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4 Aprile 2014
Edizione 2014
n. 7
Editoriale
Esistere significa "poter scegliere"; anzi, essere possibilità.
Søren Kierkegaard, Aut-Aut, 1843
La necessità del cambiamento, in questo particolare periodo storico, la
ritroviamo non solo nelle vivaci esternazioni del nuovo Presidente del
Consiglio, ma nelle piccole grandi urgenze di ogni cittadino, per qualsiasi tema
si voglia affrontare. In Italia l’immobilismo la fa da padrone non solo per la
mancanza di nuove proposte, ma soprattutto per l’assenza di entusiasmo o la
possibilità di un’alternativa.
“La crisi è la miglior cosa che possa accadere a persone e interi paesi perché è
proprio la crisi a portare il progresso. E‘ nella crisi che nasce l'inventiva, le
scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera se stesso senza essere
superato. L'unica crisi minacciosa è la tragedia di non voler lottare per
superarla.”
Albert Einstein (1879-1955)
Potremmo interrogarci sulle modalità innovative per guardare oltre lo
sfilacciato tessuto attuale. Se invece di dissentire più o meno privatamente,
proponessimo qualcosa di Nuovo? Potremmo reagire al taglio dei fondi
pubblici, alla corruzione batteriologicamente diffusa, al ricambio politico
inesistente avanzando delle proposte.
Sempre più spesso in Italia nascono e si sviluppano programmi di protezione e
investimenti sociali a finanziamento non pubblico, che si aggiungono ed
intrecciano al “primo welfare” di natura statale ed obbligatoria, integrandone
le mancanze in termini di copertura e tipologia di servizi. Questo “secondo
welfare” - ci spiega Francesco Manacorda de La Stampa - generalmente
caratterizzato da un marcato radicamento territoriale, coinvolge una vasta
gamma di attori economici e sociali quali imprese, sindacati, enti locali ed il
Terzo settore, creando un sistema ancora embrionale ma dotato di grandi
potenzialità. Un supporto sociale ed economico una volta ad appannaggio
esclusivo della Famiglia, viene sostituito da progetti o gruppi solidali che
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tentano in vari modi di colmare l’assenza di supporto alle famiglie. Uno spazio
destinato al dibattito e alla condivisione di “best practices”, ma con lo scopo
di realizzarle e non solo di parlarne, al fine di conciliare con successo la
necessità di un ridimensionamento della spesa pubblica con la tutela dei
nuovi rischi sociali. Secondo l’OCSE, in Italia la spesa sociale non pubblica è
pari al 2,1% del PIL . Siamo al di sotto della Svezia (2,8%), di Francia e
Germania (3%), del Belgio (4.5%), per non parlare di Regno Unito (7,1%) e
Olanda (8,3%) (dati dell’OCSE). A differenza di altri paesi, la nostra spesa
privata è peraltro rimasta al palo nell’ultimo decennio. Vi sono in altre parole
margini di espansione che potrebbero far affluire verso la sfera del welfare
alcuni punti percentuali di PIL. Non si tratta di sostituire spesa pubblica con
quella privata, ma di mobilitare risorse aggiuntive per bisogni e aspettative
crescenti, in un contesto di finanza pubblica fortemente vincolato e di
resistenze politiche (oltre che contro-indicazioni economiche) ad un aumento
della pressione fiscale, almeno sui redditi da lavoro.
Natalino Irti, nell’articolo sul Corriere della Sera, delinea il bisogno di una
società di politica, in quanto, nel caso in cui ci sia bisogno di risolvere un
problema o raggiungere uno scopo sono funzionali le competenze, mentre
nel caso in cui ci sia bisogno di prendere una decisione sia indispensabile la
politica. La decisione sul destino della “polis” spetta alla politica non alle
competenze. Quella politica fatta, ormai, di personalismo dei singoli leader –
come ci racconta Taino su Il Corriere della Sera – da Obama a Renzi, dovrebbe
saper risolvere le questioni che flagellano il nostro presente. La nuova
tendenza al proselitismo fatto non di idee e programmi ma di plebiscito
dell’audience, dovrebbe rappresentare il modo Nuovo di fare politica.
Questa novità sarà in grado di risolvere le vecchie questioni? Il lavoro sempre
più precario – recentemente la corte di giustizia europea ha sancito la
possibilità di trasferire un ramo d’azienda, anche se il segmento da trasferire
non esisteva prima della transazione (vedi articolo di Falasca de Il Sole 24 ore)
– un sistema bancario che blocca ogni possibile ripresa economica (Righi del
Corriere della Sera), aziende, provenienti da mercati ex monopolisti,
catapultate in processi di liberalizzazione/privatizzazione senza essere
preparate ad affrontare le incombenze della concorrenza o le necessità di
investimenti infrastrutturali (Fornovo de La Stampa), politiche energetiche
che risultano antieconomiche e incoerenti rispetto le finalità ambientali
(lettera aperta del Presidente dell’Enel, Paolo Andrea Colombo, al Corriere
della Sera; Comelli de Il Corriere della Sera).
Abbiamo bisogno di etica nell’economia, nella politica, nella società. E’ giunto
il momento di evidenziare che la disoccupazione è un delitto contro la dignità,
perché’ sottrae all’uomo la possibilità di costruirsi un futuro; che la violenza
sulle donne non può essere contrastata con processi mediatici o con
interventi da salvaguardia della “specie”, ma con sanzioni severe contro chi
delinque, oltre che, in modo più convincente, con rivoluzioni culturali,
partendo dall’educazione dei bambini. Le scelte della politica devono essere
attuate per risolvere con equità e in una visione solidale i problemi che
attanagliano la società e non per fare “audience” o populismi destinanti ad
aggirare i fallimenti.
Vi consigliamo la lettura degli articoli di Cassi su La Stampa sulla sedicesima
edizione di “IoLavoro”, il reportage di Soglio de Corriere della Sera su Expo
2015, il nostalgico pezzo di Demarco sul Corriere della Sera sul Meridione a
rotaia.
Ampia è la scelta sui temi di diretto interesse di Cisl Reti. Segnaliamo per i
trasporti: l’articolo sulla privatizzazione di Cento Stazioni di Puato del Corriere
della Sera, l’analisi di Segantini sempre sul Corriere della Sera su Netflix o
l’articolo sul primo bus a idrometano. Per le comunicazioni consigliamo il
pezzo di Sideri del Corriere della Sera, sulla corsa al vertice Telecom, l’analisi
di Triulzi sempre del Corriere della Sera sul nuovo servizio di Sky Online e
l’indagine dell’istituto qualità e finanza di monaco, riportata da Gasperetti,
sull’efficienza della banda larga nella telefonia mobile. Da leggere Comelli, su
il Corriere della sera, che delinea i paradossi degli incentivi per le fonti
rinnovabili sui costi di produzione dell’energia e soprattutto sulle bollette dei
consumatori.
Buona lettura!
GEOGRAFIE LETTERARIE «MERIDIONE A ROTAIA», UN POEMETTO DI ANGELO MELLONE SUL SUD, EDITO DA MARSILIO
Il Mezzogiorno visto dal treno
Dalla ferrovia Napoli-Portici allo sguardo sui binari morti Via ferrata È dai tempi di Gaetano Salvemini che l’analisi dei problemi del Sud è affrontata a partire da rotaie e
carrozze polverose
«Partono ’e bastimente/ pe’ terre assaje luntane...». Dal Sud si è sempre partiti dai moli, via mare. Ma si è sempre
tornati su vagoni ferroviari più o meno sgangherati. La geografia immaginaria dell’emigrazione è fatta di acqua e terra, di
onde e traversine, ma quasi sempre in quest’ordine, raramente in quello inverso. In quale film, romanzo o poesia c’è chi
torna a bordo di una nave? «Sei venuta dal mare», dice Cesare Pavese all’amata americana. Ma venuta, non tornata. Sì,
forse qualche eccezione ci sarà pure, ma non c’è partenza in bianco e nero che non porti con sé il suono della risacca. E
non c’è rientro che non si accompagni allo sferragliare di un accelerato. «Ahi treno lungo e lento/ (nero) fino a
Benevento./ Mio padre piangeva sgomento/ di esser così vecchio./ Piangeva in treno, solo/ davanti a me, suo figliolo»,
rimava Giorgio Caproni. Esplora il significato del termine: È dai tempi di Gaetano Salvemini, almeno, che la questione
meridionale viaggia in scomode carrozze polverose e sobbalzanti. Il finestrino come cornice, il paesaggio che muta
scorrendo, il vicino che ti dà a parlare: sarà questo, più che l’illimitato confine del mare, a spingere i pensieri, a farli fluire
senza disperderli. Chissà. Inquietante, semmai, è che quella questione sia rimasta ancora lì, nello stesso vagone, sugli
stessi scanni, sebbene ora, come nota Angelo Mellone, più moderni e raggiungibili da «hashtag molesti». Meridione a
rotaia, storia di sangue, radici e amori senza tacchi si intitola un suo poemetto (Marsilio editore) fresco di stampa,
l’ultimo di un trittico dedicato al Sud. Giornalista, scrittore e dirigente Rai, Mellone è tarantino, orfano del Siderurgico,
dell’Ilva, e avverso all’ambientalismo urlante. I tacchi del titolo sono quelli di Bidi, compagna di viaggio, tatuata di
«rampicanti adesivi e rose». «Esisteva un inizio/ ed era là/ che intendevo portarla» racconta l’autore. Là dove? «La croce
arrugginita di ferro vecchio/ all’ingresso dello scalo/ indica sui due mari/ che il viaggio, forse,/ è finito, è sfinito,/ sotto la
casa del padre». Si parte da Roma, si arriva a Gioia del Colle, stazione ferroviaria tra le più antiche del Mezzogiorno. Un
viaggio come condizione necessaria per ritrovare la strada. «Sud di Sud/ arriva su rotaie di salsedine,/ arriva in vagoni
con prua e poppe..../ arriva con le utopie storte». Il viaggio in treno come occasione rivelatrice. Quando si parla di Sud,
pare sia una costante. Si diceva appunto di Salvemini. Quello che gli accade nell’estate del 1887 sembra la trasposizione
di una sceneggiatura e invece è vita reale, come ricorda egli stesso nel libro Movimento socialista e questione
meridionale . Nel vagone che procede verso Bari l’aria ristagna, si suda. Seduti gli uni di fronte agli altri, ci sono il giovane
Gaetano, al tempo non più che quattordicenne, sua madre, un piemontese figlio di un capostazione, che è in missione di
lavoro al Sud ormai da lungo tempo, e un altro settentrionale che si fermerà in città solo per qualche giorno. Si
chiacchiera, e il panorama offre continui spunti alla conversazione. Ma a un certo punto il tono della discussione, fino a
quel momento leggero e salottiero, si guasta. Il piemontese guarda fuori dal finestrino e poi, in direzione dell’altro
settentrionale, dice: «Postacci. Creda pure che qui non si vive, beato lei che tornerà presto al Nord. Qui aria cattiva,
acqua pessima, dialetto incomprensibile che pare turco, popolazione ignorante, superstiziosa, barbara...». Salvemini
ascolta e sbotta: «Ma non siamo mica barbari quando ci rubate i nostri...». Sta per aggiungere «soldi», come tante volte
ha sentito dire al nonno borbonico, ma la madre gli tappa la bocca. Salvemini spiegò poi che fu allora che gli venne voglia
di dedicarsi anima e corpo alla questione meridionale. Un secolo dopo, fu ancora un viaggio in treno a ispirare Pier Paolo
Pasolini. Siamo a metà degli anni Cinquanta, il poeta attraversa in un vagone di terza classe quell’area a nord di Napoli e
a sud di Caserta che allora ancora si chiamava Terra di Lavoro. Rimane colpito dall’umanità che lo circonda. Vede mani
callose, occhi bassi, povertà vissute come senso di colpa. In quel vagone i contadini guardano con sospetto anche la pietà
del forestiero. A quel tempo, solo la classe operaia poteva aspirare al paradiso e Pasolini, deluso, lì non la incontra.
Settant’anni dopo, Terra di Lavoro è diventata la discarica dello sviluppo industriale italiano, dove i rifiuti tossici si
interrano o si danno alle fiamme. Da lì ripassa anche Angelo Mellone. «Terra dei fuochi mi attende.../ le sagome di
palazzi conciati male/ mattoni a pelle scotennata .../ quasi si gettano/ addosso al tuo sconforto». Eppure è da queste
parti che nacque la prima ferrovia italiana, la Napoli-Portici. Ed è qui, come scrive Michelangelo Borrillo in Il divario del
binario , edito da «Il Corriere del Mezzogiorno», che sulla tratta Benevento-Foggia fu adottato per la prima volta, fin dal
1928, l’attuale sistema di elettrificazione a 3 mila volt.
Marco Demarco
Corriere della Sera
05 marzo 2014
ANTEPRIMA - ESCE DA ARAGNO UN VOLUME IN CUI IL GIURISTA NATALINO IRTI AFFRONTA IL PROBLEMA DEL RAPPORTO TRA MEZZI E FINI NELLA VITA PUBBLICA
La politica è decisione sui conflitti I tecnici non possono sostituirla
Proprio la frammentazione dei saperi esige forti scelte di sintesi
I cittadini per natura non sono competenti Crisi di sistema Può accadere che i rappresentanti del popolo si ritraggano dalla scena, o perdano prestigio per debolezza di
idee e corruzione
Fissare la priorità tra rigore e sviluppo
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Non riusciamo a vivere senza l’ausilio di abilità tecniche. Gli oggetti, che ci circondano e che usiamo nella semplice
quotidianità, esigono saperi specialistici. Anche il nostro corpo, la nostra struttura fisio-psichica, non può farne a meno.
Questi saperi e abilità si raccolgono nel concetto di competenza : che non è un conoscere statico e contemplativo, ma un
possesso dinamico di nozioni e capacità pratiche. Si è competenti a far qualcosa, a produrre un bene utile all’uomo. La
competenza è sempre funzionale , cioè si esercita e dispiega in vista di uno scopo. O - che è il medesimo - la competenza
è fonte di prestazioni , vendute o vendibili, idonee a soddisfare bisogni. Mentre la «formazione» dell’uomo evoca l’idea
di interezza, di armonica e compiuta totalità, la competenza è sempre frazionaria e particolare. Caduta o perduta la fede
in un sapere totale, restano i saperi parziali, le competenze tecniche capaci di produrre una od altra prestazione. La
«specializzazione» è questo frazionarsi e moltiplicarsi dei saperi, che non si raccolgono nel vincolo di un sapere totale. Le
competenze sono destinate a moltiplicarsi in modo e numero non prevedibili. Il «progresso» delle scienze, lo «sviluppo»
delle applicazioni pratiche, la varietà degli impieghi nella vita quotidiana e negli àmbiti economici: tutto sospinge verso
saperi sempre più frazionari e particolari. Non poteva non sorgere il problema dell’unità o unificazione delle
competenze. Le quali, lasciate a se stesse - ciascuna rivolta a conseguire il proprio scopo, ciascuna racchiusa nel vincolo
di specifici metodi e procedure - susciterebbero innumerevoli conflitti e genererebbero il caos sociale. Il determinismo
economico , nelle varie forme storicamente assunte, offre una risposta al problema. O che si creda nella «necessità» di
un epilogo storico e di una salvezza comune; o che si speri nella «mano invisibile», capace di indirizzare il corso delle
cose; o che si veda la pluralità delle competenze confluire di per sé nell’ordine di un «piano»: sempre queste soluzioni
deterministiche presuppongono un’apertura escatologica, un’attesa, che non rimarrebbe insoddisfatta o delusa. Ma, a
colui che rifiuta di nutrire aspettative sul corso inevitabile della storia, stanno dinanzi i conflitti delle competenze, il
disordine dei saperi speciali e degli scopi perseguiti. Nessuna competenza detiene il criterio di soluzione del conflitto, o è
autorizzata, come tale, a ergersi sopra le altre ed a farsene giudice. Le competenze sono parti in causa , e nessuna può
arrogarsi la posizione di terzo e la potestà della scelta. Nessuna è in grado, nella sua conchiusa specialità, di esprimere
uno scopo, capace di sottomettere a sé i molteplici scopi dei saperi, di stringerli in unità, e di segnare una direzione
comune. La discorde pluralità delle competenze esige l’atto della scelta . Ci vuol ben qualcuno che scelga, ad esempio in
anni dolorosi di crisi economica, fra «rigore» e «crescita», fra una o altra soluzione fiscale, fra una o altra misura di
governo. Non c’è una competenza degli atti di scelta, una competenza delle competenze, un sapere più alto governante i
saperi speciali. La decisione sta oltre le competenze . Questo «oltre» è ciò che chiamiamo «politica». La decisione sul
destino della polis non appartiene ad alcuna competenza, sta fuori da ogni tecnica, ma tutte le raccoglie e dirige. Non c’è
politica - come videro antichi e moderni teorici - senza unità di decisione , quell’unità che i saperi speciali, lasciati a se
stessi, non sono in grado di raggiungere. La decisione, come che sia presa, tronca il conflitto e stabilisce la direzione. Non
c’è bisogno di fingere una competenza generale del popolo, che si esprima nelle elezioni politiche e si affidi all’esercizio
Irti Natalino
dei rappresentanti: ciò che conta è decidere, porre fine al conflitto, scegliere la strada per il futuro. Anzi, a ben vedere,
nulla è più estraneo ai criteri di competenza che le procedure «elettorali» o «democratiche», le quali possono ben
ricevere il nostro favore rispetto ad altre, ma, nella loro indifferenza contenutistica, mirano soltanto a produrre una
qualsivoglia decisione. Le procedure non sanno ciò che vogliono, ma vogliono sempre qualcosa, ossia compiono una
scelta e prendono una decisione. Se le competenze non sono in grado di sollevarsi alla decisione, la decisione , dal suo
lato, ha bisogno delle competenze. Tecnostrutture sono ormai indispensabili per qualsiasi governo (che sia d’impresa
economica o di comunità nazionale). I tecnici sono al servizio della decisione, la quale, scegliendo i fini ultimi, anche
determina forme e misura delle competenze esecutive. La distinzione di piani - del decidere politico e dell’eseguire
tecnico - lascia emergere il principio di legalità, cioè il vincolo che stringe e definisce l’esercizio delle competenze. Posto
che la decisione appartiene alla sfera politica, la quale determina i fini ultimi, la scelta tecnica dei mezzi ha da muoversi
entro questo àmbito, e non discostarsene in vista di altri e diversi fini. La «legalità» della tecnostruttura esprime la
subordinazione dei mezzi ai fini. L’agire tecnico rinvia a «premesse», che stanno fuori dalla competenza di chi agisce. Un
grande statista del XX secolo, Charles de Gaulle, ha così fermato questo rapporto: «È vero che se, dal gradino più alto su
cui mi trovo, sta a me il sollecitare perizie, conferme e pareri, e quindi il compiere scelte e assumerne la responsabilità,
non mi sostituirò comunque a tutti quelli che, ministri e funzionari, debbono studiare, proporre, dare esecuzione
tenendo conto dei dati complessi tra cui vivono per abitudine e vocazione». I «governi tecnici» sono propriamente
comitati di funzionari e di commissari ad acta , che talvolta rendono servigi utilissimi e sciolgono situazioni d’emergenza:
ma governi ai quali non spetta la decisione sui fini ultimi. Può accadere, e in fatto è accaduto, che, scelti i fini generali
d’uno Stato o di altra comunità, la politica, per così dire, si ritragga dalla scena, o perda prestigio per debolezza di idee e
corruzione di uomini. Allora i tecnici, chiamati in funzione di commissari esecutivi, allargano il loro potere e, sotto
schermo di interpretare e applicare la volontà politica (quale, ad esempio, sia fissata in accordi e trattati internazionali),
si sporgono sul terreno della decisione e riempiono le norme di nuovi e devianti contenuti. In questo quadro si collocano
i fenomeni, spesso segnalati e denunciati, di «euro-tecnocrazia». Dove, se colpe vi sono, la politica non può che
imputarle a se stessa. Con inquieta consapevolezza si è usata la metafora del «salire in politica», poiché il tecnico, che
voglia decidere o concorrere a decidere circa il governo della città, esce fuori dalla propria competenza, e, fattosi politico
fra i politici, corre l’incognita del vincere o del soccombere. Quel «salire in politica» anche spiega l’intrinseca
contraddizione di ogni pretesa tecnocratica, ossia di ogni pretesa dei tecnici di elevare a fini ultimi i fini della propria
competenza. In ciò fare, il tecnico, detentore di specifica e definita competenza, cessa di esser tecnico, e «sale» al
terreno delle fedi e religioni e ideologie politiche, le quali non appartengono ad alcuna competenza, e attendono
risposta dall’esito del conflitto.
Corriere della Sera
06 marzo 2014
Un saggio di Nadia Urbinati analizza i profondi cambiamenti oggi in corso sulle due sponde dell’atlantico. E apre scenari
inediti
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Il leader prima di tutto, nuova democrazia
Da Berlusconi a Obama fino a Renzi: l’immagine personale ormai oscura il partito. Democrazia sfigurata, il nuovo libro di Nadia Urbinati, docente di Teoria politica alla
Columbia University di New York
Una confessione: nel 2014 si può ancora provare gioia a leggere un libro di oltre 300 impegnative pagine sulla
democrazia e sui suoi problemi, che sono molti. E a parlarne poi con chi l’ha scritto. Si può essere felici — oggi, epoca di
velocità digitale e di insofferenza per il profondo — a scoprire che da qualche parte la fiamma della ricerca delle cose di
base rimane accesa. Soprattutto, accesa non in un angolo marginale e riparato dai venti, ma al cuore di una delle
questioni del momento, scossa dalle vicende del mondo, sotto la pressione di grandi cambiamenti. Il libro, in uscita il 27
marzo, è Democrazia sfigurata. Il popolo fra opinione e verità ; l’ha scritto Nadia Urbinati, docente di Teoria politica alla
Columbia University di New York, e lo pubblica Egea – Università Bocconi Editore: negli Stati Uniti è in libreria con il titolo
Democracy Disfigured (Harvard University Press).
La professoressa Urbinati dice di essere stata motivata a scriverlo «da una ragione empirica reale»: lo stile e il contenuto
della politica italiana nell’epoca di Berlusconi. Questione che in America non è solo curiosità per la persona, ma interesse
per l’evoluzione dell’idea e della pratica della democrazia. Da lì, ha costruito un lavoro che per molti versi si può definire
globale: facendo perno sull’idea di democrazia come diarchia dei poteri (delle regole e dell’opinione), analizza lo stato
della democrazia ovunque essa si declini.
Prendiamo Barack Obama. Urbinati sostiene che il presidente americano sia l’esempio meglio riuscito della tendenza
plebiscitaria che sta dando forma ai sistemi democratici. «Plebiscito dell’audience», lo chiama: il leader carismatico che
parla direttamente al popolo bypassando il rapporto con le istituzioni e con l’elezione rappresentativa, gestita non dai
partiti, ma dai «tecnici dell’audience», coloro che sanno smontare la complessità dell’elettorato e con i numeri e i
sondaggi capiscono che cosa vuole il popolo o come istigarlo a volere.
«Obama è straordinario in questo, più innovativo di Berlusconi — dice Urbinati —, il quale aveva i mezzi e li ha usati.
Obama ha invece inventato un metodo. Soprattutto nella prima campagna elettorale, ha messo da parte il partito
democratico e ha formato un partito suo, obamiano». In rapporto diretto con il popolo, o con quella parte di popolo che
i tecnici dell’audience hanno individuato e messo assieme sulla base di contenuti appunto obamiani. «Più che populismo,
questa è una forma plebiscitaria di democrazia — dice la professoressa —. Forse Renzi potrebbe fare, o sta facendo,
qualcosa del genere: un partito suo, che va al di là del Pd e attinge al pubblico largo». Le primarie, in fondo, conducono a
questo, al leader che viene prima di tutto, quasi indipendente dal programma politico, impegnato piuttosto su questioni
generali capaci di mettere assieme molti pezzi di elettorato, dovunque siano. «A differenza delle fasi più populistiche che
abbiamo avuto in passato, dove c’era una presenza mobilitata di ideologia e di popolo, nella fase plebiscitaria il popolo
non partecipa, guarda: è occhio, assiste allo spettacolo».
