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Maricla Boggio
DOMINOT
Racconto confidenziale
di un artista en travesti
Saggi di
Luigi M. Lombardi Satriani
e Francisco Mele
Armando
editore
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Sommario
Dalla violenza alla libertà: la teatralizzazione della parola di Luigi M. Lombardi Satriani
Dominot. Racconto confidenziale di un artista en travesti di Maricla Boggio
Premessa Storia di Dominot Il Baronato Quattro Bellezze La nascita misteriosa I giochi dei bambini Il vestito da sposa di carta stagnola Il teatro e la guerra Le acciughe, il sarto, la passione per la scena Veniva alla scuola e mi pagava le lezioni I lavori dell’apprendistato Andavo nei bordelli arabi La claque I clienti ci facevano segno e noi scendevamo Mi drappeggiavo questi veli, mi trasformavo La festa dei legionari Il lato oscuro dell’essere umano Con la fede sublimavo il mio stato di povertà Se c'è un affetto reale, qualche cosa esce fuori comunque
Travestirmi per me è un po’ come una droga La sera era tutto un formicolio sotto il Tevere Allora lui dice che si chiamava Federico Fellini A Parigi al bar La Pergola A Teheran ballavo sulle punte Sul set di Fellini col tutù BOGGIO-Dominot 15x21.indd 5
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Avevo un fisico androgino con un po’ di seno Quando ero disperato andavo a fare qualche marchettina Un modo di incontrarsi era di andare in certi cinema Non esistevano altri travestiti a quel tempo Da Regina Coeli a Volterra e altre carceri ancora Il travestimento libera questo lato nascosto che c’è in me Da Tunisi a Marsiglia e poi a Parigi La Piaf mi diceva: “Dominot, sei stupenda!” Appena faceva notte, mi svegliavo Dalle nove alle undici di sera, era il momento del teatro;
dalle undici in poi era il momento del travestimento La Tunisia mi ha portato a meditare, a sognare… Un gioco erotico sovrastato dal travestimento L’amore con lo sposo Da bambini nei bagni turchi Sul mare, a Sidi Bou Said Al teatro romano di Cartagine Parlare con gli attori di teatro per me era come parlare con gli dei Disegnavo senza saper disegnare David Sailer Andavamo tutti da Peppino in via dei Greci I femminielli di Napoli Con David a Venezia Il matrimonio di David A Roma un nuovo amore Di nuovo David In camera di sicurezza per dormire Il Baronato Quattro Bellezze Alla sera mi vestivo da donna con quattro stracci Cantavo le canzoni della Piaf Gli spettacoli romani La serata dei poeti “Sul lungotevere si balla tra uomini…” I poliziotti e l’uso del potere Disegnavo anche quattordici ore al giorno Il trucco in cella Dal carcere al teatro e dal teatro al carcere In carcere, vita e amicizie Io queste cose le faccio ma non le guardo Mario, la sicurezza A Parigi, al Circolo del Palais Royal A Sidi Bou Said d’inverno si alzava una piccola nebbia BOGGIO-Dominot 15x21.indd 6
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Contemporaneamente attore e spettatore Il rossetto è l’alibi Il disegnino di una donna meravigliosa Amici intimi di mio padre mi violentavano da bambino Il sesso è un fatto mentale Il travestimento è un drogarsi senza prendere droghe Ero solo in casa, quando mi sono vestito da donna Salgo sul bancone e mi metto a cantare Sono disegni che mi vengono così Capodanno a Priverno Si è messo i tacchi a spillo e mi ha sodomizzato Aurelio, Vinicio e la causa in Vicariato Storia di Vinicio Chi sono i miei veri genitori Capodanno a Tunisi Tutto parte dal cervello La religione, un martirio Il rapporto d’amore, un pretesto per non stare soli Storia d’amore e di disperazione Il sorriso di Mario Tutta la mia vita come in palcoscenico Le divine del superfluo Si andava addirittura nei bagni pubblici Il lato del sesso è dominante Dominique Dominot Il mondo di Marta Dai miei difetti un gioco straordinario Riandando con la memoria La ristourne A Teheran nella villa dello Scià Tutte le possibilità dell’amore I ricordi dei primi contatti Ho comprato una piccola casa a Gennazzano Le gabbie dell’identità di Francisco Mele BOGGIO-Dominot 15x21.indd 7
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Disegno donato da Dominot a Maricla Boggio, con dedica.
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Dalla violenza alla libertà:
la teatralizzazione della parola
di Luigi M. Lombardi Satriani
Chi negli anni Ottanta ha avuto modo di conoscere direttamente Dominot nel suo Baronato Quattro Bellezze sa come parlando si trasformasse lentamente sino ad assumere identità, e direi sembianze femminili. Con
l’accorto uso del ventaglio e l’articolata modulazione della parola, l’uomo
diveniva via via la donna che desiderava essere.
Personaggio singolare che ha segnato con la sua presenza la vita intellettuale di Roma e, più in generale, la cultura dello spettacolo, Dominot
racconta nel corso di decine di incontri a Maricla Boggio la sua vita; lo
fa con slancio sia perché legato a lei da vincoli di amicizia, sia perché
adeguatamente sollecitato e stimolato con domande, riferimenti a quanto
già detto, agganci tematici a nuclei narrativi precedentemente delineati,
e così via. Maricla Boggio nella sua Premessa tratteggia sinteticamente
ed efficacemente la storia di questo corpus narrativo che in vista della
presente pubblicazione è stato da lei ulteriormente compattato e, quando
possibile, ristretto.
È un corpus che presenta numerose sfaccettature e si presta a una molteplicità di interventi.
Così, mentre la stessa Maricla si sofferma sulla dimensione narrativa e
teatrale, Francisco Mele approfondisce il tema delle identità e della necessaria ricerca di esse; per quanto mi riguarda tenterò una lettura antropologica,
ponendo in risalto i valori, nell’accezione di mete culturali, che hanno tramato
le diverse fasi della vita di Dominot nel suo travagliato iter esistenziale e le
numerose società da lui attraversate.
È un viaggio di grande suggestione, che presenta la violenza degli arabi adulti, tunisini, legionari che, a poco prezzo, comprano il corpo dei
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ragazzini stranieri per sfogare su di loro il proprio mercenario (nomina
sunt conseguentia rerum) piacere; dall’altro lato la libertà pur pagata ad
alto prezzo di ragazzini lieti di poter in qualche maniera dominare (?) gli
adulti legionari. Certo c’è da tener conto che Dominot nella sua sensibilità
è consapevole di parlare con una donna ed è agevole ipotizzare che abbia
preferito tacere i particolari più cruenti mettendo in luce gli aspetti positivi (?) di questo rapporto tra diseguali; eppure dalle pagine che rievocano
questo lontano passato tunisino si sprigiona un’aria di libertà che sospinge
i ragazzini ad agghindarsi la sera per lasciare i tuguri dove vivevano con le
loro famiglie e raggiungere i bordelli e prostituirsi, “ma tutti a Tunisi facevano queste cose” e almeno al bordello si prendevano “un po’ di soldi”.
