Alla ricerca del calcio perduto

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Alla ricerca del calcio perduto
Nicola Calzaretta
Alla ricerca del
calcio perduto
Secondo tempo
“Alla ricerca del calcio perduto. Secondo tempo”
di Nicola Calzaretta
Illustrazione in copertina
Federico Penco
Impaginazione
Ciaba
Coordinamento editoriale
Paolo Castellano
Giovanni Ferraro
Marco Castellano
Redazione
Chiara Cini
isbn 9788899245085
© Dockbook srl
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via D. Cavalca, 65 - 56126 Pisa
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senza espressa autorizzazione degli aventi diritto.
INDICE
Prefazione di Matteo Marani
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Introduzione 11
ROMANZO DI UNA STRAGE 15
AMARCORD 23
GS 2013
LA DONNA DEL MAGO Fiora Gandolfi Herrera
LE RETI DI WEMBLEY José Altafini
IO, SINDACO DI PARMA Marco Osio
LA MIA FAVOLA IN BIANCONERO Giuseppe Furino
RIVERA 70 Gianni Rivera
ZEMAN CHE SPETTACOLO Pierluigi Casiraghi
PAGL1UCA Gianluca Pagliuca
IO, L’INCUBO DI MARADONA Claudio Gentile
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GS 2014
HO LA ROMA NEL CUORE Sebastiano Nela
HO LOTTATO COME PAPÀ Riccardo Ferri
FASCIA PROTETTA Franco Causio
LA MAGLIA DELLA MIA VITA Roberto Boninsegna
LO SCUDETTO DEL MIO BOLOGNA Ezio Pascutti
SCUDETTO E PALLOTTOLE Pino Wilson
EMOZIONE UNICA Gianluca Zambrotta
IO, NAPOLETANO ATIPICO Antonio Juliano
QUANDO ERO PENNA BIANCA Fabrizio Ravanelli
IL MILAN ERA UN’UNIVERSITÀ Giovanni Galli
VOLEVO MORIRE COME PAPÀ Sandro Mazzola
POLVERE DI STELLA Beppe Signori
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181
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201
211
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Amarcord
GS 2015
LO SCUDETTO DI BAGNOLI Roberto Tricella
ERO IL BELLO DI NOTTE Zibì Boniek
IL TORO IN VERSI Claudio Sala
PUNTURE DI SPILLO Alessandro Altobelli
LA MIA JUVE MERIDIONALE Pietro Anastasi
VI HO FATTO GODERE CON MARADONA Corrado Ferlaino
PRINCIPE DI ROMA Giuseppe Giannini
IL GENIO DI SACCHI Pietro Paolo Virdis
CICCIO BELLO Giancarlo Marocchi
SCUDETTO E LACRIME Luciano Chiarugii
RE LUIS Luis Suarez
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231
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291
301
311
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GS 2016
ALDO GRADIMENTO Aldo Biscardi
ANGELO CUSTODE Angelo Peruzzi
CUORE TORO Francesco Graziani
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333
343
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PREFAZIONE
di Matteo Marani
Ho voluto l’Amarcord come rubrica fissa nel Guerin Sportivo. Fin da quando
mi fu affidata la direzione. L’ho voluto
perché da amante – come tutti i guerinetti – del calcio Anni 70, 80 e 90, avevo
voglia di tornare a respirare quelle atmosfere. L’ho imposto per dare una risposta
adeguata a un pubblico appassionato di
lettori, che vuole vivere il “pallone” in
maniera differente da come viene generalmente raccontato. L’appuntamento
costante con la storia non poteva mancare nel giornale che avevo in mente.
Una rivista ben piantata nel presente,
con lo sguardo rivolto al futuro, ma nel
pieno rispetto della memoria e dei ricordi. Come da tradizione.
Ho voluto l’Amarcord nel mio Guerino.
E ho voluto che la rubrica la curasse Nicola Calzaretta, il nostro Steve Gerrard
per l’affidabilità assoluta unita alla qualità. Uno di famiglia. Da sempre. Nato
anche lui con il Guerin Sportivo nello
zaino della scuola e dal 2002, grazie ad
Andrea Aloi, arruolato nella fantastica
schiera dei collaboratori (colonna portante del Guerino, un fenomeno tutto
da studiare, unico nel suo genere). Sapevo che Nicola avrebbe tradotto al
meglio quello che stavo cercando. Lo
avevo seguito fin dall’inizio leggendo i
suoi pezzi. Mi era piaciuto il taglio, lo
stile, la ricchezza di particolari. E il rigore storico. Segno di grande competenza
e preparazione. C’è gente che si occupa
o che comincia a occuparsi di calcio, ma
che non conosce la storia del calcio. È
come volersi occupare di politica senza
sapere chi è stato Flaminio Piccoli. Non
si può. Allo stesso modo, secondo me,
devi sapere chi è stato Scagnellato, altrimenti non puoi fare il giornalista di
calcio. Molti si buttano, si inventano, ma
il giornalismo è altra cosa. Al Guerino
questo non può accadere. E non è mai
accaduto.
