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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI FIRENZE
Facoltà di Medicina e Chirurgia
Corso di laurea di 1° livello dell’area sanitaria
C.L. in FISIOTERAPIA
LE LESIONI MUSCOLARI TRAUMATICHE DELL’ARTO
INFERIORE DELLO SPORTIVO: IL TRATTAMENTO
RIABILITATIVO
Relatore Prof.
Tesi di
Sandro Cortini
Alberto Marcheselli
ANNO ACCADEMICO 2005-2006
INDICE
Pagina
RIASSUNTO
2
INTRODUZIONE
•
•
•
•
•
•
Anatomia del muscolo scheletrico
Fisiologia e biomeccanica del muscolo scheletrico
Fibre muscolari e unità motorie
Eziologia e patogenesi delle lesioni muscolari
Epidemiologia
Classificazione delle lesioni muscolari
3
8
13
16
23
24
LE TERAPIE FISICHE
36
LA RIEDUCAZIONE FUNZIONALE
44
LE COMPLICANZE
60
LA PREVENZIONE
63
BIBLIOGRAFIA
72
1
RIASSUNTO
Il muscolo scheletrico non deve essere concepito come un organo estrapolato
dall’apparato locomotore ed indipendente dai complessi meccanismi di controllo
motorio. Possiamo considerarlo come un motore in grado di trasformare energia
chimica in energia meccanica. Tale motore supportato dalla leva scheletrica
produce un lavoro che controlla la postura e promuove il moto del corpo e delle
sue parti rispetto all’ambiente esterno. Questa attività è determinata da stimoli che
provengono dal Sistema nervoso centrale e sono integrati da altri provenienti dai
vari recettori periferici situati un po’ dappertutto e che forniscono le informazioni
necessarie per eseguire un determinato compito motorio.
In ambito sportivo le lesioni muscolari acute sono di frequente riscontro in tutte
le discipline sportive e la loro incidenza è calcolata tra il 10 ed il 30% di tutti i
traumi da sport.
Il trattamento delle patologie muscolo-tendinee comprende una prima fase in cui è
necessario favorire una “restitutio ad integrum” anatomica del tessuto lesionato
seguita da una fase successiva di recupero della funzione.
E’ quindi fondamentale l’approccio multidisciplinare dove il ruolo della terapia
fisica strumentale costituisce un valido supporto alle tecniche manuali e
all’esercizio terapeutico senza tralasciare l’importanza della prevenzione.
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INTRODUZIONE
Anatomia del muscolo scheletrico
Macroscopicamente il muscolo scheletrico si presenta costituito da una parte
carnosa (ventre muscolare), che può assumere diverse forme, e da una parte
tendinea, in continuità con esso, che si inserisce col suo lato terminale sul tessuto
osseo (Non tutti i muscoli scheletrici si inseriscono effettivamente con i loro
tendini sui segmenti ossei; ad esempio i muscoli pellicciai, che consentono i
movimenti della pelle, presentano formazioni tendinee che si inseriscono sulle
strutture profonde della cute e su fasce connettivali). Ogni muscolo è avvolto da
una fascia di connettivo denominata epimisio sotto al quale è possibile notare
‘pacchetti’ di fibre muscolari chiamati fasci tutti avvolti da connettivo che prende
il nome di perimisio. Si arriva poi alla fibra muscolare rivestita di una sua
membrana connettivale l’endomisio.
Nei setti connettivali posti tra i fasci muscolari decorrono i vasi ematici, che
formano a livello dell’endomisio, una rete capillare attorno alle singole
fibrocelllule muscolari. Le strutture vascolari presentano la caratteristica di
adattarsi alla lunghezza del muscolo, per questo sono di aspetto tortuoso nel
muscolo contratto ed allungate nel muscolo disteso. Il distretto circolatorio della
muscolatura scheletrica è, infatti, uno dei più estesi di tutto l’organismo. Il flusso
sanguigno che vi fluisce è però ampiamente variabile, è regolato sulla base di
esigenze funzionali, da arteriole terminali, provviste di innervazione simpatica
vasomotoria. Ciò spiega l’elevata frequenza di versamento ematico in caso di
lesione traumatica della massa muscolare.
3
Nel connettivo interposto tra le fibre decorrono quindi anche i nervi, costituiti da
fibre motorie e sensitive.
I muscoli possono essere classificati secondo vari criteri, quali la forma(fusiformi,
orbicolari, ecc.), il numero dei capi di origine (bicipiti, tricipiti, quadricipiti),
oppure secondo la differente modalità d’inserzione delle fibre muscolari sul
tendine (a fibre parallele o pennati). Esistono inoltre classificazioni che si basano
su criteri funzionali, quali il tipo di movimento effettuato rispetto ad un piano di
riferimento (flessori, adduttori, ecc.) oppure il numero di articolazioni che
possono essere mosse direttamente (monoarticolari, biarticolari, pluriarticolari).
Microscopicamente il tessuto muscolare striato è costituito da cellule
plurinucleate, di forma cilindrica e allungata, denominate fibre muscolari. Ogni
fibra muscolare può avere un diametro compreso tra 10 e gli 80 micrometri.
Come ogni cellula la fibra muscolare è circondata da una membrana cellulare
denominata sarcolemma. Ciò che caratterizza la cellula muscolare scheletrica, è il
suo alto contenuto di proteine, organizzate in strutture fibrillari, denominate
miofibrille che si presentano fittamente stipate all’interno della fibra muscolare.
La sostanza gelatinosa che occupa lo spazio tra le miofibrille è il sarcoplasma,
ossia il costituente fondamentale della cellula muscolare, contiene, disciolti in
soluzione, proteine, minerali, glicogeno, lipidi e differenti organuli necessari alla
vita cellulare. All’interno del sarcoplasma, tra le miofibrille, è presente un sistema
tubulare, che deriva da invaginazioni del sarcolemma e che permette all’onda di
depolarizzazione di propagarsi, senza latenze, all’interno della fibra. Tale sistema
è in stretto contatto con il reticolo sarcoplasmatico costituito da una rete di canali
membranari che sono disposti parallelamente ed intorno alle miofibrille con la
funzione di contenere gli ioni calcio, i quali sono essenziali durante il meccanismo
della contrazione muscolare.
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Figura 1. Miofibrilla e sarcomero.
5
La miofibrilla, che rappresenta l’elemento contrattile della fibra muscolare, può
essere suddivisa in numerose sub-unità denominate sarcomeri. Al microscopio
elettronico, il muscolo scheletrico presenta delle classiche alternanze di zone
chiare e di zone di aspetto più scuro. Per questo è anche chiamato muscolo striato.
Questa striatura è dovuta all’alternanza di bande chiare, chiamate bande I
(isotrope) e di bande scure, chiamate bande A (anisotrope). Ogni banda A
presenta al centro una regione meno densa, denominata zona H e visibile solo nel
muscolo rilassato. Anche le bande I presentano al centro una stria scura, detta
linea Z. La porzione di miofibrilla compresa tra due strie Z costituisce il
saromero, il quale è considerato la più piccola unità funzionale del muscolo
scheletrico.
Sempre con il microscopio elettronico sono visibili due tipi di filamenti all’interno
del sarcomero: filamenti spessi, all’interno della banda A e filamenti sottili che
originano dalla linea Z e si vanno ad inserire tra due filamenti spessi adiacenti,
verso la zona H. I filamenti spessi sono costituiti da miosina, proteina ad alto peso
molecolare che a sua volta costituisce circa i due terzi del contenuto proteico
totale del muscolo scheletrico. Un filamento di miosina è formato da circa 400
molecole di miosina intrecciate tra loro, ognuna delle quali è suddivisa in due
subunità, dette di meromiosina leggera e di meromiosina pesante. Quest’ultima
contiene numerose terminazioni globulari (le teste della miosina), che
costituiscono la subunità S1, dotata di attività ATP-asica e che contiene il sito di
legame con l’actina. Al momento della contrazione, le teste della miosina che
protrudono verso le molecole di actina andranno a formare i ponti tra i filamenti
spessi e quelli sottili. I miofilamenti sottili sono composti da molecole di actina,
una proteina globulare, avvolta a doppia elica, che origina dalle linee Z, che a loro
volta sono costituite da una forma di actina detta actinina. Ogni molecola di actina
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contiene un sito di legame per la testa della miosina che, in condizioni di riposo, è
bloccata da altre due proteine, la tropomiosina e la troponina. Altre proteine
presenti nel muscolo sono: la titina, la nebulina e la connettina; la loro funzione è
quella di stabilizzazione e centraggio del sarcomero nel corso della contrazione
stessa.
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Fisiologia e biomeccanica del muscolo scheletrico
Il muscolo scheletrico può essere paragonato ad un motore, che trasforma
l’energia chimica in esso contenuta come adenosintrifosfato (ATP), in energia
meccanica, agendo sul sistema di leve scheletriche. Il lavoro meccanico così
prodotto, è utilizzato per promuovere il moto del corpo e delle sue parti rispetto
all’ambiente esterno e per l’attività posturale.
L’attività del sistema muscolare è determinata da una componente centrale, o
nervosa, e da una componente periferica o muscolare.
L’impulso nervoso, originato centralmente e trasportato dai motoneuroni,
perviene a livello della placca motrice e si propaga all’interno della fibra
muscolare grazie al sistema tubolare membranoso. Il potenziale d’azione e la
conseguente depolarizzazione della membrana della fibra muscolare, determinano
la liberazione degli ioni calcio dal reticolo sarcoplasmatico. Questi, interagendo
con il sistema di regolazione troponina-tropomiosina, provocano la liberazione del
sito attivo sull’actina e conseguentemente la formazione dei ponti actomiosinici.
Una volta stabilito il contatto tra l’actina e la testa della miosina, questa
immediatamente ruota nella direzione che provoca un accorciamento del
sarcomero (contrazione concentrica), attraverso lo scorrimento dei filamenti di
actina sui filamenti di miosina. E’ interessante notare che ciascun sarcomero può
accorciarsi per non più del 50% della sua lunghezza di riposo.
Durante la contrazione muscolare, i ponti sono continuamente formati e scissi a
patto che sia disponibile una certa quantità di ioni calcio e di ATP. Anche il
rilassamento, una volta cessato lo stimolo nervoso che ha provocato la contrazione
muscolare, avviene attraverso un meccanismo attivo che necessita di ATP per
riportare gli ioni calcio all’interno del reticolo sarcoplasmatico, ripristinando
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l’effetto inibitorio del sistema troponina-tropomiosina, e soprattutto per la
scissione dei ponti actomiosinici. E’ evidente quindi, che i deficit di risintesi di
ATP (tipici dell’affaticamento) e le condizioni che impediscono il reuptake del
calcio, implicano una difficoltà a rilassare il muscolo in esercizio.
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Figura 2. Fisiologia del muscolo scheletrico.
