Il Manicomio e la Grande guerra Lisa Roscioni e Luca Des Dorides

Transcript

Il Manicomio e la Grande guerra Lisa Roscioni e Luca Des Dorides
Il Manicomio e la Grande guerra
Lisa Roscioni e Luca Des Dorides
Una violenta campagna diffamatoria fu quella che, nel novembre del 1916, vide coinvolto il direttore del manicomio di Santa Maria della Pietà di Roma, Giovanni
Mingazzini, sulle pagine della “Rivista popolare di politica, lettere e scienze sociali”,
fondata e diretta dal repubblicano Napoleone Colajanni, figura di spicco dell’interventismo democratico di quegli anni. Mingazzini, illustre neuropatologo e professore alla
Sapienza e all’Università Gregoriana, veniva attaccato per le sue posizioni neutraliste se non apertamente “disfattiste” che, secondo quanto riferiva un memoriale pubblicato sul-l’autorevole rivista, aveva pubblicamente manifestato non soltanto all’università, ma anche nelle salette del celebre caffè Aragno. Non solo, ma Mingazzini
veniva accusato di favorire gli esoneri dal servizio militare attraverso «certificati se
non propriamente falsi, quanto meno esagerati». A riprova del suo «fanatismo antitaliano» vi erano, sempre secondo il memoriale, gli stretti rapporti che il medico aveva
da tempo intessuto con molti professori universitari tedeschi e austriaci, le sue numerose pubblicazioni in lingua tedesca e, non ultimo, il fatto di avere una moglie tedesca e di aver investito la dote di quest’ultima in titoli statali e bancari tedeschi. A queste accuse il professore aveva risposto, in un’intervista pubblicata sul settimanale dei
giovani socialisti, che «se l’onorevole Colajanni sperava di mandarlo in carcere, lui
sperava di mandare l’onorevole Colajanni in manicomio». Quanto all’argomento della
«moglie tedesca» utilizzato per diffamare anche altri non-interventisti, già Benedetto
Croce, nel gennaio dell’anno precedente, aveva così osservato: «Gli avversari, che
siamo noi, potrebbero a lor volta formare l’elenco delle mogli, amiche o amanti, francesi, inglesi, russe o serbe dei nazionalisti; ma non lo fanno, per rispetto non solo
verso le signore, ma verso se medesimi».
Al di là di queste polemiche e del clima arroventato che, come è noto, aveva
accompagnato l’entrata dell’Italia nel conflitto, la posizione di Mingazzini era, rispetto
alla maggior parte degli altri medici e psichiatri italiani, di netta minoranza. Molti direttori di manicomi e alienisti, infatti, si erano subito esposti, con slancio patriottico, a
favore della causa interventista, facendo leva, come più tardi avrebbe scritto il tenente colonnello medico Gaetano Boschi, su quell’«anima del combattente» che, secondo l’ufficiale, vi era in ogni medico. Alcuni psichiatri, in particolare, assunsero posizioni di rilievo nel cosiddetto Servizio neuropsichiatrico di guerra, composto da decine di reparti sparpagliati non soltanto in prossimità del fronte o delle retrovie ma distribuiti in buona parte del territorio italiano, soprattutto nel centro-nord. L’organizzazione complessiva del servizio fu affidata ad Augusto Tamburini, presidente della Società Freniatrica e già direttore del manicomio di Reggio Emilia, mentre Leonardo
Bianchi, direttore del manicomio di Napoli e docente di psichiatria e neurologia, fu
nominato, tra il 1916 e il 1917, ministro senza portafoglio responsabile del coordinamento dei servizi sanitari di guerra. Furono poi chiamati alcuni consulenti per le quattro armate dislocate sul fronte, tra i quali Arturo Morselli, figlio del più celebre Enrico,
Vincenzo Bianchi, deputato e figlio di Leonardo, e Angelo Alberti, direttore del manicomio di Pesaro. Compito dei consulenti era visitare regolarmente gli ospedali da
campo e quelli allestiti nelle retrovie per esaminare tutti «quei casi di malattie mentali
e nervose che venissero segnalati», con lo scopo di verificare diagnosi e provvedere
all’eventuale ricovero negli istituti sanitari più adatti. I consulenti erano direttamente
responsabili anche dell’organizzazione dei reparti neuropsichiatrici “di osservazione”
nati per accogliere «quei casi che, ad una prima visita sommaria, risultassero poco
chiari o destassero sospetto di simulazione o consistessero in forme psicopatiche o
nevropatiche acute facilmente guaribili». Nel giro di un paio d’anni a partire dallo
scoppio del conflitto, fu così messa insieme una fitta rete sanitaria costituita da una
decina di reparti e ospedaletti psichiatrici dislocati in zona di guerra, ai quali si aggiungevano una trentina tra reparti di osservazione, psichiatrici e neurologici aperti
negli ospedali militari o nei manicomi di Torino, Alessandria, Milano, Pavia, Genova,
Verona, Bologna, Ancona, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Catania, Palermo. A Roma,
in particolare, nella sede di Sant’Onofrio, fu allestito un apposito reparto riservato ai
militari e diretto dall’ufficiale medico Giacinto Fornaca.
1.
