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RASSEGNA STAMPA
07-12-2016
1. GIORNALE Oms: sigaretta elettronica dannosa come quella vera
2. LEGGO Una sigaretta al giorno fa male non esiste un limite sicuro
3. ANSA Cancro al polmone, immunoterapia funziona come 'prima cura'
4. MESSAGGERO Tumori, biopsia liquida scopre il rischio nei sani
5. GIORNO Intervista a Maria Rosa Di Fazio - Il tumore si sconfigge anche
a tavola
6. QUOTIDIANO SANITÀ Biosimilari. Parole d’ordine risparmio ed efficacia
7. MESSAGGERO Il raggio laser per "visitare" i nei sospetti
8. LASTAMPA.IT La ricetta per aumentare il PIL è dormire di più
9. QUOTIDIANO SANITÀ La Gran Bretagna verso la sugar tax
10. ILSOLE24ORE.COM Istat, una famiglia su quattro a rischio povertà
11. LA VERITA' Intervista a Jennifer Lahl - «Le cliniche per la fertilità? Sono
centri commerciali»
12. MESSAGGERO Operata valvola del cuore senza aprire il torace
13. CORRIERE DELLA SERA «Il mio dono: un rene a uno sconosciuto» - Io
che ho donato un rene vivo una vita più piena
14. AVVENIRE Tre medici sospesi E l'inchiesta si allarga
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ED ON LINE DEL PRIMO FREE PRESS ITALIANO http://www.leggo.it/ UNA SIGARETTA AL GIORNO FA MALE:
"NON ESISTE UN LIMITE SICURO"
Non è come il vino rosso. Fumare poco non basta a limitare i danni per la salute, perché non esiste
un livello di fumo che è possibile definire sicuro. Anche una sigaretta al giorno in media nell'arco
della vita, talvolta persino meno, risulta associata a pericoli molto gravi . Come un maggiore rischio
di morte prematura rispetto a chi non ha mai fumato, a causa del tumore del polmone, di problemi
respiratori o cardiovascolari. Ad evidenziarlo è una ricerca del National Cancer Institute, parte del
National Institutes of Health statunitense, e pubblicata su Jama Internal Medicine. Gli studiosi hanno
esaminato i dati relativi a 290mila adulti, arruolati in uno studio sulla salute e la dieta. Tutti avevano
un'età compresa tra i 59 e gli 82 anni. I partecipanti sono stati 'interrogatì sulle abitudini al fumo in
nove fasi della vita, a cominciare da prima del raggiungimento dei 15 anni per terminare, negli
anziani, ai 70 anni. I risultati hanno evidenziato che coloro che costantemente fumavano una media
di una sigaretta al giorno o meno nell'arco della vita avevano un rischio del 64 per cento maggiore di
morte prematura rispetto ai non fumatori, mentre chi fumava tra una e 10 sigarette al giorno aveva
un rischio dell'87 per cento più elevato. Tra le cause specifiche di mortalità associata al fumo il
tumore al polmone (che ad esempio aumentava il rischio di decesso di nove volte in chi fumava in
media anche meno di una sigaretta al giorno rispetto a chi non fumava), problemi respiratori, come
l'enfisema, e cardiovascolari.
Ad esempio, le persone che fumavano tra una e 10 sigarette al giorno avevano sei volte il rischio di
morire di malattie respiratorie rispetto ai non fumatori e circa una volta e mezza il rischio di morire di
malattie cardiovascolari. «Non esiste un livello sicuro di esposizione al fumo- spiega Maki InoueChoi, autrice principale dello studio- fumare anche un piccolo numero di sigarette al giorno ha
notevoli effetti negativi. La ricerca fornisce un'ulteriore prova che smettere del tutto è un vantaggio».
E se le motivazioni personali non dovessero bastare, dalla Fda, la Food and Drug Administration,
ente regolatorio Usa, arriva l'invito a pensare anche agli animali domestici. Cani, gatti e persino
pesci. Il fumo può provocare danni non indifferenti anche a loro: in particolare quello di seconda
mano, passivo, o di terza, con milioni di microparticelle che si depositano su tende, tappeti, poltrone
e divani e persino sul vestiario. I danni vanno da un maggiore rischio di cancro al naso o ai polmoni
fino al linfoma in cani e gatti. Nei pesci, invece, se la nicotina si deposita nell'acqua vi è un rischio di
spasmi muscolari e perdita di colore, che può condurli in qualche caso alla morte.
