Alla ricerca del calcio perduto
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Alla ricerca del calcio perduto
Nicola Calzaretta Alla ricerca del calcio perduto Secondo tempo “Alla ricerca del calcio perduto. Secondo tempo” di Nicola Calzaretta Illustrazione in copertina Federico Penco Impaginazione Ciaba Coordinamento editoriale Paolo Castellano Giovanni Ferraro Marco Castellano Redazione Chiara Cini isbn 9788899245085 © Dockbook srl Goalbook Edizioni è un marchio della Dockbook srl via D. Cavalca, 65 - 56126 Pisa 050 580722 [email protected] www.goalbookedizioni.it È severamente vietata la riproduzione, anche parziale, senza espressa autorizzazione degli aventi diritto. INDICE Prefazione di Matteo Marani 9 Introduzione 11 ROMANZO DI UNA STRAGE 15 AMARCORD 23 GS 2013 LA DONNA DEL MAGO Fiora Gandolfi Herrera LE RETI DI WEMBLEY José Altafini IO, SINDACO DI PARMA Marco Osio LA MIA FAVOLA IN BIANCONERO Giuseppe Furino RIVERA 70 Gianni Rivera ZEMAN CHE SPETTACOLO Pierluigi Casiraghi PAGL1UCA Gianluca Pagliuca IO, L’INCUBO DI MARADONA Claudio Gentile 25 35 45 53 63 75 83 93 GS 2014 HO LA ROMA NEL CUORE Sebastiano Nela HO LOTTATO COME PAPÀ Riccardo Ferri FASCIA PROTETTA Franco Causio LA MAGLIA DELLA MIA VITA Roberto Boninsegna LO SCUDETTO DEL MIO BOLOGNA Ezio Pascutti SCUDETTO E PALLOTTOLE Pino Wilson EMOZIONE UNICA Gianluca Zambrotta IO, NAPOLETANO ATIPICO Antonio Juliano QUANDO ERO PENNA BIANCA Fabrizio Ravanelli IL MILAN ERA UN’UNIVERSITÀ Giovanni Galli VOLEVO MORIRE COME PAPÀ Sandro Mazzola POLVERE DI STELLA Beppe Signori 103 113 123 133 143 153 163 171 181 191 201 211 7 Amarcord GS 2015 LO SCUDETTO DI BAGNOLI Roberto Tricella ERO IL BELLO DI NOTTE Zibì Boniek IL TORO IN VERSI Claudio Sala PUNTURE DI SPILLO Alessandro Altobelli LA MIA JUVE MERIDIONALE Pietro Anastasi VI HO FATTO GODERE CON MARADONA Corrado Ferlaino PRINCIPE DI ROMA Giuseppe Giannini IL GENIO DI SACCHI Pietro Paolo Virdis CICCIO BELLO Giancarlo Marocchi SCUDETTO E LACRIME Luciano Chiarugii RE LUIS Luis Suarez 221 231 241 251 261 271 283 291 301 311 323 GS 2016 ALDO GRADIMENTO Aldo Biscardi ANGELO CUSTODE Angelo Peruzzi CUORE TORO Francesco Graziani 8 333 343 353 PREFAZIONE di Matteo Marani Ho voluto l’Amarcord come rubrica fissa nel Guerin Sportivo. Fin da quando mi fu affidata la direzione. L’ho voluto perché da amante – come tutti i guerinetti – del calcio Anni 70, 80 e 90, avevo voglia di tornare a respirare quelle atmosfere. L’ho imposto per dare una risposta adeguata a un pubblico appassionato di lettori, che vuole vivere il “pallone” in maniera differente da come viene generalmente raccontato. L’appuntamento costante con la storia non poteva mancare nel giornale che avevo in mente. Una rivista ben piantata nel presente, con lo sguardo rivolto al futuro, ma nel pieno rispetto della memoria e dei ricordi. Come da tradizione. Ho voluto l’Amarcord nel mio Guerino. E ho voluto che la rubrica la curasse Nicola Calzaretta, il nostro Steve Gerrard per l’affidabilità assoluta unita alla qualità. Uno di famiglia. Da sempre. Nato anche lui con il Guerin Sportivo nello zaino della scuola e dal 2002, grazie ad Andrea Aloi, arruolato nella fantastica schiera dei collaboratori (colonna portante del Guerino, un fenomeno tutto da studiare, unico nel suo genere). Sapevo che Nicola avrebbe tradotto al meglio quello che stavo cercando. Lo avevo seguito fin dall’inizio leggendo i suoi pezzi. Mi era piaciuto il taglio, lo stile, la ricchezza di particolari. E il rigore storico. Segno di grande competenza e preparazione. C’è gente che si occupa o che comincia a occuparsi di calcio, ma che non conosce la storia del calcio. È come volersi occupare di politica senza sapere chi è stato Flaminio Piccoli. Non si può. Allo stesso modo, secondo me, devi sapere chi è stato Scagnellato, altrimenti non puoi fare il giornalista