Il Servizio neuropsichiatrico di guerra
Secondo le stime ufficiali il servizio neuropsichiatrico nazionale accolse, nel
suo insieme, circa 40.000 militari, anche se con ogni probabilità il numero di ricoverati fu molto più alto. Vi fu dunque una vera e propria emergenza psichiatrica che, in un
primo tempo, spiazzò medici e autorità militari. «Il numero dei nevropatici e degli psicopatici generato dalla guerra è stato superiore a ogni previsione» ammise, nel
1920, Giuseppe Pellacani, docente di clinica delle malattie nervose all’università di
Bologna. Per la verità, che la guerra potesse avere effetti nefasti sulla psiche dei soldati, era noto da tempo. Una prima riflessione sull’argomento si era avviata, a livello
internazionale, in occasione del conflitto russo-giapponese e, in Italia, con la guerra
di Libia. Nel 1911, il medico militare Gaetano Funaioli, nel prefigurare una sorta di
“servizio medico-psichiatrico nell’esercito”, parlava di una serie di fattori di debilitazione, esaurimento, sia psichici che fisici quali timore, preoccupazioni, nostalgia,
emozioni della battaglia, insonnia e sconforto, accompagnati alle fatiche, alla fame e
alle sofferenze, che potevano costituire «un complesso di cause depressive o eccitatrici delle facoltà mentali e perturbatrici la sensibilità, le quali facilmente inducono,
anche nei meno tarati, fenomeni psicopatici». Questa volta, però, qualcosa sembrava
essere mutato più in profondità e gli psichiatri italiani, come è stato ampiamente sottolineato dalla storiografia più recente, se ne resero conto non appena scoppiò il conflitto. Così fu osservato nel 1915 in un editoriale della rivista “Quaderni di psichiatria”:
Si è visto tanto in Francia, quanto in Germania, che al principio delle ostilità
scoppiavano principalmente delle psicosi alcoliche, e delle psicosi acute da emozione per l’improvviso reclutamento in soggetti predisposti; talvolta si rivelavano demenze precoci latenti. Più tardi apparvero casi di psicosi confusionali, per esaurimento, per emozione sul campo di battaglia, per schok o commozione cerebrale indotta dal cosiddetto “vento degli obici”. In ultimo, prolungandosi la guerra, soprattutto
dopo il periodo delle trincee, si svolgono forme piuttosto croniche, psicosi maniaco-
depressive, confusioni allucinatorie, deliri di persecuzione, senza contare le paralisi
generali, ecc..
Nuovi problemi e nuove patologie si profilavano dunque all’orizzonte e rendevano necessarie, agli occhi degli stessi psichiatri, «vedute nuove». Punto cruciale
intorno al quale cominciarono ad interrogarsi gli alienisti, non soltanto italiani, riguardava l’origine dei «fenomeni psiconevrotici di guerra», molti dei quali solo in parte
corrispondevano a quelli osservati nei manicomi o descritti nei trattati. Analogamente
a quanto successe in altri paesi coinvolti nel conflitto, un ampio dibattito si sviluppò in
proposito sulle pagine delle principali riviste di settore, dalla “Rivista sperimentale di
freniatria” all’”Archivio di antropologia criminale, psichiatria e medicina legale”, dai
“Quaderni di psichiatria” alla “Rassegna di studi psichiatrici”. In una prima fase, coerentemente con l’indirizzo generale della psichiatria italiana di quegli anni, prevalse la
tesi del determinismo organicistico e della predisposizione. In seguito, con prolungarsi del conflitto, con la varietà di manifestazioni morbose e con la sempre maggiore quantità di malati inviati nei reparti neuropsichiatrici, si cominciò a rivedere parzialmente questo punto. Il sospetto che la guerra potesse essere in sé stessa patogena si fece largo tra gli alienisti. Intorno al 1917-1918 i consulenti delle differenti
armate classificavano ormai i malati in tre gruppi. Nel primo figuravano le forme morbose accertate nei soldati e negli ufficiali «i quali, senza alcun precedente ereditario
o individuale, cadevano infermi di malattia acuta per effetto delle multiple contingenze della guerra» come, per esempio, «commozioni gravi, super-lavoro, ferrea coercizione disciplinare, irregolarità eventuali nell’alimentazione etc.». Il secondo gruppo
comprendeva invece tutti quei casi nei quali non mancava qualche precedente ereditario, «ma dove era da presumersi che la guerra avesse preso larga parte nella manifestazione accertata negl’infermi». Nel terzo gruppo si trovavano infine riuniti tutti
quei malati per i quali la partecipazione alla guerra aveva influito poco o nulla come
per esempio gli epilettici, gli alcolisti o i sifilitici. La proporzione fra i tre gruppi poteva
variare di zona in zona, con una prevalenza del primo e del terzo che in genere si
equiparavano.