Il racconto si snoda attraverso i ricordi lontani e attraverso una ricostruzione mitica di se stesso, a partire dalle origini. Né poteva mancare il tema
della madre aristocratica che lo concepisce illegittimamente e che perciò
cede il bambino a quelli che per decenni saranno da lui ritenuti i “veri” genitori sino a quando, a sedici anni, apprende la “verità” (?) da una signora
ciarliera. Quale che sia la verità reale, Dominot ha comunque l’esigenza
di una verità mitica, simbolica, di trovare un punto fermo su cui fondare
lo scorrere tumultuoso dei suoi giorni; per evitare di essere risucchiato dal
gorgo dell’inconcludenza, deve costituirsi come in viaggio verso l’identità.
Per Heidegger si è sempre in cammino verso il linguaggio, come recita
un suo saggio famoso, per Dominot si tratta sempre e comunque di un
viaggio verso l’identità. Lévi-Strauss intitola un suo seminario, divenuto
un classico della letteratura antropologica, Pour l’identité, Dominot e il
suo racconto sono sempre pour l’identité. A somiglianza di una più famosa
recherche, anche la sua è ricerca del tempo perduto e del tempo ritrovato.
La galleria dei personaggi non presenta più Albertine, Swan, la duchessa
Guermantes, il Barone di Charlus, ma Dominot, poi Dominot, ancora e
sempre Dominot.
L’Eroe ha sempre origini mitiche, si tratti del fondatore di città (Romolo e Remo in una cesta approdata miracolosamente), di Re che danno
origine a gloriose dinastie, a figure che proprio perché investite di regalità
sono perciò stesso intrise di sacralità che, giustificandoli, li pone al di
sopra dei comuni mortali. I Re di Francia proprio perché Re avevano il
potere, si riteneva, di guarire dalle scrofole con l’imposizione delle mani,
come ha mostrato in maniera esemplare Marc Bloch nella sua celebre monografia I re taumaturghi. Nel racconto di Dominot tutto ciò è avvolto da
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una dimensione di favola, il dato certo sfuma nelle nebbie del racconto
possibile, forse vero, forse no, ma comunque avvincente e avvolgente,
come una favola, appunto.
Dominot sa che «quello che faceva si poteva considerare prostituzione», ma si assolve facilmente perché lui «non l’ha mai considerata una
cosa brutta». Anzi farsi pagare lo eccita, gli dà la sensazione di esistere,
lo percepisce come valore, al punto che «quasi quasi non riesco ad avere
rapporti se non sono pagato», «mi sento valorizzato perché non sono io a
dover pagare, è l’altro. E questo oltre a tutto mi erotizza. Perciò ho anche
questa mentalità del travestimento».
Ripercorrendo a ritroso la sua esistenza, esalta il valore salvifico della
poesia: «è questo che mi ha salvato, perché malgrado tutto quanto io abbia potuto fare nella vita, l’ho fatto sempre con estrema poesia. Anche il
mio travestimento è un fatto poetico e come travestito, per questa ragione
ero un po’ emarginato. Perché era più poesia che travestimento, era poesia
pura. È come in teatro, c’è un travestimento fisico, ma quello che conta è la
mente. Il travestimento, comunque, anche quando non è poesia, è geniale».
Paradossalmente, le proprie scelte di vita vengono assunte come parametro, Dominot giunge a esaltare la figura del legionario:
il legionario rischia sempre in prima linea e dunque è sempre fuori di sé.
Certo loro erano sempre lontani dalle donne, e io mi son fatto l’idea che la
decisione di comportarsi in un certo modo avviene sempre partendo da un
bisogno fisico nel senso che se non c’è nient’altro si va con un ragazzino o
con gli uomini; ma la società abusa spesso di questa situazione che definiscono “di bisogno”. Io ho notato per esempio che nei paesi ancora primitivi
il sesso è un fatto che si pratica con entrambi i sessi e questo è molto naturale. Nelle società più civilizzate questa situazione degenera attraverso il
matrimonio, perché si privilegia il rapporto tra eterosessuali, e si accantona
quello che chiamerei “il lato oscuro” quello dell’omosessualità: le persone
cascano nell’ingranaggio sociale e si reprime l’omosessualità.
Il trasgressivo Dominot veste così disinvoltamente i panni del moralista
e fa ricorso a differenziazioni antropologiche che, ovviamente, non padroneggia, per esaltare l’omosessualità assunta sempre e comunque come il
più alto livello della sessualità universale.
È possibile pensare che nonostante tante proclamazioni Dominot abbia
interiorizzato come valori dominanti una sorta di condanna dei propri comportamenti per cui tende comunque a giustificarli come naturali e perché,
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piegando ad altro significato l’espressione hegeliana, “lo spirito soffia dove
vuole”. Se per tutti omnia vincit amor, per Dominot omnia munda amantibus (ogni cosa è legittima per coloro che amano).
La cultura intellettuale è da lui perseguita come obiettivo costante:
“questo infinito bisogno di leggere, di apprendere”; conosce così “testi
stupendi”: Racine, Molière, Corneille e apprende “come recitare”. È singolare che nell’apprendistato della recitazione Dominot reinventi la trovata di Demostene che declama i suoi discorsi nel vuoto teatro romano
di Cartagine, come a Dominot stesso diranno a distanza di tempo suoi
amici a Parigi. Dominot sottolinea giustamente che «in scena si è presi
da una specie di possessione, come i maghi, come gli sciamani. Dentro
di noi si sviluppano certe componenti chimiche che non riusciamo a capire, delle droghe che si mescolano… Avvengono delle cose incredibili
in palcoscenico». Ritorna nella mia mente quanto, negli anni Settanta,
Alessandro Fersen andava ripetendo ai suoi allievi: che per fare teatro
dovevano concentrarsi facendo emergere dalla loro interiorità le radici
primordiali di loro stessi, della loro cultura primigenia. Il grande Maestro
ebreo-polacco mi invitò più volte ad alcuni incontri della sua Scuola e
avviammo molto francamente un colloquio critico come egli stesso ricorderà nei suoi scritti di teatro.
Poi, per Dominot, nel tempo, le prime esperienze di amore, le prime
delusioni, inevitabilmente ché l’amore è essenzialmente sofferenza, ferita.
Per sopravvivere si adatta a lavori sottopagati, quale quello di sarto
e percorre la via crucis di un violento apprendistato. Dominot a volte fa
analisi realistiche, a volte evoca con indubbio talento narrativo un mondo,
quello della Roma di fine anni Cinquanta: «la sera era tutto un formicolio
sotto il Tevere, si viveva lì, nelle barcacce; ci si travestiva addirittura per
strada e c’erano tutti questi ragazzi che non vedevano mai una donna, perché a quell’epoca le ragazze dopo le otto di sera se ne stavano tutte chiuse
in casa; era un mondo di uomini; veramente un mondo pasoliniano».
Egli stesso sottolinea:
con Pasolini ci siamo visti qualche volta, ma così, nelle osterie, bevevamo
insieme, si parlava, delle volte c’era anche Laura Betti; lui raccontava delle
cose quotidiane (…) Arrivava sempre con quei suoi ragazzotti; era sempre
molto educato, molto garbato; ma si vedeva che era energico, prendeva le
redini in mano; anche nei suoi rapporti con questi ragazzi non aveva niente
di femminile, anche nell’aspetto era molto virile. Quindi io lo sentivo vici-
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no a me per lo stesso mondo omosessuale, ma comunque era lontano da me
perché era un intellettuale, un uomo che essendo colto poteva anche essere
molto razionale. Secondo me lui faceva le cose molto più razionalmente
che istintivamente e quindi non capivo bene qual era il suo vero interesse,
se era più analitico o più animale. E il travestitismo a lui non interessava
proprio niente. Io ho provato a parlargliene ma il suo era proprio un mondo
di uomini con uomini, per lui c’era un confronto tra maschi. Anche tra uomini comunque i rapporti sono difficili, spesso incomprensibili.
