ISLAMIC BANKING Bulls, bears, camels... …what else??

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ISLAMIC BANKING Bulls, bears, camels... …what else??
Pubblicazione bimestrale - Anno 13 - Numero 49 - Giugno 2010 - Iniziativa finanziata con i contributi dell’Università Bocconi
ISLAMIC BANKING
Bulls, bears, camels...
…what else??
Viaggio in carcere
La vita in 16 metri quadri
PAG. 7
[traileoni] 2
EDITORIALE
di Margherita Caccetta
TEMPI MODERNI
Il ‘900, si sa, è un secolo in cui tutto è
stato rimesso in discussione, primi fra
tutti l’etica e i valori su cui si è costruita la nostra storia. Oggi al posto
delle “solite” domande esistenziali
del tipo chi siamo, dove andiamo, mi
viene da chiedere in che mondo viviamo?
Mi auguro che il nostro periodo storico sia solo un momento di passaggio
tra due ere in cui l’essere umano abbia bisogno di orientarsi. Vorrei poter assistere metaforicamente ad una nuova rivoluzione copernicana in cui l’uomo
si renda conto e capisca dopo
un lungo tempo di ignoranza
che non è la luna ma il sole al
centro del sistema. È anche
vero che durante la storia i
periodi di transizione, solitamente bui, sono stati la culla
di personaggi illustri le cui
gesta e parole vengono ricordate e studiate ancora adesso.
Non per essere pessimista, ma
dubito che potrebbe nascere
un modello positivo dalla nostra società se il modello di riferimento è
quello di tronista o di velina. Con ciò
non voglio togliere loro niente, per
carità. Ma non vorrei che oscurino e
mascherino i tanti modelli positivi
che ci sono.
Negli ultimi tempi sembrano venute
meno le strutture portanti del nostro
vivere. Il nostro è un mondo in cui la
fretta è padrona, ma se ci fermiamo a
riflettere anche solo per poco ci accorgiamo che da un giorno all’altro
siamo stati catapultati in un mondo
che è totalmente diverso da quello a
cui eravamo abituati. Se ci fermiamo
a pensare ci accorgiamo che il detto
homo faber fortunae suae si addice a
questo stravolgimento ed anzi ne è la
causa vera. Ebbene si. Siamo stati noi,
forse inconsciamente, a “creare” la
società in cui viviamo, in cui sembra
che i vizi si siano tramutati in virtù e
in cui l’egoismo e l’opportunismo
siano diventati i valori a cui aspirare.
Si assiste all’arroganza dei pochi che
mirano ad affermare se stessi senza
considerare i sogni e i desideri degli
altri. I valori di solidarietà hanno cessato di ispirare e guidare l’azione dei
singoli e delle comunità, piegati come sono all’esigenza di allinearsi ai
parametri economici, sia a livello individuale che collettivo. I valori genuini sembrano essere surclassati da
un qualcosa che non possiamo defini-
re tale. Sono concetti forse intrisi di
un qualcosa che è frutto della società
consumistica in cui viviamo.
Siamo coscienti di vivere in una società “sbagliata” ma non facciamo
niente per migliorarla. Perfino la natura stessa sembra avvertirci dello
stato delle cose, tant’è che comincio
quasi a pensare che le profezie maya
potrebbero essere vere! Uragani, terremoti, tsunami che si abbattono senza pietà uno dietro l’altro. Gli antichi
greci e latini li avrebbero interpretati come segni divini, per punire
l’uomo per il male che commette. E
noi in quest’ottica divina che male
stiamo commettendo? Forse un male
che non è quantificabile o qualificabile in modo preciso ma che probabilmente va rapportato con un qualcosa di universale. Con il mondo stesso probabilmente.
Stiamo facendo soffrire anche il nostro pianeta. E perché? E’ semplice.
Perché siamo concentrati solo su noi,
non vediamo nient’altro che noi. E
non riusciamo a capire che anche se
in un ottica di breve periodo questo
potrebbe avvantaggiarci alla fine nel
lungo periodo ne saremmo svantaggiati poiché la nostra concentrazione
su noi stessi si scopre essere un danno
e un costo per la società. Infatti se
tutti non pensiamo a cosa ci circonda
è la stessa natura che si ribella.
Mi chiedo se è forse bello vivere in una siffatta società, basata
sull’imperativo hobbesiano
dell’homo homini lupus? Credo che si debba fare di tutto
per cercare una soluzione. Ma
come? Anche volgendo uno
sguardo al passato vediamo
che l’uomo è poco incline al
cambiamento, tuttavia vi si adatta facilmente quando vi è
costretto. Siamo un po’ restii a
cambiare la strada vecchia per
una nuova e sconosciuta ma
talvolta il cambiamento può
essere portatore di positività.
Ed infatti è proprio su questo che si
deve lavorare, bisogna cercare di
cambiare per migliorarci. Poiché se
cambia il sostrato in cui viviamo quotidianamente anche noi saremo persone diverse. Diversità da intendere
in senso positivo ovviamente. È vero
non è facile ma lo si deve fare per il
nostro mondo e per noi stessi affinché si possa vivere in una società più
sana. Forse sembra utopia ora come
ora ma non ci possiamo permettere di
adottare una politica lassista. Ormai è
troppo tardi anche per quella credo.
Erich Fromm diceva: “credo nella
reale possibilità di un mondo in cui
l’uomo può essere molto anche se ha
poco; un mondo nel quale la motivazione dominante dell’esistenza non è
il consumo; un mondo in cui l’uomo
è il fine primo ed ultimo”
Ecco, ci voglio credere anch’io.
VIENI AVANTI ECONOMISTA
di Filippo Maria D’Arcangelo
Il cielo sopra Berlino
Se la Grecia è in buona compagnia dei restanti PIGS europei, ovvero di quei paesi il
cui equilibrio fiscale è traballante, anche la
Germania sente addosso tutto il peso
dell’instabilità finanziaria della Zona Euro.
Sul paso doble ballato dalla Merkel e Papandreou (in realtà un ménage a trois con anche
la partecipazione del premier francese) ha
pesato l’opinione pubblica tedesca, che ha
sventolato la minaccia delle elezioni per
richiamare al rigore la prima ministra.
Seppure gli altri stati in tensione finanziaria,
ovvero Spagna, Portogallo, Italia e Irlanda,
si siano affrettati a garantire della relativa
solidità dei propri conti pubblici, un diniego ex ante di aiuti da parte dell’Eurozona
porterebbe gli speculatori a scommettere al
Perché questo dovrebbe riguardare la Germania? Perché i Tedeschi non dovrebbero
lasciare che il mercato faccia il proprio corso, sotterrando i paesi più libertini? Innanzitutto perché abbiamo una moneta unica che
la Germania ha tutto l’interesse di difendere. Se i debiti pubblici esplodessero, l’unica
soluzione per i PIGS sarebbe quella di staccarsi dall’Euro e svalutare la propria moneta: con’un inflazione sostenuta i debiti contratti si assottiglierebbero nel tempo, rendendo più facile la restituzione. Ma i Tedeschi patirebbero su due fronti: avrebbero
perso le ghiotte possibilità di esportazioni
vantaggiose verso quei paesi e avrebbero in
cassa una moneta dalla credibilità ormai
stracciata.
Se si svalutasse l’Euro allora? Nell’ambito
dell’unione monetaria la svalutazione è
impossibile proprio per l’impronta tedescofila della BCE: il patto di stabilità prevede
un obiettivo assai stringente di inflazione e
questo è dovuto soprattutto all’eredità rigorista della Bundesbank che è confluita
nella Banca Centrale Europea. Inoltre, la
Germania ha un’economia trainata dalle
esportazioni e, con l’aumento dei prezzi
delle attività produttive, chi si comprerà
una nuova e più costosa Wolkswagen se,
nell’area Euro, e quindi con la stessa moneta, gli operai polacchi possono produrre alla
metà del prezzo delle efficientissime Dacia?
Per questo la Merkel, memore
dell’inflazione che ha colpito la Germania
alla caduta del Muro, ringhia e sbuffa e
chiede a gran voce un nuovo patto di stabilità ancora più stringente. Che non risolverebbe comunque le cose visto che segnerebbe obiettivi utopistici e irrealizzabili, quando già i paesi dell’Euro fanno fatica ad applicare questo.
