Estate 1990 Michele Duca scende dall`auto e per poco non

Transcript

Estate 1990 Michele Duca scende dall`auto e per poco non
Estate 1990
Michele Duca scende dall’auto e per poco non incespica sul
marciapiede, tanto gli tremano le gambe. Imbocca il vialetto che
dal parcheggio porta al bar del paese con la velocità di una iena
affamata. È fresco di doccia e ha rubato il Denim a suo padre.
Si è fatto la barba, anche se ne ha meno di suo fratello, più piccolo di lui. Prima di sbucare fuori dall’ombra, si concede due respiri profondi, per placare il battito del cuore.
Mezzo Borgo è radunata davanti alla tv grande schermo di
Peppe, il barista con la faccia da pastorello del presepe e il ciuffo alla Elvis.
Sono tutti al bar, la piazzetta è piena.
La televisione è posta in alto, sopra una seduta da arbitro
presa in prestito dal vicino campo da tennis. Qualcuno si è portato la sedia da casa, molti usano quelle del bar, molti altri stanno in piedi. La piccola folla freme. Incitamenti e bestemmie sovrastano non di poco la voce composta di Bruno Pizzul.
La partita è iniziata da una mezzora buona e l’Italia gioca
contro l’Irlanda i quarti di finali del mondiale di calcio.
Tra le tante teste Michele ne cerca in particolare una bruna,
con le treccine. Vede quella di Matteo, non può sbagliarsi, quelle orecchie a sventola le ha soltanto lui in tutta Mezzo Borgo, e
quella di Alessio, il figlio del fornaio. Lei avrebbe dovuto essere con loro.
“Possibile che abbia cambiato idea all’ultimo momento?”, si
chiede, mentre continua a girare tra i tavoli del bar.
Mette le mani in tasca e stringe forte le chiavi della macchina, duramente conquistate con la promessa di tornare a casa appena finita la partita. Come se la Golf bianca di suo padre potesse trasformarsi in una zucca scaduto il novantesimo minuto.
Ma in fondo li capisce, i suoi genitori. Immagina che non deve
essere facile vedere il proprio figlio neopatentato uscire per la
prima volta con l’auto di famiglia, da solo, dopo cena.
7
ALESSANDRO MORBIDELLI
Supera il tavolo di plastica dove sono spiaggiati i due quintali e mezzo buoni del tabaccaio e di sua moglie. Alessio e Matteo sono a tiro: magari loro sapranno dirgli dov’è.
È il minuto 38 della partita. Roberto Donadoni sfreccia verso la porta avversaria e lascia partire un tiro potente. Il portiere
si tuffa e respinge la palla. Salvatore Schillaci, detto Totò, idolo
di Sicilia, si trova al posto giusto al momento giusto e appoggia
il pallone in rete con un diagonale di piatto. Il portiere è a terra,
la porta è vuota, l’Italia intera salta in piedi e grida gol con tutto
il fiato che ha in gola.
Mezzo Borgo non fa eccezione. Davanti al bar scoppia la
bolgia. Anche i più vecchi saltano e si abbracciano. Urlano e festeggiano. La televisione traballa in cima alla sedia da arbitro,
ma Peppe è svelto e la ferma con la grande mano callosa.
Non ci sono più teste da riconoscere, non ci sono più punti
fermi. Mezzo Borgo è in festa e Michele Duca pure. Salta insieme agli altri e come tanti altri esplode in un gesto dell’ombrello ai verdi contrapposti.
Ma è il primo a calmarsi. Continua a guardarsi intorno, cercandola tra la gente festante. Poi vede di nuovo i suoi due amici.
Si sono accorti di lui e lo salutano con il pugno chiuso in segno
di vittoria.
– Ragazzi, non è finita, mettetevi a sedere, Dio bono! – si
sente gridare da dietro.
Stringe le chiavi ancora più forte e fa qualche passo verso di
loro.