In ogni caso, al di là delle cifre e delle diagnosi non sempre accurate, alcuni
psichiatri sottolinearono, riguardo alle «psiconeurosi di origine bellica», come la predisposizione neuropatica non fosse, almeno secondo la loro esperienza, indispensabile per giustificare lo scoppio dei fenomeni psiconevrotici. Alla fine del conflitto il
neuropsichiatra lombardo Fernando Cazzamalli, così scrisse sulle pagine dell’”Archivio di antropologia criminale”: «resta ad ogni modo e fuor d’ogni dubbio provato che
nella guerra sono contenute cause traumatiche, dotate di un così intenso potere neuro-psicopatogeno da turbare, sia pur transitoriamente, l’equilibrio nervoso del soldato, anche se costituzionalmente non predisposto». Anselmo Sacerdote, che lavorava
al manicomio di Torino, si spinse ancora più oltre: «la dottrina della degenerazione
mentale – dottrina a tendenza fatalistica – deve essere riveduta. La sua insufficienza
è sicura». Queste osservazioni non vanno però sopravvalutate, poiché alla fine sembrò prevalere comunque la tesi della predisposizione. Così per esempio si osservava
nella relazione finale sul servizio neuropsichiatrico di guerra:
A chiunque abbia conoscenza dell’andamento della vita psichiatrica nelle condizioni di tempo di pace, balza subito agli occhi la differenza sostanziale che passa,
per riguardo alle varietà al numero delle forme morbose, tra i dati raccolti dagli psichiatri durante il periodo bellico e le ordinarie statistiche manicomiali. La guerra provoca un notevole aumento di quei quadri nosologici, in cui ha una grande importanza
il fattore occasionale, e in modo specialissimo l’emozione; e mette indubbiamente in
luce predisposizioni latenti, che forse avrebbero potuto rimanere tali durante il decorso della vita, se non avessero trovato un rivelatore, di cui non è possibile disconoscere la straordinaria potenza.
Se era dunque innegabile la valenza patogena della guerra, si tendeva però a
presentare i disturbi causati dal conflitto come transitori e, in generale, facilmente curabili e dunque “recuperabili” per il fronte in un ordine di grandezza che poteva andare dal 41% al 58%. Il capitano Emilio Riva parlò di un insorgere «rapido ed improvviso» di disturbi a cui corrispondeva un’altrettanta «fugacità e il rapido esaurirsi dell’episodio morboso vero e proprio anche quando il caso clinico appariva sin dall’inizio
imponente e grave». In realtà se si esaminano con attenzione le cifre fornite, si osserva come, soprattutto nel corso del 1917, diminuisca progressivamente la percentuale di militari “recuperati” e, già a partire dal 1916, aumenti sempre di più il numero
di soggetti inviati trasferiti dai manicomi territoriali, e cioè direttamente collegati agli
ospedali o ai reparti da campo, ad altri manicomi.
Il problema di fondo era costituito dal mancato ritorno al fronte e, più in generale, dalle difficoltà di adattamento espresse in modo sempre più esplicito da migliaia
di soldati. Era un problema scottante, in gran parte sottaciuto sia dalle autorità militari, soprattutto dopo Caporetto, sia dagli psichiatri, che preferivano parlare di «simulatori, esageratori, degenerati morali, folli morali» da smascherare con mezzi brutali e
punire, o da recuperare eventualmente in attività di fatica sul fronte o nelle retrovie.
Per la verità, non mancarono voci che si opposero all’uso di metodi violenti, soprattutto in ambito psicanalitico. Sono note, in questo senso, le pagine di Freud contro
l’uso del “trattamento elettrico” sui soldati malati durante la guerra. Secondo l’interpretazione psicoanalitica le nevrosi belliche erano frutto di un conflitto inconscio tra
senso del dovere e istinto di conservazione: l’impossibilità di risolverlo determinava
la fuga nella malattia. Ma se tutto questo ebbe una qualche eco in Germania e soprattutto in Inghilterra, poco o nulla arrivò in Italia, dove i fenomeni di diserzione, l’auto-lesionismo e la resa al nemico crebbero in modo vertiginoso negli ultimi due anni
di conflitto. Si tratta di fenomeni endemici, sui quali la storiografia degli ultimi anni si
è molto concentrata. Attraverso l’analisi quantitativa, supportata dallo spoglio dell’immensa produzione letteraria dei protagonisti del conflitto, questi fenomeni si profilano come espressione di un diffuso non consenso alla guerra. In questo quadro è
emersa con evidenza una nuova immagine del soldato italiano, estraneo e ostile al
combattimento, desideroso soltanto di allontanarsi il più possibile dal conflitto. Il costante rischio di morire, il logorio della vita di trincea, le disperate condizioni delle famiglie nelle retrovie e l’ottusità dei comandi, potevano rappresentare un peso difficilmente sostenibile per molti soldati, strappati alla famiglia e catapultati in trincea, dove il rischio di morte era quasi certo. In queste condizioni, la via della fuga poteva facilmente prendere la forma estrema della follia. Quest’ultima poteva essere causata,
secondo quanto recentemente sostenuto da Bruna Bianchi, non tanto da un conflitto
interiore tra senso del dovere e individualità, quanto piuttosto da un «senso di impotenza» di fronte alla perdita del controllo oppure da un desiderio di allontanarsi il più
possibile non soltanto dalla guerra ma anche dal suo ricordo.
Come si rapportavano, nel concreto, i medici e gli psichiatri italiani rispetto alle
migliaia di militari traumatizzati da ore di bombardamenti, attoniti e confusi, tremanti
e denutriti, che avevano passato ore sotto le macerie o che avevano visto morire tutti
i loro compagni? E quando, come e perché li facevano trasferire in manicomio?
L’esame delle cartelle cliniche relative a militari internati alla Lungara durante la prima guerra mondiale conservate presso l’archivio storico del manicomio di Santa Maria della Pietà durante può fornire, in questo senso, qualche risposta.
