Reazioni internazionali all`apartheid in SudAfrica. Caso Canada e

Transcript

Reazioni internazionali all`apartheid in SudAfrica. Caso Canada e
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CAGLIARI
FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE
CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN RELAZIONI INTERNAZIONALI
REAZIONI INTERNAZIONALI
ALL’APARTHEID IN SUDAFRICA.
IL CASO DEL CANADA E DELLA SVEZIA
Relatore:
Prof.ssa Bianca Maria Carcangiu
Anno Accademico 2006-2007
Tesi di laurea di:
Cristiano Serci
2
a Silvia, Sergio e Maria Ausilia
3
Ringraziamenti
Quando si scrivono i ringraziamenti il rischio maggiore è sempre quello di dimenticare
qualcuno.
Non posso però certo dimenticarmi di Federica, per il sostegno che mi ha sempre fornito
e per avermi spronato continuamente nei momenti di stanchezza e anche per avermi
sopportato: grazie!
Quanto a pazienza, la persona che ne ha avuta sicuramente più di tutte è stata Tiziana
Cauli, che mi ha seguito durante tutto il progetto addirittura da prima della mia partenza
per il Sudafrica, e mi ha dedicato tutte le attenzioni necessarie per la correzione, puntuale e precisissima, delle mie bozze.
Fondamentali sono stati inoltre i suoi consigli prima e durante il mio viaggio a Città del
Capo, consigli grazie ai quali ho potuto portare avanti la mia ricerca…ma anche scoprire molti aspetti, della città e del Sudafrica, che mi hanno entusiasmato.
Non so se leggeranno questa pagina di ringraziamenti, ma un doveroso saluto va a Patrick Rezandt e Cally De Waal, gli amministratori della All Africa House di Città del
Capo: non solamente mi hanno agevolato nel mio soggiorno in Sudafrica, ma si sono
preoccupati sempre, nelle due settimane in cui sono stato lì, di fornirmi qualsiasi tipo di
aiuto e informazione potesse essermi utile.
Alla Prof.ssa Carcangiu va il merito, grandissimo (e decisivo per la scelta
dell’argomento della tesi), di aver fatto nascere in me la passione per l’Africa ma soprattutto per il Sudafrica.
4
Indice
Introduzione ............................................................................................................... p. 7
Capitolo I
L’apartheid e l’Occidente.......................................................................................... p. 9
1.Uno sguardo all’apartheid................................................................................ p. 9
2. Avvento al potere del National Party.............................................................. p. 9
3. L’apartheid come minaccia per la pace ........................................................ p. 12
4. Il Sistema Atlantico ...................................................................................... p. 16
5. Le ONG ........................................................................................................ p. 19
6. Anti-Apartheid Movement............................................................................ p. 23
Capitolo II.
La politica estera dell’apartheid ............................................................................. p. 26
1. La politica nazionalistica sudafricana del dopo-guerra ................................ p. 26
2. Il Sudafrica in un mondo diviso ................................................................... p. 30
3. La ricerca delle alleanze ............................................................................... p. 37
4. Simon’s Town Agreement............................................................................ p. 39
5. Oltre Simon’s Town ..................................................................................... p. 42
6. Il 1960........................................................................................................... p. 45
7. La Outward Policy........................................................................................ p. 49
8. Aspetti generali della politica estera sino al 1970 ........................................ p. 51
Capitolo III.
Il Sudafrica e la comunità internazionale. ............................................................. p. 56
1. L’ONU.......................................................................................................... p. 56
2. L’ambivalenza dei rapporti con l’Occidente ................................................ p. 60
3. Origine delle sanzioni internazionali ............................................................ p. 66
4. Panoramica generale sulle sanzioni .............................................................. p. 68
5. Il disinvestment ............................................................................................. p. 71
5
6. Impatti sul Sudafrica e risposte..................................................................... p. 74
Capitolo IV
Svezia, Europa e Canada........................................................................................ p. 82
1. L’Europa e il Sudafrica nel dopo-guerra ...................................................... p. 82
2. La politica della CE riguardo al Sudafrica ................................................... p. 85
3. L’assistenza CE alle vittime dell’apartheid .................................................. p. 89
4. Posizione di alcuni singoli Stati europei....................................................... p. 91
5. Il PAN e la Svezia......................................................................................... p. 94
6. Il caso Olof Palme ...................................................................................... p. 101
8. Il Canada..................................................................................................... p. 106
Conclusione............................................................................................................. p. 110
Bibliografia ............................................................................................................ p . 112
6
Introduzione
Tra il 1948 e il 1991 in Sudafrica, il regime di apartheid imposto dal Partito Nazionalista al governo costituì un ostacolo insormontabile allo sviluppo della democrazia e della
convivenza pacifica tra i diversi segmenti razziali del popolo sudafricano.
Quello che i dirigenti di Pretoria sono riusciti a fare ci stupisce ancora oggi, nel senso
che è apparentemente inspiegabile il fatto che un’assoluta minoranza abbia potuto imporre la propria legge alla stragrande maggioranza del popolo.
Per di più se consideriamo che oltre a dover subire la tirannia della minoranza bianca,
gli altri sudafricani si sono visti negare la maggior parte dei diritti civili e politici, appannaggio solo dei discendenti di inglesi e boeri.
La segregazione razziale fu contrastata dall'African National Congress (ANC), principale movimento di opposizione fondato nel 1912. Dopo gli scioperi, i boicottaggi e le
proteste pacifiche contro l'apartheid che culminarono nel massacro di Sharpeville del
marzo 1960, il governo mise al bando tutte le organizzazioni politiche nere, compreso
l'ANC. Tuttavia le dimostrazioni, e le proteste che si susseguirono sempre più frequenti
negli anni Sessanta e Settanta da parte degli oppositori dell'apartheid, il fallimento della
politica dei bantustan e la condanna internazionale che aveva isolato il Sudafrica, costrinsero il governo ad allentare le restrizioni, ad esempio quelle che riguardavano il
contatto quotidiano tra membri delle diverse componenti etniche (petty apartheid).
L’indipendenza raggiunta nel 1975 dalle vicine colonie portoghesi dell’Angola e del
Mozambico (uniche fino ad allora, insieme alla Rhodesia, a sostenere il regime razzista
di Pretoria) fece aumentare le pressioni politiche della comunità internazionale per una
normalizzazione della situazione sudafricana. Gravissimi incidenti scoppiarono nel
1976 in seguito al massacro di centinaia di persone da parte delle forze di polizia nel
corso di una manifestazione di protesta di studenti del ghetto di Soweto contro l’uso obbligatorio dell’afrikaans. L’episodio ebbe un fortissimo impatto sull’opinione pubblica
internazionale, rafforzando il fronte favorevole a imporre sanzioni economiche al Sudafrica. Sul fronte interno provocò un aumento di consenso dell’ANC, che organizzò imponenti manifestazioni di protesta in tutto il paese; la risposta del regime razzista fu brutale, culminando nel 1977 con l’assassinio del fondatore del Movimento di Coscienza
Nera Stephen Biko, morto in cella per i maltrattamenti subiti dopo l’arresto.
Dalla metà degli anni Settanta fino alla metà degli anni Ottanta il governo attuò una
serie di riforme che permisero alle rappresentanze sindacali nere di organizzarsi e di
svolgere una limitata attività politica. La Costituzione del 1984 estese la rappresentanza
parlamentare agli asiatici e ai coloured, ma non ai neri, nonostante costituissero oltre il
75% della popolazione. Si accesero nuove rivolte nelle città, fu imposto diverse volte lo
Stato di Emergenza ed essendo cresciuta la pressione internazionale contro il Sudafrica,
le politiche governative dell'apartheid cominciarono ad allentarsi.
Nel 1990 il nuovo presidente Frederik Willem de Klerk revocò ufficialmente la messa al
bando trentennale dell'ANC e liberò il suo leader, Nelson Mandela. Nel 1993 fu raggiunto e sottoscritto da Mandela e De Klerk un accordo sulle modalità della transizione
del Sudafrica alla democrazia. Nelle prime libere elezioni del 1994 Mandela divenne il
primo presidente nero nella storia del Sudafrica, a capo di una coalizione governativa
che comprendeva anche il Partito Nazionalista.
Con questo lavoro cerchiamo di far luce sulle dinamiche e le problematiche dei rapporti tra Pretoria, gli esponenti del movimento anti-apartheid e le nazioni occidentali.
Vedremo perché le potenze occidentali, o almeno alcune di loro non siano intervenute
con gli strumenti diplomatici già agli albori dell’apartheid.
Analizzeremo gli aspetti salienti della politica estera sudafricana per capire come veniva
gestita la situazione dal “di dentro”, nonostante le pressioni internazionali.
7
Riassumeremo i principali fatti che hanno segnato la storia dei rapporti tra il governo di
Pretoria, gli altri governi del mondo occidentale e i principali gruppi di pressione antiapartheid.
Faremo anche luce sulle connessioni che effettivamente ci furono tra la lotta internazionale contro il “pericolo comunista” e la volontà da parte di governi occidentali, di legare
a loro i governanti razzisti sudafricani sottraendoli così all’influenza sovietica.
Nell’ultimo capitolo analizzeremo come l’Europa si è posta di fronte al problema sudafricano, in particolare come Comunità Europea, ma anche come rapporti bilaterali tra
singoli Stati e Sudafrica.
Sempre nell’ultimo capitolo vedremo due esempi di Stati occidentali che si sono dovuti
confrontare con la questione sudafricana: la Svezia in particolare, e il Canada.
In molti casi ci si è resi conto di come la questione morale non fosse messa in primo
piano, anche quando la situazione sudafricana avrebbe davvero potuto costituire essa
stessa una minaccia alla pace di tutta l’Africa del sud. Gli interessi economici e politici
delle nazioni industrializzate che avevano con il Sudafrica rapporti commerciali rilevanti furono l’ostacolo principale che si frapponeva - lo vedremo - al raggiungimento
degli obiettivi dei gruppi di sostegno alla lotta dei non-bianchi sudafricani contro il regime di apartheid.
Nella realizzazione di questo lavoro ho avuto la fortuna di accedere all’African Studies Library dell’Università di Città del Capo, all’interno della quale ho trovato diversi
documenti quali testi, pamphlet, dichiarazioni pubbliche e interviste che affrontano la
questione dell’apartheid sia come tematica prettamente sudafricana, sia all’interno delle
relazioni tra Pretoria e mondo occidentale.
Anche il Robben Island Museum Mayibuye Archive dell’Università del Capo Occidentale (University of the Western Cape), è stato per me utile fonte di informazioni storiche sull’argomento; si tratta infatti di un centro in cui sono catalogati una quantità innumerevole di documenti di ogni genere riguardanti la storia dell’apartheid, compresi
materiali audio e video, stampe, scritti privati e rappresentazioni artistiche.
Inoltre, nuovamente in Italia, a Roma, ho fatto visita all’Is.I.A.O., istituto Italiano per
l’Africa e l’Oriente, sito a Roma in via Aldrovandi.
8
Capitolo I.
L’apartheid e l’Occidente
1. Uno sguardo all’apartheid
Apartheid è un concetto coniato dagli Afrikaner all’inizio degli anni ’40 per invocare
l’inevitabilità del dominio bianco nella regione dell’Africa del Sud, regione che identifichiamo come quella delimitata dal fiume Cunene a Nord e ad Ovest, e dallo Zambesi a
Sud. Il termine fu utilizzato per la prima volta dal leader del Partito Nazionalista, ancora
all’opposizione nel 1944, all’interno del parlamento sudafricano.
Malan voleva con ciò indicare una politica pubblica tesa a « rafforzare la sicurezza della
razza Bianca e della civiltà cristiana tramite un onesto mantenimento dei principi di
apartheid e di protezione »1.
In realtà 3 anni dopo una commissione interna allo stesso partito equiparò una tale politica al concetto di sviluppo separato. Entrambi i significati in ogni caso hanno sempre
voluto indicare supremazia di una componente razziale sull’altra.
E’ da notare che con il passare degli anni, e in particolar modo a partire dagli anni ’70,
i portavoce del National Party, al potere dal 1948, hanno sempre preferito utilizzare, di
fronte ad interlocutori internazionali, il termine separate development anziché quello di
apartheid, dal momento che quest’ultimo era ormai divenuto sinonimo di razzismo. Non
tutti i bianchi in Sudafrica sostenevano l’apartheid.
Lo United Party, il partito ufficiale di opposizione, definiva anch’esso come necessaria la leadership bianca nella politica sudafricana, e persino il Partito Progressista Riformista, se da una parte denunciava l’apartheid, dall’altra era costituito per intero da
persone di pelle chiara, come d’altronde gli altri partiti, in quanto la legge non dava spazio ai non-bianchi all’interno della politica, proibendone sia la rappresentanza sia la partecipazione politica. E la musica non era diversa se ci si spostava in Rhodesia del Sud:
laggiù, i bianchi, sebbene avessero criticato ufficialmente la teoria dell’apartheid, avevano insistito sul fatto che solo loro potessero governare, e proclamato la necessità di
questo loro dominio per il futuro della nazione.
Perciò possiamo già vedere come per diversi decenni l’apartheid rappresentò non solo
una teoria che definire razziale non è azzardato, ma anche un vero e proprio modo di vivere che ha perpetuato il dominio dei coloni venuti in Sudafrica dall’Europa secoli prima e che ha collegamenti vitali oltreoceano e all’interno del cosiddetto mondo occidentale.
I movimenti che rappresentavano gli africani ( ANC e PAC tra tutti) avevano sempre
denunciato questo sistema ovviamente, e vi si erano opposti.
Inoltre i movimenti di liberazione dell’Africa meridionale hanno sempre condotto
un’opera di resistenza alla prosecuzione del sistema di segregazione razziale a supremazia bianca nei territori degli attuali Zimbabwe, Namibia e Sudafrica (chiamata anche
Azania dai movimenti africani espressivi dei nazionalisti neri quali il PAC).
Quei movimenti di liberazione sono stati sostenuti moralmente e supportati materialmente non solo dai movimenti panafricanisti, ma anche dai movimenti anti-apartheid
sorti altrove in tutto il mondo.
Quello che diverrà presto evidente sarà un conflitto maggiore tra gli interessi dei
bianchi al potere nell’Africa del Sud, la cui supremazia era sostenuta da larga parte delle
1
G. W. Shepherd, Jr. , Anti-apartheid, transnational conflict and Western policy in the liberation of South
Africa, Greenwood Press,Westport,Connecticut,1977, p.3.
9
potenze occidentali, e gli interessi e le istanze dei movimenti espressione dei neri africani, supportati dai movimenti anti-apartheid e dal blocco degli Stati socialisti.
Si può a ragione parlare non solo quindi di battaglia nazionale, bensì per usare le parole
di Shepherd, di « conflitto internazionale di classe e razziale »2.
Ma diamo un quadro generale della situazione sudafricana successiva al 1948. Se per
i Bianchi si poteva certamente parlare di democrazia, non tutti i Neri godevano della cittadinanza, e tra i Neri, gli Africani erano totalmente sprovvisti del diritto di voto. Potevano esercitare qualche diritto politico semplicemente all’interno delle aree chiamate-si
è già detto- bantustans.Si trattava di entità geografiche, artificialmente create a tavolino,
disegnate sulla carta geografica, che nel corso degli anni hanno avuto anche il nome di
homelands e “Stati neri”, a seconda dell’importanza che quel territorio aveva all’interno
della struttura geografica dello Stato dell’apartheid.
Non si trattava che di entità amministrative, dotate di assemblee e di governi-fantoccio, e i loro poteri erano ristretti all’amministrazione degli affari locali, in quanto i principali dipartimenti ministeriali erano sotto il controllo di Pretoria.
Barbier e Désouches affermavano che «gli Africani, legati a quei territori dalla legge di
suddivisione per “razze”, non dispongono quindi che di finti diritti politici»3.
Invece per quanto riguarda le organizzazioni nere, che raccoglievano tra l’altro il sostegno dell’ampia maggioranza della popolazione, (ANC e Pan-Africanist Congress of
Azania, i due movimenti di liberazione), esse erano vietate dal 1960, mentre organizzazioni come l’UDF, vicina all’ANC, e il National Forum erano perseguite per legge o
sottomesse a restrizioni relative alle loro attività. Quindi, scrivevano Barbier e Désouches ancora nel 1987, « il primo dei diritti negati era quello politico»4.
E dal punto di vista delle condizioni di vita la situazione non era certo migliore: la
popolazione nera in Sudafrica era costretta a vivere ghettizzata o alle porte delle città riservate ai bianchi (questo era il caso delle township), oppure nei bantustans, che comprendevano sia zone rurali, sia grandi bidonvilles simili alle township, ma più povere. Si
pensi che l’87% del territorio nazionale era “classificato” come spettante ai bianchi, che
però costituivano solo il 15% della popolazione totale. I non-bianchi nel loro insieme, e
al loro interno gli africani in particolare, si vedevano perciò rifiutare la libertà di circolazione, la libertà di sistemarsi dove sembrava loro meglio, nonché quella di acquistare
una casa e un terreno, salvo si trattasse di neri con residenza permanente.
Dal punto di vista della vita lavorativa, le condizioni erano estremamente difficili. Si
consideri che l’educazione, definita bantu, era stata volontariamente concepita per dare
ai bambini neri un insegnamento “al ribasso”- Barbier e Désouches hanno calcolato che
lo Stato sudafricano spendeva «otto volte di più per i bambini bianchi» (huit fois plus
pour les enfants blancs)5. I lavoratori non-bianchi rientravano in una delle seguenti categorie: 1) Legalmente autorizzati a risiedere in una zona “bianca”e ad avere un lavoro
regolare in città; 2) Autorizzati ad abitare in una bidonville all’interno di un bantustan
ed costretti ad essere pendolari (“commuter”), dovendo sobbarcarsi anche 4 ore di tragitto al giorno; 3) oppure ancora essere lavoratori migranti, come era il caso dei domestici, dei lavoratori agricoli e minatori, e in quel caso l’alloggio si trovava all’interno
di “compound”6, praticamente un dormitorio per celibi, dall’organizzazione disciplinare
rigida: i lavoratori rientranti in questa categoria riuscivano a tornare a casa dalla loro fa2
Ivi, p. 4
J.-C. Barbier, O. Désouches, Sanctionner l’apartheid. Quatorze questions sur l’isolement de l’Afrique
du Sud, Éditions La Découverte, Parigi, 1987, p. 14
4
Ivi, p. 16.
5
Ivi, p. 17
6
Ibidem.
3
10
miglia al massimo una volta all’anno. Entro le 22 tutti i non-bianchi dovevano aver lasciato la città bianca, salvo che ovviamente non fossero guardiani o custodi.
Altro elemento di disuguaglianza era il fatto che ai non-bianchi era preclusa la possibilità di accedere alla formazione professionale e ad alcuni tipi di impiego nelle miniere,
che restavano appannaggio dei bianchi. Avere avuto l’equivalente di un lavoro specializzato di un bianco, non avrebbe in ogni caso dato a nessun nero la possibilità di percepire lo stesso salario. Le stesse condizioni di sicurezza lasciavano molto a desiderare,
tanto che il Sudafrica deteneva il record di incidenti mortali nelle miniere.
Si era di fronte quindi ad una società davvero a doppia velocità, nel senso che i bianchi godevano di un livello generale di vita, secondo Barbier e Dèsouches, «spesso anche
più elevato di quello dei paesi occidentali»7 e disponeva di istituzioni politiche democratiche, mentre la stragrande maggioranza della popolazione, suddivisa tra Africani,
Coloured (meticci) e Asiatici (“Indians”) non aveva in pratica alcun diritto politico e
doveva far fronte a condizioni di esistenza e di lavoro davvero precarie.
Il Sudafrica aveva quindi istituzionalizzato un regime economico e politico razzista,
l’apartheid appunto. Questo sistema si costituì tramite l’intrecciarsi e il sovrapporsi di
trecento leggi ordinate attorno a 3 pilastri fondamentali, elaborati alla fine dell’epoca
degli imperi coloniali, negli anni ’50:
1)Innanzitutto il Land Act (già apparso però nel 1913) che concedeva ai bianchi-si è detto prima- l’87% del territorio, mentre il restante 13%, ripartito in territori più piccoli,
costituiva la base geografica dei bantustans.
2)Il Land Act era stato in seguito articolato con il Group Areas Act del 1950, che definiva in quali zone era permesso legalmente vivere ai diversi gruppi, nonché le loro condizioni di “soggiorno”: secondo questa legge, più volte modificata, i neri non potevano
essere che residenti temporanei nelle zone bianche, e solo quelli che vi avevano lavorato
ininterrottamente per 10 anni potevano beneficiare del diritto di residenza permanente, e
in questo caso si parlava dei cosiddetti sectiontenners.
3)Terzo pilastro dell’architettura dell’apartheid era il Population Registration Act del
1950, che classificava i sudafricani in Bianchi, Africani, Meticci e Indiani (o Asiatici in
generale). Teniamo conto del fatto che i criteri con i quali veniva operato tale suddivisione comprendevano al tempo stesso tratti fisici, la razza di appartenenza degli antenati, e in più, ciò che con termine francese potremmo indicare con «reputazione» (renommée)8,e con questo si indicava il fatto che si poteva essere “reputato” Bianco, o Nero o Meticcio “onorario”. A ciò si deve aggiungere che agli Africani, in generale, veniva
attribuita arbitrariamente un’origine etnica corrispondente a uno dei 10 bantustans di
cui quindi essi divenivano automaticamente “cittadini”.
Sottolineiamo che i dirigenti sudafricani non concepirono questa organizzazione come
transitoria: si trattava, nella filosofia dell’apartheid, «di una soluzione ottimale e permanente, per la coesistenza economica e politica di gruppi di popolazione aventi origini etniche differenti»9. La classificazione in razze “presunte” era giustificata con considerazioni classiche relative alla superiorità razziale del gruppo bianco, e questo chiaramente
era pari al mettere in discussione, alla radice, i valori etici universali.
7
Ivi, p. 18.
Ivi, p. 19
9
Ibidem.
8
11
2.Avvento al potere del National Party
Considerando i rapporti che il governo di Pretoria aveva con le potenze occidentali non
possiamo prescindere da un‘analisi delle politiche interne adottate dal National Party al
potere dal 1948 in Sudafrica, partendo però dalla sua ascesa al potere.
Alla fine della seconda Guerra Mondiale il Governo Sudafricano non aveva alcun sospetto del fatto che negli anni a venire avrebbe dovuto far fronte a una persistente e crescente ostilità internazionale.
Nel maggio del 1945, alla prima sessione assembleare delle Nazioni Unite a San Francisco, Jan Hofmeyer, delegato del Primo Ministro, disse che tra le cose buone che erano
venute fuori dal conflitto, di per sé tremendo, c’era stato « l’accresciuto prestigio e
l’onore del nostro Paese tra le nazioni del mondo... »10.
L’ottimismo del governo sudafricano si basava sull’esperienza maturata durante la guerra. L’Unione era rimasta saldamente dalla parte degli Alleati anche durante i giorni delle
vittorie tedesche e giapponesi, e lo rimase sino all’avvenuta vittoria.
Come gli altri alleati, il Sudafrica entrò nel dopo-guerra prevedendo i frutti della vittoria
appena ottenuta.
All’interno del territorio sudafricano stesso, la guerra aveva prodotto pochi disagi, se si
considera che il campo di battaglia era rimasto molto lontano dall’Africa meridionale,
cosicché i sudafricani che non erano dovuti partire a combattere a fianco degli eserciti
Alleati avevano dovuto far fronte a ben poche privazioni.
Addirittura si può a ragion veduta affermare che la guerra aveva portato i vantaggi di
un’accresciuta attività economica e quindi di un aumento della ricchezza nazionale.
Questo perché, come disse, tra gli altri, il Professor Houghton in un’analisi
dell’economia sudafricana, «la Guerra aveva dato uno stimolo a molte attività industriali
sudafricane dal momento che molti beni precedentemente importati non erano più disponibili, e così aumentarono sia il volume sia la varietà dei beni fabbricati in Sudafrica»11.
Alla fine del conflitto l’industria manifatturiera nazionale sudafricana era più grande,
maggiormente diversificata, con competenze tecniche migliorate e anche fiducia.
Ma nonostante questi miglioramenti economici, in un altro senso la guerra aveva imposto un particolare onere interno all’Unione sudafricana. La decisione di andare in guerra
aveva diviso la frazione bianca della società, riaprendo ed approfondendo vecchie ferite
e persino creando delle divisioni all’interno dello stesso United Party al potere e del suo
stesso Consiglio.
Non appena la Gran Bretagna ebbe dichiarato guerra alle potenze dell’Asse, il Generale
Hertzog, Primo Ministro, portò alla House of Assembly una mozione a favore della neutralità del Sudafrica. Facendo questo egli si mise contro ben otto membri del suo governo, tra questi il vice Primo ministro Generale Jan Smuts.
Smuts si oppose alla mossa di Hertzog con un emendamento che proponeva la partecipazione alla guerra.
In un drammatico confronto parlamentare fu Smuts ad avere la meglio per 80 voti contro i 67 del suo collega-rivale. E proprio in seguito a questo Smuts formò un nuovo governo e condusse il Sudafrica in guerra.
Smuts non ebbe mai dubbi sulla correttezza e l’opportunità della sua scelta interventista ma allo stesso modo non dubitava del fatto che quella stessa sua volontà di portare
la nazione nel conflitto avrebbe comportato come corollario alcuni sacrifici.
10
11
J. Barber, South Africa’s Foreign Policy, Oxford University Press, London, 1973, p. 7.
Ibidem.
12
Per Hertzog, e ancor più per il National Party, la decisione di Smuts di portare in
guerra il Sudafrica fu un esempio lampante e disastroso del fatto che ancora una volta
l’Unione fosse rimasta al seguito della Gran Bretagna per poi essere coinvolta in un
conflitto importante ma che non aveva nessun interesso diretto per la nazione .
Questo modo di veder le cose non era condiviso dalla grande maggioranza dei sudafricani anglofoni. La divisione non era semplicemente quella tra Afrikaner e anglofoni- lo
stesso Smuts era Afrikaner- ma sembrava tanto richiamarsi all’antica spaccatura tra Boeri e Britannici che poteva riaprire da un momento all’altro vecchie ferite e, vale la pena
ricordarlo, il cosiddetto race problem, cioè la questione delle relazioni tra gli Afrikaner
e i bianchi di lingua inglese, da distinguere storicamente dal native problem , cioè quello relativo ai rapporti tra i bianchi e i non-bianchi.
La principale opposizione alla guerra venne dal National Party, guidato dal Dr. D.F.
Malan. I Nazionalisti, rimasti fuori dalla coalizione Hertzog-Smuts, vedevano loro stessi
« come i portatori delle vere e pure tradizioni Afrikaner »12, tradizioni che mettevano in
risalto e tendevano ad enfatizzare la posizione di unicità e i diritti degli Afrikaner in
Sudafrica, e la necessità di una forma di governo repubblicana costruita sui principi delle antiche Repubbliche Boere.
Quelle tradizioni erano originariamente appartenute ad una popolazione rurale, quella
boera, che spesso rappresentava gli anglofoni e i loro alleati Afrikaner come crudeli impresari e commercianti.
A seguito del suo fallito tentativo di tenere la nazione sudafricana fuori dalla guerra,
Hertzog e alcuni dei suoi sostenitori lasciarono lo United Party, rendendo più acuta la
divisione all’interno della società bianca.
Da lì in poi, lo United Party, nonostante avesse mantenuto i leader Afrikaner e il sostegno di almeno una minoranza di questi ultimi, si troverà a contare più che mai sulla sezione di lingua inglese della popolazione bianca. La disputa sulla decisione di andare in
guerra o meno aveva dato forma ai due maggiori partiti politici bianchi che si confronteranno negli anni a venire dopo la guerra.
E questa divisione, sebbene presto verrà offuscata dalla questione già citata delle relazioni tra bianchi e non-bianchi (native problem), sarà dura a morire.
Durante la guerra i nazionalisti mantennero una forte e persistente critica nei confronti
del coinvolgimento sudafricano. Non solo bollarono la guerra come “la guerra dei britannici”, ma vi era tra di loro anche una certa simpatia nei confronti della Germania.
Persino tra i Nazionalisti più moderati non si nascondeva una certa soddisfazione relativamente alle vittorie iniziali della potenza nazista contro gli inglesi, nel vedere
« il vecchio bullo essere esso stesso oggetto di bullismo »13. Invece tra i Nazionalisti più
radicali vi era un aperto sostegno alla Germania, e se è vero che questi elementi più estremi vennero disconosciuti da Malan e i loro leader furono imprigionati dal Governo,
tra i loro ranghi c’erano allora futuri leader Nazionalisti come ad esempio un uomo che
poi diverrà Primo Ministro:B.J. Vorster.
Per un periodo di tempo circoscritto Hertzog si unì al Partito Nazionalista, ma non
riuscì a trovarvi la sua sistemazione ideale. I nazionalisti erano troppo severi e inflessibili per i suoi gusti,e sospettavano sempre troppo di lui.
Ma per il National party era sempre Smuts il principale capro espiatorio e nemico mortale, e la cosa peggiore era il fatto che Smuts fosse un Afrikaner che « aveva mandato i
figli del Sudafrica a morire per l’Inghilterra »14.
12
Ivi , p. 9.
Ivi , p. 10 .
14
Ibidem .
13
13
Durante il suo premierato Smuts restò sempre una figura discussa all’interno del Sudafrica, mentre all’estero godette sempre di grande prestigio: ecco un’altra ragione per cui
il governo sudafricano aveva fiducia nella sua posizione internazionale alla fine della
guerra. Se infatti prima del conflitto l’Unione aveva sempre guardato a sé stessa come a
un piccolo stato senza grandi pretese internazionali, in Smuts aveva avuto un grande statista di fama internazionale. Egli, ricordiamolo, agì anche in qualità di Ministro per gli
Affari Esteri, un accorgimento particolarmente adatto ai suoi interessi e che era stato
adottato anche da precedenti Primi Ministri sudafricani.
Smuts dominò quindi così tanto la politica estera sudafricana che molti sono stati portati
ad analizzarla come una politica determinata dalla sua sol volontà.
Dal momento che i suoi interessi stavano nella totalità della struttura del sistema internazionale, egli mise in relazione gli interessi del Sudafrica con questa stessa struttura.
Per lui la sfida predominante negli affari internazionali era quella di evitare per il futuro
altre guerre come quella di quegli anni, e per vincere quella sfida Smuts sosteneva tre
punti:la creazione di un organismo internazionale designato a preservare la pace; la restaurazione di una Europa pacifica e prospera; il rafforzamento e l’espansione del
Commonwealth britannico.
Ma negli anni del dopoguerra le restrizioni particolari che il Sudafrica aveva di fronte
non erano solo quelle geografiche o quelle relative alle limitate risorse: stavolta c’era di
più. Infatti sebbene fosse stato uno statista dal passato onorato e dai disegni futuri di
portata internazionale, Smuts era sempre e comunque un uomo della società sudafricana
bianca, della quale condivideva attitudini e valori.
Ma proprio quelle attitudini e quei valori a partire dal dopoguerra cominciarono a venir
messi sempre più sotto pressione. Fu quindi presto chiaro che Smuts dovette abbandonare sempre più i suoi grandi progetti per tornare su una posizione difensiva e proteggere la struttura della sua stessa società
Le idee generali e le supposizioni di Smuts erano inconciliabili con i limiti cui l’Unione
doveva confrontarsi dopo la guerra. Negli affari internazionali l’istinto di Smuts era
quello di prendere l’iniziativa e di chiedere agli altri di seguirlo. Ma nel mondo che si
profilava in quel dopoguerra mai gli fu permesso di far questo.
Aveva cercato di lavorare su un piano differente rispetto agli altri politici , ma fu costretto a rinunciare ai suoi grandi progetti e a difendere semplicemente le politiche razziali del suo Paese.
Cosicché le elezioni del 1948 si profilavano come un duro banco di prova per il Governo Smuts.Il trionfo del Partito Nazionalista e dei suoi alleati Afrikaner alle elezioni
politiche del 26 maggio 1948, giunse inaspettato per tutti, e fu una sorpresa per gli stessi
nazionalisti. Le precedenti elezioni,datate 1943, avevano visto una vittoria netta per
Smuts e il suo United Party, o così almeno era sembrato.
Le prime elezioni del dopoguerra invece erano state una vittoria a metà per i Nazionalisti:infatti lo United Party aveva ottenuto quasi il 50% dei voti popolari, contro meno
del 40% ricevuto dai Nazionalisti e dai partiti Afrikaner alleati; e tuttavia,dal punto di
vista dei seggi parlamentari assegnati dal meccanismo elettorale, i risultati « furono un
inconfondibile trionfo per i Nazionalisti »15.
In ogni caso quel che è vero è che i nazionalisti avevano condotto una campagna astuta e decisa. Essi avevano lasciato in secondo piano questioni come la scelta della
forma repubblicana e quindi lo scioglimento di qualsiasi legame anche con il Commonwealth, e preferendo invece sottolineare il fatto che non avrebbero perseguito una
politica estera isolazionista, in quanto il Sudafrica - secondo loro e le loro idee- non sarebbe rimasto neutrale in caso di guerra tra blocco comunista e anti-comunista.
15
A. Vandebosch, SOUTH AFRICA and the WORLD. The Foreign Policy of Apartheid, The University
Press of Kentucky, Kentucky USA, 1970, p. 127.
14
Insomma durante la campagna politica i Nazionalisti avevano fatto della lotta al comunismo una questione di vitale importanza. Addirittura il Primo Ministro in carica
Smuts, fu accusato di avere «grosse responsabilità per la cattiva situazione mondiale»16,
in quanto aveva ceduto alle pressioni russe tese a mandare in rovina la Germania, che
all’epoca costituiva secondo molti il baluardo,anche fisico, contro la Russia comunista.
Gli esponenti del National Party avevano anche dato risalto alla questione razziale
durante la loro campagna elettorale, e per primi usarono il termine apartheid per sottolineare ed indicare la loro politica di segregazione.
D.F. Malan aveva aperto la campagna elettorale con una mozione al Parlamento secondo la quale l’atto con cui si era concessa la rappresentanza parlamentare agli Indiani
avrebbe dovuto essere abrogato, e che la rappresentanza dei “nativi” sarebbe stata eliminata, al pari del Natives Representative Council.
Sia ben chiaro, anche Smuts aveva poi accettato la politica di white supremacy.Ma al
tempo stesso il leader dello United Party metteva l’accento sulle enormi difficoltà del
problema razziale: « Noi abbiamo forse la posizione più difficile rispetto ad ogni altro
Paese, ma non credo che nessun altro Paese abbia avuto successo dovendo affrontare tali difficili problemi come quelli sudafricani »17.
Quando gli si chiese conto delle richieste di eguaglianza, egli rispose sempre che si
trattava di qualcosa di non ragionevole e di eccessivo,e più volte aveva sottolineato il
fatto che da diverso tempo cresceva un certo « interesse mondiale riguardo a ciò che
viene indicato come “diritti umani e punto di vista umano” »18.
Alle elezioni del 1948 l’elettorato sudafricano bianco si volse contro Smuts e il suo
United Party, e ciò fu letto da molti proprio come una risposta all’attacco che era stato
fatto in sede ONU alla politica razziale dell’Unione Sudafricana.
Per essere chiari, i sudafricani bianchi avevano avuto la sensazione che un mondo ostile al Sudafrica stesse minacciando la loro supremazia all’interno del loro stesso Paese. Il governo Smuts aveva contribuito a creare una situazione internazionale che gli
Afrikaner ritenevano assolutamente ostile ai loro propri interessi.
Quindi l’apartheid può essere interpretato come la conseguenza delle critiche negative mondiali rivolte alla politica razziale dell’Unione, e non come la causa di esse.
Come disse uno studioso di questioni politiche sudafricane, «l’apartheid rovesciò
Smuts»19: fu l’ultimo disperato tentativo da parte degli Afrikaner di arginare l’ondata
crescente delle rivendicazioni dei non-bianchi.
Al momento di assumere l’incarico di Primo Ministro e quello di Ministro agli Affari
Esteri, D.F. Malan volle almeno delineare la politica estera del suo governo.
Gli interessi del Sudafrica, secondo le sue intenzioni, avrebbero dovuto essere sempre
posti in prima posizione, ma questo non doveva significare che si dovesse sottoscrivere
una politica estera di tipo isolazionista. Anzi, Dr. Malan dichiarò che il Sudafrica aveva
accettato di entrare a far parte delle Nazioni Unite a patto chiaramente che non ci fossero «né interferenze domestiche nei nostri affari interni né alcun tentativo di immischiarsi a questioni inerenti i nostri autonomi diritti»20.
Il nuovo governo inoltre avrebbe desiderato continuare ad avere relazioni amichevoli
con la Gran Bretagna e gli altri membri del Commonwealth britannico, ma il neo-Primo
Ministro teneva a sottolineare il fatto che la cooperazione con essi sarebbe stata possibile solo se ciò non avrebbe sminuito lo status e la libertà del Sudafrica in quanto Stato
sovrano e se ciò non avesse comportato quindi alcun intervento nei loro affari interni.
16
Ivi, p. 128.
Ivi, p. 129.
18
Ibidem.
19
Ivi, p. 130
20
Ibidem.
17
15
Quelle dichiarazioni di Malan presagivano gli eventi a venire. Preoccupato per
l’immagine che il suo governo poteva avere all’estero, nominò Charles te Water (exAlto Commissario a Londra e rappresentante dell’Unione Sudafricana presso la decaduta Società delle Nazioni) quale ambasciatore “itinerante”.
Il Premier affermava che c’era «un grande pregiudizio nei confronti del Sudafrica,
basato su semplici malintesi»21.
3. L’apartheid come minaccia per la pace
Oltre ad aver istituzionalizzato un sistema razziale, Pretoria costituì un serio pericolo
per la pace e la sicurezza della regione meridionale dell’Africa a causa della sua azione
militare e del rifiuto continuo di accettare le decisioni e le regole del diritto internazionale. Così, il Sudafrica si tenne stretta la Namibia- ex-Africa del Sud-Ovest- su cui esercitò continuamente la sua occupazione militare nonché la colonizzazione economica, attraverso un regime basato sull’apartheid, nonostante il suo mandato fosse decaduto dal
1966 e la risoluzione 435 dell’ONU avesse intimato a Pretoria di permettere, nel 1978,
l’indipendenza immediata della Namibia.
A partire dall’indipendenza del Mozambico e dell’Angola nel 1975, poi con quella
dello Zimbabwe nel 1980, il Sudafrica aveva dovuto abbandonare il suo progetto di costruire una costellazione di Stati amici intorno a sé, in modo da comprendere in
un’unica entità economica i bantustan, il Botswana, il Lesotho e lo Swaziland, «per impegnarsi in una serie di operazioni militari tese alla destabilizzazione di tutti i suoi vicini, sotto gli occhi della comunità internazionale»22. Innanzitutto Pretoria intervenne
presso i piccoli Paesi suoi vicini, il Lesotho e lo Swaziland, nel primo caso con un raid
su Maseru, nel secondo tramite un trattato segreto con lo Swaziland. Addirittura nel
gennaio del 1986 i governanti sudafricani imposero un blocco al Lesotho al fine di ottenere la salita al potere di un governo amico. Quello che i bianchi sudafricani cercavano
di fare in questi 2 Paesi, praticamente strangolati dal più potente vicino, era togliere agli
oppositori sudafricani la possibilità di avere a disposizione i territori dei 2 Stati limitrofi
da cui poter organizzare la lotta armata e lanciare azioni di sabotaggio contro il regime
di apartheid.
Ma la politica estera sudafricana si dimostrava aggressiva anche nei confronti degli
altri Paesi come le ex-colonie portoghesi, la Tanzania, lo Zambia, anche questi propensi
ovviamente ad aiutare i movimenti di liberazione sudafricani e namibiani: non furono
risparmiati nei loro confronti diversi raid (contro Botswana e Zambia), sostegno al
MNR (movimento dissidente in Mozambico), minacce alla regione zimbabwana del
Matabeleland, attacchi e occupazioni reiterate dei territori angolani e aperto sostegno
nei confronti dell’UNITA, il movimento che combatteva il governo ufficiale di Luanda.
Ma la lista degli interventi sudafricani al di fuori dei confini statali potrebbe continuare,
e tutte le operazioni avevano per scopo quello di asservire politicamente e militarmente
dei piccoli Stati che già dipendevano largamente da Pretoria dal punto di vista economico.
Nonostante le condanne ripetute da parte dell’ONU e del Consiglio di Sicurezza in
particolare, le autorità governative sudafricane non si fermarono mai di fronte a niente
pur di «mettere in ginocchio quei fragili Stati che costituivano i loro alleati ma anche
una base naturale per gli oppositori sudafricani neri dell’ANC, che portavano avanti la
21
22
Ibidem.
J.-C. Barbier, O. Désouches, op. cit., p. 20.
16
loro lotta armata dal 1961»23. La presenza militare cubana in Angola, che Pretoria indicava come il semplice strumento di una reale influenza sovietica nella regione, non bastava certo a giustificare questo interventismo cronico.
Non solo, ma se consideriamo il sostegno o quantomeno la complicità di cui il governo nazionalista sudafricano ha goduto presso i grandi Paesi democratici, dobbiamo
dire che questo elemento era stato visto da diverse personalità e studiosi di politica internazionale come un ostacolo alla creazione e allo sviluppo di relazioni Nord-Sud fondate sui principi di uguaglianza e di rispetto reciproco dei Paesi interessati.
Quello che misero in luce diversi studiosi, tra cui Barbier e Désouches, è che nella
questione della lotta all’apartheid non era in gioco solo la liberazione di 28 milioni di
sudafricani oppressi, ma si trattava più in generale dell’insieme dei rapporti tra il Nord e
il Sud del mondo intesi in senso simbolico. Il regime di Pretoria aveva adoperato in merito a tale problematica una soluzione istituzionale improponibile a livello democratico,
esecrabile, in quanto metteva di fronte, per lo più all’interno degli stessi confini nazionali, un “Nord” ricco e prospero e un “Terzo Mondo”affamato ed esangue. Certo, quello
che succedeva in modo “legale” all’estremo sud dell’Africa altro non era che «una modalità estrema delle relazioni internazionali tra il Nord e il Sud»24.
A tal proposito notevole è ciò che disse, a proposito delle sanzioni internazionali contro
il Sudafrica, il presidente Botha nel luglio del 1986 in occasione della visita di Sir Geoffrey Howe, all’epoca Segretario di Stato britannico agli Affari Esteri e del Commonwealth, equivalente al nostro Ministro degli Esteri.
Il capo di stato sudafricano in quell’occasione invocò, come condizione indispensabile
per poter parlare di coerenza di azioni punitive nei confronti del suo Paese, la necessità
di estendere tali azioni all’eliminazione su scala mondiale di tutte le manifestazioni razziste, alla risoluzione della questione delle minoranze in tutti i Paesi e alla liberazione di
tutti i prigionieri politici indipendentemente dalla loro provenienza.
Quelle dichiarazioni sembrarono ai più un’argomentazione moraleggiante esplicitata solo per giustificare il mantenimento dello status quo in Sudafrica..
4. Il Sistema Atlantico
I movimenti anti-apartheid sono stati una parte del conflitto in questione.
Parte che è scomponibile sicuramente in differenti elementi quali: leader di componenti
razziali imprigionati o in esilio; opposizione interna all’apartheid; i diversi gruppi, partiti, classi, organizzazioni nelle “homelands”; ma anche i movimenti all’esterno del Sudafrica, fatti di intellettuali e organizzazioni (specialmente non-governative).
Ma anche i governi ufficiali di tanti Stati possono essere annoverati a tutti gli effetti
come rientranti all’interno del movimento anti-apartheid.
Non è però sicuramente facile individuare con esattezza chi all’epoca è stato veramente conto l’apartheid, fuori dai confini sudafricani: questo perché diversi Stati e
gruppi hanno presentato le loro politiche come opposte strenuamente al regime di Pretoria quando invece, in realtà, le cose erano differenti. Il movimento mondiale antiapartheid, quindi fortemente composito, ci fa capire che sarebbe un errore pensare alla
questione che stiamo affrontando come a una tematica solo africana. Da un lato infatti
non si trattava semplicemente dell’opposizione all’apartheid interna al Sudafrica, ma di
una rivolta mondiale contro il colonialismo a partire dal secondo dopoguerra; dall’altro
23
24
Ivi, p. 21.
Ivi, p. 22.
17
proprio «questa rivolta mondiale aveva incoraggiato speranze e la militancy da parte dei
neri sudafricani stessi, e infine reso più drammatico e tagliente il rifiuto mondiale
dell’ordine imperialistico» 25 su cui si era retto il colonialismo.
Indubbiamente a molti studiosi è venuto spontaneo effettuare il paragone con il movimento abolizionista anti-schiavitù che aveva raggiunto i suoi obiettivi ormai 2 secoli
prima.
Una delle più grandi differenze rispetto al passato è stata la portata della minaccia alla
pace mondiale rappresentata da questo conflitto. Il pericolo che la guerra razziale
nell’Africa meridionale sfociasse in un conflitto dalla portata e dagli effetti più ampi era
davvero incombente. Le materie prime essenziali alle economie delle Grandi Potenze
occidentali erano disseminate in buona parte del territorio del meridione africano, e lo
stesso territorio è circondato da oceani importanti dal punto di vista strategico.
Se vogliamo, tornando al paragone schiavismo-apartheid, la liberazione delle vittime
dell’apartheid ha un significato più rivoluzionario del modo in cui gli schiavi furono resi
liberi- cioè tramite una “paternalistica” eliminazione di quella barbara usanza.
L’abolizione della schiavitù fu essenzialmente determinata da un conflitto che metteva
“contro” gruppi bianchi dominanti, mentre la liberazione dall’apartheid è stata catalizzata dall’impeto principale degli stessi oppressi, con gli abolizionisti a giocare un ruolo
importante ma ausiliario.
E certo non possiamo considerare gli eventi del Sudafrica come slegati dal resto del
mondo.
Il governo di Pretoria era sicuramente parte di una rete di interdipendenze che lo riallacciava ad altre potenze economiche e politiche capitalistiche.
Teniamo conto che in Sudafrica l’apartheid si è sviluppato in un contesto capitalistico e
industriale: la separazione razziale ha permesso lo sviluppo di un mercato del lavoro a
basso costo.
Il termine Atlantic System è stato usato, nell’ambito dello studio da noi affrontato, per
indicare l’interdipendenza delle potenze industrializzate occidentali e la dipendenza del
Sudafrica in questo sistema. Vediamo come.
Il sistema atlantico è stato spesso in conflitto, a diversi livelli e con differenti intensità
di scontro, con altri sistemi regionali del mondo, ad esempio con il blocco degli Stati
comunisti, oppure con l’Organizzazione per l’unità Africana, ma anche con il blocco degli Stati produttori di petrolio rappresentati nell’OPEC.
I maggiori Paesi del blocco atlantico e del sistema Sino-Sovietico erano a lungo in
competizione per il controllo delle cosiddette aree periferiche.
All’interno del Sistema Atlantico, si potevano individuare aree centrali, aree semiperiferiche ed aree periferiche.
Il Sudafrica era sempre stato visto e considerato come una potenza semiperiferica del
blocco occidentale, dal momento che aveva un elevato grado di dipendenza dalle potenze centrali quali Usa, Gran Bretagna, Germania e Francia. Il governo di Pretoria
quindi fungeva come una filiale delle potenze capitalistiche occidentali nella fascia meridionale del continente africano. E in questa zona poteva portare avanti quell’opera di
penetrazione economica tanto cara al “blocco atlantico” in funzione anti-sovietica.
Quindi possiamo ben dire che la relazione di dipendenza del Sudafrica nei confronti
delle potenze occidentali poteva essere definita in diversi modi, ma in modo particolare
in termini culturali, militari, tecnologici e, al livello più alto, economici.
Non dobbiamo però esagerare nel considerare questo Stato, indubbiamente un pilastro
economico all’interno dell’Africa subsahariana, come «una pura estensione del mondo
atlantico in Africa»26.
25
26
G. W. Shepherd, Jr., op. cit., p. 10.
Ivi, p. 11.
18
All’interno di questo sistema (definito quindi come Atlantic System), e anzi come
parte non irrilevante della rete di interdipendenze e di relazioni che integrava il sistema
stesso, noi facciamo rientrare anche quegli attori transnazionali che poi hanno fornito le
basi per il conflitto.
Parliamo di gruppi non-governativi fondati sulla base di interessi etnici, ideologici, ma
anche di classe e di razza.
Questi gruppi hanno sempre tagliato in modo trasversale i confini degli Stati, e spesso
sono riusciti ad influenzare le decisioni politiche, culturali e razziali prese all’interno del
sistema.
Alcuni di questi gruppi hanno agito sicuramente in stretta associazione con le politiche ufficiali dei governi, mentre l’azione di molti altri vi si è opposta in modo diretto.
Molte di tali organizzazioni non-governative per i diritti umani sono state non-violente
sia a livello teorico/ideologico che dal punto di vista pratico.
