Gli italiani che se ne vanno

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Gli italiani che se ne vanno
l DOSSIER
di Francesco Rossi
Gli italiani
che se ne vanno
34 - IL CENACOLO 10/2012
Gli italiani
che se ne vanno
La storia degli italiani all’estero comincia almeno un secolo fa, quando si verificò un boom
di emigrazione. Ma anche oggi molti italiani, soprattutto giovani, decidono di lasciare il Paese
e partire verso altre mete, spesso in cerca di un lavoro migliore. Ecco chi sono.
N
on partono più, come i loro nonni, con le
valigie di cartone, e l’epico viaggio in treno
o in nave è generalmente sostituito da un
più rapido aereo, magari con un biglietto low cost.
Ma ancora oggi, nel terzo millennio, gli italiani emigrano in quello che è divenuto il “villaggio globale”,
in cerca di miglior fortuna, lasciando i loro cari e la
loro terra perché altrove, al Nord oppure all’estero,
ci sono più possibilità di lavoro, meglio pagato e
magari più vicino alle proprie aspettative.
Italiani fuori d’Italia
Dall’Unità d’Italia a oggi sono quasi 30 milioni
gli espatriati, dei quali circa la metà (14 milioni) nel
periodo 1876-1915.
Oltre 4 milioni
Nel 2012, gli italiani residenti all’estero sono
4.208.977 (dati al 1° gennaio in base alle iscrizioni
all’Aire, l’anagrafe di coloro che vivono oltre confine) e costituiscono il 6,9% dei cittadini, con un
aumento di 93.742 emigrati rispetto a inizio 2011.
Degli iscritti all’Aire, il 54% è espatriato, ma si assiste pure alla crescita dei nati all’estero, arrivati
al 38,3%. Non si tratta di espatri “fugaci”: più di
un italiano su tre (il 37,1%) vive altrove da più di
15 anni, il 14,9% da 10-15 anni. Ma, a segnare un
continuo dinamismo, vi è pure il 26,9% d’iscritti
da 5-10 anni e l’11,5% che ha spostato la sua residenza oltre confine da 3 anni.
Insomma, l’emigrazione italiana, oltre a essere
una costante dei 150 anni di storia unitaria, «non
può essere ridotta a una vicenda del passato, ma
al contrario deve richiamare anche attualmente
la nostra attenzione», come ci ricorda il direttore
della Fondazione Migrantes, monsignor Giancarlo
Perego.
L’Europa e l’America continuano a essere le
destinazioni più ambite, la prima dal 54,8% degli emigrati, la seconda dal 39,7%, ma vi è una
presenza pure in Oceania (134.008, pari al 3,2%),
meta scelta per la facilità – almeno fino a pochi
anni fa, prima della crisi – a trovare lavoro. Ancora, in Africa si trovano poco più di 54 mila italiani,
l’1,3%; in Asia 41 mila, l’1% (fonte: Rapporto italiani nel mondo 2012, elaborazione su dati Aire).
All’interno dell’Europa, i Paesi con il maggior
numero di residenti italiani sono quelli dell’Unione
europea a 15 (prima dell’allargamento), che annoverano il 40,3% del totale degli emigrati, perché
qui vi sono i luoghi dell’emigrazione tradizionale. A
conferma di ciò, le collettività italiane più numerose si trovano in Germania (639.283 emigrati, pari
al 15,2%), Francia (366.170, 8,7%), Belgio (252.257,
6,0%), Gran Bretagna (201.705, 4,8%), Spagna
(118.690, 2,8%). Da segnalare, tra i Paesi extraeuropei, la Svizzera (546.614, 13,0%).
Un po’ di storia
D’altronde, guardando al passato, solo nel 1913
emigrarono – in appena 12 mesi – poco meno di
900 mila italiani, una continua emorragia che pure
il decollo economico della belle époque, tra il 1896
e il 1908, con una crescita annua del Pil del 6,7%,
non riuscì a contenere. Ricorda il Rapporto italiani
nel mondo 2012 della Fondazione Migrantes: «In
Argentina, all’inizio del secolo scorso, erano più
numerosi i residenti di origine italiana rispetto agli
stessi argentini. Avellaneda (nome mutuato dall’allora presidente della Repubblica), cittadina del
nord-est della provincia di Santa Fe, fu fondata il
18 gennaio 1879 con l’arrivo di un piccolo gruppo di famiglie friulane, attirate dai benefici della
legge sull’immigrazione e la colonizzazione, che a
ciascuna assegnava trentasei ettari di terreno da
coltivare. Nonostante il tempo trascorso, questa
collettività è rimasta coesa e orgogliosa delle sue
tradizioni».