La macchina della moneta unica sembra
essersi ingolfata proprio in concomitanza
della crisi economica e finanziaria. C’era da
aspettarselo. In fondo si è discusso a lungo
sulle vere opportunità della moneta unica,
che discendono dal grado di integrazione
tra i vari paesi. Il Fondo Monetario Europeo è una buona occasione per aumentare la
corresponsabilità dei membri e uno strumento per completare l’osteggiato percorso
di integrazione politica che passa da più
autorevoli poteri a Bruxelles. Ma che si fa
se la Germania si è rotta di pagare Ponti
sullo Stretto dei paesi altrui?
[traileoni] 3
Appena scavallate le elezioni federali di
Maggio, è arrivata repentina la notizia
dell’istituzione di una specie di fondo monetario europeo da 740 miliardi; peccato
che i Tedeschi avessero subodorato l’avallo
della Merkel, e hanno bastonato il partito di
governo (CDU) che è crollato di 10 punti.
Il ricatto politico dell’elettorato teutonico
ha tenuto in scacco tutta l’Europa, ma la
Grecia in particolare: la soffertissima concessione di 22 miliardi per il recupero dei
conti ellenici, che comunque torneranno
nelle tasche dei Tedeschi, è arrivata intempestiva. Si dice che i Rigorosissimi
d’oltralpe abbiano voluto punire gli sconsiderati giochi di prestigio greci, fatti nel
tentativo di nascondere un buco strutturale
enorme (il disavanzo primario, ovvero la
perdita annuale al netto delle spese per il
pagamento degli interessi sul debito, è intorno all’8,5% del PIL). I Tedeschi hanno
voluto punire l’azzardo morale greco stringendo i cordoni delle loro borse. Ma
l’elettore berlinese medio, se pure percepisce gli effetti negativi della congiuntura in
una minore qualità dei servizi erogati dallo
stato, difficilmente potrebbe prevedere gli
effetti del terremoto scatenato dal contagio
dell’insolvenza agli altri paesi dell’area Euro.
ribasso: in questo caso il crescere
di aspettative autoverificantesi di
tracollo sistemico getterebbero
tutta l’Europa in un pantano. Se
dunque è apprezzabile la decisione
della Germania di “punirne uno
per educarne quattro”, si tratta
comunque di un giochino pericoloso in cui a perdere saranno anche gli stessi Tedeschi. Per adesso
non c’è dubbio che i debiti verranno ripagati, anche in virtù di
spread paese (ovvero gli interessi
pagati dagli stati sul proprio rischio di insolvenza) da tempo
allineati con i Bund germanici. Ma
se gli investitori dovessero smettere di credere che la Germania in qualche modo garantisca anche per i paesi meno virtuosi i
tassi schizzerebbero alle stelle rendendo
impossibile ripagare il debito.
L’ULTIMO SPARTITO
di Emilio Lo Giudice
Quando Luca riprese i sensi aveva un forte mal di testa e ricordava solo che fuori
l’albergo gli era venuto incontro l’omino della biblioteca. Lo aveva visto mentre rubava lo spartito e ora reclamava una parte. Si erano messi a discutere animatamente quando fu colpito alla testa
con qualcosa. Il sangue rappreso gli prudeva la guancia. Provò a grattarsi ma si rese conto di essere legato e imbavagliato. Aprì gli occhi, infastidito da una feroce luce bianca e realizzò di essere
appeso a un cavo, in mezzo a una cava di gesso. Accanto, anche lui appeso, imbavagliato e legato,
stava il bibliotecario ciccione. Una voce con forte accento palermitano, sotto di lui, attirò la sua
attenzione. Solo allora si rese conto che entrambi penzolavano sopra una vasca di calce viva.
C’erano quattro persone e il palermitano che parlava si rivolgeva direttamente al ciccione.
…che t’avevo detto io? Ah, m’o dici? Io sugnu buono e caro e invece ma'a fari fari sancu
amaro. Cche ti dissi? Restituiscimi i soldi che mi devi. E che minchia ci voleva? E tu cchi facisti?
T’appresentasti con nu pezz‘i carta. E per di più con nu tizio imbavagliato. Ma che minchia c’hai
intra a’testa? Segatura? Ma tu o’sapevi che saremmo finiti accah! Ogni promessa è debito. A mia
spiace, ma adesso io devo ammazzare a tutti e due. Se non l’avete capito adesso vi facimmo fa nu
bagno!…sai Peppe, l’idea l’ho presa da nu film romantico. Se poi, come dici, tu sto pezzi ‘i carta
vale qualche cosa, allora ti chiedo scusa e ti ciuro che ti farò fare u cchiù beddo funerale da'a vita
tua. Coi cavalli, i pennacchi, ‘na bara buona e tutto il resto. Contento? Picchì ogni promessa di
Ciccio ‘u macellaio è debito.
Luca sotto choc, incapace di accettare quanto stava accadendo, si era estraniato completamente: si raffigurava mentre aspettava il taxi che lo avrebbe portato in aeroporto. Arrivato a
casa a Cremona avrebbe chiamato la sua ragazza, Chiara. Prima di partire avevano litigato e si
erano lasciati ma si sarebbero rivisti e avrebbero fatto all’amore. Il cavo di Luca venne sganciato,
precipitandolo nella vasca di calce. In quell’attimo esatto, sotto il grande cielo afoso e immobile
di Palermo, dal sapore di una nostalgia limpida e ineffabile, ebbe l’accecante definizione della sua
morte. Lontano splendeva l’azzurro orizzonte del mare, indifferente e immobile come la perfetta
linea della schiena di un dio addormentato.
FINE DEL RACCONTO
DES E CAOS DETERMINISTICO
Chi fa il Des, per capire che fa. Chi vuol farlo, di analisi spintissima. Guadagnerà meno degli
per capire che fare. Chi l’ha fatto, per pensarci. altri. Ahimè, sono uno di loro. Minuzioso.
Beccatevi questo bestiario di tipi da Des. In sei
Lo sviluppista. È il fricchettone di cui parla
anni, li ho incrociati tutti.
Nonciclopedia se cerchi Des. Si sbrana il cervelIl neoclassico. Sempre più raro, studia micro lo per capire come si fa a dare l’acqua ai bambini
teorica alla vecchia maniera. Per fare il neoclas- dell’Angola senza che loro la sprechino in gavetsico ci vuole fegato, e resistenza di stomaco. Un toni. Dei dottorati hard-core non gliene frega
po’ di ironia non guasta. Spesso finisce a fare il niente, ma visto che per entrare nelle IGO cicdottorato in Europa, perché agli americani que- cione un PhD ci vuole, lo fa breve e tematico,
sta micro non basta più. Niente problemi di spesso in Europa. La parola competizione gli fa
media, se riesce ad evitare gli esami di macro schifo. Ammirevole.
spinta. Razionale.
Lo storico. Ebbene sì, c’è anche lui. Non c’è
Il neokeynesiano. Fa macro con modelli di- dubbio: ha sbagliato corso. Ma alla fine qualcosa
namici e time series. Sogna l’MIT. In bagno ne viene fuori, e magari viene fuori meglio che
legge Blanchard. Non riesce a trattenersi dal da una facoltà di storia. L’ultima volta l’ho visto
guardare il pianeta e tentare di infilarcelo nei in biblioteca con dieci tomoni verdi che leggeva
suoi modelli. Pronuncia la parola “dataset” cin- meticolosamente. Erano le raccolte
quanta volte al giorno. Stage all’IGIER e alla dell’Economist del 1890. Saggio.
fine, se gli va bene, va in America. Propositivo.
Il tesoriere. È quello che ha capito che basta
Il theorist. Matematica e teoria economica turarsi il naso e con il Des fai più soldi che con
sono una cosa sola. Non parlategli di applicazio- Finance. Se volete fare soldi, non fate il Des, ma
ni economiche, quello che non è provato con un se lo capite troppo tardi non disperate. Un desk
teorema non è vero. Non esiste. Non vale la di mercati asiatici nella City c’è anche per voi.
pena dirlo. Aggira lo stage con corsi addizionali Capitan Uncino.
di Ruben Gaetani
Il Boeri-Boy. E’ liberale ma di sinistra. Da
non confondersi con lo sviluppista: la competizione la evita ma non gli fa schifo. Legge i giornali, guarda Ballarò, segue la politica e si mangia
una cotoletta con patate a pranzo (vero!). Meglio Gioventù.
