Tursi, dove ogni pietra ha da raccontare una Storia

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Tursi, dove ogni pietra ha da raccontare una Storia
Tursi, dove ogni pietra ha da
raccontare una Storia
Tursi è una città davvero incantevole. Colpisce il suo
straordinario centro storico che certamente vede nella
rabatana il suo punto più caratteristico, ma l’antico castello
ed i palazzi rinascimentali ne fanno un centro dal grande
fascino. La storia moderna dell’uomo sembra aver segnato ogni
pietra di Tursi. La cultura araba, il Medioevo, la
straordinaria presenza monumentale della cultura cristiana
lasciano senza fiato quanti avvertono la grandezza dei tempi.
Il territorio, caratterizzato dalla presenza dei Calanchi,
è
un’ulteriore segno di una terra che non lascia indifferenti.
http://www.youtube.com/watch?v=Rw8JxqHQxgg
Il documentario dedicato a Tursi dal regista tursitano
Giuseppe Di Tommaso
http://www.youtube.com/watch?v=KA2cvtfiUTU
L’intervista ad Albino Pierro di Mario Trufelli
http://www.youtube.com/watch?v=yweK1yhTApM
L’intervista a Mario Trufelli
http://www.youtube.com/watch?v=kmB0e0kWq7Q
La poetica di Paolo Popia
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La storia di Tursi
Scavi archeologici eseguiti in Basilicata, nei pressi di
Anglona e nei pressi di Policoro, hanno riportato alla luce
innumerevoli opere attualmente custodite nel Museo
archeologico nazionale della Siritide, accertando l’esistenza
di insediamenti risalenti al3000 a.C. Gli abitanti di queste
zone erano denominati Enotri, in particolare però gli abitanti
della zona compresa tra i fiumi Sinni ed Agri, venivano
chiamati Coni.
A partire dall’VIII secolo a.C., sulla costa ionica, per mano
dei Greci provenienti dalla Ionia, furono fondate le città di
Siris, Heraclea, Metaponto e Pandosia.
Siris si ritiene fondata all’inizio del VII secolo a.C. dai
popoli dell’Epiro, distrutta da Sibari e Crotone nel VI secolo
a.C., dalle sue rovine sorse Heraclea tra il443 a.C. e il430
a.C. Nel IX secolo la città viene menzionata col nome di
Polychorium e nel1126 inun atto di donazione al monastero di
Carbone, compare l’attuale nome Policoro.
Continua…
Pandosia, che confinava con Heraclea, è considerata la più
antica città pagana della Siritide. Fondata degli Enotri prima
del1000 a.C., fu molto ricca e importante grazie alla
fertilità del terreno e alla posizione strategica. I due
grossi fiumi lucani, l’Agri e il Sinni, a quel tempo
navigabili e l’antica via Herculea che da Heraclea risaliva
per più di60 kmla valle dell’Agri fino alla città romana di
Grumentum, agevolavano le comunicazioni e quindi una rapida
espansione della città. Nel326 a.C., in una battaglia contro
il popolo dei lucani, venne ucciso Alessandro il Molosso, re
dell’Epiro e zio di Alessandro Magno. Nel281 a.C. fu campo di
battaglia tra i Romani e Pirro re dell’Epiro, che corso in
aiuto dei tarentini si accampò tra Heraclea e Pandosia.
Quest’ultimo, durante la battaglia, usò un gran numero di
elefanti, vincendo la battaglia di Heraclea, ma con un numero
di perdite altissimo. Nel214 a.C. fu teatro di un’ennesima
battaglia nel corso della seconda guerra punica tra i Romani e
Annibale, re dei Cartaginesi, per conquistare il dominio sul
mediterraneo.
Pandosia venne distrutta tra l’81 a.C. e il72 a.C. ad opera di
Lucio Cornelio Silla generale romano. Dalle rovine di Pandosia
sorse, poco prima dell’era cristiana, Anglona cittadina assai
fiorente.
Nel 410 i Visigoti di Alarico I saccheggiarono e
semidistrussero Anglona. Per controllare il territorio
circostante costruirono un castello su una collina a metà
strada tra i fiumi Agri e Sinni. Gli abitanti sopravvissuti
della città di Anglona si rifugiarono attorno al castello
dando origine alla Rabatana, primo borgo popolato di Tursi.
