40 - Marinai d`Italia

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40 - Marinai d`Italia
Carta umoristica dell’Europa all’epoca della Grande Guerra
L’idea di “nemico”:
nella Grande Guerra
di Alessandro Ferioli
Professore, ricercatore storico
soldati affossati nel fango delle trincee non odiavano per
istinto naturale il nemico che avevano di fronte a sé. Un innato spirito di solidarietà popolare, unito alla diffidenza verso gli
alti comandi ben riparati dai pericoli del fronte, portò spesso a
piccoli e grandi episodi di fraternizzazione con l’avversario. Un
fatto in particolare è passato alla storia: quello della cosiddetta
tregua di Natale del 1914.
Proprio alla vigilia di Natale, dunque, nella regione di Ypres, i britannici udirono canti natalizi provenienti dalle trincee tedesche e
dalle stesse spuntò, tra le candele collocate sugli alberi, un cartello con la scritta «We not shoot, you not shoot», che invitava a
interrompere il fuoco; superata la cautela iniziale, gli inglesi risposero con le loro canzoni e in breve delegati dei due schieramenti concordarono una tregua di tre giorni.
I
Una immagine della “Tregua di Natale del 1914
I comandi superiori ordinarono una repressione ai danni dei responsabili, che portò a condanne a morte per alto tradimento, e
introdusse un sistema di controllo capillare per scongiurare in
futuro altri episodi del genere.
L’evento è ricostruito nel volume di Michael Jürgs, La Piccola
pace nella Grande guerra (Il Saggiatore, Milano 2010), e anche
nel film Joyeux Noël di Christian Carion (2005).
L’impegno degli stati maggiori fu da allora orientato, oltre che a
reprimere ogni tentativo di fraternizzazione, prima a costruire
un’immagine ideale di nemico che non si potesse non odiare e
poi a pervadere, con questa immagine, il cuore e la mente dei
propri soldati. Ciò si inserì nell’ampia campagna di propaganda
patriottica finalizzata a convincere l’opinione pubblica delle buone ragioni della guerra, a raccogliere fondi attraverso i prestiti
nazionali, a reclutare volontari, a sopportare ogni sacrificio.
Questi sforzi, dopo quattro anni di guerra, produssero un vero e
proprio abito mentale d’odio capace di instillare nelle coscienze
l’abitudine alla contrapposizione totale nei termini di un noi e un
loro che, forse, non aveva avuto eguali prima.
Il nemico venne quindi spersonalizzato, ridotto ai suoi attributi più
immediati e caratteristici (come l’elmo a punta dei tedeschi, il
pickelhaube, che da sé bastava a incutere spavento) e connotato da comportamenti brutali e incivili (il tedesco fu dipinto di nuovo come l’erede più diretto degli Unni). Nascosto il più delle volte
dalla trincea, o dietro a una mitragliatrice letale, l’avversario assunse contorni misteriosi e mostruosi, come se fosse appartenuto a un altro mondo. Secondo Paul Fussell, autore di un classico
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degli studi, l’abitudine alla distinzione semplice e alla contrapposizione imposta dalla guerra, unitamente alla divisione spaziale
netta causata materialmente dalla trincea, finì per incoraggiare
«il moderno atteggiamento contro», ovvero una polarizzazione tra
due parti inconciliabili, ciascuna delle quali ritiene l’altra depositaria del male assoluto, irrimediabilmente malvagia e degna soltanto di essere vinta e schiacciata (La Grande guerra e la memoria moderna, Il Mulino, Bologna 2000, pp. 101-102).
Il pickelhaube
tedesco
Lo sforzo propagandistico profuso è ancora oggi dimostrato dalla ricca iconografia (soprattutto manifesti e cartoline) che ritrae
il nemico con tratti animaleschi e in atti incivili. Il tedesco, nella
propaganda dell’Intesa, perde quasi del tutto i suoi tratti umani,
che risultano deformati sino a farne un mostro inquietante, di
quelli che soltanto i peggiori incubi possono suscitare. Un manifesto statunitense, chiaramente destinato a un pubblico già
assuefatto a Hollywood, rappresenta King Kong con l’elmo tedesco. Oppure, in una versione francese, il nemico è l’aquila
simbolo degli Asburgo, che il soldato può strangolare senza
scrupoli morali.
La crudeltà del nemico, poi, è ineguagliabile e fuori discussione:
crocerossine tedesche che negano un bicchier d’acqua a un inglese ferito, la fucilazione di un ragazzino belga, tombe profanate
sono altrettante rappresentazioni delle violazioni del diritto internazionale attribuite agli Imperi centrali. L’Italia, dal canto suo, viene rappresentata nell’iconografia austro-tedesca nelle vesti del
traditore che pugnala alle spalle.
Anche la cartografia fu arruolata per esigenze belliche, sicché
prese corpo una piccola produzione di carte geografiche “umoristiche”: una ben nota, di parte tedesca, personifica gli Imperi
centrali in soldati gagliardi e vittoriosi, mentre le nazioni avversarie sono simboleggiate da soldati in fuga o peggio (l’Italia ha l’aspetto di un brigante, mentre la Serbia è un maiale e il Montenegro uno scarafaggio).