Prosegue il Rapporto: «In Brasile, un altro importante sbocco storico per i nostri emigrati, gli
abitanti dello Stato di San Paolo sono per il 44%
di origine italiana. La presenza è di vecchia data
anche in altri Paesi. In Perù, ad esempio, la Compagnia dei Pompieri Garibaldi, tuttora attiva, fu
fondata nel 1872; qui è rimasto famoso Antonio
Raimondi, arrivato al porto di Callao nel luglio del
1850, per i suoi meriti come esploratore della Cordigliera delle Ande. Nell’area latino-americana,
dove tra gli italiani si diffusero, fin dall’inizio, forme
associative di mutuo soccorso, si trovano diversi
tra i 22 ospedali italiani e i 20 centri di cura all’estero. Nell’America del Sud è anche localizzata la
quota più consistente sia delle 400 mila pensioni
italiane in pagamento all’estero, sia delle domande di acquisizione della cittadinanza (768.192 tra il
1998 e il 2007)».
Infine, «la presenza italiana è molto significativa
anche nel Nord America. Negli Stati Uniti gli italoamericani iscritti all’Aire sono 215 mila, mentre le
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L’Aire, un’anagrafe per gli italiani all’estero
Aire è l’anagrafe della popolazione italiana residente all’estero, istituita nel 1990 in base
L’
alla legge 470/1988. Devono iscriversi all’Aire i cittadini che trasferiscono la propria residenza da un comune italiano all’estero, per un periodo superiore all’anno; i cittadini nati
e residenti fuori dal territorio nazionale, il cui atto di nascita è stato trascritto in Italia e la
cui cittadinanza italiana è stata accertata dal competente ufficio consolare di residenza;
le persone che acquisiscono la cittadinanza italiana all’estero, continuando a risiedervi; i
cittadini la cui residenza all’estero è stata giudizialmente dichiarata. In tutti i casi sopra indicati, l’iscrizione all’Aire presuppone, comunque, la comunicazione, da parte dell’Ufficio
consolare di residenza al comune d’iscrizione, del recapito estero.
A gestire l’anagrafe della popolazione – quella residente in Italia e quella all’estero – sono
i comuni, ciascuno dei quali ha perciò la propria Aire; questi dati vengono poi trasmessi a
un’anagrafe nazionale degli italiani all’estero istituita presso il Ministero dell’Interno, Dipartimento per gli affari interni e territoriali. La cancellazione dall’Aire avviene per iscrizione
nell’anagrafe della popolazione residente, a seguito di rimpatrio dall’estero, decesso, irreperibilità presunta, perdita della cittadinanza italiana.
Gli iscritti all’Aire possono votare in tutte le consultazioni elettorali e referendarie che si
svolgono in Italia: per le amministrative, l’elezione diretta del presidente e del consiglio
regionale e i referendum a carattere locale devono rientrare in Italia; in occasione delle
elezioni dei membri del Parlamento europeo possono votare in seggi istituiti nel Paese di
residenza se vivono dentro all’Unione europea, altrimenti devono rientrare – pure in questo
caso – in Italia; per il rinnovo del Parlamento italiano e per le consultazioni referendarie a
carattere nazionale, invece, fanno riferimento alla “circoscrizione estero” costituita con la
legge 459/2001 ed esprimono il proprio voto per corrispondenza (circostanza che, nei dieci
anni in cui finora è stata applicata, ha
destato più di una perplessità).
Perché partono?
persone di origine italiana sono 15 milioni nell’intero Paese (incidenza del 5,6% sulla popolazione)
e, di essi, 2 milioni e 700 mila risiedono nell’area
metropolitana di New York».
Anche dopo la seconda guerra mondiale continuò l’emigrazione italiana, al ritmo di 300 mila persone l’anno, poi scese fino al trend attuale di circa
50 mila annue.
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Fin qui le cifre ufficiali, ma la stessa Migrantes riconosce che «queste statistiche sono
approssimative per difetto perché non riescono a registrare tutti quelli che continuano
a emigrare». Non è difficile trovare qualcuno
che vive e lavora all’estero, ma che per l’anagrafe è ancora nella casa dei genitori, oppure
nell’appartamento che continua ad avere in
Italia, come “base d’appoggio” per quando
ritorna. Le cifre reali dell’emigrazione potrebbero essere il doppio, o forse anche il triplo di
quanto riportato dall’anagrafe ufficiale. «Sono
numerosi, infatti, i giovani che si spostano –
rileva Migrantes – facendo perno sulle reti familiari e, all’occorrenza, sulle agenzie di lavoro
interinale, talvolta senza alcuna conoscenza della
lingua, ma quasi sempre provvisti di un’adeguata
qualificazione e in grado, in molti casi, di pervenire a inserimenti molto gratificanti. È vivo in questi
giovani migranti italiani l’interesse a conoscere il
mondo, mantenendo i legami ma senza rimpianti, trovando spesso inserimenti soddisfacenti nel
mondo produttivo o della ricerca».
