Il banchetto nuziale è pronto

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Il banchetto nuziale è pronto
Il banchetto nuziale è pronto
Lectio inizio anno associativo 2013-2014
Premessa
La parabola evangelica ha due livelli di comprensione.
Il primo è dato dalla stessa missione di Gesù: i farisei, gli scribi non gli hanno creduto mentre i
pubblicani, le prostitute, i peccatori lo hanno ascoltato. A casa di Matteo (9,9-13) i farisei
mormorano con i discepoli: “Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai
peccatori?”. Gesù dovrà rispondere loro: “Andate a imparare cosa vuol dire: Misericordia io voglio,
e non sacrifici. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori”. Gli scribi e i farisei,
pur avendo una notevole conoscenza delle Scritture e una esemplare condotta etica non
comprendono il mistero del Regno e non accettano la prassi della misericordia seguita da Gesù.
Tale prassi avvicina a Dio persone ai margini del vivere civile e della comunità religiosa: costoro,
come Matteo, scoprono prima di tutto la gioia della sequela di Gesù, in quanto si sentono amati e
accolti gratuitamente, poi ne sperimenteranno anche le esigenze morali. Gli scribi e i farisei
impostano il loro rapporto con Dio a partire dall’osservanza della Legge e dai sacrifici: la loro gioia
sarà quella di riuscire ad adempiere bene tali sacrifici (Lc 18,9-14).
Il secondo livello è dato dalla missione della prima comunità cristiana: nella sinagoga di Antiochia,
di fronte alla crescente ostilità dei Giudei di quella città Paolo ebbe a dire: “Era necessario che
fosse proclamata prima di tutto a voi la Parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate
degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani. Così infatti ci ha ordinato il Signore: <<Io
ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza fino all’estremità della terra>>”
(At 13,46-47). Già l’apostolo Pietro aveva messo piede a casa di un centurione romano (At 10) ed
aveva imparato che per Dio nessun uomo può essere considerato profano o impuro, perché Egli
non fa preferenze di persone. Lo stesso Spirito che lo ha consacrato apostolo di Cristo è sceso su
persone provenienti dal paganesimo. Nella strategia missionaria gli apostoli hanno obbedito alle
scelte di Dio rivolgendosi prima di tutto agli ebrei, il popolo destinatario della promessa. Costoro si
sono chiusi all’esperienza gioiosa del Regno ma gli apostoli non si sono fermati: si sono rivolti ai
pagani che invece hanno accolto con gioia la proposta della vita cristiana e, numerosi, vi sono
entrati. La festa di nozze comunque è pronta e la sala si è riempita, anche se i primi invitati non
hanno voluto partecipare. Questa parabola, alla luce della storia di Gesù di Nazareth e della prima
comunità cristiana, ci riconferma l’efficacia della Parola, la sua potenza, e, dall’altra, ci mostra
l’imprevedibilità della nostra risposta e di quella delle persone. Dove si presume che il Vangelo
possa trovare migliore accoglienza può essere rifiutato, dove temiamo che possa essere
facilmente rifiutato, può trovare adesione gioiosa. Ogni parabola è un tipo di racconto che chiede
a chi la ascolta di riconoscersi e prendere posizione. “Ci consta di essere tra i chiamati ma non ci è
1
noto se siamo anche tra gli eletti. È dunque necessario che ognuno di noi abbia sentimenti di
umiltà proprio perché ignora se è tra gli eletti … Siccome a nessuno è dato di sapere di essere tra gli
eletti, occorre che tutti siano nella trepidazione, pieni di timore per le azioni compiute, con gioiosa
fiducia solo nella divina misericordia senza mai presumere delle proprie forze”, ci ricorda S.
Gregorio Magno1. Alla luce di quello che sappiamo (siamo tra i chiamati) con umiltà e trepidazione
vogliamo verificare la nostra risposta all’invito, perché solo se abbiamo partecipato alla festa di
nozze possiamo a nostra volta proporre ad altri di entrare.
1. La festa di nozze
S. Agostino così commenta: “Chiama festa di nozze l’Incarnazione del Verbo, perché nell’umanità
assunta la Chiesa fu congiunta con Dio”2. Anche S. Gregorio Magno è su questa linea: “Le nozze del
Figlio di Dio sono la sua incarnazione … Dio Padre dispose queste nozze per il Figlio quando volle
che questi si unisse alla natura umana nel grembo della Vergine e che, Dio prima dei secoli, si
facesse uomo alla fine dei secoli … Possiamo dunque dire apertamente e con sicurezza che il Padre
dispose le nozze per il Figlio Re quando unì a lui la Santa Chiesa nel mistero dell’Incarnazione”3. S.
Giovanni Crisostomo sottolinea l’aspetto gioioso delle nozze e vi include anche il mistero pasquale:
“Perché, si potrebbe osservare, si è parlato di nozze? Perché tu conosca la sollecitudine di Dio, il
suo amore per noi, la letizia della realtà nuziale, perché in essa non c’è niente di doloroso né di
triste, ma tutto è pieno di gioia spirituale … Con questa parabola ha proclamato anche la
Risurrezione perché, dopo aver parlato in precedenza della morte, mostra che anche dopo la morte
ci sono le nozze, c’è lo sposo”4. La parabola ci ricorda insomma, alla luce della Tradizione, che la
fede è una chiamata alla gioia di una esperienza nuziale. L’Incarnazione è un’esperienza nuziale
perché natura umana e natura divina si sono unite inscindibilmente nell’unica persona di Gesù in
maniera tale che la divinità si è rivestita della debolezza umana e l’umanità si è rivestita della
gloria della divinità. L’Incarnazione culmina nella Redenzione: la croce è il talamo sul quale si sono
consumate le nozze tra il Verbo e il suo nuovo popolo, la Chiesa e il mistero pasquale ha
definitivamente mostrato che l’amore ha vinto tutto ciò che è ostile all’uomo, compresa la morte,
e nessuno più ci potrà separare dalla pienezza di vita in Cristo: “Che diremo dunque di queste cose?
Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio figlio, ma lo ha
1
GREGORIO MAGNO, Omelie sui Vangeli, II, XXXVIII, 14. 16; in G. CREMASCOLI (a cura di), Omelie sui Vangeli, Città
Nuova Ed., Roma 1994, 535.541-543
2
AGOSTINO, Questioni sui Vangeli, 1,31; in Opere esegetiche, tr. it. di D. GENTILI - V. TARULLI, Città Nuova Ed., Roma
1997, 325
3
GREGORIO MAGNO, Omelie sui Vangeli, II, XXXVIII, 3; in op. cit., 521
4
GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelia 69,1; in SERGIO ZINCONE (a cura di), Omelie sul Vangelo di Matteo/3, Città Nuova,
Roma 2003, 106-107
2
consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme con Lui? Chi muoverà accuse contro
coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è
risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi! Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la
tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? … Ma in tutte
queste cose siamo più che vincitori grazie a Colui che ci ha amati” (Rm 8,31-35.37-39). Questo si è
realizzato nelle nozze della divinità con l’umanità: il Verbo ha condiviso con noi la sconfitta della
morte per renderci partecipi del trionfo completo della vita. Il Verbo non si è legato solo al corpo
glorioso della persona di Gesù di Nazareth, ma ha voluto continuare a vivere nel tempo in un
corpo che oggi siamo noi: “Ora voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue
membra” (1 Cor 12,27). La vita di fede è esperienza di una duplice gioia: la gioia di essere uniti a
Cristo, di sapere la propria umanità completamente nelle mani di Dio, assunta, redenta, la gioia di
avere già in noi la forza dell’amore con cui Cristo ha distrutto il peccato e la morte e la gioia di
appartenere al corpo di Cristo nella storia che è la sua Chiesa. Gli apostoli erano zelanti nel
portare il Vangelo fino agli estremi confini della terra perché, a partire da ciò che sperimentavano,
erano convinti di introdurre i nuovi discepoli del Risorto in una vita di gioia in cui avrebbero
continuato ad accompagnarli: “Noi non intendiamo fare da padroni sulla vostra fede; siamo invece
i collaboratori della vostra gioia, perché nella fede voi siate saldi” (2 Cor 1,24). Nell’esperienza del
Cantico dei Cantici l’amore tra un uomo e una donna è un’esperienza forte, che mette alla prova in
una continua ricerca, ma nel momento in cui lo sposo cerca la sposa l’inverno è passato ed è
ritornato il tempo del canto (Ct 2,11-14). Alla semplice presenza della persona amata esplode la
gioia: basta ascoltare la sua voce. La Chiesa trova motivi di gioia quando si presenta a Cristo, suo
sposo: “E voi, mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se
stesso per lei, per renderla santa, purificandola con il lavacro dell’acqua mediante la Parola, e per
presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma
santa e immacolata” (Ef 6,25-27). L’amore di Cristo sposo rende la Chiesa sua sposa sempre
gloriosa, santa e immacolata: non dobbiamo temere di sfiorire davanti a lui. La sposa di Cristo non
ha motivo di temere la vecchiaia. Cinquant’anni fa, nell’occasione del Concilio Vaticano II, essa
ebbe a proclamare Cristo gioia di ogni cuore: “Infatti il Verbo di Dio, per mezzo del quale tutto è
stato creato, si è fatto egli stesso carne, per operare, lui, l’uomo perfetto, la salvezza di tutti e la
ricapitolazione universale. Il Signore è il fine della storia umana, <<il punto focale dei desideri della
storia e della civiltà>>, il centro del genere umano, la gioia di ogni cuore, la pienezza delle loro
aspirazioni”5. Giovanni Crisostomo proponeva anche ai suoi ascoltatori persone che incarnavano la
gioia della fede: ai suoi occhi erano i monaci che abbandonavano tutto per seguire Cristo nel
deserto, in forme di vita eremitica, e di costoro riferisce due caratteristiche: “Non hanno nulla di
triste ma, avendo fissato la loro dimora nei cieli, si sono accampati così lontano dalle miserie della
vita presente, prendendo posizione contro il diavolo, e combattono con lui come danzando … Al
sopraggiungere della sera non c’è tristezza, come capita a molti uomini, quando ripensano alle
preoccupazioni che derivano dalle avversità del giorno … Invece parlano sempre e meditano
5
Gaudium et Spes 15; in Enchiridion Vaticanum I, Ed. Dehoniane, Bologna 1981, 859
3
intorno alle cose future: come se abitassero in un altro mondo, come se si fossero trasferiti nel cielo
stesso, come se vivessero lì, così parlano di tutte le cose di lassù: del seno di Abramo, delle corone
dei santi, della danza insieme a Cristo”6. Presidenti nazionali di Azione Cattolica come Vittorio
Bachelet hanno invitato l’associazione ad attuare il Concilio nell’unità e nella gioia: “Noi crediamo
che solo nell’unità e nella gioia che ha caratterizzato il Concilio fin dal suo inizio, esso può anche
essere attuato e dare i suoi frutti pieni … E’ l’ottimismo che nasce dall’amore ai fratelli e
soprattutto dall’amore fiducioso in Dio; che sempre sa cogliere i valori positivi, per valorizzarli e
costruirne dei nuovi; che preferisce ciò che unisce a ciò che divide; non incoraggia né i pavidi né i
ribelli; fa procedere uniti sciogliendo nella vera carità così l’ansia timorosa come lo zelo amaro.
Sappiamo bene che la gioia per il cristiano è frutto sempre di sacrificio e che attuare il Concilio
nella gioia vuol dire anche disporsi ad accettare di aiutarlo sulla via della Croce. Sappiamo che
quando diciamo che vogliamo assumere le nostre responsabilità di laici cristiani nella Chiesa
chiediamo di portare con lei il peso della Croce di Cristo. Ma per invito della Chiesa e con l’aiuto di
Dio ci disponiamo ad assumere la nostra parte di responsabilità e la nostra parte di croce”7.
