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WINTER SCHOOL Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze Pacengo di Lazise (VR), 14-16 novembre 2013 Hotel I Parchi del Garda Syllabus Indice La pandemia del diabete: mito o realtà Enzo Bonora pag. 4 Nuovi approcci terapeutici del diabete tipo 2: analisi critica Stefano Del Prato pag. 8 Tecniche di presentazione Francesco Muzzarelli pag. 18 Diagnosi del diabete e degli stati di alterata regolazione glucidica: glicemia a digiuno, post-prandiale, HbA1c o tutti insieme? Annalisa Natalicchio pag. 22 La diagnosi di diabete in situazioni particolari Frida Leonetti, Federica Coccia, Danila Capoccia pag. 28 Come impostare il cambiamento dello stile di vita Giovanni Annuzzi pag. 38 Come scegliere la terapia farmacologica: un approccio “EVIDENCE BASED” Gianluca Perseghin pag. 44 Terapia insulinica nel diabete tipo 2: come e quando Raffaella Buzzetti, Gaetano Leto, Chiara Moretti pag. 52 Diagnosi e trattamento della neuropatia diabetica Vincenza Spallone pag. 56 Diagnosi e Trattamento della Nefropatia Diabetica Giuseppe Penno pag. 67 Complicanze macrovascolari: epidemiologia e clinica Saula Vigili de Kreutzenberg pag. 83 Ipertensione nel diabete: come trattarla? Simona Frontoni pag. 90 Dislipidemia nel diabete: come trattarla? Marco Giorgio Baroni pag. 93 3 WINTER SCHOOL La pandemia del diabete: mito o realtà Enzo Bonora Endocrinologia, Diabetologia e Metabolismo, Università e Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona Il diabete è sempre più diffuso nel mondo e anche il Italia. L’ultima rilevazione dell’ISTAT, peraltro basata su quanto dichiarano i cittadini e non su rilevazioni sul campo, è del 2011 e ha portato a definire una prevalenza del 4.9% (figura 1). Fig. 3 - Il diabete noto in Italia (1986-1988) Casale Monferrato (TO) – 2.2% Pisa – 2.6% Verona – 2.6% Cremona – 3.2% Foligno (PG) – 3.2% Fig. 1 - Prevalenza del diabete in Italia secondo i dati ISTAT Bari – 2.8% 8 ~7.0%? 6 4.9% 3.6% % 4 2.6% 2 12 anni 0 Pozzuoli (NA) – 2.5% 1988 11 anni 2000 14 anni 2011 2025 Il dato è verosimilmente inferiore alla realtà per la tendenza a non rendere troppo esplicite le proprie condizioni di salute nei questionari autocompilati o nelle interviste telefoniche. Da notare che i dati raccolti nel 2009 sui propri assistiti dai medici di medicina generale che contribuiscono al progetto Health Search hanno portato a definire una prevalenza del 6.6% (figura 2). Fig. 2 - Prevalenza del diabete in Italia secondo i dati dei MMG (VI Report Health Search) non sono stati più condotti molti studi epidemiologici sulla popolazione generale di tutte le età. Gli studi di Cremona e di Brunico, peraltro dei primi anni novanta, sono stati condotti anche con OGTT su campioni di ultraquarantenni e sono stati utili soprattutto per comprendere la proporzione di diabete misconosciuto rispetto a quello noto (in media circa 1 caso ignoto ogni 2 noti) (figura 4). Fig. 4 - Prevalenza del diabete in Italia nel 1990 Studi con OGTT Cremona Study Campione random (n=1797) Età 45+ Participazione 58% Rapporto noto/ignoto 2.6 Prevalenza 10.7% Bruneck Study Campione random (n=919) Età 40-79 Participazione 91.9% Rapporto noto/ignoto 1.15 Prevalenza 5.7% 8 6.2% 6.6% 5.7% 6 Prevalenza aggiustata per la struttura della popolazione 4.8% % 4 2 0 2003 2005 2007 2009 Età > 15 anni; medici 500-1000; soggetti circa 1,2 milioni; diabetici circa 70 mila Tale dato, invece, è verosimilmente in eccesso in quanto non comprende i soggetti in età pediatrica (<15 anni), in cui il diabete è assai poco presente. Dopo la notevole quantità di osservazioni epidemiologiche fatte negli anni ottanta in varie città italiane e che hanno definito che la prevalenza del diabete, identificato con varie fonti di rilevazione, era a quell’epoca pari a circa il 2.8% (figura 3), 4 Criteri WHO 1985 Uno studio condotto a Torino nel 2003 da Graziella Bruno e che ha utilizzato più fonti di rilevazione come gli studi degli anni ottanta ha mostrato una prevalenza del 4.9%, a testimoniare come i dati ISTAT del 2011 fossero inferiori alla realtà. Il dato più recente a disposizione è quello dell’Osservatorio ARNO Diabete, basato su informazioni riguardanti i flussi dei ricoveri (SDO con diagnosi di diabete) e delle prescrizioni dei farmaci antidiabetici nel 2012 e le esenzioni per diabete presenti nello stesso anno in circa 40 ULSS sparse sul territorio nazionale e sulle quali insistevano oltre 11 milioni di cittadini. Tali informazioni hanno permesso di identificare circa 680 mila diabetici con una prevalenza Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze del 6.2% (figura 5). Fig. 7 - Diabete noto e ignoto in Italia sono molto comuni (circa 1 persona su 12) Fig. 5 - Prevalenza del diabete in Italia Osservatorio ARNO Diabete 2012 (CINECA-SID) Popolazione generale n = 11.130.806 Diabete noto ~ 3.700.000 Diabete ignoto ~ 1.300.000 TOTALE ~ 5.000.000 Popolazione con diabete n = 688.136 Prevalenza = 6,2% (5,2% farmaco trattato) Tale dato è una stima prudente in quanto non include i casi in cui non vi era prescrizione di farmaci antidiabetici o in cui gli stessi erano acquisiti al di fuori delle ricettazioni SSN, non include i ricoveri in cui il diabete non era indicato nella SDO e non include i soggetti in cui non era mai stata attivata un’esenzione per patologia. In ogni caso si tratta di una massa enorme di persone con diabete, tale da giustificare l’uso del termine pandemia, che è in continuo aumento dal 1986. Infatti, in circa 25 anni il numero dei diabetici che vivono in Italia è più che raddoppiato: quando in Italia vivevano circa 56,5 milioni di persone un diabete noto era presente in circa 1,6 milioni di essi ed ora che gli abitanti dell’Italia sono circa 60,5 milioni i casi sono circa 3,7 milioni (figura 6). Fig. 6 - Casi di diabete noto in Italia: un grande aumento in 25 anni 1986 ~ 1.600.000 2012 ~ 3.750.000 osservazioni dello studio di Brunico nel periodo 1990-2000 e alle osservazioni fatte a Torino sui casi di diabete in età più giovanile, è di circa 250 mila nuovi casi di diabete tipo 2 per anno e di 2500 nuovi casi di diabete tipo 1 per anno (figura 8). Fig. 8 - Incidenza del diabete in Italia Tipo 1: ~2.500 nuovi casi per anno Tipo 2: ~250.000 nuovi casi per anno Fonti per le stime: Studio di Brunico per il diabete tipo 2 Studio di Torino per il diabete tipo 1 La stima basata sul cambiamento della prevalenza nel corso degli anni, assumendo che continui un aumento quasi lineare della malattia, è che nel 2025 la prevalenza dei casi noti sia circa 8.5% (figura 9). Fig. 9 - Prevalenza futura del diabete in Italia in base a studi osservazionali 12 Aumento + 235% 9 Verona Diabetes Study Turin Study ARNO Diabete ~8.5%(?) Se poi si considerano i casi di diabete misconosciuto, che si ritiene ammontino ancora oggi ad 1 ogni 2-3 casi di diabete noto, si può stimare che la prevalenza del diabete in Italia sia in questo momento pari all’8-9%. I cittadini con diabete in Italia, noti e non noti, sarebbero quindi circa 5 milioni (figura 7). La stima è che il numero aumenti ancora nei prossimi 10-15 anni, così come previsto in tutto il mondo. L’incidenza del diabete, calcolata in base alle % 6.2% 6 3 4.9% 2.6% 17 anni 0 1986 13 anni 9 anni 2003 2012 2025 Dei casi di diabete noto non meno del 90% sono di diabete tipo 2, mentre gli altri casi si dividono in parti quasi uguali fra il diabete tipo 1 e gli altri tipi di diabete, incluso il LADA (figura 10). 5 WINTER SCHOOL Fig. 13 – La polifarmacia nel diabete Fig. 10 - Diabete noto: prevale il tipo 2 ARNO Diabete 2012 Percento di pazienti che hanno avuto una prescrizione nel 2012 (differenza rispetto ai controlli) Categorie di farmaci Diabete tipo 2 (~90%) Diabete tipo 1 (~5%) ~ 3.330.000 ~ 185.000 ~ 185.000 Altri tipi (~5%) ~ 3.700.000 TOTALE Da notare che circa il 65% dei casi di diabete si colloca nella fascia di età dai 65 anni in su (figura 11), Antiipertensivi e altri farmaci del sistema CV 72 (+43%) Antibiotici 51 (+20%) Antiacidi ed antiulcera 47 (+34%) Ipolipidemizzanti 46 (+136%) Antiaggreganti piastrinici 40 (+93%) Antiinfiammatori 36 (+22%) Farmaci del sistema nervoso 22 (+43%) Antiasmatici 18 (+23%) Antitrombotici 14 (+46%) Cortisonici 12 (-9%) Antigottosi 10 (+120%) Terapia tiroidea 9 (+5%) Antimicrobici intestinali 8 (+30%) Antiglaucoma 7 (+60%) Altri 42 (+22%) Fig. 14 - Prestazioni specialistiche nei diabetici ARNO Diabete 2012 Fig. 11 - Diabete: distribuzione in classi di età • <35 anni 2.8% • 35-49 anni 7.8% • 50-64 anni 25.0% • 65-79 anni 43.3% • > 80 anni 21.1% 100 Soggetti con almeno una prestazione specialistica rimborsata SSN (%) ARNO Diabete 2012 9 (+48%) Ipertrofia prostatica benigna 87.7% 75.8% Numero medio di prestazioni per anno 32.6 75 50 Numero medio di prestazioni per anno 18.7 25 0 No diabete Diabete Età media 67 anni Fig. 12 – La polifarmacia nel diabete ARNO Diabete 2012 Soggetti con almeno una prescrizione di un farmaco rimborsato SSN (%) 6 Numero medio di confezioni per anno 68.3 81% 75 Numero medio di confezioni per anno 32.4 25 0 ARNO Diabete 2012 20 15 10 5 0 21.4% Tassi per mille 172.5 Numero medio di ricoveri nei ricoverati 1.4 Tassi per mille 332.8 Numero medio di ricoveri nei ricoverati 1.6 12.7% DRG medio per ricoverato € 5267 DRG medio per ricoverato € 6361 Ordinario 69% DH 31% Ordinario 72% DH 28% Degenza media 9.0 giorni Degenza media 10.7 giorni No diabete Diabete 93% 100 50 Fig. 15 – Ospedalizzazioni nei diabetici Soggetti con almeno una ospedalizzazione nell’anno (%) il che contribuisce a consolidare il concetto che la malattia prediliga l’età anziana e senile e che, quindi, interessi spesso soggetti fragili che meritano un’attenzione particolare nelle scelte terapeutiche. Una fragilità che è legata alla comorbidità (probabilmente da considerare in molti casi una complicanza della malattia), ben testimoniata dal fatto che il 93% dei soggetti con diabete assume un farmaco e, spesso, più di uno (figura 12 e figura 13) e richieda numerose prestazioni specialistiche (figura 14). I diabetici sono anche ricoverati più spesso dei non diabetici e hanno ricoveri più lunghi e più costosi (figura 15). No diabete Diabete Da sottolineare che i ricoveri nei diabetici sono aumentati per gran parte delle patologie, anche se le malattie cardiovascolari rappresentano la causa più frequente essendo complessivamente circa il 20% delle cause di ricovero (figura 16). Nel complesso il costo dell’assistenza di una persona con diabete è circa doppio rispetto al costo annuale di una persona senza il diabete (figura 17). Tale spesa, tuttavia, è largamente sottostimata perché basata sulle tariffe dei ricoveri (DRG) e delle Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze Fig. 16 – Prime 10 cause di ricovero nei diabetici ARNO Diabete 2012 Tassi per 1000 diabetici Tassi per 1000 non diabetici Differenza rispetto ai non diabetici (%) Insufficienza cardiaca 15.7 4.3 +263 Altre malattie del polmone 9.3 2.6 +259 Infarto del miocardio 7.3 2.7 +172 Altre forme di cardiopatia ischemica 6.1 1.9 +213 Causa principale sulla SDO Aritmie cardiache 5.8 3.3 +75 Fratture collo femore 5.0 3.4 +47 Artrosi 5.0 4.6 +8 Occlusione arterie cerebrali 4.7 1.8 +169 Colelitiasi 4.4 3.3 +31 Broncopolmonite 4.0 1.5 +170 Circa 5 diabetici su 100 in un anno si ricoverano per CVD; circa 20 ricoveri su 100 sono per CVD Fig. 17 – Il costo del diabete in Italia ARNO Diabete 2012 Spesamedia/anno Con diabete Totalefarmaceutica+ricoveri+ specialistica Farmaceutica dicuiperantidiabetici(%) Ricoveri 1.262€ 99% 770€ 351€ 119% 178€ 377€ 670€ 241€ rolo F., Bona G., Perino A., Rabbone I., Cavallo-Perin P., Cerutti F. and Piedmont Study Group for Diabetes Epidemiology. The incidence of type 1 diabetes is increasing in both children and young adults in Northern Italy: 1984-2004 temporal trends. Diabetologia. 2009; 52: 2531-2535. • Il diabete in Italia. Bruno G. e Società Italiana di Diabetologia (ed.). Minerva Medica, Torino, 2012. • Il diabete in Italia secondo l’Istat. http://www.istat.it/ it/archivio/71090 • VI Report Health Search. Società Italiana di Medicina Generale (ed.), 2010. • Rapporto ARNO Diabete 2012, CINECA-Società Italiana di Diabetologia, 2013 (in preparazione) ℅Casivs Controlli 2.511€ 1.364€ Specialistica Senza diabete • Bruno G., Novelli G., Panero F., Perotto M., Monaste- 104% 57% Spesa farmaceutica per ogni persona che riceve farmaci = € 831 di cui € 211 (23%) per farmaci antidiabetici (quindi ¾ della spesa farmaceutica è per altri farmaci) DRG medio per ogni ricoverato = € 6361 (e per ogni ricovero € 3976) prestazioni specialistiche (tariffari regionali) e non sui costi reali, molto più alti. Nel complesso il costo reale del diabete per il solo SSN in Italia raggiunge i 12 miliardi di euro per anno. Bibliografia essenziale • Garancini M.P., Calori G., Ruotolo G., Manara E., Izzo A., Ebbli E., Bozzetti A.M., Boari L., Lazzari P., Gallus G. Prevalence of NIDDM and impaired glucose tolerance in Italy: an OGTT-based population study. Diabetologia 1995; 38:306-313. • Muggeo M., Verlato G., Bonora E., Bressan G., Girotto S., Corbellini M., Gemma M.L., Moghetti P., Zenere M., Cacciatori V., Zoppini G., De Marco R. Verona Diabetes Study. A population-based survey on known diabetes mellitus prevalence and 5-yr allcause mortality. Diabetologia 1995; 38:318-325 • Il diabete in Italia. Vaccaro O., Bonora E., Bruno G., Garancini M.P., Muntoni S. (eds). Kurtis Editrice, Milano, 1996. • Il diabete mellito. Guida pratica alla diagnosi e al trattamento. Società Italiana di Diabetologia. Kurtis Editrice, Milano, 1997. • Bonora E., Kiechl S., Willeit J., Oberhollenzer F., Egger G., Meigs J.B., Bonadonna R.C., Muggeo M. Population-based incidence rates and risk factors for type 2 diabetes in Caucasians. The Bruneck Study. Diabetes 2004; 53:1782-1789. 7 WINTER SCHOOL Nuovi approcci terapeutici del diabete tipo 2: analisi critica Stefano Del Prato Department of Clinical and Experimental Medicine Section of Metabolic Diseases and Diabetes D I A B E T E S C A R E E X P E R T F Ospedale Cisanello, Pisa O R U M Personalized Management of Hyperglycemia in Type 2 Diabetes Reflections from a Diabetes Care Editors’ Expert Forum ITAMAR RAZ, MD1 MATTHEW C. RIDDLE, MD2 JULIO ROSENSTOCK, MD3 JOHN B. BUSE, MD, PHD4 SILVIO E. INZUCCHI, MD5 PHILIP D. HOME, DM, DPHIL6 STEFANO DEL PRATO, MD7 ELE FERRANNINI, MD8 JULIANA C.N. CHAN, MD9 LAWRENCE A. LEITER, MD10 DEREK LEROITH, MD, PHD11 RALPH DEFRONZO, MD12 WILLIAM T. CEFALU, MD13 In June 2012, 13 thought leaders convened in a Diabetes Care Editors’ Expert Forum to discuss the concept of personalized medicine in the wake of a recently published American Diabetes Association/European Association for the Study of Diabetes position statement calling for a patient-centered approach to hyperglycemia management in type 2 diabetes. This article, an outgrowth of that forum, offers a clinical translation of the underlying issues that need to be considered for effectively personalizing diabetes care. The medical management of type 2 diabetes has become increasingly complex, and its complications remain a great burden to individual patients and the larger society. The burgeoning armamentarium of pharmacological agents for hyperglycemia management should aid clinicians in providing early treatment to delay or prevent these complications. However, trial evidence is limited for the optimal use of these agents, especially in dual or triple combinations. In the distant future, genotyping and testing for metabolomic markers may help us to better phenotype patients and predict their responses to antihyperglycemic drugs. For now, a personalized (“n of 1”) approach in which drugs are tested in a trial-and-error manner in each patient may be the most practical strategy for achieving therapeutic targets. Patient-centered care and standardized algorithmic management are conflicting approaches, but they can be made more compatible by recognizing instances in which personalized A1C targets are warranted and clinical circumstances that may call for comanagement by primary care and specialty clinicians. Diabetes Care 36:1779–1788, 2013 I n April 2012, the American Diabetes Association (ADA) and the European Association for the Study of Diabetes (EASD) published a joint position statement titled “Management of Hyperglycemia in Type 2 Diabetes: A Patient- Centered Approach” (1). It was an important update to earlier guidelines (2–8), providing a thorough examination of the ever-more-complex therapeutic options for glycemic management, the benefits and risks of tight glycemic control, the c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c From the 1Diabetes Unit, Department of Internal Medicine, Hadassah Hebrew University Hospital, Jerusalem, Israel; the 2Oregon Health and Science University, Portland, Oregon; the 3Dallas Diabetes and Endocrine Center at Medical City and University of Texas Southwestern Medical Center, Dallas, Texas; the 4University of North Carolina School of Medicine, Chapel Hill, North Carolina; the 5Yale University School of Medicine and Yale-New Haven Hospital, New Haven, Connecticut; 6Newcastle University, Newcastle upon Tyne, U.K.; the 7Department of Clinical and Experimental Medicine, University of Pisa School of Medicine, Pisa, Italy; the 8Department of Internal Medicine, University of Pisa School of Medicine, Pisa, Italy; the 9Department of Medicine and Therapeutics, Hong Kong Institute of Diabetes and Obesity and Li Ka Shing Institute of Health Sciences, Chinese University of Hong Kong, Prince of Wales Hospital, China; 10 Keenan Research Centre in the Li Ka Shing Knowledge Institute of St. Michael’s Hospital, and Departments of Medicine and Nutritional Sciences, University of Toronto, Toronto, Canada; the 11Mount Sinai Medical School, New York, New York, and Rambam Technion Hospital, Haifa, Israel; the 12University of Texas Health Science Center, San Antonio, Texas; and the 13Pennington Biomedical Research Center, Louisiana State University System, Baton Rouge, Louisiana. Corresponding author: William T. Cefalu, [email protected]. DOI: 10.2337/dc13-0512 A slide set summarizing this article is available online. © 2013 by the American Diabetes Association. Readers may use this article as long as the work is properly cited, the use is educational and not for profit, and the work is not altered. See http://creativecommons.org/ licenses/by-nc-nd/3.0/ for details. 8 care.diabetesjournals.org efficacy and safety evidence for new drug classes, and the data supporting withdrawals of or restrictions on other agents. Furthermore, it placed great emphasis on patient-centered and personalized care. These recommendations captured the attention of the Diabetes Care editorial team. On the one hand, the recommendations call for a more personalized approach, which, in theory, should be liberating for all health care providers (HCPs) involved in diabetes care. On the other hand, their “less prescriptive” nature has been viewed as providing insufficient guidance to some HCPs who may feel overwhelmed when trying to match the nuances of differences among the increasing number of antihyperglycemic medications to the nuances of each patient’s preferences and medical characteristics. To explore these issues, we convened a Diabetes Care Editors’ Expert Forum in June 2012. Thirteen thought leaders from around the world convened and discussed approaches to personalized medicine, the rationale behind personalization in diabetes care, the tools necessary to implement such a strategy, and the current perceptions of personalized medicine. This narrative provides our view and clinical translation of the underlying issues that need to be considered for personalizing care and offers suggestions to stimulate future research in this area. Table 1 summarizes the main points discussed below. PRACTICAL APPROACHES TO PERSONALIZED MEDICINE From intervention trials to personalized targets There can be little more than semantic differences among the terms “personalized medicine,” “patient-centered care,” and “clinical judgment.” Factors such as patients’ preferences, life expectancy, disease duration, comorbid conditions, socioeconomic status, and cognitive abilities have long played a role in the selection of optimal therapeutic options and, DIABETES CARE, VOLUME 36, JUNE 2013 1779 Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze Personalized management of hyperglycemia more recently, in the selection of therapeutic targets. In 1998, the UK Prospective Diabetes Study (UKPDS) showed that treating patients with recently diagnosed type 2 diabetes reduced the risk of microvascular, but not macrovascular, complications (9). Of the three subsequent randomized controlled trials (RCTs) on glucose lowering and cardiovascular outcomes, two— ADVANCE (Action in Diabetes and Vascular Disease: Preterax and Diamicron MR Controlled Evaluation) and VADT (Veterans Affairs Diabetes Trial)—showed no statistically significant reduction in cardiovascular outcomes, while the glycemic intervention of the third—ACCORD (Action to Control Cardiovascular Risk in Diabetes)—was Table 1—Summary of the main points from the Diabetes Care Editors’ Expert Forum The complexity of management of type 2 diabetes is underappreciated. c Its complications, once established, remain a largely intractable burden. c The number of available antihyperglycemic agents has increased markedly during the past 2 decades, but trial evidence for their optimal use—especially in dual or triple combinations—is limited and unlikely to ever be complete. c The availability of multiple pharmacological options should be instrumental to early, appropriate treatment to target, which is the only recognized strategy for the prevention of complications. c In the more distant future, genotyping and testing for metabolomic markers may help to phenotype patients and predict their responses to antihyperglycemic drugs. c At present, a personalized (“n of 1”) approach may aid in achieving therapeutic targets. c Patient-centered care and standardized, algorithmic management are conflicting approaches, but they can be made more compatible by recognizing instances in which personalized A1C targets are warranted and clinical circumstances that may call for primary care and specialty comanagement. c Failure to achieve glycemic targets, failure to respond to therapy, recurrent hypoglycemia, drug intolerances/contraindications, the development of complications, hyperglycemia during hospitalization, pregnancy, and suspicion of unusual variants such as MODY, LADA, heavy proteinuria with short disease duration in the absence of other microvascular complications, or secondary diabetes all may serve as triggers for comanagement. c 1780 DIABETES CARE, VOLUME 36, JUNE 2013 ended early because of increased mortality in participants randomized to intensive glycemic control (10–12). However, metaanalyses of the four intervention trials (UKPDS, ACCORD, ADVANCE, and VADT) have shown modest but statistically significant benefit of intensive glucose control on the risk for myocardial infarction, but not mortality (13). Post hoc analyses seeking explanations for these results set the stage for today’s new emphasis on personalized care. Suggestions that adverse effects of individual therapeutic agents or severe hypoglycemia were directly implicated in causing cardiovascular events were not supported by these analyses but cannot be ruled out because efforts to capture hypoglycemic events were probably inadequate, especially in individuals with hypoglycemia unawareness (13). However, individuals assigned to intensive therapy who failed to improve control to A1C levels ,7.0% (,53 mmol/mol) in ACCORD fared poorly and had more severe hypoglycemia, and severe hypoglycemia was noted to be a risk marker for a wide range of medical conditions in ADVANCE (14,15). It was also suggested that individuals with long-standing type 2 diabetes, existing cardiovascular disease (CVD), and other comorbidities were unable to achieve cardiovascular benefit from better glucose lowering within the timeframe of these studies (16). Accordingly, these trials and their subsequent analyses raised important questions about rigid, algorithm-based, “glucocentric” approaches to therapy. One message, then, is that “one size does not fit all” for glucose targets, choice of therapy, or number of therapies used in combination. However, some questions pertinent to personalization remain unanswered. What were the characteristics of the small group of individuals in ACCORD who failed to respond to further glucose-lowering therapy but who contributed much of the excess case fatality (12)? Similarly, what can these studies teach us about patients who benefitted most from the interventions? Gaining insight into the pathophysiological, genetic, lifestyle, adherence, comorbidity, or other factors responsible for these disparate responses could improve our ability to effectively personalize therapy. The 2012 ADA/EASD position statement still recommends an A1C goal of ,7.0% (,53 mmol/mol) for most individuals with type 2 diabetes if it can be achieved safely in low-risk individuals with early diabetes or a relatively long life expectancy; it suggests an acceptance of higher A1C targets for individuals with a history of severe hypoglycemia, limited life expectancy, long-standing diabetes, or advanced micro- and macrovascular complications (1). Prior guidelines from multiple organizations (3–8) included recommendations about setting personalized glycemic targets based on phenotype and empirically matching “the right drugs to the right patients,” but without hard evidence to substantiate such an approach. Personalized treatment was articulated more vigorously in the new position statement (1). The challenges of personalized care Patient-centered personalized therapy, although appealing, may be difficult to implement without a good understanding of the ever-changing glucose-lowering armamentarium. b-Cell dysfunction is progressive in type 2 diabetes (9), and thus monotherapy, or even combinations of oral agents, is not likely to control hyperglycemia indefinitely (17), although the ORIGIN (Outcome Reduction With Initial Glargine Intervention) trial demonstrated sustained normoglycemia with basal insulin glargine plus metformin and near-normoglycemia even with standard therapy using metformin plus a sulfonylurea over a 6–7 year period in early type 2 diabetes (18). At this time, the processes of assessing b-cell function and providing reliable clinical decisions based on this factor are less than optimal. Furthermore, so-called evidence-based guidelines may be limited in their ability to be more prescriptive given the lack of clinical trial evidence from properly conducted long-term RCTs comparing the effects of various agents on clinically important outcomes. Clinical inertia is also a problem, and most clinicians do not alter their patients’ glucose-lowering regimens until A1C is significantly elevated (19). Developing and implementing personalized care plans may be especially daunting for those HCPs whose practice extends beyond diabetes alone and who must address these issues in the context of limited time and resources. The need for translational tools The task now at hand is clear: We should develop and make available tools that will enable effective translation of existing guidelines on targets and therapeutic options into practical clinical applications. care.diabetesjournals.org 9 WINTER SCHOOL Editors’ Expert Forum It is one thing to assess the efficacy of an intervention within the context of a structured clinical trial setting, but entirely different to evaluate that intervention in ordinary clinical practices with resource variations, variable patient adherence, and sociodemographic and cultural differences. Thus, the translation of results from RCTs to real-world situations is not an exact science. Until more hard evidence becomes available, clinicians need wellstructured and user-friendly evidence summaries that outline safe and effective processes for therapeutic intensification, while still allowing for the personalization of care. Although such an undertaking is beyond the scope of this discussion, we are providing a starting point that may guide the development of such tools to aid HCPs in personalizing both targets and therapeutic regimens. For targetsetting, suggestions have been made in the past (20,21). Another possible starting place might be the decision-making scale developed by Ismail-Beigi et al. (22) and adapted for inclusion in the ADA/EASD position statement (1). That scale includes seven parameters to consider when determining glycemic targets. Expanding it or providing some means of rating each parameter for individual patients could help clinicians to better weigh factors such as life expectancy, duration of diabetes, risk from hypoglycemia, comorbidities, and availability of support systems. Such a tool could assist clinicians in choosing targets and help to involve patients in the decisionmaking process in an easily understood manner. Tools are also needed to help HCPs in selecting appropriate agents and intensifying therapy. The ADA/EASD position statement leaves treatment-goal decisions to clinicians and patients (1). However, some believe that because of the vast and expanding array of available drugs, there should be a systematic way to prioritize the selection of drugs in relation to their efficacy, safety, and cost. It is most important to emphasize that the percentage of patients who show sufficient clinical response to any of these drugs varies widely. Nonadherence to treatment regimens may be as high as 50% in patients with chronic diseases such as diabetes (23), often because of the patients’ lack of symptoms, negative emotions, and poor knowledge of their disease (24). Side effects are another cause of stopping or limiting treatment. Thus, patients must care.diabetesjournals.org 10 be adequately monitored, especially after changes to their treatment regimen, to evaluate whether they have reached targets and to ensure that there are no major side effects or adherence issues. This information is crucial to make informed decisions regarding whether to continue, change, or add to the therapy regimen. STATE OF THE ART FOR PERSONALIZING MEDICINE— Personalized medicine can be defined in many ways. A shared decision-making approach that takes patient preferences and values into account in developing a management plan is widely endorsed. Another definition involves identifying a particular set of phenotypic and genotypic markers that would define ideal and nonideal therapies for individuals based, to whatever extent possible, on evidence rather than on clinical impressions. Perhaps the most relevant question is whether current science is at a stage where specific patient characteristics—genetic, pathophysiological, or phenotypic— might effectively guide us in more general diabetes practice. Contributions from genetics: a distant hope The field of genetics is not yet ready to contribute in these broader areas. Despite recent identification of monogenic forms of diabetes for which specific treatments seem to give benefit (25), for more typical type 2 diabetes, genetic information does not contribute greatly in guiding treatment choices. Recently, pharmacogenetic analysis has begun providing insights, finding possible links, for example, to poor responses to metformin (26,27) and glucagon-like peptide-1 (GLP-1) receptor agonists (28–30). Such research holds promise for eventually helping to identify individuals who are likely to be classified as “responders” or “nonresponders” to specific agents. Human genome sequencing also offers some hope, but again, in the distant future (31). Because the development of diabetes, patients’ responses to available therapies, and the risks for complications are all multifactorial and probably involve numerous genes, the chances are small that specific mutations will turn out to be powerful markers of diabetes risk or of variable treatment responses. Even assuming a significant increase in pharmacogenetics research and decreases in the costs associated with genome sequencing, for the foreseeable future these efforts will not significantly improve our ability to predict, prevent, or diagnose diabetes or illuminate definitive pathways for selecting drug therapies for specific individuals. What can we learn from pathophysiology? Insulin resistance in the liver and muscle and islet b-cell failure represent the core pathophysiological defects in type 2 diabetes (32,33). Insulin resistance can often be demonstrated long before the onset of b-cell failure, but as long as the b-cells secrete sufficient amounts of insulin to offset the insulin resistance, glucose tolerance remains normal (32–36). With time, however, there is progressive b-cell failure, which leads to the development of impaired glucose tolerance and/ or impaired fasting glucose and eventually type 2 diabetes (32–36). As the plasma insulin response declines, insulin resistance in the liver becomes manifest as an overproduction of glucose by the liver and the development of fasting hyperglycemia, while insulin resistance in muscle results in diminished glucose uptake and postprandial hyperglycemia (32,33). Although the relative contributions of b-cell failure (possibly more severe in Asian populations) and insulin resistance (more severe in Westernized societies with