Relazione introduttiva di Luigi Campiglio

Transcript

Relazione introduttiva di Luigi Campiglio
LE STRATEGIE DELLA COMPETIZIONE
Relazione introduttiva di:
Luigi Campiglio
Pro-rettore Università Cattolica del Sacro Cuore
Villa Rufolo
22 – 23 LUGLIO 2005
COESIONE E COMPETIZIONE
Sussidiarietà e qualità:
Il territorio tra imprese, istituzioni e comunità
1. Concorrenza, varietà e qualità
La concorrenza fra imprese è, in misura crescente, una scelta strategica sull’ampiezza della varietà
di prodotti e servizi che meglio rispecchia la diversità di preferenze e potere di acquisto dei
consumatori: l’impresa produce e offre una molteplicità di versioni di un dato bene, e la
concorrenza di prezzo in un mercato con un prodotto omogeneo è in realtà una concorrenza sulla
miglior combinazione prezzo-qualità. Una differenziazione dei beni che risponda a un effettivo
bisogno del consumatore equivale alla creazione di nuovi prodotti per nuovi mercati, cioè la strada
maestra per la crescita dell’impresa e dell’economia. E’ quindi plausibile ipotizzare che la
competizione fra imprese generi una varietà elevata, spesso crescente, con un incessante
sostituzione dei modelli offerti.
Abbiamo misurato la varietà offerta nel mercato dell’auto in Italia, identificando ciascuna marcamodello-versione offerta (ad esempio Fiat Punto 1.2. Dynamic) e le indicazioni emerse confermano
l’esistenza di una elevata varietà di versioni che, in questo mercato, risulta anche crescente. Il
numero di versioni offerte sul mercato automobilistico italiano era, nel 2001, di circa 3.000 unità,
mentre era di poco più di 2.100 unità nel 1996: nel giro di soli cinque anni la “varietà” offerta è
aumentata del +38 percento. Il fenomeno non riguarda solo le automobili: per i veicoli
commerciali, infatti, la “varietà” delle versioni offerte è aumentata da poco più di 1.200 nel 1996, a
poco più di 2.100 nel 2001, con un aumento del +72 percento. Le versioni proposte sono altresì
soggette a frequenti modifiche: ad esempio nel mercato dell’auto il numero di modifiche alle
versioni esistenti – pari a circa 3.000 – è stato di circa 8.700: cioè in media quasi 3 modifiche per
ciascuna versione offerta sul mercato (Campiglio, 2002).
Una grande catena di supermercati offre migliaia di beni (si stima 40 mila nel caso di Walmart) e
per una di queste abbiamo stimato il turnover di prodotti sugli scaffali, mese per mese nel biennio
1999-2000. Ponendo uguale a 100 il numero di riferimenti di prodotto all’inizio di ciascun anno
(escludendo i prodotti stagionali), il 18 percento era stato cancellato e il 25-30 percento introdotto
come nuova offerta nel corso dell’anno. Anche in questo caso la varietà di beni offerti è in aumento
e il tasso di sostituzione dei beni offerti è elevato. In questo caso il concetto di varietà è più ampio e
si riferisce sia a diversi prodotti che alla diversificazione del medesimo prodotto.
Nel confronto fra paesi emerge altresì una relazione significativa fra varietà dei prodotti e livello
produttività totale dei fattori: vi sono altresì indicazioni sull’esistenza di un legame significativo fra
il tasso di crescita della varietà dei prodotti e la il tasso di crescita sulla produttività totale dei fattori
(Addison, 2002).
La varietà dei prodotti si incrocia con la varietà dei territori su cui operano le imprese produttrici:
l’esistenza di un legame forte fra varietà di un prodotto e un dato territorio è all’origine dei distretti
industriali e della loro specializzazione produttiva. L’origine del vantaggio competitivo di un
territorio può risiedere in caratteristiche ambientali oppure nel patrimonio di risorse e tradizioni che
ne definiscono la tradizione.