È questo plebiscito dell’audience la forma di democrazia che ha più strada davanti, che probabilmente ha più futuro,
secondo la professoressa. La quale, nel libro, analizza a fondo anche altre due caratteristiche che si riscontrano oggi nei
Paesi democratici. Una è la tendenza «epistemica», in sostanza la depoliticizzazione della democrazia in nome di una
conoscenza più o meno scientifica che dovrebbe portare alla scelta giusta: il governo dei tecnici, insomma, fenomeno
provato non solo dall’Italia. Anche questo uno «sfigurare» la democrazia delle procedure. La richiesta di speditezza nelle
decisioni, di velocità, anche sotto la pressione dei mercati, fa apparire come «lacci e lacciuoli» alcune delle forme
caratteristiche della deliberazione collettiva, dice Urbinati, per cui la procedura, che dovrebbe servire per gestire il
conflitto, viene invece vista come un intralcio: in nome del poco tempo o del sapere al potere, importa meno come si
prende una decisione e più il risultato. «È il passaggio dal metodo proceduralista puro a quello conseguenzalista — dice
Urbinati —. Problema non nuovo, quello della velocità che non deve andare a violare la deliberazione collettiva, se lo
poneva già Condorcet nel 1792. Il fatto è che la democrazia è gestione della temporalità, è “come si fanno le cose
insieme”, dove la procedura è più determinante del fatto: permette di stare insieme, pur con obiettivi diversi, e prendere
decisioni che sempre si possono cambiare; un valore al quale non possiamo rinunciare».
In questa cornice, la professoressa Urbinati mette anche in dubbio l’idea di abolire il bicameralismo, cioè di cancellare il
Senato italiano, sia che lo si faccia per accorciare i tempi delle decisioni, ancora di più se lo si fa per risparmiare denaro.
«Dobbiamo sapere che il potere, soprattutto se accumulato, è pericoloso», dice. E il bicameralismo ha proprio il senso di
mettere un limite al potere attraverso la lentezza, opposta all’emergenza frettolosa, di fare prevalere l’opinione rispetto
a un presunto fine razionale. È grazie a passaggi del genere che viene da essere felici, con in mano questo libro. «La
democrazia è opera d’arte, ha una sua estetica», dice la professoressa.
L’altra tendenza è quella populista. La quale «fa coincidere l’opinione di una parte del popolo con la volontà dello Stato»,
scrive Urbinati. Mentre il potere «epistemico» tende ad annullare l’«opinione» nella verità, quello populista identifica la
«volontà» di molti con quella del tutto: ma «volontà» e «opinione» sono i due poli della struttura diarchica che la
democrazia rappresentativa tiene distinti, benché in comunicazione permanente. Annullare la distinzione equivale a
sfigurare la regola democratica. La tendenza plebiscitaria (obamiano-renziana, la terza delle tre deformazioni esaminate)
accetta invece la struttura diarchica, ma separa i pochi (che «fanno» la politica) dai molti (che la «guardano») e inoltre
esalta una delle tre funzioni dell’«opinione», quella estetica (la visibilità del leader e la passività di chi guarda lo
spettacolo) a scapito di quelle cognitiva e politica. Anch’essa, dunque, è sfigurante.
Una democrazia percorsa da queste trasformazioni deve poi confrontarsi con la fase internazionale. Alla sua «solitudine
planetaria» — come la chiama Urbinati — determinata dalla caduta del comunismo è succeduto il confronto con Paesi
autoritari, «con sistemi meno cacofonici», che ne contestano legittimità e superiorità: la Russia e la Cina, per fare i due
casi del momento. «È di nuovo Sparta contro Atene». Il che rende le sfide che la democrazia ha di fronte ancora più
interessanti. A patto che riusciamo a vedere quello che succede davvero, che non ci fermiamo a ciò che tutti danno per
scontato. A patto che, come dice la professoressa della Columbia, riusciamo ad «andare sotto la pelle».
Danilo Taino
Corriere della Sera
20 mar 2014
L’ANALISI IL SAGGIO DI JAN-WERNER MÜLLER METTE IN DISCUSSIONE L'IDEA DI UN SISTEMA POLITICO «DEFINITIVO»
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Ecco perché la democrazia liberale non è l'ultima parola dell'Europa
La presenza di istituzioni non elettive costituisce una limitazione fondamentaleIl dopoguerra insegna che non esiste un modello unico
«Le idee politiche nell'Europa del Novecento», dice il sottotitolo del bellissimo libro di Jan-Werner Müller L'enigma
democrazia (Einaudi). Sicuramente di questo si tratta, ma si tratta anche - seppure in modo sommario - di una storia dei
fatti politici di quel «secolo breve»: l'analisi non obbedisce a ripartizioni accademiche. E poi di una storia dei protagonisti,
soprattutto intellettuali ma anche politici: dal gigante che domina la prima parte del libro, Max Weber, a Sorel, Lenin e
Stalin; da Lukács a Mussolini e Hitler; da Maritain a Gramsci; da Marcuse a Sartre; da Carl Schmitt ad Adenauer e De
Gasperi; da Hayek a Oakeshott a Furet e tanti, tanti altri. A volte piccoli medaglioni, a volte biografie più approfondite,
con giudizi personali forti. Si tratta infine di una storia dell'Europa intera, dell'Ovest, del Centro e dell'Est, vista da un
tedesco educato in Gran Bretagna e insegnante in una università americana: come Tony Judt, alla cui visione del compito
dello storico, se non alle idee politiche, è molto vicino, Müller sa che non si può parlare di Europa se ci si limita all'Europa
occidentale. Questa miscela su tempi lunghi di idee, fatti, persone e Paesi - a partire dai due primi decenni del '900,
quando le grandi masse ottennero il diritto di voto e scardinarono la democrazia ristretta del secolo precedente - dà
luogo a un tour de force intellettuale straordinario. A volte penetrante, analitico e originale, più spesso selettivo in una
gran massa di materiali di seconda mano, ma sempre effettuato con maestria e sicurezza. Insomma, un decennio di
lavoro ben speso, questo di Müller, trasfuso in un libro che consiglierei caldamente a chiunque voglia farsi un'idea della
storia politica da cui proveniamo. Un libro impossibile da riassumere. Ma il messaggio centrale è senz'altro quello colto
da Shlomo Avineri («Foreign Affairs», Special Anniversary Issue, 2012, p. 69): «Il consolidamento democratico
dell'Europa occidentale nel secondo dopoguerra non fu raggiunto facilmente né consistette in una semplice ripresa del
precedente ordine politico. Emerse dalle lezioni apprese dalla fragilità delle concezioni e delle pratiche della democrazia
europea tra le due guerre e dall'eredità dei movimenti non democratici di quel periodo. E fu molto favorito dall'urgenza
e dalla coesione imposte dal contesto di guerra fredda». Questo messaggio trae la sua forza dall'analisi della crisi della
democrazia tra le due guerre contenuta nei primi tre capitoli del libro e dall'ampliamento della prospettiva ai Paesi
dell'Est europeo. Si articola poi in altri tre lunghi capitoli, sul pensiero della ricostruzione e il ruolo delle democrazie
cristiane e sulle sfide che questa concezione benevola ma controllata di democrazia dovette subire, prima dal
movimento del '68, e poi, a partire dagli anni 80, dal neoliberismo. Ma qual è la concezione di democrazia che emerse
nel secondo dopoguerra e che condusse al suo «consolidamento»? Lasciamo parlare Müller: è «storicamente impreciso
sostenere che la seconda metà del XX secolo vide "il ritorno della democrazia" o "il ritorno del liberalismo", prima in
buona parte dell'Europa occidentale e poi nei Paesi meridionali e orientali del continente. I cittadini europei crearono
piuttosto qualcosa di nuovo, ovvero una democrazia fortemente limitata, per lo più da istituzioni non elettive, come le
corti costituzionali. Due innovazioni particolarmente importanti del dopoguerra - lo Stato democratico del welfare e la
Comunità europea - devono essere considerate nella stessa luce: il primo era volto a scongiurare rigurgiti fascisti
garantendo la sicurezza ai cittadini (la competizione con i Paesi dell'Est era una preoccupazione rilevante ma, in ultima
Salvati Michele
Corriere della Sera
06 settembre 2013
Come si muovono le donne in città?
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analisi, secondaria) e anche l'integrazione europea, puntava a creare ulteriori limitazioni all'idea di Stato-nazione
democratico, grazie alla presenza di istituzioni non elettive» (p. XV). Corti costituzionali, Welfare state, Comunità e poi
Unione Europea: una concezione «socialdemocratica» di democrazia? Questo è vero solo in parte - il welfare state - e
soprattutto nei piccoli Paesi nordici e nel Regno Unito, ma l'insieme delle limitazioni a una concezione puramente
liberale della democrazia è il frutto della reazione alle tragiche esperienze tra le due guerre, al fascismo come risposta
all'insufficienza delle istituzioni liberali. Nei tre grandi Paesi del continente, Germania, Francia, Italia, non fu la
socialdemocrazia a disegnare la risposta postbellica, ma altre correnti politiche e soprattutto le democrazie cristiane. Per
la maggior vicinanza alla nostra esperienza politica, per l'ampiezza e l'approfondimento dell'analisi, ma soprattutto
perché sfatano convinzioni ampiamente diffuse, i tre capitoli della seconda parte del libro sono quelli la cui lettura
raccomanderei maggiormente. La Chiesa cattolica, con grande fatica, aveva abbandonato le posizioni radicalmente
antiliberali ancora molto forti tra le due guerre e l'attenzione per i ceti più deboli avvicinava i partiti cattolici alle
posizioni socialiste moderate. Grandi intellettuali cattolici - Müller non ricorda soltanto Maritain - erano infaticabili nel
cercare compromessi tra il pensiero della tradizione e le esigenze politiche e sociali della fase storica che si apriva con il
dopoguerra. Politici coraggiosi e avveduti colsero l'occasione dell'anticomunismo e del tradizionalismo che ancora
dominava le masse contadine di allora per creare grandi partiti e stringere compromessi con le forze del liberalismo e del
socialismo moderato: le grandi costituzioni antifasciste dell'immediato dopoguerra nascono da questi compromessi. Da
questi nasce anche il Welfare state del continente, non dall'iniziativa dei socialdemocratici. Da questi nasce la Comunità
Economica Europea. Da questi nasce, in sintesi, una democrazia limitata e difesa da istituzioni forti ma non elettive. Una
democrazia che finora ha retto ad assalti ideologici e politici seri: per equilibrio, ampiezza e intelligenza è difficile trovare
un'analisi dell'ondata antiautoritaria del '68 migliore di quella di Müller. E sta reggendo allo tsunami neoliberale che il
capitalismo della globalizzazione ha scagliato sulle sponde di tutte le economie avanzate. Müller è storico delle idee e
filosofo politico cauto e realista, e non si avventura a predire che cosa ci riserva un futuro in cui le vicende ideologiche e
politiche europee probabilmente saranno sempre meno rilevanti. Del suo atteggiamento di studioso è esempio mirabile
il modo in cui conclude l'Introduzione al suo libro. «Non vedo motivo di andare particolarmente fieri dell'ordinamento
costituzionale assunto dall'Europa occidentale nel dopoguerra e degli ideali che lo ispirarono. Se mai, la coscienza storica
del modo in cui gli europei giunsero a tale assetto potrebbe contribuire almeno in piccola parte a spegnere la
confortante illusione che la democrazia liberale sia necessariamente la condizione politica predefinita dell'Europa o, più
generalmente, dell'Occidente». Prenda nota, Fukuyama!
Il libro di Jan-Werner Müller, «L'enigma democrazia. Le idee politiche nell'Europa del Novecento», Einaudi, pagine XX356, 26
Da Parma a Bolzano le nuove misure
Mozzate, provincia di Como, sabato 1 marzo: Lidia Nusdorfi, 35 anni, va all’appuntamento con il suo ex che la uccide nel
sottopasso della stazione. Per non fare un sottopasso, invece, la sera dello scorso 20 ottobre, domenica, muore Magda
Niazy Sehsah, 29 anni, al settimo mese di gravidanza, che prende per mano il suo bambino di quattro anni, Yassè,
attraversa in superficie viale Famagosta — periferia sudovest di Milano — e viene travolta da un’auto che corre a più di
cento all’ora.
che accompagnano i bambini e orari flessibili d’ingresso negli asili». Poi: strade chiuse al traffico poco prima dell’inizio
delle lezioni e attenzione alla vicinanza tra case e scuole.
Iniziative simili, ma meno organiche, ci sono anche altrove.
Quei passaggi male illuminati e spesso deserti sono l’immagine più immediata dei bisogni inascoltati delle donne che si
muovono.
A Milano 250 posti per donne in gravidanza in sette parcheggi d’interscambio; su tram e bus adesivi di cortesia per
riservare i sedili a mamme e anziani. Il piano di mobilità cittadino è in corso di stesura ed ha come obiettivi l’accessibilità
per tutti e la sicurezza.
Le donne si spostano come gli uomini? Che cosa chiedono?
A Brescia e Padova si possono sottoscrivere abbonamenti rosa per il car sharing .
Sono domande alle quali si è cominciato a cercare risposte. Dal 14 al 16 aprile a Parigi ci sarà la quinta conferenza
internazionale sulla mobilità al femminile: Women’s issues in transportation.
A Cesena, Cagliari e Rimini il bollino rosa, un tagliando che consente il parcheggio gratuito a donne incinte e neomamme.
In Italia ne parlano da un paio d’anni Silvia Maffii e Patrizia Malgieri di Trt Trasporti e Territorio, società milanese di
consulenza che da oltre vent’anni si occupa di economia e pianificazione dei trasporti. «Il ruolo delle donne nella green
economy : la questione dei trasporti» è lo studio che hanno curato per il Parlamento europeo nel 2012. Ne è nata anche
la Carta italiana della mobilità delle donne: dieci punti, quasi tutti rimasti inapplicati.
Vienna, la città ideale che fa scuola
Le differenze negli spostamenti tra uomini e donne nascono dalla diversità dei ruoli. I dati dell’eurobarometro
considerati nel rapporto di Trt, relativi all’Unione Europea, indicano che le donne usano l’auto meno degli uomini (il
45,8% contro il 57,5%) e prendono di più i mezzi pubblici (23% contro 18%): «Quando in famiglia c’è una sola macchina
— spiega Patrizia Malgieri — in genere resta a disposizione dell’uomo».
Anche spostamenti e tempi sono diversi: le donne vanno e tornano dal lavoro, ma hanno anche la spesa, i figli da
accompagnare, le commissioni, i nonni. Cosa serve? «Conoscenza, accessibilità e sicurezza», riassume Silvia Maffii. In
pratica, si legge nella carta della mobilità, bisogna studiare come si muovono le donne e tenerne conto nei piani dei
trasporti. Chi se ne deve occupare? Le amministrazioni, ma anche le aziende di trasporto pubblico.
Non si tratta di interventi di nicchia: «Migliorare i trasporti per le donne significa alzare la qualità del servizio per tutti», è
convinta Annita Serio, direttore di Federmobilità. E non sono nemmeno operazioni molto costose: «Per alcune misure
basterebbe poco — dice Rosanna Ruscito della Fit-Cisl —. Se non si interviene vuol dire che manca ancora la volontà
politica di farlo».
Ma c’è, qui e là, chi ha cominciato
A Parma nel 2002 e a Reggio Emilia nel 2006 i primi studi sulla mobilità delle donne commissionati dai Comuni. Risultato:
tragitti più irregolari, grande uso di bici e mezzi pubblici e necessità di far quadrare le ore tra casa e lavoro (oggi a
maggior ragione, visto che per l’Europa il 2014 è l’anno della conciliazione tra la vita lavorativa e quella familiare).
Ricorda da Reggio Emilia Natalia Maramotti, avvocato e assessore alla Cura della comunità: «Abbiamo introdotto il
servizio di bicibus e pedibus». Una mamma che a turno accompagna i bambini a scuola per tutti. Poi il taxi rosa.
Anche a Bolzano le politiche di conciliazione vanno di pari passo con l’attenzione agli spostamenti femminili. «Oltre a taxi
rosa e parcheggi riservati — spiega Maria Chiara Pasquali, assessore all’Urbanistica e ai tempi della città — i nonni-vigile
Alessandra Dal Monte, Isabella Fantigrossi, Laura Guardini
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Taxi rosa a Merano, Mestre e Piacenza.
Che fossero le donne a usare soprattutto i mezzi pubblici a Vienna lo avevano già capito negli anni Novanta quando fu
istituito un ufficio per loro («Women’s Office») e i funzionari della città decisero di effettuare un’indagine per studiare la
mobilità degli abitanti del nono distretto. Risultati alla mano, l’amministrazione decise subito di intervenire in tutta la
città: via con una nuova illuminazione in strade e parchi urbani e con marciapiedi più larghi per consentire un passaggio
agevole anche con le carrozzine. Oggi la maggior parte dei tram in circolazione — che coprono una rete di 172
chilometri, la quinta al mondo per estensione — è di tipo Ulf (Ultra low floor ): i treni hanno il pavimento ultra basso. In
questo modo si sale con facilità anche con passeggini al seguito o borse della spesa tra le mani.
Parcheggi illuminati e carrozze ad hoc sui convogli notturni. Ecco il decalogo
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Agevolare l’accesso ma anche la messa in sicurezza dei mezzi pubblici
Adeguare gli allestimenti interni dei veicoli del trasporto collettivo alle esigenze delle donne
Introdurre, nei treni a lunga percorrenza e notturni, carrozze e scompartimenti riservati alle donne
Prevedere parcheggi “rosa” illuminati, sicuri, di facile accesso (vicine alle uscite) e anche parcheggi riservati alle
donne in gravidanza
Promuovere taxi “rosa” con tariffe preferenziali per le donne nelle ore serali e notturne
Incentivare tariffe “rosa” per i servizi alla mobilità (car sharing scontato di sera e di notte, biglietti multicorsa)
Estrapolare statistiche e dati disaggregati per genere sulla domanda di mobilità così da caire come meglio
rispondere alle esigenze femminili
Pensare ad un “valutazione di genere” degli strumenti di pianificazione dei trasporti urbani. Vale a dire:
attenzione alle donne nei piani urbani del traffico, della mobilità e nei programmi triennali dei servizi dei
trasporti pubblici locali
Favorire la ricerca e la conoscenza sui temi della mobilità al femminile, sugli impatti delle tecnologie sul mercato
del lavoro e sulle abitudini delle donne
Affermare la presenza delle donne nella governance delle aziende di trasporto e nelle strutture della Pubblica
Amministrazione
Corriere della Sera
24 marzo 2014
Anche tu puoi diventare un grande oratore
Basta seguire i segreti dei Ted Talk di Monterey, ora in un libro
In un’epoca nella quale persino le discussioni politiche avvengono su Twitter e su Facebook, l’arte oratoria non sembra
più necessaria. Eppure c’è un luogo, Monterey in California, dove ancora la si pratica con passione: ogni anno,
personalità di spicco del mondo della scienza, della cultura, dell’economia e della politica vengono invitate al TED Talk a
tenere un discorso davanti a 1400 persone. Ci sono andati Bill Clinton, Bono, Bill Gates e Larry Page, Jimmy Wales e
numerosi Premi Nobel. TED sta per «Technology, Entertainment, Design», ma si può parlare di ogni idea che meriti di
essere diffusa. L’importante è fare un bel discorso, che conquisti il pubblico e resti memorabile.
Il secondo imperativo di una presentazione efficace è provocare emozioni. A Monterey, Bill Gates tenne nel 2009 un
discorso sulla malaria. Il fondatore di Microsoft posò sul tavolo un grande vaso trasparente pieno di zanzare, lo aprì per
lasciarle uscire e disse: «Volevo spiegarvi come si diffonde questa malattia». Ogni momento che crea sorpresa, shock,
persino paura rende l’evento memorabile. Il cervello umano rilascia dopamina quando viviamo esperienze molto tristi o
molto felici e questo le fa diventare indimenticabili. Dare al pubblico zanzare invece di slide in powerpoint rese il discorso
di Gates del tutto nuovo e inatteso e lo impresse nella memoria di tutti.
Si può imparare molto dalle conferenze che da 30 anni si tengono a Monterey. Carmine Gallo, un famoso esperto di
comunicazione, ne ha esaminate 500 per scoprirne i segreti, condensati nel libro «Talk like Ted». Per fare un bel discorso,
consiglia Gallo, si deve creare un connessione emotiva con il pubblico. Bisogna raccontare una nuova esperienza e fare in
modo che diventi memorabile. Per riuscirci, è necessario seguire tre direttrici principali.
L’ultimo consiglio riguarda la regola del 3. Gli esseri umani amano le comunicazioni in gruppi di tre. Ci sono i tre Porcellini
e i tre Fanciulli del Flauto Magico di Mozart, i film e i romanzi vengono realizzati in trilogie e ogni cosa che ci viene
spiegata con tre argomenti risulta più convincente. Gallo consiglia di ricorrere sempre a tre gruppi di informazione, sia
che si tratti di vendere un prodotto che di illustrarne le nuove caratteristiche. Tre concetti si fissano sempre nella
memoria a breve termine, cosa che non avviene con la stessa efficacia se sono due o quattro.
Innanzi tutto, bisogna raccontare una storia. Dai tempi di Omero, gli esseri umani sono sempre incantati dalle storie, e le
ascoltano volentieri. Le storie hanno un inizio e una fine, e si deve portare con sé il pubblico in un viaggio che non si
aspettava di fare. Quando Sheryl Sandberg, una delle donne più influenti del mondo, andò al TED Talk, aveva preparato
la solita presentazione di dati e slide sulla condizione del lavoro femminile. Prima di salire sul palco, raccontò ad un
amico che la sua bambina, mentre usciva di casa, le aveva toccato una gamba e le aveva detto: «Mamma, non andare via
per favore». L’amico le suggerì di dirlo al pubblico. Sandberg lo fece, e scoprì che il modo migliore per connettersi con
l’audience è attraverso le storie. Non devono sempre essere storie personali, possono essere case history, ma devono
raccontare le vicende di qualcuno. Gallo suggerisce che ogni discorso sia per il 75% storie e per il 25% dati.
Chris Anderson, che è ora responsabile di TED Talk, ha suggerito in un articolo sulla Harvard Business Review di dare
anche molta importanza alla presenza fisica e a come ci si muove sul palco, elementi che di solito si tende a trascurare.
Bisogna essere a posto, non agitarsi, non leggere e non imparare a memoria. Bisogna comunicare concetti freschi, mai
sentiti prima. E bisogna fare prove decine di volte, davanti agli amici, con settimane di anticipo. I discorsi di Monterey
sono disponibili online ed è un piacere ascoltarli. Tra un tweet e l’altro, una boccata di aria fresca.
Vittorio Sabadin
La Stampa
26 marzo 2014
La diseguaglianza fa male all’economia. Uno studio del FMI smonta un altro mito
Nei giorni scorsi il Fondo Monetario Internazionale (IMF) ha pubblicato uno studio interessante, effettuato da Ostry, Berg
e Tsangarides, che smentisce in maniera cauta, ma chiara, molti dei luoghi comuni riguardo gli effetti sulla crescita di
diseguaglianza e politiche redistributive.
La vulgata corrente è che la diseguaglianza non è necessariamente giusta ed etica, ma efficiente ed addirittura
indispensabile per il funzionamento del capitalismo. Gli economisti classici, a partire da Ricardo l’hanno sempre indicata
come uno dei motori del capitalismo ed allo stesso tempo come un fattore di instabilità. Per Marx, come per lo stesso
Ricardo, capitalismo e democrazia erano infatti incompatibili, perché una società democratica avrebbe inevitabilmente
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spinto per una redistribuzione massiccia di ricchezza e reddito, espropriando i capitalisti e dunque minando le basi del
sistema economico.