Il Public. Fa macro alla britannica. Spesso è
liberale, a volte statalista. Studia le imposte. Lo
riconosci da quante volte dice “redistribuzione”
in una frase. Molta tecnica e molti dati. Pragmatico.
Il bestiario è più o meno completo. Una nota: se
fai il Des prima o poi finisci in una di queste
classi e ci resti forse per tutta la vita.
L’assegnazione è ineludibile: impossibile farsi gli
affaracci propri. Il problema: è casuale. Venendo dalla triennale Des, ci sono entrato da neokeysiano e ne sono uscito da theorist. Il motivo è
che ho mezzocannato un esame e ne ho fatto
bene un altro. La classificazione è talmente ineludibile e casuale che penso sia giusto renderla
palese. A quel “col Des fai quel che vuoi” aggiungerei un “e noi ti aiutiamo a capire cosa
vuoi”. Nella convinzione che, comunque vada,
tutti troveremo la nostra strada.
A caccia di un boccone
di Gabriele Marzorati
Quell’Odissea di un pranzo in Università
chi è un po’ depresso
questo non è il luogo
più adatto per tirarsi
su: quel colore verdognolo grigiastro delle
pareti non mette certo
allegria... Se poi, come
non capita quasi mai a
Milano, il tempo è nuvoloso e fuori piove,
l’atmosfera si fa ancora
più bigia, nonostante le
Per essere un pranzo che si rispetti, se si è in un gruppo di colleghi,
luminose luci al neon
è necessario che ognuno voglia mangiare in un posto diverso, giusto
della mensa rasserenino
Ore 12.45: rampollo del CLEF
per complicare una decisione all’apparenza semplice. Sì, perché in
chiunque vi entri.
pronto per la caccia
università e nella zona circostante ci sono diverse alternative tra cui
si può scegliere. Così qualcuno vorrà andare al celebre Taxi blues, Insomma, tornando al gruppo di ragazzi alla ricerca di un locale in
qualcun altro preferirà una piadina, alcuni proporranno la mensa cui andare a pranzo, chi prova a proporre la mensa può essere messo
della Bocconi e altri invoglieranno tutti organizzando una “gita” facilmente in minoranza. Ci sarà allora chi sceglierà il Taxi blues, il
all’immancabile McDonald’s di Porta Romana. Da qui inizieranno le bar ristorante più “in” della zona. Il bocconiano DOC lo ritiene un
discussioni, si analizzeranno uno per uno i pro e i contro dei vari luogo centrale per la sua vita universitaria. Tutto ruota intorno al
locali proposti. L’obiettivo non dichiarato di ciascun ragazzo del Taxi: a colazione, a pranzo, a merenda, fino all’happy hour della
gruppo è cercare di mettere d’accordo tutti, convincendo gli altri sera. Ogni momento è buono per andarci, anche nelle ore vuote tra
le lezioni per un caffè, servito nelle tipiche tazze gialle. Certo, podella bontà della propria preferenza.
trebbe obiettare qualcuno in disaccordo, va bene seguire la moda,
Ad esempio, chi preferisce la mensa universitaria per prima cosa
ma perché andarsi a infilare in un posto buio con la musica a tutto
dovrà specificare quale delle due del nostro campus predilige: quella
volume? Mangiando in compagnia di altre persone, sarebbe interessotto l’edificio di via Sarfatti, meglio conosciuta come “mensa dei
sante almeno intravederle e possibilmente riuscire a sentirle quando
ricchi”, o quella sotto il pensionato, volgarmente detta “mensa dei
parlano. Anche il fan del Taxi blues verrà quindi ridotto al silenzio,
poveri”? Qualunque sia la risposta, per il ragazzo in questione sostecolpito nell’orgoglio più profondo.
nere la sua proposta non sarà cosa semplice di fronte alle obiezioni
Il cerchio delle possibili mete si restringe sempre più. Resta la piadiche gli pioveranno addosso.
neria in via Bligny, altro locale che, nonostante le limitate dimensioLa “mensa dei ricchi” è riconoscibile da lontano per il disordine e la
ni, i proprietari riescono sempre a riempire di decine studenti,
confusione: essendo abbastanza piccola, tante persone in poco spazio
stretti uno accanto all’altro, grazie a una buona fantasia nello spostasi accalcano facilmente. Non solo, andare a pranzare lì senza armarsi
re al posto giusto tavoli e sgabelli (che almeno qua ci sono). Dato
di pazienza è una mossa sbagliata. Se si arriva dopo l’una, come capiche il posto non è tra i più comodi, alcuni ragazzi del gruppo pota alla maggioranza degli studenti, ci si deve mettere il cuore in pace
trebbero non apprezzare.
e prepararsi a una bella coda alle casse. E così, mentre il tempo della
preziosissima pausa pranzo scorre inesorabile, finalmente si riesce a A questo punto, tentando di sbloccare la situazione di stallo, interordinare. E’ in questo preciso momento, quello del pagamento, che verrà chi, divorato dalla fame, non ne potrà più di stare ad aspettare
si capisce perché sia stata in maniera ufficiosa indicata tra gli studenti e lancerà nel mucchio la proposta di un McDonald’s. La pigrizia, pecome “mensa dei ricchi”: mangiare là ha il suo prezzo. Ma non è rò, si impadronirà degli altri: andare fino a Porta Romana con un
finita, perchè con il sudato piatto in mano comincia la missione più tram stracolmo di gente o addirittura a piedi se, come spesso succedifficile: andare alla ricerca di un posto a sedere, che puntualmente de, il mezzo non passa nemmeno, non è una soluzione minimamennon si trova neanche per scherzo. Le possibilità sono due: o ci si te considerabile.
mette davanti a un tavolo dove sono seduti altri ragazzi e, stazionanMettere d’accordo l’intero gruppo è un’impresa difficile e non ci si
do intorno, gli si mette fretta, oppure, siccome il cibo si raffredda e
muoverà, restando fermi nell’indecisione generale, fino a che qualdopo tutto quello che si è penato mangiarlo freddo non è il caso, si
cuno non prenderà l’iniziativa. Siccome separarsi è un peccato, gli
pranza comodamente in piedi, appoggiandosi a tavoli e banconi mesamici lo seguiranno, sperando in cuor loro che non si stia dirigendo
si lì, supponiamo, proprio per questo, non essendo corredati di sgadove non vogliono. Ma alla fine meglio così: se tutto fosse perfetto,
belli.
non ci sarebbe quell’atmosfera che rende il pranzo in compagnia un
E la “mensa dei poveri”? Il motivo del nome è evidente: i prezzi momento di svago e distrazione. E quella breve pausa libera perdesembrerebbero essere a portata di studente. L’unica cosa è che per rebbe il fascino di una piccola avventura universitaria.
Anche se non suona la campanella come accadeva a scuola, il senso
di liberazione è più o meno lo stesso. Eh già, pensate a uno studente
che dalle 8.45, dopo aver trascorso tutta la mattina in aula tra grafici
e numeri, arriva alle agognate 13.00, il fatidico orario della fine
delle lezioni. La felicità e la soddisfazione di essere sopravvissuto alle
quattro ore e passa di spiegazione non mancano. Certo, se il nostro
studente è particolarmente sfortunato, la gioia durerà per poco,
perché più tardi, già alle 14.30, si ritroverà un altro corso da seguire. Nonostante questo, però, niente potrà impedirgli di godersi un
bel pranzo in compagnia dei suoi amici universitari, anche perché la
fame a un certo punto si fa sentire.
[traileoni] 5
Riflessioni sull’identità del giurista:
chi è e come sarà
Quest’anno, per la prima volta, si è deciso di dedicare un’intera giornata “del giurista” agli studenti del
corso di laurea in giurisprudenza dell’Università:
una ricorrenza celebrativa ed un’occasione di riflessione su di un tema centrale per tutti i partecipanti,
ovvero “il ruolo del giurista”. L’intento, supportato
dal ricco contributo di ospiti diversi era quello di
affrontare, necessariamente in modo non esaustivo
ma profondo, il tema dell’identità del giurista,
tanto in senso storico-descrittivo (chi è il giurista
oggi e chi era) quanto in senso normativo (chi o come
dovrebbe essere).
