Post/teca 09.2009

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Post/teca 09.2009
Post/teca
materiali digitali
a cura di sergio failla
09.2009
ZeroBook 2011
Post/teca
materiali digitali
Di post in post, tutta la vita è un post? Tra il dire e il fare c'è di
mezzo un post? Meglio un post oggi che niente domani? E un post
è davvero un apostrofo rosa tra le parole “hai rotto er cazzo”?
Questi e altri quesiti potrebbero sorgere leggendo questa antologia
di brani tratti dal web, a esclusivo uso e consumo personale e
dunque senza nessunissima finalità se non quella di perder tempo
nel web. (Perché il web, Internet e il computer è solo questo: un
ennesimo modo per tutti noi di impiegare/ perdere/ investire/
godere/ sperperare tempo della nostra vita). In massima parte sono
brevi post, ogni tanto qualche articolo. Nel complesso dovrebbero
servire da documentazione, zibaldone, archivio digitale. Per cosa?
Beh, questo proprio non sta a me dirlo.
Buona parte del materiale qui raccolto è stato ribloggato anche su
girodivite.tumblr.com grazie al sistema di re-blog che è possibile
con il sistema di Tumblr. Altro materiale qui presente è invece
preso da altri siti web e pubblicazioni online e riflette gli interessi e
le curiosità (anche solo passeggeri e superficiali) del curatore.
Questo archivio esce diviso in mensilità. Per ogni “numero” si
conta di far uscire la versione solo di testi e quella fatta di testi e di
immagini. Quanto ai copyright, beh questa antologia non persegue
finalità commerciali, si è sempre cercato di preservare la “fonte” o
quantomeno la mediazione (“via”) di ogni singolo brano. Qualcuno
da qualche parte ha detto: importa certo da dove proviene una cosa,
ma più importante è fino a dove tu porti quella cosa. Buon uso a
tutt*
sergio
Questa antologia esce a cura della casa editrice ZeroBook. Per info: [email protected]
Per i materiali sottoposti a diversa licenza si prega rispettare i relativi diritti. Per il resto, questo libro esce sotto
Licenza Creative Commons 2,5 (libera distribuzione, divieto di modifica a scopi commerciali).
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materiali digitali
a cura di Sergio Failla
09.2009 (solo testo)
ZeroBook 2011
Post/teca
1 settembre 2009
31/8/2009 (15:26) - IL CASO
Torna in classifica Vera Lynn, star della seconda guerra mondiale
La novantaduenne cantante inglese scalza Eminem e U2 dalla hit parade
LONDRA
Era «la ragazza dei soldati», viaggiava chilometri, magari rischiando la vita, per rallegrare i giovani
britannici e non solo, impegnati al fronte durante la seconda guerra mondiale. Oggi a 92 anni, dopo
più di 50 anni di assenza, Vera Lynn ritorna in classifica, diventando la cantante vivente più anziana
a entrare nella top 20 degli album britannici più venduti.
"We'll meet again - The very Best of Vera Lynn", che ripercorre il meglio della sua carriera, è in
uscito in questi giorni per celebrare il 70/o anniversario dall’entrata in guerra della Gran Bretagna
contro la Germania. L’album è balzato tra i primi 20, scalzando Eminem e gli U2, dimostrando che i
britannici ricordano ancora il calore della voce di Dame Vera. Quando ha saputo la notizia, la
signora Lynn si è detta felice di essere di nuovo in classifica dopo tanti anni. «Le mie canzoni
ricordavano ai ragazzi quello per cui stavano davvero combattendo - ha detto Lynn in un’intervista
qualche mese fa - Non solo ideali, ma quello che di prezioso avevano nella loro vita personale. Li
avvicinavo un pò a casa».
fonte: http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/spettacoli/200908articoli/46854girata.asp
----------------VERA LYNN TORNA IN VETTA ALLA CLASSIFICA DI VENDITA
Ha 92 anni la regina della hit inglese
Per i 70 anni dall'inizio della guerra, esce la raccolta del simbolo della resistenza britannica
a Hitler
MILANO - Il culmine del successo risale alla seconda guerra mondiale. Ora, a 92 anni,
Vera Lynn rientra prepotentemente nelle classifiche degli album in Gran Bretagna. «We'll
Meet Again - The Very Best of Vera Lynn» si piazza nella top 20 britannica, superando i
ben più giovani Eminem e U2.
LA PIÙ ANZIANA - Non era mai successo: Vera Lynn, classe 1917, è così la più anziana
artista in vita a entrare nelle chart inglesi degli album più venduti, ha spiegato con certo
orgoglio la casa discografica Decca.
UN SIMBOLO - L'ultima volta di Lynn nelle classifiche risale al 1952 con «Auf
Wiederseh’n, Sweetheart». Meglio conosciuta come «The Forces Sweetheart», è
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considerata un simbolo della resistenza del Regno Unito contro gli attacchi delle forze di
Hitler durante la seconda guerra mondiale.
ENTUSIASTA - «Sono entusiasta, mai avrei pensato di ritornare nelle hit dopo tanto
tempo», è stato l'unico commento della cantante. L'album di Vera Lynn è uscito
puntualmente nel settantesimo anniversario dell'inizio della seconda guerra mondiale (1°
settembre 1939). La canzone We'll Meet Againinoltre venne scelta da Stanley Kubrick come
canzone di chiusura del suo capolavoro, Il Dottor Stranamore, quando le bombe atomiche
scoppiano e riducono in cenere il pianeta.
E. B.
31 agosto 2009
fonte: http://www.corriere.it/spettacoli/09_agosto_31/vera_lynn_hit_inglese_burchia_
c0aec9c2-962e-11de-8f5e-00144f02aabc.shtml
e. burchia
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Il Gregoretti furioso e la tv malata...
di Valerio Rosa
Quando la Rai inaugurò il suo regolare servizio di trasmissioni, Ugo Gregoretti vi lavorava da un mese. Era già talmente
scapestrato e ingestibile, che i suoi superiori definivano «gregorettate» le alzate d’ingegno di chiunque volesse aggirare
i limiti imposti dall’asfissiante censura democristiana. Eppure in quei limiti lei ha individuato, come Queneau con i
«contraintes» che si autoimponeva, uno stimolo creativo.
«C’era una censura capillare, che non esplodeva soltanto in casi eclatanti come la vicenda di Dario Fo a Canzonissima,
ma che era pane quotidiano. I responsabili dei programmi erano più realisti del re, più servi di quanto fosse necessario,
ma in ogni caso privi dell’indecenza, della volgarità e dell’arroganza dei loro omologhi attuali. Noi però eravamo una
strana generazione di giovani raccomandati, come Eco, Vattimo e Furio Colombo, che entrarono grazie a un concorso
truccato con cui Guala travasò nell’azienda i migliori cervelli della gioventù cattolica, e aguzzavamo l’ingegno per fare
breccia in questa maglia fittissima di prigionia censoria. Qualche volta ci riuscivamo, suscitando pandemoni».
In quel clima lei si impose come una sorta di sociologo strutturalista di taglio popolare. Che cosa si proponeva?
«Cercavo di catturare l’attenzione su fatti complessi nel tentativo di renderli comprensibili, utilizzando molto la mia
vocazione naturale all’ironia e avendo sempre coscienza del fatto che tra i telespettatori, nel loro interclassismo
culturale, c’era una forte componente di incolti, dai quali mi sforzavo di farmi capire. Io sostenevo che anche la mia
amabile portinaia, che non credo fosse andata oltre la quinta elementare, avrebbe potuto apprezzare i miei programmi
strutturalisti sui romanzi popolari, purchè fosse stata attenta».
Oggi non si cerca di stimolare la portinaia, ma di assecondare la cosiddetta casalinga di Voghera.
«La televisione ha sempre cercato di assecondare, ma c’è modo e modo. L’assecondare di una volta aveva una sua
dignità, grazie al sacrosanto monopolio, che Dio lo abbia in gloria: non c’era bisogno di competere coi ceffi che sono
venuti dopo».
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Ma liberalizzare le frequenze non significa valorizzare il pluralismo?
«È stato sbagliato crederlo. Io stesso pensavo che con la competizione e il confronto ci sarebbe stata più libertà, più
ricerca di forme nuove di espressione. Invece si è scatenata una rincorsa verso l’abisso, verso il baratro, a chi faceva le
cose più schifose pur di catturare il pubblico. Mi risulta che le leggi che impongono alla Rai alte finalità educative siano
ancora in vigore. Ma non vengono rispettate perchè i veri dominatori, i veri tiranni della televisione sono gli
inserzionisti pubblicitari. E c’è molta meno libertà espressiva rispetto a vent’anni fa, perchè il Basso Impuro, che
possiede tre tv di suo ed altre tre ne controlla in quanto primo ministro, non è certo un fanatico del pluralismo e della
correttezza dell’informazione. Mi viene in mente quel Minzoletti, Minzolini...».
Mi fa un esempio di cattiva televisione?
«Giusto l’altro giorno ho visto un programma che mi è sembrato la metafora perfetta dello stato attuale della Rai. Era la
consegna di un premio giornalistico ad Amalfi, con annessi balletti scosciati e un pubblico di notabili con le facce da
stronzi e le mogli mignottesche, sul genere velina attempata. Un prestigiosissimo premio mai sentito nominare
consegnato a giornalisti sconosciuti. Ma qualcuno avrà avuto il potere politico di imporre questa cagata, immagine
perfetta della squallida e cafona Italia di oggi. Basti pensare ai giovani industriali che hanno applaudito il Basso Impuro,
sganasciandosi alle sue allusioni alle veline, alle puttane, agli amori, alle corna. E questa sarebbe la nuova classe
dirigente, questa banda di pizzicagnoli...».
Ma della tv di oggi non le piace proprio niente?
«Contemplo volentieri gli schermi oscurati di Rai2 e Rete4. A parte gli scherzi, guardo i talk-show di Floris e Santoro e
perfino quello assai discutibile di Vespa, che se non altro diluisce un minimo di pepe giornalistico nel brodo aziendale,
nonostante l’affanno quotidiano a sopire e reprimere, come diceva il conte zio dei Promessi Sposi».
Ritornerebbe a fare televisione?
«Ovviamente nessuno si è mai sognato di cercarmi in questi ultimi anni e io mi sono guardato bene dal cercare loro. Si è
stabilita una perfetta, geometrica, reciproca ignoranza. Io potrei anche avere delle idee,ma c’è un ermetico rigetto da
parte dell’azienda nei miei confronti. Eppure penso che il mio modo di fare tv possa ancora funzionare, naturalmente
con una sensibilità che individui anche le realtà nuove, senza ostinarsi a riproporre valori o fenomeni superati. E la mia
naturale propensione verso i giovani mi sarebbe di grande aiuto».
Ma crede ancora nella tv di qualità?
«Credo che una cosa fatta bene faccia bene».
31 agosto 2009
fonte: http://www.unita.it/news/culture/87818/il_gregoretti_furioso_e_la_tv_malata
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Un saluto al nostro nuovo direttore e un nuovo scoop
Autore: Tooby
Da Il Giornale in edicola il 18 brumaio di un certo anno:
Vorrei innanzitutto esprimere tutta la mia felicità per il ritorno di Vittorio Feltri nella redazione del
nostro amato Giornale. Senza nulla togliere a Mario Giordano, ma, insomma, negli ultimi tempi ci
stavamo davvero rammollendo: il Giornale, vista la crisi autoritaria che sta vivendo il nostro Paese
(qui c’è addirittura qualcuno che invoca la democrazia), che secondo alcuni è il 24 luglio di Silvio
Berlusconi (illusi), aveva bisogno di un picchiatore, di qualcuno che si sporcasse le mani dicendo le
cazzate che il nostro amato padrone, cioè, volevo dire fratello del padrone, non può dire per non
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attirare l’ira dei vescovi, anche se vorrebbe tanto dar loro dei “COMUNISTI!”.
Ma veniamo dunque allo scoop del giorno: siamo riusciti a rintracciare l’autrice della querela che ha
messo nei guai Dino Boffo, il quale, lo ricordiamo, aveva molestato una signora il cui marito aveva
una tresca OMOSESSUALE con lo stesso Boffo. Siamo riusciti a rintracciare la signora grazie a un
sacchetto che qualcuno aveva messo davanti alla porta di casa mia, il quale purtroppo è finito
accidentalmente in fiamme (e sotto il sacchetto suppongo ci fosse della cacca lasciata da qualche
cane, visto che me la sono ritrovata tutta sulle mie scarpe di pelle di negro albino).
Dunque una traccia attendibilissima: ebbene, la signora in questione era la moglie di Antonio Di
Pietro. Avete capito bene: il leader dell’Italia dei Valori, già attenzionato dai servizi segreti deviati
per essere un oppositore (e secondo una fonte anonima, un terrorista islamico), avrebbe avuto (o
forse sarebbe il caso di dire ha?) una tresca omosessuale con il direttore de L’Avvenire.
Questo era probabilmente il tassello che mancava in questo quadro torbido: Di Pietro, approfittando
della tresca con il Boffo, è riuscito ad influenzare l’opinione dei VESCOVI circa i presunti (e falsi)
scandali sessuali in cui è stato coinvolto il premier, facendo moral suasion affinché il quotidiano dei
vescovi attaccasse il premier, mentre intanto la moglie di Di Pietro, anch’ella parte del gioco,
partecipava a riunioni segrete di MASSONI nei sotterranei del loft del Partito Democratico, durante
le quali si facevano sacrifici umani, si beveva birra e si giocava a ping pong, alla presenza non solo
dei leader del PD, ma anche dei direttori delle riviste del gruppo L’Espresso, e soprattutto dei
direttori dei giornali stranieri (siamo riusciti a immortalare il direttore del Financial Times mentre
beveva sangue come un vampiro… beh, in effetti poteva anche essere sangria… o forse vino…
insomma, era buio… almeno credo fosse il direttore di FT, vabbé, decida Feltri se pubblicare questo
particolare).
E insomma, durante tali riunioni, si decideva il complotto ai danni del salvatore del mondo. Ecco
dunque che finalmente tutto quadra: in questa turpe e fangosa storia c’è tutto, i COMUNISTI, i
MASSONI, gli OMOSESSUALI e i VESCOVI, i maggiori nemici di Silvio Berlusconi, tutti
insieme in un grande complotto volto a farlo cadere. E a uccidere o imprigionare tutti coloro che lo
sostengono, quindi anche tu che mi stai leggendo potresti fare una brutta fine se questa gente
riuscisse ad andare al potere. Pensaci. Ricorda com’è andata con STALIN.
Questa settimana su Panorama niente di nuovo, solo 180 pagine di donne nude; oggi a Studio
Aperto il saluto di Mario Giordano [questa è vera, ndT]; ma è su Chi la succosa di questa settimana:
in un fotomontaggio mostriamo Beppe Grillo e Di Pietro in costume su una spiaggia del Kenya.
Forse sono anche loro omosessuali? E perché la polizia non li attenziona per bene? Magari a
manganellate?
fonte: http://blog.tooby.name/cazzeggi/un-saluto-al-nostro-nuovo-direttore-e-un-nuovo-scoop/
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Alcol, alcova, assassino: nella lingua le tracce
dell’immigrazione passata
di Tullio De Mauro
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Il seme della differenza linguistica trova terreno adatto in ogni essere umano e possiamo, anzi dobbiamo rendercene
conto, piaccia o no, per molti motivi. Uno è che sul possesso della nostra lingua materna, povero dialetto o lingua
illustre che sia, una volta acquisitolo possiamo innestare l’apprendimento di altre lingue anche molto diverse. E, anzi,
l’esperienza dei bambini bilingui dice che fin dall’inizio del cammino che porta al linguaggio è possibile imparare a un
sol tempo due lingue diverse. Un grande pensatore tedesco del primo Ottocento, politico e insieme grande filologo e
linguista, Wilhelm von Humboldt, diceva che possedere una lingua significa possedere la chiave per ogni altra. Se
avessimo buona memoria storica e perfino autobiografica o un po’ di spirito d’osservazione, non avremmo bisogno
dell’autorità di Humboldt per affermarlo: milioni di noi italiani, emigrati spesso conoscendo solo un dialetto, si sono
integrati nell’uso di lingue diverse.
Fino al 1975 il saldo migratorio italiano era passivo o, detto più alla buona, emigravamo assai più di quanto non
accogliessimo immigrati di nuovo arrivo. Questa è cosa che a quanto pare non si ama ricordare. Ma la cosa è avvenuta e
ha creato tra noi diffuse testimonianze della capacità di conquistare nuove lingue, anche nelle circostanze assai difficili
in cui si trovano in genere i migranti. Ciò che è avvenuto per noi italiani, avviene in tanta parte del mondo per i milioni
di migranti, ispanici in USA, cinesi, indiani e africani di varia lingua un po’ dappertutto. Anche paesi a lungo isolati dai
flussi migratori, come il Giappone, si sono ormai aperti alle ondate di migranti coreani, cinesi e del sud-est asiatico.
Sono flussi demografici che creano nuovi spazi per il plurilinguismo e nuove necessità per sperimentare la capacità
umana di apprendere altre lingue oltre la materna. E lo stesso avviene sotto i nostri occhi nelle scuole, nelle imprese,
nelle case dove milioni di immigrati conservando ovviamente la loro lingua materna, cui spesso si aggiungono un buon
inglese o francese, vengono imparando i nostri dialetti e la nostra lingua, come da molti anni analizzano con cura
studiosi delle università di Pavia, Bergamo, Siena, Roma.
Non voglio qui riprendere polemiche contro la squallida mozione Cota sulle classi ghetto. Al contrario, voglio invitare a
una saggia pazienza: Cota può far del male a breve termine, ma i Cota passano e la vocazione plurilingue dell’uomo
resta. Ma altre possibilità abbiamo per valutare oggettivamente la vocazione umana alla diversità linguistica. La più
accessibile è considerarne gli effetti in tutte le parlate del mondo o almeno su quelle molte che, tra le settemila oggi un
uso, abbiamo studiato e possiamo documentare più analiticamente. Una lingua non è un sistema statico, chiuso e fermo.
È un insieme dinamico sempre ampliabile e integrabile in risposta alle necessità dell’uso. A molte integrazioni chi parla
una lingua provvede con mezzi interni alla lingua stessa. Ma una continua fonte di novità e integrazioni è per i parlanti
di ogni lingua ricorrere ad altre lingue, importandone strutture anche sintattiche e grammaticali, ma soprattutto parole
nuove. Tre secoli prima che la linguistica cominciasse a studiare e documentare i flussi di prestiti da una lingua all’altra,
con il genio dell’osservatore e dello storico Niccolò Machiavelli scriveva: «Non si può trovare una lingua che parli ogni
cosa per sé senza aver accattato da altri».
Il prestito linguistico non solo non è fatto marginale, ma in certi casi modifica profondamente nel tempo la fisionomia
di una lingua. Un caso noto è quello del persiano moderno, una lingua indoeuropea in cui, sotto la spinta religiosa
dell’Islam, il vocabolario si è arabizzato. Al contrario il malti, una lingua semitica prossima all’arabo, si è
indoeuropeizzato nel vocabolario e, più in particolare, si è arricchito di prestiti dal siciliano e dall’italiano comune. Il
prestito da altre lingue ha raggiunto proporzioni eccezionali nell’inglese sia britannico sia americano. L’inglese, si sa, è
una lingua di origine germanica, affine a tedesco, olandese e alle lingue nordiche. Dal tardo medioevo è stato arricchito
da prestiti di matrice latina, tratti o dal francese o direttamente dal latino e il suo volto è cambiato. Studiando un
campione di parole dell’Oxford English Dictionary risulta che soltanto il 10% delle parole registrate dal dizionario
appartiene all’originario fondo germanico. Il 25% è rappresentato da neoformazioni createsi nella storia della lingua.
Ben il 65% del vocabolario inglese attuale è tratto dal latino, dal francese e, in misura più modesta, da italiano e
spagnolo. Gli ispanismi, ma anche gli italianismi, sono meglio rappresentati nell’inglese d’America. La presenza latina
e neolatina è così forte che uno studioso inglese, James Dee, si è spinto a dire che l’inglese è la lingua che meglio
conserva l’eredità del latino classico, medievale e moderno.
Rispetto all’inglese l’italiano è un po’ più fedele alle sue origini, cioè alle origini latine. Una grande fonte dizionaristica
italiana, paragonabile per estensione all’Oxford English Dictionary, permette di affermare che nell’italiano oggi in uso
le parole di diretta eredità latina sono quasi 41mila, poco meno di un sesto del totale e quindi assai più del decimo di
parole germaniche in inglese. Il latino è presente in italiano in modi diversi. Come nelle altre lingue europee, è stato e
resta il filtro di grecismi: democrazia, economia, matematica ecc. Ci sono poco più di 10mila parole che un grande
storico della lingua, Bruno Migliorini, definiva patrimoniali: sono parole presenti dall’origine nelle parlate toscane,
quindi poi in italiano, e, con le dovute varianti, nei dialetti: abbondare, avere, dovere, faccia, rabbia ecc. La gran
maggioranza delle parole d’origine latina è stata presa dalla tradizione scritta e colta antica e medievale e introdotta di
peso nell’italiano ormai formato e, in parte, anche nei dialetti: abate e abbazia, abietto e abiezione, abile e abilità, acacia
(la forma patrimoniale c’è ed è gaggia), popolo (la forma patrimoniale fu, in antico, povolo) ecc. In terzo luogo, non
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solo tra giuristi e medici continuano a circolare un migliaio di locuzioni latine antiche o medievali: ab antico, ad hoc, a
latere, ab origine, grosso modo, sine die. Infine ci sono i «cavalli di ritorno»: latinismi dell’inglese che tornano per
questa via tra noi come abstract, education o sentimentale. Il latino è una cava a cielo aperto sempre attiva per chi ha
parlato e parla o scrive l’italiano. Manella nostra storia abbiamo attinto anche ai giacimenti di altre lingue per costruire
l’identità dell’italiano e dei dialetti. Dall’area francese e provenzale vengono moltissime parole, quasi diecimila, come
abbandonare,abbordare, accetta, blu, coraggio e gioia e i francesismi non adattati riconoscibili facilmente come tali;
abat-jouro élite o stage. E da enveloppe a buatta o custureri o vucciria i dialetti testimoniano di una penetrazione
francese antica e popolare. Fonti importanti sono state nel medioevo le lingue dei dominatori germanici, goti, franchi e
longobardi. Le parlate italiane (a volte attraverso il francese) devono a esse parole fondamentali come albergo,anca,
attecchire, balcone, banca, banda, bianco, biondo, bosco, brodo, ciuffo, federa, fiasco, fodero, gaio, gruppo, guancia,
guidare, marcare, marrone, milza, nastro, recare, rubare, scarpa, schietto, vanga. È una piccola scelta di parole per dire
quanto più povere sarebbero le parlate italiane senza l’apporto francese e germanico.
Ma non è possibile tacere degli apporti che l’italiano e i dialetti hanno tratto nei secoli da un’altra lingua, l’arabo.
Alcune parole come ayatollah, kebab (giuntoci come caffè attraverso il turco), kefiyyah hanno avuto una reviviscenza
recente. Altre non hanno bisogno di reviviscenza tanto sono radicate profondamente sul suolo italiano. Anzitutto nei
nostri dialetti, specie nelle parlate siciliane, attraverso cui sono poi spesso passate nell’italiano comune, come cosca,
dammuso, sciarra e sciarriari, zagara, ma si pensi anche al genovese camallo o all’orginariamente veneziano arsenale.
Molte si sono insediate nell’italiano dai primi secoli della nostra storia linguistica come effetto del superiore prestigio
culturale che avevano gli islamici dall’Arabia all’Africa Settentrionale alla Spagna. Ecco una piccolissima scelta di
queste parole: alambicco,albicocca, alchimia, alcol, alcova,alfiere, algebra, algoritmo, almanacco, ammiraglio, arsenale,
auge, assassino, azimut, azzardo, azzurro. Nutrizione e astronomia, chimica e costume, tecnologia e matematiche: tutti
campi in cui noi, ma anche altri europei, abbiamo imparato cose e parole dalla grande cultura araba. Dell’amalgama
(arabismo!) di tante contaminazioni è fatta l’identità delle nostre parlate e dell’italiano.
01 settembre 2009
fonte: http://www.unita.it/news/culture/87855/alcol_alcova_assassino_nella_lingua_le_tracce_delli
mmigrazione_passata
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3 settembre 2009
3/9/2009, Massimo Gramellini
Toby Field
Il mio sogno strozzato di bimbo era di montare sul primo treno diretto a Chissadove. Lo sta
realizzando in mia vece Toby Field. Toby è un moccioso inglese di quattro anni che ogni tanto
scappa dalle sottane della madre, sgambetta fino a una stazioncina del Kent e monta sul primo treno
diretto a Chissadove. Lo ha già fatto quindici volte e quindici volte lo hanno bloccato i ferrovieri, ai
quali egli si rivolge con educazione per chiedere un biglietto e avere informazioni sul viaggio.
Rimane sempre deluso. Essendo adulti, ne sanno molto meno di lui: oltre il finestrino vedono prati e
fabbriche, mentre per Toby ci sono mari tempestosi e vascelli in fiamme. Alla stazione successiva lo
fanno scendere e accomodare in sala d’attesa per dare il tempo all’ansimante mamma Kirstie di
venire a riprenderselo. La povera donna ha paura del giorno in cui il figlio perderà l’innocenza e da
poeta si trasformerà in ladro: appena incomincerà a nascondersi ai bigliettai, quello a Chissadove è
capace di arrivarci sul serio e anche di perdercisi. Così da qualche tempo in tutte le stazioni del
Kent, accanto alla foto della regina Elisabetta, campeggia quella di un moccioso di quattro anni:
chiunque lo veda aggirarsi su un treno è pregato di fermarlo.
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Ho il cuore spaccato. Mi immedesimo nell’ansia della madre, però immagino anche quanto sia bello
essere Toby. Alla sua età l’importante non è ancora arrivare, ma mettersi in cammino. La meta del
viaggio rappresenta solo lo stimolo per partire. E chi incomincia presto a cercare ciò che ama, finirà
quasi sempre per amare ciò che trova.
fonte: http://www.lastampa.it/cmstp/rubriche/girata.asp?
ID_blog=41&ID_articolo=673&ID_sezione=56&sezione=
-----------------------3/9/2009
Lasciateci il nostro diritto al segreto
MARCO BELPOLITI
Il segreto sta nel nucleo più interno del potere», scrive Elias Canetti in Massa e potere. I detentori
del potere cercano sempre di vedere a fondo, di scandagliare le intenzioni altrui, senza tuttavia mai
lasciare intravedere le proprie. Il segreto è la fonte stessa del potere: c’è chi sa e chi invece ignora.
Il potente cerca di conoscere i segreti degli altri, li persegue, li ascolta, li registra, li scheda. Questo
è il «segreto offensivo», contrapposto al «segreto difensivo», che consiste nel semplice atto di non
far conoscere i propri segreti agli altri. Il potente esercita entrambi, mentre gli uomini comuni hanno
a disposizione solo quello difensivo o passivo.
Oggi nella società della comunicazione i segreti non sembrano esistere più: tutto è esposto, tutto è
visibile, tutto è ascoltabile. Da Facebook a YouTube ogni cosa - sentimenti, antipatie, simpatie,
amicizie, frequentazioni, immagini di sé e dei propri cari, viaggi, preferenze, passioni, trasgressioni
- è messa continuamente in mostra in una società fondata sulla trasparenza. Non c’è privacy che non
possa essere violata, dal conto bancario all’e-mail, dalla scheda sanitaria alla bolletta elettrica. Una
società di guardoni e superguardoni, in cui noi tutti finiamo inevitabilmente per essere gli scrutatori
degli altri, in cui tutti guardano tutti, e subito registrano. L’unica cosa che sembra far paura è
l’anonimato: essere «qualcuno» è una necessità sociale primaria. Il potere mediatico, informatico,
economico, statale, spionistico è sempre alla caccia dei segreti dei singoli, trattati, di volta in volta,
come «dati sensibili» della massa, oppure trascelti caso per caso secondo le necessità pratiche del
potere medesimo. Nessuno sembra più poter custodire un segreto.
Eppure il potere moderno cela gelosamente il proprio segreto: trae la propria legittimità solo da se
stesso. Come mostra lo studiolo del Duca di Urbino, posto all’interno del palazzo dei Montefeltro,
in un luogo appartato, lontano dallo sguardo dei sudditi, che espone le forme del potere, i suoi
strumenti: oggetti raffigurati in trompe l’oeil, intarsi lignei su muri senza finestre, pura virtualità.
Questo segreto, che potrebbe erodere la forza stessa del potere, non può essere urlato sopra i tetti,
mentre oggetto quotidiano del suo esercizio sono invece i nostri minuti segreti. Georg Simmel ha
scritto che il segreto è una delle grandi conquiste dell’umanità, poiché «tramite il segreto si ottiene
un infinito ampliamento della vita». E questo, ovviamente, vale solo per i singoli.
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In un bel libro dedicato al pudore, il filosofo Andrea Tagliapietra ha proposto come eroe del segreto
di noi individui Bartleby lo scrivano, il personaggio del racconto di Melville, che risponde alle
richieste a lui rivolte con la frase «preferirei di no». Lui, impiegato che trascrive sentenze per un
avvocato di New York, è il silente e umile profeta che si sottrae alla glasnost dei moderni apparati
ispettivi e conoscitivi. Oltre al dovere di rispondere, Bartleby propone il diritto alla non risposta, il
diritto al segreto dell’individuo singolo, inerme e indifeso - e non certo il diritto di non risposta del
Potere, che di per sé non risponde ma solo interroga.
Di fronte a un sistema planetario dell’informazione che vuole sapere sempre di più, ognuno di noi
ha dunque il diritto al segreto, al proprio segreto, quello che il potere non tollera e vorrebbe invece
estorcerci. Solo se è segreto a se stesso, se resiste alle lusinghe della trasparenza - ideale utopico e
insieme strumento del potere -, l’individuo può sperare di salvarsi da questa inesausta e terribile
volontà di sapere.
fonte: http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?
ID_blog=25&ID_articolo=6347&ID_sezione=&sezione=
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Feltri e una mandria di bufale
di Alessandro Gilioli
Cronistoria del fenomeno Feltri: un misto di falsi scoop, rivalutazioni del fascismo e
linguaggio da bar. Fino al ritorno al 'Giornale', da trasformare in una fabbrica di linciaggi in
serie
La prima patacca accertata è del 1990, ai tempi in cui Vittorio Feltri dirige "L'Europeo":
un'intervista sul rapimento Moro a tale Davide, "carabiniere infiltrato nelle Br" che avrebbe fatto
irruzione nel covo di via Montenevoso. è un racconto "esplosivo" su presunti memoriali e audio di
Moro dalla prigionia, con tanto di dettagli erotici sui brigatisti Franco Bonisoli e Nadia Mantovani
sorpresi nudi a letto. Peccato che sia tutto falso, dalla prima all'ultima riga, e il "Davide" in
questione non esista neppure.
Nasce così, quasi vent'anni fa, il fenomeno Feltri: un misto di bufale (come quella su Alceste
Campanile "assassinato da Lotta Continua", mentre è stato ucciso da Avanguardia nazionale),
rivalutazioni del fascismo ("Peccato che a scuola si continui a studiare la Resistenza") e linguaggio
da bar (vale per tutti il titolo sul calcio negli Usa: "Agli uomini piace, alle donne no, ma i negri non
lo sopportano", da cui si deduce che i "negri" non appartengono alla categoria né degli uomini né
delle donne. Nel ?92 Feltri è contattato da Andrea Zanussi, editore de "L'indipendente", al quale
spiega che il quotidiano "ha bisogno di una bella iniezione di merda". Detto, fatto. è il periodo di
Mani Pulite e lui lo cavalca proponendo titoli come "Cieco, ma i soldi li vedeva benissimo", riferito
a un presunto tangentista non vedente.
Segue un falso scoop sulla morte di Pinelli, un attacco a Indro Montanelli ("è arrivato il tuo 25
luglio"), e il linciaggio di Norberto Bobbio ("mandante morale dell'omicidio Calabresi"), più un po'
di insulti alla Guardia di Finanza (che in quel periodo sta indagando sul Cavaliere). Quasi
inevitabile nel ?94 la promozione al "Giornale", appena lasciato da Montanelli. Qui Feltri si fa
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riconoscere subito per i titoli farlocchi tra cui un mitico "La lebbra sbarca in Sicilia, contagiati a
Messina quattro italiani" (vero niente). Notevole anche "Berlusconi vende la Fininvest", così come
la patacca sui miliardi di Milosevic "trasportati in sacchi di juta dalla Serbia all'Italia".
Altrettanto sballate le accuse ai giudici Piercamillo Davigo e Francesco Di Maggio di essere soci in
una cooperativa edilizia con Curtò e Ligresti. Non mancano nuove "inchieste" revisioniste sul
fascismo, come quella sull'attentato di via Rasella corredata da una foto falsificata della testa di un
bambino staccata dal tronco: la cosa arriverà alla Cassazione, che nell'agosto 2007 condannerà il
direttore parlando di un "quadro di vere e proprie false affermazioni". Avanti così, e nel ?95 Feltri si
inventa che "la scorta del presidente Scalfaro ha sparato a un elicottero dei pompieri" (ovviamente è
il periodo dello scontro politico fra il Quirinale e Berlusconi).
Di due anni dopo è un'intervista taroccata a Francesco De Gregori contro il Pci, un pezzo per cui il
cantante porta Feltri in tribunale ottenendone la condanna. Sempre nel ?97 una nuova - più grave patacca costa a Feltri il posto: è quella sul presunto "tesoro" di Antonio Di Pietro, cinque miliardi di
lire che l'ex pm è accusato di aver preso da Francesco Pacini Battaglia.
Dopo parecchie querele, alla fine è lo stesso direttore a dover ammettere che si tratta di "una
bufala". Segue per Feltri un periodo al "Borghese" e al gruppo Riffeser, fino alla fondazione di
"Libero", dove chiama a scrivere il puparo di Calciopoli Luciano Moggi e l'ex agente del Sismi
Renato "Betulla" Farina. Per lanciarsi, il quotidiano ha bisogno di fuochi artificali: di qui la falsa
notizia che un centro sociale milanese è un covo dell'Eta basca, di qui uno "scoop" su Donna
Rachele titolato "Mussolini era cornuto". Poi arrivano le accuse trasversali a Sergio Cofferati per
l'omicidio Biagi ("La Cgil indica i bersagli da colpire") e un altro falso scoop su Berlusconi ("Vuole
lasciare la politica").
Ma non basta, e allora Feltri parla di pedofilia pubblicando cinque foto di preadolescenti nudi in
pose inequivocabili (con conseguente radiazione dall'Ordine, poi tramutata in "censura"). Di questa
fase resta però ai posteri soprattutto l'elegante prima pagina con un disegno di Prodi nudo a quattro
zampe e con il sedere alzato, pronto a farsi sodomizzare da un tappo di champagne con la faccia di
Berlusconi.
Richiamato in agosto al "Giornale", Feltri parte subito con la campagna più desiderata dal suo
editore, puntando a tre obiettivi: intimidire i giornalisti non allineati (occhio che se critichi il
premier ma poi paghi la colf in nero o non versi gli alimenti all'ex moglie, io lo scrivo in prima
pagina); livellare tutti nel fango per provare che Berlusconi non è peggiore di chi lo attacca, in base
al "così fan tutti" autoassolutorio; far fuori quanti nella Chiesa osano criticare il premier. Così in
poche settimane "il Giornale" diventa una fabbrica di linciaggi in serie: da Eugenio Scalfari a
Enrico Mentana, da Gustavo Zagrebelsky a Concita De Gregorio, da Dino Boffo a Ezio Mauro, fino
a Ted Kennedy e Gianni Agnelli (a Feltri infatti piace sparare anche sui morti). A proposito: negli
ultimi anni di vita, Indro Montanelli diceva che non riconosceva più il suo "Giornale", gli sembrava
"un figlio drogato". Adesso pare entrato in un'overdose senza ritorno.