a high prevalence of obesity) may vary among different ethnic groups (37), virtually all adults with type 2 diabetes have some combination of the two. Thus, antihyperglycemic agents that improve b-cell function and enhance hepatic and muscle insulin sensitivity may have a more durable effect in reducing A1C (38–45). The importance of other pathophysiological disturbances in the development of type 2 diabetes is well recognized (32,33). These disturbances include c c c Adipocyte insulin resistance, which leads to increased lipolysis, increased plasma free fatty acids, and eventual b-cell failure and muscle and hepatic insulin resistance (46) Excess glucagon secretion by a-cells and enhanced hepatic sensitivity to glucagon, leading to increased basal hepatic glucose production and impaired suppression of hepatic glucose production after meals (47,48) Dysfunction related to incretin hormones (GLP-1 and glucose-dependent insulinotropic peptide) (49), which are DIABETES CARE, VOLUME 36, JUNE 2013 1781 Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze Personalized management of hyperglycemia c c responsible for ;50% of the insulin secreted in response to meals Possible renal adaptive mechanisms to hyperglycemia, which result in enhanced glucose reuptake leading to decreased urinary glucose clearance and the maintenance of established hyperglycemia (50) Central nervous system insensitivity to the anorectic effect of insulin and multiple neurotransmitter synaptic abnormalities resulting in excessive energy intake and obesity (33) No single antihyperglycemic agent can correct all of these pathophysiological abnormalities. Thus, many patients may require multiple agents with different mechanisms of action to achieve their individualized A1C goal (33). Patients with type 2 diabetes who have a high initial A1C, in particular, may require two or more antihyperglycemic agents to achieve their A1C goal (1,4,7,8,33,51,52). The precise choice of pharmacological agents to use remains a topic for debate, in part because of safety concerns involving several drug classes (53–55). But the basic point remains: To achieve durability of glycemic control, optimal regimens will likely need to address both insulin resistance and b-cell failure. Does phenotype allow for personalized treatment? The main characteristics that might influence approaches to treatment can be divided into two categories: patient features and disease features. Among the patient features are race/ethnicity, sex, age of onset or diagnosis, duration of diabetes, body weight, frailty/comorbidities, complications, propensity for side effects/drug tolerance, personality and aspirations, and psychosocial-economic context. Among the disease features are the balance between insulin deficiency and insulin insensitivity, fasting versus postprandial hyperglycemia, short versus long disease duration, and special circumstances such as maturityonset diabetes of the young (MODY) or latent autoimmune diabetes in adulthood (LADA). However, we are faced with a paucity of data on how patients with certain characteristics respond to specific therapies (56). We know that most glucoselowering drugs for type 2 diabetes work in most patients. But we also know that there are nonresponders to any drug. Numerous post hoc studies have revealed some predictors of better responses, but 1782 DIABETES CARE, VOLUME 36, JUNE 2013 the data are inconclusive (57–60). Furthermore, those response differences tend to be small, and the strongest predictor remains baseline A1C, with the patients with higher A1C levels responding with greater reductions although not necessarily attaining target levels (58,61). Indeed, the most fruitful phenotypic considerations for personalizing care today may be patients’ propensity for side effects and tolerance of various medicines. There may be practical value to using a trial-and-error, or “n of 1,” approach (62) based on the anticipation of a drug’s efficacy (for example, “Pioglitazone will be highly effective in this very insulin-resistant patient”), a patient’s need for certain added benefits (“A GLP-1 receptor agonist will help control hyperglycemia and may encourage weight loss in this obese patient”), and concerns about adverse events (“I will not prescribe a sulfonylurea for this elderly patient who lives alone and had a severe hypoglycemic episode a few years ago”). This is becoming standard clinical procedure for diabetes, just as it is for hypertension and numerous other chronic diseases. The challenge is how to proceed in more complex situations. How, for example, would one select an appropriate pharmacological regimen for a 68-yearold man with diabetes of 14 years’ duration who has coronary disease, obstructive sleep apnea, prostate cancer, and a history of possible pancreatitis; who is obese and has edema but no heart failure; who smokes and has a family history of bladder cancer; who has high fasting blood glucose and A1C levels; and who has some renal dysfunction and poorly controlled lipids? With so many competing comorbidities, what are this individual’s targets and treatment options? Table 2—Classes of antihyperglycemic agents 1. Insulins 2. Sulfonylureas 3. Metformin 4. a-Glucosidase inhibitors 5. Glinides 6. Pioglitazone 7. Pramlintide 8. GLP-1 receptor agonists 9. Dipeptidyl peptidase-4 inhibitors 10. Colesevelam 11. Bromocriptine 12. SGLT-2 inhibitors Ultimately, clinicians must develop highly personalized care regimens, and, in the absence of other conclusive evidence, “n of 1” trials may prove to be the best approach, providing strong evidence of therapy effectiveness and safety at the individual level and incorporating shared decision making with patients. ARE ADEQUATE THERAPEUTIC TOOLS AVAILABLE NOW FOR PERSONALIZED DIABETES CARE? Multiple glucose-lowering medication classes: freedom or confusion? We now have numerous classes of antihyperglycemic therapies (Table 2) and more are expected to be licensed. Does this extensive arsenal provide us with more flexibility in designing personalized diabetes regimens, or does it make the task more difficult by multiplying the options? For specialists, the answer is no doubt the former. But for many primary care providers who must simultaneously stay abreast of developments in numerous fields of medicine, the expanding array of choices may, at times, seem intimidating. Recent meta-analyses have shown that there is not much difference among available therapies in glycemic control (e.g., A1C reduction and likelihood of achieving targets when adding an agent to metformin). However, when one considers other benefits, such as the risk of hypoglycemia and effects on body weight (63,64), there appears to be separation among the agents. In addition to these agents’ relative glycemic efficacy and effects on body weight and hypoglycemia, HCPs immersed in diabetes care must balance the potential benefits of each agent against concerns that have been raised regarding possible associations between various agents and the risk of developing other diseases (65–67). Difficulties in making benefit-risk judgments are further amplified by the fact that marketing may seek to create demand for drugs that is out of proportion to their efficacy. In addition, there remains a general lack of adequate comparative and exploratory controlled trials between the medications available, not to mention a lack of research into phenotypeand pathophysiology-based regimens. Developing a straightforward algorithm that narrows the field of viable options will clearly require more evidence care.diabetesjournals.org 11 WINTER SCHOOL Editors’ Expert Forum than is currently available. Without such evidence, we can offer only opinion, albeit opinion based on an understanding of pathophysiology, epidemiology, pharmacodynamics, toxicology, and costs. Unfortunately, the studies needed to make evidence-based treatment decisions— those that involve comparisons among multiple agents and are adequately powered for important, long-term clinical outcomes—have, for the most part, not been performed. The upcoming GRADE (Glycemia Reduction Approaches in Diabetes: A Comparative Effectiveness Study) trial will address some of these points (68). In addition, studies on how best to combine the various agents, as well as the optimal timing (early combination therapy vs. the traditional step-wise approach), are urgently needed. Furthermore, even the most carefully considered set of guidelines is based on averages—average A1C-lowering effect, average efficacy, average risk of adverse effects—without adequate consideration of the confidence intervals around those averages. Averages fail to identify subpopulations that respond better and have better tolerance to specific agents, and without these data, evidence-based personalized advice cannot be provided. For now, all HCPs, whether in specialty or primary care settings, should test the efficacy and weigh the safety risks of any given drug in each patient, ideally trying options over a period of months to see how well they work at the individual level. How will new and emerging therapies enhance our ability to personalize care? To complicate future decision making, there are many new therapies in the research and development pipeline, including newer and longer-acting injectable incretin-based drugs, newer basal insulins, oral sodium-glucose cotransporter2 (SGLT-2) inhibitors, agents targeting the various peroxisome proliferator–activated receptors, and free fatty acid receptor agonists. It is hoped that pharmaceutical companies developing new glucose-lowering agents will focus on providing some added value beyond what is already available by addressing unmet clinical needs such as the effects leading to a reduction in CVD risk factors and meaningful cardiovascular and other outcomes. Arguably, we lack what we seek most in a diabetes treatment: definitive demonstration care.diabetesjournals.org 12 that an agent can safely lower A1C in a sustained and durable manner by definitively modifying disease progression, does so with minimal side effects (e.g., hypoglycemia), favorably improves CVD risk factors (e.g., weight, lipids, and blood pressure), and reduces cardiovascular and other morbidity and mortality. As new drugs continue to be developed and submitted to regulatory agencies for approval, we should also consider the limitations of RCTs for informing a personalized approach to diabetes care (69,70). RCTs, at least as currently carried out, focus on selected populations and have restricted inclusion and exclusion criteria. They are generally of short duration, making it impossible to assess durability. They do not test individual responder rates and are not designed to identify responders who have a low safety risk. These trials are conducted in artificial environments, which pose problems for realistically measuring adherence. Finally, RCTs are not powered to assess subpopulations prospectively. Thus, efforts to personalize therapy are hindered by our reliance on trials that may be neither generalizable to the larger population nor individualized to specific patients. Moving forward, there may be other informative data from these trials, not from the average results, but rather from outliers—the results from subjects who respond very well or not at all. REGIONAL PERSPECTIVES ON PERSONALIZED MEDICINE—The questions, concerns, and practical considerations discussed here pose difficult challenges for diabetes HCPs throughout the world. Because diabetes is a burgeoning pandemic, it behooves us to understand the issues from an international perspective. The viewpoint that personalized diabetes care may be too complex to be implemented in many care settings is common in Europe, as it is in the United States and elsewhere. In Italy, for example, the Renal Insufficiency And Cardiovascular Events (RIACE) multicenter study, which included 15,773 patients with type 2 diabetes attending hospitalbased diabetes clinics, showed that 40% of patients were taking metformin, 15% were managed through diet only, 24% were on insulin, 18% were taking sulfonylureas, and 3% were taking thiazolidinediones (71). Strikingly, this pattern did not change with age or with renal function, duration of disease, or other stratifying criteria. The story is much the same in other parts of the world, although patient characteristics differ. In China, key issues include rapid nutritional and lifestyle transitions, large patient populations, young age of onset, and heterogeneous phenotypes characterized by b-cell dysfunction, insulin resistance, and visceral obesity (72,73). High rates of kidney disease and diabetes-related cancer complicate diabetes care (72,74,75). All of these problems are compounded by a relative scarcity of research, low levels of awareness, an insufficient number of trained HCPs, and less-organized health care and financing systems. Given the large population and finite resources, one may argue for using risk algorithms and biomarkers, including genetic variants, to identify high-risk subjects for early or intensified intervention, although the cost-effectiveness of such an approach will need to be formally tested. As elsewhere, patients with insulin-resistant features such as fatty liver, high triglycerides, and low HDL cholesterol may benefit from initial treatment with metformin, pioglitazone, and GLP-1 receptor agonists, whereas patients who are lean and face a long disease duration may benefit from dipeptidyl peptidase-4 (DPP-4) inhibitors or sulfonylureas with the early use of insulin. Other drugs such as a-glucosidase inhibitors and SGLT-2 inhibitors may help to lower A1C with a low risk of hypoglycemia and weight gain. Although these phenotype-based therapies have a theoretical basis, clinical practice studies are needed to confirm their cost-effectiveness. There is also a need to empower medical and nonmedical personnel (diabetes educators) in clinics to collect patient data on demographics, risk factors, complications, social habits, emotional needs, self-care behaviors, compliance, expectations, and values to enable HCPs to personalize treatment goals, self-management strategies, and therapy regimens (76). These personnel should monitor patients’ adherence to treatment, as well as their achievement of treatment goals. In the United States, attempts to implement a concept as expansive as personalized care quickly run up against two opposing traditions that permeate not only the field of medicine, but indeed the entire U.S. culture. The first, rooted in American industrialism, is standardization, exemplified by the processes of production DIABETES CARE, VOLUME 36, JUNE 2013 1783 Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze Personalized management of hyperglycemia line efficiency and continuous quality improvement. One recognizes this tradition in the vision of industrialist Henry J. Kaiser, who founded the prototype nonprofit health system Kaiser Permanente (77). The second tradition, embodied by the image of artist Norman Rockwell’s humble country doctor, is personalization. This is apparent in the teachings of Dr. Francis W. Peabody, whose seminal dissertation on patient care concluded, “The secret of care of the patient is caring for the patient,” (78) and in the work of Dr. Elliott P. Joslin, who wrote that “ . . . unless the physician takes care, he will fall into schematic ways and forget that it is the patient who comes for treatment and not the diabetes. Each is a case unto itself” (79). Recent guidelines for diabetes care in the United States have fallen somewhere along a continuum between these traditions. The ADA Standards of Care (80) have sought to straddle the line, whereas the algorithm-based 2009 ADA/EASD consensus statement (2) leaned more toward standardization, and the 2012 ADA/ EASD position statement (1) evolved more toward personalized care. ENHANCING PERSONALIZED CARE THROUGH COMANAGEMENT—Research has yielded strong evidence in favor of fairly standardized treatment goals and an algorithmic initial therapy pathway involving lifestyle modification, metformin, and the eventual addition of other oral agents (sulfonylureas and basal insulin, in most cases). This approach allows many newly diagnosed patients to attain a reasonable blood glucose range and to maintain it for some period of time. However, there will always be patients for whom the standard A1C target is not appropriate (Fig. 1). Likewise, patients’ clinical circumstances often become more complicated over time, at which point the core treatment algorithm must give way to a more personalized approach. In such situations, the ideal course of action would be a patient-centered comanagement approach involving primary and specialty care providers as well as diabetes educators, dietitians, psychologists, and other HCPs as warranted by individual patient needs. Figure 2 depicts such an approach, which could be invoked by specific triggers such as failure to respond to treatment (14,81), failure to attain A1C targets, drug intolerances or contraindications, severe hypoglycemia, hyperglycemia during hospitalization, pregnancy, suspicion of unusual variants such as LADA, MODY, or secondary diabetes, heavy proteinuria with short disease duration in the absence of other microvascular complications, or other complicating circumstances. Regardless of the final form such a process takes, it seems clear that personalizing diabetes care will require improved cooperation and comanagement of patients among HCPs in various disciplines. In such a paradigm, algorithmic care would be both a useful starting place for most patients with type 2 diabetes and a framework on which to build more personalized therapy as needed. CONCLUSIONS —Publication of the latest ADA/EASD position statement on type 2 diabetes management has generated strong interest in the concept of a personalized medical approach for individuals with diabetes (1). However, there are a multitude of pharmacological antihyperglycemic therapies now available, often with incomplete evidence concerning their long-term efficacy, effectiveness, tolerability, and safety. Accordingly, questions remain regarding the best ways to implement the recommendations of the position statement in the care of patients. Emerging research in genetics, pathophysiology, metabolomics, and human behavior, as well as longer-term, randomized comparative trials could eventually yield new information to inform the personalization of care. In the meantime, we must develop tools to translate existing guidelines into practical clinical applications, and, more importantly, to develop processes that encourage the organized comanagement of patients by primary care providers, specialists, educators, dietitians, and other diabetes HCPs as patients’ unique needs and risks require. Another consideration is how well the tools we develop can be implemented around the globe given the differences in pathophysiology among ethnic Figure 1—Personalizing A1C targets for individuals with type 2 diabetes. 1784 DIABETES CARE, VOLUME 36, JUNE 2013 care.diabetesjournals.org 13 WINTER SCHOOL Editors’ Expert Forum Figure 2—A comanagement approach to personalized therapy for type 2 diabetes. The majority of patient care occurs in primary care settings with concurrent comanagement in specialty settings as warranted for individual patients. In such a model, the patient remains at the center of care, comanaging HCPs all provide algorithmic or personalized care as warranted, and communication occurs among all parties. groups, country-specific resources and medical care infrastructure, training level of providers, and knowledge of patients. We hope these reflections have provided a broad overview of the evidence deficits and procedural challenges that will need to be overcome to ensure success in our efforts to implement effective, personalized therapy regimens for patients with type 2 diabetes. Acknowledgments—I.R. has served on the advisory boards of AstraZeneca, Bristol-Myers Squibb, Eli Lilly, Merck (MSD), and Novo Nordisk; as a consultant for Andromeda, AstraZeneca/BMS, Eli Lilly, HealOr, Insuline, Johnson & Johnson, Teva, and TransPharma; and as a member of the speaker’s bureau for AstraZeneca, Eli Lilly, Johnson & Johnson, Novo Nordisk, and Roche. M.C.R. has received honoraria for consulting and/or research grant support through his institution from Amylin, Elcelyx, Eli Lilly, Sanofi, and Valeritas; these potential conflicts of interest have been reviewed and managed by Oregon Health and Science University. J.R. has received grants or research support from Amylin, AstraZeneca, Boehringer Ingelheim, Bristol-Myers Squibb, DaiichiSankyo, Eli Lilly, GlaxoSmithKline, Johnson & Johnson, Lexicon, MannKind, Merck, Novartis, Novo Nordisk, Pfizer, Roche, Sanofi, and Takeda and has served on advisory care.diabetesjournals.org 14 boards for and received honoraria or consulting fees from Boehringer Ingelheim, DaiichiSankyo, Eli Lilly, GlaxoSmithKline, Johnson & Johnson, Lexicon, MannKind, Novo Nordisk, Sanofi, and Takeda. J.B.B. is an investigator and/or consultant without direct financial benefit under contracts between his employer and the following companies: Abbott, Amylin, Andromeda, AstraZeneca, Bayhill Therapeutics, BD Research Laboratories, Boehringer Ingelheim, Bristol-Myers Squibb, Catabasis, Cebix, Diartis, Elcelyx, Eli Lilly, Exsulin, Genentech, GI Dynamics, GlaxoSmithKline, Halozyme, Hoffman-La Roche, Johnson & Johnson, LipoScience, Medtronic, Merck, Metabolic Solutions Development Company, Metabolon, Novan, Novella, Novartis, Novo Nordisk, Orexigen, Osiris, Pfizer, Rhythm, Sanofi, Spherix, Takeda, Tolerex, TransPharma, Veritas, and Verva. S.E.I. has served as a consultant for Boehringer Ingelheim, Janssen, Merck, Novo Nordisk, and Takeda. P.D.H. has received (or institutions with which he is associated have received) funding for his educational, advisory, and research activities from AstraZeneca/BMS Collaboration, Boehringer Ingelheim, Eli Lilly, GlaxoSmithKline, Janssen/Johnson & Johnson, Merck (MSD), Merck Serono, Novo Nordisk, Roche Diagnostics, Roche Pharmaceuticals, Sanofi, and Takeda. S.D.P. has served as a consultant for AstraZeneca/BMS Collaboration, Boehringer Ingelheim, Eli Lilly, GlaxoSmithKline, Intarcia Therapeutics, Janssen/Johnson & Johnson, Merck (MSD), Merck Serono, Novartis, Novo Nordisk, Roche Pharmaceuticals, Sanofi, and Takeda and has received research support from Bristol-Myers Squibb, Merck (MSD), Novartis, Novo Nordisk, and Takeda. E.F. has received honoraria for consulting and/or research grant support from AstraZeneca/ BMS Collaboration, Boehringer Ingelheim, Daiichi-Sankyo, Eli Lilly, GlaxoSmithKline, Halozyme Therapeutics, Janssen/Johnson & Johnson, Merck (MSD), and Sanofi. J.C.N.C. is a board member of the Asia Diabetes Foundation. She is a consultant for AstraZeneca, Bristol-Myers Squibb, DaiichiSankyo, GlaxoSmithKline, Merck (MSD), Pfizer, Qualigenics, and Sanofi. She has received honoraria, travel expenses, and/or payments for development of educational presentations from AstraZeneca, Bayer, BristolMyers Squibb, Daiichi-Sankyo, Eli Lilly, GlaxoSmithKline, Merck Serono, Merck (MSD), Nestle Nutrition Institute, Novo Nordisk, Pfizer, Roche, Sanofi, and Takeda. Her institution, the Chinese University of Hong Kong, has received research grants from pharmaceutical companies for conducting clinical trials of drugs for individuals with diabetes and associated conditions. L.A.L. has received research funding from, has provided continuing medical education on behalf of, and/or has acted as a consultant to AstraZeneca, Bristol-Myers Squibb, Boehringer Ingelheim, Eli Lilly, GlaxoSmithKline, Janssen, Merck, Novartis, Novo Nordisk, Roche, Sanofi, Servier, and Takeda. DIABETES CARE, VOLUME 36, JUNE 2013 1785 Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze Personalized management of hyperglycemia D.L. is a consultant for AstraZeneca, BristolMyers Squibb, Janssen, Merck, and Sanofi. R.D. serves on advisory boards or is a consultant for Amylin, Boehringer Ingelheim, Bristol-Myers Squibb, Lexicon, Novo Nordisk, and Takeda; receives grants from Amylin, Boehringer Ingelheim (pending), BristolMyers Squibb, and Takeda; and is a member of the speaker’s bureau for Novo Nordisk. W.T.C. has served as a consultant for AstraZeneca, Bristol-Myers Squibb, Halozyme Therapeutics, Intarcia Therapeutics, Johnson & Johnson, Lexicon, and Sanofi and has served as a principal investigator on research studies awarded to his institution from AstraZeneca, Bristol-Myers Squibb, Eli Lilly, GlaxoSmithKline, Johnson & Johnson, Lexicon, and MannKind. Writing and editing support services for this article were provided by Debbie Kendall of Kendall Editorial in Richmond, Virginia. This article contains no data or data analysis and therefore there is no guarantor of these. All authors contributed to the thinking behind and the writing of the manuscript. 7. 8. 9. 10. 11. References 1. Inzucchi SE, Bergenstal RM, Buse JB, et al. Management of hyperglycemia in type 2 diabetes: a patient-centered approach. Position statement of the American Diabetes Association (ADA) and the European Association for the Study of Diabetes (EASD). Diabetes Care 2012;35: 1364–1379 2. 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Comunicare significa “mettere in comune”; si tratta di un’azione di valenza sia attiva (rendere partecipi, far comprendere, far ricordare), sia passiva (ascoltare, comprendere, ricordare), che inevitabilmente coinvolge tutti gli attori interni ed esterni delle organizzazioni: colleghi, collaboratori, capi, pazienti, fornitori, consulenti, membri di organi di vigilanza e controllo e tanti altri ancora. In ambito sanitario la qualità della comunicazione (senza nulla togliere alla specialità clinica) è assolutamente esiziale: far conoscere, far capire, informare, educare, coinvolgere, collaborare, confrontarsi sono sempre più “atti di comunicazione quotidiana” dai quali dipende il progresso della comunità scientifica, l’efficacia e l’efficienza dei processi interni alle organizzazioni sanitarie e l’impatto socio-economico delle politiche sanitarie sulla popolazione. Comunicare efficacemente in pubblico Alzarsi in piedi di fronte ad altre persone per parlare, a volte, ci intimidisce e ci fa sentire minacciati: temiamo l’imbarazzo, corriamo il pericolo di compromettere la nostra autostima, di soffocare il nostro desiderio di esprimerci e possiamo essere colpiti da mal di testa, mal di stomaco, tic nervosi, amnesie temporanee, sudorazione intensa. Essere convincenti nella comunicazione in pubblico è una competenza preziosissima, direttamente connessa all’espressione della leadership e alla costruzione della propria credibilità in occasione di congressi, presentazioni e incontri di formazione. Per di più la sensazione che deriva dal riuscire a comunicare bene in pubblico e a catturare l’attenzione del pubblico è una inebriante sensazione di 18 trionfo. Ecco di seguito i focus operativi sul public speaking sinteticamente trattati. Leve di efficacia verbale Ogni relazione deve essere strutturata in tre parti: •Head Message: introduzione (decollo) •Core Message: corpo centrale (volo in quota) •Take on Message: conclusioni (atterraggio) Il messaggio di testa deve contenere la chiara esplicitazione di Tema, Obiettivo, Metodo e Attese di risultato del vostro intervento (regola TOMA): •Tema = di cosa ci apprestiamo a parlare; •Obiettivo = perché ne parliamo qui con voi; •Metodo = come gestiamo il tempo che abbiamo (regole del gioco); •Attese di risultato = valori aggiunti per il pubblico. Mettete in conto di avere 60 secondi per rispondere alla domanda implicita dell’uditorio “Perché dovrei ascoltarlo?” E’ il quesito paracadute: se vi preparate per fronteggiarlo, allora disporrete di una strategia del messaggio che vi eviterà brutte scivolate. Il corpo centrale si compone di specifici punti focali scelti (gli argomenti centrali che si intendono trattare). Ciascuno di essi, affinchè l’esposizione risulti chiara, è molto utile che venga trattato con le tecniche 3 F e IDI. 3 F (tecnica delle 3 fasi): •ti dico ciò che ti dirò •te lo dico •ti dico ciò che ti ho detto IDI (tecnica del collegamento fra i singoli argomenti e il quadro generale): Insieme - Dettaglio - Insieme Il messaggio di coda deve sempre contenere i seguenti 4 ingredienti: •riepilogo dell’obiettivo iniziale e della sua utilità (abbiamo parlato di…., allo scopo di…, il che ci è utile per...); •riepilogo dei punti chiave (in particolare è importante ricordare che…); Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze •specificazione delle conclusioni (ne possiamo concludere che…); •invito all’azione (da domani vi invito a…, avete la responsabilità di…). Leve di efficacia vocale La voce è uno strumento di comunicazione portentoso e straordinariamente versatile. Disgraziatamente molti di noi la usano in modo casuale, spesso invocando alibi legati a madre natura (“Ho una brutta voce… mi viene da parlare veloce…”) o alle abitudini consolidate (“Parlo piano da sempre perché mi hanno educato così…). Chi impara a governare la propria voce ha decisamente una marcia in più. Come anticipato, le variabili operative del canale vocale sono: tono, volume, ritmo e segregati vocali. Approfondiamo. Il tono Indica la frequenza del suono emesso, cioè la nota, si misura in Hertz. Il tono può essere basso, medio o acuto. Se volete annoiare in men che non si dica il vostro uditorio, impiegate un tono di voce basso e monocorde. Se invece volete stimolarlo, cambiate spesso tonalità. Il volume Si misura in Decibel ed esprime l’intensità sonora della voce. La regola è variarlo durante l’esposizione, privilegiando un energico e medio-elevato volume, come se si dovesse parlare all’ultima fila. Il ritmo Esprime la velocità dell’eloquio. Parlare troppo rapidamente e senza pause non lascia tempo all’uditorio di processare il messaggio e, se necessario, di intervenire con domande. Inoltre si da una sensazione di fretta e di nervosismo assai poco produttiva. Problema diametralmente opposto è la lentezza nel parlare accompagnata da lunghe e frequenti pause. Essa pregiudica l’ascolto perché induce gli astanti a distrarsi con facilità e perché fa loro percepire un’insopportabile sensazione di inconcludenza. L’ideale è variare spesso il ritmo espositivo, comunque rispettando la regola delle frasi di circa 7 parole separate da pause di 2-3 secondi. Così facendo rispetterete la capienza della memoria a breve termine del cervello del ricevente, risultando chiari e convincenti. I ponti sonori Ehmmm … Ahmmm … Uhmmm … e simili. Una vera piaga della comunicazione orale: devastano l’attenzione, trasmettono la sensazione di un relatore poco preparato e demotivato. Liberatevi al più presto di questi suoni parassiti! L’alibi del “Mi servono per pensare a cosa dire dopo” non regge: bisogna imparare (provando e riprovando) a sostituire i segregati vocali con pause. Leve di efficacia visiva La nostra mimica, i nostri gesti e il nostro sguardo sono il più forte supporto visivo che si può dare alla comunicazione. Ecco le cose da sapere per utilizzare con professionalità questo importantissimo canale2. 2 Cfr. Luciano Cassese, Conquista il tuo pubblico in 7 semplici mosse, Edizioni www.professioneformatore.it 2010 pag. 31 e seguenti. La gestualità La formazione moderna sul parlare in pubblico è concorde nel riconoscere che la spontaneità gestuale è l’unica regola da osservare. Nell’assoluto rispetto di questo postulato è tuttavia possibile, rafforzare e migliorare la propria gestualità con pochi e semplici suggerimenti. 1. Tenere le mani lungo i fianchi, pronte a essere usate nel modo più efficace. Inizialmente si proverà un senso di impaccio, si avrà l’impressione di avere delle protesi, non delle braccia. Superato il primo momento, appena la nostra mente sarà impegnata sul contenuto della relazione, le “protesi” si trasformeranno da sole in veicoli comunicativi. 2. Tenere le mani libere da ogni oggetto che possa limitarne l’uso, quali penne, fogli, puntatori: in un momento di tensione questi oggetti potrebbero trasformarsi in pericolosi elementi di distrazione per l’uditorio perchè l’oratore inizia a giocherellarci, mostrando al pubblico il proprio nervosismo. 3. Superare il condizionamento del controllo dei movimenti: non dobbiamo temere di sentirci dei “vigili urbani” che dirigono il traffico. Le nostre remore psicologiche sulla gestualità devono farci temere il contrario, cioè di essere bloccati nei movimenti. 