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Dal punto di vista biomeccanico, la forza muscolare è il risultato della somma
delle forze prodotte dai ponti actomiosinici di un determinato muscolo, in un
determinato momento. Queste dipendono dai rapporti che si vengono ad
instaurare tra i filamenti di actina e di miosina nell’ambito del sarcomero, che a
loro volta dipendono dalla lunghezza del sarcomero, dalla sua velocità di
contrazione e dal numero di sarcomeri in parallelo.
Per sarcomeri in serie si intendono i sarcomeri situati uno dopo l’altro, per una
certa lunghezza, che non è altro che la lunghezza della fibra muscolare. Per
sarcomeri in parallelo si intendono i sarcomeri situati uno sopra l’altro ed
appartenenti a fibrille diverse, cosicché il numero di sarcomeri in parallelo
determina la superficie di sezione del muscolo.
Prendendo in considerazione la tensione prodotta in condizioni isometriche e la
lunghezza del sarcomero si può affermare che esiste una lunghezza ottimale alla
quale il sarcomero è in grado di esprimere la sua tensione massimale. Con
lunghezze maggiori o minori della lunghezza ottimale, lo stesso sarcomero
esprime sempre tensioni inferiori, poiché il massimo numero di ponti che può
essere formato è sempre minore rispetto alla lunghezza ottimale. Anche la forza
muscolare in vivo, dipenderà quindi dalla possibilità di formare ponti
actomiosinici.
La forza massima del muscolo dipende in sintesi dalla superficie di sezione
muscolare(cioè dai sarcomeri in parallelo), mentre la velocità di accorciamento
dipenderà dalla lunghezza del muscolo(cioè dai sarcomeri in serie). Dal punto di
vista funzionale, l’ipertrofia muscolare andrà intesa principalmente come un
aumento dei sarcomeri in parallelo, ma anche un aumento dei sarcomeri in serie
può essere considerato una forma di ipertrofia.
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Per avere un’idea quantitativa della massa muscolare in relazione alla sua capacità
di generare forza, i fisiologi muscolari sono soliti parlare di tensione specifica. E’
questa una grandezza che deriva dal rapporto tra la forza esercitata da un muscolo
e la sua superficie di sezione fisiologica. Per superficie di sezione fisiologica si
intende
l’area
di
sezione
muscolare
condotta
ortogonalmente
all’asse
longitudinale delle fibre ed indicativa del numero di sarcomeri in parallelo. Essa è
maggiore nei muscoli nei quali le fibre non si continuano direttamente nel tendine,
ma formano con esso un certo angolo, denominato angolo di pennazione, per
questo questi muscoli sono detti pennati.
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Fibre muscolari ed unità motorie
Le fibre muscolari vengono distinte in fibre rosse o del I tipo, e fibre bianche, o
del II tipo, sulla base dell’aspetto assunto in relazione all’attività ATP-asica
posseduta dalla miosina. Dal punto di vista funzionale si è osservato che a questa
classificazione
morfologica,
corrispondevano
particolari
caratteristiche
meccaniche per cui le fibre bianche erano dotate di una maggiore velocità di
contrazione rispetto alle fibre rosse, che risultano più lente. Lo studio di altre
caratteristiche, quali il contenuto di mitocondri e l’attività di enzimi propri dei
processi ossidativi o glicolitici, ha permesso di precisare ulteriormente la
classificazione delle fibre muscolari, e quindi oggi si possono distinguere: fibre a
lenta contrazione, caratterizzate da metabolismo ossidativi (fibre SO, tipo I); fibre
a contrazione rapida, con metabolismo glicolitico (fibre FG, tipo II B) e fibre a
contrazione rapida, con metabolismo sia ossidativo che glicolitico (fibre FOG,
tipo II A).
Le fibre di tipo I e II (A e B) si trovano frammiste in modo apparentemente
casuale in ogni muscolo scheletrico, tuttavia, a seconda della prevalenza dell’uno
o dell’altro tipo, di fibre i muscoli sono classificati anch’essi in due categorie:
a) I muscoli bianchi, ricchi di fibre di tipo II B (ma anche di tipo II A), detti
anche muscoli fasici perché capaci di contrazioni rapide e brevi.
b) I muscoli rossi, ove prevalgono le fibre di tipo I, noti anche come muscoli
tonici, per la capacità di restare a lungo in contrazione.
Alla prima categoria appartengono i muscoli che presiedono ai movimenti più fini
e veloci, alla seconda invece appartengono i muscoli del tronco e degli arti ed in
genere quelli che presiedono al tono posturale.
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Per comprendere appieno la funzione muscolare non è più attuale considerare la
fibra muscolare indipendente dalla sua innervazione. Ogni singola fibra
muscolare, infatti, si contrae poiché riceve uno stimolo che corre lungo un singolo
motoneurone, il quale innerva più fibre muscolari che presentano simili
caratteristiche. Il Motoneurone e le fibre muscolari da esso innervate costituiscono
l’unità motoria che è la più piccola unità neurofunzionale del muscolo. Ogni
motoneurone può innervare da 15 a 2000 fibre muscolari. Il rapporto tra
motoneurone e numero di fibre muscolari innervate, indica la capacità di eseguire
movimenti fini e di graduare finemente la forza esprimibile da un muscolo. Ad
esempio, il rapporto tra motoneurone e fibre muscolari in un muscolo interosseo
della mano è pari a 1: 342, mentre nel gastrocnemio è pari a 1: 1931.
Funzionalmente, le unità motorie sono classificate considerando il tempo di
contrazione, il picco di forza, il tempo di rilassamento e l’affaticamento. Ciò
permette di distinguere le unità motorie in S (slow), FF ( fast fatiguing), e FR (fast
fatigue-resistant). Ogni unità motoria possiede fibre muscolari omogenee: le unità
motorie S sono costituite da fibre muscolari SO; le unità motorie FF sono
costituite da fibre muscolari FG e le unità motorie FR sono costituite da fibre
muscolari FOG. Le unità motorie S producono meno forza, poiché il motoneurone
innerva un minor numero di fibre muscolari rispetto agli altri tipi di unità motorie
e perché le fibre SO presentano un diametro minore rispetto alle FOG e alle FG.
Le unità motorie rapide sono quindi in grado di esprimere forze elevate, di
esprimere la forza velocemente e di produrre una maggiore potenza, ma con minor
efficienza rispetto alle fibre lente.
La proporzione di fibre muscolari e di unità motorie all’interno di un muscolo, è
determinata geneticamente ed è, in parte, il risultato dell’esercizio quotidiano e
dell’allenamento. Diverse evidenze sperimentali testimoniano che l’allenamento
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con i sovraccarichi tende a produrre ipertrofia muscolare, mentre l’allenamento di
lunga durata tende a sviluppare le doti di resistenza. Tuttavia l’esercizio non ha
solamente effetti trofici e metabolici, ma anche effetti complessi sul sistema
nervoso centrale e sull’intero organismo.
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Eziologia e patogenesi delle lesioni muscolari
Riguardo ai fattori eziopatogenetici delle lesioni muscolari si riconoscono e si
distinguono cause o condizioni predisponenti (1) e cause o condizioni
determinanti (2).
Distinguiamo le condizioni predisponenti in generali e individuali.
a)
Condizioni predisponenti generali:
ƒ
Difetti di allenamento e flessibilità
ƒ
Fatica
ƒ
Condizioni atmosferiche
ƒ
Velocità di movimento
b)
Condizioni predisponenti individuali:
ƒ
Condizioni patologiche post-infettive
ƒ
Fattori articolari
ƒ
Squilibri muscolari
ƒ
Età
Condizioni determinanti:
ƒ
Trauma contusivo
ƒ
Azione dinamica attiva
ƒ
Azione dinamica passiva
16
1) Condizioni predisponenti
Difetti di allenamento e flessibilità
Può essere inteso non necessariamente in una carenza di preparazione atletica
generale, ma in una mancanza di abitudine a svolgere un determinato tipo di
movimento. Ciò comporterebbe a livello muscolare, un’eccessiva sollecitazione
rispetto alle normali capacità di lavoro.
Importante è anche il ruolo del difetto di allenamento nel soggetto che inizia
l’attività sportiva. In questa fase, infatti, i fenomeni di adattamento neuro-motorio,
che con l’allenamento rendono il movimento preciso ed automatico, non sono
ancora appunto e si commettono numerosi errori di esecuzione. Ciò può
verificarsi anche quando l’atleta riprende l’attività sportiva dopo una pausa, senza
un’adeguata progressione dei carichi di allenamento. In questo caso l’atleta
conosce bene la tecnica esecutiva, ma l’apparato locomotore non è ancora pronto
e l’errore di esecuzione del gesto tecnico può produrre la lesione muscolare.
Nei difetti di allenamento possiamo contemplare anche un insufficiente
riscaldamento prima della gara, ma anche degli esercizi di allenamento. Non
bisogna dimenticare che la maggior parte delle lesioni muscolari da trauma
indiretto si verifica proprio durante l’allenamento. Un insufficiente riscaldamento
compromette l’adeguato funzionamento dell’apparato locomotore, mantiene
elevata la viscosità muscolare e tendinea, pregiudica la coordinazione e comporta
un precoce intervento del metabolismo anaerobico, con aumento del debito di
ossigeno.
Un particolare aspetto del difetto di allenamento riguarda la flessibilità.
Un’insufficiente flessibilità comporta un eccessivo stiramento dell’unità muscolo17
tendinea che diventa evidente negli esercizi di velocità, che necessitano di ampie
escursioni articolari, da percorrere velocemente. La flessibilità inoltre può essere
compromessa dalla fatica che tende ad indurre una maggior rigidità muscolare.
La fatica
La fatica può essere definita come l’incapacità di mantenere nel tempo una
determinata prestazione. Tale incapacità deriva in parte dall’impossibilità di
risintetizzare l’ATP alla stessa velocità con cui viene utilizzato per fornire energia
per gli esercizi intensi, ed in parte dall’accumulo di lattato. In realtà l’acidosi
durante l’esercizio, è sempre tamponata e solo in alcuni casi, provoca l’inibizione
di alcuni enzimi necessari per l’utilizzo delle vie metaboliche glicolitiche, che
sono deputate a fornire, in breve tempo, elevate quantità di energia. L’aumento
della lattacidemia oltre i valori di normalità, è indicativo di un ricorso ai
meccanismi energetici anaerobici. Tali meccanismi sono caratterizzati da
un’elevata potenza, ma da una scarsa capacità. Di conseguenza un ricorso precoce
a queste vie metaboliche, provocherà uno stato di affaticamento generale, e
soprattutto localizzato, che può divenire il terreno favorente una lesione
muscolare. In questi casi il meccanismo di azione viene fatto risalire ad un deficit
energetico, che si esplica nell’incapacità di fornire l’ATP necessario per staccare i
ponti actomiosinici. Il muscolo o una porzione del muscolo, rimane rigido e non è
più utilizzabile durante i normali cicli stiramento-accorciamento e accorciamentostiramento.