Con l’avvento del capitalismo democratico, invece, si cominciò a pensare che la diseguaglianza fosse un problema
transitorio che si sarebbe risolto naturalmente. La curva di Kuznets, a forma di U invertita, ha spiegato per decenni che
durante la fase di accumulazione (o modernizzazione) che porta allo sviluppo capitalista, la diseguaglianza sale – da una
situazione di povertà generale si passa alle differenziazioni salariali e alla crescita del capitale – ma, una volta raggiunto
un certo grado di sviluppo, e con la piena occupazione, i salari salgono e i governi democratici sono spinti ad una
generale redistribuzione.
Quanto alla moderna economia marginalista, non ha mai discusso troppo di diseguaglianza, specialmente negli ultimi 30
anni. Come ben spiegato da Branko Milanovic, la diseguaglianza economica è un tema politicamente sensibile, e le
ricerche in questo campo son sempre state scoraggiate. Ci si rifaceva, dunque, sempre ai classici: la diseguaglianza fa
bene alla crescita perché è la sete di ricchezza – e di una vita migliore – a generare il genio e la voglia di investire ed
innovare. Dunque, la diseguaglianza è positiva perché crea gli incentivi al lavoro e all’investimento. Questo,
naturalmente, ammesso che i detentori del capitale siano quegli imprenditori esaltati da Max Weber e che anche Keynes
aveva riconosciuto come motore dello sviluppo economico. Ben diverso sarebbe il caso, per esempio, in cui in più ricchi,
invece di rischiare, invece di esser protagonisti di quell’etica protestante che li porta a lavorare sodo e non a godersi i
propri beni, decidessero, come il più delle volte avviene, di accumulare ricchezza trasformando le loro operazioni da
profit-making a rent-seeking. Un’ipotesi non proprio peregrina ma che viene sostanzialmente ignorata nella teoria
economica neo-classica. Che preferisce esercitarsi, invece, sui danni della tassazione e della redistribuzione. Dunque, si
dice poco sui meriti della diseguaglianza, ma si studia molto, invece, sui motivi per non ridurla. Le ipotesi sono quelle che
ancora si rifanno alla teoria di Okun, secondo cui una tassazione maggiore riduce il reddito disponibile, i risparmi e
dunque gli investimenti – in sostanza più alte sono le tasse, minore sarà la disponibilità a lavorare o investire. Si
tratterebbe, dunque, di un trade-off, in quanto ogni tentativo di ridurre la diseguaglianza porterà a perdite di efficienza.
Quel che l’economia neoliberale suggerisce, dunque, è che è meglio una fetta piccola di una torta grande (un’economia
diseguale che cresce velocemente) che una fetta un po’ più grande di una torta piccola (un’economia più giusta ma
zavorrata dalle tasse e con troppi impedimenti al mercato)
Peccato che ci siano poche prove a corroborare tale tesi, come dimostrato dal recente studio dell’IMF. Non è vero,
dicono gli economisti di Washington, che le società più diseguali crescono più velocemente e più a lungo. E’ vero,
semmai, il contrario – società egalitarie hanno risultati migliori in termini di crescita – sono dunque più efficienti.
Questo però, di per sé, non sarebbe sufficiente a sostenere la bontà di politiche redistributive: infatti, ci viene detto, la
pezza potrebbe essere peggiore del buco, le tasse alte potrebbero nuocere all’attività economica anche più della
diseguaglianza. Anche questo, però, è negato dallo studio IMF, che non trova nessuna correlazione significativa – e, nel
qual caso, comunque di segno positivo – tra crescita e innalzamento (modesto) delle tasse.
Insomma, il classico trade-off di Okun tra efficienza e diseguaglianza non esiste, i due obiettivi sono compatibili e le
società più giuste sono anche quelle che funzionano meglio. Non si tratta di risultati completamente innovativi, ma sono
Nicola Melloni, DPhil, Oxford, è Visiting Lecturer in International Political Economy a London Metropolitan University
sicuramente significativi. Da un lato, in passato, si era spiegato come certi tipi di redistribuzione, in spesa pubblica
produttiva siano indispensabili per migliorare la qualità e la sostenibilità della crescita. In particolare, sanità e,
soprattutto, educazione sono indispensabili per accrescere il capitale umano e, dunque, la produttività di un’economia –
cosa che bisognerebbe forse ricordare di più in un momento in cui tutti gli stati europei, con l’eccezione della Germania,
aumentano le rette universitarie. Inoltre, altri studi avevano illustrato come livelli eccessivi di diseguaglianza possano
deprimere la crescita, rifacendosi però sempre a Okun e al classico problema di convivenza tra capitalismo e democrazia:
infatti, di fronte ad una divaricazione eccessiva tra ricchi e poveri, il rischio è di creare instabilità politica che potrebbe
imporre ad uno stato democratico politiche redistributive e tasse maggiori che ridurrebbero la crescita. Lo studio IMF fa
un passo ulteriore: conferma che la diseguaglianza sia negativa per la crescita, ma non a causa della possibile
redistribuzione. Lo studio rimane vago sulle spiegazioni dei risultati, ma certo apre un nuovo capitolo nel modo di
considerare la distribuzione del reddito.
In fondo, che la diseguaglianza fosse un problema lo si sapeva ormai da diverso tempo. Piketty e Saez e Reich,
confrontando i dati sulla distribuzione del reddito in America avevano notato come i picchi maggiori di diseguaglianza
siano avvenuti subito prima della grandi crisi finanziarie. La spiegazione si rifà, ovviamente a Keynes e al sottoconsumo:
essendo il consumo una variabile dipendente del reddito disponibile, più il reddito è concentrato nelle mani di pochi,
minore sarà la domanda aggregata, esponendo dunque il sistema economico a possibilità di crisi come nel 1929 e nel
2007. Nei decenni scorsi si era pensato di modificare artificialmente il legame tra reddito e consumo, attraverso il ricorso
al credito, ma in realtà il punto è che è stata proprio l’ineguaglianza a generare la bolla speculativa dei subprime. E
questo senza neanche contare come la diseguaglianza eccessiva deteriori la qualità della democrazia, la trasformi in
oligarchia – rovesciando per altro, appunto, la famosa curva di Kuznets – e trasformi la diseguaglianza stessa da fattore
economico a fattore politico, autoriproducente grazie al controllo delle istituzioni.
Insomma, non ci sono possibili giustificazioni per il livello di diseguaglianza attuale: non favorisce la crescita, anzi, la
rallenta; crea un disequilibrio tra domanda e offerta e contribuisce in maniera decisiva alla creazione di bolle speculative
e alla successiva crisi. Al contrario, una politica redistributiva ben fatta aumenta il capitale umano, non influenza
negativamente la crescita – smentendo la supposta relazione tra inasprimento fiscale e minori investimenti – e,
attraverso una più equa divisione del reddito aumenta i consumi stabilizzando il mercato. Non ci sono davvero più scuse
per aspettare.
6 marzo 2014
http://keynesblog.com
Cedibile il nuovo ramo d’azienda
Lavoro. Per la corte di giustizia europea la direttiva comunitaria non limita quanto previsto dal codice civile
Il segmento puo’ acquisire indipendenza pe effetto della transazione
La normativa italiana sul trasferimento di azienda non viola il diritto comunitario nella parte in cui consente al cedente e
al cessionario di identificare un ramo di azienda al momento della cessione, anche se questo prima di allora non esisteva
come entità autonoma.
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Questa la conclusione cui è giunta una sentenza emanata ieri dalla Corte di giustizia europea (causa C 458/12), avente a
oggetto la conformità dell’articolo 2112 del Codice civile (nella parte modificata dalla legge Biagi nel 2003) rispetto alla
direttiva 2001/23 sui trasferimenti di azienda. La questione è stata proposta da un tribunale italiano (quello di Trento),
nel corso di una controversia relativa al conferimento di un ramo di azienda che non esisteva prima delle cessione, ma
era stato costruito dalle parti solo momento di essere venduto. I lavoratori trasferiti a seguito di tale operazione hanno
lamentato la violazione del diritto comunitario, sostenendo che il segmento di impresa presso il quale erano addetti non
poteva essere qualificato come ramo d’azienda (e, di conseguenza, hanno chiesto che fosse dichiarata l’inefficacia del
trasferimento del rapporto di lavoro).
Questo non vuol dire, tuttavia, che tali trasferimenti sono illegittimi oppure inefficaci. Infatti, secondo la sentenza, nulla
vieta a uno Stato membro di consentire l’applicazione del regime tipico del trasferimento di azienda anche a operazioni
di cessione che riguardano segmenti produttivi che acquistano autonomia funzionale solo al momento in cui sono
venduti.
In relazione a tale vicenda, il tribunale di Trento ha deciso di sottoporre alla Corte due questioni pregiudiziali. La prima
riguardava la possibilità per uno Stato membro di qualificare come ramo di azienda non solo quelle parti preesistenti alla
cessione, ma anche quelle identificate come tali dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento
(possibilità ammessa dall’articolo 2112 del Codice civile).
La seconda questione proposta dal giudice italiano aveva per oggetto la possibilità di applicare il regime del
trasferimento di azienda ai casi nei quali l’impresa cedente eserciti, dopo l’operazione, un intenso potere di supremazia
nei confronti della cessionaria, che si manifesta attraverso uno stretto vincolo di committenza e una commistione del
rischio di impresa. Su questo punto la Corte rileva che non ci sono ostacoli all’applicazione della direttiva sul
trasferimento di azienda, escludendo quindi che la cessione dei rapporti di lavoro in situazioni come quella appena
descritta sia contraria al diritto comunitario.
A tale domanda, la Corte dà una risposta articolata. Osserva la sentenza che, secondo la direttiva 23 del 2001, la nozione
di trasferimento di azienda presuppone l’esistenza, già prima del trasferimento, di un’autonomia funzionale sufficiente.
Pertanto, secondo la Corte, i trasferimenti di parti dell’azienda che sono privi di questa autonomia non ricadono
nell’ambito di applicazione della direttiva.
Queste pronunce potranno avere un forte impatto sul contenzioso in tema di esternalizzazione dei rami di azienda: da
anni si dibatte sulla coerenza della normativa italiana col diritto comunitario, la risposta che offre la Corte dovrebbe
rimuovere ogni dubbio al riguardo.
Giampiero Falasca
Il Sole 24 Ore
07 marzo 2014
Corte Ue. Il congedo per maternità non preclude la formazione professionale obbligatoria per la nomina in ruolo
Non è conforme alla normativa comunitaria la decisione di escludere una donna in congedo di maternità da un corso di
formazione professionale, se questo corso è inerente al suo impiego ed è obbligatorio per ottenere la nomina definitiva
in ruolo.
Così la sentenza della Corte di giustizia europea emanata ieri (causa C 595/12), a conclusione di una procedura avviata
davanti al Tar del Lazio dal ricorso di una lavoratrice italiana che aveva superato un concorso per la nomina a vice
commissario di polizia penitenziaria. Dopo aver vinto tale concorso, la lavoratrice avrebbe dovuto partecipare ad un
corso di formazione, ma questo era fissato in un periodo durante il quale la stessa si trovava in congedo obbligatorio di
maternità. Per questo motivo, l’amministrazione penitenziaria (che organizzava il corso) le escludeva dal corso,
riconoscendole tuttavia il diritto a frequentare quello successivo; l’esclusione veniva motivata con la necessità di
applicare il periodo di congedo obbligatorio, previsto dalla legislazione italiana.
La lavoratrice impugnava l’atto di esclusione e il Tar rimetteva alla Corte di giustizia la questione per chiedere che fosse
accertata l’illegittimità dell’esclusione rispetto al diritto comunitario.
La Corte Ue nella sua decisione parte dalla considerazione che la materia è disciplinata dalla direttiva 2006/54,
riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia
di occupazione e impiego. A tale proposito, la Corte ricorda che l’articolo 14 della direttiva vieta qualsiasi discriminazione
diretta o indiretta fondata sul sesso nei settori pubblico o privato, compresi gli enti di diritto pubblico, per quanto attiene
all’occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento, la retribuzione, e la formazione. La
stessa direttiva stabilisce che alla fine del periodo di congedo per maternità la donna ha diritto di riprendere il proprio
lavoro o un posto equivalente secondo termini e condizioni che non le siano meno favorevoli, e a beneficiare di eventuali
miglioramenti delle condizioni di lavoro che le sarebbero spettati durante la sua assenza.
Il Sole 24 Ore
7 marzo 2014
Lavoro e crescita: una questione di troppa burocrazia
Tra qualche giorno si vedrà quanto c’è di azione concreta e quanto di propaganda nel piano per il lavoro, il cosiddetto
Jobs act di Matteo Renzi. Il presidente del Consiglio ha promesso un taglio del cuneo fiscale di 10 miliardi, ma bisognerà
verificare - ammesso che la decisione arrivi mercoledì e non slitti - se questa cifra sia comprensiva di quanto già stanziato
dal governo Letta (2,6 miliardi per il 2014) e se essa sia destinata tutta al 2014 o in parte anche al 2015. Quanto al
programma di edilizia scolastica, i due miliardi annunciati da Renzi sono gli stessi dispersi in una decina di piani lanciati
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negli ultimi dieci anni e rimasti inattuati. Sbloccarli è certamente un merito, basta chiarire che non si tratta di risorse
aggiuntive. Infine, il provvedimento per potenziare i pagamenti alle imprese dovrà scontare anche questo i 20 miliardi
che il governo Letta aveva già disposto venissero erogati entro il primo semestre 2014. Tutto ciò non per sminuire
l’importanza di ogni sforzo che verrà fatto per rilanciare la crescita, ma appunto per misurarne la portata. Tra questi
sforzi, poi, bisognerà vedere se accanto a una parte economica ci sarà anche una parte normativa, altrettanto
importante, perché per promuovere l’occupazione e lo sviluppo gli incentivi non bastano se non si riforma un diritto del
lavoro che sembra fatto apposta per scoraggiare le assunzioni. Serve semplificare l’apprendistato e il contratto a termine
innanzitutto, per non parlare delle complicazioni che un’azienda deve affrontare anche solo per far fare uno stage a un
giovane. E degli ostacoli da superare nei rapporti con la pubblica amministrazione, che, secondo i dati della Banca
mondiale (Doing business 2014), è la peggiore dell’area euro per quanto riguarda i servizi alle imprese. Qualche esempio.
Marro Enrico
Per avere tutti i permessi per costruire un capannone sono necessari 234 giorni contro i 97 della Germania. Per ottenere
l’allacciamento alla rete elettrica ci vogliono 124 giorni contro i 17 della Germania e i 79 della Francia. Per pagare le
imposte occorrono 269 ore l’anno contro le 163 della media euro. E per arrivare a risolvere una controversia
commerciale bisogna attendere 1.185 giorni contro i 622 della media euro.
Corriere della Sera
10 marzo 2014
IO LAVORO 2014, 16° EDIZIONE: già oltre 6 mila offerte ai giovani
Alla edizione autunnale dello scorso anno si sono svolti oltre 14 mila colloqui tra ragazzi e aziende
I numeri sono già imponenti: 94 le aziende, i franchisor e le agenzie per il lavoro che parteciperanno alla sedicesima
edizione di «IoLavoro», la principale job fair in Italia che si tiene il 9, 10 e 11 aprile, a Torino, al Lingotto Fiere.
Tra queste sono 76 le aziende che cercano personale e provengono dai settori turistico-alberghiero, ristorazione, sport e
benessere, commercio, grande distribuzione organizzata, agroalimentare, Ict, digital.
A oggi le figure ricercate sono già 6111: 3260 nell’animazione e spettacolo, 141 nell’alberghiero e ristorazione, 754 nel
settore benessere e sport, 219 per turismo e eventi, 1685 nella grande distribuzione organizzata e commercio, 50 nel
comparto Ict e ingegneri, tecnici e reparti produttivi.
Le offerte
E tra le principali figure professionali ricercate ci sono un bel numero di offerte legate al turismo e alla ricreazione: 2792
animatori, 1590 agenti di commercio, 290 istruttori sportivi, 184 responsabili di mini club, 50 coreografi, 80 dj, 60 cuochi,
quattro capo villaggio, 100 organizzatori di tornei, 20 scenografi, 100 ballerini.
I giovani si potranno iscrivere fino al 30 marzo sul sito on line www.iolavoro.org e in ogni caso potranno partecipare
anche a salone aperto. Durante l’ultima edizione, quella di ottobre, si sono tenuti oltre 14 mila colloqui di lavoro e sono
stati raccolti 16 mila curriculum vitae. L’edizione primaverile si preannuncia molto affollata in una situazione di mercato
del lavoro difficile in particolare per i giovani. In Piemonte il tasso di disoccupazione per i ragazzi tra i 15 e i 29 dal 2008 a
fine 2013 è passato dal 10,4 al 20,6%, e quello di occupazione è calato dal 48,2 al 40,9%.
Garanzia giovani
Contestualmente al salone - finanziata dal Fondo Sociale Europeo, promossa dalla Regione Piemonte, organizzata
dall’Assessorato al Lavoro, realizzata dall’Agenzia Piemonte Lavoro con la collaborazione della Camera di commercio di
Torino, Provincia e Comune di Torino e con la partecipazione di Ministero del Lavoro, Centri per l’Impiego della Provincia
e della Valle d’Aosta, servizi per l’impiego Pôle-Emploi della Regione Rhône-Alpes, rete Eures e Inps - partirà la Garanzia
giovani Piemonte, il piano regionale per contrastare la disoccupazione giovanile con un finanziamento di 5,6 milioni.
A questo proposito l’assessore regionale al Lavoro, Claudia Porchietto, spiega: «Siamo la prima regione a aver studiato
questo progetto. Attraverso il portale Garanzia Giovani Piemonte, collegato a IoLavoro, si aderirà al programma e si
potranno reperire tutte le informazioni utili all’iscrizione e alla partecipazione alle iniziative regionali e nazionali, alla
consultazione dell’elenco degli operatori aderenti al programma insieme all’offerta dei servizi e alla valutazione espressa
dagli utenti. Si potranno ricevere proposte di lavoro, fare formazione, effettuare tirocini anche all’estero».
Worldskills
«IoLavoro» ospita anche la prima edizione dei campionati piemontesi Worldskills, le Olimpiadi dei Mestieri, una rassegna
internazionale che mette in competizione giovani dai 17 ai 22 anni, provenienti da 67 nazioni, che si sfidano nelle arti e
nei mestieri.
Marina Cassi
La Stampa
17 marzo 2014
Mercati emergenti. A Roma seminario per ottanta imprese con il presidente dell' Agenzia turca per gli investimenti
Ankara «chiama» il made in Italy
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Per le aziende italiane opportunità nelle infrastrutture, le rinnovabili e la sanità.
Due miliardi di dollari. È la cifra degli investimenti italiani in Turchia. Ma c'è molto spazio per le nostre aziende per essere
più presenti, in un Paese che ha una previsione di crescita che supera il 4%, medie superiori a quelle europee. «Le
imprese italiane sono veloci, dinamiche, hanno ottime tecnologie, capiscono la cultura dell’imprenditoria locale», dice
Iker Ayci,presidente dell’Agenzia turca di supporto e promozione degli investimenti. Ieri era a Roma, in Confindustria, per
una presentazione delle opportunità che la Turchia offre agli investimenti esteri. Infrastrutture, energia rinnovabile,
sanità: sono stati i settori su cui si è concentrato il seminario, al quale hanno partecipato 80 aziende, di cui 50 coinvolte
negli incontri a tu per tu con i vertici dell' Agenzia, proprio per dare un seguito operativo all' incontro. «Abbiamo voluto
dare agli imprenditori italiani un quadro chiaro e approfondito delle opportunità legate al piano di incentivi per gli
investitori esteri che guardano alla Turchia come piattaforma internazionale», ha detto Lisa Ferrarini, presidente del
Comitato tecnico per la tutela del Made in e lotta alla contraffazione di Confindustria. «Naturalmente - ha continuato - è
nostro auspicio che anche le aziende turche trovino in Italia un terreno fertile per investire e crescere e siamo disponibili
fin d’ora ad ospitare una loro visita». L’Italia è il quarto partner commerciale per la Turchia, con un interscambio di 17,9
miliardi di dollari nei primi 11 mesi del 2013, composto da un export di 11,7 miliardi e da un import di 6,1 miliardi. Ci
sono più di mille aziende italiane che sono già presenti. Quanto agli investimenti nei primi sei mesi del 2013 l’Italia ha
investito 92 milioni di dollari, in flessione rispetto alle cifre record dello stesso periodo del 2012, ha detto la Ferrarini,
«ma va tenuto conto delle dinamiche congiunturali che hanno ridotto la capacità delle nostre imprese di essere
competitive all' estero». C’è molto da fare. «Possiamo anche rappresentare un ponte nei confronti degli altri Paesi
vicini», dice Ayci. Ma ci sono molti altri aspetti che segnalano la potenzialità del Paese per gli investitori stranieri: una
popolazione di 75 milioni di abitanti, di cui la metà sotto i 29 anni; un deficit di bilancio dell' 1,1%, quindi una situazione
finanziaria stabile. Non solo: «Abbiamo una crescita consistente e qualitativamente questa situazione in una serie di casi
è prevista una garanzia del Tesoro contro il rischio valutario». È tra le novità previste dalla legge varata nel 2013 in
Turchia che innova le regole sulla partnership pubblico-privato, migliorandone le condizioni. Inoltre la Turchia, che ha già
un'unione doganale con la Ue, sta andando avanti su questa strada per arrivare a standard europei. In particolare è stato
approfondito il settore sanitario: l’export italiano di dispositivi medici in Turchia è aumentato del 20% nel biennio 20112012, secondo i dati di Assobiomedica. E lo studio realizzato dall’Agenzia Ice, in collaborazione con Assobiomedica,
distribuito ieri, fa un’approfondita analisi del settore sanitario turco, delle condizioni del mercato in questo comparto,
della situazione epidemiologica del Paese. In Turchia, ha spiegato Ayci, i privati possono costruire e gestire gli ospedali,
con lo Stato che paga per i servizi. Quindi c’è possibilità di fare investimenti importanti, in un Paese dove aumenta la
classe media che vuole più servizi, sanità a livelli qualitativamente migliori, più istruzione, più abitazioni residenziali.
L’impegno dell’Agenzia è costante. «Siamo un interlocutore a disposizione 24 ore su 24, abbiamo il compito di essere
l’interfaccia per gli investitori, risolvendo problemi burocratici e dando risposte su tutto ciò che un imprenditore estero
può chiedere», dice Ayci, mostrando il telefono con i messaggi ricevuti a mezzanotte e le risposte già inviate ieri mattina.
L’Agenzia è ad Ankara e ad Istanbul, ma ci sono 60 collaboratori e 25 consulenti senior in tutto il mondo. Ayci è anche
presidente dell’Associazione mondiale delle agenzie di promozione degli investimenti, sono 175. Nel 2014 ci sarà la
conferenza mondiale delle agenzie proprio in Turchia, l’anno prossimo toccherà a Milano. «L’obiettivo è stimolare gli
investimenti a livello mondiale, affinché la crescita internazionale continui ad andare avanti».
Nicoletta Picchio
Il Sole 24 ORE
7 marzo 2014.
Nel padiglione di Expo che racconterà l’Italia: cibo, design ed emozioni
Il cantiere svelato a 400 giorni dalla manifestazione. La presidente Bracco: «Non sarà una fiera, si vedrà il saper fare del nostro Paese»
MILANO - «Bisogna che le persone colgano l’aspetto positivo di questo grande evento. Le inchieste non devono
demotivare e togliere l’attenzione positiva che Expo merita da tutto il Paese. Abbiamo un governo pieno di giovani e di
energie, Expo e in particolare il Padiglione Italia puntano proprio a valorizzare giovani e nuove energie. A maggior
ragione, non dobbiamo perdere questa occasione».