di calcio. Molti si buttano, si inventano, ma il giornalismo è altra cosa. Al Guerino questo non può accadere. E non è mai accaduto. Con Nicola siamo partiti con rievocazioni di eventi e personaggi, ma il salto 9 Amarcord di qualità è maturato con le interviste, in coincidenza con il passaggio da settimanale a mensile. Era quella la strada giusta da seguire. Bisogna sempre relazionarsi con il proprio pubblico, e nello sport c’è il rischio di specchiarsi nei propri miti e fissazioni: puoi anche sapere tutto dell’Ascoli 78-79, ma se non la offri al lettore in una chiave intelligente e pop, poi non interessa. E’ necessario cucire le distanze, mescolare, emozionare. E far parlare i protagonisti. Liberamente. Durante la direzione Zazzaroni feci una serie di interviste ai vecchi Presidenti e intuii come si sentissero finalmente sciolti, liberi dai vincoli del presente. Parlavano a ruota libera: Farina arrivò a dire che aveva comprato un arbitro! Allora ho ripetuto l’esperimento, stavolta con gli ex allenatori, affidando la “pratica” a Nicola. Se la cavò benissimo. I protagonisti del passato se li ascolti oggi li fai sentire coinvolti. Si aprono, come se fosse una chiacchierata al bar, e in questo Nicola Calzaretta è insuperabile, ‘vivendo’ lui stesso ancora in quegli anni lì, ha ancora la spuma bionda sul tavolo mentre parla. Cucire le distanze del passato, cucire anche con il presente, ancora più difficile da raccontare e intervistare. Col tempo ho capito come sia più interessante un’intervista a un giocatore trentenne, rispetto a un giovane che non ha ancora una carriera alle spalle. Ma anche con calciatori affermati, bisogna saper fare le domande appropriate per farli dischiudere. L’intervista va preparata bene. Occorre studio, lavoro preparatorio, e quando sei lì essere sempre pronto a seguire l’imprevisto o il nuovo capitolo che si apre. 10 In breve, ma non avevo dubbi, l’Amarcord è diventata una rubrica amatissima dai lettori del Guerino e non solo. Mi viene da dire la più cara e amata della mia stagione al Guerino, in qualche modo riassunta proprio dalla rubrica di Calzaretta. Perché dentro ci sono verità, confidenze, bilanci, ricordi. Grazie alle parole dei personaggi che parlano di sé, della loro infanzia. Che raccontano la propria vita di uomini e di sportivi. Che rievocano un calcio che non c’è più, ridandoci quelle luci, quei sapori e quelle emozioni. E grazie anche a Nicola, capace di mettere a proprio agio i suoi interlocutori e di tirar fuori il meglio da ciascuno di loro. Con delicatezza e passione. Lunghe interviste, tanti aneddoti e curiosità. Una piccola miniera di ricordi che meritava di essere raccolta in un’antologia, come dissi anni fa a Nicola, suggerendogli l’idea del libro. E siamo già al secondo tempo. INTRODUZIONE Torniamo alla ricerca del calcio perduto. I primi quarantacinque minuti se ne sono andati. E anche l’intervallo è finito. Del thè caldo è rimasto solo l’odore e qualche scorza di limone sul pavimento. E’ ora di scendere nuovamente in campo. C’è il secondo tempo da giocare. L’altra metà della partita. Quella decisiva e definitiva. Torniamo alla ricerca del calcio perduto, dunque. Ancora una volta con il Guerin Sportivo. Su tutto e tutti c’è lui, il “Verdolino”. Non un semplice giornale. No, molto di più. Una comunità formata da chi lo scrive e chi lo legge. Un’esperienza unica nel panorama editoriale, non solo italiano. Da oltre cento anni. Un mezzo miracolo, in un mondo che ha visto crollare un po’ di tutto. Dalle ideologie alle Torri Gemelle. Il Guerino, dunque. Una costante. Sinomino di garanzia. Un monumento della fiducia nazional-popolare. Come Dino Zoff, i boy scout e i Pooh. Un fenomeno unico. Grazie a chi lo ha fondato che lo ha voluto libero e battagliero; moderno e brillante. E poi grazie a chi lo ha diretto nel rispetto di quei