Ancora una volta Dominot esalta sé, il proprio istinto, mostrando di
considerare senz’altro inferiore l’approccio razionale, colto, e dimenticando che proprio la cultura critica, la cultura intellettuale è stata per anni la
meta faticosamente da lui perseguita come riscatto per una condizione da
lui stesso considerata inferiore.
Con l’AIDS questo libero darsi reciproco si è bruscamente interrotto,
ché domina la paura del contagio.
L’incontro con Federico Fellini dischiude l’ingresso nel mondo dello
spettacolo; sono di intensa suggestione le pagine che rievocano l’incontro
con il grande regista.
Dalle parole di Dominot emergono tratti della cultura carceraria; i detenuti delle diverse celle che inviano le “fibbie” o i “fibbietti”: i biglietti di
amore e desiderio e anche la violenza dei poliziotti che a volte inventano le
accuse, sicuri che i giudici crederanno più a loro che ai carcerati. Conferma
ulteriore che quando si è vittime, si è sempre doppiamente vittime. Mentre
incontri non intrisi di violenza, ma di tenerezza, li pongono in essere detenuti che si comportano gentilmente, si mostrano solleciti nel regalare dolci
e sigarette, a portare il caffè, come nel caso di «uno che aveva ammazzato
un amico con un caffè con la stricnina».
Cultura carceraria densa di violenze, egoismi, ma anche inaspettata pietà e gratuiti slanci solidali, come testimoniano tante opere, tra le quali,
inquietante e suggestiva, L’Internata n. 6, di Maria Eisenstein, «né diario
né romanzo, ma con la verità cruda del primo e la fantasia del secondo»,
come venne presentata la sua prima edizione apparsa a Roma nell’ottobre
1944 (Eisenstein, 2014).
Violenta è la cultura dei militari, tranne qualche eccezione; violenza
dei militari che Dominot sperimenta quando si ritrova al Celio, in un centro
di osservazione per malati mentali per non avere fatto il servizio militare,
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occasione che utilizza per minacciare di farsi un’intera caserma. Per non
parlare poi della violenza degli avvocati di ufficio che non perdono occasione di usare i loro clienti a loro piacimento salvo poi abbandonarli al loro
destino, “rimettendosi alla clemenza della Corte”.
Il sesso che marca dall’infanzia l’esistenza di Dominot fino a diventare una
sorta di chiave di volta dell’intera sua esistenza e l’obiettivo delle sue giornate
è mezzo essenziale perché realizzi di fatto la sua apertura al mondo e agli altri;
questo stesso sesso è costitutivamente violenza, sugli altri, su se stesso.
Il sesso si accompagna in Dominot all’amore; questo si realizza e si
esalta nel rapporto fisico. Così anche la manifestazione di amore diventa
forma di violenza e quando non può essere rivolta all’altro viene canalizzata
su se stesso: rifiutato da David Sailer che sta per sposarsi secondo il volere
materno, si taglia le vene; quando scopre che Mario, l’uomo da lui amato,
sta con una donna, per la disperazione si butta dalla finestra si butta dalle
scale rompendosi le gambe, per cui non potrà fare il lavoro teatrale, e così
via, in un crescendo di esaltazione narcisistica e masochistica. Tali episodi
vengono ricordati da Dominot con evidente compiacimento, quale prova del
suo vivere con spontaneità e libertà nel trasporto amoroso per l’altro.
È che per lui una cosa è la vita e un’altra il racconto di essa; e nella
ricostruzione che fa di essa che Dominot intende ritrovare coerenza, crescita, i tratti che considera essenziali della sua personalità. Dall’esterno chi
guarda all’ininterrotta descrizione che della sua vita fa Maricla può notare
come essa appaia piuttosto una drammatica, a volte disperata ricerca di
identità, meta, in fondo, di tante spesso tumultuose vicende, di tante spesso
disperate ricerche di aiuto. Più che un itinerario di gioiosa libertà, quello di
Dominot mi appare spesso di sofferta e inconsapevole schiavitù.
La vita struggente e disperata di Edith Piaf viene presentificata da Dominot che tende a identificarsi con la grande cantante, divenuta, non soltanto per lui, un mito. Nella galleria di personaggi incontrati da Dominot
a Parigi: Francoise Sagan, Juliette Greco, è la Piaf a risaltare come la più
generosa nel dirsi, nel darsi.
La più profonda passione per Dominot è comunque il teatro, il mondo
dello spettacolo, la messa in scena della vita dei ruoli che via via si possono
impersonare del suo essere maschio e femmina, potendo volta a volta entrare e uscire dall’una all’altra dimensione. Michel Simone, Luchino Visconti,
Alain Cluny, Pierre Clement: i personaggi da lui incontrati a Parigi sono
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scolpiti nella memoria, ché alla capitale francese deve la sua formazione,
anche se è Roma la città che ama. Anche qui Dominot incontra figure e personaggi significativi: Berenice, titolare in quegli anni della famosa rubrica
su “Paese sera” La treccia di Berenice, il Principe Odescalchi, Marguerite
Duras, Franco Enriquez, Giancarlo Nanni, Valeria Moriconi, Bruno Cirino,
Paolo Bonacelli, Manuela Kustermann. Su quest’ultima, Dominot si sofferma, mettendo in luce come quest’attrice dalla forte personalità avesse
“una forza di volontà incredibile”:
io mi dicevo “per riuscire bisogna fare così, mai lasciarsi andare”. Una volta
stavamo provando un dramma elisabettiano, dovevamo debuttare all’Olimpico di Vicenza e lei non era mai soddisfatta, provammo fino alle due del
pomeriggio dalla sera prima, poi andammo a dormire due ore, perché ci dovevamo già preparare per la prima, ma lei provava così, e alla fine era soddisfatta. E fu un trionfo, anche se il taglio imposto da Nanni fece esplodere una
forte contestazione perché nei nostri spettacoli eravamo molto trasgressivi.
Si è detto della capacità di analisi di Dominot: lo confermano le sue
affermazioni sul suo
bisogno esibizionistico, sul suo essere uomo e donna a seconda del travestimento, sulla sua volontà (…) di finalizzare tutto a un gioco erotico: però
questo gioco erotico deve essere sovrastato da quest’altro lavoro, che è
quello del trasferimento, che diventa quello più importante. Una volta che
ho conquistato la sua attenzione, mi attira anche il lavoro erotico, ma molto
meno di quanto non sia erotico quanto avviene nella preparazione, nella
volontà di sedurre.
C’è nell’esercizio della sessualità da parte di Dominot un elemento di gioco, di ulteriormente trasgressivo rispetto ai valori ufficiali; si
pensi ad esempio al sesso consumato velocemente con lo sposo il giorno stesso del suo matrimonio sul letto preparato per gli sposi. Del resto
per lui i “rapporti veloci” sono comunque legittimi, ché sono “volanti
come sogni”. Ancora una volta nel discorso di Dominot i propri comportamenti, quali che siano, sono presentati soffusi da un’atmosfera sognante che li rende sempre positivi, mai tristi o da connotare negativamente. Accanto a essi però un’altra maniera di stare assieme più attenta,
più tenera, quale spazio anche per la parola, per il colloquio: «con i miei
amici era diverso. Con quel ragazzo che si doveva prostituire con quel
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vecchio signore per mantenere la sua famiglia, si facevano tanti discorsi, e confidenze: parlavamo della nostra miseria, ci confrontavamo…».