D’altra parte, i cosiddetti di movimenti di liberazione, pure loro agenti transnazionali,
hanno racchiuso al loro interno un doppio elemento, cioè uno rivoluzionario e l’altro
non-violento, e il prevalere dell’uno o dell’altro è dipeso dal frangente politico e sociale
della lotta all’apartheid stessa.
5. Le ONG
Le organizzazioni non-governative svolsero un ruolo non irrilevante nell’assistere le
Nazioni Unite ad identificare le ingiustizie perpetrate nei confronti delle popolazioni
non-bianche e a riconoscerne i legittimi rappresentanti.
Ora dobbiamo anche aggiungere che rappresentavano interessi religiosi, etnici, di razza,
economici e soprattutto, è ovvio, umanitari.
Lo spettro di questi gruppi racchiudeva organizzazioni piccole ma già influenti ONG
come la Lega internazionale per i Diritti dell’Uomo, unioni di lavoratori, ma anche movimenti religiosi.
Shepherd li definiva gli impotenti («the powerless»)27, in quanto a differenza dei governi che reggevano le Nazioni in cui erano stati creati, mancavano generalmente, almeno all’inizio, di prestigio, ricchezza ma anche della forza delle armi.
Ma allora dove stava la loro forza? Certamente, nell’aver creduto fermamente nei loro ideali e nell’aver voluto a tutti i costi estendere i diritti umani al maggior numero di
persone possibile. Alcune delle ONG che si batterono per sostenere la lotta all’apartheid
erano riconosciute in quanto direttamente associate a determinate agenzie specializzate
delle Nazioni Unite; altre ebbero lo status di osservatore, che permise loro di avere accesso ai meeting e agli uffici delle Nazioni Unite.
Tutte le O.N.G. impegnate in questa lotta, fossero o meno registrate presso l’O.N.U.,
avevano in comune il fatto di essere chiaramente non-dipendenti dai governi ufficiali, e
ancor più indipendenti dal punto di vista finanziario e decisionale.
Tutte attraversarono diverse fasi di sviluppo, mutarono più volte strategia e organizzazione in base al successo o ai fallimenti delle loro attività precedenti.
In effetti, molto spesso accadde che un’organizzazione si spostasse da politiche mirate a
un moderato riformismo verso posizioni più forti e radicalmente favorevoli alla lotta
armata o a sostenere perlomeno i movimenti di liberazione africani.
Come all’epoca della lotta alla schiavitù, i conflitti non mancarono tra di loro, cioè tra
un insieme, oggi diremo riformista che ricercava primariamente un cambiamento pacifico della situazione di fatto, mentre un altro gruppo di O.N.G.-gli abolizionisti, come li
definì Shepherd-era propenso già dall’inizio a domandare ai governi occidentali misure
27
G. W. Shepherd, Jr., op. cit., p. 24.
19
concrete per catalizzare mutamenti totali e strutturali nella condizione socio-politica che
determinava il persistere dell’apartheid.
Il ruolo che parecchie di loro giocarono nel saper influenzare, all’interno delle rispettive società nazionali, la direzione della politica dei loro governi richiamò un’attenzione
sempre maggiore, ma nel lungo periodo ciò che sicuramente fu di gran lunga l’elemento
più importante stava senza dubbio nel loro ruolo transnazionale, nel sapere in altre parole bypassare le politiche dei governi nazionali e portare avanti i loro ideali e le loro
battaglie all’estero sino all’assise più importante, quella dell’O.N.U. É proprio questo
fattore che ad un certo momento preparò il terreno per il conflitto finale tra i cosiddetti
impotenti e il sistema dell’apartheid.
Il processo di decolonizzazione è stato sicuramente il maggiore precursore del movimento contro l’apartheid, sia perché seppe creare un dibattito e un’arena politica mondiale nei quali i movimenti di liberazione poterono essere riconosciuti, assistiti e legittimati, sia perché si cominciarono a produrre nuove relazioni tra le potenze dominanti
ricche e gli Stati di nuova formazione, spesso assistiti dal blocco comunista.
In particolare, le società britannica e americana sono state quelle nelle quali storicamente si è assistito alla nascita del maggior numero di organizzazioni non-governative,
e questo può essere spiegato con lo storico loro interesse verso i diritti umani e il loro
essere sempre stati a conoscenza degli immediati problemi della decolonizzazione, in
quanto maggiori potenze atlantiche. A partire dal momento in cui nacque l’ONU, si ebbe una netta crescita di tante organizzazioni che «sostenevano e supportavano il rispetto
dei diritti dell’uomo come scopo primario della loro attività»28. Come ci ha suggerito
nel suo testo Shepherd, lo sviluppo di tali organizzazioni è stato analizzato e periodizzato secondo una ripartizione temporale in 3 periodi, e ognuno di questi periodi rifletteva il carattere e l’influenza di certe idee predominanti e delle stesse maggiori ONG
attive in quel momento.
In particolare si ebbe un periodo iniziale di proteste focalizzato sulla richiesta di riforme giuridiche interne e costituzionali; il secondo periodo caratterizzato da una azione
diretta e da un aumento del seguito di queste organizzazioni anche al livello di masse e
di opinione pubblica; e il terzo periodo caratterizzato dal vero e proprio sostegno diretto
ai movimenti di liberazione da parte delle organizzazioni non-governative.
Il primo periodo va all’incirca dalla nascita delle Nazioni Unite sino alla metà degli
anni ’50, il secondo tra la metà dei ’50 e il 1960, mentre dopo l’eccidio di Sharpeville il
supporto ai movimenti di liberazione si fece più diretto. Possiamo dire che mentre il
conflitto si approfondiva nell’Africa meridionale, allo stesso tempo si accresceva la partecipazione dell’opinione pubblica e delle persone, individualmente o per gruppi, soprattutto - si è già detto- in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, e tutto questo non faceva
che accrescere sempre più una certa coscienza “transnazionale”, con il conseguente graduale spostamento da una posizione più incline alle riforme moderate, a proposte di azione diretta e sostegno ai gruppi di liberazione africani, che, parallelamente a loro volta
crescevano sempre più in potere e legittimazione internazionale.
Il periodo tra le 2 guerre mondiali aveva lasciato in eredità alla generazione successiva le basi per un interesse umanitario diffuso specialmente negli USA e nel Regno Unito, mentre le idee che stavano dietro alla Società delle Nazioni (autodeterminazione e
preparazione graduale all’autogoverno per le popolazioni delle colonie rientranti nei territori sotto mandato) avevano cominciato a svilupparsi.
Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, quindi il primo periodo in cui l’interesse per i diritti umani venne indirizzato spontaneamente verso l’organizzazione di attività transnazionali fu caratterizzato dall’opera di individui e gruppi che riflettevano l’ottimistico liberal-internazionalismo ( Shepherd lo definì «liberal internationalism»29) che in quegli
28
29
Ivi, p. 30.
Ivi, p. 32.
20
anni sosteneva il credo e la speranza che un organismo internazionale avrebbe saputo
comporre gli scontri tra i differenti interessi nazionali. Questo credo fu poi applicato anche nella creazione dell’ONU, e portò alla convinzione che l’attuazione della Carta delle Nazioni Unite si sarebbe realizzata tramite una decolonizzazione graduale e una crescente pressione per la condanna organizzata del razzismo.
Relativamente all’apartheid, questa visione legalistica preconizzava la condanna universale del razzismo, ma non presupponeva né voleva favorire una decisa azione contro il
sistema economico e militare che lo sosteneva, in quanto questo avrebbe comportato
un’opposizione netta agli interessi occidentali economici e di sicurezza.
Si pensava- o forse si sperava- invece che il cambiamento industriale nelle colonie,
così come il sistema razziale sudafricano, avrebbe causato il sorgere di nuove condizioni di modernizzazione e fatto realizzare le riforme direttamente dall’interno di questi
sistemi. Ma forse tutto ciò era davvero una semplice speranza dei governi occidentali e
delle ONG, tanto più che questa concezione non faceva altro che rendere razionali e
giustificare gli interessi delle potenze atlantiche occidentali ed era chiaramente attaccabile dalle popolazioni dei territori ancora sotto dominio coloniale, dagli Stati di nuova
indipendenza e dalle ONG emergenti realmente preoccupate dal non-rispetto dei diritti
umani.
L’emergere in Sudafrica degli Afrikaner nazionalisti al potere e lo stabilirsi di una
dottrina ufficiale dell’apartheid fu l’evento che fece cambiare le cose per gli anni a venire, dando il la ai primi movimenti di opposizione pacifica. La rappresentazione organizzata degli attivisti pacifisti cominciò con numerose nuove personalità e organizzazioni, che erano pienamente motivate da reali preoccupazioni e interessi nei confronti
dei diritti umani ed erano inoltre guidati da persone che «dissentivano profondamente
con il prevalente gradualismo dei loro rispettivi governi ufficiali»30.Sia l’Africa Bureau
che la Christian Action avevano origini che risalivano alla Anti-slavery Society, una
delle prime organizzazioni contro lo schiavismo.
Negli Stati Uniti l’American Committee si era sviluppato dall’Americans for South African Resistance creata da George Houser per dare sostegno e supporto al South African National Congress, e più tardi collegata al gruppo pacifista di Fellowship of Reconciliation (FOR). In tutti i suddetti gruppi, la leadership dominante era generalmente
bianca, pacifista e di religione cristiana-protestante. Certo, tra i partecipanti non mancavano neri e africani, che più tardi diverranno i futuri leader della resistenza, tra questi
ricordiamo in Inghilterra senz’altro Kwame Nkrumah, che aveva organizzato il Congresso Panafricano a Manchester per poi ritornare in Costa d’Oro per guidare la Gold
Coast National Convention , ma anche Hastings Banda e George Padmore, attivi nelle
nuove ONG dell’epoca; negli Stati Uniti, Rustin, Sutherland e Browne furono fra i primi organizzatori neri dell’American Committee on Africa.
Importante certamente fu anche l’African American Institute, fondato nel 1953 a Washington da ex-missionari e ufficiali di governo, che aveva carattere semi-ufficiale, in
quanto buona parte delle sue risorse finanziarie derivavano dalle finanze del governo.
Queste organizzazioni furono effettivamente fra le prime a richiedere apertamente
l’intervento delle Nazioni Unite e di altre agenzie internazionali contro « quello che era
considerato, in quella fase, più come una violazione della dignità umana che una reale
minaccia per la pace»31.
Michael Scott, un ecclesiastico anglicano, fu il primo portavoce occidentale dell’Herero
people of South West Africa, e riuscì ad ottenere per i popoli dei territori sotto Ammini-
30
31
Ivi, p. 33.
Ivi, p. 34.
21
strazione Fiduciaria, il diritto di poter rivolgere richieste direttamente al Consiglio di
Amministrazione Fiduciaria.
George Houser e un gruppo che includeva Peter Weiss, Bayard Rustin, Muste, Harrington e altri, molti di loro connessi al Fellowship of Reconciliation, sostennero
l’appello di Scott che domandava giustizia per gli africani prigionieri del sistema di
apartheid. Il Canonico John Collins fu un altro pioniere di questa resistenza in Inghilterra, anche lui un pacifista cristiano anticonformista.
La non-violenza a quel tempo era il credo anche dei movimenti di opposizione neri
del Sudafrica così come di tutti i movimenti africani degli anni ’50, compreso l’ANC.
Tutti i gruppi precedentemente citati potevano essere definiti transnazionali nel senso
che adoperavano strutture internazionali per intercedere attivamente in nome dei diritti
degli africani in Sudafrica pur avendo, chiaramente, differenti interpretazioni riguardo
alle misure e alle tattiche più appropriate da usare: tutti però mettevano l’accento
sull’autorità morale e giuridica delle Nazioni Unite in materie come queste, autorità che
invece veniva negata dai governi interessati e dai loro supporters, fautori della visione
di domestic jurisdiction così come appariva regolata dalla lettera del paragrafo 7 art. 2
della Carta ONU32.
Gli attivisti pacifisti stranieri, soprattutto dei movimenti britannici e statunitensi, furono senza dubbio influenzati dal pensiero degli africani neri in esilio o emigrati con i
quali essi lavorarono. In ogni caso i loro programmi partivano da quei principi che avevano dato vita alle procedure di risoluzione pacifica delle Nazioni Unite.
Domandarono che i rappresentanti dei nazionalisti fossero ascoltati e che si discutessero
le problematiche relative; le loro attese circa la velocità del cambio rivoluzionario in
Sudafrica erano quelle per cui si sarebbe dovuto introdurre al più presto un governo della maggioranza, questo avrebbe condotto «all’abolizione completa dello sviluppo separato delle razze, nell’arco di un decennio o al massimo due»33. Houser, Scott e Collins,
negli anni ’50, svilupparono un attacco al nucleo economico e militare del sistema che
sosteneva l’apartheid. Un aspro dibattito allora si sviluppò non solo con i responsabili
dei governi occidentali, ma anche con altri esponenti dell’opposizione all’intervento
dell’ONU, tra i quali accademici sudafricani emigrati.
Il clima prevalente nel mondo accademico e politico, da una parte e dall’altra
dell’Atlantico, era sempre contrario ad internazionalizzare la questione dell’apartheid.
L’attacco delle ONG a questo gradualismo dei governi fu marcato soprattutto da parte dell’American Committee On Africa (ACOA) negli Stati Uniti e dall’Africa Bureau
in Inghilterrra; intanto i movimenti di decolonizzazione cominciavano a farsi sentire.
La dichiarazione d’intenti dell’Africa Bureau rappresentava in Inghilterra la reale preoccupazione “degli uomini e delle donne” dei 3 principali partiti politici, e scopi
dell’organizzazione erano sia quello di informare le persone inglesi (e non) riguardo ai
problemi africani e riguardo le opinioni stesse degli africani, sia comunicare agli africani rapporti accurati relativi agli eventi che accadevano in Inghilterra e che li riguardavano, nonché aiutare gli africani stessi ad opporsi alle ingiuste discriminazioni incoraggiando la cooperazione tra le diverse razze.
Tra il 1956 ed il 1965 il pensiero e l’attività dell’Africa Bureau cominciò a far breccia
nelle politiche inglesi, e ciò ebbe di conseguenza delle influenze presso le Nazioni Unite. In ogni caso il suo capo, Reverendo Michael Scott si era sempre opposto all’uso della forza da parte delle nazioni unite contro il Sudafrica.
32
L’art. 2, par. 7 dello Statuto ONU stabilisce che “Nessuna disposizione[…] autorizza le Nazioni Unite
ad intervenire in questioni che appartengano essenzialmente alla competenza interna di uno Stato”.
33
Ivi, p. 35.
22
Simili idee riflettevano il pensiero dell’American Committee on Africa, almeno agli inizi. La principale differenza tra le 2 organizzazioni stava nello stile più radicale
dell’ACOA, anche a causa della significativa partecipazione di leader neri quali Robert
Browne. Negli anni ’50 l’ACOA fu primariamente interessata all’indipendenza degli
Stati africani. Il suo approccio al problema sudafricano dell’apartheid fu la sua richiesta
di indagini fatta alle Nazioni Unite.
Infatti nel settembre del 1955 invocò il governo degli Stati Uniti affinché supportasse il
ristabilimento della Commissione ONU sulla situazione razziale in Sudafrica, cosa che
le potenze occidentali ovviamente avversavano con il pretesto che questa Commissione
avrebbe costituito un’interferenza negli affari interni di uno Stato in piena violazione-si
è già visto - della domestic jurisdiction.
L'ACOA richiese inoltre che le Nazioni Unite estendessero l’assistenza tecnica al Sudafrica e agli altri Stati africani, e allo stesso tempo espresse gran preoccupazione riguardo
agli investimenti economici crescenti degli stati occidentali in uno stato razzista quale
era il Sudafrica. Raccolse inoltre fondi negli Stati Uniti per difendere i leader politici africani in diversi processi, come d’altronde faceva il Defence and Aid Group in Inghilterra.
6. Anti-Apartheid Movement
Nel 1960, come già ricordato, cominciò un nuovo periodo inaugurato ignominiosamente
dal massacro di Sharpeville.
L’anno precedente diversi elementi dell’ANC si erano separati dal movimento in quanto
ritenevano che questo esso si fosse orientato troppo in senso multirazziale, e sostenevano che fosse ormai necessario un approccio più forte basato su azioni di massa.
Le divisioni sorte all’interno dell‘ANC derivavano anche dal fatto che nel suo establishment erano presenti personalità di diverse etnie e razze: e gli esponenti neri più radicali all’interno del movimento non pensavano che la collaborazione con Indiani, Coloured e bianchi li avrebbe aiutati ad acquisire il controllo politico del Sudafrica.
Nel 1955 infatti l'ANC aveva adottato la Freedom Charter, una Carta dei diritti che postulava una democrazia multirazziale: questa carta dei diritti non fece che acuire le divisioni all’interno del movimento, che appunto 4 anni dopo subirà la separazione ad opera
di quel che si chiamerà Pan Africanist Congress (PAC) of Azania.
Proprio alla fine del 1959 accadde che l’ANC aveva deciso di organizzare, per il 31
marzo dell’anno successivo, una manifestazione contro il decreto governativo dello Urban Areas Act, informalmente chiamato pass law ("legge del lasciapassare"). Questa
legge prevedeva che i cittadini sudafricani neri dovessero esibire uno speciale permesso
se fossero stati fermati dalla polizia in un'area riservata ai bianchi. I lasciapassare venivano concessi solo ai neri che avevano un impiego regolare nell'area in questione.
Il PAC, per non essere da meno né farsi superare in quanto d organizzazione dal movimento-rivale, stabilì dunque di preparare una manifestazione simile, che avrebbe dovuto
aver luogo prima di quella predisposta dall’ANC, e cioè il 21 marzo.
La mainfestazione, svolta di fronte alla stazione di polizia dei Sharpeville, doveva essere,e in realtà lo fu, assolutamente pacifica, ma venne stroncata con la forza, e in modo
immotivato, dalla polizia, che, senza aver ricevuto ordini superiori, fece fuoco sui manifestanti, uccidendone 89 e ferendone 186.
23
A quel punto, in tutto il mondo «gli attivisti pacifisti, frustrati dall’apartheid (sostenuto da un crescente investimento finanziario a da una continua complicità militare),
passarono dalla non-violenza a tattiche di liberazione a supporto della lotta armata34.
L’emergere di un sostegno diretto ai gruppi di liberazione nell’Africa meridionale
venne fuori dall’inasprito conflitto nella regione, specialmente nei territori portoghesi, e
dall’accresciuta convinzione che il sostegno dei governi occidentali allo sforzo militare
del Portogallo e del Sudafrica doveva essere fermato da un embargo delle armi e con altre azioni concrete, piuttosto che con mere promesse verbali da parte dei governi.
In Sudafrica il crescente uso della forza e della violenza per sopprimere i movimenti nazionalisti portò all’esilio di molti africani.
Il fatto poi che i governi americano e britannico si opponessero ad ogni ricorso alla forza contro l’apartheid o altri regimi sudafricani non fece che aggravare le tensioni.
L’azione diretta divenne la nuova tattica, tramite marce e manifestazioni di massa.
Nuovi gruppi, non legati a idee pacifiste e religiose, cominciarono ad entrare a far parte
dei movimenti contro l’apartheid. In Inghilterra questi erano costituiti da membri della
Campagna per il Disarmo Nucleare, che rappresentava universitari, sindacati, un gran
numero di giovani e l’ala radicale del Partito Laburista, il Partito Comunista e altri
gruppi marxisti.
L’Anti-Apartheid Movement, formato nel 1950 in Inghilterra da tutti questi elementi,
divenne molto presto «l’agenzia centrale di coordinamento per le campagne di azione
diretta, che operavano una pressione continua sulle politiche britanniche e sostenevano
la posizione della maggioranza delle Nazioni Unite L’ideologia di fondo era ancora
quella di un attivismo pacifico, ma gruppi più giovani e radicali portarono al suo interno
una idea di “liberazione” che presupponeva dimostrazioni, boicottaggi, scioperi, ma anche disobbedienza civile. Fu così che in Inghilterra si ebbero azioni di massa quali le
dimostrazioni contro le armi negli anni ’60 e ’70 nonché l’azione ampiamente diffusa
contro il razzismo nello sport, che sfociò nel «Stop the Seventy Tour campaign»35,
campagna poi ampiamente allargata dalla rete anti-apartheid36.
La leadership del Movimento Anti-Apartheid(AAM) era stata frequentemente caratterizzata dalla presenza di esuli bianchi sudafricani. Il principale elemento non-bianco
tra gli esuli era Abdul Minty, un Indiano esiliato dal Sudafrica e residente nel Regno
Unito dal 1957. Se chiaramente l’azione dei movimenti di liberazione africani ebbero un
ruolo attivo nel lavoro dell’AAM, gli africani che stavano in Inghilterra e appartenevano
a questo movimento, almeno inizialmente, avevano un seggio e possibilità di intervento
all’interno del comitato organizzativo, organo costituito da 150 persone, ma non potevano partecipare alle votazioni interne. Certo, molti africani del movimento avrebbero
gradito avere un ruolo più importante, ma nonostante tutto accettavano la situazione di
fatto in quanto sapevano che il dominio della presenza bianca era giustificata dalla necessità di fare appello ad un elettorato a schiacciante maggioranza bianca. La limitata
partecipazione, all’interno del movimento, degli elementi britannici non-bianchi, derivava tanto dall’atmosfera paternalistica che caratterizzava, secondo Shepherd, le politiche razziali inglesi di quel nuovo periodo, quanto dai timori degli stessi immigrati.
In ogni caso, nonostante l’importanza di ex-sudafricani quali Ethel de Geyser, Ronald
Segal, Ruth First e Abdul Minty nella gestione dell’AAM, essi «sarebbero stati impotenti senza la sostanziale rappresentanza, nell’opera attiva del movimento, di ecclesiastici britannici, tra cui vescovi, ma anche dei sindacati, dei docenti universitari, nonché
34
Ivi, p. 36
Ivi, p. 38
36
Ibidem. La campagna “Stop the Seventy Tour”, ideate dal liberale inglese Peter Hain, aveva come scopo quello di ostacolare il tour che le nazionali sudafricane(bianche,ovviamente) di cricket avrebbero
dovuto fare nel Regno Unito durante le estati del 1969 e 1970.
35
24
di parlamentari sia laburisti sia liberali. La loro presenza mostrava la crescente politicizzazione della questione dell’apartheid all’interno della società britannica»37.
Da ricordare anche che un gruppo associato strettamente all’Anti-Apartheid Movement
era l’International Defence and Aid Fund, che era la principale agenzia per la raccolta di
risorse finanziarie da destinare ai gruppi di liberazione , e in particolar modo a favore di
quelli impegnati contro l’apartheid, e come scopo principale aveva quello di raccogliere
fondi per l’assistenza legale delle persone di tutte le razze sotto processo per tradimento.
La penetrazione del pensiero dell’AAM all’interno di altri gruppi, più grandi e legati
all’establishment socio-politico-quali erano i Partiti Laburista e Liberale,la stampa,la
Chiesa Anglicana e quella Cattolica- era la parte più efficace della sua attività. Infatti,
molte personalità in quelle aree della vita britannica furono perlomeno influenzate
dall’AAM, sebbene non volessero essere troppo direttamente associate ad esso o perché
non ne condividevano esattamente tutti punti di vista oppure perché lo ritenevano portatore di un’immagine “radicale”.
La stampa britannica, molto sensibile alla tematica dell’apartheid, aveva un punto di
vista che,seppur pronto a denunciare il razzismo,era alquanto gradualista e poco propenso ad invocare l’azione diretta in favore della liberazione. Ad ogni modo, la visibilità concessa dagli organi di stampa britannici permise all’AAM di estendere presto la
sua influenza in strati della società inglese non ancora toccati dai corrispondenti gruppi
anti-apartheid USA all’interno della società statunitense.
37
G. W. Shepherd, Jr., op. cit., p. 38.
25
Capitolo II.
La politica estera dell’apartheid.
1. La politica nazionalistica sudafricana del dopo-guerra.
Il periodo tra il 1948 e il 1959, a cui per praticità possiamo far riferimento con
l’espressione “anni ‘50”, vide i maggiori sviluppi relativamente agli affari internazionali.
La Guerra Fredda raggiungeva il suo apice, e in Africa le potenze coloniali, con
l’eccezione del Portogallo, cominciavano a spostare le loro politiche verso un sempre
più probabile ritiro.
Era un periodo in cui dominava la rivalutazione delle posizioni europee in Africa, ma
anche di crescente incertezza nel continente.
Dal punto di vista del Sudafrica però quel lasso di tempo fu caratterizzato da una certa
coerenza politica dal momento in cui il nuovo governo si stabilì al potere.
Il cambio al governo arrivò con la vittoria alle elezioni del 1948 riportata dal National
Party. Come si è già avuto modo di dire quella fu «una vittoria di stretta misura e, per
certi versi sorprendente e inaspettata anche per molti sostenitori del Partito Nazionalista
»38.
Negli anni immediatamente successivi alle elezioni del 1948 ci fu all’interno
dell’Unione una discreta incertezza e una palpabile tensione, mentre il nuovo governo
cercava di rendere più stabile il suo potere.
Ma a partire dalla metà degli anni ’50, e ancor di più dalla fine dello stesso decennio, le
cose sarebbero cambiate. Infatti i Nazionalisti, con 2 ulteriori e sostanziali vittorie elettorali (1953 e 1958), riuscirono ad affermarsi come il vero partito al governo del Sudafrica: pensiamo alle elezioni del 1958, nelle quali il National Party ottenne 103 seggi
parlamentari contro i soli 53 del secondo partito, lo United Party (UP).
In opposizione allo United Party, i Nazionalisti avevano sempre criticato Smuts per
aver concentrato troppo le proprie energie e la propria attenzione sugli affari internazionali, perciò, quando loro salirono al potere, posero come interesse principale quello per
gli affari interni all’Unione, quindi l’introduzione delle politiche del National Party
all’interno del Sudafrica e rendere più saldo il controllo sul governo da parte del partito.
In parte a causa degli impegni presi nei confronti della situazione interna, in parte a causa del fatto che le opzioni internazionali aperte al Sudafrica si stavano progressivamente
restringendo , gli obbiettivi di politica estera divennero sempre meno pretenziosi e sempre più strettamente legati alle politiche interne.
Gli interessi personali del Dr. D.F. Malan e di Mr. Johannes Strijdom, i primi due
Primi Ministri Nazionalisti del dopoguerra, rifletterono il cambio di enfasi che si riscontrò nella politica sudafricana.
Se come carattere i due non si rassomigliavano certo( Malan piuttosto calmo e ricco di
charme, Strijdom diretto e aggressivo), entrambi avevano i maggiori interessi nella situazione interna all’Unione.
Certo è però che, per via del loro incarico e della costante interazione tra politica estera
e interna, essi ebbero un ruolo significativo anche negli affari esteri.
38
J.Barber, op. cit., p. 45.
26
Nel 1955 Strijdom compì l’importante passo di separare le cariche di Primo Ministro e
di Ministro per gli Affari Esteri, nominando conseguentemente Eric Louw come Ministro allo stesso dicastero.
Louw arrivò a quell’incarico con un notevole bagaglio di esperienza diplomatica che ricomprendeva un periodo di rappresentanza alle Nazioni Unite.
Era un uomo fiero e determinato, un sincero difensore delle politiche del governo, ma al
tempo stesso era un tipo sempre pronto ad attaccar briga.
È stato a lungo dibattuto, e forse lo è ancora oggi, se il suo stile militante e aggressivo e
la veemenza con cui diceva agli altri in cosa sbagliassero, abbia aiutato o meno la causa
sudafricana al cospetto del resto del mondo.
Si è detto di lui che « lui vinse ogni battaglia ma perse tutte le campagne »39.
A onor del vero va detto che Louw era dotato di una grande abilità nel sostenere qualsiasi dibattito, e seppe guadagnarsi un grande rispetto all’interno del Dipartimento per gli
Affari Esteri, e riuscì a portare una ventata di passione ed entusiasmo all’interno dello
stesso Dipartimento, che altrimenti avrebbe probabilmente sofferto una perdita di fiducia a causa della costante pressione internazionale a cui era sottoposto.
Alla morte di Strijdom, divenne Primo Ministro dell’Unione Hendrik Verwoerd.
Quest’ultimo mantenne la separazione tra l’incarico di Primo ministro e quello di Ministro per gli Affari Esteri lasciando al suo posto Louw sino alla morte di questi, avvenuta
nel 1964, quando fu nominato Ministro Hilgard Muller.
Il Primo Ministro in quel momento era un uomo dotato di un’immensa energia e di una
buona dose di autostima, e giocò una parte dominante e centrale negli affari internazionali così come in tutte le altre sfere di governo.
Mentre le differenti personalità dei leader Nazionalisti ebbero un ruolo nel dare forma alla politica, il loro interesse comune,la preoccupazione che li accomunava tutti e li
rendeva poco dissimili dai leader dello United Party che avevano governato prima di loro, restò sempre quello della difesa della società bianca.
E questo elemento comune si rifletté nel comune porsi di questi leader rispetto alla politica estera del Sudafrica.
Addirittura Barber afferma che « non ci fu alcun cambiamento nel momento in cui il NP
per la prima volta salì al potere »40, e l’argomento maggiormente proposto in tal senso
(ma non sostenuto da Barber) è che Malan si interessò poco agli affari esteri,che non
operò nessun gesto “drammatico” o spettacolare come per esempio l’abbandono del
Commonwealth, che mantenne al loro posto anziani ufficiali e funzionari che avevano
servito Smuts, e che quindi per questi motivi non ci fosse stato alcun cambiamento negli
indirizzi di politica estera .
Barber afferma invece che se si può essere d’accordo sul fatto che i cambiamenti non
furono certo spettacolari, questi potevano essere rilevati, e anche dall’inizio.
Si trattava di cambiamenti che derivavano non solo dalla situazione internazionale sempre più ostile, ma anche dagli obbiettivi e dagli ideali del National Party che venivano
realizzati all’interno dell’Unione.
Il National Party , se da una parte aveva sempre reclamato una assoluta divisione tra
bianchi e non-bianchi dall’altra si impegnò sempre più, in quanto partito prevalentemente Afrikaner, a perorare la causa dei sudafricani discendenti dei Boeri.
E sicuramente le politiche del governo nazionalista , in quanto riguardavano le relazioni
tra le due comunità bianche, creavano amare dispute all’interno dell’Unione.
Mentre dal punto di vista internazionale, l’attenzione principale della platea mondiale
era concentrata certamente sulla struttura razziale del Sudafrica.
Al contrario di Smuts, il NP non fu mai accusato di ipocrisia per aver ad esempio appoggiato solo a parole la cooperazione razziale mentre praticava discriminazione e se39
40
Ivi, p. 46.
Ivi, p. 47.
27
gregazione. Tutt’altro,non ci furono mai dubbi riguardo agli scopi e ai principi del partito. Ma questo rifiuto di cercare compromessi e la mancanza di flessibilità resero molto
più difficile il compito di trovare alleati a livello internazionale.
“Apartheid” divenne parte del vocabolario politico internazionale dal momento che i
problemi razziali dell’Unione venivano interpretati in un palcoscenico ormai mondiale.
Le azioni del governo mirate alla segregazione e alla discriminazione cominciarono ad
essere sempre più diffusamente riportate.
Così come veniva data sempre più attenzione, all’estero, agli oppositori del governo,
come Albert Luthuli41, o come ecclesiastici anglicani come Huddlestone e Michael
Scott, che guadagnarono una discreta fama internazionale.
Ci fu inoltre una diffusa simpatia internazionale nei confronti dell’Africa National Congress che aveva organizzato una campagna di resistenza passiva nel 1952 e un boicottaggio delle scuole nel 1955 per protestare contro il Bantu Education Act del 1953.
Ma anche i personaggi bianchi e non-bianchi contro i quali il governo agì si guadagnarono quel sostegno internazionale che derivava loro dai bandi di cui furono fatti oggetto
in Sudafrica, ma anche dai processi sommari e celebri come il Treason Trial42, che durò
ben 5 anni.
Le reazioni internazionali ostili esasperarono i ministri sudafricani, uno per tutti Eric
Louw. Egli accusò i giornalisti stranieri e i responsabili delle trasmissioni giornalistiche
«di dare immagini false e distorte del Sudafrica»43.
Il governo cercò di contrastare l’immagine negativa del Paese che veniva trasmessa
all’estero con i suoi servizi di informazione, e fu così che lo State information Office
venne trasferito dal Ministero degli Interni al Dipartimento per gli Affari Esteri.
Dalla parte del governo le voci parlavano di un Sudafrica usato come bersaglio internazionale(«international butt»)44, e i responsabili governativi si rifiutavano di credere che
l’ostilità e l’opposizione internazionale fossero veramente basati su principi saldamente
radicati, e tendevano a spiegare questi atteggiamenti ostili nei confronti del Sudafrica in
termini di opportunismo.
Il governo accusò i nuovi stati afro-asiatici di voler attaccare il Sudafrica per distogliere
l’attenzione internazionale dai difetti e dalle debolezze che in realtà li affliggevano..
E soprattutto si accusarono, sempre da parte governativa, i “vecchi” Stati di assecondare
queste critiche non perché essi concordassero con esse, ma semplicemente perché queste stesse critiche erano adatte ai loro interessi, mirati ad attirarsi le simpatie (economico-politiche) dei paesi di più recente formazione.
Il National Party era sempre incline a generalizzare le posizioni dei suoi avversari
politici, così da poterli raggruppare tutti all’interno della categoria di «comunisti o simpatizzanti comunisti»45.
Non appena giunse al potere, il governo nazionalista creò un comitato per investigare
sul comunismo all’interno dell’Unione.
Commentando i risultati di quel comitato, C.R. Swart, l’allora Ministro della Giustizia,
disse che il comunismo era «un pericolo che minacciava la vita nazionale, le loro democratiche istituzioni e la loro filosofia occidentale»46.
La relazione finale del comitato ebbe presto il suo corollario: il Suppression of Communism Act del 1950. A partire da questo provvedimento, il Partito Comunista sudafricano
41
Albert John Lutuli, fu un importante uomo politico sudafricano, insegnante, e presidente dell’ANC per
15 anni dal 1952 al 1967.
42
Il Treason Trial fu il celebre super processo nel quale 156 persone(tra cui Nelson Mandela) furono arrestate in seguito a un raid in Sudafrica e accusate di tradimento, nel 1956.
43
J.Barber, op. cit., p. 53.
44
Ibidem.
45
Ivi, p. 53
46
Ivi, p. 54.
28
e le altre organizzazioni che fossero state colte in attività di promozione del comunismo
sarebbero state dichiarate fuorilegge.
Definizioni molto larghe furono date ai termini di “comunismo” e “comunista”, sino ad
arrivare alla categoria che nei tribunali veniva chiamata “statutory Communism”(comunismo definito dalla legge).
Questo statutory Communism «associava al comunismo ogni dottrina o atto i cui scopi
erano quelli di apportare cambiamenti politici,industriali, sociali o economici all’interno
dell’Unione sudafricana attraverso la promozione di azioni di disturbo o disordini, o attraverso atti punibili per legge, o per mezzo di omissioni, o per mezzo della semplice
minaccia di tali atti od omissioni, o attraverso qualunque mezzo che includesse la promozione di tali disordini, minacce, atti od omissioni»47.
La visione di un comunismo penetrante e dilagante poteva essere addirittura rassicurante per i sudafricani bianchi, e infatti era accettata da molti membri dello United Party
e dello stesso National Party: se era possibile credere (e molti bianchi appunto, volevano crederlo) che una forza maligna operasse per minacciare il Paese - una forza in cui
magari ricomprendere insieme oppositori interni, stati del blocco comunista, stati del
blocco afro-asiatico, elementi liberali e di sinistra degli Stati occidentali- allora era più
facile giustificare l’ampiezza e la forza di questa ostilità nei confronti del Sudafrica.
Fatto ancora più rassicurante, per quella parte cospicua della popolazione bianca che
credeva in questo “comunismo allargato” pronto a distruggere l’assetto globale della
Nazione,era che se l’opposizione non-bianca interna al Sudafrica poteva essere associata al comunismo, nessuna richiesta o necessità di revisione radicale del sistema sociale nazionale poteva né doveva essere presa in considerazione.
Questa visione aveva contribuito a razionalizzare e a rafforzare la determinazione dei
bianchi, facendo credere loro ancor di più che le difficoltà interne del Sudafrica non erano da attribuire a loro proprie colpe, bensì a forze sovversive esterne.
«“I non-europei in questo Paese” -disse una volta Malan- “sono incitati, e lo sono deliberatamente, non solo da parte dei comunisti, ma anche dai liberali,e questo avviene
dall’estero”»48.
Secondo Barber, i Sudafricani(bianchi) avevano anche sperato che la loro posizione
fermamente anticomunista avrebbe attirato loro il sostegno degli stati occidentali.
Ma al massimo questa speranza fu solo parzialmente soddisfatta.
Anche durante gli anni ’50 gli sviluppi interni in Sudafrica furono fortemente criticati e
le potenze occidentali divennero sempre più restie ad associarsi strettamente all’Unione.
Dal punto di vista interno il National Party affermava che l’apartheid era l’unica soluzione possibile per i “dilemmi razziali” del Sudafrica, ma mentre il partito si difendeva
dagli attacchi internazionali, allo stesso tempo cercava catturare l’attenzione sul fatto
che «l’apartheid non fosse una nuova politica, e che semplicemente aveva razionalizzato
e regolato quelle distinzioni razziali che erano state precedentemente accettate sia
all’interno del Sudafrica che da altri Stati»49.
Perché allora, si chiedevano i Nazionalisti, si doveva essere condannati per aver perseguito politiche precedentemente accettate?
Ovviamente lo United Party contestava questa interpretazione.
Essi avevano ben definito ciò che per loro era la chiara distinzione tra le loro politiche e
quelle che venivano perseguite dal National Party al governo.
Loro erano certamente più pragmatici, meno impegnati a seguire una impostazione dottrinaria rigida , e più desiderosi di guadagnarsi l’”accettazione” internazionale di quanto
non fossero i Nazionalisti.
47
Ibidem.
Ibidem.
49
Ivi, p. 55.
48
29
Per questo i membri dello UP argomentavano che essi avrebbero potuto arrestare il crescente isolamento internazionale.
Probabilmente a causa della sua maggiore flessibilità lo United Party avrebbero fatto
concessioni sulle questioni razziali, concessioni che forse avrebbero ammorbidito le posizioni critiche di alcune potenze occidentali.
E forse, per via dell’importanza che il partito di opposizione dava ai legami con la Gran
Bretagna e con il Commonwealth, lo UP sarebbe stato pronto ad eventuali cambiamenti
per quanto riguarda le politiche interne pur di mantenere questi legami internazionali.
Inoltre, i legami forti del partito con gli interessi commerciali internazionali gli avrebbero consentito di avere degli interlocutori internazionali più comprensivi tra le potenze
occidentali e lo avrebbero spronato a cercare una maggior cooperazione internazionale.
Ma anche tenendo conto di questo, qualsiasi concessione che fosse stata accettabile per
lo UP non avrebbe comunque saputo soddisfare neppure le più moderate richieste internazionali e avrebbe solamente ottenuto di posticipare l’ostilità diplomatica internazionale contro il Sudafrica.
Le distinzioni che lo United Party aveva segnato tra sé e il governo del National
Party erano irrilevanti al cospetto delle richieste dei loro principali critici internazionali.
Entrambi i partiti erano legati al dominio della minoranza bianca.
Quello che si richiedeva al governo dall’estero era non una rettifica qui e una riforma là,
ma un radicale cambiamento nella società sudafricana.
E il governo nazionalista non tardò a comprendere la debolezza della posizione degli
oppositori. Nel maggio del 1957 quando de Villiers Graaf, leader dello United Party, attaccò il governo per aver condotto il Sudafrica nell’isolamento internazionale per mezzo
di politiche rigide ed ideologiche, Strijdom rispedì al mittente critiche ed accuse rispondendo:
« La politica ideologica a cui il mondo esterno porta le sue critiche è quella per cui noi
non concederemo l’uguaglianza politica tra bianchi e non-bianchi. Questo è quello
che loro ci chiedono. Loro dicono che noi non dovremmo trattare in modo diverso per legge o in altro modo il bianco e il non-bianco. La nostra politica prevede che per proteggere
l’uomo bianco sono necessarie queste leggi discriminatorie, per esempio riguardo alle concessioni, e questo per rimettere il potere di guidare il Paese nelle mani dell’uomo bianco,
cosicché lui possa mantenere la sua supremazia»50
Poi Malan chiese allo United Party:
« Si oppongono a questa legislazione discriminatoria che- io dico - ha l’effetto di mantenere nelle mani degli uomini bianchi il potere di governare il Paese- perché questa è una
legislazione discriminatoria?...Vorranno loro abrogare per esempio la legislazione del 1936
e reintr.odurre i nativi all’interno delle liste elettorali comuni? E se loro dicono di essere
preparati a far questo, io chiedo quale sia allora la differenza tra quel partito e noi. Se noi
siamo ingiusti nei confronti dei non-bianchi a tal riguardo, non lo sarebbero perciò anche
loro?» 51.
2. Il Sudafrica in un mondo diviso
Analizziamo ora la posizione del Sudafrica nello scacchiere mondiale di quel periodo.
Con la sua forte opposizione al comunismo,il governo sudafricano era incline ad interpretare la politica internazionale dell’epoca come una lotta politico-ideologica tra il comunismo e l’anti-comunismo.
50
51
Ivi, p.56
Ibidem.
30
Certamente questa era una interpretazione della situazione politica internazionale molto
diffusa all’epoca della guerra fredda, ma per essere applicata al caso specifico del Sudafrica bisogna far riferimento ad un insieme specifico di credenze e convinzioni politiche, che pochi altri governi condividevano.
In ogni caso i sudafricani persistettero nelle loro pretese, facendo appello al sostegno e
alla simpatia degli occidentali.
Tra le altre cose che sostenevano vi era il fatto che « l’ostilità degli stati afro-asiatici era
un riflesso diretto dell’influenza comunista »52, e che i territori coloniali erano così vulnerabili all’infiltrazione comunista che -sempre secondo il governo nazionalista biancoera necessario usare la più grande cautela nel concedere l’indipendenza a quegli stessi
territori.
La paura del governo sudafricano di una possibile eversione comunista portò a una
rottura nelle relazioni diplomatiche con l’Unione Sovietica nel 1956.
I Russi avevano chiuso le loro ambasciate, e per tutta risposta i rappresentanti sudafricani vennero richiamati da Mosca.
In una dichiarazione alla House of Assembly, il ministro degli Esteri Louw accusò i Sovietici di aver incoraggiato l’eversione e il malcontento all’interno dell’Unione e di essersi fatti beffe delle leggi interne sudafricane53.
In particolare, le denunce andavano dall’aver contattato gruppi sovversivi all’aver organizzato feste(drinks parties) per gruppi razziali misti.
Qualche mese dopo, Louw parlò della diffusione delle attività sovietiche in Africa.
Disse che i Russi si erano già infiltrati in Nord Africa e in Etiopia, che avevano già fatto
diverse proposte di apertura al Ghana, fomentato disordini in Nigeria che stavano estendendo più in generale le loro attività trami tele loro ambasciate e la propaganda radiofonica.
Il grande timore era che questa attività si potesse estendere anche al Sudafrica nonbianco.
Secondo Malan il comunismo era un pericolo doppio per il Sudafrica, e in Sudafrica poteva essere più distruttivo che altrove non semplicemente per la sua ideologia, ma perché esso faceva appello specificamente alla popolazione non-bianca del Paese,e sempre
secondo il Malan « se i comunisti ottengono ciò che vogliono relativamente alla popolazione non-bianca del Paese, le campane risuoneranno a lutto per la civiltà bianca in Sudafrica »54.
Le relazioni del Sudafrica con gli Stati comunisti furono ostili e univoche.
I comunisti replicarono alle accuse sudafricane definendo l’Unione la “homeland del
neo-fascismo” e il suo governo “nazista”55.Da quel momento nessuna delle due parti si
aspettò più (né ovviamente ricevette) cooperazione o anche solo dimostrazioni di comprensione dall’altra. Dopo aver rotto le relazioni diplomatiche con l’URSS, il Sudafrica
non ebbe più contatti diplomatici diretti con gli stati comunisti al di fuori delle Nazioni
Unite, organismo in seno al quale essi erano tra i principali critici del regime di Pretoria.
Le attitudini dei sudafricani bianchi nei confronti del gruppo di Stati definito vagamente “Afro-asiatico” erano caratterizzate de paure radicate nella loro stessa società.
I nuovi stati rappresentavano, all’interno della comunità internazionale, la cronica paura
di una sfida portata dai non-bianchi alla continua supremazia bianca all’interno
dell’Unione. Il Governo sudafricano rigettava in modo persistente l’accusa secondo la
quale in Sudafrica vi era una situazione essenzialmente coloniale,e si lamentava
dell’inesperienza e dell’immaturità dei nuovi Stati.
52
Ivi, p. 57.
House of Assembly, 1 febbraio 1956. Altre ambasciate, incluse quelle USA e britannica, erano state
criticate, di tanto in tanto, dal governo sudafricano per aver organizzato feste dello stesso tipo.
54
House of Assembly, 25 gennaio 1951.
55
J. Barber, op. cit., p.58
53
31
A titolo di esempio si riporta ciò che Malan una volta si chiese: « Quale sarebbe la situazione di qualsiasi famiglia oggi se i bambini e gli adulti venissero trattati in tutto e
per tutto sullo stesso piano?»56. Malan quindi paragonava i nuovi stati, quelli cioè di
nuova indipendenza, a dei bambini che, senza esperienza all’interno della comunità internazionale,avrebbero solamente mantenuto attiva una continua campagna tesa a incoraggiare il malcontento tra i non-bianchi all’interno dell’Unione.
Secondo il governo nazionalista, il messaggio che continuamente veniva trasmesso ai
sudafricani non-bianchi era quello per cui essi(i non-bianchi) erano oppressi e i loro diritti negati,per cui essi avrebbero dovuto resistere e organizzarsi contro il continuo dominio della minoranza bianca.
Quando Eric Louw arrivò a Londra per la Conferenza Economica del Commonwealth nel novembre del 1952, egli affermò che tutti i disordini causati in Africa erano dello stesso tipo, e associò i Mau Mau del Kenya ai più recenti disordini che colpivano la
Rhodesia del Nord. Disse che le cause principali di quei problemi andavano ricercate
nell’incoraggiamento che gli Africani avevano ricevuto dalle Nazioni Unite, dai cosiddetti “liberals” europei e statunitensi, dai socialisti britannici e da uomini di chiesa mal
consigliati. Lo stesso Louw affermava che i comunisti e la loro propaganda avevano influenzato tutte quelle persone, e asseriva che « i critici del Sudafrica in Inghilterra e negli Stati Uniti venivano usati come strumenti dall’India, per vendetta contro il Sudafrica
e per la promozione del suo scopo di assicurarsi uno “spazio vitale” in Africa per i suoi
miseri e affamati milioni»57.
Ovviamente era impossibile essere d’accordo e restare coerenti con tali semplicistiche argomentazioni, e infatti in diverse occasioni altri Ministri del governo avrebbero in
seguito per lo meno fatto delle distinzioni all’interno dei gruppi internazionali che si
opponevano alle loro politiche razziali, correggendo in parte le affermazioni di Louw.
Quando le politiche razziali stesse non occupavano la mente dei responsabili del governo, i ministri nazionalisti discutevano per cercare di attrarre gli stati afro-asiatici nel
blocco non-comunista.
Anche nel caso dell’India, Malan portò come una delle sue ragioni a favore del mantenimento della partecipazione dello Stato asiatico al Commonwealth, la necessità di mantenere la sua amicizia nei confronti dell’Occidente.
Certamente c’erano particolari circostanze che permettevano di spiegare l’entusiasmo di
Malan per la continuata partecipazione dell’India al Commonwealth, ma in ogni caso
egli affermò pubblicamente che « nella battaglia tra Est ed Ovest é importante mantenere la fiducia degli Indiani»58.
Più tardi Malan arrivò addirittura a dire che l’India, come il resto del mondo, stava allora prendendo posizione insieme ai Paesi anti-comunisti, e che il gigante asiatico guardava al comunismo in Asia come a un pericolo, allo stesso modo in cui lui e
l’Occidente- queste erano le parole del Premier sudafricano- guardavano al comunismo
veramente come a un pericolo.
Se da una parte il governo sudafricano vedeva i comunisti e gli Stati afro-asiatici
come naturali avversari, allo stesso modo essi vedevano gli Stati occidentali come naturali alleati. Questi Stati erano certamente anti-comunisti; molti di loro avevano possedimenti coloniali; e in fin dei conti era nell’Europa Occidentale che il Sudafrica aveva le
sue radici.
Nel 1951, Malan disse che il Sudafrica era un «Paese che condivide la civiltà
dell’Europa occidentale, e noi vogliamo tutelarla»59.
56
Ibidem.
The Times, 25 Nov. 1952, in J. Barber, op. cit., p. 59.
58
J. Barber, op. cit. , p. 59.
59
Ivi, p. 60.
57
32
Disse inoltre che gli interessi e i pericoli che l’Europa occidentale e il Sudafrica avevano di fronte erano identici, per cui era doveroso per essi lavorare insieme come “amici intimi”.