A 400 giorni esatti all’apertura di Expo, nel pieno di un’inchiesta che, con mille distinguo, ha allungato ombre
sull’esposizione che l’Italia dedica al tema Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita , la presidente della società e
commissario del Padiglione Italia, Diana Bracco, visita il cantiere. Gli operai sono al lavoro, i camion entrano ed escono, le
ruspe sono in azione: il decumano, l’asse principale su cui i Paesi costruiranno i loro padiglioni, ha ormai preso forma. Ci
sono già una parte delle tende (realizzate con un tessuto speciale, testato dal Politecnico, che protegge dall’acqua ed
evita il surriscaldamento) che copriranno questi spazi. Il terreno dove a giorni arriveranno le squadre tedesche per
iniziare il lavoro è perfettamente recintato. All’inizio di ogni spazio ci sono già i cartelli e la bandiera del Paese ospitato. E,
aspetto che sta a cuore alla presidente Bracco, sono concluse le fondamenta di Palazzo Italia. Il cronoprogramma di
questa struttura, come spiega il responsabile del procedimento, l’ingegner Antonio Acerbo, «non può sgarrare di un
minuto. Entro fine agosto devono essere completati i 9 mila metri quadrati lungo cui si snodano i cinque piani». Poi, si
procederà con le opere murarie e le finiture. Infine, dal febbraio 2015, si penserà agli allestimenti interni.
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Per raggiungere l’obiettivo, i turni delle squadre di cantiere ormai sono allungati fino alle 20-21 e, in prospettiva, si andrà
oltre con l’impianto di illuminazione che si sta predisponendo. Al momento sono al lavoro una trentina di operai che, nei
momenti di apice, diventeranno anche 140-150, con doppi turni compresi il sabato e la domenica. Al di là del Palazzo
Italia, il Padiglione conta poi su altri 15 mila metri quadrati del cardo, il lato su cui si presenteranno le Regioni e le città
d’Italia. Diana Bracco ci tiene a precisare: «Non sarà una fiera, ma un racconto emozionale del saper fare del nostro
Paese». Immagini, suggestioni e storie, insomma, per offrire al mondo una visione della qualità italiana per la salute e lo
stile di vita, rafforzando insieme la vocazione turistica del nostro Paese.
Partendo dall’ingresso Sud, ecco il cammino che i visitatori potranno fare: sulla destra, una grande mostra sul corpo
umano, presentata dal Museo della Scienza e della Tecnica che si conclude con la presentazione della dieta
mediterranea. Di fronte, gli spazi che raccontano le varie filiere alimentari e l’area gestita dalla Coldiretti con i prodotti
delle nostre terre. Avanti, sempre a destra, abbiamo gli spazi delle regioni e delle città e il grande stand dell’eccellenza
italiana: il vino e l’olio. In fondo a questo lato, ecco il padiglione dell’Unione Europea, che presenterà tra l’altro una
grande mostra sul pane e che verrà anche questo realizzato dall’impresa cui è stato affidato il Palazzo Italia. Palazzo che
sorge esattamente di fronte e che sarà il polo di maggiore attrazione turistica. I due estremi del cardo sono altrettanto
significativi: ad Ovest, infatti, c’è un ingresso (quello che verrà utilizzato soprattutto dai bus turistici). Sul fronte opposto
ci sono la Lake Arena e i padiglioni di alcuni Paesi importanti e attrattivi: Francia, Germania e Israele.
Partito dal «concept» di Marco Balich, Palazzo Italia riprende la forma del nido (che nutre e accoglie) e richiama al
concetto dell’albero della vita. All’interno di un’intelaiatura intrecciata, il visitatore si muoverà in un percorso obbligato
lungo il quale si mostrerà la potenza della «bellezza» e del «saper fare» del nostro Paese, l’area dove il cibo si collega al
Elisabetta Soglio
design e lo spazio di Women for Expo . Al culmine, sulla terrazza, un maxi ristorante aperto anche alla sera accoglierà i
visitatori per un’esperienza sensoriale e di gusto. Diana Bracco insiste: «Il Padiglione Italia ospiterà anche duemila eventi
nei sei mesi di esposizione: culturali, ricreativi, scientifici e siamo sicuri che sarà per tutti questi motivi il padiglione più
visitato». La Bracco è serena anche per quello che riguarda il rispetto dei tempi e la correttezza dei procedimenti: «Mi
fido ciecamente dei nostri uomini. Dormo fra due guanciali».
Corriere della Sera
27 marzo 2014
CREARE OCCUPAZIONE COI MAXI-JOB
Cuneo al 20% sui nuovi contratti
Tagliando drasticamente le tasse, gli imprenditori potrebbero assumere
Uno sconto fiscale nei primi 4 anni di impiego innesca la ripresa e si paga da sé
C’è qualcosa che non mi convince, nella maggior parte delle proposte per alleggerire la pressione fiscale sui produttori e
aumentare l’occupazione. Alcune di queste proposte sono vecchio stampo, altre sono decisamente più moderne e
adeguate ai tempi. Però tutte, anche quelle verso cui ho la maggiore simpatia, hanno un denominatore comune che
riassumerei in una parola sola: «redistribuire».
Questa parola, ridistribuire, può significare varie cose, anche parecchio diverse, ma deriva da una premessa realistica e
condivisibile: per un paese indebitato come l’Italia non esistono pasti gratis. Se vuoi fare qualcosa, non lo puoi fare in
deficit, invocando il permesso dell’Europa e la clemenza dei mercati. Se vuoi fare qualcosa devi «trovare» le risorse per
farlo. Di qui tutto un lessico che gira sempre intorno al medesimo problema: qualsiasi cosa si voglia fare, dalla riduzione
delle tasse sulle imprese alla concessione di sussidi ai disoccupati, invariabilmente occorre «trovare» le coperture,
«reperire» le risorse, «individuare» le fonti di finanziamento, «spostare» entrate e uscite, ma sempre a saldi invariati. Il
che, in concreto, significa identificare uno o più soggetti da tartassare con nuove tasse (ricetta che piace alla sinistra), o
una o più voci di spesa da eliminare (ricetta che piace alla destra).
Ecco perché parlo di redistribuzione: l’idea è che ci sia una «torta» data, la torta del reddito nazionale, e che le fette di
tale torta vadano tagliate diversamente, togliendo alcune briciole a qualcuno per darle a qualcun altro. Ma la dimensione
della torta, almeno nel breve periodo, resta quella che è.
Trovare le risorse?
Questa, spiace rilevarlo, è una visione da ragioniere. O meglio è il punto di vista dei commensali, che ricevono una torta
che qualcun altro ha già cucinato per loro, e non provano nemmeno per un momento a immaginare che il cuoco
potrebbe cucinare, cucinare subito, non fra qualche anno, una torta un po’ più grandina.
Questo modo un po’ statico di vedere le cose riappare un po’ ovunque, e domina ampiamente il dibattito sull’eccessiva
pressione fiscale che soffoca l’economia italiana. Venuti al dunque, però, si finisce sempre nella medesima trappola:
poiché «trovare le risorse» è difficile, e appena ci provi scontenti mezzo mondo, i politici finiscono per accontentarsi di
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misure di impatto davvero irrisorio. E’ stato così con il governo Letta, che alla fine è riuscito a stanziare 3 miliardi scarsi
per ridurre il cuneo fiscale, ma rischia di essere così anche con il governo Renzi, che di miliardi sta faticosissimamente
cercando di trovarne 10 per alleggerire il costo del lavoro, una misura che lo ridurrebbe di appena il 2%. Una misura
indubbiamente positiva, ma che in un paese che ha un cuneo fiscale tra i più altri del mondo (vedi grafico) non
altererebbe in modo apprezzabile i conti delle imprese.
C’è qualcuno disposto a credere che ci siano imprenditori che non assumerebbero un lavoratore che costa loro 30 mila
euro l’anno, ma in compenso lo assumerebbero se ne costasse «solo» 29.400? Si può ragionevolmente pensare che
un’impresa che sta per chiudere perché i suoi costi sono eccessivi, non chiuderebbe se uno dei costi (quello del lavoro)
diminuisse del 2%? Eppure è questo, il 2%, l’impatto di una riduzione del cuneo fiscale «a doppia cifra» (10 miliardi di
euro), come quella di cui si parla da un po’.
Liberare le risorse!
Ecco perché, a mio parere, siamo in un vicolo cieco. Quello di cui molti paiono non rendersi conto è che la quota del
costo del lavoro che lo Stato italiano lascia nelle tasche dei lavoratori è straordinariamente bassa, al limite della rapina. E
questo con qualsiasi contratto di lavoro, eccetto ovviamente stage e tirocini, che lavori veri e propri non sono. Facciamo
qualche esempio, partendo da un costo del lavoro non lontano da quello medio, e cioè 25 mila euro l’anno. Nella busta
paga di un apprendista, che è la più pesante, il lavoratore trattiene circa il 62% del costo aziendale, dunque meno di due
terzi. Un CoCoPro trattiene circa il 58%. Un impiegato a tempo indeterminato circa il 54%. Un operaio a tempo
determinato non arriva al 52%.
In breve, in nessuno dei contratti più diffusi il lavoratore arriva a trattenere i due terzi del suo costo, e nella stragrande
maggioranza dei casi lascia allo Stato circa la metà di quello che l’azienda paga per lui.
Ma come uscire da una situazione del genere?
Dipende da quello che si vuole ottenere. Se si vuole solo dare un minimo di sollievo a lavoratori e imprese, allora uno
sgravio di 10 miliardi può anche servire. Ma se lo scopo è quello di creare nuova occupazione, allora ci vuole ben altro.
Quello di cui abbiamo bisogno non sono pannicelli caldi, ma misure shock. Misure per «liberare» risorse nuove, anziché
ostinarsi a «trovarle». Misure per aumentare la torta, anziché spostarne le fette da un commensale all’altro.
Le risorse nuove, per fortuna, ci sono. Ma non sono solo i milioni di giovani, donne, disoccupati che sarebbero disposti a
lavorare, ma anche – anzi soprattutto – gli imprenditori che, con uno Stato meno esoso, sarebbero disposti a fare
assunzioni che altrimenti non farebbero. Ed ecco allora la proposta: per quattro anni, e a certe condizioni ben precise,
permettiamo alle aziende e agli artigiani di assumere con un nuovo contratto che, per distinguerlo dal suo cugino
tedesco (“il mini-job”), chiamerò maxi-job.
Che cos’è il maxi-job
L’Irpef dovuta viene pagata interamente, mentre l’Inps incassa l’intera somma che resta dopo aver pagato l’Irpef. E’ vero
che in questo modo l’accantonamento pensionistico intestato al lavoratore è minore che per un contratto ordinario, ma
è altrettanto vero che:
a) nel caso dei lavoratori aggiuntivi, che mai sarebbero stati assunti senza i vantaggi fiscali del maxi-job, viene generato
un accantonamento pensionistico che altrimenti sarebbe stato pari a zero;
b) se il governo oggi auspica un forte incremento di rapporti di apprendistato (per i quali lo Stato copre il 90% della
contribuzione previdenziale), nulla vieta che il governo stesso disponga una copertura anche per i maxi-job;
c) dal momento che il maxi-job non può essere usato dal lavoratore per più di 4 anni, in nessun caso il periodo di bassa
contribuzione può superare il 10% della carriera lavorativa.
Per maxi job intendo un contratto a tempo pieno, con una busta paga non inferiore ai 10 mila euro annui, mediante il
quale il lavoratore trattiene in busta paga l’80% del costo aziendale e la Pubblica amministrazione incassa il resto, in
parte come Irpef (che va allo Stato), in parte come contributi sociali (cha vanno all’Inps). Un contratto, dunque, che
permetterebbe a un’azienda di trasferire nelle tasche del lavoratore 10 mila euro l’anno spedendone 12.500 anziché 20
mila, oppure di trasferirne 20 mila spendendone 25.000, anziché 40 mila come nella maggior parte dei contratti vigenti.
Un contratto del genere, a differenza di un ritocco minimale del costo del lavoro, renderebbe possibili centinaia di
migliaia di assunzioni che senza di esso non si verificherebbero, e quindi aumenterebbe la torta del reddito nazionale
senza sottrarre risorse ad altri usi. In breve: libererebbe risorse, anziché costringerci a «trovarle», ossia a sottrarle ad
altri.
Il maxi-job si paga da sé
Non è qui il luogo per entrare nei dettagli giuridici ed economici del maxi job (per questo vedi la scheda qui accanto),
però ci sono almeno cinque punti su cui è bene spendere due parole, se non altro per rispondere ad altrettante possibili
obiezioni.
La seconda circostanza da considerare è che ogni nuovo posto di lavoro genera un valore aggiunto, di cui il salario è solo
una componente. Su quel valore aggiunto non gravano solo i contributi sociali (che con il maxi-job si riducono
fortemente), ma anche tutte le tasse che, come cittadini e come aziende, normalmente paghiamo alla Pubblica
Amministrazione: Irpef, Iva, Ires, Irap, Imu, solo per menzionare le cinque più note. E le tasse, con il maxi-job, non
spariscono affatto, e pesano molto di più dei contributi sociali.
Punto 1. E’ essenziale che il maxi-job sia, appunto, maxi (almeno 10 mila euro l’anno), e non mini o midi. Questo evita il
rischio, tutt’altro che remoto in un paese a illegalità diffusa come l’Italia, che si stipulino contratti che formalmente sono
part-time, ma in realtà sono contratti full time sottopagati. E’ quanto potrebbe succedere, ad esempio, con un mini-job
di 400 euro al mese (come quelli previsti in Germania), formalmente part-time ma di fatto full-time.
Punto 2. Al maxi-job possono accedere tutte le aziende, di qualsiasi dimensione o forma giuridica, ma solo a condizione
che l’assunzione o le assunzioni effettuate mediante maxi-job incrementino l’occupazione aziendale rispetto a quella
dell’anno precedente, e che la durata del contratto sia compresa fra 1 e 4 anni.
Punto 3. Il maxi-job non è una misura assistenziale, volta a inserire nel mercato del lavoro categorie più o meno protette
o svantaggiate. Un contratto di maxi-job può essere firmato da chiunque, in qualsiasi condizione, perché il suo scopo è di
aumentare il Pil, non quello di sussidiare le fasce svantaggiate della popolazione (a questo devono provvedere altri
strumenti).
Punto 4. Il lavoratore che, anche in periodi diversi, usufruisce di uno o più maxi-job, non può ricorrervi per più di 4
annualità in tutto.
Punto 5. La differenza fra il costo del lavoro totale (costo aziendale) e la busta paga, pari al 20% del costo totale, viene
usata dal lavoratore per pagare l’Irpef e per accantonare contributi pensionistici (versamenti all’Inps).
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Ma il punto più importante, il punto chiave, è che il maxi-job si paga da sé. Si potrebbe pensare il contrario, visto che il
maxi-job abbatte fortemente i contributi sociali, che corrispondono a circa 1/3 delle entrate totali della Pubblica
Amministrazione. Ma in realtà non è così. Per capire perché, bisogna considerare due circostanze.
La prima è che i posti di lavoro incrementali (creati da aziende che aumentano l’occupazione) sono una frazione molto
modesta delle assunzioni totali, che nella stragrande maggioranza dei casi sono semplici rinnovi di contratti precedenti o
sostituzioni di lavoratori andati in pensione. Questo significa che l’eventuale perdita di gettito riguarda comunque una
frazione modesta delle assunzioni totali.
Per 100 euro di nuovo valore aggiunto prodotto dal settore privato dell’economia, i produttori ne tengono per sé 55,
mentre tutto il resto (45 euro) va alla Pubblica Amministrazione in parte sotto forma di contributi sociali (12), in parte
sotto forma di tasse (33). Quindi l’effetto del maxi-job è di distruggere gettito (gettito da contributi sociali) ogniqualvolta
un contratto di maxi-job copre un posto di lavoro che si sarebbe creato comunque, mentre è di creare gettito (gettito da
tasse) ogniqualvolta il maxi-job crea posti di lavoro addizionali, che senza il maxi-job non sarebbero mai nati.
Dunque, il maxi-job non solo dà lavoro a più persone di quante ne troverebbero uno senza di esso, ma si autofinanzia
mediante le tasse che i nuovi contribuenti dovranno pagare. Ma si autofinanzia abbastanza da non ridurre il gettito
complessivo della Pubblica Amministrazione?
Questa è una questione empirica, cui si può rispondere solo con una ricerca che stimi quanti posti di lavoro in più si
creerebbero con i maxi-job. Qualche calcolo, tuttavia, si può fare anche a priori, basandosi sulla struttura del gettito.
Supponiamo che non si faccia nulla, e che, non facendo nulla, il numero di posti di lavoro nuovi di zecca (incrementi
occupazionali nelle aziende esistenti + posti di lavoro nelle aziende di nuova costituzione) sia pari a 100. Immaginiamo
ora che venga introdotto il maxi-job, e che i nuovi posti di lavoro passino da 100 a 133 (un’eventualità che si può anche
esemplificare così: un’impresa che intendeva assumere 3 lavoratori, grazie al maxi-job ne assume 4). Ebbene, basterebbe
un’elasticità di questo tipo, da 100 a 133, per coprire interamente il mancato gettito dell’Inps. Se poi l’elasticità fosse
maggiore, ad esempio si passasse da 100 a 150 o a 200, avremmo addirittura più gettito di prima. Solo se i posti di lavoro
addizionali, pur essendo più di 100, fossero meno di 133, si potrebbe avere una riduzione, in ogni caso assai modesta, del
gettito complessivo. Un’eventualità a mio modo di vedere decisamente remota, a meno di pensare che, in Italia, i livelli
occupazionali non siano sensibili a una riduzione del costo del lavoro, con tanti saluti a tutti i discorsi che da anni si fanno
sul cuneo fiscale.
entità ci si aspetta qualche risultato, a maggior ragione dovremmo attendercene da una riduzione che è 15 volte più
ampia.
Il maxi-job non è un azzardo. Anzi, è una delle poche misure che possono avere un impatto immediato sull’occupazione,
non richiedono di «reperire le risorse». Perché il maxi-job la torta non la redistribuisce ma prova, finalmente, a farla
crescere un po’.
Del resto, per capire come mai il maxi-job potrebbe funzionare, basta riflettere sul fatto che la riduzione del costo del
lavoro implicita nel maxi-job è dell’ordine del 30%, mentre la più incisiva fra le misure di riduzione del cuneo fiscale
finora proposte (10 miliardi di euro), riduce il costo del lavoro di circa il 2%. Se persino da una riduzione di così modesta
Luca Ricolfi
La Stampa
07 marzo 2014
Da 10 a 20 mila euro l’anno netti
In busta l’80% del costo aziendale
Ecco come funziona la proposta del maxi-job presentata da Luca Ricolfi
L’idea del maxi-job è di consentire alle aziende di creare nuovi posti di lavoro a tempo pieno (di qui il prefisso “maxi”) e
ai lavoratori di percepire l’80% del costo aziendale, anziché il 50% circa, come attualmente succede per la maggior parte
dei contratti. La presentazione che segue illustra solo alcuni principi generali, che richiedono di essere tradotti in un
disegno di legge.
Come funziona
Fatto 100 il costo aziendale, il lavoratore percepisce in busta paga l’80% di esso. La differenza fra il costo aziendale e la
busta paga viene automaticamente destinata a due impieghi:
Il costo aziendale è 12.500 euro, quasi interamente trattenuti dal lavoratore (10.000 subito, in busta paga; 1.800
accantonati a fini previdenziali).
Quali aziende possono attivarlo
Il maxi-job è un contratto riservato alle aziende, di qualsiasi forma giuridica, sia pre-esistenti sia di nuova costituzione,
che incrementano il numero di occupati. Per lavoratori “occupati” si intendono i lavoratori dipendenti in senso proprio
(compresi gli apprendisti) e i CoCoPro; dal computo degli occupati sono invece esclusi gli stagisti e le partite IVA.
L’importo versato all’INPS è esattamente pari alla somma che “rimane” dopo il pagamento integrale dell’Irpef.
Nel caso di aziende già esistenti, il contratto può essere attivato per un numero di lavoratori pari all’incremento
occupazionale annuo. Se, ad esempio, fra il 2013 e il 2014 un’azienda passa da 10 dipendenti a 12 può attivare 2 maxijob, perché ha incrementato l’occupazione di 2 unità. Dopo il primo anno il contratto di maxi-job può essere rinnovato
per un periodo massimo di 3 anni, purché l’azienda che nel primo anno ha aumentato l’occupazione non la diminuisca
nel periodo di rinnovo del maxi-job.
La retribuzione netta in busta paga non può essere inferiore a 10 mila euro l’anno (di qui il prefisso “maxi”, che distingue
nettamente il maxi-job dai mini-job della Germania) e non può superare i 20 mila euro l’anno.
Nel caso delle aziende di nuova costituzione il maxi-job può essere attivato solo se l’azienda assume un soggetto alla sua
prima occupazione, oppure un lavoratore inoccupato da almeno 1 anno.
Un esempio
Quali lavoratori possono usufruirne
Con il maxi-job più economico (10 mila euro annui in busta paga) il lavoratore percepisce 12.500 euro lordi così suddivisi:
Il maxi-job non è riservato a categorie particolari di soggetti. Chiunque può essere assunto con il maxi-job, anche da
aziende differenti in periodi differenti.
a) versamento all’INPS per l’assicurazione pensionistica e sanitaria, con conseguente abbattimento dell’imponibile;
b) pagamento integrale dell’Irpef dovuta.
10.000 in busta paga
1.800 euro accantonati a fini pensionistici (Inps)
700 pagamento IRPEF
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L’unico caso in cui un lavoratore non può essere assunto con un contratto di maxi-job è quello in cui abbia già usufruito
di uno o più contratti di maxi-job per un periodo complessivo superiore a 3 anni (in tal caso aggiungere 1 anno ai 3 anni
passati farebbe sforare il tetto complessivo dei 4 anni).
Durata del contratto
Il maxi-job è un contratto a tempo determinato o a tempo indeterminato con durata minima di 1 anno.
Nel caso esso sia a tempo determinato la sua durata massima è di 4 anni.
Nel caso sia a tempo indeterminato, al temine del 4° anno si trasforma automaticamente in un contratto ordinario a
tempo indeterminato, con tutti gli oneri ad esso connessi.
Perché si autofinanzia
Apparentemente, il maxi-job determina una riduzione del gettito della Pubblica Amministrazione, sotto forma di un
minore flusso di contributi previdenziali. In realtà si può mostrare (vedi articolo accanto) che il gettito della Pubblica
Amministrazione si riduce solo se il numero di posti di lavoro aggiuntivi creati dall’introduzione del maxi-job è molto
modesto.
Bisogna considerare, infatti, che i contributi INPS non sono le uniche entrate della Pubblica Amministrazione, e che tutti i
posti di lavoro in più, che non sarebbero nati senza i vantaggi del maxi-job, creano valore aggiunto addizionale, e
generano quindi un flusso di introiti fiscali aggiuntivo attraverso tasse come Iva, Irpef, Ires, Irap, per citare solo alcune fra
le più “pesanti”.
Fatto 100 l’incremento occupazionale senza maxi-job, bastano 33 posti addizionali per garantire che gli introiti della
Pubblica Amministrazione non si riducano. Se i posti addizionali sono più di 33, il gettito della Pubblica Amministrazione
anziché diminuire aumenta.
Sanzioni contro l’uso improprio
La legge prevede sanzioni nel caso di uso improprio del maxi-job. Per uso improprio si intendono tutti i casi nei quali
l’incremento occupazionale è fittizio. Ad esempio: la singola azienda aumenta l’occupazione ma una o più aziende
“cugine”, controllate dal medesimo soggetto, la riducono; oppure: l’azienda che usufruisce del maxi-job viene costituita
grazie alla chiusura di altre aziende collegate.