07-12-2016
http://www.ansa.it Cancro al polmone, immunoterapia
funziona come 'prima cura'
Scommessa per il 2017, parte uno studio nazionale
Arrivare ad eliminare la chemioterapia nel trattamento del tumore al polmone,
sostituendola con terapie più efficaci e meno invasive. A partire dall'immunoterapia, che
mira a riattivare il sistema immunitario per combattere direttamente il cancro. Non è un
obiettivo impossibile ma, anzi, concretizzabile nell'arco dei "prossimi anni", e già dal 2017
ci sarà una svolta: se nel 2016 l'80% dei pazienti con tale neoplasia ha ricevuto infatti solo
la chemio, il prossimo anno "ci aspettiamo che il 50% dei pazienti sia candidabile da
subito, ovvero dal momento della prima diagnosi, a trattamenti non chemioterapici e, in
gran parte, immunoterapici".
Ad illustrare il nuovo scenario, che potrebbe radicalmente cambiare l'approccio di cura per
tantissimi malati, è Federico Cappuzzo, direttore del Dipartimento di oncologia
dell'Ospedale di Ravenna, in occasione della 17/ma Conferenza mondiale Iasl sul tumore
al polmone. L'immunoterapia, spiega Cappuzzo, "è già il trattamento indicato per la
seconda linea, ovvero nei pazienti con malattia avanzata che hanno già effettuato la
chemio per il cancro polmonare, ma si sta dimostrando superiore rispetto alla chemio
tradizionale ed è molto ben tollerata. Ora, la vera scommessa è sostituire completamente la
chemio in prima linea, ovvero rendendola 'prima cura' già al momento della diagnosi, e la
strategia, come dimostrano i risultati positivi di vari studi presentai al Congresso, è quella
di utilizzare in combinazione varie molecole immunoterapiche innovative".
I risultati dei primi studi presentati sull'utilizzo dell'immunoterapia in prima linea,
sottolinea, "sono incoraggianti e mostrano benefici su tutti i tipi di pazienti, con effetti
collaterali molto gestibili". Ed in effetti, rileva Francesco Grossi, responsabile Unità
tumori polmonari all'Irccs San Martino di Genova, "la tossicità grave dei farmaci
immunoterapici è molto inferiore rispetto alla chemio, pari a circa il 10% contro il 60%, e
questo ha un impatto fondamentale per la qualità di vita del paziente". E le percentuali di
efficacia sono molto incoraggianti: il 30% dei pazienti con cancro al polmone risponde
infatti all'immunoterapia in modo ottimo (con regressione della malattia) o buono (con la
stabilizzazione), il 30% registra una diminuzione dei sintomi clinici pur in presenza di una
progressione della malattia, mentre il 20% non risponde al trattamento.
E se non si può parlare ancora di totale 'guarigione', la sopravvivenza aumenta
notevolmente ed anche chi non risponde ai nuovi farmaci, affermano gli esperti, risulta
però più sensibile ai trattamenti successivi e la malattia rallenta. Una nuova frontiera,
dunque, e l'Italia è protagonista: in un paio di mesi partirà infatti un nuovo studio
nazionale, coordinato dall'Ospedale di Ravenna, che coinvolgerà 20 centri e 170 pazienti e
testerà la combinazione delle due molecole immuniterapiche nivolumab e ipilimumab
come prima linea per il cancro al polmone rispetto alla chemio.
Un'occasione importante perché "se è vero che nuove molecole sono in arrivo e che in
Italia l'immunoterapia è rimborsata in seconda linea per alcune situazioni, come prima
linea questi farmaci non saranno disponibili prima di 2-3 anni. Questo studio - conclude
Cappuzzo - darà quindi a molti pazienti la possibilità di poter avere subito i nuovi
trattamenti".
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7/12/2016
Biosimilari. Parole d’ordine risparmio ed efficacia
quotidianosanità.it
Marte d ì 06 DICEMB RE 2016 Biosimilari. Parole d’ordine risparmio ed efficacia
Un argomento delicato e complesso come quello dei biosimilari è stato trattato lo
scorso 4 novembre presso l’Azienda Ospedaliera Sant’Anna e San Sebastiano di
Caserta per informare su questa nuova possibilità terapeutica efficace e sicura tutti
gli stakeholder impegnati nella filiera della salute. Quello dei farmaci biosimilari è un mondo in continua evoluzione, ricco di sfaccettature e molto complesso. La
direzione è quella della sostenibilità, soprattutto nel momento storico in cui ci troviamo. I farmaci biologici sono
impiegati nel trattamento di diverse patologie, come cancro o sclerosi multipla, con risultati clinici significativi. Il
problema di fondo però sono gli elevati costi di queste complesse molecole ed è qui che entra in gioco il
biosimilare.