Secondo l’articolo 108 del Regolamento militare i militari alienati dovevano essere condotti «al più vicino manicomio, previe le pratiche di prescrizione stabilite dalla legge sui manicomi e sugli alienati». L’allusione qui andava, ovviamente, alla legge
del 1904 e al successivo regolamento del 1909, secondo i quali l’internamento poteva essere autorizzato soltanto dalla procura. Ciò che cambiava, però, rispetto al ricovero dei civili, era il referente economico e giurisdizionale. Era l’autorità militare a
provvedere direttamente alle spese di degenza, così come a comunicare alla direzione del manicomio l’eventuale riforma del soggetto internato che, fino a quel momento, sarebbe rimasto vincolato al Regio esercito, al quale andava riconsegnato
quale che fosse la diagnosi finale a suo carico. Per la sua posizione geografica relativamente lontana dal fronte, l’ospedale romano rappresentava il punto di arrivo o di
transito dopo un lungo percorso iniziato con il ricovero in un ospedaletto da campo,
seguito dal trasferimento in un ospedale militare o in altri istituti e reparti specializzati
ma più vicini al teatro della guerra. In altri casi però era invece il primo e unico approdo di molti soldati per i quali, dopo l’agognata licenza in famiglia, la sola idea di
tornare a combattere determinava un’angoscia e un tormento insostenibili.
2. «Fare il matto»
L’emergere delle «psiconevrosi di guerra» attivò un contatto nuovo tra follia e
scienza psichiatrica, tra autorità e sottoposti, tra dominanti e dominati. Molte, come si
è visto, furono le domande che si posero gli psichiatri in quello che si prefigurò subito
come un non facile scambio tra mondi spesso culturalmente molto distanti. L’atteggiamento diffidente e vessatorio dei comandi italiani nei confronti dei propri soldati,
che si riflette in quello di molti psichiatri che collaboravano con il servizio neuropsichiatrico di guerra o che lavoravano negli ospedali e nei manicomi, finì spesso per
trasformare questo culture contact in uno confronto-scontro finalizzato a smascherare presunte simulazioni. Durante il lungo itinerario che dal fronte portava al congedo
assoluto o alla riforma, le visite psichiatriche assomigliavano spesso più a un processo inquisitorio che a delle perizie mediche, un processo nel quale il soldato folle e
lo psichiatra si contrapponevano in una contesa nella quale l’accertamento della verità dipendeva in gran parte dalla capacità di resistenza del periziato, dalla sua capacità di uscire vittorioso da una sorta di ordalia impostagli. La letteratura psichiatrica di
quegli anni è, in questo senso, piena di tecniche e di astuzie per «sventare i trucchi»
dei simulatori, considerati come appartenenti a quella «lunga schiera di individui, per
la maggior parte psicodegenerati, anomali costituzionali, pregiudicati, contro i quali la
medicina legale militare ha dovuto affilare le armi e combattere strettamente per riuscire vittoriosamente». Ritenuta in sé già una forma di patologia, la simulazione in
tempo di guerra fu distinta in quattro forme: per “creazione”, “fissazione” o “perseverazione”, “esagerazione” e “pretestazione”. Non sempre i medici riuscivano a spuntarla: «alcuni» scriveva Arturo Morselli «inscenano stati grotteschi per assurdità di
tremori, di convulsioni, di deliri che sono riconosciuti facilmente; ma altri invece mostrano tale abilità che si rimane a lungo perplessi della realtà o meno della malattia».
Come si è accennato, dalla narcosi all’elettrizzazione faradica, molti erano gli espedienti, alcuni dei quali anche brutali, per sventare una simulazione. Pur senza cadere
negli eccessi praticati negli ospedaletti da campo posti nelle vicinanze del fronte, anche nel manicomio di Roma, a distanza di centinaia di chilometri dal fronte, è possibile riscontrare tracce di quella «lotta contro il simulatore» imbastita dagli psichiatri già
nelle immediate retrovie.
Celestino D., il 21 gennaio 1918, venne rinviato dall’ospedale di Santa Maria
della Pietà presso l’ospedale militare del Celio di Roma con il marchio infamante di
simulatore, affinché fossero presi «i provvedimenti del caso». Dall’ingresso in manicomio si era sempre mostrato in «evidente stato confusionale», taciturno, indifferente
e in preda ad allucinazioni visive, sempre raggomitolato sotto le coperte e restio ad
assumere cibo. Tuttavia, agli occhi degli psichiatri romani, la sua era un’interpretazione poco credibile. Il suo errore più grave, secondo i medici, non fu tanto l’ostentazione dei caratteri patogeni, quanto la sua riluttanza ad assumere fino in fondo le
conseguenze della sua stessa messa in scena. Portato davanti al medico per il colloquio, cadendo dalla sedia aveva portato le mani avanti come per attutire l’impatto.
Che fosse stato o meno l’istinto a guidarlo o che egli fosse realmente un folle o soltanto un simulatore, il suo gesto fu considerato come la prova decisiva perché si potesse parlare di una «simulazione volontaria» in quanto erano «troppo evidenti i segni di una ostentazione volontaria ed i freni opposti affinché le varie manifestazioni
non abbiano produrre conseguenze pericolose».
