L`Arte degli Orefici - Camera di Commercio di Cremona

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L`Arte degli Orefici - Camera di Commercio di Cremona
COPERTINA OREFICI 18-10-2006 15:13 Pagina 1
STORIE DI MERCATI, MERCANTI ED ARTIGIANI IN CREMONA
DAL TRECENTO ALL’OTTOCENTO
L’Arte degli Orefici
Presentazione
Nello scorso 2005, per ricordare i 50 anni di istituzione del proprio Archivio Storico, la Camera decise la pubblicazione di una collana di opuscoli a carattere divulgativo,
finalizzati a meglio diffondere la conoscenza del ruolo che ebbero in passato le istituzioni
mercantili cremonesi.
Dal medioevo all’età moderna parlare di organizzazioni economiche è parlare di Università dei Mercanti e di Corporazioni d’Arte, due istituzioni praticamente coeve che ebbero però un ben diverso destino: la prima - trasformata in Camera Mercantile, poi in
Camera di Commercio - sopravvisse a tutti i successivi cambiamenti politici restando ancora oggi l’unica rappresentante degli interessi economici provinciali. Al contrario le
Corporazioni d’Arti furono soppresse dal governo della Lombardia Austriaca nel quadro delle riforme economiche di fine ’700 e restarono, di fatto e di diritto, incorporate nella Camera di Commercio.
Abbiamo quindi dedicato il primo opuscolo della collana all’Università dei Mercanti e la proseguiamo soffermandoci, di volta in volta, sui diversi Corpi d’Arte in base ai documenti che, confluiti alla Camera dopo la loro soppressione, sono oggi conservati
nel suo Archivio Storico, iniziando con l’Arte degli Orefici.
Artigianato di grande pregio, lo sappiamo presente in Cremona dall’epoca più antica e non si deve dimenticare che Federico I, il Barbarossa, concesse nel 1155 alla città sua
‘fedelissima’, il privilegio d’essere sede della Zecca Imperiale, provvedimento che certo favorì il formarsi in Cremona di diverse generazioni d’abili artigiani nel campo della lavorazione dei metalli e dell’incisione.
L’Arte degli Orefici cremonese ebbe, inoltre, vita più lunga rispetto alle altre corporazioni
grazie all’esigenza di particolari competenze indispensabili a vigilare sulle valutazioni
dei preziosi e, probabilmente proprio per questa sua tardiva dissoluzione, la Corporazione
degli Orefici fu l’unica ad averci lasciato anche una buona parte del proprio archivio.
Infatti la delicatezza della materia trattata e i rischi di frode sempre presenti erano una
preoccupazione diffusa e vediamo così Cesare Beccaria sollecitare, ancora nel 1787,
l’inclusione di un orefice fra gli abati della Camera milanese per tutelare le garanzie relative alla qualità dei preziosi. Va aggiunto che la Camera Mercantile di Cremona,
nel 1792, evidentemente condividendo il convincimento del Beccaria, nominò fra i suoi
abati l’orefice Stefano Pizzamiglio.
Un ultimo cenno è infine doveroso farlo ad un’opera particolare che a Cremona
nessuna corporazione aveva mai realizzato: la chiesa che nel 1620 gli orefici costruirono e dedicarono al loro patrono e della quale ancora oggi vediamo l’elegante facciata lungo il lato sinistro della via Bonomelli - l’antica contrada “Prato del Vescovo” - che dalle absidi del Duomo correva allora verso le mura fra Porta Mosa e Porta Nuova: una testimonianza da non dimenticare.
Gian Domenico Auricchio
Presidente della Camera di Commercio
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Si ringrazia monsignor Giuseppe Perotti, parroco della Cattedrale, monsignor Ruggero Zucchelli, responsabile dell’Ufficio Ragioneria della Curia Vescovile, e la direzione del Museo Amedeo Lia di La Spezia per le riproduzioni fotografiche concesse.
Don Andrea Foglia, direttore dell’Archivio Storico Diocesano, per i preziosi suggerimenti e il materiale d’archivio messo a disposizione.
Si ringraziano inoltre i due sagrestani, Pier Mario Ferrari e Cristian Minuti, per la
cortese disponibilità ad agevolare la ricerca e la riproduzione di alcune suppellettili sacre della Cattedrale e del Capitolo.
Un grazie, infine, ad Alberto De Micheli, per le indicazioni tecniche fornite e per
aver generosamente messo a disposizione della Camera il tempo necessario a restituire, con abilità di orafo e competenza storica, ai candelieri e alle monete dell’Archivio
Camerale parte del loro originario aspetto.
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Candelieri in bronzo già dell’Università degli Orefici, sec. XVI, Archivio Storico Camerale di Cremona
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Facciata della chiesa di S. Eligio in Cremona, eretta dall’Università degli Orefici nel 1620
Eligio, nato a Limoges nel 590, esercitò l’arte orafa e a lui sono attribuite diverse opere fra le quali ricordiamo il trono di Dagoberto e la tomba di s. Martino in Tours. Alla corte franca Eligio fu direttore della Zecca reale di Marsiglia.
Instancabile evangelizzatore dei pagani, uomo di grande pietà e vescovo dal 641, fondò diverse abbazie
fra cui, assai nota, quella di Solignac presso Limoges. Morì nel 660 e il suo culto si diffuse particolarmente in Germania ed in Italia.
S. Eligio è ritenuto universalmente protettore non solo degli orefici, ma anche di altre diverse attività
manuali quali i fabbri, i coltellinai, i maniscalchi e, in genere, di tutti i metallurgici. Le sue reliquie sono oggi conservate a Noyon in Olanda.
Quel che è stato sarà, quel che si è fatto si farà ancora.
Niente è nuovo di quel che è sotto il sole. (Qohèlet I)
S. Eligio: la chiesa degli Orefici
nell’antica contrada Prato del Vescovo
A circa duecento passi dalle absidi del Duomo, sul lato sinistro dell’antica
contrada detta Prato del Vescovo (ora via Bonomelli), ancora oggi si incontra,
stretta fra un elegante palazzo ottocentesco ed una antica modesta casetta, la
facciata di una chiesa - il tetto a timpano spezzato e due pinnacoli affiancati che nel 1620 la Corporazione degli Orefici “eresse e decorò”, completamente a sue spese, dedicandola a sant’Eligio, universale patrono della categoria.
Il vecchio portone d’ingresso è ora chiuso da un cancello di fattura moderna
al quale sono state affiancate due finestre laterali in aggiunta all’originale finestrone centrale superiore: quasi inspiegabilmente la facciata dell’edificio,
anche se intonacata e dipinta di recente, lascia presentire un completo abbandono dell’interno.
Torneremo a parlare di S. Eligio, che per quasi tre secoli fu sede della Corporazione degli Orefici e centro della loro particolare devozione, nell’ultimo capitolo di queste note che si propongono di tracciare - sempre esclusivamente
sulla scorta dei documenti conservati nell’Archivio Storico della Camera un breve profilo delle vicende degli orefici cremonesi dal ’300 all’ ’800: luci ed
ombre, fortune e sventure di uomini, artigiani e commercianti, che in un
tempo di crisi quale fu per Cremona l’inizio del XVII secolo, riuscirono con
le sole loro forze a costruire addirittura una chiesa.
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Fabbri ed orefici:
inizialmente un solo Paratico?
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Partendo molto più lontano da quel 1620 in cui venne eretta in Cremona la
chiesa di sant’Eligio per risalire fino agli inizi del ’300, osserviamo che il capitolo 36 degli statuti cittadini di Roberto d’Angiò del 1313, nell’elencare, citandoli uno per uno, venti Corpi d’Arte cremonesi, non nominava l’Arte degli Orefici.
Anche se l’elenco non è da ritenere esaustivo in quanto contestualmente si
dice che il provvedimento adottato in quel capitolo era valido per tutte le
Arti, stupisce ugualmente la mancata menzione agli orefici, artefici di antica e
gloriosa estrazione, della cui attività abbiamo lontanissime tracce, personaggi
importanti che, più tardi, troveremo spesso rispettosamente indicati nei documenti come i “Signori Orefici”, appellativo onorifico condiviso solo con gli appartenenti all’Arte degli Speziali.
Questa mancata citazione all’Ars Aurificum potrebbe comunque trovare ragione nell’ipotesi che ancora agli inizi del ’300 gli orefici, per questioni corporative, formassero un tutt’uno con i fabbri, restando quindi compresi in
quel Paraticum Ferrariorum presente nell’elenco di Roberto d’Angiò.
In effetti, oltre all’intrinseca originaria affinità fra le due lavorazioni, negli statuti che gli orefici si daranno nel 1429 si trova un cenno all’arte “fabraria” ed
inoltre s. Eligio, patrono degli orefici, era anche, unitamente a s. Antonio del
Fuoco, compatrono dei fabbri cremonesi che lo onoravano con molta devozione tanto da rappresentare i due santi affiancati nella miniatura d’apertura dei
loro statuti e disporre la celebrazione solenne di entrambe le ricorrenze: quella di s. Antonio il 17 gennaio nella chiesa omonima e quella di s. Eligio il 25
giugno in S. Matteo.
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Raffigurazione di s. Eligio e s. Antonio del Fuoco miniata sugli statuti dei fabbri
di Cremona del 1474, Biblioteca Statale di Cremona, Fondo Libreria Civica
L’antichissima parrocchia dei Santi Faustino e Giovita (comunemente detta di S. Faustino) sorgeva all’angolo fra la contrada della Colonna e la via de’ Coltellai (oggi rispettivamente corso Campi e via Guarneri, dove è attualmente ubicata la farmacia centrale). In essa gli orefici ebbero cura di un altare dedicato
al loro protettore s. Eligio fino a quando, nel 1620, gli eressero e intitolarono un’apposita chiesa.
