il consenso informato in Dermatologia Plastica”). - I corsi di aggiornamento: è possibile iscriversi on line ai corsi organizzati in tutta Italia dall’ISPLAD (tali corsi partecipano ai progetti ECM del Ministero della Salute). - Le campagne di prevenzione: in questa sezione si trovano informazioni dettagliate sulle iniziative di prevenzione con la possibilità di aderirvi on line compilando un semplice modulo. REGISTRATEVI E NAVIGATE !!!! Tra le molteplici iniziative dell’ISPLAD l’ Osservatorio Dermoplastico rappresenta certamente il fiore all’occhiello, in quanto si tratta di una vera e propria mission che pone il dermatologo ai vertici delle categorie più deontologicamente e socialmente impegnate. Infatti l’ISPLAD, in collaborazione con il Dipartimento di Farmacologia dell’Università di Milano, ha istituito il primo Centro italiano per le reazioni avverse da trattamenti estetici. L’obiettivo è quello di raccogliere ed elaborare tutte le segnalazioni di eventi avversi provenienti dai pazienti e dai dermatologi italiani, in modo da redigere un registro che consentirà di far luce sui rapporti causa/effetto di tutti i trattamenti a fini estetici (filler, peelings, laser, ecc.). Lo scopo finale è quello di aiutare i medici a scegliere per i loro pazienti trattamenti più sicuri. Con questa iniziativa l’ISPLAD vuole sottolineare il suo impegno per lo sviluppo della professionalità dei suoi associati e, soprattutto, per la tutela dei pazienti. Antonio Di Maio Scripta MEDICA Volume 8, n. 5-6, 2005 119 Meetings Gallery Milano 25 Giugno 2005 Incontro di Aggiornamento in Dermatologia Plastica Sede congressuale: Hotel Michelangelo Via Scarlatti, 33 - Milano Il Corso è rivolto ai primi 150 Medici Chirurghi PUNTI ECM: 6 Tirrenia (PI) 24 Settembre 2005 Sede congressuale: Green Park resorte Via delle Magnolie, 4 - Tirrenia (Pisa) Il Corso è rivolto ai primi 100 Medici Chirurghi PUNTI ECM: in fase di accreditamento Cagliari 1 Ottobre 2005 Incontro di Dermocosmetologia Sede congressuale: in fase di definizione Il Corso è rivolto ai primi 100 Medici Chirurghi PUNTI ECM: in fase di accreditamento 6th World Conference on Melanoma September 6-10, 2005 Vancouver Covention & Exhibition Centre Vancouver, BC Canada Congress Secretariat Venue West Conference Services Ltd. 645-375 Water Street Vancouver, BC, Canada - V6B 5C6 Tel: 1-604-681-5226 Fax: 1-604-681-2503 [email protected] Info: www.worldmelanoma.com