principi. Da Gianni Brera a Italo Cucci, da Marino Bartoletti a Paolo Facchinetti. Da Andrea Aloi a Matteo Marani che è stato bravissimo pilota del nuovo GS, quello mensile che il 4 gennaio 2012 ha tagliato il traguardo dei 100 anni. E ora tocca ad Alessandro Vocalelli. Il Guerino, si diceva. Una famiglia composta da redazione e guerinetti, il popolo dei lettori. E chi, tra quest’ultimi, non ha mai sognato di scriverci? Io, pur di esserci, per anni ho mandato annunci alla “Palestra dei lettori”! Compro-baratto-vendo... e siamo arrivati agli “Amarcord”. Il Guerino. Eccolo lì. Merito suo se gli intervistati hanno lasciato tracce importanti di sé. La voglia di raccontare e di raccontarsi. Il desiderio di togliere la polvere a vecchie foto appese sulle pareti o appoggiate sui mobili di casa. La volontà di ripercorrere con la memoria antiche traiettorie di vita. L’esigenza, talvolta, di svelare segreti pensieri, di ridare vita a speranze inespresse, di ringraziare, di chiedere scusa, di dire “come è andata veramente quella volta”. 11 Amarcord Emozione ed emozioni. Respirate, percepite, sentite, annusate. Condivise. Gli occhi luccicano. Le pupille si velano. Brividi sulla pelle. La voce raschia e le parole escono a fatica. Sportivi, calciatori, campioni. Ma prima e soprattutto, uomini. E donne. Come Fiora Gandolfi, la signora Herrera, moglie del Mago. Intelligenza, freschezza, ironia. E un sentimento d’amore ancora vivo e vitale per l’uomo della sua vita da tempo ormai seduto su una panchina in cielo. Incontri. Il Guerino mi ha regalato anche questo. La possibilità di incrociare la mia strada con quella di tanti campioni del nostro passato. Un’ora, due. Spesso in un bar. Talvolta tra le pareti domestiche, magari alla presenza di mogli che ascoltano compiaciute e che, in caso di necessità, intervengono con le proprie memorie. Incontri. Molte città. Roma e Milano principalmente. Ma anche Torino, Mantova, Udine, Napoli, Bologna, Como, Varese, Macerata, Arezzo. Tanti chilometri. Auto, treno. Ma soprattutto mille ricordi e la fortuna di avere avuto un’altra occasione di crescita. Incontri e fermi-immagine. Fiora e la sua casa a Venezia, mentre guarda fuori dalla finestra. E un pranzo preparato per l’ospite. Classe ed eleganza. Il sorriso sornione di Altafini. Osio e Pagliuca a San Lazzaro, dentro la pancia del Guerino, nella prima stanza vicino alla reception. Stessa location anche per Beppe Signori. Anima e cuore feriti. 12 Furino e il suo ufficio a Moncalieri, poi il ristorante e l’orgoglio di essere bianconero. Gianni Rivera e i suoi primi 70 anni. Con lo stile del fuoriclasse, bevendo un caffè nero e un bitter rosso. Semplicemente. Con Gigi Casiraghi ci siamo visti davanti al mare della Versilia. Stesso scenario con Cavallo Pazzo Chiarugi, un monumento di umanità. Mare anche con Ciccio Marocchi, ma era quello dell’Adriatico. Claudio Gentile e la morbidezza delle colline che si tuffano nel Lago di Como. Il caffè mattutino con Sebino Nela, tavolino all’aperto di un bar romano, inverno. Umido a secchiate. Tavolino fuori anche con Beppe Giannini, clima decisamente più mite. Pino Wilson incrociato negli studi Rai di Saxa Rubra, ospiti comuni di una trasmissione sportiva. Riccardo Ferri in un locale a Lodi, fuori faceva veramente freddo. Franco Causio tassista con la sua Smart a Udine, senza tassametro. Occhi lucidi nel ricordo di chi non c’è più e la preoccupazione di arrivare in orario alla stazione per non perdere il treno. La ruvida delicatezza di nonno Bonimba, che dopo l’intervista corre dalle nipotine. Il sorriso velato e zoppicante di Ezio Pascutti, idolo di Bologna. La simpatia partenopea di Totonno Juliano. Amarcord A casa sua. Sigarette e sorrisi, con Maradona sempre presente nei ricordi. Le gambe torte, ma veramente torte del campione del mondo Zambrotta. I cerotti e il