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Condizioni atmosferiche
Possono avere rilevanza come fattori favorenti le lesioni muscolari, anche le
condizioni atmosferiche, soprattutto il freddo, che determina un’azione
vasocostrittrice, responsabile di una minor irrorazione muscolare e di un minor
apporto energetico, con conseguente precoce insorgenza della fatica, soprattutto
nei soggetti non adeguatamente allenati e non adeguatamente alimentati. Lo stato
del terreno cui non si è abituati (fango, ghiaccio), può favorire fenomeni di
incoordinazione motoria che predispongono alla lesione muscolare.
Velocità di movimento
Un fattore predisponente sembra essere in tutti i casi la velocità elevata del
movimento ed in particolare la rapidità di accelerazione. Ciò è confermato
dall’osservazione che spesso le lesioni muscolari si producono negli atleti
ipertrofici, ricchi di fibre muscolari rapide, e comunque nei muscoli che
presentano un’elevata percentuale di fibre rapide(Garrett, 1984; Jonhagen, 1994).
Tali muscoli sono in genere più superficiali ed hanno la caratteristica di essere bio pluri-articolari. Inoltre, un muscolo rapido utilizza prevalentemente il
metabolismo anaerobico e quindi risulta più facilmente affaticabile.
Condizioni patologiche post-infettive
Notevole importanza nella predisposizione alle lesioni muscolari è attribuita
anche ai fenomeni flogistici. E’ stato osservato che le lesioni muscolari si
verificano con una certa frequenza in atleti che tornano all’agonismo dopo
19
un’assenza, anche breve, per malattia infettiva batterica o virale. In tali casi si
produrrebbero nel muscolo alterazioni metaboliche legate alla diminuzione
dell’ATP o del glicogeno, all’aumento dei radicali liberi, oppure allo scadimento
della forma fisica con conseguente maggior affaticamento generale e localizzato.
Fattori articolari
Una situazione del tutto particolare è quella dei muscoli bioarticolari. Infatti,
quando un muscolo bioarticolare produce tensione, vengono generati momenti di
forza attorno ad entrambe le articolazioni sulle quali il muscolo agisce, tali
momenti di forza differiscono a seconda delle diverse distanze che li separano
dalle inserzioni prossimale e distale dei rispettivi assi di rotazione. È chiaro che
esiste un’interazione tra le varie strutture, cosicché ogni articolazione risponde
con il massimo momento di forza esprimibile per un dato livello di tensione
muscolare. Tuttavia, durante il movimento varia sia la lunghezza del muscolo che
il braccio di leva, per cui si vengono a creare situazioni nelle quali la forza
generata risulta insufficiente per sostenere il carico. Tali evenienze possono
diventare estremamente pericolose se una porzione del muscolo si contrae
concetricamente e un’altra eccentricamente.
Squilibri muscolari
Gli squilibri muscolari interessano le lesioni traumatiche indirette dell’apparato
locomotore, possono essere a carico di: gruppi muscolari antagonisti (es. estensori
e flessori del ginocchio), gruppi muscolari sinergici (es. catena muscolare
20
estensoria arto inferiore), gruppi muscolari controlaterali (es. ischio peroneo
tibiale di destra e di sinistra). Tali squilibri possono riguardare la forza
concentrica la forza eccentrica, il rapporto tra forza concentrica ed eccentrica
nell’ambito di uno stesso gruppo muscolare o di gruppi muscolari antagonisti
(Jonhagen, 1994). Lo squilibrio muscolare inoltre può riguardare le capacità di
esprimere forza massima, oppure la resistenza e quindi l’affaticabilità.
L’età
L’età è sicuramente una delle condizioni che predispone alle lesioni muscolari da
trauma indiretto, essa determina modificazioni del tessuto muscolare nell’ambito
del quale le unità motorie subiscono un riarrangiamento, che consiste nella
reinnervazione delle fibre muscolari nelle quali il processo di invecchiamento ha
determinato la denervazione. Le unità motorie superstiti risultano costituite da un
maggior numero di fibre muscolari, con conseguente maggior difficoltà a
graduare l’intensità della forza.
2) Condizioni determinanti
Traumi contusivi
Il meccanismo che produce la lesione indica sempre un’azione pressoria violenta,
di intensità variabile. Walton e Rothwell (1996) ritengono che il trauma
contusivo, agendo nella sola area di applicazione della forza traumatica, determina
la lesione di un numero di fibre muscolari proporzionale sia all’entità della forza
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agente, sia al flusso ematico presente nel muscolo al momento del trauma.
Kouvalchouck (1992) sostiene, che in condizioni di rilasciamento, il muscolo
sarebbe meno vulnerabile agli insulti traumatici, mentre, in stato di contrazione
massimale, si realizzerebbero lesioni più gravi, sino alla rottura totale del ventre
muscolare. In particolare lo stato del muscolo influenza l’entità della lesione,
quando la contusione colpisce la giunzione muscolo-tendinea.
Traumi indiretti
I fattori determinanti le lesioni muscolari da trauma indiretto sono varie e spesso
di difficile identificazione, anche se in tali meccanismi sembra essere sempre
implicata un’azione muscolare eccentrica(Garrett, 1998). Considerando che
l’azione eccentrica viene effettuata per controllare il movimento e soprattutto per
frenare, è ipotizzabile che gran parte delle lesioni muscolari derivino da un
controllo inadeguato del movimento, ed in particolare della fase di decelerazione.
Si parla di contrazione eccentrica quando la tensione espressa dal muscolo è
minore della resistenza esterna, il muscolo viene forzatamente allungato.
La rottura si verifica per un’azione dinamica passiva cioè per un mancato
rilasciamento del muscolo antagonista, oppure per un’azione dinamica attiva cioè
per eccesso di contrazione del muscolo agonista.
L’aumento di tensione che provoca la rottura varia secondo lo stato funzionale e
trofico del muscolo. A volte la causa determinante è data da un ‘falso
movimento’, cioè dall’esecuzione errata di un dato movimento o gesto atletico.
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Epidemiologia
Le lesioni muscolari sono tra gli eventi traumatici più frequenti nella pratica
sportiva agonistica e amatoriale. Tuttavia è difficile tracciare una mappa
epidemiologica, perché nella maggior parte dei casi lo sportivo ricorre alle cure
dello specialista solo in caso di lesioni importanti o in fase tradiva, dopo la
comparsa di complicanze post-traumatiche. Crisco e coll. (1994) riportano
un’incidenza delle lesioni muscolari fino al 90% rispetto ad altri traumi in alcuni
tipi di sport; tale elevata percentuale sarebbe da correlare ad una inadeguata
metodologia di allenamento, ad errori tecnici, all’uso scorretto di attrezzature e/o
accessori. In un recente studio, Volpi e coll. (2004) hanno riscontrato
un’incidenza del 30% dei traumi muscolari nei calciatori professionisti e la
lesione si verifica con maggiore frequenza a carico dei muscoli: quadricipite e
bicipite femorale. Nella maggior parte dei casi sono interessati muscoli bi o poliarticolari, che contengono grandi quantità di fibre bianche (Noonan et al, 1999).
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Classificazione delle lesioni muscolari
La classificazione si limita a prendere in considerazione le contusioni muscolari e
le altre lesioni muscolari che sono di più frequente riscontro nella pratica sportiva
senza descrivere lesioni muscolari conseguenti a ferite da taglio, punta ecc.
Un primo elemento da considerare nelle classificazioni è rappresentato dalla
natura diretta o indiretta del trauma (Craig, 1973). Distinguiamo:
•
Lesioni muscolari da trauma diretto, che secondo l’interpretazione
classica, implica l’esistenza di una forza agente direttamente dall’esterno.
•
Lesioni muscolari da trauma indiretto, che presuppongono l’azione di
meccanismi più complessi, chiamano in causa forze lesive intrinseche, che
si sviluppano nell’ambito del muscolo stesso o dell’apparato locomotore.
Riguardo alla diversa localizzazione delle lesioni muscolari si deve precisare che,
pur nella varietà delle sedi muscolari interessate, l’azione contusiva si esplica, di
fatto, preferibilmente sulle masse carnose dei muscoli. Per contro, nelle modalità
traumatiche indirette, la via lesiva si estrinseca più spesso in prossimità della
giunzione muscolo- tendinea, pur essendo possibili anche localizzazioni a livello
del ventre muscolare. In ogni caso, la conseguenza anatomo-patologica dei traumi
muscolari tranne che per la contrattura e lo stiramento, è rappresentata sempre da
un danno anatomico della fibra muscolare, con frequente coinvolgimento della
parte connettivale ed eventualmente tendinea e delle strutture vascolari. La
diversità delle espressioni anatomo-patologiche e cliniche è data, quindi,
dall’entità del danno strutturale prodotto dal trauma.
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Lesioni da trauma diretto(contusione)
¾ Grado lieve
¾ Grado moderato
¾ Grado severo
Lesioni da trauma indiretto
¾ Contrattura
¾ Stiramento
¾ Strappo
9 Strappo di primo grado
9 Strappo di secondo grado
9 Strappo di terzo grado(rottura parziale o totale)
Tabella1. Classificazione delle lesioni muscolari (Craig, 1973).
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Classificazione delle lesioni da trauma diretto
Le lesioni muscolari da trauma diretto sono di natura contusiva. Spesso queste
lesioni sono considerate come condizioni patologiche di secondaria importanza
destinate a guarire in tempi brevi, senza lasciare reliquati. Tuttavia dal punto di
vista anatomo-patologico la rottura muscolare prodotta da tali traumi non
differisce sostanzialmente da una lesione muscolare dovuta ad altro meccanismo.
Poiché dal punto di vista funzionale, lo stato di contrazione muscolare
conseguente al trauma provoca una limitazione dell’escursione articolare, dovuta
ad una ridotta estensibilità muscolare, in accordo con Reid (1992), si classificano
le lesioni muscolari da trauma diretto in tre gradi, secondo la gravità,
indirettamente indicata dall’arco di movimento effettuabile:
1. lesione muscolare di grado lieve: è consentita oltre la metà dello spettro di
movimento;
2. lesione muscolare di grado elevato: è concessa meno della metà, ma più di
1/3 dello spettro di movimento;
3. lesione muscolare di grado severo: è permesso uno spettro di movimento
inferiore ad 1/3.
26
Figura 3. Scansione longitudinale del muscolo retto femorale. Lesione muscolare
da trauma diretto III° grado.
Classificazione delle lesioni muscolari da trauma indiretto
Vi è una certa confusione nella classificazione delle lesioni muscolari da trauma
indiretto, soprattutto a causa dei diversi termini utilizzati dai vari autori anche
come sinonimi. Si parla, infatti, di: contrattura, elongazione, stiramento,
distrazione, strappo, rottura, lacerazione. Tali termini si riferiscono in ogni caso a
gradi diversi di gravità, identificabili dalle diverse manifestazioni anatomopatologiche e cliniche della lesione.
Una delle classificazioni più accreditate presso gli autori di scuola francese
(Kouvalchouk, 1992) propone una suddivisione particolarmente dettagliata:
1. contrattura o lesione di grado ‘0’. E’ la forma più benigna, senza lesioni
anatomiche. L’evento traumatico responsabile è poco definito. Tale
condizione è attribuita ad uno stato di fatica muscolare che, per
modificazioni metaboliche, determina un’alterazione del tono muscolare.