Ormai da tempo è stata comprovata l’efficacia e la sicurezza di questi farmaci simili ai loro biologici originatori
ed è per questo motivo che l’attenzione di esperti e addetti ai lavori si sta rivolgendo verso questa nuova
possibilità terapeutica più economica ma altrettanto efficace e sicura. Una corretta valutazione dei biosimilari in
Italia ed Europa deve, quindi, tenere conto di alcune considerazioni, prima fra tutte la possibilità di mantenere
la stessa qualità di cura generando al contempo un importante risparmio di risorse per i servizi sanitari che li
utilizzano. Inoltre vi è l’esigenza di informare tutti gli stakeholder impegnati nella filiera della salute sui vantaggi
che derivano dall’uso dei biosimilari.
Numerose sono le iniziative atte a diffondere la corretta informazione su questi farmaci che troppo spesso
vengono considerati come i “generici” dei biologici ma che in realtà non lo sono. “Il farmaco generico ha una
modalità di produzione molto più semplice, è un farmaco di sintesi e come tale può essere facilmente
riproducibile”, ha precisato Anna Dello Stritto, direttrice della farmacia dell’AORN Sant’Anna e San
Sebastiano di Caserta. “Con il biosimilare invece parliamo di processo correlato al prodotto; qualunque
modifica lungo le varie fasi di produzione del biosimilare determina alla fine un prodotto che è similare per
quanto riguarda qualità, efficacia e sicurezza per i pazienti rispetto all’originator”.
Proprio per fare chiarezza sulle evidenze scientifiche e sulle peculiarità dei biosimilari si è tenuto a Caserta,
presso l’Azienda Ospedaliera Sant’Anna e San Sebastiano, lo scorso 4 novembre, con il contributo
incondizionato di Biogen, il corso di formazione “Farmaci oltre il brevetto”. Tanti i temi trattati, dalla gestione
del farmaco all’interno delle Aziende Ospedaliere alle esperienze delle varie figure professionali che svolgono
un ruolo di primo piano nelle aree terapeutiche che vedono implicati i biosimilari; dallo sviluppo di queste
molecole alle problematiche di utilizzo passando per i concetti di innovazione e sostenibilità.
Dal farmaco biosimilare “ci si attende fino al 25-30% di risparmio rispetto al farmaco di riferimento”, ha
proseguito Dello Stritto. Nell’ottica del risparmio, “la Regione Campania, con il Decreto 66 del luglio 2016, ha
introdotto un elemento di forte innovazione e apertura garantendo al centro prescrittore che il 5% del risparmio
ricavato dall’uso del farmaco biosimilare venga reinvestito nel centro prescrittore stesso”.
Un tema importante che divide il mondo degli specialisti riguarda le implicazioni nella gestione clinica dei
pazienti. Quali pazienti sono candidabili ai farmaci biosimilari? Quali figure professionali possono decidere la
transizione ad un biosimilare e in quali situazioni? Le agenzie internazionali che si occupano di regolamentare i
medicinali si sono espresse in tal proposito e anche tutte le autorità sanitarie nazionali e locali stanno
cominciando a farlo, non senza divergenze e disomogeneità.
Sia l’AIFA che le società scientifiche concordano sul fatto che la scelta di prescrivere il farmaco di riferimento o
un biosimilare sia una decisione clinica affidata al medico. Attualmente la tendenza dei clinici è quella di
impiegare maggiormente i biosimilari nei pazienti naive; l’intercambiabilità del biosimilare in pazienti già in
terapia non è prassi condivisa dalla classe medica, ma sta sviluppandosi parimenti alla disponibilità di
informazioni sull’efficacia e sicurezza di tale variazione. Per quanto riguarda la sostituibilità, questa, ad oggi
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7/12/2016
Biosimilari. Parole d’ordine risparmio ed efficacia
non è consentita, “il farmacista è autorizzato ad effettuare una sostituzione con un generico - ha concluso
Dello Stritto - ma non può farlo per il biosimilare. Solo il clinico può intervenire a riguardo”.
