winter school

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winter school
WINTER SCHOOL
Complessità gestionale
del paziente con diabete di tipo 2
e delle complicanze
Pacengo di Lazise (VR), 14-16 novembre 2013
Hotel I Parchi del Garda
Syllabus
Indice
La pandemia del diabete: mito o realtà
Enzo Bonora
pag. 4
Nuovi approcci terapeutici del diabete tipo 2: analisi critica
Stefano Del Prato
pag. 8
Tecniche di presentazione
Francesco Muzzarelli
pag. 18
Diagnosi del diabete e degli stati di alterata regolazione glucidica:
glicemia a digiuno, post-prandiale, HbA1c o tutti insieme?
Annalisa Natalicchio
pag. 22
La diagnosi di diabete in situazioni particolari
Frida Leonetti, Federica Coccia, Danila Capoccia
pag. 28
Come impostare il cambiamento dello stile di vita
Giovanni Annuzzi
pag. 38
Come scegliere la terapia farmacologica: un approccio “EVIDENCE BASED”
Gianluca Perseghin
pag. 44
Terapia insulinica nel diabete tipo 2: come e quando
Raffaella Buzzetti, Gaetano Leto, Chiara Moretti
pag. 52
Diagnosi e trattamento della neuropatia diabetica
Vincenza Spallone
pag. 56
Diagnosi e Trattamento della Nefropatia Diabetica
Giuseppe Penno
pag. 67
Complicanze macrovascolari: epidemiologia e clinica
Saula Vigili de Kreutzenberg
pag. 83
Ipertensione nel diabete: come trattarla?
Simona Frontoni
pag. 90
Dislipidemia nel diabete: come trattarla?
Marco Giorgio Baroni
pag. 93
3
WINTER SCHOOL
La pandemia del diabete: mito o realtà
Enzo Bonora
Endocrinologia, Diabetologia e Metabolismo, Università e Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona
Il diabete è sempre più diffuso nel mondo e anche
il Italia. L’ultima rilevazione dell’ISTAT, peraltro basata su quanto dichiarano i cittadini e non su rilevazioni sul campo, è del 2011 e ha portato a definire
una prevalenza del 4.9% (figura 1).
Fig. 3 - Il diabete noto in Italia (1986-1988)
Casale Monferrato
(TO) – 2.2%
Pisa – 2.6%
Verona – 2.6%
Cremona – 3.2%
Foligno (PG) – 3.2%
Fig. 1 - Prevalenza del diabete in Italia secondo
i dati ISTAT
Bari – 2.8%
8
~7.0%?
6
4.9%
3.6%
%
4
2.6%
2
12 anni
0
Pozzuoli (NA) – 2.5%
1988
11 anni
2000
14 anni
2011
2025
Il dato è verosimilmente inferiore alla realtà per la
tendenza a non rendere troppo esplicite le proprie
condizioni di salute nei questionari autocompilati
o nelle interviste telefoniche. Da notare che i dati
raccolti nel 2009 sui propri assistiti dai medici di
medicina generale che contribuiscono al progetto
Health Search hanno portato a definire una prevalenza del 6.6% (figura 2).
Fig. 2 - Prevalenza del diabete in Italia secondo
i dati dei MMG (VI Report Health Search)
non sono stati più condotti molti studi epidemiologici sulla popolazione generale di tutte le età. Gli
studi di Cremona e di Brunico, peraltro dei primi
anni novanta, sono stati condotti anche con OGTT
su campioni di ultraquarantenni e sono stati utili
soprattutto per comprendere la proporzione di diabete misconosciuto rispetto a quello noto (in media
circa 1 caso ignoto ogni 2 noti) (figura 4).
Fig. 4 - Prevalenza del diabete in Italia nel 1990
Studi con OGTT
Cremona Study
Campione random (n=1797)
Età 45+
Participazione 58%
Rapporto noto/ignoto 2.6
Prevalenza 10.7%
Bruneck Study
Campione random (n=919)
Età 40-79
Participazione 91.9%
Rapporto noto/ignoto 1.15
Prevalenza 5.7%
8
6.2%
6.6%
5.7%
6
Prevalenza aggiustata per
la struttura della popolazione
4.8%
%
4
2
0
2003
2005
2007
2009
Età > 15 anni; medici 500-1000; soggetti circa 1,2 milioni; diabetici circa 70 mila
Tale dato, invece, è verosimilmente in eccesso in
quanto non comprende i soggetti in età pediatrica
(<15 anni), in cui il diabete è assai poco presente.
Dopo la notevole quantità di osservazioni epidemiologiche fatte negli anni ottanta in varie città
italiane e che hanno definito che la prevalenza del
diabete, identificato con varie fonti di rilevazione,
era a quell’epoca pari a circa il 2.8% (figura 3),
4
Criteri WHO 1985
Uno studio condotto a Torino nel 2003 da Graziella Bruno e che ha utilizzato più fonti di rilevazione come gli studi degli anni ottanta ha mostrato
una prevalenza del 4.9%, a testimoniare come i dati
ISTAT del 2011 fossero inferiori alla realtà. Il dato
più recente a disposizione è quello dell’Osservatorio ARNO Diabete, basato su informazioni riguardanti i flussi dei ricoveri (SDO con diagnosi di diabete) e delle prescrizioni dei farmaci antidiabetici
nel 2012 e le esenzioni per diabete presenti nello
stesso anno in circa 40 ULSS sparse sul territorio
nazionale e sulle quali insistevano oltre 11 milioni di
cittadini. Tali informazioni hanno permesso di identificare circa 680 mila diabetici con una prevalenza
Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
del 6.2% (figura 5).
Fig. 7 - Diabete noto e ignoto in Italia
sono molto comuni (circa 1 persona su 12)
Fig. 5 - Prevalenza del diabete in Italia
Osservatorio ARNO Diabete 2012 (CINECA-SID)
Popolazione generale n = 11.130.806
Diabete noto
~ 3.700.000
Diabete ignoto
~ 1.300.000
TOTALE
~ 5.000.000
Popolazione con diabete n = 688.136
Prevalenza = 6,2%
(5,2% farmaco trattato)
Tale dato è una stima prudente in quanto non include i casi in cui non vi era prescrizione di farmaci
antidiabetici o in cui gli stessi erano acquisiti al di
fuori delle ricettazioni SSN, non include i ricoveri
in cui il diabete non era indicato nella SDO e non
include i soggetti in cui non era mai stata attivata
un’esenzione per patologia. In ogni caso si tratta
di una massa enorme di persone con diabete, tale
da giustificare l’uso del termine pandemia, che è
in continuo aumento dal 1986. Infatti, in circa 25
anni il numero dei diabetici che vivono in Italia è
più che raddoppiato: quando in Italia vivevano circa
56,5 milioni di persone un diabete noto era presente in circa 1,6 milioni di essi ed ora che gli abitanti
dell’Italia sono circa 60,5 milioni i casi sono circa
3,7 milioni (figura 6).
Fig. 6 - Casi di diabete noto in Italia:
un grande aumento in 25 anni
1986
~ 1.600.000
2012
~ 3.750.000
osservazioni dello studio di Brunico nel periodo
1990-2000 e alle osservazioni fatte a Torino sui
casi di diabete in età più giovanile, è di circa 250
mila nuovi casi di diabete tipo 2 per anno e di 2500
nuovi casi di diabete tipo 1 per anno (figura 8).
Fig. 8 - Incidenza del diabete in Italia
Tipo 1: ~2.500 nuovi casi per anno
Tipo 2: ~250.000 nuovi casi per anno
Fonti per le stime: Studio di Brunico per il diabete tipo 2
Studio di Torino per il diabete tipo 1
La stima basata sul cambiamento della prevalenza nel corso degli anni, assumendo che continui un
aumento quasi lineare della malattia, è che nel 2025
la prevalenza dei casi noti sia circa 8.5% (figura 9).
Fig. 9 - Prevalenza futura del diabete in Italia in
base a studi osservazionali
12
Aumento
+ 235%
9
Verona
Diabetes
Study
Turin
Study
ARNO
Diabete
~8.5%(?)
Se poi si considerano i casi di diabete misconosciuto, che si ritiene ammontino ancora oggi ad 1 ogni
2-3 casi di diabete noto, si può stimare che la prevalenza del diabete in Italia sia in questo momento
pari all’8-9%. I cittadini con diabete in Italia, noti e
non noti, sarebbero quindi circa 5 milioni (figura 7).
La stima è che il numero aumenti ancora nei prossimi 10-15 anni, così come previsto in tutto il mondo. L’incidenza del diabete, calcolata in base alle
%
6.2%
6
3
4.9%
2.6%
17 anni
0
1986
13 anni
9 anni
2003
2012
2025
Dei casi di diabete noto non meno del 90% sono di
diabete tipo 2, mentre gli altri casi si dividono in
parti quasi uguali fra il diabete tipo 1 e gli altri tipi
di diabete, incluso il LADA (figura 10).
5
WINTER SCHOOL
Fig. 13 – La polifarmacia nel diabete
Fig. 10 - Diabete noto: prevale il tipo 2
ARNO Diabete 2012
Percento di pazienti che hanno avuto una
prescrizione nel 2012
(differenza rispetto ai controlli)
Categorie di farmaci
Diabete tipo 2 (~90%)
Diabete tipo 1 (~5%)
~ 3.330.000
~ 185.000
~ 185.000
Altri tipi (~5%)
~ 3.700.000
TOTALE
Da notare che circa il 65% dei casi di diabete si colloca nella fascia di età dai 65 anni in su (figura 11),
Antiipertensivi e altri farmaci del sistema CV
72 (+43%)
Antibiotici
51 (+20%)
Antiacidi ed antiulcera
47 (+34%)
Ipolipidemizzanti
46 (+136%)
Antiaggreganti piastrinici
40 (+93%)
Antiinfiammatori
36 (+22%)
Farmaci del sistema nervoso
22 (+43%)
Antiasmatici
18 (+23%)
Antitrombotici
14 (+46%)
Cortisonici
12 (-9%)
Antigottosi
10 (+120%)
Terapia tiroidea
9 (+5%)
Antimicrobici intestinali
8 (+30%)
Antiglaucoma
7 (+60%)
Altri
42 (+22%)
Fig. 14 - Prestazioni specialistiche nei diabetici
ARNO Diabete 2012
Fig. 11 - Diabete: distribuzione in classi di età
• <35 anni
2.8%
• 35-49 anni
7.8%
• 50-64 anni
25.0%
• 65-79 anni
43.3%
• > 80 anni
21.1%
100
Soggetti con almeno una prestazione
specialistica rimborsata SSN (%)
ARNO Diabete 2012
9 (+48%)
Ipertrofia prostatica benigna
87.7%
75.8%
Numero medio di
prestazioni per anno
32.6
75
50
Numero medio di
prestazioni per anno
18.7
25
0
No diabete
Diabete
Età media 67 anni
Fig. 12 – La polifarmacia nel diabete
ARNO Diabete 2012
Soggetti con almeno una prescrizione
di un farmaco rimborsato SSN (%)
6
Numero medio di
confezioni per anno
68.3
81%
75
Numero medio di
confezioni per anno
32.4
25
0
ARNO Diabete 2012
20
15
10
5
0
21.4%
Tassi per mille
172.5
Numero medio
di ricoveri nei
ricoverati
1.4
Tassi per mille
332.8
Numero medio
di ricoveri nei
ricoverati
1.6
12.7%
DRG medio
per ricoverato
€ 5267
DRG medio
per ricoverato
€ 6361
Ordinario 69%
DH 31%
Ordinario 72%
DH 28%
Degenza media
9.0 giorni
Degenza media
10.7 giorni
No diabete
Diabete
93%
100
50
Fig. 15 – Ospedalizzazioni nei diabetici
Soggetti con almeno una
ospedalizzazione nell’anno (%)
il che contribuisce a consolidare il concetto che
la malattia prediliga l’età anziana e senile e che,
quindi, interessi spesso soggetti fragili che meritano un’attenzione particolare nelle scelte terapeutiche. Una fragilità che è legata alla comorbidità
(probabilmente da considerare in molti casi una
complicanza della malattia), ben testimoniata dal
fatto che il 93% dei soggetti con diabete assume
un farmaco e, spesso, più di uno (figura 12 e figura
13) e richieda numerose prestazioni specialistiche
(figura 14).
I diabetici sono anche ricoverati più spesso dei non
diabetici e hanno ricoveri più lunghi e più costosi
(figura 15).
No diabete
Diabete
Da sottolineare che i ricoveri nei diabetici sono
aumentati per gran parte delle patologie, anche se
le malattie cardiovascolari rappresentano la causa
più frequente essendo complessivamente circa il
20% delle cause di ricovero (figura 16).
Nel complesso il costo dell’assistenza di una persona con diabete è circa doppio rispetto al costo
annuale di una persona senza il diabete (figura 17).
Tale spesa, tuttavia, è largamente sottostimata perché basata sulle tariffe dei ricoveri (DRG) e delle
Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
Fig. 16 – Prime 10 cause di ricovero nei diabetici
ARNO Diabete 2012
Tassi per 1000
diabetici
Tassi per 1000
non diabetici
Differenza rispetto
ai non diabetici (%)
Insufficienza cardiaca
15.7
4.3
+263
Altre malattie del polmone
9.3
2.6
+259
Infarto del miocardio
7.3
2.7
+172
Altre forme di cardiopatia ischemica
6.1
1.9
+213
Causa principale sulla SDO
Aritmie cardiache
5.8
3.3
+75
Fratture collo femore
5.0
3.4
+47
Artrosi
5.0
4.6
+8
Occlusione arterie cerebrali
4.7
1.8
+169
Colelitiasi
4.4
3.3
+31
Broncopolmonite
4.0
1.5
+170
Circa 5 diabetici su 100 in un anno si ricoverano per CVD; circa 20 ricoveri su 100 sono per CVD
Fig. 17 – Il costo del diabete in Italia
ARNO Diabete 2012
Spesamedia/anno
Con
diabete
Totalefarmaceutica+ricoveri+
specialistica
Farmaceutica
dicuiperantidiabetici(%)
Ricoveri
1.262€
99%
770€
351€
119%
178€
377€

670€
241€
rolo F., Bona G., Perino A., Rabbone I., Cavallo-Perin
P., Cerutti F. and Piedmont Study Group for Diabetes
Epidemiology. The incidence of type 1 diabetes is increasing in both children and young adults in Northern Italy: 1984-2004 temporal trends. Diabetologia.
2009; 52: 2531-2535.
• Il diabete in Italia. Bruno G. e Società Italiana di Diabetologia (ed.). Minerva Medica, Torino, 2012.
• Il diabete in Italia secondo l’Istat. http://www.istat.it/
it/archivio/71090
• VI Report Health Search. Società Italiana di Medicina
Generale (ed.), 2010.
• Rapporto ARNO Diabete 2012, CINECA-Società Italiana di Diabetologia, 2013 (in preparazione)
℅Casivs
Controlli
2.511€
1.364€
Specialistica
Senza
diabete
• Bruno G., Novelli G., Panero F., Perotto M., Monaste-

104%
57%
Spesa farmaceutica per ogni persona che riceve farmaci = € 831 di cui € 211 (23%) per
farmaci antidiabetici (quindi ¾ della spesa farmaceutica è per altri farmaci)
DRG medio per ogni ricoverato = € 6361 (e per ogni ricovero € 3976)
prestazioni specialistiche (tariffari regionali) e non
sui costi reali, molto più alti. Nel complesso il costo
reale del diabete per il solo SSN in Italia raggiunge
i 12 miliardi di euro per anno.
Bibliografia essenziale
• Garancini M.P., Calori G., Ruotolo G., Manara E., Izzo
A., Ebbli E., Bozzetti A.M., Boari L., Lazzari P., Gallus G. Prevalence of NIDDM and impaired glucose
tolerance in Italy: an OGTT-based population study.
Diabetologia 1995; 38:306-313.
• Muggeo M., Verlato G., Bonora E., Bressan G., Girotto S., Corbellini M., Gemma M.L., Moghetti P.,
Zenere M., Cacciatori V., Zoppini G., De Marco R.
Verona Diabetes Study. A population-based survey
on known diabetes mellitus prevalence and 5-yr allcause mortality. Diabetologia 1995; 38:318-325
• Il diabete in Italia. Vaccaro O., Bonora E., Bruno G.,
Garancini M.P., Muntoni S. (eds). Kurtis Editrice, Milano, 1996.
• Il diabete mellito. Guida pratica alla diagnosi e al
trattamento. Società Italiana di Diabetologia. Kurtis
Editrice, Milano, 1997.
• Bonora E., Kiechl S., Willeit J., Oberhollenzer F., Egger
G., Meigs J.B., Bonadonna R.C., Muggeo M. Population-based incidence rates and risk factors for type
2 diabetes in Caucasians. The Bruneck Study. Diabetes 2004; 53:1782-1789.
7
WINTER SCHOOL
Nuovi approcci terapeutici del diabete tipo 2: analisi critica
Stefano Del Prato
Department of Clinical and Experimental
Medicine Section of Metabolic Diseases and Diabetes
D I A B E T E S
C A R E
E X P E R T
F
Ospedale Cisanello, Pisa
O R U M
Personalized Management of
Hyperglycemia in Type 2 Diabetes
Reflections from a Diabetes Care Editors’ Expert Forum
ITAMAR RAZ, MD1
MATTHEW C. RIDDLE, MD2
JULIO ROSENSTOCK, MD3
JOHN B. BUSE, MD, PHD4
SILVIO E. INZUCCHI, MD5
PHILIP D. HOME, DM, DPHIL6
STEFANO DEL PRATO, MD7
ELE FERRANNINI, MD8
JULIANA C.N. CHAN, MD9
LAWRENCE A. LEITER, MD10
DEREK LEROITH, MD, PHD11
RALPH DEFRONZO, MD12
WILLIAM T. CEFALU, MD13
In June 2012, 13 thought leaders convened in a Diabetes Care Editors’ Expert Forum to discuss
the concept of personalized medicine in the wake of a recently published American Diabetes
Association/European Association for the Study of Diabetes position statement calling for a
patient-centered approach to hyperglycemia management in type 2 diabetes. This article, an
outgrowth of that forum, offers a clinical translation of the underlying issues that need to be
considered for effectively personalizing diabetes care. The medical management of type 2 diabetes has become increasingly complex, and its complications remain a great burden to individual patients and the larger society. The burgeoning armamentarium of pharmacological
agents for hyperglycemia management should aid clinicians in providing early treatment to delay
or prevent these complications. However, trial evidence is limited for the optimal use of these
agents, especially in dual or triple combinations. In the distant future, genotyping and testing for
metabolomic markers may help us to better phenotype patients and predict their responses to
antihyperglycemic drugs. For now, a personalized (“n of 1”) approach in which drugs are tested
in a trial-and-error manner in each patient may be the most practical strategy for achieving
therapeutic targets. Patient-centered care and standardized algorithmic management are conflicting approaches, but they can be made more compatible by recognizing instances in which
personalized A1C targets are warranted and clinical circumstances that may call for comanagement by primary care and specialty clinicians.
Diabetes Care 36:1779–1788, 2013
I
n April 2012, the American Diabetes
Association (ADA) and the European
Association for the Study of Diabetes (EASD) published a joint position
statement titled “Management of Hyperglycemia in Type 2 Diabetes: A Patient-
Centered Approach” (1). It was an important
update to earlier guidelines (2–8),
providing a thorough examination of the
ever-more-complex therapeutic options
for glycemic management, the benefits
and risks of tight glycemic control, the
c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c c
From the 1Diabetes Unit, Department of Internal Medicine, Hadassah Hebrew University Hospital, Jerusalem,
Israel; the 2Oregon Health and Science University, Portland, Oregon; the 3Dallas Diabetes and Endocrine
Center at Medical City and University of Texas Southwestern Medical Center, Dallas, Texas; the 4University of North Carolina School of Medicine, Chapel Hill, North Carolina; the 5Yale University School of
Medicine and Yale-New Haven Hospital, New Haven, Connecticut; 6Newcastle University, Newcastle
upon Tyne, U.K.; the 7Department of Clinical and Experimental Medicine, University of Pisa School of
Medicine, Pisa, Italy; the 8Department of Internal Medicine, University of Pisa School of Medicine, Pisa,
Italy; the 9Department of Medicine and Therapeutics, Hong Kong Institute of Diabetes and Obesity and Li
Ka Shing Institute of Health Sciences, Chinese University of Hong Kong, Prince of Wales Hospital, China;
10
Keenan Research Centre in the Li Ka Shing Knowledge Institute of St. Michael’s Hospital, and Departments of Medicine and Nutritional Sciences, University of Toronto, Toronto, Canada; the 11Mount Sinai
Medical School, New York, New York, and Rambam Technion Hospital, Haifa, Israel; the 12University of
Texas Health Science Center, San Antonio, Texas; and the 13Pennington Biomedical Research Center,
Louisiana State University System, Baton Rouge, Louisiana.
Corresponding author: William T. Cefalu, [email protected].
DOI: 10.2337/dc13-0512
A slide set summarizing this article is available online.
© 2013 by the American Diabetes Association. Readers may use this article as long as the work is properly
cited, the use is educational and not for profit, and the work is not altered. See http://creativecommons.org/
licenses/by-nc-nd/3.0/ for details.
8
care.diabetesjournals.org
efficacy and safety evidence for new
drug classes, and the data supporting
withdrawals of or restrictions on other
agents. Furthermore, it placed great emphasis on patient-centered and personalized care.
These recommendations captured
the attention of the Diabetes Care editorial
team. On the one hand, the recommendations call for a more personalized
approach, which, in theory, should be liberating for all health care providers
(HCPs) involved in diabetes care. On
the other hand, their “less prescriptive”
nature has been viewed as providing insufficient guidance to some HCPs who
may feel overwhelmed when trying to
match the nuances of differences among
the increasing number of antihyperglycemic medications to the nuances of each
patient’s preferences and medical characteristics.
To explore these issues, we convened a Diabetes Care Editors’ Expert
Forum in June 2012. Thirteen thought
leaders from around the world convened
and discussed approaches to personalized
medicine, the rationale behind personalization in diabetes care, the tools necessary
to implement such a strategy, and the current perceptions of personalized medicine. This narrative provides our view
and clinical translation of the underlying
issues that need to be considered for personalizing care and offers suggestions to
stimulate future research in this area.
Table 1 summarizes the main points discussed below.
PRACTICAL APPROACHES TO
PERSONALIZED MEDICINE
From intervention trials to
personalized targets
There can be little more than semantic
differences among the terms “personalized medicine,” “patient-centered care,”
and “clinical judgment.” Factors such as
patients’ preferences, life expectancy,
disease duration, comorbid conditions,
socioeconomic status, and cognitive abilities have long played a role in the selection of optimal therapeutic options and,
DIABETES CARE, VOLUME 36, JUNE 2013
1779
Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
Personalized management of hyperglycemia
more recently, in the selection of therapeutic targets.
In 1998, the UK Prospective Diabetes
Study (UKPDS) showed that treating
patients with recently diagnosed type 2
diabetes reduced the risk of microvascular, but not macrovascular, complications
(9). Of the three subsequent randomized
controlled trials (RCTs) on glucose lowering and cardiovascular outcomes, two—
ADVANCE (Action in Diabetes and Vascular
Disease: Preterax and Diamicron MR Controlled Evaluation) and VADT (Veterans
Affairs Diabetes Trial)—showed no statistically significant reduction in cardiovascular
outcomes, while the glycemic intervention
of the third—ACCORD (Action to Control
Cardiovascular Risk in Diabetes)—was
Table 1—Summary of the main points from
the Diabetes Care Editors’ Expert Forum
The complexity of management of type 2
diabetes is underappreciated.
c Its complications, once established, remain
a largely intractable burden.
c The number of available antihyperglycemic
agents has increased markedly during the
past 2 decades, but trial evidence for their
optimal use—especially in dual or triple
combinations—is limited and unlikely to
ever be complete.
c The availability of multiple pharmacological
options should be instrumental to early,
appropriate treatment to target, which is the
only recognized strategy for the prevention of
complications.
c In the more distant future, genotyping and
testing for metabolomic markers may help to
phenotype patients and predict their
responses to antihyperglycemic drugs.
c At present, a personalized (“n of 1”) approach
may aid in achieving therapeutic targets.
c Patient-centered care and standardized,
algorithmic management are conflicting
approaches, but they can be made more
compatible by recognizing instances in
which personalized A1C targets are
warranted and clinical circumstances that
may call for primary care and specialty
comanagement.
c Failure to achieve glycemic targets, failure to
respond to therapy, recurrent hypoglycemia,
drug intolerances/contraindications, the
development of complications, hyperglycemia
during hospitalization, pregnancy, and
suspicion of unusual variants such as MODY,
LADA, heavy proteinuria with short disease
duration in the absence of other microvascular
complications, or secondary diabetes all may
serve as triggers for comanagement.
c
1780
DIABETES CARE, VOLUME 36, JUNE 2013
ended early because of increased mortality
in participants randomized to intensive
glycemic control (10–12). However, metaanalyses of the four intervention trials
(UKPDS, ACCORD, ADVANCE, and VADT)
have shown modest but statistically significant benefit of intensive glucose control
on the risk for myocardial infarction, but
not mortality (13).
Post hoc analyses seeking explanations for these results set the stage for
today’s new emphasis on personalized
care. Suggestions that adverse effects of
individual therapeutic agents or severe
hypoglycemia were directly implicated
in causing cardiovascular events were
not supported by these analyses but cannot be ruled out because efforts to capture
hypoglycemic events were probably inadequate, especially in individuals with
hypoglycemia unawareness (13). However, individuals assigned to intensive
therapy who failed to improve control
to A1C levels ,7.0% (,53 mmol/mol)
in ACCORD fared poorly and had more
severe hypoglycemia, and severe hypoglycemia was noted to be a risk marker
for a wide range of medical conditions in
ADVANCE (14,15). It was also suggested
that individuals with long-standing type
2 diabetes, existing cardiovascular
disease (CVD), and other comorbidities
were unable to achieve cardiovascular
benefit from better glucose lowering
within the timeframe of these studies
(16).
Accordingly, these trials and their
subsequent analyses raised important
questions about rigid, algorithm-based,
“glucocentric” approaches to therapy.
One message, then, is that “one size
does not fit all” for glucose targets, choice
of therapy, or number of therapies used in
combination. However, some questions
pertinent to personalization remain unanswered. What were the characteristics of
the small group of individuals in
ACCORD who failed to respond to further glucose-lowering therapy but who
contributed much of the excess case fatality (12)? Similarly, what can these studies
teach us about patients who benefitted
most from the interventions? Gaining insight into the pathophysiological, genetic,
lifestyle, adherence, comorbidity, or
other factors responsible for these disparate responses could improve our ability
to effectively personalize therapy.
The 2012 ADA/EASD position statement still recommends an A1C goal of
,7.0% (,53 mmol/mol) for most
individuals with type 2 diabetes if it can
be achieved safely in low-risk individuals
with early diabetes or a relatively long life
expectancy; it suggests an acceptance of
higher A1C targets for individuals with a
history of severe hypoglycemia, limited
life expectancy, long-standing diabetes,
or advanced micro- and macrovascular
complications (1). Prior guidelines from
multiple organizations (3–8) included
recommendations about setting personalized glycemic targets based on phenotype and empirically matching “the right
drugs to the right patients,” but without
hard evidence to substantiate such an
approach. Personalized treatment was
articulated more vigorously in the new
position statement (1).
The challenges of personalized care
Patient-centered personalized therapy,
although appealing, may be difficult to
implement without a good understanding
of the ever-changing glucose-lowering
armamentarium. b-Cell dysfunction is
progressive in type 2 diabetes (9), and
thus monotherapy, or even combinations
of oral agents, is not likely to control hyperglycemia indefinitely (17), although
the ORIGIN (Outcome Reduction With
Initial Glargine Intervention) trial demonstrated sustained normoglycemia with
basal insulin glargine plus metformin
and near-normoglycemia even with standard therapy using metformin plus a sulfonylurea over a 6–7 year period in early
type 2 diabetes (18). At this time, the processes of assessing b-cell function and
providing reliable clinical decisions
based on this factor are less than optimal.
Furthermore, so-called evidence-based
guidelines may be limited in their ability
to be more prescriptive given the lack of
clinical trial evidence from properly conducted long-term RCTs comparing the
effects of various agents on clinically important outcomes. Clinical inertia is also a
problem, and most clinicians do not alter
their patients’ glucose-lowering regimens
until A1C is significantly elevated (19).
Developing and implementing personalized care plans may be especially daunting
for those HCPs whose practice extends
beyond diabetes alone and who must address these issues in the context of limited
time and resources.
The need for translational tools
The task now at hand is clear: We should
develop and make available tools that will
enable effective translation of existing
guidelines on targets and therapeutic options into practical clinical applications.
care.diabetesjournals.org
9
WINTER SCHOOL
Editors’ Expert Forum
It is one thing to assess the efficacy of an
intervention within the context of a structured clinical trial setting, but entirely
different to evaluate that intervention in
ordinary clinical practices with resource
variations, variable patient adherence, and
sociodemographic and cultural differences. Thus, the translation of results from
RCTs to real-world situations is not an
exact science. Until more hard evidence
becomes available, clinicians need wellstructured and user-friendly evidence
summaries that outline safe and effective
processes for therapeutic intensification,
while still allowing for the personalization
of care.
Although such an undertaking is
beyond the scope of this discussion, we
are providing a starting point that may
guide the development of such tools to
aid HCPs in personalizing both targets
and therapeutic regimens. For targetsetting, suggestions have been made in
the past (20,21). Another possible starting place might be the decision-making
scale developed by Ismail-Beigi et al.
(22) and adapted for inclusion in the
ADA/EASD position statement (1). That
scale includes seven parameters to consider when determining glycemic targets.
Expanding it or providing some means
of rating each parameter for individual
patients could help clinicians to better
weigh factors such as life expectancy,
duration of diabetes, risk from hypoglycemia, comorbidities, and availability
of support systems. Such a tool could
assist clinicians in choosing targets and
help to involve patients in the decisionmaking process in an easily understood
manner.
Tools are also needed to help HCPs in
selecting appropriate agents and intensifying therapy. The ADA/EASD position
statement leaves treatment-goal decisions
to clinicians and patients (1). However,
some believe that because of the vast
and expanding array of available drugs,
there should be a systematic way to prioritize the selection of drugs in relation to
their efficacy, safety, and cost. It is most
important to emphasize that the percentage of patients who show sufficient clinical response to any of these drugs varies
widely. Nonadherence to treatment regimens may be as high as 50% in patients
with chronic diseases such as diabetes
(23), often because of the patients’ lack
of symptoms, negative emotions, and
poor knowledge of their disease (24).
Side effects are another cause of stopping
or limiting treatment. Thus, patients must
care.diabetesjournals.org
10
be adequately monitored, especially after
changes to their treatment regimen, to
evaluate whether they have reached targets and to ensure that there are no major side effects or adherence issues. This
information is crucial to make informed
decisions regarding whether to continue,
change, or add to the therapy regimen.
STATE OF THE ART FOR
PERSONALIZING MEDICINE—
Personalized medicine can be defined in
many ways. A shared decision-making
approach that takes patient preferences
and values into account in developing a
management plan is widely endorsed.
Another definition involves identifying a
particular set of phenotypic and genotypic markers that would define ideal and
nonideal therapies for individuals based,
to whatever extent possible, on evidence
rather than on clinical impressions. Perhaps the most relevant question is
whether current science is at a stage where
specific patient characteristics—genetic,
pathophysiological, or phenotypic—
might effectively guide us in more general
diabetes practice.
Contributions from genetics: a
distant hope
The field of genetics is not yet ready to
contribute in these broader areas. Despite
recent identification of monogenic forms
of diabetes for which specific treatments
seem to give benefit (25), for more typical
type 2 diabetes, genetic information does
not contribute greatly in guiding treatment choices. Recently, pharmacogenetic
analysis has begun providing insights,
finding possible links, for example, to
poor responses to metformin (26,27)
and glucagon-like peptide-1 (GLP-1) receptor agonists (28–30). Such research
holds promise for eventually helping to
identify individuals who are likely to be
classified as “responders” or “nonresponders” to specific agents.
Human genome sequencing also offers some hope, but again, in the distant
future (31). Because the development of
diabetes, patients’ responses to available
therapies, and the risks for complications
are all multifactorial and probably involve
numerous genes, the chances are small
that specific mutations will turn out to
be powerful markers of diabetes risk or of
variable treatment responses. Even assuming a significant increase in pharmacogenetics
research and decreases in the costs associated with genome sequencing, for the
foreseeable future these efforts will not
significantly improve our ability to predict,
prevent, or diagnose diabetes or illuminate
definitive pathways for selecting drug therapies for specific individuals.
What can we learn from
pathophysiology?
Insulin resistance in the liver and muscle
and islet b-cell failure represent the core
pathophysiological defects in type 2 diabetes (32,33). Insulin resistance can often be demonstrated long before the
onset of b-cell failure, but as long as the
b-cells secrete sufficient amounts of insulin to offset the insulin resistance, glucose tolerance remains normal (32–36).
With time, however, there is progressive
b-cell failure, which leads to the development of impaired glucose tolerance and/
or impaired fasting glucose and eventually type 2 diabetes (32–36). As the
plasma insulin response declines, insulin
resistance in the liver becomes manifest
as an overproduction of glucose by the
liver and the development of fasting hyperglycemia, while insulin resistance in
muscle results in diminished glucose uptake and postprandial hyperglycemia
(32,33).
Although the relative contributions of
b-cell failure (possibly more severe in
Asian populations) and insulin resistance
(more severe in Westernized societies
with a high prevalence of obesity) may
vary among different ethnic groups (37),
virtually all adults with type 2 diabetes
have some combination of the two.