Persone di Azione Cattolica come Paola Renata Carboni hanno vissuto nella gioia anche le
sofferenze fisiche e le prove spirituali. Così scriveva al suo padre spirituale il 25 Ottobre 1923:
“Padre, sono di nuovo in preda a disturbi e fastidi che non mi permettono di andare a scuola né di
studiare. Bisogna che stia a letto, dato anche che non mi va di mangiar nulla. Sono contenta però
e, anche dal letto, adoro ed amo il mio Gesù. A Lui tutto, tutto offro e, nella pace dell’animo mio,
prego. Non so se resterò a Fermo, quando potrò riprendere le mie occupazioni. Preghi per me,
padre, che Dio mi dia forza e che tutto possa sopportare, non solo con rassegnazione, ma con
gioia, con gioia grande per la sua gloria”8. Quanto fin qui detto è sufficiente per una prima verifica.
Ricominciare un anno di vita ecclesiale ed associativo, riconvocarci per le assemblee elettive, è
rispondere nella fede ad un invito ad una festa di nozze, alla duplice gioia di camminare con Cristo
e di essere membra vive del suo corpo che è la Chiesa. All’inizio di questo anno e a conclusione
del triennio che abbiamo vissuto da responsabili, stiamo ricominciando con gioia? Oppure
stiamo riprendendo stanchi, appesantiti, tristi, mormorando, dicendo con le parole, ma molto più
con la vita, che non vediamo l’ora che questo triennio finisca? Non siamo monaci e non dobbiamo
diventarlo, ma siamo chiamati come loro a vincere la tristezza. Quanta tristezza c’è nella nostra
vita? Abbiamo il coraggio di sognare e progettare un futuro spinti dalla fede nella vita eterna o
siamo appiattiti sul presente e semmai nostalgici di tempi che non sono più? Molti affrontano
questo tempo di profonda crisi economica, etica, esistenziale facendo tagli a tutti i livelli: tagli sugli
sprechi (giusti), sulle spese, sui consumi, sul personale (ed ecco la difficoltà di entrare nel mondo
del lavoro), sui sogni e sugli ideali (si rimandano le scelte definitive, l’obiettivo è passare la
6
op. cit., 114. 116-117
7
V. BACHELET, Rinnovare l’Azione Cattolica per attuare il Concilio. Relazione al Convegno nazionale dei presidenti
diocesani ACI (Roma, 17-20 Marzo 1966); in Il servizio è la gioia. Scritti associativi ed ecclesiali (1959-1973), Ave, Roma
1992, 68-69.
8
PAOLA RENATA CARBONI, Un giorno mi domandò l’amore. Scritti e lettere spirituali, Ave, Roma 2008, 55
4
giornata). Forse la logica dei tagli sta affermandosi anche nella vita della Chiesa e dell’associazione:
taglio sul mio servizio, sulla mia responsabilità, tagliamo sulle iniziative da proporre perché
abbiamo sempre meno tempo e forze. Ripartiamo perché chiamati ad una festa di nozze o perché
avviati a celebrare un funerale? Alcuni tagli possono darci al momento sollievo ed impressione di
sopravvivere, ma alla lunga ci renderanno tristi e ci priveranno di quelle gioie in cui solo portando
la Croce di Cristo potremo entrare. La logica del rilancio, anche a livello ecclesiale, e non quella dei
tagli, è la via che la fede sceglie per indirizzarci verso la gioia della Risurrezione. Come mai dal
servizio che viviamo o dalle responsabilità che abbiamo assunto non riusciamo a sperimentare la
gioia promessa da Cristo? Vi rilancio due provocazioni. Scrive Gregorio Magno: “Molti sono i
chiamati, ma pochi gli eletti. Ho narrato questa vicenda perché nessuno, trovandosi sulla via del
bene, si attribuisca forze sufficienti per la perseveranza, né ponga fiducia nelle proprie azioni,
perché anche se sa come si comporta al presente, gli resta ancora ignoto ciò che avverrà in futuro
… C’è chi può sostenere la nostra fiducia, cioè Colui che si è degnato di assumere la nostra natura
umana, Gesù Cristo, che col Padre vive e regna nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei
secoli. Amen”9. Non è forse che nella responsabilità o nel servizio che abbiamo assunto abbiamo
contato solo sulle nostre forze e sulla nostra buona volontà e ci siamo illusi di averne a
sufficienza? In che misura abbiamo permesso a Gesù Cristo di sostenere la nostra fiducia? S.
Giovanni Crisostomo commenta, a proposito degli invitati che rifiutano: “Certamente, i pretesti
sembrano ragionevoli, ma da ciò apprendiamo che, anche se ciò che trattiene ha carattere di
necessità, i beni spirituali devono essere ritenuti più importanti di tutti. Non li chiama poco prima,
ma molto tempo in anticipo, perché dice: Dite agli invitati; e ancora: Chiamate gli invitati, il che
rendeva ancora più grande l’accusa”10. Non sarà per caso che tra i tagli fatti negli ultimi tempi
rientrano gli esercizi spirituali, i ritiri nei tempi forti, il tempo della preghiera e dell’ascolto della
Parola, l’eucaristia domenicale, il sacramento della penitenza? Forse, più che affannarci a capire
cosa tagliare, non è più opportuno puntare prima di tutto all’essenziale della vita di fede? A
queste esperienze va dato il primato, semmai trovando il coraggio di tagliare altrove, anche nel
servizio, perché sono gli appuntamenti che lo Sposo ci dà, sono i momenti in cui ritroviamo
l’esperienza sponsale che lega Cristo alla Chiesa, come ci testimoniano anche i santi di ogni tempo.
Non sarà per caso che siamo più assorbiti dalle cose di Dio (servizio educativo, responsabilità
della vita …) che dall’amore per lui? La buona notizia per tutti noi all’inizio di questo anno
associativo è che il banchetto nuziale è pronto, siamo tra i chiamati anche quest’anno per
un’esperienza di amore e di gioia.