Tema certamente complicato sotto entrambi i profili,
ma parimenti importante per quanti si dedicano
all’approfondimento delle discipline giuridiche: esso
esula, in tutto o in parte, dalle problematiche legate
alle professioni) che costituiscono l’esito più probabile alla carriera universitaria dello studente di giurisprudenza. Come ricordato nella cerimonia di inaugurazione scopo principale della facoltà è quello,
attraverso gli apporti delle singole discipline di studio, di formare il giurista nel modo più completo
di Pietro Fazzini
possibile sotto il profilo didattico, ma che sia anche
consapevole del suo ruolo all’interno della società.
Questa consapevolezza si radica nella conoscenza del
dato storico, delle origini di questa figura professionale e sociale e allo stesso tempo nell’analisi della
contemporaneità, dove essa si deve adattare alle
esigenze della società in divenire, conservando il
proprio profilo identitario. Dalla lezione della storia
traiamo un importante insegnamento: il giurista
nasce come studioso di diritto ma con il tempo definisce il proprio ruolo anche come intermediario sociale,
come interprete della volontà potere sovrano, coniugando nello studio e nell’interpretazione rigore formale ed esigenze di giustizia. Platone permettendo
potremmo dire che sono loro i “custodi dei custodi”.
Con il successo e la progressiva diffusione della forma
politica della liberal-democrazia fin dall’inizio del
Settecento e la successiva formalizzazione dei principi generali di libertà e uguaglianza nelle carte costituzionali novecentesche, il ruolo del giurista come
interprete del dettato normativo e come esperto di
diritto è più che mai centrale, in quanto complemento all’applicazione delle leggi conforme ai principi
ispiratori.
Veniamo ora al secondo profilo sollevato dal problema dell’identità, quello che potremmo chiamare
“deontologico”. La crisi attuale impone un ripensamento di parte importante della società, dei suoi
modi di vivere e di produrre. Alla stessa stregua anche il giurista deve adeguarsi al cambiamento in
atto, scrollarsi di dosso la veste tradizionale che lo
vedeva impegnato unicamente nell’esercizio delle
professioni legali “classiche”. Fondamentale è il dialogo con gli operatori economici ed in generale con
tutte le scienze sociali, sia a livello accademico (e in
questo la Bocconi è un passo avanti a tutte le altre)
sia a livello professionale. Tuttavia, proprio ora che
questo cambiamento prende atto, l’identità del giurista deve essere forte e consapevole affinché il contatto, la comunicazione e l’interdisciplinarietà di ambiti di studio diversi e complementari non porti ad una
fatale commistione dei ruoli. Questa, credo, è anche
la mission e la sfida del nostro corso di giurisprudenza, che sta crescendo nella modernità.
L’ANALISI
Giovani giuristi in cerca di un approdo
Presso l’Università Bocconi si radica l’esperienza di un Corso di Laurea
in Giurisprudenza. Dopo l’esperienza del tre più due viene ora offerto
un Corso di Laurea magistrale in Giurisprudenza, il CLMG, caratterizzato da una durata continuativa quinquennale e da una maggiore organicità
dell’offerta formativa, i cui primi iscritti si sono immatricolati quattro
anni fa.
Sicuramente il CLMG costituisce la conseguenza della lungimirante intuizione di fornire un corso che fosse completo in relazione alle materie
giuridiche tradizionali, in primo luogo quelle relative alle discipline codicistiche, ma che al contempo permettesse ai futuri giuristi di accedere a
nozioni inerenti alle discipline aziendalistiche e di bilancio, che risultano
fondamentali per comprendere i fenomeni economico-giuridici del giorno d’oggi, soprattutto in riferimento alla realtà d’impresa, e che informano sempre di più le professioni legali, anche quelle più istituzionali
come la magistratura ed il notariato.
Il corso vede la propria origine all’interno di un alveo accademico lungamente fecondo e prolifico per gli studi economici e dalla prestigiosa rinomanza a livello nazionale ed internazionale. Da questo ricchissimo
patrimonio, il CLMG eredita delle caratteristiche che possono essere
individuate nell’organizzazione efficiente dei corsi, nella cospicua offerta
di materiali per lo studio e di risorse extradidattiche, nella valorizzazione
della conoscenza delle lingue straniere, nelle notevoli opportunità di
esperienze all’estero e nell’offerta di gratificanti occasioni professionali
prima e dopo la laurea, nell’ambito di un costante confronto con il mer-
cato del lavoro.
di Carlo De Stefano
Detto ciò, è necessario però introdurre quale sia la differenza tra un giurista ed un economista. L’economista descrive come opera il mondo
possibilmente con una capacità ed un approfondimento tali da poter desumere in qualche modo come il mondo opererebbe se le condizioni
mutassero in un certo grado. Il giurista, invece, applica modelli etici e di
giustizia e valuta gli obblighi reciproci disciplinati dalla legge, allo scopo
di prendere o raccomandare una decisione, essendo necessariamente
fornito di una scala di valori. Essere e dover essere, se mi si permette il mutuo dalla terminologia filosofica. Questa è forse la prospettazione più
efficace per mezzo della quale risolvere il problema che, ai più alti livelli,
è stato indicato con l’espressione “esser figli di un dio minore” e che in altri
termini può essere descritto come una sensazione di spaesamento rispetto alla più duratura tradizione di quest’Università (“sentirsi ospiti perenni”,
come è stato scritto in questo stesso giornale). Immedesimandosi nel
singolo studente di legge, è comprensibile una percezione di tale genere,
anche per il solo fatto che un corso così giovane deve ancora affermarsi
compiutamente nel panorama delle scuole italiane di diritto e sicuramente perché al nome della Bocconi sono immediatamente associate le scienze economiche e non quelle giuridiche. Tuttavia, è proprio la differenza
tra le relative formae mentis, poc’anzi illustrata, che deve guidare il giurista bocconiano nello sviluppo dei suoi studi e renderlo consapevole della
propria peculiarità. Peculiarità che senz’altro – ben è vero – meriterebbe
di ricevere una consacrazione formale tramite l’istituzione di una facoltà
vera e propria.
MQ 16
LE NOSTRE PRIGIONI
Studenti e detenuti: due realtà a confronto
fisso e chi nel Corano. E’ in questi luoghi, dove convivono
uomini con passati
intensi, spesso ritenuti egoisti e strafottenti, che la tolleranza e la capacità di far
spazio all’altro rappresentano condicio
sine qua non per la
sopravvivenza.
La visita si è conclusa
con un confronto
diretto con alcuni
detenuti che, inizialmente spinti dal desiderio di occupare
un po’ del loro tempo, si sono aperti a noi mostrandoci quel lato
vulnerabile del loro io che e’ spesso da noi
ignorato e da loro custodito gelosamente.
Sono uomini. Uomini come tutti, con le loro
paure e le loro speranze. Il giudizio degli
altri, il futuro, gli amori e il lavoro sono preoccupazioni costanti con le quali, un giorno o
l’altro, dovranno fare i conti. Hanno commesso degli errori, consci delle possibili conseguenze delle loro azioni, ma non spetta a
noi compatirli o biasimarli.
Le carceri sono sovraffollate e abituarsi a una
vita scandita da orari imposti anche per quelle attività le più naturali come fare una doccia
non e’ semplice. Come ha sottolineato la
direttrice, il carcere puo’ abbrutire e, paradossalmente, al contrario dai fini del legislatore, incentivare la criminalità. Questi non
sono pero’ motivi sufficienti ad assumere
atteggiamenti che giustifichino le loro azioni:
abbiamo sempre più alternative fra le quali
scegliere, spetta a noi agire consapevolmente.
La collettività, che spesso, volontariamente,
ignora tali problematiche, ha però l’obbligo
morale di offrire, a coloro che hanno maturato, a conclusione della permanenza carceraria, una coscienza di sé tale da fornire la voglia e la forza necessaria per cambiare, una
autentica occasione di riscatto. Perché se non
si affronta il tema del reinserimento, tutte le
condanne avranno un fine pena mai.