Thus, antihyperglycemic agents that improve b-cell function and enhance hepatic and muscle insulin sensitivity may
have a more durable effect in reducing
A1C (38–45).
The importance of other pathophysiological disturbances in the development
of type 2 diabetes is well recognized
(32,33). These disturbances include
c
c
c
Adipocyte insulin resistance, which
leads to increased lipolysis, increased
plasma free fatty acids, and eventual
b-cell failure and muscle and hepatic
insulin resistance (46)
Excess glucagon secretion by a-cells
and enhanced hepatic sensitivity to
glucagon, leading to increased basal
hepatic glucose production and impaired suppression of hepatic glucose
production after meals (47,48)
Dysfunction related to incretin hormones (GLP-1 and glucose-dependent
insulinotropic peptide) (49), which are
DIABETES CARE, VOLUME 36, JUNE 2013
1781
Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
Personalized management of hyperglycemia
c
c
responsible for ;50% of the insulin
secreted in response to meals
Possible renal adaptive mechanisms
to hyperglycemia, which result in enhanced glucose reuptake leading to
decreased urinary glucose clearance
and the maintenance of established
hyperglycemia (50)
Central nervous system insensitivity to
the anorectic effect of insulin and multiple neurotransmitter synaptic abnormalities resulting in excessive energy
intake and obesity (33)
No single antihyperglycemic agent
can correct all of these pathophysiological
abnormalities. Thus, many patients may
require multiple agents with different
mechanisms of action to achieve their
individualized A1C goal (33). Patients
with type 2 diabetes who have a high initial A1C, in particular, may require two or
more antihyperglycemic agents to achieve
their A1C goal (1,4,7,8,33,51,52).
The precise choice of pharmacological agents to use remains a topic for
debate, in part because of safety concerns
involving several drug classes (53–55).
But the basic point remains: To achieve
durability of glycemic control, optimal
regimens will likely need to address
both insulin resistance and b-cell failure.
Does phenotype allow for
personalized treatment?
The main characteristics that might influence approaches to treatment can be
divided into two categories: patient features and disease features. Among the
patient features are race/ethnicity, sex, age
of onset or diagnosis, duration of diabetes,
body weight, frailty/comorbidities, complications, propensity for side effects/drug
tolerance, personality and aspirations, and
psychosocial-economic context. Among
the disease features are the balance between
insulin deficiency and insulin insensitivity,
fasting versus postprandial hyperglycemia,
short versus long disease duration, and
special circumstances such as maturityonset diabetes of the young (MODY) or
latent autoimmune diabetes in adulthood
(LADA).
However, we are faced with a paucity
of data on how patients with certain
characteristics respond to specific therapies (56). We know that most glucoselowering drugs for type 2 diabetes work
in most patients. But we also know that
there are nonresponders to any drug. Numerous post hoc studies have revealed
some predictors of better responses, but
1782
DIABETES CARE, VOLUME 36, JUNE 2013
the data are inconclusive (57–60). Furthermore, those response differences
tend to be small, and the strongest predictor remains baseline A1C, with the patients with higher A1C levels responding
with greater reductions although not necessarily attaining target levels (58,61).
Indeed, the most fruitful phenotypic
considerations for personalizing care today may be patients’ propensity for side
effects and tolerance of various medicines. There may be practical value to
using a trial-and-error, or “n of 1,” approach (62) based on the anticipation
of a drug’s efficacy (for example, “Pioglitazone will be highly effective in this very
insulin-resistant patient”), a patient’s
need for certain added benefits (“A GLP-1
receptor agonist will help control hyperglycemia and may encourage weight
loss in this obese patient”), and concerns
about adverse events (“I will not
prescribe a sulfonylurea for this elderly
patient who lives alone and had a severe
hypoglycemic episode a few years ago”).
This is becoming standard clinical procedure for diabetes, just as it is for hypertension and numerous other chronic
diseases.
The challenge is how to proceed in
more complex situations. How, for example, would one select an appropriate
pharmacological regimen for a 68-yearold man with diabetes of 14 years’ duration
who has coronary disease, obstructive
sleep apnea, prostate cancer, and a history
of possible pancreatitis; who is obese and
has edema but no heart failure; who
smokes and has a family history of bladder
cancer; who has high fasting blood glucose and A1C levels; and who has some
renal dysfunction and poorly controlled
lipids? With so many competing comorbidities, what are this individual’s targets
and treatment options?
Table 2—Classes of antihyperglycemic
agents
1. Insulins
2. Sulfonylureas
3. Metformin
4. a-Glucosidase inhibitors
5. Glinides
6. Pioglitazone
7. Pramlintide
8. GLP-1 receptor agonists
9. Dipeptidyl peptidase-4 inhibitors
10. Colesevelam
11. Bromocriptine
12. SGLT-2 inhibitors
Ultimately, clinicians must develop
highly personalized care regimens, and,
in the absence of other conclusive evidence, “n of 1” trials may prove to be the
best approach, providing strong evidence
of therapy effectiveness and safety at the
individual level and incorporating shared
decision making with patients.
ARE ADEQUATE THERAPEUTIC
TOOLS AVAILABLE NOW FOR
PERSONALIZED DIABETES
CARE?
Multiple glucose-lowering medication
classes: freedom or confusion?
We now have numerous classes of antihyperglycemic therapies (Table 2) and
more are expected to be licensed. Does
this extensive arsenal provide us with
more flexibility in designing personalized
diabetes regimens, or does it make the
task more difficult by multiplying the options? For specialists, the answer is no
doubt the former. But for many primary
care providers who must simultaneously
stay abreast of developments in numerous fields of medicine, the expanding
array of choices may, at times, seem
intimidating.
Recent meta-analyses have shown
that there is not much difference among
available therapies in glycemic control
(e.g., A1C reduction and likelihood of
achieving targets when adding an agent to
metformin). However, when one considers other benefits, such as the risk of
hypoglycemia and effects on body weight
(63,64), there appears to be separation
among the agents. In addition to these
agents’ relative glycemic efficacy and effects on body weight and hypoglycemia,
HCPs immersed in diabetes care must balance the potential benefits of each agent
against concerns that have been raised regarding possible associations between
various agents and the risk of developing
other diseases (65–67).
Difficulties in making benefit-risk
judgments are further amplified by the
fact that marketing may seek to create
demand for drugs that is out of proportion
to their efficacy. In addition, there
remains a general lack of adequate comparative and exploratory controlled trials
between the medications available, not to
mention a lack of research into phenotypeand pathophysiology-based regimens.
Developing a straightforward algorithm that narrows the field of viable
options will clearly require more evidence
care.diabetesjournals.org
11
WINTER SCHOOL
Editors’ Expert Forum
than is currently available. Without such
evidence, we can offer only opinion, albeit
opinion based on an understanding of
pathophysiology, epidemiology, pharmacodynamics, toxicology, and costs. Unfortunately, the studies needed to make
evidence-based treatment decisions—
those that involve comparisons among
multiple agents and are adequately powered for important, long-term clinical
outcomes—have, for the most part, not
been performed.
The upcoming GRADE (Glycemia
Reduction Approaches in Diabetes:
A Comparative Effectiveness Study) trial
will address some of these points (68). In
addition, studies on how best to combine
the various agents, as well as the optimal
timing (early combination therapy vs. the
traditional step-wise approach), are urgently needed.
Furthermore, even the most carefully
considered set of guidelines is based on
averages—average A1C-lowering effect,
average efficacy, average risk of adverse
effects—without adequate consideration
of the confidence intervals around those
averages. Averages fail to identify subpopulations that respond better and have
better tolerance to specific agents, and
without these data, evidence-based personalized advice cannot be provided.
For now, all HCPs, whether in specialty
or primary care settings, should test the
efficacy and weigh the safety risks of any
given drug in each patient, ideally trying
options over a period of months to see how
well they work at the individual level.
How will new and emerging
therapies enhance our ability to
personalize care?
To complicate future decision making,
there are many new therapies in the
research and development pipeline, including newer and longer-acting injectable incretin-based drugs, newer basal
insulins, oral sodium-glucose cotransporter2 (SGLT-2) inhibitors, agents targeting the
various peroxisome proliferator–activated
receptors, and free fatty acid receptor agonists.
It is hoped that pharmaceutical companies developing new glucose-lowering
agents will focus on providing some
added value beyond what is already available by addressing unmet clinical needs
such as the effects leading to a reduction
in CVD risk factors and meaningful
cardiovascular and other outcomes. Arguably, we lack what we seek most in a diabetes treatment: definitive demonstration
care.diabetesjournals.org
12
that an agent can safely lower A1C in a
sustained and durable manner by definitively modifying disease progression, does
so with minimal side effects (e.g., hypoglycemia), favorably improves CVD risk
factors (e.g., weight, lipids, and blood
pressure), and reduces cardiovascular
and other morbidity and mortality.
As new drugs continue to be developed and submitted to regulatory
agencies for approval, we should also
consider the limitations of RCTs for
informing a personalized approach to
diabetes care (69,70). RCTs, at least as
currently carried out, focus on selected
populations and have restricted inclusion
and exclusion criteria. They are generally
of short duration, making it impossible to
assess durability. They do not test individual responder rates and are not designed to identify responders who
have a low safety risk. These trials are
conducted in artificial environments,
which pose problems for realistically
measuring adherence. Finally, RCTs are
not powered to assess subpopulations
prospectively. Thus, efforts to personalize
therapy are hindered by our reliance on
trials that may be neither generalizable to
the larger population nor individualized
to specific patients.
Moving forward, there may be other
informative data from these trials, not
from the average results, but rather from
outliers—the results from subjects who
respond very well or not at all.
REGIONAL PERSPECTIVES ON
PERSONALIZED MEDICINE—The
questions, concerns, and practical considerations discussed here pose difficult
challenges for diabetes HCPs throughout
the world. Because diabetes is a burgeoning pandemic, it behooves us to understand the issues from an international
perspective.
The viewpoint that personalized diabetes care may be too complex to be
implemented in many care settings is
common in Europe, as it is in the United
States and elsewhere. In Italy, for example, the Renal Insufficiency And Cardiovascular Events (RIACE) multicenter
study, which included 15,773 patients
with type 2 diabetes attending hospitalbased diabetes clinics, showed that 40%
of patients were taking metformin, 15%
were managed through diet only, 24% were
on insulin, 18% were taking sulfonylureas,
and 3% were taking thiazolidinediones
(71). Strikingly, this pattern did not
change with age or with renal function,
duration of disease, or other stratifying
criteria.
The story is much the same in other
parts of the world, although patient
characteristics differ. In China, key issues
include rapid nutritional and lifestyle
transitions, large patient populations,
young age of onset, and heterogeneous
phenotypes characterized by b-cell dysfunction, insulin resistance, and visceral
obesity (72,73). High rates of kidney disease and diabetes-related cancer complicate diabetes care (72,74,75). All of these
problems are compounded by a relative
scarcity of research, low levels of awareness, an insufficient number of trained
HCPs, and less-organized health care
and financing systems.
Given the large population and finite
resources, one may argue for using risk
algorithms and biomarkers, including genetic variants, to identify high-risk subjects
for early or intensified intervention, although the cost-effectiveness of such an
approach will need to be formally tested. As
elsewhere, patients with insulin-resistant
features such as fatty liver, high triglycerides, and low HDL cholesterol may benefit
from initial treatment with metformin,
pioglitazone, and GLP-1 receptor agonists,
whereas patients who are lean and face a
long disease duration may benefit from
dipeptidyl peptidase-4 (DPP-4) inhibitors
or sulfonylureas with the early use of
insulin. Other drugs such as a-glucosidase
inhibitors and SGLT-2 inhibitors may help
to lower A1C with a low risk of hypoglycemia and weight gain.
Although these phenotype-based
therapies have a theoretical basis, clinical
practice studies are needed to confirm
their cost-effectiveness. There is also a
need to empower medical and nonmedical personnel (diabetes educators) in
clinics to collect patient data on demographics, risk factors, complications, social habits, emotional needs, self-care
behaviors, compliance, expectations,
and values to enable HCPs to personalize
treatment goals, self-management strategies, and therapy regimens (76). These
personnel should monitor patients’ adherence to treatment, as well as their
achievement of treatment goals.
In the United States, attempts to implement a concept as expansive as personalized care quickly run up against two
opposing traditions that permeate not
only the field of medicine, but indeed
the entire U.S. culture. The first, rooted in
American industrialism, is standardization,
exemplified by the processes of production
DIABETES CARE, VOLUME 36, JUNE 2013
1783
Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
Personalized management of hyperglycemia
line efficiency and continuous quality
improvement. One recognizes this tradition in the vision of industrialist Henry J.
Kaiser, who founded the prototype nonprofit health system Kaiser Permanente
(77). The second tradition, embodied by
the image of artist Norman Rockwell’s
humble country doctor, is personalization.
This is apparent in the teachings of
Dr. Francis W. Peabody, whose seminal
dissertation on patient care concluded,
“The secret of care of the patient is caring
for the patient,” (78) and in the work of Dr.
Elliott P. Joslin, who wrote that “ . . . unless
the physician takes care, he will fall into
schematic ways and forget that it is the patient who comes for treatment and not the
diabetes. Each is a case unto itself” (79).
Recent guidelines for diabetes care in
the United States have fallen somewhere
along a continuum between these traditions. The ADA Standards of Care (80)
have sought to straddle the line, whereas
the algorithm-based 2009 ADA/EASD
consensus statement (2) leaned more toward standardization, and the 2012 ADA/
EASD position statement (1) evolved
more toward personalized care.
ENHANCING PERSONALIZED
CARE THROUGH
COMANAGEMENT—Research has
yielded strong evidence in favor of fairly
standardized treatment goals and an algorithmic initial therapy pathway involving lifestyle modification, metformin, and
the eventual addition of other oral agents
(sulfonylureas and basal insulin, in most
cases). This approach allows many newly
diagnosed patients to attain a reasonable
blood glucose range and to maintain it for
some period of time.
However, there will always be patients for whom the standard A1C target is
not appropriate (Fig. 1). Likewise, patients’ clinical circumstances often become more complicated over time, at
which point the core treatment algorithm
must give way to a more personalized approach. In such situations, the ideal course
of action would be a patient-centered
comanagement approach involving primary and specialty care providers as
well as diabetes educators, dietitians, psychologists, and other HCPs as warranted
by individual patient needs. Figure 2 depicts such an approach, which could be
invoked by specific triggers such as failure
to respond to treatment (14,81), failure to
attain A1C targets, drug intolerances or
contraindications, severe hypoglycemia,
hyperglycemia during hospitalization,
pregnancy, suspicion of unusual variants
such as LADA, MODY, or secondary diabetes, heavy proteinuria with short
disease duration in the absence of other
microvascular complications, or other
complicating circumstances.
Regardless of the final form such a process takes, it seems clear that personalizing
diabetes care will require improved cooperation and comanagement of patients
among HCPs in various disciplines. In
such a paradigm, algorithmic care would
be both a useful starting place for most
patients with type 2 diabetes and a framework on which to build more personalized
therapy as needed.
CONCLUSIONS —Publication of the
latest ADA/EASD position statement on
type 2 diabetes management has generated
strong interest in the concept of a personalized medical approach for individuals
with diabetes (1). However, there are a
multitude of pharmacological antihyperglycemic therapies now available, often with
incomplete evidence concerning their
long-term efficacy, effectiveness, tolerability, and safety. Accordingly, questions remain regarding the best ways to implement
the recommendations of the position statement in the care of patients.
Emerging research in genetics, pathophysiology, metabolomics, and human
behavior, as well as longer-term, randomized comparative trials could eventually
yield new information to inform the
personalization of care. In the meantime,
we must develop tools to translate existing guidelines into practical clinical
applications, and, more importantly, to
develop processes that encourage the
organized comanagement of patients by
primary care providers, specialists, educators, dietitians, and other diabetes
HCPs as patients’ unique needs and risks
require. Another consideration is how
well the tools we develop can be implemented around the globe given the differences in pathophysiology among ethnic
Figure 1—Personalizing A1C targets for individuals with type 2 diabetes.
1784
DIABETES CARE, VOLUME 36, JUNE 2013
care.diabetesjournals.org
13
WINTER SCHOOL
Editors’ Expert Forum
Figure 2—A comanagement approach to personalized therapy for type 2 diabetes. The majority of patient care occurs in primary care settings with
concurrent comanagement in specialty settings as warranted for individual patients. In such a model, the patient remains at the center of care,
comanaging HCPs all provide algorithmic or personalized care as warranted, and communication occurs among all parties.
groups, country-specific resources and
medical care infrastructure, training level
of providers, and knowledge of patients.
We hope these reflections have
provided a broad overview of the evidence deficits and procedural challenges
that will need to be overcome to ensure
success in our efforts to implement effective, personalized therapy regimens for
patients with type 2 diabetes.
Acknowledgments—I.R. has served on the
advisory boards of AstraZeneca, Bristol-Myers
Squibb, Eli Lilly, Merck (MSD), and Novo
Nordisk; as a consultant for Andromeda,
AstraZeneca/BMS, Eli Lilly, HealOr, Insuline,
Johnson & Johnson, Teva, and TransPharma;
and as a member of the speaker’s bureau for
AstraZeneca, Eli Lilly, Johnson & Johnson,
Novo Nordisk, and Roche.
M.C.R. has received honoraria for consulting and/or research grant support through his
institution from Amylin, Elcelyx, Eli Lilly,
Sanofi, and Valeritas; these potential conflicts
of interest have been reviewed and managed
by Oregon Health and Science University.
J.R. has received grants or research support
from Amylin, AstraZeneca, Boehringer
Ingelheim, Bristol-Myers Squibb, DaiichiSankyo, Eli Lilly, GlaxoSmithKline, Johnson
& Johnson, Lexicon, MannKind, Merck,
Novartis, Novo Nordisk, Pfizer, Roche, Sanofi,
and Takeda and has served on advisory
care.diabetesjournals.org
14
boards for and received honoraria or consulting fees from Boehringer Ingelheim, DaiichiSankyo, Eli Lilly, GlaxoSmithKline, Johnson
& Johnson, Lexicon, MannKind, Novo Nordisk,
Sanofi, and Takeda.
J.B.B. is an investigator and/or consultant
without direct financial benefit under contracts between his employer and the following
companies: Abbott, Amylin, Andromeda,
AstraZeneca, Bayhill Therapeutics, BD Research Laboratories, Boehringer Ingelheim,
Bristol-Myers Squibb, Catabasis, Cebix, Diartis,
Elcelyx, Eli Lilly, Exsulin, Genentech, GI
Dynamics, GlaxoSmithKline, Halozyme,
Hoffman-La Roche, Johnson & Johnson,
LipoScience, Medtronic, Merck, Metabolic
Solutions Development Company, Metabolon,
Novan, Novella, Novartis, Novo Nordisk,
Orexigen, Osiris, Pfizer, Rhythm, Sanofi,
Spherix, Takeda, Tolerex, TransPharma, Veritas,
and Verva.
S.E.I. has served as a consultant for
Boehringer Ingelheim, Janssen, Merck, Novo
Nordisk, and Takeda.
P.D.H. has received (or institutions with
which he is associated have received) funding
for his educational, advisory, and research activities from AstraZeneca/BMS Collaboration,
Boehringer Ingelheim, Eli Lilly, GlaxoSmithKline, Janssen/Johnson & Johnson, Merck
(MSD), Merck Serono, Novo Nordisk, Roche
Diagnostics, Roche Pharmaceuticals, Sanofi,
and Takeda.
S.D.P. has served as a consultant for
AstraZeneca/BMS Collaboration, Boehringer
Ingelheim, Eli Lilly, GlaxoSmithKline, Intarcia
Therapeutics, Janssen/Johnson & Johnson,
Merck (MSD), Merck Serono, Novartis, Novo
Nordisk, Roche Pharmaceuticals, Sanofi, and
Takeda and has received research support
from Bristol-Myers Squibb, Merck (MSD),
Novartis, Novo Nordisk, and Takeda.
E.F. has received honoraria for consulting
and/or research grant support from AstraZeneca/
BMS Collaboration, Boehringer Ingelheim,
Daiichi-Sankyo, Eli Lilly, GlaxoSmithKline,
Halozyme Therapeutics, Janssen/Johnson &
Johnson, Merck (MSD), and Sanofi.
J.C.N.C. is a board member of the Asia
Diabetes Foundation. She is a consultant for
AstraZeneca, Bristol-Myers Squibb, DaiichiSankyo, GlaxoSmithKline, Merck (MSD),
Pfizer, Qualigenics, and Sanofi. She has received honoraria, travel expenses, and/or
payments for development of educational
presentations from AstraZeneca, Bayer, BristolMyers Squibb, Daiichi-Sankyo, Eli Lilly, GlaxoSmithKline, Merck Serono, Merck (MSD), Nestle
Nutrition Institute, Novo Nordisk, Pfizer,
Roche, Sanofi, and Takeda. Her institution, the
Chinese University of Hong Kong, has received
research grants from pharmaceutical companies
for conducting clinical trials of drugs for individuals with diabetes and associated conditions.
L.A.L. has received research funding from, has
provided continuing medical education on behalf
of, and/or has acted as a consultant to AstraZeneca,
Bristol-Myers Squibb, Boehringer Ingelheim, Eli
Lilly, GlaxoSmithKline, Janssen, Merck, Novartis,
Novo Nordisk, Roche, Sanofi, Servier, and Takeda.
DIABETES CARE, VOLUME 36, JUNE 2013
1785
Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
Personalized management of hyperglycemia
D.L. is a consultant for AstraZeneca, BristolMyers Squibb, Janssen, Merck, and Sanofi.
R.D. serves on advisory boards or is a
consultant for Amylin, Boehringer Ingelheim,
Bristol-Myers Squibb, Lexicon, Novo Nordisk,
and Takeda; receives grants from Amylin,
Boehringer Ingelheim (pending), BristolMyers Squibb, and Takeda; and is a member
of the speaker’s bureau for Novo Nordisk.
W.T.C. has served as a consultant for
AstraZeneca, Bristol-Myers Squibb, Halozyme
Therapeutics, Intarcia Therapeutics, Johnson
& Johnson, Lexicon, and Sanofi and has
served as a principal investigator on research
studies awarded to his institution from AstraZeneca, Bristol-Myers Squibb, Eli Lilly, GlaxoSmithKline, Johnson & Johnson, Lexicon, and
MannKind.
Writing and editing support services for this
article were provided by Debbie Kendall of
Kendall Editorial in Richmond, Virginia.
This article contains no data or data analysis
and therefore there is no guarantor of these. All
authors contributed to the thinking behind
and the writing of the manuscript.
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17
WINTER SCHOOL
Tecniche di presentazione
Francesco Muzzarelli
Scuola di Psicologia e Scienze della Formazione - Università di Bologna
Premessa
La capacità di concepire pensieri complessi, e di
comunicarli con efficacia, è una componente basilare del comportamento organizzativo, specie nella
forte complessità del contesto socio-economiconormativo in cui oggi operano i professionisti e le
istituzioni.
Per diventare competenti nella comunicazione è
essenziale comprendere a fondo cosa ciò significa
e conoscere modalità pratiche per mandare messaggi precisi, efficaci e credibili.
Comunicare significa “mettere in comune”; si tratta di un’azione di valenza sia attiva (rendere partecipi, far comprendere, far ricordare), sia passiva
(ascoltare, comprendere, ricordare), che inevitabilmente coinvolge tutti gli attori interni ed esterni
delle organizzazioni: colleghi, collaboratori, capi,
pazienti, fornitori, consulenti, membri di organi di
vigilanza e controllo e tanti altri ancora.
In ambito sanitario la qualità della comunicazione (senza nulla togliere alla specialità clinica) è
assolutamente esiziale: far conoscere, far capire,
informare, educare, coinvolgere, collaborare, confrontarsi sono sempre più “atti di comunicazione
quotidiana” dai quali dipende il progresso della comunità scientifica, l’efficacia e l’efficienza dei processi interni alle organizzazioni sanitarie e l’impatto socio-economico delle politiche sanitarie sulla
popolazione.
Comunicare efficacemente in pubblico
Alzarsi in piedi di fronte ad altre persone per parlare, a volte, ci intimidisce e ci fa sentire minacciati: temiamo l’imbarazzo, corriamo il pericolo di
compromettere la nostra autostima, di soffocare il
nostro desiderio di esprimerci e possiamo essere
colpiti da mal di testa, mal di stomaco, tic nervosi,
amnesie temporanee, sudorazione intensa. Essere
convincenti nella comunicazione in pubblico è una
competenza preziosissima, direttamente connessa
all’espressione della leadership e alla costruzione
della propria credibilità in occasione di congressi,
presentazioni e incontri di formazione.
Per di più la sensazione che deriva dal riuscire a
comunicare bene in pubblico e a catturare l’attenzione del pubblico è una inebriante sensazione di
18
trionfo.
Ecco di seguito i focus operativi sul public
speaking sinteticamente trattati.
Leve di efficacia verbale
Ogni relazione deve essere strutturata in tre parti:
•Head Message: introduzione (decollo)
•Core Message: corpo centrale (volo in quota)
•Take on Message: conclusioni (atterraggio)
Il messaggio di testa deve contenere la chiara
esplicitazione di Tema, Obiettivo, Metodo e Attese
di risultato del vostro intervento (regola TOMA):
•Tema = di cosa ci apprestiamo a parlare;
•Obiettivo = perché ne parliamo qui con voi;
•Metodo = come gestiamo il tempo che abbiamo
(regole del gioco);
•Attese di risultato = valori aggiunti per il pubblico.
Mettete in conto di avere 60 secondi per rispondere alla domanda implicita dell’uditorio “Perché
dovrei ascoltarlo?”
E’ il quesito paracadute: se vi preparate per fronteggiarlo, allora disporrete di una strategia del
messaggio che vi eviterà brutte scivolate.
Il corpo centrale si compone di specifici punti focali scelti (gli argomenti centrali che si intendono
trattare). Ciascuno di essi, affinchè l’esposizione
risulti chiara, è molto utile che venga trattato con
le tecniche 3 F e IDI.
3 F (tecnica delle 3 fasi):
•ti dico ciò che ti dirò
•te lo dico
•ti dico ciò che ti ho detto
IDI (tecnica del collegamento fra i singoli argomenti e il quadro generale):
Insieme - Dettaglio - Insieme
Il messaggio di coda deve sempre contenere i seguenti 4 ingredienti:
•riepilogo dell’obiettivo iniziale e della sua utilità (abbiamo parlato di…., allo scopo di…, il che ci
è utile per...);
•riepilogo dei punti chiave (in particolare è importante ricordare che…);
Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
•specificazione delle conclusioni (ne possiamo
concludere che…);
•invito all’azione (da domani vi invito a…, avete la
responsabilità di…).
Leve di efficacia vocale
La voce è uno strumento di comunicazione portentoso e straordinariamente versatile.
Disgraziatamente molti di noi la usano in modo casuale, spesso invocando alibi legati a madre natura
(“Ho una brutta voce… mi viene da parlare veloce…”) o alle abitudini consolidate (“Parlo piano da
sempre perché mi hanno educato così…).
Chi impara a governare la propria voce ha decisamente una marcia in più.
Come anticipato, le variabili operative del canale
vocale sono: tono, volume, ritmo e segregati vocali.
Approfondiamo.
Il tono
Indica la frequenza del suono emesso, cioè la nota,
si misura in Hertz. Il tono può essere basso, medio
o acuto. Se volete annoiare in men che non si dica
il vostro uditorio, impiegate un tono di voce basso
e monocorde. Se invece volete stimolarlo, cambiate
spesso tonalità.
Il volume
Si misura in Decibel ed esprime l’intensità sonora
della voce. La regola è variarlo durante l’esposizione, privilegiando un energico e medio-elevato volume, come se si dovesse parlare all’ultima fila.
Il ritmo
Esprime la velocità dell’eloquio. Parlare troppo rapidamente e senza pause non lascia tempo all’uditorio di processare il messaggio e, se necessario, di intervenire con domande. Inoltre si da una
sensazione di fretta e di nervosismo assai poco
produttiva. Problema diametralmente opposto è
la lentezza nel parlare accompagnata da lunghe e
frequenti pause. Essa pregiudica l’ascolto perché
induce gli astanti a distrarsi con facilità e perché
fa loro percepire un’insopportabile sensazione di
inconcludenza.
L’ideale è variare spesso il ritmo espositivo, comunque rispettando la regola delle frasi di circa 7 parole separate da pause di 2-3 secondi. Così facendo
rispetterete la capienza della memoria a breve termine del cervello del ricevente, risultando chiari e
convincenti.
I ponti sonori
Ehmmm … Ahmmm … Uhmmm … e simili. Una vera
piaga della comunicazione orale: devastano l’attenzione, trasmettono la sensazione di un relatore
poco preparato e demotivato. Liberatevi al più presto di questi suoni parassiti! L’alibi del “Mi servono
per pensare a cosa dire dopo” non regge: bisogna
imparare (provando e riprovando) a sostituire i segregati vocali con pause.
Leve di efficacia visiva
La nostra mimica, i nostri gesti e il nostro sguardo
sono il più forte supporto visivo che si può dare alla
comunicazione.
Ecco le cose da sapere per utilizzare con professionalità questo importantissimo canale2.
2 Cfr.
Luciano Cassese, Conquista il tuo pubblico in
7 semplici mosse, Edizioni
www.professioneformatore.it 2010
pag. 31 e seguenti.
La gestualità
La formazione moderna sul parlare in pubblico è
concorde nel riconoscere che la spontaneità gestuale è l’unica regola da osservare.
Nell’assoluto rispetto di questo postulato è tuttavia
possibile, rafforzare e migliorare la propria gestualità con pochi e semplici suggerimenti.
1. Tenere le mani lungo i fianchi, pronte a essere usate nel modo più efficace. Inizialmente si
proverà un senso di impaccio, si avrà l’impressione di avere delle protesi, non delle braccia.
Superato il primo momento, appena la nostra
mente sarà impegnata sul contenuto della relazione, le “protesi” si trasformeranno da sole in
veicoli comunicativi.
2. Tenere le mani libere da ogni oggetto che possa
limitarne l’uso, quali penne, fogli, puntatori: in
un momento di tensione questi oggetti potrebbero trasformarsi in pericolosi elementi di distrazione per l’uditorio perchè l’oratore inizia a
giocherellarci, mostrando al pubblico il proprio
nervosismo.
3. Superare il condizionamento del controllo dei
movimenti: non dobbiamo temere di sentirci
dei “vigili urbani” che dirigono il traffico. Le
nostre remore psicologiche sulla gestualità devono farci temere il contrario, cioè di essere
bloccati nei movimenti.
4. Evitare i principali “gesti proibiti”: innanzitutto non tenere le mani in tasca.
Le mani sprofondate nelle tasche blocca-
19
WINTER SCHOOL
no ogni spontanea gestualità e sono anche
un segnale poco rispettoso per la platea.
Le mani sui fianchi danno ai presenti l’idea di
arroganza, di sfida; le braccia incrociate comunicano una percezione di chiusura, di scarsa
disponibilità al dialogo e alle domande; i pollici
nella cintura sono una posa poco professionale
ed eccessivamente disinvolta; le mani incrociate davanti o dietro al bacino tradiscono rispettivamente timidezza o eccessiva professionalità.
Un oratore alle prime armi può essere immediatamente riconosciuto dalle posizioni contorte che assume: resta seduto dietro al tavolo o
al pulpito, offre le spalle al pubblico, usa pose
dondolanti e ricurve, compie numerosi gesti
proibiti. Un bravo relatore, invece, si colloca
da subito in piedi al centro della sala, evitando
ogni barriera di separazione, mantiene una posizione equilibrata sulle gambe, spalle erette e
mani distese lungo i fianchi.
Il contatto visivo
Il contatto visivo è un potente mezzo di comunicazione. I benefici comunicativi che si ottengono
da un efficace contatto visivo sui partecipanti sono
molti: innanzitutto si trasmette emotivamente la
sensazione di un colloquio a due, mostrando sicurezza e interesse per l’interlocutore.
Con un contatto visivo efficace si ottiene una notevole padronanza dell’aula perché lo sguardo può tenere sotto controllo e osservare tutti i partecipanti.
In tal modo siamo in grado di cogliere ogni piccolo
segnale come affaticamento, interesse, dubbio, desiderio di fare domande.
I relatori inesperti commettono errori molto comuni come lo sguardo fisso nel vuoto o sullo schermo,
il contatto visivo concentrato su una sola persona
(in genere quella che sorride o annuisce), lo scanning cioè lo scorrere velocemente con lo sguardo i
visi delle persone senza però ottenere il contatto
visivo.
A chi rivolgere quindi il contatto visivo? A tutti, indistintamente; l’oratore dev’essere “democratico” e
mostrare il proprio interesse attraverso un sincero
contatto visivo proiettato più volte su ogni partecipante.
L’abilità dell’oratore consiste pertanto nel ruotare,
con calma, lo sguardo da una persona all’altra, cercando a intervalli brevi e regolari il contatto d’occhi
con tutti.
Per quanto possa sembrare un’informazione ba-
20
nale, il contatto d’occhi, per essere efficace, deve
durare almeno 3-5 secondi.
Riassumendo: un efficace contatto visivo proiettato democraticamente su tutti i partecipanti favorisce la percezione di un oratore sicuro e padrone
dell’aula e rappresenta un ottimo strumento per
ottenere un feedback costante.
Quadri sinottici
Seguono alcuni prospetti riepilogativi delle variabili operative fondamentali implicate nella presentazione in pubblico.
Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
Bibliografia
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21
WINTER SCHOOL
Diagnosi del diabete e degli stati di alterata regolazione glucidica:
glicemia a digiuno, post-prandiale, HbA1c o tutti insieme?
