Il soggetto che non c`è
Transcript
Il soggetto che non c`è
Il soggetto che non c’è* di Pier Aldo Rovatti È il titolo di un possibile lavoro di scavo nell’opera e nella pratica teorica di Michel Foucault, uno scavo che gli interpreti, secondo il mio parere, devono ancora affrontare o hanno solo cominciato a intravedere. Una ricerca che oggi ha finalmente a disposizione tutto il materiale necessario e che avrebbe una particolare importanza nel dibattito filosofico-politico. Servirebbe almeno a far cadere diverse delle incomprensioni e ambiguità che hanno alimentato e continuano a essere presenti nell’eredità di Foucault, strumento di analisi dell’attualità che ormai nessuno può sottovalutare. Comincio da alcune declinazioni possibili di un titolo come questo. Potremmo affermare che in Foucault il soggetto è un soggetto assente, deliberatamente sottratto alla vista e nascosto, ma che proprio in quanto assente produce i suoi effetti nei e sui dispositivi di potere, per esempio nella società disciplinare o post-disciplinare entro la quale ci troviamo a vivere e che Foucault ci ha insegnato a decifrare e a riconoscere, nei suoi tratti essenziali, con gli studi degli anni settanta, e in particolare grazie a Sorvegliare e punire. Un’assenza che si può anche tradurre in una presenza politica. Oppure, potremmo leggere questo titolo letteralmente e dire che l’esclusione del soggetto, così come normalmente la intendiamo, è il progetto cui Foucault tiene fede dall’inizio alla fine, dalla Storia della follia del 1960, in cui ingaggia un corpo a corpo con Descartes e la filosofia del soggetto che ne discende, fino agli ultimi corsi tenuti al Collège de France, in cui il tema della governamentalità tiene il campo di una critica radicale a ogni ideologia politica centrata sull’autonomia e la libertà dell’individuo, e nei quali, di conseguenza, Foucault propone il discusso programma di una biopolitica. Entrambe queste declinazioni trovano riscontro nel lavoro di Foucault e segnano qualcosa come una continuità del suo pensiero, pur nei passaggi anche netti di orizzonte tematico e di linguaggio teorico (d’altronde, puntualmente sottolineati da Foucault stesso). Cercherò ora di fare interagire le due ipotesi, tuttavia è subito chiaro cosa esse finiscono per squalificare. Innanzitutto, è il soggetto-sostanza che Foucault non cessa di disconoscere, o meglio di riconoscere negativamente, come il mito o l’illusione (necessaria?) di una pratica * Tratto da M. Galzigna (a cura di), Foucault, oggi, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 216-225. 1 discorsiva che ha tutte le caratteristiche di un “discorso del padrone” costruito sull’assoluta priorità del conoscere rispetto alle pratiche. Questa potente riduzione del soggetto al soggetto della conoscenza (della conoscenza di se stesso, potremmo aggiungere) secondo Foucault ha governato tutta la tradizione moderna (ma ha radici antiche) scindendo la coppia potere/sapere, cioè nascondendo il potere ed elevando il sapere a valore autonomo di verità. Contro tale riduzione – dal timbro propriamente filosofico – del soggetto a soggetto-sostanza-verità, Foucault non ha mai smesso di condurre una battaglia aperta fin dalla sua clamorosa e inaugurale sfida accademica (appunto, la Storia della follia). Questo “soggetto”, che sarebbe più opportuno scrivere Soggetto, per Foucault “non c’è”, è un’invenzione piena di conseguenze negative e perfino distruttive, cui ancora ci aggrappiamo per legittimare quella che ai suoi occhi altro non è che una ossessiva ignoranza di ciò che è accaduto storicamente e tuttora avviene. Di contro esistono invece quelle che lui chiama le soggettivazioni, e che il Soggettopadrone mette in ombra e addirittura cancella. Con un crescendo che va sottolineato (relativamente all’ultimo decennio), e con la conseguente consapevolezza della nozione che stava adoperando, Foucault non ha infine mai cessato di lavorare sulle soggettivazioni, tentando di farle emergere e parlare anche là dove apparivano interrate e condannate al silenzio. Naturalmente dobbiamo intenderci su cosa siano in effetti queste soggettivazioni che tanto importano a Foucault, perché il rischio che il nostro sguardo in proposito inclini ancora e surrettiziamente verso un’idea “metafisica” di soggetto, magari riverniciata politicamente, è sempre in agguato. Le soggettivazioni non sono i soggetti, non prefigurano mai un blocco sostanziale (sociale, politico) in cui arroccarci. Da questo punto di vista, Foucault resta un pensatore decisamente scomodo e assai poco maneggevole. Non solo, ma, soprattutto alla luce del percorso che lo porta da Sorvegliare e punire agli snodi dell’incompiuta Storia della sessualità, il primo equivoco da correggere è che in Foucault sia assente la questione del soggetto. Subito dopo la sua morte (avvenuta nel 1984) ne avevo indicato il “luogo” in una serie di note che arrivavano fino all’interpretazione della figura di Pierre Rivière,1 luogo di una presenza-assenza che deve essere precisato e portato a visibilità, misurandolo sulle pratiche di soggettivazione e infine sulla cura di sé degli scritti finali. Sviluppando quelle note è innegabile che l’“effetto Foucault” si collega soprattutto al rapporto tra potere e soggettività (e a tutti i giochi di verità che hanno a che fare con esso), con la conclusione critica che la 1 P.A. Rovatti, Il luogo del soggetto, in AA.VV., Effetto Foucault, Feltrinelli, Milano 1986, pp. 71-76. 2 questione del soggetto, lungi dall’essere marginale, viene anzi a occupare il centro della scena della riflessione di Foucault. Ma c’è un secondo equivoco da sfatare, specificamente connesso con il lavoro che Foucault conduce negli ultimi anni sulle tecniche del sé, sulla cura di sé e degli altri, e quindi sul governo di sé e degli altri (cfr. il corso del 1982-83), spostando decisamente la propria attenzione verso il mondo antico della classicità greca e verso ciò che accade nella società greco-ellenistica. L’equivoco riguarda l’insistenza di Foucault sulle pratiche della spiritualità antica, pratiche che lui va a indagare (penso soprattutto al corso del 1980-81 sull’Ermeneutica del soggetto) a partire dalla confessione cristiana. È indubbio che in Foucault si verifichi qualcosa come un détour all’interno del suo progetto di una Storia della sessualità, uno spostamento non irrilevante della ricerca impostata e teorizzata nella Volontà di sapere. In tale ricerca, peraltro mai abbandonata, si apre un’altra strada, che ha a che fare proprio con la questione del soggetto e che travalica per importanza (e per interesse) l’originaria problematizzazione. Non si tratta più di indagare la genealogia della psicoanalisi attraverso un lavoro genealogico sulla confessione cristiana, almeno non principalmente. Né basta prendere atto che Foucault sposta indietro la sua indagine, aprendo un’ulteriore genealogia che lo conduce alla grecità antica e al mondo greco-romano, perché qui avviene piuttosto un’estensione dello sguardo, e la spiritualità greco-romana assume la dimensione di un problema a sé stante. Foucault, da questo momento, non cesserà di contrapporla alla spiritualità cristiana e affermerà esplicitamente il suo radicamento in essa anche come messaggio da rivolgere ai contemporanei, dando perfino l’impressione di erigerla talora a modello. L’equivoco, a veder bene, è già contenuto nella stessa parola “spiritualità”, che Foucault legge come complesso di pratiche di vita e mai come qualcosa di spirituale nel senso comune del termine (carico, come ben sappiamo, di tutta la metafisica veicolata dalla nostra storia culturale). Alla stessa stregua, il termine “ascesi” (ricalcato sulla parola greca) significa per lui essenzialmente esercizio. Ma tale equivoco esplode quando Foucault precisa che sta parlando di etica e di estetica dell’esistenza, e con ciò dà adito, nell’interprete o semplicemente nel lettore, all’idea che sta avanzando una vera e propria teoria del soggetto, riportata alla luce con un poderoso rinculo storico e presa come una specie di soluzione positiva da opporre alla scomparsa attuale di un luogo soggettivo in cui attestarsi. È, invece, ben visibile che Foucault sta lavorando a una genealogia della desoggettivazione: continua infatti a parlare di un soggetto da svuotare, da liberare da se stesso, cioè dalla moderna cattura nella gabbia dell’individualità, e, se c’è un messaggio che rivolge ai 3 contemporanei, si tratta dell’invito a una lotta contro il nuovo soggetto-individuo nel quale veniamo identificati dal dispositivo biopolitico della società attuale. L’equivoco di cui sto parlando può avere effetti distruttivi sull’intero impianto della ricerca di Foucault: farebbe sparire il potere e insieme a esso la decisività dell’idea stessa di dispositivo, trascinando con sé anche lo strumento peculiare delle pratiche. Scomparirebbe il