[traileoni] 7
legge disponibile a risolvere, ove e quanto possibile, le problematiche
di ognuno si pone come
figura di vertice autoreCi è stato insegnato che prima di parlare bivole ma visibilmente
sogna conoscere, ma non sempre ciò accade.
attenta e sensibile.
Quindi, è con disponibilità d’animo e cuore e
desiderio di comprendere che abbiamo colto Giunti a Lodi, ci siamo
l’opportunità’ offertaci dalla Professoressa diretti verso la casa cirMelissa Miedico, accorta conoscitrice e ap- condariale dove, dopo
passionata professionista, in collaborazione aver consegnato il docucon la Dottoressa Stefania Mussio, direttrice mento d’identità, ci
siamo addentrati in un
della Casa Circondariale di Lodi.
mondo a noi sconosciuSin da Settembre la Professoressa Miedico,
to e ignoto dove i confidocente di diritto penale presso la nostra
ni della realtà non risulUniversità, ha mostrato e trasmesso la sua
tano ben definiti. Come
passione per la materia e l’entusiasmo nel
mosche bianche, abbiaconoscere e rendere nota la dura realtà carcemo percorso corridoi e
raria. Il corso, affascinante per i temi attuali
visitato uffici, sale colloqui, cucina, palestra e
trattati, lo è stato ancor di più per il percorso
cortile, unico spazio, quest’ultimo, in grado
di crescita personale al quale, all’inizio forse
di offrire uno spicchio d’azzurro sopra la teun po’ ignari, siamo stati introdotti. Momensta che consente di ricordare che al di là di
ti fondamentali di tale crescita sono stati
quelle invalicabili e sorvegliate mura ci sia la
l’incontro, presso la nostra Università, con la
quotidianità del mondo altro.
Dottoressa Mussio, intraprendente e sensibile esperta delle carceri italiane che, accettan- Il primo momento in cui ci siamo scontrati
do l’invito della Professoressa, ci ha presenta- con la durezza della realtà carceraria è stato
to un’immagine di quell’universo con il quale l’ingresso in una cella. Come dei vicini di
e’ quotidianamente a contatto, e la nostra casa ospitali, sei detenuti hanno acconsentito
visita alla casa circondariale consentitaci gra- a che degli estranei scrutassero nella loro
zie alla disponibilità sua e dei suoi collabora- intimità. Tra il profumo di caffè, poster di
idoli e foto di una vita “fuori” abbiamo percetori.
pito come una riproduzione, seppur in miniaDalle parole della Dott.essa Mussio si è pertura, del calore di casa, sia in grado di mitigacepito immediatamente quanto sincera sia la
re il distacco e la nostalgia. In 16 mq di consua voglia di realizzare quella funzione rieduvivenza forzata, abitudini differenti entrano
cativa che, a norma della Costituzione, dospesso in contrasto. Problemi che, nella vita
vrebbe essere tipica e centrale in un percorso
fuori, sono solitamente inesistenti, possono
detentivo. Avendo tastato con mano realtà
diventare causa di aspri litigi e situazioni difficarcerarie differenti per concentrazione di
cilmente sostenibili. Mondi diversi si incondetenuti, tipologia di reati commessi dagli
trano e scontrano: chi ama leggere fino a
stessi e collocazione geografica, sta tentando
tardi e chi andare a letto presto, chi preferifaticosamente di offrire, ai detenuti del carsce il silenzio all’assordante rumore di una
cere di Lodi, un modus vivendi più idoneo
radio, chi trova consolazione in una sigaretta
allo scopo prefissatosi. Nella realtà di Lodi,
e chi invece quell’odore non l’ha mai potuto
che ospita un centinaio di detenuti, questa
sopportare, chi si lava e chi non si lava altretoperazione e’ facilitata dalla possibilità per la
tanto spesso, chi ha un odore di sudore acre e
Direttrice di essere materialmente presente
penetrante e chi profuma di dopobarba, chi
per tutti, diversamente che altrove, in altre
piange stringendo fra le mani la foto di una
realtà, dove un colloquio con il direttore
piccola bimba sorridente e chi una figlia non
puo’ avvenire anche a distanza di mesi dalla
l’ha mai avuta, chi trova conforto nel crocipresentazione della richiesta. Braccio della
Cicatrice sul viso, vistoso tatuaggio sul braccio e sguardo bieco. Questa la foto che di
solito l’immaginario collettivo associa al carcerato. Ma è sempre questa la realtà?
di Giulia Cagnazzo
e Fiammetta Piazza
Marinetti, invece, no
“Dopo cent’anni Milano si è ricordata del futurismo: le celebrazioni dell’anno
scorso e il Museo del Novecento di imminente apertura, con la sua nutrita sezione
di opere futuriste. Certo, i musei non erano per nulla simpatici ai futuristi, ma
ormai non sono più quei luoghi d’élite che dicevano di voler distruggere: “Sputare
sull’altare dell’arte” per dare a tutti “la possibilità di pensare, creare, svegliare,
innovare”. Marinetti però, il fondatore del movimento, dirà: “Il futurismo non è
che l'elogio, o se si vuole, l'esaltazione dell'originalità e della personalità. Noi
non bruceremo nessuna biblioteca, né inonderemo i musei”. E il futurismo era
proprio quello, un’accesa provocazione che voleva risvegliare l’Italia dal suo amore per l’arte languida e romantica, una sfida dell’uomo alla morale assennata,
per riappropriarsi delle sue potenzialità e combattere “l’orrore del nuovo, il disprezzo della gioventù”, rifiutando la serietà, il romanticismo e la nostalgia, considerate come deformazioni della realtà, limiti all’esplosione del suo genio creatore. Dissero, provocatoriamente, di voler esaltare “il disprezzo per la donna”, intesa
come simbolo dell’amore tradizionale, molle e romantico: questo, infatti, stereotipa la donna in una condizione di inferiorità e le impedisce di abbracciare il mondo moderno, nel quale volevano introdurre il diritto di voto e la parità assoluta
fra i sessi. Un movimento rivoluzionario e democratico che ha dato inizio a tutta
l’arte moderna, ma che per tanto tempo ha avuto su di sé una lunga ombra: solo
dopo cent’anni, infatti, Milano si è ricordata di esserne stata il cuore pulsante.
Ciò per la diffusa difficoltà di afferrare il senso delle provocazioni futuriste e
soprattutto per colpa della vicinanza di Marinetti a Mussolini. Tanti uomini di
cultura sono stati fascisti e poi sono stati riabilitati; Marinetti, invece, no. Siamo
STANLEY KUBRICK
di Maurizio Chisu
un paese strano, non c’è dubbio: abbiamo avuto un Fanfani che firmò le leggi
razziali e neanche dieci anni dopo fu autore del primo articolo della costituzione,
dove si dice che siamo una democrazia, però definiamo mussoliniano un Marinetti
che, seppur fascista di vecchia data, contro quelle leggi razziali fece una campagna su radio e giornali. Se per quella campagna fosse stato ucciso, oggi sarebbe un
martire dell’antifascismo e il futurismo avrebbe un ruolo di rilievo nei nostri programmi scolastici. Ma Marinetti era simpatico a Mussolini, e non gli fu fatto
niente. Ciò che gli mancò, dopo vent’anni di regime e davanti all’imminente
rovina dell’Italia, fu la volontà di rinnegare tutto e di condannare il duce per
come aveva ridotto il Paese: seguì infatti Mussolini fino a Salò, dove fu uno dei
pochi confidenti rimastogli. Anche alla fine ebbe sfortuna: se fosse sopravvissuto al
25 aprile avrebbe potuto redimersi come tanti altri, invece morì 5 mesi prima, e
per tutti rimase solo un fascista, con tutte le conseguenze che ciò ha implicato per
il suo movimento. Oggi ormai il futurismo è riabilitato, ma sono ancora tanti
quello che lo vedono di cattivo occhio: è il nostro vizio di giudicare tutti secondo
la parte politica a cui appartengono. Eppure Marinetti ha speso la sua vita per
far sì che chiunque potesse liberarsi dalle convenzioni e dalle gerarchie, ha imposto il gioco spensierato contro la pedanteria accademica, ha esaltato la violenza
distruttiva come punto di partenza per costruire un nuovo modo di pensare
all’arte, che non deve più immortalare la realtà, ma eternarne il movimento che
noi le imprimiamo, e ha agito per far sì che ogni giovane potesse essere libero di
progettare il suo proprio modo di agire nel mondo: se poi è stato anche fascista, a
chi importa?