Ma – ed è ormai una costante del discorso di Dominot – le proprie modalità
sono sempre e indiscutibilmente le migliori, meravigliose, le più autentiche. Rievocando la sua adolescenza tunisina, sottolinea:
Io (…) ero molto più come un uccello. Ero coinvolto in questo valzer arabo,
in questa maniera straordinaria di vivere i cui valori erano di un mondo
stupidamente superficiale, stupendamente poetico, ma da non prendere sul
serio oppure adatto a fare certe cose… Avevo molta voglia di uscirne fuori
ma al tempo stesso ne godevo per quel suo essere pieno di sesso, di musica,
di delizie, per quelle fughe della famiglia verso il mare, le spiagge, le ville
sontuose, con quel trenino di legno… Nei paesi europei non ho mai trovato
un mondo così autentico.
La vita, le modalità quotidiane, l’atmosfera della Tunisi degli anni della
sua adolescenza sono per lui un’esperienza indimenticabile; i valori solidaristici sono perciò esaltati come possibilità di sopravvivenza per essere
comunque comunità.
Anche la relazione di sesso e di amore – i due termini sono molto spesso per Dominot intercambiabili – sono faticosa conquista. Emblematica
la storia con David Sailer, alla quale si è precedentemente accennato, conosciuto durante una lite di Dominot con un altro omosessuale che aveva
osato usare un giudizio sprezzante su Pasolini; storia densa di incontri,
ripulse, slanci e fughe che la caratterizzano. Con David Sailer va a Napoli
e, fra l’altro, vede i femminielli; è un peccato che non abbia modo di approfondire la conoscenza di questo fenomeno che a Napoli ha una sua singolarità: l’assoluta accettazione da parte del contesto popolare che gli avrebbe ricordato la libertà che lui e gli altri adolescenti avevano conosciuto a
Tunisi; la ritualità dei loro matrimoni, del parto simulato, delle visite alla
“puerpera” e così via. A metà degli anni Settanta, assieme a Pino Simonelli,
antropologo e poeta di grande sensibilità, avviai una ricerca sui femminielli
e con lui partecipai ad alcuni lunghi festeggiamenti matrimoniali che si
protrassero dal pomeriggio per tutta la nottata successiva: vi erano ristoranti sul Vesuvio specializzati in questi festeggiamenti rituali. I risultati della
ricerca non vennero mai pubblicati, anche perché dopo qualche anno Pino
concluse la sua breve esistenza, ma ho avuto modo di soffermarmi su essa
in un volume pubblicato recentemente a Napoli proprio per onorare la me16
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moria di Pino Simonelli. In questo scritto sono partito da alcune notazioni
di Dominique Fernandez, che nella sue Promenades dans Naples (1983)
coglie acutamente un tratto della vita della città e della cultura che questa
ha elaborato attraverso una plasmazione plurisecolare.
… Sono uomini che vivono da donne: vestiti, truccati da donne. Sovente
prostitute ma non necessariamente. Ogni vicolo ha il suo femminiello, accettato dalla comunità. Vive in famiglia e attende ad occupazioni riservate tradizionalmente alle donne: cucinare, cucire, lavare la biancheria. Si
sposano tra di loro, secondo un rituale coniugale preso dal matrimonio in
chiesa; giungono persino a mimare scene di parto e di battesimo, come lo
ha raccontato Malaparte ne La pelle. Intelligente e saggio modo di regolare
la questione del terzo sesso (Fernandez, 1983).
In una versione napoletana ottocentesca de Il Barbiere di Siviglia viene
gioiosamente affermato:
Penso che per esser felice in questo mondo tutti i ragazzi dovrebbero essere
ragazze, tutte le ragazze dovrebbero essere ragazzi e non dovrebbero più
esistere né ragazzi né ragazze allo scopo di poter tutti condurre una vita
tranquilla (Cammarano, Rossini, 1818)
Secoli prima Giovanni Battista Della Porta in De Humana Physiognomonia (1586) scriveva:
Nell’isola di Sicilia sono molti effeminati. Et io ne viddi uno in Napoli di
pochi peli in barba o quasi niuno; di piccola bocca, di ciglia delicate e dritte, di occhio vergognoso, come donna; la voce debole, sottile, non poteva
soffrir molta fatica; di collo non fermo, di color bianco, che si mordeva le
labra; et insomma con corpo e gesti di femina. Volentieri stava in casa e
sempre con una faldiglia come donna attendeva alla cucina et alla conocchia; fuggiva gli omini, e conversava con le femine volentieri, e giacendo
con loro, era più femina che l’istesse femine; ragionava come femina, e si
dava l’articolo femmineo sempre: “trista me, amara me”.
I femminielli non possono essere relegati nella zona dell’omosessualità, come pure a volte è stato fatto, né equiparati familisticamente ad altre
realtà storiche e culturali, come per la condizione dei berdache, categoria
ampiamente utilizzata dagli antropologi di cultura anglosassone e ripresa
anche nella riflessione antropologica italiana.
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È che a Napoli si è dispiegato un unicum con proprie modalità, tratti rituali, norme regolatrici che sollecitano per la comprensione una molteplicità
di punti di vista, di angolazioni disciplinari; non è certamente un caso che i
femminielli napoletani abbiano attirato l’attenzione di viaggiatori stranieri, di
scrittori, di antropologi e di appartenenti ad altri settori delle scienze umane.
I femminielli rinviano alla problematica del corpo, a quella delle innumerevoli modalità di manipolazione di esso, come a quelle del mascheramento e del travestimento.
Il corpo, lo sappiamo bene, è sempre e comunque un prodotto culturale,
come ha posto in risalto una vastissima letteratura scientifica, a partire dal
celeberrimo saggio Le tecniche del corpo (1965) di Marcel Mauss, ed ancora di più l’abbigliamento.
E contrariamente a quanto sostiene un diffuso proverbio, si può legittimamente affermare che “l’abito fa il monaco”, che l’abbigliamento, cioè,
fornisca una serie di indicazioni su chi lo indossa, delineando nella figura,
il ruolo sociale, i valori che ritiene essenziali. Si ricordi, esemplificativamente, l’opulenza, lo sfarzo dell’abito aristocratico, sia quello di cerimonia
che quello della “normale quotidianità”, e analogamente, pur nell’indubbia
diversità di classe, la ricchezza dell’abito cerimoniale contadino così lontano dal misero abito di fatica dei lavoratori tradizionali della terra.
Perciò le scienze demo-etnoantropologiche hanno rivolto la loro attenzione all’universo dell’abbigliamento, com’è testimoniato, anche in questo ambito, da un’ampia letteratura scientifica; mi limiterò a ricordare, al
riguardo, l’ottima monografia antropologica di Ernesta Cerulli, Vestirsi,
spogliarsi, travestirsi (1999), da poco riedita da Sellerio.
Lo spogliarsi, il velarsi, il travestirsi sviluppano tutta la loro carica di
seduzione, come le recenti cronache politiche e giornalistiche documentano, spesso con notevole drammaticità e con finalità a volte strumentali
indubbiamente discutibili.
