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PERDUTAMENTE
© Domenico Paladino - Perdutamente
Chimera Editore
Viale Bligny, 44 - 20136 Milano
[email protected]
Domenico Paladino
PERDUTAMENTE
Ringrazio con riconoscenza la mia Giulia
per il suo prezioso lavoro di revisione
e per la sua illuminata consulenza.
ANTEFATTO
(Sintesi del romanzo "Forte come la morte è l'amore"
che precede quello qui pubblicato)
Galles meridionale (Inghilterra), anno 1910. Due adolescenti,
Olivia Acheson e Gordon Blackwell, dopo i giochi dell'infanzia trascorsa insieme nelle campagne adiacenti alla cittadina mineraria di
Abertillery, crescendo, si sono innamorati. Lei é appartenente ad una
nobile famiglia proprietaria delle vicine miniere; lui è figlio di un agricoltore che in passato faceva il minatore. A causa del dislivello sociale ed economico esistente fra loro, la romantica storia che essi stanno
vivendo è fortemente ostacolata dalla famiglia di lei, guidata
(dopo la morte del padre) dallo zio Lewis, tutore di Olivia e di suo fratello James, e amante della loro madre Michelle.
Lewis è un donnaiolo raffinato e supponente e mira al patrimonio di Michelle. Per indurre Gordon ad allontanarsi da Olivia, lo fa
bastonare da suoi uomini prezzolati. Poi, vedendo che i due adolescenti persistono nei loro incontri, fa uccidere le pecore dei Blackwell
e, infine, manda Olivia a studiare in un famoso collegio, nei pressi di
Londra.
Per sfuggire a quella persecuzione, anche Gordon lascia
Abertillery e si reca presso una sorella del padre, Hetty, trentaseienne,
armatrice di Cardiff, che si invaghisce di lui, gli offre un lavoro e gli fa
proseguire gli studi di pianoforte iniziati fin da quando era ragazzo.
Nello sviluppo degli avvenimenti, poiché l'amore dei due
ragazzi è appassionato e tenace, Olivia viene viene ulteriormente
allontanata: è, infatti, inviata in Scozia (settembre 1912), presso la zia
paterna Rachel, sposata ad un nobile di Haddington. Nel loro castello, durante una festa (gennaio 1913), incontra un giovane lord scozzese, Al Hume, che si innamora di lei e comincia a corteggiarla. Olivia
gli chiarisce che il suo cuore é impegnato, ma il giovane insiste testardamente nei suoi tentativi. Con l'aiuto della sua istitutrice, riesce infatti ad incontrarsi con lei e giunge a presentarla ai suoi genitori. Anche
la madre di Olivia giunge appositamente ad Haddington per indurre la
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figlia a fidanzarsi con Al Hume e, di fronte alla sua resistenza, la rimprovera aspramente della sua infatuazione per un giovane, quale è
Gordon, inferiore a lei per livello sociale ed economico. Di fronte a
quella prospettiva, Olivia scrive a Gordon e lo supplica di venire a
prenderla per fuggire insieme.
Gordon la raggiunge infatti e fugge con lei ad Edimburgo
(marzo 1913). Trascorrono insieme una dolcissima notte d'amore e poi
si imbarcano su un piroscafo in partenza per New York. Ma lo zio
Lewis viene informato in tempo del progetto e fa separare i due fuggiaschi da suoi sicari, prima della partenza. Gordon è violentemente
colpito alla testa e lasciato tramortito nella sua cabina. Olivia viene
invece riportata nel castello scozzese degli zii.
Gordon, che ormai ha 19 anni, arriva malconcio a New York
(aprile 1913) ed è ricoverato in ospedale. Là, viene raggiunto dalla zia
Hetty, donna passionale e determinata, ricca di vitalità, che si prende
cura di lui. Lo assiste e, dopo la sua guarigione, gli trova una casa e
un lavoro, gli procura un pianoforte per farlo studiare nelle ore libere
e, infine, gli ottiene un'audizione per un concerto. Gordon è fedele ad
Olivia che ama profondamente. Ma non riesce ad arginare la passionalità di Hetty ed ha con lei un ardente rapporto carnale. Poco dopo,
zia Hetty è costretta dai suoi affari a rientrare in Inghilterra; ma ha
affidato Gordon in buone mani. Infatti, il giovane riesce ad esibirsi al
pianoforte in un concerto che ha luogo, nel novembre 1913, alla
Carnegie Hall. Si tratta del terzo concerto pianistico di Gordon.
Infatti, nel gennaio 1912, aveva suonato al circolo minerario di
Pontypool e, nel novembre successivo, in un teatro di Cardiff. A New
York, gli amici di Hetty gli procurano inoltre un ingaggio presso l'orchestra stabile di un elegante ritrovo notturno e l'iscrizione ad una
scuola di composizione.
Nel castello degli zii, Olivia vive, nel frattempo, giorni di
apprensione per la sorte di Gordon e versa amare lacrime sul loro
legame spezzato. Fortunatamente, con l'aiuto di una cameriera, riesce
a stabilire con lui uno scambio di corrispondenza. Intanto, Al Hume si
ripresenta per comunicarle che si è recato ad Abertillery ed ha chiesto
ed ottenuto da lady Michelle la sua mano. Perciò, desidera esercitare
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i suoi diritti di fidanzato e intrattenersi con lei in frequenti visite. Per
sfuggire a tale situazione, Olivia riesce ad ottenere dalla madre il permesso di rientrare ad Abertillery(dicembre 1913). Ma Al Hume acquista una tenuta limitrofa alla proprietà degli Acheson e va a farle visita (febbraio 1914) informandola che intende proseguire la loro relazione di fidanzamento. Lei gli conferma la propria ferma opposizione
al matrimonio e provoca la sua ira. Il giorno dopo, lui le chiede di far
visita alla sua nuova casa e, quando sono soli in camera da letto, le
usa violenza con la speranza di concepire un figlio e obbligarla così al
matrimonio.
Olivia è terribilmente colpita: non rimane incinta ma, a causa
del trauma subito, si ammala. Suo fratello James avverte allora
Gordon il quale rientra precipitosamente dagli Stati Uniti (maggio
1914). Con l'aiuto del fratello James, si incontra con Olivia e, segretamente, concorda con lei di imbarcarsi per l'America nel prossimo
agosto.
Ma il destino è in agguato: lui viene chiamato alle armi ed è
inviato (agosto 1914) a frequentare un corso ufficiali (ha infatti completato gli studi scolastici superiori). Nel frattempo, scoppia la 1a
guerra mondiale. Lo scenario cambia perciò completamente: Gordon
è destinato al fronte, in Francia (febbraio 1915) e incontra due persone che avranno un gran peso sulla sua vita: il capitano Dorian Heston,
un uomo di circa trent'anni ricco di interiorità, ed il tenente Alexander
Kennedy. Nel corso di ripetute operazioni belliche, Gordon approfondisce la conoscenza di questi due uomini. Prova una profonda ammirazione per il suo capitano e si accorge che è veramente un uomo
superiore. Con Alexander Kennedy, invece, gli inizi sono burrascosi a
causa del suo carattere altezzoso. Ma poi, accomunati dall'esercizio
del dovere e dalla fratellanza d'armi, i due giovani diventano amici.
Nel luglio 1916, in occasione di una breve licenza, Alexander
Kennedy invita il compagno d'armi a trascorrere qualche giorno insieme nella sua tenuta. Gordon aderisce perché anche lui vuol recarsi, in
quel periodo di riposo, nella stessa zona, per far visita alla sua famiglia e ad Olivia. Giunto ad Abertillery, si incontra infatti con lei. E, nel
loro rifugio segreto nel bosco, essi si amano intimamente. Quindi,
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decidono di sposarsi in segreto l'indomani. Sennonché, nel pomeriggio
dello stesso giorno, Gordon si rende conto che il suo amico altri non è
che Al Hume, il fidanzato ufficiale di Olivia.
L'equivoco è stato provocato dal fatto che Al ha due cognomi (Hume e
Kennedy) e che, secondo le tradizioni della sua casata, indica il primo
nei rapporti confidenziali e il secondo in quelli ufficiali. In sostanza,
entrambi amano la stessa donna. Il chiarimento che ne segue è aspro
e sconfina in un solitario duello rusticano con la spada, di notte, sotto
la pioggia. Gordon, sbollita l'ira, cerca soltanto di difendersi perché
odia la violenza. Ma, accidentalmente, Alexander, nella propria foga,
va ad infilzarsi sulla sua spada; e, purtroppo, muore sul colpo.
Gordon, inorridito, fugge e lascia Abertillery dopo aver scritto
una lettera a Olivia. Purtroppo, l'uccisione di Alexander ha gettato
uno scompiglio nei loro piani. E, nella disperazione del momento,
Gordon, con quella lettera, le dice di sentirsi ormai indegno di lei e la
prega di dimenticarlo. Olivia, sconvolta, gli risponde invocandolo di
non lasciarla. Intanto, nell'inchiesta che segue la morte di Alexander,
Gordon viene inquisito perché sussistono dei sospetti a suo carico.
Dopo qualche mese, però, è assolto per la mancanza di decisivi elementi di colpevolezza.
Ma il suo rimorso per l'uccisione dell'amico è devastante.
Perciò, nel rispondere finalmente alle tante lettere di lei, le confessa
che è sopraffatto dal dolore di aver soppresso una vita e che non potrà
più vivere in modo normale, sereno. Dovrà invece espiare la sua colpa
con la preghiera e la penitenza. E, per questo, le chiede di lasciarlo al
suo destino e di non scrivergli mai più.
Nel frattempo, è ritornato al suo reparto e partecipa a nuovi
fatti d'armi. Un giorno (luglio 1917), nel corso di un attacco, il suo
capitano, Dorian Heston, viene colpito da una bomba di mortaio.
Gordon se lo carica sulle spalle e lo porta in ospedale. Dorian sopravvive ma rimane paralizzato e viene rimpatriato.
Finalmente, nel novembre 1918, la guerra finisce. Gordon,
ormai ventiquattrenne, esce stordito da quella esperienza di violenza e
di morte. Ignora che, nel frattempo, Olivia ha dato alla luce, in Scozia,
un bambino al quale ha dato il nome di Nicholas. È il frutto del loro
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incontro d'amore avvenuto in quel fatale pomeriggio di luglio del
1916, poche ore prima che Gordon uccidesse Alexander in duello. E ,
così pure, Gordon ignora che Olivia si è fidanzata, fin dal luglio 1918,
con un giovane nobile di Abergavenny, un paese vicino ad Abertillery.
Ignaro, va a trovarla, nel gennaio 1919, perché, dopo più di due anni,
il rimorso per la morte di Alexander si è attenuato e il suo amore per
lei è rifluito prepotentemente. Il loro incontro nel bosco, all'insaputa
della famiglia Acheson, è doloroso: lei lo rimprovera di averla abbandonata senza speranza e lo informa del suo nuovo legame. Lui, nella
propria resipiscenza, non riesce ad accettare il fatto di averla perduta. Si lasciano, entrambi col cuore spezzato perché ormai non è più
possibile ritornare indietro; e lei si allontana senza avergli rivelato
che è padre di un bambino nato dal loro sfortunato amore.
Col cuore oppresso da quella separazione, Gordon si reca a
trovare il suo capitano che giace paralizzato nella sua monumentale
villa di Abingdon, nell'Oxfordshire. Lord Dorian Heston é commosso
nel rivederlo e lo invita a lavorare per lui nella sua importante industria laniera. Poco tempo dopo (aprile 1919), Dorian viene operato a
Londra: gli viene estratta dalla colonna vertebrale una parte delle
numerose schegge che bloccavano le sue attività motorie. Riacquista
così i movimenti ma l'uso delle gambe e delle mani è tuttavia stentato,
per cui riesce a camminare lentamente solo con l'uso di due bastoni.
Una sera (settembre 1919), aderendo ad un invito, si reca ad
un ricevimento, a Londra, dove incontra vari suoi amici. Con loro, si
trattiene poi al circolo di cui sono soci. Giocano a carte, quindi uno di
loro lo invita ad andare a far visita ad una casa di piacere per signori. Lui però si sente goffo e rifiuta. Si ritira in albergo ma, poco dopo,
qualcuno bussa alla porta della sua camera. Va ad aprire e si trova di
fronte una donna molto seducente che gli dice di chiamarsi Atlanta e
di essere stata inviata dai suoi amici per tenergli compagnia.
È alta, flessuosa, ha straordinari occhi blu e lunghi capelli
color rosso naturale. Lui, prima non comprende, poi si rende conto che
è una delle ragazze della casa di piacere. Seguendo la propria natura
gentile, è pieno di riguardi nei suoi confronti, al punto da stupirla, poi
ha con lei un rapporto intimo intenso e prolungato. E, quando Atlanta
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se ne va, si accorge di essere stato colpito dal suo fascino e dal suo
garbo e desidera rivederla.
Intanto, Gordon, avvalendosi delle numerose conoscenze di
zia Hetty , ha notizie di un illustre clinico di New York che ha già
eseguito con successo delicati interventi riabilitativi. Nel caso di
Dorian, si tratta di estrarre, dal midollo della sua colonna vertebrale, tre schegge residue che non è stato possibile rimuovere nel
primo intervento, per evitare danni irreparabili. In caso di riuscita,
Dorian riacquisterebbe il regolare uso delle gambe. Interpellato, il
professore americano acconsente ad eseguire la nuova operazione
nel prossimo dicembre 1919.
Nel frattempo, Gordon, per interessamento di Dorian, ha ripreso ad esercitarsi al piano, sotto la guida di un professore di musica, in
previsione di un concerto nel quale, in virtù delle conoscenze del suo
protettore, dovrà esibirsi a Londra nella prossima stagione sinfonica.
Prima di partire per New York, Dorian desidera rivedere
Atlanta e si reca a farle visita nella casa di piacere di madame Corolly.
Là, apprende che ama il canto; e, infatti, l'ascolta emozionato mentre
si esibisce, di fronte agli ospiti della casa, in alcune canzoni d'amore,
dando prova di una voce soffice e melodiosa. Si trattiene quindi con lei
nella sua camera amandola e parlandole delicatamente. Si sente molto
attratto dalla sua figura seducente e dalla sua personalità composta e
riservata. Le promette perciò di procurarle un maestro e di lanciarla
nel mondo della canzone.
In ottobre, Dorian e Gordon partono per New York. E, durante la traversata, Gordon incontra inaspettatamente, sul transatlantico,
Olivia. Alla sua profonda emozione si aggiunge, subito dopo, un violento dolore. Infatti, lei gli rivela di essersi sposata e di essere diretta
a Washington dove suo marito prenderà servizio quale addetto di
ambasciata.
Dorian viene operato: il primario americano gli estrae dal
midollo le residue tre schegge che impedivano i regolari movimenti
delle gambe e, in parte, delle mani. I progressi sono evidenti e, a
distanza di un mese, la ricrescita dei nervi recisi dallo scoppio avvia
Dorian verso una graduale ma sicura guarigione. Gordon ne appro12
fitta per recarsi a Washington (marzo 1920). Riesce a localizzare l'abitazione di Olivia, si apposta nelle vicinanze, la vede uscire e, per la
strada, le va incontro. Si appartano emozionati in un bar dove lei gli
rivela di aver avuto da lui un figlio che, però, suo marito Lloyd, nonostante una iniziale promessa prematrimoniale, non vuole ora tenere
in casa. Perciò, il piccolo Nicholas, che ha tre anni, è rimasto con la
nonna Michelle ad Abertillery. Gordon si infiamma e le chiede che il
bambino gli sia affidato. L'incontro con Olivia, a parte quella
prodigiosa rivelazione, ha riaperto nel suo cuore una ferita
mai rimarginata. Ma anche lei, che ora ha quasi ventiquattro
anni, sembra ancora innamorata. Infatti, così come aveva fatto
sul trantlantico, anche in quel secondo incontro, prima di
lasciarlo, lo bacia con forza sulle labbra.
Al ritorno in Inghilterra (maggio 1920), Gordon si reca a far
visita a nonna Michelle, ad Abertillery, e le chiede di affidargli suo
figlio Nicholas. Lei è addolorata ma comprende che non può sottrarsi
a quell'obbligo. Insieme, però, concordano che quel trapasso abbia
luogo in prosieguo di tempo, dopo che il bambino avrà preso sufficiente confidenza con lui. Gordon ritorna al suo abituale lavoro di
segretario di Dorian ma trova anche il tempo per studiare musica e per
sostenere un'audizione all'Albert Hall, in vista di un prossimo concerto.
Dorian, invece, apprende che Atlanta non lavora più nella casa di
madame Corolly. Riesce ad avere il suo nuovo indirizzo e va a trovarla. Le propone di trascorrere il resto della serata con lui. Lei aderisce
ma gli ricorda che dovrà accordarsi con la nuova maitresse. Dorian
comprende, e soddisfa le richieste della donna. Trascorrono così una
serata romantica e, più tardi, una notte ideale in un grande albergo del
centro. Qualche giorno dopo, lui l'accompagna ad un'audizione, come
le aveva promesso. Viene ascoltata dal direttore del "Drury Lane
Theatre” che le promette una scrittura, dopo un adeguato periodo di
perfezionamento vocale presso una scuola di canto da lui stesso indicatagli.
Da parte sua, Gordon frequenta il palazzo degli Acheson, ad
Abertillery, per far visita a suo figlio. Poi, nel marzo 1921, si esibisce
in un concerto pianistico all'Albert Hall di Londra riscuotendo un
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notevole successo. Ma, invece di sfruttare la notorietà così conseguita, decide di partire col piccolo Nicholas per portarlo a sua madre, a
Washington. È tormentato dal ricordo di lei e sente che, ancora,
nonostante tutto, sono tutti e due legati da un dolcissimo, implacabile, reciproco amore.
Così, nell'aprile 1921, si imbarca, con Nicholas, alla volta
degli Stati Uniti d'America. Giunge a Washington alla fine di maggio,
prende in fitto un appartamento, assume una domestica per accudire
Nicholas e si mette alla ricerca di un lavoro. Dopo aver esibito le sue
referenze, riesce ad essere assunto, come pianista, dalla National
Symphony Orchestra. Completata, in quel modo, la propria sistemazione, si reca, un giorno, con Nicholas, ad attendere Olivia nei pressi della sua casa. La gioia di lei è straripante. Gordon conduce madre
e figlio nella propria abitazione, che non è distante; ed ha la sensazione di trovarsi con la sua famiglia. Da quel giorno, Olivia va spesso a trovarlo per rivedere il proprio bambino ma anche per trattenersi con lui. Gordon rispetta il suo stato matrimoniale e si astiene dal
ricercare qualsiasi intimità fra loro. Ma è lei stessa che, talvolta, si
sporge a baciarlo, spinta da un amore che il loro incontro e la loro
vicinanza ha acuito.
Intanto, in Inghilterra, Dorian, al rientro da un viaggio di lavoro, apprende che Atlanta è stata trasferita ad una casa di piacere di
Southampton. Va a prenderla e, pagando una penale alla tenutaria, la
conduce con sé per un soggiorno di una settimana nella propria monumentale villa di Abingdon. È ormai decisamente innamorato di quella
donna lunare e conturbante che, con la sua dignitosa compostezza,
non lascia intuire lo squallore della propria vita. Lei accetta garbatamente le sue attenzioni e il suo trasporto amoroso ma si dimostra scettica e pensa che l'amore sgorgante di Dorian sia, in effetti, solo un'infatuazione passeggera. Sta al gioco ma non si fa illusioni. Trascorrono
insieme ore d'amore e di comunione, poi, nel corso di quella stessa settimana, lei viene convocata dal Direttore del " Drury Lane Theatre
Royal " il quale, come le aveva promesso, la scrittura per una commedia musicale. Nel prendere congedo al termine della settimana trascorsa insieme, Atlanta esprime a Dorian la sua gratitudine ricono14
scendo che è per lei un vero amico.
Nel frattempo, a Washington, Olivia frequenta assiduamente la
casa di Gordon per trattenersi col suo bambino, scegliendo le ore in
cui suo marito Lloyd è assente per il proprio lavoro all'Ambasciata
britannica. Deve ammettere che è un buon marito, retto, avveduto,
tutto dedito al lavoro e alla famiglia. Tuttavia, ha un carattere intransigente e di difficile accesso. Nella sua linearità, lei sente che quella
situazione irregolare non può trascinarsi oltre e decide di parlargliene. Gli rivela, un giorno, la presenza del suo bambino in quella città
e gli chiede di tenerlo con loro. Lui le risponde che si tratta del figlio
di un altro e che ragioni di decoro e di prestigio non gli consentono
di accoglierlo. Ne segue una discussione, al termine della quale
Olivia decide di abbandonarlo. Perciò, l'indomani, mentre Lloyd è al
lavoro, lascia la sua casa coniugale e va a vivere con Gordon.
Insieme, ritrovano l'amore e la passione di un tempo ma, tuttavia,
sentono il peso della irregolarità della loro situazione. Venti giorni
dopo, nel timore di essere rintracciati, traslocano e vanno ad abitare
in una cittadina dei dintorni.
Intanto, in Inghilterra, l'amore di Dorian per Atlanta è sempre
vivo e palpitante, nonostante lei cerchi di dissuaderlo ricordandogli
che è soltanto una donna per il sesso a pagamento. Lui acquista a
Londra un lussuoso attico nel quale la conduce per i loro incontri.
Poi, nel marzo 1921, Atlanta debutta in una commedia musicale e
riscuote un convinto successo personale come cantante. Perciò, decide di lasciare la casa di piacere in cui lavora e di limitarsi solo a prestazioni saltuarie. In seguito, viene scritturata per il ruolo di protagonista di una nuova commedia musicale e continua ad incontrarsi
con Dorian fino a che lui le chiede di sposarlo. Lei accetta perché è
attratta dal suo amore. Decidono così di unirsi in matrimonio al termine delle sue tournèes.
Al di là dell'oceano, Gordon e Olivia convivono serenamente
per alcuni mesi, nascosti nella cittadina di Alexandria, ai sobborghi di
Washington. Sennonché, nel settembre 1922, inaspettatamente, piomba in casa loro lord Lloyd, accompagnato da un capitano di polizia il
quale li dichiara in arresto per concubinaggio. Al posto di polizia, tut15
tavia, il marito di Olivia ritira la sua querela per evitare uno scandalo. In conseguenza, i due adulteri sono rimessi in libertà. Ma Loyd
ottiene ugualmente il suo scopo perché Olivia gli viene affidata in
modo che possa riportarla nella loro casa coniugale. Non le muove
rimproveri e la tratta con dolcezza. Inoltre, acconsente che il bambino
abiti con loro. In effetti, l'ama e soffre in silenzio per il suo tradimento. Ma, il giorno dopo, le annuncia che, in seguito ad una sua precedente domanda, è stato ritrasferito in Inghilterra. Olivia è affranta al
pensiero di dover lasciare Gordon. Cerca di fuggire di casa. Però, due
uomini posti a guardia da Lloyd glielo impediscono. Pochi giorni
dopo, lei, suo marito e Nicholas si imbarcano per l'Inghilterra.
Gordon era stato anche lui liberato dal carcere. Tenta di entrare nella casa di Olivia per parlare con lei ma quegli stessi due uomini
di guardia, assoldati da Lloyd, lo fermano e lo allontanano con violenza. Alcuni giorni dopo, apprende che Olivia è partita. Allora, si
dimette dal suo incarico di pianista della National Symphony
Orchestra e, dopo aver tenuto un concerto il 10 dicembre 1922, si
imbarca anche lui per l'Inghilterra, all'inseguimento del suo sogno
d'amore.
Intanto, Dorian e Atlanta si sposano, ad Abingdon (15 giugno
1922). Lui la conduce nella sua villa e si abbandona all'intensità del
proprio sentimento. Una sera, dopo l'amore, lei gli narra le vicissitudini della sua adolescenza: dieci anni prima, quindicenne, quando studiava canto al conservatorio di Edimburgo, era stata folgorata da un
giovane che aveva dieci anni più di lei, occhi penetranti, modi da
dominatore. Si chiamava Keen. L'aveva convinta a fuggire da casa e,
da allora, la sua vita era diventata stentata. Lui suonava il sassofono
nelle sale da ballo, nei caffè concerto e nelle case di piacere. Lei, per
aiutare il bilancio familiare, cantava negli stessi locali. Poi, Keen
aveva contratto un cospicuo debito di gioco e, per pagarlo, aveva chiesto ad Atlanta di recarsi dal boss della malavita al quale doveva quel
denaro, per chiedere una dilazione. In effetti, si trattava di un losco
raggiro: infatti, il malavitoso l'aveva indotta a prostituirsi per scontare quel grosso debito facendole capire che, se non lo avesse fatto, Keen
sarebbe stato ucciso per inadempienza. Così, era cominciata per lei
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una triste carriera. In seguito, lui era finito in carcere per lesioni gravi
permanenti. Circa cinque anni dopo, scontata la pena, era partito per
l'America alla ricerca di fortuna mentre Atlanta veniva " venduta " dal
boss ad una casa di piacere, quella in cui Dorian l'aveva poi trovata.
Giunto in Inghilterra, nel febbraio 1923, Gordon riesce ad
individuare la casa di Londra in cui Olivia abita col marito e con
Nicholas. Cerca di penetrarvi per rivedere lei e il bambino, ma viene
ricacciato da uomini anche là posti di guardia. Esasperato, organizza
allora una loro fuga (aprile 1923). Ma, mentre tentano di allontanarsi insieme, sia lui che Olivia col bambino vengono catturati e condotti alla presenza di Lloyd. Costui è esasperato. Tuttavia, riesce a mantenere una calma glaciale: per punire Olivia, decide di toglierle il
bambino e di riaffidarlo al padre. Ma Gordon sa che lei ne morirebbe.
Si impegna allora a non rivederla più purché lui le lasci Nicholas.
Da quel giorno, non rimane a Gordon che andare a sostare
sotto le finestre per vedere Olivia almeno dietro i vetri. Né lo dissuadono il freddo e la pioggia. È disperato. Si confida con Dorian il quale
lo esorta a sublimare il suo amore per Olivia riversandolo nella sua
passione per il pianoforte. Poi, usa le sue conoscenze per fargli riprendere i contatti col mondo della musica. E, in seguito al suo interessamento, Gordon ottiene un'audizione all'Albert Hall. Inoltre, viene
assunto dalla London Symphony Orchestra.
Va anche a far visita alla zia Hetty la quale, con la sua natura
esuberante e con la sua passione per lui, lo trascina in un vorticoso
rapporto carnale. Ma, dopo l'amore, nel buio e nel silenzio di quella
camera, lui piange silenziosamente sul suo perduto amore. Prima di
lasciarsi, lei gli confida che sta per sposarsi con un maturo armatore,
nel tentativo di mettere ordine nella propria vita.
Frattanto, Atlanta continua a frequentare le prove di una
nuova commedia musicale. E, alla fine di ogni settimana, si reca con
Dorian in visita alle più celebri località vicine.Ma lui si accorge che è
piuttosto assente, pensierosa. Anche nei momenti intimi, è lontana.L e
chiede se ha qualche preoccupazione, ma lei lo rassicura. Tuttavia,
una sera, rientrando nella villa, Dorian ha la sensazione che qualcuno si sia trattenuto in camera da letto durante la sua assenza. Poi, una
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notte, la sente parlare al telefono. Infine, qualche giorno dopo, transitando con l'auto in una zona campestre, la scorge casualmente, in
distanza, in confidenziale colloquio con un giovane. Al rientro a casa,
le chiede spiegazioni. Lei gli risponde che il suo amore giovanile è
ritornato e l'ha nuovamente soggiogata. Perciò, non sa resistergli e
non può fare a meno di ritornare a vivere con lui. Dorian cerca di dissuaderla ma incontra una sua tagliente reazione e comprende che l'ha
perduta. Intimamente distrutto quanto incapace, per educazione e temperamento, di imporle una situazione di forza, la lascia andare.
Il 30 ottobre 1923, Gordon si esibisce in concerto all'Albert
Hall di Londra e riscuote un caldo successo. Qualche mese dopo, è la
volta di Atlanta: il 16 gennaio 1924, infatti, debutta nella nuova commedia musicale per la quale si stava preparando e, anche lei, incontra
un entusiastico consenso. Ma non è felice: Keen, l'uomo per il quale
ha lasciato suo marito, è uno scriteriato, un vulcano di idee generalmente sbagliate, un giocatore incallito. Pretende di amministrare i
lauti guadagni di Atlanta ma li impiega disonestamente nel gioco d'azzardo, fino a che perde tutto. Lei ha la forza di togliergli la gestione
del denaro ma lui, rimasto senza risorse, escogita altri sistemi. Con la
forza della seduzione, la induce infatti ad un convegno proibito ben
pagato con una signora benestante invaghitasi di lei, fotografa il loro
incontro e poi ricatta la malcapitata. Costei ritiene di essere vittima di
un odioso raggiro e inveisce contro Atlanta che è ignara e resta estremamente amareggiata. Mette allora a soqquadro lo studio di Keen,
trova i negativi e li consegna a quella signora prima che lei paghi la
somma del riscatto. Poi, si nasconde nell'appartamento londinese del
marito Dorian, un tempo usato per i loro incontri.
Keen va a cercarla invece nella villa abitata da Dorian ad
Abingdon. Lo affronta malmenandolo e minacciandolo con una pistola
convinto com'é che Atlanta si nasconda là. Ma Dorian reagisce e lo fa
arrestare per la violazione del suo domicilio e per violenza. Al processo,
Keen, per vendicarsi, rivela che Atlanta era, in passato, una prostituta.
Ne deriva uno scandalo (agosto 1924) che la obbliga a lasciare Londra
ed a rifugiarsi in Scozia, presso i suoi genitori. Da là, raggiunge poi
New York dove riprende la sua carriera artistica (febbraio 1925).
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A Londra, Lloyd si accorge che Olivia è molto depressa. Nel
tentativo di farla distrarre, le propone di compiere insieme una crociera. Lei è dentro di sé disperata. Ma non vuole scontentarlo perché
si rende conto che lo ha fatto soffrire molto. Si recano con Nicholas
alle Azzorre. E, durante il viaggio, Lloyd convince Olivia ad avere un
rapporto intimo con lui. Lei aderisce, spinta dal desiderio di liberarsi
del proprio passato. Ma il ritorno a casa è devastante: sente di aver
tradito Gordon e il suo inesauribile amore. Da allora, si instaura in lei
un male subdolo e silenzioso, fatto di malinconia e rimpianti, purtroppo inguaribile con i normali mezzi della medicina. Si trascura, si
lascia andare, mangia appena, resta a letto per ore, è continuamente
assorta o, addirittura, assopita.
Nel frattempo, il destino di Atlanta subisce una svolta fatale: in
una sera di maggio del 1925, mentre attraversa una strada sotto la
pioggia, viene investita da un'auto e riporta una grave frattura cranica. Dorian, avvertito da una componente dell'orchestra in cui lei lavora come cantante, accorre subito e l'assiste amorevolmente. La sua
ripresa è lenta e graduale e, soltanto in luglio, può essere dimessa dall'ospedale. Ma quel tragico evento li ha riavvicinati. Decidono di
ritornare a vivere insieme e si amano nuovamente con passione perché
lei, questa volta, ha veramente dimenticato il bieco Keen, che l'ha profondamente delusa. Poi, nel settembre 1925, mentre si accinge a rientrare con Dorian in Inghilterra, si accorge di essere incinta. E, nell'aprile 1926, dà alla luce una bella bambina alla quale viene imposto il
nome di Segreta.
Intanto, le condizioni di salute di Olivia vanno gradualmente
peggiorando. Lloyd si rende conto che sta morendo d'amore e che l'unico rimedio possibile è rappresentato dalla presenza di Gordon. Lo
manda a chiamare, nel febbraio 1926, ma è troppo tardi: lei lo riconosce appena e, il giorno dopo, si spegne, a soli trent'anni. Gordon è
disperato: la sua ragione di vita è scomparsa. Gli rimane tuttavia
Nicholas, che riprende con sé e al quale si dedica amorevolmente.
Ritorna più tardi al suo lavoro ma è come trasognato. Pur avendo soltanto trentadue anni, trascina una vita solitaria immerso nel rimpianto e nel ricordo.
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Nel novembre di quello stesso anno, Dorian Heston decide di
recarsi in Africa con una spedizione, per realizzare un suo vecchio
sogno: quello di costruire una rete di ospedali in zone depresse dell'interno. L'area prescelta per prima corrisponde al territorio della
Rhodesia del sud, sottoposta all'amministrazione coloniale britannica. Il lavoro ha inizio e viene condotto avanti lottando contro le difficoltà ambientali. Sennonché, in una sera del marzo 1927, Dorian si
vede comparire davanti Keen. Apprende da lui che è evaso e che ,
sotto falso nome, si è aggregato alla spedizione e, con essa, ha raggiunto l'Africa. Ora vuole vendicarsi nei confronti di Dorian che gli
ha sottratto Atlanta. E, infatti, dopo un breve colloquio, gli spara a
bruciapelo e lo uccide.
Atlanta è sconvolta dal dolore. Porta avanti faticosamente
una sua nuova gravidanza e, nel luglio dello stesso anno, partorisce
un maschio che chiama Dorian junior. Da parte sua, Gordon compie
un giro artistico con la London Symphony Orchestra, dopo aver affidato Nicholas ad un collegio. Ma, al suo ritorno in patria, si sente
male e viene trasportato in ospedale. Gli viene riscontrasta una
lesione al cuore. Il dolore per la morte di Olivia, purtroppo, ha
lasciato in lui un segno.
Nonostante il dolore che porta con sé per la fine tragica, inattesa e quasi beffarda della sua storia d'amore con Dorian, Atlanta prosegue nella sua attività artistica. Nel 1928, organizza un concerto di
beneficenza in favore dei bambini della Rhodesia e invita Gordon a
suonare al piano.La serata ha luogo nel settembre. Poi, il mese dopo,
lei parte per una tournée negli Stati Uniti d'America.
Gordon si trascina nel continuo, ossessivo ricordo di Olivia. E,
alla fine, quel dolore ha la meglio sulla sua robusta fibra. Una domenica di ottobre del 1928, mentre prega sulla tomba di Olivia, viene
assalito da un attacco cardiaco e muore nello stesso cimitero.
Qualche tempo dopo, per iniziativa di nonna Michelle e di zio
James, le tombe di Olivia e di Gordon, entrambi morti di mal d'amore, vengono sistemate, l'una accanto all'altra, nel piccolo cimitero di
Abertillery. Presto, esse diventano meta di un commosso pellegrinaggio. E la grande anima del popolo trasforma la loro sofferta storia in
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leggenda alimentandola con poesie, racconti e ballate.
Da parte sua, Atlanta prosegue in una sfolgorante carriera
musicale, diventa una vedette della canzone e gira anche alcuni films
musicali. Ma rimane fedele all'amore dolce, tenero, profondo che
Dorian ha saputo suscitare nel suo cuore. Rifiuta perciò qualsiasi altra
storia sentimentale e conduce una vita appartata dedicandosi ai suoi
due figli Segreta e Dorian jr.
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CAPITOLO PRIMO
Nel pomeriggio del 2 aprile 1939, Segreta Heston si trovava a
bordo della Rolls-Royce di proprietà della sua famiglia e stava percorrendo la strada che conduceva alla cittadina di Abingdon, situata ad
ovest di Londra, nella pittoresca valle del Tamigi. Splendeva una luminosa, insolita giornata di sole che la predisponeva al buon umore e stimolava in lei la gioiosa prospettiva di incontrare sua madre. Aveva
ricevuto, infatti, dalla scuola, la rinomata “Girls Country School” di
Harrow on the Hill, il permesso di festeggiare il proprio tredicesimo
compleanno con la mamma, lady Atlanta, vedova di lord Dorian
Heston. Per l’occasione, aveva lasciato nel suo armadietto l’uniforme
dell’istituto, costituita da una giacca azzurra bordata di blu, da una gonna
grigia plissettata e da calze a mezza gamba turchine; e si era preparata
per il ritorno a casa indossando un abito bianco a tralci blu, con volants
sulla gonna. La vettura procedeva a costante, moderata velocità, guidata
dall’autista di famiglia, che era venuto a rilevarla e che appariva impeccabile nella sua divisa grigio fumo con gambali e berretto a visiera.
Segreta, che seguiva il percorso, lo vide superare Torchester e addentrarsi nella regione dell’ Oxfordshire, in una verde pianura che costeggiava il Tamigi. Sulla destra, il paesaggio si presentava costituito da villaggi rurali, insediamenti di epoca romana, bucolici scenari naturali, sontuose dimore signorili. Nel momento in cui entrarono in Abingdon,
Segreta fu percorsa da un rimescolio e rivide con emozione i luoghi della
sua infanzia. Infine, due miglia oltre l’abitato, le apparve “Greenplain
house” la monumentale residenza degli Heston, adagiata fra ondeggianti distese, sede storica della casata dal XVI secolo. Là abitava, fra una
tournée e l’altra, sua madre e, con lei, il fratellino Dorian jr, di oltre 11
anni. Segreta aveva trascorso in quel luogo la sua infanzia, allietata dalla
sia pur saltuaria presenza della madre ma priva del rassicurante sorriso
di suo padre, morto quando lei aveva appena un anno e del quale le restavano solo alcuni ricordi fotografici. Quel posto – la villa, il grande parco,
i dolci pendii circostanti – era stato lo scenario dei suoi anni innocenti.
Ma, nei sogni fantasiosi della sua età, Segreta aspirava a nuovi orizzonti. Aveva scartato l’idea di seguire la stessa carriera della madre,
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ormai celebre cantante di musica leggera, perché si era accorta di non
disporre di una bella voce. Tuttavia, si mostrava ugualmente avida di
cambiare prospettiva, di visitare altri paesi, di fare incontri emozionanti. Voleva sfidare il destino, scompigliare le regole alle quali la sua
vita si era fino ad allora allineata.
Quei pensieri irrequieti si calmarono di colpo quando giunse di
fronte a sua madre. Lady Atlanta, seduta su una poltrona in una veranda, stava osservando pensosamente la campagna che si intravedeva al
di là di una vetrata. Sembrava una statua. Sulle sue ginocchia, era
appoggiato un copione. Indossava un attillato abito turchino arabescato e calzava scarpe di vernice col tacco alto, come se dovesse uscire.
Segreta sapeva che le piaceva essere sempre in ordine, anche se stava
in casa. Il suo viso intenso e bellissimo rifletteva sconfinate lontananze. Parlando con lei, Segreta aveva avuto spesso il sospetto che i suoi
pensieri fossero costantemente rivolti al passato, in una rivisitazione
ossessiva che l’attuale successo artistico non riusciva ad attenuare. I
capelli color rosso naturale, che un tempo le scendevano fino alla vita,
ora si arrestavano alle spalle nonostante la moda li pretendesse corti.
In quell’anno, avrebbe compiuto 42 anni ma il tempo non aveva lasciato tracce sul suo volto e sulla sua figura. Erano già trascorsi dodici anni
dalla morte di suo marito Dorian. Quell’evento l’ aveva fatta precipitare in uno stato di grande insicurezza ma era stato anche il momento
di avvio di una rinascita spirituale. Si era raccolta in se stessa e, al di
fuori dei suoi impegni artistici, aveva condotto un vita ritirata rinunciando alla lusinga di nuovi amori.
Nel vedere apparire Segreta, si scosse, si alzò e le corse incontro. L’abbracciò strettamente e la baciò sulle guance.
“Ho preparato per te una festicciola con i tuoi amici di infanzia.” Poi,
aggiunse “Vieni, voglio consegnarti il mio regalo.”
Nello studio, prese da un cassetto della scrivania un astuccio e
glielo porse. Conteneva uno splendido zaffiro incastonato in un anello
di platino. Segreta esplose in un grido di ammirazione.
“Farò morire di invidia Molly!” esclamò riferendosi alla sua compagna
di stanza.
Si divertì alla festa e ballò freneticamente fino a mezzanotte,
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sotto gli occhi compiaciuti di Atlanta. Dopo che i suoi amici se ne furono tutti andati, salì con la madre al piano superiore.
“Mi fai dormire con te?” le chiese.
“Certo.” rispose Atlanta con un tenero sorriso.
Poco dopo, a letto, le disse con la sua voce morbida:
“Ti ho costantemente osservata mentre ti divertivi con i tuoi amici e mi
sono accorta che sei cresciuta. Improvvisamente, in te, è sbocciata la
donna. Stai diventando bellissima!”
“Grazie, mamma. Vorrei essere come te ma mi accorgo che sono diversa.”
“Sì, sei diversa da me. Possiedi un fuoco che io non ho mai avuto.”
“Anche da ragazza sei stata così?”
“Sì, sono sempre stata molto controllata. Talvolta, guardandomi indietro, ho la sensazione di non essere mai stata giovane. Anche a quindici anni, dimostravo la maturità di un’adulta.”
“Penso sia stata una fortuna.”
“Ciò non ha saputo, tuttavia, preservarmi da gravi errori.”
“Quali?”
“Non voglio annoiarti con la storia della mia vita.”
“Io ti vedo perfetta.”
“Non è stato così in passato.”
“Dovresti raccontarmi.”
“No, credimi, non può interessarti. Tu sei avida di vivere questa tua
meravigliosa età.”
“Sì, vorrei, ma non posso certo fare una gran vita nel collegio.”
“Ti occorre questo sforzo per non essere domani una persona mediocre. Comunque, voglio anticiparti una novità. Quest’estate, compirò un
giro artistico in Svizzera e, se vuoi, potrai venire con me.”
“Sì, mi farà un immenso piacere.”
“Canterò nelle principali città. Poi, andremo a riposarci alle terme di
Baden, vicino a Zurigo.”
“Finalmente, potrò rimanere con te diverse settimane e, in più, visiterò la Svizzera. Sono contenta! Grazie di questa notizia.”
“Cerca di farti promuovere a giugno, in modo da non dover studiare in
estate per gli esami di riparazione.”
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***
Il giorno dopo Segreta si accomiatò, con una stretta al cuore, da
sua madre e ritornò ad Harrow on the Hill. Riprese con la consueta
spensieratezza e baldanza la vita scolastica ed i rapporti di relazione
con le altre alunne. Il rigore della disciplina si era attenuato rispetto ai
decenni scorsi. Perciò, le allieve potevano fruire, ogni domenica, di tre
ore di libera uscita in città. Quella concessione aveva stimolato allegri
incontri collettivi e furtivi convegni di coppia alimentando sogni e
romantiche attese ma anche chiassose serata ai pubs.
Segreta esprimeva, con le sue forme, il tipo di bellezza radiosa,
soffice e carnale che aveva folgorato i maestri del Rinascimento italiano, sospesa fra paganesimo e melodia del creato. Appariva già alta,
sviluppata e statuaria per la sua età. Fisiologicamente, era già donna.
Esibiva intensi, affilati occhi di un colore indefinito che ricordavano
l’oceano, fra l’azzurro e il verde; e li usava per guardare impavidamente i suoi interlocutori. Sfoggiava poi una gloriosa cornice di capelli color fiamma, inanellati, che le scendevano fino alla vita.
Camminava e gestiva con grazia squisitamente femminile. Era infine
irrequieta e disordinata, una vera meraviglia della natura che faceva
fremere al suo passaggio gli imberbi allievi del contiguo, storico collegio maschile. Sotto un nasino con la punta all’insù, mostrava labbra
carnose e sporgenti, già vagamente sensuali poiché, in lei, la femminilità si era manifestata precocemente. Il suo viso ovale, mobilissimo,
possedeva un’espressività straordinaria. Sprizzava intelligenza e vitalità. Era molto corteggiata ma non si faceva mettere facilmente le mani
addosso quando si appartava con qualche ragazzo. Non rifiutava un
bacio più o meno inesperto ma, fino ad allora, non si era mai fatta coinvolgere emotivamente.
Le lezioni terminarono il 7 giugno e gli scrutini vennero esposti il 10 successivo. Seppe così che era stata promossa con buoni voti.
Lo stesso giorno, rientrò ad Abingdon e, il 13 successivo, partì con la
madre per la Svizzera. Ignorava che, dietro l’angolo, l’attendeva una
svolta fatale.
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CAPITOLO SECONDO
Dal 15 giugno, Atlanta cantò a Ginevra, Berna, Lucerna e Zurigo. E,
ogni sera, Segreta l’ascoltava incantata. Investita dalle luci della ribalta, la sua bellezza e la sua eleganza risplendevano. La sua partecipazione emotiva al testo era straordinaria e la sua voce giungeva calda
e potente. La maggioranza delle canzoni apparteneva al genere
“swing” americano ma, in quella tournée, cantò anche alcune canzoni folk svizzere.
Il giro artistico era stato organizzato da Burt Ladd, l’impresario che, nell’estate del 1920, accogliendo la richiesta del direttore del
“Drury Lane Royal Theatre”, l’aveva lanciata nella rivista “Spring
again in New York”. Poi, nel 1924, era stato ancora lui a scritturarla per
la commedia musicale “Alexander’s Rag Time Band” spianandole la
strada verso un successo internazionale. Fra i due, prima che Atlanta
sposasse Dorian Heston, vi era stata una relazione che poi lei aveva
interrotto. Ma Burt non si era rassegnato perché quella donna gli piaceva molto. Perciò, dopo la morte di Dorian, avrebbe voluto riannodare il loro rapporto. Atlanta, però, nel frattempo, si era chiusa in se stessa. Il dolore provato per la morte del marito l’aveva portata a ripudiare il suo passato tumultuoso. Ora, desiderava soltanto calma, ordine e
silenzio. Burt aveva compreso. Le era rimasto devoto ed aveva continuato a finanziare altri suoi spettacoli. Per la tournée in Svizzera, si era
spinto ad assumere l’orchestra inglese diretta dal famoso Jack Hylton,
formata in parte da elementi americani di colore. Come pianista, figurava infatti una stella di prima grandezza, il grande Art Tatum, dotato
di una tecnica strepitosa, che, l’anno prima, si era esibito al “Ciro’s” ed
al “Paradise club” di Londra. Un altro solista di eccezione era Coleman
Hawkins che aveva scritto in America i primi capitoli della storia del
sassofono tenore e che si trovava in Europa dal 1936.
Atlanta era molto conosciuta in Svizzera, dove poteva contare
su migliaia di sostenitori. Il suo nome e quello dei prestigiosi componenti dell’orchestra assicurarono quindi a quegli spettacoli un successo straripante. Al termine delle rappresentazioni, si congedò da Burt
Ladd, che avrebbe voluto trattenersi con lei, e si rifugiò con Segreta
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nell’albergo “Verenahof” di Baden, dotato di impianti termali. Questo
loro soggiorno nella cittadina ebbe inizio ai primi di luglio (1939)
mentre la stampa riportava notizie poco rassicuranti sulla situazione
politica europea. Vi era infatti una diffusa minaccia alla pace provocata dal tracotante atteggiamento della Germania nazionalsocialista. Nel
settembre 1938, l’Europa aveva assistito sbigottita alla resa
dell’Inghilterra e della Francia di fronte alle pretese di Hitler sulla
Cecoslovacchia. Così, il cancelliere aveva proceduto indisturbato
all’occupazione ed allo smembramento di quella nazione con il pretesto di accogliere le richieste delle minoranze tedesche, cioè dei sudeti;
ed aveva costituito il protettorato di Boemia e Moravia. Subito dopo,
si era dedicato alla ricostituzione della forza aerea tedesca. La preparazione della guerra appariva ormai l’obiettivo fondamentale perseguito dal nazionalsocialismo. In quell’anno, il 22% degli addetti all’industria lavorava infatti per le forze armate tedesche, (la “Wehrmacht”),
che secondo Hitler, dovevano diventare una macchina da guerra senza
rivali per agire come strumento di conquista dello spazio vitale
(Labensraum) del popolo tedesco. Anche il resto dell’apparato industriale si occupava in modo preponderante della produzione bellica.
Nel frattempo, le spese militari avevano raggiunto il 58% del bilancio
statale. Quell’estate 1939 era perciò gravida di apprensioni. Ma
Atlanta e Segreta vivevano la gioia di trovarsi insieme. La mattina, si
recavano allo stabilimento termale e si tenevano compagnia mentre la
madre si concedeva alle inalazioni delle acque solforose per curare le
vie respiratorie. Nel pomeriggio, uscivano per visitare la cittadina che
si elevava di mt. 400 circa sul livello del mare. Adagiata sulla sponda
sinistra del fiume Limmat, aveva avuto il suo periodo di splendore,
come stazione termale, nel secolo precedente tanto che, nel 1847, era
stata collegata per ferrovia a Zurigo. Ora, aveva cominciato a popolarsi anche di industrie meccaniche. Il centro si divideva in due parti, la
città termale, erede dell’insediamento romano “Acquae Helvetiae”, e
la città medioevale chiamata Altstadt. Era uno spettacolo vedere insieme quelle due figure femminili alte, slanciate, elegantissime e affiatate procedere lungo il fiume, sulla Limmatpromenade, o nelle strette
calli medioevali. Spesso, si soffermavano nel salone del “Kursaal”, l’e28
dificio neorinascimentale che sorgeva nel parco, e ascoltavano un’orchestra che suonava, di preferenza, valzer viennesi. Al centro del salone, vi era una pista da ballo dove nascevano molti idilli. Segreta era
richiestissima e volteggiava seguita dall’occhio vigile della madre.
Sfoggiava con i suoi occasionali cavalieri un disinvolto tedesco appreso a scuola. Da parte sua, Atlanta rifiutò inizialmente gli inviti. Poi,
spinta dalla figlia, aderì a qualche giro di danza. Era sempre elegantissima. Una sera, giunse al “Kursaal” con uno strepitoso abito di raso
nero impreziosito da paillettes, che la fasciava fino alle caviglie, esaltandone la flessuosità. Sulle spalle nude, portava una lunga sciarpa di
organza rosa e, sui capelli, splendeva un diadema di diamanti. Rifiutò
con garbo molti inviti ma, alla fine, non seppe dire di no ad un signore pingue, calvo, rossiccio e leggermente più basso di lei. Una propensione al sorriso lo rendeva simpatico e accendeva i suoi sporgenti occhi
verdi. Mentre ballavano, le disse in lingua inglese:
“Mi chiamo Donald Mc Laglen. Sono da sempre un vostro fervente
ammiratore.”
Atlanta lo ringraziò con un sorriso. L’interlocutore aggiunse:
“Sono uno scozzese di New Lanark. Conosco bene i vostri genitori.”
Atlanta parve subito interessata. Al termine del valzer, la condusse al proprio tavolo e le presentò sua moglie Annabeth. Insieme, la
invitarono ad accomodarsi con loro. Lei fece un segno a Segreta che
stava ballando, poi sedette.
“Sì” continuò Donald Mc Laglen “sono scozzese. Mia moglie, invece,
é tedesca.” Lanciò uno sguardo intenso ad Annabeth, le sorrise e
aggiunse:
“Dopo averla conosciuta, ho venduto l’azienda tessile che gestivo a
New Lanark e mi sono trasferito a Zurigo, dove lei abitava con i suoi
genitori. Sì, è stato un colpo di fulmine.”. E continuò a guardarla sorridendo. Atlanta apprezzò l’attenzione che quell’uomo dedicava a sua
moglie.
“Un grande amore, dunque?” gli chiese
“Sì.”
Atlanta guardò Annabeth: anche lei, tendeva ormai alla pinguedine. Dimostrava, come il marito, una quarantina d’anni e rivelava,
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sul volto e sul corpo appesantiti, i residui nostalgici di una trascorsa
bellezza. Piccola, con occhi azzurri e capelli biondi ricci, ricordava una
bambola di porcellana. Atlanta provò per loro una spontanea simpatia.
Compatibilmente con il suono dell’orchestra e con il brusio della sala,
conversarono piacevolmente in tedesco, lingua che lei conosceva bene.
Così, apprese che, al tempo del suo fatale incontro con Donald,
Annabeth abitava a Zurigo. Infatti, suo padre, che era un ingegnere
tedesco, lavorava in uno stabilimento metallurgico locale. Seppe anche
che, con loro, viveva una nipote. Gliela additarono mentre ballava: era
una ragazza di media statura, snella e bruna. Dopo alcuni minuti,
venne al loro tavolo e fu presentata ad Atlanta che incontrò i suoi occhi
grigio verde melanconici e intravide in lei una natura non esuberante
ma piuttosto composta e silenziosa. Mentre parlavano, giunse anche
Segreta che era accaldata e radiosa. Avvennero ancora presentazioni e
le due ragazze familiarizzarono subito. Quella nipote si chiamava
Oana, aveva 14 anni e frequentava anche lei il secondo corso delle
scuole superiori.
“Oana” spiegò Annabeth rivolgendosi ad Atlanta “è figlia di
mia sorella Ina, morta l’anno scorso con suo marito in un incidente
d’auto.” Abbassò la voce perché la ragazza non sentisse “La disgrazia
è avvenuta nei dintorni di Wernigerode, la cittadina tedesca in cui abitavano. Oana viaggiava anche lei con i genitori, in quel terribile giorno. È rimasta ferita ma, per il padre e la madre, non c’è stato niente da
fare. Da allora, è venuta a vivere con noi.”
“Era la loro unica figlia?” chiese Atlanta
“No, avevano anche un maschio, Wilhelm, che però era lontano perché
ha intrapreso la carriera militare. ”
Quel discorso triste contrastava con l’atmosfera spensierata
della sala. Annabeth, evidentemente, se ne rese conto perché si fermò.
Nel frattempo, le due ragazze furono invitate a ballare e si allontanarono. Fu la stessa Atlanta a ritornare in argomento.
“Quindi” chiese “Oana era rimasta sola a Wernigerode?”
“No, l’abbiamo presa con noi quando ha lasciato l’ospedale. Quella
terribile disgrazia l’aveva sconvolta e annientata. Non potevamo
lasciarla là.”
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“Voi non avete figli?”
“No” la voce di Annabeth si incrinò vi fu qualche attimo di silenzio.
“In cambio del dolore provato per quella grande perdita, abbiamo ricevuto una figlia. Sono veramente misteriose le vie del Signore!”
***
Fra Atlanta e la famiglia Mc Laglen, si stabilì una corrente di
simpatia e di cordialità che si tramutò ben presto in amicizia. Vi fu uno
scambio di visite e di inviti a cena nei rispettivi alberghi, che giovarono soprattutto a Segreta ed a Oana. Le due adolescenti erano diventate, infatti, inseparabili ed avevano dato vita ad un rapporto stretto e
intimo. Segreta si era trovata di fronte ad una creatura di grande interiorità. Il dolore provato per la perdita dei genitori aveva evidentemente scavato nel suo animo un solco profondo che le consentiva di
comprendere i travagli degli altri. Segreta ne approfittò per riversarle
il proprio disagio spirituale: l’assenza del padre, la lontananza della
madre, la mancanza di una calda atmosfera familiare, l’insicurezza sui
valori prioritari della vita cui ancorarsi, il quadro di una società esterna proterva e inquieta, incapace di eliminare le ingiustizie. Sembrava
che Oana decifrasse quelle sue ossessioni e ne conoscesse i rimedi:
le parlò della fede, della capacità di accettazione del dolore, dell’importanza di un dialogo continuo con se stessi. Segreta constatò che
nonostante la sua età, Oana rivelava una sorprendente maturità, un
rifiuto delle banalità e delle esteriorità del mondo e la tendenza a
rifugiarsi nella riflessione e nella preghiera. Segreta, col suo carattere più forte e vitale, non si sentiva portata in quella direzione. Ma
aveva intuito che poteva adagiarsi nell’animo di Oana, dirle tutto e
sentire da lei parole inconsuete di sostegno e di incoraggiamento.
Da parte sua, Oana le parlava spesso del fratello Wilhelm, ufficiale dell’ “Heer” (Esercito). Lo descriveva come un giovane volitivo,
deciso, convinto del grande destino che attendeva la Germania.
Al termine delle cure termali, i coniugi Mc Laglen invitarono
Atlanta e sua figlia a recarsi a Zurigo per trattenersi come ospiti nella
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loro villa. Segreta, infatuata della sua nuova amicizia con Oana, insistette con la madre per convincerla ad accettare.
“Sono incerta” mormorò Atlanta in risposta a quelle pressioni “contavo di rientrare con te in Inghilterra e recarmi poi in Austria per una
serie di concerti.”
“Quando inizierà la tua nuova tournée?”
“Il 1° settembre.”
“Allora, potremmo trattenerci con i signori Mc Laglen fino a metà
agosto.”
“Accetteremo la loro ospitalità fino al 10 agosto, non un giorno di più.”
“Va bene, mamma.”
Così, a fine luglio, Atlanta e Segreta partirono in treno per
Zurigo con i Mc Laglen, e furono accolte con calore nella loro villa,
posta sulla riva sinistra del lago di Zurigo, lungo le pendici della collina che culmina sul Rieterpark. L’edificio ricalcava lo stile neorinascimentale introdotto in Svizzera dall’architetto tedesco ottocentesco
Gottfried Semper. Si sviluppava su due piani, oltre quello terreno, e
conteneva una ventina di stanze, tutte arredate con gusto. Era circondato da un parco e consentiva una incantevole vista del lago e delle
colline circostanti.
Fin dall’inizio, i coniugi Mc Laglen si prodigarono per rendere
ad Atlanta e a Segreta il soggiorno confortevole. Organizzarono perciò,
per loro, una serie di escursioni nei dintorni. Iniziarono col condurle
sull’Uetliberg, lo spettacolare belvedere posto a sud-ovest della città,
che costituisce l’estremità settentrionale dei monti Santis. Andarono
poi in gita a Kusmacht, un antico centro caratterizzato da case ristrutturate del secolo XVII e impreziosito da una chiesa gotica del XIV-XV
secolo. Ma ancor più pittoresca fu l’escursione organizzata in direzione di Rapperswill, un abitato mollemente allungato su una penisola che
si protendeva sul lago di Zurigo, fra azzurro e verde. Nei giorni successivi, l’infaticabile Donald le condusse, infine, a visitare borghi e
monumenti dei dintorni ed a gustare le specialità locali in rustiche e
pittoresche trattorie.
Man mano che i giorni si inoltravano, Atlanta andava convincendosi della intrinseca amabilità dei coniugi Mc Laglen e della schiet32
tezza della loro ospitalità. Da parte loro, Segreta e Oana formavano
ormai una coppia fissa. Si appartavano e si confidavano i segreti della
loro adolescenza. E poiché Donald, per una buona parte della giornata, doveva occuparsi del suo stabilimento, Atlanta e Annabeth si trattenevano a conversare nella veranda.
I discorsi della padrona di casa rispecchiavano soprattutto la
sua preoccupazione per il benessere dei figli della sorella tragicamente scomparsa.
“Oana” disse un pomeriggio “vive spiritualmente appartata. Il dolore
provato per la perdita dei genitori le ha provocato una crisi mistica. In
questi giorni, Segreta, con la sua prorompente vitalità, la sta distraendo e si è rivelata un vero toccasana. Ma poi, dopo che se ne sarà andata, Oana ripiomberà nella sua malinconia.”
“Certo, me ne rendo conto, la sua vita è stata stravolta.”
“Noi la colmiamo d’affetto tentando di sostituirci in tutto ai suoi genitori scomparsi. Ma non possiamo impedirle di ricordare con sofferenza la sua vita lieta di un tempo.”
“È ritornata qualche volta a Wernigerode per rivedere la sua casa?”
“Sì, ma soprattutto per visitare le tombe dei genitori. Anche Wilhelm
ci va di tanto in tanto.”
“Suppongo che, in quelle occasioni, lei e suo fratello si incontrino.”
“Sì, qualche volta. Comunque, Wilhelm viene a trovarci ogni due, tre
mesi, per stare con la sorella. Forse, lui ha risentito meno della tragedia, distratto com’è dai suoi ideali militari e patriottici. E, poi, ha decisamente una fibra più forte”
***
Già il primo giorno del loro arrivo a Zurigo, Oana aveva condotto Segreta nella propria camera, illuminata da un’ampia vetrata che
consentiva un’emozionante vista panoramica. Tuttavia, lei preferiva,
normalmente, chiudere la tenda di voile con teli di velluto, ampia
quanto una parete, per ritrovare la sua intimità. I parati, i mobili laccati, i tappeti, avevano un tenero fondo rosa. Sui muri, spiccavano
“posters” di grandi attori e cantanti del momento. Ma ciò che aveva
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immediatamente attratto l’attenzione di Segreta era stata una fotografia contenuta in una cornice d’argento, posta su uno scaffale–libreria.
Raffigurava un giovane biondo di straordinaria bellezza. Nel guardarlo, era stata trafitta da un brivido e da un immediato, trascinante interesse per lui. Si era rivolta verso Oana.
“Chi è questo giovane?”
“È Wilhelm, mio fratello.”
“È così bello, in realtà?”
“Sì, è magnifico. Dovresti conoscerlo.”
“Quando verrà a trovarti?”
“Ritengo, nella seconda metà di agosto.”
“Purtroppo, dovrò partire prima.”
“Che peccato! Sono stata molto bene con te. Vorrei che non te ne
andassi.”
“Dici sul serio? Ti farebbe piacere se rimanessi?”
“Sì, assolutamente! La tua presenza mi darebbe tanta forza.”
“Ci penserò” concluse Segreta. Ma aveva già deciso: in un modo o nell’altro, doveva rimanere per attendere l’arrivo di Wilhelm.
***
Un giorno, Annabeth propose ad Atlanta di uscire insieme per
fare “shopping”. E la condusse nella principale arteria della città, la
“Bahnhofstrasse”, realizzata nella seconda metà dell’ottocento, fiancheggiata da signorili palazzi d’epoca, moderni edifici, sedi di banche
ed eleganti negozi. Nel corso della mattinata, fecero una sosta in un
grande caffè. Sedettero ad un tavolo, si rifocillarono e cominciarono a
conversare. Ad un certo punto, Annabeth chiese:
“Hai qualche impegno sentimentale, Atlanta?”
“No, non sono legata a nessuno”
“Sei una donna di grande fascino. Avrai certo molti corteggiatori.
Come fai a respingerli tutti?”
“Nel mio ambiente artistico, sanno tutti ormai che desidero rimanere
fedele alla memoria del mio Dorian. Ai corteggiatori, per così dire, esterni, rispondo invece che il mio cuore è impegnato da un intenso ricordo.”
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“Dopo dodici anni, non senti il bisogno di rinnovarti in un nuovo sentimento?”
“Mi fai questa domanda perché non hai conosciuto Dorian. Dopo la
mia giovinezza turbolenta, lui è stato per me un approdo luminoso e
felice. Mai, né prima né dopo, ho incontrato un uomo come lui.
Generalmente, i discorsi che si fanno in due riguardano argomenti
della vita pratica. I nostri dialoghi, invece, erano incantati, riguardavano i nostri sentimenti, scendevano nel profondo. Insieme, eravamo lontani dalle banalità del mondo e immersi nel sogno.”
“Capisco.”
“Dopo Dorian, non ho più trovato una persona con la quale parlare
nello stesso modo, con cui pensare all’unisono come facevo con lui.
Era la mia anima gemella e, per questo, è insostituibile. Nei rapporti
intimi, poi, mi ha svelato una strada per me sconosciuta: quella che, dai
sensi, conduce al cuore. Con lui, non mi sono fermata alla luna, ma ho
raggiunto le stelle.”
“Quindi, ti sei votata alla solitudine?”
“Sì, ma è una solitudine piena di smaglianti ricordi. D’altra parte, il
mio lavoro mi porta ad essere in contatto con un gran numero di persone. Questo mi distrae. E poi, c’è il pubblico! Un fragoroso applauso
mi ha sempre provocato una forte emozione.”
“Magnifico! Ne sono lieta per te. Ho sentito che il mese prossimo ti
esibirai in Austria.”
“Sì, sarà una faticosa tournée.”
“Verremo a sentirti.”
“Addirittura!? Volete andare all’estero per un mio concerto?”
“Sì, naturalmente, sarà un’occasione per rivederti.”
Quella promessa ebbe immediati riflessi perché, qualche giorno prima della partenza, Segreta le disse:
“Mamma, vorrei trattenermi qui, con Oana. Potrei raggiungerti in
Austria, quando verremo insieme ad ascoltarti.”
“Ma tu dovrai ritornare ad Harrow in tempo utile.”
“La scuola riaprirà il 1° ottobre. Quindi c’è tempo.”
“Non molto, in verità.”
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“Ti prego, mamma, qui, con Oana, mi trovo molto bene”
Atlanta era combattuta. Perciò, prese tempo per decidere. Il giorno
dopo, per non addolorare la figlia, sciolse la riserva e le disse con
calma:
“Questa tua richiesta sconvolge i miei piani. Comunque, ho parlato con
i coniugi Mc Laglen ed abbiamo concordato che verrete ad incontrarmi a Innsbruck il 4 settembre. Subito dopo, tu partirai per Londra. Non
sono tranquilla al pensiero che viaggerai sola ma, d’altra parte, non
voglio rifiutarti questa possibilità”
“Oh, grazie, mammy!” gridò Segreta e corre ad abbracciarla.
***
Così, il 10 agosto, Atlanta partì per Londra. Quindici giorni
dopo, doveva trasferirsi, con l’orchestra e con tutti i suoi collaboratori, ad Innsbruck dove, dal 6 settembre, avrebbe esordito in concerto per
giungere, attraverso varie tappe, a Vienna.
Segreta rimase con Oana alla quale, però, non aveva rivelato il
suo segreto. Mentre trascorreva con lei ore apparentemente spensierate, in fondo al suo cuore viveva in modo emozionante l’attesa che la
separava dall’arrivo di Wilhelm. Lui aveva scritto alla sorella che
sarebbe giunto in treno il 20 agosto. Forse, in quel giorno, la loro vita
sarebbe cambiata. Contò le ore tentando di nascondere la sua impazienza, poi, quella domenica, si recò con Oana alla ”Hauptbahnhof”, la
monumentale stazione ferroviaria costruita nel 1865-71. Il cuore le
batteva precipitosamente mentre, con nervosismo, si rassettava l’abito
azzurro, molto aderente, che aveva scelto per l’occasione. Dopo un’eternità, il treno a vapore entrò sbuffando nella stazione. Come un automa, seguì Oana che andava incontro ai passeggeri discesi dal convoglio, fra residue spire di fumo. Ad un tratto, la ragazza lanciò un grido,
cominciò ad agitare un braccio e si mise a correre. Si fermò infine, col
sopraffiato, di fronte ad un giovane in uniforme che si tolse il berretto
e l’abbracciò. Segreta lo fissò intensamente: era statuario! Sembrava
un dio sceso dall’olimpo: alto, snello, atletico, biondo. Fu colta da una
vertigine del cuore e si fermò smarrita. Era tale il suo turbamento che
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non sapeva come regolarsi per non apparirgli goffa. Se ne stette perciò
accanto a loro in preda ad un tremito nervoso osservandoli mentre si
parlavano affettuosamente; finché Wilhelm, alzando lo sguardo non si
accorse di lei. Si sentì trapassare dai suoi penetranti, luminosi occhi
grigio azzurri e, come un automa, udì Oana dirgli:
“Questa è la mia amica Segreta.”
Wilhelm le tese energicamente la mano mentre lei, impietrita,
non distoglieva lo sguardo da lui, percorsa da un lungo fremito.
A casa, poté osservarlo meglio: aveva spalle larghe, vita stretta, portamento marziale. Il suo viso era illuminato da una forza e da
una bellezza michelangiolesche. La impressionarono soprattutto le sue
mascelle quadrate, i suoi zigomi sporgenti, la fronte verticale a piombo sul suo naso leggermente aquilino. La sua espressione era tesa e
contratta anche quando rideva. Sembrava la raffigurazione di uno scultoreo dio vichingo. Continuò a guardarlo in silenzio. Tuttavia, non osò
rivolgergli la parola in attesa che lui le parlasse. Ma Wilhelm era tutto
preso dalle tante domande che la sorella e gli zii gli andavano indirizzando. A cena, sebbene invitato ad indossare una vestaglia, scese
nella scintillante uniforme grigio-azzurra della Wehrmacht.
Dopo cena, passarono in salotto e il discorso cadde sul clima di
guerra che si respirava in Europa in quell’estate.
“La Germania è pronta per la conquista del suo spazio vitale” scandì
Wilhelm “Le nostre forze armate hanno raggiunto i 4 milioni di uomini” la sua voce era robusta, sonora. “L’esercito, in particolare, può contare su oltre 100 divisioni, la marina dispone di 35 navi da battaglia di
vario tonnellaggio e di 60 sommergibili, la Luftwaffe ha raggiunto il
potenziale di circa 3000 aerei operativi. Il morale è altissimo: la maggior parte dei soldati tedeschi e degli ufficiali di grado inferiore è,
infatti, permeata dalla fede nazionalsocialista ed ha ricevuto una completa formazione intellettuale e ideologica all’interno della Gioventù
hitleriana. Tutti insieme costituiamo una macchina di guerra formidabile. Siamo invincibili!”
Segreta si accorse che i coniugi Mc Laglen tacevano, a testa
bassa. Oana, invece lo ascoltava incantata e anche lei, Segreta, si sentiva ipnotizzata da quelle parole, pronunciate con convinzione assoluta.
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A quel punto, forse solo per convenienza, Donald gli chiese
“Anche tu hai fatto parte della gioventù hitleriana?”
“Sì, certo.”
“Quindi, sei un ardente nazista?”
“Lo sono perché riconosco che Hitler ha salvato la Germania dalla
disperazione.”
“In che modo?” chiese Annabeth.
“Nei primi anni di questo decennio, non esistevano speranze per la
Germania. I giovani non trovavano lavoro ed avevano perso il coraggio. Non vi erano prospettive per il futuro. L’intera nazione si sentiva umiliata dall’atteggiamento dei vincitori della prima guerra mondiale. Il rimborso dei danni di guerra costituiva un tributo intollerabile. Le altre nazioni avevano i loro armamenti. Soltanto la Germania
era disarmata. Ebbene, Hitler ha cancellato il senso della disfatta. Ha
dato alla gioventù tedesca fiducia nel futuro, le ha restituito il rispetto di se stessa.”
“Ma quest’obbedienza cieca ad un solo uomo” obiettò Donald “questa disciplina di tutta una nazione, non costituiscono una perdita
della libertà?”
“La disciplina è necessaria in un paese come la Germania, in cui coesistevano tanti partiti, in lotta l’uno contro l’altro. Ora siamo tutti uniti
nella nostra lealtà al Führer. È un risultato straordinario se si pensa che
la Germania, spiritualmente e ideologicamente, era divisa. Adesso,
invece, per la prima volta, è una nazione!”
La discussione aveva rianimato Donald colorando lievemente
di rosso le sue guance.
“Qualche tempo fa” disse lentamente “mi è capitato di leggere alcuni
articoli pubblicati sul “Wille und Macht” il giornale della
“HitlerJugend”. Al pari di una gran parte della letteratura tedesca, gli
autori auspicavano, per la Germania, un ritorno al paganesimo e al
sistema tribale, e la restaurazione di un sistema diverso dalla cultura
europea e cristiana. Secondo questi teorici, le tribù germaniche attendono l’autorità e il potere supremo di un unico capo, la cui parola
dovrebbe essere legge e la cui persona quella di un semidio, come gli
antichi idoli pagani, metà dei e metà guerrieri. Il sistema tribale si
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estenderà, secondo loro, oltre le frontiere delle nazioni. Il richiamo del
sangue sarà ascoltato. Si formerà una confederazione della razza germanica, con le radici affondate nella foresta primordiale. Gli scandinavi e gruppi della Polonia,dell’Ungheria, della Russia, verranno a far
parte di questa confederazione tribale. Anche essi appartenevano alla
foresta germanica radicata nel paganesimo primitivo. Gli antichi dei
non sono morti, stanno solo dormendo. Sono stati spodestati dal cristianesimo, ostile all’istinto e alla natura, debole, devitalizzante, disumanizzante. Di nuovo, le virtù dell’uomo saranno la forza, il coraggio, l’energia vitale, non l’interiorità, l’intellettualismo, il senso morboso della coscienza.” Donald si fermò. Aveva parlato tutto d’un fiato
ed ora si attendeva la reazione di Wilhelm. Ma lui disse soltanto:
“Conosco questi concetti.”
“Ecco ciò che insegnano ai giovani.” riprese Donald “Noi Europei non
abbiamo preso sul serio questi teoremi e non ci siamo accorti che essi
costituiscono invece una sfida alla civiltà. Abbiamo pensato al vaneggiamento di qualche pazzoide. Al contrario, ci troviamo di fronte ad
una ben precisa filosofia, professata da uomini che tengono in mano il
destino di una nazione. Non si può capire ciò che è successo in
Germania, l’avvento di Hitler, il diffondersi della ideologia nazista,
l’attacco agli ebrei ed ai cattolici, senza prendere in considerazione
quelle teorie. Esse non costituiscono un accessorio alla fede nazista.
Sono invece la sorgente stessa dell’energia germanica. È la ragione per
cui non possiamo considerare i tedeschi nostri uguali e accoglierli
come partners nel processo di rinnovamento europeo”
Wilhelm lanciò a Donald uno strano sguardo, sospeso fra ostilità e sorpresa, attese qualche attimo, forse per controllarsi, poi rispose:
“Non è amichevole quello che avete detto, zio Donald, ma, sostanziosamente, mi sembra esatto. La gioventù è convinta della fondatezza di
quei principi ed è pronta a morire per Hitler. Sì, siamo pronti a morire
perché lui ci ha dato ciò che chiedevamo: più lavoro, liberazione dai
controlli stranieri, orgoglio di razza, culto degli eroi. E il nostro massimo eroe è lui, Hitler”
Donald non ritenne opportuno replicare. Annabeth intervenne
per portare la conversazione su altri campi. Oana, invece si allontanò
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per qualche incombenza. Segreta ne approfittò per alzarsi. Si recò sulla
terrazza con la speranza che lui la seguisse. In basso, verso il lago, vi
era un tripudio di puntini luminosi che si estendevano alla sponda
opposta. Più in alto, sulle pendici dei monti, le luci di lontani paesi brillavano come ignote costellazioni. Attese finché udì un passo. Si voltò
e lo vide fermo sulla soglia della porta finestra. Lo scrutò nella penombra. Il silenzio profondo era rotto soltanto dalla sirena dei vaporetti che
attraversavano il lago. Lui si avvicinò lentamente e, ancora una volta,
i loro sguardi si incrociarono.
“Segreta” mormorò infine Wilhelm “mi guardi come se tu fossi una
donna mentre, in effetti, sei ancora una bambina.”
“Ho quasi quattordici anni e sono già pronta per te.”
“Mi parli come se mi avessi già scelto.”
“Sì, ti ho scelto perché, dal primo momento che ti ho visto, mi hai
trasformata. Ero una bambina, come tu dici, ed ora sono una donna e
brucio per te. Adesso, Wilhelm, i miei sogni hanno un volto e un
nome.”
“Dovrai attendere, Segreta, attendere che anch’io ti ami.”
“Sperimenta il mio amore, Wilhelm. Così, forse, anche tu mi amerai.”
Si avvicinò a lui e, poiché era più alto, si aggrappò al suo collo.
Wilhelm sorrise.
“Sei adorabile. Ma non vuoi renderti conto che siamo come stelle di
due costellazioni diverse?”
“Facciamo allora una congiunzione.”
Si sollevò sulla punta dei piedi, avvicinò il proprio viso al suo
e lo baciò con passione. E sentì con gioia che lui, dopo aver ricevuto
quel bacio, glielo stava ora ricambiando voracemente mentre le sue
braccia le cingevano con forza la schiena. Quando, poi, le loro labbra
si distaccarono, lei gli disse:
“Questo è il mio primo bacio d’amore e lo dedico a te. Ancora prima
di incontrarti, guardandoti in fotografia, ho cominciato ad amarti. È il
destino che ha predisposto questo incontro. Ti voglio, Wilhelm, e sento
che né il tempo né lo spazio avranno ragione del mio amore. Mi hai fatto
esplodere il cuore!. Sei l’uomo fatale della mia vita, il predestinato!”
Lui aveva socchiuso gli occhi. Li riaprì, a quelle parole, e la
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fissò nuovamente con intensità, come se volesse trapassarla. Poi, mormorò lentamente:
“Mi piaci, Segreta, ma non voglio ancora impegnarmi con te. Devo
prima interrogare il mio cuore.”
Lei si sentì trafitta. Ma continuò a tenerlo abbracciato.
“Qualunque cosa farai” sussurrò “io ti amerò” E pose la testa sulla sua
spalla. Lui le accarezzò i capelli. Poi, lei si sciolse dall’abbraccio, gli
lanciò un ultimo sguardo e rientrò in casa. Wilhelm stette a guardarla,
quindi ritornò a sua volta all’interno. Segreta andò a rifugiarsi nella
stanza che divideva con Oana. Non rispose alla sua muta interrogazione e si preparò per la notte. Quando poi andò a salutarla, prima di mettersi a letto, Oana la guardò con dolcezza, le pose il palmo di una mano
su una guancia e le chiese:
“Vi è qualcosa di nuovo?”
“No.”
“Mi sembri turbata.”
“Non è niente, passerà. Buonanotte, Oana.”
La mattina seguente, quando si incontrarono, Wilhelm la guardò con un sorriso, le accarezzò i capelli e la invitò ad uscire con lui e
la sorella per una passeggiata. Lei avverti, mentre lui la guardava, una
fiammata scorrerle lungo il corpo. Aderì con gioia e, mezz’ora dopo, si
trovava già, con loro, in barca lungo il lago. Oana si dedicò alla lettura di un libro. Lei e Wilhelm si sdraiarono sul fondo della barca, che
era abbandonata a se stessa in un’insenatura non frequentata. Per
difendersi dal sole, avevano in testa un cappello di paglia. Ad un certo
punto, quando il caldo diventò eccessivo, Segreta propose agli altri di
prendere un bagno. Wilhelm e Oana aderirono, e, in breve furono tutti
e tre in acqua, sul costume che avevano indossato sotto il vestito estivo. Le due ragazze si divertirono a spingere sott’acqua Wilhelm e si
accorsero di quanto fosse forte e muscoloso. Risalendo in barca,
Segreta gli disse sorridendo:
“Sei possente come una statua di Michelangelo!”
“E tu sei già formata come una donna.”
Si rifocillarono con una colazione e con della frutta che avevano portato al seguito, poi Wilhelm le chiese:
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“Parlami di te”
“Sono orfana di padre e abito con mia madre ad Abingdon, dove la mia
famiglia gestisce alcuni lanifici. Studio e pernotto ad Harrow on the
Hill, un sobborgo di Londra. Per questa ragione, ho poche occasioni di
vedere mia madre che è una vedette della musica leggera e trascorre
lunghi periodi in tournée”
“Una diva della canzone? Qual è il suo nome?”
“Atlanta Mc Guire”
“L’ho sentita cantare: è bravissima!”
“Sì, ed è una donna magnifica.”
“Spero di conoscerla.”
“Lo desidero anch’io. Potrà accadere se tu ed io non ci disperderemo.”
“Come evitarlo? Abitiamo in paesi lontani fra loro.”
“Vedo che sei saggio. Quanti anni hai?”
“Venticinque. Sono quasi un vecchio per te.”
“Questa tua età più matura mi infonde sicurezza. Ti vedo come una
roccia alla quale aggrapparmi.”
“Non dirmi che sei una sognatrice.”
“No, non lo sono.”
“Meglio così. Potrai rederti conto che, fra pochi giorni, partiremo per
opposte direzioni e forse non ci vedremo più.”
“Forse. Ma io sto meditando di trasferire qui a Zurigo la mia sede
scolastica, per stare vicino a Oana e per attendere te quando verrai a
farle visita.”
“Mi farà piacere rivederti. Spero, quando ci incontreremo la prossima volta, che la tua infatuazione per me si sia dissolta come
nebbia al sole.”
“Non ti piaccio nemmeno un poco?”
“Mi piaci molto, invece. E, con questo tuo corpo seminudo esposto al
sole, mi provochi un intenso desiderio. Ma debbo contenermi: sei una
bambina.”
“Prendimi, invece”
“No”
“Come vuoi. Ma io ti aspetterò”
“Sei vittima di un incantesimo: devi reagire”
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E, così dicendo, le accarezzo i capelli, poi si chinò verso di
lei, la baciò lievemente e si alzò per vestirsi.
“Resta inteso” esclamò Segreta seguendolo con lo sguardo “Ti
aspetterò”
Quella sera, dopo cena, andarono a passeggiare nel parco. E,
dopo essersi aggirati fra i tronchi robusti di faggi, castani e betulle,
sedettero su una panchina. Vi erano, intorno a loro, cori di grilli e, più
lontano, qualche gracchiare di rane. Di fronte, i monti erano masse
appena più scure del cielo e in alto, palpitava una mistica adunanza di
stelle. Lei sperava che Wilhelm la baciasse. Ma lui era pensieroso.
“Mi sembri assorto” gli sussurrò.
“Sì, sto riordinando le idee in vista del mio ritorno alla mia panzerdivision. Siamo in posizione di allerta ed è stato per me difficile allontanarmi, questa volta”
“Vedo che i tuoi pensieri sono rivolti al servizio, al tuo reparto, forse
ai tuoi uomini che ti attendono”
“In effetti, è così”
“Speravo che, stando qui seduto, tu fossi con me. Invece sei lontano”
“Devi scusarmi. Compio un servizio duro fra uomini duri. Anch’io, a
causa di un addestramento estenuante, di un condizionamento psicologico assillante, anch’io mi sono indurito. La mia stella polare è il dovere. Non mi è consentito sognare”
“Me ne sono accorta. Ma prima di andare, parlami di te, dei pensieri
segreti che ti porti dentro”
“Sei veramente una ragazza precoce se riesci a farmi una domanda così
intima. Comunque, ti risponderò” Vi fu una pausa, come se volesse
raccogliere le idee. Poi. mormorò:
“Ti avranno certamente detto che ho perso tragicamente i genitori”
“Sì, l’ho saputo. Ma non riesco a capire quanto tu abbia sofferto. Sei
così imperscrutabile”
“Ho sofferto acutamente. La loro improvvisa e così prematura scomparsa ha creato in me un vuoto immenso. Mi sono riversato sul lavoro
ma le ore libere della sera sono insopportabili”
“Vuoi che venga in Germania per starti vicino?”
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“Faresti questo?”
“Certamente!”
“Sarebbe come buttare al vento la tua vita. Io non so dove sarò fra una
settimana o un mese”
“Vedo che non c’è spazio in nessun modo per il mio amore”
“Lascialo maturare. Intanto, il destino deciderà”
Wilhelm si alzò per rientrare. Lei lo guardò affascinata: in ogni
suo gesto scandito, vi erano solennità e qualcosa di più, un’espressione indefinibile, come il senso ineluttabile della fatalità. L’indomani
mattina avrebbe dovuto partire presto. Era, quindi, l’ultima occasione
per stare con lui. Voleva che se ne andasse con un dolce, acuto ricordo
di lei. Perciò, come la prima volta, gli allacciò il collo con le braccia e
lo baciò focosamente
Il giorno successivo alla sua partenza, dopo essersi consultata con
Oana e con i suoi genitori, scrisse alla madre per chiederle di restare a Zurigo.
Era sua intenzione, le diceva, iscriversi alla stessa scuola di Oana e proseguire là
i suoi studi, avvalendosi della propria buona conoscenza della lingua tedesca. Le
confessò che, non soltanto l’affetto per Oana la spingeva a quel passo, ma anche
e soprattutto l’amore che le era scoppiato nel cuore per Wilhelm. E così concludeva: “Questi ultimi mesi sono stati per me intensi e sorprendenti. Ho conosciuto alcune persone che hanno sconvolto la mia vita; e le nuove prospettive per il
domani mi spingono verso un cambiamento dei miei programmi. Ti prego perciò di accordarmi il permesso di frequentare con Oana la 3^ classe del liceo federale di Zurigo. Sia lei che i suoi genitori sono con me amorevoli ed ospitali. In
particolare, Donald e Annabeth sono felici che Oana abbia trovato in me una
compagna affettuosa e comprensiva. Credimi: sono seguita, accudita e bene
accetta. Ti prego perciò di acconsentire anche perché la Svizzera è un paese neutrale, un’isola di tranquillità e di sicurezza in un’Europa minacciata”.
***
Anche se i giorni continuano a sfilare ordinatamente, l’uno
dopo l’altro, senza scomporsi, vi sono eventi che spaccano in due il
tempo, come l’irrompere di un fiume, e separano in due tronconi la
nostra vita.
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Così, il 4 settembre, Segreta e la famiglia Mc Laglen non si
recarono ad ascoltare Atlanta che doveva esibirsi al Kellertheater di
Innsbruck, perché, nel frattempo, era scoppiata la guerra.
Infatti, il I° settembre, la Germania aveva invaso la Polonia e, il 3 settembre successivo, la Francia e la Gran Bretagna le avevano dichiarato guerra. Si era quindi determinata una situazione nuova e pericolosa.
In seguito all’annessione del 1938, l’Austria faceva ormai parte della
Germania e costituiva, per Atlanta e Segreta, territorio nemico. In conseguenza, mentre Segreta cominciava a trepidare per la sorte della
madre, Donald ritenne opportuno informare Atlanta, con un telegramma, che non potevano più recarsi ad incontrarla ad Innsbruck.
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CAPITOLO TERZO
Dopo il suo rientro ad Abingdon, Atlanta si era interamente
dedicata a Dorian junior che aveva ormai raggiunto i dodici anni.
Nell’aspetto, quel ragazzo le ricordava la figura longilinea del padre
e il suo viso gentile e lievemente scavato. Come il padre, i suoi occhi
erano chiari e luminosi anche se non emanavano la luce sofferta che
talvolta ombrava l’espressione di Dorian senior. Atlanta si era
abituata a rivedere in lui, magicamente riprodotta, la fisionomia del
marito. E, ogni volta, provava una stretta al cuore. Fra le sensazioni
che ora costituivano il suo panorama mentale e spirituale, si agitava
il rimorso di averlo fatto tanto soffrire. Soprattutto perché lui non le
aveva mai rivolto alcun rimprovero e si era soltanto preoccupato di
profondere, nei suoi confronti, pensieri amorevoli e ricchezze
materiali. Nel bilancio che spesso sottoponeva a se stessa, si sentiva
perciò in debito verso quell’uomo; e un simile sentimento aveva certo
favorito il suo isolamento. Ma non ne era la sola ragione. Dopo una
giovinezza trasgressiva e sregolata, era subentrato in lei il bisogno di
una vita moralmente ordinata.
La passione e la professionalità che caratterizzavano la sua attività artistica non avevano mai compresso il suo amore di madre. Anche
se, in modo intermittente a causa delle sue “tournées”, si era sempre
dedicata ai suoi figli con amore e sollecitudine. A scuola, i due ragazzi avevano riportato, in genere, un buon profitto. Segreta appariva
incline verso lo studio delle belle arti mentre Dorian junior non aveva
ancora dimostrato particolari tendenze. Al momento opportuno,
Atlanta avrebbe perciò preso, insieme a loro, le necessarie decisioni: la
sua intenzione era quella di iscrivere Segreta all’accademia delle belle
arti e Dorian jr. alla facoltà di economia. Inoltre, si riprometteva di
cedere la presidenza del gruppo dei lanifici al figlio, al raggiungimento della sua maggiore età, cioè fra sei anni.
Nella seconda metà di agosto, si preoccupò di scegliere il suo
guardaroba per il giro artistico in Austria. Burt Ladd aveva noleggiato
un volo charter che avrebbe condotto la comitiva ad Innsbruck. I viaggi di trasferimento nel territorio austriaco sarebbero stati poi effettuati
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con due pullman noleggiati attraverso l’agente austriaco. Il giro prevedeva sei tappe, da Innsbruck a Salisburgo, quindi a Linz, a
Vienna, a Graz, a Klagenfurt. Il rientro in Inghilterra era previsto per
il 28 settembre.
Qualche giorno prima della partenza, Atlanta ricevette la lettera di Segreta e rimase sconcertata. Si ripromise di pensarci e di parlare con lei di quel problema in occasione del loro incontro del
4 settembre, ad Innsbruck, la tappa più vicina alla Svizzera.
Il 31 agosto, partì dall’aeroporto di Londra, giunse a Innsbruck a tarda
sera e trascorse la notte nell’albergo scelto dall’agente austriaco.
L’indomani mattina, svegliandosi, apprese dalla radio che
le forze armate tedesche avevano invaso la Polonia. Il 2 settembre partecipò, con l’orchestra, ad una prova dello spettacolo nel Kellertheater.
Il giorno dopo, prima di andare in scena per il concerto di inaugurazione della tournée, udì alla radio la notizia che la Francia e l’Inghilterra
avevano dichiarato guerra alla Germania. In conseguenza, poiché l’anno prima, l’Austria aveva subìto l’annessione al Terzo Reich, Atlanta ed
i suoi compagni erano venuti a trovarsi in territorio nemico. Così, mentre lo spettacolo stava iniziando, intervenne drasticamente la polizia
nazista che sospese la rappresentazione. Atlanta ed i musicisti furono
ruvidamente fatti rientrare in albergo e vennero piantonati. Il giorno
dopo, Atlanta ricevette un telegramma da Donald Mc Laglen che fu filtrato dalla censura. Quando finalmente, la sera, le fu consegnato, lesse
che Segreta e la famiglia Mc Laglen non erano partiti in conseguenza
della dichiarazione di guerra. Si profilava, per l’orchestra un internamento. Subentrò allora, nei suoi componenti, uno stato di panico.
Atlanta chiese di telefonare al consolato di Gran Bretagna e fu autorizzata. Le venne risposto che la sede era stata chiusa in conseguenza della
rottura dei rapporti diplomatici fra i due stati. Tuttavia, per una fortunata coincidenza, il console era vicino al telefono. Prese la comunicazione e chiarì che stava rientrando in patria. Ma Atlanta gli spiegò la situazione e lo pregò di non abbandonarli. Il console conosceva il capo della
polizia nazista che controllava quella austriaca. Perciò, ottenne eccezionalmente, per tutta la comitiva, il permesso di rientrare in patria.
Così, il 5 settembre, Atlanta e gli orchestrali attraversarono la frontiera
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e ripararono frettolosamente in Svizzera. La loro avventura si era fortunosamente conclusa con un grande spavento e con una perdita finanziaria. Il giorno 7, Atlanta, lasciata la comitiva, giunse a Zurigo dove
fu accolta con sollievo da Segreta e dai Mc Laglen.
“Quindi, ora siamo nemiche?” chiese con apprensione ad Annabeth.
“No” fu la risposta “io ho assunto da tempo la cittadinanza svizzera.
Solo Oana è ancora tedesca.”
“Non vogliamo mettervi in difficoltà. Segreta ed io partiremo subito.”
Insorsero tutti, ma soprattutto Oana.
“No!” gridò “Non mi importa niente della guerra. Segreta ed io
abbiamo deciso di studiare insieme.”
Segreta si unì a quel coro.
“No, mamma, no. Voglio restare a Zurigo.” disse lamentosamente e
ripetutamente abbracciandola. Sembrava ritornata bambina.
Il caso fu sottoposto a Donald, al suo rientro a casa dal lavoro.
“Sono due ragazze. Non vedo problemi.” concluse lui pacatamente.
“Per me, non siete nemiche” aggiunse Oana rivolgendosi alle due
ospiti “ma solo sorelle in Cristo.”
Atlanta accolse commossa quelle insolite parole e l’abbracciò. La sera, lei e sua figlia si ritirarono nella loro camera.
“Sono molto combattuta per questa tua decisione di rimanere a studiare qui in Svizzera, tanto lontana da me e da tuo fratello.”
“Mi sono innamorata, mamma. Questo è l’unico posto dove potrò rivedere Wilhelm.”
“Ma è un ufficiale di una nazione in guerra. Per giunta, tuo nemico!”
“Queste cose non mi interessano. Io so solo che lo amo.”
“Che pazzia è questa?! Siamo in guerra! Rientriamo al più presto in
casa nostra.”
“Mamma, sono in un paese neutrale. Non corro alcun pericolo. Ti
prego, fammi rimanere.”
Atlanta era tormentata. Quella notte non chiuse occhio. Ma,
l’indomani, Annabeth concorse a rassicurarla.
“Questo è un paese neutrale” disse anche lei “Qui, Segreta è al sicuro”
Così, Atlanta ripartì, due giorni dopo, con la sensazione di aver
commesso un imperdonabile errore.
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CAPITOLO QUARTO
In novembre, Oana ricevette una lettera dal fratello e la lesse
insieme a Segreta.
“Come avrai appreso dalla stampa” scriveva Wilhelm “le nostre truppe hanno invaso, il I° settembre, la Polonia. Io ero in testa al mio plotone; alle ore 4,45, il mio carro arrivando in velocità, ha sfondato la
stanga della barriera di confine in località Kostrzyn ed ha proseguito in
territorio polacco. All’inizio, la nostra avanzata è apparsa vertiginosa.
Pensa, l’attacco è stato sferrato simultaneamente da ben 85 divisioni e
2000 aerei: una forza gigantesca che ha straripato in tutta la Polonia
con l’obiettivo di attuare una guerra lampo. Già il 7 settembre, la IV
armata proveniente dalla Pomerania si è riunita con la III, giunta dalla
Prussia orientale tagliando il corridoio di Danzica. Personalmente, ho
partecipato all’accerchiamento di Varsavia e alla sua capitolazione, il
27 settembre, dopo dieci giorni di incessanti bombardamenti. Solo sul
fiume Bzura, i polacchi hanno apposto una strenua ma temporanea
resistenza. Il 6 ottobre, è cessato ogni scontro anche per effetto dell’intervento sovietico da est. Subito dopo, la Polonia è stata spartita fra
Germania e Russia. A noi, è toccata la regione più ricca e popolosa del
paese, che abbiamo trasformato in un governatorato generale, quale
appendice del grande Reich”
Wilhelm continuava toccando altri argomenti e promettendo
alla sorella una visita, presumibilmente alla fine dell’inverno.
Concludeva con la richiesta di estendere agli zii ed a Segreta il suo
affettuoso ricordo.
Segreta rimase delusa. Si aspettava anche lei una lettera che
avrebbe potuto essere rivelatrice dei reali sentimenti di Wilhelm. Oana
dovette accorgersi evidentemente della sua caduta di umore; e, con la
delicatezza che faceva parte della sua natura, le chiese:
“Ti vedo turbata. È stato a causa della lettera di Wilhelm? Forse, ti
attendevi una parte più ampia per te?”
“Francamente, speravo di ricevere una lettera tutta per me”
“Non posso darti torto. Forse, arriverà”
“Non so. Mi sono accorta che non conto molto per lui”
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“Non è vero. Sono certa che ti vuol bene. Tu mi hai rivelato che lo ami.
Vedrai, anche lui ti amerà. Tu sei una creatura speciale”
“Sì, lo amo molto. È vero, amo anche mia madre, amo te, ma questo
mio sentimento per lui è diverso, più palpitante, più tormentoso.
Quando, all’improvviso, mi è scoppiato nel cuore, per me l’aspetto del
mondo è cambiato. Mi sono sentita invasa dalla felicità. Ma, poi, ho
constatato di non essere altrettanto amata. Perciò, quella grande gioia
si è trasformata in sofferenza. Sono qui, lo ricordo ardentemente e lo
attendo, ma lui è lontano con la mente e col corpo”
“Devi capacitarti che ha la responsabilità di un reparto in guerra”
“Sì, ma che cosa gli costava scrivere anche a me due righe!”
“Scrivigli tu, allora. Confermagli che lo ricordi e lo ami. E unisci la tua
lettera alla mia in modo da mandargliele insieme”
“Va bene. Lo farò”
Seguì il consiglio di Oana perché il suo cuore traboccava per
Wilhelm e voleva dirglielo. Lui aveva lasciato alla sorella il recapito
della sua posta militare. Gli scrisse a quell’indirizzo. Gli rivelò, fra
l’altro: “Quando ti penso, Wilhelm non posso fare a meno di confonderti con un dio corrucciato che scende dall’olimpo vichingo, circondato di fulmini. E così ti ho rivisto nella realtà, ciclopico, pensoso,
distante. Uno dei tuoi fulmini mi ha colpito, Wilhelm, e da allora ti
amo. Amami anche tu per sentire insieme che, per noi, il mondo ha
cambiato aspetto, che è dovunque primavera, che il cielo è sempre
azzurro. Come vedi, sono diventata romantica. Sì, il mio amore per te
mi ha trasformata. Vieni, allora, allevia coi tuoi baci, con le tue carezze il mio tormento. Porta nella battaglia l’immagine del mio viso, perché ti impedisca di vedere la carneficina della stupidità umana….”
Prima di spedirla, fece leggere ad Oana quella lettera.
“L’amore ti ha resa adulta” sussurrò lei.
“Si, è vero, è una fiamma che mi brucia e mi aiuta a vedere distintamente tutte le cose. Forse, un giorno, avrai anche tu questa esperienza”
“Non so. Non mi sento attratta dagli amori profani. Io amo Gesù
Cristo.”
“Un amore mistico! Quando l’hai scoperto?”
“Dopo la disgrazia. Quando i miei genitori sono morti, il dolore mi ha
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inebetita. Per mesi, sono rimasta muta e intontita, incapace perfino di
piangere ma con un gran macigno nel cuore. Poi, un giorno, mentre
riordinavo le fotografie della mia infanzia felice con loro, ho avuto
finalmente una crisi di pianto che si è protratta per ore. Nei giorni
seguenti, ho sentito il bisogno di pregare. Così è iniziata la mia conversione. È proprio vero: misteriosamente, il dolore ha effetti miracolosi. Mi ha spinto ad avvicinarmi a Dio, a farmi sentire la sua pace. Se
tu non fossi arrivata, io sarei certo entrata in convento. E, quando te ne
andrai, lo farò”
“Vedo che le nostre strade sono diverse. Io speravo, invece, che non ci
saremmo mai divise”
“Non è possibile. Tu sei troppo desiderosa dei piaceri del mondo. Devi
seguire le tue tendenze. Cerca solo di non perderti”
“Sì, è vero sono molto tentata dal desiderio del piacere. Solo accanto a
te ho sentito le mie smanie calmarsi. La pace che tu porti dentro di te
è probabilmente contagiosa. Sono stata bene con te, serena e placata,
almeno prima che quest’amore diventasse tormentoso. Vorrei averti
sempre con me”
“Resta allora, fin che potrai”
***
Nel dolore, Oana aveva trovato Dio e la sua pace. Segreta,
invece, era rosa da un tarlo tormentoso. Un giorno, pensò che doveva
rompere quel cerchio e progettò di rientrare ad Abingdon per ritornare
in possesso del proprio equilibrio. Ma, prima ancora di comunicare ad
Oana la sua intenzione, ricevette una lettera di Wilhelm. La ringraziava delle sue parole appassionate, l’assicurava di ricordarla con dolcezza e le preannunciava una visita a breve scadenza. Così, lei abbandonò
la sua idea e rimase a Zurigo.
Wilhelm giunse il 6 aprile 1940. Quando lo vide scendere dal
treno, alla stazione, lei gli buttò le braccia al collo e lo baciò con passione. Lui aveva sempre un atteggiamento austero. I suoi movimenti
erano lenti, scanditi, gli conferivano solennità. Forse, a causa della sua
adorazione, lei lo vedeva statuario, immenso e divino. Come sarebbe
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stato, si chiese, il loro rapporto carnale, come avrebbe potuto lei, piccola creatura mortale, accogliere un dio? Appena le fu possibile, si
appartò con lui in un declivio verde, lungo le pendici della collina che
conduceva a Rieterpark.
“Ho tanto atteso questo momento” gli disse con voce sofferta “quello
di sentire la tua voce, di rivedere il tuo volto. Ed ora sono felice”
“Sinceramente, ritenevo che avessi trovato, nel frattempo, uno studentino con cui vivere la tua adolescenza”
“Non credi allora al mio amore?”
“Sei ancora una bambina. Si tratta di una infatuazione che passerà”
“Non sono più una bambina. Il fuoco che tu hai acceso mi ha reso
donna. E sento che il mio amore durerà per sempre”
“Non credo di essere l’uomo per te, Segreta. Non sono più tanto giovane né mi sento portato verso le storie romantiche. Coma vedi, professo invece una cultura di morte”
“Perché dici questo?”
“Perché ho visto da vicino la guerra. Sotto la sua veste epica, nasconde distruzioni, morte, dolori. Ho visto morire il nemico, e poi tanta
gente che non aveva niente a che fare con l’idea della guerra: vecchi,
donne, bambini. Io percorro questa strada di morte che è appena
cominciata”
“Non credi che, pensando a me, allontanerai per qualche momento
quel quadro di dolore?”
“Sì, credo di sì. Ho sperimentato questa alternativa. Da un lato le
distruzioni e la morte e dall’altro il tuo viso che, per me, era un richiamo alla vita, alla gioia”
“Quindi, mi hai pensato?”
“Sì, certo. Proprio in quei giorni, ho sentito che la vista di una donna è
un dono radioso per un uomo. Ricordo che, una volta, sulla via di
Varsavia, ho scorto dal carro, lungo la strada, una giovane donna che
sosteneva in braccio un neonato e tendeva l’altra mano ad un bambino
più grande. Intorno, vi erano fumo e macerie, ma lei era là, immobile e
statuaria, come un monumento alla donna e alla madre, valido per tutti i
paesi e per tutti i secoli. Mi è rimasta impressa e mi ha spinto a ricordarti.
Sì, è vero. La donna è il dono più alto che il Signore ci ha elargito”
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“Se, un giorno, sarai stanco della guerra e del mondo, pensa che io
sono qui ad attenderti”
“La guerra sarà lunga. Non voglio prometterti nulla. Ma la tua immagine mi aiuterà”
“Questo è già tanto. Forse, un giorno, la guerra ti deluderà”
“Non al punto da spegnere la mia fede nei destini del Reich. Anche se
orribile, la guerra è necessaria per il futuro della Germania, costi quel
che costi”
“Ma ora basta con questi discorsi. Non mi desideri, Wilhelm?”
“Sì, ho visto che hai già il corpo di una donna. Sì, ti desidero. Ma, poi,
penso che hai solo 14 anni”
“Toccami, Wilhelm, fammi sentire il tuo desiderio” E, nel dire così, si
tirò su la gonna fino alle anche scoprendo le cosce. Lui le guardò, poi
protese una mano per accarezzarle. Subito dopo, alzò gli occhi. Lei si
accorse con gioia che il suo sguardo era cambiato. Generalmente,
quando la guardava, la sua mente sembrava distante, dispersa in
incommensurabili distanze. Ma ora i suoi occhi erano vividi, diretti su
di lei, accesi, non distolti da altri pensieri. La sua mano salì fino ad
accarezzarla al di sopra delle mutandine. Lei sussultò e dalle sue labbra uscì un gemito prolungato. Ma lui non insistette. Ritirò la mano, si
protese verso di lei e la baciò con forza, con una passione che non le
aveva mai dimostrato. Segreta si sentì paralizzata dalla felicità. Quel
bacio si prolungò per alcuni minuti, poi lui si ritrasse. Le vene delle
tempie gli si erano inturgidite, il suo naturale pallore aveva ceduto il
posto ad un lieve rossore. Ancora qualche attimo, poi si ricompose. Lei
fece altrettanto. Scese su di loro un imbarazzante silenzio. Infine per
riprendere la conversazione, Segreta gli chiese:
“Hai molte amanti, Wilhelm?”
Lui la guardò sorpreso, poi sorrise.
“Non ho amanti”
“Non dirmi che, con quell’aspetto, non hai acceso molti cuori”
“Sì, ho visto qualche volta degli occhi femminili fissi su di me. Ma io
ero diversamente occupato: prima gli studi del collegio, poi il servizio
militare e l’Accademia di Stato Maggiore, infine, l’addestramento
snervante dei reparti speciali e dei carristi”
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“Non dirmi che non hai mai avuto donne”
“Solo degli incontri brevi e occasionali”
“Non ti è mai successo di innamorarti?”
“No. Tuttavia voglio rassicurarti: le donne mi piacciono”
“Pensi che mi darai il tempo di crescere e di diventare la tua donna?”
“No, Segreta, non estorcermi promesse. Tu mi piaci ma la guerra è
appena cominciata. Non posso assumere impegni”
Wilhelm partì due giorni dopo e, nella piccola famiglia Mc
Laglen, la vita ritornò ai suoi ritmi consueti. I genitori di Oana ormai
sapevano che Segreta si era innamorata di Wilhelm; e che, tuttavia, fra
loro, non vi era stata alcuna promessa di fidanzamento. Per questo,
temevano che lei ne soffrisse. Dopo cena, si trattenevano in salotto o
in biblioteca a conversare. Donald non faceva mistero dei suoi sentimenti antinazisti. Annabeth era più riservata ma le due ragazze avevano compreso che disapprovava anche lei i metodi violenti e prevaricatori dei nazionalsocialisti.