Con Nicola siamo partiti con rievocazioni di eventi e personaggi, ma il salto
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Amarcord
di qualità è maturato con le interviste,
in coincidenza con il passaggio da settimanale a mensile. Era quella la strada
giusta da seguire. Bisogna sempre relazionarsi con il proprio pubblico, e nello
sport c’è il rischio di specchiarsi nei propri miti e fissazioni: puoi anche sapere
tutto dell’Ascoli 78-79, ma se non la offri al lettore in una chiave intelligente e
pop, poi non interessa. E’ necessario cucire le distanze, mescolare, emozionare.
E far parlare i protagonisti.
Liberamente. Durante la direzione Zazzaroni feci una serie di interviste ai vecchi Presidenti e intuii come si sentissero
finalmente sciolti, liberi dai vincoli del
presente. Parlavano a ruota libera: Farina arrivò a dire che aveva comprato un
arbitro! Allora ho ripetuto l’esperimento,
stavolta con gli ex allenatori, affidando la
“pratica” a Nicola. Se la cavò benissimo.
I protagonisti del passato se li ascolti
oggi li fai sentire coinvolti. Si aprono,
come se fosse una chiacchierata al bar, e
in questo Nicola Calzaretta è insuperabile, ‘vivendo’ lui stesso ancora in quegli
anni lì, ha ancora la spuma bionda sul
tavolo mentre parla. Cucire le distanze
del passato, cucire anche con il presente,
ancora più difficile da raccontare e intervistare. Col tempo ho capito come sia
più interessante un’intervista a un giocatore trentenne, rispetto a un giovane che
non ha ancora una carriera alle spalle.
Ma anche con calciatori affermati, bisogna saper fare le domande appropriate
per farli dischiudere. L’intervista va preparata bene. Occorre studio, lavoro preparatorio, e quando sei lì essere sempre
pronto a seguire l’imprevisto o il nuovo
capitolo che si apre.
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In breve, ma non avevo dubbi, l’Amarcord è diventata una rubrica amatissima
dai lettori del Guerino e non solo. Mi
viene da dire la più cara e amata della mia stagione al Guerino, in qualche
modo riassunta proprio dalla rubrica di
Calzaretta. Perché dentro ci sono verità,
confidenze, bilanci, ricordi. Grazie alle
parole dei personaggi che parlano di sé,
della loro infanzia. Che raccontano la
propria vita di uomini e di sportivi. Che
rievocano un calcio che non c’è più, ridandoci quelle luci, quei sapori e quelle emozioni. E grazie anche a Nicola,
capace di mettere a proprio agio i suoi
interlocutori e di tirar fuori il meglio da
ciascuno di loro. Con delicatezza e passione.
Lunghe interviste, tanti aneddoti e curiosità. Una piccola miniera di ricordi
che meritava di essere raccolta in un’antologia, come dissi anni fa a Nicola, suggerendogli l’idea del libro. E siamo già al
secondo tempo.
INTRODUZIONE
Torniamo alla ricerca del calcio perduto. I primi quarantacinque minuti se ne
sono andati. E anche l’intervallo è finito.
Del thè caldo è rimasto solo l’odore e
qualche scorza di limone sul pavimento. E’ ora di scendere nuovamente in
campo. C’è il secondo tempo da giocare.
L’altra metà della partita. Quella decisiva e definitiva.
Torniamo alla ricerca del calcio perduto,
dunque. Ancora una volta con il Guerin
Sportivo. Su tutto e tutti c’è lui, il “Verdolino”. Non un semplice giornale. No,
molto di più. Una comunità formata da
chi lo scrive e chi lo legge. Un’esperienza
unica nel panorama editoriale, non solo
italiano. Da oltre cento anni. Un mezzo miracolo, in un mondo che ha visto
crollare un po’ di tutto. Dalle ideologie
alle Torri Gemelle.