(02 settembre 2009)
Fonte: http://espresso.repubblica.it/dettaglio/feltri-e-una-mandria-di-bufale/2108531
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David Foster Wallace: questa è l'acqua in cui nuotiamo
di Armando Massarenti
A chi insulsamente gli chiedeva se, come autore, condividesse la visione del mondo dei suoi
personaggi, David Foster Wallace rispondeva ironicamente che, se davvero lo avesse fatto, si
sarebbe già da tempo tolto la vita. Non possiamo sapere se, in quella dichiarazione, fosse contenuta
un'implicita previsione della propria morte, avvenuta il 12 settembre dell'anno scorso. Viene
piuttosto da chiedersi: Qual è la visione del mondo dei personaggi di Wallace? E quale la sua
visione del mondo? Un aureo libretto, uscito da poco negli Stati Uniti, può fornirci un aiuto
prezioso per rispondere a queste domande. Si intitola This is water (Little, Brown and Co.). E
Questa è l'acqua è anche il titolo della raccolta di racconti e scritti inediti che Einaudi manderà in
libreria a metà settembre.
David Foster Wallace era nato a Ithaca, New York, nel 1962. È stato forse il più grande scrittore
della sua (e della mia) generazione. Sicuramente il più filosofico, sia quando scrive racconti o
romanzi (La scopa del sistema, Infinite jest, La ragazza dai capelli strani, Brevi interviste a uomini
schifosi, Oblio) sia quando nei suoi saggi (Trigonometria, tennis, tv e altre cose divertenti che non
farò mai più, Considera l'aragosta) spazia nei più disparati ambiti del sapere, dalla logicamatematica, di cui ha scritto un'appassionata introduzione (Di tutto, e di più), alla politica, dalla
linguistica alla cucina alla biologia. L'ho incontrato a Capri due anni fa e ne era scaturita una
conversazione che sfatava la definizione di scrittore postmoderno. Piuttosto emergeva una forma di
realismo letterari unita a una eguale concretezza in campo politico. Capace di analisi esattissime dei
valori del neoconservatorismo, sapeva anche offrire una visione liberal, in positivo, fatta di
ingredienti classici (alla John Dewey) rinnovati alla luce della contemporaneità.
Questa è l'acqua è l'unico suo discorso pronunciato con un intento moral-pedagocico. È stato tenuto
nel 2005 ai giovani diplomandi del Kenyon College (Ohio) ed è un piccolo gioiello di filosofia
pratica. Prende le mosse dalla seguente storiella: «Due giovani pesci nuotano insieme. Incontrano
un pesce più vecchio che nuota in direzione opposta. "Buongiorno ragazzi, com'è oggi l'acqua?", fa
il vecchio. I due continuano a nuotare per un po', perplessi. Poi uno dei due dice: "E che diavolo è
l'acqua?"».
Ecco la visione del mondo dei personaggi di Wallace. Sono così maledettamente presi da se stessi
che hanno perso di vista il mondo. Sono come pesci che nuotano in quell'esasperato «egocentrismo
naturale» in cui tutti siamo immersi senza essere in grado di vederlo. Ma meglio capire che
moraleggiare: «Ragazzi, io non sono il pesce vecchio e saggio che vuol farvi la lezione». Wallace è
invece colui che, nei suoi scritti, ha messo a punto tutta un'infinità di universi psicologici diversi. Ce
li ha raccontati in un modo così dettagliato da perdercisi lui stesso. Ha affrescato l'America
contemporanea al completo, disegnandone una mappa borgesianamente coincidente con il paese
stesso. Si è immedesimato in psicologie, linguaggi, punti di vista, i più eccentrici e stravaganti. Ci
ha fatto viaggiare, coi suoi falsi reportage, nelle navi da crociera ai Caraibi, ci ha fatto partecipare
alle fiere di periferia e ci ha raccontato la follia provinciale dei tornei di tennis, ci ha fatto sedere su
un lettino d'analisi con alle spalle una detestabile psicoanalista ex fricchettona in poncho, ci ha fatto
entrare nella mentalità di un pubblicitario depresso, nel punto di vista dell'aragosta, nelle
perversioni di una fanatica del cibo macrobiotico, nelle ossessioni dei punk, ha trasformato in
racconto la filosofia di Wittgenstein e ha irriso la precisione linguistica della filosofia analitica
quando si rivela fine a se stessa.
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La capacità di argomentare anche nel mezzo di una narrazione era il suo forte. Tutto poteva
trasformarsi all'improvviso in saggio filosofico e anche i racconti apparentemente più leggeri sono
pieni di note e geniali digressioni. Non amava essere una star, ma aveva finito per diventare uno
scrittore di culto. Forse perché, in fondo, in ogni suo discorso, c'era sempre un'indicazione chiara su
come stare al mondo: scrollarsi di dosso i falsi miti, le banalità, le ipocrisie, le false modestie. Come
ha fatto in quest'ultimo, commovente, discorso. Un piccolo esercizio filosofico, un invito a vedere
l'acqua e a vivere una compassionate life, una vita che può avere senso solo se impariamo a metterci
nei panni degli altri, e a essere compassionevoli persino del loro (del nostro) maledettissimo, e
naturalissimo, egocentrismo: «Ma per favore, non liquidate questo discorso come il sermone del
solito professorone che agita il dito. Niente di ciò che ho detto ha a che vedere con la morale, la
religione o i dogmi, o coi dilemmi sulla vita dopo la morte. La Verità con la V maiuscola riguarda la
vita prima della morte. Riguarda la possibilità di riuscire ad arrivare ai trenta, o ai cinquant'anni,
senza che vi venga voglia di spararvi un colpo alla testa. Riguarda la semplice consapevolezza di
quello che è così vero ed essenziale, così nascosto in bella vista attorno a tutti noi, che dobbiamo
continuare a ripeterci costantemente: "Questa è l'acqua, questa è l'acqua."»
29 agosto 2009 29 agosto 2009 29 agosto 2009
fonte: http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Tempo%20libero%20e
%20Cultura/2009/08/David-Foster-Wallace-acqua-nuotiamo.shtml?uuid=24e6ccac-94a2-11deb3c4-1a4970f0f178&DocRulesView=Libero
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Il grande massacro della scuola pubblica
di Giuseppe Caliceti
Chiamiamo le cose col loro nome: oggi nella scuola italiana è in atto il più grande licenziamento di
massa della storia della nostra Repubblica. È un fatto storico, drammatico, ma ben pochi organi di
informazione ne parlano. Gelmini ha parlato di 150 mila lavoratori in meno in tre anni: se fossero
lavoratori della Fiat o dell'Alitalia scoppierebbe una mezza rivoluzione, ma visto che a licenziare è
lo Stato e licenzia docenti, tutto, inquietantemente, tace. Prima di ogni elezione ogni politico ci
ricorda che occorre investire di più nei giovani e nella formazione perché sono il nostro futuro.
Ma oggi il nostro Paese è noncurante del futuro grigio che l'attende ed è appiattito su un presente
manipolato quotidianamente da un'informazione governativa di parte che condiziona pesantemente
ogni settore dell'opinione e della vita pubblica.
Scuola compresa.
Il licenziamento di massa colpisce soprattutto i precari, la cosiddetta plebe indocent. Alcuni
occupano le sedi degli ex uffici scolastici provinciali, gli ex provveditorati agli studi. Altri si
raccolgono in sit-in.
Altri fanno lo sciopero della fame. Altri ancora, ben 15.000, patrocinati dall'Anief - l'Associazione
nazionale insegnanti ed educatori in formazione -, hanno ottenuto dal Tar Lazio l'inserimento in
graduatoria «a pettine» (cioè, in base al punteggio) e non «in coda», come preteso dalla Lega. Per il
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momento il ministero ha dato indicazioni di ignorare la sentenza in attesa che il Consiglio di Stato
confermi o meno quanto già stabilito dal Tar: se dovesse dargli ragione, si dovranno ripetere le
nomine a anno scolastico iniziato, creando ulteriore caos nelle aule.
I tagli agli organici del personale previsti in questo primo anno sono 42mila e 500 tra insegnanti e
15 mila tra il personale ausiliario. E questo sarebbero solo l'inizio di un «virtuoso» triennio. Saranno
almeno 16 mila i supplenti di scuola media e superiore che non troveranno più la cattedra. A loro
occorre sommare i colleghi della scuola elementare, appiedati dallo smantellamento del «modulo».
E almeno 10 mila Ata che, dopo anni di supplenza e l'aspettativa di entrare di ruolo, si ritrovano di
punto in bianco disoccupati.
E' facile prevedere che nei prossimi giorni, quando si svolgeranno le convocazioni per
l'assegnazione delle supplenze, la protesta si estenderà a macchia d'olio: solo allora, infatti, tutti
avranno l'esatta percezione di quanti di loro resteranno senza lavoro. E al Sud ci si accorgerà
improvvisamente di trovarsi in una vera e propria emergenza sociale: tanto è vero che, dopo aver
brandito la scure, ora anche Tremonti parla timidamente di cassa-integrazione per i docenti..
Gelmini, annunciando nei giorni scorsi le novità sul reclutamento e la formazione dei nuovi
insegnanti, che in buona parte possiamo anche condividere, è come le maestrine della penna rossa
di una volta: fa un bel segno su quello che c'era prima, strappa la pagina, tutto da rifare, senza
preoccuparsi di chi rimarrà senza lavoro. Ma c'è di più: vieta protestare. Perché, per esempio, «ogni
dirigente scolastico, a qualunque parte politica appartenga, è tenuto al dovere di lealtà verso lo Stato
e al necessario riserbo nelle sue esternazioni». Parola dell'onorevole Garagnani (Pdl). Ma la pensa
così anche il direttore scolastico regionale dell'Emilia Romagna: non ritiene che una preside,
Daniela Turci, consigliere comunale a Bologna, possa criticare le politiche della Gelmini. Questa è
la regola non scritta della Gelmini: siate ubbidienti e servili. L'ideologia pericolosa del GovernoAzienda si riproduce nella Scuola-Azienda. Non ti licenzio, osi protestare? La concezione della
democrazia e del rapporto fra i funzionari dello Stato e loro dirigenti è sempre più preoccupante.
Chi è dipendente dello Stato non potrebbe esprimersi criticamente e pubblicamente su come i
superiori operano per quel «bene comune» che è sempre meno bene e sempre meno «comune». Per
quanto tempo ancora i direttori generali, regionali, provinciali, e pure tantissimi presidi tenteranno
di tenere chiuso il coperchio d'una pentola che, ora per ora, borbotta sempre più? Nessuno si
accorge che stiamo arrivando a larghe falcate alla fascistizzazione della Scuola?
Fonte: http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/inedicola/numero/20090902/pagina/01/pezzo/258805/
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Addio a Elvira la partigiana
4/9/2009 - IL VECCHIO CRONISTA
IGOR MAN
La temutissima, a Roma, callaccia s’è portata via Elvira Sabbatini Paladini che durante lunghi anni
fu direttrice del Museo storico della Liberazione. Il vecchio Cronista la ricorda coraggiosa staffetta
partigiana durante l’occupazione tedesca di Roma. Ricca d’una bellezza antica, trinciava Roma in
bicicletta distribuendo a giovani compagni bombe a mano e giornali clandestini che riportavano le
notizie degli Alleati. Lascia due libri, Il cammino della Libertà e La lezione di via Tasso – che
qualche politico farebbe bene a leggere –, affida al tempo un mix straordinario: la bellezza
coniugata col coraggio.
La compagna Elvira fu spalla indomita del partigiano Arrigo Paladini che arrestato dai nazisti
superò con incredibile stoicismo torture orrende nella turpe via Tasso. Subito dopo la Liberazione, a
un reporter americano che si stupiva del suo stoicismo, disse: «Un buon soldato della Libertà ha il
dovere di essere coraggioso quand’è il momento. Non è facile, quasi impossibile resistere alla
tortura, ma uno ci prova».
Elvira e Arrigo sono stati una coppia sui generis: ancorché «de sinistra» non si vergognavano di
prendere la Messa; Elvira ha avuto i conforti religiosi nella chiesa dei Santi Angeli Custodi. Una
scelta ragionata poiché diceva sempre, con un filo di ironia rispettosa, che se lei e Arrigo non
avessero avuto angeli custodi eccezionali non sarebbero riusciti a sfangarla.
A distanza di tanti anni, in un mondo che perde come stracci «Patria, Fede, Libertà», si tende a
dimenticare nel parco dei buoni sentimenti la guerra di liberazione combattuta pressoché a mani
nude contro un nemico che non faceva sconti. Arrigo Paladini, confortato dalla sua compagna di
vita e di ideali, sognava per le nostre scuole (pubbliche e private) «corsi regolari di antifascismo:
dalle elementari a tutte le superiori». E guai a sfotticchiarlo in merito: anche la Resistenza,
ragionava, battuta in partenza, riuscì a ribaltare la Storia.
Più realista la sua sposa-compagna si spendeva con tenero impegno spiegando la Resistenza nelle
scuole «di frontiera» di Roma. Nonostante il fastidio che i suoi corsi sulla Resistenza provocavano
in qualche Preside, forte del suo passato davvero carismatico, Elvira Paladini, sino all’ultimo, ha
«raccontato la favola vera del riscatto italiano, ha confortato i vecchi partigiani» che cercavano
gratitudine e rispetto: faceva riflettere la presenza in via Tasso di animosi vegliardi che si
intruppavano coi ragazzi delle scuole, per ascoltare Elvira.
Era un modo civile di ritrovare se stessi con la guerra partigiana: giovani di forza antica, sognatori
di un Paese onesto combattemmo con poche munizioni ma con impegno. Quello di far risorgere il
nostro Paese. Ma i giorni belli sembrano oggi lontani e riesce difficile tornare al passato: anche col
semplice ricordo. Addio Elvira, anzi: Bella ciao.
fonte: http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?
ID_blog=25&ID_articolo=6350&ID_sezione=&sezione=
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SATIRA PREVENTIVA
Sfida a colpi di testate
di Michele Serra
La concorrenza spietata tra 'Libero' di Maurizio Belpietro e 'il Giornale' di Vittorio Feltri
renderà particolarmente vivace la ripresa autunnale. Belpietro partirà anche lui all'attacco
dell'Avvenire, mentre il Giornale titolerà "Gianni Agnelli non capiva niente di calcio"
La concorrenza spietata tra 'Libero' di Maurizio Belpietro e 'il Giornale' di Vittorio Feltri renderà
particolarmente vivace la ripresa autunnale. Le due testate si contendono con ogni mezzo il
pubblico di destra più appassionato. Ecco le prossime tappe della contesa.
Attacco all''Avvenire' 'Libero' accusa 'il Giornale' di essere stato debole e compromissorio con il
quotidiano cattolico: con il titolo 'Sono tutti finocchi!' Belpietro rivela che non solo il direttore, ma
l'intera redazione dell''Avvenire' è omosessuale e si reca al lavoro in minigonna, come testimonia
una negoziante dei dintorni che ha venduto ottanta minigonne negli ultimi due mesi. "Ottanta è
esattamente il numero dei giornalisti dell''Avvenire'", scrive Belpietro, "e questa non può essere una
coincidenza". Feltri accusa il colpo e rilancia. Con il titolo 'Finocchi anche i lettori!' accusa di
omosessualità anche i lettori del quotidiano cattolico, nessuno escluso. Con una prosa insolitamente
sorvegliata, Feltri spiega nel suo editoriale che "chi è abituato a inginocchiarsi spesso è già allenato
a compiere atti sessuali contro natura". Prima pagina di 'Libero' del giorno dopo: 'E zoccole le
sorelle'. Lettori in visibilio.
Altri scoop 'Libero': "Esiste anche una sorella di Prodi. Indovinate che mestiere fa?". 'il Giornale':
"Gianni Agnelli non capiva niente di calcio. Quando il portiere prendeva la palla con le mani
gridava 'rigore!". 'Libero': "Dalla scienza una speranza per gli intellettuali: possono guarire". 'il
Giornale': "Spetta a Luciano Moggi l'eredità degli Agnelli".
Strategie editoriali La stagione dei titoloni insultanti mostra la corda. Il pubblico sembra saturo,
vuole di più. La prima mossa è di Feltri: lancia la prima pagina col sonoro. Nelle edicole
convenzionate l'edicolante, con un sovrapprezzo di soli dieci centesimi, leggerà urlando al cliente il
titolo di prima pagina. Per la giornata d'esordio il titolo è 'La sinistra sa solo grugnire', gli edicolanti
più abili riescono a leggerlo imitando scherzosamente il verso del porco. 'Libero' passa al
contrattacco. Arriva in edicola nella speciale carta piranha, che grazie alla sua composizione
chimica divora le pile degli altri giornali. Feltri inventa il quotidiano arrotolato: arriva in edicola già
pronto per essere dato in testa al lettore di sinistra gridandogli 'vergogna!'. 'Libero' non si lascia
intimidire, e propone ai suoi lettori il formato lenzuolo, che ha un doppio pregio: è scritto in
caratteri così enormi che anche le previsioni del tempo sembrano aggressive e insultanti, e se
arrotolato ha le dimensioni e il peso di una clava.
Guerra delle firme Feltri lancia Amos Mannaggia, un ex pugile espulso dalla Federboxe perché si
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spacciava per peso mosca pur pesando centodieci chili. Prosa spiccia ma efficace, molto apprezzata
dai lettori. Nel suo primo editoriale, intitolato 'Ostia!', Mannaggia replica così alle polemiche contro
il governo: "Piantatela opur si non la piantate vi facio una faccia cusì, ostia!". Entusiasma la
genuinità dello stile popolare, in contrasto con la prosa barocca e decadente degli intellettuali di
sinistra. Non si fa attendere la replica di 'Libero'. Licenziato Marcello Veneziani (da un dossier non
firmato, Maurizio Belpietro viene a sapere che si tratterebbe di un intellettuale, anche se Veneziani
rifiuta di ammetterlo), viene assunto Hans Oberer, un perseguitato nazista che si è rifugiato in
Argentina. Fa sensazione il suo elzeviro di esordio: "Foi tofete stare zitti, altrimenti io fi torko il
collo fino a ke non fi pentite ti essere nati!", nel quale Oberer interviene nella polemica con il
gruppo Repubblica-Espresso.
(03 settembre 2009)
fonte: http://espresso.repubblica.it/dettaglio/sfida-a-colpi-di-testate/2108840/1&ref=hpsp
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Libertà di stampa. FAQ
Alessandro Gilioli
Vedevo ieri su Sky che hanno fatto un sondaggio sulla libertà di stampa in Italia, con risultati un po’
inquietanti - la maggioranza diceva che “è in pericolo” - ma si sa che quel tipo di sondaggio non
vale niente.
Quindi? (E’ una roba lunghina, chi ha fretta molli qui)
C’è la libertà di stampa in Italia?
Certo, è garantita dalla Costituzione e dalle leggi dello Stato. E in Italia chiunque può fare un
giornale d’opposizione - ne sta anche nascendo uno nuovo - e se non ne ha i mezzi economici può
aprire un sito o un blog e scrivere quello che gli pare.
E allora dov’è il problema?
Per capirlo bisogna prima di tutto rovesciare il cannocchiale e capire che il problema di fondo non è
la libertà di manifestare con ogni mezzo le proprie idee: il problema è la pluralità delle fonti a cui i
cittadini attingono abitualmente le informazioni e le opinioni da cui poi si fanno un’opinione
propria.
Che cosa significa?
Significa che non bisogna vedere la cosa dal punto di vista dell’emissione delle notizie ma da quello
della ricezione. Come s’informano gli italiani? A quali media attingono contezza dei fatti e
confronto fra opinioni? A un bacino di media molto diversi tra loro per impostazione politica e
culturale o no? Ecco: Se la stragrande maggioranza delle persone attinge fatti e opinioni da media
che hanno una sola impostazione politica e culturale, la situazione non è sana.
Qualche esempio?
Per iniziare, da sempre solo un decimo degli italiani acquista quotidiani. Gli altri nove decimi hanno
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come fonte di informazione prevalente o unica la televisione. E degli otto canali televisivi nazionali,
cinque sono controllati dal governo (Raiuno, Raidue e i tre di Mediaset), uno sta con l’opposizione
(Raitre) più due minori abbastanza neutrali (La7 e Sky).
Beh, gli italiani non sono mica costretti a vederli, lo fanno di loro volontà.
Certo. Ma non si può dire che sia sano un sistema informativo nel quale - anche per abitudini
storiche consolidate nelle famiglie da decenni - nove italiani su dieci attingono solo a
un’informazione omologata.
Possono sempre acquistare i quotidiani.
Sì, ma anche qui entrano in gioco abitudini storiche. Dal 1945 a oggi gli italiani comprano in media
meno di sei milioni di quotidiani al giorno. Non è che all’improvviso tutti corrono all’edicola
perchè la tivù è omologata, anche perchè la maggior parte dei cittadini neppure se n’è accorta di
questo processo graduale di omologazione. E comunque anche nei quotidiani non è che stiamo tanto
bene come pluralità.
In che senso?
Nel senso che se prendiamo i più diffusi quotidiani d’informazione, vediamo che solo due sono
d’opposizione, La Repubblica e l’Unità. Poi ce sono quattro (Il Giornale, Il Tempo, Il Quotidiano
Nazionale, Libero) dichiaratamente con il premier. E due, molto importanti, che recentemente
hanno svoltato e ora sono molto più prudenti con il premier.
Quali?
Il Corriere e La Stampa. Non è un segreto per nessuno che le precedenti direzioni erano sgradite al
premier. E i due direttori infatti sono saltati dopo le elezioni vinte dal premier. Così come non è un
mistero che le attuali direzioni siano molto più morbide e accettabili per il governo.
Quindi?
Quindi in Italia ci sono di fatto solo due quotidiani d’opposizione abbastanza diffusi, che comunque
non arrivano insieme al milione di lettori.
Se la gente li compra poco, sono problemi loro.
La gente li compra più o meno come li ha sempre comprati negli ultimi anni. Chi si occupa di media
sa bene che le abitudini storiche contano. Per esempio, Panorama è nato e si è affermato nei decenni
come settimanale “liberal”, ora invece appartiene al premier ed è apertamente di destra: ma intanto
ha fatto propri i mezzi economici, la diffusione del brand, l’abitudine all’acquisto, il know how
professionale e tante altre cose che ne garantiscono la diffusione. Si pensi anche al Corriere e al
Tg1: sono due grandi testate con un pubblico storico, ma il loro recente cambiamento di linea
(diventata molto cauta nel primo caso e apertamente filogovernativa nel secondo) ha ridotto la
pluralità e la disomogeneità dell’informazione a cui abitualmente attingono gli italiani.
Quindi?
Quindi il problema è che - mettendo insieme la situazione televisiva e quella dei quotidiani - il 9095 per cento degli italiani non attinge più ad alcuna fonte d’informazione critica vero il governo. Ha
informazioni e pareri solo benevoli verso il premier, o tutt’al più prudenti e neutrali. E questa non è
una situazione sana in una democrazia. Se poi ci mettiamo anche il fatto che gli unici due quotidiani
d’opposizione sono stati portati in tribunale dal premier…
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Beh, il premier è un cittadino come gli altri, può portare in giudizio chi gli pare.
Che sia un cittadino come gli altri è difficile da dirsi, visto che ha fatto una legge che lo rende
ingiudicabile. Ad ogni modo: sì, in termini giuridici il premier può citare chi gli pare, ma in termini
politici è un fatto molto pesante. Nelle democrazie occidentali è rarissimo che un capo del governo
in carica citi in tribunale i quotidiani che gli si oppongono. Perfino D’Alema quando divenne
premier rimise tutte le cause che aveva intentato. Il sospetto che ci sia un’intimidazione è molto
forte.
Beh, sarà il tribunale a decidere se Repubblica e l’Unità hanno ragione o torto.
Sì. fra sei o sette anni. Intanto resta l’intimidazione. La stessa cosa che è stata fatta con l’Avvenire.
La questione Boffo?
Esatto. Al premier dava molto fastidio che il quotidiano dei vescovi attaccasse proprio lui, che si
presenta come paladino dei cattolici e amico della Chiesa. Non era tanto il quotidiano in sé - che
vende pochino - ma l’eco che ogni attacco aveva negli altri media, anche stranieri. Fosse o meno al
corrente della prima pagina del Giornale su Boffo, è chiaro che avere chiamato un “picchiatore”
editoriale come Feltri (che ben conosceva, avendolo avuto nel gruppo per quasi quattro anni) era
finalizzato ad attaccare i suoi avversari, incluso Boffo.
Alla fine Boffo si è dimesso…
Appunto, ma il problema non è né lui né l’Avvenire: il problema è che gli attacchi personali a
Boffo, così come quelli a Ezio Mauro e ad altri, hanno lo scopo di “convincere” tutti i giornalisti e i
direttori che è meglio per loro se non criticano il premier. Se osano farlo, sanno che c’è un gruppo
politico-mediatico, che può avvalersi anche di professionisti di “intelligence”, che passerà al
setaccio il loro passato e il loro presente per scoprire se hanno pagato in nero una colf, se si fanno le
canne, se sono mai andati a prostitute, se hanno sempre versato il canone della Rai etc. Solo in
Italia, tra le democrazie, esiste un capo di governo che ha dei media e delle “barbe finte”, e li usa
entrambi per deligittimare i suoi avversari.
Ma cosa c’entra l’intelligence? La solita storia dei servizi deviati?
Alt, nessuno è in grado di dire che il premier abbia mai usato uomini dei servizi. Ma esistono le
sicurezze private. Chi ha organizzatoil set con registratori e macchine fotografiche nascoste per
intrappolare L’espresso a fine maggio, cosa finita il giorno dopo sul Giornale? Chi ha passato al
Giornale la velina su Boffo “omosessuale molestatore”?
Comunque, se dai giornali torniamo alle tivù, ci sono anche La7 e Sky, su cui finora si è
sorvolato.
Sì. La7 non ha una linea antigovernativa, ma nemmeno apertamente filogovernativa. Tuttavia
questo a Berlusconi non basta e adesso ci sta mettendo le mani, ed è probabile il cambio di direttore
con uno più schierato: Telecom, proprietaria de La7, ha tutto l’interesse (per motivi economici) a
intrattenere buoni rapporti con il governo ed è quindi facile che lo assecondi. Ma c’è anche un altro
scenario, cioè l’ingresso nella proprietà del tycoon tunisino Tarak Ben Ammar, che è vicinissimo a
Berlusconi, e anche suo socio in Nessma tv. In questo caso anche La7 diventerebbe apertamente
filoberlusconiana.
E Sky?
Ammesso che si possa definire antiberlusconiana (il che non è), ricordiamoci che giunge a meno di
un decimo degli italiani, i quali comunque ne guardano soprattutto il calcio. E in ogni caso
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Post/teca
Berlusconi a Sky sta facendo una guerra serrata, sia in veste di premier sia come proprietario di
Mediaset, per ridurne ulteriormente il peso: gli ha raddoppiato le tasse, ha speso una valanga di
soldi pubblici per imporre il digitale terrestre (che toglie molti abbonati a Sky), ha fatto togliere i
canali satellitari Rai dal pacchetto Sky, si è perfino inventato una piattaforma satellitare RaiMediaset in funzione anti Sky. E gli abbonati a Sky infatti non crescono più, sono fermi sotto i
cinque milioni.
Resta Raitre.
Sì. Anche se i segnali che arrivano in questi giorni non lasciano molto spazio all’ottimismo. Si parla
di cancellarealcune trasmissioni non gradite al premier. Ed è in forsela voce più critica verso il
premier.
Ricapitolando?
Ricapitolando in Italia abbiamo la stragrande maggioranza dei cittadini che si fa un’opinione
basandosi su media omologati. Restano fuori da questa omologazione due quotidiani (il cui spazio
di critica il premier cerca di ridurre drasticamente attraverso offensive mediatiche, citazioni in
tribunale e delegittimazioni personali) e una rete Rai (che Berlusconi sta cercando di purgare dalle
sue voci più critiche).
In tutto ciò però non abbiamo parlato di Internet.
Non ne abbiamo parlato per non svegliare il cane che dorme. Sulla Rete infatti Berlusconi è
indietro. E’ un tycoon televisivo di 73 anni, probabilmente pensa che la Rete non modifichi le
opinioni e non sposti il consenso. Sul breve ha ragione, perché gli italiani che si informano via
Internet sono ancora una minoranza. Specie nella massa elettorale che lui definisce “con
un’intelligenza da dodicenne che non sta nemmeno al primo banco”. Sul lungo può avere torto.
Quindi?
Quindi non serve a molto gridare alla “libertà di stampa minacciata”, perché trovi sempre qualcuno
che ti dice che esiste il Tg3, esiste il Manifesto e così via. Serve invece capire i meccanismi con cui
Berlusconi sta riducendo drasticamente la pluralità e la disomogeneità politico culturale dei media a
cui attingono gli italiani. E serve lavorare per andare nella direzione opposta, provando ad
aumentare il più possibile questa pluralità.
fonte: http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2009/09/03/liberta-di-stampa-faq/#more-3687
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6 settembre 2009
Viaggio all'inizio della nostra storia
6/9/2009
Sulle tracce dei genitori della moglie, che negli Anni 20 partirono dall'Europa dell'Est alla volta
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Post/teca
della Palestina
ABRAHAM B. YEHOSHUA
L’importante e originale libro di Daniel Mendelsohn Gli scomparsi è servito d’ispirazione alla mia
famiglia per un viaggio alla ricerca delle proprie radici nell’Europa dell’Est.
Daniel Mendelsohn, un classicista americano, spronato dai ricordi d’infanzia si è assunto un
impegno particolare: scoprire come furono uccisi durante la Shoah sei dei suoi famigliari della cui
morte il nonno si era sempre sentito colpevole. Non gli bastava sapere che erano scomparsi
nell’Olocausto. Voleva fare il possibile per scoprire com’era avvenuta la loro morte per sentirsi
vicino alle vittime, provare il loro terrore, concedere loro spazio emotivo e, in un certo qual modo,
accompagnarli negli ultimi istanti di vita. Per raggiungere lo scopo Mendelsohn e il fratello si sono
imbarcati in una complessa operazione investigativa: viaggiando tra continenti diversi e
interrogando i sopravvissuti ne hanno incrociato le testimonianze e non si sono dati pace fino a che
non hanno scoperto luoghi e dettagli reconditi.
Una cantina servita come ultimo rifugio o un albero contro il quale era stata messa una delle vittime
prima di essere giustiziata. E hanno fatto tutto ciò con la determinazione e la perseveranza
scientifica di un ricercatore che non si concede riposo fino a che non giunge alla verità.
Naturalmente io e i miei famigliari abbiamo letto parecchi libri sulla Shoah, ma il romanzo di
Mendelsohn ci ha turbato in modo particolare. La morte di quegli estranei ha cessato di essere
anonima, si è trasformata in qualcosa di personale. E a quel punto è nato il bisogno di seguire le
tracce di chi era rimasto in vita, ovvero di recarci nell’Europa dell’Est e di ritrovare i luoghi dai
quali giunsero prima della guerra i genitori di mia moglie, Berta e Nachum, che contrariamente alla
gran parte degli altri ebrei decisero per tempo di assumersi la responsabilità del proprio destino e
anziché trasferirsi in una nuova nazione della diaspora abbracciarono la rivoluzione sionista per
cercare di normalizzare l’esistenza ebraica nella terra di Israele.
Giunsero qui una decina di anni prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, e non in
seguito a una lungimirante profezia del tremendo futuro che aspettava gli ebrei. Nessuno poteva
prevedere l’orrore che sarebbe seguito. Entrambi appartenevano a famiglie benestanti e gran parte
dei loro congiunti vedeva in quella decisione una sconsiderata avventura. Eppure, a dispetto di tutto,
i due giovani preferirono lasciare i floridi paesi in cui erano nati per arrischiarsi a costruire una
nuova vita in una terra lontana e desertica. Dissero basta allo studio di antichi testi ebraici, a sempre
nuovi espedienti per riuscire a sopravvivere in un ambiente ostile, e scelsero di mettersi alla prova
in una realtà che fosse completamente loro.
Nachum, suo fratello e le sue due sorelle nacquero e crebbero in una tenuta di campagna grande e
fiorente nei dintorni di Suwalki, al confine tra la Polonia e la Lituania, dove i giovani ebrei
venivano addestrati ai lavori agricoli a cui avrebbero dovuto attendere nella terra di Israele. I quattro
ragazzi lasciarono la famiglia negli anni Venti ed emigrarono nell’allora Palestina. Nachum,
mantenendo il ricordo della propria infanzia rurale, divenne medico veterinario. I genitori rimasero
nella tenuta anche dopo la partenza dei figli, forse per un senso di responsabilità nei confronti dei
numerosi braccianti che vi lavoravano, e quando cercarono di raggiungerli in Israele era ormai
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Post/teca
troppo tardi. Le autorità britanniche avevano vietato l’ingresso agli ebrei e i due vecchi rimasero
intrappolati e perirono nell’Olocausto.
Berta, la madre di mia moglie, apparteneva a una famiglia benestante di mercanti di Vilnius. Lei e la
sorella giunsero nella terra di Israele agli inizi degli anni Trenta, mentre altri due fratelli e i genitori
rimasero a Vilnius. Questi ultimi e uno dei ragazzi furono uccisi nel ghetto e solo il fratello più
giovane riuscì a fuggire attraverso le fognature nella foresta dove si unì ai partigiani con i quali
rimase fino alla fine del conflitto. Sorprendentemente, per quanto sia anche comprensibile, i genitori
di mia moglie, così come i loro fratelli e sorelle, non vollero mai tornare a visitare i luoghi in cui
erano nati e cresciuti, nemmeno per cercare di scoprire come erano morti esattamente i loro
congiunti. La nube nera e orribile della Shoah oscurava i luoghi che si erano lasciati alle spalle e
dato che la maggior parte degli ebrei era stata sterminata non avevano nessuna voglia di incontrare
un vicino lituano o polacco, né tale incontro avrebbe avuto alcun senso. La connivenza, attiva o
passiva, della gente locale con gli aguzzini nazisti aveva reso tutti sospettabili di collaborazionismo
e non c’era nessun desiderio di avere contatti con loro, nel bene o nel male.
Di ritorno da questo nostro entusiasmante viaggio ho espresso il mio apprezzamento per le bellezze
di Vilnius allo zio di mia moglie, il giovane ex partigiano ormai ottantaseienne che non era mai più
tornato a visitare la propria città natale. Lui ha ribattuto: «Vilnius con le sue magnifiche chiese, i
suoi giardini, le sue foreste, non è altro che un gigantesco camposanto in cui non vi sono nemmeno
delle lapidi. Per questo non mi è mai interessato tornarci».
E così, i figli nati in Israele, nonostante per parecchi anni abbiano sentito qua e là descrizioni dei
luoghi da cui provenivano i genitori, non hanno mai provato il desiderio di visitarli fintanto che
costoro sono rimasti in vita. In anni recenti, però (e questo fenomeno non è prerogativa esclusiva
della mia famiglia) forse sentendosi prossimi all’ultimo stadio della loro vita, avvertono il bisogno
di recarsi nei luoghi abbandonati dai genitori in gioventù. E così si organizzano gruppi di anziani
israeliani ansiosi di ritrovare tracce di precedenti generazioni in nazioni a loro sconosciute
dell’Europa dell’Est. Non necessariamente per rinvenire la presenza di persone morte, come nel
caso di Daniel Mendelsohn, ma piuttosto quella di gente viva.