Ma proprio in quel momento due mani gli avvolgono il petto
da dietro. Due mani leggere e sottili, capaci di sciogliere in un
movimento i lacci della bottega e le briglie dell’apprendista: i
suoi vincoli estivi. Sente il profumo della salvia e del rosmarino
entrargli nei polmoni e farsi largo tra i malati fumi delle senza
filtro di chi sta guardando la partita. Finisce il giorno di polvere
e inizia la notte.
Michele si gira.
Marina è bellissima. È abbronzata come una spiga cotta dal
sole. Indossa un vestito di cotone rosso che le arriva sopra le ginocchia. Sulle braccia e sulle spalle scoperte la notte si specchia
con riflessi d’ombra.
8
OGNI COSA AL POSTO GIUSTO
“No, non ha cambiato idea”, pensa.
– Pensavo che non saresti venuto... – dice Marina fissandolo con occhi verdi da bambina.
– Ho faticato per farmi dare la macchina... – le risponde lui,
mentre il petto chiede pietà al caos del cuore.
Si prendono per mano, l’uno più imbarazzato dell’altra, e si
allontanano verso il vialetto.
– Ciao, eh! Brutti stronzi! – urla loro Matteo con un sorriso
stampato in faccia, mentre il figlio del fornaio si strozza l’ennesima lattina di birra alla faccia degli irlandesi.
Prima di incamminarsi per il vialetto, Marina ferma Michele e gli sorride.
– Vuoi finire di vedere la partita? – gli chiede con un leggero tremolio del labbro, così dolce che per poco Michele non finisce travolto dalla commozione adolescenziale. Quella che gli
faceva scrivere poesie d’amore sulle panchine e dietro i sedili
degli autobus, quella che lo lasciava a testa all’insù a fissare le
stelle per ore, dalla finestra della sua camera.
Poi però considera il peso della domanda e rimane impietrito. Pensa alla delusione che deve trasparirgli dal volto e in un attimo si accorge di essere cambiato. Marina aspetta una risposta.
Michele affonda tra le parole.
– Se non vuoi... sì, insomma... se non te la senti... vuoi restare qui? – le chiede arrossendo.
Ma lei piega il labbro e sorride.
– No, andiamo... – gli dice gettandogli le braccia intorno al
collo.
– Io lo sapevo che doveva succedere con te... – gli sussurra
poi in un orecchio.
Michele non ha più nessun dubbio. Dietro la casa abbandonata vicino alla fornace, sui colli, diventerà uomo.
E Marina donna.
Non avrebbero mai dimenticato quella sera, Michele ne è
certo.
Viaggiano con i finestrini abbassati. Marina inserisce nell’autoradio una cassetta. Ogni canzone è stata scelta accuratamente da Michele per lei. E così, salendo per la barcaiola e svoltando poi per la sterrata della fornace, hanno il tempo di ascol-
9
ALESSANDRO MORBIDELLI
tarsi due canzoni, It must have been love dei Roxette e Nothing
compares 2U di Sinead O’Connor. In devoto silenzio si cullano
a vicenda nelle loro ballate perfette. Ogni sguardo è il sogno di
due adolescenti.
La Golf imbocca un passo nascosto da folte siepi di bosso e
prende per una viuzza in terra battuta che scende verso una grande tenuta contadina.
La casa del mattoniere. Così viene chiamata da tutto il paese.
Vicino c’è ancora la fornace dismessa, con le finestre senza vetri
e l’erba che cresce sul tetto.
Michele spegne i fari e si lascia guidare dal chiarore della
luna piena. Gira intorno alla casa e si ferma nel piccolo piazzale in terra battuta, contornato da querce e da cipressi, alternati
uno a uno.
Abbassa la radio e sospira. Anche Marina sospira.
– Andiamo dietro? – le chiede.
– Andiamo dietro... – risponde lei.
Chiudono gli sportelli con la sicura e sigillano i finestrini.
Poi con movimenti impacciati raggiungono i sedili posteriori.