Luca Ricolfi
La Stampa
07 marzo 2014
POLITICA LA SQUADRA UN RUOLO NON SECONDARIO PER MARIO GRECO E DELLA VALLE
Renzinomics: i veri consiglieri Renzi Non solo politici Dietro il premier i consigli dei manager
Tra le voci in campo economico più ascoltate dal premier Matteo Renzi oltre ai politici come Del Rio e Bonaccini, gli
economisti (Yoram Gutgel). E i manager: da Mario Greco (Generali) a Fabrizio Landi (ex Esaote) e Guido Ghisolfi. A pagina
6 Matteo è un’incudine, spacca e poi crea lo spazio che viene riempito dalle persone che sono con lui». Con questa
metafora raccontata da uno dei suoi più stretti e anonimi collaboratori si può capire il modo di lavorare del neo
presidente del Consiglio per definire al meglio le scelte annunciate. Difficile però individuare, al momento, la direzione
della Renzieconomic , sempre che esista. Qualcosa sapremo mercoledì con l’atteso consiglio dei ministri su lavoro, scuola
e casa. Ma, soprattutto, che faccia hanno le persone del suo cerchio magico? Quelle di cui si fida e dalle quali prende
consigli anche se poi alla fine fa come gli pare? Partirà davvero la cabina di regia economica a Palazzo Chigi e chi la
guiderà? Come verranno fatte le nomine delle società controllate dal Tesoro che scadranno entro aprile? Un sistema di
satelliti Gli uomini più vicini a lui su questi dossier danno alcune indicazioni solo a patto di un rigoroso anonimato e
mettendo le mani avanti perché «con Renzi è impossibile pianificare qualsiasi cosa». Il suo è un sistema di potere fatto di
satelliti a cui di volta in volta si affida per una valutazione o un consiglio per riservarsi la decisione finale. Un’altra chiave
per capire cosa sta succedendo la fornisce un senatore Pd di lungo corso che si sta avvicinando al nuovo che avanza: «Ci
sono quelli che appaiono ma non contano niente e quelli dietro le quinte che hanno un peso decisivo». Perso lo smalto di
un tempo personaggi come Davide Serra, l’inventore del fondo Algebris, oppure l’imprenditore Oscar Farinetti, ambedue
renziani della prima ora ma alla ricerca di una visibilità che ha dato fastidio al premier, si avanzano nell’ombra altri
consulenti-personaggi. A parte l’amministratore delegato di Luxottica Andrea Guerra che, dopo l’exploit alla Leopolda è
tornato in azienda, Renzi ha scoperto nel numero uno delle Generali Mario Greco e nel patron di Tod’s Diego della Valle
due validi interlocutori. Così come non fanno troppo mistero di sentire regolarmente il presidente del Consiglio - tramite
sms o email - sia il senese Fabrizio Landi, ex amministratore delegato di Esaote ora esperto di start-up per Confindustria,
che Guido Ghisolfi, titolare della Mossi&Ghisolfi, multinazionale leader mondiale delle bottiglie di plastica con nascenti
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interessi nel biocarburante alla brasiliana. Ambedue hanno creduto in Renzi e hanno contribuito (il primo con 10 mila
euro, il secondo con 100 mila) alla sponsorizzazione della sua campagna per le primarie. Confronti aperti «Non ho
nessun ruolo formale - spiega Landi, 60 anni - ma faccio parte di quel network di persone con le quali Renzi si confronta,
è un grande animale politico, sono rimasto impressionato dalla sua capacità di fare sintesi, come un leader di una grande
multinazionale». Altri nomi destinati ad avere un ruolo specialmente nel grande valzer delle nomine - casi Enel,
Finmeccanica ed Eni a parte dove la partita si gioca solo a piani altissimi e internazionali - sono quelli della sua segreteria
come Lorenzo Guerini (responsabile della segreteria Pd) e Stefano Bonaccini (responsabile nazionale degli enti locali).
Con la supervisione del fido Graziano Delrio, of course . Sono in molti a sostenere che la costituenda cabina di regia
potrebbe essere affidata all’ex manager McKinsey Yoram Gutgeld, ora deputato in quota renziana, autore del volume Più
uguali più ricchi (Rizzoli) ritenuto una sorta di manifesto ideologico che potrebbe incidere sulle future scelte di politica
economica. Il suo ruolo di «guru» però avrebbe infastidito l’ex sindaco di Firenze al punto che Gutgeld ha scelto da due
mesi il silenzio totale per evitare ulteriori guai. L’altro lato Poi c’è tutto il fronte del Tesoro ora guidato dall’ex allievo di
Giancarlo Gandolfo, Pier Carlo Padoan. Il rapporto tra il premier e il potente ministro dell’Economia sono tutti da
costruire. Sembra che i due si siano incontrati appena due volte. Padoan ha vissuto molti anni all’estero tra Washington
e Parigi ma il suo ambiente di riferimento intellettuale è ancora quello romano vicino a economisti come Nicola Rossi,
Salvatore Biasco, Vieri Ceriani, Stefano Micossi, Giuseppe Zadra, Franco Bassanini, Enrico Morando che ha voluto come
suo vice. In posizione di assoluta solitudine si segnala il responsabile economico del Pd, Filippo Taddei, che lavora al
dossier del Jobs Act. Poi c’è tutto il gruppone di «economisti» che a vario titolo siedono in Parlamento e che hanno
giustamente voglia di pesare e di dire la loro. Dimenticando sicuramente qualcuno ricordiamo personaggi come
Giampaolo Galli, Massimo Mucchetti, Giorgio Santini, Pier Paolo Baretta, Paolo Guerrieri, Marco Causi, Stefano Fassina,
Linda Lanzillotta, Benedetto Della Vedova. Tutti appesi alle giravolte del premier. Si ricorda, come caso esemplare, la
legge sulla modifica dell’Opa per contrastare la conquista di Telecom Italia da parte degli spagnoli di Telefonica: il testo
Mucchetti-Matteoli fu votato compatto in Senato da tutti i renziani ma poi, una volta diventato segretario Pd e in quindi
in odore di Palazzo Chigi, Matteo Renzi ha preferito lasciar cadere il tutto schierandosi con Enrico Letta. E la ragion di
Stato.
Bagnoli Roberto
Corriere della Sera
10 marzo 2014
Crediti statali, via ai pagamenti . Ma se l'«anticipo» ci mette lo zampino
Svolte. Il piano per smobilizzare i 68 miliardi dovuti alle imprese è ai nastri di partenza. Il meccanismo studiato potrebbe riservare sorprese
La cifra fa venire letteralmente i brividi: 68 miliardi di euro sono più o meno il 4 per cento del Prodotto interno lordo
italiano. Ma che la pubblica amministrazione sia tenuta a pagare i propri debiti in tempi certi è un fatto di civiltà, come ci
siamo sentiti spesso ripetere in queste settimane. Anche per questo la decisione di chiudere una volta per tutte la partita
degli impegni arretrati, con l'applicazione di sanzioni per gli enti inadempienti e la promessa che nessuna impresa sarà in
futuro costretta ad attendere mesi (se non anni) per incassare il dovuto, non può che essere benvenuta. E questo
nonostante i problemi ancora da risolvere nei dettagli, come quello relativo ai contratti relativi a spese per investimento,
che all'atto del pagamento materiale potrebbero rischiare di appesantire ancora il debito pubblico. Sappiamo, per
esempio, che c'è allarme fra i costruttori, i quali temono che le somme a loro dovute, e i calcoli dell'Ance parlano di una
cifra prossima agli 11 miliardi, finiscano per scivolare in fondo all'elenco dei creditori. Ma proprio per le dimensioni
ciclopiche della sanatoria c'è un'altra questione sulla quale sarebbe giusto attendersi estrema chiarezza, una volta messe
a punto le misure annunciate con tanta enfasi.
Fra i meccanismi studiati per ripagare i debiti c'è infatti il coinvolgimento delle banche. Gli istituti di credito dovrebbero
anticipare alle imprese parte delle somme dovute dagli enti pubblici, con la garanzia dello Stato e il paracadute della
Cassa depositi e prestiti.
Si tratta di un meccanismo architettato per contribuire a velocizzare al massimo i rimborsi, e già previsto con le norme
introdotte l'anno scorso. Naturalmente, però, le banche non svolgono gratuitamente questo servizio. Non potrebbero
farlo nemmeno se fossero pubbliche, come una volta, e non dovessero renderne conto ad azionisti privati.
Del resto, accade già attualmente che gli imprenditori scontino presso le banche i crediti certificati vantati nei confronti
delle pubbliche amministrazioni. E lo sconto ha per loro un prezzo ben definito.
Quale sarà, in questo caso, il prezzo delle anticipazioni bancarie? E questo verrà pagato in qualche forma dallo Stato,
oppure graverà sempre sulle imprese che oltre ad aver dovuto aspettare tempi biblici per vedere i loro soldi saranno
costrette a subire ulteriori oneri? In questo modo, gli unici ad aver fatto davvero un affare con questa operazione
sarebbero i banchieri che si vedrebbero rimborsare integralmente dal debitore pubblico e dagli enti locali le anticipazioni
concesse (con o senza interessi?) ai creditori delle amministrazioni, mentre questi ultimi ne sopporterebbero l'ovvio
costo finanziario. Con l'aria che tira, sempre meglio che non incassare affatto, si potrebbe dire. E poi non ha sempre
funzionato così?
Tuttavia questa è una situazione del tutto particolare e certamente delicata per diversi aspetti: non escluso quello
politico. Per far capire il clima è sufficiente ricordare come non più tardi di qualche settimana fa le banche siano state
investite da furiose polemiche a causa del provvedimento che ha consentito loro di rivalutare le quote di Banca d'Italia in
portafoglio. I grillini hanno accusato il governo di Enrico Letta di avergli fatto così un regalo da 7 miliardi e mezzo. In
questo periodo i nostri istituti di credito, complice la depressione economica più spaventosa dell'ultimo secolo, non se la
passano particolarmente bene. E di sicuro l'Italia non si può permettere oggi che le difficoltà di un settore bancario già
abbastanza provato si aggravino ancora. Ma è altrettanto certo che pure le imprese, ancora più provate, hanno finito i
salvagenti.
17 marzo 2014
Corriere Economia
LA AMBIZIONI DEL CREMLINO
Cancellare il 1989: Il sogno segreto dello Zar Vladimir
Vuole ridiscutere l’assetto post-Urss e allargare lo spazio russo
Ma dietro l’azzardo c’è un’economia in crisi e non riformabile
La frontiera tra la Russia e l’Ucraina è praticamente chiusa, carri armati di Kiev si muovono verso Est, dove vengono in
tutta fretta scavate trincee. Il premier Arseny Yatseniuk dice che «il rischio di un’invasione è reale». Il pretesto ieri è
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stato fornito da un migliaio di manifestanti a Kharkiv che hanno consegnato al consolato russo una richiesta di intervento
«delle truppe di pace» di Mosca. Poi hanno assaltato il consolato polacco gridando «Kharkiv è russa» e «Il fascismo non
passerà». Stessa scena a Donezk, dove i filorussi hanno fatto irruzione nella magistratura e negli uffici privati del
governatore, chiedendo un referendum sulla secessione. La polizia è rimasta a osservare, nonostante il ministro
dell’Interno Avakov a Kiev denunci gruppi di «organizzatori» dall’altra parte del confine che cercano di fomentare una
rivolta dei russi. Anche a Nikolaev e Odessa ieri in piazza si sono tenuti «referendum» per una maggiore autonomia, ma
senza spingersi a chiedere il divorzio.
Queste poche centinaia di contestatori ricevono grande attenzione dal ministero degli Esteri russo, che ogni volta
rivendica il diritto di «intervenire in difesa dei compatrioti». A Mosca politologi del regime parlano apertamente dei piani
di creare due o anche tre Ucraine. E Dmitry Kiseliov, il capo della propaganda del Cremlino, nel suo talk show domenicale
ieri ha minacciato: «Siamo l’unico Paese in grado di trasformare gli Usa in cenere radioattiva». Una minaccia, della guerra
nucleare, che non si era sentita dai tempi di Krusciov.
Per capire se si tratta di singoli esagitati, come al solito, bisogna ascoltare una sola persona: Vladimir Putin. Che parla
poco, e non si fa interrogare. Ma un’indiscrezione preziosa viene da Mustafa Dzhemilev, leader dei tartari della Crimea,
al quale il presidente russo ha concesso l’onore di una telefonata per convincerlo se non a sostenerlo almeno a restare
neutrale. Dzhemilev non si è fatto impressionare: esiliato da bambino insieme a tutto il suo popolo nel 1944, è cresciuto
al confino e ha alle spalle 15 anni di carceri e scioperi della fame come dissidente. Ha costretto il suo interlocutore ad
ammettere di fatto la presenza dei militari russi in Crimea e gli ha fatto obiezioni sull’illegalità del referendum. Putin ha
risposto che «certe volte la procedura si salta». E che anche la secessione dell’Ucraina dall’Urss «non è del tutto legale».
Finora la Russia, pur sentendosi dolorosamente ridimensionata dalla fine dell’Urss - che Putin ritiene «la maggiore
catastrofe geopolitica del ’900» - appariva rassegnata all’assetto post-comunista. Oggi si sente abbastanza forte da
rimetterlo in discussione, insieme agli ultimi 25 anni di storia. E questo spiega le truppe vicino alla Trasnistria, le
inquietudini dei Baltici con le loro minoranze russofone, e la reticenza perfino di alleati come il Kazakistan e la Bielorussia
a seguire Putin su una strada che domani potrebbe portarlo a casa loro. La diplomazia russa mette da parte i pretesti che
l’ambasciatore francese all’Onu ha definito «imbarazzanti»: dalla difesa dei russi dai «nazisti» alla lettera di Yanukovich
poi sparita, fino alle secessioni del Kosovo e delle isole Comore (in entrambi i casi, peraltro, Mosca era contraria). Lavrov
ormai è esplicito: «La Crimea per noi è più importante delle Falkland per gli inglesi». Ammettendo che i russi non hanno
mai smesso di considerarla loro, e che non si tratta di una disputa locale o di un dispetto, ma di un cambio di rotta, a
costo di rinunciare al salotto bene internazionale.
I «falchi» nazionalisti invocano il ritorno della cortina di ferro, e i media persuadono i consumatori che con le sanzioni
l’industria nazionale non farà che fiorire. Ma il tasso di crescita del Pil oscilla intorno allo zero e il petrolio non basta più.
Gli stessi ministri di Putin chiedono una modernizzazione che passa per le liberalizzazioni e la trasparenza, e implica di
non spartire ricchezza e potere solo in un gruppo ristretto della nomenclatura. Una scelta che il Cremlino non è mai stato
capace di fare. Una guerra con i «traditori» ucraini seguita dall’«accerchiamento ostile» dell’Occidente può essere utile
per giustificare ai russi la fine di una ricchezza appena assaporata.
Anna Zafesova
La Stampa
17 marzo 2014
L’Italia ai tempi del secondo welfare
C’è chi ha scelto di portare frutta fresca e ortaggi a quelle famiglie disagiate che altrimenti andrebbero avanti a
scatolette, chi investe sulle case ad affitto calmierato dove possono convivere studenti fuorisede e persone che fino a
ieri non avevano un tetto, chi si é inventato la cooperativa per inserire nel mondo del lavoro i pazienti psichiatrici.
C’è chi lo fa nella sua città, in azienda, magari anche nel condominio. Con i vicini, gli amici, i colleghi in fabbrica. Per
migliorare gli equilibri tra vita e lavoro, aprire possibilità ai giovani, venire incontro ai bisogni di chi è vicino ma troppo
spesso invisibile.
Mentre lo Stato sociale si ritira, avanza in Italia il secondo welfare, quello che parte appunto dal basso, dalle piccole
comunità e dalle iniziative dei privati, aziende e volontari, spesso con il supporto di enti senza fini di lucro. Da una parte è
una scelta obbligata. Nel 2008 i fondi statali di carattere sociale, dagli stanziamenti per le politiche della famiglia a quelli
per i servizi all’infanzia fino alle politiche giovanili, erano di poco superiori ai 2,5 miliardi di euro. L’anno scorso quella
cifra si è ridotta a ben meno di un decimo: 200,8 milioni in tutto. Dall’altra la sfida di costruire dal basso un sistema di
welfare integrativo e spesso alternativo a quello di uno Stato-balia libera molte nuove energie. I lavori socialmente utili
dei dipendenti Alessi o le borse della spesa consegnate dai volontari dell’associazione torinese «Terza settimana», oltre a
sopperire a bisogni concreti, rinsaldano anche legami preziosi tra le persone.
Francesco Manacorda
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Adesso un bando pubblico invita progetti di secondo welfare a partecipare a una selezione e mette a disposizione delle
cinque o sei iniziative che verranno scelte un finanziamento complessivo di 10 milioni di euro. Il bando «welFARE in
azione» sarà presentato oggi a Milano dalla Fondazione Cariplo: per l’estate verranno selezionate le idee e per fine anno
saranno approvati i progetti che godranno del finanziamento; è previsto che il bando si replichi nel 2015 e nel 2016.
«Rivedo in questa nuova iniziativa quel che è successo più di dieci anni fa nel settore dell’housing sociale – spiega
Giuseppe Guzzetti, presidente di Fondazione Cariplo –. Avevamo intuito, anticipando i tempi, l’esigenza di oggi: case per
le famiglie normali a 500 euro al mese. Studiammo e sperimentammo quello che è diventato poi un modello».
La sfida ora è quella di selezionare le esperienze più significative, dandogli gambe finanziarie per crescere, ma anche
quella di mettere in rete tante esperienze che proprio per la loro dimensione locale rischiano di restare frammentate. A
fotografare i tanti fermenti di una società attiva ha provato il «Rapporto sul secondo welfare», curato per il Centro
Einaudi da Maurizio Ferrera e Franca Maino, di cui a fine 2013 é stata presentata la prima edizione. E proprio nel
rapporto si cita tra i rischi la difficoltà a «fare sistema», nonché una disparità territoriale che balza all’occhio: un fiorire di
iniziative al Nord, poco o nulla al Sud.
«È in gioco il futuro di tutti, sperimenteremo e renderemo conto, come sempre abbiamo fatto - dice Guzzetti - e se
vinceremo la sfida potremo dire di aver contribuito a ridisegnare il welfare del nostro Paese».
La Stampa
31 marzo 2014
PRIVATIZZAZIONI AL VIA GRANDI STAZIONI, POI CENTOSTAZIONI. IL TECNICO CASERTANO AL POSTO DI BATTAGGIA. SAVE CERCA ACQUIRENTI: «NON CI
SONO SINERGIE»
Fs Moretti al mercato, i soci spingono
Nuovi vertici per la cessione. Ma i l restyling degli scali è finito, i partner hanno fretta
Vera fuga dalle stazioni forse no, ma fra i soci di Mauro Moretti si avverte impazienza. Mentre l’amministratore delegato
di Ferrovie procede con la privatizzazione (parziale) di Grandi Stazioni e si prepara a far lo stesso con Centostazioni
(partecipata da Manutencoop, legata al nuovo ministro del Lavoro Giuliano Poletti), i partner si augurano che la mossa
sia rapida come un Frecciarossa e redditizia: «L’importante è che ci sia un’asta competitiva e l’azionista sia premiato il
più possibile», dicono fonti tra i soci privati. Il nuovo vertice Il treno per privatizzare la parte commerciale di Grandi
Stazioni è partito nei giorni scorsi e ha il volto inatteso di un professore, Gaetano Casertano. È il nuovo amministratore
delegato, dovrebbe indicare il cambio di passo e preparare al mercato l’azienda, che gestisce fra l’altro la stazione
Centrale di Milano, Termini a Roma e fa capo per il 60% a Fs e per il resto a Eurostazioni: cioè la Edizione dei Benetton, la
Vianini Lavori del gruppo Caltagirone, Pirelli e le rivali ferrovie francesi, le Sncf azioniste di Ntv, Italo. Docente di finanza
immobiliare alla Luiss, 46 anni, Casertano è stato nominato in sordina il 29 gennaio in sostituzione di Fabio Battaggia,
scaduto nel maggio 2012, ma rimasto al vertice in attesa del successore. È stato direttore generale di Risanamento e nel
consiglio di Grandi Stazioni sedeva già, in rappresentanza del socio Pirelli: azienda che seguì nella quotazione di Pirelli
Real Estate e nell’opa sugli immobili Unim. Con lui è cambiato anche il consiglio di Grandi Stazioni: new entry sono
Maurizio Gentile e Nannina Ruiu, entrambi in quota Fs, e Monica Cacciapuoti in rappresentanza dei Benetton. Presidente
resta Moretti, escono Maurizio Marchetti e Carlo Vergara (tutti Fs), più Battaggia. Confermati Fabio Corsico e
Massimiliano Capece Minutolo (Caltagirone), Vittorio De Silvio e Francesco Rossi (Fs).Casertano è un tecnico, un uomo di
finanza. Dovrà ora procedere con la complicata operazione progettata da Moretti: e cioè scorporare da Grandi Stazioni le
attività retail (come gli affitti dei negozi) e costruire un’altra società, una Grandi Stazioni 2, da cedere al miglior
offerente. Se il piano funziona, dopo Grandi Stazioni - il cui spin-off è atteso in vendita entro il 2015 da un prudente
Tesoro, quest’anno da Moretti - toccherà all’altra controllata di Fs, la Centostazioni che ha la stazione Garibaldi di Milano
(dov’è approdato Italo dopo corsa a ostacoli). Così si ritiene possibile in via XX Settembre. Ci sono però una criticità e un
punto di domanda. La criticità è rilevata da soci come la Save dell’Aeroporto di Venezia, azionista di Centostazioni (di cui
esprime anche l’amministratore delegato, Paolo Simioni) e impaziente d’uscirne: con questa procedura i tempi si
allungano. Perciò Save sta valutando l’idea di cedere autonomamente la propria quota (ha il 60% di Archimede 1, il
consorzio di privati che affianca al 40% Fs) e avrebbe già avviato i contatti con possibili acquirenti. «Con Centostazioni ci
sono meno sinergie di quanto ci aspettavamo», dice Enrico Marchi, presidente di Save (che ha una società di ristorazione
e retail, Airest, con Lagardère, non coinvolta nella riconversione di Centostazioni).Il punto di domanda invece è: chi
Alessandra Puato
Corriere della Sera
10 marzo 2014
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comprerà il business per cui le stazioni italiane sono state trasformate in lucenti mall? Con ogni probabilità, non i soci
Benetton e Caltagirone, come si augurava Moretti nell’ottobre 2011, quando già annunciò di voler vendere Grandi
Stazioni. E ha manifestato l’intenzione di uscire anche Pirelli. Perché i tempi sono cambiati, e Benetton come Marchi si
concentra sugli aeroporti, e ora i lavori sono quasi completati: è al 94% la riqualificazione degli scali ferroviari di Grandi
Stazioni, al 93% (stima entro fine anno) quella di Centostazioni. È tempo di monetizzare. Restano i fondi di private equity.
«Sulla carta Grandi Stazioni può essere un’operazione interessante - dice Eugenio Morpurgo, amministratore delegato di
Fineurop Soditic -. C’è attenzione degli investitori esteri al retail e all’Italia, ma bisogna vedere il perimetro di attività».
Altra incognita è la disponibilità dei fondi a coabitare con lo Stato, perché il cordone non sarebbe reciso. Se le Ferrovie
non vendono più la maggioranza delle società, come da ipotesi iniziale, e restano proprietarie dei muri dei negozi, chi
acquista dovrà fare i conti con loro. I numeri I numeri sembrano esserci, comunque. Grandi Stazioni, 700 milioni di
passeggeri all’anno con sosta media di 22 minuti, ha in portafoglio 13 stazioni italiane, più Praga. Ha completato il
restyling di nove scali, per dicembre intende finire Bari e Genova Brignole, seguiranno Bologna e Palermo. Conta 500
attività commerciali e di servizio su 100 mila metri quadri di spazi commerciali. Ha investito 700 milioni, di cui 240 da
fondi pubblici Cipe. Ha chiuso il 2012 con debiti netti a 163 milioni (-3%), ricavi a 199,7 (-8%) e un utile netto di 20,5 (35%): il 10% del giro d’affari. I ricavi consolidati da locazioni erano di 81,9 milioni nel 2012 e sono previsti in crescita a 97
nel 2013 (+9%). I ricavi da attività commerciale erano invece di 60,4 milioni e sono attesi in salita a 66 per il 2013: ed è
questa la fetta che dovrebbe essere inglobata nella Grandi Stazioni 2, da vendere. La valutazione informale che ne fa Fs è
di almeno 600 milioni, come dire 12 volte il margine operativo lordo della Grandi Stazioni attuale (48,5 milioni nel 2012):
tanto, ma si vedrà che cosa entra nella scatola. Centostazioni, che non è presieduta da Moretti (e forse, dicono alcuni
azionisti, gli è meno nel cuore), viaggia un po’ dietro. Comprende 103 stazioni, ha investito 210 milioni, vuole concludere
il 2014 ristrutturando lo snodo di Bergamo per l’Expo. Ha chiuso il 2012 con debiti netti per 23,2 milioni (-26%), 18,2
milioni di margine operativo lordo (+0,6%), un utile netto di 10,2 milioni e ricavi per 79,4, che stima salgano per il 2013 a
80. Di questi la parte commerciale, dichiara, è circa il 50%: ed è questa che sarebbe scorporata. «Ma così non è una
privatizzazione, è un modo per Ferrovie di fare cassa che pregiudica privatizzazioni future - avverte Stefano Caselli,
prorettore in Bocconi -. Le stazioni ormai sono bocconi appetibili, “event center” come uno stadio moderno, anzi più
potenti. Qualcosa a metà fra un centro commerciale e uno spazio eventi. Lo Stato può mantenere una quota minore, per
garantire l’interesse pubblico. Ma dovrebbe mettere in vendita tutto il pacchetto, senza scorpori».
