Pdf Opera - Penne Matte

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Pdf Opera - Penne Matte
Il lavoro di Nico era una vera bomba. Letteralmente. Veniva pagato, e bene, per far saltare
in aria gli obiettivi indicati dalla Società, ed era il migliore nel farlo. Banche, fabbriche,
mercati, aerei… Non importava, lui li faceva saltare in aria come da ingaggio: successo
assicurato al cento percento. E il motivo del successo garantito stava nel fatto che Nico
restava sul posto durante l'esplosione, accertandosi che il danno fosse definitivo.
Questo perché era lui stesso l'esplosione.
Viaggiava su un Boeing 747-8, volo di linea per Parigi. Seduto accanto a una bionda
niente male, ammazzava il tempo leggendo Baudelaire. La bionda indossava una minigonna
esagerata, scoprendo due gambe superbe, lunghe e dalle caviglie sottili, che teneva
accavallate con eleganza. Nico non poteva fare a meno di sbirciare con la coda dell'occhio, e
la cosa lo irritava: che razza di spreco! L'unico aspetto negativo del suo lavoro era che spesso
ci andavano di mezzo grandissimi pezzi di fica come quella. Riteneva la bellezza femminile
l'unguento salvifico della vita, il miele prodotto dagli alveari celesti di Dio per addolcire
l'aspro cammino sulla terra. Un peccato quando la bellezza andava perduta.
Un vero peccato.
La bionda si alzò per andare in bagno prima dell'atterraggio, sfilando davanti a Nico, che
ebbe un brivido nel sentire il lieve fruscio delle calze quando le lunghe gambe si mossero. La
bionda lasciò un soffio delicato di profumo che l'uomo inspirò chiudendo gli occhi. Li riaprì
per vederla ancheggiare in modo naturale mentre si dirigeva verso la toilette, i capelli lunghi
e adagiati sul vestito nero, la schiena accattivante, sinuosa. Nico chinò leggermente la testa da
un lato, scostandosi dallo schienale, come se stesse ammirando un quadro.
Che spreco.
Nico guardò l'orologio, mise via il libro con cura e fece il proprio dovere. Doveva solo
calibrare l'esplosione in modo da sventrare la coda dell'aereo, lasciando che precipitasse.
Poggiò la mano sinistra sulla parete, una fiammata e una breve onda d’urto sarebbero bastate.
Qualche secondo dopo, mentre l'aereo precipitava su Parigi avvitandosi tra fumo e
fiamme lasciando una scia nera come fosse una cometa, Nico planava con calma avvolto nel
suo campo di forza, una bolla di energia traslucida, e leggeva il prossimo incarico ascoltando
nelle cuffiette Perfect Day di Lou Reed.
Lo rilassava sempre.
Gli anni '70 erano pieni di colori, e tutto sembrava possibile. David Bowie, cangiante
marziano efebico, diafano come uno spettro, siglava il suo contratto con la storia e
l'immortalità esibendo Ziggy Stardust con lo sguardo bordato di nero perso nell'oltre, una
maschera proiettata in centinaia di altre forme a venire. Accanto a lui, pose plastiche e capelli
arcuati biondo oro, le dita a solcare precise traiettorie sulle corde elettriche della chitarra,
faceva altrettanto Mick Ronson, già polvere da un pezzo ora che Bowie ha esalato l'ultima
nota. Sotto di loro un regno di femmine estasiate, grondanti liquidi, tra volti sudati e in
lacrime e cosce fameliche.
My Death. Sapore magico.
Potere. Energia. Eternità. Queste erano le sensazioni che trasudavano dallo schermo
addensandosi negli occhi di Ellioth, perso nelle luci di quel miraggio. Si chiedeva sempre
quale sarebbe stato il suo lascito, cosa avrebbe fatto di così grande da essere ricordato.
Probabilmente niente. Non in quella vita. A lui spettava l'anonimato di un lavoro sporco e
segreto, di quelli che non lasciano traccia, se sei bravo. Perché se non sei bravo, finisci presto
sottoterra.
Bowie era stato un mutaforme eccezionale, cinquantanni da camaleonte, sempre diverso.
Ecco l’unica cosa che avevano in comune: mutare forma. Ellioth poteva farlo in qualsiasi
momento, grazie al sangue sintetico e alle molecole elaborate del suo corpo.
Solo che non c’era sapore magico nel farlo.