S. Faustino fu soppressa come parrocchia nel 1788 e lo stabile venne successivamente demolito.
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Zecca di Cremona (su concessione di Federico I Barbarossa del 1155)
monete secc. XII - XIII, Archivio Storico Camerale di Cremona
Dal 1155 Cremona, sede di Zecca per volontà di Federico I Barbarossa, batteva moneta e disponeva
quindi di validi artigiani in grado di incidere a perfezione i metalli.
La chiesa dedicata a s. Antonio del Fuoco a Cremona sorgeva al termine della ancora omonima via, dove attualmente si trova il complesso del Centro Pastorale Diocesano. Quella intitolata a s. Matteo
era invece collocata all’angolo formato dalle attuali via Gramsci e piazza Roma.
Gli orefici negli statuti comunali
Anche se non conosciamo il momento in cui si costituì, in Cremona, un
Paraticum Aurifices a sé stante e dotato di propria regolamentazione, è certo
tuttavia che la ipotizzata separazione dai fabbri dovette avvenire comunque nel
corso del XIV secolo, visto che gli statuti della città del 1388, ordinati da
Gian Galeazzo Visconti, si occuparono direttamente degli orefici in un paio di
‘rubriche’ già riferendosi ad essi come Paraticum Aurifices.
Con la rubrica 618 si obbligava infatti l’Università degli Orefici a depositare
permanentemente presso gli Ufficiali delle Vettovaglie del Comune un esemplare di bilancia ‘giusta’ con linguella recta et integra et longa, ossia con un ago costruito e posizionato in modo da non consentire alterazioni del peso: una vera e propria bilancia-tipo, indispensabile per le verifiche sul “giusto peso” effettuate dagli ufficiali comunali nei loro periodici controlli ispettivi puntualmente predisposti per evitare possibili frodi.
Ovviamente ogni bottega doveva disporre di bilance conformi al modello
regolamentare sottoposte, comunque, ad una costante verifica.
Traspare, all’origine di queste disposizioni, la costante preoccupazione dei
reggitori comunali di salvaguardare non solo gli acquirenti ma, anche e soprattutto, il buon nome mercantile della città. Nel nostro caso non fu infatti ritenuto sufficiente controllare l’osservanza del giusto peso e si impose agli orefici (rubrica 617) anche di lavorare sempre con la dovuta abilità professionale
e in modo conforme alle norme, secondo la tradizionale formula di quel bene
et legaliter che riassumeva l’obbligo per tutti gli operatori cremonesi di attenersi
ad un determinato ed alto livello qualitativo.
Rafforzavano tali ordini la durezza delle sanzioni ai contravventori, penalizzati da consistenti multe e spesso anche dalla rovinosa interdizione all’esercizio dell’attività e chiusura forzata della bottega.
Sempre nel quadro delle cautele tese a garantire la bontà del prodotto, il Comune imponeva agli orefici di imprimere in modo ben visibile il proprio
personale marchio su ogni oggetto prodotto in modo da poterne individuare
con immediatezza l’autore.
Tutte queste disposizioni, la cui provenienza comunale conferiva particolare valenza, confermavano l’importanza che l’ Ars Aurificum rivestiva agli occhi
delle autorità locali.
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Scudetti, probabilmente ornamenti di cintura, con stemma di Barnabò Visconti in argento,
smalto traslucido e cornicetta in bronzo dorato, sec. XIV, Capitolo della Cattedrale di Cremona
Consolidata la sua signoria sulla città, Gian Galeazzo Visconti, nel 1388, impose al Comune e a tutte
le organizzazioni economiche cittadine (nelle loro diverse accezioni di ‘Università’, ‘Arte’, ‘Paratico’) la
revisione dei propri statuti, ossia di quelle raccolte di norme con le quali le Arti disciplinavano il loro
funzionamento interno ed esterno. Gli statuti erano, in genere, suddivisi in rubriche a seconda del singolo oggetto trattato.
In regime signorile il Comune, persa l’antica autonomia e giuridicamente soggetto ad un Dominus, aveva tuttavia mantenuto quel potere di ‘autarchia’, che gli dava facoltà di dettare disposizioni sempre comunque conformi alla stretta osservanza delle direttive signorili: in quest’ottica le disposizioni statutarie,
oltre che essere conformi alle direttive amministrative ed economiche impartite dal Signore, necessitavano, per essere applicabili, della sua esplicita approvazione.
Le disposizioni statutarie comunali rispecchiavano, di fatto, la primaria esigenza che il materiale messo in commercio fosse di buona qualità, soprattutto per quanto destinato all’esportazione.
In un mercato che tendeva costantemente ad allargarsi ben oltre i limiti cittadini e distrettuali, i prodotti
erano generalmente caratterizzati in base al luogo di provenienza così che le eventuali deficienze
assumevano riflessi negativi per l’intera produzione della città d’origine: da qui la preoccupazione
che tutti lavorassero bene et legaliter intendendo, con quest’ultimo termine, la conformità alle regole di lavorazione dettate dagli stessi statuti.
Gli statuti dell’Arte del 1429
Accanto a queste norme dettate dal Comune altre erano state certamente aggiunte dalla stessa Corporazione sotto forma di statuto, norme purtroppo non
giunte sino a noi, ma della cui esistenza troviamo traccia nel più antico esemplare degli statuti degli orefici cremonesi di cui oggi disponiamo, datato l’ultimo giorno d’ottobre del 1429. Lo stesso infatti, nella sua formula conclusiva, li
definiva compilati noviter - ossia praticamente ‘rinnovati’- così chiaramente indicando che non era questa la prima stesura di un ordinamento della categoria.
Volendo azzardare una data per tale presunto originario statuto rinnovato nel
1429, lo si potrebbe collocare nel quadro del generale riordino giuridico delle
organizzazioni locali imposto a Cremona da Gian Galeazzo Visconti attorno a
quello stesso 1388 che segnò il rifacimento degli statuti del Comune, dell’Università dei Mercanti e di diverse corporazioni.
Lasciando ora le ipotesi per passare ad elementi più concreti, esaminiamo i
principali contenuti delle disposizioni dettate in questo nuovo ordinamento
che l’Università degli Orefici cremonesi articolò in 34 ‘rubriche’ e che rimase
immutato per quattro secoli, salvo qualche successiva aggiunta decisa, come vedremo, nel XVII secolo.
Esteriormente l’esemplare pervenuto all’Archivio Storico della Camera direttamente dalla stessa Corporazione degli Orefici dopo la sua soppressione si presenta in una veste che possiamo definire dimessa: la semplice rilegatura in pergamena, probabilmente non originale, la mancanza di un qualsiasi ornamento e
anche delle consuete formule introduttive solenni, suggeriscono che si tratti di
una copia ad uso pratico degli uffici, tanto da porre subito l’inevitabile interrogativo di quale fine possa aver fatto l’esemplare ufficiale degli statuti, certamente arricchito, secondo le usanze dell’epoca, da elegante scrittura e da una sontuosa
rilegatura degna della ricca e raffinata Corporazione dei nostri orefici.
Dai contenuti di queste norme rinnovate nel 1429 per meglio regolare la
produzione e la vendita dei preziosi, notiamo che, in linea di massima, gli statutari non seguirono un percorso organico tanto da presentarsi, prevalentemente, prive di quel preciso filo conduttore che solitamente caratterizzava tali
compilazioni. Qui, infatti, disposizioni d’ordine interno organizzativo si alternano, senza un preciso andamento, a norme tecniche operative nonché a quelle comportamentali degli iscritti.
Si evidenzia, nel complesso, la presenza di una organizzazione vigile e munita di buoni poteri giurisdizionali, nonostante appaia anomala la mancanza
dell’istituzione ufficiale di un libro matricola, strumento indispensabile per una
organizzazione che pure prescriveva il versamento di una tassa per l’accesso al
Paratico ossia, praticamente, una ‘iscrizione’.
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Statuto degli orefici, 1429, Archivio Storico Camerale di Cremona
Gli statuti delle corporazioni inserivano normalmente fra le loro prime disposizioni quella istitutiva del
libro matricola sul quale venivano annotati i nomi degli iscritti, spesso indicando accanto al nome anche la residenza.
Oro, argento, smeraldi e zaffiri
Come da tradizione, il codice statutario si apriva con l’istituzione delle cariche sociali costituite da due consoli e un notaio impegnati a vigilare sotto
giuramento l’osservanza dello statuto, passando subito dopo, con la seconda rubrica, ad affrontare un problema tecnico di lavorazione: si vietava agli orefici di
inserire smeraldi e zaffiri in anelli d’argento o di oricalco.
Questa disposizione, posta agli inizi del testo statutario, sembra indicare
non solo che fosse urgente ed importante arginare una scorrettezza probabilmente molto diffusa, ma dimostra anche una scarsa considerazione dell’argento: mentre infatti l’uso dell’oricalco (antichissima lega di rame e zinco di colore giallo impiegata fin dall’antichità nella confezione di ornamenti) poteva costituire frode simulando l’oro, altrettanto non si dovrebbe dire dell’argento, metallo di per sé prezioso e nel quale si usava incastonare pietre preziose.
Va comunque precisato che se pure gli smeraldi e gli zaffiri erano le pietre
più preziose allora disponibili fra quelle normalmente importate e, in particolare, suscettibili ad essere ‘tagliate’ e commerciate nelle nostre zone, non si
comprende come questo rischio di frode fosse considerato circoscritto agli
anelli, ignorando, quindi, gli altri monili.