L’ANALISI [email protected]
Sfreccia il treno Netflix e disturba le major
Vuole raddoppiare il budget sui diritti. Ma consuma gratis tutta la banda larga...
l successo di Netflix, regina dello Svod (subscription video on demand, abbonamento ai servizi video in streaming su
richiesta), comincia a dare noia ad alcuni. Innanzitutto alle major di cinema e tivù. Secondo una ricerca - scrive l’analista
Augusto Preta sul Corriere delle Comunicazioni - lo Svod rappresenta il 67% delle transazioni digitali e cresce più
rapidamente di tutte le altre forme di video. È la fruizione televisiva non tradizionale preferita dagli americani, con una
quota di mercato del 49% e un fatturato di 3 miliardi di dollari. Negli ultimi due anni, gli abbonati ai servizi di pay tv come
la mitica Hbo («Boardwalk Empire», «The Newsroom»), Showtime e Starz sono calati del 6%, contro una crescita del 4%
degli abbonati Svod. Naturalmente Netflix non è l’unica a beneficiarne: ne traggono vantaggio anche i suoi concorrenti
come Hulu Plus e Amazon Prime. Negli Stati Uniti, Netflix ha superato i 30 milioni di abbonati mentre Hbo ne ha 28,
Showtime 22 e Starz 21,8. La pay tv rappresenta il 60% dei ricavi degli studios. È in altre parole un signor partner che
acquista i diritti di film e serie tv prodotti da Hollywood per proporli più tardi con la sua offerta on demand. Ma, oltre che
partner, Netflix è diventata anche un temibile concorrente: perché, se da un lato acquista i diritti dagli studios, dall’altro
produce suoi programmi originali in competizione con i canali pay e i grandi network (vedi il clamoroso successo di
«House of Cards» con Kevin Spacey). Il confronto dei prezzi di abbonamento mensili è eloquente: 6,99 dollari al mese
(negli Usa) per Netflix contro i 17,99 di Hbo e i 12,99 di Showtime e Starz. Per capire le grandezze di cui parliamo, il
budget di Netflix per l’acquisto di diritti e la produzione di contenuti propri, oggi di 2 miliardi di dollari, dovrebbe
raddoppiare nei prossimi anni. Uno dei binari su cui sfreccia il treno di Netflix è l’uso di Internet come rete distributiva. In
America, nelle ore serali, l’azienda consuma, praticamente gratis, quasi la metà della banda larga disponibile. Ma qui la
locomotiva si scontra con le società di telecomunicazioni, le telco, obbligate dalle regole attuali a far pagare a tutti lo
stesso pedaggio sulla rete, indipendentemente dal fatto che facciano circolare singoli vagoni o, come nel caso dei video,
lunghissimi convogli. La recente decisione della Corte d’Appello di Washington (vedi il nostro blog Estory sul Corriere.it
del 18 gennaio scorso) ha giudicato incostituzionale questo modello di net neutrality e dato ragione agli operatori
telefonici. Se la decisione verrà confermata, società come Verizon e At&t potranno bloccare i servizi che consumano più
banda, come Netflix, o, più probabilmente, concludere accordi commerciali che facciano pagare la rete secondo
l’effettivo consumo.
Segantini Edoardo
Corriere della Sera
10 marzo 2014
Il Frecciarossa verso Piazza Affari
Privatizzazioni, ipotesi scorporo dell’Alta Velocità Grandi Stazioni può valere fino a un miliardo
In partenza: Trenitalia oppure solo l’Alta Velocità potrebbe essere quotata a Piazza Affari
Le parole pronunciate sabato a Cernobbio dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan hanno riacceso i riflettori sulle
privatizzazioni. Secondo il ministro trenta e più società controllate direttamente dallo Stato (in 19 di queste rinnoverà
quest’anno amministratori o sindaci) sono troppe, per non contare quelle in cui è azionista di riferimento, per interposta
holding, come nel caso delle partecipazioni di Cassa depositi e prestiti.
Ed ecco dunque il nuovo piano annunciato dal ministro, piano che non solo rilancia il programma di Letta ma che apre lo
spazio per nuovi interventi in comparti dove «c’è spazio per un ruolo ridotto dell’operatore pubblico», per citare le
parole dell’inquilino di via XX Settembre.
Nel mirino, secondo le stesse parole del ministro, ci sono controllate di Cdp, come Fincantieri (che arriverà in Borsa entro
l’estate, dunque in pochi mesi), e controllate di Ferrovie dello Stato. Fino ad oggi, in quest’ultimo ambito, si è sempre e
solo guardato a Grandi Stazioni, la società controllata al 60% da Fs e dove siedono anche azionisti privati come Pirelli,
Benetton, Caltagirone (attraverso la Vianini Lavori) e le «Chemins de Fer» francesi. I privati, secondo lo schema,
dovrebbero a loro volta fare un passo indietro, per mettere in asta il 100% delle attività commerciali e retail delle
principali stazioni del Paese, per un valore che, secondo alcune indiscrezioni, oscillerebbe tra i 700 milioni e il miliardo di
19
euro. Accanto a questo capitolo, se ne sta aprendo un altro, sempre in tema di treni e dintorni. L’idea, ancora agli albori
per la verità, sarebbe quella di quotare Trenitalia o una sua parte una volta scorporata, ad esempio quella relativa all’Alta
Velocità. Si vedrà.
Intanto i dossier già incardinati, da cui ricavare una decina di miliardi, procedono speditamente. Da un lato ci sono i
dossier in mano alla Cassa Depositi e Prestiti, dall’altra le controllate dirette dello Stato. Sul primo fronte per il 49% di
Cdp Reti, veicolo di investimento cui la Cdp ha girato il 30% di Snam (rete di gas) e il 29,9% di Terna (rete elettrica), ci
sono tre pretendenti. In prima fila c’è il fondo cinese State Grid, e poi l’australiana Ifm e Cig, il fondo sovrano di
Singapore.
In campo ci sono già le banche con un prestito ponte da 1,5 miliardi, per una quota che in tutto porterà alle casse della
società pubblica presieduta da Franco Bassanini fino a 3 miliardi di euro. Fincantieri (caso, quello del fiore all’occhiello
della nostra cantieristica navale, citato dal ministro nel suo discorso al Forum di Confcommercio) procede sulla strada di
Piazza Affari.
La quotazione della società vede già schierata una decina di banche e avverrà entro l’estate attraverso un’offerta
pubblica di vendita e scambio (Opvs) per una quota superiore al 30%: siamo dunque al rush finale. A chiudere il cerchio
Cdp, il dossier che riguarda Sace. Sul fronte delle partecipazioni dirette dello Stato da cui si attendono 8-9 miliardi, gli
unici utili all’abbattimento del debito pubblico, l’appuntamento più atteso riguarda il 40% di Poste Italiane che arriverà in
Borsa in autunno, per recuperare circa 4 miliardi.
L’iter è partito, con Rothschild advisor della società e Lazard consulente del Tesoro: è in corso la selezione delle banche,
ai fini della formazione del consorzio che accompagnerà in Borsa la società. Sono poi in ballo una piccola quota (3%) di
Eni e un’altra di Stm (microchip). E si parla di un miliardo per la quota di minoranza (circa il 49%) di Enav (gestione e
controllo del traffico aereo civile), per cui le banche sono in attesa parta la gara per scegliere i relativi consulenti.
FRANCESCO SPINI
La Stampa
24 marzo 2014
SULLE STRADE DI RAVENNA IL PRIMO BUS A IDROMETANO
Mobilità sostenibile: l'autobus del futuro va a energia pulita
Esplorare le possibilità e potenzialità all’uso della miscela di idrogeno e metano – detta “idrometano” – con l’intento di
ridurre l’inquinamento urbano e le emissioni di CO2 dovute al trasporto pubblico: è l'obiettivo del progetto MhyBus che
vuole contribuire a un ambiente urbano con aria più pulita attraverso un autobus innovativo. L'autobus del futuro,
utilizza un motore capace di usare una miscela al 15% di idrogeno e all'85% di metano, che permette minori consumi e la
riduzione, fino al 50%, delle emissioni di ossidi di azoto e anidride carbonica.
L'uso della miscela al 15% di idrogeno in volume porta a una riduzione significativa delle emissioni di gas serra, rispetto
all'alimentazione a metano, contribuendo alla riduzione delle emissioni in città, senza dovere realizzare investimenti più
ingenti che sarebbero necessari per il passaggio diretto all'uso di idrogeno puro nei trasporti. Da gennaio 2013 è dunque
iniziata la sperimentazione di questa tecnologia in Italia con il servizio su strada per gli utenti di Ravenna, grazie al
progetto MhyBus che coinvolge Aster, START Romagna, ENEA e SOL con la leadership della Direzione Generale Reti
infrastrutturali, logistica e sistemi mobilità della Regione Emilia-Romagna.
Il motore a idrometano, è stato messo a punto nei laboratori ENEA, testato con esito positivo dall'Istituto Motori di
Napoli del CNR e infine montato sul mezzo di trasporto e collaudato dalle officine di BredaMenarinibus, società di
Finmeccanica. Terminato l'allestimento e i controlli, il Centro Prove Autoveicoli di Bologna e la Motorizzazione Civile di
Ravenna hanno rilasciato tutte le autorizzazioni a procedere con la circolazione su strada. Il bus si trova ora a Ravenna
dove SOL (multinazionale italiana leader nella produzione di gas tecnici) ha installato una stazione di idrometano presso
la quale vengono effettuati i rifornimenti quotidiani. START Romagna, la società di trasporto pubblico di Ravenna, Forlì,
Cesena e Rimini, ha completato con successo la prima sperimentazione su strada per 5.000 chilometri senza passeggeri.
Superata con successo questa prima fase il bus è entrato nel vivo della sperimentazione passando a circolare su strada
con il regolare servizio passeggeri. Enea si occupa anche del monitoraggio continuo di emissioni in atmosfera, resa
energetica del veicolo e tenuta del motore sotto la costante supervisione delle autorità competenti.
Uno studio realizzato da ENEA su incarico della Regione Emilia-Romagna, basato su dati relativi al trasporto pubblico
regionale, ha comparato gli impatti ambientali causati dalla flotta di veicoli pubblici esistente a quelli causati dalla stessa
flotta a seguito dell’ipotetica conversione di tutti i veicoli a gas naturale in veicoli alimentati da idrometano. Le
conclusioni dello studio suggeriscono di optare per la conversione a idrometano per gli effetti positivi che ne
deriverebbero. In particolare la ricerca evidenzia che: l’idrometano permette di ridurre le emissioni gassose inquinanti
fino a 5 volte, a parità di intensità di traffico; una piccola quota di idrogeno (10-15%) non richiede modifiche ingenti al
regime operativo del motore.
@Redazione Planet Inspired
ON DEMAND IL 18 MARZO ATTESA L’OFFERTA IN STREAMING DI MURDOCH PER PC, CONSOLE, TABLET E SMARTPHONE. I COSTI E I RIVALI
Tv La partita? Senza decoder e parabola
Parte Sky Online con cinema, sport e fiction. Sfida con Mediaset, Telecom, Chili E dagli Usa sta arrivando Netflix. È una torta da 100 mila nuovi utenti all’anno
Martedì prossimo, 18 marzo, salvo imprevisti, dovrebbe partire Sky Online. È un servizio di video on demand per la
distribuzione dei palinsesti del colosso mediatico americano, indirizzato a una fascia di mercato che a Sky è definito di
«proto abbonati»: un pubblico giovane ed esigente, in continuo movimento, avvezzo all’uso della tecnologia e
all’acquisto istintivo, ma ancora privo di quell’indipendenza economica necessaria per affrontare i costi di un
abbonamento completo. Sky Online può essere definito il fratello minore di Sky Go, l’applicazione per fruire
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dell’abbonamento Sky da dispositivi mobili come il tablet, di cui mantiene la collaudata interfaccia utente e condivide
gran parte dei contenuti: cinema, serie televisive ed eventi sportivi, ma non i programmi d’intrattenimento come
Masterchef o Xfactor. I due pacchetti L’offerta prevede due tipi di abbonamento mensile non ricorsivo: allo scadere dei
30 giorni la visione s’interrompe e non viene addebitato più denaro. Uno è il pacchetto cinema, al probabile costo di
19,90 euro: comprende 600 film, più otto canali tematici dedicati, L’altro è il pacchetto dedicato delle serie televisive,
che secondo fonti dovrebbe costare 9,90 euro: 300 episodi seriali e tre canali dedicati. Discorso a parte per gli eventi
sportivi, per cui non è previsto abbonamento: sarebbero acquistabili singolarmente, a prezzi variabili. Per utilizzare Sky
Online servono un computer (Pc o Mac), oppure un qualunque tablet, o uno smartphone (iOS o Android), o una console
di videogiochi Playstation 4; oltre, naturalmente, alla connessione Internet, fissa o mobile. Confrontato con le offerte dei
principali concorrenti (vedi tabella), se le informazioni raccolte fossero confermate, il modello di business di Sky Online
sarebbe più costoso per l’utente. Per un abbonamento che comprenda cinema e serie tv, pur senza spese aggiuntive
nascoste, si arrivano a pagare quasi 30 euro al mese, più di quanto sia necessario per l’abbonamento al pacchetto base
del servizio completo Sky. I concorrenti L’operazione è giustificata dal gruppo di Rupert Murdoch con l’elevata qualità
dei contenuti, in continuo e veloce aggiornamento. Comunque, siamo lontani sia dai 9,90 euro necessari per vedere
l’intera offerta del recentissimo Infinity di Mediaset (le cui prime visioni cinematografiche si pagano però
separatamente), sia dagli 11.90 euro richiesti da Telecom Italia per la sua Cubovision (che oltre a cinema e serie
televisive può contare su tutti i canali tematici della Rai). Diversa è la strategia della Chili Tv di Fastweb e del fondo
Antares. Più simile a una videoteca virtuale che a un palinsesto tv, non richiede infatti alcun abbonamento. Consente di
noleggiare per 48 ore, o acquistare per sempre, i diritti per vedere contenuti solo cinematografici, pagando cifre diverse
a seconda del film e della sua qualità video, in alta o in bassa risoluzione (l’acquisto va da 5 a 19,99 euro, il noleggio da
0,99 a 5,49 euro). L’ultima onda Con 40 milioni di utenti in tutto il mondo, di cui 30 solo negli Usa, il colosso Netflix,
Triulzi Massimo
quotato al Nasdaq, è ancora il grande assente nello scenario televisivo italiano. Pronto a sbarcare in Francia e in
Germania con un abbonamento mensile da 7,99 euro, secondo indiscrezioni dovrebbe arrivare in Italia entro la fine
dell’anno (ma non ci sono conferme ufficiali). Nato negli Stati Uniti come servizio di noleggio fisico di Dvd, Netflix è
diventato in pochi anni il primo fornitore di televisione interattiva nel mondo, producendo contenuti proprietari per i
propri servizi. In testa ci sono le serie televisive di successo che possono essere seguite esclusivamente online: tra
queste, il celebrato House of Cards, interpretato dal premio Oscar Kevin Spacey. Secondo l’osservatorio Mavise per i
contenuti audio e video, organo ufficiale della Comunità europea, in Italia si è creato in pochi anni un sottobosco di ben
249 servizi attivi di video on demand, su un totale di oltre 5 mila in tutta Europa (dati 2013). Il valore mondiale di questo
mercato è stimato in 21,8 miliardi di dollari (circa 870 miliardi di lire), con una crescita prevista a 45,25 miliardi di dollari
(circa 33 miliardi di euro) per il 2018 (fonte Marketsandmarkets). In Italia, nello stesso periodo, è prevista una
fidelizzazione di centomila nuovi utenti ogni anno, partendo da una base odierna numericamente insignificante (fonte
Ihs 2014). Quello del video on demand è probabilmente il modello di televisione del futuro, personalizzabile e
caratterizzato da una partecipazione attiva del telespettatore che sceglie solo quello che vuole vedere (e pagare). In
Italia, pur con previsioni di forte crescita, lo scenario è ancora embrionale. E anche se a oggi è impossibile stabilire se
sarà il modello di business vincente, l’importante per tutti i protagonisti è essere saliti a bordo.
Corriere della Sera
10 marzo 2014
SVOLTE IL 16 APRILE L’ASSEMBLEA DELL’EX MONOPOLISTA. IL RUOLO DI FINDIM E DI TELCO
Telecom Per comandare la carta degli indipendenti
Tre liste in assemblea, ma un unico denominatore in comune Sfida per la presidenza tra Recchi e Gamberale. Patuano guarda In lizza per un posto in consiglio anche il
leaderdei piccoli azionistiAssogestioni invece si affidaa Lucia Calvosa, Benello e Cornelli
Tutti pazzi per gli indipendenti. Tre liste e tre schieramenti: uno di maggioranza, Telco, e due di minoranza, Fossati e
Assogestioni. Ma accomunati dal numero schiacciante di consiglieri indipendenti, paradossalmente anche nella lista
presentata da chi controlla Telecom Italia. Più in generale è il loro momento: c’è una proliferazione dei consiglieri
indipendenti, quasi una fabbrica. Dirà poi il tempo se la governance di Piazza Affari sta vivendo un passaggio storico di
grande rielaborazione oppure se siamo di fronte ad esperimenti destinati a lasciare insoddisfatti. Testa a testa Intanto il
16 aprile si voterà per il board del gruppo telefonico che farà così da cartina di tornasole per tutto l’ecosistema delle
società quotate. La sfida per la presidenza si giocherà tra Giuseppe Recchi e Vito Gamberale. La giuria - grazie
all’integrazione dell’ordine del giorno richiesta da Marco Fossati - sarà l’intera assemblea di Telecom Italia. Il classico
remake di un fortunato titolo al botteghino, Una poltrona per due . Anche se, certo, tra la carta e le possibilità reali c’è di
mezzo il capitale. Recchi può contare sull’appoggio di partenza del 22,4% del blocco Telco. Gamberale ha il 5% della
Findim a sostenerlo e spera con il piano presentato in questi giorni di convincere i fondi, tanto che lo stesso Fossati è in
partenza per un road show. In ogni caso il gioco delle liste è chiuso. Il board di Telco ha licenziato alle stampe quella
guidata da Giuseppe Recchi, attuale presidente dell’Eni, che evidentemente deve aver capito che nel giro delle nomine
pubbliche l’aria era cambiata con l’arrivo di Renzi. Tra i nomi già emersi è stato confermato quello di Marco Patuano,
attuale amministratore delegato, che archivia dunque la fiducia dei soci di Telco tra cui Telefonica oltre a quelli di Flavio
Cattaneo, amministratore delegato di Terna, e della baronessa Denise Kingsmill. Al loro fianco sono spuntati il presidente
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onorario di L’Oreal Italia, Giorgina Gallo, l’amministratore delegato di Cartasì Laura Cioli, l’ex Rcs Giorgio Valerio,
l’amministratore delegato di Zignago, Luca Marzotto, Elena Vasco, vice segretario generale della camera di Commercio di
Milano, Paolo Fumagalli, socio fondatore dello Studio professionale Associato Gft & Partners, Maurizio Dattilo dello
Studio Dattilo commercialisti Associati. Ricandidati gli attuali consiglieri Jean Paul Fitoussi (che però dopo 9 anni nella
stessa società perde la qualifica di indipendente) e Tarak Ben Ammar. È una lista di 13 nomi i cui ultimi tre invero (Vaschi,
Fumagalli e Dattilo) già sanno di non potercela fare perché quelle poltrone andranno alle minoranze. Scivoloni La lista
presentata da Fossati che attraverso la Findim controlla il 5% di Telecom è invece inciampata subito su un paio di bucce
di banana. Alla guida di questo gruppetto di candidati c’è Vito Gamberale, seguito da Girolamo Di Genova e dall’alleato
Franco Lombardi, presidente dei piccoli azionisti di Telecom, l’Asati. In prima battuta, dunque, Findim si era dimenticata
il rispetto delle quote di genere come previsto dallo statuto. Tanto che in 24 ore ha integrato la lista dei suoi candidati
con Maria Elena Cappello, consigliere di Sace, Prysmian e A2A, e Daniela Mainini, titolare dello studio legale Mainini e
Associati e presidente del Centro Studi Anticontraffazione e Grande Milano. L’altra buccia è stata evidenziata da un
rumor circolato subito nelle stesse ore. Una tempestività che deve avere messo in crisi anche chi crede nelle coincidenze.
La voce parlava dell’improvvisa riapertura del dialogo di Telecom con Metroweb per entrare nella società con una quota
di minoranza. «Sono solo rumor di mercato: non ci sono notizie» ha affermato subito Patuano a margine di un convegno.
Intanto l’ipotesi aveva già fatto esplodere il conflitto di interessi di Gamberale che con F2i, di cui è amministratore
delegato, ha già una quota di controllo in Metroweb e ancora di più di Di Genova che era anche nel consiglio della
società. Il «passato» non è un refuso: Di Genova ha rassegnato in corsa le dimissioni per evitare qualunque possibile
accusa. Le divisioni Nel frattempo la Findim ha anche tolto il velo sul piano industriale che presenterà all’assemblea,
elaborato con la consulenza del candidato presidente Gamberale. In questo documento si prevede la separazione di
Telecom Italia in tre divisioni: telefonia mobile, fissa e una nuova business unit dedicata ai servizi al fine di sostenere la
crescita del gruppo e garantire una maggiore flessibilità finanziaria. La nuova organizzazione dovrebbe consentire alla
compagnia di passare da una situazione di ex monopolio a una situazione di «crescita imprenditoriale». Il piano prevede
anche il potenziamento di Tim Brasil anche per vie non organiche, passando attraverso alleanze con gli operatori fissi
nazionali Gvt od Oi e una partnership in Italia con la Cassa Depositi e Prestiti per accelerare gli investimenti sulla rete. A
chiudere il cerchio è la lista di Assogestioni guidata da Lucia Calvosa, già presente nel consiglio di amministrazione di
Telecom Italia, che andrebbe dunque verso una riconferma. Gli altri due nomi in rappresentanza dei fondi italiani sono
David Benello e Francesca Cornelli. Ora la parola passerà ai voti e alla raccolta delle deleghe - non facili perché sul
mercato, dopo i fondi, ci sono tanti piccolissimi azionisti. Ma non bisogna essere dei maghi per prevedere che il 16 aprile
il clima sarà caldissimo, forse anche più bollente di quanto già si verificò lo scorso 20 dicembre quando i due blocchi,
Telco e Findim, si scontrarono sull’azzeramento del consiglio di amministrazione. Per la società inizia un mese di
suspence.
Sideri Massimo
Corriere della Sera
24 marzo 2014
“Condividere reti e investimenti”
Ibarra, ad di Wind: il mio piano di alleanza sulla telefonia mobile con gli operatori
Investimenti ingenti per le reti telefoniche con ricavi in calo e margini sotto pressione anche per via della forte
competizione sui prezzi. Il mestiere di una compagnia telefonica è sempre più complicato, perciò occorre ripensare il
modello di business rispetto ad un mercato competitivo, affollato e maturo come quello italiano. La proposta che rivolgo
agli altri operatori di tlc è di allearci, fare network sharing. Occorre condividere investimenti e reti per far ripartire il
mercato nel lungo termine». Maximo Ibarra, 45 anni, ad e dg di Wind dal 2012, tira fuori così dal cassetto una sorta di
“piano B”. Un’alternativa dopo che le ipotesi di nozze tra Wind e 3 Italia sono sfumate, come ha riportato La Stampa.
