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ifioridelmale
quaderno quadrimestrale
POESIA
CULTURA LETTERARIA E ARTE
anno X n. 60
gennaio-aprile 2015
i fiori del male
QUADERNO QUADRIMESTRALE DI POESIA CULTURA LETTERARIA E ARTE
Con il Patrocinio della FUIS Federazione Unitaria Italiana Scrittori
I fiori del male è una rivista libera rivolta ai poeti, emarginati o affermati, che con la forza segreta e profonda della poesia hanno sostanziato ricerca esistenziale ed espressiva. Una rivista che sia
testimonianza preziosa della nostra tradizione poetica e sia anche percorso significativo nella ricchezza della poesia e della cultura contemporanea, espressa nei suoi tracciati differenziati.
Direttore Responsabile: Antonio Coppola
Vice Direttore: Francesco Dell’Apa
Redattori: Paolo Carlucci, Melo Freni, Marzia Spinelli, Sabino Caronia,
Daniela Quieti, Monica Martinelli
Critico d’Arte: Robertomaria Siena
I Fiori del male anno X n. 60 supplemento al n. 20 di SR, autorizzazione del Tribunale
di Roma n. 488/89
Libri e corrispondenza vanno inviati all’indirizzo della Redazione:
Antonio Coppola - C. P. n. 273 - San Silvestro 00187 ROMA
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Le richieste di riproduzioni di libri, disegni e opere d’arte vanno
prima concordate con la direzione della rivista.
SOMMARIO
I FIORI DEL MALE QUADERNO QUADRIMESTRALE
DI POESIA CULTURA LETTERARIA E ARTE
N.60 gennaio-aprile 2015
LETTERATURE
5
Robertomaria Siena
Intervista impossibile a
Michelangelo Buonarroti
7
Paolo Carlucci
Collera e Poesia nei Poèmes
Saturniens di Paul Verlaine
9
Merys Rizzo
“Rubrica” Appunti
Esamina tre scrittori e Poeti, Kate
ClanchyPhlip Larkin e Adam
Zagajewski
13
Fausta Genziana le Piane
A Patrick Modiano, sceneggiatore
per Louis Malle e paroliere per
Francoise Hardy, il Nobel per la
Letteratura
17
Francesco De Napoli
Finn’s Hotel – Racconti di James Joyce
20
Daniela Quieti
Proba Petronia esplora il Divino
23
Amedeo La Mattina
Revolution: l’Autore è Marcello
Vitale
Un romanzo simbolo di giovinezza
in un Viaggio inarrestabile nella
Torino sabauda del ‘68
27
Gianni Antonio Palumbo
Generazioni alla deriva nel “Padre
infedele” di Antonio Scurati
29
Andrea Mariotti
Il giovane favoloso di Martone:
come la luna nel cielo
33
Francesco Dell’Apa
Le Baccanti di Euripide tra nuova
sensibilità religiosa e l’irrazionale
36
Sabino Caronia
Una meteorite nell’Ottocento
Leopardi, Cardarelli e l’inattualità
della Poesia
40
Antonio Coppola
Donne a Messina, Donne allo
specchio, Donne…
42
Giuliana Lucchini
Fiore del male (Centenario 2015)
di Ungaretti
44
Roberto Pagan
“Rubrica” Cronache dal Nord-Est
Claudio Fait:Una pensosa ironia
50
Pasquale Balestriere
Nel centenario della stampa dei
“Canti Orfici”
Le radici della Poesia di Dino
Campana
53
Maria Armellino
Un comune dolore espresso nei versi
di Elio Filippo Accrocca ed Enzo
Mazza in un articolo che ne
ripercorre le vicissitudini
55
Monica Martinelli
Tra cuore e indignazione: la Poesia e
l’impegno di Gianmario Lucini
59
Plinio Perilli
L’affollata solitudine per Rosa
Riggio
62
Antonio Coppola
Il pubblico della Poesia e quello che
rimane dei Poeti
64
Andrea Bucci
Racconto: Il Cacciatore folle
poesia
68
Giorgio Barberi Squarotti
69
Paolo Carlucci
70
Italo Benedetti
75
Enrico Bagnato
78
Tina Emiliani
80
Rossella Seller
LO SCAFFALE 83-103
Abbiamo recensito libri di: Gian Piero Stefanoni, Lorenzo Spurio, Antonio Spagnuolo, Loredana Simonetti, Silvio Raffo, Vincenzo Prete, Leda Palma, Enzo
e Giacomo Megali, Massimo Pacetti, Fausta Genziana Le Piane, Giovanni Lacava, Gianni Antonio Palumbo,Tina Emiliani, ElisabettaVillaggio, Stefano De
Minico, Antonio Allegrini, Domenico Cara, Antonio Crecchia, Silvana Baroni,
Pietro Civitareale, Luigi De Rosa.
Tavole fuori testo: Marco Eusepi, Paolo Carlucci
In questo numero hanno collaborato: Robertomaria Siena, Paolo Carlucci,
Merys Rizzo, Fausta Genziana Le Piane, Francesco de Napoli, Daniela Quieti,
Amedeo La Mattina, Gianni Antonio Palumbo, Andrea Mariotti, Francesco Dell’Apa, Sabino Caronia, Antonio Coppola, Roberto Pagan, Pasquale Balestriere,
Maria Armellino, Monica Martinelli, Plinio Perilli, Andrea Bucci, Marzia Spinelli, Raffaele Piazza, Vincenza Gadaleta, Gemma Menigatti Scarselli, Sandro
Angelucci, Silvia Capo.
Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
L’INTERVISTA
Intervista impossibile
a Michelangelo Buonarroti
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Robertomaria Siena: Lei maestro all’Inferno? Non me lo sarei mai aspettato.
Michelangelo: Non faccia del teatro, caro professore. Lei sapeva benissimo
che mi avrebbe trovato da queste parti.
R. S.: In effetti immaginavo che le Altissime Sfere si erano convertite alla
Controriforma, e quindi non potevano accettare che un così autorevole rappresentante
della Riforma Cattolica potesse godere dell’aria rarefatta del Paradiso. Ora però
chiediamoci per quale motivo, noi uomini degli Anni Zero, la amiamo così
intensamente. Non sempre, come sa, lei ha goduto della fama che la circonda oggi.
M.: Pendo dalle sue labbra.
R. S.: La amiamo perché abbiamo imparato ad apprezzarla dal Romanticismo in
poi. Dice, infatti, Giulio Carlo Argan, che moderno non è il suo nemico Leonardo
da Vinci; moderno è lei perché nella sua figura si dispiega la perfetta coincidenza
fra l’arte e l’esistenza, un’esistenza notoriamente tormentata ed inquieta.
M.: Sono d’accordo; parliamo però adesso di Marco Eusepi, del giovane pittore
e disegnatore che è sparso per tutto questo numero de I Fiori del Male e che
stimo da tempo.
R. S.: Senz’altro; soffermiamoci, come sempre, sull’opera della prima di
copertina della Rivista.
M.: Affronti però, la prego, anche la seconda e la terza.
R. S.: Ai suoi ordini. Iniziamo dal Senza titolo della prima. Nell’artista la radice
classica è fortissima; di quale classicità si parla? Non certo di quella coltivata da
Igor Mitoraj. Lo scultore, sebbene lavori per frammenti, esalta i nudi in tutto il
loro splendore erotico. La classicità di Eusepi, invece, viene da un abisso figlio di
tutte le corrosioni e corruzioni della materia. Fotografia ritoccata; la foto l’ha
scattata il pittore stesso; immediatamente dopo interviene una pittura sconvolta la
quale nuota perfettamente nel disfacimento che forse è l’altro nome del tempo. Da
questo caos i reperti archeologici non si lasciano però cancellare e gli antichi dei
resistono incarnati nelle statue. Chi è il personaggio del Senza titolo? Impossibile
saperlo con certezza; sicuramente un occhio è cieco; probabilmente non intende
scorgere l’universo dei fenomeni perché lo sguardo interiore lo tiene avvinto
all’anima, la grande passione di Eusepi. Non possiamo poi assolutamente
tralasciare il fatto che il nostro ama suonare diversi strumenti per indurre in
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I Fiori del Male
tentazione l’immaginario. All’interno di questi si colloca la voce che lo spinge a
confrontarsi con la storia dell’arte. Un “artista dell’immaginario” come Eusepi
non poteva quindi mancare all’appuntamento con Gustave Moreau. Il suo San
Sebastiano parte da un quadro accademico del maestro e lo spinge verso l’esito
finale di una deflagrazione che è stata quella delle opere del francese dal 1886 in
poi. Ad un’osservazione tengo particolarmente; il nostro autore, dialogando con
Moreau, coglie l’occasione di rifiutare la linea analitica dell’arte moderna. Ritiene,
infatti, che non sia possibile chiudere l’immaginario nel formalismo e
nell’intransitività; la visione sfugge da tutte le parti e si mette a trattare con la storia,
con il mito, con la letteratura mossa dalla sua stessa opulenza creatrice. Infine il
Ritratto della madre; qui sapienza disegnativa e mestiere. Da dove scaturisce la
fede nel mestiere da parte del pittore? Deriva dal fatto che l’uso di diverse tecniche
espressive gli permette di non cadere nel grado zero del concetto senza la mano,
il grado nel quale le Neoavanguardie sguazzano e che invece Eusepi respinge con
sdegno. Parlando del giovane artista, ci siamo quasi dimenticati di lei maestro.
M.: Va benissimo; largo ai giovani. Mi intrufolo con un’ultima considerazione.
Lei ha parlato del nostro amico come di un “artista dell’immaginario”; è vero.
Personalmente, come sa bene, ho dato una spinta decisiva a quell’irrealismo che
poi è diventato dominante presso di voi. È stato provvidenziale, infatti, il restauro
della mia Sistina; è venuto fuori il rifiuto di un colorismo “naturale” quale si addice
al cosmo dei fenomeni. In me non esiste atmosfera e i colori splendono aggrediti
da una luminescenza non mediata. Come sappiamo, non c’era bisogno di attendere
la pulitura della Sistina; sarebbe bastato analizzare attentamente il Tondo Doni.
Qui ho incrociato la lama con Leonardo e ho fornito argomenti decisivi ai miei
amici manieristi, ai miei meravigliosi amici manieristi. Adesso basta; torni, caro
professore, a Marco Eusepi e ai giovani. Sulla mia fatica esistono milioni di libri;
la storia dell’arte continua e voi critici dovete occuparvi della vostra epoca.
R. S.: Senza dimenticare il passato però.
M.: Esatto; non abbiamo fatto altro che ricordarlo nella nostra breve
chiacchierata. Lei non sa una cosa estremamente intrigante.
R. S.: Quale?
M.: Quel bel tomo di Marinetti è in Paradiso, e quindi non mi capita di
incontrarlo, per fortuna. La degna fine di un Accademico d’Italia.
R. S.: Sorprendente.
M.: Ciò che è fuori dalla presa dei fenomeni è incredibile; infatti appena l’essere
si ferma l’immaginario vola. Il Cielo e l’Averno sono i figli primogeniti di un
tale volo; il secondo, ovviamente, è assai più affascinante del primo, perché
segnato da un titanismo che è perfettamente mio.
R. S.: Le credo sulla parola.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Collera e poesia nei PoèmEs Saturniens
di Paul Verlaine
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L
e poisson azur de l’angoisse … Sin dal
suo apparire sulla scena letteraria il giovane Verlaine (1844-1896) suona intera
la disperata grazia di quella generazione
estrema che, ne Les fleurs du mal aveva trovato il
suo specchio di elevazione dalla musa venale. Va
precisato però che Verlaine parte da queste suggestioni cercando però una via estetica e simbolista
che diverrà, sin dai Poèmes saturniens (1866) autentica cifra poetica del suo essere. Una diabolica
giovinezza pre-veggente si era inebriata dell’oltre
sentire, nel tempio della natura, il mare, la foresta
di simboli che, nelle corrispondenze si celano e si
palesano musicalmente all’occhio sinestetico.
Baudelaire, vampiro e aurora della poesia moderna, col suo invito al viaggio, offriva così alla generazione post romantica
francese, razzi d’umor nero e le armi di un’impietosa messa a nudo del cuore
di una mal’aria borghese. Ne Les Fleurs du mal si dispiegano così le tavole di
una grammatica di sensazioni ed immagini decisive. Il canto nasce fulgido e
rischioso dallo iato tra Spleen et Ideal, pietre miliari d’ogni futura poetica, segneranno per sempre ormai la condizione del poeta albatros, exilé sur le so au
milieu des huées.. Davvero allora sentiamo ne l’Albatros, l’acuto, il pathos tragico e lacerante della modernità nell’esistenza aerea e marginale del Poeta. Egli
è avvezzo alle tempeste e ride dell’arciere, è principe delle nubi, ma come tale
è impotente.. per eccesso di vigore. Baudelaire poeta e sociologo di una condizione di sventurata meraviglia lo ha eternato appunto nel suo essere re dell’azzurro, ma sulla terra non poter per le sue ali di gigante muovere un passo.
Gli esordi di Verlaine son densi di questo nero dolore dell’essere che, si esalta
in Nevermore che, apre i Poèmes Saturniens. O ricordo, ricordo che vuoi da
me? L’autunno librava in volo il tordo traverso l’aria atona e dardeggiava il
sole un raggio monotono / sul bosco tutto giallo dove rintrona la bora. La sofferenza si fa spesso artificio, si colora così di un languore monotono d’autunno:
crepuscolare diviene la melancholia dell’uomo moderno, non ingenua, il veleno
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I Fiori del Male
azzurro dell’angoscia di Paul Verlaine svela, con abili artifici, dunque, le ipocrisie il malessere raffinato di un poeta del desiderio che, prima di essere l’autore delle Feste galanti, sente la grazia della collera di una devotio al topos
della malinconia saturnina che punge i dannati della bellezza. Come una nera
danza di risa, i Poèmes Saturniens di Paul Verlaine, offrono quadri di un’esposizione di acqueforti e di grotteschi capricci dell’impero alla fine della decadenza. Nei fulvi nati sotto il segno di Saturno, avverte il poeta, maudit per
eccellenza, abbonda sfortuna e bile, bruciante come lava, sottile come veleno
raro gli scorre e circola nelle vene, accartocciando in cenere il loro triste
Ideale. Doloroso ed efficace il.. bisturi dell’ occhio diventa così bardo di realtà.
È proprio in queste passeggiate sentimentali che più acre si coglie, nel simbolismo e nella parola musica, la satira della società e dei suoi valori. Lo dimostrano testi in tal senso esemplari, quali La canzone delle ingenue e soprattutto
Gesuitismo. Il Male che m’uccide è ironico ed unisce / il sarcasmo al supplizio,
e non tortura in modo / franco,ma mi punzecchia con un sorriso falso/ e falso
e fa che il mio martirio diventi tutto da ridere. / Sulla bara ove giace, semidisfatto, il Sogno / mugola un De Profundis sull’ aria del Tradèri. d’una società
che balla il sabba nella Notte di Walpurga classica. In un viaggio musicale e
già decadente, sarà amato da D’ Annunzio, che ne coglierà l’esteta dello sfinimento di un’ambigua bellezza sospesa carne santa di baci e di ceri. Ma ciò
che resta decisivo in quest’opera del poco più che ventenne Verlaine è la genesi
di un passaggio di sguardi di scatti una serie di passeggiate sentimentali che
dello Spleen parigino hanno l’adagio di un poeta artista, già dimidiato tra versi
sontuosi e visceralità di emozioni. Dunque nelle varie sezioni dei Poèms,
spesso in sottotraccia si hanno echi beffardi di quella società in cui le borghesi
trame matrimoniali di un Monsieur Prudhomme prevalgono, Verlaine così
epigrafa il sindaco e padre di famiglia. Gli occhi nuotano/ in un unico sogno
senza pensieri, e sfavilla / sopra le sue pantofole la primavera in fiore.. Occhi
ed orecchi si colmano già del veleno azzurro del vecchio cuore complice del
Pauvre Lelian, l’anagramma del poeta.
Paul Verlaine, Poesie, traduzione di L. Frezza , Rizzoli, Milano 1986
Charles. Baudelaire, I fiori del male, traduzione di A. Bertolucci, Garzanti,Milano, 1975
Titolo originale
Poèmes Saturniens
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Appunti
RU B R I C A
(a cura di)
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Zagajewski nell’essere viandante è essere
desiderante, che va verso una sorgente
originaria; perciò essere e andare si
presentano nei versi come sintesi limpida di
un’unica prospettiva errante.
L
a poesia è di per sé viaggio dentro
l’esperienza interiore del poeta, è
avventura itinerante del pensiero, è
cammino dentro il linguaggio e dentro
l’arte della parole. Quando, poi, il soffio del dire
poetico rincorre il filo, che lega le immagini di
un viaggio concreto nella realtà, allora si comAdam Zagajewski (1945)
pone un solo, unico transito verso un limite continuamente ridefinibile e verso un continuo risorgere dell’alba del pensiero e
delle emozioni. L’esitazione tra suono e senso si insinua nell’ondulazione dei
luoghi e da essi attinge tutte le rifrazioni e i riflessi, che, poi, entrano a loro
volta nei modi espressivi e nei sistemi metaforici della poesia come patrimonio
e sostanza, forma e natura della lingua stessa. Il viaggio, allora, è sempre più
una sorta di miraggio, un orizzonte iridescente, che esalta la corrispondenza
delle percezioni. Ogni viaggio con i suoi ritorni e i suoi congedi in poesia può
divenire orfica visione, che trasfigura all’improvviso il dato visibile, oppure
può diventare potenza cognitiva, che azzarda e osa. Nel transito si valica il
mondo, svelandolo e rivelandolo senza attenuare la sua forza di risonanza. Lo
sguardo del poeta in viaggio si trasferisce al lettore e anche questi si sente un
essere in cammino. un essere esposto nel cammino. Il movimento avviene nel
linguaggio, che rende l’intero reale prossimo e transitabile. Se dovessi andare
a Samarcanda / magari troveresti Sherazade / in mille riproduzioni, / vestita di
lustrini, come souvenir, / e le cupole dorate di Al-al-Din / ricoperte di segnali
turistici sovietici / e ossidate, su un cielo metallico. / Ma restare è come partire./
Da qui si stendono i campi dell’Oxfordshire / già del colore di una sovrana
d’oro. / E quando il fieno è raccolto in balle / che sembrano ruote, e l’occhio
corre / dai solchi scuri dei trattori all’orizzonte nudo dell’autunno, / là brucerà
9
I Fiori del Male
Samarcanda,/ /e Samarcanda, e Samarcanda. È un testo, “ Viaggiare”, di Kate
Clanchy - nella traduzione di Giorgia Sensi -, un testo delicato eppure pieno di
energia, che apparentemente racconta di un viaggio a Samarkand. In realtà
restare è un po’ partire. Infatti, in altri versi estende il suo viaggio in una geografia immaginaria. Si leggano alcuno versi di “Conquista”, sempre nella
traduzione di Giorgia Sensi: Mappare l’oceano col nastro, / piantare una
bandiera sulla luna, / scoprire una nuova catena montuosa / e decidere di dividerla / in regioni ad angolo retto / col nome di città di provincia scozzesi,[…
] Oltre le scogliere,come punte di barriera corallina, / il mio nastro galleggia
sulle onde estive./E di notte, sulla luna, / funambola flessuosa, / trasmetto trionfo alla stazione di controllo, / eseguo al rallentatore / danze d’elefante alla
mia bandiera / e alle stelle indifferenti, grandiose. Samarcanda nei versi citati,
rifiniti e morbidi, curati e screziati, è grembo di tutto il possibile, dove può approdare qualsiasi viandante voglia scrutare l’orizzonte per aderire ancora di più
all’esserci e per dare un senso più vero all’ascolto puro del mondo.
La bellezza invita a muoversi; essa chiama dall’interno delle cose, dall’interno dell’oceano, della luna, delle scogliere, delle stelle e spinge ad andare
oltre la linea del sentire, assecondando la libertà della mente. Un viaggio particolarissimo è quello, che ritroviamo nella poesia di Philip Larkin, perché esso
è un viaggio, che apre allo sforzo gnoseologico nell’attraversare il “qui e ora”
senza prospettive lunghe. Il poeta si esercita in una ricerca sempre incompiuta,
priva di qualsiasi radicamento nei luoghi esplorati. Larkin non assorbe i colori
dei posti e, quindi, non li fa intimamente suoi. No, non ho mai trovato/un posto
di cui dire /“È questa la mia terra, / qui voglio rimanere”/ né quella persona
speciale / che all’istante reclama/tutto ciò che possiedo / e addirittura il nome;
/ simili circostanze proverebbero / che non c’è la necessità di scegliere / dove
farsi la casa, o chi amare; / a quei luoghi chiediamo solamente/di travolgerci
irrevocabilmente, / dimodoché non sia poi colpa nostra / se la città diventa inabitabile, / o la ragazza un’idiota/Eppure, non avendoli trovati, / si è costretti
ad agire, nondimeno, / come se ciò cui ci siamo adattati / / ci avesse, di fatto,
legati; / ed è più salutare trattenerci / dal pensiero che si potrebbe ancora /
scoprire fino ad oggi inessenziali / i nostri posti, la nostra persona. È “ Luoghi
amati” nella traduzione di Silvio Raffo. C’è, quasi, una resistenza dei posti cercati; la loro sagoma cristallizzata non si fa accreditare come dimora; produce,
anzi, un pathos, uno struggimento dovuto all’assenza e rivela l’illusione, l’inconsitenza, l’inessenzialità di un reale, con cui pure c’è un dialogo fantasticante
e meditativo. I luoghi sono qui negazione e, insieme, inveramento di un posto
dove radicarsi e appaiono, quasi, bassorilievo del possibile - e non del certo -,
del transitabile, che accoglie nel suo incavo di leggerezza, di legame impre-
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
scindibile, che vacilla nel buio e che nutre la vena silenziosa della poesia. In
“Arrivi, partenze “- sempre nella traduzione di Silvio Raffo -c’è un viaggiatore
singolare, che accentua l’idea di uno spazio non dato, non assegnato alla persona. Esso è un perimetro di vuoto, dove sorge una visione, anzi, è qualcosa,
che riposa dentro la visione: Questa città ha banchine, dove battelli accostano;
/ docili strade d’acqua, alti capanni, il viaggiatore vede / ( la valigia col campionario gli urta le ginocchia ) / e sente, ancora fra ingranaggi che scorrono
a rilento, / blaterare il suo arrivo alla spiaggia del mattino. / E noi, tra veglia
e sonno, sentiamo quegli arrivi / muggire in dolorosa lontananza / dilemmi incancreniti sono ancora alla porta. / “Vieni a scegliere male - gridano - vieni a
scegliere / male”;/ cosi ci alziamo. Di notte ancora echeggiano, / chiamando
il passeggero, diretto ad altri nidi: […].
Adam Zagajewski, uno dei maggiori poeti viventi, disloca in poesia un continuo viaggio tra punti discontinui, dove l’apertura dello spazio può essere lontananza senza attrazione o prossimità, che lascia trapelare il movimento di
un’altra vita. “Andare a Leopoli” : Andare a Leopoli. Da quale stazione andare
/ a Leopold, se non in sogno, all’alba, / quando la rugiada ricopre le valigie e
proprio allora / nascono i rapidi e gli espressi. D’un tratto partire / per Leopoli,
nel cuore della notte, di giorno, a settembre/oppure a marzo.[…]C’era sempre
troppa Leopold, nessuno sapeva / capirne i quartieri, sentire / il sussurro di
ogni pietra bruciata / dal sole, la chiesa uniate di notte taceva in modo/del tutto
diverso dalla cattedrale, i gesuiti battezzavano, / crescevano immemori, e la
gioia si celava ovunque, […]e c’era troppa / Leopoli, traboccava dal vaso, /
crepava il vetro dei bicchieri, straripava / dagli stagni, dai laghi, fumava dai
comignoli, / si mutava in fuoco e in tempesta, / rideva con i fulmini, diventava
umile, / tornava a casa, leggeva il Nuovo Testamento, / dormiva sul divano
sotto il Kilim capacito, / c’era troppa Leopold e ora non ce n’è / affatto […] e
ora, ma in fretta, / fare i bagagli, sempre, ogni giorno, / e andare senza fiato,
andare a Leopold, / eppure esiste, quieta e pura come / una pesca. Leopoli è
ovunque. Leopoli- Ucraina -, sua città natale, dalla quale dovette fuggire a soli
quattro mesi, è metafora della migrazione di paese in paese del poeta, che ora
vive tra Cracovia e gli Stati Uniti. Essa rappresenta il luogo mitizzato, sognato,
inseguito, luogo destinale, che suscita interrogazioni inquiete e che permane
nei versi di Zagajeswski come elemento vivente, anzi costituisce il tessuto serrato dei testi poetici. Andare a Leopold significa ritornare “ in sé “, in una dimensione sempre nuova, capace di restituire ciò, che è stato sottratto. Dopo le
esperienze dell’estraneità per il poeta rivedere la verticalità svettante della cattedrale di Leopoli vuol dire pacificare lo spirito, fortificando e innalzando ciò,
che si è guadagnato nell’espatrio. Vuol dire, soprattutto, ripensare l’apparte-
11
I Fiori del Male
nenza e prepararsi ad un attraversamento, che consenta di elevare lo spirito ad
una misura più alta, incarnata dalla poesia. Zagajewski nell’essere viandante è
essere desiderante, che va verso una sorgente originaria; perciò essere e andare
si presentano nei versi come sintesi limpida di un’unica prospettiva errante. “
Mistica per principianti”: Il giorno era mite, la luce amica. / Quel tedesco sulla
terrazza del caffè / teneva sulle ginocchia un libriccino. / Riuscii a leggere il
titolo: / Mistica per principianti. / All’improvviso compresi che le rondini / in
ricognizione / con striduli richiami/sulle vie di Montepulciano, / e i dialoghi
sommessi degli intimiditi/viaggiatori dell’Europa Orientale detta Centrale, / e
i bianchi aironi fermi - ieri, ier l’alta? -/ nelle risaie come tante monache, / e
il crepuscolo, lento e sistematico, / che cancellava i profili delle case medioevali, / e gli olivi sulle basse colline/esposti ai venti e agli incendi, / e la testa
della Principessa ignota, / che vidi e ammirai al Louvre, / e le vetrate delle
chiese simili ad ali di farfalla / cosparse del polline del fiori, / e il piccolo usignolo che si esercitava nella dizione / proprio accanto all’autostrada, / e i viaggi,
tutti i viaggi, / erano soltanto mistica per principianti, / un corso introduttivo,
prolegomeni / di un esame rimandato / a più tardi.
Lo spazio fisico e lo spazio mentale qui si com-penetrano al punto che il
viaggio si trasforma in iniziazione, in rituale preparatorio, in “epoche” del
tempo. Il poeta crea una sospensione tra realtà e irrealtà, tra corpo del reale e
trascendenza, tra percezioni dell’essere e pienezza dell’essere. Dalla sospensione nasce il desiderio dell’andare da un luogo all’altro, dalla realtà alla parola,
che manca per nominarla. Pathos, eros, logos: tappe del cammino solitario, che
si profila ad ogni inizio di testo poetico, di quel viaggio infinito, che ogni poeta
compie verso la parola non consumata, levigata, tesa a discostarsi dalla consuetudine. Nel movimento reale, concreto, lungo i contorni del mondo la poesia
dispiega esperienze di scoperte e di incantamenti, di desideri e di mancanze, di
prossimità e di estraneità, di conoscenza e di invenzione. Cosi essa dalla presenza della natura, di un paesaggio transita verso un luogo senza recinto, forma
trasognata di un “ aprirono” o di un abisso, che rifiorisce.
Kate Clanchy ( 1965 ), poeta inglese
Philip Larkin (1922 - 1985 ), scrittore, poeta e critico musicale britannico
Adam Zagajewski ( 1945 ), poeta, scrittore e saggista polacco
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
A Patrick Modiano, sceneggiatore
per Louis Malle e paroliere
per Françoise Hardy,
il Nobel per la letteratura
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J
ean Patrick Modiano è nato nel 1945
poco distante da Parigi. Albert Modiano, suo padre, orfano a 4 anni,
non ha conosciuto suo padre, un avventuriero toscano ebreo di Alessandria,
nato a Salonicco e stabilitosi nel 1903 con
nazionalità spagnola come antiquario a Parigi. Nella Parigi occupata del 1942 inconIl Premio Nobel Jean Patrick Modiano
tra Louise Colpeyen, un’attrice belga di
etnia fiamminga. Trafficante in gioventù nel mercato nero, vivendo nell’ambiente dei produttori di cinema originari dell’Europa centrale, Albert Modiano,
dopo alcuni fallimenti nella finanza e nel petrolio, fu, prima della guerra, gestore di un negozio di calze e profumi prima della guerra. Nel momento delle
deportazioni, entra nella clandestinità in seguito a una retata e ad un’evasione.
Introdotto all’ufficio acquisti del SD (il servizio d’informazioni delle SS) che
fornirà con il mercato nero, «Aldo Modiano» ha, quando incontra Louisa Colpeyn, iniziato ad accumulare una fortuna che durerà fino al 1947. Ormai protetto
dagli arresti, ma non dagli inseguimenti, si sistema nel 1945 con la nuova compagna. La coppia condurrà una vita da castello e frequenterà la teppa fino alla
Liberazione che coincide con la nascita del primogenito, Patrick. Il bambino è
affidato ai nonni materni venuti per questo a Parigi, rafforzando in lui il fiammingo come lingua materna. Nel 1949, sua madre rientra dalle vacanze a Biarritz senza di lui, lasciandovelo per due anni alle cure della nutrice del fratello
Rudy, nato nel 1947. Lì è battezzato a 5 anni, in assenza dei genitori, e iscritto
in una scuola cattolica. Agli inizi del 1952, sua madre, che spera di assicurare
le sue tournées in provincia, sistema i due fratelli à Jouy-en-Josas, dove diventano chierichetti, da un’amica la cui casa serve per appuntamenti di contrabbandieri. La particolare atmosfera di questa infanzia, tra l’assenza del padre –
di cui sente racconti inquietanti – e le tournées della madre, lo fa avvicinare al
fratello Rudy, la cui morte per leucemia a 6 anni, nel 1957, segna la fine dell’infanzia. Lo scrittore conserverà una forte nostalgia di questo periodo e dedicherà
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I Fiori del Male
le sue prime opere, pubblicate tra il 967 e il 1982, a suo fratello scomparso nel
giro di una settimana. Dal 1956 al 1960, va in collegio, à Jouy-en-Josas, dove
la disciplina fa di lui un fuggitivo recidivo. Dal 1960 al 1962 è allontanato ancora di più ed è affidato ai padri del colleggio Saint-Joseph di Thônes, in Alta
Savoia, prigione dove prende la scabbia per il lenzuolo raramente cambiato. Di
ritorno nel 1961 da una tournée disatrosa attraverso la Spagna, la madre trova
il padre che vive con una bionda italiana in istanza di divorzio di vent’anni più
giovane che sposerà un anno dopo. Sostenuto dall’età di quindici anni da Raymond Queneau, amico della madre incontrato nel 1960, che gli dà lezioni individuali di geometria, si diploma a Annecy nel 1962, con un anno di anticipo.
Come il padre, ha l’ambizione balzacchiana di fare fortuna ma diventando scrittore. Tuttavia, abbandona definitivamente gli studi nel 1962, disertando l’internato al liceo Henri IV a Parigi dove era stato iscritto in filosofia. La sua
matrigna rifiuta di ospitarlo e va ad abitare al posto del padre dalla madre. Per
provvedere ai bisogni della madre che non ha contratto, mendica dal padre che
organizza i loro incontri all’insaputa della nuova moglie. Dal 1963, sempre per
colmare la mancanza di soldi della madre, rivende a dei librai delle edizioni
notevoli rubate da privati e nelle biblioteche.
Tre o quattro volte, la dedica di un grande autore aggiunta di proprio pugno
aumenta fortemente il valore, falsificazione che diverrà un gioco. Nuova fuga
e rottura col padre che durerà circa due anni. La sera dell’8 aprile del 1965,
mandato dalla madre a cercare da lui un soccorso finanziario, è portato via dalla
polizia abusivamente allertata dalla matrigna. Suo padre, senza una parola per
lui, lo denuncia al commissariato come un « voyou », un mascalzone, una canaglia. Nel 1965, si iscrive alla facoltà di Lettere della Sorbona per prolungare
il suo rinvio militare. Frequenta, a Saint-Germain-de-Prés, dei seguaci dello
psichedelismo e del turismo hippy a Ibiza. Nel 1966 Le Crapouillot gli ordina
per il suo « speciale LSD » un articolo che evoca la generazione di Michel Polnareff, primo testo pubblicato da Patrick Modiano. Nel 1966, il padre riprende
i contatti ma, libero grazie alla maggiore età, Patrick Modiano non rivedrà mai
il padre. L’incontro con l’autore di Zazie dans le métro, Raymond Queneau,
permette a Modiano di frequentare le edizioni Gallimard che pubblicheranno il
suo primo romanzo nel 1967, La Place de l’Étoile, dopo averne fatto rileggere
il manoscritto a Queneau. A partire da questa data, si dedica esclusivamente
alla scrittura. Con Hugues de Courson, compagno all’Henri IV, compone un
album di canzoni, Fonds de tiroirs, per le quali sperano di trovare un interprete.