I sudafricani bianchi non esitarono mai nel rivendicare un’identità occidentale.
L’Unione era profondamente integrata nel sistema economico occidentale, era un alleato convinto anche se un po’ periferico durante il periodo della Guerra Fredda, c’erano
legami di sangue e cultura accettati da alcuni europei occidentali, e c’erano inoltre simpatia e comprensione tra le potenze coloniali nei confronti dei problemi che il Sudafrica
aveva nel dover governare razze diverse di uomini.
Ma il Sudafrica, in realtà, non si integrò mai completamente all’interno del blocco occidentale. Si trovava alla periferia, geograficamente parlando, del mondo occidentale, era
afflitto da problemi razziali unici, ed era una realtà poco capita da parte di molti Stati.
Se in un certo senso questo Paese rappresentava sicuramente un alleato prezioso, specialmente per uno Stato come la Gran Bretagna che aveva degli interessi in Africa meridionale e sugli oceani circostanti, in un altro senso esso era innegabilmente..un alleato
imbarazzante.
Per gli stessi sudafricani l’identificazione con l’Occidente avveniva in modo alquanto
cauto e selettivo. Per esempio, essi non avevano per niente simpatia nei confronti dei
movimenti socialisti, né verso quelli “liberal”,né rispetto ad altri sviluppi culturali della
società occidentale, specialmente la sua tolleranza e le sue attitudini mutevoli nei confronti della razza e dei suoi problemi.
Ancora una volta occorre dire che erano le politiche razziali interne del Sudafrica le
responsabili dell’imbarazzo e della crescente alienazione dall’Occidente.
Le teorie razziali naziste avevano lasciato al mondo intero un’eredità di disgusto per tutte quelle idee e politiche basate su rivendicazioni di superiorità razziale.
I sudafricani bianchi avrebbero potuto provare a convincere gli altri Stati occidentali che
le circostanze in cui si trovavano loro erano molto differenti da quelle dell’Europa, che
non era giusto giudicare il Sudafrica senza comprenderne appieno la situazione unica e
tipica solo di quella realtà. Ma i giudizi venivano comunque “emessi”, e per di più divenivano progressivamente più critici.
Questo causava rabbia e frustrazione. Malan disse nel 1954 parlando di fronte alla
House of Assembly:« Ci si accorge oggi che nel mondo, specialmente in Inghilterra, è
presente uno stomachevole sentimento nei confronti dell’uomo nero..Loro venerano una
pelle nera »60.
I critici del Sudafrica non permisero mai agli Stati occidentali di scordarsi del Sudafrica e delle sue politiche razziali. La causa contro il regime di Pretoria veniva presentato come una questione morale ben definita. Ogni Stato doveva uscire allo scoperto.
Il compromesso non era possibile, nel senso che chi non era contro l’apartheid era da
considerarsi a favore. Nel 1951 il delegato indiano alle Nazioni Unite disse che se le politiche discriminatorie del Sudafrica avessero continuato a prosperare liberamente senza
censura da parte delle democrazie occidentali, i popoli africani ed asiatici avrebbero potuto benissimo dar poco credito al desiderio-ammesso dall’Occidente- di unire i popoli
per la pace e di realizzare la sicurezza collettiva basata sul rispetto dei diritti umani e
delle libertà fondamentali.
Immediatamente, dall’inizio del dopoguerra, le potenze occidentali si ritrovarono intrappolate in questo dilemma, e questo non faceva che complicarsi con il tempo.
Per quelle potenze ed in particolar modo per il Regno Unito, il problema persistente era
quello di bilanciare il senso crescente di indignazione morale al cospetto delle politiche
razziali dell’Unione, con gli interessi esistenti e tangibili, in particolare quelli economici. Si trattava di un’inestricabile interazione di valori, attitudini e interessi.
60
Ivi, p. 61.
33
Per molti degli oppositori del Sudafrica, la riluttanza da parte degli Stati occidentali, a
impegnarsi direttamente in azioni contro l’Unione poteva essere spiegata quasi interamente dagli interessi economici.
Dalla loro parte gli Stati occidentali esprimevano spesso comprensione nei confronti
delle questioni morali sulle quali le politiche del Sudafrica venivano attaccate, ma secondo loro quegli attacchi venivano spesso fatti in termini troppo emotivi ed estremi, e
mai si traducevano in suggerimenti pratici per un’azione concreta.
In più, le potenze occidentali condividevano l’approccio-diremmo noi di tipo “legalistico”- del Sudafrica alle questioni internazionali, approccio che enfatizzava il mantenimento dello status quo. Esse ponevano l’accento sul fatto che le procedure di una disputa, oltre che la sostanza, erano importanti. Allora cercarono di bilanciare la loro indignazione morale con il desiderio di mantenere l’ordine, la stabilità e una condotta accettata da tutti. Cioè, esse introdussero all’interno degli “affari internazionali” la caratteristica ricerca del compromesso e del consenso. Mentre da una parte tentavano di mitigare gli attacchi che sempre più spesso venivano portati al governo sudafricano,
dall’altra cercavano continuamente di persuadere lo stesso governo a correggere le sue
politiche.
In una situazione che era fortemente polarizzata, la politica delle potenze occidentali
dava l’impressione di essere ambivalente ed incerta, con il risultato di causare risentimento e diffidenza sia tra i sudafricani, sia tra gli oppositori più aggressivi di Pretoria.
All’interno del blocco occidentale, le relazioni del Sudafrica con il Regno Unito rimasero sempre le più importanti per i Nazionalisti al potere.
Per questi ultimi si trattava di una questione confusa, complessa, un rapporto di amoreodio nel quale atteggiamenti del passato si mescolavano liberamente con giudizi del
presente. I tradizionali sospetti e le ostilità dei Nazionalisti nei confronti della Gran Bretagna furono mitigati dal fatto che essa era in fin dei conti sì un “male”per certi versi,ma
almeno non un male sconosciuto:essa infatti aveva un ruolo importante nella vita economica e culturale del Sudafrica. Inoltre, nel 1950 la Gran Bretagna non era ancora una
potenza fisicamente remota: le colonie britanniche erano sparse in tutta l’Africa meridionale(gli High Commission Territories, ma anche le Rhodesie il Nyasaland che poi
costituirono la Federazione dell’Africa Centrale nel 1953). Il fattore imperiale britannico era ancora una solida realtà in Africa meridionale.
Nonostante il sospetto e il risentimento che si mostravano da entrambe le parti, la
Gran Bretagna fu probabilmente l’alleato diplomatico più affidabile del Sudafrica durante gli anni ’50. Londra sostenne ampiamente Pretoria alle Nazioni Unite relativamente al comma 7 dell’articolo 2, contro l’ingerenza, quindi, negli affari interni sudafricani.
Inoltre i britannici raccomandavano solitamente moderazione agli avversari più aggressivi del Sudafrica. Ma nonostante questo i Nazionalisti sudafricani non abbandonarono
mai del tutto i sospetti del passato. Il governo continuò quindi a soppesare i vantaggi di
questa relazione allo stesso modo e con la stessa accuratezza con cui ne analizzava gli
svantaggi.
Le relazioni diplomatiche tra i due governi restarono ragionevolmente buone, ma erano più fredde e più formali dei tempi in cui era Premier Smuts. Secondo Heaton Nicholls, che era stato Alto Commissario dello United Party, « l’atmosfera familiare perlopiù scomparve, e al posto della situazione di amicizia per la quale l’Alto Commissario
poteva far visita e parlare con qualsiasi ministro a Londra senza darne notizia alla stampa, tali visite cominciarono a sembrare sempre più visite tra rappresentanti di Stati stranieri…»61. Quella situazione fu aggravata dalle importanti divergenze politiche che emersero durante gli anni ’50, specialmente sugli sviluppi delle colonie.
61
Ivi, p. 63.
34
Il governo si risentì alquanto quando percepì il tono delle critiche pubbliche della
Gran Bretagna al Sudafrica. Ci si attendeva che la Gran Bretagna, con la sua esperienza
coloniale e soprattutto con quella dell’Africa meridionale, avrebbero dimostrato una
maggiore comprensione dei problemi che affliggevano l’Unione.
Questo non avvenne, e grande fu il risentimento dei sudafricani, che a quel punto temevano davvero di essere rimasti senza più appoggi politici sicuri.
Se dall’Unione Sovietica i Nazionalisti non potevano aspettarsi altro che critiche ed opposizioni, cose che accettarono senza sorprendersi, dalla Gran Bretagna non potevano
immaginarsi una tale mancanza di comprensione.
Secondo loro, i Britannici «avrebbero dovuto capire» 62.
Alla sua maniera, Eric Louw si esasperò più che mai. Una delle sue esplosioni d’ira
comparve in una lettera al The Times del 7 gennaio 1957.
Questa lettera fu scritta quando Louw venne a sapere che Gerald Gardiner, futuro Lord
Cancelliere di sua Maestà, era stato mandato in Sudafrica per assistere al Treason Trial
per conto di tre organizzazioni, nello specifico Christian Action, Bar Council e Justice(nella quale, secondo molti, molti soci facevano parte anche dei tre principali partiti
politici britannici). Gardiner doveva riferire sull’andamento del processo, e agire come
osservatore e “garante” delle libertà civili degli accusati.
Louw protestò contro quello che a lui parve un calcolato insulto ai magistrati e giudici
sudafricani. Rivendicò inoltre il fatto che – sempre secondo lui- gli standard di giustizia
ed equità nei tribunali sudafricani erano elevati tanto quanto quelli di qualsiasi tribunale
nel mondo, soprattutto elevati tanto quanto quelli dei tribunali britannici, e « più elevati
di quelli di certi paesi che si pongono come i guardiani delle libertà civili e dei fondamentali diritti umani »63.
Parlando poi delle tre organizzazioni che avevano sponsorizzato la visita di Gardiner,
Louw si domandava come mai non fossero stati inclusi anche i comunisti.
Egli disse anche che se quella interferenza negli affari interni sudafricani era da giustificare con il fatto che il Paese fosse membro del Commonwealth, allora la cosa migliore
da farsi, per il governo, sarebbe stata quella di uscire al più presto dal Commonwealth
stesso 64.
Nella lettera del 7 gennaio 1957 Louw affermò anche che «l’atteggiamento di certe organizzazioni, quotidiani e individui nel Regno Unito non era basato su un interesse per
le libertà civili, ma era invece la manifestazione di una campagna di odio condotta contro il Sudafrica a partire dal 1948, da parte di una fazione della stampa britannica, dai
comunisti, dai socialisti, nonché da individui come il Canonico Collins, Padre Huddlestone e il Rev.do Michael Scott»65. E queste critiche- sempre secondo le parole
dell’iroso ministro degli Esteri di Pretoria - nonostante il Sudafrica fosse il secondo
maggior cliente economico della Gran Bretagna, e nonostante il grande aiuto che il Sudafrica aveva dato ai britannici durante la guerra.
Certamente la lettera di Louw non rappresentava esattamente il pensiero e la visione del
governo sudafricano, in quanto fu chiaramente scritta in un momento di collera e causò
un certo imbarazzo al governo stesso, ma è anche vero che restò un elemento sempre
presente nella mente dei ministri del National Party che dovettero gestire le sempre più
complesse relazioni con la Gran Bretagna.
Un altro motivo continuo di irritazione per il governo Nazionalista fu l’atteggiamento
del Partito Laburista inglese all’opposizione. Anche quando i laburisti erano al potere,
diversi membri del governo erano stati ampiamente critici nei confronti delle politiche
razziali del Sudafrica. Una volta all’opposizione, queste critiche divennero più nette e
62
Ibidem.
Ibidem..
64
Ibidem.
65
ibidem.
63
35
forti. Alla Conferenza del partito del 1956 fu fatta una proposta per la quale il futuro
governo laburista avrebbe espulso il Sudafrica dal Commonwealth. Nonostante questa
mozione fosse poi stata respinta, le motivazioni di quel rigetto addotte da James Griffiths, Shadow Minister, non erano certo motivo di consolazione per i sudafricani.
Dopo aver preso parola contro l’apartheid, egli argomentò che il miglior modo per apportare cambiamenti era quello di mantenere i contatti con Pretoria.
Disse che era necessario mobilitare la moralità dell’opinione pubblica all’interno del
Commonwealth e alle Nazioni Unite,e «sostenere al massimo grado quelli che in Sudafrica continuano a combattere contro questa politica»66.
Il governo sudafricano, fortemente risentito per queste critiche, si chiese se, a quelle
condizioni, sarebbe stato possibile cooperare con un eventuale futuro governo britannico laburista.
Nella loro ricerca di un’”amicizia occidentale”, i sudafricani riconoscevano
l’importanza degli Stati Uniti. Ma, come nel caso della Gran Bretagna, gli USA dimostrarono atteggiamenti spesso confusi e configgenti.
Come una delle superpotenze, e come leader del mondo occidentale e del suo sistema
economico, gli statunitensi avevano un’importanza ovvia per Pretoria.
Ma mentre i sudafricani rispettavano la forza ed il potere economico degli Stati Uniti, e
speravano in una cooperazione in funzione anti-comunista, le relazioni non furono mai
facili.
Inoltre, se da una parte entrambi i Paesi dovevano far fronte a problemi di popolazioni
etnicamente miste, le differenze nelle circostanze e soprattutto nell’approccio a questi
problemi tendevano a separare piuttosto che a unire Sudafrica e Stati Uniti.
Per considerazioni sia interne che di politica internazionale, nessun governo statunitense
poteva permettersi di essere considerato come un “intimo amico” del Sudafrica.
In aggiunta a questo elemento, si poneva il tradizionale sospetto americano nei confronti
del colonialismo euro-occidentale, sospetto che si associò, durante gli anni ’50 e poi anche nei ’60, alla spinta statunitense ad ottenere la fedeltà dei nuovi stati non ancora allineati.
L’attitudine ambivalente del governo sudafricano nei confronti degli Stati Uniti è
colto in un discorso pronunciato da Louw nel 1957.
Cominciava quel discorso con il criticare quelli che facevano pressioni sulle potenze coloniali affinché si ritirassero, e sebbene non menzionò esplicitamente gli Stati Uniti, era
ovvio che la rimostranza fosse indirizzata a loro.
Dopodiché fece riferimento specificamente agli interessi americani in Africa.
Salutò con favore i tentativi statunitensi di contrastare il comunismo, compreso il Piano
Eisenhower per il Medio Oriente.
Espresse apprezzamento nei confronti dell’attività economica americana in Africa, cheparole di Louw - era spinta dalla ricerca di un mercato di sbocco e di materie prime.
Invece, una attività che non venne salutata con favore era la stesura di relazioni negative
dai visitatori americani in Sudafrica. Citò a tal proposito il resoconto del senatore Green
che, dopo una fugace visita nell’Unione, aveva scritto un rapporto assai critico in cui si
affermava che gli Stati Uniti avrebbero dovuto scegliere se continuare ad essere amici
del Sudafrica oppure sostenere i diritti umani, la dignità e la libertà.
Nonostante una simile critica, Louw concluse asserendo che, in generale, le relazioni
con gli Stati Uniti erano buone e che il Sudafrica avrebbe continuato ad incoraggiare
quell’amicizia.
Il Ministro asseriva ancora che le relazioni erano buone nel 1959 e che, nonostante le
dichiarazioni ufficiali della sua politica, il governo USA , in quanto massima potenza
occidentale, non avrebbe perseguito politiche “nemiche” dell’Unione sudafricana.
66
Ivi, p. 64
36
Parlando degli Stati occidentali nel 1957, Louw affermava che essi non potevano « continuare a dare ordini ai sudafricani oggi come hanno fatto negli ultimi undici anni, ed
aspettarsi poi che domani noi li sosterremo su qualche questione »67.
3. La ricerca delle alleanze
Durante gli anni ’50 il governo Nazionalista fu spesso accusato dai suoi critici interni e
internazionali di perseguire politiche isolazioniste.
Se per isolazionismo si intende un rifiuto di modificare politiche interne in risposta alle
critiche e di conseguenza rinunciare al sostegno internazionale e alla cooperazione, allora si può parlare del Sudafrica del secondo dopoguerra come uno Stato isolazionista.
Ma con questo termine non si vuole certo indicare che il governo Nazionalista volle di
proposito ritirarsi in sé stesso e cercò di tagliare o restringere i rapporti con gli altri Stati. Infatti è pacifico che in quel decennio il governo di Pretoria cercò di stipulare accordi
con gli Stati occidentali, specialmente con quelli direttamente coinvolti in Africa.
Quindi si può affermare tranquillamente che «i Sudafricani desideravano la cooperazione internazionale, ma non erano preparati a rinunciare alle loro politiche interne, che
vanificavano ogni prospettiva di co-operazione »68.
Come tutti gli altri Stati, anche quello sudafricano era desideroso di avere un proprio
senso di appartenenza, una propria identità all’interno della comunità internazionale.
Questo in parte spiega la ripetuta enfasi posta dal governo sul ruolo importante che il
Sudafrica avrebbe dovuto avere per gli Stati occidentali. Ma il riconoscimento di questa
posizione non era l’unico obbiettivo.
Infatti anche la ricerca della sicurezza fu certamente un punto centrale della politica estera, e infatti negli anni ’50 il Sudafrica cercò sempre di ottenere la membership
all’interno di alleanze difensive del blocco occidentale.
La ricerca di alleanze fu caratterizzata - secondo J. Barber – da tre fattori: innanzitutto
dalla visione che di suoi politici al governo avevano del mondo, cioè quella di un mondo diviso tra comunisti e anti-comunisti; in secondo luogo, dai loro particolari interessi
in Africa; e infine dalla loro partecipazione prolungata al Commonwealth britannico.
Il comunismo era visto come la principale minaccia militare. All’interno dei confini
dell’Unione era diffusa tra i bianchi la paura continua di una possibile eversione comunista e di una conseguente promozione e diffusione di idee all’interno della popolazione
non-bianca, che potessero portare all’insorgere di disordini interni.
Altrove- in Europa, in Medio Oriente e in Asia- i sudafricani vedevano il comunismo
come un pericolo militare in espansione, lontano ancora dai confini del loro Stato eppure costantemente in movimento per minacciare nuove aree.
Il governo aveva le sue principali ambizioni militari all’interno del continente nero.
Disse Malan nel 1951: «Scopo del Sudafrica è prendersi delle responsabilità, nella misura in cui è possibile stringere accordi con altri Stati, per quel che riguarda territori che
si trovano a nord del Sudafrica. Noi vogliamo contribuire a proteggere i nostri vicini»69.
Sebbene i sudafricani volessero giocare un ruolo importante, dal punto di vista militare,
in Africa, essi erano consapevoli del fatto che l’Unione fosse una piccola potenza, e ritenevano che l’onere maggiore della difesa del continente, e degli oceani circostanti,
dovesse spettare ai maggiori Stati occidentali.
67
Ivi, p. 66.
Ivi, p. 81.
69
Ivi, p. 82.
68
37
Altrove, in quel periodo della Guerra Fredda, , gli Stati occidentali organizzavano alleanze per contrastare l’espansione comunista, i sudafricani volevano che una alleanza
simile coprisse anche l’Africa.
In particolare sarebbe stato gradito al governo di Pretoria che la NATO estendesse la
sua copertura al Sud dell’Atlantico.
Nel 1952, il Premier Malan, scrivendo a un quotidiano francese, affermava che mentre
la NATO era confinata alle aree a nord del tropico del Cancro, ogni futura guerra non
avrebbe potuto essere “ristretta” da simili limiti geografici ed enfatizzò anche il fatto
che, visto che molti degli Stati firmatari del Trattato nordatlantico possedevano territori
in Africa, essi avevano interessi diretti alla difesa del continente70.
Allo stesso modo il governo nazionalista accolse con favore la stipula di altri accordi
di difesa ad opera di Stati occidentali, come per esempio la SEATO relativamente
all’Asia sudorientale, e l’ANZUS, accordo stretto tra Stati Uniti, Nuova Zelanda ed Australia. I ministri di Pretoria parlarono spesso in modo accorato della possibilità di estendere quelle alleanze in modo da comprendere la difesa dell’Africa meridionale, e
talvolta si riferirono all’Unione come a una « ausiliaria dell’alleanza NATO »71.
Partendo dal presupposto che era l’isolamento geografico ad escludere il Sudafrica
dagli accordi esistenti, il governo stabilì di contribuire a creare nuove alleanze che coprissero il continente africano e gli oceani meridionali.
La preoccupazione per la difesa dell’Africa si estendeva al Medio Oriente, considerata
allora la via d’accesso all’Africa72.
Nei primi anni ’50 mentre la Gran Bretagna stava tentando di costituire la MEDO (Organizzazione per la Difesa del Medio Oriente), il Sudafrica accettò di unirsi alla costituenda organizzazione e acquistò carri armati e velivoli specificamente per dare il suo
contributo all’alleanza.
Una dichiarazione governativa affermò che, in accordo alla sua dichiarata politica di assistenza alla difesa del Medio Oriente e dell’Africa dall’aggressione comunista, aveva
deciso di «mandare “in tempo di guerra” forze di terra e di aria in Medio Oriente…Nel
perseguire questo incarico l’Unione aveva accettato di partecipare al Commando medio
- orientale»73. L’entusiasmo sudafricano per l’alleanza medio – orientale non corrispondeva a quello di altri Paesi del Commonwealth, e fu così che la costituzione della MEDO venne abbandonata, lasciando il Sudafrica senza la possibilità di svolgere un ruolo
attivo nella questione medio - orientale.
Dal punto di vista britannico questo fallimento non portava ulteriori problemi, nel senso
che parte del compito pensato per l’alleanza appena fallita venne svolta quando la fiancata meridionale della NATO fu estesa a Grecia e Turchia74, ma questo non fu certo di
gran consolazione per Pretoria.
Il mancato coinvolgimento nella questione medio - orientale non distolse i Nazionalisti dal continuare la ricerca di una più vasta alleanza africana.
Insieme al Regno Unito allora essi presero l’iniziativa di sponsorizzare una Conferenza
sulla difesa a Nairobi, nel 1951. Ad essa parteciparono le potenze coloniali che avevano
interessi in Africa centrale e in quella Orientale( Gran Bretagna, Francia, Portogallo,
Belgio e Italia), il Sudafrica, la Rhodesia del Sud e osservatori del governo statunitense.
70
La Revue Française, novembre 1952.
J. Barber, op. cit., p. 83.(Si veda anche G.R. Lawrie, “The Simon’s Town Agreement: South Africa,
Britain and the Commonwealth”, South Africa Law Journal, vol. LXXXV, parte 2, Maggio 1968,pp. 15777).
72
Ibidem.
73
Ibidem.
74
CENTO,(Central Treaty Organization), l’alleanza medio-orientale nella quale la Gran Bretagna fu poi
coinvolta, fu originata dal Patto di Baghdad, un trattato bilaterale del 1955 tra Turchia ed Iraq alla quale
poi aderirono in seguito Gran Bretagna, Pakistan e Iran.
71
38
Il governo britannico ci tenne a precisare che la conferenza avrebbe trattato i modi e i
mezzi con cui facilitare le comunicazioni e gli spostamenti di forze militari in quella
parte dell’Africa, e il capo-delegazione di sua Maestà, Lord Ogmore, disse esplicitamente, che quella stessa conferenza non doveva occuparsi di pianificazione o di concreti
progetti per il futuro, ma di assicurare semplicemente il flusso di uomini, macchine ed
equipaggiamenti in caso di conflitto.
L’ansia del governo sudafricano di vedere progressi nei loro progetti diplomatici e di
sicurezza era dimostrata dalla loro amicizia e cooperazione. Addirittura rifiutarono molto modestamente l’offerta di co-presiedere la conferenza.
I sudafricano vedevano la Conferenza di Nairobi non come fine a sé stessa, ma come il
seme dal quale sarebbe potuta germogliare una importante alleanza.
Ma questa era una speranza vana, in quanto lo stesso Ogmore ricordò che si trattava di
una conferenza limitata nei fini (in quanto, giovava ripeterlo, non mirava a far uscire
nessun progetto preciso) e avvertì che quel consesso di delegati poteva semplicemente
esprimere raccomandazioni, non prendere decisioni.
Come se non bastasse, alla fine della conferenza, il delegato portoghese ricordò a tutti i
membri che il suo Paese non aveva preso impegni né sottoscritto obbligazioni in quella
sede.
Un‘ altra Conferenza, maggiormente centrata sull’Africa occidentale fu poi organizzata nel 1954 a Dakar, e vide la partecipazione di Francia, Gran Bretagna, Belgio, Portogallo e Sudafrica: i risultati non furono dissimili da quelli della conferenza di tre anni
prima in Kenya. Ebbene, dopo quelle due conferenze, il Ministro sudafricano della Difesa, Erasmus, rivendicava il fatto che il Sudafrica avesse preso impegni sostanziali nel
caso di un’aggressione comunista in Africa, e che si fosse legato strettamente agli altri
governi nella difesa dell’Africa .
Il problema era che se i Nazionalisti erano convinti di aver preso “impegni”, gli altri governo non lo erano affatto. Nessuna alleanza africana, poi, era emersa.
Nonostante ciò, il governo non si perse d’animo, ed è nei termini di questa ricerca di alleanze che si potrebbe spiegare l’Accordo di Simon’s Town.
4. Simon’s Town Agreement
Il Simon’s Town Agreement consisté in uno scambio di lettere e di memorandum tra
Selwyn Lloyd (per conto del governo di sua Maestà) ed Erasmus in nome del governo
sudafricano. Uno di questi memorandum riguardava la necessità di discussioni internazionali relativamente alla difesa “regionale”, e rifletteva in effetti gli obbiettivi del governo di Pretoria alle conferenze di Nairobi e Dakar.
Il memorandum dichiarava che il Sudafrica e le rotte marittime intorno all’Africa meridionale dovevano essere rese sicure da aggressioni esterne, mentre la sicurezza interna
dei territori interni restava di competenza dei singoli Paesi. Il Regno Unito avrebbe perciò contribuito con proprie forze alla difesa dell’Africa, inclusa l’Africa meridionale e il
Medio Oriente, e il Sudafrica avrebbe contribuito a sua volta a mantenere quanto più
lontano possibile dai suoi confini ogni potenziale nemico, ma anche a difendere
l’Africa meridionale, il resto dell’Africa ed il Medio Oriente75.
I due governi si decisero così a sponsorizzare una conferenza per portare avanti la
“pianificazione” già iniziata alla Conferenza di Nairobi e compiere congiuntamente degli sforzi per garantire la costruzione di un meccanismo che potesse permettere il perseguimento,su una basa di continuità degli scopi di quella stessa conferenza. Sebbene ciò
75
Ivi, p. 85
39
desse al governo del Sudafrica speranze per una alleanza, quello britannico non si sentì
per niente legato a nessun impegno specifico.
Quando essi registrarono questo accordo alle Nazione Unite come Trattato, vi allegarono contestualmente una riserva alla parte Prima secondo la quale «[Il Trattato]non
contiene alcuna sostanziale obbligazione, ma si registra[il Trattato] per facilitare la
comprensione degli altri due Accordi »76.
Il governo sudafricano sperava comunque che due tipi di alleanza potessero prender
vita dall’Accordo di Simon’s Town.
Uno sarebbe stato un’alleanza “africana”, simile a quella che avevano cercato di far nascere in occasione delle due Conferenze.
L’altro sarebbe stato primariamente un’alleanza “marittima” incentrata sui due oceani e
sulle coste intorno al Capo di Buona Speranza.
Nell’aprile del ’56 il Primo Ministro Strijdom disse che sia il suo governo sia quello
britannico desideravano che altre potenze occidentali all’Africa e alle coste della parte
meridionale del continente divenissero parti dell’Accordo.
Strijdom in particolare menzionò la Francia, il Portogallo e gli Stati Uniti.
L’anno successivo, Erasmus e il governo britannico riaffermarono la loro intenzione comune di promuovere una conferenza. Ma non se ne fece mai niente.
Il governo sudafricano però continuò a sperare e a cercare di fare il possibile per migliorare la sua pozione diplomatica.
Nel luglio del 1958 il Ministro della Difesa dichiarò che la dislocazione di una riserva
strategica britannica in Kenya e la costruzione di una nuova e grande base militare da
parte dei belgi in Congo avevano creato « importanti baluardi contro l’avanzata del comunismo a sud attraverso l’Africa »77.
Lo stesso ministro disse anche che una conferenza tra Ufficiali di Marina di Gran Bretagna, Francia,Belgio, Portogallo e Sudafrica si era svolta a Cape Town, ma lui sapeva
anche che non si trattava della conferenza più importante prevista dal Simon’s Town
Agreement.
Alla fine, nel 1959, il Ministro si arrese. Parlò esplicitamente di «tragedia»78, riferendosi al fatto che le potenze occidentali non avessero progetti chiari per la difesa del Sudafrica nonostante la sua «vitale importanza strategica, la sua ricchezza di minerali e il
suo controllo delle rotte marittime attorno al Capo- la “Gibilterra dell’Africa meridionale”»79, e affermava inoltre certo che un giorno il mantenimento della civiltà occidentale sarebbe potuto dipendere da quelle regioni.
Perché il governo sudafricano aveva fallito nel convincere le potenze occidentali(con
interessi in Africa) a formare un’alleanza?
Una possibile spiegazione, fornita da Barber, è che il rifiuto dei Nazionalisti all’impiego
di uomini neri nelle forze armate aveva distrutto ogni possibile speranza di cooperazione con le potenze coloniali, che invece, dal canto loro, erano obbligate a fare affidamento su troppe costituite da soli neri: le altre potenze avrebbero potuto pensare quindi,
che se il governo sudafricano frapponeva questo ostacolo allora non era certo così desideroso di stringere accordi, o almeno non quanto ostentava di esserlo.
Ma questa era solo una delle questioni che minavano alla base la possibilità di cooperazione. È vero certo che il Sudafrica e le potenze occidentali avevano diverse questioni
che li accomunavano, ma tante erano anche le differenze.
Sicuramente tutti erano d’accordo nel riconoscere la minaccia comunista presente in
Medio Oriente, ma quello che le altre nazioni non condividevano erano le grandi paure
sudafricane di un imminente pericolo di penetrazione comunista in Africa.
76
Ivi, p. 86
Ibidem.
78
House of Assembly, 3 gennaio 1959
79
J. Barber, op. cit., p. 86.
77
40
Poi entrava in gioco la questione delle differenti vedute riguardo gli sviluppi politici futuri dei neri africani, e in questo contesto si ritorna alla problematica poco sopra accennata del rifiuto del governo di Pretoria di permettere ai neri di prender le armi
nell’esercito.
Il governo aveva sempre temuto lo scoppiare di sommosse armate nere, e così aveva
sempre avuto una istintiva risposta di chiusura nei confronti della richiesta dei neri di
entrare nell’esercito nazionale. E gli stessi timori aiutano a spiegare la continua volontà
di mantenere lo status quo del sistema delle colonie.
Ma persino le stesse potenze coloniali avevano forti dubbi riguardo la possibilità o anche la desiderabilità di mantenere la struttura coloniale; negli anni ’50 si trattava solo di
dubbi, e i governo delle nazioni colonizzatrici ancora non si erano decisi ad attuare un
rapido ritiro come poi avverrà nel decennio successivo.
Nel 1957 sarà poi la Gran Bretagna a metter fine alle incertezze e a dare il la l ritiro coloniale concedendo l’indipendenza al Ghana.
Proprio l’incertezza relativa allo sviluppo della situazione coloniale rendeva più pesanti i dubbi che le potenze occidentali avevano sull’opportunità di associarsi più strettamente al Sudafrica.
Un’alleanza con l’Unione sudafricana sarebbe stata una scelta diplomatica impopolare,
mentre dall’altra parte il contributo che Pretoria fosse stata capace di dare a qualsiasi alleanza di quel tipo non sarebbe stato in grado di controbilanciare l’impopolarità di quella scelta: era chiaro che il gioco non valeva la candela per la Gran Bretagna e gli altri
Stati del blocco occidentale.
Il Sudafrica, sia nel caso del MEDO che in quello dell’Accordo di Simon’s Town avevano mostrato di essere pronti ad espandere le loro forze per poter sostenere eventuali
nuovi obblighi internazionali, ma restava pur sempre una piccola potenza, e il maggior
peso della fornitura di uomini e mezzi sarebbe ricaduto..altrove.
Nonostante la loro ostentata «ansia di entrare a far parte di un’alleanza »80, il senso di
paura che i governanti sudafricani provavano riguardo a un’immediata minaccia militare
non era così forte come lo era nelle loro dichiarazioni pubbliche, e certamente meno forte di quanto lo sarà negli anni ’60, quando grandi risorse verranno dirottate allo scopo di
espandere le forze armate.
In assenza di un’alleanza formale, la cooperazione con la Gran Bretagna, basata sul
collegamento rappresentato dal Commonwealth, continuò a fornire al Sudafrica il maggiore supporto militare esterno.
Addestramento e prove di difesa erano condivise, le informazioni militari venivano
scambiate, e in più la Gran Bretagna restava la più importante fornitrice di armi per il
Sudafrica.
Come sottolineato da Dugard nel suo “The Simon’s Town Agreement”, l’accordo del
1955 poteva essere interpretato come una «diretta continuazione del vecchio legame del
Commonwealth, in quanto copriva la stessa tematica di un accordo stipulato nel 1922
tra Smuts e il Premier britannico Churchill»81. Ciò che fu messo maggiormente in risalto con il più recente accordo di Simon’s Town era però la volontà del Sudafrica di
contribuire maggiormente alla difesa navale delle rotte del Capo, e specificamente
l’impegno di Pretoria ad acquistare sei fregate anti-sottomarino, e quattro navi di difesa
guardaspiaggia dalla Gran Bretagna. Inoltre avveniva il passaggio di consegne per quanto riguarda la responsabilità della base di Simon’s Town dalla Gran Bretagna al Sudafrica, pur se Londra manteneva il diritto permanente di uso della base.
L’accordo poteva essere rescisso solamente per mutuo consenso.
80
Ivi, p. 88.
C.J.R. Dugard, “The Simon’s Town Agreement: South Africa, Britain and the United Nations”, South
African Law Journal, vol. 85, May 1968, pp. 142-5.
81
41
Fa sorridere pensare al fatto che l’unico accordo di difesa che il governo bianco nazionalista riuscì ad ottenere fu stretto proprio con i britannici, che rappresentavano il nemico storico nella tradizione Afrikaner, ed inoltre si trattava di un accordo che a ben
guardare portava maggiori vantaggi al governo di Sua Maestà: infatti la Gran Bretagna
continuava a godere di facilitazioni in Sudafrica che potevano essere sfruttata anche in
tempo di pace, mentre sempre in base all’accordo il Sudafrica si impegnava a dare un
contributo più grande alla difesa comune e aveva rinunciato, sempre per iscritto, al diritto di rescindere unilateralmente l’accordo.
Per la Gran Bretagna quindi i dubbi sull’Accordo erano relativi al futuro, nel senso che
essa si era formalmente legata al Sudafrica, e facendo questo si era esposta alle critiche
di chi avrebbe potuto definirla «alleato dell’apartheid»82 .
5. Oltre Simon’s Town
Se l’Accordo di Simon’s Town dimostrava che la cooperazione anglo-sudafricana continuava, l’atteggiamento più freddo e “meno impegnato” del governo Nazionalista nei
confronti di Londra si affermò in pieno durante la crisi di Suez del 1956.
Da molti punti di vista Suez appariva come la situazione ideale per un possibile coinvolgimento sudafricano: si trattava infatti di una circostanza che riguardava davvero il
cosiddetto gateway to Africa- cioè, come già ricordato,“ l’entrata per l’Africa”; c’erano
voci diffuse di attività di carattere comunista; si aveva la partecipazione combinata delle
due maggiori potenze occidentali.
All’interno del Sudafrica gli argomenti a favore del coinvolgimento venivano portati
avanti innanzi al governo dallo United Party, il cui leader Strauss affermava che non si
trattava (Suez) di una questione locale, e che doveva esser chiaro ai sudafricani che “ gli
eventi in Egitto avevano una stretta connessione con le politiche espansioniste degli Stati comunisti”83. Insomma il Sudafrica secondo Strauss avrebbe dovuto prendersi le sue
responsabilità in quanto principale Stato africano.
Nemmeno le denunce di un coinvolgimento comunista nella vicenda di Suez bastarono a convincere il governo di Pretoria. La posizione generale dei Nazionalisti era
quella di un vivo interesse nei confronti degli sviluppi nel Vicino Oriente, del rispetto
per gli interessi britannici e francesi, ma per essi la disputa sulla nazionalizzazione del
canale di Suez non riguardava direttamente il Sudafrica.
L’Unione non era stata tra i firmatari dell’Accordo degli utilizzatori del Canale, e le sue
navi non vi transitavano. Il ministro Louw asseriva che dal momento in cui la Compagnia del Canale era registrata in territorio egiziano la disputa era un affare interno
all’Egitto e il Sudafrica aveva da sempre enfatizzato il suo rispetto del principio di noninterferenza negli affari interni degli altri Stati.
Le dichiarazioni ufficiali mettevano in risalto gli auspici sudafricani di una pacifica
composizione della diatriba sul Canale, ma al tempo stesso indicavano la ferma intenzione del governo di andare avanti mantenendo buoni rapporti diplomatici con tutte le
parti in causa.
Ma perché questo atteggiamento di indifferenza? Come si poteva spiegare questo non
voler essere coinvolti nella questione di Suez?
Barber ci fa partecipi del suo sospetto secondo cui , oltre alle ragioni già citate, oltre ai
continui dubbi riguardo al fatto di « combattere guerre della Gran Bretagna »84, ci fosse
82
Ivi, p. 89.
Ibidem . Citazione da James Eayrs, The Commonwealth and Suez: A documentary Survey(London, Oxford University Press, 1964), pp. 65-6.
84
Ivi, p. 90.
83
42
stata una maldestra gestione della questione da parte degli inglesi, che avrebbero sollecitato i sudafricani a restar fuori dalla vicenda.
Quello che è chiaro, a parte i dubbi, è che a un certo punto ci fu una rottura delle comunicazioni e delle consultazioni all’interno del Commonwealth, cosa che fece andare su
tutte le furie il Ministro Louw, imbarazzare tantissimo l’Alto Commissario britannico
Sir Percivale Liesching e rese la situazione diplomatica più difficile.
Anche se da Pretoria ci fosse stata la più palese intenzione di sostenere militarmente Inghilterra e Francia a Suez, ciò sarebbe stato impossibile, dal momento che il governo
sudafricano, alla pari dagli altri governi del Commonwealth, erano stati tenuti fuori dai
piani militari anglo-francesi. È chiaro che non vi era stata la possibilità di dare un sostegno militare diretto. Restava solo, per il governo sudafricano, la scelta di far sentire la
propria voce diplomatica in sede ONU e tramite dichiarazioni pubbliche.
Ma al momento in cui in sede di Assemblea Generale ci fu la possibilità di votare la
condanna dell’invasione di francesi e inglesi, la delegazione sudafricana si astenne mantenendo ancora una volta una posizione ambivalente di neutralità.
Nella crisi che ne seguì i sudafricani rimasero non-compromessi e indifferenti quasi,
eppure questo non significava che Pretoria mostrasse rispetto nei confronti del governo
egiziano, che tra l’altro aveva maggiormente stretto i suoi legami con l’URSS e il suo
sostegno per i movimenti nazionalisti africani.
L’Egitto veniva normalmente contato, dal governo sudafricano, tra gli «Stati afro-asiatici irresponsabili ed ostili »85.
Qualche anno dopo, nel 1962, il Premier sudafricano Verwoerd affermò che lo sbaglio
degli inglesi a Suez era stato quello di ritirarsi.
“Se la Gran Bretagna - disse- fosse stata pronta e implementare la politica che riteneva
essere giusta e non si fosse lasciata dissuadere, sono certo che oggi ci sarebbe stato meno malcontento nel mondo ed in particolar modo in Africa”86.
Il rammarico di Verwoerd per il fallito tentativo delle potenze occidentale di imporre
la loro volontà riflette meglio l’atteggiamento storico del Sudafrica rispetto alle questioni del Vicino Oriente piuttosto che la posizione fredda e disimpegnata del 1956 per
Suez.
Suez fu il classico esempio di rottura della cooperazione interna al Commonwealth.
Ma era anche il chiaro riflesso di qualcosa che traspariva già da tanto tempo prima , cioè
del fatto che il Commonwealth non fungeva più da “unità” per quanto riguarda le questioni militari. Con il potere mondiale della Gran Bretagna relativamente in declino, alcuni Paesi dell’area Commonwealth avevano optato per alleanze regionali piuttosto che
dipendere ancora dai legami obsoleti dello stesso Commonwealth.
Ed è chiaro che con l’espansione quantitativa del Commonwealth sarebbe andata aumentando la diversità tra i suoi tanti membri e alcuni di questi sarebbero voluti essere
coinvolti in legami militari difensivi.
Per quei governi che, invece, come il Sudafrica, desideravano proprio questo tipo di legami militari, la cooperazione nell’ambito della difesa comune, dell’addestramento, dello scambio di informazione e nella fornitura di armi restava molto utile, ma il sostegno
britannico non era certo qualcosa che andasse oltre questo aspetto militare.
In termini generali, si potrebbe dire che il fallimento del governo nell’ottenere
l’ammissione ad una alleanza del blocco occidentale, e la crescente ostilità da parte delle Nazioni unite, avevano reso il legame del Commonwealth molto più attraente, ma in
senso opposto operava il fatto che lo stesso carattere del Commonwealth stava continuamente cambiando, andando verso una direzione che non stava bene a Pretoria.
85
86
Ivi, p. 91.
Ibidem.
43
I sudafricani vedevano il Commonwealth principalmente come una relazione con la
Gran Bretagna, e il dibattito intorno all’opportunità di mantenere legami con essa continuò a salire sino ai livelli emotivi del passato per poi riabbassarsi con il tempo.
Lo stesso United Party divenne meno pro-britannico, specialmente quando si capì che la
loro politica coloniale era profondamente cambiata.
D’altra parte , il Partito Nazionalista , senza mai perdere i propri sospetti, pensava che ci
sarebbero stati vantaggi(più che svantaggi) nel mantenere i legami, e si parla di vantaggi
quali le preferenze commerciali, il sostegno diplomatico britannico, la cooperazione in
campo militare e la speranza mai sopita di un’alleanza in Africa.
Per i Nazionalisti, un ostacolo importante che sembrava ormai rimosso era
l’accettazione dello status repubblicano (eventuale) del Sudafrica all’interno del Commonwealth.
Nel 1949 i leader del Commonwealth accettarono questo per l’India:la decisione fu accolta con un ‘esplosione di entusiasmo da parte del governo sudafricano; l’accettazione
dell’India come repubblica indipendente all’interno del Commonwealth faceva sperare
il governo nazionalista che di lì a qualche anno anche un Sudafrica repubblicano avrebbe potuto continuare a far parte del Commonwealth.
Un argomento storico dello United Party era che il Sudafrica non poteva non poteva
mantenere il suo posto all’interno del Commonwealth e al tempo stesso abbandonare
l’assetto monarchico. Chiaramente questa preoccupazione non aveva più senso di esistere, in quanto il caso indiano aveva ormai segnato la strada, secondo i Nazionalisti,
anche per il caso sudafricano.
Malan disse nel 1949 che il Commonwealth rappresentava ancora una « una forza
potente in un mondo nel quale noi siamo di fronte ad un pericolosa situazione […] il
trend degli eventi negli ultimi tempi ha rivelato un sentimento di solidarietà tra i vari
membri del Commonwealth che probabilmente nessuno si attendeva nel mondo e che
forse ha sorpreso anche membri dello stesso Commonwealth[…] essi, I membri, hanno
una visone della vita comune, generale[…]anche nel caso dell’India, essa ha deciso di
ricalcare la sua costituzione sulla costituzione Britannica e sulla nostra costituzione in
questo Paese[…]L’India sta prendendo oggi la sua posizione al fianco dei Paesi anticomunisti».
Il Commonwealth inoltre aveva dato al Sudafrica una possibilità di entrare dentro i
circoli diplomatici internazionali ed avere accesso al servizio di informazione fornito
dal governo della Gran Bretagna che sarebbe altrimenti restato inaccessibile a Pretoria.
L’accesso al Commonwealth voleva anche dire che nonostante l’impopolarità diffusa, il
Sudafrica era comunque un “addetto ai lavori” all’interno di un importante gruppo di
Stati.
Il governo Nazionalista apprezzava questo fattore. Strijdom, giungendo alla Conferenza
del Commonwealth del 1956, sottolineò la necessità, in un’epoca come quella segnata
dall’incertezza e dal pericolo-secondo lo stesso Premier sudafricano- di mantenere legami di amicizia e di promuovere la cooperazione almeno tra quegli Stati che condividevano gli stessi punti di vista.
I sudafricani volevano un Commonwealth essenzialmente anti-comunista, e
all’interno del quale tutti gli Stati avessero simili forme di governo e atteggiamenti politici e rispettassero la regola di non-interferenza all’interno degli affari degli altri Statimembri.
Ma gli sviluppi all’interno del Commonwealth rappresentavano una sfida a quelle supposizioni:i vecchi membri restarono saldamente nel campo anti-comunista, ma i nuovi
Stati afro-asiatici stabilirono di non prendere impegni né con l’uno né con l’altro blocco. Il governo sudafricano non accettava questa posizione mediana dei nuovi Stati, e
cominciarono ad accusare la stessa India di cooperare strettamente con gli Stati della
sfera comunista.
44
Quando molti Stati, e particolarmente quelli Africani, giunsero all’indipendenza
all’interno del Commonwealth, la depressione politica si diffuse nel governo sudafricano. Dal punto di vista sudafricano ormai, il Commonwealth era in grosso pericolo a
causa dei nuovi Stati, i cui governi-sempre secondo Pretoria- erano « ostili al Sudafrica
e pronti a interferire nei suoi affari interni »87. I sudafricani bianchi sottolineavano la loro contrarietà alla concessione facile delle indipendenze, ed inoltre ricordavano che per
l’ingresso nel Commonwealth non era necessaria solo l’approvazione della Gran Bretagna, ma doveva esserci quella generale degli Stati già membri.
Nel 1951 Malan accusò i britannici di «aver ucciso il Commonwealth in seguito al
loro annuncio che le colonie africane e delle Indie Occidentali sarebbero state condotte
verso l’indipendenza, ma sempre all’interno del Commonwealth, e che sarebbero state
trattate su un piano di uguaglianza con i vecchi membri»88.
Per i governanti di Pretoria venivano a mancare i comuni interessi e l’omogeneità culturale e politica che essi ritenevano presupposto indispensabile per la sopravvivenza del
Commonwealth. In aggiunta al sentimento sudafricano di “alienazione” rispetto ai nuovi
membri, si pose l’indignazione verso quegli altri membri del Commonwealth che, pur
rispettandone le tradizioni e non mettendo in discussione affari interni degli altri Stati, si
presentavano tra i principali critici del Sudafrica.
I maggiori incriminati erano l’India e il Ghana a partire da metà anni ’50.
Occasionalmente i ministri sudafricani avevano dei rari momenti di ottimismo nei quali
rivendicavano il fatto che i loro rapporti all’interno del Commonwealth fossero ancora
buoni, e che fosse possibile stabilire relazioni di amicizia anche con i nuovi arrivati quali Nigeria e Ghana.
Ma il normale atteggiamento del governo sudafricano era caratterizzato da rabbia e
risentimento nel ritrovarsi spesso obbiettivi di ripetuti attacchi.
nel 1953 Malan affermava che « l’India era un pericolo per l’Unione e per le potenze
coloniali, e stava causando la disgregazione del Commonwealth »89; mentre il ministro
Louw l’anno prima aveva definito inconcepibile il fatto che il ministro delle Finanze
ghaniano, K.A. Gbedemah potesse insinuare che il colonialismo sarebbe morto nel giro
di cinque anni e che « gli Stati africani non avrebbero tollerato il proseguimento della
soggezione della maggioranza nera del Sudafrica nei confronti della minoranza bianca»90.
6. il 1960
Il 1960 fu un anno importante per la storia del Sudafrica: la parte bianca della popolazione si sentì minacciata ed in pericolo come mai era successo prima.
Il periodo era cominciato con una acuta crisi nel 1960, quando un senso di pericolo si
diffuse e rischiò di sopraffare la società bianca.
Poi nella seconda parte del decennio le tensioni lentamente si attenuarono, ma solo perché le minacce interne ed internazionali furono bilanciate da una crescente fiducia tra i
sudafricani bianchi riguardo al fatto che essi potevano resistere ai vari pericoli.
Il governo sudafricano aveva sempre enfatizzato la propria forza e la stabilità del Paese,
mentre gli oppositori mettevano in luce la sua debolezza e i conflitti interni. Ciò che è
chiaro è che per il governo si trattò di un periodo di enorme pressione e di tensioni, poi
di maggiori dubbi e insicurezze.
87
Ivi, p. 94.
Ivi,p. 95.
89
Ivi, p. 96.
90
Ibidem.
88
45
Il 1960 fu l’anno del referendum, annunciato dal capo del governo Verwoerd e che
avrebbe dovuto stabilire l’assetto repubblicano o meno del Paese.