Gli italiani
che se ne vanno
La fuga dei cervelli
È la cosiddetta “fuga dei cervelli”, menti brillanti
e giovani, con buona preparazione, che però non
riescono a vedere nel nostro Paese un futuro occupazionale in linea con le loro aspettative. Ma si
tratta davvero di una fuga, in assenza di qualsiasi altra prospettiva, o piuttosto di una scelta? «In
un mondo dai confini mobili, dalla società sempre più de-territorializzata grazie ai media digitali,
chi parte – afferma Delfina Licata, caporedattore
del Rapporto Migrantes – non si sente migrante in
senso classico, pur continuando a vivere e sentire
gli effetti dello spostamento (la partenza, lo sradicamento, l’allontanarsi dai luoghi consueti, dagli affetti sicuri, il cambio di abitudini, di lingua, di
modi di fare). Questi sentimenti restano, ma in un
mondo diventato “più piccolo”. Il viaggio diviene
cioè centrale per la formazione culturale e dell’identità di un giovane il quale, non di rado, realizza anche molteplici spostamenti, resi possibili
dalla facilità dei mezzi di trasporto. I giovani italiani
all’estero, quindi, vanno considerati un potenziale
sociale, culturale ed economico a condizione di
mantenere legami fruttuosi tra chi è partito e chi è
rimasto, cosa che non sempre avviene, per cui la
potenzialità prima richiamata rimane solo formale. Questa stessa carenza si riscontra nei riguardi
degli emigrati adulti inseriti all’estero da tempo e
spesso a livelli di grande responsabilità nei vari
settori».
Nei mesi scorsi sono stati messi a punto degli
incentivi, sotto forma di agevolazioni fiscali, per i
cittadini Ue «che hanno maturato esperienze culturali e professionali all’estero e che scelgono di
tornare nel nostro Paese», ma è presto per parlare
di “rientro dei cervelli”. Anche perché, andando a
sentire quanti hanno fatto le valigie soprattutto per
lavorare nella ricerca o aprire un’attività, il problema dell’Italia è il “sistema”, con la sua burocrazia,
gli equilibri sociali e pure quella mentalità per la
quale a 40 anni si è ancora “giovani”, inadatti ad
assumere ruoli di vertice, che restano appannaggio di canuti “baroni”.
L’Italia vista da fuori
Così, ci si limita a guardare l’Italia da fuori, con
un misto di nostalgia e rabbia per essere stati, in
qualche modo, costretti a recidere le radici.
«Dopo quattro mesi d’inutile ricerca di lavoro qua in Italia, credo sia arrivato il momento di
ripartire, pur non capendo come il nostro Paese
non dia ai suoi giovani una possibilità per restare»,
scrive Alessia, 30 anni, su www.italiansonline.net:
nata in Venezuela da genitori italiani, è giunta ventenne in Italia, fermandosi un po’ per studio e poi
girando il mondo, tra New York, Parigi e Madrid,
per lavorare. Finché, dice, ha deciso di tornare per
due motivi: «Il mio contratto era terminato e, secondo, ho voluto ascoltare il cuore». Una nostalgia
che, ben presto, si è scontrata con la realtà.
Marco Marcelli viene da Perugia, è medico (endocrinologo) e ricercatore. Emigrato nel 1986,
lavora al Baylor College of Medicine di Houston,
negli Stati Uniti. «Sin dai primi anni della facoltà
di medicina – racconta sul web (blog.ok-salute.it/
salute/2010/10/11/cosa-mi-ha-fatto-emigrare-dallitalia-1/) – ho capito che volevo intraprendere la
carriera universitaria. Le opportunità erano minime, e ai tempi c’era una fila infinita di pretendenti.
Dopo un po’ ho capito che, se volevo realizzare i
miei sogni in Italia, avrei dovuto aspettare come
minimo fino ai quarant’anni, e al quel punto ho deciso d’andarmene».
L’emigrazione di ieri
I problemi di oggi, però, non devono far dimenticare ciò che portava a emigrare un tempo.
Paolo Oppici, nato nel 1933 a Borgo Val di Taro
(Parma), partì per la prima volta nel 1949 in direzione dell’Argentina, poi andò in Svizzera e quindi in Brasile. La sua storia è riportata nel volume
Dall’Italia noi siamo partiti, curato da Pierantonio
Zavatti per la società editrice Il Ponte Vecchio.