Annalisa Natalicchio
Department of Emergency and Organ Transplantation
Section of Internal Medicine, Endocrinology, Andrology and Metabolic Diseases
University of Bari
Dibattito sui criteri diagnostici per la diagnosi
di diabete
Un comitato internazionale di esperti, designati
dall’American Diabetes Association (ADA), dalla
European Association for the Study of Diabetes
(EASD) e dall’International Diabetes Federation
(IDF), ha preso in considerazione la possibilità di
utilizzare l’emoglobina glicata (HbA1c) per la diagnosi di diabete. Il comitato è, infatti, giunto alla
conclusione che, con l’eccezione della gravidanza e
di alcune situazioni cliniche specifiche (emoglobinopatie, emolisi, ecc..), l’HbA1c possa essere utilizzata per la diagnosi di diabete e, addirittura, preferita alla glicemia (International Expert Committee.
Diabetes Care 2009 (figura 1).
American Diabetes Association Criteria
for the Diagnosis of Diabetes

HbA1C ≥6.5%. This test should be performed in a laboratory using a
method that is NGSP certified and standardized to the DCCT assay *

FPG ≥126 mg/dL (7.0 mmol/L). Fasting is defined as no caloric intake for
at least 8 hours *

2-hour plasma glucose ≥200 mg/dL (11.1 mmol/L) during an OGTT. This
test should be performed as described by the World Health Organization,
using a glucose load containing the equivalent of 75 g anhydrous glucose
dissolved in water *

In a patient with classic symptoms of hyperglycemia or hyperglycemic
crisis, a random plasma glucose ≥200 mg/dL (11.1 mmol/L)
2
NGSP: National Glycohemoglobin Standardization Program
*In the absence of unequivocal hyperglycemia, criteria should be
confirmed by repeat testing.
ADA, Diab Care, 2010
Standard Italiani per la
Cura del Diabete Mellito
2009-2010
Recommendation of the International
Expert Committee
IFG-IGT
Diabetes
3
1
The International Expert Committee, Diabetes Care, 2009
Tale conclusione è diventata una raccomandazione clinica da parte dell’ADA (American Diabetes
Association. Diabetes Care 2010 ed è stata accolta anche negli Standard di Cura per il Diabete redatti dall’Associazione Medici Diabetologi (AMD)
e dalla Società Italiana di Diabetologia (SID) che
prevedono, però, un uso alternativo dei due parametri glicemici (AMD, SID, Diabete Italia, 2009).
La decisione di utilizzare la HbA1c per la diagnosi
di diabete, tuttavia, è ancora al centro del dibattito
nazionale ed internazionale ed è oggetto di critiche, tanto che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS o WHO) ancora non ha assunto decisioni
definitive (figure 2-3).
22
Diagnosi di Diabete: Glicemia, HbA1c o OGTT?
Stabilire la presenza di iperglicemia cronica (diabete) è di cruciale importanza in quanto comporta
notevoli conseguenze psicologiche e ha forti implicazioni legali. Pertanto il metodo per la diagnosi di
diabete deve essere affidabile. L’HbA1c è il migliore
indicatore di iperglicemia cronica di cui disponiamo,
infatti il dosaggio dell’HbA1c equivale alla determinazione di centinaia di misurazioni glicemiche nella
giornata e rileva anche i picchi iperprandiali, al contrario la misura della glicemia a digiuno oppure dopo
carico orale di glucosio (OGTT) fornisce una valutazione relativa a un singolo momento della giornata.
Un vantaggio dell’HbA1c è che si tratta dello stesso
parametro usato per il monitoraggio glico-metabolico (figura 4).
Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
AG (mg/dl)
Relationship Between Average Glucose in the
Previous 3 Months and HbA1c in 507 Subjects
HbA1c
4
Nathan DM. et al., Diabetes Care, 2008
L’HbA1c è particolarmente utile quando la glicemia
a digiuno presenta valori che oscillano in prossimità del valore soglia di 126 mg/dL o quando la glicemia misurata dopo OGTT oscilla intorno a 200 mg/
dL (figure 5-6).
emettere la diagnosi (American Diabetes Association. Diabetes Care 2010; AMD, SID, Diabete Italia,
2009; World Health Organization, 1999). Bisogna, a
questo punto, considerare il bilancio costo/efficacia che risulta a favore di due misurazioni di glicemia rispetto a due misurazioni di HbA1c o di OGTT.
Impatto sulla prevalenza e classificazione degli
individui
Diverse pubblicazioni hanno dimostrato che usando la HbA1c al posto della glicemia (a digiuno;
OGTT) si identificano gruppi di soggetti diabetici
non coincidenti, ossia una percentuale variabile
di persone con livelli di glicemia a digiuno o dopo
OGTT diagnostici per diabete presenta valori di
HbA1c normali e quindi non viene classificata come
affetta da diabete (Cowie C, Diabetes Care 2010;
Mann DM, Diabetes Care 2010 (figura 7).
Undiagnosed Diabetes in the U.S. Population Aged 20 Years
by Three Diagnostic Criteria
(NHANES, 2005–2006)
Reasons to Prefer HbA1c Compared with Plasma
Glucose Determination for Diagnosing Diabetes
5
Bonora
Bonora
E. E.
et et
al.,al,Diabetes,
Diabetes,2011
2011
Advantages in the Use of HbA1c for
Screening and Diagnosis of Diabetes







6
Patient does not need to be fasting
HbA1c concentration is related to the development of complications
HbA1c has a smaller intra-individual biological variability (within 2%)
respect to that of plasma glucose
HbA1c is not influenced by sudden glycaemic variations (such as
under stress) and reflects the mean plasma glucose levels over the
last 2–3 months
HbA1c suffers a limited influence from common drugs known to
influence glucose metabolism
HbA1c is already used as an important target for therapy and is
familiar to clinicians
The majority of manufactuers of HbA1c kits is already standardized to
the current reference systems
Lapolla A. et al, Nutr Metab Cardiovasc Dis, 2011
Tuttavia, va sottolineato che nei soggetti “asintomatici” l’OMS raccomanda che la diagnosi di diabete venga fatta sulla base di due valori patologici di
glicemia (a digiuno o dopo OGTT) e anche nel caso
si utilizzi l’HbA1c un valore patologico deve essere
confermato da una seconda misurazione prima di
7
Cowie CC. et al, Diabetes Care, 2010
Non è noto quale sia l’esito in persone che hanno
una discrepanza fra HbA1c e glicemia, tuttavia un
recente studio ha dimostrato che le persone con
glicemia ≥126 mg/dL e HbA1c 6,5% presentano lo
stesso sfavorevole profilo di rischio cardiovascolare delle persone con HbA1C ≥ 6,5% (Borg R, Danish
Inter99 Study Diabet Med 2010).
Impatto sulle complicanze micro e macroangiopatiche del diabete
Numerosi studi hanno dimostrato un incremento
della prevalenza di retinopatia, la complicanza più
specifica del diabete, in corrispondenza di valori
di glicemia intorno a 126 mg/dL, di valori di glicemia 2 ore dopo OGTT intorno a 200 mg/dL e di
valori di HbA1c intorno a 6,5% (McCance DR, BMJ
1994; Colagiuri S, Diabetes Voice, 2003; Colagiuri
S, Diabetes Care 2011), pertanto, da questo punto di
vista, non c’è un vantaggio nell’utilizzo della HbA1c
23
WINTER SCHOOL
rispetto alla glicemia a digiuno o dopo OGTT per
identificare il diabete (figure 8-9).
Prevalence of Retinopathy by Deciles of the
Distribution of FPG, 2HPG, and HbA1C
Pima Indians
Egyptians
NHANES III
8
The International Expert Committee, Diabetes Care, 2009
Relationship Between HbA1c and
Non-Proliferative Diabetic Retinopathy
Fattori influenzanti il dosaggio di HbA1c e Glicemia
Riproducibilità
Il dosaggio della glicemia può essere influenzato da
eventi stressanti (aumento della produzione endogena di glucosio); attività fisica (riduce glicemia a
digiuno); mancato rispetto del digiuno nelle 8 ore
precedenti il prelievo; fumo; alcuni farmaci.
Il dosaggio dell’HbA1c è influenzato da presenza
di iperbilirubinemia, ipertrigliceridemia, di alcune
varianti emoglobiniche (HbE, HbD, HbS) e dall’aumento di globuli bianchi (Herman WH, Ann Intern
Med, 2010; Little RR, Diabetologia 2009). Inoltre,
l’HbA1c è influenzata dall’età (aumento di circa 0,1%
per ogni decade di età dopo i 40 anni) (Herman
WH, Ann Intern Med, 2010) e dall’etnia (valori più
alti negli afro-caraibici rispetto ai caucasici) (Carson AP, Diabetes Care, 2010) ( figure 11-14).
Reasons not to Prefer HbA1c Compared with Plasma
Glucose Determination for Diagnosing Diabetes
9
The International Expert Committee, Diabetes Care, 2009
Diversamente dalla retinopatia, la relazione con
le complicanze macrovascolari è più complessa in
quanto non sono specifiche del diabete e altri fattori (lipidi, pressione arteriosa, fumo) possono determinarle. Inoltre, alcuni studi hanno dimostrato
un aumento dell’incidenza di eventi cardiovascolari
per valori di glicemia o di HbA1c più bassi di quelli
utilizzati per la diagnosi di diabete (Khaw KT, Ann
Intern Med 2004; DECODE Diabetes Care, 2003;
Barr EL, Diabetologia 2009) (figura 10).
The DECODE Study Group: the Relation Between Mortality and
Glucose: Absence of Threshold Effect at High Glucose Levels
Limitations in the Use of HbA1c for Screening and
Diagnosis of Diabetes
Factors
24
DECODE Study Group, Diabetes, 2003
Risk in the diagnosis
Analytical interferences (could be overcomed by appropriate sample handling or by choosing the most appropriate method for
HbA1c quantification)
a) Hyperbilirubinaemia
overdiagnosis
b) Elevated serum triglycerides
overdiagnosis
c) Increased WBC
overdiagnosis
d) Presence of some hemoglobin variants (HbS, HbC, HbD, HbE)
misdiagnosis
In vivo effects due to physiological conditions (cannot be handled a-priori)
a) Pregnancy
misdiagnosis
b) Seasonal variations
over- or mis-diagnosis
c) Age
overdiagnosis
d) Genetic determinants (including race)
over- or mis-diagnosis
e) Presence of other hemoglobin variants and/or thal. major
over- or mis-diagnosis
In vivo effects due to pathological conditions (cannot be handled a-priori)
a) Type 1 diabetes under rapid development
misdiagnosis
b) Malaria
misdiagnosis
c) Haemolytic anaemia
misdiagnosis
d) Iron deficiency
overdiagnosis
e) Recent blood loss, recent transfusion
misdiagnosis
f) Splenectomy
overdiagnosis
g) Renal failure
overdiagnosis
h) HIV positive patients on anti-retroviral therapy
overdiagnosis
i) Erythropoietin and other drugs interacting with erythropoiesis
misdiagnosis
j) Chronic alcohol abuse
misdiagnosis
12
10
Bonora E. et al,
Diabetes, 2011
11
Lapolla A. et al., Nutr Metab Cardiovasc Dis, 2011
Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
Common Variants at 10 Genomic Loci
Influence HbA1c Levels
Associations with HbA1C of 10 independent loci identified in the meta-analysis
Associations with HbA1c are partly a function of hyperglycemia associated with three of the
ten loci (GCK, G6PC2 and MTNR1B)
The seven non-glycemic loci accounted for a 0.19% (% HbA1c) difference between the
extreme 10% tails of the risk score, and would reclassify ˜2% of a general white population
screened for diabetes with HbA1c
•
•
13
Soranzo N. et al., Diabetes, 2010
HbA1c Distribution by Ethnicity in U.S. Children and
Young Adults Ages 5-24 yr (NHANES-3, 1988-1994)
14
Stabilità
Il dosaggio della glicemia è poco affidabile a causa
di un’instabilità pre-analitica, dovuta al fatto che
la glicolisi continua nelle cellule del sangue anche
dopo il prelievo, determinando una caduta dei livelli
di glucosio nel plasma. La concentrazione di glucosio si riduce del 5-7% all’ora e il calo è maggiore e
più rapido in presenza di alte temperature ambientali (Mikesh LM Clin Chem, 2008) (figura 16).
Changes in Lactate and Glucose
Concentrations Over Time
Lapolla A. et al, Nutr Metab Cardiovasc Dis, 2011
La riproducibilità della glicemia, dell’HbA1c e della
glicemia dopo carico di glucosio dipende anche dalla variabilità biologica. In uno stesso individuo la
correlazione fra due misure di HbA1c è più stretta
di quella tra 2 misurazioni della glicemia a digiuno
o della glicemia 2 ore dopo OGTT. I coefficienti di
variazione della HbA1c, della glicemia a digiuno e
della glicemia 2 ore dopo OGTT sono 3,6%, 5,7%,
16,6% (Selvin E, Arch Intern Med, 2007) (figura 15).
Summary Statistics and CVs for Fasting Glucose,
2-Hour Glucose and HbA1c Measurements
15
≥6,5% si riconferma nell’80% dei casi. Pertanto esiste
una differenza marginale tra i due test per quanto riguarda la riproducibilità della diagnosi basata sulla
variabilità biologica (Selvin E, Diabetes Care, 2011).
Selvin E, Arch Intern Med, 2007
Tuttavia, si osserva anche che una glicemia a digiuno ≥126 mg/dL, ripetuta dopo circa due settimane,
si riconferma nel 70% dei casi, e un valore di HbA1c
16
Mikesh LM et al., Clin Chem, 2008
Nel complesso la variabilità preanalitica della glicemia è del 5-10% mentre quella della HbA1c è trascurabile. La variabilità analitica è pari al 2% ed è
sovrapponibile per glicemia e HbA1c.
Standardizzazione
Nonostante in una larga parte del mondo sia stato
avviato un programma per rendere il dosaggio della HbA1c riproducibile nella totalità dei laboratori
di analisi, pubblici e privati (Consensus Committee.
Diabetes Care, 2007), c’è ancora molta strada da
fare per arrivare ad una standardizzazione globale
(Marshall MS, Nat Rev Endicrinol, 2010) (figura 17).
Anche il dosaggio della glicemia, generalmente
considerato altamente riproducibile, ha mostrato
problemi di standardizzazione, come risulta da una
indagine condotta su 6000 laboratori negli USA
che ha documentato un significativo errore nella
determinazione della glicemia fino al 41% dei casi
(Miller WG, Arch Pathol Lab Med, 2008).
In conclusione l’uso della HbA1c sembra essere un approccio diagnostico migliore della glicemia e dell’OGTT a digiuno, nonostante
25
WINTER SCHOOL
Recommendations for the Implementation of
International Standardization of HbA1c in Italy
HbA1c 5.7–6.4% and Impaired Fasting Plasma Glucose for
Diagnosis of Prediabetes and Risk of Progression to Diabetes
in Japan (TOPICS 3):a Longitudinal Cohort Study
ROC curve for prediction of future
diabetes by HbA1c, by FPG, and by the
combination of HbA1c and FPG
17
Lapolla A. et al., Nutr Metab Cardiovasc Dis, 2011
ci siano differenze nell’epidemiologia della malattia.
Tuttavia, la diagnosi basata sulla glicemia resta valida
per tutte le condizioni cliniche in cui il dosaggio della
HbA1c non è affidabile per motivi biologici o analitici
(figure 18-22).
20
Cumulative incidence of diabetes during
follow-up according to baseline
diagnosis of prediabetes
Heianza Y. et al, Lancet, 2011
HbA1c 5.7–6.4% and Impaired Fasting Plasma Glucose for
Diagnosis of Prediabetes and Risk of Progression to Diabetes
in Japan (TOPICS 3):a Longitudinal Cohort Study
Baseline characteristics according to diagnosis of prediabetes by HbA1c and IFG criteria
Advantages and Disadvantages of HbA1c
and Fasting Glucose Assays
Fasting glucose
HbA1c
Patient preparation
Fasting required, this is often None
misunderstood or not adhered
to
Sample processing
Stringent requirements for
processing and separation;
rarely achieved
Relatively simple
Standardisation
Fully standardised
Fully standardised
Variability
Moderate pre-analytic and
biological variation
Little to no variation
Effect of illness
Severe illness may shorten
Severe illness may increase
red-cell lifespan, reducing
glucose
concentration in hours or days HbA1c levels in days or weeks
Haemoglobinopathies and
disorders of red blood cell
turnover
Few problems
May interfere with values in
some
cases
Cost to laboratory
(approximate)
$2.30
$11.40
21
18
Combined Use of Fasting Plasma Glucose and
HbA1c in the Screening of Diabetes
Clinical and laboratory data from 2298 subjects
Heianza Y. et al, Lancet, 2011

FPG testing is still a valid test for diagnosing people with type 2 diabetes, including
when HbA1c is not appropriate or cannot be used.

The use of FPG is recommended where HbA1c results are borderline or further
investigation of the result is necessary, such as in a patient with two discrepant
HbA1c results. In this situation, a FPG test may be used to clarify the diagnosis.

FPG glucose is also the preferred initial test if the patient has a specific condition or
complication that may lead to an inaccurate HbA1c result.

The criteria for diagnosing diabetes using FPG and OGTT (if indicated) remain
unchanged. However, other than in pregnancy, OGTT should now only be used if
HbA1c is contraindicated and FPG results are inconclusive.
22
Sensitivities and specificities of different screening models for detecting diabetes
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26
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27
WINTER SCHOOL
La diagnosi di diabete in situazioni particolari
Frida Leonetti, Federica Coccia, Danila Capoccia
Dipartimento di Medicina Sperimentale
Università Sapienza di Roma
Il diabete mellito è una malattia cronica causata da
molteplici fattori eziopatogenetici e caratterizzata
da iperglicemia, che deriva nella maggior parte dei
casi da difetti della secrezione insulinica, dell’azione insulinica o di entrambi. Infatti, la gran parte dei
casi di diabete è compresa in 2 categorie: il diabete
tipo 1, che racchiude il 5-10% dei casi, in cui la distruzione beta cellulare, immuno mediata, conduce
ad un deficit assoluto di secrezione insulinica, e il
diabete di tipo 2, che coinvolge il 90-95% dei casi,
in cui predomina l’insulino-resistenza e il deficit di
secrezione è solo relativo.
Oltre a queste forme più comuni di diabete, tuttavia, esistono altre classi di diabete: da una parte il
diabete gestazionale, e dall’altra una classe molto
vasta, che comprende diverse forme di diabete, in
cui le alterazioni dell’omeostasi glucidica sono secondarie a rare mutazioni genetiche a carico della
secrezione/azione insulinica, oppure più frequentemente a malattie del pancreas, altre endocrinopatie, epatopatie croniche e ad assunzione di sostanze farmacologiche diabetogene.
Figura 2: Le altre forme di diabete mellito
Figura 1: Classificazione del diabete mellito
Figura 3: Classificazione Standard Italiani per la cura
del Diabete Mellito 2009-2010
28
Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
I criteri diagnostici del diabete mellito sono descritti nella figura 4.
Figura 4: Criteri diagnostici del diabete
A partire dal 2010, le linee guida internazionali
hanno incluso tra i criteri diagnostici del diabete
mellito anche l’emoglobina glicosilata (HBA1c), ponendo come cut off un valore di HBA1c > 6.5%, e
raccomandando che questo venga effettuato con
dosaggio standardizzato e almeno in due diverse
misurazioni, qualora siano assenti i sintomi tipici
di diabete. Il criterio diagnostico dell’HBA1c offre
diversi vantaggi, dal momento che non richiede il
digiuno ed ha una maggiore stabilità, essendo minimamente influenzato dalle fluttuazioni giornaliere
dovute a stress e ad altre condizioni. Tuttavia, in
alcune situazioni particolari, l’HbA1c può risultare
meno affidabile, come nei pazienti affetti da emoglobinopatie o altre anemie particolari oppure in
pazienti sottoposti a recenti trasfusioni. In questi
casi, la diagnosi di diabete deve avvalersi degli altri
criteri diagnostici.
Diabete gestazionale
Il diabete gestazionale è causato da difetti funzionali analoghi a quelli del diabete tipo 2, viene diagnosticato per la prima volta durante la gravidanza
e in genere regredisce dopo il parto, per poi ripresentarsi spesso a distanza di anni con le caratteristiche del diabete tipo 2. Il diabete gestazionale
comporta rischi importanti sia per la madre che
per il feto.
Lo studio epidemiologico HAPO (Hyperglycemia
and Adverse Pregnancy Outcomes), che ha preso
in considerazione 25000 donne in gravidanza, ha
dimostrato che il rischio di eventi avversi materni, fetali e neonatali aumenta progressivamente in
funzione dei valori glicemici riportati dalla madre
tra la 24° e 28° settimana, anche per valori considerati normali fino a qualche anno fa.
Queste scoperte hanno condotto ad una attenta
rivisitazione dei criteri diagnostici del diabete gestazionale: nel 2009, infatti, le società scientifiche
hanno formulato nuove e precise raccomandazioni per lo screening e la diagnosi del diabete gestazionale. In particolare si raccomanda di valutare,
alla prima visita in gravidanza, la presenza di un
diabete manifesto (in accordo ai criteri diagnostici del diabete validi per tutta la popolazione: glicemia basale > 126 mg/dl in due diverse misurazioni
e glicemia random > 200 mg/dl, da riconfermare
con glicemia a digiuno > 126 mg/dl). Le gestanti con
diagnosi di diabete manifesto devono essere prontamente avviate ad un monitoraggio metabolico
intensivo, così come raccomandato per il diabete
pre-gestazionale. Se il valore della glicemia alla prima visita risulta > 92 mg/dl e < 126 mg/dl, si pone
diagnosi di diabete gestazionale. Tutte le gestanti
che alla prima visita presentano glicemia a digiuno
< 92 mg/dl e/o senza precedente diagnosi di diabete manifesto, devono effettuare, tra la 24° e la 28°
settimana, un carico orale di 75 grammi di glucosio,
indipendentemente dalla presenza o meno di eventuali fattori di rischio per diabete gestazionale
Figura 5: Diagnosi del diabete gestazionale
Diabete monogenico
Il diabete monogenico racchiude diverse forme di
diabete mellito dovute a difetti genetici singoli che
alterano la secrezione e/o l’azione insulinica. Si
stima che le diverse forme di diabete monogenico
costituiscono più del 5% di tutti i casi di diabete
mellito, essendo spesso non diagnosticate o erroneamente interpretate come diabete tipo 1 o tipo 2.
29
WINTER SCHOOL
Un’attenta valutazione e un’accurata diagnosi è,
tuttavia, fondamentale per le ripercussioni sul trattamento, la prognosi e il rischio per i familiari dei
pazienti affetti.
I difetti genetici singoli che alterano la funzione
beta-cellulare comprendono principalmente tre
categorie di diabete: MODY (Maturity Onset Diabetes of the Young), diabete neonatale e diabete mitocondriale.
Il MODY consiste in un diabete ad insorgenza precoce, generalmente prima dei 25 anni, a trasmissione autosomica dominante, dovuto ad un’alterazione della secrezione insulinica.
Sono stati identificati sei diversi geni, su diversi
cromosomi, responsabili di 6 forme diverse. Le 2
forme più frequenti sono dovute alla mutazione del
fattore di trascrizione epatico HNF-1α (cromosoma
e del gene della glucochinasi (cromosoma 7). La
diagnosi, sospettata sulla base di dati anamnestici
(forte familiarità per diabete, insorgenza in età giovanile) e di determinati parametri clinici (assenza di
autoanticorpi e di segni associati ad insulino-resistenza) viene confermata dai test genetici.
Figura 6: Diabete monogenico: caratteristiche cliniche e diagnosi differenziale con diabete tipo 1 e tipo
2.
Il diabete neonatale, diagnosticato nei primi 6
mesi di vita, diverso dal classico tipo 1 autoimmune, può essere transitorio o permanente. La forma
transitoria è generalmente dovuta ad un difetto di
imprinting, mentre la forma permanente riconosce
un preciso difetto genetico a carico di un canale del
potassio presente sulla beta-cellula. Saper riconoscere questa forma di diabete è importante a fini
terapeutici in quanto i bambini affetti rispondono
al trattamento con sulfalinuree.
30
Il diabete mitocondriale, dovuto a mutazioni puntiformi a carico del DNA mitocondriale, viene trasmesso per via materna e si associa molto spesso
a sordità neurosensoriale. La diagnosi, sospettata
in base al quadro clinico e all’associazione con la
sordità, si basa sull'evidenza della trasmissione
materna.
I difetti genetici singoli che alterano l’azione insulinica sono poco frequenti e comprendono mutazioni a carico del recettore insulinico che determinano disordini metabolici variabili da una modesta
iperinsulinemia e iperglicemia ad un diabete severo.
I pazienti affetti presentano spesso acanthosis nigricans e nelle donne si associano frequentemente
segni di virilizzazione e presenza di cisti ovariche.
Esempi di forme di diabete simili, caratterizzate
da severa insulino-resistenza, sono: l’insulino resistenza di tipo A, il leprecaunismo e la sindrome
di Rabson-Mendenhall, queste ultime due presenti
in età pediatrica e associate a particolari tratti somatici. Nel diabete lipoatrofico, invece, il deficit
di azione insulinica non è dovuto a difetti a carico
del recettore, ma ad alterazioni post-recettoriali,
che compromettono la trasmissione del messaggio
intracellulare. Si caratterizza per un'estesa scomparsa simmetrica o pressoché completa del tessuto
adiposo sottocutaneo.
Diabete pancreatogenico (secondario a patologie del pancreas esocrino e/o a pancreasectomia)
I processi patologici che interessano il pancreas
possono essere causa di diabete, viceversa l’insorgenza del diabete in determinate situazioni può
essere spia di patologia pancreatica. Le malattie
pancreatiche più frequentemente responsabili di
diabete sono: pancreatiti croniche, neoplasie, e
in minor misura, la fibrosi cistica e l’emocromatosi.
Affinchè si sviluppino le alterazioni glicemiche, il
danno pancreatico deve essere esteso, ad eccezione del diabete secondario a carcinoma pancreatico che si può presentare anche quando una piccola porzione dell’organo viene coinvolta, poiché i
meccanismi responsabili non consistono nella sola
distruzione beta-cellulare, ma coinvolgono anche
l’insulino-resistenza determinata dai fattori iperglicemizzanti prodotti dalle cellule tumorali e dallo
stato flogistico locale associato alla neoplasia.
Infatti, nei pazienti adulti con neo diagnosi di iperglicemia in assenza di familiarità nota per diabete e
Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
senza fattori di rischio per malattia diabetica, è di
estrema importanza soffermarsi con attenzione ed
effettuare un adeguato screening per la presenza di
patologie pancreatiche, con particolare riferimento
alle patologie neoplastiche. Altrettanto dicasi per il
sopraggiungere di uno scompenso glicemico senza
altra causa apparente in pazienti adulti già diabetici al fine di poter anticipare la diagnosi di una
eventuale neoplasia pancreatica.
La perdita del parenchima pancreatico in seguito
a pancreasectomia conduce ad una forma particolare di diabete, nota come diabete pancreatogenico. Questa forma di intolleranza glucidica differisce dalle altre forme di diabete mellito per la
particolare frequenza di ipoglicemia: non vengono
infatti compromessi solo i meccanismi di secrezione insulinica dovuti alla perdita della massa beta
cellulare, ma anche i meccanismi periferici di sensibilità insulinica e i meccanismi della controregolazione collegati al deficit del glucagone.
A seconda della quantità di tessuto pancreatico rimosso e della porzione pancreatica residua (testa,
corpo, coda), si ha una diversa incidenza di diabete
pancreatogenico. In particolare, nei pazienti sottoposti a pancreasectomia distale, l’incidenza di diabete pancreatogenico è di circa 8-9%, per quelli sottoposti a pancreasectomia prossimale del 15-40%.
Mentre la pancreatite acuta determina un’iperglicemia transitoria e difficilmente è causa di un diabete permanente dopo la risoluzione, la prevalenza
del diabete secondario a pancreatite cronica dipende da diversi fattori, tra cui l’età, la presenza
di familiarità per diabete, l’eziologia alcolica o la
presenza di calcolosi biliare. E’ stato calcolato che
nelle pancreatiti croniche il diabete di nuova insorgenza si presenta con una percentuale del 34% se
ad eziologia alcolica, 23% se dovuta a calcolosi biliare, 16% se di natura idiopatica. Il deficit
endocrino quindi si presenta maggiormente nelle
pancreatiti secondarie ad abuso alcolico.
L’insorgenza del diabete nella pancreatite cronica è
dovuta alla progressiva distruzione beta cellulare
e alla ridotta capacità funzionale della massa beta
cellulare residua, causata da aumento della fibrosi
e dall’ischemia cronica da essa generata. Diversi
studi inoltre, hanno riportato anche un’alterazione
dell’insulino resistenza.
La fibrosi cistica è una malattia genetica autosomica recessiva caratterizzata da una mutazione a
carico di un canale del cloro situato sulla membrana cellulare di diverse cellule, tra cui quelle pancreatiche. Il diabete secondario a fibrosi cistica
si caratterizza per un’insorgenza precoce, in età
giovanile, e per un deficit della secrezione insulinica analogo a quello del diabete tipo 1, da trattare
sin da subito con terapia insulinica. A differenza
del diabete tipo 1, tuttavia, questi pazienti mostrano anche una ridotta secrezione di glucagone che
comporta un aumentato rischio di ipoglicemie.
L'emocromatosi, in passato chiamata anche diabete bronzino, è una malattia genetica dovuta all'accumulo di notevoli quantità di ferro in diversi organi e tessuti quali: fegato, pancreas, cute, cuore
ed alcune ghiandole endocrine. Due sono gli eventi
che contribuiscono all'origine del diabete nei pazienti con emocromatosi ereditaria: l’aumentata
insulino-resistenza dovuta all’accumulo di ferro
all’interno degli epatociti e la ridotta secrezione
insulinica dovuta alla distruzione beta cellulare
secondaria all’accumulo tissutale. E' inoltre importante sottolineare la stretta associazione che esiste, nei pazienti con emocromatosi, tra diabete e
cirrosi epatica. Diversi studi hanno dimostrato che
meno del 15% dei pazienti con emocromatosi in stadio pre-cirrotico sono affetti da diabete. Al contrario il diabete è presente in oltre il 70% dei pazienti
con emocromatosi e cirrosi.
Figura 7: Diabete pancreatogenico: fisiopatologia.
Diabete secondario a trapianto d’organo (NODAT, New Onset Diabetes After Transplantation)
Il diabete secondario a trapianto d’organo viene
definito NODAT (New Onset Diabetes After Transplantation) e si sviluppa nel 15-40% dei pazienti
sottoposti a trapianto. L’incidenza del NODAT varia
31
WINTER SCHOOL
tra i diversi studi, andando da un minimo del 5%
ad un massimo del 50% e tale discordanza potrebbe essere spiegata, in parte, con le diverse popolazioni prese in considerazione (età, razza, terapia
immunosoppressiva in atto, tempo d’osservazione),
in parte con i criteri diagnostici utilizzati. La diagnosi di NODAT infatti prevede, in accordo ai criteri diagnostici dell’ADA, il riscontro, in almeno 2
occasioni, di glicemia a digiuno > 126 mg/dl e/o di
glicemia > 200 mg/dl 2 ore dopo OGTT. L’HbA1c invece, recentemente introdotta tra i criteri diagnostici del diabete per la popolazione generale, non è
un criterio universalmente validato nelle persone
sottoposte a trapianto. Infatti, soprattutto nei primi mesi dopo il trapianto, il dosaggio può essere
influenzato da diversi fattori, come l’anemia e l’insufficienza renale. Tuttavia, un recente studio, condotto su 71 pazienti sottoposti a trapianto renale,
non affetti da diabete prima del trapianto, ha analizzato la concordanza tra HbA1c e OGTT a 3 e 12
mesi dopo il trapianto, riportando un’elevata concordanza tra i 2 criteri, seppur minore a 3 mesi. Gli
autori concludevano che, sebbene il gold standard
per la diagnosi di NODAT rimanga l’OGTT, l’HbA1c
può rappresentare un utile strumento diagnostico
dopo i primi 3 mesi dal trapianto, soprattutto nei
pazienti con diabete subclinico.
Tra i fattori di rischio più importanti per lo sviluppo
del diabete in seguito a trapianto d’organo, va ricordata l’assunzione di farmaci immunosoppressivi
a scopo anti–rigetto che, in alcuni casi, presentano un importante effetto diabetogeno (ciclosporina, glucocorticoidi) per cui si rimanda al paragrafo
del diabete secondario a terapie farmacologiche.
Diabete secondario ad endocrinopatie
I disordini endocrini che comportano alterazioni
dell’omeostasi glucidica possono essere dovuti ad
un eccesso di ormoni antagonisti dell’azione insulinica (GH, glucocorticoidi, catecolamine, glucagone)
o della secrezione insulinica (catecolamine, aldosterone come causa di ipokaliemia). Pertanto tra le endocrinopatie responsabili di diabete mellito, sono
incluse: acromegalia, sindrome di Cushing, feocromocitoma, iperaldosteronismo primario, ipertiroidismo, glucagonoma ed altri tumori neuroendocrini. Le alterazioni glicemiche riportate in queste
malattie possono variare da un grado moderato di
intolleranza glucidica ad un diabete franco con severa iperglicemia, in relazione anche alla presenza
di altri fattori predisponenti, come la familiarità
32
per diabete oppure la presenza di obesità.
La diagnosi di diabete secondario ad endocrinopatie segue i criteri diagnostici validi per la popolazione generale e, generalmente, l’iperglicemia si
risolve con la risoluzione dell’eccesso di ormone
iperglicemizante.