mercurio cromo sul volto di Ravanelli, caduto dalla bici. Parlantina sciolta, Vialli, Lippi, la Champions e il fratello Andrea Fortunato, rapito al cielo troppo presto. La pineta versiliana come tetto per le confessioni di Giovanni Galli, negli occhi l’immagine del figlio Niccolò. Baffo Mazzola. A casa sua. Babbo Valentino sopra tutto. Volevo morire come lui. Madre mia. Commozione e brividi. Unico momento di freddezza quando svelo la mia fede juventina. Ma alla fine alla stazione mi accompagna lui. C’è anche chi lavora. Tricella mi riceve nel suo ufficio milanese dell’immobiliare di cui è socio. Zibì Boniek nello studio romano che condivide con altri professionisti. Alle 8.30 di mattina del 18 dicembre 2014. Ed è un fiume in piena, proprio come quando giocava. Bello di mattina, stavolta. Pietro Paolo Virdis mi dice di vedersi nel suo locale a Milano. Finita l’intervista, ricco pranzo e poco vino (devo guidare, mannaggia!) te slang italo-ispanico di Luisito Suarez e la prorompente vitalità mediatica di Aldo Biscardi: 85 anni e non sentirli. E il Guerino è lì, primo tra tutti con la sua torta di buon compleanno a festeggiare l’inventore de “lu Prociess”. “Amarcord”, dunque. “Io mi ricordo” , nel dialetto romagnolo. Mi ricordo perchè non si dimentichi. Per questo abbiamo deciso di aprire il secondo tempo di questa partita con l’omaggio alle vittime dell’Heysel. Il pezzo è quello apparso sul Guerino a trent’anni da quegli orribili fatti. Perchè nessuno dimentichi. E perchè sia reso il giusto omaggio a chi, familiari, amici, conoscenti, è rimasto a combattere per chi è caduto sotto la furia folle di bestie vestite da tifosi. Ci siamo. E’ veramente il momento di tornare in campo. E’ il momento di lasciarsi cullare dal ricordo e dalle emozioni. Memorie e racconti. Odori e sapori. Numeri e partite. Idee e speranze. Cuore e ragione. Arrivi e partenze. Timori e certezze. Incomprensioni e litigi. Albe e tramonti. Mare e monti. Oggi e domani. Perchè lo sguardo, che affonda le sue radici nel passato, è sempre e comunque rivolto al futuro. (n.c. - febbraio 2016) La poesia granata di Claudio Sala. Il ruggito buono di Spillo Altobelli. La malinconia sorridente di Pietro Anastasi. Le mani grandi di Angelo Peruzzi. La voglia di pallone di Ciccio Graziani, con e senza occhiali. Le mezze verità di Ferlaino. Il diverten13 Amarcord 24 Fiora Gandolfi Herrera LA DONNA DEL MAGO Una storia straordinaria. Lei è una giornalista che si occupa di letteratura. Lui il più famoso allenatore dell’epoca. Si incontrano per un’intervista. «E ci sono stata subito» ride Fiora Gandolfi. Che per la prima volta racconta tutto di Helenio Herrera. E lo fa dalla casa in cui molto si amarono V enezia. Tre minuti dal ponte di Rialto. Calli, sottoporteghi, piazzette. Quindi ponticello con pasticceria all’angolo, cancello in ferro, passerella in cemento. Campanello, terzo piano. Scale ampie e luminose, porta d’ingresso con specchi. Socchiusa. Si entra, il corridoio dà il primo assaggio di cosa sia la casa di Fiora Gandolfi, dal 1969 compagna di vita di Helenio Herrera, morto il 9 novembre 1997. Alla fine del corridoio, un’altra porta da cui si accede all’appartamento. Su un tavolino, delle ciabatte. «Chi viene qui dopo aver camminato molto» dice Fiora «magari con scarpe e piedi bagnati, deve poter stare comodo». Dentro è un trionfo di colori, profumi, quadri, specchi, affreschi, statue. E teli variopinti ovunque, a dare altre forme, toni e calore agli arredi, perfino al computer. La cucina è spettacolare, con la tavola già apparecchiata per gli ospiti di giornata e con le pentole sul fuoco. Ogni stanza ha una storia. Anzi, tutta la casa ha una storia, perché il punto in cui sorge è individuato come l’umbilicus urbis di Venezia, il centro della città, all’incrocio dei sestieri di San Marco, Cannaregio e Castello. Dalla