27
2. elongazione o stiramento o lesione di 1° grado. In questo caso, pur non
sussistendo interruzioni delle fibre muscolari microscopicamente rilevabili
sono evidenziabili alcune anomalie biochimiche ben definite identificate
come modificazioni metaboliche intra-citoplasmatiche, disorganizzazioni
miofibrillari, lesioni mitocondriali.
3. distrazione o lesione di 2° grado. E’ caratterizzata da un’effettiva lesione
anatomica con interruzione di un numero variabile di fibre muscolari.
Questo tipo di lesione presenterebbe poi quattro stadi:
I. stadio: rottura completa di qualche fibra muscolare senza
interessamento del connettivo di sostegno;
II. stadio: rottura di un numero maggiore di fibre muscolari, con iniziale
interessamento della struttura connettivale, senza un significativo
versamento ematico;
III. stadio o rottura parziale, caratterizzata dall’interessamento di un
elevato numero di fibre, associata a lesione del connettivo e delle
strutture vascolari e nervose, con formazione di abbondante ematoma
intramuscolare;
IV. stadio o rottura muscolare completa, in cui si interrompe la
continuità del ventre muscolare.
Jenoure (1991) distingue, nell’ambito delle lesioni muscolari acute, due tipi
differenti di lesioni, che vengono a loro volta distinte in benigne e severe. Le
lesioni benigne comprendono: il crampo, l’indolenzimento, la contrattura,
l’allungamento, la contusione e lo stiramento minore. Le lesioni severe
comprendono: lo stiramento maggiore, la lacerazione, la rottura parziale, il
distacco osseo e l’ernia muscolare.
Reid (1992) suddivide le lesioni muscolari in tre tipi come illustrato in tabella 2.
28
1. lesioni muscolari da esercizio fisico (dolore muscolare ritardato)
2. strappo di cui riconosce tre gradi (I, II, III):
I^ grado (livelli): -danno strutturale minimo;
-piccola emorragia;
-guarigione in tempi brevi
II^ grado (moderato): -entità del danno variabile;
-rottura parziale;
-significativa perdita funzionale precoce
III^ grado (severo) –rottura completa;
-occorre aspirare l’ematoma;
-può essere necessario l’intervento chirurgico
3. contusione (lieve-moderata-severa)
Tabella 2. Classificazione delle lesioni muscolari (Reid, 1992).
29
Muller-Wolfart (1992), distingue diversi gradi di lesione, a seconda dell’unità
strutturale interessata:
1) stiramento muscolare
3) strappo della fibra muscolare
4) strappo del fascio muscolare
5) strappo muscolare
Secondo quest’autore, la differenza fra stiramento e strappo sarebbe di tipo
qualitativo e non quantitativo; in pratica, nello stiramento non c’è mai rottura,
anche se piccola di fibre muscolari.
Come si può notare nelle proposte di classificazione che sono citate a puro titolo
esemplificativo gli elementi differenziali sono costituiti da alterazioni anatomopatologiche ben definite. Le terminologie utilizzate hanno per lo più significati
analoghi, e in tutte le classificazioni, vengono definiti gradi crescenti di gravità
delle lesioni.
Nanni et al. (2000) propone una classificazione che ha la pretesa di essere chiara,
pratica e semplice, e che al tempo stesso tiene conto dei vari contributi presenti in
letteratura. Tale classificazione distingue i traumi muscolari che originano da un
meccanismo indiretto, in cinque livelli di gravità che vengono definiti:
1) contrattura
2) stiramento
3) strappo di primo secondo e terzo grado
I
criteri
adottati
per
distinguere
i
cinque
livelli
di
gravità
sono
contemporaneamente di ordine anamnestico, sintomatologico ed anatomopatologico.
30
Contrattura
Si manifesta con dolore muscolare che insorge quasi sempre a distanza
dall’attività sportiva, con una latenza variabile (dopo qualche ora o il giorno
dopo), mal localizzato, dovuto ad un’alterazione diffusa del tono muscolare(criteri
anamnestico e sintomatologico), imputabile ad uno stato di affaticamento del
muscolo, in assenza di lesioni anatomiche evidenziabili macroscopicamente o al
microscopio ottico (criterio anatomo-patologico).
Stiramento
E’sempre conseguenza di un episodio doloroso acuto, insorto durante l’attività
sportiva, il più delle volte ben localizzato, per cui il soggetto è costretto ad
interrompere l’attività, pur non comportando necessariamente un’impotenza
funzionale immediata, e del quale conserva un preciso ricordo anamnestico (criteri
anamnestico e sintomatologico). Poiché dal punto di vista anatomo-patologico
non sono presenti lacerazioni macroscopiche delle fibre, il disturbo può essere
attribuito ad un’alterazione funzionale delle miofibrille, ad un’alterazione della
conduzione neuro-muscolare oppure a lesioni sub-microscopiche a livello del
sarcomero. La conseguenza sul piano clinico è rappresentata dall’ipertono del
muscolo, accompagnato da dolore.
31
Strappo
Si manifesta con dolore acuto, violento che compare durante l’attività sportiva
(criteri anamnestico e sintomatologico comuni a tutti gli strappi), attribuibile alla
lacerazione di un numero variabile di fibre muscolari. Lo strappo muscolare è
sempre accompagnato da uno stravaso ematico (criterio anatomo-patologico
comune), più o meno evidente a seconda dell’entità e della localizzazione della
lesione e dell’integrità o meno delle fasce. La distinzione in gradi viene riferita
alla quantità di tessuto muscolare lacerato (criterio anatomo-patologico) e
comprende:
strappo di I grado: lacerazione di poche miofibrille all’interno di un fascio
muscolare, ma non dell’intero fascio;
strappo di II grado: lacerazione di uno o più fasci muscolari, che coinvolge meno
dei ¾ della superficie di sezione anatomica del muscolo in quel punto;
strappo di III grado: rottura muscolare, che coinvolge più dei ¾ della superficie di
sezione anatomica del muscolo in quel punto e che può essere distinta in parziale
(lacerazione imponente, ma incompleta della sezione del muscolo) o totale
(lacerazione dell’intero ventre muscolare).
32
Figura 4. Scansione longitudinale del muscolo bicipite femorale. Lesione
muscolare da trauma indiretto (strappo di II° grado).
Figura 5. Scansione longitudinale del muscolo grande adduttore. Lesione
muscolare da trauma indiretto (strappo di II° grado).
33
Figura 6. Scansione longitudinale del muscolo vasto laterale. Lesione muscolare
da trauma indiretto, (strappo di III° grado).
E’ importante sottolineare che, sul piano clinico, il confine tra stiramento e
strappo muscolare di I grado è molto sfumato, specialmente in fase precoce,
quando un eventuale stravaso ematico può non risultare ancora evidente. In tal
caso, la diagnosi deve fondarsi, oltre che sulle caratteristiche cliniche della
lesione, anche sulle risultanze dell’indagine ecografiche, eseguita dopo 48-72 ore
dal momento del trauma. E’ altresì importante sottolineare che la distinzione in tre
gradi di gravità degli strappi muscolari non può essere che arbitraria, data la
difficoltà pratica di quantizzare l’entità della lesione. Per semplicità vengono
utilizzati solo tre gradi di gravità, ed il criterio adottato in questa circostanza, può
essere definito come anatomo-patologico-funzionale. Infatti, l’entità dello strappo
di primo grado può essere facilmente apprezzata mediante l’ecografia, così come
la rottura muscolare completa risulta facilmente identificabile. I problemi sorgono
34
quando è necessario stabilire la gravità di una lesione ‘intermedia’, che coinvolge
più di un solo fascio muscolare, ma meno dell’intero muscolo. In questo caso si
adotta un criterio definito anatomo-patologico-funzionale, che identifica lo
strappo di secondo grado, come una lesione che coinvolge più di un solo fascio
muscolare ma meno dei ¾ dell’intera superficie di sezione anatomica del
muscolo. Ciò significa che, nonostante la lesione, una buona parte del muscolo è
ancora integra, il deficit funzionale è presente, ma non assoluto, ed il processo di
guarigione può avvenire nell’ambito di un tessuto la cui funzionalità non è
completamente compromessa. D’altra parte, quando il danno anatomico coinvolge
approssimativamente più dei ¾ della superficie di sezione anatomica del muscolo,
la lesione è sicuramente imponente, il deficit funzionale è praticamente assoluto
ed il processo di guarigione si deve instaurare nell’ambito di un tessuto la cui
funzionalità è da considerarsi completamente compromessa.
E’ interessante notare a questo proposito che è stato dimostrato che quando la
lesione muscolare si estende per più del 50% della superficie di sezione
anatomica, la riparazione avviene in non meno di 5 settimane (Pomeranz, 1993).
E’ chiaro che l’entità della lesione, cioè la distinzione tra strappo di primo,
secondo e terzo grado, può essere stabilita con buon’approssimazione, solo grazie
all’indagine ecografia o alla RMN.
35
LE TERAPIE FISICHE
Nel corso degli ultimi anni la tecnologia è venuta incontro al riabilitatore,
proponendo una serie di interessanti innovazioni che hanno fornito risultati
incoraggianti dopo i primi lavori sperimentali. Le energie fisiche prese in
considerazione sono l’ipertermia a microonde, T.E.C.A.R. terapia e la laserterapia
a neodimio-Yag. E’ bene precisare che alcune terapie fisiche solo apparentemente
superate, tra cui la crioterapia e gli ultrasuoni trovano ancora e a buon diritto il
loro spazio nei protocolli riabilitativi delle affezioni muscolo-tendinee.
Per terapia ipertermica o ipertermia clinica si intende l’induzione nei tessuti
biologici di temperature di poco superiori a quella fisiologica. Il riscaldamento dei
tessuti realizzato tramite campi elettromagnetici.