Hugues de Courson propone la canzone Étonnez-moi, Benoît…! a Françoise
Hardy. Due anni più tardi, è la volta di L’Aspire à cœur cantata da Régine. Partecipa nel ’68 alle barricate come giornalista per Vogue. Nel 1970, sposa Do-
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
minique Zehrfuss, la figlia dell’architetto del CNIT, Bernard Zehrfuss. Da
questa unione nasceranno Zina Modiano (1974), futura regista, e Marie Modiano (1978), cantante e scrittrice. Fin dal suo terzo romanzo, Les Boulevards
de ceinture, il Gran Premio del romanzo dell’accademia francese dell’anno
1972 lo inserisce definitivamente come una figura della letteratura francese
contemporanea. Nel 1973 scrive, con il regista Louis Malle, la sceneggiatura
del film Lacombe Lucien, storia di un giovane desideroso di raggiungere la Resistenza durante l’Occupazione che il caso, un nulla, una parola di sfiducia nei
confronti della sua giovinezza forse o l’assenza di parola, fa cadere nel campo
della Milizia e di quelli che hanno imprigionato suo padre. La sceneggiatura è
pubblicata da Gallimard. L’uscita del film nel 1974 scatena una polemica nei
confronti della mancanza di giustificazione del percorso del personaggio, sentita
come una negazione dell’impegno, cioé una ridiscussione dell’eroismo e provoca l’esilio del cineasta. Nel 1978, giunge alla consacrazione con il sesto romanzo, Rue des boutiques obscures, ricevendo il Premio Goncourt « per
l’insieme della sua opera ».
I romanzi di Patrick Modiano sono attraversati dal tema dell’assenza, della
« sopravvivenza delle persone scomparse, della speranza di ritrovare un giorno
quelli persi nel passato », con il gusto dell’infanzia troppo presto cancellata. La
sua opera letteraria è prima di tutto costruita a partire da due temi principali: la
ricerca dell’identità (la propria e quella di chi sta intorno), l’impotenza a capire
i disordini, i movimenti della società. Ciò produce un fenomeno in cui il narratore si trova quasi sempre a fare l’osservatore, subendo e cercando di trovare
un senso ai numerosi avvenimenti che si producono sotto i suoi occhi, annotando dettagli, indizi, che potrebbero chiarire e costituire un’identità. Modiano
(o il suo narratore) si mostra talvolta come un vero archeologo della memoria
annotando e conservando il più piccolo documento per riunire informazioni a
proposito di se stesso, di famigliari o di sconosciuti. Alcune pagine sono elaborate in modo da sembrare essere scritte da un detective o da uno storiografo.
Altra ossessione di Patrick Modiano, il periodo dell’Occupazione tedesca. Nato
nel 1945, non l’ha evidentemente conosciuta, ma vi si riferisce continuamente
attraverso il desiderio di delineare la vita dei genitori durante questo periodo al
punto di appropriarsene e di calarvi certi personaggi. L’evidente dualità ideologica dei genitori tende così a far emergere nelle sue opere dei protagonisti
dalla situazione vaga, dai limiti e profili mal definiti (soprattutto nella prima
trilogia, detta « dell’occupazione », composta dai suoi primi tre romanzi). Il
tema del padre e della paternità è centrale in Patrick Modiano. Prima di tutto
perché costituisce l’epicentro di tutta una rete di temi secondari variabili (l’assenza, il tradimento…), ma anche perché si tratta di un elemento che determina
15
I Fiori del Male
l’insieme del suo universo romanzesco. Questo tema è presente nei racconti di
Patrick Modiano e più direttamente nel racconto autobiografico Un pedigree. Albert Modiano resta un enigma e la scrittura permette al figlio di sviluppare questo
tema in modo liberatorio. Della giovinezza si ignora quasi tutto, eccetto la participazione ad alcuni traffici. Durante l’Occupazione, vive nell’illegalità più completa e utilizza una falsa identità che gli permette di non portare la stella gialla.
Ma il più inquietante rimane un episodio nel quale, dopo essere stato preso in un
retata, Albert Modiano è portato a Auschwitz. Sarà rapidamente liberato grazie
ad un amico alto locato la cui identità resta vaga, si suppone che si tratti di un
membro della Gestapo francese. Patrick decide a 17 anni di non rivederlo più.
Saprà della sua morte (mai chiarita) senza mai conoscere il luogo della sepoltura.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
“Finn’s Hotel”
Racconti di James Joyce
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“F
inn’s Hotel” di James Joyce,
pubblicato in Irlanda nel 2013
da Ithis Press di Dublino e, in
Italia, da Gallucci (Roma),
che se ne è assicurato tempestivamente i diritti, è
una raccolta di racconti il cui tema dominante è la
libera e poetica ricostruzione della storia e dei miti
irlandesi, di cui vengono forgiate e riplasmate le
misteriose ed intricate origini, grazie ad audaci ed
epifaniche metamorfosi linguistiche e gergali. Il
libro, arricchito da magnifiche tavole di Casey
Sorrow, prende il titolo dall’albergo dove lavorava
Nora Barnacle, la futura moglie di Joyce conosciuta nel 1916, “sfuggita a un convento di Galway
e ad uno zio manesco”: lì, la ragazza “rigovernava
le stanze e serviva ai tavoli”, ricorda Danis Rose
nell’Introduzione al volume. Nel suo circostanziato intervento, Rose tiene innanzitutto a presentare “Finn’s Hotel” come un’opera autonoma e “in
sé compiuta, che fa da trait d’union fra “Ulisse” e
“Finnegans Wake”. Annunciati forse con eccessiva enfasi come “una delle più significative scoperte letterarie del secolo”, in realtà questi racconti
brevi dell’autore dell’“Ulisse” hanno sollevato un
vespaio di polemiche. Diversi studiosi, soprattutto
appartenenti all’area anglosassone, hanno fatto notare che alcuni dei dieci testi
epico-narrativi che compongono il volume erano già stati pubblicati nel 1963,
nel volume “A First-Draft Version of Finnegans Wake”, a cura di David Hayman. A voler sintetizzare la controversa querelle, gli accademici sostengono
che sotto l’arbitrario titolo di “Finn’s Hotel” sia stato raccolto materiale già
noto, costituito da appunti e bozze per la successiva, monumentale opera “Finnegans Wake”. Viceversa, a voler accettare per buona la notizia resa nota sempre da Danis Rose, in base alla quale pochi anni fa sarebbero stati ritrovati a
17
I Fiori del Male
Parigi ulteriori documenti relativi a “Finn’s Hotel” - finora sconosciuti agli
stessi studiosi ed ora conservati nella National Library of Ireland -, tutti collocabili intorno all’anno 1923, verrebbe confermata l’ipotesi di un’opera a sé
stante. Infatti, essendo quei racconti posteriori all’“Ulisse” (1922) e troppo lontani, per datazione, rispetto a “Finnegans Wake” (1939), essi andrebbero tutt’al
più considerati come un “preambolo”, un’“esercitazione” o un’“anticipazione”
- specie a livello contenutistico - del grande capolavoro finale di Joyce. Troppo
diverso si presenta, del resto, lo stile di “Finn’s Hotel” rispetto a quello di “Finnegans Wake”: nel primo caso, la forma è fiabesca, concisa e nervosa (anzi,
“elettrica”); nel secondo è visibilmente amplificata, diluita, assorta ed onirica,
caratterizzata da un enigmatico “flusso di coscienza” portato ai limiti estremi.
A sostegno della tesi di Rose, il traduttore dell’edizione italiana di “Finn’s
Hotel”, Ottavio Fatica, osserva che “nessuno può conoscere a menadito “Finnegans Wake” in tutte le versioni e stratificazioni”, un palinsesto sterminato prosegue Rose - composto da “più di cinquantamila pagine manoscritte su cui
scervellarci, molte praticamente impenetrabili data la grafia quasi illeggibile,
oltre a decine di taccuini decisamente caotici”.
John McCourt (Università di Roma Tre), studioso tra i più accreditati, ha
insistito nell’accusare di “falsità” l’operazione compiuta dall’Editrice di Dublino. Rincara la dose l’autorevole Derek Attridge (University of York), per il
quale “non trova alcun riscontro la teoria di Danis Rose, secondo cui questi
testi furono intesi da Joyce come una raccolta di storie sotto il titolo Finn’s
Hotel”. Viceversa, in difesa del volume, non si può ignorare quanto scrive nella
Postfazione l’altrettanto accreditato esperto della materia Seamus Deane,. Questi sostiene, attraverso un’articolata ed abbastanza accettabile argomentazione:
“Finn’s Hotel è e non è il mondo di Finnegans Wake. Simile per molti versi all’opus magnum, è stato in buona parte integrato nelle varie stesure di Finnegans
Wake; però è, in linea di massima, una raccolta di studi a sé stanti ma interconnessi.” Nonostante ciò, altre critiche sono venute da Terence Killeen (James
Joyce Centre) e John Nash (Durham University). Quest’ultimo, in particolare,
mette sotto accusa l’affermazione di Rose secondo cui Finn’s Hotel sarebbe un
“compiuto ciclo di racconti brevi come Gente di Dublino”. È evidente la volontà
d’affondare il dito nella piaga, contestando dichiarazioni sicuramente azzardate
e magniloquenti, epperò neppure del tutto campate in aria, visto il genio di
Joyce e le sue continue sperimentazioni linguistiche assolutamente duttili ed
innovative, con imprevedibili rimandi ad appunti ancora tutti da esplorare. Di
cotanta complicata quaestio, l’impressione finale rimane non tanto quella di
dover “assolvere”, quanto di sollevare dalle accuse più gravi la pubblicazione,
o quantomeno di accettarla con un minimo di benevolenza, se è vero che l’au-
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
tore dei testi rimane pur sempre James Joyce, inoltre considerando che alcuni
di questi racconti non erano mai stati pubblicati, mentre dei rimanenti l’ultima
edizione risalirebbe al lontano 1963, ed infine tenendo presente che, almeno
per il nostro Paese, questa edizione s’avvale d’una versione nuova di zecca,
splendidamente resa dal decano dei traduttori italiani dall’inglese. Un’ultima
riflessione. Ai lettori interessa il valore dei racconti, non le congetture che
stanno lì a fare, più o meno dignitosamente, da cornice. L’universo di Joyce è
talmente “espanso”, talmente indecifrabile che - concludendo con Ottavio Fatica - può essere sintetizzato ricorrendo ad un unico archetipo: “quark”. Ricordiamo, al riguardo, che alla parola “quarks” - (crasi dall’espressione
“question marks” (ossia “punti interrogativi”) - contenuta nella frase “Three
quarks for Muster Mark” di Finnegans Wake, fece ricorso Murray Gell-Mann,
Premio Nobel per la Fisica, per dare un nome alla particella subatomica quark.
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I Fiori del Male
Proba Petronia esplora il Divino
“…Profonda conoscitrice dell’opera di Virgilio, apprezzata per la sua capacità di raccontare le Sacre
Scritture, criticata in quanto donna di trattare argomenti teologici, Proba riassume con sensibilità femminile gli elementi culturali della sua epoca e il suo
punto di vista lirico, antropologico e religioso.”
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roba Petroniai, aristocratica
di Roma, è stata la poetessa
cristiana più influente intorno alla metà del IV secolo, famosa in particolare per aver
scritto in lingua latina, nel 362 circa,
il Centus Vergilianus, un centoneii in
emistichiiiii incentrati su aspetti dell’Antico e del Nuovo Testamento, il
più compiuto esempio di poesia centonaria pervenutoci dall’antichità. Ella
dedicò ai nepotes questo componimento in 694 esametri, elaborato utilizzando frammenti di versi virgiliani.
Il riadattamento di forme tratte da
scrittori celebri era diffuso nella remota letteratura sia greca sia latina.
Quando il Cristianesimo si affermò
nel mondo romano, pur ripudiando la
cultura politeista ne ricevette tuttavia
in eredità molti valori, e Virgilio divenne un autorevole riferimento artistico e morale: la parte della quarta ecloga in cui il poeta di Mantova celebra
l’arrivo di un puer annunciatore di una epocale rinascita, bucolica dedicata in
realtà al figlio di Pollione, fu interpretata anche come profetica annunciazione
della venuta di Gesù Cristo. Proba, donna di grande erudizione, seppe armo-
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
nizzare in un’ideale affinità il rinnovamento evangelico e la grande eredità classica, modellando un linguaggio estetico capace di trasmettere con immagini
epiche la parola divina e, al contempo, proponendo una spirituale rivisitazione
delle opere virgiliane. Il carme così inizia: “Principio caelum ac terras camposque liquentes / lucentemque globum lunae solisque labores / ipse Pater statuit,
vos, o clarissima mundi / lumina, labentem caelo quae ducitis annum. / Nam
neque erant astrorum ignes nec lucidus aether, / sed nox atra polum bigis subvecta tenebat / et chaos in praeceps tantum tendebat ad umbras / quantus ad
aetherium caeli suspectus Olympum…”( “Da prima il ciel, la terra e i campi
ondosi, / e il risplendente in ciel cerchio lunare, / e del maggior pianeta i faticosi corsi, creò la man del facitore eterno, e del mondo, voi, luci più chiare, /
che degli anni guidate il corso alterno. / Perché ancor non v’era stella alcuna,
né v’era il cielo rilucente e puro, / ma solo notte tenebrosa e bruna copriva il
polo col suo manto oscuro, / e ’l caos tanto stendea l’ombroso velo, / quanto
mirar si può dal centro al cielo...”).
L’importanza dell’opera è da considerarsi in base agli intenti e ai presupposti
storici in cui Proba compose il centone. Ella evitò con misurato equilibrio reminiscenze mitologiche e forti metafore che potessero rammentare il vecchio
culto, recuperò la dolcezza della poesia pagana, adattò il lessico virgiliano alla
sacralità dei contenuti cristiani rivestendoli di bellezza formale, la stessa bellezza presente nei versi del poeta latino tra i più ammirati in quel tempo. L’opera
di un autore può essere compresa pienamente nella sua valenza solo in relazione
all’ambito storico e sociale da cui scaturisce. Nel declino dell’impero romano,
per non soccombere con esso, l’arte antica, legata fortemente al mito e al politeismo, doveva inevitabilmente adattarsi e lo fece attraverso scrittori cristiani
tuttavia cultori della grande letteratura classica. Accettare la trasformazione ecclesiale senza rigettare lo splendore artistico - letterario del passato rappresentò
una sofferta selezione tra pensiero e forma. Attraverso la parola virgiliana Proba
persegue un nobile obiettivo pedagogico e apostolico. Il suo Centone fu considerato un esempio di alta poesia per il valore morale, e fu imitato e studiato
nelle scuole fino al decimo secolo. All’inizio esso venne considerato canonico
e ispirato da Dio; in seguito Papa Gelasio I° lo pose tra i libri apocrifi, non ispirati ma di sana dottrina cattolica. Profonda conoscitrice dell’opera di Virgilio,
apprezzata per la sua capacità di raccontare le Sacre Scritture, criticata in quanto
donna di trattare argomenti teologici, Proba riassume con sensibilità femminile
gli elementi culturali della sua epoca e il suo punto di vista lirico, antropologico
e religioso. La rilettura del suo centone ne evidenzia la modernità dell’approccio
linguistico, letterario, metodologico e umano. Infatti ella potrebbe essere accostata idealmente al gruppo di scrittori e matematici di lingua francese aderenti
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I Fiori del Male
all’esperienza letteraria dell’OuLiPoiv nel 1960, il movimento che mirava a
creare opere usando tecniche di scrittura vincolata, partendo dal concetto di una
letteratura più produttiva quanto più soggetta a restrizioni. Proba aveva precorso
i tempi, poiché la sua opera non è solo un virtuosismo ma l’espressione sincera
di una personale visione della nuova religione. Il Boccaccio in “De mulieribus
claris” così la celebra: “Proba fu donna degnissima per ingegno e per cultura,
tanto da meritare fama eterna nella letteratura latina”.
i
Proba Petronia (sec. 4º d.C.), figlia di Petronio Probo, praefectus urbi, moglie di Clodio Celsino
Adelfio, praefectus urbi. Titolare con il marito degli Horti Aciliorum al Pincio, Prima della conversione al cristianesimo scrisse un poema, perduto, sulle lotte di Costanzo II contro l’usurpatore
Magnenzio.
ii
Centone, dal latino cento e dal greco κέντρων (veste o coltre di cenci di varî colori): termine usato
per indicare un componimento letterario realizzato imitando i versi di famosi autori.
ii
L’emistichio (tardo latino hemistichium, greco ἡμιστίχιον, mezzo verso) è ciascuna delle due parti
in cui un verso può essere diviso da una cesura.
iv
OuLiPo (acronimo dal francese “Ouvroir de Littérature Potentielle”, ovvero “officina di letteratura
potenziale”). Il gruppo venne fondato nel 1960 da Raymond Queneau e François Le Lionnais.
Membri di spicco furono Georges Perec, Italo Calvino e Jacques Roubaud.
22
Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Revolution : l’autore È Marcello Vitale,
un romanzo simbolo di giovinezza in un viaggio
inarrestabile nella torino sabauda del ’68
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L
e librerie e le biblioteche sono piene di
libri sul ’68. Romanzi e saggi che attraversano università, fabbriche, redazioni,
tribunali, fino all’incubazione del terrorismo delle Br e dei vari gruppi armati. Quell’anno, anzi quei “formidabili anni” Sessanta (per
usare il titolo di un famoso libro di Mario Capanna) sono indicati per tutto il bene o per tutto il
male che, come un’onda anomala, è arrivata fino
a noi oggi, stravolgendo stili di vita, gusti culturali
e musicali, l’arte, la letteratura, le dinamiche familiari e le città. Le città, appunto, dove il fenomeno
politico e soprattutto sociale si è manifestato con
maggiore forza, con fiammate che hanno lasciato
il segno nelle strade, sui muri, nelle coscienze di
Marcello Vitale
ognuno. Città avanguardia come Roma, Milano,
Pisa, Genova, Trento. Ce n’è una che ha avuto un
peso e una caratteristica particolare: è Torino, la
città della Fiat, della classe operaia, della monarchia Agnelli, la capitale sabauda. È la città-humus
di Gramsci e di Gobetti, dove si formò il primo nucleo comunista dopo la rivoluzione bolscevica. E
poi è stata punto di riferimento della resistenza e
della cultura azionista, repubblicana e socialriformista. Torino era la città di Norberto Bobbio e
degli immigrati arrivati dal Meridione, dal profondo Sud, dalle campagne, con le valigie di cartone e il loro dialetto. Immigrati lontani mille
miglia da modo di pensare e di vivere sabaudo: uomini e donne alla ricerca di un lavoro e della dignità, fuggiti dalla povertà e dal disagio sociale. C’erano anche insegnanti,
professionisti e laureati come il personaggio di Revolution: un giovane uomo
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I Fiori del Male
laureato, una sorta di alter ego dell’autore. Marcello Vitale non gli dà un nome
e così il protagonista rimane vago, sospeso in un’identità indefinita tra lo stesso
Vitale e la proiezione di un ricordo o di un amore mancato. È un ventenne che
vince il concorso di magistratura e viene catapultato dentro un vulcano che non
ha uno ma mille crateri che eruttano lava in ogni angolo del mondo. La sua provenienza, imbevuta di studi classici e di retaggi nobili, si schianta contro una
realtà (è il caso di dirlo) rivoluzionaria. Le sue poesie, tenute nella borsa di rappresentante della legge, subiscono il confronto spiazzante con la neo-lingua psichedelica della beat generation. Cambia pure la giustizia, nasce Magistratura
democratica che ha una visione militante del diritto. Il protagonista senza nome
tocca con mano cos’è il razzismo nei confronti dei meridionali, vede i tuguri
dove abitano i calabresi, i siciliani, i pugliesi. Sente la nostalgia della sua terra.
Ma il vero choc lo subisce quando incontra Carla, una ragazza di vent’anni, figlia di un operario siciliano che finisce in manicomio. Carla è sensuale e volitiva, libera e libertaria: è figlia del suo tempo al cento per cento. È il prototipo
della donna moderna, cosmopolita, è una femminista ante-litteram. Lui è ne è
affascinato, sicuramente travolto dal punto di vista sessuale, ma allo stesso
tempo spaventato. Sono due mondi che si incontrano e si scontrano in continuazione. Ecco, per ritornare alla mia osservazione iniziale, le librerie e le biblioteche sono piene di libri sul ’68: il libro di Marcello Vitale ha però una
peculiarità. Parla di quella rivoluzione attraverso una contraddizione. È la contraddizione tra due poli che si attraggono, che si combattono, si avvolgono, si
abbracciano, litigano, si amano, si respingono. Revolution è la contraddizione
e lo specchio dell’Italia di quegli anni. La contraddizione di un Paese che cambia, tra Nuovo e Tradizione, tra Carla e l’anonimo personaggio maschile. Ho
usato il binomio Nuovo/Tradizione e non Nuovo/Vecchio non a caso. Infatti il
giovane magistrato non è il vecchio, non solo per una mera questione anagrafica. Non lo è perché anche lui è figlio del suo tempo: è un immigrato di rango,
un laureato, un borghese nel senso illuminista del termine. È un esponente della
intellighenzia meridionale. È un cultore dei classici, una persona immersa nella
tradizione della Magna Grecia. Legami, radici fortissime, inossidabili anche rispetto a fatti rivoluzionari. Tradizioni e radici che non sono sinonimo di vecchio
o superato, che fanno forte anche gli alberi nuovi. Anzi senza le quali un albero
non avrebbe la linfa sufficiente a rimanere in piede e fare frutti. In una fase rivoluzionaria, quale è stato tutto il decennio Sessanta, questa distinzione tra
Nuovo e Tradizionale si acuisce, viene esasperata, si spezza. E se poi due incarnazioni di questo binomio finiscono a letto, tutto si complica: cadono le sovrastrutture culturali, le origini sociali, le differenze di censo e si impone una
dimensione altra. Carla e il giovane intellettuale della Magna Grecia sono la
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
contraddizione di un’epoca, rappresentano il crinale in cui sta in bilico l’Italia
e non solo. Tutto il mondo vive su questo crinale, soprattutto l’Occidente ne
viene stravolto e travolto. In Italia si ha sempre una visione politica, politicista
del ’68. Una visione miope e senza respiro.
Gli anni Sessanta, come dicevamo, hanno cambiato il mondo: è l’unica rivoluzione non fallita, rispetto a quelle comuniste e bolsceviche finite sotto le
macerie del Muro di Berlino. Nel bene e nel male in quegli anni ci sono le radici
della nostra vita di oggi, della società moderna. Si potrà disquisire se il ’68
abbia prodotto frutti avvelenati, se abbia sfasciato la scuola e la famiglia (è uno
dei luoghi comuni). Ognuno di noi avrà la sua opinione, ma certamente rimane
indubbio il fatto che la società e l’economia siano cambiate nel profondo. Sono
stati conquistati diritti in tutti i campi, c’è stata l’emancipazione della donna
con il suo determinante ingresso nel mondo del lavoro, gli operai di Torino e di
tutta l’Italia hanno realizzato conquiste storiche (lo Statuto dei lavoratori è del
1970), lo Stato sociale si è enormemente allargato alle fasce deboli, la classe
media è diventata la spina dorsale del Paese. Parte da quegli anni l’evoluzione
esponenziale della tecnologia: sono gli anni in cui crescono i Bill Gates e gli
Steve Jobs, che negli anni Settanta cominciano a inventare nei garage tutto
quello che abbiamo oggi nelle mani, nelle tasche, sulle scrivanie. Sono gli anni
in cui entrano sulla scena del mondo i nuovi protagonisti: i giovani con le loro
idee, la loro musica, i loro vestiti. Diventano anche oggetto di studio, di marketing e quindi di consumo. Ecco, la storia tenera e sensuale di Carla e del giovane magistrato viene a incardinarsi proprio in questo spartiacque. È chiaro che
Carla alla fine finisce per essere la vera protagonista del libro, è lei Revolution.
Il figlio della Magna Grecia guarda attonito, sbalordito, frastornato questo incessante movimento della ragazza che partecipa ai grandi concerti di quel periodo, che occupa le università, che partecipa agli scontri con la polizia, che va
nelle campagne calabresi a indottrinare i contadini. “Servire il popolo” è quanto
di più lontano e urticante per il giovane calabrese che finisce a Torino e che
torna con lei, d’estate, nella sua Regione. Lì cerca di farle capire quanto sia
bella la sua terra, quanto sia forte il richiamo delle sirene: lì lei potrebbe comprendere perché a Torino lui cerca sempre la compagnia di calabresi. Lei non
lo capisce e non potrà mai capirlo perché vive su un altro pianeta (anche se dal
linguaggio che l’autore le fa usare sembra che entrambi abbiano frequentato la
stessa accademia linguistica). C’è una cosa che però lo rimanda di corsa a Torino: l’incontro con un suo vecchio amico, costretto a sposare la figlia di un
boss mafioso perché aveva ceduto alla tentazione carnale. Il già integerrimo
magistrato capisce che il mondo sta correndo a folle velocità, mentre il suo è
fermo a una tradizione che contiene il bene e il male, il bello e il brutto, la
25
I Fiori del Male
Magna Grecia e il cancro della ‘ndrangheta. Del resto, anche il pianeta dove
vive Carla contiene l’uno e l’altro. Ma comunque è il Mondo Nuovo, quello
che oggi fa parte delle nostre fibre.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
GENERAZIONI ALLA DERIVA NEL “PADRE INFEDELE”
DI ANTONIO SCURATI.
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La forza del Padre infedele è nello stile, a tratti graffiante, a tratti lirico, e nell’ironia, adottata quale
forma mentis dinanzi a una realtà straniante.
“I
l romanzo dell’educazione sentimentale di una generazione”. Così
è stato definito Il padre infedele di Antonio Scurati, edito per i tipi
di Bompiani e classificatosi al secondo posto tra i finalisti del Premio Strega. L’idea si potrebbe estendere ben al di là del mero concetto di “educazione sentimentale”: l’opera di Scurati assurge infatti a ritratto
di una generazione di padri e madri quarantenni prosciugati da un’epoca infida
e giunti tardivamente all’esperienza della genitorialità. Uno specchio di tale realtà diviene il capitolo “Pionieri di un nuovo mondo”, in cui, in un’atmosfera
vagamente da alcolisti anonimi, un’”eroica pattuglia” di futuri genitori con
“l’età da poter essere nonni” si affanna a sentir decantare le meraviglie del parto
naturale, in un’atmosfera grottesca. Glauco Revelli, eterna promessa della gastronomia milanese, e la sua Giulia si cimentano con l’esperienza della nascita
di una nuova vita. Catapultata in lacrime in un mondo al declino, la piccola
Anita, da assassina del sonno dei genitori, con i suoi occhi “arcani” scruterà
giorno per giorno quella coppia sull’orlo della crisi di nervi e del disfacimento.
Muovendo dal momento in cui la moglie Giulia sentenzierà la bancarotta del
loro amore, Glauco, voce narrante, ripercorrerà le tappe salienti della propria
storia di marito e padre, dall’incontro con la futura compagna, nella bizzarra
cornice della “più grande kermesse al mondo dedicata ai formaggi”, in
un’”orgia di aromi e puzze”, sino alla delineazione del magico rapporto con la
piccola Anita.
La forza del Padre infedele è nello stile, a tratti graffiante, a tratti lirico, e nell’ironia, adottata quale forma mentis dinanzi a una realtà straniante. È così che
una secca direttrice di banca, che inchioda il Revelli alla sua mancanza di risorse, appare “disidratata” da un secolo di rivendicazioni femminili. Storia e
letteratura divengono oggetto di un incessante processo di riscrittura. Revelli
che, incurante delle proteste delle maestre e incapace di resistere al pianto di
Anita, fugge dalla scuola materna sorreggendo il padre con la mano sinistra e
la figlioletta con la destra, è un novello Enea in fuga da Troia, in una scena che
27
I Fiori del Male
non può non far sorridere chi abbia presente l’ipotesto. Ancora, il Glauco che
vaga nella Milano notturna, in preda allo sconforto per l’inesorabile fallimento
della sua attività, giunge a Piazzale Loreto, teatro dell’uccisione di Mussolini
e si accorge che “in nessun altro luogo della terra il passato è così abraso”. Questa è una delle chiavi di volta del romanzo. Glauco ha ereditato un nome pomposo dalla generazione del padre Alcide e, proteso verso le “sorti magnifiche e
progressive” di un mondo in apparente, incessante, crescita, ha tentato di “assassinare” metaforicamente il genitore. La sostituzione del “pesce persico del
lago di Como” con il “rombo al cacao e salsa di passion fruit del Madagascar”
è il travestimento brillante e cosmopolita di chi, poi, a sua volta non riuscirà ad
adattarsi al food design, icona di un’umanità rinsecchita, isterilita, narcisisticamente protesa a contemplare la propria brillante melancolia. Nel finale emerge
pertanto l’amarezza di un mondo in decadenza, passato dal terrore successivo
all’11 settembre a una sorta di esaurimento per “sfinimento”, dopo la depressione scatenatasi in effetto domino su tutto il pianeta. A sortirne i terribili effetti
una generazione di figli, in alcuni casi (come quello del protagonista) poi diventati padri, che, mentre assistono alla graduale demolizione di un mondo in
dismissione, coltiveranno il mal di vivere nei loro giardini metropolitani.
NOTIZIA
Gli Autori che desiderano collaborare possono inviare gli articoli
ai redattori (max 3 cartelle A/4), le recensioni (max 1 cartella A/4)
e le poesie per un massimo di cinque. I lavori devono pervenire
esclusivamente in formato Word, entro il 2 febbraio; 2 maggio; 2
ottobre. Si possono inviare indifferentemente ai redattori della
rivista qui di seguito segnati:
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
IL GIOVANE FAVOLOSO DI MARTONE:
COME LA LUNA NEL CIELO
L’esistenza di giacomo leopardi raccontata in un film
dal regista napoletano
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È
sicuramente da
ringraziare, Mario
Martone, per il
suo ultimo film, Il
giovane favoloso, sugli
schermi dal 16 ottobre
scorso. I tre “capitoli” dell’esistenza di Giacomo Leopardi proposti dal regista
napoletano (Recanati, Firenze e Napoli), riservano
spunti significativi per lo
spettatore. Ma non è possibile fare a meno di esprimere, innanzitutto, un
convinto apprezzamento per
la prova dell’attore Elio Germano nei panni del grande Recanatese; giacché Germano, per così dire, “buca
lo schermo”, con il suo portamento ingobbito e tuttavia non melodrammatico;
per tacere del suo sguardo sovente attraversato da lampi di sottile ironia chissà
quante volte immaginata, da noi lettori di Leopardi al cospetto, poniamo, dei
versi iniziali della Palinodia al Marchese Gino Capponi: “Errai, candido Gino;
assai gran tempo,/ e di gran lunga errai”. Non poco ha giovato naturalmente a
Martone la possibilità di filmare il “capitolo recanatese” del Giovane favoloso
all’interno di Palazzo Leopardi; talché gli anni dello “studio matto e disperatissimo” di Giacomo davvero si materializzano davanti ai nostri occhi: consentendoci quindi la liquidazione d’ogni stereotipo di libresca memoria. Si è detto,
a proposito del film in oggetto, d’una sua stretta somiglianza con il celebre
Amadeus di Milos Forman (1984), in merito all’intenso e ambivalente rapporto
tra Giacomo e il padre Monaldo (vero e proprio leitmotiv del suddetto “capitolo
29
I Fiori del Male
recanatese”); ma tale somiglianza, pur innegabile, non limita a mio avviso il
valore del Giovane favoloso. Tant’è che egregiamente il regista napoletano ricostruisce il maldestro tentativo di fuga da Recanati di Giacomo del luglio del
1819; sventato facilmente dal padre nell’anno stesso di una grave oftalmia del
poeta (malattia cupamente accompagnata dal desiderio di morte; e vale, al riguardo, la lettera di Giacomo a Leonardo Trissino del 27 settembre 1819). Sappiamo bene, del resto, come Leopardi giunga comunque a realizzarla, la sua
evasione dal “carcere recanatese” in quel fatidico 1819: scrivendo il sublime
idillio L’Infinito, suggestivamente pensato più che declamato, da Elio Germano,
in una bellissima sequenza del film. Siamo ormai alle porte del “secondo capitolo” dell’esistenza leopardiana, nel Giovane favoloso; quello fiorentino, con
l’ingresso in scena degli attori Michele Riondino nel ruolo di Antonio Ranieri
e di Anna Mouglalis nei panni di Fanny Targioni Tozzetti.