A dare, invece, una panoramica di come il biosimilare sia visto fuori dall’Italia ci ha pensato Fraser Cummings,
Consultant Gastroenterologist presso il General Hospital di Southampton. “Nel Regno Unito, nella mia area
patologica, la gastroenterologia, vi è una nuova concezione dei biosimilari. Il loro uso come equivalenti delle
molecole originator, quali ad esempio Remicade, sta aumentando sempre di più”, ha spiegato Cummings
aggiungendo che le opportunità offerte dai biosimilari vengono sempre più viste come la possibilità di far
risparmiare considerevoli risorse da re-investire in farmaci innovativi e nel miglioramento del percorso di cura e
assistenza dei pazienti.
Nello specifico, “i benefici risiedono nel fatto che i costi per l’acquisto dei farmaci si riducono notevolmente
rispetto ai prodotti originali presenti al momento sul mercato”, ha proseguito. In quest’ottica, è auspicabile
attuare progetti di gain-share attraverso cui il risparmio garantito dai biosimilari viene ridistribuito generando
vantaggi per tutti; per i pagatori migliorano la gestione della spesa farmaceutica, per i medici che possono
disporre di nuove opzioni terapeutiche e per i pazienti cui vengono destinate maggiori risorse per la gestione
della propria malattia.
In tutto questo quadro, il paziente rappresenta una delle figure chiave proprio perché l’informazione è alla
base della riuscita di un nuovo vincente approccio terapeutico. “Nel mio ospedale - ha raccontato Cummings abbiamo un panel formato da 10 pazienti, molti dei quali in passato sono stati trattati con farmaci biologici, tra
cui infliximab. Abbiamo passato molto tempo a discutere con questo panel su cosa fossero i biosimilari,
spiegando ai partecipanti la loro somiglianza con gli originatori, chiarendo come questo difficile passaggio dalla
molecola originale al biosimilare potesse apportare benefici in termini di aumento dell’investimento di risorse
nei servizi loro dedicati”. Il concetto di passaggio da un farmaco biologico al suo biosimilare quindi non è, e
non può essere, così immediato ed in alcuni casi automatico come avviene per altri farmaci, ma se compiuto in
forma partecipata, garantisce benefici a tutti gli attori coinvolti nel processo di cura.
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221.508
http://www.lastampa.it/ La ricetta per aumentare il PIL è
dormire di più
Negli Stati Uniti i costi associati ai danni causati dalle poche ore di sonno sono pari a
411 miliardi di dollari. Maglia nera al Giappone
Qual è il miglior modo per aumentare il prodotto interno lordo di un Paese?
Semplice, dormendo di più. Un risultato a prima vista paradossale che nasconde
però un fondo di verità. Secondo un recente report della RAND Corporation, un
organismo no profit che si occupa di analisi politica ed economica, la mancanza
cronica di sonno tipica della società attuale può costare quasi il 3% del prodotto
interno lordo. Un esempio? In Giappone, nazione dove gran parte della
popolazione dorme meno di quanto dovrebbe, le poche ore di sonno causano la
perdita di oltre 138 miliardi di dollari all’anno.
Mai sotto le sette ore
Secondo il report le perdite economiche correlate alla mancanza di sonno da
ricondurre essenzialmente a due ragioni: da un lato dormire poco causa
l’insorgenza di diversi disturbi patologici, dall’altro la stanchezza accumulata si
ripercuote sulla produttività lavorativa. Secondo gli esperti del CDC, il Center for
Disease Control an Prevention la mancanza di sonno è oggi un serio problema di
salute pubblica. Mancanza che può causare seri problemi di salute quando
l’abitudine di andare a letto molto tardi -magari dopo aver passato tutta la sera al
computer- porta a dormire meno di sette ore. Il parere degli esperti, su quanto stare
nel letto, è unanime: per un buon riposo servono dalle 7 alle 9 ore.
Gli effetti dello scarso riposo
Dormire poco è innanzitutto dannoso per il nostro cervello: le persone che dormono
un tempo insufficiente per diverse notti non riescono ad eseguire esercizi mentali
complessi rispetto a chi dorme almeno 7 ore. La privazione del sonno può anche
causare irritabilità, diminuzione della libido e scarsa capacità di giudizio. A
risentirne è però anche il cuore: il sistema vegetativo tra le tante attività regola
anche la pressione sanguigna. Nella notte anch’esso «riposa» e la pressione
diminuisce. Meno tempo si trascorre a letto e più alte saranno le probabilità di non
fare riposare questo sistema e portare, alla lunga, allo sviluppo dell’ipertensione.