Il Guerino, dunque. Una costante. Sinomino di garanzia. Un monumento della
fiducia nazional-popolare. Come Dino
Zoff, i boy scout e i Pooh. Un fenomeno
unico. Grazie a chi lo ha fondato che lo
ha voluto libero e battagliero; moderno e
brillante. E poi grazie a chi lo ha diretto
nel rispetto di quei principi. Da Gianni
Brera a Italo Cucci, da Marino Bartoletti a Paolo Facchinetti. Da Andrea Aloi a
Matteo Marani che è stato bravissimo
pilota del nuovo GS, quello mensile che
il 4 gennaio 2012 ha tagliato il traguardo dei 100 anni. E ora tocca ad Alessandro Vocalelli.
Il Guerino, si diceva. Una famiglia composta da redazione e guerinetti, il popolo
dei lettori. E chi, tra quest’ultimi, non ha
mai sognato di scriverci? Io, pur di esserci, per anni ho mandato annunci alla
“Palestra dei lettori”! Compro-baratto-vendo... e siamo arrivati agli “Amarcord”.
Il Guerino. Eccolo lì. Merito suo se gli
intervistati hanno lasciato tracce importanti di sé. La voglia di raccontare e
di raccontarsi. Il desiderio di togliere la
polvere a vecchie foto appese sulle pareti o appoggiate sui mobili di casa. La
volontà di ripercorrere con la memoria
antiche traiettorie di vita. L’esigenza, talvolta, di svelare segreti pensieri, di ridare
vita a speranze inespresse, di ringraziare,
di chiedere scusa, di dire “come è andata
veramente quella volta”.
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Amarcord
Emozione ed emozioni.
Respirate, percepite, sentite, annusate.
Condivise. Gli occhi luccicano. Le pupille si velano. Brividi sulla pelle. La voce
raschia e le parole escono a fatica. Sportivi, calciatori, campioni. Ma prima e soprattutto, uomini. E donne. Come Fiora
Gandolfi, la signora Herrera, moglie del
Mago. Intelligenza, freschezza, ironia.
E un sentimento d’amore ancora vivo e
vitale per l’uomo della sua vita da tempo
ormai seduto su una panchina in cielo.
Incontri. Il Guerino mi ha regalato anche questo. La possibilità di incrociare la
mia strada con quella di tanti campioni
del nostro passato. Un’ora, due. Spesso
in un bar. Talvolta tra le pareti domestiche, magari alla presenza di mogli che
ascoltano compiaciute e che, in caso di
necessità, intervengono con le proprie
memorie.
Incontri. Molte città. Roma e Milano principalmente. Ma anche Torino, Mantova, Udine, Napoli, Bologna,
Como, Varese, Macerata, Arezzo. Tanti
chilometri. Auto, treno. Ma soprattutto
mille ricordi e la fortuna di avere avuto
un’altra occasione di crescita.
Incontri e fermi-immagine.
Fiora e la sua casa a Venezia, mentre
guarda fuori dalla finestra. E un pranzo
preparato per l’ospite. Classe ed eleganza.
Il sorriso sornione di Altafini.
Osio e Pagliuca a San Lazzaro, dentro la
pancia del Guerino, nella prima stanza
vicino alla reception. Stessa location anche per Beppe Signori. Anima e cuore
feriti.
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Furino e il suo ufficio a Moncalieri, poi
il ristorante e l’orgoglio di essere bianconero.
Gianni Rivera e i suoi primi 70 anni.
Con lo stile del fuoriclasse, bevendo un
caffè nero e un bitter rosso. Semplicemente.
Con Gigi Casiraghi ci siamo visti davanti al mare della Versilia. Stesso scenario con Cavallo Pazzo Chiarugi, un
monumento di umanità. Mare anche
con Ciccio Marocchi, ma era quello
dell’Adriatico.
Claudio Gentile e la morbidezza delle
colline che si tuffano nel Lago di Como.
Il caffè mattutino con Sebino Nela, tavolino all’aperto di un bar romano, inverno. Umido a secchiate. Tavolino fuori
anche con Beppe Giannini, clima decisamente più mite.
Pino Wilson incrociato negli studi Rai
di Saxa Rubra, ospiti comuni di una
trasmissione sportiva. Riccardo Ferri in
un locale a Lodi, fuori faceva veramente
freddo.
Franco Causio tassista con la sua Smart
a Udine, senza tassametro. Occhi lucidi
nel ricordo di chi non c’è più e la preoccupazione di arrivare in orario alla stazione per non perdere il treno.
La ruvida delicatezza di nonno Bonimba, che dopo l’intervista corre dalle
nipotine. Il sorriso velato e zoppicante
di Ezio Pascutti, idolo di Bologna. La
simpatia partenopea di Totonno Juliano.