– Li hai presi? – gli chiede Marina.
– Aspetta... – risponde Michele prima di tornare avanti, con
le gambe lunghe e magre, per poi aprire lo sportello porta oggetti e portarsi dietro una scatola di preservativi.
Nell’auto ha già iniziato a fare caldo. Il vento sui colli è pungente anche d’estate, ma l’abitacolo sigillato della Golf è un
nido.
Michele muove le mani nervosamente, a scatti. Marina cerca
la sua bocca e porta la sua testa vicina al petto. La visuale degli
occhi avidi di amore si distorce. Le labbra si trovano e si sfamano le une delle altre, mentre i corpi rubano il fresco del cotone della maglietta e del vestito rosso, lesti a scivolare lungo la
pelle che diventa sempre più calda.
Finiscono sotto il lunotto posteriore.
Marina piega con cura il vestito, Michele strizza la maglietta come uno straccio e la spinge lontano.
Si osservano e si scoprono nella penombra con occhi che
mai prima di allora avevano avuto.
Il reggiseno di Marina è bianco. E anche i suoi slip.
10
OGNI COSA AL POSTO GIUSTO
Michele non riesce più a stare seduto con i jeans abbottonati. Gli sembra di essere al punto di non ritorno a ogni minimo
movimento. Ma è Marina che lo libera, aprendo il bottone e lasciando scivolare la cerniera, lentamente.
Quando i pantaloni finiscono sotto al sedile, Marina sorride
guardando i boxer bianchi di Michele e l’umida protuberanza
che si sporge verso di lei. Allunga una mano e la sfiora sulla
punta. Michele spera di resistere a lungo e l’agitazione che prima non aveva considerato inizia a bussare alla porta dei suoi
pensieri.
Muove svelto le mani intorno ai fianchi della ragazza e le arriva dietro la schiena, al gancetto pignolo del reggiseno. Prima
una bretella, poi un’altra, si abbandonano sulle spalle e lungo le
braccia.
I seni di Marina sono bianchi e lisci nella loro rotondità perfetta.
Le sfiora i capezzoli, duri e neri come l’ebano, e Marina geme. Poi le labbra del giovane si avvicinano e la lingua assapora
entrambi i frutti, freschi di sabbia e salsedine, di acqua e di sapone. L’alito caldo di Marina accarezza Michele sul collo con
un ritmo spezzato e nervoso.
Le mani di entrambi trovano i bordi elastici degli ultimi indumenti e le dita entrano sotto di loro con cautela. Mentre le
bocche si toccano ancora, le dita sfiorano caldi umori e carni delicate.
Gli slip di Marina fuggono veloci lungo le cosce. A Michele
sembrano calde e invitanti come il pane appena cotto.
Michele afferra i boxer e li spinge con forza, incurante di
ogni impedimento. Poi con i piedi libera le caviglie e lascia quelle catene di cotone accanto ai jeans.
Marina si distende. Le gambe si aprono timide, mentre il
bianco del suo ventre prende sempre più la forma di uno slip.
Michele sa che i preliminari sono la parte più importante del
rapporto.
Ma la situazione è troppo delicata e il tempo è troppo poco.
Bisogna diventare uomini. L’unico interesse al momento è entrare.
11
ALESSANDRO MORBIDELLI
Nel silenzio dell’abitacolo, Marina lo osserva e stringe i denti.
I corpi si scaldano e i cuori che battono all’impazzata inumidiscono la pelle di sudore.
Sui vetri la condensa inizia a celare l’amore agli occhi della
notte e a quelli della vecchia casa del mattoniere.
Ma non agli occhi dell’uomo che nell’oscurità avanza verso
la macchina.
I suoi passi sono sicuri e diretti. Appoggia i piedi sull’erba
con la cautela del felino. Le sue mani stringono una chiave inglese e un coltello a serramanico. Si ferma a qualche passo dalla
macchina e tira fuori dalla tasca un collant. Se lo mette in testa,
lo tira fin sotto al mento.