9
GREGORIO MAGNO, op. cit. 15. 16, in op. cit., 539. 543
10
GIOVANNI CRISOSTOMO, op. cit., 107
5
2. La veste nuziale
Tra gli invitati che in un secondo tempo riempiono la sala, secondo il volere del Re, uno viene
trovato senza veste nuziale e quindi cacciato fuori. Tutti noi siamo i chiamati, ma stiamo
indossando tutti la veste nuziale? Il desiderio di indossarla non è certo legato a narcisismi o
estetismi fini a se stessi, ma al desiderio di rendere onore allo sposo, che è Cristo, a cui siamo uniti
per i sacramenti dell’iniziazione cristiana che abbiamo ricevuto, e alla sposa, la Chiesa, alla quale
abbiamo la grazia di appartenere come sue membra: “L’abito di nozze infatti si indossa in onore
dei coniugi, cioè dello sposo e della sposa. Voi conoscete lo sposo: è Cristo; conoscete la sposa: è la
Chiesa. Recate onore allo sposo e alla sposa”11 opportunamente ci ricorda S. Agostino. In che cosa
consiste la veste nuziale? Se oggi ci venisse domandato perché siamo qui, tutti, penso, potremmo
rispondere: per la fede e per la volontà di servire. Basta ciò per indossare l’abito nuziale? Incalza
Agostino: “Se parliamo di sacramenti, voi vedete come sono comuni ai cattivi e ai buoni. È forse il
Battesimo? Senza il Battesimo nessuno per verità arriva a Dio; ma non tutti quelli che hanno il
battesimo arrivano a Dio. Non posso dunque prendere il Battesimo come l’abito di nozze, cioè il
sacramento da solo, poiché tale abito lo vedo nei buoni ma anche nei cattivi. Forse è l’altare o ciò
che si riceve dall’altare. Noi vediamo che molti mangiano, ma essi mangiano e bevono la propria
condanna. Che cos’è dunque? È forse far digiuno? Fanno digiuno anche i cattivi. È forse
frequentare la Chiesa? Ma la frequentano anche i cattivi. Infine è forse fare i miracoli? Ma questi li
fanno non solo i buoni e i cattivi, ma talora i buoni non li fanno”12. Già nei primi secoli di vita della
Chiesa si presagiva l’insufficienza di una pastorale incentrata solamente sulla celebrazione dei
sacramenti, sui criteri solamente esteriori di appartenenza alla Chiesa o sulla ricerca di
manifestazioni carismatiche soprannaturali. Giustamente il Vescovo di Ippona incalza: “Viene
lodata la fede – è vero – viene lodata; ma quale fede?”13. La risposta è che l’abito nuziale è la
carità: “Il fine del precetto – dice l’Apostolo – è la carità che sgorga da un cuore puro, da una
buona coscienza e da una fede sincera (1 Tim 1,5). Questo è l’abito di nozze”14. Non si tratta solo di
opere di carità, ma di uno stile, di un modo di essere e di rapportarsi, di un abito interiore: “… era
quello l’abito che si vedeva nel cuore, non già nel corpo; se infatti fosse stato indossato sopra il
corpo non sarebbe potuto rimanere nascosto neppure ai servi”15. Per lo stile della carità S. Agostino
rimanda alla meditazione di 1 Cor 13, e questo testo può costituire una meditazione opportuna e
feconda anche per noi, riguardo la quotidianità delle nostre famiglie, di una comunità cristiana, di
una associazione ecclesiale, di un paese o di una città. Gregorio Magno ci ricorda le coordinate
fondamentali dello stile dell’amore: “Occorre sapere che come un vestito è intessuto con due legni,
11
AGOSTINO, Discorso 90,6; in op. cit., 109
12
AGOSTINO, Discorso 90,5; in op. cit., 105
13
AGOSTINO, Discorso 90,8; in op. cit., 111
14
AGOSTINO, Discorso 90,6; in op. cit., 107
15
AGOSTINO, Discorso 90,4; in op. cit., 103
6
uno posto in alto e l’altro in basso, così la carità è espressa in due precetti che riguardano l’amore
di Dio e quello del prossimo. Sta scritto infatti: Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con
tutta l’anima e con tutte le forze, e il prossimo tuo come te stesso … Non si formula alcun comando
riguardo alla quantità, ma si esprime, riguardo ad essa, l’assenza di ogni limite, mediante la
formula: con tutto, perché è davvero nell’amore di Dio chi non si riserva nulla di proprio”16.