Ebbene qui, proprio qui, il film di Mario Martone finisce per rivelare a parer
mio un omissis non di poco conto. Come non fosse infatti bastato aver discutibilmente taciuto del periodo pisano, volendo riferirsi da parte nostra ai pochi
mesi in sintesi sereni (incredibile dictu!) vissuti da Leopardi nella città toscana
(dal primo novembre 1827 fino alla tarda primavera del 1828), periodo in cui
non a caso rinascerà la poesia del grande Recanatese dopo anni di sostanziale
silenzio (con i versi soprattutto di A Silvia; primo esempio, cronologicamente
parlando, di canzone libera o leopardiana); come non fosse bastato ciò, stavamo
dicendo, grave è risultato ai nostri occhi nel Giovane favoloso non aver mostrato
allo spettatore la scena del definitivo congedo di Leopardi da Recanati: congedo
avvenuto il 30 aprile del 1830 e strettamente connesso alla stesura appena ultimata (a mezzo di uno strenuo labor limae durato non pochi mesi) di quel Canto
notturno di un pastore errante dell’Asia solo fugacemente rammentato, nel film
di Martone, in un “notturno” fiorentino (laddove Giacomo, in compagnia di
Pietro Giordani, esprime la sua cocente disperazione amorosa cagionata dalla
Targioni Tozzetti). Troppo bene sappiamo come il suddetto Canto notturno rappresenti in effetti il vertice altissimo, forse insuperato, di tutta la poesia leopardiana (uno studioso del peso di Pier Vincenzo Mengaldo non fa che ribadirlo
con nettezza, nel suo recente e acutissimo saggio Leopardi antiromantico; Bologna, Il Mulino, 2012); e anche chi scrive, pur appassionato in sommo grado
della poesia leopardiana post-recanatese culminante nella Ginestra, non scopre
certo l’America riconoscendo l’altezza suprema del Canto notturno: poesia di
“greca” levità, nel suo scolpire le eterne domande poste dal poeta intorno alla
condizione umana e dettate da un vigile, implacabile pessimismo che tutto investe ( risultando il frutto della poderosa riflessione in prosa dell’autore dello
Zibaldone e delle Operette morali). Così dicendo, ecco chiarirsi meglio il peso
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
di quell’omissis sopra accennato, nel Giovane favoloso; film in cui si passa con salto troppo brusco e lacunoso- dall’idillica e “giovanile” luna della Sera
del dì di festa al Leopardi “fiorentino” polemico e appassionato, prosatore più
che poeta; tagliando fuori, soprattutto, la nascita di quei canti pisano-recanatesi
del 1828-30 cronologicamente suggellati (e non solo cronologicamente!) dal
citato Canto notturno. Ché, procedendo come avviene nel film di Martone e
cioè omettendo uno sguardo indispensabile sui suddetti canti del 1828-30 -veramente al centro di tutta la grande poesia leopardiana-, ecco che finiamo per
ritrovarci fra le mani il filo spezzato di una esperienza poetica in cui la radicale
commistione di musica e pensiero (tuttora indigesta per crociano retaggio?) si
dà per compiuta proprio grazie al “miracolo” dei suindicati canti (prediletti,
guarda caso, da uno studioso talvolta discutibile ma non estetizzante come Alberto Asor Rosa); canti (i pisano-recanatesi) dunque strategici per intendere in
profondità Giacomo Leopardi nella sua integrità poetico-umana ( si pensi come
in precedenza Leopardi era invece tornato da “filosofo” nello Zibaldone del
1820 in merito al tema dell’infinito; quindi, un anno dopo la composizione del
celebre idillio).
Sguardo d’autore, si dirà, in favore del regista napoletano (amante soprattutto delle Operette morali); giacché a conti fatti Martone è stato capace di donarci un film che francamente mancava, considerando il peso e l’attualità di
Leopardi; ma nel momento in cui mi sento di accettare in qualche modo da
spettatore tale considerazione, non posso rinunciare -così come ho fatto- a puntualizzare la portata di una omissione che rimane (credo non soltanto per me)
tutt’altro che irrilevante. Ciò specificato, anche all’interno del “capitolo fiorentino”, nel Giovane favoloso, sono presenti a mio avviso momenti significativi;
ripensando per esempio allo sguardo ironico di Elio Germano (lodevolmente
immedesimato con il grande Recanatese) nella scena credo ambientata presso
il Gabinetto Vieusseux: uno sguardo animato da quel “pericoloso” pessimismo
(in chiave politica) percepito con inquietudine dai sostenitori delle “magnifiche
sorti e progressive”. Qui Martone risulta a parer mio felice nel far pronunziare
a Germano gli enunciati più corrosivi del Dialogo di Tristano e di un amico;
Dialogo al cui interno la posizione leopardiana si fa acutissima diagnosi sociopolitico-antropologica sul presente e sul futuro, fino ai giorni nostri. Peraltro,
sempre in questo “capitolo fiorentino”, come non apprezzare la puntuale citazione figurativa inerente al raffinato vestito color viola indossato dalla Mouglalis nella parte della Targioni Tozzetti (“…del color vestita / della bruna viola,
a me si offerse / l’angelica tua forma, inchino il fianco / sovra nitide pelli, e circonfusa / d’arcana voluttà”; Aspasia, versi 16-20)? Confesserò inoltre d’essermi
non poco commosso nell’assistere, verso la conclusione del “capitolo fioren-
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I Fiori del Male
tino”, alla scena del povero corpo del poeta rattrappito (a causa della disperazione più atroce) presso il bordo torbido e limaccioso dell’Arno, dopo un amoroso convegno negatogli dalla Tozzetti (intravista poco prima fra le braccia del
prestante Antonio Ranieri). Corpo squassato dal dolore e veduto dall’alto con
innegabile effetto di potenza espressiva, direi. Nel “terzo capitolo” dell’esistenza di Leopardi (l’ultimo) ambientato a Napoli, Mario Martone come si suol
dire “gioca in casa”: innegabilmente rimarchevoli -senza manierato folclorerisultano infatti alcune scene di miseria e superstizione, calore popolare e ottusità dei letterati locali; forze eterogenee con doppio effetto d’attrazione e repulsione sul Recanatese sempre più stanco e malato. Il giovane favoloso si
chiude sui versi della Ginestra suggestivamente sorretti da immagini ad hoc
(belle soprattutto per quanto mi riguarda quelle d’una funerea Pompei nel momento in cui echeggiano versi di tale supremo canto come “E nell’orror della
secreta notte/ per li vacui teatri,/ per li templi deformi e per le rotte/case, ove i
parti il pipistrello asconde…”280-3). Sicché, in conclusione -pur delusi come
lettori della grande poesia leopardiana dal film del regista napoletano (giova
ricordare una vera e propria presa di posizione nel felliniano Amarcord (1973)
: ”Dante è così, e Leopardi…”; volendo alludere naturalmente all’altezza poetica del Fiorentino e del Recanatese appena una spanna più in basso) -credo che
Il giovane favoloso vada visto da spettatori critici e attenti evitando eccessi di
sulfureo accademismo evidenti nella astiosa recensione di Emanuele Boffi del
7.9.2014 (www.tempi.it). In fondo, a pensarci bene, qualcuno prima o poi doveva mettere in bocca in un film su Leopardi ad Adelaide Antici (madre del
poeta) la gelida esortazione a lodare Iddio per essersi ripreso anzitempo l’anima
di Teresa Fattorini morta di tisi (rammentando al riguardo una pagina terribile
dello Zibaldone sui fratellini di Giacomo morti in tenerissima età; pagina che
vale come indimenticabile ritratto materno dell’autore del Dialogo della Natura
e di un Islandese (giustamente e felicemente ricordato, tale Dialogo, nel Giovane favoloso; laddove il volto dell’indifferente Natura ha i tratti della madre
di Giacomo).
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Le Baccanti di Euripide tra nuova
sensibilità religiosa e l’irrazionale
Le Baccanti sono la storia di una follia che pervade via
via la mente del giovane re di Tebe, Penteo, che si oppone
all’introduzione del culto dionisiaco nella città
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"
“T
$
u hai la lingua
sciolta, come chi
ha la mente sana,
/ eppure nei tuoi
discorsi, non c’è niente di sano. /
Un uomo ardito, e abile nelle parole, / diventa corruttore, per la
sua città, quando non ha senno
(noùn ouk échon) (vv.268/71).
Le parole del saggio Tiresia rivolte
a Penteo, che lo accusa di sostenere una nuova religione quella
di Dioniso e ne teme una destabilizzazione dell’ordine costituito,
sembrano adombrare tra l’altro
una critica ai demagoghi ateniesi e ai sofisti con la loro retorica e con il rifiuto
delle tradizioni. Le Baccanti l’ultimo dramma di Euripide, scritto tra il 408 e il
406 a.C. durante il soggiorno in Macedonia ospite del re Archelao, sono un
testo di eccezionale ambiguità. Sorprende i critici il fatto che il tragediografo,
spirito laico formatosi alla fonte del sapere della sofistica, abbia scritto alla
fine del suo impegno poetico e della vita una tragedia religiosa sconvolgendo
la tradizione olimpica e introducendo una religione alternativa. La contrapposizione
tragica che sta alla base del dramma è stata individuata nell’antitesi tra
misticismo e razionalità. Il vecchio Tiresia e il giovane Penteo rappresentano
le due facce: il primo difensore del nuovo culto dionisiaco il secondo degli
antichi dei. Le Baccanti sono la storia di una follia che pervade via via la
mente del giovane re di Tebe, Penteo, che si oppone all’introduzione del culto
dionisiaco nella città. Al centro dell’opera vi è non solo l’aspetto religioso ma
pure la dimensione della psiche, dove operano forze cieche, da cui Euripide fu
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I Fiori del Male
attratto nella sua opera di drammaturgo. All’inizio della tragedia Penteo,
giovane re di Tebe, si oppone al culto di Dioniso. Al dio cedono prima le
donne tebane e la madre di Penteo, Agave, poi il vecchio Cadmo e l’indovino
Tiresia che lo seguono sui monti. Penteo fa imprigionare Dioniso, lo deride,
ironizza sul suo aspetto femmineo, lo sottopone a un duro interrogatorio da cui
emerge l’attrazione verso il mondo irrazionale. Il dio si libera e suscita in lui
una morbosa curiosità di conoscere le sacre orge. Eros e thanatos dominano
un mondo che ha il fascino del proibito. Penteo manifesta il desiderio di
vedere i riti delle Baccanti e accompagnato da Dioniso che lo convince a
vestire vesti femminili per sfuggire all’attenzione e con parole di ambiguità lo
avvia verso il monte Citerone. Scoperto dalle Baccanti mentre se ne sta in alto
su una pianta per spiarle viene fatto a pezzi dalle donne invasate dal dio e
dalla madre “che per prima si avventò contro di lui” convinta di avere ucciso
una fiera.
Agave condotta alla ragione da Cadmo piange la sua sventura. L’accusa
che viene mossa è quella di immoralità riguardo alle giovani al seguito di
Dioniso “che sembra una femmina che porta qui una nuova malattia” e le
donne di Tebe che “hanno lasciato le loro case” dividendo le famiglie e indebolendo il tessuto sociale della città. L’altra accusa è quella di irrazionalità
che percorre la mente dei due vecchi Cadmo e Tiresia che vogliono andare sul
monte Citerone con le Baccanti:
CADMO Dove dobbiamo andare a danzare, dove a posare il piede. Ti assicuro
che non mi stancherò con il mio tirso di battere la terra notte e giorno. D’essere
vecchio, molto volentieri me ne sono dimenticato.
TIRESIA: A me succede lo stesso, sono anch’io ringiovanito e impaziente a
mettermi a danzare.
CADMO: Vogliamo andare sul monte in carrozza?
TIRESIA: Non renderemo uguale onore al dio.
CADMO: Ti porterò per mano come un bimbo.
TIRESIA: Senza fatica il dio ci guiderà.
È una scena surreale, due vecchi dai bianchi capelli, se pure incerti nei passi,
si mettono a danzare, si scrollano la vecchiaia e diventano giovani. È una scena
perfusa di sottile ironia, folleggiano come giovani e lo stesso Tiresia pare rendersene conto:
Dicono che io non ho ritegno, in questa mia vecchiaia
io che vado a danzare con la testa incoronata di edera.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Cadmo e Tiresia diventano oggetto di riso da parte di Penteo e il loro comportamento è di vecchi che hanno perso il senno e li apostrofa: “Qui vedo l’indovino Tiresia con la nèbride variegata e c’è il padre di mia madre con lui, roba
da ridere, che va baccheggiando con il tirso.” Euripide, indagatore dell’animo
umano “Nella follia di Penteo mostra il soprannaturale che attacca la personalità
della vittima nel suo punto più debole, operando sulla natura e attraverso la natura, e non contro di essa. Il dio vince perché ha un alleato nel campo nemico:
il persecutore è tradito da quel che egli vorrebbe perseguitare, l’aspirazione dionisiaca che è in lui stesso”( Eric R. Dodds : I Greci e l’irrazionale). Dioniso è
un dio che ama la bellezza: “Chioma fluente, ignaro della lotta, che scende giù
lungo le guance, piena di fascino; la sua pelle mantenuta bianca nell’ombra,
lontano dal sole.” È una bellezza efebica e femminea come la femminilità delle
giovani che lo accompagnano con le quali trascorre il giorno e la notte. Dioniso
è una figura in cui emergono elementi inquietanti.
Dapprima si dimostra in balia di Penteo poi liberatosi da preda diventa cacciatore e da vittima carnefice. Penteo che ha condotto Dioniso nella stalla crede
di legarlo ma il dio si prende gioco di lui; al suo posto mette nei lacci un toro e
lui sta a guardare: “Proprio in questo l’ho beffato, che neppure mi toccò / e credeva di legarmi, di speranze si nutrì.” Sono i due volti del dio che dimostra tutta
la sua potenza: “Lotta di un uomo contro un dio: un’impresa temeraria:” Dapprima si presenta come giovane allegro poi sarà il volto del dolore e della morte.
Nelle Baccanti si è voluto scorgere da alcuni critici una conversione religiosa
da altri una protesta razionalistica. In un periodo storico di grandi tensioni forse
il tragediografo, amico dei sofisti, ha cercato di allontanare da sé l’accusa di
ateismo mossa dai tradizionalisti. Euripide fu legato d’amicizia con Anassagora
e Socrate, l’uno fu trascinato in tribunale, l’altro accusato di empietà (asebeias)
e di corrompere i giovani fu gettato in carcere e costretto a bere la cicuta. L’originalità della tragedia, a parte le ambiguità e le contraddizioni, consiste nell’avere trattato le problematiche della religiosità dionisiaca e dell’irrazionalità.
Non viene tuttavia dissolto il dissidio tra la religione tradizionale e il razionalismo del poeta, anzi viene ritrovata una fede popolare e mistica non più oggetto
di diatriba. La tragedia si conclude, dopo gli scambi aspri tra Dioniso e Cadmo
e Dioniso e Agave, con l’intervento del Coro: Sono molte le sorti che il cielo ci
da / e compiono eventi inattesi gli dei, / né ciò che credemmo diviene realtà;/
risolve le cose incredibili un dio./ Così questa storia è finita.
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I Fiori del Male
Un meteorite nell’Ottocento
Leopardi, Cardarelli e l’inattualità
della poesia
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C
hiarire il senso e la verità dell’opera di uno scrittore che ha influito
decisamente sulla nostra formazione è impresa tanto difficile che
viene naturale ricorrere per un aiuto ad un particolare della vita di
lui. Alle origini dell’educazione letteraria di Vincenzo Cardarelli è
l’influenza delle opere teatrali. Sui prati dell’Orto Botanico il giovane provinciale inurbato legge Shakespeare nella traduzione di Rusconi.«In quell’epoca
scrissi anche una commedia intitolata Per diverse vie. Riuscito a farla presentare
ad un capocomico, l’uomo del mestiere capì a fiuto come non valesse la pena
di leggere quel copione. Si limtò dunque a prendere atto del titolo e restituì il
lavoro spiritosamente dicendo “Per diverse vie… lui faccia la sua, io faccio la
mia”».La verità psicologica dell’episodio prescinde in questo caso dalla verità
di fatto.È certo che successivamente lo scrittore compose un «dialogo filosofico» intitolato L’ultima lezione dello scettico da cui scaturiscono «alcuni versetti», come egli li chiama, che aprono il suo primo libro, i Prologhi. Sono versi
che esprimono la poetica cardarelliana: «La speranza è nell’opera. – Io sono un
cinico a cui rimane – per la sua fede questo aldilà».Si direbbe, come ha osservato Giuseppe Raimondi, che la scelta o la preferenza per le opere teatrali, classiche e moderne (si pensi alla suggestione esercitata dalla lettura di Ibsen),
«tendessero a dare un fondo espressivo e morale al futuro edificarsi della disposizione o vocazione artistica di Cardarelli: le quali, prima di essere artistiche
e di destinazione letteraria, erano, chiaramente, di destinazione umana, in atti
e in parole».È appena il caso di sottolineare che, se la prosa dei Prologhi non è
ancora sicura perché, come giustamente ha sottolineato Nicola Francesco Cimmino, «il tono è legato alla moralità da esprimere, alla confessione da fare, alla
contraddizione da patire, e non trova mai pace in un ritmo disteso», la poesia è
già matura. È il miracolo operato da quella «facoltà dominante di concentrazione e rigore espressivo» che, come ha scritto Alfredo Gargiulo, doveva sorprendere in uno spirito così inquieto.
Prendiamo una lirica bella e compiuta come Estiva:
Distesa estate,
stagione dai densi climi
dei grandi mattini
dell’albe senza rumore –
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
ci si risveglia come in un acquario –
dei giorni identici, astrali,
stagione la meno dolente,
d’oscuramenti e di crisi.
È stato detto che questa è la poesia di
Cardarelli che più si avvicina al clima
alcionico ed in particolare si è fatto
riferimento a Nuda Aestas e non,
come forse sarebbe stato più opporVincenzo Cardarelli
tuno, a Meriggio o ad alcuni versi di
Laus Vitae («Chi mi consolerà dei soli spenti, / dei giorni caduti?»).
È stato facile sostenere che qui non siamo alla nuda estate dannunziana perché
il poeta non si appaga della sensazione né si distende nella natura ma ha come
un tormento nascosto, una volontà di trascendere il reale, che qui c’è il pensiero
che scava la natura, l’io che vuole interpretare e rappresentare. Fin da principio
Cardarelli volle fuggire «quel certo canto dannunziano e pascoliano». Nella
poesia l’elemento musicale e lirico non doveva escludere il rigore logico e ogni
altra condizione adatta a creare qualche cosa di spiegato e organico. Al canto
dannunziano contrappose una poesia di architettura descrittiva lineare, di linguaggio discorsivo. I miei discorsi, intitolò il poeta le sue prime poesie. E in
Solitario in Arcadia non riconoscerà alla poesia, nei confronti della prosa, altra
dignità che una accentuazione musicale.
È in Leopardi che Cardarelli troverà, al di là di D’Annunzio e Pascoli, l’incarnazione del suo ideale artistico. In Viaggi nel tempo (Vallecchi, 1920) sono
pagine molto belle su Leopardi che aprono un discorso sul poeta di Recanati le
cui conclusioni illuminano la vita e l’opera di Cardarelli.Leopardi fu «un poeta
filologo» che «conosceva molto bene e aveva come sommi scopi la lingua e
l’ortografia». Le Operette morali rappresentano un progresso obbiettivo rispetto
ai Canti, «l’ultima stretta del genio». Ecco un esemplare di prosa lirica da proporre all’imitazione. Nell’autore della Operette morali, ma anche soprattutto
nel critico che avvicina «la sua grave opera eccitante e sentenziosa», la meditazione morale non rifiuta la fantasia.«La varia dottrina, l’esperienza umana, le
lunghe, battute e ribattute teorie metafisiche, conducono per incanto a scoprire
paesaggi d’una latitudine infinita. Il pensiero in queste prose genera la visione…
».Poi c’è il Leopardi dello Zibaldone letto alla luce della «Ronda», il riferimento
al critico e al linguista piuttosto che al poeta vero e proprio. Nello scritto compreso in Solitario in Arcadia col titolo Sul cammino della poesia di Leopardi è
un esemplare itinerario poetico. Nato idillico ed elegiaco Leopardi stimò fin
dall’inizio di doversi assegnare un compito di poeta civile. Il viaggio a Roma
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I Fiori del Male
è un fatto importantissimo per quel che concerne gli effetti che ne derivano in
sede poetica e letteraria. Si apre un lungo periodo fino al 1828 in cui il poeta
tace.«Ma la profonda e brusca diversione che il suo spirito aveva subito col
viaggio a Roma e la conseguente lunghissima cura dedicata alle Operette, allontanandolo per tanti anni dalla poesia vera e propria, spingendolo sempre più
e meglio verso la dura prosa, giovarono immensamente al prosatore e al
poeta».Un ulteriore sviluppo di queste considerazioni è in Poesia pura, uno
scritto compreso in Il viaggiatore insocievole, dove Cardarelli si serve di un
pensiero di Leopardi, tolto dal primo volume dello Zibaldone: «Ottimamente
il Paciaudi, come riferisce e loda l’Alfieri nella sua propria vita, chiamava la
prosa la ‘nutrice del verso’; giacché uno che, per far versi, si nutrisse solamente
di versi, sarebbe come chi si cibasse di solo grasso per ingrassare, quando il
grasso degli animali è la cosa meno atta a formare il nostro, e le cose più atte
sono appunto le carni succose, ma magre e la sostanza cavata dalle parti più secche, quale si può considerare la prosa rispetto al verso».Nel nome di Leopardi
si combatte chi vuole ristabilire la tradizionale distinzione tra poesia e prosa. A
chi lo definisce con disprezzo poeta discorsivo Cardarelli oppone che discorsiva
è la poesia di tutti i tempi e chiama in causa Dante, Petrarca e Leopardi.
La battaglia culturale di Cardarelli conosce l’insuccesso sicché Parole all’orecchio diviene col tempo Solitario in Arcadia. Egli si sente vicino anche in
questo al suo Leopardi. E La fortuna di Leopardi si intitola non a caso un suo
scritto in Il viaggiatore insocievole dedicato al poeta di Recanati, a quel «pellegrino infaticabile» attraverso tutte le età e tutti i climi che Cesare Garboli ha
definito «un meteorite precipitato nell’Ottocento». Quello scritto si apre con la
considerazione che è privilegio del genio nascere illustre: «Straordinario privilegio da non confondere con la celebrità, né con la soddisfazione e i vantaggi
che ne derivano; potendo anzi conciliarsi benissimo, come la storia dimostra
ad usura, con la più palese disgrazia».E certo per Cardarelli Leopardi è «uno
dei nostri grandi più ineffabili e più trascurati». Si è detto della preferenza del
giovane Cardarelli per le opere teatrali e di una destinazione umana prima che
artistica e letteraria della sua disposizione o vocazione artistica che ne deriverebbe. Non vi è dubbio che Cardarelli abbia sottolineato con forza il momento
della realizzazione sulla pagina. Presentando l’Amleto di Baccelli scrive: «Tutti
questi grandi, Leopardi, Manzoni, Shakespeare, prima di essere romanzieri o
drammaturghi si esercitarono da poeti nella creazione di un linguaggio, studiando se stessi, e arrivarono al dramma automaticamente, come conseguenza
di un arricchimento lirico e di stile».Sbaglia tuttavia chi lo considera uno stilista
puro e non vuol vedere dietro il magistero letterario la profonda umanità. Ed i
un inaugurare una collana con le Poesie di Cardarelli, ha scritto Giansiro Ferrata
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
nella sua Introduzione, è stato soprattutto «un primo omaggio all’importanza umana
della lirica moderna». Cardarelli si riconosce nelle «malinconie cosmiche» di Caino,
nel suo essere «figlio dei tempi, carattere lunatico» - come lui, che si definisce «enfant de fortune, figlio dei tempi», - nella condizione esistenziale dell’uomo sottomesso al caos, in balia degli elementi (sono gli anni in cui è concepito Ajace,
in cui nasce la predilezione per Villon, come risulta dall’Epistolario), nella
“stanchezza” dell’uomo che lotta col tempo frantumato della sua esistenza (in
Stanchezza la condizione del poeta che fa «orge di tempo», con «levate di Lazzaro» e «ricadute di convalescente», le cui giornate sono «frantumi di vari universi / che non riescono a combaciare» è già la condizione di Caino il cui
passato «era un’immensa desolazione di continenti abbandonati», i cui anni «si
erano succeduti pieni di fatti, separati da epoche di lontananza e di oblio, come
ere») mobilitando i meccanismi della previsione e dell’annullamento dell’incerto, che alla discontinuità del tempo degli orologi oppone la durata in cui il
tempo si scioglie come il sale, che al fluire eracliteo oppone il ritmo delle stagioni che sempre si alternano nella loro mutevole identicità, il grande orologio
cosmico («se non fossero i ritorni / che mi assicurano l’eternità!») e fra le stagioni predilige l’estate che sembra mettere «nell’ordine che procede / qualche
cadenza dell’indugio eterno», come Caino che avrebbe voluto che «la stagione
fosse sempre una, quella in cui il grano e gli orti erano maturi; così. la luce del
giorno».Nei suoi versi è un’angosciosa tenerezza cosmica, quasi che palpabilmente si acquisisse la bizzarria dell’esistenza dell’uomo non potendo dimostrare
a sufficienza l’esistenza di Dio, il sentimento di un vuoto di Dio, il senso del
peccato per cui lo scrittore si riconosce vicino ai grandi spiriti religiosi, la dichiarata esigenza psicologica di discorrere con un Dio che non si saprebbe come
giustificare. In conclusione è interessante ricordare che in una delle sue ultime
interviste concessa ad Enrico Roda, Quarantacinque domande a Vincenzo Cardarelli, su «Tempo» del 19 aprile 1956, Cardarelli dichiara:
D. Con quale attributo le piacerebbe passare alla storia?
R. Cardarelli, poeta.
D. Che cosa in modo particolare rimprovera alla lirica contemporanea?
R. Di aver istituito la maniera di fare della poesia.
D. Preferisce i vinti o i vincitori della vita?
R. I vinti.
D. In che deve consistere, secondo lei, la obbiettività di un critico?
R. Nel trattare l’autore come se non lo conoscesse.
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I Fiori del Male
DONNE A messina,
DONNE allo Specchio, DONNE
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S
foglio, alla ricerca di una citazione esatta, Le donne di Messina di Vittorini, e mi accorgo della presenza sul mio tavolo di lavoro di altri tre
libri giunti a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, che insistono,
nel titolo, sullo stesso tema. Mi pare di avvertire una strana provocazione: messi insieme elencano un intero esercito al femminile ideato e raccolto
da generali siciliani. Un vero assalto di amazzoni; Donne a Messina, Storia
delle donne come storia della città, spiega il sottotitolo; Donne allo specchio,
di Marisa Giuffrè, Donne di Andrea Camilleri. Come sempre nell’isola ogni
ostentazione crea sospetti. Ancora una volta, nonostante la Merkel e la regina
d’Inghilterra, la donna in vista, in prima linea, in trattamento speciale, suscita
domande sulle sue intenzioni: risarcimenti? provocazioni? ironia? Forse solo
un atavismo formale, che sottolinea ancora, nella scontata quanto ovvia parità,
un bisogno di ribadirla, la parità, per garantirne l’avvenuta definitiva decostruzione. Niente miti. Il termine ‘uomini’ è spesso sinonimo di esseri umani, maschili e femminili; il termine donne si riferisce senza equivoci solo al genere
femminile. Una reductio, una punizione dopo la perdita del paradiso terrestre
per chi ci crede, ma per tutti una diserzione nella sfida alla fatiscente superiorità
maschile. Donne, dunque, contemporaneamente su uno stesso tavolo, su quattro
copertine diverse. Il Club Soroptimist International messinese intitola Donne a
Messina, una raccolta di brevi ma esaurienti profili, un centinaio circa di nomi,
dai Vespri siciliani ai nostri giorni; singole storie, come dice il sottotitolo, tutte
partecipi, in primo piano, della storia cittadina. Come negare il fascino di personaggi arcaici: Nina da Messina che alla fine del 1200 scambia sonetti d’amore
con Dante da Maiano, Smeralda Eustachia Calafato, ora Santa, che dal monastero di Montevergine, a metà del 1400 potrebbe aver dato il volto alle Madonne
di Antonello -divino pittore- il cui studio in quegli anni era nei pressi del Monastero. E come non prendere atto, via via che le figure da leggendarie diventano documentate, riconoscibili, dell’impegno di volta in volta artistico, sociale,
umanitario,vissutoda donne dotate, ciascuna, di specifiche competenze, e spesso
di notevole eccellenza?Le donne di Camilleri sono trentanove. L’animo di uno
scrittore di profonda umanità, rispettoso, solo delicatamente talvolta ironico,
detta brevi piacevoli pagine, qua e là ammiccanti. Animo e occhio decisamente
maschili, ma di totale, arcana saggezza. “…sono…un uomo curioso, e soprattutto delle donne”, che naturalmente solo per vezzo definisce “un’enigma irri-
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
solvibile”. Camilleri scrive nella Nota a fine volume: “Sinceramente non avrei
mai pensato di pubblicare un libro così intimo sulla figura della donna, ma altrettanto sinceramente non avrei mai pensato che in Italia nel 2013 fossimo costretti a varare una legge contro il ‘femminicidio’.” Le Donne allo specchio di
Marisa Giuffrè, anch’esse col nome proprio per titolo, sono ventiquattro, formano racconti compiuti, e abbracciano una vasta gamma dell’anima femminile:
entusiasmo e delusione, generosità ed egoismo, gelosia e fiducia illimitata, ma
anche capacità di sacrificio e generoso altruismo. Il tono dominante, però, resta
affidato alle tante variazioni di un sentimento singolare perché desueto: l’innamoramento adolescenziale, oggi si direbbe inattuale, datato, ma più semplicemente esemplare, non databile. “Aspettava e si sentiva una farfalla”. Fuori da
ogni realistica collocazione le pagine rievocano appunto anni acerbi, emozioni
indistinte, abbandoni ingenui e innocenti, nel lieto o nel tragico fine. Una favola
bella e nostalgica, costruita con mano sicura, con opportuni tagli di scena sapientemente equilibrati. L’autrice non è mai presente nel raccontare, lascia agire
i personaggi in una loro privata e personale attualità, certamente non sua. È probabile, però, che lei voglia catturare il lettore, coinvolgerlo nelle reti della favola: il vecchio lettore, per un inatteso risveglio di lontanissimi ricordi, o
turbamenti, o desideri, o sogni. “La donna guardava le verdi acque del Tevere
[…] Le stagioni avevano origine dentro di lei e si alternavano in modo disordinato, secondo il suo stato d’animo; e da lei si irradiavano intorno: infatti le
foglie dei platani oggi brillavano nel sole d’un verde tenero, novello, mentre
ieri l’autunno piangeva, triste, la sua grigia pioggerellina”. (1)
Donne a Messina (storia delle donne come storia della città) a cura di M.D’Angelo e G.Molonia,
MD edizioni, Messina 2014
A. Camilleri, Donne, Rizzoli, Milano 2014
Marisa Giuffrè, Donne allo specchio, Manni, Lecce 2014
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I Fiori del Male
FIORE DEL MALE
Giuliana Lucchini
CENTENARIO (2015)
“La morte si sconta vivendo”
(Ungaretti)
S’inventano la parola ‘Patria’
per portare alla carneficina cantando
gli innocenti, i semianalfabeti
senza gloria di nome, ragazzi in fiore
(corpi del campo, in erba forse musicisti, profeti)
di stelo forte, gli irripetibili – ma poi anche i già padri –
sprovveduti senza diritto di replica, uno per uno
“camminare camminare…
abbandonare falce martello l’aratro
(il libro?): un coltello in mano
un siluro in mano – pinze e reticolato,
notti di stelle sull’altipiano…”
In fila gli offerti, i grigioverde,
migliaia, fronte alla glaciale indifferenza
della montagna maestosa :
trincee, fuochi d’artiglieria, bombe a mano,
– andiamo! - il rosso d’ogni novità ..
“ta pum
ta pum
ta pum” – canzoni ronzio, albe tramonti –
maschere a gas – soldati fieri,
gli uguali, gli irriconoscibili.
“sono il dado di ghiaccio
franato dalla guglia –
sono il pugno di neve nella mano
del soldato nel morire..
sono la foglia spersa fra i capelli,
sono il fischio del vento
e il fischio delle granate”
**
Per prendersi due etti di terra, due etti
di piombo a torace: 51 divisioni italiane.
La grande guerra. La bocca piena.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Strategia militare, vigore, gioventù, baldanza.
Vittoria o disfatta – nostra signora Morte
quotidiana, “te la dò - me la dai..”:
metro per metro, 16 milioni di ragazzi morti
stagioni di gelo all’inferno, centinaia di modi di morire.
“– Abbasso la guerra!” – il grido sopraffatto,
il verso mozzato. L’orrendo tacere.
Umiliazione e perdita vicino al Cielo :
freddo fame fossa prigionia martirio.
Le sirene non sono quelle del mare. Menzogne :
assordano orecchio e cervello - letterati interventisti.
Batterie d’Apocalisse : diserzioni fucilazioni
mutilazioni. Lacrime piane e silenzio. Tenebra.
***
Strapiombi eterni con nomi eterni,
Carso Caporetto. Il mio cuore se ne va
con te. Un colpo e via. Relazione finale,
bocca spalancata, mascella irrigidita,
o giovinezza te ne vai così .. canti e pianti
imparano andando tornando
i venti del nord. Torneranno i prati
disciolta la neve sulle loro ossa.
***
E dove sono andati a finire tutti i morti?
I baldanzosi. In quale spazio della grande memoria
di Dio quante molecole in marcia cavalcano ancora
la cenere di un solo corpo, il ricordo di una vita?
Di tanti frutti, non è rimasto
neppure un fico a maturare sul ramo
dell’albero carezzato. I raccoglitori
se ne sono andati a mani vuote.
***
Ebbene dormano.
Dormano in pace. Disciolti, loro, al letto di neve.
I teneri germogli senza frutto. Gli eroi. I valorosi.
Un nome comune senza disegno di nome proprio.
Soldato semplice. Uomo. Bersaglio.
La pace non era stata data loro.