Io, che ho radici a Gerusalemme, mi sono unito con molto interesse a mia moglie e ai suoi
famigliari - tutti anziani incanutiti - nel loro viaggio in Lituania e Polonia.
Un viaggio di questo tipo, che di solito dura pochi giorni, non può essere compiuto senza una guida,
e nei paesi dell’Est è comparsa negli ultimi anni una nuova figura di accompagnatore: solitamente
un ebreo locale (anche se capita di imbattersi in non ebrei) che oltre ad avere padronanza della
lingua del posto - lituano, polacco o russo - possiede una buona conoscenza dell’ebraico e
dell’inglese, è esperto dei luoghi, se la cava egregiamente negli spostamenti e sa rinvenire, anche
grazie a documenti scovati in archivi locali, tracce della presenza ebraica del passato. In altre parole
è in grado di identificare in una normale via commerciale di Vilnius l’esatto punto in cui iniziava il
ghetto ebraico, l’ubicazione di case andate distrutte, e sa dare informazioni su una sinagoga che non
esiste più. Una guida simile deve avere la capacità di ricostruire con l’immaginazione reperti di cui
non è rimasto nemmeno il ricordo. Deve naturalmente conoscere la storia dei paesi in cui gli ebrei
cercano le loro radici senza tuttavia mostrare cedimenti emotivi o rancore nei confronti della gente
del posto per via della passata collaborazione con i tedeschi. E ovviamente deve conoscere gli
archivi presenti nei vari luoghi e mantenere buoni rapporti con gli impiegati perché questi
rintraccino per i suoi clienti i vecchi nomi delle vie, l’ordine di successione dei numeri, le scuole in
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Post/teca
cui i loro genitori avevano studiato o il nome di uno zio scomparso nella Shoah di cui si conosce
l’esistenza ma che non è mai stato menzionato.
E in effetti gli impiegati degli archivi da noi visitati, lituani o polacchi che fossero (che se non
sbaglio sono dipendenti statali) hanno fatto del loro meglio per rispondere alle domande dei membri
del nostro gruppo. Hanno aperto i volumi riguardanti la comunità ebraica antecedenti la seconda
guerra mondiale e tra le migliaia di nomi con accanto la sola data di nascita (quella della morte,
avvenuta nel corso di un eccidio in una foresta o in un campo di sterminio, è sconosciuta) si sono
sforzati di cercare quello di uno zio, di una via, o dei successivi proprietari della tenuta perché
toccassimo con mano l’esistenza di persone ormai scomparse, un passato che quelle stesse persone
non volevano ricordare né conoscere.
La nostra guida era un ebreo basso di statura, sui cinquant’anni, scapolo, con un cappellino su cui
spiccava la parola «guida» in ebraico. Indossava una camicia militare israeliana con stampato il
simbolo di Tsahal, lasciatagli in regalo da un gruppo di ufficiali israeliani e dalla quale faceva fatica
a separarsi. Era un uomo strano e persino misterioso, con un immenso bagaglio di conoscenze e una
straordinaria capacità di orientamento. Ha saputo condurci alla casa nella quale nacque e visse Berta
prima di emigrare in Israele e anche nella fertile e verdeggiante tenuta polacca nella quale crebbe
Nachum.
L’emozione di mia moglie, di sua sorella e dei loro cugini è stata enorme. Ogni dettaglio era
importante ai loro occhi. Si sono aggirati a lungo nelle case dei genitori osservando ogni angolo e
particolare, insaziabili nel desiderio di vedere e respirare l’aria del luogo. Nella tenuta di campagna
hanno avviato una lunga conversazione con i contadini polacchi cercando di attingere dettagli della
vita che si conduceva lì più di novant’anni fa. Un cucchiaino d’argento con il monogramma della
famiglia in lettere ebraiche è stato per loro un reperto di inestimabile valore. Senza dubbio il grande
amore per i loro genitori ha ammantato quei luoghi di grande bellezza e significato. È stato come se
un cerchio, rimasto inconsapevolmente aperto troppo a lungo, si fosse chiuso.
Fonte: http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cultura/200909articoli/47041girata.asp
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Gabanelli, Fazio, Dandini
e l'incerto futuro di Raitre
Maurizio Costanzo sta per tornare in Rai, su Raitre, ma il direttore Paolo Ruffini non lo sa.
Con chi sta trattando? A dare ascolto al tam tam di Viale Mazzini, sulla poltrona della rete ci sarà
Giovanni Minoli. Ovviamente è una situazione paradossale, ma tutti fanno finta di non sapere o di
essere stati colti di sorpresa, a cominciare dal presidente Paolo Garimberti che non ha inserito
nell'ordine del giorno del cda del 9 settembre la questione delle nomine. Anche il dg Mauro Masi
smentisce le indiscrezioni ma l'impressione è di trovarsi di fronte al segreto di Pulcinella.
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Post/teca
Ruffini non ha fatto nulla per meritarsi la cacciata. Anzi la rete ha dimostrato di avere una
sua identità editoriale e un suo pubblico affezionato: quest'estate, nel passaggio al digitale, la Rai
ha perso più di 4 punti di share, Raitre solo lo 0,8%; Mediaset e Sky hanno incrementato l'ascolto.
Eppure Ruffini dovrà trovarsi un altro lavoro. Stesso destino di Carlo Freccero: è il più bravo della
Rai a inventare palinsesti, ma lavora in periferia perché non ha sponsor politici in grado di imporlo.
Per Minoli è tutto più facile: da una parte (Pdl) può riscuotere il bonus che si era giocato a favore di
Saccà, dall'altra (Pd) pare che sia intervenuto a suo favore D'Alema. Naturalmente, Ruffini paga
l'indecisione del Pd, invischiato nelle primarie d'ottobre e nelle lotte interne.
Com'era facile prevedere, questa incertezza dà adito ai peggiori sospetti e chiunque dirigerà
Raitre o il Tg3, al di là della propria professionalità, si porterà dietro l'equivoco di trattative
segrete, di patteggiamenti occulti. Come se i meriti, il lavoro svolto, l'impegno siano le ultime cose
che interessano ai vertici di Viale Mazzini. Non è un mistero che una trasmissione come quella di
Milena Gabanelli sia a rischio. Non solo per compatibilità con la nuova dirigenza ma anche perché
il dg Masi le ha tolto lo scudo dell'assistenza legale nonostante non abbia mai perso una causa (ogni
autore dei servizi sarà responsabile in proprio di eventuali azioni legali, un sistema per togliere
coraggio anche ai più coraggiosi). Ci si chiede poi che fine faranno Giovanni Floris o Fabio Fazio o
Serena Dandini. Su Raitre ci sarà visibilità solo per l'one man show come su RaiEducational?
Aldo Grasso
05 settembre 2009
Fonte: http://www.corriere.it/spettacoli/09_settembre_05/fazio_grasso_89c79c9a-99da-11de-80e200144f02aabc.shtml
-----------------Herzog non riesce invece a trovare uno stile adeguato
Persécution, un capolavoro sulle solitudini
Il film ci porta a scandagliare i suoi complicati e infelici rapporti
umani. Tutti schiacciati da un’insoddisfazione
Con il primo, vero capolavoro di questa Mostra, Patrice Chéreau ha messo sul tavolo e dissezionato
con dolorosa lucidità il tema attorno a cui girano molti dei film visti finora: la difficoltà, se non
l’impossibilità, dell’amore. Persécution lo fa raccontando le peripezie quotidiane di Daniel (Romain
Duris), trentenne parigino che vive ristrutturando, probabilmente in nero, appartamenti. Ma invece
di raccontare le ragioni di questa vita o perché non abbia una vera dimora (vive dove lavora), il film
ci porta a scandagliare i suoi complicati e infelici rapporti umani. Tutti schiacciati da
un’insoddisfazione che non nasce solo da risposte inadeguate (l’amico infelice non ascolta i suoi
buoni consigli, la fidanzata sembra sfuggire a un vero rapporto di coppia, gli anziani che assiste
all’ospizio lo usano come un fattorino) ma soprattutto dalla coscienza di non riuscire a dare la
felicità (o la bontà) che vorrebbe offrire.
A renderlo cosciente delle ragioni di questa impossibilità arriva uno strano «intruso» che
apparentemente sembra essere rimasto folgorato da un incontro sulla metropolitana e vorrebbe
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Post/teca
vivere addirittura con lui (la «persecuzione» del titolo), ma che in realtà diventa una specie di
metaforico alter ego che lo obbliga a capire le ragioni dei suoi comportamenti e delle sue infelicità.
In questo modo, recuperando una lezione che deve moltissimo a Dostoevskij e all ’Idiota, Chéreau
aggiorna quel personaggio alla crisi morale e sentimentale del giorno d’oggi, dove le persone
sembrano accontentarsi della mediocrità, del compromesso, della lamentazione e non hanno il
coraggio di guardare in faccia alla propria pochezza.
Daniel invece, sollecitato dalle domande dell’«intruso», lo fa e non può che constatare il
fallimento dei propri sforzi (straziante la fine del rapporto con la fidanzata, che «va in mille pezzi»
come un bicchiere rotto), finendo per negarsi anche ogni forma di perdono o di comprensione per i
suoi errori, proprio come fa un mondo che sembra non accorgersi di quei problemi e di quelle
fatiche. Ed è proprio questa radicalità — umana e morale insieme — che fa la forza del film, servito
da un gruppo di attori perfetti (oltre al protagonista, Charlotte Gainsbourg, Jean-Hughes Anglade,
Gilles Cohen, Alex Descas) e come ingabbiato dentro un’inquadratura che toglie la profondità degli
spazi per «inchiodare» i protagonisti alle proprie azioni e alle proprie responsabilità.
Anche il primo film a sorpresa del Concorso — inspiegabilmente un altro Werner Herzog, My
Son, My Son, What Have Ye Done? — ha al centro uno strano «demente» (Michael Shannon), che
ha ucciso la madre e che il poliziotto Willem Dafoe cerca di far uscire dalla casa in cui si è
asserragliato. Ma se Chéreau interrogava direttamente il suo protagonista sulle ragioni delle sue
azioni, Herzog (e il coproduttore David Lynch) sembrano «accontentarsi» di raccontare la follia del
mondo circostante — una fidanzata succube, una madre castrante, amici dementi, uno zio
megalomane — senza affrontare le responsabilità morali del protagonista. E senza trovare uno stile
adeguato a far emergere l’«urgenza» di quei temi.
Paolo Mereghetti
06 settembre 2009
Fonte: http://cinematv.corriere.it/cinema/speciali/2009/venezia/notizie/chereau_persecution_mereghetti_3f0b75f8-9ac211de-84e9-00144f02aabc.shtml
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Addio al re di Fleet street
di Enrico Franceschini, 5 settembre 2009
Fleet street era la leggendaria “via dell’inchiostro”, nel cuore di Londra, a due passi dalla City, dove
avevano sede tutte le redazioni dei giornali. I pub e i ristoranti della zona erano frequentati quasi
soltanto dai giornalisti, e dalle loro fonti o compagni e compagne di sbornia: poliziotti, avvocati,
mariuoli, ballerine di night e simili. C’era un’atmosfera vibrante fino a tarda notte, un’eccitazione
nell’aria, prodotta dalla spasmodica concorrenza tra una dozzina di quotidiani tra loro acerrimi
rivali. Un mondo che nessuno ha raccontato meglio di Evelyn Waugh in “Scoop” (uscito in Italia
con un titolo che fa addormentare, “L’inviato speciale”), forse il più bel romanzo mai scritto sul
giornalismo, certo il più bello sulla golden age, l’era delle rotative, della vita spericolata, delle notti
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Post/teca
che non finivano più, delle imprese roboanti e romantiche. Tutto questo non esiste più: c’è ancora
Fleet street, ma le redazioni dei giornali si sono trasferite in anonimi palazzoni nei sobborghi, per
non parlare di quanto sono cambiati giornali e giornalisti, per certi versi indubbiamente in meglio,
per altri meno. Quell’epoca magica, qui a Londra, ha avuto un re: Keith Waterhouse, giornalista,
columnist, romanziere, commediografo, umorista, monumento vivente di un mestiere irriverente e
ribaldo, all’insegna della gioia di vivere. Un reporter nato poverissimo e diventato ricco col suo
lavoro, che amava scrivere, andare a pranzo, bere, divertirsi, non necessariamente in quest’ordine.
“Non bevo mai quando scrivo”, diceva, “ma talvolta scrivo quando bevo”. Una leggenda. E una rara
smentita del vecchio assioma secondo cui i buoni giornalisti non possono diventare buoni scrittori
(”a meno di non smettere presto di fare il giornalista”, sosteneva Hemingway, che lo era stato
brevemente). Waterhouse è morto ieri a Londra, a 80 anni, nella sua casa, accudito dalla seconda
moglie, e stamani i giornali gli hanno dedicato pagine e pagine, come se fosse scomparso un
membro della famiglia reale, un primo ministro, un grande attore shakesperiano, un campione dello
sport. “Senza di lui”, ha scritto con dolce ironia il Times, “il lunch non sarà più la stessa cosa”, ed
erano lunch interminabili, dopo i quali Keith faceva fatica a rialzarsi in piedi. “Credo che nessuno
dovrebbe tornare al lavoro dopo pranzo”, è uno dei suoi innumerevoli motti di spirito, “ma per
alcune persone sfortunate il lunch è a metà giornata”. Non per lui, che conduceva la vita disordinata
dei giornalisti di un tempo. Per 35 anni lavorò al Daily Mirror; quando lo lasciò in polemica con
l’arrivo del nuovo editore Robert Maxwell (”mi piacciono i grandi editori”, disse, “ma questo è un
po’ troppo grande” - allusione anche al peso corporeo di Maxwell), tutti i giornali del regno se lo
contesero e per un po’ il Mirror continuò a dargli uno stipendio solo perchè non andasse a scrivere
per nessun altro. Poi scelse il Daily Mail, e ci restò altri 23 anni, praticamente fino alla morte: ha
scritto l’ultima rubrica un paio di mesi fa, prima di ammalarsi troppo gravemente per continuare a
picchiare sui tasti della sua vecchia macchina da scrivere, non avendo mai compiuto la transizione
al computer. Le sue commedie, esilaranti ma con un tocco di malinconia, sono state portate sul
palcoscenico del West End da attori del calibro di Albert Finney e Peter O’Toole. Quest’ultimo, suo
grande compagno di bisbocce, ieri ha commentato: “L’Inghilterra della scrittura ha perso un
campione. Nei romanzi, nel giornalismo, nel linguaggio, nelle commedie e nel lunch, Keith era un
maestro”. Addio, re di Fleet street.
Fonte: http://franceschini.blogautore.repubblica.it/2009/09/05/?ref=hpsbsx
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7 settembre 2009
In Campania poster di auguri
BuoncompleAnna
In Campania sembra che si stia affermando una strana tendenza: il compleannone, lo strillo, la
gigantografia, il bigliettone di auguri... Egomania delle moderne vestali del grande circo mediatico.
Il compleanno non è più un fatto privato, anche se non sei ancora nessuno, anzi proprio perchè
ancora non sei nessuno, occorre dire a lettere cubitali che esisti, sei nato, hai 6, 18, 20 anni.
Il compleanno deve diventare qualcosa di memorabile, molto memorabile, possibilmente
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Post/teca
ingombrante. Finire sui giornali, se possibile, quando proprio la cosa riesce, addirittura può
provocare divorzi, magari far tremare qualche scranno, sicuramente finire in prima pagina.
Noemi Letizia è stata l'antesignana ha iniziato lei, a Casoria, invitando il presidente del consiglio
per i suoi diciotto anni al ristorante con parenti e amici. Un po' megalomane, una fuoriclasse.
Adesso per le strade del napoletano e anche del casertano spuntano come funghi cartelloni
pubblicitari: Buon compleanno Maria, Carmen, Anna.
I padri innamorati delle loro figlie (del resto è un periodo di papismo strisciante) comprano spazi
pubblicitari per fare gli auguri a queste bambine narcise che magari sognano una carriera di
modelle. Siamo nell'era dei confessionali, delle telecamere a infrarossi nelle camere e nei bagni
della casa del Grande Fratello. Siamo in un'epoca plebiscitaria, dove prevale il giudizio sommario
gridato del pubblico che fa la tac agli aspiranti di Amici, radiografati nelle pieghe più intime della
loro personalità con una cattiveria e una partecipazione emotiva che ricorda le popolane che
sferruzzavano davanti alla ghigliottina. Diciamo che allora erano in ballo i diritti dell'Uomo e si
regolavano i conti con l'aristocrazia, oggi le popolane se la prendono con Alice, Jessica o qualche
tronista e ne scandagliano talenti e pulsioni.
Chi si trova a passare in macchina, o a piedi, magari preso dai suoi pensieri, intento a scansare i
rifiuti rimasti per strada in questa perenne emergenza rifiuti che ormai si associa a Campania con lo
stesso automatismo di orso Caorso nel bersaglio della settimana enigmistica, non viene subissato
solo di messaggi pubblicitari. Al confronto la persuasione martellante della pubblicità è roba per
verginelle, chi si fa più fregare dal comprami? Lo slogan è per definizione di parte, perfino
rassicurante al confronto di questa egomania anche un po' sinistra dell'io esisto e voglio fare la
modella.
Un tempo si affiggevano i necrologi e al più si metteva un fiocco rosa o azzurro sulla porta il giorno
che nasceva un bambino. Adesso è pubblicità, egomania, una lotta senza quartiere tra esistenze che
arrancano per un poster al sole, per emergere dall'anonimato di una immensa provincia che si è
estesa al punto da coincidere con i nostri confini nazionali. Buoncompleanno, provincia Italia.
(MLC)
Fonte: http://www.rainews24.rai.it/it/news.php?newsid=131068
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Carlo Rao catturato, la grottesca vicenda del re della truffa
Pubblicato da Diego in Curiosità, Internet.
Domenica, 30 Agosto 2009.
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Post/teca
Foto "Carlo Rao"
Catturato il trentunenne Carlo Rao (lo vedete nella foto qui sopra). Chi è costui? Era uno dei
truffatori online più ricercati del Vecchio Continente, uno in grado di farsi un bel gruzzoletto su
eBay e affini. Ma come ogni eroe tragico è stato beffato dall’amore…
Quella vecchia volpe di Carlo è stata pizzicata a Tolone dalla polizia francese che lo pedinava in
modo stretto ormai da circa un anno. Come l’ha pescato? Da una lettera che il tecno-malvivente ha
spedito alla compagna. Originario di Monfalcone in provincia di Gorizia ma romano di residenza,
ha venduto o meglio simulato di possedere per poi vendere soprattutto viaggi, ma anche
appartamenti, gioielli e cellulari. Non si faceva mancare niente.
Ha iniziato con cose piccole come addirittura corsi di cucito, di maquillage per unghie e di lingue,
poi è passato a affitti di appartamenti e vacanze, ma la polizia ricostruisce il puzzle del suo gioco
risalendo alla sua vera identità. Peccato sia irreperibile, così scatta l’attacco al lato debole, l’amore.
Ovviamente anche qui Rao si finge ciò che non è, si fa conoscere da una ragazza 27enne come
l’imprenditore olandese Andreas Van der Ende, ma poi si pente e scrive una lettera in cui si rivela
“Con te vorrei costruire una famiglia e avere dei bambini - poi scatta la proposta - Ti offro un
lavoro che non è normale, è rischioso, ma ha anche effetti positivi”. Pirla. Viene rintracciato e
smascherato con le sue stesse parole, ma lui si chiude in casa con la ragazza così è denunciato anche
per sequestro di persona.
Fonte: http://www.tecnocino.it/articolo/carlo-rao-catturato-la-grottesca-vicenda-del-re-dellatruffa/15595/
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Post/teca
A Londra le foto di 60 icone gay
di Damiano Laterza
Cos'è un'icona gay? Si accettano risposte. Intanto, nella post-vittoriana e post-thatcheriana
Inghilterra – a Londra, presso la spassosa National Portrait Gallery – c'è una mostra che, in tal
senso, può essere illuminante: Gay Icons. Ovvero, 60 fotografie selezionate da dieci personaggi
(tutti rigorosamente omosessuali) essi stessi rappresentazioni sacre (ma viventi) di un universo che
ha fatto dell'autoreferenzialità ostentata la sua imprescindibile ragion d'essere (come tutte le
sottoculture, del resto). Dall'immancabile Elton John, all'attore shakespeariano Ian McKellen. Ci
sono la tennista Billie Jean King (famosa per aver umiliato un collega maschio durante uno storico
match anti-sessista, anni fa) e la scrittrice Sarah Waters. Il barone Smith of Finsbury (ex ministro
del governo Blair) e il politico/magnate dei media (nonché di fede musulmana) Waheed Alli. Lo
scrittore Alan Hollinghurst e la poetessa Jackie Kay. Ognuno di loro ha scelto le proprie icone
preferite. Predilezioni personali, sia chiaro. Anche se c'era da tenere ben presente «quello che è stato
l'effettivo contributo di tali simboli, alla storia della cultura». Ne viene fuori un quadro eterogeneo,
un po' prevedibile ma (non per questo) esente dalle critiche dei media britannici (per via delle
esclusioni illustri).
A questo punto, però, la domanda sorge spontanea: come si fa a diventare un'icona gay? Ecco le
storie di alcune tra le personalità selezionate dalla mostra londinese (loro ce l'hanno fatta).
Il matematico britannico Alan Turing (1912-1954), uno dei padri dell'informatica nonché brillante
crittanalista (durante la seconda guerra mondiale rese un contributo fondamentale nella decifrazione
dei messaggi segreti che i nazisti si scambiavano). Nel 1952 venne arrestato per omosessualità. La
sanzione impostagli fu severissima: sottoposto a castrazione chimica, divenne impotente e gli
crebbe il seno. Due anni dopo si suicidò ingerendo una mela avvelenata con cianuro di potassio. Da
bambino, la sua fiaba preferita era "Biancaneve" dei fratelli Grimm.
Margarethe Cammermeyer (1942), colonnello (donna) della Guardia Nazionale USA. Nel 1989,
durante una conferenza stampa di routine, dichiarò candidamente di «essere lesbica». Apriti cielo.
Venne radiata dall'Esercito e contro di lei fu aperto un procedimento disciplinare. Dopo due anni di
dura battaglia legale, però, ottenne l'agognato reintegro e il riconoscimento dell'incostituzionalità
del divieto, per gay e lesbiche, di arruolarsi per servire il proprio paese. La sua storia è divenuta
anche un TV Movie (con l'efficiente Glenn Close).
Harvey Milk (1930-1978), il più celebre martire del movimento di liberazione omosessuale
americano, venne assassinato (assieme al sindaco di San Francisco) da un suo rivale politico, subito
dopo aver fatto approvare una legge a favore dei diritti dei gay. Fu consigliere comunale della più
europea delle città USA – il primo politico omosessuale dichiarato a vincere un'elezione
democratica – e portavoce della vasta comunità gay di Castro Street, per la quale si battè fino alla
fine. Le sue parole più famose risuonano ancora oggi: «Se un proiettile dovesse entrarmi nel
cervello, allora possa anche distruggere tutte le porte di repressione dietro le quali ci si nasconde».
Nel 2009 Hollywood gli ha tributato un commosso omaggio attraverso l'omonimo film biografico
diretto da Gus Van Sant e interpretato da un superbo Sean Penn, premiato con l'Oscar.
Virginia Woolf (1882 -1941), eccelsa scrittrice, fu paladina dei diritti delle donne, ma non solo.
Sposata con Leonard Woolf, ebbe diversi amori saffici (il più celebre con l'esperta di giardinaggio
Vita Sackville-West) e si vide costretta, in diverse occasioni, a censurare i suoi romanzi per paura di
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Post/teca
incorrere in processi o addirittura essere arrestata. Il taglio più famoso? Si ritrova sulla prima bozza
di "A room of one'own" ("Una stanza tutta per sé"), considerato il supremo manifesto del
femminismo letterario. Nel manoscritto, accanto a un ambiguo passaggio incompiuto, si può
leggere una gustosa nota della Woolf : «Mi sono venuti in mente flash inevitabili della polizia; gli
ordini di comparizione; i magistrati che arrivano; il bicchiere d'acqua; il pubblico ministero;
l'avvocato; il verdetto; il libro dichiarato osceno e le fiamme che si alzano, probabilmente dalla
Tower Hill, mentre distruggono una massa di carta stampata».
Quentin Crisp (1908-1999), bizzarro personaggio. Fu scrittore, modello, attore e autore satirico.
Famoso per lo sfrontato esibizionismo che lo contraddistinse lungo tutta la sua esistenza. Animatore
di salotti frequentati da aristocratici e rozzi proletari. Truccatissimo e dalla battuta pronta fu un
opinion leader innamorato follemente dell'America. Tanto che il tantrico Sting, ascoltando i suoi
racconti su cosa significasse, per un gay, vivere nell'omofobica Gran Bretagna degli anni tra i venti
e i sessanta, gli dedicò la canzone "Englishman in New York". Il suo numero era sull'elenco e,
nonostante fosse un personaggio pubblico, chiunque poteva chiamarlo e scambiarci due chiacchiere,
in qualunque momento. Sempre alla ricerca della provocazione giusta al momento giusto, arrivò a
definire l'AIDS come «una moda» e commentò in maniera irrispettosa perfino la morte di Diana.
Defunse a 91 anni e le sue ceneri furono sparse su Manhattan.
Personalità eccentriche, insomma, che vissero e morirono da star. Che lottarono contro la millenaria
repressione del sistema e il feroce biasimo sociale. Poi, ovviamente, ci sono le icone meno
"impegnate". Su tutte, Madonna, la solita Marylin, Joe Dallesandro (l'alter ego di Andy Warhol),
l'intramontabile Nelson Mandela. Già, perché anche gli etero possono diventare icone gay (anzi,
soprattutto gli etero).
Le assenze? Judy Garland, Liza Minelli, Barbra Streisand. Il colore, in effetti, latita e la mostra pare
esaltare particolarmente i toni del bianco e del nero. La parolina "gay", forse, se non è accostata al
solito carnevale cromatico, può disorientare. L'importante, in questi casi, è demolire luoghi comuni.
14 agosto 2009 14 agosto 2009 14 agosto 2009
Fonte: http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Tempo%20libero%20e
%20Cultura/2009/08/mostre-diventare-icona-gay.shtml?uuid=b18b84e8-88c4-11de-a6f3a8ba515d56fd&DocRulesView=Libero
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L’Italia è forse un regime autoritario?
Autore: Tooby
7 settembre 2009
A sentire qualcuno dell’opposizione, la risposta alla domanda di cui nel titolo parrebbe essere
positiva. La risposta, da parte mia, è no. Se però mi si chiede se l’Italia sia un regime democratico,
la mia risposta è, ancora, no.
Cerchiamo di fare un’analisi un po’ più approfondita, pur con tutte le critiche che si possono fare
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e che spero si faranno: partiamo da una definizione di regime autoritario, ovvero quella più
accettata di Juan Linz.
Autoritario è un sistema politico con pluralismo politico limitato e non responsabile, senza una
elaborata ideologia guida, ma con mentalità caratteristiche, senza mobilitazione politica estesa o
intensa, tranne che in alcuni momenti del suo sviluppo, e con un leader o talora un piccolo gruppo
che esercita il potere entro limiti formalmente mal definiti ma in realtà abbastanza prevedibili.
Va detto che questa definizione è molto generale, che serve ad identificare un genere: al suo interno,
infatti, possono esservi forti diversificazioni, pur essendovi il medesimo sfondo.
Vediamo in che misura sussistono le cinque dimensioni rilevanti di un regime autoritario applicato
all’Italia:
1. mobilitazione: l’Italia di Silvio Berlusconi non si caratterizza per un alto grado di
mobilitazione; al di fuori delle manifestazioni costruite ad hoc per omaggiare il capo, come
il primo congresso del Popolo della libertà – guarda caso momento di sviluppo-, le masse
non sono mobilitate. I diritti civili, politici e sociali sono, almeno formalmente, garantiti, ma
l’esercizio effettivo di tali diritti è ostruito da un’informazione visibilmente controllata, e
negli ultimi tempi anche dall’intimidazione, mentre le strutture delle opposizioni sono deboli
e allo sbando;
2. pluralismo limitato: questa dimensione attiene alla sfera della responsabilità. Laddove il
pluralismo è limitato, notiamo l’esistenza di pochi attori veramente rilevanti nell’arena
politica, che sistemano le questioni di responsabilità al massimo inter eos. In una liberaldemocrazia di massa, la questione della responsabilità è affidata al popolo, mediante
elezioni libere, competitive, corrette. Questo non avviene in Italia, basti pensare che una
delle cause del declino italiano (Berlusconi, nei suoi quattro fallimentari governi) sia
appunto arrivato al quarto mandato. Vuoi anche per l’incapacità dell’opposizione, gli italiani
non riescono ad attribuire correttamente le responsabilità, e ciò è dovuto proprio alla
mancanza di pluralismo (riducendo ai minimi termini la questione, da un lato abbiamo
Berlusconi, dall’altro degli incapaci).
3. mentalità caratteristiche: alzi la mano chi ha capito l’ideologia alla base del berlusconismo.
Se qualcuno l’ha capito, ce lo spieghi: il berlusconismo non sembra avere alcuna ideologia
(men che meno quella liberale). Ha, al massimo, mentalità caratteristiche, ovvero una serie
di valori (o disvalori) che ne guidano l’agire. Piuttosto forte il populismo, oggi non più solo
berlusconiano, ma pure tremontiano, brunettiano, sacconiano, ano, ano;
4. leader o piccolo gruppo: credo che spiegare questo punto sia superfluo;
5. limiti formalmente mal definiti: qui c’è la parte più divertente. I limiti all’esercizio del
governo, formalmente, ci sono (la Costituzione). Il problema è che vengono regolarmente
calpestati. Due esempi: la legge è uguale per tutti? No, ci sono quattro tizi che per legge
sono più uguali degli altri; ancora, il potere legislativo è nelle mani del parlamento?
Formalmente sì, nella pratica no, visto che questo governo tiene sotto scacco il Parlamento a
colpi di voti di fiducia. Quanto alla prevedibilità, beh… notiamo che ogni volta che esce
fuori un processo a carico del capo o dei suoi seguaci, puntualmente esce fuori una leggina
da hoc che cancella il reato, abbatte la prescrizione, rende immuni, eccetera. Esempio solo
per rimanere nel campo della giustizia (vogliamo parlare delle televisioni o delle tasse?).
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Post/teca
Vale la pena, qui, di sottolineare alcuni aspetti di un regime autoritario rimasto unico nel suo genere:
il regime fascista. Esso era caratterizzato dalla presenza di un leader carismatico legato ad un partito
con tendenze totalitarie; ha usato, nel corso della sua instaurazione, vari attori sociali, come la
Chiesa (che era un po’ cooperante un po’ conflittuale), la monarchia, l’esercito, la grande industria e
la classe media. Il regime si caratterizzava per spunti nazionalisti che si traducevano in una politica
estera aggressiva; per l’antiliberalismo; per l’antiparlamentarismo; per l’anticomunismo; per
l’anticlericalismo; per l’anticapitalismo. Salvo poi sostanzialmente fare nulla se non rafforzare il
proprio potere (il corporativismo, in vent’anni, non venne mai alla luce; la Camera dei Fasci e delle
Corporazioni nacque solo al tramonto del regime stesso). Non so voi, ma io ritrovo diverse analogie
con l’Italia berlusconiana, oltre, ovviamente, a qualche differenza.
Dunque, questo basta a definire l’Italia un regime autoritario? Dal mio punto di vista no: l’Italia ha
tratti autoritari, ma non è (ancora) un regime autoritario.
Chiediamoci, allora, se l’Italia è una democrazia.
Una democrazia si caratterizza per quattro elementi fondamentali:
1.
2.
3.
4.
suffragio universale maschile e femminile;
elezioni libere, competitive, ricorrenti, corrette;
pluralità di partiti;
diverse e alternative fonti d’informazione.
Questa è la definizione minima di democrazia: l’assenza di uno o più di questi fattori mette in crisi
la presenza dell’Italia all’interno del genus democratico. Vediamoli uno per uno:
1. suffragio universale maschile e femminile: è indubbio che questa dimensione sia presente;
2. elezioni libere, competitive, ricorrenti, corrette: le elezioni sono libere (se diamo
un’interpretazione estensiva a questo aggettivo) e ricorrenti (anche troppo), ma non sono
competitive, né corrette (si guardi il quarto punto);
3. pluralità di partiti: ne abbiamo anche troppi, anche se quelli rilevanti, ovvero oggi in
Parlamento, sono molto pochi, almeno relativamente al passato;
4. diverse e alternative fonti d’informazione: qui c’è il problema. Abbiamo un presidente del
Consiglio che possiede tre televisioni, che ne controlla altre due ed è sulla strada per
prendersi pure la terza (se è vero che si vogliono piazzare Gianni Minoli ed Enrico Mentana
su RaiTre). Una settima televisione, la cui indipendenza è già piuttosto sbiadita, si inchinerà
al premier, poiché il suo proprietario (alias Telecom Italia), non può certo alienarsi i rapporti
con il gruppo di potere (La7, infatti, potrebbe segnalare un bel po’ di fattacci che la
danneggiano, ma non lo fa per non essere ulteriormente danneggiata, visto che l’autorità
indipendente, visto che ha trovato in Google il monopolista della pubblicità e non in
Mediaset e compagni, potrebbe non essere poi così indipendente); l’ottava televisione
(SKY) ha avuto tasse raddoppiate, si è vista sottrarre la RAI, la quale è stata poi costretta ad
allearsi con il proprio concorrente (Mediaset) per creare una propria piattaforma satellitare
(TivuSat) in un gioco in cui Silvio vince e gli italiani perdono. In Italia oltre il 60% degli
italiani si informa SOLO con la televisione, con punte di quasi l’80% fra i pensionati e le
casalinghe (bacino elettorale del centrodestra, guarda caso). Gli altri diversificano, ma solo
un decimo compra regolarmente i giornali. In altre parole, si può dire che per la
stragrandissima maggioranza degli italiani la televisione è il principale mezzo di
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Post/teca
informazione. Ma se la televisione è praticamente tutta in mano a Silvio Berlusconi, vuol
dire che questa quarto pilastro della democrazia è veramente debole.
A causa della debolezza dei pilastri 2 e 4, l’Italia non appare essere un regime democratico secondo
la definizione data (che poi è la definizione minima fornita dalla scienza politica – ce ne sono altre:
alcune non cambiano in sostanza il discorso appena fatto, mentre le altre sono definizioni
meramente “procedurali”, secondo le quali l’Italia è un regime democratico perché la Costituzione
(democratica) e le sue procedure (democratiche) sono formalmente rispettate, ma pure queste
definizioni vengono incrinate se pensiamo allo svuotamento dello spirito costituzionale, quanto,
nella pratica, a tutte le sentenze della Corte Costituzionale scavalcate – ricordate Europa 7).
L’Italia, tuttavia, non è neppure pienamente un regime autoritario.
In conclusione di questa veloce riflessione, sono portato a dedurre che l’Italia si trovi in un
momento di crisi democratica, più precisamente di crisi nella democrazia, poiché assistiamo al
cattivo funzionamento di alcune strutture dello Stato (Parlamento, magistratura), oltre che un
progressivo distacco della Piazza dal Palazzo (l’esistenza stessa di Beppe Grillo e dei grillini, e
soprattutto la loro crescita, ne è un sintomo, solo per fare un esempio).