Lo United Party, fortemente attaccato alla monarchia britannica, e temendo che la dichiarazione della forma repubblicana avesse potuto condurre il Sudafrica verso una situazione di maggiore isolamento internazionale e verso un peggioramento della sua situazione all’interno del Commonwealth, costituì la maggiore forza di opposizione alla
proposta referendaria.
Nel tentativo di contrastare quei timori il ministro Louw era intenzionato ad ottenere,
alla Conferenza del Commonwealth del maggio di quell’anno, una prima approvazione
per il proseguimento della partecipazione del Sudafrica al Commonwealth stesso.
Ma gli altri leader erano contrari a questo tentativo di Louw, e lo convinsero invece a
discutere prima in modo informale sulle politiche razziali dell’Unione.
Al referendum, Verwoerd ottenne una vittoria politica importante, dal momento che la
forma repubblicana aveva avuto la meglio sull’opposizione rappresentata dallo United
Party e sui dubbi che alcuni suoi colleghi nutrivano riguardo a quello che era il principale obbiettivo degli afrikaner Nazionalisti. Anche se, ancora una volta, la divisione
all’interno della società bianca era stata netta91.
Il Sudafrica quindi nel 1961 divenne una Repubblica e lasciò il Commonwealth.
Il 1960 fu l’anno anche del discorso del Premier britannico Harold Macmillan di
fronte al Parlamento sudafricano di Città del Capo, discorso poi definito del wind of
change(vento del cambiamento) e che fu una pietra miliare nella storia della politica coloniale, e anche dei rapporti tra gli Stati interessati.
Il discorso ebbe un immediato e grosso impatto all’interno del Sudafrica: e di esso si
ebbe larga eco negli articoli dei quotidiani, nei discorsi in Parlamento, e nella memoria
dei sudafricani. Le ragioni di questo effetto stanno in parte nella posizione britannica di
principale potenza occidentale coinvolta in Africa meridionale, e nella sua qualità di
Stato-leader all’interno del Commonwealth.
Macmillan sembrò parlare non solo in nome della Gran Bretagna, ma anche per conto di
tutti gli Stati del blocco occidentale con i quali il Sudafrica aveva contatti.
Ma la ragione della grande impressione che suscitò quel discorso va ricercata anche nelle circostanze del discorso: dove fu tenuto, e cosa fu detto.
Se il Premier britannico avesse fatto lo stesso tipo di discorso, ma al di fuori dei loro
confini, i sudafricani lo avrebbero in fin dei conti giustificato come un altro esempio del
tentativo di « scaldare gli animi dei neri »92.
Ma quel discorso era stato fatto direttamente all’interno del loro Parlamento, proprio di
fronte alle facce dei Nazionalisti.
Ma soprattutto è da notare che con quel discorso Macmillan portò alla luce e rese pubbliche le vere paure dei sudafricani bianchi: i loro timori riguardo gli atteggiamenti degli altri Stati occidentali, riguardo la forza crescente dei nazionalismi africani e relativi
ai pericolo e alle incertezze che stavano di fronte a loro in un continente in rivoluzione.
In precedenza, quelle paure si erano mescolate(per esserne sommerse) con le speranze
di un positivo riscontro negli atteggiamenti dei partner diplomatici occidentali, speranze
vane. Ora però quelle speranze venivano per giunta spazzate via da Macmillan, e per
questa sua iniziativa il risentimento dei sudafricani fu amarissimo.
Fred Barnard (segretario privato del Capo del governo Verwoerd) scrisse che il discorso
di Macmillan era un preventivato attacco a sorpresa, una mossa calcolata per portare
91
Ovviamente, neanche a quel referendum furono ammessi i non-bianchi. Il risultato fu di 850.458 voti
favorevoli alla forma repubblicana e 775.878 voti contrari.
92
Ivi, p. 122.
46
Verwoerd all’angolo e metterlo in una situazione imbarazzante agli occhi del suo stesso
Parlamento, del suo Paese e del mondo93.
Il discorso occupava dieci pagine, che Barnard non esitò a descrivere come un « un insulto freddo e calcolato,una condanna ,scritta in modo cortese ma senza rimorso, della
nazione di cui era ospite »94.
In termini generali il discorso di Macmillan esprimeva la certezza che i nazionalismi,
che avevano spazzato l ‘Europa tempo addietro, e più di recente l’Asia, stavano in quel
momento delineando il nuovo assetto politico dell’Africa. Che piacesse oppure no, era
quella la realtà.
Secondo il Premier britannico gli interessi degli Stati occidentali avrebbero potuto avere maggior possibilità di soddisfazione a patto che gli stessi Stati riconoscessero al più
presto e accettassero l’evolvere dei nazionalismi..
Diceva Macmillan che la Gran Bretagna non agiva per opportunismo. Affermava che la
politica britannica in Africa- e con questo mirava dritto al cuore del Sudafrica biancoaveva come interesse non solo quello di far migliorare gli standard di vita, ma anche
quello di creare una società che rispettasse i diritti degli individui[…]che includa la
possibilità di una crescente condivisione del potere politico[…] una società nella quale
solamente il merito individuale fosse il criterio per l’avanzamento politico od economico dell’uomo”95.
Ciò che Macmillan tenne poi a rimarcare di fronte ai parlamentari di Città del Capo
fu che la politica coloniale britannica si basava sul non-racialism, concetto che indica
l’esatto opposto della politica interna di apartheid condotta dai Nazionalisti bianchi.
Il Premier, pur conscio del fatto che questa loro politica avrebbe potuto causare difficoltà per i sudafricani bianchi, si diceva certo del fatto che questi ultimi “ si sarebbero
resi conto che i britannici agivano in quel modo perché era un loro dovere farlo”96.
Per cercare di rendere meno amara la pillola che il governo che lo ospitava stava mandando giù, Macmillan affermò che il governo britannico era contrario a boicottaggi o
sanzioni contro il Sudafrica, che le differenti vedute allora esistenti sarebbero coincise
con il tempo, e che nel frattempo la cooperazione amichevole tra di loro sarebbe continuata in un’ampia gamma di questioni.
Ma quello che al governo Verwoerd era ormai chiaro fu che d’ora in avanti Londra non
avrebbe più ostacolato alcun nazionalismo africano, e che perciò se Pretoria avesse deciso di mantenere le sue posizioni inalterate contro l’emancipazione dei non-bianchi, si
sarebbe potuta ben dimenticare qualsiasi sostegno da parte britannica.
Ma fu il tono, oltre che il contenuto del discorso a far andare su tutte le furie molti sudafricani bianchi e spaventarne altri.
Si trattò infatti di un discorso che alludeva all’inevitabilità storica ed indicava che se da
una parte la crescita della “coscienza nazionale africana” aveva assunto diverse forme,
essa non poteva essere fermata, in quanto era un processo storico che si stava svolgendo
ovunque.
« Il vento del cambiamento sta soffiando attraverso il continente97- disse Macmillan-,e
continuava poi affermando che “ci piaccia o meno, questa crescita della coscienza nazionale è un fatto politico »98.
93
Ivi, p. 122[ Citaz. da Fred Barnard, Thirteen years with Dr. H. F. Verwoerd (Johannesburg, Voortrekkerpers Limited, 1967), p. 63].
94
Ibidem.
95
Ivi, p. 123..
96
Ibidem
97
Ibidem.
98
C.-M. Legum, South Africa: Crisis for the West, Pall Mall Press, London and Dunmow, 1964, p. 88.
47
Il polverone sollevato dal discorso di Macmillan non si era ancora diradato quando il
Sudafrica fu colpito dalla tragedia di Sharpeville.
Il governo sudafricano aveva affermato che l’esplosiva situazione che aveva portato ai
disordini di Sharpeville era stata creata da un sommarsi di influenze esterne, tra le quali
il discorso del Premier britannico.
Secondo Barber invece, aveva esacerbato una situazione già estremamente tesa. Ma non
l’aveva certo creata.
I Nazionalisti interpretavano la situazione come l’esito di un susseguirsi di critiche esterne, le quali avevano creato una situazione di frustrazione e malcontento che aveva
poi portato alla situazione conflittuale e alla tragedia.
Sharpeville fu la più sanguinosa di una serie di confronti tra la polizia sudafricana e i
dimostranti, chiamati dal PAC(Pan-African Congress)99 a sfidare le pass laws- quel sistema in base al quale i non-bianchi erano costretti a portare sempre con sé i documenti
di identità.
Precisiamo ancora una volta che si trattava di una manifestazione pacifica, e che i dimostranti erano assolutamente disarmati.
Lo stesso giorno a Langa, township nera vicino a Città del Capo, tre neri furono uccisi e
circa 50 feriti.
A causa dell’importanza della tragedia, Sharpeville avrebbe comunque costituito un elemento storico fisso nella memoria del Sudafrica, in qualsiasi momento fosse accaduto.
Ma il fatto che fosse accaduto in quel momento, e non in un altro, ebbe la sua importanza.
Infatti non si trattava della prima volta né dell’ultima in cui la polizia sudafricana aveva
aperto il fuoco e ucciso dimostranti pacifici, non la prima volta né l’ultima che gli Africani avevano protestato con dimostrazioni pubbliche contro le pass laws. Ma mentre gli
altri incidenti saranno dimenticati o quasi, Sharpeville resterà maggiormente impressa
nella memoria e nella storia: in Sudafrica e nel mondo al di fuori dei confini nazionali,
quella tragedia non fu interpretata come un accadimento ancora una volta “isolato”.
Sharpeville cominciò presto ad essere vista come parte della lotta nella quale l’intera
struttura della società sudafricana veniva messa in discussione.
Robert Sobukwe, presidente del PAC, parlò di un «passo in vista dell’ottenimento della
libertà e dell’indipendenza da parte degli Africani»100.
Aglio occhi degli oppositori dell’apartheid, i dimostranti che furono sparati erano dei
martiri, simboli dell’oppressione e della spietatezza del governo sudafricano, nonché
l’ulteriore prova della mancanza di umanità dello stesso governo nei confronti dei neri.
In seguito alla strage di Sharpeville, il governo e i nazionalisti africani si ritrovarono
sempre più contrapposti in una feroce lotta, nella quale i due maggiori movimenti di opposizione africani, l’ANC e il PAC, organizzarono scioperi, dimostrazioni e periodi di
lutto per gli africani morti e il governo reagiva in modo alquanto vendicativo adottando
contromisure repressive.
Da notare è anche che il governo negò sempre che i disordini interni e la crescita dei
movimenti di resistenza avessero la loro causa nelle politiche razziali del Paese.
Anzi, i ministri affermarono sempre e in modo persistente che i problemi erano stati
causati da elementi sovversivi, sia comunisti che liberali, al di fuori del Sudafrica.
La relativa tranquillità che seguì Sharpeville fu imposta anche con lo Stato d’Emergenza
e con la messa al bando dell’ANC, degli altri movimenti di opposizione e di tutti i loro
membri.
99
Il PAC si era formato nel 1959 in seguito alla separazione di un gruppo di esponenti dall‘ANC.
J.Barber, op. cit.,p. 125.
100
48
7. La Outward Policy
Alla fine degli anni ’60 i sudafricani bianchi erano venuti fuori dai pericoli e dalle sfide
degli anni precedenti apparentemente più forti e più fiduciosi di prima.
Molte minacce, come vedremo, restavano in piedi, ma i disordini di inizio decennio avevano forgiato tra i bianchi la fiducia nella loro stessa abilità a sopravvivere e a prosperare.
Il periodo di crisi degli anni precedenti aveva fatto si che la componente bianca accettasse l’isolamento internazionale e soprattutto imparasse a convivere con i pericoli esterni alla sua ristretta società.
Uno dei compiti del governo sudafricano stava nel dover convincere le persone sia dentro che fuori dalla Repubblica, del fatto che un cambiamento radicale non fosse per
niente inevitabile, e che le critiche contro il Sudafrica erravano nell’affermare che sarebbe dovuta esserci una rivoluzione.
Nel tentativo di contrastare la “pubblicità” internazionale ostile, i Nazionalisti al governo decisero di potenziare il loro servizio di informazione e soprattutto di propaganda.
Nel 1962 infatti fu creato un Dipartimento dell’Informazione, con il suo proprio Ministro, che aveva il compito di rilevare le funzioni dal vecchio State information Office.
I suoi obbiettivi erano quelli di promuovere una immagine favorevole e una immagine
positiva del governo, sia all’interno sia all’estero, dove il lavoro del Dipartimento veniva completato e rafforzato dalla South Africa Foundation, che tra l’altro, doveva dimostrare le opportunità reali di investimento in Sudafrica e aiutare le esportazioni sudafricane.
Il messaggio principale che sia il Department sia la Foundation lanciavano era che :
«Il Sudafrica è forte e affermato, e sarebbe sia difficile che doloroso fare guerra , anche economica, contro di esso; è stabile e costituisce un alleato sicuro e una base per
gli Stati occidentale; l’immagine della situazione internazionale dipinta dagli oppositori militanti è una grossolana stortura della realtà, le condizioni per I non-bianchi,
così come quelle dei bianchi, sono migliori all’interno della repubblica che in qualsiasi altra parte del continente».101
All’interno, il governo era impegnato a rassicurare la società bianca sul fatto che
l’isolamento dalle organizzazioni internazionali non fosse poi di così grande importanza.
Dal punto di vista militare, il governo nazionalista era d’accordo con le affermazioni di
Sidney Waterson, parlamentare dello United Party ed ex-ministro del governo Smuts , il
quale nel 1962 aveva individuato tre aree generali di pericolo, nello specifico: un possibile attacco dei nuovi stati neri, sostenuti dalle forze comuniste; un grande conflitto EstOvest nel quale il Sudafrica sarebbe stato coinvolto come parte del blocco occidentale;
una azione internazionale congiunta portata contro il Sudafrica con “il pretesto”102di attuare in modo forzoso il diritto internazionale, possibilità che sembrava essere la più
probabile.
Barber afferma che con il senno di poi quelle minacce militari avrebbero potuto essere giudicate come “tigri di carta”103, ma al momento si trattava di minacce che apparivano alquanto realistiche.
Ecco perché il governo si diede il compito di confortare e riassicurare la società bianca.
E per farlo, ma anche per prepararsi all’eventualità che una delle suddette minacce si
concretizzasse, il governo decise di espandere la quota del budget dedicata alla difesa e
101
Ivi, p. 182.
Ivi, p. 190.
103
Ibidem.
102
49
soprattutto si ebbe un aumento, nella seconda metà del decennio, delle spese del governo relative all’acquisto di mezzi militari.
L’espansione delle forze armate portò anche all’aumento dei sudafricani che furono
chiamati alle armi, e tutti bianchi .Si trattava della mobilitazione della nazione bianca
che voleva difendere sé stessa.
Inoltre, un altro pilastro su cui si costruiva la fiducia dei sudafricani bianchi nel corso
degli anni ’60 fu il continuo successo dell’economia, senza il quale difficilmente il governo avrebbe potuto sviluppare le sue costose politiche atte a contrastare le minacce esterne – politiche quali l’espansione ed il riarmo delle forze armate e lo sviluppo dei
Bantustans.
Quindi nel valutare la stabilità politica, l’economia poteva essere definita come un barometro della fiducia del Sudafrica bianco.
Perciò possiamo dire che le fondamenta della outward policy risiedevano all’interno
del Sudafrica, cioè nella forza economica e militare del Paese e nella fiducia della società bianca nella propria capacità di superare i pericoli e di mantenere saldo il controllo
dello Stato.
Da questa base “interna”, il governo volle proiettarsi all’esterno (outward in inglese,
appunto), per influenzare, e rendere più favorevole a sé l’”ambiente internazionale circostante” nel quale la politica estera della Repubblica prendeva forma.
Gli obbiettivi politici generali erano simili a quelli che i governo sudafricani avevano
perseguito per generazioni- un ruolo-guida in Africa; sicurezza militare specialmente in
Africa meridionale e sugli oceani circostanti; una rete estesa di contatti economici; identificazione e cooperazione con l’occidente; esclusione di interferenze esterne nei propri
affari interni.
Quello che però distingueva la outward policy dalle precedenti politiche estere sudafricane era innanzitutto l’accresciuta capacità del governo di influenzare l’ambiente esterno (grazie alle maggiori risorse economiche disponibili ai mutati sviluppi delle relazioni
internazionali, specialmente in Africa meridionale, che avevano aperto nuove opportunità per il Sudafrica), e in secondo luogo la fiducia ma anche l’”urgenza” con cui questa
politica veniva ora perseguita.
I politici nazionalisti vedevano il loro ambiente circostante come una serie di cerchi
concentrici:primo quello dell’Africa meridionale, poi il continente per intero, e infine la
comunità internazionale al completo ma con particolare riguardo agli Stati occidentali.
Il governo si rendeva conto del fatto che un successo in uno di quei cerchi avrebbe potuto aprire la via per nuovi successi negli altri cerchi, e che alla fine degli anni ’60 le
opportunità si stavano aprendo in ognuno dei tre cerchi.
Per questo i Nazionalisti cercavano di prendere l’iniziativa e sfruttare quelle nuove opportunità e, anche se non sempre con successo, questo atteggiamento segnava una nuova
fase, più fiduciosa e aggressiva, della politica estera.
Quando si chiedeva loro di definire con maggiori dettagli la outward policy, i ministri
davano normalmente due risposte: in primo luogo essi la definivano una politica estera
“africana”, e in secondo luogo “una politica che cresceva con l’espansione economica e
che ricercava quindi sbocchi e aperture per il commercio”104.
Un aspetto esclusivo delle relazioni esterne del Sudafrica durante il periodo
dell’outward policy fu il tentativo consapevole di sviluppare un nuovo schema di rapporti internazionali nell’emisfero Sud, lungo un asse Est-Ovest che dall’Australia e dalla
Nuova Zelanda si allungava attraverso gli oceani meridionali per giungere sino
all’America del Sud.
Certo i progressi nel lo sviluppo dei contatti relativi all’emisfero Sud non furono così
rapidi come i sudafricani bianchi avrebbero voluto.
104
Ivi, p. 228.
50
Ma un punto significativo da sottolineare è che la “politica verso l’esterno” non era una
politica specifica. Non si trattava semplicemente di una politica economica o di una politica “africana”o una unione delle due.
Si trattava più precisamente di un più generale tentativo- secondo Barber- attuato dal
governo Nazionalista, di migliorare la propria posizione internazionale.
E il governo era consapevole anche del fatto che la loro politica dei Bantustan 105costituiva uno dei più importanti “ponti” tra affari interni e politica estera.
Il governo Vorster continuò a seguire la strada tracciata da Verwoerd , che consisteva
nel mettere in relazione lo sviluppo delle homelands con la loro politica nei confronti
dei loro vicini Stati neri.
Infatti ricordiamo che l’apartheid era realizzato, secondo i piani del National Party, su
due livelli: uno di questi era il «grand design»(grande progetto)106, con l’impegno continuo a sviluppare separatamente le unità nazionali-razziali del Paese; l’altro livello era
rappresentato dal petty apartheid (piccolo apartheid), che consisteva nel separare le persone di razze diverse anche nelle loro quotidiane attività, quindi con bus separati, aree
abitative diverse, servizi sociali ben differenziati, e tantissime altre regolamentazioni
che avevano lo scopo di tenere separate i bianchi dai non-bianchi.
Entrambi i livelli di attuazione dell’apartheid ebbero implicazioni sulla politica estera di
Pretoria: infatti il “petty apartheid” produsse sempre una forte ostilità internazionale e
creò seri problemi pratici in alcune questioni, ad esempio l’accettazione di diplomatici
neri in territorio sudafricano; ma fu il “grand design” l’elemento su cui il governo costruì le sue speranze di essere accettato internazionalmente.
Fonti governative asserivano che «le relazioni della Repubblica con i nascenti Stati-nazione Bantu(i Bantustans) avrebbero fornito il modello per le relazioni con gli altri Stati
neri»107.
Ma, purtroppo per il governo, proprio il “grand apartheid” fallì nell’intento di ottenere
la piena approvazione popolare, addirittura all’interno della società bianca.
8.Aspetti generali della politica estera sino al 1970
Le relazioni esterne del Sudafrica, come visto, furono secondo Barber largamente condizionate dalla situazione interna del Paese, e fu la situazione stessa del Paese a creare i
principali pericoli esterni.
Le forti critiche e l’ostilità internazionale erano dirette alle politiche razziali del governo. C’era un largo consenso riguardo a questo fattore negativo, per cui le richieste
dei governanti nazionalisti in sede diplomatica cadevano spesso nel vuoto.
Al contrario, i maggiori interventi di critica politica internazionale enfatizzavano la concentrazione del potere politico nelle mani dei bianchi e tutti quegli elementi che facevano palesare il mancato rispetto degli elementari diritti dei non-bianchi.
Il governo sudafricano fu quindi sempre sotto pressione. William Wallace aveva parlato
di «freni sociali forniti dal sistema internazionale»108: con questo indicava il fatto che
105
Il termine bantustan si riferisce ai territori del Sudafrica e della Namibia assegnati alle etnie nere dal
governo sudafricano nell'epoca dell'apartheid. Negli anni del regime dell'apartheid voluto dal National
Party allora al governo, le diverse etnie nere furono costrette a trasferirsi nei bantustan loro assegnati, e le
loro possibilità di spostarsi sul territorio sudafricano furono fortemente limitate. I bantustan erano ufficialmente regioni autogovernate, ma di fatto erano dipendenti dall'autorità del governo sudafricano bianco. Il termine ufficiale usato dal governo bianco era homeland ("terra natìa" in inglese, corrispondente
all'afrikaans tuisland); "bantustan" veniva generalmente usata in senso peggiorativo dai critici dell'apartheid, ed è rimasto come termine più comune.
106
J.Barber, op. cit.,p. 232.
107
Ibidem.
108
Ivi, p. 304 [Citaz. da William Wallace, Foreign Policy and the Political Process (London, Macmillan,
51
l’opinione internazionale mondiale, ma anche i valori condivisi riguardo a quali comportamenti fossero da accettare e quali no, così come il diritto internazionale, costituivano tutti elementi che costringevano il governo sudafricano a guardarsi sempre le spalle, a stare attento in particolare a tenere sotto controllo le reazioni internazionali alle sue
politiche interne.
La continua minaccia che gravava sui Nazionalisti era quella degli oppositori esterni e
interni che insieme potevano mettere fortemente in discussione l’ordine esistente.
Il governo protestava asserendo che gli attacchi erano ingiusti e distorcevano la realtà.
Accusò allora a sua volta gli altri governi di attuare una discriminazione maggiore di
quella che si poteva trovare in Sudafrica.
L’argomento che però ancora di più era utilizzato dai diplomatici sudafricani era che «
era sbagliato percepire le relazioni internazionali in termini di morale ed ideali. Si doveva porre l’accento piuttosto sugli interessi materiali e sulla realpolitik »109.
L’accento posto sui legami economici tra il Sudafrica e gli altri Stati era importante per
i tentativi dei governanti sudafricani di influenzare le diplomazie estere.
Certo, forse la parola influenzare non rende bene il concetto, ma ciò che fu chiaro ai sudafricani bianchi fu che essi avevano ben poche speranze di riuscire a persuadere gli altri ad accettare i valori fondanti delle loro politiche razziali.
Era senz’altro più facile, e più conveniente, puntare tutto sulla loro ricchezza economica
e la loro (potenziale) importanza militare, elementi questi che facevano in modo che
molti Stati occidentali avessero un interesse alla continua stabilità e prosperità economica del Paese.
Questa forza economica diede l’opportunità al Sudafrica di estendere la sua influenza
sia tra gli Stati occidentali, sia tra gli Stati africani, in particolar modo nell’area meridionale, tramite l’offerta di supporto tecnico ed economico.
In termini di diritto internazionale la situazione non era così ben definita.
Certamente furono fatti diversi tentativi di rendere più forti gli attacchi al Sudafrica su
questioni morali ed etiche supportati da un sostegno legale, ma anche il governo sudafricano “sfruttava” il diritto, nel senso che enfatizzava lo status quo come mezzo per difendere la sua posizione internazionale. In particolar modo, i Nazionalisti ponevano
l’accento sulla sovranità statale e sul diritto di qualsiasi governo di stabilire la propria
politica interna senza subire interferenze.
Anche dopo Sharpeville, se da una parte lo scontro internazionale dei valori morali in
questione sfociava in ostilità diplomatica, le azioni concrete prese contro il Sudafrica
erano davvero limitate.
Una serie di ragioni può spiegare questo fatto.
Innanzitutto un elemento importante era rappresentato dall’”ambiente internazionale”
circostante, cioè i contatti economici già esistenti; la limitata capacità delle organizzazioni internazionali di persuadere gli Stati sovrani ad intraprendere azioni comuni, ma
anche la debolezza interna degli Stati africani di nuova formazione, la forza relativa del
Sudafrica all’interno del continente africano; nonché la circostanza che il Sudafrica fosse lontano dalle aree principali del confronto Est-Occidente, e che fosse in ogni caso
strategicamente importante per un altro motivo, cioè per le rotte marittime che passavano per il Capo.
Un altro limite che si frapponeva all’azione internazionale era il fatto che mentre
molti governi potevano anche essere preparati o pronti a denunciare il Sudafrica, le loro
politiche nei suoi confronti erano ispirate alla ricerca di interessi particolari, non certo
alla realizzazione di una moralità internazionalmente accettata.
Barber conferma quanto sottolineato da Warner Levi, cioè che «gli interessi nazionali
sovrastano la moralità»110.
1971), p. 19].
109
Ivi, p.305.
52
I principali oppositori del Sudafrica dell’apartheid cercarono di trasformare la generale
disapprovazione in argomenti precisi in modo da coinvolgere direttamente interessi degli Stati.
Per esempio, il presidente zambiano Kaunda tentò di persuadere gli Stati occidentali del
fatto che un grande conflitto razziale riguardante tutta l’Africa meridionale fosse ormai
prossimo alla deflagrazione.
Dalla loro parte, i sudafricani bianchi evitavano intenzionalmente di imbarcarsi o farsi
trascinare in dispute precise, e di assicurarsi che gli interessi diretti degli altri Stati, in
particolar modo dei vicini africani e delle maggiori potenze occidentali, fossero protetti
attraverso il mantenimento della stabilità politica e sociale in Africa meridionale.
Ma come detto prima, anche i contatti economici avevano la loro importanza.
Soprattutto all’inizio degli anni ’60 i legami economici stranieri da cui dipendeva il Sudafrica erano visti da alcuni dei suoi oppositori come una potenziale causa di debolezza,
non di forza. Questi oppositori asserivano che il Sudafrica era talmente dipendente da
questi links economici, che se essi fossero stati messi in pericolo, il governo di Pretoria
avrebbe potuto essere obbligato ad apportare cambiamenti importanti alla situazione sociale interna.
In quel periodo diversi tentativi furono fatti nell’ottica di organizzare sanzioni economiche, ma ciò che si notava era una certa ritrosia, anzi una marcata riluttanza a intraprendere azioni economiche concrete, specialmente da parte dei principali partner commerciali del Sudafrica, come vedremo anche più avanti.
Aiutata da queste circostanze ad essa favorevoli, il Sudafrica prese alcune misure
particolari per difendere la sua posizione.
Durante il governo Smuts, la sicurezza era un obbiettivo che veniva ricercato all’interno
del Commonwealth.
Poi il National party salì al potere, e agli inizi almeno la scelta fu quella di rimanere nel
Commonwealth e di cercare di entrare a far parte di qualche alleanza occidentale.
Questo in quanto il governo Nazionalista ostentava una continua paura dello spauracchio comunista, ma anche perché la speranza era quella di ottenere l’impegno di qualche
Stato occidentale a difendere politicamente lo status quo interno al Sudafrica.
Gli Stati occidentali – ad eccezione della Gran Bretagna, che aveva fissato interessi militari in Africa meridionale (si veda il paragrafo sul Simon’s Town Agreement) - rifiutarono di imbarcarsi in accordi formali di difesa con il Sudafrica.
Il fallimento di questo aspetto della politica estera sudafricana, tesa ad assicurarsi una
qualche alleanza con gli occidentali, assunse grande importanza nel momento in cui il
governo capì che lo Stato bianco era rimasto quasi senza amicizie politiche e soprattutto
e quando si sentì circondato dai pericoli.
Ma il governo, riflettendo i valori della società bianca, era talmente dedito a mantenere
il dominio dei bianchi sui non-bianchi, che anziché cercare politiche di compromesso
(che avrebbero potuto attrarre perlomeno un minimo sostegno internazionale), andò avanti con le sue politiche di apartheid.
Accetto di restare così isolato dal punto di vista diplomatico, non facendo più parte del
Commonwealth.
Il capo del governo Verwoerd, con la sua “reazione di granito”111, rifiutò di accettare
tutti i consigli di condivisione del potere tra bianchi e non-bianchi all’interno dello Stato
esistente.
Mentre quell’intransigenza aveva creato parecchi problemi al Sudafrica nell’ottenere
“simpatie” diplomatiche, i suoi partner più stretti cominciarono a valutare se valesse
110
Ibidem[Citaz. da Warner Levi, “The relative irrelevance of moral norms in international politics” in
James Rosenau, International politics and foreign policy (New York, Free Press, 1969), pp. 191-8].
111
Ivi, p. 307.
53
davvero la pena cercare di imporre cambiamenti radicali a un avversario così recalcitrante.
Inoltre, in risposta ai pericoli che avvertivano al di fuori, il governo bianco avviò una
rapida espansione delle forze armate, cosicché nel momento in cui il ritiro delle potenze
coloniali dall’Africa fu completato, la Repubblica restava tutti gli effetti lo Stato militarmente più forte di tutto il continente.
Alla fine degli anni ’60 così il governo di Pretoria poteva sentirsi in una posizione
sostanzialmente più forte di quella attesa, specialmente per quel che riguardava le relazioni internazionali del continente africano.
Il ritiro degli europei dalle colonie africane aveva fatto nascere pericoli così come opportunità, e i sudafricani avevano stabilito di sfruttare queste ultime attraverso la loro
forza economica e la loro potenza militare.
Il pericolo rappresentato da un’eventuale iniziativa militare congiunta dei nuovi Stati africani si era gradualmente affievolito, così come la paura che quegli stessi Stati persuadessero altri Stati maggiormente potenti ad intraprendere azioni contro il Sudafrica.
Nonostante l’isolamento diplomatico si accrescesse sempre più e permanesse il pericolo rappresentato dalle attività di guerriglia che potevano diffondersi dai territori di colonizzazione portoghese o dalla Rhodesia, il governo di Pretoria fu capace di sfruttare le
sue risorse economiche, relativamente cospicue, per estendere la sua influenza, specialmente tra i suoi vicini geografici.
Stava allora emergendo un blocco di Stati dell’Africa meridionale raggruppato intorno
al Sudafrica: i territori ancora portoghesi dell’Angola e del Mozambico, il Lesotho, il
Botswana, lo Swaziland, la Rhodesia del Sud e il Malawi Da una parte questo blocco
poteva essere visto come un gruppo di difesa dei bianchi, raggruppato attorno alla più
potente Repubblica per contrastare sanzioni ed eventuali pericoli rappresentati dalle
sanzioni economiche e dagli attacchi della guerriglia delle colonie portoghesi, gruppo
che attirava anche quei piccoli nuovi Stati neri che non potevano fare altro che cooperare.
Dall’altra parte quel blocco di Stati poteva essere interpretato come la proiezione esterna della forza del Sudafrica, proiezione che si esplicava nella creazione di un gruppo di
stati dipendenti che potevano offrire alla Repubblica sostanziali vantaggi militari ed economici.
L’emergere di quel blocco di Stati dell’Africa meridionale era la più chiara indicazione dell’inizio di un nuovo periodo di fiducia del governo nella propria politica estera,
la cosiddetta «outward policy»112.
All’interno di questa politica estera si ritrovavano gli obbiettivi del governo Nazionalista, e specificamente quello di estendere l’influenza sudafricana nel resto del continente
tramite l’utilizzo dei contatti economici o tecnici; la ricerca di nuove opportunità economiche; la creazione di un gruppo di difesa contro gli attacchi esterni; le speranze, anche, di guadagnare alla nazione rispettabilità internazionale e accettazione diplomatica.
Ma questi obbiettivi, alla fine degli anni ’60, sembravano ai Nazionalisti non impossibili da realizzare, per via di un insieme di circostanze generale più favorevoli al Sudafrica rispetto alla situazione dei primi anni del decennio.
A causa delle aumentate risorse economiche a disposizione del governo e dei più favorevoli sviluppi della situazione internazionale, la politica estera del Sudafrica si dimostrava in quel periodo più fiduciosa e forte.
L’importanza della forza economica del Sudafrica è stata già sottolineata, e si deve
aggiungere il fatto che nessun governo bianco del Sudafrica aveva avuto come obbiettivo la semplice «massimizzazione della ricchezza»113.
112
113
Ibidem.
Ivi, p. 308.
54
Infatti vi era una complessa correlazione politico-economica, nella quale la continua
crescita economica veniva perseguita, ma solo nella misura in cui questa non costituisse
una sfida alla supremazia dei bianchi.
Di fronte a sviluppi economici nuovi, il governo si trovò spesso a modificare il sistema
di realizzazione dell’apartheid, e in termini economici si può dire chela crescita economica della seconda metà degli anni ’60 teneva insieme le diverse componenti razziali
dello Stato, in quanto i non-bianchi erano comunque la forza-lavoro necessaria allo sviluppo economico voluto dai bianchi.
Ma non va dimenticato che le divisioni politiche e sociali venivano rafforzate in modo
crescente, e quando considerazioni di tipo economico venivano interpretate come una
sfida, un pericolo per quelle divisioni, il governo rigettava quelle considerazioni economiche, per non rischiare di intaccare il sistema politico-sociale esistente.
Dentro e fuori il Sudafrica erano in tanti a scommettere sul fatto che la continua crescita
economica avrebbe minato i tentativi del governo di mantenere una società strutturata in
modo razziale, ma sino al 1970 il governo sudafricano fu abile nel mantenere in modo o
nell’altro il controllo della situazione economica e politica.
Ma dal punto di vista diplomatico, l’ostilità e la condanna morale era pressoché universale. Il governo non aveva l’opportunità quindi di intraprendere alcuna iniziativa internazionale. Come dice Barber, esso era «costantemente costretto sulla difensiva»114.
114
Ibidem.
55
Capitolo III.
Il Sudafrica e la comunità internazionale.
1.ONU
Le ONG occidentali hanno giocato un ruolo molto importante nel sostenere le Nazioni
Unite nel corso del processo di identificazione delle ingiustizie e di riconoscimento dei
legittimi rappresentanti delle persone senza potere, e hanno svolto questo lavoro tramite
la raccolta di prove, la presentazione di petizioni, assistenza ai promotori delle stesse
petizioni, e portando avanti azioni di lobbying presso i governi membri e le agenzie specializzate all’interno delle ONU. Infatti, le Nazioni Unite cominciarono a mettere in pratica una vasta azione tesa alla liberazione dall’apartheid all’inizio degli anni ’60.
Quale è stato il punto di svolta?
Chiaramente il massacro di Sharpeville del marzo 1960 costituì un potente catalizzatore
del cambio di attitudine "internazionale", almeno secondo le dichiarazioni ufficiali dei
rappresentanti nazionali all’ONU.
Numerosi appelli, per porre fine alle discriminazioni, furono rivolti alle Nazioni Unite che, nel giugno del 1964, condannarono ufficialmente l’apartheid; il Consiglio di Sicurezza fu chiamato a portare avanti uno studio sulla situazione per decidere le sanzioni
da applicare al Sudafrica. In seguito a questa condanna, nell’ottobre del 1966,
l’Assemblea Generale si pronunciò per la fine del protettorato sudafricano sui territori
del Sud-Ovest. Il governo sudafricano non diede peso alle decisioni prese dall’ONU e
accelerò il processo d’integrazione economica del territorio della Namibia; ciò provocò
la reazione dei guerriglieri dell’Organizzazione popolare del sud-ovest africano (SWAPO) che oltrepassarono il confine dell’Angola e intrapresero ripetuti attacchi contro gli
interessi sudafricani in Namibia.
Il conflitto terminò, nel 1988, con il riconoscimento dell’indipendenza del paese.
La posizione delle Nazioni Unite relativamente alla questione dell’apartheid, era stata definita primariamente dall’Assemblea Generale e, secondariamente, da diverse agenzie e organi del Comitato delle Nazioni Unite per l’apartheid.
La posizione maggioritaria, portata avanti dall’Assemblea Generale, va distinta da quella del Consiglio di Sicurezza, « la quale non fu in grado di tenere una simile linea politica nei confronti del Sudafrica a causa dell’opposizione Di Stati Uniti, Regno Unito e
Francia tutti e tre membri permanenti in possesso del diritto di veto»115.
Non si tratta di una semplice questione legale o giuridica, in quanto il problema risiedeva certamente nel fatto che le potenze occidentali erano i principali partner del Sudafrica per quanto riguardava la cooperazione economica e militare, e il successo o meno
delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza in materia dipendeva dalla prontezza, o meglio dalla volontà delle suddette potenze di dar seguito alle risoluzioni stesse.
Il processo di legittimazione-potremmo chiamarlo così- della rivoluzione contro
l’apartheid, portato avanti dai primi anni ’60 dalle Nazioni Unite, cominciava con risoluzioni di carattere generale riguardanti l’indipendenza della Namibia116, i diritti degli
Africani e delle maggioranze non-bianche, richieste di disimpegno diplomatico, em115
G. W. Shepherd, Jr., op. cit., p. 21.
Ricordiamo che Pretoria rivendicava sul territorio dell’Africa del Sud-ovest la continuazione
dell’istituto del Mandato, istituto che, invece, doveva considerarsi decaduto insieme alla defunta Società
delle Nazioni.
116
56
bargo alle armi, aiuto per i movimenti di liberazione, e sanzioni economiche per rendere
più efficaci e far rispettare quelle misure. Negli anni ’70 invece l’intervento si è tradotto
in un più attivo supporto per mezzo di comitati, fondi e agenzie.
Tornando a Sharpeville, l’episodio indubbiamente segnò il momento di più marcata
repressione delle proteste della maggioranza bianca, o almeno fu l’episodio che più suscitò indignazione presso i movimenti anti-apartheid in tutto il mondo. Prima del suddetto eccidio, in cui persero la vita decine di manifestanti, le politiche razziali interne
del governo di Pretoria erano deplorate, e venivano giudicate però come essenzialmente
rientranti nella cosiddetta domestic jurisdiction, materia quindi nella quale poco poteva
essere fatto a livello di Nazioni Unite, in base alla stessa Carta dell’ONU.
Ma una volta che al mondo intero fu chiaro che la volontà del governo sudafricano
era quella di schiacciare con la forza i movimenti africani non-violenti che si battevano
per i loro diritti, l’opinione presso i circoli dei governi delle nazioni occidentali cominciò a spostarsi verso prese di posizione meno morbide, e fu adottata una risoluzione in
seno al Consiglio di Sicurezza.
Quella risoluzione da una parte si appellava al governo di Pretoria affinché mettesse fine alla sua politica di imposizione continuata di misure repressive e discriminatorie, affinché liberasse tutte le persone imprigionate, internate, o « soggette ad altre restrizioni
per essersi opposte alla politica di apartheid »117, e dall’altra si chiedeva a tutti gli stati
di interrompere la vendita di apparecchiature e materiali per la costruzione e la manutenzione di armi nei confronti del Sudafrica.
Ma come spesso capita, quando si deve passare dalla teoria alla pratica, le cose si
complicano quando ci sono di mezzo interessi economici.
E, infatti, le potenze occidentali vacillarono, non furono cioè determinate nel supportare un embargo relativo agli armamenti, e la Francia fu sicuramente lo Stato che maggiormente violò tale risoluzione O.N.U.
I governi statunitense e britannico supportarono un embargo militare volontario sino al
1963, ma il tentativo di implementare questa misura fallì, e il Consiglio di Sicurezza,
bloccato spesso come era dai veti incrociati, non arrivò a una decisione vincolante che
vietasse il commercio di armi con il Sudafrica se non con la risoluzione del 7 agosto del
1963118.
Ciò che maggiormente distingueva la posizione della maggioranza dell’Assemblea
Generale da quella delle maggiori potenze occidentali era il fatto che la prima aveva
spinto per l’adozione di sanzioni economiche relative al commercio e agli investimenti
in Sudafrica, mentre la seconda si opponeva sia alle sanzioni economiche sia al sostegno
dei movimenti di liberazione.
Relativamente agli Stati occidentali più piccoli, si può dire che essi contribuirono
dall’inizio ad aiutare le vittime dell’apartheid attraverso il Fondo Speciale delle Nazioni
Unite per il Sudafrica, e mostrarono un crescente sostegno al processo di legittimazione
dei movimenti rivoluzionari contro l’apartheid.
Essi inoltre supportarono sempre più forme di opposizione quali il bando nello sport
contro il Sudafrica e una riduzione dei legami diplomatici con Pretoria.
L’organo che ricoprì il ruolo di forza trainante, all’interno dell’O.N.U., per quanto
riguarda il processo di legittimazione della liberazione dall’apartheid fu sicuramente il
Comitato Speciale delle Nazioni Unite per l’apartheid, istituito nel 1962 con risoluzione
dell’Assemblea Generale allo scopo di esaminare le misure raccomandate dalla stessa,
117
G. W. Shepherd, Jr., op. cit., p. 22.
United Nations, The United Nations and apartheid 1948-1994,united Nations Department of Public
Information, New York, 1994, p. 20. «On 7 August, it adopted -by 9 votes in favour[…]resolution 181
(1963), the first call ever for an arms embargo against a Member State» (il 7 agosto esso [il Consiglio di
Sicurezza] adottiò con 9 voti a favore la risoluzione 181, la prima richiesta di sempre a favore di un embargo contro uno Stato Membro).
118
57
quali sanzioni diplomatiche ed economiche. Le potenze occidentali, che sino al 1970
avevano sostenuto l’altro Comitato, (cioè il preesistente Comitato dei 24119), ostacolarono e anzi a volte proprio ignorarono le attività del nuovo Comitato Speciale , proprio
perché quest’ultimo incoraggiava il supporto ai movimenti di liberazione e propugnava
sanzioni economiche contro Pretoria.
La posizione della neonata Organizzazione per l’Unità Africana esprimeva sostegno
ai movimenti di liberazione, mentre Stati Uniti e Gran Bretagna si opponevano continuamente all’uso della violenza.
Questa contrapposizione emerse in tutta la sua durezza durante le consultazioni relative
al Programma di Azione, presentato all’O.N.U. tramite il Comitato Speciale dei 24 nel
1970.
Londra e Washington vollero opporsi alla proposta degli Stati Africani, e portarono una
loro contro-proposta all’Assemblea Generale di quell’anno tramite una risoluzione alternativa, presentata congiuntamente a Italia e Norvegia, che richiedeva alle parti in
causa l’adozione di una composizione non violenta della questione sudafricana
dell’apartheid.
Dal momento che venne approvata la richiesta degli Stati Africani di sostenere i movimenti di liberazione e adottata la relativa risoluzione in sede di Assemblea Generale,
Stati Uniti e Regno Unito si ritirarono dal Comitato Speciale dei 24.
Ancora a proposito dell’O.U.A., nel 1973 si tenne a Oslo la Conferenza O.N.U.O.U.A. sull’Africa meridionale, e delle raccomandazioni vennero fatte in questa sede al
fine di un’implementazione, da parte delle agenzie specializzate delle Nazioni Unite, di
risoluzioni che sostenessero i movimenti di liberazione.
Fu così che questi ultimi vennero riconosciuti, in ambito O.N.U., come «autentici rappresentanti »120dei loro popoli.
Alle successive sessioni dell’Assemblea Generale così si invitarono, in qualità di osservatori, i rappresentanti di quei movimenti di liberazione che fossero stati precedentemente riconosciuti dall’O.U.A., e questo valeva in relazione ai lavori (dell’Assemblea
Generale e delle sue agenzie) che per le questioni trattate fossero rilevanti per gli stessi
movimenti.
Se a questo poi si aggiunge che gli ormai ex-movimenti di liberazione nei territori di colonizzazione portoghese si stavano trasformando in veri e propri governi indipendenti, e
che l’O.U.A. insisteva affinché fosse concesso lo status diplomatico anche ai restanti
movimenti dell’Africa meridionale, si comprende come fosse ormai arduo, per le potenze occidentali, opporsi a questo processo di riconoscimento e legittimazione dei movimenti di liberazione.
L’azione delle Nazioni Unite sicuramente non è stata resa facile dai contrasti interni,
specialmente con riferimento al Consiglio di Sicurezza.
Anche quando l’orrore nei confronti dell’apartheid era divenuto un sentimento universale, furono necessari diversi anni di pazienti e persistenti sforzi da parte delle Nazioni
Unite per costruire un consenso tra gli Stati membri sulla necessità e desiderabilità di
andare oltre la semplice condanna del regime di Pretoria e di raggiungere un accordo
per dare al più presto «l’assistenza necessaria ai popoli oppressi nella loro legittima lotta
contro il governo sudafricano» (come a suo tempo scrisse Boutros-Ghali)121.
All’inizio, la condanna dell’apartheid da parte delle Nazioni Unite fu fonte di grande
incoraggiamento per quei sudafricani che si opponevano strenuamente alla tirannia raz119
Il Comitato dei 24,creato nel 1961 in seguito all’adozione di una risoluzione dell’Assemblea Generale,
aveva il compito di monitorare il processo di decolonizzazione in atto proprio a partire da quel periodo;
tale Comitato rappresentava per la maggior parte Stati africani già indipendenti
120
G. W. Shepherd, Jr., op. cit., p. 24.
121
U.N. Department of Public Information, The United Nations and APARTHEID 1948-1994,United Nations Department of Public Information, New York, 1994, p.4.
58
zista. Quando lo stesso Mandela fu accusato in tribunale di aver guidato un sabotaggio a
livello nazionale, il futuro presidente della repubblica seppe far riferimento, durante la
sua dichiarazione, alla risoluzione dell’Assemblea Generale del giorno precedente (6
novembre 1962), che reclamava l’adozione di sanzioni contro Pretoria; « Egli disse: “Io
odio la pratica della discriminazione razziale, e in questo mio odio sono sostenuto dal
fatto che la stragrande maggioranza del genere umani la odia allo stesso modo” »122 .
Negli anni successivi le Nazioni Unite costituirono un vero e proprio forum per i movimenti di liberazione e intrapresero una campagna internazionale contro l’apartheid.
Non è irrilevante a livello politico il fatto che tra le decisioni prese ci fu quella di escludere i rappresentanti del governo sudafricano dagli incontri dell’O.N.U. e di riconoscere invece come autentici rappresentanti del popolo sudafricano i movimenti di liberazione. Inoltre si decise di dedicare tempo e risorse considerevoli allo sviluppo di
pressioni internazionali sulle autorità sudafricane e all’assistenza del crescente movimento mondiale contro l’apartheid, e questo non solo tramite il coinvolgimento dei Governi rappresentati al palazzo di Vetro, ma anche chiamando in causa tutte le persone e i
popoli nella campagna contro la segregazione razziale.
Secondo l’analisi di Butros-Ghali ci furono tre distinte fasi nell’opera delle Nazioni
Unite di fronte all’apartheid a partire dal momento in cui il governo di Pretoria ebbe
formalizzato le sue politiche di negazione dei diritti della maggioranza non-bianca.
1)Nel primo periodo, che è stato individuato come quello che va dal 1948 al 1966,
l’O.N.U. ripetutamente fece appello al Sudafrica affinché rivedesse le sue politiche al
fine di assicurare piena uguaglianza di diritti a tutto il popolo sudafricano.
Poiché le autorità governative si rifiutarono di dare ascolto a tali appelli e in particolar
modo dopo il massacro di Sharpeville del 1960, gli organi principali delle Nazioni Unite
cominciarono a prendere in considerazione le misure- comprese le sanzioni economiche
- da attuare per convincere Pretoria a ricercare una soluzione pacifica.
Il Consiglio di Sicurezza appunto votò nel 1963 l’adozione dell’embargo militare, ma a
causa del veto dei suoi 5 membri permanenti non ci fu l’adozione di misure economiche
più vaste, misure che l’Assemblea Generale aveva ripetutamente richiesto.
Intanto la stessa Assemblea Generale era riuscita a creare il Comitato Speciale contro
l’Apartheid, attraverso il quale avrebbe in seguito potuto organizzare un’azione concertata a livello internazionale.
2)Nel secondo periodo, dal 1967 al 1989, ci fu, in seguito alla continua intransigenza
ed aggressività delle autorità sudafricane, il lancio da parte delle Nazioni Unite della
campagna internazionale, che fu infine estesa a tutto il globo e isolò sempre più il Sudafrica nella maggior parte delle sue relazioni internazionali. Indubbiamente all’interno
degli organi principali le divergenti vedute degli Stati membri sulla necessità o meno di
adottare in modo obbligatorio determinate sanzioni erano difficili da eliminare, ma le
Nazioni Unite riuscirono lo stesso a promuovere vari embarghi contro il Sudafrica, tra
cui quello relativo alle armi, e quello petrolifero.