4. Evitare i principali “gesti proibiti”: innanzitutto non tenere le mani in tasca. Le mani sprofondate nelle tasche blocca- 19 WINTER SCHOOL no ogni spontanea gestualità e sono anche un segnale poco rispettoso per la platea. Le mani sui fianchi danno ai presenti l’idea di arroganza, di sfida; le braccia incrociate comunicano una percezione di chiusura, di scarsa disponibilità al dialogo e alle domande; i pollici nella cintura sono una posa poco professionale ed eccessivamente disinvolta; le mani incrociate davanti o dietro al bacino tradiscono rispettivamente timidezza o eccessiva professionalità. Un oratore alle prime armi può essere immediatamente riconosciuto dalle posizioni contorte che assume: resta seduto dietro al tavolo o al pulpito, offre le spalle al pubblico, usa pose dondolanti e ricurve, compie numerosi gesti proibiti. Un bravo relatore, invece, si colloca da subito in piedi al centro della sala, evitando ogni barriera di separazione, mantiene una posizione equilibrata sulle gambe, spalle erette e mani distese lungo i fianchi. Il contatto visivo Il contatto visivo è un potente mezzo di comunicazione. I benefici comunicativi che si ottengono da un efficace contatto visivo sui partecipanti sono molti: innanzitutto si trasmette emotivamente la sensazione di un colloquio a due, mostrando sicurezza e interesse per l’interlocutore. Con un contatto visivo efficace si ottiene una notevole padronanza dell’aula perché lo sguardo può tenere sotto controllo e osservare tutti i partecipanti. In tal modo siamo in grado di cogliere ogni piccolo segnale come affaticamento, interesse, dubbio, desiderio di fare domande. I relatori inesperti commettono errori molto comuni come lo sguardo fisso nel vuoto o sullo schermo, il contatto visivo concentrato su una sola persona (in genere quella che sorride o annuisce), lo scanning cioè lo scorrere velocemente con lo sguardo i visi delle persone senza però ottenere il contatto visivo. A chi rivolgere quindi il contatto visivo? A tutti, indistintamente; l’oratore dev’essere “democratico” e mostrare il proprio interesse attraverso un sincero contatto visivo proiettato più volte su ogni partecipante. L’abilità dell’oratore consiste pertanto nel ruotare, con calma, lo sguardo da una persona all’altra, cercando a intervalli brevi e regolari il contatto d’occhi con tutti. Per quanto possa sembrare un’informazione ba- 20 nale, il contatto d’occhi, per essere efficace, deve durare almeno 3-5 secondi. Riassumendo: un efficace contatto visivo proiettato democraticamente su tutti i partecipanti favorisce la percezione di un oratore sicuro e padrone dell’aula e rappresenta un ottimo strumento per ottenere un feedback costante. Quadri sinottici Seguono alcuni prospetti riepilogativi delle variabili operative fondamentali implicate nella presentazione in pubblico. Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze Bibliografia • Anolli L. 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Annalisa Natalicchio Department of Emergency and Organ Transplantation Section of Internal Medicine, Endocrinology, Andrology and Metabolic Diseases University of Bari Dibattito sui criteri diagnostici per la diagnosi di diabete Un comitato internazionale di esperti, designati dall’American Diabetes Association (ADA), dalla European Association for the Study of Diabetes (EASD) e dall’International Diabetes Federation (IDF), ha preso in considerazione la possibilità di utilizzare l’emoglobina glicata (HbA1c) per la diagnosi di diabete. Il comitato è, infatti, giunto alla conclusione che, con l’eccezione della gravidanza e di alcune situazioni cliniche specifiche (emoglobinopatie, emolisi, ecc..), l’HbA1c possa essere utilizzata per la diagnosi di diabete e, addirittura, preferita alla glicemia (International Expert Committee. Diabetes Care 2009 (figura 1). American Diabetes Association Criteria for the Diagnosis of Diabetes HbA1C ≥6.5%. This test should be performed in a laboratory using a method that is NGSP certified and standardized to the DCCT assay * FPG ≥126 mg/dL (7.0 mmol/L). Fasting is defined as no caloric intake for at least 8 hours * 2-hour plasma glucose ≥200 mg/dL (11.1 mmol/L) during an OGTT. This test should be performed as described by the World Health Organization, using a glucose load containing the equivalent of 75 g anhydrous glucose dissolved in water * In a patient with classic symptoms of hyperglycemia or hyperglycemic crisis, a random plasma glucose ≥200 mg/dL (11.1 mmol/L) 2 NGSP: National Glycohemoglobin Standardization Program *In the absence of unequivocal hyperglycemia, criteria should be confirmed by repeat testing. ADA, Diab Care, 2010 Standard Italiani per la Cura del Diabete Mellito 2009-2010 Recommendation of the International Expert Committee IFG-IGT Diabetes 3 1 The International Expert Committee, Diabetes Care, 2009 Tale conclusione è diventata una raccomandazione clinica da parte dell’ADA (American Diabetes Association. Diabetes Care 2010 ed è stata accolta anche negli Standard di Cura per il Diabete redatti dall’Associazione Medici Diabetologi (AMD) e dalla Società Italiana di Diabetologia (SID) che prevedono, però, un uso alternativo dei due parametri glicemici (AMD, SID, Diabete Italia, 2009). La decisione di utilizzare la HbA1c per la diagnosi di diabete, tuttavia, è ancora al centro del dibattito nazionale ed internazionale ed è oggetto di critiche, tanto che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS o WHO) ancora non ha assunto decisioni definitive (figure 2-3). 22 Diagnosi di Diabete: Glicemia, HbA1c o OGTT? Stabilire la presenza di iperglicemia cronica (diabete) è di cruciale importanza in quanto comporta notevoli conseguenze psicologiche e ha forti implicazioni legali. Pertanto il metodo per la diagnosi di diabete deve essere affidabile. L’HbA1c è il migliore indicatore di iperglicemia cronica di cui disponiamo, infatti il dosaggio dell’HbA1c equivale alla determinazione di centinaia di misurazioni glicemiche nella giornata e rileva anche i picchi iperprandiali, al contrario la misura della glicemia a digiuno oppure dopo carico orale di glucosio (OGTT) fornisce una valutazione relativa a un singolo momento della giornata. Un vantaggio dell’HbA1c è che si tratta dello stesso parametro usato per il monitoraggio glico-metabolico (figura 4). Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze AG (mg/dl) Relationship Between Average Glucose in the Previous 3 Months and HbA1c in 507 Subjects HbA1c 4 Nathan DM. et al., Diabetes Care, 2008 L’HbA1c è particolarmente utile quando la glicemia a digiuno presenta valori che oscillano in prossimità del valore soglia di 126 mg/dL o quando la glicemia misurata dopo OGTT oscilla intorno a 200 mg/ dL (figure 5-6). emettere la diagnosi (American Diabetes Association. Diabetes Care 2010; AMD, SID, Diabete Italia, 2009; World Health Organization, 1999). Bisogna, a questo punto, considerare il bilancio costo/efficacia che risulta a favore di due misurazioni di glicemia rispetto a due misurazioni di HbA1c o di OGTT. Impatto sulla prevalenza e classificazione degli individui Diverse pubblicazioni hanno dimostrato che usando la HbA1c al posto della glicemia (a digiuno; OGTT) si identificano gruppi di soggetti diabetici non coincidenti, ossia una percentuale variabile di persone con livelli di glicemia a digiuno o dopo OGTT diagnostici per diabete presenta valori di HbA1c normali e quindi non viene classificata come affetta da diabete (Cowie C, Diabetes Care 2010; Mann DM, Diabetes Care 2010 (figura 7). Undiagnosed Diabetes in the U.S. Population Aged 20 Years by Three Diagnostic Criteria (NHANES, 2005–2006) Reasons to Prefer HbA1c Compared with Plasma Glucose Determination for Diagnosing Diabetes 5 Bonora Bonora E. E. et et al.,al,Diabetes, Diabetes,2011 2011 Advantages in the Use of HbA1c for Screening and Diagnosis of Diabetes 6 Patient does not need to be fasting HbA1c concentration is related to the development of complications HbA1c has a smaller intra-individual biological variability (within 2%) respect to that of plasma glucose HbA1c is not influenced by sudden glycaemic variations (such as under stress) and reflects the mean plasma glucose levels over the last 2–3 months HbA1c suffers a limited influence from common drugs known to influence glucose metabolism HbA1c is already used as an important target for therapy and is familiar to clinicians The majority of manufactuers of HbA1c kits is already standardized to the current reference systems Lapolla A. et al, Nutr Metab Cardiovasc Dis, 2011 Tuttavia, va sottolineato che nei soggetti “asintomatici” l’OMS raccomanda che la diagnosi di diabete venga fatta sulla base di due valori patologici di glicemia (a digiuno o dopo OGTT) e anche nel caso si utilizzi l’HbA1c un valore patologico deve essere confermato da una seconda misurazione prima di 7 Cowie CC. et al, Diabetes Care, 2010 Non è noto quale sia l’esito in persone che hanno una discrepanza fra HbA1c e glicemia, tuttavia un recente studio ha dimostrato che le persone con glicemia ≥126 mg/dL e HbA1c 6,5% presentano lo stesso sfavorevole profilo di rischio cardiovascolare delle persone con HbA1C ≥ 6,5% (Borg R, Danish Inter99 Study Diabet Med 2010). Impatto sulle complicanze micro e macroangiopatiche del diabete Numerosi studi hanno dimostrato un incremento della prevalenza di retinopatia, la complicanza più specifica del diabete, in corrispondenza di valori di glicemia intorno a 126 mg/dL, di valori di glicemia 2 ore dopo OGTT intorno a 200 mg/dL e di valori di HbA1c intorno a 6,5% (McCance DR, BMJ 1994; Colagiuri S, Diabetes Voice, 2003; Colagiuri S, Diabetes Care 2011), pertanto, da questo punto di vista, non c’è un vantaggio nell’utilizzo della HbA1c 23 WINTER SCHOOL rispetto alla glicemia a digiuno o dopo OGTT per identificare il diabete (figure 8-9). Prevalence of Retinopathy by Deciles of the Distribution of FPG, 2HPG, and HbA1C Pima Indians Egyptians NHANES III 8 The International Expert Committee, Diabetes Care, 2009 Relationship Between HbA1c and Non-Proliferative Diabetic Retinopathy Fattori influenzanti il dosaggio di HbA1c e Glicemia Riproducibilità Il dosaggio della glicemia può essere influenzato da eventi stressanti (aumento della produzione endogena di glucosio); attività fisica (riduce glicemia a digiuno); mancato rispetto del digiuno nelle 8 ore precedenti il prelievo; fumo; alcuni farmaci. Il dosaggio dell’HbA1c è influenzato da presenza di iperbilirubinemia, ipertrigliceridemia, di alcune varianti emoglobiniche (HbE, HbD, HbS) e dall’aumento di globuli bianchi (Herman WH, Ann Intern Med, 2010; Little RR, Diabetologia 2009). Inoltre, l’HbA1c è influenzata dall’età (aumento di circa 0,1% per ogni decade di età dopo i 40 anni) (Herman WH, Ann Intern Med, 2010) e dall’etnia (valori più alti negli afro-caraibici rispetto ai caucasici) (Carson AP, Diabetes Care, 2010) ( figure 11-14). Reasons not to Prefer HbA1c Compared with Plasma Glucose Determination for Diagnosing Diabetes 9 The International Expert Committee, Diabetes Care, 2009 Diversamente dalla retinopatia, la relazione con le complicanze macrovascolari è più complessa in quanto non sono specifiche del diabete e altri fattori (lipidi, pressione arteriosa, fumo) possono determinarle. Inoltre, alcuni studi hanno dimostrato un aumento dell’incidenza di eventi cardiovascolari per valori di glicemia o di HbA1c più bassi di quelli utilizzati per la diagnosi di diabete (Khaw KT, Ann Intern Med 2004; DECODE Diabetes Care, 2003; Barr EL, Diabetologia 2009) (figura 10). The DECODE Study Group: the Relation Between Mortality and Glucose: Absence of Threshold Effect at High Glucose Levels Limitations in the Use of HbA1c for Screening and Diagnosis of Diabetes Factors 24 DECODE Study Group, Diabetes, 2003 Risk in the diagnosis Analytical interferences (could be overcomed by appropriate sample handling or by choosing the most appropriate method for HbA1c quantification) a) Hyperbilirubinaemia overdiagnosis b) Elevated serum triglycerides overdiagnosis c) Increased WBC overdiagnosis d) Presence of some hemoglobin variants (HbS, HbC, HbD, HbE) misdiagnosis In vivo effects due to physiological conditions (cannot be handled a-priori) a) Pregnancy misdiagnosis b) Seasonal variations over- or mis-diagnosis c) Age overdiagnosis d) Genetic determinants (including race) over- or mis-diagnosis e) Presence of other hemoglobin variants and/or thal. major over- or mis-diagnosis In vivo effects due to pathological conditions (cannot be handled a-priori) a) Type 1 diabetes under rapid development misdiagnosis b) Malaria misdiagnosis c) Haemolytic anaemia misdiagnosis d) Iron deficiency overdiagnosis e) Recent blood loss, recent transfusion misdiagnosis f) Splenectomy overdiagnosis g) Renal failure overdiagnosis h) HIV positive patients on anti-retroviral therapy overdiagnosis i) Erythropoietin and other drugs interacting with erythropoiesis misdiagnosis j) Chronic alcohol abuse misdiagnosis 12 10 Bonora E. et al, Diabetes, 2011 11 Lapolla A. et al., Nutr Metab Cardiovasc Dis, 2011 Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze Common Variants at 10 Genomic Loci Influence HbA1c Levels Associations with HbA1C of 10 independent loci identified in the meta-analysis Associations with HbA1c are partly a function of hyperglycemia associated with three of the ten loci (GCK, G6PC2 and MTNR1B) The seven non-glycemic loci accounted for a 0.19% (% HbA1c) difference between the extreme 10% tails of the risk score, and would reclassify ˜2% of a general white population screened for diabetes with HbA1c • • 13 Soranzo N. et al., Diabetes, 2010 HbA1c Distribution by Ethnicity in U.S. Children and Young Adults Ages 5-24 yr (NHANES-3, 1988-1994) 14 Stabilità Il dosaggio della glicemia è poco affidabile a causa di un’instabilità pre-analitica, dovuta al fatto che la glicolisi continua nelle cellule del sangue anche dopo il prelievo, determinando una caduta dei livelli di glucosio nel plasma. La concentrazione di glucosio si riduce del 5-7% all’ora e il calo è maggiore e più rapido in presenza di alte temperature ambientali (Mikesh LM Clin Chem, 2008) (figura 16). Changes in Lactate and Glucose Concentrations Over Time Lapolla A. et al, Nutr Metab Cardiovasc Dis, 2011 La riproducibilità della glicemia, dell’HbA1c e della glicemia dopo carico di glucosio dipende anche dalla variabilità biologica. In uno stesso individuo la correlazione fra due misure di HbA1c è più stretta di quella tra 2 misurazioni della glicemia a digiuno o della glicemia 2 ore dopo OGTT. I coefficienti di variazione della HbA1c, della glicemia a digiuno e della glicemia 2 ore dopo OGTT sono 3,6%, 5,7%, 16,6% (Selvin E, Arch Intern Med, 2007) (figura 15). Summary Statistics and CVs for Fasting Glucose, 2-Hour Glucose and HbA1c Measurements 15 ≥6,5% si riconferma nell’80% dei casi. Pertanto esiste una differenza marginale tra i due test per quanto riguarda la riproducibilità della diagnosi basata sulla variabilità biologica (Selvin E, Diabetes Care, 2011). Selvin E, Arch Intern Med, 2007 Tuttavia, si osserva anche che una glicemia a digiuno ≥126 mg/dL, ripetuta dopo circa due settimane, si riconferma nel 70% dei casi, e un valore di HbA1c 16 Mikesh LM et al., Clin Chem, 2008 Nel complesso la variabilità preanalitica della glicemia è del 5-10% mentre quella della HbA1c è trascurabile. La variabilità analitica è pari al 2% ed è sovrapponibile per glicemia e HbA1c. Standardizzazione Nonostante in una larga parte del mondo sia stato avviato un programma per rendere il dosaggio della HbA1c riproducibile nella totalità dei laboratori di analisi, pubblici e privati (Consensus Committee. Diabetes Care, 2007), c’è ancora molta strada da fare per arrivare ad una standardizzazione globale (Marshall MS, Nat Rev Endicrinol, 2010) (figura 17). Anche il dosaggio della glicemia, generalmente considerato altamente riproducibile, ha mostrato problemi di standardizzazione, come risulta da una indagine condotta su 6000 laboratori negli USA che ha documentato un significativo errore nella determinazione della glicemia fino al 41% dei casi (Miller WG, Arch Pathol Lab Med, 2008). In conclusione l’uso della HbA1c sembra essere un approccio diagnostico migliore della glicemia e dell’OGTT a digiuno, nonostante 25 WINTER SCHOOL Recommendations for the Implementation of International Standardization of HbA1c in Italy HbA1c 5.7–6.4% and Impaired Fasting Plasma Glucose for Diagnosis of Prediabetes and Risk of Progression to Diabetes in Japan (TOPICS 3):a Longitudinal Cohort Study ROC curve for prediction of future diabetes by HbA1c, by FPG, and by the combination of HbA1c and FPG 17 Lapolla A. et al., Nutr Metab Cardiovasc Dis, 2011 ci siano differenze nell’epidemiologia della malattia. Tuttavia, la diagnosi basata sulla glicemia resta valida per tutte le condizioni cliniche in cui il dosaggio della HbA1c non è affidabile per motivi biologici o analitici (figure 18-22). 20 Cumulative incidence of diabetes during follow-up according to baseline diagnosis of prediabetes Heianza Y. et al, Lancet, 2011 HbA1c 5.7–6.4% and Impaired Fasting Plasma Glucose for Diagnosis of Prediabetes and Risk of Progression to Diabetes in Japan (TOPICS 3):a Longitudinal Cohort Study Baseline characteristics according to diagnosis of prediabetes by HbA1c and IFG criteria Advantages and Disadvantages of HbA1c and Fasting Glucose Assays Fasting glucose HbA1c Patient preparation Fasting required, this is often None misunderstood or not adhered to Sample processing Stringent requirements for processing and separation; rarely achieved Relatively simple Standardisation Fully standardised Fully standardised Variability Moderate pre-analytic and biological variation Little to no variation Effect of illness Severe illness may shorten Severe illness may increase red-cell lifespan, reducing glucose concentration in hours or days HbA1c levels in days or weeks Haemoglobinopathies and disorders of red blood cell turnover Few problems May interfere with values in some cases Cost to laboratory (approximate) $2.30 $11.40 21 18 Combined Use of Fasting Plasma Glucose and HbA1c in the Screening of Diabetes Clinical and laboratory data from 2298 subjects Heianza Y. et al, Lancet, 2011 FPG testing is still a valid test for diagnosing people with type 2 diabetes, including when HbA1c is not appropriate or cannot be used. The use of FPG is recommended where HbA1c results are borderline or further investigation of the result is necessary, such as in a patient with two discrepant HbA1c results. In this situation, a FPG test may be used to clarify the diagnosis. FPG glucose is also the preferred initial test if the patient has a specific condition or complication that may lead to an inaccurate HbA1c result. The criteria for diagnosing diabetes using FPG and OGTT (if indicated) remain unchanged. However, other than in pregnancy, OGTT should now only be used if HbA1c is contraindicated and FPG results are inconclusive. 22 Sensitivities and specificities of different screening models for detecting diabetes Bibliografia 1. International Expert Committee. International Ex19 26 Hu Y. et al, Acta Diabetol, 2010 pert Committee report on the role of the A1C assay in the diagnosis of diabetes. Diabetes Care 32:13271334, 2009. 2. American Diabetes Association. Standard of medical care in diabetes. Diabetes Care 33 (Suppl 1):1161, 2010. 3. AMD, SID, Diabete Italia. Standard italiani per la cura del diabete mellito. Linee Guida e Raccomandazioni. 2009. Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze 4. World Health Organization. Definition, diagnosis 17. Selvin E, Crainiceanu CM, Brancati FL, Coresh J. and classification of diabetes mellitus and its complications. Report of a WHO consultation. Part 1. Diagnosis and classification of diabetes mellitus. Geneva, WHO:1-59, 1999. 5. Cowie C, Rust K, Byrd-Holt DD, et al. Prevalence of diabetes and high risk for diabetes using A1C criteria in the US population in 1988-2006. Diabetes Care 33:562-568, 2010. 6. Mann DM, Carson AP, Shimbo D, et al. Impact of HbA1c screening criteria on the diagnosis of prediabetes among US adults. Diabetes Care 33:21902195, 2010. 7. Borg R, Vistisen D, Witte DR, Borch-Johnsen K. Comparing risk of individuals diagnosed with diabetes by OGTT and HbA1c. The Danish Inter99 Study. Diabet Med 27:906-910, 2010. 8. McCance DR, Hanson RL, Charles MA, et al. Comparison of tests for glycated hemoglobin and fasting and 2-hour plasma glucose concentrations as diagnostic methods for diabetes. BMJ 308:13231328, 1994. 9. Colagiuri S, Borch-Johnsen K. DETECT-2: Early detection of type 2 diabetes and IGT. Diabetes Voice 48:11-13, 2003. 10. Colagiuri S, Lee CM, Wong TY, Balkau K, Shaw JE, Borch-Johnsen K; DETECT 2 Collaboration Writing Group. Glycemic thresholds for diabetes specific retinopathy: Implications for diagnostic criteria for diabetes. Diabetes Care 34:145-150, 2011. 11. Khaw KT, Wareham N, Bingham S, et al. Association of hemoglobin A1c with cardiovascular disease and mortality in adults:The European prospective investigation into cancer in Norfolk. Ann Intern Med 141:413-420, 2004. 12. DECODE study group, European diabetes epidemiology study group. Is the current definition for diabetes relevant to mortality risk from all causes and cardiovascular and non cardiovascular diseases? Diabetes Care 26: 688-696, 2003. 13. Barr EL, Boyko EJ, Zimmet PZ, et al. Continuous relationship between non-diabetic hyperglycemia and both cardiovascular disease and all cause mortality: The Australian diabetes, obesity, and life style. Diabetologia 52: 415-424, 2009. 14. Herman WH, Cohen RM. Hemoglobin A1c: Teaching a new dog old tricks. Ann Intern Med 152: 815-817, 2010. 15. Little RR, Rohlfin CL, Hanson S, et al. Effects of emoglobin (Hb) E and HbD traits on measurement of glycated Hb by 23 methods. Clin Chem 54: 12771282, 2008. 16. Carson AP, Reynolds K, Fonseca VA, Muntner P. Comparison of A1C and fasting glucose criteria to diagnose diabetes among US adults. Diabetes Care 33: 95-97, 2010. Short-term variability in measures of glycemia and implications for the classification of diabetes. Arch In tern Med 167: 1545-1551, 2007. 18. 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Arch Pathol Lab Med 132: 838-846, 2008. 27 WINTER SCHOOL La diagnosi di diabete in situazioni particolari Frida Leonetti, Federica Coccia, Danila Capoccia Dipartimento di Medicina Sperimentale Università Sapienza di Roma Il diabete mellito è una malattia cronica causata da molteplici fattori eziopatogenetici e caratterizzata da iperglicemia, che deriva nella maggior parte dei casi da difetti della secrezione insulinica, dell’azione insulinica o di entrambi. Infatti, la gran parte dei casi di diabete è compresa in 2 categorie: il diabete tipo 1, che racchiude il 5-10% dei casi, in cui la distruzione beta cellulare, immuno mediata, conduce ad un deficit assoluto di secrezione insulinica, e il diabete di tipo 2, che coinvolge il 90-95% dei casi, in cui predomina l’insulino-resistenza e il deficit di secrezione è solo relativo. Oltre a queste forme più comuni di diabete, tuttavia, esistono altre classi di diabete: da una parte il diabete gestazionale, e dall’altra una classe molto vasta, che comprende diverse forme di diabete, in cui le alterazioni dell’omeostasi glucidica sono secondarie a rare mutazioni genetiche a carico della secrezione/azione insulinica, oppure più frequentemente a malattie del pancreas, altre endocrinopatie, epatopatie croniche e ad assunzione di sostanze farmacologiche diabetogene. Figura 2: Le altre forme di diabete mellito Figura 1: Classificazione del diabete mellito Figura 3: Classificazione Standard Italiani per la cura del Diabete Mellito 2009-2010 28 Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze I criteri diagnostici del diabete mellito sono descritti nella figura 4. Figura 4: Criteri diagnostici del diabete A partire dal 2010, le linee guida internazionali hanno incluso tra i criteri diagnostici del diabete mellito anche l’emoglobina glicosilata (HBA1c), ponendo come cut off un valore di HBA1c > 6.5%, e raccomandando che questo venga effettuato con dosaggio standardizzato e almeno in due diverse misurazioni, qualora siano assenti i sintomi tipici di diabete. Il criterio diagnostico dell’HBA1c offre diversi vantaggi, dal momento che non richiede il digiuno ed ha una maggiore stabilità, essendo minimamente influenzato dalle fluttuazioni giornaliere dovute a stress e ad altre condizioni. Tuttavia, in alcune situazioni particolari, l’HbA1c può risultare meno affidabile, come nei pazienti affetti da emoglobinopatie o altre anemie particolari oppure in pazienti sottoposti a recenti trasfusioni. In questi casi, la diagnosi di diabete deve avvalersi degli altri criteri diagnostici. Diabete gestazionale Il diabete gestazionale è causato da difetti funzionali analoghi a quelli del diabete tipo 2, viene diagnosticato per la prima volta durante la gravidanza e in genere regredisce dopo il parto, per poi ripresentarsi spesso a distanza di anni con le caratteristiche del diabete tipo 2. Il diabete gestazionale comporta rischi importanti sia per la madre che per il feto. Lo studio epidemiologico HAPO (Hyperglycemia and Adverse Pregnancy Outcomes), che ha preso in considerazione 25000 donne in gravidanza, ha dimostrato che il rischio di eventi avversi materni, fetali e neonatali aumenta progressivamente in funzione dei valori glicemici riportati dalla madre tra la 24° e 28° settimana, anche per valori considerati normali fino a qualche anno fa. Queste scoperte hanno condotto ad una attenta rivisitazione dei criteri diagnostici del diabete gestazionale: nel 2009, infatti, le società scientifiche hanno formulato nuove e precise raccomandazioni per lo screening e la diagnosi del diabete gestazionale. In particolare si raccomanda di valutare, alla prima visita in gravidanza, la presenza di un diabete manifesto (in accordo ai criteri diagnostici del diabete validi per tutta la popolazione: glicemia basale > 126 mg/dl in due diverse misurazioni e glicemia random > 200 mg/dl, da riconfermare con glicemia a digiuno > 126 mg/dl). Le gestanti con diagnosi di diabete manifesto devono essere prontamente avviate ad un monitoraggio metabolico intensivo, così come raccomandato per il diabete pre-gestazionale. Se il valore della glicemia alla prima visita risulta > 92 mg/dl e < 126 mg/dl, si pone diagnosi di diabete gestazionale. Tutte le gestanti che alla prima visita presentano glicemia a digiuno < 92 mg/dl e/o senza precedente diagnosi di diabete manifesto, devono effettuare, tra la 24° e la 28° settimana, un carico orale di 75 grammi di glucosio, indipendentemente dalla presenza o meno di eventuali fattori di rischio per diabete gestazionale Figura 5: Diagnosi del diabete gestazionale Diabete monogenico Il diabete monogenico racchiude diverse forme di diabete mellito dovute a difetti genetici singoli che alterano la secrezione e/o l’azione insulinica. Si stima che le diverse forme di diabete monogenico costituiscono più del 5% di tutti i casi di diabete mellito, essendo spesso non diagnosticate o erroneamente interpretate come diabete tipo 1 o tipo 2. 29 WINTER SCHOOL Un’attenta valutazione e un’accurata diagnosi è, tuttavia, fondamentale per le ripercussioni sul trattamento, la prognosi e il rischio per i familiari dei pazienti affetti. I difetti genetici singoli che alterano la funzione beta-cellulare comprendono principalmente tre categorie di diabete: MODY (Maturity Onset Diabetes of the Young), diabete neonatale e diabete mitocondriale. Il MODY consiste in un diabete ad insorgenza precoce, generalmente prima dei 25 anni, a trasmissione autosomica dominante, dovuto ad un’alterazione della secrezione insulinica. Sono stati identificati sei diversi geni, su diversi cromosomi, responsabili di 6 forme diverse. Le 2 forme più frequenti sono dovute alla mutazione del fattore di trascrizione epatico HNF-1α (cromosoma e del gene della glucochinasi (cromosoma 7). La diagnosi, sospettata sulla base di dati anamnestici (forte familiarità per diabete, insorgenza in età giovanile) e di determinati parametri clinici (assenza di autoanticorpi e di segni associati ad insulino-resistenza) viene confermata dai test genetici. Figura 6: Diabete monogenico: caratteristiche cliniche e diagnosi differenziale con diabete tipo 1 e tipo 2. Il diabete neonatale, diagnosticato nei primi 6 mesi di vita, diverso dal classico tipo 1 autoimmune, può essere transitorio o permanente. La forma transitoria è generalmente dovuta ad un difetto di imprinting, mentre la forma permanente riconosce un preciso difetto genetico a carico di un canale del potassio presente sulla beta-cellula. Saper riconoscere questa forma di diabete è importante a fini terapeutici in quanto i bambini affetti rispondono al trattamento con sulfalinuree. 30 Il diabete mitocondriale, dovuto a mutazioni puntiformi a carico del DNA mitocondriale, viene trasmesso per via materna e si associa molto spesso a sordità neurosensoriale. La diagnosi, sospettata in base al quadro clinico e all’associazione con la sordità, si basa sull'evidenza della trasmissione materna. I difetti genetici singoli che alterano l’azione insulinica sono poco frequenti e comprendono mutazioni a carico del recettore insulinico che determinano disordini metabolici variabili da una modesta iperinsulinemia e iperglicemia ad un diabete severo. I pazienti affetti presentano spesso acanthosis nigricans e nelle donne si associano frequentemente segni di virilizzazione e presenza di cisti ovariche. Esempi di forme di diabete simili, caratterizzate da severa insulino-resistenza, sono: l’insulino resistenza di tipo A, il leprecaunismo e la sindrome di Rabson-Mendenhall, queste ultime due presenti in età pediatrica e associate a particolari tratti somatici. Nel diabete lipoatrofico, invece, il deficit di azione insulinica non è dovuto a difetti a carico del recettore, ma ad alterazioni post-recettoriali, che compromettono la trasmissione del messaggio intracellulare. Si caratterizza per un'estesa scomparsa simmetrica o pressoché completa del tessuto adiposo sottocutaneo. Diabete pancreatogenico (secondario a patologie del pancreas esocrino e/o a pancreasectomia) I processi patologici che interessano il pancreas possono essere causa di diabete, viceversa l’insorgenza del diabete in determinate situazioni può essere spia di patologia pancreatica. Le malattie pancreatiche più frequentemente responsabili di diabete sono: pancreatiti croniche, neoplasie, e in minor misura, la fibrosi cistica e l’emocromatosi. Affinchè si sviluppino le alterazioni glicemiche, il danno pancreatico deve essere esteso, ad eccezione del diabete secondario a carcinoma pancreatico che si può presentare anche quando una piccola porzione dell’organo viene coinvolta, poiché i meccanismi responsabili non consistono nella sola distruzione beta-cellulare, ma coinvolgono anche l’insulino-resistenza determinata dai fattori iperglicemizzanti prodotti dalle cellule tumorali e dallo stato flogistico locale associato alla neoplasia. Infatti, nei pazienti adulti con neo diagnosi di iperglicemia in assenza di familiarità nota per diabete e Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze senza fattori di rischio per malattia diabetica, è di estrema importanza soffermarsi con attenzione ed effettuare un adeguato screening per la presenza di patologie pancreatiche, con particolare riferimento alle patologie neoplastiche. Altrettanto dicasi per il sopraggiungere di uno scompenso glicemico senza altra causa apparente in pazienti adulti già diabetici al fine di poter anticipare la diagnosi di una eventuale neoplasia pancreatica. La perdita del parenchima pancreatico in seguito a pancreasectomia conduce ad una forma particolare di diabete, nota come diabete pancreatogenico. Questa forma di intolleranza glucidica differisce dalle altre forme di diabete mellito per la particolare frequenza di ipoglicemia: non vengono infatti compromessi solo i meccanismi di secrezione insulinica dovuti alla perdita della massa beta cellulare, ma anche i meccanismi periferici di sensibilità insulinica e i meccanismi della controregolazione collegati al deficit del glucagone. A seconda della quantità di tessuto pancreatico rimosso e della porzione pancreatica residua (testa, corpo, coda), si ha una diversa incidenza di diabete pancreatogenico. In particolare, nei pazienti sottoposti a pancreasectomia distale, l’incidenza di diabete pancreatogenico è di circa 8-9%, per quelli sottoposti a pancreasectomia prossimale del 15-40%. Mentre la pancreatite acuta determina un’iperglicemia transitoria e difficilmente è causa di un diabete permanente dopo la risoluzione, la prevalenza del diabete secondario a pancreatite cronica dipende da diversi fattori, tra cui l’età, la presenza di familiarità per diabete, l’eziologia alcolica o la presenza di calcolosi biliare. E’ stato calcolato che nelle pancreatiti croniche il diabete di nuova insorgenza si presenta con una percentuale del 34% se ad eziologia alcolica, 23% se dovuta a calcolosi biliare, 16% se di natura idiopatica. Il deficit endocrino quindi si presenta maggiormente nelle pancreatiti secondarie ad abuso alcolico. L’insorgenza del diabete nella pancreatite cronica è dovuta alla progressiva distruzione beta cellulare e alla ridotta capacità funzionale della massa beta cellulare residua, causata da aumento della fibrosi e dall’ischemia cronica da essa generata. Diversi studi inoltre, hanno riportato anche un’alterazione dell’insulino resistenza. La fibrosi cistica è una malattia genetica autosomica recessiva caratterizzata da una mutazione a carico di un canale del cloro situato sulla membrana cellulare di diverse cellule, tra cui quelle pancreatiche. Il diabete secondario a fibrosi cistica si caratterizza per un’insorgenza precoce, in età giovanile, e per un deficit della secrezione insulinica analogo a quello del diabete tipo 1, da trattare sin da subito con terapia insulinica. A differenza del diabete tipo 1, tuttavia, questi pazienti mostrano anche una ridotta secrezione di glucagone che comporta un aumentato rischio di ipoglicemie. L'emocromatosi, in passato chiamata anche diabete bronzino, è una malattia genetica dovuta all'accumulo di notevoli quantità di ferro in diversi organi e tessuti quali: fegato, pancreas, cute, cuore ed alcune ghiandole endocrine. Due