Alla fine del 1944, racconta, «finiva una guerra e
ne cominciava un’altra: quella della disoccupazione e della necessità di mangiare e di sopravvivere.
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Un po’ di numeri
italiani all’estero
popolazione italiana.
Residenti
: 4.208.977 e incidenza del 6,9% sulla
Caratteristiche socio-anagrafiche
Donne: 2.017.167 e incidenza del 47,9% sul totale
degli iscritti all’Aire
Minori: 664.666 e incidenza del 15,8%
Over 65enni: 797.619 e incidenza del 19,0%
Celibi: 53,7%
Coniugati: 38,9%
Iscritti per espatrio: 54,0%
Iscritti per nascita: 38,3%
Acquisizioni di cittadinanza: 3,2%
Luoghi di partenza e mete di arrivo
Primi 5 Paesi di residenza all’estero:
Argentina (664.387), Germania (639.283), Svizzera (546.614),
Francia (366.170) e Brasile (298.370).
Prime 5 regioni di partenza:
Sicilia (674.572), Campania (431.830), Lazio (375.310),
Calabria (360.312), Lombardia (332.403).
Prime 5 province di partenza:
Roma (289.556), Cosenza (147.601), Agrigento (142.985),
Salerno (115.822), Napoli (110.703).
Primi 5 comuni di partenza:
Roma (266.652), Milano (58.107), Napoli (36.975),
Torino (36.346), Genova (29.950).
(fonte: Fondazione Migrantes, Rapporto italiani nel mondo 2012)
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Nel 1945 – prosegue – avevo dodici anni ed ero poco più di un bambino, ma allora si doveva crescere
in fretta. Per sopravvivere mangiavamo frutti selvatici ancora molto
acerbi. (…) In questo periodo non
esistevano mestieri, ma piuttosto
inventori di mestieri. (…) Nel 1948
cominciarono ad arrivare richieste
di manodopera specializzata di
vario genere da diversi Paesi del
mondo, e soprattutto dall’America
del Nord, dall’Inghilterra e da Francia, Australia, Argentina e Brasile.
Vedevo che molte persone conosciute partivano da Borgotaro e da
tutta la zona». La sua è una storia
di carestia ed emigrazione, con un
fratello e una sorella partiti prima
di lui e un altro morto a vent’anni
per «un insieme di cause: deperimento organico, scarsa alimentazione, paura dei bombardamenti
degli anni precedenti, ristrettezze
del dopoguerra». Finché arrivò,
anche per lui, l’ora di dire addio.
«Non ho parole per descrivere
come mi sentivo, c’era un gran
vuoto dentro di me; dovevo lasciare i miei genitori, i miei fratelli
e gli amici, forse per sempre».
Un tuffo nel passato, questo,
per non dimenticare come l’emigrazione di massa dei nostri
avi non sia paragonabile a quella dei “cervelli” di oggi: semmai,
dovremmo aver presente questi
Gli italiani
che se ne vanno
ricordi quando c’imbattiamo in quanti, nel
ventunesimo secolo, lasciano le loro terre
per venire a cercar fortuna in Italia, per evitare che i propri figli muoiano di fame…
La fede
oltre confine
Nella nostra storia dell’emigrazione non
si può ignorare la religiosità di chi partiva.
Significativo, al riguardo, il ruolo delle Missioni cattoliche italiane, non solo come supporto
spirituale, ma pure in termini di “presidio” per i
connazionali. D’altra parte, annota monsignor Perego di Fondazione Migrantes, «l’attenzione della
Chiesa per i migranti si riferisce non solo all’evangelizzazione e amministrazione dei sacramenti,
né si limita a sollevare le sofferenze e i disagi con
l’assistenza caritativa, ma comprende la promozione dei diritti umani e della giustizia verso ogni
persona, di cui la cittadinanza è uno strumento».
Ogni anno viene celebrata una Giornata mondiale
del migrante e del rifugiato (che giungerà alla sua
99ª edizione il 13 gennaio 2013) con un Messaggio
del Papa per l’occasione.