Investimenti costosi sempre più difficili da sostenere con la crisi?
Dopo che altri tentativi di fusione sono tramontati, come quelli fra Telecom-H3g e Vodafone-Fastweb, che succederà al
mercato delle tlc in Italia se non ci saranno aggregazioni tra i 5 operatori principali?
E cosa si aspetta dal governo Renzi?
«Guardiamo l’Europa in primis. Penso che nei prossimi 5 anni, nel nostro continente ci saranno aggregazioni. Forse tra
operatori di diversi Paesi. Più di cento compagnie per 400 milioni di abitanti sono troppe».
Sì, ma in Italia?
«Non escludo ipotesi di consolidamento, ma non c’è solo quello societario sul quale mi pare si siano concentrate le
speranze dei nostri concorrenti. L’idea che voglio portare avanti è quella di trovare forme di collaborazione con altre
compagnie sulle reti di telefonia mobile. Come accade, in Gran Bretagna, dove ci sono quattro operatori principali che
lavorano su due infrastrutture».
Quali collaborazioni?
«Si potrebbero condividere gli investimenti per l’attuale rete mobile 4g e per la futura rete di quinta generazione, sto
parlando delle infrastrutture di accesso per la copertura di rete. Con la quarta generazione Wind, come i suoi due
maggiori concorrenti, ha speso oltre 1.100 milioni per acquistare dallo Stato le licenze Lte a 800 e a 2.600 megahertz, per
garantire lo sviluppo dei servizi ad ultrabanda mobile. Negli ultimi 4 anni Wind ha investito oltre 3 miliardi in reti e
tecnologia, quasi 900 milioni l’anno. Ora ciascun operatore dovrà spendere cifre importanti per soddisfare la domanda
crescente nei prossimi 5 anni. Parlo di un aumento del volume dei dati di almeno 10 volte rispetto al consumo attuale».
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«Sì, soprattutto nei prossimi 5 anni, perciò dobbiamo fare sistema con gli altri gruppi e la soluzione c’è: il network
sharing. Potremmo fare di più grazie a una maggiore efficienza, creando le condizioni per un futuro brillante per le tlc in
Italia. Ma servono altri interventi. Le faccio un esempio: la troppa burocrazia che abbiamo in Italia. Da noi, spesso, ci
vogliono tempi biblici per avere i permessi per installare nuove antenne nelle grandi città».
«Il nuovo premier è partito col piede giusto, l’agenda e la road map delle riforme sono chiare. Spero che si possa
realizzare quello che ha indicato come priorità. In particolare mi auguro che riesca a snellire la burocrazia, a
semplificarla. Le indico una strada: portare avanti la digitalizzazione della pubblica amministrazione, per aumentare la
produttività del settore pubblico ed offrire nuovi servizi ai cittadini. In questo modo si libererebbero risorse per
alleggerire famiglie e imprese dal peso eccessivo delle tasse».
Pensa che il nuovo governo si occuperà dello scorporo della rete Telecom?
«E’ da un po’ di tempo che non se ne discute più. Spero se ne torni a parlare presto. La separazione della rete può essere
di grande aiuto per rispettare gli obiettivi di banda larga fissati per il 2020 dall’Ue. O Telecom Italia farà gli investimenti
da sola o con la società delle reti».
Wind cosa propone?
«Se Telecom non ha risorse sufficienti, occorre creare una società delle reti in cui partecipino tutti gli operatori telefonici
interessati insieme alla Cassa depositati e prestiti. Wind è disponibile a conferire gli asset della rete fissa di Infostrada.
Ma a due condizioni: la società delle reti deve avere una governance trasparente che rappresenti i soggetti coinvolti. E
deve essere garantita la parità di accesso agli operatori».
Parliamo dell’ultimo bilancio di Wind, sul fronte della gestione operativa
«Abbiamo raggiunto una marginalità del 39%, un risultato molto positivo se si tiene conto del calo dei ricavi del mercato.
Credo di poter dire, senza enfasi, che sotto il profilo della gestione industriale abbiamo dimostrato una grande capacità
di controllo dei costi e degli investimenti senza mai abbassare la qualità».
Qual è la sfida per il 2014?
«La nostra quota di mercato nella telefonia mobile residenziale è superiore al 27%, siamo un operatore che ha
dimensioni da leader. Per fare ciò abbiamo puntato sulla forza del nostro posizionamento e del brand che è garanzia di
tariffe innovative, semplici e trasparenti. Ma soprattutto sulla qualità della rete e dell’assistenza clienti. Non è un caso
che Wind, secondo un’analisi sulla customer satisfaction degli italiani realizzata dall’Istituto Tedesco Qualità Finanza, sia
l’unico operatore ad aver ottenuto i giudizi più alti da parte dei clienti».
Luca Fornovo
La Stampa
10 marzo 2014
RICERCA INDAGINE DELL’ISTITUTO TEDESCO QUALITÀ E FINANZA DI MONACO SUGLI OPERATORI LTE, L’AUTOSTRADA DEI DATI, NELL’AREA DI MILANO
Web Super-Rete, la copertura premia Tim
Prima nel test sul campo con l’86% di collegamenti riusciti. L’efficacia di Vodafone Con 3 Italia la maggiore quantità di dati trasferiti. I voti ai protagonisti della gara al 4G
È il primo studio comparato sull’efficienza della banda larga nella telefonia mobile, il cosiddetto 4G, o Lte (Long term
evolution): un’autostrada informatica, capace di superare (almeno in laboratorio) la soglia di un gigabit (mille megabit) al
secondo e, dunque, veicolare contenuti multimediali on-air a velocità impensabili. In realtà oggi la velocità media è di
circa 60 megabit al secondo, con il record stabilito un mese fa da Vodafone a Napoli con un picco superiore ai 250 mega
un mese fa. Dopo il focus sull’efficienza in Italia dei quattro gestori telefonici con il 3G, pubblicato la scorsa settimana
(Corriere Economia , pag. 26), ecco la seconda parte del dossier firmato dall’Istituto Tedesco Qualità e Finanza di
Monaco, specializzato nelle indagini sulla qualità delle aziende, in collaborazione con Net Check GmbH e Focus Infocom
GnbH. I risultati Nella gara all’ultimo collegamento Lte non esiste un vero vincitore, bensì operatori che hanno
dimostrato grande qualità in test diversi. Tim è stato il migliore come copertura, Vodafone ha invece avuto il punteggio
più alto nei successi dei collegamenti, 3 Italia ha brillato per la maggiore quantità di dati utili trasferiti. Mentre le sim
messe a disposizione per il test da Wind, come si legge nella relazione finale, «non hanno registrato nessun segnale Lte
per il trasferimento dati, il browsing e lo streaming video». Questo non significa che la presenza di maggiori connessioni
a Lte segnali una rete migliore, anzi: in alcuni casi il gestore con meno accessi alla super-rete ha fatto registrare le
migliori performance. I criteri d’indagine Avvertenza. A differenza dello studio sulla rete 3G, durante la quale i tecnici si
sono avventurati per tremila chilometri da Nord a Sud, passando per 13 regioni e toccando sette delle più importanti
città italiane, Lte è stato provato un giorno solo a Milano. È dunque uno studio parziale e geograficamente limitato. È
stato realizzato a novembre e in questo lasso di tempo le infrastrutture possono aver registrato cambiamenti e
miglioramenti. Ma è comunque un termometro interessante per capire come i quattro principali gestori telefonici (Tim,
Vodafone, 3 Italia e Wind) si sono mossi in questa nuova tecnologia di trasmissione, che promette di cambiare il modo di
vivere la Rete. Nella precedente sfida con il 3G, il vincitore del super-test, con 85 punti, è stato Vodafone (88 i punti per
la qualità della voce e 82 pqe quella dei dati). Al secondo posto si è classificato Tre con 83 punti (97 voce e 74 dati).
Medaglia di bronzo per Tim con 74 punti (88 voice e 64 dati) e, infine, quarto posto per Wind, a quota 69 (65 punti per la
voce e 72 per i dati). Ma vediamo in dettaglio come si è svolto questo test sul 4G. Gli ingegneri tedeschi si sono mossi a
piedi oppure sui mezzi pubblici milanesi. «I telefoni si sono collegati direttamente alla rete Lte - spiegano gli autori del
test - e dove non è stato possibile alla rete 3G o 2G dell’operatore (tecnicamente si chiama floating mode
Lte/Wcdma/Gsm, ndr .). Le misurazioni sono avvenute in mobilità e in varie parti del capoluogo lombardo». Secondo le
rilevazioni dell’Istituto tedesco qualità e finanza, Tim è stato l’operatore che rispetto agli altri concorrenti si è collegato
più spesso alla Lte. «La quota di connessioni alla rete veloce, per il trasferimento dati, il browsing (la navigazione su
Internet) e lo streaming video, è stata infatti in media fra l’86% e l’89% - spiegano i tecnici -, la maggiore quota». E per il
solo download il tasso di connessione medio alla rete ultraveloce (la copertura) di Tim, sull’itinerario di Milano, è stato
dell’85,7%. Seguono Vodafone (70,4%) e 3 Italia (66,9%). Nel test della maggiore quantità di dati utili trasferiti è stata 3
Italia a registrare le migliori performance con 20 megabit in download e 7,2 in upload: il doppio di Tim e il quadruplo di
Wind. Le variabili esterne Due parole sull’attendibilità del test: buona, anche se disturbi contingenti e sovraccarichi di
rete possono avere pesato sulle misurazioni. «Sono le varabili esterne - ammettono i tecnici - che possono influire sulle
performance registrate dai singoli operatori mobili». Ma è anche vero, nota l’Istituto, che eventuali problemi hanno
interessato tutti gli operatori, e comunque si tratta «di questioni reali che avrebbero potuto riguardare i normali utenti».
Alla fine, lo studio ha messo in evidenza una verità: siamo agli albori di una gara senza precedenti tra i principali gestori
per contendersi il primato della super-Rete. E il futuro sarà sempre più veloce.
Gasperetti Marco
Corriere della Sera
24 marzo 2014
Consolidamento tlc: il risiko europeo premia il titolo Telecom Italia
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Il titolo di Telecom Italia sale sulla scia delle operazioni Vodafone-ONO e Numericable-SFR.
Il risiko delle tlc europee è in pieno svolgimento: oggi Vodafone ha acquisito l'operatore spagnolo ONO per 7,2 miliardi di
euro e di questo fermento sta beneficiando anche Telecom Italia, che chiude la giornata di contrattazioni con un
incrmeento del 3,91% a 0,823.
Venerdì, il ministro dell'Industria Arnaud Montebourg ha stigmatizzato il fatto che "Numericable ha una holding in
Lussemburgo, Altice è quotata alla Borsa di Amsterdam. La partecipazione personale di Drahi è a Guernesey, in un
paradiso fiscale di sua Maestà la regine d'Inghilterra e lui è residente in Svizzera".
Sempre oggi, il miliardario franco-israeliano Patrick Drahi ha presentato il progetto di fusione tra Numericable e SFR,
dopo che venerdì Vivendi, ha deciso di aprire coil suo gruppo trattative esclusive. Un colpaccio per Drahi, che ha
presentato un'offerta di 15 miliardi di euro ma ha incontrato l'opposizione del governo francese, che avrebbe preferito
un altro pretendente, il francese Martin Bouygues, dell'omonimo gruppo tlc.
Il marchio Numericable sparirà non appena sarà completata l'acquisizione di SFR, ma la sede del nuovo gruppo
Numericable-SFR resterà a Parigi e sarà quotato alla Borsa di Parigi, ha assicurato Drahi, che ha anche aggiunto che "non
è in previsione il rientro della mia famiglia in Francia".
Non a caso, anche il ministro francese all'economia digitale Fleur Pellerin ha intimato all'imprenditore di rimpatriare la
sua sede fiscale in Francia: "Non sono un ispettore del fisco - ha detto la Pellerin in un'intervista al Journal du dimanche ma se Patrick Drahi acquisirà il secondo operatore mobile francese sarebbe logico che riportasse in Francia la residenza
fiscale e gestisse i suoi affari da Parigi".
"Quello delle telecomunicazioni è un settore sensibile. Acquisire SFR darà a Drahi delle responsabilità di cui è
sicuramente consapevole", ha spiegato il ministro Pellerin, sottolineando comunque di non voler fare "un processo alle
intenzioni".
"Investirò 3 miliardi di euro in Francia e già questo è un investimento massiccio. Se poi tutti gli imprenditori
che investono in Francia rimpatrieranno i loro capitali, farò la stessa cosa domani mattina stesso", ha chiosato.
"I ministri - ha affermato ancora Drahi - fanno il loro lavoro…Ognuno fa il suo mestiere…ma quello che posso
dire è che questa unione è molto importante per l'avvenire delle telecomunicazioni francesi e creerà un
campione nazionale ed europeo, mettendo insieme due imprese magnifiche, dal percorso diverso ma
complementare".
Alessandra Talarico
Key4biz
17 Marzo 2014
DOMANI IL CDA DI TELCO SULLA LISTA PER RINNOVARE I VERTICI DEL GRUPPO ITALIANO
Vodafone riaccende il risiko del telefono: Compra la spagnola Ono. Telecom vola in Borsa
L’Europa è sovraffollata di operatori mobili
C’è Altice, in Francia, che stringe su Sfr, operatore nella banda larga fissa e mobile di Vivendi, per fonderla con
Numericable, mettendo sul piatto la bellezza di 11,75 miliardi. E Vodafone che cala l’asso su Ono, operatore di Internet
superveloce in Spagna. Si riaccendono i fari sul consolidamento del settore delle telecomunicazioni in un’Europa
sovraffollata di operatori mobili e che vede oltre quaranta provider di linea fissa in 28 Paesi, contro i quattro degli Stati
Uniti.
Le grandi manovre nel settore non hanno condizionato solo le quotazioni degli interessati (e ieri Vodafone ha chiuso con
un rialzo dell’1,73%) ma anche quelle di chi, come Telecom Italia, è da tempo sotto attenta osservazione: il titolo del
gruppo guidato da Marco Patuano ha portato a casa un +3,91%, nonostante la posizione di Telefonica sia da tempo
immutata al 66% di Telco ma sotto al 50% quanto a diritti di voto. L’operazione di Vodafone che ieri ha catalizzato
l’attenzione del mercato ha visto la multinazionale guidata da Vittorio Colao acquisire Ono per 7,2 miliardi di euro.
«La combinazione di Vodafone e Ono crea un leader delle comunicazioni integrate in Spagna e rappresenta
un’opportunità attraente di creazione di valore per Vodafone», ha sottolineato Colao. «La domanda di comunicazioni
unificate fisso-mobile è cresciuta significativamente in Spagna negli ultimi anni e questa transazione, assieme al nostro
piano di sviluppo di fibra ottica, accelererà la nostra capacità di offrire proposte di qualità sul mercato spagnolo». Il
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prezzo dell’acquisizione, finanziata da Vodafone con azioni e debito bancario, sarà al netto della cassa e di un
indebitamento per 3,3 miliardi di Ono.
Il gruppo britannico prevede dall’acquisizione sinergie di costo per 240 milioni di euro l’anno nei prossimi 4 anni, pari a 2
miliardi complessivi. Ono raggiunge con la propria rete di prossima generazione 7,2 milioni di utenti, grazie ai quali
Vodafone può competere con l’offerta nella fibra ottica di Telefonica. L’operatore via cavo faceva capo per il 54,4% a
quattro fondi: Providence Equity Partners, Ccmp Capital Advisors, Qadrangle Capitale Partners e Thomas H. Lee Partners.
Mentre il mercato guarda ancora a operazioni in terra spagnola, scommettendo sull’interesse di Orange su Jazztel, e a
possibili colpi di scena su Sfr (nel governo di Parigi c’è chi preferirebbe un accordo con Bouygues Telecom), in Italia sul
fronte delle fusioni è stallo.
Il fidanzamento tra Wind e H3g è saltato prima delle nozze, le valutazioni di Fastweb proposte da Vodafone non
convincono gli svizzeri di Swisscom. In casa Telecom Italia - smentite possibili operazioni in Brasile - l’attenzione è sulle
liste che entro venerdì saranno presentate per il rinnovo dei vertici del gruppo.
Per la presidenza, dalle parti di Telco si rafforza l’ipotesi di una candidatura di Giuseppe Recchi, attuale presidente di Eni.
I giochi si chiuderanno domani, quando si riunirà il consiglio di amministrazione della holding che controlla il 22,4% di
Telecom.
Oggi a Mediobanca il comitato nomine esaminerà i quattro nomi che saranno proposti da Piazzetta Cuccia. Nel
frattempo c’è attesa per le mosse di Marco Fossati, deciso a far pesare il proprio 5% anche passando da una condivisione
del piano industriale. Restando in tema di liste, Telecom ha presentato quella per il Cda di Telecom Italia Media. In testa
l’attuale presidente Severino Salvemini, seguito da sette candidati indipendenti.
Francesco Spini
La Stampa
18 marzo 2014
Cambiare la mentalità sull’energia per rilanciare il Vecchio Continente
Caro Direttore,
Con la shale revolution gli USA hanno raggiunto l’indipendenza energetica a costi competitivi e riducendo le emissioni di
CO2: dal 2008 il prezzo del gas e quello dell’elettricità sono scesi del 75% e del 5% e sono un terzo e la metà di quelli
medi europei. Secondo la IEA per questo divario la quota UE di esportazioni di prodotti ad alta intensità energetica
diminuirà nel 2030 del 28% a vantaggio di USA, Cina, India e Medio Oriente: l’Europa rischia la deindustrializzazione,
negli USA si rilocalizzano le attività produttive energivore in passato delocalizzate.
Questo divario influisce anche sul piano ambientale: le utilities americane stanno introducendo nel mix di generazione il
gas in sostituzione del carbone, che è esportato in Europa dove sta avvenendo il contrario; a conferma che le politiche
ambientali sono inefficienti se non supportate da quelle per la competitività, è a rischio l’impegno UE nella lotta ai
cambiamenti climatici, che peraltro a livello globale è isolato e in alcune politiche (rinnovabili, ETS) inadeguato. Come
può l’Europa reagire? In un arco temporale ragionevole non con lo shale per la geologia, l’elevata urbanizzazione,
l’opposizione dell’opinione pubblica e l’assenza di alcuni fattori abilitanti (tra tutti la legislazione sulla proprietà che negli
USA si estende al sottosuolo); anche per la politica neutrale dell’UE gli Stati membri hanno posizioni diverse sul tema e
l’esplorazione (salvo in UK) non decolla.
L’UE deve invece coordinare lo sviluppo e l’interconnessione delle infrastrutture di trasporto di gas e di elettricità, il mix
di generazione, in un quadro regolatorio armonizzato. Finora si è assistito a scelte influenzate da logiche nazionali con
effetti contradditori: è il caso dell’Italia che rinuncia per due volte al nucleare e importa energia da centrali nucleari
francesi; o quello della Germania, la cui uscita dal nucleare verso le rinnovabili sta comportando un costo elevato e il
rischio di instabilità del sistema elettrico, inducendo il Governo a ripensare questi programmi; o quello della Spagna, la
cui capacità di rigassificazione, la più ampia dell’UE ma largamente inutilizzata, per l’inadeguata interconnessione con la
Francia non può soddisfare il fabbisogno di quei Paesi (tra cui il nostro) che necessiterebbero di una diversificazione delle
infrastrutture di importazione; o l’attribuzione a livello nazionale degli obiettivi sulle rinnovabili del primo pacchetto
clima energia, che ha indotto gli Stati membri a varare politiche non coordinate, che in alcuni Stati (Germania, Italia,
Spagna) hanno comportato oneri elevati con incentivi illogici (in Italia gli incentivi al fotovoltaico sono superiori a quelli di
Germania e Francia, pur con la stessa tecnologia di produzione e una maggiore insolazione), non hanno favorito
un’allocazione efficiente delle risorse (fotovoltaico in Germania e eolico in Sicilia), non sono state coerenti con
l’evoluzione delle tecnologie (in molti Paesi, tra cui il nostro, gli incentivi superano i costi di produzione) e non hanno
promosso la crescita di una filiera industriale.
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Lo sviluppo delle rinnovabili - imprevisto e talora disallineato rispetto agli obiettivi (in Italia nel 2012 si era già installato
per il fotovoltaico ciò che si sarebbe dovuto realizzare nel 2020) - e il calo della domanda per la crisi hanno creato quindi
un eccesso di capacità che sta escludendo dal mercato centrali essenziali per la stabilità del sistema elettrico e
l’integrazione delle rinnovabili intermittenti; più in generale sta causando il rinvio degli investimenti necessari per la
sicurezza, l’efficienza e la sostenibilità ambientale del settore. Le imprese del settore dopo le liberalizzazioni degli anni
’90 hanno perseguito, in continuità con il passato, un modello di sviluppo che è stato messo in crisi dal cambiamento di
scenario determinato dall’impatto sul mercato dello shale gas, della crisi economica, delle misure di efficienza energetica
e delle rinnovabili: nel decennio 2000-10 la capacità termica nell’UE (oggi sottoutilizzata) è aumentata di circa 70 GW (di
cui 19 GW in Italia) con ricorso all’indebitamento. L’industria energetica europea si trova dunque di fronte alla necessità
di rivedere il proprio modello di business nella direzione dello sviluppo in termini economicamente sostenibili delle
rinnovabili, dell’efficienza energetica, della mobilità elettrica, delle smart grids e delle batterie, dei servizi ai clienti finali:
questo riorientamento strategico, con un ruolo cruciale dell’innovazione tecnologica, comporterà una profonda
ristrutturazione del settore che deve affrontare la peggior crisi nella storia recente.
L’esito di questa fase, che non sarà né breve né indolore, dipenderà anche dall’adozione di politiche energetiche
adeguate, coerenti nel tempo, di ampio respiro e soprattutto non distorsive; con il nuovo pacchetto clima-energia la
Commissione UE ha fissato due obiettivi per il 2030: la riduzione delle emissioni di CO2 del 40% e la quota di produzione
da fonti rinnovabili del 27 % per tutta l’Unione; obiettivo quest’ultimo che da un lato rischia di replicare le distorsioni
finora viste, ma dall’altro non essendo vincolante per i singoli stati membri consentirà più efficienza nell’allocazione delle
risorse ed un maggior interscambio dell’energia verde tra gli Stati membri; ma soprattutto rappresenta un passo
importante verso una politica coordinata nella prospettiva di una maggiore integrazione europea. Nel settore del gas una
maggiore integrazione delle infrastrutture di trasporto consentirebbe di bilanciare eccedenze e fabbisogni dei singoli
Paesi, riducendo le importazioni e aumentando il potere negoziale con i Paesi produttori; favorirebbe inoltre la
realizzazione di infrastrutture per diversificare l’approvvigionamento rappresentato per circa il 40% da Russia e Algeria di
cui la crisi ucraina evidenzia la criticità: un accelerazione del negoziato TTIP tra UE e USA potrebbe facilitare
l’importazione di gas dagli USA, oggi soggetta a regime autorizzativo. Nel settore elettrico promuoverebbe la crescita
sostenibile delle rinnovabili e l’uso più efficiente del parco termoelettrico: gli impianti a gas italiani, oggi sottoutilizzati,
potrebbero favorire in Germania il phase out del nucleare, le rinnovabili e la stabilità del sistema.
Tutto ciò tuttavia richiede un quadro regolatorio omogeneo e l’adozione da parte dei Paesi membri di piani energetici
coordinati a livello UE sulla base di linee guida che valorizzino le risorse dei singoli Stati; il tutto all’interno di un mercato
unico europeo dell’energia elettrica e del gas, il cui completamento - secondo la stessa Commissione UE - potrebbe
portare nel 2030 a risparmi annui compresi tra i 40 e i 70 miliardi di Euro e potrebbe costituire la premessa per una
maggiore integrazione energetica con i Paesi del bacino sud–orientale del Mediterraneo, che favorirebbe lo sviluppo del
potenziale rinnovabile in queste aree.