Non mancarono inoltre altre iniziative quali boicottaggi sportivi e culturali, e altre forme di azione pubblica.
La campagna internazionale riuscì ad attrarre supporto in tutti i Paesi, inclusi quelli che
allora erano i principali partner commerciali e i cui governi erano restii ad imporre sanzioni contro il Sudafrica.
3) Nella terza e ultima fase -dal1990 al 1994- l’O.N.U. incoraggiò continuamente le
autorità governative di Pretoria, mentre queste si accingevano a rendere legali i movimenti di liberazione e a trovare soluzioni di negoziato.
122
Ivi, p. 5.
59
Quando alla fine degli anni ’80 una soluzione di tipo negoziale divenne possibile,
l’O.N.U. fu capace di giocare un ruolo centrale nel facilitare le consultazioni tra le parti
sudafricane in lotta e nell’assistere attentamente la transizione a una forma di stato democratico e non più razziale.
L’Assemblea Generale aveva adottato la “Dichiarazione sull’apartheid e le sue conseguenze distruttive nell’Africa meridionale”, e proprio da questa Dichiarazione partì il
processo che arrivò alle storiche elezioni del 1994: «Le Nazioni Unite hanno giocato un
ruolo cruciale nel promuovere i negoziati e nell’aiutare a garantire elezioni libere e pulite, su richiesta non solo dei maggiori partiti ma anche della minoranza dello stesso governo sudafricano»123.
Infine nel 1994 le Nazioni Unite coordinarono l’osservazione internazionale delle prime
elezioni democratiche.
2. L’ambivalenza dei rapporti con l’Occidente.
Nel 1963 quindi il Consiglio di Sicurezza dell’ONU aveva deciso per l’adozione
dell’embargo relativo alla vendita di armi al Sudafrica. Sottolineiamo che questo bando
non era stato deciso sulla base del Capitolo VII della Carta, ma sulla base del VI, e
quindi non si trattava di una misura “obbligatoria”(«mandatory»)124.
In ogni caso era la prima volta che il Consiglio di Sicurezza prendeva una tale misura
nei confronti di un membro ONU.
Lo scopo era quello di rompere la relazione di supporto militare tra il cosiddetto sistema
Atlantico e il Sudafrica: ma non riuscì certamente a bloccare il flusso di armi provenienti dall’Occidente, e nemmeno a cambiare, almeno nell’immediato, i rapporti di sostegno militare.
L’embargo aveva dato « l’illusione di una significativa azione morale in una situazione
cambiata di poco »125.
La tesi per cui le necessità economiche del momento rendessero necessario proteggere
interessi primari delle potenze occidentali e giustificassero l’uso di basi militari sudafricana fu vigorosamente criticata dagli africani in genere e dalle loro alleate ONG.
Nonostante tutto,i passi successivi compiuti dai governi britannico e statunitense andarono nella direzione di potenziare la base di Simon’s Town, sebbene ufficialmente se ne
dovessero ritirare, e nella costruzione di una nuova base sull’atollo di Diego Garcia
nell’Oceano Indiano.
Ciò indica che la relazione di collaborazione con il Sudafrica non veniva per niente interrotta. « Nonostante Stati Uniti e Gran Bretagna negassero ciò126, le prove contraddicevano le loro obiezioni »127.
Gli americani adottarono generalmente verso il Sudafrica un atteggiamento diplomatico più ostile rispetto a Gran Bretagna e Francia (come vedremo).
Gli Stati Uniti avevano dato il loro supporto al bando sulle armi e furono contrariati ogniqualvolta i governi di Londra e Parigi lo violarono.
In realtà le relazioni tra Washington e Pretoria non furono mai delle migliori.
123
Ivi, p. 6.
Ivi, p. 20.
125
G. W. Shepherd, Jr., op. cit., p. 87.
126
Ivi, p. 84
127
La pubblicazione nel 1974 di un memorandum segreto del National Security Council (NSSM 39) indicava alcuni degli aspetti di questa continua complicità militare.
125
G. W. Shepherd, Jr., op. cit., p. 87.
124
60
Mentre entrambi i governi potevano ritrovare dei vantaggi in una limitata cooperazione
politica, il governo statunitense non fu mai disposto a farsi troppo coinvolgere.
Alcuni episodi che rivelarono la tensione esistente tra Stati Uniti e Sudafrica erano relativamente insignificanti in sé: i sudafricani ad esempio si offesero, e non poco, quando
gli americani invitarono elementi non-bianchi ad una festa in ambasciata.
O anche, a un giocatore statunitense nero non fu concesso il visto d’ingresso in Sudafrica; si vennero a creare grande confusione e malinteso anche quando si trattò di concedere il permesso, ad alcuni marinai americani neri, di sbarcare sulle coste sudafricane.
Eppure, nonostante ci fosse una certa tensione nei rapporti diplomatici tra i due governi, si trattava sempre di tensione repressa o nascosta. Secondo James Barber, gli statunitensi, pur rilasciando dichiarazioni contro l’apartheid tramite, per esempio, i loro
rappresentanti all’ONU Adlai Stevenson e Arthur Goldberg, vollero sempre evitare di
essere coinvolti in una nuova crisi internazionale.
Perciò gli statunitensi preferivano guardare al Sudafrica e all’Africa meridionale in genere come ad una “low profile area”( area di basso profilo)128, usando le parole
dell’allora Segretario di Stato William Rogers.
Questo atteggiamento rifletté uno spostamento nel pensiero americano rispetto ai primi
anni ’60 quando gli affari dell’Africa sembravano avere una crescente importanza internazionale. L’incertezza dell’attitudine statunitense di fronte al problema africano derivava anche dal contrasto di interessi che in quel momento agitavano la politica interna
degli USA.
Più precisamente, ci fu un conflitto tra gli ideali di auto-determinazione ed uguaglianza
tra le razze, e gli interessi consolidati economici e militari.
Sommato agli interessi materiali, ci fu poi un notevole movimento ideologico decisamente di destra che ebbe l’effetto di produrre una “lobby” amica del Sudafrica bianco.
Secondo McKay questa lobby si rafforzò durante gli anni ’60, e se da una parte il governo di Washington restava pubblicamente ostile al dominio bianco in tutta l’Africa
meridionale, all’interno degli Stati Uniti si moltiplicavano le simpatie verso questi ultimi, catalizzate da organizzazioni come l’American-Southern African Council.
Lo stesso McKay aveva spiegato questa simpatia crescente verso i bianchi rhodesiani e
sudafricani in parte chiamando in causa un certo sentimento anti-britannico, e in parte
appoggiandosi alla teoria dell’effetto- domino, per cui se uno Stato stabile fosse crollato
in Africa meridionale, gli altri Paesi circostanti avrebbero seguito la stessa sorte, portando al risultato di una situazione caotica che non avrebbe fatto piacere a nessuno, e
meno che mai avrebbe fatto gli interessi degli Stati Uniti129.
Come si può immaginare, una difficoltà di cui i ministri e le autorità di Pretoria si lamentavano riguardo alle loro relazioni con gli Stati Uniti era che non erano mai sicuri
su quale delle tante voci americane rappresentasse la politica ufficiale del governo .
Le autorità sudafricane spesso si trovarono di fronte a posizioni contrastanti da parte
del Pentagono, che si diceva fosse generalmente disposto alla cooperazione con Pretoria, e da parte del Dipartimento di Stato, ostile nei confronti del governo bianco nazionalista.
Disse il Capo del Governo Vorster riguardo alla politica statunitense: «Francamente,
non sappiamo quale sia. E comunque, quel poco che conosciamo riguardo alla politica
statunitense verso il Sudafrica, non lo capiamo per niente […]Non riusciamo a capire
perché il Dipartimento di Stato adotti questo atteggiamento nei nostri confronti. Presu-
128
J. Barber, op. cit., p. 291.
Ivi, p. 292 [Citaz. da Vernon McKay in William A. Hence (ed.), Southern Africa and the United States
(New York, Columbia University Press, 1968), p. 24.].
129
61
mibilmente è a causa della nostra politica interna, che però rappresenta esclusivamente
un nostro affare interno»130.
Nonostante la politica statunitense fosse difficile da identificare con precisione, con il
passare del tempo emerse un generale atteggiamento ufficiale che rispetto a quello ostentato dal governo britannico appariva meno coinvolto nella questione sudafricana e
caratterizzato da una maggiore ostilità “verbale”, anche se – ci fa notare Barber – la sua
politica e quella di Londra differivano ben poco riguardo agli scopi.
In parole povere gli americani ricercavano un «sentiero che potesse evitare difficoltà e
complicazioni[…] Essi disprezzavano la discriminazione razziale ma dubitavano che
fosse possibile ottenere un qualsiasi cambiamento radicale nel breve periodo»131.
L’ambivalenza americana apparve ancora più chiara in seguito ad alcune dichiarazioni del Segretario di Stato William Rogers e del Presidente Nixon.
Nelle loro dichiarazioni gli alti ideali facevano a pugni con la realtà percepita. Le richieste di cambiamento perdevano forza a causa del rifiuto di impegnarsi e di essere troppo
coinvolti, il sostegno morale alla causa dei neri africani era controbilanciato
dall’interesse a mantenere l’ordine allora esistente.
In particolare la dichiarazione di Rogers arrivò dopo una fugace visita presso una decina
di Stati africani, tour che però non aveva incluso il Sudafrica.
E proprio in riferimento alla Repubblica Sudafricana il Segretario di Stato statunitense
disse che non vi sarebbe stato «nessun vantaggio per la sua nazione nel rompere i contatti con Pretoria», aggiungendo che però questa posizione di non-rottura «non implicava assolutamente nessuna accettazione o giustificazione del suo sistema discriminatorio»132.
William Rogers, nel conflitto tra il governo bianco e la maggioranza non-bianca si identificava sicuramente con i primi.
Disse inoltre il Segretario di Stato: « Noi stiamo dalla parte dei fondamentali diritti umani in Africa meridionale »133.
Ma dobbiamo anche rendere conto di una dichiarazione alquanto infelice del VicePresidente Americano Humphrey, in risposta alla richiesta d’aiuto del presidente zambiano Kaunda.
Durante la visita che Humphrey fece nel 1968 nell’ex - Rhodesia del Nord, Kaunda lo
avvertì del fatto che una catastrofe si sarebbe rivelata inevitabile in Africa meridionale
nel caso in cui gli Stati Uniti non fossero intervenuti rapidamente.
Humphrey rispose dicendo « Noi non siamo timidi…siamo sulla vostra stessa linea politica». Ma dopo il Segretario di Stato disse ai giornalisti che Kaunda in realtà «stava
ingigantendo la questione e stava sovrastimando quello che gli Stati Uniti potevano fare
riguardo a essa»134.
Riguardo al Presidente Nixon, ricordiamo il suo pensiero – o almeno quello che ufficialmente affermava essere il suo pensiero- secondo il quale «per ragioni sia morali che
storiche gli Stati Uniti avrebbero mantenuto saldamente la posizione a favore dei principi di eguaglianza razziale e di auto-determinazione»135.
Ma poi disse anche che gli anni ’60 avevano dimostrato quanto fosse di difficile risoluzione il problema razziale. Secondo il capo di Stato americano le tensioni dell’Africa
meridionale si sarebbero giustificate per il fatto di essere state profondamente radicate
nella storia della regione.
130
Ibidem (Citaz da Cockram, Vorster’s Foreign Policy, p. 193).
Ivi, p. 292.
132
Ivi, p. 293 .
133
Ibidem.
134
Ibidem.
135
ibidem.
131
62
Quindi la posizione ufficiale di Nixon esprimeva sì la consapevolezza della necessità di
risolvere il problema, ma anche la consapevolezza di trovarsi di fronte a un dilemma,
quello relativo a come si potesse risolvere al meglio la questione sudafricana.
Nixon rifiutava certamente la violenza, in quanto « la violenza e la contro-violenza che
essa stessa inevitabilmente provoca avrebbero solamente reso molto più difficile il
compito di quelli che, da entrambe le parti, si davano da far per portare dei progressi
sulle questioni razziali»136. Perciò Nixon accolse con favore il Manifesto di Lusaka dei
leader africani137, infatti il presidente aveva interpretato il Manifesto come qualcosa di
“adatto” alla politica estera americana nei confronti del Sudafrica, in quanto, almeno in
principio mirava ad una risoluzione pacifica della questione razziale, e questo permetteva a Nixon di non vedersi coinvolto più di tanto nella questione.
Ma ciò che Nixon forse ignorava era che, se è vero che i leader incontratisi a Lusaka avevano affermato di preferire una risoluzione pacifica, essi avevano detto anche che se
la liberazione dei popoli dell’Africa meridionale non fosse stata ottenuta tramite metodi
pacifici, “altri metodi sarebbero stati usati”138, evenienza che tra l’altro ormai si veniva
realizzando in seguito alla situazione di crescente guerriglia che interessava l’Africa
meridionale.
Diversi portavoce dell’amministrazione Nixon continuavano ad affermare che
l’embargo stesse sempre funzionando, ma le cose erano cambiate in seguito a un « memorandum relativo ad una decisione del NSC, pubblicato nel 1970, che rivedeva le linee-guida precedenti, cosicché ora la burocrazia tende ad approvare le proposte di vendita di armi che sarebbero state rigettate sotto le precedenti Amministrazioni»139.
Possiamo affermare che se da una parte il bando alla vendita di armi era operativo nel
1973, non si trattava però certo dell’embargo militare generale degli anni precedenti,
quando gli Stati Uniti furono governati dalle Amministrazioni Kennedy e Johnson.
In parole povere gli standard chiaramente stabiliti sotto le due precedenti amministrazioni erano stati, per così dire, dimenticati da quella successiva, che preferiva curare con
più decisione lo sviluppo del commercio statunitense o magari non gradiva tali limitazioni alle relazioni commerciali tra il suo Paese e il Sudafrica.
Se da una parte Regno Unito e Stati Uniti avevano accettato l’idea dell’embargo sulle
forniture di armi al Sudafrica, la loro accettazione era in realtà da considerare “condizionata” sin dall’inizio.
L’iniziativa dell’Amministrazione Kennedy di applicare un embargo sulle armi, prima
ancora che agisse la Gran Bretagna, va vista nel contesto di quel determinato periodo.
Infatti nei primi anni ’60 era massima l’influenza dei nuovi Stati africani e dei movimenti di liberazione; molte nazioni erano appena diventate indipendenti e la loro presenza alle Nazioni Unite, al Palazzo di Vetro di New York, aveva attirato l’attenzione di
tutta la comunità internazionale.
I nuovi capi di Stato africani facevano spesso visita al Presidente USA Kennedy, e immancabilmente, in occasione di queste visite non si facevano sfuggire l’opportunità di
sollevare la spinosa questione del Sudafrica.
Gli Stati Uniti guidati da Kennedy quindi, furono la prima potenza occidentale a concepire l’embargo sulle armi contro il Sudafrica come mezzo per provocare un cambiamento sociale.
136
Ivi, p. 294.
Il Manifesto di Lusaka dei leader africani fu l’atto ufficiale con cui, il 13 aprile del 1969, i rappresentanti di 14 Stati africani, riunitisi nella capitale zambiana, fecero il punto della situazione relativamente
agli Stati indipendenti africani e fecero fronte comune a favore del governo della maggioranza nera in tutte le nazioni africane. L’approccio del Manifesto e dei suoi firmatari era di opposizione nei confronti del
regime di Pretoria, ma fautore anche di un dialogo pacifico piuttosto che di un conflitto armato in vista
della risoluzione della questione razziale. Più tardi il Manifesto sarà pure accolto dall’ONU e dall’OUA.
138
J. Barber, op. cit., p. 294.
139
G. W. Shepherd, Jr., op. cit., p. 87.
137
63
L’idea fu introdotta per la prima volta nel 1962 in modo unilaterale
dall’Amministrazione Kennedy a seguito dell’accresciuto interesse degli USA nei confronti dei nuovi Stati Africani e a causa dei neri americani che, grazie anche alle loro
manifestazioni, avevano ottenuto una discreta considerazione da parte di quella stessa
Amministrazione.
Quindi nell’agosto del 1963 gli Stati Uniti sostennero la risoluzione sull’embargo in sede di Consiglio di Sicurezza, ma lo fecero a una condizione: a patto cioè, che « il Sudafrica fosse considerato un alleato in caso di conflitti futuri che avessero coinvolto interessi statunitensi»140.
L’adesione degli Stati Uniti all’embargo militare fu inquadrata chiaramente dall’
Ambasciatore Stevenson fuori dalle previsioni del Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite( quello che prevede misure coercitive), in quanto la visione del governo
Kennedy riteneva che lo stesso embargo fosse una politica appropriata da perseguire ma
all’interno delle previsioni del Capitolo VI (relativo alla risoluzione pacifica delle controversie): ciò non è irrilevante, perché rientrava nella consolidata posizione statunitense
che giudicava l’apartheid come una violazione dei diritti umani piuttosto che una minaccia per la pace.
Solamente dopo che fu chiaro a tutti che non si sarebbe trattato di una misura coercitiva,
Gran Bretagna, Francia(astenutisi nella votazione della precedente risoluzione) e Stati
Uniti contribuirono con il loro voto positivo all’adozione unanime di una seconda risoluzione del Consiglio di Sicurezza, la numero 182 datata 4 dicembre 1963, la quale “ richiedeva a tutti gli Stati di conformarsi alla risoluzione 181[ quella precedente, datata
agosto], nella quale il Consiglio di Sicurezza aveva richiesto l’embargo sulle armi, e inoltre richiedeva al Segretario Generale di costituire […]un piccolo gruppo di esperti
riconosciuti per esaminare i metodi di risoluzione della situazione in Sudafrica”141.
In questo modo il sistema di sicurezza del blocco atlantico veniva tenuto saldamente
sotto controllo dagli Stati centrali, che semplicemente si limitavano a censurare la politica di un loro alleato, piuttosto che minacciare l’uso della forza contro uno Stato trasgressore della pace.
Sebbene il Regno Unito avesse votato a favore della risoluzione del 1963,
l’accettazione ufficiale del concetto stesso dell’embargo sulle armi non arrivò prima
della fine del 1964, dopo che alle elezioni politiche il Partito Laburista, guidato da Wilson, salì al potere.
La differenza di vedute tra i Conservatori e i Laburisti a proposito dell’embargo fu netta
dall’inizio. Molti membri del Partito Conservatore erano da sempre stati a favore dei
“coloni” sudafricani, mentre la posizione della loro stessa leadership fu sempre quella di
opporre resistenza a qualsiasi tentativo di estromettere il Sudafrica dal sistema di sicurezza occidentale.
Mentre i Laburisti, sotto il primo governo Wilson, sostennero l’embargo sulle armi e si
opposero all’estensione di nuovi accordi od obblighi internazionali al Sudafrica, il governo Conservatore di Heath continuò ad utilizzare la base navale di Simon’s Town, a
promuovere l’uso della nuova base di Diego Garcia nell’Oceano Indiano e ad adempiere
agli impegni contrattuali sulle forniture presi dai governo conservatore.
Il Presidente della Tanzania, Julius Nyerere, disse che, chiedendo alla Gran Bretagna
armi per difendere le rotte intorno al Capo di Buona Speranza, il governo sudafricano
reclamasse in realtà da Londra anche un « un riconoscimento di rispettabilità»142.
Durante i negoziati relativi alle armi, tra Gran Bretagna e Sudafrica, il governo di
Pretoria cercò di usare “sia la carota che il bastone”.
140
Ivi, p. 88.
U.N. Department of Public Information, op. cit., p. 21
142
J.Barber, op. cit.,p. 289
141
64
La “carota” consisteva nei benefici commerciali derivanti dalla vendita, le prospettive di
una maggiore cooperazione difensiva, e un sostegno ai britannici nella ricerca di una soluzione della questione rhodesiana.
Il “bastone” invece era costituito dalle minacce sudafricane di ritirarsi dall’Accordo di
Simon’s Town, di eliminare altre forme di cooperazione militare quale il diritti britannico di attraversamento aereo su territorio sudafricano, e di ridurre le importazioni di altri
beni economici dal mercato britannico.
Ma nonostante la convinzione dei Nazionalisti sudafricani di essere stati sufficientemente minacciosi, nel 1967 il Primo Ministro Wilson annunciò che « l’embargo sulle
armi sarebbe continuato»143.
Le relazioni diplomatiche sudafricane con la Gran Bretagna migliorarono profondamente , come detto, dopo la vittoria elettorale del partito Conservatore, nel 1970.
I Conservatori offrivano maggiori possibilità per la risoluzione della situazione in Rhodesia, ma il miglioramento nei rapporti fu molto più marcato quando il Governo Heath
annunciò (contro le forti pressioni all’interno del Commonwealth e persino in Gran Bretagna) «di essere pronto a riprendere la vendita di armi al Sudafrica per scopi di difesa
esterna»144.
Inoltre lo stesso governo aveva annunciato che di essere legalmente tenuto – secondo i
termini dell’Accordo di Simon’s Town – a vendere elicotteri per equipaggiare navi militari fornite al Sudafrica in precedenza sempre secondo lo stesso Accordo.
Chiaramente il governo di Pretoria fu deliziato da quelle dichiarazioni: infatti secondo le
loro previsioni il circolo dei governi fornitori di armi – contro le previsioni
dell’embargo ONU – si sarebbe allargato; sarebbero aumentate le possibilità di iniziare
future cooperazioni militari; questa iniziativa britannica avrebbe reso più agevole, per
altri Stati, in futuro, infrangere il bando delle Nazioni Unite e stabilire relazioni più
strette con la Repubblica.
L’adesione alla risoluzione del 1963 per anni fu presa in scarsa considerazione dalla
Francia. I politici transalpini si astennero al momento del fondamentale voto della risoluzione dell’agosto 1963, e non riferirono mai al Segretario Generale dell’ONU sul loro
rispetto delle misure relative all’embargo, cosa che invece fecero le altre potenze.
La vendita da parte loro di velivoli militari e la produzione di sottomarini in favore del
Sudafrica dimostrò quanto la dirigenza politica francese si facesse beffe delle altre nazioni che invece avevano accettato i loro obblighi internazionali.
Ma non c’era nessun segnale, nelle relazioni tra Parigi e Pretoria, che facesse pensare a
una volontà da parte francese di prendere altre iniziative e giocare il ruolo che i sudafricani si aspettavano avesse dovuto giocare la Gran Bretagna: i francesi infatti consideravano i loro rapporti bilaterali con la repubblica sudafricana solamente come rientranti
nei loro affari economici; niente suggeriva che i transalpini desiderassero essere coinvolti in una accordo militare difensivo relativo all’Africa meridionale e agli oceani circostanti.
E tra l’altro, la Francia uscì relativamente “illesa”(diplomaticamente e politicamente
parlando) dalla sfida che aveva condotto nei confronti dell’embargo ONU: probabilmente l’assenza di precedenti coinvolgimenti storico-coloniali dei francesi in Sudafrica
fece sì che le critiche internazionali piovute su Parigi fossero meno acute di quelle che
avrebbe dovuto affrontare il governo britannico se avesse rotto l’embargo allo stesso
modo in cui l’aveva fatto il governo francese.
La Germania Ovest invece aveva riferito al Segretario Generale di volersi e di essersi
conformata pienamente alle risoluzioni relative all’embargo contro il Sudafrica sulle
armi. In realtà – è necessario farlo presente – nel rapporto del 1970 stilato dal Comitato
Speciale sull’Apartheid, fu rilevato che un aereo militare ottenuto dal Sudafrica era stato
143
144
Ivi, p. 287.
Ivi, p. 289.
65
prodotto da un consorzio franco-tedesco; inoltre nel 1969 un team di piloti sudafricani
fu mandato in Germania per ricevere formazione tecnica e pratica.
Solo nel 1975 la Francia modificherà le sue posizioni allineandosi con le altre potenze.
Al contrario di Francia e Germania le nazioni scandinave avevano da subito giocato
un ruolo-guida nel preparare e sostenere risoluzioni in sede ONU, mirate a rafforzare le
sanzioni e l’embargo contro il Sudafrica: inoltre esse avevano iniziato a valutare in modo critico i collegamenti tra la NATO e il governo di Pretoria.
Ad esempio la Norvegia sollevò in modo particolare la questione dell’utilizzo da parte
del Portogallo di equipaggiamenti NATO in Africa, e facendo questo la Norvegia portava già una sfida alle relazioni del Sudafrica con la NATO.
3. Origine delle sanzioni internazionali
Nei confronti del governo sudafricano bianco, diverse furono le iniziative prese, sia da
parte delle Nazioni Unite che da parte di singoli Stati.
La caratteristica di questo fenomeno storico si ritrova nell’iniziale e perdurante opposizione dei governi occidentali( escluso qualche virtuoso esempio, si veda la Svezia)
all’applicazione di sanzioni di vario tipo nei confronti di Pretoria.
Come già accennato, la spinta verso l’applicazione di sanzioni internazionali venne in
primo luogo da movimenti della società civile quali le ONG : già nel 1959, la Confederazione internazionale dei sindacati liberi fece appello ai suoi 56 milioni di membri, distribuiti in un centinaio di Paesi, affinché mettessero in pratica un boicottaggio dei prodotti sudafricani.
Barbier e Désouches citano anche l’esempio del Consiglio Ecumenico delle Chiese e il
Consiglio mondiale delle Chiese.
Il primo, istituzione internazionale rappresentante la maggioranza delle Chiese ortodosse, anglicane e protestanti, decise che, a partire dal 1969, la sua condanna
dell’apartheid si sarebbe dovuta tradurre in atti concreti, specialmente tramite il sostegno ai movimenti di liberazione, attuato con un solido aiuto finanziario sia alla SWAPO
( l’Organizzazione del popolo dell’Africa del Sud-Ovest), sia ai movimenti sudafricani
dell’ANC e del PAC. L’aiuto però sarebbe stato concesso loro a patto che questo non
fosse poi stato utilizzato per acquistare armi.
La posizione dell’organizzazione era anche a favore di sanzioni economiche contro il
Sudafrica bianco. Nel 1972 vendette innanzitutto tutte le sue azioni e obbligazioni legate ad investimenti in Africa meridionale e, nel 1977, chiese alla CEE, ai governi
dell’America settentrionale e del Commonwealth, di interrompere la concessione di
crediti all’esportazione destinati a Pretoria e di ottenere l’interruzione dei prestiti bancari e degli investimenti.
Il Consiglio Mondiale delle Chiese invece, grazie alle risoluzioni del suo comitato centrale, rappresentò il centro di un vasto dibattito all’interno così come all’esterno del
mondo cristiano.
Come già anticipato in precedenza, l’azione delle ONG fu ripresa dalle Nazioni Unite grazie al Comitato Speciale contro l’apartheid, direttamente collegato al Segretariato
Generale, ma anche grazie al Consiglio delle Nazioni Unite per la Namibia, diventato
nel 1966 l’amministratore legale di quel territorio.
L’Assemblea Generale, forte della sua maggioranza sempre crescente di Paesi in via di
sviluppo, divenne presto il principale interprete della posizione favorevole alle sanzioni
riguardanti tanto le relazioni diplomatiche dei Paesi membri, quanto i legami economici,
bancari, militari e nucleari, ma anche la collaborazione in ambito sportivo, scientifico e
culturale.
66
Ma il potere di veto che da sempre esercitano le grandi potenze in seno al Consiglio di
Sicurezza ha reso e spesso tuttora rende ancora le risoluzioni dell’organo assembleare
«largamente inoperanti in quanto sprovviste di alcun carattere obbligatorio»145.
Barbier e Désouches ci propongono una tripartizione temporale per fasi relativamente
alle sanzioni adottate dalle Nazioni Unite riguardo al problema sudafricano:
1) La prima fase, indicativamente durata dal 1960 al 1976.
Le prime richieste di sanzioni furono formulate di fronte all’Assemblea Generale a partire dal 1952; ma la prima vera risoluzione che l’organo assembleare espresse fu del novembre 1962, e fece seguito ad una conferenza di Stati africani di recente indipendenza
tenutasi ad Addis Abeba nel giugno del 1960, che aveva stabilito di esprimere la solidarietà con le vittime dell’eccidio di Sharpeville e a richiedere l’attuazione di sanzioni economiche contro il regime bianco.
Il Consiglio di Sicurezza, si espresse nel 1963 per un doppio embargo sulle esportazioni
di armi, ma si escludeva qualsiasi misura di carattere coercitivo.
Bisognerà attendere il 1967 affinché la Banca Mondiale, altra istituzione dell’ONU, e le
sue due “filiali”, cioè la Società Finanziaria Internazionale e l’Agenzia internazionale
per lo sviluppo, cessino i loro prestiti al Sudafrica.
Il Fondo Monetario Internazionale invece, concederà prestiti a Pretoria sino al 1982.
2) La seconda fase (1976-1984).
Furono i disordini di Soweto a dare un’accelerata all’azione dell’Assemblea generale e
del Consiglio di Sicurezza.
Nel Programma di Azione contro l’Apartheid, adottato dall’Assemblea Generale il 9
novembre del 1976, l’organo assembleare chiedeva a tutti i Governi di « porre fine a
qualsiasi collaborazione economica col Sudafrica e, in particolare, rinunciare alla fornitura di petrolio, prodotti petroliferi o altri materiali di importanza strategica al Sudafrica[…] proibire, ai portatori di interessi economici e finanziari rientranti nella loro giurisdizione nazionale, di cooperare con il regime sudafricano o con compagnie del posto»146 .
Il Consiglio di Sicurezza riuscì a votare, il 4 novembre 1977, la prima risoluzione di
sanzioni obbligatorie relativa alle esportazioni di armi. L’embargo era già applicato su
base volontaria dalla Gran Bretagna a partire dal 1964 e da Parigi dall’agosto del 1977.
Questo tipo di sanzioni fu applicato sino al 1984.
All’interno del blocco occidentale, la Svezia si distinse rispetto ad altri Stati, in quanto
nel luglio del 1979 decise di bloccare nuovi investimenti in Sudafrica e prestiti a Pretoria.
3) La terza fase (1984-1989)
Ricordiamo che il governo nazionalista nel 1985 dichiarò lo stato d’emergenza in Sudafrica, e allora il governo socialista francese decise di richiamare il suo ambasciatore e di
attuare un cambiamento deciso, atto ad ottenere l’accordo degli altri partner comunitari(nonostante l’atteggiamento riluttante dei rappresentanti britannico e tedescooccidentale) in occasione della riunione dei Ministri degli Affari Esteri della CEE tenutasi a Lussemburgo il 10 settembre 1985.
Ma fu innanzitutto e soprattutto innanzi al Consiglio di Sicurezza che Francia e Danimarca perorarono la causa delle sanzioni, e la risoluzione 569 del 26 agosto 1985 fu la
prima decisione relativa a sanzioni globali, seppure su base volontaria e condizionata.
145
J.-C. Barbier, O. Désouches, Sanctionner l’apartheid. Quatorze questions sur l’isolement de l’Afrique
du Sud, Éditions La Découverte, Parigi, 1987, p. 82
146
U.N. Department of Public Information, op. cit., p. 57.
67
Tuttavia negli Stati Uniti solo la “ribellione” del Congresso (mobilitato dalle lobby americane anti-apartheid) riuscì a superare, rendendolo nullo, nell’ottobre del 1986, il veto del Presidente Reagan contrario al rafforzamento delle sanzioni, seppur leggere, decise con il decreto-legge del 9 settembre 1985.
L’impatto della decisione del Congresso( l’Anti-Apartheid Act) però fu attenuato dalla
decisione del Governo del gennaio 1987, che stabiliva di escludere dieci tipi di minerali,
alquanto strategici dal punto di vista economico, dal novero delle materie sotto embargo.
Di fatto, alle sanzioni decise dalle Nazioni Unite si aggiunsero quelle adottate da altre organizzazioni internazionali quali l’OUA, il Movimento dei non-allineati e lo stesso
Commonwealth, «la cui azione fu particolarmente utile per convertire le diplomazie statali al principio stesso delle sanzioni»147.
Se nel luglio del 1959 la Giamaica era l’unico Stato ad aver deciso unilateralmente di
boicottare tutti i prodotti agricoli sudafricani, nel 1962 il ministro per gli Affari Esteri di
Pretoria ammetteva che già numerosi Stati stessero boicottando il suo Paese: tra gli altri
l’URSS, la Cina popolare, la Malesia, Antigua, l’Etiopia, il Ghana, la Liberia, il Niger,
la Sierra Leone e il Sudan.
Alla fine del 1963, già 25 Stati boicottavano il Sudafrica, e altri 21 avevano l’intenzione
di applicare sanzioni contro il regime di Pretoria.
Questo “movimento di Stati” contro il Sudafrica dell’apartheid, lanciato dall’India tra i
Paesi in via di sviluppo, ricevette una accelerazione notevole in seguito alla progressiva
emancipazione degli Stati ex-colonie, per poi conquistare, ma molto più tardi – dopo gli
scontri di Soweto nel giugno del 1976 - i Paesi scandinavi.
Il Programma di Azione Nordico, lo si vedrà, sarà ripreso dall’insieme del blocco occidentale solo nel 1985, e proprio tra il 1985 e il 1986 la parola d’ordine dell’isolamento
internazionale di Pretoria si diffuse e fece maggiori passi in avanti di quelli constatati
nei 25 anni precedenti.
Questo progresso fu innanzi tutto dovuto al peso che giocavano i partner occidentali
all’interno della bilancia commerciale del Sudafrica.
Tuttavia il campo delle sanzioni occidentali non era esente da insufficienze o limiti, per
cui l’efficacia non fu mai totale: se l’embargo militare e nucleare era diventato realtà, il
governo di Pretoria manteneva comunque i mezzi e le capacità per poter accedere alle
tecnologie informatiche.
Allo stesso modo, se l’isolamento si era a poco a poco diffuso nell’ambito sportivo, esso
si estese solo sporadicamente al campo della cultura.
4. Panoramica generale sulle sanzioni
Una vasta serie di sanzioni internazionali contro il Sudafrica quindi è stata posta in essere dagli anni ’60 in poi. Nel secondo dopo-guerra nessun Paese (ad esclusione della
Rhodesia durante il periodo della Dichiarazione Unilaterale di Indipendenza, 19661980) è stato mai assoggettato da una tale quantità di sanzioni da parte, tra l’altro, di così tanti Stati.
Precedentemente al 1985, le sanzioni maggiormente significative attuate contro il Sudafrica furono i vari embarghi internazionali relativi alle armi e l’embargo petrolifero dei
paesi arabi.
In più, la maggior parte dei Paesi occidentali negli anni ’80 stabilirono programmi per
sostenere e portare assistenza ai sudafricani neri.
147
Ivi, p. 84
68
4.1 Embargo sulle armi
Il primo embargo sulle armi ebbe inizio nel 1963 quando le Nazioni Unite richiesero ai
Paesi membri la cessazione volontaria delle vendite di armi al Sudafrica.
La maggior parte delle potenze occidentali, Francia esclusa, furono d’accordo nel rispettare l’embargo, ma vi erano grandi differenze da Paese a Paese relativamente alla definizione dei beni coperti dal bando e anche riguardo alla rigorosità con cui il bando stesso veniva applicato.
Nel novembre del 1977, in reazione alla pesante repressione del governo nazionalista
bianco contro l’opposizione interna in seguito alla sommossa di Soweto e alla morte durante la detenzione di Steven Biko, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite stabilì
il divieto obbligatorio della vendita al Sudafrica di qualsiasi prodotto destinato a usi militari. Ma in quel momento il Sudafrica aveva ormai sviluppato un’industria bellica interna capace comunque di coprire il 90% circa delle necessità militari del Paese.
Tra le maggiori potenze militari, solamente gli Stati Uniti mantenevano funzionari militari in territorio sudafricano ancora negli anni ’80.
L’efficacia dell’embargo sulle armi è stata a lungo oggetto di accesi dibattiti, ma Michael Clough poteva tracciare alcune conclusioni che nel 1989 parevano mettere
d’accordo molti studiosi:
A)Innanzitutto la maniera graduale e non omogenea con cui l’embargo fu imposto
aveva ridotto certamente la sua efficacia e, di fatto, « probabilmente aveva fatto sì che il
Sudafrica divenisse meno vulnerabile rispetto alle pressioni internazionali»148;
B)L’embargo, secondo Clough, non sarebbe stato mai effettivamente applicato.
Si verificarono negli anni importanti violazioni del divieto, che permettevano al governo di Pretoria di costruire sofisticati apparecchi bellici che richiedevano capacità e tecnologie non disponibili certo in territorio sudafricano.
C)Nonostante lacune e inganni, l’embargo aveva imposto al Sudafrica alcuni costi
significativi e fatto sorgere problemi di vulnerabilità, specialmente in termini di forze
aeree,«che limitavano la capacità del Sudafrica di dar vita a progetti di potenza militare»149.
4.2 Embargo petrolifero
Nel novembre 1973, in risposta a una richiesta, da parte dell’OUA, i produttori arabi di
petrolio decisero di imporre l’embargo sulle spedizioni di greggio verso il Sudafrica.
Restrizioni relative alle esportazioni petrolifere destinate al Sudafrica erano comprese
anche all’interno della serie di sanzioni adottate dai Paesi occidentali nel biennio ’85’86. ‘embargo petrolifero non bloccò le forniture di greggio per il Sudafrica, ma impose
piuttosto dei costi pesanti all’economia nazionale, che Clough aveva valutato in 1-2 miliardi di rand all’anno.
Quei costi si riflettevano nel sovrapprezzo pagato per il petrolio inviato in violazione
dell’embargo e nelle spese per creare e mantenere grosse riserve di greggio.
148
H. Kitchen-M. Clough (a cura di), The policies of major democratic nations toward the Republic of
South Africa [resoconto del Meeting indetto dalla Carnegie Corporation of New York il 28 e il 29 marzo
del 1989.]-Carnegie Meeting Papers, Carnegie Corporation of New York, New York, 1989, Appendix D.
149
Ibidem.
69
Nel novembre 1986, l’Assemblea Generale dell’ONU creò un gruppo intergovernativo
per monitorare la fornitura e l’invio di petrolio e di prodotti petroliferi, «ma nessuna
delle maggiori potenze occidentali fu coinvolta dalle attività del gruppo»150.
4.3 Sanzioni finanziarie
Nel 1985-86 si imposero significative restrizioni ai flussi di capitali in direzione del Sudafrica. Tutte le maggiori democrazie industrializzate cominciarono allora, e sino al
crollo del regime segregazionista, a proibire, restringere o disincentivare nuovi investimenti e prestiti in Sudafrica. Ma anche prima che quelle politiche sanzionatorie esplicassero il loro effetto, considerazioni economiche e politiche avevano fatto sì che investitori privati e banche bloccassero il flusso di capitale privato diretto verso la Repubblica sudafricana.
Nell’88 due studi sugli effetti prodotti dalle sanzioni finanziarie sul Sudafrica riportarono conclusioni alquanto differenti.
La relazione del luglio del 1988 per il Comitato dei Ministri per gli Affari Esteri del
Commonwealth concludeva che – secondo quanto riportato da Clough e Kitchen – che,
date le restrizioni sui prestiti finanziari dell’epoca e lo stato di incertezza della comunità
finanziaria internazionale, il Sudafrica sarebbe stato un Paese ad alto rischio creditizio e
soprattutto “ non sarebbe stato capace di raccogliere quel capitale estero necessario a
sostenere un tasso soddisfacente di crescita economica”151.
Invece secondo il rapporto del settembre di quello stesso anno, stilato dal Congresso
degli Stati Uniti per il General Accounting Office( Ufficio per la Contabilità Generale),
i prestiti finanziari verso il Sudafrica erano diminuiti, ma si indicava anche che la situazione dei prestiti in Sudafrica probabilmente stava migliorando.
Ma ciò che va notato è che nessuna delle maggiori potenze occidentali richiese mai,
alle aziende nazionali che avevano partecipazioni finanziarie in territorio sudafricano, di
ritirare i loro investimenti monetari.
Furono altri fattori, come le considerazioni di tipo economico e politico a persuadere
una grossa percentuale di compagnie occidentali a ritirarsi dal Sudafrica.
Nonostante tutto, e questo va sottolineato, come risultato delle restrizioni imposte dal
governo sudafricano all’esportazione di capitale e dell’aumentato reinvestimento dei
guadagni interni, “il disinvestimento da parte degli occidentali non ridusse le riserve di
capitale a disposizione dell’economia sudafricana”152.
4.4 Sanzioni commerciali
Un’ampia gamma di restrizioni al commercio con il Sudafrica fu imposta nel periodo
1985-86. La Comunità Economica Europea, come vedremo, mise al bando le importazioni di ferro, acciaio e monete d’oro, e inoltre furono vietate le esportazioni ,
dall’Europa verso il Sudafrica, di petrolio e di qualsiasi bene potesse essere usato
dall’esercito e dalla polizia.
Simili misure restrittive delle libertà commerciali furono applicate dal Commonwealth.
In aggiunta alle misure stabilite dalla CEE, i paesi nordici imposero una serie più vasta
di restrizioni commerciali, che includevano il divieto di commerciare beni agricoli, minerali di importanza strategica e computer.
150
Ibidem.
Ibidem.
152
Ibidem.
151
70
Ma il pacchetto più esteso di restrizioni commerciali attuate dagli occidentali fu quello
contenuto all’interno del Comprehensive Anti-Apartheid Act, approvato dal Congresso
statunitense nel 1986 in contrasto con la volontà del Presidente Reagan, come già accennato. Questo provvedimento comprendeva il divieto di importazione di monete
d’oro, di prodotti agricoli, militari, e di ferro, acciaio e carbone dal Sudafrica, nonché
l’esportazione verso il Sudafrica di petrolio e computer ad uso del governo di Pretoria.
Molti Stati occidentali poi diminuirono i loro sforzi diretti a promuovere il commercio
con il Sudafrica.
Anche riguardo alle restrizioni sul commercio gli impatti non furono di facile valutazione. Nel già citato rapporto del General Accounting Office statunitense, si riportava
che il Sudafrica aveva visto diminuire notevolmente le vendite di prodotti sanzionati
dalle restrizioni statunitensi, che non era stato capace di rimpiazzare quelle mancate
vendite con operazioni commerciali su altri mercati.
Invece, secondo le statistiche compilate per i Ministri degli Esteri del Commonwealth,
le perdite commerciali erano state nette per quei Paesi che avevano imposto sanzioni
contro la Repubblica, ma « quelle diminuzioni erano state compensate grazie agli accresciuti commerci con altri Stati»153.
4.5 Restrizioni sul traffico delle persone
Gli Stati Uniti ed il Giappone vietarono anche i voli aerei diretti da e per il Sudafrica.
Ma l’efficacia di questi divieti sul flusso di viaggiatori provenienti dal (o diretto verso)
il Sudafrica era stata alquanto limitata
Fu infatti anche presa in considerazione per un certo periodo l’ipotesi più estrema consistente nel vietare qualsiasi collegamento aereo tra il Sudafrica e gli Stati del blocco occidentale nel loro complesso, ma questa ipotesi non trovò l’accordo necessario visto
l’alto numero di Paesi interessati.
5. Il disinvestment
L’azione di “disinvestimento” maggiore dal territorio sudafricano , come detto, fu attuata dalle imprese statunitensi negli anni ’80.
Ma il “disinvestment from South Africa”(disinvestimento dal Sudafrica) era stato richiesto per la prima volta negli anni ‘60, per protesta contro il sistema sudafricano di
apartheid.
La sua attuazione però non fu messa in pratica in modo significativo, come visto, sino a
metà degli anni ’80.
La campagna di disinvestimento, dopo essere stata “tradotta” nella legislazione federale
approvata nel 1986 dal Congresso statunitense, fu secondo molti capace di mettere sotto
pressione il governo nazionalista bianco inducendolo praticamente ad intavolare trattative e negoziati che alla fine portarono allo smantellamento del sistema di discriminazione razziale154.
Nel novembre del 1962, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite aveva approvato
la risoluzione 1761, più precisamente si trattava di una risoluzione non-vincolante che
153
Ibidem
George Fink, “Did an academic boycott help to end apartheid?” Nature, volume 417, Issue 6890
(2002), p. 690 .
154
71
creava il Comitato Speciale delle Nazioni Unite contro l’Apartheid e richiedeva
l’imposizione di sanzioni, economiche ma non solo, contro il Sudafrica.
Ma Stati Uniti e Gran Bretagna non furono d’accordo con la richiesta di sanzioni, e per
questo motivo boicottarono il Comitato155.
In seguito all’approvazione di quella risoluzione, il britannico Movimento AntiApartheid si occupò di predisporre una conferenza internazionale sulle sanzioni, conferenza che si sarebbe poi dovuta tenere a Londra nell’aprile del 1964.
Scopo della conferenza era quello di analizzare la fattibilità di sanzioni economiche,
nonché le loro implicazioni sulle economie del Sudafrica, del Regno Unito, degli Stati
Uniti e dei Protettorati. Dato che era risaputo il fatto che l’opposizione più intransigente
all’applicazione di sanzioni sarebbe venuta dall’Occidente, in particolar modo, come
abbiamo avuto modo di vedere, dalla Gran Bretagna, il Comitato compì ogni sforzo
possibile per cercare di attirare il maggior numero di relatori e di partecipanti, in modo
che gli esiti della Conferenza sarebbero poi stati visti come “obiettivi” concreti e seri.
Quella Conferenza poi fu realmente chiamata “Conferenza Internazionale per le sanzioni economiche contro il Sudafrica”; essa, scrive poi la Lisson nel 2000, “stabilì la necessità, la legalità e la fattibilità di sanzioni organizzate internazionalmente, contro il regime di Pretoria”156.
La conferenza tuttavia non ebbe successo nel persuadere il governo britannico a mettere in pratica sanzioni economiche contro il Sudafrica. Piuttosto, il governo di Londra
restò saldamente dell’opinione per cui:
«L’imposizione di sanzioni sarebbe incostituzionale in quanto noi non siamo
d’accordo sul fatto che la situazione sudafricana costituisca una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale, e noi in ogni caso non crediamo che le sanzioni avrebbero
l’effetto di convincere il governo sudafricano a cambiare le sue politiche»157.
5.1 I Principi di Sullivan (1977)
Il movimento anti-apartheid statunitense si accorse che il governo di Washington non
era certo desideroso di farsi coinvolgere nell’azione di isolamento internazionale contro
Pretoria158. Il movimento allora reagì esercitando un’azione di pressione su imprese private e investitori istituzionali allo scopo di ottenere l’interruzione dei loro affari nel territorio di uno Stato, il Sudafrica, promotore dell’apartheid, e questa interruzione volontaria dei loro affari diventava una questione rientrante nella loro responsabilità sociale
aziendale.
Quella campagna venne coordinata da diversi investitori istituzionali che insieme portarono alla creazione dell’Interfaith Center on Corporate Responsibility (Centro Interconfessionale sulla Responsabilità Aziendale), a cui aderirono diverse celebrità tra cui il
cantante Paul Simon.
155
The Anti-Apartheid Movement, Britain and South Africa: Anti-Apartheid Protest vs. Real Politik. A
History of the AAM and its Influence on the British Government's Policy towards South Africa in 1964.
Dissertation by Arianna Lissoni, 15 September 2000, (www.anc.org.za/ancdocs/history/aam/).
156
Ibidem.
157
Ibidem.
158
http://richardknight.homestead.com/files/uscorporations.htm (Richard Knight, Sanctioning Apartheid
(Africa World Press), Published by Robert E. Edgar, 1990 [Capitolo: Sanctions, Disinvestment, and U.S.
Corporations in South Africa].
72
Lo strumento chiave di quella campagna furono i cosiddetti Principi Sullivan, così
chiamati in quanto creati dal reverendo Leon Sullivan.
Sullivan era un predicatore afro-americano che, nel 1977, fece anche parte del consiglio
del colosso aziendale General Motors, all’epoca il maggior datore di lavoro per i sudafricani neri.
I principi richiedevano, come condizione per poter fare affari, che una azienda assicurasse a tutti i lavoratori uguaglianza di trattamento all’interno di un unico ambiente di
lavoro, senza alcuna segregazione di sorta né dentro né fuori dal posto di lavoro, e soprattutto indipendentemente dall’appartenenza razziale del dipendente.
Chiaramente questi principi entravano automaticamente in forte conflitto con le politiche ufficiali di discriminazione razziale e di segregazione del Sudafrica dell’apartheid. e
perciò rendevano praticamente impossibile, per le imprese che adottavano i principi
suddetti, continuare a fare affari in territorio sudafricano.
Se da una parte il movimento anti-apartheid portava avanti un’azione di lobbying presso uomini d’affari affinché adottassero e si conformassero ai principi di Sullivan, allo
stesso tempo operava sul fronte degli investitori istituzionali. Oltre a richiedere a questi
ultimi di ritirare ogni loro investimento diretto in società con sede in Sudafrica, gli attivisti americani fecero ampie pressioni al fine di ottenere il più ampio “disinvestimento”
possibile da parte di quelle aziende statunitensi che avevano interessi in Sudafrica e che
non avessero esse stesse ancora adottato i principi Sullivan.
Gli investitori istituzionali quali i fondi pensione pubblici furono tra i più sensibili agli
sforzi degli attivisti americani anti-apartheid.