Dall’obbiettivo fotografico allo scatto al cinema
Pochi sanno che il talento di Stanley Kubrick ha
preso le mosse dall’obiettivo di una macchina
fotografica, il suo primo amore. La mostra in
corso al Palazzo della Ragione di Milano, curata
dal critico d’arte Rainer F. Crone, per la prima
volta getta luce su questo aspetto del celebre
cineasta, attraverso una retrospettiva di oltre
200 fotografie, scattate da Kubrick con la macchina fotografica regalatagli dal padre per il suo
sedicesimo compleanno. Il giovane è già promettente, al punto da essere ingaggiato appena
un anno dopo dalla rivista “Look”. Le sue foto
sono dei “veri e propri racconti fotografici, altrettanto affascinanti come quelli che avrebbe
realizzato più tardi con le immagini in movimento”, per dirla con il curatore Crone. Paradigmatiche in tal senso sono la photo story del 1949
sul Paddy Wagon (considerato ilo veicolo più
sicuro per trasportare i prigionieri) e la “favola
del lustrascarpe” (1947), ossia il dodicenne Mickey, costretto a svolgere il mestiere dopo la
scuola per aiutare la famiglia a sostentarsi: entrambe le raccolte sembrano sequenze di un
cortometraggio. L’attenzione alla fotografia
emergerà in seguito nei film di Kubrick, mediante l’attenzione alla luce, ai contrasti e alla
prospettiva (si pensi in particolare ai lunghi corridoi rossi di “Shining” e di “Eyes wide shut”).
Attenzione e riflessione erano già presenti in
nuce nel Kubrick fotografo: è ancora Crone a
notare che le sue foto costruite dimostrano una
riflessione prima della realizzazione, superando
così il limite del punto di vista offerto dell’unico
punto di vista e obiettivo del fotografo. Ciò non
deve essere confuso però con il mero estetismo
e con la ricerca della perfezione formale: in una
delle sue rare interviste, il cineasta ha confessato
che a suo parere “un’ambiguità credibile costituisce la migliore forma di espressione”, giacché
“nessuno sa veramente cosa sia reale e cosa stia
davvero accadendo”.
Lo studio delle inquadrature e delle pose è evidente in ogni foto di Kubrick, in particolare in
quelle dedicate alla debuttante Betsy von Furstemberg, ballerina prodigio a 7 anni e attrice a
soli 18. La concentrazione e la riflessione del
fotografo paiono conformarsi ai precetti del mostro sacro della fotografia H. Cartier-Bresson, il
quale afferma che “per dare significato al mondo, bisogna farsi coinvolgere dalla scena, mantenere concentrazione, disciplina e sensibilità”.
Attributi delle foto scattate dal giovane Kubrick
nel 1948 a Nazare, antico villaggio portoghese di
pescatori, da cui si evincono chiaramente: in
primis l’attaccamento quasi simbiotico della
di Valentina Magri
comunità locale al mare, luogo di lavoro, riposo
in compagnia o semplicemente di soliloquio; in
secondo luogo le tradizioni e i riti della passeggiata in centro e del caffè in piazza. Lo stesso
coinvolgimento nella scena denota la serie di
fotografie dedicate al circo, da sempre topos che
ha affascinato numerosi artisti (da Seurat a Picasso, da Ungaretti a Fellini, giusto per citare i più
noti). Kubrick coinvolge lo spettatore nelle scene del circo solitamente nascoste: il dietro le
quinte, nei quali la macchina circense seguita a
dare spettacolo con gli allenamenti degli acrobati e l’addestramento degli animali. Coinvolgimento nella scena e pose studiate sono infine la
cifra della serie di fotografie in prestigiosi atenei
americani, quali l’Università del Michigan e la
Columbia University, dove pure sono rappresentate le attività quotidiane dell’ambiente universitario: esperimenti, teatro, momenti di studio in biblioteca, incontri tra sportivi e tra studenti (che per gli universitari di oggi sarà divertente confrontare con la loro esperienza negli
Atenei odierni). Alla luce di ciò, chi potrebbe
stupirsi ora di una carriera di Stanley Kubrick
partita da un obiettivo fotografico per concludersi con uno scatto nel mondo del cinema?
Indubbiamente lo scatto più lungo che la storia
della fotografia ricordi.
Il processo nella realtà cinematografica
Che giustizia è questa?
Il mondo giuridico nella sua variante processuale è stato da sempre oggetto di interesse per il mondo del cinema. Mi viene subito in mente il
capolavoro cinematografico di Orson Welles: il “Processo”, film tratto
dall’omonimo romanzo di Kafka. La trama è molto semplice: Joseph K,
un impiegato che conduce una vita tranquilla, una mattina viene svegliato da degli agenti di polizia che gli proclamano lo stato di arresto. Fino a
qui sembra tutto normale, nulla di strano sennonché gli agenti oltre a
non avere un mandato, non riferiscono neanche i motivi dell’arresto; si
limitano solo a prendere appunti su un taccuino, fraintendendo in una
maniera quasi esilarante, ciò che dice J K, il quale tra l’altro non viene
neanche arrestato: gli viene detto che può continuare tranquillamente a
condurre la sua vita, ma che deve presentarsi davanti alla corte suprema, la cui sede è sconosciuta come la data e l’ora in cui deve presentarsi. Dopo varie peripezie, il nostro protagonista riesce a raggiungere la
corte, dove salendo su un tavolo pronuncia un discorso nel quale accusa
tutti i giudici di ordire un complotto contro le persone comuni, arrestate casualmente senza nessuna prova. La fantomatica corte è piena di
persone che sembrano essere senza volto, il registra ce le mostra tutte
insieme, in un’immagine che ricorda vagamente il purgatorio dantesco,
dove si è in attesa di procedere verso uno stadio successivo. Si tratta di
persone stanche, in attesa da anni di sentenza. Esse sembrano rassegnate
al decorso interminabile del loro processo, anche a causa di una realtà
corrotta. L’unico modo per procedere sembra quello di avere delle
conoscenze particolari ai gradi superiori. Alla fine il protagonista viene
condotto in una brughiera da due funzionari che hanno il compito di
giustiziarlo con della dinamite; tuttavia K riesce a prendere la bomba e a
lanciarla contro di loro; ma Welles non ci fa capire di preciso chi muore. Personalmente, credo che il fungo di fumo
scaturito
dall’esplosione stia proprio a rappresentare la morte della giustizia, fra
l’altro rappresentata in un modo inquietante. Non si sa chi sono i giudici, che ruolo ricoprono. Le uniche persone che sembrano conoscerli o
meglio riconoscerli fisicamente, sono un pittore pazzo e scellerato che è
costretto, per assecondare la loro brama di potere, a dipingerli in una
maniera che si discosta dal vero e delle donne che dovrebbero essere
delle collaboratrici, ma in realtà sono usate per assecondare i loro piaceri sessuali. Il codice con il quale si viene giudicati, quello che dovrebbe
essere l’emblema della giustizia, è sudicio pieno di polvere con
all’interno delle immagini osé, quasi a rappresentare il fatto che è un
mezzo inutile.
Altro film emblematico è “La parola ai giurati”. Si apre con un giudice
che riassume il caso e dà le ultime istruzioni a 12 giurati, i quali dovranno riunirsi per decidere sulla colpevolezza o meno di un giovane ragazzo
ispanico accusato di parricidio, il quale in caso di verdetto unanime di
colpevolezza verrà condannato alla sedia elettrica. I 12 riuniti effettuano
una prima votazione a dir poco frettolosa. La maggior parte di loro erano interessati a tutto tranne che alla causa. Solo uno, il giurato numero
8 vota NOT GUILTY, ma non perché sia convinto dell’innocenza del
ragazzo, ma per stimolare una discussione più accurata essendosi accorto della superficialità con cui gli altri giurati avevano deciso di gestire la
di Giada Giardiello
causa. In un primo
momento gli altri giurati sono infastiditi dal
non raggiungimento
dell’unanimità, visto
che avevano tutti fretta
di risolvere il caso per
andare a casa o per
vedere una partita, e
così inziano ad innervosirsi, tant’è vero che
il titolo originale del
film non è “La parola ai
giurati” ma bensì
“Twelve angry men”.