Le microonde diffondono molto facilmente attraverso i tessuti poveri di acqua
(adiposo e osseo) nei quali è poca l’energia elettromagnetica che si trasforma in
calore. Al contrario perdono energia attraverso tessuti ricchi di acqua (tessuto
muscolare) nei quali avviene la trasformazione dell’energia elettromagnetica in
calore. In definitiva è principalmente nel tessuto muscolare che l'energia delle
microonde si trasforma in calore. Il calore prodotto diffonde nei tessuti circostanti
per conduzione, ma soprattutto attraverso il sistema circolatorio (Olmi et al,
1997). Proprio per queste caratteristiche l’ipertermia elettromagnetica è utilizzata
in fisioterapia con diversi dispositivi che, usando diverse frequenze del campo
elettromagnetico (13, 27, 434 e 2450 MHz) o consentendo, attraverso particolari
antenne maggiormente focalizzate e munite di bolus termostatato, il riscaldamento
in profondità, hanno dato il nome a diverse modalità terapeutiche (marconiterapia,
radarterapia, ipertermia) fondamentalmente coincidenti nell’effetto indotto, cioè
36
un significativo riscaldamento localizzato. Il calore fino ad un certo livello, agisce
sui tessuti:
1) Aumentando il flusso sanguigno. Lo stato di iperemia (vasodilatazione
localizzata ed aumento della velocità del flusso ematico) permette un aumento
degli scambi con il sangue di sostanze necessarie per i processi riparativi ed una
più rapida eliminazione delle sostanze tossiche;
2) Riducendo l’edema. Lo stimolo dell’attività macrofagica che permette una più
rapida rimozione di scorie (detriti cellulari, residui di calcificazioni, ecc.) accelera
i tempi di risoluzione della risposta infiammatoria;
3) Stimolando una più rapida ed efficace riparazione del danno tissutale grazie
all’esaltazione, prodotta dal calore, del metabolismo cellulare in genere;
4) Aumentando l’estensibilità del tessuto collagene (nei tendini, nelle capsule
articolari, nelle cicatrici);
5) Riducendo lo spasmo muscolare;
6) Riducendo la rigidità articolare;
7) Riducendo il dolore (aumento della soglia del dolore per azione diretta del
calore sulle radici nervose e per azione indiretta stimolando secrezione di
endorfine). I diversi studi sperimentali e l’ormai lunga consuetudine clinica hanno
confermato l'efficacia dell’ipertermia (Borrani et al, 1996) come valido ausilio nel
trattamento delle comuni patologie ortopediche, dove viene ormai impiegata in
modo routinario (Pedrini et al, 1998). La terapia non prevede disagi significativi
né effetti collaterali per il paziente. Per ciò che riguarda le controindicazioni
all’utilizzo dell'ipertermia valgono le stesse norme osservate per tutte le altre
forme di termoterapia (Tofani et al, 1997).
37
Il sistema TECAR (terapia a trasferimento energetico per contatto capacitivo e
resistivo) consiste in un generatore di radiofrequenza (500.000 Hz-0,5Mhz) che
attiva energia nei tessuti sfruttando il principio fisico del condensatore.
Sfruttando la qualità conduttrice del substrato biologico, il sistema Tecar agisce
mediante l’attrazione e repulsione alternativa delle cariche elettriche proprie del
tessuto biologico generando in un’area geometricamente definita correnti
capacitive di spostamento. Le principali caratteristiche sono:
-Focalità d’azione in quanto l’effetto biologico viene risvegliato solo là dove
esiste indicazione terapeutica.
-Azione sedativa delle terminazioni nervose nocicettive, sintomatiche del dolore
-Vascolarizzazione ed irrorazione sanguigna superficiale ed in profondità
-Rigenerazione tissutale
-Stimolazione naturale del drenaggio venoso e linfatico
-Riequilibrio dell’attività metabolica
-Gestione/aumento della temperatura corporea
-Maggior ossigenazione dei tessuti a livello profondo e superficiale
-Azione a livello energetico
-Riequilibrio della conducibilità elettrica-nervosa
-Modificazione tessuto connettivo da fase gel a fase sol
-Reidratazione tessuti profondi.
38
Trattamento capacitivo (quadricipite, adduttori, ischio-crurali)
Trattamento capacitivo(tricipite surale)-Trattamento resistivo (ischio-crurali)
Figura 7. Tecarterapia.
Il termine “LASER” è l’acronimo di Light Amplification by Stimulated Emission
of Radiation ovvero amplificazione della luce mediante l’emissione stimolata di
radiazioni.
Il principio fisico risiede nell’emissione di una radiazione luminosa che è
composta da fotoni dotati della stessa lunghezza d’onda e senza discontinuità di
fase od oscillazioni di ampiezza.
Il fascio laser è dunque costituito da una radiazione elettromagnetica
monocromatica, caratterizzata da una precisa lunghezza d’onda e da una potenza
di emissione variabile.
Come per la luce diffusa, il laser produce fotoni che vanno ad interagire con la
materia vivente.
La luce diffusa ha sia effetti termici che effetti fotochimici sull’organismo.
Gli effetti termici sono prevalentemente legati alle radiazioni nell’infrarosso,
mentre quelli fotochimici alle radiazioni nell’ultravioletto, anche se effetti non
39
termici
possono
essere
prodotti
nello
spettro
dell’infrarosso.
Il laser permette di selezionare e modulare queste attività mediante un’emissione
preordinata
di
fotoni
dotati
della
lunghezza
d’onda
desiderata.
Classificazione degli apparecchi per laserterapia
- Laser al Neodimio YAG (lunghezza d’onda 1064): arriva ad una certa
profondità, fino a 5-6 cm, ed è pertanto indicato nelle patologie muscolo-tendinee
o traumatologiche articolari.
- Laser all’Arseniuro di Gallio (lunghezza d’onda 780-980 nm): abbastanza
superficiale ed ad emissione pulsata, adatto alla laser ago-puntura ed alla
stimolazione del circolo linfatico.
- Laser ad HeNe (lunghezza d’onda 632,8 nm): molto superficiale, idoneo per
accelerare processi di cicatrizzazione, terapia antalgica superficiale e riflessa, laser
ago-puntura, effetto drenante sull’imbibizione linfatica.
- Laser a CO2 (lunghezza d’onda 10600 nm): molto utilizzato in passato,
attualmente indicato nella terapia antalgica superficiale riflessa.
- Laser a materiali ternari (lunghezza d’onda tra 780 e 980 nm): rappresentano
un’evoluzione del laser all’Arseniuro di Gallio; nelle versioni più moderne, ad alta
potenza, ed in associazione con un laser Nd: YAG è possibile trattare anche
patologie a notevole profondità.
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Indicazione della Laserterapia
La laserterapia trova indicazione essenzialmente in due momenti del processo di
guarigione
della
lesione
muscolare
dello
sportivo:
nello stimolare il processo di cicatrizzazione, effetto biostimolante e
nel ridurre la sintomatologia dolorosa, effetto analgesico.
Effetti della Laserterapia
Effetti molecolari
- Attivazione di alcuni enzimi
- Attivazione della duplicazione del DNA
- Attivazione della pompa ionica di membrana
- Deformazioni plastiche di alcune macromolecole come il collagene e le
glicoproteine
Effetti cellulari
-Accelerazione
della
proliferazione
cellulare,
soprattutto
di
cellule
immunocompetenti
- Attivazione dei fibroblasti
Effetti tissutali
- Promozione della vascolarizzazione e della rivascolarizzazione
- Formazione di tessuto cicatriziale
41
Effetto Biostimolante
È legato sia ad effetti termici che non termici.
I primi sono ben noti e sostanzialmente analoghi a quelli di altre forme di
diatermia, seppure usando energie inferiori rispetto a microonde o ad ultrasuoni.
Più controversa è la questione degli effetti non termici: sembrerebbe infatti che
l’energia ceduti ai tessuti in rigenerazione favorisca la cicatrizzazione attraverso
un’attivazione della catena respiratoria mitocondriale ed un’attivazione dei
fibroblasti, che sarebbero sia più numerosi, per l’attivazione della sintesi del
DNA, che più produttivi.
Ne consegue quindi un orientamento precoce delle macromolecole prodotte, ossia
collagene e glicoproteine.
Il tutto condurrebbe ad una significativa riduzione dei tempi di guarigione del
trauma sportivo.
Il laser che sembra avere maggiore efficacia come biostimolante è il laser al Nd:
YAG con densità di potenza di 5-10 W/cmq, applicato ad intermittenza.
Effetto analgesico
Lo scopo è quello di ridurre il dolore modificando la soglia degli algorecettori.
Si può agire o a livello dei recettori superficiali (cutanei e sottocutanei) o a livelli
di quelli posti in profondità (articolari).
Per i recettori superficiali è sufficiente un laser a HeNe o a CO2 con bassa
potenza, mentre per quelli profondi è necessario un laser al Nd: YAG.
Si può procedere irradiando specifici punti dolorosi, che di solito corrispondono
alle inserzioni dei fasci legamentosi sull’osso, oppure in punti trigger, analoghi a
42
quelli dell’agopuntura o del dolore miofasciale. Di solito è richiesto un tempo di
somministrazione maggiore che per l’effetto biostimolante (viene consigliato
almeno 1 minuto per punto di applicazione).
43
LA RIEDUCAZIONE FUNZIONALE
Il trattamento immediato delle lesioni muscolari ha lo scopo di favorire il
ripristino dell’integrità anatomica del muscolo, mediante una stimolazione dei
processi rigenerativi.
In caso di strappo, dovendosi realizzare una riparazione cicatriziale, lo scopo del
trattamento è di favorire il riassorbimento dell’ematoma, ottenendo una cicatrice il
più possibile resistente ed elastica.
In un secondo momento, trascorsa la fase acuta della lesione, il trattamento
riabilitativo tende a ripristinare la funzionalità muscolare, stimolando il muscolo
con adeguati esercizi, volti a favorire un ottimale recupero funzionale.
Le cinque fasi del trattamento riabilitativo
1. Fase acuta: RICE (riposo, ghiaccio, compressione, elevazione)
2. Recupero dell’escursione articolare e della estensibilità
3. Lavoro aerobico di base e recupero della forza
4. Lavoro specifico sul campo
5. Esercitazioni di mantenimento
Nella scelta del trattamento si deve prendere in considerazione tre fattori:
a)
Il tipo di lesione
b)
La sede della lesione
c)
Le caratteristiche del paziente
44
a.
Tipo di lesione: quest’aspetto non riguarda la natura della lesione, diretta o
indiretta, ma il suo differente grado di gravità. La lesione muscolare ha sempre
come espressione anatomo-patologica l’ematoma, che può essere più o meno
esteso.
b.
Sede della lesione: nella scelta del trattamento occorre tenere conto che
l’evoluzione della lesione può essere diversa, a seconda del muscolo interessato e,
nell’ambito dello stesso muscolo, della localizzazione, superficiale o profonda e
della sede della lesione. Le sedi più critiche sono considerate: il terzo prossimale
del retto femorale, il terzo distale del bicipite femorale ed il terzo distale del
gemello interno, in corrispondenza delle giunzioni muscolo tendinee.
c.
Caratteristiche del paziente: negli sportivi, un altro fattore non trascurabile
ai fini del trattamento è rappresentato della reazione psicofisica del paziente che
una volta scomparso il dolore, non accetta mai di buon grado la necessaria
astensione dall’attività minimizzando la sintomatologia.
45
Protocolli di trattamento delle lesioni muscolari
Contusione
In fase acuta, immediatamente dopo il trauma, è fondamentale osservare le
semplici regole del R.I.C.E.. E’ altresì importante non commettere errori
terapeutici (es.applicazione di calore e massaggi) nelle prime 72 ore dal trauma,
per non creare le premesse per l’insorgenza delle classiche complicanze da terapia
inadeguata (miosite ossificante e falde liquide) che allungherebbero notevolmente
i tempi di recupero. Le terapie fisiche sono utili in questa fase per stimolare il
riassorbimento dell’ematoma (es. tecarterapia in modalità “atermica” nella zona
della contusione). E’ utile il massaggio linfatico. Dopo le prime 48 ore si possono
effettuare esercizi di stretching passivo, sempre sotto la soglia del dolore.