Una sera, Donald ritenne opportuno intervenire nei confronti di
Oana che aveva plaudito all’occupazione lampo della Danimarca (9
aprile 1940).
“È un’aggressione” commentò amaramente “Una brutale aggressione.
Limiterei perciò il tuo entusiasmo. E tu” continuò rivolgendosi a
Segreta “non ti associare solo perché provi ammirazione per Wilhelm.
Ricordati che sei inglese e che i tuoi compatrioti si stanno battendo in
questi giorni, al centro e al nord della Norvegia, a sua volta invasa.
Plaudi, semmai, alla vittoria navale riportata dalla flotta britannica
nelle due battaglie di Narvik”
Oana e Segreta tacquero. Vi fu, nel salotto, qualche momento
di silenzio. Poi, Donald proseguì, come parlando a se stesso:
“Da anni, ho avuto il presentimento di questa svolta cruciale della storia d’Europa. I primi sintomi sono state le annessioni della Saar nel
1935, dei Sudeti nel 1938, e dell’Austria anch’essa nel 1938; poi, l’occupazione del territorio di Memer, ad est della Prussia Orientale, e la
costituzione del protettorato di Boemia e Moravia, entrambe nel 1939.
Tutte premesse dell’azione violenta che è venuta dopo, contro la
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Polonia ed ora contro la Danimarca e la Norvegia. Cosa accadrà ancora? Le operazioni contro la Francia hanno subito uno stallo, durante
tutto l’inverno, a causa della resistenza opposta della linea Maginot.
Ma Hitler non si fermerà di fronte a questo ostacolo. Ci ha già dimostrato di aver scelto la strategia della guerra lampo. Sento che accadrà
presto qualcosa.”
Gli fece eco Annabeth:
“Ho letto” mormorò “che Hitler ha concepito un progetto nazista di
conquista mondiale; e che questa sua idea prevede la distruzione del
cristianesimo. Secondo alcuni scrittori, intende creare un neo paganesimo che esalti la superiorità della razza ariana. Una prima dimostrazione ci è stata data dalle leggi religiose tedesche del 1935, che hanno
relegato le chiese protestanti in una specie di amministrazione controllata. Si è saputo, inoltre, che, nei territori occupati, molti sacerdoti
sono finiti nei campi di concentramento.”
“Questo non posso ammetterlo” insorse Oana “Come potremmo vivere senza la Chiesa di Cristo?”
“Giorni oscuri attendono l’Europa.” concluse Donald.
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CAPITOLO QUINTO
Fin dal marzo 1940, Atlanta aveva ricevuto dal suo impresario
Burt Ladd, recatosi appositamente ad Abingdon, la proposta di compiere un giro artistico in Francia.
“Ma è pericoloso” era stata la sua prima risposta “la Francia è in
guerra!”
Lo aveva fatto entrare nel soggiorno a veranda, la stanza dove,
generalmente, si tratteneva di più perché, attraverso varie vetrate, poteva vedere le verdi distese che circondavano “Greenplain house”, la
villa degli Heston. Dato che la veranda era ampia e luminosa, vi aveva
fatto collocare da tempo un pianoforte a coda. Sul lato opposto alla
vetrata, si vedevano un caminetto e, più in alto, molti quadri. Era quello il suo rifugio: là, studiava gli spartiti e provava le relative canzoni.
Cantava e guardava la campagna; e i suoi pensieri volavano. Sebbene
la villa fosse dotata di un impianto a termosifoni, nel caminetto si agitava, quel pomeriggio, un fuoco irrequieto. L’atmosfera era accogliente. Indossava un completo a maglia color viola pallido con collo alto.
I capelli erano raccolti sulla nuca con un grosso pettine tempestato di
piccole gemme. Di fronte a lei, Burt stava sprofondato in una grande
poltrona di ciniglia. Non era molto alto, Burt, e neppure molto attraente. Ma aveva occhi neri furbi e mobilissimi e capelli lanosi sui quali
erano apparsi alcuni fili d’argento. Poteva avere cinquant’anni.
Originario della Sicilia, si era trapiantato in Inghilterra agli inizi del
XX secolo al seguito di sua madre, vedova, che poi si era risposata con
un inglese. E da lui aveva ricevuto un nuovo cognome. Della sua razza
ardente, portava i tratti somatici. Per il suo fiuto commerciale e per la
sua scaltrezza, aveva accumulato molto danaro con traffici non ben
definiti. Quei suoi ingenti guadagni erano stati poi da lui investiti nel
finanziamento di spettacoli teatrali. Per un certo tempo, aveva lavorato in società con Herbert Quinslan che era allora il direttore del “Drury
Lane Royal Theatre” di Londra. Ed era stato appunto Quinslan a scoprire e lanciare Atlanta con il co–finanziamento di Burt. Lei ricordava
con emozione i tempi del suo debutto: in coincidenza col successo,
aveva ceduto alle insistenze di Burt ed era diventata la sua amante. Ma
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lui frequentava anche altre donne mentre lei era attratta da Dorian
Heston, l’uomo che avrebbe poi sposato. Una relazione così non
poteva durare. Tuttavia, anche dopo che era finita, Burt aveva continuato a desiderarla. Quel giorno, alla risposta di Atlanta, lui si era
limitato a guardarla ad a sorridere. Poi mentre i suoi occhi sfavillavano, le aveva sussurrato:
“Sei sempre magnifica! Non senti su di te il desiderio di tutti gli uomini che ti guardano? Come fai a rimanere così in clausura?”
Questa volta, era stata Atlanta a sorridere. Come poteva dirgli
che, dopo aver conosciuto un uomo superiore come Dorian, non riteneva nessun altro all’altezza? Lui, poi, Burt, così poco istruito e rozzo,
come poteva riempire il suo vuoto? Forse, solo in camera da letto
avrebbe potuto accenderla per qualche ora. Ma dopo? Aveva scosso il
capo e si era limitata a rispondergli:
“Mi sei molto caro, Burt. Ma, faticosamente, sono riuscita a convivere con me stessa. Non tentarmi”
Lui si era sporto in avanti ed aveva aperto la bocca per parlare.
Poi si era fermato a mezz’aria e le aveva rivolto uno strano sguardo.
“Cosa volevi dirmi, Burt?”
“Non ti piace più il sesso?”
“Sono cambiata, Burt. Desidero solo stare in pace.”
Lui aveva allargato le braccia con un gesto sconsolato.
“Ve bene, Atlanta, non parliamone più.”
“Allora, dimmi di questa tournée.”
“Staremo in Francia circa tre mesi.”
“E la guerra?”
“I tedeschi sono fermi di fronte alla linea Maginot. Da quest’inverno,
non succede niente.”
“Hitler non rinuncerà ad attaccare”
“Tutt’al più, vi saranno delle operazioni alla frontiera. Io sono fiducioso”
“Quando dovremmo partire?”
“Fra venti giorni”
Atlanta non era molto entusiasta, ma non voleva creare difficoltà a Burt. Tuttavia, poiché l’assenza sarebbe stata lunga, pensò di
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invitare i suoi genitori a trascorrere un periodo di soggiorno ad
Abingdon. In tal modo, Dorian jr. non sarebbe rimasto solo e avrebbe
beneficiato della vigile cura dei nonni. I coniugi Mc Guire avevano
soggiornato più volte a “Greenplain house”. Anche questa volta aderirono volentieri e giunsero il 20 marzo.
Così, il 28 marzo, Burt Ladd, Atlanta e l’orchestra intrapresero quel giro artistico in Francia. Il programma prevedeva soste di uno
– due giorni nelle principali città e di 15 giorni a Parigi. Lei si riprometteva poi, alla fine dei concerti, di andare a trascorrere alcuni giorni con Segreta a Zurigo. Il debutto avvenne a Montecarlo, di fronte ad
un pubblico cosmopolita e milionario. Seguirono Nizza, Marsiglia,
Tolosa, Bordeaux. Ovunque, il successo fu straripante, dovuto alla
accurata scelta dei testi, al livello artistico degli orchestrali e alle qualità sceniche e vocali della vedette. In particolare, la critica espresse a
più riprese su, di lei, giudizi altamente positivi. Il noto critico teatrale
Claude Delamir andò appositamente a sentirla e così espose la sua opinione sul “Paris Soir”: “Atlanta Mc Guire meriterebbe, insieme a Ella
Fitzgerald ed a Billy Holiday, il titolo di regina del jazz. Come loro,
infatti, proviene dall’olimpo della musica afro – americana e, in particolare, dello swing. La sua estensione vocale è assolutamente fuori dal
comune e si libra fra i toni gravi e baritonali e la cristallina limpidezza dei soprani lirici. Basta ascoltare la padronanza con cui affronta
“April in Paris”, l’interpretazione superba di “September Song”, il
romanticismo di “Prelude to a Kiss” di Duke Ellington, la malinconia
di “But not for me”, per rendersi conto della sua impareggiabile caratura artistica. È una “vocalist” completa e moderna in cui si fondono e
sono espresse in modo sofferto sensualità e tragicità.”
Purtroppo, mentre la tournée aveva il suo corso, sopravvennero dal fronte della guerra fatti nuovi ed allarmanti. Il 9 aprile, la
Germania invase la Danimarca e, subito dopo la Norvegia. Presso
Narvik, vi furono scontri navali fra unità inglesi e tedesche.
Ancora sei tappe (La Rochelle, Nantes, Angers, Bourges,
Chambord, Le Mans) con relative rappresentazioni, poi una notizia
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terrorizzante: le forze del III Reich avevano invaso il Belgio e
l’Olanda (10.5.1940). Due giorni dopo, erano già sulla Mosa, in
territorio francese. Fra la gente, cominciò a diffondersi il panico. La
tournée continuò in una atmosfera inquieta. Atlanta cantò ancora a
Lione, Digione, Troyes, Reims. Oltre alle canzoni del repertorio
swing americano, presentò anche alcuni celebri motivi francesi.
Intanto, le forze motocorazzate tedesche stavano dilagando nel territorio. Il 23 maggio, la I Armata francese ed il Corpo di Spedizione
Britannico (BEF) si trovarono separati dal grosso dell’esercito francese. L’avanzata delle divisioni corazzate era fulminea: procedeva
con una media di 50 km al giorno. Al contrario, la velocità di spostamento del pur poderoso esercito alleato era trattenuta dalle lente
divisioni di fanteria francesi che si affidavano al passo di marcia dei
fanti e dei cavalli.
IL 24 maggio, la compagnia giunse a Parigi e, la sera successiva, si esibì al “Theatre des Champs – Elysée.” Il successo fu caloroso ma non si verificò il consueto tutto esaurito. Visibilmente, la
gente non era serena e presente a se stessa. Mentre le repliche proseguivano per forza di inerzia, i tedeschi sfondarono l’ultima linea di
difesa sulla Somme (9 giugno).
Burt Ladd corse ai ripari. Cercò un volo charter per Londra
ma non trovò alcuna compagnia disposta a rischiare. Le rotabili dirette ai porti di imbarco per l’Inghilterra erano, d’altra parte, interrotte.
Burt, allora, noleggiò due torpedoni e tentò la fuga verso la Svizzera.
Ma i due mezzi furono attaccati da una squadriglia di aerei da caccia
tedeschi che li mitragliarono. Un pullman esplose, l’altro finì fuori
strada. Atlanta svenne nell’urto. Fu soccorsa da un’autoambulanza e
trasportata nell’ospedale di Auxerre. Apprese là, con raccapriccio,
che molti dei componenti della compagnia artistica, e fra loro lo stesso Burt Ladd, erano morti nel mitragliamento e poi nel ribaltamento
dei due autobus. Lei riportò nell’incidente diffusi ematomi, varie
contusioni, nonché una profonda ferita provocatale al fianco destro
da uno spuntone metallico, andata in suppurazione. Il 10 luglio, fu
dimessa. Fissò una camera in un albergo di Auxerre e iniziò la ricerca di un auto a noleggio che la trasportasse in Svizzera, da sua figlia.
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Due giorni dopo, però, fu bloccata da un drappello tedesco che stava
perquisendo l’albergo. Riconosciuta quale cittadina di un paese
nemico, fu condotta al posto di polizia, interrogata e poi inviata in un
campo di internamento.
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CAPITOLO SESTO
Le telefonate e le lettere che Segreta riceveva abitualmente
dalla madre si interruppero improvvisamente mentre era diffusa in tutti
la sensazione che un vortice funesto avesse attraversato e sconvolto
l’Europa, dalla Norvegia fino alla Francia, segnando brutalmente la
fine di un’epoca. Poi, un’altra notizia giunse a sconvolgerla: il 13 agosto (1940), l’aviazione tedesca aveva sottoposto Londra ad un terrificante bombardamento. Le incursioni si ripeterono nei giorni successivi con effetti devastanti coinvolgendo tutta la popolazione civile.
Aveva avuto inizio, infatti, la cosiddetta battaglia d’Inghilterra.
Segreta era in apprensione: aveva già scritto a Wilhelm pregandolo di interessarsi per sapere dove si trovasse sua madre. Dal 14
agosto, telefonò, poi, ripetutamente, alla loro villa di Abingdon. E,
dopo vari tentativi, riuscì a parlare con Dorian jr. Lo trovò tranquillo
come un cherubino e seppe che i bombardamenti non avevano raggiunto quella località.
Il 20 agosto, giunse una lettera di Wilhelm: la informava che
sua madre era stata inizialmente internata, in Francia, nel campo di raccolta di L’Épine. L’accusa a suo carico era di ostilità agli interessi del
Reich. Infatti, all’ordine di cantare, per le truppe di occupazione di
Parigi, canzoni in lingua tedesca, Atlanta aveva opposto un rifiuto.
Wilhelm si era presentato al comandante della piazzaforte di
Parigi e lo aveva pregato di liberarla. Ma non era stato esaudito. Aveva
soltanto ottenuto di vederla. Si era recato allora a L’Épine ma il comandante del campo di internamento lo aveva informato che era stata condotta in Germania. Aveva svolto, subito dopo, ripetute ricerche ma non
era riuscito a sapere in quale campo era stata rinchiusa. Concludeva
assicurandole che avrebbe continuato ad interessarsene.
Inaspettatamente, due giorni dopo, Segreta ricevette una lettera della madre, proveniente da Berlino. La lesse con ansia e apprese i
dettagli della sua odissea. Le diceva, inoltre, di essere in attesa di
assegnazione ad un campo di concentramento tedesco. Concludeva
raccomandandole di ricongiungersi, se possibile, a suo fratello e di
vegliare su di lui.
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Segreta aveva già accertato che le vie di comunicazione con
l’Inghilterra erano interrotte. Le era perciò impossibile rientrare in
patria. Nel settembre 1940, ricevette un’altra lettera di Wilhelm: “Mia
cara, le scriveva, non sono ancora riuscito, purtroppo, a liberare tua
madre. Ho potuto soltanto sapere che, attualmente è rinchiusa nel
campo di concentramento femminile di Ravensbrück, a nord di
Berlino. Io mi trovo in zona di operazioni, in una località lontana, e
non ho potuto ancora andare a visitarla. Spero di riuscirvi appena rientrerò in patria………”
Il contenuto di quella lettera fece precipitare Segreta, per qualche ora, in uno stato di prostrazione. Poi, la sua giovinezza ed il suo
forte carattere la indussero a reagire. Pensò che non poteva starsene
inerte a Zurigo. Doveva prodigarsi per raggiungere sua madre. Una
creatura normale avrebbe pianto e si sarebbe disperata. Ma lei possedeva una vitalità che la spingeva verso l’azione. Vi erano in Germania
due persone a lei estremamente care, sia pure sull’onda di sentimenti
diversi: Wilhelm e sua madre. Per raggiungerli, doveva recarsi in quel
paese. E poteva farlo solo in un modo: attendere che Wilhelm venisse
a Zurigo e poi fuggire con lui.
Formulato quel progetto, visse per esso. Ma ogni giorno, ogni
ora, trascorreva per lei in un’attesa insofferente. I mesi sfilarono penosamente. Si rifugiò nello studio e nella tenera amicizia di Oana, che le
appariva umile e sottomessa quanto saggia e giudiziosa. Non era
bellissima: aveva occhi chiari e capelli neri, un’espressione dolce e
malinconica e una personalità in penombra. Ma frequentandola, si
avvertiva la ricchezza che era dentro di lei. Attraverso la fede, aveva raggiunto una serenità interiore, una capacità di accettazione. La sua vicinanza giovava molto a Segreta, placava il suo ribollire, la sua ansia.
Finalmente, agli inizi di giugno del 1941, giunse Wilhelm,
ancor più silenzioso e ieratico del solito. Appena lo vide, lei lo abbracciò con impeto e lo investì:
“Mi hai lasciato senza notizie per mesi! Hai potuto far visita a mia
madre?”
“Sono stato molto impegnato col mio reparto in Polonia. Comunque,
appena rientrato in Germania, mi sono recato al campo di
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Ravensbrück. Sono riuscito a parlarle una settimana fa e mi ha consegnato questo biglietto per te.”
Segreta prese febbrilmente un foglio piegato in quattro, senza
busta, e lo lesse ansiosamente.
“Tesoro” vi aveva scritto Atlanta “un evento inaspettato e crudele ha
sconvolto la nostra vita. Ma non essere in pena per me. Io subisco privazioni sopportabili. Sono però angosciata per te e Dorian jr. Mi mancate molto e vorrei tanto vedervi riuniti. Quanto al tuo amore per
Wilhelm, credo che tu dovresti essere così saggia da attendere la fine
di questa guerra perversa. Ti stringo al cuore. Tua madre Atlanta.”
Segreta rimase per alcuni minuti in silenzio, in preda ad un’intensa emozione. Poi, alzò il capo e gli disse:
“Ti ringrazio per aver fatto visita a mia madre. Sei stato di parola.
Come l’hai trovata?”
“L’ho vista calma e presente a se stessa. Mi ha raccontato che è stata
autorizzata ad assistere le compagne ricoverate nell’ospedale del
campo. Questo le infonde coraggio.”
“Credi che potrai fare qualcosa per liberarla?”
“Mi sono presentato, a suo tempo, al mio colonnello e l’ho pregato di
intervenire. Ma lui ha rifiutato di farlo perché si tratta di una nemica.
Ed ha aggiunto che è compromettente per me dimostrare interessamento per lei”
“Me ne rendo conto. Ma sei l’unica persona sulla quale io posso fare
assegnamento”
“Chiederò aiuto ai miei nuovi superiori”
“Sei stato trasferito?”
“Sì, da un mese, con la promozione a capitano, sono stato destinato
all’Abwehr, cioè all’agenzia militare di spionaggio e controspionaggio
diretta dall’Ammiraglio Canaris”
“Che significa? Farai la spia?”
“Sono appena arrivato e mi sto indottrinando in questa struttura. Però,
ti prego di essere riservata sul mio nuovo impiego. Fuori da questa
casa, se te lo chiederanno, dirai che ora presto servizio presso il
Comando Supremo della Wehrmacht.-”
“Quindi, lavorerai a Berlino?”
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“Per ora, sì”
“Perché non mi porti con te?”
“Perché le bambine come te devono completare gli studi”
“Te l’ho chiesto, Wilhelm, perché in Germania vi sono ora le due persone che amo di più al mondo: tu e mia madre”
“Ti capisco;ma non è possibile”
Vi fu qualche momento di silenzio. Lei cominciò ad accarezzare un progetto. E, mentre lo studiava mentalmente, gli protese le braccia e, guardandolo con occhi adoranti, gliele strinse intorno al collo.
Erano soli, seduti su un divano del salotto.
“La mia attesa è stata snervante, Wilhelm, e, per me, sei ora come un
raggio di sole. Riscaldami con la tua tenerezza..”
Lui le accarezzò pensosamente i capelli ricciuti e le sussurrò:
“Ho avuto, per mesi, negli occhi, visioni di morte. È stato perciò un
sollievo rievocare il tuo viso. Anche tu, per me, sei come una ventata
di primavera”
La baciò con dolcezza, a lungo, poi riprese:
“Ricorderò questo momento”
Anche quando pronunciava parole d’amore, vi era solennità nel
suo gesto e nel suo sguardo. E, proprio in quel momento, Segreta prese
una decisione.
Quella notte stessa, furtivamente, si recò nella sua stanza. Lui
non dormiva; stava leggendo un resoconto. Non disse nulla nel vederla apparire ma Segreta lesse nei suoi occhi una compiaciuta sorpresa.
Restò in piedi a guardarlo, poi, lentamente, si sfilò la vestaglia. Il cuore
le batteva precipitosamente mentre lui l’osservava abbagliato.
“Così, hai deciso?”
“Sì.”
Wilhelm si alzò dal letto e si denudò a sua volta. Andò verso di
lei, l’attrasse a sé e la baciò voracemente, quindi la distese sul letto.
Segreta aveva affrontato quella situazione con una decisa volontà ma,
adesso, era quasi spaventata. Non aveva esperienza. Conosceva il
sesso soltanto attraverso i discorsi delle amiche. E, improvvisamente,
si trovava là, sola con un uomo, in un profondo, magico silenzio, per
farsi svelare da lui i misteri del piacere. Un uomo molto virile, a giu68
dicare da quello che vedeva: nella sua nudità, era statuario e implume,
formato da una muscolatura possente. Lei aveva gli occhi socchiusi
ma riusciva a scorgere il suo sguardo: l’austerità, il rigore che spesso
vi trasparivano avevano lasciato il posto ad un’espressione rapita che
riempiva di riflessi le sue pupille. E appariva anche molto esperto:
aveva cominciato a baciarla con silenziosa lentezza su tutto il corpo
mentre lei si torceva in un lungo spasimo mai provato. Ma non voleva
essere passiva: si sollevò, e, imitandolo, prese anche lei a lambirlo su
tutto il corpo. Era felice! Riusciva, con quelle carezze, a scioglierlo
finalmente, a renderlo umano! Ma giunse, poi, il grande momento:
Wilhelm la guardò con desiderio, le salì sopra e cominciò a penetrarla. Segreta si aggrappò alla sua schiena conficcandogli le unghie nella
carne. E, mentre lui continuava, lei sussultava e gemeva fino a prorompere in un grido soffocato. La sua verginità era finita e, con essa,
la sua dorata adolescenza. Non avrebbe più giocato con le bambole.
L’attendeva, ormai, la via dei dolori.
Si amarono per tutta la notte, poi la stanchezza e il sonno ottenebrarono il suo cervello. Allora, si accinse ad andarsene. Si alzò dal
letto e, nuda com’era, si chinò per prendere la vestaglia. Ma lui, stando disteso, le tenne una mano:
“Aspetta,” sussurrò “voglio ancora vederti” Lei si girò, nella luce del
paralume, e gli mostrò tutta la sua nudità. Aveva già i fianchi, le cosce
e il seno sviluppati ma, da tutto il suo corpo, emanava una delicata
innocenza.
“Sei bellissima” sospirò Wilhelm “ti ricorderò sempre così!”
“Desiderami sempre come stanotte”
Ritornò nella camera che condivideva con Oana. Lei dormiva
profondamente. Ma, l’indomani mattina, Segreta volle raccontarle
quella elettrizzante esperienza. E aggiunse:
“Ho deciso, Oana: fuggirò stasera con Wilhelm.”
“Lui lo sa?”
“No, non oserebbe, anche per rispetto verso i tuoi genitori. Ma io lo
metterò di fronte al fatto compiuto.”
“Ma ti rendi conto? Tu sei inglese. Come potrai avventurarti in Germania?
Ti arresteranno e ti manderanno in un campo di concentramento.”
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“Lui mi aiuterà e mi difenderà.”
“Vuoi proprio sfidare la sorte. È un azzardo.”
“Tu che sai farlo, prega per me.”
“Mi mancherai molto. In questi anni, ti ho amata come una sorella.
Con la tua vitalità, mi hai dato tanta forza”
“Grazie, Oana. Tu, da parte tua, hai saputo infondermi coraggio e conforto in questi mesi terribili. Sei la sorella che ho sempre desiderato.
Mi mancherà ora l’esempio del tuo equilibrio, della tua calma. Ma io
confido che Wilhelm saprà guidarmi e proteggermi”
Mentre preparava la valigia, le disse ancora:
“Non posso rivelare ai tuoi genitori il mio progetto. Mi impedirebbero
di attuarlo. Scriverò loro una lettera prima di partire”
“Prevedo che si agiteranno molto. Tu sei affidata alla loro responsabilità”
“Ma saranno tranquillizzati dal fatto che Wilhelm veglierà su di me”
“Sono molto turbata. Fra l’altro, come farai a presentarti a Wilhelm,
alla stazione?”
“Uscirò da casa nel pomeriggio. Dirò che debbo andare alla lezione di
educazione fisica.”
Dopo pranzo, mentre gli zii si trattenevano in salotto con
Wilhelm, Segreta andò a salutarli dicendo che doveva recarsi a scuola.
Poi, abbracciò Oana che piangeva e, non vista, uscì di casa con la valigia.
Giunse alla stazione con due ore di anticipo. Le servirono per
riflettere su quello che stava per fare. Ma, nell’incoscienza della sua
età, non aveva paura. Confidava in Wilhelm. Si trattenne nel caffè
ristorante, poi, allorché il treno diretto alla frontiera giunse, salì furtivamente in una carrozza e, col batticuore, attese la partenza. Poco
dopo, mentre il convoglio, si muoveva, vide dal finestrino allontanarsi
Zurigo. Ebbe allora, per la prima volta, qualche attimo di smarrimento. Col batticuore, si mise poi alla ricerca di Wilhelm, negli scompartimenti di 1^ classe. Quando finalmente lo scorse, intento a leggere,
ebbe soggezione ad affrontarlo. Rimase in piedi, nel corridoio, e stette
ad osservarlo finché lui, alzando casualmente il capo, la vide e sussultò per la sorpresa. Si alzò, uscì dallo scompartimento e le gridò, per
sovrastare lo sferragliare del treno:
“Cosa fai qui?”
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“Ho deciso di venire con te, Wilhelm.”
“Vuoi dire fino alla frontiera?”
“No, in Germania.”
“E come farai ad entrare?”
“Devi pensarci tu.”
“Bambina sventata! Non ti rendi conto che è un paese nemico?”
“Dì loro che sono la tua donna. Attribuiscimi un nome falso”
“Ma credi che sia così facile, senza documenti?”
“Risolvi questo problema, Wilhelm, perché io voglio vivere con te”
Lui appariva scuro in volto, evidentemente preoccupato. La
fece entrare nello scompartimento, che era deserto.
“Non essere arrabbiato con me perché io sono felice, Wilhelm, felice
di starti vicina, di aver trovato il vero scopo della mia vita. Sì, sono, in
questo momento, immensamente felice”
Lui aveva evitato di incontrare il suo sguardo perché era irritato. Ma quelle parole dovettero disarmarlo perché ricondusse gli occhi
su di lei, scosse il capo e, eccezionale in lui, scoppiò a ridere.
“Sapevo che sei una bambina ma mi accorgo adesso che ti comporti
come una bambina sventata.” e rise ancora.
“Sìì!!” gridò lei “così ti voglio!” E lo abbracciò freneticamente.
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CAPITOLO SETTIMO
Atlanta si distese esausta sul suo pagliericcio, nella baracca nr.
2 del campo di concentramento di Ravensbrück, nella Germania del
nord. Aveva lavorato tutto il giorno nel “revier “, l’ospedale del campo,
assistendo le detenute ammalate e lavando i pavimenti, le latrine, la
biancheria. Nei letti accanto, le sue compagne di baracca si erano coricate, anche loro sfinite, senza neppure lavarsi, dopo aver lavorato tutto
il giorno, sotto un sole sferzante, in opere di sistemazione stradale. Nel
locale, gravava un tanfo di sudore. Ad intervalli regolari, il riflettore,
dall’alto della torretta, passava davanti alle finestre della baracca con
la sua luce ostile. Vi erano, distanti, saltuari latrati dei cani delle sentinelle. Con la testa affondata nel cuscino di tela e paglia, socchiuse gli
occhi per riposare. Ma, giungendo da lontano, visioni e memorie si
affollarono nella sua mente impedendole di prendere sonno. La torturava soprattutto il ricordo angoscioso del caro Burt e dei compagni
d’arte, tragicamente periti in quel fatale 12 giugno (1940) mentre cercavano, insieme a lei, di fuggire in Svizzera. Poi, i tristissimi giorni trascorsi con i sopravvissuti nel lindo ospedale di Auxerre, in Borgogna.
Infine, il suo arresto, avvenuto il 15 luglio, insieme a tre orchestrali,
durante una perquisizione dell’albergo “Du cygne” in cui si erano rifugiati dopo la dimissione dall’ospedale, in attesa di tentare nuovamente
la via della Svizzera. L’arresto era stato effettuato dalla gendarmeria
francese, che operava sotto il controllo della Gestapo tedesca, come in
tutta la Francia occupata dal Reich.
Aveva trascorso alcune notti in una cella del posto di polizia,
separata dai suoi compagni, ed era stata interrogata sulle ragioni della
sua presenza ad Auxerre. Poi, una mattina, un gendarme l’aveva condotta alla presenza di un ufficiale di mezza età della Gestapo che sedeva in un ufficio del posto di polizia. Era rimasta in piedi di fronte a lui
ed aveva incontrato il suo sguardo ostile e glaciale. L’uomo indossava
un’uniforme scura ed era a capo scoperto. Aveva grosse borse sotto gli
occhi. Accanto a lui, stava in piedi un borghese. Il poliziotto si era
rivolto a lei in tedesco e l’uomo in piedi aveva tradotto:
“Nelle dichiarazioni rese al momento del vostro arresto, avete affer73
mato di essere una cantante di musica leggera. È esatto?”
“Sì”
“Bene. Sono stato incaricato di chiedervi se siete disposta a cantare per
le truppe del Reich”
“Voi sapete che sono inglese, non è vero?”
“Certo, è scritto sui vostri documenti.”
“Dovrei cantare quindi per i soldati che combattono contro la mia
patria?”
“Sarebbe un modo per sottrarvi al campo di concentramento.”
“Rifiuto, rifiuto decisamente.”
“Non volete collaborare, quindi con il grande Reich?”
“No.”
L’uomo l’aveva guardata accigliato. Poi, scandendo le parole
con le labbra atteggiate ad una espressione di disprezzo, si era sporto
in avanti sibilando:
“Non hai capito, sgualdrina, che sei in nostro possesso? Che potrei
mandarti in un bordello per tutto il resto della tua vita?”
L’interprete si era rivolto verso di lei con viso costernato traducendo con visibile disagio. Ma Atlanta aveva capito, dal tono secco
e metallico della sua voce, che quello la stava minacciando. Si era controllata pensando che, dopo aver incontrato tanti uomini e migliaia di
spettatori, il suo fascino, questa volta, non aveva funzionato.
“Non intendo collaborare.” aveva ripetuto con voce ferma.
Allora, l’ufficiale si era alzato di scatto, aveva congedato bruscamente l’interprete e, fatto il giro della scrivania, si era piantato
davanti a lei. Atlanta aveva temuto che volesse violentarla. Invece,
l’ufficiale si era soffermato ad osservarla con occhi carichi di livore.
Poi, fulmineamente, le aveva sferrato un violento schiaffo al volto. Lei
era crollata senza un grido mentre l’energumeno si allontanava sbattendo la porta. Era stata soccorsa dall’interprete, un uomo anziano dall’aspetto dimesso. Il suo viso sanguinava.
“Mi dispiace molto.” aveva mormorato l’uomo in francese. Aiutata da
lui, si era rialzata. Quello le aveva offerto il proprio fazzoletto. Quindi,
erano entrati nell’ufficio due gendarmi che, senza asprezza, l’avevano
ricondotta in cella.
74
Due giorni dopo, era stata fatta salire su un autocarro, insieme
ai tre orchestrali arrestati con lei e ad altri uomini e donne. Su quel
mezzo, coperto da un tendone, aveva viaggiato per ore, attraversando
paesi e campagne fra nuvole di polvere, fino ad un centro di raccolta
costituito da alcune baracche circondate da un recinto in filo spinato.
Tutti i prigionieri erano stati concentrati in un piazzale, sotto il sole
ardente, di fronte a soldati in uniforme grigio-azzurra che sbraitavano
ed a inservienti in abiti civili che portavano un bracciale con la croce
uncinata. Gli uomini erano stati separati dalle donne. Poi, in un tendone, tutte le internate avevano avuto l’ordine di denudarsi, sotto gli
occhi incupiti dei soldati. Alcuni le fissavano con un sorriso ebete, altri
le motteggiavano. Atlanta era stordita. Le sembrava di vivere in un
incubo. Con le altre, era stata spinta verso la sezione centrale del tendone dove funzionavano, in batteria, numerose docce. Il getto di acqua
gelata l’aveva rigenerata e scossa. Subito dopo, le donne erano passate in fila di fronte ad un’inserviente che aveva spruzzato loro addosso,
con un soffietto a pompa, una nuvola di polvere insetticida. Infine, in
fondo al tendone, aveva ricevuto, come le altre, una casacca di tela grigia con la quale si era rivestita.
Nel frattempo, aveva appreso che si trovava nel campo di raccolta di L’Épine, un villaggio della Champagne posto nelle vicinanze
del fiume Marna. Le avevano assegnato un posto in una baracca. Da
una finestrella, si era soffermata a guardare, nella luce calante del tramonto, le guglie di una maestosa cattedrale, che svettavano in distanza come una visione irreale. Una donna di mezza età, che condivideva
con lei il letto a castello, le aveva spiegato che si trattava della cinquecentesca basilica di Notre Dame, rimasta isolata nella pianura.
Quell’immagine sospesa tra cielo e terra sembrava un arcano monito,
tanto distante dall’atmosfera di rabbia e di apprensione della baracca,
dove ogni reclusa aveva una sua storia.
Atlanta stava vivendo quella prigionia in silenzio reagendo con
dignità e compostezza alla concitazione che la circondava. Dentro di
sé si rodeva, è vero, tanto ingiusta e beffarda le appariva quella imprevedibile svolta del suo destino. Tuttavia, miracolosamente, non si sentiva spinta a recriminare, a inveire, a maledire. Vi era in lei la capacità
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di accettare, di essere rassegnata con la speranza che quell’incubo si
sarebbe un giorno dissolto. Era sostenuta da una forza accumulatasi in
lei giorno per giorno, mentre trascorreva, nell’isolamento e nel rigore
morale, la sua vedovanza. Dopo la morte di Dorian, si era chiusa infatti nella propria interiorità e, in essa, aveva trovato un barlume di fede
ed il bisogno di pregare. Ora, nel momento del dolore, sentiva che, soltanto nella preghiera, avrebbe potuto far riposare il suo animo tormentato. E ad essa si era abbandonata cercando pace.
Quindici giorni dopo, era giunto al campo un colonnello delle
SS. La notizia del suo arrivo aveva provocato nelle internate una sensazione di diffuso timore. Quel corpo separato politico – militare
del partito nazionalsocialista, preposto alla sicurezza personale di
Hitler, era già tristemente noto per la crudeltà e l’attitudine a delinquere dei suoi componenti. Perciò, aveva provocato nel campo
molta agitazione l’ordine impartito alle recluse, con l’altoparlante,
di adunarsi nello spiazzo centrale. Dopo che tutte si erano allineate, Atlanta aveva visto avvicinarsi allo schieramento un gruppetto
di persone. Fra loro, spiccava un uomo alto e snello, con le spalle
larghe, che indossava l’uniforme nera delle SS. Passava in rassegna
le internate chiedendo a ciascuna le generalità. A due di loro, aveva
già ordinato di uscire dalla fila.
“Sta cercando le ebree.” aveva sibilato sottovoce una donna inquadrata accanto a lei.
L’uomo in uniforme si era infine avvicinato ad Atlanta e l’aveva fissata intensamente. Lei si era sentita gelare il sangue. Alle sue
domande, aveva brevemente esposto i motivi della sua presenza in
Francia e del suo arresto. Lui portava sulle spalline e sul berretto dei
fregi argentei. Atlanta aveva perciò supposto che si trattasse di un ufficiale. Parlava bene il francese. Si era rivolto a lei in quella lingua
dicendole con voce decisa e robusta:
“Il vostro caso mi interessa. Voglio parlarvi. Andate ad indossare i
vostri abiti e aspettatemi all’uscita del campo. Partirete con me”
Atlanta aveva provato la sensazione inquietante che la sua vita
fosse giunta ad una nuova svolta. Lo aveva atteso all’uscita con la vali76
gia. Lui si era sporto dal finestrino della sua Mercedes nera e le aveva
fatto cenno di salire. Poi, a bordo, si era presentato:
“Sono il colonnello Erwin Zeitzler” Il suo viso le parve lungo e stretto, con una larga ruga verticale ai lati della bocca, ed i capelli neri
tagliati a spazzola. Era stata colpita dall’espressione fosca dei suoi
occhi oscuri e profondi, che sembravano due pezzi di carbone, senza
alcuna luce sotto le grosse sopracciglia nere.
Il suo sguardo fisso su di lei la faceva sentire a disagio. Aveva
compreso che quell’uomo la desiderava ma una simile prospettiva le
procurava soltanto insicurezza. In macchina, lui si era rivolto verso di
lei per chiederle notizie sulla sua vita e lei gli aveva parlato dei figli e
del lavoro. Lui assentiva col capo senza mai sorridere. Era ormai giunto il crepuscolo. La macchina procedeva velocemente ed aveva raggiunto un abitato. Da alcune insegne, lei si era accorta che erano entrati nella periferia di Parigi. Ancora un quarto d’ora, poi l’auto aveva terminato la sua corsa davanti ad un cancello. Gravavano sulla città le
prime ombre della sera, ma, alla luce dei fari, lei aveva intravisto, al di
là del cancello, una villa.
Lui l’aveva accompagnata all’interno attraversando un’anticamera elegante in stile Luigi XVI, poi si era inoltrato in un ampio
vestibolo dove troneggiava una monumentale scala marmorea. Le
pareti recavano stucchi che inquadravano quadri d’epoca, con ricche
cornici dorate.
“Questa è la mia casa, qui a Parigi.” aveva esclamato “Apparteneva
ad un ricco banchiere.”
Atlanta non era in uno stato d’animo che la spingesse a replicare. Aveva solo pensato che si trattava di una delle tante abitazioni
signorili brutalmente requisite per alloggiare gli alti comandi ed i
gerarchi nazisti.
Giunti al piano superiore, lui l’aveva condotta in una camera
da letto, anch’essa arredata con mobilio in stile. Addossato ad una
parete, troneggiava un lungo armadio. Si era avviato in quella direzione e, aperti due battenti, le aveva mostrato molti abiti femminili
appesi in fila.
“Sceglietene uno per questa sera. Ceneremo insieme.” Si era sforzato,
77
nel pronunciare quelle parole, di addolcire la sua voce solitamente
imperiosa.
“Presumo che questo sia il guardaroba della ex padrona di casa.”
“Penso di sì. Ho trovato questi vestiti così come li vedete.”
“Mi ripugna indossarli.” aveva detto con calma Atlanta.
Lui si era irrigidito e, con le sopracciglia aggrottate, l’aveva
guardata irritato. Poi, si era portato presso l’armadio spalancato, aveva
cercato concitatamente, si era impadronito nervosamente di un abito da
sera in raso cremisi e lo aveva gettato sul letto.
“Mettete questo!” aveva sibilato.
Atlanta appariva esterrefatta. I loro sguardi si erano incrociati e
lui, specchiandosi in quegli occhi luminosi e pacati, aveva ritrovato la
sua calma. Si era allora limitato a dirle:
“Scusatemi ma non sopporto di essere contraddetto.”
Erano rimasti in silenzio, di fronte, poi, lui aveva abbozzato un
inchino ed era uscito.
Atlanta era scesa puntualmente indossando un tailleur nero
ricamato al bavero e alle tasche. Procedeva sinuosa muovendosi con la
consueta eleganza. Zeitzler l’aveva guardata ammirato. Nei suoi occhi
solitamente opachi, si era acceso un inconsueto sfavillio.
“Siete bellissima!” aveva mormorato baciandole la mano. Ma, subito
dopo, gli era sfuggita un’esclamazione:
“Non è questo l’abito che avevo scelto!”
“No, non mi piaceva.”
Una pausa. Poi, Zeitzler aveva ripreso:
“Venite al pianoforte, vi prego. Prima di andare a cena, vorrei sentirvi cantare.”
L’idea di esibirsi per un nemico la irritava. Ma le circostanze
erano tali da sconsigliarle un rifiuto. Riluttante, si era avvicinata ad un
pianoforte che occupava un angolo del salotto e si era seduta alla
tastiera imponendosi di pensare che avrebbe cantato per i suoi due figli
lontani. Aveva eseguito a mezza voce il nostalgico “Harbour lights”.
Erwin Zeitzler stava appoggiato al piano e l’ascoltava attentamente,
senza tuttavia tradire emozioni. Al termine del brano, l’aveva applaudita chiedendole di cantare ancora. Atlanta si era imposta di dissimu78
lare il suo disagio e aveva cantato “Barcarolle of love”. Ma la sua voce
era incrinata.
Più tardi, nella sontuosa sala da pranzo stile “Chippendale”, si
erano seduti per cenare. Con una occhiata, Atlanta aveva notato che
l’organizzazione era perfetta: tovaglia di fiandra color verde oliva con
orli delicatamente ricamati, vasellame in porcellana di Rosenthal, doppieri d’argento con candele dorate. Il servizio era assicurato da due
irreprensibili cameriere francesi.
Ma lei non riusciva ad apprezzare quelle ricercatezze. Pensava
a ciò che sarebbe successo dopo. Si sentiva addosso gli occhi del
colonnello: scuri, profondi, inquietanti nella loro fissità sotto le
sopracciglia cespugliose. Non tradivano né concupiscenza, né ammirazione. Le pietanze erano squisite dopo la brodaglia del campo. Ma
non era in grado di gustarle a causa del disagio che le procurava quello sguardo indagatore. Non voleva alimentare in quell’uomo aspettative. Perciò, cercava di sfuggire alle sue occhiate. Ma la conversazione languiva. Evidentemente, lui era un interlocutore silenzioso. Lei,
da parte sua, aveva la mente altrove. Tuttavia, spinta dalla curiosità,
gli aveva chiesto:
“Avete trovato molte donne ebree nel campo?”
“Abbastanza. Se ben ricordo, cinquantasei, di diverse nazionalità”
“Cosa ne farete?”
“Saranno tutte inviate in Germania, ai lager di lavoro.”
“Povere donne! Che male vi hanno fatto?”
L’uomo aveva stretto la bocca e abbassato il capo. Atlanta si
aspettava una filippica in favore delle leggi razziali conclamate da
Hitler. Invece, si era limitato a mormorare:
“Detesto questo lavoro.”
“Allora, perché lo fate?”
“Perché sono un soldato.”
“Siete un militare di carriera?”
“Sì, reclutato dalle patrie galere.”
“Come?”
“È una lunga storia. Non voglio affliggervi.”
“No, mi interessa.”
79
“Un tempo, facevo l’ingegnere. Ma avevo un brutto carattere. Così,
un giorno terribile, in un accesso di rabbia, ho strangolato la donna
che amavo.”
A quel punto si era fermato. Aveva letto sorpresa e raccapriccio
negli occhi di Atlanta.
“Vi ho stupito?” La sua voce era malferma. Finalmente, lei aveva scorto in quegli occhi fondi un’espressione: forse smarrimento, disperazione. Non gli aveva risposto. Si era limitata a guardarlo, muta.
“Ora mi disprezzerete. Eppure, vi assicuro, le volevo bene. Ma ho una
maledetta natura violenta.”
“Cosa è successo dopo?”
“Mi sono costituito e sono stato condannato all’ergastolo. Ma, poi, è
arrivato il nazionalsocialismo: Hitler doveva reclutare una sua guardia
del corpo formata da uomini decisi a tutto. Ho aderito e sono stato
ammesso al nuovo corpo delle SS”
“Siete stato arruolato col grado di colonnello?”
Lui aveva storto la bocca in un tetro sorriso.
“No, certamente no. Ma, per il mio titolo di studio, sono stato collocato nella categoria degli ufficiali. Poi, ho avuto un colpo di fortuna: ho
salvato la vita a Himmler , il capo di tutta la polizia nazista.. E lui mi
ha ricompensato promuovendomi a questo grado”
“Una rapida carriera! Dovreste essere soddisfatto!”
Zeitzler non aveva risposto mentre riempiva di vino il suo bicchiere, in aggiunta agli altri bevuti prima. Adesso, era diventato più
loquace. La mente non più lucida lo aveva spinto a confessare, con gli
occhi fissi nel vuoto:
“Da quel giorno fatale, le mie notti sono un tormento.”
“Se provate questo, allora la vostra coscienza è ancora vigile.
Evidentemente, non vi siete del tutto indurito, la violenza su un vostro
simile vi fa orrore. Siete perciò in tempo per salvarvi.”
“Salvarmi da cosa?”
“Dalla punizione di Dio. Dalla dannazione eterna”
“Come potrò salvarmi facendo questo mestiere? Ma ora non voglio
più parlare di me. Preferisco farvi una proposta. Ci ho pensato appena vi ho vista”
80
Atlanta aveva tremato, in silenzio.
“Non volete sapere di che si tratta?”
Lei si era limitata a rispondergli con un tremito:
“Dite pure”
“Voglio offrirvi la possibilità di rientrare in Inghilterra e di riprendere
la vostra vita consueta accanto ai vostri figli ma soprattutto proseguendo nella vostra carriera”
Atlanta aveva alzato il capo, sorpresa. Lui la stava scrutando.
Questa volta, lei aveva decifrato il suo sguardo: era acceso e trasudava furbizia.
“A quale prezzo volete offrirmi questo paradiso perduto?”
“Dovreste soltanto fornire all’ S.D., il nostro servizio segreto, delle
informazioni che vi saranno richieste.”
“In sostanza, dovrei fare la spia?”
“Io vi starei vicino. Ho la possibilità di seguirvi in Inghilterra come
agente segreto. Potrei aiutarvi nel vostro lavoro e diventare il vostro
compagno di vita.”
“Vedo che mi state chiedendo due cose: fare la spia e, nello stesso
tempo diventare la vostra amante.”
“Sì, sarebbe per voi un cambiamento di vita stimolante.”
“È stimolante tradire la propria patria?”
“Sarebbe il prezzo da pagare per sottrarvi all’inferno di un campo di
concentramento.”
“Un prezzo altissimo! La perdita dell’onore!”
“Vi aiuterò a superare questi scrupoli.”
“Non posso accettare”
“Aspettate. Non siate precipitosa. Pensateci.”
A quel punto, la conversazione aveva subito un arresto. Ma
anche la cena, nel frattempo, era finita.
“Vi ho fatto queste proposte” proseguì lui poco dopo “perché mi piacete molto e voglio aiutarvi. Nello stesso tempo, potrei trovare anch’io,
finalmente, una vera ragione di vita.”
Atlanta era rimasta in silenzio, a capo chino. Lui aveva allungato una mano sovrapponendola alla sua, sulla tovaglia.
“Vorrei stare con voi, stanotte.” aveva mormorato. Lei si era sentita
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stringere in una morsa. Il momento temuto era arrivato.
“Da quando è morto mio marito” aveva risposto, poi, con voce strozzata “ho sentito il bisogno di rispettare la sua memoria.”
“Siamo in guerra, Atlanta. Tutte le buone abitudini sono state
sconvolte.”
“Me ne sono accorta, colonnello. Ma vi prego, sono stanca; fatemi
ritornare in camera mia.”
Lui si era stretto nelle spalle. Poi, con il volto contratto, senza
guardarla, le aveva detto:
“Come volete. Andate pure. Vi ringrazio per la serata.”
Lei si era alzata e, prima di avviarsi, gli aveva chiesto:
“Cosa accadrà domani?”
“Domani partirete.”
“Per dove?”
Lui aveva eluso la domanda e si era limitato a dirle:
“In camera, troverete la vostra valigia, quella che avete lasciato all’albergo di Auxerre. L’ho fatta recuperare.”
Quella notte, Atlanta aveva dormito poco e male, oppressa da
una sensazione di grande provvisorietà. Il letto era comodo e spazioso
ed aveva lenzuola di seta. Ma lei sentiva già il fetore della baracca del
campo di concentramento.
L’indomani mattina, un agente delle SS era venuto a prelevarla: dopo aver bussato alla porta della sua camera, le aveva ordinato di
prepararsi. Era scesa con lui nel parco dove un furgone li attendeva.
Mentre l’agente prendeva posto accanto all’autista, lei era stata rinchiusa nella parte posteriore, predisposta per trasportare persone e
dotata perciò di un sedile allineato lungo le pareti.
Il veicolo aveva viaggiato a lungo, spesso sobbalzando fino a
che, spossata, si era assopita. Dopo un numero indefinito di ore, il
viaggio era finito ed Atlanta aveva potuto scendere. Era sera, e intorno
a lei, premeva un buio totale. Qualcuno l’aveva presa per un braccio.
Una porta si era aperta dinanzi a lei, in distanza. Accompagnata da
quello sconosciuto, aveva varcato una soglia e si era trovata in un elegante androne illuminato. Aveva guardato il suo accompagnatore: era
lo stesso agente delle SS dall’aspetto patibolare che l’aveva prelevata
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e presa in consegna a Parigi. Era stata da lui condotta in un ascensore
fino ai piani superiori. Sul pianerottolo, un’altra porta si era aperta.
L’accompagnatore l’aveva fatta entrare in un lussuoso appartamento e,
poi, in una stanza da letto. Atlanta era sorpresa. Riteneva che quel furgone l’avrebbe condotta in un campo di concentramento e, invece, ora
si trovava là in quella camera arredata in stile moderno. Altre prove,
evidentemente, l’attendevano. Mentre si poneva delle domande su
quella che sarebbe stata la sua sorte, avevano bussato alla porta ed era
entrato Zeitzler. Lei se l’aspettava.
“Prevedevo di rivedervi.” gli aveva detto “Posso sapere dove mi
trovo?”
“Siete a Berlino, Atlanta, nel mio alloggio.”
“Vi avevo pregato di lasciarmi andare.”
“Dovrei ammirarvi, Atlanta. Ma mi viene spontaneo di dirvi, invece,
che state scherzando col fuoco. Siete in mio potere, Atlanta, ricordatevelo. Perciò, riposatevi ora e preparatevi a cenare con me domani
sera. In quell’armadio vi sono molti vestiti. Sceglietene uno e non
fate storie.”
Le aveva baciato la mano guardandola coi suoi occhi fondi,
quindi si era congedato con un inchino sbattendo i tacchi.
La stanchezza aveva prevalso sull’inquietudine consentendole
di dormire l’intera notte. L’indomani, nessuno l’aveva disturbata. Ma, a
metà della mattinata, una cameriera di mezza età aveva fatto capolino
alla porta per dirle in tedesco che, se lo desiderava, poteva accomodarsi in biblioteca per consultare qualche libro. Atlanta l’aveva ringraziata e si era recata in una vasta stanza arredata con alte scaffalature colme
di libri ben rilegati. Aveva potuto constatare che l’appartamento era
molto spazioso e che l’arredamento annoverava mobili moderni con
linee rigide e impiallacciature in acero e in ebano, lucide e fredde. Sì,
questa era stata la sua impressione preminente: una sensazione di freddezza anonima e raggelante si sprigionava da quelle stanze, dai mobili, dai soprammobili stilizzati, dai quadri e perfino dai candelabri. La
biblioteca abbondava di raccolte di leggi dello stato, di compendi giudiziari e di opere dei padri della letteratura e della filosofia tedesca.
Passando in rassegna gli scaffali, aveva scorto testi del famoso
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poeta Stefan George, di J. W. von Goethe, Georg W.F. Hegel, Friedrich
Nietzsche, Ernest Jünger, Knut Hamsun, ecc. Nei salotti inglesi, quei
poeti, filosofi e pensatori erano considerati come i teorici del nazionalsocialismo. Poi, parlando a Zurigo con Donald Mc Laglen, aveva
appreso che Hitler ed i suoi seguaci erano riusciti, in realtà, a distorcere il loro pensiero eleggendoli, con abili manipolazioni, a guide ideologiche del proprio movimento.
Mentre stava ancora consultando alcuni testi, era sopraggiunto
il colonnello Zeitzler, impettito nella sua attillata ma spettrale uniforme nera. Aveva sorriso nel vederla impegnata nella sua biblioteca.
“Vi interessano i nostri scrittori?”
“Ho trovato grandi nomi che hanno modellato il pensiero umano.
Avete formato voi questa biblioteca?”
“No, certamente no. Quello che vedete è il frutto di un lavoro di raccolta di decenni. Il proprietario di questa biblioteca e dell’intero appartamento era un professore universitario morto recentemente. I suoi
eredi me lo hanno ceduto in affitto.”
“Forse, avreste preferito una lettura più amena.”
“Vi sono dei testi di narrativa che ho divorato. Tuttavia, ero incuriosito da questi conclamati autori. Ho letto dei brani, ma la mia passione
è, al di sopra della letteratura, la musica. Adoro Wagner.”
Zeitzler aveva ripreso quel discorso la sera, a cena, nella camera da pranzo, immersa nella luce dorata di alcuni paralumi che addolcivano la schematicità scostante del mobilio. Sul tavolo, splendeva
anche la luce di varie candele. Atlanta era intervenuta indossando un
proprio abito da sera grigio perla con guarnizioni in amaranto.
Pur senza scomporsi, il colonnello le aveva rivolto alcune frasi
di ammirazione. Ma, nei suoi occhi perforanti, era evidente il desiderio. Atlanta aveva sorriso.
“Perché ridete?”
“Perché, con i vostri complimenti, mi fate dimenticare la mia condizione.”
“Sta a voi cambiarla. Ma di questo parleremo dopo cena.”
La sua voce ed il suo sguardo erano adesso pacati, l’atmosfera
rassicurante. In sottofondo, un fonografo diffondeva le note sublimi di
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“La morte di Isotta” di Wagner. Un cameriere ed una cameriera si avvicendavano nel servirli a tavola.
Ad Atlanta, quella cena e le parole cortesi che si scambiavano
sembravano una farsa: in realtà, lei era una prigioniera e lui il suo carceriere, desideroso di possederla. Perciò, solo per dignità era stata al
gioco ed aveva retto la conversazione. Lui le aveva chiesto di parlargli
dei suoi figli e lei si era accorta che la sconvolgeva ogni accenno all’infanzia di Segreta e di Dorian jr. Ad un certo punto, si era fatta coraggio e gli aveva chiesto:
“I miei figli non hanno più notizie di me. Vorrei scrivere loro un lettera. Potreste fargliela recapitare?”
“Certamente!” aveva risposto Zeitzler. Poi, il discorso era ritornato sul
tema dei grandi pensatori che avevano analizzato il percorso e l’evoluzione dell’anima germanica.
“Voi penserete che io trascorra le mie ore libere in compagnia di donne
compiacenti. Ma non è così: leggo molto. Così, ho appreso molte verità su noi stessi.”
“Quali verità?”
“Vi interessa? Non vorrei annoiarvi.”
“Può darsi che mi aiutino a capire il cataclisma che si è scatenato
sull’Europa.”
“Ebbene, la Germania è diventata, negli ultimi anni, un’entità politica
e nazionalista che si estende alla cultura, concepita come i nostri grandi spiriti avevano vagheggiato, da Goethe ad Heine, da Gneisenau a
von Wartenberg. Essi ed altri hanno elevato l’ideologia “Volkische”,
cioè il potere del popolo, considerato una collettività eroica rivolta a
realizzare il destino nazionale. Il “das Volk”, cioè il popolo, è saldamente radicato nel sacro suolo nazionale. Il rapporto fra il “das Volk”
e la terra si riporta ad una simbiosi arcaica, atavica e precristiana, una
vera e propria energia pagana pronta ad esplodere in qualsiasi
momento. E, mentre il popolo tedesco ha profonde fondamenta nella
terra e nel suo passato, lo straniero è privo di radici ed è quindi sinonimo di irrequietezza. Perciò, costituisce una minaccia per la sicurezza della nazione. In particolare, gli ebrei sono l’incarnazione vivente
di questa mancanza di radici e di questa minaccia.”
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“Tutti i popoli sono fortemente attaccati al suolo nazionale” aveva
osservato Atlanta “ma non considerano una minaccia lo straniero che
viene con buone intenzioni.”
“Il popolo tedesco è diverso, non può essere paragonato ad altri.”
“Sono stupita di queste idee. Credete che il popolo tedesco sia superiore agli altri?”
“È quanto viene affermato dalla dottrina nazionalsocialista.”
“Ma voi, personalmente, ci credete?”
“Penso che il popolo tedesco sia da sempre inquieto e tormentato.
Adesso, poi, è votato alla dannazione. Se mi date ascolto ancora per
qualche minuto, ve lo dirò.”
“Parlate pure.”
“Nella cultura tedesca, durante i secoli della sua formazione, dominavano la filosofia e la musica. Infatti, nessuna cultura europea può sfoggiare astri quali Kant, Hegel, Shelling, Fichte, Shopenhauer,
Nietzsche, e, ugualmente, nessuna cultura europea può uguagliare,
nella musica, Bach, Handel, Haydn, Mozart, Beethoven, Brahms e
Wagner. Ebbene, la filosofia è l’attività creativa umana che si appella
maggiormente alla razionalità. Al contrario, la musica è l’attività creativa umana che più si basa sull’irrazionalità. Così, la cultura e la psiche collettiva tedesca abbracciano gli estremi: l’assoluto razionale e
l’assoluto irrazionale. Il fenomeno del III Reich riflette, anche per questo, una mistura perversa di razionalità e irrazionalità ed è inspiegabile in termini conformi alla ragione. Ad esempio, nelle teorie razziste,
l’irrazionalità si maschera di una presenza di razionalità col dogma
della superiorità della razza ariana, coi concetti della purezza del nostro
sangue, ecc. L’ibrido miscuglio di razionalità e irrazionalità ha generato, nel tempo, una pericolosa inquietudine che ora si sta scatenando”
Atlanta era rimasta pensierosa. Quei concetti le sembravano
solo un tentativo marginale di giustificazione. La verità era che Hitler
ed i suoi complici costituivano una banda di criminali. Perciò aveva
preferito non rispondere.
“Perdonatemi se vi ho annoiata. Cercavo solo di spiegarvi” si era scusato Zeitzler.
“Fino a qualche tempo fa, mi avreste forse convinta. Ma ora so che la
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verità è un’altra”
“Quale?”
“Non solo il popolo tedesco, ma tanti altri popoli vivono nel travaglio,
nella ricerca di un’identità o di un territorio, nei conflitti ideologici,
politici e razziali, nella discordia, nel sopruso. La verità è che sono lontani da Gesù Cristo e dal suo modello di vita”
Questa volta, era stato il colonnello a non rispondere. L’aveva
guardata perplesso, poi si era alzato dato che la cena era nel frattempo
finita. Aveva fatto il giro del tavolo, le era andato vicino e, inchinandosi, le aveva mormorato:
“Volete venire?”
Lei si era alzata guardandolo. I suoi occhi esprimevano
apprensione.
“Dove volete condurmi?”
“In camera da letto, se vi fa piacere”
“È questo che vi premeva veramente, non è vero, al di là di tutti i vostri
discorsi?”
“Sì, è così”
“Siete stato gentile e ospitale fino ad ora. Vi prego, continuate ad esserlo”
“Mi piacete molto. Non voglio rinunciare a voi. Andiamo”
L’aveva presa per un braccio e, spingendola in avanti, si era
inoltrato verso la propria camera che era illuminata da tenui paralumi.
L’aveva fatta sedere su un vasto letto che troneggiava nel centro, sostenuto da due spalliere in ferro battuto.
“Spogliatevi, vi prego” la sua voce era quasi implorante.
Lei non aveva voluto rimanere seduta. Si era alzata ponendosi
di fronte a lui.
“Fatemi ritornare in camera mia” gli aveva chiesto.
“No, dovete rimanere con me”
Si era avvicinato a lei e l’aveva presa per le spalle. Il desiderio
lo faceva ansimare. Le sue mani erano corse febbrilmente alle leggere
spalline del suo abito e le aveva abbassate. Ora, le spalle tornite di
Atlanta erano del tutto scoperte.
“La tua pelle nuda mi fa impazzire.”
“Vi prego, lasciatemi!”
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“No, non posso.”
Mentre le sue mani le tiravano giù il corpetto per scoprirle il
seno, le aveva baciato furiosamente il collo e il viso. Poi, vedendo che
lei arretrava, si era sporto in avanti per giungere alla sua bocca. Ma
Atlanta aveva voltato di scatto la testa su un lato e si era poi irrigidita
in quella posizione, con gli occhi serrati.
“Vedo che non mi volete.” aveva mormorato Zeitzler ritirandosi deluso, con le braccia pendenti lungo il corpo.
Lei era rimasta in piedi a testa bassa. Lui l’aveva guardata pensieroso, senza incontrare i suoi occhi, poi era andato a sedersi sul letto,
accigliato.
“A questo punto,” aveva mormorato con voce stanca “penso che rifiuterete le mie due offerte.”
“Sì, è così.”
“Ma perché? È una magnifica occasione per sottrarvi alla vostra sorte.”
“Magnifica?”
“Non è così?”
“In verità, le vostre due proposte mi ripugnano.”
“Vi ripugna avere una relazione con me?”
“Sì.”
“Non sono un appestato.”
“Siete un nemico. Ma non solo perché i nostri paesi sono in guerra.
Siete un nemico di tutto il mio modo di vivere e di pensare. E poi, non
sono disposta a contrarre vincoli sentimentali.”
“Non capite che non siete più arbitra della vostra volontà?
L’Inghilterra e la vostra casa sono lontane. Qui, siete una prigioniera e
dovete sottostare alle nostre regole.”
“Se mi volete, dovrete prendermi con la violenza.”
“Non voglio farlo. Non sono abbruttito fino a questo punto.”
“Allora, fatemi ritornare a casa.”
“È impossibile: siete già stata schedata dall’ufficio centrale di sicurezza. Io sono l’unica vostra possibilità di salvezza. Acconsentite: vi farei
fare la vita della signora.”
“Non posso.”
“In questo caso, non posso salvarvi.”
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Zeitzler aveva rialzato la testa verso di lei. Sembrava costernato.
“Ritornate nella vostra camera, Atlanta. Sarete prelevata domattina”
Lei si era ricomposta, lo aveva ringraziato della cena, poi era
uscita dalla sala da pranzo eretta e composta e si era rifugiata nella propria stanza. Una sensazione di squallido vuoto paralizzava in lei anche
il dolore. Nella notte, il pensiero dei suoi figli lontani che forse non
avrebbe più rivisto le aveva provocato un pianto convulso e silenzioso. Ma, l’indomani mattina, si era sentita rassegnata e aveva scritto due
lettere, una per Segreta e una per Dorian jr.
Verso le nove, dopo aver bussato, era entrato nella camera il
colonnello Zeitzler.
“Un agente vi condurrà all’ufficio centrale di sicurezza.” le aveva detto
quasi a bassa voce. Era pallido e contratto.
“Prima di andare, vorrei consegnarvi queste due lettere dirette ai miei
figli.”
“Va bene. Provvederò a farle spedire.”
“Vi ringrazio. Siete stato gentile con me.”
“Siete ancora in tempo per accettare le mie proposte.”
“Sono allettanti solo per chi non abbia un codice d’onore.”
“Capisco. Mi dispiace che debba finire così.”
Un furgone grigio l’aveva trasportata dinanzi ad un monumentale edificio. L’ingresso era preceduto da un colonnato. Soltanto dopo
qualche tempo avrebbe saputo che si trattava della tetra sede del RSH
(Reichssicherheits Hauptamt), l’Ufficio Centrale di Sicurezza che,
sotto Himmler, gestiva il servizio di sicurezza (SD), la Gestapo e la
polizia criminale.
Un agente del corpo delle SS, tenendola per un braccio, l’aveva condotta nei sotterranei. Era stata affidata ad una donna formosa in
uniforme che, con modi decisi ma corretti, l’aveva sottoposta al rituale di accesso. Sotto i suoi ordini, si era spogliata ed aveva indossato
una divisa formata da una gonna di tela grigia e da una casacca che
aveva sul petto un numero di matricola. Le erano state rilevate le
impronte digitali ed era stata fotografata. Poi, la carceriera l’aveva condotta lungo uno spazioso corridoio debolmente illuminato sul quale
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sporgeva un allineamento di porticine. Era stata fatta entrare in una di
esse, quindi la donna aveva chiuso a chiave la porta dotata di feritoia.
Atlanta si era trovata quasi al buio ed aveva a stento intravisto i
contorni della cella che era priva di mobili salvo una brandina di ferro
e, in un angolo, il vaso del gabinetto e un lavandino. Gravava, intorno,
un tanfo di umidità.
In quel luogo squallido, aveva trascorso ore cupe, disperatamente vuote e uniformi. La mancanza di un qualsiasi raggio di sole le
impediva di distinguere il giorno dalla notte. La semioscurità plumbea
della cella e l’impossibilità di svolgere qualsiasi mansione la facevano
impazzire. Trascorreva interminabili ore distesa sul lettino e cercava di
sfuggire a quell’ostile realtà rifugiandosi nei ricordi.
Dopo alcuni giorni, non ricordava quanti, era stata condotta in
un parlatorio e là lasciata in attesa. Trasognata, aveva udito una porta
aprirsi e un passo pesante avvicinarsi. Ma era rimasta seduta con la
testa bassa, senza alcuna curiosità. Poi, aveva udito una voce che
conosceva.
“Buon giorno, Atlanta, come state?”
Aveva allora alzato la testa a fatica. Di fronte a lei, vi era
Zeitzler, nella sua funerea uniforme. Atlanta aveva risposto al saluto
con un debole cenno del capo. Lui le si era quindi seduto di fronte scrutandola.
“Siete irriconoscibile.” aveva mormorato.
Lei era rimasta in silenzio.
“Ho raccomandato ai miei colleghi di trattarvi con riguardo. Lo hanno
fatto?”
“Non sono stata maltrattata. Ma questa prigione è orribile.”
“Sono venuto per sottrarvi possibilmente ad altre sofferenze. Vi chiedo perciò se avete cambiato idea.”
“Oh Dio, il vostro, quindi, è un ricatto?”
“Purtroppo, non posso sfuggire agli ordini dei miei superiori.”
“Allora, lasciatemi stare.”
“No, non dite così. Sono addolorato di questa situazione. Accettate la
mia offerta, vi prego, io vi aiuterò.”
“Non posso.”
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“Siete consapevole che vi attende il campo di concentramento?”
“Non sarà un tormento superiore a questo. Almeno, vedrò la luce del
sole”
“Mi aspettavo il vostro rifiuto. Ormai, ho imparato a conoscervi. In questa previsione, ho ottenuto che non veniate assegnata al terribile campo
di Mauthausen ma inviata invece a Ravensbrück. Conosco il comandante e gli ho già telefonato chiedendogli di essere benevolo con voi.”
“Vi ringrazio, colonnello.”
“Mi dispiace che la guerra ci divida ed esasperi le nostre opposte convinzioni. Forse, in condizioni diverse, avreste potuto accettarmi. Vi
ammiro, Atlanta, per la vostra ostinazione quasi disumana e per la
vostra alta dignità. Siete una persona rara e speciale. Mi dispiace
vedervi andar via così.”
Il giorno dopo, era stata trasferita al lager femminile di
Ravensbrück. Al termine di un viaggio massacrante, in un vagone carico di deportate, aveva subìto le procedure di immatricolazione. Fra
l’altro, le erano stati rasati i suoi magnifici capelli.
Il comandante del campo, capitano Gunter Strauss, uomo massiccio col viso rincagnato, l’aveva chiamata per chiederle se avesse
qualche necessità da rappresentare. Evidentemente, la segnalazione di
Zeitzler era stata efficace. Atlanta aveva allora manifestato il desiderio
di assistere le detenute ammalate.
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CAPITOLO OTTAVO
Quando, il 29 giugno 1941, arrivò a Berlino, Segreta conobbe
una città grigia formata da monumentali palazzi che si stagliavano su
un cielo sbiadito ma impreziosita anche da laghi, parchi e maestosi
viali, straripante ancora, nonostante la guerra, di traffico e colma di
negozi, musei, teatri, edifici governativi, sedi di manifestazioni culturali e mondane, attraversata da una lunga rete fluviale.
Apprese da Wilhelm che era la più verde fra le capitali europee
e anche la più industrializzata, formatasi attraverso trasformazioni
sociali profonde ed un fermento industriale e culturale eccezionale,
capitale di un impero nel XIX secolo e arricchita, nel XX secolo, da
opere di illustri architetti quali Walter Gropius, Hans Scharoun, Bruno
Taut, Martin Wagner, ecc.
Il giorno in cui giunse con Wilhelm, l’aria gravava afosa e
molti berlinesi erano andati a fare il bagno sulle spiagge del Wannsee
o del Nikolassee. Altri avevano preso il treno per Potsdam per trascorrere la giornata al parco di Sans-Souci.
Wilhelm, che era ricco perché aveva ereditato metà delle ingenti sostanze dei suoi genitori, abitava in un elegante appartamento in
Ebert Strasse. Lo aveva preso in affitto, già ammobiliato, dopo la sua
destinazione all’Abwehr, mai prevedendo che, poco dopo, sarebbe
venuta ad occuparlo una giovane donna. Segreta vi si sistemò portando al seguito la sua valigia. Aveva anche con sé una consistente somma
di franchi svizzeri, riscossa, nell’imminenza della sua fuga, dal conto
aperto da sua madre in una banca di Zurigo.
Nei primi giorni successivi al suo arrivo a Berlino, approfittò di
quella disponibilità finanziaria per recarsi, con Wilhelm, nei negozi del
centro, dove acquistò vestiti ed indumenti. Usciva anche sola perché
lui l’aveva provvista di un salvacondotto rilasciato dall’OKW
(Oberkommando der Wehrmacht), il comando supremo dell’esercito.
Le piaceva scoprire aspetti nuovi di quella città che, a causa dello stato
di guerra, era percorsa anche da mezzi militari o del partito nazista, da
ufficiali e soldati. Specialmente nelle vie e nei caffè del “Mitte”, il
cuore della metropoli, vi era molta eleganza. Andavano allora di moda
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abiti da passeggio per signore con gonna sotto al ginocchio, generalmente allacciati in vita, talvolta scampanati, intessuti di lana, seta o
cotone, completati generalmente da cappellini. I capelli delle donne
erano corti e arricciati.
Sebbene angustiata dal pensiero di sua madre, che soffriva in
un campo di concentramento, e dalla lontananza del fratellino, Segreta
viveva gioiosamente il suo rapporto con Wilhelm: con lui, aveva scoperto il sesso e l’amore, due novità strabilianti che avevano paralizzato le sue capacità di ragionamento. Improvvisamente, a soli 15 anni,
era diventata donna e cominciava ad accumulare esperienze: gli incontri serali con Wilhelm erano, infatti, vere e proprie lezioni di sesso. E
lei era un’allieva docile e avida di apprendere. Poiché lo amava svisceratamente, tutto le appariva incomparabile. Lo aveva amato, è vero,
fin dal primo istante ma ora il suo sentimento era stato ingigantito dalla
passione ed aveva trasformato la sua attrazione in una miscela esplosiva di estasi e di desiderio.
Il suo ingresso in Germania non era stato facile. Alla frontiera,
gli agenti addetti al controllo dei passaporti le avevano chiesto i documenti di riconoscimento. Era allora intervenuto Wilhelm spiegando
loro che ne era sprovvista poiché fuggita da casa, in Svizzera, per
seguirlo. Si era poi qualificato quale ufficiale del comando supremo
della Wehrmacht ed aveva affermato di essere disposto a rilasciare una
dichiarazione liberatoria in suo favore. Ma non era stato sufficiente.
L’agente preposto al controllo aveva sollecitato, infatti, l’intervento di
un ufficiale della Gestapo. Costui li aveva invitati a scendere dal treno
ed a seguirlo in ufficio. Là, Wilhelm gli aveva riservatamente rivelato
di far parte dell’Abwehr e di essere in compagnia della ragazza perché
l’aveva persuasa ad entrare anche lei nell’agenzia di spionaggio militare. L’ufficiale della Gestapo, però, non sembrava convinto. Gli
aveva chiesto, perciò, di farlo parlare per telefono con il capo
dell’Abwehr, l’ammiraglio Canaris. Con disappunto, Wilhelm si era
visto costretto a telefonare al vice capo del Servizio, e gli aveva spiegato la situazione assumendosi ogni responsabilità. Poi, si era fatto da
parte per consentirgli di parlare con l’ufficiale della Gestapo. Alla
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fine, aveva sottoscritto una dichiarazione ed era stato autorizzato a
varcare la frontiera con lei. Durante il proseguimento del viaggio,
Segreta aveva esclamato:
“Hai visto? Ci siamo riusciti!”
“Ma non sai a quale prezzo. Ho dovuto dichiarare che sei disposta a
servire la Germania.”
Nella sua spensieratezza, Segreta non aveva dato importanza
alla cosa. Non sapeva che avrebbe condizionato il resto della sua vita.
L’appartamento di Wilhelm era luminoso e sembrava predisposto per accoglierla. Le pareti avevano parati color avana e formavano
un armonico contrasto con l’acero dei mobili. Le tende, i divani ed i
tappeti sfoggiavano anch’essi una tonalità avana. I pochi quadri erano
racchiusi in cornici di acero. Prevalevano, perciò, le tinte chiare che
ben propiziavano l’umore di Segreta.
Ogni giorno, attendeva impaziente il rientro a casa di Wilhelm
e, quando erano insieme, l’osservava e cercava di conoscerlo intimamente. Era un giovane solido e di forte temperamento, molto educato
e raffinato, nonché un amante vigoroso. Ma Segreta non riusciva a
capire se era innamorato o solo interessato al sesso. Lei, invece, stravedeva per lui. Rappresentava il suo ideale di uomo. Anche in pigiama, aveva una sua solennità, una marzialità, una sobrietà di linguaggio
e di gesti che lo rendevano statuario e imponente. Si era stupita però
nel constatare che non vestiva più l’uniforme ma un abito scuro a doppio petto, con in testa un feltro nero.
Lui le aveva spiegato, al riguardo, che era stato preposto al controspionaggio e precisamente alla ricerca di spie infiltratesi nel territorio tedesco. Perciò, talvolta, non rientrava a casa la notte oppure lo
faceva a tarda sera. Quando era assente, Segreta meditava sulla propria condizione: si trovava in un paese straniero e sentiva istintivamente che, nonostante la protezione di Wilhelm, era in pericolo.
Pensava anche agli studi interrotti ma soprattutto a sua madre. Una
delle ragioni per cui era fuggita era proprio quella di vederla e tentare di salvarla. Perciò, un giorno, supplicò Wilhelm di aiutarla e, per
suo tramite, riuscì ad ottenere dopo un mese, dall’Ufficio Centrale per
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la Sicurezza, un permesso di farle visita nel campo di Ravensbrück.
Partirono in macchina, il 21 agosto 1941, e si inoltrarono, verso
nord, nel territorio della regione del Brandeburgo, fra fiumi, laghi e
foreste. Il verde delle coltivazioni e delle macchie boscose era solo
interrotto dai nuclei rurali stretti attorno alla rispettiva chiesa. Mentre
la macchina procedeva velocemente, Wilhelm le parlava di tanto in
tanto per illustrarle le caratteristiche del paesaggio.
“Questa è una terra di spazi infiniti.” disse ad un certo punto “Qui, può
succedere di non vedere per chilometri e chilometri nessuna opera
legata alla mano dell’uomo.”
Ma Segreta aveva il cuore stretto pensando a dove stava andando. Ancora un’ora circa, poi accadde quello che aveva temuto durante
tutta la durata del viaggio: giunsero davanti al Mahn-und Gedenk-stätte di Ravensbrück che, dal 1938, funzionava sulla sponda dello
Schwedtsee. Forse perché il tempo si era incupito, forse perché il sole
si era nascosto dietro nubi minacciose, certo è che quell’alto muro
perimetrale con le torrette di vedetta, la porta di ferro che sbarrava
l’ingresso e un’alta ciminiera che si trovava nell’interno, le provocarono una violenta fitta. Oppressa, seguì Wilhelm fino al portone, dopo
aver lasciato l’auto. Quando varcò la soglia del lager, le sembrò di
entrare in un mondo irreale, in una realtà ostile nella quale larve
umane si aggiravano come rottami sballottati da un’acqua torbida.
Vide un largo spiazzo e, sullo sfondo, una teoria di baracche di legno,
poi una tetra costruzione in cemento grigio, sormontata da alcune
ciminiere. Aveva il cuore compresso al punto da respirare a fatica. Fu
scossa dalla voce sonora di una Kapò formosa: aveva un viso volgare
e occhi di ghiaccio. Impose loro di entrare in una piccola baracca adibita a parlatorio. Mentre si dirigevano verso la porta, furono sfiorati da
due deportate che stavano svolgendo compiti di pulizia. Indossavano
una casacca a righe e zoccoli di legno, avevano il cranio rasato e pupille vitree, sperdute nel vuoto. Segreta ebbe un brivido: sembravano
creature uscite da un sogno angoscioso, morti viventi. L’attesa nel parlatorio fu tormentosa. Poi, la porta si aprì: in controluce rispetto al sole
beatificante del pomeriggio, sbucato da una coltre di nubi, apparve una
figura che non aveva sesso né età. Spinta da una guardia, si avvicinò e
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Segreta a stento riconobbe sua madre. Avvertì un violento rimescolio
in tutto il corpo e, per qualche attimo, rimase paralizzata. Atlanta
avanzò ancora fissandola con occhi colmi di sorpresa e di emozione e
si arrestò davanti a loro. Era anche lei rasata, magra e vestita a strisce.
Segreta fece un enorme sforzo, vinse il proprio orrore e si precipitò ad
abbracciarla. Si chiamarono con i più dolci nomi, sotto lo sguardo turbato di Wilhelm. Poi, si sedettero e cominciarono a parlare riversandosi tutte le notizie di quegli anni di separazione.
“Sai,” mormorò Atlanta “il capitano è già venuto a farmi visita. Da lui,
ho appreso che tu sei entrata in Germania. Avrei preferito, in verità,
saperti al sicuro in Svizzera o, meglio, in Inghilterra.”
“Dovevo farlo, mamma, non solo perché amo Wilhelm ma anche perché volevo ad ogni costo raggiungerti.”
“Sono preoccupata. Ti trovi in un paese nemico.”
“Wilhelm mi proteggerà.” e gli tese una mano.
Lui, che era rimasto in piedi, si avvicinò e gliela strinse. Poi, si
sporse verso Atlanta e la baciò in fronte.
“Vi lascio parlare.” mormorò e uscì dalla baracca.
“Mamma, ancora non so come, ma ti farò uscire da questo posto orribile.”
“Vi è solo un modo, Segreta: perdendo il nostro onore. Perciò, non farlo.”
“Mi sembra di vivere un incubo. No, devo fare tutto il possibile per
te. Non sopporto questo spettacolo della tua degradazione, della tua
sofferenza.”
“Effettivamente, sono immersa nella sofferenza come in un universo
che ancora non conoscevo. Ho avuto, è vero, esperienze dolorose in
gioventù. Tuttavia, non immaginavo che si potesse arrivare a tanto. Ma
ho trovato conforto nella preghiera. Ho tanto pregato e, ad un tratto, ho
avuto una folgorazione: ho sentito che, misteriosamente, stavo condividendo i dolori della Passione di Gesù Cristo. Mi sono molto avvicinata a lui, Segreta, e questo nuovo sentimento mi ha dato un grande
conforto. Riesco a sopportare così la mia situazione.”
Segreta stentava a capire: quel discorso le appariva astruso.
“Ti fanno svolgere lavori molto pesanti?”
“No, lavoro nel “revier” (ospedale). Soccorro le mie compagne di
sventura ammalate. Anche questo è un segno della misericordia di Dio.
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Perciò, non stare in pena per me ma cerca di proteggere Dorian jr.”
“Sono in contatto con lui attraverso Oana, la ricordi?”
“Sì, la sorella di Wilhelm, non è vero?”
“Infatti. Indirizzo a lei le mie lettere per Dorian jr. e Oana gliele spedisce da Zurigo.”
“Ma intanto, come vivrai in un paese nemico? Rischi ogni giorno di
essere arrestata.”
“Non corro alcun pericolo, mamma. Wilhelm ha pensato a tutto. A
guerra finita, ci sposeremo.”
“Riuscirai a darmi tue notizie?”
“Certo, ti scriverò spesso e Wilhelm provvederà a farti recapitare le lettere.”
In quel momento, rientrò nella baracca Wilhelm. Segreta, capì
che il colloquio era finito. Ma si trovava in uno stato di autentica angoscia. Perciò, gli chiese:
“Cosa puoi fare, Wilhelm, per liberare mia madre?”
Lui la guardò perplesso, poi spostò gli occhi su Atlanta.
“Siamo tutti e tre” mormorò “stretti negli ingranaggi di quella macchina inesorabile che è il III Reich. Perciò, posso fare ben poco da solo
ma mi sarà possibile, invece farvi uscire da qui, Atlanta, se dichiarerete di voler collaborare con la causa della Germania”
“Mi chiedi di collaborare col nemico, Wilhelm?”
“Non vi è altro modo.”
“Non posso.”
“Capisco. Vi ammiro molto Atlanta, ma questo vostro rifiuto mi impedisce di aiutarvi.”
Intervenne impetuosamente Segreta:
“Accetta, mamma, poi in qualche modo faremo.”
“Non voglio che tu e Dorian jr. vi vergogniate di me.”
“Ma……..”
“No!” la fermò con forza Atlanta “non insistere.”
Segreta incontrò il suo sguardo. Esprimeva una decisione irremovibile. Non le rimase che abbracciarla strettamente.
Wilhelm le baciò la mano e la rassicurò: avrebbe vegliato lui su
Segreta. Atlanta gli sorrise e mormorò, come parlando a se stessa:
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“Grazie, Wilhelm: tu sei l’aspetto eroico di una realtà di cui io, purtroppo, ho conosciuto solo le viscere putride.”
***
Pochi giorni dopo, in una sera di pioggia, mentre Wilhelm e
Segreta si trovavano in casa , qualcuno bussò alla porta. Lei andò ad
aprire e si trovò davanti due agenti della Gestapo nelle loro cupe uniformi. Si accertarono che fosse proprio Segreta Heston e poi le dissero che dovevano parlarle. Lei li fece accomodare. Intervenne Wilhelm.
Dei due, uno era alto e snello e portava dei gradi sulla giubba. L’altro
era più massiccio. Il primo disse con voce metallica:
“Sono il capitano Permoser. Debbo rivolgere alcune domande a fraülein Segreta.”
“Dite pure.” sibilò di malavoglia Wilhelm.
“Abitate in questa casa?”
Lei annuì.
“Questa è l’abitazione del capitano, non è vero?”
“Sì, infatti.”
“Ci interessa accertare che, come lui ha dichiarato alla frontiera, voi
stiate svolgendo una qualche attività in favore del Reich.”
Rispose per lei Wilhelm.
“Sì, la signorina collabora con me nei compiti che io svolgo per
l’Abwehr.”
“Quali sono i vostri rapporti?”
“Lui mi ospita.” rispose Segreta “e mi addestra nel mio lavoro per
l’Abwehr.”
“A me sembra che voi siate amanti.”
“Sì, è vero” Wilhelm “siamo amanti ma la nostra situazione non impedisce alla mia compagna di svolgere il suo lavoro. Proprio perché ci
amiamo, la signorina ha aderito a lavorare con me, al servizio del
Reich.”
“In che cosa consistono i suoi compiti?”
“Questo dovreste chiederlo al nostro superiore, il colonnello
Strassburg. ”
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“Controlleremo.”
“Certo, è sufficiente che vi rivolgiate, come vi ho detto, al capo della
nostra sezione.”
“Lo farò ma osservo che, voi, quale ufficiale della Wehrmacht, non
avreste dovuto frequentare una nemica.”
“L’ho conosciuta in Svizzera prima dello scoppio della guerra.”
“D’accordo, dopo, però avreste dovuto allontanarvi da lei.”
“Ma lei ha aderito a collaborare per la causa tedesca.”
“Sinceramente, stento a crederlo. Perciò, vi terremo sotto costante controllo.”
Il capitano prese congedo dopo averli fissati con uno sguardo
inquisitore che roteò da Wilhelm a Segreta. Poi, uscì col suo agente.
“Wilhelm,” chiese Segreta dopo aver chiuso la porta alle loro spalle
“come mai la Gestapo si interessa di un problema che riguarda solo lo
spionaggio militare?”
“La Gestapo controlla tutto quello che avviene in Germania, a tutti i
livelli e in tutti i settori. È, infatti, l’espressione occulta del partito
nazista e deve salvaguardare il potere di Hitler.”
“Cosa accadrà adesso?”
“La Gestapo chiederà all’ Abwehr di dimostrare che tu stai effettivamente collaborando con il Reich.”
“Ma, in realtà, io non sto facendo niente.”
“Tu ed io siamo compromessi, Segreta. Io dovrò dimostrare ai miei
superiori che tu lavori per la Germania.”
“E se rifiutassi.”
“Saresti internata ed io verrei deferito alla corte marziale.”
“Mio Dio! Mi sembra la conseguenza sproporzionata di una ragazzata.”
“Non possiamo più ritornare indietro.”
“Ma io sono inglese. Non posso lavorare contro il mio paese.”
“Tu mi hai seguito per amore, pur sapendo che sono tedesco. Se mi ami
e se quest’amore avrà un futuro, diventerai anche tu tedesca.”
“Vuoi dire che la Germania sarà la mia nuova patria?”
“Sì. Per questo, fin d’ora, devi dimostrarle il tuo attaccamento.”
Più tardi, a letto, dopo l’amore, lei gli disse:
“Ma tu mi ami?”
100
“Mi piaci molto. Ti desidero. Non è sufficiente?”
“Vorrei che tu mi amassi ardentemente così come ti amo io.”
Wilhelm la guardò gravemente, poi si scosse e rispose eludendo la domanda:
“Mi piace stare con te. La tua passione per me è un richiamo alla gioia.
Mi distogli dai miei pensieri. Sei per me un rifugio alle brutture del
mondo”
“Allora, non sei pentito di avermi con te?”
Lui sorrise con una punta di malinconia.
“Quando due giovani decidono di vivere insieme è un loro affare e, tutt’al più, delle rispettive famiglie. Ma, nel nostro caso, è anche un affare di stato. Questa è la differenza.”
“Mi dispiace di averti procurato dei problemi. Da parte mia, non voglio
pensare a queste complicazioni. Mi basta esserti vicina. Questo è il
massimo per me. Il resto non conta.”
Per giorni e giorni, Segreta accompagnò Wilhelm nei suoi
appostamenti e pedinamenti. Poco a poco, lui cominciò ad affidarle
dei compiti marginali che lei svolgeva puntualmente. Non voleva
sapere a cosa conducevano quelle operazioni. Le bastava stare con
lui. Si stupiva di essere diventata debole nei suoi confronti. Ma, in
verità, Wilhelm le affidava solo incarichi poco impegnativi e non
coinvolgenti.
Spesso, la sera, sul divano del salotto oppure a letto, dopo l’amore, lui le parlava di quel mondo misterioso e subdolo in cui l’aveva
introdotta:
“Per molti anni, prima della guerra, Hitler ha auspicato un’alleanza con
l’Inghilterra. Pensava che l’unione fra la potenza terrestre germanica e
quella navale inglese avrebbe creato un blocco invincibile. Per questa
sua convinzione, lo spionaggio tedesco ha cominciato ad inviare i
propri agenti in Inghilterra soltanto dopo l’inizio della guerra. Ma
gli inglesi si sono dimostrati più attenti e sospettosi del previsto.
Molte di quelle spie sono state arrestate. Altre, come abbiamo saputo recentemente, per sfuggire alla condanna a morte, hanno aderito
a fare il doppio gioco.”
101
In una sera d’ottobre (1941), Wilhelm ragguagliò Segreta sugli
sviluppi della loro posizione nell’ Abwehr.
“Ieri, il capo del Servizio, l’ammiraglio Canaris, ha ricevuto la visita
di un colonnello della Gestapo il quale gli ha chiesto se, effettivamente, tu collabori con l’Abwehr. L’ammiraglio, che era a conoscenza
della situazione, ha risposto affermativamente. Subito dopo, però, mi
ha convocato e mi ha fatto presente che la tua posizione deve essere
regolarizzata. Io gli ho risposto che, già da tempo, tu collabori con me.
Allora, il mio capo ha chiesto di conoscerti. Sei disposta ad incontrarti con lui?”
“Vedo che, irreparabilmente, sono caduta in una trappola.”
Wilhelm abbassò il capo e tacque.
“Parlami del tuo ammiraglio. Mi posso fidare?”
“È un uomo enigmatico, con molte anime. Per quello che ho capito di
lui, ha un’abilità e una furberia eccezionali ed è un mistificatore. Con
un uomo simile, non c’è da fidarsi. Ma tu parlagli chiaro e sii molto
cauta.”
“Dove mi riceverà?”
“Per evitare occhi indiscreti, l’incontro non avverrà nella sede
dell’Abwehr. Ho avuto ordine invece di condurti, domani sera, in macchina, verso Eberswalde. Là, riceveremo istruzioni via radio.”
La notte, a letto, Segreta pensò che quell’incontro avrebbe ufficializzato il suo reclutamento come spia della Germania. Non aveva
ancora sedici anni e già il suo destino stava imboccando una strada fatale. Era combattuta da forze contrapposte: da un lato, si sentiva conquistata dal fascino dell’avventura e dal fatto che stava compiendo quel
passo per lui, Wilhelm. Lo amava con sofferenza perché sentiva di non
essere altrettanto ricambiata da lui. Perciò, per indurlo ad amarla, voleva dargli una prova suprema. Ma, nello stesso tempo, pensava anche a
sua madre, così ferma nel proprio concetto d’onore; e a Dorian jr. Come
l’avrebbero giudicata sapendola nel campo opposto? Si rigirò nel letto,
ma poi l’incoscienza della sua età le assicurò il sonno.
La sera seguente, mentre si trovava in macchina con Wilhelm,
giunse per radio l’ordine di portarsi all’altezza di Bernau. Là, vennero
affiancati da un furgone scuro. Un uomo che indossava un impermeabi102
le lucido nero, scese, si avvicinò alla loro macchina e invitò Segreta a
seguirlo nell’interno. Qualche minuto dopo, stava di fronte all’ammiraglio Canaris che indossava un abito borghese scuro con un maglione a
girocollo grigio. Vide un uomo di circa 55 anni, di corporatura minuta,
con un viso triangolare, folte sopracciglia, capelli candidi come la neve
ed uno sguardo ambiguo e penetrante.
“Siete bella” esclamò. Il suo viso emergeva dall’ombra circostante “e
mi sembrate molto giovane. Quanti anni avete?”
“Sedici.”
“Una bambina! Perché fate questo?”
“Per amore.”
“Amate il capitano Klausing?”
“Sì, ardentemente. Andrei all’inferno per lui.”
“Forse, è proprio là che andrete. Siete consapevole che, dove vi manderò a lavorare, potreste essere scoperta e fucilata?”
Segreta si sentì ghiacciare il sangue.
“Non è una bella prospettiva, ammiraglio. Io non ho ancora finito gli
studi. Perché volete impaurirmi?”
“Perché siete ancora in tempo a ritirarvi.”
“In tal caso, che fine farei?”
“Verreste internata in un campo di concentramento.”
“No, grazie. Ho già avuto un’idea di che cosa si tratta.”
“Allora, accettate?”
“Sì, ma ad una condizione.”
“Quale?”
“Mia madre è richiusa nel campo di concentramento di Ravensbrück.
Fatela liberare.”
“Non è una cosa semplice. Questa è una materia di competenza della
Gestapo.”
“Non potete fare niente per lei?”
“Sì, solo se dichiarerà di voler collaborare.”
“Ha già rifiutato.”
“Allora…….” e l’ammiraglio spalancò le braccia sconsolatamente.
“Quindi, non ci sono speranze?”
Questa volta, Canaris si strinse nelle spalle.
103
“Per salvarla, dovreste diventare l’amante di qualche gerarca del partito.” disse cinicamente.
“Ci penserò.”
“Allora, accettate di lavorare per noi?”
“Mi lascerete stare accanto al capitano Klausing?”
L’ammiraglio la fissò con un sorriso sardonico.
“Mi fate venire un’idea. Andreste a lavorare in Inghilterra, proprio
con lui?”
“Ritornare a casa? Sarebbe il massimo.”
“D’accordo. Vi farò avere i miei ordini.”
***
Dieci giorni dopo, Segreta fu invitata ad Amburgo per frequentare un corso bimestrale di indottrinamento nell’attività spionistica.
Venne immatricolata con un nome convenzionale ed ebbe l’ordine tassativo di non fare alcuna rivelazione ai suoi compagni di sessione né
di familiarizzare con loro. Le insegnarono la crittografia, l’uso degli
apparecchi ricetrasmittenti, le tecniche truffaldine, il modo di introdursi negli appartamenti, di riprodurre chiavi, di falsificare documenti, di
intercettare conversazioni telefoniche, di sistemare microspie, di travestirsi. La addestrarono anche sullo judo e sul modo di neutralizzare
agenti nemici con l’uso di droghe, narcotici, ecc. Fu un periodo di
addestramento molto impegnativo che le consentì, fra l’altro, di conoscere meglio i tedeschi, la loro mentalità. Erano uomini votati al dovere che facevano tutto maledettamente sul serio, con estremo rigore e
serietà. Non avevano alcuna idea del “fair play” britannico ma esasperavano sempre il loro concetto di servizio.
Al suo ritorno a Berlino, Wilhelm la informò che era imminente la loro partenza per l’Inghilterra. Allora, Segreta gli chiese di consentirle di salutare sua madre.
Così, il 13 gennaio 1942, si recarono per la seconda volta al
lager di Ravensbrück e incontrarono nuovamente Atlanta. Erano quattro mesi che Segreta non la vedeva; e, nel ritrovarla, anche questa volta
con emozione e dolore, si accorse che era ulteriormente dimagrita. Le
104
sue guance apparivano infossate e i suoi occhi segnati da profonde
occhiaie. Ma il suo sguardo conservava gli indefinibili riflessi che avevano acceso tanti cuori e, in più, una luminosa maestosità così contrastante col suo aspetto dimesso. Wilhelm, delicatamente, si appartò e
lasciò che Segreta le parlasse.
“Devi perdonarmi” le disse lei con un nodo alla gola “ma non sono
ancora riuscita a farti rilasciare.”
“Me ne rendo conto. Questo regime è implacabile.”
“Sono disposta anche al gioco sporco e al compromesso. Ma, finora,
mi sono mancate le opportunità.”
“Sei la mia bambina. Perciò, non voglio che ti sporchi per me. Anch’io
ho avuto, all’inizio, la possibilità di salvarmi da quest’inferno. Ma
avrei dovuto vendermi e non ho voluto farlo.”
“Capisco. Ma che vita fai in questo campo?”
“Come ti ho detto l’altra volta, assisto le mie compagne ammalate. È
una vita dura ma certo non paragonabile a quella del lavoro coatto. Io
avevo chiesto di essere assegnata all’ospedale per svolgere un compito umanitario. E, senza volerlo, mi sono sottratta ad una esistenza inumana, fatta di immani fatiche, di soprusi, di bestiali punizioni. Le
donne che cadono sfinite e quelle che non riescono più a lavorare vengono eliminate nelle camere a gas. Inizialmente, vi erano tre dottori,
poi due sono stati mandati al fronte e ne è rimasto uno solo. Non è cattivo e un po’ mi ascolta. Perciò, sono riuscita a convincerlo a non mandare all’inceneritore alcune detenute inguaribili. Così, le curo nella
speranza che si riprendano”
“Ma tu non sei un’infermiera. Come hai fatto?”
“Ho imparato dai medici. Ho anche letto qualche trattato che si trovava nella stanza dei dottori. In sostanza, mi sono arrangiata.”
Segreta le prese le mani e gliele baciò.
“Oh, mamma, che sogno allucinante è questo?”
“Sì, hai ragione, è proprio un brutto sogno. Ricordo spesso quel giorno in cui tu ed io abbiamo lasciato l’Inghilterra per il mio giro artistico in Svizzera. Da allora, la nostra vita è stata stravolta. Sì, è vero, io
sono poi ritornata ad Abingdon. Ma non ero tranquilla, volevo raggiungerti. E, così, ho accettato quella infausta tournée in Francia per
105
poi stare un poco con te a Zurigo. Siamo vittime, tu ed io, di tante fatali concatenazioni, di tante coincidenze. Il destino ha steso per noi una
ragnatela insidiosa. Anche il tuo incontro con Wilhelm fa parte di questo intrigo. Dove ti porterà?”
“Per ora mi sta portando in Inghilterra.”
“In Inghilterra? Potrai ritornare a casa?”
“Wilhelm deve svolgere là un lavoro. Ed io lo seguirò.”
“Ma non ti rendi conto? Lui vi andrà per fare la spia!”
“Non mi interessa. Rivedrò il mio paese. Inoltre, potrò andare ad
Abingdon, di tanto in tanto, e seguire così la vita di Dorian jr.”
Atlanta si prese il viso fra le mani.
“Oh Dio” sospirò “è come se qualcuno, nell’ombra, stesse predisponendo per noi una serie di trappole. Forse, Dio ci sta mettendo alla
prova.”
“Non tormentarti. Io confido di riuscire, prima o poi, a farti uscire da
qui. Intanto, cerca di sopravvivere.”
“Stai tranquilla. Me la caverò. Ma, ti prego, dammi tue notizie.”
“Lo farò.”
“Dorian jr ha ormai 14 anni. È in grado di capire. Spiegagli la mia
posizione e bacialo per me.”
Ancora sette giorni, poi Wilhelm e Segreta si imbarcarono su
un Heinkel 111 e, nottetempo, vennero paracadutati sulla foresta di
Epping, nei pressi di Londra.
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CAPITOLO NONO
La sera del 13 dicembre 1941, il tenente di vascello Nicholas
Blackwell, della Marina di SM britannica, stava seduto di fronte alle
apparecchiature radio e crittografiche della cosiddetta “stanza rilevamento sommergibili”, nel bunker seminterrato della “Fortezza”, la
sede distaccata dell’Ammiragliato (cioè il vecchio Ammiragliato),
nella grande arteria londinese di Whitehall. Era quasi al termine del
suo turno. Ma, alle ore 19,43, giunse dalla “GC e CS” (la scuola governativa di cifre e codici, che aveva sede a Betchley Park, una località a
nord di Londra) un messaggio in telescrivente che si affrettò a leggere. Vi era un resoconto di intercettazioni di segnali trasmessi da U-boot
(cioè sottomarini tedeschi). Da essi, risultava che “un branco di lupi”
(cioè una squadriglia di sottomarini tedeschi) si era appostato, nel nord
Atlantico, sulla rotta del convoglio alleato HX 228, proveniente da
Halifax (Canada).
Nicholas si rese conto che era imperativo dirottare immediatamente quelle 63 navi, fra piroscafi da carico e unità di scorta. Perciò,
col telefono interno, informò subito il capitano di vascello Dennis
Shoeffer, capo della stanza rilevamento sommergibili, il quale, di
rimando, gli disse di andare ad attenderlo nella “war room”. Nicholas
si fece sostituire e corse nella sala indicatagli. Al centro, troneggiava
un grande tavolo rettangolare che sosteneva un plastico del teatro operativo del nord Atlantico.
Due minuti dopo, entrarono nel vasto locale, che era tappezzato di quadri luminosi e di tabelloni, il contrammiraglio Thomas
Jackson, capo ufficio operazioni dell’Ammiragliato, e Dennis
Shoeffer. Curvi sul plastico, i tre uomini esaminarono rapidamente,
con l’aiuto di modellini, la posizione dei sommergibili e, ad 85 miglia
ad ovest, quella del convoglio in arrivo. Poi, Jackson ordinò a
Blackwell di inviare un cifrato al comandante del convoglio per fargli
compiere un dirottamento a nord di 80 miglia.
“Farò intervenire sul posto navi e aerei” aggiunse “per attaccare gli
U-boot”.
Il tenente di vascello Blackwell ritornò di corsa agli apparati,
107
preceduto dal suo diretto superiore. Vergò il messaggio, lo sottopose
all’approvazione di Shoeffer, quindi lo affidò alla macchina cifrante
impostata con il sistema del cifrario navale n°. 3 (cifrario convogli).
Infine, alle 19,56, lo trasmise col linguaggio morse al convoglio servendosi di un marconista.
***
Al temine del suo turno di lavoro, Nicholas Blackwell se ne
ritornò a casa, sotto una pioggia sottile, nel buio profondo dell’oscuramento, aiutandosi con una lampadina tascabile. Abitava in John
Adam Street, a circa duecento metri dalla sede dell’Ammiragliato, in
un piccolo appartamento preso in affitto, che gli era stato ceduto da un
ufficiale in pensione sfollato a causa dei bombardamenti. Mentre procedeva, una luna sbilenca apparve proditoriamente fra banchi di nubi
creando mistiche merlettature di luce nel cielo e irreali riflessi sull’asfalto bagnato. Salì al primo piano di una villetta bi-familiare. Il suo
appartamento era già arredato e aveva un leggero tanfo di tende, parati e tappeti invecchiati. Ma a lui piaceva quel luogo appartato e tranquillo, così immensamente lontano dall’atroce conflitto che si stava
consumando nel mondo. Gli sembrava un rifugio segreto, un’oasi in
cui vivere un’esistenza normale. Consumò una cena frugale e, poco
più tardi, a letto, ritornò col pensiero alla spietata guerra
dell’Atlantico, di cui era testimone attraverso le decrittazioni e il ticchettio delle telescriventi.
Si trovava all’Ammiragliato soltanto da tre mesi e, per altrettanto tempo, aveva avuto idealmente di fronte lo scenario atlantico
popolato di convogli che cercavano di sopravvivere e di lupi sottomarini che, silenziosamente, fiutavano la preda.
La grande battaglia dell’Atlantico aveva avuto inizio già nel
1939, con lo scoppio delle ostilità fra l’Inghilterra e la Germania, ed
era aumentata gradatamente di intensità. Karl Dönitz, l’ammiraglio
della flotta subacquea tedesca, attenendosi alle direttive di Hitler,
intendeva infatti strangolare l’economia inglese interrompendo il flusso di rifornimenti dall’America. La Germania poteva contare, nel set108
tembre 1939, su 57 sommergibili che erano stati in gran parte dislocati nelle basi francesi e norvegesi, per aggredire i convogli che procedevano sulle rotte atlantiche.
Inizialmente, i comandanti degli U-boot si erano attenuti alla
legge internazionale che prescriveva di mettere in salvo l’equipaggio
dei mercantili attaccati. Ma, ben presto, in seguito alle pressioni dell’ammiraglio Dönitz, le cose erano cambiate: il 18 febbraio 1940, la
Germania aveva dichiarato cioè una guerra sottomarina totale. Infatti,
era stato impartito agli U-boot l’ordine di astenersi da qualsiasi tentativo di soccorso agli uomini delle navi affondate e di distruggere non
solo i convogli nemici ma anche i loro equipaggi. Da quel giorno, i
tedeschi avevano cancellato la pietà dalle loro regole di condotta marinaresca rendendo lo scontro nell’Atlantico fra i più feroci e cruenti dell’intero conflitto.
Intanto, gli abili e pressanti appelli rivolti al Presidente degli
Stati Uniti, in nome della civiltà, da parte del premier inglese Wiston
Churchill, avevano avuto effetto. Nel dicembre 1940, vi era stato, da
parte di Roosevelt, un’affermazione fondamentale: l’America, doveva rappresentare il grande arsenale della democrazia. E, in linea con
tale convinzione, il Presidente aveva chiesto al Senato di fornire alla
Gran Bretagna tutto ciò di cui essa aveva bisogno nella guerra contro
il nazismo. Ne era scaturita la legge “Affitti e prestiti”, uno dei fatti
più significativi del conflitto. Da quel momento, l’Inghilterra aveva
potuto soddisfare negli Stati Uniti il suo fabbisogno di materiale bellico senza versare dollari ma impegnandosi a pagare a guerra finita. Il
traffico mercantile alleato sull’Atlantico, formato da convogli partiti
da New York, Halifax, e da altri porti americani, era così aumentato
considerevolmente nel corso del 1941. Ma, nel frattempo, la flotta
subacquea tedesca aveva triplicato il suo potenziale e, in conseguenza, i suoi mortali attacchi.