D’altronde un ulteriore riferimento ai soli anelli lo troveremo ancora alla rubrica dodicesima dove, sempre in tema di commistione fra ciò che era o non
era considerato prezioso, si configurava, in termini opposti, il divieto di cui sopra, vietando di incastonare gemme di vetro in anelli d’oro. Da notare che
qui non si fa menzione all’argento.
L’insistenza dello statuto sul tema degli anelli sembra sottolineare come
questo ornamento fosse fra tutti il più diffuso, cosa abbastanza spiegabile se si
pensa che, per le sue dimensioni, poteva, nelle composizioni più modeste,
rappresentare l’unico acquisto accessibile anche alla gente comune.
Ancora agli anelli si torna infine a fare ulteriore specifico riferimento nello stabilire il rapporto di lega dell’oro e dell’argento (rubriche decima e venticinquesima).
Particolarmente interessante, nel quadro di una organizzazione mercantile rigidamente monopolistica, appare la disposizione della rubrica nona con la
quale, se pure gli orefici erano tenuti ad iscriversi all’Arte e versare la prescritta tassa d’ingresso, non si escludeva la possibilità d’esercitare l’attività anche
a coloro che rifiutassero di “stare nel Paratico” nonché di sottostare ai consoli e alle norme statutarie.
Nei loro confronti ci si limitava infatti ad imporre una specie di ‘messa al bando’ in forza della quale nessuno degli appartenenti all’Arte era autorizzato ad intrattenere con essi rapporti di alcun tipo né dare loro pareri, consigli o aiuto: solo si permetteva di avvicinarli per sollecitarne l’ingresso nella Corporazione.
Nelle rubriche che seguono, i divieti appaiono poi prevalentemente fina-
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lizzati ad un generica garanzia di deontologia professionale e si fissavano le leghe da utilizzare per la lavorazione dei preziosi colpendo severamente ogni
mancanza fino a giungere, nei casi più gravi, a disporre la distruzione dell’oggetto confezionato. Da notare che la vigilanza dei consoli si estendeva anche al
materiale importato da altri distretti.
Per salvaguardare le debite responsabilità, era vietato che un’opera venisse
portata a termine da un artefice diverso da quello che l’aveva iniziata (rubrica
sedicesima) ed, inoltre, qualora si rinvenisse un oggetto o un ferro del mestiere appartenente ad un collega, era fatto obbligo di consegnarlo ai consoli,
pena l’esclusione dall’Arte. Se poi un orefice cremonese avesse commissionato qualche lavoro d’oro o argento fuori dalla propria bottega, l’opera finita
veniva sottoposta al giudizio dei consoli, pena una multa e la distruzione dell’oggetto (rubrica trentaduesima).
Una rigida tutela era anche stabilita per l’argento lavorato proveniente a
Cremona da altri distretti: doveva essere mostrato ai consoli per le indispensabili verifiche e diveniva legittimamente commerciabile solo dopo essere stato
debitamente bollato dagli stessi (rubrica diciannovesima).
Infine, stante l’impossibilità di lavorare l’oro e l’argento senza ‘legarli’ con altri metalli, era necessario, ieri come oggi, stabilire, per la valutazione di un
oggetto, la quantità di metallo prezioso in esso contenuta o, come si diceva, la
sua “bontà”. Il metodo di controllo adottato dai nostri statuti era quello della “tocha” e spettava alla Corporazione stabilire, nei diversi periodi, la “bontà”
dell’oro e dell’argento lavorato e commerciato a Cremona.
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Esemplare della raccolta di 30 grida dell’abate e dei consoli dell’Università degli Orefici,
per la determinazione della qualità e prezzo dell’oro e dell’argento,
1643 - 1680, Archivio Storico Camerale di Cremona
E’ noto che l’oro e l’argento per essere lavorati necessitano della fusione con un altro metallo non prezioso (solitamente il rame) e si definiva “bontà” (oggi si parla di ‘titolo’) la quantità di oro o argento contenuto in un dato oggetto: la percentuale di “fino” presente nella fusione, era stabilita e controllata dalla Corporazione.
Il metodo di controllo usato a Cremona era quello della “tocha”: sia l’oggetto da controllare che un pezzo d’oro o argento della lega stabilita dall’Arte (“tocha”) venivano strofinati sulla cosiddetta ‘pietra di
paragone’ (diaspro nero schistoso): se i due segni collimavano si aveva la certezza che la “bontà” dell’oggetto verificato non era inferiore a quella stabilita. In caso di dubbio si bagnava la traccia con una
goccia d’acido e il risultato era considerato definitivo.
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Insegna di bottega dell’orefice Camillo Ferrari (registrata il 21 aprile 1609),
Archivio Storico Camerale di Cremona
L’importanza del commercio fuori dalle mura cittadine era, all’epoca, commisurata non solo alla mobilità dei grandi mercanti che tenevano costanti rapporti con l’Europa e l’Oriente, ma anche nell’ottica, più ristretta, del commercio girovago ossia esercitato da coloro che, dai secoli più antichi, si spostavano da una località all’altra rifornendo delle più diverse merci le diffuse zone extraurbane e rurali e partecipando ai tradizionali mercati locali. Era comunque evidente l’estrema concreta difficoltà a
far osservare loro le disposizioni vigenti e, quindi, sanzionarne le inadempienze.
Queste erano le principali merci che i Merzadri, a sensi del loro statuto, potevano avere in bottega: oro
nuovo e vecchio, seta lavorata e non lavorata sia nuova che vecchia, velluti e drappi di seta anche non
in pezza, stringhe, borselle, trecce, fettucce, speroni, bretelle, filo e cotone tinto, cordoni di seta e refe e simili.
Da notare che l’Arte della Merzadria, certo consapevole che una merceologia tanto estesa facilitasse
l’insorgere di conflitti con altre specifiche corporazioni (e in particolare con quella degli Orefici) si preoccupò subito che i propri iscritti potessero, prima o poi, essere costretti ad aderire anche ad altre diverse
corporazioni attinenti a qualcuno dei numerosi prodotti trattati. Per cautelarli da tale rischio stabilì infatti, con apposita rubrica statutaria, che l’appartenente all’Arte della Merzadria non potesse venir
obbligato, contro la propria volontà, ad iscriversi, o comunque a pagare l’accesso, a qualche altro Paratico, salvo il caso che, nella propria bottega, la merce di competenza di una particolare Arte avesse carattere prevalente in rapporto agli altri prodotti trattati.
Conflitti di competenza e concorrenza
Sempre in tema di controlli, vediamo l’Arte custode gelosa delle sue prerogative e soprattutto mal tollerante di quella ‘tutela’ che il Comune riteneva
suo diritto esercitare in forza degli statuti cittadini ai quali già si è fatto cenno.
Nel tempo, vediamo infatti moltiplicarsi le suppliche della Corporazione al
governo centrale tese ad ottenere l’esenzione dalla vigilanza comunale, vista
come un’indebita ingerenza, più che un riconoscimento dell’importanza dell’attività.
Tuttavia non erano solo le interferenze del Comune a tormentare i nostri
orefici, bensì anche il dover affrontare troppo frequentemente un delicato problema di competenza, evidenziato dalla rubrica diciottesima in tema di rapporti
fra le Arti e, particolarmente, dei frequenti conflitti che gli orefici dovevano
gestire sia con l’importante Corporazione dei Merzadri sia con alcuni non
meglio identificati ‘pigoloti’, ossia i venditori girovaghi di merci varie.
La rubrica diciottesima stabiliva infatti che quei merzadri e pigoloti, i quali,
nell’ambito delle merci di competenza, si trovavano a trattare oggetti d’oro e
d’argento erano obbligati ad osservare le stesse “bontà” dei due metalli preziosi periodicamente prescritte dalla Corporazione degli Orefici.
Sul come fosse poi legittimo che una corporazione dettasse disposizioni ad altre analoghe organizzazioni, o comunque ad estranei alla sua particolare giurisdizione, e in che misura queste ultime fossero tenute ad osservarle, possiamo solo avanzare delle ipotesi: sembrerebbe ovvio, infatti, che la competenza in materia spettasse ad un’autorità superiore quale il Comune o, almeno, l’Università dei Mercanti, pur senza escludere che, dati gli alti rischi di truffe, i suddetti enti, più o meno informalmente, già fossero d’accordo.
Aggiungiamo che, mentre mancano disposizioni statutarie sulle regole comportamentali cui erano soggetti all’epoca i mercanti girovaghi, abbiamo invece
precise notizie sui merzadri che ben giustificano l’ovvia frequenza delle contestazioni con gli orefici. Gli statuti della Merzadria, datati 1421, iniziavano infatti il lungo elenco delle merci che gli iscritti erano autorizzati a vendere nelle loro botteghe proprio con la voce “oro nuovo e vecchio”.
A conclusione di questo breve esame delle norme giuridiche ed operative che
gli orefici cremonesi si diedero nella prima metà del ’400 possiamo dire che le
stesse riflettono una struttura solidamente organizzata quale si conveniva ad
una categoria ad alta valenza professionale nota anche fuori dall’ambito locale
nonchè un’aderenza di fondo allo spirito informatore sia della legislazione
comunale che di quella corporativa degli ultimi decenni del secolo precedente, concorde nel tutelare, con gli interessi di chi produceva, vendeva ed
acquistava, anche quelli propri della città nell’ottica di mantenere alti l’immagine e il buon nome di Cremona.
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Aspetti religiosi
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Non possiamo tuttavia chiudere un sia pur sommario esame di questi statuti
senza far cenno a quella religiosità che, al tempo, era parte integrante nel modo d’essere e soprattutto di porgersi nei rapporti esterni di qualsiasi natura.