Diverse Missioni cattoliche italiane hanno celebrato recentemente il loro 50° anniversario – è
il caso della Missione di Kreuzlingen in Svizzera,
o l’Istituto delle missionarie scalabriniane di Solothurn, sempre in Svizzera –, altre hanno origini
centenarie. Non va dimenticato l’impegno di tanti
sacerdoti, religiose e laici in questo ministero.
favore degli emigranti. Lui stesso, da giovane prete, visse il dramma di due zii, fratello e sorella del
padre, costretti a partire per Bristol dopo il crollo dell’economia della Valtellina per l’apertura dei
due trafori del Gottardo e del Moncenisio. Di Guanella si ricorda la particolare attenzione pastorale
al dramma dei migranti comaschi in Svizzera, per i
quali aprì case d’accoglienza e chiese, impegnandosi in Italia per creare condizioni economiche e
opportunità lavorative per uomini e donne al fine
di evitare la partenza d’interi nuclei familiari. Nel
1896 con l’Opera Pia Sant’Antonio a Campodol-
Preti e suore in terra straniera
Sacerdoti e suore italiani rappresentano «il dono
generoso delle diocesi e delle famiglie religiose:
sono ambasciatori nel mondo del dinamismo missionario della Chiesa che vive in Italia», disse nel
2005 monsignor Lino Belotti, all’epoca presidente
della Fondazione Migrantes e della Commissione
Cei per le migrazioni, in occasione del primo convegno internazionale dedicato ai “missionari italiani nel mondo”. «Queste persone – aggiungeva
monsignor Belotti – hanno “imparato” a diventare
uomini e donne “ponte” per facilitare l’incontro e
il dialogo. Vivono nella loro vita di consacrati la
grande speranza che sta nel profondo dell’annuncio cristiano, che rivela a tutti i popoli la vocazione
universale a divenire il popolo santo di Dio. La loro
“esperienza” a servizio delle comunità italiane nel
mondo li ha resi “esperti” della “convivialità tra popoli e culture”».
Uno tra tutti è don Luigi Guanella, canonizzato
il 23 ottobre 2011, noto per la sua carità anche a
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LISI
L'ANA
«L'Italia non risponde
alle necessità dei giovani»
giunto al settimo anno il monitoraggio della Fondazione Migrantes con il Rapporto italiani nel
È
mondo 2012, il corposo dossier che raccoglie dati statistici, analisi socio-culturali, religioso-pastorali, socio-economiche e approfondimenti tematici. Dell’emigrazione italiana, così come viene raffigurata dal Rapporto, Il Cenacolo ne parla con la curatrice del volume, Delfina Licata (nella foto).
Che immagine emerge del fenomeno migratorio che ha per protagonisti i nostri connazionali?
Dal Rapporto Migrantes Italiani nel mondo 2012 emerge sempre di più quanto di emigrazione
italiana si debba parlare in termini di attualità. La comunità italiana residente all’estero è sempre
più giovane e professionalizzata. Accanto a chi mantiene la cittadinanza pur risiedendo all’estero,
occorre considerare chi parte oggi, ovvero giovani che vanno a perfezionarsi all’estero o vanno
a frequentare corsi di studio e/o formazione o, ancora, chi sceglie l’estero come meta di realizzazione della propria professionalità dopo aver conseguito il titolo di studio in Italia e aver trascorso
periodi in cerca d’occupazione o svolgendo stage non retribuiti. Emerge, quindi, un fenomeno, in
ascesa e in continua trasformazione, al passo con i tempi e destinato a crescere per le maggiori
opportunità lavorative offerte fuori dall’Italia e per le migliori condizioni socio-economiche che si
riscontrano al di fuori dei confini nazionali.
Quali sono oggi le ragioni dell’emigrazione?
Oggi si emigra perché l’Italia non risponde adeguatamente alle necessità soprattutto dei giovani con titoli di studio alti. La disoccupazione in primis, le lunghe attese per ottenere lavori retribuiti e
superare la fase degli stage, la mancanza di futuro per chi, a vario titolo, è inserito nei settori della
ricerca (medica, ingegneristica, aerospaziale, sociale ecc.) sono solo alcune delle cause principali. Chi è all’estero giudica molto male l’Italia soprattutto per la mancanza di meritocrazia a tutti
i livelli, mentre l’estero appare come il “luogo” delle opportunità per chi è preparato e caratterialmente portato al rischio.
Quale legame hanno gli emigrati con l’Italia e, viceversa, l’Italia che rapporto ha con i suoi cittadini all’estero?
Ferma restando la necessità di manovre per una più severa giustizia distributiva, si richiede che,
anche in una fase di crisi, non si smetta di pensare che la presenza all’estero sia una risorsa, si creino nuovi investimenti ma, ancor di più, si giunga a una nuova mentalità. Ed è questa nuova mentalità che il Rapporto Migrantes dal 2006 sprona a raggiungere attraverso la conoscenza di una realtà che continua a essere presente pur cambiando costantemente caratteristiche. Occorre una
maggiore presa di coscienza di quanto sia inevitabile “incontrare” oggi questa Italia migrante nel
panorama della mobilità europea e internazionale. Proprio da quanto detto si desume la necessità di utilizzare nuove chiavi di lettura spinti dalle caratteristiche degli attuali migranti, a cominciare
dalla loro preparazione e dal progetto con cui partono e che il più delle volte finiscono con il riuscire a realizzare all’estero, dopo aver tentato di aprire inutilmente porte in Italia. Il discorso non è la
necessità di far tornare oppure il riuscire a non far partire i giovani: piuttosto, la partenza non deve
essere la conseguenza di un bisogno ma una normale fase di passaggio per un miglioramento e
un confronto a livello europeo e internazionale che porti alla circolazione d’idee e sproni a nuove
progettualità. Soltanto così il legame tra l’Italia e i suoi emigrati potrà trasformarsi o, per meglio dire,
evolversi considerando inevitabilmente la memoria e il ricordo, ma affiancando a questi nuove
caratteristiche, quali l’opportunità per il Paese di essere, al pari di altri contesti, protagonista del
tempo di oggi.