Tuttavia, accanto alle operazioni navali, si stava svolgendo una
guerra ombra fra i contrapposti servizi preposti all’intercettazione e
alla decrittazione dei messaggi cifrati che intercorrevano, da una parte,
fra i sommergibili e il comando della flotta subacquea tedesca e, dall’altra parte, fra l’Ammiragliato britannico ed i convogli alleati. In
109
Inghilterra, questo compito era svolto, in primo luogo, da una stazione
di intercettazione dell’esercito operante a Chatham, in un vecchio forte
che sorgeva sull’estuario del Tamigi. I messaggi intercettati venivano
poi inviati alla GC & CS (Scuola governativa di cifre e codici) che
aveva sede a Bletchley Park, una località ad 80 chilometri a nord di
Londra. In quel luogo, si procedeva, se possibile, alla relativa decrittazione del testo nemico. I messaggi così decifrati, se riguardavano questioni navali, venivano inoltrati per telescrivente all’Ammiragliato.
I dispacci tedeschi erano, in massima parte, cifrati all’origine
con la famosa macchina “Enigma”, in dotazione a tutti i reparti delle
tre armi del Reich. Si trattava di un apparecchio elettromeccanico simile ad una macchina da scrivere. Era stato perfezionato dall’ingegnere
tedesco Arthur Serbins e si basava su un sistema di cifratura veramente indecifrabile: infatti, quando veniva battuto un testo, si attivava un
sistema di dischi ad ingranaggio capaci di far sì che l’accoppiamento
di una lettera con un’altra si ripetesse soltanto dopo aver battuto un
infinito numero di volte la medesima combinazione. “Enigma” aveva
però un punto debole: infatti, il destinatario, per decifrare il messaggio,
doveva conoscere l’esatta posizione dei dischi (rotori) all’inizio della
trasmissione in codice. Era quindi necessario adottare delle parole
chiave capaci di far sintonizzare i rotori “Enigma” trasmittenti e riceventi. Per le macchine “Enigma” installate sui sottomarini, la parola
chiave era “Squalo”.
Il 9 maggio 1941, nel corso di uno scontro fortuito fra navi
inglesi e tedesche, un lancio di bombe di profondità da parte degli
alleati aveva colpito un sommergibile, l’U-110, che era riemerso e non
aveva potuto sottrarsi alla cattura. A bordo, erano stati rinvenuti importantissimi documenti relativi ad “Enigma”. Fra maggio e giugno, gli
inglesi avevano catturato anche due navi meteorologiche tedesche, e si
erano impossessati di altro materiale crittografico. Quelle fortunate
operazioni avevano consentito a Bletchley Park di violare finalmente
l’”Enigma” navale.
In conseguenza, dopo le gravi perdite subite dagli alleati in
marzo, aprile e maggio, per un totale di 142 navi corrispondenti a
818.000 tonnellate, si era registrato, a partire da giugno, un declino
110
degli affondamenti, da parte degli U-boot, in Atlantico. A questa diminuzione delle perdite anglo-americane avevano anche contribuito le
nuove tecniche di protezione dei convogli. Si era proceduto, infatti,
all’aumento delle unità di scorta navale e degli aerei ricognitori a vasto
raggio d’azione, dotati di nuovi radar. Inoltre, i cacciatorpediniere di
scorta avevano ricevuto in dotazione un radiogoniometro per l’individuazione dei sommergibili. E, infine, era iniziato l’impiego sia del
bombardiere Hedgehog, capace di portare attacchi devastanti ai sommergibili con cariche di piccola profondità, sia dell’idrovolante americano “Catilina”.
Era questa, in sintesi, alla fine del 1941, la situazione della battaglia dell’Atlantico settentrionale, combattuta non soltanto con le
armi ma anche con il subdolo lavoro delle spie e con gli insonni tentativi di violazione dei codici nemici.
***
Nel gennaio 1942, si verificarono nuove intercettazioni e
decrittazioni dei segnali degli U-boot e fu nuovamente possibile,
all’Ammiragliato, rettificare la rotta dei convogli in arrivo da ovest.
Ma, in tre casi consecutivi, i convogli vennero ugualmente attaccati e
decimati. Ottantatre navi furono affondate e 351 marinai persero la
vita. Nel personale della “stanza rilevamento sommergibili” si diffuse,
in seguito a quelle tragedie, uno stato d’animo allarmato. Molti si chiedevano in che cosa avevano sbagliato nella formulazione e nella trasmissione degli ordini di mutamento di rotta. Si ingenerò nel reparto
un clima di sfiducia e di impotenza.
Il 28 gennaio, all’indomani dell’ultimo affondamento,
Nicholas venne chiamato dal capo della “stanza” il quale lo condusse
alla presenza del contrammiraglio Thomas Jackson. Era costui un
uomo alto, magro e lievemente curvo in avanti. Faceva pensare ad un
sarmento. Appariva stempiato e con un viso lungo e stretto. Aveva
occhi chiari bovini. Nicholas lo guardò con apprensione: temeva qualche brutta notizia. Jackson lo fece sedere e, sporgendosi verso di lui,
cominciò a parlare a bassa voce. Nicholas dette uno sguardo a Shoeffer
111
forse per attingere da lui coraggio. Ma gli parve che avesse un’espressione distaccata. Forse, era già edotto di quello che il superiore avrebbe detto.
“Qui tutti sembrano addolorati” esordì Jackson “ma nessuno si è messo
in sospetto. Eppure, vi sono dei particolari che non quadrano. Come
voi sapete, Blackwell, in quattro occasioni, nel corso di gennaio, la
stanza ha dovuto modificare la rotta di altrettanti convogli perché era
stata segnalata la presenza, nei dintorni, di sommergibili tedeschi.
Ebbene, in tre casi su quattro, a distanza di 12–13 minuti dal nostro
messaggio, gli U-boot sono stati informati dell’avvenuto cambio di
rotta. In conseguenza, essi sono piombati sui convogli e li hanno decimati. Qualcuno li aveva avvertiti. Ma chi?”
“Forse” azzardò Nicholas “i nostri messaggi di cambiamento di rotta
sono stati intercettati nell’etere.”
Il contrammiraglio scosse il capo. Aveva un’espressione torva.
Nicholas cominciò a sudare nonostante non facesse caldo in quell’ufficio immerso nella penombra. L’unica fonte di luce era la lampada
della scrivania, che disegnava ombre taglienti sui loro visi.
“No, non è possibile. Il comandante Shoeffer e il vice capo dei servizi
segreti della Marina hanno condotto al riguardo riservati e scrupolosi
accertamenti. Ebbene, è risultato che appena 15–18 minuti dopo il lancio dei nostri messaggi di rettifica della rotta dei convogli, gli U-boot
sono stati informati della nuova rotta da una trasmittente clandestina.
È escluso che si sia trattato di una centrale esterna. L’eventuale intercettazione, decrittazione e ritrasmissione agli U-boot del nostro messaggio avrebbe impiegato molto di più. No, si è trattato di un messaggio trasmesso da chi aveva avuto modo di leggerlo qui,
all’Ammiragliato, al momento del lancio. Quei 15 minuti gli saranno
serviti per cifrarlo e trasmetterlo proprio dalla nostra sede”
“Quindi,” obiettò Nicholas con voce strozzata “siamo tutti sospettati?”
“Tutti all’infuori dei presenti. Altrimenti, non vi avrei parlato così. La
vostra posizione è stata controllata. In particolare, voi comandante
Blackwell, non eravate di turno quando questi fatti sono accaduti”
Nicholas si sentì sgravato da un macigno che lo opprimeva.
“Perciò” proseguì Thomas Jackson “dobbiamo cercare questa spia.
112
Ma, mentre lo facciamo, dovremo risolvere un altro problema: la
“stanza rilevamento sommergibili” non è, per ora, più affidabile.”
Stravolto, Nicholas guardò Shoeffer. Certo, doveva essere dentro di sé estremamente irritato. Tuttavia, ostentava una certa padronanza. Il suo viso era però rosso e gli occhi dilatati, segno del suo intimo
travaglio.
“Con il consenso del primo lord, già ottenuto” continuò il contrammiraglio “istituiremo una nuova “stanza rilevamento sommergibili” in
una palazzina isolata, separata dall’ammiragliato. Farò sistemare, in
una sala blindata, gli apparati necessari e la macchina cifrante. Siete
disposto a prendervi alloggio insieme al comandante Shoeffer?”
“Certamente”
“Bene. Vi alternerete agli apparati e vi consulterete sulle decisioni da
prendere volta per volta. Avete qualche domanda?”
“Dovrò lasciare il mio attuale alloggio?”
“Sì, è necessario, allo scopo di intervenire, di notte, in caso di emergenze”
“Mi dispiace…” cominciò a dire Nicholas.
A quel punto, intervenne per la prima volta Shoeffer. Il suo
viso, rossiccio e paffuto, normalmente gioviale, era visibilmente provato. Evidentemente quella decisione gli pesava.
“Sì, anch’io sono rammaricato per il personale, intendo dire per quelli
che non sono compromessi. Si sentiranno esautorati . Cercheremo,
comunque, di non far trapelare i nostri sospetti. La “stanza” continuerà ad occuparsi del rilevamento della posizione dei sommergibili e di
tutto il resto. Ma la gestione dei convogli sarà trattata esclusivamente
da noi due”
***
La palazzina isolata di cui Jackson aveva fatto cenno era, in
realtà, l’ex foresteria del vecchio Ammiragliato (sede distaccata del
nuovo Ammiragliato), costruito nel 1760 e sporgente sulla monumentale arteria di Whitehall. Si trattava di una villetta in stile palladiano,
risalente al XVII secolo. Originariamente di proprietà privata, essa era
113
stata poi acquisita dal demanio dello Stato. Sorgeva a cinquanta metri
dal complesso degli edifici, all’interno della recinzione perimetrale,
verso Horse Guard Road.
A metà febbraio, Nicholas andò a vederla insieme a Shoeffer e
notò subito che era esposta ai bombardamenti aerei come una qualsiasi casa di abitazione. Ne parlò col suo superiore il quale ribatté:
“È vero, la villa non è protetta. Ma lo sarà la sala operativa che verrà
ricavata in cantina e rinforzata come un bunker.”
Mentre i lavori procedevano, la gestione dei convogli venne
assunta provvisoriamente dalla sala sottomarini del “Operational
Intelligence Center” (cioè dai servizi segreti navali). Nicholas e il
comandante Shoeffer, che non erano sospettati, furono impiegati presso quel centro.
***
Nicholas era nato, nel 1917, da Gordon Blackwell e da Olivia
Acheson. La sua infanzia e la sua adolescenza non erano state felici.
Conservava, dei primi anni della sua vita, saltuarie immagini simili a
lampi convulsi della memoria. Ritrovava, nella propria mente, il viso
bellissimo della madre, china su di lui: i suoi occhi nerissimi sfolgoravano. Poi, vedeva il padre tenerlo per mano mentre camminavano
insieme: era gigantesco, statuario, con un’espressione dolce e nobile. I
ricordi dei suoi genitori gli ritornavano separati: ora l’uno, ora l’altro.
Quasi mai erano insieme. Le sole immagini in cui li ricordava vicini,
abbracciati e sorridenti, erano le più belle di quell’età remota: stava
con loro in una casa luminosa che adesso, nel suo ricordo accorato,
sembrava come un paradiso perduto. Gli appariva poi un’altra casa,
con sua madre e con un altro uomo sconosciuto. E, di quel periodo, gli
era rimasta l’immagine di lei che piangeva. Ricordava, come attraverso una nebbia angosciosa, il giorno in cui era morta: aveva allora nove
anni. Seguivano le reminescenze di un tetro collegio e, infine, un ricordo che gli attanagliava il cuore: quello dei funerali di suo padre. Si era
sentito, a dodici anni, orfano e sperduto. Aveva vissuto gli ultimi anni
della sua adolescenza con la dolce nonna Michelle, ad Abertillery, nel
114
grande palazzo degli Acheson, che svettava sulla collina detta Tillery
Bryn. Dalle sue finestre, quando non vi era nebbia, poteva intravedere
il piccolo cimitero in cui erano sepolti, uno accanto all’altro, i suoi
genitori, al cospetto dei verdi pendii, fra il tambureggiare del vento.
Dalla nonna, aveva appreso che si erano molto amati. Ma la sorte li
aveva divisi facendoli soffrire al punto che erano entrambi morti, a
distanza di tre anni, di mal d’amore.
Un buon amico era stato per lui lo zio James, il fratello della
madre, che viveva con loro. E proprio i racconti dei suoi viaggi lo avevano spinto, al termine delle scuole superiori, ad arruolarsi in Marina,
nel 1936. Dopo quattro anni di frequenza del Royal Naval College di
Greenwich, aveva iniziato il suo periodo di imbarco. Nel frattempo,
era scoppiata la guerra.
Quell’infanzia trascorsa accanto a genitori infelici lo aveva
segnato. E, negli anni seguenti, aveva sofferto acutamente per la loro
assenza. Si recava talvolta al piccolo cimitero e, seduto sull’erba, parlava con loro. Col passare degli anni, era diventato un giovane taciturno, chiuso in se stesso, privo di impeti e di vivacità. Subiva molto
la personalità degli altri. Aveva udito la nonna e lo zio James definirlo un ragazzo timido. Effettivamente, si era accorto di essere debole,
insicuro e senza difese di fronte agli altri, come se avesse paura del
suo prossimo.
Un giorno, i suoi compagni di accademia, lo avevano indotto
ad entrare in una casa di piacere. Si era trovato di fronte ad una donna
matura, dai modi sbrigativi, che lo aveva sollecitato a fare il suo
dovere di maschio. Ma il suo sesso era rimasto inerte, privo di ogni
stimolo. Questo episodio lo aveva prostrato. Si era accorto con raccapriccio che, alla sua debolezza di carattere si aggiungeva in lui
anche quella sessuale.
Per 18 mesi, col grado di guardiamarina e poi di sottotenente di
vascello, aveva prestato servizio a bordo di un cacciatorpediniere in
azioni di guerra e, più tardi, nella scorta convogli. Poi inspiegabilmente, nel settembre 1941, era stato chiamato all’Ammiragliato e, in coincidenza con la promozione a tenente di vascello, aveva iniziato il suo
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servizio presso la “stanza rilevamento sommergibili” dopo aver frequentato, per un mese, un corso di crittografia.
Ignorava che la nonna e lo zio James avevano brigato per farlo
sbarcare allo scopo di sottrarlo al pericolo mortale dell’offesa tedesca
sul mare.
116
CAPITOLO DECIMO
Segreta e Wilhelm si erano paracadutati sull’Inghilterra il 21
gennaio 1942. Lei aveva affrontato con baldanza l’idea di compiere
quel tuffo dall’aereo. Ma, poi, con l’approssimarsi dell’evento, era
stata colta da un’apprensione che confinava con la paura. Quella notte,
nella carlinga, Wilhelm si era accorto del suo stato d’animo e l’aveva
rincuorata, consigliata e assistita fino al momento del lancio. E lei, sebbene paralizzata, era riuscita a spingersi nel vuoto chiudendo gli occhi
e affidandosi a Dio, fino al momento dell’apertura del paracadute.
Avevano compiuto l’atterraggio verso mezzanotte, in una radura della
foresta di Epping, a nord di Londra. Sotterrati i paracadute e le tute, si
erano poi messi in marcia verso l’abitato. Avevano con loro documenti falsi ma Wilhelm era consapevole che non poteva circolare da solo
perché, a causa della sua pronuncia, chiunque si sarebbe accorto che
non era inglese. Doveva quindi, almeno inizialmente, farsi accompagnare da Segreta o da qualche altro agente tedesco già da qualche
tempo a Londra.
Forse, a quell’epoca, l’ammiraglio Canaris non si era ancora
reso conto che gli agenti da lui inviati in Inghilterra erano stati in gran
parte scoperti e arrestati per la pronuncia o per la imperfetta conoscenza delle abitudini inglesi. Molti di loro, poi, pur di sottrarsi alla
pena capitale, erano passati al servizio del nemico e attuavano il doppio gioco.
All’alba, Wilhelm e Segreta avevano raggiunto la zona di
Bankside, sulla riva sud del Tamigi, considerata il cuore della cultura
londinese, ricca di teatri e musei. Seguendo le istruzioni ricevute a
Berlino, si erano incontrati, in un “pub”, con un individuo alto e di corporatura atletica che indossava una sciarpa azzurra sul pastrano. Era un
segno di riconoscimento. Con una scusa, Wilhelm aveva avviato con
lui una conversazione. E, mentre parlavano, si erano scambiati le parole d’ordine. Acquisita così la certezza di aver a che fare con la persona
giusta, Wilhelm e Segreta si erano presentati col nome di battaglia che
si erano scelti: “Siegfried” e “Misty”. Il nuovo venuto si chiamava
invece “Armstrong”. Aveva capelli neri e penetranti occhi scuri. Sulla
117
base delle sue istruzioni, si erano recati in Webber Street ed avevano
potuto sistemarsi all’ultimo piano di un decoroso palazzo. La loro
copertura era rappresentata da una libreria funzionante al pianterreno
dello stesso edificio, che avrebbero dovuto gestire insieme.
Nel pomeriggio, Armstrong gliela aveva fatta visitare
mostrando loro, fra l’altro, un passaggio segreto: dietro uno scaffale
mobile, una scala conduceva ad un locale sotterraneo adattato a sala
operativa. In attesa di conoscere i loro compiti, Wilhelm si era esercitato sugli apparati della centrale e, per la prima volta, aveva visto
da vicino la famosa macchina cifrante “Enigma”. Da parte sua,
Segreta, aveva passato in rassegna la dotazione dei libri, per svolgere il proprio lavoro di vendita nella libreria. La sera erano rientrati
nell’appartamento che comprendeva tre camere più i servizi, tutte
elegantemente arredate.
“Prima di iniziare le nostre attività operative, ti conviene andare a salutare tuo fratello” le aveva detto Wilhelm.
“Tu verrai con me?”
“No, per ora mi conviene restare qui e attendere le istruzioni. Verrò
un’altra volta, se non ci saranno impedimenti.”
Si era soffermato a guardarla. Lei stava distesa sul letto.
“Non mi sembri del solito umore.”
Lei aveva scrollato la spalle.
“Sei a casa: non ti fa piacere?”
“Sì, sono a casa. Ma come una nemica.”
“Questo ti pesa molto?”
“Sì, mi mette a disagio.”
“Sei ancora in tempo per lasciar perdere tutto. Io ti coprirò.”
“Lasciar perdere tutto? Quindi perdere anche te?”
“Sarebbe inevitabile.”
“Non ti voglio perdere, Wilhelm.”
“Potremmo ritrovarci a guerra finita.”
“Vedo che non vuoi credermi o, forse, non te ne importa. Ma il fatto è
che io ti amo e non posso fare a meno di te, neppure per un attimo.”
Lui si era a sua volta, sdraiato sul letto matrimoniale. La porta
di comunicazione col salotto centrale era aperta e lasciava penetrare il
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calore del caminetto acceso. Era quella l’unica fonte di riscaldamento
perché i termosifoni non funzionavano. Lei si era tolta il vestito ed era
rimasta con la sola biancheria intima. Aveva cominciato ad avvicinarsi a lui strisciando sul letto. Gli era arrivata vicino e lo aveva baciato
sulla bocca ardentemente.
“Amami, Wilhelm, come io ti amo.”
Vibrava tutta.
“Lo sai che mi piaci e che ti desidero.”
“Vorrei che facessi follie per me.”
“Non è forse una pazzia il fatto che io sia qui, a Londra, rischiando di
farmi arrestare? Infatti, si capisce subito che non sono un inglese. Mi
trovo qui per te. Ti basta?”
“No, non mi basta. Voglio vederti bruciare per me.”
E si era abbandonata alla sue carezze.
Il giorno dopo, quasi all’ora di chiusura, era entrato nella libreria Armstrong. Non si capiva di quale nazionalità fosse. Tuttavia, parlava perfettamente l’inglese con la cadenza londinese. Appariva disinvolto, sicuro e perfettamente a suo agio. Ma il suo sguardo era come
febbricitante. Ispirava soggezione, come può farlo un uomo di cui si
intravede solo la facciata.
“Devo parlarvi” aveva detto loro. Parlava con rapidità. “Attenderò che
le saracinesche siano chiuse.”
Erano poi scesi nella centrale.
“Ogni giorno, alla chiusura,” aveva cominciato a dire “dovrete bonificare la libreria perché agenti nemici potrebbero applicare, fra gli scaffali, qualche microfono. Inoltre, vi è, in questa centrale, una via di fuga
per ogni eventualità” Era andato verso una scaffalatura ed aveva azionato una parete mobile. “Ma, prima di andarvene, dovrete bruciare i
cifrati. Anche in casa, vi è un’uscita segreta: un pannello mobile nello
studio, che si aziona premendo un bottone incastonato nella maniglia
della finestra centrale.”
Detto questo, era passato agli aspetti operativi.
“Il nostro compito riguarda l’acquisizione di notizie sulle rotte dei convogli alleati che attraversano l’Atlantico per portare rifornimenti belli119
ci dagli Stati Uniti all’Inghilterra. Una volta in possesso delle loro
rotte, dovremo comunicarle alla B-Dienst (la sezione di decodificazione della Marina tedesca) che, a sua volta, avviserà i sottomarini dislocati in Atlantico. Finora, abbiamo agito con successo utilizzando i dati
fornitici da un nostro agente infiltratosi nell’Ammiragliato inglese. Ma
il gran numero di affondamenti ha insospettito quell’alto comando ed
i servizi segreti navali. Adesso, il nostro agente è ricercato e non più in
grado di operare. Il suo contributo è stato veramente prezioso ma,
ormai, non è più utilizzabile. Dobbiamo perciò trovare altre strade.
Abbiamo un elenco degli ufficiali della cosiddetta “stanza rilevamento sommergibili” dell’Ammiragliato. Bisogna entrare in contatto con
loro per indurli a fornirci le notizie che ci occorrono. Voi” e si era
rivolto a Segreta “potreste esserci molto utile. Si tratta di avvicinarli e
di tentare di sedurli. Vi sono altre due ragazze nel nostro gruppo.
Dividerò questo compito fra tutte e tre. Ecco i nomi degli ufficiali” e
aveva consegnato a Wilhelm un foglio precisandogli “voi e la vostra
compagna vi occuperete dei primi quattro. Dovrete pedinarli, conoscerne le abitudini, i luoghi che frequentano. Dopo, la ragazza passerà
all’azione.”
Nell’andarsene si era voltato verso di loro dicendo “Ripasserò
fra una settimana. Ma se, nel frattempo, aveste bisogno di chiamarmi,
potrete trovare il mio indirizzo radio e la mia frequenza nell’elenco
chiuso in cassaforte. Ricordatevi di non comunicare mai in chiaro. Un
ultimo avvertimento: se sarete scoperti, fate saltare in aria la centrale.
Vi sono quattro cariche già predisposte. Le relative istruzioni sono
anch’esse in cassaforte. Ma, ripeto, prima dovrete bruciare i codici.”
Il giorno dopo, accogliendo il suggerimento di Wilhelm,
Segreta si era recata ad Abingdon ed aveva riabbracciato, dopo tre
anni, suo fratello Dorian jr. Il ragazzo era cresciuto di statura e si era
irrobustito. Ormai, aveva 15 anni. Rassomigliava a suo padre. Lo si
poteva facilmente constatare confrontando il suo aspetto con l’immagine fotografica di Dorian, soprattutto con quella raffigurata in un
grande ritratto ad olio, esposto nella galleria del primo piano, insieme
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agli altri 17 esponenti della casata. Nella grande villa, tutto era rimasto
immutato. Il tempo non sembrava trascorso. Anche i domestici erano
ancora gli stessi. Con le sue verdi colline, con le sue nebbie sospese,
con i suoi lanifici sparsi, Abingdon sembrava un’isola felice, apparentemente ignara dell’immane carneficina che si stava consumando nel
mondo. Segreta era andata a rivedere la sua stanza, rimasta intatta
rispetto al tempo dorato della sua infanzia. Aveva ritrovato i suoi giocattoli, le sue bambole, il suo orsacchiotto di peluche. E le si era stretto il cuore. Si sentiva ormai inadeguata in quel posto dove tutto era
conforme alle regole morali.
Dorian jr era un ragazzo dolce e accessibile, riservato come la
madre e composto come il padre. Aveva capelli castani e limpidi
occhi color cobalto. Si era fortemente stretto al collo della sorella e
le aveva coperto le guance di baci. Erano stati insieme un intero
pomeriggio ed avevano parlato a lungo della mamma. Ne sentivano
acutamente la mancanza. “Greenplain” non era più la stessa senza di
lei. Dalle due lettere ricevute dalla Germania (trasmesse la prima per
interessamento del colonnello Zeitzler e la seconda a cura di
Wilhelm), Dorian jr aveva appreso che la mamma era prigioniera dei
tedeschi ed era molto abbattuto. Segreta si era resa conto che avrebbe dovuto rimanere accanto a lui per non disgregare completamente
la famiglia. Ma l’amore per Wilhelm la riempiva di un’ansia febbrile e la spingeva a rientrare. Perciò, nonostante le insistenze di Dorian
jr, era come fuggita l’indomani mattina riempiendolo di promesse
fondate su una nebulosa incertezza.
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CAPITOLO UNDICESIMO
Atlanta conduceva sempre più faticosamente la sua esistenza
nel campo di concentramento di Ravensbrück, atterrita dai soprusi e
dalle violenze che si consumavano intorno a lei. Il lager era invaso e
schiacciato dall’odore acre di carne umana che emanava dal fumo
delle ciminiere dei forni crematori. Là, erano avviate le recluse che
non resistevano alle fatiche massacranti del lavoro e alla denutrizione.
Non aveva avuto più occasione di incontrarsi col capitano Strauss, il
lagerältester (capo del campo) ma avvertiva la sua protezione, conseguente alle raccomandazioni del colonnello Erwin Zeitzler. Non beneficiava di particolari facilitazioni ma il fatto di poter ancora lavorare nel
“revier”, così veniva chiamato l’ospedale del campo, e di non subire
maltrattamenti dalle Kapò, le era sufficiente e le concedeva sollievo.
Alla fine di gennaio del 1942, inaspettatamente, giunse a farle
visita Zeitzler. Lei gli era molto grata della sua protezione e delle sue
visite, ripetutesi per ben tre volte nella prima metà del 1941. Ma, poiché non lo vedeva da sei mesi, pensava che l’avesse ormai dimenticata.
Fu perciò sorpresa e segretamente lieta di rivederlo. Lo osservò e s’accorse che era dimagrito ed aveva uno sguardo inquieto. Con un gesto,
lui congedò la kapò che assisteva al loro colloquio nello squallido parlatorio del campo. La donna uscì dalla stanza. Quando furono soli, le
consegnò, come le altre volte, un pacco viveri. Poi, si sedettero di fronte, al tavolo dei colloqui. La scrutò intensamente, le sorrise e le disse:
“Il capitano Strauss, il comandante di questo campo, è stato destinato
ad un altro incarico e lascerà fra qualche giorno il comando. Il suo
posto sarà assunto dal maggiore Hans Ziereis il quale ha avuto ordine
di inasprire la disciplina nei riguardi delle detenute.”
“Ma il trattamento è già durissimo!”
“Evidentemente, non basta. Himmler, vuole che, nei campi, si pratichi
senza riserve lo sterminio.”
Atlanta si coprì il volto con le mani.
“Mio Dio! L’inferno ha riempito la Germania di spaventevoli demoni!”
“Ziereis” continuò il colonnello “non è un mio amico. Lui ed i suoi
superiori sono schierati contro quelli, come me, che vorrebbero limita123
re la ferocia nel trattamento dei deportati, degli ebrei e dei supposti
nemici del Reich. Credo proprio di essere caduto in disgrazia, Atlanta.
Sono venuto, perciò, per dirvi che non mi sarà possibile preservarvi dal
trattamento spietato che questo nuovo comandante adotterà. Vi rinnovo, a questo punto, la mia proposta. Venite con me come collaboratrice del Reich. In effetti, questa sarà soltanto la motivazione ufficiale che
mi consentirà di chiedere al “RSH” (ufficio centrale per la sicurezza)
la vostra scarcerazione. Dopo, in realtà, non vi obbligherò a collaborare e neppure a diventare la mia amante. Lavorerete nel mio ufficio
semplicemente come segretaria, ritornerete ad una vita normale, potrete rimettervi in salute. Ecco tutto.”
“Erwin, perché fate questo?”
“Perché non posso dimenticare la grande impressione che mi faceste
quando vi vidi la prima volta. Cominciai ad amarvi.”
“Era amore? Pensai fosse soltanto desiderio.”
“Da allora, non vi ho più dimenticata.”
Attraverso il tavolo, Atlanta gli prese una mano. I suoi occhi
erano diventati improvvisamente lucidi.
“Grazie di avermi dedicato il vostro ricordo. Non potevo immaginare
che un uomo con questa uniforme avesse un cuore.”
“Non posso darvi torto.”
“Erwin, non vi nascondo che le vostre parole mi hanno spaventata.
Temo che non saprei resistere ad un inasprimento delle condizioni di
vita del lager.”
“Quindi, accettate?”
“Sì, dato che non mi chiedete di tradire la mia patria, accetto.”
“Allora firmatemi questa dichiarazione.”
Trasse dalla sua borsa un foglio e glielo porse.
“Che cos’è?”
“È una formalità necessaria: dovrete dichiarare che siete disposta a collaborare con il III Reich.”
“No, non firmerò mai una simile dichiarazione.”
Zeitzler rimase interdetto. Vi fu qualche momento di impacciato silenzio. Poi, lui mormorò:
“E sta bene: mi impegnerò io per voi.”
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“Vi ringrazio.”
“Mi occorrono dieci, quindici giorni per ottenere la vostra liberazione.
Appena l’atto formale sarà firmato, ritornerò e partiremo insieme per
Berlino.”
“Questo vostro interessamento per una nemica potrebbe compromettervi.”
“Sono già compromesso. Intorno a me, si è fatto il vuoto. Ho lasciato
capire fin troppo chiaramente che sono nauseato da questa carneficina.”
“Come farete a rimanere al vostro posto senza macchiarvi ancora le
mani?”
“Mi preme ora liberarvi. Poi, ci penserò. Semmai, chiederò di andare al
fronte a combattere come un soldato. Non voglio più essere associato
a questa banda di assassini. Ma, prima di farlo, metterò in salvo voi.”
“Siate comunque cauto.”
Si salutarono. Lei andò a baciarlo su una guancia, poi lui uscì.
125
CAPITOLO DODICESIMO
Lunedì 10 febbraio 1942, Nicholas era stato impiegato nel turno
di notte. In mattinata, aveva riposato e, nel pomeriggio, era uscito per
acquisti. Vestiva gli abiti civili ed aveva con sé un ombrello perché il
cielo era coperto da nuvole basse e scure. E, infatti, mentre si trovava
fuori, si scatenò un violento temporale che lo costrinse a rientrare. Vi
era ancora visibilità quando giunse al cancello della sua casa. Là, scorse una ragazza che, per ripararsi dalla pioggia, si era addossata ad uno
dei due piloni. Il suo viso appariva bagnato e contratto dal freddo.
“Venite a ripararvi sotto il mio ombrello.” si affrettò a dirle Nicholas
“Dove dovete andare?”
La ragazza alzò gli occhi su di lui.
“Ero diretta a casa” rispose alzando la voce per sovrastare il frastuono
dell’acqua.
“Abitate qui vicino?”
“No, a Chelsea”
“Vi accompagnerò io… ma vedo che siete inzuppata. Salite da me,
potrete asciugarvi”
Lei non fece obiezioni e lo seguì al primo piano della villetta,
nel suo appartamento.
“Andate a svestirvi nel bagno e usate il mio accappatoio. Io vi preparerò un tè caldo.”
Un quarto d’ora dopo, erano insieme in salotto. Lei indossava
l’accappatoio a spugna di Nicholas, che sembrava adatto alla sua figura dato che avevano pressappoco la stessa statura. Stava sorbendo beatamente il suo tè con biscotti mentre lui la osservava con interesse.
Nonostante fosse infagottata in quel voluminoso indumento, appariva
snella e flessuosa. Era decisamente bella, vivace e disinvolta. Nicholas
sentì che, quando lo guardava piantandogli gli occhi addosso, con
un’espressione decisa e un po’ divertita, lui ne rimaneva sconvolto. Si
era semisdraiata sul divano di velluto a righe marrone e avana e i suoi
piedi erano nudi. Nicholas li guardò e provò, pressante, il desiderio di
accarezzarli: gli parvero soffici e levigati.
Intanto, i suoi indumenti, la gonna, le calze, una camicetta ed
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un soprabito, erano stati da lui disposti su una sedia e messi ad asciugare al fuoco del caminetto.
“Quando i vostri vestiti saranno asciutti, vi accompagnerò a casa.” le
disse Nicholas.
“Siete gentile. Ma non ho fretta. Qui si sta divinamente bene.”
“Mi fa piacere.”
“Aspettate per caso qualcuno?”
“No, nessuno.”
“Siete di Londra?”
“No, sono nato casualmente in Scozia da genitori gallesi.”
Andarono avanti così conversando piacevolmente mentre il
fuoco li riscaldava. E lui, che era incapace di reticenze, le rivelò di
essere un ufficiale di marina impiegato presso l’Ammiragliato.
Lei, da parte sua, gli confidò di lavorare a Londra in una libreria e di essere originaria dell’Oxfordshire. Ma non gli fornì altre precisazioni. Mezz’ora dopo, i suoi abiti erano asciutti. Lui le disse che
poteva andare ad indossarli in camera da letto. E, stando là, mentre si
vestiva, lei gli parlava attraverso la porta aperta. Lui si avvicinò: la
vide seduta sul letto mentre si abbottonava la camicetta a tralci azzurri, che indossava su una aderente gonna turchino intenso. Guardandola
nella propria stanza, Nicholas pensò che, quella notte, avrebbe fatto
sogni agitati. Poi, ebbe un’idea:
“Hai fretta di ritornare a casa?” le chiese.
“No, oggi è la mia giornata libera.”
“Vogliamo cenare insieme?”
“Volentieri. Qui, a casa?”
“No, non sono un abile cuoco. Vi è, qui vicino, un piccolo ristorante.”
“Splendido! Sono pronta a seguirti.”
“Non so ancora come ti chiami.”
“Misty.”
“Misty? È uno strano nome.”
“E qual è il tuo?”
“Nicholas.”
“Mi piace. Vuoi darmi il braccio?”
“Certo. Possiamo andare.”
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Il ristorante era piccolo, pulito e caratteristico. Ma la scelta dei
cibi risultò limitata a causa della guerra. Una candela collocata al centro del loro tavolo riempiva di riflessi i suoi occhi affilati e scintillanti
che ricordavano certi fondali marini. Poteva ora guardarla bene: una
cornice di capelli color rame, arricciati e inanellati le giungeva a metà
della schiena e incastonava armoniosamente il suo viso che aveva la
luminosità della porcellana. Notò un ovale perfetto, un piccolo nasino
e un collo slanciato. Continuava a sentirsi sempre più attratto: forse,
per la carnosità della sua bocca predisposta al sorriso, forse per la troppa birra ingerita, certo è che, per un breve ma incomparabile istante, si
sentì felice e desiderò non perderla. Quando uscirono nella strada buia
per l’oscuramento, lei si aggrappò al suo braccio. Lui, allora, le disse:
“Lo sai che è la prima volta che esco con una ragazza?”
“Vuoi scherzare? Quanti anni hai?”
“Venticinque.”
“E non hai mai avuto una ragazza, un’amicizia femminile?”
“No.”
“Ma dove sei stato in tutto questo tempo?”
“Sono stato solo con uomini.”
Lei scoppiò in una risata.
“Uomini? Non troppo vicino, spero.”
“Sì, uomini: compagni di scuola, cadetti, marinai, ufficiali”
“Cioè, un universo maschile?”
“Sì.”
“Quindi, ora sei sconvolto?”
“Sì, mi sembra di essere su un altro pianeta.”
Lei rise ancora.
“Non pensavo” disse poi “di aver provocato un simile disastro, stasera.”
“Al contrario, sto in paradiso con te.”
“Ma non mi conosci.”
“Spero di riuscirvi.”
“Per adesso, accompagnami alla metropolitana.”
“Non vuoi che andiamo assieme fino a casa?”
“No, è troppo lontano. Salutiamoci al treno.”
La stazione sotterranea di Charing Cross era a 100 metri.
129
Nicholas ebbe il tempo di chiederle:
“Quanti anni hai?”
“Sedici.”
Lui spalancò gli occhi.
“Sedici?! Ne dimostri venti.”
“Sì, me lo dicono tutti. Sono molto sviluppata per la mia età.”
“Hai un fidanzato?”
“No.”
“Com’è possibile? Sei così bella!”
“Ho avuto un solo uomo. È stato il mio primo amore. Poi tutto è finito.”
“Lo ami ancora?”
“Forse….. Non so” E scrollò le spalle con una mossa graziosa.
Vi fu qualche attimo di silenzio. Erano già nella stazione sotterranea, di fronte ai binari:
“Mi piacerebbe rivederti, Misty!”
Lei lo fissò con un sguardo sospeso fra tenerezza ed ironia.
“Vuoi forse parlarmi dei tuoi marinai?”
“Non scherzare.”
I suoi occhi erano mobilissimi: sapevano passare rapidamente
da un’espressione seria ad una divertita, dallo stupore al disappunto,
dalla dolcezza al sarcasmo. Manifestavano, soprattutto, intelligenza e
sicurezza.
“Nicholas” gli rispose poi con un sorriso “ci siamo incontrati per caso.
Non complichiamoci la vita.”
“Potremmo darle uno scopo.”
“Addirittura!”
Lui le pose le braccia intorno alla cintura e l’attrasse a sé.
“Rimani!”
“No, stasera no. Ti prometto che, se avrò voglia di rivederti, verrò a
cercarti.”
“Un’ultima domanda: dov’è la tua libreria?”
“In Webber Street” si divincolò dalla sua stretta e fuggì verso il
treno in arrivo.
130
***
La incontrò nuovamente, per caso, tre giorni dopo, in un rifugio dove era corso a causa di un allarme aereo, in Waterloo Road, sulla
riva sud del Tamigi. Fu lui a scorgerla per primo. Era seduta su un sedile con le spalle appoggiate al muro e con gli occhi socchiusi. Si avvicinò a lei, facendosi largo fra la folla, e la osservò. Certo, non dormiva. Forse, stava soltanto rilassandosi. E, in quel momento, il viso disteso rivelava la sua vera età: sembrava una bambina. Ma vi era una
ruga sulla sua fronte che tradiva pensieri pulsanti e nascosti. Anche
il volto che, ad una prima occhiata, gli era sembrato placato, adesso
appariva scosso da impercettibili vibrazioni. Le si avvicinò maggiormente. Lei dovette evidentemente avvertire la sua vicinanza perché
spalancò gli occhi di colpo e li dilatò in una espressione impaurita.
“Misty!” la chiamò Nicholas con dolcezza.
Lei roteò le pupille come smarrita, poi le concentrò su di lui e,
solo allora, parve ritornare alla realtà e si placò.
“Stavi sognando?”
“No, inseguivo dolorosi pensieri.”
“Dolorosi pensieri alla tua età?”
“Tu non puoi sapere.”
Le prese una mano.
“Grazie, è passato.” riprese lei.
In quel momento, suonò la sirena del cessato allarme. Uscirono
all’aperto. Potevano essere le 15 del pomeriggio e vi era ancora un
pallido sole.
“Come mai sei in questa zona?” gli chiese.
“Ero venuto a cercare la tua libreria.”
“È qui vicino. Andiamo, te la faccio vedere.”
Si trovavano nei pressi dell’Old Vic, uno dei capisaldi della
cultura teatrale della città. Imboccarono Webber Street, che iniziava
in quel punto, e proseguirono per circa cento metri. Mentre camminavano lei disse:
“Siamo ai margini di Bankside il cuore pulsante della cultura londinese. Nonostante fosse una zona malfamata, in età elisabettiana vi si
131
installarono vari teatri. Pensa, a poca distanza da qui, funzionava allora il Rose Theatre, dove Shakespeare rappresentò i suoi primi drammi.
Più oltre, sulla riva del fiume, funzionava il Globe theatre, anch’esso
per le opere di Shakespeare”
“Non ero mai venuto in questa zona. Mi piacerebbe conoscerla con te.”
“Ne avrai il tempo?”
“Il lavoro mi lascia delle ore disponibili. Per esempio, ieri ho prestato
servizio dal pomeriggio a mezzanotte ed ora sono libero”
“Tu lavori di notte?”
“Si, spesso.”
“Ma che lavoro è?”
“Non te ne posso parlare. Ti basti sapere che riguarda il traffico dei
convogli in Atlantico.”
“Un lavoro, quindi, di grande responsabilità.”
“Sì.”
“Eccoci arrivati!” esclamò a quel punto Misty e indicò un negozio con
uno stiglio in legno dipinto in verde. Sull’insegna, vi era scritto in lettere gotiche color oro: “Mansfield library”.
“Chi è Mansfield?” chiese Nicholas.
“Il proprietario, che però è vecchio e lascia fare a me.”
Entrarono e lui poté rendersi conto che era una libreria fornita
non soltanto di libri contemporanei ma anche di volumi d’epoca e di
antiquariato. Prima di lasciarla, la ringraziò e le chiese di trascorrere
insieme la serata.
Lei rise ed esclamò:
“Vedo che stai dimenticando i tuoi marinai.”
“Non è così. Passo almeno otto ore al giorno con loro.”
“Dove lavori?”
“All’Ammiragliato.”
“Mi piacerebbe vederti in uniforme.”
“Se vieni a casa, mi vestirò per te.”
“Va bene, allora verrò. Attendimi alle otto.”
Lui la lasciò e si precipitò nel suo appartamento dove preparò
una cena sommaria, composta da scatolame e affettati. Poi, scese in
strada e acquistò dei fiori. Risalì quindi, accese delle candele sul tavo132
lo apparecchiato e attese. Il suo cuore batteva tumultuosamente.
Quando lei arrivò, le baciò entrambe le mani e le disse con enfasi:
“Sei bellissima!”
E, infatti, indossava un attillato due pezzi in tweed verde oliva
sotto un cappotto in tinta, stretto in vita. La trovò flessuosa e adorabile. Le offrì i fiori e si scusò per quella cena approssimativa. Ma lei
divorò tutto allegramente. E, man mano che beveva il vino francese
che lui aveva posto a tavola, diventava sempre più languida.
“Parlami di te, Nicholas!” gli chiese.
“Sono nato ad Haddington, in Scozia, ma non vi ho mai abitato. Ho
vissuto in America, qui a Londra ma soprattutto ad Abertillery.”
Lei corrugò le sopracciglia e parve improvvisamente interessata.
“Abertillery?”
“Sì, conosci questo posto?”
“No, ma ne ho sentito parlare da mia madre. Conosceva un musicista
di quel paese.”
“Ricordi il suo nome?”
“No, ero troppo piccola”
Nicholas rimase pensieroso. Ma lei lo incalzò:
“Dimmi il resto.”
“Io sono il frutto di una colpa giovanile dei miei genitori. Erano innamoratissimi e, quando hanno visto profilarsi concretamente la possibilità di un avvenire insieme, mi hanno concepito. Ma la famiglia di lei
si è opposta al loro matrimonio. Poi, sono accaduti altri fatti imprevisti che hanno separato le loro strade. Ad un certo punto, mia madre si
è sposata con un altro uomo ma non è stata felice e non è riuscita a
dimenticare il suo primo amore. Io sono stato un po’ di tempo con mio
padre e, in seguito, con mia madre e il mio patrigno. Anni dopo, lei è
morta di crepacuore e mio padre mi ha preso con sé. Sono stato anche
in collegio perché lui doveva assentarsi per il suo lavoro. Era un valente pianista.”
“Un pianista?”
“Sì”
“Strano! Mi ricorda qualcosa. Ma continua pure.”
“Quando avevo 12 anni, mio padre è morto, anche lui di mal d’amore. Ora,
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i miei genitori sono sepolti insieme ad Abertillery e la loro storia dolorosa
ha fatto il giro del Galles. In molti, sono venuti a visitare le loro tombe
affiancate.”
“Come si chiamava tuo padre?”
“Gordon.”
“Devo chiedere di lui a mia madre.”
“Adesso, parlami tu della tua vita.”
“Un’altra volta, Nicholas, ora devo proprio andare.”
“Mi dispiace. Mi mancherai molto.”
“Ti ringrazio.” rispose lei soprappensiero.
Nicholas si predispose ad accompagnarla a casa. Ma Misty si
impose: desiderava essere accompagnata solo fino alla stazione della
metropolitana.
Mentre aspettavano il treno, lei gli disse:
“La tua storia e quella dei tuoi genitori mi hanno un po’ commossa, stasera, marinaio”
“Grazie della tua comprensione.” rispose Nicholas e le prese le mani.
Allora, lei gli andò addosso, repentinamente, e lo baciò fuggevolmente sulla bocca. Lui rimase per un attimo sorpreso, poi l’attirò a se mentre si ritirava, le cinse la vita e la baciò con forza.
“Uh! Marinaio” miagolò lei “per essere uno che non conosce le donne,
ci sai fare!”
Ma lui viaggiava su un’altra lunghezza d’onda.
“Grazie di questo momento di felicità!” ansimò.
“Oh, il mio sentimentalone!”
Il treno entrò fragorosamente nella stazione. Lei lo salutò e
stava per fuggire via. Ma lui la trattenne.
“Quando potrò rivederti?”
“Ora conosci la strada” Prese a correre, poi si voltò e gli gridò:
“Ma, non questa settimana. Sarò occupata.”
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CAPITOLO TREDICESIMO
L’assunzione del comando da parte del maggiore Hans Ziereis
ebbe l’effetto di un ciclone sulla vita del lager di Ravensbrück. Forse
per ordini ricevuti, forse per la vanità di far notare a tutti il suo arrivo,
la crudeltà dei metodi di coercizione fu esasperata: i Kapò bastonavano accanitamente anche per inezie, ai nuovi arrivati vennero sistematicamente applicati gli inumani sistemi della “spersonalizzazione”,
aumentarono le fustigazioni anche per futili motivi, divenne abituale
riunire sull’“appelplatz” (piazzale dell’appello) i detenuti, al rientro
dal lavoro, per farli assistere a pubbliche impiccagioni. Due medici,
fatti venire da altri campi, ispezionavano senza posa le quattro baracche del “revier” (ospedale) per selezionare con maggior fiscalismo le
malate e inviare alle camere a gas le più malandate. Il comandante, che
voleva evidentemente mettersi in mostra agli occhi dei suoi superiori,
ordinò addirittura che chiunque si sentisse male o svenisse sul posto di
lavoro venisse immediatamente inviato alle camere a gas. Furono inoltre intensificati i turni per corrispondere alle accresciute esigenze esterne di lavoro. Vi erano, infatti, squadre che partivano in autocarro per
erigere fortificazioni, per costruire bunker o per scavare gallerie sotto
le colline. Altri gruppi dovevano trasportare sacchi di cemento, caricare terra nei vagoncini, lavorare alla fabbricazione di armi negli “stollen” (gallerie) sotterranei, spalare macerie nelle vicine città bombardate, estrarre pietre dalle cave. La giornata lavorativa era interminabile,
il lavoro estenuante, il cibo insufficiente (tre quarti di litro di zuppa al
giorno). E, intanto, le epidemie di scabbia e tifo petecchiale e la dissenteria compivano stragi, l’invasione dei pidocchi era imponente, il
gelo invernale completava l’opera di una disumana persecuzione.
Sarebbe stato riduttivo definire quel lager l’anticamera dell’inferno:
era un vero e proprio girone infernale popolato da demoni.
Atlanta si era aggrappata alla promessa di Zeitzler e attendeva
ansiosamente che ritornasse a prenderla. Ma i giorni trascorsero infruttuosamente senza che il colonnello apparisse e lei sentì la propria speranza affievolirsi. E, intanto, assisteva angosciata al progressivo peggioramento delle condizioni di vita delle sue compagne. Donne stre135
mate dalla fatica di un lavoro disumano, dalle epidemie e dalla denutrizione, affluivano senza posa nelle quattro baracche dell’ospedale
con la strenua speranza di trovarvi riposo e cure adeguate.
Ma le medicine scarseggiavano e i medici agivano passivamente, indifferenti a quell’atroce dramma umano. Curavano svogliatamente coloro che apparivano recuperabili per il lavoro, e cinicamente
dimettevano le malate irrecuperabili, che venivano avviate alle camere a gas poiché ormai inutilizzabili per la forza lavoro.
Atlanta era disperata. Scongiurava i dottori di non rilasciare
quelle donne, di continuare a curarle nella speranza di recuperarle e
di salvare loro la vita. Ma, salvo qualche caso sporadico, in genere
non veniva ascoltata. Si prodigava tutto il giorno, sottraeva di nascosto le medicine per somministrarle, dava a tutti il conforto di una
parola, di un consiglio, di un incoraggiamento. Aveva con sé una
Bibbia e la leggeva segretamente a coloro che erano desiderose di
ascoltare la parola di Dio.
Ma, un giorno, tutto precipitò intorno a lei: il 23 febbraio 1942,
mentre attendeva al suo consueto lavoro, irruppe nella baracca, con
passi rapidi e concitati, il nuovo comandante del campo, un uomo tarchiato, massiccio, accigliato. Urlò ai medici presenti che occorreva
liberare il “revier” dai pesi morti. Poi, si mise a passare da un letto
all’altro e, dopo una semplice occhiata, cominciò ad indicare le degenti che dovevano essere “dimesse”, cioè eliminate, in quanto irrecuperabili per il lavoro. In quella rassegna di morte, giunse davanti al
pagliericcio di una donna anziana. Gli fu detto che era una ebrea e lui,
per tutta risposta, pronunciò la parola “kaputt”.
Immediatamente, si fecero avanti due portantini entrati al suo
seguito. In esecuzione dei suoi ordini, avevano già sollevato dal letto
altre ammalate e, di peso, senza neppure l’ausilio di una barella, le avevano portate fuori della baracca ammassandole in un furgone che
attendeva con le porte aperte. Altrettanto si accinsero a fare con la
donna ebrea allorché furono fermati da un urlo di Atlanta che si interpose disperatamente fra loro e l’ammalata.
“Chi siete voi?” chiese irosamente il maggiore Ziereis.
“Comandante, sono una detenuta infermiera.” rispose ansiosamente
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Atlanta. Di fronte a tanto dolore, a tanta inumanità, aveva vinto la sua
natura composta, misurata e dignitosa. Scongiurò quell’uomo odioso
con una forza, con una passione di cui non era stata mai capace.
“Vi supplico, comandante,” gridò “lasciate ancora qui questa donna
anziana e molto sofferente.”
“Togliti di mezzo, cagna.” rispose l’uomo infastidito. Ciò nonostante,
lei si gettò ai suoi piedi e cercò di afferrargli le gambe per suscitare la
sua pietà. Era fuori di sé, ma Ziereis reagì con violenza: alzò un piede,
la colpì con forza a una spalla e la spinse a terra. Allora, lei ritrovò la
sua calma e la sua dignità. Si alzò e gli disse freddamente:
“Non siete un uomo ma una bestia.”
Vi fu un attimo di paralizzante silenzio, poi Ziereis chiamò seccamente un oberkapò presente (cioè un capo delle Kapò) e gli disse
con voce glaciale:
“Non farmi più vedere questa donna. Tu sai quello che devi fare”
L’uomo afferrò brutalmente Atlanta per un braccio e, strattonandola, la condusse fuori, sotto la pioggia. Attraversò con lei il campo
e si fermò in uno spiazzo dove si vedevano, affiancati, alcuni pali, in
uno scenario lugubre. Dal cielo, scendeva una luce violacea. La spinse
verso uno di essi, con gesti impazienti le strappò di dosso l’uniforme a strisce e la biancheria intima, quindi la legò nuda a quel palo. Atlanta era
smarrita, fisicamente e moralmente distrutta. Lamentandosi debolmente, sopportò le fasi di quel rituale che costituiva uno dei sistemi
cosiddetti di spersonalizzazione. Un supplizio che offendeva non
soltanto il suo corpo ma tutta la sua persona, la sua dignità, che la
privava della sua personalità.
Rimase sotto la pioggia battente per circa mezz’ora, scossa da
brividi di freddo e di terrore, finché il gelo e la disperazione che l’avevano invasa ebbero la meglio. Si ripiegò su se stessa e svenne.
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CAPITOLO QUATTORDICESIMO
Al suo ritorno dal campo di Ravensbrück, il colonnello Erwin
Zeitzler, si era affrettato a compilare una richiesta di liberazione di
Atlanta motivandola con la sua decisione di collaborare con il III
Reich. E, in calce al documento, aveva dichiarato di garantire personalmente l’adempimento di quell’impegno. Poiché faceva parte dell’ufficio S.D., il servizio segreto del partito nazista, il suo naturale
superiore era lo spietato SS Brigadeführer (generale di brigata)
Reinhard Heydrich, capo di quell’organizzazione. Aveva chiesto
udienza ma era stato ricevuto soltanto dopo cinque giorni di attesa. Gli
aveva prospettato il suo problema ma Heydrich, un uomo dal viso
angoloso e grifagno e dal naso gibboso, era rimasto a fissarlo con i suoi
occhi cupi e infidi e gli aveva posto una serie di domande. Poi, si era
riservato di assumere dirette, personali informazioni rivolgendosi
anche al nuovo comandante del lager di Ravensbrück. Zeitzler aveva
intravisto, nell’atteggiamento del suo superiore, segni di diffidenza e
sospetto, espressi anche da quel suo sguardo indagatore e maldisposto
e dal sorriso ironico che gli increspava un angolo delle labbra.
L’autorizzazione gli venne concessa più di un mese dopo e solo
in seguito alle pressanti insistenze da lui rivolte al capo della segreteria. Heydreich non lo aveva più ricevuto ma si era preoccupato di far
annotare in calce all’ordine di liberazione che le modalità e i tempi del
rilascio venivano subordinati alla valutazione del comandante del
lager. Il ritardo e il modo in cui era stato ricevuto, la lungaggine della
procedura e quella inquietante condizione apposta sul documento,
costituivano per Zeitzler una conferma che la sua stella era tramontata
e che l’ostilità dei superiori si stava concretamente manifestando. Pur
con l’animo amareggiato, non perse tuttavia tempo e partì immediatamente in auto per Ravensbrück. In quel pomeriggio del 13 marzo 1942,
pioveva abbondantemente su tutto il nord della Germania. Durante il
viaggio, si soffermò a meditare sulle sue ultime vicende.
Da almeno due anni, giorno dopo giorno, aveva constatato di
far parte di un gruppo di scatenati criminali e si era sforzato di sottrar139
si alla consumazione di genocidi e di brutali rappresaglie. Aveva svolto le indagini affidategli ma si era limitato a riferirne l’esito lasciando
ad altri lo sviluppo operativo. Quel comportamento non poteva sfuggire ai suoi superiori che erano folli fanatici assetati di sangue e non tolleravano scrupoli di coscienza, specie da un ufficiale del suo grado. Ma
vi era dell’altro: attraverso la sua rete informativa, Zeitzler aveva scoperto, già da qualche anno, che si era formato in Germania, fin dal
1938, un nucleo di resistenza al regime nazista, costituito da alti ufficiali, funzionari statali, giuristi, intellettuali, uomini di lettere. Il loro
scopo era quello di eliminare Hitler con metodi violenti, deporre il
regime nazionalsocialista e ripristinare la legalità. Alcuni tentativi di
compiere un attentato contro Hitler non avevano avuto seguito o erano
falliti per le ragioni più varie. Zeitzler era riuscito comunque ad identificare le figure più eminenti della cospirazione e, inizialmente, aveva
riferito al capo dell’ S.D. i loro progetti. Si era regolato in quel modo
non soltanto perché era un suo preciso dovere ma soprattutto perché,
come tutto il popolo tedesco, era entusiasta dei vertiginosi successi
militari della Germania. Ma, in seguito, quando aveva visto la ferocia
e la brutalità dei metodi nazisti nei territori occupati, quando era trapelata la politica dello sterminio da loro instaurata nei numerosissimi
lager, quando aveva visto infrangere i più elementari diritti umani nei
riguardi dei civili inermi e di intere popolazioni, si era ricreduto, si era
come svegliato da un sogno. Da quel momento, non aveva più informato Heydrich della persistenza della cospirazione contro Hitler e contro il regime e, in se stesso, aveva solidarizzato con essa. Un giorno,
addirittura, aveva sollecitato un incontro notturno con il tenente colonnello Claus von Stauffenberg. Gli risultava, infatti, che era uno dei capi
emergenti della cospirazione. Senza rivelargli il suo nome, lo aveva
esortato ad imporre a se stesso ed ai suoi compagni di fede una maggiore segretezza, a spostare subito le sedi delle loro riunioni, a non
manifestare mai la loro avversione per il regime, in una parola a non
dare nell’occhio perché i capi del nazionalsocialismo avevano avuto
sentore dei loro propositi. Gli aveva anche suggerito di “bonificare” i
loro uffici per eliminare eventuali microfoni e di “mettere in sonno”
alcuni nomi altisonanti del complotto (il tenente Fabian von
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Schlabrendorf, il generale Henning von Tresckov, il generale Kurt von
Hammerstein, il generale Fritz Halder, il generale Ludwig Beck, l’ammiraglio Wilhelm Canaris e altri) perché ormai “bruciati”.
Con quella pericolosa iniziativa, non intendeva certo ingraziarsi i cospiratori per ritrarne futuri vantaggi. Piuttosto, voleva, sia pur
confusamente, assecondare la propria crescente avversione, anzi il suo
odio, verso quel pazzo criminale di Hitler e verso la sua banda di assassini. Anche se la sorte delle armi arrideva ancora alle armate tedesche,
sentiva che non poteva esserci alcuna speranza di grandezza per un
paese che fondava i propri destini sull’oppressione, sulla ferocia, sullo
sterminio, sulla negazione di Dio e della sua parola.
Hitler, è vero, aveva detto inizialmente ai tedeschi di rialzare la
testa, di farsi coraggio, di reagire con forza alla stretta che stava soffocando la Germania dopo la prima guerra mondiale. Per suo merito, i
tedeschi avevano visto nel nazionalsocialismo una prospettiva di ripresa nazionale ed un baluardo contro i pericolosi abusi del comunismo.
Il nazionalsocialismo, inoltre, all’epoca, era in grado di rivolgere un
potente appello ai giovani e agli uomini colti. Parlava al cuore, al sistema nervoso e al cervello. Sembrava perseguire una verità poetica sublime, quella dell’offerta di ogni sforzo individuale in nome dell’amore
per la Germania. Così, una generazione di uomini e donne era stata
raggirata con una facilità apparsa in seguito inspiegabile. E, infatti,
poco dopo, Hitler si era tolto la maschera e il nazismo aveva imboccato una strada di orrori. Gradualmente, Zeitzler era giunto ad odiare la
sua uniforme e le uccisioni immotivate e indiscriminate commesse
dalle SS. I famigerati “Einsatz Kommando” cioè gli squadroni della
morte, avevano provocato ripugnanza perfino nei soldati regolari. In
preda ad uno stato di insopportabilità del mondo violento in cui si sentiva rinchiuso, una sera, era giunto a telefonare, da un apparecchio
pubblico, al tenente colonnello Stauffenberg per avvertirlo che, all’alba dell’indomani, avrebbe avuto luogo un’irruzione della Gestapo in
una villa della periferia di Berlino, dove era stata fissata una riunione
di cospiratori. L’ufficiale lo aveva ringraziato e, vista la sua buona predisposizione, si era spinto a chiedergli di unirsi alla loro causa.
Quella metamorfosi della coscienza di Zeitzler dimostrava che,
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in fondo, non era cattivo. Aveva strangolato, è vero, a vent’anni, la propria compagna ma senza volontarietà, in un eccesso di esasperazione,
di accecamento della ragione, nel corso di una lite violentissima. Si era
reso conto, proprio allora che, a causa del suo carattere chiuso e taciturno, andava soggetto, se contrastato e provocato, a scatti bestiali.
Aveva poi trascorso il resto della sua vita nel rimorso e nel desiderio di
riscattarsi. Ma la sua infelice decisione di entrare nel corpo delle SS era
stata come la spinta verso un baratro. Ora voleva rimediare.
Un sobbalzo della vettura lo distolse dai suoi pensieri.
Pioveva ancora mentre il viaggio volgeva al termine. Entrò nel
lager all’imbrunire e chiese di Atlanta. Gli risposero che si trovava legata ad un palo ,in punizione, al centro del cortile.
Accorse sotto la pioggia e la vide riversa, nuda e priva di sensi.
Furibondo, ordinò ad una sorvegliante di scioglierla. Il resto
avvenne come in un sogno angoscioso.
Dopo averla coperta con il proprio pastrano, si avviò di
corsa verso il parlatorio sorreggendola fra le braccia. Ma, mentre le frizionava il corpo nella speranza di farla rinvenire, entrò
come una furia il maggiore Ziereis. E, senza alcun rispetto per
il suo più alto grado, lo apostrofò violentemente:
“Colonnello, perché avete sciolto questa donna? Io avevo ordinato che rimanesse legata al palo per 24 ore e che poi fosse eliminata.”
Zeitzler si alzò, pallidissimo, cercando di contenere il proprio
furore.
“Ho un ordine di liberazione firmato dal Generale Heydrich.”
E gli consegnò il relativo foglio. Mentre Ziereis lo esaminava,
Zeitzler scrutò il suo volto. Sembrava che il male, con un’accetta, avesse scolpito su di lui i tratti della crudeltà, del vizio e
della trasgressione, riuniti insieme in una maschera odiosa,
eretta su un corpo porcino. Alla fine della lettura, quello gli
restituì l’ordine di liberazione sibilando:
“Troppo tardi! Ho già decretato la morte di questa donna.”
“Ma cosa ha fatto?”
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“Ha osato ribellarsi.”
“L’avete già punita per questo. Ora, eseguite l’ordine e liberatela.”
“Avete letto quello che c’è scritto. La liberazione è subordinata al mio consenso. Ed io nego questo consenso.”
“Vi sbagliate: solo le modalità e i tempi del rilascio sono subordinati al vostro consenso.”
“Esatto. La libererò e ve la consegnerò dopo che sarà morta.”
“Siete un miserabile. Io la porto via.”
“Attento, colonnello, il comandante del campo sono io.”
“Voi siete soltanto un esaltato. Rimetterò al generale Heydrich
questa faccenda.”
Si chinò verso Atlanta e stava per riprenderla in braccio
quando udì il maggiore gridargli con voce stridula:
“Fermatevi!”
Stando curvo su Atlanta, girò il capo. Ziereis si era
interposto fra lui e la porta di ingresso del parlatorio e impugnava una pistola. Esterrefatto, Zeitzler spostò allora gli occhi
verso la porta: era piantonata da un Kapò che aveva seguito il
suo capo. Zeitzler mostrava al suo interlocutore il fianco sinistro. Stando addossato ad Atlanta, cercò febbrilmente con la
destra la propria pistola nella fondina e, estrattala, si voltò,
puntò fulmineamente l’arma e premette il grilletto. Vi fu una
detonazione agghiacciante, forse non percepita all’esterno a
causa del frastuono della pioggia sulle lamiere dei tetti.
Nell’interno del parlatorio, seguì invece un irreale silenzio. Un
foro rotondo e rosso era apparso al centro della fronte del maggiore, rimasto in piedi con le braccia aperte e gli occhi spalancati. Un’espressione attonita aveva concluso per sempre il loro
roteare. Ancora un attimo, poi l’uomo cadde all’indietro come
un fantoccio. Il Kapò si era intanto fatto avanti di alcuni passi,
smarrito. Ma non aveva con sé armi, all’infuori di un “gummi”,
il bastone di caucciù con cui infieriva sui prigionieri.
Puntandogli contro la pistola, Zeitzler gli impose di prendere
in braccio Atlanta e di portarla fuori. Pioveva ancora a dirotto.
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Percorsero affrettatamente il breve tratto che li separava dal
portone d’ingresso. Ordinò con voce secca alla SS di guardia di
aprirlo, uscì preceduto dal Kapò e fece deporre Atlanta nell’interno della vettura. Quindi, con estrema rapidità, entrò nell’auto che
partì a gran velocità. Il Kapò rimase a guardarla imbambolato, poi
ritornò di corsa verso l’ingresso. Zeitzler fece appena in tempo a
udire le sue grida.
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CAPITOLO QUINDICESIMO
Agli inizi di marzo, Nicholas andò a cercare Misty, cioè
Segreta, nella sua libreria e le chiese di trascorrere una serata insieme.
Lei aderì e, la sera seguente, cenò con lui nel piccolo ristorante che già
conoscevano, in Villiers Street, di fronte alla Charing Cross Station.
Dopo, salirono in casa, in J. Adam Street. Lui la baciò e, con visibile
emozione,
le
chiese di rimanere.
“Solo un paio d’ore” rispose Segreta “Poi, dovrò ritornare a casa”
Sotto un attillato cappottino, indossava un maglione e una gonna
di intonazione violacea. Salvo che in alcuni casi, ad esempio quando usciva con la mamma, non si era mai vestita con ricercatezza. Andò verso il
letto, si tolse i due pezzi in maglia e rimase in sottoveste. Vide gli occhi
miti di Nicholas accendersi. Lui si avvicinò, depose baci sparsi sulle sue
spalle candide, poi giunse alle labbra. Segreta sentì che tremava e si rese
conto di quanto fosse inesperto. Anche Nicholas si liberò degli abiti e
rimase con le sole mutandine e la canottiera. Si distesero sul letto dove lui
continuò ad accanirsi sulle sue labbra, sul suo collo, sul suo seno.
“Uh, che ardore, Nicholas!” finse lei “Sei bravo!”
“Credo invece di essere una frana”
“Perché?” e, prima che rispondesse, andò con una mano a tastargli il sesso
e lo trovò floscio. Lui, allora, si tolse le mutandine, e lo mise a nudo.
“Quanto è grosso!” esclamò lei per incoraggiarlo; e si mise a palpeggiarlo. Sentì che, poco a poco, si gonfiava.
“Come è forte!”
“Mi fai rivivere, Misty. Tu non puoi sapere quanto sia importante per me”
“Sei pronto, ora!”
“Grazie, poterti avere è tutto quello che chiedo alla vita”
“Vieni, prendimi!”
Si denudò anche lei e Nicholas, precipitosamente, goffamente, la
penetrò. In quel momento Segreta pensò a Wilhelm e si sentì a disagio. Il
proprio cuore si ribellava all’idea di darsi ad un altro uomo. Si irrigidì socchiudendo gli occhi, senza provare alcun piacere. E, per tutto il tempo, non
udì le parole di adorazione che Nicholas le andava rivolgendo. Ad un certo
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punto, lo sentì scendere dalla sua posizione venerea e distendersi accanto
a lei. Allora, aprì gli occhi e incontrò il suo sguardo beato.
“Grazie” le sussurrò con un sorriso.
In quel momento, le fece tenerezza e pensò che, in fondo, non
aveva tradito soltanto Wilhelm ma anche lui, con tutta la sua candida
aspettativa d’amore.
Poi, si ricordò che aveva un compito da svolgere e gli disse:
“Mi è rimasta la cena sullo stomaco. Posso avere un sorso di brandy?”
“Certo. Vado subito a prenderlo”
“No, stai pure. So dov’è. Vado io. Ne vuoi anche tu?”
“Sì, ti ringrazio”
Nuda com’era, andò sculettando verso la sua borsa, rimasta su
una poltrona, vi prese furtivamente una boccetta, poi si recò in cucina per bere un dito di whisky scozzese. Ne versò una dose maggiore
nel bicchiere destinato a Nicholas e vi aggiunse il contenuto della
boccetta. Era una polverina di sonnifero ricevuta da Armstrong insieme ad altri ferri del mestiere.
Ritornò in camera da letto. Nicholas si stava stiracchiando giulivo.
Gli porse il bicchiere. Lui lo prese ma, prima di bere, le rivolse uno sguardo carico di gratitudine e le sussurrò con enfasi:
“Sei stata mia, mia ! Finché vivrò, ricorderò questo momento indimenticabile. Mi sento rinato, un altro uomo!”
E bevve d’un fiato il suo brandy. Segreta stette a guardarlo pensierosa. Le dispiaceva far del male ad un uomo così limpido e delicato. Si
stese poi accanto a lui. Nicholas si sporse per baciarla ma la sua testa cadde
sul cuscino. Dopo qualche attimo, vide che dormiva. Allora, si alzò e si
mise ad ispezionare l’appartamento. Nello studio, esaminò accuratamente
il contenuto dei cassetti, che aveva aperto con una chiave trovata nella
tasca della sua giacca. La colpì un fascicolo sul quale era scritto: “Progetto
per la sede distaccata della stanza rilevamento sommergibili
dell’Ammiragliato”. Allora, andò a prendere la macchina fotografica
tascabile nella sua borsa, che in realtà era una bisaccia e conteneva di
tutto. Fotografò accuratamente il fascicolo, quindi ritornò a letto e si
distese accanto a Nicholas ancora addormentato.
L’appartamento era immerso in un profondo silenzio, rotto
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solo dal battito felpato di una vecchia pendola. La stanza era tenuemente illuminata solo dal paralume di un comodino. Il cuore le batteva precipitosamente. Che cosa aveva fatto? Lei, la giovane lady
Heston era diventata una spia! Fu in quel preciso momento che la
coscienza cominciò a rimorderle. Si voltò verso Nicholas: il suo viso
era disteso, pacato come quello di un bambino. Lo chiamò ripetutamente e riuscì a svegliarlo.
“Uh, che cerchio alla testa!” si lamentò lui.
“Anch’io” finse lei “La cena è stata pesante” e, per distrarlo, facendo
forza su se stessa, lo baciò appassionatamente. Poi, si alzò e cominciò
a rivestirsi.
“Rimani ancora un poco”
“Va bene, ma solo per qualche minuto”
“Ti assicuro che la prossima volta non mi addormenterò. Posso tenerti ancora fra le mie braccia?”
“Certamente”
Lei appoggiò la testa sul suo petto nudo, quasi privo di peli. Lui
la strinse a sé con trasporto.
“Ti adoro Misty. Non ho mai avuto una ragazza in questo modo. Voglio
dire, teneramente, appassionatamente, con i sensi e con il cuore. Tu mi
stai cambiando la vita, mi stai restituendo la fiducia in me stesso”
“Anche a me, ha fatto molto piacere. Sei un bel ragazzo, hai un corpo
ben fatto. E, poi sei dolce e gentile. Una donna apprezza sempre queste qualità.”
“Sono stato precipitoso, oggi. In verità, avevo paura di fallire.
Ma, ora, mi sento più sicuro. Vedrai, saprò essere più bravo la prossima volta”
Quel ragazzo, pensò Segreta, sembrava un libro aperto. Era fin
troppo sincero e trasparente. Lei non aveva esperienza degli uomini.
Tuttavia, il suo istinto e il suo immaginario femminile le dicevano che
un vero uomo non è così. Aveva davanti, ad esempio, il modo di essere di Wilhelm: deciso, forte, sicuro, imperscrutabile. Nicholas era
diverso: mite, timido, poco virile, sensibile, soggetto a subire la più
forte personalità degli altri. Le faceva tenerezza perché sembrava un
agnello in un mondo di lupi, vulnerabile e inadatto a combattere l’a147
spra lotta del mondo. Era vittima della sua natura ma, forse, ecco, questo si chiedeva Segreta, forse la sua chiave di interpretazione dei veri
valori della vita era diversa rispetto a quella di Wilhelm e degli uomini pragmatici come lui. Si disse che doveva scoprirlo.
Al suo rientro a casa, trovò Wilhelm, a sua volta appena ritornato da un breve viaggio a Portsmouth, dove si era recato con
Armstrong per un problema relativo al movimento delle navi da guerra inglesi. Non si dilungò nei dettagli né a Segreta la questione interessava. Le stava a cuore, invece, riferirgli il suo incontro con
Nicholas. Gli fece un resoconto degli avvenimenti e aggiunse:
“Questo è l’ufficiale che fa per noi. È il primo del nostro elenco e mi
pare che possiamo concentrarci su di lui. Il suo lavoro consiste infatti
proprio nella gestione delle rotte dei convogli alleati”
E gli consegnò il fascicolo fotocopiato.
“Ottimo lavoro” commentò Wilhelm dopo averlo esaminato.
“Non vuoi sapere a quale prezzo?”
“Cova vuoi dire?”
“Voglio dire, che, per avere notizie, dovrò passare per il suo letto”
Wilhelm si morse il labbro.
“Non voglio sentire questi discorsi!” proruppe. E andò a sedersi corrucciato sul divano. Segreta si pentì di avergli fatto quell’accenno.
Comprese che tutto il peso morale di quella situazione doveva gravare
esclusivamente su di lei. Non poteva dividerlo con altri.
La prima conseguenza di quel suo conflitto di coscienza fu,
che, per vari giorni, non volle più vedere Nicholas né occuparsi del
problema dei convogli. Lui venne a cercarla ripetutamente nella libreria ma lei trovò sempre delle scuse per non uscire insieme. Nello stesso modo, si comportò con Wilhelm. Quando lui la cercava a letto, gli
diceva di essere stanca o di avere mal di testa. Era insorta in lei una
situazione di crisi che provocava uno stallo nel lavoro affidatole.
Wilhelm dovette accorgersene perché, un giorno, le chiese:
“Hai ottenuto qualche progresso nel tuo lavoro?”
“No”
“Come mai?”
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“Non me ne voglio più occupare”
“Posso sapere cosa ti succede?”
“Sono in crisi, Wilhelm, e sono tentata di accettare la tua offerta di due
mesi fa. Mi consentiresti di tornarmene ad Abingdon senza conseguenze e complicazioni?”
Si trovavano nella loro casa di Webber Street. Avevano appena
finito di cenare e stavano seduti di fronte, al tavolo della sala da pranzo. Lei scrutò il suo viso per coglierne le reazioni. La sua espressione
era contratta ma Segreta non sapeva se stesse rammaricandosi per la
fine del loro amore o, invece, per i danni che sarebbero derivati al lavoro a causa della sua partenza. Alla fine, lui disse:
“Mi mancherai ma, per il tuo bene, è meglio così. Penso che l’ammiraglio Canaris capirà e non vorrà infierire. Comunque, prima di andartene, dovrai informare Armstrong.”
“Ma tu, come farai?”
“Lavorerò nella centrale. Armstrong penserà al resto”
Quella sera, non fecero all’amore. Ma, nella notte, lei continuò
a rigirarsi nel letto senza prender sonno. La mattina dopo, si salutarono perché lui doveva uscire per primo. Si baciarono senza enfasi, né
commozione.
“Verrai a trovarmi qualche volta ad Abingdon?”
“Cercherò. Addio, Greta, abbi cura di te!”
Un ultimo, fuggevole bacio, poi lui uscì senza tradire emozioni.
Quando fu sola, lei si sedette sul bordo del letto e pianse silenziosamente.
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CAPITOLO SEDICESIMO
Nella Mercedes nera che si allontanava velocemente da
Ravensbrück, il colonnello Zeitzler cingeva con un braccio le spalle di
Atlanta, ancora priva di sensi. E, per riscaldarle le gambe e i piedi intirizziti, l’aveva avvolta con una coperta da campo prelevata dal portabagagli. L’autista, un caporale del corpo delle SS, guidava senza fare
domande. Fuori, la pioggia cadeva fitta ed insistente, con una cadenza
fredda e ossessiva che penetrava nel cuore. Intorno alla macchina, vi
era un buio greve e incombente. Zeitzler sapeva che il suo destino era
segnato. Forse, davanti ad un’equanime corte marziale, avrebbe potuto attribuire l’omicidio di Zeireis ad una legittima difesa. Ma su di lui
pesavano altri sospetti. Era quella, quindi, un’occasione per eliminarlo
senza neppure un processo. Doveva perciò nascondersi per avere almeno il tempo di far guarire Atlanta e metterla in salvo. Mentre l’auto percorreva, nella notte sopravvenuta, la regione del Brandeburgo, pensò
alla soluzione da adottare. La scelta migliore sarebbe stata quella di far
perdere le proprie tracce rifugiandosi in qualche casa campestre isolata, indossando abiti civili e affidando Atlanta alle cure del medico locale. Ma lei non rinveniva. Una sottile angoscia cominciò allora ad invaderlo. Le sue condizioni dovevano essere certamente più gravi di quanto aveva ritenuto all’inizio. Non vi era, perciò, tempo da perdere. Così,
quando la macchina entrò frusciando nell’abitato di Rheinsberg, ordinò all’autista di recarsi all’ospedale. Appena giunti, col suo aiuto, trasportò all’interno Atlanta e l’affidò al medico di guardia. La sua uniforme incuteva soggezione. Perciò, lei fu visitata subito. Mezz’ora
dopo, gli riferirono che aveva subito un collasso circolatorio e che le
era sopravvenuta una violenta broncopolmonite febbrile. Per riguardo
a Zeitzler, fu sistemata in una camera in cui vi era un secondo letto
vuoto. In seguito alle iniezioni praticatele, riacquistò i sensi ma era
debolissima, divorata dalla febbre. Zeitzler si distese sul letto vuoto ma
non poté riposare a lungo perché Atlanta, ad un certo punto, cominciò
a lamentarsi.
Il giorno seguente, lei lo riconobbe e poi gli chiese dove si trovavano.
“Siamo in un ospedale, nella cittadina di Rheinsberg. Appena sarete
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guarita, ce ne andremo in un posto sicuro.”
“Mi avete liberata?”
“Sì, ma vi sono delle difficoltà. Appena starete meglio, vi spiegherò.”
Lei richiuse gli occhi e, per qualche ora, continuò ad emettere
un lieve lamento. Verso sera, li riaprì, lo vide curvo su di lei e cercò la
sua mano.
“Erwin,” la sua voce era un soffio “lasciate questo lavoro di morte. Un
mondo senza la Croce non potrà mai sopravvivere. È la sola via per
l’uomo e per tutti i popoli”
Venne il primario, la visitò e riferì separatamente a Zeitzler
che il cuore era debolissimo e che la respirazione avveniva in modo
molto stentato.
Il secondo giorno, mentre era vicino al suo letto, la porta si aprì
e apparve un aitante ufficiale delle SS. Zeitzler trasalì e si alzò per riceverlo. Riconobbe i suoi gradi: era un tenente colonnello. Il nuovo
venuto si irrigidì nel saluto, si qualificò e gli chiese se lui fosse il
colonnello Zeitzler.
“Sì, sono io.”
“Vi prego di seguirmi, comandante. Il colonnello Von Trott, venuto
appositamente da Berlino, vi attende nel locale distaccamento per
comunicarvi un ordine del Brigadeführer Reinhard Heydrich”
“Come vedete, sto assistendo una persona gravemente ammalata.
Concedetemi del tempo.”
“Quanto tempo?”
“Non molto, temo.”
L’ufficiale lo salutò sbattendo i tacchi e se ne andò. Zeitzler
aveva capito. Si avvicinò ad Atlanta e le accarezzò la fronte. Sembrava
dormisse. Lui sapeva ora che, per entrambi, non vi era più un futuro.
Ma, paradossalmente, fu quasi sollevato. Si era ripromesso di farla
finita con quella vita odiosa; e di iniziarne un’altra altrove, lontano da
quell’inferno, possibilmente insieme ad Atlanta, con la speranza che
lei lo avrebbe, col tempo, accettato. Ma il destino aveva deciso diversamente. Si avvicinò alla finestra: a poca distanza, scorse il castello
dove aveva abitato Federico II il Grande. Là, lo aspettava il colonnello venuto da Berlino con gli ordini dell’implacabile Gotha nazista.
152
Stava quindi di fronte ad un cruciale punto d’arrivo. Per giungervi,
aveva percorso una vita oscura, priva di archi di trionfo, di lauri di gloria, di gesti o azioni nobili; e neppure riscaldata dal tepore di un affetto profondo; ma avvelenata, invece, da uno scenario di feroce persecuzione dei propri simili. Anche ad una coscienza offuscata come la
sua, quell’esistenza appariva come la negazione di qualsiasi giusta
aspirazione dell’uomo. L’aveva vissuta con il cuore gravato da una
livida disperazione. Ed ora, provava quasi sollievo al pensiero che,
forse, era arrivato al suo capolinea.
La voce di Atlanta lo distolse: sentì che lo chiamava. Era pallidissima nonostante la febbre che l’aggrediva. Un tremito continuo le
scuoteva tutto il corpo.
“Erwin” gli chiese debolmente “vi prego, avvisate i miei figli.”
“Dove posso trovarli?”
“Scrivete al capitano Wilhelm Klausing che fa parte dell’Abwehr. Lui
provvederà al resto.”
Trascorse qualche ora. Lei respirava affannosamente. Vennero
ancora i medici e, scuotendo la testa, gli lanciarono uno sguardo eloquente. Verso sera, lei lo chiamò ancora.
“Siete stato nobile con me, Erwin.” gli sussurrò “In altre circostanze,
avremmo potuto essere amici.”
Lui si chinò su di lei e le baciò la fronte.
“Certo, Atlanta, certo.”
Lei gli prese una mano. Era sfinita ma trovò ancora la forza di
dirgli:
“Se il mondo va male, Erwin, non è colpa degli eserciti e dei trattati.
La soluzione di tutti i problemi risiede solo nel cuore dell’uomo. Per
questo, Erwin, apritevi e pregate. Chiedete a Dio la vostra conversione personale.”
Lui le accarezzò ancora la fronte.
“Vi ringrazio di queste parole. State certa: lo farò.”
Poi, lei chiuse gli occhi e, nella notte, cominciò a rantolare.
Zeitzler le stette vicino e si accorse che aveva ormai perso conoscenza.
Ad un certo punto, tenendole la mano, lui si assopì. Quando si
destò, forse solo qualche minuto dopo, il suo rantolo era cessato. Lei
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stava immobile e cerea con gli occhi spalancati. Era morta.
Zeitzler sentì un immenso vuoto dentro di sé, un senso di angoscia e di inutilità che gli premeva il petto. Desiderò, in quel momento,
fuggire. Ma non da quella stanza: dalla vita, da tutto.
Si preoccupò di farla seppellire nel piccolo cimitero di
Rheinsberg, di fronte al lago Griencricksee che fluttuava dolcemente
mentre la nascente primavera riempiva di corolle, di boccioli e di
nuove, tenere foglie i rami delle eriche, dei faggi, dei larici e degli abeti
rossi. Poi, scrisse una lettera al capitano Wilhelm Klausing per informarlo di quanto era avvenuto e la consegnò al suo autista perché, al
rientro a Berlino, la portasse al quartier generale dell’Abwehr. Infine,
si fece accompagnare al castello. Fu ricevuto dal colonnello SS Ulrich
von Trott. Aveva occhi freddi e modi altezzosi. Stava seduto ad una
scrivania e, alle sue spalle, vi erano in piedi due SS. Al suo arrivo, si
alzò, lo salutò e gli disse con voce autorevole:
“Sono venuto da Berlino con pieni poteri, colonnello. Perciò, vi
dichiaro in arresto.”
“Di che cosa sono accusato?”
“Lo sapete bene: per ultimo, dell’omicidio del maggiore Ziereis.”
“È stata legittima difesa.”
“Vi è un testimone. Sappiamo bene come le cose sono andate veramente. Ma vi è dell’altro: la vostra ostilità alle direttive del Führer, la
vostra connivenza con cospiratori e denigratori, la vostra intelligenza
con una nemica della Germania.”
“Posso giustificarmi su tutto.”
Rispose così per non finire come un coniglio. Ma, in realtà,
niente aveva più importanza ormai.
“Ho convocato una corte marziale sommaria.” proseguì Von Trott con
voce distaccata “In quella sede, verranno ascoltate le vostre ragioni.”
“Sarete voi a presiederla?”
“Certo!”
“Vorrei essere giudicato da un ufficiale di grado più elevato del mio.”
“Dovrete accontentarvi di me, Zeitzler. Sono più anziano di voi.
Basterò io per mandarvi all’inferno.”
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“Prima o poi, ci verrete anche voi, con tutta la banda.”
“Vedremo. Consegnatemi intanto la vostra pistola.”
Zeitzler aderì senza obiettare, poi gli rivolse un’occhiata di disprezzo, si voltò e si avviò verso la porta. Ma non riuscì ad aprirla: percepì una denotazione e un colpo violento alla nuca. La stanza cominciò a girare vorticosamente. Poi, sprofondò nel buio e nel nulla.
Dietro di lui, il colonnello Von Trott impugnava una pistola che
aveva prelevato fulmineamente da un cassetto già aperto, per sparargli
alle spalle. Andò verso di lui per infliggergli il colpo di grazia ma se ne
astenne dopo aver constatato che era già morto. Giaceva bocconi con la
nuca squarciata e, dalla vasta ferita, sgorgava copiosamente il sangue.
“Portatelo via” ordinò seccamente, infastidito da quella pozza rossa “e
pulite il pavimento.”
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CAPITOLO DICIASSETTESIMO
Segreta ritornò ad Abingdon col sincero desiderio di restituire
ordine alla sua vita. Si impose di dedicarsi a suo fratello e all’azienda
e, per un paio di giorni, le parve di essere rigenerata. Ma, in seguito,
specie di notte, il ricordo di Wilhelm riprese imperiosamente il sopravvento, unito al dolore che le procurava il pensiero delle sofferenze di
sua madre. Per sfuggire a quelle ossessioni, decise di riprendere gli
studi interrotti nel 1941 e si iscrisse ad un corso di richiamo scolastico
nella vicina Oxford.
Sennonché, una mattina di aprile, mentre se ne stava sola nel
parco tentando di studiare, sentì in distanza l’abbaiare dei cani della
tenuta. Si voltò e vide, ad una cinquantina di metri, la figura di un
uomo che si avvicinava. Era troppo distante per distinguerlo; ma un’aspettativa del cuore la spinse a balzare in piedi. Ancora qualche attimo,
poi lo riconobbe: sì, era lui, era Wilhelm. Si compresse il petto per frenare i suoi battiti, poi si lanciò in avanti per andargli incontro. E, mentre correva, lo chiamava a squarciagola ridendo di gioia, impazzita. Sì,
lui veniva a raggiungerla perché non poteva fare a meno di lei! Ma,
quando gli fu sufficientemente vicina, si accorse che Wilhelm non le
sorrideva, non si affrettava. Era serio, contratto e i suoi occhi non brillavano. Allora, ebbe un presentimento. Doveva essere successo qualcosa. Quando furono vicini, si fece accogliere dalle sue braccia ma gli
chiese ansiosamente:
“Wilhelm, cosa è successo?”
“Vieni, andiamo a sederci sotto quell’albero”
Ma lei lo trattenne con forza.
“La mamma?”
“Sì”
“Oh, nooo!”
Si afflosciò per terra e perse la cognizione delle cose.
***
Seppe da Wilhelm, fra le lacrime, che la mamma era morta il
157
16 marzo 1942. Ma non si rendeva conto del perché fosse stata sepolta a Rheinsberg. Lui non fu in grado di darle una spiegazione. Aveva
soltanto ricevuto un cifrato diretto al suo nome in codice, che non forniva altre spiegazioni.
“Quando ritorneremo in Germania” disse per tranquillizzarla
“Conosceremo i dettagli”
Un’atmosfera di cordoglio gravava su “Greenplain house”:
non soltanto Segreta e suo fratello piangevano ma anche tutta la servitù. In molti vennero a porgere a lei e a suo fratello le loro condoglianze. Il 15 aprile, fu celebrata una messa di suffragio ad Abingdon,
nella parrocchiale gotica di St. Helen, con una partecipazione strabocchevole di folla.
Wilhelm, intanto, fin dal giorno seguente al suo arrivo, aveva
dovuto rientrare. Per evitare che viaggiasse solo, Armstrong si era
preoccupato di farlo accompagnare da un agente della sua squadra.
Segreta aveva condiviso con suo fratello quelle ore di lacerante dolore. Era intontita. Le sembrava che il mondo intorno a lei avesse
cambiato aspetto. Nulla più la interessava. Il fatto di essere diventata
orfana le procurava un senso di insicurezza. Col trascorrere delle settimane, si accorse di essere cambiata. La baldanza di prima, i suoi impeti, i suoi puntigli, si erano spenti. Ma non se ne preoccupò. Confidò che
si sarebbe ripresa col tempo.
Per cercare consolazione, scrisse ad Oana Mc Laglen riversandole il
suo stato d’animo.Dalla fine del 1941, l’amica si trovava in convento
a Mustair, come novizia, in attesa di prendere i voti. Le rispose con una
lettera che rivelava il suo sincero dolore: aveva frequentato Atlanta
solo per pochi giorni ma era rimasta colpita dalla sua dignitosa compostezza, dal suo carisma. Ed ora la rimpiangeva. Ma la sua partecipazione era temperata dall’accettazione della suprema volontà di Dio. E,
in questo senso, esortò Segreta alla rassegnazione, nell’attesa di ritrovare la mamma nella Gerusalemme celeste.
Lei si sentiva sola: Dorian, infatti, era occupato dal suo studio
e dalle sue amicizie. Si vedevano solo a pranzo e, qualche volta, a
cena. Si mise allora a consultare la raccolta di album contenenti le
fotografie di famiglia. Poi, non sopportando di stare in ozio, riprese il
158
suo corso di studio presso un istituto privato della vicina Oxford, per
tentare l’ammissione, da privatista, al 3° anno delle scuole superiori.
Ma, col trascorrere dei giorni, il tarlo dell’amore per Wilhelm ritornò
a tormentarla. E, in un giorno di giugno, non sopportando più quel
rodimento, quel suo ripetere a se stessa, ossessivamente, le parole che
gli avrebbe detto nel rivederlo, abbandonò tutto ciò che aveva ritrovato e corse a cercarlo.
159
CAPITOLO DICIOTTESIMO
(Intermezzo dell’autore)
Intanto, gran parte dell’Europa era caduta sotto la dominazione nazista. E, nei paesi occupati, si stava procedendo all’attuazione
violenta del “Neuordnung Europas”, cioè del nuovo ordine europeo,
inteso ad assicurare un nuovo spazio vitale (Lebensraum) al popolo
tedesco, a cambiare il volto del continente, ad impossessarsi delle
principali materie prime, a stabilire un predominio germanico fondato su basi razziali ed a rinnovare, infine, la “grandezza imperiale della
Germania”. Il processo della “germanizzazione” veniva realizzato dal
nazismo trucidando chiunque vi si opponesse. Esso si basava, fra l’altro, su una drastica riorganizzazione economica e demografica e sullo
sfruttamento indiscriminato delle risorse umane e materiali degli
sventurati paesi conquistati.
In particolare, agli ebrei era stato riservato il tragico destino
dello sterminio nei lager o nei ghetti. Nei vari paesi, ma soprattutto
nell’Unione Sovietica, la presenza delle truppe tedesche si stava traducendo in massacri indiscriminati condotti non soltanto dai corpi
delle SS ma anche dalla Wehrmacht, che non concedevano alcuna via
di scampo alle popolazioni occupate.
In Polonia e nelle repubbliche baltiche, il principio della superiorità razziale veniva esercitato con la distruzione dell’apparato
statale e con l’annientamento di ampi strati della popolazione, soprattutto, degli intellettuali, dei sacerdoti e dei cittadini di religione ebraica. Nell’Unione Sovietica, l’ordine era di fucilare in massa i commissari politici dell’Armata Rossa, i partigiani e gli ebrei.
Per incrementare la produzione bellica, il Reich, nella sua
feroce strategia, aveva deciso di compiere uno sfruttamento indiscriminato di uomini e di risorse dei territori occupati. Poiché, infatti, la
Germania era carente di metalli e di minerali, passò ad attingere alle
ricchezze minerarie dell’Europa orientale. I commissari ed i funzionari del Reich avevano perciò assunto l’intera gestione delle fabbriche,
delle miniere, delle acciaierie, dei pozzi petroliferi della Polonia e
161
della Russia nonché il controllo delle relative attività private. Inoltre,
in un clima di terrore, era stato avviato uno spietato sfruttamento delle
risorse umane. I prigionieri di guerra e le popolazioni deportate costituivano un enorme potenziale di mano d’opera che lavorava in condizioni disumane. A metà del 1942, erano presenti in Germania oltre due
milioni e mezzo di lavoratori stranieri. E, proprio in virtù del loro
sacrificio e dello sfruttamento delle economie dei paesi occupati, la
popolazione tedesca viveva, entro i confini della Germania, in condizioni confortevoli.
Il progetto imperialista del III Reich tendeva ad assicurare alla
Germania un ruolo di potenza dominatrice entro i confini del suo
impero. Già in passato, nel suo libro “Mein Kampf” (la mia battaglia),
Hitler aveva affermato la superiorità della razza germanica. Ora,
venutosi a trovare al vertice di un gigantesco impero, poteva applicare le sue folli teorie e considerare geneticamente e razzialmente inferiori gli ebrei, gli slavi, gli zingari e gli omosessuali disponendone l’eliminazione fisica o la deportazione al di là degli Urali. In questo
modo, fu disposto che gli agricoltori locali lasciassero il posto a coloni tedeschi. Venne così sancito il principio della coercizione di intere
popolazioni perché composte di “sottouomini” (Untermenschen).
In questa ottica, lo sterminio degli ebrei era considerato una
condizione necessaria per il dominio della razza germanica sui popoli europei. La sua pianificazione era stata concordata dai vertici delle
SS, della Gestapo, degli organi di sicurezza del Partito, in una livida
riunione avvenuta il 20 gennaio 1942 sulle rive del Wannsee, nei dintorni di Berlino. Il progettato massacro di milioni di esseri umani nelle
camere a gas dei lager venne freddamente definito “soluzione finale
del problema ebraico”. Iniziarono così le deportazioni dalla
Slovacchia e lo sgombero del ghetto di Varsavia. Poco dopo, fece
seguito la decisione di estendere anche all’Europa occidentale quella
politica di annientamento degli ebrei. Infatti, sempre in quel tragico
1942, furono effettuate le deportazioni degli israeliti di Parigi, di
Amsterdam, ecc.
162
***
Se, fino al 1941, regnava unanime la convinzione che la
Germania avrebbe vinto la guerra, in seguito erano emersi i segnali di
un rallentamento dello slancio delle forze armate tedesche. Anzitutto,
la Luftwaffe non era riuscita a prevalere nella cosiddetta “Battaglia
d’Inghilterra” iniziata il 13 agosto 1940 con una serie massiccia e
impressionante di bombardamenti su Londra e sulle principali città
inglesi. Infatti, nel settembre di quell’anno, i bombardieri tedeschi in
volo verso Londra avevano subito una spettacolare sconfitta. In ottobre, il computo delle perdite della Luftwaffe si era attestato intorno ai
1300 apparecchi circa fra caccia e bombardieri. E poiché l’industria
bellica tedesca non era in grado di ripianare allo stesso ritmo le perdite subite, Hitler aveva dovuto rinunciare all’invasione
dell’Inghilterra. I bombardamenti si erano protratti fino al luglio 1941
ma l’intento tedesco di fiaccare il dispositivo di difesa inglese e il
morale della nazione non aveva avuto successo ed era stato neutralizzato dalla supremazia aerea inglese e dalle superiori capacità produttive della sua industria aeronautica.
Nell’Africa del nord, la guerra si trascinava stancamente in
una serie di fasi alterne. Ma, nello stesso tempo, era in corso la riorganizzazione e il potenziamento dell’ VIII armata inglese che sarebbe
stata affidata, proprio nel 1942, ad una nuova stella dei comandanti
alleati, il generale Bernard Law Montgomery. Vi erano i segnali di
una riscossa. In Russia, il “Blitz Krieg” era praticamente fallito.
Infatti, la superiorità in campo delle forze tedesche non era stata sufficiente a realizzare l’obiettivo di una guerra lampo. Si profilava perciò lo spettro di una serie di battaglie di logoramento e quindi di una
guerra prolungata che il potenziale industriale tedesco non era in
grado di sopportare.
163
CAPITOLO DICIANNOVESIMO
Dopo la partenza di Segreta, Wilhelm fu relegato da Armstrong
nella sala operativa occultata dietro gli scaffali della libreria, dato che
non disponeva di una disinvolta padronanza della lingua inglese.
Accettò quel ruolo perché, nel frattempo, aveva saputo che il suo capo
squadra era un capitano di vascello della Kriegsmarine e rivestiva
quindi, nell’agenzia militare di spionaggio, un grado superiore al suo.
Il proprio lavoro consisteva nella continua ricerca, con i potenti apparati ricetrasmittenti della centrale, di messaggi cifrati concernenti la navigazione dei convogli alleati nell’Atlantico Settentrionale,
trasmessi dalle navi di scorta o dalla “stanza rilevamento sommergibili” dell’Ammiragliato. Le intercettazioni venivano da lui esaminate
avvalendosi delle parti del cifrario navale inglese nr. 3 (cifrario convogli) di cui era in possesso. Era riuscito a decrittare parzialmente
alcuni messaggi ed aveva potuto informare in conseguenza la BDienst, il servizio di osservazione radio della Marina tedesca, per l’inoltro agli U-Boot. Ma i successi erano stati limitati e le giornate trascorrevano per lui in una continua ma generalmente infruttuosa ricerca. Il suo lavoro di ascolto veniva ostacolato, infatti, da varie circostanze fra cui le ricorrenti variazioni delle frequenze da parte del
nemico, la conoscenza soltanto parziale dei cifrari inglesi, il silenzio
radio delle navi di scorta, ecc. Si era così convinto che, per scoprire le
rotte dei convogli, era indispensabile infiltrarsi nell’Ammiragliato
britannico. E non poteva fare a meno di ricordare che Segreta si era
concretamente avvicinata a quella possibilità.
La sera del 20 giugno (1942), al termine del suo turno, salì nell’appartamento che aveva diviso con Segreta e nel quale ora viveva
solo. Consumò svogliatamente una sobria cena solitaria e ascoltò poi i
bollettini di guerra della BBC. Quando, infine, spense l’apparecchio, si
mise a pensare e a ricordare.
165
***
Wilhelm era nato il 19 agosto 1915 a Wernigerode, nella
Sassonia-Anhalt, alle pendici del massiccio dell’Harz. In quella zona,
suo padre, il conte Julius, possedeva vaste coltivazioni di cereali e barbabietole, frutteti, foreste di faggi e querce, allevamenti di ovini e
bovini. Julius Klausing aveva combattuto durante la 1ª Guerra
Mondiale e, nonostante la sconfitta, era rimasto tenacemente attaccato
all’uniforme, al servizio e all’esercito. Sulla spinta di quei sentimenti,
aveva convinto Wilhelm a partecipare ai concorsi per l’arruolamento
nel Reichwehr (denominazione dell’epoca dell’esercito tedesco). Col
trattato di Versailles, che aveva posto fine a quella guerra, l’esercito
della repubblica di Weimar era stato drasticamente ridotto a 100.000
uomini e privato di aerei, di carri armati e dell’accademia di reclutamento. Gli aspiranti al rango di ufficiale dovevano perciò prestare
prima servizio nella truppa, come soldati semplici. Wilhelm era stato
ammesso al corso nell’ottobre 1933 e destinato al 17° reggimento di
cavalleria che disponeva di un proprio centro di addestramento a
Bamberga. Aveva conseguito, in successione di tempi, la promozione
a caporale, a sergente, a sergente maggiore e, infine, a sottotenente il
1.12.1935. In attesa della destinazione, era stato invitato a partecipare
ad un campeggio della gioventù hitleriana. Il 1.2.36 aveva iniziato il
suo servizio di prima nomina presso la scuola di cavalleria di
Hannover. Intanto, il 30 gennaio 1933, Hitler era diventato cancelliere
e aveva rapidamente distrutto le ultime libertà democratiche del paese.
Era riuscito, infatti, ad eliminare con la violenza i rappresentanti comunisti. Così pure, avvalendosi dell’intimidazione, aveva fatto
approvare alcune leggi speciali in favore del partito nazionalsocialista.
Nel marzo, il Reichstag era stato costretto con la forza ad approvare la
famigerata “ordinanza speciale”. Con essa, Hitler aveva acquistato il
diritto “costituzionale” di emanare leggi senza il consenso del
Parlamento. In tal modo, i poteri legislativo ed esecutivo erano stati
riuniti nelle sue mani rendendolo arbitro delle sorti della Germania, al
pari di un vero e proprio dittatore.
Nell’ottobre 1936, Wilhelm aveva conseguito, dopo una rigida
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selezione, l’ammissione all’Accademia dello Stato Maggiore di
Berlino-Moabit. Mentre frequentava il relativo corso, era stato promosso tenente. Nell’estate del 1938, aveva completato la sessione e
ottenuto il relativo brevetto. Subito dopo, era stato destinato alla
1ª Divisione leggera di Wuppertal. Ma, mentre si accingeva a partire
per la nuova sede di servizio, era stato raggiunto da una terribile notizia:
il 12 luglio (1938), nei pressi di Magdeburgo, suo padre e sua madre
erano morti in un incidente d’auto. La sorella Oana, che viaggiava con
loro, aveva invece riportato soltanto alcune ferite non gravi. Si era
sentito schiacciare da un macigno che un protervo destino aveva lanciato contro di lui lasciandolo tramortito. Nella sua vita e nella sua
anima, era subentrato un vuoto glaciale. Sua sorella, appena uscita dall’ospedale, era stata accolta dalla zia materna Annabeth che viveva col
marito a Zurigo e che non aveva voluto lasciarla sola nella isolata
Wernigerode. La direzione dell’azienda agricola era rimasta invece
nelle mani di un fedele amministratore che già conduceva gli affari del
conte Julius ancor prima della sua morte. Wilhelm amava profondamente la madre per la sua delicatezza e ammirava il padre non soltanto per le qualità umane e civili ma anche per il grande valore da lui
dimostrato in guerra. Era stato sempre per lui una guida e un maestro
di vita. Ed aveva ereditato da lui solide basi etiche e un radicato amor
di patria che le infiammate parole iniziali di Hitler avevano accentuato.
Istintivamente, fin dalle prime settimane, Wilhelm aveva colmato il
vuoto lasciato in lui dalla scomparsa dei genitori riversando tutte le sue
energie e la sua operosità nel proprio servizio di ufficiale e nell’amore
per la Germania. Non lo interessava, nel suo panorama personale, una
piccola vita fatta di lavoro e di affetti familiari. Voleva invece dedicare la propria esistenza ai grandi ideali dell’uomo insegnatigli dal padre
e dai poeti che aveva letto. Fra loro, prediligeva Stefan George , un letterato contemporaneo che, nel considerarsi custode della forza interiore del paese, insisteva sull’aristocrazia spirituale e sosteneva la necessità di formare un’elite che fungesse da guida spirituale della comunità. Un altro autore contemporaneo da lui letto avidamente era Hermann
Hesse. Il suo romanzo “Damian”, pubblicato nel 1919, veniva considerato una specie di Bibbia dalla generazione tedesca di allora. E, dopo
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di lui, Friedrich Holderlin: la sua fusione di basi culturali prettamente
germaniche con gli elementi più sublimi del mito classico e della tradizione greca lo avevano affascinato.
Prima di addormentarsi, Wilhelm pensò anche a Segreta. Da
quando se ne era andata, aveva spesso interrogato il proprio cuore per
comprendere se la rimpiangeva o se, invece, era prevalente in lui la
soddisfazione di saperla al sicuro presso la sua famiglia. La vitalità, il
sorriso, l’impetuosità talvolta irragionevole di quella ragazza gli avevano lasciato, è vero, qualche rimpianto. Soprattutto di sera, la casa
vuota gli faceva sentire la sua mancanza, ma non al punto di andarla
a cercare. In fondo non l’amava. Gli piaceva stare con lei, accarezzare, baciare e possedere il suo bellissimo corpo, scambiare con lei
interminabili baci. Sì, la desiderava ma, tutto sommato, non sentiva di
dedicarsi a lei per sempre. A Berlino, in qualche occasione, le aveva
fatto intendere la possibilità di un’unione definitiva. Ma, guardando
meglio in se stesso, si era ricreduto. Ora, la sua vita era occupata dai
propri doveri militari e patriottici. L’amore poteva attendere. Un
amore nel quale anche lui voleva ardere. Per una donna che doveva
ancora incontrare.
Così come Segreta amava lui perdutamente e come, perdutamente, Nicholas amava Segreta, anche Nicholas si era abbandonato ad
un grande amore: quello per la propria patria. Nel suo sentimento, confluivano le più alte aspirazioni del proprio animo. Perché Wilhelm era
un’incarnazione dell’aristocratico tedesco, educato da secoli al servizio per la patria. Sentiva perciò fortissimo quello spirito di servizio che
faceva parte della tradizione di famiglia. Vibravano in lui la gloria e la
maestosità del passato tedesco, il mito degli antichi cavalieri teutonici,
l’anelito ad una nuova aristocrazia spirituale capace di evocare l’immagine del superuomo vagheggiato da Nietzsche. Nel proprio sviscerato amore per quell’ideale di patria che risaliva alle radici del germanesimo, sognava di immolarsi per essa, di giungere alla gloria e di
entrare nel mitologico Walhalla, il paradiso degli eroi.