Foucault che conosciamo e che è per noi un prezioso strumento analitico di ogni disciplinarità, e al suo posto, quasi fosse avvenuta una netta conversione, avremmo un Foucault che teorizza l’arte di esistere, per di più scollegata o scollegabile da ogni contestualizzazione storica. Ma non credo che nessuna conversione abbia avuto luogo. Foucault, testi alla mano, non rivela alcun cedimento nella sua ininterrotta decostruzione del Soggetto. Solo chi non aveva voluto accorgersi che la questione del soggetto non era stata mai cancellata da Foucault poiché l’aveva sempre lavorata in absentia, quando poi questa questione diventa il fuoco esplicito dell’indagine, può delirare di una simile bancarotta che sarebbe l’annientamento di un’intera strategia di pensiero. Verificheremo tra un momento quanto sia lontano dalla realtà del lavoro di Foucault un simile equivoco, che si stenta a credere del tutto innocente (“Finalmente Foucault è tornato tra noi!”) servendoci di un chiaro appoggio testuale. Prima, mi preme ancora ricordare che Foucault, negli ultimi anni, moltiplica il suo impegno indagando in più direzioni e su più tavoli contemporaneamente. Foucault muore proprio quando il suo laboratorio è una fucina ricchissima di progetti che toccano tutte le corde del rapporto tra potere e soggetto. La sua immersione nella cultura greco-romana si accompagna, in quello stesso laboratorio, con i conti da fare con il liberalismo e le politiche neoliberali. Cura di sé e biopolitica sono, allora, le facce non contrapposte di una medesima ricerca, la cui complessità non è, a oggi, ancora stata attraversata appieno da chi intende raccoglierne gli effetti. Lo scenario interpretativo resta aperto, dato che occorre intrecciare molti fili che forse Foucault stesso avrebbe voluto unificare sotto il titolo giochi di verità. A questa complessità, che viene per “ultima” solo accidentalmente ma che in se stessa si proponeva piuttosto come un inizio di ricerche da compiere, si collega comunque il dato fattuale di una modificazione dello sguardo, per cui la questione del soggetto, una volta approdata saldamente al problema delle pratiche di soggettivazione, diventa programmatica e perde così ogni carattere di residualità. La resistenza, su cui molto si era scommesso e anche non poco ricamato da parte di coloro che avevano fretta di “usare” Foucault in modo direttamente politico, lascia il campo alle soggettivazioni che sono l’altra faccia dei dispositivi di potere, e Foucault comincia ad affrontarle prendendole appunto dalla parte della soggettività. La posta 4 in gioco della cura di sé si origina così, producendo un’identificazione tra l’autore dell’indagine (Foucault stesso) e il processo, storicamente situato, del prendersi cura di sé e degli altri. Questa modificazione dello sguardo, effettivamente riscontrabile ma sorprendente solo per chi si fosse già costruito, nel proprio interesse o per una qualche sua cecità critica, l’immagine di un Foucault osservatore esterno (e dunque in certo modo neutro) delle dinamiche del potere disciplinare e microfisico, può avere fornito un terreno di appoggio all’equivoco che ho appena stigmatizzato. Un terreno, tuttavia, molto friabile e non poco illusorio. Basta riferirsi, per una verifica testuale di tutto ciò, all’importante intervista che Foucault rilascia nel gennaio 1984, dove precisa con grande chiarezza i temi chiave del suo pensiero. Il testo di questa conversazione si intitola L’etica della cura di sé come pratica della libertà e si ritrova nella raccolta Dits et écrits pubblicata nel 1994. Alla domanda dell’intervistatore, che gli chiede come mai adesso parli esplicitamente di soggetto, cioè di un tema che sembrava interdetto al suo pensiero, Foucault risponde così: Ho rifiutato che si presupponesse a priori una teoria del soggetto – come si poteva fare, per esempio, nella fenomenologia o nell’esistenzialismo – e che, a partire da questa teoria del soggetto, si ponesse la questione di sapere come fosse possibile tale forma di conoscenza. Ho cercato di dimostrare come il soggetto costituisse se stesso in questa o quella determinata forma, in quanto soggetto folle o soggetto sano, in quanto soggetto delinquente o in quanto soggetto non delinquente, attraverso alcune pratiche che erano giochi di verità e pratiche di potere. Dovevo rifiutare una certa teoria a priori del soggetto per poter fare l’analisi dei rapporti che intercorrono tra la costituzione del soggetto e le differenti forme di soggetto e i giochi di verità, le pratiche di potere, ecc.2 Poi precisa ulteriormente: “Il soggetto non è una sostanza. È una forma e, soprattutto, questa forma non è mai identica a se stessa”. Più avanti, nella medesima intervista, condensa uno dei principali assi interpretativi che attraversavano il corso sull’Ermeneutica del soggetto, e afferma che è con Descartes che si definisce “la via d’accesso al soggetto conoscente o al 2 M. Foucault, L’etica della cura di sé come pratica della libertà, in Archivio Foucault 3, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 282-283. 