Il lavoro attivo dovrebbe iniziare il più presto possibile, e l’intensità dell’esercizio
non deve mai evocare il dolore. E’ utile applicare un bendaggio elastico, al fine di
favorire il ritorno venoso e stimolare la funzione di ‘pompa’ insita nell’esercizio
muscolare. Nelle contusioni di terzo grado sono indicati gli esercizi di
tonificazione specifica del muscolo leso, prima della ripresa dell’attività sportspecifica che dovrebbe sempre avvenire previa esecuzione di un ecografia di
controllo e con completa negativizzazione dei test di estensibilità muscolare.
46
Contrattura
La terapia delle contratture prevede la somministrazione di calore esogeno
(efficaci gli impacchi caldo-umidi), ultrasuoni, ipertermia o tecarterapia,
massaggio decontratturante, stretching ripetuto più volte nel corso della giornata e
tecniche di contrazione-rilasciamento. In genere, sono sufficienti 3-4 sedute per
risolvere il problema. Utile valutare la forma fisica generale e fare un programma
di condizionamento aerobico.
Stiramento
Nella fase iniziale le terapie fisiche (laser, ultrasuoni, tecarterapia, ipertermia) si
possono associare al massaggio che dovrà interessare le porzioni muscolari
prossimali e distali rispetto alla sede del dolore, a scopo preventivo finché non si
ha la sicurezza diagnostica che non si tratta di uno strappo. La seduta riabilitativa
terminerà con crioterapia e bendaggio funzionale a protezione della zona
traumatizzata.
Poiché la differenza tra strappo e stiramento appare in alcuni casi assai sfumata, è
importante già dai primi giorni trattare lo stiramento come se fosse uno strappo.
A 4-8 giorni dal trauma se l’ecografia esclude la presenza di lesioni anatomiche
del tessuto muscolare si può iniziare con il massaggio decontratturante anche nella
zona sede del dolore, associato a stretching ed esercizi di allungamento con
tecniche PNF. Inizia anche l’esercizio in condizioni aerobiche seguendo la
progressione: cyclette, step machine, corsa sul tapis roulant. Si possono associare
47
graduali esercizi per il trofismo muscolare. Dopo 12-15 giorni l’atleta riprende le
sedute di allenamento.
Strappo
Il trattamento immediato si può sintetizzare con la sigla RICE. Nell’immediato il
bendaggio compressivo è associato all’applicazione di ghiaccio per 15-20 minuti
ogni 2 ore. Il riposo, assoluto in prima giornata, viene poi programmato in base
alla gravità della lesione ed è associato ad un corretto atteggiamento dell’arto che
consenta
un
completo
rilasciamento
del
muscolo
leso.
La
durata
dell’immobilizzazione varia da 48 ore a 4-5 giorni. Un suo prolungamento, infatti,
potrebbe avere conseguenze negative sul processo di rigenerazione e di
riparazione della lesione. Il programma riabilitativo per uno strappo prevede
l’utilizzo appena possibile di terapie fisiche per ridurre e rimuovere l’ematoma.
Nei casi in cui l’ematoma è voluminoso e non regredisce, deve essere considerata
la possibilità di una puntura evacuativa ecoguidata. Il massaggio decontratturante
dovrà essere eseguito a monte e a valle del punto di lesione non prima di 3-4
giorni dal trauma e nei casi più gravi si aspetta una settimana.
Lo stretching passivo viene effettuato dal terapista, anche precocemente, stirando
il muscolo sempre al di sotto della soglia del dolore. Ghiaccio e bendaggio
funzionale concludono la seduta riabilitativa durante la prima settimana.
L’ecografia viene solitamente proposta in terza giornata e permette di quantificare
e classificare la lesione.
In decima giornata il massaggio traverso profondo può sostituire il linfodrenaggio.
48
Tale massaggio viene effettuato progressivamente ed in modo sempre più intenso
con lo scopo di guidare la formazione delle fibrille della cicatrice e cercando di
evitare le retrazioni e la formazione di aderenze.
Figura 8. Massaggio trasverso profondo sul ventre muscolare di quadricipite,
ischio crurali e tricipite surale.
Si può iniziare esercizi di stretching attivo con lo scopo di recuperare il completo
arco di movimento.
E’ buona norma effettuare delle ecografie di controllo ogni 12-15 giorni per poter
meglio monitorare il processo di guarigione e poter valutare l’incremento o meno
della durata e dell’intensità della seduta riabilitativa. Tra il dodicesimo e il
diciottesimo giorno si prosegue la terapia fisica (tecarterapia o laser o ipertermia)
ed inizia il ricondizionamento aerobico (cyclette, step machine, tapis roulant).
Al termine di ogni seduta è importante scaricare il muscolo con il massaggio
evitando complicanze quali contratture da lavoro prolungato.
Tra il diciottesimo e il ventiquattresimo giorno viene iniziato il recupero attivo
della forza muscolare con esercizi isometrici senza carichi ed in isotonia con
carichi bassi. Si può iniziare sollecitando il gruppo antagonista in modo che in
maniera molto blanda lavora anche l’agonista, per poi passare ad esercizi in catena
49
chiusa ( si determina un attivazione di tutta la muscolatura dell’arto senza
sollecitare in maniera specifica un singolo muscolo).
Figura 9. Esercizi in catena chiusa alla pedana a vibrazione e alla leg press.
Si possono poi iniziare esercizi contro blanda resistenza manuale.
Tra il ventiquattresimo ed il trentaduesimo giorno il paziente continua il recupero
attivo del trofismo e della forza muscolare introducendo anche sedute di
isocinetica e di esercizi con resistenza elastica.
Figura 10. Esercitazione isocinetica ed esercizio con resistenza elastica
L’inizio della ripresa funzionale sul campo varierà in base alla sede della lesione,
alla gravità della stessa e all’evoluzione durante il processo riparativo. In genere
tra il trentaduesimo e il quarantacinquesimo giorno viene inserito il lavoro breve
ed intenso tipicamente lattacido (allunghi e ripetute), e alattacido (scatti e balzi).
L’obiettivo della riabilitazione è il ripristino delle caratteristiche di forza e
resistenza del muscolo infortunato.
50
Il ritorno all’attività sportiva verrà permesso solo in presenza di un deficit di forza
non superiore al 10% solitamente documentabile con un test isocinetico
comparativo.
La terapia chirurgica può essere necessaria nei casi in cui la lesione abbia prodotto
lacerazione di vasi importanti o quando la raccolta ematica è talmente voluminosa
da produrre un’ischemia dei tessuti circostanti. Può essere indicata nelle lesioni
complete degli ischio peronei tibiali che si estendono per più di ¾ della superficie
di sezione anatomica(Kujala, 1997).
Caratteristiche della riabilitazione degli ischio-crurali
Il bicipite femorale, lateralmente, ed il semitendinoso, ed il semimembranoso,
medialmente, compongono il gruppo degli ischio-crurali. Questi muscoli agiscono
in flessione del ginocchio, estensione dell’anca ed intra-extra rotazione della tibia
e si oppongono come antagonisti all’estensione del ginocchio (Agre J.C. , 1985;
Distefano V. 1978). Inoltre, il semimembranoso rinforza dinamicamente le
strutture capsulari posteriori e mediali del ginocchio, retrae posteriormente il
menisco mediale e aiuta il legamento crociato anteriore a prevenire la traslazione
anteriore della tibia (Weineck, 1986). I tendini di inserzione del semitendinoso,
del gracile e del sartorio formano la zampa d’oca, la quale si inserisce sul versante
prossimo mediale della tibia. Nel complesso, gli ischio-crurali svolgono un ruolo
importante nella deambulazione e assumono la funzione di estensori al momento
del contatto del tallone. Durante la corsa gli ischio-crurali sono a lungo attivi
durante le fasi di oscillazione e appoggio iniziale del passo (Garrett et al 1984).
51
Di solito, le lesioni degli ischio-crurali avvengono durante la corsa veloce o gli
esercizi ad alta velocità (es. in uno sprinter che sta lasciando i blocchi di partenza,
nella gamba che sta scavalcando un ostacolo, nella gamba di stacco di un
saltatore).
Le lesioni muscolari degli ischio-crurali possono avere diverse cause: Il passaggio
improvviso da un flessore stabilizzante ad un estensore attivo, combinato ad uno
squilibrio muscolare tra il quadricipite e gli ischio-crurali; scarsa elasticità;
postura scorretta; dismetria degli arti inferiori (Arnheim, 1993; Fahei, 1986).
La struttura che più spesso va in contro a lesioni è il capo breve del bicipite
femorale; si ritiene che, in conseguenza di un’idiosincrasia dell’innervazione, esso
si contragga simultaneamente al quadricipite, il che contribuisce all’elevato tasso
di lesione di questo muscolo (Heiser et al 1984).
Si è ipotizzato che, per contribuire a prevenire la lesione degli ischio-crurali, la
forza di questi muscoli dovrebbe essere pari al 60%-70% di quella
dell’antagonista quadricipite (Kulund, 1982). Il clinico dovrebbe effettuare dei
test di flessione attiva, passiva e contro resistenza del ginocchio e di estensione
dell’ anca per determinare la gravità della lesione. Di solito, ad indicare la gravità
della lesine è il grado di estensione del ginocchio che lo sportivo riesce a
raggiungere mentre è in decubito prono. Una volta accertatala gravità, il
trattamento può procedere come segue: nello stadio acuto, si pone enfasi sulla
riduzione dell’ infiammazione, del dolore e dello spasmo tramite l’uso di
appropriati mezzi fisici. A seconda della gravità della lesione, dopo due quattro
giorni dall’infortunio lo sportivo può iniziare un programma di allungamento
nell’arco di movimento non doloroso. Mentre il dolore diminuisce ed l’elasticità
aumenta può essere introdotto un programma più aggressivo di allungamento. La
seduta di esercizi dovrebbe concludersi con la crioterapia.
52
In fase più avanzata del processo di riabilitazione, il macchinario isocinetico può
essere usato a velocità più alte grazie all’elevata percentuale di fibre muscolari di
tipo II, o veloci, localizzate negli ischio-crurali. Il macchinario isocinetico può
essere usato anche per ottenere dati che possono aiutare a determinare quando lo
sportivo ha raggiunto l’ottimale rapporto ischio- crurali/quadricipite, utile a
scongiurare la lesione. Si può utilizzare anche l’elastico per esercizi di resistenza
ad alta velocità in flessione, estensione, abduzione e adduzione dell’anca e in
flessione del ginocchio. L’atleta può ritornare a gareggiare senza limitazioni,
indossando una guaina in neoprene per il supporto e la propriocezione, quando
vengono soddisfatti i seguenti criteri:
1. L’elasticità degli ischio-crurali è uguale bilateralmente.
2. La forza, la potenza, la resistenza muscolare e il tempo per la torsione di
picco, misurati con un dinamometro isocinetico, sono pari all’ 85-90% di
quelli dell’arto controlaterale.