vetrata che dà sul canale, Fiora indica la casa di Marco Polo, in realtà è solo leggenda. Si passa nello studio, Fiora è un vulcano: scrive, dipinge, partecipa a performance contro la violenza alle donne, lotta per la difesa della città. Sul divanetto, invece, ci sono foto in bianco e nero del Mago e ritagli di giornale. Da un astuccio, ecco spuntare delle calamite colorate usate per le tattiche sul tabellone magnetico che riproduceva il campo. E poi quaderni, appunti scritti con penna nera e rimarcati in rosso, firmati Helenio Herrera. Cosa bolle in pentola? «Sto preparando del materiale che servirà per una mostra che si terrà a Milano, a Palazzo Reale, dal 22 maggio. Si intitolerà “Il Mago e il Paron”. Cinquanta 25 GS Maggio 2013 - Fiora Gandolfi Herrera anni fa, nel 1963, Herrera vinceva il primo scudetto all’Inter, Rocco la Coppa dei Campioni con il Milan». Mi sembra un giusto tributo. «Non so se tutti la pensano così». In che senso? «Vedo una grande differenza tra Spagna e Italia. Club come l’Atlético Madrid, il Barcellona, perfino il Siviglia, dove Helenio non ha vinto nulla, hanno sempre dimostrato grande affetto e riconoscenza verso mio marito. Dall’Inter poco o nulla. Tempo fa avevo richiesto una spilla, niente. Ho inviato dei libri a Massimo Moratti e non ho ricevuto nessuna risposta». Come se lo spiega? «Non me lo spiego. Sarà questione di mentalità. Gli spagnoli saranno più arcaici, ma sono sicuramente più educati. Io penso che ci sia un po’ di invidia, sentimento che può annidarsi in persone fragili di carattere. Ma faccio mio uno dei motti di mio marito: nella vita ogni cosa negativa deve diventare positiva. E così sia». Quando ha incontrato la prima volta Herrera? «1969. Helenio allenava la Roma e io facevo la giornalista, mi sembra per Stampa Sera. Mi dissero di andare a intervistarlo. Di calcio non sapevo nulla e quelle che stavo facendo erano interviste a letterati. Ma Herrera era un personaggio che incuriosiva. Dicevano che aveva la dentiera e che portasse la parrucca, oltre che essere uno che parlava moltissimo». E invece? «Capelli veri, denti storti e una loquacità 26 ridotta all’osso. Ricordo un uomo molto educato e che stava sempre con le braccia conserte». La scintilla scoccò subito? «No. Vero che durante l’intervista ci fu un’atmosfera particolare, fu una situazione divertente, ma solo quello. I giornali, invece, fecero uscire all’istante la notizia del flirt. Mi battezzarono la “Dama rossa”. Grazie ad alcuni fotomontaggi apparvero le immagini di noi due che brindavamo a champagne. Tutto finto. La storia vera nacque un paio di mesi dopo». Chi chiamò per primo? «Io. Ero curiosa. Volevo conoscerlo meglio perché era una persona all’opposto di come mi era stata descritta. Questo mi aveva molto colpito. Ci siamo rivisti e ci sono stata subito (ride). Nonostante i vent’anni di differenza d’età e le precedenti esperienze (Herrera aveva già due matrimoni alle spalle e sei figli, ndr), ci siamo scoperti molto simili. Nessuna concessione alle frivolezze, niente fumo, né alcol, tutti e due un po’ fuori degli schemi. Una delle cose che ho subito amato di lui è che mi spiegò che le mie intuizioni riguardo alla vita erano giuste». A quel punto la storia è sulla bocca di tutti. «Fu un momento molto intenso. Una delle cose che ricordo con più piacere riguarda proprio il Guerin Sportivo che, nelle sue vignette, mi raffigurava in baby doll, mentre io sono sempre stata un tipo molto freddoloso e non ho mai indossato quell’indumento. Comunque sia, eravamo una coppia». GS Maggio 2013 - Fiora Gandolfi Herrera Fino al 1972 quando nasce Helios. «A cui segue, dopo il matrimonio a Parigi nel 1973, Luna, la nostra figlia adottiva che completa la famiglia». Perché Venezia? «Successe dopo l’infarto che colpì Helenio nel 1974, quando era tornato all’Inter dopo gli anni alla