La Fondazione Migrantes, e più in generale la Chiesa italiana, come si rapporta con gli emigrati?
La Fondazione Migrantes, organismo pastorale della Chiesa in Italia, mentre è particolarmente
sensibile alla cura della dimensione religiosa delle persone e famiglie migranti, riconosce nella vicenda migratoria lo strumento per il passaggio da una situazione insoddisfacente a una speranza
più ampia: situazione denominata dal Magistero “sviluppo integrale” della persona e dei popoli
(cf. le encicliche: Paolo VI, Populorum progressio; Benedetto XVI, Caritas in veritate). Per questo
motivo, mi piace sottolineare il ruolo svolto dalle Missioni cattoliche italiane, che fin dall’inizio della
vicenda migratoria sono state un presidio per i connazionali. La cura pastorale della Chiesa per
i diritti degli emigranti è radicata nella nota della cattolicità della Chiesa, che è un segno e strumento dell’unità della famiglia umana. Nella varietà delle tante realtà che la compongono vede
esaltata la sua universalità, con il superamento di ogni forma di etnocentrismo e la realizzazione
della «convivialità delle differenze».
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Gli italiani
che se ne vanno
cino – che poi fallì – diede origine a diverse fabbriche di merletti e di trecce di
paglia per dare lavoro alle operaie della
Valchiavenna. Nel 1900 ideò una sorta di
“cittadella agricola”, la colonia agricola
di Nuova Olonio, sorta grazie all’opera
di bonifica del Pian di Spagna che intraprese con l’aiuto degli emigranti comaschi in Argentina e negli Stati Uniti.
Gli istituti religiosi
in prima linea
I 25 anni della
Fondazione Migrantes
L
a Fondazione Mig rantes, nata nel 1987 ma
preceduta
nel tempo da altri orga nism i che per circ
a
un secolo han no testimon iato «la materna attiv
a presenza della
Chiesa tra i mig ranti», è l’organismo cost
ituit
ferenza episcopa le italiana «per assicura o dalla Conre
relig iosa» a italiani e stra nieri che lasciano l’assistenza
le loro terre,
«per promuovere nelle comunità cristian
e atteggia menti
e opere di fraterna accoglienza nei loro rigu
ardi», «per stimola re nella stessa comunità civile la com
prensione e la
valorizzazione della loro identità in un
clima di paci fica
conv ivenza rispettosa dei diritti della pers
ona uma na».
Quest’an no celebra il suo 25° ann iversari
o e nell’occasione il Convegno nazionale dei direttor
i diocesan i e collaboratori, che si terrà a Roma dal 19
al 22 novembre,
«vuole offri re l’occasione per conoscere
il quad ro attuale
dei mutamenti cultural i e sociali e derivan
ti dal fenomeno della mobilità uma na per tenerli stre
ttamente uniti
alle preoccupazioni della Chiesa in Italia
oggi». In tale circostanza «la riflessione sulla Parola, alcu
ne relazion i, le
testimon ianze e la cond ivisione di espe
rienze – si legge
nella presentazione dell’evento – si prop
ongono di essere
un momento di formazione e anche di
aiutare a individua re scelte pastoral i nelle Chiese loca li».
La Fondazione
è on line all’indirizzo www.mig rantes.it
.
Definito «sacerdote cosmopolita»
da papa Pio X per la sua attenzione al
mondo dell’emigrazione italiana, a inizio Novecento don Guanella compì una
traversata dell’oceano in direzione degli
Stati Uniti, proprio come i 4 milioni di
emigranti italiani che a cavallo tra Ottocento e primo Novecento raggiunsero l’America. Un numero così alto che
la Chiesa statunitense non riusciva a
prendersene cura. Per questo alcuni
vescovi chiesero aiuto alla Santa Sede
o direttamente ad alcuni istituti religiosi, invitandoli in America a operare pastoralmente tra gli emigranti.