Notiamo, inoltre, la sostanziale scomparsa del centro politico: l’accordo fra le parti su problemi
sostantivi è estremamente raro (addirittura i problemi sostantivi sono lasciati in secondo piano
rispetto agli scandali sessuali e altre facezie simili); ancora, in questi giorni stiamo assistendo ad
una escalation di violenza verbale (citazioni in giudizio, attacchi all’Europa, attacchi degli house
organ contro i direttori dei giornali nemici) e non (ricordate questo?) finora inaudita.
Tutti questi sono sintomi di una profonda crisi democratica (e ve ne sarebbero molti altri). Si
potrebbe dire che l’Italia si trova in uno stato intermedio fra la democrazia e l’autoritarismo. Se il
genus democratico non viene abbandonato, è perché questo non è né necessario né auspicabile: la
democrazia resta un valore fondamentale per la stragrande maggioranza degli italiani e soprattutto
per la posizione nel campo internazionale (anche se da questo punto di vista gli altri Paesi europei,
non addormentati dalle tv del padrone, già sanno che la democrazia è in crisi in Italia, se pensiamo
alle dichiarazioni di Martin Schultz e altri – che dicono, in pratica, che Berlusconi può essere un
cattivo esempio per altri Paesi del mondo – e al fatto che i nostri vicini non vedono di buon occhio
le amicizie strettissime che “vantiamo” con leader certamente non democratici come Vladimir Putin
e Muammar Gheddafi, a cominciare dagli USA), e per questo è necessario mantenere l’apparenza
(senza contare che, non svenite dalla sorpresa, anche all’interno del PdL c’è gente che è davvero
innamorata della democrazia).
La teoria ha elaborato una definizione di un tipo di autoritarismo (o meglio, un regime di
transizione fra autoritarismo e democrazia) che ben si adegua, a mio avviso, all’Italia dei giorni
nostri. È quella della democrazia elettorale, che Cotta, Della Porta e Verzichelli definiscono
come segue:
Se [...] il procedimento elettorale è corretto, ma i diritti civili non sono ben garantiti, se in
particolare, la stessa informazione è condizionata da situazioni di monopolio con la conseguenza di
escludere parti della popolazione dall’uso effettivo dei propri diritti, se eventualmente non vi è
un’effettiva opposizione partitica e in realtà un solo partito [ndTooby: vogliamo dire "coalizione"?]
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Post/teca
domina la scena elettorale e, più in generale, quella politica, allora si potrà parlare di democrazia
elettorale.
Sembra un calzino messo sopra lo stivale.
Fonte: http://blog.tooby.name/politica/litalia-e-forse-un-regime-autoritario/
///////
McLaud 1 ora fa
Tooby, consentimi di farti una piccola critica preliminare: alle volte, per quanto riguarda i rispettivi
argomenti di specializzazione, forse ognuno farebbe meglio a mantenere il discorso su piani più
generali, perché scendendo nello specifico la propria preparazione mostra la corda.
Ad esempio: il problema dell'esercizio del potere legislativo non è tanto che il governo tenga sotto
scacco il parlamento con le votazioni di fiducia (cui in ogni caso hanno ricorso riccamente anche gli
ultimi esecutivi "sinistroidi", alle volte con clamorosi autogol). Il vero problema risiede nel fatto
che ormai il parlamento concorre minimamente motu proprio alla produzione legislativa: 1) il
numero di decreti legge e decreti legislativi (governativi) supera ormai di gran lunga le vere e
proprie leggi (del parlamento); 2) per non farne una questione solo numerica, i testi normativi
governativi intervengono su materie di grande importanza ed ampiezza, su cui il parlamento
"decide" di astenersi allegando variamente la scarsa competenza tecnica, la farraginosità
decisionale...; 3) da qualche anno a questa parte, la normativa comunitaria che necessita di
recepimento del nostro ordinamento è tutta trasposta attraverso decreti legislativi emanati sulla
scorta di leggi delega sostanzialmente in bianco (il parlamento si limita ad elencare le direttive da
attuare, senza mai specificare nulla in proposito); 4) le autorità amministrative "indipendenti"
concorrono con i loro regolamenti a disciplinare settori nevralgici dell'economia e della società in
generale (energia, gas, telecomunicazioni, concorrenza, pubblicità...), senza però essere
politicamente responsabili, ed anzi, essendo fortemente legate (nonostante la sbandierata
indipendenza) al potere politico che le ha espresse (e, quindi, in ultima istanza, alle lobby
economiche che stanno dietro); 5) materie di grande rilevanza sociale ed economica sono oggi
rimesse (nell'ambito territoriale di competenza, naturalmente) alle regioni ed agli altri enti locali,
non più al parlamento. Con la conseguenza negativa che, essendo cessati i trasferimenti automatici
dallo stato centrale alle periferie, gli enti territoriali si destreggiano sempre con l'acqua alla gola e
sono quindi incapaci di politiche ad ampio respiro, mentre, nel lungo periodo, si allarga la forbice
tra alcune regioni strutturalmente più solide ed altre che non lo sono.
Mi fermo qui, ma lo svuotamento (giuridico e fattuale) delle funzioni del parlamento, se solo si
volesse constatarlo, è sotto gli occhi di tutti. Gli strumenti per concentrare il potere in un gruppo
sempre più ristretto, peraltro, sono in bell'evidenza: il parlamento oggi serve solo a ratificare
decisioni prese altrove.
Sul superamento della Costituzione sia nelle procedure, sia nella sostanza, ci sarebbe molto più da
dire oltre al caso di Europa 7 o al c.d. lodo Alfano. "Scavalcamenti" disinvolti e gravi violazioni
sono all'ordine del giorno ed hanno conseguenze ben più gravi ed estese degli esempi che hai
menzionato.
Senza contare che ormai, al di là di qualche proclamazione demagogica, tutte le fazioni politiche si
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Post/teca
sono accorte che alterare formalmente i contenuti della Costituzione non è necessario quando si
possono raggiungere i propri fini con altri mezzi.
Mi permetto, poi, di ribadire un'osservazione che già avevo fatto e che pare sia caduta nel vuoto:
non credo che il capitalismo o il liberalismo siano delle ideologie, sono delle etichette che in larga
misura rappresentano delle razionalizzazioni dell'esistente. Nessuno ha mai individuato le loro
caratteristiche mentre l'economia occidentale moderna sorgeva (e non vale citare Adam Smith a
sproposito): tali qualificazioni sono state ideate ed applicate a posteriori.
Sempre in ambito politico-ideologico, poi, dissento fortemente dalla tua affermazione sulla
scomparsa del "centro" (se ben l'ho capita): ormai nelle forze politiche parlamentari trovi solo
centro (ed il populismo demagogico-cafone della lega). Tutte le altre fronde sono state potate (a
prescindere dall'esistenza formale di una miriade di altri partiti, che non è più necessario bandire
come ai tempi del fascismo solo perché o li si può incorporare - come fossero delle imprese
concorrenti -, o li si può lasciare agonizzare e sparire). Se oggi tutti gli ex democristiani presenti si
riunissero in una sola formazione, raggiungerebbero una percentuale di voti di gran lunga superiore
a quelle su cui la DC si assestava in passato, specialmente nel passato più recente. Peraltro, ti
stupisci del mancato accordo su problemi importanti?
Che c'è di nuovo? Il punto non è tanto questo. Il problema non è che non si accordino in merito a
certe gravi problematiche, ma che si accordino in relazione ad altre e, per limitarmi ad una sola
segnalazione, mi riferirò al caso Alitalia. Avrebbe mai potuto il PD fare una qualsivoglia
opposizione se tra i suoi deputati c'è il figlio dell'attuale presidente del cda di una delle più costose
truffe mai elaborate? Soggetto, quest'ultimo, che ha già collaborato con alcune delle più fallimentari
privatizzazioni poste in essere - guardacaso - da governi di sinistra?
Infine, mi trovo d'accordo sul fatto che l'Italia sia in crisi democratica, ma non che sia in un punto
intermedio nel segmento che corre tra "democrazia perfetta" (qualunque cosa ciò significhi) e
"regime autoritario" (che, in forma perfetta, è invece storicamente identificabile e vanta un
curriculum assai più lungo della concorrente). La bilancia, secondo me, pende molto più verso la
seconda alternativa ed attaccarsi a definizioni manualistiche vale ben poco, specie se si considera
che l'ultima citazione da te fatta è un'altra razionalizzazione dell'esistente.
Capisco che ai fini di un post sia necessario sintetizzare, ma l'amore per certe eleganti simmetrie e
per le coerenti generalizzazioni può indurre ad essere superfciali. Di democrazia in Italia c'è solo il
nome ed è bene accorgersene e denunciarlo prima che sia troppo tardi: Berlusconi sta ripercorrendo
con la sua invincibile protervia e la sua gretta ed ambiziosa ignoranza la strada che già condusse
ben altri ad essere primus inter pares.
Peccato che nella nostra farsesca replica storica avremo solo un primus inter (im)pares.
//////
Tooby
1 ora fa
Ti ringrazio per il tuo commento, che approfondisce ciò che per motivi di lunghezza ho dovuto
sintetizzare. L'obiettivo del post era trasformare un'affermazione, un sentire (l'Italia è un regime
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Post/teca
autoritario, l'Italia è una democrazia) in una questione più articolata, razionale, e per quanto
possibile oggettiva, perché credo che una cosa sia dire che siamo in un regime autoritario, un'altra
spiegare razionalmente perché. Dirlo senza una discussione, probabilmente, mi farebbe solo
additare quale comunista, grillini, di pietrista, giustizialista e altre etichette.
>Sempre in ambito politico-ideologico, poi, dissento fortemente dalla tua affermazione sulla
scomparsa del "centro"
Questo punto riguarda una mia piccola osservazione, ovvero la nascita di una nuova cleavage
all'interno della politica italiana. È corretto quanto dici sulla base delle fratture tradizionali (ovvero
che esiste solo il centro e tutto il resto), ma non in base a quest'altra frattura, che riguarda chi è
berlusconiano e chi no, chi è stato incorporato e chi ancora tenta di resistere. Qui il centro
scompare: o approvi l'operato del governo o sei un cattocomunista, e non c'è una via di mezzo. Se la
maggioranza fa una legge porcata, lo dici solo perché hai pregiudiziali contro Berlusconi, non
perché, che so, una legge che rende Tizio intoccabile dalla Legge è un abominio. Se fai una
proposta dai banchi dell'opposizione o critichi il governo sei un antitaliano, un populista, non ti
prendono neanche in considerazione. È questo il centro che è scomparso, non quello tradizionale
(che, come hai detto, si è pure rafforzato).
>mi trovo d'accordo sul fatto che l'Italia sia in crisi democratica, ma non che sia in un punto
intermedio nel segmento che corre tra "democrazia perfetta" (qualunque cosa ciò significhi) e
"regime autoritario" (che, in forma perfetta, è invece storicamente identificabile e vanta un
curriculum assai più lungo della concorrente)
Posto che non ho parlato di democrazia perfetta, che pare non esista, ma solo di una definizione
minima di democrazia, il regime di cui io parlo (la democrazia elettorale) cade nei regimi autoritari
senza alcun dubbio. Come hai detto tu, il regime autoritario è chiaramente identificabile
(probabilmente perché, allargandolo un po', ricomprende tutto ciò che democrazia non è), e per
questo motivo non si può essere democratici solo un po': o lo si è o non lo si è, e in quest'ultimo
caso si è in un regime autoritario.
Vengo quindi alla fine: perché ho detto che l'Italia non è ancora un regime autoritario? Perché sono
ancora presenti varie reti di sicurezza (prima fra tutte l'Europa) che ci impediscono di sprofondare
da questa zona grigia alla zona nera (ovvero di perdere anche il nome e le poche libertà rimaste
della democrazia): questa è una considerazione di più lungo periodo che si rifà a quanto tu dici,
ovvero che bisogna mettersi in testa che la democrazia italiana è in crisi, che rischia di crollare, che
bisogna ficcarsi bene in testa che le libertà vanno conquistate giorno dopo giorno e che, quindi,
bisogna resistere a questa deriva.
Non ho fatto altro che dare una base razionale e teorica, nel mio piccolo, perché se non si ragiona in
modo deciso finiremo per cadere davanti ai colpi di coloro i quali negano impunemente persino
l'evidenza (ma quale conflitto d'interessi, ma quali collegamenti con la mafia, ma quale P2, ma quali
leggi ad personam, mavalà, eccetera eccetera).
----------------7/9/2009 (8:5) - LA STORIA
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Post/teca
La giovane Gretel umiliata da Hitler
Esclusa dai Giochi nazisti perchè ebrea e sostituita da un uomo. Ora il dramma della Bergmann è un
film
IVO ROMANO
BERLINO
La storia di Caster Semenya - i dubbi sul suo vero sesso, i test cui sottoporsi, l'infinita querelle deve averle risvegliato un incubo, che porta dentro di sé da una vita, un incubo che l'ha
accompagnata dai tempi di una travagliata gioventù in patria fino alla serenità di una tranquilla
vecchiaia da emigrante. Deve essere stato come fare un salto all'indietro, a un passato molto
lontano, roba di più di 70 anni. Similitudini, non altro. Questione di uomini che gareggiano tra le
donne, e nulla più. Il resto, tutta un'altra storia. Una storia da film, che qualcuno ha infine deciso di
portare sul grande schermo.
«Berlin 36», firmato dal tedesco Kaspar Heidelbach. Giovedì prossimo, il debutto nelle sale
italiane. Un drammatico tuffo in un passato che non deve tornare, un monito perché certe ideologie
vengano cassate dall'umanità. Berlino e 36. Una città e un numero. Che messi l'uno al fianco
dell'altra ci spingono indietro, fino al periodo più tragico che la storia del mondo ricordi. Berlino, il
simbolo della Germania. E ’36, l'anno delle Olimpiadi tedesche. C'era anche lei, Gretel Bergmann,
allora giovane atleta di più che belle speranze, ma protagonista a margine dello sport, lei che
aspirava a esserlo nello sport. C'era lei e c'era pure Dora Ratjen, stesse aspirazioni, stessa specialità,
il salto in alto. Tedesche, entrambe. Di genitori ebrei, la prima. Simpatizzante nazista, la seconda.
A Gretel avevano negato tutto, da anni. Era ebrea, non poteva rappresentare la Germania. Nel 1933,
la drastica decisione, presa dai genitori: emigrare in Inghilterra. Lo sport era la sua passione, in
patria non poteva gareggiare né allenarsi. Un cartello campeggiava sulla facciata dell'Ulm Football
Club 1894: «Ebrei e cani non sono ammessi». Lì aveva mosso i primi passi, da lì era stata cacciata
via: «Quando i nazisti presero il potere nel 1933, quando avevo 19 anni, non mi fu più permesso di
mettere piede in uno stadio, neppure da spettatrice». Meglio espatriare, quindi, con un biglietto di
sola andata. Magari avrebbe potuto cambiare nazionalità, gareggiare per l'Inghilterra, tornare in
patria per coronare sotto un'altra bandiera il sogno olimpico. E ce l'avrebbe fatta, se solo la
Germania non l'avesse richiamata.
Perché Gretel saltava misure ragguardevoli e incassava successi importanti: nel 1934 era diventata
campionessa britannica. Non ci volle molto perché la notizia attraversasse la Manica fino a giungere
in Germania. E fu così che le autorità decisero per il suo ritorno. La convinsero presto, usando
metodi spicci: minacce alla famiglia se lei non fosse tornata a rappresentare la Germania in pedana.
Troppo forte la paura di rappresaglie, tornare era l'unica opzione. Le Olimpiadi erano alle porte,
Gretel Bergmann e pochi altri erano la chiave per aprire la porte agli Usa, che minacciavano il
boicottaggio se la Germania non avesse permesso ad atleti ebrei di far parte della squadra a cinque
cerchi. Li ammisero tra gli aspiranti olimpionici, ma li trattavano come degli appestati.
C'erano centri d'allenamento apposta per gli ebrei, fatiscenti rispetto a quelli per gli altri atleti. Era
un'impresa allenarsi al meglio, ancora di più ottenere tempi e misure per qualificarsi, che poi era il
fine ultimo dei nazisti. Gretel Bergmann era più forte di tutti i soprusi: sempre migliori le sue
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performance, che le garantirono l'ingresso nel novero delle migliori saltatrici al mondo. Non poteva
non qualificarsi. E così fu. Mai, però, gli organizzatori le avrebbero permesso di esibirsi dinanzi a
Hitler, sotto le insegne della Germania nazista. Aspettarono fino alla fine, quando la squadra
americana era già sul transatlantico che l'avrebbe condotta in Europa, troppo tardi per mettere in
pratica un boicottaggio. Poi, il colpo di mano: via Gretel Bergmann dall'elenco dei partecipanti,
cancellata da un giorno all'altro.
E qui entra in scena Dora Ratjen, che negli ultimi giorni era stata sua compagna di stanza. Era
strana, Dora. Si depilava le gambe molte volte al giorno, faceva la doccia da sola, aveva un bagno
privato, aveva una voce roca e profonda. «Era tutto così strano - ricorda Gretel Bergmann, 95 anni,
dalla sua casa americana -. Ci chiedevamo tutte perché non l'avessimo vista mai completamente
nuda sotto la doccia o perché a quell'età avesse bisogno di depilarsi così spesso». L'avrebbero capito
un bel po' di tempo dopo. Alle Olimpiadi di Berlino, niente di che: solo un quarto posto. Due anni
dopo, agli Europei, il gran botto: saltò 170 centimetri, nuovo record mondiale. Un primato, però,
mai ratificato. Alcune rivali avanzarono il sospetto, un medico scoprì l'arcano: Dora Ratjen era un
uomo, il suo vero nome era Hermann. Fu arruolato nell'esercito, finì sul fronte orientale. Ne uscì
vivo. Anni dopo, da Amburgo, avrebbe raccontato la sua verità: «Sono stato costretto dai nazisti a
travestirmi da donna. Era per loro una questione di onore e gloria per la Germania. Per tre anni ho
vissuto come una ragazza. E' stato qualcosa di assurdo».
Hermann Ratjen è morto un anno fa. Gretel Bergmann la sua Germania l'aveva dimenticata. Se ne
andò negli Usa, fin dal 1937, dove s'è fatta una nuova vita. Ancora un po' di sport, ma solo fino
all'inizio della Seconda Guerra Mondiale. Ha dimenticato la Germania, anche se la Germania non
ha dimenticato lei. Nella sua città, Laupheim, gli hanno intitolato uno stadio nel 1999. Lei che
aveva promesso di non tornarci mai più fece uno strappo alla regola. Ma solo per una buona causa:
«Pensai che fosse una buona idea dare il mio nome a uno stadio. Perché a chi dovesse chiedersi chi
fosse la Gretel Bergmann dello stadio magari qualcuno racconterà la mia storia e la storia di quegli
anni». Ora l'ha raccontata anche Kaspar Heidelbach. «Berlin 36», un film, una storia, un monito.
Fonte: http://www.lastampa.it/sport/cmsSezioni/atletica/200909articoli/22482girata.asp
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8 settembre 2009
8/9/2009 - IL LIBRO DELL'ESTATE
1983, Mishima il vuoto prossimo venturo
Il racconto della Yourcenar sul mistero dello scrittore giapponese morto suicida
MATTIA FELTRI
Ogni estate è legata al ricordo di una canzone; noi proviamo a ricordarla attraverso il libro che la
segnò. Abbiamo chiesto alle nostre firme di rievocare l’uno e l’altra.
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All’alba del 23 ottobre 1983 - l’anno in cui uscì in Italia Mishima o la visione del vuoto, e due anni
dopo la sua stesura per mano di Marguerite Yourcenar - il sergente dei marines Steve Russel vide
l’autista di un camioncino Mercedes giallo sorridere mentre sfondava le barriere di filo spinato della
base. Pochi istanti dopo, il camioncino esplose e ammazzò 241 soldati. A Beirut, l’Islam, tramite
Hezbollah, aveva dichiarato guerra all’imperialismo americano. Stavamo ancora combattendo una
vecchia guerra e già cominciava quella nuova, e nemmeno ce n’eravamo accorti. Qui, da noi, si
sparava ancora per antiche rabbie. Venne ferito il giuslavorista Gino Giugni e accoppato Paolo Di
Nella del Fronte della Gioventù. Si processavano e condannavano all’ergastolo gli assassini di Aldo
Moro. Piccole miserie figlie di un grande dramma, ma non lo stesso che la mattina del 25 novembre
1970 aveva spinto lo scrittore giapponese Yukio Mishima a trafiggersi a morte nel tradizionale rito
del seppuku prima che un compagno lo decapitasse.
La Yourcenar (che già aveva raccontato fra puntini di sospensione l’ultimo respiro dell’imperatore
Adriano e il suicidio dell’eretico Zenone), questa imprecisabile narratrice di uomini e di tempi degli
uomini, dedicò un centinaio di fitte pagine ai 45 anni di vita di un giapponese che fu romanziere e
drammaturgo, uno che aveva infiammato il suo Paese e il mondo, uno dei tanti che avevano fatto di
sé un’espressione dell’estetica, ma in modo esclusivo. Ce lo descrive ben vestito all’occidentale
negli incontri parigini, tumultuante tra i corpi del Carnevale di Rio - dopo due giorni di solitario
sbigottimento -, lui, che eiaculò la prima volta davanti al San Sebastiano crivellato di frecce di
Guido Reni. È il Mishima che nei libri descrive ragazzi in serale compagnia, come ragazzi europei o
americani, e fanno le stesse cose, ascoltano la stessa musica. È il Mishima del Mare della fertilità,
come la vasta pianura lunare che si rivelerà uno sterile deserto: «è Niente, il Nulla».
In parecchi si sono esercitati nella decifrazione del gesto: perché Mishima si uccise? Ognuno se lo
divora a modo suo, era un omosessuale, un bisessuale, un orgiastico, un fascista, un dannunziano
senza pretese dongiovannesche, un artista alla ricerca dell’opera perfetta. Riletto oggi, a quasi tre
decenni di distanza, il saggio della Yourcenar spalanca l’immagine di una spaventosa premonizione.
Il Giappone che atterra Mishima è un Giappone «dal ventre pieno» dove «il piacere stesso ha
perduto oggi il sapore». È il Giappone dove l’esercito per sua volontà rinuncia a ricostituirsi, e si
consegna al nemico che lo straziò di atomiche nel 1945. È la Tokyo nuova, foresta di antenne
televisive, una pioggia di gelaterie e distributori automatici di Coca-Cola, e dove si ammassano
cimiteri di automobili. La dissoluzione, scrive la Yourcenar, ha già abbandonato quest’uomo che
scrive: «Denaro e materialismo regnano incontrastati; il Giappone moderno è brutto».
Noi, qui, avevamo altre faccende. Ronald Reagan annunciò il progetto dello scudo spaziale.
L’Unione Sovietica, già bolsa, era incamminata verso il collasso e Lech Walesa guadagnò il Nobel
per la Pace. Ascoltavamo Thriller di Michael Jackson il cui folle successo era la certificazione del
riflusso: ognuno doveva rivolgere le energie su se stesso. Madonna esordiva con un album
omonimo in nome della Physical Attraction. Agli Oscar trionfava Gandhi, ma al cinema si andava a
vedere ET di Steven Spielberg. Pure l’illuminista e sbuffosa Francia aveva appena eletto una nuova
romantica Marianna: era la Sophie Marceau del Tempo delle mele. Nessuno - o forse pochi - colse i
segni: il cambio di protocollo mutò Arpanet in Internet; Steve Jobs lanciò per Apple la prima
versione di Word; qualcuno riuscì a fotografare il virus dell’Hiv e la globalizzazione della nuova
peste aveva appena fatto due vittime in Italia. La sanguinosa e nuova comparsa del kamikaze
islamico fu seppellita dalle prime Vacanze di Natale di Carlo Vanzina.
La mattina del 25 novembre 1970, Mishima aveva infilato in una busta indirizzata all’editore il
quarto manoscritto della sua tetralogia, aveva lasciato su un biglietto «la vita umana è breve e io
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vorrei vivere per sempre» e andò a morire. Si sbudellò - come aveva recitato in un film tratto da un
suo racconto, Patriottismo - in un gesto plateale ma rigidamente tradizionale per rifiuto altissimo del
mondo venuto. La Yourcenar scrive che «l’individualità cui teniamo tanto si sfilaccia come un
indumento». Lì, Michael Jackson è già finito prima di cominciare. Lo stravolgimento non più
sopportabile è l’Imperatore Hirohito che rinuncia alla sua divinità e annienta l’onore e l’amore, cioè
il senso stesso della vita. Che senso ebbe il sacrificio fisico e trascendente dei kamikaze della
seconda guerra mondiale? E che senso ha trasfigurarsi dentro una donna se la rappresentazione del
triangolo, con la coppia alla base e l’Imperatore al vertice, non ha più valore? I fascisti che lo
amano, i comunisti di cui amava «l’ideologia ferrea e l’inclinazione per la violenza» - ma ai quali
mancava «un atout: l’Imperatore» fatto Dio - ecco, tutti costoro non potevano sapere che Mishima
offriva le viscere non alla guerra in corso ma a quella a venire.
Autore: Marguerite Yourcenar
Titolo: Mishima o la visione del vuoto
Edizioni: Bompiani
Pagine: 111
Prezzo: 6,20 euro
Fonte: http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/Libri/grubrica.asp?
ID_blog=54&ID_articolo=2215&ID_sezione=80&sezione=
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Contrappunti/ Chi tramanda la cultura?
di M. Mantellini - Google monopolista, Google attentatore della privacy, Google che approfitta del
lavoro di autori ed editori. Chi altro potrebbe incaricarsi della digitalizzazione in Italia?
Roma - Esistono talvolta piccole casualità illuminanti. Nell'ultimo aggiornamento di Punto
Informatico di venerdì scorso sono finiti uno all'altro accanto due articoli interessanti. Il primo
quello delle proteste della Associazione Italiani Editori su Google Books, l'altro l'editoriale di
Marco Calamari sulla proprietà intellettuale. Nel primo pezzo si aggiunge il nome di AIE alla lista
ormai assai corposa dei grandi critici del tentativo di Google di digitalizzare e rendere disponibili
tutti i libri del mondo, nel secondo si disserta con acume della carestia artificialmente indotta dai
soggetti più vari per rendere "profittevole" la vendita dei prodotti culturali.
Ci sono, come è noto, molte perplessità sulla essenza stessa di Google e sulla sua ormai assoluta
centralità nel panorama Internet mondiale. La voce di quanti allertano sui rischi di uno strapotere
targato Mountain View, che possiede ormai rendite di posizione tali da minacciare il mercato della
pubblicità mondiale, quello del software, così come la privacy di tutti i cittadini, si alza ogni giorno
con maggior vigore un po' in tutto il mondo e spesso le preoccupazioni espresse sono fondate e
condivisibili.
Premesso questo, l'assalto a Google Books ed agli accordi che Google sta mettendo in piedi con le
maggiori istituzioni culturali mondiali per la digitalizzazione delle opere librarie ha in sé qualcosa
di indecoroso, specie se applicato alla realtà dei fatti italiana.
Sul banco degli imputati è salito recentemente l'accordo che consente a Google una forma di
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esclusiva (in accordo con gli autori stessi) sulle opere digitalizzate e messe online. Si tratta di un
accordo che riguarda un certo numero di autori le cui opere sono a tutt'oggi sotto copyright ma in
gran parte non più pubblicate. Opere che verosimilmente non genereranno più alcun introito né per
gli autori né tanto meno per i suoi editori. Si tratta anche, abbastanza verosimilmente, di un accordo
non replicabile e dotato di una forma di opt-out per editori ed autori assai controversa e come tale
giustamente impugnato da molte associazioni editoriali in tutto il mondo.
E tuttavia una questione del genere torna buona per mettere in discussione per l'ennesima volta e
con toni sempre più accesi l'intera operazione di Google Books, che ha un solo grande impatto
spesso sottaciuto: incide profondamente in quella carestia culturale indotta di cui parla Calamari e
che è la vera ragione dell'ostracismo diffuso verso l'iniziativa.
Nessuno dei soggetti in campo percepisce evidentemente come un valore che la cultura venga
messa in circolazione. Leggiamo lunghe dissertazioni sui rischi legati al fatto che Google svilirà il
patrimonio librario farcendolo di pubblicità o, come si sostiene con qualche ragione da più parti,
digitalizzando i testi con superficialità e sbadataggine, ma da nessuna parte si sottolinea il valore per
i cittadini che una iniziativa del genere crea. Google è il male e l'elenco delle colpe attribuitegli con
svizzera precisione è assai lunga: si va dagli errori di attribuzione, a quelli di digitalizzazione, dagli
accordi in esclusiva ai rischi per la privacy dei cittadini.
È sufficientemente trasparente il fatto che molti dei soggetti accusatori di Google non hanno grande
titolo per improvvisarsi difensori preoccupati della cultura, essendo loro stessi anima e costruttori di
un numero assai ampio di barriere alla diffusione della cultura stessa. A questo si aggiunge nel
nostro paese una ulteriore nota di perplessità. Le biblioteche italiane sopravvivono nella più assoluta
decadenza: non ci sono i soldi per digitalizzare nemmeno le opere più preziose, per la verità non ci
sono nemmeno i soldi per pagare la cancelleria ed i libri, gran parte dei libri, sono tenuti distanti
dalla consultazione di studiosi ed esperti da questioni banalmente economiche ma cruciali come la
carenza di personale. Ai cittadini che chiedono di consultare testi non recenti vengono proposti (a
pagamento) substrati vetusti come il microfilm o corpose partecipazioni economiche alla
digitalizzazione (mia moglie ha recentemente dato mandato ad una biblioteca dell'Italia del nord per
digitalizzare un testo non altrove disponibile alla modica cifra di 80 euro + un CD vuoto da spedire
preventivamente). In casi del genere al posto del lavoro di Google-Evil la digitalizzazione del
patrimonio librario avviene a spese del cittadino interessato alla consultazione oppure non avviene
per nulla. Se altrove l'alternativa è la discesa in campo di altri soggetti anche istituzionali che
potrebbero fare lo stesso lavoro di Google Books a condizioni migliori (anche se spesso con un
respiro meno internazionale) in Italia semplicemente questa eventualità non esiste.
Le questioni di principio sono importanti e Contrappunti da tempo ne ha fatto una bandiera del
proprio sproloquiare, ma il contesto in cui si filosofeggia lo è talvolta anche di più e davvero in
questo paese le dissertazioni sul colore troppo carico della carta da parati mentre la casa crolla
andrebbero in qualche misura più spesso sottolineate. Specie quando - nei casi peggiori - l'esteta
della carta da parati ha in mano il martello pneumatico del demolitore.
Massimo Mantellini
Manteblog
Fonte: http://punto-informatico.it/2703622/PI/Commenti/contrappunti-chi-tramanda-cultura.aspx
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-------------------------7 settembre 2009
Il documento
Così Carlo Freccero difende Emmanuelle dai moralisti della
Rai
Il ciclo di film erotici sul satellite e la "comica" definizione di porno
Pubblichiamo la lettera che Carlo Freccero, presidente di Raisat, ha scritto il 31 agosto alla
Direzione generale dopo le critiche ricevute per la programmazione della serie di film soft-erotici
"Emmanuelle" su Rai4.
Ancora una volta mi trovo a dover giustificare le scelte editoriali della mia programmazione.
Rai4 sta avendo un incremento di audience, ma contesto con fermezza l'insinuazione per cui tali
risultati sarebbero stati ottenuti facendo ricorso al porno. Trovo comica la definizione di "porno" per
il ciclo Emmanuelle, programmato di notte su Rai4. Si tratta di una serie culto degli anni Settanta,
apprezzata dai fan come genere storico, ma priva di contenuti lesivi del comune senso del pudore.
Cito in proposito la scheda del critico cinematografico Mereghetti, tratta dal suo Dizionario dei
film: "Emmanuelle...nasce, non a caso, in un anno indefinito dei Sessanta dalla fantasia di
Emmanuelle Arsan...nel giro di poco tempo entra di prepotenza nell'immaginario collettivo
contemporaneo come simbolo soft – e quindi accessibile ai più – di quella liberalizzazione sessuale
che all'epoca stava rivoluzionando i costumi della società occidentale. Anche se, a ben vedere, si
tratta di un personaggio molto più conservatore di come può sembrare...Con Emmanuelle il sesso
uscì allo scoperto e fu coniata la differenza fra cinema erotico e cinema pornografico...Di veramente
esplicito c'è poco rispetto agli standard attuali: la sexy eroina è quasi sempre senza veli, ma si
concede in modo da evitare esibizioni troppo manifeste, tanto che qualcuno ha parlato di erotismo
igienico".
La scelta di questo ciclo ha motivazioni di carattere editoriale. Su Rai4 è stato programmato
assime al film di Woodstock, di cui si celebra l'anniversario, per completare il ritratto di un'epoca.
Dagli anni Settanta ad oggi il comune senso del pudore è molto cambiato. Alla vigilia della
cosiddetta liberalizzazione sessuale, contenuti come quello di Emmanuelle potevano ancora dettare
scandalo. Allora le ballerine in televisione dovevano portare calze coprenti e le soubrettes rose
piazzate ad arte per mitigare le scollature. Oggi si vede di tutto, se vogliamo fare i censori, perché
non prendiamo in considerazione i contenuti delle fiction e dei reality programmati in prima serata
su tutte le reti generaliste?
Emmanuelle ha perso il suo potenziale di scandalo e rimane come pellicola di culto e documento
di un'epoca. Ne è riprova il fatto che, a partire dal 1978, su quattro film della serie, tre hanno avuto
la revisione ministeriale del nullaosta di censura che ha derubricato il divieto originale. Solo il
primo film della serie, prodotto nel 1973, non ha avuto la revisione, molto probabilmente per
dimenticanza, anche se i suoi contenuti sono gli stessi dei film successivi. Trattandosi ormai di
prodotti vietati ai minori di quattordici anni, la loro messa in onda in orario protetto è in linea con il
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Post/teca
Regolamento, anche da un punto di vista formale.
di Carlo Freccero
Fonte: http://www.ilfoglio.it/soloqui/3266
-------------8 settembre 2009
Il libro di Finkielkraut e il guru della tv
Per Freccero guai a dare la satira per morta: questo, sì, fa
ridere davvero
A Carlo Freccero, oggi direttore di Rai 4 e presidente di RaiSat, chiediamo di commentare la
tesi dell’ultimo libro di Alain Finkielkraut, “Il cuore intelligente” (ne ha scritto sul Foglio il 2
settembre Marina Valensise). Il filosofo sostiene che l’umorismo è diventato il rifugio del
conformismo, tanto più protetto e corrivo, quanto più spacciato per trasgressivo. E’ un inganno, dice
Finkielkraut, che come antidoto al torpore della critica e all’ideologismo mascherato da
intrattenimento propone invece di rimettersi a leggere i grandi romanzi. “Se la tesi è che la
letteratura, oggi, funziona come miglior antidoto all’ubriacatura ideologica del Novecento – dice
Freccero al Foglio – direi che è difficile non condividerla. Ogni credenza, ideologia, disciplina, una
volta falsificata appare stupida, pretenziosa”. Questo porta con sé la conseguenza che “l’utopia
politica che ha sorretto un secolo è vissuta ormai come estranea alla nostra sensibilità”. In questo
senso, “rispetto alla saggistica, la narrativa, che ha per oggetto i sentimenti, conserva invece una
propria capacità di comunicare”. Non certo quella narrativa “che non è più romanzo ma intreccio
fine a se stesso”, ma i grandi romanzi indicati da Finkielkraut, “e che, secondo lui, hanno la capacità
di esprimere ‘un’eco del riso di Dio’, e si possono permettere per questo di prendere le distanze dal
conformismo”. Cita a questo proposito “Lo scherzo” di Kundera, e la possibilità di ridere di un
fenomeno come il comunismo. “Il riso della letteratura, almeno per me, è straniante e
anticonformista per definizione”.