Roma. I medici gli consigliarono di trasferirsi in un luogo tranquillo con molto verde e molta acqua. Io sono veneta di origini, scegliemmo Venezia e per alcuni mesi abbiamo abitato su un’isola della laguna, Mazzorbetto-Toncello, accessibile solo con barca a remi, prima di venire qui. Il colpo, che non ebbe segnali premonitori, fu certamente causato dallo stress per le notizie che iniziavano a circolare sulla sua ex squadra, la Roma». Che tipo di notizie? «Che alcuni giocatori si vendevano le partite. Si parlava in particolare di un difensore e di un centrocampista. Ora Helenio si spiegava il perché di certe partite che lo avevano lasciato a bocca aperta, dubitando della salute mentale dei suoi giocatori. Lui voleva sempre vincere, era astuto, furbo, ma molto onesto. Quelle voci lo colpirono molto, si sentiva svuotato, tanto che il cuore gli tremò. Ma lui, come sempre, esaltò gli aspetti positivi». Che erano? «La prima cosa che disse: “Avrei potuto avere l’infarto sulle montagne, sarebbe stato sicuramente peggio”. E poi: “Che fortuna, adesso comincerò a vivere meglio, sarò meno esigente con me stesso”». Era davvero così esigente? «Moltissimo. Helenio voleva sempre il massimo, prima di tutti da se stesso. Una delle sue frasi era: “Chi non dà tutto, non dà niente”. Si alzava molto presto, faceva un’ora di yoga, nudo, con le finestre aperte, anche d’inverno. Lavorava tanto, studiava, leggeva, riempiva quaderni di appunti. A tavola, poi, era maniacale, la sua dieta era ferrea: yogurt, miele, frutta secca. Nessun grasso. Poi niente fumo, né alcol. E molte passeggiate, possibilmente lungo i corsi d’acqua perché, diceva, il fluire dell’acqua favorisce il fluire dei pensieri. Quando abitavamo a Roma, andava spesso sul Lungotevere, anche quando doveva decidere la formazione». Se dovesse dare una definizione di Herrera allenatore, che parole userebbe? «Un grande scienziato e un grande monaco». Interessante. Partirei dal grande scienziato. «E io partirei dalla infanzia di Helenio e dalla sua formazione culturale, perché lì sta la base di tutto. Con una curiosa premessa circa il suo anno di nascita che, soltanto nel 1999, ho scoperto essere il 1910. I passaporti riportano “Buenos Aires, 16 aprile 1916”, ma il certificato di nascita che ho avuto dopo la morte, reca il 1910. Posso immaginare che quando è andato ad allenare in Spagna, alla fine degli anni Quaranta, per un errore di trascrizione lo 0 sia diventato 6 e che lui, per evitare scartoffie e per vanità, non l’abbia corretto». Molto bene. Retrodatiamo il racconto di sei anni e ripartiamo da lì. «Il padre di Helenio, Francisco, è un anarchico andaluso che, non trovando fortuna in Argentina, nel 1920 emigra a 27 GS Maggio 2013 - Fiora Gandolfi Herrera Casablanca. Il trasferimento in Marocco favorisce il suo essere “straniero” e il suo pluralismo linguistico: in famiglia lo spagnolo, a scuola il francese e per le strade, la sua vera università, un misto di idiomi tra cui l’arabo, l’inglese e l’italiano. Questa è la base della sua formazione, che gli consentirà di farsi chiamare Mago dai suoi compagni di squadra». Non sapevo che l’origine del soprannome fosse questa. «Nelle sue prime esperienze di calciatore, in Francia agli inizi degli anni Trenta, specie contro squadre spagnole o africane, Helenio era in grado di capire cosa si dicevano gli avversari e di prendere le contromosse, suscitando lo stupore di tutti. Per questo lo chiamarono Mago, perché la sua era percepita come una magia». Bene: primo elemento la conoscenza delle lingue. E poi? «Lo studio e la formazione. Già durante l’attività di calciatore aveva messo in atto il beton (quello che da noi si chiamerà catenaccio, ndr), un’evoluzione tattica. Quindi prende il diploma di massaggiatore, ma già con l’idea di insegnare calcio. Helenio è stato un precursore. Viaggiava molto. Dopo la Francia, ha allenato in Spagna, quindi in Italia. Ha introdotto il concetto di velocità. Studiava gli avversari per preparare al meglio le partite. In epoche in cui non c’erano immagini, andava personalmente a visionare i rivali. Ai suoi ragazzi spesso consegnava la foto dell’avversario diretto da tenere sul comodino per memorizzarne le fattezze». E poi scriveva molto. 