2. Varietà, qualità, valore aggiunto e prezzo
La qualità di un bene rappresenta un insieme di caratteristiche che il consumatore riconosce come
utili e per le quali è disposto a pagare un prezzo aggiuntivo: in questo senso il concetto di qualità di
un bene, misurata attraverso le sue caratteristiche, si sovrappone, ma non coincide, con quello di
varietà. Il legame fra prezzo e qualità è significativo ma incerto e, come molte indagini dimostrano,
un prezzo più elevato non è una condizione sufficiente a garantire una maggiore qualità:
l’incertezza informativa sulla relazione prezzo-qualità può essere diminuita in molti modi, come ad
esempio una politica di marchio o indagini del tipo condotte da Altroconsumo. La maggiore qualità
che trova come conferma la scelta dei consumatori può invece consentire un maggior livello di
prezzo.
Per rappresentare in modo chiaro la rilevanza del concetto in discussione abbiamo considerato circa
160 versioni di auto, nel mercato italiano, di cui abbiamo calcolato il prezzo al chilo e per cm cubo
in modo da individuare l’esistenza di una relazione fra prezzo e due caratteristiche qualitative, il
peso e la cilindrata. Come emerge dai grafici la dispersione di punti è interpolata, in entrambi i casi,
da un retta crescente, il che pone la questione di spiegare la differenza di prezzo rispetto a una retta
parallela all’asse delle ascisse (e intercetta per le versioni con il prezzo più basso). Nel caso del peso
e del prezzo al chilo, le auto più pesanti (BMW) stanno in un rapporto di 1:4 rispetto alle auto più
leggere (Fiat 600), mentre per quanto riguarda la cilindrata – una centrale caratteristica qualitativa –
il rapporto diminuisce, ma non di molto, a 1:2,5. In questi casi la differenza di prezzo rappresenta
un premio di qualità, aggiuntivo rispetto al peso e alla cilindrata: una delle possibili misurazioni e
spiegazioni del premio di qualità è rappresentato dalla spesa per Ricerca e Sviluppo. In media la
Fiat spende circa 900 euro di Ricerca e Sviluppo rispetto a 3700 euro della BMW, quindi con un
rapporto di circa 1:4, un valore del medesimo ordine di grandezza del rapporto in base al peso. Fiat
e BMW non sono in realtà concorrenti nel medesimo mercato: le auto Fiat dipendono dalla
concorrenza di prezzo molto di più di quanto avvenga per la BMW, che opera in un segmento di
mercato molto più orientato sulla qualità, riconosciuto dal mercato sotto forma di un premio di
prezzo. Il premio di prezzo per la qualità prende la forma di una combinazione di capitale e lavoro
ad elevata qualificazione, difficilmente copiabile dalle imprese concorrenti: il premio di qualità è
ciò che consente all’impresa di praticare un prezzo più elevato, con una più vantaggiosa ragione di
scambio negli scambi con l’estero a cui si accompagna la conservazione o il guadagno della propria
quota nel mercato mondiale. I differenziali internazionali nei livelli di produttività, normalmente
calcolati sulla base del valore aggiunto per occupato, rispecchiano perciò più un differenziale di
qualità, e del suo valore monetario, molto più che un differenziale di quantità per prodotti
omogenei.
Nel confronto internazionale fra paesi – in particolare fra sviluppati e non - si osserva una relazione
positiva fra livello dei prezzi e prodotto pro-capite, perché nei paesi più sviluppati è più elevato il
livello di produttività per i beni commerciabili, il cui prezzo è uguale a livello mondiale: sulla base
della precedente interpretazione possiamo anche affermare che il più elevato livello dei prezzi nei
paesi sviluppati rispecchia un più elevato premio di qualità, in particolare sotto forma di
investimenti in Ricerca e Sviluppo. Lo scambio internazionale di merci e servizi fra paesi sviluppati
e in via di sviluppo – come fra Italia e Cina - è reciprocamente vantaggioso se il differenziale
relativo di salari è più che compensato da un differenziale relativo di produttività. Questo modello
di scambio internazionale può tuttavia essere messo in crisi dal fatto che il paese in via di sviluppo
registri un forte aumento di produttività per i beni in cui il paese possiede un vantaggio comparato,
pur mantenendo basso il livello dei salari, importando la miglior tecnologia disponibile dai paesi
sviluppati (nel tessile) e utilizzando elevati livelli di qualità per l’abbigliamento. E’ in corso un
ridisegno della divisione internazionale del lavoro nel cui ambito le imprese occidentali possono
con successo riposizionarsi nei segmenti produttivi e di domanda con un maggior premio di qualità,
come avviene per il cosiddetto tessile tecnico (geotech, medtech, etc). La qualità dei prodotti da
parte della singola impresa – che possiamo chiamare la qualità privata - non può essere separata
dalla qualità sociale dell’ambiente in cui l’impresa opera.