Molto simile a quella di Celestino è la storia di Antonio N., inviato per sospetta
alienazione mentale dal carcere militare di Forte Boccea a quello per militari infermi
di San Paolo e di qui al manicomio di Santa Maria della Pietà. Sin dall’inizio aveva
mantenuto un atteggiamento comune a molti militari degenti, e cioè «sempre a letto
rannicchiato con la testa sotto le coltri, taciturno, rifiuta il cibo». Ma che cosa lo aveva
fatto bollare come simulatore? Erano stati, secondo i medici, la sua «stereotipia del
contegno…lo sforzo volontario delle manifestazioni mimiche…i segni dell’attenzione
vigile» e soprattutto gli evidenti atteggiamenti di autotutela, il «contegno diretto a evitar di far nocumento a se medesimo» e il fatto che «i primi giorni urinava in letto però
in modo da non sporcarsi». Giordano C. invece fu riconsegnato alla famiglia nell’aprile 1918 con a carico una diagnosi di sindrome schizofrenica. Nel periodo di degenza
si era chiuso in un mutismo quasi assoluto e aveva passato le giornate raggomitolato
nel letto, ma, a differenza di Antonio N., egli era sudicio, faceva i suoi bisogni a letto
senza curarsi minimamente di se stesso. Come si fosse arrivati alla certificazione di
schizofrenia non è dato di saperlo, anche se è certo che, nel non riconoscerlo come
simulatore influirono la presenza di una emiparesi spastica alla parte destra del corpo e l’assoluzione dalla pregressa imputazione per diserzione.
Che venisse messo in atto un procedimento di tipo ordalico nel confronto tra
medici e pazienti è evidente nel caso di tale Luigi D., detenuto, proveniente dal frenocomio di Lucca dove era stato trasferito nell’ottobre 1917 e si era subito distinto
come paziente difficile. Qui, appena entrato, aveva morso due infermieri, che si erano visti costretti a contenerlo; sempre irrequieto rispondeva «che non sa nulla perché
ha perduto la memoria, dice di non sapere più il nome dei suoi genitori, della patria,
l’età, solo dice di sapere il suo nome e cognome. Ogni tanto straluna gli occhi, ogni
tanto nitrisce». Il suo atteggiamento non doveva essere stato dei più convincenti, non
più di quanto non lo fossero stati quelli manifestati da Celestino D. o da Antonio N..
Convocato dai medici, gli fu fatto presente che «il suo modo di condursi lo appalesava manifestamente simulatore». Gli fu così consigliato «di smettere di fare il matto»
con la minaccia di redigere a suo carico «una modula molto grave a carico suo».
Luigi cambiò allora improvvisamente contegno, lagnandosi soltanto che si sentiva
debole e voleva «rinforzarsi». Nonostante che per i medici fosse ormai scontata ed
evidente la simulazione, qualcosa intervenne a impedire la dimissione di Luigi. Egli
continuò a mantenere un atteggiamento aggressivo, tentò addirittura d’impiccarsi con
la camicia, rimanendo per tutto il periodo di degenza un elemento di forte turbativa
tanto da costringere gli infermieri a intervenire più volte e a «ricorrere spesso all’uso
di energici sedativi». Alla fine i medici giunsero alla conclusione «che non si può
pensare di esser di fronte ad un uomo normale».
L’itinerario manicomiale di Luigi non si fermò a Lucca: nel marzo del 1918 fu
trasferito a Roma, continuando così il suo lento avvicinamento verso la natia provincia di Napoli. Anche nel manicomio di Santa Maria della Pietà il suo atteggiamento
continuò a essere violento. Nonostante vi fosse nel suo comportamento un certo
«carattere d’ostentazione e di teatralità», la sua «agitazione prolungata e violentissima» non era ritenuta però «compatibile con uno stato di simulazione». Si optò dunque per una «supersimulazione come aggravamento di una pregressa simulazione
volontaria». Nonostante già a Lucca avesse implicitamente riconosciuto la propria
finzione, Luigi era dunque, almeno secondo il parere dei medici romani, da ritenersi
malato. Attraverso una prolungata sfida, a tratti anche fisica e violenta, con infermieri
e medici, l’uomo era riuscito così a ottenere, non sappiamo se consapevolmente o
meno, che gli fosse riconosciuto uno «stato di eccitamento in fase automatica» sovrapposto alla simulazione, e cioè una sorta di riconoscimento guadagnato sul campo.
3. Itinerari della follia
Per molti dei militari internati, la permanenza nelle anguste camerate del manicomio di via della Lungara o del Reparto per militari psicopatici di Sant’Onofrio,
rappresentò soltanto una delle tappe di un lungo andirivieni tra le varie istituzioni
preposte ad accogliere coloro che, in un modo o nell’altro, tentavano di sottrarsi al
conflitto. Il percorso mentale e psicologico verso le patologie del rifiuto poteva dunque tradursi in vero e proprio viaggio a tappe attraverso l’Italia. In questo quadro, il
ruolo assolto dal manicomio romano variava da caso per caso. Esso poteva rappresentare una sosta, il punto terminale di una fuga dalla guerra o la prima e unica istituzione incontrata lungo la via della follia.