Ecco perché stupisce la totale assenza dagli statuti degli orefici di ogni riferimento religioso, fatto salvo l’uso della tradizionale formula dedicatoria “ad
onore del nostro Signore Gesù Cristo” anche se questa sobrietà risulta in parte conforme alla linea seguita da altri statuti corporativi dei secoli precedenti la
Controriforma, compreso quelli dell’Università Maggiore dei Mercanti.
Tuttavia il silenzio degli orefici in tema religioso è assoluto: non un cenno al
protettore sant’Eligio nè ad un altare a lui dedicato, nessun riferimento neppure alla festa dell’Assunta, quella “Madonna d’agosto” alla quale tutto il ceto artigiano e
mercantile riservava una particolare devozione con la tradizionale offerta della cera e con la presenza alla rituale processione sempre prevista dagli statuti.
Probabilmente non si trattò di irreligiosità ma di una precisa scelta di metodo in quanto la categoria, quasi a voler sottolineare la propria devozione, incluse nella parte finale degli statuti l’elenco delle festività religiose infrasettimanali - numerosissime secondo il calendario ecclesiastico allora vigente che gli orefici erano tenuti ad osservare e celebrare, da gennaio a dicembre e
che, escluse le domeniche, ammontavano complessivamente a 49 giorni più
l’intera ottava di Natale.
In questo elenco sono citate due festività dedicate a s. Eligio, una il 25 giugno ed una il primo dicembre, così come diversi erano i giorni in cui i fabbri
e gli orefici celebravano il loro comune protettore.Tuttavia, se gli statuti dei
fabbri ci dicono subito che la chiesa prescelta era per loro S. Matteo, per gli
orefici dovremo attendere le ‘aggiunte’ statutarie del 1610 per sapere che, prima della costruzione della chiesa a lui intitolata, gli orefici gli avevano dedicato
un altare che onoravano nella chiesa dei Santi Faustino e Giovita.
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Uno dei doni offerti alle varie effigi della Madonna nella Cattedrale di Cremona,
secc. XVIII - XIX,Archivio Storico Diocesano di Cremona
Risulta che le pietre più note a Cremona fossero, all’epoca, lo smeraldo, il rubino e lo zaffiro. La città
poteva contare anche su diversi specialisti nel taglio del granato, del quarzo e suoi derivati, nonché su
altri artigiani molto abili nella colorazione delle pietre particolarmente nel rinomato colore verde.
Sentori di crisi
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Fra la fine del ’500 e l’inizio del ’600 anche Cremona avvertiva i primi
segni di quella crisi che, con l’avanzare del secolo, avrebbe pesantemente influenzato, negativamente, la redditività della produzione e dei commerci.
A questa inversione di una tendenza favorevole a cui la città si era ormai assuefatta, le Arti risposero intensificando le richieste di riduzione delle tasse
(purtroppo effettivamente rimaste fisse nelle misure stabilite in anni di più
diffuso benessere), nonché adottando una stretta di carattere protezionistico e
di irrigidimento del monopolio.
Tuttavia, la diminuzione del potere d’acquisto non colpì prevalentemente, come pensabile, i beni superflui quali i preziosi, stante che gli orefici superarono la
crisi con danni certo minori rispetto a quelli di altre attività probabilmente
per la specifica tipologia della loro principale clientela: la Chiesa e la nobiltà.
La Chiesa: in quel momento di rinnovato fervore religioso ispirato alla
Controriforma il clero si sentiva impegnato ad abbellire gli edifici sacri riservando una particolare attenzione alle pur già prestigiose suppellettili di culto,
indubbia fonte, queste ultime, di importanti commissioni agli orefici.
La nobiltà: ad esclusione delle poche grandi famiglie i cui cospicui patrimoni
erano inattaccabili, una larga parte della nobiltà medio-piccola e delle agiate famiglie mercantili non aveva tenuto conto di come le eccessive spese avessero
non solo assottigliato le rendite ma anche eroso le relative fonti, preludio a una
totale rovina.
Limitare il consueto dispendioso tenore di vita e l’ostentazione di ricchi acquisti, abbigliamenti ed abitudini lussuose significava per loro non solo perdere
una personale gratificazione ma anche rinunciare alle abitudini che, in un
mondo che giudicava esclusivamente dall’apparenza, erano ritenute indispensabili al mantenimento di un certo status e costituivano il presupposto per
l’ambito passaggio a livelli sociali superiori.
E’ noto che il governo e direttamente lo stesso sovrano, già alla fine del
secolo XVI tentarono di frenare questa incosciente corsa allo sperpero con l’emanazione delle note leggi suntuarie tese ad eliminare gli eccessi sul vestire e
sul banchettare, ossia gli esempi più eclatanti di un lusso che, per mantenere un
apparente prestigio, causava tracolli finanziari con ricadute a catena anche sul
ceto mercantile.
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Croce patriarcale in argento dorato con reliquie, 1564,
Capitolo della Cattedrale di Cremona
Le leggi suntuarie, con le quali si ponevano tassative limitazioni qualitative e quantitative al lusso,
rappresentarono il ripetuto tentativo dell’Autorità di ovviare all’insensata gara esibizionistica che si stava velocemente diffondendo.
Uno degli intenti di queste leggi, che aveva anche risvolti psicologici, era quello di trasformare in debita osservanza della legge la scelta di una certa moderazione dell’uso di ornamenti preziosi e di
drappi tessuti d’oro ed argento sia nell’abbigliamento maschile che femminile.
Stabilendo tassativamente il tipo e il numero di ornamenti che era lecito indossassero rispettivamente l’uomo, la donna maritata e la giovane da marito, si pensava di convincere l’opinione pubblica che un abbigliamento relativamente modesto e banchetti meno sfarzosi non sarebbero stati più intesi come sintomo
di decadenza economica e sociale, bensì visti come un debito ossequio alla volontà regale.
A prima vista i più danneggiati da questi provvedimenti avrebbero dovuto essere proprio gli orefici, il
che invece probabilmente non accadde sia per la loro particolare clientela sia perché, come è noto, le
pragmatiche suntuarie vennero da molti, con i più vari pretesti, sostanzialmente disattese.
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Il Crocifisso venerato nella chiesa di S. Eligio in Cremona, immagine a stampa,
Archivio Storico Diocesano di Cremona
1610: gli orefici sottoscrivono
alcune aggiunte ai loro statuti
Fu quindi in un periodo di ormai diffusa crisi economica e di fervore religioso che, come risulta da un documento conservato nel nostro Archivio,
l’Arte degli Orefici pensò di porre mano ad un aggiornamento degli statuti redatti, come detto, nel 1429.
Molte cose, nel frattempo, erano cambiate in città: tramontate le signorie dei
Visconti, dei Cavalcabò, del Fondulo, l’interludio veneziano nonché il dominio dell’ultimo Sforza, nel 1535 Cremona passava, col Ducato di Milano, alla
dominazione spagnola.
Agli inizi del successivo secolo XVII i nostri orefici sentirono l’esigenza, certo anche spinti dall’imperante clima della Controriforma, di apportare qualche
modifica alle antiche norme statutarie non fosse altro per adeguarle, secondo lo
spirito dei tempi, alle più attuali aspirazioni religiose, etiche e sociali.
Esaminando brevemente gli elementi più interessanti che emergono dalle
tredici norme approvate da Filippo III nel 1610, vediamo che le nuove disposizioni si aprivano con l’obbligo per l’Arte di far celebrare, pro invocando Divino auxilium, una messa quotidiana all’altare di sant’Eligio, posto nella parrocchia
dei Santi Faustino e Giovita, nonché di festeggiare solennemente il giorno a lui
dedicato con la totale astensione dal lavoro: erano ormai lontani i tempi in cui
la religiosità si limitava ad elencare le feste di precetto in calce agli statuti.
Seguiva, altro impegno del tutto nuovo per l’Arte, l’obbligo di prestare soccorso ai colleghi caduti in povertà, nonché a quelli colpiti da malattia, utilizzando, allo scopo, i mezzi che gli iscritti erano tenuti a fornire in occasione della festa di s. Eligio.
Si concedevano poi nuovi poteri agli ufficiali della Corporazione, si inasprivano i provvedimenti nei confronti del forestiero che volesse aprire bottega in Cremona con l’imposizione, oltre al pagamento del debito tributo, di un
tirocinio di almeno 5 anni presso un orefice locale.
Importante anche l’introduzione del concetto di ‘licenza’ sia per l’esercizio
dell’attività che per l’assunzione di apprendisti, sempre comunque previo un tributo da versarsi anche qualora si trattasse di familiari: nel complesso le nuove
norme evidenziavano la tendenza ad imprimere all’appartenenza all’Arte un carattere sempre più chiuso nonché coercitivo.
Ancora era ribadito, con le ultime disposizioni, l’obbligo di astenersi dal
lavoro nel giorno dedicato al patrono e di presenziare sempre alle sedute di
congregazione salvo giustificare l’assenza con un legittimo impedimento: serpeggiava evidentemente fra gli orefici un latente disinteresse agli affari della comunità con conseguente personale disimpegno.
L’approvazione delle aggiunte statutarie venne concessa dal dominus pur
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Anonimo, quadro ad olio raffigurante s.Andronico argentiere, sec. XVII,
Uffici della Curia Vescovile di Cremona
con qualche rettifica in tema di tributi, e soprattutto con la raccomandazione
all’Arte di non dare licenza d’esercizio ad uomini di cattivi costumi, di mala fama e di non integra fidei.
Si trattava, nel complesso, di norme in perfetta sintonia con le istanze etiche
e religiose che andavano accentuandosi nel momento storico in cui vennero
emanate.