A questo riso liberatorio, secondo Finkielkraut, si contrappone il conformismo attuale dello
spettacolo che tende a divertire per derisione. “Diciamolo chiaramente: l’obiettivo di Finkielkraut è
dare addosso alla televisione. Dove, secondo lui, si ride in gruppo per aggredire l’altro, per sentirsi
parte di una maggioranza che si crede più forte perché condivide stereotipi o abitudini. Una forma
di linciaggio. Il modello, per Finkielkraut, è quello vissuto e raccontato da Roland Barthes: il
pubblico al cinema ride di ‘Perceval’, perché il medioevo rappresentato dal film di Rohmer è troppo
alieno e distante dalla cultura e dall’esperienza quotidiana degli spettatori. Ecco, è proprio questa
seconda parte del ragionamento di Finkielkraut che non mi persuade affatto”. A non convincere
Carlo Freccero è “la tesi che distingue un riso letterario, capace di generare anticonformismo, e una
risata satirica, che compatta la folla al ribasso, nel linciaggio mediatico. Non mi sembra che le cose
stiano così. La satira, storicamente, nasce con finalità dissacranti. Non rappresenta un esercizio di
potere, semmai il suo contrario. Penso allora – anche perché conosco abbastanza bene la polemica
francese – che nel giudizio di Finkielkraut pesi l’episodio, riportato nel suo libro e citato dal Foglio:
l’intrattenitore Thierry Ardisson, nella sua trasmissione, aveva invitato i suoi ospiti a scegliere, tra
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tre morti, quella che meno li aveva colpiti, ed è uscito fuori che nessuno si era sentito
particolarmente toccato dalla morte del cardinale Lustiger. Conosco molto bene Ardisson, che
quando ero alla Cinq, nel lontano 1987, ha fatto con me il programma ‘Bains de minuit’ e posso
ammettere che certi suoi scherzi su morte e religione non siano affatto eleganti. Ma Ardisson non
può certo essere accusato di conformismo o di condiscendenza verso il pubblico”.
Piuttosto, prosegue Freccero, “il suo comportamento rispecchia quella concezione esasperata di
laicità così tipica del pensiero francese. Per un francese, la libertà di espressione è comunque più
sacra di qualsiasi religione civile e trascendente”. Ma torniamo alla risata del pubblico descritto da
Barthes, che “nasce dall’imbarazzo, dall’ignoranza, dalla impossibilità di afferrare il significato
delle cose. D’accordo, ma la risata sollecitata dalla satira è sempre dissacrante, nel bene e nel male,
perché ha una capacità chirurgica di metterci davanti alle nostre illusioni”. Significa che nel riso c’è
sempre una verità, magari spiacevole? “Voglio dire che è importante che qualcuno ci metta davanti
alle nostre illusioni, e se la letteratura lo fa in forma poetica, la satira lo fa con altri mezzi. Ho visto
da poco il nuovo spettacolo di Corrado Guzzanti, strepitoso, ed è ottima satira. Guai a dire che la
satira è morta o è il nuovo conformismo, o è ridotta solo a rumore di fondo. Si rischia di far ridere
davvero”.
Fonte: http://www.ilfoglio.it/soloqui/3267
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Omaggio a Mike Bongiorno
Da: Umberto Eco, “Fenomenologia di Mike Bongiorno”, in Diario Minimo, 1961.
Il caso più vistoso di riduzione del superman all’everyman lo abbiamo in Italia nella figura di Mike
Bongiorno e nella storia della sua fortuna.
Idolatrato da milioni di persone, quest’uomo deve il suo successo al fatto che in ogni atto e in ogni
parola del personaggio cui dà vita davanti alle telecamere traspare una mediocrità assoluta unita
(questa è l’unica virtù che egli possiede in grado eccedente) ad un fascino immediato e spontaneo
spiegabile col fatto che in lui non si avverte nessuna costruzione o fin zione scenica: sembra quasi
che egli si venda per quello che è e che quello che è sia tale da non porre in stato di inferiorità
nessuno spettatore, neppure il più sprovveduto. Lo spettatore vede glorificato e insignito
ufficialmente di autorità nazionale il ritratto dei propri limiti.
Per capire questo straordinario potere di Mike Bongiorno occorrerà procedere a una analisi dei
suoi comportamenti, ad una vera e propria “Fenomenologia di Mike Bongiorno”, dove, si intende,
con questo nome è indicato non l’uomo, ma il personaggio.
Mike Bongiorno non è particolarmente bello, atletico, coraggioso, intelligente. Rappresenta,
biologicamente parlando, un grado modesto di adattamento all’ambiente. L’amore isterico
tributatogli dalle teen ager va attribuito in parte al complesso materno che egli è capace di
risvegliare in una giovinetta, in parte alla prospettiva che egli lascia intravvedere di un amante
ideale, sottomesso e fragile, dolce e cortese.
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Mike Bongiorno non si vergogna di essere ignorante e non prova il bisogno di istruirsi. Entra a
contatto con le più vertiginose zone dello scibile e ne esce vergine e intatto, confortando le altrui
naturali tendenze all’apatia e alla pigrizia mentale. Pone gran cura nel non impressio nare lo
spettatore, non solo mostrandosi all’oscuro dei fat ti, ma altresì decisamente intenzionato a non
apprendere nulla.
In compenso Mike Bongiorno dimostra sincera e primiti va ammirazione per colui che sa. Di costui
pone tuttavia in luce le qualità di applicazione manuale, la memoria, la me todologia ovvia ed
elementare: si diventa colti leggendo molti libri e ritenendo quello che dicono. Non lo sfiora
minimamente il sospetto di una funzione critica e creativa della cultura. Di essa ha un criterio
meramente quantitativo. In tal senso (occorrendo, per essere colto, aver letto per molti anni molti
libri) è naturale che l’uomo non predestinato rinunci a ogni tentativo.
Mike Bongiorno professa una stima e una fiducia illimitata verso l’esperto; un professore è un
dotto; rappresenta la cultura autorizzata. È il tecnico del ramo. Gli si demanda la questione, per
competenza.
L’ammirazione per la cultura tuttavia sopraggiunge quando, in base alla cultura, si viene a
guadagnar denaro. Allora si scopre che la cultura serve a qualcosa. L’uomo mediocre rifiuta di
imparare ma si propone di far studiare il figlio.
Mike Bongiorno ha una nozione piccolo borghese del denaro e del suo valore («Pensi, ha
guadagnato già centomila lire: è una bella sommetta!»).
Mike Bongiorno anticipa quindi, sul concorrente, le im pietose riflessioni che lo spettatore sarà
portato a fare: «Chissà come sarà contento di tutti quei soldi, lei che è sempre vissuto con uno
stipendio modesto! Ha mai avuto tanti soldi così tra le mani».
Mike Bongiorno, come i bambini, conosce le persone per categorie e le appella con comica
deferenza (il bambino dice: «Scusi, signora guardia…») usando tuttavia sempre la qualifica più
volgare e corrente, spesso dispregiativa: «Signor spazzino, signor contadino».
Mike Bongiorno accetta tutti i miti della società in cui vive: alla signora Balbiano d’Aramengo
bacia la mano e dice che lo fa perché si tratta di una contessa (sic).
Oltre ai miti accetta della società le convenzioni. È paterno e condiscendente con gli umili,
deferente con le per sone socialmente qualificate.
Elargendo denaro, è istintivamente portato a pensare, senza esprimerlo chiaramente, più in termini
di elemosina che di guadagno. Mostra di credere che, nella dialettica delle classi, l’unico mezzo di
ascesa sia rappresentato dalla provvidenza (che può occasionalmente assumere il volto della
Televisione).
Mike Bongiorno parla un basic italian. Il suo discorso realizza il massimo di semplicità. Abolisce i
congiuntivi, le proposizioni subordinate, riesce quasi a tendere invisibile la dimensione sintassi.
Evita i pronomi, ripetendo sempre per esteso il soggetto, impiega un numero stragrande di punti
fermi. Non si avventura mai in incisi o parentesi, non usa espressioni ellittiche, non allude, utilizza
solo metafore ormai assorbite dal lessico comune. Il suo linguaggio è rigorosamente referenziale e
farebbe la gioia di un neopositivista. Non è necessario fare alcuno sforzo per capirlo. Qualsiasi
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spettatore avverte che, all’occasione, egli potrebbe essere più facondo di lui.
Non accetta l’idea che a una domanda possa esserci più di una risposta. Guarda con sospetto alle
varianti. Nabucco e Nabuccodonosor non sono la stessa cosa; egli reagisce di fronte ai dati come
un cervello elettronico, perché è fermamente convinto che A è uguale ad A e che tertium non datur.
Aristotelico per difetto, la sua pedagogia è di conseguenza conservatrice, paternalistica,
immobilistica.
Mike Bongiorno è privo di senso dell’umorismo. Ride perché è contento della realtà, non perché sia
capace di deformare la realtà. Gli sfugge la natura del paradosso; come gli viene proposto, lo
ripete con aria divertita e scuote il capo, sottintendendo che l’interlocutore sia simpaticamente
anormale; rifiuta di sospettare che dietro il paradosso si nasconda una verità, comunque non lo
considera come veicolo autorizzato di opinione.
Evita la polemica, anche su argomenti leciti. Non manca di informarsi sulle stranezze dello scibile
(una nuova corrente di pittura, una disciplina astrusa… «Mi dica un po’, si fa tanto parlare oggi di
questo futurismo. Ma cos’è di preciso questo futurismo?»). Ricevuta la spiegazione non tenta di
approfondire la questione, ma lascia avvertire anzi il suo educato dissenso di benpensante. Rispetta
comunque l’opinione dell’altro, non per proposito ideologico, ma per disinteresse.
Di tutte le domande possibili su di un argomento sceglie quella che verrebbe per prima in mente a
chiunque e che una metà degli spettatori scarterebbe subito perché troppo banale: «Cosa vuol
rappresentare quel quadro?». «Come mai si è scelto un hobby così diverso dal suo lavoro?».
«Com’è che viene in mente di occuparsi di filosofia?».
Porta i clichés alle estreme conseguenze. Una ragazza educata dalle suore è virtuosa, una ragazza
con le calze colorate e la coda di cavallo è “bruciata”. Chiede alla prima se lei, che è una ragazza
così per bene, desidererebbe diventare come l’altra; fattogli notare che la contrapposizione è
offensiva, consola la seconda ragazza mettendo in risalto la sua superiorità fisica e umiliando
l’educanda. In questo vertiginoso gioco di gaffes non tenta neppure di usare perifrasi: la perifrasi è
già una agudeza, e le agudezas appartengono a un ciclo vichiano cui Bongiorno è estraneo. Per
lui, lo si è detto, ogni cosa ha un nome e uno solo, l’artificio retorico è una sofisticazione. In fondo
la gaffe nasce sempre da un atto di sincerità non mascherata; quando la sincerità è voluta non si
ha gaffe ma sfida e provocazione; la gaffe (in cui Bongiorno eccelle, a detta dei critici e del
pubblico) nasce proprio quando si è sinceri per sbaglio e per sconsideratezza. Quanto più è
mediocre, l’uomo mediocre è maldestro. Mike Bongiorno lo conforta portando la gaffe a dignità di
figura retorica, nell’ambito di una etichetta omologata dall’ente trasmittente e dalla nazione in
ascolto.
Mike Bongiorno gioisce sinceramente col vincitore perché onora il successo. Cortesemente
disinteressato al perdente, si commuove se questi versa in gravi condizioni e si fa promotore di una
gara di beneficenza, finita la quale si manifesta pago e ne convince il pubblico; indi trasvola ad
altre cure confortato sull’esistenza del migliore dei mondi possibili. Egli ignora la dimensione
tragica della vita.
Mike Bongiorno convince dunque il pubblico, con un esempio vivente e trionfante, del valore della
mediocrità. Non provoca complessi di inferiorità pur offrendosi come idolo, e il pubblico lo ripaga,
grato, amandolo. Egli rappresenta un ideale che nessuno deve sforzarsi di raggiungere perché
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Post/teca
chiunque si trova già al suo livello. Nessuna religione è mai stata così indulgente coi suoi fedeli. In
lui si annulla la tensione tra essere e dover essere. Egli dice ai suoi adoratori: voi siete Dio, restate
immoti.
Fonte: http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2009/09/08/omaggio-a-mike-bongiorno/
---------------------Rinvii
Rinviamo continuamente l’istante
in cui non ci incontreremo in nessun luogo.
Nel frattempo ridiamo molte volte
di tante cose della nostra vita,
e a volte piangiamo soli, di nascosto,
per ciò che non ritornerà mai più.
Titos Patrikios, traduzione di Nicola Crocetti
fonte: http://mestierediscrivere.splinder.com/post/21260031/La+poesia+del+giorno+di+Poesia
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Morto l'ideatore della sigla del Rischiatutto
E' morto questa mattina a Roma, all'ospedale Villa San Pietro sulla Cassia, Sandro Lodolo, grafico e
ideatore della sigla di molte trasmissioni della Rai.
La piu' celebre e' "Rischiatutto" condotto da Mike Bongiorno dal 1970 al 1974.
Lodolo lavoro' per oltre trent'anni in Rai dove curo' la sigla di trasmissioni che hanno segnato la
storia della televisione come la sigla di Tv7 o quella della storica diretta dell'atterraggio del primo
uomo sulla Luna. Ne da' notizia all'Agi la figlia Claudia, che sottolinea come sia "incredibile che
mio padre sia morto lo stesso giorno di Mike, con cui fu legato da amicizia e col quale collaboro'
realizzando la sigla di uno dei suoi programmi piu' famosi. Vorremmo - prosegue Claudia Lodolo che oggi la Rai non dimenticasse mio padre nel momento in cui giustamente si commemora la
figura e l'importanza di Mike Bongiorno. Ci piacerebbe che, se saranno trasmesse immagini o
spezzoni del 'Rischiatutto', si ricordasse che l'omino che corre inseguito dalla 'erre' e' invenzione di
mio padre". Sandro Lodolo si e' spento dopo una breve malattia. A dicembre avrebbe compiuto
ottant'anni.
fonte: http://www.rainews24.it/it/news.php?newsid=131545
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Breve storia dei CSS
di: Gabriele Romanato
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08 Settembre 2009
Post/teca
I CSS (Cascading Style Sheets, Fogli di stile a cascata) nascono ufficialmente nel 1996, con il
rilascio della versione di livello 1. Tuttavia la loro storia e la genesi dell'idea che portò alla loro
realizzazione risalgono ad alcuni anni prima, e precisamente al 1993, quando per la prima volta si
cominciò a parlare di stile per le pagine web. All'epoca infatti le pagine web non avevano stili, e la
loro formattazione era affidata unicamente alle preferenze del browser. Gli utenti della mailing list
www-talk cominciarono così a chiedere agli sviluppatori di permettere agli autori di influenzare la
presentazione delle proprie pagine.
Marc Andreessen, sviluppatore a capo di Mosaic, scrive:
"Infatti, per me è stata una constante fonte di piacere durante lo scorso anno sentirmi continuamente
dire, da orde (letteralmente) di persone che – tenetevi forte, ci siamo – volevano controllare il layout
dei loro documenti in modi che sarebbero banali in TeX, Microsoft Word, e ogni altro comune
ambiente di eleborazione testuale,: "Spiacente, sei fregato."
In seguito Marc divenne co-fondatore di Netscape, che soddisfò le richieste degli autori
introducendo tag presentazionali nell'HTML. Il 13 ottobre 1994, Netscape annunciò la prima
versione beta del suo browser. Il browser Netscape supportava un insieme di nuovi tag HTML
presentazionali (per esempio CENTER per centrare il testo) e altri sarebbero seguiti a breve.
A proposito dell'HTML presentazionale, scrive Håkon Wium Lie (CTO di Opera Software e
creatore dei CSS) nella sua tesi:
"Aggiungendo tag presentazionali all'HTML, il linguaggio si evolse dall'essere un linguaggio di
marcatura astratto e strutturato dove gli autori marcavano le differenti regole logiche del testo
(paragrafi, intestazioni, elenchi e così via) in un concreto linguaggio di presentazione dove l'enfasi è
posta sulla presentazione della forma finale dei documenti (font, colori e layout).
Nella tradizionale pubblicazione cartacea, il lettore riceve un prodotto di forma finale. Ogni lettera
sulla pagina stampata ha una posizione fissa, forma, dimensione e colore che non possono essere
cambiate dal lettore. I documenti elettronici, tuttavia, sono prodotti non finiti che devono essere
assemblati prima di poter essere presentati al lettore umano. Nel processo di assemblaggio – meglio
noto come formattazione – vengono fatte molte scelte sulla presentazione del documento. Per
esempio, il browser deve selezionare i font e i colori da usare quando presenta il documento su uno
schermo a colori. Il livello di eleborazione richiesto da un documento elettronico varierà a seconda
del formato di documento usato. Come tali, i documenti elettronici sono simili ai mobili: alcuni
mobili giungono pre-assemblati, mentre altri vengono comprati in scatole e il proprietario deve
eseguire l'assemblaggio finale. Se un formato di documento richiede molta eleborazione, si dice che
ha un alto livello di astrazione. Se il formato di documento richiede poca eleborazione, si dice che
ha un basso livello di astrazione.
Determinare il giusto livello di astrazione è una parte importante dello sviluppo di un formato di
documento. Se il livello di astrazione è alto, il processo di authoring e il compito di formattare il
documento divengono più complessi. L'autore deve far riferimento a concetti astratti non-visibili.
Dal lato della ricezione, il browser deve trasformare oggetti astratti in oggetti concreti e questo
compito è più complesso se gli elementi sono altamente astratti. Il beneficio di un alto livello di
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Post/teca
astrazione è che il contenuto può essere riutilizzato in molti contesti. Per esempio, un'intestazione
può essere presentata a grandi lettere su fogli stampati, e con voce più forte in un sistema di letture
vocale del testo.
Di contro, un basso livello di astrazione renderà il processo di authoring e di formattazione più
facili (fino a un certo punto). Gli autori possono usare strumenti orientati al WYSIWYG (What You
See Is What You Get), e il browser non deve eseguire trasformazioni estese prima di presentare il
documento. L'inconveniente di usare formati di documento orientati alla presentazione è che il
contenuto non è facilmente riutilizzabile in altri contesti. Per esempio, può essere difficile rendere
disponibili documenti orientati alla presentazione per un dispositivo con una diversa dimensione
dello schermo, o per una persona con menomazioni visive.
Quando si trasformano i documenti da un formato ad un altro, vi è la possibilità che i due formati
siano su diversi livelli di astrazione. In generale, è possibile trasformare documenti da un livello di
astrazione più alto ad uno più basso, ma non il contrario. La scala di astrazione viene introdotta in
questa tesi come un modo per misurare il livello di astrazione."
Quello che Netscape fece, seguito poi da Internet Explorer, era l'inizio di una nuova era del Web,
caratterizzata dalla cosiddetta "guerra dei browser". Ma in questo caso i browser venivano
semplicemente a colmare una lacuna, ossia la mancanza di un linguaggio di stile per la
formattazione dei documenti web.
Continua Lie:
"L'introduzione dei tag presentazionali in HTML fu un passo indietro nella scala d'astrazione.
Diversi nuovi elementi (per esempio BLINK) avevano senso solo per particolari dispositivi di
output (come viene visualizzato il testo lampeggiante su un sistema di sintesi vocale?). I creatori
dell'HTML volevano che tale linguaggio fosse utilizzabile per molte impostazioni ma i tag
presentazionali minacciavano l'indipendenza dal dispositivo, l'accessibilità e il riutilizzo del
contenuto.
Lo sviluppo dell'HTML verso un linguaggio orientato alla presentazione cambiò anche l'equilibrio
di potere tra autori e utenti. I documenti strutturati devono essere formattati dal browser prima della
presentazione, e – in una certa misura – il processo di formattazione può essere influenzato
dall'utente. Tuttavia, quando il browser riceve un documento nella sua forma finale, il processo di
formattazione è completo e non può più essere influenzato dall'utente.
Gli autori web avevano chiesto più influenza sulla presentazione del documento e accolsero di buon
grado questo sviluppo, ma vi era anche una resistenza nella comunità del Web. Molti erano
consapevoli del fatto che il Web aveva il potenziale per realizzare pubblicazioni personalizzate dove
il lettore aveva il controllo – piuttosto che l'editore –. Il contenuto dovrebbe essere selezionabile
secondo le preferenze del lettore, e il media e la forma di presentazione dovrebbero anch'essi essere
una scelta del lettore. Trasformando l'HTML in un linguaggio di presentazione c'era il rischio di
perdere i gradi di libertà necessari a realizzare un modello di pubblicazione incentrato sull'utente."
Sull'origine del termine foglio di stile, è utile ancora una volta attingere dal lavoro di Lie, che si
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Post/teca
dimostra quanto mai esaustivo:
"I fogli di stile furono proposti come alternativa all'evoluzione dell'HTML da linguaggio strutturale
a linguaggio presentazionale. Il termine foglio di stile viene usato nella pubblicazione tradizionale
come un modo per assicurare consistenza nei documenti. Nel processo di pubblicazione
tradizionale, un manoscritto è accompagnato da un foglio di stile che serve da resoconto corrente
delle regole di stile e di uso del linguaggio adottate da un particolare manoscritto.
Negli anni '80 la pubblicazione cambiò drasticamente con l'introduzione dei personal computer per
l'uso nella preparazione dei manoscritti. La pubblicazione elettronica offriva strumenti per
semplificare tutte le fasi della pubblicazione, dalla progettazione, all'editazione e alla strampa. Nella
pubblicazione elettronica, il termine foglio di stile venne a significare un insieme di regole su come
presentare il contenuto, piuttosto che regole su come scrivere il contenuto. I fogli di stile sarebbero
stati specificati dal designer e inviati al compositore prima della stampa. Di solito avrebbero
descritto il layout visivo di un documento incentrato sul testo, inclusi i font, i colori e lo spazio
bianco.
In questa tesi, il termine foglio di stile si riferisce ad un insieme di regole che associano proprietà
stilistiche e valori a elementi strutturali in un documento, ossia esprimendo come presentare un
documento. I fogli di stile di solito non contengono contenuto, sono collegabili dai documenti e
sono riutilizzabili. Questa definizione consente che il termine venga usato per la pubblicazione
elettronica dentro e fuori il Web.
I fogli di stile erano disponibili sui sistemi di pubblicazione elettronica sin dal 1980 (si veda il
capitolo 2 e 3). Combinati con i documenti strutturati, i fogli di stile offrivano un late binding di
contenuto e presentazione dove contenuto e presentazione sono combinati dopo che la fase di
progettazione è completa. Questa idea attrasse gli editori per due ragioni. Per prima cosa, si poteva
raggiungere uno stile consistente attraverso un insieme di pubblicazioni. Secondariamente, l'autore
non doveva preoccuparsi della presentazione della pubblicazione ma poteva concentrarsi sul
contenuto.
Alcuni autori trovarono liberatorio non doversi preoccupare di dettagli presentazionali nel processo
di progettazione [Cailliau 1997]. Tuttavia la maggioranza degli autori finì con l'usare sistemi di
progettazione che enfatizzano la presentazione piuttosto che la struttura."
Fonte:
http://css.html.it/articoli/leggi/3151/breve-storia-dei-css/1/
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9 settembre 2009
Da un commento a http://punto-informatico.it/b.aspx?i=2703622, di un certo Matteo:
Sub specie aeternitatis, o più limitatamente, nella prospettiva di qualche decennio o secolo, saranno
i media "analogici" a tramandare la cultura. Sono meno deperibili e il contenuto è più vicino al
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Post/teca
fruitore (=necessita di minori strumenti/passaggi di codifica/linguaggi di interpretazione per essere
fruito).
In una prospettiva ancora più ristretta (diciamo qualche anno/decennio) i veri "amanuensi" della
cultura saranno i pirati. Sono i soli che, costituzionalmente:
- sono interessati alla maggior diffusione (universale, non condizionata al pagamento di prezzi e
balzelli) possibile dei contenuti;
- adottano nel tempo i mezzi più universali (più diffusi e più aperti) per la fruizione dei contenuti;
- non sono legati a paesi e lobbies ma esprimono, in modo inconsapevole ai singoli soggetti ma
"emergente" in senso sistemico, i bisogni e gli orientamenti di larghi gruppi di persone.
Ovviamente si prescinde qui da qualunque considerazione riguardante la liceità morale e la
possibilità legale della pirateria in genere.
E' una semplice analisi dell'esistente.
vedi anche: http://www.mantellini.it/?p=7110
-------------------------martedì, settembre 08, 2009
Ritorno al futuro
Ascoltando alcuni interventi del dibattito congressuale, mi sono convinto: anche a me piacerebbe
che si potesse tornare indietro. Che si riscoprissero gli anni belli della precedente generazione. Che
tornassero le sezioni del Pci. Che si ritrovasse la politica di una volta, il comizio, il tatzebao, le
grandi battaglie collettive. Che si provassero gli anni della Meglio gioventù (ben prima che
Caterina si trasferisse in città, insomma). Che tutto tornasse, per dirla tutta, a quando ci capivamo
qualcosa (o, forse, meglio, a quando ci sembrava di capirci qualcosa). Che non ci fosse stato B, il
craxismo, la Lega e tante altre amenità. Solo che, vi segnalo, care compagne, cari compagni, che
non è possibile. E proprio questo è il problema. Perché, oltre alle responsabilità storiche e politiche
di una generazione che non è stata capace di fronteggiare tutto questo (era difficile, ma non ci sono
molto riusciti), c'è un dato ineliminabile e ineludibile: che il tempo passa e il mondo cambia.
Piuttosto velocemente. C'è però una speranza: anche negli Usa, "prima", c'era Bush. E adesso c'è il
suo esatto contrario (nelle intenzioni, certamente, ma anche nelle modalità e nei contenuti che finora
si sono visti). Ecco: non è necessario tornare indietro, per cambiare. Anzi. Cerchiamo di non
dimenticarlo.
Fonte: http://civati.splinder.com/post/21268988/Ritorno+al+futuro%0AAscoltando+a
----------------Luca Telese
Quando Mike voleva commemorare il "settantasette"
8 settembre 2009
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Post/teca
Un giorno, mentre parlavamo di altro, buttò lì la cosa, come se lo desse per scontato: “Sai, adesso
dobbiamo celebrare il trentennale del settantasette”. Rimasi per un attimo spiazzato, convinto di non
aver capito bene. Mi riusciva difficile pensare che Mike Bongiorno potesse solo evocare l'anno
chiave degli anni di piombo, che avesse addirittura un qualche interesse a celebrarlo. Gli chiesi:
“Ma che dici Mike? Tu che c'entri?”. Per un attimo quasi si arrabbiò: “Ma come che c'entro! E' li
che è cominciato tutto, mica nel settantotto, come pensano molti, e nemmeno nell'ottanta Io sono
stato il primo!” continuavo a non capire, e lui proseguiva: “Mi ha chiamato pure Berlusconi, anche
lui è d'accordo”. Berlusconi, d'accordo sul settantasette? E lui: “E certo, chi mi doveva chiamare? E
lui che mi ha assunto!”.
Capii solo il quel momento che Mike Bongiorno non mi stava parlando dell'anno dei movimenti,
ma di quello in cui lui era passato alla nascente Fininvest. E la ricorrenza da commemorare, per lui,
non erano i fatti di Lama alla Sapienza o gli indiani metropolitani, ma una fatidica cena, quella nel
ristorante “44”, che aveva suggellato l'incontro. A quel punto i ricordi di Mike si infilavano in una
sequenza di memoria blindata e per lui indimenticabile, come se corressero sui binari di una
ferrovia, un racconto ripetuto molte volte: era a cena con un imprenditore di cui allora non sapeva
molto, lui era già Mike Bongiorno (l'uomo più famoso d'Italia), ma pur sempre un dipendente Rai, e
con la sua busta paga, per nulla generosa. Così Berlusconi l'aveva guardato, aveva sorriso e gli
aveva detto: “Parliamo di soldi. Io avrei pensato a seicento…”». Seicento cosa? Avevo chiesto lui,
interrompendolo. E Mike: «Bravo! è quello che gli avevo domandato io: 'Seicento che?'». E lui?
«“Ma milioni, ovviamente!”». A quel punto Mike era quasi svenuto per l'emozione: «Ero così
incredulo che gli avevo chiesto ancora: “Oddio, e per quanti anni di contratto?”. L'uomo di
Mediaset stranamente non aveva capito che a Mike la cifra sembrava enorme, e già lo corteggiava:
«Ma devi immaginare che sono solo per un solo anno, ovvio. Poi però potrai arrotondare con le
televendite e con gli sponsor”».
In questo dialogo, a bene vedere, c'era già tutta l'essenza dei due personaggi. Nel 2007 Mike,
mentre mi raccontava questa storia era sinceramente dispiaciuto che il locale non esistesse più. Ne
avrebbe voluto fare un piccolo museo, così come aveva fatto della sua casa-palazzo-ufficio
trasfigurata in mausoleo, in cui le pareti dei corridoi e delle stanze erano letteralmente tappezzate di
cimeli, gadget, pupazzi, reperti degli anni cinquanta e sessanta: tutti con il volto, il logo, persino la
caricatura del più celebre presentatore della tv italiana. Non posso certo dire di aver avuto un
rapporto di confidenza con Mike Bongiorno, però mi sembra di averlo conosciuto bene, benissimo,
nell'anno in cui con imprevedibile generosità e orgoglio regale, accettò di collaborare con il gruppo
di Tetris per la seconda serie del nostro programma. Il contatto lo aveva propiziato il nostro
produttore, Lorenzo Mieli, che cercava insieme alla moglie di Mike, Daniela, di mettere su un
progetto a cui il presentatore teneva moltissimo, quello di un canale satellitare. Così, una volta ogni
quindici giorni io Lorenzo e un altro autore del nostro programma, Valdo Gamberutti, salivamo a
Milano per registrare le domande dei Quiz politici a casa sua. Nelle prime puntate di Tetris - mi
diverto ancora rivedendole – lo annunciavo così: “In mondovisione dalla cucina di Mike
Bongiorno....”. E lui appariva davvero nella sua cucina. Più tardi ci convinse a passare al salone,
che considerava più appropriato. Fu, in qualche modo un'esperienza indimenticabile.
Ricordo un giorno in cui Mike - non so dove fosse - mi passò a prendere in centro con un autista,
ma a bordo di una nuova Panda, quasi fiammante. Salii in macchina, eravamo diretti a Cologno, ero
stupito di quel contrasto fra l'autista il mito, e l'utilitaria. Lui sospirò: “Me l'ha regalata l'avvocato”.
Agnelli era scomparso da due anni e così gli chiesi conto di quel sospiro: “Ancora commosso per la
scomparsa?”. E lui, con quella inconfondibile schiettezza che avrei imparato a conoscere: “Ma non
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Post/teca
dire fesserie! Mi aveva regalato la macchina, mi hanno chiamato per darmela, nel frattempo è
morto, e così ho dovuto persino pagarla. Una follia!”. Ecco, Bongiorno ti spiazzava perché ti
accorgevi che il personaggio tirato fuori dalla partnership con Fiorello non era una finzione
drammaturgica, ma era proprio la quintessenza di Mike. Ovvero: capace di slanci di generosità e
grandi taccagnerie, di momenti verità commoventi, genialmente autoreferenziale, incontenibile,
capace di vette di professionismo inarrivabile.
Un giorno, per dire, andammo a casa sua a registrare i quiz che sarebbero dovuti servire per una
puntata in cui avevamo ospite Paola Binetti. Le domande paradossali di Mike nascevano da un
lavoro della nostra redazione, ma poi lui le rileggeva meticolosamente, e, ovviamente, le adattava al
suo stile. Talvolta ci suggeriva dei quesiti a cui noi magari non avevamo pensato. Non c'erano mai
stati problemi tranne quel pomeriggio, in cui visionando questa domanda - “Gli omosessuali sono
a), persone normali b) dei malati...” - esplose in un gesto di rabbia furibonda: “Nooooh! Mike
Bongiorno non può dire simili schifezze!”. Un attimo dopo il foglio era stato coriandolizzato e tirato
sulla faccia del povero ed esterrefatto Valdo. Si era alzato ed era corso in balcone. Cosa lo aveva
fatto arrabbiare? Ce lo chiedevamo, indecisi se andar via. Lui era tornato dopo pochi minuti come
se fosse un altro. Affettuoso, bonario, rilassato: “Ne avete un'altra copia?”: Aveva letto tutto davanti
alla telecamera, e poi ci aveva spiegato: “Voi non sapete quanti bambini mi scrivono! Io mi
preoccupo per loro. Io devo essere anche quel Mike Bongiorno lì”. E noi: “Ma queste domande non
sono offensive per i bambini. Sono nel tuo stile, dell'unico uomo che può chiedere le cose scomode
senza essere volgare”. Ovviamente Mike mangiò la foglia e disse con un sorriso dei suoi: “Ehhhh
siete dei bei filoni, voi.... La verità è che qualunque fesseria scriviate, se lo dico io, pesa più di una
sentenza”. Aveva ragione lui e, come sempre accade in tv, la prova ci arrivò in un baleno. Il giorno
dopo quelle domande, lette da Mike, portarono la Binetti, (che istintivamente avrebbe preferito
sfumare) a una risposta pericolosamente netta: “L'omosessualità è una malattia”. Accadde un
putiferio, già in studio, con Grillini che gridava, i blog furono tempestati di messaggi furibondi, La
Repubblica ci fece una mezza paginata. Al telefono Mike sogghignava divertito: “Ma benedetti
ragazzi! Che cosa vi avevo detto? Siete un po' ingenui, fidatevi del vecchio Mike....”. Un altro
giorno, accadde una di quelle cose che ti vorresti sparare. Registrammo mezz'ora, poi aprimmo la
telecamera, e si scoprì che la cassetta era smagnetizzata. Lui ebbe un altro attacco di ira nera: “Ma
insomma, siete dei dilettanti! Volete costringere Mike Bongiorno a rifare dei ciak? Ma stiamo
impazzendo?”. Di nuovo , con velocità sorprendente, se ne andò e tornò, quasi serafico. Un altro
uomo: “Che dite, ci prendiamo una bella Coca Cola?”.
Quel pomeriggio, sempre nella famosa cucina, ci parlò della rivalità con Pippo Baudo: “E' lui che
ha un caratteraccio e la prende male, non avete idea. Ha un caratteraccio, non è mica un bonaccione
come me”. E poi, mandandoci in estasi, parlò persino del celebre saggio di Umberto Eco:
“Daaaiii... Tutti a dire che è uno scritto geniale, ma la verità è che è diventato famoso dandomi del
fesso.... E' che sono troppo buono perchè avrei potuto persino querelarlo. Ma Eco è una persona
squisita, come si fa?”. Puntata dopo puntata, intanto la magia di Mike bucava il video, creava
paradossi, rendeva possibile discutere di qualsiasi tema, se a fare le domande era lui. E lui,
soddisfattissimo quando vedeva i politici arrancare di fronte ad A o B distillava perle come questa:
“In Italia il quiz è stato uno strumento di progresso. E io ho potuto diventare l'uomo del quiz perchè
in questo ero americano”.