Dal campione esaminato, riguardante l’ultimo anno di guerra, risulta che il
52% dei militari presenti era originario della provincia di Roma, il 13% di altre province del centro ed il 30% proveniva dal meridione; l’Italia centro-meridionale forniva al
manicomio romano il 95% del totale dei militari internati. I dati percentuali sulle province non di origine ma di provenienza ultima dei vari internati invece, ferma restando l’elevata incidenza della provincia di Roma che forniva il 55% del totale, capovolgono il rapporto fra nord e sud del paese. I soldati inviati alla Lungara da altri ospedali o dalle autorità militari poste a nord della capitale risultano essere stati il 30% del
totale. Questa cifra, sommata al 5% di militari provenienti da altre province del centro
e al 55% di quelli provenienti dalla provincia di Roma, fa sì che il dato percentuale
dei provenienti dall’Italia centro-settentrionale raggiunga il 90%. Questa differente
incidenza nei dati percentuali fra provincia natia e luogo di provenienza suggerisce
l’ipotesi che la follia ingenerasse un vero e proprio processo di allontanamento dalla
guerra, una discesa dai luoghi d’impegno militare fino a casa.
Per chi proveniva dal fronte l’itinerario consisteva in genere nell’essere «internato in parecchi ospedali da campo e poi inviato fuori zona», in un processo a scendere accompagnato spesso da una frettolosa quanto inumana scrematura dei presunti simulatori. Più ci si avvicinava a casa, più aumentavano le possibilità di riuscita
della fuga. Al contempo, passata la prima dura prova degli ospedaletti da campo, era
possibile che le diagnosi riguardanti il disturbo mentale sfumassero fino a trasformarsi nella diffusa dicitura di «psicosi non constatata in atto» spesso accompagnata
dall’accertamento a posteriori di una pregressa amentia.
Diomede C., nato in provincia di Perugia, partito per il fronte allo scoppio del
conflitto, dopo un anno di prima linea, nel maggio 1916, diede segni di squilibrio
mentale e iniziò una lenta discesa verso casa. Fu prima inviato all’ospedale di Sant’Osvaldo di Udine, e cioè nelle immediate retrovie, e poi al frenocomio di San Girolamo di Volterra in Toscana, da dove però, dopo quattro mesi e mezzo di degenza, fu
rinviato al fronte nel gennaio del 1917. Dopo altri cinque mesi al fronte ottenne due
settimane di licenza da passare Roma. Tuttavia, al suo ritorno al corpo, manifestò di
nuovo disturbi mentali, cosa che gli provocò il rinvio a Padova, dove venne riformato.
Trasferito ancora una volta al frenocomio di Volterra e poi, sempre più vicino a casa,
presso il manicomio di Santa Maria della Pietà, fu infine dimesso e riconsegnato
ormai riformato alle autorità militari per «non constata psicosi in atto». Anche per
Giovanni Z., nato a Lipari in provincia di Messina, l’internamento nel manicomio romano rappresentò una tappa di avvicinamento verso casa. Ricoverato una prima volta a Napoli, fu inviato al Reparto di Segregazione militare Giulia di Roma, e poi alla
Lungara da dove, con diagnosi di «psicosi ipocondriaca sopra simulazione», fu trasferito al manicomio di Messina.
L’ipotesi di percorso “a scendere” aiuta a capire perché sia così scarsa l’incidenza numerica di internati originari del nord e al contempo quasi impalpabile quella
dei provenienti da province a sud di Roma. Secondo quanto stabiliva il regolamento
militare, un soldato folle doveva tendenzialmente essere inviato al manicomio di riferimento della propria provincia natia. Tuttavia il provvedimento non era né rapido né
automatico e, tra l’insorgere della psicosi e l’invio a casa, poteva esservi un lungo e
faticoso processo volto a determinare l’esistenza degli estremi per l’allontanamento
dalla guerra, processo che passava, come si è visto, attraverso il trasferimento da un
istituto all’altro secondo la logica, per quanto tortuosa, dell’avvicinamento al luogo
natio. Per questo la presenza di militari originari di regioni settentrionali o provenienti
dal meridione è molto difficile da riscontrasi nel manicomio romano: non vi era motivo
infatti che arrivassero fino alla capitale, e se vi giungevano si trattava soltanto di un
passaggio intermedio. Per i militari originari della provincia di Roma il ricovero nel
manicomio di Santa Maria della Pietà rappresentava invece, di solito, la tappa ultima
del loro itinerario: o tornavano a casa, oppure venivano presi dal meccanismo giudiziario o reinseriti nella guerra.
Sotto le armi sin dalla chiamata di leva del 1913, Bernardo T., 25 anni, nato a
Orte, «fu per 28 mesi sul fronte triestino e prese parte a diversi combattimenti» senza essere mai ferito. Nel luglio del 1917, tuttavia, le sue difese psichiche cedettero, e
fu preda di un delirio persecutorio. Internato in un ospedale da campo venne riconosciuto come psiconevrotico e inviato al frenocomio di Volterra e, di lì, al manicomio
romano, dal quale fu dimesso per la solita non constatata psicosi in atto con pregressa amentia e consegnato all’ospedale di Santo Spirito in Sassia per la cura di
una pleurite. Durante la discesa dal Friuli verso casa, Bernardo aveva perso progressivamente le stigmate della follia. Non avendo dato segno di simulazione o di
altri disturbi, si procedette al suo reintegro nei ranghi.