sono gli eventi che contribuiscono all'origine del diabete nei pazienti con emocromatosi ereditaria: l’aumentata insulino-resistenza dovuta all’accumulo di ferro all’interno degli epatociti e la ridotta secrezione insulinica dovuta alla distruzione beta cellulare secondaria all’accumulo tissutale. E' inoltre importante sottolineare la stretta associazione che esiste, nei pazienti con emocromatosi, tra diabete e cirrosi epatica. Diversi studi hanno dimostrato che meno del 15% dei pazienti con emocromatosi in stadio pre-cirrotico sono affetti da diabete. Al contrario il diabete è presente in oltre il 70% dei pazienti con emocromatosi e cirrosi. Figura 7: Diabete pancreatogenico: fisiopatologia. Diabete secondario a trapianto d’organo (NODAT, New Onset Diabetes After Transplantation) Il diabete secondario a trapianto d’organo viene definito NODAT (New Onset Diabetes After Transplantation) e si sviluppa nel 15-40% dei pazienti sottoposti a trapianto. L’incidenza del NODAT varia 31 WINTER SCHOOL tra i diversi studi, andando da un minimo del 5% ad un massimo del 50% e tale discordanza potrebbe essere spiegata, in parte, con le diverse popolazioni prese in considerazione (età, razza, terapia immunosoppressiva in atto, tempo d’osservazione), in parte con i criteri diagnostici utilizzati. La diagnosi di NODAT infatti prevede, in accordo ai criteri diagnostici dell’ADA, il riscontro, in almeno 2 occasioni, di glicemia a digiuno > 126 mg/dl e/o di glicemia > 200 mg/dl 2 ore dopo OGTT. L’HbA1c invece, recentemente introdotta tra i criteri diagnostici del diabete per la popolazione generale, non è un criterio universalmente validato nelle persone sottoposte a trapianto. Infatti, soprattutto nei primi mesi dopo il trapianto, il dosaggio può essere influenzato da diversi fattori, come l’anemia e l’insufficienza renale. Tuttavia, un recente studio, condotto su 71 pazienti sottoposti a trapianto renale, non affetti da diabete prima del trapianto, ha analizzato la concordanza tra HbA1c e OGTT a 3 e 12 mesi dopo il trapianto, riportando un’elevata concordanza tra i 2 criteri, seppur minore a 3 mesi. Gli autori concludevano che, sebbene il gold standard per la diagnosi di NODAT rimanga l’OGTT, l’HbA1c può rappresentare un utile strumento diagnostico dopo i primi 3 mesi dal trapianto, soprattutto nei pazienti con diabete subclinico. Tra i fattori di rischio più importanti per lo sviluppo del diabete in seguito a trapianto d’organo, va ricordata l’assunzione di farmaci immunosoppressivi a scopo anti–rigetto che, in alcuni casi, presentano un importante effetto diabetogeno (ciclosporina, glucocorticoidi) per cui si rimanda al paragrafo del diabete secondario a terapie farmacologiche. Diabete secondario ad endocrinopatie I disordini endocrini che comportano alterazioni dell’omeostasi glucidica possono essere dovuti ad un eccesso di ormoni antagonisti dell’azione insulinica (GH, glucocorticoidi, catecolamine, glucagone) o della secrezione insulinica (catecolamine, aldosterone come causa di ipokaliemia). Pertanto tra le endocrinopatie responsabili di diabete mellito, sono incluse: acromegalia, sindrome di Cushing, feocromocitoma, iperaldosteronismo primario, ipertiroidismo, glucagonoma ed altri tumori neuroendocrini. Le alterazioni glicemiche riportate in queste malattie possono variare da un grado moderato di intolleranza glucidica ad un diabete franco con severa iperglicemia, in relazione anche alla presenza di altri fattori predisponenti, come la familiarità 32 per diabete oppure la presenza di obesità. La diagnosi di diabete secondario ad endocrinopatie segue i criteri diagnostici validi per la popolazione generale e, generalmente, l’iperglicemia si risolve con la risoluzione dell’eccesso di ormone iperglicemizante. La prevalenza del diabete mellito nell’acromegalia varia dal 19 al 56% nei diversi studi, mentre la prevalenza della ridotta tolleranza ai carboidrati è descritta intorno al 28%. Recenti lavori hanno dimostrato come i livelli di GH, un’età più avanzata e una più lunga durata di malattia, come anche la familiarità positiva e l’associazione di ipertensione e/o di obesità, sono fattori predittivi per lo sviluppo del diabete. Gli stessi analoghi della somatostatina, utilizzati nel trattamento dell’acromegalia, se da una parte riducono l’insulino-resistenza, dall’altra alterano la secrezione insulinica. Il diabete mellito e le altre alterazioni glicemiche sono molto comuni nella sindrome di Cushing: i livelli plasmatici di glucosio, infatti, sono significativamente più alti nei pazienti affetti piuttosto che nei controlli sani. L’eccesso di cortisolo causa obesità viscerale, ipertensione, insulino resistenza e diabete mellito, dislipidemia e uno stato protrombotico e pro-infiammatorio. Questo quadro determina un importante aumento del rischio cardiovascolare, che rimane elevato anche in seguito alla normalizzazione dei livelli di cortisolo. L’insulino resistenza causata dall’ipercortisolismo si manifesta principalmente con iperglicemia a digiuno. La prevalenza del diabete nella sindrome di Cushing varia tra il 20 e il 50%. Analogamente all’ipercortisolismo endogeno, l’assunzione di glucocorticoidi esogeni provoca aumento della glicemia a digiuno, già dopo 5 giorni di trattamento. Le alterazioni glicemiche sono comuni anche nella tireotossicosi, in cui si riscontrano alterazioni a carico sia della secrezione insulinica che della sensibilità periferica all’insulina. I meccanismi coinvolti prevedono un aumentato assorbimento intestinale di glucosio, una ridotta risposta all’insulina e un’aumentata produzione di glucosio. La riduzione della secrezione insulinica è la causa principale del diabete secondario a feocromocitoma anche se studi recenti hanno dimostrato che l’eccesso di catecolamine può anche indurre o aggravare uno stato di insulino-resistenza. Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze Diabete epatogeno L’associazione tra diabete mellito e cirrosi epatica è stata descritta per la prima volta da Bohan nel 1947 e denominata diabete epatogeno circa 20 anni dopo da Megyesi et al, che osservarono che il 57% dei pazienti cirrotici mostrava un’aumentata insulino-resistenza. I meccanismi patogenetici responsabili dell’insulino-resistenza nei soggetti con epatopatia cronica consistono prevalentemente nel danno del parenchima epatico e nell’aumentato shunt porto sistemico. Se il danno degli epatociti, infatti, determina un ridotto metabolismo epatico dell’insulina, e pertanto un’iperinsulinemia periferica, l’aumentato shunt riduce i livelli d’insulina nel circolo portale e stimola le cellule pancreatiche a produrne di più, aumentando ulteriormente l’iperinsulinemia. Inoltre, studi recenti hanno dimostrato come nelle epatiti croniche HCV correlate, l’insulino resistenza viene causata, oltre ai meccanismi sopra descritti, dallo stesso virus che, agendo a livello molecolare, altera i meccanismi intracellulari di trasduzione del segnale insulinico, mostrando una correlazione specifica tra genotipo virale e grado di insulino-resistenza. Tuttavia, con l’aumento esponenziale dell’obesità, si sta assistendo ad un aumento sempre maggiore delle epatopatie croniche ad eziologia non alcoolica e non infettiva, denominate con l’acronimo NAFLD (non alcoholic fatty liver disease), che rappresentano, ad oggi, la causa più comune di aumento delle transaminasi nei paesi industrializzati. La NAFLD comprende uno scenario di alterazioni epatiche che va dalla semplice steatosi, alla steatoepatite, alla fibrosi e, in ultimo, alla cirrosi. L’associazione tra NAFLD e diabete mellito tipo 2 è bilaterale: se infatti l’obesità e il diabete comportano un rischio aumentato di NAFLD, spesso misconosciuto, la NAFLD stessa aumenta fortemente il rischio di sviluppare il diabete. Una metanalisi pubblicata nel 2008, che ha preso in considerazione più di 70000 partecipanti, ha riportato come l’aumento delle ALT e delle GGT sia un fattore predittivo, indipendente, dell’incidenza di diabete sia negli uomini che nelle donne. Pertanto, nei pazienti affetti da epatopatia cronica di qualsiasi eziologia, è importante un corretto screening metabolico e la ricerca di eventuali alterazioni glicemiche. Per quel che concerne i criteri diagnostici, si seguono le linee guida ADA valide per la popolazione generale, non essendoci para- metri diagnostici specifici. Tuttavia, sia nello screening diagnostico che nella gestione clinica successiva, l’HbA1c non può essere considerata affidabile in tutte le situazioni. Infatti, in pazienti cirrotici con ipertensione portale i livelli di HbA1c sono più bassi a causa della breve emivita degli eritrociti causata dall’ipersplenismo. Figura 8: Associazione tra NAFLD e diabete mellito: meccanismi patogenetici. Diabete iatrogeno dovuto a terapie farmacologiche Molte sostanze chimiche e farmacologiche possono determinare un’alterazione della secrezione e/o azione insulinica, contribuendo allo sviluppo di alterazioni glicemiche di vario grado fino al diabete. Generalmente, l’azione diretta del farmaco responsabile non è sufficiente ad indurre il diabete: esistono, quasi sempre, condizioni già presenti di aumentata insulino-resistenza che espongono il paziente ad un rischio maggiore (obesità, familiarità per diabete, ..). Le sostanze chimiche/farmacologiche che più frequentemente si associano a diabete sono elencate nella figura 9. Alcune sono piuttosto rare, come il vacor, veleno per topi, e la pentamidina utilizzata per via endovenosa a scopo antiparassitario, che inducono, in entrambi i casi, una distruzione permanente della massa beta-cellulare. I glucocorticoidi, invece, sono farmaci utilizzati molto frequentemente, spesso per lunghissimi periodi o a vita, come nel caso dei pazienti affetti da malattie autoimmuni o pazienti sottoposti a trapianto d’organo. I pazienti in trattamento cronico con glucocorticoidi dovrebbero essere sottoposti periodicamente a screening del diabete, utilizzando 33 WINTER SCHOOL preferibilmente l’OGTT. Un recente studio, infatti, ha riportato come in pazienti trattati a lungo termine con prednisolone, l’HBa1c e la glicemia a digiuno mostrino una sensibilità più bassa. Infatti, la somministrazione acuta di alte dosi di glucocorticoidi determina un’aumentata produzione epatica di glucosio e una ridotta sensibilità insulinica; d’altra parte, il trattamento cronico con basse dosi, determina soprattutto un’aumentata insulino-resistenza, che si manifesta prevalentemente con l’aumento della glicemia postprandiale e dopo carico di glucosio. Le società internazionali raccomandano che lo screening per diabete nei pazienti in terapia cronica con glucocorticoidi, deve essere effettuato ogni 3 anni, se considerati a basso rischio, oppure annualmente se si associano altri fattori di rischio (obesità, presenza di alterata glicemia a digiuno o ridotta tolleranza ai carboidrati..). Un dosaggio eccessivo di ormoni tiroidei può smascherare un diabete subclinico o peggiorare il compenso glicemico di un paziente già diabetico. Ciò è dovuto ad un’elevata produzione epatica di glucosio per up-regulation della glicogenolisi e ad una maggiore insulino-resistenza generata dall’aumento della lipolisi e della quota di acidi grassi liberi circolanti. Il diazossido è un farmaco capace di inibire la secrezione insulinica e di ridurre l’utilizzazione periferica del glucosio inducendo così un aumento della glicemia. Agisce sui canali del potassio ATP dipendenti e presenta anche un importante effetto vasosilatatorio. Attualmente, viene utilizzato prevalentemente nel trattamento sintomatico dell’ipoglicemia organica da inappropriata secrezione insulinica e, a causa di un importante effetto sodio ritentivo, deve essere associato a terapia con idroclorotiazide. I diuretici tiazidici, d’altra parte, determinano iperglicemia dose dipendente, secondaria alla deplezione di potassio nel corpo e reversibile con l’integrazione del medesimo e/o con la sospensione del farmaco. La ciclosporina, uno tra i principali farmaci ad azione immunosoppressiva, è frequentemente utilizzata nei pazienti trapiantati a scopo anti-rigetto. L’effetto iperglicemizzante deriva da un effetto citotossico dose dipendente, diretto sulla betacellula. L’acido nicotinico, utilizzato nel trattamento delle dislipidemie spesso in associazione alla statina, a dosi elevate può determinare un aumento della 34 glicemia del 16% e dell’HbA1c del 21%, attraverso un aumento dell’insulino-resistenza e una riduzione della risposta insulinica in risposta all’iperglicemia. Nell’ambito delle terapie broncodilatatorie utilizzate nella malattie respiratorie croniche, con possibile azione iperglicemizzante, vanno ricordate la teofillina che, a dosaggio elevato, può indurre iperglicemia, per aumento delle catecolamine ed ipokaliemia e i beta stimolanti che determinano un aumento della glicogenolisi e della lipolisi. La terapia con antipsicotici atipici induce un importante aumento ponderale che aumenta significativamente il rischio di sviluppare diabete. Un recente studio, pubblicato su Jama ad Agosto 2013, ha dimostrato come l’utilizzo di antipsicotici atipici si associ ad un rischio di diabete aumentato di circa 3 volte, in modo dose dipendente, ma con maggior probabilità nel primo anno di trattamento. Nei pazienti HIV positivi, la terapia con inibitori delle proteasi determina un aumento ponderale e un’alterazione del metabolismo lipidico con aumento dei trigliceridi e riduzione del colesterolo HDL. L’incidenza di diabete, in questi pazienti, aumenta di circa 4 volte. Figura 9: Principali farmaci diabetogeni (riadattata dai criteri ADA 2013) Diabesità Il termine diabesità, coniato negli anni ’70 da Sims et al, descrive la stretta associazione tra diabete tipo 2 e obesità: il rischio relativo di sviluppare diabete infatti cresce all’aumentare del BMI e, nei pazienti obesi, è aumentato di circa 6 volte negli uomini e di 12 volte nelle donne. La diabesità rappresenta una pandemia dei nostri tempi, con una prevalenza e un impatto socio-economico-sanitario destinato a crescere. Stime recenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, infatti, indicano che Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze nel mondo un miliardo e mezzo di persone sono in sovrappeso (BMI > 25 Kg/m²) e 400 milioni presentano obesità (BMI > 30 Kg/m²). Parallelamente all’aumento epidemico dell’obesità, è sempre più evidente l’aumento del diabete: si calcola che nel mondo ci siano 171 milioni di diabetici e che questi numeri aumenteranno più del doppio nel 2030. I meccanismi patogenetici che spiegano lo stretto legame tra diabete e obesità consistono essenzialmente nell’aumento dell’insulino-resistenza generato dall’accumulo del grasso addominale, che generalmente si associa ad un deficit della prima fase di secrezione insulinica e ad un ridotto effetto incretinico. Riduzione della prima fase di secrezione insulinica. La prima fase di secrezione insulinica è ridotta di circa il 27% negli individui con alterata glicemia a digiuno e si riduce progressivamente con la distruzione beta cellulare causata dall’iperglicemia non controllata. Si calcola che al momento della diagnosi di diabete, il 50% della massa beta cellulare sia già perso. Ridotto effetto incretinico. Nei soggetti normali, la secrezione insulinica viene stimolata maggiormente se il glucosio viene somministrato per via orale, piuttosto che per via intravenosa. Questa differenza, dovuta al cosiddetto effetto incretinico, dipende dal rilascio in seguito al pasto di una serie di ormoni gastrointestinali, detti incretine (GLP-1, GIP) che stimolano la secrezione insulinica in maniera glucosio-dipendente. Tale effetto appare fortemente ridotto nei pazienti obesi, affetti da diabete tipo 2. Grasso viscerale, lipotossicità e diabete tipo 2. L’aumento del grasso viscerale si associa ad un’aumentata insulino-resistenza: i lipidi in eccesso infatti, una volta esaurita la capacità contenitiva degli adipociti, si accumulano negli altri tessuti, soprattutto fegato e muscolo, e determinano una riduzione del segnale insulinico all’interno delle cellule muscolari e degli adipociti. Ciò determina un ridotto trasporto del glucosio all’interno della cellula e pertanto iperglicemia. Gli effetti metabolici dell’aumento periferico di acidi grassi liberi viene denominato lipotossicità e comporta un aumentato stress ossidativo e una conseguente distruzione della massa beta-cellulare. Adipochine. Nell’obesità, inoltre, si osserva un’ alterazione dei livelli plasmatici di alcune adipochine che comporta aumentato rischio di diabete e di malattie cardiovascolari. L’adiponectina, ad esem- pio, che fisiologicamente aumenta la sensibilità insulinica e riduce il rischio cardiovascolare, appare fortemente ridotta nei pazienti obesi. La diagnosi di diabete nel paziente con obesità patologica segue i criteri validi per la popolazione generale. Tuttavia, in questa tipologia di pazienti, anche in assenza di diabete conclamato, si riconoscono caratteristiche alterazioni biochimiche generate dall’aumentata insulino-resistenza. La curva glicemica e insulinemica dopo carico orale di glucosio, infatti, presenta generalmente un picco glicemico spostato rispetto al fisiologico 30° minuto e spesso di gran lunga aumentato, anche in presenza di valori non diagnostici di diabete al 120° minuto. Analogamente, i livelli plasmatici di C-peptide, pur non rappresentando un criterio diagnostico validato e standardizzato, appaiono aumentati. Questi parametri, nella popolazione obesa, in assenza di definizioni standardizzate di insulino-resitenza, costituiscono markers indiretti di alterazioni glicometaboliche al limite del diabete franco. Data la stretta relazione tra diabete e obesità, la cura del diabete non può prescindere dalla cura dell’obesità. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, la terapia medica dell’obesità risulta fallimentare in quanto scarsamente efficace a lungo termine; d’altra parte la chirurgia bariatrica si è ormai affermata come il trattamento più efficace e duraturo per l’obesità patologica e per il diabete, poichè determina, oltre ad un’importante riduzione del peso corporeo, anche un marcato miglioramento del compenso glicemico fino alla completa risoluzione della malattia. Diabete Post Chirurgia Bariatrica L’efficacia della chirurgia bariatrica nel migliorare e spesso normalizzare i livelli di glicemia in pazienti obesi con diabete tipo 2 sono stati confermati da un largo numero di studi osservazionali. La disponibilità di numerose evidenze in questo campo ha spinto le più importanti società scientifiche a considerare la chirurgia bariatrica come intervento di prima scelta nella gestione del paziente obeso e diabetico tipo 2. Una metanalisi di questi studi, recentemente condotta da Buchwald e altri, che includeva 135.246 pazienti, ha messo in evidenza che l’86,6% dei pazienti diabetici mostrava un netto miglioramento del compenso glico-metabolico e che il 78,1% andava incontro a completa risoluzione della malattia diabetica. 35 WINTER SCHOOL Questi risultati hanno reso necessario stabilire dei criteri standardizzati da adottare dopo chirurgia bariatrica, in base ai quali la malattia diabetica possa essere definita completamente risolta, parzialmente risolta, migliorata, non modificata o nuovamente presente. Tali criteri, stabiliti nella Consensus del 2009 ed elencati nella figura 11, comprendono la glicemia a digiuno, la HBA1c, la presenza/assenza di terapie ipoglicemizzanti e la durata del follow up. L’OGTT non è un metodo standardizzato dopo chirurgia bariatrica e pertanto non viene incluso tra i criteri di remissione: il rimaneggiamento dell’anatomia gastro-intestinale indotto dalla procedura bariatrica determina infatti un alterato transito intestinale. Figura 10: Criteri di remissione del diabete dopo chirurgia bariatrica Un nostro studio, recentemente pubblicato, ha confrontato un gruppo di 30 pazienti diabetici sottoposti a Sleeve Gastrectomy con un gruppo di 30 diabetici trattati con terapia medica convenzionale per un follow-up di 18 mesi. La risoluzione del Diabete Mellito tipo 2 si verificava nell’80% dei pazienti operati ed in nessuno dei pazienti trattati con approccio dieto-farmacologico. In accordo con altri reports della letteratura nel nostro studio alcune caratteristiche cliniche e biochimiche dei pazienti diabetici sembravano essere importanti determinanti per la remissione della malattia. Primo fra tutti, una minor durata di malattia rappresentava il più importante fattore prognostico positivo in termini di cura del diabete. Inoltre, i livelli preoperatori di C-peptide, espressione della funzione beta cellulare residua, erano significativamente più alti nei pazienti in cui si osservava la remissione rispetto a quelli rimasti diabetici dopo la chirurgia. Anche il grado di compenso glicemico prima 36 dell’intervento sembrava essere un importante fattore prognostico positivo: infatti, i pazienti in cui si otteneva la remissione del diabete avevano una HbA1c pre-operatoria di 6,6% rispetto a 10,9% dei pazienti “non curati”. Bibliografia 1. Standards of Medical Care in Diabetes 2013-American Diabetes Association, Diabetes Care, volume 36, supplemento 1, Gennaio 2013; 2. Diagnosis and classification of diabetes mellitus - American Diabetes Association, Diabetes Care, volume 36, supplemento 1, Gennaio 2013; 3. Standard italiani per la cura del diabete mellito 2009-2010; 4. 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Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità l’80% delle morti cardiovascolari precoci può essere prevenuto attraverso modifiche dello stile di vita, in particolare seguendo una alimentazione corretta, svolgendo una regolare attività fisica, evitando il fumo di sigaretta (Figura 1). Di conseguenza, la correzione dello stile di vita è il trattamento di prima scelta nelle linee guida per il trattamento di molte malattie croniche, specialmente quelle legate al sistema cardiovascolare. Figura 2 Per il cambiamento comportamentale la più comune teoria è quella del modello a stadi di Prochaska e Di Clemente¹, secondo la quale il paziente può essere collocato in uno stadio definito e il processo di cambiamento avviene con il passaggio da uno stadio all’altro (Figura 3). Figura 1 Nonostante queste conoscenze, i fattori legati allo stile di vita rimangono ancora oggi i primi responsabili della mortalità cardiovascolare e, pertanto, la consapevolezza del rischio associato con questi comportamenti non si è rivelata una condizione sufficiente a promuovere il cambiamento comportamentale. La resistenza alle modifiche dello stile di vita è determinata da cause molto diverse che includono ostacoli cognitivi, emotivi e comportamentali (Figura 2). 38 Figura 3 A seconda dello stadio in cui si trova il paziente si deve differenziare l’intervento per spingere il processo verso il cambiamento. Va anche considerato che una persona può essere in stadi diversi per quanto riguarda cambiamenti diversi, ad esempio può differire per l’alimentazione e l’attività fisica. Una condizione essenziale nel processo di motivazione è naturalmente che gli operatori sanitari Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze siano essi stessi motivati e convinti dell’importanza del cambiamento. Ci sono evidenze che suggeriscono che fattori come l’attività fisica del medico curante e gli impedimenti percepiti dal medico curante sono associati con il livello di attività fisica del paziente² (Figura 4). Un risultato del Finnish Diabetes Prevention Study4 da rimarcare è stato che, sia nel gruppo di intervento che in quello di controllo, la probabilità di successo, cioè la non comparsa del diabete era correlata al numero di obiettivi raggiunti nel primo anno, tanto che nessun partecipante ha sviluppato il diabete nel corso dello studio tra quelli che avevano raggiunto almeno 4 obiettivi dell’intervento, indicando la potenziale abolizione del rischio di diabete in presenza di un corretto stile di vita (Figura 6). Figura 4 È stato osservato anche che il sostegno alla pratica dell’esercizio fisico è più credibile se proviene da un operatore sanitario che pratica regolarmente attività fisica³. Pertanto gli operatori sanitari dovrebbero praticare attività fisica non solo per i benefici personali ma anche come stimolo per i loro pazienti. Inoltre, conoscere le evidenze dei benefici derivanti dalla modifica dello stile di vita ottenute in studi randomizzati controllati costituisce un passaggio importante non solo per la motivazione dell’operatore sanitario, ma anche perché costituisce uno strumento indispensabile per trasmettere il messaggio e rendere consapevoli i pazienti di questi benefici. Infatti, i processi essenziali nel modificare lo stile di vita del paziente sono: 1) Rendere il paziente consapevole dei benefici e 2) Rimuovere gli ostacoli al cambiamento verso uno stile di vita corretto. Le evidenze fornite dagli studi di prevenzione del diabete sono adatte a tale scopo, in quanto danno una misura chiara e riproducibile dell’efficacia delle modifiche dello stile di vita (Figura 5). Figura 6 Figura 5 Figura 7 Un messaggio importante che viene invece dal Diabetes Prevention Program5 è che nella prevenzione del diabete la modifica dello stile di vita è finanche più efficace dell’utilizzo della metformina, che è un farmaco potenzialmente indicato a tale scopo in quanto agisce su un meccanismo patogenetico del diabete, cioè l’insulino-resistenza (Figura 7). 39 WINTER SCHOOL Per quanto riguarda i pazienti già affetti da diabete è importante ricordare che anche lo studio Look AHEAD, effettuato in oltre 5000 pazienti con diabete tipo 2 con l’obiettivo di ridurre il peso corporeo di almeno il 7% con l’intervento sullo stile di vita, ha mostrato un miglioramento significativo dei fattori di rischio cardiovascolare e del compenso glicemico durante i 4 anni di follow-up6 (Figura 8). fattore che può aver contribuito a non evidenziare benefici cardiovascolari dell’intervento intensivo può essere il fatto che l’obiettivo dello studio era ridurre il peso corporeo, quindi minore enfasi era posta sulla composizione della dieta, che invece ha effetti importanti sul rischio cardiovascolare. Nella fase successiva all’acquisizione della consapevolezza dei benefici, cioè dopo lo stadio contemplativo, inizia la fase di rimozione degli ostacoli al cambiamento. Per quanto riguarda la dieta i più frequenti ostacoli, da dover affrontare caso per caso, sono elencati nella Figura 9. Figura 8 In questo studio, nel gruppo sottoposto ad intervento intensivo sullo stile di vita si è osservata una remissione parziale o completa del diabete significativamente maggiore rispetto al gruppo di controllo sia ad un anno (11.5% vs. 2.0%) che a 4 anni dal follow-up (7.3% vs. 2.0%)7. Tuttavia, questo studio è stato interrotto dopo un follow-up medio di 9,6 anni, invece dei previsti 13,5 anni, perché non si osservava un miglioramento significativo dell’outcome primario che era composto da morte per cause cardiovascolari, infarto miocardico non fatale, ictus non fatale, ospedalizzazione per angina8. Per evitare il possibile trasferimento di questi risultati in un messaggio mediatico negativo ai pazienti sugli effetti delle modifiche dello stile di vita sull’obiettivo più rilevante, cioè quello cardiovascolare, è necessaria una attenta valutazione dello studio. Vanno, infatti, considerati diversi aspetti dello studio che possono aver reso difficile dimostrare il beneficio relativo dell’intervento intensivo sullo stile di vita, tra i quali il basso numero di eventi osservato in entrambi i gruppi, in parte conseguente all’intensificazione del trattamento dei fattori di rischio cardiovascolare anche nel gruppo di controllo. Infatti, i livelli di colesterolo LDL, tra i più rilevanti fattori di rischio cardiovascolare modificabili, erano più bassi e l’uso di statine maggiore nel gruppo di controllo che in quello di intervento. Un altro 40 Figura 9 Per cercare di modificare le abitudini alimentari e implementare le raccomandazioni nutrizionali per individui affetti da diabete è importante disporre di un programma di educazione basato su un protocollo ben strutturato, standardizzato per metodologia e contenuti. Un approccio efficace è quello di gruppo, che ha dimostrato effetti positivi su calo ponderale, controllo glicemico e fattori di rischio cardiovascolare9-11. Il gruppo ha di per se valore educativo, e i cambiamenti sono facilitati all’interno di piccoli gruppi, in quanto viene stimolata l’interazione, organizzato il confronto e, quindi, vengono favorite le decisioni poiché diminuiscono gli antagonismi personali e le pressioni esterne. Naturalmente, nel gruppo vanno rispettate le diverse modalità e velocità di apprendimento. Nella Figura 10 è riportato lo schema di un percorso educativo in pazienti con diabete tipo 2. Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze Figura 10 Figura 12 Tuttavia, di fondamentale importanza è l’accertamento delle abitudini alimentari del singolo paziente ottenibile con una adeguata indagine alimentare che permette di concentrare gli sforzi sulla correzione degli errori nell’alimentazione (Figura 11). Per il superamento di questi ostacoli è richiesta una sufficiente expertise da parte dell’operatore sanitario, che permetta di scegliere i suggerimenti più adatti al singolo paziente. Nelle Figure 13-17 sono riportati alcuni esempi di approccio al superamento di impedimenti all’attività fisica presentati dai pazienti. Figura 13 Figura 11 Per quanto riguarda i motivi della non adesione ad una vita attiva, nella Figura 12 sono riportati gli impedimenti verso un aumento dell’attività fisica che sono addotti più frequentemente dai pazienti12. Figura 14 41 WINTER SCHOOL basarsi su metodologie adeguate (es. approccio individuale, di gruppo o combinato) e per il suo successo richiede una motivazione adeguata e supporto dei partecipanti. Può essere necessario che il team per la cura del diabete spenda più tempo ad educare sulle modifiche dello stile di vita. È auspicabile che di questo team facciano parte, oltre che medici, infermieri e dietisti, anche professionisti dello stile di vita e psicologi con competenze specifiche. Figura 15 Bibliografia 1. Prochaska JO, DiClemente CC. Stages of change in Figura 16 Figura 17 In conclusione, nonostante le evidenze dei benefici connessi ad uno stile di vita corretto, il numero di persone con diabete che fanno sufficientemente attività fisica è relativamente scarso. Vi sono impedimenti comuni di tipo ambientale, sociale e personale. Questi ostacoli vanno identificati, discussi e possibilmente rimossi. Le strategie per la modifica dello stile di vita possono richiedere interventi intensivi ed investimenti in termini di risorse economiche e di tempo da parte degli operatori. È necessario un approccio multifattoriale che includa la correzione dell’alimentazione, la riduzione del peso e l’incremento dell’attività fisica. L’intervento educazionale deve 42 the modification of problem behaviors. Prog Behav Modif. 1992;28:183-218. 2. Duclos M, Coudeyre E, Ouchchane L. General practitioners' barriers to physical activity negatively influence type 2 diabetic patients' involvement in regular physical activity. Diabetes Care. 2011 ;34(7):e122. 3. Abramson S, Stein J, Schaufele M, Frates E, Rogan S. Personal exercise habits and counseling practices of primary care physicians: a national survey. Clin J Sport Med 2000; 10:40–48. 4. Tuomilehto J, et al. Finnish Diabetes Prevention Study Group. 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Prev Med 1992; 21(2):23751. 