Per quanto riguarda carte geografiche e vignette umoristiche, mi
sembra che esse abbiano svolto una duplice funzione di banalizzazione: da una parte contribuirono a sdrammatizzare la guerra,
che pure nella realtà grondava sangue vero, mentre dall’altra accentuarono e ridicolizzarono alcuni tratti caricaturali del nemico.
Per quanto riguarda l’Italia (per la quale esiste lo studio di Nicola Della Volpe, Esercito e propaganda nella Grande Guerra,
SME, Roma 1989), il riferimento culturale più immediato fu alle
campagne risorgimentali, nella cui serie la guerra mondiale in
corso veniva a costituire legittimamente la Quarta guerra d’Indipendenza. Il nemico austriaco fu perciò dipinto come un barbaro irriducibile, difensore oltre ogni tempo massimo di un’enorme
prigione di popoli oppressi di cui conculcava l’indipendenza.
Un’antologia carducciana fu pubblicata sotto il titolo Contro l’eterno barbaro: poesie e prose (Società Dante Alighieri, Firenze
1915), con evidente richiamo ai versi della poesia Cadore, celebrativa dei combattimenti del 1848.
Lo stesso imperatore Francesco Giuseppe, secondo varianti
umoristiche delle danze macabre medievali, era rappresentato
a braccetto con la morte e circondato da cadaveri.
Nell’ultimo anno di guerra la propaganda italiana si concentrò
sul tema delle nazionalità, insistendo sulle pretese egemoniche
del nemico nel tentativo di sobillare la ribellione fra i diversi popoli presenti nell’Impero Austro-Ungarico.
L’Archivio del Museo della Guerra di Rovereto conserva un
“fondo Propaganda” di notevole consistenza, con cui è stata
realizzata due anni fa un’importante mostra (il catalogo è nel volume di Marco Mondini, Parole come armi: la propaganda verso il nemico nell’Italia della Grande Guerra, Museo Storico della Guerra, Rovereto 2009).
Nella Prima guerra mondiale si accentuò altresì l’odio verso l’avversario interno, ovvero il connazionale rinnegato che tradisce la
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propria patria e ammicca al nemico o agisce apertamente a suo
favore, o più semplicemente sfrutta il conflitto per i propri comodi.
Il lessico si arricchisce di neologismi o di nuove accezioni per le
parole già in uso: “pescecane”, “accaparratore”, “borsanerista” sono le più note, a indicare la smania affaristica degli speculatori senza scrupoli; “imboscati” sono sia il civile riformato
dal servizio militare sia il soldato di seconda linea o l’ufficiale di
stato maggiore, i quali conoscono i cannoneggiamenti soltanto
per averne udito il rombo da lontano; mentre “disfattista” è colui che dubita apertamente della vittoria. Il nemico quindi era sia
in casa che nelle proprie retrovie.
Sicché un poeta come Wilfred Owen esprimeva nei suoi componimenti il concetto che la nazione fosse divisa in due parti, l’una
delle quali parlava di guerra e la decretava, mentre l’altra la combatteva e la soffriva. Divisi tra l’una e l’altra parte erano anche, rispettivamente, i combattenti della prima linea e quelli che, da posizioni ben più sicure, si profondevano in chiacchiere futili: «quelli che per ragione di età e di funzioni, per le condizioni di salute e
per i servizi prestati, compiono ora il loro dovere nelle retrovie e
nel paese – scriveva un ufficiale propagandista – tradiscono vilmente la loro patria e il loro ufficio, ogni volta che si lascino sfuggire una parola di insofferenza, un gesto di sfiducia e di sconforto» (Luigi Perona, La nostra guerra e il conflitto mondiale, Società
Editoriale Italiana, Milano 1918, p. 196).
L’azione di costruzione del nemico e di radicalizzazione degli
schieramenti, con le conseguenti manifestazioni di ostilità nei
confronti del traditore in casa, ebbe come effetto quello di marginalizzare le culture che, a vario titolo, proponevano idee di pace
basate sull’egualitarismo. Una di queste posizioni era riconducibile all’ideologia socialista, e difatti la guerra in Italia accentuò la
divisione tra uno Stato ancora essenzialmente conservatore e un
partito socialista che oramai si identificava nell’anti-Stato.
A testimonianza di una cultura cosmopolita ancora viva, nel 1913,
appena prima dello scoppio della guerra, lo scultore norvegese
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Hendrik Christian Andersen vagheggiava una Città mondiale: «Io
voglio fondare una grande, nuova città internazionale dove le manifestazioni più importanti della civiltà umana vengano concentrate, radunate da ogni parte del mondo, per essere poi nuovamente riversate, coordinate e dirette, in torrenti apportatori di bene e di progresso nel mondo intero».
Rimosso quell’irenismo, anche un po’ utopico, che si ostinava a
elaborare culture di pace, nell’Europa del dopoguerra restò la
percezione diffusa di una divisione netta tra soggetti idealmente
al di qua e altri al di là della trincea.