Amarcord
A casa sua. Sigarette e sorrisi, con Maradona sempre presente nei ricordi.
Le gambe torte, ma veramente torte
del campione del mondo Zambrotta. I
cerotti e il mercurio cromo sul volto di
Ravanelli, caduto dalla bici. Parlantina
sciolta, Vialli, Lippi, la Champions e il
fratello Andrea Fortunato, rapito al cielo troppo presto.
La pineta versiliana come tetto per le
confessioni di Giovanni Galli, negli occhi l’immagine del figlio Niccolò.
Baffo Mazzola. A casa sua. Babbo Valentino sopra tutto. Volevo morire come
lui. Madre mia. Commozione e brividi.
Unico momento di freddezza quando
svelo la mia fede juventina. Ma alla fine
alla stazione mi accompagna lui.
C’è anche chi lavora. Tricella mi riceve
nel suo ufficio milanese dell’immobiliare di cui è socio. Zibì Boniek nello studio romano che condivide con altri professionisti. Alle 8.30 di mattina del 18
dicembre 2014. Ed è un fiume in piena,
proprio come quando giocava. Bello di
mattina, stavolta. Pietro Paolo Virdis mi
dice di vedersi nel suo locale a Milano.
Finita l’intervista, ricco pranzo e poco
vino (devo guidare, mannaggia!)
te slang italo-ispanico di Luisito Suarez
e la prorompente vitalità mediatica di
Aldo Biscardi: 85 anni e non sentirli. E
il Guerino è lì, primo tra tutti con la sua
torta di buon compleanno a festeggiare
l’inventore de “lu Prociess”.
“Amarcord”, dunque. “Io mi ricordo” ,
nel dialetto romagnolo. Mi ricordo perchè non si dimentichi. Per questo abbiamo deciso di aprire il secondo tempo di
questa partita con l’omaggio alle vittime
dell’Heysel. Il pezzo è quello apparso
sul Guerino a trent’anni da quegli orribili fatti. Perchè nessuno dimentichi. E
perchè sia reso il giusto omaggio a chi,
familiari, amici, conoscenti, è rimasto a
combattere per chi è caduto sotto la furia folle di bestie vestite da tifosi.
Ci siamo. E’ veramente il momento di
tornare in campo. E’ il momento di lasciarsi cullare dal ricordo e dalle emozioni. Memorie e racconti. Odori e sapori. Numeri e partite. Idee e speranze.
Cuore e ragione. Arrivi e partenze. Timori e certezze. Incomprensioni e litigi.
Albe e tramonti. Mare e monti. Oggi e
domani. Perchè lo sguardo, che affonda
le sue radici nel passato, è sempre e comunque rivolto al futuro.
(n.c. - febbraio 2016)
La poesia granata di Claudio Sala. Il
ruggito buono di Spillo Altobelli. La
malinconia sorridente di Pietro Anastasi. Le mani grandi di Angelo Peruzzi.
La voglia di pallone di Ciccio Graziani,
con e senza occhiali.
Le mezze verità di Ferlaino. Il diverten13
Amarcord
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Fiora Gandolfi Herrera
LA DONNA DEL MAGO
Una storia straordinaria. Lei è una giornalista che si occupa di letteratura.
Lui il più famoso allenatore dell’epoca. Si incontrano per un’intervista. «E
ci sono stata subito» ride Fiora Gandolfi. Che per la prima volta racconta
tutto di Helenio Herrera. E lo fa dalla casa in cui molto si amarono
V
enezia. Tre minuti dal ponte
di Rialto. Calli, sottoporteghi,
piazzette. Quindi ponticello con
pasticceria all’angolo, cancello in ferro,
passerella in cemento. Campanello, terzo piano. Scale ampie e luminose, porta
d’ingresso con specchi. Socchiusa. Si
entra, il corridoio dà il primo assaggio
di cosa sia la casa di Fiora Gandolfi, dal
1969 compagna di vita di
Helenio Herrera, morto il 9 novembre
1997. Alla fine del corridoio, un’altra
porta da cui si accede all’appartamento.