Finalmente, Wilhelm si addormentò. Ma, poco dopo, fu svegliato dalla luce del comodino. Qualcuno l’aveva accesa. Aprì gli
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occhi e sobbalzò. Seduta sulla sponda del letto, vide Segreta. Incontrò
il suo sguardo dilatato su di lui e vi scorse un’ombra che prima non
aveva mai notato.
Interdetto, gli chiese:
“Segreta, come mai sei qui?”
“Volevo vederti.” rispose lei e, prima che lui replicasse, si sporse in
avanti, lo fece ricadere sul cuscino e lo baciò ripetutamente.
“Che succede, bambina?” sorrise Wilhelm.
“Mi mancavi.”
“Ti trovo cambiata.”
“La morte di mia madre mi ha fatto invecchiare di 10 anni. Da allora,
il mondo ha perso per me i suoi colori e la vita ogni attrattiva.”
“Col tempo, ritroverai il gusto di vivere.”
“Lo ritroverò se tu sarai con me.”
Wilhelm la guardò pensosamente.
“Non sappiamo cosa ci aspetta. La guerra è ancora agli inizi. I nostri
destini sono sospesi.”
“In questa incertezza, un fatto non cambia: il mio amore per te.”
“Segreta, non fare molto assegnamento su di me. Io non so amarti allo
stesso modo.”
Lei stava per investirlo nuovamente con i propri baci. A quella
parola, si fermò e lo guardò con sorpresa e delusione.
“Vuoi che me ne vada?” gli chiese con voce strozzata.
“Ma tu sei venuta stasera per restare?”
“Questa era la mia intenzione.”
“E tuo fratello, la tua azienda?”
“Non riesco a pensare ad altro che a te.”
“Facciamo un patto. Quando questa situazione di emergenza sarà finita, rivedremo la nostra posizione. Va bene così?”
“E sia. Allora, posso rimanere?”
“Certo” rispose lui. E l’attrasse a sé.
Si amarono con bramosia, con una totale partecipazione. Lui
era sollevato dal fatto di averle parlato con chiarezza. Messo quindi da
parte il sentimento, gli rimaneva il piacere dei sensi. Più tardi, nello
sfinimento e nel languore che segue l’amore, le chiese:
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“Prima di salire, sei passata in libreria?”
“No, era chiusa.”
“Quindi, non hai incontrato Armstrong?”
Lei scosse la testa.
“Meglio così.”
“Perché? Che c’entra Armstrong?”
“È presto detto: Armstrong è irritato nei tuoi confronti.”
“Come mai?”
“Perché hai deciso di andartene senza neppure informarlo. Ricorderai
che io te lo avevo chiesto. Ma tu non lo hai fatto e ti sei dileguata
lasciando a metà il lavoro che avevi cominciato. Lui mi ha chiesto di
venirti a riprendere ma io gli ho risposto che condividevo i tuoi scrupoli. Armstrong, allora, ha ritenuto opportuno informare l’ammiraglio
Canaris. Per tutta risposta, il capo dell’agenzia mi ha intimato di recuperarti e mi ha posto un termine che ormai è scaduto. Trascorsa quella
data, si riservava di restituirmi all’esercito, per un impiego operativo.”
“Pazzesco! Perché non me l’hai fatto sapere?”
“Perché volevo tenerti lontana da questo lavoro. Non potevo farlo in
Germania. Qui, invece, un tuo sganciamento mi è sembrato possibile.”
“Ma, per punizione, ti avrebbero mandato al fronte!”
“Lo avrei preferito. Non mi piace questo incarico.”
“Però, io ti avrei perso. Sono ritornata per stare con te e mi adatterò
quindi a questo sporco lavoro. Mi interessa solo non perderti.”
Continuarono a discutere mentre la notte si inoltrava. Poi, il
sonno ottenebrò il loro cervello e li convinse a smettere di parlare e
dormire. Ma, l’indomani mattina, lei gli disse:
“Voglio parlare con Armstrong.”
“Mi sembra indispensabile. Ma ti investirà in malo modo. Sai, ho saputo che è un capitano di vascello della Marina e che possiede una lunga
esperienza del servizio contro-informativo. Ha praticato il sabotaggio
su vasta scala. È, perciò, un professionista senza scrupoli. Al suo confronto, noi siamo due matricole.”
“Vedrai, io riuscirò ad ottenere risultati che Armstrong, con tutta la sua
esperienza, non potrebbe neppure sognarsi”
“Dici questo perché sei una bella ragazza e incanti gli uomini?”
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“Esatto.”
Wilhelm strinse la mascella poi, con lei, si accinse a scendere
in libreria.
Come era prevedibile, l’incontro con Armstrong fu tempestoso.
Ma Segreta non si scompose. Fra l’altro, gli disse:
“Non dovete dimenticare che, in questo intervallo di tempo, ho perso
mia madre e che la mia famiglia è allo sbando. Se vi fa piacere che io
rientri, dovrete concedermi, almeno una volta al mese, un’interruzione
per andare a far visita a mio fratello.”
“Come posso fidarmi di te, inglesina? Hai dimostrato di essere uno spirito indipendente.”
“Fidatevi, comandante: amo il capitano Klausing e non lo tradirò mai.
Allo stesso modo, non tradirò i suoi amici.”
Si accordarono secondo quanto richiesto da Segreta. Dopo di
che, Armstrong inviò un cifrato all’ammiraglio Canaris per comunicargli che Misty era rientrata dopo traversie familiari. In conseguenza,
gli chiedeva di non dar corso al trasferimento di Wilhelm.
Segreta era rassegnata: avrebbe estorto informazioni al tenente
di vascello Blackwell concedendosi a lui, dato che era innamorato di
lei, senza però mai rivelarlo a Wilhelm.
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CAPITOLO VENTESIMO
Un pomeriggio della metà di marzo (1942), Nicholas si era
avviato verso Webber Street con la speranza di trovarvi Misty. La nebbia aveva steso un lieve velo lattiginoso su tutte le cose formando uno
scenario irreale che attenuava i contorni ed i rumori. Persone e veicoli
si muovevano come ombre sullo sfondo di edifici in rovina e di cumuli di macerie. Il martellamento dei bombardieri tedeschi Heinkel,
Dornier e Junkers era diminuito notevolmente dopo la tremenda battaglia di Inghilterra, durata dall’ agosto 1940 al luglio 1941. Tuttavia, le
ferite riportate dalla città erano presenti in ogni quartiere.
Era entrato nella libreria e aveva scorto dietro il bancone una
graziosa ragazza bruna. Si era rivolto a lei e le aveva chiesto di Misty.
Ma la commessa, spalancando gli occhi e le braccia, si era limitata a
rispondergli che, purtroppo, la sua collega aveva lasciato Londra per
ragioni familiari e non si sapeva se e quando sarebbe ritornata.
Deluso, Nicholas si era soffermato a scriverle un biglietto e aveva pregato la ragazza di consegnarglielo se Misty fosse rientrata. Sul foglio,
le comunicava che stava per lasciare il proprio appartamento di Adam
Street e che poteva chiedere di lui presso il vecchio Ammiragliato, in
Whitehall.
Da quel giorno, aveva sperato ardentemente di vederla apparire. Non sapeva in quale altro posto andare a cercarla perché lei non gli
aveva mai rivelato dove abitava. La sua attesa si era protratta ansiosamente. Aveva chiesto di lei un’altra volta, nella libreria, ma senza esito.
Era svanita così come, in quel giorno di pioggia, l’aveva vista all’improvviso vicino al cancello della sua casa. Non era riuscito, neppure
nelle settimane seguenti, ad allontanarla dalla propria mente perché
l’amava ed aveva trovato, per merito suo, un motivo di speranza, una
promessa di felicità.
Intanto, i lavori di approntamento della nuova “sala rilevamento sommergibili” stavano per essere completati. Con il comandante
Shoeffer, Nicholas ritornò sul posto per rendersi conto del loro stato di
avanzamento. La palazzina dell’ex foresteria ammiragli sorgeva in un
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angolo dell’area recintata del vecchio Ammiragliato. Si trattava di un
edificio a pianta rettangolare, su due piani oltre il terreno, costruito nel
1635, in stile palladiano, su committenza privata, dal grande architetto
Inigo Jones. Nel 1760, era stato acquistato dal demanio militare ed adibito a foresteria. I due piani poggiavano su un basamento formato da
blocchi di serizzo. Le monumentali finestre del 1° e del 2° piano, sormontate da timpani curvilinei, erano intervallate da colonne corinzie,
in un insieme di misurate linee classiche. Il pianterreno, situato all’altezza del basamento, riceveva la luce da finestrelle quadrate.
All’interno, le camere affluivano su un corridoio centrale illuminato,
alle estremità, dalle finestre, su tutti e tre i piani. Al pianterreno, vi
erano la cucina e la sala da pranzo ufficiali, sottufficiali e truppa. Al
primo piano, le camere da letto degli ufficiali, una biblioteca ed un
salotto. Al secondo piano, i dormitori dei sottufficiali e dei marinai
della guardia, una sala di lettura e un’altra di riunione. La centrale operativa blindata funzionava - per sicurezza - nel sottosuolo insieme ad
una sala situazione. In un’altra parte dello stesso piano sotterraneo, si
vedevano, affiancati, vari locali di deposito che si avvalevano di un
montacarichi. Una scala di marmo, troneggiante al centro dei corridoi,
collegava i tre piani.
La nuova sala rilevamento sommergibili aveva cominciato a
funzionare il 1° aprile (1942). Fino a quella data, non era stata ancora
scoperta, infatti, la supposta spia operante all’interno dell’Ammiragliato.
Perciò, l’esigenza di decentrare il lavoro di rilevamento dei sommergibili era ancora sussistente.
Così, Nicholas si era trasferito, con i propri effetti personali,
nella camera assegnatagli al primo piano della palazzina, dopo aver
lasciato con molto rammarico l’appartamento di Adam Street. E, insieme al capitano di vascello Dennis Shoeffer, aveva iniziato il suo lavoro agli apparati della centrale, articolato su turni di 6 ore. Era un servizio duro: infatti, per affidare quel compito ai soli due ufficiali di assoluta fiducia, ciascuno di loro doveva coprire 12 ore di turno sulle 24,
in due riprese di 6 ore ciascuna.
La nuova “stanza rilevamento sommergibili” era sotterranea,
priva di finestre, illuminata permanentemente dalla luce elettrica.
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Disponeva di una “consolle”, sulla quale erano disposti gli apparati
ricetrasmittenti, e di una cassaforte contenente il cifrario n° 3 della
Marina britannica (cifrario convogli) e il cifrario degli ufficiali. Vi
erano anche i codici tedeschi Isos (dell’Abwehr), Floradora (con le
ultime chiavi aggiuntive) e parte della chiave “Squalo” per la lettura
del traffico svolto dalla macchina cifrante “Enigma” a tre rotori della
Marina subacquea tedesca.
Trascorsero varie settimane senza storia mentre, sui vari fronti,
il conflitto si svolgeva con inaudita violenza. Nel pomeriggio del 23
giugno, Nicholas fu informato, col telefono interno, che una ragazza
aveva chiesto di lui all’ingresso dell’”Old Admiralty”.
In quel momento, stava leggendo un libro nella sua camera.
Pensò subito a Segreta e il cuore gli sobbalzò impetuosamente. Si precipitò nella sala di attesa e la vide intenta ad esaminare una carta geografica in rilievo, esposta su una parete. Al rumore dei suoi passi, lei si
voltò, gli sorrise e gli andò incontro, eretta, con rapidi, deliziosi passi.
Lui le prese entrambe le mani con emozione e incontrò i suoi occhi
affilati, pieni di riflessi, nei quali aveva sempre scorto, alternativamente, un’espressione di sfida o di malizia. La trovò ancor più alta e
sviluppata, più carnale e vibrante, con un seno eretto e due fianchi ad
anfora che confluivano in una vita sottile. Indossava un leggero abito
a strisce bianche e blu.
“Sei tu? Che gioia. Ti ho tanto aspettata!”
“Sì, è vero, sono partita in fretta, senza neppure salutarti.”
“Cosa è successo?”
“È morta mia madre.”
“Oh, terribile!”
“Non ho più lacrime per piangere.”
“Voi parlarmene?”
“È meglio di no. Devo sforzarmi di non pensarci, per non impazzire.”
“ Ti sono vicino. Sono anch’io orfano e posso capire e condividere il
tuo dolore.”
“Grazie. Sono venuta per scusarmi con te.”
“Mi hai dato una gran gioia. Se vuoi, potremmo incontrarci fuori”
175
“Ho letto che hai lasciato il tuo appartamento di Adam Street. Come
mai?”
“Perché ho avuto l’ordine di pernottare nella palazzina che vedi di
fronte, al di là della finestra. Là, vi è una centrale operativa nella quale
lavoro a turno.”
“Allora, dove pensi di portarmi?”
“Intanto, potremmo cenare stasera stessa, nel nostro solito ristorante.
Là, decideremo sul da farsi.”
Nel piccolo ristorante di Villiers Street, lei gli parlò di sua
madre e del dolore che le aveva procurato la sua morte, del senso di
insicurezza e di sbandamento che ora provava. Poi, gli raccontò del
fratello, che era rimasto solo. Ma non gli fornì particolari.
“Cosa ti impedisce di unirti a tuo fratello?” le chiese lui candidamente.
“Ciascuno di noi deve percorrere la sua strada.”
Nicholas non osò insistere.
“In questi giorni di dolore, ho pensato a te con tenerezza.” continuò
Misty.
“Mi hai ricordato?” esultò lui.
“Sì.”
“Non osavo sperarlo. Grazie.”
E le prese una mano. Poi mormorò:
“La tua partenza mi ha lasciato un gran vuoto. Non sapevo darmi pace.
Ti ho pensato con amore.”
“Mi sembra strano sentir parlare d’amore mentre il mondo brucia e
ovunque regna la brutalità.”
“Il bisogno d’amore, l’attesa dell’amore, mi hanno sostenuto fin da
quando ero bambino. Mi piaceva pensare, allora, che l’amore fosse la
luce che trapela fra le nuvole. Identificavo la luce con l’amore, forse
perché, al vederla, il mio cuore si apriva, esultava. Sentivo, misteriosamente, che quella luce costituiva un barlume della divinità e che, in
me, vi era una parte di essa.”
“Quello che dici è confortante.”
“Vi é in noi un’immensità che desidera essere nutrita.”
“Senti questo?”
176
“Sì, mi aiuta a rifuggire dalle cose banali.”
“Purtroppo, non possiamo concederci queste contemplazioni. La realtà è invadente, non ci dà scampo. Ora dimmi, non vi è più un posto
dove rifugiarci?”
“Potremmo andare in albergo.”
“No, non mi piacciono gli alberghi. Sono squallidi.”
“Se avessi saputo che tu saresti ritornata, avrei conservato l’appartamento di Adam Street.”
“Non puoi ospitarmi nella tua palazzina?”
“No, non è consentito l’ingresso ai civili.”
“Peccato. Comunque, se mi vuoi, devi escogitare qualcosa.”
***
Dopo quel giorno, lei non si fece più vedere. E, come era
immaginabile, lui andò a cercarla in Webber Street.
“Sai,” gli disse lei dopo le prime frasi di saluto “ho consultato, qui in
libreria, un grosso volume sulla storia architettonica di Londra. Ed ho
trovato interessanti notizie sulla tua palazzina. Sembra che, all’epoca
della costruzione, tre secoli fa, abbiano ricavato un passaggio segreto,
forse per le scappatelle del padrone di casa”
“Impossibile. Ho seguito tutte le fasi della ristrutturazione. E non è
spuntato nessun passaggio segreto.”
“Dovresti verificare.”
“E come?”
“Ho letto che, nel 1760, la villetta è stata acquistata dal demanio per
conto dell’Ammiragliato. Presumo che, in archivio, vi sia una pratica
con le planimetrie. Cerca di trovarla.”
“Proverò. Intanto, vorrei stare un poco con te.”
Uscirono e, dalla vicina stazione della metropolitana di
Waterloo Est, raggiunsero Charing Cross Station. Da là, si portarono
nei giardini adagiati sul lungo fiume, denominati “Victoria
Embankment Gardens”. Si sedettero su una panchina mentre la luce
del giorno lentamente declinava. Lui si sporse per baciarla.
“Un giorno” le disse “vorrei portarti a visitare, nel Galles, i luoghi
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dove sono cresciuto. Ci verresti?”
“Con molto piacere.”
“Come ti ho già detto, sono nato in Scozia, ma ho trascorso la mia adolescenza ad Abertillery. Là, abitano ancora mia nonna Michelle e mio
zio James. Vivono in un grande palazzo, nel quale è conservata intatta
la camera di mia madre, quando era una ragazza. In quella casa, ho vissuto saltuariamente dai dodici ai diciotto anni, prima di entrare nel
Royal Naval College di Greenwich.”
“Sarà per te una grande emozione ritornarci.”
“Sì. Ogni volta che ci vado, precipito in una profonda angoscia. Ma
andarci con te sarà diverso. Vorrei che tu conoscessi le ultime persone
care che mi sono rimaste.”
Lei gli accarezzò una guancia.
“Quando ti sento parlare, mi sembri un vecchio. Perché? Sei bello, giovane e forte. La tua vita è tutta da conquistare.”
“Sì, hai ragione. Sono giovane e forte. Ma, dentro, sono come morto.
Per questo, mi aggrappo a te.”
“Ma io sono molto più giovane di te, sono ancora una bambina.”
“No, sento in te una personalità agguerrita. La tua vicinanza mi dà
coraggio.”
Una pausa, poi aggiunse:
“Lasciami sperare che non te ne andrai un’altra volta, che non mi
lascerai. Non sono riuscito finora a dare uno scopo alla mia vita.
Consentimi di dedicarla a te.”
Lei lo attirò a sé, lo strinse fra le braccia.
“Perché sei così? Perché sei tanto disperato?”
“Non so dirti. Forse, per tante ragioni insieme. Ma non importa, ormai.
Tu sei con me. Posso rivivere, ricominciare.”
***
Il giorno dopo, al termine del suo turno, Nicholas scese negli
scantinati del vecchio Ammiragliato, dove era conservato l’archivio
storico della Marina. Risalì al XVIII secolo e, dopo due ore di ricerche,
reperì il fascicolo relativo alla consegna all’Ammiragliato, da parte del
178
demanio, della palazzina già di proprietà della famiglia Burlington,
destinata ad essere utilizzata come foresteria ufficiali. Era voluminoso
e la consultazione avrebbe richiesto altre ore. Perciò, chiese e ottenne
dall’archivista di trattenere il fascicolo. Più tardi, nella sua camera, lo
esaminò attentamente finché non giunse ad un foglio che presentava un
curioso disegno, simile ad un serpente. Lesse le annotazioni in calce e
capì che si trattava di un cunicolo della lunghezza di 344 piedi (circa
120 mt). A ciascuna delle due estremità, vi era il disegno di una breve
scala in muratura. Su una delle estremità era scritto: “St James Park”,
sull’altra “Library Bookcase”. Nicholas ne dedusse che quella galleria
partiva dai giardini di St. James e giungeva, all’interno della palazzina, ad uno scaffale nella stanza adibita a biblioteca. Scorse poi, nel
foglio, un’altra annotazione così concepita: “Move angol of second
bookcase ovest” cioè “muovete l’angolo del secondo scaffale”.
Era sera. Il comandante Shoeffer si trovava impegnato nella
centrale. Nicholas lasciò la sua stanza e si portò in biblioteca, cercò lo
scaffale rivolto ad ovest che occupava tutta la parete, giunse al secondo scomparto da sinistra e premette l’angolo scolpito in legno che
ornava la scaffalatura. Immediatamente, lo scomparto girò su se stesso
e lasciò spazio ad una porta. Nicholas si era provvisto di una torcia
elettrica. Impugnandola, spinse il battente e si inoltrò in un angusto
locale quadrato. Avvertì un pesante puzzo di umido e di chiuso. Da
quell’andito, partiva una scala in muratura di sei gradini. La discese e
si trovò nel cunicolo segnato sulla carta. Lo percorse per circa 170
piedi (circa 60 metri) e giunse ad un cancello di ferro sprangato da un
catenaccio. Con la torcia esplorò le pareti in mattoni della galleria, che
avevano una forma ellittica. Appesa al muro a mezza altezza, scorse
una chiave semi arrugginita. La prese e, con essa, riuscì, con notevole
sforzo, ad aprire il cancello. Proseguì e giunse ad un’altra breve scala.
Salì i gradini e si trovò in un piccolo locale con le pareti di marmo.
Scorse su una di esse un chiavistello. Lo aprì e premette la parete ma
non riuscì a muoverla. Allora, la spinse lateralmente e, questa volta, il
lastrone di marmo incominciò a scorrere e lasciò libero un varco.
Dall’esterno, gli giunse una ventata di aria purissima. Oltrepassò la
soglia e si trovò in un parco. I suoi piedi affondavano nell’erba.
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Esplorò dall’esterno quelle pareti marmoree e si accorse che esse costituivano il basamento di una statua mitologica. Comprese che si trovava nei giardini di St James. Intorno, il buio era totale. Sopra di lui, le
stelle brillavano fra varchi di nuvole. Facendosi luce con la torcia, percorse il breve tratto che lo separava dal margine orientale del parco e
raggiunse Horse Guard Road, la parallela di White Hall. Dopo essersi
bene orientato, ritornò indietro, rifece tutto il percorso e rientrò nella
palazzina. Era emozionato per quella scoperta. Il suo cuore aveva un
battito accelerato. Andò in camera sua per riflettere sul modo migliore
di gestire quel fatto nuovo, che aveva un riflesso diretto sulla sicurezza della palazzina. E si stupì che l’architetto incaricato di ristrutturarla
per esigenze militari, non se ne fosse accorto. Sapeva che era suo dovere riferire quella novità. Ma, se lo avesse fatto, non avrebbe potuto far
entrare nella palazzina Misty. La desiderava ardentemente e non voleva rinunciare alla gioia di stringerla fra le braccia. Così, decise di non
informare i suoi superiori e, per sicurezza, trattenne in un cassetto della
propria camera la chiave del cancello. Senza saperlo, aveva imboccato la via seducente e rovinosa della trasgressione.
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CAPITOLO VENTUNESIMO
Il documento fotografato da Segreta in casa di Nicholas
Blackwell, nel mese di marzo, era stato esaminato da Armstrong il
quale aveva attivato le sue fonti informative. Era così venuto a sapere
che la progettata nuova “sala rilevamento sommergibili” avrebbe avuto
sede in una costruzione distaccata del vecchio Ammiragliato. Poco
dopo, però, a causa della partenza di Segreta, le ricerche del capo squadra non avevano più avuto seguito. Ma, col suo ritorno, in giugno, la
questione era ritornata d’attualità. Nel corso di una delle riunioni operative settimanali, Armstrong aveva reso noto quanto gli era stato riferito da Segreta, e cioè che la nuova sala rilevamento sommergibili
aveva cominciato a funzionare in aprile proprio in una palazzina adiacente al vecchio Ammiragliato.
“In un modo o nell’altro, dobbiamo introdurci in quella struttura.
È necessario, perciò, prender visione della sua planimetria. In conseguenza, Siegfried e Misty si recheranno all’ufficio del catasto per esaminare dettagliatamente ogni singola pianta e verificare se esiste
qualche possibilità di introdursi nell’interno, ad esempio attraverso la
fognatura.”
La ricerca aveva avuto un buon esito: infatti, Segreta e Wilhelm
erano riusciti ad individuare un passaggio segreto che risaliva all’epoca della costruzione della palazzina, nel XVIII secolo, e che non era
mai stato utilizzato. Sembrava, anzi, che gli attuali occupanti ignorassero l’esistenza di quella galleria. Tuttavia, Segreta non poteva parlarne apertamente con Nicholas. Perciò, gli aveva fatto credere di averne
avuto notizia leggendo un vecchio trattato sull’architettura londinese.
***
Dopo aver scoperto, a sua volta, l’esistenza del passaggio segreto,
Nicholas corse ad informare Misty. Era il 2 agosto (1942). Insieme,
concordarono di incontrarsi, due sere dopo, nei giardini di St. James,
per entrare nella base attraverso la galleria. Ma Segreta aveva un problema: poiché dormiva abitualmente con Wilhelm, doveva giustificar181
si con lui per la sua assenza di quella notte. Le pesava dovergli mentire ma era necessario per salvaguardare la loro unione. Perciò, gli disse
che aveva respinto la richiesta di Nicholas di trascorrere la notte insieme. Avrebbe compiuto con lui soltanto una passeggiata sul lungo
fiume per estorcergli qualche utile notizia. Più tardi, durante il suo
turno di servizio, si sarebbe introdotta nella galleria e avrebbe cercato
di penetrare nella base per orientarsi e studiare le possibilità di accesso alla centrale operativa in una prossima volta. Wilhelm era corrucciato. Le disse con voce dura:
“Questa tua amicizia, non so quanto intima, con quell’ufficiale, mi irrita. Finirò per diventare lo zimbello della squadra. Ma tu non ne hai
colpa. Fin da quando ti ho fatta entrare nel nostro servizio, dovevo
aspettarmi che una situazione del genere, prima o dopo, si sarebbe presentata”
“Ricordati che ti amo. Il resto è solo lavoro”
L’indomani sera, indossò un paio di attillati pantaloni grigi e
una camicetta blu e si avviò. Giunse con la metropolitana alla stazione
di Charing Cross e, a piedi, raggiunse il parco di St James. Il buio gravava fitto poiché la vista della luna era preclusa da un compatto banco
di nuvole. Per attraversare Trafalgar Square e imboccare Waterloo
Steeps, aveva dovuto aiutarsi perciò con una lampadina tascabile.
Erano le 10 di sera e le vie apparivano semideserte. Al cancello di
ingresso dei giardini, incontrò Nicholas che la stava aspettando. Si
affrettò a baciarla, poi la condusse fino ad una statua che si ergeva al
centro di una aiuola. Aiutandosi con la torcia elettrica, fece pressione
su una cornice decorativa del piedistallo e la spinse indietro. Quindi,
spostò a fatica un pannello di marmo e lo fece scorrere lateralmente
scoprendo un varco. Chiese a Segreta di seguirlo , si curvò ed entrò
nell’interno. Si inoltrarono quindi nella galleria che Nicholas aveva già
esplorato e che era abbastanza ampia perché consentiva il passaggio di
due persone affiancate.
Giunsero al cancello. Lui l’aprì con una grossa chiave che portava con sé. Percorsero quindi la seconda metà del cunicolo, salirono
la scala posta alla fine del tragitto, aprirono la porta che immetteva
nella palazzina e sbucarono nella biblioteca. Nicholas fece ruotare uno
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scaffale mobile che ritornò al suo posto occultando il passaggio.
Segreta si guardò intorno. Gli scaffali in legno separati l’uno dall’altro
da colonne intarsiate occupavano quattro pareti ed erano colmi di libri
ben allineati. L’ambiente aveva un aspetto severo. Si tolsero le scarpe
e tesero l’orecchio. Non percepirono alcun rumore. Si inoltrarono,
allora, cautamente, verso l’uscita della biblioteca, passarono nel corridoio centrale che aveva il pavimento in marmettoni, lo attraversarono
e si diressero verso la camera di Nicholas, sulla parete opposta. Tutti i
locali di uso comune erano illuminati da artistici lampadari. Entrarono
nella stanza, che era arredata con mobili navali, in palissandro e rifiniture di ottone. Il letto aveva una piazza e mezzo e poteva contenere
tutti e due. Appena dentro, Nicholas la strinse fra le braccia con parole di adorazione e cominciò a ricoprirla di baci. Ma, a letto, non riuscì
inizialmente ad avere un’erezione. Segreta se ne accorse e intervenne
come la prima volta. Lo fece distendere sulla schiena e lo accarezzò
sapientemente fino a quando non vide il suo sesso irrigidirsi. Allora, gli
si mise a cavalcioni e si fece penetrare. Poco dopo, quando fu certo dei
suoi mezzi, Nicholas la rovesciò sul letto, le salì sopra e la possedette
con sufficiente sicurezza. E, intanto le indirizzava parole d’amore. Lei,
inizialmente, aveva pensato acutamente a Wilhelm ma , poi, poco a
poco, era stata intenerita dall’adorazione e dalla passionalità con cui
Nicholas la stava possedendo. Quel giovane timido, insicuro e inesperto le piaceva. Non provava un godimento sessuale ma si trovava
bene con lui, riceveva dalle sue carezze una sensazione di languore e
di abbandono.
Dopo l’amore, stando distesi sul letto, cominciarono a parlare,
in attesa del turno di Nicholas, che doveva avere inizio alle 6.
“In cosa consiste il tuo lavoro mentre sei di turno?” gli chiese fra un
bacio e l’altro.
“Attendo alla radio e alla telescrivente eventuali comunicazioni relative alla posizione dei sommergibili tedeschi dislocati nel Nord
Atlantico. Se essi si trovano, per caso, sull’itinerario dei convogli
alleati in avvicinamento, devo affrettarmi a rettificare la rotta dei piroscafi e darne poi notizia all’Ammiragliato.”
“Mi sembra un compito molto importante.”
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“La sicurezza dei piroscafi e la vita di centinaia di uomini dipendono
dalla nostra rapidità di depistaggio.”
Quella risposta la fece ammutolire. Non aveva mai pensato ad
un così stretto collegamento delle loro azioni con la vita di molti uomini. Sconcertata, gli chiese ancora:
“Ma dov’è la centrale?”
“Nei sotterranei. È un locale blindato a cui si accede aprendo una porta
dotata di una serratura a combinazione, come una cassaforte.”
“Ho capito. Ora, ti conviene riposare prima del turno.”
“Va bene. Ma prima voglio dirti che sei entrata nella mia vita come un
raggio di sole. Non conoscevo il sesso e neppure l’amore. Tu me li hai
rivelati in un modo gioioso. Da quando ti conosco, ogni volta che ti ho
stretta fra le mie braccia, sono stato intensamente felice. Tu hai questo
potere su di me. Perciò, non potrò più fare a meno di te. Ti amo e sento
che ti amerò sempre.”
Lei stette a guardarlo. Capiva che, per lui, erano parole importanti, fondamentali.
“Anche tu mi sei molto caro.” rispose infine con una carezza.
In quel momento, si udirono dei rumori nel corridoio centrale.
“Chi c’è fuori?”
“Il turno della ronda interna ed esterna, che visita tutti i locali generali e il perimetro della palazzina ogni 45 minuti. Le ronde sono formate da sottufficiali di marina che hanno il dormitorio al secondo piano.
Qui, invece, siamo al primo piano.”
Una pausa, poi lei gli chiese:
“Prima di dormire, vi è qualcosa da bere?”
“Vi è del brandy e del tè freddo”
“Tu cosa gradisci?”
“Un sorso di tè”
“Ve bene anche per me. Vado a prendertelo.”
Su una parete della stanza, vi erano due porte: una si apriva sui
servizi igienici e l’altra su una dispensa arredata come un cucinino.
Segreta vi entrò, versò del tè in due bicchieri e, in uno di essi, aggiunse un sonnifero. Ritornò quindi in camera da letto e porse il bicchiere
a Nicholas che ne bevve il contenuto. Subito dopo, si predisposero al
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riposo. Segreta attese che Nicholas fosse addormentato poi cominciò
ad esaminare minutamente il contenuto dell’armadio, dei comodini e,
infine della sua uniforme. Nel portafoglio, scoprì un biglietto così concepito: “Apertura a combinazione della sala operativa”. All’intestazione
facevano seguito una cifra formata da tre zeri e tre numeri e l’indicazione delle rotazioni da effettuare a sinistra e poi a destra. Infine, in un
cassetto, trovò un foglio contenente gli orari del servizio di ronda e lo
fotografò. Quando terminò il suo lavoro di ricerca era circa l’una di
notte. La ronda sarebbe passata fra 35 minuti. Vi era quindi il tempo
sufficiente per tentare una ricognizione.
Poiché era nuda, si rivestì e, scalza, aprì cautamente la porta,si
assicurò che il corridoio fosse deserto e corse fino alle scale. Non vi
era nessuno. Scese allora fino in fondo e si trovò nei sotterranei, di
fronte a due porte. Dalle targhette indicative affisse al muro a fianco di
ciascuna, lesse che la porta di sinistra portava alla “sala rilevamento
sommergibili” e alla “sala situazione” e quella di destra al gruppo
generatore, alla caldaia del riscaldamento e ai depositi vari. Aprì la
porta di sinistra e si trovò in un corridoio. Si inoltrò e scorse, sulla sinistra, le porte delle due sale indicate dalla tabella. Si avvicinò a quella
“rilevamento sommergibili” ed esaminò il pannello della serratura a
combinazione. Si astenne però dal toccarlo perché sapeva che, all’interno, vi era l’altro ufficiale della base, intento a svolgere il suo turno.
Aveva visto quanto occorreva.
Ritornò allora, velocemente, sui suoi passi, salì al primo piano
e corse a rinchiudersi nella stanza dove Nicholas dormiva profondamente. Il cuore le batteva precipitosamente. Ma il respiro regolare di
Nicholas diffondeva nella stanza un elemento di quiete che la calmò.
Si spogliò e si distese accanto a lui. Regolò la sveglia alle cinque e poi
si mise a riflettere ed a guardare la lampada azzurra che illuminava
tenuemente la stanza dal soffitto. Nel silenzio e nella penombra, i suoi
pensieri si ingigantirono. Cominciò a temere che la ronda entrasse
nella stanza e la scoprisse. Poi, la stanchezza prevalse e si addormentò. Al suono della sveglia, si svegliò sussultando e guardò Nicholas: dormiva ancora. Gli accarezzò i capelli castani lievemente ondulati. Le
dispiaceva di averlo vilmente tradito. Sentiva un peso al cuore. Sospirò
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e poi si accinse a risvegliarlo chiamandolo sommessamente nell’orecchio e baciandogli una guancia e una tempia. Dopo vari tentativi, lui
aprì gli occhi, visibilmente intontito.
“Perché adesso mi sveglio spesso col mal di testa?” farfugliò.
“Mi dispiace, ti preparo un’aspirina.”
Lui ringraziò e, stentatamente, si alzò, si lavò e si vestì.
Lasciarono la stanza, passarono in biblioteca e azionarono lo scaffale
mobile. Dieci minuti dopo, uscirono all’aperto in St James Park.
Albeggiava. Vi era intorno a loro un silenzio irreale. L’aria era profumata e, dalla tinta vezzosa del cielo, emanavano una pace e un’armonia enormemente distanti dal travaglio del suo cuore. Lui la strinse fra
le braccia come se fosse disperato di separarsi da lei, con una forza che
Wilhelm non aveva mai usato. Era piena di rimorsi. Perciò, a sua volta,
si strinse a lui con forza. Poi, si allontanò velocemente.
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CAPITOLO VENTIDUESIMO
Al rientro nella libreria di Webber Street, Segreta riferì ad
Armstong i risultati della sua missione. Lui le rivolse parole di apprezzamento.
“La prossima volta” concluse lei “sarò in grado di entrare nella centrale operativa”
“Molto bene. A suo tempo, ti impartirò preventive istruzioni” rispose
Armstrong perforandola con i suoi profondi occhi scuri. E aggiunse:
“Finora, non abbiamo conseguito risultati apprezzabili. Ma se tu
riuscirai a sistemare una microspia ed a fotografare i cifrari, potremmo
far volgere a nostro vantaggio la battaglia dell’Atlantico. Tutto, adesso, dipende da te”
Qualche giorno dopo, Segreta vide entrare nella libreria
Nicholas. Lo guardò avvicinarsi: aveva un passo rapido ed una figura
alta, snella e gradevole ma non possedeva la possanza, la sicurezza e
la marzialità di Wilhelm. Si salutarono affettuosamente. Lei si attendeva che le chiedesse un nuovo appuntamento. Invece, Nicholas le propose un viaggio con lui.
“Ho chiesto e ottenuto un permesso. Se sei d’accordo, potremmo andare insieme, la prossima settimana, ad Abertillery.”
Così, in una calda giornata di mezzo agosto, andarono in treno
verso il Galles mentre il giovane sole della mattina filtrava la nebbia
con schermaglie dorate. Giunsero a Blaenavon e, in autobus, proseguirono per Abertillery. Discesero alla fermata che precedeva il paese, là
dove iniziava la strada che si inerpicava attraverso la verde collina
detta in gallese “Tillery Brin”. Sulla sua cima, si ergeva il grande
palazzo chiamato “Emerson Ty”, sede della casata degli Acheson.
Nicholas lo mostrò a Misty. Aveva una mole rettangolare, si sviluppava su due piani e la sua facciata era arricchita da colonnati e loggiati e
da finestre a bifora.
“È mastodontico.” esclamò lei.
“Risale nientemeno che al XVI secolo, quando la casata dominava
tutta la valle.”
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Mentre parlavano, videro una lussuosa automobile discendere
dalla collina. Quando giunse davanti a loro, si fermò.
“Ho telefonato per preannunciare il nostro arrivo” le spiegò Nicholas
“e mia nonna ha inviato un’auto a rilevarci.”
Quindici minuti dopo, attraversarono il grande portale del
palazzo, affiancato da due colonne binate. Là incontrarono zio James
che era sceso per riceverli. Nicholas fece le presentazioni, poi iniziarono a salire lo scalone marmoreo. Zio James stava per compiere 51
anni ed era, come un tempo, snello e leggermente curvo in avanti a
causa di una scoliosi giovanile. Ma i suoi capelli, ora, avevano acquistato riflessi grigiastri. Nicholas gli voleva molto bene. Aveva sempre
ammirato la sua saggezza, quel suo compassato disinteresse per le cose
materiali, e la sua preferenza, invece verso l’interiorità, la meditazione, lo studio, la musica. Gli piaceva vivere appartato, in solitudine e,
forse per quella ragione, non si era ancora sposato.
Giunsero in salotto dove nonna Michelle li attendeva. Aveva
ormai 71 anni ma era molto curata nell’abbigliamento e nella persona.
I capelli, un tempo corvini, erano adesso tutti bianchi e ordinatamente
raccolti in una crocchia. Ma i suoi occhi conservavano la dolce luminosità di un tempo. Al loro arrivo , si alzò mostrando una figura ancora salda ed eretta. Accolse Nicholas con un commosso abbraccio. Poi,
aprì le braccia anche a Segreta sorridendole con simpatia. Conversò
con loro amabilmente. Segreta appariva stupita che un così grande
palazzo fosse abitato solo da due persone, oltre ai domestici. Nicholas
le spiegò allora che un intero piano era occupato dagli uffici di una
compagnia di produzione siderurgica fondata da James dopo la chiusura delle miniere. Passarono, poi, nella grande sala da pranzo, rilucente di lampadari di cristallo, di specchiere, di quadri di celebri autori, racchiusi in elaborate cornici dorate. Mentre pranzavano, Nicholas
e, certo, anche Segreta, notarono che i discorsi di nonna Michelle si
riportavano di frequente al passato, quasi che il presente non la interessasse. Dopo, la conversazione si spostò su Olivia, la madre di
Nicholas, una creatura trascendentale, così Michelle la definì nel
perenne rimpianto del suo cuore.
Alla fine del pranzo, Nicholas, rivolgendosi a lei ed a James, disse:
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“Se non vi dispiace, vorrei portare Misty fuori, a vedere la campagna.”
Segreta andò a salutarli e li ringraziò per l’ospitalità.
“Abbiamo parlato di tutti, Misty, meno che di te. Non ci hai detto di
dove sei, chi sono i tuoi genitori.”
“Sono orfana, milady.”
“Oh, mi dispiace! Come Nicholas, quindi.”
“Sì. Mia madre è morta in un campo di concentramento tedesco.”
“Oh, Misty, e ora sei sola?”
“No, ho un fratello più piccolo di me. Ma, quando ritornerò, vi dirò
tutto.”
“Sì, d’accordo. Ma ora andate e che Dio vi benedica.”
Appena fuori, Nicholas chiese a Misty se sapesse cavalcare.
Lei rispose affermativamente. Allora, lui le propose una passeggiata a
cavallo nei dintorni. Fece sellare due cavalli e la guidò verso nord, fino
al lago di Cwmtillery, che era colmo dei riflessi del sole, al cospetto
della Coity Mountain e, più oltre, delle Black Mountains. Un vento
leggero lambiva i loro volti e temperava la calura estiva. Si distesero
sull’erba che precedeva l’arenile. Lui la baciò teneramente e lei gli
accarezzò il volto.
“Forse” le chiese “i discorsi di mia nonna e di mio zio ti hanno annoiata”
“No, assolutamente. Sono stata molto bene, come non mi accadeva da
parecchio. Mi sono sentita, dopo tanto tempo, veramente a casa”
“Ne sono felice, Misty. Anche per me, è così. “Emerson Ty” è la mia
unica, vera casa, dove verrò a riposarmi quando sarò stanco. Chissà, in
un domani, potresti venirci anche tu, con me”
Segreta sorrise.
“Non facciamoci illusioni, Nicholas. La fine della guerra è ancora lontana. Il nostro avvenire è tanto incerto”
“Te ne ho parlato, Misty, perché, improvvisamente, sei diventata molto
importante per me. Mi hai ridato fiducia e speranza, come una ventata
miracolosa”
“Non dirlo. Forse, domani, chissà, ti farò soffrire”
“Perché?”
“È un presentimento. Se si avvererà, mi perdonerai?”
“Per natura, non so serbare rancore. Ma, nel tuo caso è diverso. Sento
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che, qualunque cosa avverrà, continuerò ad amarti. Anche questo è un
presentimento. Ed ogni ora che tu mi darai resterà fra i ricordi preziosi della mia vita. Sei stata la prima e resterai l’unica. Sento questo
come una certezza assoluta”
Sulla via del ritorno, lui le disse:
“Prima di ripartire, vorrei andare a visitare le tombe dei miei genitori”
Quando giunsero al cimitero, il sole volgeva al tramonto. Un
vento teso tambureggiava nelle loro orecchie e piegava le cime dei
cipressi accrescendo, con il loro mormorio, il silenzio e la solitudine
di quel luogo. A Nicholas sembrò che esso portasse le mille voci raccolte nel suo cammino. Alle spalle del cimitero, verso nord, si ergevano i profili violacei della Coity Mountain. A sinistra, si intravedeva,
più in alto, il palazzo degli Acheson e sulla destra, cioè verso oriente,
un bosco di castagni, betulle, platani, che appariva come un’oasi
rispetto al degradare erboso delle colline. Nicholas sapeva che, nella
sua ombra compiacente, andavano a nascondersi i propri genitori,
quando erano ancora adolescenti e già si amavano. Procedette con
Segreta nell’interno del recinto e andò con passo sicuro verso due pietre tombali marmoree che erano affiancate in un angolo. Segreta lesse
su una: Gordon Blackwell 7.12.1894 - 28.10.1928 e sull’altra lapide:
Olivia Acheson 13.2.1896 - 14.2.1926. Lui si inginocchiò in silenzio,
a capo chino. Lei gli stette vicina senza una parola. Intanto, il sole era
scomparso all’orizzonte e l’ombra stava avvolgendo quel vasto scenario. La temperatura era calata improvvisamente. Un gelo invase il loro
corpo e il loro cuore.
Un ‘ora più tardi, mentre rientravano in treno a Londra, Segreta
disse:
“Mentre tu pregavi, pensavo a mia madre che giace sola e ignorata in
un cimitero tedesco. Sarà un impegno della mia vita riportarla in
patria.”
“Quanta pace vi era laggiù” commentò Nicholas pensieroso “Una pace
sovrumana che sembrava quasi indicarci la differenza fra la vita e la
morte. Tutto il nostro affannarci, le nostre passioni, la nostra avidità, si
placano e si annullano in quella solitudine e in quel silenzio. Ogni
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volta che entro in quel piccolo cimitero, mi rendo conto dell’inutilità
delle cose terrene.”
“Che cosa è importante, allora, per te, Nicholas?”
“ Osservare la parola di Dio, chiedergli ogni giorno di convertire il
nostro cuore. Ecco, cos’è veramente importante per me e per tutti.
Infatti, è il cuore indurito dell’uomo la vera rovina della sua anima e
del mondo.”
191
CAPITOLO VENTITREESIMO
Di ritorno da Abertillery, Segreta trovò Wilhelm ancora più
scontroso del solito. Gli andò vicino, nel loro appartamento, lo abbracciò e gli chiese:
“Che cosa ti tormenta?”
“Mi sento fuori posto, Greta, (gli piaceva usare quel diminutivo).
Non sopporto più questo lavoro che può svolgere chiunque, anche un
caporale. Me ne voglio andare, ritornare in patria, essere destinato ad
un reparto.”
“Se ti fai richiamare in Germania, verrò con te.”
“No, non più. Voglio andare in zona di operazioni. Tu non puoi venire
con me.”
“Vuoi scaricarmi?”
“Ma che dici? Dimentichi che siamo in guerra e che io sono un soldato?”
“E allora, cosa ne sarà del mio amore?”
“Ci vedremo alla fine della guerra, se sopravviveremo.”
“Aspetta almeno che io finisca l’operazione in corso. È molto
rischiosa ed ho bisogno di tutta la mia forza. Senza di te, mi mancherà il coraggio.”
“E sia.”
“Come vivrò senza di te?”
“Ti ho coinvolto in un gioco pericoloso e disonorevole. Non voglio che
tu continui in questo lavoro. Se riuscirai a carpire i segreti che occorrono ad Armstrong, poi ti lasceranno in pace. Così, potrai ritornartene
a casa ed io sarò più tranquillo.”
“Temo di perderti.”
“Se riusciremo a salvarci, ci ritroveremo.”
Mentre si accingevano a scendere in libreria, Wilhelm chiese:
“Com’è andata, poi, la tua gita con l’ufficialetto inglese?”
“Bene. Mi ha fatto conoscere gli unici parenti che gli rimangono.
Infatti, è orfano. Sua madre era una lady. Suo padre, invece, non aveva
titoli nobiliari. I due non erano regolarmente sposati, per cui Nicholas,
il mio “contatto “, è, come si dice, un figlio della colpa. E si vede: è
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timido e insicuro.”
“Presumo che si sia innamorato di te.”
“Sì, è così. Pensa: ha venticinque anni ed io sono stata la sua prima
donna.”
“La sua prima donna? Quindi, ci sei andata a letto!”
“Sì, mi sono seduta sul letto con lui ma, prima che avvenisse qualsiasi cosa, lui si è addormentato a causa del mio sonnifero.”
“Fino a che punto devo crederti?”
“Sei geloso?”
“Confesso che se tu fossi diventata la sua amante, mi darebbe fastidio.”
“Io ti amo e questo deve darti tranquillità”
“Sarà, ma a me sembra una situazione ambigua.”
“Vuoi che smetta?”
“Sai bene che non è possibile. Devi andare avanti ma ricordati di me
quando sei con lui.”
“Allora, conto qualcosa per te?”
“Finora, sei stata la mia donna. Ci sono delle regole al riguardo. Cerca
di ricordartelo.”
***
Qualche giorno dopo, Segreta scese nella sala operativa perché
doveva parlare con Armstrong. Il capo squadra si era ricavato un ufficio
in un vano attiguo e lo aveva arredato con mobili in noce massiccio trovati al mercatino dell’antiquariato di Camden Town. Ogni volta che si
era trovata sola con lui, Segreta aveva avvertito una sensazione di disagio. Quell’uomo aveva occhi scuri perforanti che le erano parsi addirittura febbricitanti quando la fissavano. Sembrava che covassero un
cupo desiderio. Ma, in alcuni momenti, quegli occhi si animavano e,
allora, rivelavano un loro fondo di diffidenza e di scaltrezza. Al suo
ingresso nell’ufficio, l’uomo si alzò e la fissò con un sorriso sardonico
che le dette fastidio. Le fece poi un largo cenno per invitarla a sedere e
lei aderì. Si accomodò in una poltroncina che fronteggiava la scrivania
e accavallò le gambe. E poiché amava andare in giro con gonne più
corte di quanto prescritto dalla moda, scoprì le ginocchia attirando
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immediatamente lo sguardo cupido del suo capo.
“Sono venuta per parlarvi del mio lavoro. Avete tempo?”
“Per voi, sempre.”
“Volevo dirvi che, da un momento all’altro, il mio “contatto “ mi inviterà a passare la notte alla base. Sarà questa l’occasione buona per
penetrare nella “sala rilevamento sommergibili”. Perciò sono venuta
da voi per le ultimissime istruzioni.”
Armstrong assentì col capo, poi aprì un cassetto della scrivania
e ne trasse una scatola cubica di medie dimensioni:
“Ecco” disse porgendogliela “questa è una microspia molto potente,
dotata di una batteria che ci consentirà di ricevere nella nostra centrale tutti i suoni, i segnali morse ed i discorsi che faranno, nella loro
sala, gli operatori inglesi. Dovrete applicarla sotto la consolle in
modo che non sia visibile a prima vista. Vi consiglio perciò di spingerla in fondo.”
Segreta prese la scatola e la mise nella sua borsa.
“Fatto questo, fotografate la centrale e tutte le sue apparecchiature, poi
ogni documento che troverete. Ma soprattutto, cercate i cifrari.
Presumo che saranno in cassaforte. Dovrete perciò scoprire come sia
possibile aprirla.” Si fermò per qualche attimo, poi aggiunse scuotendo il capo.
“Non sarà sufficiente una sola visita. Penso che dovrete ritornare un’altra volta.”
“Va bene. Avete altri ordini?”
Armstrong si alzò e andò ad aprire un armadio blindato. Ne
trasse alcune piccole scatole e ritornò a sedersi di fronte a lei.
“Finora, avete usato con l’ufficiale inglese un comune sonnifero.
Questa volta, invece, dovrete ottenere un effetto ritardato. Il vostro
Nicholas, dopo aver sorbito il sonnifero, dovrà entrare nella centrale in
uno stato di perfetta lucidità. Soltanto dopo, comincerà ad avvertire
uno stato di sonnolenza e cadrà poi in un sonno profondo. Eccovi perciò questo sonnifero ad effetto differito” e le porse una scatola. Segreta
l’aprì e trovò una bottiglietta contenente un certo numero di capsule.
“Il sonnifero” continuò Armstrong “farà effetto dopo circa quindici
minuti. Dovrete quindi regolare bene i tempi della somministrazione.
195
Dopo che lui sarà entrato nella centrale, attenderete almeno venti
minuti, quindi entrerete anche voi. Dovreste trovarlo già addormentato. Piuttosto, siamo certi che l’ufficiale sarà solo nella sala operativa?”
“Sì, dopo la scoperta dell’esistenza di una spia, la cautela ha consigliato l’Ammiragliato ad affidare il funzionamento della sala soltanto
a due ufficiali di provata fiducia.”
“Va bene. Ecco ora altre pillole. Queste sono per voi.”
“Un sonnifero per me?” celiò Segreta.
“Purtroppo no, Misty. Si tratta di capsule per le situazioni di emergenza o, addirittura estreme. Queste azzurre” e aprì un flacone “servono
per darvi una morte apparente della durata di un’ora. Queste altre, di
colore blu, vi daranno invece uno stato di morte apparente della durata di cinque ore. E, infine, queste rosse” e le mostrò il contenuto di un
terzo flaconcino “servono per la morte vera, quella definitiva e totale.”
Segreta ebbe un brivido. Lo guardò allibita.
“Avete messo in conto anche la mia morte?”
Armstrong piegò la bocca in un ghigno che voleva essere un
sorriso sarcastico.
“Sì, me ne rendo conto: sarebbe un gran peccato, bella come siete. Ma
tranquillizzatevi, è solo un’ipotesi estrema. Se saprete agire con scaltrezza, moriranno i vostri avversari: di rabbia”
Segreta si alzò per andarsene.
“Vi ringrazio delle vostre istruzioni. Vi terrò informato.”
Armstrong la fermò con un gesto.
“Siegfried mi ha comunicato” disse “la sua intenzione di ritornare in
patria dopo che la vostra operazione sarà conclusa.”
“Sì, ne abbiamo parlato. Lui vuol ritornare a fare quel che più gli si
addice: il soldato”
“E voi cosa farete?”
“Wilhelm non intende portarmi con sé: sogna la battaglia. Per lui, l’amore può attendere. Ma io non posso vivere senza di lui: in qualche
modo, lo seguirò.”
“Potreste attendere la fine della guerra. E, intanto, rimanere qui, con
me.”
“Con voi?”
196
“Sì, potremmo lavorare insieme. Forse è solo una sensazione, ma sento
che vi è in me e in voi qualcosa che ci accomuna.”
“Addirittura! Cosa sarà mai?”
“Forse la spregiudicatezza con cui cambiamo bandiera.”
“Io l’ho fatto per amore. E voi?”
“Anch’io per amore: amore dell’avventura, del rischio……”
“E del denaro?”
“Sì, anche, ma non in modo prevalente. Ho avuto un’infanzia difficile
e un’adolescenza spericolata. Da questi inizi, non poteva derivare un
uomo tranquillo e idealista.”
“Quindi, non avete ideali?”
“Nessuno. Ho conosciuto il mondo: è un covo di lupi. Ognuno pensa
solo a se stesso.”
“Eppure, voi combattete sotto una bandiera.”
“Ho combattuto sotto diverse bandiere.”
“Ma non siete un ufficiale della Marina tedesca?”
“Solo per copertura. Non sono tedesco ma musulmano dell’Egitto.”
“Credevo amaste la Germania e il III Reich.”
Armstrong la guardò con il suo consueto sorriso ironico, poi
scrollò le spalle senza rispondere.
“Allora potreste anche tradire.” scattò lei.
“Non scandalizzatevi, voi siete come me.”
Segreta lo guardò corrucciata, poi abbassò il capo e stette qualche attimo in silenzio. Infine, mormorò come se parlasse a se stessa:
“Non sono come voi.”
“Mi sono aperto con voi perché mi piacete: siete forte e intraprendente. Non confidate a nessuno quello che vi ho rivelato di me, ma tenetelo presente per il futuro. Se lo vorrete, potrei scoprirvi l’altra faccia
della luna. Oh, non è poi tutto uno schifo: vi è il piacere dei sensi, il
potere, la ricchezza, tutti ideali di questo mondo.”
“Siete un uomo terribile!”
“Ma ho il fascino del proibito: confessatelo.”
“Ora so che siete capace di tutto: un uomo per tutte le stagioni.”
“Sì, ma anche un uomo per voi!” e, mentre pronunciava quelle parole,
fece un passo avanti, la prese per le braccia, l’attrasse a sé e la baciò
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con forza e a lungo sulle labbra. E avrebbe continuato se lei non si
fosse energicamente divincolata. Lo guardò infuriata.
“Calma, milady !” esclamò lui con un furbo sorriso che scoprì i suoi
denti bianchissimi “è solo un assaggio. Se vuoi il resto, sai dove trovarmi.”
“Perché mi avete chiamata milady?”
“Perché so chi sei veramente e dove abiti.
La settimana seguente, mentre Segreta attendeva di rivedersi
con Nicholas, Wilhelm si recò a parlare con Armstrong. Gli espresse il
desiderio di essere esonerato da quell’incarico in quanto intendeva
ottenere la destinazione ad una unità operativa, sul fronte orientale.
Armstrong non gli mosse obiezioni e si riservò di comunicare la sua
richiesta al comando dell’Abwehr. Wilhelm gli chiese poi che anche
Segreta fosse esonerata al termine dell’operazione in corso. A quel
punto Armstrong espresse il suo disappunto in quanto si trovava di
fronte ad una duplice defezione. Ma Wilhelm si appellò alla sua sensibilità: si trattava pur sempre di una ragazza di 16 anni che aveva tradito per amore e che ora desiderava ravvedersi. Alla fine, Armstrong
aderì e promise che avrebbe rappresentato quel particolare caso all’ammiraglio Canaris.
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CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO
Segreta e Nicholas si incontrarono la sera dell’8 settembre e,
dopo aver attraversato il passaggio segreto, si rifugiarono nella sua
stanza. Lei era molto tesa al pensiero del compito che l’attendeva. Ma
Nicholas non se ne accorse. Lei si spogliò lentamente e si distese
accanto a lui. Com’era diverso il suo corpo magro, bianco e delicato
da quello possente di Wilhelm! Non emanava da lui la sensazione di
forza e di sicurezza che il tedesco le ispirava. Wilhelm era un’incarnazione della mascolinità e della forza di carattere. I suoi muscoli turgidi le suscitavano un’irresistibile richiamo dei sensi. No, Nicholas
era diverso, simile ad un bambino cresciuto troppo in fretta ma ancora immerso nel candore e nel sogno. Come altre volte, provò tenerezza per lui. Lo sentiva inerme e indifeso. Eppure, stranamente, le sembrò più accessibile, più vicino, più decifrabile di Wilhelm. Cominciò
a baciarlo su quel torace senza peluria quando, improvvisamente, un
pensiero le trafisse fulmineamente il cervello. E si stupì di non averlo
concepito prima.
“Nicholas” gli chiese ansiosamente “tu ti chiudi dentro col chiavistello quando sei nella centrale?”
“Certamente no! Perché me lo chiedi?”
“Perché potresti sentirti male e rimanere chiuso dentro.”
“No, non c’è pericolo. La porta blindata non ha un chiavistello interno. Ma la sua chiusura riporta la serratura a combinazione allo stato
iniziale. Dall’esterno, è possibile perciò entrare rifacendo la combinazione”
“Oh che sollievo!” sospirò Segreta.
“Ma io sto bene, non soffro di nulla. Stai tranquilla.”
Fecero brevemente all’amore. Poi, quando lui raggiunse il piacere, rimasero distesi e abbracciati, in silenzio, ciascuno in balia dei
propri pensieri. Dopo alcuni minuti, Segreta regolò la sveglia e si
accoccolò vicino a lui per dormire. Fu ghermita da torpidi pensieri,
attraversò alcuni dormiveglia, ma non riuscì ad immergersi in un
sogno ristoratore. Quando, infine, la suoneria trillò, senza chiederglielo, andò a preparare un tè, vi versò il sonnifero a effetto ritardato e lo
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portò a Nicholas. Lui la ringraziò e bevve.
“Ti accompagno” le disse
“No, vorrei dormire ancora un poco. Non mi piace attraversare Londra
di notte. Uscirò dalla base da sola. Conosco bene la strada”
“Attenta alla ronda.”
“Stai tranquillo. Il rumore dei tacchi dei tuoi marinai si sente da lontano.”
Nicholas uscì dalla camera e si diresse alla sala operativa qualche minuto prima di mezzanotte. Poco dopo, le giunse, attraverso la
porta, il rumore dei passi del capitano di vascello Shoeffer che era
smontato dal turno e stava rientrando nel suo alloggio. Secondo le
istruzioni di Armstrong, il sonnifero avrebbe fatto effetto dopo un
quarto d’ora. Per sicurezza, fece trascorrere venti minuti durante i quali
sentì passare la ronda. Il suo cuore batteva tumultuosamente. Alle ore
0.20, uscì dalla camera scalza e si diresse verso le scale. Sul corpo
nudo, aveva indossato un’aderente calzamaglia nera che aveva comprato nel West End e occultato nella sua capace borsa. Giunse davanti
alla “sala rilevamento sommergibili” senza fare incontri. Trasse dalla
sua bisaccia, che portava a tracolla, il foglio contenente la combinazione e, dopo averlo letto, cominciò a manipolare la manopola.
Qualche attimo dopo, udì uno scatto. Tremando, tirò il battente e la
pesante porta si aprì. Guardò nell’interno: Nicholas, seduto di fronte
agli apparati, stava appoggiato, con la testa sui gomiti, alla consolle.
Apparentemente, dormiva. Lei entrò rapidamente nella stanza e chiuse
la porta. Poi, si voltò, si compresse il cuore che batteva precipitosamente e corse verso Nicholas. Gli guardò il volto da vicino, lo chiamò
ma lui non rispose. Allora, lo baciò sulla fronte col cuore stretto, poi
incominciò il suo lavoro. Armstrong le aveva detto che il sonnifero
avrebbe avuto una durata di 50-60 minuti. Doveva quindi completare
il suo lavoro prima di quel termine. Concitatamente, estrasse dalla
borsa la microspia. Si introdusse, poi, sotto la consolle che era affollata di cavi, fili e trasformatori e applicò il microfono a ventosa con la
relativa batteria. Subito dopo, fotografò le apparecchiature allineate
sulla consolle e la sala nel suo complesso. Esaminò quindi il contenuto dei cassetti delle scrivanie che si trovavano di fronte alla consolle,
alla ricerca dei cifrari. Trovò soltanto moduli, tabelle, raccolte di istru200
zioni e regolamenti. Ma, in un cassetto, vide un mazzo di chiavi. Si
voltò allora verso un armadio corazzato che era in fondo, addossato
alla parete. Provò numerose chiavi fino a che non riuscì ad infilarne
una, lunga e nichelata, nella toppa. La fece ruotare e, con esultanza,
riuscì ad aprire l’armadio. Sugli scaffali, erano allineati i codici inglesi usati per le eventuali decrittazioni. Intanto, erano già trascorsi venticinque minuti dal suo ingresso nella sala. L’orologio a muro segnava
le ore 0.45 e il sonnifero avrebbe fatto effetto presumibilmente fino
alle 1,05-1,10 al massimo. Cominciò a fotografare febbrilmente il
codice più importante, il cifrario navale n° 3 (il cosiddetto cifrario
convogli). Ma era giunta soltanto alla metà dei fogli allorché, con la
coda dell’occhio, vide Nicholas muoversi. Evidentemente, si stava
svegliando. Fu colta dal panico. Chiuse precipitosamente l’armadio
dopo avervi riposto il cifrario, mise il materiale raccolto nella sua
grande borsa e fuggì.
L’indomani mattina, riferì dettagliatamente ad Armstrong i
risultati dell’operazione e gli consegnò i negativi delle pagine del
cifrario convogli da lei fotografate. Ricevette le sue calorose felicitazioni e, già quello stesso giorno, poté udire agli apparati della centrale operativa della libreria i segnali trasmessi dalla “ sala rilevamento
sommergibili” dell’Ammiragliato.
Ma, sia Segreta che Armstrong, stavano in apprensione perché
ignoravano se Nicholas si era accorto, o meno, del tradimento consumato ai suoi danni.
“Lui conosce il nostro recapito” osservò Armstrong “Se si è reso conto
di essere stato narcotizzato, potrebbe farci arrestare tutti. È opportuno
conoscere subito le sue intenzioni. Perciò” proseguì rivolgendosi a
Segreta “è necessario che voi andiate a trovarlo e cerchiate di capire se
ha dei sospetti”
Lei si recò quella stessa mattina all’Old Admiralty e chiese di
parlare con Nicholas, poi lo attese nel salottino dell’ingresso. Quando
lui arrivò, comprese subito che era molto turbato.
“Sono venuta a ringraziarti per le ore preziose che abbiamo trascorso
insieme. Ma ti vedo pallido e sconvolto”
201
“Mi è accaduto un fatto insolito e grave: mi sono addormentato mentre ero in servizio nella centrale”
“Evidentemente, avevi dormito poco in camera. Se n’è accorto qualcuno?”
“Non lo so. Voglio dire: non so se, mentre dormivo, sia giunta qualche
comunicazione radio”
“Non puoi accertarlo?”
“No.”
“Ma quanto hai dormito?”
“Praticamente, dall’inizio del turno fino all’una. Cioè, quasi un’ora,”
“Non dirlo a nessuno.”
“Dovrei farlo, è un mio dovere.”
“Ma nemmeno per sogno. Chi vuoi che lo sappia? Se, per caso, vi è
stata qualche chiamata rimasta inascoltata, dirai che ti sei sentito male
e sei andato ai servizi igienici.”
“In effetti, non sono stato bene. Mi sono svegliato con un forte mal di
testa.”
“Cosa pensi che sia stato?”
“Forse, come tu hai detto, avevo dormito poco in camera.”
“Si, certo. Inoltre, può aver influito sul tuo cedimento fisico anche la
perdita di energie nell’amore”
“Si, dev’essere così.”
“Ora, cerca di calmarti, di riprendere il tuo equilibrio nervoso.”
“Vorrei stare ancora con te.”
“Facciamo passare qualche giorno, anche per essere certi che i tuoi
superiori non si siano accorti di nulla.”
“Va bene, ma mi mancherai molto.”
“Anche tu. Appena ti sentirai completamente tranquillo, vieni a trovarmi in libreria.”
***
Tre giorni dopo, giunse l’ordine di trasferimento di Wilhelm
alla 16ª Panzerdivision, sul fronte orientale. E, con sorpresa di tutti, il
dispaccio precisava che il movimento doveva aver luogo entro cinque
202
giorni, anziché alla fine dell’operazione in corso. Evidentemente, spiegò Armstrong, vi era al fronte un forte fabbisogno di personale. A
seguito del primo dispaccio, giunsero poi le istruzioni cifrate sulle
modalità del viaggio. Il percorso doveva essere coperto in autovettura
da Londra alla Manica, con un motopeschereccio di copertura per l’attraversamento del canale, con autovettura fornita dall’Abwehr da
Calais a Lille e con aereo fino a Berlino. Nella capitale, Wilhelm
avrebbe dovuto presentarsi all’ammiraglio Canaris per il saluto di congedo e poi all’OKH, il comando supremo dell’esercito, per le istruzione sul resto del viaggio verso l’Ucraina.
Lui salutò tutti i componenti della squadra, poi, aderendo al
desiderio di Segreta, la invitò per una cena di commiato. Andarono al
ristorante “Overtons” in St. James Street. Lei aveva indossato per l’occasione un vestito di raso bianco, scollato e con sottili spalline, che si
era portato da Abingdon. Cenarono a luce di candela in un ambiente
raffinato. In fondo alla sala, un pianoforte a coda eseguiva languidi
motivi swing. La guerra sembrava enormemente lontana. Il solo richiamo alla realtà era costituito da una tenda nera che occultava le luci dell’interno per non contravvenire alle norme sull’oscuramento.
Gli occhi di Segreta erano umidi e, su essi, la luce palpitante
delle candele disegnava guizzanti riflessi. Gli tese una mano attraverso il tavolo e chiese:
“Pensi che questo sia un addio, Wilhelm?”
Lui sorrise.
“Conoscendoti, direi certo di no. Ho constatato che le guerre e le frontiere non ti fermano.”
“Dici bene. Perciò, non ti stupire se un giorno mi vedrai comparire.”
“Vedo che non demordi. Ma io ti auguro di dimenticarmi, Greta. Non
mettiamo ipoteche sulla nostra vita. L’avvenire è molto incerto.
Abbiamo vissuto insieme una storia bella e sofferta. Ora, riprendiamo
le nostre strade. Io vado a battermi per una grande Germania. Il resto
è affidato al destino”
“Quante parole, Wilhelm, per dirmi che vuoi scaricarmi. ”
Lui abbassò il capo senza rispondere. Poi, dopo una pausa
imbarazzata, mormorò, come parlando a se stesso:
203
“Io sono diverso da te. Non ho la tua stessa capacità di amare. Tu mi
hai dato grandi prove d’amore, annullando te stessa ed esponendoti a
rischi mortali. Non lo dimenticherò mai. Questi ricordi ci uniscono.”
A casa, la prese fra le braccia e le disse:
“Non lasciamoci così, con questo malessere, ma con reciproca riconoscenza per la gioia che ci siamo scambiati”
Si amarono con dolcezza, senza altre parole. Poi, l’indomani,
all’alba, si salutarono con la sensazione che tutto ormai era stato detto.
Fuori pioveva, mentre una luce violacea filtrava in un silenzio estatico
e tutte le cose d’intorno avevano una stupita fissità. Wilhelm scese ed
entrò in una macchina nera. Armstrong era alla guida perché aveva
deciso di accompagnarlo lui stesso fino alla Manica, dove lo attendeva un motopeschereccio. Il rombo del motore accompagnò la vettura
che si allontanava, fino a spegnersi dietro l’angolo della strada, nel
quartiere che andava risvegliandosi. Era il 18 settembre 1942.
204
CAPITOLO VENTICINQUESIMO
Il giorno della partenza di Wilhelm, Segreta visse in modo rabbioso e insofferente il suo dolore non sapendo come soffocarlo o su chi
riversarlo. Se ne stette l’intero giorno gettata sul letto, non si lavò, non
mangiò e alternò momenti di abulia a crisi di pianto. In quelle condizioni, rimase a letto fino al mattino seguente, in particolare fino a
quando non sentì bussare alla porta. Andò ad aprire in camicia da notte
e vide sul pianerottolo Armstrong. Lui la guardò sorpreso e le chiese
con espressione ironica:
“Dormivate?”
“Sì. Avete bisogno di qualche cosa?”
“No, volevo solo informarvi che il vostro Wilhelm è già in viaggio
sulla Manica verso Calais.”
Lei lo ringraziò.
“Vi vedo molto sbattuta. Non avete dormito stanotte?”
Segreta scosse il capo.
“Avete pensato a lui tutto il tempo?”
Sembrava stordita. Armstrong le chiese di entrare e, senza
aspettare la risposta, varcò la soglia dell’appartamento. La scrutò da
vicino.
“Non avete un bell’aspetto. Volete dimenticare in questo modo il
vostro tedescone?”
“E in quale altro modo?”
“Reagendo.”
“Cosa dovrei fare?”
“Oggi è una splendida giornata: andate perciò fuori a passeggio; visitate un museo.”
“Non mi va: vorrei morire, piuttosto.”
Erano rimasti in piedi in anticamera.
“Vi passerà. Domani, avrete nuovamente la voglia di vivere.”
“Sì, un giorno mi passerà. Ma, ora, mi sembra di essere stata investita
da un rullo compressore.”
“Pensate possa giovarvi la mia compagnia?”
“Tentereste certo di corteggiarmi.”
205
“È un lusso che non posso permettermi. Ma, se vi fa piacere, potremmo andare un po’ in giro. Nonostante la guerra e l’oscuramento,
Londra è sempre stimolante di notte.”
“Mi sembra sconveniente uscire con voi. Wilhelm è appena partito.”
“Non ditemi che avete degli scrupoli di coscienza.”
“Mi credete proprio così cinica e insensibile?”
“Non arrivo a tanto. Ma so che siete forte, determinata e intraprendente.”
“Vi ringrazio, non è possibile”
“Come volete. Ma non state qui a marcire. Siete giovane e, fuori, la
città è piena di allettamenti.”
Le lanciò uno sguardo colmo di sfumature. Aprì la porta e stava
per richiudersela alle spalle allorché Segreta, colta da un repentino
ripensamento, gli chiese:
“A che ora, questa sera?”
In fondo, quell’uomo ironico, che sembrava non prendersi sul
serio, l’attraeva, la incuriosiva, era un enigma tutto da scoprire.
Indossò un abito di seta verde pallido con maniche velate a sbuffo, e
uscì con lui in macchina. Andarono a cena al “Greenhouse”, un ristorante molto ricercato di Piccadilly.
“Qual è la vostra copertura, Armstrong?” chiese lei vedendo che circolava liberamente per la città, incurante dei controlli della polizia.
“Ho una casa editrice che funziona al primo piano dello stabile in cui voi
abitate. In più, al pianterreno, posseggo la libreria dove voi lavorate.”
“Siete da molti anni a Londra?”
“Dal 1939. Vi dirò, la costituzione di una rete spionistica tedesca in
Inghilterra è stata tardiva. Infatti, Hitler auspicava un’alleanza fra la
Germania, con le sue grandi forze di terra, e la Gran Bretagna, la più
grande potenza navale del mondo. Una simile unione, nel pensiero del
Führer, avrebbe creato una intoccabile supremazia anglo-tedesca. Con
questa convinzione, Hitler, nel 1935, proibì qualsiasi azione di spionaggio in Gran Bretagna. Si ricredette soltanto alcuni anni dopo. Fu
allora che l’ammiraglio Canaris, che dirigeva l’Abwehr dal 1934, mi
chiamò dall’Egitto, dove lavoravo per lui, e mi incaricò di costituire
qui una rete spionistica. Gli inizi sono stati duri. Si sono verificati
molti arresti. Ma ora esiste un apparato affidabile.”
206
Segreta cambiò argomento.
“Cosa pensate di me, veramente, Armstrong?”
“A che proposito, Misty?”
“Per il fatto che tradisco il mio paese.”
“A parte qualche mia battuta ironica di cattivo gusto, sono sinceramente convinto che siete stata spinta da un forte sentimento d’amore.
Questa motivazione vi giustifica, almeno sul piano umano.”
“Ma non su quello morale, non è vero?”
“Sarà la vostra coscienza a darvi una risposta.”
“All’inizio, ero euforica. Mi sembrava di essere diventata l’eroina di
un romanzo. Soltanto dopo, ho cominciato a capire e, adesso, il seguito di questa storia mi pesa enormemente.”
“Vi siete impegnata e dovete completare il vostro lavoro. Dopo, potrete ritornare a casa.”
“E voi, Armstrong, perché fate la spia?”
Lui le lanciò uno sguardo fosco. Poi, scosse la testa.
“È una lunga storia.”
Finita la cena, uscirono dal ristorante e si ritrovarono di colpo
nell’atmosfera di guerra. In alto, nubi orlate d’argento sfilavano in
parata su uno spicchio di luna che, col suo chiarore, mitigava l’oscurità avvolgente.
“Qui vicino, vi è un locale dove si può ascoltare della buona musica
jazz. Volete andarci?”
Lei aderì e si avviarono. Dentro, vi erano luci schermate, fumo,
gente seduta ai tavoli che gustava una consumazione ascoltando il
ritmo sincopato di una piccola orchestra. Una cantante di colore si
stava esibendo in una melodia swing. Presero posto.
“Mio Dio!” esclamò Segreta riferendosi alla canzone “Questa è
“Solitude” di Duke Ellington. La cantava anche mia madre.”
L’ascoltarono in silenzio, poi, nell’intervallo, lei disse:
“Gliel’ho sentita cantare quando avevo tredici anni. Ne ho riportato
una grande impressione. Mia madre era bellissima ed aveva una voce
straordinaria. Il suo ricordo mi provoca una profonda emozione.”
“Anch’io l’ho sentita cantare. Era trascendentale.”
“Parlate di Atlanta Mc Guire?”
207
“Sì, certo, l’ho sentita qui a Londra. Di lei, un cronista scrisse una volta
che il suo canto evocava insieme sensualità e tragicità. Ma non so dirti
se ammirassi di più, in lei, la donna o l’artista.”
“Ed ora giace dimenticata in un piccolo cimitero, a Rheinsberg, una
sperduta cittadina della Germania. Un giorno, andrò a prenderla,
Armstrong, e la porterò a casa.”
“È giusto. Se non vi accompagnerà Wilhelm, lo farò io.”
In quel momento, la cantante annunciò che avrebbe presentato
“Always and always”.
“Un brano bellissimo” esclamò Armstrong “volete ballare?”
“Mi sembra sconveniente nei riguardi di Wilhelm.”
“Vi consento di pensare a lui mentre ascolterete questa musica appoggiata a me.”
Lei sorrise e aderì. Ballarono in silenzio. Armstrong, fra le sue
tante abilità, era anche un agile ballerino. Segreta si abbandonò a lui e
si lasciò trasportare mentre il suo pensiero volava lontano. Ma, ad un
tratto sollevando lo sguardo, incontrò i suoi occhi profondi fissi su di
lei. Avevano una forza ipnotica che le gelò il sangue. Lui la stava guardando dentro come se volesse sbranare il suo cuore.
Finito quel ballo, uscirono e andarono verso la macchina.
Appena dentro, lei gli disse:
“Vi ho osservato sul lavoro. Vi ho guardato anche quando mi avete
baciata. E lo stesso ho fatto mentre ballavate. Ma il vostro sguardo
resta ugualmente un enigma.”
“Volete dire che non sono di facile lettura?”
“Per niente. Anche, Wilhelm è difficilmente decifrabile. Voglio dire,
non si intuisce cosa stia pensando. Ma si legge tuttavia che è un uomo
retto, leale, granitico. Per voi, è diverso. Non si riesce a capire che
specie d’uomo siete. Quei vostri occhi pieni di febbre sono un autentico paravento”
“La vita li ha ridotti così.”
“Sì, immagino che la vostra vita sia stata un’avventura continua, non
so se mirabolante o soltanto squallida.”
“Né l’una né l’altra. Dite piuttosto tesa, inquieta, sofferta, pericolosa.”
“E, forse, anche solitaria.”
208
“Se intendete per solitaria la mancanza di un amore, è così: mi è mancato il grande amore, la folle passione. Ma ho fatto comunque del mio
meglio per non rimanere solo.”
“Avete avuto delle compagne?”
“Mai più della durata di una notte.”
“Donne occasionali, allora?”
“Sì, incontrate per caso, anche loro assetate di compagnia, talvolta
scettiche, ciniche o addirittura disperate ma ugualmente ansiose di un
momento di gioia, di oblio.”
“Mi sembra estremamente triste incontrarsi e dirsi addio.”
“Eppure, la vita è così.”
“Sono squallidi incontri.”
“No, vi sbagliate. Non potete immaginare che straordinaria esperienza
umana sia l’accostamento, in un modo così intimo, con un’altra persona sconosciuta, tutta da scoprire. Generalmente, dopo l’amore, ci si
confessa, ci si riversa le proprie pene. E quante volte, mi è sembrato di
condividere tutto il loro dolore, le loro residue speranze.”
“Quindi, siete un grande amatore?”
“Ho imparato molto da quegli incontri. Sono lezioni di vita. Al di là
del piacere fisico, mi sono sforzato di donare tenerezza, capacità
d’ascolto, rispetto.”
“A parte la vita amorosa, quali esperienze avete avuto nella vita?”
“A 18 anni, dopo la morte di mia madre, ho lasciato la mia casa, per
disaccordi con mio padre, ed ho affrontato la vita. Per due anni, sono
stato carovaniere nel deserto occidentale. E, proprio durante un viaggio, ho conosciuto un agente tedesco. Il suo nome era John Epper.
Il suo patrigno, un facoltoso avvocato egiziano, lo aveva cresciuto
nella fede musulmana. Mi ha reclutato e, con lui, ho compiuto missioni In Turchia, Libano, Iraq e Afghanistan. Mi è successo di tutto: sono
stato imprigionato, torturato, frustato. Sono stato sodomizzato con violenza da un gruppo di turchi e sono sfuggito miracolosamente alla mia
esecuzione capitale. Ho conosciuto la fame, la sete, la crudeltà, il fondo
del dolore, la perdita di ogni speranza negli uomini e di ogni ideale.”
“Allora, per cosa vivete?”
“Non ho più uno scopo preciso. Vivo per forza di inerzia. Ma, dentro
209
di me, sono diventato insensibile a tutto.”
“Forse, dovreste conoscere l’amore.”
“Può una rosa sbocciare su un legno arso?”
“Chissà! Ma ditemi: se siete un egiziano, come mai avete l’aspetto di
un uomo occidentale, tutt’al più mediterraneo?”
“Perché mia madre era norvegese.”
“Raccontatemi.”
“Un’altra volta, se non vi dispiace. Questa sera, ho parlato troppo di me.
Non mi accadeva da tanto tempo. Adesso, devo andare”
“Un’ultima domanda: qual è il vostro vero nome?”
“Mia madre mi chiamava Moheb. E, fino a quando sono stato un giovane rispettabile, mi presentavo col nome di Moheb Mutran.”
“Siete un uomo interessante. E, stasera, vi ho conosciuto meglio.”
“Vi ringrazio, ma diffidate: non sono una persona affidabile.”
“Se lo dite voi.”
“Volete che rimanga, che vi faccia compagnia stanotte, per consolarvi?”
“No, grazie, voglio rimanere fedele a Wilhelm.”
Lui scrollò le spalle sorridendo. Ma il suo sorriso era un ghigno.
“Vi darò solo un bacio come una sorella.” aggiunse lei. Gli andò vicino e si sporse per deporre un bacio su una sua guancia. Ma lui la ghermì all’improvviso, la cinse alla vita e la baciò con impeto sulla bocca.
Segreta si ritrasse risentita.
“Avete rovinato tutto! È proprio vero che non siete affidabile.
Andatevene!”
“Un giorno, sarete mia.”
“Non sarò mai per voi la donna di una notte.”
“Lo vedremo.”
Si inchinò guardandola con sarcasmo, poi uscì. Una serata
cominciata molto bene, era naufragata all’insegna dell’inconciliabilità
delle passioni umane.
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CAPITOLO VENTISEIESIMO
Nelle notti in cui non era riuscito a prendere sonno, Nicholas
aveva pensato e ripensato alla pesante sonnolenza che lo aveva colto
dopo i suoi due incontri con Misty. In entrambe le occasioni, si era poi
svegliato stordito ed in preda ad un fastidioso mal di testa. Quelle insolite circostanze lo avevano insospettito: erano forse state le fatiche dell’amore? Oppure, qualche cibo che aveva ingerito? Il fatto, poi, che la
seconda volta il torpore si fosse manifestato mentre eseguiva il suo servizio, era addirittura allarmante. Ma rifiutava l’idea che quel fenomeno fosse collegato a qualche influenza esercitata su di lui da Misty.
Lei era al di sopra di ogni sospetto, candida e luminosa ai suoi occhi.
Continuava perciò a ripetersi che era stato vittima di coincidenze. E
con tale stato d’animo rasserenato, cercò di avere un altro incontro con
lei. Andò a trovarla in libreria ma Misty prese tempo adducendo che
non stava bene. E, effettivamente, gli parve cambiata e pallida, con gli
occhi cerchiati, lo sguardo assente. Fu lei stessa a telefonargli, diversi
giorni dopo. Gli fissò un appuntamento e, la sera del 10 ottobre (1942),
lui andò ad aspettarla in St. James Park. Attraversarono il passaggio
segreto e presto finirono a letto. Dopo le solite, iniziali incertezze,
Nicholas riuscì a possederla; e, mentre stava sopra di lei, la baciava
con adorazione sulle labbra, sulle palpebre, sul collo.
“Non so te” le disse sommessamente “ma, per quanto mi riguarda, questo non è solo sesso ma un atto d’amore.”
“Me lo fai sentire.”
“Sposami, Misty!”
“Nicholas, ho solo sedici anni!”
Lui si fermò, discese dalla sua posizione venerea e si distese
accanto a lei.
“Hai altri progetti per il futuro?”
“Nicholas, in queste condizioni il futuro non esiste. Non abbiamo un
domani. Dobbiamo solo vivere alla giornata. Non so neanche se ci
rivedremo”
“Devi partire?”
“Probabilmente.”
211
“Ma io non posso fare a meno di te. Io ti amo!”
“Mi sei molto caro, Nicholas, ma non so dirti più di questo.”
“Posso sapere, almeno, dove andrai?”
“Te lo farò sapere.”
“Ci conosciamo da 8 mesi ma io non so niente di te: né da dove vieni,
né dove abiti a Londra.”
“Un giorno, ti racconterò tutto.”
“Fin da quando ti ho incontrata, ho avuto la sensazione che dietro di te
ci fossero dei misteri.”
“Perché ti preoccupi, Nicholas, non ti basta la gioia di avermi con te?”
“Sì, è vero, è una gioia smisurata ma, come giustamente tu hai detto,
senza domani.”
“Nessuno può dirlo con certezza. Ma ora riposa: fra due ore, dovrai
montare di turno.”
Spensero la luce ma nessuno dei due riuscì ad addormentarsi.
Nicholas stette immobile nel buio con gli occhi sbarrati e con l’animo
in subbuglio per la prospettiva di non vederla più. Gli sembrava che
una voragine si fosse aperta dinanzi a lui. E, mentre pensava, sentiva
Misty girarsi e rigirarsi insonne sul letto. Il suono della sveglia fu una
liberazione. Lei andò nel cucinotto per preparare il tè. Qualche minuto dopo, ritornò e gliene porse una tazza. Lui ne bevve alcuni sorsi, poi
si alzò e si avviò verso il bagno.
“Non bevi il tuo tè?” gli chiese Misty.
“È troppo caldo. Lo finirò nel bagno.”
Si chiuse la porta dietro di sé e versò il contenuto della tazza
nel lavandino. Si lavò e poi tornò in camera da letto.
Lei era distesa.
“Hai bevuto il tuo tè?” gli chiese.
“Sì, certo.”
“Se non ti dispiace, dormirò fino all’alba, poi lascerò la base.”
Lui andò a baciarla, quindi uscì. Si diresse verso la sala operativa. La porta era aperta e il comandante Shoeffer lo stava aspettando.
Gli riferì le novità salienti poi se ne andò a dormire. Nicholas entrò
nella sala e richiuse la porta . Andò verso la consolle e si predispose ad
iniziare il suo ascolto agli apparati. Si sedette e stava per sistemarsi la
212
cuffia quando il suo cervello fu percorso da una intuizione improvvisa. Allora, si alzò ed andò a traguardare dallo spioncino della porta.
Attese con un funesto presentimento finché non vide apparire, dopo
circa dieci minuti, una figura nera stilizzata.
La guardò bene: era lei, era proprio Misty, vestita con una calzamaglia nera che evidenziava le sue forme flessuose. Fu colto da un
momento di cupa disperazione e il mondo gli crollò addosso. Col
cuore sempre più stretto, vide che lei si avvicinava alla porta. Fu colto
dal panico: non sapeva che fare. Non era uomo dalle fulminee decisioni. Perciò, agì per istinto, senza sapere se sbagliava o meno.
Si avvicinò alla consolle, si sedette e finse di dormire con la
testa appoggiata alle braccia incrociate. In quello stesso momento, udì
lo scatto della serratura e, immediatamente dopo, il cigolio della porta
blindata che si apriva. Seguì il fruscio dei passi di Misty. Sentì che
veniva verso di lui, evidentemente per verificare se dormiva profondamente. Poi, si allontanò. Nicholas, senza muoversi, socchiuse gli occhi
e la vide di spalle davanti all’armadio corazzato. Lo aprì, ne trasse con
sicurezza un cifrario e si mise a fotografarlo. Lui attese due, tre minuti mentre aveva la sensazione di precipitare in un vertiginoso gorgo
nero. Si alzò, infine, con una fatica immensa e si diresse verso di lei.
Misty udì il rumore dei passi e sollevò verso di lui uno sguardo atterrito e, nello stesso tempo, minaccioso, quello di una nemica. Non lo
aveva mai guardato così. Lui si sentì distrutto.
“Cosa stai facendo?” le chiese con voce strozzata.
“Mi sembra evidente” rispose lei con un’aria di sfida.
“Quindi, sei una spia?”
Lei scrollò le spalle.
“Ma sei un’inglese! Come puoi tradire così la tua patria?”
“È una lunga storia.”
“Allora, era tutta una commedia?”
“Purtroppo sì.”
Nicholas stava davanti a lei paralizzato, immerso in una delusione devastante. Avrebbe dovuto arrestarla ma non ne aveva il coraggio.
Desiderava solo che quel momento allucinante si dissolvesse come un
sogno angoscioso. Ebbe appena la forza di dirle, protendendo una mano:
213
“Dammi la macchina fotografica.”
“Eccola” rispose lei e gliela scagliò in faccia.
Colpito con violenza ad uno zigomo, lui si piegò su se stesso
con un lamento. Lei ne approfittò per fuggire: si precipitò verso la
porta, la spalancò e si slanciò verso la biblioteca. Tenendosi la mano
sul volto rigato di sangue, lui la rincorse istintivamente, senza un’idea
precisa. Lei correva come un capriolo, lui era appesantito dalla propria
disperazione. La seguì senza convinzione in biblioteca e, successivamente, nel cunicolo. Entrambi erano armati di torce elettriche che balenavano fasci di luce impazziti nel buio. Nicholas riuscì a inquadrarla
nel proprio raggio luminoso: vide che correva verso il cancello di sbarramento. Là giunta, si accorse che era chiuso e incominciò a scuotere
furiosamente il battente. Forse, non ricordava che Nicholas, quando
era andato a prenderla, alcune ore prima, lo aveva chiuso. L’intesa era
che, prima di andarsene, lei avrebbe prelevato la chiave dal cassetto del
comodino di Nicholas per aprire con essa il cancello e lasciarla poi
nella toppa. Lui, da parte sua, dopo essere smontato dal turno di servizio, avrebbe provveduto a chiudere l’inferriata, a ritirare la chiave ed a
riporla nel comodino. Ma, fuggendo, Misty non aveva avuto assolutamente il tempo di prendere al volo la chiave dalla camera di Nicholas.
Adesso, davanti a quel cancello chiuso, era perciò impossibilitata a
proseguire nella sua fuga. Si trovava in trappola. Avvicinandosi,
Nicholas vide allora, davanti ai propri occhi, susseguirsi una convulsa
sequenza di immagini: lei si voltò di scatto con gli occhi dilatati, poi
estrasse qualcosa dalla borsa che portava a tracolla e la portò alla
bocca. Nicholas rallentò la sua corsa perché non sapeva come affrontare quella situazione. Doveva portare Misty di fronte ad una corte
marziale. Ma l’amava e quel sentimento era superiore al proprio senso
dell’onore e all’amor di patria. Mentre percorreva gli ultimi metri che
lo separavano da lei riuscì a prendere una decisione suprema: l’avrebbe aiutata a fuggire prendendo su se stesso il carico di tutte le catastrofiche conseguenze di quel tradimento. Ma non fece a tempo. Nel
momento stesso in cui arrivò presso di lei, Misty rovesciò il capo
all’indietro con gli occhi sbarrati e si afflosciò. Lui fece appena in
tempo a sorreggerla, a riceverla fra le proprie braccia. Gli parve sve214
nuta. La depose per terra e, facendosi luce con la torcia, le tastò il
polso, il cuore e la carotide. Sembrava morta. Disperato, insistette nel
ricercare sul suo corpo un segno di vita e, intanto, la chiamava affannosamente. Appoggiò l’orecchio al suo costato ma non gli giunse alcun
battito. Non riusciva a credere che fosse morta, no, non era possibile!
Fino ad un attimo prima, gli era apparsa vigorosa e piena di vita. Si
prese la testa fra le mani, in preda ad una cupa e solitaria disperazione.
Ma, proprio in quel momento, ebbe una folgorazione: rivide l’immagine di lei mentre portava alla bocca la palma aperta di una mano come
per ingerire qualcosa. Sì, doveva essere così: aveva ingoiato una pillola mortale. Si era suicidata temendo di essere costretta a rivelare il
nome dei suoi complici. Si curvò su di lei e cominciò a gemere con
mugolii che sollevavano echi contorti in quell’antro. Poi, pensò che la
centrale operativa era rimasta incustodita, con la porta spalancata.
Allora, a testa bassa, curvo e tremante, ritornò indietro e rientrò nella
centrale. Fortunatamente, la ronda non era ancora passata. Rimise tutto
a posto ed eliminò ogni segno della visita di Misty.
Al termine del turno, dopo un’attesa spasmodica durata oltre
quattro ore, riferì al capitano di vascello Shoeffer che non vi erano
state novità di rilievo durante il turno. Quando, infine, rientrò nella sua
camera, poco dopo le sei, gli parve di percepire ancora l’odore del
corpo di Misty, quella fragranza che emanava dalla traspirazione delle
sue carni, dalla lavanda che usava, dal profumo dei suoi capelli. Si
gettò sul letto torcendosi dal dolore poi, dopo circa mezz’ora, cercò di
organizzare le proprie idee. Il sole era già apparso nel cielo. Non poteva, quindi, alla luce del giorno, trasportare fuori il corpo di Misty.
Decise allora di portarlo verso l’uscita del passaggio segreto per poi
deporlo, la notte successiva, su una panchina di St. James Park. Prese,
dal cassetto, la fatale chiave del cancello e si introdusse, col cuore in
gola, nel cunicolo. Era oppresso dall’angoscia di rivederla morta.
Percorse il tunnel proiettando in avanti il fascio luminoso della sua torcia elettrica. E, procedendo, gli parve di scorgere in distanza una situazione diversa da quella che aveva lasciato: gli sembrò infatti che il cancello fosse aperto e che il corpo di Misty non si trovasse più disteso
presso le sbarre. Si affrettò atterrito e, giunto sul posto, constatò che,
215
effettivamente, il battente a sbarre era spalancato e Misty non era più
sul selciato. Rimase impietrito non sapendo cosa pensare e girò intorno lo sguardo attonito come se attendesse una risposta dai muri muti e
indifferenti che lo circondavano. Era da escludere, pensò, che il corpo
di Misty fosse stato scoperto dai marinai della base. In quel caso,
Shoeffer gli avrebbe posto delle domande. No, la spiegazione doveva
essere un’altra: forse, i complici di Misty erano accorsi dall’esterno per
salvarla, avevano aperto con qualche limetta la vecchia serratura settecentesca e, trafugato il suo corpo, si erano dileguati. Rimase in quel
posto inebetito, poi ritornò sui suoi passi e rientrò nella propria camera.
Con la testa in fiamme, cominciò a pensare alle conseguenze di
quell’evento. Anzitutto, il passaggio segreto era adesso noto alle spie
che avrebbero potuto fare irruzione nella base in qualsiasi momento e
penetrare perfino nella centrale operativa dato che Misty aveva dato
loro, certamente, la combinazione necessaria per aprire la serratura a
cassaforte. Poi, presumibilmente, nella sua prima visita nella “sala rilevamento sommergibili”, quando lui si era addormentato durante il
turno, Misty aveva fotografato una parte dei codici. Suo dovere imprescindibile era quello di denunciare l’accaduto per consentire
all’Ammiragliato di cambiare i cifrari e ricercare le spie. Ma ebbe
paura delle conseguenze. Perciò, non fece niente salvo che bloccare
dall’interno, sotto il piedistallo della statua di St. James Park, l’accesso alla galleria. Ignorava che, sotto la consolle, era funzionante una
microspia che trasmetteva i segnali della sala al nemico. E, nella sua
superficialità, non pensò di far effettuare una bonifica di quel luogo, né
di svolgere per proprio conto una ricerca. Continuò passivamente a
svolgere i suoi turni. Ma i rimorsi della coscienza e il dolore provocatogli dal tradimento e poi dalla morte di Misty gli tolsero la pace e il
sonno e gli resero insopportabile la vita.
Qualche giorno dopo, il suo insonne rimorso lo indusse a recarsi in
Webber Street. Ma la libreria dove Misty lavorava era chiusa, con le saracinesche abbassate. Chiese in giro ma nessuno seppe dargli indicazioni utili.
L’impressione dei vicini era che la libreria avesse cessato la sua attività.
216
CAPITOLO VENTISETTESIMO
Nel riprendere conoscenza, Segreta aveva percepito, nel suo
cervello, una spirale luminosissima che roteava a velocità folle provocandole una sofferenza insopportabile. Ma, dopo alcuni interminabili secondi, quel tormento era cessato come d’incanto. Aveva riaperto gli occhi. Sopra di lei, gravava una volta ovale di mattoni, appena
visibile in una oppressiva semioscurità. Non riusciva a muoversi. Si
sentiva paralizzata. Aveva compiuto uno sforzo sovrumano e, infine,
le era stato possibile vincere quella mano gigantesca che l’aveva
inchiodata. Si era voltata allora verso una fonte luminosa che si trovava al suo fianco ed aveva scorto la propria torcia elettrica, abbandonata per terra accesa. Solo allora si era resa conto di trovarsi distesa su un pavimento di mattoni. Gradualmente, le era ritornata la
memoria. Si ricordava: aveva corso in quella galleria per sfuggire a
Nicholas che la stava inseguendo. Ma aveva trovato il cancello di
sbarramento chiuso. Non le era stato possibile perciò proseguire.
Allora, per sottrarsi alla cattura, aveva ingoiato una pillola, di quelle
che procuravano una catalessi della durata di un’ora. Immediatamente
dopo, aveva perso i sensi. Ora, risvegliandosi, si era ritrovata nello
stesso posto e, stranamente, del tutto sola. Nicholas, non soltanto non
aveva chiamato rinforzi, ma se n’era addirittura andato. Non si sentiva però tranquilla ed era balzata in piedi col terrore di essere di nuovo
intrappolata. La testa le girava ed il suo equilibrio appariva instabile,
quale conseguenza residua dell’effetto della dose venefica ingerita. Il
suo primo pensiero era stato, comunque, quello di aprire il cancello.
Aveva perciò prelevato dalla borsa una limetta che faceva parte dell’armamentario ricevuto da Armstrong. Dopo dieci minuti di nervosi
tentativi, era finalmente riuscita a far scattare l’arrugginita serratura
settecentesca. Aveva perciò spalancato il cancello e si era precipitata
verso il vestibolo posto all’interno del piedistallo della statua. Là,
aveva sfilato la calzamaglia e indossato la sua leggera veste estiva, che
teneva ripiegata nella bisaccia. Subito dopo, era ritornata all’aperto.
Fuori, nei giardini di St James, l’aria era tersa e purissima e le stelle
brillavano ancora.
217
Alle cinque del mattino, era giunta alla porta di Armstrong, in
Webber Street. Aveva bussato vigorosamente e, quando lui era apparso, si era affrettata a riferirgli tutto l’accaduto.
“Maledizione!” era stato l’irritato commento del suo capo “Il vostro
“contatto “ conosce il nostro recapito. Ci sarà addosso con i suoi uomini da un momento all’altro. Dobbiamo perciò smontare la nostra base.”
Si era precipitato nella centrale operativa e, con il telefono,
aveva impartito una rapida successione di ordini. Mezz’ora dopo, era
giunto un autocarro con una decina di uomini che Segreta non conosceva. Le saracinesche di Webber Street erano state lasciate chiuse
mentre, dall’uscita posteriore, aveva avuto inizio il trasporto delle
macchine cifranti “Enigma”, delle radio ricetrasmittenti, dei cifrari e di
tutto il carteggio segreto. Nello stesso tempo, una parte degli agenti
chiamati da Armstrong sorvegliava le vie d’accesso per segnalare l’eventuale arrivo della polizia militare inglese.
“Dove state portando tutto questo materiale?” aveva chiesto Segreta.
Era stata nel suo appartamento per lavarsi e prendere una valigia con i
propri effetti personali. Ma si sentiva molto provata per gli avvenimenti di quella notte, per il sonno perduto e per quell’ora trascorsa in
catalessi. Se ne stava accoccolata sugli ultimi gradini di una scala di
granito che affluiva nell’androne dell’uscita secondaria del palazzo.
Armstrong, in piedi accanto a lei, dirigeva le operazioni.
“In una base di riserva approntata da tempo all’altro capo della città”
aveva risposto. “Là, continueremo l’ascolto.”
“Ma, dopo quello che è successo, scopriranno sicuramente la microspia”
“Speriamo non troppo presto.”
“Certo, ho combinato un bel guaio.”
“Sì, effettivamente, è un duro colpo per la nostra organizzazione. Ma
dei benefici ci sono stati. Quella vostra microspia ci ha consentito, in
soli 32 giorni, di intercettare 8 convogli e di affondare 73 navi.”
“Ma come potete dire che è stato merito della microspia? Saranno stati
gli U-boot a scovare i convogli.”
“No, ho annotato scrupolosamente quanto è accaduto. Sono state le trasmissioni da noi intercettate ed indirizzate ai sommergibili.
Trasmissioni provenienti dalle navi e altre partite dall’Ammiragliato.
218
Quindi, in parte, potete consolarvi.”
Segreta si era presa la testa fra le mani. Fino a qualche settimana prima, avrebbe esultato non tanto per sé quanto per Wilhelm.
Ma, in seguito, uno squarcio si era aperto nella sua mente e nella sua
coscienza. Ora, vedeva chiaramente quanto orribile fosse la sua colpa.
“Sono morti molti uomini?” aveva chiesto con voce strozzata.
“Stando ai bollettini, almeno settecento uomini.”
“Mio Dio, che cosa ho fatto!” aveva mormorato come parlando a se
stessa. Fino ad allora, il suo lavoro le era sembrato un gioco da romanzo e adesso, per la prima volta, si rendeva conto che aveva mosso le
pedine di una tragedia. Di fronte a quella notizia, si era sentita improvvisamente sopraffare dall’enormità della sua colpa. E, nello stesso
tempo, le era parso di essere diventata di colpo maggiorenne, matura,
più vecchia di almeno dieci anni.
Intanto, l’autocarro era partito portando via tutto il materiale
strategico. Segreta si sentiva tramortita. Per nascondere quel suo stato
d’animo, si era rivolta verso Armstrong chiedendogli:
“Farete saltare la base?”
“No, non ce n’è stato bisogno. Dato che nessuno è arrivato, abbiamo
avuto il tempo di disattivare le cariche. Perciò, possiamo andare.”
“Volete che venga con voi?”
“Sì, certo.”
“Ma, mi avevate promesso che, finita questa operazione, avrei potuto
ritornarmene a casa.”
“Sì, l’ho detto. Tuttavia, voi non avete condotto a termine con successo l’operazione. Il vostro è stato in parte un fallimento. Ora, dovrete rimediare.”
“Non ne voglio più sapere.”
“Avete preso un impegno. Dovrete portarlo a termine. Ma poi vi è
un’altra ragione, ancora più importante. Se vi lasciassi andare, con la
vostra fanciullaggine vi fareste certamente rintracciare da quell’ufficiale. No, non posso mettere in gioco tutta la mia organizzazione, i
miei uomini. Perciò, verrete con me.”
A quel punto, Segreta aveva pensato che doveva giocare d’astuzia.
“E sia. Non posso darvi torto. Ho approntato una valigia, nel mio
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alloggio. Vado a prenderla.”
“Fate presto. Fra poco, alcuni miei uomini saliranno negli appartamenti per mettere tutto a posto ed eliminare possibili tracce.”
Segreta si era affrettata. Aveva salito una rampa di scale e raggiunto il pianerottolo dove era rimasta la sua valigia. A due passi,
aveva scorto la porta dell’ascensore. Vi era entrata ma, anziché salire
al terzo piano, nel suo appartamento, aveva raggiunto le autorimesse,
nel piano scantinato. Da là, si era diretta verso l’uscita del palazzo.
Venti minuti dopo, aveva preso al volo un treno alla Bankside Station
e, nel pomeriggio, era discesa alla stazione ferroviaria di Abingdon.
Ancora mezz’ora, poi aveva riabbracciato suo fratello Dorian jr. Era
l’11 ottobre 1942.
220
CAPITOLO VENTOTTESIMO
Dopo quella notte allucinante, Nicholas aveva trascorso giorni
di intenso travaglio. Si sentiva come un uomo che ha perso tutto: l’amore, l’onore, la considerazione di se stesso, la fiducia nei suoi simili.
Il tradimento di Misty lo aveva svuotato di ogni interesse per la vita.
Si tormentò per due giorni di seguito, poi i morsi della coscienza lo
spinsero a liberarsi di quel peso. Perciò, la mattina del 13 ottobre
(1942) si presentò al capitano di vascello Dennis Shoeffer, nella “sala
rilevamento sommergibili”, e gli confessò tutto quanto era accaduto.
Shoeffer spalancò gli occhi, fulminato. Poi, chinò il capo per
riflettere, infine gli disse, con sguardo dolente più che severo:
“Ritiratevi nella vostra stanza agli arresti e attendete i miei ordini”
Seppe che, immediatamente, Shoeffer aveva chiesto
all’Ammiragliato l’invio di un ufficiale per dargli il cambio e si era
recato a riferire i fatti al suo superiore diretto, il contrammiraglio
Thomas Jackson, capo delle operazioni. Il giorno dopo, una squadra di
tecnici delle trasmissioni aveva proceduto ad un’accurata “bonifica”
della centrale ed era riuscita ad individuare la microspia sistemata da
Misty. Nicholas era rimasto nella propria camera in preda ad una completa atonia, rassegnato a tutto.
La mattina del 15 ottobre, la porta si aprì e comparve il contrammiraglio Jackson seguito da due ufficiali, fra i quali Shoeffer.
Lo guardò indignato:
“Sapevate, signor Blackwell, che era stata sistemata una microspia di
ascolto nella centrale?”
“No, non lo sapevo, ve lo assicuro.” balbettò Nicholas allibito mentre
un lungo brivido gli attraversava la schiena.
“Avete procurato danni incalcolabili al nostro paese.”
“Vi giuro, sir, lo ignoravo del tutto”
“Vi giustificherete di fronte ad una corte marziale. Perciò, vi dichiaro
in arresto. Sarete tradotto alle carceri della “fortezza”. Seguite il drappello che vi attende fuori.”
Così, cominciò, per Nicholas, un lungo calvario di stringenti
interrogatori. Lui ripeté più volte la propria versione dei fatti. Ma nes221
suno gli credette. Il procuratore militare gli rinfacciò più volte di aver
agito in complicità con la spia Misty ma non riuscì a raccogliere prove
di questa sua convinzione.