Quelli al di qua si riconoscevano in un gruppo forgiato dall’esperienza della prima linea e ravvivato da un forte sentimento
di cameratismo di stampo classico, in un rapporto privilegiato
con lo spirito dei Caduti in guerra e foriero di nuovi rapporti significativi, poiché in definitiva il volontarismo era una nobile
espressione della migliore gioventù alla ricerca della vera libertà (non era forse stato Schiller a scrivere che soltanto il
soldato è libero?); quelli al di là erano invece tutti gli altri, i
soggetti appartenenti al mondo esterno, dai borghesi pavidi ai
nuovi nemici politici e ideologici. Sicché, come ha scritto uno
storico, «la presenza della guerra nella vita della gente condusse ad una certa brutalizzazione della lotta politica postbellica», poiché se alcuni sfogavano l’agonismo nello sport, «era
anche possibile guardare alla politica come alla continuazione della Grande Guerra in tempo di pace», con una sempre
più accentuata indifferenza per la vita umana del proprio nemico politico, che veniva così sottoposto a processo di delegittimazione civile e umana (George L. Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei Caduti, Laterza, Roma-Bari
1990, p. 172).
In definitiva la Grande guerra rappresentò un nodo nevralgico
nella elaborazione della idea di nemico, producendone altresì
una persistenza a livello psichico e suggerendo a un famoso
psichiatra una nuova interpretazione dell’inconscio.
È ben noto il sogno narrato da Carl Gustav Jung, nel quale egli,
di ritorno dal fronte assieme a un contadino, si ritrovò improvvisamente sotto a un bombardamento di proiettili che cadevano
dal cielo: l’interpretazione, fornita dallo stesso Jung, vede nei
proiettili, provenienti dall’altra parte, manifestazioni dell’inconscio, ovvero del lato in ombra della mente in cui si continuava a
combattere la guerra (Ricordi, sogni, riflessioni, Il Saggiatore,
Milano 1965).
Al termine del conflitto, la demonizzazione degli avversari predicata per anni ebbe sicuramente un’influenza importante, assieme alle ambizioni territoriali e di supremazia economica, nel determinare l’atteggiamento implacabile dei vincitori in sede di
congresso di pace a Parigi. Alcuni articoli in particolare attribuivano senza attenuante alcuna alla Germania la responsabilità di
aver provocato il conflitto: l’art. 227 imputava all’ex imperatore
Guglielmo II il reato di «offesa suprema alla morale internazionale», riservandosi di processarlo in futuro davanti a un tribunale internazionale, mentre l’art. 231, che i vinti furono obbligati a
sottoscrivere, prevedeva un’esplicita clausola di colpevolezza,
con la quale la Germania riconosceva «che essa e i suoi alleati
sono responsabili, per averle causate, di tutte le perdite e di tutte le devastazioni subite dai Governi alleati e associati e dai loro cittadini in conseguenza della guerra, che è stata loro imposta dall’aggressione della Germania e dei suoi alleati».
Di fronte a un atteggiamento così scopertamente revanscista
(dal francese revanche, rivincita), acuti osservatori, come l’economista inglese John Maynard Keynes, disapprovarono il trattato per il fatto di non prevedere nessun progetto di ripresa economica e per il carattere punitivo che, anziché garantire la pace, avrebbe potuto sollecitare nuovi conflitti.
Due numeri della Domenica del Corriere del 1917.
Nel primo la didascalia del disegno di A. Beltrame recita:
“Latin sangue gentile - Una spaventosa discesa sotto la tormenta
per trasportare un nemico ferito “.
Nella seconda celebra l’ingresso in guerra degli Stati Uniti
a fianco degli alleati con un “Unno” sullo sfondo
Guardando gli eventi da una più ampia prospettiva, dunque,
possiamo valutare che vecchi schemi di politica internazionale
(l’imperialismo finalizzato alle conquiste territoriali) e nuovi armamentari ideologici (l’idea di un nemico che è incarnazione del
male assoluto) portarono alla marginalizzazione anche di quei
progetti di pacifismo giuridico che il presidente statunitense
Thomas Woodrow Wilson, a conflitto ancora in corso, aveva delineato nei suoi famosi Quattordici punti. Anche importanti film
di aperta denuncia delle brutture della guerra – come Westfront
1918 di Georg Wilhelm Pabst e All’Ovest niente di nuovo di Lewis
Milestone, entrambi del 1930 – non riuscirono a scuotere a sufficienza le coscienze.
Oggi una riflessione sull’idea di nemico, quale fu definita nella Prima guerra mondiale, ha ancora molto da insegnarci. Innanzitutto
sembra volerci ricordare che anche al di là del nostro schieramento, oltre quella trincea mentale che ha segnato per sempre il
nostro modo di pensare, continuano a esistere persone in carne
e ossa costrette al combattimento come noi. Inoltre un particolare dell’episodio della tregua di Natale, ovvero il momento del raccoglimento dei soldati dei due schieramenti allo scopo di dare sepoltura ai caduti di entrambe le parti con sommarie ma toccanti
cerimonie di sepoltura, ci esorta al rispetto della vita e della morte anche nei confronti del nostro nemico.
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