Il crescente successo della moda testimonia la sempre maggiore consapevolezza della centralità dell’abbigliamento.
Anche il vestire le statue della Vergine, del Cristo morto, dei Santi ha
forti valori rituali e simbolici, come ho avuto modo più volte di sottolineare in altra sede (Lombardi Satriani, 1971; Lombardi Satriani, Meligrana,
1996; Lombardi Satriani, 2000).
Connessa a tale tematica è quella delle maschere, lungamente indagata
dall’antropologia e dalla demologia: anche qui limitandomi soltanto ad alcune
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citazioni, La via delle maschere (1985) di Claude Lévi-Strauss e Le origini del
teatro italiano (1955) di Paolo Toschi. Le maschere rinviano a un universo in
cui dimensione mitica, orizzonti della classicità, piani psicopatologici si intrecciano continuamente, ponendo in risalto analogie e differenze, come hanno mostrato esemplarmente Bruno Callieri e Laura Faranda nel loro Medusa
allo specchio: maschere fra antropologia e psicopatologia (2001).
Patricia Bianchi, Mariella Miano Borruso, Gabriella D’Agostino, Annalisa Di Nuzzo, Corinne Fortier, Gianfranca Ranisio, Pino Simonelli assieme
a Gennaro Carrano, hanno scritto saggi che forniscono una serie di notazioni
critiche, oltre che un’ampia gamma di riferimenti alla letteratura etno-antropologica, storico-religiosa, psicologica e psicoanalitica, con significative
citazioni teatrali, letterarie, cinematografiche, giornalistiche e di cronaca.
È, quindi, la complessità della tematica dei femminielli a determinare
la conseguente necessità di un accostamento a essa da molteplici angoli
disciplinari, perché nessuno di essi sia tentato da pulsioni di supremazia
scientifica o di improbabile esaustività: in ciò consiste la riuscita operazione di metodo con cui Eugenio Zito, Nicola Sisci e Paolo Valerio hanno
curato la raccolta delle molteplici e diversificate voci di cui si compone il
volume di cui si è appena detto.
Risultano perciò estremamente illuminanti anche i contributi critici di
altre specializzazioni scientifiche, quali quelli della psicologia clinica e
della psicoanalisi dell’identità di genere (Eugenio Zito, Nicola Sisci, Paolo
Valerio), della psicologia (Francesca Verde) e della letteratura.
Molteplici, dunque, le sfaccettature della realtà dei femminielli. Con
essa, come ho appena accennato, ebbi l’opportunità di venire in contatto
nei primi anni Settanta, quando ottenni l’incarico di Antropologia culturale
all’Università Federico II di Napoli e iniziai con entusiasmo l’attività di
insegnamento trovando una platea di studenti reattiva e desiderosa di confrontarsi criticamente con il proprio territorio.
Ritenni in quel tempo che fosse doveroso da parte mia avviare ricerche
e riflessioni su tematiche napoletane o sulle modalità che assumevano in
Campania tratti rituali presenti anche in altre aree. Con il sostegno di studiosi che allora collaboravano con la cattedra da me tenuta – Lello Mazzacane,
Gianfranca Ranisio, Pino Simonelli – elaborai una serie di progetti di ricerca su Napoli e la Campania che portammo avanti in diverse direzioni. Tra le
altre pensai di avviare una ricerca anche sui femminielli. Ne parlai con i miei
più assidui collaboratori, tra i primi Pino Simonelli, che da tempo aveva
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focalizzato su di loro la propria attenzione. Andammo assieme e con Lello
Mazzacane a osservare dei femminielli (ne ricordo uno particolarmente attraente a Corso Vittorio Emanuele o altri in Via Marina ai piedi del Maschio
Angioino) e ci recammo più volte in alcuni ristoranti “specializzati” sul
Vesuvio, dove si celebravano i festeggiamenti in occasione dei loro “matrimoni”. Ne ricordo uno iniziato al mattino e che si sarebbe protratto per tutta
la giornata e la notte successiva, scandito dalla musica eseguita da “complessini” composti da femminielli. Lo stesso Pino mi informò che spesso al
“matrimonio” seguiva il “parto”, cerimonia nella quale uno dei due femminielli restava a letto con accanto un bambolotto o un neonato prestato loro; il
festeggiamento prevedeva che la “puerpera” ricevesse le visite del vicinato
secondo un protocollo e regali dettagliatamente codificati.
Fu Pino Simonelli, fra l’altro, a seguire nella preparazione della sua tesi
di laurea, dedicata alla Cantata dei pastori, Annibale Ruccello. Il suo lavoro,
di notevole spessore, fu pubblicato con il titolo Il Sole e la Maschera (1978)
nella collana La terra deportata, da me diretta presso l’editore Guida. Nella Cantata un personaggio è, appunto, un femminiello. Lo stesso Ruccello
rappresenterà nei suoi lavori teatrali l’amore, la solidarietà, la solitudine, la
tragicità incombente che marcano l’esistenza dei travestiti: si pensi, per tutti,
a Le cinque rose di Jennifer (1980). Certo, femminielli e travestiti sono notevolmente diversi, ma, spesso, nell’immaginario dei più sono sostanzialmente
coincidenti. Il candore e l’estrema tolleranza presenti nell’universo dei femminielli sono testimoniati, fra l’altro, dall’inserimento nel presepe napoletano
di questa figura, trasgressiva e profana, “accanto alle figure della sacralità”.
Andai anche a Montevergine in occasione del tradizionale pellegrinaggio dei femminielli, con le macchine bardate a festa, che avevo già visto a
metà degli anni Cinquanta da studente di Scienze Politiche.
Tutto ciò si concluse bruscamente perché la mia personale vicenda
accademica mi portò all’Università di Messina come titolare di cattedra,
mentre una docente incaricata aveva fatto domanda per l’insegnamento
di Antropologia Culturale al mio posto, con la conseguente interruzione
della mia attività didattica e di ricerca a Napoli. Ricordo dettagliatamente
tutto questo non per acre desiderio di rivalsa, ma perché la ricerca sui femminielli da me progettata non poté aver luogo per le impreviste difficoltà
sopraggiunte. Con i collaboratori continuai ad avere ottimi rapporti di colleganza e amicizia che ancora oggi permangono in tutta la loro saldezza,
ma l’impegno di ricerca sulle diverse modalità della cultura campana ebbe
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un’indubbia battuta di arresto. Solo in questi ultimi anni, essendo stato
sollecitato a insegnare all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, ho
ripreso un rapporto di lavoro con questo territorio, guidando di nuovo ricerche anche per tesi di laurea. Sono stato nella valle dove si celebrava il
culto di Mephite1 e ho continuato le peregrinazioni campane tra feste popolari, culti e monumenti del passato; ultima, in ordine di tempo, la ricerca sul
culto di San Gennaro, svolta con Maricla Boggio, che si è concretata nel
volume San Gennaro, viaggio nell’identità napoletana, e con un DVD che
presenta, ordinate criticamente, centinaia di immagini realizzate da Cesare
Ferzi e un filmato di due ore e mezza.
Pino Simonelli purtroppo non c’è più. Restano il ricordo di quanti fummo a lui legati da vincoli di affetto e stima, la memoria della sua dolcezza
e capacità affabulatoria. Restano i suoi scritti, i suoi racconti, le sue poesie,
le sue intuizioni su Napoli, sui femminielli.