Circa la valenza nel tempo di queste ‘aggiunte’ statutarie decise nel 1610 è
interessante un documento datato 11 dicembre 1778 conservato nell’Archivio
camerale e a firma del regio delegato Agostino Cavalcabò nonché dell’abate, dei
consoli e del sindaco dell’Arte. In esso, dopo aver stabilito titolo e prezzo, in
Cremona, dell’oro e dell’argento lavorato, si ribadiva l’obbligo per gli orefici di
marchiare col proprio bollo tutti gli oggetti realizzati con i suddetti metalli e si
richiamavano, al proposito, le sanzioni comminate dagli statuti.
Allegata a questa disposizione, abbiamo trovato una copia, sempre manoscritta, degli statuti emanati nel 1429, che li riproduce esattamente senza alcuna
modifica dall’originale e quindi totalmente privi delle norme aggiunte nel
1610. La parola “Stampa”, annotata trasversalmente sulla prima pagina, lascia
supporre che si fosse decisa una diffusione capillare del testo statutario, magari per assicurarsi che nessuno potesse accampare… l’ignoranza della norma.
Se nel 1778 era quindi ancora vigente lo statuto datato 1429 senza traccia
delle aggiunte fatte nel 1610, dobbiamo pensare che queste ultime o ebbero
una valenza solo transitoria o, più facilmente, fossero considerate, almeno sotto il profilo giuridico, di semplice natura regolamentare e quindi successivamente trascurabili, senza ulteriori formalismi, a seconda dei momenti o delle
circostanze. Questo anche se è noto che non sempre i testi statutari vennero rifatti ogni volta che si aggiungeva o si toglieva qualcosa.
Ancora in argomento va detto che, nonostante gli statuti del 1429 prevedessero le cariche associative costituite da due consoli e un notaio e che tale
composizione venisse esattamente riportata nella copia del 1778, già agli inizi
del ’600 troviamo nei documenti i due consoli affiancati dalla figura predominante di un abate: d’altronde anche nel caso più sopra citato è un abate
che puntualmente sottoscriveva una copia di statuti dove… non era prevista la
sua esistenza.
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Secolo XVII:
quanti e chi erano gli orefici a Cremona
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Nei primi decenni del ’600 l’Università degli Orefici, certo incentivata anche dal nuovo clima di fervore religioso che si respirava in città, decise di meglio onorare il proprio santo patrono con un’opera alla quale nessuna altra
corporazione cremonese si era mai cimentata: costruire, totalmente a proprie
spese, un’intera chiesa a lui dedicata.
Ripensando a questa impegnativa impresa viene spontaneo chiedersi quanti e
quanto facoltosi ed importanti potessero essere gli orefici attivi in Cremona in
quegli anni del primo ’600 e per avere una risposta, in mancanza di un libro matricola della corporazione, possiamo solo ricorrere alle annotazioni fatte dall’Università dei Mercanti nei fascicoli degli “estimati” sotto la specifica voce “Orefici”.
Da questi elenchi sappiamo che gli orefici tassati fra il 1615 e il 1617 erano
una quarantina e versavano, complessivamente, un importo di 53 lire e 35
soldi. Nel successivo 1623 i 39 orefici annotati pagavano complessive 67 lire e
16 soldi. Dal 1627 al 1630 gli iscritti erano 46 tassati per complessive 73 lire e
10 soldi. Infine nel 1631, dopo la grande peste, gli orefici appaiono ridotti a 25
e dovevano versare, sempre complessivamente, 56 lire e 7 soldi.
Si evidenzia quindi che nei 15 anni che vanno dal 1615 al 1630 (anno della peste) il numero degli orefici soggetti a tassazione non ebbe a subire forti
oscillazioni, mentre quasi si dimezzò nel 1631: l’alta incidenza dei morti e di
coloro che, lasciata la città per fuggire al contagio, si erano poi definitivamente stabiliti altrove, fece sentire i suoi effetti sulla consistenza numerica non solo degli orefici ma di tutte le categorie.
Il complesso dei dati ricavati dai fascicoli dagli estimi relativi all’Ars Aurificum
offre due ulteriori spunti di riflessione: uno la numerosità degli orefici attivi in
rapporto alle dimensioni di una popolazione ridotta e in larga parte costituita
da nuclei famigliari poco abbienti, l’altro il livello relativamente basso del carico tributario imposto alla categoria.
Considerato che la popolazione della città variò, nel primo trentennio del
’600, fra i 37 e i 40 mila abitanti (numero poi drasticamente dimezzato dalla
grande peste del 1630) viene da chiedersi come potessero esserci lavoro e
guadagno per un numero d’orefici attestato, proporzionalmente, in misura di
uno ogni mille abitanti, dei quali, la maggior parte, si ripete, certo non abbienti.
Da altri registri d’estimi riferibili ad una decina d’anni dopo la peste le risultanze si mostrano per lo più analoghe: nel 1641 i 32 orefici annotati pagavano complessive 31 lire e 15 soldi e nel 1645 i 31 orefici erano tassati per 38
lire e 9 soldi: tutti a servizio di una popolazione ridotta fra i 15 e i 17 mila abitanti e, come detto, diffusamente non in buone condizioni economiche.
Osservando poi l’ammontare delle tassazioni imposte alla categoria degli
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Pietro Cozzi, argentiere cremonese, calice secc. XVIII - XIX,
Cattedrale di Cremona
I fascicoli degli “Estimi” conservati nell’Archivio Storico Camerale elencano i nomi di coloro che fra la
fine del secolo XVI e la metà del XVII erano soggetti alla tassazione mercantile. Col 1615 da essi è rilevabile, oltre la sede e gli importi versati, anche l’attività esercitata in quanto gli iscritti risultano raggruppati sotto le Corporazioni di appartenenza che erano, fra l’altro, i loro sostituti d’imposta nei confronti del Fisco.
La pestilenza del 1630, che si abbatté tanto duramente anche su Cremona, ebbe effetti devastanti per
la popolazione colpendo, in particolare, il ceto meno abbiente che viveva in condizioni igieniche deficitarie e non aveva i mezzi necessari per allontanarsi dalla città.
Confrontando i fascicoli degli “estimi” negli anni che precedettero la peste con quelli redatti nel
1631, ossia una volta terminato il contagio, vediamo la disastrosa entità dei vuoti creati dalla malattia.
Citiamo, a titolo esemplificativo, i numeri di raffronto per alcune categorie: l’Arte della Merzadria
passò da 191 a 108 iscritti, l’Arte del Bombace da 136 a 60, l’Arte della Lana da 116 a 41, l’Arte degli Osti da 67 a 38, l’Arte dei Marangoni da 67 a 15, l’Arte dei Fabbri da 55 a 37, l’Arte dei Calzolai da
49 a 34, l’Arte degli Orefici da 46 a 25, l’Arte degli Aromatari da 27 a 18, l’Arte dei Tintori da 24 a 9
e l’Arte dei Librai da 13 a 7: nella media si può parlare di dimezzamento.
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Annunciazione e Dottori della Chiesa, statuette (cm. 4,5) di fattura cremonese in argento
sbalzato, parzialmente dorato, fine sec. XV, Museo Amedeo Lia, La Spezia
orefici e confrontandole con quelle riferite ad altre corporazioni vediamo che
le cifre complessive sopra elencate appaiono piuttosto esigue.
Sorge ovviamente a questo punto un interrogativo: ma chi erano, in effetti,
questi numerosissimi orefici accuratamente elencati dall’Università dei Mercanti
al fine di far loro versare il ‘giusto’ tributo? Erano tutti artigiani con regolare
bottega in grado di realizzare, su ordinazione o meno, suppellettili per uso di
culto e domestico nonché gioielli ornamentali? Oppure erano anche semplici operai che provvedevano, magari nella loro stessa abitazione, a lavorazioni secondarie e sussidiarie a servizio dell’oreficeria vera e propria?
Con queste premesse, e pur sempre con tutte le riserve sulla completezza ed
attendibilità degli ‘estimi’, potremmo avanzare due diverse ipotesi sull’alto numero degli orefici.
La prima è che per la loro particolare abilità gli artigiani locali avessero una
buona clientela anche oltre i confini cittadini. Questa è una soluzione da vagliare
con prudenza in quanto se è noto che diverse preziose opere di nostri orafi sono ancora oggi presenti in diverse altre città dove spesso erano chiamati per l’esecuzione di specifici lavori, non si può di contro trascurare il forte deterrente
costituito dalla vicinanza di Cremona a Milano, grandissimo centro orafo capace
di esercitare una forte attrazione sulla clientela più ricca e qualificata.
La seconda, più banale ma più concreta, è che venissero elencati sotto
l’Arte degli Orefici anche quelli che si dedicavano a produzioni collaterali, prevalentemente esercitate a domicilio, come l’indoratura di oggetti e mobili e la
filatura dell’oro e dell’argento, quest’ultima probabilmente anche per conto degli stessi orefici e dei merzari. Ricordiamo come, all’epoca, i filati d’oro e
d’argento fossero largamente impiegati nell’ordito o nella trama dei più ricchi
tessuti nonché nella confezione dei preziosi ricami che ornavano gli abiti da cerimonia, al punto da richiedere l’attività di molti specializzati.A questi vanno
aggiunte le confezioni di passamanerie, bottoni, fibbie, ganci largamente usati anche nelle divise degli alti gradi militari.
Una conferma di quest’ultima ipotesi la troviamo nel fascicolo dell’estimo
relativo ad alcune aggiunte di nomi fatte per l’anno 1615, dove è iscritto un
certo Josepho Pisente detto il Sabioneda della vicinia S. Margherita per l’attività di “battiloro”, categoria che non figura a sé stante negli estimi e che era
quindi certamente conteggiata fra gli orefici.
La possibile presenza nella Corporazione degli Orefici di questi piccoli artigiani potrebbe infine validamente spiegare, oltre che l’alto numero degli
iscritti in rapporto alla popolazione, anche la circostanza che buona parte dei
nominativi annotati come orefici nel primo trentennio del secolo fosse tassata prevalentemente per cifre modeste o modestissime.