Quest’abito consiste nel primato del rapporto con la fonte dell’amore, un amore senza limiti per
Dio, che si attua e si verifica continuamente nel rapporto con se stessi e con i fratelli. Per amare i
fratelli bisogna che ami me stesso, che abbia un buon rapporto con me stesso; posso donare solo
dopo aver imparato a ricevere. Posso ritrovare un buon rapporto con me stesso solo nella fede:
essa è il dono che mi permette di guardarmi e di giudicarmi con gli stessi occhi con cui Dio stesso
mi guarda e mi giudica. Posso continuare ad avere fiducia in me stesso, anche dopo i miei errori,
perché Dio ha ancora fiducia in me e mi tratta sempre con i diritti del figlio; posso sempre
concedermi un’altra possibilità perché Dio stesso me la concede in quanto compassionevole e
misericordioso. Senza la fede rischio una falsa coscienza di me stesso: o mi esalto più del dovuto a
scapito degli altri (“Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà,
consideri gli altri superiori a se stesso” ci ricorda Paolo in Fil 2,3) o divento il più spietato giudice di
me stesso. L’amore ai fratelli ha poi altre due coordinate: “La carità è vera quando l’amico è amato
in Dio e il nemico a motivo di Dio. Ama infatti a motivo di Dio coloro a cui dà il suo amore chi sa
amare anche coloro da cui non è amato. La carità infatti è messa alla prova dall’ostilità
dell’odio”17. Su questa scia si aggiungono le parole di S. Agostino: “Estendete l’amore oltre i vostri
coniugi e i vostri figli … Ma estendete l’amore, cresca quest’amore; poiché amare i figli e i coniugi
non è ancora l’abito di nozze. Abbiate fede in Dio. Innanzitutto amate Dio”18. La nostra vita è
intessuta da una serie di relazioni con persone che ci siamo scelti come amici, amiche, marito,
moglie … e con persone che non ci siamo scelti ma ci sono posti accanto come padre, madre,
fratelli, sorelle, colleghi di lavoro, presbiteri, parrocchiani, gli altri aderenti all’AC, i ragazzi o
adolescenti di cui sono educatore … . In alcune di queste relazioni il mio donarmi è riconosciuto e
ricambiato, in altre non c’è nessun feed-back. Ma in tutte queste si attua e si verifica il nostro
amore per Cristo. Che c’entra la fede per il nostro modo di amare tutte queste persone? Il
coniuge, l’amico, vanno amati in Dio: ciò ci permette di vivere sempre nella libertà le relazioni in
cui il nostro amore è corrisposto, di non diventare schiavi degli affetti e ci impedisce di scegliere
noi la misura con cui amare le persone scelte, i nostri amici. La misura rimane quella di Cristo:
“Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13). La fede
nell’amore di Cristo che opera in noi ci permette di abbracciare con l’amore anche quelle persone
che umanamente non sceglieremmo, o nei confronti delle quali proviamo rabbia, rancore, da
parte delle quali non solo non siamo corrisposti, ma siamo stati magari anche fraintesi. “Se amate
16
GREGORIO MAGNO, Omelie sui Vangeli, II, XXXVIII, 10; in op. cit., 531
17
Ibid., II, XXXVIII, 11; in op. cit., 533
18
AGOSTINO, Discorso 90,10; in op. cit., 115
7
quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano. E
se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori
fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, quale gratitudine vi è dovuta? Anche
i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostri nemici,
fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli
dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi. Siate misericordiosi, come il
Padre vostro è misericordioso”, ci ricorda il nostro Maestro (Lc 6,31-36). Ma questa parola ci
ritorna utile anche per la prima tipologia di relazioni. Ci ricorda il Salmo: “Anche l’amico in cui
confidavo, che con me divideva il pane, contro di me alza il suo piede” (41,10). A chi di noi non è
capitato di sentirsi tradito o deluso da chi avevamo scelto a nostro fianco? È vero che un amico,
un marito, una moglie si scelgono: ma se neanche di noi possiamo presumere, basandoci solo sulle
nostre forze, come ci comporteremo domani, così è vero anche dell’altro. E il dolore e la rabbia
provati quando si è feriti da una persona cara sono sempre più grandi di quelli provati quando si è
avversati da persone che non ci siamo scelti. Sorge allora la domanda: chi me lo fa fare? Perché
devo ancora credere in questo amore o in questa amicizia? Perché devo ancora servire questa
persona ingrata? In questo caso la luce della fede è la voce di Gesù Cristo che ci dice: “Fallo per
me!”. Ed è l’unico che ha titolo per chiederci questo. La carità è la veste nuziale quotidiana con cui
affrontiamo la vita, che fa dire ad Agostino: “In riferimento a fatti diversi troviamo un uomo che
infierisce per motivo di carità ed uno gentile per motivo di iniquità. Un padre percuote il figlio e un
mercante di schiavi invece tratta con riguardo. Se ti metti davanti queste due cose, le percosse e le
carezze, chi non preferisce le carezze e fugge le percosse? Se poni mente alle persone, la carità
colpisce, l’iniquità blandisce. Considerate bene quanto qui insegniamo, che cioè i fatti degli uomini
non si differenziano se non partendo dalla radice della carità. Molte cose infatti possono avvenire
che hanno un’apparenza buona ma non procedono dalla radice della carità: anche le spine hanno i
fiori; alcune cose sembrano aspre e dure; ma si fanno, per instaurare una disciplina, sotto il
comando della carità. Una volta per tutte, dunque, ti viene imposto un solo precetto: ama e fa’ ciò
che vuoi; sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga,
correggi per amore; sia che perdoni, perdona per amore; sia in te la radice dell’amore, poiché da
questa radice non può procedere se non il bene”19. Essa è dunque l’abito del cuore, invisibile
all’esterno, la radice di ogni nostro atto ed il criterio decisivo in ogni atto di discernimento
personale e comunitario.