Nel IX secolo, attorno al 826, ci fu un’incursione dei
Saraceni, provenienti dall’Africa. Nel 850 gli stessi
riuscirono a conquistare gran parte della pianura metapontina,
compresola Rabatana. Abitaronoil nascente borgo, lo
ingrandirono e furono proprio loro a dargli il nome, a ricordo
del loro borgo arabo Rabhàdi. L’impronta saracena è molto
presente nelle
Rabatana.
costruzioni,
negli
usi
e
costumi
della
Rudere disabitato del centro storico. Nel 890 i Bizantini
riconquistarono i territori che una volta appartenevano
all’Impero Romano d’Occidente, scacciando definitivamente
l’impronta Araba dalle terre lucane. Sotto i Bizantini ci fu
uno sviluppo notevole, sia demografico che edilizio e il borgo
cominciò ad estendersi verso la valle sottostante, l’intero
centro venne chiamato Tursikon, dal suo fondatore Turcico.
Verso la fine del X secolo l’imperatore Basilio I costituisce
prima il thema di Langobardia e il thema di Calabriae
successivamente, nel 968 venne creato anche il thema di
Lucania che aveva come capoluogo Tursikon negli stessi anni
divenne anche sede della diocesi con cattedra vescovile presso
la chiesa di san Michele Arcangelo dove nel 1060 si svolse il
sinodo dei vescovi.
Dopo l’anno Mille una grossa migrazione dei Normanni, nelle
vesti di pellegrini diretti verso luoghi sacri della
cristianità, o nelle vesti di mercenari pronti a combattere
per un pezzo di terra, giunse ben presto nel sud Italia. Fu
facile inserirsi nelle lotte interne tra Longobardi e
Bizantini, ottenendo ben presto terre e benefici. I Normanni
contribuirono notevolmente alla crescita della città, proprio
come fecero successivamente prima gli Svevi e poi gli
Angioini.
Dopo la definitiva distruzione di Anglona, venne risparmiato
solo il santuario, nel 1400 i restanti cittadini si
rifugiarono nella fiorente Tursi. Nel XVI secolo Tursi contava
ormai oltre 10.000 abitanti e 40 dottori in legge e nel 1543
vennero unite la diocesi di Anglona e quella di Tursi
costituendo la diocesi di Anglona-Tursi, che dal 1546 ebbe
cattedra a Tursi.
Nel 1552 Carlo V, imperatore del Sacro Romano Impero assegnò
allo statista Andrea Doria il ducato di Tursi. Alla suo morte,
nel 1560 il ducato passo al nipote, il principe di Melfi
Gianandrea Doria. Successivamente, nel 1594, Carlo Doria
divenne duca di Tursi e per gratitudine verso i cittadini
rinominò la sua abitazione da Palazzo Doria a Palazzo Tursi,
attualmente sede del comune di Genova. In quegli anni Carlo
Doria fece costruire, a sue spese, nel rione Rabatana una
enorme scalinata in pietra, tuttora utilizzata, che ha la
particolarità di possedere lo stesso numero di gradini della
scalinata presente nel Palazzo Tursi.
Nel 1656 la peste invase le strade di Tursi e quelle dei paesi
limitrofi, la popolazione si ridusse drasticamente anche a
causa dell’emigrazione. Nel 1769 i Doria persero i terreni che
furono acquistati dalle nobili famiglie dei Donnaperna,
Picolla, Panevino, Camerino e Brancalasso.
Albino Pierro
(1916 – 1995)
Quella di Tursi, il mio paese in provincia di Matera,
era una delle tante parlate destinate a scomparire.
Ho dovuto cercare il modo di fissare sulla carta i suoni della
mia gente.
Mia madre, morì poco dopo la mia nascita.
La mia nutrice non aveva quasi latte.
E mi davano alle donne del paese, madri fresche, per una
poppata.
Ancora oggi, quando torno a Tursi, incontro vecchiette che mi
ricordano il debito:
“Don Albine, io ti ho dato il latte”.
I Pierro erano famiglia di signori, a Tursi. Abitavano nel
palazzo (“u pahazze”). Finché era nei confini casalinghi, il
giovane Albino era obbligato a parlare italiano: quello
raffinato e coltivato d’una famiglia di giuristi e professori.