“Le società pubbliche con interessi in Sudafrica si dovettero confrontare con due livelli di problemi: primo, le risoluzioni proposte dai preoccupati azionisti costituivano
una seria minaccia alla reputazione dell’azienda più che al prezzo del titolo, secondo, le
compagnie dovevano affrontare la pesante minaccia finanziaria rappresentata dal fatto
che uno o più investitori istituzionali potevano da un momento all’altro decidere di ritirare i loro investimenti dalla società”159.
5.2 Successo della campagna statunitense(1984-1989)
La campagna di disinvestimento negli Stati Uniti, che restò in piedi per diversi anni,
raggiunse il favore dell’opinione pubblica in seguito alla resistenza politica dei neri alla
Costituzione sudafricana del 1983, che includeva una complessa serie di camere segregate all’interno del parlamento.
Richard Knight ci dice che «i neri sudafricani, rifiutando sprezzantemente l’apartheid, si
mobilizzarono per rendere le township ingovernabili, i funzionari locali neri si dimisero
in massa, e il governo dichiarò per questo lo Stato di emergenza nel 1985 e fece uso di
migliaia di militari per sopprimere il “malcontento”.I telespettatori in tutto il mondo potevano vedere quasi ogni notte i reportage sulla resistenza di massa contro l’apartheid, la
crescita di un movimento democratico, ma anche la risposta brutale di esercito e polizia»160.
La conseguenza dell’ampia eco televisiva concessa alla risposta sudafricana fu, per
Knight, il drammatico ampliamento delle azioni internazionali mirate ad isolare il regime dell’apartheid, azioni che si combinavano con la situazione interna e che insieme a
quest’ultima imporranno drammatici cambiamenti nelle relazioni economiche internazionali del Sudafrica.
159
160
Ibidem.
Ibidem.
73
5.3 Effetti sul Sudafrica
Se è vero i Paesi africani post-coloniali avevano già imposto sanzioni contro il Sudafrica per solidarietà con la Defiance Campaign(Campagna di sfida lanciata a livello nazionale dall’ANC nel 1951 allo scopo di sfidare alcune leggi considerate ingiuste e discriminatorie), è pur certo che gli effetti di quelle sanzioni furono minimi, in quanto le
economie di quei Paesi, di recente indipendenza, erano ancora relativamente piccole,
soprattutto rispetto a quella sudafricana.
Come detto, la campagna di disinvestimento ebbe un certo impatto sul Sudafrica solamente dopo che le maggiori nazioni occidentali, compresi gli Stati Uniti, furono coinvolti a partire dal 1984.
Da quel momento in poi, secondo Knight, il Sudafrica conobbe una notevole fuga di capitali dal Paese, a causa sia della campagna di disinvestimento sia della restituzione dei
prestiti esteri.
Il deflusso netto di capitali dal Sudafrica fu notevole in quegli anni:
• "9.2 miliardi di rand nel1985"
• "6.1 miliardi di rand nel 1986"
• "3.1 miliardi di rand nel 1987"
• "5.5 miliardi di rand nel 1988."
La fuga di capitale estero innescò una drammatica caduta del tasso di cambio della valuta sudafricana, il rand. Questo rese le importazioni più costose, fatto questo che a sua
volta causò un aumento dell’inflazione in Sudafrica sino a tassi vertiginosi pari al 1215% annuo161.
Il governo sudafricano in realtà tentò davvero di ridurre il dannoso deflusso di capitale
dal Paese, imponendo un sistema di stretto controllo sul cambio, in base al quale i residenti sudafricani non potevano di norma esportare i loro capitali fuori dal paese egli investitori stranieri potevano farlo ma solamente passando per il rand finanziario, che aveva un valore minore rispetto a quello corrente.
Ricordiamo inoltre che tra gli oppositori delle sanzioni economiche vi fu sempre lo
stesso presidente americano Ronald Reagan che, oltre ad essersi opposto con veto al
Comprehensive Anti-Apartheid Act, aveva cercato di far prevalere la sua posizione, favorevole al cosiddetto “impegno costruttivo” nei confronti del regime di Pretoria.
6. Impatti sul Sudafrica e risposte
Il pensiero prevalente tra i bianchi sudafricani era che l’abolizione dell’apartheid sarebbe stata controproducente in quanto avrebbe diffuso tra gli Afrikaner dominanti un sentimento di «antagonismo nei confronti del processo di riforma e una mentalità difensiva»162.
Soprattutto all’inizio, sino agli anni 70, la visione collegata a questo pensiero riteneva
che le sanzioni esterne non influenzassero significativamente le dinamiche politiche del
Sudafrica.
161
Ibidem
R. Horowitz, “ South Africa: the Background to Sanctions”, Political Quarterly, April-June 1971, pp.
165-76. Quest’autore si era sempre opposto alle sanzioni economiche, ma accettava i boicottaggi culturali e sportivi.
162
74
Questo modo di pensare era basato su una teoria gradualista del cambiamento sociale, e
dava per implicito che le élite reagissero se sottoposte solo a pressioni esterne moderate
e ragionevoli, ma non rivoluzionarie.
Eppure, secondo Shepherd, il caso del Sudafrica sembrava proprio l’opposto di quanto
sostenuto dai gradualisti-riformisti: i cambiamenti nella politica nazionale sudafricana
sarebbero stati adottati quando, e solo nel caso in cui, diverse pressioni internazionali si
fossero con il tempo sommate.
Pressioni esterne da parte delle ONG avevano collegamenti con gruppi di protesta interni al Sudafrica, cosa che non faceva che rendere più rilevante l’impatto di quelle stesse
pressioni internazionali.
Considerando l’intero spettro delle risposte alle sfide esterne portate al Sudafrica, bisogna tenere presente che i sostenitori della posizione che voleva abolire il sistema di
apartheid avevano sempre costituito la maggioranza all’interno di tutti i gruppi razziali
del Sudafrica.
Il movimento anti-apartheid, nel senso più genuino del termine, era stato iniziato da
uomini sudafricani, sia bianchi sia neri, all’interno del Sudafrica, e quando la repressione rese impossibile, a molti di loro, proseguire l’opera di opposizione dentro i confini
del loro Paese, essi diventarono la colonna portante delle organizzazioni abolizioniste
che sorgevano all’estero.
E inoltre, alcuni elementi coraggiosi, di tutte le razze, continuarono a mantenere la loro
opposizione all’interno del Paese, nonostante le pesanti pene cui sarebbero andati incontro.
Certo, il punto di vista rivoluzionario poteva essere ritrovato apertamente presso i portavoce in esilio di quelle organizzazioni anti-apartheid, mentre era sempre arduo ottenere stime accurate riguardo alla forza e alla diffusione di quella visione abolizionista
all’interno del Sudafrica, proprio a causa delle conseguenze che avrebbero certamente
colpito le persone che fossero state sorprese ad esprimere opinioni non favorevoli al sistema vigente e a causa della pesante censura.
I gruppi non-governativi esercitavano la loro influenza attraverso metodi indiretti,
diversamente dai governi, che disponevano di mezzi più diretti per influenzare i rapporti
diplomatici.
I movimenti trans-nazionali avevano una certa influenza sulle attività culturali, ma anche l’economia, l’opposizione politica, la politica militare nonché le aspettative dei sostenitori della posizione rivoluzionaria.
La risposta del governo sudafricano consistette nel cercare di controllare e limitare la
penetrazione, il campo di azione e gli effetti di quei movimenti transnazionali
all’interno del Paese.
Questo tipo di reazione del governo, in sé stessa, comportava un minimo di cambiamento, nel senso che il governo non avrebbe mai potuto impedire totalmente l’esplicazione
degli effetti del movimento anti-apartheid.
Una campagna transnazionale pienamente efficace influenzava un vasto spettro di risposte di gruppo, molte delle quali non potevano essere appunto controllate dal governo.
Essa rafforzava l’opposizione interna e preparava gli elementi rivoluzionari a lottare per
il loro importante obbiettivo di costruire una alternativa totalmente diversa all’élite nazionalista bianca al governo.
All’interno dei gruppi dirigenti sudafricani ci furono diverse e ampie risposte alle pressioni esterne, quali la nascita del Progressive Reform Party, l’emergere di un fronte “illuminato”(«verlicht»)163 all’interno del Partito Nazionalista, l’adozione della politica
delle homeland164 da parte del governo in modo da controbilanciare e respingere le ac163
G. W. Shepherd, Jr., op. cit., p. 205.
Il ruolo delle homeland fu esteso nel 1959 con il Bantu Self-Government Act, che stabilì il principio
dello "Sviluppo Separato" (Separate Development), che includeva quello dell'autogoverno dei bantustan.
164
75
cuse di razzismo contro il regime di apartheid, e infine una politica estera rivolta al resto dell’Africa, alla ricerca di alleati e dell’accettazione all’interno del continente nero.
Altre politiche ufficiali, quali l’utilizzo di un potente apparato di polizia e dell’esercito
allo scopo di contenere la minaccia rivoluzionaria e gli attacchi dall’estero, furono
anch’esse influenzati dal movimento anti-apartheid.
6.1 Pochi cambiamenti, nessuno decisivo
Il boicottaggio sportivo e culturale ebbe un profondo impatto sulla società sudafricana, andando ad interessare le pratiche di segregazione nello sport e in quello che abbiamo definito come “piccolo(petty) apartheid”.
I sudafricani bianchi erano sempre stati consapevoli dell’importanza della cultura in
senso lato e dello sport, perciò furono colpiti nel vedere negata alle loro squadre e ai loro artisti l’opportunità di partecipare a tour e tournée internazionali.
Molti sudafricani bianchi, soprattutto di lingua inglese, si opposero a lungo alla discriminazione nello sport.
Sotto la pressione delle associazioni sportive e degli organizzatori, i gruppi dirigenti
bianchi si erano convinti a modificare in parte le regole delle competizioni sportive.
Avendo stabilito che le rappresentative sportive del Transkie o del Kwa Zulustan fossero da considerarsi nazionali “straniere”, i nazionalisti bianchi permisero che quelle
squadre giocassero contro le rappresentative bianche in quelle che venivano definite –
senza motivo logico – “competizioni internazionali”(international contest).
E in più, i coloured, che pure parlavano, per la maggior parte, la lingua afrikaans, la
stessa di molti bianchi, non potevano competere per squadre bianche.
Il governo sudafricano aveva da un certo momento in poi permesso ai non-bianchi di far
parte delle rappresentative sudafricane, ma solo all’estero, nelle competizioni internazionali e olimpiche. Ma in ogni caso, permanevano enormi barriere che svantaggiavano
gli sportivi africani all’interno dei confini nazionali, nel cui territorio i non-bianchi non
potevano mai entrare a far parte di team di bianchi.
Quelli che volevano a tutti i costi mantenere lo status quo nel sistema di segregazione
mettevano l’accento sul fatto che il governo aveva cominciato ad eliminare la segregazione tra gli spettatori, e che le rappresentative di gruppi razziali diversi potevano finalmente sfidarsi tra di loro.
Anche alcuni sportivi neri erano d’accordo nel considerare quelle novità come importanti concessioni.
Ma in realtà, i leader africani restavano critici circa le limitazioni che ancora colpivano
gli atleti non-bianchi.
Il cambiamento nella politica sportiva del governo sudafricano poteva ben essere definita una pura “parodia”, una «charade» per usare le parole di Shepherd165.
Infatti non bisogna scordare che la dottrina separatista degli Afrikaner cercava di tagliar
fuori i non-bianchi dalla loro società: l’ineguaglianza di fondo restò a lungo immutata,
nonostante alcune timide aperture come quelle sopracitate.
L’effetto della campagna internazionale tesa a boicottare il Sudafrica dal punto di vista
sportivo non ebbe certo un grosso successo, ma ebbe almeno il merito di mantenere alta
la pressione interna sul governo al fine di eliminare altre importanti restrizioni.
Il boicottaggio diede anche maggior peso e valore all’azione del Comitato Olimpico Internazionale che condannava e vietava la partecipazione alle rappresentative sudafrica-
Questo progetto fu messo in pratica sotto il governo Vorster come parte integrante dell’approccio, che lo
stesso Primo Ministro definiva “illuminato”, nei confronti dell’apartheid. In realtà il vero scopo di questo
nuovo approccio illuminato non era altro che privare i neri della cittadinanza sudafricana.
165
G. W. Shepherd, Jr., op. cit. p. 207
76
ne. La segregazione si dimostrò sempre più una politica “costosa” da seguire per il governo sudafricano.
Per quanto riguarda invece le pressioni internazionali attinenti il mondo della cultura,
si ritiene che il rifiuto, da parte di cantanti, musicisti, attori e studiosi, di visitare, girare
e lavorare per il Sudafrica, ebbe un impatto considerevole sulla decisione di abbandonare la stretta segregazione razziale attuata nei confronti dei rappresentanti culturali in visita nel Paese.
Dal 1970 infatti, gli afro-americani potevano viaggiare in Sudafrica, stare in hotel di
bianchi e mangiare in alcuni dei loro ristoranti; persino alcuni eventi culturali di portata
internazionale ebbero luogo in strutture non separate.
I sudafricani maggiormente liberali e progressisti lodarono questi cambiamenti in quanto importanti passi in avanti, e sottolineavano il fatto che le pressioni internazionali avevano in un modo o nell’altro costretto il governo a riconoscere la necessità di far cadere le barriere del cosiddetto petty apartheid.
Una buona parte dell’opinione pubblica sudafricana bianca, quella più liberale e progressista, era sempre stata a favore dell’embargo sulle armi.
A favore dello stesso divieto fu ovviamente la stragrande maggioranza degli africani neri. Ma il governo ed in generale gli esponenti politici della parte destra dello spettro politico sudafricano reagirono ai diversi embargo stabiliti contro Pretoria con la ricerca di
una autosufficienza militare, così come di una potenzialità accresciuta sul piano nucleare.
E il governo continuò sempre a ricercare la creazione di nuove strategie di interdipendenza con la NATO e con gli interessi statunitensi e britannici sull’Oceano Indiano.
“I portavoce militari sudafricani mostravano di non considerare il bando sulla vendita di
armi nei loro confronti, ma poi in realtà i diplomatici di Pretoria cercavano, senza grossa
pubblicità, di trovare il modo per bypassarlo”166.
Infatti la fornitura di armi da parte dell’Occidente era vista più come una garanzia del
continuo sostegno militare occidentale che come una reale ed urgente necessità militare.
La principale reazione alle pressioni militari esterne da parte dell’Occidente contro il
regime di apartheid fu la sostituzione alle precedenti relazioni ufficiali delle relazioni
informali.
I rapporti formali del passato furono a mano a mano abbandonati da Stati Uniti e Gran
Bretagna, soprattutto da quando i rispettivi governi decisero di abbandonare gli accordi
relativi alla base di Simon’s Town.
Ci furono poi molti tentativi da parte del governo nazionalista, di incoraggiare una
maggiore integrazione del sistema difensivo - militare sudafricano con la NATO.
Le visite dei diplomatici sudafricani a Washington e di rappresentanti del Congresso
americano in Sudafrica nel 1975 non furono altro che tentativi di ottenere una risposta
importante da parte degli americani alle necessità difensive sudafricane nel contesto allargato dell’area dell’Oceano Indiano.
Durante i primi anni ’70 si assistette alla nascita del movimento nero, e più in generale
africano, noto come Black Consciousness Movement (Movimento della Coscienza Nera),.
Si trattava di un movimento che coinvolgeva soprattutto i giovani neri, intransigenti nel
loro rifiuto dell’apartheid e che rimproveravano ai loro genitori un’accettazione passiva
dell’apartheid.
Il Black Consciousness Movement iniziò a svilupparsi negli ultimi anni sessanta, soprattutto a opera di Stephen Biko e Barney Pityana. Biko rimase sempre il leader princi166
Ivi, p. 210.
77
pale del movimento, pur affiancandosi ad altre figure di rilievo come Bennie Khoapa,
Pityana, Mapetla Mohapi e Mamphela Ramphele.
Nel definire la linea del BCM, Biko si ispirò soprattutto a pensatori afroamericani come
W. E. B. Dubois, Martin Delaney e Marcus Garvey, che avevano sostenuto la necessità,
per i neri degli Stati Uniti, di fondare la propria lotta per l'emancipazione sul rifiuto dei
pregiudizi razziali che i bianchi avevano trasmesso loro. Poiché intendeva la lotta per
l'abolizione dell'apartheid anche e soprattutto come una lotta culturale, per Biko fu naturale abbracciare anche il principio della nonviolenza ispirandosi a Gandhi and Martin
Luther King.
Rispetto all'ANC (principale movimento di opposizione all'apartheid per oltre metà del
XX secolo), il BCM ebbe fin dall'inizio posizioni più radicali rispetto al rifiuto della
cultura bianca. L'azione del BCM era in gran parte volta a sensibilizzare i neri allo scopo di emanciparli dalla visione del mondo imposta dai bianchi. Per questi motivi, il
BCM dimostrava una certa ostilità anche verso i progressisti bianchi anti-apartheid,
giudicando il loro interessamento verso i neri troppo paternalistico. Questa linea politica
generò dapprima qualche tensione fra gli attivisti neri, molti dei quali propendevano per
posizioni più moderate che consentissero un dialogo con i bianchi liberali (l'ANC, per
esempio, aveva sempre mantenuto buoni rapporti con il partito comunista sudafricano).
In seguito, tuttavia, la visione del BCM divenne quella predominante del movimento
anti-apartheid sudafricano.
Pur opponendosi alla partecipazione dei bianchi al movimento, i leader del BCM accettarono invece l'apporto delle altre etnie "di colore" del Sudafrica, e in particolare di
quella (particolarmente rappresentata e importante) degli indiani. Il termine "black" in
"black consciousness" venne quindi a indicare tutte le etnie non bianche.
Coerentemente con quelli che erano i propri obiettivi, l'azione del BCM si svolgeva soprattutto attraverso la propaganda e la diffusione di informazioni presso la popolazione
nera. Per fare questo, il BCM organizzò una rete capillare di "scuole" clandestine in cui
si insegnava ai neri l'orgoglio per la propria cultura, e al tempo stesso li si alfabetizzava
per fornire loro gli strumenti per affrontare i bianchi sul piano culturale. Inoltre, il BCM
forniva servizi alla popolazione nera, come l'assistenza sanitaria gratuita, e pubblicava
una serie di giornali, come il Black Review, Black Voice, Black Perspective, e il Creativity in Development.
Il BCM organizzò anche grandi manifestazioni di protesta e scioperi.
Poiché la sua politica radicalizzava il conflitto con i bianchi, il BCM fu immediatamente preso di mira dai servizi di sicurezza del regime afrikaner del National Party. Una
prima serie di arresti si ebbe nel settembre del 1975, e coinvolse molti leader del BCM
che avevano avuto rapporti con il movimento di liberazione mozambicano Frelimo, e
che furono accusati di terrorismo.
Il conseguente aumento della tensione fra neri e bianchi raggiunse il proprio culmine
nella violenta repressione degli scontri di Soweto, il 16 giugno 1976, in cui furono uccisi centinaia di civili. Nei giorni che seguirono la rivolta, tutti i leader del movimento furono identificati e messi al bando. Lo stesso Biko fu arrestato e morì nel carcere di Port
Elizabeth il 12 settembre del 1977.[4]
Un mese dopo la morte di Biko, il governo sudafricano dichiarò fuorilegge 17 gruppi
associati al BCM. La repressione del movimento portò molti membri del BCM a tornare
nelle fila dell'ANC o delle sue cellule armate. Al tempo stesso, nel BCM confluì una
nuova generazione di attivisti ispirati proprio dal massacro di Soweto e dalla morte di
Biko (fra questi c'era anche Desmond Tutu). Dalle ceneri del BCM nacquero così nuove
organizzazioni, fra cui la Azanian People's Organization (AZAPO), il Congress of
South African Students (COSAS), la Azanian Student Organization (AZASO) e la Port
Elizabeth Black Civic Organization (PEBCO).
78
I leader del movimento di liberazione in esilio furono i primi a spingere per un embargo sulle armi totale e obbligatorio, dal momento che essi guardavano a questo divieto come a un’arma sia di propaganda sia pratica nella loro lotta.
Quindi si può affermare che gli embargo contro il Sudafrica relativi alla vendita di armi
furono salutati con favore da gran parte dei sudafricani ma soprattutto dai sudafricani in
esilio. « Solo una parte della minoranza Bianca si opponeva ad esso. La grande maggioranza dei Sudafricani poteva essere definita[…] fortemente a favore dell’embargo sulle
armi »167.
La reazione più sofisticata alla questione dell’embargo militare fu la guerra psicologica sudafricana. Essa rivelava che le forze armate non credevano realmente che le battaglie cruciali sarebbero state combattute con le armi; ritenevano invece che la campagna contro-rivoluzionaria del governo bianco avrebbe dovuto tenere conto dell’opinione
pubblica, della morale, del lavoro di logorio e delle misure economiche messe in campo
dai gruppi rivoluzionari.
Sia i rivoluzionari sia i reazionari in Sudafrica capivano che la questione dell’embargo
era innanzitutto una battaglia per conquistare l’opinione pubblica: e in quella lotta, gli
oppositori del sistema sudafricano, grazie al sostegno transnazionale del movimento anti-apartheid e quello internazionale alle Nazioni Unite, era in vantaggio, e di molto.
La spaccatura nell’opinione pubblica sudafricana riguardo alla campagna per le sanzioni contro Pretoria aveva fatto avvicinare i bianchi alla questione della liberazione.
I bianchi favorevoli alle riforme si erano sempre dichiarati contro il disimpegno economico e le sanzioni, mentre una larga parte dell’opinione pubblica nera si era sempre detta a favore delle pressioni economiche sul Sudafrica e del disinvestimento.
I bianchi avevano preso davvero sul serio la campagna di sanzioni contro il loro governo. La questione toccava da vicino lo stesso governo e tutto il mondo economico sudafricano, da sempre in mano alla minoranza bianca.
Il governo e molti bianchi ritenevano assolutamente che le cose stessero cambiando,
lentamente ma nel senso giusto.
Alcuni elementi più liberali all’interno della comunità bianca avevano trovato opportuno indicare che quel cambiamento stava avvenendo troppo lentamente e che si rendesse
necessaria un’accelerazione. I più liberali tra gli uomini d’affari invece facevano pressioni, in nome dei non-bianchi, affinché si mettessero in campo al più presto le riforme
del mercato del lavoro, a dimostrazione dell’importanza anche economica che avrebbe
potuto avere un miglioramento delle relazioni razziali.
Tutto ciò portò ad un certo numero di miglioramenti a favore dei neri nel settore industriale, ma non fu chiaro quanto importanti furono quei cambiamenti.
Se da una parte, come detto prima, molti bianchi ritenevano che il disimpegno economico da parte degli occidentali non sarebbe stato il modo migliore per ottenere dal
governo nazionalista quei cambiamenti necessari al sistema sudafricano, è anche vero
che moltissimi sudafricani non-bianchi salutarono favorevolmente le sanzioni economiche contro il loro Paese: il Movimento di Coscienza Nera, la Black Peoples Convention,
la South African Student Organization e il movimento dei lavoratori erano tutti compatti
a favore del disinvestimento e di sanzioni economiche di tutti i generi.
Da un punto di vista gradualista o riformista, comunque anti-apartheid, la questione
delle pressioni sulle compagnie era stata davvero fruttifera all’interno del Sudafrica.
167
Ivi, p. 213.
79
Insieme agli scioperi dei lavoratori, quelle pressioni avevano avuto il merito di far ottenere, almeno a una parte dei lavoratori non-banchi, una serie di miglioramenti nelle
condizioni occupazionali e salariali.
Ma non ci fu mai la prova chiara che il gap tra le condizioni lavorative dei bianchi e
quelle delle altre razze fosse appianato, anzi, l’apartheid in quanto sistema si era sviluppato durante la crescita industriale, anziché andare in declino.
Il dibattito pubblico sulla questione delle sanzioni e sul disimpegno economico occidentale era stato in realtà molto limitato in Sudafrica; le maggiori discussioni ebbero luogo
all’estero. E poiché l’esito di quei dibattiti avrebbe davvero influenzato, se non determinato, il “clima”(favorevole o meno) per gli investimenti nella Repubblica, la loro importanza era notevole.
Un altro effetto che ebbero le sanzioni fu quello di mantenere vivo lo spirito rivoluzionario sudafricano: la stessa campagna di disinvestimento costituì per i non-bianchi un
segnale esterno inequivocabile del fatto che il movimento mondiale anti-apartheid ormai
lottava al loro fianco contro il regime che li opprimeva.
6.2 Alcune conclusioni
L’impatto generale dei link esterni sul complesso razziale sudafricano quindi, aveva
generato una grande pressione per il cambiamento, secondo Shepherd.
La conclusione fondamentale che ne trae è che « la politica ufficiale aveva fatto dei tentativi di adattamento attraverso cambiamenti limitati al “piccolo apartheid»168.
I principali risultati a livello politico e sociale furono: la fioritura del movimento sindacale e di Coscienza Nera, che però dopo poco tempo furono immancabilmente colpiti da
una repressione ancora più dura dalla seconda metà degli anni ‘70; inoltre, in seguito alle campagne internazionali e alle prime sanzioni economiche, il governo attuò una politica estera caratterizzata da una maggiore “distensione” – e dal dialogo alla ricerca di
nuovi alleati tra gli Stati africani; la politica delle homelands, presentata dai nazionalisti
al potere come una soluzione non-razziale per il soddisfacimento dei bisogni dei diversi
gruppi etnici.
Ma nessuna di quelle novità alterò mai la stratificazione di base, il sistema di classe e
razzista che caratterizzava il Sudafrica.
Certo, la coscienza rivoluzionaria dei non-bianchi aveva ricevuto una spinta notevole
dal sostegno, specie da parte delle ONG, occidentale: ricordiamo gli scioperi urbani e le
rivolte iniziate a Soweto; ma anche all’estero l’attività dei movimenti di liberazione cominciò a farsi sempre più sentire a partire dalla metà degli anni ’70.
Allo stesso tempo si accendeva maggiormente la guerriglia ai confini con gli Stati vicini
dell’Angola, del Mozambico e della Rhodesia del Sud.
Ma quello che apparve chiaro a tutti fu che nemmeno sotto l’amministrazione Botha
le cose cambiarono in modo deciso: egli mantenne la linea politica dei suoi predecessori, introducendo tuttavia alcune riforme costituzionali tra cui quella che ammetteva nel
Parlamento membri meticci e di razza asiatica.
Notiamo che ancora nel 1986 Oliver Tambo, storico presidente dell’ANC, scriveva rivolgendosi all’ Organizzazione Internazionale del Lavoro di Ginevra: « Il regime di Pretoria sta rispondendo nel modo che ci aspettavamo. Questo regime continua a voler
mantenere in piedi il sistema di apartheid»169.
In effetti, nonostante le pressioni internazionali, il governo nazionalista bianco non faceva altro che chiudersi a riccio sulle sue posizioni, e questo anche a costo di proclamare continuamente lo Stato di emergenza, cosa ripetutasi spesso negli anni ’80.
168
Ivi, p. 226.
E.S. Reddy (a cura di), Oliver Tambo and the struggle against apartheid, Sterling Publishers Private
Limited, New Delhi, 1987, p. 86.
169
80
Ma allora cosa si può dire riguardo agli effetti delle campagne internazionali antiapartheid e delle sanzioni sul regime di Pretoria?
Le sanzioni maggiormente efficaci furono probabilmente quelle relative al disinvestimento, in quanto la fuga di capitali dal paese creò davvero problemi economici seri al
Sudafrica. Ma il problema che sempre rese meno efficaci i diversi embarghi fu che, pur
quando essi divenivano obbligatori, come quello relativo alle armi stabilito dall’ONU,
potevano pur sempre venire aggirati in modo segreto.
Insomma per Pretoria il problema di come procurarsi le armi o il petrolio non si pose
mai in maniera pressante.
Certo è che i maggiori costi, il sovrapprezzo causato dalla necessità di approvvigionamento pur in presenza dell’embargo erano noti ai governanti sudafricani. Ma essi non
vollero mai rinunciare alle loro prerogative di superiorità formale, oltre che sostanziale.
I diritti della loro minoranza bianca dovevano ancora prevalere su quelli della maggioranza nera.
L’isolamento seguito ai boicottaggi culturali e sportivi sembrò a un certo momento colpire nel segno, specialmente nei primi anni ’80: la realtà fu che essi ebbero un effetto
mediatico notevole, ma portarono a cambiamenti minimi all’interno del Sudafrica.
Come riportato nei capitoli precedenti, l’economia doveva essere preservata, ma quando
gli interessi economici mettevano sotto pressione il sistema sociale esistente, lo status
quo giuridico - politico, allora il governo non doveva tentennare: la regola era quella di
far pendere l’ago della bilancia dalla parte del mantenimento dello status quo, anche a
costo di sacrifici economici o finanziari, quelli appunto dettati dalle sanzioni internazionali.
Lo Stato di Emergenza: questa fu paradossalmente la risposta interna più utilizzata da
Pretoria di fronte alle pressioni esterne; nel senso che, le sanzioni e i boicottaggi provenienti dall’estero avevano il potere di tenere viva la lotta all’interno del Paese, e soprattutto dalla seconda metà degli anni ’70 l’esercito e la polizia divennero realmente il
braccio armato del governo per poter stroncare le rivolte e le proteste.
La risposta esterna invece divenne ricerca di alleanze informali, dal momento che, a
partire soprattutto dal 1976, quelle formali erano ormai pura utopia; si pensi all’Accordo
di Simon’s Town, che dopo 20 anni venne abbandonato.
Si deve quindi appoggiare l’opinione di Tambo quando egli sottolineava che il governo dello stesso Botha, lungi dall’essere interessato alle riforme o ai cambiamenti,
continuava a vedere come suo principale obbiettivo la distruzione di “ quelle forze che
stavano combattendo per un Sudafrica unito, democratico e non-razziale”170.
Quindi ancora nella seconda metà degli anni ’80 le sollecitazioni, ormai pressanti e
sempre più univoche della comunità internazionale, non producevano i frutti sperati né
all’interno del Sudafrica, né all’esterno, in quanto il governo nazionalista nemmeno rinunciava a portare avanti la sua politica di potenza in Africa meridionale allo scopo di
circondarsi di Stati- satellite e perciò possibili alleati nella lotta contro i pericoli esterni.
Gli attacchi voluti dal presidente Botha contro Botswana, Zambia e Zimbabwe rispondevano alla precisa volontà politica di dominare la regione per renderla dipendente da
Pretoria, politicamente ancor più che economicamente. La giustificazione fornita internazionalmente dal governo sudafricano era che « il Sudafrica ha il ruolo naturale di potenza regionale»171.
La vera svolta arriverà solo nel 1989, quando Botha si dimise e il riformatore F.W. De
Klerk assunse il potere. Il presidente, nel nuovo contesto mondiale contrassegnato dal
collasso del socialismo in Europa, annunciò pubblicamente (1990) la fine del razzismo e
della guerra, rilasciando i prigionieri politici e legalizzando i partiti antirazzisti.
170
171
Ivi, p. 87.
Ibidem.
81
Capitolo IV
Europa, Svezia e Canada.
1. L’Europa e il Sudafrica nel dopo-guerra
Lo storico impatto che l’Europa ha avuto sulla storia africana e sudafricana in particolare continuò fino alla fine della seconda guerra mondiale, quando la sua influenza divenne meno diretta e più remota con la fine dell’epoca coloniale.
Questioni quali l’autodeterminazione dei popoli, razzismo e diritti umani acquisirono
una rilevanza mondiale, ma in Sudafrica questo trend veniva ostacolato e contraddetto
dal Partito Nazionalista, vittorioso alle elezioni del 1948, che creò i presupposti per un
inevitabile processo di alienazione, di allontanamento dell’Europa dal Sudafrica.
Le nazioni europee cominciarono a trovare politicamente sempre più difficile continuare
a mantenere le precedenti relazioni con il Sudafrica.
La campagna delle sanzioni, l’alienazione e l’isolamento imposti dai paesi europei furono tutti segnali del fatto che l’epoca dei rapporti speciali era finita e che da parte degli
stessi stati europei vi era il nuovo impegno a sostenere il governo della maggioranza, a
prescindere dalla razza, dalla classe sociale o dalla cultura dominante della maggioranza.
Dopo il secondo conflitto mondiale, le relazioni Sudafrica/Europa «assunsero un carattere duale»172. Relazioni bilaterali, dominate da Regno Unito, Germania, Francia, Italia e Olanda, continuarono ad esistere, mentre i rapporti con la Comunità europea (EC)
cominciarono lentamente a prender forma per divenire davvero importanti solo dopo il
1994.
A causa della condanna globale innescata dall’apartheid, sia le relazioni bilaterali con
membri della Comunità Europea, sia quelle multilaterali con il governo europeo di Bruxelles andarono nettamente deteriorandosi nell’ultimo quarto del ventesimo secolo.
Era comunque assai difficile ritrovare un consenso generale, riguardo all’approccio comune da tenere nei confronti del gigante africano: amministrazioni più politicamente
conservatrici, come Regno Unito, Francia e Italia continuarono a mantenere buone relazioni con Pretoria, principalmente a causa della loro dipendenza dalle forniture sudafricane di materie prime, dal commercio, e anche a causa dell’importanza strategica geopolitica che il Sudafrica ai loro occhi aveva nel periodo della Guerra Fredda.
Questa attitudine “dicotomica” si ritroverà anche nella politica della Comunità,
all’interno della quale alcune nazioni metteranno in azione le sanzioni contro il Sudafrica con più vigore e impegno di altre.
Sebbene la CE avesse sempre mantenuto le distanze dal governo di Pretoria, essa intraprese attivamente la campagna anti-apartheid abbastanza tardi. Solamente quando lo
status del Sudafrica all’interno della comunità internazionale fu indiscutibilmente quello
di paria, azioni concrete furono messe in pratica dalla CE, mentre già il regime di sanzioni delle Nazioni Unite era operativo.
Tra i fattori che velocizzarono il declino delle relazioni sudafricane con l’Europa vi
erano:
• Il sentimento anti-britannico all’interno del governo e della comunità afrikaner;
• Il ritiro forzato del Sudafrica dal Commonwealth in seguito alla proclamazione delle Repubblica nel 1961;
172
G. Olivier, South Africa and European Union. Self-interest, ideology and altruism, Protea Book
House, Pretoria, 2006, p. 24
82
•
•
•
Le crescenti pressioni multilaterali operate dai governi degli Stati del Terzo
Mondo di recente dipendenza alla pari di quelle dei movimenti di liberazione
interni quali ANC e United Democratic Front (UDF).
L’ondata delle sanzioni punitive imposte dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite contro il Sudafrica dopo pressioni insistite da parte principalmente di Stati africani ed asiatici.
Un’opinione pubblica internazionale sempre più ostile alla politica di
apartheid attuata in Sudafrica, e le sanzioni internazionali, nonché
l’isolamento, che ne seguì.
Le relazioni tra Sudafrica ed Europa non si deteriorano immediatamente dopo il 1948,
ma divennero sempre più difficili dopo che la decolonizzazione in Africa prese slancio e
dopo che un gran numero di Stati del Terzo Mondo di recente indipendenza diventarono
membri delle Nazioni Unite, o di agenzie specializzate, ma anche dell’Organizzazione
per l’Unità Africana, del Commonwealth e del Movimento dei Non-Allineati (NAM).
Le organizzazioni ora citate costituirono le principali piattaforme con cui sostenere la
campagna internazionale contro l’apartheid e l’isolamento del Sudafrica all’interno della comunità internazionale.
La CE e diversi suoi membri non furono certo alla testa di quella campagna.
Alcuni Stati membri decisero realmente di applicare politiche severe nei confronti del
Sudafrica al fine di isolarlo, «ma le misure della CE furono in generale inefficaci, mentre altri preferirono seguire i dettami dei propri interessi economici piuttosto che i loro
doveri morali»173.
Poiché la formulazione della politica estera è un ambito di decisioni che rientra nella
sovranità di ciascun singolo Stato membro, la Commissione Europea a Bruxelles può
agire solamente dopo un precedente accordo intergovernativo tra i suoi membri.
Questa mancanza di consenso, e la contemporanea presenza di interessi configgenti tra i
diversi Stati forno la causa principale per cui la CE intraprese la politica anti-apartheid
così tardi e in modo scoordinato.
Quando infine furono stabilite misure sanzionatorie dalla CE contro il Sudafrica, si trattava di sanzioni che rientravano nella campagna mondiale contro l’apartheid, precedute,
influenzate e dettate dalle diverse decisioni obbligatorie del Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite.
Come accennato prima, i membri della CE seguirono le proprie preferenze riguardo alle
relazioni bilaterali con Pretoria.
Alcuni Stati membri, vedremo più avanti, optarono per l’applicazione di severe misure,
tagliando tutti i ponti con il governo nazionalista bianco; altri Stati invece, agendo dietro i loro puri interessi economici, fecero il minimo indispensabile relativamente alle
sanzioni.
Per un piccolo lasso di tempo, i forti legami commerciali tra il Sudafrica e il Regno Unito, la Francia, la Germania, il Belgio e l’Italia, resero meno forti gli effetti
dell’isolamento di Pretoria dall’Europa, sebbene le sanzioni imposte dalle Nazioni Unite
prima, e infine dalla CE, costringessero questi Stati a ridurre al minimo le loro relazioni
con il regime dell’apartheid.
La risposta di quegli stessi stati citati qualche riga sopra, fu in primo luogo di applicare
in parte solo alcune delle sanzioni, restando a malapena all’interno del quadro delle misure obbligatorie approvate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Le divisioni politiche tra i diversi membri furono evidenti anche in sede di votazioni
nell’ambito delle Nazioni Unite: «sino ai primi anni ’80, su 70 risoluzioni riguardanti
173
Ivi, p. 26
83
l’apartheid, gli Stati membri della CE votarono nello stesso senso solamente 17 volte»174 . I cosiddetti “interessi essenziali” legati alla dipendenza dalle materie prime strategiche fornite dal suolo sudafricano, trattennero in particolare i governi di Regno Unito, Francia e Germania Ovest dal seguire l’esempio dei principali sostenitori delle sanzioni, quali Danimarca, Olanda e Irlanda, che tra l’altro avevano una dipendenza dalle
materie prime sudafricane relativamente minore rispetto a quella dei primi tre.
Sebbene si avesse un “cambio di umore” nei rapporti tra Londra e Pretoria in seguito
al già trattato discorso del Premier Macmillan rivolto al Parlamento sudafricano il 3
febbraio del 1960, le sanzioni seguirono solamente molto più tardi rispetto a
quell’evento.
Ma il discorso di Macmillan aveva per così dire“rotto il ghiaccio”, nel senso che aveva
segnato l’inizio di una nuova epoca nelle relazioni non solo tra Gran Bretagna e Sudafrica, ma anche, implicitamente, tra Pretoria e altri Paesi membri della CE, che generalmente seguivano la leadership britannica sulla questione sudafricana.
La posizione internazionale del Sudafrica peggiorò ancor più quando esso perse lo status di membro del Commonwealth in seguito alla trasformazione del Paese in Repubblica nel 1961. Non essendo più membro del Commonwealth, il Sudafrica diveniva maggiormente vulnerabile all’isolamento internazionale.
La censura delle sue politiche interne da parte britannica divenne sempre più pesante, e
un impulso ancora più forte alla politica globale di isolamento arrivò dalla campagna a
favore delle sanzioni condotta dai Paesi di recente indipendenza.
Sino al 1977, la campagna europea era più forte dal punto di vista retorico e simbolico che in pratica. Infatti, la rottura con Pretoria da parte dell’Europa non fu mai totale
o irreversibile, dal momento che, come vedremo, alcuni Stati non vollero chiudere tutti i
canali commerciali o rompere i contatti diplomatici con il Sudafrica.
Le sanzioni della CE erano ben lontane all’essere realmente efficaci, dal momento che «
una rete di inganni, grazie alla quale il commercio e i legami con il Sudafrica continuavano a restare in piedi»175, rendeva possibile, ad alcuni Stati, opporsi alle sanzioni severe contro il Sudafrica.
Da molti punti di vista, perciò, possiamo affermare che l’intensità con cui gli Stati
europei, globalmente, lottarono contro il regime di apartheid, fu più bassa di quella
messa in campo dai Paesi africani, scandinavi, asiatici, dell’Europa Orientale,
dall’America Latina e dall’Unione Sovietica.
Durante tutto il periodo in cui vigeva il regime di apartheid in Sudafrica, formali legami
diplomatici furono mantenuti tra Pretoria e la maggior parte dei membri della CE, ad
eccezione di Irlanda, Danimarca e Lussemburgo.
I flussi commerciali non si fermarono, con l’eccezione di quello relativo alle armi, dei
Kugerrand ( le monete d’oro sudafricane) e beni tecnologici utilizzabili per difendere
l’apartheid: queste tre categorie di beni, infatti, rientravano nel novero delle materie fatte oggetto di sanzioni obbligatorie dal Consiglio di Sicurezza.
Sanzioni simboliche, sicuramente meno lesive degli interessi economici, riguardarono le
scienze, l’educazione, la ricerca, lo sport e la cultura, e furono applicate più rigorosamente dagli Stati europei a partire dal 1976, quando l’indignazione contro l’apartheid si
fece più forte in tutto il mondo; a quel punto, infatti, la CE e i suoi stati membri non potevano permettersi il lusso di restare impassibili o addirittura ignorare il crescente atteggiamento di rabbia, a livello internazionale, e l’ondata di proteste che seguirono le
rivolte iniziate a Soweto.
L’imposizione dell’embargo obbligatorio sulle armi da parte delle Nazioni Unite,
l’elezione di un attivista per i diritti umani, quale era Jimmy Carter, alla carica di Presi174
M. Holland, The European Community and South Africa. European Political Co-operation under
strain, Pinter Publishers, London and New York, 1988, p. 61-72
175
Ivi, p. 109.
84
dente degli Stati Uniti, l’impazienza e l’odio delle nazioni africane recentemente divenute indipendenti nei confronti del regime di Pretoria, resero politicamente scorretto e
potenzialmente causa di imbarazzi la possibilità per l’Europa di restare al di fuori di
questa ondata internazionale ostile al Sudafrica: l’Europa sarebbe stata in quel caso considerata, secondo Gerrit Olivier, « come una mosca bianca»176, si sarebbe posta contro
la comunità internazionale.
Secondo quanto afferma Martin Holland il Codice di Condotta, che tra il 1977 ed i l984
fu l’unico strumento-guida in mano alla CE per promuovere dei cambiamenti all’interno
del Sudafrica, «era stato concepito per difendere i governi europei dalle critiche internazionali»177.
2. La politica della CE riguardo al Sudafrica
Dal punto di vista della Comunità Europea, il Sudafrica rappresentava una tematica non
prioritaria né urgente sino al momento in cui il Regno Unito entrò a far parte della stessa CE, nel 1973.
Martin Holland ha individuato alcune fasi generali relativamente allo sviluppo della politica comunitaria nei confronti del Sudafrica:
• Periodo precedente al 1977, durante il quale l’approccio della CE era determinato dalla leadership britannica: per cui si trattava non tanto
dell’amalgama delle posizioni bilaterali di ciascuno degli Stati membri,
quanto piuttosto dell’adozione e della ridotta applicazione, in ambito CE,
di quella che era la politica di Londra verso Pretoria.
• Una seconda fase (1977-1984) durante la quale lo sviluppo di un consenso riguardo alla politica della CE verso il Sudafrica trovò espressione
nel Codice di Condotta.
• 1985-’86: fase in cui gli eventi interni del Sudafrica portarono ad una
nuova valutazione critica, da parte della CE, rispetto alle sue relazioni
con Pretoria, cui seguirono le misure sanzionatorie nei confronti del regime dell’apartheid.
• Dal 1987 in poi, la CE prima e l’UE dopo, continuando ad opporsi politicamente e diplomaticamente al governo sudafricano, adottarono ed applicarono, oltre a quelle sanzionatorie, misure positive di sostegno agli
oppositori africani dell’apartheid, con programmi tesi a promuovere una
transizione alla democrazia e aiuti allo sviluppo.
Sino al 1977 dunque la Comunità seguì la leadership informale britannica rispetto alle
problematiche sudafricane.
In quel periodo, come riporta Holland, «era spesso impossibile determinare l’esatta natura degli obbiettivi ricercati dalla CE»178. Sebbene l’eliminazione dell’apartheid e la
liberazione dell’Africa meridionale dalla dipendenza economica da Pretoria fossero gli
obiettivi centrali perseguiti da Bruxelles, «le politiche comunitarie mancavano di coerenza e le decisioni venivano prese in termini ambigui»179.
176
G. Olivier, op. cit., p. 28.
M. Holland, op. cit., p. 33.
178
G. Olivier, op. cit., p. 29.
179
M. Holland, op. cit., p. 95-97.
177
85
Si può affermare, ormai con cognizione di causa, che il ruolo della CE nel cercare di
promuovere cambiamenti all’interno del regime sudafricano fu nel complesso inefficace
almeno sino al 1977.
2.1 Il Codice di Condotta
Nel 1976 il Consiglio dei Ministri degli Esteri della CE emise la sua prima dichiarazione, nella quale condannava la politica di apartheid del governo sudafricano.
Desiderosa di essere perlomeno considerata come un’autorevole partecipante della
campagna internazionale contro l’apartheid, la CE adottò nel 1977 un “ Codice di Condotta” rivolto alle imprese europee che avessero propri interessi in Sudafrica.
Questo Codice, strumento oggi unanimemente ritenuto inefficace e quindi screditato a
livello politico, restò l”ammiraglia” della politica comune europea anti-apartheid sino
alla metà degli anni ’80.
Il Codice fu il risultato di una «politica reattiva»180 della CE nei confronti
dell’apartheid.
Nel 1985 c’erano solamente 3806 sudafricani neri in posizioni manageriali, e il rapporto
tra i redditi dei bianchi e dei neri in Sudafrica era di 11:1; con l’adozione del Codice ci
si auspicava che la situazione di disparità nel mondo del lavoro si attenuasse, e che anche ai non-bianchi fossero concesse possibilità di guadagno e carriera.
Principale obbiettivo dichiarato del Codice era la promozione di migliori condizioni per
i lavoratori neri impiegati nelle imprese private in Sudafrica, riferendosi sia alle condizioni prettamente lavorative, sia agli altri aspetti quali i rapporti di lavoro, la retribuzione, i problemi dei lavoratori emigranti, degli standard di vita e della segregazione.
Certo, le argomentazioni politiche e morali del Codice erano sostenute da incentivi più
pragmatici: come lo stesso codice sottolineava, era “nell’interesse delle stesse imprese
mantenere degli standard di impiego buoni in Sudafrica e soprattutto essere riconosciute
per questo”181.
Le principali condizioni contenute nel Codice del 1977 erano:
• Creazione di sindacati per i lavoratori neri.
• Responsabilità sociale da parte delle imprese europee che dovevano impegnarsi
ad assicurare la libertà di movimento per i lavoratori neri e le rispettive famiglie.
• Formulazione, da parte delle aziende europee, di specifiche politiche salariali tese a migliorare il reddito degli operai ben oltre la soglia di sussistenza.
• Adozione del principio secondo il quale il lavoro di un operaio nero sarebbe stato pagato alla stessa maniera di quello fornito da un lavoratore bianco; preparazione di programmi per dare possibilità a tutti i lavoratori di fare avanzamenti
di carriera.
• Impegno delle imprese a fornire tutti quei benefici e aiuti necessari a migliorare
lo standard di vita dei lavoratori.
• Abolizione completa della segregazione razziale all’interno delle imprese europee.
• Pubblicazione, da parte delle società madri europee con filiali in Sudafrica, di
una relazione annuale dettagliata sui progressi registrati, dalle aziende controllate, nell’attuazione delle disposizioni del Codice. Le relazioni sarebbero poi state sottoposte ai rispettivi governi nazionali e analizzati dal Consiglio CE dei Ministri degli Esteri.
180
181
Ivi, p. 74.
Ibidem.
86
Ma ciò che mancò fu una prospettiva comune nell’attuazione delle disposizioni del Codice.
Innanzitutto, nessuna istituzione CE era responsabile formalmente della supervisione e
del coordinamento del Codice.
In secondo luogo, non fu mai adottato un criterio comune in base al quale compilare le
relazioni sull’attuazione del Codice, cosa che impediva di effettuare analisi precise e paragoni tra Stato e Stato.
Inoltre, la responsabilità per l’analisi dei rapporti presentati dalle compagnie ricadeva
sullo stato, non direttamente sulla CE.
Pensiamo poi al fatto che solo la Gran Bretagna sottomise sempre il suo rapporto annuale. E poi, il Codice si basava sulla volontarietà, nel senso che non erano previste sanzioni comunitarie per la mancata applicazione delle sue disposizioni.
Nonostante si trattasse della politica comunitaria, gli Stati membri interpretarono a loro
– per la verità molto vario- modo le disposizioni del Codice: il risultato fu però che lo
sforzo globale comunitario fu implementato scarsamente e in modo non coordinato, per
cui inefficace; e inefficaci furono anche il controllo e la gestione di quello sforzo comune. Il codice perciò poté raggiungere pochissimi fra gli obiettivi per cui era stato
concepito.