5 soggetto come tale”, sovrapponendo l’ideale di un fondamento della scientificità alle “funzioni della spiritualità”. Se qualcosa si può rimproverare a Foucault, forse è proprio questo suo ossessivo bisogno di chiarezza. La filosofia occulta le pratiche della soggettività, fa tacere gli esercizi attraverso i quali, ogni volta, all’interno di giochi di verità e di rapporti di potere si costituiscono le forme della soggettività. Il soggetto non è mai al singolare, il soggetto o il Soggetto, non è una sostanza che goda di una priorità sulle pratiche, non è mai identico a se stesso, e quando ne parliamo non possiamo dunque presupporre alcuna identità predeterminata. In realtà la filosofia, agli occhi di Foucault, finisce sempre per autorizzare il contrario, e perciò Foucault non ha mai voluto dichiararsi filosofo. L’unico modo per esserlo sarebbe rivoltare la filosofia stessa, farla esplodere al proprio interno, dissotterrarne le pratiche rese invisibili, ma, per farlo, la condizione necessaria è che si parta da un altrove, da un’eterotopia rispetto ai luoghi istituzionali del filosofare, ed è il compito che Foucault, a mio parere, ha cercato continuamente di rivendicare a se stesso. Ipotizziamo, allora, che Foucault da un certo momento in avanti si chieda: partendo dalle pratiche e dalle “regole” di vita (piuttosto che dai sistemi di pensiero), che contornano il problema della “cura di sé e degli altri”, cosa possiamo dire dei soggetti, che cosa diventano in una descrizione così impostata? Cosa diventano positivamente? È la domanda cruciale cui Foucault approda e che l’interprete di Foucault non può eludere. Il meno che si possa dire è che la risposta non è così semplice come parrebbe se prendessimo la scorciatoia delle pratiche di libertà che Foucault stesso sembra offrirci. Sta a noi, credo, restituire a tale risposta la complessità che le conviene tentando di mettere insieme i tasselli del puzzle problematico che Foucault ci ha trasmesso. Questa libertà, innanzitutto, non è la liberazione dal potere, come Foucault dice a chiare lettere vedendo nelle pretese di liberazione, cui pure ha spesso rivolto uno sguardo simpatetico e partecipe, l’insinuarsi dell’equivoco filosofico. Libertà significa, piuttosto, praticare un’uscita da se stessi, un’alterazione della propria condizione di soggetti bloccati nei dispositivi identitari, un allargamento degli orizzonti dell’abitudine, ma anche un’eccedenza rispetto a essi e dunque a se stessi, infine l’assunzione di un rischio di esposizione, per dir così, senza rete protettiva che attutisca l’eventuale caduta. Se non rapportiamo la cura di sé, così come Foucault la identifica e la valorizza nei suoi studi sul mondo antico, all’alterazione, all’eccedenza e al rischio (proprio quello – a veder bene – che Descartes esclude quando incrocia la follia nella sua meditazione), e se non riusciamo a vedere qui la proposta “etica” che Foucault si sente infine di avanzare (anche attraverso la sua insistenza sul coraggio di 6 parlare chiaro, cfr. la parresia greca), allora la sua etica si riduce all’ennesima favola filosofica, facilmente integrabile dai dispositivi di potere. Nessuna conversione del potere è praticabile a partire da una simile favola. Che cosa fa Descartes? Squalifica l’insanus, che ora è diventato un demens,3 in quanto soggetto. Lui non ha alcun diritto a essere riconosciuto come soggetto. Se l’avesse, l’intera costruzione cartesiana imploderebbe e si annienterebbe. Ma, a rigore, anche se andasse fino in fondo nella pratica della cura di sé, si squalificherebbe come soggetto, che in quanto tale non potrà cedere sulla propria autonomia e padronanza di sé. Si sono solo invertite le parti: l’escluso rigettato nel mormorio o addirittura nel silenzio della storia, come quegli “uomini