La prevalenza del diabete mellito nell’acromegalia varia dal 19 al 56% nei diversi studi, mentre la
prevalenza della ridotta tolleranza ai carboidrati è
descritta intorno al 28%. Recenti lavori hanno dimostrato come i livelli di GH, un’età più avanzata
e una più lunga durata di malattia, come anche la
familiarità positiva e l’associazione di ipertensione
e/o di obesità, sono fattori predittivi per lo sviluppo del diabete. Gli stessi analoghi della somatostatina, utilizzati nel trattamento dell’acromegalia, se da
una parte riducono l’insulino-resistenza, dall’altra
alterano la secrezione insulinica.
Il diabete mellito e le altre alterazioni glicemiche
sono molto comuni nella sindrome di Cushing: i
livelli plasmatici di glucosio, infatti, sono significativamente più alti nei pazienti affetti piuttosto
che nei controlli sani. L’eccesso di cortisolo causa
obesità viscerale, ipertensione, insulino resistenza e diabete mellito, dislipidemia e uno stato protrombotico e pro-infiammatorio. Questo quadro
determina un importante aumento del rischio cardiovascolare, che rimane elevato anche in seguito
alla normalizzazione dei livelli di cortisolo. L’insulino resistenza causata dall’ipercortisolismo si manifesta principalmente con iperglicemia a digiuno. La
prevalenza del diabete nella sindrome di Cushing
varia tra il 20 e il 50%. Analogamente all’ipercortisolismo endogeno, l’assunzione di glucocorticoidi
esogeni provoca aumento della glicemia a digiuno,
già dopo 5 giorni di trattamento.
Le alterazioni glicemiche sono comuni anche nella
tireotossicosi, in cui si riscontrano alterazioni a
carico sia della secrezione insulinica che della sensibilità periferica all’insulina. I meccanismi coinvolti prevedono un aumentato assorbimento intestinale di glucosio, una ridotta risposta all’insulina e
un’aumentata produzione di glucosio.
La riduzione della secrezione insulinica è la causa
principale del diabete secondario a feocromocitoma anche se studi recenti hanno dimostrato che
l’eccesso di catecolamine può anche indurre o aggravare uno stato di insulino-resistenza.
Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
Diabete epatogeno
L’associazione tra diabete mellito e cirrosi epatica è stata descritta per la prima volta da Bohan
nel 1947 e denominata diabete epatogeno circa 20
anni dopo da Megyesi et al, che osservarono che il
57% dei pazienti cirrotici mostrava un’aumentata
insulino-resistenza. I meccanismi patogenetici responsabili dell’insulino-resistenza nei soggetti con
epatopatia cronica consistono prevalentemente nel
danno del parenchima epatico e nell’aumentato
shunt porto sistemico. Se il danno degli epatociti,
infatti, determina un ridotto metabolismo epatico
dell’insulina, e pertanto un’iperinsulinemia periferica, l’aumentato shunt riduce i livelli d’insulina nel
circolo portale e stimola le cellule pancreatiche a
produrne di più, aumentando ulteriormente l’iperinsulinemia.
Inoltre, studi recenti hanno dimostrato come nelle epatiti croniche HCV correlate, l’insulino resistenza viene causata, oltre ai meccanismi sopra
descritti, dallo stesso virus che, agendo a livello
molecolare, altera i meccanismi intracellulari di
trasduzione del segnale insulinico, mostrando una
correlazione specifica tra genotipo virale e grado
di insulino-resistenza.
Tuttavia, con l’aumento esponenziale dell’obesità,
si sta assistendo ad un aumento sempre maggiore
delle epatopatie croniche ad eziologia non alcoolica
e non infettiva, denominate con l’acronimo NAFLD
(non alcoholic fatty liver disease), che rappresentano, ad oggi, la causa più comune di aumento delle
transaminasi nei paesi industrializzati. La NAFLD
comprende uno scenario di alterazioni epatiche
che va dalla semplice steatosi, alla steatoepatite,
alla fibrosi e, in ultimo, alla cirrosi. L’associazione
tra NAFLD e diabete mellito tipo 2 è bilaterale: se
infatti l’obesità e il diabete comportano un rischio
aumentato di NAFLD, spesso misconosciuto, la NAFLD stessa aumenta fortemente il rischio di sviluppare il diabete. Una metanalisi pubblicata nel 2008,
che ha preso in considerazione più di 70000 partecipanti, ha riportato come l’aumento delle ALT e
delle GGT sia un fattore predittivo, indipendente,
dell’incidenza di diabete sia negli uomini che nelle
donne.
Pertanto, nei pazienti affetti da epatopatia cronica di qualsiasi eziologia, è importante un corretto
screening metabolico e la ricerca di eventuali alterazioni glicemiche. Per quel che concerne i criteri
diagnostici, si seguono le linee guida ADA valide
per la popolazione generale, non essendoci para-
metri diagnostici specifici. Tuttavia, sia nello screening diagnostico che nella gestione clinica successiva, l’HbA1c non può essere considerata affidabile
in tutte le situazioni. Infatti, in pazienti cirrotici con
ipertensione portale i livelli di HbA1c sono più bassi
a causa della breve emivita degli eritrociti causata
dall’ipersplenismo.
Figura 8: Associazione tra NAFLD e diabete mellito:
meccanismi patogenetici.
Diabete iatrogeno dovuto a terapie farmacologiche
Molte sostanze chimiche e farmacologiche possono determinare un’alterazione della secrezione e/o
azione insulinica, contribuendo allo sviluppo di alterazioni glicemiche di vario grado fino al diabete. Generalmente, l’azione diretta del farmaco responsabile non è sufficiente ad indurre il diabete:
esistono, quasi sempre, condizioni già presenti di
aumentata insulino-resistenza che espongono il paziente ad un rischio maggiore (obesità, familiarità
per diabete, ..).
Le sostanze chimiche/farmacologiche che più frequentemente si associano a diabete sono elencate
nella figura 9.
Alcune sono piuttosto rare, come il vacor, veleno
per topi, e la pentamidina utilizzata per via endovenosa a scopo antiparassitario, che inducono, in
entrambi i casi, una distruzione permanente della
massa beta-cellulare.
I glucocorticoidi, invece, sono farmaci utilizzati molto frequentemente, spesso per lunghissimi
periodi o a vita, come nel caso dei pazienti affetti
da malattie autoimmuni o pazienti sottoposti a trapianto d’organo. I pazienti in trattamento cronico
con glucocorticoidi dovrebbero essere sottoposti
periodicamente a screening del diabete, utilizzando
33
WINTER SCHOOL
preferibilmente l’OGTT.
Un recente studio, infatti, ha riportato come in pazienti trattati a lungo termine con prednisolone,
l’HBa1c e la glicemia a digiuno mostrino una sensibilità più bassa. Infatti, la somministrazione acuta
di alte dosi di glucocorticoidi determina un’aumentata produzione epatica di glucosio e una ridotta
sensibilità insulinica; d’altra parte, il trattamento cronico con basse dosi, determina soprattutto
un’aumentata insulino-resistenza, che si manifesta
prevalentemente con l’aumento della glicemia postprandiale e dopo carico di glucosio.
Le società internazionali raccomandano che lo
screening per diabete nei pazienti in terapia cronica con glucocorticoidi, deve essere effettuato
ogni 3 anni, se considerati a basso rischio, oppure
annualmente se si associano altri fattori di rischio
(obesità, presenza di alterata glicemia a digiuno o
ridotta tolleranza ai carboidrati..).
Un dosaggio eccessivo di ormoni tiroidei può
smascherare un diabete subclinico o peggiorare il
compenso glicemico di un paziente già diabetico.
Ciò è dovuto ad un’elevata produzione epatica di
glucosio per up-regulation della glicogenolisi e ad
una maggiore insulino-resistenza generata dall’aumento della lipolisi e della quota di acidi grassi liberi circolanti.
Il diazossido è un farmaco capace di inibire la secrezione insulinica e di ridurre l’utilizzazione periferica del glucosio inducendo così un aumento
della glicemia. Agisce sui canali del potassio ATP
dipendenti e presenta anche un importante effetto
vasosilatatorio. Attualmente, viene utilizzato prevalentemente nel trattamento sintomatico dell’ipoglicemia organica da inappropriata secrezione
insulinica e, a causa di un importante effetto sodio
ritentivo, deve essere associato a terapia con idroclorotiazide.
I diuretici tiazidici, d’altra parte, determinano
iperglicemia dose dipendente, secondaria alla deplezione di potassio nel corpo e reversibile con
l’integrazione del medesimo e/o con la sospensione
del farmaco.
La ciclosporina, uno tra i principali farmaci ad
azione immunosoppressiva, è frequentemente utilizzata nei pazienti trapiantati a scopo anti-rigetto.
L’effetto iperglicemizzante deriva da un effetto citotossico dose dipendente, diretto sulla betacellula.
L’acido nicotinico, utilizzato nel trattamento delle dislipidemie spesso in associazione alla statina,
a dosi elevate può determinare un aumento della
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glicemia del 16% e dell’HbA1c del 21%, attraverso un
aumento dell’insulino-resistenza e una riduzione
della risposta insulinica in risposta all’iperglicemia.
Nell’ambito delle terapie broncodilatatorie utilizzate nella malattie respiratorie croniche, con possibile
azione iperglicemizzante, vanno ricordate la teofillina che, a dosaggio elevato, può indurre iperglicemia, per aumento delle catecolamine ed ipokaliemia
e i beta stimolanti che determinano un aumento
della glicogenolisi e della lipolisi.
La terapia con antipsicotici atipici induce un importante aumento ponderale che aumenta significativamente il rischio di sviluppare diabete. Un recente studio, pubblicato su Jama ad Agosto 2013, ha
dimostrato come l’utilizzo di antipsicotici atipici si
associ ad un rischio di diabete aumentato di circa
3 volte, in modo dose dipendente, ma con maggior
probabilità nel primo anno di trattamento.
Nei pazienti HIV positivi, la terapia con inibitori
delle proteasi determina un aumento ponderale e
un’alterazione del metabolismo lipidico con aumento dei trigliceridi e riduzione del colesterolo HDL.
L’incidenza di diabete, in questi pazienti, aumenta
di circa 4 volte.
Figura 9: Principali farmaci diabetogeni (riadattata
dai criteri ADA 2013)
Diabesità
Il termine diabesità, coniato negli anni ’70 da Sims
et al, descrive la stretta associazione tra diabete
tipo 2 e obesità: il rischio relativo di sviluppare
diabete infatti cresce all’aumentare del BMI e, nei
pazienti obesi, è aumentato di circa 6 volte negli
uomini e di 12 volte nelle donne. La diabesità rappresenta una pandemia dei nostri tempi, con una
prevalenza e un impatto socio-economico-sanitario
destinato a crescere. Stime recenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, infatti, indicano che
Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
nel mondo un miliardo e mezzo di persone sono in
sovrappeso (BMI > 25 Kg/m²) e 400 milioni presentano obesità (BMI > 30 Kg/m²). Parallelamente
all’aumento epidemico dell’obesità, è sempre più
evidente l’aumento del diabete: si calcola che nel
mondo ci siano 171 milioni di diabetici e che questi
numeri aumenteranno più del doppio nel 2030.
I meccanismi patogenetici che spiegano lo stretto
legame tra diabete e obesità consistono essenzialmente nell’aumento dell’insulino-resistenza generato dall’accumulo del grasso addominale, che
generalmente si associa ad un deficit della prima
fase di secrezione insulinica e ad un ridotto effetto
incretinico.
Riduzione della prima fase di secrezione insulinica. La prima fase di secrezione insulinica è
ridotta di circa il 27% negli individui con alterata
glicemia a digiuno e si riduce progressivamente
con la distruzione beta cellulare causata dall’iperglicemia non controllata. Si calcola che al momento
della diagnosi di diabete, il 50% della massa beta
cellulare sia già perso.
Ridotto effetto incretinico. Nei soggetti normali,
la secrezione insulinica viene stimolata maggiormente se il glucosio viene somministrato per via
orale, piuttosto che per via intravenosa. Questa
differenza, dovuta al cosiddetto effetto incretinico, dipende dal rilascio in seguito al pasto di una
serie di ormoni gastrointestinali, detti incretine
(GLP-1, GIP) che stimolano la secrezione insulinica
in maniera glucosio-dipendente. Tale effetto appare fortemente ridotto nei pazienti obesi, affetti da
diabete tipo 2.
Grasso viscerale, lipotossicità e diabete tipo
2. L’aumento del grasso viscerale si associa ad
un’aumentata insulino-resistenza: i lipidi in eccesso infatti, una volta esaurita la capacità contenitiva
degli adipociti, si accumulano negli altri tessuti, soprattutto fegato e muscolo, e determinano una riduzione del segnale insulinico all’interno delle cellule muscolari e degli adipociti. Ciò determina un
ridotto trasporto del glucosio all’interno della cellula e pertanto iperglicemia. Gli effetti metabolici
dell’aumento periferico di acidi grassi liberi viene
denominato lipotossicità e comporta un aumentato stress ossidativo e una conseguente distruzione
della massa beta-cellulare.
Adipochine. Nell’obesità, inoltre, si osserva un’ alterazione dei livelli plasmatici di alcune adipochine che comporta aumentato rischio di diabete e di
malattie cardiovascolari. L’adiponectina, ad esem-
pio, che fisiologicamente aumenta la sensibilità insulinica e riduce il rischio cardiovascolare, appare
fortemente ridotta nei pazienti obesi.
La diagnosi di diabete nel paziente con obesità
patologica segue i criteri validi per la popolazione
generale. Tuttavia, in questa tipologia di pazienti,
anche in assenza di diabete conclamato, si riconoscono caratteristiche alterazioni biochimiche generate dall’aumentata insulino-resistenza. La curva
glicemica e insulinemica dopo carico orale di glucosio, infatti, presenta generalmente un picco glicemico spostato rispetto al fisiologico 30° minuto e
spesso di gran lunga aumentato, anche in presenza
di valori non diagnostici di diabete al 120° minuto.
Analogamente, i livelli plasmatici di C-peptide, pur
non rappresentando un criterio diagnostico validato e standardizzato, appaiono aumentati. Questi
parametri, nella popolazione obesa, in assenza di
definizioni standardizzate di insulino-resitenza, costituiscono markers indiretti di alterazioni glicometaboliche al limite del diabete franco.
Data la stretta relazione tra diabete e obesità, la
cura del diabete non può prescindere dalla cura
dell’obesità. Tuttavia, nella maggior parte dei casi,
la terapia medica dell’obesità risulta fallimentare in
quanto scarsamente efficace a lungo termine; d’altra parte la chirurgia bariatrica si è ormai affermata come il trattamento più efficace e duraturo
per l’obesità patologica e per il diabete, poichè determina, oltre ad un’importante riduzione del peso
corporeo, anche un marcato miglioramento del
compenso glicemico fino alla completa risoluzione
della malattia.
Diabete Post Chirurgia Bariatrica
L’efficacia della chirurgia bariatrica nel migliorare
e spesso normalizzare i livelli di glicemia in pazienti obesi con diabete tipo 2 sono stati confermati
da un largo numero di studi osservazionali. La disponibilità di numerose evidenze in questo campo
ha spinto le più importanti società scientifiche a
considerare la chirurgia bariatrica come intervento
di prima scelta nella gestione del paziente obeso
e diabetico tipo 2. Una metanalisi di questi studi,
recentemente condotta da Buchwald e altri, che includeva 135.246 pazienti, ha messo in evidenza che
l’86,6% dei pazienti diabetici mostrava un netto miglioramento del compenso glico-metabolico e che il
78,1% andava incontro a completa risoluzione della
malattia diabetica.
35
WINTER SCHOOL
Questi risultati hanno reso necessario stabilire
dei criteri standardizzati da adottare dopo chirurgia bariatrica, in base ai quali la malattia diabetica possa essere definita completamente risolta,
parzialmente risolta, migliorata, non modificata
o nuovamente presente. Tali criteri, stabiliti nella Consensus del 2009 ed elencati nella figura 11,
comprendono la glicemia a digiuno, la HBA1c, la
presenza/assenza di terapie ipoglicemizzanti e
la durata del follow up. L’OGTT non è un metodo
standardizzato dopo chirurgia bariatrica e pertanto non viene incluso tra i criteri di remissione: il
rimaneggiamento dell’anatomia gastro-intestinale
indotto dalla procedura bariatrica determina infatti un alterato transito intestinale.
Figura 10: Criteri di remissione del diabete dopo chirurgia bariatrica
Un nostro studio, recentemente pubblicato, ha confrontato un gruppo di 30 pazienti diabetici sottoposti a Sleeve Gastrectomy con un gruppo di 30
diabetici trattati con terapia medica convenzionale
per un follow-up di 18 mesi. La risoluzione del Diabete Mellito tipo 2 si verificava nell’80% dei pazienti operati ed in nessuno dei pazienti trattati con
approccio dieto-farmacologico. In accordo con altri
reports della letteratura nel nostro studio alcune
caratteristiche cliniche e biochimiche dei pazienti
diabetici sembravano essere importanti determinanti per la remissione della malattia. Primo fra
tutti, una minor durata di malattia rappresentava il più importante fattore prognostico positivo
in termini di cura del diabete. Inoltre, i livelli preoperatori di C-peptide, espressione della funzione
beta cellulare residua, erano significativamente più
alti nei pazienti in cui si osservava la remissione
rispetto a quelli rimasti diabetici dopo la chirurgia. Anche il grado di compenso glicemico prima
36
dell’intervento sembrava essere un importante fattore prognostico positivo: infatti, i pazienti in cui
si otteneva la remissione del diabete avevano una
HbA1c pre-operatoria di 6,6% rispetto a 10,9% dei
pazienti “non curati”.
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37
WINTER SCHOOL
Come impostare il cambiamento dello stile di vita
Giovanni Annuzzi
Dipartimento di Medicina Clinica e Chirurgia
Università Federico II, Napoli
Uno stile di vita non sano, in particolare abitudini
alimentari scorrette, sedentarietà, fumo, eccessivo consumo di alcool, è stato identificato già da
diversi anni come la principale causa di mortalità
da malattie croniche, e soprattutto da malattie
cardiovascolari. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità l’80% delle morti cardiovascolari
precoci può essere prevenuto attraverso modifiche dello stile di vita, in particolare seguendo una
alimentazione corretta, svolgendo una regolare
attività fisica, evitando il fumo di sigaretta (Figura
1). Di conseguenza, la correzione dello stile di vita
è il trattamento di prima scelta nelle linee guida
per il trattamento di molte malattie croniche, specialmente quelle legate al sistema cardiovascolare.
Figura 2
Per il cambiamento comportamentale la più comune teoria è quella del modello a stadi di Prochaska
e Di Clemente¹, secondo la quale il paziente può
essere collocato in uno stadio definito e il processo di cambiamento avviene con il passaggio da
uno stadio all’altro (Figura 3).
Figura 1
Nonostante queste conoscenze, i fattori legati allo
stile di vita rimangono ancora oggi i primi responsabili della mortalità cardiovascolare e, pertanto,
la consapevolezza del rischio associato con questi
comportamenti non si è rivelata una condizione
sufficiente a promuovere il cambiamento comportamentale.
La resistenza alle modifiche dello stile di vita è
determinata da cause molto diverse che includono ostacoli cognitivi, emotivi e comportamentali
(Figura 2).
38
Figura 3
A seconda dello stadio in cui si trova il paziente si
deve differenziare l’intervento per spingere il processo verso il cambiamento. Va anche considerato
che una persona può essere in stadi diversi per
quanto riguarda cambiamenti diversi, ad esempio
può differire per l’alimentazione e l’attività fisica.
Una condizione essenziale nel processo di motivazione è naturalmente che gli operatori sanitari
Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
siano essi stessi motivati e convinti dell’importanza del cambiamento. Ci sono evidenze che suggeriscono che fattori come l’attività fisica del medico curante e gli impedimenti percepiti dal medico
curante sono associati con il livello di attività
fisica del paziente² (Figura 4).
Un risultato del Finnish Diabetes Prevention
Study4 da rimarcare è stato che, sia nel gruppo di
intervento che in quello di controllo, la probabilità di successo, cioè la non comparsa del diabete
era correlata al numero di obiettivi raggiunti nel
primo anno, tanto che nessun partecipante ha
sviluppato il diabete nel corso dello studio tra
quelli che avevano raggiunto almeno 4 obiettivi
dell’intervento, indicando la potenziale abolizione
del rischio di diabete in presenza di un corretto
stile di vita (Figura 6).
Figura 4
È stato osservato anche che il sostegno alla pratica dell’esercizio fisico è più credibile se proviene
da un operatore sanitario che pratica regolarmente attività fisica³. Pertanto gli operatori sanitari
dovrebbero praticare attività fisica non solo per
i benefici personali ma anche come stimolo per
i loro pazienti. Inoltre, conoscere le evidenze dei
benefici derivanti dalla modifica dello stile di vita
ottenute in studi randomizzati controllati costituisce un passaggio importante non solo per la
motivazione dell’operatore sanitario, ma anche
perché costituisce uno strumento indispensabile
per trasmettere il messaggio e rendere consapevoli i pazienti di questi benefici. Infatti, i processi
essenziali nel modificare lo stile di vita del paziente sono: 1) Rendere il paziente consapevole dei
benefici e 2) Rimuovere gli ostacoli al cambiamento verso uno stile di vita corretto.
Le evidenze fornite dagli studi di prevenzione del
diabete sono adatte a tale scopo, in quanto danno
una misura chiara e riproducibile dell’efficacia
delle modifiche dello stile di vita (Figura 5).
Figura 6
Figura 5
Figura 7
Un messaggio importante che viene invece dal
Diabetes Prevention Program5 è che nella prevenzione del diabete la modifica dello stile di vita
è finanche più efficace dell’utilizzo della metformina, che è un farmaco potenzialmente indicato
a tale scopo in quanto agisce su un meccanismo
patogenetico del diabete, cioè l’insulino-resistenza
(Figura 7).
39
WINTER SCHOOL
Per quanto riguarda i pazienti già affetti da diabete è importante ricordare che anche lo studio
Look AHEAD, effettuato in oltre 5000 pazienti
con diabete tipo 2 con l’obiettivo di ridurre il peso
corporeo di almeno il 7% con l’intervento sullo
stile di vita, ha mostrato un miglioramento significativo dei fattori di rischio cardiovascolare e del
compenso glicemico durante i 4 anni di follow-up6
(Figura 8).
fattore che può aver contribuito a non evidenziare
benefici cardiovascolari dell’intervento intensivo
può essere il fatto che l’obiettivo dello studio era
ridurre il peso corporeo, quindi minore enfasi era
posta sulla composizione della dieta, che invece ha
effetti importanti sul rischio cardiovascolare.
Nella fase successiva all’acquisizione della consapevolezza dei benefici, cioè dopo lo stadio contemplativo, inizia la fase di rimozione degli ostacoli al
cambiamento. Per quanto riguarda la dieta i più
frequenti ostacoli, da dover affrontare caso per
caso, sono elencati nella Figura 9.
Figura 8
In questo studio, nel gruppo sottoposto ad intervento intensivo sullo stile di vita si è osservata
una remissione parziale o completa del diabete
significativamente maggiore rispetto al gruppo di
controllo sia ad un anno (11.5% vs. 2.0%) che a 4
anni dal follow-up (7.3% vs. 2.0%)7. Tuttavia, questo
studio è stato interrotto dopo un follow-up medio
di 9,6 anni, invece dei previsti 13,5 anni, perché
non si osservava un miglioramento significativo
dell’outcome primario che era composto da morte per cause cardiovascolari, infarto miocardico
non fatale, ictus non fatale, ospedalizzazione per
angina8. Per evitare il possibile trasferimento di
questi risultati in un messaggio mediatico negativo ai pazienti sugli effetti delle modifiche dello
stile di vita sull’obiettivo più rilevante, cioè quello
cardiovascolare, è necessaria una attenta valutazione dello studio. Vanno, infatti, considerati
diversi aspetti dello studio che possono aver reso
difficile dimostrare il beneficio relativo dell’intervento intensivo sullo stile di vita, tra i quali il
basso numero di eventi osservato in entrambi i
gruppi, in parte conseguente all’intensificazione
del trattamento dei fattori di rischio cardiovascolare anche nel gruppo di controllo. Infatti, i
livelli di colesterolo LDL, tra i più rilevanti fattori di rischio cardiovascolare modificabili, erano
più bassi e l’uso di statine maggiore nel gruppo
di controllo che in quello di intervento. Un altro
40
Figura 9
Per cercare di modificare le abitudini alimentari e
implementare le raccomandazioni nutrizionali per
individui affetti da diabete è importante disporre di un programma di educazione basato su un
protocollo ben strutturato, standardizzato per
metodologia e contenuti. Un approccio efficace è
quello di gruppo, che ha dimostrato effetti positivi su calo ponderale, controllo glicemico e fattori
di rischio cardiovascolare9-11. Il gruppo ha di per
se valore educativo, e i cambiamenti sono facilitati all’interno di piccoli gruppi, in quanto viene
stimolata l’interazione, organizzato il confronto e,
quindi, vengono favorite le decisioni poiché diminuiscono gli antagonismi personali e le pressioni
esterne. Naturalmente, nel gruppo vanno rispettate le diverse modalità e velocità di apprendimento.
Nella Figura 10 è riportato lo schema di un percorso educativo in pazienti con diabete tipo 2.
Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
Figura 10
Figura 12
Tuttavia, di fondamentale importanza è l’accertamento delle abitudini alimentari del singolo
paziente ottenibile con una adeguata indagine
alimentare che permette di concentrare gli sforzi
sulla correzione degli errori nell’alimentazione
(Figura 11).
Per il superamento di questi ostacoli è richiesta
una sufficiente expertise da parte dell’operatore
sanitario, che permetta di scegliere i suggerimenti
più adatti al singolo paziente. Nelle Figure 13-17
sono riportati alcuni esempi di approccio al superamento di impedimenti all’attività fisica presentati dai pazienti.
Figura 13
Figura 11
Per quanto riguarda i motivi della non adesione
ad una vita attiva, nella Figura 12 sono riportati gli
impedimenti verso un aumento dell’attività fisica
che sono addotti più frequentemente dai pazienti12.
Figura 14
41
WINTER SCHOOL
basarsi su metodologie adeguate (es. approccio
individuale, di gruppo o combinato) e per il suo
successo richiede una motivazione adeguata e
supporto dei partecipanti. Può essere necessario
che il team per la cura del diabete spenda più
tempo ad educare sulle modifiche dello stile di
vita. È auspicabile che di questo team facciano
parte, oltre che medici, infermieri e dietisti, anche
professionisti dello stile di vita e psicologi con
competenze specifiche.
Figura 15
Bibliografia
1. Prochaska JO, DiClemente CC. Stages of change in
Figura 16
Figura 17
In conclusione, nonostante le evidenze dei benefici
connessi ad uno stile di vita corretto, il numero
di persone con diabete che fanno sufficientemente attività fisica è relativamente scarso. Vi sono
impedimenti comuni di tipo ambientale, sociale
e personale. Questi ostacoli vanno identificati,
discussi e possibilmente rimossi.
Le strategie per la modifica dello stile di vita possono richiedere interventi intensivi ed investimenti in termini di risorse economiche e di tempo da
parte degli operatori. È necessario un approccio
multifattoriale che includa la correzione dell’alimentazione, la riduzione del peso e l’incremento
dell’attività fisica. L’intervento educazionale deve
42
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43
WINTER SCHOOL
Come scegliere la terapia farmacologica: un approccio “EVIDENCE BASED”
Gianluca Perseghin
Dipartimento di Scienze Biomediche per la Salute, Università degli Studi di Milano &
Medicina Metabolica, Policlinico di Monza
Introduzione
La terapia del diabete di tipo 2 si è basata sull’intervento educativo volto al cambiamento dello stile di
vita e sull’utilizzo delle sulfaniluree e della metformina. Questi strumenti terapeutici sono stati per
molti anni l’armamentario terapeutico disponibile
per il diabetologo, che lo ha da sempre considerato
insufficiente per una ottimale gestione della malattia. Negli ultimi anni però la gestione del compenso
glicemico è diventata gradualmente più complessa
per l’introduzione di nuovi farmaci e nei prossimi
mesi altri ancora se ne renderanno disponibili.
La possibilità del loro uso è stimolante per il diabetologo perché essi sono caratterizzati da nuovi
meccanismi d’azione, da diversi livelli di efficacia
sul target glicemico ma anche, potenzialmente, da
diversa efficacia su altri obiettivi terapeutici fondamentali nel trattamento del diabete di tipo 2: la
massa corporea, il rischio di ipoglicemia, il rischio
cardiovascolare. Essi hanno anche importanti differenze relative al profilo di sicurezza nonché diverse
indicazioni all’utilizzo in condizioni di co-morbilità
che sono spesso presenti nel paziente diabetico.
A complicare lo scenario generale ci sono poi stati
i risultati frustranti di clinical trials che non sono
riusciti a verificare l’ipotesi secondo la quale un
controllo più puntuale della glicemia si associa ad
un beneficio sulle complicanze macrovascolari.
L’armamentario si è quindi improvvisamente arricchito di numerose opportunità terapeutiche ma
allo stesso tempo le controversie relative al reale
beneficio che ci si deve aspettare da queste terapie
hanno confuso il diabetologo. La domanda ora è:
come ottimizzare l’uso di questi nuovi strumenti
terapeutici per prevenire e curare il diabete e migliorare la qualità di vita delle persone che ne sono
affette (1)?
GIi Standard Italiani per la Cura del Diabete Mellito
generati dalla SID-AMD nella versione 2009-10 (2)
hanno precorso i tempi e hanno anticipato le Linee
Guida generate dalle Società Scientifiche Internazionali nonché le Consensus di esperti, affermando che le evidenze scientifiche disponibili lasciano
aperta la possibilità di utilizzare, quando il compenso adeguato non è garantito con la sola metformina, ognuno dei farmaci a nostra disposizione
44
attualmente, quando compatibile con la storia e la
situazione clinica del paziente.
E’ stato introdotto il concetto di “terapia sartoriale” sostenuto da un lato dalla eterogeneità del
quadro clinico dei nostri pazienti e dall’altra dalla
disponibilità di questi nuovi strumenti così diversi
tra di loro. Il diabetologo diventa un “sarto” nella
sua capacità di generare diversi obiettivi terapeutici e approcci terapeutici personalizzati che meglio
“vestano” le esigenze di ogni singolo paziente per
meglio gestire non solo il diabete ma la sua intera
patologia.
Questo approccio “centrato” sulle caratteristiche
del singolo paziente (3) rende difficile l’applicabilità
della “evidence-based medicine” (EBM) alla pratica
clinica, perché per sua natura questa viene generata sulla base di studi nei quali le caratteristiche dei
pazienti selezionati sono abbastanza rigide e non
sempre applicabili al singolo paziente.
Intervento sullo stile di vita e metformina
L’intervento volto a stimolare il livello di attività fisica e a controllare l’apporto calorico e dei nutrienti è considerato di importanza critica (2,3).
Diversi trial condotti in pazienti con diabete di tipo
2 hanno confermato il miglioramento del controllo glicemico (4,5) e di diversi fattori di rischio di
malattia cardiovascolare (5) durante programmi di
attività fisica aerobica, contro resistenza e in associazione. Più recentemente l’analisi “intention-totreat” dei risultati dello studio Look-Ahead, focalizzato sugli effetti dell’intervento sullo stile di vita
(esercizio fisico e dieta) allo scopo di ottenere la
riduzione del peso corporeo comparato all’intervento educativo standard prolungato per un periodo mediano di quasi 10 anni non ha dimostrato un
sicuro beneficio cardiovascolare (6).
La metformina è il farmaco di prima scelta per
il trattamento del diabete di tipo 2 sia in pazienti
sovrappeso/obesi che normopeso. A dispetto del
fatto che si tratti del farmaco più largamente utilizzato nel mondo, la EBM a riguardo non è particolarmente robusta e questa scelta si basa principalmente sullo studio UKPDS che ha descritto
neutralità sul peso, basso rischio di ipoglicemia ed
è buon profilo di tolleranza (7-9) se si esclude la
Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
possibilità della comparsa dei noti effetti collaterali gastrointestinali; in questo caso il rischio può
essere minimizzato titolando il dosaggio, fino ad
un massimo di 2 g, nel tempo. È nota la descrizione di episodi di acidosi lattica grave (3 casi per
100.000 pazienti anno) per cui è controindicata
nei pazienti a rischio di insufficienza renale acuta, chirurgia, uso di mezzi di contrasto o insufficienza renale cronica (GFR stimato < 60 mL/min);
anche in questo caso non c’è EBM a supporto di
uno specifico cut-off di filtrato da prendere in
considerazione. E’ stata recentemente segnalata,
anche se con uno studio di tipo osservazionale e
trasversale, e quindi con livello di prova minore,
un’associazione tra la terapia con metformina e
ridotte funzioni cognitive (10).
Terapia farmacologica di associazione
Le raccomandazioni suggeriscono di ottenere un
ottimale controllo della glicemia. Lo stretto controllo della glicemia comporta un aumento del
rischio di ipoglicemia e del peso corporeo (9).
Questo ha costituito uno dei motivi per i quali nei
pazienti con diabete di tipo 2 l’adesione alla terapia è spesso scarsa e dopo qualche anno di malattia la necessità di una terapia combinata diventa inevitabile (7). Attualmente non esistono dati
EBM che un farmaco sia preferibile ad altri. Per
questo motivo verranno qui presi in considerazioni alcuni effetti desiderabili e non desiderabili delle terapie farmacologiche attualmente disponibili
che possono eventualmente essere associate alla
metformina. I dati sono qualitativamente riassunti in tabella 1.
Efficacia terapeutica
Gli inibitori dell’α‑glucosidasi, inibendo la digestione di carboidrati complessi e disaccaridi a monosaccaridi, ritardano l’assorbimento dei carboidrati
e riducono le escursioni glicemiche post-prandiali.