È importante non solo ripartire in questo anno e riconvocarci, ma indossare la veste nuziale della
carità. Senza di essa non andiamo lontano e non si prospetta futuro. Dietro a grandissima parte
delle crisi in atto nelle nostre realtà ecclesiali, parrocchiali e associative si nasconde una crisi nelle
relazioni: rapporti che col tempo si logorano, un modo di amare troppo umano, solo umano, che
non copre tutto, che non sopporta e non si fa carico di chi è più debole, una pazienza dal fiato
corto che non è disposta a voltare pagina e a ricominciare “settanta volte sette”, ambienti sempre
19
AGOSTINO, Omelia 7,8; in Meditazione sulla lettera dell’amore di S. Giovanni, tr. it. di G. Mandurini, Città Nuova,
Roma 1985, 132
8
più pesanti e conflittuali in cui ogni tentativo di chiarire confonde sempre di più perché non è
espressione di una volontà di riconciliazione ma della pretesa di stabilire a tutti costi chi ha torto e
chi ha ragione. Del resto la parabola è chiara: nella sala del banchetto entrano buoni e cattivi. La
Chiesa, e in essa l’Azione cattolica, sono una preziosa occasione per estendere l’amore oltre il
confine dei familiari, come ci invitava S. Agostino, e per esercitarci nella carità perché in noi
“cresca la carità e diminuisca la cupidigia”20, perché impariamo a deporre ogni avidità (anche di
affetti, di gratificazioni) e diventiamo sempre più “avidi dei beni celesti, impadronendoci del Regno
con molto impegno”21. Così Vittorio Bachelet ebbe a sintetizzare il programma dell’Azione
Cattolica Italiana: “Cosicché se in poche parole io dovessi sintetizzare questo troppo lungo discorso,
credo che volendo tracciare un sintetico programma per l’Azione Cattolica Italiana ripeterei quello
che, a nome vostro, ho detto quando, il giorno della mia nomina, mi è stata chiesta una breve
dichiarazione per la televisione italiana: <<L’Azione Cattolica vorrebbe aiutare gli italiani ad amare
Dio e ad amare gli uomini>>. È questo il nostro programma semplice per ricostruire, sotto la guida
dei nostri vescovi, la comunità cristiana: per farne davvero una comunità di uomini nuovi in
Cristo”22. Se la carità è la radice del nostro agire ed il criterio di discernimento per il nostro
scegliere, dove c’è carità, lì c’è Dio, e dove Dio vive si sta bene insieme. Come possiamo essere
missionari quando chi è già entrato nella stanza del banchetto se ne va perché trova un clima
pesante? Siamo in grado di attrarre a Cristo chi non è ancora coinvolto nella vita ecclesiale se chi
condivide con noi un cammino di fede se ne va perché frenato nel suo cammino dalla nostra
mancanza di carità? In quali relazioni ritengo urgente investire di più perché la mia associazione
e la mia comunità cristiana possano diventare sempre più un corpo unito in Cristo? I consigli
parrocchiali di AC e tutte le occasioni di incontro sono “luoghi di comunione” o apparati
organizzativi senz’anima? Elaboriamo progetti ai quali poi le persone ogni anno devono
adattarsi e piegarsi o partiamo dai carismi e dalle reali situazioni di vita delle persone e con loro
e su di loro elaboriamo progetti e percorsi? La carità di Cristo ci possiede veramente e ci spinge
oltre ciò che pensiamo di poter donare o siamo sempre noi a decidere la misura del nostro
impegno, della nostra responsabilità, del nostro servizio? Parafrasando S. Agostino, potremmo
dire: estendete l’amore oltre il vostro gruppo, oltre la vostra associazione parrocchiale. Stiamo
concretizzando quest’invito vivendo una apertura diocesana, costruendo relazioni con altre
associazioni parrocchiali vicine e con altri gruppi, movimenti e associazioni? Ci incalzi sempre il
monito di Agostino: “Abbiate la fede con la carità, poiché non potete avere la carità senza la fede.
Vi ammonisco, vi esorto, vi avverto, nel nome del Signore, miei cari, di avere la fede con la carità,
poiché potreste avere la fede senza la carità”23. In questo anno della fede che volge al termine, mi
20
AGOSTINO, Discorso 90,6; in op. cit., 109
21
GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelia 69,4; in op. cit., 118
22
V. BACHELET, Rigenerare la comunità cristiana. Relazione al Convegno nazionale dei presidenti diocesani ACI (Roma
16-19 Luglio 1964), in Il servizio è la gioia. Scritti associativi ed ecclesiali (1959-1973), Ave, Roma 1992, 63
23
AGOSTINO, Discorso 90,8; in op. cit., 111
9
sembra molto opportuno. Il tale fatto cacciare fuori dal Re è da lui chiamato amico: amico per la
fede, nemico per l’assenza di amore.
3. La missione
Stando alla parabola, noi siamo chiamati anche a riconoscerci nei servi inviati a chiamare gli
invitati (nei primi due casi) e poi a cercare persone da invitare (l’ultimo invio). Il Vangelo non è
esplicito, ma è probabile che, se anche l’iniziativa del banchetto è del Re, i servi abbiano
collaborato alla preparazione. Il loro servizio non si esaurisce con i preparativi ma continua nel
cercare gli invitati e poi le persone stesse da invitare. I servi fanno proprio, nel cuore, il forte
desiderio di chi li manda: che la sala si riempia. Se stiamo vivendo la gioia di essere amati
gratuitamente da Dio per mezzo di Gesù Cristo e di servire Cristo nei fratelli, è nostro desiderio che
tutti possano trovare tale gioia. Ricorda il Progetto Formativo dell’Azione Cattolica: “Questo tempo
chiede alle comunità e ai singoli cristiani un nuovo impegno di evangelizzazione, da riscoprire nella
sua forma originaria di prima proclamazione del nome di Gesù e del suo mistero, e anche come
parola nuova da pronunciare sulla vita e sulla storia … Ciò passa attraverso un annuncio nuovo del
Vangelo a chi non crede o a chi non crede più: nuovo nelle forme, nei linguaggi, nell’evidenza data
al cuore del cristianesimo, che è Gesù Cristo”24. Eppure, soprattutto a livello di giovani e di adulti,
quando si arriva alla ricerca di forme concrete di missione da attuare da giovane a giovane o
rivolte agli adulti, ci si ferma sempre. Non ci si sente pronti, è già tanto se riusciamo a tenere in
piedi l’esistente, se riusciamo a portare avanti il servizio educativo con i ragazzi … Siamo convinti
dell’urgenza di un rinnovato annuncio del Vangelo ma rimaniamo bloccati nell’attuazione
concreta. La parabola forse ci ricorda che possiamo aver paura di trovarci nella situazione dei servi
in rapporto ai primi invitati: non solo vedono rifiutato l’invito portato, ma sono pure trattati male.