Il naso si piega. Labbra serrate e occhi socchiusi completano la maschera di un mostro che non è solo. Dietro di lui ce ne
sono altri due. Nelle loro mani lame che riflettono la luce di una
luna che sta per cambiare. I loro volti nascosti dal collant li accomunano tutti in una sciagurata e agghiacciante famiglia.
Quello avanti, il primo, indossa una t-shirt bianca della Germania Ovest e ha le spalle molto larghe. È lui il capo. A un suo
cenno, gli altri due si allargano, uno davanti e uno dietro l’auto,
accerchiandola.
Come un branco di iene si avvicinano tutti e tre alla preda.
Il capo arriva alle spalle di Michele. Marina vede la sua sagoma disegnarsi oltre il vetro del finestrino. Stringe le mani sulle braccia del ragazzo e urlando dal terrore affonda le unghie sulla
pelle.
Michele non capisce.
Il colpo di chiave inglese che sfonda il finestrino e gli scaraventa contro la schiena nuda migliaia di schegge lo sveglia dal
sogno e lo precipita nell’incubo.
La ragazza cerca di arrivare al vestito sotto il lunotto posteriore, ma arriva un colpo anche lì. I vetri del finestrino le arrivano in faccia, alcuni le entrano in bocca e le graffiano gli occhi.
Cerca di nascondersi scivolando oltre il sedile. Urlando e
piangendo si rannicchia in posizione fetale mentre una mano
apre le sicure della macchina e lo sportello sopra le loro teste.
Michele cerca di scendere con le lacrime che gli accecano la
vista. La chiave inglese arriva con primitiva violenza all’altezza
12
OGNI COSA AL POSTO GIUSTO
del gomito. La pelle si apre stretta tra l’acciaio e l’osso che si
sgretola. Vorrebbe urlare, ma il dolore gli cancella il fiato e gli
secca la gola.
– Sta’ calmo! – gli grida contro l’uomo, mente con la mano
lo spinge indietro, facendolo cadere di schiena sopra i singhiozzi disperati di Marina.
Poi Michele vede il coltello brillare nei riflessi della luna e
abbassarsi verso le sue gambe. Il dolore che gli morde il polpaccio richiama indietro la voce e finalmente un urlo di dolore
e di paura si alza cupo nella notte.
– Ti è piaciuto? – gli chiede il capo.
– Se adesso fai come ti dico, non lo risenti più, tranquillo...
Marina sente il sangue caldo di Michele scivolarle sui fianchi.
Il braccio è piegato verso di lei in modo strano e innaturale.
Si chiude nel suo silenzio mentre Michele urla e piange.
Sente un colpo, forse un calcio, e poi un altro e un altro ancora.
A ogni scossone la voce di Michele si rompe e il suo corpo
preme contro di lei.
– Scendi e vai davanti, forza! – gli urla il capo.
Dall’altra parte dell’auto una seconda voce si rivolge alla ragazza:
– Vedi di stare buona o sono cazzi tuoi, troia!
Quando sente il corpo di Michele alzarsi da sopra di lei, Marina vede la sua vita allontanarsi insieme alla schiena sporca di
sangue del ragazzo. I suoi nervi cedono. Si avvinghia a lui con
entrambe le braccia, mentre una mano alle sue spalle le afferra i
capelli e con uno strattone le torce la testa all’indietro.
Urla. Lo chiama. E nella notte del mattoniere il nome Michele viene sputato fuori tra lacrime e singhiozzi.
Il mostro che tira i capelli di Marina sale in auto e le assesta
un pugno al fianco destro. La ragazza perde il respiro e si abbandona alla forza di quella mano che le sbatte la testa contro il
sedile.
Più di una volta.
Vorrebbe svenire, ma la paura non le concede il lusso.
Rimane muta, con il ventre contratto da un freddo spinoso e
profondo.
13