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I Fiori del Male
C RO N A C H E
DA L
NORD-EST
Claudio Fait:
una pensosa ironia
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C
on altra formula potrebbe essere: un disincanto operoso. Cinque
romanzi in sette anni.
Una prima triade tra 2008 e 2010;
e adesso altri due usciti nel corso
Claudio Fait
del 2014. La media potrebbe far
invidia a un Camilleri. Con cui naturalmente il Nostro non ha niente da spartire,
se non la verve e il fatto di aver cominciato tardi. Fait ha fretta perché deve ricuperare, avviandosi ormai agli anni della saggezza. Ed è partito tardi perché
prima aveva altro da fare: il pubblicitario, il manager, anche il pittore. Una bella
maniera espressionista, più arrabbiata di quanto mostri di essere la sua scrittura.
Che nasce forse come divertissement affidato all’estro spontaneo e poi si riconosce in sorvegliato mestiere. In uno stile, insomma, originale e coerente. Nato
a Roma per caso, da tempo residente a Milano, Fait è triestino dalla testa ai
piedi per formazione e cultura. Ce n’erano a Trieste, ieri più di oggi, di questi
esemplari di frontiera. Padre istriano, madre di ascendenza greca ed ebrea, lui
è appunto frutto di quella miscela di cromosomi che, se ben calibrata, produce
esiti felici: talento artistico, sottigliezza psicologica, deliziosa autoironia, senso
del relativo – oggi ci siamo, domani chissà –: sostanzialmente quel fatalismo
senza rimpianti che era di Vienna, e poteva andar d’accordo con la torta Sacher
e i valzer di Strauss, ma anche di chi navigava le rotte del Levante. Fait, non so
quanto sia andato per mare: viaggiare, certo ha viaggiato, e un po’ il mondo
l’ha visto e ne ha acquisito dimestichezza. Ma viaggiare ancor più gli piace
sugli atlanti, sulle mappe, sulle carte nautiche; gli piace tracciare itinerari, calcolare distanze, in chilometri o in miglia. Allo stesso modo sa quanto valeva la
piastra al tempo dei pascià e quanto faceva il cambio con il tallero o la sterlina.
Se ti dice come si vestivano, cosa mangiavano o come imprecavano i turchi del
‘600, ti pare che tutto torni naturale. E se ti parla di quel che suonavano le pianiste nei salotti biedermeier, apprendi che, oltre a Schubert, magari faceva più
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
fino Rudolf Kupfelweiden o Jakob Thorbar-Wunderlingen. Ma sono particolari,
voi direte. Eh, già: ma di quei particolari è fatto il mondo. La storia e la geografia: il Tempo e lo Spazio. Vi pare poco? In realtà dietro ai suoi libri c’è una
documentazione puntigliosa, anche se poi la stesura può essere disinvolta. Tutti
i suoi romanzi (meno uno che invece è un tuffo nel fantafuturo) sono ambientati
nel passato: in una storia e una geografia ben delimitate, la mitteleuropa tra
‘600 e ‘800. Così La grande manovra a tenaglia (2008) ci parla delle mirabolanti avventure di un povero diavolo condannato al remo sulle galere di Venezia,
poi coinvolto nella guerra dei turchi contro Vienna del 1683: svelto com’è di
lingua e d’ingegno, entra nelle grazie del pascià e, fatto giannizzero sul campo,
incontra l’amore e la gloria militare. Peccato che, dopo le più gioconde peripezie, in una scaramuccia della retroguardia, muoia da eroe per una causa non
sua. Quasi parodia di un giallo, L’impronta mancina (2009) ci trasporta a Trieste
al tempo di Maria Teresa: qui c’è un fattaccio, ingegnoso assai, su cui deve indagare il vice-bargello Fuchs, personaggio scorbutico, ma ligio alla legge. Insomma un altro poveraccio in balia di una trama troppo più grande di lui, tessuta
da delinquenti altolocati. Alla fine riuscirà a far trionfar la giustizia, ma a prezzo
della vita. In compenso avrà un funerale sfarzoso.
L’ultimo di questa prima triade è Il venditore di reliquie (2010) che vira più
decisamente verso il grottesco. Siamo ancora in Istria, nel primo ‘700. Un osso
gigantesco trovato per caso da alcuni bifolchi, creduto il femore di San Cristoforo, viene conteso come una sacra reliquia: con la non disinteressata partecipazione di frati, prevosti e persino un pope ortodosso. Mentre si moltiplicano i
ritrovamenti di altre ossa consimili, un giovanissimo Linneo capitato per caso
in quel contesto (l’astuzia di un romanziere può sempre inventare una biografia
su misura) suggerisce di attribuire i reperti a qualche animalaccio del tempo
che fu. Ne guadagna la scienza; ma tutti gli altri restano scornati. Questo dunque
il primo Fait, che fa sorridere e diverte, ma in fondo fa anche pensare. Perché
questi suoi romanzi, o parodie di generi romanzeschi, sono un po’ come i contes
philosophiques di Voltaire e degli illuministi: e ne è consapevole l’autore, tanto
da aggiungere ai titoli dei sottotitoli esplicativi, ampollosi come usavano allora.
Quasi a mettere sull’avviso fin dall’inizio i suoi lettori: questa è roba seria,
anche se spiritosa. E noi in questo senso ne abbiamo parlato a Trieste grazie
alla generosa ospitalità della rivista “Artecultura” (n. 198/199: cui rimandiamo
il lettore volonteroso). E notavamo poi come queste creature del Nostro si tengano tutte per mano per certi tratti comuni. Per esempio nel fatto che un prevalente tono giocoso lasci il posto verso la fine a una dimensione più riflessiva o
addirittura patetica E c’è anche un topos che si ripete (e in seguito lo ritroveremo): il protagonista è di solito un uomo comune, magari sveglio ma senza
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I Fiori del Male
ambizioni, che il destino trasforma, pur in situazioni diverse, in un eroe capace
di sacrificare se stesso per un ideale, prima accettato controvoglia, poi divenuto
per lui ragione di vita. Strumento, più o meno consapevole di questa trasformazione, è spesso una donna (o magari due, in generosa competizione): un
amore che comincia dai sensi e diventa tensione morale. Di tutto ciò ritroviamo
ora ampie tracce nei due libri più recenti, Un pianeta color fucsia e I cercapatria ancora pubblicati con l’editore Robin (uno che a Fait dovrebbe fare un monumento, prima che Trieste, com’è successo a tanti suoi figli migliori, lo ripaghi
– Dio non voglia – con un busto di bronzo nei pubblici giardini). E vediamoli,
questi due libri, più da vicino. Il primo è una spericolata caricatura di fantascienza. Folle, bizzarra, godibile. Ci si ride sopra, ma è come scherzare col
fuoco. E infatti si comincia, non con il big bang, ma con il Gran Botto, un’immensa fiammata e la pandemia. L’ultimo, ultimissimo perché non ci fu più nessuno a infilargli la marsina da defunto, se ne dovette andare al di là in bermuda.
Per la precisione, non proprio lui in carne ed ossa…ma un liofilizzato…che
schizzò via e quando arrivò, lassù o laggiù non si sa, fu rigenerato in autoclave
e ne uscì più giovane e senza nome.
Capito che roba? Lì sul Pianeta Unico 9 del Sistema bisolare B, le mattonelle
che arrivano alla spicciolata vengono deliofilizzate mediante acido pseudolattico, e i nuovi individui, maschi o femmine che siano, ricevono un nome dal
grande tabellone anagrafico e acquistano una nuova personalità. Si guardano
allo specchio, si accettano per quel che sono, tanto del passato non ricordano
nulla. Alla banca ricevono un tot per le prime spese, si trovano una casa, che in
quegli enormi palazzoni non ne mancano mai. L’unico inconveniente è che la
gente gira imbacuccata in una tuta da sci per via del freddo e deve portare occhiali da saldatore perché una polvere secolare annebbia il panorama e, per
quanto i soli siano due, la luce arriva appena: da cui il colore fucsia dell’atmosfera. Però la compagnia non manca. E Cadmo Telefassa, il nostro eroe, incontrerà subito una bellona che si intuisce provocante sotto la tuta e gli occhialoni.
Si chiama Nausicaa Alcinoo, moglie divorziata di Ermes Maia, e non ha problemi ad invitarlo a cena quando sul semaforo s’accende la scritta SERA. Il lettore capisce subito che qui scoppierà l’amore a prima vista. Capisce forse con
qualche ritardo la civetteria dei nomi mitologici: per cui le donne portano come
cognome un patronimico e gli uomini un matronimico. Qui sono innumerevoli
le invenzioni felici: paradossali e spassose, e magari inquietanti quando allusive
a comportamenti e situazioni che ci riguardano più da vicino. Come ricordarli
tutti? Veniamo ai nodi salienti L’organizzazione amministrativa del pianeta si
fonda su vari consigli regionali e una Camera Planetaria. Ma al di sopra, invisibile e inaccessibile, sta un generico Capo: che comunica solo per web. Ci sono
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
due partiti: i libertisti e i conservisti.
Assai curiosi perché i loro programmi sembrano il contrario di
quello che dice il nome. Uno potrebbe attribuire ai conservisti il fatto
che la polvere e l’immondizia non
vengano spazzati via da secoli. Invece sono i libertisti a imporre che
tutto rimanga come natura vuole,
compresa la cenere dei morti. In
compenso sul pianeta fucsia la vita
dura secoli e anche millenni, e, se
non ci fosse il passatempo della politica e dell’amore (che non riguarda
però la procreazione, perché al ricambio provvede il periodico arrivo
dei liofilizzati), ci sarebbe di che annoiarsi. Si dà però il caso che quel ricambio a un certo punto comincia ad
esaurirsi. Sulle prime non ci si preoccupa granché. Però si scopre che
l’ultimo arrivato con i liofilizzati risulta essere Cadmo Telefassa. Chissà perché
proprio lui? La gente si mette in testa che Cadmo sia un raccomandato, addirittura un inviato del Capo. Cadmo, ignaro di tutto, diventa famoso, e da ogni
parte se lo contendono. A corteggiarlo c’è in prima fila la giornalista Fillide:
bella quanto petulante.
Ovvia la concorrenza con la Nausicaa che già conosciamo. Fatto candidato
dei conservisti, stravinte le elezioni, sarà Cadmo ad affacciare l’idea, non poco
avversata, di rendere il pianeta più vivibile dandogli una ripulita e sistemando
i cassonetti lungo le strade.Ma, per venire alla stretta finale, la luce, benché bisolare, sembra a un certo punto attenuarsi sempre di più. Il nostro eroe è stato
il primo a percepirlo. Discussioni politiche, convegni di dotti, in ultima istanza
ci si appella al Capo. Il quale traccheggia, finché comunica, sempre via web,
che si farà vedere di persona, ma al solo Cadmo. Quale delusione: il Capo sembra un ometto qualunque, davvero un dio minore. Nonostante il tono confidenziale con cui tratta Cadmo, che lui ricorda come uno dei suoi migliori amici in
quell’altro mondo primitivo, non ha proprio niente da suggerire. Conferma che
la fine verrà anche per il Pianeta Unico 9, come è già successo altre volte e continuerà a succedere per milioni di volte in tutte le galassie del cosmo. Lui, il
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I Fiori del Male
Capo, il perché non lo sa: sopra di lui c’è un altro capo, e sopra di quello chissà
quanti altri, prima di arrivare al Capo supremo. Può solo dire che il solo Cadmo
sopravvivrà alla catastrofe, per ricominciare ancora una volta la stessa trafila.
Inutile dire che qui la favola ridanciana si trasforma in una fosca premonizione.
Un grande gelo subentra anche in noi, la vertigine del vuoto si fa angoscia assoluta. Troppo laico e razionalista l’autore per lasciarci una scappatoia. Il finale
si brucia in poche pagine. Cadmo, unico testimone della catastrofe, vedrà morire
le due innamorate prima di lui e non gli resterà che sottomettersi al suo tristissimo privilegio.L’ultimo libro, I cercapatria, ha un ritmo più blando, quasi da
romanzo romantico. Qui ritorniamo infatti al passato, sempre mitteleuropa, intorno alla metà dell’Ottocento. Un gruppo di ebrei viennesi assai benestanti e
molto idealisti accarezza un progetto al limite dell’utopia. Da buona fonte diplomatica sono venuti a conoscenza che, dalle parti dell’Abissinia, ci sarebbe
ancora – dai tempi di Salomone e della regina di Saba – una tribù ebraica primigenia. Quel territorio potrebbe diventare un giorno la patria di tutti i correligionari. Alla testa del gruppo c’è un banchiere, bene ammanigliato coi servizi
segreti, che ha messo gli occhi su un giovane suo protetto: un tipo sveglio, alla
lontana suo parente, benché di famiglia povera di Corfù, e che porta lo stesso
cognome. Perché non indurlo a verificare se quella teoria ha qualche riscontro
nella realtà?
Da buon realista Yosef, il giovane eroe, è assai poco convinto della cosa.
Ma, lusingato dalla prospettiva di un’avventura ben rimunerata, accetta di partire lasciando a malincuore l’amata Diamantina, una promettente pianista. Le
circostanze storiche e politiche – è in corso la guerra di Crimea – lo bloccano
sull’ istmo di Suez. Mentre ozia in quei paraggi in compagnia di un giovane
contabile con cui ha stretto amicizia, nostalgia della fidanzata e sensi di colpa
saranno spazzati via dall’improvviso irrompere sulla scena di una ragazzina
terribile: Ottilia, la figlia più piccola del suo benefattore, che già a Vienna spasimava per lui, ma lui l’aveva respinta come troppo bambina. La bambina è
cresciuta e si è fatta bellina assai. Spirito indipendente e appassionato, ha lasciato ogni cosa, e soprattutto uno stucchevole fidanzato impostole dal padre,
per corrergli dietro. Provveduta di una buona sommetta, vuole andare con Yosef
a indagare sull’esistenza della misteriosa tribù. Così, non avendo via d’uscita,
perché sarebbe comunque trattato da seduttore colpevole, il giovane, con l’aiuto
dell’amico contabile e di un vecchio ex negriero, metterà in piedi una carovana
e si abbandonerà alle mille peripezie di un viaggio nell’Africa inesplorata. Tralasceremo le molte peripezie: ognuno di noi ha nel suo immaginario quel tanto
che basta per intuire il peregrinare dei nostri eroi, prima baldanzoso, poi sempre
più precario: sulla labile traccia di una mappa vecchia di un secolo, tra deserti
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
e foreste, con un paio di ciuchi e una dozzina di portatori, a chieder notizie di
villaggio in villaggio sulla misteriosa tribù dei Fahal-Iashas. Esistevano, sì, una
volta – ricorda qualcuno dei ras – ma tutti li cacciavano perché erano miserabili
e nessuno ne capiva la lingua Il brio del racconto non viene mai meno, si capisce
che l’autore ammicca a tutto il repertorio romantico e al pittoresco di maniera.
E tuttavia nel finale il patetico irrompe irrefrenabile. Yosef, ormai rimasto solo,
dopo aver cercato di salvare Ottilia ammalata e il resto della comitiva su un
battello che la corrente del Nilo sospinge verso Alessandria, congedati i portatori e smarrito anche l’asinello con le ultime vettovaglie, si trascina esausto per
una fitta boscaglia. In lontananza si profila un villaggio. Ma qualcuno gli scaglia
una pietra sulla testa. Trasportato all’ombra di un sicomoro, ha appena il tempo
di estrarre dalla sacca il libro della Torah gelosamente custodito per tutto il viaggio. Esalando l’ultimo respiro vede, o crede di vedere, un venerabile anziano
che si china sopra di lui. To-rah? – balbettò il vecchio strabuzzando gli occhi
e fissando Yosef come fosse un Mosè redivivo. Dopo tutto questo, c’è persino
l’epilogo in corsivo – come in tanti bravi romanzi dell’Ottocento – in cui la sopravvissuta Ottilia scrive una gentile letterina alla madre del compianto Yosef
con il garbo squisito che solo una fanciulla viennese dell’epoca poteva possedere. Gioco intellettuale, parodia letteraria, o commozione sincera di chi (come
a noi lettori, lo confessiamo, è successo) si è lasciato coinvolgere dal dramma
dei suoi personaggi?
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I Fiori del Male
Nel centenario della stampa dei “Canti Orfici”
LE RADICI DELLA POESIA DI DINO CAMPANA
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iero Bigongiari nel 1959 includeva i
Canti Orfici di Dino Campana tra i
venti libri del Novecento da salvare 1.
Dopo poco più mezzo secolo il poeta
toscano trova solo breve spazio in diverse antologie scolastiche ed è generalmente sconosciuto
ai giovani che hanno compiuto un regolare ciclo
di studi medio-superiore. Recentemente (soprattutto dagli anni Novanta in poi) si è manifestato
un risveglio d’interesse nei confronti di questo
artista che è, anche per vicende biografiche,
l’unico vero esempio di “maledettismo” -autenDino Campana
tico, dico- (e non, come accade oggi in qualche discutibile poeta, esibito, se non
addirittura ostentato) della poesia italiana. DINO CAMPANA (Marradi 1885 Castelpulci 1932) ebbe un’esistenza vagabonda e travagliatissima. Una grave
forma di psicopatia, manifestatasi vero i 15 anni, gli fu compagna assillante e tremenda. Nel 1913 aveva già scritto i Canti Orfici, unica sua opera (se si eccettuano
alcune pubblicazioni postume di “carte” campaniane curate da vari studiosi), della
quale lo stesso Ardengo Soffici non comprese appieno il valore se è vero che, avendone addirittura smarrito il manoscritto, purtroppo in unico esemplare, costrinse il
Campana a ricostruire mnemonicamente la raccolta. E pensare che lo sventurato
Dino sperava nell’aiuto di Soffici e della redazione di Lacerba (innanzitutto di Papini, che per primo aveva avuto tra le mani l’opera) per la pubblicazione dei suoi
versi! Così i Canti Orfici vennero stampati nel 1914, a spese dell’autore, presso il
modesto editore (o tipografo) Ravagli di Marradi. I primi studiosi ad interessarsi
di quest’opera furono, manco a dirlo, i critici militanti di quel periodo: Giuseppe
De Robertis, Emilio Cecchi, Giovanni Boine. Poi, nel corso del tempo, hanno
scritto di Campana biografi, esegeti, poeti, narratori, critici: da Mario Luzi a Giorgio Bàrberi Squarotti, da Carlo Bo a Franco Fortini, da Antonio Tabucchi a Sebastiano Vassalli, da Gianfranco Contini a Eugenio Montale, da Gianni Turchetta a
Luciano Anceschi, giusto per citarne alcuni. Ma perché Canti Orfici? Va innanzitutto precisato che il titolo originario della raccolta manoscritta, quella affidata a
Papini, che l’aveva passata a Soffici, era “Il più lungo giorno”. Il caso ha voluto
che la raccolta venisse ritrovata nel 1971 nel mare magnum delle carte di Soffici
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
( morto nel 1964) nella sua casa di Poggio a Caiano. Per ritornare alla domanda,
occorre dire che nel 1910 Domenico Comparetti pubblicava a Firenze un’opera fondamentale per la conoscenza dell’Orfismo: la silloge delle Laminette orfiche, sottili
làmine d’oro rinvenute in tombe di alcune località della Magna Grecia e della Grecia
stessa, che sembrano essere le uniche testimonianze dell’ escatologia di tale dottrina.
È noto, infatti, che l’Orfismo fu un culto misterico (“il più misterioso dei misteri
greci”, lo definisce Vincenzo Cilento2) che si collegava in qualche modo al mitico
Orfeo, poeta, vate, e citaredo, del quale il Böhme3 sostiene addirittura la storicità,
collocandolo, cronologicamente, in piena età micenea (XV/XIV sec. a. C.). E quindi
Orfeo sarebbe vissuto prima di Museo, Omero ed Esiodo. Dell’esistenza di un credo
orfico offrono testimonianze degne di fede Pindaro, Empedocle e Platone ma soprattutto le cosiddette “lamelle auree”, le già citate laminette d’oro sulle quali sono
incisi ammaestramenti ai defunti e formule sacre: esse sono state ritrovate, quasi
sempre in tombe, a Thurii, Petelia, Farsalo, Eleutherna (Creta) e Hipponion.
Il culto orfico, praticato da una setta di iniziati, non ebbe mai larga diffusione
per la sua dogmaticità e per l’eccessiva imposizione di divieti (molti accoliti in
più ebbero i misteri eleusini); si affermò quando vennero meno le “poleis” e con
esse la religione omerica, promettendo all’uomo greco, in ambasce religiose, una
eroizzazione (più che divinizzazione) del miste. È lecito chiedersi a questo punto
in quale misura l’Orfismo abbia influito sulla produzione poetica di Campana. Ho
già detto che la silloge comparettiana vide la luce nel 1910 ed è noto che nel 1913
i Canti Orfici erano praticamente composti; nel 1914 infatti vennero dati alle
stampe. Mi pare dunque difficile che la pubblicazione del Comparetti abbia potuto
incidere a fondo sulla poetica di Campana; verosimile è invece che essa, come
afferma il Galimberti4, abbia avvicinato il poeta alle fonti più pure dell’Orfismo,
già del resto conosciuto, forse attraverso Nietzsche e Rohde.Uno degli aspetti orfici più eclatanti in Campana è il titanismo, venato di colpa, di scelleraggine, di
perfidia; il quadro però si slarga in una visione amplissima, variamente colorata
e infine analogica: titano è Adamo, è Lucifero, è Faust, è l’uomo, è chiunque si
ribelli all’autorità costituita; ma, orficamente, è impuro, è colpevole (e Campana
non sentiva colpevole la sua stessa follia?); pertanto, chiuso nel ciclo delle nascite,
trova in questo il suo limite e la sua speranza di salvezza. Più che all’escatologia
orfica la spiritualità di Campana sembra protesa allo svelamento del mistero che
circonda l’uomo e la sua vita: l’orfismo misterico e misterioso gli offre allora
l’espressione -Canti Orfici- adatta ad indicare il sordo lavorio di scavo e di ricerca,
l’affannoso impegno poetico che gli consente di strappare alla fitta ragnatela del
mistero l’immagine poetica, incerta e torbida, e di cristallizzarla in religione e
mito, motivo e scopo dell’esistenza; sicché lo sguardo allucinato del poeta si fissa
a scrutare una realtà profonda e oscura che reclama di essere condotta alla luce; e
forse Campana sente di dover indossare i panni del poeta-vate, ierofante e profeta,
51
I Fiori del Male
titano e uomo. Come che sia, un fatto appare indiscutibile: Campana ha fatto tutt’uno della sua vicenda biografica e della rappresentazione poetica: vita e poesia,
quotidianità ed estasi, serenità e pazzia si fondono senza soluzione di continuità.
Non è da credere però che Campana non abbia avuto ascendenti culturali, del resto
ben individuati: Carducci, Pascoli, D’Annunzio, Poe, i preromantici e i romantici,
Nietzsche, Rimbaud; così l’io titanico che si esprime nei Canti non sarebbe comprensibile né spiegabile senza tener conto della Geburt der Tragödie (Nascita della
tragedia) nicciana o de Le bateau ivre (Il battello ebbro) rimbaudiano; e l’intero
mondo lirico non sarebbe rettamente interpretato senza certe mediazioni dannunziane e romantiche o senza la lezione poetica e morale carducciana.
Dino Campana, “poeta maledetto” della letteratura italiana non ha trovato finora, come ho già detto, veri continuatori, anche se ha determinato influenze letterarie, come nel caso degli ermetici e di certa recente poesia: il fatto è che sul
suo sostrato culturale e sulle sue esperienze biografiche s’innesta una tendenza
odissiaca e avventurosa unita a una predisposizione, non solo visiva, come pur
sostiene qualcuno, ma visionaria, che attentano all’integrità del mistero e quindi
richiedono lo svelamento o, almeno, l’intuizione della vera realtà, dell’inconoscibile, con tutta l’acutezza morbosa e le innumerevoli possibilità di “lettura”, di interpretazione e di discorso poetico che solo l’autentica genialità, magari -come
nel nostro caso- venata di follia, può consentire. Per questo la strada percorsa da
Campana è rimasta impraticata; per questo i Canti Orfici non sempre trovano
piena realizzazione artistica; ma per questo, anche, esistono. A questo punto si
può tranquillamente affermare che Campana ci ha lasciato un guizzo d’umanità
inquieta, che cerca di superare e spiegare una foresta di simboli, tipicamente baudelairiana, attraverso l’onirismo evocativo e medianico, le folgorazioni improvvise, le sciabolate di luce torbida, creando immagini spesso solo accennate, ricche
di colore, di suggestioni e rapporti analogici; si spiega così il dettato poetico a
volte estremamente dovizioso, a volte fratturato e sconnesso, disseminato di passaggi arditi, logicamente inspiegabili; e l’aggettivazione, quasi abbacinata in illusoria fissità, non riesce a nascondere l’ansimo del verbum strappato al mistero.
Pertanto non è assolutamente pensabile di legare Campana a una scuola poetica;
del resto i suoi legami con il futurismo furono brevi ed epidermici. È invece legittimo pensare a lui come a un titano folle e irriverente, che, per aver partecipato
allo sparagmòs (dilaniamento) di Dioniso-Zagrèo (a proposito, si noti l’analogia
con la morte dell’apollineo Orfeo fatto a pezzi dalle Mènadi tracie), è condannato
a scontare la propria colpa e a vivere dolorosamente la propria umana condizione.
1
P. Bigongiari, in L’Approdo, ott.-dic. 1959.
V. Cilento, Comprensione della religione antica, Napoli, 1967.
3
R. Böhme, Orpheus. Der Sänger und seine Zeit, Bern und München, 1970.
4
C. Galimberti, Dino Campana, Milano, 1967.
2
52
Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Un comune dolore espresso nei versi
di Elio Filippo Accrocca ed Enzo Mazza
in un articolo che ne ripercorre le vicissitudini
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n comune destino, o meglio
un comune dolore, legava
Accrocca ad Enzo Mazza,
suo quasi coetaneo ed
amico, avendo anch’egli abitato a
Roma dal 1960 al 1981, anni fecondi
dell’attività poetica di entrambi; un comune dolore: la perdita improvvisa e
straziante di un figlio in giovane età:
Stefano Accrocca il 6 settembre 1973 a
diciotto anni, Fabio Mazza nel settembre del 1981, non ancora sedicenne. Per
entrambi i poeti la figura del figlio resterà predominante, avvolgente e quasi
ossessiva in tutta la produzione poetica
successiva alla sua scomparsa. Nella
lettera qui citata, inviatami in originale
dallo stesso Enzo Mazza con un gesto Lettera autografa di Accrocca a Enzo Mazza
di generosa amicizia dopo la pubblicazione della mia monografia su Accrocca, quest’ultimo si riferisce alla lettura
di uno dei volumi di versi dedicati a Fabio dal padre, “L’albero del niente”,
uscito nel 1987 presso la Tibergraph Editrice di Città di Castello, essendosi il
poeta trasferito dopo il lutto a vivere in un casale di campagna tra Chiusi e
Chianciano, dove tuttora abita. Nato a Roma nel 1924, dopo aver vissuto a Milano e a Siena ed aver conseguito la laurea in Lettere nel 1947 a Firenze con
Attilio Momigliano, Mazza si era dedicato all’insegnamento ed all’assidua collaborazione negli anni Cinquanta col quotidiano “La Nazione”. Pubblicava nel
contempo studi, recensioni e poesie su prestigiose riviste letterarie, fondando
nel 1957 con altri amici il periodico di poesia e letteratura “Marsia”.Le sue raccolte di versi furono infatti pubblicate inizialmente come “Quaderni di Marsia”;
quindi dal 1960 come edizioni della “Biblioteca Cominiana” da lui istituita insieme con l’amico Bino Rebellato secondo uno stile particolare di classica so-
53
I Fiori del Male
brietà, sovente in edizioni pregevoli non venali e numerate, a tiratura limitata.
Citiamo, fra i numerosi titoli: “Ciò che è stato” (1960), “Uno di questi giorni”
(1973), “Otia” (1977), “L’invisibile” (1982) con disegni di Jole Tognelli, “33
poesie per Fabio” (1991), “L’Oscuro lembo” (2000), “Una vaga speranza”
(2002).Alessandro Fo, in un suo importante contributo pubblicato negli Annali
della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena, volume XVII del
1966, a proposito delle raccolte di Mazza dedicate al figlio Fabio, parla di un
vero e proprio “Canzoniere” – nove volumi nell’arco di un decennio -, nel quale
“ è il ricordo a ripristinare un collegamento fra l’essere e il non essere”.
Nella raccolta “L’albero del niente” a cui si riferisce la lettera di Accrocca,
si possono cogliere i medesimi accenti che quest’ultimo esprime nelle poesie
ispirate all’incommensurabile perdita sofferta: “Settembre amaro, settembre
crudele / maledico i tuoi trenta raggiri, / il 6 venga impiccato su quel tronco!” da
“Non ti accadrà più nulla”, componimento “a caldo” di Accrocca pubblicato su
“La Fiera Letteraria” già il 28 ottobre 1973 nell’angoscia di ripercorrere con la
mente il terribile impatto mortale del figlio contro un albero di un viale di Lavinio.E Mazza: “Non cadi mai / dal calendario, funebre / mese che divampi / con
gli ultimi fuochi dell’estate…” (lirica n. 37 in “L’albero del niente”). “Ora tu sai
la verità che rincorrevi: / mi hai preceduto nella conoscenza…/ Mi somigliavi
con le tue inquietudini / Ma ora tu mi stai creando, figlio, / radice adulta, padre
dei miei giorni. (Da “Siamo non siamo” di Accrocca, 1974). “Dov’è l’uomo di
Leonardo, il faber / … e Ulisse / che si rimette in mare / contro gli dei? Di questo
/ ti avrei parlato prima che si aprisse / la voragine, se / non mi avesse tradito
l’avarizia / del tempo. Ma ugualmente / ti parlo, e che ti parli è vano: / io cattivo
maestro, tu sapiente” (lirica n. 47 in “L’albero del niente”).
Innumerevoli sarebbero le corrispondenze del comune dolore. La forza del ricordo può tramutarsi in una condanna: “Beato chi non sa, chi non ricorda: / la
memoria è da uccidere, non l’uomo. /Altro che dono, la memoria è un peso”
(da “Il superfluo” di Accrocca, 1980). Invece Mazza: “Vedi / che il ricordo può
essere un velluto / da consumare, le mani / passandovi sopra, e a poco a poco
quasi / transumanare, ascendere / a conoscenza dell’ignoto” (lirica n. 41). Il
padre, infatti, il poeta, non può non scavare nel ricordo ricostruendo all’infinito
nel verso la figura amata, l’intimità perduta: “… la parola è un appiglio indeclinabile / consumato dall’uso –dici- / ma altro non resta / al peso dell’illusione…” (da “Contromano di Accrocca, 1987). “Sono già qui…. illuso / di
contenere nel cristallo degli anni / da te vissuti / quel gruzzolo prezioso. Dentro
me tintinnano / argentine rarissime monete…” (lirica XIII da “L’ombra d’un
sorriso” di Mazza 1992). “Ho sete, ma non posso bere. / Diversamente, la memoria / viva di te prosciugherebbe il Lete”. (lirica I, idem).
54
Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Tra cuore e indignazione:
la poesia e l’impegno in Gianmario Lucini
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ianmario Lucini, poeta, critico e
editore, fondatore e direttore della
Casa editrice a Piateda, provincia di
Sondrio, dove viveva con sua moglie - uomo di grande cultura e di grandi valori,
non a caso chiamato costruttore di pace - è improvvisamente e prematuramente scomparso il
28 ottobre 2014, lasciando un vuoto incolmabile. Nella sua vita tanto si è speso per la diffusione della poesia, della cultura, dei valori etici
e pacifisti in tutta Italia, per aver curato e pubGianmario Lucini (1953 - 2014)
blicato antologie su argomenti civili, sociali e
di denuncia come L’impoetico mafioso, La giusta collera, Oltre le nazioni, Cuore
di preda, Cronache da Rapa Nui, Keffyieh, intelligenze per la pace, sempre distinguendosi per onestà umiltà e generosità intellettuale. Tra o suoi libri di poesia
ricordiamo: A futura, memoria, Il disgusto, Sapienziali, Canto dei bambini perduti, Per il bosco, Memorie del sottobosco, fino all’ultimo libro Vilipendio, pubblicato subito dopo la sua scomparsa. Direi che il pensiero e la poetica di
Gianmario sono imperniati su tre punti chiave, la natura, la passione (quella con
cui ha sempre scritto e realizzato i suoi progetti), l’etica, oltre ad una schietta
versatilità lirica. In lui non è presente solo l’intellettuale che scrive, determinante
è la sua instancabile operosità che lo porta ad essere un vulcano di idee e un
grande organizzatore di iniziative culturali. Oltre come editore, aveva creato il
blog Poiein che rappresentava un fulcro di esperienze letterarie anche internazionali; ha dato vita a numerosi premi di poesia, dedicati specialmente a giovani
e nuove voci, come il Premio Fortini, Don Milani e Turoldo. Forte e chiaro in lui
il tentativo di comprendere la realtà, con le sue stridenti contraddizioni, e di spiegare i perché di certi comportamenti umani. L’ultimo post che Gianmario ha pubblicato su facebook nell’estate 2014 bene interpreta la sua sensibilità nonché lo
sdegno, il rammarico, finanche il disgusto per certi fatti e misfatti del mondo:
“Cari amici, ho cercato di riflettere sui fatti di Gaza, ancora in corso. Più rifletto
e più sono confuso e inorridito. Mi sento insomma sopraffatto dall’orrore e non
di meno, riflettendo, mi accorgo che è soltanto uno dei mille orrori planetari, solo
che è più conosciuto perché i media ne parlano, a modo loro. Spero che a voi sia
55
I Fiori del Male
concesso un sentire, io non riesco neppure a sentire.” Vilipendio è la sua ultima
fatica poetica: “Il vilipendio – scrive lui stesso – è solo una provocazione, una
dichiarazione di ostilità intesa come sommo atto d’amore”. E Lucini partecipa
empaticamente, soffre e delle ingiustizie degli orrori che avvengono. La voce
che grida questo dolore diventa così coscienza epica “..Insegnami, settembre,
l’arte di obbedire / alla benedetta collera del cuore //[..] pronta a scattare / non
appena l’uomo dimentico della morte / la vada a cercare. Questo è il dovere /
del poeta capace di amare” (dalla poesia “Congedo”). Invita a riflettere sulle antinomie fra il bene e il male e sulla paura della sopraffazione del potere. Credo
che il nostro Gianmario non sarebbe stato d’accordo con lo scrittore francese Houellebecq che nel suo ultimo romanzo considera la sottomissione come qualcosa
a cui il mondo occidentale aspira o addirittura come il culmine della felicità. Lucini nella nota introduttiva del libro afferma di usare “un linguaggio umile, per
farmi capire da tutti senza equivoci, laddove scrivo che la guerra è un crimine e
i soldati sono marionette”, invece il suo linguaggio è colto, ricco di ritmo, assonanze, allitterazioni, di sicuro chiaro e diretto, oltre che di forte impatto emotivo,
ma si realizza sempre con l’attenzione al lessico e alla cura della parola: “quanto
a me non c’è tempo / non mi posso fermare e non me ne posso andare / devo
stare sospeso fra il prima e il dopo / fra orazione e bestemmia, fra / precaria sapienza e sommaria dolenza.” (dalla poesia “Porco in bianco e nero”).