infami” di cui Foucault una volta ha parlato, qui prende la parola ma per usarla contro se stesso, appunto per squalificarsi come soggetto. Accenti, modi e punto di vista sono cambiati, ma non è mutato il quadro della questione, e adesso Foucault ci invita a pensare noi stessi, sani e normali, in una condizione in cui il margine di libertà consiste nel progettare, anzi nell’attuare, una trasformazione che è piuttosto un congedo dal soggetto, e il cui tasso di civiltà, per dir così, corrisponde alla nostra capacità di de-soggettivarci. Dal silenzio della follia alle contromanovre delle isteriche nel corso sul Potere psichiatrico del 1973-74, dal gesto di una ragione che esclude all’auto-spiazzamento di un’identità che tenta di liberarsi così da se stessa: tra un movimento e l’altro si gioca, nel pensiero di Foucault, il paradosso della soggettivazione. Tra le due scene potrebbe fare da cerniera quell’episodio che non possiamo considerare semplicemente curioso o marginale, né solo come un piccolo anello che mostra paradigmaticamente il funzionamento della catena microfisica, cioè la storia del pluriomicida Pierre Rivière, il villico supposto analfabeta di cui Foucault scopre le tracce nel suo lavoro di archivio (1836, i materiali appaiono nel 1975). Pierre Rivière, infatti, colpisce Foucault per più di un motivo: non solo perché alimenta il costituirsi dei regimi discorsivi del potere (la testura tra il regime giuridico e il regime medico), ma anche perché è l’esempio inconsapevole di una pratica di spiazzamento attraverso il suo gioco di simulazione. Gioco del quale egli stesso è anche pedina e di cui dunque non si può concludere che sia solo intenzionale, come se appunto possa esistere un simulare privo di intenzione e tuttavia fungente e produttivo di effetti. Se c’è una soggettività (anonima e sommersa) alla quale Foucault si sente vicino in un modo speciale, è in quel momento proprio quella del “delinquente” e del “pazzo” Pierre Rivière, la sua duttilità che come tale mette in scacco i dispositivi di potere. Foucault associa il suo gesto, che non ha nulla della manovra, 3 Cfr. M. Foucault, “Il mio corpo, questo foglio, questo fuoco”, in Storia della follia (nuova edizione 1972), Rizzoli, Milano 1976, pp. 637-666. 7 almeno come di solito intendiamo questa parola, alle contromanovre delle isteriche di qualche decennio dopo che simulano i loro sintomi, e in questo modo inceppano la normale macchina del potere-sapere medico di allora, prima di essere sussunte da una nuova macchina che si organizza proprio a partire da quei sintomi fittizi collegati alla sessualità. La vita di Rivière, cui Foucault dà fama, è schiacciata tra il soggetto-assoggettato del potere disciplinare (soggetto = effetto di potere) e la nascita del moderno individuo che di quel potere, che è ancora il nostro, diventa protagonista, insieme prodotto e produttore, ereditando i tratti peculiari del soggetto filosofico. È proprio dal fascino dell’individuo libero, da cui tutti siamo presi, che una vita come quella di Rivière può forse insegnarci a tenere una qualche distanza. Quando parlo di de-soggettivazione mi riferisco precisamente alla battaglia che Foucault ingaggia, di lì in avanti, contro l’individuo delle società liberali, per smascherarne la provenienza e le pratiche di libertà di cui è supposto essere il soggetto. Dunque la questione si complica e in qualche caso – come in quello della parola “libertà” – le parole si sdoppiano, oscillano, non bastano più. La libertà dell’individuo delle nostre società appartiene a un gioco di verità di cui Foucault ha ricostruito dettagliatamente la genesi, da Sorvegliare e punire fino ai corsi dell’ultimo periodo e nello specifico a quelli dedicati alla governamentalità e alla biopolitica: è un processo di individuazione dei corpi e delle anime, una per una e tutte assieme, omnes et singulatim, come recita il titolo di una sua importante conferenza americana,4 che intreccia il dispositivo disciplinare (centrato sul paradigma del panopticon) con l’antico potere pastorale. La libertà della cura di sé, che Foucault preleva dall’antichità per rilanciarla nel nostro presente, è invece un esercizio critico che si mette di traverso (e non solo a lato, secondo il suo noto slogan metodologico) rispetto alla rinascita del soggetto nella nozione contemporanea di individuo e alle pratiche stesse di soggettivazione che lo contraddistinguono. Il soggettoindividuo che nasce dal panopticon è il trionfo psico-politico della visibilità, esiste in quanto visibile, identificabile, localizzabile, scrutabile fin nelle pieghe della sua cosiddetta anima, poiché così esso è percepibile in ogni momento e in ogni luogo dal dispositivo di potere, il quale, a propria volta, funziona e si legittima attraverso la sua visibilizzazione e dunque attraverso i gesti che esso compie per affermarsi ogni volta come una specifica e diversa individualità. 