Su un tavolino, delle ciabatte. «Chi viene
qui dopo aver camminato molto» dice
Fiora «magari con scarpe e piedi bagnati, deve poter stare comodo». Dentro
è un trionfo di colori, profumi, quadri,
specchi, affreschi, statue. E teli variopinti ovunque, a dare altre forme, toni e calore agli arredi, perfino al computer. La
cucina è spettacolare, con la tavola già
apparecchiata per gli ospiti di giornata
e con le pentole sul fuoco. Ogni stanza
ha una storia. Anzi, tutta la casa ha una
storia, perché il punto in cui sorge è
individuato come l’umbilicus urbis di
Venezia, il centro della città, all’incrocio
dei sestieri di San Marco, Cannaregio
e Castello. Dalla vetrata che dà sul canale, Fiora indica la casa di Marco Polo,
in realtà è solo leggenda. Si passa nello
studio, Fiora è un vulcano: scrive, dipinge, partecipa a performance contro la
violenza alle donne, lotta per la difesa
della città. Sul divanetto, invece, ci sono
foto in bianco e nero del Mago e ritagli
di giornale. Da un astuccio, ecco spuntare delle calamite colorate usate per le
tattiche sul tabellone magnetico che riproduceva il campo. E poi quaderni, appunti scritti con penna nera e rimarcati
in rosso, firmati Helenio Herrera.
Cosa bolle in pentola?
«Sto preparando del materiale che servirà per una mostra che si terrà a Milano,
a Palazzo Reale, dal 22 maggio. Si intitolerà “Il Mago e il Paron”. Cinquanta
25
GS Maggio 2013 - Fiora Gandolfi Herrera
anni fa, nel 1963, Herrera vinceva il primo scudetto all’Inter, Rocco la Coppa
dei Campioni con il Milan».
Mi sembra un giusto tributo.
«Non so se tutti la pensano così».
In che senso?
«Vedo una grande differenza tra Spagna
e Italia. Club come l’Atlético Madrid, il
Barcellona, perfino il Siviglia, dove Helenio non ha vinto nulla, hanno sempre
dimostrato grande affetto e riconoscenza verso mio marito. Dall’Inter poco o
nulla. Tempo fa avevo richiesto una spilla, niente. Ho inviato dei libri a Massimo Moratti e non ho ricevuto nessuna
risposta».
Come se lo spiega?
«Non me lo spiego. Sarà questione di
mentalità. Gli spagnoli saranno più arcaici, ma sono sicuramente più educati.
Io penso che ci sia un po’ di invidia, sentimento che può annidarsi in persone
fragili di carattere. Ma faccio mio uno
dei motti di mio marito: nella vita ogni
cosa negativa deve diventare positiva. E
così sia».
Quando ha incontrato la prima volta
Herrera?
«1969. Helenio allenava la Roma e io
facevo la giornalista, mi sembra per
Stampa Sera. Mi dissero di andare a intervistarlo. Di calcio non sapevo nulla e
quelle che stavo facendo erano interviste
a letterati. Ma Herrera era un personaggio che incuriosiva. Dicevano che aveva
la dentiera e che portasse la parrucca,
oltre che essere uno che parlava moltissimo».
E invece?
«Capelli veri, denti storti e una loquacità
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ridotta all’osso. Ricordo un uomo molto
educato e che stava sempre con le braccia conserte».
La scintilla scoccò subito?
«No. Vero che durante l’intervista ci
fu un’atmosfera particolare, fu una situazione divertente, ma solo quello. I
giornali, invece, fecero uscire all’istante
la notizia del flirt. Mi battezzarono la
“Dama rossa”. Grazie ad alcuni fotomontaggi apparvero le immagini di noi
due che brindavamo a champagne. Tutto finto. La storia vera nacque un paio di
mesi dopo».
Chi chiamò per primo?
«Io. Ero curiosa. Volevo conoscerlo meglio perché era una persona all’opposto
di come mi era stata descritta. Questo
mi aveva molto colpito. Ci siamo rivisti
e ci sono stata subito (ride). Nonostante
i vent’anni di differenza d’età e le precedenti esperienze (Herrera aveva già
due matrimoni alle spalle e sei figli, ndr),
ci siamo scoperti molto simili. Nessuna
concessione alle frivolezze, niente fumo,
né alcol, tutti e due un po’ fuori degli
schemi. Una delle cose che ho subito
amato di lui è che mi spiegò che le mie
intuizioni riguardo alla vita erano giuste».
A quel punto la storia è sulla bocca
di tutti.
«Fu un momento molto intenso. Una
delle cose che ricordo con più piacere
riguarda proprio il Guerin Sportivo che,
nelle sue vignette, mi raffigurava in
baby doll, mentre io sono sempre stata
un tipo molto freddoloso e non ho mai
indossato quell’indumento. Comunque
sia, eravamo una coppia».