Fuori delle mura, c’era il dialetto. “E io ne ero incantato”
dice il poeta. “Mi piaceva ascoltarlo dai contadini: nei loro
racconti, la descrizione d’un temporale, un evento naturale
diventava un fatto terribile e misterioso, una fiaba”. Così,
al figlio dei signori, il popolo dette il latte e la poesia,
il senso del magico. Era il cielo, non la fisica né la logica,
a Tursi e nell’infanzia di Albino Pierro, a regolare il corso
delle cose. “Venni dato per morto”, narra il poeta. “Mi
avevano già vestito e messo nella bara. La nutrice disse
d’aver udito, a un tratto, il grido di mia madre morta. Io ne
fui riscosso e tornai a vivere. Me lo riferiscono le mie zie.
Ero troppo piccolo per ricordare”. Suo padre si risposò, altre
due volte: furono le zie Assunta e Giuditta ad allevarlo.
“Avevo debole salute e gli occhi sempre arrossati. La mia
nutrice tentò un rimedio popolare: impacchi d’ortica. Le cose
peggiorarono. A quattro, cinque anni quasi cieco, fui
costretto a restare sempre al buio. Imparai a suonare il
mandolino. Cantavo bene. Più tardi, con i miei due fratelli,
tenni concerti in paese. La gente veniva, – per la voce di Don
Albine- “. Un oculista, a Roma, scongiurò il peggio: “il
ragazzo potrà leggere tanto da diventare professore
universitario, non cieco”. E per Albino si aprirono la
biblioteca di casa e quella, ancor più fornita, dei Capitolo,
vicini e parenti stretti. “Durante l’estate, dopo pranzo, alla
controra”, rammenta, “si doveva dormire per forza. Io mi
rannicchiavo vicino al balcone e, alla luce che passava dallo
spiraglio, leggevo i russi. Anche Shakespeare, anche i
francesi, ma i russi mi hanno formato. Calcolavo quante pagine
ogni quarto d’ora. Oggi non tocco più un romanzo. Non si può,
dopo i giganti, dopo Dostoevskij”. Il palazzo dei Pierro è nel
quartiere della Rabatana, fondato dai saraceni. E’ il più
vecchio del paese, che pare precariamente posato su una
collina di creta e sempre sul punto di scivolare in basso,
lungo i calanchi. Il giovane Pierro amava palazzo, Rabatana,
paese e collina. Soffrì quando dovette trasferirsi, per
continuare gli studi, prima a Taranto, poi a Salerno e a
Sulmona. Scappò più volte dai collegi. “A me piaceva leggere,
non studiare. Non ero un buon allievo”. Ma ebbe buoni
insegnanti, che lo capirono e aiutarono. “A Salerno, Felice
Villani, professore d’inglese, m’insegnò a capire la poesia. A
Sulmona, Mario Zangara mi spronò a coltivarla. Ha poi scritto
due libri su di me”. Ma dopo il primo anno di liceo, Albino
Pierro segue a Udine suo cugino Guido Capitolo e smette di
andare a scuola. “Finalmente potevo non far altro che leggere:
Benedetto Croce, i filosofi, letteratura straniera. I libri mi
arrivavano a pacchi”. In estate si trasferì in Carnia, presso
Tarvisio e conobbe Waldi, il montanaro. “Aveva fatto il giro
del mondo, conosceva dieci lingue, ma vestiva di stracci e
viveva di piccole commissioni, scriveva elogi funebri a
pagamento. Mi insegnò il tedesco, a capire il respiro della
natura. Mi innamorai violentemente d’una ragazza che, in
seguito, si fece suora. Passavo giornate nella soffitta di
Waldi a leggere le Confessioni di Sant’Agostino o la Bibbia in
tedesco. Quando andai via, Waldi volle portarmi la valigia
alla stazione. Aprì per me un passaggio nella neve, fino al
treno. Lo vidi sparire tra fiocchi di neve”. A Novara, presso
lontani parenti, ancora niente scuola, ma un nuovo interesse
(lo studio del pianoforte) e un nuovo amore: una ragazza
toscana che voleva far la cantante. “Per lei, per poterla
sposare, ero disposto anche a trovarmi un lavoro a Roma o a
Lanuvio, dove, nel frattempo, mi ero trasferito, ospite di mio
fratello”. Fortuna volle che la pulzella amasse il canto più
che Albino. Il quale ripiegò sullo studio, sino alla laurea.