Una settimana dopo, venne rinviato a giudizio con l’accusa di
“Aiuto al nemico”. Il 10 novembre (1942), comparve di fronte alla corte
marziale nominata dall’Ammiragliato. Aveva rinunciato a farsi difendere da un avvocato. Era un uomo distrutto, arresosi al suo avverso destino. Il tribunale, perciò, aveva nominato un difensore d’ufficio che si era
battuto volenterosamente per sostenere la sua buona fede. Il 20 novembre, a conclusione del dibattimento, il procuratore pronunciò la sua arringa accusatoria e chiese la condanna a morte dell’imputato, previa rimozione del grado, considerandolo un complice della spia chiamata Misty.
Ma le prove da lui prodotte erano poco consistenti. Non fu difficile, perciò, all’avvocato difensore sostenere che la volontarietà non era comprovata e presentare Nicholas sotto una luce diversa: quella di un uomo
che aveva trasgredito ad alcune norme regolamentari perché accecato
dall’amore ma che non voleva assolutamente tradire il suo paese. La
corte marziale credette alla tesi della difesa ma non poté fare a meno di
considerare il pesante bilancio di navi e di vite umane perdute per effetto della trasgressione dell’imputato. Perciò, il 25 novembre (1942) lo
condannò a due anni e sei mesi di reclusione, previa rimozione dal
grado, per “violazione dei doveri inerenti a speciali servizi”. Il 10 dicembre, Nicholas, ridotto ormai ad un cencio umano, fu rimosso dal suo
grado e retrocesso al rango di semplice marinaio, di fronte alle truppe
schierate nel cortile del vecchio Ammiragliato. Al termine, prima di
essere tradotto nel carcere militare, fu abbracciato dallo zio James che lo
aveva sorretto e incoraggiato durante tutta la durata del processo. Era
stato per lui l’unico e solidale appoggio e conforto in quel disastroso
momento della sua vita. Tutti gli altri, superiori, pari grado e inferiori, lo
avevano abbandonato. Inizialmente, fu rinchiuso nelle “Waterloo
Barracks”, le caserme costruite nel 1845 per i fucilieri reali nei pressi
della torre di Londra.
Il capitano di vascello Dennis Shoeffer, comandante della base,
che si era fidato di lui, fu ritenuto negligente nella sua doverosa azione di
vigilanza disciplinare e venne punito con 30 giorni di arresti di fortezza.
222
CAPITOLO VENTINOVESIMO
Wilhelm attraversò nottetempo la Manica a bordo di un motopeschereccio, sbarcò a Calais e, con un auto della Wehrmacht, raggiunse l’aeroporto militare di Lilla. Sorvolò poi il Belgio e la
Germania a bordo di un trimotore Junker 52 e atterrò a Berlino. Si recò
subito al comando dell’Abwehr, in Tirpitz-Ufer, e fu ricevuto dall’ammiraglio Canaris che lo ringraziò del lavoro svolto per la sua agenzia
e gli rivolse un augurio per il suo nuovo incarico. Negli uffici del
comando, salutò anche alcuni suoi colleghi. Uno di essi gli consegnò
una lettera giunta durante la sua assenza, indirizzatagli da un certo
Colonnello SS Erwin Zeitzler. Era stata aperta – gli ricordò - dietro sua
autorizzazione, concessa da Londra. Il testo riguardava la morte di
Atlanta come, a suo tempo, sintetizzato in un dispaccio cifrato trasmessogli dall’Abwehr a Londra, nell’aprile 1942. Wilhelm ne lesse il
contenuto integrale e apprese alcuni dettagli sugli ultimi giorni di vita
della sfortunata madre di Segreta. Conservò quella lettera con la speranza di fargliela avere, appena possibile.
Raggiunse subito dopo l’Oberkommando der Heeres (OKH),
cioè il Comando supremo dell’esercito, che aveva sede nello stesso
complesso del Ministero della guerra, nel quartiere di Tiergarten. Là,
ricevette il dispaccio della sua destinazione alla 16ª Panzerdivision,
impegnata in Ucraina. Il giorno dopo, si imbarcò su un quadrimotore
Focke-Wulf Condor, che faceva parte del ponte aereo esistente fra la
madre patria ed il fronte orientale. Sorvolò immense coltivazioni di
grano e di girasoli, riquadri coltivati a cocomeri e pomodori, corsi
d’acqua fiancheggiati da pioppi e aceri, villaggi dall’aspetto squallido
che facevano parte di fattorie collettive, cavalli al pascolo, paesini del
territorio dei cosacchi del Don, composti di casette imbiancate, con i
tetti di paglia, circondati da ciliegi e da salici. Ma, soprattutto, lo
impressionò la vista della steppa, arida, sconfinata, polverosa, che si
spingeva paurosamente a perdita d’occhio. E non poté fare a meno di
pensare: quegli sconosciuti territori appartenevano in effetti a genti
pacifiche e inconsapevoli che avevano subito una proditoria aggressione da parte della Germania ed ora piangevano sulla loro esistenza
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sconvolta. Questo pensiero lo disturbava, turbava la sua concezione
della guerra, intesa come un’ offerta eroica di sé alla patria per la salvaguardia della sua integrità e sicurezza. Aveva subito lo stesso disagio
morale anche quando, il 1° settembre 1939, gli era stato ordinato di
entrare prepotentemente con il suo carro Skoda nel territorio polacco
ed aveva assistito alle sistematiche prevaricazioni del soldato tedesco
ai danni delle popolazioni inermi. Di quel tempo lontano, gli era rimasto nell’animo lo sguardo piangente di donne e bambini terrorizzati. E,
in seguito, aveva anche udito, da fonti non ufficiali, il resoconto di tutti
i soprusi, i massacri, le deportazioni, gli stermini perpetrati da uomini
che si battevano sotto la sua stessa bandiera. No, non era questa la
guerra cavalleresca e leale che aveva sognato di combattere ai tempi
dell’accademia, quale eredità dello spirito eroico degli antichi cavalieri teutonici.
Inoltre, nella pur breve sosta a Berlino, i suoi colleghi gli avevano aperto gli occhi ponendolo di fronte alla cruda realtà. Per la prima
volta, si era reso conto che, nelle file della Wehrmacht, aveva preso
forma un sentimento di ostilità verso Hitler e la sua cerchia di gerarchi
nazisti. Ciò nonostante, mentre volava su quell’aereo, sentiva ancora
salde le sue idealità: il dovere di sacrificarsi per una più grande
Germania e di condividere con i suoi uomini i rischi della battaglia. Lo
sospingeva, inoltre, un’intima, profonda aspirazione al sacrificio supremo e alla gloria. Questo sentimento andava oltre il nazionalsocialismo,
riguardava la patria! Perciò, era imperativa in lui l’assoluta volontà di
rispettare sempre le regole dell’onore e del diritto umanitario.
Atterrò all’aeroporto militare di Gumrak, ad ovest di
Stalingrado, il 24 settembre 1942, lo stesso giorno in cui, come seppe
più tardi, Hitler, esasperato per i mancati successi nel Caucaso ed a
Stalingrado, aveva esonerato il generale Halder dalla carica di capo di
stato maggiore generale dell’Esercito. Si trovava nel centro del territorio di competenza della 6ª Armata, comandata dal generale Friedrich
von Paulus, forte di circa 3 milioni di uomini. Era la formazione più
numerosa di tutto l’esercito tedesco. Di essa, faceva parte la 16ª
Panzerdivision che aveva il posto di comando a nord della città di
Stalingrado, presso il villaggio di Rjnok.
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Wilhelm riuscì a trovare una “Kubelwagen” (camionetta) che si
stava recando in quella località e, due ore dopo, si presentò al comandante della grande unità, il leggendario generale conte Hyazinth
Strachwitz, noto come il “cavaliere carrista”. Famoso cavalleggero
della 1ª Guerra Mondiale, a quarantanove anni aveva ancora i baffi
nerissimi e l’aspetto audace e fascinoso di un attore del cinema. Era
considerato un comandante fortunato, dotato di uno straordinario fiuto
del pericolo. Wilhelm fu assegnato al comando della 1ª compagnia
carri del 2° reggimento corazzato, con l’ordine di raggiungere, l’indomani, il suo reparto, impegnato nell’assedio di Stalingrado. Dopo aver
lasciato la tenda comando, incontrò, nella mensa ufficiali, numerosi
compagni d’armi. Era euforico: dopo un servizio che non amava, ritornava a respirare l’atmosfera stimolante di un reparto. Per lui, l’assegnazione alla 16ª Panzerdivision era come un rientro a casa dato che,
nel 1939-1940, aveva, nei suoi ranghi, partecipato all’invasione della
Polonia. La 16ª Panzerdivision manteneva ancora le tradizioni del vecchio esercito prussiano. Il suo secondo reggimento carri, al quale
Wilhelm era stato assegnato, era il diretto discendente del più antico
reggimento di cavalleria della Prussia. Nella sue file, militavano ancora, come un tempo, prevalentemente giovani ufficiali appartenenti alla
nobiltà. Quella particolare composizione aveva favorito l’insorgere e il
rinsaldarsi di vincoli di solidarietà di casta fra gli ufficiali e, di pari
passo, il diffondersi di un linguaggio molto libero fra loro. Così,
Wilhelm udì aperte critiche all’operato di Hitler, che veniva considerato un dilettante nell’impiego della macchina militare. Secondo quei
detrattori, il Führer aveva esautorato i generali dello stato maggiore
che erano i veri professionisti della guerra. La destituzione di Halder,
avvenuta quello stesso giorno, segnava, secondo loro, la fine dello
stato maggiore generale inteso come organo pianificatore indipendente. Era quello l’ultimo atto di un processo iniziato da tempo.
Quella sera, la sua prima sul fronte russo, Wilhelm si intrattenne a conversare con un ufficiale al quale era legato da un’antica amicizia. Si trattava del maggiore conte Hans von List, già suo parigrado
e promosso prima di lui. Quell’uomo aveva un viso risoluto, occhi
mobilissimi e modi sbrigativi. Ogni tanto, sbottava in qualche battuta
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di spirito molto pesante. Rivelava, così parve a Wilhelm, una cinica
abitudine agli orrori della battaglia. Sembrava che avesse superato
ormai ogni remora, ogni impaccio di fronte al dolore. Al suo confronto, Wilhelm si sentiva un neofita. Von List si accorse che non conosceva gli antefatti e la storia dell’operazione “Barbarossa” e cercò di
riassumergli la situazione.
“Secondo il pensiero di Hitler, gli obiettivi della guerra alla Russia”
cominciò a dire mentre sorseggiava una bottiglietta di birra “Sono
quelli di sottomettere gli slavi, che i nazisti considerano dei “sottouomini”, e difendere, con un attacco preventivo, l’Europa dal balcanismo. Oggi, dopo aver vissuto questi quindici mesi di campagna, non
riesco a capire come sia stato possibile ad Hitler coinvolgere tutta la
Nazione in una simile follia senza che almeno qualcuno di noi abbia
protestato. Forse, perché eravamo tutti dominati dall’euforia di far
parte di una terribile, irresistibile macchina di guerra. D’altra parte, il
Führer era certo che, una volta impadronitosi della ricchezza agricola
dell’Ucraina e dei giacimenti di petrolio del Caucaso, l’invincibilità
del Reich sarebbe stata garantita. Era anche convinto che l’Unione
Sovietica fosse un’impalcatura marcia, destinata a crollare rapidamente, specie dopo le terrificanti epurazioni ordinate da Stalin. Quella
valutazione era purtroppo sbagliata. Ed è stato anche un grande errore
aver sottovalutato il soldato semplice dell’Armata Rossa, un uomo che
non si arrende mai, in nome della Grande Madre Russia, e che ha fornito finora prova di uno straordinario coraggio e di un sovrumano spirito di sacrificio”
Wilhelm era avido di altre notizie. E, così, von List continuò a
parlare mentre, fuori, la sera avanzava ed era percorsa, a tratti, dal brivido di improvvise, lontane raffiche di mitragliatrice.
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CAPITOLO TRENTESIMO
(Intermezzo dell’autore)
Secondo quel racconto, dunque, la Wehrmacht aveva riunito
per l’attacco alla Russia (operazione Barbarossa) la maggiore forza di
invasione mai vista, con 3350 carri armati KV e Mark III, 7000 cannoni e più di 2000 aerei. L’avanzata era stata, in principio, travolgente. Già un mese più tardi, l’Armata Rossa aveva perso 3500 carri
armati, 6000 aerei e circa 2 milioni di uomini. Eppure, dopo aver
conquistato enormi territori, il soldato tedesco si era accorto che
l’orizzonte si estendeva in avanti senza limiti. All’inizio, aveva fronteggiato 200 divisioni. Un anno dopo, come vedremo, esse erano
aumentate a 360. A causa dell’accanita resistenza incontrata, a metà
luglio (1941), la Wehrmacht aveva perso ormai il suo slancio iniziale
mentre stava emergendo una sua carenza di fondo: in effetti, essa non
disponeva delle forze necessarie per sferrare contemporaneamente
offensive in direzioni diverse. L’irresponsabilità di Hitler era stata
quella di lanciare un’invasione gigantesca senza mettere l’economia e
l’industria tedesca in grado di sostenere quello sforzo immane. Inoltre,
le perdite erano state più gravi del previsto e così pure il deterioramento dei veicoli, a causa del terriccio portato da nuvole di polvere.
La fanteria e gli equipaggi dei carri apparivano spossati. La manutenzione dei cingoli e dei cannoni in quelle condizioni si presentava
pesantissima. Le divisioni corazzate erano condizionate dalla mancanza di pezzi di ricambio e di carri di riserva. In settembre, comunque, le forze tedesche avevano conquistato Kiev, al termine di una
battaglia definita da Hitler “la più grande della storia mondiale”. Ma,
il suo capo di SM generale, il generale Halder, aveva espresso un’opinione opposta: secondo lui si era trattato del più grave errore strategico della campagna orientale, dato che tutte le energie dovevano
essere concentrate contro Mosca. In ottobre, al cadere della prima
neve, le strade si erano trasformate in fanghiglia. Dopo la conquista
di Borodino e di Kalinin, le truppe tedesche avevano avanzato ancora
ed erano arrivate a 100 Km da Mosca. Ma, in novembre, la disperata
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resistenza russa le aveva costrette a rallentare e, infine, a fermarsi del
tutto. Intanto, il freddo era diventato tormentoso. A dicembre, le armate del Reich apparivano esauste, dopo ripetuti combattimenti. I soldati soffrivano terribilmente e i casi di congelamento stavano superando lo stesso numero dei feriti. Il vestiario e l’equipaggiamento si
erano rivelati inadatti al tremendo inverno russo. I generali tedeschi
pensavano che anche l’Armata Rossa non fosse più in grado di combattere in quelle condizioni. Invece, i russi stavano preparando un
contrattacco con le divisioni siberiane e con altri reparti provenienti
dall’Estremo Oriente, con 1700 carri T-34 dotati di cingoli adatti alla
neve e al ghiaccio, e con nuovi aerei.
Ma, a lato delle operazioni militari, si stavano verificando, nei
territori occupati, raccapriccianti esecuzioni di migliaia di civili bolscevichi ed ebrei. Ovunque, si moltiplicavano, nei villaggi, i saccheggi delle riserve alimentari provocando fame, stenti e decessi per inedia fra le popolazioni, al sopraggiungere dell’inverno. L’esercito
dimostrava tolleranza e appoggio alla dottrina “razziale” che i nazisti applicavano in dispregio al diritto internazionale. Questo fenomeno stava trasformando la Wehrmacht in una vera e propria organizzazione criminale. Inoltre, contrariamente a tutte le regole di guerra, la
resa non garantiva la vita ai soldati dell’Armata Rossa. In genere, i
feriti non ricevevano cure mediche e quelli che non potevano marciare venivano fucilati sul posto. Anche nei campi di concentramento,
minime risultavano le possibilità di sopravvivenza. Le condizioni dei
prigionieri, infatti, apparivano terrificanti. Il disprezzo di Stalin per il
diritto internazionale aveva fornito ad Hitler il pretesto di una guerra
di annientamento consistente, fra l’altro, in ripetuti massacri. Molti
villaggi erano stati rasi al suolo e migliaia di civili, specie se ebrei,
fucilati. Anche i russi adottavano, del resto, quei sistemi disumani
uccidendo i prigionieri ed i feriti catturati negli ospedali da campo.
Nella primavera del 1942, con il miglioramento delle condizioni atmosferiche, il quartier generale del Führer aveva emanato
ordini per una nuova campagna che doveva portare alla “vittoria
finale”. In giugno, la 2ª Armata e la 4ªPanzerarmee, anziché attaccare Mosca come si aspettava Stalin, avevano sfondato il fronte a
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Voronez. Nello stesso tempo, la 6ª Armata, superato il Donetz, si era
lanciata verso est. Nel corso di quell’estate esaltante, il morale del
soldato tedesco era risalito cancellando l’incubo dell’inverno
precedente. Tuttavia, nell’euforia di quel momento, generali e soldati
avevano commesso l’errore di dimenticare le enormi distanze della
Russia, la mutevolezza delle condizioni atmosferiche, il pessimo stato
delle strade, l’immensità, soprattutto, della steppa, che “sembrava un
oceano capace di inghiottire l’invasore”.
L’avanzata proseguiva ma poi, in modo ricorrente, arrivava
il momento cruciale in cui veniva a mancare il carburante. Ciò nonostante, nel luglio, era stata conquistata Rostov e, in agosto, Kalac.
Oltre quella località, la steppa si estendeva fino a Stalingrado.
Il 21 agosto, le divisioni del Reich avevano attraversato il Don. Al terribile freddo invernale, si erano intanto contrapposte temperature africane. Nello stesso tempo, scarseggiava l’acqua perché durante la ritirata, l’Armata Rossa avvelenava i pozzi. I suoi nemici, inoltre distruggevano gli edifici delle fattorie collettive trascinandosi dietro trattori
e bestiame, gettavano petrolio sul grano e lanciavano bombe al fosforo per dar fuoco alla steppa. Man mano che i tedeschi avanzavano, la
resistenza dei Russi diventava sempre più accanita e disperata. La
popolazione era stata mobilitata in tutta la regione. La maggior parte
delle batterie contraeree era servita da giovani donne volontarie.
Mentre le colonne corazzate tedesche si dirigevano su Stalingrado, la
Luftwaffe provvedeva a bombardare la città con ondate di Junker 88 e
Heinkel 111 colpendo indiscriminatamente obiettivi militari e quartieri di abitazione. Il 23 agosto 1942, gli aerei tedeschi avevano sganciato su Stalingrado 1000 tonnellate di bombe nel corso di 1600 missioni. La città modello, la città simbolo, languidamente distesa sulla
riva occidentale del Volga, con i suoi edifici bianchi ed i suoi giardini
squadrati, era diventata un luogo fumante e spettrale.
L’attacco da terra veniva guidato dalla 16ª Panzerdivision che formava la “testa d’ariete”. Si erano anche avvicinati a Stalingrado tutto il
XIV PanzerKorps, il XLVIII PanzerKorps e il IV corpo di fanteria.
Quelle ed altre forze della 6ª Armata di von Paulus cingevano ormai
d’assedio la città ma la resistenza russa, attuata con truppe di terra,
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con l’artiglieria e con bombardieri e caccia, si mostrava estremamente accanita. Tuttavia, il cerchio si era stretto ulteriormente nei
giorni successivi, sotto rovesci di pioggia, ed avevano avuto inizio i
combattimenti per la conquista delle fabbriche dislocate alla periferia dell’abitato. La città era ormai un uniforme cumulo di macerie e,
ovunque, la battaglia divampava furibonda. Il freddo cominciava a
diventare intenso. I cecchini russi imperversavano.
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231
CAPITOLO TRENTUNESIMO
Il mattino dopo, a bordo di una camionetta, Wilhelm raggiunse
la cinta settentrionale della zona industriale di Stalingrado. Percorse
quei cinque chilometri sotto un violento fuoco di artiglieria. Il paesaggio di fronte a lui era desolante: non vide che macerie, edifici sventrati, muri diroccati, buche profonde nel terreno. Impiegò circa un’ora per
presentarsi al comandante del 2° reggimento corazzato e, più distante,
a quello del battaglione, suoi superiori gerarchici. Erano sistemati con
i rispettivi comandi, nei locali scantinati di edifici diroccati, esposti al
tiro continuo dei cannoni russi. Finalmente, verso le nove del mattino,
arrivò al comando della 1ª compagnia carri che era retta interinalmente da un tenente. In quel momento, l’ufficiale si trovava all’interno del
suo carro Mark III, allineato, con gli altri “panzer” della compagnia, di
fronte alla zona industriale. Wilhelm entrò nella cantina sotterranea
che fungeva da comando di compagnia. Vide un radiotelegrafista, due
infermieri, un motociclista, due sottufficiali. In un locale attiguo, erano
accatastati degli scatoloni di razioni a secco e di medicinali. In un terzo
locale comunicante, seduti per terra ed addossati al muro, sostavano gli
equipaggi dei carri smontanti dal turno. Alcuni uomini stavano rifocillandosi, altri si lavavano alla meglio versando l’acqua da alcune taniche poste in un angolo. Quei locali erano sporchi, pieni di polvere e di
detriti. Dall’esterno, proveniva un odore nauseabondo di putrefazione
misto a puzzo di bruciato. I colpi che partivano dai panzer scuotevano
violentemente i muri con un frastuono assordante e facevano cadere
calcinacci. Tutto, in quel luogo e fuori, evocava la morte e la desolazione di una vita senza speranza. Per qualche attimo, Wilhelm si sentì
depresso. Più che un alato combattente del grande Reich, gli sembrò di
essere simile ad un topo di fogna. Ma respinse con forza quello stato
d’animo perdente e ordinò di radunare il personale. Un sergente maggiore gli presentò quei soldati che avevano barbe incolte, uniformi
sporche, occhi infossati e smorti. Wilhelm si presentò loro come il
nuovo comandante della compagnia. Rievocò, con parole rapide e
taglienti, la gloriosa avanzata che la 16ª Panzerdivision aveva compiuto in 15 mesi, dalla frontiera a Stalingrado, percorrendo circa 3000 km.
233
Esaltò il sacrificio dei caduti e aggiunse che era imperativo rendersi
degni di loro. Chiese di tenere in ordine quella sede di fortuna del
comando e di curare la propria persona. Infine, fece sapere a tutti che
non avrebbe tollerato atti contrari al senso umanitario e al rispetto dei
feriti, dei prigionieri, delle donne, dei vecchi e dei bambini. Concluse
dicendo che si attendeva dai suoi uomini un comportamento onorevole, degno delle tradizioni della 16ª Panzerdivision e corrispondente alla
fiducia in loro riposta dalla Nazione. Detto questo, ordinò via radio al
tenente von Mutius, comandante interinale, di venire a presentarsi.
Era un giovane alto, magro e pallido, con gli occhi arrossati, ma scattante. Wilhelm si intrattenne con lui alcuni minuti per essere informato della situazione. Poi, si fece accompagnare al carro del comandante che era al centro dello schieramento di trenta panzer, su un fronte di
circa trecento metri, dirimpetto alla fabbrica dei trattori e alla fabbrica d’armi “Barricata” ormai semidistrutta. Un vento impetuoso proveniente dalla steppa portava mulinelli di polvere e, insieme, quel persistente tanfo di marciume. Faceva freddo. Salì a bordo e, preso il
microfono dell’apparato radio, salutò gli altri equipaggi ripetendo
anche a loro parole di incitamento.
Dietro ai carri, vi erano i fucilieri della 389ª divisione di fanteria. Dopo un’ora di cannoneggiamento, Wilhelm, d’intesa col comandante della fanteria, ordinò alle sue unità di avanzare. I carri si mossero e furono seguiti dai “landser” (fanti). La resistenza dei russi era coriacea e diversificata. Dall’alto, giungevano, infatti, colpi di cannone
sparati da postazioni collocate al di là del fiume, sulla riva orientale del
Volga. Inoltre, aerei Yak e Polikarpov U-2 sorvolavano con volo planato la zona abbassandosi per mitragliare i fucilieri e per lanciare spezzoni incendiari sui carri. Di fronte, nell’ombra degli edifici in rovina,
vi erano postazioni mobili di armi controcarro. Infine, giungevano
micidiali i colpi dei cecchini russi. L’avanzata della formazione tedesca avveniva stentatamente, fra scoppi continui, nuvole di fumo,
divampare di incendi, crolli di muri, lamenti di feriti.
All’imbrunire, l’avanzata si fermò e la battaglia ebbe una sosta.
Wilhelm scese dal carro e constatò i progressi ottenuti: non più di cento
metri dal punto di partenza, che erano però costati centinaia di morti.
234
Avrebbe potuto avere il cambio ma preferì rimanere nel carro e alternare turni di vedetta dalla torretta con brevi riposi, avvicendandosi con
von Mutius. Lo stesso fecero i fucilieri per presidiare la posizione.
Uniti ai carristi, si disposero in pattuglie di due uomini formando una
catena protettiva. Il buio era fitto e gravido di minacce, il freddo intenso anche se ancora non nevicava. Torme di topi mordevano alle gambe
i soldati. Eserciti di pidocchi li tormentavano. Anche per questo, nessuno dormì, quella notte, più di pochi momenti popolati di fantasmi.
Vi fu poi un’incursione notturna di U-2 che suscitò uno scambio di
colpi e riaprì la battaglia.
***
Wilhelm si accorse, fin dall’inizio, che i suoi uomini erano
esausti fisicamente e moralmente e desiderosi soltanto di ritornarsene
a casa. Cercò di ricaricarli di entusiasmo e si preoccupò di migliorare
le loro condizioni di vita nelle ore di riposo. Fra l’altro, adibì alcuni
“Hiwi” (abbreviazione di Hilfswillige, cioè prigionieri di guerra
sovietici volontari arruolati dai campi per sopperire alle carenze di
manodopera) per tenere pulito il posto di comando, volta per volta
scelto man mano che il reparto avanzava. Nelle saltuarie pause della
battaglia, prese l’abitudine di recarsi, almeno una volta al giorno, nel
posto di comando per stringere la mano a tutti gli uomini smontati dal
turno, che vi sostavano, e infondere loro coraggio. Si concesse soltanto delle brevi interruzioni per lavarsi alla meglio e per sbarbarsi.
Desiderava, infatti, apparire sempre in ordine. Il resto del tempo,
restava in vedetta, nel suo carro, rifocillandosi e riposando a turno col
suo vice. In quei brevi momenti di riposo, mentre la stanchezza ottenebrava il suo cervello, come da un fondale di nebbia emergevano visi
e figure che avevano movenze da acquario: suo padre, sua madre, sua
sorella Oana, Segreta e anche i commilitoni morti nella battaglia. Gli
sorridevano, gli tendevano le mani, gli parlavano con parole che lui
non udiva. Fino a che, un rombo, un’esplosione non lo riportavano
bruscamente alla realtà.
Nei giorni seguenti, l’attacco alla conquista della zona indu235
striale continuò. Ogni mattina, lo sforzo offensivo era preceduto da un
bombardamento in picchiata degli Stuka. Da parte loro, i russi avevano aumentato il numero degli ostacoli anticarro e dei campi minati. La
fabbrica dei trattori, la fabbrica d’armi “Barricata”, l’impianto chimico “Lazur” e l’acciaieria “Ottobre rosso” furono investiti dall’urto
della 389ª divisione di fanteria, della 16ª Panzerdivision al completo,
della 24ª Panzerdivision e di una divisione di cacciatori austriaci.
Martedì 29 settembre, fu assalito il villaggio di Orlovka, posto a nordovest di Stalingrado. Il 30 settembre, il XIV Panzerkorps, (di cui la 16ª
Panzerdivision faceva parte, insieme a due divisioni di fanteria motorizzata) distrusse 72 carri sovietici. In quello stesso giorno, Hitler, parlando allo Sportpalast di Berlino, affermò che nessun reparto tedesco
si sarebbe spostato dalla sua posizione sul Volga. Era un impegno con
la Germania e con la storia, pensò Wilhelm, che presupponeva una
resistenza estrema di fronte ai furibondi contrattacchi sovietici. Ma, da
quanto aveva personalmente constatato e sentito, le condizioni della
macchina militare del Reich non erano rassicuranti. Mancavano, infatti, i rifornimenti, i generali non sopportavano più che Hitler si improvvisasse comandante supremo delle Forze Armate senza averne alcuna
competenza specifica, i soldati erano stanchi e depressi: Wilhelm si era
personalmente reso conto, ad esempio, che i fucilieri inviati dalle retrovie di rinforzo, per sopperire alle perdite subite, erano privi di entusiasmo, recalcitranti alla disciplina, intenzionati a defilarsi.
Trascorreva molte ore nel carro osservando incessantemente il
fronte avanti a sé col binocolo. Vi era, tutt’intorno, una cortina di fumo
che rendeva nebuloso ed enigmatico il globo del sole e, nel contempo,
paurosi e spettrali gli scheletri dei grandi edifici industriali semidistrutti. Della guerra, aveva soltanto conosciuto tre anni prima, la
galoppante invasione della Polonia, l’esaltante sensazione della vittoria. Era stata quella una campagna conforme ad un più appropriato
impiego del carro armato. La giovinezza erompente e l’amor di patria
lo avevano portato ad udire le trombe del trionfo. Dall’alto della torretta, si era sentito alato, cinto di gloria. Ora, però, si trovava di fronte ad una situazione diversa. La guerra gli appariva in tutto il suo orrore, capace soltanto di abbassare l’uomo ai suoi istinti più bestiali, di
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distruggere le sue opere proficue, di sconvolgere i rapporti umani, di
provocare povertà, sofferenza, morte. Wilhelm si sentiva scosso,
cominciava a dubitare.
La battaglia per la conquista delle fabbriche continuava, intanto, furibonda, basata su devastanti attacchi e contrattacchi. Il complesso industriale “Ottobre Rosso” e la fabbrica delle armi “Barricata”
erano stati trasformati in fortezze micidiali come quella di Verdun,
nella prima guerra mondiale. Quelle possenti strutture avevano assunto un aspetto mostruoso, con le travi d’acciaio sparse in disordine, le
ciminiere perforate e deformate in più punti, le rotaie contorte, i vagoni merci caoticamente ammassati, le strutture murarie e di acciaio
ridotte a semplici scheletri, il tutto fra enormi cumuli di macerie.
Agli inizi di novembre, l’inverno aggredì i contendenti con
tutto il suo paralizzante effetto. Le condizioni di vita dei soldati divennero disumane. Si continuò, tuttavia, a combattere, sotto un uragano
di fuoco. Wilhelm e gli altri comandanti dei reparti corazzati ebbero
addirittura l’ordine di andare all’attacco appiedati per sgominare gli
ultimi punti di resistenza, dato che i carri non potevano più procedere
fra gli enormi cumuli di macerie. I carristi erano indignati ma dovettero obbedire. Non solo i piloti ma anche gli addetti ai servizi logistici andarono a rimpiazzare le perdite dei reparti di fanteria. Dopo alcuni giorni, la 1ª compagnia comandata da Wilhelm era letteralmente
decimata. Lui continuò ad andare all’attacco con la forza della disperazione ma si trovò, ogni volta, contro un muro di fuoco. Infine, il 15
novembre, fu improvvisamente coinvolto nello scoppio di una mina
che lo travolse insieme ad altri due suoi uomini. Fu sollevato in aria
e ricadde riverso su un mucchio di detriti. Avvertì un tremendo dolore al fianco e alla gamba destra. Gli sembrava che bruciassero. Ciò
nonostante, tentò di soccorrere gli altri feriti. Ma, con dolore, vide che
giacevano scomposti, ormai senza vita, con gli occhi spalancati. Ebbe
la forza di rivolgersi a un sergente maggiore che si era chinato su di
lui per soccorrerlo. Lo allontanò con un braccio ordinandogli di prendere il comando. Si rannicchiò poi su se stesso in preda ad una lancinante sofferenza mentre il sangue sgorgava copiosamente dalle sue
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ferite. La vista si velò e le figure d’intorno furono avvolte in una nebbia crescente. Gli sembrò che tutto si allontanasse da lui. Dopo qualche attimo, perse la cognizione delle cose e precipitò in una completa,
liberatoria incoscienza.
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CAPITOLO TRENTADUESIMO
Rientrata ad Abingdon, Segreta ebbe la sensazione di essersi
svegliata da un lungo, folle sogno e si impose, più con la volontà che
con il cuore, di ritornare in se stessa. Per qualche giorno, si sentì rinnovata, restituita a ciò che lei era un tempo, una ragazza cioè di buona
famiglia e di buoni sentimenti. Ma quella desiderata resurrezione durò
soltanto qualche giorno. Poi, i fantasmi del passato ritornarono. Per sua
natura, era portata a proiettarsi entusiasticamente nel futuro ed a concepire sempre nuovi progetti. Ma l’esperienza di Berlino e di Londra,
soprattutto la consapevolezza di aver provocato la morte di molti
uomini, l’aggredirono e l’obbligarono a voltarsi indietro ed a ricordare. Conobbe per la prima volta il rimorso e si rese conto che il ricordo
del male commesso può diventare insopportabile. Le sue notti ritornarono ad essere agitate. Di giorno, cercava la compagnia di Dorian jr,
che si avviava a compiere 16 anni e frequentava la 2ª classe degli studi
superiori, nella vicina Oxford. Era un giovane alto, sottile, vivace, di
sentimenti ancora candidi, che sapeva rendersi subito simpatico. Nelle
ore libere, conversavano a lungo e, insieme, sfogliavano gli albums
delle fotografie di famiglia. Lì accomunava il persistente vuoto che
suscitava in loro la mancanza dei genitori. Quell’assenza provocava in
tutti e due un senso di insicurezza. Quando Segreta si trovava a Berlino
e a Londra, Dorian aveva fortunatamente beneficiato delle visite dei
nonni materni che, generalmente, scendevano da Edimburgo due volte
l’anno. Altrimenti, faceva riferimento ad Harrison Miller, il consigliere anziano della Fondazione “Norman Heston” istituita da suo padre
per i soccorsi all’Africa. Di statura e corporatura minuta, Miller aveva
raggiunto i 70 anni e, nella sua vita, si era sempre comportato con
onore e probità. Con i suoi capelli candidi e con la sua sempre impeccabile signorilità, incarnava l’immagine di un gentiluomo vecchio
stampo. Dopo la partenza, purtroppo senza ritorno, di Atlanta, la “holding” degli Heston era stata da lui diretta con scrupolo, competenza e,
soprattutto, con onestà e disinteresse. Correttamente, aveva chiesto a
Segreta, dopo il suo ritorno, ed a Dorian jr, se era loro intenzione di
assumere congiuntamente, alla maggiore età, la presidenza.
239
Ma Segreta aveva risposto che preferiva lasciare quel compito al fratello. Sperava ardentemente, infatti, di unire il suo destino a quello di
Wilhelm, in Germania, a guerra finita.
Il ricordo di Wilhelm, del resto, era incessante. Cominciò a torturarsi per il suo silenzio, a chiedersi dove si trovasse, a desiderare di
ritrovarlo. Ma, più tardi, a quel tormento si aggiunse un’altra spina che
aveva nel cuore. Che fine aveva fatto Nicholas? Non sapeva cosa gli
fosse accaduto. Non riusciva a rendersi conto perché, dopo averla
lasciata come morta in quella galleria, non avesse tentato di soccorrerla. Si chiedeva anche perché, dopo che lei era sparita, non fosse andato a cercarla in libreria e non avesse fatto arrestare i suoi complici. Il
suo comportamento era inspiegabile. Scartò l’idea di chiedere notizie
all’Ammiragliato perché era troppo pericoloso. Decise allora di rivolgersi allo zio James. Gli telefonò ad Abertillery, una sera del gennaio
1943, e lo trovò molto riservato, cauto e poco disponibile. Alle sue
insistenze, rispose freddamente proponendole di incontrarsi perché
non riteneva opportuno discutere di quel problema per telefono.
Concordarono perciò di vedersi a Londra, nella sede di una società di
cui era consigliere, in Albert Embankment Street. Lei era molto incerta se andare o meno. Temeva che lo zio James la facesse arrestare.
Dopo una notte inquieta, decise alla fine di tentare. Fu ricevuta da lui
in un salottino di una sede societaria sontuosa e marmorea. Si accorse
che era pallido ed emaciato. La sua accoglienza fu molto diversa da
quella che le aveva riservato ad Abertillery, nella scorsa estate. Avvertì
subito su di lei il suo sguardo indagatore e diffidente. Rispondendo alle
domande che lei gli aveva posto per telefono, James le disse con
impaccio:
“Nicholas ha avuto dei problemi con l’Ammiragliato. Sembra che abbia
trasgredito ad alcune norme regolamentari. Perciò è stato trasferito.”
“Mi dispiace, non sapevo.”
“Non lo sapete? Ma non siete la sua fidanzata?”
“No. Ci siamo soltanto incontrati alcune volte.”
“Non siete andata a trovarlo nella base dove lavorava?”
“Sì, in parlatorio.”
240
“Mi riferivo alla sua stanza. Avete pernottato con lui?”
“Certamente no!”
James la fissò con insistenza, come se volesse penetrare nella
sua mente. Da parte sua, Segreta cercò di giocare d’astuzia.
“Perché mi avete posto questa domanda?” gli chiese “Non è forse vietato ai civili di entrare nella zona militare?”
“Sì, effettivamente.”
“Posso sapere dove è stato trasferito? Vorrei scrivergli o andarlo a trovare.”
James continuava a fissarla con i suoi occhi scuri pieni di interrogativi.
“Voi Misty, frequentavate mio nipote. Ma, per quanto mi ha confidato,
lui non sapeva niente di voi. Chi siete realmente? Qual è il vostro
cognome? Dove abitate? Dove risiede la vostra famiglia?”
Evidentemente, zio James non si fidava di lei. Ma Segreta non
voleva rivelare la sua vera identità. Aveva troppa paura di essere arrestata. Inventò allora un cognome ed un recapito fittizi. James ne prese nota.
“Controllerò” disse a mezza voce.
“Quindi, non avete alcuna fiducia in me?”
“Nicholas è incorso in un grosso inconveniente. E temo che voi ne sappiate qualcosa.”
“Perciò, non volete rivelarmi la sua attuale sede di servizio?”
“No, almeno fino a quando non avrò chiarito la vostra posizione.
Sappiate, comunque, che Nicholas non è più a Londra.”
Si alzò per farle comprendere che il colloquio era finito. Ma
Segreta aveva il cuore stretto. Presentiva che Nicholas era certamente
incorso in qualche grave provvedimento. Ed era stata lei a spingerlo
alla rovina. Si alzò, a sua volta, ma, prima di andarsene, volle porgli
altre domande.
“Vedo che mi trattate con sospetto. Perché? Cosa vi ha detto di me
Nicholas?”
“Non mi ha detto molto, in verità, né ha fatto il vostro nome. Quindi,
non so niente di preciso.”
La sua risposta non convinse Segreta. Forse, zio James sapeva di più su quella vicenda, ma non tutto, perché, altrimenti, l’avrebbe accusata apertamente. Tuttavia, lo salutò senza risentimento. Il suo
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modo di comportarsi era, in fondo, comprensibile. Dal suo sguardo
vagante, che talvolta si perdeva nel vuoto, dalla mestizia che traspariva dalla sua voce, le era sembrato che celasse una sua segreta
sofferenza.
Uscì dal palazzo rattristata. Non amava certo Nicholas ma provava per lui affetto, simpatia e tenerezza. Quel suo modo di essere
umile e sottomesso l’aveva ogni volta commossa. Era un’anima candida in un mondo di lupi. Chissà dove si trovava in quel momento!
***
Una notte, alla fine di febbraio del 1943, tutti i fantasmi che
erano dentro di lei presero forma. Mentre dormiva nella sua stanza, fu
svegliata da uno scricchiolio. Accese la luce del comodino e sobbalzò: seduto sulla sponda del letto, vide Armstrong. La stava fissando
con uno sguardo che voleva essere ironico ma che, in realtà, era sinistro perché la sua bocca scopriva tutti i suoi denti bianchissimi formando un ghigno.
“Cosa fate qui?” gli chiese, furiosa.
“Avevo nostalgia di te, bambina!” rispose lui con voce canzonatoria
“e, perciò, sono venuto a trovarti.”
“Come siete entrato?”
“Dal buco della serratura.”
“Non scherzate! Andatevene! Devo dormire.”
“Fai pure. Dormirò con te, poi parleremo.”
“Siete impazzito. Vi farò sistemare in una camera degli ospiti.
Parleremo domani.”
Lui rise, poi l’afferrò brutalmente per un braccio.
“Smettila di fare la gran dama e darti delle arie. Sei sparita senza salutare ed ora non mi chiedi neppure che fine ha fatto la mia organizzazione?”
“Sono affari vostri.”
“Anche tuoi, perché basterebbe una mia parola per mandarti alla
forca.”
Segreta sentì un brivido attraversarle la schiena.
242
“Compirei un atto di giustizia. Sappi che i servizi segreti inglesi sono
giunti fino a noi sulla base delle tracce che tu hai lasciato.”
“Non mentite! Gli inglesi saranno arrivati al massimo in Webber
Street, non oltre, dato che voi avete trasferito la centrale.”
“Infatti, sono arrivati alla libreria ma poi, con indizi raccolti sul posto,
ci hanno rintracciati. Io sono stato arrestato e la mia organizzazione è
stata scompaginata.”
“Come mai, allora, siete qui?”
“Sono qui per torcerti il collo. Per causa tua, il mio lavoro di anni è
andato perduto”
“A che vale prendervela con me? Se volete, potete nascondervi qui.”
“Devo partire per la Germania. Ma, prima, voglio dormire una notte
con te. È la mia condizione per non denunciarti.”
“State partendo per la Germania?”
“Sì, ho una nuova missione da compiere laggiù.”
“Perché non mi portate con voi?”
“Mi piacerebbe. Ma cosa vorresti fare nel Reich?”
“Vorrei trovare l’uomo che amo, Wilhelm. Da quando è partito, non so
più niente di lui.”
“Quando smetterai di pensare a quel tedesco? Sarà al fronte, ormai. Ti
avrà già dimenticata.”
“La sua lontananza è una tortura per me.”
“Non so che farmene di una donna che pensa ad un altro.”
“Portatemi da lui e mi avrete per un’intera notte.”
“Quando?”
“Quando saremo a destinazione.”
“Non se ne parla. Ti voglio subito.”
“No, perché dopo ve ne andreste lasciandomi qui. Fidatevi, manterrò
la promessa.”
“Supponendo che tu riesca a trovare Wilhelm, dopo non potresti restare con lui. Ti ripeto: è un soldato e il suo posto è al fronte. Là non ci
sarà posto per te. Come vivrai, allora, da sola?”
“Cercherò un lavoro.”
“Lavora per me, se vuoi.”
“Per la Germania, volete dire? No, ne ho avuto abbastanza.”
243
“E se ti proponessi di lavorare per l’Inghilterra?”
“E, come?”
“Fidati.”
“E sia. Abbiamo un reciproco impegno.”
“Io ne ho due con te, bambina. Trovare il tuo soldato e affidarti un
lavoro: voglio due notti.”
“Siete proprio un mercante arabo.”
“E voglio anche un anticipo.”
Fece per baciarla. Ma Segreta gli sfuggì ridendo. Lui la inseguì
per la stanza. Lei afferrò dal suo scrittoio un affilato tagliacarte, poi
uscì di corsa nel corridoio. Armstrong la inseguì mostrando i denti con
un sorriso feroce, la raggiunse e l’avvinghiò vigorosamente. Insieme
caddero a terra. Lei cercò di colpirlo col tagliacarte più per intimorirlo
che per fargli veramente male. Ma lui, con un colpo al braccio, fece
volare lontano quella specie di arma. Poi, la baciò avidamente.
Segreta per un attimo ricambiò il bacio, poi cominciò a tempestarlo di colpi al viso cercando di allontanarlo. Allora, lui si staccò
dalla sua bocca e si alzò. Segreta ne approfittò per fare un salto con
l’intenzione di recuperare quell’arma. Armstrong rise ancora ghignando e, prima che lei arrivasse a raccogliere il tagliacarte, la ghermì fulmineamente, la spinse ancora sul pavimento e le andò addosso sovrastandola col suo peso. Poi, la fissò con i suoi occhi perforanti come se
volesse trapassarla. A terra, lei aveva le palpebre spalancate, sospese
fra paura e divertimento, quasi paralizzata dal fuoco che emanava da
quello sguardo. E, improvvisamente, Armstrong si attaccò alle sue labbra e al suo collo baciandola avidamente, poi scostò la camicia da notte
e lambì uno dei suoi seni. Ma, anziché smaniare dal piacere, lei ebbe
la forza di premere le proprie braccia contro le sue spalle per allontanarlo.
“No, non così!” ansimò “Non rovinate tutto! Aspettate che mi conceda a voi spontaneamente.”
Lui si fermò, le lanciò uno sguardo fremente, poi si chinò a
baciarla ancora perché, evidentemente, il suo desiderio era stato esasperato. Ma lei ripeté:
“Vi prego.”
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Allora, lui si ritirò a fatica. Ma i suoi sensi, evidentemente, bruciavano.
“Ho bisogno di tuffarmi nell’acqua fredda.” sibilò.
“Venite.”
Lo condusse in un appartamento per ospiti, sullo stesso piano,
fino ad una sontuosa stanza da bagno. Senza tanti riguardi, lui si spogliò fino a rimanere nudo, ed entrò nel vano doccia. Aprì il rubinetto
dell’acqua fredda e smorzò i suoi bollori.
Segreta si ritirò nella sua stanza e fece altrettanto. Poi, con l’accappatoio addosso, lasciò la stanza da bagno e trovò Armstrong seduto sul suo letto, già vestito.
“Nessuna donna era riuscita a farmi bollire così!” sbuffò
“Bugiardo!.... No, non avvicinatevi ancora.”
“Va bene. Me ne vado. Ti avvertirò quando sarà giunto il momento di
partire.”
“Quanto tempo passerà?”
“Non posso ancora prevederlo. Forse, due o tre settimane.”
“Vi aspetterò.-”
“Tieniti pronta. Arriverò senza preavviso. E non fare scherzi.
Ricordati: se mancherai ai patti, ti farò tirare il collo.”
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CAPITOLO TRENTATREESIMO
Il 3 dicembre 1942, la contessa Julia Stauffenberg, nella sua
qualità di capo infermiera della Croce Rossa, stava passando da un
letto all’altro dell’ospedale da campo tedesco di Pitomnik, ad ovest
di Stalingrado, assistendo ed incoraggiando i soldati sofferenti nei
lettini. L’ospedale era stato sistemato, fin dall’occupazione del paese
(estate 1942), in un edificio scolastico. Ma, con l’inizio della battaglia di Stalingrado (23 agosto 1942), l’afflusso dei feriti era andato
velocemente crescendo rendendo, in breve, caotica la situazione e
problematiche le possibilità di cura dei ricoverati. Le attrezzature
non erano infatti assolutamente idonee per gli interventi più impegnativi, i medicinali e il personale medico ed infermieristico scarseggiavano. Poi, dopo l’offensiva “Uranus” scatenata dal generale
russo Zukov il 19 novembre (1942), con il successivo sfondamento
del fronte e l’accerchiamento della 6ª Armata tedesca, la situazione
era addirittura precipitata.
Il sovraffollamento aveva saturato ogni locale dell’ospedale
tanto che i degenti dovevano ormai condividere il letto. I medici curavano soltanto i feriti in grado, dopo qualche breve cura, di essere
rimandati ai reparti. Quelli, invece, che versavano in gravi condizioni
venivano lasciati morire data l’impossibilità di salvarli. La scarsità
delle bende rendeva necessaria la fasciatura degli arti fratturati, con la
carta. I decessi per shock post operatorio erano aumentati in misura
notevole e così pure i casi di difterite. L’assalto dei pidocchi aveva
raggiunto proporzioni imponenti. Per l’assoluta mancanza di posti, i
nuovi feriti non venivano neppure accettati e morivano fuori, all’aperto. Nel fango gelato del cortile, sostavano infatti, autocarri ancora
pieni di feriti che non potevano essere accolti. Nessuno offriva loro da
mangiare o da bere. Poco a poco, molti di loro morivano. I medici e
gli assistenti avevano troppo da fare e preferivano ignorare le grida di
aiuto dei sopravvissuti. Anche gli arti fratturati venivano curati sbrigativamente. I chirurghi, muniti di seghe, eseguivano infatti rapide
amputazioni utilizzando una razione ridotta di etere. Gli arti amputati
venivano poi gettati nei secchi. La camera operatoria sembrava un
247
mattatoio: il pavimento era inondato di sangue. Un odore disgustoso
di putrefazione ammorbava l’aria in tutto l’edificio.
Julia era esausta. Quel giorno, doveva occuparsi anche dei letti
dei settori normalmente visitati da un’altra infermiera che si era ammalata. Avvenne così che, avvicinandosi ad una brandina, scorse, con un
palpito, un viso noto, quello di un giovane biondo che si lamentava
impercettibilmente. Non era del tutto certa della sua identità perché
aveva gli occhi socchiusi. Tuttavia, lo chiamò ugualmente:
“Wilhelm!”
Il giovane aprì lentamente gli occhi di un colore azzurro abbacinante. Erano velati ed esprimevano un’intensa sofferenza. Sì, era
proprio lui, era Wilhelm Klausing, il suo compagno di giochi e poi il
suo primo incantamento d’amore, a 16 anni. Anche Wilhelm parve
riconoscerla. Le sorrise debolmente.
“Come stai ?” gli chiese.
“Ho un dolore terribile alla gamba e al fianco destro.”
“Fammi vedere.”
Lo scoprì e constatò che la gamba destra e il bacino erano completamente fasciati. Ma, evidentemente, le ferite sanguinavano perché
le bende avevano assunto un colore rossastro.
“Perdo sangue da quando sono stato colpito” aggiunse Wilhelm, ansimando.
“Quando è successo?”
“Il 15 novembre.”
“Sono passati quasi venti giorni ! Nessuno ti ha operato?”
“Non ricordo bene. Ero sfinito. Ho dormito molto. So soltanto che mi
sento molto debole.”
Muovendosi con rapidità, Julia andò a consultare la scheda di
Wilhelm appesa ai piedi del letto.
“Qui è scritto che sei arrivato il 26 novembre.” esclamò.
“È possibile. Mi sembra che, in un primo tempo, mi abbiano portato a
Gumrak.”
“Aspettami. Vado a chiamare un dottore.”
E si allontanò. Aveva una statura ed una corporatura da bambola che, unite ad un’ andatura rapida, molto femminile, le conferi248
vano un aspetto delizioso. Quale capo infermiera volontaria appartenente alla nobiltà, era molto rispettata nell’ambiente ospedaliero.
Perciò, dopo alcuni minuti, riuscì a trascinare al letto di Wilhelm il
direttore dell’ospedale, capitano medico Richard Speer. Il nuovo
venuto fece togliere le bende da un’assistente, esaminò le ferite, poi
toccò la gamba e il bacino con ambedue le mani provocando ripetuti
lamenti di Wilhelm.
“Cosa vi è successo, capitano?”
“Sono saltato su una mina.”
“La gamba e il bacino sono fratturati in più parti. Inoltre, vi è un’infezione in atto. Bisogna amputare.”
Julia insorse furente.
“Siete impazzito?” gridò senza tanti complimenti, fulminandolo con
gli occhi dilatati.
“Cosa dovrei fare?” rispose quello flemmaticamente, senza risentirsi.
Conosceva bene il suo temperamento.
“Quest’ufficiale deve essere operato subito!”
“E come? Qui non possiamo farlo.”
“Allora, lo farò evacuare dal “Kessel””
“Non è ancora arrivato nessun ordine di evacuazione dei feriti. Siamo
tutti inchiodati qui.”
“Troverò il modo di farlo trasportare in aereo in un vero ospedale.
Intanto, vi prego, fategli sistemare le fratture.”
“Perché vi preme tanto quest’uomo?”
“È un mio amico d’infanzia. Mi è molto caro.”
“Gli disinfetterò le ferite e poi gli immobilizzerò la gamba e il bacino.
Ma se volete salvarlo dalla cancrena, dovrete far presto.”
Dopo aver assistito il direttore dell’ospedale nel lavoro di fissazione di una stecca alla gamba di Wilhelm, Julia si ritirò nella stanza che condivideva con altre due infermiere. Era sfinita. Si tolse la cuffia e liberò una corona di capelli crespi e nerissimi che le gonfiavano
le tempie. Era bella Julia, di una bellezza inquietante: aveva un viso
ovale con zigomi alti, lineamenti regali, labbra sottili. Gli occhi erano
a forma di mandorla, oscillanti fra il verde e il marrone, con una luce
249
indefinibile che rendeva di difficile lettura il fondo della sua personalità. Esprimevano certo volontà e determinazione ma anche sentimenti più profondi, nascosti, difficili a rivelarsi: un enigma in un viso di
porcellana, candido e luminoso. Una persona, comunque, che imponeva rispetto e soggezione. Eppure, in quel luogo di sofferenza e di
morte, che emanava putridume e lamenti, era come un fiore. Di fronte ai soldati ricoverati, la sua espressione si addolciva. Effondeva
intorno grazia e gentilezza nell’assistere i feriti ed i moribondi. Alcuni
le dicevano:
“Sei un raggio di sole”, altri le prendevano le mani. Detergeva le loro
ferite, asciugava i loro volti imperlati dalla febbre, elogiava sorrisi e
parole carezzevoli, baciava le loro fronti come un angelo del mattino.
Quel pomeriggio, mentre si lavava nella sua stanza, ripensò
all’improvviso riapparire di Wilhelm nella sua vita. In quell’inferno,
mentre la 6ª Armata si dibatteva disperatamente nel “Kessel” (la sacca
in cui era stata circondata), forse quel ritorno rappresentava un segno
del destino. Ma non poteva perder tempo. Doveva farlo trasferire
immediatamente, per via aerea, in un ospedale debitamente attrezzato,
nell’arduo tentativo di salvarlo dall’infezione già in atto e di operare
adeguatamente la gamba e il bacino fratturati.
Pensò di rivolgersi al generale Hube, comandante del XIV
Panzerkorps, che conosceva bene. Sapeva che il suo quartier generale
si trovava presso Gumrak, a circa 15 km. Chiese allora al direttore dell’ospedale di usare un telefono campale e riuscì a collegarsi con lui. Gli
rappresentò rapidamente la situazione e Hube le suggerì di trasportare
subito il ferito all’aeroporto di Gumrak. Lui avrebbe pensato al resto.
Julia ritornò dal capitano medico e gli chiese di autorizzare il trasferimento. Richard Speer sorrise.
“Volete salvarlo a tutti i costi, vero?”
“Sì, è un magnifico ragazzo. Voglio che viva.”
“Questo è stato per lui, evidentemente, un giorno fortunato. Se riuscirete a trovare un mezzo, accompagnatelo subito a Gumrak.”
“Ritornerò al massimo domattina.”
“È inutile. Restate con lui e, se vi sarà possibile, lasciate il Kessel”
“Non volete che ritorni?”
250
“È imminente l’ordine di evacuare le infermiere per evitare che cadano in mano ai russi. Tanto vale che andiate.”
“E voi? Come farete a mandare avanti l’ospedale?”
“L’ospedale è allo sfascio: un luogo da incubo. Non è possibile ormai
arginare questa marea di morenti che ci investe ogni giorno sempre più
numerosa. Sembra che ripiegheremo su Gumrak. Spero che avvenga al
più presto.”
“Mi dispiace lasciarvi.”
“Non pensateci. Andate.”
Si abbracciarono. Poi, Julia si affrettò. Con l’aiuto di due assistenti di sanità, fece adagiare Wilhelm su una barella che venne caricata su uno degli autocarri a disposizione dell’ospedale. Il pomeriggio
si stava inoltrando verso la sera e la luce era già declinata. Julia aveva
mangiato in tutto il giorno solo una patata bollita. Ne aveva portata
un’altra per darla a Wilhelm. La distribuzione dei viveri aveva subito,
infatti, una drastica riduzione. Si era addirittura diffusa, da alcuni
giorni, l’abitudine, nei reparti, di distribuire razioni, sia pur ridotte,
solo alle truppe combattenti, tralasciando i feriti. Così, oltre ai morti
per le ferite e per il freddo insopportabile, si erano aggiunti decessi a
centinaia per inedia.
Il viaggio iniziò mentre il vicino aeroporto di Pitomnik si trovava sotto un violento bombardamento. La strada sconnessa aveva il
fondo interamente ghiacciato. Ai lati, giacevano mucchi di cadaveri di
sventurati che, sebbene feriti, non avevano trovato un riparo ed erano
morti di freddo o dissanguati o di fame. Un vento impetuoso sollevava mulinelli di neve. Il suo ululato ghiacciava l’anima. Il camion procedeva lentamente spesso slittando. L’autista era un “Hiwi”, un prigioniero di guerra russo. Julia temeva che potesse disertare da un
momento all’altro per ricongiungersi con i suoi connazionali che premevano ai lati del Kessel.
Nella incipiente notte, il bagliore e il rombo possente dei colpi
di artiglieria li circondavano da ogni lato riempiendo il cielo di spettrali bagliori. Era il segno che il fronte si stendeva intorno a loro come
un cerchio che si andava stringendo. La 6ª Armata, quella colossale
organizzazione della Wehrmacht, imperniata su 20 divisioni, su reggi251
menti di mortai e di artiglieria, su una flotta aerea, era ridotta a brandelli, arroccata a difesa fra il Don e il Volga. La furia degli attacchi
sovietici, il freddo spaventevole, la fame e la mancanza di munizioni e di carburante conseguenti alle difficoltà dei rifornimenti aerei,
avevano decimato le unità e annichilito il loro morale. D’altra parte,
fin dallo sfondamento russo di novembre, l’ordine perentorio, impartito da Hitler a von Paulus, di non abbandonare le posizioni, aveva
impedito qualsiasi contrattacco rivolto ad aprirsi un varco ed a ripiegare verso ovest.
Dopo oltre un’ora, Julia e Wilhelm raggiunsero finalmente
l’aeroporto. Lei fece fermare l’autocarro davanti alla palazzina comando e chiese del comandante. Le risposero che stava riposando. Ma Julia
non era una donna timida o remissiva. Sapeva imporsi con la forza del
suo carattere. Perciò, alzò la voce e chiese perentoriamente che lo svegliassero perché doveva riferirgli un ordine del generale Hube. Pochi
minuti dopo, l’ufficiale apparve, con l’uniforme in disordine e lo
sguardo stralunato. Era un maggiore della Luftwaffe. Julia gli spiegò
con poche parole la situazione e lui l’autorizzò a far sbarcare il ferito
dal cassone e deporlo nella vicina infermeria. Aggiunse che il generale Hube sarebbe giunto in aeroporto l’indomani mattina. Julia riposò su
una sedia accanto a Wilhelm, che aveva la febbre alta. Evidentemente,
l’infezione strava progredendo. Tuttavia, ebbe la lucidità di chiederle:
“Dove mi stai portando?”
“In un ospedale dove possano operarti e debellare l’infezione.”
Dopo qualche minuto, lui chiese ancora:
“È caduta Stalingrado?”
“Stalingrado non è caduta e, in più, la 6ª Armata è stata accerchiata.”
Lui tacque. Forse pensava ai suoi uomini. Poco dopo, la guardò con apprensione e le pose una nuova domanda:
“ Ma dove siamo?”
“All’aeroporto di Gumrak, nella sacca.”
“E dove andremo?”
“Me lo dirà il generale Hube. Ha promesso di aiutarmi.”
“Quindi, devo lasciare il mio reparto ed i miei uomini al loro destino?”
La sua voce era un soffio. Parlava stentatamente.
252
“Tu sei ferito e devi essere curato.” rispose lei con decisione “Quanto
al tuo reparto, non è detto che l’accerchiamento non possa essere rotto
con dei contrattacchi. Ho sentito che è in arrivo una potente panzerdivision dalla Bretagna. Possiamo ancora sperare.”
Wilhelm non parlò più e Julia si assopì sulla sedia. All’alba, fu
svegliata da un aviere che le annunciò l’imminente arrivo del generale
Hube. Alcuni minuti dopo, la porta dell’infermeria venne spalancata di
colpo e, sulla soglia, apparve un ufficiale alto e atletico, dal viso squadrato e possente, che aveva, al posto di un braccio, un arto artificiale
con una mano infilata in un guanto nero. Julia lo conosceva bene: era
Hans Hube, già comandante della 16ª Panzerdivision e, dall’agosto
1942, del XIV Panzerkorps, uomo brillante e dalle idee chiare. La salutò confidenzialmente, avanzò verso di lei e, quando furono di fronte, si
chinò ad abbracciarla. Julia gli prospettò la situazione di Wilhelm,
aggiunse che era un suo caro amico d’infanzia e gli chiese di aiutarla
ad accompagnarlo in un ospedale.
“Non posso ordinare un volo apposito per un uomo solo” rispose Hube
“ma ho la possibilità di ospitarvi sul mio Focke-Wulf Condor. Sono,
infatti, in partenza per andare a rapporto presso il comando del Gruppo
di armate del Don a Novocerkassk. Una volta là, vi aiuterò a proseguire il viaggio.”
Mezz’ora dopo, decollarono e, un’ora più tardi, atterrarono
all’aeroporto di quella località. Appena sceso dall’aereo, il generale
Hube impartì disposizioni affinché Julia e Wilhelm proseguissero con
un’ambulanza per la vicina Rostov. Prima di avviarsi, Julia lo abbracciò affettuosamente.
“Come potrò ringraziarti, Hans?”
“Promettimi di invitarmi a cena nella tua villa di Potsdam, a guerra
finita.”
“Cosa farai nel frattempo?”
“Per ora, vado a rapporto dal feldmaresciallo von Manstein che ha il
suo quartier generale su un treno. Troverò finalmente un luogo riscaldato. Poi, ritornerò fra i miei uomini, nel Kessel”
“Avrete la possibilità di sfondare il fronte?”
“Hitler non lo vuole. Dobbiamo rimanere là, anzitutto per tenere
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immobilizzate sette armate sovietiche e poi per dimostrare al mondo
che la Wehrmacht non indietreggia mai.”
“Ti ammiro moltissimo, Hans, e spero di rivederti a Potsdam.”
Lo abbracciò ancora, poi salì sull’autoambulanza. Il giorno
dopo, nell’ospedale principale di Rostov, Wilhelm venne operato e poi
sottoposto ad un trattamento antitetanico intensivo. L’ospedale funzionava sotto il controllo del corpo di sanità militare tedesco e della
Gestapo. Perciò, Julia riuscì ad avere una camera con due letti, in modo
da sistemarsi accanto a lui.
254
CAPITOLO TRENTAQUATTRESIMO
Quando si risvegliò dall’anestesia, Wilhelm vide curvo su di sé
il volto delicato di Julia. Gli mancava il respiro, i suoni intorno a lui
erano cavernosi e le immagini sfocate, ma quel viso che sembrava una
miniatura lo rinfrancò. Lei gli sorrise e gli sussurrò:
“Ben tornato alla vita, Wilhelm!” Lui le prese la mano e si perse nel
suo sguardo. Da quel momento, e per tutti i giorni che seguirono, Julia
fu il suo angelo protettore. Si muoveva silenziosamente nella camera
d’ospedale che era stata loro assegnata, dirigendo le infermiere e le
inservienti. Esigeva da loro pulizia, ordine, puntualità. Chiedeva poi ai
medici notizie sul decorso delle condizioni del malato. La notte, dormiva nel letto accanto ma, spesso, accorreva ad ogni suo lamento.
Aveva trasformato quella camera di ospedale in una alcova. Infatti, non
lesinava a Wilhelm carezze, tenerezze e fuggevoli baci sulla fronte,
sulle guance e sulle labbra. La sua presenza gradevole, da gattina in
privato e da vigile capo infermiera in pubblico, confortava Wilhelm e
lo distoglieva, durante il giorno, dai suoi pensieri.
Ma poi giungeva la notte: la trascorreva vagando nei ricordi.
Anzitutto, pensava con angoscia ai suoi uomini che combattevano,
affamati, nel gelo della steppa, mentre lui si stava godendo il tepore
della stufa e i pranzi caldi dell’ospedale: si sentiva profondamente in
colpa verso di loro. Ricordava anche, Segreta, i suoi slanci, la sua vitalità, quel suo indomito amore. Adesso, le premure, le carezze, gli
sguardi, i sorrisi di Julia erano come lacci deliziosi che stavano tessendo una ragnatela rosa intorno a lui e lo avrebbero portato fatalmente a dimenticare Segreta. Anche questo, suscitava in lui sensi di colpa.
Si rammaricava di non averle mai fatto dono di una solare espansività,
di slanci, di parole e di confessioni d’amore. Il suo carattere chiuso,
austero, granitico, gli pesava, quando le era vicino, come una corazza
che lo stringeva in modo insopportabile impedendogli di essere giovane, pazzo, impetuoso. Non era riuscito perciò a realizzare con lei una
comunione veramente completa, che dalla carne passasse al cuore.
Durante le interminabili ore del giorno, rifletteva anche sulla
situazione che lo circondava. Aveva percepito, nell’ambiente militare,
255
due opposte tendenze: da un lato, l’avvenuta nazificazione di una parte
della Wehrmacht, con il conseguente ricorso di molti reparti ai metodi
crudeli, inumani predicati dalla dottrina di Hitler; e, dall’altro, l’affiorare di sintomi di insofferenza da parte di singoli militari e di molti
comandanti. Vi erano dei nomi che venivano sussurrati: il generale
Ludwig Beck, l’ammiraglio Wilhelm Canaris, il generale Fritz Halder,
il generale Kart von Hammerstein, il generale Hanning von Tresckow,
il tenente colonnello Claus von Stauffenberg e tanti altri. Aveva anche
sentito parlare, in circoli molto riservati, di alcuni complotti orditi contro la persona di Hitler, purtroppo falliti o non portati a compimento,
dal 1938 in poi.
Già dieci giorni dopo l’operazione, riuscì ad alzarsi ed a camminare con l’uso delle stampelle. Julia aveva intanto stretto conoscenza col maggiore tedesco che comandava l’ospedale, un bavarese
rubicondo, faceto, quasi calvo. Si tratteneva a conversare con lui e,
quando rientrava in camera, riferiva a Wilhelm le notizie apprese.
Seppero così che, il 12 dicembre (1942), i tedeschi avevano dato inizio ad una offensiva denominata “tempesta d’inverno” per rompere
l’accerchiamento. Ne erano seguiti furiosi combattimenti che si erano
protratti per nove giorni senza però giungere a risultati rilevanti per le
sorti della 6ª Armata.
Giunsero altre sconfortanti notizie: nella seconda metà di
dicembre, Hitler aveva respinto la proposta formulata dal comandante del Gruppo di armate del Don, quella di scatenare l’operazione
“Rombo di tuono” per salvare i 290 mila sopravvissuti della 6ª
Armata. Era la conferma che l’esercito tedesco aveva un solo padrone: Hitler. L’accondiscendenza ai nazionalsocialisti mostrata fin dal
1933 dalla maggior parte degli ufficiali superiori aveva purtroppo privato la Wehrmacht della sua indipendenza e di qualsiasi capacità di
opposizione politica.
Man mano, Julia raccolse altre notizie: il ponte aereo attivato
per rifornire la 6ª Armata aveva rivelato le sue insufficienze. Era
emerso, fin dal principio, che mancava la possibilità di effettuare i 300
voli al giorno necessari per ripristinare la capacità di combattimento
di quella Grande Unità. Seppe inoltre che il generale Hube era stato
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chiamato a rapporto da Hitler, a fine dicembre, e gli aveva parlato
molto chiaramente. Fra l’altro, lo aveva consigliato di porre fine alla
guerra contro la Russia e, infine, gli aveva suggerito, ma senza esito,
di cedere il comando supremo dell’esercito ad un generale, in modo
di non essere personalmente coinvolto nella ormai inevitabile disfatta
della 6ª Armata.
Il 12 gennaio, giunse la notizia che i russi, 48 ore prima, avevano sferrato una nuova furibonda offensiva denominata “Kalzò”
(duello). Qualche giorno dopo, Wilhelm, proprio mentre gli stavano
rimuovendo il gesso, apprese con dolore che la sua gloriosa 16ª
Panzerdivision era stata travolta. Ancora qualche altro giorno e si
seppe che l’aeroporto di Pitomnik ed il relativo ospedale da campo
erano stati abbandonati.
Parlando con Julia, Wilhelm manifestò il suo proposito di rientrare al reparto approfittando di uno dei voli di rifornimento. Ma lei
gli rispose vivacemente che sarebbe stata una pazzia. Fece subito
intervenire il primario dell’ospedale il quale gli disse che, nelle sue
condizioni, sarebbe stato solo di impaccio ad un reparto impiegato in
guerra. E gli prescrisse due mesi di convalescenza. Quando se ne fu
andato, Julia gli chiese:
“Non ti sembra paradossale che sia stato proprio un russo a rimetterti
in piedi? Sei venuto fin qui per distruggere il suo paese e uccidere i
suoi figli e lui invece ti ha fatto del bene. Non sembra una beffa?”
“Sì, lo è. Per questo, ogni volta che parlo con lui o con gli altri medici
o infermieri di questo ospedale, mi sento maledettamente a disagio.”
“Volevi vivere un’avventura gloriosa ma ti sei soltanto unito ad una
banda di usurpatori.”
Wilhelm non rispose e abbassò il capo, pensieroso. Quando era
giovanissimo, aveva cominciato ad adorare Hitler come se fosse un
idolo. Ma, ora, non trovava argomenti per difenderlo.
“Hai mai sentito parlare della resistenza tedesca?” proseguì Julia
sottovoce.
Lui le rivolse uno sguardo sorpreso.
“Una resistenza tedesca? Che cosa intendi?”
“Mi riferisco ad un movimento occulto di opinione che comprende alti
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ufficiali, funzionari statali, giuristi, intellettuali, letterati, diplomatici e
perfino pastori protestanti.”
“Ho fatto parte del servizio di informazione militare. Avrei dovuto sentirne parlare.”
“Di quale ramo ti occupavi?”
“Del controspionaggio.”
“Vedi? Lavoravi in ben altro settore. Eppure, te lo assicuro, un movimento di resistenza ad Hitler ed al nazismo esiste almeno dal 1938 ed
il tuo stesso capo, l’ammiraglio Canaris, ne fa parte. E proprio al 1938
risale il primo tentativo di attentato ad Hitler, che non fu portato a compimento soltanto perché la situazione politica ebbe un imprevisto sviluppo. Negli anni seguenti, vi furono altri tentativi ma circostanze fortuite ne impedirono il successo. Dopo il nostro ritorno in Germania, ti
illustrerò il quadro completo del movimento.”
“Vuoi ritornare in Germania?”
“Certo. Non hai avuto due mesi di convalescenza?”
“Ma tu come farai?”
“Sono stata autorizzata ad uscire dal “Kessel” in quanto donna. Poi,
giungendo qui, ho regolarizzato la mia posizione facendomi assumere
in forza da questo ospedale. Non mi sarà difficile ottenere anch’io,
dalla Croce Rossa, una licenza di convalescenza per i disagi patiti in
Russia.”
“E dove andremo?”
“Dove vorrai.”
“Non so. Non ho voglia di riposarmi. In questo momento difficile per
le sorti della guerra, vorrei rendermi ancora utile alla patria, sentirmi
ancora degno della mia uniforme.”
“Capisco i tuoi sentimenti. Ma devi calmarti. La tua gamba è formata
da tanti pezzi che si stanno faticosamente rinsaldando. Hai ancora
bisogno di stampelle. La guerra si prolungherà per anni e tu ritornerai
presto a dare il tuo contributo.”
Wilhelm si rasserenò.
“Sì, vivrò con questa speranza: ritornare a guidare un carro. Ho saputo che sta per entrare in linea un nuovo formidabile panzer: il “Tigre””
“Sì, devi solo guarire. Io ti sarò vicina”
258
Si avvicinò a lui. Wilhelm era seduto sulla sponda del letto.
Lei gli si mise di fronte, penetrò fra le sua gambe e si curvò a baciarlo. Poi, lo spinse fino a far aderire la sua schiena al materasso e gli si
sdraiò sopra. Lui la guardò: gli piacevano le sue pupille maiolicate
che avevano i riflessi del castagno e dello smeraldo. Ma la loro luce
era impenetrabile. Gli parvero, in effetti, enigmatiche e feline. E,
come tali, nascondevano i suoi sentimenti. Ricambiò il suo bacio e si
sentì avvampare di desiderio. Pensò, in quel momento, che Julia era
una creatura della terra, non del cielo. Non riusciva a percepire la sua
spiritualità ma, al contrario, la sua natura concreta e raziocinante, fatta
di carne e sangue, di intelligenza e senso pratico. Non scorse in lei
passionalità ma una briosa leggerezza. Forse, si disse, voleva vivere
un momento di rievocazione nostalgica, nulla di più. La loro scena
d’amore, comunque, si fermò lì. Ma Julia seppe trarre un vantaggio
dell’emozione di Wilhelm e gli sussurrò con voce modulata:
“Vieni con me a Potsdam ! È una bomboniera luminosa. Vieni, ti piacerà!”
Nei giorni seguenti, si rivelò anche una perfetta organizzatrice.
Avvalendosi delle sue conoscenze, riuscì ad ottenere un passaggio per
loro due su un volo che partiva generalmente da Taganrog. In quella
località, non molto distante da Rostov, aveva sede lo “Stato maggiore
speciale”, retto dal feldmaresciallo Minch, che organizzava il ponte
aereo per la sacca di Stalingrado. Quello stesso comando sovrintendeva anche ai viaggi di trasporto in Germania di militari feriti o convalescenti evacuati dal Kessel.
Con quel volo, Julia e Wilhelm atterrarono in varie località e
giunsero infine a Berlino. Da là, si recarono a Potsdam con un ‘auto
fatta venire appositamente dalla contessa. Era il 29 gennaio 1943.
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CAPITOLO TRENTACINQUESIMO
Dopo essere stato rinchiuso provvisoriamente, per quindici
giorni, nelle camere di sicurezza delle “Waterloo barracks”, le caserme
dei fucilieri reali esistenti presso la torre di Londra, Nicholas aveva
ricevuto il preavviso del suo trasferimento alla destinazione definitiva.
E, il 28 dicembre (1942), era iniziato il suo viaggio verso Fort
Charlotte, la fortezza che dominava il porto di Lerwick, nell’isola di
Mainland, la più grande dell’arcipelago delle Shetland, poste a circa
160 km a nord est della costa settentrionale della Scozia.
Di bocca in bocca, la sua storia era trapelata dai corridoi
dell’Ammiragliato e, attraverso zelanti carcerieri, aveva raggiunto gli
ambienti di Fort Charlotte. Così, al suo arrivo, tutti sapevano dei suoi
mirabolanti ludi amatori con l’affascinante spia Misty, e delle disastrose
conseguenze che quei momenti di effimero piacere avevano prodotto
nella sua vita. Durante l’intera durata del viaggio, era rimasto costantemente ammanettato. Ma i suoi carcerieri non lo avevano trattato male.
E così pure quelli del Forte, dopo il suo arrivo. Il suo aspetto umile,
sottomesso, cadente, non induceva, infatti, ad infierire contro di lui.
Lo stesso direttore del carcere, il capitano dell’esercito James Wren,
rigido e di poche, sbrigative parole, lo aveva trattato senza asprezza.
Gli era stata assegnata una cella che aveva ancora le pareti in roccia
viva risalenti alla costruzione del Forte, avvenuta nel 1655 secondo il
progetto dell’architetto John Mylne. Destinata inizialmente a scopi
militari, la piazzaforte aveva assunto il nome della regina Charlotte, la
consorte di Giorgio III. Incendiata dagli olandesi nel 1672, era stata
poi ricostruita dagli inglesi e, a fine secolo, adibita a prigione.
Nicholas aveva sentito parlare, fin da ragazzo, delle isole
Shetland. Allora gli sembravano proprio collocate in capo al mondo.
Sapeva che sono più di cento e costituiscono l’avamposto più a nord
della costa scozzese, allo stesso parallelo della punta meridionale della
Groenlandia, del Golfo dell’Alaska e della Siberia meridionale. In uno
dei primi giorni di permanenza nel carcere, era stato inviato con altri
detenuti a raccogliere torba per riscaldamento in una località che si trovava a poca distanza dalla costa settentrionale. E, in quell’occasione,
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aveva avuto la possibilità di ammirarne lo splendido scenario naturale.
Perveniva fino a lui il possente fragore delle onde dell’Atlantico.
E, sebbene l’isola fosse spazzata dal vento e dai marosi, non faceva
affatto freddo. Vertiginose scogliere a strapiombo si alternavano a rassicuranti baie appartate. Sulle colline, quasi completamente prive di
alberi, crescevano eriche e ginestre, narcisi e primule. Disseminati sui
pendii, quei fiori creavano un’emozionante contrasto cromatico con
l’azzurro del mare, con il verde delle valli coltivate e con il marrone
delle vaste paludi dove veniva estratta la torba. Dai carcerieri, tutti sottufficiali e graduati dell’esercito, e dagli altri detenuti, Nicholas era
riuscito a sapere che il sottosuolo era costituito da ardesia, arenaria e granito e che il giorno durava 19 ore. Infatti, il sole era fermo vicino all’orizzonte come in un lunghissimo crepuscolo.
Fin dai primi giorni, si era accorto di non essere sprofondato,
come aveva temuto, in una specie di inferno dei vivi. Non si trovava
fra criminali, come in un reclusorio comune, ma fra uomini che, per
una ragione o per l’altra, non avevano retto alla durezza della disciplina
militare o, addirittura, alla crudeltà della guerra. Abbondavano i disertori e coloro che avevano reagito con violenza a qualche superiore tracotante. Vi erano, poi, uomini responsabili di abbandono di posto, di
autolesionismo, di rifiuto di obbedienza, di illeciti amministrativi.
Le pene più gravi riguardavano soltanto pochi militari colpevoli di
spionaggio e due responsabili di omicidio.
Il regime del carcere non era durissimo e non comportava sofferenze fisiche. Tuttavia, sembrava che Nicholas non se ne accorgesse,
immerso com’era in uno stato di profonda vergogna. Soffriva per la
sua dignità vilipesa, per il suo onore perduto ma anche per la delusione amorosa subita. Camminava curvo, parlava a bassa voce, aveva gli
occhi bassi, tollerava tutto supinamente, un insulto, un rimprovero o un
sopruso. Era un uomo annientato che non trovava in sé la forza di reagire né alcun motivo di interesse per la vita. Se ne stava per ore immobile nella sua cella. E, di notte, prorompeva in un pianto prolungato e
lamentoso che, a volte, sembrava un ululato.
Qualche giorno dopo, il direttore lo aveva fatto chiamare. Lui
era entrato nel suo ufficio esitante, vestito della casacca di tela grezza
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verde distribuitagli al momento dell’immatricolazione. Con un gesto
della mano, il capitano Wren lo aveva invitato a sedere. Gli occhi di
Nicholas si erano a fatica levati su di lui. Aveva visto un uomo di
media altezza e corporatura, composto nella sua uniforme. Gli occhi
scuri e severi affioravano da spesse sopracciglia nere. Il viso quadrato
ospitava un grande paio di baffi. Sebbene avesse l’aspetto di un duro,
il suo tratto era apparso a Nicholas umano e civile. Gli aveva premesso che era sua abitudine imbastire un colloquio conoscitivo con ogni
nuovo ospite del Forte. Quindi, si era inoltrato in una serie di domande sui motivi che lo avevano portato fino a quel carcere. Dopo tanto
isolamento, Nicholas desiderava uno sfogo. Perciò, si era lasciato
andare e gli aveva raccontato tutta la sua storia. Wren lo aveva ascoltato impassibile e, alla fine di quella confessione, era rimasto in silenzio guardandolo pensierosamente.
“Ho saputo” gli aveva detto infine, pacatamente, “che la notte piangete.”
“Sì, non so darmi pace. Sono precipitato troppo in basso.”
“Fra tre anni, tutto sarà finito. A quel punto, dovrete ricominciare,
imboccare una strada nuova. Avete problemi economici?”
“No, affatto.”
“Allora, tutto sarà più facile. Quando uscirete, non parlate a nessuno
della vostra disgrazia, non fatevi compiangere. Agite come se nulla
fosse accaduto. In fondo, la gente vuole solo dimenticare.”
“Vi ringrazio di queste parole.”
“Per ora, penso che vi gioverebbe un lavoro, un’occupazione. Vi piacerebbe fare il bibliotecario?”
Il giorno dopo, Nicholas aveva iniziato il suo nuovo lavoro,
nella biblioteca del Forte, che conteneva almeno tremila volumi, molti
dei quali risalenti ai secoli passati. Quell’incarico era, da qualche
mese, vacante. Aveva trovato, quindi, molto arretrato da svolgere. Ma
le parole del direttore e il piacere che gli derivava dal riordino della
raccolta avevano giovato al suo morale. Perciò, quando, nel marzo
1943, era andato a fargli visita lo zio James, Nicholas si sentiva già
più sollevato, sostenuto da una riaffiorante speranza nel domani.
Aveva trovato lo zio James invecchiato non soltanto a causa dei suoi
capelli ormai grigi ma soprattutto per quel suo viso scavato, diventa263
to quasi angoloso. Nicholas considerava suo zio un abile uomo d’affari, guidato da un naturale fiuto speculativo e da un indubbia abilità
organizzativa. Ma, nella vita privata, era un misantropo, un solitario,
un sognatore. E Nicholas, si era spesso chiesto come potessero coesistere, in lui, due anime così diverse, quella dell’affarista freddo e calcolatore e l’altra dell’uomo ricco di interiorità, amante della musica e
della cultura.
Seduti di fronte nel parlatorio, si erano guardati affettuosamente negli occhi. James gli aveva portato i saluti ed i dolci pensieri
di nonna Michelle e Nicholas lo aveva informato in modo rassicurante delle proprie condizioni di vita nel carcere. Poi, zio James gli aveva
detto:
“Due settimane fa, mi sono incontrato con quella ragazza che tu portasti ad Abertillery.”
Nicholas era stato percorso da un lungo brivido. Aveva spalancato gli occhi e si era alzato di scatto in piedi balbettando:
“Misty?”
“Sì, Misty. Ma che cosa hai?”
“La credevo morta!”
“Morta?”
“Mio Dio, è viva!” andava intanto ripetendo Nicholas, infatuato.
“Su calmati! Rimettiti a sedere e spiegami”
Nicholas gli aveva obbedito. Era crollato sulla sedia ma aveva
chinato il capo senza parlare. L’emozione era stata troppo intensa. Ora,
non riusciva nemmeno a pensare.
“A suo tempo, non mi hai dato molte spiegazioni” aveva soggiunto
James “D’altra parte, come sai, non sono stato autorizzato ad assistere
alle udienze del tuo processo. Perciò, se ti è possibile, dimmi tutto
quello che è successo.”
“Sì, è vero: allora, ero paralizzato dal dolore e dalla paura. Ma, adesso, posso farlo.” E, anche a lui aveva descritto quella fatale vicenda
d’amore che lo aveva portato alla rovina.
“Quando Misty è venuta da me, avevo molti dubbi e riserve su di lei”
era stato il commento di James “ma nessuna certezza. Perciò, non ho
potuto farla arrestare.”
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“Meglio così. Nonostante tutto, non sento per lei odio o desiderio di
vendetta.”
“Ma non dimenticare che è una spia e, certamente, a quest’ora, avrà
scelto qualche altra vittima per continuare a far spargere sangue inglese. Ora, ripensandoci, mi rendo conto che avrei dovuto informare la
polizia.”
“Non avevi elementi sufficienti per farlo. Ma ora, dopo tutto quello che
ti ho detto, è diverso. Se dovessi miracolosamente incontrarla, cerca di
sapere dove abita. E informami.”
“No, mi dispiace. Se dovessi rincontrarla, la farò arrestare. E tu potrai
andare a farle visita quando uscirai.”
Prima di andarsene, zio James gli aveva consegnato una
Bibbia.
“Non so quale sia il tuo rapporto con Dio. Ma ti consiglio di leggere
questo libro. Dopo, guarderai la vita in modo diverso.”
“Ho sempre creduto in Dio. Ma, lo ammetto, fino ad un certo punto
della mia vita, non ho pregato molto né sono stato molto osservante.”
“È quello che succede a tanti di noi. Ma poi, col passare degli anni, la
visione del mondo ci appare sempre più deludente. E ci convinciamo
che solo in Lui possiamo trovare conforto”
“È accaduto anche a te?”
“Sì, certo. Mi sono accorto che, nei momenti di paura, di solitudine, di
scoraggiamento, non sapevo fare altro che rivolgermi a Lui. Fino a
che, giorno dopo giorno, quella spinta del cuore è diventata un bisogno, una ricerca di sicurezza, di protezione. Oggi so che Lui è la mia
roccia in cui trovo riparo, il mio scudo, la mia potente salvezza.
Quindi, non avere paura del futuro ma rivolgiti a Lui fiduciosamente”
Andandosene, zio James aveva lasciato Nicholas sconvolto.
La notizia che Misty era viva aveva riaperto le sue ferite.
Tumultuosamente, l’amore per lei era ritornato e aveva nuovamente
stretto il suo cuore in una morsa. Si era ripromesso, appena uscito, di
andarla a cercare, non per punirla e vendicarsi ma per avere ancora da
lei una parola, un gesto, uno sguardo d’amore. Per alcune settimane,
aveva vissuto con quel pulsante proposito, poi, poco a poco, era nuo265
vamente scivolato nell’abulia e nel disinteresse. Così, erano passati i
giorni, le settimane, i mesi, in una sfilata che si portava via la sua giovinezza. Finché, un giorno, aveva sentito il bisogno di liberasi di un
peso che portava con sé e che lo opprimeva. Era andato allora dal cappellano cattolico che affiancava il pastore protestante nella cura delle
anime dei detenuti. Aveva visto un francescano di mezza età con miti
occhi azzurri. Si chiamava padre Saverio. Si era confessato e, da allora, aveva partecipato, ogni domenica, alla celebrazione
dell’Eucarestia. Era anche subentrato in lui il bisogno di pregare ed
aveva cominciato a farlo, prima una volta e poi anche due volte al
giorno. Dopo il lavoro, leggeva qualche passo della Bibbia. E, man
mano, sentiva che l’avvilimento, la disperazione, la sfiducia con cui
era entrato in quel carcere, andavano dissipandosi e che una calma
rassegnazione aveva preso il loro posto.
Nell’estate del 1943, padre Saverio gli aveva chiesto, un
giorno, di assisterlo nella celebrazione della Messa in una chiesetta che sorgeva sulla Ronas Hill, la montagna più alta dell’isola, un massiccio di granito rosso posto a 450 metri di altitudine.
Si erano recati sulla cima con un furgoncino fornito da un commerciante di Lerwick. Il panorama spaziava grandiosamente su
tutta l’isola, che contava allora circa 10 mila abitanti. Sulle pendici, pascolava una grande quantità di pecore che fornivano alle
filature del posto la famosa lana Shetland. Dopo la funzione, mentre padre Saverio si intratteneva con i fedeli, Nicholas aveva raggiunto lo strapiombo. Da là, erano visibili le impressionanti scogliere, i villaggi dei pescatori, le imponenti formazioni di basalto
e di lava erosa, le rocce e le grotte di porfido, in un quadro selvaggio e memorabile. Il sole all’orizzonte irradiava una luce
mistica e inebriante. Nicholas aveva guardato intorno. Gli stormi
gracidanti di rondini e gazze marine erano scomparsi. Il cielo gravava sulla terra con un sovrumano silenzio. Improvvisamente, in
quella vastità senza tempo, aveva sentito incombente la presenza
di Dio. Era caduto allora in ginocchio e lo aveva invocato. Gli era
venuto in mente, in quel momento, il salmo 17 “Invoco il Signore
e sarò salvato dai miei nemici.”. Si era curvato in avanti, scosso
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da un tremito mentre un miracoloso soffio di beatitudine lo invadeva tutto e gli donava una sensazione di misteriosa felicità.
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CAPITOLO TRENTASEIESIMO
La villa di Julia sorgeva, a Potsdam, su un grande spiazzo erboso chiamato “Neuer Garten”, e si affacciava sulla riva dell’Heiliger
See, il lago che, attraverso un canale, si collegava al fiume Havel.
Aveva la forma di un cubo su tre piani, compreso il terreno. La sua
costruzione era stata intrapresa, nel 1728, in stile barocco, dall’architetto Johann Gottfried Büring ed aveva avuto termine, con apporti neoclassici, nel 1770, a cura di Karl P. Christian. Sulle sue facciate, in
color oro vecchio, erano distribuiti, senza eccesso, colonne corinzie,
lesene, cariatidi, colonnati e loggiati. Le finestre avevano timpani
semicircolari e l’ingresso era affiancato da colonne binate. Dietro la
facciata posteriore, si sviluppava un ampio parco ricco di fontane, tempietti, ninfei.
Sulla base delle rievocazioni fatte da lei durante il viaggio,
Wilhelm sapeva che Julia aveva ereditato quella residenza dal defunto
marito. La propria famiglia, invece, la nobile e antica casata degli
Stauffenberg, era originaria del Württemberg, il regno soppresso nel
1918, dopo il crollo del I Reich e l’abdicazione del Kaiser.
Da bambina, Julia, nata nel 1916, abitava con la sua famiglia in
una villa posta nei pressi di Stoccarda. Suo padre, il conte Franz
Ludwig, era un ufficiale di cavalleria del piccolo stato retto dalla dinastia Wittelsbach. Dopo la incorporazione di quel regno nel nascente II
Reich, il conte si era dedicato all’amministrazione dei propri cospicui
beni fondiari. Ma, nel 1923, quando Julia aveva ancora otto anni, Franz
Ludwig si era lasciato convincere dalla moglie Raffaella, madre di
Julia, siciliana, a trasferirsi a Wernigerode, un paese della SassoniaAnhalt, dove risiedevano i suoi anziani genitori trasferitisi dalla natia
Sicilia. Là, Julia aveva conosciuto Wilhelm, ancora ragazzo, e condiviso con lui i giochi dell’infanzia. Più tardi, adolescente, si era accorta di pensare a lui con insistenza. E dal biondo Wilhelm aveva ricevuto i primi casti baci. Poi, nel 1933, lui era partito per seguire la sua stella. E lei aveva deciso di andare a studiare lettere classiche all’università di Berlino. In quella città, abitava una sua zia che l’aveva introdotta nell’ambiente nobiliare. Così, in un salotto, aveva conosciuto il
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generale di divisione conte Henning Kluge che si era innamorato di lei
e l’aveva chiesta in sposa. Sebbene molto più anziano (a quell’epoca,
aveva 38 anni), lui possedeva altri requisiti per piacerle: eroico combattente della 1ª guerra mondiale, fascinoso, colto, raffinato, rappresentava una compagnia brillante e avvincente. Lei ammirava la sua
tempra di autentico soldato, la sua smagliante uniforme, il suo carisma,
l’appartenenza alla cerchia nobiliare. Si era detta perciò che la propria
vita doveva, per forza delle tradizioni familiari, andare in quella direzione. E aveva accettato. Ma il suo destino aveva imboccato, poi, una
strada opposta: nel giugno 1941, dopo appena sei anni di un sereno
matrimonio, Henning, promosso al rango di corpo d’armata e preposto
al comando della piazzaforte di Lione, nella Francia occupata, era stato
ucciso nel corso di un agguato tesogli dai partigiani. In preda al dolore, Julia si era allora arruolata come volontaria nel corpo delle infermiere della Croce Rossa e aveva raggiunto, nel gennaio 1942, le truppe impegnate sull’Ostfront.
***
Entrando in quella villa, Wilhelm ne aveva ammirato le armoniose linee architettoniche esterne ed i sontuosi ambienti interni,
cosparsi di marmi, stucchi, boiseries. La camera assegnatagli da Julia
era ampia, luminosa, elegantemente arredata in stile rococò. Le sue
finestre si aprivano sul lago e consentivano di ammirare in distanza,
oltre la riva opposta, il maestoso fiume Havel.
Ma il suo cuore era stretto in una morsa. Sistematosi in quel
luogo accogliente e riscaldato, non poteva non pensare alla spaventosa situazione dei suoi compagni d’arme rimasti nella sacca di
Stalingrado. I giornali attenuavano le dimensioni della disfatta della 6ª
Armata ma Julia, arrivando, aveva avuto, dalle sue altolocate conoscenze, notizie aderenti alla tragica realtà. Così, Wilhelm apprese che,
il 20 gennaio, il generale Hube era stato autorizzato a lasciare il Kessel
insieme a molti altri specialisti dei mezzi corazzati, nella prospettiva di
affluire nelle file di una nuova 6ª Armata, che Hitler intendeva formare. Il giorno dopo, in seguito alla violenta offensiva della 65ª Armata
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sovietica, aveva avuto inizio, in condizioni caotiche, l’evacuazione
dell’aeroporto di Gumrak. L’ospedale da campo adiacente era stato
abbandonato con 500 feriti. Il 22 gennaio, i resti della 297ª divisione
di fanteria, dopo furiosi combattimenti, erano stati aggirati, nel centro
di Stalingrado ed annientati. Quello stesso giorno, Hitler aveva inviato
alla 6ª Armata un messaggio così concepito: “La resa è fuori discussione. Le truppe combattano fino alla fine. La 6ª Armata ha così portato a termine il suo storico contributo al più grande momento della storia tedesca”. In verità, isolato nella “tana del lupo” di Rastenburg, il
Führer viveva ormai in un suo mondo di fantasia, popolato di divisioni fantasma. Intanto, a Stalingrado, la situazione precipitava sempre
più: le condizioni dell’ospedale di fortuna che ospitava circa 40.000
feriti o malati nelle cantine, sotto le rovine della città, erano spaventose. I resti della 6ª Armata si trovavano ormai ammassati solo all’interno della città. E, con il fatale scandire delle ore, aumentava il numero
dei comandanti che si arrendevano. Molti altri, invece, avevano preferito il suicidio. La sacca era stata spezzata in due. L’armata, intesa
come organismo operativamente collegato, non esisteva più. Vi erano
soltanto brandelli di reparti che continuavano a combattere per proprio
conto ed andavano, man mano, disfacendosi.
Wilhelm e Julia avevano cenato insieme. Poi, lui si era accomiatato. Ma, più tardi, mentre si trovava a letto intento a leggere dei
resoconti giornalistici relativi a quella gigantesca battaglia, aveva visto
Julia entrare, silenziosa e leggera, e andare verso di lui avvolta in una
vestaglia nera ricamata con luccicanti paillettes e bordata di volpe grigia. Wilhelm stava seduto con la schiena addossata alla spalliera.
Guardandola, intuì che, sotto quell’indumento, non aveva niente. Lo
colpì il colore candido delle sue gambe nude che si intravedevano fra
i lembi svolazzanti, apparendo e scomparendo, e la base dei seni che
fuoriusciva dai baveri di pelliccia aperti. Avanzò ancora, silenziosamente. I suoi occhi, incastonati in due palpebre a forma di mandorla,
emanavano una luce insondabile. A Wilhelm, quel suo viso ovale,
incorniciato da una folta chioma nera, parve come una icona orientale,
sospesa fra sensualità e mistero, avvolta da fumi stordenti di incenso.
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Gli sembrò piccola e delicata come una bambola. Con un balzo agile e
felino, lei salì sul letto e andò a sdraiarsi bocconi accanto a lui.
Continuò a guardarlo con un lieve sorriso, quindi si sporse a baciarlo.
Lui le cinse allora la schiena, la serrò a sé e le ricambiò caldamente
quel bacio. Però, subito dopo, si distaccò da lei e mormorò:
“Prima di inoltrarci, vorrei parlarti.”
“Non ora Wilhelm. Questa sera, ti voglio per me. Mi parlerai domani.”
Si alzò, si tolse lentamente la vestaglia, senza ostentazioni, e si
sdraiò sul letto sempre fissandolo con i suoi occhi enigmatici. Lui trasalì: era nuda e sinuosa, candida e levigata. Si chinò a baciare quel suo
corpo di porcellana ma Julia non si scompose né emise gemiti. Poi, lui
entrò dentro di lei con il suo sesso massiccio, usando una riguardosa lentezza, quasi temesse di farle male. E la possedette per un tempo indefinibile, in un profondo silenzio. Alla fine, si ritrasse e la guardò ancora: era
rimasta con gli occhi socchiusi. Le sue palpebre abbassate sembravano
petali. Stava immobile e inaccessibile. Tuttavia, Wilhelm non pensò che
fosse assente o indifferente ma piuttosto raccolta in se stessa, desiderosa
forse di assaporare il piacere spingendolo verso la parte più profonda del
suo essere e ripudiando ogni manifestazione esteriore. Turbato, Wilhelm
intravide in lei l’atavica anima siciliana, misteriosa e arcaica. Forse, nel
suo solitario godimento, lei viveva un rito segreto, avvolta dalle spire
voluttuose di antichi umori, nel profumo di aranci e di zagare.
***
L’indomani, mentre passeggiavano nel parco, lei gli chiese:
“Di che cosa volevi parlarmi, ieri sera?”
Wilhelm esitò, impacciato. Ma era consapevole, nella sua abituale dirittura, che non poteva tacere. E le rispose:
“È doveroso che io te ne parli. A Berlino e poi a Londra, ho avuto una
storia con una ragazza inglese. Quando sono partito, lei mi ha giurato
che mi attenderà.”
Julia fece una smorfia.
“Ma tu l’ami?”
“Non posso dire di aver perso per lei il sonno e l’appetito. Però,
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ammetto che mi piaceva molto.”
“Al punto di pensare a lei quando fai all’amore con me?”
“Questo no. Mi hai completamente conquistato.”
“È quello che volevo sentirti dire. Il resto verrà da sé.”
Wilhelm la guardò cercando di capire il suo pensiero.
“Come sei serio, Wilhelm! Hai perso l’abitudine di sorridere. Non
conosco più il ragazzone biondo che mi inseguiva con i pantaloni corti
sull’Herz per sollevarmi le gonne”
Lui era interdetto, poi mormorò:
“Era necessario che te lo dicessi.”
“Certo. È stato onesto e corretto. Ma questa ragazza vive in un paese
nemico e non sappiamo quando la guerra finirà. Ci penseremo a suo
tempo. Per ora, prendiamo quello che la sorte ci concede. Regaliamoci
un grappolo di stelle. Sei d’accordo?”
Gli tese le braccia e lui la strinse a sé.
“Voglio essere felice, Wilhelm! Non sappiamo quello che accadrà
domani.”
I loro incontri erano perfettamente intonati. Lui si comportava
a letto in modo vigoroso e appassionato. Lei si concedeva con la regalità di una dea, senza fremiti e con le palpebre abbassate. Ma, in qualche momento, spiandola, lui la colse mentre, inavvertitamente, socchiudeva appena gli occhi. E vide che le sue pupille erano vitree, velate dall’intenso piacere.
Facevano lunghe passeggiate nel “Neuer Garten”. Lui aveva
abbandonato le stampelle e si appoggiava ad un bastone. E, mentre
camminavano, parlavano. Julia possedeva una conversazione fluente e
piacevole. Lui era più conciso. Si scambiarono resoconti sulla loro
vita. E, intanto, Wilhelm andava approfondendo la sua conoscenza: lei
rivelava un’intelligenza superiore e qualità percettive eccezionali. Fra
l’altro, amava molto la cultura e prestava volontariato nella “Alte
Bibliothek” di Potsdam. Aveva scritto, dopo la laurea, alcuni libri che
riguardavano la storia e l’arte. Frequentava salotti letterari. Nella sua
casa, era riuscita a formare una cospicua raccolta di preziosi volumi.
Giunsero, intanto, le ultime notizie sull’agonia della 6ª Armata.
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Il 25 gennaio, il comando di quell’unità aveva emanato l’ordine di sparare su chiunque cercasse di arrendersi. All’alba del 31 gennaio, la 64ª
Armata del generale russo Sumilov si era impossessata di tutto il centro di Stalingrado. Lo stesso giorno, i russi avevano raggiunto l’ingresso dello scantinato in cui si trovavano il generale von Paulus e il
suo stato maggiore. Colti di sorpresa, i tedeschi si erano tutti arresi. Il
comandante dell’Armata si trovava in uno stato di collasso. Perciò, la
resa era stata trattata dal generale Schmidt. Poi, i russi avevano condotto il generale von Paulus e gli altri al posto di comando del generale Sumilov. Quello stesso giorno, prima della resa, era pervenuta a von
Paulus la comunicazione della sua promozione a feldmaresciallo, ordinata da Hitler quando ancora sperava in un suicidio di massa.
I resti delle sei divisioni al comando del generale Steecker
avevano resistito fino al 2 febbraio 1943, poi si erano anch’essi arresi. Dopo quell’ultimo atto, la terribile battaglia di Stalingrado aveva
avuto fine. Dei circa 3 milioni di uomini che costituivano la 6ª Armata
nel novembre 1942, erano sopravvissuti in qualità di prigionieri, soltanto 91.000 uomini.
***
Wilhelm si rese conto, ben presto, che Julia possedeva conoscenze altolocate non soltanto nell’ambiente civile ma anche in quello
militare. Nel pomeriggio, riceveva personaggi in vista della città di
Potsdam nonché generali venuti appositamente da Berlino. I ricevimenti serali, poi, si susseguivano con frequenza settimanale. Wilhelm
interveniva a quelle riunioni ma rimaneva generalmente in disparte, in
considerazione dell’elevato rango degli ospiti.
Alla fine di febbraio, una sera, dopo l’amore, Julia gli preannunciò una riunione di alti ufficiali che sarebbero giunti in borghese,
separatamente, a sera inoltrata, il dopodomani.
“Il pretesto è quello di un poker” gli spiegò mentre stavano abbracciati sul letto “ma, in realtà, parleremo d’altro.”
“Di che cosa?”
“Ti ho già accennato che esiste in Germania un fronte di resistenza al
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nazionalsocialismo ed al suo capo, Hitler. Un gruppo di quelli che ne
fanno parte interverrà a questa riunione. Vi saranno poi successivi
incontri, con altri aderenti, in località scelte volta per volta.”
“Se ho ben capito, vi riunirete per complottare?”
“Mi giuri che manterrai il segreto su quanto ti dirò?”
“Certamente! Ma temo per te.”
“Che cosa temi?”
“Le vostre riunioni non sfuggiranno alla Gestapo.”
“Sapremo mascherarle con appositi pretesti. I luoghi dove ci riuniremo
saranno preventivamente “bonificati””
“È un gioco pericolosissimo, Julia!”
“Ma ne vale la pena. Siamo ancora in tempo per salvare la Germania
dalla catastrofe. Tu vedi bene cosa sta accadendo: i russi hanno dimostrato di avere un armamento e un equipaggiamento migliori e riserve
che sembrano inesauribili. Ora, stanno contrattaccando per ricacciarci
indietro ed hanno già riconquistato Charkov. In Africa, abbiamo perso
Tripoli e ci troviamo stretti fra gli inglesi in Libia e gli Americani in
Algeria. Siamo ormai ridotti sulla difensiva. Il nostro gruppo deve,
perciò, agire prima che la situazione peggiori. È prevista, a breve scadenza, una visita di Hitler al quartier generale dell’esercito a Smolenk.
È una buona occasione per colpirlo.”
Wilhelm la guardò con gli occhi sbarrati, poi chiese:
“Qual è il tuo compito?”
“Mi occupo del collegamento fra i vari congiurati. Vuoi entrare a far
parte del movimento?”
“Ho giurato fedeltà ad Hitler quale comandante supremo delle forze
armate. Non voglio mancare a questo impegno d’onore.”
“Hai giurato fedeltà anche alla Germania. Non ti interessa salvarla?”
“Il mio dovere di soldato è quello di obbedire, nient’altro.”
“Mi dispiace. Avresti potuto essere al mio fianco.”
“Non voglio imboccare una strada disonorevole.”
“Disonorevole? Ma io ti parlo di vero patriottismo.”
Così dicendo, Julia si alzò dal letto e, senza guardarlo, cominciò
a rivestirsi in silenzio. Wilhelm comprese che era risentita. Le andò vicino e si sporse per baciarla. Ma lei girò il viso e gli porse solo la guancia.
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“Speravo avresti compreso.” mormorò Wilhelm addolorato.
“Sei tu che non hai compreso” rispose lei seccamente.
Non si parlarono per tutto il resto della giornata. Ma l’indomani mattina, fu lei stessa a porre fine a quel litigio. Si avvicinò a lui mentre si trovavano nello studio, e lo baciò dicendogli:
“Perdona la mia impulsività. Non voglio che questo problema turbi la
nostra vita affettiva.”