Ma per questi obiettivi è necessario un cambio nella governance energetica europea, che deve comportare anche la
rinuncia dei Paesi membri a parte della loro sovranità. Questa sarebbe l’autentica “rivoluzione energetica europea”: una
di Paolo Andrea Colombo, presidente Enel
risposta essenziale per garantire la competitività e, nel lungo periodo, l’indipendenza politica, lo sviluppo economico e la
stabilità sociale del continente; ma anche un passaggio fondamentale, in una fase storica caratterizzata da un crescente
antieuropeismo, per ridare vigore al processo di costruzione dell’unione politica europea: in occasione del semestre di
Presidenza europea il nostro Governo ha la straordinaria opportunità di esserne il promotore.
Corriere della Sera
19 marzo 2014
UN FRENO ALLA RIPRESA DA FINANZIATORI A SOCI (INVOLONTARI). IN ITALIA SONO 1,2 MILIONI LE POSIZIONI A RISCHIO. E TUTTI SPERANO NELLA «BAD BANK»
Banche Le partite che bloccano il credito
Solo Risanamento, Sorgenia e Tassara costano al sistema oltre sette miliardi e fanno da freno alla circolazione della liquidità
La punta dell’iceberg. Tre dossier bollenti che coinvolgono tutte le principali banche della Penisola e alcuni dei nomi che
hanno scritto la storia recente dell’imprenditoria italiana. Sorgenia, Risanamento e Tassara mettono assieme un buco
superiore ai 7 miliardi di euro, una cifra da capogiro, che non si riesce a governare e che presenta rischi concreti: da un
lato blocca l’operatività delle banche che quei soldi hanno già tirato fuori e dall’altro impone alle aziende di camminare
sul filo del rasoio, basta pochissimo per portare i libri in tribunale. «È il capitolo finale e distruttivo del cosiddetto
capitalismo di relazione - dice un manager coinvolto in una di queste tre partite -, almeno della parte meno nobile di
questo sistema, quella che sa sempre individuare le banche amiche e che ignora il merito di credito. Perché sia chiaro
che gli affari continueranno a farsi proprio in forza delle relazioni interpersonali. La fiducia è la prima benzina
dell’economia. Tutto il resto viene dopo». O non viene per nulla considerato. Il sospetto in alcuni casi è concreto. La lista
Risanamento, Sorgenia (con Tirreno Power), Tassara, Una Hotels, Seves, Seat Pg, Italtel, le ligrestiane Imco e Sinergia,
Gabetti, sono questi i dossier più significativi in fase di ristrutturazione. Ma come dimenticare il caso della Fisi, holding
dell’astigiano Marco Marenco, un buco per centinaia di milioni passato quasi sotto silenzio con le solite banche a
testimoniare l’incapacità diffusa di valutare il merito di credito e un colosso come Snam a rimetterci le forniture? Sono
1,2 milioni le pratiche di crisi in Italia, 156 miliardi l’importo dei prestiti che non vengono onorati: un problema grave e
sistemico, evidenziano all’Abi, l’associazione delle banche. L’energia è al centro di questa grande crisi, Sorgenia è la
partita del momento. La crisi di Risanamento viene invece da lontano, si collega all’epoca dei furbetti del quartierino, gli
immobiliaristi d’assalto della metà del decennio scorso e alle disavventure finanziarie del suo fondatore, Luigi Zunino,
che sognò la Milano satellite, disegnata dall’archistar Norman Foster sui campi di Santa Giulia, antica periferia industriale
di Milano. Arbitrava sui tassi, l’impresa di Zunino, ma non riuscì a farlo a lungo. Oggi, dopo anni, l’88 per cento del
capitale sociale di Risanamento è in mano alle banche e al 30 settembre scorso l’esposizione finanziaria netta del gruppo
risultava negativa per 1,814 miliardi di euro. La partita è ancora aperta, sebbene il fronte bancario non sempre sia
apparso unito, neppure sulla possibilità di vendere al fondo inglese Chelsfield i palazzi parigini di Risanamento per una
cifra vicina agli 1,23 miliardi di euro. Finanza spericolata Viene da lontano anche la crisi di Tassara, ovvero di Romain
Righi Stefano
Corriere della Sera
10 marzo 2014
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Zaleski, 81 anni, il finanziere che ha saputo costruire un abile percorso di relazioni che, in forza del vecchio gioco delle
scatole cinesi, lo ha portato a sedere nei consigli di amministrazione di alcune delle maggiori società finanziarie italiane.
È il 2006 quando l’industriale della metallurgia decide di cavalcare l’onda della finanza. Ottiene prestiti dalle banche (i
debiti a bilancio salgono da 1,2 a 4,45 miliardi) e compera in Borsa. Azioni Sanpaolo (prima della fusione con Intesa) per
800 milioni, stesso importo investito in Telecom Italia. La Borsa corre, lui si scatena. Con soldi non suoi compra altre
azioni Intesa Sanpaolo, a un prezzo medio di 3,59 euro e arriva a essere il secondo azionista del gruppo (con il 5,9 per
cento) dietro alla Compagnia di Sanpaolo ma davanti a tutte le altre fondazioni. Poi investe in Mps (a 1,49 euro), in Ubi,
per 300 milioni in Mediobanca, per 500 milioni in Telecom Italia e per 835 milioni in Generali. Si fa prestare soldi dalle
banche e compera titoli di Borsa. Finché regge. A fine 2007 ha in portafoglio titoli per 10,5 miliardi e un capitale di 1,5.
Nove miliardi non sono suoi, ma in prestito dal sistema bancario. Quando il mercato crolla è la fine. Bnp Paribas e Rbs
ottengono la restituzione di 1,6 miliardi prestati, le banche italiane danno invece ancora fiducia e allungano i termini
delle scadenze, fino al 2011, poi fino al 2013, ora siamo al 2016, in attesa che riparta il mercato? Otto giorni Secondo un
documento della Cir, emesso su richiesta della Consob, a Sorgenia resta liquidità fino a martedì della prossima settimana.
La situazione è drammatica. I quasi due miliardi di debiti, di cui 600 milioni non gestibili, impongono al gruppo guidato da
Rodolfo De Benedetti (il padre Carlo non ha cariche operative da tempo) e da Monica Mondardini di fare presto. Ma i
quasi 3 mila dipendenti del gruppo non sembrano essere un fattore in questo faccia a faccia tra i vertici di Sorgenia e i
top manager del sistema bancario. Di certo tanta attenzione non si era vista neppure nei momenti più neri della crisi di
Fiat, dieci anni fa. Invece oggi i 12 primi banchieri italiani si incontrano almeno due volte la settimana, da oltre un mese,
per trovare una soluzione. Ma davanti alla mancanza di disponibilità a immettere nuova finanza in dose consistente (100
milioni annunciati da Sorgenia sui 200 attesi dalle banche) tutto rischia di rovesciarsi. Il socio austriaco Verbund (46,5%),
giusto per chiarire il contesto, si è sfilato, scrivendo zero nella casella di bilancio che nota il controvalore della
partecipazione italiana. Un impatto negativo di 396 milioni. Altro che «nuova storia», come recitava il vecchio spot.
L’UTILE SALE A 3,1 MILIARDI (+10,3%) E IL DEBITO SCENDE SOTTO I 40 MILIARDI
Enel cresce grazie alle cessioni
Conti promette più dividendi
L’ad: investiremo 6 miliardi nelle rinnovabili, puntiamo sull’Africa
L’Enel chiude il 2013 con un utile netto ordinario in rialzo a 3.119 milioni di euro (+10,3%, rispetto al 2012) e il cda
propone la distribuzione di un dividendo di 0,13 euro per azione. Il debito è sceso a 39,862 miliardi, contro i 42,9 al 31
dicembre 2012.
Guardando invece al risultato netto di gruppo, che nel 2012 precipitò a 238 milioni di euro soprattutto a causa delle
pesanti svalutazioni delle attività di Endesa Iberia, nel 2013 risale a 3,2 miliardi. A spingere il risultato è la politica di
cessioni per 6 miliardi varata proprio lo scorso anno, di cui è stata effettuata la prima `fetta´ di 1,6 miliardi, e in
particolare la dismissione di Arctic Russia. Il percorso avviato viene quindi confermato, con la cessione di asset per
ulteriori 4,4 miliardi da realizzare entro il 2014, fondamentali per la riduzione del debito, già sceso sotto i 40 miliardi:
Conti non ha voluto fornire dettagli sulle operazioni che verranno realizzate, limitandosi ad escludere la Spagna e
annunciando solo che novità arriveranno «nella seconda parte dell’anno». Il fatturato però è sceso a 80.535 milioni (5,2%), soprattutto a causa della riduzione dei ricavi da vendita di energia elettrica, a seguito essenzialmente delle minori
quantità vendute. L’Ebitda è salito a 17.011 milioni (+7,6%).
Nel corso della presentazione dei risultati, l’ad dell’Enel, Fulvio Conti ha illustrato le linee del piano strategico. Enel
punterà a realizzare un utile netto di circa 3 miliardi nel 2014, circa 3,7 miliardi nel 2016 e circa 4,5 miliardi nel 2018. Sul
fronte industriale il piatto forte arriva dalle energie rinnovabili dove Enel investirà circa 6 miliardi, di cui circa 5,2 miliardi
per crescere sia nei 16 Paesi in cui Enel Green Power è già presente, sia in nuovi Paesi e aree emergenti. In particolare,
dice Conti, «si guarda all’Africa».
Il futuro riserva poi anche una importante modifica nella politica del dividendo a partire dai risultati del 2015: il payout,
la percentuale riservata alla remunerazione dei soci, salirà ad almeno il 50% dell’utile ordinario, contro l’attuale 40%.
Musica per le orecchie del mercato, che ha premiato il titolo con un rialzo dell’1,26% a 3,868 euro. Ma forse anche una
mossa per “ingraziarsi”, l’azionista principale: il Tesoro che entro il 28 aprile dovrà indicare la lista per il cda. Solo allora
Conti e il presidente Paolo Andrea Colombo sapranno se resteranno nella stanza dei bottoni o se dovranno cedere il
passo. Comunque vada, ha detto Colombo, le nomine verranno fatte «nell’interesse dell’azienda, degli azionisti e del
Paese». E «ce ne faremo una ragione», conclude Conti.
Luca Fornovo
La stampa
13 marzo 2014
IL BILANCIO? NEL PIANO TRIENNALE 6 MILIARDI PER LE RINNOVABILI
Enel torna a crescere Utile a 3 miliardi (+10%)Più dividendi dal 2015
Conti: «Quarto mandato? Dipende dai soci»
ROMA Tempo di bilanci (in senso lato) per Fulvio Conti, l’amministratore delegato dell’Enel che a primavera concluderà il
suo terzo mandato e che non ha mai nascosto la disponibilità a un quarto, anche se ieri alla presentazione dei conti 2013
ha ammesso: «Continuerò a fare il mio lavoro fino all’ultimo giorno, poi gli azionisti (il Tesoro, ndr) decideranno e come
decideranno, come si dice in questi giorni, ce ne faremo una ragione». Quello di ieri, comunque, «non è un bilancio
storico - ha risposto Conti a chi glielo chiedeva -, si fa tutti gli anni, mette in evidenza la strategia della nostra azienda
basata su più tecnologie e più mercati. Se fossimo rimasti solo in quello italiano, non avremmo costruito la
multinazionale che Enel è oggi». Il colosso dell’energia ha chiuso il 2013 con un utile netto ordinario del gruppo a 3,119
miliardi, in aumento del 10,3% rispetto ai 2,828 miliardi del 2012 e un utile netto a 3,235 miliardi dai 238 milioni del
2012. I ricavi, invece, sono scesi a 80.535 milioni (-5,2% rispetto al 2012), penalizzati dalla crisi economica che ha fatto
precipitare la domanda di energia sia in Italia sia in Spagna ma condizionati positivamente della recente cessione di Artic
Russia. Il consiglio proporrà all’assemblea la distribuzione di un dividendo di 0,13 euro (0,15 lo scorso anno), in linea con
la politica di un payout pari almeno al 40% dell’utile ordinario. Lo stacco della cedola è previsto il 23 giugno con
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pagamento il 26. Conti ha annunciato un miglioramento della politica dei dividendi a partire dai risultati 2015, con un
payout pari ad almeno il 50% dell’utile ordinario. Il piano 2014-2018 ha tra gli obiettivi il doppio percorso della
semplificazione e della riduzione dei costi (Enel assumerà 1.500 giovani, a fronte di circa 4.500 uscite volontarie). Enel
conferma per il 2013 una riduzione del debito a 39,862 miliardi con una flessione del 7,2% dai 42,948 al 31 dicembre
2012, meglio del target di una riduzione a 42 miliardi. Nel triennio stima una riduzione dell’indebitamento a 37 miliardi
nel 2014, a 39 miliardi nel 2016 e a 36 miliardi nel 2018. Per completare il processo, prevede di finalizzare le dismissioni
(centrali a olio e turbogas) per circa 4,4 miliardi, che sarà annunciato nel dettaglio nella seconda parte del 2014. Per le
fonti convenzionali gli investimenti complessivi realizzati si ridurranno del 24%, passando da 10,1 miliardi del periodo
2013-2017 ai 7,7 miliardi del nuovo periodo di piano 2014-2018 e saranno prevalentemente concentrati nei mercati
emergenti: fondamentale l’America Latina, dove Enel opera attraverso Endesa che, ha detto Conti, «non penso uscirà
dalla Borsa». Proseguirà l’investimento in energie rinnovabili (circa 6 miliardi) con una crescita prevista di capacità
installata del 51%. In sintesi, la filosofia di Conti è «promuovere la crescita dov’è la crescita», puntare sulle nuove
tecnologie e sull’efficienza. «Vogliamo mantenere la disciplina finanziaria e siamo qui per migliorare il nostro
“investment grade”, è la nostra stella polare», è il messaggio di Conti al mercato.
Basso Francesca
Corriere della Sera
13 marzo 2014
LA NUOVA EDIZIONE DEL RENEWABLE ENERGY COUNTRY ATTRACTIVENESS INDEX
Rinnovabili: l’Italia ritrova un posto al sole
Il fotovoltaico cammina senza aiuti di Stato, la nuova spinta viene dalla geotermia Ritorna l’interesse degli investitori
Non siamo più in cima alle preferenze degli investitori mondiali sul mercato delle rinnovabili, ma ci difendiamo. L’Italia
risale all’undicesimo posto nella graduatoria Ernst&Young dei Paesi più attraenti, dopo essere scesa al dodicesimo l’anno
scorso, con l’esaurimento degli incentivi al fotovoltaico. Lo scivolone è stato rapido, visto che fino al 2011 eravamo nella
Top Five del Renewable energy country attractiveness index, ma riguadagniamo posizioni, anche grazie alla crescente
competitività del fotovoltaico, che ormai cammina sulle proprie gambe, senza più bisogno di aiuto da parte dello Stato.
Avanza la geotermia
La tecnologia che ci vede campioni, però, è la geotermia, per la quale siamo il quarto Paese in classifica, mentre per il
fotovoltaico e il solare a concentrazione ci piazziamo all’undicesimo posto, per l’idroelettrico al dodicesimo, per l’eolico
offshore al ventesimo e per l’eolico su terraferma al 22mo. Ma l’ottimismo degli analisti guidati da Ben Warren, che ha
fatto risalire l’Italia in graduatoria, si appunta soprattutto sulle caratteristiche del nostro mercato dell’energia, dove le
rinnovabili hanno priorità sulle altre fonti, una posizione che altri mercati non offrono. Su questo punto battiamo molti
Paesi complessivamente più attraenti del nostro, a partire dagli Stati Uniti, che restano saldamente al primo posto,
passando per la Cina che li segue a ruota e per la Germania che arriva terza. Anche sul finanziamento degli investimenti
nelle fonti rinnovabili l’Italia ottiene un buon punteggio, migliore dei vicini francesi, che però si piazzano al nono posto
nella classifica generale. L’instabilità politica e le barriere all’attività d’impresa, invece, ci tolgono punti, come di
consueto.
Primato americano
Sul mercato mondiale, gli Stati Uniti trionfano per motivi opposti a quelli dominanti sulla scena italiana: conquistano
ottimi punteggi sui fattori macro e sulle risorse naturali, ma scivolano sulla priorità alle rinnovabili, che il loro mercato
non offre. La Cina inciampa invece sull’apertura all’iniziativa imprenditoriale. La Germania si piazza bene un po’ su tutti i
fronti, ma in particolare sulla stabilità e sui finanziamenti agli interventi. Il Giappone, quarto, ha superato il Regno Unito
grazie agli investimenti miliardari nel solare e nell’eolico offshore. Canada e India, al sesto e settimo posto, hanno
doppiato Australia e Francia, bloccate da un mercato chiuso. Poi c’è la Corea del Sud, rimasta ferma al decimo posto, e
l’Italia che risale all’undicesimo. Ma il Brasile ci segue a ruota. «Il calo degli investimenti globali nel 2013 riflette un altro
anno complesso per il settore delle rinnovabili, che deve confrontarsi in particolare con l’incertezza normativa, che
riduce l’interesse degli investitori in molti mercati», spiega Andrea Paliani, Energy Leader di Ernst&Young. «Allo stesso
tempo mette in luce un settore maturo, in cui la riduzione dei costi per la tecnologia comporta requisiti d’investimento
inferiori e accresce il valore di ogni dollaro per megawattora di energia prodotta».
Nuovi orizzonti
I mercati emergenti continueranno ad avere un ruolo importante, con in testa la Cina. In Brasile sta crescendo l’eolico e il
solare è un mercato nascente. La riforma del mercato elettrico in Messico sta per aprire il settore. L’Arabia Saudita ha in
programma un vasto piano d’investimenti nelle fonti rinnovabili. Il Sudafrica, dove Enel Green Power si è assicurata oltre
metà dei parchi fotovoltaici messi in gara, sembra intenzionato a proseguire sulla strada delle maxi-aste. Il dominio del
Regno Unito, della Germania e dei Paesi scandinavi sull’eolico offshore sarà minacciato da Cina, Stati Uniti, Giappone,
Sud Corea e perfino dall’India, che stanno entrando in gioco. Un altro tema caldo per il 2014 è quello dei nuovi strumenti
di finanziamento. «Poiché è un settore ad alta intensità di capitali, l’accesso rappresenta un fattore critico per il futuro
dell’industria», spiega Claudio Lencovich, direttore dell’Energy Team. Il finanziamento delle energie rinnovabili non è più
solo di competenza di banche e utility . «Ci sono grandi fonti di capitale che possono essere sfruttate», precisa Lencovich,
«ma soluzioni creative e nuovi canali devono essere individuati per consentire ai mercati finanziari di colmare il gap tra
investitori e progetti».
Elena Comelli
Corriere della Sera
17 marzo 2014
LEGGI E CONSUMATORI LE DIFFICOLTÀ DELL’AUTHORITY NELL’ARRIVARE A UNA SOSTANZIOSA RIDUZIONE DEGLI ONERI
Paradossi Il ballo degli incentivi scalda ancora le bollette
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Meno aiuti alle fonti pulite, arrivano i bonus per le grandi imprese Produrre energia costa sempre meno, ma le famiglie pagano di più
Incentivi che vanno, incentivi che vengono. Unica certezza: le bollette elettriche sono sempre più care per i piccoli
consumatori. Da un lato, partono le misure «spalma incentivi» per le fonti rinnovabili, con cui si vorrebbe arrivare a un
taglio di 7-800 milioni all’anno, dall’altro lato entra in vigore lo sconto alle imprese grandi consumatrici di energia, che
comporta un aggravio di almeno 800 milioni all’anno per quelli che ne consumano di meno, cioè le piccole imprese e le
famiglie. Alla fine si pareggia il conto? Neanche per idea. Linee di governo Per l’applicazione delle misure «spalma
incentivi» mancano infatti le disposizioni attuative, che hanno ancora 60 giorni di tempo per essere varate dall’entrata in
vigore, a fine febbraio, del decreto Destinazione Italia. Quindi del famoso taglio agli incentivi per le rinnovabili, voluto
dall’ex ministro Flavio Zanonato (al suo posto ora c’è Federica Guidi), alla meglio se ne riparla a fine aprile. E secondo
fonti vicine al Gestore dei servizi energetici, ci sono buone probabilità che, cambiato il governo, sulle modalità di
attuazione di questo taglio si decidano ulteriori interventi. Lo sconto ai grandi consumatori di energia a spese dei piccoli
consumatori, invece, pesa già sulle bollette di quest’anno. Sono oltre tremila i grandi consumatori che si sono iscritti
all’elenco delle imprese ammesse allo sconto, pubblicato dalla Cassa conguaglio per il settore elettrico: dalle acciaierie
Riva a Italcementi, passando per le acque minerali San Benedetto. Per rientrare nell’elenco, basta dimostrare di
consumare moltissima elettricità: almeno 2,4 gigawattora all’anno, con un costo complessivo che superi il 2 per cento
del fatturato. Il premio a chi consuma di più è finanziato direttamente dalle bollette delle famiglie e delle imprese che
consumano di meno, andando a generare una nuova componente, la cosiddetta Ae, che coprirà le nuove agevolazioni a
favore delle grandi industrie. Su & Giù La nuova componente, da sola, va a determinare, secondo l’Authority, un
aumento complessivo dell’1,6% della spesa complessiva legata agli oneri generali di sistema, in aggiunta a ulteriori
aumenti su voci già esistenti, relativi alla distribuzione e al dispacciamento dell’elettricità. E non finisce qui. Nel decreto
Destinazione Italia, oltre alle misure «spalma incentivi» per le fonti rinnovabili, c’è anche l’assegnazione di fondi per una
Comelli Elena
Corriere della Sera
17 marzo 2014
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nuova centrale a carbone nel Sulcis, che peserà sulle bollette per 60 milioni di euro l’anno nei prossimi 20 anni, per un
totale di 1,2 miliardi di euro complessivi. Paradossalmente, quindi, le bollette elettriche continuano a salire, mentre i
costi del kilowattora continuano a scendere. L’obiettivo dell’Authority di una rimodulazione della struttura tariffaria
potrà portare, in prospettiva, a una riduzione sostanziosa degli oneri di sistema, ma per ora si va nella direzione opposta.
L’unico tentativo di tagliare l’aggravio annuale è appunto il meccanismo «spalma incentivi» per le fonti rinnovabili,
gravato però da molti elementi d’incertezza. Si tratta di una rimodulazione degli incentivi alle rinnovabili, volta a
valorizzare l’intera vita utile degli impianti: per gli operatori del settore è prevista la possibilità volontaria di accedere a
incentivi ridotti, ma prolungati di 7 anni. Le alternative In caso di una vasta adesione, questa misura potrebbe portare a
un taglio deciso degli oneri annuali, pur allungando il periodo di abbattimento del costo complessivo degli incentivi a
carico dei consumatori. Ma l’adesione alla «spalmatura» è volontaria: non si sa quanti operatori sceglieranno questa
opzione. É probabile che gli impianti eolici decidano di aderire, perché secondo il decreto chi non aderisce non potrà
effettuare interventi di efficientamento sugli impianti esistenti, una condizione particolarmente penalizzante per il
settore del vento. Tutti gli altri, poco inclini a dilazionare le entrate già programmate sugli investimenti in corso,
probabilmente non aderiranno alla «spalmatura». In questo caso, la diminuzione annuale delle bollette sarebbe
marginale. Per invogliare gli operatori ad aderire in massa bisognerebbe aumentare i vantaggi, offrendo una significativa
rivalutazione della redditività sul lungo periodo, ma in quel caso diventerebbe alla fine un aggravio per i consumatori,
invece che un risparmio. Difficile, quindi, definire un meccanismo attuativo accettabile per tutti e coerente con gli
obiettivi di alleggerimento degli oneri annuali, che pesano sulle bollette. Per questo non è escluso che il nuovo ministro
ci rimetta mano.
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