Man mano che le votazioni procedono, emergono anche aspetti
sociali dei giurati; e si scopre inoltre che l’avvocato d’ufficio, al quale
era stata affidata la causa, ha gestito la difesa in maniera superficiale,
tralasciando particolari che, analizzati in una maniera più dettagliata,
avrebbero dimostrato l’innocenza del ragazzo. Ad esempio l’arma del
delitto, un coltello che era facilmente acquistabile in un negozio di periferia, si scopre che non sarebbe mai potuto essere stato usato dal ragazzo contro l’uomo, a causa dell’altezza della ferita. Altro elemento riguarda i testimoni oculari che sono: un vecchio che zoppica e una donna
miope, quindi uno non avrebbe mai fatto in tempo a raggiungere dalla
sua stanza la casa dell’uomo con una velocità tale da vedere l’assassino e
l’altra non avrebbe mai potuto vedere dal suo balcone in piena notte il
volto dell’assassino. Alla 6 ed ultima votazione tutti i giurati votano
NOT GUILTY e lasciano la stanza.
In entrambi i film è possibile riscontrare che tutti i principi a tutela
dell’imputato che vengono enunciati dalle costituzioni moderne dalla
rivoluzione francese in poi e, che dopo la seconda guerra mondiale verranno proclamati dalle carte internazionali (come la dichiarazione dei
diritti dell’uomo e del cittadino e la CEDU), vengono totalmente disattesi facendo così prevalere una realtà giuridica che non dovrebbe corrispondere alla realtà dei fatti. Si dovrebbe essere valutati secondo un
equo e giusto processo, conoscendo i motivi di accusa, le prove a proprio carico e discarico, con l’eventuale possibilità di essere assistiti, in
caso di indigenza, da un avvocato d’ufficio che non dovrebbe svolgere il
suo compito con superficialità. Ovviamente la giustizia può commettere
degli errori, visto che viene esercitata da esseri umani e come tale non
infallibili. L’altro elemento emergente è riferito alla pena di morte: ma
si può in un ordinamento democratico come quello degli USA affidare
ad un gruppo di giurati, la condanna a morte di un imputato? Non si
rischia di arrivare ad un giudizio sommario e parziale, dove ogni giurato
introduce valutazioni e pensieri personali al limite del pregiudizi come
razzismo, conflitto generazionale, superficialità e indifferenza?
Vi presento Mr. I.
di Giorgia Rauso
Vita, morte e miracoli… nonché interessi...
[traileoni] 10
Nummus nummum parere non potest, il denaro non può generare denaro: traduzione latina della massima Aristotelica del IVsecolo a.C.
Niente da contestare, a meno che non vi abbiano recentemente reclutato ad Hogwarts o che possiate vantare, tra i vostri amici su Facebook, Mago Merlino o il Gatto e la Volpe. Anche in quest’ultimo caso è
però doveroso svelarvi un segreto: i soldi
non sono (mai) cresciuti sugli alberi!!
Rinnovando l’invito a diffidare di chiunque calzi un appuntito cappello, let us introduce Mr. I.
Dato che con le postille abbiamo già iniziato a prenderci la mano
potremmo notare come oggi usura ed interesse in realtà differiscano
per ragioni meramente quantitative. Nel gioco delle differenze dovremmo tuttavia muovere ulteriori contestazioni in forza del fatto
che all’operazione sia sottesa o meno un’attività di produzionetrasformazione di beni in grado
di dare luogo, indipendentemente, ad interessi.
Dalla necessità di sottendere
un’attività reale si assistette, nel
corso del XV secolo, alla nascita
dei cosiddetti “Monti di Pietà”:
istituti di credito al consumo
formalmente volti a tutelare gli
strati più deboli della società ed
a permettere a chiunque di disporre di moneta in maniera
etica e legittima dietro pegno.
Gli interessi richiesti per lo
scambio valore-liquidità erano
facilmente imputati ai cosi di
L'Interesse è la somma dovuta come compenso per ottenere la disponibilità di un
capitale, solitamente sotto forma di denaro,
per un certo periodo: un modo per moltiplicare i soldi alternativo alla rapina in banca
o all’aprire una stamperia in proprio. La
logica è ferrea [da Castagnoli-CigolaPeccati]: rinuncio oggi ad un dato ammontare dietro il pagamento, domani, del medesimo maggiorato di un tot - l’Interesse che vada a ricompensare congruamente la rinuncia temporanea allo
gestione del monte stesso.
stesso, il suo costo-opportunità ed il rischio di eventuale insolvenza
Al di là di tutte le proibizioni civili il prestito a interesse divenne
del debitore.
sempre più un elemento insostituibile della vita economica; prova ne
Ma la logica è una scienza, indi non pensiate che sia stata così semsono le grandi società di capitali fiorentine, genovesi e senesi che prepre e ovunque! Mr. I vanta numerosi nemici, anche ai piani alti: tra
starono fondi in cambio di interessi o appalti alle neo-nate compagnie
questi ricordiamo Platone, Aristotele, Catone, Cicerone, Plutarco,
mercantili, oltre che alle corone di mezza Europa. Il concetto di utiliSan Tommaso d’Aquino e Karl Marx. Anche nell’antica Grecia, ove
tà sociale della mercatura unito all’idea di equa remunerazione del
la società aveva tradizionalmente ben accettato fenomeni quali la proprestito in un’ottica di giusto prezzo, cambio e sconto contribuirono
prietà privata, il commercio e l’uso della moneta, Aristotele, con sua
a togliere dal banco degli imputati il nostro Mr. I.; alla sua riabilitaEtica Nicomachea, si trovava ad argomentare come la ricchezza possa
zione sociale pensarono il divenire delle cose, sotto forma di scismi e
e debba nascere unicamente dal lavoro umano e dal suo intelletto. E
rivoluzioni, e soprattutto il passare del tempo.
notare come questo sia solo il giudizio di un uomo.
Non sono mancati tentativi, anche contemporanei, di realizzare
Le tre grandi religioni del Libro trattano la disciplina dell’interesse,
banche che possano sopravvivere pur senza fare uso di interessi sui
identificato con l’usura, nel Deuteronomio, ove si vieta espressamenprestiti e sui depositi, per motivazioni di natura etico-religiosa ma
te di ottenere tramite l’attività di prestito remunerato un qualunque
non solo.Un modello finanziario laico, e comunque interest-free, è
tipo di tornaconto dai propri Fratelli. Da questo precetto nasce uno
quello proposto da una banca cooperativa svedese, “JAK”, nella lingua
dei cardini della fratellanza di sangue tipica ebraica: viene istituita la
locale acronimo di “Terra, Lavoro e Capitale”; questo istituto mira a
solidarietà tra i membri del clan e l’esclusione del nokri (lo straniero)
ridimensionare il concetto di interesse speculativo riagganciandosi ai
dai privilegi e dagli obblighi della comunità. E' proibito dunque di
principi base dell’economia reale ed andando a creare un microfatto all’ebreo ottenere qualunque neshek (interesse) dal proprio framercato dei soci estraneo alle logiche usuali del Mercato vero e protello, ma egli è assolutamente libero di portare a termine l’affare nei
prio.Una sorta di “club del baratto” con 3.500 partecipanti, e dove si
confronti del nokri.
scambiano non figurine ma centoni. Cosa non ci si inventa quando la
Anche la Chiesa Cattolica si premurò, nel secondo Concilio di Lio- siccità arriva a colpire anche la ricca flora del Campo dei Miracoli?!
ne (1274), di rinnovare la sua condanna verso chiunque riscuotesse Con buona pace dei vostri amici/consulenti citati all’inizio.
interessi su prestiti: non era di fatto accettata dai teologi dell’epoca la
Prescindendo da logiche opportunistiche naturalmente insite nel
giustificazione di tale pratica come “vendita di denaro con pagamento
patrimonio genetico di quella graziosa scimmietta munita di pollice
differito” essendo la risorsa tempo un dono di Dio, indi un bene coopponibile e detta Uomo, non è giusto (né, diciamocelo francamenmune dal quale nessuno aveva il potere di trarre particolari benefici.
te, possibile) criminalizzare il denaro. La moneta è una merce come
Risultato? Un biglietto di sola andata per il girone dei violenti contro
un’altra, non puzza, non più di petrolio, tabacco o del grasso di panDio e contro natura ed una breve constatazione di carattere microcetta fritto: proprio in quanto tale il verdone ha un prezzo al quale è
economico: se il mercato è sufficientemente grande perchè chiunque
stato dato il folkloristico nome di interesse.
voglia e sia in grado di comprare possa incontrare chi è ben disposto a
vendere, posta la clausola di mancata stretta parentela, il gioco è fat- Non da poco, Mr. I!
to!!