L’acarbosio, aggiunto a metformina, determina
una riduzione dell’emoglobina glicosilata dello
0,5-0,6% (11) e quindi con una efficacia paragonabile, anche se non formalmente testata “add-on” a
metformina, a quella dei DPP4-inibitori (.
Le sulfaniluree, insulino secretagoghi, rappresentano la classe di farmaci che abbiamo a disposizione da più tempo e per questo motivo solo le molecole di più recente introduzione hanno a supporto
dati generati da RCTs. In generale questa classe di
farmaci induce una riduzione della HbA1c che può
arrivare a 1‑1,5% (9). A dispetto di questo potente
effetto è stato suggerito che la sua durabilità nel
tempo possa essere minore rispetto a quella di altre classi di farmaci sulla base di studi che hanno
valutato la glibenclamide comparata a metformina
o rosiglitazone (13). E’ disponibile un secretagogo
con rapida farmacodinamica (repaglinide) in grado di stimolare più rapidamente la secrezione insulinica e per questo viene somministrato prima
dei pasti; la sua efficacia terapeutica non sembra
essere diversa da quella di altre sulfaniluree.
I tiazolidinedioni, che agiscono migliorando la
sensibilità insulinica adipocitaria, epatica e muscolare hanno dimostrato che la loro efficacia è
simile a quella della metformina e sulfaniluree. Il
loro effetto pieno viene raggiunto solo dopo 3045 giorni dall’inizio della somministrazione (14) ma
si caratterizzano poi per un durevole effetto nel
tempo (13, 15).
Le incretine costituiscono un gruppo di farmaci che agiscono aumentando i livelli circolanti di
GLP1 che sembrano essere ridotti nei pazienti con
diabete di tipo 2 (16, 17) anche se questa ipotesi
sembra ora messa in discussione (18). Le incretine
sono costituite dagli inibitori dell’enzima Dipeptidil‑Peptidasi IV che degrada il GLP1 endogeno o
gliptine (Sitagliptin, Vildagliptin, Saxagliptin, Linaglitpin, Alogliptin) o dai recettori agonisti del
recettore di GLP1. I DPPIV inibitori somministrati
per bocca a pazienti con diabete tipo 2, si associano a un significativo miglioramento del controllo
glicemico in monoterapia, in aggiunta a metformina o glitazoni o sulfaniluree o insulina (in Italia
solo per Sitagliptin)(2,3) con efficacia comparabile
a metformina (19), sulfaniluree e glitazoni (2,3) anche se i dati a lungo termine sono pochi e sembrano suggerire rispetto al glitazone una minor durata di azione nel tempo (20). I recettori agonisti di
GLP1 (Exenatide, Exenatide LAR, Liraglutide, Lixisenatide, Albiglutide) somministrati tramite iniezione sottocutanea due volte al giorno, una volta
al giorno o una volta alla settimana si caratterizzano anch’essi per una significativa riduzione
dell’emoglobina glicosilata. Quando somministrati
in associazione alla metformina, la riduzione è risultata comparabile a quella ottenibile con sulfaniluree (21) o superiore ad essa (22) mentre alcuni
RCTs hanno dimostrato la superiorità degli agonisti di GLP1 quando comparati a pioglitazone e DPPIV inibitori (23, 24). Gli effetti anti-iperglicemici
ma anche gli effetti su nausea, peso e parametri
45
WINTER SCHOOL
cardiovascolari ottenuti con i diversi GLP1-RA sembrano essere differenti (25, 26) e non è possibile
escludere che la causa possa risiedere nella diversa durata d’azione di questi agonisti del recettore
GLP1 (short-acting vs. long acting)(27).
Peso corporeo
Gli inibitori dell’α‑glicosidasi, come la metformina,
non hanno effetti negativi sul peso corporeo, a differenza delle sulfaniluree che inducono modesti
incrementi di peso di solito direttamente proporzionali all’efficacia terapeutica.
I tiazolidinedioni sono in grado di determinare incremento della massa corporea significativo nei
primi mesi di introduzione della terapia (3) probabilmente proprio grazie al loro meccanismo d’azione che rende il tessuto adiposo (e quindi la lipolisi
e esterificazione) più sensibile all’azione insulinica;
esistono dati controversi relativi ad una aumentata
ritenzione di liquidi come potenziale causa di incremento della massa corporea.
I DPPIV inibitori hanno azione neutra sulla massa
corporea a differenza dei GLP1-RA che manifestano una modesta/moderata riduzione iniziale del
peso corporeo, tanto da immaginare il loro utilizzo
anche nella terapia dell’obesità non complicata da
diabete (28) eventualmente ai dosaggi più elevati.
Rischio ipoglicemia
Gli inibitori dell’α‑glicosidasi non si associano ad
un rischio più elevato di ipoglicemia.
L’utilizzo delle sulfaniluree invece è associato ad un
aumentato rischio di ipoglicemie che viene documentato in modo robusto (29) e i cui effetti sono
particolarmente severi nella popolazione più anziana (30). Tra tutte le sulfaniluree la gliclazide sembra essere caratterizzata da una minore incidenza
di ipoglicemie per lo meno nella sua formulazione a
rilascio modificato (31).
L’utilizzo dei tiazolidinedioni, al contrario delle sulfaniluree, non si associa invece ad un aumentato
rischio di ipoglicemia.
Sia i DPPIV inibitori che gli agonisti del recettore
di GLP1 sono associati ad un basso rischio di ipoglicemia.
Sicurezza cardiovascolare
I dati EBM suggeriscono, più che dimostrare, un
effetto benefico della metformina in un ristretto
gruppo di pazienti dello studio UKPDS (9).
Gli inibitori dell’α‑glicosidasi sono stati tra i primi
46
farmaci ad essere testati come strumenti potenzialmente capaci di ridurre il rischio cardiovascolare e lo studio STOP NIDDM (32) ha dimostrato un
effetto protettivo controverso (33).
Le sulfaniluree se da un lato hanno dimostrato
di indurre una riduzione delle complicanze micro
vascolari (34) dall’altro possono legarsi non solo
al loro recettore specifico presente sulle ß‑cellule
(SUR1) ma anche con isoforme presenti a livello
della muscolatura liscia delle arterie e dei miocardiociti con affinità maggiore per glibenclamide
rispetto ad esempio a gliclazide e mediare effetti
potenzialmente sfavorevoli. Questa è stata materia di controversie, ma a tutt’oggi esiste solo uno
studio retrospettivo che ha dimostrato un effetto
deleterio in termini di mortalità con l’utilizzo della glibenclamide (35). E’ vero però anche che uno
studio osservazionale che ha interessato l’intera
Danimarca ha riportato dati che suggeriscono che
quando utilizzate in mono-somministrazione la glimepiride, glibenclamide, glipizide, e tolbutamide,
si sono associate ad una aumentata mortalità e
elevato rischio cardiovascolare quando comparate a metformina, mentre la terapia con gliclazide
(in prevenzione secondaria) e repaglinide (in prevenzione primaria) è sembrata essere associata a
minor rischio quando comparata alle altre sulfaniluree e non diverso quando comparata alla metformina (36).
I tiazolidinedioni si associano ad un aumentato rischio di sviluppare scompenso cardiaco. Secondo
alcuni autori la causa è determinata da ritenzione
di fluidi (37), anche se studi più recenti mettono in
discussione questa ipotesi (38). È possibile che il
rischio possa essere aumentato nei pazienti in terapia insulinica. Rimane comunque a tutt’oggi controindicato l’uso nei pazienti con scompenso cardiaco (39). Il pioglitazone sembra avere un modesto
effetto di protezione cardiovascolare sulla base del
riscontro di alcuni end-points secondary dimostrati con un unico RCT (15). Il rosiglitazone al contrario
non è più disponibile commercialmente per alcuni
dubbi relativi ad un aumentato rischio di infarto
del miocardio che rimane ai giorni nostri ancora
controverso.
Per i DPP4 inibitori è stato ipotizzato sulla base di
indagini meta analitiche un eventuale effetto benefico cardiovascolare (40). Recentemente sono stati
resi noti i risultati di due RCTs che hanno paragonato la Saxagliptin in prevenzione primaria (41) e
l’alogliptin in prevenzione secondaria (42) rispetto
Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
a placebo in studi di non inferiorità dimostrando
un effetto neutro sui MACE.
Anche per gli agonisti del recettore del GLP1 è stato ipotizzato un benefico effetto cardiovascolare
(43, 44)ma per il risultato di RCTs con agonisti del
recettore di GLP1 su endpoints cardiovascolari si
dovrà attendere il 2014 per i dati dello studio Elixa
(Lixisenatide in prevenzione secondaria), il 2016 per
i dati dello studio Leader (Liraglutide), il 2017 per i
dati dello studio Exscel (Exenatide once weekly), il
2019 i dati dello studio Rewind (Dulaglutide once
weekly).
Comorbidità: insufficienza renale cronica e insufficienza epatica
Gli inibitori dell’α‑glicosidasi possono essere utilizzati in pazienti con IRC fino ad un GFR stimato di
30 mL/min. E’ stato descritto in passato che possano causare lievi e reversibili incrementi dei livelli di ALT e più raramente malattia epatica severa
(45). A dispetto di ciò RCT hanno dimostrato che
potrebbero essere utili nei pazienti diabetici con
cirrosi non scompensata in terapia insulinica con
miglioramento sia della glicemia a digiuno che di
quella post-prandiale (46) e in pazienti con encefalopatia epatica, nei quali l’acarbosio contro placebo
migliorava il compenso glicemico con una riduzione dell’ammonio circolante che è stato giustificato come dovuto alla potenziale selezione di batteri
saccarolitici invece che proteolitici (47).
Le sulfaniluree vanno incontro a clearance renale
e per questo motivo in pazienti con IRC questi farmaci tendono a manifestare un accumulo dei loro
metaboliti attivi con un rischio elevato di ipoglicemia, in particolare per la glibenclamide. In modo simile, anche se le sulfaniluree sono generalmente sicure nei pazienti con epatopatia, specialmente nei
pazienti con cirrosi avanzata, la difficoltà a contrastare gli eventi ipoglicemici secondaria alla malattia
epatica, impone quando questo tipo di trattamento
viene scelto, un attento controllo della risposta alla
terapia in termini di auto-monitoraggio della glicemia da parte del paziente.
Il pioglitazone non è controindicato nel trattamento di pazienti con IRC perché non viene eliminato per via renale e non determina un aumento del
rischio di ipoglicemia. Potrebbe essere utile nella
terapia della non-alcoholic fatty live disease (NAFLD). Il dubbio di utilizzo di questa classe di farmaci in relazione alla epatotossicità scatenata dal
capostipite troglitazone ritirato dal mercato pro-
prio per questa ragione non sembra aver motivo
di esistere in relazione al pioglitazone. Negli studi
clinici randomizzati la terapia con pioglitazone si è
associata ad incremento delle transaminasi comparabile a quello osservato nel gruppo in placebo o
in alcuni casi una riduzione (48). Negli ultimi anni,
il pioglitazone si è imposto come strumento farmacologico di trattamento della NAFLD per la sua
capacità di ridurre il contenuto intraepatico di trigliceridi, di ridurre le degenerazioni epatocitarie e
di ridurre l’infiltrato infiammatorio in almeno due
RCTs (49, 50). Da ultimo è abbastanza recente il report secondo il quale l’uso del pioglitazone (e del
rosiglitazone) nei pazienti diabetici si è associato
ad un rischio ridotto di cancro del fegato rispetto
ad altre strategie terapeutiche (51). Questo studio è
stato generato dall’analisi di dati relativi a 606583
pazienti di Taiwan con diabete di tipo 2 senza storia di cancro al basale posti in terapia nel 2000 e
rivalutati nel 2007.
I DPP-IV inibitori sono a metabolismo renale; EMA
autorizza l’utilizzo di Sitagliptin, Vildagliptin e
Saxagliptin a dosaggi ridotti a seconda della gravità dell’insufficienza renale. Il più recente inibitore
della DPP4, Linagliptin, essendo metabolizzato a
livello epatico, può invece essere utilizzato anche
in pazienti con insufficienza renale severa senza
aggiustamento del dosaggio.
I livelli serici di DPPIV sono elevati nei pazienti con cirrosi epatica (52) e si ritiene già da molti
anni che la ragione sia un’aumentata espressione
specifica a livello epatico (53). Più recentemente è
stato dimostrato che i livelli di DPPIV serici sono
aumentati anche nei pazienti con epatopatia HCVcorrelata (54) e NAFLD (55). E’ ipotizzato che il loro
uso possa essere favorevole nella NAFLD ma i dati
attualmente disponibili nell’uomo sono pochi. Non
è necessario aggiustamento di dosaggio neppure
con Linagliptin, a dispetto del fatto che il suo sia
un metabolismo prevalentemente epatico.
Gli agonisti del recettore per GLP1 sembrano avere
una eliminazione che non viene significativamente
modificata in condizioni di moderata insufficienza
renale. Si potrebbe quindi immaginare il loro utilizzo anche in pazienti con IRC anche se questa ipotesi non è stata ancora formalmente testata.
In relazione all’utilizzo dei GLP1RA in soggetti epatopatici a tutt’oggi, come per i DPP4-inibitori, i dati
disponibili in vivo nell’uomo sono scarsi. Esiste un
singolo report di somministrazione non controllata
sia di Exenatide che di Liraglutide in un gruppo di
47
WINTER SCHOOL
25 soggetti diabetici obesi nei quali il trattamento ha indotto una riduzione del 25% del contenuto
intra epatico di trigliceridi misurato mediante 1H
MRS (56).
Altri effetti collaterali/eventi avversi
Gli inibitori dell’α‑glicosidasi hanno frequentemente effetti collaterali gastrointestinali (diarrea, flatulenza) che spesso interferiscono sull’adesione alla
terapia, al contrario delle sulfaniluree che sono generalmente ben tollerate dai pazienti. Pioglitazone
è stato recentemente associate ad un aumento del
rischio di cancro della vescica (57) mentre è noto il
rischio di fratture ossee anomale soprattutto nella
popolazione di sesso femminile (13, 15).
Da tempo è stato riportato un sospetto di rischio
più elevato di pancreatiti (58) e più recentemente
sono apparsi dati contrastanti sul rischio d‘insorgenza di neoplasia pancreatica nei pazienti diabetici in terapia con DPPIV inibitori agonisti del
recettore GLP1 (59). E’ stato quindi richiesto alle industrie di rendere accessibili i dati in loro possesso
per determinare se tale trattamento possa avere
un effetto diretto sullo sviluppo della pancreatite
e del cancro del pancreas. Recentemente EMA ha
emesso un comunicato nel quale viene comunicato che questi dati non aggiungono un significativo impatto in relazioni ai dubbi associati a questi
trattamenti, e che comunque specifici gruppi di
lavoro sia della FDA che dell'EMA continueranno
a sorvegliare e monitorare il trattamento incretinico in relazione al rischio di pancreatite e tumore
pancreatico per assicurare che l’uso di questi strumenti terapeutici continui a garantire un bilancio
di profilo di rischio/beneficio positivo (60).
Conclusioni
In questi ultimi anni la possibilità di controllare
il compenso glicemico è diventata gradualmente
più complessa per l’introduzione di nuovi farmaci e nuovi classi sono all’orizzonte. Queste nuove
e numerose opportunità terapeutiche rimangono
ancora circondate da diverse controversie relative
al loro utilizzo sostanzialmente a causa degli scarsi
dati EBM disponibili in letteratura, soprattutto di
confronto su efficacia e sicurezza. Ho qui riassunto i dati EBM disponibili e alcuni dati meno robusti
generati con studi di tipo osservazionale e quindi
con livello di prova significativamente ridotto rispetto alle conclusioni raggiungibili con RCTs. Rimaniamo in attesa nei prossimi mesi/anni di dati
che verranno generati da nuovi studi che potranno contribuire, nell’ottica di una sartorializzazione della terapia ad hoc per ogni singolo paziente,
a decisioni terapeutiche maggiormente supportate
dall’evidenza.
Caratteristiche dei farmaci disponibili per la cura del diabete di tipo 2 note ad oggi.
+ indica effetto positivo, - indica effetto negativo
* Aggiustamento del dosaggio non è necessario con Linagliptin
Tabella 1
48
Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
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Storia naturale del diabete tipo 2
La storia naturale del diabete tipo 2 è caratterizzata da 2 elementi essenziali (Figura 1): l’insulino
resistenza, con una insufficiente utilizzazione del
glucosio da parte delle cellule che non rispondono adeguatamente alla stimolazione insulinica e
il difetto della beta-cellula con una inadeguata
secrezione di insulina. Anche se inizialmente il difetto è relativo (carenza insulinica relativa), ovvero
legato ad una produzione di insulina insufficiente a compensare la resistenza insulinica, con il
tempo la beta-cellula diminuisce progressivamente
la produzione di insulina fino ad un esaurimento
funzionale come conseguenza del perpetuarsi di
stimoli infiammatori e dannosi a carico della betacellula.
La progressiva perdita della funzione betacellulare influenza negativamente l’efficacia del
trattamento orale a lungo termine. È noto infatti
che, nella storia naturale del diabete di tipo 2, si
assiste con gli anni, alla perdita di efficacia del
trattamento in atto e alla necessità di aumentare il
dosaggio o il numero dei farmaci ipoglicemizzanti
orali, per raggiungere il target glicemico, fenomeno noto da anni come “fallimento secondario degli
ipoglicemizzanti orali”. Lo studio UKPDS ha infatti dimostrato che il trattamento ipoglicemizzante
provoca una iniziale riduzione dei livelli glicemici
e dell’emoglobina glicata con un successivo peggioramento del compenso glicemico nel tempo
(Figura 2). A prescindere dalla causa prima che
determina la perdita della funzione beta-cellulare,
è l’incremento stesso della glicemia ad accentuare il danno delle cellule beta. La glucotossicità si
manifesta fin dalle fasi iniziali del diabete, già con
valori di glicemia a digiuno superiori a 115 mg/dl.
Figura 1
Terapia insulinica nel diabete tipo 2. Quando?
Il trattamento del diabete di tipo 2 dovrebbe essere finalizzato alla correzione dei difetti fisiopatologici alla base della malattia, mirando pertanto
a correggere non solo l’insulino-resistenza, ma
anche il deficit d’insulina. Ciò al fine di mimare sia
la secrezione basale sia quella prandiale d’insulina
e di raggiungere gli obiettivi glicemici più idonei
per una prevenzione efficace delle complicanze croniche. Il goal primario del trattamento del
diabete di tipo 2 è infatti quello di ottenere il più
precocemente possibile un controllo glicemico
ottimale e costante nel tempo, evitando possibilmente il pericolo delle ipoglicemie.
52
Figura 2
Anche lo studio ADOPT ha effettivamente documentato come il fenomeno sia più evidente nei
pazienti trattati con una sulfonilurea, ma si verifichi anche in coloro che assumono metformina
e, in misura minore, rosiglitazone (glitazonico non
più in commercio in Italia) (Figura 3).
Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
non consentiva una condizione di “messa a riposo
funzionale” della beta-cellula.
Al di là del “riposo funzionale” della beta-cellula,
altre azioni dell’insulina possono tuttavia intervenire in questo processo. E’ noto infatti, che l’insulina svolge un ruolo anti-infiammatorio e che la
stimolazione del recettore insulinico si traduce in
segnali intracellulari diretti a favorire la crescita e
la sopravvivenza delle beta-cellule.
Figura 3
La terapia insulinica nel diabete tipo 2 diventa
spesso indispensabile, quindi, per raggiungere e
mantenere un buon controllo glicemico nel corso
della malattia.
Più recentemente, lo studio condotto da Weng e
collaboratori (Figura 4 e 5) su 382 pazienti con
diabete di tipo 2 di nuova diagnosi ha messo in
evidenza che la terapia insulinica è più efficace
della terapia orale nel conseguire e mantenere
nel tempo la remissione del diabete. Tale studio
innanzitutto conferma quanto era stato osservato
anche in precedenti ricerche, che, analogamente,
avevano dimostrato come una terapia insulinica
intensiva, eseguita per un breve periodo in una
fase iniziale della storia naturale, fosse in grado
di restituire una normale funzione beta-cellulare
e quindi una remissione del diabete per un lasso
variabile di tempo. Un aspetto innovativo di questo studio, rispetto ai precedenti è, tuttavia, l’aver
messo a confronto la terapia insulinica con la terapia ipoglicemizzante orale consistente per lo più
nella associazione di metformina e di gliclazide,
dimostrando la superiorità del primo trattamento rispetto al secondo. In entrambi i casi, è stato
eliminato il ruolo della glucotossicità e si è perciò
ottenuto un parziale e temporaneo recupero della
funzione beta-cellulare e, quindi, una remissione
transitoria del diabete, sia pure di diversa durata.
Pertanto, la maggiore efficacia dell’insulina deve
essere attribuita a effetti che prescindono dalla
normalizzazione della glicemia.
Uno di questi effetti può essere riconosciuto nella
quiescenza funzionale delle beta-cellule, ottenuta con l’insulina e non con la terapia orale, che,
nella maggior parte dei casi trattati, comprendeva,
come già citato, insieme alla metformina, anche
la gliclazide, un secretagogo, che, in quanto tale,
Figura 4
Figura 5
L’importanza di una introduzione precoce di insulina nel trattamento del diabete tipo 2 si evince
anche dalla consensus statement ADA/EASD e
dagli Standard di cura italiani, SID/AMD in cui si
raccomanda un più precoce impiego dell’insulina, già in aggiunta alla metformina, nel caso di
scompenso metabolico significativo (Figura 6 e
7). Anche le linee guida canadesi raccomandano il
ricorso al trattamento insulinico al momento della
diagnosi di diabete tipo 2 qualora i livelli di HbA1c
siano ≥9%. Un trattamento così precoce potrebbe, tra l’altro, avere effetti diretti sui meccanismi
fisiopatologici della malattia.
53
WINTER SCHOOL
prandiale (insulina rapida o analogo rapido subito
prima di ogni pasto). Tale approccio agisce soprattutto normalizzando i livelli di glicemia postprandiale, ma è associato ad un rischio maggiore di
effetti collaterali (ipoglicemia, incremento ponderale), come dimostrato nello studio 4T (The treat
to target trial) (Figura 8).
Figura 6
Figura 8
Figura 7
Terapia insulinica nel diabete tipo 2. Come?
Una volta deciso di instaurare una terapia insulinica, bisognerà decidere quale protocollo terapeutico utilizzare tenendo ben presente che gli obiettivi
sono volti al raggiungimento di valori glicemici
pre e post prandiali e di HbA1c ottimali per età e
comorbidità. Oltre che ad evitare il rischio sia di
ipoglicemie sia di eccessivo incremento ponderale.
Attualmente non esistono chiare indicazioni su
come iniziare la terapia insulinica in un paziente
con diabete di tipo 2. La scelta iniziale di somministrare una insulina basale (più comune) o prandiale dipenderà infatti dalle caratteristiche del
paziente (personalizzazione della terapia). Le linee
guida suggeriscono che nella maggior parte dei
casi è opportuno iniziare aggiungendo alla terapia
ipoglicemizzante orale una somministrazione di
insulina basale. Tale insulina a lunga durata d’azione sarebbe molto utile per ripristinare valori di
glicemia a digiuno normali e garantire sufficienti
livelli di insulina nel periodo notturno ed al risveglio. Esistono poi altre opzioni terapeutiche che
prevedono ad esempio l’utilizzo della sola insulina
54
Esiste infine uno schema di somministrazione
di insulina che consente di mimare al meglio la
fisiologica produzione di insulina endogena garantendo un buon controllo glicemico durante tutto
l’arco della giornata; tale schema prevede quattro
somministrazioni giornaliere, 3 boli pre-prandiali
di insulina regolare o di analogo rapido e una
somministrazione serale di insulina basale: basal/
bolus. Tale schema terapeutico alle volte risulta
essere limitato dalla sua complessità e dal grado di compliance del paziente. Sarà compito del
diabetologo condividere la scelta terapeutica con
il paziente cercando di renderlo edotto sul fatto
che una corretta gestione della terapia insulinica
può migliorare significativamente il suo controllo
metabolico.
Figura 9
Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
8. Holman RR et al; Three-year efficacy of complex
insulin regimens in type 2 diabetes; N Engl J Med.
2009; Oct 29;361 (18): 1736-47.
Figura 10
Per concludere, nel trattamento del diabete di tipo
2 la terapia insulinica non è più considerata come
una opzione finale, ma può essere instaurata
quanto prima possibile, se necessario. La combinazione di insulina e ipoglicemizzanti orali o una
terapia multi iniettiva garantisce spesso un controllo glicemico migliore della sola terapia orale; il
ripristino di più fisiologici livelli di insulina contribuisce a migliorare la tolleranza glucidica, riducendo il rischio di ipoglicemia e delle complicanze
croniche del diabete.
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371:1753-1760;
55
WINTER SCHOOL
Diagnosi e trattamento della neuropatia diabetica
Vincenza Spallone
Endocrinologia, Dipartimento di Medicina dei Sistemi, Università di Tor Vergata, Roma
Le neuropatie diabetiche
Le neuropatie diabetiche sono entità cliniche eterogenee per fattori di rischio, meccanismi patogenetici, alterazioni istopatologiche, distribuzione
regionale, presentazione di segni e sintomi, storia
naturale e prognosi (1-3) (Figure 1 e 2).
Figura 1. Classificazione delle neuropatie diabetiche
nomica diabetica (NAD) si presenta con una fase
subclinica diagnosticata solo con misure strumentali e una clinica con segni e sintomi, quali l’ipotensione ortostatica, la gastroparesi, la diarrea diabetica e la disfunzione urogenitale. La localizzazione
cardiovascolare della NAD (neuropatia autonomica
cardiovascolare, CAN) è presente in circa il 20% dei
pazienti diabetici e aumenta con l’età e la durata di
malattia fino al 65%. La CAN è associata ad incremento della mortalità e morbilità attraverso meccanismi non del tutto esplorati (Figura 4) (5, 6).
Figura 3. Rilevanza clinica della polineuropatia diabetica
Figura 2. Definizioni delle forme più comuni
Figura 4. Significato prognostico della neuropatia
autonomica diabetica
La polineuropatia sensitivomotoria simmetrica distale diabetica (PND) è la forma più frequente, con
una prevalenza del 30%, e si caratterizza per le ricadute sulla qualità di vita (QoL) della sua forma
dolorosa (neuropatia diabetica dolorosa, NDD), che
rappresenta circa la metà dei casi, e per il ruolo patogenetico dei deficit sensitivomotori nelle lesioni
del piede diabetico (Figura 3). La neuropatia auto-
56
Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
Diagnosi della PND
La diagnosi clinica di PND si basa sulla ricerca dei
sintomi, preferibilmente con questionari strutturati e validati, e segni con un esame neurologico focalizzato sugli arti inferiori, che esplori in particolare
la funzione sensitiva nelle sue diverse modalità, e
comprenda anche l’ispezione del piede (Figura 5)
(1, 3, 7, 8).
Figura 5. Componenti della valutazione diagnostica
della polineuropatia diabetica
distale, o un impegno motorio importante, deve
costituire motivo di invio al neurologo o di indagini elettroneurografiche. Inoltre, può essere utile
escludere la presenza di deficit della vitamina B12 e
di gammopatie monoclonali come cause o concause
di polineuropatia lunghezza dipendente.
Sistemi strutturati a punteggio per l’esame neurologico sono stati validati rispetto al gold standard
rappresentato dall’esame elettroneurografico, dimostrando un’accettabile accuratezza diagnostica.
L’esame neurologico può avvalersi di modalità di
valutazione quantitativa della sensibilità, quale la
percezione vibratoria o la sensibilità pressoria al
monofilamento, quest’ultima di semplice esecuzione e utilizzabile insieme con l’ispezione del piede
per uno screening rapido dei pazienti a rischio di
ulcerazione del piede (3).
Occorrono alcune cautele in questo approccio diagnostico, in primis il fatto che l’esame neurologico è operatore dipendente. Inoltre, un alto grado
di certezza diagnostica si raggiunge solo con la
conferma elettroneurografica dei sintomi e segni
neuropatici, come indicato dal Toronto Consensus
Panel sulla Neuropatia Diabetica (Figura 6) (1, 2).
Figura 6. Criteri per la diagnosi di polineuropatia
diabetica secondo la Consensus di Toronto
Nel paziente con diabete, infine, possono presentarsi neuropatie non diabetiche, come la stenosi
spinale e la CIDP, per cui una presentazione atipica di sintomi e segni, cioè una distribuzione asimmetrica, o non esclusivamente o prevalentemente
Valutazione delle piccole fibre
La disponibilità di nuove tecniche di studio delle
piccole fibre, quali la biopsia di cute per valutare in
maniera qualitativa e morfometrica le fibre nervose intraepidermiche (intraepidermal nerve fibre, IENF) e la microscopia confocale della cornea
(Corneal Confocal Microscopy, CCM) che misura
la ricca innervazione corneale ha richiamato l’attenzione sul coinvolgimento delle piccole fibre nella neuropatia diabetica. Vi sono alcune indicazioni
sulla sua precocità che anticiperebbe anche la diagnosi di diabete, sulla sua possibile presentazione
isolata, sulla sua maggiore suscettibilità agli interventi terapeutici rispetto alle misure tradizionali di
outcome (Figura 7) (9, 10).
Figura 7a. Studio morfologico delle piccole fibre con
la biopsia di cute
Figura 7b. Studio morfologico delle piccole fibre con
la microscopia confocale della cornea
Nel paziente diabetico può manifestarsi una polineuropatia isolata delle piccole fibre, non specifica
del diabete, caratterizzata dalla presenza di sintomi
sensitivi e segni di danno di queste fibre con distribuzione simmetrica e distale, e dalla documentazione di ridotta densità delle IENF alla biopsia di cute
e/o di ridotte soglie termiche con risparmio delle
grandi fibre sensitive e quindi normalità dell’esame elettroneurografico del nervo surale (9, 10).
57
WINTER SCHOOL
Percorso diagnostico nella NDD
Il percorso che porta alla diagnosi di NDD comprende l’identificazione e la valutazione del dolore
neuropatico e l’accertamento della presenza di
PND, a cui il dolore neuropatico deve essere attribuito per definizione. Gli elementi chiave di questo
percorso sono quindi: 1. accertamento della presenza di PND; 2. diagnosi e valutazione del dolore
neuropatico; 3. diagnosi differenziale verso cause
diverse di neuropatia o di dolore (7, 8) (Figura 5).
Il dolore neuropatico è il dolore che nasce come diretta conseguenza di una lesione o malattia del
sistema somatosensitivo (4) e nella NDD ha caratteristiche peculiari (Figura 9).
Figura 9. Caratteristiche del dolore neuropatico della
polineuropatia diabetica dolorosa
La recente disponibilità di valori normativi consente oggi la diagnosi di neuropatia delle piccole fibre
nel singolo paziente (9). La biopsia di cute a livello
distale con quantificazione della densità delle IENF
è considerata una tecnica validata e affidabile per
la diagnosi della neuropatia delle piccole fibre (1, 9,
10) (Figura 8).
Figura 8. Criteri per la diagnosi di neuropatia delle
piccole fibre nel diabete secondo la Consenus di Toronto
Viste le caratteristiche del dolore come fenomeno
clinico soggettivo non misurabile oggettivamente,
sono stati sviluppati questionari autosomministrati per la diagnosi di dolore neuropatico (strumenti
di screening), altri per la sua valutazione (questionari di valutazione) (11) e per il follow-up. L’uso di
strumenti validati di misura del dolore è parte essenziale sia del processo diagnostico sia del trattamento della NDD.
Il principale vantaggio degli screening tool è di identificare potenziali pazienti con dolore neuropatico
particolarmente da parte di non specialisti, con il
limite però di una sensibilità imperfetta che impedisce di catturare il 10-20% dei pazienti con dolore
neuropatico (11). Il DN4 è uno dei più usati (12) (Figura 10).
Figura 10. Lo screening tool DN4
La valutazione dell’intensità del dolore avviene mediante l’uso di scale analogiche visive (VAS), o ordi-
58
Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
Figura 12. Sintomi autonomici
nali numeriche (NRS) o verbali (VRS) (11). Il Neuropathic Pain Symptom Inventory (NPSI) (11, 13) è un
autoquestionario per distinguere e quantificare 5
distinte dimensioni clinicamente rilevanti del dolore
neuropatico (componente superficiale e profonda
del dolore spontaneo continuo, dolore parossistico,
dolore evocato e parestesie/disestesie). Il Brief Pain
Inventory (BPI) è un test multidimensionale costituito da una immagine del corpo umano, 8 item
sull’intensità del dolore e 7 sulla interferenza del
dolore sulla vita quotidiana. È essenziale valutare
la risposta al trattamento considerando anche la
percezione soggettiva di cambiamento del paziente.
La figura 11 propone un algoritmo del percorso diagnostico della NDD (14).
Figura 11. Algoritmo diagnostico della polineuropatia
diabetica dolorosa
Diagnosi della CAN
Diverse modalità diagnostiche sono disponibili per
la valutazione della CAN. I sintomi cardiovascolari
sono aspecifici in particolare quelli ortostatici. Per
il carattere invalidante dei sintomi autonomici la
loro presenza va comunque ricercata in ogni paziente e, se confermata, richiede ulteriori indagini
diagnostiche (Figura 12) (5).
Le forme cliniche di CAN possono essere sospettate e individuate con modalità facilmente accessibili
e diffuse in ambito clinico, ricercando la presenza
di tachicardia a riposo, ipotensione ortostatica,
allungamento dell’intervallo QT all’ECG e di nondipping o reverse dipping (perdita completa della
caduta pressoria notturna) al monitoraggio ambulatoriale della pressione arteriosa (Figura 13). Con
l’eccezione della tachicardia a riposo, questi segni
clinici sono marker specifici (specificità 86-98%)
anche se non sensibili di CAN (sensibilità 26-31%)
(6).