Possiamo provare ad abbozzare alcune piccole “mosse” per un rinnovato slancio missionario:
-i servi sono inviati ai crocicchi delle strade, probabilmente punti di confluenza – fuori delle città –
di diverse strade o sentieri di campagna, o potremmo dire i “capolinea” di ogni strada, o come
inteso in Nm 34,4-6, il confine esterno di un territorio. Si tratta di percorrere fino in fondo i
sentieri della vita, ci direbbe Papa Francesco di arrivare alle periferie, di assumere gli interrogativi,
le ansie, i dubbi più estremi degli uomini di questo tempo, di guardare dai confini delle nostre
parrocchie o associazioni in avanti, e non indietro verso di noi. Quanto dobbiamo muoverci per
realizzare questo aspetto? Sicuramente è bene non stare sempre seduti fisicamente e
spiritualmente nella stanza dove viviamo gli incontri, ma metterci in movimento. Io però
sottolineerei che i laici di AC, prima ancora di progettare “iniziative di movimento” possano ancor
di più valorizzare una delle note dell’Associazione: la popolarità. La prima risorsa è dunque la loro
indole secolare. I giovani e gli adulti di ACI, per il lavoro, le scelte del tempo libero, le situazioni
affettive o di sofferenza, sono già pienamente inseriti nelle vie del mondo. Si tratta di esserci con
24
ACI, Statuto, regolamento di attuazione e Progetto formativo, Ave, Roma 2005, 141
10
ancora più attenzione e condivisione, di ascoltare di più la vita, di dirigere lo sguardo un po’ più al
di là di come siamo abituati, di far entrare nei cammini formativi le domande, i dubbi, gli
interrogativi raccolti: come si pongono oggi i giovani di fronte alla vita? Come ci poniamo noi di
fronte alle loro scelte affettive? Quale rapporto oggi con il lavoro? Quale rapporto con la
sofferenza e la morte? Quante famiglie in crisi o lacerate intorno a noi? Proprio per questo
l’Associazione ha semplificato il suo impianto formativo dopo il 2004: per fare più spazio alla vita
nella fedeltà all’Anno liturgico e al Vangelo dell’anno (dimensione di base25). “Il contesto storico e
culturale non è, per un progetto formativo, una sorta di cornice che si può anche togliere o
cambiare senza che cambi il quadro: esiste uno stretto rapporto tra coscienza personale e contesto
esterno; l’attenzione che riserviamo ad esso non è una semplice strategia metodologica: nasce
dalla convinzione che si è cristiani rimanendo fedeli alla storia in cui Dio è all’opera con la presenza
del suo Spirito”26. Seguire pedissequamente le guide non penso che aiuti in tal senso: lo spirito del
rinnovamento dell’associazione ritengo ci chieda di avere il coraggio di formare la nostra coscienza
ed il nostro pensiero su alcune sfide di questo tempo di fronte alle quali rendere ragione della
speranza che è in noi. Alla fine si tratta di tradurre il Vangelo non traslitterando termini biblici o
teologici, ma con le parole della vita di ogni giorno.
-“Tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. Così chiede il Re ai servi. L’Azione Cattolica
può partire da alcune occasioni immediate che le si offrono, avendo l’umiltà di dire: “Ho bisogno di
te!”. Così inizia Gesù il suo rapporto con Pietro: “Mentre la folla gli faceva ressa attorno per
ascoltare la Parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, vide due barche accostate alla
sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì su una barca, che era di Simone, e lo pregò di
scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca” (Lc 5,1-3). Gesù non chiede a
Pietro di fare una catechesi, avendolo visto per la prima volta, ma semplicemente di mettergli a
disposizione una barca per predicare, vista la ressa della folla sulla spiaggia. È un gesto molto
semplice, che non chiede all’inizio cose impossibili al pescatore di Galilea, ma è un gesto
coinvolgente. La sua barca, in quel momento è a disposizione di Gesù che sta insegnando: una
parte non piccola della sua vita (una barca per un pescatore non è poco) è coinvolta già nella
missione di Gesù. A volte diciamo di non poter proporre certe esperienze perché non abbiamo il
tempo di prepararle, e perché riteniamo che la preparazione di ogni cosa debba gravare su di noi.
Gesù ci ricorda che è più opportuna l’umiltà di dire a qualche giovane o adulto: “Ho bisogno di …
Mi metti a disposizione …”. È giusto preparare incontri per i genitori dei ragazzi, ma parallelamente
dovremmo escogitare modalità concrete perché, come Pietro, si sentano coinvolti nella nostra
missione. Il servizio educativo o la passione per il bene della città sono ambiti che ci aprono
continuamente possibilità di dialogo e di collaborazione. A volte non si tratta neanche di creare
da soli particolari esperienze missionarie: la presenza nei servizi diocesani come la pastorale
25
Ibid., 184
26
Ibid., 135
11
giovanile o familiare, la sinergia con gli oratori o con la Caritas da subito ci permettono di
incontrare le vite di altri giovani ed adulti.
-quei servi raccolsero quanti ne trovarono … e la sala si riempì di commensali, ci ricorda la
parabola. Ci ricorda ancora il Progetto formativo: “Una coscienza missionaria, legata alla vita di
ogni giorno, ha bisogno di grande cura sul piano formativo: tanti cristiani sono ancora convinti
che gli impegni della vita cristiana si giocano nelle <<cose di Chiesa>>, oppure che la fede serve a
rispondere ai bisogni personali, senza porsi in rapporto con la vita degli altri e con le loro
domande”27. Il nodo è proprio questo: l’intreccio tra formazione e missione, la formazione di una
coscienza missionaria per la vita di ogni giorno. Quali requisiti dovrebbe avere tale coscienza
missionaria? Da questa parabola possiamo evidenziarne due: l’ascolto attento della vita delle
persone (di cui sopra) e la capacità di relazionarsi con chiunque, in ogni situazione, non
limitandoci alle questioni catechistiche e pastorali. Non ci sono situazioni in cui non sia possibile
annunciare il Vangelo o dalle quali non sia possibile intraprendere un cammino di santità. Forse
qualche volta è capitato che nei nostri gruppi si siano affacciati qualche adulto nuovo, qualche
nuova coppia, qualche giovane interessato non perché gli è stato chiesto un servizio educativo, ma
per una ricerca personale di fede, qualche nuovo giovane o adulto tribolato ed in cerca di un senso
alla sua sofferenza e di consolazione. Il loro ingresso ha cambiato qualcosa nel pensare la
formazione del gruppo? Oppure si è andati avanti come ogni anno, seguendo la guida e esigendo
da chi è nuovo di adattarsi? Chi è riuscito ad adattarsi è rimasto, chi non ce l’ha fatta è uscito:
forse non è portato all’AC, forse è per qualche altra esperienza, abbiamo magari pensato. Per la
formazione di una coscienza missionaria per la vita quotidiana aggiungerei un altro elemento ed
un esercizio per gli animatori dei gruppi giovani e adulti. L’elemento è la flessibilità28 in base alle
situazioni esistenziali di chi inizia un cammino di AC, magari per ricominciare proprio un cammino
di fede. Non si tratta di semplice accondiscendenza, nel qual caso è difficilmente applicabile alla
progettazione di un cammino formativo (come accondiscendere alle esigenze di tutti!), ma di
rimanere fedeli alla centralità della persona, criterio qualificante la vita dell’Associazione.