In altri casi, la dimissione dal manicomio di Santa Maria della Pietà aveva i
connotati di un vero e proprio fallimento di una tentata fuga dal fronte. Virgilio C.,
ventinovenne nato a Roma, vi arrivò al termine di un lunghissimo andirivieni tra istituzioni e servizio. Richiamato nel gennaio del 1915 fu immediatamente inviato all’ospedale militare di Livorno, poi a Roma, probabilmente al Celio. Con lo scoppio del
conflitto è attestata la sua presenza all’ospedale Maglio di Firenze dove fu dichiarato
inabile alle fatiche di guerra per un’otite e inviato in servizio al 14° Cavalleggeri. Imprigionato per aver minacciato o forse colpito con un coltello il capitano maggiore e il
sergente, fu liberato nel marzo del 1916, inviato prima al proprio reggimento in Lucca
e poi al 12° Reggimento Saluzzo a Milano. Dopo soli cinque mesi di servizio, Virgilio
fu ricoverato all’ospedale militare psichiatrico di Alessandria dove gli furono riconosciute «caratteristiche degenerative criminali», anche se non si escludeva che «una
perturbazione affettiva e sentimentale» fosse in lui «reale e non simulata». Il problema stava dunque nell’individuare il confine tra follia e criminalità, quindi tra punibilità
o ricovero, tra servizio o congedo. I medici affermarono, in proposito, che non si poteva diagnosticare «una forma permanentemente attiva di malattia mentale, ma ammettere una perturbazione transitoria che se può concedergli il beneficio di una diminuita responsabilità agli effetti dell’imputabilità penale non può renderlo inabile al
servizio militare». Da Alessandria fu così inviato al manicomio di Mombello a Milano
in quanto affetto da follia transitoria, cosa che se gli diminuiva le responsabilità penali
non lo affrancava però dalla guerra. Tra Mombello e Roma la situazione finì tuttavia
per capovolgersi. Come risulta dalle module inviate dal manicomio di Lucca, tappa
intermedia tra Milano e Roma, a Mombello era stato concesso a Virgilio il congedo
assoluto. Nonostante ciò, egli doveva ancora scontare un anno di reclusione militare
per insubordinazione e risultava ancora in attesa d’un procedimento penale per diserzione. La parola passava dunque agli psichiatri romani, i quali, con i loro accertamenti, potevano far aprire a Virgilio le porte del carcere o quelle del manicomio.
Considerato soltanto come un «delinquente degenerato», fu riconsegnato alle autori-
tà militari, dopo soli 14 giorni, per non constatata psicosi in atto, senza accenni a
pregressa forma psicotica. Fu messa così la parola fine a una fuga che dalla guerra
aveva condotto Virgilio nelle maglie della giustizia militare.
La strada che, dalla zona di dislocazione, portava i militari nati nella provincia
di Roma fino al manicomio non era necessariamente lunga e complicata come nelle
vicende appena riportate. In alcuni casi tra l’insorgere della follia e l’invio al manicomio capitolino la procedura era relativamente veloce e diretta. Alle prime manifestazioni si procedeva a un ricovero in zona; una volta accertata la presenza di disturbi
psichici, seguiva il trasferimento presso il manicomio provinciale di riferimento. Alfredo M., trentasei anni originario della provincia di Roma, riformato all’epoca della leva,
fu richiamato in servizio di retrovia allo scoppio della guerra. Dislocato a Venezia,
diede segni di squilibrio mentale e fu internato nel manicomio di San Servolo. I medici che lo visitarono diagnosticarono «una evidente deficienza mentale originaria» sulla quale si era successivamente innestato uno stato depressivo. Alfredo venne quindi
riformato per «stato depressivo in frenastenico» e trasferito al manicomio della sua
provincia natia. A Roma, dove giunse ufficialmente riformato e privo di provvedimenti
penali a carico, gli fu confermata la diagnosi e, solo dopo cinque mesi di degenza, fu
riconsegnato alla famiglia. Per lui la guerra era finita.
Agostino S. e Alessandro C., provenienti dalla provincia di Roma, con lo scoppio della guerra erano stati assegnati in zone distanti dal fronte, il primo a Siena e il
secondo a Sassari. Entrambi avevano già prima della guerra manifestato anomalie
psicofisiche, e questo spiega la loro lontananza dai combattimenti: Agostino, «cresciuto in una famiglia povera e composta di dementi o deficienti senza nessuna cultura ed ove regna il pregiudizio religioso», era stato considerato da sempre «ipocondriaco e deficiente» tanto che all’epoca della leva era stato dichiarato non idoneo;
Alessandro, invece, soffriva di attacchi epilettici sin da quando aveva dieci anni.
Scoppiata la guerra, al sorgere dei primi disturbi psichici furono immediatamente inviati al Santa Maria della Pietà, manicomio della loro provincia.
L’ingresso al manicomio di Roma non avveniva solamente attraverso trasferimenti da altre province, anzi, nel 55% dei casi i nuovi internati provenivano da istituzioni dislocate nella provincia stessa. L’elevata incidenza delle istituzioni capitoline
nel novero dei luoghi di provenienza degli internati militari era dovuto a due ordini
importanti di fattori: da un lato dipendeva dalla presenza nella città di altre istituzioni
di riferimento per militari in via di allontanamento dal conflitto; dall’altro era dovuto
all’elevata incidenza dei ricoveri effettuati a seguito di periodi di licenza passati tra le
mura domestiche. L’analisi qualitativa dei dati sulla provenienza rivela infatti l’incidenza non trascurabile di una gran massa di ricoveri a seguito di patologie insorte
nel domicilio civile.
