Il manager resiliente

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Il manager resiliente
Il manager resiliente
Questa è una storia semplice. Una di quelle che a leggerla
pensi “avrei potuto scriverla io”. Come un quadro di Piero
Burri. Sei a Roma, a Palazzo delle Esposizioni, ti ci fermi
davanti e pensi che non hai niente da invidiare a Burri.
Niente tranne il nome, forse. Niente tranne il fatto che lui
l’ha fatto, quel quadro. Tu no. Lui ha avuto il coraggio di
giocare con l’arte, di farne una cosa nuova. Questo è quello
che pensi. E quindi, questa è una storia semplice. E’ la storia
dei miei dodici amori. Te la racconto ora, prima che tu diventi
il numero tredici. Così non mi farai domande sul passato, sul
com’era, sul com’è stato. Ascolta.
Avevo quindici anni, all’epoca del mio amore numero uno.
Tecnicamente si può parlare di primo amore, se davvero una
tecnica sia applicabile in amore. Si chiamava Valerio. Aveva
deciso che dovevo essere la sua ragazza contro la mia
volontà. Non capivo la sua ostinazione, mentre cercava di
darmi il primo bacio. Mi è successo anche dopo di insistere in
relazioni di cui non ero convinta, nell’istinto di capire il
meccanismo dell’innamoramento e dell’amore. Senza
successo ovviamente. Per fortuna Valerio presto si innamorò
di un’altra ragazza. Ora ha due figli e lavora in una
concessionaria Fiat. Il primo amore.
Il mio amore numero due è stato un santo. Infatti, mia madre
diceva “quel santo dell’Oreste”. Di lui mi piaceva il fatto che
si era innamorato della mia migliore amica, quella perfetta,
bellina, quella che piaceva a tutti. Io divenni la sua confidente
e insieme facevamo strategie affinché il suo amore
diventasse reale, affinché lei cedesse. In realtà lei non
cedette mai. E noi ci innamorammo. Un giorno, i primi tempi
del nostro amore, seduti su un muretto nel cortile della
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scuola, respirammo insieme e sentimmo il calore del sole di
inizio estate sulle nostre schiene. Fu allora che capimmo che
sarebbe stata una bella storia d’amore. Come eravamo
giovani. E cretini. A pensare che a diciotto anni bastasse il
sole sulla schiena per capire la durata di un amore. Il nostro
amore finì in un giorno di freddo. Gli scrissi una lettera. Per
dirgli che avevo deciso di partire, di lasciare la mia terra, di
seguire il mio destino. Pianse. Piansi anch’io. Poi la storia si
trascinò ancora per qualche mese inutilmente. Ormai
l’amore aveva fatto il suo corso. E noi con lui. L’amore
doloroso.
Il mio amore numero tre fu una bella amicizia. Io ero arrivata
da poco a Roma per un master dopo l’università. Se ne stava
in disparte con il suo ciuffo ribelle e i capelli lunghi sulle
orecchie. Durante la pausa andavamo insieme a Trastevere
prendendo il ponte di Via Giulia. Attraverso i suoi occhi ho
imparato ad amare questa città, anche se poi ho dimenticato
come si fa sotto il peso intricato delle stupide responsabilità
della manager che sono diventata. Lo ricordo con tenerezza,
come l’amore che non è stato, o forse sì. L’amore turistico.
Il numero quattro era un professionista. Del rimorchio,
intendo. Lui puntava una ragazza nella zona universitaria.
Cercava il telefono sull’elenco. La chiamava e la faceva
sentire desiderata. Dopodiché le chiedeva un incontro. Era
molto attraente, ma insicuro come di solito sono gli uomini
bassi. Al primo appuntamento mi diede un nome falso e false
generalità. Solo dopo qualche incontro mi disse la verità, che
si chiamava Marco, anche se io non capii o non ricordo
perché avesse mentito. Non mi sembrava un buon inizio per
un amore. L’amore bugiardo.
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Si chiamava Giampiero, il mio amore numero cinque.
C’eravamo conosciuti durante una gita scolastica al mio
penultimo anno di liceo. Ricordo che per tutto il viaggio in
treno da Napoli a Strasburgo non fece altro che parlarmi
della ragazza di cui era innamorato e del torello, l’amico che
gliela aveva soffiata. Ne parlava con gli occhi ridenti e
appassionati. Capii che l’aveva dimenticata quando mi diede
appuntamento alle due di notte nel corridoio e cominciò a
baciarmi con trasporto. Lo rividi qualche anno dopo, a Roma,
dove stava finendo gli studi. Ero ancora molto ingenua con
quella storia del sole di inizio estate sulle spalle. Non capivo il
suo amore selettivo, riservato ai fine settimana e ai momenti
liberi. Forse c’entrava il fatto che studiasse Economia?
L’amore urbano.