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Gli orefici a Cremona nel secolo XVIII
fra riforme e censimenti
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Per gli anni seguenti, ossia circa dalla seconda metà del secolo XVII alla fine
del successivo, non disponiamo più di dati ufficiali utili per una qualsiasi analisi
della consistenza numerica degli orefici: i diversi elenchi redatti in particolari circostanze hanno infatti carattere parziale, sono strettamente relativi agli oggetti trattati nei singoli documenti e appaiono spesso anche in contraddizione fra loro.
Per avere un primo oggettivo riferimento, sia pure per sua natura approssimativo, dobbiamo giungere a cavallo fra i due secoli e precisamente fra gli
anni 1693 - 1716. Si riferisce infatti a questi anni l’unico esemplare rimasto in
Archivio dei verbali delle sedute degli Orefici dal quale apprendiamo che gli
iscritti presenti (che variavano a seconda delle occasioni dai 10 ai 15 nominativi) erano duas partes ex tribus omnium Aurificum Universitatis, ossia due terzi di
tutti gli appartenenti all’Arte. La loro consistenza risulterebbe quindi variare fra
i 15 e i 20 iscritti, numeri questi confermati anche da altri documenti di quegli anni e il tutto a fronte di una popolazione ridotta a circa 20.000 abitanti
nonchè ad un mercato ormai a raggio molto limitato.
Anche sulla localizzazione delle botteghe non abbiamo notizie precise fino
alla fine del ’700 in quanto le “vicinie” di residenza, segnate negli estimi accanto
a ciascun iscritto, dovrebbero riferirsi più alle abitazioni che alle botteghe in osservanza di una disposizione degli statuti comunali. Analoghe perplessità rimangono anche per i diversi nominativi ritrovati sparsi.
Al proposito vediamo da una “supplica” dell’8 gennaio 1718, conservata
nell’Archivio Camerale, un gruppo di orefici chiedere l’esenzione dalla carica
di “console della vicinia di residenza” giustificata, ai loro occhi, non solo dalle
numerose assenze dalla città dovute ai lunghi viaggi d’affari ma anche, e anzi in
primo luogo, dalla distanza delle botteghe dalle abitazioni.
Così infatti affermavano:“cischuno… tiene bensì la sua rispettiva Bottega
nella pubblica Piazza e suo vicinato ma la casa di habitazione resta sparsa per la
città e di molti in grande lontananza dalla bottegha…”.
Se comunque la prima motivazione poteva avere un certo fondamento, altrettanto non sembra per la seconda in quanto, come vedremo anche in seguito,
nel ’700 era ancora molto diffusa l’abitudine di avere contigue casa e bottega.
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Tipica casa-bottega del centro mercantile di Cremona
Ancora oggi nel centro storico della città è facile distinguere, anche se a volte parzialmente alterate da
rifacimenti successivi, esemplari di quella casa-bottega che fu tipica dimora di artigiani e commercianti
fin dall’età di mezzo e che sopravvisse a lungo nell’urbanistica locale: strette facciate sulla strada
composte da uno spazio-bottega al piano terreno e da una finestra su ognuno dei piani superiori
mentre altri locali si sviluppavano eventualmente all’interno dell’edificio.
Le riforme Teresiane
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Ma tempi nuovi stavano avanzando e la ‘scienza economica’ di recente formulazione aveva aperto la strada a quelle riforme d’ispirazione illuminista,
nelle quali i monarchi della casa d’Austria videro subito lo strumento migliore per risollevare le sorti economiche del Ducato.
Emerge, importantissima fra i provvedimenti riformatori del sistema economico lombardo, la decisione di sopprimere le antiche Corporazioni d’Arti
considerate nella cultura del momento non solo superate ma addirittura dannose e di fondamentale ostacolo, con la loro politica monopolistica, all’apertura
di quei più vasti orizzonti che avrebbero dato l’indispensabile respiro alla produzione e al commercio.
Tuttavia se agli occhi dei riformatori illuminati i Corpi d’Arte, da anni
inesorabilmente impegnati a lottare contro la libera concorrenza, andavano
drasticamente eliminati, vediamo che questa tesi, naturalmente avversata con
ogni mezzo dai diretti interessati, non era neppure universalmente condivisa in
tutte le sedi, forse per il ricordo ancora vivo di una tradizione corporativa
per secoli legata alle fortune dell’economia cittadina.
A queste divergenze, oltre che ad alcuni inevitabili ostacoli d’ordine fiscale e
burocratico, si deve la cautissima gradualità con la quale, dopo lunghe discussioni,
il Governo austriaco giunse a disporre lo scioglimento delle Arti nelle varie città del Ducato iniziando proprio con Cremona: era il 7 maggio 1776.
Il procedimento di soppressione concesse tuttavia anche nella nostra città
qualche eccezione ed una di queste riguardava proprio gli orefici la cui corporazione riuscì in tal modo a sopravvivere fino alla fine del secolo, pur con
funzioni sempre più ridotte e sempre più a carattere privatistico.
In effetti, data la delicatezza della materia trattata dalla categoria, potevano
sussistere valide incertezze sulla capacità di persone estranee all’Arte di garantire la vigilanza tecnica necessaria a salvaguardare la costante osservanza
dei canoni qualitativi in tema di produzione e commercio dei preziosi. Si
concordava così, implicitamente, almeno sotto questo limitato profilo, con
coloro che avevano avversato l’indiscriminata soppressione delle Arti.
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Insegna di bottega dell’orefice Vincenzo Trovani (registrata il 27 febbraio 1606),
Archivio Storico Camerale di Cremona
Ricordiamo come Cesare Beccaria, uno dei primi riformatori lombardi, sottolineava, ancora nel 1787,
che una volta soppressa in Milano la Corporazione degli Orefici, l’esigenza di tutelare la bontà dei preziosi andava garantita dall’inclusione di un orefice fra gli abati della Camera Mercantile e altrettanto doveva farsi per altre specifiche Arti quali quelle degli Speziali, dei Librai e degli Stampatori. Dai documenti
del nostro Archivio risulta che a Cremona l’inclusione di un orefice nel Consiglio della Camera avvenne
effettivamente, come vedremo, il 4 giugno 1792.
Iniziano i censimenti anagrafici delle ditte
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Consideriamo ora la consistenza degli orefici a Cremona in quell’ultimo scorcio del secolo XVIII quando la popolazione era lentamente cresciuta fino a circa 25.000 abitanti e la città, orientata anche ad avviare un processo di rinnovamento urbanistico, iniziava ad aprirsi alle più attuali tendenze.
Nell’ottobre del 1787 Giuseppe II affidava alle Camere Mercantili la rilevazione censuaria “di tutti li Negozianti ed Artisti” della città e del distretto di
Cremona e questa monumentale rilevazione, i cui fascicoli sono conservati
nell’Archivio Storico dell’ente, ci consente non solo di fare il punto, al 1787,
della consistenza di tutte le ditte operanti, appunto, nella città e nel distretto di
competenza della Camera Mercantile di Cremona, ma anche di acquisire dati particolarmente precisi.Tutti i censiti sono infatti elencati secondo l’attività
svolta e, per ogni nominativo, viene riportata l’età del titolare, l’anno di inizio
dell’esercizio, l’indirizzo della bottega e quello dell’abitazione nonché numero e nomi dei rispettivi “lavoranti e “garzoni”.
Scrupolosamente redatte per categorie merceologiche, queste “Notificazioni” ci dicono che in Cremona operavano ben 35 orefici i quali, a loro volta, davano lavoro a 23 lavoranti ed a 7 garzoni: permaneva quindi una numerosa presenza di orefici nell’ambito di una popolazione che, come abbiamo detto, in quegli anni si aggirava sui 25.000 abitanti.
Le registrazioni volute da Giuseppe II appaiono estremamente analitiche e
annotano distintamente molte di quelle attività che, in passato, erano genericamente riconducibili agli orefici: abbiamo qui infatti elenchi a sé stanti di
“Argentieri” (in numero di 4 con 6 lavoranti e 7 garzoni), di “Lavoranti in pietre d’anelli e granate” (10 i primi e 17 i secondi) ed inoltre vengono individuate altre due categorie: quella degli “Orologiai” ( 3 iscritti) e quella degli “Indoratori” (19 iscritti).
La precisione delle informazioni ci consente anche un’idea della dislocazione
degli esercizi sul territorio cittadino e osserviamo che le botteghe degli orefici erano, nella quasi totalità, ubicate attorno alla Cattedrale (ossia nelle attuali
via Baldesio, Solferino, Mercatello, Guarneri e corso Campi) e in larga prevalenza (18 su 35) l’iscritto aveva negozio e abitazione nella medesima casa.
Ricordando, a questo punto, la citata “supplica” fatta dagli orefici nel 1718
dove, per ottenere l’esenzione da una carica ritenuta troppo impegnativa, si accampava la prevalente grande distanza fra abitazione e bottega, dobbiamo concludere che, dopo circa mezzo secolo, la giustificazione addotta sembra… decisamente pretestuosa.
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Uno dei doni offerti alle varie effigi della Madonna nella Cattedrale di Cremona,
secc. XVIII - XIX,Archivio Storico Diocesano di Cremona
Una curiosa coincidenza: in quell’anno 1787, quando la Camera Mercantile, per incarico dell’imperatore
Giuseppe II, metteva mano al primo vero censimento delle ditte, in città si iniziava l’abbattimento di una
parte delle sue antiche mura per realizzare la grande innovazione del ‘Pubblico Passeggio’ dalla Porta S. Luca alla Porta Ognissanti (oggi Porta Venezia).