Sono versi lungimiranti, quasi premonitori. Ecco altri versi emblematici e
densi di immagini nell’esperire la natura attraverso l’inesorabile cerchio vitamorte: “ci sono croci sui monti a proteggere le valli / Vincoli di rami che incidono
l’azzurro / Nell’ocra e nei gialli dell’autunno; / stanno lì a vegliare / il passo di
chi risale e d’inverno / non le scalza la bufera / Sono vecchi anacoreti intenti a
meditare / Le sorti del mondo / E soltanto il camoscio quando passa / si ferma a
pregare.” (Croci sulle alture, dal libro Per il bosco). Come per comprendere le
guerre dei nostri giorni e il senso del nulla che ci pervade non si può prescindere
dalla storia, con i suoi miti ed eroi: “Ma oggi la mente s’allarma e i miti / del
sangue tornano a ferire la bocca” (da Sapienziali). E la natura è presente nella
bellezza dei paesaggi, nella solitudine o nella rassegnazione: “Ci piega dolcemente, il vento, al suolo / fino allo schianto. Dolcemente insiste / e non v’è chi
resista / al carisma del suo fiato // brezza dopo brezza / si fa tremendo e greve /
- è lui il nostro viaggio / è lui la prima voce che ci piega -” (pioppi in Valtellina,
dal libro Per il Bosco). A dimostrazione di quanti scrittori e poeti siano favorevoli
a scrivere su temi impegnati, basta leggere le antologie da lui editate e curate,
proprio perché Lucini voleva dare spazio a una pluralità di voci, perché in tanti
si ha maggiore peso e più possibilità di far veicolare le idee. L’impoetico mafioso,
105 poeti per la legalità e la responsabilità sociale, (dicembre 2010), con una
nota di Rita Borsellino, è un libro contro la cultura mafiosa e la corruzione che,
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
come ha scritto Lucini nell’introduzione, “nasce da riflessioni intorno al ruolo
della poesia nella società contemporanea[...] L’antologia è dedicata alla memoria
di Angelo Vassallo, sindaco di Pollica, in provincia di Salerno, ucciso dalla mafia
perché si opponeva a una politica di sfruttamento del territorio […] Lo vogliamo
ricordare con le migliaia di eroi conosciuti come Peppino Impastato, Vincenzo
Grasso, Rocco Gatto, Don Puglisi, i giudici Falcone e Borsellino, Livatino, ed
altri citati nelle poesie, e i molti sconosciuti che hanno difeso da soli la libertà di
tutti”. Questa antologia ha riscosso notevole attenzione di pubblico e critica ed è
stata distribuita in molte scuole. La giusta collera – Scritti e poesie del disincanto e
Oltre le nazioni - poeti per la solidarietà fra i popoli, sono due antologie di vari e
importanti autori pubblicate nel 2011 per “restare umani” che è anche un “restare
veri, giusti, intellettualmente onesti”. G.L. scriveva nell’introduzione a La giusta
collera: “La collera non è solo un sentimento, ma anche un atteggiamento. Ha a che
fare col corpo, con tutto l’essere […] Il senso della collera è voglia di cambiamento
[...] Per dire, col grande Don Milani, che “l’obbedienza non è più una virtù”. Per
dire che è ora di disobbedire alla logica del potere – quando diventa deviante […]
Questa antologia vuole contribuire al risveglio delle coscienze […] Non possiamo
più scrivere della bellezza che vorremmo, perché la bellezza è l’uomo stesso e, se
vogliamo difenderla, dobbiamo preoccuparci, come artisti, studiosi, intellettuali,
dell’uomo e di che cosa lo potrebbe distruggere.” Cuore di preda ( 2012) è un’antologia sulla e contro la violenza alle donne, curata e prefata da Loredana Magazzeni.
Un libro forte, intenso, drammaticamente coinvolgente per contenuti e qualità
poetica, di quei libri che hanno il coraggio di dare voce ed eco ai sentimenti violati, alle paure, alla rabbia delle donne che hanno subìto violenza o perso la vita,
magari in nome di qualcosa chiamato amore. Autrici contemporanee conosciute
come Anedda, Argentino, Bettarini, Calandrone, Dughero, Farabbi, Ferramosca,
Raimondi, Travi e tante altre (85) hanno partecipato all’antologia che ha riscosso
consensi ed è stata presentata in varie sedi istituzionali. Il dolore dello stupro è
insopportabile e profondo, non solo quello fisico ma quello interiore che non si
lenisce neanche col tempo – come scrive Lucianna Argentino nei versi dedicati
a Valentina Cavalli suicida a seguito di uno stupro subìto anni prima - perché
“non sanno che non è solo il corpo / che m’hanno profanato / ma tutta intera la
vita..”.Così Mariella Bettarini nei versi de La violenza/la paura: “e riconobbi
l’orrore dell’orrore – le ferite / le onte – il muro che portava disonore / del corpo
e cuore miei (sedi d’amore) /ma al muro non cedetti mai – ne feci mai di me muro
/ contro quel muro – così (forse ) l’orrore / sgominai..”. Un libro scritto da donne
per le donne ma anche e soprattutto per gli uomini. Cronache da Rapa Nui – Miscellanea di scritti e immagini su temi ecologici, pubblicata nel 2013, evidenzia
l’attenzione di Lucini verso l’ambiente. All’antologia hanno aderito numerosi
autori, tra i quali Gabriella Fantato, Antonio Spagnuolo, Leopoldo Attolico, Alain
57
I Fiori del Male
Rivière, Fernanda Ferraresso, Annamaria Curci, Manuel Cohen, Maria Pia Quintavalla, Fabio Franzin, Lucio Zinna, oltre agli artisti che hanno partecipato con
una fotografia - tra cui lo stesso Gianmario - o un disegno per renderla ancor più
realistica. I differenti contributi rappresentano un monito di fronte al progressivo
disfacimento di cui siamo tutti testimoni spesso indifferenti. Rapa Nui significa
roccia galleggiante e fa riferimento all’isola di Pasqua situata nel Pacifico che venne
disboscata per costruire statue votive e successivamente desertificata fino a perdere
quasi tutti i suoi abitanti. Nella appassionata introduzione Lucini afferma: “...fin
tanto che si potranno scrivere libri del genere, c’è infatti da preoccuparsi e il fatto
che si scrivano sempre le stesse cose è ancor più preoccupante, perché significa
che nulla si muove e anzi, il problema si aggrava sempre più.” E continua: “Rapa
Nui è la metafora della follia umana…È anche la metafora del destino di un’umanità scissa, che non ha nessuna sensibilità e cultura ecologica, di modo che continuando a rapinare la natura, provocherà il suo irrimediabile decadimento, fino a
causare l’estinzione totale di sé stessa.”Keffyieh (la Kefiah è un copricapo tradizionale della cultura arabo-palestinese) è un’antologia per la pace curata e pubblicata da Gianmario a ottobre 2014, che era venuto a presentare a Roma proprio il
giorno prima della sua morte, e perciò anche suo testamento editoriale.
Non è soltanto un’antologia di scritti, bensì la ricerca di un ponte culturale e
multirazziale di pace, “è una corale del disgusto e della rabbia nata dall’orrore
per il massacro di Gaza, che si aggiunge ad altri orrori causati da tutte le guerre,
raccontati da 132 poeti e scrittori italiani e stranieri, un’opera potente e insieme
spontanea, una voce collettiva che si leva contro la logica disumana del sistema
nel quale viviamo, basato sulla competizione, la violenza, la sopraffazione, la
legge del più forte. La guerra è intollerabile come strumento per risolvere i contrasti internazionali, che poi sono sempre contrasti fra diversi poteri, fra pochi
potenti, mentre le conseguenze sono sempre pagate dagli ultimi e dai più deboli
in termini di vite umane” (dalla sua introduzione all’antologia).E concludo questo
omaggio a Gianmario Lucini con una poesia tratta dal suo libro Sapienziali (che
fa riferimento alla scrittura biblica e procede su un originale percorso di rilettura
e rinnovamento dei sacri testi all’insegna di una religiosità laica), nella speranza
di realizzazione della parola poetica nel mondo: “Nessun libro contiene la parola
/ ma la parola tutti li contiene / soltanto così avrà vita e carne; / sarà impeto il
libro, impeto e vento. // Nessuna parola contiene il silenzio / ma il silenzio tutte
le contiene; / l’uomo che ama il silenzio / è un raffinato oratore”; o come in
quest’altra testimonianza: “Saranno dunque i miti a possedere la terra / coloro
che diranno:non facciamo più armi /non lavoreremo oltre il necessario, / vogliamo il nostro tempo per capire il donde e il dove // vogliamo la dignità, non
la ricchezza […] Così canteranno i miti / portando covoni di grano. / Canteranno
i loro poemi / quando tornerà la bellezza dagli occhi ridenti / alla fine d’ogni
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
L’AFFOLLATA SOLITUDINE
Per Rosa Riggio
che canta l’amore pensandolo,
pensandosi – caos di sé
e manifesto segreto
che ci accomuna
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enza romanticismi stucchevoli, recitati con le battute dei millenni, né –
peggio – femministici luoghi comuni, Rosa Riggio, poetessa giovane ma
già esperta, non meno inquieta che serena (calabrese di Siderno, ma da
anni vive a Viterbo, dove peraltro insegna Lettere; prima raccolta poetica
nel 2005, dal titolo assai indicativo: Un elaborato silenzio), ci dona oggi con
L’orizzonte alle spalle (2014), un “Breviario d’amore” assolutamente moderno
ma educato al classico, finalmente fuori dagli schemi e perfino dalle precarie certezze della letteratura cosiddetta al femminile, et similia: Amore sì, manifesto segreto / che sale e circonda i tuoi passi, i miei / gesti, i tuoi occhi, che s’immerge e
/ percuote, risacca sorgente, che lega / e sprofonda. Tu onda, tu vita. Rosa Riggio
canta l’amore sempre come pensandolo, pensandosi: come se l’intelletto, di questo
amore – una sorta di contemporaneo ragionar cortese, in perfetto stil novo del 2000
– fosse assai più importante, ed ha ragione, del rubricare patèmi, gesti, dissidi,
slanci, attese, ritrosìe… Che pure qua dentro ci sono tutte, mediate certo in pensiero, pensiero poetante, Frammenti d’un discorso amoroso – avrebbe detto Roland Barthes, che negli anni ’70, quando Rosa era bimba, furoreggiava studiando,
da illuminato “strutturalista”, l’incontro/scontro tra la lingua come patrimonio collettivo e il linguaggio individuale… Dietro di me / orizzonte del mio destino. Qui
sono superate sia le illuminazioni che le affettazioni “semiologiche” – ma egualmente l’impero dei segni e/o il c.d. “grado zero” della scrittura (cioè il modo parlato) presiedono a questa sua voglia di parlare d’amore, ragionar d’amore
pensandosi come fuori di esso – in perfetta (teatrale? brechtiana!) tecnica di straniamento. Sto nelle cose. E ogni gesto che faccio / si fa solo, staccato da me. / Da
quella distanza mi guardo / e quella cosa che cade dall’occhio / è una dura consistenza. Staccato da me, mi guardo, cade dall’occhio…
Sono esattamente, secoli e secoli dopo, gli stilemi, i tòpoi macerati e fulgidi
dello “Stil Novo”: di una poesia insomma ardente ma introiettata, metafisica,
combusta di sé, appassionata ma cadenzata in pensiero (che qui aggreghiamo,
saldiamo come la prosa lirica e ragionativa d’un baldo trattatello medioevale,
cortese e curtense, tipo il De amore di Andrea Cappellano…):All’invisibile orto
59
I Fiori del Male
del mio desiderio, non mi redime l’affollata solitudine, una lenta progenie di errori, forse un naufrago inganno, in questo volto in esilio, l’inatteso così mi
prende per mano, l’immanifesto dolore, in te calamita di tenero infinito… Rosa,
l’abbiamo visto, elabora il silenzio (“sono del mio pensiero / la sua ustione”,
scriveva già nel 2005): il silenzio della donna e di ogni donna che da decenni o
secoli sta cercando Le parole per dirlo (il grande romanzo della Marie Cardinal
segnò forse il culmine della grande, sacrosanta stagione del femminismo)… Ma
quel silenzio raggiunto – sia ben chiaro – conclama e contiene il caos, pòlemos,
pàthos, naturalmente ogni balsamo e freccia di Eros: Sia allora nuovo caos di
sé, / tra le righe e il tonfo di una voce / in lotta con una rinnovata bellezza. / Il
lampo di un’immagine rischiari / il balbettio del lento morire.
Non so se, come scrive libera e affettuosa Fortuna della Porta, la poesia “Al
femminile” equivalga più o meno sempre “al pregiudizio di una poetica legata a
un deleterio psicologismo”… Non so se il poeta “donna” eccella nella “raffinatezza
dell’introspezione”, nella “generosità della confessione”, “dettaglio dell’anima
profonda” – rispetto al poeta “uomo” allineato, dice Fortuna, agli antipodi… E
cioè, ammettiamolo, spesso banale di forza e d’assoluto: una poesia al maschile,
come dire imperiosa, egotista di poetica…Personalmente non riesco mai a spostare
o sposare integralmente le categorie “di genere” (oggi se ne parla fin troppo) in
merito ai giudizi artistici o poetici; e quando penso a un grande autore (cito apposta
talenti come Emily Dickinson, Virginia Woolf, la stessa Plath), fatico a rieducarmi
all’accezione del sesso, e m’immergo anzi nella neutralità assoluta del talento e
del genio – così come degli angeli… Non c’è spazio per nessuno / dentro la nostra
sola distanza. / Persiste un patto segreto, furioso, / nella calma apparente delle
nostre / braccia conserte. Siamo pura sostanza. Ecco, se una cosa m’intriga, in
questa bella poesia della Riggio, moderna e d’eccellenza, è il voler anzitutto ribaltare tutte le posizioni, le strategie, perfino i privilegi, le invettive o le annose,
usurate contumelie con cui e fra cui usava muoversi, operare e poetare la precedente “Donna in poesia”… Negli anni ’70 uscivano a iosa raccolte di autocoscienza e rivendicazione paritaria (ricordo un peraltro bellissimo Inno all’utero di
Livia Candiani). Poi le sacrosante rivendicazioni e gli egualitarismi finalmente
vincenti, la par condicio raggiunta – hanno certamente spostato in là il panorama,
l’orizzonte anche del nuovo poièin… Ma nessuno(a) rinneghi quella dura, aspra
cronaca che già ci fu Storia, e ogni giorno può tornare ad esserlo, per vincersi e
ingloriare ogni nostro, sacrosanto diritto/dovere… Dacci oggi il nostro progressismo quotidiano!… (Rosa gioca qui un’enjambement adorabile, acuminato e strategico: “quotidiano / tormento” – e poi a ruota cadenza una rima interna, allineata
e implosiva: “tormento, appuntamento”)… Sono stata un’erinni di quotidiano /
tormento, appuntamento / di dispettosa sibilla / con il suo frutto indolente.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
L’orizzonte, Rosa Riggio, se lo sente invece alle spalle – la scena è ora come
ribaltata, e per fortuna ella si pensa amante, amata, amorosa, ma libera da ogni
stilema lirico di sorta… Rosa ci pensa, ripensa e si pensa. Non c’è insomma modernità liquida che più ci salvi, forse vuol dirci Rosa (altro che Bauman, e i suoi
sociologismi à la page!): né Caos calmo (da Veronesi a Moretti) che possa darci
tregua, o farsene una ragione… L’intelletto d’amore della Rosa/Rosae di oggi,
è anzitutto loico, laico, stoico, icastico (s’allitterra già a dirsi!): Ma con me porto
un segreto / è il tuo volto chiuso nel file / dei ricordi, recuperati dal mare / in
custodia tra i bip della memoria / volto che emerge e scompare / intermittente
promessa Citazioni qui non ce ne sono – la sua vena è originale, ispirata – ma
si sente, s’irradia, un’educazione poetica sana, densa, radicata, avvertita, che ci
conduce in territori fertili, e forse proprio da lì riparte parte… Nel sogno è un
cerchio di luce / (senza memoria/ / e nasce, istante per istante.
Ecco allora la melodia concettuale della Dickinson, col suo fervore gnomico,
integro e puro, a schegge e scaglie di pensiero quotidiano, in bacio o morso d’esistenza, sempre salvifico, dal lutto alla (ri)nascita (penso al frammento 721: “Due
abissi: dietro a me l’eternità, / sotto il mio sguardo l’immortalità, / ed io al loro
confine”… Ripetiamo: poi un certo uso adorabile, riaggiornato dello Stil Novo inteso però come istituto filosofico, metodo d’un amore che si ragiona, discetta
l’anima per esegesi di puro cuore: Oh avvenire, raccogliersi è un ordine / del fato
nel qui, nell’adesso. Rosa Riggio lo esclama, ma senza punti esclamativi¸ come
nel continuum di un’unica, inesorabile asserzione… Il qui, l’adesso, l’Hic et Nunc
di classica misura. Anche, l’elegia senza tempo di Catullo, riflessiva e in panne;
le nuances agrodolci di Orazio, un carpe diem che non ha mai smesso di crederci,
all’Eterno, ma proprio diffidandone, parcellizzandolo in sonore battute, sequele
lirico-gnoseologiche, che ergono a sussurrante e fiero monologo ogni quiescenza
o stadio dell’anima: Tutto compiuto? Quanti occhi / quante visioni in corsa nel
tempo / dal big bang all’apocalisse / fino a questo spostarsi lento / di ogni cosa,
moviola del / nostro raggiungerci, ma dove e quando. Raggiungerci (e vale anche
per la Poesia – come arte o scienza del proprio Stile!) che è un raggiungere due
volte: raggiungere amore, l’amore, l’amato/amante – ma anche e soprattutto raggiungersi – raggiungere Sé e l’Altro da Sé. Raggiungere e specchiarsi: Più tardi,
davanti allo specchio, cercavo / un appiglio, la forza nel volto / in fuga, lo sguardo
oltre l’abisso / (smarrimento dell’io) / troppo tardi per riavvolgere il nastro. Qui
il Tempo è ovunque, ma diventa Spazio, Anima, Amore, si categorizza. Così come
amore è sempre il nostro segreto assoluto d’intimità – ma anche quello stesso di
tutti. Mistico e perfido, infantile e sapiente, autoironico a tratti, inopinatamente
esemplare: Dentro di me continuo a precipitare / in quella mattina. / E mi chiedo
/ come abbiamo potuto / sopportare che il tempo / ci sopravvivesse.
61
I Fiori del Male
IL PUBBLICO DELLA POESIA E QUELLO
CHE RIMANE DEI POETI
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al suo osservatorio Daniele Giancane scrive di come la poesia nel
nostro paese va a ramengo, “la poesia non interessa a nessuno,
tranne i poeti stessi” è questo che dice in sostanza il prof. Giancane
al punto 1) e 2) nell’area delle Discussioni “Le comunità di poesie”
(Cfr: La Vallisa n.98/99- 2014). Sappiamo che egli è un segugio di incontri e
di meritevoli rassegne di poesia, c’è da credervi ed è sacrosanto e amaro il suo
risentimento che condividiamo. Ma al di là di queste perturbanti parole c’è
anche da fare un discorso più affinato e centrale, che non sarò io a farlo. Io farò
semplici e minime considerazioni. I poeti sono stati sempre bistrattati “ Non
sappiamo bene, oggi, se i poeti siano la feccia oppure l’onore del mondo…
”(Cfr: Sanguineti nel “Catamerone”) sono dei veri travet, peones della poesia
non per loro colpa, per la verità par di averceli isolati di proposito se non allontanati da certe rinomate presenze, in primis, dai detentori di riviste che gestiscono l’“enclave” della carta stampata di cui -i poeti poveri diavoli- non
arriveranno ad aggredirla facilmente. Per due ragioni: 1) perché trovano uno
sbarramento colossale dei direttori e redattori di riviste. Per carità di patria non
se ne parli neppure dei quotidiani, assolutamente distanziati anni luce dagli
scrittori e poeti, guardati con torve occhiate, salvo piccole comparse pilotate
dagli amici redattori e loro affiliati; 2) anche i poeti stessi devono farsi pure un
esame di coscienza di quello che scrivono, pochissima poesia buona, questa
soffocata dalla spavalda incombenza degli accademici, spesso prezzolati e auto
comandati. A questo punto quali risorse hanno i poeti? Nessuna. Sono di fatto
e di diritto dimidiati, lasciati soli a combattere le spavalde tetrarchie. Questo
atteggiamento negazionista si riverbera negli incontri di poesia fine a se stessi,
perciò senza aperture per costoro che spariscono in boscaglie di immagini senza
lasciare la benché minima traccia. Non c’è speranza né protezione alcuna (i
neofiti vanno allevati come pulcini nel nido) salvo poi che ci sia in sala il solito
procacciatore affiancato dall’editore di turno che li attira a sé nella pania per
pubblicare facendogli credere vendite, distribuzione e l’avallo di critici maggiorenti. Ecco lo sfacelo di cui parla poco Giancane. Ognuno degli operatori,
poeta loro stessi di lungo corso, ha consciamente la loro razione di colpa. Questo allontanamento provocato ha una matrice riconoscibile. Poi ci sono i “poeti
in sonno” che non hanno mai pubblicato o hanno pubblicato una sola opera e
muoiono in essa, bisogna con loro essere prudenti e psicologicamente preparati,
62
Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
niente aria di sussiego, bigliettini da visita, pacche sulle spalle. Anche il poeta
cosiddetto “navigato” viene ghigliottinato dall’ autoritarismo di alcuni “saggi”
della critica già ben pasciuti in posti chiave che, satolli, credono di asfaltare
tutti i poeti “potenziali” padroneggiando in lungo e in largo. Giancane evoca le
“comunità letterarie” veri parafulmini per non fare disintegrare la potenziale
forza numerica di poeti da “recuperare” per allargare le fila e quindi le comunità; lo stesso Giancane ha individuato il male in agguato cioè quello di fare
girare la roulette sempre con gli stessi numeri, in pratica ciurlare nel manico.
Le “comunità” creano un danno indifendibile in quanto sono spesso circoli
chiusi, “sette faziose di esodati” che se la cantano e se la suonano da soli, non
credo che gli “entranti” ambiscono le comunità per starci, semmai auspicano
spostarsi da un sito geografico all’altro per farsi conoscere da gente che si rinnovella. Misuriamo i passi, i nostri passi di operatori del settore, quali quelli
sbagliati e, se del caso fare indietro tutta. Per non perdere la partita del tutto
“che la poesia non interessa più a nessuno” si devono proteggere i poeti veri,
quelli che non hanno bisogno le stampelle per reggersi. Gli 11 punti passati in
rassegna dall’amico Giancane sono un ottimo canovaccio per aprire dibattiti,
incontri con tutti i poeti, per farli prendere coscienza che si prepara una ecatombe a inghiottirli per sempre nel ventre di Giona.
63
I Fiori del Male
RACCONTO
Il cacciatore folle
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n giorno, tra un lavaggio di
stoviglie e l’altro, la signora
Franca ebbe un’idea: “ ora lascio mio marito”, pensò con
un sospiro. Il signor Stefano, cacciatore e
bracconiere di fama, stava leggendo in
poltrona, con alle spalle tutti i suoi trofei.
“Tu mi vuoi lasciare?”, sincera chiese a
suo marito. Il marito pensò alla sua vita,
ai doveri coniugali, a tutti i figli che
avrebbero desiderato ma non hanno mai
avuto. E le rispose: “Se tu vuoi, per me va
bene”. Il giorno seguente, con la moglie
in preda all’isteria, il signor Stefano principiò a traslocare. Il suo nuovo alloggio
sarebbe stato una piccola casa di campagna non arredata. Quando Stefano giunse
sul luogo della sua dimora la trovò eccellente ma tetra. Una tenda di edera scendeva
sul lato sinistro dell’uscio e la costruzione, così velata, sembrava come più leggera
di quelle dure pietre e mattoni con i quali era stata costruita. Iniziò a comporre una
pila di oggetti a lui cari, scaricandoli dal furgone. Tra gli altri c’erano: una testa
d’alce siberiana, un cervo impagliato, le corna di un toro, alcune lampade, una scatola di libri sulla caccia e pochi mobili consunti. I primi giorni di permanenza sembravano passare velocemente, poi, il normale mutare delle cose e degli avvenimenti,
sembrò arrestarsi. Stefano cominciò a riconsiderare la sua vita, di giorno passava il
tempo a ricordare le sue vecchie glorie, leggeva qualche libro, e osservava quei trofei di caccia che da cielo stellato stavano diventando la sua ombra. Stefano possedeva anche un piccolo lotto di terra, attorno alla sua abitazione, coltivato ad ulivi e
vitigni. Passeggiando tra le filare scorse improvvisamente una lepre. Non aveva il
fucile e pensò di lasciarla andare. I giorni dentro casa trascorrevano sempre uguali
e, oltre a sentirsi solo, cominciava anche a sentire quanto le sue glorie passate fossero per lui un peso. La sua mente era ossessionata dal ricordo della lepre. Ogni
mattina, nel suo giro tra le filare, osservava i movimenti dell’erba. La lepre non
compariva e durante la cena,unico pasto che si concedeva, si sentiva sempre più affranto. Il suo corpo, da forte e vigoroso che era, diventava sempre più esile e magro
64
Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
e pronto a scattare alla prima vista di una manto di pelo bianco. L’ossessione di Stefano cresceva. I fucili, le trappole, sue vecchie compagne di caccia, sembravano ai
suoi occhi ormai tecniche inutili e vili. La strategia di bracconaggio, le manovre di
accerchiamento, da lui studiate per tutta la vita, sembravano lettera morta anche
serbando ancora il piacere di ripassarle a mente. Una notte il cacciatore, allo stremo
delle forze, dopo una giornata insonne, uscì a passeggiare appena sorto il sole e ,
come una visione di guerra, scorse una coda bianca in lontananza. Stefano, in mutande e canottiera, come se la sua ossessione fosse completamente sparita, non
pensò neanche di prendere il fucile e si mise a correre dietro alla lepre. Nonostante
la sua agilità, dopo pochi metri si sentì stanco e un furore mai provato lo prese ai
polpacci. I giorni seguenti la lepre si presentava sempre più spesso all’uscio del
cacciatore. Stefano, qualsiasi fossero i suoi abiti, raccoglieva le forze e iniziava ad
inseguire la lepre. Nonostante diventasse sempre più scattante e veloce, non riusciva
mai ad acciuffarla. La sfida tra Stefano e l’animale risultava divertente per l’animale
e più odiosa e ossessionante per il blasonato bracconiere.
Stefano si ritirò a pensare in seguito alla sua più eclatante sconfitta, dopo aver
raggiunto la preda sfruttando tutte le sue energie residue, la lepre aveva cambiato
direzione ed era sparita tra le filare. Stefano era ora ad un passo dalla follia, sua
moglie lo aveva abbandonato e le sue competenze di cacciatore non sembravano
più servirgli a nulla. I primi tempi successivi alla sconfitta gli servirono per curare
il suo corpo, ricominciò a mangiare a pranzo e lentamente sentì riaversi. La sera,
invece, dopo tanta esitazione tornò a sfogliare i suoi libri. Ricordò le sue vecchie
gloriose battute di caccia e la sua mente gradualmente sembrò prendere respiro.
Una sera, prima di coricarsi, sovrappensiero come al solito, colpì con la testa le
corna di cervo, posizionate sopra la testiera del letto. Ricevette qualcosa di simile
a un’illuminazione. Così,in mutande e canottiera si ricordò del primo tentativo di
acciuffare la lepre e della furia che lo aveva pervaso. Quell’emozione, rispetto alla
tranquillità riacquisita, gli fece comprendere quanto insana fosse la pretesa di cacciare di corsa e a mani nude una lepre. Pensò che non fosse il caso di tornare ad inseguirla e preferì chiedere permesso di caccia nei boschi del vicino. La caccia nei
boschi lo sorprese più di ogni altra sua esperienza, era rapido, preciso nei colpi, ad
una sola occhiata riusciva a prevedere il movimento delle prede, quasi non avesse
bisogno più di alcuna strategia di caccia. Comprese quale lezione avesse impartito
la lepre e gli dispiacque solo di esser stato così ottenebrato da non poter capire. Per
alcuni giorni l’animale sparì non vedendo più comparire il cacciatore. Stefano, da
parte sua, cominciò sempre a lasciare fuori dall’uscio qualcosa da mangiare per la
lepre. Una mattina verso ora di pranzo, mentre Stefano deponeva a terra la scodella,
la vide avvicinarsi. La lepre, prima mostrò felicità, poi lo schernì mettendosi in posizione da corsa. Il cacciatore prese di soppiatto il fucile e, senza quasi prendere la
mira, fece sibilare un colpo accanto all’orecchio della bestia. La lepre fece l’errore
di rimanere ferma e spaurita, mentre il cacciatore si accomiatava con un saluto.
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I Fiori del Male
MANIFESTO CULTURALE “IL BANDOLO”
(Riceviamo e pubblichiamo)
L’arte nasce da un dialogo interiore per diventare pensiero in movimento che genera
cambiamento. Noi prendiamo parte a questa dinamica diventando i consapevoli tessitori
di una tela che sappia restituire dignità e libertà ad una cultura impantanata nel narcisismo, nella consorteria e nell’autocelebrazione. Nostri valori sono il risveglio creativo,
l’autenticità, il coinvolgimento e l’aggregazione, nel desiderio di infrangere le barriere
e gli schemi che ingabbiano i circuiti culturali e artistici, ammorbati dall’arrivismo e
da un erroneo concetto del professionismo culturale. L’arte è innanzitutto vocazione.
Nostro intento è sostenere e promuovere iniziative che diano nuovo vigore e slancio al
lavoro creativo, facendo sviluppare le idee che sgorgano da ogni gesto culturale in una
verità che sia lontana da qualsiasi mistificazione. Vogliamo coltivare un pensiero che
faccia germogliare valori universali autentici nel fascinoso ma purtroppo arido mondo
contemporaneo. Dove l’arte si aggrega, c’è un messaggio di pace.
Esposizione sunteggiata
Le arti sono palestre di pensiero, laboratori di creatività.
Il peggior nemico dell’arte è l’ego. Basta con l’esibizionismo fanatico di un’arte che
non scuote le coscienze e si bea solo di se stessa.
Il narcisismo non deve essere il motore del sistema di promozione dell’arte, come purtroppo accade sfruttando l’ego dell’artista e vanificando le valenze comunicative del
prodotto artistico.
L’arte è esperienza di un senso comunitario più autentico dell’usuale.
Sostituire l’Io con il Noi non è garanzia di universalità. L’arte è comunione, è scambio, è dialogo che avviene nel profondo. Non si deve confondere l’universale con il pubblico consenso.
L’arte non parla a tutti, massificandoli, ma parla al cuore e alla mente di ognuno.
Superare il soggettivismo è possibile riconoscendo e abbracciando il livello più profondo
della soggettività. Un conto è l’Ego, un conto è il Sé.
Lo scavo interiore, la ricerca di se stessi, l’autoanalisi, non devono essere confusi con
l’intimismo.
L’individuo non deve vedersi come una monade, ma come appartenente a una comunità,
come soggetto di relazioni, a partire dalla relazione con se stesso.
L’aggregazione è indispensabile per uscire dallo schema solito di diffusione dell’arte, orientando
il pubblico, e di conseguenza l’imprenditoria culturale, verso prodotti di maggiore qualità.
Il potere è come noi lo vogliamo.