E la cosa peggiore, era che esso rappresentò l’unica azione praticata dalla Comunità Europea allo scopo di metter fine all’apartheid sino al 1984.
2.2 Misure restrittive della CE
Nel 1985, il deteriorarsi della situazione sudafricana persuase la CE a convocare in Europa gli ambasciatori degli Stati membri in Sudafrica, per delle consultazioni.
Queste portarono alla decisione di inviare una missione diplomatica (la Troika Diplomatic Mission) costituita dai Ministri degli Esteri di Lussemburgo, Italia e Olanda.
Questa missione in seguito propose al Consiglio CE dei Ministri degli esteri una vasta
serie di misure restrittive contro il governo di Pretoria, ma non propose nessuna sanzione economica.
Allo stesso tempo, la missione aveva proposto altre misure, stavolta non sanzionatorie
ma “positive”, nel senso che erano mirate a dare sostegno agli oppositori del regime di
apartheid.
Le misure punitive includevano il ritiro dal Sudafrica degli addetti alle questioni militari, il bando relativo alla cooperazione militare e sul nucleare, il divieto di nuovi investimenti in territorio sudafricano da parte di imprese europee, il divieto di vendere petrolio e prodotti tecnologici di importanza strategica, la fine dei contatti ufficiali degli
accordi sulla sicurezza, l’embargo sull’esportazione di armi ed equipaggiamenti militari
diretti al Sudafrica, e un almeno parziale boicottaggio in campo culturale e sportivo.
Un’altra proposta che venne avanzata fu quella del finanziamento delle organizzazioni
anti-apartheid non-violente, l’assistenza per le necessità delle comunità sudafricane nonbianche relative all’educazione e all’istruzione, e il sostegno alla SADCC182 e agli Stati
che si trovavano a dover fronteggiare i tentativi sudafricani di destabilizzazione
dell’Africa meridionale.
Sin dall’inizio le misure repressive non furono unanimemente accettate né uniformemente interpretate e attuate dagli Stati membri, ma è oggettivo che nel corso del 1985 e
182
La SADCC (Southern African Development Coordination Conference) era la Conferenza per il coordinamento dello sviluppo in Africa meridionale, venne creata a Lusaka il 1° aprile del 1980 in seguito
all’adozione della Dichiarazione di Lusaka (Southern Africa: Towards Economic Liberation) da parte di
nove Stati fondatori(Angola, Botswana, Lesotho, Malawi, Mozambico, Swaziland, Tanzania, Zambia,
Zimbabwe). Come scopo principale aveva quello di rendere la regione meno dipendente dal Sudafrica.
87
del 1986 esse facessero parte della risposta degli Stati membri, e della CE, al regime di
apartheid.
Nell’86 la campagna comunitaria contro il regime nazionalista bianco fu intensificata in
seguito all’adozione del divieto parziale di importazione di ferro e acciaio dal Sudafrica,
del divieto di nuovi investimenti e in seguito anche all’avvio dei progetti di risoluzioni
CE relativi al divieto di importazione dei Krugerrand.
L’efficacia delle misure restrittive della CE e degli Stati membri tese a far crollare il
regime di apartheid fu indebolita da alcuni fattori quali le divisioni tra gli stessi membri,
le astrusità legali dei testi stessi delle risoluzioni, spesso ambigue, nonché l’inefficacia
dell’attuazione e della gestione delle sanzioni.
Tutte quelle misure però non servirono a migliorare i rapporti con l’ANC, principale
movimento di liberazione sudafricano, che preferì mantenere le distanze dalla CE.
Quando Sir Godfrey Howe visitò il Sudafrica nel 1986 in qualità di presidente del Consiglio dei Ministri degli Esteri CE, nel tentativo di dare il contributo da parte europea,
alla costruzione di una struttura politica che cancellasse l’apartheid, Nelson Mandela e
altri membri del suo movimento rifiutarono di avere un incontro con lui (incontro che,
tra l’altro, avrebbe avuto luogo in carcere).
Questa reazione da parte dell’ANC, secondo Olivier, può essere stata il riflesso dei dubbi, interni al movimento, relativi al fatto che il «programma di azione anti-apartheid,
messo in pratica tardivamente dalla CE, fosse un atto di sincera compassione nei confronti dei popoli oppressi dal regime di apartheid oppure che le misure positive concepite a Bruxelles fossero semplicemente un atto inevitabile perché ormai necessario, politicamente corretto e caratterizzato anche da un certo opportunismo»183.
L’atteggiamento dell’ANC, in parole povere, avrebbe voluto essere di rimprovero nei
confronti della CE per non aver preso prima, e in misura maggiore, tali misure contro il
regime.
Ma se questa ipotesi fosse vera, secondo Olivier, l’ANC non avrebbe tenuto in debito
conto quale tipo di organizzazione fosse la CE e quali difficoltà legali e procedurali fossero insite in essa e rendessero difficile l’adozione di una politica comune contro
l’apartheid.
La politica comune verso il Sudafrica precedente al 1994 tra l’altro pareva essere in disaccordo con il ruolo costruttivo che la CE aveva cercato di svolgere nell’aiuto allo sviluppo del Terzo mondo sin dall’adozione del Trattato di Roma (quello istitutivo della
Comunità), in particolare attraverso le Convenzioni di Lomé stipulata con 46 Paesi del
gruppo ACP (Africa, Caraibi e Pacifico)184 e la Convenzione di Yaoundé185.
Sebbene il Sudafrica fosse un’ex- colonia, un Paese in via di sviluppo e, tecnicamente
parlando, un membro del gruppo ACP, venne escluso dagli aiuti allo sviluppo concessi
dalla CE.
183
G. Olivier, op. cit., p. 30.
Le Convenzioni di Lomé firmata nella capitale del Togo nel febbraio 1975, è stata per venticinque anni
lo strumento di gestione dei rapporti politici, economici e di cooperazione allo sviluppo tra i paesi ACP
ed i paesi dell'Unione Europea. Sarebbe più corretto parlare di Convenzioni di Lomé, al plurale, perché la
Convenzione è stata rinnovata diverse volte: Lomé II (1980), Lomé III (1985), Lomé IV (1990), Revisione di Mauritius (1995). I partecipanti erano gli allora nove paesi membri della Comunità Europea, e 46
paesi ACP. La Convenzione si basava sulle preferenze commerciali per i prodotti dei paesi ACP, che potevano entrare nella Comunità Europea senza pagare dazi, senza che la CE richiedesse lo stesso vantaggio
per le sue esportazioni. Negli anni novanta i paesi europei avevano iniziato a richiedere garanzie sulla tutela dei diritti umani, della democrazia e dello stato di diritto, come condizione per poter mantenere i vantaggi commerciali.
185
La Convenzione di Yaoundé è una convenzione firmata nella città di Yaoundé (Camerun) tra la Comunità Europea e l'ASMM (African States, Madagascar and Mauritius) nel 1963. Era basata principalmente
sul precedente trattato stipulato tra la Comunità Europea ed i suoi territori oltremare; offriva vantaggi
commerciali ed aiuti finanziari ed aveva validità di cinque anni.
184
88
Questa politica, in realtà, era stata messa in pratica dalla CE prima ancora che la campagna internazionale anti-apartheid prendesse piede e viene interpretata da Olivier come
un tentativo onesto, da parte della Comunità Europea, di fare qualcosa di concreto contro le ineguaglianze e le cicatrici lasciate dal colonialismo.
3. L’assistenza CE alle vittime dell’apartheid
Come sottolineato, l’oggettivo ritardo della Comunità Europea nell’intraprendere azioni
concrete contro il sistema dell’apartheid fu principalmente dovuto alla riluttanza dei
suoi membri più grandi ad adottare politiche incisive.
Tuttavia, una volta deciso che fosse necessario adottare un approccio più severo, un pilastro importante delle relazioni esterne del Sudafrica venne a crollare.
L’Europa in senso lato era stata tradizionalmente la “patria” culturale, intellettuale e
morale del Sudafrica (quello bianco, si intende), la terra dei suoi padri fondatori, il principale elemento del suo ristretto circolo diplomatico, ma anche e soprattutto il suo più
grande partner commerciale e principale investitore straniero.
Al Paese quindi veniva ad un certo punto praticamente negato l’accesso al commercio
della CE e ai possibili vantaggi per lo sviluppo che venivano intanto concessi ad altre
ex-colonie del gruppo ACP.
Prima del 1986, il ruolo della CE nella lotta contro l’apartheid si era limitato all’uso
di strumenti diplomatici prevalentemente verbali e simbolici.
La rappresentanza diplomatica di Pretoria restò a Bruxelles presso la Commissione Europea, mentre la CE rifiutò rappresentanze diplomatiche formali a Pretoria sino al momento in cui l’apartheid crollò e fu eletto un nuovo governo, stavolta democratico, nel
1994.
Per un breve periodo di tempo, tra il 1991 ed il 1994, la Comunità Europea mantenne
nella capitale sudafricana il suo Programme Coordination Office.
Precedentemente al 1991, l’atteggiamento della CE di non-cooperazione con il governo
sudafricano trovò la sua espressione nella decisione di vietarne la partecipazione ai programmi sponsorizzati dalla stessa CE, tra i quali principalmente la Convenzione di Lomé con i Paesi ACP, i programmi di aiuto allo sviluppo e gli accordi commerciali.
In seguito poi alla rimozione del sistema di apartheid e al cambiamento democratico
in Sudafrica, la CE cominciò un graduale processo di ritiro delle sanzioni.
Sebbene la CE prendesse progressivamente le distanze dal governo della minoranza
bianca sudafricana a partire dal 1978, essa stessa comprese che, per ragioni umanitarie e
simboliche, non poteva esimersi dall’affrontare il problema sudafricano: perciò si lanciò
in un “Programma Speciale per l’assistenza alle vittime dell’apartheid”186, iniziato nel
1986 e portato avanti sino al 1994.
Il programma, stabilito con una dichiarazione del Consiglio dei Ministri degli Esteri CE,
comprendeva misure tese a:
• Assistere le organizzazioni non-violente contro l’apartheid;
• Fornire assistenza al sistema educativo della comunità non-bianca, inclusi sussidi alle università;
• Sostenere la SADCC e gli Stati confinanti con il Sudafrica.
• Far crescere la consapevolezza della situazione nei cittadini di Stati membri della CE residenti in Sudafrica;
• Intensificare i contatti con la comunità non-bianca in svariati settori.
186
G. Olivier, op. cit., p.32.
89
Nell’implementazione di questo Programma Speciale la CE evitò, per ovvie ragioni,
qualsiasi legame o contatto con il governo nazionalista bianco.
Perciò, per la sua attuazione, la CE si appoggiò ad intermediari non-governativi, tra i
quali organizzazioni ecclesiastiche, ed era il caso del Kagiso Trust, e sindacali, ed era il
caso della Confederazione Internazionale dei Sindacati Liberi.
Tra il 1986 ed il 1994, circa 450 milioni di ECU ( corrispondenti a 2 miliardi di rand sudafricani) coprirono il costo di più di 700 progetti grazie al Programma Speciale.
Il programma, con il suo budget di 125 milioni di ECU concessi all’anno, rappresentò il
più grande programma di sviluppo del Sudafrica, e il più grosso programma di quel tipo
mai attuato globalmente dalla CE.
Questa grande attenzione rivolta ai programmi di aiuto allo sviluppo era finalizzata al
sostegno del cambiamento pacifico e dei miglioramenti nei campi dell’educazione e della formazione, della salute e del benessere sociale, all’aiuto sociale e umanitario, allo
sviluppo rurale e agricolo in generale ma anche alla coesione sociale, alla costruzione di
un governo onesto, alla creazione di nuove possibilità di lavoro e all’assistenza legale.
Tutti questi programmi erano stati concepiti per promuovere e facilitare la transizione
pacifica verso una democrazia non-razziale in cui avesse potuto dominare il principio
per cui solo il popolo può determinare il suo sviluppo.
E questo massiccio impegno della CE ebbe un grande merito nel “risanare” l’immagine
che i sudafricani neri avevano della Comunità Europea.
Le riforme politiche positive attuate successivamente in Sudafrica motivarono la CE
a eliminare del tutto le sanzioni, anche se gradualmente.
Nel febbraio del 1991, il divieto relativo ai nuovi investimenti da parte di imprese europee in Sudafrica venne eliminato; nel 1992 molte altre sanzioni furono abbandonate.
Le sanzioni militari vennero abolite il 27 maggio del 1994.
In seguito alle elezioni democratiche e alla formazione del Governo di Unità Nazionale,
il ruolo dell’Unione Europea nella cooperazione allo sviluppo del Sudafrica riprese vigore sostanzialmente.
Il Programma Europeo per la Ricostruzione e lo Sviluppo ( EPRD) sostituì il Programma Speciale, con lo specifico intento di sostenere il Programma di Ricostruzione e di
Sviluppo (RDP) del Governo di Unità Nazionale.
All’inizio, i programmi della CE ( che dal novembre del 1993 diventa Unione Europea),
venivano applicati piuttosto “a caso” nel senso che non erano ancora focalizzati su un
preciso obbiettivo di sviluppo.
La diffusa euforia seguita alla transizione pacifica dall’apartheid alla democrazia, parve
influenzare, almeno momentaneamente, Bruxelles e indurre l’UE i suoi rigidi criteri di
Assistenza Ufficiale allo Sviluppo (ODA) e a buttarsi a capofitto nel finanziamento di
una serie di progetti in Sudafrica.
Nel solo 1994, più di 50 progetti (con una media di 2 milioni di ECU a progetto) furono
approvati e finanziati.
Nonostante tutto, nel 1995, il numero dei progetti finanziati fu ridotto a 10 con
l’obbiettivo di concentrare gli sforzi in modo più mirato e gestibile.
Un grande impulso alla cooperazione seguì poi alla firma della “Dichiarazione di intenti” tra Sudafrica ed Unione Europea nel 1995, lo sviluppo del “Country Strategy Paper” nel 1996 e l’approvazione, da parte del Consiglio dei Ministri dell’UE, di nuove
basi giuridiche su cui fondare la cooperazione allo sviluppo con il Sudafrica.
Possiamo affermare, riassumendo, che la reazione, lenta e inizialmente inefficace, della
CE nei confronti dell’apartheid viene spiegata da Olivier e Holland con l’apatia che la
stessa Comunità Europea provava al riguardo del regime di Pretoria.
In effetti solamente quando la comunità internazionale aveva già avviato in modo più
deciso la campagna anti-apartheid, la CE si decise a prendere misure concrete, avendo
90
compreso che «non era più possibile nascondersi dietro “mezze misure”, per di più inadeguate»187.
Il regime sanzionatorio adottato a livello comunitario a metà anni ’80, ebbe un forte impatto sulla situazione interna sudafricana, e il fatto che le sanzioni furono poi bilanciate
da sostanziali programmi di aiuto a favore delle vittime dell’apartheid indicò chiaramente quale importante ruolo la CE fosse in grado di rivestire.
La normalizzazione delle relazioni tra Sudafrica ed Unione Europea arrivò solamente
dopo l’abbandono dell’apartheid e l’elezione di un uovo governo democratico.
A quell’epoca, l’Unione Europea si rivelava come un grande attore nell’arena economica internazionale, mentre il Sudafrica iniziava un lento processo di cambiamenti e riforme tesi a cancellare le distorsioni nella struttura economica e sociale causate
dall’apartheid.
Oggi, il Sudafrica gode di benefici rapporti bilaterali con tutti i suoi tradizionali partner
dell’Europa occidentale, così come con tutti gli altri Paesi europei d’altronde.
L’unione Europea poi continua a rappresentare un pilastro centrale nelle relazioni estere
del Sudafrica, soprattutto da un punto di vista economico e commerciale.
4. Posizione di alcuni Stati europei
4.1 Londra e Bonn
La politica del cosiddetto “impegno costruttivo”, ricercata dall’amministrazione Reagan
negli anni ’80 riguardo al regime sudafricano e tesa a non rompere i legami con il governo bianco avrà un grande sostegno nella posizione dei conservatori britannici al potere già dal 1979.
Tre fattori storici importanti, ereditati dalla colonizzazione, fecero di quella britannica,
la posizione più ostile alle sanzioni all’interno della CEE:
• 1)l’ampiezza degli investimenti britannici in Sudafrica;
• 2)L’importanza delle relazioni commerciali.
• 3)Rapporti nel mondo finanziario e bancario.
Il governo conservatore britannico si oppose sistematicamente alle misure sanzionatorie
che tendevano ad isolare Pretoria, ad eccezione dell’embargo sulle armi, misura peraltro
stabilita durante l’amministrazione laburista nel 1964. L’embargo, comunque, non
comprendeva la fornitura di tecnologie informatiche per usi paramilitari.
Nel quadro della CE, così come all’interno del Commonwealth, la strategia britannica
restava quella di accettare solamente proposte di sanzioni contro il Sudafrica che fossero
blande e volontarie.
E Londra costituiva inoltre il principale ostacolo all’applicazione di sanzioni su base
multilaterale.
Sulla stessa falsariga il governo della Germania Ovest, guidato dal cancelliere Kohl, si
opponeva alle sanzioni contro Pretoria, e «il suo rifiuto di partecipare a misure punitive
dipendeva dagli interessi economici tedeschi che ancora esistevano nell’ex-colonia
dell’Africa del Sud-Ovest (poi Namibia)»188 .
Inoltre sottolineiamo gli stretti rapporti esistenti tra il partito dei social-democratici cristiani della Baviera, guidato da Franz-Joseph Strauss, e i dirigenti politici sudafricani.
187
188
Ivi, p. 33.
J.-C. Barbier, O. Désouches, op. cit., p. 73.
91
Pienamente impegnata nella collaborazione sul nucleare con Pretoria, la Repubblica Federale Tedesca si oppose nel 1986 alle sanzioni comunitarie estese al carbone sudafricano, che i tedeschi continuarono ad importare.
Il fatto poi che i due colossi automobilistici della BMW e della Mercedes-Benz avessero
potenziato i loro affari in Sudafrica ci fa capire quanto il governo di Bonn non volesse
lasciarsi sfuggire l’occasione di rimpiazzare il posto vuoto lasciato dalle società multinazionali americane in seguito alla campagna di disinvestment analizzata nel precedente
capitolo.
4.2 Il ruolo della Francia
Se Parigi non rappresentava che un partner economico secondario per Pretoria, è vero
anche che le relazioni franco-sudafricane restarono caratterizzate sempre dalla loro “antichità” e dalla loro natura strategica.
In effetti si ricordi che le prime forniture francesi di armi furono spedite agli afrikaner al
momento della guerra anglo-boera.
Fu sotto la presidenza De Gaulle che le loro relazioni si trasformarono realmente «in
scambi franco-apartheid»189.
Non paga di aver insegnato le tecniche anti-guerriglia agli ufficiali militari sudafricani
durante la guerra d’Algeria, la Francia nel 1960 accettò di fornire equipaggiamenti
all’esercito sudafricano in cambio di oro e uranio.
Così Pretoria cominciò ad approvvigionare Parigi con l’uranio, ricevendo in cambio la
fornitura di tutte quelle conoscenze tecniche, scientifiche e tecnologiche necessarie per
mettere in pratica il programma sul nucleare stabilito dal governo nazionalista bianco.
Questa collaborazione sul nucleare toccherà il suo apice durante la presidenza di Giscard d’Estaing, quando il governo francese firmerà, esattamente nel 1976, il contratto
con il quale si impegnava a far costruire la centrale nucleare di Koeberg, poi effettivamente realizzata.
Soltanto quattro anni dopo il loro arrivo al potere i socialisti, durante la presidenza Mitterrand, intraprenderanno la strada delle sanzioni contro Pretoria, sia con un’iniziativa
nazionale (stop agli investimenti diretti), sia con una comunitaria (tramite la partecipazione alla Dichiarazione di Lussemburgo del settembre 1985 sulla politica estera comune), sia internazionale, con il loro voto favorevole, al Consiglio di Sicurezza dell’ONU,
alla prima proposta di risoluzioni globali su base facoltativa.
Ma questo rivolgimento diplomatico contro Pretoria sarà limitato e fragile.
Infatti il valore giuridico di quelle sanzioni per il diritto interno francese restava debole,
in quanto nessuna legge relativa alle sanzioni fu approvata dal parlamento francese.
Le visita in Francia del presidente sudafricano Botha, la prima del giugno 1984 e la seconda avvenuta nel novembre del 1986, indicò quanto importante ancora fosse il ruolo
che Pretoria attribuiva alla Francia.
4.3 Olanda
La politica olandese si focalizzò sull’obbiettivo di accrescere le pressioni economiche
internazionali sul Sudafrica e cercò di sostenere unilateralmente i gruppi di opposizione
impegnati in Sudafrica nella lotta all’apartheid.
«In contrasto con gli effetti deboli della politica di cooperazione europea, per più di dieci anni l’Olanda aveva richiesto che si mettessero in atto azioni più credibili e coerenti»190. In particolare, nel determinare la politica sul Sudafrica, il pensiero dei governanti olandesi era che i vari elementi di quella stessa politica dovessero formare un “tut189
190
Ivi, p. 74.
M. Holland, op. cit., p. 103.
92
to” coerente, nel senso che l’insieme di azioni e sanzioni da prendere avrebbero dovuto
rafforzare mutualmente i loro effetti. Solamente con un coordinamento di quelle azioni,
positive e/o negative, si sarebbero potuti ottenere gli obbiettivi comuni della politica estera europea.
Durante gli anni ’80 poi, i tre Paesi del Benelux operarono di concerto sia in sede ONU
sia a livello europeo.
Ad esempio, in Olanda e Lussemburgo dal 1983 furono introdotte le richieste di visto
d’ingresso per tutti i cittadini sudafricani in arrivo, e furono attuate delle politiche tese a
restringere al massimo i contatti in ambito sportivo.
Dopo la morte di Steve Biko nel 1977, l’accordo culturale tra Olanda e Sudafrica, stipulato nel 1951, fu sospeso, e fatto decadere infine nel 1981.
4.4 Danimarca
La Danimarca aveva adottato al suo interno un’estesa legislazione anti-apartheid dal
1978.
A partire da quel momento, la risposta danese al Sudafrica dell’apartheid prese forma in
base ai suoi impegni all’interno del Consiglio Nordico191, piuttosto che in base alla sua
partecipazione alla CE.
Da notare il fatto che, nella Dichiarazione annessa all’Atto Unico Europeo, la Danimarca volle difendere quel suo doppio impegno, e sottolineò che la cooperazione politica all’interno della CE riguardo alla politica estera “ non avrebbe influenzato od ostacolato la partecipazione della Danimarca alla cooperazione, all’interno del Consiglio
nordico, relativa alla politica estera”192.
Già dal 1978 il governo danese applicò sanzioni economiche contro il Sudafrica relativamente a molti settori di esportazione diretti verso quel Paese.
Il parlamento danese approvò moltissime leggi che vietarono la vendita di petrolio al
Sudafrica, così come altri decreti bandirono la vendita di armi, con la previsione di pene
pesantissime in caso di violazione da parte di navi danesi.
Il 19 ottobre 1985 il governo danese fu uno dei firmatari del Programma Nordico di Azione (si veda il prossimo paragrafo) contro l’apartheid.
Quel programma cercava, attraverso la standardizzazione delle leggi dei paesi firmatari,
di rompere gradualmente tutti i legami economici tra i 5 Paesi nordici (Danimarca, Svezia, Islanda, Norvegia e Finlandia) e il Sudafrica, e cercava inoltre di attuare l’intero
spettro di sanzioni sponsorizzate dall’ONU.
Relativamente al carbone, dal momento che vi era una mancanza di consenso,
all’interno della CE, riguardo a un possibile embargo, il parlamento danese nell’86 agì
da solo e varò una propria legge al riguardo.
Ad eccezione di pochi minerali e prodotti chimici, tutte le esportazioni e le importazioni
da e verso il Sudafrica furono proibite per legge.
La Danimarca inoltre fu l’unico membro della CE ad interrompere le importazioni di
ferro e acciaio dal Sudafrica a partire già dal 1986.
Infine, come gesto simbolico, teso a rendere più forte l’isolamento internazionale del
Sudafrica, i collegamenti aerei diretti tra i Paesi scandinavi e Sudafrica furono interrotti
nel 1985.
191
Il Consiglio nordico e il Consiglio nordico dei ministri sono un forum di cooperazione dei governi dei
Paesi nordici. Il primo fu istituito dopo la seconda guerra mondiale e il suo primo risultato concreto fu
l'introduzione nel 1952 di un mercato del lavoro comune, della sicurezza sociale e della libera circolazione attraverso le frontiere per i cittadini degli stati membri.
192
M. Holland, op. cit., p. 105.
93
4.5 Altri Paesi
Altri Stati europei, tra cui Belgio, Lussemburgo, Italia, Grecia e Spagna, espressero la
volontà, a vari livelli, di dare attuazione alla politica comunitaria riguardo al Sudafrica
tramite legislazione nazionale e procedure amministrative.
Notiamo però che la Grecia, nonostante non avesse mai avuto particolari rapporti
commerciali con il Sudafrica, adottò una politica in linea con quella comunitaria.
In particolare questo valse negli anni ’80 relativamente al petrolio e alle armi.
Il governo greco aveva sostenuto altre sanzioni, quali l’embargo sul carbone stabilito
già dalla CE. Tuttavia, pur accettando il pacchetto di sanzioni del 1986 senza riserva alcuna, continuò ad importare quantità sostanziali di ferro e acciaio dal Sudafrica.
Anche nel caso dell’Italia, poteri e procedure amministrative precedenti alle misure
CE del biennio ’85-’86, furono impiegati per realizzare gli obbiettivi politici riguardanti
il Sudafrica. Da aggiungere che i contratti per l’esportazione di petrolio greggio verso
altri paesi contenevano sempre una clausola che impediva la rivendita di quel petrolio al
Sudafrica; inoltre, dal 9 gennaio 1987 furono proibiti nuovi investimenti diretti di cittadini italiani in Sudafrica.
5. Il PAN e la Svezia
5.1. Il Piano di Azione Nordico
Dopo il massacro di Soweto del 1976, la Norvegia decise di proibire nuovi investimenti
da parte di sue imprese e suoi cittadini in territorio sudafricano.
La Svezia prese l’iniziativa di portare una risoluzione all’Assemblea Generale
dell’ONU, con la quale chiedeva al Consiglio di Sicurezza di considerare iniziative tese
a bloccare ulteriori investimenti esteri nel Paese africano.
«Ci fu un’iniziale resistenza a quella proposta, da parte degli Stati africani e di quelli
non-allineati, ma infine essi si persuasero tutti dell’opportunità di una tale mossa, per
cui la sostennero addirittura la promossero»193.
La risoluzione fu allargato l’anno successivo per includere il divieto di prestiti finanziari, e funzionò per diversi anni.
I nuovi investimenti svedesi in Sudafrica furono proibiti con legge del Parlamento di
Stoccolma nel 1979.
Intanto il Comitato Speciale delle Nazioni Unite per l’apartheid aveva organizzato a
Lagos, per l’agosto del 1977, la Conferenza mondiale per l’azione contro l’apartheid,
con il patrocinio delle stesse Nazioni Unite - e in cooperazione con l’Organizzazione
per l’Unità Africana e la Repubblica Federale della Nigeria - nella speranza di garantire
significativi progressi nell’azione contro il regime di Pretoria.
Il presidente del Comitato Speciale delle Nazioni Unite per l’apartheid, l’ambasciatore
nigeriano Leslie O. Harriman, insieme ad E.S. Reddy ( membro dell’Istituto ONU per la
formazione e la ricerca), consultarono i governi dei Paesi nordici relativamente ai preparativi della Conferenza.
I governi nordici ebbero una rappresentanza di primo livello alla Conferenza: Ordvar
Nodli, Primo Ministro norvegese, e Olof Palme, allora leader del Partito Socialdemocra193
E.S. Reddy, Nordic contribution to the struggle against apartheid [ elaborato di una lezione tenuta durante un seminario dell’Istituto Scandinavo di Studi Africani di Uppsala il 19 febbraio del 1986], p. 13.
94
tico nonché capo dell’opposizione svedese, assistettero in qualità di ospiti speciali alla
Conferenza.
Due mesi e mezzo dopo la Conferenza, il Consiglio di Sicurezza, come detto, stabilì con
propria decisione di imporre un embargo obbligatorio sulla vendita di armi al Sudafrica.
E proprio i Paesi nordici furono tra i primi a convertire in legge interna la risoluzione
del Consiglio di Sicurezza, al fine di implementare al più presto le sue disposizioni e far
operare immediatamente l’embargo contro Pretoria.
Il 10 marzo 1978, i ministri degli Esteri dei Paesi nordici (Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia e Svezia) decisero di attuare un programma comune di azione contro
l’apartheid.
Il Programma di Azione Nordico (PAN) prevedeva:
• Proibizione o disincentivo di nuovi investimenti in Sudafrica.
• Divieto di fornire equipaggiamenti sotto forma di credito.
• Restrizioni riguardanti garanzie di prestiti bancari
• Rifiuto di votare a favore dei prestiti provenienti dal Fondo Monetario Internazionale.
• Proibizione di acquisti statali, disincentivo al trasferimento di tecnologia, diversificazione dei partner commerciali, stop a qualsiasi tipo di aiuto statale mirato
alla promozione commerciale di attività sudafricane.
• Stop alla vendita e al commercio di armi e materiale militare, e alla vendita di
materiale informatico all’esercito e alla polizia sudafricani.
• Stop all’acquisto di Krugerrand
• Sospensione, sino al 1985, dei voli operati dalla compagnia aerea scandinava
(SAS) diretti verso il Sudafrica.
• Limitazione agli scambi culturali, scientifici e sportivi.
• Rafforzamento del supporto ai rifugiati, ai movimenti di liberazione e alle vittime dell’apartheid.
Per la prima volta, si ebbe una seppur piccola rottura sulla questione delle sanzioni, nel
senso che i cinque Paesi nordici avevano deciso di attuare misure sanzionatorie indipendentemente dal resto della comunità internazionale.
Tuttavia, E.S. Reddy le ritiene delle «facili opzioni»194, nel senso che all’interno del
pacchetto sanzionatorio previsto dal PAN, le uniche misure importanti erano quelle relative alla proibizione dei nuovi investimenti.
Gli investimenti nordici in Sudafrica, erano piuttosto piccoli, e inoltre non vi erano stati
prestiti dei governi nordici al favore del Paese africano.
In Norvegia, l’azione del PAN ebbe scarso peso e visibilità in quanto vi erano pochi
investimenti in Sudafrica, e la proibizione di nuove attività veniva implementata attraverso il controllo dei flussi di valuta nazionale.
In Svezia invece, vi era un dibattito pubblico dal momento che alcune compagnie
svedesi avevano sviluppato investimenti considerevoli; inoltre il divieto per i nuovi investimenti era previsto per legge interna.
Il dibattito pubblico svedese metteva in luce quanto fosse importante il ruolo degli investimenti economici nel rafforzare la posizione dell’apartheid.
Il comitato speciale ONU accolse favorevolmente l’azione di Norvegia e Svezia, ma
non era capace di persuadere altri paesi occidentali ad attuare misure, anche limitate, per
diversi anni, sino al 1985, come visto.
194
E.S. Reddy, Nordic contribution to the struggle against apartheid [ elaborato di una lezione tenuta durante un seminario dell’Istituto Scandinavo di Studi Africani di Uppsala il 19 febbraio del 1986], p. 14.
95
5.2 La Svezia e l’apartheid
Il dominio della minoranza bianca, mantenuto in termini di discriminazione razziale e
sfruttamento massiccio dei non-bianchi, fu condannato aspramente dagli svedesi.
A partire dagli anni ’60, il regime di apartheid ricevette critiche dirette da parte delle autorità sia in Svezia sia alle Nazioni Unite.
A causa dell’immagine che essi avevano di loro stessi, cioè quella di «un popolo solidale con i Paesi e gruppi svantaggiati di tutto il mondo»195, gli svedesi sostennero in
modo pieno qualsiasi forma di lotta in Sudafrica, ed erano compiaciuti dal fatto che il
loro Paese fornisse assistenza alle vittime dell’apartheid.
Sia dal punto di vista morale sia da quello politico, molte organizzazioni non-governative in Svezia esprimevano il loro disgusto nei confronti delle nefandezze del regime di
Pretoria.
Nel 1976, il rappresentante svedese all’Assemblea Generale dell’ONU, Sua Eccellenza
Olof Rydbeck, sottolineò il fatto che la politica sudafricana dei bantustan o homelands,
definiti dal governo di Pretoria, “indipendenti” fosse « uno strumento utile, per il regime, al fine di consolidare il dominio bianco e far continuare lo sfruttamento economico e sociale dei lavoratori neri» 196.
Nella sua dichiarazione al Consiglio di Sicurezza, il 25 marzo 1977, Olof Palme, precedentemente primo ministro svedese, criticò pesantemente il regime di apartheid, e tra le
varie assurdità da lui denunciate vi era il fatto per cui « un individuo veniva etichettato
sin dalla nascita in base al colore della sua pelle»197.
In quella stessa occasione Palme disse anche che le azioni, così come l'eventuale inerzia, da parte delle Nazioni Unite, non dovevano essere usate come alibi, dagli Stati
membri, al fine mantenere un atteggiamento passivo nei confronti dell’apartheid, richiedendo quindi che tutta una serie di azioni punitive e positive venissero non solo prese in
considerazione, ma anche applicate. Tra esse, Palme annoverava il blocco alle vendite
di armi al regime sudafricano, lo stop all’esportazione di capitali e agli investimenti sia
verso il territorio sudafricano che in Namibia, l’opposizione al riconoscimento dei cosiddetti indipendenti bantustan, il sostegno materiale e politico ai movimenti di liberazione e agli altri Stati già autonomi che lottavano per l’indipendenza economica.
Teniamo conto che tali critiche nei confronti dell’apartheid non provenivano solamente
da rappresentanti del governo svedese, ma anche dai movimenti sindacali, per esempio,
che rappresentarono a lungo l’avanguardia del sostegno alla lotta contro l’apartheid.
Si distinsero in particolare la Confederazione dei sindacati svedesi (LO) e
l’Organizzazione centrale dei lavoratori salariati svedesi (TCO).
Dalle dichiarazioni dei sindacati, sempre ostili ai nuovi investimenti in territorio sudafricano e allo sfruttamento della forza lavoro non-bianca, si ricavava che tutta la struttura sociale e l’intera opinione pubblica desideravano la fine dell’apartheid in Sudafrica.
Ma perché la Svezia in particolare faceva della lotta all’apartheid una questione così
importante?
195
A.K. Bangura, Sweden vs. Apartheid. Putting morality ahead of profit. Ashgate, Aldershot Hants,
England, 2004, p. 1.
196
Ibidem.
197
Ivi, p. 2.
96
5.3 La Svezia il Terzo Mondo
Come tutti gli altri Paesi industrializzati, la Svezia aveva bisogno del commercio con
l’estero. L’economia svedese era costituita da molte compagnie transnazionali che, come le altre, cercavano di evitare le barriere costituite dalle tariffe; esse inoltre godevano
di aiuti finanziari mirati all’apertura di nuove filiali estere, praticavano una politica di
bassi salari e ricercavano sempre mercati con migliori opportunità.
Quindi le relazioni della Svezia con il Terzo Mondo apparivano, secondo l’analisi di
Bangura, autore di “Sweden vs. Apartheid. Putting morality ahead of profit”, caratterizzate da un doppio aspetto: da un lato le politiche nazionali verso i Pesi più arretrati erano caratterizzate dalla ricerca degli interessi economici, dall’altro però, la Svezia si dotava di una politica forte di sostegno e aiuto allo sviluppo nei confronti di quelle stesse
economie in via di sviluppo.
Per quanto riguarda la consistenza del commercio svedese con i Paesi in via di sviluppo,
essa raggiungeva solamente il 12% del totale del commercio estero del Paese nordico.
Per quanto concerneva le esportazioni, l’Algeria, il Brasile, l’Iran e la Liberia emersero
quali maggiori mercati per i beni svedesi.
Quei Paesi del Terzo mondo nei quali le compagnie industriali svedesi possedevano industrie manifatturiere, emersero perciò come i principali destinatari dei prodotti svedesi.
Nonostante il fatto che il commercio estero svedese fosse costituito solo per il 12% da
operazioni commerciali con i Paesi del Terzo mondo, quelle esportazioni erano importanti per la Svezia.
La Svezia divenne perciò il principale investitore straniero in quei Paesi del Terzo
Mondo.
Infatti gli investimenti esteri svedesi stavano rapidamente aumentando negli anni ’70, e
in particolare crescevano quelli diretti ai Paesi del Terzo Mondo.
Per cui, se è vero che il coinvolgimento della Svezia nell’economia internazionale, e in
particolare in quella dei Paesi sviluppati, non era così importante in senso assoluto, è
vero d’altra parte che essa stava crescendo e cominciava ad essere consistente, se paragonato al suo prodotto interno lordo, e soprattutto relativamente alle esportazioni.
Quindi si comprende l’attenzione sempre crescente della Svezia nei confronti dei Paesi
del Terzo mondo, verso il quale sviluppò presto una politica di aiuto allo sviluppo.
La Svezia divenne presto il principale donatore di aiuti allo sviluppo tra i Paesi capitalisti, in relazione al Prodotto Nazionale Lordo.
E questo non rappresentò un fatto casuale. Fu al contrario il risultato di una serie di politiche mirate a fornire ai Paesi del Terzo Mondo gli strumenti per uscire dalla loro situazione di povertà.
Già nel 1952 infatti la Svezia creò il Comitato Centrale per l’Assistenza Tecnica svedese ai Paesi meno sviluppati; nei primi anni ’60 poi Stoccolma cominciò a rivestire il
ruolo di Paese - donatore. Ma un’importante domanda si pose in Svezia, riguardante
quale fosse il modo migliore in cui dare questo aiuto ai paesi del Terzo Mondo: cioè, era
da preferire un approccio bilaterale, quindi più diretto, instaurando un rapporto immediato con ciascuno dei governi destinatari degli aiuti, oppure sarebbe stato meglio convogliare gli sforzi tramite un’organizzazione internazionale, prima fra tutte le Nazioni
Unite?
Negli anni ’60, il governo svedese optò per la seconda soluzione, sia perché alla Svezia
mancava la capacità amministrativa di incanalare adeguatamente la maggior parte dei
suoi aiuti, sia perché nel Paese, all’epoca, il sentimento pro-ONU era il più diffuso ed
era anche quello prevalente tra i membri del governo.
97
Bangura nota come nella vita politica svedese vi era sempre una componente latente di
moralità, accompagnata da un senso del realismo non comune in tutte le società politiche.
Inoltre, molti svedesi, cittadini comuni, avvertivano profondamente il sentimento per
cui «la ricchezza dovesse portare con sé anche l’obbligo morale di migliorare la posizione delle persone meno dotate»198.
Ma anche se all’inizio il governo svedese preferiva fornire l’aiuto in modo multilaterale,
quasi metà di esso avveniva sotto forma di accordo bilaterale.
Questo perché la Svezia teneva molto a stabilire relazioni strette con i Paesi del Terzo
Mondo, e la maggior parte dei suoi aiuti erano costituiti da assistenza tecnica e formativa, in opposizione agli aiuti sotto forma di crediti finanziari.
La maggior parte degli aiuti svedesi andava anche a Paesi africani quali l’Etiopia, la
Tanzania e il Kenia.
Ma dagli anni’ 70, la Svezia decise di passare dalla cooperazione per lo sviluppo su base
multilaterale, a una cooperazione su base bilaterale.
L’Autorità Svedese per lo Sviluppo Internazionale (SIDA), divenne più grande, sviluppò i suoi interessi e aumentò la quota totale degli aiuti, rendendo la questione del sostegno allo sviluppo imprescindibile nel dibattito politico ed economico interno.
Tutto questo dipendeva da due fattori:
1. I politici svedesi erano contrariati dal fatto che l’aiuto fornito tramite l’ONU fosse diventato troppo macchinoso e imbrigliato da procedure burocratiche.
2. Un grande dibattito era sorto in Svezia relativamente alla selezione dei destinatari degli aiuti, per cui sarebbe stato politicamente più opportuno andare avanti
con progetti bilaterali da scegliere autonomamente rispetto a troppi altri Stati.
Perciò, la Svezia cercò di espandere la sua politica estera di aiuti in modo che fosse orientata meglio e più decisa.
Suoi principali obbiettivi furono:
• Risvegliare l’opinione pubblica e rendere sempre più consapevoli gli svedesi riguardo al mondo in cui vivevano e riguardo al fatto che una società globale stava
emergendo.
• Dare ai decision-makers un ruolo più attivo non solo in Svezia ma anche
all’interno delle altre arene decisionali internazionali, rafforzare le agenzie nazionali e quelle internazionali al fine di formulare politiche adeguate.
• Mettere i popoli dei Paesi meno sviluppati al centro dei programmi di cooperazione allo sviluppo.
• Concepire la politica svedese verso i Paesi in via di sviluppo e la partecipazione
della Svezia alle Nazioni Unite in modo da permettere alle autorità svedesi di
sostenere sistematicamente, rafforzare ed attuare gli sforzi a favore dei Paesi più
poveri nel loro complesso.
• Concentrare meglio le risorse della Svezia, cioè convogliarle su poche questioni
e problematiche, nel tentativo di poter giocare un ruolo più importante riguardo
allo sviluppo in quei settori.
• Le questioni relative alle popolazioni e ai loro diritti avrebbero dovuto ricevere
la priorità più alta.
• Espandere e trarre pieno vantaggio dalle risorse svedesi, al fine di mettere i mezzi della ricerca svedese a disposizione del lavoro internazionale a favore dello
sviluppo.
198
Ivi, p. 22.
98
• Cercare di trarre vantaggio dalle abilità e dalle risorse di tutte le persone desiderose di partecipare al sostegno allo sviluppo: giovani, organizzazioni nazionali,
società di affari, ecc.
Negli anni ’70 l’opinione pubblica svedese era diventata sempre più coinvolta nelle
questioni riguardanti i diritti degli uomini, il dominio coloniale o i governi non democratici, e dopo il Vietnam e la sua guerra, la società civile svedese fu sempre più colpita
dalla situazione sudafricana, altro scenario internazionale in cui veniva a mancare il rispetto dei diritti umani.
5.4 La Svezia e il Sudafrica
Riguardo al problema Sudafricano, Nils Andrén, nel suo Power-Balance and Non-Alignment, riteneva che poco fosse stato fatto sino alla fine degli anni ’60 da parte del governo svedese, in quanto « il dibattito sul Sudafrica aveva avuto luogo prevalentemente
all’interno di gruppi esterni al mondo politico svedese in senso stretto, e che quindi questi gruppi non-politici (prevalentemente organizzazioni della società civile) possedevano
una conoscenza limitata degli affari internazionali»199.
Secondo lui l’azione della Svezia si sarebbe dovuta concretizzare innanzitutto in dichiarazioni pubbliche contro l’apartheid e nel sostegno per le risoluzioni ONU relative a
quella questione, per far capire al più presto la propria posizione al riguardo.
Come sottolineato prima, la Svezia si oppose poi in modo veemente al sistema discriminatorio imposto da Pretoria, ma al tempo stesso non voleva subire gravi perdite
negli affari economici riguardanti il Sudafrica.
Mentre da un lato il paese africano aveva un’importanza secondaria rispetto al commercio estero svedese, gli svedesi impiegati nelle società economiche con affari in Sudafrica godevano di ottime condizioni economiche.
E in più, i rapporti commerciali tra il Sudafrica e la Svezia avevano avuto un incremento
impressionante tra gli anni ’60 e gli ’80.
In generale però, le relazioni tra i due Paesi erano diventate particolarmente importanti
per i politici svedesi già in seguito all’adozione della politica economica del secondo
dopoguerra: esattamente, quella politica mirava principalmente a raggiungere la piena
occupazione. E a partire dagli anni ’60, in Svezia, diversamente che in altri Paesi sviluppati, l’accento non si pose solamente sulla crescita economica tout-court, ma sulla
distribuzione regionale della crescita, sui problemi ambientali derivanti dalla crescita
economica e sull’equa distribuzione della nuova ricchezza.
E l’obbiettivo della piena occupazione fu ricercato non solamente in senso generale, ma
anche con una particolare attenzione dedicata alle donne sposate, ai disabili e alle aree
meno forti dal punto di vista economico.
Perciò, anche se la Svezia forniva supporto e sostegno agli Stati confinanti e ai movimenti di liberazione che si opponevano al regime nazionalista bianco, è vero anche
che Stoccolma rafforzò i suoi commerci in Sudafrica e continuò ad avere relazioni diplomatiche con il governo, e questo per perseguire la sua politica economica: con ciò
vogliamo sottolineare il fatto che il governo svedese non smise mai di ricercare la soddisfazione degli interessi economici nazionali, continuando al tempo stesso l’opera di
sostegno alla lotta anti-apartheid, e quindi l’obbiettivo dello sviluppo economico non
offuscò l’impegno morale contro la discriminazione razziale.
Questo infatti dipendeva dal fatto che sino agli anni ’70, il Consiglio di Sicurezza non
aveva preso nessuna decisione obbligatoria nei confronti del Sudafrica e la Svezia, come fa notare Bangura, sino a quel momento aveva partecipato all’applicazione di san199
N. Andrén, Power-Balance and Non-Alignment, Almqvist and Wiksell Stockholm, Sweden, 1967, p.
25.
99
zioni internazionali solamente dopo raccomandazioni o decisioni del Consiglio di Sicurezza, preferendo, come dicevamo prima, le sanzioni su base multilaterale.
Infatti il governo svedese continuò a fare pressioni sul Consiglio di Sicurezza affinché
decidesse su sanzioni economiche estese e obbligatorie contro il Sudafrica, e affinché
non si perdesse ulteriore tempo.
In sede ONU, la Svezia portò di fronte all’Assemblea Generale una proposta di risoluzione, nel 1976, con la quale si richiedeva al Consiglio di Sicurezza di considerare misure quali il divieto di nuovi investimenti esteri in Sudafrica, e successivamente vi fu
una seconda proposta di risoluzione relativa a misure economiche quali l’interruzione
dei prestiti finanziari al Sudafrica.
Altre azioni supportate dalla Svezia contro il regime di apartheid includevano:
• Embargo sulle armi;
• Embargo su petrolio e prodotti petroliferi;
• Rafforzamento dell’aiuto a favore dei rifugiati e dei movimenti di liberazione e
delle vittime dell’apartheid tramite agenzie specializzate delle Nazioni Unite
• Aumento delle pressioni ONU sul Sudafrica per l’indipendenza della Namibia
Certamente poi il vero salto di qualità fu compiuto dai Paesi nordici in generale, e dalla
Svezia in particolare, con l’adozione del Piano di Azione Nordico, trattato sopra.
L’aiuto svedese agli Stati di frontiera e quelli a vario titolo impegnati nella lotta contro
Pretoria (Angola, Mozambico, Swaziland, Tanzania, Zambia, Zimbabwe, ma anche Lesotho e Malawi) si inseriva nella politica di aiuto e di sostegno allo sviluppo di cui si è
parlato prima.
Perciò, possiamo affermare che se da una parte la politica commerciale della Svezia
nei confronti del Sudafrica continuò ad operare nonostante la sua ferma opposizione
all’apartheid, dall’altra l’aiuto allo sviluppo che caratterizzava continuamente e tradizionalmente le decisioni politiche dei governi svedesi, fu oggettivamente sostanziale e
utile sia nei confronti delle forze di liberazione sudafricane, sia verso gli Stati africani
vicini.
E si trattava, tra l’altro, di un sostegno anche maggiore rispetto a quello concesso ad altri raggruppamenti regionali africani.
Però esiste un elemento che differenzia la Svezia da altri Paesi occidentali e ad economia capitalista: il fatto che lo stesso governo rischiò, e lo fece volontariamente, di mettere a repentaglio i propri interessi economici in Sudafrica tramite diverse sue proposte
relative a sanzioni internazionali contro il Paese africano.
Non solo, la Svezia votò sempre a favore delle sanzioni, superando così le tendenze della maggior parte degli altri Stati occidentali.
Il governo di Stoccolma poi sviluppò programmi di aiuto economico e sostegno diplomatico per i Paesi sottosviluppati e di recente indipendenza in Africa; non fece mai
mancare il sostegno umanitario alle forze di liberazione; criticò sempre apertamente il
regime sudafricano, non solo all’interno della Svezia, ma anche all’estero.
E soprattutto, specie con l’adozione del PAN, «la politica svedese riguardo al problema
sudafricano non fu mai dipendente dalle relazioni con il blocco degli Stati occidentali né
con gli Stati del blocco comunista»200.
Un elemento da non sottovalutare è che i Socialdemocratici mantennero sempre un alto
numero di seggi al Parlamento svedese, il Riksdag, e questo significò che anche quando
il partito di Olof Palme non era al potere, esso era comunque in grado di mantenere un
ruolo importante nell’influenzare la politica svedese, mantenendo forti quei valori tipici
del corpo sociale e politico svedese in riferimento alla giustizia sociale, a tutti i livelli.
200
A.K. Bangura , op. cit., p. 119.