Altro sistema particolarmente sensibile al poco riposo è quello immunitario:
diverse ricerche mostrano che le persone la cui qualità del sonno è scadente hanno
maggiori probabilità di ammalarsi in seguito al contatto con virus e batteri. Infine,
dato da non trascurare, è quello relativo agli incidenti: il colpo di sonno, nella sola
Italia, causa mille morti l’anno e un numero dieci volte superiore di feriti.
Dormire per risparmiare
Combinando gli effetti delle poche ore di sonno sulla salute -e quindi delle spese
mediche che ne derivano- con la ridotta produttività lavorativa, il quadro che
emerge dall’analisi della RAND Corporation lascia poco spazio alle interpretazioni.
Prendendo in esame diverse nazioni è emerso che negli Stati Uniti la carenza
cronica di sonno costa il 2,28% del PIL (pari a 411 miliardi di dollari). In Germania
e Inghilterra l’1,86 e 1,56% rispettivamente. Fanalino di coda il Giappone con il
2,92%. Se vogliamo risparmiare cominciamo dunque a dormire.
7/12/2016
La Gran Bretagna verso la sugar tax
quotidianosanità.it
Marte d ì 06 DICEMB RE 2016 La Gran Bretagna verso la sugar tax
Questa settimana è stata presentata una bozza della legge che tasserà le bibite con
zucchero aggiunto. La norma entrerà in vigore nella primavera del 2018, per
permettere alle aziende di adeguarsi. (Reuters Health) - La Gran Bretagna va avanti con la sugar tax, pubblicando una bozza di legge che conferma
un’imposta a doppia soglia per le bibite analcoliche con zucchero aggiunto volta a combattere l'obesità. In
questo modo, la Gran Bretagna si unisce a Belgio, Francia, Ungheria e Messico, tutti Paesi che hanno imposto
una qualche forma di tassa sulle bevande con aggiunta di zucchero.
L’entrata in vigore della tassa britannica, annunciata nel mese di marzo, è prevista nell’aprile 2018, dando così
ai venditori di bibite, come i partner europei di Coca-Cola e a Britvic, il tempo per ridurre lo zucchero nei loro
prodotti. Le aziende, che vendono rispettivamente Coca Cola e PepsiCo, stanno già promuovendo bevande
senza zucchero come la Coca Cola Zero Sugar e la Pepsi Max cherry, che sarebbero esenti dalla tassa.
L’imposta inglese ha due soglie: una di 18 pence per litro, per bevande analcoliche con più di 5 grammi di
zucchero per 100 ml e una di 24 pence al litro, in quelle che superano gli 8 grammi di zucchero per 100 ml.
La bozza è stata pubblicata questa settimana da HM Revenue & Customs come parte di una panoramica delle
modifiche legislative alla normativa fiscale che il governo prevede di introdurre nel suo progetto di legge
finanziaria per il 2017. Il governo ha detto che si aspetta che la tassa permetta di raccogliere 520 milioni di
sterline (661,5 milioni di dollari) nel primo anno.
Le tasse sullo zucchero hanno avuto la tendenza a concentrarsi su bibite gassate che, come sottolineano gli
attivisti per la salute, sono una fonte di calorie vuote. Eppure l’industria alimentare sta lavorando per rendere i
suoi prodotti confezionati più sani poiché i consumatori sempre più optano per alimenti più freschi.
Nestlé all'inizio del mese, ha detto di aver trovato un modo per ridurre potenzialmente lo zucchero nel
cioccolato fino al 40%, senza alterare il gusto.
Nel complesso, l'industria si oppone alle tasse speciali su cibo o bevande, sostenendo che non funzionano e
danneggiano in modo sproporzionato le persone più povere.
"Evidenze a livello mondiale suggeriscono che le tasse di questo tipo non hanno alcun impatto sui livelli di
obesità", sottolinea in un comunicato Gavin Partington, direttore generale della British Soft Drinks
Association, aggiungendo che il gruppo continuerà a lavorare con i funzionari del Tesoro britannico durante il
processo di attuazione.
Martinne Geller
Reuters
(Versione Italiana Quotidiano Sanità/Popular Science)
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07-12-2016
LETTORI
72.072
http://www.sanita24.ilsole24ore.com/ Istat, una famiglia su quattro a
rischio povertà. E il Sud perde
ancora terreno
Rischio p overtà, g rave deprivazione materi ale, bassa intensità di lavoro. E’ una
fotografia imp ietosa quella s cattata d al ra pporto dell’Istat su con dizioni d i vita e
reddito c he ritrae i ricchi s empre pi ù ricch i e i poveri sempre più poveri. I dati
parlano chiaro. Istat sti ma che un italiano su quattro (il 28,7% per la precisione,
oltre 17,4 milioni di individui) lo scorso anno abbia condotto una vita grama,
misera, ai margini della società. E sono le famiglie con fi gli le più penalizzate.