Il mio amore numero sei era sposato. Lo so che stai
pensando: clichés, forse bugie. In realtà questa è una storia
semplice perché somiglia a quella di tante ragazze, forse a
tutte noi. Fulvio era sposato e in crisi e quasi separato. Aveva
dei figli piccoli, molti problemi, una moglie fedifraga. Abitava
sul lago di Bracciano, in un posto bellissimo. Io volevo
aiutarlo, senza riuscirci. Volevo amarlo. Lui voleva che fossi la
sua donna. Ma io ero solo una ragazza. Ancora non sapevo
cosa fare della mia vita. Ed ero impacciata con i suoi figli,
nella sua casa, da cui uscii in punta di piedi una sera che
pioveva, ma poco. L’amore coniugato.
Il numero sette è stato un vecchio. Sai la fissa delle giovani
donne insicure per l’uomo più maturo? Ecco, quella. Ci sono
pletore di cinquantenni che campano da cinquant’anni sulla
sindrome del padre che non hai avuto. E pure se ce l’hai
avuto, puoi cedere al fascino dell’uomo di una certa età, con
quell’aria un po’ vissuta, con le rughe intorno agli occhi, e la
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macchina grande. Lui si chiamava Mirco. Io mi sentivo adulta.
Non lo ero. Ero romantica, ma non volevo esserlo. Gli resi la
vita difficile, mi rifiutavo di essere la sua ragazza. Volevo
essere la sua donna. Ma ero già una donna, io? L’amore
ostinato.
Non ricordo nemmeno il nome, del mio ottavo amore. So
solo che c’è stato in una sera triste, e mi ha regalato delle
bacchette cinesi di legno laccato. Era la sera del mio
compleanno, lavoravo in un locale jazz dalle parti di Viale
delle Milizie. C’era un concerto di Lutte Berg, un chitarrista
svedese. Ero piuttosto giù di corda, per la musica e per
gennaio. Ho sempre pensato che i miei genitori mi avessero
adottata, rifiutando l’idea di essere nata in un mese così
desolato. Solo febbraio sarebbe stato peggio per me.
L’amore di passaggio.
Negherò per tutta la vita di avere avuto un amore numero
nove. Era un uomo davvero brutto, e spiacevole. Lo conobbi
in Puglia durante un seminario filosofico, poco dopo
l’università. Era assertivo, verboso, ricco di parole. Mi parlò
della sua terra, una Lucania che non conoscevo, e del suo
futuro, che immaginava fulgido. Notavo una vena di
menzogna in ogni sua parola, mi ammaliò lo stesso. Al ritorno
a casa, ci misi pochi mesi a fare le valigie per Roma, dove lui
studiava per diventare giornalista. Cominciammo a detestarci
quasi subito, a litigare su tutto. Qualche anno dopo si
innamorò di una massaggiatrice. Adesso non ci parliamo più.
Per fortuna. L’amore detestato.
Il numero dieci era un architetto. Ero pazza di lui. Avevo visto
da poco Matrix e rivedevo in lui Keanu Reeves. Ci eravamo
conosciuti a un corso di formazione. Era molto timido, o
forse non gli piacevo abbastanza. Dovremmo ammetterla più
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spesso questa verità, altrimenti rischiamo di girare in tondo e
di perdere di vista i nostri pensieri: forse non gli piacevo
abbastanza. Così, una sera, mi presentai a casa sua con un
barattolo di peperonata fatta in casa, nella speranza di
suscitare il suo interesse in un modo o nell’altro. Non
funzionò, ma la pasta era buona. L’amore negato.
Il mio amore numero undici era una carta letta. E’ così che
dice mia madre, quando parla di cose già viste o di esiti
scontati. Ci eravamo incontrati a un concorso letterario. Non
capivo quello che scriveva, ma mi piaceva come ne parlava.
Una sera, leggevano i nostri racconti in un piccolo teatro a
Campo de’ Fiori. Ricordo che avevo un vestito nero e mi
sentivo me stessa. Raramente mi è capitato di sentire quella
pace, quella conciliazione con il mondo circostante, con la
mia natura. L’attrice che doveva leggere il mio racconto non
si era presentata, così chiesero che lo leggessi io. Lui era
seduto di fronte a me e mi sorrise. Fu un amore letterario.
Fa ancora male parlare dell’amore numero dodici. Ero
diventata manager in una società multinazionale. Sembrava
che avessi trovato la mia strada. Ma non era così. Ero fuori
dal coro, lontana dalle inutili astuzie del potere. Ero integra.
Cercavo la correttezza. Credevo nell’etica del lavoro. Amavo
quello che facevo, e lo facevo con passione. Resistevo alle
pressioni dei più forti, portavo a casa il risultato e a volte
anche la soddisfazione di averlo raggiunto. Ci innamorammo
durante una riunione di coordinamento. Ci guardammo e
pensammo che non ci eravamo mai visti prima. E
probabilmente non ci saremmo rivisti dopo, se avessimo
lasciato passare quel momento di intesa. Dalla finestra
entrava un raggio di sole di inizio estate. Lo fermammo. Fu
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una lunga storia d’amore, intrisa di buone intenzioni e
pessimi sentimenti. Fu un amore fallito.
E veniamo a te. Tu sarai il mio amore numero tredici. Da
manager resiliente sono tornata ad essere solo una donna
innamorata. Grazie.
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