Spense la TV portandosi dentro il contrasto tra il mito altrui e la sua nullità. Si coprì, fuori
lo aspettava la Maserati blu scuro con dentro il suo contatto. Ellioth aprì la portiera
scivolando sul sedile posteriore, trovandosi accanto all'uomo che chiamava semplicemente
“Lui”. Era vestito con un elegante completo bianco, gli occhiali scuri a coprire lo sguardo, e
il volto perennemente impassibile. “Lui” teneva tra le labbra affilate una lunga sigaretta,
emettendo nuvole di fumo sottili e striscianti che facevano da atmosfera perfetta alla sua
presenza.
«Vesti sempre di nero?» domandò “Lui” a Ellioth. Voce leggera ma ferma.
«Sì, rispecchia il mio umore.»
«Dovresti guardare alla vita con più ottimismo.» Offrì una sigaretta a Ellioth, che rifiutò.
“Lui” accennò un sorriso sulle labbra taglienti: «Pronto per il prossimo incarico?»
«Chi devo ammazzare?»
“Lui” sbuffò più fumo del solito, perché stavolta rise sul serio. «Forse è questo il motivo
del tuo umore sempre nero, ogni volta credi di dover ammazzare qualcuno. Che tristezza.»
Ellioth lo lasciò giocare, faceva parte della posa di “Lui”, era il suo ruolo. Era un semplice
messaggero, non contava poi chissà quanto, ma lavorava per la Società e questo era
sufficiente a metterlo su un piedistallo. I potenti che Ellioth chiamava Pezzi Grossi, perché
non avevano un nome specifico.
Evanescenti e silenziose presenze con occhi e orecchie dappertutto e prima di tutti.
«Stavolta troverai il lavoro più divertente» disse “Lui”, allungando un tablet a Ellioth.
«Vedi la donna del filmato? Devi recuperarla e portarcela sana e salva.»
Ellioth guardò nello schermo. Aveva ancora negli occhi le luci sfavillanti di Bowie, e il
contrasto con la perfida realtà immortalata lì dentro gli diede la nausea; si vedeva una donna
africana, molto bella, ammucchiata in quel disastro di fango e corpi disperati che erano i
profughi.
«Recuperarla?»
«Sì, ha con sé qualcosa di molto importante, perciò vedi di non sbagliare. Trovi le
coordinate nel file.»
«Non penso sarà divertente.»
«Forse allora dovresti uccidere qualcuno. Adesso muoviti e datti da fare.»
Il Maserati si allontanò lentamente, con la flemma di chi conta. Ellioth tornò a guardare la
donna nera nello schermo, e si preparò.
L’avevano pescata in mare assieme agli altri disgraziati, e portata al centro d’accoglienza
per la registrazione. Era incinta, necessitava di cure, e arrivarono a occuparsi di lei due solerti
medici scortati da un pugno di uomini vestiti di nero. Tra loro ce n’era uno con occhiali e
abito elegante che la fissava con insistenza. La donna li vide sventolare arroganti
autorizzazioni speciali, mentre la prelevavano separandola dagli altri e per portarla in un
alloggio isolato. Una volta chiusa in una sala bianca piena di diavolerie elettroniche, la fecero
sdraiare su un letto, nuda, e cominciarono con i prelievi, le ecografie, la sonda che le si
insinuava dentro la vagina penetrando fino all’utero.
Era già finita in quell’incubo chirurgico nel suo paese, dove il gelo dei ferri le aveva
lavorato dentro, fecondandola, costringendola a portare in grembo la distruzione.
«La bomba è integra, quasi pronta all’uso» disse lo scienziato con la barbetta.
«I nostri amici ne saranno contenti» confermò il collega stempiato, facendo un segno a
Nico. «Comunica pure che il protocollo H1 entra nella sua fase finale.»
Nico lo guardò storto, umettandosi le labbra stranamente secche. Non gli piaceva essere il
cane da guardia di quei gradassi, e non gli piaceva come trattavano quella splendida nera.
«Non faccio il messaggero, sono qui perché mi pagano per scortarvi, nulla di più.»
La donna nera guardò l’uomo con gli occhiali, che non aveva smesso un solo istante di
fissarla. Gli altri la consideravano soltanto un involucro, mentre nello sguardo di quell’uomo
c’era un interesse che sapeva di umanità. Nico non riusciva a farne a meno, la pelle d’ebano
della donna riluceva nonostante le fatiche, le sue forme racchiudevano l’essenza di una razza
antica e pura, il volto un miraggio nel deserto. Era la dannazione della bellezza, lo
perseguitava. E veniva sciupata dalle mani del potere, sacrificata in suo nome. Li avrebbe
volentieri fatti saltare in aria quei due, ma non aveva mai mancato di rispettare i patti, e i
soldi stavolta erano davvero tanti.