Promotori
Claudio Fiorentini e Franco Campegiani, Roma, 28 dicembre 2014 (seguono le firme
degli aderenti omessi per mancanza di spazio)
Chiunque intendesse sottoscrivere detto Manifesto è pregato di rivolgersi, con
una email, al seguente indirizzo di posta elettronica: [email protected]
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
STATE UNIVERSITY OF NEW YORK
PREMIO INTERNAZIONALE DI POESIA GRADIVA -NEW YORK- III edizione
La rivista GRADIVA bandisce la terza edizione del Premio Gradiva. Al Premio si concorre
con un libro di poesia in lingua italiana, pubblicato fra gennaio 2013 e dicembre 2014. I libri
partecipanti al concorso non saranno restituiti. Non è prevista alcuna quota di partecipazione, ma i partecipanti sono gentilmente invitati a iscriversi, in forma di donazione,
all’Associazione non-profit Gradiva International Poetry Society, Inc. i cui intenti sono
quelli di promuovere e diffondere la poesia italiana nei Paesi anglofoni. *
Al vincitore sarà assegnato un premio di $1000 (mille dollari), il rimborso delle spese di viaggio
aereo (economy class) e il pernottamento per due notti presso il prestigioso Danford Marina
Hotel. Una selezione del libro sarà tradotta in inglese e pubblicata da “Gradiva”. Case Editrici
e/o singoli autori devono spedire una copia del loro libro, in cartaceo, ENTRO IL 20 APRILE
2015, ai seguenti componenti della Giuria, con l’indicazione, su ogni copia, dell’indirizzo
completo dell’Autore, telefono ed e-mail. Una copia va spedita in PDF all’indirizzo elettronico
della Segreteria del Premio sotto indicato.
Nicola Crocetti, c/o “Poesia”, Via E. Falck 53, 20151 Milano, Italia.
Milo De Angelis, Via degli Imbriani 31, sc. F., 20158 Milano, Italia.
Alessandro Carrera, Modern & Classical Languages, Univ. of Houston, Texas 77204, USA.
Luigi Fontanella (Presidente), Dept. of European Languages and Literatures, Humanities
Bldg, State University of New York, 100 Nicolls Rd., Stony Brook, New York 11790, USA.
Irene Marchegiani, 303 Mountain Ridge Drive, Mt. Sinai, New York 11766, USA.
Elio Pecora, Via Paolo Barison 14, 00142 Roma, Italia.
Segreteria del Premio, Sylvia Morandina (con diritto di voto): [email protected]
Presidente onorario (senza diritto di voto): Alfredo de Palchi: 33 Union Square W., 6-R, New
York, N.Y. 10003, USA.
La Giuria selezionerà gradualmente i libri finalisti. Una successiva consultazione determinerà la
cinquina finalista, della quale un’ultima votazione determinerà il vincitore del Premio. La cerimonia di premiazione avrà luogo nell’autunno 2015 presso il Center for Italian Studies della
State University of New York, con sede a Stony Brook, e sarà preventivamente comunicata al
vincitore, che è tenuto a presenziare alla cerimonia. Non si ammettono deleghe. Per ulteriori informazioni: Tel. 001-631-6327448 (martedì e giovedì) o inviare email.
* Per l’associazione alla non-profit Gradiva International Poetry Society, Inc., che dà diritto
a partecipare al Premio, effettuare donazione, con spese bancarie a carico dell’ordinante, tramite bonifico internazionale (bank transfer) di $65 sul conto di GRADIVA, Apple Bank di
Setauket (N.Y.), gestito dalla Morgan Chase Bank, Routing n. 226070584, account 4443030970, Swift: CHAS US 33; oppure tramite bonifico italiano di 50, specificando che si
tratta di donazione, con spese bancarie a carico dell’ordinante, presso Banca Popolare di Milano, Ag.240, sul conto intestato a Luigi Fontanella, IBAN: IT50 I 05584 02800
000000010982, swift: BPM iit MM240. Spedire la ricevuta all’indirizzo della Segreteria
del Premio, Sylvia Morandina: PO Box 831, Stony Brook, New York 11790, USA.
Vincitori delle precedenti edizioni:
2013, Sauro Albisani, La valle delle visioni (Passigli)
2014, Maurizio Cucchi, Malaspina (Mondadori)
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I Fiori del Male
POESIE
Mila
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(inedito)
Mila, che stringi la tua rosa ardente
alla gelida sfera di Parmedine
per disfidarne l’immobilità
perfetta con i tuoi giochi volubili,
disponendo sulla tua nudità
grandi capelli che tu muti, ora
verdi, ora d’oro, ora azzurri, in base
al variare del vento che scompiglia
la tua mente leggera e la tua voce,
sandali d’aria, anelli di ametista,
esili nastri variopinti, lacci
che ti stringano fianchi e mani e tette,
la perla che gareggi coi capezzoli,
il lieve filo nero che divarica
la tua fessura un poco, mentre ti agiti
e canti. Dici :- Per il mio piacere
per infinite volte so inventare
voce e parole, oggetti, desideri,
ore del giorno o della notte, lune
piene ed assenti, immergermi per mille
volte nei mille fiumi della mia
giovinezza, danzando mille volte
sopra la vanità di questa sfera
che (a quanto dicono) è l’allegoria
del Tutto.
Torino, 18 novembre 2014
Giorgio Bárberi Squarotti Critico letterario (Torino 1929), e poeta italiano di notevole spessore.
Titolare di cattedra di letteratura italiana moderna e contemporanea nell’Università di Torino. Studioso fervidissimo, spazia tra Machiavelli e Tasso senza tralasciare il sommo Dante. Innumerevoli
sono i suoi contributi di critica letteraria. L’interesse di Squarotti è volto al rinnovamento delle
forme poetiche compreso le avanguardie europee e agli sviluppi della letteratura italiana dalla fine
dell’Ottocento ai giorni nostri.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
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Fui Petrolio di carne con gli occhiali
Morii e fui rosa di vita, sangue
sgorgato alla marina.
Mia madre, ombra impazzita,
mi coprì col suo pianto
di luce. Bestemmiato fiore.
Fui petrolio di carne con gli occhiali
scuri che ridevano la prosa di un bacio
Scrissi versi, randagi di sacro, forse
brani di un Vangelo.
Usato.
Alla darsena vidi ruvide primavere
ronde di piacere senza divisa
Oggi è il mare, cardinale d’autunno,
che sa la ragione nell’amore
raccontare guarita
sorsata di sale
la più fulgida preghiera.
La tigre di Emily
Filtrai il deserto
per la bestia tradita
dolcissima di solitudine.
Un dettaglio la vita
che non voleva morire
senza l’alba di una goccia.
Chiusa nel vetro del mio silenzio
fui vulcano d’amore
sortilegio feriale la scrittura
di un verso
calendario di pensieri.
Nell’eccezionalità dell’evento pubblichiamo in questo primo numero del 2015 de I fiori del male
(che compie dieci anni), due brevi liriche di Paolo Carlucci, espunte dalla sua ultima opera Il mare
delle nuvole (2014). Appunto, si tratta di una eccezione, in quanto un redattore (Carlucci lo è) per
discrezionalità verso la direzione della rivista si esime di pubblicare cose proprie, ad eccezione recensioni a lui dirette. Paolo Carlucci vive a Roma, è docente di ruolo nei Licei ed è redattore de I
fiori del male. Conosciuto e apprezzato critico, ha tutte le strade aperte per lusinghieri traguardi.
69
I Fiori del Male
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Lettera a Susan Thomas
In bocca ad un martin pescatore
dopo estenuante attesa
ti giunge il messaggio
dalla più decrepita città del mondo.
Le piume dell’uccello e la carta
saranno ghiacciate per il viaggio
e impregnate degli aromi oceanici:
sta attenta a non sgualcire e prima
di leggere dà una briciola all’uccello alacre.
Qui è un inverno di rovine: l’aria gela
l’anima e la sozza solitudine in cui vivo:
Capri e New York i due miti opposti
sono egualmente remoti.
Vivo di irrealtà confuso e ignorando
se la mia vita sia soltanto nelle parole
o proiettata nelle gengive degli altri:
odiano la chiarezza di un atto d’amore
e così anche il mio possibile amore
s’accascia incredulo e non riconosciuto.
Non fa parte dei loro scambi
amare senza sensi e senza religione:
dunque, come poeta, sono un perverso.
Ma tu che mi scrivi dalla cima dei grattacieli
incrollabili
in quell’aria di montagna al centro della città
mandi nel cielo dei postini
queste tue barchette arancione e blu
che mi raggiungono, aerei di felicità.
Com’è la stagione da te?
Porti baveri d’ermellino
per difenderti dalla raucedine
70
Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
o cammini nuda sull’East River
danzando la tua virtualità poetica?
Anch’io vado in giro nudo
farfugliando parole all’aria:
qui nessuno sa più gridare, ordinato nel suo alfabeto.
A notte alta
sobbalzando nell’autobus
m’accordo coi guaiti di qualche ubriaco
che parla della catastrofe alla bomba N…
Torno a casa, lasciando le rovine illustri
per quelle plebee del mio quartiere
mi riprometto di leggere Dante fino all’alba
ma dopo un canto le palpebre si chiudono.
Forse la stanchezza
è un’inconscia paura della notte.
Quando tornerai a Capri?
dopotutto le ondate lì sono ancora bluastre.
La mia infanzia è invece marcia
sogghigna da luminosità in cancrena.
Ah, se tornerò a nascere
eliminerò quello stadio:
rinascerò vecchio direttamente.
Com’è grande il sadismo di Dio!
chi avrebbe escogitato
un caleidoscopio di età che si rimpiangono
a vicenda?
Ma si può barattare il buio con la luce?
Amo la vita con tutte le sue piaghe.
La morte, tuttora, è solo una curiosità:
una botola che precipita nel caos.
Ma può anche darsi che la morte
sia un venditore di palloncini
con una sforbiciata si rompe il filo
71
I Fiori del Male
e voliamo leggeri verso gli astri…
Cara Susan, mi scuserai
se questa lettera ti rattristerà?
È uno sproloquio inutile, non risponde
a nessuna delle cose che chiedevi.
Perdona
a un poetino sperduto nel mondo dei grandi:
ti scrive sciocchezze da Roma, città decrepita,
per New York, la città più elastica del mondo!
A mio fratello Antonio in Scozia
Caro fratello, laggiù in Scozia
dove ora vivi, tra bolidi di nebbia,
di solare c’è solo la tua testa bionda.
Ricordo il giorno
che ti accompagnai a Capodichino:
il silenzio impazziva al suono dei motori,
tanta la pena
nemmeno un abbraccio.
E poi salisti in fretta sull’aereo
che slittando, in un boccone
fu inghiottito dal cielo,
e divenne un insetto lucente
che rigava le nuvole.
E solo un’ombra di rumore e luce
restò a me rapito a guardarti
nell’universo sparire.
A Pasolini
Non posso pensare al tuo corpo
alla deriva della notte
all’idroscalo.
Adesso che il tuo nome
72
Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
è rullato in milioni e milioni di rotative
il tuo volto insanguinato anche dall’inchiostro
che ha ripetuto a lave il tuo martirio
io non ho letto i giornali,
ho riletto solo il giornale dai fogli
bianchissimi luminosissimi
i tuoi versi d’oro e miseria.
Uscivi come una talpa dal tuo buco caldo
tu che odiavi il “ vivere bene”
per schiacciare i vicoli dei cuori.
Non posso pensare ai tuoi zigomi stravolti
allo stordimento prima lieve
e poi al rombo dell’auto e le ruote
valicanti rabbiose la montagna azzurra della tua testa,
lo scricchiolio dei massi cerebrali che catapultavi
su tutti, per la verità, e rimanevi
più solo con te solo e forse
anche da te stesso lontano.
Adesso la tua carne grigia è:
ballatoio di vermi
balaustra di marcio
osservatorio di maleodore
miscuglio di putrescenza assoluta
nelle tue fibre spaccate
urlano accecati i sensi disfatti
gridano nel buio le cellule
sulla tua dissoluzione imperiale
di poeta.
Dopo tanto chiasso sei tornato nel silenzio
che più amavi, ricammini notturno nei vicoli
delle tue borgate, ogni portone è una nicchia
che riflette per un attimo la tua figura sfuggente.
E chi dirà più Roma
puttanesca e crudele?
73
I Fiori del Male
chi canterà come te
la gagliardia dei sessi nell’orgasmo?
nessuno inseguirà più questa carne
umana dietro l’ombra della sua
sfortuna.
Verranno altri poeti
asessuati con le grandi ali
a ridere nelle facce di bambini
una pena diversa da questi spalti di sangue
ma tu sei precipitato
nella gola d’argento dove cadono
i poeti veri: là misteriosi venti
che spostano astri in nuove rotazioni
ripetono sillabe misconosciute:
Lorca, Hernandez, Pasolini…
Italo Benedetti Nato a Orbetello da padre caprese, ha vissuto la sua infanzia e giovinezza a Capri.
Trasferitosi per motivi di lavoro a Roma, dove insegna musica in una scuola media statale, divide
la sua vita tra Roma e Sabaudia. Ha pubblicato le prime poesie nel 1965. Il suo primo libro è del
1971, a cui se ne sono aggiunti altri otto. Nel 1976 il libro di poesie “Lontano dal corpo”, con prefazione di Giacinto Spagnoletti, ottenne i consensi della critica letteraria più attenta e gli valse la
preziosa amicizia e stima di Elsa Morante. Finalista al Premio Viareggio. Nel 1984 l’antologia
poetica “I giorni d’oro” venne presentata nella sala delle conferenze della Biblioteca Nazionale
Centrale di Roma da Rosario Assunto, Ruggero Orlando, Milena Milani. Tra il folto pubblico presenziarono Giulio Carlo Argan, Palma Bucarelli, Carlo Bernari,ecc .Il libro di poesie,” Dieci Miliardi di anni” è stato tradotto in francese ed inglese e ottenuto il premio Circeo, “La cultura del
mare”, presieduto da Stanislao Nievo. Elsa Morante dopo aver letto, “Lontano dal corpo” disse:
“fra tanti poeti imbalsamati, finalmente un poeta vivo!”. Sono innumerevoli le testimonianze critiche sull’opera di Italo Benedetti, da Cesare Brandi a Carlo Betocchi, da Giulio Carlo Argan, a
Rosario Assunto, al saggio scritto da Luigi Compagnone nel 1972, a quello di Giacinto Spagnoletti,
per il libro “Lontano dal corpo” 1976 e che gli dedicò un importante articolo sulle pagine della
“Fiera letteraria”.. Le sue poesie sono state lette tra gli altri, da Achille Millo, Riccardo Cucciolla,
Francesco Carnelutti, Raoul Grassilli, alla radio Vaticana, radio Svizzera e in RAI da Giulio Bosetti,
nel 2009 da Urbano Barberini e Iaia Forte al Complesso dei Dioscuri al Quirinale (in tale occasione
venti sue poesie sono state inserite nel catalogo del maestro Maugeri). Nel 2010 sue poesie sono
state recitate con successo da Pamela Villoresi al Complesso del Vittoriano, in occasione della mostra “Metrovesrsocromie” del maestro Maugeri con pubblicazione di venti liriche abbinate ai quadri
nel catalogo Electa È presente in numerose antologie e in Storie della letteratura italiana (tra cui la
Storia della letteratura italiana del’900 di Giacinto Spagnoletti, Oscar Mondadori). Per maggiori
notizie: italobenedettipoeta - googlesites
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
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Un bizzarro mestiere
(dalla raccolta Strumenti di luce, 2011)
Mi attrae il mestiere
di guardiano di pesci
in un acquario.
Oh accudire mandrie di pinnuti
che incantano evoluendo
con placidi rigiri
e andirivieni senza fine
come se assolvessero
a un misterioso compito.
All’ora del pasto
non dovrei che versare nelle vasche
cartoccetti di insoliti cibi
e qualche fragaglia per i predaci.
Ed ecco i pesci saettarti incontro
scodando tra ribollìo di schiume
le bocche spalancate irte di denti!
Dovrei ripulire poi i fondali
dai filacciosi escrementi
(questo l’aspetto meno esaltante
del lavoro). Ciononostante
mi piacerebbe
fare il guardiano di pesci
in un acquario.
Su Viale di Porta Tiburtina
Roma sole in faccia cammino
su viale di Porta Tiburtina.
Un glicine riversa
giù da un muro
fragranti violazzurri corimbi.
Sfioro rossi aceri
piantati in fila sul marciapiede.
Dal chiuso di un giardino
svettano arance limoni
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I Fiori del Male
librati tra ghirlande di foglie.
Rosseggiano su un lato
le mura aureliane
di lunari travertini vi splende
incastonata Porta Taurina.
In capo al viale si staglia
la verde ombrella di un pino
di Roma eterna icona.
Il Proconsole
Certo, questi cristiani hanno una tale
tempra! Proprio tutti, vecchi donne
bambini, non deflettono dinanzi
alle minacce e alle torture; muoiono,
infine, col sorriso sulle labbra
che mormorano canti e preghiere
al loro dio! E questa giovinetta,
Lucia, non è da meno. Non si piega
a onorare i nostri dei. Firmino
l’ha accusata, per vendetta - dicono dell’oltraggio di nozze rifiutate.
È mio chiaro dovere di Proconsole
ricondurla a ragione o suppliziarla
fino alla morte. Intanto ella resiste.
Già l’ho fatta fustigare a sangue,
chiudere nel bordello per violare
i suoi voti; ma, invano: ella non cede
alle violenze degli stupratori.
Con la dialettica delle parole
non credo riuscirò mai a convincerla.
Quando le ho chiesto se si ritenesse
invincibile, ha risposto che è il corpo
dello Spirito tempio inespugnabile.
Dovrò, dunque, adottare mezzi estremi.
Notturno leopardiano
Da un vano di finestra
contempli la luna
la sua fredda luce
Giacomo ammiri
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
La quiete notturna
l’animo t’accarezza
cure fastidi
ansie affanni
come lontani
L’argenteo raggio scruti
e ritessi il sogno
primo della tua vita
Amore Gloria
libertà da Morbo e Morte
Ma alle illusioni chiude le porte
rapidamente il vero
L’errante luce
che d’inesplicabile bellezza
la notte accende
poco consola o illude
sulla fatale sorte
tutto finisce in morte
Dall’astro tu trai l’esempio
con poetico lume
sveli il senso
del cosmico destino
Enrico Bagnato, è nato a Lecce, laureato in legge, vive e opera tra Bari e Roma. È poeta, drammaturgo, autore di racconti, critico letterario. È iscritto alla S.I.A.E., alla S.I.A.D. (Società Italiana
Autori Drammatici), è membro del Consiglio Direttivo del Centro Nazionale di Drammaturgia Italiana Contemporanea (CENDIC). Ha pubblicato moltissimi libri di poesia con editori importanti.
Un’antologia della sua opera poetica è stata pubblicata in ex-Jugoslavia nel 1991..È redattore della
rivista “La Vallisa” e collabora con varie riviste letterarie. Ha scritto, fino ad oggi, una trentina di
testi teatrali. Ne citiamo solo alcuni: Cronaca di una rivoluzione (1996); Pier delle Vigne, Isabella
di Morra, Marin Faliero (1999); Masada, La Basilissa, La città decollata - Otranto 1480, Passione
e morte dell’Arcivescovo Romero, (1999); Robespierre, Celestino V, (2002); con le Edizioni La
Vallisa: Rimbaud (PremiOpera Fantiano 2003), Gioacchino Murat ( 2008); Beatrice Cenci, 2008;
Re David ,2009; Masaniello (premio SIAD/Calcante 2009) in “Ridotto” di aprile-maggio 2010; Il
Vangelo di Maria ,2009; Spartaco, Medea, Prometeo, Camilla, 2012; Triangolo Malatesta (Premio
Umberto Bozzini 2014); Poema Garibaldi (monologo, ArteTeatro, 2014; La battaglia di Canne;
L’assedio di Sagunto; Favola tragica di Tereo, Procne e Filomela, Amalasunta, Sennacherib, Bari
liberata dall’assedio saraceno, La disfida di Barletta. Petruzzelli: incendio e ricostruzione.In Serbia
sono stati tradotti e pubblicati in volume alcuni suoi drammi, 2005; e-mail: [email protected]
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I Fiori del Male
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Deve ancora nascere la rosa da A piedi nudi
Ora che il tempo di pensare
inonda
analizzo sotto una lente impietosa
ogni piccola goccia di schiuma
risucchio di vita vissuta
sotto tentacoli di medusa ancora
avvinghiati alla pelle
lasciata lenta a marcire
tutto si è condensato in una pellicola
umida e lorda
strato soffocante che intera
m’avvolge
di strapparla cerco urlando
e uscire ogni giorno alla luce
con gran fatica
per dar vita a una nuova rosa.
La colpa non ho espiato da Incontri
a mia madre
Quel dolore che ti ho inflitto
madre
intero mi torna e brucia
la colpa non ho espiato
ancora
la pena trafigge di non poter
cambiare il corso
colpevole sono e resto
e pesa come piombo.
Il rumore dell’acqua
a Monica
Amica mia,
forse più che interrogarci
sul perché a noi tanto dolore,
andiamo a primavera
a correre sui prati
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
dove inebria il profumo nuovo dei fiori,
sediamoci sul bordo di un ruscello e
ascoltiamo il suono della vita.
Squali
La sentite voi la paura
che secca le narici
il profumo del domani è diventato acido
o tace la coscienza in un’inerzia accomodante
come bava che striscia nella melma
figure di senno sbiadite
si aggirano nelle fogne del potere
sembra l’opera dei padri
risucchiata nel vortice del tempo
la sentite voi la paura
che accartoccia l’anima
squali sguaiati sogghignano
sbranando genti che invocano
la fine per non più veder lo sfascio
non più sentir la frusta dell’offesa
il fuoco dell’egoismo ha invaso i campi
ridotto la speranza cenere
una morsa mi soffoca il respiro
l’occhio sul futuro un cuneo dalla punta funesta.
Tina Emiliani. Sono nata a Roma, in tempo di guerra. Ho sempre avuto la sensazione di essere
stata strappata violentemente da un mondo che amavo per approdare in uno dove non mi riconoscevo. Mi sono adattata a fatica, inseguendo due soli obiettivi: la libertà e l’amore.Secondo l’oroscopo cinese appartengo al segno del serpente. Negli anni, la mia anima ha subito, con un ritmo
cadenzato, un processo di esfoliazione. La rinascita dalle macerie è arrivata attraverso la trasformazione. Ho cercato nuovo ossigeno per rimuovere le scorie, purificarmi. Per liberare la mente da
ossessioni, mi sono fermata ad ascoltare la natura. La poesia mi è arrivata presto in aiuto. I versi
che custodivo gelosamente hanno iniziato a scalpitare per fuggire dai miei cassetti e nel 2005 ho
pubblicato la prima silloge, Gli occhi della meraviglia, a cui hanno fatto seguito:Riflessi tra le pieghe di un interno (2011) Viola bastarda (2012),la trilogia Incontri - A piedi nudi - Un’ottava sotto
sopra (2014)Crème Caramel ( 2014) Numerose poesie hanno avuto riconoscimenti e premi e compaiono su diverse antologie italiane, tra cui Poeti e Poesia, Il cammino della Poesia, Poeti contemporanei ed estere (Antologia 2009 a cura della Casa di Poesia del Marocco) e riviste letterarie
italiane ed estere.
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I Fiori del Male
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Una lunga traversata
Non si esce una sola volta
per sentire con occhio puro
la complessità del mondo.
Più volte ti esponi,
cammini nel dubbio e al bivio
speri di farla franca.
Sul limite un salto tremendo,
lo scrollo della neve cacciata dal ramo
poi il silenzio di una precoce gelata.
Barcolli, ti rimetti in piedi
l’attesa catastrofe non c’è stata
braccia al cielo sussurri un canto,
così dal principio alla fine diventi uomo.
Medusa
Scudo in frantumi, estrema grazia
stai morendo alla risacca ardente,
ti guardo e sono qui a decidere:
toglierti il soffio
o restituirti al richiamo delle vittime.
Un ramo teso e torno a salvarti,
contro l’onda parti
piuma lucente prendi il largo,
mi ringrazi e una goccia di veleno
bagna la punta dei piedi,
fa uscire dal pregiudizio
chi ti crede cattiva e sei innocente.
Sul punto di salvarti un’illusione
navigare sospesa al tuo guscio
limpida ala contro le offese.
Dietro le parole
Le parole vere nascono
tra le nude radici degli impulsi
alla sincera terra restituite.
L’orto dei sentimenti
mai svelati e appartenuti
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"
Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
si affaccia alla soglia del pudore
e nella calma del sogno
fiorisce ai suoi misteri
e li risolve.
I più teneri segreti
ondeggiano nel mare dei pensieri
risuonano di piccoli viaggi
di un altrove dimenticato:
la sponda a cui approdare
la prigione da cui fuggire.
Stanno così le parole
sempre sospese
nel pericolo dell’intimità violata.
Madeira
(dalla raccolta “ Nello Specchio di Alice”)
A Pico Ruivo
lastre di basalto
in piedi tra le nuvole,
antica esplosione di lava
e il fumo nelle valli
ancora echeggia.
Schizzi di minerali a raffica
scenari di sole e sale.
Ogni disperato colto dal vento
nel tempo solitario
puntò lo spicchio di luce tra le nuvole.
Ma fu la canna del fucile
a intonare musiche diverse.
Qui riconosco le mie pieghe
ogni albero ogni ombra
le guglie della roccia.
Rivedermi nell’orrido
senza spavento,
con gli speroni dell’anima aggrappata
nodo per nodo rispecchiarmi.
Half
(dalla raccolta “ Nello Specchio di Alice”)
Piccolo lui
come il suo bassotto Half
e intelligente
quando giocava a nascondino.
La sua socialità
condivisa con la gente
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I Fiori del Male
di un cortile.
Andava solo e tornava solo
da scuola,
elaborando nel presente il dolore
di un amico partito.
Quando un cane abbaiava
scartava il suo panino
e lo divideva in due
per strada,
senza farne parola con nessuno.
Non sapeva ancora
dare un nome all’assenza.
La fiesta della playa (Capell d’Angel)*
Di una baia
di una conchiglia
è prigioniero il mio cuore,
in fondo al mare
dove l’hai catturato tu,
Minorca la piccola
non sei più vela pirata,
solchi il tuo porto lungo di vulva
stretta alla riva placida di barche.
Ridono i vicoli densi di ombre
e nel tramonto capelli d’ angelo
trattengono le reti al profumo del pane
alla festa di chitarre che sta per iniziare.
*Capell d’Angel è un dolce tipico delle feste, nel quale confluiscono profumi e sapori provenienti
dalle diverse culture che hanno influenzato l’isola di Minorca. ( dalla raccolta inedita “Spiritus Loci”)
Rossella Seller è nata a Bari, ma vive a Roma da molti anni, dove lavora come medico, psichiatra
e psicoterapeuta in prima linea contro lo stigma sui malati mentali e l’emarginazione. Svolge anche
un’intensa attività di ricercatrice e divulgatrice scientifica. Dopo una lunga pausa è tornata da
qualche anno alla poesia, suo “primo amore”. Appassionata viaggiatrice, scrive racconti e poesie
dall’età di quindici anni, giovanissima ha creato un programma radiofonico dedicato alla poesia
italiana e ha vinto una sezione del concorso letterario “Guido Gozzano”. Nel corso degli anni ha
ricevuto altri premi e riconoscimenti letterari e i suoi versi sono presenti in numerose riviste e
raccolte antologiche. Ha pubblicato la sua prima raccolta “Nello Specchio di Alice “ (2008). Suoi
testi poetici sono inseriti in diverse opere teatrali e all’interno di spettacoli musicali rappresentati
in tutta Italia.
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Gian Piero Stefanoni, Da questo mare, Gazebo Libri, Firenze 2014
Poetica cristologica che si dipana lungo tre sezioni tra loro coerenti, se pur diversissime: L’amore che ti manca, otto poesie speculari alle Crocifissioni di Giacomo Manzù,
in occasione del reading del Laboratorio poetico di Plinio Perilli presso la Raccolta
Manzù di Ardea nel 2010, cui Stefanoni partecipò insieme ad altri autori, i cui testi, oltre
alle immagini delle performance, furono anche raccolti nel libro d’autore delle Edizioni
d’Arte Musidora; in questi otto testi l’autore rivolge la sua orazione poetica al Cristo,
trasfigurato in altre sembianze umanissime e attuali, ma non dimentica la genesi artistica
delle raffigurazioni, in un afflato d’amore che abbraccia l’arte stessa vista come dono.
La seconda sezione, 8, o della città pregando con l’angelo è un percorso simbolico, ma
anche il più profano tragitto della linea tranviaria 8, lungo ventotto stazioni di una via
crucis simbolica, di un’umanità variegata, attraverso luoghi altrettanto simbolici di una
città come Roma, tanto cara all’autore, sacra, profana e pregna di storia e di memoria.
La terza, ultima sezione Da questo mare, che dà il titolo alla raccolta, è un poemetto in
memoria della morte di un ragazzo egiziano a Licata nel mare di Sicilia. Il poemetto,
forse la parte più intensa del libro, è corredato da molte eterogenee citazioni, in una fascinosa contaminazione babelica che va dai migliori della nostra tradizione poetica,
Ungaretti, Sereni … alla dichiarazione del soldato danese condannato a morte, ai versi
del poeta tunisino, a quelli di Padre Turoldo e molto ancora, che contribuiscono a rendere
ancora più robusto e drammatico questo ulteriore cammino, altra via crucis, stavolta
della Storia, ripercorsa tra i morti caduti e gli orrori perpetrati nel mare nostrum. E con
una citazione da Eliot, con il verso finale ”E a Te giunga il mio grido,” rivisitato, da
Mercoledì delle Ceneri, il poeta si congeda : E a te giunga il suo grido / nell’eco che attende risposta”, autentico messaggio d’amore e grido civile, affinché il sacrificio del
giovane, di fronte al quale non riusciamo a pregare, resti monito e memoria.
Marzia Spinelli
Lorenzo Spurio, Neoplasie civili, Poesie, Edizioni Agemina, Firenze 2014
Acuta percezione della realtà. E un barlume di freddura lirica, sembra questa la sintesi più convincente della cifra di Lorenzo Spurio. Non era tempo per favole / e idiote
freddure, quello /. Il sole riscaldava l’erba, / l’aria e il cemento, / ma non me. Dare alla
83
I Fiori del Male
poesia lo smalto di una tensione civile, immettendo cronache di denuncia e versi di sdegno in una tensione lirica, spesso frammentata, per i mali del tempo è tradizione consolidata nella contemporanea voglia di scrittura di tanti … giornali in versi. In Polvere e
sangue, una delle sue poesie più efficaci il presente è reso con toni di espressionismo
vissuto. Quelle pietre perfette / assorbivano sangue / diventando rumori in metastasi. /
Un vecchio fumava / stanco dell’oppio / e mugugnava frasi d’odio. Questi riferimenti
testuali ci introducono così nell’ultimo libro di versi di Lorenzo Spurio, Neoplasie civili,
Poesie. Attraverso riferimenti espliciti a momenti drammatici della storia politica e sociale del nostro tempo, da Piazza Tahrir alle rivolte di Maidan in Ucraina, fino a sogghignanti riflessioni sulla politica nostrana, scorre come segnale di vita e di presa di
coscienza, sperata nella disperazione del nuovo millennio, la poesia denuncia del nostro
che cerca con una certa convinzione di rompere il bavaglio e proclamare con onestà la
cruda realtà d’oggi, come rileva nella sua lucida premessa, Ninnj Di Stefano Busà.
Paolo Cralucci
Antonio Spagnuolo Oltre lo smeriglio Kairòs edizioni, Napoli 2014
La poesia di Antonio Spagnuolo si espande con nostalgia, stupore e consapevolezza
del divenire con ammirevole maestria avvalendosi di metafore, enjabements e lessemi
che emanano suoni e visioni. Il poeta nella nota alla silloge rivela il suo disegno: “Il
poeta aspira a una rappresentazione sub/reale della vita con l’intento di sottrarsi al meccanismo della morte, di allontanarsi da thanatos per non cedere alla spirale del disfacimento, e per fare ciò si distacca dal principio della realtà e abbraccia il principio
dell’Eros, con il quale egli si addentra nel campo dell’inconscio come superamento dell’incertezza e delle defaillances indefinite del pensiero.” L’eros, principio del piacere,
hominum divomque voluptas come afferma Lucrezio nel De rerum natura, accompagna
la vita dell’uomo in qualsiasi età della sua esistenza. L’Eros dai greci viene celebrato
come desiderio irrefrenabile e perdita di controllo. In un frammento di Saffo si legge:
“Eros scuote il mio animo come il vento dei monti si abbatte sulle querce”. Nel dialogo
il Simposio di Platone, Socrate afferma che l’amore necessita di un oggetto verso cui
esprimersi e nell’esporre il suo pensiero confessa di avere appreso tutto quello che sa
da Diotima nelle lunghe discussioni su di esso. La silloge nelle due sezioni Ricomporre
e Memorie, che bene esprimono i fantasmi dell’inconscio, si snoda attraverso una navigazione interiore in cui i versi prendono forza dal silenzio della memoria: Vedo tra i
muri ancora le memorie / che infrangono betulle tra gli azzurri / una stanza più tarda /
gesto parole senza spartizioni. Una profondità vertiginosa di sentimenti, che si immettono in un verso fluido e musicalmente pacato, emerge dal ricordo dove l’io lirico e l’io
psichico trovano quell’accordo che si apre alla percezione della sofferenza della condizione dell’uomo. Unico incriminato per la debolezza / il mio inconscio contorto / una
manciata di silenzi al bergamotto / un rotocalco ingiallito / una finestra sull’autunno
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
scomposto / e a gomitate franano gli accordi. Il poeta rovista in se stesso, riprende frammenti di ricordi che affastellano immagine ad altra immagine e visione ad altra visione
e il pensiero diventa un caleidoscopio di coriandoli. Se guardo la tua foto e sussurro il
tuo nome / cosa rimane nel sogno che rinnova / l’angoscia e l’urlo delle mie illusioni?