Università, Arte, Paratico e poi… Collegio: ad un certo momento gli orefici cremonesi iniziarono a definire la propria organizzazione mercantile con la più prestigiosa denominazione di “Collegio”, in genere riservata alle professioni. Lo riscontriamo dai diversi documenti conservati in Archivio senza che
però dagli stessi risulti il momento in cui si verificò questo passaggio che, di norma (come avvenne
ad esempio per gli speziali), era sancito da un atto ufficiale emanato dall’autorità.
Dalla documentazione d’archivio possiamo dire che i nostri orefici presero a qualificarsi costantemente
come Collegio negli scritti databili, più o meno, attorno alla metà del Settecento.
Il secolo XIX: gli ultimi censimenti
e il tramonto della corporazione
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Erano trascorsi poco più di 20 anni dalla registrazione voluta da Giuseppe II
quando alla città, passata ai francesi, fu chiesto di provvedere, sempre attraverso
la Camera Mercantile, all’avvio di un’altra registrazione delle ditte, secondo gli
ordini del nuovo governo.
Dalla stessa, anch’essa ordinata in volumi conservati nell’Archivio Storico
Camerale, vediamo che fra il 1804 e il 1810 la consistenza degli orefici tornava
a superare la trentina e comprendeva un argentiere, un venditore di orologi e bigiotteria d’oro e d’argento e un altro di capi d’oro e d’argento, nonché due
gioiellieri, il tutto a fronte di una popolazione cittadina che, in quegli anni,
era calcolata in poco più di 21.000 unità.
Rimaneva quindi ancora alto l’ormai tradizionale dislivello fra il numero
degli orefici e quello della popolazione residente che, fra l’altro, tendeva in
quegli anni a scendere di qualche migliaio d’unità, sia pure con oscillazioni di carattere ondulante in quanto spesso legate alle frequenti epidemie di colera.
Nel periodo appena successivo, ossia fra il 1811 e il 1813 (la popolazione cittadina in questi anni era ritornata sulle 25.000 unità), vennero aggiunte le
iscrizioni di altri 14 operatori sfuggiti alla precedente denuncia e qui troviamo
alcune annotazioni curiose: uno dei “rivenditori girovaghi di capi d’oro e d’argento”, precisava di “girare per 5 mesi all’anno”, un paio di argentieri chiarivano
di esercitare l’attività “per la maggior parte in semplici manifatture”, come fece Pietro Cozzi, o “per la massima parte in semplici manifatture commesse” come dichiarò Giuseppe Spinoni.
Non è dato conoscere con quali intenti fossero fatte queste precisazioni,
salvo intravedervi un tentativo di minimizzarsi ai fini fiscale: questo potrebbe essere stato il caso del Cozzi, di cui sono rimasti fra le suppellettili della Cattedrale
di Cremona numerosi e bellissimi lavori di argenteria che egli regolarmente
marcava con il proprio punzone.
Si tramanda, al proposito, che Pietro Cozzi fosse l’argentiere di fiducia di
Omobono Offredi che rimase a lungo nella diocesi cremonese: arciprete della
Cattedrale dal 1774, parroco della stessa dal 1788 e vescovo dal 1829.
Intanto, nonostante che la popolazione cittadina andasse lentamente crescendo (negli anni ’30 dell’ ’800 aveva raggiunto circa 27.000 abitanti), il numero
degli orefici prese a diminuire.
E’ qui facile pensare che non fossero estranee a questa inversione di una
consolidata tendenza, da un lato i cambiamenti di una moda che, se nell’abbigliamento femminile aveva decisamente ridotto l’impiego dei preziosi tessuti di
filo d’oro e argento e gli analoghi ricami intarsiati, li aveva completamente
aboliti in quello maschile e, dall’altro lato, la maggior facilità di contatti con le
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Pietro Cozzi, argentiere cremonese, calice, sec. XVIII - XIX,
Cattedrale di Cremona di Cremona
più vivaci città viciniori che, meglio di Cremona, avevano potuto reagire alla regressione economica partita dal secolo precedente.
Soprattutto iniziava a pesare negativamente sulla nostra economia la vicinanza
con quella Milano che, capoluogo del nuovo Regno Lombardo-Veneto e ormai
più facilmente raggiungibile, attirava con il prestigioso livello delle sue offerte
molti degli acquisti del ceto abbiente cremonese.
Infine, prendendo in esame l’ultima “Notificazione di tutte le ditte”, ordinata
nel 1850 dal governo austriaco, rileviamo attivi quell’anno in città solo una
quindicina di orefici più sei orologiai, tre “venditori di oggetti d’oro e d’argento”
girovaghi e un solo “indoratore”.
A proposito di orologiai aggiungiamo che dal 1820 era iscritto un certo Giuseppe Pozzali che, con il figlio Angelo,“fabbricava” in Cremona orologi da torre.
La popolazione cittadina, in quell’anno 1850, aveva raggiunto le 28.451 unità.
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Si riparla della chiesa di Sant’Eligio
Avevamo iniziato a tracciare questa breve panoramica sulle vicende dell’Arte
degli Orefici cremonesi partendo dalla chiesa di S. Eligio, eretta dalla Corporazione nel 1620 in onore del suo santo patrono e tuttora visibile nell’attuale via
Bonomelli affiancata da una piccola casa, essa pure di proprietà del Collegio. La
casa veniva periodicamente affittata a sacerdoti o a persone disponibili a garantire contrattualmente la pulizia della chiesa e a rendere qualche servizio alla
Corporazione stessa.
Riprendiamo ora l’argomento per osservare anzitutto, come questo oratorio,
pur ufficialmente intitolato a s. Eligio, fosse noto in città anche col titolo della Beata Vergine di Caravaggio come è dimostrato da numerosi documenti d’archivio.
Lo stretto legame fra gli orefici e la devozione alla Madonna di Caravaggio risulta ufficializzato nei verbali delle loro sedute che così solitamente iniziavano: …
Congregati in Ecclesia Divi Eligij vulgariter noncupatam della B.V.di Caravaggio sita in
contrada Prati Episcopi… e lo si riscontra anche nelle immagini stampate sulle
“grida” che l’Arte, nel secolo XVII, periodicamente emanava per stabilire il valore dei metalli preziosi.
Queste “grida”, di formato piuttosto piccolo, raffigurano infatti nella parte superiore l’immagine di s. Eligio in paramenti vescovili affiancata a quella dell’apparizione della Madonna a Giannetta sullo sfondo della chiesa parrocchiale di
Caravaggio come da iconografia tradizionale. I testi dei periodici provvedimenti si presentano impreziositi da una cornicetta.
Regolarmente officiata, S. Eligio fu oggetto di tre visite pastorali: nel marzo
1672 del vescovo Agostino Isimbardi, nell’aprile del 1699 del vescovo Alessandro
Croce e nel 1721 del vescovo Alessandro Litta.
Dalla relazione di quest’ultimo rileviamo alcune caratteristiche della chiesa: il
pavimento in laterizio, la luce proveniente da una finestra a vetri “triplicata” e
collocata sopra la porta d’ingresso, la sagrestia posta dietro l’altare. Il lampadario
era d’auricalco e, nell’unica navata, vengono descritti quattro altari.
Quello dedicato alla Madonna di Caravaggio, corredato da un basamento in
legno che sosteneva la statua raffigurante l’apparizione a Giannetta “genuflessa
orante”, era circondata da molti ex voto.
Nell’altare in onore del patrono due angeli affiancavano una tavola, incorniciata in legno, raffigurante s. Eligio.
Un terzo altare racchiuso in un cancello di legno era ornato da statue d’angeli
in parte dorate.Venne eretto nel 1629 sotto il patronato di Marcantonio Navaroli.
Il quarto altare, voluto dal “Collegio dei Signori Orefici”, che lo aveva anche ‘dotato’ per la celebrazione di almeno 12 messe l’anno, era sotto il titolo di s.Vincenzo
Ferrerio e fu collocato nella chiesa il 22 maggio del 1777, con licenza della Curia.
Completava l’arredo della chiesa un quadro raffigurante “la Beata Vergine et
il Signore Gesù et S. Giuseppe” come attesta un documento del 1630.
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Particolari della navata e della volta nella chiesa di S. Eligio, Cremona
Vincenzo Ferrer (Ferrerio) nacque a Valenza nella seconda metà del secolo XIV e morì in Francia nel
1419. Il culto per questo domenicano, dotato di particolare carisma nella cura delle malattie, si estese velocemente anche in Italia, dalle città del sud a quelle del nord (in particolare Milano e Piacenza),
tanto che, in suo onore, furono erette chiese, cappelle ed altari. Ci resta la formula della sua dedizione
miracolosa agli ammalati: super aegros manus imponent et bene habebunt.
Sempre dai numerosi atti conservati nell’Archivio Camerale sappiamo che
in S. Eligio, oltre alla celebrazione della Messa quotidiana aperta al pubblico, si
teneva anche l’insegnamento della dottrina cristiana alle femmine.A quest’ultimo proposito la relazione della visita del vescovo Litta precisa che la larga dotazione di sedili era in parte di proprietà dei privati ma altri vennero messi a
disposizione dalla chiesa di S. Cristoforo che era, appunto, il centro cittadino per
l’insegnamento della dottrina cristiana.
Infine diversi elenchi ci danno notizie sulla dotazione di suppellettili della
chiesa e si ricordano, in particolare, le numerose e preziose vesti della statua della Madonna, prevalentemente seriche e ricamate, tessute con fili d’oro e d’argento nonché le corone da rosario e da testa: una di queste ultime, come descritta in una nota del 1630, era d’argento e ornata con 16 pietre fini come giacinti, ametiste, granati e smeraldi. Da notare che analoga descrizione è ripetuta nel 1696 e nel 1705.