Figura 13. Segni clinici di neuropatia autonomica cardiovascolare
I test cardiovascolari sono considerati tuttora misure standardizzate e d’alta accuratezza diagnostica e riconosciute come il gold standard nella valutazione della funzione autonomica cardiovascolare
(Figura 14) (5, 6).
Figura 14. Gold standard nella diagnosi di neuropatia
autonomica cardiovascolare
59
WINTER SCHOOL
Figura 16. Utilità della diagnosi di neuropatia autonomica cardiovascolare
I criteri per la diagnosi e stadiazione di CAN sono:
un test patologico individua una condizione di CAN
possibile o precoce; almeno due test patologici sono
richiesti per la diagnosi di CAN certa o confermata;
la presenza di ipotensione ortostatica oltre all’anormalità dei test di frequenza cardiaca identifica
una CAN grave o avanzata (Figura 15) (1, 6).
Figura 15. Stadiazione della neuropatia autonomica
cardiovascolare
La diagnosi di CAN consente di trattare le forme
sintomatiche e viene proposta nella stratificazione del rischio cardiovascolare nei pazienti diabetici asintomatici (Figura 16). I test cardiovascolari
sono anche necessari per la diagnosi delle forme
cliniche non cardiovascolari di NAD suscettibili di
trattamento (6).
Altre modalità diagnostiche come le misure di variabilità della frequenza cardiaca e di sensibilità del
baroriflesso sono usate più spesso in ricerca o
come end-point negli studi clinici, ma stanno avendo una crescente applicazione anche in ambito clinico (Figura 17) (6).
Figura 17. Indicazioni per le diverse modalità diagnostiche della neuropatia autonomica diabetica
Terapia delle neuropatie diabetiche
Correlati clinici e patogenesi della PND
Fattori di rischio e correlati clinici della PND sono
illlustrati nella Figura 18.
Figura 18. Correlati clinici della polineuropatia diabetica
Negli ultimi anni sono cresciute le conoscenze sui
meccanismi patogenetici della neuropatia
diabetica, che molteplici, per quanto distinti, sono
mutuamente interconnessi e sinergistici, trovando
molti di essi un punto di arrivo comune nell’aumentare lo stress ossidativo-nitrosativo, nell’al-
60
Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
terata espressione genica, e nell’infiammazione, con esito in danno e morte cellulare.
I meccanismi patogenetici identificati sono nella
Figura 19 che include anche meccanismi patogenetici emergenti come l’attivazione della PARP e della
MAPK (Figura 19).
Figura 19. Patogenesi della polineuropatia diabetica
peptide C, actovegina, combinazioni di vitamine B, tuttavia insufficienti per raggiungere l’approvazione da parte delle agenzie regolatorie.
Resta l’evidenza del ruolo del controllo metabolico
nel prevenire l’insorgenza e l’evoluzione della neuropatia, con effetti anche a
distanza dal periodo di controllo glicemico intensivo come risulta nel diabete di tipo 1 dai dati dello
studio EDIC, mentre meno eclatanti e univoci sono
i dati nel diabete di tipo 2 (Figura 21 e 22).
Figura 21. Effetti del controllo glicemico su sviluppo e
progressione della polineuropatia diabetica
Terapia patogenetica della polineuropatia diabetica
I diversi meccanismi patogenetici sono diventati
target per varie terapie farmacologiche patogenetiche, che pur promettenti sulla base dei dati sperimentali, sono risultate però deludenti
quando applicati all’uomo (Figura 20).
Figura 20. Studi clinici per il trattamento “diseasemodifying” della polineuropatia diabetica
Ad eccezione dell’Epalrestat in commercio in
Giappone, tutti gli altri inibitori dell’aldosoreduttasi sono stati ritirati o mai immessi in commercio a causa della tossicità o della inefficacia. Vi
sono alcuni dati positivi con acido alfa-lipico,
Figura 22. Cochrane sul ruolo del controllo glicemico
nella polineuropatia diabetica
Per il fallimento di molti degli studi clinici nella
PND, si è avuta una riflessione critica sulla loro
impostazione soprattutto in relazione al disegno e
agli end point adottati, che risulterebbero poco
sensibili nell’evidenziare, nei tempi di uno studio
clinico, regressione o non progressione nel gruppo in trattamento con il farmaco attivo rispetto al
placebo. Inoltre negli ultimi studi clinici la progres-
61
WINTER SCHOOL
sione dei deficit sensitivi nel gruppo placebo è risultata particolarmente lenta, probabilmente per il
miglioramento del trattamento del diabete, e
la risposta placebo più consistente dell’atteso.
Metodiche di valutazione delle piccole fibre, come
la biopsia cutanea o la CCM, potrebbero rappresentare degli end point surrogati della neuropatia
diabetica, più prontamente suscettibili all’intervento terapeutico.
Figura 23. Trattamento sintomatico del dolore neuropatico nella neuropatia diabetica dolorosa
Figura 24. Farmaci per il dolore neuropatico con
Number Needed to Treat, Number Needed to Harm
e Relative Benefit secondo le meta-analisi Cochrane
disponibili.
Terapia della neuropatia diabetica dolorosa
Farmaci efficaci si sono resi invece disponibili per
il trattamento del dolore neuropatico, che resta
comunque ancor oggi problematico. Le maggiori
criticità nel trattamento sono la sottodiagnosi, il
mancato (dal 25 al 39%) o ritardato trattamento,
l’uso di farmaci non specifici, una strategia inadeguata riguardo a dosi, titolazione, durata del trial,
monitoraggio di efficacia e sicurezza, e infine una
difficoltà intrinseca del trattamento. Requisiti per
un corretto approccio terapeutico sono quindi la
conoscenza dei farmaci disponibili, una scelta che
tenga conto della loro efficacia e sicurezza e delle
comorbilità, e quindi il monitoraggio della risposta
terapeutica e di eventuali eventi avversi.
Gli antidepressivi triciclici, gli antidepressivi serotoninergici noradrenergici (SNRI) come la duloxetina e gli α2δ ligandi gabapentin e pregabalin
sono considerati i farmaci di prima linea, mentre
oppioidi o similoppioidi come tramadolo e ossicodone sono opzioni di seconda linea secondo le linee
guida disponibili (Figura 23 e 24) (14-19).
62
Figura 25. Raccomandazioni terapeutiche farmacologiche nella neuropatia diabetica dolorosa
Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
Figura 26. Gestione farmacologica stepwise nella
neuropatia diabetica dolorosa
Una risposta terapeutica insufficiente può richiedere il passaggio da una classe di farmaci ad un’altra o la combinazione tra farmaci di diversa classe
quando il primo usato ha avuto efficacia parziale.
Gli studi controllati di combinazione dei farmaci
sono comunque scarsi e hanno solitamente indicato migliore efficacia e sicurezza dei farmaci in
combinazione rispetto alla monosomministrazione,
benché il recente studio COMBO non abbia confermato la superiorità della combinazione pregabalinduloxetina sulla monoterapia ad alte dosi dei due
farmaci (Figura 27).
mero molto limitato di studi controllati nel dolore
neuropatico, dalla difficoltà di avere un credibile
placebo ‘attivo’, e dalla relativa breve esperienza
con le metodiche più recenti (Figura 28) (20, 21).
Figura 28. Terapie locali e fisiche della neuropatia
diabetica dolorosa
Trattamento della neuropatia autonomica diabetica
La Figura 29 mostra i correlati clinici della NAD, in
parte ma non completamente sovrapponibili a
quanto osservato per la PND (6).
Figura 29. Correlati clinici della neuropatia autonomica diabetica
Figura 27. Combinazione di farmaci nel trattamento
della neuropatia diabetica dolorosa
Stanno assumendo un ruolo di rilievo anche terapie topiche con capsaicina o lidocaina (applicabili in
forme circoscritte di dolore) e terapie fisiche, tra
cui quelle di neurostimolazione, dotate di maggior
sicurezza rispetto al trattamento farmacologico.
Una valutazione conclusiva della efficacia delle
terapie fisiche è comunque resa difficoltosa dal nu-
L’intervento sullo stile di vita ha mostrato qualche
beneficio preventivo su alcuni indici di funzione
autonomica cardiovascolare (misure di heart rate
variability) in particolare nel prediabete e diabete
di tipo 2.
Il controllo glicemico ha un ruolo preventivo nel diabete di tipo 1 mentre in quello di tipo
2 un approccio a diversi fattori di rischio cardiovascolare sembra necessario per ritardar-
63
WINTER SCHOOL
ne sviluppo e progressione (come dimostrato nello studio STENO 2) (Figura 30 e 31) (6).
La presenza di segni clinici di CAN richiede un
intervento mirato che ne riduca le conseguenze
prognostiche, come per l’ipertensione notturna
o l’ipotensione ortostatica. Le terapie delle forme
sintomatiche non cardiovascolari sono citate nella
Figura 32.
Figura 32. Trattamento delle forme non cardiovascolari.
Figura 30. Terapia della neuropatia autonomica diabetica
Figura 31. Raccomandazioni della Consensus di Toronto sulla gestione della neuropatia autonomica
diabetica.
64
Messaggi chiave
1. La diagnosi di PND clinica si basa sulla valutazione dei sintomi neuropatici e dei segni di
deficit sensitivi e motori. Questionari e sistemi
strutturati a punteggio per l’esame neurologico possono migliorare standardizzazione e riproducibilità.
2. Per una diagnosi confermata di PND occorre
l’anormalità dell’esame elettroneurografico in
aggiunta ai sintomi e/o ai segni.
3. Quadri atipici richiedono sempre il ricorso al
neurologo e lo studio elettroneurografico.
4. La presenza di sintomi e segni riferibili a danno
delle piccole fibre nervose in assenza di anormalità della conduzione nervosa può suggerire
la presenza di neuropatia delle piccole fibre da
confermare con la biopsia di cute o lo studio
delle soglie termiche.
5. Per la diagnosi di NDD occorre dimostrare la
presenza di dolore neuropatico riferibile alla
PND: l’uso di screening tool è utile nel discriminare il dolore neuropatico da quello nocicettivo.
6. I test cardiovascolari sono il gold standard per
la diagnosi di NAD.
7. L’identificazione dei segni clinici di CAN (allungamento dell’intervallo QT, ipotensione ortostatica, reverse dipping) consente di mettere in atto utili misure terapeutiche, mentre la
diagnosi delle forme asintomatiche può servire
alla stratificazione del rischio cardiovascolare
nel singolo paziente.
8. I test cardiovascolari sono anche necessari per
la diagnosi delle forme cliniche non cardiovascolari di NAD suscettibili di trattamento.
9. Il ruolo del controllo glicemico nella preven-
Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
zione della PND e della neuropatia autonomica cardiovascolare è confermato nel diabete
di tipo 1 dagli studi DCCT e EDIC, mentre nel
diabete di tipo 2 le evidenze sono meno conclusive e sembra necessario un approccio mirato
anche ad altri fattori di rischio.
10. Non vi è per nessuna terapia patogenetica farmacologica evidenza di efficacia e sicurezza
che ne consenta il riconoscimento da parte
delle agenzie regolatorie.
11. La gestione terapeutica della NDD richiede conoscenza di efficacia e sicurezza dei farmaci
per il dolore neuropatico, scelta tra i farmaci di
prima linea in base alle comorbilità, e monitoraggio della risposta al trattamento in termini
di efficacia e eventi avversi.
12. Per l’efficacia parziale o la limitata tollerabilità
dei farmaci, può essere necessario il passaggio
ad altra classe di farmaci o la combinazione di
farmaci di diverse classi, ma non vi è evidenza
conclusiva del vantaggio di tale approccio sulla
monoterapia ad alte dosi.
13. Per il loro favorevole profilo di sicurezza, le
terapie fisiche non invasive sono una opzione
terapeutica da considerare.
14. Il coinvolgimento della persona con dolore neuropatico e la precocità di intervento sono componenti essenziali della strategia terapeutica.
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66
Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
Diagnosi e Trattamento della Nefropatia Diabetica
Giuseppe Penno
U.O. di Malattie Metaboliche e Diabetologia
Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale
Azienda Ospedaliero Universitaria di Pisa
Introducing
L’incidenza di malattia renale cronica (Chronic
Kidney Disease, CKD) e quella di insufficienza
renale (End-Stage Renal Disease, ESRD) sono in
progressivo aumento nella popolazione generale.
Tale aumento è dovuto sia all’invecchiamento della
popolazione che alla più efficace protezione cardiovascolare ma, soprattutto, all’aumentata prevalenza di obesità, diabete ed ipertensione.
I soggetti con CKD e ancor più quelli con ESRD
presentano un elevato rischio cardiovascolare ed
una aumentata incidenza di angina, infarto del
miocardio, scompenso cardiaco, ictus, patologia
vascolare periferica, aritmie e morte improvvisa,
mortalità per cause cardiovascolari e per tutte le
cause (figura 1 e figura 2) (1).
range of eGFR and ACR (Figure 1, panels A and C
and Figure 2, panels A and C). When we set separate references points in the diabetes and no diabetes
groups to assess an interaction with diabetes specifically, HR for low eGFR and high ACR were much
the same in participants with and without diabetes,
showing no point-wise interaction (Figure 1, panels
B and D and Figure 2, panels B and D)
Figura 2 - Hazard ratios for all-cause and cardiovascular mortality in the combined general and highrisk populations according to ACR in participants
with and without diabetes. (A, B; all-cause mortality; C, D: cardiovascular mortality).
Figura 1. Hazard ratios for all-cause and cardiovascular mortality in the combined general and highrisk populations according to eGFR in individuals
with and without diabetes. A, B: all-cause mortality;
C, D: cardiovascular mortality. In the 30 combined
general population and high-risk cohorts with data
for all-cause mortality, 75,306 deaths occurred during a mean follow-up of 8•5 years (SD 5•0). In the
23 studies with data for cardiovascular mortality,
21,237 deaths occurred from cardiovascular disease during a mean follow-up of 9•2 years (SD 4•9).
When we set one reference point in the no diabetes
group, HR for all-cause mortality and cardiovascular mortality at a given eGFR or ACR (Figure 2) were
1.2-1.9 times higher in participants with diabetes
than in those without diabetes across the entire
Il diabete è la principale causa di CKD e di ESRD
sia negli Stati Uniti che in numerosi paesi europei
(2). Anche in Italia l’incidenza di ESRD attribuibile al diabete è andata rapidamente crescendo.
Nel 2009, in Italia, il diabete è stato causa del
19.6% dei nuovi casi di ESRD ed era secondo solo
all’ipertensione (25.3% vs 34.3%) quale condizione di comorbidità nei casi incidenti di ESRD (3).
In generale, sia l’incidenza di CKD che quella di
ESRD sono in progressiva riduzione nei soggetti
con diabete tipo 1, ma in progressivo aumento nei
pazienti con diabete tipo 2. E’ tuttavia necessario
osservare che negli Stati Uniti nel contesto di un
progressivo aumento dell’incidenza del diabete (2),
sono stati registrati nell’ultimo decennio sia una
stabilizzazione nel numero assoluto di nuovi casi
di ESRD dovuti al diabete che una riduzione della
percentuale di soggetti diabetici che entrano nei
programmi di trattamento per l’ESRD. Tali risul-
67
WINTER SCHOOL
tati sono probabilmente da attribuirsi all’efficacia
degli interventi di diagnosi precoce e di prevenzione dell’insorgenza e della progressione della
nefropatia diabetica (ND) basati soprattutto sul
controllo della glicemia e della pressione arteriosa,
ma anche della dislipidemia (4).
Fattori di rischio
La durata del diabete ed il controllo glicemico, espressioni dell’“intensità” dell’esposizione
all’iper-glicemia, sono i principali fattori di rischio
per la ND. EURODIAB (EURODIAB IDDM Complications Study) (5) e DCCT (Diabetes Control and
Complications Trial) (6) nel diabete tipo 1, UKPDS
(United Kingdom Prospective Diabetes Study)
(7) e ADVANCE (Action in Diabetes and Vascular
Disease; figura 3) (8)
Figura 3 – ADVANCE trial: treatment effects on
end-stage renal disease (ESRD, requirement for
dialysis or renal transplantation), total kidney
events, renal death, doubling of creatinine to above
200 µmol/l, new-onset macroalbuminuria or microalbuminuria, and progression or regression of
albuminuria, were then assessed. After a median of
5 years, the mean hemoglobin A1c level was 6.5% in
the intensive group, and 7.3% in the standard group.
Intensive glucose control significantly reduced the
risk of ESRD by 65%, microalbuminuria by 9%, and
macroalbuminuria by 30%. The progression of albuminuria was significantly reduced by 10% and its
regression significantly increased by 15%.
nel diabete tipo 2 dimostrano una stretta relazione tra livelli di HbA1c e progressione della CKD
o di alcuni aspetti della CKD, principalmente
l’albuminuria. Fumo di sigaretta, dislipidemia e
condizioni associate all’insulino-resistenza (ipertrigliceridemia, sindrome metabolica, adiposità
addominale) sono stati identificati quali altrettanti
fattori di rischio indipendenti (9, 10). L’aumento
della pressione arteriosa rappresenta l’altro fondamentale fattore coinvolto nell’induzione e nella
progressione della ND. Forte, ampiamente documentata ed ininterrotta è la relazione tra pres-
68
sione arteriosa sistemica e declino della funzione
renale (11). Livelli di albuminuria nel range alto di
normalità, rappresentano un indipendente fattore
di rischio per la comparsa della microalbuminuria,
mentre la proteinuria contribuisce di per se al
danno glomerulare e tubulare ed è, sia nel diabete
tipo 1 che nel tipo 2, un importante predittore di
insufficienza renale (12). Sesso maschile, appartenenza razziale o etnica (in relazione alla diversa
predisposizione all’ipertensione) e familiarità per
ipertensione arteriosa, per nefropatie o per malattie cardiovascolari sono associati ad un aumentato rischio di sviluppare la microalbuminuria e la
ND. L’importanza di fattori genetici è dimostrata
dalle osservazioni epidemiologiche, cioè dal profilo
dell’incidenza e della prevalenza della nefropatia in funzione della durata del diabete (ridursi
dell’incidenza della ND all’aumentare della durata
quasi a suggerire l’esaurirsi della popolazione
geneticamente suscettibile), nonché dalla forte aggregazione familiare della ND. Benchè ampiamente
esplorati in studi caso-controllo di geni candidati
e, più recentemente, in studi “genome-wide” i
fattori genetici correlati alla ND rimangono ampiamente elusivi (13).
Inquadramento clinico
La storia naturale della ND, sebbene ridisegnata
dalle strategie di prevenzione e di intervento, è
descritta da modificazioni più o meno aspecifiche,
talora distinte altre volte strettamente integrate,
sia della funzione renale (glomerular filtration
rate, GFR) che dell’escrezione urinaria di albumina
(urinary albumin excretion, UAE) (tabella 1).
Tabella 1 – Paradigmi tradizionali della storia naturale e stadiazione della nefropatia diabetica
Il processo, geneticamente modulato, inizia, almeno nel diabete tipo 1, in presenza di una normale
UAE, con ipertrofia renale (ipertrofia tubulare) e
iperfiltrazione associate a ipertensione intraglomerulare. L’iperfiltrazione, di per se correlata ad
un aumento del rischio di sviluppare la ND (14,
Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
15), prelude ad alterazioni delle proprietà di filtro
della barriera glomerulare a cui conseguono, in
condizioni di completo silenzio clinico, un progressivo aumento dell’UAE fino alla microalbuminuria.
Quest’ultima, definita come rapporto tra albumina
e creatinina urinarie (A/C ratio) compreso tra 30
e 299 mg/g è considerata il più semplice e sensibile parametro per rilevare il rischio di nefropatia. Sia nel diabete tipo 1 che nel tipo 2, ne sono
stati riconosciuti, confermati e ridefiniti dopo gli
studi iniziali, il valore predittivo per ND, ESRD e
morbilità/mortalità per cause cardiovascolari (16).
Progressive alterazioni strutturali glomerulari,
vascolari e tubulo-interstiziali, retinopatia diabetica, aumento della pressione arteriosa, sfavorevole
profilo lipidico (sindrome metabolica), attivazione
del processo infiammatorio (17), disfunzione ed
attivazione endoteliale (18-20), insulino-resistenza
si associano alla comparsa della microalbuminuria sia nel diabete tipo 1 che nel diabete tipo 2, e
preludono alla progressione verso la proteinuria
e la perdita di GFR (21). Sia nel diabete tipo 1 che
nel tipo 2, la prevalenza di microalbuminuria è
pari a circa il 20%. La microalbuminuria e talvolta
anche la ND conclamata, raramente riscontrate
nei primi 5-7 anni dopo l’insorgenza del diabete di
tipo 1, possono essere presenti già alla diagnosi,
anche nel 10-15% dei casi, nei soggetti con diabete
tipo 2 (22). In entrambi i contesti, diabete tipo 1 e
tipo 2, la microalbuminuria può regredire, rimanere a lungo nel tempo nel range che la identifica,
oppure progredire (23). Quando progredisce, in
media con un aumento del 10-15% per anno, evolve verso la macroalbuminuria (A/C >300 mg/g;
proteinuria >500 mg/24 ore) e, eventualmente,
verso la sindrome nefrosica (proteinuria >3.5 g/24
ore). Al comparire della macroalbuminuria, ma già
in presenza di microalbuminuria, il GFR comincia
a ridursi progressivamente (21, 22). Dopo 20 anni
dalla diagnosi, la ND conclamata si manifesta in
circa il 20% dei pazienti diabetici siano essi di tipo
1 che di tipo 2. La riduzione del GFR (che identifica la malattia renale cronica, CKD), graduale,
progressiva e modificabile dal trattamento, procede in modo estremamente variabile con velocità
pari a 2-20 ml/min per anno fino, eventualmente,
all’ESRD. L’ESRD non interessa più del 2-4% dei
diabetici con CKD anche per la “competizione”
con una elevata morbilità e mortalità cardiovascolare (22, 24).
Diagnostica di laboratorio
La valutazione dell’albuminuria deve essere effettuata preferibilmente attraverso la misurazione su
urine “early-morning” del rapporto albuminuria/
creatininuria (albumin-to-creatinine ratio, ACR,
mg/g o µg/mg). L’analisi sul campione di urine
“early morning” per il calcolo dell’ACR è, per la
sua semplicità, la metodica di screening raccomandata (25, 26). Al contrario, la misurazione
della sola concentrazione urinaria dell’albumina
senza il contemporaneo dosaggio della creatinina
urinaria è suscettibile di falsi positivi e negativi per le ampie variazioni delle concentrazioni
urinarie e, pertanto, non è raccomandata. La
valutazione dell’UAE, può essere anche effettuata
attraverso altre modalità: a. misurazione (mg/24h)
su raccolta urinaria delle 24 ore; b. misurazione
su raccolta urinaria temporizzata, preferibilmente
notturna (overnight; µg/min). Queste misurazioni,
tuttavia, sono più indaginose e poco aggiungono
in termini di precisione ed accuratezza. La stadiazione dei livelli dell’UAE è riportata in tabella 2.
Tabella 2 - Definizione delle alterazioni dell’escrezione urinaria dell’albumina: preferire la raccolta
delle urine early-morning, il dosaggio contemporaneo di albumina e creatinina urinarie, l’espressione
del risultato come rapporto albumina/creatinina, la
stratificazione dei risultati indipendentemente dal
sesso (nella tabella colonna dati di destra).
Lo screening dell’UAE è raccomandato almeno
annualmente nei soggetti con diabete tipo 1 e
durata del diabete >5 anni (la microalbuminuria
raramente compare nel paziente con DM tipo 1 di
breve durata) e in tutti i pazienti con diabete tipo
2 sin dal momento della diagnosi di malattia (significativa prevalenza di micro- macro-albuminuria
già alla diagnosi). In relazione all’elevata variabilità
biologica dell’escrezione urinaria di albumina, ma
anche della significativa variabilità analitica, le
linee guida invitano di solito a eseguire almeno
3 dosaggi dell’albuminuria nell’arco di 3-6 mesi
e suggeriscono che almeno 2 di questi debbano
risultare positivi per poter etichettare il paziente
come albuminurico. Tuttavia, queste raccoman-
69
WINTER SCHOOL
dazioni, che peraltro sono per lo più basate sull’opinione di esperti, non vengono sempre applicate
nella pratica clinica, per la difficoltà di eseguire
determinazioni multiple dell’albuminuria. In realtà,
nella popolazione generale, nonostante l’elevato
coefficiente di variazione, la performance di un
singolo dosaggio nel predire lo stadio di albuminuria è discreta (pari al 63% per la microalbuminuria). Un risultato simile è stato di recente riportato
in soggetti con diabete di tipo 2, peraltro con una
performance del singolo dosaggio dell’albuminuria
ancora migliore (pari all’84% per la microalbuminuria), a suggerire che misurazioni multiple
potrebbero non essere necessarie per stadiare i
pazienti in ambito sia clinico che epidemiologico
(27). Inoltre, lo screening deve essere eseguito
nelle donne diabetiche in gravidanza, in cui la
microalbuminuria (in assenza di infezioni delle vie
urinarie) è un forte predittore di pre-eclampsia.
La maggior parte delle Linee Guida concorda nel
raccomandare una sorveglianza almeno semestrale della micro-/macroalbuminuria sia per valutare
la risposta alla terapia, che per monitorare la
progressione della malattia. Sebbene non sia stato
formalmente dimostrato in studi prospettici, si
ritiene comunque che la riduzione della micro-/
macroalbuminuria possa associarsi ad un miglioramento della prognosi renale e cardiovascolare
(tabella 3).
frequentemente in presenza di microalbuminuria
e soprattutto di ND conclamata. La performance
della formula MDRD è accettabile nei pazienti
con ridotto GFR ma essa sottostima il GFR nelle
popolazioni con funzione renale normale. Una
nuova equazione (CKD-EPI) è stata recentemente
proposta dalla Chronic Kidney DIsease Epidemiology collaborations. La formula CKD-EPI ha
dimostrato performance migliore della equazione
MDRD specialmente ai valori di GFR più elevati.
In quanto più accurata della MDRD, l’equazione
CKD-EPI potrebbe sostituire la prima nella comune pratica clinica. MDRD e CKD-EPI possono
essere calcolate su http://www.kidney.org/professionals/KDOQI/gfr_calculator.cfm. L’equazione
CKD-EPI individua una minore prevalenza di CKD
e consente una miglior stratificazione del rischio
cardiorenale (28-30) (figura 4).
Tabella 3 – Screening e follow-up della nefropatia
diabetica
La creatinina sierica deve essere misurata almeno
annualmente per la stima del GFR e per stadiare
la CKD in tutti gli adulti con diabete indipendentemente dal grado di escrezione urinaria di albumina (tabella 3). La concentrazione della creatinina
non dovrebbe mai essere impiegata quale misura
diretta della funzione renale, ma piuttosto utilizzata per stimare il GFR. Il GFR stimato (eGFR) è
comunemente fornito nei referti di laboratorio. In
alternativa, può essere calcolato tramite semplici
formule quali la MDRD (Modification of Diet in
Renal Disease). L’eGFR dovrebbe essere valutato
annualmente nei pazienti normoalbuminurici e più
70
Figura 4 - The Chronic Kidney Disease Epidemiology Collaboration (CKD-EPI) equation more accurately estimates glomerular filtration rate (GFR)
than the Modification of Diet in Renal Disease
(MDRD) Study equation using the same variables,
especially at higher GFR. To evaluate risk implications of estimated GFR using the CKD-EPI equation
compared with the MDRD Study equation in populations with a broad range of demographic and clinical characteristics. A meta-analysis of data from
1.1 million adults (aged ≥18 years) from 25 general
population cohorts, 7 high-risk cohorts (of vascular
disease), and 13 CKD cohorts has been performed
(28).
Nel 2002, la National Kidney Foundation’s (NKF)/
Kidney Disease Outcomes Quality Initiative
(KDOQI) ha introdotto classificazione della CKD
riportata in tabella 4 (31), basata sui due marcatori
descritti sopra: l’albuminuria (o altri segni di dan-
Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
no renale) e il GFR, stimato a partire dai livelli di
creatininemia (31). La classificazione NKF/KDOQI
prevede stadio 1 e stadio 2 caratterizzati dalla
presenza di segni di danno renale, quali appunto
la micro- o la macroalbuminuria, in assenza di
riduzione dell’eGFR e quindi con valori di filtrato
glomerulare al di sopra di 90 e 60 ml/min/1,73m²,
rispettivamente. Gli stadi 3, 4 e 5 sono invece
caratterizzati da livelli progressivamente ridotti di
eGFR, al di sotto rispettivamente di 60, 30 e 15 ml/
min/1,73m², indipendentemente dalla presenza o
meno di albuminuria (31) (tabella 4 e figura 5).
solo eGFR ridotto, ovvero <60 ml/min/1,73 m²,
anche in assenza di segni di danno renale, con
il rischio di sovrastimare l’effettiva prevalenza
di questa condizione, soprattutto negli individui
anziani e di sesso femminile.
Di conseguenza, è stato suggerito dal Kidney
Disease Improving Global Outcomes (KDIGO) di
suddividere ulteriormente gli stadi 3-5 in base alla
presenza o meno di albuminuria oltre che prevedere una sottoclassificazione dello stadio 3 a
seconda che l’eGFR sia ≥45 o <45 ml/min/1,73 m²
(32) (figura 6).
Tabella 4 – Stadiazione della malattia renale cronica (CKD) secondo la National Kidney Foundation
(NKF) (31).
* Il danno renale è definito dalla presenza di albuminuria, anormalità del sedimento urinario, anormalità ematochimiche, anatomopatologiche o degli
esami strumentali.
Figura 6 - Classificazione della CKD secondo la National Kidney Foundation’s (NKF’s) Kidney Disease
Outcomes Quality Initiative (KDOQI) modificata
come suggerito da KDIGO (32).
Figura 5 - Classificazione della CKD secondo la National Kidney Foundation’s (NKF’s) Kidney Disease
Outcomes Quality Initiative (KDOQI) (31).
I primi 4 stadi vengono ulteriormente suddivisi
in base al fatto se il paziente sia stato o meno
trapiantato, nel qual caso vengono contrassegnati
con una “T”, e il quinto ed ultimo stadio in base al
fatto se il paziente sia o meno in dialisi, nel qual
caso viene contrassegnato con una “D”.
Questa classificazione è stata criticata per il fatto
di etichettare come affetti da CKD soggetti con
Contestualmente, è stata proposta da Tonelli e
coll. una classificazione alternativa basata sulla
stratificazione del rischio di progressione verso
l’ESRD, validata su un’ampia coorte di soggetti,
che tiene in maggior conto la presenza e il grado,
moderato o severo, dell’albuminuria (corrispondenti alla micro- e macroalbuminuria, rispettivamente) (figura 7) (33).
Poiché lo scopo di una classificazione è quello di
assegnare i pazienti con la prognosi peggiore agli
stadi più avanzati, rimane aperto il dibattito sull’adeguatezza del sistema NKF’s KDOQI riguardo
all’attribuzione di un rischio maggiore ai soggetti
con eGFR <60 ml/min/1,73 m² (ovvero stadi 3-5)
senza albuminuria rispetto a quelli con albuminuria ed eGFR normale o subnormale (ovvero
stadi 1-2) in riferimento sia all’outcome renale che
all’outcome CV, oltre che alle altre co-morbilità associate alla CKD. Un’altra finalità di un sistema di
classificazione è quella di riprodurre il più fedelmente possibile la storia naturale della condizione
71
WINTER SCHOOL
che tale sistema descrive, ovvero di far si che i diversi stadi si presentino effettivamente nell’ordine
di sequenza numerica. In base alla classificazione
NKF’s KDOQI, l’albuminuria dovrebbe comparire
prima della riduzione dell’eGFR, mentre nel sistema alternativo la categoria di rischio 1 prevede
indifferentemente la presenza di albuminuria o di
eGFR ridotto (45-59 ml/min/1,73 m²) (figura 7).
FIELD: fenofibrate intervention and event lowering
in diabetes; NEFRON 11: national evaluation of the
frequency of renal impairment coexisting with
NIDDM-11; NHANES III: thirdnational health and
nutrition examination survey; UKPDS: UK prospective diabetes study; ACCOMPLISH: Avoiding Cardiovascular Events through Combination Therapy in
Patients Living with Systolic Hypertension; ONTARGET/TRASCEND: Ongoing Telmisartan Alone and in
Combination With Ramipril Global End Point Trial/
Telmisartan Randomized Assessment Study in ACE
Intolerant Subjects With Cardiovascular Disease.
Insiemi distinti di fattori di rischio sono associati
allo sviluppo di albuminuria e ridotta funzione renale in armonia con l’ipotesi che le due condizioni
non sono inesorabilmente associate nei soggetti
con diabete tipo 2 (figura 9) (39).
Figura 7 - Classificazione alternativa della CKD basata sulla stratificazione del rischio di progressione
verso l’ESRD (34).
Numerosi studi, soprattutto nel diabete tipo 2,
dimostrano che modificazioni dell’UAE e modificazioni del GFR possono comparire indipendentemente l’una dall’altra. E’ possibile che macroalbuminuria compaia in soggetti con normale GFR e
viceversa che riduzioni del GFR possano intervenire in assenza dell’albuminuria (figura 8) (34-38).
Figura 8 – Prevalenza dell’insufficienza renale non
albuminurica nel diabete mellito. ADVANCE: action in diabetes and vascular disease: preterAx and
diamicroN-MR controlled evaluation; DCCT/EDIC:
diabetes control and complications trial/epidemiology of diabetes interventions and complications;
72
Figura 9 – Fenotipi di malattia renale cronica nello
studio RIACE.: soggetti senza CKD, n. 9.865 su
15.773 (62.5%); soggetti con CKD stadi 1-2, n. 2.949
(18.7%): tra questi, 87.7% presentavano microalbuminuria, 12.3% macroalbuminuria soggetti con CKD
stadi 3-5 non albuminurici, n. 2.959 (18.8%) soggeti
con CKD stadi 3-5 albuminurici, n. 1.286: tra questi,
70.9% presentavano microalbuminuria, 29.1% macroalbuminuria.