È una realtà, questa dei femminielli, che è in trasformazione, come è
in trasformazione tutto il suo contesto sociale e culturale. Non possiamo
quindi irrigidirlo in un passato immobile, dobbiamo comprenderlo nelle
sue molteplici valenze e nelle sue nuove possibili evoluzioni.
Ritornando a Dominot, la storia con Sailer si conclude drammaticamente. Alla notizia dell’imminente matrimonio di David, Dominot si taglia le
vene e marca con il suo sangue tutti i preziosi regali giunti alla nobile coppia. Dominot scopre così istintivamente il valore simbolico del sangue che
si pone come signum vitae e signum mortis. Dichiara con il proprio sangue
l’essenzialità per la sua vita dell’amore e per David e, contemporaneamente,
esprime, anche se confusamente, il suo desiderio di negazione della coppia.
Nella mia esperienza di ricerca nel Sud d’Italia ho incontrato più volte
l’usanza di segnare con il proprio sangue l’immagine dell’altro con finalità
magiche di filtro d’amore e simili. Segno dell’università dei simboli cui
accedono persone di diversa origine e formazione. Il rapporto con David,
nonostante tante altre storie che Dominot intreccia nel tempo, si mostra
particolarmente saldo al punto che a distanza di due anni riesce a entrare in
possesso del suo indirizzo e lo raggiunge in una piccola isola greca, gli parla,
anche se ancora una volta viene scacciato dal pavido David, timoroso di
perdere, altrimenti, l’appoggio della madre e soprattutto la sua eredità.
1 La dea Mephite è una divinità italica, invocata per la fertilità. I luoghi di culto, a lei dedicati,
erano in genere caratterizzati dalla presenza delle acque. Divinità importante del pantheon sannita,
era anche collegata agli Inferi.
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Ritorna centrale nel discorso di Dominot l’esperienza del Baronato
Quattro Bellezze e del suo fare teatro: così gli incontri con Marguerite
Duras di cui ho già detto, con le poesie di Allen Ginsberg, con Annibale
Ruccello che ricordo con commozione e sul quale ritornerò tra breve.
Questa girandola di nomi di personaggi noti, o che tali diverranno
dopo, esalta Dominot che si spinge, temerariamente, in giudizi storicocritici che non si adattano certo alle sue corde. Così, dopo aver rilevato pur
giustamente “lo sciovinismo dei francesi”, passa con sovrana disinvoltura
ad affermare che questi «dagli anni Sessanta ad oggi non hanno prodotto
proprio niente a livello di grande cultura di registi, di scrittori, di attori…
Negli ultimi sessant’anni hanno avuto soltanto il periodo esistenzalista».
Nelle culture tradizionali lo sperma è considerato sangue (“sangue
bianco”) e anch’esso sul piano simbolico ha, naturalmente, le stesse valenze del sangue rosso, indiscutibilmente considerato sangue. Dominot accoglie questo sangue bianco che ovviamente non può avere nel suo caso
finalità procreative, ma segnala la sua esigenza di essere considerata nel
suo aspetto femminile, di essere desiderata per esso, di nascere donna come
se fosse realmente tale. Nella dimensione del rito il come se costituisce
la possibilità della trasmutazione del reale nel simbolico, della sostituzione della dimensione oggettiva del dato a quella soggettiva dell’agognato, dell’evocato. Nel caso di Dominot il seme maschile rende possibile la
trasformazione del dato anatomico nel possibile tratto del desiderato, del
rappresentato come se, appunto, fosse quella la “vera” realtà. Segno di vita,
dunque, lo sperma, e anche ambivalentemente segno di negazione del suo
essere maschile, di morte di una dimensione affibbiatagli dalla nascita e da
lui negata nei comportamenti, nel nome, del linguaggio.
Dopo tanta fantasmagoria, tanto luccicore e avventure, viaggi, spettacoli, incontri, marchette e soddisfacenti rapporti sessuali di ogni tipo, la vita
e le altre forme artistiche di Dominot approdano a un sentimento sereno e
costante di cui parla con commovente pudore:
l’unico [amore] che dura al di là del bene e del male è questo con Mario. Il
perché non lo so. Intanto io sono andato avanti con l’età, ne ho passate di
tutti i colori tra grossi dispiaceri, carceri, ingiustizia sociale, e così via. E poi
anche la solitudine; perché poi, alla fine, anche se stavo bene con me stesso,
in fondo ero sempre solo. Avevo bisogno di una compagnia, ma rifiutavo
sempre, non mi fidavo. Poi ho visto che questa persona era di carattere dolce, mite e poteva essere un compagno e anche lui, credo che pensasse lo
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stesso (…) e non si sa né come, né perché questo rapporto è andato avanti
per vent’anni e passa. Ha contribuito anche il lavoro e il teatro che si è fatto
insieme, complicità nella vita e nel lavoro.
E anche una maniera stupendamente disperata di voler stare assieme
con tutti i problemi che questi tipi di rapporti comportano. Però c’è la
consolazione di avere una persona vicino. Sono parole alle quali possono
essere accostate quelle finali:
ho comprato una piccola casa a Genazzano. Piccola piccola, per avere un
posto dove andare, se mai dovrò andarvi, in futuro, quando sarò vecchio. Una
sicurezza per poter dire che ho un posto dove andare anche se non ci andrò
mai. E mi sembra concludano bene la vita raccontata da Dominot attraverso tante violenze e tante società, tante tenerezze e incontri tra esseri umani
protesi a conoscersi, a riconoscersi, a resistere insieme nella vita, per la vita.
Soffuso da un’aura favolosa, anche se episodio realistico, è l’incontro con
lo Scià di Persia nel suo splendido Palazzo.
Quando siamo entrati in questa villa stupenda, sulla montagna, lo Scià non
c’era; è arrivato qualche tempo dopo e ci siamo incontrati in un salone
immenso, decorato, bellissimo. Era vestito semplice, in camicia e pantaloni. Noi ci siamo cambiate e abbiamo ballato Cajkovskij. Lui era tutto
contento: “ah avete studiato danza!…”, e voleva sapere di Parigi, di Saint
Germain dei locali notturni, dei cantanti e dei filosofi, lui c’era stato da
giovane. Poi l’ambasciatore se n’è andato e siamo rimasti soli noi tre. Lui
piano piano si è spogliato ed è successo qualcosa. La cosa straordinaria
per quei tempi, che non se ne parlava neanche di queste cose, era che lui
ha voluto fare l’amore con il profilattico; ha fatto l’amore con Lena, con
me presente, dopo che io con lei avevo fatto un po’ flirt, lui sapeva che io
ero un travestito, perché glielo aveva detto l’ambasciatore che era andato
a spulciare nei registri dell’albergo.
Allo Scià la cosa lo erotizzava, evidentemente. Dove ancora una volta
la regalità si presenta come potere assoluto, capriccio che prescinde dai
sentimenti dell’altro, assoluta autoreferenzialità. Lo Scià gode ulteriormente nel farsi vedere nel suo godere nel corpo di Lena che pure è l’unica
donna amata da Dominot, ma questo allo Scià né interessa, né può interessare. Il tutto viene ricompensato da due monete d’oro, come se ogni cosa
potesse essere comprata.
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Dopo ci ha dato due grandi monete, uguali, una per ciscuno. Ci ha fatto
accompagnare dall’autista fino all’albergo e noi non l’abbiamo più rivisto.