3. Imprenditorialità e capitale sociale
Il mercato è una rete di relazioni e scambi caratterizzata da nodi e spigoli, come le città e le strade,
con le caratteristiche di un bene pubblico: il concetto di rete è tuttavia più molto più ampio di quello
di mercato, perché include anche tutte le relazioni sociali non mediate da un prezzo di mercato,
come ad esempio le relazioni di parentela e di fiducia. Il concetto di capitale sociale intende
sintetizzare l’importanza e il funzionamento delle reti sociali, sia pure con differenti prospettive: si
tratta infatti di una forma molto particolare di capitale, e vi è infatti chi ritiene inappropriato il suo
utilizzo, perché, come ha suggerito Hirschman nel caso della fiducia, il capitale sociale aumenta di
valore quanto più è usato, anziché diminuire come avviene per il capitale fisico.
Nell’analisi che segue proponiamo di includere l’imprenditorialità nel dominio di discussione,
ipotizzando un legame positivo fra imprenditorialità e capitale sociale. Sul piano della razionalità
economica non vi è un motivo per cui una piccola impresa debba pagare i propri debiti, dati i tempi
di attesa del giustizia civile italiana e la possibilità di ricominciare la propria attività sotto diverso
nome, senza troppo ostacoli, proprio perché si tratta di un piccola impresa. Ma con ciò si trascura
l’importanza delle cosiddette virtù civiche nel processo di crescita e sviluppo e l’importanza del
giudizio della comunità alla quale si appartiene. La rete di relazioni sociali locali che sta alla base
delle virtù civiche è la medesima che rende normale il comportamento di pagare i propri debiti: la
nostra ipotesi è che la medesima rete sia alla base dell’imprenditorialità e dello sviluppo economico.
L’intuizione è che la rete o il capitale sociale rappresenti una forma di implicita assicurazione
sociale, riduca il rischio e l’incertezza dei rapporti, migliori i flussi informativi, promuova la
capacità di sviluppo e crescita della comunità in rete.
Per misurare la caratteristiche di questa rete abbiamo analizzato per ogni provincia, sulla base dei
dati del Censimento 2001, l’occupazione nel settore privato e pubblico (agricoltura esclusa) e
abbiamo ricostruito l’occupazione effettiva come somma dell’occupazione complessiva delle
imprese con sede in provincia, meno l’occupazione esportata al di fuori della provincia, più
l’occupazione importata da imprese di altre province. Abbiamo chiamato occupazione interna il
numero di occupati nella provincia generati da imprese che hanno la propria sede nella provincia
stessa: l’occupazione interna, opportunamente normalizzata, rappresenta una possibile misura della
forza della rete o capitale sociale locale. I grafici allegati chiarificano il legame fra queste grandezze
nel caso di Milano e Roma, distinguendo fra imprese e istituzioni.
I risultati di questa analisi sono molteplici e ci limitiamo ad evidenziare quelli che segnalano
l’esistenza di rapporti fra imprenditorialità, capitale sociale e sviluppo economico. L’occupazione
interna per 100 abitanti – la misura proposta di imprenditorialità – è fortemente correlata con il
livello del valore aggiunto pro-capite: se consideriamo le province come comunità di relazioni
questa relazione suggerisce che il più elevato livello di valore aggiunto pro-capite di una provincia è
il risultato della sua capacità autopropulsiva. Milano, Modena, Prato, Vicenza e Reggio Emilia sono
fra le province che figurano al vertice di questa graduatoria. Questo risultato è ulteriormente
confermato e qualificato dall’occupazione esportata, anch’essa positivamente correlata (in misura
meno forte) con il livello del valore aggiunto pro-capite, registrando come prime province
esportatrici di lavoro al di fuori della provincia, Milano, Roma, Torino, Trieste, Reggio Emilia. Il
legame statistico fra valore aggiunto pro-capite e occupazione importata – o attratta dall’esterno
della provincia – è invece negativo.