GS Maggio 2013 - Fiora Gandolfi Herrera
Fino al 1972 quando nasce Helios.
«A cui segue, dopo il matrimonio a Parigi nel 1973, Luna, la nostra figlia adottiva che completa la famiglia».
Perché Venezia?
«Successe dopo l’infarto che colpì
Helenio nel 1974, quando era tornato all’Inter dopo gli anni alla Roma. I
medici gli consigliarono di trasferirsi in
un luogo tranquillo con molto verde e
molta acqua. Io sono veneta di origini,
scegliemmo Venezia e per alcuni mesi
abbiamo abitato su un’isola della laguna,
Mazzorbetto-Toncello, accessibile solo
con barca a remi, prima di venire qui. Il
colpo, che non ebbe segnali premonitori,
fu certamente causato dallo stress per le
notizie che iniziavano a circolare sulla
sua ex squadra, la Roma».
Che tipo di notizie?
«Che alcuni giocatori si vendevano le
partite. Si parlava in particolare di un difensore e di un centrocampista. Ora Helenio si spiegava il perché di certe partite
che lo avevano lasciato a bocca aperta,
dubitando della salute mentale dei suoi
giocatori. Lui voleva sempre vincere, era
astuto, furbo, ma molto onesto. Quelle
voci lo colpirono molto, si sentiva svuotato, tanto che il cuore gli tremò. Ma lui,
come sempre, esaltò gli aspetti positivi».
Che erano?
«La prima cosa che disse: “Avrei potuto
avere l’infarto sulle montagne, sarebbe
stato sicuramente peggio”. E poi: “Che
fortuna, adesso comincerò a vivere meglio, sarò meno esigente con me stesso”».
Era davvero così esigente?
«Moltissimo. Helenio voleva sempre il
massimo, prima di tutti da se stesso. Una
delle sue frasi era: “Chi non dà tutto, non
dà niente”. Si alzava molto presto, faceva un’ora di yoga, nudo, con le finestre
aperte, anche d’inverno. Lavorava tanto,
studiava, leggeva, riempiva quaderni di
appunti. A tavola, poi, era maniacale, la
sua dieta era ferrea: yogurt, miele, frutta
secca. Nessun grasso. Poi niente fumo,
né alcol. E molte passeggiate, possibilmente lungo i corsi d’acqua perché,
diceva, il fluire dell’acqua favorisce il
fluire dei pensieri. Quando abitavamo
a Roma, andava spesso sul Lungotevere,
anche quando doveva decidere la formazione».
Se dovesse dare una definizione di
Herrera allenatore, che parole userebbe?
«Un grande scienziato e un grande monaco».
Interessante. Partirei dal grande
scienziato.
«E io partirei dalla infanzia di Helenio
e dalla sua formazione culturale, perché
lì sta la base di tutto. Con una curiosa
premessa circa il suo anno di nascita che,
soltanto nel 1999, ho scoperto essere il
1910. I passaporti riportano “Buenos
Aires, 16 aprile 1916”, ma il certificato
di nascita che ho avuto dopo la morte, reca il 1910. Posso immaginare che
quando è andato ad allenare in Spagna,
alla fine degli anni Quaranta, per un errore di trascrizione lo 0 sia diventato 6 e
che lui, per evitare scartoffie e per vanità,
non l’abbia corretto».
Molto bene. Retrodatiamo il racconto
di sei anni e ripartiamo da lì.
«Il padre di Helenio, Francisco, è un
anarchico andaluso che, non trovando
fortuna in Argentina, nel 1920 emigra a
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GS Maggio 2013 - Fiora Gandolfi Herrera
Casablanca. Il trasferimento in Marocco
favorisce il suo essere “straniero” e il
suo pluralismo linguistico: in famiglia
lo spagnolo, a scuola il francese e per le
strade, la sua vera università, un misto di
idiomi tra cui l’arabo, l’inglese e l’italiano. Questa è la base della sua formazione, che gli consentirà di farsi chiamare
Mago dai suoi compagni di squadra».
Non sapevo che l’origine del soprannome fosse questa.
«Nelle sue prime esperienze di calciatore, in Francia agli inizi degli anni Trenta,
specie contro squadre spagnole o africane, Helenio era in grado di capire cosa
si dicevano gli avversari e di prendere le
contromosse, suscitando lo stupore di
tutti. Per questo lo chiamarono Mago,
perché la sua era percepita come una
magia».
Bene: primo elemento la conoscenza
delle lingue. E poi?