«Perché farla arrivare con quel catorcio di barca?» domandò, «non è stato rischioso?»
«Rischio calcolato… e non era poi così un catorcio» rispose lo scienziato con la barbetta.
Sarebbe bastato poco, giusto poggiargli una mano sulla faccia e farla andare a fuoco.
Oppure la mano avrebbe potuto poggiarla sul petto facendolo esplodere, e via, fuori un po’ di
merde dal mondo. Magari un’onda d’urto, schioccando le dita, così da provocare un infarto e
far morire in modo naturale quello scienziato del cazzo.
Di possibilità ce n’erano, ma l’unica da seguire era quella degli ordini. Loro sapevano
cosa farne della donna, dove portarla. Lui no.
Si spostarono in aereo fino al centro operativo della Società. Aereo privato e anonimo, la
cui scia non sarebbe mai stata registrata.
Avevano chiuso la donna nera in un bozzolo di metallo grigio, liscio, così lucido che ci si
poteva specchiare, collegato con dei cavi a un computer che ne registrava i parametri vitali, e
i due scienziati facevano a turno nel tenerli d’occhio, per poi tornare a mettersi comodi sui
sedili serviti da una procace hostess.
Nico leggeva il suo Baudelaire e lanciava di tanto in tanto uno sguardo al bozzolo. Un
corpo sigillato, costretto, bellezza spenta dal freddo metallo. Gli prudevano le mani.
Dopo meno di un’ora, l’aereo planò silenzioso sulla pista illuminata.
Ellioth sorseggiava con calma il latte, e seguiva la scia luminosa dell’aereo che scendeva
e si posava sulla pista come una libellula sopra uno stagno. Pensava a quanto fosse curioso il
fatto che le società segrete sapessero bene dove trovarsi, ma preferissero darsele tramite
sicari geneticamente mutati, personaggi come lui, estranei alla società, inesistenti per lo stato.
Sacrificabili.
I prototipi del futuro. Homo Olympius.
Lo aveva accettato, gli stava bene. A parte l’essere niente, il non lasciare tracce, nessun
lascito di cui andare fiero.
Ma era il momento di mettere a tacere i pensieri e agire. Il portello dell’aereo si era aperto
e ne scendevano due uomini che trasportavano un oggetto ovale. La marmaglia militare aveva
già formato un discreto capannello, ma Ellioth non se ne preoccupava; temeva di più la
presenza, probabile, di un suo simile.
Mutò le dita in lame laser, le agitò sulla rete che recintava l’aeroporto aprendosi un varco
e avanzò. L’obiettivo era dentro quell’involucro di metallo, le due scimmie laboriose che se
lo tenevano stretto erano chiaramente degli stupidi scienziati, come quelli che lo avevano
progettato. Solo di una società rivale.
Operazione: aprire il bozzolo e prendere il bruco. Ellioth rise per aver partorito un
pensiero così stupido.
L’involucro ovale fu trasportato dentro un grande hangar, segnato con il numero 18. I
militari si accorsero dell’uomo che camminava verso di loro: statura media, età indefinibile,
senza capelli, con indosso una tuta color carne, una specie di guaina aderente. Chi cazzo era?
«Altolà!» intimò il militare che comandava.
Trenta canne di kalashnikov puntarono l’uomo, le sicure scattarono.
«Altolà ho detto!»
Ellioth li ignorò, e avanzò.
«Fate fuori quel coglione» fu l’ordine.
Le raffiche partirono, le bocche da fuoco abbaiarono come cani dall’inferno. Il corpo di
Ellioth fu crivellato in migliaia di punti prima di crollare a terra. Non era mai piacevole
sentirsi trapassare da schizzi di fuoco: bruciavano, il dolore era indicibile.
Ellioth pensava a quel dolore mentre i tessuti si rigeneravano e l’organismo espelleva i
proiettili. Si risollevò sbuffando, facendo prendere un colpo alla marmaglia in divisa.
Dunque anche stavolta bisognava uccidere.
Ellioth allungò le braccia davanti a sé e aprì i palmi delle mani, nei quali si formarono due
buchi rotondi. Le sue vene partorirono lame d’acciaio che schizzarono fuori e investirono i
soldati.
L’interno dell’hangar fu raggiunto dall’eco degli spari, ma i due scienziati presi dal lavoro
non si scomposero. L’ambiente era illuminato da una luce rossastra. Il bozzolo di metallo era
stato aperto e la donna nera posizionata sopra un letto, legata caviglie e polsi, le gambe
divaricate.