Con l’ambasciatore mi sono ancora visto qualche volta, e abbiamo parlato
dell’incontro con lo Scià “è stato carino” ho detto io. «Eh ma lui è ancora
innamorato di Soraya… ha detto lui».
Episodio in cui emerge anche la passione per la danza di Dominot, che
anche attraverso questa forma realizza la sua vocazione per l’arte, la sua
inesausta passione per lo spettacolo.
Dominot ha rapporti con omosessuali, con eterosessuali, con lesbiche, con donne (anche se con una sola, Lena, appunto); si prostituisce
nei bordelli e per strada, dall’infanzia ai primi viaggi in Europa: non è in
senso tecnico una prostituta, è un travesti, ma alla sua vicenda possono
essere riferite le osservazioni sviluppatesi in ambito antropologico sulla
migrazione per lavoro sessuale che «non sono comprensibili all’interno
di un’unica teoria che ne spieghi dinamiche e funzionamenti, ma, al contrario, risulta fondamentale l’analisi dei fattori di spinta e di attrazione
sia economici che socioculturali, le reti transnazionali, le progettualità
familiari e i desideri individuali, così come si combinano di volta in
volta nel plasmare concretamente le diverse traiettorie biografico-migratorie dei singoli».
Ancora, «i cambiamenti macro-economici e politici globali influenzano
in modo rilevante le migrazioni per lavoro sessuale alimentando forme di
diseguaglianza sociale che diventano fattori di spinta all’emigrazione. Ne
sono esempio i processi di femminilizzazione della povertà che innescano
un aumento della pressione psicosociale ed economica sulle donne, per la
responsabilità di cui sono investite nel mantenimento della famiglia d’origine» (Riccio, a cura di, 2014).
Così Chimenti
nella sua ricerca sui sex workers in Club mette in luce come la scelta di
migrare per lavorare nel mercato della prostituzione si configuri come una
pratica liminale, che favorisce un processo di empowerment individuale
tramite l’ottenimento degli obiettivi prefigurati all’inizio del progetto migratorio, ma con costi psico-fisici elevati che inducono un logoramento
sul lungo periodo. Per le sex workers principalmente provenienti dai paesi
dell’Europa orientale, la ricerca di lavoro negli “champagne bar” elvetici è una scelta razionale intrapresa all’interno di un ristretto ventaglio di
possibilità in cui il senso di costruzione o l’inganno appaiono assenti. Al
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contrario, la motivazione più frequentemente emersa nel corso della ricerca
è il desiderio d’indipendenza, la volontà di guadagnare il più possibile nel
minor tempo possibile e di aiutare la famiglia rimasta nel paese di emigrazione (Chimenti, 2009).
Dominot che si prostituisce pratica comunque una sessualità si può dire
ininterrotta e dopo i primi anni attraverso la modalità per lui essenziale del
travestimento, come scelta personale, prioritaria e, a suo modo, di libertà.
L’antropologa Laura Maria Augustin nella sua ricerca a Madrid, tra le emigranti che svolgono lavoro sessuale (le ricerche sono state condotte anche
al confine tra Usa e Mexico, Cuba, Santo Domingo, America centrale) mostra come questa attività possa essere considerata una scelta preferenziale
data la differenza di remunerazione rispetto ad altre opzioni professionali
disponibili per le donne migranti, spesso con rapporti di lavoro informali,
precari e non regolarizzati come assistente agli anziani colf o baby sitter
(Agustín, 2007). Ad analoghe conclusioni giungono altre ricerche, quale
quella tra le prostitute nigeriane di Cole e Booth dove si «sostiene un’interpretazione come un’attività dagli alti costi psico-sociali che intrapresa
per un periodo limitato, solitamente pochi anni, all’interno di un progetto
migratorio più ampio, il cui mandato è quello di migliorare non solo la condizione di vita individuale ma anche si sostenere il più possibile la rete familiare rimasta in Nigeria». Naturalmente le diverse forme di prostituzione
di migranti dai diversi paesi hanno specifiche modalità non riconducibili se
non arbitrariamente, ad un’unica cifra. Eppure, le notevoli differenze non
riescono a occultare i diversi aspetti analoghi o, più in generale, la funzione
culturale da essi svolta.
Secondo Donnan e Magowan «le migrazioni per lavoro sessuale possono considerarsi come sex scape ovvero panorami sessuali globali». Mutuando il concetto di scape di Appadurai la definzione di sex scape configura flussi di persone dalla migrazione per lavoro sessuale al turismo
sessuale, determinati dalla disponibilità della compravendita di servizi sessuali tra soggetti, dove quelli che offrono tali servizi provengono da contesti segnati da squilibri socio-economici. I cosiddetti sex scape sono il frutto
di processi globali che influenzano progetti individuali, azioni istituzionali,
flussi migratori, rappresentazioni eroticizzate dell’alterità.
Dominot è un travesti: lo dichiara più volte nei suoi colloqui, esalta
il travestimento come forma di arte e mezzo per eccitarsi ed erotizzare i
rapporti sessuali, ché questo, appunto, agevola il continuo passaggio dalla
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dimensione maschile (dato biologico) a quello femminile (tratto culturale
agognato e meta del suo ininterrotto viaggio all’altra identità). Naturalmente diverso il fenomeno delle trans, eppure esso presenta alcuni aspetti
simili alla vicenda, comunque singolare, di Dominot.
A livello antropologico, ad esempio, Pegna nella sua ricerca tra le transessuali brasiliane in Versilia pone in risalto come
il miglioramento della condizione economica e l’allontanamento da un
contesto violento e discriminatorio costituiscano la motivazione principale
del progetto migratorio. I costi e i rischi legati a questo tipo di migrazione
sono minimizzati dall’esistenza di facilitatori, siano essi una rete sociale,
una catena o una singola prostituta che dall’Italia chiama la nuova “recluta”
che pagherà i servizi di cui usufruisce per arrivare e insediarsi nel mercato
italiano. Tale organizzazione della rete migratoria non cancella la grande
precarietà nella quale queste migranti si trovano ad operare, a causa della
frequente condizione di illegalità del tipo di mercato del lavoro nel quale
sono inserite e dell’isolamento sociale dovuto alla loro condizione di transessuali, prostitute e immigrate irregolari.
L’itinerario di Dominot paragonato a quello delle figure qui richiamate
si svolge, certo, nel segno di una maggiore autonomia, di una conquistata,
pur se a fatica, libertà di scelta, di luoghi e di persone. Eppure nonostante le
innegabili differenze la sua voce che fluisce nel discorso a Maricla Boggio e
quelle di tante transessuali immigrate in Italia sono drammaticamente simili.
Il ruolo dispregiativo di viado o bixa termini brasiliani dispregiativi e gergali per identificare transessuali e omosessuali che disonorano la famiglia
può lasciare il posto a quello del figlio che ha avuto un successo economico da condividere con i suoi familiari come il “migrante di successo”
che aiuta la famiglia. È proprio il riconoscimento di un legame affettivo
“normale” che viene ricercato dalle trans che aiutano le loro famiglie anche
quando queste le hanno espulse e sono state motivo di sofferenza (Salsi,
Prostituzioni, in Riccio op. cit.).