«Lo studio e la formazione. Già durante
l’attività di calciatore aveva messo in atto
il beton (quello che da noi si chiamerà
catenaccio, ndr), un’evoluzione tattica.
Quindi prende il diploma di massaggiatore, ma già con l’idea di insegnare calcio.
Helenio è stato un precursore. Viaggiava
molto. Dopo la Francia, ha allenato in
Spagna, quindi in Italia. Ha introdotto
il concetto di velocità. Studiava gli avversari per preparare al meglio le partite.
In epoche in cui non c’erano immagini,
andava personalmente a visionare i rivali. Ai suoi ragazzi spesso consegnava la
foto dell’avversario diretto da tenere sul
comodino per memorizzarne le fattezze».
E poi scriveva molto.
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«Ha riempito migliaia di pagine di appunti, spesso su cartoncini rigidi, tutti
vergati di nero, con il rosso usato come
un evidenziatore. Curiosa la lingua, un
fantastico miscuglio di spagnolo, francese e italiano. Alcuni dei diari li consegnai a Giacinto Facchetti quando Helenio morì. Era metodico, escogitava cose
che non erano state inventate, differenziava gli allenamenti. Senza dimenticare
le novità nel campo dell’alimentazione,
l’introduzione delle tecniche di rilassamento e l’uso della psicologia».
Credo si possa dire che Herrera ha
innovato la figura dell’allenatore.
«Direi che le ha dato dignità e prestigio. Prima di lui, l’allenatore in Spagna
veniva chiamato “maletero”, porta borse.
Figuriamoci. Helenio ha sicuramente fatto fare un grande salto di qualità
all’intera categoria».
Anche dal lato economico.
«Lui diceva: “La puttana più cara è la
più bella”. Oppure: “Sono i soldi che
fanno il valore di una persona”. Ha sempre preteso il massimo. E lo ha ottenuto.
Ma non una lira in più di quelle pattuite.
Non è mai andato alla ricerca del soldo facile o sporco. Per questo, anche per
questo, rimase di sale quando seppe cosa
gli combinavano a Roma i suoi giocatori».
Sul peso che dava ai soldi ha inciso
la sua infanzia povera?
«Può darsi. Fin da bambino ha lavorato
molto, anche durante i primi anni da
calciatore in Francia. Poi c’è il ricordo
della madre che stava per affogare e per
il cui salvataggio gli arabi vollero essere
pagati in anticipo. Su cosa significasse il
GS Maggio 2013 - Fiora Gandolfi Herrera
denaro e che effetti avesse per lui, posso
raccontare cosa successe nel 1970 quando vicino Firenze facemmo un brutto
incidente con la nostra Mercedes».
Il verbale è aperto.
«Ci schiantammo contro il guard-rail,
io rimasi in macchina, lui era disteso in
mezzo all’asfalto. Riesco a trascinarlo sul
ciglio della strada. È semicosciente, ripete in continuazione alcune frasi. Ambulanza, ospedale e l’infermiera inizia a
spogliarlo. Gli prende i pantaloni e lui,
all’istante, si sblocca. Mi guarda e mi
fa: “Fiora, attention, l’argènt”. Con me
parlava in francese, ma quel che conta è
che si risvegliò al pensiero che qualcuno
potesse portagli via i soldi che teneva nei
pantaloni. Fu così che riprese perfettamente conoscenza».
Giriamo pagina e andiamo alla seconda parte della definizione: grande
monaco.
«La sua era una vita monastica, a parte
le donne».
Ne vogliamo parlare di questo aspetto?
«Con molta serenità, anche perché l’ho
capito tardi e, comunque, da un certo punto in poi, con l’avanzare dell’età,
per me Helenio era diventato come un
figlio. Perfino negli ultimi momenti di
vita ha voluto che gli leggessi una delle
lettere d’amore di una sua spasimante. Andava spesso via. Non diceva mai
nulla. Poi, comunque, tornava sempre a
casa».
Ma lei non era gelosa?
«Lui era gelosissimo di me. Una volta si
azzardò ad aprire una mia lettera che era
del tutto innocua. Allora io ne prendo
una delle sue. Fu sfortunato quella volta:
pensa, era tornata indietro una sua lettera perché era sbagliato l’indirizzo della destinataria (ride). Per non dire del
negozio di profumi vicino alla Scala a
Milano».
Diciamolo.
«Un giorno entro nella profumeria e ricevo un sacco di complimenti: “Che carino suo marito, ogni vota che viene qui
le compra un profumo”. Non ne ho visto
nemmeno uno. Helenio è stato un uomo
inafferrabile, irriducibile, un dongiovanni della vita. Ma tutto questo non ha
intaccato il nostro amore. E il mio per
lui. Ma torniamo adesso al concetto di
monaco».