I macchinari a cui era collegata emettevano suoni e disegnavano diagrammi che Nico non
comprendeva. Guardava la donna: il volto d’ebano lucido di sudore, gli occhi bianchi come
fiocchi di neve inghiottiti dal terrore.
Urlava.
Gli scienziati avevano infilato un dilatatore nella vagina, nella quale ora inserivano
quattro steli meccanici che manovravano attraverso una tastiera. Sembravano scrittori folli
presi dal loro capolavoro. Il metallo si insinuava dentro la donna incinta, nel suo ventre, a
caccia dell’utero.
«Non devi spingere, troia» disse quello con la barbetta. «Facciamo tutto noi.»
Nico sentì una fitta nello stomaco. Gli si parò davanti l’altro scienziato:
«Tu dovresti andare lì fuori. Non senti che sparano?»
«Ci sono i soldati.»
«E tu sei pagato per proteggere il nostro investimento. Fai il tuo lavoro.»
Lo stempiato gli diede le spalle e tornò a manovrare gli steli meccanici sopra e dentro la
donna. Nico immaginò di aprirgli due grossi squarci nel busto, carne e sangue sparsi
ovunque. Poi si diresse verso l’esterno.
I militari erano a terra, i corpi accatastati e maciullati. Le lame di Ellioth, scaturite a
migliaia dal suo sangue, avevano lacerato, trafitto, aperto carni, colpito gole, occhi, petti di
uomini ormai scaraventati nell’Altrove.
Ellioth varcò l’ingresso dell’hangar e si trovò davanti un giovane con gli occhiali dalla
montatura leggera; era ben vestito, un completo nero con cravatta, la camicia bianca sotto la
giacca, mocassini ai piedi. Portava i capelli neri pettinati indietro con il gel e aveva la faccia
triste.
Ellioth rimise in azione il suo sangue sintetico, e dai palmi sparò le lame d’acciaio. Il
giovane elegante le respinse creando davanti a sé un campo di forza. Una pioggerella
d’acciaio tintinnò sull’asfalto.
E così, lui è come me. Geni modificati, molecole e sangue sintetico, Homo Olympius
partorito dalla chirurgia più malata.
Lo pensarono entrambi, gli occhi negli occhi.
«Bella la tua tuta, anche se sembri nudo» disse Nico.
Creò fiamme dalle mani e le lanciò contro il suo simile. Due sfere ardenti che Ellioth
evitò di un pelo, torcendo il busto di lato a novanta gradi.
«E tu che divisa indossi? Gucci?»
Ellioth tramutò le mani in lunghe lame d’acciaio e si scagliò contro l’avversario. Le lame
cozzarono contro il campo di forza, Nico indietreggiò mentre parava i colpi. Poi sprigionò
un’onda d’urto che scaraventò Ellioth all’indietro, contro l’aereo. La spinta fu talmente forte
da incastrare il mutante tra le lamiere, e Nico completò l’azione lanciando sfere infuocate che
fecero saltare in aria il velivolo.
Si sistemò la cravatta mentre osservava le fiamme che divoravano meccanica e carni, poi
un grido lo fece voltare. Era la donna nera, che urlava e lo richiamava: richiamava il suo lato
umano, il suo desiderio di bello, l’istinto a illuminare la vita di qualcosa che non fosse solo
distruzione.
Nico si incamminò verso il punto dove la bellezza veniva violentata dal freddo. Il freddo
del letto di ferro, degli attrezzi animati dai circuiti, dei due dannati sopra di lei. Camminava
come fosse trainato da un fantasma, in preda a un senso di vuoto.
«Apriamola e non perdiamo altro tempo» stava dicendo lo stempiato. Estraeva gli steli
meccanici dalla vagina della donna.
«Sì, facciamo prima alla vecchia maniera» rispondeva il barbetta.
Teneva un bisturi tra le dita, lo puntava verso la pancia gonfia della donna. Una collina
nera e liscia, pelle perfetta, legata a quel volto dai sapori antichi piegato dalla sofferenza.
«Non dovete ucciderla» si ritrovò a dire Nico.
I due non gli badarono. La lama toccò la carne della nera, la piegò, pronta a straziarla.
Lo scienziato con la barbetta volò contro la rete e cadde muso a terra, il bisturi scivolò sul
pavimento.