43 WINTER SCHOOL Come scegliere la terapia farmacologica: un approccio “EVIDENCE BASED” Gianluca Perseghin Dipartimento di Scienze Biomediche per la Salute, Università degli Studi di Milano & Medicina Metabolica, Policlinico di Monza Introduzione La terapia del diabete di tipo 2 si è basata sull’intervento educativo volto al cambiamento dello stile di vita e sull’utilizzo delle sulfaniluree e della metformina. Questi strumenti terapeutici sono stati per molti anni l’armamentario terapeutico disponibile per il diabetologo, che lo ha da sempre considerato insufficiente per una ottimale gestione della malattia. Negli ultimi anni però la gestione del compenso glicemico è diventata gradualmente più complessa per l’introduzione di nuovi farmaci e nei prossimi mesi altri ancora se ne renderanno disponibili. La possibilità del loro uso è stimolante per il diabetologo perché essi sono caratterizzati da nuovi meccanismi d’azione, da diversi livelli di efficacia sul target glicemico ma anche, potenzialmente, da diversa efficacia su altri obiettivi terapeutici fondamentali nel trattamento del diabete di tipo 2: la massa corporea, il rischio di ipoglicemia, il rischio cardiovascolare. Essi hanno anche importanti differenze relative al profilo di sicurezza nonché diverse indicazioni all’utilizzo in condizioni di co-morbilità che sono spesso presenti nel paziente diabetico. A complicare lo scenario generale ci sono poi stati i risultati frustranti di clinical trials che non sono riusciti a verificare l’ipotesi secondo la quale un controllo più puntuale della glicemia si associa ad un beneficio sulle complicanze macrovascolari. L’armamentario si è quindi improvvisamente arricchito di numerose opportunità terapeutiche ma allo stesso tempo le controversie relative al reale beneficio che ci si deve aspettare da queste terapie hanno confuso il diabetologo. La domanda ora è: come ottimizzare l’uso di questi nuovi strumenti terapeutici per prevenire e curare il diabete e migliorare la qualità di vita delle persone che ne sono affette (1)? GIi Standard Italiani per la Cura del Diabete Mellito generati dalla SID-AMD nella versione 2009-10 (2) hanno precorso i tempi e hanno anticipato le Linee Guida generate dalle Società Scientifiche Internazionali nonché le Consensus di esperti, affermando che le evidenze scientifiche disponibili lasciano aperta la possibilità di utilizzare, quando il compenso adeguato non è garantito con la sola metformina, ognuno dei farmaci a nostra disposizione 44 attualmente, quando compatibile con la storia e la situazione clinica del paziente. E’ stato introdotto il concetto di “terapia sartoriale” sostenuto da un lato dalla eterogeneità del quadro clinico dei nostri pazienti e dall’altra dalla disponibilità di questi nuovi strumenti così diversi tra di loro. Il diabetologo diventa un “sarto” nella sua capacità di generare diversi obiettivi terapeutici e approcci terapeutici personalizzati che meglio “vestano” le esigenze di ogni singolo paziente per meglio gestire non solo il diabete ma la sua intera patologia. Questo approccio “centrato” sulle caratteristiche del singolo paziente (3) rende difficile l’applicabilità della “evidence-based medicine” (EBM) alla pratica clinica, perché per sua natura questa viene generata sulla base di studi nei quali le caratteristiche dei pazienti selezionati sono abbastanza rigide e non sempre applicabili al singolo paziente. Intervento sullo stile di vita e metformina L’intervento volto a stimolare il livello di attività fisica e a controllare l’apporto calorico e dei nutrienti è considerato di importanza critica (2,3). Diversi trial condotti in pazienti con diabete di tipo 2 hanno confermato il miglioramento del controllo glicemico (4,5) e di diversi fattori di rischio di malattia cardiovascolare (5) durante programmi di attività fisica aerobica, contro resistenza e in associazione. Più recentemente l’analisi “intention-totreat” dei risultati dello studio Look-Ahead, focalizzato sugli effetti dell’intervento sullo stile di vita (esercizio fisico e dieta) allo scopo di ottenere la riduzione del peso corporeo comparato all’intervento educativo standard prolungato per un periodo mediano di quasi 10 anni non ha dimostrato un sicuro beneficio cardiovascolare (6). La metformina è il farmaco di prima scelta per il trattamento del diabete di tipo 2 sia in pazienti sovrappeso/obesi che normopeso. A dispetto del fatto che si tratti del farmaco più largamente utilizzato nel mondo, la EBM a riguardo non è particolarmente robusta e questa scelta si basa principalmente sullo studio UKPDS che ha descritto neutralità sul peso, basso rischio di ipoglicemia ed è buon profilo di tolleranza (7-9) se si esclude la Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze possibilità della comparsa dei noti effetti collaterali gastrointestinali; in questo caso il rischio può essere minimizzato titolando il dosaggio, fino ad un massimo di 2 g, nel tempo. È nota la descrizione di episodi di acidosi lattica grave (3 casi per 100.000 pazienti anno) per cui è controindicata nei pazienti a rischio di insufficienza renale acuta, chirurgia, uso di mezzi di contrasto o insufficienza renale cronica (GFR stimato < 60 mL/min); anche in questo caso non c’è EBM a supporto di uno specifico cut-off di filtrato da prendere in considerazione. E’ stata recentemente segnalata, anche se con uno studio di tipo osservazionale e trasversale, e quindi con livello di prova minore, un’associazione tra la terapia con metformina e ridotte funzioni cognitive (10). Terapia farmacologica di associazione Le raccomandazioni suggeriscono di ottenere un ottimale controllo della glicemia. Lo stretto controllo della glicemia comporta un aumento del rischio di ipoglicemia e del peso corporeo (9). Questo ha costituito uno dei motivi per i quali nei pazienti con diabete di tipo 2 l’adesione alla terapia è spesso scarsa e dopo qualche anno di malattia la necessità di una terapia combinata diventa inevitabile (7). Attualmente non esistono dati EBM che un farmaco sia preferibile ad altri. Per questo motivo verranno qui presi in considerazioni alcuni effetti desiderabili e non desiderabili delle terapie farmacologiche attualmente disponibili che possono eventualmente essere associate alla metformina. I dati sono qualitativamente riassunti in tabella 1. Efficacia terapeutica Gli inibitori dell’α‑glucosidasi, inibendo la digestione di carboidrati complessi e disaccaridi a monosaccaridi, ritardano l’assorbimento dei carboidrati e riducono le escursioni glicemiche post-prandiali. L’acarbosio, aggiunto a metformina, determina una riduzione dell’emoglobina glicosilata dello 0,5-0,6% (11) e quindi con una efficacia paragonabile, anche se non formalmente testata “add-on” a metformina, a quella dei DPP4-inibitori (. Le sulfaniluree, insulino secretagoghi, rappresentano la classe di farmaci che abbiamo a disposizione da più tempo e per questo motivo solo le molecole di più recente introduzione hanno a supporto dati generati da RCTs. In generale questa classe di farmaci induce una riduzione della HbA1c che può arrivare a 1‑1,5% (9). A dispetto di questo potente effetto è stato suggerito che la sua durabilità nel tempo possa essere minore rispetto a quella di altre classi di farmaci sulla base di studi che hanno valutato la glibenclamide comparata a metformina o rosiglitazone (13). E’ disponibile un secretagogo con rapida farmacodinamica (repaglinide) in grado di stimolare più rapidamente la secrezione insulinica e per questo viene somministrato prima dei pasti; la sua efficacia terapeutica non sembra essere diversa da quella di altre sulfaniluree. I tiazolidinedioni, che agiscono migliorando la sensibilità insulinica adipocitaria, epatica e muscolare hanno dimostrato che la loro efficacia è simile a quella della metformina e sulfaniluree. Il loro effetto pieno viene raggiunto solo dopo 3045 giorni dall’inizio della somministrazione (14) ma si caratterizzano poi per un durevole effetto nel tempo (13, 15). Le incretine costituiscono un gruppo di farmaci che agiscono aumentando i livelli circolanti di GLP1 che sembrano essere ridotti nei pazienti con diabete di tipo 2 (16, 17) anche se questa ipotesi sembra ora messa in discussione (18). Le incretine sono costituite dagli inibitori dell’enzima Dipeptidil‑Peptidasi IV che degrada il GLP1 endogeno o gliptine (Sitagliptin, Vildagliptin, Saxagliptin, Linaglitpin, Alogliptin) o dai recettori agonisti del recettore di GLP1. I DPPIV inibitori somministrati per bocca a pazienti con diabete tipo 2, si associano a un significativo miglioramento del controllo glicemico in monoterapia, in aggiunta a metformina o glitazoni o sulfaniluree o insulina (in Italia solo per Sitagliptin)(2,3) con efficacia comparabile a metformina (19), sulfaniluree e glitazoni (2,3) anche se i dati a lungo termine sono pochi e sembrano suggerire rispetto al glitazone una minor durata di azione nel tempo (20). I recettori agonisti di GLP1 (Exenatide, Exenatide LAR, Liraglutide, Lixisenatide, Albiglutide) somministrati tramite iniezione sottocutanea due volte al giorno, una volta al giorno o una volta alla settimana si caratterizzano anch’essi per una significativa riduzione dell’emoglobina glicosilata. Quando somministrati in associazione alla metformina, la riduzione è risultata comparabile a quella ottenibile con sulfaniluree (21) o superiore ad essa (22) mentre alcuni RCTs hanno dimostrato la superiorità degli agonisti di GLP1 quando comparati a pioglitazone e DPPIV inibitori (23, 24). Gli effetti anti-iperglicemici ma anche gli effetti su nausea, peso e parametri 45 WINTER SCHOOL cardiovascolari ottenuti con i diversi GLP1-RA sembrano essere differenti (25, 26) e non è possibile escludere che la causa possa risiedere nella diversa durata d’azione di questi agonisti del recettore GLP1 (short-acting vs. long acting)(27). Peso corporeo Gli inibitori dell’α‑glicosidasi, come la metformina, non hanno effetti negativi sul peso corporeo, a differenza delle sulfaniluree che inducono modesti incrementi di peso di solito direttamente proporzionali all’efficacia terapeutica. I tiazolidinedioni sono in grado di determinare incremento della massa corporea significativo nei primi mesi di introduzione della terapia (3) probabilmente proprio grazie al loro meccanismo d’azione che rende il tessuto adiposo (e quindi la lipolisi e esterificazione) più sensibile all’azione insulinica; esistono dati controversi relativi ad una aumentata ritenzione di liquidi come potenziale causa di incremento della massa corporea. I DPPIV inibitori hanno azione neutra sulla massa corporea a differenza dei GLP1-RA che manifestano una modesta/moderata riduzione iniziale del peso corporeo, tanto da immaginare il loro utilizzo anche nella terapia dell’obesità non complicata da diabete (28) eventualmente ai dosaggi più elevati. Rischio ipoglicemia Gli inibitori dell’α‑glicosidasi non si associano ad un rischio più elevato di ipoglicemia. L’utilizzo delle sulfaniluree invece è associato ad un aumentato rischio di ipoglicemie che viene documentato in modo robusto (29) e i cui effetti sono particolarmente severi nella popolazione più anziana (30). Tra tutte le sulfaniluree la gliclazide sembra essere caratterizzata da una minore incidenza di ipoglicemie per lo meno nella sua formulazione a rilascio modificato (31). L’utilizzo dei tiazolidinedioni, al contrario delle sulfaniluree, non si associa invece ad un aumentato rischio di ipoglicemia. Sia i DPPIV inibitori che gli agonisti del recettore di GLP1 sono associati ad un basso rischio di ipoglicemia. Sicurezza cardiovascolare I dati EBM suggeriscono, più che dimostrare, un effetto benefico della metformina in un ristretto gruppo di pazienti dello studio UKPDS (9). Gli inibitori dell’α‑glicosidasi sono stati tra i primi 46 farmaci ad essere testati come strumenti potenzialmente capaci di ridurre il rischio cardiovascolare e lo studio STOP NIDDM (32) ha dimostrato un effetto protettivo controverso (33). Le sulfaniluree se da un lato hanno dimostrato di indurre una riduzione delle complicanze micro vascolari (34) dall’altro possono legarsi non solo al loro recettore specifico presente sulle ß‑cellule (SUR1) ma anche con isoforme presenti a livello della muscolatura liscia delle arterie e dei miocardiociti con affinità maggiore per glibenclamide rispetto ad esempio a gliclazide e mediare effetti potenzialmente sfavorevoli. Questa è stata materia di controversie, ma a tutt’oggi esiste solo uno studio retrospettivo che ha dimostrato un effetto deleterio in termini di mortalità con l’utilizzo della glibenclamide (35). E’ vero però anche che uno studio osservazionale che ha interessato l’intera Danimarca ha riportato dati che suggeriscono che quando utilizzate in mono-somministrazione la glimepiride, glibenclamide, glipizide, e tolbutamide, si sono associate ad una aumentata mortalità e elevato rischio cardiovascolare quando comparate a metformina, mentre la terapia con gliclazide (in prevenzione secondaria) e repaglinide (in prevenzione primaria) è sembrata essere associata a minor rischio quando comparata alle altre sulfaniluree e non diverso quando comparata alla metformina (36). I tiazolidinedioni si associano ad un aumentato rischio di sviluppare scompenso cardiaco. Secondo alcuni autori la causa è determinata da ritenzione di fluidi (37), anche se studi più recenti mettono in discussione questa ipotesi (38). È possibile che il rischio possa essere aumentato nei pazienti in terapia insulinica. Rimane comunque a tutt’oggi controindicato l’uso nei pazienti con scompenso cardiaco (39). Il pioglitazone sembra avere un modesto effetto di protezione cardiovascolare sulla base del riscontro di alcuni end-points secondary dimostrati con un unico RCT (15). Il rosiglitazone al contrario non è più disponibile commercialmente per alcuni dubbi relativi ad un aumentato rischio di infarto del miocardio che rimane ai giorni nostri ancora controverso. Per i DPP4 inibitori è stato ipotizzato sulla base di indagini meta analitiche un eventuale effetto benefico cardiovascolare (40). Recentemente sono stati resi noti i risultati di due RCTs che hanno paragonato la Saxagliptin in prevenzione primaria (41) e l’alogliptin in prevenzione secondaria (42) rispetto Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze a placebo in studi di non inferiorità dimostrando un effetto neutro sui MACE. Anche per gli agonisti del recettore del GLP1 è stato ipotizzato un benefico effetto cardiovascolare (43, 44)ma per il risultato di RCTs con agonisti del recettore di GLP1 su endpoints cardiovascolari si dovrà attendere il 2014 per i dati dello studio Elixa (Lixisenatide in prevenzione secondaria), il 2016 per i dati dello studio Leader (Liraglutide), il 2017 per i dati dello studio Exscel (Exenatide once weekly), il 2019 i dati dello studio Rewind (Dulaglutide once weekly). Comorbidità: insufficienza renale cronica e insufficienza epatica Gli inibitori dell’α‑glicosidasi possono essere utilizzati in pazienti con IRC fino ad un GFR stimato di 30 mL/min. E’ stato descritto in passato che possano causare lievi e reversibili incrementi dei livelli di ALT e più raramente malattia epatica severa (45). A dispetto di ciò RCT hanno dimostrato che potrebbero essere utili nei pazienti diabetici con cirrosi non scompensata in terapia insulinica con miglioramento sia della glicemia a digiuno che di quella post-prandiale (46) e in pazienti con encefalopatia epatica, nei quali l’acarbosio contro placebo migliorava il compenso glicemico con una riduzione dell’ammonio circolante che è stato giustificato come dovuto alla potenziale selezione di batteri saccarolitici invece che proteolitici (47). Le sulfaniluree vanno incontro a clearance renale e per questo motivo in pazienti con IRC questi farmaci tendono a manifestare un accumulo dei loro metaboliti attivi con un rischio elevato di ipoglicemia, in particolare per la glibenclamide. In modo simile, anche se le sulfaniluree sono generalmente sicure nei pazienti con epatopatia, specialmente nei pazienti con cirrosi avanzata, la difficoltà a contrastare gli eventi ipoglicemici secondaria alla malattia epatica, impone quando questo tipo di trattamento viene scelto, un attento controllo della risposta alla terapia in termini di auto-monitoraggio della glicemia da parte del paziente. Il pioglitazone non è controindicato nel trattamento di pazienti con IRC perché non viene eliminato per via renale e non determina un aumento del rischio di ipoglicemia. Potrebbe essere utile nella terapia della non-alcoholic fatty live disease (NAFLD). Il dubbio di utilizzo di questa classe di farmaci in relazione alla epatotossicità scatenata dal capostipite troglitazone ritirato dal mercato pro- prio per questa ragione non sembra aver motivo di esistere in relazione al pioglitazone. Negli studi clinici randomizzati la terapia con pioglitazone si è associata ad incremento delle transaminasi comparabile a quello osservato nel gruppo in placebo o in alcuni casi una riduzione (48). Negli ultimi anni, il pioglitazone si è imposto come strumento farmacologico di trattamento della NAFLD per la sua capacità di ridurre il contenuto intraepatico di trigliceridi, di ridurre le degenerazioni epatocitarie e di ridurre l’infiltrato infiammatorio in almeno due RCTs (49, 50). Da ultimo è abbastanza recente il report secondo il quale l’uso del pioglitazone (e del rosiglitazone) nei pazienti diabetici si è associato ad un rischio ridotto di cancro del fegato rispetto ad altre strategie terapeutiche (51). Questo studio è stato generato dall’analisi di dati relativi a 606583 pazienti di Taiwan con diabete di tipo 2 senza storia di cancro al basale posti in terapia nel 2000 e rivalutati nel 2007. I DPP-IV inibitori sono a metabolismo renale; EMA autorizza l’utilizzo di Sitagliptin, Vildagliptin e Saxagliptin a dosaggi ridotti a seconda della gravità dell’insufficienza renale. Il più recente inibitore della DPP4, Linagliptin, essendo metabolizzato a livello epatico, può invece essere utilizzato anche in pazienti con insufficienza renale severa senza aggiustamento del dosaggio. I livelli serici di DPPIV sono elevati nei pazienti con cirrosi epatica (52) e si ritiene già da molti anni che la ragione sia un’aumentata espressione specifica a livello epatico (53). Più recentemente è stato dimostrato che i livelli di DPPIV serici sono aumentati anche nei pazienti con epatopatia HCVcorrelata (54) e NAFLD (55). E’ ipotizzato che il loro uso possa essere favorevole nella NAFLD ma i dati attualmente disponibili nell’uomo sono pochi. Non è necessario aggiustamento di dosaggio neppure con Linagliptin, a dispetto del fatto che il suo sia un metabolismo prevalentemente epatico. Gli agonisti del recettore per GLP1 sembrano avere una eliminazione che non viene significativamente modificata in condizioni di moderata insufficienza renale. Si potrebbe quindi immaginare il loro utilizzo anche in pazienti con IRC anche se questa ipotesi non è stata ancora formalmente testata. In relazione all’utilizzo dei GLP1RA in soggetti epatopatici a tutt’oggi, come per i DPP4-inibitori, i dati disponibili in vivo nell’uomo sono scarsi. Esiste un singolo report di somministrazione non controllata sia di Exenatide che di Liraglutide in un gruppo di 47 WINTER SCHOOL 25 soggetti diabetici obesi nei quali il trattamento ha indotto una riduzione del 25% del contenuto intra epatico di trigliceridi misurato mediante 1H MRS (56). Altri effetti collaterali/eventi avversi Gli inibitori dell’α‑glicosidasi hanno frequentemente effetti collaterali gastrointestinali (diarrea, flatulenza) che spesso interferiscono sull’adesione alla terapia, al contrario delle sulfaniluree che sono generalmente ben tollerate dai pazienti. Pioglitazone è stato recentemente associate ad un aumento del rischio di cancro della vescica (57) mentre è noto il rischio di fratture ossee anomale soprattutto nella popolazione di sesso femminile (13, 15). Da tempo è stato riportato un sospetto di rischio più elevato di pancreatiti (58) e più recentemente sono apparsi dati contrastanti sul rischio d‘insorgenza di neoplasia pancreatica nei pazienti diabetici in terapia con DPPIV inibitori agonisti del recettore GLP1 (59). E’ stato quindi richiesto alle industrie di rendere accessibili i dati in loro possesso per determinare se tale trattamento possa avere un effetto diretto sullo sviluppo della pancreatite e del cancro del pancreas. Recentemente EMA ha emesso un comunicato nel quale viene comunicato che questi dati non aggiungono un significativo impatto in relazioni ai dubbi associati a questi trattamenti, e che comunque specifici gruppi di lavoro sia della FDA che dell'EMA continueranno a sorvegliare e monitorare il trattamento incretinico in relazione al rischio di pancreatite e tumore pancreatico per assicurare che l’uso di questi strumenti terapeutici continui a garantire un bilancio di profilo di rischio/beneficio positivo (60). Conclusioni In questi ultimi anni la possibilità di controllare il compenso glicemico è diventata gradualmente più complessa per l’introduzione di nuovi farmaci e nuovi classi sono all’orizzonte. Queste nuove e numerose opportunità terapeutiche rimangono ancora circondate da diverse controversie relative al loro utilizzo sostanzialmente a causa degli scarsi dati EBM disponibili in letteratura, soprattutto di confronto su efficacia e sicurezza. Ho qui riassunto i dati EBM disponibili e alcuni dati meno robusti generati con studi di tipo osservazionale e quindi con livello di prova significativamente ridotto rispetto alle conclusioni raggiungibili con RCTs. Rimaniamo in attesa nei prossimi mesi/anni di dati che verranno generati da nuovi studi che potranno contribuire, nell’ottica di una sartorializzazione della terapia ad hoc per ogni singolo paziente, a decisioni terapeutiche maggiormente supportate dall’evidenza. Caratteristiche dei farmaci disponibili per la cura del diabete di tipo 2 note ad oggi. + indica effetto positivo, - indica effetto negativo * Aggiustamento del dosaggio non è necessario con Linagliptin Tabella 1 48 Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze Bibliografia 1. Buse JB, Caprio S, Cefalu WT, Ceriello A, Del Prato S, Inzucchi SE, McLaughlin S, Phillips GL, Robertson RP, Rubino F, Kahn R, Kirkman MS. How Do We Define Cure of Diabetes? 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Anche se inizialmente il difetto è relativo (carenza insulinica relativa), ovvero legato ad una produzione di insulina insufficiente a compensare la resistenza insulinica, con il tempo la beta-cellula diminuisce progressivamente la produzione di insulina fino ad un esaurimento funzionale come conseguenza del perpetuarsi di stimoli infiammatori e dannosi a carico della betacellula. La progressiva perdita della funzione betacellulare influenza negativamente l’efficacia del trattamento orale a lungo termine. È noto infatti che, nella storia naturale del diabete di tipo 2, si assiste con gli anni, alla perdita di efficacia del trattamento in atto e alla necessità di aumentare il dosaggio o il numero dei farmaci ipoglicemizzanti orali, per raggiungere il target glicemico, fenomeno noto da anni come “fallimento secondario degli ipoglicemizzanti orali”. Lo studio UKPDS ha infatti dimostrato che il trattamento ipoglicemizzante provoca una iniziale riduzione dei livelli glicemici e dell’emoglobina glicata con un successivo peggioramento del compenso glicemico nel tempo (Figura 2). A prescindere dalla causa prima che determina la perdita della funzione beta-cellulare, è l’incremento stesso della glicemia ad accentuare il danno delle cellule beta. La glucotossicità si manifesta fin dalle fasi iniziali del diabete, già con valori di glicemia a digiuno superiori a 115 mg/dl. Figura 1 Terapia insulinica nel diabete tipo 2. Quando? Il trattamento del diabete di tipo 2 dovrebbe essere finalizzato alla correzione dei difetti fisiopatologici alla base della malattia, mirando pertanto a correggere non solo l’insulino-resistenza, ma anche il deficit d’insulina. Ciò al fine di mimare sia la secrezione basale sia quella prandiale d’insulina e di raggiungere gli obiettivi glicemici più idonei per una prevenzione efficace delle complicanze croniche. Il goal primario del trattamento del diabete di tipo 2 è infatti quello di ottenere il più precocemente possibile un controllo glicemico ottimale e costante nel tempo, evitando possibilmente il pericolo delle ipoglicemie. 52 Figura 2 Anche lo studio ADOPT ha effettivamente documentato come il fenomeno sia più evidente nei pazienti trattati con una sulfonilurea, ma si verifichi anche in coloro che assumono metformina e, in misura minore, rosiglitazone (glitazonico non più in commercio in Italia) (Figura 3). Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze non consentiva una condizione di “messa a riposo funzionale” della beta-cellula. Al di là del “riposo funzionale” della beta-cellula, altre azioni dell’insulina possono tuttavia intervenire in questo processo. E’ noto infatti, che l’insulina svolge un ruolo anti-infiammatorio e che la stimolazione del recettore insulinico si traduce in segnali intracellulari diretti a favorire la crescita e la sopravvivenza delle beta-cellule. Figura 3 La terapia insulinica nel diabete tipo 2 diventa spesso indispensabile, quindi, per raggiungere e mantenere un buon controllo glicemico nel corso della malattia. Più recentemente, lo studio condotto da Weng e collaboratori (Figura 4 e 5) su 382 pazienti con diabete di tipo 2 di nuova diagnosi ha messo in evidenza che la terapia insulinica è più efficace della terapia orale nel conseguire e mantenere nel tempo la remissione del diabete. Tale studio innanzitutto conferma quanto era stato osservato anche in precedenti ricerche, che, analogamente, avevano dimostrato come una terapia insulinica intensiva, eseguita per un breve periodo in una fase iniziale della storia naturale, fosse in grado di restituire una normale funzione beta-cellulare e quindi una remissione del diabete per un lasso variabile di tempo. Un aspetto innovativo di questo studio, rispetto ai precedenti è, tuttavia, l’aver messo a confronto la terapia insulinica con la terapia ipoglicemizzante orale consistente per lo più nella associazione di metformina e di gliclazide, dimostrando la superiorità del primo trattamento rispetto al secondo. In entrambi i casi, è stato eliminato il ruolo della glucotossicità e si è perciò ottenuto un parziale e temporaneo recupero della funzione beta-cellulare e, quindi, una remissione transitoria del diabete, sia pure di diversa durata. Pertanto, la maggiore efficacia dell’insulina deve essere attribuita a effetti che prescindono dalla normalizzazione della glicemia. Uno di questi effetti può essere riconosciuto nella quiescenza funzionale delle beta-cellule, ottenuta con l’insulina e non con la terapia orale, che, nella maggior parte dei casi trattati, comprendeva, come già citato, insieme alla metformina, anche la gliclazide, un secretagogo, che, in quanto tale, Figura 4 Figura 5 L’importanza di una introduzione precoce di insulina nel trattamento del diabete tipo 2 si evince anche dalla consensus statement ADA/EASD e dagli Standard di cura italiani, SID/AMD in cui si raccomanda un più precoce impiego dell’insulina, già in aggiunta alla metformina, nel caso di scompenso metabolico significativo (Figura 6 e 7). Anche le linee guida canadesi raccomandano il ricorso al trattamento insulinico al momento della diagnosi di diabete tipo 2 qualora i livelli di HbA1c siano ≥9%. Un trattamento così precoce potrebbe, tra l’altro, avere effetti diretti sui meccanismi fisiopatologici della malattia. 53 WINTER SCHOOL prandiale (insulina rapida o analogo rapido subito prima di ogni pasto). Tale approccio agisce soprattutto normalizzando i livelli di glicemia postprandiale, ma è associato ad un rischio maggiore di effetti collaterali (ipoglicemia, incremento ponderale), come dimostrato nello studio 4T (The treat to target trial) (Figura 8). Figura 6 Figura 8 Figura 7 Terapia insulinica nel diabete tipo 2. Come? Una volta deciso di instaurare una terapia insulinica, bisognerà decidere quale protocollo terapeutico utilizzare tenendo ben presente che gli obiettivi sono volti al raggiungimento di valori glicemici pre e post prandiali e di HbA1c ottimali per età e comorbidità. Oltre che ad evitare il rischio sia di ipoglicemie sia di eccessivo incremento ponderale. Attualmente non esistono chiare indicazioni su come iniziare la terapia insulinica in un paziente con diabete di tipo 2. La scelta iniziale di somministrare una insulina basale (più comune) o prandiale dipenderà infatti dalle caratteristiche del paziente (personalizzazione della terapia). Le linee guida suggeriscono che nella maggior parte dei casi è opportuno iniziare aggiungendo alla terapia ipoglicemizzante orale una somministrazione di insulina basale. Tale insulina a lunga durata d’azione sarebbe molto utile per ripristinare valori di glicemia a digiuno normali e garantire sufficienti livelli di insulina nel periodo notturno ed al risveglio. Esistono poi altre opzioni terapeutiche che prevedono ad esempio l’utilizzo della sola insulina 54 Esiste infine uno schema di somministrazione di insulina che consente di mimare al meglio la fisiologica produzione di insulina endogena garantendo un buon controllo glicemico durante tutto l’arco della giornata; tale schema prevede quattro somministrazioni giornaliere, 3 boli pre-prandiali di insulina regolare o di analogo rapido e una somministrazione serale di insulina basale: basal/ bolus. Tale schema terapeutico alle volte risulta essere limitato dalla sua complessità e dal grado di compliance del paziente. Sarà compito del diabetologo condividere la scelta terapeutica con il paziente cercando di renderlo edotto sul fatto che una corretta gestione della terapia insulinica può migliorare significativamente il suo controllo metabolico. Figura 9 Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze 8. Holman RR et al; Three-year efficacy of complex insulin regimens in type 2 diabetes; N Engl J Med. 2009; Oct 29;361 (18): 1736-47. Figura 10 Per concludere, nel trattamento del diabete di tipo 2 la terapia insulinica non è più considerata come una opzione finale, ma può essere instaurata quanto prima possibile, se necessario. La combinazione di insulina e ipoglicemizzanti orali o una terapia multi iniettiva garantisce spesso un controllo glicemico migliore della sola terapia orale; il ripristino di più fisiologici livelli di insulina contribuisce a migliorare la tolleranza glucidica, riducendo il rischio di ipoglicemia e delle complicanze croniche del diabete. Bibliografia: 1. UK Prospective Diabetes Study (UKPDS) Group; 2. 3. 4. 5. 6. 7. 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Figura 1. Classificazione delle neuropatie diabetiche nomica diabetica (NAD) si presenta con una fase subclinica diagnosticata solo con misure strumentali e una clinica con segni e sintomi, quali l’ipotensione ortostatica, la gastroparesi, la diarrea diabetica e la disfunzione urogenitale. La localizzazione cardiovascolare della NAD (neuropatia autonomica cardiovascolare, CAN) è presente in circa il 20% dei pazienti diabetici e aumenta con l’età e la durata di malattia fino al 65%. La CAN è associata ad incremento della mortalità e morbilità attraverso meccanismi non del tutto esplorati (Figura 4) (5, 6). Figura 3. Rilevanza clinica della polineuropatia diabetica Figura 2. Definizioni delle forme più comuni Figura 4. Significato prognostico della neuropatia autonomica diabetica La polineuropatia sensitivomotoria simmetrica distale diabetica (PND) è la forma più frequente, con una prevalenza del 30%, e si caratterizza per le ricadute sulla qualità di vita (QoL) della sua forma dolorosa (neuropatia diabetica dolorosa, NDD), che rappresenta circa la metà dei casi, e per il ruolo patogenetico dei deficit sensitivomotori nelle lesioni del piede diabetico (Figura 3). La neuropatia auto- 56 Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze Diagnosi della PND La diagnosi clinica di PND si basa sulla ricerca dei sintomi, preferibilmente con questionari strutturati e validati, e segni con un esame neurologico focalizzato sugli arti inferiori, che esplori in particolare la funzione sensitiva nelle sue diverse modalità, e comprenda anche l’ispezione del piede (Figura 5) (1, 3, 7, 8). Figura 5. Componenti della valutazione diagnostica della polineuropatia diabetica distale, o un impegno motorio importante, deve costituire motivo di invio al neurologo o di indagini elettroneurografiche. Inoltre, può essere utile escludere la presenza di deficit della vitamina B12 e di gammopatie monoclonali come cause o concause di polineuropatia lunghezza dipendente. Sistemi strutturati a punteggio per l’esame neurologico sono stati validati rispetto al gold standard rappresentato dall’esame elettroneurografico, dimostrando un’accettabile accuratezza diagnostica. L’esame neurologico può avvalersi di modalità di valutazione quantitativa della sensibilità, quale la percezione vibratoria o la sensibilità pressoria al monofilamento, quest’ultima di semplice esecuzione e utilizzabile insieme con l’ispezione del piede per uno screening rapido dei pazienti a rischio di ulcerazione del piede (3). Occorrono alcune cautele in questo approccio diagnostico, in primis il fatto che l’esame neurologico è operatore dipendente. Inoltre, un alto grado di certezza diagnostica si raggiunge solo con la conferma elettroneurografica dei sintomi e segni neuropatici, come indicato dal Toronto Consensus Panel sulla Neuropatia Diabetica (Figura 6) (1, 2). Figura 6. Criteri per la diagnosi di polineuropatia diabetica secondo la Consensus di Toronto Nel paziente con diabete, infine, possono presentarsi neuropatie non diabetiche, come la stenosi spinale e la CIDP, per cui una presentazione atipica di sintomi e segni, cioè una distribuzione asimmetrica, o non esclusivamente o prevalentemente Valutazione delle piccole fibre La disponibilità di nuove tecniche di studio delle piccole fibre, quali la biopsia di cute per valutare in maniera qualitativa e morfometrica le fibre nervose intraepidermiche (intraepidermal nerve fibre, IENF) e la microscopia confocale della cornea (Corneal Confocal Microscopy, CCM) che misura la ricca innervazione corneale ha richiamato l’attenzione sul coinvolgimento delle piccole fibre nella neuropatia diabetica. Vi sono alcune indicazioni sulla sua precocità che anticiperebbe anche la diagnosi di diabete, sulla sua possibile presentazione isolata, sulla sua maggiore suscettibilità agli interventi terapeutici rispetto alle misure tradizionali di outcome (Figura 7) (9, 10). Figura 7a. Studio morfologico delle piccole fibre con la biopsia di cute Figura 7b. Studio morfologico delle piccole fibre con la microscopia confocale della cornea Nel paziente diabetico può manifestarsi una polineuropatia isolata delle piccole fibre, non specifica del diabete, caratterizzata dalla presenza di sintomi sensitivi e segni di danno di queste fibre con distribuzione simmetrica e distale, e dalla documentazione di ridotta densità delle IENF alla biopsia di cute e/o di ridotte soglie termiche con risparmio delle grandi fibre sensitive e quindi normalità dell’esame elettroneurografico del nervo surale (9, 10). 