Wilhelm accettò volentieri quella tregua. Tuttavia, le rivelazioni di Julia lo avevano estremamente preoccupato. Per amor suo, doveva tacere e fingere di ignorare quelle trame sovversive. Ma sapeva
bene che sarebbe stato suo dovere denunciarle.
Sperò che Julia non gli parlasse più delle riunioni segrete e di
quei progetti eversivi. Ma non fu così. Forse, non per coinvolgerlo ma
soltanto per trovare in lui un confidente, un ascoltatore che le desse
modo di sfogarsi, di liberarsi di quel peso e di tutte le tensioni che esso
le comportava, Julia lo tenne informato degli sviluppi della congiura.
Evidentemente, lei lo considerava incapace di una delazione. Era il suo
compagno di giochi miracolosamente ritrovato, una parte della sua
prima giovinezza, addirittura di se stessa. Perciò, gli raccontava ogni
cosa. Il 15 marzo, molto delusa, gli confidò che un attentato compiuto
contro Hitler due giorni prima, era fallito. Quel 13 marzo 1943, Hitler
aveva visitato il comando dell’esercito a Smolenk. Mentre era a pranzo, il generale Henning von Tresckow, che prestava servizio in quel
comando, era riuscito a far depositare, da un tenente suo complice, un
pacco nell’aereo del Führer, contenente un congegno esplosivo.
Secondo il piano, quella bomba avrebbe dovuto esplodere durante il
viaggio di ritorno di Hitler al quartier generale di Rastenburg. Invece
il Führer aveva atterrato sano e salvo a destinazione. Il tenente, su
istruzioni di von Tresckow, era volato a Rastenburg ed aveva potuto
recuperare il pacco che, secondo le sue asserzioni, conteneva vini
“Cointreau” diretti ad un fantomatico amico del generale. Verificato il
contenuto, si era poi reso conto che il percussore era realmente deflagrato ma che, per il freddo polare, l’esplosivo non aveva preso fuoco.
Dieci giorni dopo, Julia, visibilmente delusa, gli confidò che
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neppure un ulteriore tentativo aveva avuto successo. Il 21 marzo,
Hitler si era recato infatti a visitare, nell’arsenale di Berlino, una
mostra delle armi catturate nel corso della guerra. Oltre al feldmaresciallo Madel, lo aveva accompagnato il colonnello barone Christophe
von Gersdorff. Nessuno sapeva che costui faceva parte della resistenza e, d’accordo con von Tresckow, aveva deciso di immolarsi per la
causa. Si era infatti imbottito di esplosivo e si riprometteva di farsi
esplodere vicino al Führer. Ma, inspiegabilmente, Hitler aveva interrotto la visita prima dell’orario previsto, prima cioè che l’ordigno e il
suo portatore gli scoppiassero accanto. Von Gersdorff era riuscito poi,
appena in tempo, a disattivare la bomba. Così, per eventi imponderabili, pure quell’occasione era venuta meno.
“Anche se riuscirete ad uccidere Hitler” replicò Wilhelm, turbato da
quel racconto “La reazione delle SS sarà spaventosa. Non dimenticate, il corpo delle SS ha il controllo dell’intero apparato dello Stato.”
“Ci siamo posti questo problema e siamo tutti d’accordo che, nel
momento opportuno, potremmo attuare il piano “Valchirie”, che già
esiste come operazione da attivare nei casi di emergenza, all’interno
del Reich. Paradossalmente, questo piano è stato a suo tempo approvato dallo stesso Hitler. Noi potremmo applicarlo al caso nostro mobilitando e impegnando l’esercito di riserva che conta più di quattro
milioni di uomini. Il comandante attuale è fedele alla nostra causa.”
Wilhelm aveva compreso che quell’idea gigantesca occupava
febbrilmente tutti i pensieri di Julia quasi che, nella sua qualità di
discendente da una grande famiglia, si sentisse in parte responsabile
dei destini della Germania. Tuttavia, lei riusciva a dedicarsi a lui amorevolmente. Non vi erano fra loro le consuete parole sospirose degli
amanti ma atti concreti rivelatori di un reciproco sentimento. Si amavano ogni sera e lui sentiva di nutrire per lei un’autentica passione. Gli
piaceva fisicamente ed era magnetizzato dalla sua personalità. Forse,
non era amore nel senso aberrante della parola ma non poteva negare
a se stesso che quella donna lo inebriava.
Una sera, mentre lui era sopra di lei e la stava possedendo, Julia
mormorò con un sospiro:
“Oh, Wilhelm mi sei molto caro. Perché non mi sposi?”
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Preso alla sprovvista, lui si fermò, disorientato. Poi rispose
ansimando:
“L’idea mi intenerisce. Ma fra 10 giorni, dovrò sottopormi alla visita
medica. Se sarò giudicato idoneo, mi assegneranno nuovamente ad un
reparto in guerra.”
“Il problema è un altro: mi vuoi?”
Lui discese dalla sua posizione venerea e si distese accanto a lei.
“Sì, mi piaci molto. Ma non posso dimenticare l’impegno sentimentale che mi lega a Misty, la ragazza inglese di cui ti ho parlato.”
“Quanti anni ha?”
“Diciassette.”
“Figurati! Avrà un codazzo di pretendenti. A quest’ora, starà già con un
altro fidanzatino.”
“Come posso saperlo?”
“Devi fare una scelta fra lei o me.”
“Tu hai un vantaggio su di lei: mi sei vicina e mi tendi lacci ai quali è
difficile resistere.”
“Da parte mia, sono stanca di fare la vedova concupita da tutti i maschi
che incontro. Desidero una stabilità emotiva. In più, mi sembra opportuno regolarizzare la nostra situazione di convivenza.”
“Ti ripeto: mi piaci molto. Ma desidero comportarmi onorevolmente.
Dammi ancora tempo.”
Il 20 marzo 1943, Wilhelm si presentò all’ospedale militare di
Potsdam e fu visitato in quanto il suo periodo di convalescenza stava
per scadere. La commissione accertò che era ancora claudicante e che
i vari frammenti ossei non si erano ancora saldati perfettamente.
Perciò, non sussistevano le condizioni per rimuovere le placche di
acciaio che i chirurghi russi gli avevano sistemato all’interno della
gamba. Alla fine dell’esame, gli fu concesso un altro mese di convalescenza.
Uscì dall’ospedale avvilito. La possibilità di ritornare ad un
reparto di carristi impiegato in zona di operazioni si allontanava ulteriormente. E, in una crisi di pessimismo, finì col pensare che non si
sarebbe più ristabilito completamente e forse avrebbe zoppicato per
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tutto il resto della sua vita. Era depresso ma la vigile presenza di Julia
non gli consentì di abbandonarsi allo sconforto. Capì che attendeva da
lui una prova di forza.
Alcuni giorni dopo, parlando con lei, le manifestò il desiderio
di recarsi per qualche giorno al suo paese natale, Wernigerode. Voleva
rivedere la casa in cui aveva vissuto con i genitori e con sua sorella
Oana. E, così pure, non poteva dopo tanti anni, fare a meno di interessarsi della situazione delle sue proprietà agricole. Julia ne fu entusiasta. Aveva nostalgia dei luoghi dove aveva trascorso la sua infanzia
e la sua prima adolescenza. Perciò, gli chiese di accompagnarlo. Così,
partirono, nell’ultima settimana di marzo, e ritrovarono con commozione le località dove avevano abitato da ragazzi, al cospetto del maestoso massiccio dell’Harz, coperto da foreste ancora incontaminate.
Il paese, con le sue strette stradine fiancheggiate da abitazioni a graticcio, era rimasto come allora. Rividero le case medioevali e quelle
più recenti, costruite con travi di legno finemente intagliate e con pannelli intarsiati. Con le mani allacciate e gli sguardi pensosi, ripercorsero sentieri che avevano scoperto a 14 anni. Con lo “Herzquerbahn”,
il trenino a scartamento ridotto trainato da una locomotiva a vapore,
andarono a visitare il castello neogotico dove, nel medioevo, si celebravano i processi alle streghe. Poi, proseguirono con lo stesso mezzo
e si arrampicarono, fino al Brocken, la sommità del massiccio boscoso, il luogo dove un tempo, secondo la leggenda, si riunivano le
streghe. Mentre il treno sferragliava sbuffando, un paesaggio irreale
sfilava davanti ai loro occhi. Attraverso una nebbia sottile, intravedevano una teoria interminabile di boschi dal colore bruno e di corsi
d’acqua serpeggianti. Giunti in cima, si rifugiarono in una baita dove
li accolse un caminetto acceso. Due osti benevoli, un uomo anziano e
sua moglie, che gestivano quell’ostello, offrirono loro una minestra
calda. Dopo aver pranzato, si sedettero di fronte al fuoco. La fiamma
irrequieta dilatava i loro occhi e li riempiva di ricordi. Lei gli prese
la mano e la tenne stretta.
“Quando siamo venuti qui la prima volta.” gli sussurrò “era estate e
soffiava un forte vento. Nel bosco che costeggia il sentiero, tu mi hai
baciata. È stata una sensazione indimenticabile. Ricordi?”
279
“Sì ricordo. Non ero mai stato così vicino al tuo viso. I tuoi occhi erano
incantati. E mi è sembrato, in quel momento, che il mio cuore si fosse
gonfiato fino a scoppiare.”
“Ma poi sei partito e mi hai dimenticata.”
“In verità, non ci siamo fatti nessuna promessa. Eravamo impazienti di
andare alla conquista della vita”
“Ciò nonostante, ti ho sempre ricordato, come un sogno dolcissimo
che, purtroppo, la realtà di ogni giorno allontanava. Credimi, non pensavo proprio di ritrovarti in quel luogo di morte.”
“Senza di te, ci sarei rimasto.”
“Ed ora mi sembra incredibile che tu sia qui, con me, a rievocare la
nostra adolescenza. Dimmi, mi hai mai ricordata?”
“Sì, allo stesso modo, come un piccolo paradiso perduto.”
Cadde il silenzio fra loro. Si immersero ciascuno nei propri
pensieri. La sala era deserta. Il fuoco crepitava indifferente. Poi,
Wilhelm mormorò come parlando a se stesso:
“Hai fatto molto per me. Mi hai salvato la vita. Senza di te, sarei morto
in quell’ospedale. Come posso ringraziarti?”
“Puoi farlo subito” E così dicendo, Julia si voltò verso l’oste che stava
sparecchiando e gli chiese:
“Avete una camera riscaldata?”
L’uomo, che era pingue e massiccio, rispose affermativamente con un ammiccante sorriso e li condusse al piano di sopra
attraverso una scala di legno. Li fece entrare in una camera rivestita da travi di abete, illuminata da un fuoco che si agitava in un
camino di pietra. Stesero, di fronte a quella fonte di calore, alcune
coperte e si spogliarono. Lui conosceva ormai il suo corpo gentile
ma la guardò ugualmente coi sensi accesi. Il fuoco disegnava su di
lei ombre sfumate e, nelle sue pupille maiolicate, luci rossastre.
Era soffice e flessuosa. Lui la strinse fra le proprie braccia con
desiderio ma anche con l’ansia di trovare in lei un approdo.
Ritornando nella casa paterna, aveva sentito di essere un uomo
solo. Segreta era lontana e perduta e Oana apparteneva ormai ad un
altro mondo. Si aggrappò perciò a Julia come all’unico punto
fermo di cui disponeva, in quel momento, la propria vita.
280
Gli occhi di lei lo fissavano estatici ed erano pieni di magici
riflessi. Più tardi, mentre la stava possedendo con tenerezza, le mormorò:
“Sposiamoci. Fissa tu la data!”
281
CAPITOLO TRENTASETTESIMO
Una sera, verso la metà di aprile, dopo essersi trattenuta con
Dorian Jr, nella loro residenza di Albingdon, Segreta si accinse a salire
in camera sua. Fuori, imperversava uno scrosciante temporale con sferzanti cariche elettriche. Un vento impetuoso faceva vibrare gli stipiti.
Giunta davanti alla sua camera, aprì la porta ed accese la luce.
Si illuminò soltanto la zona notte mentre rimase in ombra quella di studio e soggiorno. Stava spogliandosi allorché fu colpita da un punto
luminoso rossastro che forava il restante buio della vasta stanza. Si
impaurì e gridò:
“Chi è là?”
Nessuno rispose. Allora, corse ad un interruttore che illuminò
parte della zona rimasta in ombra. E, sullo sfondo, vide un uomo seduto su un divano, intento a fumare. Non distingueva bene il suo viso.
“Chi siete?” chiese con voce alterata.
Lo sconosciuto si alzò, si fece avanti ed entrò nel cono di luce
di un paralume. In quel momento, lei riconobbe Armstrong. Indossava
un abito grigio con un maglione blu a girocollo. Sul divano, aveva
appoggiato un impermeabile chiaro. Stava osservando con aria divertita l’agitazione che lei aveva manifestato.
“Siete voi? Ma non avete l’abitudine di bussare?”
“È un lusso che non posso permettermi.”
“Mi avete spaventata.”
“Spaventata? Faresti fuggire anche il diavolo!” E sorrise nel suo consueto modo sinistro scoprendo i denti, in un ghigno che lei conosceva
bene.
“Perché siete venuto?”
“Hai dimenticato? Non volevi che ti accompagnassi alla ricerca del tuo
eroe?”
“Mio Dio! È già arrivato il momento?”
“Non sei pronta?”
“Quanto tempo mi concedete?”
“Il nostro aereo parte domani sera da Londra.”
“Sta bene. Devo solo informare alcune persone e preparare una valigia.”
283
“Niente valigie. Dovremo paracadutarci. Acquisteremo quello che ci
occorre sul posto”
Segreta spalancò gli occhi sorpresa. Ma non volle apparirgli
impaurita. Perciò, dopo qualche attimo di riflessione, rispose:
“Va bene. Sarò pronta per domani sera. Vi tratterrete qui, per partire
insieme?”
“No, debbo andare via subito. Ti attenderò alle sette di domani sera
nella chiesa parrocchiale di Harmondsworth, sulla strada per l’aeroporto di Heatrow. Ricordati di portare con te l’attestato che ti rilasciò
l’Abwehr quando eri a Berlino. Io farò altrettanto.”
“Ve bene. Ma non volete sedervi un momento, rifocillarvi?”
Erano rimasti in piedi di fronte.
“Grazie. Mi sono riposato mentre ti aspettavo.”
Il sarcasmo era scomparso dai suoi occhi che adesso, avevano riacquistato la loro espressione abituale: scuri, profondi, indagatori e, a tratti, febbricitanti. Indossò l’impermeabile stringendolo alla
cintola, si alzò il bavero e la salutò con un cenno del capo. Quindi,
uscì con passo rapido.
Segreta si sedette di schianto sul letto, sorpresa e disorientata
dalla prospettiva di quella partenza improvvisa. Era quello che lei stessa aveva chiesto. Ma le incognite ed i pericoli che l’attendevano la
facevano rabbrividire di paura.
L’indomani informò Dorian Jr e mister Harrison Miller che
doveva partire per un viaggio di studio. E raccomandò al canuto decano di seguire gli studi e l’educazione del fratello. Scrisse anche una lettera ai vecchi nonni scozzesi invitandoli a scendere ad Abingdon per
vegliare sulle sorti della famiglia durante la sua assenza.
Nel pomeriggio, con un taxi, si fece condurre al luogo dell’appuntamento. Entrò nella piccola chiesa di St. Mary, la parrocchiale del
villaggio indicatogli da Armstrong. Mentre sedeva su un banco, udì la
porta cigolare e un passo fermo e sicuro percorrere l’unica navata. Era
lui, Armstrong. Il suo viso sembrava macerato dalla fatica. Uscirono
insieme dalla chiesa. Una macchina scura attendeva fuori. La guidava
un uomo a lei sconosciuto che indossava un giubbotto di pelle nera.
Dopo che furono entrati, l’auto partì e, sotto un cielo gravido di nuvo284
le scure, li condusse all’aeroporto. Mezz’ora dopo, decollarono a
bordo di un aereo. Nella carlinga, indossarono in silenzio una tuta e il
paracadute. Segreta aveva un tempestoso batticuore ma non disse niente ad Armstrong. Stavano seduti su una panchina metallica addossata
alla parete della carlinga. Il rombo dei motori era incombente.
Tuttavia, la sua curiosità fu più forte. Perciò, gridando, chiese ad
Armstrong dove si stessero dirigendo.
“A Berlino.” rispose lui.
Poco dopo mezzanotte, si lanciarono nel vuoto in un buio profondo ed angoscioso. Atterrarono, dopo una discesa interminabile, in
una radura. Con una pila elettrica, scrutando una cartina, Armstrong
riuscì ad orientarsi. Si trovavano ai margini di una foresta nei pressi
di Wansdorf, a circa 25 km dal centro di Berlino in direzione ovest.
Impiegarono il resto della notte per sotterrare i paracadute e
le tute con l’aiuto di palette portate al seguito. Poi, si avviarono a
piedi attraverso i campi. Ad un incrocio della strada provinciale che
conduce a Schonwalde, salirono su un autobus.
Nella mattinata,
raggiunsero Berlino. Presero alloggio in un albergo di medio livello
nei pressi di Alexanderplatz. Nel pomeriggio, si rifornirono di indumenti personali presso negozi della zona dato che erano partiti senza
bagaglio. Armstrong pagò in marchi quegli acquisti. E, al rientro in
albergo, Segreta constatò che aveva addosso molto denaro e libretti
di assegni di banche tedesche. Occupavano due stanze comunicanti
ma, fin dal principio, lui si astenne dal violare l’intimità di Segreta e
dal tentare approcci con lei. La sera, uscirono a passeggio, lui con un
impermeabile e lei con un cappotto di pelle avana bordato di volpe
grigia. Percorrendo Grunerstrasse, raggiunsero il fiume Sprea e si
misero a seguire il suo argine. Il buio era rotto solo dai fari di qualche auto di passaggio.
“Cosa accadrà se incontriamo la Gestapo?” chiese Segreta appoggiandosi al suo braccio.
“Mostreremo i documenti e l’attestato dell’Abwehr.”
“Ma saranno ancora validi?”
“Certamente! Canaris ed i suoi ci credono ancora in Inghilterra. Se
saremo controllati diremo che siamo appena rientrati e che domani ci
285
recheremo al comando dell’agenzia.”
“È più o meno la verità.”
“Sì, ma c’è un retroscena. Quando sono stato arrestato, a Londra,
prima di fucilarmi, mi hanno offerto la possibilità di collaborare. Il tuo
Dio dice che non si possono servire due padroni. Ma questa regola non
vale per lo spionaggio. Perciò, ho accettato ed ora servirò sotto due
bandiere.”
“Siete un essere detestabile.”
“È la guerra detestabile.”
“Ma se ne accorgeranno.”
“No, se sarò abbastanza furbo”
“Che programma avete?”
“Debbo andare a nord, sul Baltico”
“Ed io?”
“Vuoi venire con me per un servizio che interessa il tuo paese?”
“Prima, voglio trovare Wilhelm.”
“Mi farai perdere tempo. Ma manterrò la mia promessa. Perciò, domani andrò alla ricerca di notizie sul tuo carrista.”
L’oscurità che li avvolgeva era totale e opprimente, il freddo
intenso. Perciò, entrarono intirizziti in una birreria trovata nel percorso, poco affollata ma piacevolmente riscaldata e accogliente. Non si
udiva il consueto brusio dei pubblici locali. La gente beveva stando in
silenzio e scambiando poche parole. Gravava su quel luogo come un
emblematico senso di attesa. Anche essi bevvero in silenzio.
Armstrong era stranamente pensieroso. Con sorpresa, Segreta scoprì il
suo sguardo immerso nel vuoto. Uscendo dal locale, gli chiese:
“Cosa avete, Armstrong?”
“Perché me lo chiedi?”
“Mi sembrate triste.”
“Non è niente.”
“Confidatevi pure con me.”
“Sei troppo giovane. Non capiresti.”
Giunti in albergo, lui le accarezzò i capelli sciolti e fluenti
fino alla schiena. Poi, fece per andarsene. Ma lei lo fermò. Lui allora l’abbracciò.
286
“Vuoi che rimanga con te?”
“No. Poi, non avrei il coraggio di presentarmi a Wilhelm. Ma tienimi
un momento fra le tue braccia.” Lui la strinse a sé con forza, le baciò i
capelli. Stettero così per qualche attimo, in silenzio. Poi, Armstrong, le
sussurrò:
“Va a dormire. Ritornerò domani sera”
Lei alzò lo sguardo su di lui e si stupì. Quei suoi occhi solitamente impenetrabili, ora erano dilatati, lucidi e pieni di riflessi.
Pensava che sarebbe andato a coricarsi, dopo quella giornata faticosissima. Invece, lo sentì uscire nuovamente. Le giunse il rumore dei suoi
passi che scendevano le scale e che si allontanavano. Poi, ritornò il
silenzio, come se l’albergo fosse deserto.
Andando a letto, si soffermò a pensare a quello strano individuo. Lo aveva considerato sempre una macchina priva di sensibilità,
guidata da un acutissimo e lucido cervello. Ora, sia pure per pochi attimi, si era accorta che aveva anche lui dei sentimenti, un’anima. Era
anche lui un essere umano.
L’indomani, fu un giorno di pioggia monotona ed insistente.
Segreta trascorse le ore seduta davanti alla finestra, guardando la strada sottostante e, di fronte, uno scorcio di Berlino. Le gocce sui vetri
erano come lacrime. Nell’attesa, i ricordi presero a sfilare nella sua
mente come fantasmi fumosi intenti a danzare un minuetto. Si fermavano qualche attimo, poi passavano oltre, pronti ossessivamente a
ritornare: sua madre, suo fratello, Wilhelm, Oana…. Fu interrotta, ad
un tratto da un rumore, nella stanza accanto. Si attendeva di veder
apparire Armstrong ma la porta non si aprì. Udì altri rumori. Allora, si
alzò e andò a vedere. La stanza di Armstrong era in disordine e gli abiti
sparpagliati per terra. Si spinse fino al bagno. La porta era aperta.
Oltrepassò la soglia e lo vide immerso nella vasca, con gli occhi chiusi: si stava rilassando, forse dormiva. Era pallidissimo, sembrava che
tremasse. Lei si sedette sul bordo della vasca, stette a guardarlo, poi,
temendo che stesse male, lo chiamò sommessamente. Lui aprì gli
occhi. Appariva stremato.
“Che vi succede, Armstrong?”
287
“Tutto a posto, bambina, non ti preoccupare.”
“Dove avete dormito questa notte?”
“Non ho dormito. Sono stato a Potsdam sotto un diluvio.”
“A Potsdam? Per quale ragione?”
“Per il tuo Wilhelm.”
Lei sobbalzò, si curvò verso di lui e gli afferrò una spalla.
“Come sta?”
“Ora sta bene”
“Ora? Che volete dire?”
“È stato ferito a Stalingrado.”
“Mio Dio!”
“Sì, è saltato su una mina che gli ha spappolato un gamba. Ma, adesso, sta molto meglio anche se zoppica ancora”
“È tuttora in ospedale?”
“No, si trova in licenza di convalescenza a Potsdam”
“Come mai in quella città?”
“È ospite nella villa di una contessa”
“Cosa?! È una sua parente?”
“No, per quanto mi risulta. Il suo nome è Julia Stauffenberg. È vedova
di un generale della Wehrmacht”
“Spero che sia vecchia e grinzosa”
“Mi dispiace deluderti ma, per quanto ho sentito, è invece giovane e
bella”
Segreta ebbe un moto di stizza: afferrò una spazzola per capelli che stava su una mensola e la scagliò contro la parete del bagno, rivestita da piastrelle di ceramica.
“Puoi portarmi là?”
“Sì, certo. Ma che intenzioni hai?”
“Voglio incontrarlo”
“Lo metterai in difficoltà. Non dimenticare: è ospite in quella villa di
proprietà di una nobildonna tedesca. E tu sei inglese.”
“Cosa dovrei fare, allora?”
“Entrare anche tu dal buco della serratura, osservarli e poi decidere sul
da farsi.”
Partirono, l’indomani mattina, con una macchina guidata da un
288
uomo che lei non conosceva. Aveva il cranio rasato, occhi taglienti, il
mento sporgente e indossava un giubbetto di pelle nera. Segreta si rese
conto che era un uomo di Armstrong. Giunsero nel primo pomeriggio
in vista della villa abitata da Wilhelm, che sporgeva sull’“Heilinger
See”, uno specchio d’acqua derivato dal fiume Havel, ed aveva alle
spalle la grande macchia verde del “Neuer Garten”.
“Io debbo proseguire” le disse Armstrong “Vorrei accompagnarti in
un albergo. Dopo, potrai, con tutto comodo, osservare i movimenti del
tuo eroe.”
“Voglio invece avvicinarmi alla villa e cominciare subito. Andrò alla
ricerca di un albergo stasera.”
“Hai denaro?”
“Neanche un marco.”
Armstrong sorrise nel suo modo sarcastico. Poi, trasse dalla
tasca un rotolo di marchi e glielo porse. Lei lo ringraziò appena, tutta
presa, com’era, ad osservare la villa.
“Se hai bisogno di me.” soggiunse Armstrong, alquanto spazientito
“telefona a questo numero” E le mise in mano un biglietto.
Segreta lo salutò fuggevolmente, attratta e paralizzata dall’idea
che Wilhelm fosse così vicino. La macchina partì ma lei non si volse
neppure a salutare i due uomini. Si incamminò invece verso la villa,
sotto un cielo tempestoso. Raggiunse la sua recinzione costituita da
una base di pietra. Su di essa, vi erano alte sbarre di ferro verniciate in
nero, che terminavano in punte dorate a forma di lancia. Si rese conto
che non avrebbe potuto scavalcarle. Camminò allora lungo il perimetro posteriore fino a quando incontrò un cancelletto secondario in ferro
battuto. Provò a scalarlo a si accorse che gli intarsi favorivano la collocazione dei piedi. Riuscì, perciò, ad arrivare in cima e a saltare nell’interno. Attraversò cautamente la folta vegetazione del parco e si
avvicinò alla facciata dell’edificio. Si sentiva immersa in una frusciante penombra e le proveniva melodioso il cinguettio degli uccelli annidati fra le foglie. Intorno, non vi era nessuno. Stando addossata al tronco di una maestosa magnolia, osservò, una ad una, le finestre della
villa e, in quella carrellata, giunse con lo sguardo ad un terrazzino su
cui sporgeva una porta finestra. Incombeva, intanto, il tramonto e la
289
luce stavano declinando rapidamente. Si avvicinò al poggiolo, che
aveva una scaletta laterale in marmo per scendere in giardino. Salì i
gradini e spinse le imposte. Esercitò ripetute pressioni e, alla fine, la
finestra si aprì. Soddisfatta, entrò nell’interno.
Si trovò in un salottino elegantemente arredato. Si tolse le scarpe e, tenendole in mano, procedette lungo un corridoio. Da quando era
giunta in Germania, aveva abbandonato gli abiti femminili. Indossava
perciò un completo gessato blu con pantaloni e giacca a doppio petto
su un maglione celeste a girocollo. Avanzando attraverso ambienti
sontuosamente arredati, percepì delle voci che provenivano da qualche
stanza non distante. Giunse così ad un vasto vestibolo dal quale partiva una monumentale scala di marmo di Carrara, semicircolare. Sulle
pareti, si aprivano delle porte che avevano stipiti in legno smaltato
bianco con fregi dorati. Una di esse, era semiaperta. Nell’interno, due
persone, un uomo ed una donna, stavano parlando. Erano quelle le
voci che aveva sentito in distanza. Con un palpito, riconobbe quella
robusta di Wilhelm. L’altra era sottile ma morbida e modulata.
Si appostò dietro un vaso e, attraverso i manici, poté osservare l’interno della stanza. Le parve che fosse una biblioteca con le pareti occupate da alte scaffalature colme di libri. Scorse poi un camino acceso e,
di fronte al fuoco, un divano semicircolare in pelle avana. Le due persone che aveva udito, Wilhelm e, presumibilmente, la contessa Julia
della quale le aveva parlato Armstrong, stavano sedute. Le loro teste
svettavano dalla spalliera del divano ed erano vicine. A tratti, i due
smettevano di parlare e si baciavano. Segreta sentì lo stomaco contrarsi violentemente. I propri sospetti erano fondati: Wilhelm, il suo
idolo, il dio vichingo per il quale aveva dannato la propria anima dopo
esserglisi donata senza alcuna riserva, la stava tradendo con quella
donna sorta dal nulla. Represse a stento la propria rabbia e sentì che il
sangue le era affluito violentemente alla testa. Si sedette per terra e
appoggiò la schiena alla zoccolatura in marmo, svuotata di forze. Non
riuscì a frenare le lacrime mentre i due continuavano a sorridersi ed a
baciarsi. Pianse rabbiosamente per qualche minuto, incurante che
qualche domestico arrivasse; fino a che, esaurito quello sfogo, le sue
forze e la sua determinazione ritornarono e la portarono ad una preci290
sa, categorica intenzione: avrebbe lottato per non perderlo.
Ad un certo punto, Wilhelm e la contessa si alzarono. Lei, allora, precipitosamente, si nascose. Li udì uscire, portarsi verso lo scalone e cominciare a salirlo. Si sporse dal suo nascondiglio e riuscì a
vederli: lui si appoggiava ad un bastone, lei gli teneva un braccio alla
vita. Vestivano entrambi una veste da camera. Continuarono a parlare
ed a salire e sparirono dietro l’angolo del corridoio del primo piano.
Sentì una porta che si chiudeva ed allora salì velocemente, a sua volta,
e si avvicinò ad una stanza dalla quale provenivano adesso le loro voci.
Si appostò dietro la porta, tese l’orecchio e, subito dopo, pensò di
spiarli dal buco della serratura. E, infatti, li vide svestirsi e distendersi
sul letto. Ancora qualche minuto, poi la loro posizione divenne quella
di un amplesso e i loro movimenti quelli di un atto amatorio.
Segreta ebbe per qualche attimo l’impulso di irrompere nella
stanza. Ma la fermò un’idea che le parve migliore. Doveva evitare una
scena madre e cogliere invece Wilhelm in un momento in cui si trovava solo. Perciò, si appiattò in una zona d’ombra in fondo al corridoio
e attese. I minuti trascorsero pesantemente, scanditi dall’ansimare di
una pendola addossata ad una parete. Poi, dopo circa un’ora, la contessa uscì rompendo il silenzio del corridoio con l’impertinente tacchettio
delle sue pantofole. Era in sottoveste e portava la vestaglia di raso su un
braccio. I suoi fianchi ad anfora ondeggiavano. Attraversò in larghezza
il corridoio ed entrò nella camera di fronte. Segreta, allora, si mosse e,
in punta dei piedi, raggiunse la porta della camera dove era rimasto
Wilhelm. Evidentemente, i due dormivano in due camere diverse, forse
per salvare le apparenze con i domestici. Girò la maniglia di ottone arabescato, tirò a sé il battente ed entrò. Il letto era vuoto e disfatto. Si
udiva uno scroscio d’acqua provenire dal bagno. La sua porta era socchiusa. Evidentemente, Wilhelm era sotto la doccia. Segreta si inoltrò
nella stanza e andò a sedersi sulla sponda del letto. Con una mano, si
ravviò nervosamente i capelli che le scendevano sulla schiena. Wilhelm
rientrò nella stanza dopo qualche minuto. Era intento ad asciugarsi.
Indossava un accappatoio a spugna celeste. Giunto presso il letto, scostò l’asciugamani e aprì gli occhi. Vide allora Segreta che lo fissava
accigliata e fece un salto indietro con le palpebre spalancate.
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“Segreta!” esclamò con voce strozzata.
“Ti faccio forse paura, Wilhelm?” chiese lei con intonazione dolente.
Lui non rispose e rimase a fissarla, pallido ed esterrefatto.
“È la tua cattiva coscienza che ti fa reagire così?”
“Segreta!” esclamò finalmente Wilhelm con voce deformata dall’emozione “Come mai sei qui?”
“Sono venuta a cercarti, spinta dal mio amore. Non pensavo però che
mi avessi già dimenticata”
“Non ti ho dimenticata. Ma ho fatto un incontro imprevisto.”
“Chi è quella signora?”
“È la contessa Julia Stauffenberg, vedova di un generale della
Wehrmacht. È originaria, come me, di Wernigerode. Là abbiamo trascorso insieme la nostra infanzia ed i primi anni di adolescenza. Poi, a
Stalingrado, dove sono stato ferito, l’ho ritrovata. Era un’infermiera
della Croce Rossa. Mi ha salvato la vita.”
“…. E, poi, siete finiti a letto!”
“Sì, è così.”
Si era ripromessa di manifestargli tutta la sua collera, di colpirlo coi pugni chiusi, di graffiarlo. Invece, fu sopraffatta dall’amarezza e
dalla delusione. Perse ogni capacità di reagire e si limitò a dirgli con
voce di pianto:
“Perché mi hai fatto questo, Wilhelm? Come hai potuto dimenticarmi
così presto?”
“Sono state le circostanze. Pensavo, in effetti, che non ti avrei più rivista. Eravamo in due paesi in guerra. Mi sentivo irrimediabilmente
separato da te. Non immaginavo assolutamente che saresti arrivata fin
qui. Come hai fatto?”
“Con la forza del mio amore, Wilhelm. Sognavo un incontro romantico con te. Credevo in un amore più forte delle distanze e del tempo.
Ma, evidentemente, si trattava del mio amore, Wilhelm, non del tuo.”
“Mi dispiace.”
“E, adesso, cosa pensi di fare?”
“Ho promesso a Julia di sposarla.”
“Oh, no! Non te lo permetto. Hai dimenticato quello che ho fatto per te?”
“Ti ho voluto bene. Ma, poi, le cose sono cambiate.”
292
“Non sono disposta a perderti.”
“Te l’ho detto: non prevedevo di rivederti. Adesso, è troppo tardi.”
A quel punto, Segreta non resse al dolore: si gettò piangendo
sul letto e cominciò a tempestare di pugni il cuscino. Lui si avvicinò
per consolarla. Lei, allora, si voltò, lo abbracciò e gli bagnò il viso con
le sue lacrime.
“Vieni, Wilhelm, ho fatto un lungo viaggio e non ho una casa dove
riposare. Fammi stare con te. Domani, me ne andrò.”
“Ti prego, rivestiti. Ti accompagnerò in un posto dove potrai dormire.”
“Non mi muoverò da questo letto!”
“Allora, me ne andrò io in un’altra camera.”
E fece per uscire. Ma lei lo fermò dicendogli di malavoglia:
“Aspettami: vengo con te.”
***
Fu sistemata da Wilhelm in una elegante pensione di Gutenberg
Strasse, nelle vicinanze del centro città. E trascorse il tempo visitando
senza entusiasmo i capolavori architettonici che erano valsi a Potsdam
la denominazione di “Versailles tedesca”. Aveva il cuore stretto in una
morsa. Dopo alcune sere, lui venne a farle visita e cenarono insieme.
Quando stava per andarsene, lei gli chiese di rimanere.
“Non posso” rispose Wilhelm con impaccio “Sarebbe immorale.”
“Cosa?!”
“Vivo con un’altra donna. Non voglio tradirla né creare situazioni
ambigue.”
“Mi sembri diventato improvvisamente un estraneo. Non dimenticare:
io vengo prima di lei. Ti ho dato la mia verginità. Ho rischiato il patibolo per te.”
Lui le andò vicino e l’ abbracciò.
“Non dimentico tutto questo. E provo molta tenerezza per te. Ma,
quando tu sei arrivata, mi ero già impegnato con Julia e non posso, ora,
cambiare questa situazione.”
“Ma tu le vuoi bene?”
“Sì, mi attrae molto.”
293
“Oh, no! Come puoi essere passato così, rapidamente da un sentimento all’altro?”
“Credimi, Segreta,, ho vissuto, finora sempre onorevolmente. Adesso,
questa situazione mi crea disagio ed angoscia. Ma non posso dividermi in due vite. Quando ho incontrato Julia, tu mi sembravi enormemente lontana. Appartenevamo ormai a due mondi diversi. Perciò, mi
sono liberamente abbandonato a questa nuova passione. A questo
punto, non posso più tornare indietro.”
“Quante parole, Wilhelm! Non le sopporto. Voglio solo le tue carezze
e i tuoi baci. Non farmi morire.”
E si avventò su di lui cercando la sua bocca. Ma Wilhelm l’abbracciò, le baciò la fronte, si divincolò e fuggì.
Lei si sentì immensamente umiliata. Trascorse altri giorni di
solitudine e di sofferenza. Il rifiuto di Wilhelm aveva ingigantito il
suo amore. Si era votata a lui totalmente, fin dal primo incontro, e
non tollerava di doverlo perdere. Perciò, in uno stato di ansia febbrile, decise, una settimana dopo, di andarlo a trovare. Una sera, si fece
portare da un taxi all’altezza del Neuer Garten, lo attraversò a piedi
e giunse alle spalle della villa. Soffiava un vento freddo che fischiava lamentosamente e faceva fremere il fogliame. Ripeté con cautela
lo stesso percorso, penetrò nell’interno e giunse fino alla camera da
letto di Wilhelm. La casa era immersa nella penombra e in un silenzio ingigantito dal lontano ululato del vento. Aprì cautamente la porta
e sentì il respiro regolare di Wilhelm. Sembrava immerso nel sonno.
Si avvicinò al letto. Una pallida luminosità penetrava dalla finestra,
proveniente dalle luci della recinzione, dato che gli scuri non erano
chiusi. Si spogliò silenziosamente. Non indossava, questa volta, il
tailleur con cui era venuta a Potsdam ma un abito di maglia azzurro
sotto un impermeabile bianco. Lasciò cadere gli abiti sul pavimento
di marmo e, nuda, si infilò nel letto. Wilhelm, dormiva su un fianco
e le presentava la schiena. Lei si avvicinò e, da dietro, lo abbracciò,
inebriata da quella vicinanza. Rimase così per alcuni minuti. Un orologio batteva il tempo riempiendo la stanza con un ticchettio che, nel
silenzio, sembrava incombente e assillante. L’onda dei ricordi, in
quella calma, in quel tepore, le parve lieve e carezzevole. Perciò, fu
294
colta da una graduale sonnolenza che la sottrasse a quell’ovattata
realtà. Dopo un tempo indefinibile, fu svegliata da un’esclamazione
improvvisa che la fece sobbalzare:
“Cosa fai qui?”
Aprì gli occhi e vide Wilhelm vicinissimo a lei. Si era voltato
e, nel chiarore dell’alba che si stava diffondendo attraverso i vetri, si
era accorto di lei.
“Non ti fa piacere vedermi?” lo abbracciò e si protese per baciarlo. Ma
lui ruotò il viso cosicché le sue labbra lo raggiunsero solo su una guancia.
“Non devi fare queste bambinate. Vuoi compromettermi?”
“Lei sta dormendo, a quest’ora. Vieni amiamoci. Ho bisogno dei tuoi
baci, per vivere.”
“Mi dispiace, ma non è possibile. Odio gli inganni ed i sotterfugi. Ti
prego, rivestiti e ritorna al tuo albergo!”
Era una nuova, cocente umiliazione. Il sangue le affluì precipitosamente al cervello e la proiettò in un impeto di rabbia. Scostò le
coperte, si sollevò sulle ginocchia, si mise a cavalcioni del suo corpo
e cominciò a colpirlo con pugni e schiaffi. Si aspettava una sua reazione. Ma Wilhelm accettò passivamente i suoi colpi. Restò supino e
non sollevò neppure le braccia per difendersi. Tuttavia, pesava su di
lei il suo sguardo addolorato. Allora, Segreta si fermò e scoppiò a
piangere quasi che avesse perduto irrimediabilmente la baldanzosità
di appena due, tre anni prima. Poi, si curvò su di lui e prese a baciarlo su tutto il viso, freneticamente. Ma Wilhelm rimase ancora immobile e inerte fissandola. Segreta sentì che gli stava dando soltanto
fastidio e comprese che non vi era più niente da fare per lei. Scese dal
letto, si rivestì lentamente a testa bassa, si voltò a guardarlo con risentimento, in silenzio, quindi uscì dalla stanza.
In albergo, chiamò Armstrong al numero telefonico che lui le
aveva indicato. Una voce maschile le rispose però che “il capo” era
assente. Lei lasciò allora un messaggio che fu raccolto perché, due
giorni dopo, Armstrong le telefonò.
“Hai trovato il tuo tedescone?”
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“Sì”
“Rimarrai con lui?”
“Sta per sposarsi con quella contessa” Vi fu una pausa. Poi, lui riprese:
“Cosa intendi fare?”
“Vorrei ritornarmene a casa.”
“È prematuro. Se vuoi, puoi andare intanto a far visita a tua madre. Ho
saputo che è sepolta a Rheinsberg, a nord di Potsdam.”
“Grazie! È una grande notizia. Ma, poi, che farò?”
“In attesa di un’occasione per ritornare a casa, ti andrebbe di trascorrere qualche settimana sulle rive del Baltico?”
“Come volete.”
“Sta bene. Quando sei pronta, richiama e lascia il tuo recapito. Ti manderò a prendere da un mio uomo che provvederà a sistemarti. Io verrò
poi a farti visita di tanto in tanto”
Si recò in treno a Rheinsberg e, nel cimitero, posto sul digradare di una collina, al cospetto del lago Grienerick, rintracciò la tomba
di sua madre Atlanta, piccola e sperduta fra una moltitudine di tumuli.
Si raccolse in preghiera e promise a se stessa che avrebbe trasferito un
giorno i suoi resti nella cappella di famiglia. Ritornò a farle visita per
tre giorni di seguito portando fiori e lumini. Poi, telefonò al numero
indicatole da Armstrong, e lasciò il suo recapito. L’indomani, 5 maggio 1943, venne a rilevarla, in albergo, l’uomo col cranio rasato che
aveva condotto lei e Armstrong da Berlino a Potsdam. Era un individuo di indefinibile nazionalità, di poche parole e di modi sbrigativi. Si
chiamava Wolf. Segreta pensò che fosse un nome di battaglia.
Intrapresero il viaggio in macchina, dirigendosi a nord, verso la
Pomerania, una regione dominata per lungo tempo, in passato, dagli
svedesi. Incontrarono vaste estensioni riservate al pascolo, piccoli
laghi, territori paludosi, coltivazioni di cereali. Per evitare i controlli
della Gestapo, Wolf preferì percorrere strade secondarie che allungarono il percorso ma che offrirono a Segreta, nella parte finale del viaggio, la vista delle spiagge spaziose e delle scogliere bagnate dal mare
Baltico, in quel giorno colmo di placide intonazioni verdi e azzurre.
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Ma lei non guardava quei panorami. I suoi occhi erano spersi nel
vuoto: ricordava dolorosamente Wilhelm e il suo rifiuto e quella sua
indifferenza gentile e crudele. Wolf non poteva accorgersene ma lei
era percorsa da un tremore continuo e si chiedeva come avrebbe fatto
a vivere con quella disperazione nel cuore. L’auto continuava la sua
corsa veloce. A tarda sera, entrarono nell’abitato di Stralsund. Là, si
rifocillarono, poi, in piena notte, attraversarono il ponte che collega la
terra ferma con l’isola di Rügen, la più grande e la più bella della
Germania. I controlli della polizia erano saltuari e l’ingresso nell’isola avvenne senza impedimenti. Wolf continuò a guidare nella notte.
Raggiunse e superò Putbus, una cittadina posta sulla costa sud orientale. Alle prime luci dell’alba, aiutandosi con una cartina e con un
foglio di appunti, si inoltrò lungo una strada alberata panoramica che
procedeva ad est dell’abitato. Sulla destra, era visibile un pendio prativo che conduceva fino alla spiaggia e, a monte, un terreno in salita
verso alture boschive. Individuò, infine, un sentiero che si inerpicava
verso una grande casa, costruita a regola d’arte con tronchi d’albero.
A quel punto, fermò l’auto e le disse:
“Il capo ha scelto per te quest’isola. Ritengo che ti troverai bene. È una
località balneare. In estate, potrai fare i bagni.”
“Il signor Armstrong è qui?”
“No, è al lavoro in un altro posto. Ma verrà presto a trovarti.”
“Quindi, vivrò sola in quella casa?”
“No, abiterai con una famiglia del posto che collabora con noi.”
“Sanno che sono inglese?”
“No, sanno soltanto che sei con noi, che formiamo un gruppo.”
Rimise in moto, percorse con l’auto il sentiero che saliva verso
la casa e si fermò sullo spiazzo che la circondava, recintato con una
staccionata in legno. Gravava su quel posto un odore di resina. Al loro
arrivo, una porta si aprì e comparve un uomo di forse trent’anni che
andò loro incontro. Mentre si stavano salutando, uscì dalla casa anche
una giovane donna bionda. Entrambi avevano l’aspetto di contadini.
Evidentemente, aspettavano il loro arrivo perché li accolsero benevolmente, li fecero entrare e offrirono loro un latte caldo, di fronte ad un
grande camino acceso. Subito dopo, la padrona di casa l’accompagnò
297
nella sua stanza al primo piano. Le disse di chiamarsi Sarah e di essere di origini svedesi. Le parve aperta e gioviale. L’aiutò a disfare la
valigia, le preparò il letto e la consigliò di riposarsi. Dopo il pranzo,
consumato insieme, Wolf prese congedo. Nel salutarla, le raccomandò
di portare sempre con sé i documenti avuti da Armstrong e di evitare i
controlli della Gestapo.
“Girerò al largo. E tu, stai ritornando a Potsdam?”
“No, vado a raggiungere il mio capo.”
“Dove si trova?”
“Te lo preciserà lui stesso quando verrà. Posso solo dirti che la sua missione è difficile e pericolosa.”
Lei lo incaricò di portargli i suoi saluti ed i suoi auguri di buona
riuscita. Wolf abbozzò un sorriso e partì.
La sua vita, con l’arrivo in quell’isola, cambiò nuovamente.
Aiutava Sarah nelle faccende domestiche, trascorreva molte ore all’aria aperta, alla scoperta degli scenari incantevoli di quell’angolo di
mondo apparentemente così sognante, così lontano dalle atmosfere di
guerra dove si calpestavano tutti i valori e tutti gli ideali dell’uomo.
Conobbe nuove luci, nuovi colori, spiagge riposanti e bianche scogliere, protese verso un mare trasparente. Un luogo ideale per una vacanza. Ma il suo animo non era predisposto. Ogni cosa e persona intorno
a lei le appariva tediosa e il futuro, senza Wilhelm, insopportabile.
Dopo le prime giornate trascorse alla scoperta dell’isola, ripiombò nell’insofferenza. Prese l’abitudine di starsene distesa sul letto, per ore,
come una persona malata, oppure di indugiare davanti al fuoco. Solo
quello spettacolo riusciva a calmare il suo rodimento.
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CAPITOLO TRENTOTTESIMO
Wilhelm ricordava con il cuore stretto Segreta ma era sempre
più avvinto dalla personalità e dal fascino di Julia. Osservandola, cercava di studiare i suoi vari volti: vedeva in lei la donna di mondo, brillante nei salotti, ricca di classe, raffinata, elegantissima. E poi la donna
privata, riservatissima sul suo passato, lunare nella manifestazione dei
suoi sentimenti, simile ad una sfinge in amore. Infine, la donna di cultura, profonda conoscitrice della letteratura e della storia tedesca, frequentatrice di accademie e di salotti letterari. Da quando lui le aveva
promesso di sposarla, erano sempre usciti ufficialmente insieme e
avevano partecipato, come fidanzati, a cene e ricevimenti. Quelle
patinate riunioni mondane erano rese opulente dalle scintillanti uniformi degli ufficiali della Wehrmacht. Wilhelm, invece, interveniva in
borghese perché si sentiva fuori posto. Pensava alla guerra che divampava sull’Ostfront ed ai soldati che morivano a centinaia di migliaia.
Provava un profondo disagio. Avrebbe voluto sottrarsi a quegli inviti
ma sapeva che avrebbe arrecato un dispiacere a Julia. Perciò, guardava con speranza al giorno in cui si sarebbe presentato all’ospedale
militare per la visita di controllo. Sperava ardentemente di essere
dichiarato idoneo e ritornare al fronte.
Intanto, in distanza, la guerra continuava mentre, a Potsdam, la
primavera avanzava e inghirlandava gli alberi del “Neuer Garten”. Le
squisite architetture barocche dell’immenso parco di Sanssouci, la
luminosità dei laghi, la morbidezza dei profili boschivi che circondavano la città, la compostezza settecentesca delle sue strade, esorcizzavano le visioni spaventevoli della guerra che, per la Germania, andava
cambiando pericolosamente aspetto: su tutti i fronti, i suoi nemici
erano infatti passati al contrattacco!
Dopo il loro rientro da Wernigerode, Julia si allontanò da
Potsdam per partecipare ad un’altra riunione segreta. Disse a Wilhelm
che l’incontro dei congiurati avrebbe avuto luogo, di sera, in una villa,
nei pressi di Magdeburgo. Ritornò nel pomeriggio successivo guidando personalmente un’anonima auto presa a noleggio, per non dare nell’occhio, che poi un domestico riportò all’autorimessa. Era stanca ma,
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dopo una lunga immersione nella vasca da bagno, apparve ristorata.
Cenò con Wilhelm e poi, nella biblioteca, gli raccontò i particolari
della riunione.
“È intervenuto anche il generale Beck. Lo conosci?”
“Di fama, non personalmente: ricordo che è stato capo di stato maggiore generale dell’esercito”
“Sì, per cinque anni, fino al 1938. È stato un profondo teorico ed ha
ostacolato sistematicamente i farneticanti progetti di Hitler. Da buon
conservatore, ha manifestato con forza la sua contrarietà alla nazificazione delle truppe. Voleva infatti che la ricostruzione dell’esercito
fosse realizzata nello stile del vecchio modello, non come braccio
armato del partito nazista. Poi, quando ha compreso, nell’estate 1938,
che non gli era possibile resistere alla volontà di Hitler, ha deciso di
ritirarsi nell’ombra. Ma ha continuato ad opporsi al nazismo insieme
ai membri del gruppo eversivo detto “Mittwochgesellschaft” (club del
mercoledì). Se Hitler verrà tolto di mezzo, Beck diventerà presidente
della nuova Germania”
Poco più tardi, a letto, dopo l’amore, riprese quel discorso.
“Non riesco a tenere tutto per me. È un segreto esplosivo. Non posso
fare a meno di confidarmi con te. Ti dispiace?”
“Ti ascolto con l’orecchio del cuore. Ma con l’altro orecchio, quello
del capitano Wilhelm Klausing, sono costretto a dimenticare”
“Vuoi rimanere a tutti i costi fedele ai tuoi principi?”
“Non posso farne a meno. È questo il mio concetto dell’onore.”
“Purtroppo, siamo su fronti opposti.”
“Vuol dire che percorreremo ciascuno la propria strada. Del resto, tu
non hai fatto giuramenti, non hai contratto vincoli. Il tuo amor di patria
vuol manifestarsi così”
A fine aprile, Wilhelm fu sottoposto alla prescritta visita di controllo dello stato della sua gamba. Fu giudicato idoneo solo per i servizi sedentari. Lui manifestò la sua insoddisfazione al colonnello presidente della commissione medica ospedaliera.
“È proprio un miracolo, capitano” fu la risposta “che voi abbiate ancora la vostra gamba. Dalle radiografie, si vede chiaramente che, quando
300
siete saltato su quella mina, l’osso si è letteralmente sbriciolato. Tenuto
conto delle condizioni in cui funzionava allora l’ospedale di Pitomnik,
non capisco come mai non ve l’abbiano amputata”
“Io ricordo com’è andata” rispose Wilhelm ripensando all’intervento
energico e risoluto di Julia. Il colonnello lo fissò con uno sguardo interrogativo. Poi, visto che lui non aggiungeva altro, concluse:
“Fra tre mesi, forse, potrete ritornare in comando”
Poiché era un ufficiale di stato maggiore, Wilhelm fu assegnato all’OKH, il comando supremo dell’esercito. Era deluso. Sperava di
essere impiegato almeno nello stato maggiore di una divisione impegnata sul fronte orientale. Sospettò che, nelle decisioni dell’alto
comando, avesse influito qualche intervento confidenziale di Julia.
Gliene parlò e lei rispose:
“Non ho chiesto favori a nessuno. Ho fatto solo sapere a chi doveva
decidere che sei il mio fidanzato e che dobbiamo sposarci.”
Wilhelm prese servizio a Berlino, in Bendlerstrasse , il 28 aprile 1943. Ma la sua vita non cambiò molto. Alla fine del lavoro, con la
sua macchina, raggiungeva infatti Potsdam e concludeva la sua giornata in compagnia di Julia. E, d’accordo con lei, stabilì di sposarsi il
18 giugno di quello stesso anno. Nel prendere quella decisione, pensò
a sua sorella Oana, l’unica persona di famiglia rimastagli. Non l’aveva più vista dopo aver lasciato Zurigo, in compagnia di Segreta, nel
giugno 1941. Preso dai propri problemi, era rimasto al di fuori della
sua vita che, intanto, andava subendo solenni modificazioni: anzitutto, la decisione di intraprendere la vita religiosa, poi l’ingresso in convento, nel dicembre 1941, per il periodo di noviziato, in attesa di prendere i voti e uscire definitivamente dal mondo delle passioni umane.
Sì, Wilhelm era stato assente dalla sua vita in momenti decisivi ed
aveva dovuto rinunciare alla sua presenza silenziosa, composta,
dimessa, ma rivelatrice di un’intensa interiorità. Si era soffermato
tante volte a pensare a lei nel corso di quegli anni stravolgenti, ma
solo in quel momento si rese conto di quanto aveva perduto.
A quell’epoca, Oana, che apparteneva all’Ordine delle suore
benedettine, si trovava nell’Abbazia femminile di S.Giovanni Battista,
a Mustair, nel sud della Svizzera. Wilhelm le scrisse e l’invitò al matri301
monio assicurandole che, se avesse aderito, l’avrebbe attesa alla frontiera con le relative autorizzazioni. Sapeva che Oana, nel prendere i
voti, avrebbe assunto il nome soave di “suor Maria”. Il loro incontro a
Basilea fu struggente. Gli parve quasi più bassa e più gracile rispetto ai
tempi in cui vivevano con i loro genitori a Wernigerode. Il suo volto
pallido e affilato era incorniciato dalla cuffia. Fissò con emozione i suoi
occhi grigioverdi e ne rimase abbagliato: gli parvero radiosi, trasparenti, colmi di riflessi, con una luce interiore di sovrumana serenità.
Viaggiarono in treno fino a Berlino e poi raggiunsero Potsdam
in auto. Julia l’accolse con l’abituale compostezza e con sorridente
affettuosità. Wilhelm desiderava averla vicina il più a lungo possibile.
Perciò, nei giorni seguenti, fece il possibile per coinvolgerla nella loro
vita movimentata, resa addirittura convulsa dai preparativi per il matrimonio. Ma Oana preferiva ritirarsi presto in camera sua per dedicarsi
alla proprie devozioni. Wilhelm si accorse che si sottraeva volentieri
alle futili conversazioni in salotto e alle riunioni chiassose e tendeva
invece ad isolarsi. Quando non si chiudeva in camera sua, usciva in
giardino e si appartava. Ormai, pensava Wilhelm, apparteneva ad un
altro mondo, fatto di meditazione, di interiorità e dell’ineffabile ricerca di Dio. Si rese anche conto del grande solco che ormai li divideva:
lui si preoccupava delle cose del mondo sensibile, dei problemi e degli
interessi terreni. Lei, invece, viveva nel sogno. Ma non era un sogno
popolato da fantasie, come accade nell’infanzia e nell’adolescenza,
bensì proiettato verso un preciso mondo celeste illuminato dal Verbo.
Per questo appariva assorta, trasognata. Era certo impegnata, pensava
Wilhelm, in un dialogo interiore con gli esseri perfetti, con gli spiriti
della luce che la fede addita ai credenti. Un giorno, quasi rammaricato
da quella tendenza all’isolamento, che lo escludeva dalla sua vita,
Wilhelm la seguì in giardino e si intrattenne con lei. Parlarono dei loro
genitori, della casa paterna, dei coloni e dei contadini, perfino dei cani
e dei gatti coi quali giocavano quando erano bambini. Poi il discorso
di spostò sulla sua scelta monastica. Lui le chiese se, per caso, fosse
pentita e lei gli rispose che aveva risposto ad un bisogno del suo animo.
“Fin da quando ero bambina, Wilhelm, ho avuto il dono della fede.
Ricordo che quando mi trovavo in difficoltà o in pericolo, dicevo sem302
pre una preghiera. Poi, è giunto quel giorno terribile, quando siamo
rimasti soli e storditi. Nel dolore di quella perdita, mi sono rifugiata
ancor più intensamente nella preghiera, fino a quando essa è diventata
per me un bisogno. Ho continuato a pregare fervidamente in convento
e mi sono resa conto che il mio cuore era pronto ormai a comprendere
e attuare il sublime messaggio di Gesù Cristo. Adesso so che il mondo
non è popolato da nemici o da estranei ma soltanto da fratelli bisognosi del mio amore. Ti farò anche un rivelazione: dopo anni di preghiera
e di vita cristiana, il Signore ha cominciato a concedermi dei segni di
una bellezza sconvolgente, che io porto nel segreto e che non ho mai
rivelato a nessuno. Credimi: la preghiera e la carità sono due mezzi
potenti per ricevere risposte dal Cielo”
“Quindi hai trovato la tua strada?”
“Sì, l’unica, vera strada non soltanto mia ma di tutti, perché il mondo
non può vivere senza la Croce di Cristo. Ora, la mia vita è radiosa,
Wilhelm, e voglio spenderla per il bene di coloro che soffrono. Presto,
partirò per le missioni.”
“Noi due abbiamo imboccato due strade completamente diverse che, in
un certo senso, ci hanno allontanati.”
“Perché tu sei immerso fino al collo nelle cose del mondo ed hai trascurato la vita dello spirito.”
“Il fatto è che le cose del mondo possono essere terribili, come puoi
ben vedere. Come fare allora a sfuggirle?”
“Sì, ti capisco. Ma, in ogni situazione, anche estrema, cerca la parola
di Dio, segui le sue leggi. Devi stare attento: i nostri impulsi violenti,
le nostre collere, la violenza, gli odi, le vendette, sono soltanto frutto
dell’azione malefica del demonio. Tu non puoi accorgertene ma io
sono giunta al punto di distinguere la sua voce e di respingerla. La verità è che la nostra anima è un campo di battaglia in cui il demonio e lo
Spirito Santo si contendono incessantemente la nostra destinazione
eterna. In questa situazione, non ci può essere pace per l’uomo se non
rifugiandosi in Dio. Lui è la nostra roccia, il nostro baluardo.
Ricordati: le cose del mondo passano mentre si avvicina il tuo incontro con lui.”
303
Per un rispetto ai combattenti, il matrimonio di Julia e Wilhelm
si svolse, il 18 giugno 1943, in forma semplice ed austera, con l’intervento di un ristretto numero di invitati. Wilhelm fu grato a Julia di questa riservatezza. Lei indossava un abito lungo di raso color oro con
motivi ricamati. Oana, facendo forza sulla sua natura e sulle sue abitudini, partecipò al piccolo ricevimento e illuminò tutti con il suo comportamento umile e dimesso.
Il giorno dopo, partì. Non volle che Wilhelm l’accompagnasse
fino alla frontiera con la Svizzera perché sapeva bene, assicurò, come
disimpegnarsi. Tuttavia, lui insistette per condurla in macchina almeno alla “Anhalter Bahnhof”, la neorinascimentale stazione ferroviaria
maggiore di Berlino. Nell’attesa del treno, le disse con voce strozzata:
“Mi dispiace separarmi da te. Sarebbe stato bello rimanere insieme. Sei
tutto quanto mi rimane della nostra famiglia”
“Sono anch’io tanto turbata nel vederti andare incontro all’incerto
destino che ci attende. Non dimenticare, se puoi, quello che ti ho detto”
Fra i vapori della locomotiva, lui l’abbracciò commosso e
rimase a salutarla tendendo un braccio mentre lei si allontanava fino a
scomparire. Sentiva, in cuor suo, che non l’avrebbe più rivista.
304
CAPITOLO TRENTANOVESIMO
Nella primavera che si inoltrava, l’isola di Rügen, - quell’ultimo avamposto della Germania, proteso, oltre il Baltico, verso la
Svezia, - si era abbigliata di nuovi, languidi colori. Una luce più brillante e più calda accarezzava le foreste, le sabbie rosate, le bianche
scogliere, le architetture gotiche dei paesi, dipingendole con vezzose
sfumature. Segreta amava rifugiarsi nella contemplazione di quelle
bellezze e abbandonarsi ai profondi silenzi delle ampie distese incontaminate o al malinconico tonfo della risacca. E, una sera, alla metà di
maggio, non sopportando di stare a letto, dove era inseguita dalle sue
ossessioni, si alzò, indossò un impermeabile da pescatore e svegliò il
cane lupo “Blitz”. Con lui, uscì correndo e venne avvolta dalla sera,
percorsa da un vento leggero che la fece rabbrividire. Il cane, giocando con lei, imboccò un viottolo che conduceva, in discesa, alla spiaggia. Là, predominavano il forte tanfo della salsedine e il solitario mormorio del mare. Nel cielo, uno spicchio di luna rifletteva in basso un
incerto chiarore.
Si sedette sulla sabbia, di fronte al mare nero e infido di
Greifswalder. Al di là, un sipario di tenebre copriva i profili lontani
dell’isola di Usedom. L’umidità era penetrante. Con gli occhi socchiusi, si abbandonò alla carezza della notte, oppressa da pensieri che si
dipanavano come spire di fumo. Ma, dopo un tempo indefinibile, fu
richiamata alla realtà dall’improvviso abbaiare di Blitz che si avventò
verso la riva. Le giunsero uno sciacquio, quindi una voce lontana.
Pensò che fossero dei pescatori. Infatti, qualche attimo dopo, la sabbia
scricchiolò sotto un passo che si avvicinava e che la riempì di inquietudine. Ancora qualche attimo, poi ebbe la sensazione opprimente che
qualcuno le stesse davanti. Percepiva le vibrazioni del suo sopraffiato,
dei suoi movimenti. Subito dopo, udì una voce nota:
“Guten Tag Kind! (ciao, bambina)”
Saltò in piedi. Gioiosamente, aveva riconosciuto la voce
di Armstrong. Andò in quella direzione e urtò contro il suo
petto. Si accorse che era bagnato ma, ciò nonostante, gli lanciò
le braccia al collo.
305
“Moheb!! ” gridò chiamandolo col suo vero nome. Sentì che lui la
baciava con impeto ma non si ritrasse.
“Grazie di questa accoglienza, bambina!”
“Sei tutto bagnato!”
“Certo! Vengo dall’acqua.”
Quell’improvvisa apparizione le aveva aperto il cuore. Non si
chiese il perché: sapeva solo che il suo arrivo, la sua presenza, la sottraevano ad una snervante solitudine. Mentre il cane abbaiava festoso,
lui la sollevò in braccio e si avviò. Lei gli teneva le braccia al collo.
“Sento che hai una tuta di gomma addosso.”
“Sì, da subacqueo. Ho nuotato per mezzo miglio”
“Mi racconterai tutto?”
“Certamente!”
L’abbaiare di Blitz aveva svegliato Gerhart e Sarah i quali
accolsero Armstrong festosamente. Accesero subito il fuoco nella stanza d’ingresso e anche nella sua camera, gli servirono poi una cena
calda e gli fecero compagnia mentre si rifocillava. Segreta notò che era
pallido e smagrito e aveva la barba non rasata. Più tardi, dopo che i
padroni di casa se ne erano ritornati a dormire, gli chiese:
“Raccontami! Sono curiosa di sapere da dove vieni e qual è il tuo lavoro.”
“Non ho mai incontrato tanti rischi e tanti disagi. Sono reduce dall’isola di Usedom che si trova di fronte a noi, verso sud. I tedeschi vi
hanno installato delle rampe di lancio di razzi di nuova concezione,
rivolti contro l’Inghilterra. Un pericolo, quindi, mortale. Ma la raccolta dei dati relativi a questa nuova arma di distruzione è ardua perché
tutta la zona è sorvegliatissima”
“Quindi, sei ritornato a mani vuote?”
“No, affatto. Sono riuscito a mettere insieme molte notizie. Adesso so
che gli impianti sono concentrati vicino a Peenemünde, un villaggio di
pescatori sulla costa nord est dell’isola. Secondo voci raccolte proprio
fra gli abitanti, in due vastissimi campi recintati si susseguono enormi
officine di assemblaggio, laboratori, hangars, magazzini di idrogeno
liquido, gallerie del vento. Tutte queste costruzioni sono sapientemente nascoste all’osservazione aerea dai boschi di querce, faggi e abeti”
“Sei venuto appositamente da Londra per questo?”
306
“Infatti. L’MI-6 (il servizio controinformativo internazionale inglese),
fin dal 1942, ha cominciato a ricevere, dai propri agenti dislocati in
Svezia e in Danimarca, informative su misteriosi oggetti volanti avvistati sul mar Baltico, che correvano verso est e cadevano in mare con
una fragorosa esplosione. Il ripetersi di quei rapporti ha costituito una
conferma che erano in corso, da parte dei tedeschi, esperimenti per il
lancio di missili a lunga gittata. Ad essi, ha fatto seguito, nel dicembre,
una relazione di un chimico danese che descriveva i tests di lancio di
un razzo gigante a Swinemünde, sempre sulla costa baltica. A quel
punto, è stato costituito a Londra un comitato speciale dei servizi
segreti per studiare il programma dei missili tedeschi. Io mi trovavo in
un carcere militare inglese con l’accusa di spionaggio. Mentre aspettavo il peggio, mi è stato chiesto, un giorno, se mi sentissi più votato per
l’aldilà o se fossi piuttosto disposto a collaborare. Naturalmente, ho
scelto la seconda alternativa e sono stato inserito nell’attività di contrasto al programma missilistico tedesco. Il resto ti è noto.”
“E che impressione ti fa servire ora gli inglesi tradendo i tedeschi per
i quali lavoravi prima?”
“Nessuna. Mi considero un mercenario. Lavoro per chi mi paga. Né
l’Inghilterra né la Germania sono la mia patria, non sono vincolato a
nessun giuramento.”
“Ma come puoi sperare che i tedeschi e gli inglesi si fidino di te?”
“Certamente non si fidano. Tuttavia, mostrano di apprezzare molto le
mie informative che sono tutte di prima mano.”
“Quindi, servi e tradisci entrambi?”
“Sì, è così. Ma essi non lo sanno. Comunque, consolati: vi sono centinaia di spie, in questo momento, che fanno il doppio gioco”
E, in così dire, Armstrong si tolse il maglione e rimase a torso nudo.
“Scusami” disse rivolgendosi a Segreta “ma comincio a sentire caldo.
Ero intirizzito, al principio, ma questo fuoco ha asciugato tutta la mia
umidità.”
“Anch’io, sento caldo.” fece eco Segreta. Si alzò e si tolse anche lei il
pullover. Rimase così col torace coperto dal solo reggiseno. Guardò
Armstrong e sorprese una sua occhiata di compiacimento. Si fissarono.
“Credo che sia ora di andare a letto. Vuoi rimanere con me?”
307
“Ti ho promesso una notte d’amore, Moheb, e te la darò. Ma non adesso. Sono a pezzi. Rimarrò con te stasera ma ricordati: ho soltanto bisogno di tenerezza”
Armstrong si avvicinò e la prese in braccio. Poi, la portò di
peso al primo piano, senza manifestare alcuno sforzo. Lei abbandonò
la testa sul suo petto. Lui entrò nella propria camera. Anche là, splendeva un bel fuoco. Depose Segreta sul letto.
“Sistemati pure. Io vado in cantina a trasmettere un messaggio.”
“A Londra?”
“Sì, debbo riferire il risultato dei miei accertamenti.”
Dopo che fu uscito, Segreta si lavò in un bagno attiguo, indossò una leggera camicia da notte e si distese sotto le coperte. In attesa
che lui ritornasse, cercò di analizzare i propri sentimenti. Si chiese perché mai avesse scelto di dormire con lui nonostante si fosse rifiutata di
concedergli la pattuita notte d’amore. Cosa la spingeva verso quell’individuo imprevedibile? Forse, si disse, soltanto un bisogno di protezione, di calore umano. Quell’uomo all’inizio così scostante le infondeva ora sicurezza, le dava la sensazione di essere difesa.
Lui ritornò mezz’ora dopo, fece un bagno ed entrò nel letto. Era
nudo. Segreta lo aveva già visto così, magro e muscoloso. La tenne
abbracciata limitandosi a baciarla di tanto in tanto sulla fronte e ad
accarezzarle i capelli.
“Mi hai detto che sei a pezzi. Alludevi al tuo cuore?”
“Sì, certo”
“È a causa del tuo tedesco?”
“Sì, ha una nuova donna. Sono riuscita a vederlo ma mi ha respinta.”
“Mi dispiace. Ma non scoraggiarti. La tua vita è appena agli inizi.
Incontrerai tanti altri uomini. Dimenticherai Wilhelm!”
“Non lo so. È stato il mio primo amore. È diventato il padrone assoluto del mio cuore!”
Si addormentò con la testa appoggiata sul suo petto.
Istintivamente, si fidava di lui. Ma la mattina seguente, quando si svegliò, il letto era vuoto. Allora, andò a cercarlo. Lo trovò in cantina, alla
ricetrasmittente.
“Non temi che i tedeschi intercettino il segnale?”
308
“Sì, è un pericolo reale. Ma, da quello che ho visto, non hanno su quest’isola dei furgoni attrezzati. Comunque, ho anche un generatore che
distorce il segnale e che serve a confonderli.”
Nel pomeriggio, sotto un sole carezzevole, uscirono a passeggio nei boschi. Li accompagnava il cane “Blitz”. Segreta constatò che
fra Moheb e l’animale vi era una grande intesa. Giocavano con delle
pigne che lui lanciava e che il cane riportava, eccitatissimo. Si vedeva
che erano amici. Si sedettero sull’erba.
“Ti ringrazio per questa notte.”
“Cioè?”
“Sei stato paziente. Hai rispettato la mia preghiera. Come hai potuto
controllarti?”
Lui sorrise.
“È stata un’esperienza nuovissima. Per la prima volta nella mia vita,
sono andato in bianco.”
Lei rise divertita.
“Mi sono sforzato di pensare che, in fondo, sei una bambina. Ma, nel
cuore della notte, il mio desiderio è diventato imponente. Allora, mi
sono alzato e sono sceso al pianterreno. Ho dormito su una sedia”
Lei scoppiò nuovamente a ridere e si sporse a baciarlo su una
guancia. Poi, il discorso si spostò sul lavoro.
“Ritornerai a Usedom, Moheb?”
“Sì, certo, questa notte.”
“Stanotte? Vuoi lasciarmi di nuovo sola?”
“Devo farlo, bambina.”
“Allora portami con te.”
“Sarebbe una pazzia. Il rischio è altissimo.”
“Non m’importa. Non voglio rimanere sola. Mi sembra di impazzire.”
“Cerca di ragionare.”
“Non è solo perché sto soffrendo e voglio stordirmi ma anche perché
voglio riparare almeno in parte al male che ho fatto al mio paese. Sento
il bisogno di riscattarmi.”
Continuarono a discutere per una buona mezz’ora. Poi, di fronte alla
sua motivata determinazione, Armstrong cedette anche perché Segreta
aveva rivestito le sue argomentazioni con le lusinghe della seduzione.
309
“E sia. Per futura memoria, comunicherò alla MI-6 il tuo nuovo nominativo, cioè Nebel, quale mia compagna di missione”
“Grazie!” gridò lei e lo abbracciò con tale impeto da finire a terra con
lui. Questa volta, Moheb non resistette: si sporse su di lei, l’inchiodò
con le spalle a terra e la baciò aggressivamente sulle labbra. Poi, forse,
si pentì. Si alzò e si incamminò. Lei gli corse dietro insieme a Blitz
che scodinzolava ignaro.
Lasciarono la casa alle 10 di sera, dopo aver salutato e ringraziato Gerhart e Sarah. Lui aveva consegnato a Segreta una muta da
subacqueo che teneva nascosta in cantina insieme ad altre attrezzature.
Si immersero nell’acqua nera e si allontanarono a nuoto avvolti in
un’oscurità profonda che comunicava loro la sensazione di un’angosciosa cecità. Ad un certo punto, Armstrong toccò un braccio di
Segreta e le disse di fermarsi. Attesero finché udirono il richiamo di un
uccello acquatico.
“Andiamo!” fece lui allora e si diresse in direzione di quel monotono
gracidare. Giunsero fino a loro uno sciacquio e, subito dopo, una voce
maschile che, in tono soffocato, chiamava Armstrong. Alla smorta
luce di un quarto di luna altalenante fra nuvole fosche, lei vide una
sagoma oscura ergersi sull’acqua. Seguendo Armstrong, si diresse
verso di essa e, quando le giunse a ridosso, protese una mano e si
accorse che si trovava di fronte ad uno scafo d’acciaio. Lui la prese
per un braccio e la spinse verso una scaletta. La fece salire, poi la
seguì. Arrivarono gocciolanti su una tolda dove intravidero a stento il
profilo di un uomo. Quell’oscurità era soffocante. Una voce ordinò
loro, in inglese, di seguirlo. Segreta inciampò più volte, poi, con l’aiuto di Armstrong si introdusse in un boccaporto e si calò, usando una
scaletta verticale, nelle viscere di quella strana imbarcazione. Lui la
condusse in una stretta cabina dove entrambi si tolsero la muta e rimasero in pantaloni e maglione a girocollo.
“Siamo in un sottomarino?” chiese lei.
“No, soltanto in un piccolo batiscafo che sta sul fondo di giorno ed emerge di notte. Ora faremo una nuova esplorazione ravvicinata della costa con l’aiuto di binocoli a raggi infrarossi,
adatti alla visione notturna.”
310
Dopo essersi riposati, si coprirono con un giubbotto imbottito
tratto da un armadietto. Uscirono dalla cabina e incontrarono il comandante, un tenente di vascello della marina britannica. Armstrong fece
le presentazioni, quindi salirono tutti sulla torretta. Intanto, il batiscafo aveva attraversato il golfo di Greifswalder verso sud ed ora navigava lungo l’isola di Usedom. Mentre si muoveva con un lieve sciabordio, Segreta ed Armstrong esplorarono la costa col binocolo. Standogli
accanto, lei vide sfilare, sotto gli alti alberi, il profilo di grandi capannoni e, più oltre, in tratti scoperti, numerose gru, antenne e piattaforme. La visione con gli occhiali a raggi infrarossi era ovviamente
imperfetta, approssimativa e monocolore ma sufficiente a fornire un’idea sulla situazione delle infrastrutture costruite dai tedeschi ai due lati
del villaggio, sulla costa di nord est. Scesero, infine, sotto coperta.
Nella loro cabina, Armstrong tracciò degli schizzi. Poi, chiese a
Segreta se sopportasse quell’ambiente claustrofobico. Lei lo rassicurò.
“Vi sono sull’isola migliaia di scienziati, tecnici e maestranze che
stanno costruendo le nuove armi di distruzione del III Reich. Ma non
conosciamo ancora le loro caratteristiche, per poterle contrastare. Mi
è stato chiesto perciò un ulteriore sforzo. A questo scopo, tenterò,
domani notte, di penetrare sull’isola.”
“Come farai? Hai detto tu stesso che la vigilanza è imponente.”
“Ho un piano. Ma te ne parlerò più tardi. Ora, riposiamoci un poco.”
Mentre parlavano, il batiscafo si era inabissato fino a posarsi
sul fondo dato che cominciava ad albeggiare. Si sistemarono sui lettini a castello della piccola cabina. Dormirono fino all’ora del pranzo
che consumarono con l’equipaggio, composto da un ufficiale, un maresciallo ed un sergente. Subito dopo, ritornarono nella loro cabina e
Armstrong le illustrò il suo piano.
“Dalla circumnavigazione dell’isola, che ho già effettuato due volte, e
dalle fotografie della ricognizione aerea, mi sono fatto un’idea abbastanza precisa della dislocazione degli impianti. Ma vi è il problema di
penetrare in questa loro cittadella. Ho già fatto due tentativi senza successo fino a quando ho avuto un autentico colpo di fortuna. Gerhart e
Sarah mi hanno confidato, due settimane fa, che, in una casa vicina, si
trovava di passaggio un pescatore di Peenmünde, un certo Mathias,
311
loro amico, venuto a far visita alla figlia sposata. Sono andato a trovarlo. È un immigrato svedese. Si è dimostrato disposto a collaborare.
Mi ha confidato infatti che, dal mare, parte, un chilometro a sud del villaggio, un sistema di caverne che salgono fino al livello del suolo e
sbucano a non molta distanza dagli impianti tedeschi. Abbiamo perciò
concordato un appuntamento in mare. Lui uscirà questa notte con una
barca da pesca munita di lampara. Infatti, la polizia ha autorizzato queste luci ritenendole innocue per la sicurezza degli impianti. Io mi avvicinerò a nuoto e simulerò il richiamo di un uccello. Lui remerà verso
di me e mi indicherà l’imbocco delle caverne, che non sono conosciute dalla Gestapo. Il resto verrà da sé.”
“Voglio venire con te.”
“Non se ne parla. Il rischio è mortale.”
“Non ti sarò d’impaccio.”
La discussione si protrasse e, alla fine, Armstrong cedette alle
sue insistenze, forse perché non voleva lasciarla sola con i propri pensieri. Così, quando giunse l’ora stabilita, indossarono la tuta e si lanciarono in acqua, a non molta distanza dalle luci delle lampare.
L’incontro con il pescatore avvenne come concordato. Mathias si portò
con la barca fin quasi all’imbocco delle caverne, poi salutò a bassa
voce e si allontanò. Su di loro, ritornarono le tenebre. Si avvicinarono
allora, lentamente, alle rocce evitando ogni sciacquio e tesero l’orecchio. Non si udivano né passi né le voci di eventuali sentinelle. Ma vi
era un fascio di luce che appariva e scompariva. Erano le fotoelettriche
con cui i tedeschi ispezionavano la loro area, come se fosse un campo
di concentramento, e che giungevano fino al mare. Armstrong e
Segreta erano a ridosso della riva, protetti da un costone che si ergeva
sopra di loro. Il riflesso di quella luce mostrò loro l’imbocco della
caverna. Era bassissima. Dovettero perciò immergersi nuotando in
apnea sott’acqua. Accesero le loro torce e si fecero luce fino a quando
- mettendo di tanto in tanto la testa fuori dall’acqua – constatarono con
sollievo che la volta si era alzata. Allora, emersero, respirarono profondamente e nuotarono ancora. E, man mano che procedevano, si
accorsero che il fondo marino si stava gradualmente sollevando. Ben
presto, si trovarono a camminare con il busto fuori dall’acqua. La volta
312
della caverna era adesso distante e spaziosa. Ancora un poco, poi, continuando ad avanzare, emersero completamente dall’acqua. Sempre
illuminandosi con le torce, iniziarono a percorrere un cunicolo che
aveva l’andamento di un serpentone, con le pareti di granito.
Armstrong aveva portato con sé un borsone che, in mare, era stato
sostenuto a galla da un salvagente. Appena usciti dall’acqua, lo aveva
caricato in spalla come uno zaino. Si arrampicarono in silenzio facendosi luce con le torce, finché udirono, in distanza, cori di grilli.
Capirono che si stavano avvicinando alla fine di quelle caverne.
Avanzarono ancora cautamente e, finalmente, uscirono all’aria aperta.
Si guardarono intorno. Quello sbocco era compreso in una formazione
rocciosa che dominava il grande campo tedesco, ormai visibile alla
luce violacea dell’alba. L’aria era purissima e frizzante. Al trillo dei
grilli, era subentrato il timido, ancora rado, cinguettio degli uccelli. Si
trattava, adesso, di compiere un’attenta osservazione, dall’alto, dei
capannoni, al fine di programmare un’incursione ravvicinata.
Per non essere visti dalle sentinelle, si tinsero il volto con una
polvere nera che Armstrong aveva portato con sé nello zaino, e coprirono il basco con arbusti raccolti nei pressi. Sulla base di quanto aveva
osservato, Armstrong si mise a tracciare una pianta del campo, che era
delimitato da una recinzione di filo spinato. Poi, trasse dal borsone una
macchina fotografica e si andò a sistemare all’ingresso della galleria.
Da là, riprese tutto il campo.
Abbozzarono quindi un programma delle incursioni, si rifocillarono e, infine, decisero di dormire in attesa della notte.
Dall’inesauribile zaino, trassero due coperte e fissarono due turni di
riposo. Cominciò Segreta. Armstrong andò ad avvolgerla nella
coperta e le dette un buffetto su una guancia. Lei si addormentò subito nonostante la durezza della roccia su cui era distesa. Armstrong
rimase a vegliarla.
La loro intrusione nel campo si protrasse per cinque giorni, che
furono estremamente faticosi e rischiosi. Penetrarono con facilità nel
capannone più vicino, che era illuminato di notte con luci azzurre.
Compresero che era un impianto di assemblaggio. Videro banchi di
313
lavoro e argani di sollevamento. Il vastissimo spazio destinato agli
operai era dominato da una cabina sopraelevata dalla quale, evidentemente, venivano controllate le operazioni. Attraverso una scaletta laterale, entrarono in quel posto, che era anche un ufficio, ed esaminarono
le carte custodite in numerosi fascicoli riposti in vari armadi metallici.
Quei fogli contenevano disegni e dati tecnici relativi ad un oggetto a
forma di siluro denominato V-2. Armstrong approfittò di quella ghiotta scoperta per scattare numerose fotografie.
Fra gli imponenti capannoni, vi erano due linee ferroviarie
sulle quali stazionavano molti vagoni. Il primo giorno, dormirono in
uno di essi. La seconda notte, correndo fra i capannoni per sottrarsi alla
luce dei riflettori azionati dalle torrette, penetrarono in un hangar in cui
erano allineate in piedi delle colossali bombe mimetizzate e provviste,
in coda, di alette.
Durante le loro visite ai capannoni, ebbero modo di lavarsi nei
servizi igienici del personale. In diversi casi, mentre erano all’interno,
furono disturbati dall’ingresso di uomini di ronda che, per fortuna,
non erano accompagnati da cani. Riuscirono a nascondersi in tempo
ed a riprendere i rilevamenti dopo la loro uscita. Ebbero anche la fortuna di penetrare in un magazzino viveri dove si rifocillarono e,
soprattutto, bevvero a sazietà e riempirono le loro fiaschette. Nelle
notti successive, visitarono gli uffici del comando del campo.
Esaminando il relativo carteggio, Armstrong scoprì che, sull’isola, vi
erano due squadre. La prima era costituita dagli scienziati e dagli
ingegneri della Luftwaffe, che si occupavano di un razzo denominato
V-1. Riuscirono anche a fotografare alcuni progetti e disegni relativi
a quella nuova arma, costituita da un siluro aereo con un propulsore a
reazione sistemato sul retro e piccole alette per assicurargli la stabilità in volo. La seconda équipe era formata da ingegneri e tecnici dell’esercito sotto la direzione del maggiore Walter Dornberger. Suo assistente era lo scienziato Wernher von Braun, ideatore del razzo V-2.
Armstrong esaurì gli ultimi rullini fotografando disegni e relazioni
tecniche relative alle caratteristiche delle due armi.
Durante la notte del quinto giorno, Armstrong e Segreta riuscirono a ritornare a bordo del batiscafo col quale erano rimasti in con314
tatto col telefono campale. Apparivano esausti ma euforici per la soddisfazione. Era il 15 maggio 1943.
***
Appena rientrati a casa, Armstrong trasmise in codice un lungo
messaggio a Londra riferendo quelle clamorose scoperte. Lo stesso
giorno, ricevette in risposta, cosa insolita, un plauso esteso alla sua
compagna, l’agente Nebel. Ne informò Segreta che meditò qualche
attimo, poi gli disse:
“Merito quindi una ricompensa, non ti pare?”
“E quale ricompensa vorresti?”
“Che tu mi facessi accompagnare a Potsdam.”
Stavano seduti sulla veranda della casa, dopo aver pranzato.
Lei notò che il viso di Armstrong si era contratto.
“Ancora? Non hai capito che lui ti ha scaricata?”
“Voglio rivederlo se no impazzisco.”
“Sei a questo punto?”
“Non l’avevi capito?”
Si alzò rabbiosamente e si andò a distendere sul letto. Poco
dopo, lui la raggiunse. Si sedette sul bordo.
“In questi giorni trascorsi insieme, mi sei sembrata serena, concentrata sul tuo lavoro.”
“Sì, la tensione del lavoro e del pericolo mi avevano distolta dalla mia
ossessione.”
Lui rimase pensieroso. Poi, come parlando a se stesso, mormorò:
“Ma che cosa è questo amore?”
“Non te lo auguro. Amare senza essere riamati è mostruoso.”
“Mi ero illuso che tu lo avessi dimenticato.”
“Non ci riuscirò mai. Soffro troppo.”
”Mi dispiace. Speravo di consolarti.”
Si alzò e fece per andarsene.
“Sei deluso?”
“Non pensarci. Quando vuoi partire?”
“Anche subito.”
315
“E sia. Dirò a Wolf di accompagnarti.”
“Moheb!”
“Dimmi”
“Stammi un poco vicino. Tienimi stretta.”
Lui aderì in silenzio. Si distese sul letto e la strinse fra le braccia, accarezzandole i capelli.
***
Come il suo capo, Wolf sembrava indistruttibile. Guidò per
l’intera notte senza dire una parola e senza dar segni di stanchezza
mentre Segreta dormiva raggomitolata sul sedile posteriore. Giunsero
a Potsdam nella mattinata del 18 giugno, si diressero alla villa della
contessa Stauffenberg e si fermarono in prossimità del cancello. Wolf,
che indossava un completo estivo avana con camicia aperta, andò a
suonare il campanello. Venne un anziano cameriere che indossava una
giubba marrone chiusa al collo, con bottoni metallici. Wolf, attenendosi alle istruzione di Segreta, gli chiese di parlare al capitano Klausing.
“Sono un suo dipendente della 16ª Panzerdivision.” aggiunse.
Il cameriere, brizzolato e di aspetto distinto, rispose che il
signor capitano era andato a sposarsi.
“Vorrei salutarlo. Potete dirmi dove posso trovarlo?”
“In questo momento, si trova nella Nikolaikirche, al centro della città.”
Wolf lo ringraziò e ritornò verso Segreta che aspettava in macchina ed aveva sentito tutto. Era visibilmente sconvolta. Un diffuso
rossore aveva invaso il suo viso. Chiese con voce strozzata a Wolf di
portarla fino a quella chiesa e, quando la macchina si fermò ai bordi
del marciapiede prospiciente al sagrato, corse verso la cattedrale, salì
gli scalini del pronao ed entrò. L’interno a pianta quadrata era talmente affollato che vi si respirava a fatica. Si fece largo fra la ressa e giunse nei pressi dell’altare maggiore. Vide Wilhelm, in piedi di fronte alla
balaustra del presbiterio, magnifico nella sua attillata uniforme. E,
accanto a lui, una donna estranea, venuta dal nulla a strapparglielo.
Sentì una mano d’acciaio stringerle la bocca dello stomaco fino a procurarle una nausea insopportabile. La vista le si annebbiò e un males316
sere l’invase tutta fino a costringerla ad appoggiarsi ad una colonna
della navata. Fece a tempo a sentire la voce robusta di Wilhelm e quella sottile di Julia pronunciare quel “sì” che li vincolava in un patto eterno, poi perse la percezione delle cose.
Rinvenne fuori dalla chiesa, in braccio a Wolf che la stava trasportando verso la macchina. Capì che l’aveva seguita e soccorsa. Gli
chiese affannosamente di fermarsi e rimise sulla pubblica via tutto
quello che aveva nello stomaco. Dopo alcuni minuti, più sollevata,
ritornò alla Mercedes e pregò Wolf di riportarla alla pensione dove
aveva abitato durante il primo soggiorno a Potsdam. Wolf aderì senza
parlare e la condusse in Gutenberg Strasse. Le assegnarono senza difficoltà una bella camera con i parati a fiori e le tende in voile.
“Grazie di tutto Wolf” gli disse distendendosi sul letto perché si sentiva priva di forze “Ritorna sull’isola e riferisci ad Armstrong che io mi
fermerò qualche giorno qui”
“Il capo non sarà contento di vedermi ritornare solo.”
“Voglio fare un ultimo tentativo, Wolf. Lui capirà.”
“Ti prego allora di telefonargli personalmente per tranquillizzarlo”
“Lo farò più tardi, appena mi sarò riposata un poco”
Ma Wolf non era convinto.
“Gli telefonerò io stesso. Preferisco avere la sua autorizzazione prima
di mettermi in viaggio.”
Uscì dalla stanza per recarsi al telefono, al pianterreno. Segreta
rimase sola. Era subentrata in lei un’apatia mortale che le faceva desiderare soltanto silenzio e oblio. Avrebbe voluto perdere la memoria,
gettar via il suo cuore. Stava per assopirsi quando rientrò Wolf.
“Ho riferito tutto al capo. Mi ha autorizzato a rientrare. Mi ha incaricato anche di dirti che, se e quando vorrai ritornare, potrai telefonare
al solito numero”
Lei assentì stancamente. Poi, lo ringraziò e lo salutò. Lui uscì
con la silenziosa rapidità che gli era abituale. Segreta si trattenne a letto
anche tutto il giorno seguente, senza toccare cibo. Ma, la sera, uscì
dalla pensione e, con un’auto pubblica, si fece lasciare nelle vicinanze
della villa dove Wilhelm abitava. L’aggirò fino ad arrivare sul retro e,
come la prima volta, riuscì a penetrare all’interno. Al piano terreno,
317
vide una luce provenire da una stanza adiacente al grande e lussuoso
vestibolo, la stessa in cui aveva visto Julia e Wilhelm baciarsi. Le
sembrava di ricordare che si trattava di una biblioteca. Giunse fino
alla porta e spiò nell’interno. Wilhelm era seduto ad una scrivania e
stava esaminando delle carte. La casa era silenziosa e, in quel momento, una monumentale pendola segnò le 10 di sera. Dal primo piano,
non proveniva alcun rumore. Forse, pensò, la contessa era fuori. E,
con questa speranza, si decise ad entrare. Si rassettò il vestito che
aveva indossato per l’occasione, un abito estivo lilla con bordi viola e
bretelline che scoprivano le spalle. Si rimise le scarpe che aveva tolto
per non far rumore. E, eretta, facendosi forza con la rabbia di dover
elemosinare il suo amore, entrò e chiuse la porta dietro di sé. Wilhelm
alzò il capo di soprassalto e rimase impietrito.
“Segreta!”
Lei rimase in piedi, addossata alla porta, col cuore che le batteva a precipizio.
“Come mai qui?” mormorò lui con voce soffocata.
Si alzò e andò verso di lei.
“Ti ho cercato alla pensione, prima del matrimonio, ma mi hanno
risposto che eri partita.”
Lei taceva, fremendo.
“Sei pallida! Sei stata male?”
“Sì, Wilhelm, molto male. So che ti sei sposato ma io non mi rassegno.
Voglio ancora amarti perché sento che sono tua e che lo sarò per sempre.”
Lui la guardava muto. Forse, non trovava più parole adatte per
convincerla.
“Fai di me la tua amante, la tua schiava, ma non uscire dalla mia vita!”
Infine, Wilhelm si scosse.
“Riconosco di aver mancato verso di te. Ma vi era la guerra e non potevamo comunicare. Ti chiedo di scusarmi, di perdonarmi. Sono sinceramente addolorato di averti fatto del male. Ma sei ancora una bambina, devi importi di scacciarmi dalla tua vita e dal tuo cuore. Devi desiderare, prepotentemente, di ritornare ad amare.”
“Non riesco neanche a immaginarlo. Tu mi hai stregata. Non voglio
pensare a nessun altro che a te. Voglio ancora i tuoi baci, le tue carez318
ze, Wilhelm, cosa ti costa?”
E, così dicendo, corse verso di lui, si abbrancò al suo collo e si
sporse a baciarlo. Ma lui si scansò.
“Ormai, ho dato la mia parola di fedeltà a Julia. Ci unisce un vincolo
sacro. Non voglio essere un adultero. Non voglio nascondermi, mentire, vivere di sotterfugi e di squallore.”
Le afferrò le braccia e l’obbligò a distaccarsi da lui.
“Ti voglio bene ma, a causa tua, non voglio perdere il mio onore. Ti
prego: lasciami andare per la mia strada dato che non è più possibile
ormai fare diversamente. Sei così giovane, mi dimenticherai appena
incontrerai gli occhi di un altro uomo”
“Questo credi?”
“Sì, l’amore ha regole eterne. Cerca di non essere un eccezione vivente.”
In quel momento, si udirono dei rumori nel vestibolo e una
voce di donna gridò:
“Tesoro, sono rientrata!”
“Bene, vengo subito!”
E fece per uscire. Segreta lo trattenne aggrappandosi a lui, con
gesti scomposti, ormai contesa fra rabbia e disperazione. Ma Wilhelm
l’allontanò con forza.
“Basta! Smettila!” sibilò.
Spinta da lui, Segreta urtò contro la spalliera di un divano, poi,
avvilita, si lasciò andare e si inginocchiò addossandosi ad essa. Lui
uscì e si richiuse la porta alle spalle. Lei, dopo un poco, si rialzò e si
incamminò come una sonnambula. Ritornò in giardino e, infine, si
trovò fuori dalla recinzione. Sentì, in quel momento, che la sua storia
con Wilhelm era stata troncata dal destino e che, ormai, irreparabilmente, lei era adesso fuori dalla sua vita. Con lo sguardo fisso nel
vuoto, percorse a piedi strade di periferia solitarie e poco illuminate
che le parvero torve e inospitali e, in Mendel Strasse, finì in una birreria piena di fumo e di avventori chiassosi. Là, sedette ad un tavolo con
la testa in fiamme e bevve avidamente un paio di boccali di Weissbier
(birra prodotta con grano anziché con orzo) che nessuno le rifiutò perché non aveva l’aspetto di una minorenne. Uscì, alla fine, importunata
319
dai sorrisi grifagni dei maschi presenti. Continuò a vagare in quei quartieri illuminati da lampioni freddi e stralunati poi, in uno stato di totale insofferenza, non trovò di meglio che entrare in una “Biergarten”
(cioè una birreria annessa alla relativa fabbrica) dove ottenne altra
birra. All’aitante cameriere che l’aveva servita, chiese dove poteva trovare da fumare qualche droga. Il giovane la guardò, meravigliato e
riluttante. Ma lei gli fece scivolare una cospicua banconota e allora lui
le sussurrò nell’orecchio:
“Andate da Anton, al nr. 89 di Weimberg Strasse, e ditegli che vi
manda Emil”
Al nr. 89 della strada indicatale, vi era un caffè, senza insegne
luminose e vetrine scintillanti, ma avvolto nell’ombra dell’oscuramento, reso visibile solo da un “89” luminoso che spiccava sopra la pesante tenda sistemata all’ingresso. Segreta entrò e si guardò introno: quel
posto aveva un aspetto spettrale, con rade luci che provenivano dall’alto, clienti silenziosi e senza volto, un cameriere che si muoveva lentamente evitando ogni rumore. Chiese di Anton e le fu indicato un individuo massiccio, calvo, con un viso lucido, grosso e truce, che sedeva
alla cassa. Gli riferì il messaggio di Emil. Lui la guardò sospettosamente, poi le chiese l’età. Lei gli rispose di avere 22 anni. L’uomo la
fece attendere ad un tavolo, poi, dopo un quarto d’ora, le andò vicino
e le chiese di pagare in anticipo. Ancora un quarto d’ora, quindi ritornò al tavolo e la invitò sbrigativamente a seguirlo. Uscirono da una
porta posteriore che immetteva in un cortiletto lastricato, poi Anton
aprì una porta di fronte. Ma, prima di proseguire, si volse verso di lei,
la fissò minacciosamente e sibilò:
“Tieni bene la bocca chiusa su questo posto!”
Proseguirono: una scala in discesa poi un’altra porta e, al di là,
una sala ampia velata dal fumo, illuminata da luci nascoste. Anton le
fece cenno di entrare. Lei vide una serie di letti con baldacchini e relative tende. Alcune di esse erano chiuse, altre, semiaperte o aperte del
tutto, mostravano uomini e donne distesi sui lettini, intenti ad aspirare una pipa cilindrica immersa in una bacinella sospesa sopra una
fiammella accesa. Anton la guidò senza parlare ad un letto vuoto, le
fece cenno di distendersi e, dopo aver predisposto l’oppio, le porse la
320
pipa. Nel farlo, la trapassò con uno sguardo lubrico che la fece fremere, poi se ne andò. Lei rimase sola in quello stanzone occupato da
tanti altri disperati e cominciò ad aspirare oppio dalla canna cilindrica. Ebbe inizialmente conati di nausea, poi, poco a poco, un’onda di
sensazioni voluttuose la invase. Provò un piacere sempre più avvolgente, che solleticava i suoi sensi, e la sua mente diventò preda di
visioni luminose, rutilanti, paradisiache che vi si insinuavano mollemente come spirali di fumo. Infine, sprofondò in un fondale sempre
più scuro, come una parete in ombra, fino ad un sonno nero e profondo.
***
Si svegliò nel proprio letto, quello che occupava presso la pensione di Gutenberg Strasse. Alzò gli occhi e scorse Armstrong, seduto
sul bordo, che la stava scrutando accigliato. Era giorno ed il sole filtrava attraverso le tende fiorate. La testa le faceva ancora male, come
se fosse stata percossa da pesanti pietre.
“Moheb! Come mai sei qui?”
“Sono partito non appena Wolf mi ha riferito che non volevi rientrare.”
“Non dovevi allontanarti dal tuo lavoro e venire da me. Meritavo che
mi lasciassi perdere.”
“E, infatti, ti stavi già perdendo.”
“Sono disperata, Moheb. Wilhelm mi ha scacciato.”
“Dovevi aspettartelo: si è appena sposato!”
“Che devo fare, Moheb?”
“Tutto fuorché rovinarti. Non mi aspettavo che tu ricorressi alla droga.
Volevi morire?”
“Sì.”
“Pensa a quelle che saranno le nostre vite fra dieci anni. Forse, avrai
un altro uomo, dei bambini, un lavoro, una prospettiva completamente diversa. Forse, fra dieci anni, la tua infatuazione di oggi ti farà sorridere. Questo ti può consolare?”
“Adesso non riesco a pensare ad altro che a lui.”
“Wilhelm non ti ama, altrimenti non ti avrebbe lasciata andare.
321
Imponiti di considerare chiusa la vostra storia. È così che procedono le
cose d’amore.”
“Tenterò.”
Quella stessa mattina, per interessamento di Armstrong, fu visitata da uno specialista che le prescrisse un’energica cura disintossicante. Nel pomeriggio, si sentì meglio e volle uscire a passeggio, accompagnata da Armstrong che la sorreggeva alla vita.
“Che sviluppi ha avuto il tuo lavoro?”
“Le mie segnalazioni, insieme ad altre notizie ricevute dai servizi
segreti, sono state portate all’attenzione del premier. E Churchill ha
ordinato, per cominciare, un’intensa campagna di fotografie aeree di
Peenemünde. Credo che gli inglesi stiano preparando una serie di massicci bombardamenti sull’isola di Usedom. Da parte mia, devo continuare a svolgere un’attività di osservazione. Intanto, si è presentato un
altro problema. Io avevo mantenuto i contatti con l’Abwehr tedesco
fornendo loro informazioni varie per alimentare la mia credibilità. Ora,
l’ammiraglio Canaris mi ha affidato un importante incarico.”
“Dovresti quindi svolgere un’attività spionistica contro l’Inghilterra?”
“Sì.”
“Oh, Moheb, non farlo!”
“Ti ho detto che sono un mercenario.”
“Ma è immorale. No, non farlo, consentimi di stimarti e di ammirarti,
Moheb, perché mi sei caro. Deciditi per uno o per l’altro e, una volta
che hai scelto il tuo campo, mettici il cuore. Vi sono milioni di uomini
che stanno morendo per un ideale. Non accetto perciò il tuo cinismo.
Voglio credere in te, Moheb, dato che le nostre strade si sono incrociate. Accontentami. Comportati da uomo d’onore e di principi”
“Eppure, anche tu hai combattuto su fronti opposti.”
“Ma io sono una ragazza e, per di più, innamorata. Ho sbagliato ed ora
sono amaramente pentita. Infatti, provo un terribile senso di colpa. Ma
tu sei un uomo maturo, hai esperienza di vita. Non puoi dare un calcio
agli ideali. Sarebbe come insultare tutti i combattenti che in questo
momento, sotto le rispettive bandiere, offrono la loro vita alla patria. Ti
prego, lasciati stimare, Moheb”
Lui la guardò pensieroso. Erano arrivati a Babelsberg Park e si
322
erano distesi nel verde.
“Non mi aspettavo da te questa reazione. Confesso che ti avevo giudicata severamente quando ti ho visto tradire la tua patria. Sono contento perciò che tu ti sia ricreduta. Quello che mi hai detto coincide con
un malessere che da qualche tempo si è andato insinuando dentro di
me. Ho cominciato, poco a poco, a disprezzarmi, ad avvertire il vuoto
e lo squallore di un lavoro cominciato quasi per gioco. Penserò a ciò
che mi hai detto, te lo prometto.”
La sera, lei andò nella sua stanza.
“Ti avevo promesso una notte d’amore, Moheb. Sono qui per questo.”
“Ti sciolgo dalla tua promessa, bambina. So che sei disperata.”
“Fammi stare con te, Moheb!”
Fu una notte dolcissima. Lui la prese con una delicatezza che
lei non sospettava. E, solo nel cuore della notte, quando la vide pienamente partecipe, cominciò a martellarla vigorosamente portandola al
parossismo. Dopo un ennesimo assalto, mentre fuori aveva cominciato a gorgheggiare l’allodola, lei gli chiese abbandonandosi a lui:
“Prendimi ancora, Moheb! Fammi dimenticare!”
***
Qualche giorno dopo, Armstrong dovette ritornare nell’isola di
Usedom. Non le chiese di andare con lui perché sapeva che era ancora bisognevole di cure. Nel salutarla le disse:
“Ho rinunciato a quell’incarico per l’Abwehr. Ho seguito il tuo consiglio.”
Lei lo abbracciò e lo baciò. Ma, quando si ritrovò sola, ricadde
gradualmente nei suoi tormenti. Evidentemente, Wilhelm era un tarlo
così aggressivo che neppure le carezze di Moheb e la sua dedizione
erano riusciti a neutralizzarlo. La sera dopo la sua partenza, uscì dalla
pensione, vagabondò a lungo e si fermò, infine, in un caffè. Con una
generosa mancia al cameriere, si fece servire degli alcolici. Ritornò
l’indomani e poi ancora, finché l’alcol diventò un insopprimibile
mezzo per non pensare, per stordirsi e dimenticare. Una sera svenne e,
quando si risvegliò, si accorse che si trovava in un ospedale. Moheb
era accanto a lei.
323
“Non dirmi nulla, Moheb!” implorò.
“Tu hai aiutato me ed io voglio fare altrettanto con te. Mi sei molto
cara. Devo assolutamente evitare che tu finisca col distruggerti irreparabilmente. Io devo allontanarmi perché ho ricevuto un altro incarico e
non posso portarti con me. Perciò, ti rivolgo una proposta. Vorrei affidarti ad un convento di suore cristiane, nell’isola di Rügen. Vivresti in
un ambiente appartato e sereno dove certo riceverai affetto e buoni
consigli. Vuoi del tempo per pensarci?”
“Non puoi farmi ritornare in Inghilterra?”
“Per il momento, non mi è possibile. Vi è uno sviluppo di ricerche sul
programma missilistico tedesco che mi obbliga a recarmi con urgenza
in Polonia.”
“Va bene: aspetterò. E, nel frattempo, entrerò in convento. Spero
ardentemente che una sosta in un luogo lontano dal mondo possa calmarmi.”
Il giorno dopo, 22 luglio 1943, Armstrong la condusse a Rügen
e l’accompagnò al convento di cui le aveva parlato, che sorgeva al centro dell’isola. La madre superiora l’accolse con un benevolo sorriso e
le rivolse amabili parole di benvenuto. L’affidò ad una consorella perché provvedesse alla sua sistemazione.
Lei ed Armstrong si predisposero ad accomiatarsi. Avviandosi,
si soffermarono in un chiostro ombroso che si trovava sulla via dell’uscita. Lui le disse a mezza voce:
“Qualunque cosa mi riservi la vita, ricorderò sempre quella nostra
unica notte.”