Ancora più importante, elevata albuminuria e
ridotto filtrato sono fattori di rischio indipendenti
per eventi cardiovascolari e renali (1). E’ evidente
che queste osservazioni depongono per una visione bi-dimensionale della nefropatia diabetica in
cui l’evoluzione spesso indipendente dei due principali parametri, albuminuria e GFR, che descrivono la progressione del danno renale identificano
fenotipi eterogenei che progrediscono in maniera
distinta per tendere eventualmente a congiungersi successivamente al progredire della patologia
renale. Da qui, l’ipotesi di due diversi percorsi,
Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
uno albuminurico e l’altro normoalbuminurico
nella progressione della patologia renale (danno
d’organo) verso l’insufficienza renale (figura 10)
(23, 40-42).
Figura 10 - Due diversi percorsi, uno albuminurico e
l’altro normoalbuminurico decrivono la progressione della patologia renale nel paziente diabetico.
Note
1. Due processi diversi, albuminurico e non albuminurico, descrivono la progressione del
danno renale nel paziente con diabete mellito
(“two-dimensional view of nephrophathy”).
2. Sia l’escrezione urinaria dell’albumina che il
GFR devono essere valutati precocemente e
periodicamente per individuare i soggetti con
nefropatia e definirne lo stadio di progressione.
3. Nella valutazione della nefropatia diabetica i
ruoli di albuminuria e GFR sono complementari e non competitivi.
4. Sebbene l’aumentare dell’albuminuria generalmente precede il declinare del GFR, molti pazienti seguono la via “non-albuminurica” verso
la compromissione della funzione renale (“nonalbuminuric pathway”).
5. Il decorso della patologia renale è simile nel
diabete tipo 1 e nel diabete tipo 2. Nel diabete
tipo 2 la nefropatia esprime fenotipi più eterogenei.
Terapia della nefropatia diabetica
Ottimizzare il controllo glicemico riduce il
rischio e la progressione della ND
Numerosi studi, sia osservazionali che di intervento, hanno identificato nel controllo della glicemia
il più forte fattore di rischio per la comparsa e la
progressione della microalbuminuria e della ND.
Nel diabete tipo 1 è stata talvolta descritta la presenza di un valore soglia di HbA1c (circa 8%) solo
al di sopra del quale il rischio di microalbuminuria
sembra aumentare progressivamente. Tuttavia,
EURODIAB e DCCT mostrano invece una relazione lineare o esponenziale, ma continua tra livelli
di HbA1c ed UAE. Altrettanto forte è l’associazione
tra HbA1c e UAE nel diabete tipo 2. Nell’UKPDS il
rischio di microalbuminuria aumenta dell’8% per
ogni variazione di 0.9% nei valori di HbA1c. Nell’ARIC (Aterosclerosis Risk In Communities), studio
prospettico con 11 anni di follow-up in soggetti
con diabete tipo 2, una relazione continua emerge
tra incidenza di CKD e valori di HbA1c. Inoltre,
tale associazione vale nei diversi “fenotipi” di
danno renale indipendentemente dalla presenza
o assenza di albuminuria, di retinopatia, o della
combinazione di albuminuria e retinopatia (43).
Nell’ADVANCE (Action in Diabetes and Vascular
Disease: Preterax and Diamicron Modified Release
Controlled Evaluation), sono proprio la microalbuminuria e la proteinuria tra le espressioni di
danno microangiopatico del diabete a risentire più
favorevolmente dell’ottimizzazione del controllo
glicemico, il cui ruolo sulla progressione della ND
appare invece attenuarsi nella fasi più avanzate
della malattia renale (8). A conclusioni simili giungono le più recenti meta-analisi (44). D’altra parte,
nel diabete tipo 1, recenti osservazioni del Finnish
Diabetic Nephropathy Study (FinnDiane) riconoscono nei valori elevati di HbA1c un predittore
indipendente anche dell’incidenza di ESRD nei
soggetti con macroalbuminuria (45). Analogamente, in pazienti con diabete tipo 2 e CKD (GFR <60
ml/min/1,73 m²), più elevati livelli di emoglobina
glicata si associano ad una aumentata incidenza
di outcomes cardiorenali quali mortalità per tutte
le cause, infarto del miocardio, ictus, scompenso
cardiaco, raddoppio dei valori di creatinina ed
ESRD (8). Tuttavia, anche in questo studio dedicato ai pazienti con diabete e CKD, analogamente a
quanto osservato nell’ACCORD (Action to Control
73
WINTER SCHOOL
Cardiovascular Risk in Diabetes) (46), livelli di
HbA1c <6.5% sono risultati associati ad un eccesso
di mortalità (47).
In questo contesto, si collocano le più recenti
raccomandazioni per il controllo della glicemia nel
paziente con diabete tipo 2. L’American Diabetes
Association (ADA) e la European Association for
the Study of Diabetes (EASD) hanno infatti emanato un position statement congiunto di aggiornamento sulla gestione dell’iperglicemia nel diabete
di tipo 2. Questo documento (48, 49), costituisce
non solamente una revisione dell’algoritmo precedente, ma anche un cambiamento paradigmatico
nel modo di concepire la cura del diabete: l’aspetto
ripetutamente enfatizzato è infatti la “patient-centred care”. Così, il nuovo documento è meno “prescrittivo e algoritmico” e più attento, attraverso la
personalizzazione degli obiettivi e degli strumenti
terapeutici, alle esigenze di ciascun soggetto
rispetto alle scelte possibili. Infatti, un controllo
più stretto della glicemia deve essere dedicato agli
individui con durata più breve di malattia, valori
basali inferiori di HbA1c e senza precedenti cardiovascolari. Pur ribadendo un target generale di
HbA1c <7,0% (corrispondenti a valori medi di glicemia basale <130 mg/dl, e di glicemia post-prandiale
<180 mg/dl), viene consigliato il perseguimento di
obiettivi anche più stringenti (per es. 6,0-6,5%) in
soggetti selezionati, e di target meno ambiziosi
(per es. 7,5-8,0%) per gli individui con pregresse
ipoglicemie severe, limitata aspettativa di vita,
complicanze micro- o macrovascolari in stadio
avanzato, comorbilità gravi e scarsamente motivati (o con una fragile rete assistenziale).
Le possibilità di impiego dei farmaci in relazione
alla riduzione della funzione renale sono illustrate
nelle figure 11 e 12 (50, 51). Con il declinare della funzione renale, diventano essenziali sia una
accurata selezione degli ipoglicemizzanti orali
che una appropriata correzione/adeguamento dei
dosaggi dei singoli farmaci. La metformina è ad
oggi considerato l’unico ipoglicemizzante orale
capace di conferire effetti cardio-protettivi. Perciò, la conservazione della terapia con metformina
nei pazienti con CKD, esposti ad elevato rischio
cardiovascolare, è da molti raccomandata (52). Il
dosaggio della metformina deve essere ridotto per
valori di eGFR <45 ml/min/1,73 m², mentre il trattamento deve essere sospeso per livelli <30 ml/
74
min/1,73 m². Maggior cautela è necessaria nell’impiego delle sulfoniluree, specialmente la glibenclamide, e delle glinidi; una riduzione della dose è
appropriata per valori di eGFR < 60 ml/min/1,73
m². Nessuna riduzione della dose è prevista nel
trattamento con pioglitazone, anche se la tendenza
a favorire la ritenzione idrica deve indurre cautela. Gli inibitori della alfa-glucosidasi non sono
indicati nel trattamento dei pazienti con insufficienza renale per la mancanza di dati relativi alla
sicurezza di impiego. La terapia con insulina può
diventare di difficile gestione per l’elevato rischio
di episodi ipoglicemici. Gli effetti degli analoghi
dell’insulina (sia gli “short-acting” che i “long-acting”) tendono ad essere più prolungati nel tempo;
riduzioni del 25% nelle disi sono raccomandate
nei pazienti con eGFR di 10-50 ml/min/1,73 m²,
riduzioni del 50% nei soggetti con eGFR <10-15 ml/
min/1,73 m² (figura 11) (53).
Figura 11 - Ipoglicemizzanti orali “tradizionali”: uso
in relazione ai livelli di funzione renale (53).
Particolarmente utile è invece il trattamento basato sull’uso degli incretino-mimetici. Poche informazioni sono disponibili per gli analoghi del GLP-1.
L’exenatide dovrebbe essere impiegata con cautela
nei soggetti con eGFR 30-50 ml/min/1,73 m² ed
evitata quando l’eGFR è <30 ml/min/1,73 m² o nei
pazienti in ESRD. Analogamente, la liraglutide non
è raccomandata nei pazienti con insufficienza renale moderata o severa, inclusi i soggetti in ESRD
(53) (figura 12).
Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
Figura 12 - Inibitori DPP-4 e analoghi GLP-1: uso in
relazione ai livelli di funzione renale (53).
Ottimizzare il controllo pressorio riduce il
rischio e la progressione della ND
Gli inibitori DPP-4 sono ad oggi gli ipoglicemizzanti orali più maneggevoli per la terapia dei pazienti
con diabete tipo 2 ed insufficienza renale. Sitagliptin vildagliptin e saxagliptin hanno prevalente
eliminazione renale, mentre il linagliptin è prevalentemente eliminato per via entero-epatica. Tutti
gli inibitori DPP-4 possono essere liberamente
utilizzati nei soggetti con insufficienza renale moderata (stadi 1-2), senza necessità di aggiustamenti
nella dose. Tuttavia, per valori di eGFR <50 ml/
min/1,73 m², una riduzione della dose è necessaria
per tutti gli inibitori DPP-4 con la sola eccezione
del linagliptin (tabella 11). La dose di sitagliptin
deve essere ridotta alla metà (50 mg/die) nei
pazienti con insufficienza renale moderata (eGFR
30-60 ml/min/1,73 m²) e ridotta ad un quarto (25
mg/die) nei soggetti con CKD severa (eGFR <30
ml/min/1,73 m²). Le dosi di vildagliptin e saxagliptin devono essere dimezzate in presenza di CKD
moderata o severa (eGFR <60 ml/min/1,73 m²) (53)
(figura 12).
La più recente edizione dell’ADA (American Diabetes Association) Position Statement (59) propone
target pressori di 140/80 mmHg per la popolazione diabetica senza indicare obiettivi diversi per
i pazienti con ND. AACE (American Association
of Clinical Endocrinologists), in gran parte sulla
base dei risultati dello studio ACCORD (60) e della
meta-analisi di Bangalore e coll. (61), propone target di circa 130/80 mmHg, ancora una volta senza
suggerire obiettivi diversi per i pazienti con CKD
(62). Le recentissime Linee Guida ESH/ESC (European Society of Hypertension/European Society
of Cardiology) pongono a <140 mmHg l’obiettivo
di pressione arteriosa sistolica da raggiungere sia
nel paziente diabetico che nel diabetico con CKD.
L’obiettivo per la pressione diastolica nel diabetico
è invece <85 mmHg (figura 13) (63).
Non vi sono studi che abbiano dimostrato la
superiorità di un trattamento ipoglicemizzante su
un altro nella prevenzione della nefropatia o nel
rallentamento della sua progressione (54). Nello
studio ADOPT (A Diabetes Outcomes Prevention
Trial) (55), i trattamenti con metformina, glibenclamide e rosiglitazone mostravano effetti sovrapponibili sia sulla progressione da normoalbuminuria
ad albuminuria che sulla progressione da normale
GFR a GFR <60 ml/min/1,73 m². Più recentemente, il Veterans Administration database, in una
coorte di 93.577 diabetici analizzati in maniera
retrospettiva, ha dimostrato che il trattamento
con sulfoniluree rispetto a quello con metformina
o rosiglitazone si associa ad un aumento non solo
della mortalità, ma anche del rischio di declino
dell’eGFR (>25% del valore basale) e di ESRD (56).
Tale aumentato rischio è risultato indipendente
dalle modificazioni nel BMI, nella PA sistolica e
nell’emoglobina glicata (57). Inoltre, mediato dal diverso effetto sul peso corporeo, il trattamento con
sulfoniluree (rispetto alla metformina) si associa
ad un aumento dei valori della PA sistolica (58).
Figura 13 – ESH/ESC Guidelines 2013: target pressori nel paziente iperteso (63).
Le Linee Guida KDIGO 2013 propongono target
diversi nei diabetici (e nei non-diabetici) con CKD
in assenza di albuminuria (≤140/90 mmHg) o in
presenza di albuminuria >30 mg/24 or (≤130/80
mmHg) (64).
75
WINTER SCHOOL
Gli ACE-inibitori e i sartanici, farmaci di prima
scelta, devono essere utilizzati al massimo dosaggio tollerato per ottimizzarne gli effetti nefro
(e cardio) protettivi. Potassiemia e creatininemia
dovrebbero essere monitorate 1-2 settimane dopo
l’inizio della terapia o all’aumento di dosaggio
e, poi, con cadenza annuale o più ravvicinata in
presenza di ridotta funzione renale. Il trattamento
va intrapreso con cautela se la creatininemia è >3
mg/dl ed eventualmente sospeso se l’aumento della creatininemia dopo l’inizio della terapia è >30%.
Una dieta povera di potassio e/o diuretici tiazidici
o dell’ansa sono indicati nei pazienti che sviluppano iperpotassiemia.
Nel diabete tipo 1, ACE-inibitori e sartanici (studi
EUCLID - EURODIAB Controlled Trial of Lisinopril in Insulin Dependent Diabetes Mellitus, RASS
- Renin-Angiotensin System Study, e DIRECT Diabetic Retinopathy Candesartan Trial) non sono
stati efficaci in prevenzione primaria (prevenzione
della microalbuminuria) (65-67). Nel diabete tipo
2 gli studi UKPDS, HOPE (Heart Outcomes Prevention Evaluation) e DIRECT hanno dato risultati
negativi (67-69), mentre risultati positivi in termini
di prevenzione primaria sono emersi nell’ADVANCE, nel BENEDICT (Bergamo Nephrologic Diabetic Complications Trial) e, più recentemente, nel
ROADMAP (Randomized Olmesartan and Diabetes
Microalbuminuria Prevention) (70-72).
Nei pazienti microalbuminurici, l’obiettivo della
terapia è prevenire la progressione verso l’albuminuria clinica (prevenzione secondaria). I pazienti
con microalbuminuria devono essere trattati con
ACE-inibitori o sartanici a prescindere dai livelli
pressori. I pazienti con microalbuminuria devono
essere trattati con ACE-i o ARB a prescindere dai
livelli pressori. Nei pazienti microalbuminurici con
diabete tipo 1 gli ACE-i e nei pazienti microalbuminurici con diabete tipo 2 sia gli antagonisti del
recettore dell’angiotensina (IRMA 2 – Irbesartan
Microalbuminuria Type 2 Diabetes Mellitus in
Hypertensive Patients; MARVAL - MicroAlbuminuria Reduction With VALsartan Study Investigators) che gli ACE-inibitori (ADVANCE) riducono
il rischio di sviluppare proteinuria (70, 73-74).
Inoltre, nei soggetti con diabete tipo 2 e microalbuminuria, entrambi i bloccanti del sistema renina
angiotensina (RAS) aumentavano la probabilità di
regressione verso la normoalbuminuria.
76
Nei diabetici con proteinuria l’obiettivo della
terapia è prevenire, o rallentare, la progressione
verso l’ESRD. In questi pazienti l’intervento più
importante è la correzione della pressione arteriosa. Per ottenere questo obiettivo tutte le altre
classi di farmaci antipertensivi possono essere
utilizzate in combinazione con i bloccanti del RAS.
Nei pazienti con diabete tipo 1 e nefropatia avanzata il trattamento con ACE-inibitori è in grado di
ridurre il rischio di ESRD e di avere un raddoppio
della creatininemia (-48%). Nei pazienti con diabete tipo 2 e nefropatia avanzata gli studi RENAAL
(Reduction of Endpoints in Non-insulin dependent
diabetes mellitus with the Angiotensin II antagonist Losartan) e IDNT (Irbesartan type 2 Diabetic
Nephropathy Trial) hanno dimostrato che il trattamento con sartanici riduce il rischio di raddoppio
della creatininemia e di progressione verso l’ESRD
(75-76).
Ruolo del controllo “aggressivo” della pressione arteriosa e delle terapie di combinazione
Lo studio ACCOMPLISH (Avoiding Cardiovascular
Events through Combination Therapy in Patients
Living with Systolic Hypertension) ha confrontato la combinazione benazepril/amlodipina con la
combinazione benazepril/idroclorotiazide quale
trattamento anti-ipertensivo iniziale in 11.506 pazienti ad elevato rischio cardiovascolare: di questi,
il 60% presentava anche diabete (77). L’incidenza
di progressione di CKD (raddoppio della creatinina, eGFR <15 ml/min/1,73 m² o dialisi) era minore
nel gruppo in trattamento con benazepril/amlodipina (2.0% vs 3.7%; HR 0.52, p<0.0001) rispetto
al trattamento con benazepril/idroclorotiazide.
Analogamente, l’incidenza di CKD e mortalità per
tutte le cause era minore nei soggetti trattati con
la combinazione benazepril/amlodipina (6.0% vs
8.1%, HR 0.73, p<0.0001). Risultati diversi sono stati tuttavia ottenuti nel sottogruppo di soggetti con
CKD; il 50% di questi presentava nefropatia diabetica. In questi pazienti, la progressione di CKD
(4.8% vs 5.5%, p=0.48) e di CKD/mortalità cardiovascolare (8.4% vs 9.7%, p=0.39) non differiva nei
due bracci di trattamento. Nei 2.9 anni del followup, la velocità di declino dell’eGFR era minore nei
soggetti trattati con benazepril/amlodipina sia
nell’intera popolazione studiata (-0.88 vs –4.22
ml/min/1,73 m², p=0.01) che nella coorte con CKD
(1.6 vs –2.3 ml/min/1,73 m², p=0.001). Al contrario,
Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
nei pazienti con albuminuria e nei pazienti con
albuminuria e CKD (-63.8% vs –29.0%, p<0.0001),
la riduzione dell’escrezione urinaria di albumina
rispetto al basale era maggiore nei soggetti trattati con benazepril/idroclorotiazide. Analogamente,
la percentuale di pazienti che regredivano da micro- a normoalbuminuria (68.3% vs 41.7%; p=0.016)
e di quelli che regredivano da macro- a micro- o
normoalbuminuria (89.6% vs 49.7%, p00.0012) era
maggiore nei trattati con benazepril/idro-clorotiazide.
Così, in pazienti ipertesi ad elevato rischio CV
(per il 60% diabetici), normo o microalbuminurici il
trattamento con la combinazione ACE-i/amlodipina sembra conferire maggiore protezione cardiorenale rispetto al trattamento ACE-i/diuretico
tiazidico. Incertezze rimangono invece nei pazienti
con nefropatia proteinurica più avanzata. Inoltre,
il divergere del comportamento dell’albuminuria
(maggior riduzione e quindi maggiori benefici nei
soggetti trattati con benazepril/idroclorotiazide)
e dell’eGFR (minor riduzione e quindi maggiori
benefici nei soggetti trattati con benazepril/amlodipina) osservato nell’ACCOMPLISH deve essere
interpretato con cautela (78). Tale divergente
comportamento può essere infatti espressione
degli effetti emodimanici del trattamento. Nell’ACCOMPLISH, la combinazione benazepril/idroclorotiazide, ma non quella benazepril/amlodipina,
induce una iniziale caduta dell’eGFR nelle prime
12 settimane di trattamento; nel proseguire del
follow up, invece, le slope di riduzione dell’eGFR
erano simili e parallele (78). L’ipotesi è confermata
dal fatto che nello studio ACCOMPLISH, gli effetti favorevoli sull’outcome renale sono dovuti per
intero alla riduzione dell’incidenza di raddoppio
della creatinina (che può riflettere una modificazione emodinamica reversibile), mentre nessuna
differenza emerge nell’incidenza di ESRD (eGFR
<15 ml/min/1,73 m²) o dialisi (77).
Si potrebbe anche ipotizzare che questo meccanismo possa contribuire, almeno in parte, a spiegare i risultati divergenti in termini di caduta del
filtrato glomerulare stimato e del controllo dell’albuminuria rilevati sia negli studi in cui sono stati
perseguiti più ambiziosi obiettivi di riduzione della
pressione arteriosa (ACCORD) che negli studi in
cui si è operato il doppio-blocco del RAS.
Nello studio ACCORD (60) il trattamento intensivo della pressione arteriosa (obiettivo PAS <120
mmHg) si associa a riduzione dell’albuminuria
(p<0.001) e minor incidenza di macroalbuminuria
(6.6% vs 9.7%, p=0.009), ma a più rapida caduta
dell’eGFR (p<0.001) e maggior incidenza di eGFR
<30 ml/min/1,73 m² (p<0.001), pur in assenza di
differenze nell’incidenza di ESRD. Una recente
meta-analisi conclude che nei pazienti con diabete
tipo 2, iperglicemia a digiuno o ridotta tolleranza
ai carboidrati, un target di PAS di 130-135 mmHg è
accettabile. Con obiettivi più aggressivi (PAS <130
mmHg) compare eterogeneità negli outcomes:
il rischio di episodi cerebrovascolari continua a
diminuire, mentre non si hanno ulteriori benefici
sull’incidenza di altri eventi macro- e microvascolari (cardiaci, renali e retinici) (61).
Nello studio ONTARGET (ONgoing Telmisartan
Alone and in combination with Ramipril Global
Endpoint Trial), condotto su soggetti a elevato
rischio cardiovascolare trattati con ramipril e/o
telmisartan, a conferma di recenti revisioni della
letteratura (79), l’associazione ACE-i/ARB riduce la
proteinuria maggiormente della monoterapia (80).
Sono invece emersi effetti negativi sulla funzionalità renale (più rapido declino dell’eGFR), sul
rischio di ESRD (raddoppio della creatininemia/
dialisi) e sulla mortalità per tutte le cause. Una
analisi post-hoc dell’ONTARGET dimostra inoltre
l’assenza di effetti favorevoli sugli outcomes renali
(e cardiovascolari) anche nei soggetti con ridotto
eGFR e/o macroalbuminuria (81).
Dati interessanti sono anche disponibili con i
bloccanti della renina impiegati in combinazione
con gli ARB. Nello studio AVOID (Aliskiren in the
Evaluation of Proteinuria in Diabetes), indipendentemente dagli effetti sulla pressione arteriosa,
il trattamento con aliskiren in combinazione con
il losartan si associa ad una ulteriore riduzione
del 20% dell’albuminuria in pazienti con diabete
tipo 2, ipertensione e proteinuria (82). Gli effetti
reno-protettivi di aliskiren sono risultati indipendenti dagli stadi di CKD (83) e dai livelli basali
della pressione arteriosa (84). Recentemente si
sono resi disponibili i risultati dell’Aliskiren Trial
in Type 2 Diabetes Using Cardiorenal Disease
Endpoints (ALTITUDE), un ampio studio che ha
arruolato (in un follow-up di 48 mesi) 8600 pazienti con diabete tipo 2, proteinuria ed elevato
rischio cardiovascolare. Tutti i pazienti reclutati
erano in trattamento con ACE-I o ARB e sono
77
WINTER SCHOOL
stati randomizzati ad aliskiren vs. placebo con un
end-point composito che includeva outcome renali,
eventi cardiovascolari e mortalità. Lo studio è
stato prematuramente interrotto per aumentata
incidenza di ictus non fatale, complicanze renali,
iperpotassiemia ed ipotensione nei soggetti trattati con aliskiren. Dopo 32 mesi di terapia, il 18.3%
dei pazienti assegnati ad aliskiren ha presentato
eventi cardiovascolari e renali, rispetto al 17.1%
dei controlli (HR 1,08, IC 95% 0,98-1,20, p=0.12).
Non sono state osservate differenze significative
rispetto al placebo per tutti i singoli endpoint dello
studio, inclusi la morte cardiovascolare, l’infarto
del miocardio, l’ospedalizzazione per insufficienza
cardiaca, i livelli di creatinina sierica e lo stadio di
CKD (85).
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Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
Complicanze macrovascolari: epidemiologia e clinica
Saula Vigili de Kreutzenberg
Dipartimento di Medicina – DIMED
Università di Padova
Epidemiologia della macroangiopatia diabetica
La macroangiopatia rappresenta la principale
complicanza cronica del diabete mellito, in termini
di morbilità e mortalità. Il diabete è un fattore di
rischio indipendente per cardiopatia ischemica
(CAD), ictus ischemico e morte attribuibile a tutte
le cause vascolari. Il paziente diabetico mostra un
rischio relativo di morte per vasculopatia più che
doppio (pari a 2,4) rispetto al soggetto non diabetico (1, 2) e l'entità del rischio non appare modificata
nel tempo, in quanto già lo studio Framingham
forniva risultati sostanzialmente sovrapponibili a
quelli degli studi più recenti (Figura 1).
Vascular
Death
Noncancer,
nonvascular
Death
486.807
513.951
479.601
1,20
(1,14-1,27)
2,38
(2,17-2,60)
1,67
(1,55-1,79)
Cancer
Death
Total of
Participants
Hazard Ratio
(95% CI)
Hazard ratios for death among participants with
diabetes as compared with those without diabetes
N Engl J Med 2011;364:829-41.
Figura 1
Il rischio di morte per causa vascolare risulta particolarmente elevato nelle fasce di età più giovani,
oltre 3 volte dai 40 ai 59 anni e si riduce con il
progredire dell'età. Le donne diabetiche presentano un maggior rischio rispetto all'uomo e anche
questa osservazione rimane invariata. E' stato
stimato che per un uomo di 50 anni senza malattia
macrovascolare alla diagnosi di diabete, la sopravvivenza si riduce di 6 anni, a causa del diabete
ed in particolare, per il 60%, a causa di patologia
vascolare (Figura 2).
Estimated future years of life lost
owing to diabetes
N Engl J Med 2011;364:829-41.
Figura 2
I dati del The Emergin Risk Factors Collaboration
nel 2010 suggeriscono che in questa decade circa
il 10% delle morti per causa vascolare nella popolazione adulta dei paesi industrializzati sia attribuibile al diabete, corrispondendo ad una stima
di 325.000 morti per anno solamente nei paesi
ad elevato tenore di vita, senza contare il numero
di parecchie volte superiore di soggetti disabili a
causa di patologia vascolare. E' intuitivo che se
l'incidenza di diabete continua ad incrementare,
come previsto dalle stime di previsione, anche
l'entità della vasculopatia diabetica in termini
di morbilità e mortalità continuerà a crescere,
nonostante la riduzione dell'incidenza di vasculopatia non diabetica, secondaria alla riduzione del
fumo, al migliore approccio terapeutico e ad altre
modifiche favorevoli. Ad una prevalenza di diabete
del 20% nella popolazione generale, corrisponde
una stima del 20% di decessi per causa vascolare
attribuibili al diabete.
Negli Stati Uniti, i dati più recenti forniti dal
Centers for Disease Control and Prevention
(CDC) mostrano che dal 1988 al 2006, il numero di
dimissioni ospedaliere che riportano come prima
diagnosi una patologia cardiovascolare maggiore e
come seconda diagnosi il diabete ha mostrato un
costante incremento fino al 2002, quando si è registrato il picco; da allora si osserva una modesta
progressiva riduzione (Figura 3).
83
WINTER SCHOOL
Number (in Thousands) of Hospital Discharges with Major
Cardiovascular Disease as First-Listed Diagnosis and Diabetes as
Secondary Diagnosis, United States, 1988–2006
quello osservato nello studio Framingham. L’incidenza degli eventi coronarici maggiori è risultata
doppia negli uomini in confronto alle donne, ma il
rapporto donne/uomini risulta maggiore di circa
il 50% rispetto a quello osservato nella popolazione generale. Le differenze di incidenza per sesso
sono dunque risultate coerenti con i dati della letteratura, che mostrano come l’impatto del diabete
sugli eventi coronarici fatali non sia più forte nelle
donne rispetto agli uomini (2, 4) (Figura 4).
Figura 3
In termini numerici, le dimissioni ospedaliere con
tali diagnosi sono incrementate da 880.000 nel
1988 a circa 1,4 milioni nel 2006.
La realtà italiana in merito alla complicanza
macrovascolare nel diabete tipo 2 è stata indagata dallo Studio DAI, uno studio multicentrico di
coorte che ha coinvolto 201 Servizi di Diabetologia
in tutta Italia (3). Lo studio DAI ha quindi fotografato la realtà di un ampio campione rappresentativo di diabetici italiani, nel periodo antecedente
al 2003. Nello studio sono state determinate la
prevalenza e l'incidenza dell’infarto miocardico,
della cardiopatia ischemica, delle tromboembolie cerebrali, delle amputazioni e degli interventi
di angioplastica e di bypass aorto-coronarico.
La popolazione dello studio è stata suddivisa in
base della presenza/assenza all’arruolamento di
eventi macroangiopatici (infarto del miocardio,
cardiopatia ischemica, ictus, bypass, angioplastica, amputazione): 11.644 pazienti non avevano
manifestato eventi macroangiopatici mentre
2.788 pazienti avevano già manifestato un evento
all’arruolamento. I risultati salienti dello studio
sono che l’incidenza di CAD nei soggetti studiati
è risultata più bassa rispetto a quella riportata in
altri studi; infatti l'incidenza età-standardizzata
per 1000 persone-anno del primo evento era pari
a 28,8 (95% CI 5,4–32,2) nell’uomo e 23,3 (95% CI
20,2–26,4) nella donna. Ciò può essere spiegato da
diversi fattori; infatti studi di grandi dimensioni,
quale è il DAI, tendono a mostrare livelli più bassi
di incidenza; inoltre le stime di incidenza riportate da studi condotti nell'Europa del sud sono più
basse di quelli dell' Europa del nord. La popolazione di pazienti diabetici del DAI mostra però un
decremento delle malattie coronariche simile a
84
Figura 4
L’incidenza di ictus nello studio DAI è risultata,
seppur di poco, maggiore nel sesso femminile. I
tassi di incidenza (per 1000 persone-anno) di ictus
ischemico, standardizzati per età sono risultati
pari a 5,5 negli uomini (CI 95%, 4,2 - 6,8) e pari a
6,3 (CI 95%, 4,5 - 8,2) nella donna; tale incidenza è
2-3 volte superiore a quella osservata in popolazioni non diabetiche, confermando l’importanza di
questa patologia nei pazienti diabetici (5).
E’ molto importante, nell’inquadramento clinico
della macroangiopatia, ricordare 2 concetti fondamentali: 1. Se un paziente presenta macroangiopatia in uno specifico distretto dell’albero arterioso,
essa va ricercata anche a livello di tutti gli altri
distretti; infatti benché vi siano delle peculiarità
definite dai fattori di rischio, fattori genetici e
ambientali che possono promuovere l’aterosclerosi
in un determinato distretto arterioso, la presenza
di macroangiopatia in una sede specifica è fortemente associata al coinvolgimento delle altre sedi
(Figura 5);
Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
Distribuzione e sovrapposizione delle patologie
vascolari nei pazienti con aterotrombosi
CAPRIE
Aronow & Ahn
Ischemia
cerebrale
CAD
25%
7%
Ischemia
cerebrale
30%
CAD
15%
3%
4%
13%
33%
8%
12%
5%
14%
19%
12%
PAD
PAD
PAD = peripheral artery disease
CAD = coronary artery disease
Adapted from TransAtlantic Inter-Society Consensus Group.
J Vasc Surg 2000; 31:S16
Figura 5
2. Se un paziente presenta complicanza microangiopatica, va ricercata la presenza di macroangiopatia. È infatti ormai stabilito il ruolo predittore
della microangiopatia, sia essa retinopatia diabetica o nefropatia anche nelle fasi iniziali, sullo
sviluppo di macroangiopatia (6, 7) (Figura 6).
coronary artery disease), la cerebrovasculopatia e
la vasculopatia periferica (PAD, peripheral artery
disease), la CAD rende conto del maggior numero
di decessi e il rischio nella donna è quasi doppio rispetto all’uomo. Inoltre il diabete si associa
maggiormente a infarto miocardico acuto (IMA)
fatale rispetto a IMA non fatale, forse a causa
di una più grave coronaropatia nei pazienti con
diabete rispetto a quelli senza. Nei pazienti diabetici di tipo 2 di nuova diagnosi, senza altri fattori
di rischio per malattia cardiovascolare, il test da
sforzo al cicloergometro risulta positivo nel 17.1%
dei soggetti, mentre il 13% presenta una CAD evidenziata alla coronarografia. L'arteriopatia coronarica nel paziente diabetico, confrontata con quella
dei controlli di pari età, presenta caratteristiche
specifiche, ovvero una più estesa diffusione delle
placche, un maggior contenuto di calcio e mostra
un coinvolgimento soprattutto a carico dei vasi
distali, in presenza di un circolo collaterale meno
rappresentato (8) (Figure 7, 8 e 9).
A 64-year-old man with a 20-year history of diabetes. The total calcium score was
1,694.9 (Agatston method). Diffused calcified coronary plaqueswere found in the
right coronary artery on curved planar reformation image of CTCA (left), and multiple
significant luminal stenoses were demonstrated on conventional CAG (right).
Gao Y et al, Am J Cardiol 2011;108:809-813
Juutilainen A et al,
Figura 7
Figura 6
La ricaduta pratica è quindi non solo la necessità di intensificare il trattamento di tutti i fattori
di rischio nel paziente con microalbuminuria e/o
iniziale lesione retinica, ma anche di avviare una
diagnostica coerente con malattia macrovascolare.