4 Cfr. M. Foucault, “Omnes et singulatim. Verso una critica della ragion politica” (1979), in Biopolitica e liberalismo, a cura di O. Marzocca, Medusa, Milano 2001, pp. 109-146. 8 Mentre noi crediamo di segnare, attraverso la singolarità delle nostre esperienze interne ed esterne, un territorio individuale sempre più disponibile e libero, in realtà ci chiudiamo ogni giorno di più nella prigione della nostra soggettività individuale (di vita, di lavoro, di relazioni, ma anche di bisogni e di desideri) e ci rendiamo non solo docili verso il potere, non solo complici di esso, ma letteralmente agenti di questo stesso potere-dominio. Ecco la lezione, alquanto drammatica, che Foucault ci trasmette con occhi straordinariamente lucidi. La contromossa, che tutti cerchiamo, non senza qualche ansietà, nelle sue pagine pur così chiare, dato che non ci accontentiamo del passaggio dalle teorie alle pratiche (che pure è già un acquisto preziosissimo), non sarà un atto di collaborazione con questo individuo in piena luce, ma al contrario un atto di decostruzione che ci sposti in una zona, semmai, di anonimato, e che ci sottragga, almeno un poco dal cono di luminosità. Una contromanovra alla quale Foucault ha evidentemente ispirato, per quanto ha potuto, la sua stessa esistenza personale. Dal soggetto unitario e sostanziale, illusorio e al tempo stesso produttore di effetti reali di dominio (la distinzione tra rapporti di potere e rapporti di dominio risulta alla fine altrettanto chiara nelle analisi di Foucault, ed è esplicita anche nella ricordata intervista del 1984), alle forme di soggettivazione, plurali e diversificate, che si producono attivamente nelle pratiche e dunque all’interno dei singoli giochi di verità, fino al nostro gioco che consiste nel dire e fare il vero riguardo a noi stessi. Le soggettivazioni sono allora il solvente di ogni soggetto-sostanza a identità fissa, ma non sono la soluzione del problema, certo neppure per Foucault. Sciolgono la difficoltà più grande, aprono la strada in cui collocare la questione, poterla osservare nelle sue effettive operazioni. Situandoci all’altezza delle soggettivazioni – così pensa Foucault, a mio parere – possiamo anche aprire spazi di manovra per un’eventuale soggettività altra o, se vogliamo dire così, per un’arte dell’esistenza, concretamente e storicamente intesa. Ciò significa che se oggi siamo tutti dentro il gioco di verità dell’individuazione e dell’individuo, possiamo cercare uno spazio di contromovimento solo nella rete di soggettivazioni che lo producono. Perciò, credo, Foucault aggredisce la questione su almeno due fronti, quello del governo degli individui e quello della cura di sé che concerne ogni singolarità, e non è disposto a schiacciarli uno sull’altro né a procedere su uno solo di questi due sentieri. Aggiungo che, a mio parere, molto per lui si gioca attorno alla questione della padronanza. Da una parte la padronanza viene esercitata e indotta come carattere proprio dell’individuo (si potrebbe dire: come tratto identificante il soggetto fittizio); d’altra parte, anche la cura di sé appare come la costruzione di un essere padroni di se stessi, ma può rovesciarsi nel suo opposto – se siamo in 9 grado di correre questo rischio – e allora diventa un liberarsi dalla padronanza di sé su se stessi e un continuo esercizio in questa direzione. Se questo è infine il “soggetto” che Foucault tende a ritrovare, esso è un soggetto ben paradossale in quanto mira, al tempo stesso, alla propria de-soggettivazione e affida a ciò la propria efficacia. Questo spazio paradossale di soggettività, che può crearsi ogni volta nelle singole pratiche o forme di soggettivazione, collega certamente Foucault alle riflessioni più critiche che oggi sono all’opera per cercare di descrivere e capire la nostra condizione dentro la cosiddetta globalizzazione del mondo contemporaneo, e rende ancora più fecondo il suo lavoro per noi che lo ereditiamo. 10