L’esercizio consisterebbe nel ripensare un cammino formativo per giovani e adulti di AC in base
alla struttura del RICA, visto che il progetto formativo che è stato riconsegnato nel 2004 è stato
elaborato sul paradigma dell’iniziazione alla vita cristiana, per realizzare così anche possibili
cammini per chi vuole ricominciare29. L’esito finale è l’inserimento in un normale gruppo
associativo: noi spesso prendiamo l’esito come punto di partenza.
-“buoni e cattivi”. Esiste un peccato mortale non solo in sé, ma soprattutto nei confronti
dell’annuncio del Vangelo: il giudizio. La Parabola in questo senso è chiara: non sta ai servi
27
Ibid., 112
28
Ibid., 169: “Il metodo è caratterizzato dalla flessibilità per adattarsi alle esigenze delle persone e alle diverse fasi
della loro esperienza di fede”. 183-184
29
Ibid., 185-188.
12
giudicare in nessun modo, solo il Re, che guarda al cuore e non alle apparenze (1 Sam 16,7), può
pronunciare il giudizio sull’abito di quell’invitato. Ai servi è chiesto di chiamare, invitare,
accompagnare, incoraggiare, esortare con molta pazienza … Noi non riusciamo a percepire sempre
il giusto confine tra il giudizio su scelte oggettive, condivisibili o meno, e il giudizio sulle persone.
Talvolta ciò che ferisce non è tanto il far presente a chi vive certe situazioni particolari cosa chiede
la Chiesa, i suoi eventuali no, ma il far trasparire da queste parole un nostro atteggiamento di
condanna. Guai a giudicare, si compromette ogni possibilità per il passaggio dell’invito. Una
coscienza missionaria per la vita quotidiana conduce ad un modo di essere presenti nella storia e
di porsi nei confronti di una cultura, anche quando essa non è in sintonia con il Vangelo e dalla
parte del bene delle persone: “Se nemico è colui che non ama, allora è vero senz’altro che i
cattolici hanno molti tenaci nemici: ma se nemico è colui che non si ama, allora è più vero ancora
che i cattolici non hanno nemici. I cattolici combattono, devono combattere il male che è l’unica
cosa che possono non amare; ma non possono combattere, essere nemici degli uomini, anche
quando questi sono al servizio del male, anche quando combattono la verità, la giustizia, la carità,
la Chiesa. È certamente questa una delle leggi più singolari e difficili per il cattolicesimo: difendere
le proprie idee, i propri diritti che sono idee e diritti della Chiesa di Cristo; ma difenderli amando
coloro che combattono per gli ideali opposti; coloro che vogliono opprimere o addirittura
opprimere il cattolicesimo. I cattolici li devono amare: non basta che non li odino – e amare vuol
dire essere in ansia per la loro vita, avere a cuore il loro buon nome, saper pregare per loro, essere
capace di offrire in ogni momento un sorriso di pace: e perciò fare della polemica, della
documentazione della responsabilità, una legittima difesa, un’arma che serva la verità e la
giustizia, ma insieme la carità. E tutto questo non vuol dire essere fiacco. Di fronte a certe forme di
polemica deteriore mi è venuto spesso da pensare all’atteggiamento dei primi cristiani di fronte
alle autorità romane che li giudicavano: un atteggiamento fiero, delle parole precise, severe anche,
ma sempre ispirate da quell’amore stesso che li portava al martirio. Per questo succedeva che i
giudici, che i carcerieri, che i soldati si convertivano a quella fede della quale i cristiani
testimoniavano con la loro vita e con la pienezza del loro amore. Agire, bisogna, certamente.
Parlare, anche, a voce alta e sicura, tutte le volte che sia necessario e spesso, molto spesso, è
necessario agire e parlare con coraggio. Ma soprattutto è necessario agire e parlare con amore”30.
Bachelet ci ricorderebbe che una coscienza missionaria è una coscienza vigile, che si rende
presente e si esprime francamente su tutto ciò che riguarda la vita dell’uomo a tal punto che dà
fastidio e può suscitare ostilità (anche in seno alla comunità cristiana può capitare), ma crederà
fino alla fine nel dialogo per amore degli interlocutori. Accetta anche la polemica come strumento
a servizio della giustizia, della verità e della carità ma non attaccherà mai le persone: susciterà
reazioni ostili per la chiarezza e radicalità dei contenuti, non per l’uso degli insulti.
-esperienze missionarie. La parabola evangelica della festa nuziale cui invitare tutti ci suggerisce
che una coscienza missionaria nella vita quotidiana è creativa, coraggiosa: non ha timore a questo
30
V. BACHELET, Gli ideali che non tramontano. Scritti giovanili, Ave, Roma 1992, 56
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punto di spendersi in iniziative particolari e nuove di annuncio del Vangelo da giovane a giovane,
di coinvolgimento delle famiglie nella riscoperta e nella narrazione della fede, di
accompagnamento nella fede di persone divorziate-risposate o di situazioni particolari di
sofferenza.
L’impegno primario dell’AC resta la formazione di una coscienza missionaria per la quotidianità
che passa anche per le esperienze particolari ora auspicate. Tutto questo può scaturire se nel
cuore coltiviamo un sogno sul nostro paese, sulla nostra comunità cristiana, sulla nostra
associazione parrocchiale e diocesana, sulla nostra vita e quella delle nostre famiglie che è un
modo di andare incontro al futuro che Dio ci sta aprendo.
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