57 WINTER SCHOOL Percorso diagnostico nella NDD Il percorso che porta alla diagnosi di NDD comprende l’identificazione e la valutazione del dolore neuropatico e l’accertamento della presenza di PND, a cui il dolore neuropatico deve essere attribuito per definizione. Gli elementi chiave di questo percorso sono quindi: 1. accertamento della presenza di PND; 2. diagnosi e valutazione del dolore neuropatico; 3. diagnosi differenziale verso cause diverse di neuropatia o di dolore (7, 8) (Figura 5). Il dolore neuropatico è il dolore che nasce come diretta conseguenza di una lesione o malattia del sistema somatosensitivo (4) e nella NDD ha caratteristiche peculiari (Figura 9). Figura 9. Caratteristiche del dolore neuropatico della polineuropatia diabetica dolorosa La recente disponibilità di valori normativi consente oggi la diagnosi di neuropatia delle piccole fibre nel singolo paziente (9). La biopsia di cute a livello distale con quantificazione della densità delle IENF è considerata una tecnica validata e affidabile per la diagnosi della neuropatia delle piccole fibre (1, 9, 10) (Figura 8). Figura 8. Criteri per la diagnosi di neuropatia delle piccole fibre nel diabete secondo la Consenus di Toronto Viste le caratteristiche del dolore come fenomeno clinico soggettivo non misurabile oggettivamente, sono stati sviluppati questionari autosomministrati per la diagnosi di dolore neuropatico (strumenti di screening), altri per la sua valutazione (questionari di valutazione) (11) e per il follow-up. L’uso di strumenti validati di misura del dolore è parte essenziale sia del processo diagnostico sia del trattamento della NDD. Il principale vantaggio degli screening tool è di identificare potenziali pazienti con dolore neuropatico particolarmente da parte di non specialisti, con il limite però di una sensibilità imperfetta che impedisce di catturare il 10-20% dei pazienti con dolore neuropatico (11). Il DN4 è uno dei più usati (12) (Figura 10). Figura 10. Lo screening tool DN4 La valutazione dell’intensità del dolore avviene mediante l’uso di scale analogiche visive (VAS), o ordi- 58 Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze Figura 12. Sintomi autonomici nali numeriche (NRS) o verbali (VRS) (11). Il Neuropathic Pain Symptom Inventory (NPSI) (11, 13) è un autoquestionario per distinguere e quantificare 5 distinte dimensioni clinicamente rilevanti del dolore neuropatico (componente superficiale e profonda del dolore spontaneo continuo, dolore parossistico, dolore evocato e parestesie/disestesie). Il Brief Pain Inventory (BPI) è un test multidimensionale costituito da una immagine del corpo umano, 8 item sull’intensità del dolore e 7 sulla interferenza del dolore sulla vita quotidiana. È essenziale valutare la risposta al trattamento considerando anche la percezione soggettiva di cambiamento del paziente. La figura 11 propone un algoritmo del percorso diagnostico della NDD (14). Figura 11. Algoritmo diagnostico della polineuropatia diabetica dolorosa Diagnosi della CAN Diverse modalità diagnostiche sono disponibili per la valutazione della CAN. I sintomi cardiovascolari sono aspecifici in particolare quelli ortostatici. Per il carattere invalidante dei sintomi autonomici la loro presenza va comunque ricercata in ogni paziente e, se confermata, richiede ulteriori indagini diagnostiche (Figura 12) (5). Le forme cliniche di CAN possono essere sospettate e individuate con modalità facilmente accessibili e diffuse in ambito clinico, ricercando la presenza di tachicardia a riposo, ipotensione ortostatica, allungamento dell’intervallo QT all’ECG e di nondipping o reverse dipping (perdita completa della caduta pressoria notturna) al monitoraggio ambulatoriale della pressione arteriosa (Figura 13). Con l’eccezione della tachicardia a riposo, questi segni clinici sono marker specifici (specificità 86-98%) anche se non sensibili di CAN (sensibilità 26-31%) (6). Figura 13. Segni clinici di neuropatia autonomica cardiovascolare I test cardiovascolari sono considerati tuttora misure standardizzate e d’alta accuratezza diagnostica e riconosciute come il gold standard nella valutazione della funzione autonomica cardiovascolare (Figura 14) (5, 6). Figura 14. Gold standard nella diagnosi di neuropatia autonomica cardiovascolare 59 WINTER SCHOOL Figura 16. Utilità della diagnosi di neuropatia autonomica cardiovascolare I criteri per la diagnosi e stadiazione di CAN sono: un test patologico individua una condizione di CAN possibile o precoce; almeno due test patologici sono richiesti per la diagnosi di CAN certa o confermata; la presenza di ipotensione ortostatica oltre all’anormalità dei test di frequenza cardiaca identifica una CAN grave o avanzata (Figura 15) (1, 6). Figura 15. Stadiazione della neuropatia autonomica cardiovascolare La diagnosi di CAN consente di trattare le forme sintomatiche e viene proposta nella stratificazione del rischio cardiovascolare nei pazienti diabetici asintomatici (Figura 16). I test cardiovascolari sono anche necessari per la diagnosi delle forme cliniche non cardiovascolari di NAD suscettibili di trattamento (6). Altre modalità diagnostiche come le misure di variabilità della frequenza cardiaca e di sensibilità del baroriflesso sono usate più spesso in ricerca o come end-point negli studi clinici, ma stanno avendo una crescente applicazione anche in ambito clinico (Figura 17) (6). Figura 17. Indicazioni per le diverse modalità diagnostiche della neuropatia autonomica diabetica Terapia delle neuropatie diabetiche Correlati clinici e patogenesi della PND Fattori di rischio e correlati clinici della PND sono illlustrati nella Figura 18. Figura 18. Correlati clinici della polineuropatia diabetica Negli ultimi anni sono cresciute le conoscenze sui meccanismi patogenetici della neuropatia diabetica, che molteplici, per quanto distinti, sono mutuamente interconnessi e sinergistici, trovando molti di essi un punto di arrivo comune nell’aumentare lo stress ossidativo-nitrosativo, nell’al- 60 Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze terata espressione genica, e nell’infiammazione, con esito in danno e morte cellulare. I meccanismi patogenetici identificati sono nella Figura 19 che include anche meccanismi patogenetici emergenti come l’attivazione della PARP e della MAPK (Figura 19). Figura 19. Patogenesi della polineuropatia diabetica peptide C, actovegina, combinazioni di vitamine B, tuttavia insufficienti per raggiungere l’approvazione da parte delle agenzie regolatorie. Resta l’evidenza del ruolo del controllo metabolico nel prevenire l’insorgenza e l’evoluzione della neuropatia, con effetti anche a distanza dal periodo di controllo glicemico intensivo come risulta nel diabete di tipo 1 dai dati dello studio EDIC, mentre meno eclatanti e univoci sono i dati nel diabete di tipo 2 (Figura 21 e 22). Figura 21. Effetti del controllo glicemico su sviluppo e progressione della polineuropatia diabetica Terapia patogenetica della polineuropatia diabetica I diversi meccanismi patogenetici sono diventati target per varie terapie farmacologiche patogenetiche, che pur promettenti sulla base dei dati sperimentali, sono risultate però deludenti quando applicati all’uomo (Figura 20). Figura 20. Studi clinici per il trattamento “diseasemodifying” della polineuropatia diabetica Ad eccezione dell’Epalrestat in commercio in Giappone, tutti gli altri inibitori dell’aldosoreduttasi sono stati ritirati o mai immessi in commercio a causa della tossicità o della inefficacia. Vi sono alcuni dati positivi con acido alfa-lipico, Figura 22. Cochrane sul ruolo del controllo glicemico nella polineuropatia diabetica Per il fallimento di molti degli studi clinici nella PND, si è avuta una riflessione critica sulla loro impostazione soprattutto in relazione al disegno e agli end point adottati, che risulterebbero poco sensibili nell’evidenziare, nei tempi di uno studio clinico, regressione o non progressione nel gruppo in trattamento con il farmaco attivo rispetto al placebo. Inoltre negli ultimi studi clinici la progres- 61 WINTER SCHOOL sione dei deficit sensitivi nel gruppo placebo è risultata particolarmente lenta, probabilmente per il miglioramento del trattamento del diabete, e la risposta placebo più consistente dell’atteso. Metodiche di valutazione delle piccole fibre, come la biopsia cutanea o la CCM, potrebbero rappresentare degli end point surrogati della neuropatia diabetica, più prontamente suscettibili all’intervento terapeutico. Figura 23. Trattamento sintomatico del dolore neuropatico nella neuropatia diabetica dolorosa Figura 24. Farmaci per il dolore neuropatico con Number Needed to Treat, Number Needed to Harm e Relative Benefit secondo le meta-analisi Cochrane disponibili. Terapia della neuropatia diabetica dolorosa Farmaci efficaci si sono resi invece disponibili per il trattamento del dolore neuropatico, che resta comunque ancor oggi problematico. Le maggiori criticità nel trattamento sono la sottodiagnosi, il mancato (dal 25 al 39%) o ritardato trattamento, l’uso di farmaci non specifici, una strategia inadeguata riguardo a dosi, titolazione, durata del trial, monitoraggio di efficacia e sicurezza, e infine una difficoltà intrinseca del trattamento. Requisiti per un corretto approccio terapeutico sono quindi la conoscenza dei farmaci disponibili, una scelta che tenga conto della loro efficacia e sicurezza e delle comorbilità, e quindi il monitoraggio della risposta terapeutica e di eventuali eventi avversi. Gli antidepressivi triciclici, gli antidepressivi serotoninergici noradrenergici (SNRI) come la duloxetina e gli α2δ ligandi gabapentin e pregabalin sono considerati i farmaci di prima linea, mentre oppioidi o similoppioidi come tramadolo e ossicodone sono opzioni di seconda linea secondo le linee guida disponibili (Figura 23 e 24) (14-19). 62 Figura 25. Raccomandazioni terapeutiche farmacologiche nella neuropatia diabetica dolorosa Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze Figura 26. Gestione farmacologica stepwise nella neuropatia diabetica dolorosa Una risposta terapeutica insufficiente può richiedere il passaggio da una classe di farmaci ad un’altra o la combinazione tra farmaci di diversa classe quando il primo usato ha avuto efficacia parziale. Gli studi controllati di combinazione dei farmaci sono comunque scarsi e hanno solitamente indicato migliore efficacia e sicurezza dei farmaci in combinazione rispetto alla monosomministrazione, benché il recente studio COMBO non abbia confermato la superiorità della combinazione pregabalinduloxetina sulla monoterapia ad alte dosi dei due farmaci (Figura 27). mero molto limitato di studi controllati nel dolore neuropatico, dalla difficoltà di avere un credibile placebo ‘attivo’, e dalla relativa breve esperienza con le metodiche più recenti (Figura 28) (20, 21). Figura 28. Terapie locali e fisiche della neuropatia diabetica dolorosa Trattamento della neuropatia autonomica diabetica La Figura 29 mostra i correlati clinici della NAD, in parte ma non completamente sovrapponibili a quanto osservato per la PND (6). Figura 29. Correlati clinici della neuropatia autonomica diabetica Figura 27. Combinazione di farmaci nel trattamento della neuropatia diabetica dolorosa Stanno assumendo un ruolo di rilievo anche terapie topiche con capsaicina o lidocaina (applicabili in forme circoscritte di dolore) e terapie fisiche, tra cui quelle di neurostimolazione, dotate di maggior sicurezza rispetto al trattamento farmacologico. Una valutazione conclusiva della efficacia delle terapie fisiche è comunque resa difficoltosa dal nu- L’intervento sullo stile di vita ha mostrato qualche beneficio preventivo su alcuni indici di funzione autonomica cardiovascolare (misure di heart rate variability) in particolare nel prediabete e diabete di tipo 2. Il controllo glicemico ha un ruolo preventivo nel diabete di tipo 1 mentre in quello di tipo 2 un approccio a diversi fattori di rischio cardiovascolare sembra necessario per ritardar- 63 WINTER SCHOOL ne sviluppo e progressione (come dimostrato nello studio STENO 2) (Figura 30 e 31) (6). La presenza di segni clinici di CAN richiede un intervento mirato che ne riduca le conseguenze prognostiche, come per l’ipertensione notturna o l’ipotensione ortostatica. Le terapie delle forme sintomatiche non cardiovascolari sono citate nella Figura 32. Figura 32. Trattamento delle forme non cardiovascolari. Figura 30. Terapia della neuropatia autonomica diabetica Figura 31. Raccomandazioni della Consensus di Toronto sulla gestione della neuropatia autonomica diabetica. 64 Messaggi chiave 1. La diagnosi di PND clinica si basa sulla valutazione dei sintomi neuropatici e dei segni di deficit sensitivi e motori. Questionari e sistemi strutturati a punteggio per l’esame neurologico possono migliorare standardizzazione e riproducibilità. 2. Per una diagnosi confermata di PND occorre l’anormalità dell’esame elettroneurografico in aggiunta ai sintomi e/o ai segni. 3. Quadri atipici richiedono sempre il ricorso al neurologo e lo studio elettroneurografico. 4. La presenza di sintomi e segni riferibili a danno delle piccole fibre nervose in assenza di anormalità della conduzione nervosa può suggerire la presenza di neuropatia delle piccole fibre da confermare con la biopsia di cute o lo studio delle soglie termiche. 5. Per la diagnosi di NDD occorre dimostrare la presenza di dolore neuropatico riferibile alla PND: l’uso di screening tool è utile nel discriminare il dolore neuropatico da quello nocicettivo. 6. I test cardiovascolari sono il gold standard per la diagnosi di NAD. 7. L’identificazione dei segni clinici di CAN (allungamento dell’intervallo QT, ipotensione ortostatica, reverse dipping) consente di mettere in atto utili misure terapeutiche, mentre la diagnosi delle forme asintomatiche può servire alla stratificazione del rischio cardiovascolare nel singolo paziente. 8. I test cardiovascolari sono anche necessari per la diagnosi delle forme cliniche non cardiovascolari di NAD suscettibili di trattamento. 9. Il ruolo del controllo glicemico nella preven- Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze zione della PND e della neuropatia autonomica cardiovascolare è confermato nel diabete di tipo 1 dagli studi DCCT e EDIC, mentre nel diabete di tipo 2 le evidenze sono meno conclusive e sembra necessario un approccio mirato anche ad altri fattori di rischio. 10. Non vi è per nessuna terapia patogenetica farmacologica evidenza di efficacia e sicurezza che ne consenta il riconoscimento da parte delle agenzie regolatorie. 11. La gestione terapeutica della NDD richiede conoscenza di efficacia e sicurezza dei farmaci per il dolore neuropatico, scelta tra i farmaci di prima linea in base alle comorbilità, e monitoraggio della risposta al trattamento in termini di efficacia e eventi avversi. 12. Per l’efficacia parziale o la limitata tollerabilità dei farmaci, può essere necessario il passaggio ad altra classe di farmaci o la combinazione di farmaci di diverse classi, ma non vi è evidenza conclusiva del vantaggio di tale approccio sulla monoterapia ad alte dosi. 13. Per il loro favorevole profilo di sicurezza, le terapie fisiche non invasive sono una opzione terapeutica da considerare. 14. Il coinvolgimento della persona con dolore neuropatico e la precocità di intervento sono componenti essenziali della strategia terapeutica. Bibliografia 1. Tesfaye S, Boulton AJ, Dyck PJ, Freeman R, Horowitz M, Kempler P, Lauria G, Malik RA, Spallone V, Vinik A, Bernardi L, Valensi P; Toronto Diabetic Neuropathy Expert Group. Diabetic neuropathies: update on definitions, diagnostic criteria, estimation of severity, and treatments. Diabetes Care 33:2285-2293, 2010 2. 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Pain 2013 Jun 6 66 Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze Diagnosi e Trattamento della Nefropatia Diabetica Giuseppe Penno U.O. di Malattie Metaboliche e Diabetologia Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale Azienda Ospedaliero Universitaria di Pisa Introducing L’incidenza di malattia renale cronica (Chronic Kidney Disease, CKD) e quella di insufficienza renale (End-Stage Renal Disease, ESRD) sono in progressivo aumento nella popolazione generale. Tale aumento è dovuto sia all’invecchiamento della popolazione che alla più efficace protezione cardiovascolare ma, soprattutto, all’aumentata prevalenza di obesità, diabete ed ipertensione. I soggetti con CKD e ancor più quelli con ESRD presentano un elevato rischio cardiovascolare ed una aumentata incidenza di angina, infarto del miocardio, scompenso cardiaco, ictus, patologia vascolare periferica, aritmie e morte improvvisa, mortalità per cause cardiovascolari e per tutte le cause (figura 1 e figura 2) (1). range of eGFR and ACR (Figure 1, panels A and C and Figure 2, panels A and C). When we set separate references points in the diabetes and no diabetes groups to assess an interaction with diabetes specifically, HR for low eGFR and high ACR were much the same in participants with and without diabetes, showing no point-wise interaction (Figure 1, panels B and D and Figure 2, panels B and D) Figura 2 - Hazard ratios for all-cause and cardiovascular mortality in the combined general and highrisk populations according to ACR in participants with and without diabetes. (A, B; all-cause mortality; C, D: cardiovascular mortality). Figura 1. Hazard ratios for all-cause and cardiovascular mortality in the combined general and highrisk populations according to eGFR in individuals with and without diabetes. A, B: all-cause mortality; C, D: cardiovascular mortality. In the 30 combined general population and high-risk cohorts with data for all-cause mortality, 75,306 deaths occurred during a mean follow-up of 8•5 years (SD 5•0). In the 23 studies with data for cardiovascular mortality, 21,237 deaths occurred from cardiovascular disease during a mean follow-up of 9•2 years (SD 4•9). When we set one reference point in the no diabetes group, HR for all-cause mortality and cardiovascular mortality at a given eGFR or ACR (Figure 2) were 1.2-1.9 times higher in participants with diabetes than in those without diabetes across the entire Il diabete è la principale causa di CKD e di ESRD sia negli Stati Uniti che in numerosi paesi europei (2). Anche in Italia l’incidenza di ESRD attribuibile al diabete è andata rapidamente crescendo. Nel 2009, in Italia, il diabete è stato causa del 19.6% dei nuovi casi di ESRD ed era secondo solo all’ipertensione (25.3% vs 34.3%) quale condizione di comorbidità nei casi incidenti di ESRD (3). In generale, sia l’incidenza di CKD che quella di ESRD sono in progressiva riduzione nei soggetti con diabete tipo 1, ma in progressivo aumento nei pazienti con diabete tipo 2. E’ tuttavia necessario osservare che negli Stati Uniti nel contesto di un progressivo aumento dell’incidenza del diabete (2), sono stati registrati nell’ultimo decennio sia una stabilizzazione nel numero assoluto di nuovi casi di ESRD dovuti al diabete che una riduzione della percentuale di soggetti diabetici che entrano nei programmi di trattamento per l’ESRD. Tali risul- 67 WINTER SCHOOL tati sono probabilmente da attribuirsi all’efficacia degli interventi di diagnosi precoce e di prevenzione dell’insorgenza e della progressione della nefropatia diabetica (ND) basati soprattutto sul controllo della glicemia e della pressione arteriosa, ma anche della dislipidemia (4). Fattori di rischio La durata del diabete ed il controllo glicemico, espressioni dell’“intensità” dell’esposizione all’iper-glicemia, sono i principali fattori di rischio per la ND. EURODIAB (EURODIAB IDDM Complications Study) (5) e DCCT (Diabetes Control and Complications Trial) (6) nel diabete tipo 1, UKPDS (United Kingdom Prospective Diabetes Study) (7) e ADVANCE (Action in Diabetes and Vascular Disease; figura 3) (8) Figura 3 – ADVANCE trial: treatment effects on end-stage renal disease (ESRD, requirement for dialysis or renal transplantation), total kidney events, renal death, doubling of creatinine to above 200 µmol/l, new-onset macroalbuminuria or microalbuminuria, and progression or regression of albuminuria, were then assessed. After a median of 5 years, the mean hemoglobin A1c level was 6.5% in the intensive group, and 7.3% in the standard group. Intensive glucose control significantly reduced the risk of ESRD by 65%, microalbuminuria by 9%, and macroalbuminuria by 30%. The progression of albuminuria was significantly reduced by 10% and its regression significantly increased by 15%. nel diabete tipo 2 dimostrano una stretta relazione tra livelli di HbA1c e progressione della CKD o di alcuni aspetti della CKD, principalmente l’albuminuria. Fumo di sigaretta, dislipidemia e condizioni associate all’insulino-resistenza (ipertrigliceridemia, sindrome metabolica, adiposità addominale) sono stati identificati quali altrettanti fattori di rischio indipendenti (9, 10). L’aumento della pressione arteriosa rappresenta l’altro fondamentale fattore coinvolto nell’induzione e nella progressione della ND. Forte, ampiamente documentata ed ininterrotta è la relazione tra pres- 68 sione arteriosa sistemica e declino della funzione renale (11). Livelli di albuminuria nel range alto di normalità, rappresentano un indipendente fattore di rischio per la comparsa della microalbuminuria, mentre la proteinuria contribuisce di per se al danno glomerulare e tubulare ed è, sia nel diabete tipo 1 che nel tipo 2, un importante predittore di insufficienza renale (12). Sesso maschile, appartenenza razziale o etnica (in relazione alla diversa predisposizione all’ipertensione) e familiarità per ipertensione arteriosa, per nefropatie o per malattie cardiovascolari sono associati ad un aumentato rischio di sviluppare la microalbuminuria e la ND. L’importanza di fattori genetici è dimostrata dalle osservazioni epidemiologiche, cioè dal profilo dell’incidenza e della prevalenza della nefropatia in funzione della durata del diabete (ridursi dell’incidenza della ND all’aumentare della durata quasi a suggerire l’esaurirsi della popolazione geneticamente suscettibile), nonché dalla forte aggregazione familiare della ND. Benchè ampiamente esplorati in studi caso-controllo di geni candidati e, più recentemente, in studi “genome-wide” i fattori genetici correlati alla ND rimangono ampiamente elusivi (13). Inquadramento clinico La storia naturale della ND, sebbene ridisegnata dalle strategie di prevenzione e di intervento, è descritta da modificazioni più o meno aspecifiche, talora distinte altre volte strettamente integrate, sia della funzione renale (glomerular filtration rate, GFR) che dell’escrezione urinaria di albumina (urinary albumin excretion, UAE) (tabella 1). Tabella 1 – Paradigmi tradizionali della storia naturale e stadiazione della nefropatia diabetica Il processo, geneticamente modulato, inizia, almeno nel diabete tipo 1, in presenza di una normale UAE, con ipertrofia renale (ipertrofia tubulare) e iperfiltrazione associate a ipertensione intraglomerulare. L’iperfiltrazione, di per se correlata ad un aumento del rischio di sviluppare la ND (14, Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze 15), prelude ad alterazioni delle proprietà di filtro della barriera glomerulare a cui conseguono, in condizioni di completo silenzio clinico, un progressivo aumento dell’UAE fino alla microalbuminuria. Quest’ultima, definita come rapporto tra albumina e creatinina urinarie (A/C ratio) compreso tra 30 e 299 mg/g è considerata il più semplice e sensibile parametro per rilevare il rischio di nefropatia. Sia nel diabete tipo 1 che nel tipo 2, ne sono stati riconosciuti, confermati e ridefiniti dopo gli studi iniziali, il valore predittivo per ND, ESRD e morbilità/mortalità per cause cardiovascolari (16). Progressive alterazioni strutturali glomerulari, vascolari e tubulo-interstiziali, retinopatia diabetica, aumento della pressione arteriosa, sfavorevole profilo lipidico (sindrome metabolica), attivazione del processo infiammatorio (17), disfunzione ed attivazione endoteliale (18-20), insulino-resistenza si associano alla comparsa della microalbuminuria sia nel diabete tipo 1 che nel diabete tipo 2, e preludono alla progressione verso la proteinuria e la perdita di GFR (21). Sia nel diabete tipo 1 che nel tipo 2, la prevalenza di microalbuminuria è pari a circa il 20%. La microalbuminuria e talvolta anche la ND conclamata, raramente riscontrate nei primi 5-7 anni dopo l’insorgenza del diabete di tipo 1, possono essere presenti già alla diagnosi, anche nel 10-15% dei casi, nei soggetti con diabete tipo 2 (22). In entrambi i contesti, diabete tipo 1 e tipo 2, la microalbuminuria può regredire, rimanere a lungo nel tempo nel range che la identifica, oppure progredire (23). Quando progredisce, in media con un aumento del 10-15% per anno, evolve verso la macroalbuminuria (A/C >300 mg/g; proteinuria >500 mg/24 ore) e, eventualmente, verso la sindrome nefrosica (proteinuria >3.5 g/24 ore). Al comparire della macroalbuminuria, ma già in presenza di microalbuminuria, il GFR comincia a ridursi progressivamente (21, 22). Dopo 20 anni dalla diagnosi, la ND conclamata si manifesta in circa il 20% dei pazienti diabetici siano essi di tipo 1 che di tipo 2. La riduzione del GFR (che identifica la malattia renale cronica, CKD), graduale, progressiva e modificabile dal trattamento, procede in modo estremamente variabile con velocità pari a 2-20 ml/min per anno fino, eventualmente, all’ESRD. L’ESRD non interessa più del 2-4% dei diabetici con CKD anche per la “competizione” con una elevata morbilità e mortalità cardiovascolare (22, 24). Diagnostica di laboratorio La valutazione dell’albuminuria deve essere effettuata preferibilmente attraverso la misurazione su urine “early-morning” del rapporto albuminuria/ creatininuria (albumin-to-creatinine ratio, ACR, mg/g o µg/mg). L’analisi sul campione di urine “early morning” per il calcolo dell’ACR è, per la sua semplicità, la metodica di screening raccomandata (25, 26). Al contrario, la misurazione della sola concentrazione urinaria dell’albumina senza il contemporaneo dosaggio della creatinina urinaria è suscettibile di falsi positivi e negativi per le ampie variazioni delle concentrazioni urinarie e, pertanto, non è raccomandata. La valutazione dell’UAE, può essere anche effettuata attraverso altre modalità: a. misurazione (mg/24h) su raccolta urinaria delle 24 ore; b. misurazione su raccolta urinaria temporizzata, preferibilmente notturna (overnight; µg/min). Queste misurazioni, tuttavia, sono più indaginose e poco aggiungono in termini di precisione ed accuratezza. La stadiazione dei livelli dell’UAE è riportata in tabella 2. Tabella 2 - Definizione delle alterazioni dell’escrezione urinaria dell’albumina: preferire la raccolta delle urine early-morning, il dosaggio contemporaneo di albumina e creatinina urinarie, l’espressione del risultato come rapporto albumina/creatinina, la stratificazione dei risultati indipendentemente dal sesso (nella tabella colonna dati di destra). Lo screening dell’UAE è raccomandato almeno annualmente nei soggetti con diabete tipo 1 e durata del diabete >5 anni (la microalbuminuria raramente compare nel paziente con DM tipo 1 di breve durata) e in tutti i pazienti con diabete tipo 2 sin dal momento della diagnosi di malattia (significativa prevalenza di micro- macro-albuminuria già alla diagnosi). In relazione all’elevata variabilità biologica dell’escrezione urinaria di albumina, ma anche della significativa variabilità analitica, le linee guida invitano di solito a eseguire almeno 3 dosaggi dell’albuminuria nell’arco di 3-6 mesi e suggeriscono che almeno 2 di questi debbano risultare positivi per poter etichettare il paziente come albuminurico. Tuttavia, queste raccoman- 69 WINTER SCHOOL dazioni, che peraltro sono per lo più basate sull’opinione di esperti, non vengono sempre applicate nella pratica clinica, per la difficoltà di eseguire determinazioni multiple dell’albuminuria. In realtà, nella popolazione generale, nonostante l’elevato coefficiente di variazione, la performance di un singolo dosaggio nel predire lo stadio di albuminuria è discreta (pari al 63% per la microalbuminuria). Un risultato simile è stato di recente riportato in soggetti con diabete di tipo 2, peraltro con una performance del singolo dosaggio dell’albuminuria ancora migliore (pari all’84% per la microalbuminuria), a suggerire che misurazioni multiple potrebbero non essere necessarie per stadiare i pazienti in ambito sia clinico che epidemiologico (27). Inoltre, lo screening deve essere eseguito nelle donne diabetiche in gravidanza, in cui la microalbuminuria (in assenza di infezioni delle vie urinarie) è un forte predittore di pre-eclampsia. La maggior parte delle Linee Guida concorda nel raccomandare una sorveglianza almeno semestrale della micro-/macroalbuminuria sia per valutare la risposta alla terapia, che per monitorare la progressione della malattia. Sebbene non sia stato formalmente dimostrato in studi prospettici, si ritiene comunque che la riduzione della micro-/ macroalbuminuria possa associarsi ad un miglioramento della prognosi renale e cardiovascolare (tabella 3). frequentemente in presenza di microalbuminuria e soprattutto di ND conclamata. La performance della formula MDRD è accettabile nei pazienti con ridotto GFR ma essa sottostima il GFR nelle popolazioni con funzione renale normale. Una nuova equazione (CKD-EPI) è stata recentemente proposta dalla Chronic Kidney DIsease Epidemiology collaborations. La formula CKD-EPI ha dimostrato performance migliore della equazione MDRD specialmente ai valori di GFR più elevati. In quanto più accurata della MDRD, l’equazione CKD-EPI potrebbe sostituire la prima nella comune pratica clinica. MDRD e CKD-EPI possono essere calcolate su http://www.kidney.org/professionals/KDOQI/gfr_calculator.cfm. L’equazione CKD-EPI individua una minore prevalenza di CKD e consente una miglior stratificazione del rischio cardiorenale (28-30) (figura 4). Tabella 3 – Screening e follow-up della nefropatia diabetica La creatinina sierica deve essere misurata almeno annualmente per la stima del GFR e per stadiare la CKD in tutti gli adulti con diabete indipendentemente dal grado di escrezione urinaria di albumina (tabella 3). La concentrazione della creatinina non dovrebbe mai essere impiegata quale misura diretta della funzione renale, ma piuttosto utilizzata per stimare il GFR. Il GFR stimato (eGFR) è comunemente fornito nei referti di laboratorio. In alternativa, può essere calcolato tramite semplici formule quali la MDRD (Modification of Diet in Renal Disease). L’eGFR dovrebbe essere valutato annualmente nei pazienti normoalbuminurici e più 70 Figura 4 - The Chronic Kidney Disease Epidemiology Collaboration (CKD-EPI) equation more accurately estimates glomerular filtration rate (GFR) than the Modification of Diet in Renal Disease (MDRD) Study equation using the same variables, especially at higher GFR. To evaluate risk implications of estimated GFR using the CKD-EPI equation compared with the MDRD Study equation in populations with a broad range of demographic and clinical characteristics. A meta-analysis of data from 1.1 million adults (aged ≥18 years) from 25 general population cohorts, 7 high-risk cohorts (of vascular disease), and 13 CKD cohorts has been performed (28). Nel 2002, la National Kidney Foundation’s (NKF)/ Kidney Disease Outcomes Quality Initiative (KDOQI) ha introdotto classificazione della CKD riportata in tabella 4 (31), basata sui due marcatori descritti sopra: l’albuminuria (o altri segni di dan- Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze no renale) e il GFR, stimato a partire dai livelli di creatininemia (31). La classificazione NKF/KDOQI prevede stadio 1 e stadio 2 caratterizzati dalla presenza di segni di danno renale, quali appunto la micro- o la macroalbuminuria, in assenza di riduzione dell’eGFR e quindi con valori di filtrato glomerulare al di sopra di 90 e 60 ml/min/1,73m², rispettivamente. Gli stadi 3, 4 e 5 sono invece caratterizzati da livelli progressivamente ridotti di eGFR, al di sotto rispettivamente di 60, 30 e 15 ml/ min/1,73m², indipendentemente dalla presenza o meno di albuminuria (31) (tabella 4 e figura 5). solo eGFR ridotto, ovvero <60 ml/min/1,73 m², anche in assenza di segni di danno renale, con il rischio di sovrastimare l’effettiva prevalenza di questa condizione, soprattutto negli individui anziani e di sesso femminile. Di conseguenza, è stato suggerito dal Kidney Disease Improving Global Outcomes (KDIGO) di suddividere ulteriormente gli stadi 3-5 in base alla presenza o meno di albuminuria oltre che prevedere una sottoclassificazione dello stadio 3 a seconda che l’eGFR sia ≥45 o <45 ml/min/1,73 m² (32) (figura 6). Tabella 4 – Stadiazione della malattia renale cronica (CKD) secondo la National Kidney Foundation (NKF) (31). * Il danno renale è definito dalla presenza di albuminuria, anormalità del sedimento urinario, anormalità ematochimiche, anatomopatologiche o degli esami strumentali. Figura 6 - Classificazione della CKD secondo la National Kidney Foundation’s (NKF’s) Kidney Disease Outcomes Quality Initiative (KDOQI) modificata come suggerito da KDIGO (32). Figura 5 - Classificazione della CKD secondo la National Kidney Foundation’s (NKF’s) Kidney Disease Outcomes Quality Initiative (KDOQI) (31). I primi 4 stadi vengono ulteriormente suddivisi in base al fatto se il paziente sia stato o meno trapiantato, nel qual caso vengono contrassegnati con una “T”, e il quinto ed ultimo stadio in base al fatto se il paziente sia o meno in dialisi, nel qual caso viene contrassegnato con una “D”. Questa classificazione è stata criticata per il fatto di etichettare come affetti da CKD soggetti con Contestualmente, è stata proposta da Tonelli e coll. una classificazione alternativa basata sulla stratificazione del rischio di progressione verso l’ESRD, validata su un’ampia coorte di soggetti, che tiene in maggior conto la presenza e il grado, moderato o severo, dell’albuminuria (corrispondenti alla micro- e macroalbuminuria, rispettivamente) (figura 7) (33). Poiché lo scopo di una classificazione è quello di assegnare i pazienti con la prognosi peggiore agli stadi più avanzati, rimane aperto il dibattito sull’adeguatezza del sistema NKF’s KDOQI riguardo all’attribuzione di un rischio maggiore ai soggetti con eGFR <60 ml/min/1,73 m² (ovvero stadi 3-5) senza albuminuria rispetto a quelli con albuminuria ed eGFR normale o subnormale (ovvero stadi 1-2) in riferimento sia all’outcome renale che all’outcome CV, oltre che alle altre co-morbilità associate alla CKD. Un’altra finalità di un sistema di classificazione è quella di riprodurre il più fedelmente possibile la storia naturale della condizione 71 WINTER SCHOOL che tale sistema descrive, ovvero di far si che i diversi stadi si presentino effettivamente nell’ordine di sequenza numerica. In base alla classificazione NKF’s KDOQI, l’albuminuria dovrebbe comparire prima della riduzione dell’eGFR, mentre nel sistema alternativo la categoria di rischio 1 prevede indifferentemente la presenza di albuminuria o di eGFR ridotto (45-59 ml/min/1,73 m²) (figura 7). FIELD: fenofibrate intervention and event lowering in diabetes; NEFRON 11: national evaluation of the frequency of renal impairment coexisting with NIDDM-11; NHANES III: thirdnational health and nutrition examination survey; UKPDS: UK prospective diabetes study; ACCOMPLISH: Avoiding Cardiovascular Events through Combination Therapy in Patients Living with Systolic Hypertension; ONTARGET/TRASCEND: Ongoing Telmisartan Alone and in Combination With Ramipril Global End Point Trial/ Telmisartan Randomized Assessment Study in ACE Intolerant Subjects With Cardiovascular Disease. Insiemi distinti di fattori di rischio sono associati allo sviluppo di albuminuria e ridotta funzione renale in armonia con l’ipotesi che le due condizioni non sono inesorabilmente associate nei soggetti con diabete tipo 2 (figura 9) (39). Figura 7 - Classificazione alternativa della CKD basata sulla stratificazione del rischio di progressione verso l’ESRD (34). Numerosi studi, soprattutto nel diabete tipo 2, dimostrano che modificazioni dell’UAE e modificazioni del GFR possono comparire indipendentemente l’una dall’altra. E’ possibile che macroalbuminuria compaia in soggetti con normale GFR e viceversa che riduzioni del GFR possano intervenire in assenza dell’albuminuria (figura 8) (34-38). Figura 8 – Prevalenza dell’insufficienza renale non albuminurica nel diabete mellito. ADVANCE: action in diabetes and vascular disease: preterAx and diamicroN-MR controlled evaluation; DCCT/EDIC: diabetes control and complications trial/epidemiology of diabetes interventions and complications; 72 Figura 9 – Fenotipi di malattia renale cronica nello studio RIACE.: soggetti senza CKD, n. 9.865 su 15.773 (62.5%); soggetti con CKD stadi 1-2, n. 2.949 (18.7%): tra questi, 87.7% presentavano microalbuminuria, 12.3% macroalbuminuria soggetti con CKD stadi 3-5 non albuminurici, n. 2.959 (18.8%) soggeti con CKD stadi 3-5 albuminurici, n. 1.286: tra questi, 70.9% presentavano microalbuminuria, 29.1% macroalbuminuria. Ancora più importante, elevata albuminuria e ridotto filtrato sono fattori di rischio indipendenti per eventi cardiovascolari e renali (1). E’ evidente che queste osservazioni depongono per una visione bi-dimensionale della nefropatia diabetica in cui l’evoluzione spesso indipendente dei due principali parametri, albuminuria e GFR, che descrivono la progressione del danno renale identificano fenotipi eterogenei che progrediscono in maniera distinta per tendere eventualmente a congiungersi successivamente al progredire della patologia renale. Da qui, l’ipotesi di due diversi percorsi, Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze uno albuminurico e l’altro normoalbuminurico nella progressione della patologia renale (danno d’organo) verso l’insufficienza renale (figura 10) (23, 40-42). Figura 10 - Due diversi percorsi, uno albuminurico e l’altro normoalbuminurico decrivono la progressione della patologia renale nel paziente diabetico. Note 1. Due processi diversi, albuminurico e non albuminurico, descrivono la progressione del danno renale nel paziente con diabete mellito (“two-dimensional view of nephrophathy”). 