3. La forza degli ischio-crurali è pari al 60-70% di quella del quadricipite.
4. Non si notano sintomi nello svolgimento delle attività funzionali.
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Caratteristiche della riabilitazione del quadricipite
Le lesioni del quadricipite sono una comune evenienza negli sport. Il muscolo
quadricipite è soggetto tanto a distrazione che a contusione, con le ultime ad avere
una maggiore incidenza (Arnheim, 1993; Arnheim e Prentice, 1993).
Il quadricipite è composto dai muscoli retto femorale, vasto mediale, vasto
laterale e vasto intermedio. Il suo ruolo statico è di prevenire il cedimento del
ginocchio in stazione eretta e la sua funzione dinamica è di estendere
forzatamente il ginocchio come nella corsa o nei salti. Il retto femorale è un
muscolo bi-articolare e agisce estendendo il ginocchio e flettendo l’anca. Anche il
tensore della fascia lata e il sartorio vengono considerati come facenti parte della
faccia anteriore della coscia.
Contusioni
Il quadricipite è costantemente esposto a contatti diretti in diversi sport vigorosi
come il rugby, il calcio e il basket. Una contusione del quadricipite può variare da
una lieve ecchimosi ad un vasto e profondo ematoma e necessita di mesi per
guarire (Arnheim e Prentice, 1993).
L’abituale meccanismo di lesione è un colpo diretto sulla coscia rilasciata che
comprime il muscolo contro il femore. Risulta più spesso interessato il versante
anteriore o anche anterolaterale del quadricipite, perché il versante mediale è
protetto dall’arto controlaterale dell’atleta (Roy e Irvin 1983).
Lo sportivo può esibire dolore locale, rigidità, dolore all’allungamento passivo,
disabilità che varia con il sito e con l’estensione della lesione, dolore alla
pressione, ecchimosi, formazione di un ematoma e deficit dell’estensione attiva.
54
Di solito, la gravità della lesione può essere determinata in base al grado di
limitazione della flessione del ginocchio.
Le contusioni del quadricipite moderate e gravi dovrebbero essere trattate in modo
non aggressivo per prevenire lo sviluppo di una miosite ossificante, con
l’esercizio che progredisce in accordo alla tolleranza del paziente. Il grado di
flessione attiva del ginocchio viene determinato in base alla tolleranza del dolore
da parte dell’atleta. I mezzi fisici come il massaggio, il calore e l’allungamento
forzato del muscolo durante la fase acuta sono controindicati.
Si
può
effettuare
l’allineamento
del
quadricipite
e
si
può
usare
l’elettrostimolazione per scongiurare l’atrofia muscolare e incrementare la
rieducazione del quadricipite qual ora tali trattamenti non causino alcun dolore
(Arnheim e Prentice 1993). Inoltre, negli stadi iniziali della lesione possono essere
utili i dispositivi per la mobilizzazione passiva.
Nelle contusioni, se l’ematoma non si risolve rapidamente, il clinico dovrebbe
sospettare lo sviluppo di una miosite ossificante. La lesione di III grado necessita
di riposo-crioterapia a scopo protettivo, esercizi isometrici e cauta mobilizzazione
attiva nell’arco di movimento, secondo tolleranza, prima di poter dare inizio ad
una riabilitazione aggressiva. Nelle gravi contusioni della coscia, l’uso del
massaggio, del calore dell’allungamento o della corsa forzata è controindicato
nelle fasi iniziali della guarigione. L’atleta può tornare a gareggiare senza
limitazioni, quando vengono soddisfatti i seguenti criteri:
1. L’elasticità del quadricipite è uguale lateralmente.
2. La forza, la potenza, la resistenza muscolare e il tempo per la torsione di
picco, misurati con un dinamometro isocinetico, sono pari all’85-90% di
quelli dell’arto controlaterale.
3. Nel quadricipite è presente una dolenza minima, se non nulla.
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4. Non si notano sintomi con le attività funzionali ad alta velocità.
5. L’area traumatizzata è protetta.
Distrazioni
Le distrazioni del quadricipite interessano solitamente il retto femorale (Fahey,
1986). In questa area, le distrazioni avvengono in misura minore di quelle degli
ischio-crurali perché il gruppo del quadricipite è dotato di una forza, un volume ed
un’elasticità di notevole entità. Di solito la lesione è il risultato di un insufficiente
riscaldamento o allungamento, di un quadricipite in tensione, di uno squilibrio
bilaterale del quadricipite o di un arto ipometrico. Pur variando con la gravità
della lesione, i segni e i sintomi sono caratterizzati da un dolore per l’intera
lunghezza del retto femorale e da un’iperestesia nell’area della distrazione.
L’atleta manifesta dolore alla contrazione attiva ed all’allungamento passivo del
quadricipite. Se il muscolo è rotto, la tumefazione può inizialmente mascherare un
difetto muscolare, ma una volta risoltasi, nella coscia permane una protuberanza
permanente. La gravità della lesione determina il momento in cui si può dare
inizio alla riabilitazione attiva e tutti gli esercizi dovrebbero essere eseguiti in un
arco di movimento non doloroso. S’inizia, secondo tolleranza con l’allungamento
statico associato con gli esercizi passivi nell’arco di movimento. Si dovrebbe
quindi passare agli esercizi attivi nell’arco di movimento e controresistenza
curando in particolare l’estensione del ginocchio e la flessione dell’anca. Nelle
fasi avanzate della riabilitazione si può usare, ad alte velocità, il macchinario
isocinetico, sia in posizione supina sia in posizione seduta. Inoltre si può usare
l’elastico per esercitare l’anca nei piani di flessione, estensione, abduzione e
adduzione e l’estensione del ginocchio ad alta velocità di contrazione per la
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resistenza alla fatica. L’atleta può tornare a gareggiare senza limitazioni,
indossando una guaina in neoprene per il supporto e le propriocezione, quando
vengono soddisfatti i seguenti criteri:
1. La forza, la potenza, la resistenza muscolare e il tempo per la torsione
di picco, misurati con un dinamometro isocinetico, sono pari all’8590% di quelli dell’arto controlaterale.
2. L’elasticità del quadricipite è uguale bilateralmente.
3. Non si notano sintomi con le attività funzionali ad alta velocità.
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Caratteristiche della riabilitazione dei muscoli inguinali
L’inguine è la regione infossata che giace tra la coscia e l’area addominale, i
muscoli di questa regione comprendono il gruppo degli adduttori, il retto femorale
e l’ileopsoas. L’adduttore lungo, l’adduttore breve, il grande adduttore, il pettineo
e il gracile formano il gruppo degli adduttori. Oltre a addurre la coscia questi
muscoli flettono ed extra-intraruotano l’anca.(Weineck, 1986).
A seconda che si trovino anteriormente o posteriormente all’asse di flessoestensione dell’anca, questi muscoli operano dinamicamente per addurre la coscia
e agiscono come flesso-estensori dell’anca.
Durante la deambulazione e la corsa, la contrazione degli adduttori contribuisce al
movimento d’oscillazione dell’arto inferiore. L’effetto statico di questi muscoli è
di stabilizzare il tronco regolando costantemente la posizione del bacino. La
torsione del bacino viene prevenuta dalle componenti di adduzione ed intraextrarotazione del gruppo degli adduttori (Weineck, 1986).
Le distrazioni inguinali possono derivare da qualsiasi movimento di adduzione
forzata, iperestenzione, torsione, corsa o salto con extrarotazione (Arnheim e
Prentice, 1993).
Di solito l’elongazione avviene quando l’unità muscolare è sovraccaricata durante
la fase eccentrica della contrazione muscolare (Knight, 1985).
Lo sportivo avverte improvvisamente una fitta dolorosa lungo la branca ischiopubica, il piccolo trocantere o la giunzione muscolo tendinea dell’adduttore,
lamentando dolore all’abduzione passiva e all’adduzione contro resistenza.
Il dolore può iniziare all’origine del muscolo traumatizzato ed irradiarsi lungo la
faccia mediale della coscia sino all’area del retto addominale.
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La lesione dovrebbe essere valutata mediante test attivi, passivi e contro resistenza
in flessione, estensione, adduzione e abduzione dell’anca in intra-extrarotazione
dell’anca e in flessione del ginocchio. L’uso di una fasciatura a spiga con l’anca
atteggiata in intrarotazione può aiutare ad alleviare in parte il dolore e i disagi
provati svolgendo le attività quotidiane. I movimenti laterali e l’abduzioneextrarotazione dovrebbero essere evitati fino a risoluzione dei sintomi.
L’atleta può tornare a gareggiare senza limitazioni quando vengono soddisfatti i
seguenti criteri:
1. La forza muscolare è uguale bilateralmente come determinato dai test
muscolari manuali.
2. L’arco di movimento dell’anca è completo e non doloroso.
3. L’atleta può eseguire senza comparsa di sintomi e a piena velocità le
attività funzionali spot-specifiche.
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LE COMPLICANZE
Si possono verificare come conseguenza dell’evoluzione sfavorevole di un
ematoma muscolare. Le complicanze ad insorgenza precoce sono:
•
La falda liquida
Quelle ad evoluzione più lenta con un andamento cronico sono:
•
La cisti siero-ematica
•
La fibrosi post-traumatica
•
Le calcificazioni
•
La miosite ossificante
Falda liquida
E’una raccolta fluida, essudatizia o ematica, che si crea tra due fasce muscolari,
verosimilmente per fenomeni infiammatori reattivi, in seguito a traumi contusivi
diretti o, anche, a traumi indiretti. Si verifica con più frequenza nella regione
anteriore della coscia, tra il retto femorale ed il vasto intermedio oppure a livello
postero-mediale della gamba, fra il gemello mediale ed il soleo. Si presenta come
un rigonfiamento duro-elastico, talvolta fluttuante e dolente che rende difficoltosa
la contrazione attiva del muscolo. Si evidenzia facilmente con l’ecografia e se
trattata precocemente si risolve senza esiti invalidanti.
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Fibrosi post-traumatica
Rappresenta la complicanza più frequente. Si verifica dopo traumi muscolari che
provocano la formazione di un ematoma di tipo intramuscolare. Può essere
attribuita ad un approccio terapeutico errato o tardivo, oppure ad una ripresa
troppo veloce dell’attività motoria con sollecitazioni eccessive nella zona
traumatizzata. Il tessuto fibrotico prodotto in eccesso è solitamente detraente ed
altera le proprietà di contrattilità, elasticità ed estensibilità muscolare, con
conseguenze sulla funzionalità. Da un punto di vista clinico la sintomatologia
soggettiva ed obiettiva è direttamente correlata alla sede muscolare interessata ed
all’estensione della fibrosi.
Cisti siero-ematica
E’ una complicanza poco frequente. Si verifica quando l’ematoma, non
completamente riassorbito, viene incapsulato da tessuto fibroso, formato in parte
dai muscoli circostanti, compressi e ischemizzati, in parte dai setti intermuscolari
e da tessuto neoformato. All’interno della cisti la raccolta ematica si mantiene
fluida. Si verifica più spesso nei traumi indiretti e può essere anch’essa la
conseguenza di errori di trattamento(mancata compressione e crioterapia o
massaggi incongrui e troppo traumatizzanti). Quando si manifesta a livello degli
ischio perono tibiali, può essere confusa con una tenosinovite del tendine del
bicipite femorale.