28 «Ha riempito migliaia di pagine di appunti, spesso su cartoncini rigidi, tutti vergati di nero, con il rosso usato come un evidenziatore. Curiosa la lingua, un fantastico miscuglio di spagnolo, francese e italiano. Alcuni dei diari li consegnai a Giacinto Facchetti quando Helenio morì. Era metodico, escogitava cose che non erano state inventate, differenziava gli allenamenti. Senza dimenticare le novità nel campo dell’alimentazione, l’introduzione delle tecniche di rilassamento e l’uso della psicologia». Credo si possa dire che Herrera ha innovato la figura dell’allenatore. «Direi che le ha dato dignità e prestigio. Prima di lui, l’allenatore in Spagna veniva chiamato “maletero”, porta borse. Figuriamoci. Helenio ha sicuramente fatto fare un grande salto di qualità all’intera categoria». Anche dal lato economico. «Lui diceva: “La puttana più cara è la più bella”. Oppure: “Sono i soldi che fanno il valore di una persona”. Ha sempre preteso il massimo. E lo ha ottenuto. Ma non una lira in più di quelle pattuite. Non è mai andato alla ricerca del soldo facile o sporco. Per questo, anche per questo, rimase di sale quando seppe cosa gli combinavano a Roma i suoi giocatori». Sul peso che dava ai soldi ha inciso la sua infanzia povera? «Può darsi. Fin da bambino ha lavorato molto, anche durante i primi anni da calciatore in Francia. Poi c’è il ricordo della madre che stava per affogare e per il cui salvataggio gli arabi vollero essere pagati in anticipo. Su cosa significasse il GS Maggio 2013 - Fiora Gandolfi Herrera denaro e che effetti avesse per lui, posso raccontare cosa successe nel 1970 quando vicino Firenze facemmo un brutto incidente con la nostra Mercedes». Il verbale è aperto. «Ci schiantammo contro il guard-rail, io rimasi in macchina, lui era disteso in mezzo all’asfalto. Riesco a trascinarlo sul ciglio della strada. È semicosciente, ripete in continuazione alcune frasi. Ambulanza, ospedale e l’infermiera inizia a spogliarlo. Gli prende i pantaloni e lui, all’istante, si sblocca. Mi guarda e mi fa: “Fiora, attention, l’argènt”. Con me parlava in francese, ma quel che conta è che si risvegliò al pensiero che qualcuno potesse portagli via i soldi che teneva nei pantaloni. Fu così che riprese perfettamente conoscenza». Giriamo pagina e andiamo alla seconda parte della definizione: grande monaco. «La sua era una vita monastica, a parte le donne». Ne vogliamo parlare di questo aspetto? «Con molta serenità, anche perché l’ho capito tardi e, comunque, da un certo punto in poi, con l’avanzare dell’età, per me Helenio era diventato come un figlio. Perfino negli ultimi momenti di vita ha voluto che gli leggessi una delle lettere d’amore di una sua spasimante. Andava spesso via. Non diceva mai nulla. Poi, comunque, tornava sempre a casa». Ma lei non era gelosa? «Lui era gelosissimo di me. Una volta si azzardò ad aprire una mia lettera che era del tutto innocua. Allora io ne prendo una delle sue. Fu sfortunato quella volta: pensa, era tornata indietro una sua lettera perché era sbagliato l’indirizzo della destinataria (ride). Per non dire del negozio di profumi vicino alla Scala a Milano». Diciamolo. «Un giorno entro nella profumeria e ricevo un sacco di complimenti: “Che carino suo marito, ogni vota che viene qui le compra un profumo”. Non ne ho visto nemmeno uno. Helenio è stato un uomo inafferrabile, irriducibile, un dongiovanni della vita. Ma tutto questo non ha intaccato il nostro amore. E il mio