Dilma in una intervista rilasciata quattro anni fa a Reggio Emilia confessa: «ho dovuto comprare la famiglia, ho dovuto comprare il loro affetto
e questa cosa mi ha dato molto fastidio, io tutte le volte dovevo fare la
spesa per loro, pagare una festa. Lo facevo perché loro mi accettassero, io
volevo che loro mi accettassero. Facevo tutto perché loro mi volessero lì
con loro, i soldi che davo a mia madre… i soldi che davo a mia sorella…».
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Itinerari esistenziali diversi, certo, eppure tutti segnati, come quelli di
Dominot, dall’affetto, di calore umano, di riconoscimento. Ancora una volta viaggio faticoso e spesso drammatico verso un’identità, da conquistare
per restare aggrappata a essa e avere così un punto di riferimento nel fluire
vorticoso dei giorni.
Forme di trasgressioni spettacolari tra ubriachezza parole snocciolate
comunque, poesie ostentate, messe in scena come suprema forma di libertà
vengono rievocate da Dominot come quando ricorda la serata dei poeti al
teatro di Villa Borghese. Dominot ricorda come Ulisse Benedetti avrebbe
dovuto pagare Alfredo Cohen e lui stesso per le loro esibizioni, in quanto
era stato lui a gestire lo spazio delle loro performance
(…) e invece niente. E dopo un tre anni da questa cosa, una sera viene all’osteria da me Alfredo Cohen: era vestito da donna, senza parrucca, scalzo
con un vestito lungo, decolleté; era ubriaco parecchio e mi fa: “andiamo,
andiamo al Teatro di villa Borghese che c’è la serata dai poeti…?”. Io avevo
molto lavoro, era di venerdì… “Ma che sei matto?”. Ma lui insisteva e mi
ha convinto. Allora mi dice: “io vado a casa e finisco di truccarmi, truccati
pure tu…”. Alfredo in quel periodo aveva lasciato di insegnare alla scuole
medie – era professore di italiano – e faceva degli spettacoli “En travesti”;
uno si chiamava “Mezzafemmena” e un altro “Zi Camilla”, erano sempre in
uno strano linguaggio di abruzzese reinventato, dove lui tirava fuori storie
di famiglia, completamente stravolte, in cui emergeva la sua disperazione
di diverso… e quella sera lui mi fa: “è il Festival dei Poeti, ma chi è più
poeta di noi?”. Vado a casa, mi metto tutto stravagante, la parrucca tutta di
traverso, un velo rosso grandissimo davanti alla faccia e un vestito rosso;
poi ho ficcato un pezzo di pane e una bottiglia di vino in una borsa e ci
ho messo pure duecentomila lire perché non si sa mai, potrebbe succedere
qualcosa. Intanto aspetto. Alfredo non tornava, al telefono non rispondeva,
forse gli avevano tagliato ancora i fili. Allora chiamo Jaja, il mio amico
Riccardo, che faceva il costumista all’Opera. Gli dico: “accompagnami, c’è
una serata per i poeti e io ci devo andare”. Arriva Jaja con la macchina, io
scendo da casa già ubriaco morto e vado al bar della Pace che era pieno così.
Mi guardavano tutti, meno male che sulla faccia avevo il velo e chiedo di
Alfredo. Era già andato via, ero ubriaco e scalzo. Con Jaja andiamo a Villa
Borghese. Una volta lì vado dalla parte delle quinte dove una volta c’era un
poeta francese che recitava, mentre Rossella traduceva. A un certo momento
da dietro le quinte – conoscevo i ragazzi – dico: “Sentite, devo andare in
scena”. “Ma come? A me non hanno detto niente …”. “E le luci?”, “a me
non hanno detto niente di luci”.“Ma a me che me ne frega”, “entra se devi
entrare…”. Jaja rimane in quinta e io come una matta attraverso di corsa la
scena, tutta vestita di rosso, salgo i gradini e mi metto su, in alto. C’era tutto
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un mormorio… Io nella mia follia pensavo che Alfredo fosse in sala, e mi
metto a gridare; “Alfredooo! … Alfredooo! …”. E tutti a ridere, pensavano
che fosse una performance, che facesse parte dello spettacolo. Io intanto mi
mangiavo un po’ di pane e mi bevevo un po’ di vino, Jaja a un certo punto
pensa di dovermi dare una mano e cosa fa? Piega il pullover e attraversa la
scena con le tette da fuori. Il poeta allora dice: “ma cosa c’è? C’è lo spettacolo?”. E io: “shh… non si parla, non si parla… Siamo alla poesia”. A
quel punto Rossella chiama Ulisse. Il poeta riprende di nuovo a recitare e io
“Alfredooo!…”. Il poeta: “Basta! Io devo finire di recitare il mio pezzo!”.
Allora io piglio e scendo, vado in proscenio e dico: “basta con la poesia!
Guardatemi, io sono la poesia! Anzi devo fare un comunicato, io sono molto
povera, non ho soldi, sono una poetessa siciliana…”. Ho inventato tutta una
cosa, “Però adesso batto, sto lì dentro a battere, perché non ho neanche una
lira e sapete perché?”. E tutti: “Perché?” e io: “perché Ulisse Benedetti mi
deve dei soldi, io sono Dominot? Lo avete capito? I soldi che gli dà Nicolini
dove vanno a finire! Noi non siamo stati pagati e voi fate le serate con i
poeti?! E noi che siamo?”. A un certo momento una donna mi dice: “Adesso
basta”. Scendo giù fino a dove stava la gente, gli butto addosso la busta e
ho gridato: “A me basta? Paracula!”. C’erano delle cineprese, io credevo
fossero di Ulisse, quelli stavano riprendendo tutto. “Anche questi soldi…
gli ultimi soldi che ho fatto stasera… non voglio perderli…” e cercavo di riprendermi la busta in mezzo alle gambe della gente. Un casino! Alla fine ho
ripreso i miei soldi, sono risalito sul palcoscenico, “Jaja vieni!… Salutiamo
il pubblico”. Abbiamo salutato e poi siamo scappati nelle quinte come se
si trattasse ancora dello spettacolo. Ulisse aveva paura che io fossi armata,
che volessi sparargli, noi invece avevamo paura che loro ci venissero dietro.
Dunque scalzi, con le scarpe in borsa, siamo salite sulla macchina e ce ne
siamo andate. Alfredo s’era addormentato, l’ho saputo poi. Il giorno dopo la
gente all’osteria: “ma che cosa è successo? Al telegiornale, dieci minuti tutti
su di te… è finito pure in ritardo”. E ha detto lo speaker: “guardate che cosa
succede in una serata di poeti…”. E c’era tutta la mia tiritera. E pare che alla
fine il giornalista abbia detto: “Questo era il grande mimo Dominot”. Poi
qualcuno ha detto che erano stati i socialisti che avevano manipolato la cosa,
per andare contro Nicolini e i comunisti, e Ulisse ha creduto che io avessi
preso dei soldi per fare quel casino. Io invece non ho avuto niente, neanche
quei denari che mi erano dovuti per lo spettacolo di tre anni prima.
Stravaganze e follie di una serata d’estate lontana nel tempo, ma che
di quel tempo restituisce il sapore e la sensazione che tanti – intellettuali,
studiosi, poeti – pensavamo che tutto fosse possibile e che la vita potesse
essere se non un pranzo di gala, come non lo era la rivoluzione, una festa
comunque, che tutto poteva essere possibile, sol che lo si volesse, con passione e progetto.
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