2. Sia l’escrezione urinaria dell’albumina che il GFR devono essere valutati precocemente e periodicamente per individuare i soggetti con nefropatia e definirne lo stadio di progressione. 3. Nella valutazione della nefropatia diabetica i ruoli di albuminuria e GFR sono complementari e non competitivi. 4. Sebbene l’aumentare dell’albuminuria generalmente precede il declinare del GFR, molti pazienti seguono la via “non-albuminurica” verso la compromissione della funzione renale (“nonalbuminuric pathway”). 5. Il decorso della patologia renale è simile nel diabete tipo 1 e nel diabete tipo 2. Nel diabete tipo 2 la nefropatia esprime fenotipi più eterogenei. Terapia della nefropatia diabetica Ottimizzare il controllo glicemico riduce il rischio e la progressione della ND Numerosi studi, sia osservazionali che di intervento, hanno identificato nel controllo della glicemia il più forte fattore di rischio per la comparsa e la progressione della microalbuminuria e della ND. Nel diabete tipo 1 è stata talvolta descritta la presenza di un valore soglia di HbA1c (circa 8%) solo al di sopra del quale il rischio di microalbuminuria sembra aumentare progressivamente. Tuttavia, EURODIAB e DCCT mostrano invece una relazione lineare o esponenziale, ma continua tra livelli di HbA1c ed UAE. Altrettanto forte è l’associazione tra HbA1c e UAE nel diabete tipo 2. Nell’UKPDS il rischio di microalbuminuria aumenta dell’8% per ogni variazione di 0.9% nei valori di HbA1c. Nell’ARIC (Aterosclerosis Risk In Communities), studio prospettico con 11 anni di follow-up in soggetti con diabete tipo 2, una relazione continua emerge tra incidenza di CKD e valori di HbA1c. Inoltre, tale associazione vale nei diversi “fenotipi” di danno renale indipendentemente dalla presenza o assenza di albuminuria, di retinopatia, o della combinazione di albuminuria e retinopatia (43). Nell’ADVANCE (Action in Diabetes and Vascular Disease: Preterax and Diamicron Modified Release Controlled Evaluation), sono proprio la microalbuminuria e la proteinuria tra le espressioni di danno microangiopatico del diabete a risentire più favorevolmente dell’ottimizzazione del controllo glicemico, il cui ruolo sulla progressione della ND appare invece attenuarsi nella fasi più avanzate della malattia renale (8). A conclusioni simili giungono le più recenti meta-analisi (44). D’altra parte, nel diabete tipo 1, recenti osservazioni del Finnish Diabetic Nephropathy Study (FinnDiane) riconoscono nei valori elevati di HbA1c un predittore indipendente anche dell’incidenza di ESRD nei soggetti con macroalbuminuria (45). Analogamente, in pazienti con diabete tipo 2 e CKD (GFR <60 ml/min/1,73 m²), più elevati livelli di emoglobina glicata si associano ad una aumentata incidenza di outcomes cardiorenali quali mortalità per tutte le cause, infarto del miocardio, ictus, scompenso cardiaco, raddoppio dei valori di creatinina ed ESRD (8). Tuttavia, anche in questo studio dedicato ai pazienti con diabete e CKD, analogamente a quanto osservato nell’ACCORD (Action to Control 73 WINTER SCHOOL Cardiovascular Risk in Diabetes) (46), livelli di HbA1c <6.5% sono risultati associati ad un eccesso di mortalità (47). In questo contesto, si collocano le più recenti raccomandazioni per il controllo della glicemia nel paziente con diabete tipo 2. L’American Diabetes Association (ADA) e la European Association for the Study of Diabetes (EASD) hanno infatti emanato un position statement congiunto di aggiornamento sulla gestione dell’iperglicemia nel diabete di tipo 2. Questo documento (48, 49), costituisce non solamente una revisione dell’algoritmo precedente, ma anche un cambiamento paradigmatico nel modo di concepire la cura del diabete: l’aspetto ripetutamente enfatizzato è infatti la “patient-centred care”. Così, il nuovo documento è meno “prescrittivo e algoritmico” e più attento, attraverso la personalizzazione degli obiettivi e degli strumenti terapeutici, alle esigenze di ciascun soggetto rispetto alle scelte possibili. Infatti, un controllo più stretto della glicemia deve essere dedicato agli individui con durata più breve di malattia, valori basali inferiori di HbA1c e senza precedenti cardiovascolari. Pur ribadendo un target generale di HbA1c <7,0% (corrispondenti a valori medi di glicemia basale <130 mg/dl, e di glicemia post-prandiale <180 mg/dl), viene consigliato il perseguimento di obiettivi anche più stringenti (per es. 6,0-6,5%) in soggetti selezionati, e di target meno ambiziosi (per es. 7,5-8,0%) per gli individui con pregresse ipoglicemie severe, limitata aspettativa di vita, complicanze micro- o macrovascolari in stadio avanzato, comorbilità gravi e scarsamente motivati (o con una fragile rete assistenziale). Le possibilità di impiego dei farmaci in relazione alla riduzione della funzione renale sono illustrate nelle figure 11 e 12 (50, 51). Con il declinare della funzione renale, diventano essenziali sia una accurata selezione degli ipoglicemizzanti orali che una appropriata correzione/adeguamento dei dosaggi dei singoli farmaci. La metformina è ad oggi considerato l’unico ipoglicemizzante orale capace di conferire effetti cardio-protettivi. Perciò, la conservazione della terapia con metformina nei pazienti con CKD, esposti ad elevato rischio cardiovascolare, è da molti raccomandata (52). Il dosaggio della metformina deve essere ridotto per valori di eGFR <45 ml/min/1,73 m², mentre il trattamento deve essere sospeso per livelli <30 ml/ 74 min/1,73 m². Maggior cautela è necessaria nell’impiego delle sulfoniluree, specialmente la glibenclamide, e delle glinidi; una riduzione della dose è appropriata per valori di eGFR < 60 ml/min/1,73 m². Nessuna riduzione della dose è prevista nel trattamento con pioglitazone, anche se la tendenza a favorire la ritenzione idrica deve indurre cautela. Gli inibitori della alfa-glucosidasi non sono indicati nel trattamento dei pazienti con insufficienza renale per la mancanza di dati relativi alla sicurezza di impiego. La terapia con insulina può diventare di difficile gestione per l’elevato rischio di episodi ipoglicemici. Gli effetti degli analoghi dell’insulina (sia gli “short-acting” che i “long-acting”) tendono ad essere più prolungati nel tempo; riduzioni del 25% nelle disi sono raccomandate nei pazienti con eGFR di 10-50 ml/min/1,73 m², riduzioni del 50% nei soggetti con eGFR <10-15 ml/ min/1,73 m² (figura 11) (53). Figura 11 - Ipoglicemizzanti orali “tradizionali”: uso in relazione ai livelli di funzione renale (53). Particolarmente utile è invece il trattamento basato sull’uso degli incretino-mimetici. Poche informazioni sono disponibili per gli analoghi del GLP-1. L’exenatide dovrebbe essere impiegata con cautela nei soggetti con eGFR 30-50 ml/min/1,73 m² ed evitata quando l’eGFR è <30 ml/min/1,73 m² o nei pazienti in ESRD. Analogamente, la liraglutide non è raccomandata nei pazienti con insufficienza renale moderata o severa, inclusi i soggetti in ESRD (53) (figura 12). Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze Figura 12 - Inibitori DPP-4 e analoghi GLP-1: uso in relazione ai livelli di funzione renale (53). Ottimizzare il controllo pressorio riduce il rischio e la progressione della ND Gli inibitori DPP-4 sono ad oggi gli ipoglicemizzanti orali più maneggevoli per la terapia dei pazienti con diabete tipo 2 ed insufficienza renale. Sitagliptin vildagliptin e saxagliptin hanno prevalente eliminazione renale, mentre il linagliptin è prevalentemente eliminato per via entero-epatica. Tutti gli inibitori DPP-4 possono essere liberamente utilizzati nei soggetti con insufficienza renale moderata (stadi 1-2), senza necessità di aggiustamenti nella dose. Tuttavia, per valori di eGFR <50 ml/ min/1,73 m², una riduzione della dose è necessaria per tutti gli inibitori DPP-4 con la sola eccezione del linagliptin (tabella 11). La dose di sitagliptin deve essere ridotta alla metà (50 mg/die) nei pazienti con insufficienza renale moderata (eGFR 30-60 ml/min/1,73 m²) e ridotta ad un quarto (25 mg/die) nei soggetti con CKD severa (eGFR <30 ml/min/1,73 m²). Le dosi di vildagliptin e saxagliptin devono essere dimezzate in presenza di CKD moderata o severa (eGFR <60 ml/min/1,73 m²) (53) (figura 12). La più recente edizione dell’ADA (American Diabetes Association) Position Statement (59) propone target pressori di 140/80 mmHg per la popolazione diabetica senza indicare obiettivi diversi per i pazienti con ND. AACE (American Association of Clinical Endocrinologists), in gran parte sulla base dei risultati dello studio ACCORD (60) e della meta-analisi di Bangalore e coll. (61), propone target di circa 130/80 mmHg, ancora una volta senza suggerire obiettivi diversi per i pazienti con CKD (62). Le recentissime Linee Guida ESH/ESC (European Society of Hypertension/European Society of Cardiology) pongono a <140 mmHg l’obiettivo di pressione arteriosa sistolica da raggiungere sia nel paziente diabetico che nel diabetico con CKD. L’obiettivo per la pressione diastolica nel diabetico è invece <85 mmHg (figura 13) (63). Non vi sono studi che abbiano dimostrato la superiorità di un trattamento ipoglicemizzante su un altro nella prevenzione della nefropatia o nel rallentamento della sua progressione (54). Nello studio ADOPT (A Diabetes Outcomes Prevention Trial) (55), i trattamenti con metformina, glibenclamide e rosiglitazone mostravano effetti sovrapponibili sia sulla progressione da normoalbuminuria ad albuminuria che sulla progressione da normale GFR a GFR <60 ml/min/1,73 m². Più recentemente, il Veterans Administration database, in una coorte di 93.577 diabetici analizzati in maniera retrospettiva, ha dimostrato che il trattamento con sulfoniluree rispetto a quello con metformina o rosiglitazone si associa ad un aumento non solo della mortalità, ma anche del rischio di declino dell’eGFR (>25% del valore basale) e di ESRD (56). Tale aumentato rischio è risultato indipendente dalle modificazioni nel BMI, nella PA sistolica e nell’emoglobina glicata (57). Inoltre, mediato dal diverso effetto sul peso corporeo, il trattamento con sulfoniluree (rispetto alla metformina) si associa ad un aumento dei valori della PA sistolica (58). Figura 13 – ESH/ESC Guidelines 2013: target pressori nel paziente iperteso (63). Le Linee Guida KDIGO 2013 propongono target diversi nei diabetici (e nei non-diabetici) con CKD in assenza di albuminuria (≤140/90 mmHg) o in presenza di albuminuria >30 mg/24 or (≤130/80 mmHg) (64). 75 WINTER SCHOOL Gli ACE-inibitori e i sartanici, farmaci di prima scelta, devono essere utilizzati al massimo dosaggio tollerato per ottimizzarne gli effetti nefro (e cardio) protettivi. Potassiemia e creatininemia dovrebbero essere monitorate 1-2 settimane dopo l’inizio della terapia o all’aumento di dosaggio e, poi, con cadenza annuale o più ravvicinata in presenza di ridotta funzione renale. Il trattamento va intrapreso con cautela se la creatininemia è >3 mg/dl ed eventualmente sospeso se l’aumento della creatininemia dopo l’inizio della terapia è >30%. Una dieta povera di potassio e/o diuretici tiazidici o dell’ansa sono indicati nei pazienti che sviluppano iperpotassiemia. Nel diabete tipo 1, ACE-inibitori e sartanici (studi EUCLID - EURODIAB Controlled Trial of Lisinopril in Insulin Dependent Diabetes Mellitus, RASS - Renin-Angiotensin System Study, e DIRECT Diabetic Retinopathy Candesartan Trial) non sono stati efficaci in prevenzione primaria (prevenzione della microalbuminuria) (65-67). Nel diabete tipo 2 gli studi UKPDS, HOPE (Heart Outcomes Prevention Evaluation) e DIRECT hanno dato risultati negativi (67-69), mentre risultati positivi in termini di prevenzione primaria sono emersi nell’ADVANCE, nel BENEDICT (Bergamo Nephrologic Diabetic Complications Trial) e, più recentemente, nel ROADMAP (Randomized Olmesartan and Diabetes Microalbuminuria Prevention) (70-72). Nei pazienti microalbuminurici, l’obiettivo della terapia è prevenire la progressione verso l’albuminuria clinica (prevenzione secondaria). I pazienti con microalbuminuria devono essere trattati con ACE-inibitori o sartanici a prescindere dai livelli pressori. I pazienti con microalbuminuria devono essere trattati con ACE-i o ARB a prescindere dai livelli pressori. Nei pazienti microalbuminurici con diabete tipo 1 gli ACE-i e nei pazienti microalbuminurici con diabete tipo 2 sia gli antagonisti del recettore dell’angiotensina (IRMA 2 – Irbesartan Microalbuminuria Type 2 Diabetes Mellitus in Hypertensive Patients; MARVAL - MicroAlbuminuria Reduction With VALsartan Study Investigators) che gli ACE-inibitori (ADVANCE) riducono il rischio di sviluppare proteinuria (70, 73-74). Inoltre, nei soggetti con diabete tipo 2 e microalbuminuria, entrambi i bloccanti del sistema renina angiotensina (RAS) aumentavano la probabilità di regressione verso la normoalbuminuria. 76 Nei diabetici con proteinuria l’obiettivo della terapia è prevenire, o rallentare, la progressione verso l’ESRD. In questi pazienti l’intervento più importante è la correzione della pressione arteriosa. Per ottenere questo obiettivo tutte le altre classi di farmaci antipertensivi possono essere utilizzate in combinazione con i bloccanti del RAS. Nei pazienti con diabete tipo 1 e nefropatia avanzata il trattamento con ACE-inibitori è in grado di ridurre il rischio di ESRD e di avere un raddoppio della creatininemia (-48%). Nei pazienti con diabete tipo 2 e nefropatia avanzata gli studi RENAAL (Reduction of Endpoints in Non-insulin dependent diabetes mellitus with the Angiotensin II antagonist Losartan) e IDNT (Irbesartan type 2 Diabetic Nephropathy Trial) hanno dimostrato che il trattamento con sartanici riduce il rischio di raddoppio della creatininemia e di progressione verso l’ESRD (75-76). Ruolo del controllo “aggressivo” della pressione arteriosa e delle terapie di combinazione Lo studio ACCOMPLISH (Avoiding Cardiovascular Events through Combination Therapy in Patients Living with Systolic Hypertension) ha confrontato la combinazione benazepril/amlodipina con la combinazione benazepril/idroclorotiazide quale trattamento anti-ipertensivo iniziale in 11.506 pazienti ad elevato rischio cardiovascolare: di questi, il 60% presentava anche diabete (77). L’incidenza di progressione di CKD (raddoppio della creatinina, eGFR <15 ml/min/1,73 m² o dialisi) era minore nel gruppo in trattamento con benazepril/amlodipina (2.0% vs 3.7%; HR 0.52, p<0.0001) rispetto al trattamento con benazepril/idroclorotiazide. Analogamente, l’incidenza di CKD e mortalità per tutte le cause era minore nei soggetti trattati con la combinazione benazepril/amlodipina (6.0% vs 8.1%, HR 0.73, p<0.0001). Risultati diversi sono stati tuttavia ottenuti nel sottogruppo di soggetti con CKD; il 50% di questi presentava nefropatia diabetica. In questi pazienti, la progressione di CKD (4.8% vs 5.5%, p=0.48) e di CKD/mortalità cardiovascolare (8.4% vs 9.7%, p=0.39) non differiva nei due bracci di trattamento. Nei 2.9 anni del followup, la velocità di declino dell’eGFR era minore nei soggetti trattati con benazepril/amlodipina sia nell’intera popolazione studiata (-0.88 vs –4.22 ml/min/1,73 m², p=0.01) che nella coorte con CKD (1.6 vs –2.3 ml/min/1,73 m², p=0.001). Al contrario, Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze nei pazienti con albuminuria e nei pazienti con albuminuria e CKD (-63.8% vs –29.0%, p<0.0001), la riduzione dell’escrezione urinaria di albumina rispetto al basale era maggiore nei soggetti trattati con benazepril/idroclorotiazide. Analogamente, la percentuale di pazienti che regredivano da micro- a normoalbuminuria (68.3% vs 41.7%; p=0.016) e di quelli che regredivano da macro- a micro- o normoalbuminuria (89.6% vs 49.7%, p00.0012) era maggiore nei trattati con benazepril/idro-clorotiazide. Così, in pazienti ipertesi ad elevato rischio CV (per il 60% diabetici), normo o microalbuminurici il trattamento con la combinazione ACE-i/amlodipina sembra conferire maggiore protezione cardiorenale rispetto al trattamento ACE-i/diuretico tiazidico. Incertezze rimangono invece nei pazienti con nefropatia proteinurica più avanzata. Inoltre, il divergere del comportamento dell’albuminuria (maggior riduzione e quindi maggiori benefici nei soggetti trattati con benazepril/idroclorotiazide) e dell’eGFR (minor riduzione e quindi maggiori benefici nei soggetti trattati con benazepril/amlodipina) osservato nell’ACCOMPLISH deve essere interpretato con cautela (78). Tale divergente comportamento può essere infatti espressione degli effetti emodimanici del trattamento. Nell’ACCOMPLISH, la combinazione benazepril/idroclorotiazide, ma non quella benazepril/amlodipina, induce una iniziale caduta dell’eGFR nelle prime 12 settimane di trattamento; nel proseguire del follow up, invece, le slope di riduzione dell’eGFR erano simili e parallele (78). L’ipotesi è confermata dal fatto che nello studio ACCOMPLISH, gli effetti favorevoli sull’outcome renale sono dovuti per intero alla riduzione dell’incidenza di raddoppio della creatinina (che può riflettere una modificazione emodinamica reversibile), mentre nessuna differenza emerge nell’incidenza di ESRD (eGFR <15 ml/min/1,73 m²) o dialisi (77). Si potrebbe anche ipotizzare che questo meccanismo possa contribuire, almeno in parte, a spiegare i risultati divergenti in termini di caduta del filtrato glomerulare stimato e del controllo dell’albuminuria rilevati sia negli studi in cui sono stati perseguiti più ambiziosi obiettivi di riduzione della pressione arteriosa (ACCORD) che negli studi in cui si è operato il doppio-blocco del RAS. Nello studio ACCORD (60) il trattamento intensivo della pressione arteriosa (obiettivo PAS <120 mmHg) si associa a riduzione dell’albuminuria (p<0.001) e minor incidenza di macroalbuminuria (6.6% vs 9.7%, p=0.009), ma a più rapida caduta dell’eGFR (p<0.001) e maggior incidenza di eGFR <30 ml/min/1,73 m² (p<0.001), pur in assenza di differenze nell’incidenza di ESRD. Una recente meta-analisi conclude che nei pazienti con diabete tipo 2, iperglicemia a digiuno o ridotta tolleranza ai carboidrati, un target di PAS di 130-135 mmHg è accettabile. Con obiettivi più aggressivi (PAS <130 mmHg) compare eterogeneità negli outcomes: il rischio di episodi cerebrovascolari continua a diminuire, mentre non si hanno ulteriori benefici sull’incidenza di altri eventi macro- e microvascolari (cardiaci, renali e retinici) (61). Nello studio ONTARGET (ONgoing Telmisartan Alone and in combination with Ramipril Global Endpoint Trial), condotto su soggetti a elevato rischio cardiovascolare trattati con ramipril e/o telmisartan, a conferma di recenti revisioni della letteratura (79), l’associazione ACE-i/ARB riduce la proteinuria maggiormente della monoterapia (80). Sono invece emersi effetti negativi sulla funzionalità renale (più rapido declino dell’eGFR), sul rischio di ESRD (raddoppio della creatininemia/ dialisi) e sulla mortalità per tutte le cause. Una analisi post-hoc dell’ONTARGET dimostra inoltre l’assenza di effetti favorevoli sugli outcomes renali (e cardiovascolari) anche nei soggetti con ridotto eGFR e/o macroalbuminuria (81). Dati interessanti sono anche disponibili con i bloccanti della renina impiegati in combinazione con gli ARB. Nello studio AVOID (Aliskiren in the Evaluation of Proteinuria in Diabetes), indipendentemente dagli effetti sulla pressione arteriosa, il trattamento con aliskiren in combinazione con il losartan si associa ad una ulteriore riduzione del 20% dell’albuminuria in pazienti con diabete tipo 2, ipertensione e proteinuria (82). Gli effetti reno-protettivi di aliskiren sono risultati indipendenti dagli stadi di CKD (83) e dai livelli basali della pressione arteriosa (84). Recentemente si sono resi disponibili i risultati dell’Aliskiren Trial in Type 2 Diabetes Using Cardiorenal Disease Endpoints (ALTITUDE), un ampio studio che ha arruolato (in un follow-up di 48 mesi) 8600 pazienti con diabete tipo 2, proteinuria ed elevato rischio cardiovascolare. Tutti i pazienti reclutati erano in trattamento con ACE-I o ARB e sono 77 WINTER SCHOOL stati randomizzati ad aliskiren vs. placebo con un end-point composito che includeva outcome renali, eventi cardiovascolari e mortalità. Lo studio è stato prematuramente interrotto per aumentata incidenza di ictus non fatale, complicanze renali, iperpotassiemia ed ipotensione nei soggetti trattati con aliskiren. Dopo 32 mesi di terapia, il 18.3% dei pazienti assegnati ad aliskiren ha presentato eventi cardiovascolari e renali, rispetto al 17.1% dei controlli (HR 1,08, IC 95% 0,98-1,20, p=0.12). Non sono state osservate differenze significative rispetto al placebo per tutti i singoli endpoint dello studio, inclusi la morte cardiovascolare, l’infarto del miocardio, l’ospedalizzazione per insufficienza cardiaca, i livelli di creatinina sierica e lo stadio di CKD (85). Bibliografia 1. 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N Engl J Med 2012; 367: 2204-13. 82 Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze Complicanze macrovascolari: epidemiologia e clinica Saula Vigili de Kreutzenberg Dipartimento di Medicina – DIMED Università di Padova Epidemiologia della macroangiopatia diabetica La macroangiopatia rappresenta la principale complicanza cronica del diabete mellito, in termini di morbilità e mortalità. Il diabete è un fattore di rischio indipendente per cardiopatia ischemica (CAD), ictus ischemico e morte attribuibile a tutte le cause vascolari. Il paziente diabetico mostra un rischio relativo di morte per vasculopatia più che doppio (pari a 2,4) rispetto al soggetto non diabetico (1, 2) e l'entità del rischio non appare modificata nel tempo, in quanto già lo studio Framingham forniva risultati sostanzialmente sovrapponibili a quelli degli studi più recenti (Figura 1). Vascular Death Noncancer, nonvascular Death 486.807 513.951 479.601 1,20 (1,14-1,27) 2,38 (2,17-2,60) 1,67 (1,55-1,79) Cancer Death Total of Participants Hazard Ratio (95% CI) Hazard ratios for death among participants with diabetes as compared with those without diabetes N Engl J Med 2011;364:829-41. Figura 1 Il rischio di morte per causa vascolare risulta particolarmente elevato nelle fasce di età più giovani, oltre 3 volte dai 40 ai 59 anni e si riduce con il progredire dell'età. Le donne diabetiche presentano un maggior rischio rispetto all'uomo e anche questa osservazione rimane invariata. E' stato stimato che per un uomo di 50 anni senza malattia macrovascolare alla diagnosi di diabete, la sopravvivenza si riduce di 6 anni, a causa del diabete ed in particolare, per il 60%, a causa di patologia vascolare (Figura 2). Estimated future years of life lost owing to diabetes N Engl J Med 2011;364:829-41. Figura 2 I dati del The Emergin Risk Factors Collaboration nel 2010 suggeriscono che in questa decade circa il 10% delle morti per causa vascolare nella popolazione adulta dei paesi industrializzati sia attribuibile al diabete, corrispondendo ad una stima di 325.000 morti per anno solamente nei paesi ad elevato tenore di vita, senza contare il numero di parecchie volte superiore di soggetti disabili a causa di patologia vascolare. E' intuitivo che se l'incidenza di diabete continua ad incrementare, come previsto dalle stime di previsione, anche l'entità della vasculopatia diabetica in termini di morbilità e mortalità continuerà a crescere, nonostante la riduzione dell'incidenza di vasculopatia non diabetica, secondaria alla riduzione del fumo, al migliore approccio terapeutico e ad altre modifiche favorevoli. Ad una prevalenza di diabete del 20% nella popolazione generale, corrisponde una stima del 20% di decessi per causa vascolare attribuibili al diabete. Negli Stati Uniti, i dati più recenti forniti dal Centers for Disease Control and Prevention (CDC) mostrano che dal 1988 al 2006, il numero di dimissioni ospedaliere che riportano come prima diagnosi una patologia cardiovascolare maggiore e come seconda diagnosi il diabete ha mostrato un costante incremento fino al 2002, quando si è registrato il picco; da allora si osserva una modesta progressiva riduzione (Figura 3). 