Don Guanella raccolse l’invito e,
due mesi dopo il suo ritorno in Italia,
il 3 maggio 1913, sei suore Figlie di S. Maria della
Provvidenza (congregazione da lui fondata) partirono per Chicago dal porto di Napoli sulla nave
Ibernia. L’opera pastorale tra gli emigranti delle
suore guanelliane da Chicago si estese negli Stati
Uniti con numerose attività sociali a favore degli
emigrati italiani.
Ad accompagnare i 14 milioni d’italiani emigrati
dal 1876 al 1914 vi furono, tra gli altri, anche san
Vincenzo Pallotti a Londra e i missionari inviati da
san Giovanni Bosco in Argentina, santa Francesca
Saverio Cabrini che fondò un istituto di suore per
l’assistenza agli italiani nelle Americhe e il beato
Giovanni Battista Scalabrini, vescovo di Piacenza,
che si spese con tutte le sue forze per la sensibilizzazione della società e della Chiesa italiana,
mentre il suo confratello Geremia
Bonomelli, vescovo di Cremona, si
prendeva cura degli emigrati italiani in Europa.
La priorità era assicurare ai
migranti cattolici un’assistenza
religiosa minima, e per questo
nacquero parrocchie nazionali,
missioni strutturate, centri pastorali, come pure missioni “volanti” o “itineranti” per raggiungere il maggior numero possibile di connazionali.
Le Missioni cattoliche italiane
La presenza delle missioni cattoliche italiane –
oggi come ieri – segue quella degli emigrati italiani nei cinque continenti: numerose in Europa, in
America sono presenti negli Stati Uniti e in Canada, oltre che nel Sudamerica (Argentina, Brasile,
Cile, Colombia, Uruguay, Venezuela), come pure
in Asia (Filippine, Hong Kong, Iran, Kazakistan,
Russia, Thailandia, Turchia), Africa (Algeria, Egit-
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l DOSSIER
to, Etiopia, Marocco, Repubblica democratica del
Congo, Sudafrica, Uganda, Zambia) e Oceania
(Australia).
Sebbene sempre meno numerosi e sempre più
anziani, sono ancora oltre 400 i missionari italiani
impegnati su questo fronte dell’evangelizzazione
e, al tempo stesso, della promozione sociale dei
migranti, «chiamati a rinnovare la pastorale – afferma ancora Perego – anche alla luce delle situazioni
sociali, culturali e religiose nelle quali si è inseriti».
Secondo il sito www.lemissioni.net oggi vi sono
522 operatori (laici/laiche consacrati e non, sacerdoti diocesani e religiosi, suore, sacerdoti in pensione) in 356 missioni cattoliche di lingua italiana
distribuite su 41 nazioni nei 5 continenti.
Interessante è il ruolo di collegamento avuto dai
fogli d’informazione, alcuni dei quali vengono ancora stampati, mentre altri, complice pure l’avvento delle nuove tecnologie e un’emigrazione sempre
più integrata nel tessuto sociale dei luoghi d’arrivo, sembrano destinati a scomparire. Tra i primi vi
sono il Corriere
d’Italia di Francoforte (nato
nel 1951) e il
Corriere degli
italiani di Zurigo; nel 2011 ha
invece cessato
le pubblicazioni La voce de-
Una storia d’emigrazione:
Terra Nostra
gli italiani, che era stata fondata nel gennaio del
1948 come mensile, per diventare un quindicinale
nel 1957 (e, infine, divenuta trimestrale nell’ultimo
periodo di vita).
«Anche oltre Manica – spiega il direttore della
testata londinese, Giorgio Brignola – è, progressivamente, mutato il concetto di vivere l’italianità.
Sono venute meno, a mio avviso, alcune realtà
nelle quali si veniva a identificare la nostra numerosa comunità in Gran Bretagna. Gli italiani, di
terza e quarta generazione, hanno impostato diversamente il loro modo d’essere
cittadini del Bel Paese. Il processo d’integrazione è stato totale e, sotto molti
aspetti, anche provvidenziale».
on solo il (classico) racconto di una storia d’amoN
re travagliata, ma uno spaccato realistico sulla situazione degli italiani emigrati a fine Ottocento, con
le loro speranze e difficoltà, attraverso le vicende dei
primi immigrati italiani in Brasile. Terra Nostra è una telenovela brasiliana in 221 puntate realizzata nel 19992000, scritta dal giornalista Benedito Ruy Barbosa e
venduta in più di 80 Paesi, tra cui Argentina, Australia,
Cile, Canada, Usa, Romania, Ungheria, Russia, Grecia,
Croazia, Perù, Ecuador, Portogallo e Spagna. In Italia è
giunta nel settembre 2000, trasmessa da Rete 4, poi nel
2008 l’ha riproposta Rai 3 e nel 2012 Rai Premium.