Un altra volta andammo a registrare nel suo studio a Cologno. Era felice come una Pasqua, e
ripeteva: “Faccio ancora il 14 per cento di share, e mi fanno registrare otto puntate insieme, un
ventenne stramazzerebbe”. La sera dopo, rivedendo le domande nel programma, Mike mi parve
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Post/teca
splendido. Lui invece era furibondo: “Ma ti sei reso conto che vi ho dato il tappeto musicale
originale del mio programma e quasi non si sentiva? Avete rovinato tutto. Imbecilli!”. Ci rimasi
male. Ma la volta dopo il volume del “tappeto” del quiz quasi sovrastava le parole. Ancora una
volta non si sbagliava: c'era la stessa differenza che poteva esistere fra una messa recitata in una
chiesetta desolata, o da un sacerdote accompagnato da un coro gospel. Aveva ragione lui,
maledizione, e lo capivo solo in quel momento. Il quiz di Mike era liturgia. L'essenza della
televisione è anche liturgia. Ma poi Mike aveva nel sangue un'altra cosa molto meno poetica. Che
per lui era un vero oggetto di culto, e non solo un'occasione di guadagno. In una intervista mi disse:
“Senta, non amo quelli che fanno le anime belle, a me dell'avventura non me ne fregava nulla....
Accettai l'offerta di Berlusconi perché solo un matto avrebbe potuto rifiutarla. E poi perché lui
aveva avuto l’intuizione geniale che avrebbe cambiato tutto, e quel giorno me lo disse chiaramente:
la pubblicità». E se provavi a obiettare che esisteva già si arrabbiava di nuovo…«Ma va làaaa! Fino
ad allora si andava a letto con Carosello, si giravano gli sketch e il nome del prodotto andava solo in
coda. La pubblicità era un appannaggio di pochi, grandi gruppi, il simbolo di un’Italia austera e
allergica ai consumi, in cui si vendeva poco e male». Quindi, ancora una volta Mike identificava la
modernità della rivoluzione commerciale con se stesso: “Pensi che i primi tempi arrivavano gli
inserzionisti, e dicevano che erano perplessi del fatto che io parlassi in trasmissione del prodotto!
Volevano messaggini scritti, sceneggiati, convenzionali, separati dal quiz. Io invece non leggevo
nulla, ne parlavo alla mia maniera». Qui Mike andava in estasi: «Capisci? Fu un terremoto! Pensi
che uno dei nostri primi sponsor, Rovagnati, scoprì che ogni volta che andavo in onda, il giorno
dopo le massaie assaltavano i supermercati per comprare i suoi prosciutti. Hanno costruito i loro
stabilimenti con i nostri spot!». Poi si toglieva un sassolino: «Rovagnati si è comportato da ingrato,
nemmeno un prosciutto, mi manda! Ma intanto – proseguiva - noi avevamo creato un mercato, il
mercato produceva fatturato, e il fatturato creava nuova pubblicità. Glielo ho detto, era una vera rivo-lu-zio-ne. Presto lo diranno anche gli storici».
A casa e nel camerino dove eravamo andati a trovarlo, Mike esibiva come una icona sacrale la foto
di lui e di Berlusconi alla serata di presentazione de la Cinq. Mike mi aveva fatto notare il gioco
delle dediche: la prima scritta, sulla foto, recitava: “Come eravamo belli”». Però subito dopo
Berlusconi aveva cancellato e aggiunto: “Come siamo belli”. Allora Mike sospirava: “C’è tutto lui.
Io e Silvio siamo amici veri, è il padrino di mio figlio». Bisogna capire questo legame, per rendersi
conto di cosa fu, per Bongiorno, perdere in un colpo solo la televisione e il rapporto con Berlusconi.
A La Zanzara, su Radio 24, solo pochi mesi, fa, rispose alle domande che gli facevo su quel
rapporto con disincanto sorprendente: “Pensa, non mi rispondeva più al telefono! Mi hanno
pensionato senza nemmeno dirmi ciao. Roba da pazzi!”. Andare a Sky, per Mike, voleva dire
tornare alla tv che gli era stata sottratta, per l'ultima rivincita della sua vita: quella a cui teneva di
più. Le agenzie ci hanno raccontato che il suo cuore non ha retto. Ma forse, l'unica cosa che uno
come lui non poteva reggere, era la lontananza dal piccolo schermo. Mike, nel bene o nel male, era
la storia della televisione, era la storia della pubblicità, la filosofia del quiz era l'anima dell'Italia
nazionalpopolare del boom che adesso diventava quasi colta, nel tempo dei reality. Ma il problema
è che un ministro del culto non poteva essere strappato dal suo tempio catodico, senza rischiare di
perdere la sua sovrumana invulnerabilità.
Fonte: http://antefatto.ilcannocchiale.it/2009/09/08/quando_mike_voleva_commemorare.html
---------------------2009-09-09 16:29
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Ora di religione ha suo fondamento in sentenza Consulta
di Enzo Quaratino
ROMA- L'insegnamento della religione cattolica nelle scuole ha il suo fondamento giuridico nella
sentenza n.203 del 1989 della Corte Costituzionale, considerata la "madre di tutte le sentenze" in
materia di laicità dello Stato. Si tratta della sentenza nella quale la Corte eleva la laicità dello Stato a
principio supremo, sottolineando che tale principio "implica non indifferenza dello Stato dinanzi
alle religioni, ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di
pluralismo confessionale e culturale". A proposito dell'insegnamento della religione cattolica, la
Corte precisa che "la Repubblica può, proprio per la sua forma di Stato laico, fare impartire
l'insegnamento di religione cattolica in base a due ordini di valutazioni: a) il valore formativo della
cultura religiosa, sotto cui si inscrive non più una religione, ma il pluralismo religioso della società
civile; b) l'acquisizione dei principi del cattolicesimo al patrimonio storico del popolo italiano".
Aggiunge la Corte: "il genus (valore della cultura religiosa) e la species (principi del cattolicesimo
nel patrimonio storico del popolo italiano) concorrono a descrivere l'attitudine laica dello StatoComunità, che risponde non a postulati ideologizzati ed astratti di estraneità, ostilità o confessione
dello Stato-persona o dei suoi gruppi dirigenti, rispetto alla religione o a un particolare credo, ma si
pone a servizio di concrete istanze della coscienza civile e religiosa dei cittadini". In definitiva conclude la Consulta - "lo Stato è obbligato", in forza degli accordi con la Santa Sede, ad assicurare
l'insegnamento della religione cattolica. Per gli studenti e per le loro famiglie esso è facoltativo:
solo l'esercizio del diritto di avvalersene crea l'obbligo scolastico di frequentarlo. Per quanti, invece,
decidano di non avvalersene, l'alternativa è uno stato di non-obbligo. La previsione, infatti, di altro
insegnamento obbligatorio verrebbe a costituire condizionamento per quella interrogazione della
coscienza, che deve essere considerata attenta al suo unico oggetto: l'esercizio della libertà
costituzionale di religione. Lo stesso principio ha trovato poi conferma anche in altre sentenze della
Corte Costituzionale: in una di queste - la numero 13 del 1991 - sempre a proposito
dell'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubblica, la Consulta, applicando ancora il
principio supremo di laicità dello Stato e di libertà di religione, sottolinea che gli studenti che
scelgono di non avvalersi dell'insegnamento della religione cattolica nelle scuole statali possono
allontanarsi o assentarsi dall'edificio scolastico durante l'ora di religione: nel senso che la decisione
di non avvalersi dell'insegnamento di religione cattolica non comporta assolutamente l'obbligo
alternativo di frequentare un'altra materia; o di restare inattivi nell'edificio scolastico. (ANSA).
Fonte:
http://www.ansa.it/opencms/export/site/notizie/rubriche/daassociare/visualizza_new.html_16509443
36.html
--------------------Coccodrillo per Michele Bongiorno
di Giuseppe Genna
Amico personale di Meucci, Morse e Bell. Confidente di Ramsete III. Grande estimatore del brodo
primordiale (la sua ricetta preferita). Ma soprattutto: unico e autentico padre della Patria. Il
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Post/teca
coraggioso ex partigiano Michele Bongiorno, spesso ingiustamente scambiato per un banale saluto
immotivamente colmo di entusiasmo, è scomparso oggi alla veneranda età che si stabilirà dopo
l'esame al carbonio 14, ma non si sa dove si sia rifugiato, non è la prima volta che scompare e poi
riappare. Era la sua tecnica prediletta anche in guerra: azioni violentissime contro gli invasori
tedeschi, ritirate fulminee - rapido, efficace, letale. Una strategia che aveva dato, per la prima volta
nella sua storia (di Michele, cioè), una lingua unica alla nazione.
Piange Umberto Eco, ma smette appena soffritta la cipolla. Di Eco si ricorda la celeberrima
Fenomenologia-ia-ia-ia-a-a, spesso citata dall'agile Aldo Grasso, uno dei più prestigiosi storici
della resistenza elettrica.
Michele Bongiorno, padre di circa 60 milioni di figli, tra cui tutti noi, si è spesso vantato, quando
appariva prima di scomparire come oggi, di non avere mai letto un libro, e di questo gli siamo grati,
poiché quel libro era Venuto al mondo di Margaret Mazzantini.
Con lui scompare un intero mondo: quello del Cenozoico.
Il suo fraterno amico Fiorello, lo ricorda così: "Lo amavo già dai tempi in cui ero una crema di
formaggio in un bicchierino di plastica bianco e azzurro". Così invece lo tributa il fraterno amico
Fazio: "Alla Banca d'Italia era sempre il benvenuto" ha dichiarato Antonio. Il fraterno amico Baudo
non ha rilasciato alcuna dichiarazione, impegnato a stringersi i gioielli.
Michele Bongiorno, già celebrato ogni 25 aprile all'Altare della Patria, accompagnato da Corona di
rito, nonostante Fabrizio scalciasse, entra nel Pantheon dei più grandi piloti di mongolfiera della
storia del Gran Sasso. Capacissimo di parlare americano, ha pronunciato sul letto grande l'ultima
parola, colma di speranza: "Sky".
Il premier e cavaliere dianetico, corresponsabile della sua scomparsa per non avergli fatto una
telefonata, si dissocia dalla stessa (la telefonata).
Ornitologo celeberrimo, Michele Bongiorno aveva la capacità di assorbire un tale quantitativo di
raggi U.V.A da costituire una speranza contro il buco dell'ozono, che del resto aveva aperto lui con
il suo pallone aerostatico.
La Redazione tutta si duole di non esserlo stata di qualcuno dei suoi programmi, riassumibili in uno
solo: vivere per sempre. Nonostante la promessa gli fosse stata fatta direttamente dal cavaliere e dal
cavallo e dalla staffa, non è stato possibile realizzare tale programma, il quale è stato prontamente
interrotto.
Possiamo soltanto esprimere un augurio: che negli universi paralleli e quantici in cui stai
scappando, il partigiano Johnny non ti raggiunga, Michele!
Pubblicato Settembre 8, 2009 03:35 PM
Fonte: http://www.carmillaonline.com/archives/2009/09/003170.html
--------------------Provare Bersani
domenica 6 settembre 2009
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Post/teca
L'ultimo emiliano
Chi è cresciuto in Emilia, parzialmente assuefatto al mito del buongoverno locale, si è proposto
almeno una volta nella vita il quesito: se siamo così bravi (e gli altri così scarsi), perché a Roma non
ci andiamo mai? Forse allora non è vero che siamo così bravi? Forse siamo bravi come
“amministratori” ma non come “politici”? Ma che differenza c'è, ce la spiegate? Perché se
“amministrare” significa governare bene, e “politica” lotte per il potere, forse a Roma sarebbe
meglio che ci andassero i bravi amministratori... o forse il problema è l'opposto: i nostri
amministratori sono talmente bravi a lottare per le loro poltroncine locali da annullarsi a vicenda,
perdendo il meglio della loro vita in congiure municipali e spianando la strada per Roma a
latifondisti sardi, intellettuali della Magna Grecia, deputati di Gallipoli. Sia come sia, fino ai primi
'90 i politici emiliani di caratura nazionale sono stati curiosamente rari. Se in seguito l'Emilia si è
rifatta in modo clamoroso, è stato in massima parte con personaggi che alla lotta per le poltroncine
non avevano potuto partecipare (e forse proprio per questo motivo erano 'costretti' a proiettarsi sulla
scena nazionale): un'orda di cattolici (Casini, Giovanardi, Prodi, Franceschini) e persino un missino.
Insomma non sarà quel paradiso del Buon Governo che molti credono, l'Emilia, ma è senza dubbio
una delle migliori palestre per i politici; che pare aver giovato più al centrodestra che al centrosx.
Bersani è l'eccezione. Dovesse vincere le primarie (e dovrebbe), Bersani sarà il primo leader di
centrosinistra a poter vantare il classico cursus honorum degli amministratori comunisti emiliani
(proprio mentre nel frattempo l'Emilia rossa stinge): giovanissimo vicepresidente di comunità
montana, consigliere e poi assessore a Piacenza, presidente di Regione, Ministro. Mentre lui saliva
paziente tutti i gradini, sulla poltrona di segretario o di leader del suo schieramento si ritrovavano
personaggi con minori esperienze e con storie del tutto diverse: penso a Prodi o Franceschini, ma
anche a Rutelli. Questo per dire quanto sia radicata, anche se poco esplicitata, la dicotomia
amministrazione-politica: a Roma ci vadano persone con belle facce (Rutelli), o belle idee
(Veltroni), e se belle non si trovano che siano almeno facce e idee rassicuranti (Prodi); gli
amministratori al massimo potranno ambire al ruolo di eminenze grigie; di estensori di decreti
magari rivoluzionari sulla carta, che poi l'arietta romana si incaricherà di addolcire. Il vero salto
della sua carriera è stato da burocrate locale a personaggio televisivo, ospite ideale di Ballarò più
che di Vespa: il signore che a un certo punto della serata si mette a snocciolare i dati sull'economia e
intorno si fa silenzio. Un anti-Tremonti, in fondo speculare al modello.
Ma Bersani, come Tremonti, sembrava l'eterno cardinale rassegnato a veder nominare i pontefici. Il
gran rifiuto di partecipare alle primarie del 2007 ci impedì di assistere al vero scontro tra la politica
romana dei grandi ideali (Veltroni) e l'amministrazione del potere (Bersani, con cricche dalemiane
annesse e connesse). Sarebbe stato davvero un bel duello, ma Bersani lo avrebbe comunque perso, e
allora a che pro? Con machiavellica rassegnazione i grandi burocrati Ds hanno lasciato che Veltroni
bollisse nel suo brodo aromatico, e adesso si rifanno sotto. Con Bersani, grande amministratore con
aura di tecnico e (not least) ultima faccia televisiva spendibile. Potrà anche sembrare una
restaurazione, il ritorno del dalemismo, e in parte lo è, però... c'è qualcosa di più che non so
spiegare in altri modi, insomma... Bersani è emiliano. Sarà anche un'astrazione geografica, ma ha
un senso storico: mentre gli altri studiavano, lui amministrava. Quando si parla di grande scuola del
PCI, si pensa sempre a quel certo plesso alle Frattocchie: c'è un equivoco. La vera scuola erano le
sezioni locali, le circoscrizioni, i consigli e poi le giunte, con tutto il folklore annesso. Bersani non
ha bisogno di improvvisarsi oggi cameriere alla festa dell'unità, perché gli spiedi li metteva su
trent'anni fa: qualche giorno fa è stato a una festa padana e si è permesso di dire “Guardate che
questa roba qui (mulinando l'indice) l'abbiamo inventata noi; e se chiedete al leader vostro alleato a
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Post/teca
che prezzo bisogna mettere uno spiedo per non rimetterci, lui non lo sa; io sì”. Un tipico sprazzo di
orgoglio emiliano, versione passivo-aggressiva dell'arroganza lombarda (e meno male che avevo
scritto che le regioni non esistono): “quello là” sarà anche bravo a metter su palazzine e televisioni,
ma se gli chiedete quanto deve venire uno spiedo per non rimetterci, non lo sa.
“Mentre gli altri studiavano, lui amministrava”: ma sarà vero? Mentre lo intervistano scopro che
Bersani è laureato (Veltroni e D'Alema no, per esempio), in filosofia, con una tesi, udite udite, di
storia del Cristianesimo. Sarà anche solo un episodio nella vita di uno che poi ha fatto tutt'altro, ma
me lo rende subito più simpatico. In un periodo in cui il cristianesimo è diventato un blocco
compatto che si deve accettare o rifiutare in toto (magari sputandoci anche un po' sopra), mi trovo
sempre più vicino a quelle poche persone che tra credere e non credere si sono accorti che c'era una
terza dignitosissima scelta: studiare. Una settimana fa il candidato cosiddetto laico, Marino ha
spiazzato qualcuno autodefinendosi cattolico. Bersani spiazza ulteriormente, rifiutando di
rispondere alla domanda. Come? Un candidato che non vuole dirci se crede in Dio o no?
Me lo potevo immaginare ragioniere, Bersani, specializzato in qualche ramo di economia e
commercio, o perché no, perito agrario; al limite ingegnere; invece salta fuori che l'unico candidato
in grado di calcolare l'entità della manovra necessaria a muoverci dalle secche della crisi (19mila
milioni, ma potrei sbagliarmi) si è laureato su Gregorio Magno. Quindi non vuole rispondere alla
domanda su Dio: giusto, è come quando mi chiedono se il futurismo mi piace o no, che senso ha?
Quando studi una cosa per anni ti rendi conto che è complicata, e che certe domande sono
superficiali... (mr. Einstein, ma a lei questa relatività piace?) Invece di rispondere imbastisce un
discorso che tramortisce una buona parte del pubblico: sono venuti apposta per applaudirlo (in più
che per Franceschini) e alla fine risulteranno più freddi. La nostra concezione dell'umanità, spiega
Bersani (a gente come me, che si aspettava dati sulla crisi e qualche battutina sul puttaniere), la
nostra stessa idea di dignità umana, quel sentimento che ci fa provare un istintivo sdegno per le foto
dei migranti respinti in mare, è il risultato di una civiltà che nasce col cristianesimo, e poi si biforca
in varie direzioni, tra cui quella illuministica settecentesca. Ci sono altre culture, “più filosofiche”,
come quella buddista, che dell'uomo hanno una concezione diversa. Diciamo che credono meno
nell'individuo: e fa l'esempio della Politica del Figlio Unico. Pensavate che fosse un esempio limite
di pianificazione comunista? No, spiega Bersani, “io ci sono stato, sapete: quando ne discutevano,
una delle obiezioni principali era: ma un figlio solo verrà su viziato. Ora, una cosa del genere da noi
sarebbe impensabile”. Laici o cattolici, noi abbiamo un'idea di individuo, che loro non hanno “e a
quelli che insistono a dirci che certe cose non sono negoziabili [aborto, eutanasia, fecondazione],
dico: continuate, continuate pure a non negoziare. Alla fine vi toccherà di prendervi ricette di gente
che ha un'idea molto più diversa dalla vostra”.
Bersani continuerà a parlare per più di un'ora, e sarà bravo davvero: oltre a i contenuti, dimostrerà
capacità retoriche non comuni, schiacciando a rete domande incerte palesemente improvvisate
dall'intervistatrice. Ma sarà tutta discesa, almeno per me. Dopo aver parlato, con parole semplici, di
dignità dell'uomo e di culture più o meno filosofiche, Bersani mi ha dimostrato alcune cose. Prima,
di essere qualcosa di molto più del grigio burocrate che tiene la contabilità in seconda serata a Rai3:
Bersani è un pensatore. Quello che pensa potrà essere discutibile – in fondo non siamo lontani dallo
Scontro di civiltà huntingtoniano – ma visto da qui sembra davvero un pensiero: non un collages di
aforismi celebri o un album di figurine; su certi problemi B. ha effettivamente meditato; le sintesi
che proporrà saranno qualcosa di più di meri compromessi tra chi crede o no in un tale Dio.
Seconda: è uno che questi pensieri non li tiene per sé, ma li offre a una platea che sì, è amica, ma
forse si aspettava qualche lisciata al pelo in più. Il suo comizio mi ricorda quella scena del
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Post/teca
Gladiatore (film orribile) in cui Maximus scende nell'arena e decapita un paio di mirmidoni in pochi
secondi: la gente non ha nemmeno il tempo per applaudire. È andata così: non si sono certo spelati
le mani. Voteranno comunque per lui, sono modenesi diamine, ma hanno fatto un po' fatica a
seguirlo. Che sia troppo bravo? La maledizione dei comunisti emiliani: si preparano, si preparano,
per approdare preparatissimi in panchina. Bersani dovrebbe vincere le primarie con relativa facilità.
Convincere gli italiani che dopo Berlusconi tocca a lui, e che bisogna tirarsi su le maniche e
racimolare 19mila milioni o più, sembra ancora un altro paio di maniche.
Fonte: http://leonardo.blogspot.com/2009/09/lultimo-emiliano.html
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Non lascia, raddoppia
Concita De Gregorio, 08/09/2009 22:54
Accomunati dal lutto nell'elenco dei necrologi Berlusconi e Fiorello si trovano di nuovo accanto
come lo furono quando il premier - che come ciascuno sa non ha nessuna guerra in corso con
Murdoch, i suoi avvocati scrivono che «l'ipotesi è priva di ogni fondamento», diffamatoria, anche
per questo ci chiedono i danni - quando, dicevo, il premier convocò lo showman a Palazzo Grazioli
per convincerlo a non «passare al nemico», cioè a Sky. Le loro parole una sotto l'altra. Fiorello dice
«ho perso il mio miglior compagno di giochi» e tutti sanno che è vero. Berlusconi dice ho perso un
grande amico e tutti ricordano Mike che dice proprio a Fiorello «Silvio lo cerco da mesi al telefono
ma non mi risponde». Mentire sui morti è proprio il fondo, anche umanamente. È triste. Almeno
oggi avrebbe potuto risparmiarcelo. Il Signor Mike avrebbe meritato parole sincere, ad esserne
capaci, da parte di chi ha costruito la sua fortuna mediatica anche sulle sue spalle. Tutti sappiamo
che Bongiorno stava per partire con la trasmissione RiSkytutto (Sky, certo), lo abbiamo sentito dalle
sue parole, Berlusconi ieri ha detto «aveva avuto qualche misunderstanding con certi uomini
Mediaset ma li stavo risolvendo». Come a dire: sarebbe rimasto da noi. Poi ha aggiunto «avrebbe
voluto diventare senatore e io mi sono adoperato ma non dipende da me». Cioè: non gli rispondeva
al telefono ma si adoperava per farlo diventare senatore. Non lo faceva lavorare da anni ma
l'avrebbe di certo trattenuto dal passaggio a Sky, era proprio sul punto. Leggerete negli scritti di
Goffredo Fofi, Paolo Villaggio, Angelo Guglielmi, Luigi Manconi, Oreste Pivetta e Maria Novella
Oppo cosa sia stato Bongiorno per la tv e per l'Italia ma non ce ne sarebbe bisogno, ciascuno lo sa.
Il Gran Cerimoniere di un'Italia prudente e perbene, quella spazzata via dai Corona e Lele Mora coi
quali le tv del grande amico lo hanno sostituito appena gli è convenuto. Dice Fofi: «Aveva tradotto
in linguaggio televisivo quel vecchio slogan della Dc: Progresso senza avventure». Dice Manconi:
«La sua era una Grandezza nonostante». Questo sono tempi di avventure senza progresso e di
pochezza trionfante, non i suoi.
La giornata in cui muore il padre di un'altra tv, quella di prima, è stata allietata da alcune altre
dichiarazioni del grande amico Silvio. Ha attaccato i magistrati «di Palermo e Milano che cospirano
contro di noi», oggi toccava ai magistrati per la stampa i giorni dispari. Luigi De Magistris spiega
come un attacco pubblico a chi indaga sulla mafia sia un messaggio preciso che arriva a chi deve.
Poi ha consacrato Formigoni candidato per la Lombardia 2010: Formigoni e Cl, la cordata vincente
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Post/teca
nell'attuale scontro di fuoco interno alla Chiesa, ma naturalmente i rapporti del premier col Vaticano
sono ottimi e lui è del tutto estraneo all'omicidio mediatico di Boffo (cordata perdente, ruiniani).
Infine, il caso Fini. «Tutto a posto», dice il premier. «Non è vero», risponde il presidente della
Camera. Strano, come non è vero? Ieri, per esempio: dell'attacco di Feltri a Fini non sapeva niente.
Oggi è tutto a posto. Come sempre non lascia, raddoppia.
Fonte: http://concita.blog.unita.it//Non_lascia__raddoppia_594.shtml
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10 settembre 2009
Lettera della Congregazione: "Lo studio delle diverse fedi creerebbe confusione"
Il documento indirizzato alle conferenze episcopali di tutto il mondo
Ora di religione, no del Vaticano a quella
"multiconfessionale"
CITTA' DEL VATICANO - L'insegnamento dell'ora di religione nelle scuole non può essere
sostituito "con lo studio del fatto religioso di natura multiconfessionale o di etica e cultura
religiosa". Lo afferma la Congregazione vaticana per l'Educazione cattolica, in una lettera inviata
nel maggio scorso alle conferenze episcopali di tutto il mondo e che sta circolando in questi giorni,
in vista dell'apertura dell'anno scolastico. Il documento è in antitesi rispetto alla sentenza dal Tar del
Lazio che escludeva i professori di religione dagli scrutini, con questa motivazione: "Avvalersi
dell'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, dà luogo ad una precisa forma di
discriminazione, dato che lo Stato italiano non assicura la possibilità per tutti i cittadini di
conseguire un credito formativo nelle proprie confessioni o per chi dichiara di non professare alcuna
religione, in Etica morale pubblica".
La lettera. ''La natura e il ruolo dell'insegnamento della religione nella scuola - recita la lettera
firmata dal cardinale Zenon Grocholewski e da monsignor Jean-Louis Brugue's, presidente e
segretario del dicastero vaticano - è divenuto oggetto di dibattito e in alcuni casi di nuove
regolamentazioni civili, che tendono a sostituirlo con un insegnamento del fatto religioso di natura
multiconfessionale o di etica e cultura religiosa, anche in contrasto con le scelte e l'indirizzo
educativo che i genitori e la Chiesa intendono dare alla formazione delle nuove generazioni''.
Inoltre, prosegue il documento vaticano, ''se l'insegnamento della religione fosse limitato ad
un'esposizione delle diverse religioni, in un modo comparativo e neutro, si potrebbe creare
confusione o generare relativismo o indifferentismo religioso''.
Il documento vaticano ricorda l'insegnamento di papa Giovanni Paolo II, per il quale hanno diritto
all'insegnamento della religione cattolica ''le famiglie dei credenti, le quali debbono avere la
garanzia che la scuola pubblica - proprio perché aperta a tutti - non solo non ponga in pericolo la
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Post/teca
fede dei loro figli, ma anzi completi, con adeguato insegnamento religioso, la loro formazione
integrale". "I diritti dei genitori - continua la lettera, citando il Concilio Vaticano II - sono violati se
i figli sono costretti a frequentare lezioni scolastiche che non corrispondono alla persuasione
religiosa dei genitori o se viene loro imposta un'unica forma di educazione dalla quale sia
completamente esclusa la formazione religiosa".
(9 settembre 2009)
Fonte: http://www.repubblica.it/2009/08/sezioni/scuola_e_universita/servizi/tar-religione/vaticano9set/vaticano-9set.html
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La nuova classifica del World Economic Forum
Gli Stati Uniti perdono lo scettro della competitività
Washington, 9. Non c'è dubbio: la crisi innescata dal crollo del sistema creditizio statunitense ha
cambiato radicalmente il quadro della finanza e dell'economia mondiale, facendo emergere
problemi che prima non esistevano o non erano stati identificati. Lo ha dimostrato ieri il rapporto
sulla competitività 2009-2010 del World Economic Forum (Wef), dal quale emergono due dati
fondamentali: la fine del predominio degli Stati Uniti, che perdono il primo posto scalzati dalla
Svizzera, e la crescita dei Paesi del Golfo, che sembrano aver subito meno gli effetti della
recessione
globale.
Per la prima volta dal 2004, quando la classifica - stilata sui dati di 133 Paesi - è stata elaborata
nella sua forma attuale, gli Stati Uniti sono scivolati al secondo posto. Tra i principali problemi
rilevati vi sono la solidità del sistema finanziario, l'inflazione e l'inefficienza della burocrazia.
Insomma, l'America continua a essere un Paese molto produttivo ma ci sono tanti fattori che
giocano a suo sfavore. "Ci aspettavamo da tempo che accadesse una cosa del genere - ha detto
Jennifer Blanke, capo del Global Competitiveness Network del (Wef) - ma c'è una serie di squilibri
che si sono manifestati con la crisi". Più stabile a livello finanziario, la Svizzera si aggiudica il
primo posto grazie all'eccellenza del proprio sistema universitario e alle sinergie tra istruzione e
mondo del lavoro. Restano stabili la Francia (sedicesimo posto) e la Germania (settimo posto), così
come la Finlandia (6), la Svezia (4) e Hong Kong (11). Scende di un gradino la Gran Bretagna (13)
mentre
la
Repubblica
popolare
cinese
ne
guadagna
soltanto
uno
(29).
Il Wef basa le considerazioni sviluppate nel rapporto sull'esame di una serie di fattori strategici
come i dati macroeconomici, il livello delle infrastrutture, la salute e l'istruzione, i sondaggi tra
manager, l'efficienza del Governo e le risorse energetiche. Proprio quest'ultimo ha giocato un ruolo
chiave, in positivo, nelle economie del Medio Oriente. Secondo il rapporto, infatti, i Paesi del Golfo
hanno subito meno gli effetti della crisi e stanno risalendo la classifica. A guidarli è il Qatar, al
ventiduesimo posto, seguito dagli Emirati Arabi Uniti, che scala otto posizioni raggiungendo il
ventitreesimo posto, mentre Israele perde quattro posizioni fino al ventisettesimo posto. L'Arabia
Saudita, al ventottesimo posto, e il Kuwait, al trentanovesimo posto, sono gli unici Paesi della
regione dove non è previsto, per il 2009, un tasso positivo di crescita.
Tra le economie europee, l'Italia guadagna un gradino e si colloca al quarantottesimo posto. La
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Post/teca
struttura del settore produttivo è il punto di forza del Paese, che può contare anche sull'ottimo
livello dell'istruzione primaria. Resta tuttavia il nodo della disoccupazione: oggi il centro studi di
Confindustria ha annunciato che il numero delle persone occupate tra il 2009 e il 2010 potrebbe
calare di circa 700.000 unita. Nello specifico, 577.000 posti persi nel 2009 e altri 120.000 nel 2010.
Quest'anno il prodotto interno lordo subirà una flessione del meno 4,8 per cento mentre nel 2010
dovrebbe tornare in positivo.
(©L'Osservatore Romano - 10 settembre 2009)
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11 settembre 2009
10 Settembre 2009
INTERVISTA
Volli: Lettori in vendita?
«Invece di vendere informazione ai propri lettori, i giornali italiani vendono i propri lettori alle
forze politiche che li sostengono». Lo sguardo del semiologo Ugo Volli sul panorama
dell’informazione nel nostro Paese è desolato: «In che stato versa? Versa in stato comatoso,
veramente pessimo. Tra i tanti problemi che presenta, il principale è quello del ruolo che la stampa
si attribuisce: non fornire notizie a cittadini adulti in grado di decidere, ma essere un attore politico
che, come tale, usa i contenuti da un lato per fare propaganda, e dall’altro per far pesare la propria
forza all’interno del sistema politico. Come se non bastasse, il meccanismo viene coltivato
attraverso la mobilitazione della base sociale costituita dai lettori, dai collaboratori e da tutte le
persone vicine ai vari organi di stampa, attraverso l’invito a sottoscrivere pubblici appelli».
Quello «per la libertà di stampa» lanciato da «La Repubblica» dopo essere stata querelata da
Berlusconi non è forse comprensibile?
«Sono rimasto colpito assai negativamente dalla chiamata rivolta da Repubblica a tutti gli amici
della testata, indicando con grande rilievo nomi e cognomi, affinché protestino contro la citazione in
giudizio. Come se libertà di stampa e l’intervento dei tribunali – il cui ruolo è proprio la tutela della
libertà, oltre che la definizione dei suoi confini laddove inizia la libertà altrui – fossero in contrasto.
Come se la libertà potesse andare al di là della verità e del diritto delle persone a difendere la
propria sfera privata, al di là di qualunque possibile valutazione da parte della legge».
E tutto questo, a fini esclusivamente politici?
«Vedo giornali che si sono trasformati in strumento di organizzazione politica della società italiana,
come se fossero tutti quotidiani di partito. La personalizzazione degli attacchi è l’ovvia conseguenza
di questo profondo mutamento: la logica non è quella dell’informazione, ma quella
dell’aggressione. Va sottolineato che né a Berlusconi né a Boffo, pur nella grande differenza delle
due situazioni, è stato contestato alcun elemento giuridico che potesse rappresentare un
impedimento al loro ruolo: a essere messa in discussione è stata la loro onorabilità individuale, e per
farlo si sono usati argomenti relativi alla sfera estremamente personale della vita intima. Con due
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Post/teca
possibili significati: da un lato, è intimidazione o ricatto; dall’altro, è propaganda politica radicata
nella contumelia».
Sembra anche che si perso ogni confine di genere: i quotidiani d’informazione si confondono
con la stampa scandalistica...
«Senza dubbio non è eccessivo parlare di imbarbarimento, perché c’è stato un effettivo salto
qualitativo della nostra stampa. Ci sono sempre stati, anche in passato, "scandali" veri o presunti:
però la loro eco giungeva solo di riflesso ai grandi organi informazione. Oggi, invece, ne sono
diventati il fulcro e il giornalista di successo non è quello capace di scoprire delle verità di interesse
generale, ma quello in grado di insinuare "verosimiglianze" più o meno legali, senza fonti che le
sostengano. Non è un caso che in questi tempi ci sia tanta confusione di ruoli tra politici, giornalisti
e personaggi dello spettacolo, comici soprattutto. Uno strano amalgama di persone che, invocando
l’intoccabilità della libertà di stampa o del diritto di satira, pensano di non dovere fornire le prove di
quel che dicono e, al tempo stesso, di essere autorizzati a frugare ogni aspetto della vita privata».
Vede, insomma, una tendenza generalizzata?
«La deriva, a mio giudizio, investe in questo momento quasi tutto lo schieramento politicomediatico: da La Repubblica a Il Giornale, sono tutti d’accordo nel sostituire il giornalismo con un
atteggiamento di superiorità, da tutori della pubblica moralità. Il che per me non è solo mancanza di
etica, ma anche di capacità tecnica e di deontologia professionale».
E i lettori?
«Smettono di acquistare il "prodotto" e si rivolgono altrove, magari all’informazione diffusa su
internet. Infatti negli ultimi anni i quotidiani hanno registrato un notevole calo di tiratura
complessiva, ma questo non sembra preoccupare più di tanto gli editori: tanto, i loro giornali
servono non a vendere, ma a ottenere vantaggi di altro tipo, trasversali, facendo leva proprio sul
potere di cui dispongono».
Ma esistono davvero altri media, diversi dalla stampa quotidiana, non piegati a questa logica?
«No: il problema del circuito mediatico nel suo complesso è che gran parte delle notizie è costituita
da quanto detto o successo su un altro media. C’è un rimbalzo continuo, con i quotidiani che
commentano quello che hanno visto in televisione e viceversa, in un’ininterrotta amplificazione:
come nelle vecchie botteghe dei barbieri, due specchi uno di fronte all’altro moltiplicano le stesse
figure all’infinito».