100
Il sostegno svedese al movimento anti-apartheid è sembrato in definitiva sincero. E questo sostegno è stato ancora più importante nei momenti in cui non vi era una politica
comune internazionale tesa ad apportare con decisione cambiamenti in Sudafrica.
La Svezia è stata sempre attenta a preservare la sua indipendenza nazionale e la pace;
non ha mai subito l’invasione straniera né è mai stata governata da poteri esterni; inoltre
si è mantenuta neutrale in entrambe le guerre mondiali.
Ma la struttura della sua arena politica è sempre stata caratterizzata da un atteggiamento
cooperativo, alla ricerca del consenso tra i partiti, e questo ha spesso giovato alla continuità e all’efficacia della sua politica estera.
La Svezia è sempre stata coinvolta nel tentativo di creare un sistema legale e giuridico
internazionale che potesse salvaguardare l’integrità e l’indipendenza dei piccoli Stati.
Inoltre, la solidarietà sociale dei suoi cittadini spiega molto bene il perché del suo interesse tradizionale nei confronti dei diritti umani, per cui anche la politica estera dei governi svedesi non poteva che essere tra quelle più pronte a contrastare un regime discriminatorio come quello sudafricano.
Non sorprende il fatto che quando, nel 1990, l’ex-presidente dell’ANC Oliver Tambo
fu colpito da un ictus ed ebbe bisogno di cure mediche, andò subito in Svezia, a testimonianza e riconoscenza del fatto che il Paese nordico fu sempre un grande alleato del
principale movimento di opposizione sudafricano.
6. Il caso Olof Palme
6.1 Chi era Olof Palme
Sven Olof Joachim Palme, nato a Stoccolma il 30 gennaio 1927, è stato un grande uomo
politico svedese.
Durante la sua carriera politica è stato presidente del Partito Socialdemocratico Svedese
dal 1969 al 1986, primo ministro della Svezia dal 14 ottobre 1969 al 8 ottobre 1976,
membro del governo dal 1976 al 1982 e poi di nuovo primo ministro dall'8 ottobre 1982
fino al giorno del suo assassinio, il 28 febbraio 1986.
Sebbene egli provenisse da una famiglia agiata, il suo orientamento politico fu influenzato da idee e ideali socialdemocratici. Viaggiò molto nei paesi del terzo Mondo e studiò negli Stati Uniti, e tutto questo gli permise di vedere con i propri occhi le profonde
ineguaglianze sociali e la segregazione razziale, elementi che influenzarono la sua visione politica.
Come detto, dopo un periodo di studi universitari negli Stati Uniti, tornò in Svezia per
studiare giurisprudenza.
Già da studente universitario, Olof Palme si interessò di politica, lavorando con
l’Unione Nazionale Studentesca Svedese (SNUS).
Nel 1951, egli divenne membro dell’associazione studentesca dei socialdemocratici di
Stoccolma.
L’anno successivo venne eletto presidente della SNUS.
Lui stesso attribuì il suo “essere diventato socialista” a tre fattori:
• Nel 1947, aveva assistito a un dibattito sulle tasse tra il socialdemocratico Wigforss, il conservatore Hjalmarsson e il liberale Andersson;
• Il periodo trascorso negli Stati Uniti gli fece capire quanto fosse profonda la divisione sociale in America, e la portata del razzismo contro i neri;
• Un viaggio in Asia negli anni ’50 gli fece aprire gli occhi sulle conseguenze del
colonialismo e dell’imperialismo europei.
101
Nel 1953, Palme fu reclutato dal Primo ministro socialdemocratico Tage Erlander per
lavorare nella segreteria del partito. Dal 1955 fu consigliere della Lega giovanile dei
Socialdemocratici.
Nel 1957 fu eletto parlamentare del suo partito.
Ricoprì diverse cariche di governo a partire dal 1963. Nel 1967 divenne Ministro
dell’istruzione, l’anno dopo venne aspramente criticato da studenti di sinistra a causa
dei progetti del governo tesi a riformare il sistema universitario.
Quando il leader del partito Erlander si dimise nel 1969, fu eletto come nuovo leader dal
Congresso del Partito, divenendo anche Primo Ministro.
Palme divenne così uno dei politici svedesi più noti a livello internazionale, anche grazie al fatto che il suo governo durò ben 125 mesi, al fatto di essersi sempre opposto alla
politica estera statunitense, e anche a causa del suo assassinio.
Il suo "delfino" e principale alleato politico, Bernt Carlsson, nominato Commissario
ONU per la Namibia nel luglio del 1987, morì anch’egli di morte prematura. infatti restò in un incidente aereo il 21 dicembre 1988, proprio mentre si recava a New York per
la cerimonia ufficiale, alle Nazioni Unite, per la sua nomina a Commissario, che si sarebbe dovuta tenere il giorno dopo.
6.2 L’assassinio
L'omicidio, il primo del genere nella storia della Svezia moderna, fu un grande trauma
nazionale e politico; avvenne nel pieno centro di Stoccolma la notte del 28 febbraio
1986, mentre Palme stava rientrando a casa insieme alla moglie Lisbet dopo essere stato
al cinema. La morte di Palme venne dichiarata ufficialmente il 1º marzo, sei minuti dopo la mezzanotte. Anche la moglie fu ferita, ma senza gravi conseguenze.
L'istruttoria processuale per il suo assassinio è stata la più lunga e la più costosa mai
portata avanti in Svezia e non è stata ancora chiusa, dal momento che l’assassino non è
stato ancora catturato.
Il sospetto Christer Pettersson venne processato come assassino di Olof Palme e condannato all'ergastolo dalla Pretura di Stoccolma, ma fu successivamente prosciolto dalla
Corte d'Appello per mancanza di prove. Il proscioglimento venne definitivamente confermato nel 1998 dalla Corte Suprema. Pettersson morì per problemi di droga nel 2004.
Il codice penale svedese prevede un limite di 25 anni per lo svolgimento dell'istruttoria
processuale per omicidio, ovvero fino al 2011, dopodiché il caso dovrà essere archiviato. L'arma del delitto non è mai stata trovata.
Dal momento che le accuse contro Petterson non furono comprovate, molte teorie alternative furono proposte sulla possibile identità e sui moventi dell’assassino.
Tra i diversi possibili mandanti dell’omicidio di Olof Palme, Bangura cita i seguenti:
• Membri della famiglia stessa dello statista;
• Polizia svedese;
• PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan;
• Ustasja, gruppo croato fascista;
• Lega Mondiale anti-comunista (WACL);
• Agenti segreti iracheni o iraniani;
• L’Armata Rossa della Germania Est;
• KGB, i servizi segreti sovietici;
• Organizzazione terroristica palestinese;
• Mossad, il servizio segreto israeliano;
102
• CIA;
• BOSS, la polizia segreta del regime sudafricano.
Tra tutte le teorie, l’autore reputa quella relativa al Sudafrica come «la più forte»201.
6.3 Le attività di Palme contro l’apartheid
Come leader della nuova generazione di socialdemocratici svedesi, Palme venne spesso
descritto come un “rivoluzionario riformista”.
Dal punto di vista delle politiche interne, le sue opinioni socialiste gli crearono diverse
ostilità da parte dei più conservatori tra gli svedesi.
Poco tempo prima del suo assassinio, Palme era stato accusato da alcuni suoi avversari
politici di non salvaguardare sufficientemente l’interesse nazionale della Svezia.
In un’ottica internazionale, egli fu sicuramente una personalità di spicco in quanto:
1. Criticò aspramente la guerra in Vietnam condotta dagli Stati Uniti;
2. Espresse verbalmente la sua contrarietà alla repressione sovietica operata sulla
Primavera di Praga;
3. Fu sempre contrario alla proliferazione delle armi nucleari;
4. Criticò sempre anche il regime franchista in Spagna;
5. Si incontrò con il dittatore cubano Fidel Castro.
6. Sostenne sia politicamente che finanziariamente l’ANC sudafricano e l’OLP,
l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina.
7. E soprattutto si oppose strenuamente al regime di apartheid, favorendo
l’adozione di sanzioni contro Pretoria.
In particolare la sua ferma opposizione al governo nazionalista bianco in Sudafrica si
caratterizzò per prese di posizione nette, ripetute e pubbliche, sia in Svezia sia all’estero,
per esempio in occasione delle sessioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
In un periodo durante il quale i governi occidentali davano risposte equivoche e spesso
ipocrite al problema della decolonizzazione e del dominio razzista, Palme era un leader
occidentale che dimostrò sempre la sua solidarietà con i popoli oppressi, sia a parole che
con i fatti.
Soprattutto in seguito al massacro di Soweto del 1976, il Primo Ministro si fece portavoce dei diritti umani e in particolar modo dei diritti dei non-bianchi ad essere trattati
allo stesso modo dei bianchi.
Volle e ottenne l’impegno, da parte dell’Internazionale Socialista, a sostenere la lotta
africana di liberazione in Sudafrica.
Sfidò ripetutamente le maggiori potenze occidentali quali Stati Uniti e Gran Bretagna,
restie ad applicare da subito sanzioni internazionali.
Grazie a lui la Svezia nel 1965 fu la prima nazione occidentale a richiedere, in sede
ONU, sanzioni vincolanti contro il Sudafrica.
Lo stesso anno, la Svezia diede il suo primo contributo al Fondo per la Difesa e l’Aiuto,
organizzazione non-governativa di tipo umanitario, e sostenne altre agenzie che avevano il compito di supportare i prigionieri politici in Sudafrica.
Inoltre Stoccolma fu il maggior donatore di fondi tesi all’assistenza delle vittime
dell’apartheid, ma anche per l’assegnazione di borse di studio a giovani sudafricani.
Naturalmente il sostegno di Olof Palme e dei suoi governi si rivolse anche ai movimenti
di liberazione africani nelle colonie portoghesi, cosa che « naturalmente gli attrasse
l’attenzione ma anche l’astio del Portogallo e del vicino Sudafrica»202.
201
Ivi, p. 97.
P. Schori, The impossible Neutrality- Southern Africa. Sweden’s role under Olof Palme, David Philip
Publishers, Cape Town, 1994, p. 24.
202
103
Il suo fermo intento di porre fine alla situazione di discriminazione in Africa meridionale si basava sulle sue forti convinzioni, che portò avanti per convincere anche gli
altri Stati della necessità delle sanzioni: «Coloro i quali continuano a permettere che i
capitali esteri entrino in Sudafrica e Namibia si stanno accollando una grande responsabilità» 203diceva nel marzo del 1977 al parlamento svedese durante una sessione dedicata alla politica estera.
Egli inoltre nel 1966 ricevette la visita, a Stoccolma, di Oliver Tambo, in seguito
all’invito rivolto, per volontà dello stesso Palme, al leader dell’ANC: si trattò di un incontro ufficiale, con tanto di passeggiata pubblica in occasione dei festeggiamenti del
primo maggio per le strade di Stoccolma. Fu quello il modo più eclatante con cui Palme
riconosceva e riconfermava il suo appoggio alla lotta contro l’apartheid, e in un certo
qual modo, screditava il governo di Pretoria.
In un discorso rivolto al Parlamento del Popolo contro l’apartheid204, il 21 febbraio del
1986 a Stoccolma, Olof Palme sottolineava il fatto che l’apartheid non potesse essere riformato: «Un sistema come l’apartheid non può essere riformato. può solo essere abolito. Il governo[sudafricano] deve adattarsi o morire»205.
Quel discorso, intitolato proprio “Se il mondo decide di abolire l’apartheid, l’apartheid
sparirà”, rappresenta quasi il testamento ideologico e programmatico del Primo Ministro, che di lì a una settimana sarà ucciso.
6.4 L’ipotesi sudafricana
Nel febbraio del 1986 quindi si era riunito a Stoccolma il Parlamento del Popolo svedese contro l’apartheid, e di fronte a centinaia di simpatizzanti e sostenitori della lotta
anti-apartheid, nonché personalità dell’ANC quali Oliver Tambo, Palme aveva letto il
suo discorso, nel quale ancora una volta, e forse più delle altre volte, deprecava il regime di Pretoria, chiamava all’azione tutta la comunità internazionale, prediceva la fine
della segregazione in Sudafrica.
Come si è visto, la settimana dopo fu ucciso.
Purtroppo le prime indagini non andarono a buon fine, per cui tantissime teorie, complottiste o meno, furono avanzate.
Quella più accreditata, ma mai comprovata, rimanda alla possibilità che il regime di
Pretoria avesse in qualche modo causato la morte dello statista svedese.
Nel 1996, verso la fine di settembre206, il Colonnello Eugene de Cock, ex-ufficiale di
polizia del Sudafrica segregazionista, fornì delle nuove prove orali sulla questione, nel
corso di un’audizione di un altro processo, di fronte alla Suprema Corte di Pretoria.
De Cock asserì in quell’occasione che Olof Palme era stato sparato e ucciso per essersi
opposto al regime di apartheid, e a causa dei sostanziosi contributi forniti dalla Svezia
all’ANC207.
L’ex-ufficiale di polizia non si accontentò di rivelare ciò, ma disse di sapere anche il
nome della persona responsabile dell’assassinio: si sarebbe trattato di Craig Williamson,
203
Ivi, p. 27.
Lo Swedish People’s Parliament against Apartheid fu una grande conferenza organizzata a Stoccolma,
al fine di discutere dell’apartheid, dalla Swedish United Nation Association e dall’ Isolate South Africa
Committee.
Vi parteciparono circa un migliaio di svedesi tra delegati di tutti i partiti politici e rappresentanti di tantissime organizzazioni. Inoltre aprirono i lavori il Premier svedese Olof Palme e Oliver Tambo, leader
dell’ANC
205
E.S. Reddy(a cura di ), Liberation of Southern Africa. Selected speeches of Olof Palme, Vikas Publishing House PVT LTD, New Delhi, 1990, p. 78.
206
Bangura A.K. ,op. cit., p. 104.
207
http://www.kurdistan.org/Washington/southafrica.html.
204
104
un ex-collega di de Cock nonché potentissima spia al servizio della polizia segreta sudafricana208.
Pochi giorni dopo, il Brigadiere Johannes Coetzee, che era a suo tempo il capo della
spia Williamson, identificò come il vero assassino di Olof Palme, un tale Anthony White, membro del Selous Scout della Rhodesia del Sud (reggimento di forze speciali in
forza all’esercito rhodesiano durante il dominio della minoranza bianca guidata da Ian
Smith). Anthony White aveva anche avuto legami con i servizi segreti sudafricani.
In seguito una terza persona fu accusata di aver ucciso Palme: si trattava di Bertil Wedin, era uno svedese mercenario che viveva a Cipro, nella parte turco-cipriota, dal 1985;
l’accusa venne mossa da Peter Caselton, ex-membro di un’unità d’assalto che avrebbe
compiuto l’assassinio.
Nell’ottobre di quello stesso anno, la polizia svedese inviò i propri inquirenti in Sudafrica per far luce su quelle nuove e contrastanti accuse, ma essi non riuscirono a trovare
prove che confermassero la tesi che voleva il regime sudafricano implicato, tramite polizia o servizi segreti, nell’omicidio di Olof Palme.
Nel corso degli anni si sono poi succeduti diversi colpi di scena, perlopiù originati da
false notizie riportate su quotidiani sudafricani e svedesi.
Ad esempio, nel 2003 fu rivelato che secondo un documento originale, datato 20 novembre 1985, una copia del quale era stata inviata al quotidiano di Stoccolma Dagens
Nyheter, «l’assassino di Palme sarebbe stato un agente segreto sudafricano che avrebbe
ricevuto l’ordine di uccidere direttamente dal consigliere capo del presidente sudafricano dell’epoca, P.W. Botha»209.
Nello stesso anno le autorità svedesi confermarono di aver ricevuto documenti comprovanti il coinvolgimento del Sudafrica nell’omicidio di Palme.
Si sarebbe trattato di un ex-agente della polizia sudafricana.
La notizia fu poi smentita dallo stesso governo.
Insomma purtroppo per gli investigatori svedesi, le prove non sono sinora state sufficienti a provare alcunché né ad inchiodare alcuna persona.
Certo, come fa notare Bangura, è curioso il fatto che la possibile connessione tra il governo sudafricano bianco degli anni ’80 e la morte di Olof Palme abbia prodotto in 20
anni una marea di indizi, di prove contrastanti e di versioni dei fatti ritirate.
Sicuramente il fatto che la morte del primo ministro, sia avvenuta pochi giorni dopo
la sua arringa contro il regime di apartheid rende l’ipotesi del complotto sudafricano
non improbabile, e inoltre le altre tesi avanzate sinora sono state smontate o si sono rivelate inconsistenti dopo poco tempo.
L’unica teoria che abbia cercato di spiegare l’assassinio dell’ex-statista svedese in
modo credibile e che non sia stata ancora smontata resta proprio quella del coinvolgimento del regime sudafricano in quel momento guidato dal Presidente Botha in modo
indiretto, o in modo più diretto, della sua organizzazione poliziesca.
La speranza è che l’indagine porti a qualche risultato concreto entro il 2011, altrimenti,
come già ricordato, il caso dovrà essere archiviato dalle autorità svedesi.
208
209
http://query.nytimes.com/gst/fullpage.html?res=9C06E1DB103CF93AA1575AC0A960958260.
Bangura A.K., op. cit., p. 107.
105
7.Il Canada
7.1 Politiche del Canada riguardo l’Africa meridionale: 1945-1960
Le politiche del Canada verso l’Africa meridionale si sono evolute a partire dal 1965, in
risposta al diverso modo con cui Ottawa cominciò a percepire gli interessi canadesi, interni ed esteri, relativi a quella regione.
L’evoluzione della politica canadese può essere divisa, secondo Matthews e Pratt210, in
due periodi: il primo iniziato con la fine della seconda guerra mondiale e durato sino al
1960; il secondo successivo a Sharpeville.
Durante il primo di questi due periodi, la maggior parte dell’Africa meridionale era
ancora dominata dalle potenze coloniali europee.
I portavoce del governo canadese affermavano che il Canada non avrebbe potuto, né
dovuto, fare niente che avesse potuto turbare quel lento processo «di evoluzione costituzionale»211 che avrebbe alla fine condotto alle indipendenze.
In quel momento storico, gli imperativi della lotta politica all’Unione Sovietica erano
più forti, secondo i calcoli dei politici canadesi, di qualsiasi interesse teso ad accelerare
il processo di decolonizzazione.
In realtà durante il secondo dopoguerra il Sudafrica non aveva altri interessi diretti nella
regione meridionale del continente nero, se non proprio in Sudafrica.
In seguito allo stabilimento degli uffici commerciali canadesi di Città del Capo (1907) e
di Johannesburg (1934), gli scambi tra i due Paesi cominciarono a fiorire subito dopo il
secondo conflitto mondiale.
Seppure poco significativo rispetto ai mercati americano ed europeo, il Sudafrica diventò presto uno dei dieci più importanti mercati di sbocco dell’economia canadese.
In più, Canada e Sudafrica avevano condiviso il nemico tedesco durante entrambi i conflitti mondiali, ed entrambi cercavano do ottenere sempre maggiore autonomia da Londra, ma sempre all’interno del Commonwealth.
Perciò, vista la comune partecipazione al Commonwealth, e vista la debolezza dei movimenti anti-coloniali interni, Ottawa perseguì una politica definita di “distacco disinteressato”: questo portò il governo canadese a votare, in sede ONU, solamente quelle risoluzioni che si limitavano a condannare il razzismo, ma ad astenersi o a votare contro
ogni raccomandazione più specifica o incisiva.
A partire dal 1960 tuttavia, la situazione internazionale era così cambiata, dopo
Sharpeville, che la precedente politica canadese, caratterizzata da un deliberato distacco
“moderato” dalle questioni coloniali e riguardanti il Sudafrica, non era più una tattica
utile per gli interessi canadesi.
Infatti la decolonizzazione aveva fatto passi da gigante in pochi anni, cosa che nessuno
Stato occidentale aveva previsto: dal momento che il Canada, così come gli altri Paesi
occidentali, avevano fallito nel prevedere i cambiamenti degli affari internazionali, i governanti canadesi temevano che l’Unione Sovietica potesse cogliere impreparato il
blocco occidentale e, sfruttando a proprio vantaggio la questione coloniale, diffondere
un sentimento antioccidentale presso i nuovi stati, in particolar modo tra quelli africani.
210
R. Matthews & C. Pratt, “Canadian Policy Towards Southern Africa”, in D.Anglin, T. Shaw & C.
Widstrand (a cura di), Canada, Scandinavia and Southern Africa, Scandnavian Institute of African Studies, Uppsala,1978, p. 165.
211
Ibidem.
106
7.2 Politica canadese (1961-1978)
Dopo la strage di Sharpeville Ottawa si era vista perciò costretta a rivedere le sue posizioni sulla politica razziale di Pretoria e sull’occupazione sudafricana della Namibia.
Quando ormai fu chiaro che i nazionalisti bianchi al potere non sarebbero stati in gradoperché non lo volevano – di dare spazio alle opposizioni né di attuare cambiamenti alla
struttura politica e sociale, il Canada trovò sempre più difficile restare “distaccato” da
quei problemi, vista la condanna che lentamente stava cominciando a montare contro
Pretoria sia in sede ONU che all’interno del Commonwealth.
Tanto più che poi il Sudafrica si dovette ritirare dal Commonwealth nel 1961.
Da quel momento i governi canadesi che si succedettero alla guida del Paese non esitarono più a dar voce al loro dissenso nei confronti delle politiche interne ed estere del
Sudafrica.
Il Governo Pearson adempì la richiesta del Consiglio di Sicurezza relativa al bando delle vendite e del trasporto di armi, munizioni e veicoli militari verso il Sudafrica.
Nel 1970, il governo Trudeau estese l’embargo per includere i pezzi di ricambio militari.
Il Canada non si differenziò dalla maggior parte degli Stati occidentali nel resistere
all’uso della forza, all’adozione di sanzioni economiche e finanziarie forti e
all’espulsione dall’ONU e dalle altre organizzazioni internazionali.
La giustificazione addotta ufficialmente dal governo canadese al riguardo fu che «il
mantenimento di contatti con il Sudafrica, tramite rappresentanze diplomatiche, relazioni economiche o con i commerci, avrebbe facilitato i cambiamenti progressivi
all’interno del Paese africano, molto più di quanto sarebbe potuto accadere se si fossero
rotti tutti i ponti con Pretoria»212.
Altra argomentazione dei politici canadesi tesa a giustificare le loro timide manifestazioni di contrarietà al regime sudafricano fu quella per cui, anche se il Canada avesse
fedelmente esaudito i voleri della maggioranza dei membri dell’ONU, molti altri membri non l’avrebbero fatto.
Terza scusante addotta da Ottawa: in quanto si trattava di un Paese dipendente dal
commercio con l’estero per il suo benessere, il Canada non poteva permettersi il lusso di
interrompere i suoi scambi con il Sudafrica.
Infine, secondo i politici canadesi al potere, non bisognava sottovalutare il fatto che
molti canadesi erano immigrati da altri Paesi governati da regimi oppressivi, perciò, se
il governo canadese avesse intrapreso qualsiasi azione forte nei confronti del Sudafrica,
esso sarebbe poi stato «oberato da una moltitudine di richieste»213 tese ad ottenere da
Ottawa le stesse azioni forti nei confronti di quei regimi oppressivi.
Il Canada comunque modificò in parte la sua posizione nei confronti del Sudafrica e
delle questioni dell‘Africa meridionale, passando da una posizione di disinteresse e di
distacco a una caratterizzata da un modesto coinvolgimento, coerentemente con la posizione di Stati uniti e Gran Bretagna, suoi maggiori alleati.
In ogni caso, la posizione ufficiale dei governi canadesi sarà quella per cui, qualsiasi
partito raggiunga il potere ad Ottawa, sarà comunque obbligato, a causa dei valori etici
tradizionalmente appannaggio della società canadese, a condannare il colonialismo e il
principio della discriminazione razziale su cui si cui si fondavano il Sudafrica e la Rhodesia del Sud.
Tuttavia, i canadesi non avalleranno né tantomeno forniranno supporto, ai gruppi che si
battevano per un cambio violento e improvviso.
212
213
Ivi, p. 168.
Ivi, p. 169.
107
7.3 I fattori che determinarono la politica canadese verso il Sudafrica.
Le politiche canadesi verso l’Africa australe non potevano essere spiegate semplicemente in termini di interessi nazionali da soddisfare: il Canada infatti non aveva in quella
regione nessun interesse economico vitale.
Vediamo allora quali motivazioni influenzarono la politica di Ottawa verso l’Africa meridionale.
Il governo canadese, secondo l’analisi di Matthews e Pratt, ha ricercato innanzitutto di
massimizzare l’influenza e il potere del Canada all’interno della comunità internazionale: e questo richiedeva che il governo canadese mantenesse relazioni cordiali con il
maggior numero di Paesi possibile.
Ma la politica estera del Canada è stata influenzata anche da altri fattori.
1. Innanzitutto, la percezione ideologica con la quale il governo ed il Dipartimento
degli Affari esteri definivano gli interessi nazionali canadesi nell’area e le questioni relative al Sudafrica: spesso questi interessi nazionali prevalenti erano
quelli economici; questo però ha portato spesso i politici canadesi a credere, o a
far credere, che il commercio internazionale e gli investimenti esteri, compresi
quelli del Canada, avrebbero comunque apportato effetti benefici anche popolazioni dei territori in cui quei commerci avvenivano. Questo quindi serviva a giustificare la non-adozione di sanzioni economiche da parte del Canada nei confronti del Sudafrica. Anzi, nel caso del Sudafrica, il mantenimento da parte del
Canada, di commerci e investimenti non farà che accelerare il processo di smantellamento dell’apartheid
2. In secondo luogo, l’immagine del ruolo internazionale del Canada: il Paese nordamericano è sempre stato sensibile all’opinione pubblica del Terzo Mondo, in
quanto i canadesi stessi sono sempre stati orgogliosi del fatto di venire considerati nazione amica dei Paesi del Terzo Mondo, che comprendeva le loro difficoltà e necessità. Questo elemento ha agito nel senso di far percepire come moralmente giusta la pressione che gli Stati africani del Terzo Mondo operavano
sul Canada al fine di ottenere dal governo di Ottawa l’adozione di un atteggiamento fermo e severo contro Pretoria.
3. Il ruolo di primo piano delle relazioni con USA e Regno Unito: il Canada ha avuto da sempre una stretta associazione di interessi culturali, economici e politici con gli Stati Uniti e con la Gran Bretagna. Questo ha portato i vari governi
che si sono succeduti ad Ottawa a stare nella scia degli interessi britannici e statunitensi anche riguardo al Sudafrica, perciò Ottawa non prese mai per prima
decisioni importanti o iniziative, anche in sede ONU, di diretta opposizione al
regime sudafricano; infatti per molto tempo, come abbiamo visto, sia Londra che
Washington si astennero dal prendere una posizione decisamente contraria a Pretoria.
4. Il tipo di decision-making seguito dai politici canadesi: vi erano all’interno
dell’opinione pubblica canadese tre tipi di influenza relativi alle politiche versi il
Sudafrica:
1
L’influenza di una parte della popolazione canadese che era
solidale con la minoranza bianca, con la quale si è tentato di
108
2
3
spiegare in Canada la mancata presa di posizione netta del governo contro Pretoria.
L’influenza esercitata da gruppi portatori di interessi umanitari, liberali, cristiani e radicali, che invece avevano spinto il
governo verso l’adozione di una politica “più giusta” e decisa
nei confronti del Sudafrica: questa componente dell’opinione
pubblica non riuscì mai ad ottenere misure sanzionatorie radicali, ma influenzò il governo sicuramente più di quanto seppe
fare la componente che propendeva per la minoranza bianca in
Sudafrica.
La terza influenza fu quella dei portatori di interessi commerciali e degli investimenti in Sudafrica. E fu questa la fascia di
opinione pubblica maggiormente presa in considerazione da
Ottawa, almeno sino agli anni ’70.
Matthews e Pratt ritengono che tra i quattro fattori determinanti nel dar forma alla politica canadese nei confronti del Sudafrica, il più importante sia stato il primo, cioè la
percezione ideologica con cui il Governo e il Dipartimento degli esteri concepivano gli
interessi canadesi in Africa meridionale, in particolar modo in Sudafrica.
Riassumendo, sembra condivisibile la posizione di Matthews e Pratt secondo cui il Canada, dal dopoguerra in poi, ha sempre manifestato in modo notevole l’interesse a mantenere un’immagine della sua politica alquanto “liberale” perciò poco propensa a intervenire con sanzioni economiche che avessero potuto mettere a repentaglio gli interessi
nazionali nella regione meridionale dell’Africa; e questo sempre sulla scia o in contemporanea con Gran Bretagna e Stati Uniti.
Tutto questo non inficia il fatto che in ogni caso il governo canadese fu costretto dopo il
1960 a prendere una posizione almeno più precisa riguardo alla questione dell’apartheid
e che, dopo il 1977, come tutti i Paesi occidentali, dovrà adeguarsi alle sanzioni obbligatorie stabilite in sede ONU.
109
Conclusione
Nel corso di questo lavoro abbiamo avuto modo di analizzare diversi aspetti della questione sudafricana.
Innanzitutto siamo partiti con la disamina della situazione sociale e politica del Sudafrica a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, e abbiamo visto come la minoranza bianca, che peraltro già da tempo governava sulla maggioranza nera, fu decisa nel
continuare il processo di discriminazione in atto nei confronti dei non-bianchi. Il National Party ebbe però la grande colpa di istituzionalizzare e consolidare l’apartheid.
Si è visto come le giustificazioni, tanto a livello interno, quanto soprattutto nelle organizzazioni internazionali, da parte dei politici bianchi al governo, tendessero sempre a
presentare la situazione come “inevitabile”. Non solo, essa sarebbe stata, secondo i nazionalisti afrikaner, anche opportuna per tutte le componenti etniche del Paese, in quanto il sistema dell’apartheid prometteva e aspirava allo sviluppo separato di ciascuna delle componenti etniche e razziali presenti sul territorio.
Ma, posto che quella politica si rivelò presto fallimentare – ad esempio per quel che riguarda i bantustan – le giustificazioni in sede internazionale non servirono più di tanto
quando, a partire dal 1960 (anno della strage di Sharpeville), e ancor di più dal 1961 (uscita della Repubblica Sudafricana dal Commonwealth), sempre meno Stati, all’interno
della comunità internazionale, sembrarono disposti a sostenere rapporti politici stretti
con Pretoria.
Sia l’ONU, sia gli Stati africani cominciarono a criticare aspramente il Sudafrica per
le politiche interne perseguite; le risoluzioni dell’Assemblea Generale e del Consiglio di
Sicurezza cominciarono ad orientarsi in senso sempre più ostile al governo nazionalista
bianco: ma quello che abbiamo notato è che, nonostante il disprezzo politico per la sua
condotta, ricevuto in modo pressoché unanime dal consesso degli Stati, Pretoria si sia
avvantaggiata a lungo dei legami di tipo economico e militare stretti da diverso tempo
con le nazioni occidentali, in particolare con Stati Uniti e Gran Bretagna. Se a questo
fattore si aggiunge il fatto che sino a metà anni ’70, il Paese africano venne considerato
di importanza strategica per le sorti occidentali nel contesto della Guerra Fredda, si
spiega, come si è cercato di fare in questo lavoro, la ritrosia delle maggiori potenze occidentali all’applicazione di sanzioni economiche contro il regime di Pretoria.
L’idea che mi ha accompagnato lungo tutto il lavoro di ricerca, e che è stata continuamente riconfermata proprio da ciò che a mano a mano trovavo sul materiale a mia
disposizione, è stata ed è tuttora quella di una contrapposizione continua tra l’opinione
pubblica e la politica attiva (più spesso passiva ) dei governi della stragrande maggioranza dei paesi del blocco occidentale.
Non sono mancati sicuramente esempi di politiche estere più “virtuose” di altre: tra tutte
si veda quella svedese.
Ma quello che vorrei trasmettere a chi legge è proprio questa contraddizione tra quello
che la società civile richiedeva e ciò che i governi sapevano ( o meglio: volevano) esprimere.
Perché mai un governo non dovrebbe farsi portavoce delle istanze morali del suo popolo? Nel caso degli Stati Uniti e della Gran Bretagna questa dicotomia è stata forse maggiormente visibile e tagliente: i movimenti anti-apartheid erano ben presenti e costituivano una voce non indifferente della società civile americana e di quella britannica, e
quindi possiamo a ragione affermare che il popolo aveva una ben precisa motivazione e
richiedeva una politica estera ben precisa al governo eletto democraticamente.
E invece i governi, sia per via unilaterale che in sede ONU, hanno preferito temporeggiare a lungo, evitare di prendere posizioni troppo nette contro il Sudafrica: ma non certo perché temevano la potenza militare a disposizione di Pretoria.
110
Il vero motivo invece traspare lungo le pagine di questa tesi: le motivazioni economiche
e le considerazioni geo-strategiche “dovevano” avere la precedenza nelle scelte di politica estera delle classi dirigenti nazionali, e questo anche a costo di tradire il senso morale pubblico delle rispettive società civili.
Chiaramente, non è la prima volta nella storia, e non sarà nemmeno l’ultima (vediamo
ora come si evolve la questione tibetana), in cui, di fronte a violazioni evidenti dei diritti
umani la comunità ha prodotto ”risposte a due velocità”: una risposta più genuina da
parte delle persone comuni, delle organizzazioni della società civile; e l’altra, quella dei
governi “ufficiali”, molto più moderata attenta a non intaccare i cosiddetti “interessi nazionali”.
A questo punto sarebbe però opportuno che in quei casi i rappresentanti di quei governi
che si spacciano come i veri portatori degli interessi delle loro nazioni, facessero chiarezza e spiegassero quali fossero per loro gli interessi nazionali.
Perché a noi è sembrato proprio che mancasse questa chiarezza da parte di quasi tutti i
governi occidentali durante il periodo dell’apartheid: nessun Capo di Stato fu mai chiaro
nell’ammettere che gli interessi “nazionali” in realtà non erano poi tanto nazionali, ma
erano espressione di parti della società, e cioè dei gruppi di pressione economici, i quali
hanno sempre avuto massima importanza agli occhi dei governi per via del loro potere
di sostenere economicamente la stessa classe politica.
Ecco perché i rappresentanti di moltissimi Stati occidentali, riguardo alla questione
dell’apartheid, furono spesso ambigui rispetto ai veri interessi di cui si facevano portavoce nelle assise internazionali come l’ONU: non avrebbero mai e poi mai avuto il coraggio di prendersi la responsabilità di dire che la pressione degli interessi economici
fosse più forte, e più importante, della volontà di milioni di persone che richiedevano la
cessazione della segregazione razziale; sarebbe stata un’assunzione di responsabilità che
l’ipocrisia e la ragion Stato non avrebbero permesso.
A questo punto pensiamo davvero che lo stato di salute della democrazia in Sudafrica
non fosse poi così peggiore di quello della democrazia di molti Paesi occidentali; il parallelo sembrerà azzardato, però se da una parte moltissimi governi occidentali non davano il giusto peso alle istanze etiche e morali della stragrande maggioranza della popolazione, dall’altra avevamo il governo sudafricano bianco che non voleva dar voce politica alla ugualmente stragrande maggioranza della popolazione.
Chiaramente può sembrare eccessivo, e si trattava sicuramente di due tipi di “nondemocraticità” assolutamente diversi, però aiuta a riflettere sulla scollatura, noi riteniamo tuttora esistente, tra la società civile e i governi degli Stati occidentali riguardo alle
grandi questioni internazionali concernenti i diritti umani.
111
BIBLIOGRAFIA
Documenti.
1) Robben Island Museum Mayibuye Archive, University of the Western Cape, Bellville-Cape Town:
• African-European Institute e AWEPAA (a cura di ), Eastern Europe and Southern Africa. Supporting Democracy and Development,
[Conference re-
port],Praga, Cecoslovacchia,13-15 giugno 1991.
• African-European Institute e AWEPAA (a cura di ), Europe,SADCC and South
Africa. From Conflict to Cooperation,[Conference Report],Lussemburgo,14-15
febbraio 1991.
• African-European Institute (a cura di ),Frontline States.How to counter South
African Destabilisation [Seminar Athens,Greece,October 20-23, 1988].
• African-European Institute e AWEPAA (a cura di ), Southern Africa at the
Crossroads.New Priorities for European Cooperation,[Conference report], Dublin,Ireland,June 21-22,1990.
• The Swedish Institute (a cura di ),Swedish Development Co-operation, The
Swedish Institute, Stoccolma, 1987.
• The Swedish Institute (a cura di ),Swedish Foreign Policy, The Swedish Institute, Stoccolma, 1989.
2)African Studies Library, University of Cape Town.
• AA.VV.,World Conference against apartheid racism and colonialism in Southern Africa,[Report],Lisbona,16-17 giugno 1977.
• H. Kitchen-M. Clough (a cura di ), The policies of major democratic nations
toward the Republic of South Africa [resoconto del Meeting indetto dalla Carnagie Corporation of New York il 28 e il 29 marzo del 1989.]-Carnegie Meeting
Papers, Carnegie Corporation of New York,New York, 1989.
112
Documenti on-line:
Arianna Lissoni , The Anti-Apartheid Movement, Britain and South Africa: AntiApartheid Protest vs Real Politik. A History of the AAM and its influence on the British
Government's Policy towards South Africa in 1964. Dissertation, 15 September 2000;
www.anc.org.za/ancdocs/history/aam/dissertation.htm.
Monografie:
• N. Andrén, Power-Balance and Non-Alignment, Almqvist and Wiksell Stockolm, Sweden, 1967.
• K. Bangura , Sweden vs Apartheid. Putting Morality Ahead of Profit, Ashgate ,
Aldershot Hants,England,2004.
• J. Barber, South Africa’s Foreign Policy, Oxford University Press, London,
1973.
• J.-C. Barbier,O. Désouches, Sanctionner l’apartheid.Quatorze questions sur
l’isolement de l’Afrique du Sud,Éditions La Découverte,Parigi, 1987.
• G.Calchi Novati, Pierluigi Valsecchi, Africa. Una storia ritrovata, Carocci, Roma,2005.
• G. Carbone, L’Africa, il Mulino, Bologna, 2005.
• C.J.R. Dugard, “The Simon’s Town Agreement: South Africa, Britain and the
United Nations”, South African Law Journal, vol. 85, May 1968, pp. 142-5.
• S. Hellis - T. Sechaba, Comrades against Apartheid.The ANC & the South African Communist Party in exile, James Currey,London-Indiana University
Press,Bloomington USA,1992.
• G. Holivier, South Africa and European Union. Self-interest,ideology and altruism, Protea Book House, Pretoria, 2006.
• M. Holland, The European Community and South Africa.European Political Cooperation under strain, Pinter Publishers, London and New York, 1988.
• Richard Knight, Sanctioning Apartheid (Africa World Press), Robert E. Edgar,1990
• C.-M. Legum, South Africa: Crisis for the West, Pall Mall Press, London and
Dunmow, 1964.
• P. Joyce, The making of a Nation-South Africa’s road to Freedom, Zebra Press,
2007.
113
• N. Mandela, We have waited too long for our freedom…, [Nelson Mandela’s
speech on his release] Cape Town, 11th February, 1990.
• E.S. Reddy(a cura di ), Liberation of Southern Africa. Selected speeches of Olof
Palme, Vikas Publishing House PVT LTD, New Delhi, 1990.
• E.S. Reddy(a cura di ), Oliver Tambo and the struggle against apartheid, Sterling Publishers Private Limited,New Delhi, 1987.
• P. Schori, The impossibile Neutrality- Southern Africa.Sweden’s role under Olof
Palme, David Philip Publishers ,Cape Town, 1994.
• United Nations, The United Nations and APARTHEID 1948-1994, United Nations Department of Public Information,New York, 1994.
• A. Vandebosch, SOUTH AFRICA and the WORLD. The Foreign Policy of
Apartheid, The University Press of Kentucky,Kentucky USA,1970.
Articoli e saggi in rivista:
• Dr. H. Adam, “Conquest and conflict in South Africa”, The Journal of Modern
African Studies, vol.13 (4), 1975, pp. 621-640.
• H. Anthony, III, “Max Yergan in South Africa: from Evangelical Pan-Africanist
to revolutionary Socialist”, The African studies Review, vol. 34 (2), 1991, pp.
27-56.
• M. Becker, “The impact of sanctions upon South Africa and its periphery”, The
African Studies Review, vol. 31 (2), 1988, pp. 61-88.
• J. Bender, “American attitudes toward Africa”, The African Studies Review, vol.
31(1), 1988, pp. 1-8.
• C. Cocker, “ Collective bargaining as an internal sanction: the role of U.S. corporations in South Africa”, The Journal of Modern African Studies, vol. 19 (4),
1981, pp. 647-666.
• C. Cocker, “Retreat into the future: The United States, South Africa, and human
rights, 1976-78”, The Journal of Modern African Studies, vol. 18 (3), 1980, pp.
509-524.
• D. M. Coger, “Truth, Reconciliation, and Amnesty in South Africa”, The African
Studies Review, vol. 42 (3), 1999, pp. 67-71.
• R. J. Cummings, “Africa between the ages”, The African Studies Review, vol.
29(3), 1986, pp.1-26.
114
• R. Dale, “The Nordic States and liberation in Southern Africa”, The African
Studies Review, vol. 44 (1), 2001, pp. 79-82.
• Dr. B. M. Du Toit, “Consciousness, identification, and resistance in South Africa”, The Journal of Modern African Studies, vol. 21 (3), 1983, pp. 365-396.
• Dr. B. M. Du Toit, “Stress, crisis, and behaviour- A South African case”, The
Journal of Modern African Studies, vol. 17 (1), 1979, pp. 117-140.
• Dr. E. Feit, “Racial prejudice and economic pragmatism: a South African case”,
The Journal of Modern African Studies, vol. 14 (3), 1976, pp. 487-506.
• Dr. M. C. Fierce, “Black and white American opinions towards South Africa”,
The Journal of Modern African Studies, vol. 20 (4), 1982, pp. 669-688.
• P. Frankel, “The politics of Passes: control and change in South Africa”, The
Journal of Modern African Studies, vol. 17 (2), 1979, pp.199-218.
• Dr. E. A. Friedland, “The Southern African Development Co-ordination Conference and the West: co-operation or conflict?”, The Journal of Modern African
Studies, vol. 23 (2), 1985, pp. 287-314.
• Dr. F. Gareau, “The impact of the United Nations upon Africa”, The Journal of
Modern African Studies, vol. 16 (4), 1978, pp. 565-578.
• Dr. S. B. Greenberg, “Economic growth and political change: the South African
case”, The Journal of Modern African Studies, vol. 19 (4), 1981, pp. 667-704.
• K. W. Grundy, “Cultural politics in South Africa: an inconclusive transformation”, The African Studies Review, vol. 39 (1), 1996, pp. 1-24.
• K. Grundy, “ Scholarship on the new South Africa: nibbing around the edges”,
The African Studies Review, vol. 42 (3), 1999, pp. 46-55.
• B. Hallen, “African meanings, Western words”, The African Studies Review, vol.
40 (1), 1997, pp. 1-12.
• D. Hirschmann, “Southern Africa: détente?”, The Journal of Modern African
Studies, vol. 14 (1), 1976, pp. 107-126.
• Dr. D. Hirschmann, “The Black Consciousness Movement in South Africa”, The
Journal of Modern African Studies, vol. 28 (1), 1990, pp. 1-22.
• Dr. M. Holland, “South Africa, SADC, and The European Union: matching bilateral with regional policies”, The Journal of Modern African Studies, vol. 33
(2), 1995, pp. 263-284.
• Dr. M. Holland, “The other side of sanctions : positive initiatives for Southern
Africa”, The Journal of Modern African Studies, vol. 26 (2), 1988, pp. 303-318.
115
• C. Jung, “Race matters”, The African Studies Review, vol. 42 (3), 1999, pp.5662.
• A. Kemp – R. T. Vinson, “ “Poking holes in the sky”: Professor James Thaele,
American Negroes, and modernity in 1920s segregationist South Africa”, The
African Studies Review, vol.43 (1) 2000, pp. 141-160.
• K. Lanegran, “South Africa’s Civic Association Movement: ANC’s ally or society’s “Watchdog” ? Shifting social movements-political party relations”, The African Studies Review, vol. 38 (2), 1995, pp. 101-126.
• T. Lodge, “Lionel Forman’s trumpet: national communism in South Africa,
1953-59”, Africa, vol. 63 (4), 1993, pp. 601-609.
• Dr. J. Love, “The potential impact of economic sanctions against South Africa”,
The Journal of Modern African Studies, vol. 26 (1), 1988, pp. 71-90.
• Dr. B. Martin, “American policy towards Southern Africa in the 1980s”, The
Journal of Modern African Studies, vol. 27 (1), 1989, p.23-46.
• A. A. Mazrui, “Global Africa: from abolitionists to reparationists”, The African
Studies Review, vol. 37 (3), 1994, pp. 1-18.
• D. E. McHenry, Jr., “Review essay: the South African debate over the democratic transition”, The African Studies Review, vol. 36 (2), 1993, pp. 95-101.
• D. E. McHenry, Jr., “Review essay: the South African debate over the democratic transition”, The African Studies Review, vol. 37 (1), 1994, pp. 1-8.
• S. Metz, “The crisis in South Africa”, The African Studies Review, vol. 31 (2),
1988, pp.141-145.
• Dr. J. H. Mittleman, “Collective decolonisation and the U.N. Committee of 24”,
The Journal of Modern African Studies, vol. 14 (6), 1976, pp. 41-64.
• Dr. D. Nicol, “Africa and the U.S.A. in the United Nations”, The Journal of
Modern African Studies, vol. 16 (3), 1978, pp. 365-396.
• Dr. D. Nicol, “United States foreign policy in Southern Africa: Third World perspectives”, The Journal of Modern African Studies, vol. 21 (4), 1983, pp. 587604.
• G. R. Olsen, “European public opinion and aid to Africa: is there a link”, The
Journal of Modern African Studies, vol. 39 (4), 2001, pp. 645-674.
• R. Pfister, “ Gateway to international victory : the diplomacy of the African National Congress in Africa, 1960-1994”, The Journal of Modern African Studies,
vol. 41 (1), 2003, pp. 51-74.
116
• D. Posel, “Race as common Sense: racial classification in twentieth-century
South Africa”, The African Studies Review, vol. 44 (2), 2001, pp. 87-114.
• Dr. C. Rajana, “The Lomé Convention: an evaluation of E.E.C. economic assistance to the A.C.P. States”, The Journal of Modern African Studies, vol. 20 (2),
1982, pp. 179-220.
• S. S. Ramphal, “International Co-operation and development: the role of universities”, The Journal of Modern African Studies, vol. 17 (2), 1979, pp. 183-198.
• P. T. Robinson, “ Democratization : understanding the relationship between regime change and the culture of politics”, D. E. McHenry, Jr., “Review essay: the
South African debate over the democratic transition”, The African Studies Review, vol. 37 (1), 1994, pp. 39-68.
• Seegers, “Towards an understanding of the Afrikanerisation of the South African
States”, Africa, vol. 63 (4), 1993, pp. 477-491.
• Dr. J Seiler, “South African perspectives and responses to external pressures”,
The Journal of Modern African Studies, vol.13 (3), 1975, pp. 447-468.
• E. I. Steinhart, “South African Labor and international support”, The African
Studies Review, vol. 31 (2), 1988, pp. 17-34.
• R. Tomlinson, “South Africa: competing images of the post-apartheid State”,
The African Studies Review, vol. 31 (2), 1988, pp.35-60.
• T. Young, “Democracy in Africa”, Africa, vol. 72 (3), 2002, pp. 484-496.
• T. Young, “South Africa :how many minutes to midnight?”, Africa, vol. 59 (4),
1989, pp. 521-526.
• E. K. Zuern, “Fighting for democracy in South Africa”, vol. 45 (1), 2002, pp.
77-102.
• S. Zunes, “ The role of non-violent action in the downfall of apartheid”, The
Journal of Modern African Studies, vol. 37 (1), 1999, pp. 137-170.
Collectanea:
• D.Anglin,T. Shaw -C. Widstrand (a cura di), Canada, Scandinavia and Southern
Africa, Scandnavian Institute of African Studies, Uppsala,1978.
117
• E.S. Reddy, Nordic contribution to the struggle against apartheid [ elaborato di
una lezione tenuta durante un seminario dell’Istituto Scandinavo di Studi Africani di Uppsala il 19 febbraio del 1986].
Sitografia:
• Africa, www.africa.it;
•
Aluka , www.aluka.org;
• ANC, www.anc.com;
•
ISS-Institute for Security Studies, www.issafrica.org;
• Kurdistan, www.kurdistan.org/Washington/southafrica.html;
• Nature, www.nature.com;
• New York Times, www.nytimes.com;
• Richard Knight, www.richardknight.com;
•
South African Council of Churches, www.sacc.org.za;
•
Sun Times, www.suntimes.co.za;
•
United Nations, www.un.org.
Altre risorse digitali:
• Microsoft® Encarta® 2006 [DVD], "Apartheid", Microsoft Corporation, 2005.
• Microsoft® Encarta® 2006 [DVD], "Sudafrica", Microsoft Corporation, 2005.
:
,
118
119
120