La manutenzione della chiesa, che era anche sede delle riunioni dell’Arte e
che frequentemente necessitava di riparazioni, era garantita dai contributi degli orefici, elargiti secondo le esigenze del momento nonché nella misura delle diverse disponibilità finanziarie degli iscritti.
Di S. Eligio non conosciamo una stima economica in quanto tutte le elencazioni patrimoniali la definiscono sempre “inistimata” a differenza della casa
annessa della quale, in alcuni casi, viene precisato il valore.
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La chiesa di S. Eligio
diviene proprietà della Camera di Commercio
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Con il decreto di Giuseppe II del 17 luglio 1786 si disponeva il trasferimento di tutti i beni delle soppresse corporazioni alla Camera Mercantile così che anche S. Eligio e la casa annessa entrarono in possesso dell’ente camerale.
Poco chiare appaiono le vicende della chiesa dopo tale data, anche perché le
fasi del passaggio del patrimonio degli orefici alla nuova proprietà furono lunghe, complesse e accidentate da contestazioni, ricorsi e cavilli burocratici, senza poi contare gli intralci legati alla parentesi di dominazione francese.
Interessante, sotto il profilo giuridico, l’affermazione fatta dalla Camera di
Commercio nel 1796 quando, rispondendo a una nota dell’Amministrazione
Generale del Fondo di Religione, affermò non esserci mai stata una formale
soppressione del Corpo degli Orefici ma solo lo stesso doveva ritenersi “concentrato” nella Camera di Commercio.
Sta di fatto che già col 1792, per direttiva superiore (conforme ad un parere espresso cinque anni prima da Cesare Beccaria), un orefice era stato compreso fra gli abati della Camera: il primo fu Stefano Pizzamiglio al quale, nel
1799, subentrò Innocenzo Riva.
Sappiamo comunque che nel 1798 la chiesa di S. Eligio era, sotto il profilo
religioso, definita come ‘sussidiaria’ della parrocchia della Trinità passando poi,
sempre con lo stesso titolo, alla parrocchia dei Santi Imerio e Clemente.
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Documento di consegna dei paramenti agli assistenti di S. Eligio, 1630,
Archivio Storico Camerale di Cremona
Nell’Archivio camerale è conservato un “Inventario, o sia Repertorio” datato 1727 che elenca libri, atti ed oggetti a tale data in possesso all’Università. Purtroppo questa consistenza di beni ha ben poca
corrispondenza con quanto effettivamente, alla fine di quel secolo passò, in forza di legge, alla Camera
di Commercio.
Particolarmente da lamentare la sparizione dei numerosi oggetti che sarebbero stati per noi di grande interesse come: “una Conserva con dentro un Assaggio con sue Tocche d’oro dalle dodeci bontà à tutte le venti tre. Tre ferri per bollare con sopra l’impronta della morte, in una scatoletta. Un ferro da sigillare con sopra l’immagine di S. Eliggi e un altro ferro da sigillare con sopra S. Eliggi in ottone”.
Va poi aggiunta una “borsa in pelle con entro li originali de’ Pesi dell’Università ed un Ferro per Bollare”
nonché i “due stampi, uno di legno et altro in piombo della B. M. V. di Caravaggio et di S. Eliggi”.
La vendita del “Beneficio Villani” e della chiesa
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Nella seduta del 20 ottobre 1871 il Consiglio della Camera di Commercio,
preso atto che era entrato definitivamente a far parte del suo patrimonio un
“beneficio semplice ecclesiastico” passato al Demanio, decise di avviare la
pratica per rivendicarne la proprietà: il “beneficio” in questione era stato istituito l’8 dicembre 1660 dall’orefice Francesco Villani “sotto l’invocazione
della B.V. di Caravaggio nella chiesa di S. Eligio” con l’assegnazione dei redditi di due case - una in contrada Beccherie Vecchie e una nella contrada
all’angolo di S. Nicolò - da utilizzarsi per la celebrazione della “Messa continua e perpetua in detta chiesa”.
Rileviamo dai verbali delle deliberazioni del Consiglio Camerale che l’ente riteneva economicamente poco vantaggioso l’aver “inglobato” nel proprio
patrimonio la chiesa di S. Eligio e l’annessa casa, acquisizioni che destavano vive preoccupazioni in molti consiglieri, assai dubbiosi sulla redditività del complesso e timorosi, fra l’altro, che i costi di manutenzione finissero col superare
i tenui introiti ricavabili dall’affitto della casa.
Queste considerazioni negative finirono col prevalere in Consiglio tanto
che, con provvedimento in data 18 febbraio 1873, si optò per la vendita.
Anche questa decisione non tranquillizzò però del tutto i consiglieri che, impensieriti delle possibili reazioni da parte dell’autorità religiosa e della Fabbriceria della chiesa dei SS. Imerio e Clemente, vollero garantirsi giuridicamente chiedendo un “voto legale”, all’avvocato Bonifacio Martinelli.
Il parere risultò favorevole alla vendita, ritenuta legittima sia perché “l’uso
pubblico di culto” era da molto “passato in prescrizione”, sia perché “la proprietà è passata alla Camera senza vincoli e per decreto del Principe”.
Il 23 settembre dello stesso anno il Consiglio Camerale approvò l’avviso d’asta che stabiliva come prezzo di base della chiesa e della casa complessive lire
4.000 fissandone la data di esecuzione al 25 ottobre dalle ore 12 alle 2 pomeridiane. Il tutto previo “doveroso” avviso alla Curia.
Risolta infine l’ultima opposizione sollevata dal parroco della chiesa dei
santi Imerio e Clemente, con atto del notaio Giovanni Fezzi del 13 febbraio
1874, S. Eligio e la casa annessa passarono dalla proprietà della Camera a quella del farmacista Pietro Fermini che aveva, a sua volta, agito “per persona da nominare”: l’antica chiesa degli Orefici era ormai proprietà privata.
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Pergamena con i nomi di 16 orefici cremonesi per 14 dei quali è anche
allegato il punzone, sec. XVIII, Archivio Storico Camerale di Cremona
Beccherie Vecchie era il nome dell’attuale via Solferino mentre la chiesa di S. Nicolò era ubicata sull’angolo delle odierne via Cavallotti e via Verdi, dove oggi è il palazzo delle Poste.
S. Eligio: oggi
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Chi oggi volesse entrare in S. Eligio attratto dalla buona conservazione della facciata, troverebbe purtroppo solo tracce molto labili di quella che fu la bella chiesa del Collegio degli Orefici di Cremona con i suoi altari, le sue statue,
i suoi quadri e le ricche suppellettili.
Tuttavia, pur fra tramezze e controsoffittature usate per ripartirla in più locali, resta visibile il grande spazio centrale ancora completo di lesene e l’ampia
volta del soffitto illuminata dal finestrone triforato della facciata. La volta appare
oggi ornata da alcune pitture sacre più o meno databili fra fine Ottocento e inizio Novecento e, nel complesso, lo stato di abbandono sia della chiesa che
della casa e del piccolo rustico retrostante è tangibile.
Potrebbe non apparire giusto chiudere con l’immagine malinconica di un
edificio in declino queste brevi note sull’antica Arte degli Orefici cremonesi
tratte dalle carte di quello che fu il loro archivio nell’intento di ricordare
l’importanza della loro organizzazione e l’alta valenza artistica di una professionalità ancora oggi testimoniata da bellissime realizzazioni.
Lo facciamo ugualmente nella speranza che serva a ricordare a chi fra i loro eredi di oggi si trovasse a passare, magari per caso, davanti al numero 18 di via
Bonomelli, che quella facciata, ancora intatta, è l’ultima testimonianza di una
chiesa che quasi quattro secoli fa gli orefici di Cremona, con le sole proprie forze e sostenuti da una grande fede, costruirono, decorarono e preziosamente arredarono in omaggio al loro santo patrono così come recitava la lapide in
marmo che, con giusto orgoglio, vollero murare nella chiesa stessa:
D.O.M.
Decreto Universitatis Aurificum Cremone
Ad maiorem Dei Gloriam Deipareque Virginis Marie
Templum hoc in honorem Divi Eligij Confessoris
Erexerunt ac decorarunt Anno M D C X X
Vincentius Manaria Abas et Procurator
Bernardinus Morus Consul et Procurator
Paladinus Arisius Consul
Franciscus Canturius Questor
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Sofonisba Anguissola, “Ritratto di dama”. Il dipinto (1557) raffigura la madre
della pittrice Bianca Ponzoni Anguissola che porta al collo un gioiello di famiglia
di probabile fattura cremonese. La stessa collana la troveremo indossata dalla figlia
Minerva in un’altra celebre opera di Sofonisba, ”Partita a scacchi”
ARCHIVIO STORICO
CAMERA DI COMMERCIO DI CREMONA
piazza Stradivari, 5 - Cremona
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DELLA
E’ preferibile concordare le visite
Testo a cura di Carla Almansi Sabbioneta
Coordinamento editoriale: Maria Rosa Capeletti
Pubblicazione a cura della Camera di Commercio di Cremona
Progetto grafico: Format - Cremona
Stampa: Fantigrafica - Cremona
In copertina: Anonimo, Veduta della città di Cremona, Cattedrale di Cremona
(riproduzione gentilmente concessa)
Riproduzioni fotografiche di pp. 3,4,8,10,12,15,21,22,24,27,31,37,40,43,45
Adverphoto di Pegorini Oscar - Cremona
Riproduzione fotografica di p. 47
Dal catalogo della mostra “Sofonisba Anguissola e le sue sorelle”
Milano, Leonardo Arte, 1994
Finito di stampare nel mese di ottobre 2006