Anche il tempo dilata follie. La poesia con il potere straordinario della parola ha il privilegio di svelare il noùs della realtà che fa svanire come una bolla di sapone ogni illusione. In questa raccolta di liriche è evidente l’idea di Rimbaud che la poesia deve dare
voce allo stato profondo dell’inconscio e il poeta compone un puzzle di ricordi e sensazioni che sono il filo conduttore del libro.
Francesco Dell’Apa
Loredana Simonetti, La mia vita, con ago e filo. Storia di Elda, Edizioni
Montag, Corridonia 2014.
“Quando si scrive delle donne, bisogna intingere la penna nell’arcobaleno e asciugare la pagina con polvere di ali di farfalle”. Con questa frase di Denis Diderot, in esergo
alla prefazione a cura di Anna Maria Calore, si apre il volume La mia vita, con ago e
filo. Storia di Elda. Si tratta di un’autobiografia raccolta da Loredana Simonetti, scrittrice
e giornalista romana, curatrice della rubrica “Un libro per amico” per il quotidiano online
“La Voce romana”. Attraverso le parole della Simonetti, acquista voce la vicenda della
sarta Elda Lombardi, morta nel maggio 2014. Si tratta di un evidente esempio di come
la microstoria possa rinsaldarsi con la macrostoria e svelarne zone d’ombra, attraverso
la narrazione di vite che non troveranno spazio tra le pagine dei poderosi tomi che descrivono i movimenti dei popoli e delle nazioni. Già l’infanzia della donna, vissuta in
epoca fascista, diviene emblematica di ciò che poteva accadere a molte famiglie italiane,
con il padre Luigi, socialista, capo disegnatore presso l’ATAC, licenziato perché rifiutatosi di assumere la tessera del partito del Duce e risoltosi a vendere frutta e verdura
presso il mercato di Piazza Vittorio. O la madre Mitrita, orfana del padre per un’oscura
vicenda presumibilmente di rivalità sul lavoro, che ci ha richiamato alla memoria, con
i dovuti distinguo, la tragedia della famiglia Pascoli. Elda cresce tra le esplosioni dei
bombardamenti e le toccherà, insieme ai suoi cari, la vita degli sfollati nei tragici anni
del secondo conflitto mondiale. Un sogno la sorreggerà nella sua esistenza, l’amore per
la creazione sartoriale, che, pur tra tante battute d’arresto, dovute anche a ragioni sociologiche (l’idea che la donna non debba dedicarsi se non al focolare domestico), la condurrà a disegnare estrosi e romantici abiti da sposa. Nel volume, corredato di fotografie,
alla vicenda della Lombardi s’intrecciano, istantanee rivenienti da un mondo trascorso,
altre storie di giovani spose e delle loro madri. Un lavoro interessante, sorretto da uno
stile fluido e mimetico, ma a tratti sognante, che, narrandoci un microcosmo, ci dona
fotogrammi di storia, tra pubblico e privato. Tra amare disillusioni e improvvise accensioni di luce.
Gianni Antonio Palumbo
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I Fiori del Male
Silvio Raffo, La pupilla della tigre, Editore Robin, Roma 2014
La pupilla della tigre, opera narrativa di Silvio Raffo, è il titolo di un agghiacciante
mistero, che appartiene al genere fantastico visionario, di cui l’autore è maestro. Avvincente ad ogni pagina si sobbalza, ma al contempo si medita sul dualismo luce tenebre e
si partecipa ad un viaggio di autocoscienza che approda con un inatteso finale alla luce
sepolta della libertà. Nel finale de la pupilla della tigre, s’intende la luce sepolta come
spazio di una segreta libertà che si palesa allo scoccare di una età legale di ragione e di
aurorale consapevolezza della vita. La protagonista Consuelo Bannister, avendo vissuto
nel tempo indefinito di una lunga notte di sofferenze, tra deliri, illusioni ed esperienze
oniriche e memoriali, trova linfa vitale proprio nella forza del segreto di una luce ritrovata, grazie al lavacro di un’acqua prodigiosa, ma a tutti caparbiamente celata. Nuovo
inquietante mistero diviene così la possibilità di vedere la morte accidentale della tutrice
Iris, cui segue un tristo processo e della dissolvenza della tigre Milagro che l’aveva sfregiata. L’iniziazione al mistero della luce di ragione si concreta nella domesticazione
della belva che la ragazza tiene al guinzaglio e cavalca, la pupilla della tigre ora è poeticamente in lei, che, oltre vede nelle macerie della notte, sì il baluginare inesausto di
una pupilla iridescente, ma parimenti s’avverte, come nel flauto magico di Mozart, l’ambiguità di una liberazione che, pare avere, nel castello delle pupille nuove catene, ambiguità che conquista questo gran tour del mistero gotico di un racconto avvincente nel
suo genere in quanto recupera la poesia della visione nel canto del sangue che conduce
a verità. Ma è la libertà che permette di sognare, ancora i colori dell’anima e della natura.
Paolo Carlucci
Vincenzo Prete, A volo di gabbiano, Manni, San Cesario Roma 2013.
Il gabbiano, presenza canonica nella letteratura italiana, diviene figura-guida nella
silloge di Vincenzo Prete, A volo di gabbiano, opera che ha già ottenuto riconoscimenti
significativi. L’autore, nato a Copertino e residente a Gallipoli, è stato professore di lettere nei Licei e dirigente fino al 2009. La silloge è sottesa da una solida preparazione
letteraria, che emerge in taluni echi lirici, come quando l’autore ripercorre i luoghi del
pirandelliano Caos, facendo propria la corrosiva critica mossa dall’agrigentino alla società delle maschere, o quando, capovolgendola, recupera l’immagine ungarettiana del
“lupo di mare”, il superstite, in “Fuori di chiave”. La letteratura diviene una sorta di specola conoscitiva che permette l’oggettivazione dell’esperienza vissuta e stempera la
piena del sentire nell’epoca dei bilanci, del “dare e avere” di cui parlava Quasimodo.
L’autore avverte con malinconia il tempo trascorso, ipostatizzato nell’immagine del
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
“fiero soldato / con la lancia in resta” di “Piazza libertà”, monumento inghiottito dallo
scorrere degli anni e dai mutamenti urbanistico-architettonici. Questo senso dolente
emerge ancora nella rievocazione del mandolino paterno, nella preghiera alla madre, nel
ricordo di amici o altre figure scomparse, come Oronzo. La sodalità e la famiglia rivestono un ruolo importante nella silloge; in tale direzione, sono da leggersi le poesie ai
figli, in cui talora il controllo stilistico e la forza delle immagini cesellano versi di sobria
bellezza, come quelli a Giovanna: “Un anello si chiude / un altro si apre / della tua vita
/ vissuta finora / col passo felpato / e silente della neve / che posa il suo manto”.Un elemento interessante è la profonda empatia tra uomo e ambiente. Uno schema ricorrente
nelle liriche di Prete è quello che muove dall’osservazione di un paesaggio o di scene
di vita campestri per poi valutarne le intime risonanze e correlarle all’esperienza dell’Io
lirico. È il caso di “Aironi”, in cui l’uccello che “osserva da terra / (...) il crescere lento
/ delle piante / e il respiro ne coglie” è, per analogia, accostato al poeta che avverte
l’amore farsi strada nell’animo. Una raccolta interessante, dunque, per l’incedere meditativo e per lo stile nobile che la caratterizza, non comune, se si considera la sciatteria
che caratterizza molta produzione poetica e narrativa contemporanea.
Gianni Antonio Palumbo
Leda Palma, Il tuo corpo elettrico, Campanotto editore, Pasian di Prato (UD) 2014
Voce che splende domande, prigioniere di libertà le inquietudini di un gatto, minima
tigre da salotto che buca il sonno del mattino …. Così Leda Palma si muove, con guizzanti immagini di freschezza poetica e di pensosa arcata tra io e natura, in quella felpata
biblioteca di lampeggianti emozioni che è il gatto nella letteratura e nell’arte. Da oggetto
di fantasie a sultano di pensieri, ecco il punto di ombra luce che interessa l’autrice, attenta
a darci, vivide e graffianti aritmie del suo cuore e della sua mente in forma di domande
e di ricordi … Ecco il giardino della notte che inquieta e scintilla nei versi di Leda Palma
ne Il tuo corpo elettrico, raffinata plaquette di versi ed arte, dedicati al gatto. Ma chi
sono io per te / che ovunque mi segui / passo passo ti esponi / parlandomi di te continuamente / un po’ di sintesi ci vuole / il coraggio di star soli. / .. Sei insicura?Strappi
carezze / stendendoti ai miei piedi / Ti senti senza amore?... (Milos) Leda Palma si muove
con provocante grazia di inquietudine tra arte e vita. La riflessione metafisica di un’ alterità dolorosa ed indecifrabile, si fa sorniona gnomica, lampo di poesia, sbocciata nel
quotidiano dialogo con occhi emblema di epifanie di storie che volano oltre il contingente, quasi nuvole le code, interrogativi di essere. Oltre la gatta Milos, ha particolare
valore simbolico il dittico dedicato a Beniamino, figura cardine di poesia e di pensiero
nel libro (…. Dalle zampe immobile fino / al balzo del mio cuore / che si sgretola / da
un ricordo al dolore / incustoditi. / come spade gli occhi gridano / nella mia bocca / mi
tolgono i passi dal cammino. / Giustiziata così / da invisibili trame. E quella notte che
apre gli occhi insieme a te gialli di luna accompagna ancora il malandrino della notte
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I Fiori del Male
nell’insonne puntualità delle ore.. chi oserà dire che sei solo corpo,… nero gatto ricordami di non morire/ questa notte che mi cerca / e m’incarna d’ansia. S’addensano echi
rilkiani ( un fantasma è ancora come un luogo / che risuona nell’urto del tuo sguardo:
ma qui, di fronte a questo manto nero / la forza dei tuoi occhi si dissolve) che danno
forza al pensiero poetico dell’autrice che implorandolo di entrare -entra t’imploro la
porta è aperta- crea un tessuto di immagini, dense e sublimi di pensiero che illumina
cieli di poesia.Versi di forte impatto son dedicati ad altri emblemi felini come Ipazia,
Haiku, dalle chiare evocazioni orientali, Clotilde, cui non ha fatto bene la nidiata ed è,
deterministicamente, madre e matrigna per i cuccioli e via, via altri intelligenti interlocutori felini popolano il retablo di domande, in cui Leda Palma intesse il suo vento di
versi,tracce di nostalgie più alte che disancorano dalla mera soggettività per dire l’indecifrabile vita che spira nei begli occhi mischiati d’agata e metallo.
Paolo Carlucci
Enzo Megali e Giacomo Megali, Travaglio di anime, Falzea Editore, Reggio Calabria 2012
Queste poesie dei fratelli Megali, Enzo e Giacomo, conducono in un unico alveo e nella
stessa tabella di marcia, sia i testi dell’uno che dell’altro poeta si fondono e si competrano.
L’impressione prima che abbiamo avuta, sorretta fino a fine lettura, è che i poeti Megali si
siano fusi all’unisono nella temporalità delle loro esistenze. Detto ciò, senza nessuna pretesa,
lo dice Enzo Megali prima di dare alle stampe le poesie, “noi abbiamo esaudito un antico
desiderio”. Insomma l’uscita del libro, curato elegantemente dall’editore reggino Falzea,
lascia una “traccia” di poesia che raccoglie le ansie, i “perché” dell’esistenza nella riflessione
della loro ispirazione cristiana. La semplicità del verso, scabro di ricordi, di vita, di illusioni
rappresenta il canovaccio di un tessitore d’anima. Flussi di reminiscenze tutti defluenti come
le illusioni. I Megali in queste poesie, dell’Opera e i giorni, (possiamo dire) dove si insiste
e s’indugia fra gli affanni e le ambiguità di una vita che corre “verso un domani che non
sarà”. Freschezza, pianto assorbito e illusioni si muovano in lunghezza d’onda dentro l’impulso dei sentimenti per quel che sarà o non sarà il domani. Non c’è spettacolarizzazione,
urlo o spinta a voler cambiare il mondo, anzi, emerge una ricerca di sicuro rifugio impetrata
nelle mani del Padre, porto sicuro, l’Itaca sperata. Poesie di immagini, luoghi, di memorie,
di soliloqui, dove tutto rimane inviolato, scortato dall’anima che trova Dio nelle pieghe del
cuore; palpiti di vita semplice, lineare di un mondo disincantato, la medaglia aurea che contraddistingue i fratelli Megali. Il verso è duttile, semplificato, le aggettivazioni non forzano
le metafore ne vanno alla ricerca metodologica. I segni dei tempi, le avanguardie, poi, sono
frutto di distorsioni, ferri arrugginiti spezzati via dal canto lirico, dopo la crisi lirica e stabilizzazione del parlato medio-basso. Possiamo annoverare i Megali agli antichi cantori
del Sud che si esprimevano in una lingua franca, stringata, di estrema plasticità lungo lo
spazio temporale della natura interiore. Travaglio di anime è un canto sillabato sorretto dalle
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
catene del DNA in una longevità espressiva idonea a comunicare fermenti, emozioni folgoranti della terra calabra.
Antonio Coppola
Le sequenze equinoziali deI LUOGHI NELLA POESIA
DI MASSIMO PACETTI
Massimo Pacetti scioglie gli enigmi di quello che vede, prepara aurore e ricordi nello
sconfinato teatro della vita; si rinvengono nella sua poesia gli scatti ansiosi, il confine
tra la terra dei vivi, il suo lungimirante sguardo nelle cose, fotografa quello che non
riesce a riprendere con la sua Laica egli lo traduce nei fotogrammi dell’anima, nelle sequenze equinoziali della terra. Pacetti respinge le illusione e non si scalmana per un
niente se l’esistenza vissuta ha trovato lunga la strada peccati, fatica e dolore. Sentiamo
nelle sue liriche un travaglio dell’uomo politico ed eracliteo nella trasparenza delle parole
sane che sono come una gelata, rimangono immobili simulacri di luoghi, non fine a se
stessi ma contaminati dall’alterità della storia. Pacetti in La terra di tutti si trova in un
bivio dal mondo dell’infanzia, ora riemerso da adulto, al mondo di un nuovo inizio, e
basterebbe solo questo a farle sentire erede di un amore sospirato ma che ha l’effetto
del confine degli anni, ha l’effetto di non perdersi una seconda volta nel miraggio di una
utopia più che di un sogno avverato. Pacetti oggi rappresenta una rapida di fiume che
vuole fermarlo nel suo scorrere, insomma si finge re per essere se stesso e non s’importa
che vola via e si disperde nel nulla come gli altri.
Antonio Coppola
Fausta Genziana Le Piane -Ostaggio della vallata
In questa nuova silloge Ostaggio della vallata, titolo preso da una delle poesie del
testo, Fausta Genziana Le Piane ci offre il sequel di una lirica tramata di pensiero filosofico e letterario, di forte sensibilità umana e di introspezione psicologica. La poesia
recita: Prima ostaggio della vallata / il vento si libera / poi, / e, / trasportando con sé /
frantumi di sere d’estate, / accarezza il verde seno / delle colline./ Avanza infine verso
una notte d’amore. I versi hanno un rutilante incalzare d’immagini, dove il fenomeno
atmosferico diventa suggestivo teso a rendere incorporeo il dato visivo fino a tradurlo
in una musicalità squisita. Il verso finale è una vertigine di sensazioni degno del Cantico
dei cantici. Nel percorrere l’iter poetico della raccolta balza in primo piano una rete
assai densa di temi, di figure e contenuti che conducono in quell’intimo fondale in cui
l’io elabora immagini ed esterna il suo mondo. La poesia diventa sorgente purissima da
cui attingere: Aggiungi parole / sole / al pozzo della poesia, / graffia / sillabe / lettere /
acqua / al secchio / che vecchio non è / che sale / scende / pende / e poi riprende / spennella versi / su fogli sparsi / e scrive la vita. (Il pozzo). Il linguaggio di timbro alto de-
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I Fiori del Male
clina verso una scelta lessicale trisillaba e bisillaba che da una forte impronta di preziosa
forza espressiva al componimento. La sintesi lirica caratterizza molte poesie quasi epigrafie, guizzi improvvisi della mente, in cui si insinua una inquieta riflessione sulle anomalie dello spirito e della quotidiana realtà e la parola si fa testimonianza acuta e
malinconica: Senza più incanti / senza più ombre / La vita in pieno giorno. (Nudità). In
un’altra poesia emerge il profondo senso di solitudine che nel silenzio, amo il silenzio,io
scrive, diventa percezione della sofferenza di un io che si ribella: In questo silenzio / la
mia solitudine /è uno sparo nella mente.(Stanza vuota). Tema che viene ripreso con disegno morbido di tono nella lirica “Solitudine”. Solitudine / incatenata alle scarpe /
ogni battito del giorno / scivoli la sera /in morbide pantofole / e ti addormenti / sotto il
letto. La poetessa con originalità segue un livello di scelta lessicale in stretta liaison con
il flusso naturale del suo stato d’animo e ne consegue una profondità vertiginosa di pensiero, maturo e forte. Poesia, la sua, che offre una continua ripresa d’immagini che trova
una armoniosa mescolanza di antico e moderno, da qui il mito presente in alcune liriche:
Pan s’addormenta / con i piedi incrociati / sulla buccia d’un pomodoro / appena annaffiato; Ermes / messaggero di notturni / sguardi luminosi; Artemide...libera / per foreste
e rovi. In questo rifarsi alla classicità la poetessa ritrova una consapevole energia lirica
che demitizza l’aurea mitica di questi personaggi e li umanizza come esseri che vivono
nel reale. Mito è pure riandare al tempo dell’infanzia e della giovinezza come tempo felice. Una annotazione poetica di questa plaquette merita la lirica Il Girasole: Scuro in
volto / la chioma sciupata dal sole / ma è il tuo destino / guarda in basso / il girasole. Avvilito / che la sua stagione sia passata / è attratto dalla terra / nel suo ultimo girare. / Né
gli fa compagnia la brigata / in esercito serrato / senza più parole / né fulgore. Sebbene
il girasole sia stato celebrato nella musica, nella letteratura ( Montale), nella pittura ( Gustav Klimt) nondimeno la liricità del testo suscita con il suo simbolismo il senso del fluire
eracliteo, cioè di un “panta rei”, che attraversa la storia dell’uomo e delle cose. Fausta
Genziana Le Piane come fa l’artista incide la materia pietra su pietra e compone un canto
pimpleo dove sentimento e pensiero illuminano il mondo interiore e squadernano un universo di contenuti. La ricerca lirica è alimentata da uno spirito sensibile amante del bello
e da una mente feconda disposta ad analizzare la realtà sotto ogni aspetto. Ne consegue
che la poesia diventa l’habitat dove può esprimere il suo io: La mia Poesia / mi piace /
portarla / con me / ovunque. Nascosta. / Partecipo alle cose / in modo diverso. Versi che
rivelano in modo mirabile l’essenza e la purezza del suo poetare.
Francesco Dell’Apa
Giovanni Lacava – Rapsodia ( a cura di Valeria Serofilli) puntoacapo Editrice, Pasturama (Al) 2014
Giovanni Lacava nasce a Grottaglie in provincia di Taranto nel 1984 e attualmente
risiede a Pisa dove lavora come ingegnere. Rapsodia è una raccolta di poesie composta
da ottantaquattro componimenti numerati che presentano estensioni diverse. Ogni seg-
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
mento del testo può essere letto come un frammento o una tessera musiva di un insieme
più vasto, che assume senso nella sua globalità, anche se ogni singola poesia è in se
stessa compiuta e autonoma. Per quanto suddetto il libro potrebbe essere inteso come
un poemetto per la sua unitarietà e la sua coesione interna. Come scrive Valeria Serofilli,
nella prefazione ricca di acribia, Rapsodia va letto come una riflessione globale sugli
incontri e gli eventi della vita, momenti incontrati lungo il cammino e raccolti, annotati,
con cura. Come ciottoli lungo un fiume che scorre, un alveo che li raccoglie e li modifica.
Cifra essenziale del testo è quella di una forma icastica del versificare, precisa e leggera,
elegante e dall’andamento misurato, vagamente neolirica, veloce e nitida. L’io poetante
è molto autocentrato e descrive situazioni che toccano ogni ambito esistenziale, a partire
dalle sensazioni fisiche (come quando dice di avere bisogno di sentire il gelo), per poi
giungere a parlare di città o a riflettere in versi sull’esistere e sul suo senso. A volte le
poesie riportano il luogo nel quale sono state scritte, che diviene tout-court occasione
per il dipanarsi delle immagini, come nella quarta poesia ambientata a Piazza dei Miracoli a Pisa un venticinque aprile, giorno della Liberazione. È presente, nel linguaggio
usato da Lacava, una forte densità metaforica e sinestesica e la dizione è chiara, pacata
e controllata anche quando vengono affrontati il dolore e l’ansia dell’esistere e la voce
si fa gemito mentre raccoglie lacrime. La poetica dell’autore è veramente originale e
sembra di leggere un diario di bordo di un’anima che è in continua ricerca di approdi,
di appigli, di parole per salvarsi dal mare magnum del quotidiano. È presente un tu, del
quale ogni riferimento resta taciuto, al quale l’io poetante si rivolge in maniera forte e
accorata Si può considerare il libro paragonabile ad una partitura musicale, ad una rapsodia, appunto, come dal titolo, con tante variazioni sullo stesso tema. A volte, in controtendenza al tono generale, si aprono squarci idilliaci attraverso descrizioni che
raffigurano bellezze naturalistiche. Un esercizio di conoscenza Rapsodia, un tipo di
scrittura praticata dall’autore per trovare in uno specchio virtuale la propria identità più
profonda a prescindere dalle contingenze e le apparenze.
Raffaele Piazza
Gianni Antonio Palumbo, Il segreto di Chelidonia, Secop edizioni, Corato
2014.
L’affermazione secondo cui “la forza del desiderio può valicare i limiti di ciò che è
consentito all’uomo” costituisce uno dei motivi conduttori del bel libro “I segreti di Chelidonia”, opera del giovane Gianni Antonio Palumbo, pubblicata per i tipi della Secop,
con in copertina i suggestivi “Gemelli” di Marisa Carabellese e un’accurata prefazione
della scrittrice Angela De Leo. L’autore ha al suo attivo tre romanzi, la raccolta di poesie
“Non alla luna, non al vento di marzo” e numerosi testi teatrali. È studioso di letteratura
del Rinascimento e della letteratura pugliese contemporanea. “Il segreto di Chelidonia”
è una raccolta di diciassette novelle. Nel romanzo breve che dà il titolo all’opera, il giovane Michelangelo Poli, docente precario, parte, seguendo le indicazioni della “Magia
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I Fiori del Male
naturale” di Giovan Battista della Porta, in cerca del caradrio, mitico uccello che potrebbe guarire sua figlia Eleonora da una grave forma di anemia. Il percorso, che lo conduce da Parigi a Subiaco, si tinge di giallo: numerosi personaggi cercheranno di
ostacolare la ricerca del protagonista, desiderosi di impossessarsi del caradrio. In una
girandola di avventure, il racconto si snoda sino alla sorprendente conclusione. Tutte affascinanti le altre novelle. “L’ospite dell’alba” ci catapulta nell’antica Roma, in cui Gaio
Fabio Ambusto, con l’aiuto degli spiriti dell’Ade e di un ambiguo liberto, cerca di scoprire se realmente si è macchiato di un delitto più volte sognato. In “Hotel Perseo” protagonista è una Firenze allucinata, immersa tra le memorie artistiche e la poesia di
Michelangelo, in un’avventura ai confini dell’horror. “La sposa del tiglio” è una prosa
lirica, in cui più forte della distruzione operata dall’Alzheimer è la memoria di un amore
immenso. La vita quotidiana di Molfetta, venata di magia, rivive nel “Sogno”, dove la
scena è dominata da tre figure di comari alle prese con il preoccupante messaggio notturno di una prozia defunta. V’è spazio anche per la meditazione sulla letteratura, con
le novelle che hanno per protagoniste le sfortunata scrittrice Isabella Morra e la bella,
ariostesca, Angelica, e sulla storia sacra, con Barabba, Adamo e un vecchio sacerdote
alle prese con una tremenda crisi di fede, alla vigilia della sua “Ultima messa”. Un libro
che colpisce per lo stile elegante e per la capacità di avvincere il lettore, lasciandolo
senza respiro sino all’ultima pagina.
Vincenza Gadaleta
Tina Emiliani, Incontri ed altre poesie, Edizioni Progetto Cultura, Roma 2014
Tina Emiliani evidenzia, nella sua scrittura poetica, una tenacia del ricordare le stagioni
della vita e dell’anima. Recupera, nei suoi incontri, nuvole di affetti e di storia. Madia
di memorie che guarda al futuro, ella esprime, talora con disarmante ingenuità, il colore
delle proprie emozioni; così ad esempio il topos della primavera diviene barlume di storia familiare. Da lontano / dall’antico sapore di terra / impresso nelle mani di mia nonna
/ - profumo di vita che inebria- / riaffiora stamane / il gusto di andare.. Barlumi di sana
energia.. È Primavera. Così i colori dei fiori danno ai suoi vagabondaggi l’epifania di
uno stato di essere inesausto, sazia mai di vita e di amore. Siamo partiti dalla silloge “A
piedi nudi - poesie di strada e di cortile”-, in quanto in esse si colgono i prodromi naturali, i paesaggi che preludono appunto a quegli incontri nelle stanze della vita, che mostrano il cammino dell’autrice verso una più consapevole alchimia dei ricordi familiari,
intrisi anche da laceranti sensi di colpa, specie nei confronti della madre. Non è un caso
che la poesia “La colpa non ho espiato” apra la raccolta e segua poi la sua dichiarazione
di genesi poetica, nata anche dal conflitto con la madre di carne, rievocata in sogno come
una donna giovane e forte a cui la figlia, con la testa piena di farfalle, che nella vita ha
coltivato sogni che quando s’infrangono diventano dolore, ha sì inflitto pene di incomprensione, ora pacificate in mani calde solo d’amore. Intenso anche il ricordo del padre
di cui si ricorda la sete di avventura e il viso che risplende di gioia. Altre poesie sono
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
dedicate ai nonni, come ad altri membri della famiglia, cui dà voce lirica e insieme offre
dialoghi della storia del cuore nella temperie del tempus edax. In tal senso, specie alle
nuove generazioni di nipoti, Tina Emiliani offre, con la silloge “Un’ottava sotto soprapoesie di sguardi intorno-“, un appello a rinascere là dove la città e il mondo attuale
mostrano scintille di benessere, di opulenza, là , direbbe Saba, dove più turpe è la via.
Lo provano ampiamente testi come Festival, Schiuma, Effimero e soprattutto La limousine bianca, che attestano la poetica di una descrizione a volte assai cruda, ma realistica,
di un inferno da paradiso addobbato in cui lo squallore avvampa la notte.
Paolo Carlucci
Elisabetta Villaggio- Una vita bizzarra- Città del Sole edizioni- Reggio Calabria 2014
Con Una vita bizzarra, opera prima di Elisabetta Villaggio, siamo di fronte a un romanzo, che con l’occhio dell’anima e della mente, in una stretta liaison di sentimento e
ragione, fa un ritratto a tutto tondo della storia recente del nostro paese in cui il personale
e il pubblico si intersecano e si sovrappongono nella narrazione. La protagonista Rosa
Furlan è il file rouge, intorno a cui ruotano gli avvenimenti, e la voce narrante dolce,
malinconica, salvifica. La capacità della scrittrice sta nell’avere saputo creare un puzzle
di personaggi, tenuti insieme da un denominatore comune, e nell’indagare l’animo
umano nel momento in cui tutti gli schemi si capovolgono. Il mondo di Rosa nei primi
anni della sua esistenza è quello deamicisiano : la famiglia, le tradizioni e l’amore per
la propria terra. La vita scorre senza sussulti o novità in uno scenario naturale e sereno.
Questo quadro idilliaco muta completamente quando la famiglia si trasferisce a Roma
e si trova a vivere in un ambiente diverso che sconvolge la loro vita. Rosa è l’unica della
famiglia che riesce veramente a inserirsi in un mondo dorato e ad accettarlo fino alle
estreme e tristi conseguenze. Rosa è la figura archetipica di quei giovani che sono artefici
consapevoli del cambiamento dei nostri costumi ancestrali e ciò si manifesta nel comportamento libero, sincero, senza sovrastrutture legate a tradizioni fuori del tempo. In
questo contesto di metamorfosi l’autrice rappresenta e descrive ambienti borghesi che
qualcuno può stigmatizzare ma comunque importanti a capire alcune situazioni.Il percorso narrativo di questo libro scandisce cronologicamente l’evolversi della vita della
protagonista in cui avvenimenti lieti e tragici si susseguono in un climax di forte emozione dove emergono interrogativi e umori. I personaggi sono ben delineati nel loro carattere con compostezza di toni e rigore di rappresentazione negli aspetti della
quotidianità con una forte aderenza al reale inanellando sogni, rabbia, delusione. Ne deriva una pletora di figure, di situazioni, di contenuti che mostrano l’intensità di questo
romanzo. Il quadro che risulta alla fine è veramente desolante e tragico in quanto avviene
un sovvertimento esistenziale e quasi tutti i personaggi cari alla protagonista Rosa si
perdono miseramente. Tutto il racconto manifesta un antitetico prima e dopo nella loro
esistenza con cui la scrittrice con somma perizia conduce il lettore e lo porta a scoprire
che il reale cancella ogni parvenza di pseudo felicità. In questo cupio dissolvi nel quale
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I Fiori del Male
sembrano precipitare tutti gli attori del romanzo solo l’amicizia e l’eros sono i sentimenti
che li purificano da una esistenza naufraga. Il romanzo di Elisabetta Villaggio è complesso e articolato sia per il numero di personaggi sia per l’intreccio delle vicende e dei
luoghi. L’autrice è riuscita a scandagliare l’animo di ogni personaggio e ne ha messo in
evidenza qualità e difetti mostrando di possedere molti registri nel cogliere la loro umana
fragilità. Il linguaggio misurato e moderno rende inoltre il percorso narrativo e diaristico
del libro interessante e imprevedibile per chi si accinge alla lettura.
Francesco Dell’Apa
Stefano De Minico I luoghi del cuore Editrice (E.S.S), Roma 2014
La silloge poetica di Stefano De Minico “I luoghi del cuore” reca in esergo una citazione di Luciano De Crescenzo: “Noi siamo angeli con un’ala soltanto. Possiamo volare solo restando abbracciati”. Già il titolo della raccolta e queste parole introducono
all’angolazione sia introspettiva sia tangibile che permea i versi dell’Autore di molteplici
traiettorie esistenziali e di problematica contemporaneità. Le tre significative sezioni
poematiche in cui è suddivisa l’opera, “occàsi”, “retti toni d’amore” e “a Ketty”, si dipanano esplorando aspetti meditativi e socio-culturali attraverso efficaci immagini linguistiche. Con l’intenso moto d’anima di un “vorrei”, che si fa lucida esigenza di un
“canto di speranza, leggiadro e spensierato / portatore di un ordine nuovo”, De Minico
intraprende un itinerario cosparso di “destini inceppati […] perché la strada è ancora
tanta e lunga e dura e / intralciata da ostacoli di ogni sorta”. Egli struttura un dialogo lirico in cui ogni componimento trae energia da intimi spazi, quei “luoghi del cuore” che
inviano spinte emotive dense di aneliti e interrogativi sospesi tra “succursali d’ombra”
o un “punto di domanda”, tra “poesia smarrita” o “poesia ritrovata”, nel desiderio di farcela, di provare comunque a “sperare in un mondo migliore”.I luoghi sono anche unicità,
nonsenso, iperuranio, “polifonia enigmatica / desideri di vita” che “si scontrano / si incrociano con quelli di morte”, oppure trasportano non si sa dove in “un volo di Pindaro
tra le nuvole vuote / del nostro cosmico guaire”.Una sensibile analisi del difficile rapporto tra “questo obliquo, storto, compromesso / vivere” e il “credere nell’amore / senza
tentennare” accomunano il testo e il contesto, il passato e l’attualità, l’io e l’altro da sé,
in un originale realismo poetico in bilico tra un cerchio che si chiude e “nuove genesi /
dentro le parole” non dette. Tuttavia le diverse modulazioni ispiratrici “dell’Essere qui
e ora”, di fronte all’“incedere sulla pietra” nel ciclo dell’umano destino che tutti condividiamo, sono capaci di sublimare i riverberi destabilizzanti “di ignoti e oscuri presagi”.
Un leggiadro canto di speranza, “portatore di un ordine nuovo, quasi una catartica preghiera, si eleva al di là di tutto sui terreni confini: “Liberaci, o cielo immenso, / dalla disperazione, / legaci alle cose che contano”.