Va infine ricordato che la malattia renale, soprattutto nelle fasi avanzate svolge un ruolo pesantissimo nell’incidenza di eventi macrovascolari.
Cardiopatia ischemica
Tra le singole espressioni di macroangiopatia
diabetica, ovvero la cardiopatia ischemica (CAD,
A 68-year-old man without diabetes. The total calcium score was 124 (Agatston
method). Only spotted calcified coronary plaques were found in the left anterior
descending coronary artery on curved planar reformation image of CTCA (left).
There was no significant luminal stenosis in the same vessel on conventional CAG
(right).
Gao Y et al, Am J Cardiol 2011;108:809-813
Figura 8
85
WINTER SCHOOL
Diabetico, che suggerisce un iter diagnostico e
terapeutico per la CAD silente (10) (Figura 10).
(SID-AMD 2010)
)
Rana JS et al,
Figura 9
Uno studio autoptico ha dimostrato che il 91% dei
pazienti diabetici senza storia di CAD presentava
una stenosi coronarica significativa (> 70%) mentre l'83% mostrava più di un'arteria significativamente stenotica, in confronto con una popolazione
non diabetica, in cui il 33% presentava un interessamento monovasale e il 17% un interessamento
multi vasale (9). I soggetti diabetici infartuati sono
più proni a complicanze, quali reinfarto, insufficienza cardiaca congestizia cronica, shock cardiogeno, rottura del miocardio. Fattori predittivi
indipendenti di prognosi sfavorevole nell'immediato post-infarto nel paziente diabetico sono l'IMA
transmurale, un pregresso IMA, il sesso femminile
ed il trattamento insulinico precedente l'IMA. Non
trascurabile è la presenza di un quadro di scompenso cardiaco all'esordio nel 10% dei diabetici con
IMA, con una prevalenza quasi doppia rispetto ai
soggetti non diabetici. La presenza di neuropatia
autonomica può essere responsabile di ischemia
silente, con possibile, deleterio, ritardo diagnostico
o completa misconoscenza della coronaropatia.
A tal proposito vanno considerati, nel diabetico,
sintomi considerati segni atipici di angina o di
compromissione microcircolatoria, globalmente chiamati “il suono del silenzio”: la dispnea, la
disfunzione erettile, il facile affaticamento. La
valutazione della cardiopatia ischemica silente nel
paziente diabetico rappresenta una difficile sfida
clinica, in considerazione anche della limitatezza
delle risorse che non permettono uno screening
di popolazione di questa temibile complicanza. La
SID, in associazione con altre Società Scientifiche
ha proposto una Consensus sullo Screening e
Terapia della Cardiopatia Ischemica nel Paziente
86
Figura 10
Da quanto appena riportato appare evidente che
le dimensioni del problema richiedano non solo
un approccio di tipo preventivo della cardiopatia
ischemica, attraverso un controllo dei fattori di rischio coronarico il più stretto possibile, ma anche
una sua diagnosi precoce, per evitare l’insorgenza
di eventi acuti con le conseguenze a breve e lungo
termine sopra descritte.
Cerebrovasculopatia
L’ictus è attualmente la quarta causa di morte nei
Paesi Occidentali ed è ormai chiaramente dimostrato che il diabete mellito, sia di tipo 1 che di tipo
2 costituisce un potente fattore di rischio indipendente per ictus ischemico (12) (Figura 11).
Kaplan-Meier curves for stroke in patients with type 2 diabetes mellitus,
With and without previous cardiovascular disease (CVD), by sex.
The DAI Study, Italy
Figura 11
Il rischio di ictus ischemico è circa doppio nel
soggetto diabetico rispetto al non diabetico, con
un ulteriore incremento (oltre 5 volte) nei soggetti
Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
di età <65 anni. In particolare, nello Studio
Framingham l’incidenza di stroke non emorragico
risultava essere da 2.5 a 3.5 volte maggiore nei
soggetti diabetici rispetto ai non diabetici. Il
rischio di ictus ischemico è complessivamente
maggiore nell’uomo rispetto alla donna, in cui
l’ictus però è prevalente nelle fasce di età agli
estremi. Il diabete predice sia un primo evento,
sia la recidiva di ictus, dopo che si è manifestato
un TIA o uno stroke lacunare (11). Nei soggetti
con anamnesi personale positiva per malattia
cardiovascolare la probabilità di manifestare
un ictus incrementa in maniera drammatica e
la prognosi nel paziente diabetico è comunque
peggiore. La coesistenza di altri fattori di rischio,
quali l’ipertensione, la dislipidemia, l’obesità, che
spessissimo aggregano con il diabete, determina
un ulteriore incremento del rischio. Recentemente,
in un ampio studio prospettico disegnato per
investigare differenze razziali e geografiche
sull’incidenza di ictus e sulla mortalità per ictus,
il REGARDS (REasons for Geographic And Racial
Differences in Stroke) che ha valutato 25.696
soggetti di età >45 anni, circa un quarto dei
soggetti diabetici senza una diagnosi medica di
ictus riferiva sintomi ascrivibili ad ictus. Questi
dati suggeriscono un’elevata prevalenza di ictus
non diagnosticato, nella popolazione diabetica.
Per la grave disabilità che spesso procura, l’ictus
rappresenta una patologia ad elevato impatto
socio-sanitario ed economico e pertanto è imperativo l’impegno da parte del personale sanitario
finalizzato alla prevenzione di questa complicanza
vascolare, in particolare nel paziente diabetico.
valutazione della prevalenza della PAD nella popolazione diabetica è resa difficile dalla presenza
di diversi fattori: la PAD è spesso asintomatica; la
concomitanza di neuropatia periferica può alterare la percezione del dolore; inoltre, l’assenza dei
polsi periferici e la presenza di claudicatio non
rappresentano strumenti diagnostici adeguati (13).
Approximate range of odds ratios for risk factors for
Symptomatic peripheral arterial disease
Figura 12
Approximate magnitude of the effect of risk factors on the
development of critical limb ischemia in patients with
peripheral arterial disease
CLI – critical limb ischemia
Norgren L et al, TASCII 2007
Vasculopatia periferica
E’ noto che il diabete rappresenta la prima causa
di amputazioni non traumatiche a livello degli arti
inferiori ed è per la vasculopatia periferica un
fattore di rischio importante quasi quanto il fumo,
che è il principale fattore di rischio per la PAD (12)
(Figure 12, 13).
Gli studi epidemiologici sono consensuali nel
dimostrare che il diabete si associa ad un’elevata prevalenza di PAD. L’Edinburgh Artery Study
e il Health Professionals Follow-up Study hanno riscontrato che i soggetti affetti da diabete
presentano un rischio di di PAD sintomatica e
asintomatica 1,5–2,5 volte maggiore rispetto alla
popolazione non diabetica. Tuttavia un’accurata
Figura 13
Negli studi che hanno utilizzato l'indice pressorio
caviglia/braccio (ankle-brachial index, ABI) (Figura
14), che rappresenta la tecnica di screening preferibile la per valutare la PAD, la prevalenza di PAD,
definita da un valore di ABI<0,90, nella popolazione diabetica varia tra 20 e 30% (14). Secondo
i Centers for Disease Control and Prevention
(CDC), negli Stati Uniti, dal 1993 al 2009, i trends
aggiustati per età, delle dimissioni ospedaliere
relative ad amputazioni a livello degli arti inferiori
hanno mostrato una progressiva riduzione. Nel
2009, il maggior numero di amputazioni risultava a carico delle dita (1,8 per 1.000 diabetici), al
87
WINTER SCHOOL
secondo posto risultavano le amputazioni al di
sotto del ginocchio (0,9 per 1.000 diabetici), seguite dalle amputazioni a livello del piede (0,5 per
1.000 diabetici) e da quelle di coscia (0,4 per 1.000
diabetici).
la PAD; tuttavia mentre il 50% dei pazienti non
diabetici affetti da PAD si presenta asintomatico,
nel paziente diabetico claudicatio intermittens è
circa 2 volte più comune. Alla PAD è strettamente
associata la problematica del piede diabetico, che
costituisce un'altrettanto grave e complessa complicanza cronica del diabete.
Misurazione dell’ABI
Figura 14
La PAD nei pazienti diabetici è più aggressiva,
rispetto ai non diabetici, con interessamento più
precoce dei grandi vasi e coinvolgimento dei vasi
più distali; spesso si accompagna a neuropatia
simmetrica distale. Lo studio ARIC ha riscontrato
che nei soggetti diabetici l’aumentato rischio di
PAD si associa al fumo di sigaretta, alla presenza
di CAD, ad elevate concentrazioni di fibrinogeno,
ad un aumentato spessore intimo-mediale (IMT)
della parete carotidea e al tipo di trattamento. In
uno studio condotto in pazienti diabetici tipo 2, i
valori più bassi di ABI corrispondevano al maggior
rischio di eventi cardiovascolari entro 5 anni (12).
L’ABI è un test semplice, non invasivo e può essere
facilmente eseguito nella maggior parte degli
ambulatori; ha una sensibilità dal 79% al 95% e una
specificità dal 95% al 100% (15). La SID raccomanda l’esecuzione di un ABI in tutte le persone con
diabete, indipendentemente dal livello di rischio;
se normale, l’esame può essere ripetuto entro 3-5
anni (16).
La presentazione clinica della PAD può variare da
un quadro totalmente asintomatico alla claudicatio intermittens, alla presenza di sintomatologia
dolorosa atipica agli arti inferiori, dolore a riposo,
presenza di ulcere ischemiche o gangrena. Le classificazioni di Fontaine e Rutherford sono applicabili nella clinica per l’inquadramento dei segni e
sintomi della PAD (Figura 15).
La claudicatio è il sintomo caratteristico del-
88
Figura 15
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89
WINTER SCHOOL
Ipertensione nel diabete: come trattarla?
Simona Frontoni
Dipartimento di Medicina dei Sistemi, Università di Roma Tor Vergata
L'ipertensione arteriosa ed il diabete mellito sono
i “bad companions”. La loro coesistenza è frequente: i pazienti ipertesi hanno, infatti, un rischio
di sviluppare il diabete due-tre volte maggiore
rispetto ai pazienti normotesi (1) e, d’altra parte,
l'incidenza di ipertensione nei pazienti con diabete
è circa due volte superiore a quella nei soggetti
di pari età senza diabete (2) e dipende dal tipo di
diabete (più frequente nei soggetti con diabete
tipo 2), dall’età, dall’etnia e dalla presenza di obesità (3). E’ stata dimostrata un’associazione lineare
tra età e indice di massa corporea da un lato e la
prevalenza del diabete mellito e dell’ipertensione
arteriosa dall’altro (4).
Gli studi italiani DAI (Diabetes And Informatics study group) (Figura 1), Casale Monferrato (Figura 2),
UDNH ed i recentissimi dati dello studio RIACE
riportano una prevalenza di ipertensione arteriosa
nel diabete tipo 2 pari all’80‑85% (3, 5, 6).
Numerosi studi hanno dimostrato gli effetti benefici di uno stretto controllo pressorio nei pazienti
con diabete tipo 2 (7-10). Lo studio HOT (Hypertension Optimal Treatment) (9) ha dimostrato che
la riduzione della PA diastolica a valori inferiori a
80 mmHg riduce gli eventi cardiovascolari maggiori del 51% rispetto al gruppo con PA diastolica
≤90 mmHg (Figura 3).
Figura 3
Figura 1
Tuttavia, l’evidenza a favore del trattamento antiipertensivo nei pazienti diabetici con valori di PA
normale-alta è piuttosto scarsa (11); (Figura 4).
Figura 2
Figura 4
90
Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
Infatti, non vi sono dati solidi a sostegno della
raccomandazione di raggiungere un target di PA
sistolica <130 mmHg.
L’approccio terapeutico al paziente diabetico iperteso è sostanzialmente condiviso da tutte le società scientifiche, tra cui gli Standard Italiani (Figura
5) e tutti i trial di intervento hanno dimostrato che
è necessario utilizzare almeno due o più farmaci
per ottenere gli obiettivi pressori (Figura 6).
Figura 7
Figura 5
Per quanto riguarda gli effetti cardiovascolari, lo
studio Micro-HOPE ha dimostrato una riduzione
significativa degli end-point cardiovascolari del
ramipril vs. placebo (Figura 8), tuttavia parte dei
risultati possono essere spiegati dalle differenze
pressorie, ottenute nei due gruppi.
Infine, per quanto riguarda la complicanza renale,
i dati a nostra disposizione mostrano una superiorità degli inibitori del RAS in prevenzione secondaria, mentre i risultati in prevenzione secondaria
sono ancora controversi.
Figura 6
Nella scelta della terapia anti-ipertensiva nel
diabete, devono essere considerati alcuni effetti
fondamentali (metabolici, cardiovascolari e renali).
In particolare, i farmaci che agiscono sul sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAS) hanno
dimostrato un’azione positiva sul metabolismo
glicidico e sono stati associati, in numerosi studi,
ad una riduzione dell’incidenza di diabete mellito
(Figura 7).
Figura 8
In conclusione,
•ipertensione e diabete sono entrambi fattori di
rischio CV
•l’ipertensione è frequente nel diabete mellito
•l’associazione ipertensione-diabete è spesso non
isolata, ma associata ad altri fattori di rischio
•l’associazione ipertensione-diabete è altamente
lesiva
91
WINTER SCHOOL
• anche valori di PA nell’ambito della normotensione
(normale-alta) sono lesivi nel diabete mellito
(aumentata suscettibilità)
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Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
Dislipidemia nel diabete: come trattarla?
Marco Giorgio Baroni
Dipartimento di Medicina Sperimentale
Sapienza Università di Roma
Nella classificazione delle dislipidemie le alterazioni lipidiche sono distinte in primitive e secondarie,
con quadri fenotipici variabili (figura 1).
Classificazione delle iperlipidemie
iperlipidemia
PRIMITIVA
Mechanisms Relating Insulin
Resistance and Dyslipidemia
Fat Cells
SECONDARIA
Ad altre patologie
Classificazione Classificazione genotipica
fenotipica
3-6 volte il soggetto non diabetico.
La dislipidemia del diabetico sembra essere causata principalmente dal grado di insulino-resistenza
del soggetto (figura 3).
‐ Diabete Mellito
‐ Ipotiroidismo
‐Sindrome Nefrosica
‐ Insufficienza Renale
‐ Ittero Ostruttivo
‐ Abuso di Alcol
‐ Anoressia Nervosa
‐ Deficit di GH
FFA
A farmaci
‐ Immunosoppressori
‐ antiretrovirali
‐ inibitori dell’aromatasi
‐ steroidi
‐ diuretici (es tiazidici)
‐ beta bloccanti
‐ estroprogestinici
Liver
IR X
CE
 TG
 Apo B
 VLDL
VLDL (CETP)
TG
CE (CETP) TG
Insulin
LDL
HDL
(hepatic
lipase)
Apo A-1
Kidney
small,dense
LDL
(TG LPL or hepatic lipase)
Figura 1
Figura 3
Fra le secondarie, una delle maggiori cause di
alterazioni lipidiche è il diabete mellito di tipo 2.
La dislipidemia del diabetico presenta un quadro
caratteristico, caratterizzato da alterazioni quantitative, con aumento dei trigliceridi, riduzione del
colesterolo-HDL e aumento del colesterolo totale,
e alterazioni qualitative, soprattutto a carico delle
lipoproteine LDL, che risultano piccole e dense
(figura 2).
La ridotta azione insulinica, infatti, determina
un aumentato rilascio di acidi grassi dal tessuto
adiposo, i quali, giunti al fegato, vengono assemblati come trigliceridi e immessi nelle lipoproteine
VLDL insieme alla apoproteina B. Le VLDL vengono secrete nel circolo, risultandone quindi un aumento dei trigliceridi ematici. Una volta in circolo,
le VLDL scambiano trigliceridi con colesterolo
con le LDL, che modificano la loro composizione
diventando più piccole e dense e maggiormente
aterogene. Scambiano i trigliceridi anche con le
HDL, che a loro volta diventano più aterogene e
vengono più facilmente catabolizzate dalla lipasi
epatica con perdita dell’ApoA1 attraverso il rene.
Ne risulta quindi il tipico quadro del diabetico, con
elevate VLDL (trigliceridi), LDL piccole e dense,
e basse HDL. Gli standard Italiani per la cura
del Diabete SID-AMD raccomandano quindi uno
stretto controllo della dislipidemia nel paziente
con diabete, con un controllo annuale e alcune
analisi aggiuntive al classico profilo lipidico, fra le
quali la valutazione dei livelli di Apo B. Le Apolipoproteine B (figura 4) sono, infatti, le apolipoproteine primarie di chilomicroni, VLDL, IDL, LDL e Lp
(a). La misurazione della ApoB rappresenta l'onere
totale di particelle ritenute più aterogeniche.
Alterazioni lipidiche nel Diabete
mellito di tipo 2
• QUANTITATIVE
–   Trigliceridi VLDL
–  HDL Colesterolo
–  Colesterolo totale
3 - 6 volte
aumento
rischio CAD
• QUALITATIVE
–
–
–
–
LDL piccole e dense
VLDL ricche di colesterolo
HDL ricche di trigliceridi
Apoproteine glicosilate
Figura 2
Questo quadro lipidico si associa a un aumento
del rischio cardiovascolare che viene stimato di
93
WINTER SCHOOL
Dislipidemia diabetica
Nei pazienti diabetici le LDL sono impoverite in colesterolo e arricchite in trigliceridi; pertanto il dosaggio del colesterolo LDL non fornisce una adeguata informazione sul suo reale valore e sul target terapeutico.
Approccio diagnostico:
• Profilo lipidico (digiuno per 12 ore
prima del test. Non-digiuno = TG)
• Identificare fattori di rischio per
CHD
• Stima del RCV
• Identificare obiettivo terapeutico
In questi pazienti dovrebbe quindi essere considerato anche il dosaggio dell'ApoB al momento di inizio della terapia, e per il TT da raggiungere (≤80 mg/dl). L'ApoB è indicativo del numero di particelle aterogene circolanti (chilomicroni, VLDL, LDL, IDL). Il dosaggio dell’ApoB è utile anche nei soggetti con sindrome metabolica e nei pazienti con insufficienza renale cronica. Il colesterolo non‐HDL, la cui determinazione può essere utile se non è possibile il dosaggio dell’Apo B, si calcola facilmente dal colesterolo totale (TC) meno HDL‐C. Figura 5
Figura 4
I Maggiori Fattori di Rischio Individuali
E’ stato recentemente proposto un target
(< 80 mg/dl) per i soggetti con diabete. Tuttavia la
misurazione delle ApoB ha una maggiore variabilità analitica rispetto al colesterolo, che per questo
motivo è rimasto il parametro di riferimento. I
livelli di ApoB, però, tengono conto anche delle
VLDL e IDL, nonché delle LDL, e il numero di lipoproteine ApoB è considerato dare una misura più
diretta del rischio CVD rispetto ai valori di colesterolo LDL, soprattutto in soggetti con la dislipidemia tipica del diabete. Infatti, pur in presenza
di colesterolo LDL nei limiti, la presenza di Apo B
elevata è indicativa della necessità di un ulteriore
abbassamento del colesterolo LDL.
Un’altra possibile misura, tra l’altro molto semplice da calcolare, è il colesterolo non-HDL, ottenuto
dalla formula: TC - HDL-C = non–HDL-C. Il colesterolo non-HDL fornisce una stima del contenuto
di colesterolo di tutte le lipoproteine contenenti
ApoB, incluse LDL, VLDL, e IDL, permettendo una
stima più allargata delle lipoproteine aterogeniche
circolanti. Mancano ancora dati epidemiologici in
larga scala che confermino l’utilità di questi marcatori nella pratica clinica.
Ai fini dell’inquadramento del paziente devono essere valutati il profilo lipidico a digiuno, la presenza di fattori di rischio cardiovascolare (figura 5-6),
che permettono una migliore definizione del
rischio del soggetto e la stima del rischio CV a 10
anni del soggetto.
• Eta’ (uomini50 anni; donne 60 anni)
• Abitudine al fumo di sigaretta
• Ipertensione (135/85 mmHg o in trattamento
antipertensivo)
• Bassi livelli di colesterolo HDL (uomini <40
mg/dL, donne < 50 mg/dL )†
• Storia familiare di cardiopatia ischemica (CHD)
prematura in un familiare di I grado:
– Uomini: CHD prima dei 55 anni
– Donne : CHD prima dei 65 anni
†
Colesterolo HDL 60 mg/dL conta come un fattore di rischio
“negativo”; la sua presenza rimuove uno dei fattori di
rischio dal conto totale
Figura 6
Una volta diagnosticata la presenza di dislipidemia devono essere definiti i target terapeutici sia
primari che secondari (figura 7).
Standard Italiani
controllo del profilo lipidico
•
il colesterolo LDL deve essere considerato l’obiettivo primario della terapia e l’obiettivo terapeutico da raggiungere è rappresentato da valori <100 mg/dl.
•
Ulteriore obiettivi della terapia sono il raggiungimento di valori di trigliceridi <150 mg/dl e di colesterolo HDL >40 mg/dl (>50 mg/dl nella donna).
•
il colesterolo non‐HDL può essere utilizzato come obiettivo secondario (+30 mg/dl rispetto al colesterolo LDL) in particolare nei diabetici con trigliceridemia superiore a 200 mg/dl. la verifica del profilo lipidico (colesterolo totale, HDL e trigliceridi) deve essere effettuata almeno annualmente, ma a intervalli di tempo più ravvicinati in caso di mancato raggiungimento dell’obiettivo terapeutico.
•
La misurazione ApoB < 80 mg/dl (soprattutto nei pazienti con TG >200 mg/dl)
Figura 7
Il parametro di riferimento, a oggi, è il colesterolo LDL. Il soggetto con diabete è considerato,
per definizione, ad alto rischio cardiovascolare,
il cui target terapeutico è pertanto un valore di
94
Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
•
i pazienti con IRC grave (FG 15‐29 ml/min/1.73m2).
Figura 8
F20
F40
P10
L20
P20
L40
S10
F80
P40
S20
A10
S40
A20
R10
S80
DIVERSE STATINE
0
A40
Sono invece considerati a rischio molto alto (e pertanto con target terapeutico di colesterolo LDL <70), • i soggetti con uno score ≥10%, • i pazienti con malattia coronarica, stroke ischemico, arteriopatie periferiche, pregresso infarto, bypass aorto‐coronarico, • i pazienti diabetici con uno o più fattori di rischio CV e/o markers di danno d'organo (come la microalbuminuria)
RIDUZIONE DEL COLESTEROLO LDL OTTENIBILE CON R20
•
Sono considerati per definizione a rischio alto (e il loro target terapeutico è pertanto un valore di colesterolo LDL <100)
• coloro che presentano un risk score ≥5% e < 10% per CVD fatale a 10 anni, • i pazienti con dislipidemie familiari, quelli con ipertensione severa, • i pazienti diabetici senza fattori di rischio CV e senza danno d'organo, • i pazienti con IRC moderata (FG 30‐59 ml/min/1.73m2). A80
•
R40
CATEGORIE DI RISCHIO
In pratica, tutte le statine sono utilizzabili per il
trattamento del colesterolo LDL eccetto la rosuvastatine e l’ezetimibe che sono considerate di II°
livello nei pazienti con rischio CV del 5-10%. La
scelta della statina e la dose da impiegare si devono basare anche sulla percentuale di riduzione del
colesterolo LDL che si vuole ottenere (figura 11).
-10
% riduzione LDL
colesterolo <100 mg/dl. Questo target si abbassa
a <70mg/dl se sono presenti uno o più fattori di
rischio cardiovascolare (figura 8).
-20
-30
-40
-50
Recentemente sono state modificate le indicazioni
al trattamento del colesterolo, definendo trattamenti di I e II livello (figure 9-10).
Ipercolesterolemia non corretta dalla sola dieta, seguita per almeno tre mesi, e ipercolesterolemia poligenica -60
statine a diverse dosi
(A=atorvastatina F=fluvastatina P=pravastatina R=rosuvastatina S=simvastatina L=lovastatina
Figura 11
Ad esempio, in un paziente con colesterolo LDL =
160 mg/dl l’utilizzo di atorvastatina 20, che riduce
del 40% il colesterolo LDL, determinerebbe una
riduzione di 64 mg/dl, con un colesterolo LDL a
target di 98 mg/dl.
Preferenzialmente atorvastatina
se necessaria riduzione del
colesterolo LDL >50%
• Secondo linee guida ESC 2012
** Nei pazienti che siano intolleranti alle statine, trattamento con ezetimibe in monoterapia
Figura 9
Trattamento delle iperlipidemie
Insieme alle statine, per l’ipercolesterolemia e per
le altre forme di dislipidemia sono stati definiti
alcuni farmaci di 1° scelta, come l’ezetimibe o i fibrati nelle ipertrigliceridemie, e di 2° scelta come
le resine a scambio ionico o i derivati dell’acido
nicotinico (figura 12).
Algoritmo terapeutico: parte 2
IPERCOLESTEROLEMIA
I^ SCELTA
STATINE
EZETIMIBE
2^ SCELTA
RESINE
FIBRATI
Figura 10
FORME MISTE
IPERTRIGLICERIDEMIA
STATINE E/O FIBRATI
FIBRATI
DERIVATI DELL’ACIDO NICOTINICO
DERIVATI DELL’ACIDO NICOTINICO
OMEGA‐3
STATINE A DOSI ELEVATE
Figura 12
95
WINTER SCHOOL
Per quanto riguarda i farmaci per la riduzione del
colesterolo, da utilizzare associati o in alternativa
alle statine, l’exzetimibe svolge un ruolo importante (figure 13-14).
RESINE SEQUESTRANTI GLI AC. BILIARI
Colestiramina
Colestipolo (non disponibile in Italia)
Inibiscono il circolo enteroepatico degli Ac. Biliari
con conseguente ↓ del colesterolo
intraepatico che stimola la sintesi dei LDL‐R il cui aumento determina ulteriore riduzione del colesterolo plasmatico. Riducono colesterolo LDL 15‐18%
EZETIMIBE
Inibisce l'assorbimento
intestinale del colesterolo
alimentare e biliare senza
alterare l’assorbimento dei
nutrienti liposolubili.
LIMITI: frequente intolleranza digestiva e riduzione della biodisponibilità di numerosi farmaci anionici e vitamine liposolubili (warfarin,
tiroxina, digitoxina, beta-bloccanti & diuretici
tiazidici)
A livello dell‘orletto a spazzola inibisce il trasportatore per il
colesterolo (NPC1L1),
impedendo l'uptake
del colesterolo e degli steroli
naturali assunti con la dieta. Figura 15
CONTROINDICAZIONI: non è indicato nei pazienti con malattia del fegato attiva o con valori elevati e persistenti delle transaminasi (insufficienza epatica moderata‐grave)
I fibrati rappresentano i principali farmaci per il
trattamento delle ipertrigliceridemie (figura 16).
FIBRATI
Figura 13
 Bezafibrato
 Fenofibrato
 Gemfibrozil
a) La riduzione dei TG è dovuta all’attivazione del recettore nucleare PPARα con conseguente stimolazione dell’ossidazione degli acidi grassi, aumento della sintesi della lipasi e ridotta espressione dell’Apo CIII. b) L’aumento del HDL‐C è dovuto alla stimolazione, mediata da PPARα, della sintesi e dell’espressione di apoAI e apoAII. c) La modesta azione ipocolesterolemizzante sembra dovuta all’aumento dell’escrezione di colesterolo nella bile e nelle feci
LIMITI: ‐ disturbi GI
‐ colelitiasi
‐ potenziamento degli effetti degli anticoagulanti
N= 6541 DMT2
Diabetes, Obesity and Metabolism 2011;13.615
Figura 14
Esso, infatti, riduce l’assorbimento intestinale di
colesterolo, con un effetto che si aggiunge a quello
delle statine. Può anche essere utilizzato in alternativa nei pazienti intolleranti, anche se la capacità di ridurre il colesterolo LDL è inferiore. Anche
le resine sequestranti gli acidi biliari possono essere impiegate per ridurre il colesterolo. Si stima
che abbiano la capacità di ridurre il colesterolo del
15-18%, ma sono anche associate ad un alta frequenza di effetti gastrointestinali che ne limitano
spesso l’uso (figura 15).
96
(↓ brinogeno e dell’aggregazione piastrinica e ↑ brinolisi)
‐ rabdomiolisi (Gemfibrozil se associato a statina)
Jones & Davidson. Am J Cardiol 2005;95:120-2
Figura 16
Soprattutto nel paziente con diabete di tipo 2 elevati livelli di trigliceridi sono spesso associati con
aumento del colesterolo LDL.
Se non normalizzati con la dieta, i trigliceridi
elevati si associano ad un aumento del rischio
CV, detto rischio residuo, nel paziente diabetico.
Gli studi di intervento hanno infatti dimostrato
che nei pazienti con elevati TG e basse HDL il
trattamento aggiuntivo con fibrati determina una
ulteriore riduzione del rischio cardiovascolare
(figura 17).
Complessità gestionale del paziente con diabete di tipo 2 e delle complicanze
Fibrati: Efficace Riduzione del Rischio Residuo CVD
nei pazienti con Basse HDL ed Elevati TG
HHS
Riduzione del rischio
relativo di eventi CV (%)
0
HHS
(4,081) (292)
-10
BIP
BIP
(3,090) (1,470)
p<0.02
(9,795)(2,014)
-65%%
p<0.01
(2,765)
(485)
-27%
p=0.01
-42%
Tutti
pazienti
HDL ≤34
TG≥204
*Basse HDL: HHS <42 mg/dl; BIP ≤35 mg/dl; ACCORD ≤34 mg/dl
*Alti TG: HHS >204 mg/dl, BIP ≥200 mg/dl, VA-HIT ≥180 mg/dl (≥2.0 mmol/L),
FIELD and ACCORD ≥204 mg/dl
Keech et al., Lancet 2005;366:1849–61
Scott et al., Diabetes Care 2009;31:493–98
Figura 17
L’Acido Nicotinico (figura 18) ha effetti sia sulla riduzione di trigliceridi che di colesterolo-LDL, con
associato un significativo aumento del colesterolo
HDL, ed è l’unico farmaco con questo effetto.
L’Acido Nicotinico è però gravato da un’elevata
prevalenza di effetti collaterali, che ne riducono
molto l’impiego clinico. Per il diabete, l’effetto iperglicemizzante rappresenta ovviamente una controindicazione e ne limita ulteriormente l’utilizzo.
•
 Ac.Docosaesanoico
lipogenesi epatica attraverso la ↓
della corversione enzimatica della
Acetil CoA in acidi grassi (FA)
↑ B-ossidazione degli FA con
conseguente riduzione della
quantità di FA disponibili per la
sintesi dei TG
Inibiscono gli enzimi fosfatidatofosfatasi (PAP) e diaciliglicerolo
aciltransferasi (DGAT), enzimi
chiave della sintesi dei TG nel
fegato
↑ l’attività della LPL
↓
-31%
NNT=20
Tutti i pazienti
Basse HDL, Alti TG*
 Ac.Eicosapentanoico
RIDUZIONE DELLE VLDL
-8%
p=0.01
p=0.02
-60
ACCORDACCORD
p=0.035
-21.7%
p=0.006-28%
-34%
-50
FIELD FIELD
-11%
p=ns
-30
-70
(2,531) (769)
-9.4%
-20
-40
VA-HITVA-HIT
Acidi grassi OMEGA 3 poli‐insaturi
Figura 19
Efficacy of omega-3 fatty acid supplements in the
secondary prevention of overall cardiovascular events in a
random-effects meta-analysis of 14 randomized, doubleblind, placebo-controlled trials
ACIDO NICOTINICO
Inibisce la lipolisi nel tessuto adiposo, con conseguente riduzione della sintesi epatica di VLDL (TG ‐20‐50%) e di conseguenza delle LDL (‐15%)
• Ha inoltre il vantaggio di indurre un consistente aumento delle HDL (+20%) tramite inibizione dell’enzima CEPT
LIMITI: importanti effetti vasomotori iperglicemizzante +10‐20%
epatotossico gastrolesivo
In Italia:
ACIPIMOX: analogo dell’ac. Nicotinico, stesso meccanismo d’azione, no effetto iperglicemizzante
ACIDO NICOTINICO + LAROPRIPANT Laropiprant è un antagonista del R della prostaglandina D2.
E' stato aggiunto con lo scopo specifico di ridurre la vasodilatazione causata dall'acido nicotinico mediata dal rilascio di prostaglandina D2 nella cute. Figura 18
Infine, gli Acidi grassi Omega 3 poli-insaturi sono
stati proposti ed utilizzati per la riduzione delle
VLDL e della trigliceridemia, con possibili effetti
sul rischio cardiovascolare (figura 19).
Tuttavia, a fronte di una riduzione importante dei
trigliceridi (figura 20), ottenuta con elevate dosi
(minimo 3 grammi/die), le metanalisi non hanno
dimostrato alcun beneficio sulla riduzione del
rischio CV (figura 21).
ARCH INTERN MED/VOL 172 (NO. 9), MAY 14, 2012
Figura 20
ORIGIN Omega-3
Conclusione
• Non hanno ridotto l’end-point primario
(mortalità CV)
• Non hanno influenzato significativamente gli
eventi cardiovascolari maggiori ne la
mortalità da tutte le cause
• Hanno determinato una riduzione
significativa dei trigliceridi, senza influenzare
nessun altro parametro (LDL, HDL, HbA1c,
glucosio, PA)
The ORIGIN Trial. N-3 fatty acids and cardiovascular outcomes in patients
with dysglycemia. N Engl J Med. 2012
Figura 21
Anche lo studio Origin recentemente pubblicato,
dove la supplementazione con 1 grammo/die di
Omega 3 era stata confrontata con placebo in
pazienti diabetici, non ha dimostrato alcun effetto
sugli eventi cardiovascolari (figura 22).
97