ORSI E TORI?
MEGLIO I CAMMELLI
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FIN
Excursus semiserio sulla finanza islamica
di Kim Salvadori
Immaginate di dover percorrere (in auto, moto, bici) il tragitto dal punto A al punto B; sapete che esiste una strada, ma l’accesso è vietato.
Che fate? Se vi stanno a cuore i punti sulla patente, cercate un percorso alternativo, anche più tortuoso, che riesca comunque a portarvi alla
meta.Ebbene, questo è il problema che cerca di risolvere la finanza halal, o finanza islamica: nient’altro che pensiero laterale applicato
all’ingegneria finanziaria.
La finanza islamica nasce, in sordina, nel 1963, con la Mit Ghamr Savings Bank, fondata dall’economista Ahmadal-Najjar; il risalto mediatico si
avrà solo nel 1975, quando, per iniziativa dei Ministri delle Finanze di alcuni paesi arabi, riuniti nell’Organization of the Islamic Conference, viene
fondata l’Islamic Development Bank. Questa alternativa alla finanza tradizionale si basa sull’interpretazione dei precetti del Corano per stabilire
quali operazioni sono “halal” (permesse) e quali “haram” (proibite). Investimenti “haram” sono quelli che hanno a che fare con aziende la cui
attività va contro i princìpi coranici, quali gioco d’azzardo e produzione di tabacco, armi, alcool o carne suina. Scordatevi Campari e Philip
Morris, insomma: Bacco, Tabacco e Venere rimangono nemici dell’Islam anche sul piano finanziario.
I pilastri della finanza islamica sono pochi ma potenti: insieme smontano gran parte del meccanismo su cui ruota la finanza occidentale, a partire dal divieto di chiedere interessi (riba) sui prestiti. I giureconsulti islamici considerano infatti “riba” non solo la pratica dell’usura, ma ogni
applicazione di tassi d’interesse fissi e predeterminati su depositi, investimenti e prestiti. Il passaggio di denaro da una mano all’altra non può
generare ritorni, ma creditore e debitore devono condividere utili e perdite. Sono inoltre proibite tutte le operazioni finanziarie caratterizzate
da “gharar”, incertezza (perché le accomunerebbe a scommesse, cioè a gioco d’azzardo, vietato dalla Shari’a), e “maysir”, speculazione. Infine
vige l’obbligo di appoggiare tutte le transazioni finanziarie su un attivo reale. Guai a chi non rispetta queste norme: ogni banca è dotata del
proprio “Shari’a board”, un organo composto da esperti di legge islamica, che vigilano sulle attività dell’istituzione e necertificano la conformità ai princìpi del Corano.
E per la raccolta fondi? Le opzioni sono due: conti correnti senza remunerazione (wadiah), o conti d’investimento, in cui il depositante non ha
protezione sul valore nominale del deposito (leggasi: “sai per certo quanti soldi metti, ma non quanti ne recuperi”), ma riceve un’eventuale
remunerazione, partecipando ai guadagni della banca e ai progetti che essa seleziona. In questo senso, il depositante è più simile ad un investitore in un fondo comune: non ha diritto di voto e rischia in prima persona il capitale prestato.
Le banche islamiche richiedono quindi una maggiore cura nella gestione, rispetto alle “colleghe” tradizionali. In primo luogo, il divieto di corrispondere e richiedere interessi le taglia sostanzialmente fuori dal circuito dei prestiti interbancari, e ciò causa non pochi problemi di liquidità. Inoltre, la bassa leva operativa e l’assenza di “titoli tossici” è controbilanciata da una forte esposizione al rischio immobiliare, come ha evidenziato la crisi della Dubai World Investment Company, nel novembre scorso, che ha colpito le banche islamiche più del fallimento di Lehman Brothers. Poiché esse privilegiano investimenti in attività produttive concrete, devono saper valutare bene i rischi connessi agli specifici
progetti e mantenere adeguate riserve di moneta per quelli ad alto rischio. Qui qualche “addetto ai lavori” potrebbe rammaricarsi del fatto che
la Shari’a vieti le transazioni finanziarie non basate su un attivo reale, dato che i derivati sono noti per essere ottimi strumenti di copertura del
rischio. Se solo non fossero “haram”…
…e invece qualcosa, nel mondo islamico, si sta muovendo verso un’evoluzione del sistema finanziario. L’International Swaps and Derivatives
Association (ISDA), associazione attiva nella standardizzazione dei contratti sul mercato dei derivati, ha recentemente approvato un accordo
per la standardizzazione di strumenti in linea coi precetti della Shari’a (l’ingegneria finanziaria permette di partire da contratti “halal”, come i
wa’ad, una sorta di promessa unilaterale, e i muràbaha, e poi usarli –un po’ come dei mattoncini Lego – per strutturare strumenti più complessi).
Il mercato della finanza islamica, secondo Il Sole 24 Ore, è stimato attorno ai 900 milioni di dollari, e ha tassi di crescita tali da poter rappresentare in futuro una sfida per la finanza tradizionale. Alì Babà meets Gordon Gekko, insomma. Speriamo solo di non dover avere a che fare
anche coi quaranta ladroni.
K. S.
[traileoni] 11
A qualsiasi banchiere “tradizionale” sarebbe già preso un colpo. Se le banche funzionano indebitandosi a breve e prestando a lungo, come è
possibile che non chiedano interessi? Un’istituzione che presta denaro gratis fallirebbe in men che non si dica. La risposta è semplice, basta
inventare strumenti alternativi per arrivare allo stesso risultato, come il muràbaha. Prendiamo un mutuo immobiliare: nella situazione tradizionale la banca presta una somma di denaro al richiedente, e periodicamente egli versa un importo che comprende una quota di rimborso del
capitale e una di interessi. Nel muràbaha, invece, la banca compra l’immobile e lo rivende all’acquirente con un sovrapprezzo stabilito. Questi
rimborsa la banca dell’acquisto mediante pagamenti rateali, usufruendo intanto del bene. Al termine dei pagamenti egli diventa proprietario
dell’immobile. Una pratica meno utilizzata è quella del mudhàrabah, fondata sulla condivisione di una quota di profitti e perdite tra debitore e
creditore, in una sorta di venture capital ante litteram: la banca si assume il rischio di perdite se il progetto va male, il richiedente rischia di
lavorare senza guadagni, ma non di affogare tra i debiti.
Edito da:
“Università Commerciale
Luigi Bocconi”
Registrazione n. 428 del
10.07.2001 del Tribunale di
Milano
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Direttore Editoriale
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Filippo Maria D’Arcangelo
La Redazione
Margherita Caccetta, Giulia
Cagnazzo, Maurizio Chisu,
Carlo De Stefano, Andrea
Di Miceli, Gabriele Erba,
Pietro Fazzini, Giacomo
Ficari, Livia Fraccalvieri,
Ludovica Gazzè, Giada
Giardiello, Valentina Magri,
Gabriele Marzorati, Fiammetta Piazza, Giorgia Rauso, Kim Salvadori, Roberto
Sormani.
E mail
[email protected]
Vignette
Emilio Lo Giudice
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Ruben Gaetani
“Manifesto della Destra Divina” di Camillo Langone
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Non l’ho letto, non leggetelo, sognate. L’ha scritto uno che ha
veramente capito tutto. O patetica triste destra moderna!
Ad Augusto Romano (tra gli altri) il Premio Puglia
dedicato a Francesco Attanasi. È il number one salentino della Meltin’ Pot. Qualche anno fa lo intervistammo proprio noi. Tipo simpatico.
Fantastico il Niki Vendola che parte per la tangente sul rapporto cibo cultura. Plaude l’aula magna.
EMMEC2