Daniela Quieti
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Due corpi in un’anima
De Minico cerca le parole e li folgora, li torce al suo volere per volontà sua forte. Tutto
parte da una ricerca nel saper trattenere un discorso con un interlocutore vero o immaginario senza lasciare frasi a metà; ama la spontaneità della parola che fissa nella mente,
cerca quel dolore taciuto e lo fa esplodere, lo corrompe nella cognizione del reale. De
Minico ha la memoria a fior di pelle, appare pudicamente concentrato anche nelle cose
minute, un compleanno, una bambino che fa merenda, un gesto della mano. La poesia
si trova nel gesto, va a mosse, tutto sorprende e regala momenti lieti ai parlanti, allo
spettacolo di parole che inscena; certo De Minico sa fare anche il giocatore scanzonato,
fa poesia giocando, e riesce ad incastonare nel suo dossier vere perle di immagini pur,
a volte, chinandosi alla sofferenza dentro il deserto di un sorriso. Poesia di esaltazione
per la donna che sente sua come seconda anima, due corpi in un’anima, e pochi poeti
sanno dare spessore ed energia come in questi versi:“Davanti al tuo tempio / mi inginocchio, o amata / immortale porta per il Paradiso”.
Antonio Coppola
Antonio Allegrini, Pastori della Maiella, Gruppo dei Solstizi e degli Equinozi, Castelfrentano, (CH) 2014
Leggendo questo libro di Antonio Allegrini mi viene da ricordare quel libro favoloso
del Dott. Petrus (al secolo Pietro Favari) un libro per la famiglia (1928) che curava di
tutto: idropsie, diarree, spine calcaneare, ecc ora Allegrini dopo gli exlploit in poesia ci
allieta con un divertente dossier acquisito da reminescenze dei segreti e ricordi dei pastori
della Maiella. Allegrini riferisce che si tratta di “un piccolo estratto di una mole enorme
di materiale”. Spulciando qua e là questo libricino è pieno fino al collo di rimedi e panacee magici, di storie tramandate da padre in figli di tutto questo oggi resta poco, buona
parte si è dissolto. Allegrini l’ha editato per infortire la tradizione risvegliando misteriose
formule di riti apotropaici. In parte crede, altrimenti non avrebbe stampato questo simpatico lavoro, nudo e crudo di quello che può pensare, lui sa quanto meteorologia entra
e quanto ne scappa. Sa che contro la “pleurite” ci vuole il cortisone o gli antibiotici e a
nulla tiene la formula in un bicchiere: “Dis, Dis, On, Dabulh, Cherich”. Per fare uscire
una spina dalla gola, devi subito correre dall’otorino. Vi confesso che in prima lettura
sono stato suggestionato da ”preghiere esorcistiche” di formule antiche di pastori e di
contadini; Allegrini ha il merito di aver selezionato e aggredito con garbo e antica sapienza un armamentario di voci segrete dell’anima, un vissuto naturalistico cui gli antichi
credevano e ancora oggi in qualche plaga resiste un senso magico innato che è dentro la
natura. I pastori sono coloro che meglio parlano con la natura; Meterologia, arcaismo,
soggezione, sono sicuramente la cassa di risonanza di questo libro così concepito nei richiami e la facoltà sovrannaturale degli spiriti maligni.
Antonio Coppola
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I Fiori del Male
Domenico Cara, Ciò che si scorge nella diversa macchia, Commisso editore, Roma 2014
Domenico Cara è autore di lungo corso. Da sempre è attento a percepire musicalmente gli umori e gli animi di un’epoca, preferisce contemplare il proprio sogno più che
rivelarsi: il rischio consiste per lui nell’auscultare nostalgico delle voci di dentro che
hanno attraversato gran parte del Novecento, non solo italiano, da Pavese a Pessoa e
Paz. Sembra che Cara nella sua ampia produzione letteraria possieda un certo dono del
turbamento, e di tale dono offre prova anche nell’ultimo suo volume di versi, intrigante
sin dal titolo, Ciò che si scorge nella diversa macchia, cui è posto il sottotitolo Espiazioni, relitti lignei passioni, obliqui umori. Il testo bilingue si presenta nella doppia versione in italiano e spagnolo. Come fili di pioggia le parole … Estenuazioni discontinue
offre in apertura di silloge con suggestioni di timbro impressionistico e musicalmente
armoniose, con un tocco finale di dissonanza di pensiero. Sul davanzale dell’alba, la
colomba tremula osserva / il fondo della strada, sovrastato da leste disattenzioni. Meritano interesse tra le varie sezioni Sismi e soprattutto in un passaggio d’echi, ove un’ampia riflessione sulla natura offre raffinati squarci di evocazione lirica. Attento al fluire
del tempo e alle sue fasi epocali, di confine, il poeta conclude il suo volume con un’ultima sezione, il fiuto della storia, I desideri. Un testo Il Muro di Berlino e Il confine, paiono le prove più intense di un libro complesso e ricco di atmosfere colte dalla parte
interna di una finestra che, dall’ombra permette una singolare percezione di memorie e
realtà.
Paolo Carlucci
Antonio Crecchia: Vincenzo Rossi, Un talento creativo al servizio della cultura
Ediemme, Salerno 2014
Questo prezioso ed esauriente saggio monografico sulla figura e l’opera di Vincenzo
Rossi, che segue al primo del 2006 La folle ispirazione- Coscienza etica e fondamenti
estetici nelle opere letterarie di Vincenzo Rossi, rivela un intellettuale appartato, amante
della natura e del sapere, cultore degli autori classici e moderni, fornito di notevole cultura e di forte passione fin dalla adolescenza a “disordinate letture”che rappresentarono
un primo viatico formativo a quello che sarebbe stato un intenso e operoso percorso di
scrittura. Il saggio si dipana in tre sezioni in cui Crecchia, amico e attento esegeta di
Vincenzo Rossi, percorre con rigore la parabola esistenziale e la vasta produzione letteraria delineando un ritratto completo di lui come “testimone vivo e attivo di tutte le temperie sociali, politiche, culturali e letterarie di buona parte del Novecento.” La prima,
che occupa la parte più ponderosa del saggio, ha il grande merito attraverso una esposizione piana e corposa di presentare al lettore il poeta, lo scrittore, il critico, l’amante
della storia e della filosofia facendo emergere con chiarezza la tempra morale di uomo
e di studioso. Il critico di fronte alla complessità delle opere, pur provando ammirazione
e senso di sbalordimento, ha evitato di cadere nel barocchismo, cosa che poteva verifi-
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carsi stante la sincera empatia, e non si è fatto sommergere dalla poliedricità dell’autore
e dai diversi interessi nei campi del sapere. Nella seconda viene messo in luce l’amore
di Rossi per la filosofia, considerata “un corollario della sua formazione culturale”, e il
suo status di filosofo “per due ragioni essenziali: per essere stato un appassionato cultore
della storia della filosofia e un amante della sapienza.” Nella terza con gli Atti Commemorativi si chiude il cerchio dell’esistenza del Nostro con la sua dipartita e il dolore
degli amici estimatori dell’opera letteraria. Il convegno di studi tenuto dopo pochi mesi,
il 17 maggio 2014, esalta la figura geniale di Vincenzo Rossi e traccia le linee essenziali
del suo corpus magnum di scritti. “Le opere di Antonio Crecchia, scrive Emerico Giachery, autore di oltre cinquanta volumi che comprendono poesie, racconti, drammi, ricerca storica e saggi monografici, tutte opere bene accolte dalla critica militante e
universitaria, nel dare alle stampe questo secondo saggio sul grande Amico e grande
Scrittore, Poeta e Saggista molisano si propone di portare a maggiore altezza quel Monumento Imperituro che gli aveva edificato con il saggio monografico La folle ispirazione. Coscienza etica e fondamenti estetici nelle opere letterarie di Vincenzo Rossi.”
Giudizio da condividere perché il nuovo saggio, ben strutturato e ricco di notizie ed osservazioni, offre la possibilità agli studiosi, ai lettori e agli amici di conoscere e approfondire l’opera enciclopedica di Vincenzo Rossi.
Francesco Dell’Apa
Silvana Baroni, Il doppiere e lo specchio, Editrice la Mandragora, Imola 2014
Sappiamo della velocità della luce, e quella dell’ombra? Come ogni vero artista Silvana
Baroni cerca di scardinare l’oro beatifico dell’ovvio e … nell’ade della mente, l’inconscio, cerca spine di curiosità, non risposte, sic, il buio come il Libro rosso di Jung, diviene
per lei Bibbia di verità interrogative, nelle quali le arti si intrecciano scaturigini del pensiero selvaggio dell’uomo. lo stile nasce dalla originalità delle proprie imperfezioni. È
l’aforisma di chiusura del suo ultimo lavoro letterario,Il doppiere e lo specchio, prefato
da Antonio Castronuovo, aforista illustre, che della Baroni scandaglia l’originale creatività sin estetica e la giocosa intelligenza. Sempre nella sua poetica la sua scrittura provoca ed induce nel lettore- osservatore dei suoi versi o dei suoi aforismi visivi, domande
capitali offerte però con leggerezza aprendo porte alla curiosità, magma di vitalità concreta. Questa d’altronde è la cifra della Baroni, sciogliendo l’aforisma lungo le linee del
disegno congiunto, l’autrice dà prova di una sudata meraviglia che si rivela nel doppio
codice grafico-verbale in musicale aritmia novecentesca. La bicromia sin estetica si fa
appunto doppiere e lo specchio di un sogno di .. ragione, fulminante nella siepe di scritture, spesso deboli, liquide, proprio nella loro presunta metafisica o nella loro omologata
prosaicità, cronache di un montante disastro di fine/ inizio millennio. È sempre un sano
prender rischi, invece l’arma della sinestesia e del concerto delle arti, opportunità di un
nuovo problematico rinascimento … In questo senso l’ aforisma è sentito dalla Baroni
come l’unica verità possibile la sincerità del momento o in un altro sempre giocando ar-
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I Fiori del Male
gutamente sulla antinomia si avverte Ama il chiasso chi è sordo al silenzio, questi ed
altri passaggi segnalano in simbiosi col loro nervoso tratto grafico, i ... minima moralia
di chi riverbera sublimi risate del dubbio su pontefici di parole che vanno pompose catene segniche, quasi quadri di un’esposizione di verità rivelate, da chi poi? Ahimè senza
il marziale timbro musicale di un Mussorgsky. Restano invece nella neve della carta i
violini di un’arguzia autentica, l’emozione di una ricerca come sempre nella produzione
copiosa ed eclettica della Baroni, tesa a cercare appunto le misure di quella velocità
dell’ombra di quel nero tratto che dà, montaliana, la grazia di spine della parola forbice..
Paolo Carlucci
Antonio Allegrini, Poesie da un modesto abisso, Edizioni Orient-Express,
Castelfrentano, (CH) 2008
Ho preso e ripreso in mano questo libro, attratta e allontanata in un’altalena di ambivalenti emozioni. Leggendolo e rileggendolo, riflettevo se io, come donna non avvezza
al turpiloquio, avrei trovato il tono adatto a scriverne senza snaturarne lo spirito, per trasmetterne il messaggio nella sua crudezza e spontaneità. Infatti l’abisso, nella sua duplice
essenza di incantamento e di pericolosità, spinge i temerari ad inoltrarvisi e i timorosi
ad allontanarsene. Io ho scelto la prima opzione, sperando di non far torto all’Autore
anche rassicurata circa la … scarsa profondità dell’abisso. Infatti l’aggettivo modesto
del titolo, con la sua ossimorica valenza, vuole forse alleggerire l’argomento del libro e
avvertire il lettore che l’Autore è risalito dall’abisso compiendo una parabola catartica
che lo ha condotto a rivisitare con mestizia, mista però ad una sorta di istrionico compiacimento, i luoghi della sua giovanile sregolatezza, i cessi, appunto, che egli ha avuto
il coraggio di narrare e di sublimare in poesia. Siamo tra gli anni ’60 e ’70 in piena rivoluzione sessuale, con l’allargamento degli orizzonti geografici e con l’apertura alla
scuola di massa, che ha visto frotte di giovani mettersi “on the road”, con pochi soldi in
tasca alla scoperta del mondo. La motorizzazione diffusa facilitava i loro spostamenti
in autostop, consentendo anche ai meno danarosi di raggiungere mete lontane; il viaggio,
che prima era privilegio di pochi, diventa così un’occasione accessibile a molti. L’Autore
deve essere stato uno di questi giovani, che da un paese dell’Abruzzo ha viaggiato fino
a Berlino, Copenhagen, Amburgo, Parigi, ma di queste città non ci racconta le bellezze
artistiche, né le impressioni di viaggio, bensì le sue sfrenate esperienze sessuali vissute
nei luoghi normalmente destinati ai bisogni corporali. Ed è proprio in dodici cessi, diventati quasi tappe esistenziali, che nascono le storie narrate, quelli maleodoranti delle
stazioni, quelli più puliti di locali notturni e ristoranti, e quelli fatti da un capanno fuori
casa. Sembra che il desiderio sessuale, nell’Autore come nei partner occasionali, sorga
proprio nei luoghi deputati ad altri bisogni; forse la duplice funzione degli organi sessuali, manipolati necessariamente nell’urinare, ne richiama anche l’altra funzione. Scrive
infatti l’Autore: Le alcove per me furono i cessi / scavati in anfratti misteriosi / nelle
città mortuarie. Pochi hanno avuto come lui l’audacia, l’acume e la curiosità di racco-
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
gliere i messaggi che certe facce insaziabilmente bramose di piacere trasmettono; proprio
nei momenti in cui il comune senso del pudore farebbe camminare i più a testa bassa
uscendo dalla toilette, altri invece ostentano fulminei sguardi ammiccando al luogo dove
si potrebbe consumare una frettolosa copula, o farsi consolare per una coniugale solitudine. Ad esempio, nel nono cesso di un autogrill, l’Autore incontra una ragazza strabiliante / nell’aria addormentata del mattino … Lei sorrise ancora / ed entrò nel cesso
delle femminucce / lasciando la porta aperta (…) Mi accolse ospitale / come in un salotto
(…) era sposata ad un coglione di Italiano / manesco e disgraziato (…) incominciò a
piangere / la presi tra le braccia / e la consolai un poco. C’è però da sottolineare che
l’autore asseconda, piuttosto che incoraggiare l’iniziativa delle donne; ci sono quelle
inibite che cercano di vincere con un rapporto occasionale le proprie inibizioni sessuali
(dopo il quale gli dicono pure“grazie”) e quelle prigioniere di un matrimonio di interesse,
come la donna russa sposata ad un Italiano ottantenne. Quindi non c’è mai aggressività,
né violenza in questo sesso sfrenato che conduce sia al paradiso dei sensi (e ora capisco
che il paradiso / lo si può trovare dappertutto / … / anche in una latrina dove è rimasta
tutta la mia giovinezza), ma anche all’inferno dell’anima in cui pupe gonfie, stracolme
di cazzi alteri / e brace delle fiamme dell’inferno, lasciano l’Autore momentaneamente
appagato, ma nella solitudine degli affetti. Molte poesie si concludono infatti con riflessioni amare, accompagnate da senso di colpa e offuscate dal pensiero della Morte. Come
nell’ultima, quando l’Autore, pensando al giorno del giudizio, ha questo timore: sentirò
la gravezza del mio vivere / l’inutilità di giorni spesi nel pattume. Giorni non persi del
tutto, perché possiamo dire con Fabrizio De André: “Dai diamanti non nasce niente, dal
letame nascono i fiori”. Gli resta però la speranza, quasi certezza, che pur avendo vissuto
come un verme, un pestilenziale ratto, Dio non potrà abbandonarlo, perché c’era sempre
un posto per Lui (…) nella mia anima dannata. Non manca il ricordo di un rapporto
omosessuale travolgente, nato dalla compassione per un giovane che lo aveva quasi
“violentato” in un orinatoio. Il libro si chiude in prosa con la rievocazione di una cena
in riva al mare tra vecchi compagni delle scuole elementari, che finisce nel canto accorato di “Perduta giovinezza”: la rievocazione di compagni dimenticati dai più, il dolore
di quelli scomparsi e la pena inconsolabile della perdita di ciò che amammo. Le ultime
amare riflessioni diventano accuse: tutti, tutti fummo indistintamente traditi, sempre e
senza scampo. Mi sembrano però accuse generiche e gratuite e stonano anche un po’
alla fine di un percorso poetico all’insegna della giocosità e della ricerca del piacere.
Gemma Menigatti Scarselli
Un libro di Lida De Polzer 70 GIRI INTORNO AL SOLE
“Sfiorare il silenzio dell’istante / con ombre di parole senza voce, / essere nel mistero
/ gigli del campo e passeri del cielo, / vivi / senza bisogno di sapere”.Quando mi spedì
il libro, che contiene i versi sopraccitati, Lida mi chiese di essere “spietatamente sincero”
nell’esprimere il mio parere sull’opera. Bene: lo sarò, e non soltanto perché all’autenticità non si può non rispondere che con la lealtà, ma anche – e soprattutto – perché questo
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I Fiori del Male
mi offre il destro per liberarmi di un sassolino nella scarpa, che a me fa male ed al quale
altri sembrano essersi totalmente assuefatti. E vorrei domandare loro (senza nessuna intenzione didascalica, sia chiaro) quanto intimamente si sentono immersi nel mistero;
quanto, davvero, come quei gigli di campo e i passeri del cielo, si percepiscono vivi?
Vale, forse, ribadirlo: sono quesiti che pongo essenzialmente a me stesso, alla voglia
che ho di comprendere in che modo avvertiamo l’esistenza come il nostro stesso mistero.
“So di non sapere”: fino a che punto ne abbiamo corretta consapevolezza? Fino a che
punto sappiamo di essere in viaggio, “in equilibrio – così si legge nella nota esplicativa
dell’autrice – tra libertà e obbedienza, in cui la catarsi si trova, forse, nella libertà di obbedire.”? Sono parole che pesano, ma sono le uniche in grado di fornire una spiegazione
adeguata all’epifania che, sola, poteva balenare nel cuore puro di un bambino, il nipotino
della poetessa, che le fa gli auguri dicendole: “Nonna, pensa, hai fatto 70 giri intorno al
sole!”.È questa l’illuminazione che dà il titolo alla raccolta; dice Lida: “Avrei potuto
aggiornare il numero dei giri, ma ho voluto conservare il pensiero nel cristallo della sua
purezza nativa”; e non poteva fare scelta migliore: diversamente sarebbe stato un sacrilegio, la bestemmia più grande mai pronunciata, un cedimento alla tentazione del peccato
originale. Se non si fosse nutriti da quella stessa epifanica innocenza; se il fanciullino,
di pascoliana memoria, fosse stato soffocato (come accade per la maggior parte degli
esseri umani), imbavagliato, censurato dalla presunta superiorità della ragione; da una
supposta, tutt’altro che verificabile, sua preminenza intellettiva, si potrebbe mai arrivare
a scrivere questi versi: “Costeggiavamo i fossi, umili fossi, / invisibile l’acqua era vestita
/ di gigli e di ninfee… /. . . . / e noi / e l’infanzia che ancora non sapeva / la nostalgia di
quell’averti accanto.” – “Offrimi pure questi fiori d’ombra / da abbeverare all’anima,
mia vita /. . . . / ma non mentirmi / con fantasmi di buio e solitudini /. . . . / So che non
sei così. / Dammi lo spazio / che è nel cuore degli atomi, la danza / dell’energia nei
mari d’universo /. . . . / Non voglio Maya.”? Ecco a cosa aspira questa parola: non a coprirsi con un velo che offusca la visione del mistero ma a disfarsi di quella cortina perché
più nitida ed evidente sia l’essenza del vero. Nella lettera, che accompagnava 70 giri
intorno al sole, Lida mi confidò che il testo aveva suscitato pareri contrastanti; segno
inconfondibile di validità: sono le opere che, una volta lette, non lasciano tracce del loro
passaggio nell’anima quelle che non servono. Rassicuro perciò l’amica: si, sono stato
spietatamente sincero; né più e né meno come impietosa, in queste pagine, è la sua lotta
“…contro un cinismo incalzante che rende l’uomo insensibile, vuoto, suddito eterno di
una indifferenza ormai sovrana”. (cfr. la prefazione di Roberto Sarra)
Sandro Angelucci
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
Cartografie di un visionario un’opera d’insieme di Civitareale
quasi un testamento spirituale
Non pochi indizi fanno ritenere che Cartografie di un visionario (Di Felice, Martinsicuro (TE), 2014), l’ultimo libro di Pietro Civitareale, voglia essere, nella prospettiva
dell’autore, un’opera riepilogativa, quasi testamento spirituale a suggello del suo intenso
percorso poetico. Lo fanno pensare l’immagine di copertina (un vascello in balia dei
marosi), il titolo stesso (dove Cartografie potrebbe stare per “libro di bordo” o mappa
di tutta una vita), l’epigrafe da Trakl in esergo: Rabbrividendo sotto stelle autunnali /
ogni anno di più si china il capo. E ancora il corredo introduttivo, dove l’autore stesso
dice di sé e della sua poetica, e l’appendice che presenta un’antologia della critica su
tutto l’arco dell’opera passata. Infine soprattutto l’ultima commossa sezione del libro,
Ancora un giorno: quasi un congedo che il poeta si augura, ormai al di là del dolore,
con la luce / negli occhi e il cuore pacificato. Allora – prosegue – continuerò il viaggio
da solo / oltre la vita, oltre il tempo, / nel cuore del nulla.Che di ricapitolare un viaggio
dunque si tratti lo prova anche il fatto di aver voluto inserire in questo volume, accanto
alla pur cospicua serie di pagine scritte negli ultimi anni (2008 - 2013), alcuni inediti
meno recenti: un bisogno, intimo, di completezza. Ma, nonostante gli scrupoli dell’autore, si sbaglierebbe a credere che si tratti di un’opera collettanea, e quindi poco omogenea. Il volume anzi si segnala per la sua complessiva organicità: sia sul piano stilistico
– una scrittura, come sempre in Civitareale, piana, composta ma ricca di risonanze – sia
sul piano della tematica; che si sgrana coerente in sé fin dagli anni della prima maturità,
qui rappresentata dalle tre o quattro sezioni iniziali, compresi i notevoli prosimetri di
Terrestrità dell’essere. Tale tematica, d’intonazione meditativa, qui appunto comincia a
svolgersi tutta intorno a quel passaggio, cruciale nella vita dell’uomo Civitareale (le sere
si fecero di pietra…crollava…il cielo dei vent’anni), che lo ha portato a lasciarsi – per
giocare sui titoli delle varie sezioni – il mattino alle spalle, con le ariose illusioni della
sua adolescenza abruzzese a contatto con la schiettezza della natura, per imboccare le
vie della ragione: vie ingannevoli nella pallida luce smagliata / dal fumo delle ciminiere:
la città degli uomini, dominata dall’ingordigia. Il poeta lamenterà ancora (in Soltanto
uomini), questo sradicarsi dalla terra, dove ci insegnarono una ruvida lingua…togliendoci anche il sonno dalla nostra notte…Protestando: ora più non ci seducono le astrazioni… Siamo soltanto uomini / abbiamo bisogno di segni visibili…Perdere il contatto
con la natura è stato come perdere le ultime luci dell’innocenza. Si era trattato dunque
di ristabilire un equilibrio fra la terrestrità dell’essere, una condizione umana che non
può rinnegare le sue radici naturali, e le incontrollabili stagioni della vita nel vorticare
del tempo, crogiuolo che tutto trasforma: per cui nessuno sa più separare la luce dall’ombra. Non sapremo mai chi siamo. / Giunti al punto, al numero, / all’ultimo specchio,
tutto è ombra, / occhio vero della luce. Dunque: se ogni cosa è il suo contrario, cosa
opporre all’indecifrabile nostro destino? In questa dialettica di passato e futuro, di illusioni e disillusioni, di sensibilità e razionalità, il poeta non può respingere i segreti trasalimenti di un’anima più profonda: resta il cuore – egli ci dice a un certo punto – credulo
/ che qualcosa si ripeta / prima che precipiti nel nulla (in Le vie della ragione, p. 69).
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I Fiori del Male
Solo il poeta forse, con la sua parola “visionaria”– metaforica, simbolica, allusiva – può
sperare di raggiungere, nella realtà presente in noi e fuori di noi, quelle vibrazioni più
sottili e segrete che si agitano sotto la superficie e che la lingua della tribù, quella della
comunicazione ordinaria non può cogliere né riprodurre. Il filo conduttore di questo
esercizio è la memoria, “che conferisce una continuità all’io”. Questo ci dice l’autore
nella sua nota introduttiva, delineando con semplicità i fondamenti della sua poetica. E
questo ripropone nei suoi versi, modulati con eleganza e insieme con sobrietà di mezzi
espressivi: sillabe come sussurrate a mezza voce, con tonalità sempre pacate, in una dizione rallentata dalle pause che isola le parole, le fa vibrare nel silenzio; sicché la pronuncia può farsi più incisiva, aforistica a volte e quasi solenne. Non sempre questo gli
riesce allo stesso modo, e in questo libro dalla struttura diacronica si può anche seguire
un progresso: dalla trama ancora un po’ diafana o crepuscolare, più vicina all’aura tardoermetica delle pagine giovanili (Appunti per un diario o Elegia) alle più secche e risentite sillabazioni della tarda maturità, fino ai risultati della più imperiosa
concentrazione. Come in questa tra le ultime pagine, dove la perfetta circolarità dell’essere si fa circolarità del testo e addirittura re-versibilità del verso: Qui, in mare aperto,
/ l’orizzonte è un circolo perfetto. // Qui, nel centro del mondo, / come Dio in cielo, /
come un re sul trono. // Qui, in mare aperto, / possiedo ogni cosa, / ogni cosa mi possiede
// Non conosco nessuno, / nessuno mi conosce.
Roberto Pagan
Luigi De Rosa, Imperia Tognacci e i suoi poemi in poesia e in prosa, Edizioni
Giuseppe Laterza, Bari 2014
Per chi volesse intraprendere uno studio completo e sistematico dell’opera di Imperia
Tognacci, il saggio monografico che Luigi De Rosa dedica alla poetessa e scrittrice, è
senz’altro un punto di partenza obbligato. L’autore, a sua volta narratore e poeta, scrive
abilmente come critico e recensore coniugando due imponenti fatiche: da un lato, egli
ricostruisce con lavoro paziente e particolarmente attento alle cadenze temporali, tutte
le pubblicazioni di Imperia Tognacci, corredandole del giudizio critico, delle recensioni,
e di quante più possibili considerazioni su tali opere vi sia stata tenuta testimonianza
negli anni, dall’altra parte traccia, come steso sulla linea dell’orizzonte, un percorso letterario compatto e originale, in cui ogni opera è intimamente connessa alla precedente
e alla successiva, in uno svolgimento che trascende l’appartenenza all’uno o all’altro
volume. Strumento di questa delicata operazione sembra essere la chiave biografica,
non perché il percorso poetico e narrativo sia interpretato attraverso la biografia, ma al
contrario individuando quanto sia il percorso biografico di Imperia Tognacci a trasformarsi in poesia. La Tognacci è nata a San Mauro Pascoli nel 1940. L’appartenenza a un
mondo rurale ricco di valori umani e cristiani, a una famiglia che la cresce in una rete
di legami profondi, quello con Diva, l’amatissima sorella e quello altrettanto forte con
la madre, sono tutti elementi vivi della sua espressione poetica. La prima raccolta di
poesie dall’originale titolo La traiettoria di uno stelo (2001), opera che secondo De Rosa
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Quaderno di Poesia Cultura letteraria e Arte
dà inizio alla produzione letteraria vera e propria della poetessa, si incentra sul «soffio
caldo della propria terra» che imprime e lega all’humus del luogo natale. Sono natali
particolari per una poetessa, che la accomuno a Giovanni Pascoli, del quale diviene studiosa raffinata e apprezzata, con il saggio dal titolo Giovanni Pascoli e la strada della
memoria (2002), e dedicandogli successivamente un’intera raccolta di poesie dal titolo
Odissea pascoliana (2006), con la prefazione di Giuseppe Anziano. Ancora, nella produzione poetica e in prosa è la vicenda esistenziale a farsi poesia: sono i viaggi in Giordania, in Medio Oriente e nella Terra del Fuoco a genere mirabili visioni rintracciabili
in quel «quasi-poemetto del sacro» dal titolo La notte di Getsèmani (2004) particolarmente apprezzato da Giorgio Bàrberi Squarotti, o la raccolta Il prigioniero di Ushuaia
(2008), « un dialogo continuo con la sofferenza » scaturito dalla visita alla città più australe del globo (Ushuaia), antica colonia penale di condannati per delitti di sangue. De
Rosa legge i dieci volumi di poesie e quattro tra romanzi e saggi dell’autrice, pubblicati
tra il 2001 e il 2013, dimostrando grande apprezzamento, grande curiosità, proponendo
linee di ricerca e approfondimento, il tutto con un tratto di affetto per l’opera e la vicenda
Tognacci che non è possibile non cogliere. Correda il volume l’elenco dei molteplici
premi e i riconoscimenti all’opera letteraria ottenuti anche in concorsi internazionali,
l’indicazione della presenza delle opere della Tognacci in antologie, dizionari antologici
e in Internet, l’elenco delle pubblicazioni a stampa che contengono recensioni e saggi
critici, nonché un lungo elenco dei critici, saggisti, editori e poeti che hanno scritto di
lei. Tra le opere esaminate dall’autore anche due inediti: una raccolta di poesie dal titolo
Là, dove pioveva la manna, e un romanzo dal titolo Anime al bivio. Tutti questi elementi
hanno il pregio di rendere il lavoro di De Rosa ben più di un saggio monografico ma
uno vero e proprio strumento per la conoscenza e il punto di partenza per una ricerca
sull’opera di una poetessa e scrittrice italiana contemporanea.
Silvia Capo
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I Fiori del Male
Libri Ricevuti
Daniela Quieti, Atmosfere – Dal mito alla storia , edizioni Tracce Pescara 2014,
pp.56 €11,00
Domenico Cara, Ciò che si scorge nella diversa macchia, edizione bilingue Editore
Commisso, Roma 2014 pp.108 €15,00
Paolo Carlucci, Il mare delle nuvole, Edizioni Tracce, Pescara , 2014 pp.170 €
14,00
Antonio Crecchia, Vincenzo Rossi -Un talento creativo al servizio della cultura(saggio)Ediemme Salerno, pp.192 €20,00
Sonia Giovannetti, Le ali della notte, Armando Curcio Editore Roma 2014, pp.158
€9,90
Sonia Giovannetti, Tempo vuoto Edizioni Tracce Pescara, 2013 pp.68 €10,00
Armando Rudi, Pietrame, youcanprint Tricase (LE)2013 pp.70 €10,00
AA.VV. Percezioni dell’invisibile (a cura di Giuseppe Vetromile), Edizioni l’Arca
Felice, Salerno pp.72 s.i.p.
Antonio Spagnuolo, Oltre lo smeriglio, Kairos Edizioni, Napoli 2014, pp.56 €
10,00
Enzo Megali e Giacomo Megali, Travaglio di anime, Falzzea editore, Reggio Calabria, pp.158 2014
Italo Benedetti Gli aironi di Sabaudia, Isolaria, Roma 2012 pp.144 €15.00
Luigi De Rosa Imperia Tognacci e i suoi poemi in prosa (saggio) Edizioni Laterza,
Bari pp. 260 €20,00
Massimo Pacetti, La Terra di Tutti, Edilet Roma 2014 pp.152 € 14,00
Maria Pia Moschini, Quattro tazze francesi, Gazebo, Firenze 2014 pp.88 s.i.p.
AA.VV. Per un profilo critico di Renato Greco (a cura di Michele Vigialnte) sentiri
meridiani edizioni Foggia, 2014 pp. 195 € 20,00
Lorenzo Spurio, Neoplasie civili, Edizioni Agemina, Firenze 2014 pp.62 € 10,00
Riviste
L’area di Broca, Semestrale di letteratura e conoscenza, Anno XXXIX-XL, n.9899 luglio 2013 - giugno 2014 Firenze, Direttore responsabile:Mariella Bettarini
La Vallisa, Quadrimestrale di Letteratura ed altro, Anno XXXIII, Lug-dic 2014 Direttore: Daniele Giancane.
Calabria Sconosciuta, Rivista trimestrale di cultura e Turismo, Anno XXXVI N.
139/140 luglio-dicembre 2013 Direttore responsabile: Carmelina Sicari.
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I Fiori del Male
NOTIZIE DELL’ARTISTA
Marco Eusepi illustra la prima, la seconda e terza di copertina e l’interno della rivista.
L’artista nasce nel 1991 ad Anzio (Roma); attualmente è iscritto all’Accademia di Belle
Arti di Roma dove frequenta il Corso di Pittura. Ha, al suo attivo, numerosissime esposizioni collettive. Nel 2014 ha tenuto la Prima Personale presso lo Studio dello Scultore
Claudio Perri; ha realizzato disegni e copertine di Romanzi e libri di Poesie. È protagonista, accanto ad altri due pittori, del volumetto “La metafisica tradita” (Edizioni Marte)
del critico Robertomaria Siena. Inizia, in questa occasione, la collaborazione con I Fiori
del Male.
Finito di stampare in Roma - Marzo 2015
E.S.S.
EDITORIAL
SERVICE
SYSTEM S.r.l.