“Come mai, Moheb? Proprio tu che hai avuto tanti incontri?”
“Con te, quella notte, ho conosciuto per la prima volta l’amore. Per
questo, non ti dimenticherò finché avrò vita.”
“Neanch’io ti dimenticherò. Mi hai soccorsa molte volte e te ne sarò
per sempre grata. Sei la mia ancora di salvezza, il porto in cui rifugiarmi.”
“Spero che tu riesca a trovare qui un po’ di pace. Se ti è possibile,
distogli il pensiero dal tuo problema e rivolgilo all’immane tragedia
che il mondo sta vivendo oggi. Confonditi con l’umanità sofferente.”
324
“Ti rivedrò, Moheb?”
“Certo! Verrò a riprenderti al più presto possibile per riportarti in
patria. È una promessa”
Lei alzò le mani al collo e si tolse una catenina d’oro con
un’immagine sacra.
“So che non la porterai perché sei musulmano. Ma ti prego di custodirla in mia memoria.”
“Ti ringrazio. La terrò sempre con me.”
Si abbracciarono e, quando si distaccarono, lei incontrò i suoi
occhi scuri e profondi. Erano sempre stati per lei indecifrabili come
una barriera. Ma, in quel momento, vi scorse il riflesso di una forza
interiore, forse quella dell’uomo consapevole della sua sfida agli eventi ed all’ineluttabilità del destino.
Lo vide avviarsi e chiudere il portone alle sue spalle. E, contemporaneamente, avvertì una sensazione di profonda solitudine, come
se fosse sola in un mondo deserto.
325
CAPITOLO QUARANTESIMO
Le prime settimane della vita coniugale di Wilhelm e Julia
furono felici: un susseguirsi di baci, di tenerezze, di momenti d’amore
vissuti avidamente da ambedue le parti. Quelle molteplici ore di gioia
ebbero il potere di attenuare l’amarezza prodotta in Wilhelm dal suo
mancato impiego in guerra. Spesso, durante la notte, si svegliava di
soprassalto chiedendosi come mai dormiva in un comodo letto mentre milioni di uomini e donne, in quello stesso momento, soffrivano.
Tuttavia, quando Julia era presente, il suo magnetismo paralizzava
quei rimorsi. Nella loro vita sociale, che si svolgeva come se l’Europa
non fosse un braciere di dolore, lei era disinvolta, elegantissima, brillante. Ma, quando, la sera, si chiudeva alle spalle la porta della loro
camera da letto, desiderava far capire a Wilhelm che era la sua donna
e che era là tutta per lui. Avvolta in una lussuosa vestaglia di raso rosa
bordata di pelliccia, sedeva alla sua toletta ornata di pizzi spazzolando i capelli nerissimi e crespi e curando il suo viso. Poi, passava al
corpo: si toglieva quell’indumento e, sontuosamente nuda, si spalmava sul corpo perfettamente modellato, che aveva i riflessi dell’alabastro e il colore della gardenia, le creme di una sapiente cosmesi. Lo
faceva con naturalezza ma ben sapendo, tuttavia, che Wilhelm la stava
osservando emozionato e acceso. Lei corrispondeva ai suoi sguardi
con quegli enigmatici occhi maiolicati a forma di mandorla. E, dopo
un lieve sorriso, finiva fra le sue braccia mentre lui provava un lungo
brivido al contatto della sua pelle nuda.
Quello stato di grazia si presentava con l’aspetto seducente
della felicità e la fragranza della giovinezza. Ma Julia possedeva anche
un temperamento d’acciaio che Wilhelm non aveva ancora conosciuto
in pieno. Ben presto, infatti, tornò a dedicarsi a quella congiura che gli
insuccessi militari facevano apparire ormai indispensabile. E, in una
tiepida sera di fine giugno, mentre passeggiavano sulla riva
dell’Heilinger See, gli disse:
“Due mesi fa, è accaduto un fatto di cui non ti ho parlato perché ti ho
visto angustiato per la tua gamba che ancora non guariva.”
327
“Di che si tratta?”
“Il 7 aprile, mio cugino, il Ten. Col. Claus Stauffenberg, è stato gravemente ferito in Africa. Ha perso un occhio, un braccio e due dita dell’altra mano. Il 25 aprile, sono andata a fargli visita nell’ospedale di
Monaco, dov’era stato trasferito.”
“Sei andata a Monaco senza dirmi niente?”
“Ho volato con alcuni generali su un aereo della Luftwaffe messo a
disposizione per quell’esigenza. Claus è, infatti, un elemento di spicco
della Wehrmacht. Sono ritornata nello stesso giorno.”
“Ho sentito anch’io parlare in termini entusiastici di Stauffenberg. E
mi dispiace molto che sia stato mutilato così gravemente.”
“Te ne ho parlato perché Claus era ed è rimasto l’anima della rivolta.
Perfino in ospedale, sebbene fosse fasciato come una mummia, mi ha detto:
“Non potrei guardare negli occhi le vedove e gli orfani dei caduti se non
riuscissi a fare qualcosa per fermare questo eccidio. Devo ad ogni costo salvare il Reich.” Fra qualche giorno, sarà dimesso dall’ospedale e ritornerà a
Berlino per riprendere le file della cospirazione”
Wilhelm rimase silenzioso. Si erano seduti su una panchina di
fronte al lago. L’oscurità lì stringeva da vicino. Infatti, non vedevano
la distesa d’acqua ma ne avvertivano la presenza per il suo dolce sciabordio, simile ad un bisbiglio. Perciò, avevano portato al seguito una
torcia elettrica per individuare il percorso.
“A che cosa stai pensando, Wilhelm?”
“Al grave pericolo che ti minaccia. La Gestapo ha tentacoli dappertutto. Finirà con lo scoprirvi.”
“Questo pericolo non mi distoglierà dal mio scopo.”
“Sei ammirevole: dietro la tua apparenza di aristocratica conservatrice
con qualche frivolezza, nascondi uno spirito indomito e coriaceo. Mi
dispiace doverci trovare su campi opposti”
“Non opposti, Wilhelm. Tu non sei un nazista militante. Non hai niente a che fare con quella banda di criminali. Tu sei un soldato e rispetti i tuoi giuramenti. Credi di agire per il bene della patria. Ma, ormai,
non basta combattere i nemici esterni perché quelli non sono nemici
ma soltanto popoli che abbiamo vilmente attaccato. No, Wilhelm, il
vero nemico della Germania è lui, Hitler, con le sue folli idee sulla
328
superiorità della nostra razza e sullo sterminio di popolazioni inermi,
con la sua arrogante pretesa di dirigere le operazioni militari. È lui il
cancro da debellare. Perché, non soltanto porterà la Germania alla
catastrofe materiale, ma l’ha già coperta di disonore. Credimi, per
quello che i nazisti hanno fatto finora e faranno ancora se non li fermeremo, la Germania non meriterà più di essere un’espressione geografica, una nazione. Perciò, continuerò, Wilhelm, a combattere questa giusta battaglia contro la rovina e il disonore e non m’importa se
perderò tutto, anche la vita.”
***
Claus von Stauffenberg giunse a Berlino verso la metà di agosto (1943) e si stabilì in un appartamento in un sobborgo prossimo alla
capitale. Da là, cominciò a cospirare attivamente con il generale
Henning von Tresckow. Julia, che manteneva con lui frequenti rapporti, informava quotidianamente Wilhelm dei progressi conseguiti dal
cugino, il quale era proteso a consolidare la rete della congiura. In particolare, Claus si stava facendo un quadro delle misure civili e militari da adottare al momento dell’auspicata presa del potere: proclamazione dello stato di emergenza, arresto degli ufficiali del partito e del
personale delle SS e della Gestapo, occupazione dei ministeri, degli
scali ferroviari, dei centri di comunicazione, delle installazioni militari e delle vie d’accesso strategiche.
Wilhelm, che pure avrebbe voluto ignorare quelle trame, seppe
da sua moglie che Stauffenberg si muoveva instancabilmente fra le
sfere militari più alte del Reich. Nonostante le sue gravi mutilazioni,
indifferente alle limitazioni fisiche subite, svolgeva un’incessante
azione di reclutamento di nuovi sostenitori avvalendosi del suo irresistibile fascino magnetico.
Nell’autunno 1943, il generale Henning von Tresckov ritornò
sul fronte orientale e, da allora, il comando della ardua e complessa
operazione passò nelle mani esclusive di Stauffenberg.
Generalmente, Julia confidava quei segreti a Wilhelm dopo i
loro momenti d’amore, quando lui era ancora estasiato dalle carezze
329
che si erano appena scambiati. E, una sera, gli disse di aver invitato a
cena il cugino per farglielo conoscere. Wilhelm non nascose il proprio
fastidio.
“Ma è il capo della cospirazione! Vuoi proprio compromettermi?”
“Come puoi pensarlo? Volevo solo farti conoscere un uomo così
straordinario. E, poi, sarà una cena a tre. Nessuno lo saprà”
“Lo saprà tutta la tua servitù. Non ti basta?”
“Allora, non intervenire. Troverò per te una giustificazione.”
Da quando si erano conosciuti, fu quello il loro primo, serio
screzio. Lei, per molti giorni, evitò di rivolgergli la parola ed i loro rapporti coniugali subirono un raffreddamento.
La sera della cena, Wilhelm non tornò a Potsdam ma andò a
dormire nell’appartamento che ancora conservava in affitto in Ebert
Strasse, quello in cui aveva vissuto con Segreta. E, in seguito, prese a
pernottare a Berlino almeno una-due volte alla settimana, in coincidenza con le esigenze di Julia, impegnata freneticamente nella preparazione dell’attentato a Hitler.
La loro vita matrimoniale aveva imboccato una svolta che li
allontanava l’uno dall’altra. Wilhelm ne rimase dolorosamente colpito perché voleva veramente bene a Julia. Lei però non era come
Segreta che si era spinta ad umiliarsi per nutrire il proprio amore.
Anche in quell’occasione, rivelò un forte temperamento: si chiuse in
uno sdegnato silenzio e non fece alcun tentativo per riportare confidenza nei loro rapporti.
Il I° ottobre 1943, il Ten. Col Von Stauffenberg venne reimpiegato, dopo un lungo periodo di convalescenza, e fu destinato al comando dello stato maggiore delle forze di riserva. La sua sede si trovava
all’interno di un edificio allineato sulla Bendlerstrasse. Wilhelm lo
apprese non dalle confidenze di Julia ma semplicemente dalla lettura
del bollettino del movimento ufficiali dell’esercito.
Nello stesso mese, Wilhelm fu promosso maggiore. Ma la soddisfazione di quell’avanzamento era, in lui, temperata dal ritardo del
suo pieno ristabilimento fisico. Aveva subito altre visite mediche per il
riacquisto della idoneità al servizio incondizionato ma il loro esito era
stato negativo. La sua gamba non era ancora ritornata ad un completo
330
consolidamento osseo al punto da consentire l’estrazione dei supporti
metallici. I medici dicevano che occorreva ancora del tempo ma
Wilhelm si andava convincendo che quell’arto non sarebbe mai più
ritornato ad una piena efficienza.
Quella situazione e la crisi in cui era entrato il suo matrimonio
lo spinsero perciò a rinnovare la sua domanda di trasferimento ad un
reparto operante, sia pure con compiti di stato maggiore. Riuscì a farsi
ricevere dal capo di stato maggiore generale dell’esercito il quale decise di accontentarlo. Così, a fine ottobre, fu destinato allo stato maggiore del Gruppo armate Sud, sul fronte russo.
Quando informò Julia della sua imminente partenza, lei ebbe
uno scatto.
“Sei riuscito, alla fine, ad allontanarti da me!”
“Non era questo il mio scopo ma solo quello di contribuire alla difesa
della patria. Non potevo rimanere dietro ad una scrivania, al sicuro, in
questo momento. Non potrò fare parte di una panzerdivision ma almeno sarò al fronte.”
“A me non hai pensato?”
“Sono un soldato, Julia. Il mio posto è dove si combatte. Tutti quelli
che si trovano là hanno anche loro una moglie, una famiglia. Ma
rimangono al loro posto. È una questione d’onore. Tuttavia, al di là di
questi punti fermi, mi dispiace molto allontanarmi da te.”
“Rimarrò nuovamente sola.”
“Vedo che non sei sola.”
“Alludi alle mie tante conoscenze, ai miei contatti? Sono un’altra cosa,
Wilhelm. Nel mio cuore, ci sei solo tu!”
Bastò quella frase per dissolvere tutte le nebbie che si erano
interposte tra loro. Wilhelm si avvicinò a lei, l’attirò a sé e le chiese
con dolcezza:
“Questo senti per me?”
“Certo, non lo avevi capito?”
“Anch’io provo un forte sentimento per te. Ora, improvvisamente, so
che mi mancherai molto.”
“Queste vicende nazionali hanno avuto la forza di sconvolgere anche le
nostre vite. Che peccato ! Stringimi a te, Wilhelm, ci rimane poco tempo”
331
Quella notte, si amarono appassionatamente. E, per la prima
volta, lui ebbe la percezione di scoprire il suo cuore. Vide, infatti, i suoi
occhi pieni di lacrime, fatto in lei inconsueto. La strinse a sé con una
tenerezza che superava la passione e provò un’acuta fitta di dolore.
Vissero tre giorni di recuperata, dolcissima comunione, poi lui
partì, dopo essersi disfatto del proprio bastone.
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CAPITOLO QUARANTUNESIMO
(Intermezzo dell’autore)
Intanto, le sorti della guerra stavano seguendo una curva discendente
per la Germania: in Africa, il 13 maggio 1943, 250 mila soldati fra
tedeschi e italiani avevano deposto le armi dopo una grande battaglia
campale alle porte di Tunisi. Da allora, il Mediterraneo era stato
riaperto al traffico alleato. Il 10 luglio, gli alleati erano sbarcati in
Sicilia. Si era realizzata così la previsione del primo ministro inglese
il quale aveva affermato che il Mediterraneo costituiva, in effetti, una
porta di accesso all’Europa ancora giacente sotto la morsa nazista.
Nel frattempo, fin dal marzo 1942, avevano avuto inizio i bombardamenti a tappeto delle principali città tedesche, rivolti a distruggere i maggiori insediamenti industriali del paese. Erano state colpite
in modo terrificante Lubecca, Colonia, Essen e Brema. Fra il marzo e
il luglio 1943, l’offensiva aerea alleata aveva provocato imponenti
distruzioni sulla Ruhr, il cuore industriale della Germania, su
Amburgo, Wurzburg, Dormstadt, Heilbronn, Wuppertal, Weser,
Magdeburgo.
In Russia, dopo la sacca di Stalingrado e la conseguente disfatta della 6a Armata, le forze sovietiche avevano continuato a sferrare furibondi attacchi su tutto il fronte costringendo i tedeschi ad
attestarsi su nuove posizioni. Nei primi mesi del 1943, mentre ancora persisteva, implacabile, l’inverno russo, furiosi combattimenti si
erano svolti, fra l’altro, intorno a Leningrado, la principale fortezza
militare del Baltico, perla culturale della Russia e sua seconda
metropoli con tre milioni di abitanti. Per rompere l’assedio dei tedeschi, le forze sovietiche avevano attaccato sul lago Ladoga e, inoltre,
a Schlussemburg, Lipka, Sinjawino, sulla Neva, a Debrowka, Staraja
russa, Poselok. Forsennati scontri si erano svolti anche a Demiansk,
a Rscev, a Welikije, in condizioni ambientali spaventevoli. Sul fronte
sud, poi, si era affermata ripetutamente l’alta abilità strategica del
feldmaresciallo von Manstein che, con ardue manovre di ripiegamento, aveva salvato dal disastro la 1a, la 4a e la 17a Armata. Ma,
333
ovunque, i russi premevano con inaudita violenza.
Alla fine di quel tremendo inverno, l’esercito tedesco aveva
comunque dimostrato che, nonostante le gravissime perdite subite, era
ancora in condizioni di far fronte alla superiorità numerica nemica
grazie sia all’arte tattica dei suoi comandanti sia al morale ed alla
resistenza delle sue truppe, rimasti intatti. Tutto, in quella lotta, aveva
assunto aspetti titanici: lo sferzare inesorabile del gelo quanto l’eroismo oscuro e l’abnegazione dei combattenti, elevatisi ai sublimi limiti
massimi della resistenza umana.
Alla fine del marzo 1943, aveva avuto inizio il disgelo e, da
allora, ogni veicolo in movimento, ogni operazione militare, erano
stati bloccati dall’immane fango russo. Aveva fatto seguito l’estate e
il fango si era finalmente asciugato. Proprio allora, Hitler aveva lanciato l’operazione “Cittadella “ per la conquista della città di Kursk,
quale segnale della ripresa dell’offensiva tedesca su tutto il fronte.
Due armate avrebbero dovuto eseguire una manovra concentrica, con
il supporto di 1800 aerei e dei nuovi cannoni pesanti Hammel e
Hornisse. L’inizio della battaglia, il 5 luglio, era stato promettente
per le armi tedesche: più di 1000 carri armati del tipo Tiger
Ferdinand, macchine di mostruosa potenza, sostenuti da 350 postazioni di artiglieria, si erano lanciati contro le posizioni fortificate
russe. Il combattimento era subito diventato crudele e sanguinoso e
ancor più devastante di ogni altra battaglia precedente. Forze gigantesche vi si confrontavano come mai nella seconda guerra mondiale,
alzando vere e proprie pareti di fiamme. La concentrazione di fuoco
dell’artiglieria e delle armi pesanti superava d’intensità i livelli raggiunti durante tutto il corso della guerra.. La grande tenaglia predisposta dal feldmaresciallo von Manstein si protendeva minacciosa
sulle posizioni sovietiche. Il secondo giorno, 6 luglio, l’offensiva tedesca aveva assunto un carattere travolgente. Il 9 luglio, era stata conquistata Werchopenje. Subito dopo, la battaglia si era spostata sulle
rive del Donez. I tedeschi avevano travolto le posizioni nemiche,
rigettato le forze corazzate sovietiche presso Melechowo e circondato
due divisioni di fanteria. Il giorno 11, era stata costituita una testa di
ponte oltre il fiume. Ormai, Kursk era in vista. Nei giorni seguenti,
334
erano state dimezzate tre armate sovietiche e spezzata la linea difensiva nemica fra il Donez e Korotsha. Sennonché, il 13 luglio, proprio
mentre le truppe di Manstein erano ormai sulla strada della vittoria,
Hitler aveva interrotto l’operazione “ Cittadella” e rinunciato alla
presa di Kursk a causa del sopravvenuto sbarco delle truppe alleate
in Sicilia. Il fronte tedesco sud europeo era venuto così a trovarsi
sotto una minaccia immediata. Questo fatto nuovo aveva indotto il
Fuhrer a sguarnire il fronte russo per inviare divisioni in Italia e nei
Balcani. Nel prendere tale frettolosa decisione, Hitler non immaginava che il mancato completamento dell’operazione “Cittadella” avrebbe cambiato le sorti della guerra. Infatti, se la disfatta di Stalingrado
aveva segnato la fine dell’avanzata tedesca, l’insuccesso di Kursk
doveva costituire una svolta fatale: l’inizio, cioè, della disfatta e il
preludio al crollo di Hitler, al cambio dell’intera faccia dell’Europa,
alla modifica degli equilibri politici mondiali.
335
CAPITOLO QUARANTADUESIMO
Il convento delle suore francescane nel quale Segreta aveva trovato ospitalità sorgeva al centro dell’isola di Rügen, a non molta
distanza dalla cittadina capoluogo, Bergen, sul versante orientale del
promontorio chiamato Rugard. Di fronte ai suoi edifici, si stendeva una
valle boschiva protesa verso il mare e, alle sue spalle, una collina ad
anfiteatro anch’essa ricoperta da querce, abeti e faggi, che formavano
insieme un manto verde riposante e solenne. Stando alla finestra,
Segreta udiva il respiro discreto di quella distesa che i venti facevano
mormorare e che gli uccelli riempivano di voci garrule. L’architettura
del palazzo principale e delle costruzioni minori era sobria ed essenziale ma non priva di una sua eleganza neo classica per la presenza di
archi alle finestre e nei portici. La sua costruzione risaliva al 1818,
ispirata da un disegno del grande architetto Karl Schinkel.
Segreta era stata ricevuta benevolmente dalla superiora, madre
Therese, alta e maestosa. Il suo viso quadrato, le labbra serrate e gli
occhi di cobalto mobilissimi, il gesto e il passo rapido, esprimevano
una personalità decisa, volitiva, dinamica, di aperto intelletto. Aveva
affidato a Segreta compiti amministrativi e la carica di bibliotecaria,
pur di tenerla occupata. E, qualche giorno dopo il suo arrivo, si era
trattenuta, nel proprio ufficio, a parlare con lei, per conoscerla da vicino. Non le era sfuggito il suo accento non perfettamente tedesco e
Segreta, mescolando verità e sotterfugio, le aveva risposto che sua
madre era inglese e che, dopo la prematura morte del padre, aveva
parlato sempre con lei nella sua lingua. Suor Therese era parsa per un
attimo perplessa, poi aveva proseguito la conversazione ponendole
pianamente altre domande. E, per disfarsi in parte del peso che portava dentro, Segreta si era spinta a raccontarle per intero la sua sofferta
storia d’amore con Wilhelm. Aveva ricevuto da lei parole di conforto
e, man mano che la conversazione si inoltrava, si era sentita consolata dalla sua presenza.
“Perché la vita è così tortuosa, madre? Perché gli uomini sono in eterna lotta fra loro? Perché Dio è così lontano, assente, irraggiungibile?”
“Hai mai sentito parlare del libero arbitrio?”
337
“Si, certo!”
“Dio ha lasciato l’uomo libero di compiere le sue scelte. Ma, in questa
nostra libertà, siamo perseguitati dal demonio. Credi tu questo? ”
“Anche mia madre me ne parlava. Ma a me sembra una favola per
bambini.”
“Invece, è una verità sconvolgente a cui gli uomini guardano con scetticismo. In genere, crediamo di ragionare con la nostra testa e non ci
accorgiamo che il demonio è entrato nei nostri pensieri. Soltanto dopo
un lungo esercizio della preghiera, è possibile distinguere i propri
pensieri da quelli del demonio La conseguenza è disastrosa: se il
nostro cuore è indurito, lui riesce facilmente a spingere le nostre azioni verso il male. ”
“È un discorso difficile.”
“ Solo perché tu sei troppo impegnata nelle cose del mondo e non ti sei
mai preoccupata della tua vita spirituale.”
“Non riesco ancora a credere nel soprannaturale.”
“Eppure, esso esiste ed è dentro di te. Tu ti preoccupi del tuo corpo ma
ignori la tua anima. Dentro di te, vi sono l’immensità e l’immortalità e
tu non lo sai. Nella tua anima, batte l’eterno cuore di Dio e tu non ti
sforzi di cercarlo.”
“Non riesco a seguirvi, madre.”
Un’altra volta, mentre Segreta stava riordinando alcuni libri
dell’antica biblioteca, suor Therese era andata a trovarla e aveva iniziato a conversare con lei. La sua voce era sommessa e carezzevole.
Segreta le aveva rivelato che sua madre era morta in un campo di concentramento ed ora riposava nel cimitero di Rheinsberg.
“Ti manca molto, vero?”
“Come il respiro. Se lei fosse viva, correrei fra le sue braccia e, certamente, la sua presenza allevierebbe il mio tormento.”
“Capisco.”
“Mia madre era una persona magnifica. Non aveva mai fatto male a
nessuno. Eppure, è stata umiliata e percossa a morte. Perché Dio permette questo?”
“Non possiamo neppure tentare di scrutare nella Sua volontà. È impossibile, quindi, una risposta su questo doloroso caso particolare. Ma,
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forse, è possibile risalire, attraverso l’interpretazione dei testi sacri, ad
una considerazione generale. Il Signore ha sempre agito fedelmente
mentre noi ci siamo comportati con empietà. Ed ora pretendiamo che
ci esaudisca, che ci elargisca la sua grazia. Incendiamo la terra, sterminiamo i nostri fratelli, viviamo di immoralità, di corruzione, di infedeltà, di tradimenti, e poi vorremmo che Dio ascolti le nostre preghiere e ci elargisca la sua divina provvidenza. ”
Vi erano stati alcuni momenti di silenzio, poi suor Therese
aveva ripreso sommessamente:
“La nostra vita passa invariabilmente attraverso un percorso perverso. La
durezza dell’esistenza indurisce il nostro cuore e lo rende preda del demonio. E lui ci spinge verso la trasgressione e l’abiezione nel tentativo di
perdere la nostra anima. Questa è la rovina dell’uomo! Ma se tu invocherai il Signore, se lo cercherai, se pregherai, se seguirai il suo modello di
vita, allora il Signore convertirà il tuo cuore di pietra in un palpitante
cuore di carne, ti renderà una persona diversa, ti schiuderà una strada di
carità, di perdono, di accoglienza, di benevolenza verso i fratelli.”
“È così difficile seguire questa strada. Si rischia di rimanere stritolati.”
“Devi credermi: non esiste per il mondo altro percorso che quello della
Croce. Io credo fermamente che se, per iperbole, tutti gli individui del
mondo dovessero mettersi ad invocare il Signore e seguissero la via
della Croce, Dio accoglierebbe le loro attese e riverserebbe su di essi
la sua misericordiosa provvidenza. E il mondo, finalmente, conoscerebbe il dono prezioso della pace e dell’amore.”
Nelle settimane seguenti, Segreta meditò su quelle parole. Non
ne comprendeva interamente il significato ma ne avvertiva oscuramente il fascino misterioso, la prospettiva rassicurante di un mondo
perfetto dopo la morte. Quei pensieri la placavano ma, poi, tormentosamente, ritornava il ricordo di Wilhelm e del tirannico amore per lui.
E riprendeva a soffrire.
Sennonché, in settembre (1943), ricevette una visita inaspettata. Una suora venne ad avvertirla, con aria quasi scandalizzata, che uno
“ strano individuo “ aveva chiesto di parlarle ed ora l’attendeva in parlatorio. Segreta corse e si trovò davanti Wolf, come sempre snello,
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asciutto, elastico, con il capo rasato e con quei suoi occhi grigi fosforescenti che non lasciavano intravedere i suoi sentimenti. Indossava
pantaloni e maglietta a girocollo color fumo di Londra. Segreta si chiese perché il suo aspetto aveva sconcertato la suora che era andata ad
aprirgli. Pensò che, forse, al pari di Armstrong, quell’uomo non lasciava capire chiaramente a quale ceto sociale appartenesse e che attività
svolgesse. Il suo comportamento circospetto e inquieto lo faceva apparire piuttosto assimilabile ad un gatto randagio. Al rivederla, lui abbozzò un sorriso che apparve quasi stonato in quel viso così asciutto e
oblungo. Lei, invece, lo salutò calorosamente e gli chiese subito notizie di Armstrong.
“Il capo non può venire per il momento. Ma sta bene e mi incarica di
salutarti e di assicurarti il suo ricordo”
“Posso sapere dove si trova?”
“In un paese della Polonia dove i tedeschi stanno trasferendo le fabbriche dei razzi. Hai saputo che, il 17 agosto scorso, gli inglesi hanno
bombardato e semidistrutto gli impianti di Peenemünde?”
“No, non ne so niente. Qui sono isolata dal mondo.”
“Quel bombardamento è stato possibile in seguito alle vostre segnalazioni.”
“Mi fa piacere.”
“Ma i tedeschi hanno la testa dura. Senza perdere tempo, hanno cominciato a trasferire gli impianti in Polonia e in caverne sotterranee nel
frattempo costruite nella Germania centrale, sotto il massiccio
dell’Harz.”
“Ti ringrazio di essere venuto. Vuoi rifocillarti?”
“No, grazie. Devo ripartire subito. Armstrong mi ha incaricato di chiederti, però, prima di andarmene, se stai bene e se ti occorre qualcosa.”
“Qui non sto male.Mi sento protetta ma anche inutile. E, col passare
del tempo, ho ripreso a smaniare ed a desiderare di rivedere Wilhelm.”
Il viso di Wolf si contrasse.
“Wilhelm Klausing? ” chiese esitante
“Si, tu conosci bene la mia ossessione per lui.”
“Speravo che lo avessi lasciato perdere.”
“Purtroppo, il suo ricordo mi ossessiona.”
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Wolf rimase silenzioso. E Segreta intuì i suoi pensideri. Forse,
pensava alla sua parentesi amorosa con Armstrong. Vi fu qualche
momento di imbarazzo. Poi, Wolf riprese con voce atona:
“Non so dove quell’ufficiale si trovi attualmente. Cercherò di saperlo
e chiederò al mio capo il permesso di accompagnarti.”
Wolf ripartì e la vita di Segreta ripiombò nel silenzio e nel
vuoto. E, intanto, si torturava e si chiedeva cosa stesse facendo
Wilhelm. Lo ricordava magnifico, statuario, maestoso nei suoi gesti
scanditi, nella sua parola misurata. Eppure, il suo ingresso nella propria vita le aveva fatto conoscere la sofferenza. Al di là di alcuni intensi momenti di gioia incomparabile, Wilhelm era stato apportatore di
dolore e aveva interrotto prematuramente la sua adolescenza. E quell’attesa inerte, specie quando si trovava sola nella sua stanza, piccola e
spoglia, era una tortura.
Trascorsero i mesi. Ogni tanto, aveva occasione di parlare con
madre Therese. E quelle conversazioni erano sempre rigeneranti. Un
giorno, la Superiora le disse:
“So che tu ed i tuoi amici siete agenti dello spionaggio militare tedesco. Ma non devi temere, sono legata al silenzio.”
“Come l’avete saputo?”
“Quando Herr Armstrong mi ha chiesto ospitalità per te, me lo ha confidato. Ma vi è un particolare che lui non mi ha detto, che ho scoperto
da sola: tu non sei tedesca, è vero? ”
Segreta tremò e rimase in silenzio.
“Non temere. Conserva il tuo segreto. Io conserverò il mio.”
“È una lunga storia, madre, che, per me, si è tramutata in un incubo.
Spero, un giorno, di sentire le campane annunciare la fine di questa
guerra. Allora, vi racconterò tutto.”
“Quando questa guerra finirà, cerca di fermarti: hai corso troppo in
fretta la tua adolescenza”.
Una sera, nel febbraio 1944, fu chiamata al telefono. Era Wolf.
“Ho saputo che quell’ufficiale si trova sul fronte russo”
“Conosci il posto?”
“ Sembra che stia combattendo presso la cittadina di Nikopol”
341
“Puoi portarmi?”
“È impossibile, ai civili, spingersi fin là. Ma ho parlato con Armstrong.
Mi ha assicurato che provvederà lui stesso ad accompagnarti, appena
possibile. Tuttavia, per quello che so della situazione, passeranno dei
mesi.”
“Spero che Moheb faccia un miracolo.”
“Si, ma non chiedergli troppo. Addio , Segreta.”
Da allora, cominciò, per lei, una nuova, impaziente attesa.
342
Fronte russo. La gigantesca manovra di ripiegamento
tedesca sul fiume Dnjepr.
Nella seconda metà di settembre del 1943, si svolse in Russia
la più audace, complessa e spettacolare manovra di ripiegamento della storia della seconda guerra mondiale. Circa un
milione di uomini, al comando del feldmaresciallo von
Manstein, ripiegò da un fronte di circa 1000 chilometri per
ridispiegarsi su un fronte di soli 700 chilometri, sulla riva
occidentale del grande fiume Dnjepr. Il trasporto comprese
anche duecentomila feriti, gli ospedali militari, le officine e
tutta l’attrezzatura logistica.
343
CAPITOLO QUARANTATREESIMO
Wilhelm giunse al quartier generale del “Gruppo armate sud” il
3 settembre 1943. Il comando era alloggiato in un edificio pubblico di
Saporoschje, l’operosa e pulita città industriale russa, posta su un
gomito del grande fiume Dnjepr, in vista di un’imponente diga, allora
la più grande d’Europa, vanto del regime bolscevico, e della relativa
centrale elettrica che forniva energia a tutto il territorio industriale
dell’Ucraina. Una brezza leggera che spirava dal fiume temperava in
parte il calore torrido di quella tarda estate russa. Si presentò al suo
diretto superiore, il colonnello G.Schulze-Buttger, capo ufficio operazioni, che lo accolse cordialmente e lo introdusse alla presenza del
capo di S.M., generale Busse. Apprese da loro che il comandante, feldmaresciallo Erich von Manstein, era assente: si era recato infatti a rapporto nella “ tana del lupo “, il quartier generale di Hitler, dislocato
nella Prussia orientale. Wilhelm non conosceva personalmente
Manstein ma aveva udito decantare le sue doti di eccezionale stratega.
Negli ambienti dell’esercito, veniva considerato il miglior generale di
Hitler, un fautore dell’offensiva. Si era distinto nella campagna di
Francia, nel 1940, ma soprattutto nell’assedio di Sebastopoli, in
Crimea, da lui espugnata il 4 luglio 1942. Per quell’operazione, Hitler
gli aveva infatti conferito la promozione a feldmaresciallo.
Apparteneva ad una facoltosa famiglia della nobiltà militare prussiana.
In attesa del suo rientro, Wilhelm si recò nella foresteria dove
si sistemò e si riposò dalle fatiche del lungo viaggio, compiuto in treno
e con mezzi di fortuna militari. Anche questa volta, aveva attraversato
immense distese steppose o coltivate a grano ed a girasole ed aveva
visto una gran quantità di mulini a vento dislocati sul corso dei fiumi.
Si presentò al feldmaresciallo la sera, al suo rientro al comando. Era la prima volta che lo vedeva. Un fremito d’orgoglio e di ammirazione attraversò il suo cuore. Aveva, in effetti, l’aspetto di un condottiero: alto, snello, cortese ma sbrigativo e talvolta anche ruvido,
rapido nel parlare e nell’agire. I suoi occhi chiari erano penetranti e
severi. Il naso aquilino contrassegnava un profilo volitivo e determinato. Al rientro da un vero e proprio scontro col Fuhrer, appariva però
345
provato e contratto. Gli ufficiali dello stato maggiore furono riuniti in
una sala in cui troneggiava una grande carta strategica e ascoltarono il
suo resoconto. Con voce tesa, disse:
“ Kluge (feldmaresciallo Gunther von Kluge, comandante del Gruppo
armate centro) ed io siamo riusciti ad ottenere un colloquio congiunto
col Fuhrer e gli abbiamo sottoposto una serie di richieste: anzitutto, di
inviarci dei rinforzi, poi di rinunciare al comando in prima persona
delle operazioni e nominare un comandante supremo militare per tutto
il fronte orientale. Come era prevedibile, la nostra richiesta lo ha estremamente irritato poiché corrispondeva ad una decentrazione di potere.
Fra l’altro, ha risposto che io stavo brigando per avere il comando
supremo del fronte orientale. Dopo ore di insistenza, siamo riusciti ad
ottenere solamente alcuni ritocchi allo schieramento delle armate.
Sono però soltanto mezze misure. Il Fuhrer non vuole rendersi conto
che qui non si tratta più, ormai, di ottenere una vittoria ma di evitare
una disfatta totale.”
La sera, nella sua brandina, Wilhelm ripensò a quell’uomo:
possedeva veramente il carisma di un capo, di colui che porta su di sé
il destino di migliaia di uomini, che parla ed agisce in termini di spirito di sacrificio, di senso del dovere, di amor di patria, incarnando
quei sentimenti eccelsi e misconosciuti; ed era, nello stesso tempo,
l’emblema dell’amore misterioso che lega gli uomini in uniforme.
Si, è vero, pensò Wilhelm: dagli orrori della guerra, dalla durezza del
servizio e della disciplina, sboccia miracolosamente, come un fiore
nel fango, questo sentimento che esalta l’uomo soldato e lo spinge
all’olocausto.
Il giorno seguente, si sentì chiamare sulla linea telefonica dell’ufficio.
“Sono Julia! ” La sua voce lo scosse, lo trascinò in un altro mondo.
“ Sono felice di sentirti. Ma come mai mi telefoni su una linea militare?”
“Perché è l’unica su cui posso raggiungerti. Mi trovo nell’ufficio di
Claus. Ne ho approfittato. Ti ha fatto piacere?”
“Moltissimo! Mi sembra di sentire il tuo profumo.”
“Scrivimi. Raccontami la tua nuova vita. Dimmi che mi pensi.”
“Certo! Ti penso con amore! Sei la mia adorata mogliettina.”
346
“Desidero vederti presto. Cercherò di farti una sorpresa!”
“Ma come potrai?”
“Non preoccuparti. A presto. Ti bacio amorevolmente. Hoflicher!”
Quel saluto improvviso e imprevisto di Julia ebbe l’effetto di
un turbine rosa che lo fece sognare per alcune ore, segno che quella
donna gli mancava veramente. Ma, poi, l’arcigna realtà che lo circondava riprese il sopravvento. L’atmosfera del comando era elettrizzante: le telefonate ed i messaggi si incrociavano e, nella quiete apparente di Saporoschje, portavano l’immagine sconvolgente del dramma che
si stava consumando sulla linea del fuoco, dove la pressione
dell’Armata Rossa era incontenibile. Infatti, il 6 settembre, giunse
notizia di un violentissimo urto sovietico concentrato contro la giuntura fra la 1° e la nuova 6° Armata, che aveva aperto una breccia di circa
cinquanta chilometri presso Kostantinowka. Le conseguenti infiltrazioni di reparti sovietici vennero sanguinosamente eliminate dai mezzi
corazzati tedeschi ma, nei giorni seguenti, altre falle furono provocate
dai rinnovati attacchi nemici. Il feldmaresciallo von Manstein chiese,
in conseguenza, allo stato maggiore di Hitler, di effettuare ulteriori ritirate. Ma ottenne soltanto modesti adeguamenti della linea. Il 14 settembre, alcune divisioni sovietiche sfondarono nuovamente il fronte e
si spinsero in direzione del fiume Dnjepr. Incombeva il pericolo di un
aggiramento di ben due armate. Fra Manstein ed il quartier generale
del Fuhrer vi fu perciò uno scambio di telefonate e di messaggi infuocati. Il feldmaresciallo venne nuovamente convocato insieme al pari
grado von Kluge e riuscì, questa volta, ad ottenere da Hitler l’arretramento sul Dnjepr della linea difensiva.
Rientrato al quartier generale, von Manstein impartì l’ordine di
ritirata con una cartella dattiloscritta di 90 righe. Essa conteneva un
piano di battaglia decisivo per la salvezza o la fine di quattro armate.
Si trattava della più difficile, delicata e pericolosa operazione concepita nel corso della guerra. Infatti, un milione di uomini doveva
disimpegnarsi dalla prima linea su un fronte di 1000 chilometri,
concentrarsi in sei punti che consentivano il passaggio del grande
fiume e ridispiegarsi infine sulla sua riva occidentale, lungo un nuovo
fronte di 700 chilometri. Il trasporto comprendeva anche duecentomi347
la feriti, gli ospedali militari completi di personale, le officine e tutta
l’attrezzatura logistica.
La ritirata ebbe luogo sotto la pressione costante delle unità
terrestri ed aeree russe; e si concluse con successo, entro la fine di
settembre, per l’abilità e la determinazione espresse a tutti i livelli.
La rapidità e l’efficienza con cui le forze tedesche erano riuscite ad
attuare movimenti complessi di fronte al nemico fu una dimostrazione di grande capacità militare e dell’ elevato grado del loro addestramento. Contemporaneamente al grande arretramento, venne ridislocato anche il quartier generale del Gruppo di armate sud, da
Saporoschje a Winnitza.
Wilhelm aveva seguito lo svolgimento della complessa operazione non soltanto dalla sala operativa ma anche nei punti di passaggio dei mezzi corazzati e dei reparti motorizzati delle armate in ritirata. A bordo di una camionetta, avvalendosi di tutte le carte della zona,
indirizzò vari comandanti di reparto in difficoltà, si prodigò nel fornire notizie al proprio comando, provvide a far completare dai genieri la
segnaletica stradale, fece deviare delle colonne che avevano intrapreso un percorso sbagliato, fornì agli alti comandanti in transito notizie
su tutto lo sviluppo della manovra. Divenne così un prezioso elemento di coordinamento, in ausilio alla supervisione del movimento svolta sul campo, in persona, dal feldmaresciallo e dal suo aiutante. E
ammirò la compostezza degli uomini in transito e l’ordinato adempimento delle direttive contenute nell’ordine del Gruppo d’armate, nonostante l’imperversare dell’offensiva aerea e dell’artiglieria nemica.
In quei giorni decisivi, dormì soltanto nei ritagli di tempo sull’automezzo, e si sentì partecipe, con intima soddisfazione, dell’enorme
sforzo bellico che l’esercito tedesco stava compiendo sotto i suoi
occhi. Dopo l’attraversamento del fiume da parte di tutti i reparti, percorse da sud a nord il suo corso, superando Ciug, Cerkassi, Kanew e
Kiew per assicurarsi che le divisioni avessero occupato le posizioni
loro assegnate. Infine, raggiunse Winnitza, la nuova sede del Gruppo
d’armate, posta a 120 km. ad ovest, al centro di umide foreste di conifere e individuò le baracche che, nel 1942, erano state utilizzate come
quartier generale di Hitler. Quel complesso di “Blockhaus” aveva
348
ricevuto, all’epoca, il soprannome di “ Werwolf”.
Fu in quella struttura, nascosta sotto gli alti pini, che Wilhelm
ricevette, due giorni dopo, l’inattesa visita di Julia. Giunse senza preavviso e gli apparve sorridente, inguainata nella sua divisa turchina di
crocerossina. Lui si alzò di scatto dal suo tavolo di lavoro e lei gli corse
incontro. Si abbracciarono strettamente e, incuranti dei militari presenti, si baciarono con passione.
“Vi presento mia moglie Julia!” esclamò Wilhelm al settimo cielo,
rivolto ai suoi colleghi. Tutti si alzarono in piedi , applaudirono il loro
bacio e la salutarono a gran voce:
“Benvenuta, Julia!”
“Buon giorno, ragazzi! Vedo che il morale è alto. Avete compiuto tutti
una grande impresa!”
Li salutò agitando una mano mentre Wilhelm la spingeva verso
il proprio alloggiamento. Appena dentro, la baciò con foga e la spinse
sul letto ridendo.
“Che ti succede? Mi sembri un altro uomo!”
“Sono felice di rivederti. Evidentemente, mi fai quest’effetto”
Pochi minuti dopo, erano intenti a rotolarsi, nudi, sul letto.
Anche Julia, in genere così composta, fu contagiata dall’esplosione di
Wilhelm e rise anche lei mentre lui le stampava baci cocenti sulla carnagione candida e luminosa. Wilhelm si accorse che, evidentemente,
l’amava perché era colmo di gioia. La possedette con passione, come
mai aveva fatto prima mentre lei, sorridendo, gli diceva a bassa voce:
“ Piano, non spezzarmi in due!”
Dopo l’amore, cominciarono a parlare, distesi abbracciati sulla
brandina di Wilhelm.
“Perché non mi hai avvertito del tuo arrivo?”
“Perché il volo è stato deciso all’ultimo momento, in coincidenza con
l’invio di materiale sanitario agli ospedali ridislocati sulla linea del
fronte. Ho chiesto al comando della Croce Rossa di far parte di questa
missione perché sentivo intenso il bisogno di rivederti. Dopo pranzo,
proseguirò per Kiew”
“Quando ripartirai per Potsdam?”
“Presumo, fra una settimana”
349
“Grazie di questa bellissima sorpresa. Anch’io spasimavo per rivederti.”
“Ma sei tu che hai voluto lasciarmi!”
“Si, è vero. Ma ero conteso fra due esigenze diverse”
“Ed ora, sei soddisfatto?”
“Sento, con orgoglio, di partecipare nuovamente, in modo attivo, al
grande sforzo della nostra nazione. Ma, senza dubbio, soffro per la tua
lontananza. Si tratta di due esigenze in questo momento inconciliabili,
sia per me che per tutti gli uomini della Wermacht.”
Dopo colazione, in attesa dell’ora della partenza, andarono a
distendersi sull’erba della circostante foresta. Ma non vi erano cori di
cicale, né cinguettii di uccelli, né stormire di fronde.Non un alito di
vento muoveva le cime dei pini, degli abeti, dei larici. L’aria pesante
era pregna dell’odore penetrante delle resine. Una cappa torrida
incombeva su di loro. Ma non se ne accorsero. Erano intenti a guardarsi in un modo nuovo. Evidentemente, la lontananza aveva rivelato
ad entrambi la profondità del loro sentimento.
“Anch’io”mormorò Julia”vorrei ritornare alla vita degli ospedali. Ma
devo necessariamente adattarmi all’attività ispettiva che mi sono ritagliata per non allontanarmi da quell’altro grande progetto che tu sai.”
“Vuoi dire la congiura?”
“Appunto.”
“Non temi che un attentato possa gettare tutto il paese nel caos?”
“Abbiamo previsto quest’eventualità.”
“Ho paura per te.”
“Ne abbiamo già parlato, Wilhelm. Ormai, è troppo tardi per tornare
indietro.”
“A che punto è il complotto?”
“Tutto, ormai, è nelle mani di Claus. È lui il vero spirito incendiario
della resistenza tedesca. Come sai, nonostante le sue gravi mutilazioni, è rientrato in servizio con la carica di capo di stato maggiore delle
forze di riserva. In questo momento, sta organizzando un attentato che
dovrebbe aver luogo in occasione della presentazione al Fuhrer delle
nuove uniformi invernali. Un ufficiale offertosi volontariamente farà
da modello e, al momento opportuno, si legherà alla cintola una carica
di dinamite per esplodere insieme ad Hitler ed al suo seguito.”
350
Mezz’ora dopo, Wilhelm l’accompagnò al quadrimotore
“Condor” pronto per il decollo. Improvvisamente, erano diventati tutti
e due tristi.
“Non ti addolorare per la mia partenza” esclamò Julia che, per temperamento, era la più vivace dei due.” Ci rivedremo presto”. E gli sorrise.
Ma lui aveva un pesante presentimento. Cercò di scacciarlo e
di apparirle sereno. Ciò nonostante, nel separarsi, il loro cuore era acutamente ferito.
Da allora, le sconfitte si susseguirono ed il rinnovato entusiasmo di Wilhelm fu messo a dura prova. In ottobre, le forze sovietiche
attraversarono il fiume fra Dnepropetrovsk e Kremencug. Il 6 novembre, conquistarono Kiew. Wilhelm sentì che non poteva rimanersene al
sicuro a Winnitza mentre i cedimenti del fronte erano sempre più frequenti e indicavano una situazione drammatica che avrebbe potuto tramutarsi in una catastrofe. Chiese perciò di essere assegnato ad un’unità combattente. I suoi superiori apprezzarono quel gesto e l’accontentarono. In quel momento d’emergenza, nessuno pensò alla sua gamba
malconcia. Così, venne destinato alla 25° divisione corazzata, un’unità costituita di recente e non ancora affiatata. La comandava il generale Schell. A causa di errori logistici, il reparto dei “ Tiger” di cui
Wilhelm faceva parte arrivò in ritardo sul campo di battaglia presso
Fastow mentre le avanguardie russe distruggevano due compagnie e
scompaginavano un intero battaglione. Nonostante le gravi perdite,
Wilhelm si lanciò in avanti col suo battaglione, al seguito del comandante della divisione, che guidava l’attacco per la riconquista della
città. Gli scontri furono violenti, caparbi e sanguinosi. Alla fine,
Fastow non venne ripresa. Tuttavia, la divisione, seppur decimata, era
riuscita a contenere l’impeto delle forze russe del generale Rybalko ed
aveva lasciato al feldmaresciallo il tempo di concentrare rinforzi sufficienti per contenere l’avanzata sovietica.
Wilhelm aveva dato prova di un coraggio leonino spingendo il
suo carro contro il nemico fino al punto da rischiare di essere accerchiato; e si era portato dietro il proprio reparto con una veemenza tale
351
da scompaginare le difese avversarie. Il suo nome passò di bocca in
bocca e raggiunse il feldmaresciallo un giorno in cui si trovava in compagnia del leggendario generale degli alpini Ferdinand Schorner,
nuovo comandante del 40° corpo corazzato, un trascinatore di truppa
“scomodo”, di inflessibile disciplina e di eroico coraggio. Schorner
chiese al feldmaresciallo di assegnarglielo e Manstein aderì dato che la
25ma divisione, letteralmente ridotta a brandelli, non poteva per il
momento essere reimpiegata.
Il destino stava perciò conducendo per mano Wilhelm lungo
nuovi, impervi sentieri dei quali non era possibile intravedere la conclusione. Venne promosso sul campo per il fatto d’armi di Fastow e
passò alle dipendenze del 40° corpo col grado di tenente colonnello.
A quel punto, scrisse a Julia per informarla della sua nuova posizione. Lei era sicura che fosse ancora a Winnitza. Gli rispose, perciò,
con una lettera accorata dicendosi molto in pena per lui. Wilhelm si
sforzò di rassicurarla e tenne a ribadirle che quello era e doveva essere il suo posto.
Fu assegnato alla 24ma divisione corazzata che, con il 17°
corpo e nove divisioni di fanteria, faceva parte del cosiddetto “ Gruppo
Schorner”. Il loro compito era quello di difendere la testa di ponte di
Nikopol, posta sulla riva orientale del Dnjepr. Il cordone difensivo del
fronte si svolgeva infatti, come un serpentone, a circa 15 chilometri ad
est dal corso del fiume e non aveva quindi alcun retroterra. Sennonché,
agli inizi di febbraio del 1944, dopo i primi combattimenti, il Gruppo
si trovò esposto ad un accerchiamento. Schorner, allora, senza esitare
e nonostante i diversi ordini della “ Tana del lupo “,ordinò di ritirarsi
sulla riva occidentale del fiume. Subito dopo il ripiegamento, i suoi
reparti contrattaccarono ma, nello stesso tempo, riuscirono anche ad
aprire un sottile corridoio fra il fiume e la città di Apostolowo (posta
ad ovest di Nikopol, sulla riva occidentale del Dnjepr), per preservarsi la possibilità di sfuggire, verso ovest, alla trappola tesa loro dai russi.
In quella zona, si combattè aspramente per due settimane, fra bufere di
neve che congelavano i caricatori dei fucili. Wilhelm giganteggiò nel
condurre il suo reggimento carri (di cui aveva assunto il comando in
seguito alla morte del proprio colonnello) in continui attacchi e con352
trattacchi e, nella notte fra il 15 ed il 16 febbraio, riuscì ad uscire con
tutti i suoi effettivi dalla sacca in cui i russi avevano chiuso gli uomini
di Schorner. Nella ritirata, andarono perdute molte armi pesanti e
molto materiale logistico. Ma i reparti, al completo, si salvarono. Fu
scritto, al riguardo: “ Nessuno di coloro che hanno vissuto la ritirata di
Nikopol dimenticherà Schorner.”
Tuttavia, Nikopol si rivelò ugualmente una tappa fatale per
Wilhelm. Giunto nelle retrovie, nello scendere dal carro, cadde a terra:
la sua gamba non aveva retto ai ripetuti sforzi e si era nuovamente
frantumata. Fu trasportato al più vicino ospedale da campo, ad ovest di
Kriwoi Rog. Temette, in quelle ore, che la guerra fosse finita per lui.
353
Lo sganciamento tedesco dalla testa di ponte di NIKOPOL
La testa di ponte di Nikopol tendeva a ripristinare i contatti con
i reparti tedeschi rimasti in Crimea. La sua difesa era affidata
al leggendario generale degli alpini Ferdinand Shorner, comandante del 40mo corpo corazzato. Quando però si accorse di
essere circondato, Shorner, nonostante i divieti di Hitler, si ritirò sfruttando uno stretto corridoio aperto in direzione della cittadina di Apostolowo. Il ripiegamento di ben 16 divisioni
avvenne, con ordine e perizia, nella notte fra il 15 ed il 16 febbraio 1944. Andò perduta un’ingente quantità di materiali ma
tutti gli uomini, compresi i feriti, si salvarono.
354
CAPITOLO QUARANTAQUATTRESIMO
Julia era ritornata a Potsdam dieci giorni dopo il suo incontro
con Wilhelm. E, nonostante il tempo trascorso dalle ore emozionanti
vissute insieme, il cuore le doleva ancora per il distacco. Si sentiva
attratta da lui. Certo, era amore. Infatti, le mancava molto.
Indubbiamente, era diverso da lei. Ma aveva constatato che riuscivano
ugualmente a dialogare, a intendersi, a rispettare le proprie opposte
opinioni. Rispetto a lei, così pragmatica, concreta, dotata di spiccato
senso pratico, Wilhelm, in fondo, viveva ancora su una nuvola ricolma
di valori ideali che lo rendevano cieco di fronte alla realtà crudele di
quella ingiusta guerra.
In quei dieci giorni, Julia aveva ispezionato gli ospedali da
campo dislocati sulla linea del fronte e si era resa conto della silenziosa, eroica abnegazione delle crocerossine. Aveva fatto ritorno con un
elenco di dati sulle deficienze numeriche esistenti e con una serie di
proposte rivolte a migliorare il servizio. Ancora una volta, il volto della
guerra le era apparso come una totale negazione delle più autentiche
aspirazioni dell’uomo. Ancor peggio che a Stalingrado, era ritornata
indietro portando negli occhi e nel cuore immagini terrificanti, degne
di un inimmaginabile inferno dei vivi. Era adesso ancora più convinta
che la Germania e l’Europa dovevano essere liberate al più presto dalla
feroce, disumana egemonia nazista. E che non vi era altro tempo da
perdere per eliminare Hitler.
Aveva fatto ritorno alle sue abitudini ed ai suoi contatti. Ormai,
si recava ogni giorno a Berlino con una delle sue macchine guidata dall’autista di famiglia. Là, espletava i suoi compiti di ispettrice della
Croce Rossa che, fra l’altro, le servivano da copertura per avvicinare
alti ufficiali della Wehrmacht. Fra gli altri, frequentava assiduamente il
cugino Claus Stauffenberg che, sebbene dolorosamente mutilato, era
rientrato in servizio e ricopriva ora la carica di capo di stato maggiore
delle forze di riserva, a Berlino. Stando a quanto Julia aveva appreso
da lui, sulle forze di riserva gravava il compito di fornire equipaggiamenti e truppe fresche addestrate all’esercito di riserva. Quei rimpiazzi erano costituiti da nuove reclute, ex feriti, anziani e minorenni
355
volontari. A sua volta, l’esercito di riserva provvedeva, con i nuovi
arrivi, a rifornire i fronti di guerra. Ma quell’incarico serviva essenzialmente a Claus Stauffenberg per indirizzare la sua cospirazione
verso un risultato concreto. Come Julia aveva rivelato a Wilhelm, era
stato predisposto, nell’autunno, un attentato ad Hitler durante l’esibizione delle nuove uniformi dell’esercito. Nel novembre 1943, un’incursione aerea nemica aveva però distrutto l’equipaggiamento che il
capitano barone Axel von dem Bussche avrebbe dovuto indossare per
esplodere davanti ad Hitler. Poco dopo, quell’ufficiale era stato ferito
in battaglia. Non potendo fare più assegnamento su di lui, Claus
Stauffenberg aveva allora trovato un nuovo volontario nel tenente
Ewald Heinrich von Kleist. Erano stati fatti, in conseguenza, tutti i
nuovi preparativi per una sfilata dimostrativa che doveva aver luogo
nel febbraio 1944. Ma anche quell’occasione era sfumata perché,
all’ultimo momento, Hitler aveva rimandato a data da stabilirsi la
dimostrazione. L’11 marzo, infine, vi era stato un altro tentativo di sparare ad Hitler. Ma, neanche questa volta, il successo aveva arriso ai
cospiratori.
Intanto, fin dal novembre 1943, Julia aveva appreso per lettera
dal marito che, a sua richiesta, era stato impiegato, con un reparto
corazzato, in prima linea. Quella notizia le aveva procurato rabbia e
preoccupazione: Wilhelm, decisamente, nutriva la vocazione dell’eroe.
E, per coltivarla, si stava allontanando da lei sempre più. Si era affrettata perciò a rispondergli molto risentita. Poi, aveva ricevuto da lui
solo una lettera nel gennaio 1944, con il resoconto delle sue battaglie.
Si era sentita trascurata e, per dispetto, non aveva fatto alcun tentativo
di comunicare verbalmente con lui, come la prima volta in ottobre. Si
era limitata ad inviargli una breve risposta. Sul raffreddamento dei loro
rapporti, avevano anche influito, per quanto riguardava Julia, i suoi
continui incontri col cugino Claus. Lei aveva sempre subito il suo
magnetismo. E, dopo averlo rivisto così spesso, la propria adorazione,
che risaliva all’adolescenza, si era accentuata. Infatti, energia, intraprendenza, fascino, un eloquio avvincente, una profonda cultura, caratterizzavano quell’uomo di 37 anni, alto, snello, prestante, aristocratico.
Le gravi mutilazioni subite, che portava con estrema disinvoltura senza
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sentirsi menomato, accrescevano il suo ascendente. Per molti, e quindi anche per Julia, Claus era ormai entrato nel mito. Ma, beninteso, non
si trattava di un’attrazione sentimentale o puramente fisica, bensì di
una forma di infatuazione che, tuttavia, allontanava da lei il ricordo di
Wilhelm.
Comunque, a fine febbraio, ricevette da lui una lettera: le comunicava di aver subito un nuovo intervento alla gamba ma di essere rimasto in servizio. Le assicurava il suo ricordo costante e il suo amore e le
chiedeva di perdonarlo. Lei rispose subito. Ma non seppe trovare parole
appassionate. Continuava a pensare che, in definitiva, l’ assenza di lui
era voluta. Avrebbe potuto rimanere con lei e, invece, aveva preferito,
nel 1943, partire, allontanarsi. E, in un secondo momento, aveva rinunciato a fruire a casa la licenza di convalescenza.A causa del proprio
risentimento, perciò, il suo tono fu, forse inconsapevolmente, distaccato.
E, in attesa di una nuova lettera di Wilhelm, continuò a incontrarsi con Claus. Dopo il fallimento di tanti tentativi, lui era ormai consapevole che avrebbe dovuto agire personalmente e prendere su di sé
la terribile responsabilità di quel progettato assassinio.
Sussistevano, in proposito, moltissime difficoltà. Infatti, mentre
riusciva a conoscere gli spostamenti di Hitler, era quasi impossibile
per lui esserne informato in anticipo. Inoltre, dalla caduta di
Stalingrado, il Fuhrer viaggiava sempre meno e schivava la folla che
prima era stata il suo punto di forza. Claus von Stauffenberg perciò si
convinse che avrebbe dovuto portare la sua offesa direttamente nella
“Wolfsschanze (la tana del lupo)”, il quartier generale di Hitler a
Rastenburg, nella Prussia orientale.
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CAPITOLO QUARANTACINQUESIMO
Nella notte fra il 16 ed il 17 febbraio 1944, Wilhelm era stato
trasportato all’ospedale da campo di Krivoi Rog. Una camionetta,
arrancando sul terreno ghiacciato, lo aveva sottratto al mulinello incessante della tormenta di neve, al sibilo del vento ed all’allucinato paesaggio invernale russo. Su una barella, aveva fatto il suo ingresso nell’ospedale da campo. Vi era tepore nell’attendamento ma anche un’aria pesante, pregna di tanfi. Aveva udito ordini concitati di medici,
richiami incrociati di infermiere, lamenti di ammalati, in un tramestio
incessante, quali aspetti di un piccolo lembo di inferno. Il quadro era
quello di tutti gli ospedali posti su quel maledetto fronte in ritirata:
indisponibilità di posti di fronte allo straripante arrivo di sempre nuovi
feriti, insufficienza di medici e infermiere, scarsezza di medicinali e, in
tutti, un senso di grande precarietà. Wilhelm, comunque, aveva ricevuto le prime cure indispensabili, poi la sua gamba era stata strettamente fasciata, in attesa di praticargli interventi più appropriati in un
centro traumatologico delle vicinanze. E, infatti, l’indomani, un aereo
lo aveva trasferito, insieme ad altri ricoverati, all’ospedale di Leopoli.
Là, era stato operato e ingessato. Il dolore indicibile che lo
aveva tormentato per l’intera notte si era gradualmente attenuato. Ora,
riusciva a sopportarlo. Ma era profondamente addolorato dalla prospettiva di essere nuovamente un peso morto in un momento simile.
Gli sembrava che, insieme al fronte, stessero crollando tutte le sue speranze e quelle del popolo tedesco, tutte le prospettive di un radioso
avvenire nazionale. Perciò, più che sentirsi depresso, ribolliva di rabbia. In quello stato d’animo, aveva deciso di non informare sua moglie
del proprio ricovero. Lei sarebbe venuta, pensava, per fargli trascorrere una lunga licenza a Potsdam, nella odiosa atmosfera della cospirazione. E, invece, lui voleva rimanere nel clima eroico della guerra,
insieme a tutti quegli altri uomini, accomunato a loro da un destino
fatale. Si era limitato perciò a scriverle una breve lettera in cui le diceva che stava bene e che la ricordava con dolcezza. Amava quella
donna, la desiderava, ma non condivideva certe sue scelte.
L’indomani, 25 febbraio, mentre camminava con le stampelle
359
in un corridoio, aveva incontrato inaspettatamente il generale di corpo
d’armata Hans Hube, che lo stava percorrendo affrettatamente in senso
inverso. Era stato il suo mitico comandante quando prestava servizio
nella 16ma Panzerdivision. Spesso, aveva ricordato, con ammirazione
e attaccamento, il suo viso squadrato e possente e il suo braccio artificiale, la sua energia, il suo coraggio e l’abitudine di dire sempre quello che pensava. Wilhelm sapeva che ora comandava la 1a Armata
corazzata. Lo aveva salutato a gran voce e l’altro, riconoscendolo, gli
si era avvicinato. Si erano scambiate notizie sulle loro ultime vicende
e Hube gli aveva precisato che si trovava in quell’ospedale per una
riparazione al proprio arto artificiale. Si era poi rammaricato nel vederlo claudicante; e. nel congedarsi , aveva esclamato:
“So che sei un valoroso! Ti vorrei con me quando sarai guarito.”
Wilhelm si era sentito percorrere da un fremito di orgoglio e
aveva deciso sull’istante di non perdere quell’occasione. Infatti, il
gruppo Schorner era stato sciolto e la 24a divisione, di cui faceva parte,
aveva dovuto partire per un altro teatro di operazioni.
Il 26 febbraio, era stato dimesso dall’ospedale con una licenza
di convalescenza di un mese. Ma, anziché recarsi a Potsdam, aveva
raggiunto il comando del “Gruppo d’armate sud “e si era presentato al
suo ex superiore diretto, il colonnello Schulze – Buttger mettendosi a
sua disposizione. Schulze lo aveva esortato ad andarsene a casa ma
Wilhelm era infatuato dall’atmosfera eroica che lo circondava.
Considerava disonorevole starsene inoperoso e al sicuro in un simile
momento. Perciò, aveva ripreso il suo vecchio posto presso l’ufficio
operazioni adattandosi a lavorare con le stampelle. Il comando aveva
ora sede a Leopoli ma il feldmaresciallo era ritornato alla sua vecchia
abitudine di utilizzare un treno per spostarsi continuamente nel teatro
di operazioni. Poteva così rendersi conto della situazione del terreno e
dei reparti, visitare le truppe, ispezionare gli ospedali da campo. Il
giorno dopo il suo arrivo, Wilhelm aveva preso posto anche lui sul
vagone comando, per collaborare alla stesura dei piani operativi. Ma
era impaziente. Voleva ritornare ad un reparto impegnato in linea.
Perciò, aveva rivelato al colonnello Schulze – Buttger la sua intenzione di essere destinato alle dipendenze della 1a Armata corazzata, agli
360
ordini del generale Hube. Il paziente Schulze, che era alto, leggermente pingue e di buon carattere, aveva sgranato gli occhi:
“Klausing, sembra che voi vogliate usare il comando del “Gruppo
d’armate sud” come un albergo: non fate che andare e venire. Alla fine,
il feldmaresciallo non vorrà più sentir parlare di voi.”
Wilhelm era rimasto in silenzio, riconoscendo che il suo superiore aveva ragione.
“D’altra parte” aveva soggiunto Schulze più pacatamente “ Per ora,
non siete abile al servizio.”
La stessa notte, nel suo scompartimento, mentre il treno sferragliava sulla grande linea Leopoli- Dnjepropetrowsk, Wilhelm aveva
cercato di porre ordine nelle sue idee: da quando, nel 1942, era ritornato alla sua amata uniforme, si sentiva finalmente realizzato. Non era
un violento, non amava certo le carneficine. Ma lo esaltava l’aspetto
eroico della guerra e del sacrificio per la propria terra. Voleva continuare su quella strada e raggiungere possibilmente la gloria, non per i
plausi terreni ma per l’elevazione del proprio spirito, per il lustro da
dare al suo nome, per donare la sua vita ad un ideale. Aspirava a condividere l’olocausto dei suoi commilitoni, ad offrirsi per la Germania.
Pensava però anche a Julia: sentiva di essere stato egoista con
lei. Doveva dirle tutto e confermarle il proprio amore. L’indomani, ultimo giorno di febbraio (1944), le aveva scritto rivelandole tutta la verità e spiegandole che, per la gravità della situazione, non era assolutamente onorevole, per lui, fruire la licenza di convalescenza. “ Vi è un
tempo per l’amore “ concludeva “ ed un tempo per il dovere ed il sacrificio. Quindi, se puoi, perdonami”. Lo stesso giorno, gli era giunta una
sua lettera, scritta in gennaio. Era irritata che lui avesse scelto di allontanarsi da lei per seguire la via rischiosa della prima linea. Stava in pena
ma non poteva perdonargli di essere stata da lui tanto trascurata. Il tono
della lettera appariva amaro e stringato. Il suo disappunto era evidente.
Nel riprendere servizio, Wilhelm aveva appreso della sortita
delle truppe tedesche dalla sacca di Korsum, nel febbraio 1944, e della
cruenta battaglia di Tscherkassy, sulle tragiche quote 222 e 239. In quel
fatto d’armi, erano caduti oltre 18 mila tedeschi. E, purtroppo, la rovinosa ritirata continuava. Ormai, la morte aveva perso ogni importanza
361
come fatto umano. Le vite degli uomini in uniforme costituivano unicamente il potenziale necessario per prevalere sul nemico. Erano soltanto uno strumento di guerra, al pari dei carri armati, dei cannoni e
degli aerei. Quelli che cadevano, in compenso, erano eroi, salvatori
della patria. La morte, quindi, era bella ed esaltante, un nobile olocausto, Questa, pensava Wilhelm, era la logica della guerra. E sentiva
di condividerla.
Il 4 marzo, un poderoso gruppo di armate sovietiche aveva
attaccato lo schieramento tedesco nella zona di Uman, ad est del fiume
Dnjestr. La 1a Armata corazzata del generale Hube, schierata ad est di
Schepetowka, era minacciata da vicino. Il giorno dopo, Wilhelm aveva
saputo che le forze sovietiche, attaccando a tenaglia su molteplici
direttrici, stavano chiudendo Hube e le sue ventidue divisioni in una
enorme sacca. Allora, era corso dal colonnello Schulze-Buttger e gli
aveva chiesto di raggiungere quell’unità. Poco dopo, il feldmaresciallo lo aveva ricevuto e si era stupito nel vederlo con le stampelle. Ma
Wilhelm lo aveva rassicurato: sarebbe stato capace di combattere
anche così ! Manstein lo aveva fissato coi suoi penetranti occhi chiari,
poi si era compiaciuto con lui e lo aveva autorizzato ad andare.
Il giorno successivo, un aereo preposto al rifornimento delle
truppe assediate lo aveva condotto fino all’aeroporto di Proscurow. Il
tempo era calmo ma il freddo intenso. Intorno, la campagna aveva un
aspetto spettrale. Un’ora dopo, era giunto al comando della 1a Armata
corazzata, sistemato alla meglio in un casolare di contadini. Hube, nel
vederlo, aveva espresso con impeto la sua sorpresa:
“ Caspita, ragazzo, ti avevo chiesto di venire ma non in carriola!”
Anche a lui, Wilhelm aveva assicurato che non sarebbe stata
un’ingessatura ad impedirgli di combattere. Comunque, per concedergli del tempo, Hube aveva deciso di impiegarlo, per il momento, presso il suo stato maggiore. Il capo dello staff, colonnello Wagener, lo
aveva guardato incuriosito. Era un uomo di media statura e corporatura, magro e dai veloci riflessi. Rapidamente, gli aveva illustrato la
situazione sul campo: nei pressi del fiume Bug, erano schierate, da
nord a sud, quattro armate tedesche. Nell’ordine, la 4a corazzata era
stata spezzata in due. La 1a corazzata si trovava rinchiusa in una sacca
362
fra i fiumi Bug e Dnjestr. L’8° Armata, la più debole perché ormai
priva di carri armati, si stava in quelle ore sgretolando sotto i colpi
furiosi delle armate del generale russo Konjev. Infine, la nuova 6°
Armata era stata a sua volta investita e isolata. La sua linea di combattimento aveva subito penetrazioni in più punti.
Nei giorni seguenti, la situazione aveva imboccato la via della
catastrofe: l’8° Armata era stata letteralmente travolta e fatta a pezzi.
Il 16 marzo, le truppe del generale russo Konjev avevano superato il
fiume completando l’accerchiamento della 1a Armata. Alcuni giorni
dopo, le armate del generale russo Zukov erano passate, anche loro,
sulla riva occidentale del Dnjestr.
Fedele al suo folle teorema della resistenza ad oltranza, Hitler
continuava a diramare isterici ordini per mantenere ad ogni costo le
posizioni. Essi provenivano dal suo nuovo quartier generale, il “nido
d’ aquila”, sul monte Berghof, presso Berchtesgaden, dove si era recato con i suoi più stretti collaboratori. Ma Hube, invece, era d’accordo
con Manstein sull’imperativa necessità di sfondare l’accerchiamento.
In un momento così tragico, Wilhelm aveva sentito impellente
il bisogno di combattere. Una mattina, furiosamente, si era tolto il
gesso e, trascinando la gamba, aveva chiesto rapporto al colonnello
Wagener. Si era irrigidito sull’attenti davanti a lui e gli aveva chiesto
in modo veemente di essere destinato ad un reparto combattente ai
margini della sacca. Un’ora dopo, era stato ricevuto dal generale Hube.
I due uomini si erano scambiati il profondo sguardo d’intesa, di amicizia e di affetto della fratellanza d’armi, quello che solo un soldato può
sentire palpitare nel proprio cuore.
Nella stessa mattinata, Wilhelm aveva assunto il comando di
un battaglione carri del 3° corpo corazzato retto dal generale Breith.
Il giorno dopo, si era impegnato, con la sua ormai proverbiale foga, in
furiosi attacchi e contrattacchi di forze corazzate per difendere i villaggi di Podolsk e Hotin minacciati dalla manovra a tenaglia del nemico. E, trascinando i suoi uomini, aveva mantenuto le posizioni.
Erano poi trascorse ore di nervosa attesa per sapere se lo sfondamento della tenaglia sovietica, per uscire dalla sacca, sarebbe avvenuto verso ovest o verso sud. Intanto, la primavera tardava e l’inverno
363
era sempre presente con tormente di neve e con un freddo polare. Nella
notte sul 27 marzo, era giunto finalmente l’ordine di ritirarsi verso
ovest spingendosi, in due grandi cunei, verso i fiumi Seret e Strypa.
All’alba, l’armata si era mossa come un corpo solo mentre, dall’alto,
giungevano regolarmente i rifornimenti aerei alimentati instancabilmente dalla 4a flotta del generale Dussloch. L’ordine di operazioni prevedeva il superamento degli 80 chilometri che dividevano i reparti di
Hube dalla 4a Armata, dislocata fuori dalla sacca.
Wilhelm faceva parte, col suo battaglione carri, del cuneo sud.
Aveva ricevuto l’ordine di rigettare il nemico addensatosi a KamenezPodolsk e di aprirsi la strada oltre il fiume Zbrucz, presso Okop. Con i
suoi carri, si era lanciato audacemente sui T34 russi capeggiando reiterati attacchi e contrattacchi. Aveva fornito così nuove prove di coraggio,
sagacia tattica e maestria nell’impiego dei mezzi corazzati. Ed era riuscito, dopo un cruento combattimento, a ricacciare le forze sovietiche.
L’intera sacca si muoveva ordinatamente, sembrava ruotare su
un asse realizzando un miracolo di coordinamento tattico, un modello di arte militare, frutto di competenza e disciplina. La tempesta di
neve imperversava fra il Seret ed il Dnjestr. Tuttavia, Wilhelm aveva
potuto constatare che, ugualmente, lo spirito della truppa era indistruttibile. Gli aviatori volavano nonostante il tempo proibitivo e assicuravano a sufficienza il rifornimento di carburanti e munizioni.
Scarseggiavano invece i viveri, per i quali era necessario ricorrere alle
riserve dell’Armata.
Ma, intanto, inaspettatamente, Wilhelm aveva cominciato ad
accusare dolori alla gamba. E, ben presto, quella sofferenza era
cresciuta e stava diventando intollerabile.
Le strade si erano gelate e potevano essere percorse dai mezzi.
Il ripiegamento perciò continuava: il gruppo Breith, di cui Wilhelm
faceva parte, doveva ora guadagnare i guadi sullo Stypa e aprire il
passaggio verso Buczacz. Purtroppo, la situazione dei feriti era miserevole. Mancavano i trasporti per tutti. Quelli che non avevano trovato posto, dovevano marciare. Molti si perdevano nella tormenta e morivano sul posto.
Il 5 aprile, mancavano ormai soltanto 5 chilometri al ricon364
giungimento con la 4a Armata. Wilhelm, intanto, soffriva acutamente.
Ma quel tormento, incredibilmente, aumentava la sua rabbia e la sua
decisione. Se Segreta lo avesse visto in quei momenti, non lo avrebbe
riconosciuto. Quel magnifico giovane biondo, austero, statuario, del
quale si era tanto innamorata, appariva trasformato. Rassomigliava a
un antico, scatenato cavaliere teutonico. Si trovava finalmente nel suo
elemento, la battaglia. Quel giorno, la sua colonna era stata attaccata
sul fianco dall’11mo corpo corazzato sovietico. Lui aveva reagito con
inaudita energia e audacia sporgendosi dalla torretta del suo
“Ferdinand”. Il dolore fisico, anziché abbatterlo, lo spingeva freneticamente all’azione suscitando entusiasmo e coraggio nei suoi uomini.
I russi erano stati perciò prepotentemente ricacciati al di là del Dnjestr
ed avevano lasciato sul terreno 35 carri.
Il 6 aprile, finalmente, i reparti del generale Hube erano riusciti a spezzare l’ultima resistenza russa presso Buczacz ed avevano potuto congiungersi con gli avamposti della 4a Armata. La sacca era stata
sfondata ed i suoi 200 mila uomini avevano potuto mettersi in salvo su
una nuova linea di resistenza. La più grande battaglia di sganciamento
della seconda guerra mondiale era finita.
Ma Wilhem aveva la febbre alta, un dolore acuto ed un vistoso
gonfiore alla gamba malata. I suoi uomini si erano accorti che stava
male e, a sua insaputa, avevano chiamato un ufficiale medico. Lo stesso giorno, era stato ricoverato nell’ospedale di Leopoli. Là, gli avevano riscontrato un’acuta osteomielite ed un inizio di setticemia. Le sue
condizioni erano apparse subito gravi.
365
La 1a Armata corazzata tedesca sfugge all’accerchiamento
sul fronte del fiume Bug e si ricongiunge con la 4a Armata
Alla fine di marzo del 1944, la prima Armata corazzata della
Wehrmacht, al comando del generale Hans Hube, si trovò
accerchiata, intorno a Tarnopol, in un’enorme sacca tra i
fiumi Bug e Dnjestr. Soltanto una breccia larga 80 chilometri poteve consentirle di ricongiungersi, verso ovest, con la
4° Armata corazzata. Ma Hitler si opponeva alla ritirata.
Solo dopo le furiose insistenze del comandante del Gruppo
di armate, feldmaresciallo von Manstein, le ventidue divisioni accerchiate poterono uscire dalla sacca e, mediante
marce e violenti combattimenti, congiungersi, il 6 aprile,
con la 4° Armata. Tuttavia, il feldmaresciallo, che aveva
osato opporsi a Hitler, venne esonerato dal comando (30
marzo 1944).
CAPITOLO QUARANTASEIESIMO
Sebbene immersa nella quiete ombrosa del convento di Santa
Chiara, nell’isola di Rügen, dove le ore erano scandite dalle voci oranti e dai cori delle suore francescane, Segreta diventava ogni giorno più
insofferente. Wilhelm le mancava acutamente. Vi erano in lei momenti
atoni e vuoti in cui i ricordi le giungevano sfumati e indolori. Ma, poi,
all’improvviso, il pensiero di averlo per sempre perduto la ghermiva in
modo insopportabile e la faceva dimenare sul letto. A causa di quella
sofferenza, perfino il ricordo doloroso di sua madre le giungeva intermittente e attenuato. Si era ormai convinta: l’amore per Wilhelm aveva
l’aspetto di un tiranno che la teneva in una morsa dispotica da cui
avrebbe voluto svincolarsi. Un giorno di giugno, non seppe più resistere. Si presentò alla madre superiora e le annunciò che aveva deciso
di lasciare il convento.
“Dove vuoi andare?” le chiese con calma suor Therese.
“Madre, voi conoscete la mia storia. Non riesco a rassegnarmi, nonostante la pace che ho trovato qui, da voi. Voglio andare a cercarlo, dirgli che
non posso vivere senza di lui, chiedergli qualche briciola d’amore.”
Suor Therese la guardò pensosamente.
“ È un uomo sposato, ormai. Vuoi spingerlo all’adulterio?”
“Non m’importa di niente. Voglio solo vederlo.”
“Purtroppo, non posso concederti di lasciare il convento. Il signor
Armstrong ti ha messa sotto la mia protezione.”
“Armstrong non è il mio tutore. Voglio essere padrona della mia vita.”
“Per fare sciocchezze? Sei in un paese straniero, vi sono i pericoli della
guerra, non hai neppure un lavoro. Per il tuo bene, dovrai rimanere e
attendere che lui venga a riprenderti, come ha promesso.”
Segreta se ne andò a testa bassa. Si dedicò con maggior impegno al lavoro di bibliotecaria, sperando di distrarre i propri pensieri.
Prese anche a partecipare alle funzioni religiose. Stando in fondo alla
chiesa, seguiva le preghiere delle suore. Le teorie di candele accese, il
suono dell’organo, le arcane parole delle Sacre Scritture, la spingevano alla ricerca di momenti di pace e di abbandono dell’animo. Ma,
dopo un mese, agli inizi di luglio (1944), non ne poté più. Una sera,
367
scese dal letto con stizza, preparò la valigia e scrisse una lettera di giustificazioni e di addio per suor Therese.
Poi, nottetempo, lasciò il convento con la ferma intenzione di
recarsi a Potsdam. Là, qualcuno le avrebbe detto dove Wilhelm si trovava. Viaggiò in treno, in autobus, con mezzi di fortuna. Impiegò tre
giorni per giungere a destinazione e, a Potsdam, prese alloggio nella
solita pensione di Gutenberg Strasse. Il giorno dopo, 15 luglio, mentre pranzava, adocchiò il cameriere, un giovane bruno, aitante e vivace. Seppe che proveniva dalla Bavaria e che si chiamava Hans. La
guardava con occhi accesi e rivelava palesemente l’intenzione di
attaccar discorso con lei.
“Vi vedo, pensierosa, fraulein. Avete qualche problema?”
“Cosa vorresti propormi?”
“Di distrarvi. Ad esempio, di venire a ballare con me.”
“Sei gentile, Hans. Ma ho effettivamente un problema. È molto serio e
non mi permette di distrarmi. Perciò, se proprio vuoi aiutarmi, potresti
farmi una commissione. Ti compenserò bene.”
“Di che si tratta?”
“Siediti e te lo spiegherò.”
Lui aderì e, standole di fronte al tavolo, la fissò sorridendo.
“Siete bella, fraulein. Potete chiedermi tutto,”
“Soltanto questo: a due chilometri circa da qui, vi è una villa che sporge sull’Heilinger See. È la residenza della contessa Julia Stauffenberg.
Dovresti andarci e chiedere del marito, il capitano Wilhelm Klausing.
Quando ti domanderanno chi sei e perché lo cerchi, risponderai che sei
uno dei soldati che hanno combattuto con lui a Stalingrado e che vuoi
solo salutarlo. Ti risponderanno allora che non c’è. A questo punto, tu
chiederai loro il suo indirizzo per andarlo a trovare o per scrivergli.”
“Quindi, voi sapete già che lui non si trova nella villa?”
“Penso che sia al fronte. Vorrei esserne certa per andarlo a trovare.
Tutto qui”
“Siete una spia o semplicemente la sua amante?”
“Non malignare. Dimmi se puoi farlo.”
“Perché non andate personalmente?”
“Perché sua moglie deve ignorare la mia esistenza.”
368
Hans tentennò la testa con un sorriso malizioso.
“Beato il capitano Wilhelm ad avere una donna come voi!”
“Sciocco! Se mi segui in camera, ti darò la ricompensa.”
Lui spalancò gli occhi golosamente. E rimase alquanto deluso
quando Segreta gli mise in mano una busta contenente del danaro.
Forse, sperava in una sorpresa rosa.
Ritornò l’indomani pomeriggio. Segreta aveva indosso soltanto una leggera vestaglia sul corpo nudo, perché faceva caldo. Hans
entrò guardandola con desiderio.
“ Sei riuscito?”
“Si, certo. Ho parlato con la governante della casa. Mi ha detto che il
tenente colonnello presta servizio al Ministero della Guerra.”
“Tenente colonnello? Io ricordo che era capitano”
“Sarà stato promosso.”
“Non ti ha precisato il reparto?”
“Se ho capito bene, ha parlato dell’esercito di riserva.”
Segreta gli saltò al collo. “ Sei un tesoro!” E gli stampò un
bacio su una guancia.
“Usciamo stasera? ”azzardò Hans rosso e sudato.
“Debbo partire immediatamente. Ci rivedremo perciò al mio ritorno.”
Lasciò il bagaglio nell’albergo e partì subito per Berlino, alla
ricerca di Wilhelm. Lo riteneva lontano e, invece, era a portata di
mano.
369
CAPITOLO QUARANTASETTESIMO
Nella notte sul 7 aprile (1944), Julia era stata svegliata dallo
squillo del telefono. Ed aveva appreso dal colonnello Schulze-Buttger
che suo marito Wilhelm era stato ricoverato nell’ospedale di Leopoli
per una grave infezione alla gamba malata. Era riuscita a trovar posto
in un aereo diretto al quartier generale del “Gruppo armate sud” ed
aveva raggiunto l’ospedale, vestita da crocerossina. Si era subito resa
conto della gravità della situazione: i batteri della setticemia avevano
provocato nel sangue un’imponente infezione generalizzata ed ora
minacciavano la vita stessa di Wilhelm.
Era andata a parlare con il comandante tedesco dell’ospedale
ed aveva concordato con lui di trasportare Wilhelm in Germania, dopo
la somministrazione di una terapia d’urgenza per frenare l’infezione.
La mattina del 9 aprile, era ripartita con un aereo messo a disposizione dal premuroso colonnello Sculze- Buttger, ed aveva trasportato
Wilhelm nell’ospedale militare maggiore di Berlino. Era sollevata nel
saperlo ora affidato alle cure di medici tedeschi ma anche irata perché,
secondo lei, quella grave situazione avrebbe potuto essere evitata se
Wilhelm, nell’ottobre 1943, se ne fosse rimasto tranquillo presso lo
stato maggiore dell’esercito, dove era stato destinato.
Aggredito da una febbre massiccia, lui si trovava in stato di
semincoscienza. Tuttavia, i suoi occhi si erano illuminati nel riconoscere Julia. Le aveva rivolto un sorriso di riconoscenza e si erano tenuti a lungo una mano. Stando vicini, avevano vissuto giorni di sofferenza, di trepidazione e di speranza fino a che la potente cura a base di
antibiotici somministratagli non era riuscita a produrre i suoi effetti. Il
20 aprile, i medici avevano sciolto la prognosi riservata. Wilhelm non
era più in pericolo di vita. I chirurghi avevano potuto perciò operare la
sua gamba e applicargli, il 5 maggio, una nuova ingessatura.
Solo allora Julia si era decisa a informarlo di due eventi spiacevoli avvenuti nel frattempo: il 30 marzo, Hitler aveva esonerato il
feldmaresciallo von Manstein dal comando del “Gruppo armate sud.”
Al suo posto, era stato nominato il feldmaresciallo Walter Model che
aveva ribattezzato il suo comando “Gruppo armate Ucraina settentrio371
nale”. L’altra notizia, ancor più dolorosa, era che, il 20 aprile 1944,
dopo aver ricevuto da Hitler “la croce di ferro con le spade”, il generale Hube era precipitato col suo aereo nelle vicinanze di
Berchtesgaden. Wilhelm aveva stretto le palpebre ed era rimasto in
silenzio per alcuni minuti. Julia sapeva che quei due uomini erano i
suoi idoli. Ora, la guerra e la sua stessa vita non sarebbero state più le
stesse. Guardando l’espressione dei suoi occhi, si era accorta che stava
soffrendo molto. Per consolarlo, gli aveva detto:
“ Manstein è il miglior cervello della Wehrmacht. Se Hitler lo avesse
ascoltato, la guerra sarebbe andata diversamente. E, invece, ottusamente, gli ha fatto pagare il coraggio da lui dimostrato nel contrastarlo.
Gli aveva stretto una mano mentre andava dissipandosi in lei
quel femminile rancore che, negli ultimi mesi, aveva covato nei suoi
confronti.
“Fatti coraggio. Questo incubo passerà.”
“Grazie della tua presenza, Julia. Forse, era necessaria questa mia
malattia per ritrovarti.”
“ Mi sei molto mancato: pensa, l’ultima tua lettera mi è giunta un mese fa.”
“ Perdonami, se ti è possibile. Ma, quando ho visto i nostri uomini
retrocedere di fronte al nemico, sono rimasto sconvolto. Non potevo
più preoccuparmi della mia piccola vita. Dovevo battermi per la
salvezza della nostra patria. Tuttavia, ti confesso: quando pensavo a te,
un nodo mi serrava lo stomaco.”
“La tua piccola vita è l’unica che hai. E mi sta molto a cuore. Devi convincerti che la guerra è perduta, ormai. Siamo giovani e, quando si
ama, la vita può essere bellissima. Forse, è arrivato il momento di pensare solo a noi stessi.”
“Come farai con il tuo complotto?”
“È una questione soltanto di qualche settimana. Ormai, le voci
cominciano a circolare. Spero che Claus si sbrighi. Dopo di che, desidero disinteressarmene. Non solo il tuo patriottismo ma anche questa
cospirazione, ci hanno separati. Non deve accadere un’altra volta. Non
voglio perderti. ”
L’indomani, preceduto da una telefonata, si era presentato un
colonnello dello stato maggiore per comunicare a Wilhelm che era
372
stato insignito della croce di ferro per il suo eroico comportamento
negli ultimi fatti d’arme. La consegna avrebbe avuto luogo, in forma
solenne, al suo rientro in servizio.
Il 10 maggio, infine, Wilhelm era stato dimesso con una licenza di convalescenza di 50 giorni. Con lui, Julia aveva fatto perciò ritornò a Potsdam.
373
CAPITOLO QUARANTOTTESIMO
Wilhelm era profondamente grato a Julia di averlo assistito
amorevolmente. L’incrinatura dei loro rapporti, manifestatasi nei primi
mesi dell’anno, si era miracolosamente ricomposta proprio durante
quella convivenza in ospedale. A casa, avevano ripreso ad amarsi ogni
sera, sia pure in modo rocambolesco a causa del suo arto ingessato.
Julia, da parte sua, era ritornata alle proprie abitudini culturali ma
anche a quei convegni segreti che Wilhelm temeva.
Per quel turbolento succedersi di avvenimenti, avvertiva in
fondo a se stesso una profonda stanchezza. Sentiva il bisogno di un
assoluto silenzio, di lasciarsi andare. E una cura efficace di quello stato
d’animo - che proveniva, evidentemente, da una intensa delusione – era
quello di abbandonarsi a Julia. Si era accorto che, quando socchiudeva
in parte le palpebre, quei suoi occhi felini acquistavano una inconsueta
dolcezza. Voleva solo guardarla e dimenticare, perdersi in lei.
Si era anche convinto che non poteva impedirle di confidarsi
con lui sugli sviluppi della cospirazione. Aveva compreso che, per lei,
parlargliene era un modo di liberarsi dalla tensione che aveva, via via,
accumulato in se stessa.
Una sera, Julia gli aveva detto:
“ Vi sono molte idee divergenti fra i cospiratori. Ma tutti ormai concordano sulla necessità di tentare l’assassinio di Hitler e attuare, subito dopo, un colpo di stato per guidare la nazione verso la pace. Come
ti ho già detto, esiste al riguardo un piano chiamato “ Valchirie”. Se
questi tentativi dovessero fallire, almeno sarà stata offerta al mondo la
prova che una minoranza del popolo tedesco ha tentato di sbarazzarsi
dei criminali nazisti. Di fronte al giudizio della storia, potrà essere
dimostrato che è esistita veramente una resistenza tedesca al nazismo.”
Verso la fine di giugno, Julia gli aveva annunciato che Claus
era stato promosso colonnello e destinato alla carica di capo di stato
maggiore dell’esercito di riserva, comandato dal generale Fritz
Fromm. In quel modo, aveva aggiunto, erano ulteriormente aumentate
le possibilità per lui di incontrare Hitler
Il 1° luglio (1944), Wilhelm si era presentato all’ospedale mili375
tare che lo aveva giudicato ancora non idoneo al servizio incondizionato ma idoneo, invece, ai servizi sedentari. In conseguenza, era stato
nuovamente destinato allo stato maggiore dell’esercito, dove avrebbe
dovuto presentarsi il 15 luglio.successivo. Ormai libero dal gesso e
sorreggendosi ad un bastone, si era recato, quel giorno, in auto a
Berlino ed aveva nuovamente preso servizio. Aveva concordato però
con Julia che, per qualche sera, non sarebbe rientrato a Potsdam. Si
sarebbe trattenuto invece nel suo appartamento di Ebert Strasse per
riordinare i propri libri e gli effetti personali e porre fine, così,
a quella ormai inutile locazione.
La sera del 18 luglio, imperversava su Berlino un violento temporale estivo, accompagnato da tuoni e scariche elettriche. Wilhelm si
era appena ritirato e stava togliendosi l’impermeabile bagnato allorché
sentì suonare alla porta. Andò ad aprire e si trovò di fronte Segreta, letteralmente inzuppata d’acqua. Aveva addosso soltanto un leggero
vestito estivo. Lui rimase come paralizzato.
“Non mi fai entrare?”chiese lei con un filo di voce. Sembrava stremata. Wilhelm si scosse e si fece da parte per accoglierla nell’interno.
Poi, le disse:
“Vai nel bagno a cambiarti e ad asciugarti. Puoi indossare un mio
accappatoio.”
Un quarto d’ora dopo, lei comparve in salotto coperta da un
grande accappatoio di Wilhelm. Era scalza ma lui corse a prenderle un
paio delle proprie lunghe pantofole. Aveva preparato un tè bollente e
gliene porse una tazza che lei bevve avidamente.
“Sei sorpreso, Wilhelm?”
“Si, molto sorpreso.”
“Ti sei mai chiesto dove sono stata e cosa ho fatto in tutto questo
tempo, dopo che tu mi hai scacciata?”
“Ti avevo sistemata in una pensione a Potsdam. Ma tu sei scomparsa.
Allora, ho pensato che fossi rientrata in qualche modo in Inghilterra.”
“In verità, hai fatto presto a dimenticarmi.”
Lui avvertì il suo tono dolente. I suoi occhi erano pieni di lacrime.
“Si, ho mancato, a suo tempo, verso di te. Ma vi sono stato indotto da
376
circostanze veramente eccezionali”
“Dovevi ricordarti che ho tradito la mia patria per te.”
“Come ti ho già detto l’ultima volta che ci siamo visti, io ti ritenevo
perduta per me. Ti prego, credi alla mia buona fede. E, comunque,
perdonami.”
“ Come posso vivere, ora, senza di te ?”
“Cosa dovrei fare?”
“Ritornare a me.”
Si alzò dalla poltroncina del salotto, si inginocchiò di fronte a
lui e gli serrò le gambe.
“Ho provato a dimenticarti. Ma non ci sono riuscita.”
Lui si curvò su di lei e l’aiutò a rialzarsi.
“Su, non fare così. Hai appena 18 anni. Un giorno sorriderai di questa
tua infatuazione.”
“È amore, Wilhelm, purissimo amore. Non credevo di essere capace di
amare così. Mi hai stregata. Cerca di aiutarmi!”
“Ma in che modo? Non posso vivere due vite.”
“Ritorna a me.” ripeté lei.
“È impossibile: non soltanto ho sposato Julia ma l’amo.”
“Oh, noo!” e si coprì il viso con le palme delle mani.
Lui ebbe pena del suo dolore. Ma, nello stesso tempo, Segreta
cominciò a tossire in modo violento. Si avvicinò a lei e si accorse che
la sua fronte bruciava e che tutto il suo corpo era scosso da brividi.
“Vai a coricarti nella camera degli ospiti.”
Ma lei era curva sulla poltrona e si comprimeva il petto
L’accesso di tosse continuava. Allora, Wilhelm la prese in braccio e la
portò nella camera da letto riservata ad eventuali ospiti. La depose sul
letto, la coprì con una coperta e poi le misurò la temperatura. Aveva
una forte febbre.
“Quanto tempo sei rimasta sotto l’acqua?” Ma Segreta non rispose.
Wilhelm le somministrò delle aspirine, poi si sedette accanto al letto e
la vegliò fino a che lei non ebbe preso sonno.
Avrebbe dovuto essere contrariato. Invece era soltanto preoccupato perché la situazione non era obiettivamente semplice. Si trattava, pur sempre, di una ragazza appartenente ad una nazione nemica,
377
che non poteva, in quel momento, ritornare a casa. Competeva perciò
a lui occuparsi di lei. Si ripromise di proporle, l’indomani, delle soluzioni e non trovò altro da fare che andarsene a letto. Ma dormì male, e
solo per un paio d’ore, perché lei tossiva spesso. Finì col ritornare in
camera sua, sedersi vicino al suo letto e vegliarla. Era ritornato repentinamente nel privato dopo aver vissuto la tragedia di un esercito ed
aver assistito alla fine di migliaia di uomini. Il suo animo era stravolto. Ma perché la vita era così maledettamente complicata?
La mattina dopo, la febbre e la tosse di Segreta persistevano.
Allora, prima di andare al lavoro, Wilhelm chiamò un dottore e la fece
visitare. Risultò che era affetta da una bronchite febbrile. Il medico le
prescrisse compresse, sciroppi, unzioni sul petto e riposo. Al ritorno
dall’ufficio, nell’intervallo del pomeriggio, Wilhelm le preparò una
pastina in brodo e le somministrò quelle cure. Poi, dallo studio, telefonò a Julia.
“ Il noto evento è stato fissato per domani.” gli disse lei con voce sibilante.
“Vuoi che rientri?”
“Non è necessario. Domani, verrò io stessa al ministero. Ma, comunque, risentiamoci questa sera.”
Wilhelmm, sconvolto, ritornò in camera di Segreta. Sembrava
più sollevata.
“Non vuoi sapere come ti ho trovato?”
“Non importa” rispose lui trasognato. Poi, dopo qualche momento di
silenzio, le chiese:
“Quando starai meglio, avrai un posto dove andare?”
“Dovrei ritornare da dove sono venuta, cioè in un convento dell’isola
di Rügen”
“ Rügen? Come sei arrivata lassù?”
“È una lunga storia, Wilhelm. E non vorrei ripeterla. Mi piacerebbe
piuttosto rimanere a Berlino, per rivederti di tanto in tanto”
“Sai che non è possibile.”
“Perché? Che male posso farti?”
“Vorresti certamente allacciare una relazione. Ma io non posso permettermelo.”
378
“Solo di tanto in tanto. Anche una sola volta al mese.”
“Non posso, Segreta: odio le situazioni ambigue, i sotterfugi, le menzogne, il tradimento.”
“Ho bisogno di te come dell’aria che respiro. Perciò, mi accontenterò
anche di rivederti da amico, guardarti, tenerti la mano, sentirti parlare.
Non chiedo altro.”
Lui rimase in silenzio. Poi, dopo qualche momento, mormorò:
“Ho deciso quello che farò. Avevo in animo di disdettare questo appartamento. Ora, con la tua venuta, la situazione è cambiata. Piuttosto che
sistemarti in una pensione, ti cederò il mio appartamento. Potrai rimanerci fino alla fine della guerra, fino, cioè, al tuo rientro in Inghilterra”
“Ti ringrazio. Verrai a trovarmi?”
“Si, ma alle condizioni che tu hai detto. Come due vecchi amici.”
Lei allungò un braccio e gli prese una mano. Lui le sorrise, poi
si percosse la fronte,
“Dimenticavo! Devo consegnarti una lettera che riguarda tua madre”
Si alzò, andò nello studio e ritornò poco dopo portando una
busta. Gliela consegnò dicendo:
“ Questa lettera mi è stata indirizzata a Berlino, nel marzo 1942, mentre io mi trovavo a Londra. Dietro mia autorizzazione, un mio collega
dell’Abwher l’ha aperta e mi ha inviato un dispaccio per parteciparci
la notizia contenuta nello scritto, cioè la morte di tua madre.”
“Chi è questo colonnello Zeitzler?” chiese Segreta dopo aver letto il
nome del mittente.
“Un ufficiale delle SS che ha liberato tua madre e l’ha assistita nella
sua agonia. Nella lettera, troverai tutte le altre notizie. Aggiungo che,
per difendere tua madre dalle sevizie di quegli aguzzini, Zeitzler si è
ribellato ai suoi superiori ed è stato eliminato”
Segreta lesse attentamente il foglio, poi portò una mano sugli
occhi e pianse silenziosamente.
A tarda sera, Wilhelm telefonò alla moglie.
“ La persona che tu sai” gli disse lei con voce alterata “partirà domani
mattina presto, in aereo. Io mi recherò al ministero ad aspettare il suo
ritorno. Dopo, passerò da te. Sei d’accordo?”
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“Si, va bene”
“Domani, sarà una giornata decisiva che muterà molte vite. Ho fatto
male a non chiederti di venire. Mi manchi molto. Per la prima volta, ho
paura.”
“Allora, vengo subito.”
Un’ora dopo, Wilhelm entrava nella sua camera da letto, a
Potsdam. Julia dormiva con la lampada del comodino accesa. Lui si
soffermò ad osservarla. Il suo viso sembrava di porcellana, era candido e levigato e, nello stesso tempo, disteso e sereno, con i suoi alti
zigomi signorili e con la cornice fastosa di capelli neri e lanosi che
contrastavano con il color gardenia della carnagione. Era nuda per il
gran caldo e il seno affiorava dal lenzuolo gonfiandosi nel respiro.
Stette a guardarla assorto. Poi, lei sollevò le sue palpebre che sembravano petali, lo guardò, gli sorrise, lo attirò a sé. Si amarono con passione. Lei non gemeva ma lo teneva strettamente avvinto a sé, come
cercando in lui riparo e salvezza. Non sapevano, in quel momento, che
era la loro ultima notte d’amore.
380
CAPITOLO QUARANTANOVESIMO
Il 20 luglio (1944), Wilhelm lasciò la villa di Potsdam intorno
alle ore sette e si diresse in auto verso Berlino per recarsi al suo lavoro. Julia lo seguì con un’altra macchina, a distanza di tre ore. Giunta al
Ministero della guerra, nella Bendlerstrasse, salì nell’ufficio del cugino Claus. Sapeva che era partito in aereo, quella mattina, per recarsi a
Rastenburg, nella Prussia orientale, e là partecipare, nella “ tana del
lupo “, ad una riunione indetta da Hitler. Portava con sé, in una borsa,
una bomba ad alto potenziale che avrebbe dovuto far esplodere nel
corso dell’incontro, dopo essersi tempestivamente defilato. Nel suo
ufficio, Julia trovò due capitani che stavano aspettando notizie da
Rastenburg. Anch’ essi facevano parte della cospirazione. Da loro,
seppe che, in uffici vicini, erano in attesa altri congiurati fra i quali il
generale Friedrich Olbricht e il colonnello A.Merz von Quirnheim. La
tensione era al massimo e teneva tutti in uno stato di febbrile computo
del tempo che trascorreva senza che il telefono squillasse da
Rastenburg. Finalmente, alle 13, la fatale telefonata giunse da parte del
cospiratore generale Fellgiebel, capo delle comunicazioni del quartier
generale del Fuhrer. La calma mortale che aveva gravato fino a quel
momento sulle stanze del Ministero si tramutò in una febbrile agitazione. Fellgiebel aveva annunciato che una bomba era esplosa e che
bisognava avviare l’operazione “Valchiria”, ma non aveva detto se
Hitler era morto. Verso le 13,30, trapelò da Rastenburg una notizia
secondo cui Hitler era forse scampato all’attentato. Nell’incertezza, il
generale Olbricht, sul quale gravava la responsabilità di comando del
colpo di stato, non prese alcuna decisione nonostante le pressioni del
colonnello von Quirnheim. Ben presto, si instaurò uno stato di paurosa confusione. Persone andavano e venivano, porte sbattevano, telefoni squillavano, ma nessuna delle gravi misure dell’operazione
“Valchiria” (imposizione della legge marziale,inglobamento nell’esercito di tutte le unità S.S., scioglimento del servizio di sicurezza del partito nazista, sottoposizione di tutte le organizzazioni del partito all’autorità militare, cc) fu adottata fino alle ore 15,30. Solo allora, pressato
dal colonnello von Quirnheim, il generale Olbricht si decise a trasmet381
tere l’ordine di attuazione del piano, firmato dal più elevato in grado
dei cospiratori, il feldmaresciallo von Witzleben. Si sparse più tardi la
notizia che il comandante dell’esercito di riserva, generale Fromm,
ambiguo e incerto sulla posizione da prendere, aveva telefonato al
capo di stato maggiore del Fuhrer, generale Keitel, e da lui aveva
appreso che Hitler era vivo. Immediatamente dopo, Fromm aveva voltato le spalle ai congiurati. Verso le ore 16, Stauffenberg ed il suo aiutante di campo fecero ritorno, provenienti dall’aeroporto. Claus era
convinto che Hitler fosse morto. In realtà, aveva dovuto allontanarsi
precipitosamente dalla “tana del lupo “ e non gli era stato possibile
constatare di persona gli effetti dell’esplosione. Comunque, dopo il
suo rientro, si prodigò per dare attuazione al colpo di stato.
Ma era troppo tardi. La situazione appariva ormai compromessa dalla
lentezza con cui Olbricht si era mosso. Subentrarono dei vivaci contrasti fra il generale Fromm ed i congiurati i quali chiusero il comandante dell’esercito di riserva in uno stanzino. Altri alterchi si accesero
fra cospiratori e ufficiali rimasti fedeli ad Hitler. La confusione ormai
era giunta al massimo. Verso le ore 18, si apprese che il quartier generale del Fuhrer aveva diramato un comunicato che smentiva gli ordini
del Ministero della guerra. Ancora un’ora febbrile e disperata, poi
apparve evidente che l’attentato ed il colpo di stato erano falliti. Hitler
era vivo e sitibondo di vendetta.
A quel punto, Claus Stauffenberg si rivolse a Julia e la consigliò di mettersi in salvo.La tremenda ritorsione di Hitler sarebbe arrivata fulmineamente.
“E tu che cosa farai?” chiese lei con voce tremante
“Affronterò il mio destino.” rispose lui con calma. Ma il crollo che si
stava verificando nel suo animo era certamente devastante.
“Fuggiamo insieme!”
“Non posso farlo. Tradirei tutti coloro che hanno creduto in me e l’idea stessa che ci ha sostenuto. Perciò, vai prima che i nazisti circondino il Ministero”
Si abbracciarono commossi. Lei era esitante ma lui la spinse ad
andare.
382
CAPITOLO CINQUANTESIMO
Fra le ore 13 e le 13,30 di quel fatale 20 luglio 1944, anche allo
stato maggiore esercito, dove Wilhelm attendeva con apprensione, si
diffusero voci concitate di un attentato ad Hitler, avvenuto nella “tana
del lupo “ di Rastenburg, nel corso di una riunione da lui presieduta.