Anche internet?
«Certo, anzi: dalla Rete viene un elemento ulteriore, decisivo nell’evoluzione subita negli ultimi
anni dal sistema dell’informazione nel suo complesso. La logica fondamentale del cosiddetto web
2.0, quello nel quale autori e fruitori si sovrappongono, consiste in un enorme abbassamento delle
barriere di accesso, fino a eliminare ogni distinzione tra competenza e incompetenza. In qualche
modo infastidita dal sapere, la gente pensa che sia giusto, democratico e opportuno dire la propria
su qualunque cosa: s’impone la chiacchiera a ruota libera dove le contraddizioni non importano, le
falsità non hanno peso, gli errori non si scontano».
Edoardo Castagna
Fonte: http://www.avvenire.it/Cultura/Lettori+in+vendita_200909100723057270000.htm
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Post/teca
----------------11/9/2009, di Massimo Gramellini
Bar Sport Italia
Nel dirimere la controversia fra un tifoso juventino e uno milanista, avvenuta a suon di gestacci e
battute iettatorie in un bar di Portogruaro, la Corte di Cassazione ha affermato che quando si parla
di pallone è lecito liberare gli istinti più trucidi, per lo meno «laddove tale volgarità non suscita
riprovazione alcuna». Il principio emana buon senso e potrebbe anche essere condiviso, se non
fosse che riesce oltremodo difficile individuare una lista precisa dei luoghi in cui «la volgarità non
suscita più riprovazione alcuna».
L’elenco si apre senz’altro con i bar sport, per i quali la sentenza è stata disegnata. Ma potrebbe
agevolmente comprendere il Parlamento, le televisioni, le radio, le conferenze stampa, i parchi, i
parcheggi, gli ingorghi, i semafori, i telefonini, i libri impegnati, gli ospedali, le redazioni dei
giornali, gli uffici pubblici, gli uffici privati non gestiti da un manager scandinavo, le scuole
(cattoliche comprese, quando il prete in cattedra è sordo o molto anziano), le discoteche, i centri
commerciali, le case dei poveri, le ville dei ricchi e dei finti poveri. E naturalmente gli stadi, i
palazzetti e le palestre, escluse quelle dove si insegnano il ballo sulle punte e l’arte del ricamo. Pur
utilizzando un criterio così restrittivo, la definizione non risulta ancora sufficientemente chiara.
Sarebbe più semplice procedere al contrario, indicando cioè i luoghi dove «la volgarità suscita
ancora riprovazione». Qualche biblioteca di prossima chiusura e la sala da the frequentata dalla
nonna di un mio amico. Forse.
Fonte: http://www.lastampa.it/cmstp/rubriche/girata.asp?
ID_blog=41&ID_articolo=679&ID_sezione=56&sezione=
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Anch'io voglio i
funerali di Stato
Scritto da Nicolò Vergata Scritto da
Nicolò Vergata
Friday 11 September 2009 Friday 11
September 2009
…senza fretta, però. Lasciatemi almeno raggiungere (tra dieci anni) l’età di Mike. Ci metterei la
firma. Ma perché rivendico anch’io questa onorificenza post mortem, dal momento che non me ne
potrà fregare di meno se davanti alla mia tomba ci sarà qualche politico che fingerà di essere
addolorato mentre non aspetterà altro che l’intervista dei giornalisti per dire quattro fregnacce su di
me e farsi pubblicità? Anzi, mentre ci sono, posso mettere una condizione al mio funerale di stato?
Quella che, nel caso di malaugurata contestualità tra mia dipartita e ascesa di un governo di sinistra
o di centrosinistra, la mia richiesta non venga accolta e che mi si getti direttamente a mare, anche
senza ghirlanda, basta che io, nelle profondità marine, non senta più qualcuno che esalti le mie virtù
perché ho fatto la resistenza.
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Post/teca
L’unica resistenza che nella mia vita, per la verità, ho fatta è quella di aver sopportato, pur a
malapena, le fregnacce dette dai personaggi di turno del centrosinistra e di quell’ineffabile
tornocontista di Di Pietro (mi querela?).
Sento già la voce scandalizzata del popolo teledipendente (mia moglie per prima): “Ma come, vuoi
paragonarti al grande Mike? Cosa hai fatto tu più di lui?
Te lo dico subito: Lui era quello che, strapagato dalle ditte sponsorizzatrici, propagandava i loro
prodotti. Io ero quel fesso che li comprava e, talvolta prendeva anche qualche bidone. Le ditte
aumentavano il costo dei prodotti perché dovevano pagare Mike e anche l’elicottero che lo portava
in cima. Io, nello smog della città, sognavo che calasse il prezzo della benzina per farmi un week
end in montagna. Mike è morto mentre era in vacanza a Montecarlo. Io mi morirò al profumo di
sterco dell’allevamento di ovini a qualche caseggiato più in là. A Mike, Berlusconi ha dato uno
stipendio di 600,00 milioni l’anno, a me che invece di parlare di grappa lo difendo ogni giorno ,
neanche mi ha detto grazie, anzi non sa neppure che esisto.
Per questo motivo, l’unico rammarico che ho è quello di pagare a Mike anche i funerali, dopo che
ho acquistato tante grappe, biscotti, mangiato lasagne, bevuto vino, regalato a mia moglie mutande
col filo internaticale, come si usano adesso, comprato cose inutili perché lo diceva Mike. Mentre noi
dovremo lasciare ai figli anche le rate del funerale da devolvere a qualche impresa di onoranze
funebri che si spartirà il ricavato con l’infermiere di turno che gli ha tempestivamente segnalato di
un vecchio in corsia che se ne sta andando a quel paese.
Cosa può contare che un uomo qualunque abbia perso “u’ suonnu e a fantasia” sulle carte in
quarant’anni di lavoro? Che cosa può valere aver fatto, nel suo piccolo, qualcosa di utile per la
società? Che conta avere avuto uno stipendio (allora) inadeguato alle responsabilità che gli
competevano e guadagnato lira per lira lo stipendio? Che valore ha quello di aver pagato le tasse
fino all’ultima lira, prelevate alla fonte prima che arrivasse lo stipendio mensile?
Niente da fare, io sono, noi siamo, voi siete una nullità per lo Stato. Una nullità, a meno che, se
donna e ben carrozzata (rifatta o no, oggi non importa) vada a mostrare le sue virtù “morali” in Tv
(o in qualche letto) e, se uomo, dia il lato B alla sinistra per fare il buffone di corte strapagato a suon
di miliardi e magari premiato con qualche Nobel.
C’è mediocrità e mediocrità : Mike si è arricchito con la sua mediocrità a prova di casalinga; noi
rimaniamo poveri con un valore spesso non mediocre ma non reclamizzato e non utile ai mass
media. Questi sono i valori sociali. Se tornassi indietro, farei il propagandista (o come suona
meglio: “promoter ?”). In quel settore o si ottiene il funerale di stato o, come la Wanna Marchi, si va
in galera. Ma in ogni caso si fa tanta di quella grana!
Mike, non te la prendere. Scherzavo. Come disse Totò, la morte è una livella. Allora, livella per
livella, Obama ascoltami : se vuoi essere veramente democratico, nella riforma sanitaria che
meritoriamente propugni, abolisci i funerali di stato e mettili a carico della mutua, uguali per tutti,
per i capi di Stato e per i neri di New Orleans.
Requiescant in pace. Amen.
Fonte: http://www.legnostorto.com/index.php?option=com_content&task=view&id=25953
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Post/teca
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Scrittori precari: should I stay or should I go?
Di Fabio Deotto |04 settembre 2009
Sono tempi curiosi per la letteratura italiana. Dietro le vetrine delle librerie si leggono sempre i
soliti nomi (Zafòn, Larsson e Camilleri occupano praticamente da soli la top ten). Il dibattito
letterario che ha infiammato l’estate verteva su chi meritasse di più lo Strega tra Scarpa e Scurati
(questione di conteggio voti, non di bontà letteraria). Nel frattempo lo scorso vincitore (Paolo
Giordano) è ancora in classifica e Faletti si è aggrappato un’altra volta ai vertici delle vendite.
E intanto, un sottobosco letterario che i riflettori non vogliono raggiungere, brulica di vita. Assiepati
come reietti in uffici polverosi, migliaia di ragazzi sbarcano il lunario correggendo bozze,
traducendo, "producendo contenuti", e ogni giorno (quando riescono) si ritagliano un minuscolo
spazio per coltivare la propria passione. Sono il popolo degli scrittori invisibili, di loro l’ "olimpo
letterario" non si cura, e così un intero patrimonio culturale rimane puro potenziale.
La situazione, in molti casi è drammatica. Allora, che fare? C’è chi abbassa il capo e sgobba
accecato dalla speranza, c’è chi accetta stage gratuiti, contratti a brevissimo termine e un orizzonte
lontanissimo di stabilità. Ma c’è anche chi fa i bagagli e fugge all’estero, e sono sempre di più.
Francesco Bianconi, leader dei Baustelle, ha dichiarato di voler lasciare l’Italia e ha invitato tutti gli
intellettuali che possono permetterselo a fare altrettanto, motivando la loro scelta in una lettera al
Capo dello Stato. Dichiarazione che in questi giorni ha scatenato un acceso dibattito. Sul suo blog
Scrittori Precari Simone Ghelli ha rivendicato la necessità di fare fronte comune per cambiare la
situazione dal basso. “Quanto è alta la soglia di sopportazione in questo paese?” si chiede Ghelli su
Carmilla Online, il portale di controcultura diretto tra gli altri da Valerio Evangelisti. “Per quanto
tempo ancora dovremo accettare di svendere le nostre competenze, fino al punto di arrivare ad
offrirle gratis, pur di avere la possibilità di guardare dallo spiraglio di una porticina da cui ne
passano sempre troppo pochi, come accade per chi sogna una carriera nelle università?”. Un'altra
voce interessante è quella diClaudia Boscolo, che sul suo blog riconosce a Bianconi di aver colto
nel segno: “Sottrarre a questo paese che muore la linfa intellettuale significa infliggergli un colpo al
cuore” scrive la Boscolo “Chi invece non ha né i mezzi e neppure il curriculum per potersi spostare
all’estero credo che guardi con impotenza questo spettacolo, e che coltivi il desiderio feroce di
allontanarsene, perché la verità è che provoca dolore.”
In effetti la fuga all’estero non è alla portata di tutti. Urge perciò trovare un mezzo per fare breccia
nel silenzio assordante riservato alla letteratura “emergente”. Per fortuna c’è la Rete, che negli
ultimi anni ha creato degli spazi di confronto e diffusione grazie ai quali si è creato un nuovo
fermento letterario tutto italiano. È il caso di magazine online come Carmilla, Nazione Indiana e
Ruggine, che pubblicano con frequenza racconti, romanzi a puntate e interventi illuminanti. È il
caso del collettivo Wu Ming, del loro portale iQuindici.org che raccoglie, analizza e promuove
manoscritti in copyleft. Grazie a iQuindici autori del calibro di Girolamo De Michele e Francesco
Fagioli hanno raggiunto la pubblicazione per importanti case editrici. I casi sono molteplici, e alcuni
come il movimento New Italian Epic, meriterebbero una sezione a parte.
La Rete, insomma, funziona. “Precari di tutta Italia unitevi” verrebbe da dire. Gli spazi ci sono, i
mezzi pure. Manca solo un po’ di coscienza comune. E forse, un po’ di coraggio.
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Post/teca
Fonte: http://www.wired.it/news/archivio/2009-09/04/scrittori-precari.aspx
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In arrivo il lodo ego te absolvo
di Michele Serra
Le diplomazie vaticana e del governo di centrodestra al lavoro per stilare la Carta di
Riconciliazione. E per l'occasione il compleanno del premier si celebrerà in San Pietro
Dopo i recenti dissapori, sono a buon punto le febbrili trattative tra Chiesa e governo di
centrodestra per ristabilire i solidi e affettuosi rapporti di sempre. Le rispettive diplomazie stanno
mettendo a punto una Carta di Riconciliazione che verrà resa pubblica il 29 settembre, in
occasione del compleanno del premier, che sarà celebrato in San Pietro. Questi i punti principali.
Indulgenze L'istituto dell'indulgenza, travolto secoli fa in seguito a un'indegna campagna della
stampa protestante, verrà reintrodotto con reciproca soddisfazione delle parti contraenti. I Peccatori
verseranno alla Chiesa un obolo proporzionale all'entità del peccato. Per Silvio Berlusconi si è
stabilita, forfettariamente, una somma di dieci miliardi di euro da versare entro la fine del 2009, in
cambio della quale gli verrà consegnato dalla Cei un certificato di verginità (Charta
Rinverginationis). Per evitare polemiche strumentali, la somma sarà versata in monete da un euro
durante la questua domenicale. In ogni chiesa italiana i sacrestani si presenteranno con una sacca da
due metri cubi, munita di rotelle e argano, che verrà riempita di monete da emissari di Palazzo
Chigi e da volontari del Pdl. Il contenuto delle sacche, provenienti da tutta italia, sarà poi versato in
uno speciale silos dello Ior al centro di Piazza San Pietro. Il tintinnio del denaro, amplificato dagli
altoparlanti, sarà udibile fino a cento chilometri da Roma: si prevede l'arrivo di milioni di pellegrini.
Scuola Raggiunto il compromesso tanto atteso: anche le scuole pubbliche avranno diritto ai
finanziamenti dello Stato.
Confessione Una commissione congiunta, formata dall'avvocato Ghedini e basta, proporrà al
Parlamento l'adozione del Lodo Ego Te Absolvo, che dichiara estinti tutti i reati dichiarati in
confessionale, equiparando l'assoluzione del prete a quella della Cassazione. Per smaltire le code
davanti ai confessionali, tutti i sagrati italiani verranno transennati. I magistrati che si sentissero
esautorati da questo provvedimento potranno facilmente ovviare entrando in seminario e prendendo
i voti.
Stampa Dimenticato l'incidente Boffo, dovuto a uno spiacevole malinteso (Feltri intendeva solo
fare uno scherzo), la Chiesa ha messo a disposizione del governo il suo antico sistema di
imprimatur, molto più efficace delle maldestre ritorsioni fondate su querele e censure a posteriori.
L'imprimatur impedisce ab ovo la pubblicazione di notizie sgradevoli. Qualunque articolo di
giornale o servizio televisivo sarà vagliato preventivamente da una commissione di suore orsoline. I
palinsesti Mediaset, che senza la messa in onda di tette e culi sarebbero costretti a chiudere, avranno
una speciale dispensa tette e culi (Exceptio tettarum et culorum). Le altre reti dovranno mandare in
onda solo l'Angelus papale e, per pluralismo, anche qualche funzione ortodossa, purché
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Post/teca
sottotitolata. Dichiarazione di politici e intellettuali non credenti andranno in onda nell'apposita
rubrica 'Dov'è l'errore?', concorso popolare abbinato alla Lotteria Italia.
Nomine Rai All'insegna del pluralismo: un gesuita a Raitre, un barnabita al Tg3. In consiglio di
amministrazione siederà anche una nuova figura, il cappellano della Rai, che avrà il compito di
benedire i programmi prima della messa in onda, e la Littizzetto durante la messa in onda.
Nuovo ministro Il ministro Calderoli, il cui matrimonio celtico e il cui divorzio varesotto sono stati
sanati da uno speciale indulto del parroco, è nominato ministro plenipotenziario per i rapporti con la
Santa Sede. Per volontà di entrambe la parti, è stata aggiunta una clausola che invita Calderoli a non
presentarsi in shorts ai colloqui con il Papa. Più difficile sarà ottenere anche dal Papa un
abbigliamento consono.
(10 settembre 2009)
Fonte: http://espresso.repubblica.it/dettaglio/in-arrivo-il-lodo-ego-te-absolvo/2109417/1&ref=hpsp
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12 settembre 2009
Lui è malato, noi di più
Piergiorgio Paterlini per Piovonorane.it:
Edmondo Berselli si chiede dove sia Silvio Berlusconi.
Io mi chiedo dove siamo noi, dov’è la parte non-berlusconizzata del paese, dove sono i sindacati, i
cattolici che un tempo si definivano “democratici”, dove Casini, dove i parroci antidivorzisti, dove
il Pd, i girotondini, gli studenti di qualche Onda. Ma, al di là delle sigle e delle organizzazioni,
proprio dove siamo noi. In realtà mi sono chiesto dove sono io.
Domando a me stesso: perché io sono qui, a casa, al mio computer e non incatenato a Palazzo
Chigi con un cartello che le tv - quelle straniere ovviamente, in Italia non ci sono più tv e
telegiornali da un pezzo – possano mostrare a tutto il mondo, come farebbero per una protesta in
Cina?
È stato il pesce palla. Non c’è altra spiegazione. Il pesce palla, o più propriamente in giapponese
fugu: una vera prelibatezza, dicono. Che però può essere mortale. Perché il pesce palla-fugu
contiene la tetrodotossina, un veleno molto più potente del cianuro (un milligrammo la dose letale).
La tetrodotossina funziona così: non si riesce più a parlare, poi si rimane completamente
paralizzati, eppure perfettamente coscienti. Fotografia e diagnosi perfetta, no?
C’è anche una malattia terribile che si chiama sindrome locked-in o sindrome del chiavistello:
«Una condizione nella quale il paziente è cosciente e sveglio, ma non può muoversi oppure
comunicare a causa della completa paralisi di tutti i muscoli volontari del corpo». (Wikipedia) Più
o meno stessa cosa. Sei cosciente, perfettamente, perfettamente cosciente e sveglio, ma hai tutti i
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muscoli paralizzati. Non puoi andare fare brigare come vorresti.
E poi c’è quella faccenda dell’”anestesia cosciente”, che è un brutto film horror, ma interessante, e
anche una realtà psicofisica spaventosa ma reale. Nel film, un certo Clay, sul tavolo operatorio, già
anestetizzato, si rende conto di riuscire a sentire ancora le parole dei medici. Subito dopo, durante
l’intervento, Clay capisce di essere precipitato in uno stato di “consapevolezza anestetica”, di
provare cioè le sensazioni fisiche dell’intervento pur non riuscendo a parlare e a muoversi.
In tutti e tre i casi, chi ci guarda pensa che siamo tranquilli, che vada tutto bene, che a noi vada
tutto bene.
Vorremmo urlare, ma restiamo impassibilmente zitti e muti.
Sappiamo che stiamo morendo, ma non riusciamo a muovere un dito.
Berlusconi è sicuramente ammalato.
Noi, di più.
Fonte: http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2009/09/11/lui-e-malato-noi-di-piu/
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14 settembre 2009
Tutto comincio' quando, ormai tanti tanti anni fa, in televisione passava spesso la
pubblicita' della gomma da masticare "Brooklin". Qualcuno ricorda? Si vedeva la allora
semisconosciuta Carla Gravina che correva lungo il Ponte di Brooklin, in sottofondo c'era
una musica, strana, martellante, assolutamente diversa da tutto cio' che erano le mode
dell'epoca. Aspettavo sempre quella pubblicita', perche' mi piaceva sentire quella musica
dirompente, anche solo per pochi secondi. Finche' un giorno, un mio cugino arrivo' di
corsa a casa mia con un 45 giri in mano, che aveva sottratto alla sorella piu' grande. In
copertina un dirigibile in fiamme.
Era "Whole Lotta Love" dei Led Zeppelin
Fonte: http://www.ginge.it/
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Post/teca
Si schianta il giovane pilota di caccia orfano di una vittima
dello Shuttle
Il padre era morto nel 2003 nell'incidente del Columbia su
Palestine (Usa)
Israele, la maledizione dell'astronauta
di ALIX VAN BUREN
"Un lutto inconcepibile", titolano le tivvù israeliane nell'annunciare la morte del giovane top gun
Asaf Ramon, 21 anni, ucciso nello schianto del caccia F16-A sui colli brulli della Cisgiordania. Una
perdita inimmaginabile, ripetono, eppure tanto familiare. Già, perché il capitano dell'aviazione,
precipitato per un guasto tecnico durante un volo d'addestramento, è il primogenito di Ilan Ramon,
un personaggio che ha fatto storia.
Ramon padre era il "placido eroe", il primo astronauta dello Stato ebraico, l'uomo che agli occhi dei
suoi aveva incarnato le speranze di rinascita d'Israele il 16 gennaio 2003 quando caracollò
sorridendo, ingoffato dalla tuta spaziale, a bordo della navicella americana Columbia, ma poi di
colpo le disintegrò, esplodendo assieme allo shuttle al rientro nell'atmosfera sopra Palestine in
Texas, quel lugubre shabbat del primo febbraio.
Centinaia di bambini avevano seguito l'impresa per giorni, gli occhi fissi sulle costellazioni del Sud
Est prima che s'alzasse l'alba, nell'attesa di cogliere il balenìo metallico sopra il Mediterraneo, quasi
- scrivevano i commentatori - trasportasse i loro sogni. Squadre di psicologi si esercitarono a
discettare intorno al sentimento d'abbandono e di sconfitta, che quella tragedia imprimeva nella
coscienza nazionale. Altri filosofeggiarono sulle arcane coincidenze del termine ebraico per spazio,
hallal, e del suo secondo significato di "assassinato", di vuoto immenso, schiacciante.
Per tutto questo il futuro capitano Asaf, allora quindicenne, venne abbracciato "orfano di Israele",
adottato metaforicamente dal Paese. Nacque presto un nuovo culto: quello dell'adolescente che
prometteva di ricalcare le orme del padre, di solcare i cieli ai comandi dei caccia da combattimento,
come il padre nel discusso raid dell'81 sul reattore nucleare iracheno di Osirak; anzi, di decollare un
giorno verso altri pianeti nello spazio.
Di nuovo oggi, al rientro della flottiglia di elicotteri Blackhawk coi resti del pilota, Israele
s'interroga sulle "oscene ironie" di una saga che si rinnova; sul "destino di un sogno che continua a
infrangersi".
Ancora pochi mesi fa, infatti, Asaf, l'astro promettente delle forze aeree, era scampato all'impatto di
uno Skyhawk, un aereo d'attacco leggero, privo di un motore bloccato da un'avaria. Il giorno, poi,
della conquista delle ali dorate da pilota, appuntategli sul petto dal presidente Shimon Peres, era
stato occasione di gaudio nazionale. Un po' come quando il padre, Ilan, sei anni fa, nel congedarsi
prima del lancio della Missione STS-107, in un'intervista alla Radio militare, aveva appassionato gli
ascoltatori: "Quando quei razzi entreranno in funzione, andremo assieme nello spazio, io e tutti
voi". E in quel 113 esimo lancio, cifra infausta per la numerologia anglosassone, portò con sé il
disegno tracciato da un bambino ad Auschwitz: l'immagine, scura e sognante, della Terra vista dalla
luna.
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Ramon, dicono in Israele, aveva sfiorato il cielo, e ne era stato polverizzato. Come oggi il figlio. Le
autorità avvieranno un'inchiesta. Ma la sua fama di eroe già vola alta.
(14 settembre 2009)
Fonte: http://www.repubblica.it/2009/09/sezioni/esteri/astronauta-israele/astronautaisraele/astronauta-israele.html
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Non avete una connessione a banda larga? Sappiate che è
tutta colpa del Titanic
Nota dell’autore: quello che segue è un lungo pezzo, scritto parecchio tempo fa ed ancora non
terminato, che, attraverso un’analisi storica, cercherà di rispondere ad una domanda: è ancora
legittimo e necessario che lo spettro radiofonico sia gestito dallo Stato? Vista l’eccessiva lunghezza
sono costretto a ridurre quest’articolo in più parti, spero comunque che lo troviate interessante, lo
spezzettamento dovrebbe inoltre consentirmi di completare il lavoro in ogni sua parte.
Lo “spettro radiofonico” è quel fascio di radiofrequenze elettromagnetiche utilizzate dalle radio,
dalle televisioni, dai telefoni cellulari, dai dispositivi wireless e bluetooth, in buona sostanza da
qualsiasi apparecchio che utilizzi onde radio per trasmettere dati o informazioni. Lo spettro
radiofonico comprende frequenze che vanno dai 3 kilohertz ai 300 gigahertz.
Come tutti ben sappiamo questo spettro è regolato. Siamo tutti abituati all’idea che per ottenere il
permesso di utilizzare una determinata frequenza sia necessario acquistare un “diritto di
trasmissione” da parte dello Stato. Tutti voi ricorderete la mega asta fallimentare per ottenere il
permesso di utilizzare le frequenze per i telefonini UMTS, inoltre vi è stata raccontata più volte la
vicenda di Europa 7, che non può trasmettere perché Rete 4 occupa abusivamente le sue frequenze.
Andando ancora più a ritroso nel tempo, molti di voi ricorderanno le polemiche che seguirono
all’approvazione della Legge Mammì, che diede “de facto” il via libera in Italia alle(a) TV private
nazionali, le quali, prima dell’approvazione di tale legge, trasmettevano in stato di
semiclandestinità. Ebbene, tutti questi eventi sono collegati da un unico filo conduttore:
l’affondamento del Titanic.
Vi starete chiedendo come sia possibile collegare l’affondamento del più famoso transatlantico della
storia con le televisioni, le radio, il wireless ed i celluari; la riposta è semplice: fu l’affondamento
del Titanic a sdoganare l’idea che le frequenze radio dovessero essere regolate e controllate. Così,
anche se vi sembrerà un paradosso, sappiate che la responsabilità del digital divide, che impedisce a
milioni di persone di disporre di una connessione a banda larga, non è di Telecom, di altre
compagnie telefoniche, o del governo, se cercate un colpevole puntate il dito direttamente sul
gigantesco Iceberg che si rese responsabile dell’affondamento del transatlantico più famoso al
mondo.
Fu infatti dopo l’affondamento del Titanic che analisti della Marina sostennero la tesi secondo cui,
se lo spettro radiofonico non fosse stato così confuso e disordinato, molte delle navi che si
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trovavano nelle vicinanze del transatlantico non avrebbero mancato il segnale di aiuto, la
conseguenza logica portò a concludere che il disordine delle radiofrequenze avesse causato la morte
di migliaia di persone. Naturalmente il governò americano usò quell’evento tragico come pretesto
per iniziare a regolare l’uso e l’accesso dello spettro radiofonico. Nacque così, nel 1912, il Radio
Act, la prima legge al mondo che si occupava di controllare e gestire le frequenze radio.
Gli effetti del Radio Act sulle trasmissioni radiofoniche
Il Radio Act, ed il suo successivo omologo del 1927, ebbero un effetto tellurico nella
programmazione delle radio americane. Oggi tutto ciò sembra difficile da credere, perché ci siamo
assuefatti a questo stato di cose, ma prima degli anni ‘30 le radio americane somigliavano molto
alla internet odierna, non c’erano talk-show e trasmissioni commerciali e le frequenze erano
occupate da radio amatoriali che offrivano servizi non commerciali, di tipo religioso ed educativo.
Ma nel momento stesso in cui il Governo iniziò la sua azione legislativa e di controllo il mondo
delle radio cambiò radicalmente, i radioamatori furono costretti a richiedere licenze per poter
utilizzare le frequenze, ma i costi per ottenere le licenze erano altissimi, inoltre ottenere il permesso
non era facile, i criteri di selezione erano piuttosto arbitrari, così molti di loro cessarono le
trasmissioni. L’aumento spropositato dei costi fece si che i permessi per l’uso delle frequenze
fossero acquisiti da grosse società di capitali, che disponevano della liquidità necessaria a coprire
tutti gli oneri, nonché delle giuste conoscenze atte ad ottenere le frequenze. La radio, da quel
momento in poi, divenne un vero e proprio business. I magnati delle finanza si lanciarono in questo
nuovo e succulento settore, nacquero i primi colossi radio (NBC e CBS) che riuscirono a far si che
il governo allocasse lo spettro secondo i loro interessi, e da quel momento le radio divennero un
coacervo di jngle, pubblicità, tormentoni e slogan e, naturalmente, spazi politici ad hoc per i propri
“sponsor”. La pubblicità irruppe prepotentemente nelle case dei cittadini americani, ed il 98% delle
trasmissioni serali furono occupate da talk-show e trasmissioni di intrattenimento di NBC e CBS.
All’inizio questo radicale cambiamento provocò scandalo e proteste, levate di scudi simili a quelle
che oggi muovono le tante persone che protestano a favore della neutralità di internet. Per dare
un’idea dello “scandalo” provocato da questa “trasformazione” radicale del sistema radiotelevisivo
si tenga presente che anche l’allora Presidente degli Stati Uniti Herbert Hoover ebbe a dire: “E’
inconcepibile che si debba lasciare che una così grande possibilità di servizi affoghi nella
chiacchiera pubblicitaria”.[1], mentre i giornali più volte si schierarono contro la pubblicità nelle
radio appoggiando così le proteste dell’opinione pubblica, ferocemente avversa all’idea di subire
interruzioni pubblicitarie all’interno dei programmi radiofonici. [2][3][4]
Ma alla fine i soldi e gli interessi economici ebbero la meglio, e ciò che allora era inconcepibile
divenne pian piano una consuetudine, tanto che ormai nessuno ricorda più quegli anni e quelle
proteste.
Obiettivamente, vista la rudimentale tecnologia a disposizione in quell’epoca, oggi potremmo dire
che negli anni ‘30 la scelta di gestire le frequenze aveva una sua ragion d’essere. Infatti le
frequenze, con le tecnologie allora conosciute, erano limitate e quindi era abbastanza logico che si
sentisse la necessità di controllarle. Ma se già negli anni ‘20 ed in quelli successivi l’idea che lo
Stato dovesse controllare le frequenze ebbe fin da subito feroci oppositori, tra i quali l’economista e
premio nobel Ronald Coase, quanto illogiche dovrebbero apparire agli analisti queste leggi tese a
“regolamentare ed a controllare” lo spettro oggi che le tecnologie per le trasmissioni in
radiofrequenza sono cambiate radicalmente ed in meglio?
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Quello che potrete leggere negli articoli che seguiranno è proprio un’analisi delle conseguenze
politiche e sociali derivanti dalla scelta di “accatastare” le frequenze, con l’aggiunta di qualche
serena “speculazione” su quale sarebbe stato il risultato finale se si fossero operate scelte diverse.
[1] – Lawrence Lessig, Il futuro delle idee, pagina 78
[2] – New York Times, 13 Agosto 1922
[3] – Radio News, Agosto 1922
[4] – New York Times, 6 Maggio 1923
Fonte: http://www.doxaliber.it/non-avete-una-connessione-a-banda-larga-sappiate-che-e-tutta-colpadel-titanic/576
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Gli scavi nella basilica funeraria da lui voluta sulla via Ardeatina hanno fatto emergere
un'intera serie di mausolei
La svolta di Papa Marco
L'edificio sacro fu il primo fondato direttamente da un vescovo di Roma
di Vincenzo Fiocchi Nicolai
Il 20 settembre 1991, dalle colonne di questo giornale, si annunciava l'importante scoperta, nel
comprensorio della catacomba di San Callisto, a circa 600 metri dal bivio del Quo Vadis?, di una
nuova basilica paleocristiana del tipo a deambulatorio (o circiforme). La notizia ebbe vasta eco nei
media nazionali e internazionali. Le modalità con cui l'edificio era venuto alla luce risultavano
davvero eccezionali - si direbbe "miracolose".
Era stata
la crescita differenziata di una coltivazione di erba medica, piantata in un terreno dai padri Salesiani
dell'Istituto San Tarcisio, a rivelare la presenza della chiesa: dove le radici avevano incontrato le
strutture sottostanti, l'erba era cresciuta meno sviluppata in altezza, delineando così "in negativo" i
contorni dell'edificio. La particolare planimetria della costruzione, caratterizzata da navate che
girano in senso continuo intorno a quella centrale, così da richiamare nella pianta la forma di un
circo, tipica di altre cinque chiese del suburbio romano assegnabili all'età costantiniana (la Basilica
Apostolorum sulla via Appia, quella dei Santi Pietro e Marcellino sulla via Labicana, di San
Lorenzo sulla via Tiburtina, di Sant'Agnese sulla via Nomentana e la cosiddetta Anonima della via
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Post/teca
Prenestina, e la posizione a ridosso dell'Ardeatina, fecero subito proporre l'identificazione
dell'edificio con la basilica di carattere funerario che Papa Marco (336) aveva fatto costruire, come
ci informa il Liber Pontificalis (xxxv, 4), in via Ardeatina, grazie al sovvenzionamento
dell'imperatore
Costantino,
ai
suoi
ultimi
anni
di
regno.
Tra il 1993 e il 1996 la nuova basilica venne fatta oggetto, da parte della Pontificia Commissione di
Archeologia Sacra, di reiterate campagne di scavo che riportarono alla luce il settore terminale
dell'edificio e anche un portico che, nella parte retrostante, l'univa a una strada di raccordo tra
l'Appia
e
l'Ardeatina.
Il carattere funerario della costruzione si evidenziò molto chiaramente: l'intero piano pavimentale
della chiesa si presentava occupato in maniera assolutamente intensiva da tombe, spesso a più posti
e a più piani sovrapposti. I reperti epigrafici - quasi duecento iscrizioni, di cui alcune datate - quelli
scultorei, ceramici, numismatici e i corredi tombali permisero di assegnare la chiesa tra gli anni
Trenta e Quaranta del iv secolo, confermando così l'ipotesi che essa fosse quella costruita da Marco.
Il Liber Pontificalis, nel passo relativo alla costruzione, ricordava pure che il Pontefice aveva scelto
di
essere
sepolto
nella
nuova
chiesa.
I nostri scavi hanno riportato alla luce, proprio nel punto più importante dell'edificio, al centro
dell'abside-esedra, una tomba del tutto eccezionale nel panorama indifferenziato dei sepolcri
pavimentali: si trattava di una camera lunga metri 2,70, larga metri 1,40 e profonda circa 3 metri,
coperta con volta a botte, che ospitava un sarcofago di marmo liscio, chiuso con coperchio a doppio
spiovente. Negli scavi la tomba si trovò violata: il coperchio spezzato e ributtato all'interno, il
sepolcro
privo
del
minimo
resto
umano.
L'eccezionalità della tomba fece proporre che si trattasse del sepolcro del fondatore, Marco. La
sequenza stratigrafica rivelò che la violazione era avvenuta nel medioevo: ciò che fu subito messo
in relazione con la traslazione, attestata dalle fonti, dei resti del Papa, tra la fine dell'XI e la metà del
XII secolo, nella chiesa intra muros che il Pontefice aveva fatto edificare nel Campo Marzio:
l'attuale
chiesa
di
San
Marco
presso
piazza
Venezia.
Identificazione dell'edificio e proposta di individuazione della tomba del Pontefice sono state
largamente accettate dal mondo scientifico. Un importante congresso sulle chiese di Roma, tenutosi
nell'occasione del Grande Giubileo del 2000 nel Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, nel fare
il punto delle nostre conoscenze sulle basiliche "circiformi", ha confermato l'attribuzione.
La chiesa che nel suo breve pontificato Papa Marco fece realizzare sull'Ardeatina riveste
un'importanza particolare sul piano storico. Si tratta infatti della prima basilica fondata direttamente
da un Pontefice a Roma - le altre chiese di età costantiniana, come ricorda il Liber Pontificalis,
furono erette su iniziativa imperiale. Il Papa, con la costruzione, voleva soprattutto dotare la
comunità cristiana di uno spazio destinato alla sepoltura (quam [basilicam] coemeterium constitut).
Abbiamo calcolato che la basilica dell'Ardeatina potesse accogliere, solo sotto i piani pavimentali,
circa 1.600 tombe. Come le altre sette chiese funerarie costruite in quel frangente cronologico nel
suburbio romano - quelle già ricordate, più San Pietro in Vaticano e San Paolo sulla via Ostiense),
anche la basilica di Marco forniva ai fedeli spazi adeguati per la sepoltura in edifici di carattere
religioso.