83 WINTER SCHOOL Number (in Thousands) of Hospital Discharges with Major Cardiovascular Disease as First-Listed Diagnosis and Diabetes as Secondary Diagnosis, United States, 1988–2006 quello osservato nello studio Framingham. L’incidenza degli eventi coronarici maggiori è risultata doppia negli uomini in confronto alle donne, ma il rapporto donne/uomini risulta maggiore di circa il 50% rispetto a quello osservato nella popolazione generale. Le differenze di incidenza per sesso sono dunque risultate coerenti con i dati della letteratura, che mostrano come l’impatto del diabete sugli eventi coronarici fatali non sia più forte nelle donne rispetto agli uomini (2, 4) (Figura 4). Figura 3 In termini numerici, le dimissioni ospedaliere con tali diagnosi sono incrementate da 880.000 nel 1988 a circa 1,4 milioni nel 2006. La realtà italiana in merito alla complicanza macrovascolare nel diabete tipo 2 è stata indagata dallo Studio DAI, uno studio multicentrico di coorte che ha coinvolto 201 Servizi di Diabetologia in tutta Italia (3). Lo studio DAI ha quindi fotografato la realtà di un ampio campione rappresentativo di diabetici italiani, nel periodo antecedente al 2003. Nello studio sono state determinate la prevalenza e l'incidenza dell’infarto miocardico, della cardiopatia ischemica, delle tromboembolie cerebrali, delle amputazioni e degli interventi di angioplastica e di bypass aorto-coronarico. La popolazione dello studio è stata suddivisa in base della presenza/assenza all’arruolamento di eventi macroangiopatici (infarto del miocardio, cardiopatia ischemica, ictus, bypass, angioplastica, amputazione): 11.644 pazienti non avevano manifestato eventi macroangiopatici mentre 2.788 pazienti avevano già manifestato un evento all’arruolamento. I risultati salienti dello studio sono che l’incidenza di CAD nei soggetti studiati è risultata più bassa rispetto a quella riportata in altri studi; infatti l'incidenza età-standardizzata per 1000 persone-anno del primo evento era pari a 28,8 (95% CI 5,4–32,2) nell’uomo e 23,3 (95% CI 20,2–26,4) nella donna. Ciò può essere spiegato da diversi fattori; infatti studi di grandi dimensioni, quale è il DAI, tendono a mostrare livelli più bassi di incidenza; inoltre le stime di incidenza riportate da studi condotti nell'Europa del sud sono più basse di quelli dell' Europa del nord. La popolazione di pazienti diabetici del DAI mostra però un decremento delle malattie coronariche simile a 84 Figura 4 L’incidenza di ictus nello studio DAI è risultata, seppur di poco, maggiore nel sesso femminile. I tassi di incidenza (per 1000 persone-anno) di ictus ischemico, standardizzati per età sono risultati pari a 5,5 negli uomini (CI 95%, 4,2 - 6,8) e pari a 6,3 (CI 95%, 4,5 - 8,2) nella donna; tale incidenza è 2-3 volte superiore a quella osservata in popolazioni non diabetiche, confermando l’importanza di questa patologia nei pazienti diabetici (5). E’ molto importante, nell’inquadramento clinico della macroangiopatia, ricordare 2 concetti fondamentali: 1. Se un paziente presenta macroangiopatia in uno specifico distretto dell’albero arterioso, essa va ricercata anche a livello di tutti gli altri distretti; infatti benché vi siano delle peculiarità definite dai fattori di rischio, fattori genetici e ambientali che possono promuovere l’aterosclerosi in un determinato distretto arterioso, la presenza di macroangiopatia in una sede specifica è fortemente associata al coinvolgimento delle altre sedi (Figura 5); Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze Distribuzione e sovrapposizione delle patologie vascolari nei pazienti con aterotrombosi CAPRIE Aronow & Ahn Ischemia cerebrale CAD 25% 7% Ischemia cerebrale 30% CAD 15% 3% 4% 13% 33% 8% 12% 5% 14% 19% 12% PAD PAD PAD = peripheral artery disease CAD = coronary artery disease Adapted from TransAtlantic Inter-Society Consensus Group. J Vasc Surg 2000; 31:S16 Figura 5 2. Se un paziente presenta complicanza microangiopatica, va ricercata la presenza di macroangiopatia. È infatti ormai stabilito il ruolo predittore della microangiopatia, sia essa retinopatia diabetica o nefropatia anche nelle fasi iniziali, sullo sviluppo di macroangiopatia (6, 7) (Figura 6). coronary artery disease), la cerebrovasculopatia e la vasculopatia periferica (PAD, peripheral artery disease), la CAD rende conto del maggior numero di decessi e il rischio nella donna è quasi doppio rispetto all’uomo. Inoltre il diabete si associa maggiormente a infarto miocardico acuto (IMA) fatale rispetto a IMA non fatale, forse a causa di una più grave coronaropatia nei pazienti con diabete rispetto a quelli senza. Nei pazienti diabetici di tipo 2 di nuova diagnosi, senza altri fattori di rischio per malattia cardiovascolare, il test da sforzo al cicloergometro risulta positivo nel 17.1% dei soggetti, mentre il 13% presenta una CAD evidenziata alla coronarografia. L'arteriopatia coronarica nel paziente diabetico, confrontata con quella dei controlli di pari età, presenta caratteristiche specifiche, ovvero una più estesa diffusione delle placche, un maggior contenuto di calcio e mostra un coinvolgimento soprattutto a carico dei vasi distali, in presenza di un circolo collaterale meno rappresentato (8) (Figure 7, 8 e 9). A 64-year-old man with a 20-year history of diabetes. The total calcium score was 1,694.9 (Agatston method). Diffused calcified coronary plaqueswere found in the right coronary artery on curved planar reformation image of CTCA (left), and multiple significant luminal stenoses were demonstrated on conventional CAG (right). Gao Y et al, Am J Cardiol 2011;108:809-813 Juutilainen A et al, Figura 7 Figura 6 La ricaduta pratica è quindi non solo la necessità di intensificare il trattamento di tutti i fattori di rischio nel paziente con microalbuminuria e/o iniziale lesione retinica, ma anche di avviare una diagnostica coerente con malattia macrovascolare. Va infine ricordato che la malattia renale, soprattutto nelle fasi avanzate svolge un ruolo pesantissimo nell’incidenza di eventi macrovascolari. Cardiopatia ischemica Tra le singole espressioni di macroangiopatia diabetica, ovvero la cardiopatia ischemica (CAD, A 68-year-old man without diabetes. The total calcium score was 124 (Agatston method). Only spotted calcified coronary plaques were found in the left anterior descending coronary artery on curved planar reformation image of CTCA (left). There was no significant luminal stenosis in the same vessel on conventional CAG (right). Gao Y et al, Am J Cardiol 2011;108:809-813 Figura 8 85 WINTER SCHOOL Diabetico, che suggerisce un iter diagnostico e terapeutico per la CAD silente (10) (Figura 10). (SID-AMD 2010) ) Rana JS et al, Figura 9 Uno studio autoptico ha dimostrato che il 91% dei pazienti diabetici senza storia di CAD presentava una stenosi coronarica significativa (> 70%) mentre l'83% mostrava più di un'arteria significativamente stenotica, in confronto con una popolazione non diabetica, in cui il 33% presentava un interessamento monovasale e il 17% un interessamento multi vasale (9). I soggetti diabetici infartuati sono più proni a complicanze, quali reinfarto, insufficienza cardiaca congestizia cronica, shock cardiogeno, rottura del miocardio. Fattori predittivi indipendenti di prognosi sfavorevole nell'immediato post-infarto nel paziente diabetico sono l'IMA transmurale, un pregresso IMA, il sesso femminile ed il trattamento insulinico precedente l'IMA. Non trascurabile è la presenza di un quadro di scompenso cardiaco all'esordio nel 10% dei diabetici con IMA, con una prevalenza quasi doppia rispetto ai soggetti non diabetici. La presenza di neuropatia autonomica può essere responsabile di ischemia silente, con possibile, deleterio, ritardo diagnostico o completa misconoscenza della coronaropatia. A tal proposito vanno considerati, nel diabetico, sintomi considerati segni atipici di angina o di compromissione microcircolatoria, globalmente chiamati “il suono del silenzio”: la dispnea, la disfunzione erettile, il facile affaticamento. La valutazione della cardiopatia ischemica silente nel paziente diabetico rappresenta una difficile sfida clinica, in considerazione anche della limitatezza delle risorse che non permettono uno screening di popolazione di questa temibile complicanza. La SID, in associazione con altre Società Scientifiche ha proposto una Consensus sullo Screening e Terapia della Cardiopatia Ischemica nel Paziente 86 Figura 10 Da quanto appena riportato appare evidente che le dimensioni del problema richiedano non solo un approccio di tipo preventivo della cardiopatia ischemica, attraverso un controllo dei fattori di rischio coronarico il più stretto possibile, ma anche una sua diagnosi precoce, per evitare l’insorgenza di eventi acuti con le conseguenze a breve e lungo termine sopra descritte. Cerebrovasculopatia L’ictus è attualmente la quarta causa di morte nei Paesi Occidentali ed è ormai chiaramente dimostrato che il diabete mellito, sia di tipo 1 che di tipo 2 costituisce un potente fattore di rischio indipendente per ictus ischemico (12) (Figura 11). Kaplan-Meier curves for stroke in patients with type 2 diabetes mellitus, With and without previous cardiovascular disease (CVD), by sex. The DAI Study, Italy Figura 11 Il rischio di ictus ischemico è circa doppio nel soggetto diabetico rispetto al non diabetico, con un ulteriore incremento (oltre 5 volte) nei soggetti Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze di età <65 anni. In particolare, nello Studio Framingham l’incidenza di stroke non emorragico risultava essere da 2.5 a 3.5 volte maggiore nei soggetti diabetici rispetto ai non diabetici. Il rischio di ictus ischemico è complessivamente maggiore nell’uomo rispetto alla donna, in cui l’ictus però è prevalente nelle fasce di età agli estremi. Il diabete predice sia un primo evento, sia la recidiva di ictus, dopo che si è manifestato un TIA o uno stroke lacunare (11). Nei soggetti con anamnesi personale positiva per malattia cardiovascolare la probabilità di manifestare un ictus incrementa in maniera drammatica e la prognosi nel paziente diabetico è comunque peggiore. La coesistenza di altri fattori di rischio, quali l’ipertensione, la dislipidemia, l’obesità, che spessissimo aggregano con il diabete, determina un ulteriore incremento del rischio. Recentemente, in un ampio studio prospettico disegnato per investigare differenze razziali e geografiche sull’incidenza di ictus e sulla mortalità per ictus, il REGARDS (REasons for Geographic And Racial Differences in Stroke) che ha valutato 25.696 soggetti di età >45 anni, circa un quarto dei soggetti diabetici senza una diagnosi medica di ictus riferiva sintomi ascrivibili ad ictus. Questi dati suggeriscono un’elevata prevalenza di ictus non diagnosticato, nella popolazione diabetica. Per la grave disabilità che spesso procura, l’ictus rappresenta una patologia ad elevato impatto socio-sanitario ed economico e pertanto è imperativo l’impegno da parte del personale sanitario finalizzato alla prevenzione di questa complicanza vascolare, in particolare nel paziente diabetico. valutazione della prevalenza della PAD nella popolazione diabetica è resa difficile dalla presenza di diversi fattori: la PAD è spesso asintomatica; la concomitanza di neuropatia periferica può alterare la percezione del dolore; inoltre, l’assenza dei polsi periferici e la presenza di claudicatio non rappresentano strumenti diagnostici adeguati (13). Approximate range of odds ratios for risk factors for Symptomatic peripheral arterial disease Figura 12 Approximate magnitude of the effect of risk factors on the development of critical limb ischemia in patients with peripheral arterial disease CLI – critical limb ischemia Norgren L et al, TASCII 2007 Vasculopatia periferica E’ noto che il diabete rappresenta la prima causa di amputazioni non traumatiche a livello degli arti inferiori ed è per la vasculopatia periferica un fattore di rischio importante quasi quanto il fumo, che è il principale fattore di rischio per la PAD (12) (Figure 12, 13). Gli studi epidemiologici sono consensuali nel dimostrare che il diabete si associa ad un’elevata prevalenza di PAD. L’Edinburgh Artery Study e il Health Professionals Follow-up Study hanno riscontrato che i soggetti affetti da diabete presentano un rischio di di PAD sintomatica e asintomatica 1,5–2,5 volte maggiore rispetto alla popolazione non diabetica. Tuttavia un’accurata Figura 13 Negli studi che hanno utilizzato l'indice pressorio caviglia/braccio (ankle-brachial index, ABI) (Figura 14), che rappresenta la tecnica di screening preferibile la per valutare la PAD, la prevalenza di PAD, definita da un valore di ABI<0,90, nella popolazione diabetica varia tra 20 e 30% (14). Secondo i Centers for Disease Control and Prevention (CDC), negli Stati Uniti, dal 1993 al 2009, i trends aggiustati per età, delle dimissioni ospedaliere relative ad amputazioni a livello degli arti inferiori hanno mostrato una progressiva riduzione. Nel 2009, il maggior numero di amputazioni risultava a carico delle dita (1,8 per 1.000 diabetici), al 87 WINTER SCHOOL secondo posto risultavano le amputazioni al di sotto del ginocchio (0,9 per 1.000 diabetici), seguite dalle amputazioni a livello del piede (0,5 per 1.000 diabetici) e da quelle di coscia (0,4 per 1.000 diabetici). la PAD; tuttavia mentre il 50% dei pazienti non diabetici affetti da PAD si presenta asintomatico, nel paziente diabetico claudicatio intermittens è circa 2 volte più comune. Alla PAD è strettamente associata la problematica del piede diabetico, che costituisce un'altrettanto grave e complessa complicanza cronica del diabete. Misurazione dell’ABI Figura 14 La PAD nei pazienti diabetici è più aggressiva, rispetto ai non diabetici, con interessamento più precoce dei grandi vasi e coinvolgimento dei vasi più distali; spesso si accompagna a neuropatia simmetrica distale. Lo studio ARIC ha riscontrato che nei soggetti diabetici l’aumentato rischio di PAD si associa al fumo di sigaretta, alla presenza di CAD, ad elevate concentrazioni di fibrinogeno, ad un aumentato spessore intimo-mediale (IMT) della parete carotidea e al tipo di trattamento. In uno studio condotto in pazienti diabetici tipo 2, i valori più bassi di ABI corrispondevano al maggior rischio di eventi cardiovascolari entro 5 anni (12). L’ABI è un test semplice, non invasivo e può essere facilmente eseguito nella maggior parte degli ambulatori; ha una sensibilità dal 79% al 95% e una specificità dal 95% al 100% (15). La SID raccomanda l’esecuzione di un ABI in tutte le persone con diabete, indipendentemente dal livello di rischio; se normale, l’esame può essere ripetuto entro 3-5 anni (16). La presentazione clinica della PAD può variare da un quadro totalmente asintomatico alla claudicatio intermittens, alla presenza di sintomatologia dolorosa atipica agli arti inferiori, dolore a riposo, presenza di ulcere ischemiche o gangrena. Le classificazioni di Fontaine e Rutherford sono applicabili nella clinica per l’inquadramento dei segni e sintomi della PAD (Figura 15). La claudicatio è il sintomo caratteristico del- 88 Figura 15 Bibliografia 1. The Emerging Risk Factors Collaboration. Diabetes 2. 3. 4. 5. 6. 7. mellitus, fasting glucose, and risk of cause-specific death. New Engl J Med. 2011; 364:829-41. Huxley R, Barzi F, Woodward M. Excess risk of fatal coronary heart disease associated with diabetes in men and women: meta-analysis of 37 prospective cohort studies. BMJ 2006;332:73-8 Avogaro A, Giorda C, Maggini M, Mannucci E, Raschetti R, Lombardo F, Spila Alegiani S, Turco S, Velussi M, Ferrannini E and the DAI study Group. 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La loro coesistenza è frequente: i pazienti ipertesi hanno, infatti, un rischio di sviluppare il diabete due-tre volte maggiore rispetto ai pazienti normotesi (1) e, d’altra parte, l'incidenza di ipertensione nei pazienti con diabete è circa due volte superiore a quella nei soggetti di pari età senza diabete (2) e dipende dal tipo di diabete (più frequente nei soggetti con diabete tipo 2), dall’età, dall’etnia e dalla presenza di obesità (3). E’ stata dimostrata un’associazione lineare tra età e indice di massa corporea da un lato e la prevalenza del diabete mellito e dell’ipertensione arteriosa dall’altro (4). Gli studi italiani DAI (Diabetes And Informatics study group) (Figura 1), Casale Monferrato (Figura 2), UDNH ed i recentissimi dati dello studio RIACE riportano una prevalenza di ipertensione arteriosa nel diabete tipo 2 pari all’80‑85% (3, 5, 6). Numerosi studi hanno dimostrato gli effetti benefici di uno stretto controllo pressorio nei pazienti con diabete tipo 2 (7-10). Lo studio HOT (Hypertension Optimal Treatment) (9) ha dimostrato che la riduzione della PA diastolica a valori inferiori a 80 mmHg riduce gli eventi cardiovascolari maggiori del 51% rispetto al gruppo con PA diastolica ≤90 mmHg (Figura 3). Figura 3 Figura 1 Tuttavia, l’evidenza a favore del trattamento antiipertensivo nei pazienti diabetici con valori di PA normale-alta è piuttosto scarsa (11); (Figura 4). Figura 2 Figura 4 90 Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze Infatti, non vi sono dati solidi a sostegno della raccomandazione di raggiungere un target di PA sistolica <130 mmHg. L’approccio terapeutico al paziente diabetico iperteso è sostanzialmente condiviso da tutte le società scientifiche, tra cui gli Standard Italiani (Figura 5) e tutti i trial di intervento hanno dimostrato che è necessario utilizzare almeno due o più farmaci per ottenere gli obiettivi pressori (Figura 6). Figura 7 Figura 5 Per quanto riguarda gli effetti cardiovascolari, lo studio Micro-HOPE ha dimostrato una riduzione significativa degli end-point cardiovascolari del ramipril vs. placebo (Figura 8), tuttavia parte dei risultati possono essere spiegati dalle differenze pressorie, ottenute nei due gruppi. Infine, per quanto riguarda la complicanza renale, i dati a nostra disposizione mostrano una superiorità degli inibitori del RAS in prevenzione secondaria, mentre i risultati in prevenzione secondaria sono ancora controversi. Figura 6 Nella scelta della terapia anti-ipertensiva nel diabete, devono essere considerati alcuni effetti fondamentali (metabolici, cardiovascolari e renali). In particolare, i farmaci che agiscono sul sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAS) hanno dimostrato un’azione positiva sul metabolismo glicidico e sono stati associati, in numerosi studi, ad una riduzione dell’incidenza di diabete mellito (Figura 7). Figura 8 In conclusione, •ipertensione e diabete sono entrambi fattori di rischio CV •l’ipertensione è frequente nel diabete mellito •l’associazione ipertensione-diabete è spesso non isolata, ma associata ad altri fattori di rischio •l’associazione ipertensione-diabete è altamente lesiva 91 WINTER SCHOOL • anche valori di PA nell’ambito della normotensione (normale-alta) sono lesivi nel diabete mellito (aumentata suscettibilità) Bibliografia 1. Gress TW, Nieto FJ, Shahar E, Wofford MR, Brancati FL. Hypertension and antihypertensive therapy as risk factors for type 2 diabetes mellitus. Atherosclerosis Risk in Communities Study. N Engl J Med 2000; 342:905–912. 2. Sowers JR. Recommendations for special populations: diabetes mellitus and the metabolic syndrome. Am J Hypertens 2003; 16:41S–45S. 3. Bruno G, De Micheli A, Frontoni S, Monge L. Highlights from “Italian Standards of care for Diabetes Mellitus 2009-2010”. Nutr Metab Cardiovasc Dis 2011; 21:302-14. 4. 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Tight blood pressure control and risk of macrovascular and microvascular complications in type 2 diabetes: UKPDS 38. BMJ 1998; 317:703–713. 8. Heart Outcomes Prevention Evaluation Study Investigators. Effects of ramipril on cardiovascular and microvascular outcomes in people with diabetes mellitus: results of the HOPE study and MICRO-HOPE substudy. Lancet 2000; 355:253–259. 9. Hansson L, Zanchetti A, Carruthers SG, Dahlof B, Elmfeldt D, Julius S, Menard J, Rahn KH, Wedel H, Westerling S. Effects of intensive blood-pressure lowering and low-dose aspirin in patients with hypertension: principal results of the Hypertension Optimal Treatment (HOT) randomised trial. HOT Study Group. Lancet 1998; 351:1755–1762. 10. 1Patel A, MacMahon S, Chalmers J, Neal B, Wo- 92 odward M, Billot L, Harrap S, Poulter N, Marre M, Cooper M, Glasziou P, Grobbee DE, Hamet P, Heller S, Liu LS, Mancia G, Mogensen CE, Pan CY, Rodgers A, Williams B; ADVANCE Collaborative Group. Effects of a fixed combination of perindopril and indapamide on macrovascular and microvascular outcomes in patients with type 2 diabetes mellitus (the ADVANCE trial): a randomised controlled trial. Lancet 2007; 370:829–840. studio prospettico. 11. Zanchetti A, Grassi G, Mancia G. When should antihypertensive drug treatment be initiated and to what levels should systolic blood pressure be lowered? A critical reappraisal. J Hypertens 2009; 27: 923-934. Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze Dislipidemia nel diabete: come trattarla? Marco Giorgio Baroni Dipartimento di Medicina Sperimentale Sapienza Università di Roma Nella classificazione delle dislipidemie le alterazioni lipidiche sono distinte in primitive e secondarie, con quadri fenotipici variabili (figura 1). Classificazione delle iperlipidemie iperlipidemia PRIMITIVA Mechanisms Relating Insulin Resistance and Dyslipidemia Fat Cells SECONDARIA Ad altre patologie Classificazione Classificazione genotipica fenotipica 3-6 volte il soggetto non diabetico. La dislipidemia del diabetico sembra essere causata principalmente dal grado di insulino-resistenza del soggetto (figura 3). ‐ Diabete Mellito ‐ Ipotiroidismo ‐Sindrome Nefrosica ‐ Insufficienza Renale ‐ Ittero Ostruttivo ‐ Abuso di Alcol ‐ Anoressia Nervosa ‐ Deficit di GH FFA A farmaci ‐ Immunosoppressori ‐ antiretrovirali ‐ inibitori dell’aromatasi ‐ steroidi ‐ diuretici (es tiazidici) ‐ beta bloccanti ‐ estroprogestinici Liver IR X CE TG Apo B VLDL VLDL (CETP) TG CE (CETP) TG Insulin LDL HDL (hepatic lipase) Apo A-1 Kidney small,dense LDL (TG LPL or hepatic lipase) Figura 1 Figura 3 Fra le secondarie, una delle maggiori cause di alterazioni lipidiche è il diabete mellito di tipo 2. La dislipidemia del diabetico presenta un quadro caratteristico, caratterizzato da alterazioni quantitative, con aumento dei trigliceridi, riduzione del colesterolo-HDL e aumento del colesterolo totale, e alterazioni qualitative, soprattutto a carico delle lipoproteine LDL, che risultano piccole e dense (figura 2). La ridotta azione insulinica, infatti, determina un aumentato rilascio di acidi grassi dal tessuto adiposo, i quali, giunti al fegato, vengono assemblati come trigliceridi e immessi nelle lipoproteine VLDL insieme alla apoproteina B. Le VLDL vengono secrete nel circolo, risultandone quindi un aumento dei trigliceridi ematici. Una volta in circolo, le VLDL scambiano trigliceridi con colesterolo con le LDL, che modificano la loro composizione diventando più piccole e dense e maggiormente aterogene. Scambiano i trigliceridi anche con le HDL, che a loro volta diventano più aterogene e vengono più facilmente catabolizzate dalla lipasi epatica con perdita dell’ApoA1 attraverso il rene. Ne risulta quindi il tipico quadro del diabetico, con elevate VLDL (trigliceridi), LDL piccole e dense, e basse HDL. Gli standard Italiani per la cura del Diabete SID-AMD raccomandano quindi uno stretto controllo della dislipidemia nel paziente con diabete, con un controllo annuale e alcune analisi aggiuntive al classico profilo lipidico, fra le quali la valutazione dei livelli di Apo B. Le Apolipoproteine B (figura 4) sono, infatti, le apolipoproteine primarie di chilomicroni, VLDL, IDL, LDL e Lp (a). La misurazione della ApoB rappresenta l'onere totale di particelle ritenute più aterogeniche. Alterazioni lipidiche nel Diabete mellito di tipo 2 • QUANTITATIVE – Trigliceridi VLDL – HDL Colesterolo – Colesterolo totale 3 - 6 volte aumento rischio CAD • QUALITATIVE – – – – LDL piccole e dense VLDL ricche di colesterolo HDL ricche di trigliceridi Apoproteine glicosilate Figura 2 Questo quadro lipidico si associa a un aumento del rischio cardiovascolare che viene stimato di 93 WINTER SCHOOL Dislipidemia diabetica Nei pazienti diabetici le LDL sono impoverite in colesterolo e arricchite in trigliceridi; pertanto il dosaggio del colesterolo LDL non fornisce una adeguata informazione sul suo reale valore e sul target terapeutico. Approccio diagnostico: • Profilo lipidico (digiuno per 12 ore prima del test. Non-digiuno = TG) • Identificare fattori di rischio per CHD • Stima del RCV • Identificare obiettivo terapeutico In questi pazienti dovrebbe quindi essere considerato anche il dosaggio dell'ApoB al momento di inizio della terapia, e per il TT da raggiungere (≤80 mg/dl). L'ApoB è indicativo del numero di particelle aterogene circolanti (chilomicroni, VLDL, LDL, IDL). Il dosaggio dell’ApoB è utile anche nei soggetti con sindrome metabolica e nei pazienti con insufficienza renale cronica. Il colesterolo non‐HDL, la cui determinazione può essere utile se non è possibile il dosaggio dell’Apo B, si calcola facilmente dal colesterolo totale (TC) meno HDL‐C. Figura 5 Figura 4 I Maggiori Fattori di Rischio Individuali E’ stato recentemente proposto un target (< 80 mg/dl) per i soggetti con diabete. Tuttavia la misurazione delle ApoB ha una maggiore variabilità analitica rispetto al colesterolo, che per questo motivo è rimasto il parametro di riferimento. I livelli di ApoB, però, tengono conto anche delle VLDL e IDL, nonché delle LDL, e il numero di lipoproteine ApoB è considerato dare una misura più diretta del rischio CVD rispetto ai valori di colesterolo LDL, soprattutto in soggetti con la dislipidemia tipica del diabete. Infatti, pur in presenza di colesterolo LDL nei limiti, la presenza di Apo B elevata è indicativa della necessità di un ulteriore abbassamento del colesterolo LDL. Un’altra possibile misura, tra l’altro molto semplice da calcolare, è il colesterolo non-HDL, ottenuto dalla formula: TC - HDL-C = non–HDL-C. Il colesterolo non-HDL fornisce una stima del contenuto di colesterolo di tutte le lipoproteine contenenti ApoB, incluse LDL, VLDL, e IDL, permettendo una stima più allargata delle lipoproteine aterogeniche circolanti. Mancano ancora dati epidemiologici in larga scala che confermino l’utilità di questi marcatori nella pratica clinica. Ai fini dell’inquadramento del paziente devono essere valutati il profilo lipidico a digiuno, la presenza di fattori di rischio cardiovascolare (figura 5-6), che permettono una migliore definizione del rischio del soggetto e la stima del rischio CV a 10 anni del soggetto. • Eta’ (uomini50 anni; donne 60 anni) • Abitudine al fumo di sigaretta • Ipertensione (135/85 mmHg o in trattamento antipertensivo) • Bassi livelli di colesterolo HDL (uomini <40 mg/dL, donne < 50 mg/dL )† • Storia familiare di cardiopatia ischemica (CHD) prematura in un familiare di I grado: – Uomini: CHD prima dei 55 anni – Donne : CHD prima dei 65 anni † Colesterolo HDL 60 mg/dL conta come un fattore di rischio “negativo”; la sua presenza rimuove uno dei fattori di rischio dal conto totale Figura 6 Una volta diagnosticata la presenza di dislipidemia devono essere definiti i target terapeutici sia primari che secondari (figura 7). Standard Italiani controllo del profilo lipidico • il colesterolo LDL deve essere considerato l’obiettivo primario della terapia e l’obiettivo terapeutico da raggiungere è rappresentato da valori <100 mg/dl. • Ulteriore obiettivi della terapia sono il raggiungimento di valori di trigliceridi <150 mg/dl e di colesterolo HDL >40 mg/dl (>50 mg/dl nella donna). • il colesterolo non‐HDL può essere utilizzato come obiettivo secondario (+30 mg/dl rispetto al colesterolo LDL) in particolare nei diabetici con trigliceridemia superiore a 200 mg/dl. la verifica del profilo lipidico (colesterolo totale, HDL e trigliceridi) deve essere effettuata almeno annualmente, ma a intervalli di tempo più ravvicinati in caso di mancato raggiungimento dell’obiettivo terapeutico. • La misurazione ApoB < 80 mg/dl (soprattutto nei pazienti con TG >200 mg/dl) Figura 7 Il parametro di riferimento, a oggi, è il colesterolo LDL. Il soggetto con diabete è considerato, per definizione, ad alto rischio cardiovascolare, il cui target terapeutico è pertanto un valore di 94 Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze • i pazienti con IRC grave (FG 15‐29 ml/min/1.73m2). Figura 8 F20 F40 P10 L20 P20 L40 S10 F80 P40 S20 A10 S40 A20 R10 S80 DIVERSE STATINE 0 A40 Sono invece considerati a rischio molto alto (e pertanto con target terapeutico di colesterolo LDL <70), • i soggetti con uno score ≥10%, • i pazienti con malattia coronarica, stroke ischemico, arteriopatie periferiche, pregresso infarto, bypass aorto‐coronarico, • i pazienti diabetici con uno o più fattori di rischio CV e/o markers di danno d'organo (come la microalbuminuria) RIDUZIONE DEL COLESTEROLO LDL OTTENIBILE CON R20 • Sono considerati per definizione a rischio alto (e il loro target terapeutico è pertanto un valore di colesterolo LDL <100) • coloro che presentano un risk score ≥5% e < 10% per CVD fatale a 10 anni, • i pazienti con dislipidemie familiari, quelli con ipertensione severa, • i pazienti diabetici senza fattori di rischio CV e senza danno d'organo, • i pazienti con IRC moderata (FG 30‐59 ml/min/1.73m2). A80 • R40 CATEGORIE DI RISCHIO In pratica, tutte le statine sono utilizzabili per il trattamento del colesterolo LDL eccetto la rosuvastatine e l’ezetimibe che sono considerate di II° livello nei pazienti con rischio CV del 5-10%. La scelta della statina e la dose da impiegare si devono basare anche sulla percentuale di riduzione del colesterolo LDL che si vuole ottenere (figura 11). -10 % riduzione LDL colesterolo <100 mg/dl. Questo target si abbassa a <70mg/dl se sono presenti uno o più fattori di rischio cardiovascolare (figura 8). -20 -30 -40 -50 Recentemente sono state modificate le indicazioni al trattamento del colesterolo, definendo trattamenti di I e II livello (figure 9-10). Ipercolesterolemia non corretta dalla sola dieta, seguita per almeno tre mesi, e ipercolesterolemia poligenica -60 statine a diverse dosi (A=atorvastatina F=fluvastatina P=pravastatina R=rosuvastatina S=simvastatina L=lovastatina Figura 11 Ad esempio, in un paziente con colesterolo LDL = 160 mg/dl l’utilizzo di atorvastatina 20, che riduce del 40% il colesterolo LDL, determinerebbe una riduzione di 64 mg/dl, con un colesterolo LDL a target di 98 mg/dl. Preferenzialmente atorvastatina se necessaria riduzione del colesterolo LDL >50% • Secondo linee guida ESC 2012 ** Nei pazienti che siano intolleranti alle statine, trattamento con ezetimibe in monoterapia Figura 9 Trattamento delle iperlipidemie Insieme alle statine, per l’ipercolesterolemia e per le altre forme di dislipidemia sono stati definiti alcuni farmaci di 1° scelta, come l’ezetimibe o i fibrati nelle ipertrigliceridemie, e di 2° scelta come le resine a scambio ionico o i derivati dell’acido nicotinico (figura 12). Algoritmo terapeutico: parte 2 IPERCOLESTEROLEMIA I^ SCELTA STATINE EZETIMIBE 2^ SCELTA RESINE FIBRATI Figura 10 FORME MISTE IPERTRIGLICERIDEMIA STATINE E/O FIBRATI FIBRATI DERIVATI DELL’ACIDO NICOTINICO DERIVATI DELL’ACIDO NICOTINICO OMEGA‐3 STATINE A DOSI ELEVATE Figura 12 95 WINTER SCHOOL Per quanto riguarda i farmaci per la riduzione del colesterolo, da utilizzare associati o in alternativa alle statine, l’exzetimibe svolge un ruolo importante (figure 13-14). RESINE SEQUESTRANTI GLI AC. BILIARI Colestiramina Colestipolo (non disponibile in Italia) Inibiscono il circolo enteroepatico degli Ac. Biliari con conseguente ↓ del colesterolo intraepatico che stimola la sintesi dei LDL‐R il cui aumento determina ulteriore riduzione del colesterolo plasmatico. Riducono colesterolo LDL 15‐18% EZETIMIBE Inibisce l'assorbimento intestinale del colesterolo alimentare e biliare senza alterare l’assorbimento dei nutrienti liposolubili. LIMITI: frequente intolleranza digestiva e riduzione della biodisponibilità di numerosi farmaci anionici e vitamine liposolubili (warfarin, tiroxina, digitoxina, beta-bloccanti & diuretici tiazidici) A livello dell‘orletto a spazzola inibisce il trasportatore per il colesterolo (NPC1L1), impedendo l'uptake del colesterolo e degli steroli naturali assunti con la dieta. Figura 15 CONTROINDICAZIONI: non è indicato nei pazienti con malattia del fegato attiva o con valori elevati e persistenti delle transaminasi (insufficienza epatica moderata‐grave) I fibrati rappresentano i principali farmaci per il trattamento delle ipertrigliceridemie (figura 16). FIBRATI Figura 13 Bezafibrato Fenofibrato Gemfibrozil a) La riduzione dei TG è dovuta all’attivazione del recettore nucleare PPARα con conseguente stimolazione dell’ossidazione degli acidi grassi, aumento della sintesi della lipasi e ridotta espressione dell’Apo CIII. b) L’aumento del HDL‐C è dovuto alla stimolazione, mediata da PPARα, della sintesi e dell’espressione di apoAI e apoAII. c) La modesta azione ipocolesterolemizzante sembra dovuta all’aumento dell’escrezione di colesterolo nella bile e nelle feci LIMITI: ‐ disturbi GI ‐ colelitiasi ‐ potenziamento degli effetti degli anticoagulanti N= 6541 DMT2 Diabetes, Obesity and Metabolism 2011;13.615 Figura 14 Esso, infatti, riduce l’assorbimento intestinale di colesterolo, con un effetto che si aggiunge a quello delle statine. Può anche essere utilizzato in alternativa nei pazienti intolleranti, anche se la capacità di ridurre il colesterolo LDL è inferiore. Anche le resine sequestranti gli acidi biliari possono essere impiegate per ridurre il colesterolo. Si stima che abbiano la capacità di ridurre il colesterolo del 15-18%, ma sono anche associate ad un alta frequenza di effetti gastrointestinali che ne limitano spesso l’uso (figura 15). 96 (↓ brinogeno e dell’aggregazione piastrinica e ↑ brinolisi) ‐ rabdomiolisi (Gemfibrozil se associato a statina) Jones & Davidson. Am J Cardiol 2005;95:120-2 Figura 16 Soprattutto nel paziente con diabete di tipo 2 elevati livelli di trigliceridi sono spesso associati con aumento del colesterolo LDL. Se non normalizzati con la dieta, i trigliceridi elevati si associano ad un aumento del rischio CV, detto rischio residuo, nel paziente diabetico. Gli studi di intervento hanno infatti dimostrato che nei pazienti con elevati TG e basse HDL il trattamento aggiuntivo con fibrati determina una ulteriore riduzione del rischio cardiovascolare (figura 17). Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze Fibrati: Efficace Riduzione del Rischio Residuo CVD nei pazienti con Basse HDL ed Elevati TG HHS Riduzione del rischio relativo di eventi CV (%) 0 HHS (4,081) (292) -10 BIP BIP (3,090) (1,470) p<0.02 (9,795)(2,014) -65%% p<0.01 (2,765) (485) -27% p=0.01 -42% Tutti pazienti HDL ≤34 TG≥204 *Basse HDL: HHS <42 mg/dl; BIP ≤35 mg/dl; ACCORD ≤34 mg/dl *Alti TG: HHS >204 mg/dl, BIP ≥200 mg/dl, VA-HIT ≥180 mg/dl (≥2.0 mmol/L), FIELD and ACCORD ≥204 mg/dl Keech et al., Lancet 2005;366:1849–61 Scott et al., Diabetes Care 2009;31:493–98 Figura 17 L’Acido Nicotinico (figura 18) ha effetti sia sulla riduzione di trigliceridi che di colesterolo-LDL, con associato un significativo aumento del colesterolo HDL, ed è l’unico farmaco con questo effetto. L’Acido Nicotinico è però gravato da un’elevata prevalenza di effetti collaterali, che ne riducono molto l’impiego clinico. Per il diabete, l’effetto iperglicemizzante rappresenta ovviamente una controindicazione e ne limita ulteriormente l’utilizzo. • Ac.Docosaesanoico lipogenesi epatica attraverso la ↓ della corversione enzimatica della Acetil CoA in acidi grassi (FA) ↑ B-ossidazione degli FA con conseguente riduzione della quantità di FA disponibili per la sintesi dei TG Inibiscono gli enzimi fosfatidatofosfatasi (PAP) e diaciliglicerolo aciltransferasi (DGAT), enzimi chiave della sintesi dei TG nel fegato ↑ l’attività della LPL ↓ -31% NNT=20 Tutti i pazienti Basse HDL, Alti TG* Ac.Eicosapentanoico RIDUZIONE DELLE VLDL -8% p=0.01 p=0.02 -60 ACCORDACCORD p=0.035 -21.7% p=0.006-28% -34% -50 FIELD FIELD -11% p=ns -30 -70 (2,531) (769) -9.4% -20 -40 VA-HITVA-HIT Acidi grassi OMEGA 3 poli‐insaturi Figura 19 Efficacy of omega-3 fatty acid supplements in the secondary prevention of overall cardiovascular events in a random-effects meta-analysis of 14 randomized, doubleblind, placebo-controlled trials ACIDO NICOTINICO Inibisce la lipolisi nel tessuto adiposo, con conseguente riduzione della sintesi epatica di VLDL (TG ‐20‐50%) e di conseguenza delle LDL (‐15%) • Ha inoltre il vantaggio di indurre un consistente aumento delle HDL (+20%) tramite inibizione dell’enzima CEPT LIMITI: importanti effetti vasomotori iperglicemizzante +10‐20% epatotossico gastrolesivo In Italia: ACIPIMOX: analogo dell’ac. Nicotinico, stesso meccanismo d’azione, no effetto iperglicemizzante ACIDO NICOTINICO + LAROPRIPANT Laropiprant è un antagonista del R della prostaglandina D2. E' stato aggiunto con lo scopo specifico di ridurre la vasodilatazione causata dall'acido nicotinico mediata dal rilascio di prostaglandina D2 nella cute. Figura 18 Infine, gli Acidi grassi Omega 3 poli-insaturi sono stati proposti ed utilizzati per la riduzione delle VLDL e della trigliceridemia, con possibili effetti sul rischio cardiovascolare (figura 19). Tuttavia, a fronte di una riduzione importante dei trigliceridi (figura 20), ottenuta con elevate dosi (minimo 3 grammi/die), le metanalisi non hanno dimostrato alcun beneficio sulla riduzione del rischio CV (figura 21). ARCH INTERN MED/VOL 172 (NO. 9), MAY 14, 2012 Figura 20 ORIGIN Omega-3 Conclusione • Non hanno ridotto l’end-point primario (mortalità CV) • Non hanno influenzato significativamente gli eventi cardiovascolari maggiori ne la mortalità da tutte le cause • Hanno determinato una riduzione significativa dei trigliceridi, senza influenzare nessun altro parametro (LDL, HDL, HbA1c, glucosio, PA) The ORIGIN Trial. N-3 fatty acids and cardiovascular outcomes in patients with dysglycemia. N Engl J Med. 2012 Figura 21 Anche lo studio Origin recentemente pubblicato, dove la supplementazione con 1 grammo/die di Omega 3 era stata confrontata con placebo in pazienti diabetici, non ha dimostrato alcun effetto sugli eventi cardiovascolari (figura 22). 97