Una bomba deposta sotto il tavolo della sala era esplosa uccidendo due
generali, un colonnello ed uno stenografo e ferendo più o meno gravemente molti altri convenuti. Quanto ad Hitler, inizialmente le notizie
erano confuse.
Wilhelm sapeva che Julia si trovava nell’ufficio del colonnello
Stauffenberg, nell’adiacente edificio del Ministero della guerra.
Preoccupato per lei, le telefonò e riuscì a trovarla. Ma lei gli rispose
che stava attendendo il rientro del cugino Claus e che, appena possibile, sarebbe scesa da lui per rientrare insieme a Potsdam.
Trascorsero circa tre ore di frenetica confusione, bersagliate dal
rincorrersi di notizie, allarmismi e dicerie, in un’arrovellata ricerca
della verità. Poi, poco dopo le ore 15,30, giunse un ordine dal ministero della guerra, firmato dal feldmaresciallo von Witzleben, che disponeva l’attuazione del piano d’emergenza “ Valchirie”: esso comportava l’entrata in vigore della legge marziale, l’inglobamento nell’esercito di tutte le unità combattenti delle SS, la subordinazione degli ufficiali nazisti al controllo militare, ecc. Quelle disposizioni suscitarono
un pauroso parapiglia fino a che, poco prima delle 18, ad esse si contrappose un secco comunicato dello stato maggiore di Hitler che le
sconfessava denunciando un infame colpo di stato. Nel frattempo,
ripetuti bollettini trasmessi dalla radio affermavano che il Fuhrer era
sopravvissuto ad un attentato.
Wilhelm aveva tentato ripetutamente, in quell’atmosfera arroventata, di mettersi in contatto con Julia ma il telefono dell’ufficio di
Claus era sempre occupato. Allora, dopo aver udito alla radio la smentita dello stato maggiore di Hitler, era corso a cercarla. L’aveva incontrata a mezza strada e si erano rifugiati in una saletta di attesa.
“L’attentato è fallito” disse lei convulsamente” e così pure il colpo di stato.”
“Si, ho sentito.”
383
“Debbo mettermi in salvo. I nazisti non tarderanno ad arrivare fino a
me.”
“Ti accompagnerò.”
“No, sarebbe una pazzia. Non puoi allontanarti in questo momento.
Sarebbe una diserzione e un’ammissione di responsabilità. Tu non hai
fatto parte del complotto. Perciò, devi rimanere al tuo posto.”
“Non posso lasciarti andare da sola.”
“È necessario per il bene di tutti e due. Credimi, io avevo previsto l’eventualità di un fallimento e mi ero mentalmente predisposta per una
fuga.”
“Dove andrai?”
“Mi rifugerò nelle campagne di Wernigerode, presso coloni di mio
padre. Da là, preparerò una mia fuga in Svizzera. Tu mi raggiungerai
appena possibile. Ora, andiamo, accompagnami all’uscita. I nazisti
stanno per circondare il palazzo.”
Si affrettarono lungo corridoi percorsi da gente frettolosa.
Fuori, riuscirono a raggiungere la macchina di Julia. L’autista l’attendeva.
“Mi sembra disonorevole lasciarti andare sola.” mormorò contratto
Wilhelm.
“Non puoi disertare. Devi soltanto attendere mie notizie.”
Si abbracciarono e si baciarono con disperazione. Poi, la sua
macchina partì.
***
Da quel momento, Wilhelm non seppe più nulla di lei Quella
stessa sera, telefonò alla villa per avere sue notizie. Ma Julia non era
passata da casa, nemmeno per prendere il suo bagaglio.
Wilhelm rimase al suo posto, insieme a tutti gli altri ufficiali
dello stato maggiore. Infatti, a parte la gravità della situazione, non era
possibile uscire dagli edifici governativi perché essi erano stati circondati dalle truppe del maggiore Remer, comandante della guarnigione di
Berlino e filonazista. Si diffuse al riguardo la voce che il ministro della
propaganda Goebbels, assicuratosi della fedeltà di Remer, lo aveva
384
fatto parlare per telefono con Hitler. Il Fuhrer si era compiaciuto con
lui e, dopo averlo promosso all’istante colonnello, gli aveva affidato il
controllo di tutte le misure di sicurezza a Berlino.
Verso le ore 22,30, si cominciarono a sentire delle sparatorie
nell’interno del Ministero della guerra. Attraverso un giro di telefonate, si seppe che il Generale Fromm, liberato dalla stanza in cui era stato
rinchiuso dai cospiratori, aveva convocato una corte marziale sommaria e disposto alcune condanne a morte. Verso mezzanotte, giunse la
notizia che il vecchio e amato generale Beck si era suicidato. Poi, in
piena notte, Wilhelm apprese con raccapriccio che il colonnello Claus
Stauffenberg, colui che Julia considerava uno spirito di fuoco, un uomo
veramente universale, era stato fucilato in un cortile del palazzo.
Insieme a lui erano caduti il generale Olbricht, il colonnello von
Quirnheim ed il tenente Haeften, aiutante di campo di Claus.
Fu una notte tragica come nessuna, fino ad allora, nella vita di
Wilhelm. Con un macigno nel cuore, continuò a chiamare la governante della villa per informarsi sul viaggio di Julia. Ma nessuno l’aveva vista. Solo all’alba, gli fu consentito di lasciare l’edificio. Affranto,
si recò nel suo appartamento di Ebert Strasse perché era troppo angosciato per constatare di persona quanto fosse vuota e squallida ora la
villa di Potsdam senza Julia. Si gettò sul letto col desiderio di dimenticare tutto. E fu colto da un sonno greve e senza sogni.
Si svegliò all’improvviso, dopo appena un’ora. Una luce livida
filtrava dalla finestra. E, accanto al suo letto, vi era Segreta. Il suo
sguardo gli giungeva dilatato, sospeso fra adorazione e ansia.
“Sei stravolto! Che cosa ti succede? Dove hai passato la notte?”
“Hai saputo? Hanno attentato alla vita di Hitler!”
“Si, l’ho sentito alla radio. Ma tu che c’entri?”
“Ora, siamo tutti sospettati. Già questa notte, sono stati fucilati molti
congiurati. Temo che vi sarà una carneficina.”
“Ma tu cos’hai da temere?”
“Sono in grande ansia per Julia. Lei faceva parte della cospirazione.”
“Dov’è adesso?”
“È fuggita, ieri sera. E, da allora, non so più niente di lei.”
“Si sarà nascosta. Non devi temere.”
385
“Non mi perdonerò mai di averla lasciata andare sola.”
“Non potevi agire diversamente. Sei un soldato e non potevi abbandonare il tuo posto.”
“Grazie, Greta, della tua comprensione. Ti sento solidale e questo mi
conforta.”
“Cosa pensi che accadrà adesso?”
Lui la guardò e poi aggrottò la fronte.
“ Hai fatto bene a chiedermelo. Dovevo pensarci prima. Le SS andranno alla villa. Ecco quello che accadrà.”
“Pensi di correre là?”
“Non posso. Devo presentarmi in servizio.”
“Ma tua moglie potrebbe avere nel suo studio qualche documento
compromettente.”
“No, lo escludo. Ne abbiamo parlato. ”
Si alzò, andò a lavarsi e si preparò per uscire.
“Pensi che le SS verranno anche qui?” chiese Segreta.
“A meno che io non sia stato pedinato, nessuno, nel mio ufficio, conosce questo recapito.”
“E infatti, nessuno me lo ha indicato. Io l’ho scoperto proprio pedinandoti.”
“Debbo andare. Non so quando ci rivedremo.”
“ Ti attenderò con ansia.”
Wilhelm la guardò con tenerezza.
“Grazie di questo tuo inestinguibile amore, Greta: non meritavo tanto”
“Avrai sempre il mio amore.”
Lui l’attrasse a sé e l’abbracciò. E vide i suoi occhi pieni di
lacrime. Segreta si strinse al suo petto e sembrava che non volesse più
staccarsi.
In ufficio, Wilhelm telefonò ancora alla villa per sapere se Julia
aveva dato notizie di sé. E apprese dalla governante che un manipolo di
SS, al comando di un colonnello, stava eseguendo una perquisizione.
“Come hanno motivato questa irruzione?”
“Non hanno dato spiegazioni. Sono entrati come furie e adesso stanno
mettendo tutto a soqquadro”
“Io, purtroppo, non posso muovermi. Dite loro che, se hanno bisogno
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di me, mi trovo allo stato maggiore. Un’ultima cosa: non date a nessuno l’indirizzo del mio appartamento a Berlino, né il relativo numero di
telefono.”
Dopo, si sedette alla scrivania in preda ad un profondo sconforto. In poche ore, tutto il suo mondo era crollato. Ora, attendeva che
arrivassero fino a lui.
E, infatti, un’ora dopo, un colonnello delle SS dallo sguardo
bieco entrò all’improvviso e con tracotanza nel suo ufficio, seguito da
due suoi uomini. Gli chiese il nome. Wilhelm si qualificò. Rudemente,
quello gli disse:
“Siete in arresto. Seguiteci”
Lui aveva vissuto fino ad allora tenendo in alta considerazione
il proprio onore. Il fatto di essere trattato come un delinquente lo fece
sprofondare. Si impose tuttavia uno strenuo sforzo per non apparire
intimorito.
“Che cosa mi si addebita?” chiese con voce tesa.
“Lo saprete a tempo debito. Per il momento, venite con noi.”.
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CAPITOLO CINQUANTUNESIMO
Il carcere Ploetzensee è, ormai, oggi, a Berlino, un luogo della
memoria, meta silenziosa di un inesausto pellegrinaggio. Le sue mura
tetre sono tutto quanto tangibilmente rimane del sacrificio di migliaia
di detenuti politici eliminati da Hitler, dal 1933 al 1945, perché contrari al regime nazista.
Anche allora, al tempo ormai lontano della nostra storia, l’edificio sorgeva in un quartiere ad alta concentrazione operaia, in prossimità del lago omonimo La sua costruzione risaliva al 1872, epoca in
cui era stato utilizzato quale carcere minorile.
Segreta vi si recò con la speranza di trovarvi Wilhelm. Infatti,
il 21 luglio, non vedendolo ritornare a casa, era andata a cercarlo all’uscita dello stato maggiore esercito. E, chiedendo ripetutamente a più
ufficiali, aveva saputo che era stato arrestato. Poi, dalla radio, aveva
appreso la notizia che gli “infami” cospiratori venivano, via via, concentrati in quel carcere. Vi andò, dunque, e constatò che il funzionamento interno era affidato alle guardie del corpo carcerario. Esse dovevano però subire l’ingerenza assillante e tracotante delle SS.
Quell’inquadramento istituzionale, che rispettava alcune regole umanitarie, consentì a Segreta di far visita a Wilhelm e portargli dei generi di conforto.
Quando lo vide, stentò a riconoscerlo: al posto dell’uniforme,
indossava una tuta di tela color grigio ferro. Il suo aspettò la spaventò:
sembrava invecchiato di 10 anni. Aveva vistose occhiaie e gli occhi
dilatati, attoniti, spersi nel vuoto. Quel suo sguardo proteso alla ricerca di un ancoraggio si animò quando la vide. Nella sala dei colloqui, si
tennero le mani.
“Wilhelm! Cosa succede?”
“Mi accusano di complicità nella cospirazione.”
“A causa di tua moglie?”
“Si, dicono che, vivendole accanto, non potevo ignorare i suoi movimenti ed i suoi contatti.”
“Devi difenderti, negare.”
“L’ho fatto, ma non mi hanno creduto. Sarò processato dopodomani.”
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“Spero che si tratti di un regolare processo.”
“No, è soltanto un processo di facciata. Il presidente di questo tribunale, appositamente costituito per annientare la “ resistenza” tedesca, è
un convinto nazista. Si tratta del giudice Roland Freisler.”
“Cercherò di corrompere qualche carceriere.”
“Non farlo. Non devi esporti. Potrebbero scoprire che sei inglese. In
questo caso, saresti perduta. Le vecchie credenziali, ormai, non valgono più.”
“Cosa posso fare, allora, per te?”
“Quando esci, telefona a frau Helda, la governante della villa di
Potsdam, e informala del mio arresto.Poi, chiedile se mia moglie ha
dato notizie.”
Uscendo dal carcere, Segreta salutò un agente carcerario di
mezza età che, all’entrata, le aveva sorriso. Aveva avuto l’impressione che le guardie di quel corpo fossero diverse dalle SS, non prive,
cioè, di umanità. L’uomo rispose al suo saluto e, allora, lei gli si avvicinò. Vide che aveva lineamenti gradevoli, incorniciati da una folta
capigliatura grigia. Gli chiese se poteva parlargli e lui aderì. Si appartarono allora nell’androne di ingresso e Segreta gli espresse il desiderio di poter visitare tutti i giorni quel detenuto di cui era innamorata,
anziché nei soli giorni stabiliti dal regolamento per i colloqui.
L’agente, che era un graduato e che quindi rivestiva una certa autorità, le rispose che non era possibile ma che avrebbe cercato di prorogare per lei l’orario di visita nei giorni prescritti. Il suo tono era bonario ed accomodante. Poi, però, aggiunse:
“Mi dispiace dirvelo ma non riuscirete a vederlo più di una, due volte”
“Perché?”
L’uomo allargò le braccia sconsolatamente e le indirizzò uno
sguardo dolente.
“Pensate che sarà condannato?”
“Non vi è scampo per quelli che hanno cospirato.”
“Che cosa gli faranno?”
Il graduato portò una mano alla gola chiudendosela fra indice e
pollice.
“Lo impiccheranno?” gemette lei.
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Quello annuì gravemente.
“Noo! Non è possibile!” si disperò Segreta con le lacrime agli occhi.
Poi, si rivolse a lui con le braccia imploranti.
“Mi sembrate una brava persona. Vi prego, aiutatemi!”
“A fare cosa?”
“Vi pagherò molto bene. Tutto quello che mi chiederete. Ma aiutatemi
a salvarlo.”
“Che cosa intendete?”
“Fatelo fuggire.”
“È escluso: impiccherebbero me al suo posto.”
Segreta si coprì il viso con le palme delle mani.
“Non posso rassegnarmi a perderlo così” singhiozzò.
“Le SS sono spietate. E, nel caso di questo complotto, sono assetate di
sangue. Nessuno può salvarlo.”
“Ma, al processo, potrebbero assolverlo.”
L’uomo scosse la testa.
“Non illudetevi: nessuno si salverà.”
“Quanto gli rimane?”. La sua voce era lacerata dal dolore.
“Se lo giudicano dopodomani lunedì, lo liquideranno martedì 25
luglio”
Segreta andò a nascondere il viso presso un muro dell’androne
e continuò a piangere.
“Tutto quello che posso fare” mormorò il carceriere avvicinandosi a lei
e parlandole nell’orecchio “ è evitargli la morte lunga e dolorosa dello
strangolamento. Se mi date del denaro per il carnefice, sarà giustiziato
con la morte rapida della rottura dell’osso del collo.”
Segreta era sopraffatta dall’orrore. Dopo qualche momento,
stentatamente, rispose:
“Va bene: vi porterò il danaro.”
Si avviò a testa bassa. Poi, colta da un pensiero improvviso, si
voltò verso di lui e gli chiese:
“Fatemi stare con lui l’ultima notte.”
“È pericoloso: se arriva un agente delle SS, noi carcerieri siamo spacciati.”
Lei si avviò nuovamente ma il graduato la fermò dicendole:
391
“Aspettate!”
Quindi, si avvicinò e le sussurrò:
“Datemi altri soldi per la guardia di turno e vedrò di accomodare la
cosa.”
“Vi ringrazio” rispose sommessamente Segreta pensando che quell’uomo dal viso bonario era , in fondo, un affarista. “Vi porterò il danaro” soggiunse. Stava male,sentiva il bisogno di vomitare. “ Quando
posso venire?”
“Dopodomani sera.”
Giunta a casa, vomitò tutto quello che aveva in corpo. Poi,
rimase inerte sul letto. Trascorse la notte alternando scrosci di pianto a
momenti di rabbia impotente. L’indomani, telefonò alla villa. Le rispose la governante, signora Helda Lenz: non solo la contessa non aveva
dato notizie di sé ma neppure l’autista era ritornato con la macchina.
La famiglia di quell’uomo era in gran pena. Raccolse poi tutti i marchi
che aveva con sé e quelli che trovò nella scrivania di Wilhelm e, al tramonto di lunedì 24 luglio (1944), ritornò al carcere e consegnò al carceriere un pacco di banconote. Lui le giudicò sufficienti e la fece
accompagnare da un’altra guardia fino alla cella di Wilhelm. Quando
vi entrò, lo vide seduto con la schiena e la testa appoggiate al muro e
con lo sguardo rivolto verso l’alto. Non si mosse quando lei gli andò
vicino. Sembrava assorto.
“Wilhelm! Come è finito il processo?” gli chiese. Ma tutto il suo atteggiamento costituiva già una risposta.
“Domani, sarà tutto concluso.” mormorò lui con voce atona. Lei
affondò la testa sul suo petto. Wilhelm la circondò con un braccio e la
tenne stretta.
Al di fuori delle sbarre, il carceriere di guardia li guardava. Le ore
cominciarono a trascorrere inesorabili. Il silenzio era soffocante. L’unica
luce proveniva dalle fioche lampade del corridoio. Ad un certo punto,
Wilhelm si scosse e chiese alla guardia di dargli da scrivere. Fu accontentato e vergò un breve testamento che consegnò a Segreta.
“Fin da quando ero ragazzo”mormorò più tardi, sconsolatamente, come
parlando a se stesso “ho sempre pensato che un uomo non deve accontentarsi di vivere una piccola vita ma dedicarsi strenuamente ad un ideale. E,
392
quando ho intrapreso la carriera militare, ho individuato il mio ideale nella
patria, nel mio paese. Ho perciò amato la patria, ho combattuto per essa ed
ho desiderato immolarmi, in modo da dare un alto scopo alla mia vita,
onorare il mio nome e la mia famiglia, entrare nel paradiso degli eroi, nel
Walhalla. E, invece, sebbene innocente, mi tocca di finire come un delinquente, di morire con infamia e come tale essere ricordato.”
“No, Wilhelm, non la patria che tu hai difeso ti condanna ma una banda
di criminali politici. Io riabiliterò e difenderò il tuo nome di fronte alla
storia, te lo prometto, Wilhelm!” rispose Segreta.
Trascorsero altre ore. E incredibilmente, nonostante il loro
estremo travaglio, presero sonno. Quando finalmente si svegliò, dopo
ore o minuti, Segreta vide che lui aveva gli occhi spalancati verso l’alto. Sembrava trasformato, quasi sorridente.
“Ho fatto un sogno bellissimo” mormorò estatico. “Ho visto il
Signore nostro Gesù Cristo. Aveva le vesti insanguinate e mi fissava
intensamente, con uno sguardo straordinariamente luminoso, pieno
d’amore. Mi parlava con la voce di un uomo che soffre. E mi diceva”
Anche se sei stato tanto distolto dalle cose del mondo, Wilhelm, tuttavia, in fondo al tuo cuore, hai sempre cercato la verità e la giustizia.
Per questo, non temere: prendi oggi la tua croce e seguimi. Laddove
andrai, io sarò ad attenderti”
Continuò a guardare in alto, rapito. Poi, quando, all’alba, giunse l’ora fatale e vennero a prenderlo, conservò quell’atteggiamento trasognato, come se fosse entrato in un’altra dimensione. Segreta gli
abbracciò le gambe reprimendo i singhiozzi. Il suo cuore sembrava
impietrito. Lo denudarono e lo portarono via. Senza bastone, zoppicava vistosamente. Lei rimase per un tempo indefinibile rannicchiata a
terra con la sensazione devastante che anche la sua vita fosse finita.
Poi, venne il carceriere bonario, l’aiutò a rialzarsi e la condusse via.
Prima di uscire da quel luogo orribile, intontita e svuotata, ebbe la
forza di dirgli:
“Vi porterò altro danaro se lo farete seppellire in una fossa a parte, in
modo che io possa recuperare il suo corpo e portarmelo via”
Il carceriere aderì. Solo allora, seppe che si chiamava Alfred Pfizer.
393
Stette per alcuni giorni nell’appartamento di Ebert Strasse
senza toccare cibo ma anche senza piangere, quasi che avesse esaurito
tutte le proprie lacrime. Tuttavia, sentiva il suo cuore stretto in una
morsa, al punto che faceva fatica a respirare. Ripensava a quei tre anni
trascorsi da quando, nel giugno 1941, era venuta in Germania con lui.
Si trattava solo di tre anni, ma a lei sembrava di aver vissuto, in quell’arco di tempo, tutta la sua vita.
Poi, una sera, avvenne un fatto assolutamente imprevisto. Sentì
bussare alla porta. Andò ad aprire col batticuore e vide nell’ombra il
profilo di un uomo alto e atletico. Mentre lo scrutava con apprensione,
lui si fece avanti ed entrò nel cono di luce dell’ingresso. E riconobbe
Armstrong.
***
Una settimana dopo, si imbarcò con lui su un piccolo
aereo da turismo che stava occultato in un capannone, nell’isola di Rügen. Sfuggirono a tutti i controlli e fecero scalo in
Inghilterra, a Dover. Da là, proseguirono in auto per Abingdon.
Prima di lasciare la Germania, avevano traslato in gran segreto
la salma di Wilhelm dal carcere di Ploetzensee al cimitero di
Potsdam, dove era stata tumulata provvisoriamente in attesa di
darle una sepoltura definitiva a guerra finita.
Nella sua casa, Segreta ebbe la sensazione di essere
emersa all’aria aperta dopo una lunga immersione in acque torbide e scure. E di poter finalmente respirare a pieni polmoni la
sua giovinezza. Rivide con gioia Dorian jr che aveva appena
compiuto 17 anni e che ormai lavorava nell’azienda di famiglia
affiancando mr Harrison Miller, in attesa di assumerne un giorno la direzione.
Armstrong si accinse a prendere congedo. In quei sette giorni
trascorsi insieme a Berlino, aveva rispettato il dolore di Segreta e si era
comportato verso di lei con tenerezza e sensibilità. Anche lui, sembrava trasformato. La sua aggressività, i suoi motti di spirito, la sua ironia, erano solo un ricordo. Forse, chissà, avevano rappresentato allora
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un paravento al suo reale modo di essere. Per distrarla dal suo pensiero fisso, le aveva raccontato le proprie ultime vicende. Dal settembre
1943 al gennaio 1944, era rimasto in Polonia per conto dello spionaggio inglese ed aveva fornito preziose informazioni sugli apprestamenti organizzati dai tedeschi in un piccolo villaggio, Blizna. Là, erano
stati infatti trasferiti gli impianti per la sperimentazione delle bombe a
lunga gittata V-2, che prima sorgevano a Peenemünde. Nel febbraio
1944, aveva poi intrapreso una nuova ardua missione: si era infiltrato
nello stato maggiore di Hitler a Rastenburg, prendendo il posto di un
capitano deceduto durante un viaggio di trasferimento. Il servizio
inglese sapeva che, nell’ambito del quartier generale, vi era un gruppo
di ufficiali che odiavano Hitler e che lo tradivano fornendo informazioni ai russi sotto il nome in codice “ Werther”. Armstrong era riuscito ad identificare alcuni cospiratori ed a sfruttare le loro informazioni
in favore dello spionaggio inglese. Dopo l’attentato ad Hitler, però, la
sua posizione era diventata pericolosa. Aveva allora approfittato di una
missione a Berlino per far perdere le proprie tracce. Ora, doveva
recarsi all’MI-6, l’agenzia inglese di spionaggio all’estero, per
ricevere un nuovo incarico.
“Quando ti fermerai, Moheb?” gli chiese Segreta al momento
della partenza.
“Questo lavoro pericoloso mi distoglie dal vuoto della mia esistenza”
“Anche tu hai problemi esistenziali?”
“Le nostre vite non hanno importanza in questa immane tragedia. Ci
penserò a guerra finita, se i governi manderanno le spie in pensione.
Ma è improbabile.”
“Hai fatto molto per me nella nostra avventura tedesca. Te ne sarò per
sempre grata.”
“Avevamo stretto un patto.”
“Già. E mi pare che tutti e due abbiamo onorato i nostri impegni.”
“Si, è vero. Fra tante brutture, ho colto un fiore.”
“Ti rivedrò?”
“Lo desideri?”
“Certo.”
“Allora, verrò. Sai, porto sempre con me la croce d’oro che mi hai
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donato. Se un giorno sentirò il bisogno di ancorare finalmente la mia
vita e di cercarmi un approdo, allora te la manderò. Sarà un segnale per
dirti che non posso più fare a meno di te.”
396
CAPITOLO CINQUANTADUESIMO
Segreta stentava a riadattarsi alle abitudini di vita di Abingdon,
dove i ritmi erano blandi e tutto le parlava di un passato perduto per
sempre. Si accorse che il ricordo di Wilhelm e della sua fine atroce la
torturava. Il suo, in effetti, era stato un amore a senso unico. Ma, ugualmente, non riusciva a dimenticarlo anche perché, ormai, Wilhelm era
entrato nel mito della morte, che ingigantiva la sua memoria.
Nel passare ossessivamente in rassegna gli avvenimenti degli
ultimi cinque anni, si soffermò sul ricordo del povero Nicholas
Blackwell e sentì nuovamente il bisogno di conoscere la sua sorte.
Solo zio James poteva aiutarla. Ritenne però prudente non informarlo
preventivamente del suo arrivo ma coglierlo di sorpresa. Si recò nel
suo ufficio di Kensington Road e chiese alla segretaria di parlargli.
Poco dopo, lui la ricevette. Era pallido e accigliato. Le gridò con voce
sorda:
“Come osate presentarvi dopo tutto il male che avete fatto a Nicholas?
Mi ha confessato la verità. Perciò, adesso so che siete una spia e che
ho il dovere di farvi arrestare.”
Segreta non reagì al suo scatto d’ira ma gli rispose in tono supplichevole:
“So di avergli fatto molto male e sono pronta a scontare le mie colpe.
Ma vorrei prima vederlo per chiedergli perdono e rivelargli il mio vero
nome, affinché possa denunciarmi e consentirmi di espiare. Perciò, vi
prego, milord, datemi il suo recapito.”
“Come posso fidarmi?”
“Non sono più una spia. Non posso più nuocergli.”
“Il vostro pentimento è tardivo. La sua vita, ormai, è rovinata per sempre.”
“Che cosa gli è successo?”
“Nel dicembre 1942, per causa vostra, ha subìto un processo per negligenza di fronte al nemico ed è stato condannato a due anni e mezzo di
reclusione, previa rimozione dal grado. Sta scontando la sua pena nelle
isole Shetland, all’estremo nord della Scozia. La sua condanna è stata
motivo di grande sofferenza per noi e di vergogna per la nostra famiglia.
Segreta si sentì trafitta: era stata lei, solo lei. la causa di quella
397
sciagura. Aveva carpito l’ingenuità, l’innocenza di quell’uomo mite e
innamorato, rovinandolo. Ora, non sapeva riconoscersi in quel proprio
atteggiamento cinico e indifferente. Anche quello era stato un frutto del
suo amore per Wilhelm. Chinò il capo in silenzio e percepì su di lei lo
sguardo severo di James.
“Non sapevo” balbettò “ Non potevo immaginare.”.
Vi furono alcuni attimi di silenzio. Poi, le giunse la sua voce
dolente.
“Come avete potuto tradire così lui e la vostra patria?”
“È una lunga storia della quale, solo ora, mi sembra di intravedere, nel
mio cuore, una conclusione. Ho attraversato un tunnel di dolore che ha
stravolto la mia giovinezza ma che mi ha fatto anche scorgere la via
della verità. Perciò, andrò a trovarlo e gli svelerò la mia identità in
modo che possa denunciarmi. Così, potrà esser fatta giustizia.”
***
Partì il 10 settembre(1944) e giunse a Mainland, la maggiore
delle isole Shetland, la sera dopo. Prese alloggio in un albergo di
Lerwick, la capitale. L’indomani, si recò al forte Charlotte e chiese di
parlare con Nicholas. Nella saletta dei colloqui, lo rivide dopo due
anni: era dimagrito ed aveva uno sguardo vagante, sfocato. Sembrava
spento. Lesse nei suoi occhi la grande sorpresa di incontrarla in quel
luogo.
“Misty !” esclamò: “Sei vera o un’apparizione?”
“Sono io, Nicholas”
“Come mai sei qui?”
“Volevo rivederti.”
“Il Nicholas che tu hai conosciuto è come morto.”
“Si, me ne rendo conto. Sono venuta appunto per dirti che non sapevo
e che mi dispiace enormemente.”
“Da dove vieni?”
“Da un inimmaginabile inferno.”
“Ciò malgrado, sei sempre bellissima.”
“E tu gentile nonostante tutto il male che ti ho fatto.”
398
Incontrò il suo sguardo triste e mite.
“Ti giuro che ignoravo questa tua condanna. Tuo zio James, allora, non
ha voluto dirmi niente. Solo adesso mi ha rivelato la verità.”
“Si, l’ho saputo”
“Sono passati soltanto due anni ma, da allora, ho attraversato fatti così
dolorosi che mi sembra di aver vissuto, nel frattempo, un’intera vita.”
“Si, è come se la nostra giovinezza fosse fuggita per sempre.”
“Potrai mai perdonarmi? Io non pensavo affatto di rovinarti.”
“Perché lo hai fatto, Misty? Perché hai tradito la tua patria?”
“Perché avevo soltanto 16 anni e non capivo niente. Mi ero innamorata perdutamente di un ufficiale tedesco e, per lui, ho tradito senza nemmeno rendermi conto della gravità dei miei atti. Mi sentivo perfino
un’eroina.”
“Invece, quella tua condotta incosciente è costata centinaia di vite.”
“ Solo dopo, me ne sono resa conto e ho provato orrore per quello che
avevo fatto. Perciò, ho voluto rivederti, Nicholas: per chiederti perdono e dirti che desidero espiare. Il mio vero nome è Segreta Heston.
Abito ad Abingdon, nell’Oxfordshire. Desidero costituirmi e confessare tutto.”
“A che servirebbe, ormai? I morti non ritorneranno né io sarò reintegrato. D’altra parte, non è rilevante che gli uomini sappiano. Il supremo Giudice sa tutto. Questo è ciò che veramente conta. A Lui, solo a
Lui, devi chiedere perdono.”
“Non vuoi vendicarti?”
“No, non l’ho mai pensato.”
“Non mi hai odiato per quello che ti ho fatto?”
“Sono rimasto deluso, distrutto; perché ti amavo e volevo fare di te la
mia sposa, la donna della mia vita. Non avevo mai avvicinato una
donna e la tua apparizione, allora, è stata per me folgorante. Perciò, ti
ho sempre ricordata e, nonostante tutte le tempeste che hai scatenato,
ho continuato ad amarti.”
“Incredibile!”
“L’emozione che provo nel rivederti è troppo forte. Adesso, quel mio
amore per te, come un despota, ritornerà a tormentarmi.”
“Non potevo immaginare tutto questo. Voglio in qualche modo ripara399
re: ti attenderò, Nicholas, e quando uscirai, potremo confrontare i
nostri sentimenti e cercare di ricucire le nostre ferite.”
Poi, seppe dal cappellano del carcere, padre Saverio, che
Nicholas serviva la messa nella chiesetta del promontorio di Ronas
Hill, ogni domenica pomeriggio. Vi si recò, assistette alla celebrazione e, quando lui uscì insieme al sacerdote, li avvicinò. Padre Saverio,
benevolmente, concesse loro di trattenersi una mezz’ora sul belvedere, prima di ritornare al forte. Di fronte a quel vertiginoso panorama,
stettero seduti l’uno accanto all’altro e si raccontarono le loro rispettive storie.
“Come mai ti hanno rinchiuso in questo luogo sperduto?”
“Non so, forse le altre carceri militari erano affollate. Ma è stato un
bene. Desideravo fuggire dai luoghi che hanno visto il mio disonore.
E, ancora oggi, questo è il mio sentimento prevalente. Appena sarò
libero, fuggirò dall’Inghilterra per rifarmi una vita.”
“Credevo che avresti lavorato nelle aziende di tuo zio.”
“È quello che lui spera. Ma io desidero solo fuggire, nascondermi da
qualche parte.”
“Quanto ti rimane da scontare?”
“Ancora sette mesi.”
“Se ti fa piacere, posso rimanere qui e attenderti. E, sia pure una volta
alla settimana, potremo stare insieme.”
“Ti sentirai sola ed estranea in quest’isola così diversa dal tuo
ambiente.”
“Sentirmi sola è quello che desidero. Ho bisogno di chiudermi in me
stessa, di riflettere sul male che ho commesso, sulle vite che inconsapevolmente ho distrutto. E, poi, coltivare la memoria di due persone
che ho amato molto e che ora mi mancano acutamente.”
“Di chi parli?”
“Di mia madre Atlanta, una donna eccezionale, morta prematuramente in un lager tedesco. E di Wilhelm, il mio primo, unico
e grande amore.”
“È l’uomo di cui mi hai parlato, quello per il quale hai tradito?”
“Si, era un ufficiale tedesco. Anche lui è morto tragicamente. Ora, tutti
400
e due sono entrati nel mito della morte e la loro memoria mi tormenta.”
“La nostra giovinezza è passata attraverso l’esperienza terribile della
guerra. Sia tu che io ne porteremo a lungo le ferite.”
Cadde il silenzio mentre il giorno declinava e, intorno, sorgevano le prime ombre. Il gracchiare degli uccelli acquatici era quasi cessato ma, inesausta, la risacca, laggiù, continuava a percuotere vigorosamente la scogliera. Era immenso il quadro del creato che li sovrastava, pervaso da tinte vezzose, carico di infinito, ma purtroppo distante,
indifferente ai loro travagli. Esprimeva tuttavia una solennità, una
pace, un rapimento, che li placava.
Dopo qualche minuto, giunse padre Saverio. Aveva finito di
intrattenersi con gli abitanti di quel nucleo abitativo, tutti pastori e
boscaioli. Con lui, si avviarono per rientrare al forte.
Una settimana dopo, nello stesso posto, Segreta e Nicholas si
incontrarono ancora.
“Mio zio ha chiesto alla Giustizia militare, qualche mese fa, di tramutare la mia pena residua in un regime di semilibertà, in considerazione
della mia buona condotta. Se questo beneficio mi sarà accordato, lavorerò di giorno in città e rientrerò la sera al Forte. Zio James è ora in
attesa delle decisioni del ministro, che sembrano imminenti.”
“Sarebbe un bel progresso. Potremmo trascorrere insieme qualche ora
di ogni giorno.”
In previsione di quel cambiamento, Segreta affittò un piccolo
appartamento ammobiliato nel centro di Lerwick. Un mese dopo,
Nicholas fu autorizzato a lasciare il forte nelle ore diurne per lavorare
in uno attiguo stabilimento della Royal Navy.
401
CAPITOLO CINQUANTATREESIMO
Fin dal primo giorno del suo nuovo regime di semilibertà,
Nicholas, con l’ abituale remissività, si recò a farle visita nell’appartamento che Segreta aveva preso in affitto per loro. Secondo il regolamento, aveva la facoltà di rimanere libero in città fino alle sette di sera.
E poiché il suo lavoro terminava alle quattro del pomeriggio, poteva
trattenersi con lei almeno tre ore.
Quel primo giorno, dopo cena, lei lo prese per mano e lo condusse in camera da letto. Si sporse a baciarlo, quindi cominciò a sfilargli la casacca. Lui la lasciava fare, impacciato. Ridendo, lei lo spogliò tutto e subito dopo si denudò a sua volta. Lo attirò, poi, sul letto e,
con una mano, corse ad accarezzargli il sesso.
“Da quanto tempo non fai all’amore?” gli chiese con fare insinuante.
“Da quella notte, con te.”
“Non hai avuto, nel frattempo, qualche altra ragazza?”
“Come avrei potuto? Ero in prigione!”
“Non del tutto. La domenica frequentavi la comunità di Ronas Hill. ”
Lui scosse la testa.
“No, non c’è stata alcuna occasione.”.
“Allora, se vuoi, posso ritornare ad essere io la tua donna.”
I suoi occhi si accesero. La guardò sgranandoli, meravigliato.
“Vuoi farlo perché hai pena di me?”
“No, tu mi piaci.”
“È una prospettiva inimmaginabile. Debbo crederti?”
“Certo, se no non te l’avrei proposta.”
“Questa notte, farò sogni agitati: l’idea di averti con me, di formare
con te una famiglia, mi ripaga di tutte le mie sofferenze, di tutte le mie
domande assillanti.”
“Quali domande, ad esempio?”
“Vuoi conoscerne una? Ecco. Mi hai detto che eri innamorata di un
ufficiale tedesco e che per lui hai tradito. Quando frequentavi me,
anche lui si trovava a Londra?”
“Non voglio parlarne, per il momento. Un giorno, ti racconterò tutto.
Ma, adesso, facciamo all’amore.”
403
Massaggiandolo, lo portò all’erezione e, stando sopra di lui, si
fece penetrare. Tuttavia, quando incontrò i suoi occhi colmi di adorazione, preferì socchiudere le palpebre. Non riusciva a darsi a lui interamente. Voleva, è vero, riparare in parte al male che gli aveva procurato, fargli dono di qualche momento di gioia, infondergli speranza.
Ma il proprio pensiero era sempre rivolto ad un passato che non riusciva a dimenticare. Poteva, perciò, offrirgli solo il proprio corpo ma non
anche il cuore. Tuttavia, per la pena e la tenerezza che provava nei suoi
confronti, riuscì ad essere delicata, amorevole, convincente.
Così, cominciò una nuova pagina della loro vita. Ogni giorno,
tranne la domenica, si incontravano, pranzavano, si amavano e, dopo,
si trattenevano in salotto. Ma non erano propensi all’allegria, alla vivacità, alla gioia di vivere. Sembravano immersi nel passato e nel sogno.
E, pur essendo così giovani, preferivano, in genere, guardare in silenzio il fuoco del caminetto, nel freddo e umido autunno che si inoltrava. Evitavano discorsi banali, si scambiavano tutt’al più poche parole.
Una sera, lei sentì che era doveroso rispondere alla domanda che lui le
aveva rivolto. Perciò, gli disse:
“Mi hai chiesto se, quando ti frequentavo, il mio amico tedesco si trovava anche lui a Londra. La risposta è affermativa. Wilhelm era a
Londra con me per un compito di spionaggio. Eravamo tutti e due
reduci da Berlino dove avevamo vissuto insieme. Pensa, per lui, ero
fuggita dalla Svizzera.”
“In carcere, riflettendo sulla nostra relazione di Londra, mi sono infatti reso conto che, dietro di te, doveva esserci un retroscena.”
Cadde il silenzio mentre il fuoco crepitava. Poi, Nicholas riprese:
“Si, anche se sono un ingenuo, riflettendo ho capito che ti sei data a
me, allora, soltanto per usarmi ai tuoi fini spionistici. Sono stato, fin da
adolescente, consapevole di essere una persona da poco. Come potevo,
perciò, pensare di suscitare amore in una magnifica ragazza come te?
Ti ho amata svisceratamente, perdutamente, ma non mi sono mai illuso che tu potessi darmi altrettanto amore.”
“Ma ti ho dato tenerezza, simpatia, affetto. Questi sentimenti erano e
sono sinceri.”
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“Ti ringrazio umilmente. Da parte mia, riceverai sempre amore.
Qualunque verità tu voglia rivelarmi, non potrai cancellare la felicità
immensa che hai saputo darmi in quegli incontri. E, anche oggi, un
tuo solo sguardo, una tua sola parola, sono per me un dono inestimabile. Non rammaricarti, perciò, di avermi ferito. Questo è il mio destino. Ma la gioia che ho ricevuto da te è stata superiore ad ogni successiva amarezza.”
Un altro giorno, Segreta gli chiese di raccontarle la sua vita in
carcere. E lui rispose:
“Sono veramente misteriose le vie del Signore: mentre tutti gli uomini
mi disprezzavano, Lui mi ha teso la mano. Nel dolore e nella vergogna,
l’ho invocato: ho cominciato infatti a pregare e. man mano, ho ricevuto da Lui, nel segreto della mia anima, segni sconvolgenti. La mia vita
era stata distrutta ed avevo perso il mio onore, ma ho trovato la fede ed
un cuore nuovo. E, con esso, una nuova visuale del mondo e dei miei
simili. Ora, posso capire meglio il dolore degli altri. In me, è aumentata la capacità di amare i miei simili.”
Nicholas terminò di scontare la sua pena il 15 marzo 1945.
Perciò, fu rimesso in libertà, salutò i suoi compagni di prigionia, il
direttore, padre Saverio, e partì con Segreta per l’Inghilterra. Entrambi
avevano un solo desiderio: dimenticare.
405
CAPITOLO CINQUANTAQUATTRESIMO
(Intermezzo dell’autore)
Intanto, la guerra volgeva al termine rovinosamente per la
Germania. Nelle prime settimane del 1945, sul fronte del Baltico e di
Leningrado, i russi erano riusciti ad isolare il Gruppo armate nord,
costringendolo ad abbandonare l’estuario ed a ritirarsi per non essere stritolato in un’enorme sacca. Sul secondo fronte bielorusso, retto
dal generale Rokossovskij, l’impetuosa avanzata sovietica aveva
costretto i tedeschi ad arretrare fino alla Prussia orientale. Nel frattempo, le armate del generale Zukov e quelle del generale Koniev si
stavano preparando ad una grande offensiva per avanzare su Berlino.
Alla fine di gennaio, infatti, esse avevano raggiunto le frontiere del
Brandeburgo e della Pomerania e si erano schierate dinanzi alle
acque gelate dell’Oder, ad appena 150 chilometri da Berlino.
La campagna sul fronte orientale si era perciò confermata
come l’evento risolutivo del conflitto in Europa. Il sogno di conquista
di uno spazio vitale ad est, inseguito da Hitler, era stato spazzato via
dalla travolgente controffensiva sovietica, nel corso di una guerra di
titani. Purtroppo, se, nella prima parte dei combattimenti, le forze
tedesche avevano perseguito una vera e propria politica di sterminio,
in dispregio a tutte le norme umanitarie, ora i sovietici stavano compiendo, nei territori tedeschi conquistati, atrocità non meno spaventose. Dalla Prussia, dal Brandeburgo orientale, dalla Slesia, Pomerania
e Danzica, milioni di profughi tedeschi fuggivano verso ovest.
Nei territori tedeschi non ancora conquistati, la popolazione
era stata mobilitata e addetta a lavori di trinceramento. Inoltre, il partito nazista aveva ordinato il reclutamento di tutti i cittadini maschi di
età compresa fra i 16 ed i 60 anni.
Ad ovest, gli alleati, dopo devastanti bombardamenti di artiglieria, avevano iniziato la penetrazione in territorio tedesco e, con
una manovra a tenaglia, erano riusciti ad accerchiare le divisioni
schierate a difesa della regione industriale della Ruhr.
Contemporaneamente, il XII corpo d’armata USA del generale
407
Bradley avanzava puntando su Dresda e Lipsia e il generale Patton si
stava spingendo verso la Germania meridionale. Da parte loro, le
truppe britanniche e canadesi del generale Montgomery erano proiettate verso Lubecca e Amburgo.
In aprile (1945), le armate angloamericane avevano raggiunto
l’Elba. Contemporaneamente, era scattata, ad est, l’offensiva generale sovietica. Varcati i fiumi Oder e Neisse, l’Armata Rossa era arrivata alla periferia di Berlino. Il 20 aprile, travolti i resti della IV Armata
corazzata tedesca, le forze dei generali sovietici Zukov e Koniev avevano scatenato un micidiale bombardamento della città, che era difesa, ormai, soltanto da truppe di fortuna, fra cui alcune migliaia di giovani della Hitlerjugend.
Asserragliato nel bunker della Cancelleria, Hitler aveva intanto destituito Guderian dalla carica di capo di S.M., Goring dal comando della Luftwaffe e Himmler (che aveva presentato un’offerta di capitolazione agli alleati) dal comando delle SS.
A mezzogiorno del 30 aprile, i fanti russi avevano issato la
bandiera rossa sulla cupola del Reichstag. Poche ore più tardi, Hitler
si suicidava nel bunker della Cancelleria, raggiunta dai reparti nemici. Il 2 maggio, il comandante delle unità di resistenza a Berlino accettava la resa incondizionata. La guerra in Europa era finita e, con essa,
il calvario di milioni di uomini. Purtroppo, la vergogna dei crimini
nazisti aveva infangato anche il grande valore strategico dei comandanti della Wehrmacht e l’eroismo sovrumano dei suoi soldati, ricoprendo quella nazione di disonore.
408
CAPITOLO CINQUANTACINQUESIMO
Segreta e Nicholas si sistemarono ad Abingdon, nella monumentale “ Greenplain house”, la residenza storica della casata degli
Heston. In verità, Nicholas avrebbe voluto vivere con Segreta ad
Abertillery, nel palazzo degli Acheson, quello in cui sua madre Olivia
aveva abitato da ragazza. Ma Segreta sapeva di non essere gradita a
nonna Michelle e, soprattutto, a zio James. Perciò, andarono ad abitare insieme nella verde e piovosa Abingdon, con l’intesa che lui avrebbe trascorso dei saltuari periodi di soggiorno con la nonna e lo zio.
Per rispettare le apparenze, Nicholas venne presentato, agli abitanti di “ Greenplain house” e nell’ambiente di Abingdon, come il
fidanzato ufficiale di Segreta. Gli fu assegnata una stanza nell’ala della
villa destinata agli ospiti. A tarda sera, lei andava a fargli visita e si tratteneva con lui per i loro momenti di intimità, poi ritornava nella propria stanza.
Qualche giorno dopo il loro arrivo, Segreta riprese a frequentare il corso di richiamo scolastico interrotto nel giugno 1942, allo scopo
di completare le scuole superiori.
Dai giornali e dalla radio, giungevano intanto le notizie sull’andamento della guerra: ormai, la Germania era sull’orlo della capitolazione. In attesa di farvi ritorno per assolvere i doveri che si era
imposta, Segreta si dedicò assiduamente allo studio. Nel giugno 1946,
sostenne, da privatista, gli esami di diploma delle scuole superiori e li
superò con buoni voti.
A quel punto, poiché la guerra era nel frattempo finita, decise
di ritornare in Germania per trasferire in Inghilterra la salma della
madre. Partì con Nicholas in settembre. Una nave li condusse ad
Amburgo. Da là, proseguirono, con un’ auto presa a noleggio, per
Rheinsberg. Quando, cinque giorni dopo, la bara di Atlanta fu dissepolta e collocata nella camera mortuaria, Segreta corse d’impeto ad
abbracciare quelle tavole di semplice abete. Cinque giorni dopo, espletate tutte le pratiche con l’aiuto di mance generose, si imbarcarono ad
Amburgo per il viaggio di ritorno. Nei primi di ottobre, Segreta fece
celebrare nel parco della sua villa una messa di suffragio alla quale
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intervenne una gran folla. Al termine, la bara di Atlanta venne trasportata al cimitero e tumulata. accanto al marito Dorian, nella cappella di
famiglia. Per la prima volta, dopo tanti anni, Segreta provò un profondo sollievo: finalmente, la mamma era ritornata a casa. Andò, da allora, a pregare ogni giorno davanti alla sua lapide e quella sensazione di
sgravio delle sue pene, di conforto, giovò a ridarle speranza.
Il suo rapporto con Nicholas procedeva bene. Era un giovane
mite, sottomesso, umile, pieno di premure per lei. Non la contrastava
mai e sapeva manifestarle, con tante attenzioni, il suo amore. Era perciò impossibile litigare con lui. Sembrava che facesse ogni sforzo per
annullare la propria personalità e accontentare ogni suo desiderio.
Segreta era intenerita da quel suo prodigarsi ma, interrogando i propri
sentimenti, si accorgeva di non amarlo. Provava per lui soltanto affetto, tenerezza e, qualche volta pena. Si, perché le sembrava evidente che
non era più lo stesso uomo conosciuto a Londra nell’ormai lontano,
remoto, oltrepassato 1942. Rispetto ad allora, sembrava svuotato della
sua personalità, delle sue giovanili energie, da ogni forma di vivacità.
Un giorno, lui le chiese:
“ È più di un anno e mezzo che vivo con te. Credi di potermi accettare? Ritieni che potremmo sposarci?”
“Mi sei molto caro, Nicholas. Sei un amico, un fratello per me. Con te,
posso confidarmi, esser certa di ottenere comprensione. Si, ritengo che
potremmo sposarci, ma non subito. Debbo prima ritornare in Germania
per rendere omaggio alla memoria di Wilhelm.”
“Quando conti di andarci?”
“Ci stavo pensando. Ma, dato che ne stiamo parlando, penso di partire
subito.”
Nicholas voleva accompagnarla ma lei lo pregò di lasciarla
andare: desiderava rimanere sola per dare libero sfogo ai suoi pensieri. Si recò, anzitutto, a Potsdam che, l’anno precedente, era stata semidistrutta da un bombardamento alleato. Adesso, era occupata dai russi
che vi avevano insediato una guarnigione dell’Armata Rossa. Sulle
macerie dei magnifici palazzi prussiani di un tempo ormai avvolto nel
sogno, i sovietici stavano costruendo moderni edifici in stile socialista
che avevano lo squallido aspetto di casermoni. Ovunque, erano disse410
minati detriti, rottami e avanzi della splendida bellezza barocca che la
città ostentava nell’anteguerra e che le era valso il soprannome di
“Versailles prussiana”. Le strade erano percorse da soldati, da camionette militari e da passanti frettolosi e impauriti. Sui negozi, avevano
fatto la comparsa molte insegne in lingua russa. Gravava, su tutto,
un’atmosfera di desolazione e di disfatta.
Segreta si rese subito conto che, in quel clima e sotto gli occhi
maldisposti dei sovietici, sarebbe stato difficile organizzare una solenne rievocazione di Wilhelm, vittima, è vero, della ferocia nazista ma
pur sempre ufficiale della Wehrmacht, con la quale aveva invaso e
devastato la Russia. Decise allora di far celebrare soltanto una messa
di suffragio per lui e per sua moglie. Infatti, sebbene nessun elemento
certo fosse emerso, non potevano esservi ormai dubbi sulla fine tragica di Julia Stauffenberg, nel quadro della feroce rappresaglia disposta
da Hitler contro coloro che avevano cospirato contro di lui. La celebrazione avvenne, nella cappella del cimitero, il 25 ottobre (1946), con
l’intervento delle associazioni combattenti, di familiari di militari
caduti e di esponenti dell’Associazione vittime del nazismo. Nello
stesso giorno, la bara venne caricata su un furgone che la trasportò fino
alla medioevale Wernigerode, la città natale di Wilhelm. Il 28 ottobre
successivo, nella gotica Johannkirche, fu celebrata una solenne messa
funebre alla quale fecero seguito una commossa commemorazione da
parte del sindaco e un corteo funebre fino al cimitero. Ma Segreta si
rese conto che la gente non voleva più sentir parlare di quel tragico
passato, desiderava solo dimenticare, disperdere i fantasmi di quegli
orribili anni. Anche nell’appartata zona del massiccio dell’Harz, la
guerra era arrivata infatti con le sue distruzioni. Dall’estate 1943, per
sfuggire agli attacchi aerei alleati, l’alto comando tedesco aveva spostato la produzione delle bombe V-1 e V-2 nei Mittelwerke, un complesso di fabbriche costruite frettolosamente nel fianco della montagna
Kohnstein. Per quell’esigenza, erano stati impiegati 13.000 prigionieri
dei campi di concentramento. Gli alleati ne avevano avuto sentore e si
erano affrettati a bombardare ripetutamente tutta la zona sconvolgendo
la vita, il lavoro e l’economia di quell’angolo della Sassonia-Anhalt.
Ora, il dispotico presidio delle truppe sovietiche stava facendo il resto.
411
Segreta, però, non si dette per vinta: con l’impiego di molto
danaro, fece pubblicare sui più importanti quotidiani sassoni l’esaltazione e la riabilitazione della figura di Wilhelm e della sua sfortunata
consorte. Ma, nel ripartire, si sentiva oppressa da un senso di tragica
inutilità. Nulla e nessuno avrebbe potuto restituirle il biondo e statuario Wilhelm, l’ultimo dei cavalieri teutoni.
Ora, si trattava di ritornare ad Abingdon e sposare il candido
Nicholas. Ma, giunta alla stazione, sentì che l’idea di affrontare nuovamente la vita semplice e vuota di Abingdon la tediava. Memorie e
rimorsi l’assillavano. Aveva solo vent’anni ma in lei si erano accumulate precocemente esperienze devastanti. La sua cattiva coscienza, perciò, l’opprimeva. Sul binario accanto, sostava in attesa un altro treno.
Chiese dove fosse diretto e le risposero che giungeva fino alle coste del
Baltico. Allora, senza avere un’idea precisa ma spinta da una pulsante
insofferenza, salì e attese la partenza.
412
CAPITOLO CINQUANTASEIESIMO
E, ancora, campagne fuggenti, fiumi carichi di riflessi, pianure
verdi fino alle montagne violacee, tutti in vertiginoso movimento
davanti al suo finestrino. Nella notte, si fece cullare dal ritmo delle
rotaie mentre nuvole di vapore biancastro oscuravano la luna, rivestendosi di forme mirabolanti, ed il fischio straziante della locomotiva
graffiava il suo cuore. Si abbandonò ai pensieri: sfilavano nel suo cervello, grevi e intollerabili, come forme allungate e oscure, simili ad un
corteo di ombre incappucciate; fino a che, dai ricordi, passò a sensazioni più allettanti. Si sentiva libera in quel suo viaggio indefinito
verso l’ignoto, libera come chi abbia acquistato una nuova identità e si
sia sgravato dal passato. Questo desiderava, inconsapevolmente: disfarsi di ciò che era stata, rinascere come una fenice, ritrovare la leggerezza di un tempo, sbarazzarsi della coscienza.
Giunse sul Baltico e si spinse fino all’isola di Rügen viaggiando su una macchina presa a noleggio. Aveva incontrato ovunque
persone con lo sguardo dilatato, perso nel vuoto, gente disfatta, stordita, precipitata nel disagio fisico ma soprattutto in una sensazione
devastante: non far più parte di una grande nazione, arbitra in Europa,
detentrice di una mostruosa e vincente macchina da guerra, della
quale essere orgogliosi. Ma, al contrario, di uno Stato a brandelli,
vituperato, odiato, disprezzato, colpevole di fronte all’umanità di crimini orrendi e della negazione di Dio, indegno di comparire ancora
sulla carta geografica.
A Rügen, andò a far visita ai coniugi Sarah e Gerhart ed a suor
Therese. Poi, navigò fino a Copenaghen. Là, ebbe una fugace avventura con un giovane aitante che le ricordava Wilhelm. Ma, giunta con
lui in un alberghetto, con una scusa riuscì ad eclissarsi. Con altri giovani incontrati nei caffè, andò a ballare nel tentativo di stordirsi, senza
però riuscire a svagarsi. Accettò complimenti e alcolici ma, ogni volta
che tentavano di metterle le mani addosso, si divincolava e fuggiva.
Si rifugiò, infine, nell’isola di Møn (a Sud di Copenaghen),
quel regno dei silenzi, dove predomina il vento. Si sistemò in una baita
isolata, presa in fitto in una foresta di faggi, in vista delle alte e bian413
che scogliere che ornano la costa orientale. La solitudine di quel luogo
ed il sibilare del vento le consentivano di raccogliersi in se stessa come
mai le era accaduto: si sentiva distaccata dal suo spirito, capace di
coglierne il respiro. Passeggiava a lungo spingendosi fino agli orli
delle falesie cretacee. Attraversava prati, brughiere, boschi e paludi
mentre le foglie dorate di autunno volteggiavano planando al suolo
dopo essersi malinconicamente distaccate dalle alte cime dei faggi.
Cominciarono le piogge. Fu costretta a rimanere chiusa per
giorni nella baita, dove esistevano sufficienti riserve alimentari. E, per
resistere all’insofferenza della costrizione, trascorreva il tempo leggendo libri che si era portata con sé. Sennonché, in uno di quei giorni
di inattività, avvicinandosi alla finestra, scorse, nell’incerta luce del
crepuscolo, un uomo fermo in distanza sotto la pioggia, con le spalle
curve e le braccia incrociate per il freddo. Sembrava la stesse osservando. Lo guardò attentamente e le parve di conoscerlo. Allora, uscì
sulla porta e lo chiamò. L’individuo esitò un attimo, poi prese ad avvicinarsi. E, man mano, Segreta fu sempre più sicura: era Nicholas.
Mezz’ora più tardi, mentre lui si asciugava nudo in una coperta, lei gli chiese:
“Sono strabiliata! Ma che facevi là fuori?”
“Volevo vederti.”
“Ma sei impazzito? E come mi hai trovata?”
“Ti ho sempre seguita.”
“Perché lo hai fatto?”
Lui le rivolse un sorriso mite. Ma non le rispose. Si limitò a
guardarla con occhi adoranti. Lei comprese che lo aveva fatto per
amore. Era in parte infastidita e in parte commossa. Si rese conto,
comunque, che la sua evasione era finita.
Il giorno dopo, ripartirono per Abingdon. Durante il viaggio,
Segreta gli chiese:
“Quale lavoro vuoi svolgere in futuro, Nicholas?”
“Credi che una persona come me possa ritornare ad un lavoro normale, ad una vita normale? No, come ti ho detto tempo fa, vorrei anzitutto fuggire dall’Inghilterra. Una volta trovato un posto dove approdare,
mi piacerebbe svolgere volontariato in favore delle persone che sof414
frono. Soltanto in seguito, quando mi sarò tolto di dosso la sensazione
di essere un appestato, solo allora ritornerò ad una vita normale.
Affiancherò zio James nella sua trita attività rivolta a far soldi e, infine, quando sarò entrato anch’io nella logica perversa del profitto ad
ogni costo, allora, giocoforza, prenderò la direzione di quelle aziende.
E tu, che cosa farai?”
“Neanche io sono più una persona normale, dopo quello che ho fatto.
Devo anch’io purificarmi nei lavacri del lavoro assistenziale. Penso
perciò di proseguire, in Africa, l’impresa di mio padre, quella rivolta
alla costruzione di una rete di ospedali. Dopo, si vedrà. Potrei iscrivermi all’università e intraprendere una professione di prestigio. Ma, per
adesso, debbo anch’io togliermi di dosso il tanfo dell’indegnità”
Due mesi dopo, Nicholas e Segreta si sposarono. Il 15 marzo
1947, partirono per l’Africa.
415
CAPITOLO CINQUANTASETTESIMO
Giungendo a Salisbury (oggi Harare), capitale della Rhodesia
del sud (oggi Zimbabwe), Segreta e Nicholas furono colpiti dalla luce
abbagliante e dal calore soffocante che gravavano su tutte le cose.
L’aeroporto era illuminato da un sole implacabile che sembrava
schiacciare ogni casa o albero a terra. Cominciarono a sudare e i loro
vestiti si impregnarono. Torme di insetti presero a tormentarli. Eppure,
si trovavano su un altipiano. Si resero conto che avevano messo piede
in un mondo completamente diverso e ostile dove il solo muoversi e
respirare risultava difficoltoso.
Trovarono ad attenderli il funzionario della Fondazione
“Norman Heston” che dirigeva la rete degli ospedali voluta dal padre
di Serena. Lord Dorian Heston si era infatti recato in quei luoghi vent’anni prima ed aveva dato inizio alla realizzazione dell’opera. Dopo
la sua prematura morte, gli era subentrato, nella direzione del lavoro,
il decano della Fondazione, Harrison Miller, il quale aveva dovuto
però dividersi con i suoi impegni ad Abingdon. Perciò, per conseguire una assoluta continuità direttiva, lo stesso Miller si era fatto promotore della nomina di un nuovo direttore generale, disposto a rimanere sempre in luogo. La scelta era caduta sul generale in pensione
Donald Selleck che veniva affiancato da un direttore competente sui
problemi sanitari del complesso.
Il generale Selleck possedeva tutte le caratteristiche di un capo:
eretto, rapido, sbrigativo, mostrava cipiglio e risolutezza. Occhi scuri
magnetici, capelli ancora neri e grosse sopracciglie completavano il
quadro di una personalità incisiva. Invitò Segreta e Nicholas a salire su
un bimotore da turismo che attendeva su una pista adiacente. Dopo il
decollo, il pilota, che era un giovane di colore, sorvolò la città per consentire ai nuovi arrivati di farsi un’idea della capitale. Parlando a voce
alta per sovrastare il rombo dei motori, Selleck spiegò che, nel corso
degli anni, le ripetute siccità e le guerre tribali avevano spinto i contadini verso il centro abitato in cerca di lavoro, analogamente a quello
che era successo nelle altre città africane. E, infatti, accanto agli ordinati quartieri coloniali, ricchi di palme, siepi e giardini, si vedevano, in
417
periferia, i quartieri della miseria, un succedersi di “ bidonville”, di
tuguri e stamberghe. Più lontano, si intravedeva la zona industriale.
“Le città, in Africa, sono cresciute in modo mostruoso e disordinato.”
spiegò il generale “più che in altre parti del mondo, anche a causa delle
spaventose siccità che hanno indotto milioni di uomini della campagna
a cercare possibilità di sopravvivenza nei centri abitati.”
Dopo un’ora, l’aereo atterrò in un aeroporto di fortuna ricavato sul fianco di una collina, in vista di una valle in parte alberata. In
cima all’altura, videro una villa circondata da un ampio giardino.
“Questa è la vostra residenza.” precisò Selleck”Vi troverete un numero
sufficiente di domestici”. Poi, rivolgendosi a Segreta, aggiunse: “Qui ha
abitato anche vostra madre, nei suoi due soggiorni del 1931 e del 1936.”
Spiegò, in seguito, che quella villa era stata fatta costruire dal consigliere Harrison Miller proprio in previsione dell’arrivo di Atlanta,
divenuta presidente della Fondazione dopo la morte del marito.
Con un fuoristrada, raggiunsero l’edificio.
“Presumo” disse ancora il generale mentre stavano attraversando il
giardino “ che vorrete presto visitare gli ospedali.”
Segreta gli rispose affermativamente.
“Se siete d’accordo, vi sottoporrò un programma.”
Poco dopo, il direttore generale si predispose a prendere congedo. Segreta e Nicholas lo ringraziarono e, appena soli, cominciarono ad orientarsi sulla loro nuova situazione. Non si trattava soltanto di
sistemarsi in quella spaziosa residenza ma di riorganizzare tutta la loro
vita. Come primo atto, dopo aver preso un bagno, Segreta volle radunare la servitù per conoscerne ciascun componente. Aveva indossato
un leggero abito bianco con fiori turchini sul bordo della gonna e sulle
mezze maniche. Nell’ampio studio, si fermò a parlare con loro, chiese
a ciascuno il nome e notizie sulla rispettiva situazione familiare. I
domestici erano cinque, tre donne e due uomini, organizzati secondo il
criterio inglese. Infatti, li capeggiava gerarchicamente un robusto maggiordomo indigeno di mezza età, austero e impalato, che indossava un
caffetano grigio. Era certo consapevole dell’autorità conferitagli perché manifestava un tratto severo e asciutto con i suoi sottoposti. Nel
corso di quei colloqui, Segreta apprese che una di loro, una donna di
418
età indefinibile chiamata Chepetet, era stata la cameriera personale di
lady Atlanta. Provò subito per lei simpatia e le chiese se gradiva dedicarsi al suo personale servizio. Chepetet si inchinò e assentì con un
largo sorriso. Era alta, maestosa e ben formata. I suoi occhi sembravano perle nere sfolgoranti. Non appariva rugosa come le altre due domestiche ma esibiva una carnagione lucida e piena.
Cenarono con pietanze preparate secondo la cucina inglese.
Poi, in camera da letto, fecero un primo esame delle prospettive che li
attendevano. Segreta era pensierosa: quel cambiamento la incuriosiva
ma non provocava in lei entusiamo: lo considerava un atto doveroso
verso la memoria dei suoi genitori. Era anche, indubbiamente, una
maniera per soccorrere il prossimo. Ma non riusciva ancora a trovare
in sé sollievo e soddisfazione. Più di lei, invece, aveva gioito Nicholas.
Si sentiva realizzato: avrebbe frequentato uno dei corsi per infermieri
programmati periodicamente dagli ospedali e si sarebbe offerto per
l’assistenza volontaria ai malati. Sperava che quel lavoro avrebbe
riempito la sua esistenza e alleviato i suoi rimorsi.
“Mi sento molto meglio ” confidò a Segreta mentre stavano andando a
letto “ Ho la prospettiva di un lavoro che mi consentirà di assistere chi
soffre. E, poi, ho te. In questo momento, la mia gioia è profonda. Ne
sono grato al Signore. Forse, dimenticherò il passato e, con te, potrò
iniziare una vita nuova.”
Quella prima sera, fecero dolcemente all’amore. Segreta si sentiva languida. Nicholas, per la prima volta, sembrava felice. Ma, più
tardi, il caldo eccessivo la svegliò e la spinse sulla veranda. Si accorse, così, che una notte africana non è mai silenziosa ma piena di suoni
diversi e di voci segrete, animata da creature invisibili. Individuò il trillo di eserciti di grilli, un coro di rane arboree, il richiamo lamentoso di
una iena, il ruggito lontano di un leone. Alzò poi gli occhi verso un
cielo incredibilmente affollato di stelle, così grandi, così vicine.
Palpitavano e sembrava che volessero dirle qualcosa. Invocò disperatamente un segno, una risposta, una rivelazione.
“Dove sei, Wilhelm?”chiese mentre si sentiva oppressa da un’immensa solitudine.
L’indomani, visitarono minutamente tutta la villa. La costru419
zione rispecchiava uno stile architettonico sconosciuto in occidente:
ricordava, piuttosto, le costruzioni indigene. Si ergeva, infatti, su un
solo piano, come un quadrilatero, ed esibiva un grande tetto a cupola.
In quella visita, si fecero accompagnare da Chepetet che conosceva, sia
pure in modo rudimentale, la lingua inglese. Fu lei a spiegare che i
muri della casa erano costituiti da materiali locali, in genere sassi raccolti da fiumi, massi estratti dalle colline, rocce di dirupi.
Affondavano nel terreno per costituire delle fondamenta solide e,
nella parte che emergeva dal suolo, venivano intonacati a calce. L’alto
tetto a falda spiovente era formato invece da fronde di palma intrecciate, appoggiate su un tavolato di cedro rosso. L’acqua proveniva da
pozzi artesiani; e, per consentirne la circolazione nelle tubature, vi
erano pompe e apposite condutture di scolo. Nel cortile e intorno al
fabbricato, sorgevano rigogliosi giardini di bunganvillee, alberi di
mango, jacarande azzurre e altri straordinari fiori disposti in vasi di
rame. I mobili erano prodotti dall’artigianato locale e poggiavano su
mattonelle di cotto, in parte adornate da tappeti etiopi. Dalla finestra,
e soprattutto dalla veranda, si godeva una vista emblematica del tipico paesaggio africano: in lontananza, i profili dei monti Inyangani e,
sottostanti, le cime di una foresta. Dagli altri lati, si vedeva un tratto
di savana, punteggiata da alberi di acacia e da macchie di gelsomini
multicolori e profumati.
Chepetet li spinse a scendere dalla collina ed a raggiungere a
valle i limiti del recinto. Così, scoprirono un grande stagno che gli
indigeni chiamavano “dam”. Seppero da lei che il sovrintendente della
villa lo aveva fatto scavare appositamente per accogliere l’acqua delle
grandi piogge; e che, col tempo, si era popolato di pesci.
Probabilmente, le uova dei pesci venivano incidentalmente portate dai
pellicani, dagli aironi, dalle oche egiziane, e da altri uccelli acquatici
che scendevano a riposarsi dopo i loro voli notturni.
***
Nei giorni successivi, guidati dal direttore generale, Segreta e
Nicholas visitarono gli ospedali costruiti, in quei territori, dal 1927 in
420
poi. Si trattava di otto massicce strutture dislocate in grossi villaggi
privi di qualsiasi attrezzatura sanitaria, e destinate a provvedere anche
alle necessità dei villaggi vicini. In ordine di costruzione, il primo
ospedale si trovava nel territorio della cittadina di Mufare. Gli altri sorgevano nei circondari di Bindira, Misvingo, Hwange, Chinoyi, Gweru,
Bulawayo, Kadoma. La visita fu preceduta da una riunione predisposta da Selleck nell’ospedale che sorgeva nelle campagne di Mufare.
Un’ala del fabbricato era stata infatti destinata agli uffici della
Fondazione. In una saletta, Segreta, nella sua veste di presidentessa del
sodalizio, parlò ai direttori degli ospedali ed ai funzionari: rievocò le
difficoltà incontrate nel tempo, non soltanto per la costruzione
degli edifici ma anche per l’approvigionamento idrico ed elettrico
e per la selezione del personale. Citò le altre iniziative adottate per
la formazione di nuovi infermieri, per l’istituzione di ambulatori e
dispensari, per l’aggiornamento professionale del personale medico, in Inghilterra e in America, per l’acquisto di nuove autoambulanze e di sempre più moderne attrezzature diagnostiche e terapeutiche. Soggiunse che, per i prossimi anni, l’organizzazione avrebbe sistematicamente provveduto a mantenere alta l’efficienza di
quei luoghi di cura. Tuttavia, precisò, non era prevista la costruzione di altri ospedali perché, nel corso degli anni, la Rhodesia
aveva compiuto molti progressi sul piano industriale, economico e
sociale e poteva ora provvedere in proprio al miglioramento del
servizio sanitario nazionale. L’azione della Fondazione si sarebbe
spostata perciò, compatibilmente con le disponibilità finanziarie,
verso altri stati africani maggiormente colpiti dalla fame e dalle
malattie
La visita agli otto ospedali si protrasse per una settimana. Poi,
dopo qualche giorno, accompagnata da Selleck, Segreta si recò a
Salisbury per salutare alcuni autorevoli rappresentanti
dell’Amministrazione britannica con i quali la Fondazione manteneva rapporti. Fu ricevuta tiepidamente. Ma non se ne stupì: il generale l’aveva messa in guardia. Aveva già sperimentato l’astio che
l’Amministrazione di S.M. britannica nutriva verso la Fondazione.
La sua iniziativa di costruire una rete di ospedali era stata considera421
ta, fin dal principio, un’insolente inframmettenza nell’azione che lodevolmente (secondo loro) i funzionari governativi inglesi conducevano
in quella colonia per assicurare la salute dei cittadini.
***
Fin da quando, nel giugno 1941, aveva lasciato la Svizzera al
seguito di Wilhelm, Segreta era riuscita a mantenersi in contato con
Oana. Quello scambio di corrispondenza si era protratto anche durante la sua permanenza a Londra, ma aveva subìto un’interruzione, dal
marzo 1943, in seguito al suo rientro clandestino in Germania, con
Armstrong. Soltanto dopo essere ritornata ad Abingdon, nell’agosto
1944, era riuscita a rintracciarla. Oana, nel frattempo, aveva raggiunto
l’Africa e, adesso, si trovava in una Missione benedettina presso il lago
Kariba.
Nell’aprile 1947, dopo averle preannunciato per lettera la sua
visita, si recò a trovarla: volò con il bimotore fino a Chinhoyi, poi, con
un fuoristrada, raggiunse la Missione. Il suo incontro con lei fu struggente. Non era più una novizia: aveva preso i voti col nome dolcissimo di suor Maria, era adesso tutta votata a Cristo! E Segreta lo notò
dal suo aspetto: pur standole di fronte, sembrava lontana, assente,
immersa in una sua sognante dimensione. Anche nella rievocazione
della tragica morte di Wilhelm, il suo dolore le apparve sfumato nell’accettazione della volontà di Dio. E, così pure, ogni suo atto, ogni
suo gesto esprimevano la consapevolezza di essere una piccola creatura confusa nel pulviscolo dell’universo, abbandonata alla Sua misericordia e alla Sua potenza. Prima di appartarsi per parlare di quei terribili anni appena trascorsi, Oana volle guidarla nella visita agli edifici della Missione, bassi e calcinati: la chiesa, i locali riservati ai sacerdoti e alle suore, il dispensario, l’ambulatorio, la scuola per i bambini, un parco giochi. Per tutto il pomeriggio, Segreta assistette alle
molteplici operazioni in cui lei andava prodigandosi: nella chiesa, per
cantare durante la Messa, nell’ambulatorio, per assistere il dottore, nel
dispensario, per distribuire medicinali. Era silenziosa ed instancabile.
Camminava con passo leggero e con atteggiamento servizievole e
422
dimesso. Sembrava, pensò Segreta nell’osservarla, una creatura
sospesa fra cielo e terra.
La sera, Segreta cenò nel refettorio con i membri della
Missione: sacerdoti, suore, medici, infermieri, inservienti di colore.
Poi, quando tutti se ne furono andati, lei e Oana si ritirarono in un
angolo per parlare.
“Sono rimasta sola.” mormorò Oana come parlando a se stessa. “Se
fossi ancora nel mondo, non resisterei a tanto dolore. Ma poiché, con
il mio cuore, non sono più nel mondo, posso ancora sentire i miei cari
vicini a me. So per certo che un giorno li ritroverò, immersi nella gioia.
E ritorneremo a stare insieme.”
“Vorrei anch’io credere questo. Darei tutto quello che resta della mia
vita per rivedere Wilhelm, per ripetergli il mio amore.”
“Lo rivedrai, devi esserne certa.”
“Non riesco a credere nel soprannaturale.”
“Perché il tuo cuore è indurito. Infatti, hai commesso del male e, ancora, non riesci a sentire il bisogno di chiedere perdono a Dio.”
Segreta rimase in silenzio. Allora, suor Maria cambiò
argomento. Le propose di accompagnarla, l’indomani, nelle
campagne comprese fra Hwange e Kadoma, dove le alte terre
centrali discendono verso lo Zambesi e il Gwai e sprofondano
nella depressione del Kalahari.
Così, Segreta sperimentò l’inferno del caldo umido dei tropici.
Alla guida di una jeep, suor Maria la condusse da un villaggio all’altro
per prestare cure infermieristiche, praticare iniezioni, rinnovare bendaggi di uomini e donne anziane e di bambini bantu abitanti in quella
torrida zona, sotto un sole implacabile. Sciami di mosche furibonde si
accanivano contro di loro. Segreta era infastidita da quell’ambiente
arcigno. Indossava un’abito coloniale con stivali e, mentre seguiva
Oana, sognava di starsene seminuda a godere la ventilazione della
veranda, nella sua casa di Mufare. Era madida di sudore e cercava di
darsi un contegno, ad imitazione della impassibile Oana e di quegli
indigeni, così composti e dignitosi nella povertà della loro condizione,
così abituati ai tormenti del loro clima. Conobbe il greve odore dei tro423
pici, che derivava, pensò, dalla rapidità con cui tutto, in quel punto del
globo, cresce, fiorisce tumultuosamente e, con altrettanta rapidità,
marcisce e si decompone. Un tanfo cioè indistinto e penetrante di
putridume. Sulle strade, circolavano biciclette, carretti, capre e mucche; e sostavano donne che lavavano la biancheria o cucinavano fuori
dalle loro irrespirabili case, venditori ambulanti e soprattutto gruppi di
bambini che si rincorrevano giocando.
Sulla via del ritorno, commentando quello spaccato di vita africano, Segreta espresse sorpresa e ammirazione per la calma paziente
con cui quella gente accettava condizioni di vita così insostenibili.
Oana rispose che, in genere, gli africani sono sorretti dalla ricchezza
della loro vita interiore, dalla loro religiosità e, in particolare, dal loro
culto per gli antenati e per il regno degli spiriti, a capo del quale sta
l’Essere Supremo, Dio, presente in ogni creatura ed in ogni cosa.
L’indomani mattina, Segreta prese congedo. Le disse, prendendole le mani:
“Ti ho vista serena, convinta, inattacabile dai dubbi e dai ripensamenti. Credi, quindi, completamente, nella vita che ti sei scelta?”
“Si, ho ricevuto il dono prezioso della vocazione. Questa è la mia strada radiosa.”
“Ne sono felice per te, Oana. Io, invece, come hai ben visto, sono come
una pecora errante.”
“Ma hai uno sposo, la prospettiva di una vita familiare serena! Cerca
di avere un figlio!”
“Più tardi. Ora, sono troppo tormentata dai ricordi e dai rimorsi.”
“Apriti allora alla preghiera e chiedi a Dio la tua conversione. E che la
tua preghiera sia la tua quotidianità.”
Ripartì col bimotore, che l’aveva attesa. Ma, dentro di
sé, era delusa. Sperava di ritrovare l’amica di un’adolescenza
appena gustata; di rievocare con lei quei giorni così lontani che
sembravano di un’altra vita; di trascorrere una serata in allegria ridendo dei difetti dei professori, delle maestre e di certe
compagne di scuola. Invece, la ragazza di un tempo non esisteva più, vi era soltanto suor Maria, sfuggita ormai ad ogni lusinga secolare, rapita al mondo dal suo amore divino. Segreta si
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sentì ancora più sola. Al rientro, si rifugiò fra le braccia gentili di Nicholas. E meditò di far sbocciare con lui, fra non molto,
una nuova vita, come appello al futuro, come motivo di luminosa speranza.
Tuttavia, poiché tutto sta scritto, il suo destino imboccò una
direzione diversa.
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CAPITOLO CINQUANTOTTESIMO
Dal settembre 1947 al marzo 1948, Nicholas frequentò assiduamente un corso teorico e pratico per conseguire il diploma di
infermiere. Subito dopo, iniziò il suo volontariato, nello stesso ospedale di Mufare, prodigandosi nell’assistenza ai degenti. I suoi pazienti, come una gran parte degli africani delle zone interne, erano denutriti, esauriti, intorpiditi a causa del clima e degli stenti. Se ne stavano in silenzio con lo sguardo nel vuoto, parlavano malvolentieri e,
talvolta, biascicavano a mezza voce qualche sconosciuta litania. Si
comportavano come persone abuliche e scostanti ma, in effetti, erano
soltanto ammalati e sofferenti. Sfilarono sotto i suoi occhi le più
diverse patologie e, soprattutto, i morbi tropicali: la malaria, la malattia del sonno, la febbre gialla e, nel reparto isolamento, la lebbra.
Talvolta, si trovò a contatto con ferite e deformità repellenti. E, in
ogni caso del genere, diceva a se stesso che doveva sforzarsi di intravedere, in quei pazienti, un fratello e, in ogni volto sofferente, quello
ineffabile di Gesù Cristo crocefisso.
Al termine dei suoi faticosi turni di lavoro, trovava, a casa,
Segreta. Sapeva che era tormentata da ricordi angosciosi e, quando la
vedeva assorta, non le chiedeva nulla ma le stava vicino tenendole e
baciandole le mani. Si adattava ad ogni sua decisione o desiderio e,
quando era nervosa o irritata, non la contrastava. Preferiva rimanere in
silenzio e attendeva che si calmasse. Sapeva, sentiva, di non essere
amato ma era ugualmente felice di essere accettato. L’adorava: quei
suoi affilati occhi che ricordavano le tinte profonde dell’oceano, i lunghi capelli color fiamma inanellati, il suo corpo snello e flessuoso di
gazzella, lo abbagliavano. Senza attendersi di essere ricambiato, le
rivolgeva sommessamente, nell’intimità, parole inebriate. Quella
donna era stata la sua rovina eppure sentiva, in ogni momento, il bisogno di prostrarsi ai suoi piedi e di esternarle con umiltà il suo amore.
Scorgeva in fondo al proprio animo un bisogno di annullarsi che trovava spiegazione soltante nelle frustrazioni un tempo subite e nell’intensità del suo sentimento.
Tuttavia, la sua salute era cagionevole, Fin da quando, in quel
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viaggio intrapreso al suo inseguimento, nel 1946, si era esposto al freddo, alle intemperie, alla pioggia, gli era rimasta una tosse insistente che
aveva curato con palliativi senza sottoporsi a seri controlli. Un giorno,
nel maggio 1948, mentre si trovava al lavoro, avvertì un insolito
malessere: si sentì invaso da un senso di pesantezza che si tramutò ben
presto in stordimento. Non riuscì a proseguire nel suo lavoro e andò a
rifugiarsi nella stanza vuota del capo sala. Si sedette e cercò di analizzare quel disturbo. Gli sembrava che le percezioni dei sensi si fossero
ingigantite: la luce e i rumori, soprattutto, erano diventati improvvisamente insopportabili; l’odore dei medicinali gli procurava nausea. Si
alzò a fatica per andare ad interpellare un dottore ma la vista gli si
annebbiò e la realtà circostante si allontanò da lui. Un attimo dopo,
perse i sensi.
Quando riaprì gli occhi, intravide, sfocato, il volto adorato di
Segreta: esprimeva un’intensa apprensione.
“Come stai, Nicholas?”
“Ho un freddo insopportabile.”
Intervenne allora un medico che stava accanto a lei.
“È un attacco di malaria cerebrale.” sentenziò.
Nicholas fu colpito dal suo sguardo dilatato che rifletteva perplessità e preoccupazione. Udì che impartiva degli ordini. Subito dopo,
un’infermiera di colore portò un materasso e glielo stese addosso. Ma
il freddo polare continuava. Fu assalito da scosse e convulsioni. Gli
sembrava che le ossa ed i muscoli si fossero tramutati in lastre di
ghiaccio. Segreta gli accarezzava il capo, gli sussurrava parole di incoraggiamento. Lui se ne beava ma, poi, la sofferenza sopraffaceva ogni
sua capacità di pensiero. Dopo un’ora di continue convulsioni, sentì
una spaventevole mancanza di forze. Era coperto di sudore ed aveva
una febbre scottante. Provava un dolore diffuso in ogni parte del corpo.
In tutta la sua vita, non era stato mai così male.
Gli praticarono delle iniezioni e, poco a poco, la violenza dell’attacco si calmò. Ma la prostrazione lo faceva sentire inchiodato sul
letto e gli toglieva perfino la forza di sollevare la testa. Segreta era
sempre vicina a lui, gli sorrideva, gli parlava. Costituiva per lui l’unica fonte di luce nel pozzo in cui era precipitato.
428
Per giorni e giorni, gli attacchi si ripeterono fino al punto da
gettarlo nello sconforto. Voleva morire, per sfuggire a quella terribile
sensazione di sfinimento e di vertiginosa caduta verso un abisso profondo. Il viso dolcissimo di Segreta rifletteva una preoccupazione crescente nonostante i suoi sforzi di apparirgli serena.
Un giorno, dopo averlo auscultato, il medico curante ordinò
una radiografia e, quando ebbe in mano la lastra, sibilò:
“Maledizione! È subentrata la tubercolosi.”
“Che cosa mi succede?” ebbe la forza di chiedere Nicholas a Segreta.
“Questi attacchi di malaria hanno debilitato il tuo organismo. Si è verificata perciò una lesione ad un polmone. Forse, eri già debole prima,
già predisposto. Comunque, sarai curato nel modo migliore.”
Una mattina, quando Segreta entrò nella stanza, lui le disse
debolmente:
“Questa notte, ho molto sofferto. Ad un certo momento, credimi, il male
è diventato insopportabile. Proprio allora, ho ricevuto un’ispirazione,
un’illuminazione e, improvvisamente, ho capito. I dolori della mia vita,
quello fisico di oggi e quelli morali di ieri, non sono stati arbitrari, né
casuali, ma corrispondono ad un disegno preciso. In effetti, sto percorrendo una strada portando la mia croce. Ma non sono solo come credevo. Seguo Lui, l’uomo dei dolori, nostro Signore Gesù Cristo. Questo
mio cammino, perciò, non è disperato, non si svolge nelle tenebre. È illuminato dalla speranza perché, alla fine, vi è ad attendermi Dio! È questo
il Suo disegno di salvezza per me. Si, finalmente ho capito.”
“Ma come è possibile?” rispose Segreta col suo scetticismo.
“È così: il cammino dell’uomo alla ricerca di Dio, misteriosamente, passa
attraverso il dolore. Forse, perché è il dolore il seme della salvezza.”
Col trascorrere dei giorni, la resistenza del suo organismo andò
man mano cedendo. Perse ulteriormente le sue forze fino a quando la
vista gli si annebbiò ed i suoni gli giunsero smorzati, lontani.
Ancora giorni, o forse soltanto ore, poi sentì nuovamente un gran
freddo. Era un nuovo attacco sferrato dal male. Questa volta, però, il suo
corpo non resse. Poco a poco, fu avvolto dal buio. Perse la cognizione
di tutte le cose. Ma la sua anima vigile attendeva e ricercava la luce.
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CAPITOLO CINQUANTANOVESIMO
L’immatura morte dello sfortunato Nicholas fece precipitare
Segreta nel vuoto e nel silenzio. Non versò una lacrima ma soffrì molto.
Non lo amava ma, nell’approfondire la sua conoscenza, aveva scoperto
in lui tante qualità: era retto, gentile, generoso, ricco di sensibilità e di
signorilità. Riconosceva con umiltà la debolezza del suo carattere: sapeva di essere un perdente, un uomo di paglia, incapace di combattere
grandi battaglie, di piegare la volontà degli altri. Ma, paradossalmente,
quelle sue doti negative lo facevano sentire a suo agio perché poteva
confondersi con i poveri di spirito, quelli che, secondo il Vangelo, entreranno nel regno dei cieli. Segreta gli voleva bene, provava per lui affetto e tenerezza, aveva condiviso con lui giorni sereni. Perciò, si sentì
improvvisamente sola, immotivata, priva di un ancoraggio.
Quando la malattia di Nicholas aveva imboccato una via senza
ritorno, si era affrettata ad informare per telefono James Acheson della
gravità delle sue condizioni. Poi, dopo la sua morte, aveva assolto il
doloroso compito di dargliene partecipazione. Zio James stava appunto partendo per l’Africa. A quell’annuncio era crollato, aveva perso il
controllo, si era disperato. Segreta sapeva che era un uomo in crisi.
Troppo tardi, infatti, si era accorto di non aver saputo assicurare una
discendenza alla casata degli Acheson. Si era limitato, allora, a riporre
tutte le sue speranze su Nicholas, ultimo discendente, da parte di
madre, degli Acheson. Aveva perciò, per lui, inoltrato un’istanza al
Tribunale di Blaenavon chiedendo che al nome Blackwell fosse
aggiunto quello di Acheson. La pratica era in corso. Purtroppo, la sua
morte rendeva vano quel tentativo.
Vi furono diverse telefonate fra Segreta e zio James. Lei si rese
conto che il suo dolore e quello di nonna Michelle erano veramente
incontenibili. Allora, aderì alla loro richiesta di seppellire Nicholas ad
Abertilley, vicino ai suoi genitori.
Il 12 giugno 1948, una settimana dopo la sua morte, Segreta
salutò il generale Selleck, i funzionari della Fondazione ed una rappresentanza dei medici e degli infermieri. Prese poi congedo dai domestici e si separò con rammarico dalla fedele Chepetet che piangeva. Le
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assicurò che sarebbe ritornata. Mezz’ora dopo, si imbarcò su un aereo
da trasporto, su cui era stata caricata la bara di Nicholas; e partì alla
volta dell’Inghilterra. Come era accaduto vent’anni fa a suo padre,
anche per lei quell’avventura africana si era conclusa tragicamente.
Andò a seppellire Nicholas ad Abertillery, visse due giorni
dolenti con nonna Michelle e zio James, poi ripartì in macchina per
Abingdon. Si era concluso così un altro capitolo della sua vita, un’altra tappa di un percorso accidentato.
In novembre, si iscrisse, ad Oxford, alla facoltà di legge,
abbandonando l’idea di frequentare l’accademia delle belle arti dato
che non aveva constatato in sé spinte artistiche. Nella città universitaria, prese alloggio in una pensione per studenti in cui pernottava nei
giorni feriali. A fine settimana, invece, ritornava ad Abingdon dove
provvedeva al disbrigo delle questioni relative alla Fondazione e
seguiva lo studio rivolto alla scelta di nuove aree di intervento.
Mantenne frequenti rapporti epistolari con suor Maria. Vi era
fra loro un dialogo tenero e nostalgico rivolto a rievocare i momenti
indimenticabili della loro adolescenza, il rimpianto delle persone
scomparse, la speranza estrema e struggente di rivederle nel paradiso
promesso. Ma, in chiusura di quelle lettere, Oana non poteva accantonare la sua fede palpitante e, ogni volta, spronava Segreta. Le ripeteva:” apriti alla preghiera perché essa diventi per te un bisogno.”
Ad Oxford, sebbene corteggiata da molti giovani studenti, non
volle impegnarsi in alcuna nuova storia. Preferì, piuttosto, mantenere
con ragazze e ragazzi del suo corso semplici rapporti di amicizia. Ma
la banalità dei loro discorsi l’annoiava. Gli anni tumultuosi attraversati dal 1939 al 1948 avevano lasciato una traccia profonda nella formazione del suo carattere. Ora, rivelava una maturità maggiore di quanto
possa attendersi da una ragazza di 23 anni. Nei momenti di riposo, passava mentalmente in rassegna gli avvenimenti di quel periodo così
intenso della sua vita. E, sebbene il tempo trascorresse velocemente,
restavano nel suo cuore alcune piaghe aperte e sanguinanti.
Ritornavano spesso alla sua memoria i visi dei marinai morti per causa
sua, inframmezzati a quelli di sua madre, di Wilhelm, del povero
Nicholas, in una successione ora struggente, ora ossessiva, che le
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impediva di ritrovare il sorriso e la spensieratezza di un tempo.
Sperava che un giorno le sarebbe ritornata la voglia di vivere ma, per
ora, pesava su di lei un vuoto totale, un silenzio opprimente.
Poi, accadde un fatto nuovo: una sera, mentre stava studiando,
un ragazzo recapitò una busta per lei, senza chiedere risposta. La
signora che gestiva la pensione gliela portò subito. Lei l’aprì e vi trovò
dentro la croce d’oro che aveva donato, in un giorno lontano, ad
Armstrong. Vi era anche un biglietto su cui lesse un indirizzo: “Rose
Place”. Comprese: era Moheb che ritornava risorgendo da un passato
che lei riteneva sepolto per sempre.
Dopo anni, il suo cuore riprese a battere. Uscì dalla pensione e,
quasi di corsa, andò verso il luogo dell’appuntamento.
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CAPITOLO SESSANTESIMO
Aveva piovuto: gli asfalti erano lucidi e riflettevano, assorte e
deformate, le luci dell’illuminazione pubblica e dei villini che costeggiavano la strada. Segreta, camminando affrettatamente, raggiunse ben
presto il luogo indicatole. Rose Place era dominata dalla sagoma imponente del cinquecentesco palazzo della Cappellaneria dell’università.
In quel momento, appariva deserta e immersa nella semioscurità. Lei
si fermò e attese guardandosi intorno. Dopo qualche momento, udì una
voce nota alle sue spalle:
“Ciao, bambina!”
Si voltò di scatto e vide distaccarsi dal colonnato l’ombra di un
uomo che venne verso di lei.
“Armstrong!” esclamò gioiosamente.
Si abbracciarono con impeto. Poi, lui la baciò vigorosamente
sulla bocca.
“Sono tornato per te!”
“Da quale inferno ritorni, questa volta?”
“Durante la guerra fredda, ho lavorato per la Cia americana. Ma sono
stato scoperto e segregato dai russi in Siberia. Poi, ti racconterò.”
“Anch’io ho tante cose da raccontarti.”
“So tutto.”
Lei si appoggiò al suo petto.
“Sono tanto stanca, Moheb!”
“Sei giovane. Devi ricominciare.”
“Vuoi forse offrirmi un nuovo incarico al tuo fianco?”
“Non un incarico o un lavoro ma una vita nuova. Ti aiuterà a dimenticare.”
“Si, Moheb! Ho bisogno di dimenticare.”
E lo baciò con ardore.”
“Sei disposta ad intraprendere un viaggio?”
“Anche subito.”
“Non vuoi informare qualcuno, prendere una valigia?”
“Non importa.”
“Vieni, allora!”
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Il seguito si svolse come in un sogno, un sogno dorato simile
ad una fiaba: una lunga corsa in auto fino ad un aeroporto immerso
quasi nel buio, quindi un volo in un piccolo aereo, durante il quale si
addormentò. Quella novità l’aveva placata: si sentiva fiduciosa e rilassata. Giunsero all’alba in un aeroporto più grande e, in auto, attraversarono una città variopinta, piena di canali e di ponti, che si stava risvegliando.
“Siamo a Madinat el-Fayyum.” disse Moheb. Scendendo dall’aereo,
aveva indossato un caffetano bianco che lo rendeva imponente.
“Dove si trova?”
“In Egitto”
“In Egitto? Mi stai portando a casa tua?”
“Ti dispiace?”
“Non vorrai forse farmi entrare nel tuo harem?”
“Mi dispiace deluderti ma non dispongo di harem. Dove andremo,
sarai la regina.”
“È un bel salto da spia a regina.”
“Dovrai contentarti di spiare solo me perché ti farò ingelosire.”
Continuarono a scherzare. Erano entrambi di ottimo umore per
la gioia di essersi ritrovati. Poco dopo, giunsero ad un imbarcadero.
“Continueremo in barca.” precisò Moheb
“Non credevo di trovare tante vie d’acqua in Egitto.”
“È il Nilo che compie questo e tanti altri miracoli.”
Presero posto in un grosso motoscafo che aveva un equipaggio
di due marinai. A poppa, vi era un largo sedile imbottito, con schienale. Vi si sdraiarono. A quel punto, Segreta ebbe un pensiero squisitamente femminile:
“Sono impresentabile” esclamò “ Sono corsa da te così come mi trovavo in casa!”
“In cabina, vi è un guardaroba per te.”
“Grazie! Ti stai trasformando nel mio principe azzurro!”
“Un principe felice, Segreta. Da secoli, non mi ero sentito così bene.
La tua presenza mi ha restituito la voglia di continuare.”
“Voglio anch’io confessarti un mio pensiero segreto: molte volte, men436
tre eri lontano, ho sognato che tu arrivassi su un cavallo bianco per salvarmi da tutti i disastri che andavo combinando nella mia vita”
“Ora, finalmente, ci siamo ritrovati, liberi da ogni impegno e da ogni
peso, salvo i ricordi. Adesso, forse perché tu sei qui con me, adesso, ho
una sensazione nuova: quella di aver sprecato i miei anni migliori contribuendo alle opere della violenza, dell’inganno e della sopraffazione.
Se questa guerra ha avuto un’utilità è stata quella di aver svegliato la
coscienza dei popoli. Dobbiamo batterci, d’ora in poi, solo per elevare
le condizioni materiali e spirituali dell’uomo.”
“Io, nel mio piccolo, lo sto già facendo. Dirigo una fondazione che si
occupa della costruzione di ospedali nelle zone più degradate
dell’Africa.”
“Cercherò anch’io di fare qualcosa di buono: voglio mettermi sulle
orme di mio padre che è un’antesignano dell’idea di portare il Nilo in
pieno deserto.”
“Di che si tratta?”
“Di creare un secondo corso del Nilo, di fargli attraversare il deserto
occidentale e dargli una nuova foce dopo un percorso di mille chilometri.”
“È un’opera grandiosa!”
“Si, cercherò di contribuirvi.”
“Tuo padre è ancora vivo?”
“No, è morto pochi mesi fa; ed io sono ritornato appena in tempo per
prendere il suo posto nella direzione delle sue molte aziende: una vera
potenza economica.”
“Perché non lo hai fatto prina? Perché ti sei perso in tante disperate
imprese?”
“Perché amavo l’avventura. Ma anche perché detestavo mio padre:
non potevo perdonargli di aver tradito, trascurato e trattato male mia
madre, né di non averla assistita durante la sua malattia. Poi, quando
lei è morta, per rabbia ho lasciato la mia casa.”
Intanto, l’imbarcazione scivolava, con lieve sciabordio, su quel
corso d’acqua che era delimitato da due alte sponde erbose. Moheb le
spiegò che si trattava del fiume Yusuf. Slanciati palmizi sfilavano
sopra di loro ammiccando con un continuo ondeggiare. Spirava una
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dolce brezza.
“Dove stiamo andando, esattamente?” chiese lei.
“Verso il lago Qarun che occupa una parte della grande oasi del
Fayyum, decantata per la fertilità del suolo, la mitezza del clima e la
ricchezza dei resti archeologici, un tempo riserva di pesca e di caccia
dei faraoni. Sulle rive del lago, sorge il mio palazzo, quello lasciatomi
da mio padre.”
Infatti, poco dopo, il motoscafo, seguendo il corso del fiume,
sbucò nel grande “Birkat Qarun” e si diresse verso un palazzo bianco
in pietra tagliata, che svettava sulla riva opposta. Moheb aiutò Segreta
a scendere e, insieme, si avviarono lungo un viale mosaicato. Lei
aveva indossato un abito occidentale avana con gonna scampanata e
cintura. Tenendosi per mano, andarono verso la massiccia costruzione
di due piani che stava di fronte a loro. Sulla sua facciata bianca, si allineavano sovrapposti due loggiati composti da una serie di archi. Fra un
piano e l’altro, si vedeva una fila divisoria di alveoli. Salirono una scalinata marmorea e si inoltrarono nel luminoso vestibolo. Erano là ad
attenderli alcuni collaboratori di Moheb ed il capo della servitù. Dopo
averli salutati, procedettero nell’interno, ricco di colonne di marmo e
porfido, di vasche con artistiche fontane, di mosaici dorati, di pavimenti in marmo recanti intarsi di gusto orientale, di archi merlettati.
In una camera da letto spaziosa e tutta bianca, dettero finalmente sfogo alla passione. Si avventarono l’uno sull’altra e cominciarono a baciarsi voracemente, felici di poterlo fare senza più alcuna
remora morale. Si spogliarono reciprocamente e, ridendo beati, presero ad accarezzarsi ed a lambirsi il corpo come se volessero divorarsi.
Dopo frenetici preliminari, Moheb, infine, penetrò dentro di lei facendola spasimare e contorcere. Era per lui, glielo confessò, il conseguimento di un possesso lungamente atteso e desiderato coi sensi e col
cuore.
Al tramonto, la condusse su un terrazzo da cui si poteva godere tutta la vista dei dintorni: di fronte, il lago illuminato dai riflessi del
sole all’orizzonte, da un lato le rovine della città tolemaica di Karanis,
dall’altro, i resti archeologici di Madinat Dimai, un porto di pesca del
III secolo a.C; e, infine, verso nord, l’immenso deserto occidentale.
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“Rimarrai con me, Segreta? Vorrai sposarmi, pur conservando la tua
religione?”
“Si, lo desidero intensamente!”
“Hai compiuto il miracolo di aprire il mio cuore all’amore. Dalla prima
volta che ti ho vista, infatti, ti ho amata. E il tuo viso ha illuminato e
sorretto la mia terribile prigionia in Siberia. Con te, adesso, ho una
ragione di vita.”
“Ed io mi sento molto attratta da te. Voglio dedicarmi a te interamente, amarti ed onorarti. ”
In quella notte, si amarono ancora con dolcezza, consapevoli
che si erano dedicati l’uno all’altra per la vita. Ma, quando spensero la
luce per dormire, lei rimase con gli occhi sbarrati nel buio, sospesa fra
insonnia e brevi dormiveglia. E, in quel limbo dei sensi, visioni assillanti ritornarono a tormentarla: corpi di marinai che si agitavano in
fondo ad un mare turbolento con espressioni stravolte; la tomba di
Wilhelm a Wernigerode, solitaria, dimenticata, senza un fiore, coperta
solo dalle foglie di autunno; e, ancora, il volto gentile di Nicholas che
le sorrideva con tristezza. Era oppressa ma si rese conto che, per tutta
la vita, sarebbe stata accompagnata dai ricordi struggenti di una giovinezza vissuta troppo in fretta. Allora, si voltò verso Moheb che dormiva al suo fianco: lo abbracciò, si strinse a lui. Quell’uomo sconosciuto
e tanto diverso esercitava su di lei un fascino magnetico. La sua vicinanza la rigenerava, le infondeva sicurezza, speranza. Con le misteriose correnti ascensionali dell’amore, sentì che, improvvisamente,
l’avvenire, per lei, era nuovamente gravido di promesse.
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CONCLUSIONE
Furono infatti felici per alcuni mesi. Lui la condusse alla scoperta dell’antica civiltà dell’Egitto e la colmò di premure. Tuttavia, il
terribile senso di colpa che opprimeva lei per la morte di tanti marinai, il ricordo tormentoso di Wilhelm, il dolore e la pena che provava
per la prematura perdita della madre e di Nicholas, rendevano praticamente insonni le sue notti. Trascorreva le sue giornate trasognata e,
fatalmente, quello stato d’animo fini col ripercuotersi sul suo rapporto con Moheb.
Una sera, mentre la stava possedendo, lui si fermò e le disse:
“Vedo che non sei qui con me.”
“Perdonami.” rispose lei debolmente.
“Non riesci a dimenticare, vero?”
“Ho fatto ogni sforzo. Sono stata felice con te. Ma il passato mi perseguita.”
“Cosa posso fare per te?”
“Fai già tanto. Continua a starmi vicino.”
Trascorsero altre due settimane. Non parlarono più di matrimonio. Poi, un giorno, lui le annunciò un fatto nuovo:
“La Cia mi ha offerto un incarico nel Medio Oriente. Se accetto,
dovrò spostarmi fra Palestina e Israele. Verresti con me?”
“No, ti sarei d’impaccio. Se accetti, partirò anch’io: andrò nel centro
dell’Africa per estendere la rete dei miei ospedali.”
Così, partirono entrambi, ciascuno verso la propria destinazione, senza scambiarsi o chiedersi promesse. Il distacco da lui la fece
soffrire acutamente e, certo, altrettanto dovette avvenire nel cuore di
Moheb.
Forse, un giorno, si sarebbero nuovamente corsi incontro. Ma,
per il momento, lei sentiva il bisogno di espiare. Si stabilì a Kumasi,
nell’inferno del caldo umido dei tropici, e si dedicò in solitudine, pur
fra ingegneri, tecnici e dottori, al lavoro di impianto di una nuova rete
di ospedali nel Ghana.
Una notte, così come era successo a Wilhelm ed a Nicholas,
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anche lei fece un sogno che aveva la nitidezza e l’accecante luminosità di una visione: correva in una città simile ad una moderna
Babilonia, dove tutto era disordine, violenza, prevaricazione, perversione, infedeltà, tradimento, fango morale. Mani protese di
nemici invisibili tentavano di ghermirla. Anche lei si rotolava nel
fango ma, poi, riusciva ad allontanarsi e fuggire. Correndo, giungeva in una verde distesa in salita.. Si inoltrava in quella direzione e,
sulla sua sommità, scorgeva una moltitudine di uomini e donne
vestiti con lunghe vesti bianche, che reggevano in mano una palma.
Chiedeva loro chi fossero e quelli rispondevano di essere coloro
che erano passati attraverso la grande tribolazione e avevano lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello. E una
voce aggiungeva: “Non avranno più fame, né sete, perché l’Agnello
sarà il loro pastore e Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi.”. Fra
loro, riconosceva con emozione sua madre, Wilhelm e Nicholas.
Erano pieni di gioia. Poi, Wilhelm le additava una forma splendente sospesa nel cielo. “Ecco la città santa, la nuova Gerusalemme che
discenderà da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo,
l’Agnello. Sarà la dimora di Dio con gli uomini.” Guardando in
quella direzione, lei scorgeva una città quadrata, risplendente come
una gemma preziosissima. Le sue mura erano costruite con diaspro
e le sue fondamenta, disposte su dodici livelli, adorne di pietre preziose. Non aveva bisogno della luce del sole né di quella della luna
perché la gloria di Dio la illuminava tutta. Wilhelm, intanto, continuava: “Abbiamo sciupato le energie della vita per cose vane, frivole e dannose. Abbiamo lasciato indurire il nostro cuore nelle contese e nella cupidigia senza ascoltare la parola di Dio. Ma il Signore
è stato ugualmente misericordioso……”. Anche sua madre Atlanta
era rapita da quella straordinaria immagine splendente nel cielo.
Sembrava aver dimenticato tutte le cose passate. Le diceva:”Questa
è finalmente la meta ideale, il luogo della gioia che tutti abbiamo
sognato, privo di qualsiasi falsità e ingiustizia, il punto d’arrivo
dell’anima umana, lo scopo vero del cammino dell’uomo. Tutto il
resto è stato vano.” Stava per aggiungere altro allorché lei si era
svegliata, madida di sudore.
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Era stato soltanto un sogno. Ma si ritrovò consolata, con una
consapevolezza nuova. E, nel tempo che trascorreva, il dolore si rivelò in lei come un seme divino, elargitole per crescere, credere e comprendere.
Fine
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Finito di stampare nel mese dicembre 2003