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Calcificazioni
Sono considerate un processo degenerativo, che più frequentemente consegue a
lesioni distrattive e possono essere favorite dall’applicazione di terapie incongrue,
come calore in fase precoce.
Miosite ossificante
Diversamente dalle calcificazioni (depositi di sali di calcio in un tessuto fibrotico
ischemico), la miosite ossificante prende origine da una vera e propria
ossificazione dovuta alla stimolazione delle cellule del periostio.
Si tratta quindi di un processo reattivo, che si verifica all’interno del muscolo in
conseguenza quasi esclusiva di traumi muscolari contusivi di solito di un grosso
gruppo muscolare (quadricipite, adduttori).
Di solito si instaura come recidiva di una lesione precedente, prima della sua
completa guarigione. Può essere anche il risultato di un trattamento troppo
aggressivo (massaggio vigoroso e mobilizzazione precoce) della lesione primaria
(Webb, 1990).
Questa complicanza maggiore ma rara, comporta una sintomatologia dolorosa mal
definita, un impaccio funzionale(difficoltà di scorrimento dei tessuti) e una
limitazione allo stiramento. Il riassorbimento si ha in 12-18 mesi e l’indicazione
chirurgica si ha in rari casi.
62
LA PREVENZIONE DELLE RECIDIVE
La prevenzione delle recidive nelle lesioni muscolari da trauma indiretto si basa
su una valutazione il più possibile accurata dello sportivo. L’anamnesi ha lo scopo
di indagare la presenza di eventuali fattori di rischio e di individuare gli sportivi
che sono soggetti frequentemente alle lesioni muscolari da trauma indiretto. Verrà
presa in considerazione l’estensibilità in particolare dei muscoli biarticolari, sia in
maniera segmentaria sia in catena. Le caratteristiche di stabilità e mobilità delle
principali articolazioni (anca, ginocchio, caviglia), l’”assetto” del bacino e del
rachide.
Ad esempio un’alterata posizione di un iliaco, per un trauma o per ripetute
sollecitazioni, frequenti in molti sport, può provocare delle tensioni muscolari
asimmetriche. E’ quindi opportuno osservare, palpare e valutare la mobilità a
livello del bacino.
Osservazione
Esame della statica:
9 Osservazione dell’adattamento alla forza di gravità
9 Posizionamento dei piedi al suolo
9 Osservazione della statica dei piedi (più spesso piede piatto dalla parte
dove il corpo è in uno schema di rotazione interna e viceversa un arco più
marcato dalla parte dello schema in rotazione eterna)
9 Osservazione del calcagno (il valgismo può essere associato a schema di
rotazione interna, mentre il varismo allo schema di rotazione esterna)
9 Osservazione della posizione del ginocchio (varo, valgo o in leggera
flessione dalla parte della rotazione anteriore dell’iliaco).
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Lo studio dei diversi punti di repere:
Posteriormente:
9 Fossette di Michaelis e SIPS (normalmente la distanza tra le due SIPS
varia da 7 a 9 cm)
9 Le pliche sotto ai glutei: riflesso della posizione degli iliaci
9 La linea interglutea
9 Le AIL (angoli infero laterali del sacro)
Anteriormente:
9 SIAS
9 Tubercoli pubici
Da supino:
9 L’angolo di apertura dei piedi rispetto alla verticale:
ƒ
15° e gamba lunga: iliaco in rotazione anteriore
ƒ
15° e gamba corta: iliaco in rotazione posteriore
ƒ
15° e gamba corta: disfunzione del muscolo piramidale
Palpazione
Conferma l’osservazione e permette di apprezzare dettagli che riguardano punti di
repere difficilmente visibili (es. tuberosità ischiatiche e sulcus). E’ la palpazione
che c’informa dello stato di tensione legamentosa del bacino(in particolare:
legamenti sacro tuberoso, sacro-spinoso, ileo-lombari, sacro-iliaci-posteriori,
inguinali).
64
Test di mobilità
I micromovimenti dell’iliaco presi in esame sono:
La rotazione esterna (o anteriore) che associa:
ƒ
sul piano sagittale: la rotazione anteriore, movimento maggiore;
ƒ
sul piano frontale: l’abduzione della cresta ilaca e l’adduzione della
tuberosità ischiatica, movimento minore;
ƒ
sul piano orizzontale: la rotazione interna, movimento minore.
La rotazione interna (o posteriore) che associa:
ƒ
sul piano sagittale: la rotazione posteriore, movimento maggiore;
ƒ
sul piano frontale: l’adduzione della cresta iliaca e l’abduzione della
tuberosità ischiatica, movimento minore;
ƒ
sul piano orizzontale: rotazione verso l’esterno, movimento minore.
Test delle SIAS con soggetto in piedi:
9 test bilaterale
9 test unilaterale
Se individuiamo un’assenza di movimento o una riduzione dello stesso possiamo,
attraverso tecniche di terapia manuale, eseguire la correzione.
Correzioni
“Pompage” del quadrato dei lombi e “pompage” della superficie auricolare.
Figura 11. “Pompage” in decubito laterale.
65
Correzioni di rotazione esterna (rotazione anteriore)
ƒ
Tecnica con abduzione dell’arto inferiore
ƒ
Tecnica del “volante”
Figura 12. Tecniche manuali di correzione di una rotazione anteriore dell’iliaco.
Correzioni di rotazione interna (rotazione posteriore)
ƒ
Tecnica con soggetto prono
ƒ
Tecnica con soggetto supino
Figura 13. Tecnica manuale di correzione di una rotazione posteriore.
66
“Tre punti alti”
Palpazione: ci mostra tre punti alti dallo stesso lato: SIAS, SIPS, cresta iliaca.
I segni soggettivi: il soggetto presenta generalmente dolore nella parte bassa della
schiena.
Test di mobilità: non è possibile alcun movimento.
Correzione in posizione in piedi.
Figura 14. Correzione in piedi (“tre punti alti”).
Un altro aspetto da tenere in considerazione dal punto di vista della prevenzione
delle recidive è l’allenamento eccentrico.
Risulta, infatti, che il meccanismo maggiormente correlato al possibile
danneggiamento della fibra muscolare (trauma indiretto) è la contrazione
eccentrica (attivazione muscolare durante la quale il muscolo produce forza
allungandosi).
Durante la contrazione di tipo eccentrico, poiché la vascolarizzazione muscolare è
interrotta, il lavoro svolto è di tipo anaerobico, questo determina, sia un aumento
della temperatura locale, che dell’acidosi, oltre ad una marcata anossia cellulare.
Considerando quindi il fatto che il muscolo si presenta particolarmente
vulnerabile nel momento in cui sia sottoposto ad una contrazione di tipo
67
eccentrico, soprattutto quando quest’ultima sia di notevole entità, come nel caso
di uno sprint, di un balzo o comunque di un gesto esplosivo, nasce l’esigenza di
‘abituare’ i distretti muscolari interessati ad un lavoro consono a questo sforzo.
Quindi si possono proporre esercizi concentrici associati
a contrazioni
eccentriche rapide o a contrazioni eccentriche lente e controllate ( es.ischiocrurali).
68
Le competenze del fisioterapista nel trattamento riabilitativo delle lesioni
muscolari dell’arto inferiore nello sportivo.
Il decreto del 14 settembre 1994 n° 741 individua il profilo professionale del
fisioterapista.
Articolo 1:
1. E' individuata la figura del fisioterapista con il seguente profilo: il fisioterapista
è l'operatore sanitario, in possesso del diploma universitario abilitante, che svolge
in via autonoma, o in collaborazione con altre figure sanitarie, gli interventi di
prevenzione, cura e riabilitazione nelle aree della motricità, delle funzioni corticali
superiori, e di quelle viscerali conseguenti a eventi patologici, a varia eziologia,
congenita o acquisita.
2. In riferimento alla diagnosi ed alle prescrizioni del medico, nell'ambito delle
proprie competenze, il fisioterapista:
a) elabora, anche in équipe multidisciplinare, la definizione del programma
di riabilitazione volto all'individuazione ed al superamento del bisogno di
salute del disabile;
b) pratica autonomamente attività terapeutica per la rieducazione
funzionale delle disabilità motorie, psicomotorie e cognitive utilizzando
terapie fisiche, manuali, massoterapiche e occupazionali;
c) propone l'adozione di protesi ed ausili, ne addestra all'uso e ne verifica
l'efficacia;
d) verifica le rispondenze della metodologia riabilitativa attuata agli
obiettivi di recupero funzionale…
69
Facendo riferimento all’argomento affrontato nella tesi ritengo che la finalità della
riabilitazione sia il ripristino delle caratteristiche di forza e resistenza del muscolo
infortunato dopo averlo accompagnato nel processo fisiologico riparativo.
Dopo la diagnosi del medico, lo sportivo infortunato inizia il percorso riabilitativo
caratterizzato dalle terapie strumentali e dalla rieducazione funzionale, con un
progressivo incremento dei carichi di lavoro. Nel recupero di un’importante
lesione muscolare possiamo distinguere 5 fasi:
•
Fase acuta
•
Fase subacuta
•
Fase di rimodellamento
•
Fase funzionale
•
Fase del ritorno all’attività sportiva competitiva
Il fisioterapista con le sue competenze interviene in tutte le fasi lavorando in
equipe con il medico, che verifica il processo di guarigione con dei controlli
ecografici.
E’ indicato eseguire un test isocinetico comparativo prima del ritorno all’attività
sportiva, ed è inoltre consigliato eseguire un programma di mantenimento della
forza e resistenza del muscolo infortunato durante la fase del ritorno sul campo.
Ritengo che il percorso formativo del fisioterapista fornisca competenze per poter
introdurre anche un ricondizionamento aerobico-anaerobico dello sportivo
infortunato, considero comunque importante ai fini dell’ultima fase del recupero
prima distinta, una collaborazione tra fisioterapista e laureato in scienze motorie.
Infatti negli atleti di alto e medio livello è importante curare l’aspetto del recupero
del gesto sportivo.
E’ facile in questo campo invadere le competenze, anche se ritengo che tra le due
figure il fisioterapista per il percorso formativo e per il profilo professionale
70
commetta un atto meno improprio se si permette di seguire da vicino anche il
ritorno sul campo.
Ritengo che sia importante un comportamento il più possibile professionale dove
la collaborazione, il dialogo ma anche il buon senso vadano a tutelare la salute del
paziente.
CONCLUSIONI
Anche se le lesioni muscolari non sono generalmente gravissime sul piano degli
esiti, è pur sempre vero che sono estremamente penalizzanti nella pratica sportiva
per il ritardo che impongono nell’allenamento e per i disturbi funzionali che
causano. Ritengo quindi che un adeguato protocollo terapeutico associato ad
un’attenta valutazione funzionale sia importante nel recupero dello sportivo
infortunato.
71
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