per lui. Ma torniamo adesso al concetto di monaco». Benissimo, da dove si riparte? «Da Ignazio di Loyola, il fondatore dei Gesuiti, e dai suoi scritti». Ma Helenio non era ateo? «Nessuno in casa sua era battezzato. Ciò non toglie che possa aver tratto spunti da uomini di fede per la sua formazione professionale. Per esempio lui era molto attratto dalle Chiese, che con il loro silenzio erano il luogo migliore per la meditazione». Come è che Herrera legge Ignazio di Loyola? «In verità fu frutto del caso. Siamo nel 1958, all’epoca Helenio allena il Barcellona ed è ricoverato in ospedale per una frattura. Sul comodino trova un libro del santo in cui si parla degli esercizi spirituali. Helenio fu catturato dal personaggio e da quel che scriveva. Fu così che ebbe l’intuizione di applicare, anche al mondo del calcio, l’idea del ritiro monastico». Che si chiamò semplicemente ritiro. 29 GS Maggio 2013 - Fiora Gandolfi Herrera «Lo ha inventato Helenio. Quella era la giusta strada per trovare la concentrazione, per prepararsi al meglio, per respirare aria sana, dato che il luogo doveva essere immerso nel verde, nel silenzio, vicino a un corso d’acqua. Il ritiro poi favoriva l’unione tra i compagni di squadra, uno dei principi base del Mago. Per questo usava tutta una serie di accorgimenti e di trovate, tra cui l’abbraccio collettivo prima di iniziare la partita. Anche in questo campo è stato un geniale innovatore, inventando formule che sono diventate un mantra». Come “Taca la bala”? «Un abracadabra dal valore magico che nasconde un piccolo segreto. Tutti credono che sia un’espressione ispanica. Invece è un ibrido. Quando Helenio arrivò all’Inter, trovò diversi giocatori di origine veneta. Per loro il pallone era la “bala” e lui pensò che così si chiamasse la pelota in italiano. Taca la bala, attacca il pallone: una frase secca, un comando essenziale. Ma non c’era solo questo». Si riferisce ai cartelli appesi nello spogliatoio? «Helenio non era superstizioso, anzi odiava chi lo era. Semmai aveva un incredibile carisma. Lui credeva moltissimo in se stesso e in quel che faceva. E ne era così convinto che riusciva a trasmettere anche agli altri le sue verità. Quella dei cartelli era una soluzione efficace, che lui aveva già applicato in Spagna e che replicò all’Inter. Con una sfumatura interessante da svelare». Di che si tratta? «Al Siviglia, i cartelli si attagliavano alla nobile psicologia andalusa o all’eroi30 cità: “Se pierde solo cuando se deja de luchar”, cioè “Si perde solo quando si smette di lottare”. Oppure: “Sea noble” ossia “Gioca con correttezza, eleganza e generosità”». E all’Inter, invece? «A Milano, i cartelli tenevano conto dello spirito pratico dei lombardi, più legato ai numeri che alla filosofia. C’era questo: “Difesa: non più di 30 goals. Attacco: Più di 100 goals”. Se non addirittura un’operazione aritmetica: “Classe + preparazione atletica + intelligenza = Scudetto”. A una cosa sola non pensò Helenio». A cosa? «Al fatto che qualcuno in Italia lo avrebbe tacciato di fascismo. Una grande stupidaggine. Primo per le sue origini anarcoidi, secondo perché che ne sapeva lui di cosa era successo trent’anni prima in Italia?». A ogni modo, i messaggi coglievano nel segno. «Così come andavano a bersaglio anche altri suoi trucchi. Una volta quando era al Barcellona, prima di una partita in trasferta, con il pubblico di casa inferocito, si mise un impermeabile bianco, andò sul terreno di gioco e fece tre o quattro volte il giro del campo. Gli tirarono di tutto, insieme a offese di ogni tipo. Poi tornò negli spogliatoi e disse ai suoi ragazzi: “Los he dejados roncos!” (Li ho lasciati rauchi!)». Poi cos’altro escogitava? «Riusciva a trasformare un normale giocatore in un fuoriclasse. Anche questa è magia. Con i calciatori parlava a quattr’occhi, erano delle confessioni. La sto-