Benissimo, da dove si riparte?
«Da Ignazio di Loyola, il fondatore dei
Gesuiti, e dai suoi scritti».
Ma Helenio non era ateo?
«Nessuno in casa sua era battezzato. Ciò
non toglie che possa aver tratto spunti
da uomini di fede per la sua formazione
professionale. Per esempio lui era molto attratto dalle Chiese, che con il loro
silenzio erano il luogo migliore per la
meditazione».
Come è che Herrera legge Ignazio
di Loyola?
«In verità fu frutto del caso. Siamo nel
1958, all’epoca Helenio allena il Barcellona ed è ricoverato in ospedale per una
frattura. Sul comodino trova un libro
del santo in cui si parla degli esercizi
spirituali. Helenio fu catturato dal personaggio e da quel che scriveva. Fu così
che ebbe l’intuizione di applicare, anche
al mondo del calcio, l’idea del ritiro monastico».
Che si chiamò semplicemente ritiro.
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GS Maggio 2013 - Fiora Gandolfi Herrera
«Lo ha inventato Helenio. Quella era la
giusta strada per trovare la concentrazione, per prepararsi al meglio, per respirare
aria sana, dato che il luogo doveva essere
immerso nel verde, nel silenzio, vicino
a un corso d’acqua. Il ritiro poi favoriva
l’unione tra i compagni di squadra, uno
dei principi base del Mago. Per questo
usava tutta una serie di accorgimenti e di
trovate, tra cui l’abbraccio collettivo prima di iniziare la partita. Anche in questo campo è stato un geniale innovatore,
inventando formule che sono diventate
un mantra».
Come “Taca la bala”?
«Un abracadabra dal valore magico che
nasconde un piccolo segreto. Tutti credono che sia un’espressione ispanica. Invece è un ibrido. Quando Helenio arrivò
all’Inter, trovò diversi giocatori di origine veneta. Per loro il pallone era la
“bala” e lui pensò che così si chiamasse
la pelota in italiano. Taca la bala, attacca
il pallone: una frase secca, un comando
essenziale. Ma non c’era solo questo».
Si riferisce ai cartelli appesi nello
spogliatoio?
«Helenio non era superstizioso, anzi
odiava chi lo era. Semmai aveva un incredibile carisma. Lui credeva moltissimo in se stesso e in quel che faceva. E ne
era così convinto che riusciva a trasmettere anche agli altri le sue verità. Quella
dei cartelli era una soluzione efficace,
che lui aveva già applicato in Spagna e
che replicò all’Inter. Con una sfumatura
interessante da svelare».
Di che si tratta?
«Al Siviglia, i cartelli si attagliavano alla
nobile psicologia andalusa o all’eroi30
cità: “Se pierde solo cuando se deja de
luchar”, cioè “Si perde solo quando si
smette di lottare”. Oppure: “Sea noble”
ossia “Gioca con correttezza, eleganza e
generosità”».
E all’Inter, invece?
«A Milano, i cartelli tenevano conto
dello spirito pratico dei lombardi, più
legato ai numeri che alla filosofia. C’era questo: “Difesa: non più di 30 goals.
Attacco: Più di 100 goals”. Se non addirittura un’operazione aritmetica: “Classe
+ preparazione atletica + intelligenza =
Scudetto”. A una cosa sola non pensò
Helenio».
A cosa?
«Al fatto che qualcuno in Italia lo avrebbe tacciato di fascismo. Una grande stupidaggine. Primo per le sue origini anarcoidi, secondo perché che ne sapeva lui
di cosa era successo trent’anni prima in
Italia?».
A ogni modo, i messaggi coglievano
nel segno.
«Così come andavano a bersaglio anche
altri suoi trucchi. Una volta quando era
al Barcellona, prima di una partita in
trasferta, con il pubblico di casa inferocito, si mise un impermeabile bianco,
andò sul terreno di gioco e fece tre o
quattro volte il giro del campo. Gli tirarono di tutto, insieme a offese di ogni
tipo. Poi tornò negli spogliatoi e disse ai
suoi ragazzi: “Los he dejados roncos!”
(Li ho lasciati rauchi!)».
Poi cos’altro escogitava?
«Riusciva a trasformare un normale giocatore in un fuoriclasse. Anche questa è
magia. Con i calciatori parlava a quattr’occhi, erano delle confessioni. La sto-