Ormai viveva a Roma, “sempre in cerca d’un posto fisso per
mettere su famiglia”. Attraversò la guerra, “senza capire
niente, né allora né oggi, di storia e di politica. Anche se
recensii opere filosofiche per la Rassegna nazionale, scrissi
fiabe per il giornalino Balilla e una poesia per la morte del
figlio di Mussolini, Bruno: il dolore aveva colpito il
potente. In via Rasella ero appena passato, quando udii un
boato: scampai alla strage e al rastrellamento dei tedeschi,
sia allora sia in un’altra occasione, in via Nazionale”.
Pierro ricorda un’altra fuga: lui, la moglie e la figlia, in
bicicletta, in una Roma invasa da gente impaurita. Ma il resto
della guerra non gli pesò: frequentava centri culturali,
conobbe scienziati e letterati. E scriveva tanto. Ma in
italiano. “Non avevo mai pensato di usare il dialetto. Mi
accadde, senza averlo davvero deciso, il 23 settembre del
1959. Ogni anno tornavo a Tursi e quella volta fui costretto a
rientrare anticipatamente a Roma. E ne patii. Naque così, di
getto, la prima poesia in tursitano: Prima di parte, prima di
partire.Sei mesi dopo, era pronta la prima raccolta in
dialetto: A terra d’u ricorde”. Trent’ anni dopo, oggi, Pierro
resta senza spiegazioni su quell’evento. Dice: “i critici
cercano di capire com’è nata questa mia nuova lingua. Io non
lo so. C’era in me il disiderio di fare poesia e quello che mi
urgeva dentro nacque in dialetto. Ma la mia volontà, in
questo, non ebbe nessuna parte. Perché un giapponese scrive
versi in giapponese ?”. Sulla lingua scritta per la prima
volta da Pierro, il dipartimento di lingue di letterature
romane e della Scuola Nazionale ha pubblicato un’opera
constata sei, sette anni di lavoro: Le Concordanze. Qualcosa
come un dizionario costruito con l’elenco e il raffronto di
tutte le parole pubblicate nei libri di Pierro. Solo il Porta
e il Belli hanno avuto un simile omaggio. A Stoccolma
organizzarono una serata in suo onore, in occasione
dell’uscita del suo primo libro tradotto in svedese, nell’ 82.
Tre anni dopo, l’università della capitale scandinava lo
invitò a recitare le sue poesie, per due ore, in tursitano.
Una lezione, che registrata, ancora oggi è a disposizione
degli studuiosi. “Mi hanno detto che uno di loro ama recitare
una mia poesia, ma non in svedese, in tursitano”, confida
Pierro e poi se ne pente. “Non metta troppe cose, non scriva
troppo di me”, chide il poeta. “Non mi faccia apparire
vanitoso e diverso da quello che sono, un uomo che vive da
solitario, ma non solo: ho i miei libri”. La sua piccola casa
ne è piena. Don Albino continua la sua convivenza con la
malferma salute, al primo piano d’una palazzina di piazza
Ottavilla. Il suo unico cruccio: “Sono quasi due anni che non
riesco a Tursi. Il palazzo era rimasto danneggiato dal
terremoto ed è stato restaurato, non so ancora come. Al paese
non mi rimane alcun parente, ne sono morti tanti”. Ma proprio
le poesie di Don Albino ricordano che in quei paesi del Sud i
morti non sono mai completamente morti, finché accettano di
continuare ad esistere in forme più modeste (un insetto, il
vento, un qualcosa attorno ai vivi) e nel ricordo. E Tursi
stessa, che avrebbe rischiato la scomparsa senza che nessuno
ne sapesse niente “a Pietroburgo”, ora ha qualcosa per
esistere, essere segnalata. Prendete la carta turistica della
De Agostini. Poche località citate. Tursi c’è, per questa
ragione: “patria del più grande poeta dialettale
contemporaneo: Albino Pierro”.
Pino Aprile