4. Tornare a casa
Una delle preoccupazioni più pressanti tra i soldati impegnati nel primo conflitto mondiale riguardava le condizioni dei familiari lasciati a casa. Il reclutamento di
grandi masse d’uomini necessarie alla guerra di trincea strappò padri di famiglia e
giovani maschi a economie domestiche che, già in tempo di pace, si avvicinavano
spesso ai limiti della pura sussistenza. Fin dal momento della partenza s’instillava
nelle menti degli uomini destinati al servizio militare l’angoscia per la sopravvivenza
dei propri cari, angoscia che, in molti casi, poteva assumere le forme estreme della
follia e della diserzione. Spesso, l’insorgere della «nevrosi di guerra», o presunta tale, avveniva tramite il contatto diretto o indiretto con la propria famiglia. Il ritorno a
casa per una licenza o il sopraggiungere di notizie riguardanti le difficoltà nelle quali
si dibattevano i familiari erano spesso occasione perché la vita militare risultasse improvvisamente inaccettabile. A contatto col calore domestico o dopo aver toccato con
mano la disperazione dei propri cari, molti soldati non trovarono più la forza di continuare. Soltanto nel primo semestre del 1918, su 72% di casi dei quali è stato possibile ricostruire le circostanze dell’insorgere dei disturbi, ben il 40% è composto da soldati che manifestarono sintomi psicopatici a seguito di un periodo di licenza. Di costoro, il 43% era composto da coniugati, preoccupati per il destino delle mogli e degli
eventuali figli, e il 56% da celibi dall’età media di circa 25 anni, angosciati per i genitori e per la madre in particolare.
Il nesso fra licenza e follia, fra ritorno alla vita civile e domestica e riluttanza a
continuare, spesso si attuava nella forma classica del rifiuto di tornare al fronte dopo
un periodo di licenza trascorso a casa. Molti casi di diserzione o di improvviso insorgere di disturbi mentali avvenivano proprio nelle retrovie, come per Giuseppe G.:
trentotto anni, militare, ferito al fronte nel 1917, gli fu concesso di tornare a casa dove «si mise nei lavori campestri». Nell’aprile del 1918, pochi giorni prima di riprendere la via del fronte, fu colto da apatia e successivo «stato psicopatico». Internato nel
manicomio di Roma, fu riconosciuto affetto da amentia. Giovanni G., ventiquattro anni, soldato del I° Granatieri, venne internato nel manicomio di Santa Maria della Pietà
alla fine di marzo del 1918. Secondo il referto medico, egli era sotto le armi da circa
trentacinque mesi, dei quali i primi venti dei quali passati al fronte, dove aveva preso
parte a vari combattimenti. Ferito in battaglia, aveva ottenuto la licenza di convalescenza e l’autorizzazione a recarsi a Pantelleria da dove si era imbarcato per raggiungere la famiglia in Tunisia. Poi, su consiglio del console italiano era tornato in Italia, a Palermo, dove «l’avevano imprigionato pur non essendo terminata la licenza,
per essersi senza autorizzazione recato all’estero». Da quel momento in poi Giovanni rimase in prigione, malgrado avesse fatto richiesta per tornare al fronte. L’”incontro” con la follia era avvenuto in carcere quando, «avendo ricevuto una lettera in cui
si accennava oltre allo stato di squallida miseria della famiglia, la morte di un cognato
al fronte e le gravissime condizioni della moglie, il G. cadde in un stato di malinconia
profonda».
Per Gino C., cinquantadue anni, tenente colonnello dell’esercito, il legame tra
follia e focolare domestico fu ancora più forte. Militare in carriera, entrato nell’esercito
all’età di soli diciassette anni e veterano della guerra di Libia, aveva preso parte fin
da subito al primo conflitto mondiale lavorando, nei mesi immediatamente precedenti
all’entrata dell’Italia in guerra, prima alla mobilitazione generale e poi al Comando
supremo. Infine, nel maggio 1915, alla partenza dei primi reparti per il fronte austriaco, gli venne assegnato il comando di un battaglione e fu mandato in trincea dove
prese parte a vari combattimenti. Nell’agosto del 1918 le difese psichiche del tenente
colonnello cedettero. Còlto da manie di persecuzione, iniziò un lungo itinerario che
dall’infermeria da campo lo portò prima al manicomio di Udine e infine a casa in licenza di convalescenza. Il colpo finale lo ebbe proprio tra le mura domestiche,
quando assistette al dolore della famiglia per la partenza al fronte di un giovane nipote. Da quel momento il suo stato psichico si aggravò: iniziarono le stranezze e Gino cadde in un assoluto mutismo. «Girava nudo per casa», riferì la moglie agli psichiatri, « e si metteva sotto il letto per paura che venisse gente ad ammazzarlo». Fu
prima inviato al manicomio di Treviso, poi alla clinica Ascenzi di Firenze per ufficiali
feriti e malati di guerra e infine al manicomio di Roma, dove morì nel gennaio del
1918 per arresto cardiaco.