La storia inizia nel 1888, quando la povertà costringeva molti a emigrare dall’Italia. Ed è su una nave di emigranti diretta in Brasile, l’“Andrea I”, che prende il via
la vicenda, fatta di amori impossibili, un’epidemia di
peste, la vita nella fazenda, emigrati che hanno fatto
fortuna e altri che la cercano, la crisi economica che
colpisce il Paese facendo crollare il prezzo del caffè…
42 - IL CENACOLO 10/2012
L’emigrazione
dal Sud al Nord
Infine, occorre fare un accenno a quelle
che sono chiamate “migrazioni interne” e
che riguardano – oggi come ieri – quanti
lasciano la loro terra, per studio, lavoro o
affetti, ma non il Paese.
L’ultimo Rapporto Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno), presentato a fine settembre,
fotografa «un Mezzogiorno a rischio desertificazione industriale, dove i consumi
non crescono da quattro anni, dove lavora ufficialmente meno di una giovane
donna su quattro e si è a rischio segregazione occupazionale». Anche in questo caso, vengono in aiuto i dati raccolti,
Gli italiani
che se ne vanno
Il Concilio Vaticano II e i migranti
giustizia e l’equità richiedono similmente che la mobilità, assolutamente neLdeiacessaria
in un’economia di sviluppo, sia regolata in modo da evitare che la vita
singoli e delle loro famiglie si faccia incerta e precaria. Per quanto riguarda
i lavoratori che, provenendo da altre nazioni o regioni, concorrono con il loro
lavoro allo sviluppo economico di un popolo o di una zona, è da eliminare accuratamente ogni discriminazione nelle condizioni di rimunerazione o di lavoro.
Inoltre tutti, e in primo luogo i poteri pubblici, devono trattarli come persone, e non
semplicemente come puri strumenti di produzione; devono aiutarli perché possano
accogliere presso di sé le loro famiglie e procurarsi un alloggio decoroso, nonché
favorire la loro integrazione nella vita sociale del popolo o della regione che li accoglie. Si creino tuttavia, nella misura del possibile, posti di lavoro nelle regioni stesse
d’origine.
(dalla Costituzione pastorale Gaudium et spes)
attingendo a varie fonti, dal Rapporto Migrantes,
che vede una sostanziale stabilizzazione negli
ultimi vent’anni delle migrazioni dal Centro-Nord
al Mezzogiorno (tra le 60 e le 65 mila persone).
Costoro sono per lo più migranti che ritornano al
paese d’origine dopo aver terminato il ciclo lavorativo per il quale si erano spostati, oltre a una piccola quota di quanti hanno fallito il loro progetto
migratorio.
Diversa, invece, è la situazione dei flussi migratori verso il Centro-Nord, i quali, dopo una flessione avvenuta nei primi anni Novanta, ora crescono
sensibilmente sino a raggiungere il picco massimo, nel 2000, di 147 mila unità, per poi attestarsi
intorno alle 120 mila unità. Le mete, per chi parte
dal Sud, sono innanzitutto la Lombardia (scelta
nel 2009 dal 24,2% dei migranti, quasi 26 mila
persone), seguita da Emilia Romagna e Lazio.
«Il pendolarismo in Italia, così come in altre realtà, è diventato un fenomeno fisiologico del mercato del lavoro – annota Migrantes – e riflette la
dislocazione dei luoghi produttivi rispetto a quelli
di residenza». Caratteristica del Centro-Sud è il
«pendolarismo di lunga distanza», che nel 2010 ha
interessato in media 178 mila persone. «Di questi pendolari a lungo raggio – precisa Migrantes –
134 mila si dirigono verso il Centro-Nord o l’estero
e 44 mila verso, invece, province non contigue ma
appartenenti alla stessa area di partenza».
Cifre confermate dal Rapporto Svimez 2012,
per il quale, a seguito della carenza di lavoro al
Sud, «140 mila persone, nel 2011, per lo più maschi, giovani, single o figli che vivono ancora in
famiglia, dipendenti a termine e collaboratori, soprattutto impiegati full-time nel settore industriale,
sono diventati pendolari e sono andati a lavorare
nel Centro-Nord, in particolare a Roma, Milano,
Bologna».
Tornano in mente pure in questo caso i migranti
di ieri, costretti a lasciare il paese e il meridione
per cercare lavoro nelle grandi industrie del Nord,
e sembra che 150 anni d’Italia unita non siano bastati per dare al Sud le opportunità di cui ha bisogno, come pure non sono stati sufficienti al Bel
Paese per evitare la “fuga” dei suoi figli. •