L’organizzazione di questi risultati fa emergere le caratteristiche di un processo di crescita che è
fortemente legato alla presenza di reti di rapporti sociali sufficientemente forti da consentire
l’emergere di una robusta imprenditorialità, anch’essa espressione del capitale sociale, tale da
promuovere una crescita autopropulsiva delle imprese che operano in comunità dotate di maggiori
virtù civiche. L’esportazione di occupazione al di fuori della provincia che si accompagni a una
espansione produttiva è una conseguenza positiva di questo processo.
4. Giovani, qualità sociale e sviluppo
I giovani, con il loro potenziale di energia e creatività, rappresentano la risorsa più preziosa e scarsa
del nostro paese, il fondamento del vantaggio comparato di qualità e produttività nella competizione
internazionale. L’eguaglianza delle opportunità per i giovani rappresenta uno dei fondamenti delle
moderne democrazie, coniugando la libertà di ciascuno di esprimere al meglio le sue capacità, con il
merito e l’efficienza del mercato: nelle riflessioni più avanzate, in particolare negli Stati Uniti e in
Gran Bretagna lo strumento proposto è quello di fornire a tutti i giovani, alla maggiore età, una
dotazione iniziale di risorse, finanziata con un’imposta sulle eredità oppure ritagliando uno spazio
nella finanza pubblica. Il problema centrale di queste proposte è rappresentato dal fatto che alla
maggiore età la gran parte della formazione fisica, educativa ed umana si è già compiuta: un
genuino progetto di eguaglianza di opportunità è tanto più efficace quanto più le risorse si
distribuiscono fino dal momento della nascita, sia direttamente ai bambini e ai ragazzi, sia
indirettamente attraverso una maggiore disponibilità economica delle famiglie in cui vivono. Da un
confronto internazionale della povertà infantile, recentemente realizzato dall’Unicef, emerge che
l’incidenza della povertà è minima per i paesi nordici (il 2,4 percento in Danimarca) ed invece
massima per l’Italia, gli Stati Uniti e il Messico: in Italia la percentuale di minori che vivono in
condizioni di povertà relativa è pari al 16,6 percento, e al 20 percento secondo una definizione di
povertà basata sul risparmio negativo e il probabile indebitamento (il numero di minori in Italia è di
circa 10 milioni). Nel corso degli anni ’90 il tasso di povertà per i minorenni è migliorato in Gran
Bretagna ( - 3,1 punti), mentre è peggiorato in Italia ( + 2,6 punti), con un massimo in Polonia.
Sulla base di queste indicazioni emerge chiaramente che l’Italia si sta allontanando, e non certo
avvicinando, all’ideale democratico di un’effettiva eguaglianza delle opportunità. Il problema
appare ancora più urgente quando si consideri l’allocazione della spesa sociale: in Italia la quota
destinata a bambini e famiglia è pari a circa l’1 percento del Pil, mentre è del 2,7 e del 3 percento in
Francia e Germania. Il divario è in realtà ancora più ampio perché non tiene conto della fiscalità a
favore della famiglia: in Francia, in particolare, dal II dopoguerra è stato introdotto il meccanismo
del quoziente familiare che risponde in modo semplice e comprensibile al problema dell’equità
orizzontale, in Italia invece ancora irrisolto. Una stima recente sul costo dell’introduzione del
meccanismo del quoziente in Italia è di circa 18 miliardi di euro. Nel complesso possiamo stimare
che un significativo miglioramento della qualità sociale per i minorenni richiede una riallocazione
di risorse pari a circa 4 punti di Prodotto interno lordo: si tratta di un politica di riequilibrio sul
piano dell’equità che possiede anche la rara qualità di essere anche una manovra che migliora
l’efficienza dell’economia, perché la gran parte dei benefici andrebbero a favore di famiglie con
basso reddito ed elevata propensione al consumo. Ma il perseguire un effettiva eguaglianza di
opportunità può portare a sostanziali benefici di lungo termine, in particolare sul piano educativo:
forse non casualmente, Italia, Stati Uniti e Messico figurano (con la Polonia) agli ultimi posti nella
graduatoria dei test PISA per la matematica. Il problema, comune ai paesi europei ma
particolarmente acuto in Italia, rimanda a una questione più generale e cioè il come risolvere il
problema della rappresentanza dei minori in economie moderne, nelle quali il voto rappresenta non
solo una domanda di partecipazione attiva ma anche un implicito diritto sul dividendo sociale della
cooperazione economica.