«Che cazzo fai?» urlò lo stempiato, prima che Nico lo spedisse contro il soffitto con
un’onda. Lo fece rimbalzare con una scarica di onde in sequenza, bam bam bam, finché le
ossa dell’uomo non si spezzarono. Tutte. Solo allora lo lasciò andare, morto al suolo.
Nico incrociò di nuovo gli occhi lucenti e immacolati della donna, sciolse le cinghie che
la costringevano sul letto di ferro e l’aiutò ad alzarsi.
Il clic di un’arma carica, la pistola stretta nelle mani dello scienziato con la barbetta.
Tremava. La voce da schizzato.
«Devi essere impazzito! Lascia quella troia, altrimenti l’ammazzo e… e… faccio saltare
tutti in aria! Sì! L’ordigno che ha dentro è pronto e cancellerà l’intera città, quindi devi darla
a me!»
Le lacrime della donna nera gocciolavano sulle mani di Nico, e le mani di Nico erano
pronte a difenderla dai proiettili. Ma quando vide la testa dello scienziato saltare via, tagliata
di netto da una lama, un sussulto fremette nel suo cuore. Il corpo dal collo trasformato in una
fontana cremisi crollò e svelò il mutante avvolto dalla tuta color carne.
Ellioth era in piedi, vivo, anche se la guaina che lo copriva doveva ancora ricrearsi del
tutto. Non portava alcun segno dell’esplosione.
«Ho visto che ne hai sistemato uno, così» disse con calma, «mi è sembrato opportuno far
fuori quest’altro.»
Nico lo guardò accigliato. «Non è facile farti fuori a quanto pare. Ma se provi a toccarla,
ti assicuro che continuerò a tentare, ci volesse una vita intera.»
Ellioth sorrise. «E forse prima o dopo ci riusciresti, ma non servirebbe a niente, dato che
la signora tra le tue braccia porta in grembo una bomba in grado di spazzarci via tutti.»
La donna tremava, Nico la coprì con un telo verde.
«So cosa porta dentro. Basterà farla nascere, e lei sarà salva.»
«E come pensi di fare?» ribatté Ellioth. «Sai usare gli apparecchi di questi bastardi? E
dopo, sai come gestire la bomba in sicurezza?»
Nico cercò di pensare in fretta. «Se hai deciso di aiutarmi, potresti trasformare… una
qualche tua parte in modo da entrare in lei ed estrarre la bomba. Io potrei coprirla con il
campo di forza...»
La donna nera lo bloccò, gli strinse le mani sulla giacca. Il volto disperato continuava a
implorare anche da libera. Parlò, un inglese stentato ma sufficiente, la voce inclinata ma
cristallina, come una musica delicata che prendeva al cuore.
Perfect Day.
My Death.
“Porto una bomba H nell’utero… esploderà senza gli scienziati… non voglio che altre
persone muoiano… io morirò, ma solo io...”
Questo disse la donna nera dalla bellezza antica, la donna irrorata di lacrime e sofferenza.
Era stanca, proprio come Nico e Ellioth. Voleva che finisse.
Chiese di essere portata al mare, nel blu liquido dove aveva lasciato la sua anima durante
il viaggio della speranza che per lei era stato il viaggio della condanna.
I due mutanti combatterono contro i propri pensieri, una lotta ben più violenta di quelle
condotte per nome e sotto pagamento delle loro società segrete. Sacrificare una vita
innocente, incastrata dagli ingranaggi del potere… non volevano farlo, ma dovevano. Era lei
a pregarli, erano le milioni di vite che pulsavano ignare nelle vene della città a determinarlo.
Volavano pochi metri sopra la distesa blu. Una sfera d’energia, il campo di forza
traslucido di Nico con dentro lui, Ellioth, la donna nera, e i loro tre sguardi che si
scontravano, si legavano tra loro come corde invisibili. Ellioth osservava le emozioni di Nico,
le soppesava con le sue, e lo sentiva ancora più simile a lui; Nico perdeva lo sguardo dentro
quello della donna e pensava, nell’esasperata ricerca di un’alternativa; la donna nera era
azzerata dalla tristezza, ma determinata a siglare la fine dell’incubo.
Giunti sopra al punto più profondo, un addio silenzioso corse tra di loro, elettrico e
pesante.
Nico ridusse il campo di forza, la sfera si sgonfiò lentamente fino a escludere dal suo
interno la donna nera. Cadde nel vuoto, senza un fiato, e il suo corpo penetrò la superficie
calma del mare che si increspò nell’accoglierla.
Riaffiorò solo qualche istante, prima di costringersi all’immersione per raggiungere per
sempre il buio dei fondali.