Aumenta, in fatti, la quo ta di individui in famiglie che dichiarano di n on pote r
sostenere una spesa imprevista di 800 eu ro (da 38,8% a 39,9%) e di ave re avuto
arretrati per m utuo, affitto, boll ette o altri debi ti (da 1 4,3% a 14,9%).
Peggioramenti p iù marc ati si osservano in particol are per gli in dividui in coppie
con almeno tre figli: la quota di chi di
chiara di non poter sostenere una spesa
imprevista di 8 00 euro pass a dal 48,1% al 52,8% e quella di chi ha avu to arretrati
per mu tuo, affitto, bollette o altri
debi ti dal 21,7% al 30,4%, contribuendo
all’aumento di 3 punti percentuali dell'in dicatore sintetico di grave deprivazione
materiale. Ma c’è anche chi sceglie di non fare le vacanze, di tenere i termosifoni
spenti o accumulare le bollette senza pagarle.
Insomma, dal 2009 al 2014 il reddito in termini reali è diminu ito di più per le
famiglie appartenenti al 20 % più po vero, ampliando la distanza dalle famiglie più
ricche il cui reddito passa da 4,6 a 4,9 volt e quello delle più povere. In “soldoni” i
più ricchi percepiscono il 37,3% del reddito equivalente totale mentre il ceto meno
abbiente racimola appena il 7,7%.
Il reddito medio in Italia è di 29.472
euro, e la buona notizia è che nel 2014
finalmente è tornato stabile , interrompend o una cadu ta in atto dal 200 9 che ha
comportato una riduzione complessiva di ci rca il 12 % del potere d’acquis to. Ma la
metà delle famiglie non va oltre i 24.190 euro, mentre al Sud si scende a 20mil a
euro.
Le
diseguaglianze
aumentano
al
Sud
Con il risultato che quasi la metà dei re sidenti nel Sud e nelle Isole (46,4%) è a
rischio di povertà o esclusione sociale, contro il 24% del Centro e il 17, 4% del
Nord. Secondo l’Istat i livelli sono superiori alla media nazionale in tutte le regioni
del Mezzogiorno, con valori più elevati
in Sicilia (5 5,4%), P uglia (47 ,8%) e
Campania (46,1%). Viceversa, i valori pi ù contenuti si ri scontrano nella provincia
autonoma di Bolzano (13,7%), in Friuli-Venezia Giulia (14,5%) ed Emilia-Romagna
(15,4%).
Peggioramenti sig nificativi si rilevan o in Puglia (+ 7,5 %), Umbria (+6,6 %), nella
provincia autonoma di Bolzano (+4%), ne lle Marche (+3 ,4%) e nel Lazio (+ 2,3%),
mentre l’indicatore migliora per Campan ia e Molise. Quattro individui su dieci
sono a ri schio di povertà i n Sicilia, tre su dieci in Campan ia, Calabria, Puglia e
Basilicata.
Livelli di grave deprivazione materiale più che doppi rispetto alla media italiana si
registrano in Sicilia e Puglia dove più di un quarto deg li individui si trov a in tale
condizione. La Sicilia (28,3 %) è anc he la regione con la massima diffusione di
bassa intensità lavorativa, seguita da Campania (19,4%) e Sardegna (19,1%).
Cresce
numero
italiani
che
si
trasferisce
all’estero
Continua a crescere il numero di pers one che lasciano l’Itali a secondo il rapporto
Istat 2015 su “Migrazioni internazionali e interne della popolazione residente”. Nel
2015 sono partiti 147 mila
connazionali, l’8% in più rispetto al 2014. Tale e
aumento è dovuto esclusivamente alle cancellazioni di cittadini italiani (da 89 mila
a 102 mil a unità, pari a +15%), mentre quelle dei cittadini stranieri si ridu cono da
47mila a 45 mila (-6%).
Le principali me te di destinazione per gl i emigrati italiani so no Regno Unito
(17,1%), Germania (16,9%), Svizzera (11,2%) e Francia (10,6%). Sono sempre di più
i laureati italiani con più di 25 anni di età che lasciano il Paese (quasi 23 mila nel
2015, +13% sul 2014); l’emigrazione, tutt avia, aumenta anche fra chi ha un titolo
di studio medio-basso (52 mila, +9%).
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