Si trattava certamente di una svolta: per la prima volta gli appartenenti alla comunità potevano
essere inumati nelle chiese - precedentemente le tombe dei cristiani affollavano le catacombe e i
normali cimiteri di superficie che vi sorgevano al di sopra. Una svolta epocale, che inaugurò una
prassi che si sarebbe perpetuata per secoli. Come spiegava Gregorio Magno alla fine del vi secolo,
era soprattutto il beneficio che derivava ai defunti dall'essere sepolti nel luogo deputato alla
preghiera e alla celebrazione eucaristica che spingeva irresistibilmente i fedeli a trovare sepoltura
nelle chiese. Il contemporaneo Gregorio di Tours, nei suoi scritti, ricorda vari episodi che rivelano
la credenza che i defunti partecipassero in qualche modo alle preghiere che si svolgevano negli
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edifici di culto in cui riposavano. Le prime chiese funerarie costruite nella periferia di Roma
comprendevano all'interno le tombe dei martiri e degli apostoli Pietro e Paolo, o vi sorgevano nei
pressi: il che, pure, rendeva gli edifici particolarmente ambiti da chi desiderava essere sepolto ad
sanctos.
Dopo la campagna di scavi del 1996, le indagini nella nuova
basilica circiforme si sono interrotte per dieci anni. Nel 2007 sono riprese grazie alla sensibilità
della nuova dirigenza della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra. Esse si svolgono su
concessione del ministero per i Beni e le attività culturali dello Stato italiano, in collaborazione con
l'università di Roma "Tor Vergata". Vi partecipano studenti specializzandi in archeologia cristiana di
diverse università italiane ed estere e dottorandi del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana.
Nelle ultime tre campagne - la più recente si è conclusa alla fine di luglio - è stata rimessa in luce
gran parte del settore mediano della chiesa; ci si proponeva tra l'altro di verificare la possibile
presenza dell'altare - non rintracciato nell'area absidale nelle precedenti indagini - in quella zona,
così come è attestato nella simile Basilica Apostolorum (San Sebastiano) dell'Appia. Gli scavi non
hanno ancora raggiunto in tale settore il piano della chiesa: l'enigma sarà perciò risolto nel
prosieguo delle esplorazioni. Queste per ora si sono concentrate nell'area subito esterna al fianco
sinistro (occidentale) della basilica. Qui, come nelle altre chiese circiformi, è venuta alla luce una
serie compatta di mausolei - ben cinque in pochi metri - addossati alla chiesa e comunicanti con
essa. Si tratta di edifici rettangolari absidati, dotati di decine di tombe pavimentali, nei quali, come
di norma, dovevano essere sepolti i membri delle famiglie aristocratiche di Roma, spesso da poco
convertitesi al cristianesimo. Cappelle funerarie lussuose, decorate all'interno con marmi e pitture,
ospitanti
talvolta
sarcofagi
istoriati.
Alcuni di questi mausolei hanno restituito sotto il pavimento le solite tombe "a pozzetto", comuni
nelle chiese funerarie dell'epoca, cioè sepolcri a uno o più piani, dotati all'estremità di un'apertura
quadrata, una sorta di "tombino" funzionale all'immissione progressiva dei cadaveri. Iscrizioni e
materiali ceramici e numismatici, recuperati negli scavi, garantiscono che i mausolei furono
edificati nella seconda metà del iv secolo, all'epoca in cui l'attigua basilica funzionava a pieno
regime.
È probabile che queste cappelle fiancheggiassero la chiesa lungo tutto il lato sinistro - su quello
destro il passaggio di una strada ne impediva la costruzione - e che altri mausolei si trovassero più a
ridosso della via Ardeatina e, forse, in prossimità della facciata, a costituire le propaggini di un
complesso cimiteriale variamente articolato, comprendente anche una vasta catacomba nel
sottosuolo,
di
cui
la
basilica
di
Marco
costituiva
il
fulcro.
Nei prossimi anni la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra ha in programma di terminare lo
scavo del nuovo settore aperto nel 2007. Si prevede infatti di presentare il risultato delle indagini al
prossimo Congresso Internazionale di Archeologia Cristiana che si terrà a Roma nel 2013 per
celebrare il XVIi centenario del cosiddetto Editto di Milano. Sarà anche l'occasione per discutere la
possibilità di conservare i resti della nuova importante chiesa, che arricchiscono il già notevolissimo
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Post/teca
patrimonio della Roma paleocristiana.
(©L'Osservatore Romano - 13 settembre 2009)
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Allegria di naufragi
Lui faceva solo le domande
L'ironia è che Mike Bongiorno un funerale di Stato se lo meritava, come tutti i partigiani. Forse nel
casino dell'8 settembre per un italoamericano era più facile capire da che parte stare; ma ci voleva
comunque molto coraggio, che non gli è mai mancato. Gli mancò invece la voglia di parlarne:
mentre altri si sono riciclati ex partigiani per tutta la vita, lui si è messo subito a fare altro,
seppellendo diligentemente l'esperienza di staffetta e di prigionia nel suo curriculum. Un riserbo ai
limiti della rimozione, che potrebbe anche insospettire: l'uomo aveva tanti difetti ma non la falsa
modestia. Più probabilmente non ne parlava perché non voleva correre il rischio di annoiare.
Del resto nessuno crede che Mike “Ordine al Merito della Repubblica Italiana” Bongiorno sia
sepolto da eroe perché a 19 anni cercava di tradurre i dispacci partigiani in inglese e viceversa. MB
si meritava solenni esequie perché era la Storia della tv di Stato + la Storia della tv commerciale.
Questo in Italia è terribilmente importante. E questa importanza, temo, è terribilmente italiana.
Perché Mike Bongiorno, in fondo, era solo un conduttore televisivo. Nemmeno dei più brillanti: non
è che abbia inventato un granché. Seppe sfruttare al meglio il suo bilinguismo, cominciando a
importare format dagli Usa quando l'inglese in Rai era probabilmente compreso come l'arabo oggi.
Lascia o raddoppia in originale si chiamava The 64000$ Question. Era un quiz, un giuoco a premi,
come se ne facevano già in tanti Paesi. Prima o poi qualcuno li avrebbe portati in Italia, ed era fatale
che si trattasse un uomo nato all'incrocio tra due culture (senza saperne molto di entrambe, ma che
c'entra).
Quello che non ci si poteva aspettare è che Lascia e raddoppia segnasse in modo così profondo
l'immaginario degli italiani. Era solo un programma, solo tv, e Mike Bongiorno era solo un signore
gentile che faceva le domande, lasciandosi scappare qualche simpatico strafalcione. Poteva durare
una stagione, o dieci stagioni, e poi sparire nel dimenticatoio – alla Rai MB non ebbe sempre vita
facile – e invece eccoci qui, solenni funerali di Stato. Qui io direi che c'è qualcosa che non va: nel
culto del presentatore, che negli altri Paesi è quasi sempre un signore brillante che legge una
cartellina e da noi è l'assoluto protagonista, un art director, un profeta, un dittatore vendicativo. Ai
bei tempi, MB arrotondava il salario Rai con vere e proprie tournée estive: sfuggiva da folle di
signore che cercavano di toccargli i capelli, saliva su un palco di una sagra di paese e... cosa faceva?
Cosa fa un conduttore senza qualcosa da condurre? Erano le prime comparsate della storia
dell'umanità. Gli avranno dato una miss da incoronare, più spesso un prodotto da vendere, gli
sponsor da ringraziare, patetiche scuse per ascoltarlo parlare, per l'allegria di sentirlo dire allegria.
Lo spettacolo era lui, la tv dal vivo.
Nel Regno Unito nasceva la beatlemania, negli Usa Dylan diventava un divo. A Parigi andavano
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forte i filosofi esistenzialisti; in Italia sognavamo di toccare i capelli a Mike Bongiorno. C'era già
qualcosa di profondamente sbagliato. Cosa ha reso di noi il popolo più teledipendente di Europa?
La tv la guardano tutti, ma nel resto del mondo è un elettrodomestico che dialoga con altri, senza
mangiarseli: ieri c'era la radio, la carta stampata, oggi c'è internet; ci si può aggiornare su tutto senza
nemmeno sapere cosa c'è in tv. In Italia non è possibile, persino se uno cercasse di vivere
esclusivamente di quotidiani: per esempio, di che parlano le prime pagine cartacee e telematiche di
oggi? del palinsesto rai – al posto di Ballarò faranno un programma di Vespa e questo si dà scontato
che leda profondamente il pluralismo democratico. La Rai è l'Italia in diretta, chiudere un
programma è come chiudere una piazza e impedire agli italiani di radunarvisi. Altrove secondo me
non è così.
Ma non è colpa di Mike Bongiorno. Lui faceva domande, senza nemmeno fingere di conoscere le
risposte. I suoi programmi non creavano nessuna illusione di focolare nazionalpopolare, alla Baudo.
MB non accarezzava l'autoindulgenza del telespettatore con la goliardia di Corrado o l'ironia un po'
snob di Enzo Tortora. Mike Bongiorno registrava telequiz, punto. Quando la formula del telequiz
cominciava a stancare, lui si metteva a cercare qualche formula nuova. Quando tramontò l'archetipo
del signore stravagante dotato di una cultura settoriale impressionante (oggi lo chiameremmo,
tagliando corto, nerd) lui scoprì i giochini enigmistici alla portata di casalinghe e pensionati, i rebus
di Bis, il paroliamo della Ruota della Fortuna, un altro format americano fatto e finito. Giochi a
premi senza ironia, senza riflessioni o metadiscorsi. Per quanto gli italiani cercassero in tv Art
Director, Profeti, Dittatori Vendicativi, bisogna dare atto a MB di aver mai provato a essere
qualcosa di più di quel che era: quello che fa le domande, o almeno le domandine. Almeno fino a
qualche anno dalla fine, quando anche lui non riuscì più a resistere alla grande celebrazione
autoreferenziale, e a dare retta a chi lo voleva Senatore a vita, maestro di stile (per via delle sue
gaffes), protagonista del Novecento italiano. L'ultimo Mike, quello che faceva da spalla a Fiorello,
era un buffo monumento a sé stesso – alla gente piacerà ricordarselo così. Ma il vero MB era un
altra cosa.
Una macchina per far soldi, sostanzialmente. Nessuna complicazione intellettuale, politica, etica.
Nessuna ambizione di raccontare gli italiani. MB non era distratto nemmeno dall'ego. Non andò da
Berlusconi a fare il Grande Personaggio – andò a fare l'operaio alla catena, una striscia di mezz'ora
al giorno e tre ore di prima serata settimanali, per dieci e più anni. Consapevole che si trattava
sostanzialmente di vendere materassi e mortadelle, MB si lasciò tranquillamente alle spalle il suo
passato di partigiano, alpinista, patriarca della tv, e si mise a vendere materassi e mortadelle. Senza
vergogna, e senza nemmeno provare a ridersi addosso – pura televisione commerciale, senza
autoironie, complicazioni sociologiche, protagonismi. Gli altri grandi conduttori, lo sentivi,
volevano soprattutto essere amati, e a tal fine erano disposti a sedurre. MB no, lui non fingeva di
voler bene a nessuno. Se eri bravo ti diceva bravo, se sbagliavi ti mandava a casa, se provavi a
barare o ti portavi i bigliettini ti maltrattava davanti al pubblico, senza pietà o comprensione. Perché
MB non comprendeva nessuno. Lui faceva le domande, punto.
Passavano gli anni, cambiavano i fondali in cartongesso; lui rimaneva immobile, indifferente ai
destini umani. Sfiorivano le vallette – un autore morì, ma aveva già registrato ore e ore di Ruote
della Fortuna che andarono in onda lo stesso. Niente piagnistei, è solo televisione. Oggi, se guardi
Affari Tuoi, ti costringono a piangere se il concorrente esce con meno di ventimila euro.
Non è stato Mike Bongiorno a far impazzire la tv italiana. Lui fin dall'inizio ha pensato che nei
palinsesti ci fosse lo spazio commerciale per un intrattenimento di livello medio-basso (come si
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faceva negli Usa) e si è adoperato in tal senso. Ma non ha mai invaso il campo dell'informazione,
del dibattito politico, della cultura. I suoi colleghi – quelli che credevano che si potesse usare lo
stesso palco per fare dibattito politico e varietà, ritrovare il parente disperso e salvare la foca
monaca, vendere il libro e il caffè, dir messa e lanciare il balletto, tutto sempre in un unico enorme
contenitore che avrebbe dovuto piacere a tutti per forza – loro hanno più responsabilità.
Una volta Beniamino Placido andò a intervistarlo. Scoprì che passava le notti a studiare la tv
americana via satellite – eravamo ancora negli anni '80. Concluse che Mike era un alieno: viveva tra
noi, senza capirci; e noi non riuscivamo a capire lui. Questo non ci impedisce di celebrarlo, come un
altro pezzo del nostro passato che se ne va. Ma è il solito fraintendimento: questo passato più lo
festeggiamo più ci sfugge.
da leonardo il 9/14/2009
Fonte: http://leonardo.blogspot.com/2009/09/allegria-di-naufragi.html
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15 settembre 2009
Obituary: Paolo Geymonat
14 settembre, 2009
E’ incredibile, ma vero. E’ morto Paolo Geymonat. Era uno
dei migliori imprenditori del mondo internet italiano. Una mente in perenne movimento. Un uomo
vero, serio, sensato, intelligente, colto, equilibrato. Un ottimo e dolcissimo papà. E’ morto davanti
al suo computer … facendo il suo lavoro che amava
Impressiona l’ultimo messaggio sul suo twitter il cuore tech ha cominciato a battere a villa bakeca.
Unisce il suo cuore che l’ha lasciato improvvisamente e l’ultima sua creatura imprenditoriale: la
splendida villa high tech che ha riunito tutte le aziende delgruppo Bakeka
Avevamo passato un bellissimo pomeriggio di recente con amici per parlare di nuove cose da
fare insieme. La sua mente chissà ora dove sta cercando nuove dimensioni.Ciao Paolo, andremo
avanti per la tua strada e ti sentiremo vicino.
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Grande cordoglio nella sede torinese di Bakeca.it e nel mondo imprenditoriale subalpino per
l’improvvisa scomparsa di Paolo Geymonat, stroncato da un malore nella serata di ieri,
domenica 13 settembre. Fondatore della Internet company piemontese e personaggio cardine del
panorama Web italiano, Geymonat aveva 45 anni. Da anni fautore di progetti basati sulla voglia di
innovare il mondo della comunicazione, Geymonat ha speso e dato tutto se stesso per fare della
giovane azienda torinese quella
grande famiglia che oggi ne piange la figura dell’imprenditore geniale e creativo,
costantemente proiettato in un futuro da costruire ogni giorno con dedizione e creatività.
Torinese, nato a Parigi il 29 luglio 1964, nipote del filosofo Ludovico Geymonat, tra i più
importanti pensatori italiani del Novecento, da oltre 15 anni Paolo Geymonat era uno degli
imprenditori più attivi nel settore dell’ICT italiano. Dopo aver fondato e amministrato diverse
aziende come Multimedia Italia, Intesis e Mediaclick, costruendosi una solida esperienza nel lancio
sul mercato italiano di prodotti e servizi innovativi nel settore media, ha lavorato in CHL, l’ecommerce fiorentino, in qualità di esperto in media buying. Nel marzo 2005 ha fondato Bakeca.it
insieme a Nader Sabbaghian, responsabile strategico del portale, e affidando il ruolo di
amministratore delegato ad Alessandro Rivetti.
Fonte: http://www.pasteris.it/blog/2009/09/14/obituary-paolo-geymonat/
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Da Mandrake al mattone. I primi anni di un predestinato
di Claudia Fusani
Questione di attitudini. E di predisposizioni. Anche loro sono nel Dna, come gli occhi azzurri o i
capelli ricci. Ci nasci, ed è difficile cambiare. L’attitudine al commercio, ad esempio: Silvio
Berlusconi ce l’ha sempre avuta. Tra i banchi del liceo salesiano Sant’Ambrogio di via Copernico
s'inventa la formula «soddisfatti o rimborsati» che avrà tanto successo nei suoi grandi magazzini
trent'anni dopo. È bravo a scuola, specie in latino, greco e italiano, sono tempi di magra postbellici
ma s'intravvede il boom e Silvio inventa ogni modo per raggranellare qualche soldo. Tra le fonti di
guadagno i suoi compagni di classe. Racconta uno di loro, Giulio Colombo: «Faceva i compiti in un
baleno e poi aiutava i vicini di banco ma pretendeva in cambio caramelle, oggettini, di preferenza
20 o 50 lire. Se però il compito non raggiungeva la sufficienza, restituiva i soldi».
L’attitudine alla bugia, così, per il gusto di spararla perchè certe cose anche se non sono vere suona
benedirle. Fanno scena. E per Berlusconi la scena vale più delle parole e dei fatti. Le biografie
autorizzate raccontano che ha studiato due anni alla Sorbona, lo ha ripetuto a Sarkozy il 26 febbraio
2009 durante un incontro ufficiale. Falso. Forse ci ha fatto un corso estivo. Però fa scena il giovane
talentuoso e squattrinato che arriva alla Sorbona. Le solite biografie autorizzate, che attingono
soprattutto da aneddoti raccontati da Berlusconi medesimo alle convention di Publitalia, dicono
della passione per la musica e del gruppo I Quattro doctores (siamo nei primi anni universitari) con
Fedele Confalonieri al pianoforte e Silvio al microfono che sale e scende dal palco per sedurre le
ragazze; di Confalonieri geloso che lo caccia ma poi è costretto a riprenderlo perchè senza non
funziona; delle serate al «Tortuga» di Rimini e al «Gardenia» e al «Miramare» di Milano; delle
crociere a fare l’animatore di bordo; della tournèe in Libano. Difficile dire dove inizi il falso e
finisca il vero. Tranne il Libano, assolutamente falso: ma quanto fa esotico dirlo. Con queste
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Post/teca
attitudini Silvio Berlusconi nasce a Milano il 29 settembre 1936. Il padre Luigi, 28anni, è impiegato
della Banca Rasini, un solo sportello in piazza Mercanti 5.La mamma Rosella Bossi, donna robusta,
sguardo fiero, amante dei grandi cappelli, smette di lavorare alla Pirelli quando nasce Silvio. La
famiglia vive in un quartiere di ringhiera, l'Isola Garibaldi. La guerra travolge tutto e tutti. Anche i
Berlusconi: il padre è soldato semplice di fanteria e dopo l’8 settembre ‘43 si rifugia in Svizzera.
Mamma Rosa, Silvio – viso tondo, il sorriso di chi la sa lunga, lo stesso di oggi, la capigliatura
castana foltissima - e la neonata Maria Antonietta (Paolo nascerà nel 1949) sfollano a Oltrona di
San Mamette, nel comasco. Berlusconi ama raccontare un aneddoto che vede mamma Rosa
affrontare un soldato tedesco e, aiutata dai passeggeri di un treno, salvare una donna ebrea. La
famiglia si riunisce solo nel luglio 1945. Silvio ha già 9 anni, papà Luigi torna a lavorare in banca e
nel 1948 lo mette in collegio dai salesiani, il Sant’Ambrogio, dove «s’imparava a stare sui libri fino
a capire a fondo e ricordare bene». Dice Padre Erminio Furlotti, uno dei suoi insegnanti, in Una
storia italiana, opuscolo elettorale del 2001: «Era geniale, disinvolto, padrone di sé e di facile
comunicativa. I discorsi ufficiali venivano sempre affidati a lui che spesso improvvisava». Lo
chiamavano Mandrake.
In collegio fino alla maturità classica, Silvio si iscrive alla Statale, Giurisprudenza. Il padre gli
chiede di aiutarsi negli studi. Non c’è problema: belloccio («dicono che ero un fusto »), fama di
sciupafemmine, s’inventa piazzista di spazzole, fotografo di matrimoni e funerali, cantante.
Intrattenitore e venditore, intenderà più o meno allo stesso modo anche la politica. Negli anni
universitari stringe rapporti che saranno poi decisivi nella sua carriera. Con l’Opus Dei di Josemarìa
Escrivà de Balaguer, anzitutto, di cui frequenta la Residenza internazionale Torrescalla, e dove
nasce l’amicizia con il palermitano Marcello Dell’Utri. uno dei suoi più stretti collaboratori. Intanto,
nel 1957, Luigi diventa direttore della Banca Rasini. Silvio si laurea nel 1960 con una tesi sulla
pubblicità e vince una borsa di due milioni di lire della concessionaria di pubblicità Manzoni.
Prende 110 e lode. Ha 25 anni. Le idee chiarissime su cosa fare. E come farlo. (1/continua)
15 settembre 2009
Fonte:
http://www.unita.it/news/italia/88465/da_mandrake_al_mattone_i_primi_anni_di_un_predestinato
-----------------15/9/2009 (7:53)
Addio a Jim Carroll scrittore "maledetto"
NEW YORK
Jim Carroll, poeta e musicista punk autore de “The Basketball Diaries”, un’autobiografia in cui
racconta l’adolescenza di talentuoso giocatore di pallacanestro che a soli 13 anni faceva uso di
eroina e si prostituiva negli ambienti gay, è morto a 60 anni. Lo ha confermato al New York Times
l’ex moglie Rosemary Carroll, secondo la quale lo scrittore è morto per un infarto nella sua
abitazione a Manhattan.
Al libro autobiografico (1978, uscito in Italia con il titolo “Jim entra nel campo di basket”) si ispira
il film “Ritorno dal nulla” (1995) con Leonardo DiCaprio nei panni del protagonista.
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Post/teca
Personaggio noto della scena di Manhattan degli Anni Settanta, lavorò alla Factory di Andy Warhol,
collaborando con Lou Reed e il fotografo Robert Mapplethorpe. Carroll ha pubblicato numerose
raccolte poetiche.
Era anche un rockettaro: il suo album del 1980 “Catholic Boy” è una pietra miliare del genere punk.
L’amica Patti Smith lo ha definito «il migliore poeta della sua generazione».
Fonte: http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cultura/200909articoli/47362girata.asp
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Chiesa e libri, 500 anni di censure
di Michele Martelli
La 47a edizione della Mostra Antiquaria di Cortona (Arezzo), aperta dal 22 agosto al 6 settembre,
quest’anno contiene una chicca, la sezione sui “Libri proibiti dal 1500 al 1900”: 40 libri in preziosi
edizioni d’epoca, di proprietà della Libreria antiquaria di Londra Quartich e della Fondazione
Giangiacomo Feltrinelli. Proibiti da chi? Manco a dirlo! Ma dalla Chiesa cattolica romana,
soprattutto, in bella compagnia con governi e Stati illiberali europei del passato. I 40 libri esposti a
Cortona sono solo una minuscola parte dell’Index librorum prohibitorum, allestito sin dal 1564
dalla Chiesa romana per ordine del papa controriformista Pio IV.
Questo Indice è diventato, forse per uno scherzo divino, contro la volontà dei suoi sacri compilatori
porporati, un indice propagandistico di quanto di essenziale prodotto dalla cultura moderna. Basta
scorrerlo velocemente per trovarvi, nelle montagne di nomi e di titoli proibiti, quelli più
rappresentativi del mondo moderno, da Galilei a Darwin, da Kant a Sartre. E pressoché tutti gli
autori illuministi. Ma anche Dante, Boccaccio e Ariosto. Cioè poeti e scrittori tra i primi a
svincolarsi dalle catene del teologismo papale medioevale. «La santa chiesa avrìa più bisogno che
per molti anni non vi fusse stampa», aveva detto un rappresentante vaticano nel 1575. Da allora i
“molti anni” auspicati sono diventati quattro secoli. Quattro secoli di repressione papale della libertà
di parola, di pensiero, di espressione, di stampa. È sacro obbligo della Chiesa «estirpare la mortifera
peste dei libri», aveva pontificato papa Clemente XIII nel 1766, in piena epoca illuministica. E poco
prima, nel 1758, nel frontespizio della nuova edizione dell’Index, papa Benedetto XIV aveva
raffigurato gruppi di devoti cattolici che gettano libri sul rogo. Sì, per quattro secoli, la Chiesa ha
celebrato la verità dei suoi sacri Dogmi col rogo di libri e di scrittori eretici e dissidenti. Sulle
fiamme doveva perire la libertà e l’autonomia della ricerca e della ragione umana.
Tra i libri proibiti esposti ai visitatori di Cortonantiquaria, due attirano particolarmente l’attenzione:
il Manifesto del 1948 di Marx ed Engels, e il Defensor Pacis (1324) di Marsilio da Padova,
ambedue in vecchia edizione tedesca. Il primo, vietato dalla Chiesa cattolica e dai regimi
ottocenteschi di mezza Europa, divenne, per ironia della storia, la Bibbia del nuovo dogmatismo
ateistico sovietico. Combattuta dalla Chiesa, l’Urss, in cui il marxismo era stato pietrificato e
zarificato, della Chiesa fu la più grande imitatrice nella repressione della libertà di cultura. Prova
suprema ne fu la vicenda censoria del Dottor Zivago di Pasternack, di cui a Cortona si può vedere il
manoscritto pubblicato per la prima volta in traduzione italiana da Feltrinelli nel 1957. Il secondo, il
Defensor di Marsilio è degno di attenzione, perché fu storicamente il primo trattato di filosofia
politica sulla necessità della separazione tra Stato e Chiesa. Opera che meriterebbe di essere meglio
conosciuta, letta e studiata, perché costituisce, sotto il riguardo teorico, l’atto di nascita della
moderna laicità. E perciò fu vietata dai vertici della Chiesa, fino al 1966, allorché Paolo VI decise di
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Post/teca
sopprimere l’Index.
Libri e autori proibiti, al rogo. Roba del passato? Ah, fosse il cielo!, verrebbe da dire. L’Index fu
abolito non perché la Chiesa gerarchica si fosse convertita al principio laico della libertà di critica e
di ricerca, ma perché di fronte al gigantesco sviluppo dell’editoria e del mercato librario era
diventato un inutile ferro vecchio. Così come anacronistica, e condannata dalla coscienza civile, era
ormai divenuta la brutale pratica inquisitoriale di bruciare libri ed eretici nelle pubbliche piazze. Ma
abolito nel 1966, l’Index è stato prontamente ereditato dall’Opus Dei, che lo ha aggiornato con una
lista di proscrizione di oltre 60 mila volumi. Dove spiccano, tra gli altri, i nomi di Norberto Bobbio,
Umberto Eco, Gianni Vattimo, Andrea Camilleri, Woody Allen, Gore Vidal e José Saramago. Certo,
l’Opus Dei non è tutta la Chiesa. Ne è però sicuramente la parte più potente, una sorta di «Chiesa
nella Chiesa». Né va dimenticato che papa Wojtyla ha santificato il suo fondatore, Escrivà de
Balaguer, e ha elevato l’Opus Dei a sua “Prelatura personale”. Tenuta a rispondere solo al papa.
Non a vescovi e cardinali.
Se ne deduce che, poiché i suoi compilatori rispondono solo al papa, anche il nuovo Index ha
l’autorizzazione e il gradimento papale.
Alla faccia della libertà di cultura!
(31 agosto 2009)
Fonte: http://temi.repubblica.it/micromega-online/chiesa-e-libri-proibiti-500-anni-di-censure/
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Breve storia dei CSS (II parte)
Sinora sembra logico ritenere che il Web avesse bisogno di un linguaggio di stile. Questa
motivazione appare più chiara quando si esaminano da vicino le caratteristiche peculiari di
questo nuovo tipo di media. Scrive Lie:
"La ricerca ha dimostrato che quando i documenti sono progettati con la copia stampata come
obiettivo finale è difficile motivare gli autori a lavorare su un livello logico piuttosto che su uno
visuale [Sandahl 1999]. Con l'affermazione del Web, tuttavia, aumentano le possibilità per il
riutilizzo del contenuto. Invece di stampare e distribuire i documenti su carta, i documenti web sono
trasferiti elettronicamente sul computer dell'utente. Lo spostamento verso la distribuzione
elettronica dei documenti ha diverse caratteristiche chiave che influenzano sia il processo di
progettazione che i linguaggi di stile.
•
•
84
Il late binding diviene later binding: sul Web, i documenti sono trasmessi in forma
elettronica sul computer dell'utente. Il late binding fra contenuto e presentazione della
pubblicazione elettronica diviene later binding sul Web. Il binding [legame, N.d.T.] non ha
più luogo nel luogo di pubblicazione ma, piuttosto, nel computer dell'utente. Questo
aumenta la libertà di presentazione ma pone anche una nuova sfida di esecuzione, poiché il
binding ha luogo quando l'utente è in attesa. Ancora: l'autore non è presente per assicurarsi
che la presentazione sia corretta.
La pubblicazione incetrata sulla carta diviene incentrata sullo schermo: Prima dell'avvento
del Web, gran parte dei documenti elettronici finivano come documenti stampati. Erano
Post/teca
•
•
•
•
editati ed elaborati su schermi di computer ma, assai spesso, il tipo di media finale era la
stampa. Sul Web, la maggioranza degli utenti vede i documenti sullo schermo.
Un output singolo si trasforma in output multipli: Sebbene gli schermi siano il tipo di media
principale sul Web, esistono molti altri tipi. Gli autori non conoscono il tipo di dispositivo di
output che verrà usato da un utente. Non c'è più una sola presentazione di forma finale, ma
ve ne sono molte. Perciò è importante che i fogli di stile possano descrivere presentazioni
per dispositivi di output multipli.
Il controllo dell'autore diviene influenza condivisa tra autore e utente: Poiché il legame tra
contenuto e presentazione ha luogo sul computer dell'utente, le influenze provenienti da
fonti diverse possono essere combinate per formare una presentazione. Data questa libertà,
sembra ragionevole che l'utente – come l'autore – dovrebbe poter influenzare la
presentazione. Diventano possibili presentazioni basate sui bisogni e le preferenze
dell'utente. Ciò si distingue da altri ambienti di pubblicazione, dove gli autori hanno il
controllo completo della presentazione.
Documenti autonomi divengono collegati ipertestualmente: Il Web è un grande insieme di
documenti collegati ipertestualmente e l'informazione precedentemente espressa come
riferimenti testuali può ora essere espressa come ipercollegamenti attivi.
La distribuzione sicura diviene incerta: Le risorse web sono distribuite su molti computer
interconnessi e la possibilità che una risorsa non sia disponibile è considerevole. Un altro
cambiamento sta nel fatto che è più probabile che il Web fallisca rispetto ai sistemi di
pubblicazione tradizionali. È naturale rendere disponibile il foglio di stile sul Web, ma la
risorsa può non essere sempre disponibile per l'utente.
Così, con l'introduzione del Web, il campo dei fogli di stile si è spostato dall'essere uno strumento
per gli autori nel processo di progettazione all'essere uno strumento per il riutilizzo del contenuto
dopo la sua generazione. I fogli di stile sul Web sono potenzialmente più importanti di quelli della
pubblicazione incentrata su carta poiché la possibilità del riutilizzo del contenuto è maggiore. Come
la natura dei fogli di stile è cambiata dalla pubblicazione cartacea a quella elettronica, così la natura
dei fogli di stile è cambiata nuovamente per la pubblicazione web."
Una rozza forma di fogli di stile fu inserita nel primo WWW client implementato sulla macchina
NeXT al CERN. Tuttavia, non fu scritta alcuna specifica per i fogli di stile e non fu proposta alcuna
sintassi per un linguaggio di stile; si considerò un problema di ciascun browser decidere come far
visualizzare le pagine agli utenti.
Ricorda Lie:
" I potenziali benefici dell'uso di fogli di stile sul Web sono significativi. Un meccanismo di foglio
di stile ben sviluppato fornirebbe agli autori un vocabolario stilistico più ricco rispetto
all'evoluzione possibile dell'HTML. Ancora: l'HTML rimarrebbe un linguaggio di marcatura
strutturato che funziona su un'ampia gamma di dispositivi."
Per questi motivi, molte persone sulla mailing list www-talk [www-talk], che era il luogo di
incontro elettronico della prima comunità web, concordarono che il Web avrebbe tratto beneficio
dai fogli di stile. Tuttavia, c'era un disaccordo sul fatto che il Web richiedesse o meno un nuovo
linguaggio di stile oppure se fosse più adatto uno già esistente, concepito principalmente per la
pubblicazione cartacea.
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Post/teca
Diversi linguaggi di stile per il Web furono proposti nel 1993 (si veda il capitolo 4 della tesi di Lie:
proposte di fogli di stile per il Web) ma nessuno prese slancio. Ciò era principalmente dovuto alla
carenza di supporto nei browser; poiché Mosaic – di gran lunga il browser più popolare dei suoi
tempi – non supportò i fogli di stile, gli autori erano poco motivati a scriverli. Ancora: nesssuna
delle proposte raggiunse lo stato di stabilità. Un linguaggio di stile di successo per il Web doveva
essere abbastanza convincente per essere implementato dagli sviluppatori di browser e per essere
usato dagli autori.
Lie ricorda così la genesi dei fogli di stile:
" Tre giorni prima che Netscape annunciò il suo nuovo browser, l'autore pubblicò la prima
proposta sui CSS (denominata Fogli di stile a cascata per l'HTML – una proposta) [Lie 1994] sul
Web. Oltre a descrivere font, colori e layout di documenti – già fatto in precedenza da diverse
proposte – i CSS introducevano una nuova funzionalità per tener conto delle differenze di
pubblicazione imposte dal Web. Il concetto di cascata consentiva sia agli autori che agli utenti di
influenzare la presentazione di un documento:
Lo schema proposto fornisce al browser un elenco ordinato (cascata) di fogli di stile. L'utente
fornisce il foglio iniziale che può richiedere un controllo totale della presentazione, ma – più
verosimilmente – gestisce l'influenza sui fogli di stile che si riferiscono al documento fornito.
Il negoziato tra i bisogni e i desideri dei lettori e degli autori era una delle principali ambizioni dei
CSS. In caso di successo, gli autori avrebbero avuto la loro influenza sulla presentazione e non si
sarebbero sentiti costretti a usare l'HTML presentazionale e altri trucchi. I lettori, da parte loro,
avrebbero avuto dei documenti in una forma in cui potevano scegliere se accettare la presentazione
suggerita dall'autore o specificarne una propria.
In molti casi non vi sarebbe stato conflitto tra autore e lettore. Nessuno dei due, ad esempio,
potrebbe voler specificare la presentazione del documento. In questi casi, è importante che il
browser abbia un foglio di stile predefinito che descriva la presentazione predefinita dei documenti
HTML. I CSS, dunque, definiscono tre fonti possibili per i fogli di stile: autori, lettori e browser. I
CSS sono in grado di combinare i fogli di stile da queste tre fonti per formare la presentazione di un
documento. Il processo che combina diversi fogli di stile – e risolve i conflitti se questi ricorrono –
è conosciuto come cascata."
La prima proposta sui CSS fu diffusa nello spirito del libero scambio di idee su come il Web
avrebbe dovuto svilupparsi, e le discussioni ebbero luogo sulle mailing list pubbliche. Un certo
numero di sviluppatori rispose alla proposta e la bozza fu ulteriormente sviluppata. Durante il 1995,
furono pubblicate circa otto revisioni. L'ultima, del dicembre 1995, fu dichiarata stabile e i
produttori di browser furono incoraggiati a usarla come base per le implementazioni.
Con qualche piccola eccezione, la sintassi della bozza del dicembre 1995 è rimasta stabile e la
prima sezione delle specifiche può ancora servire da introduzione ai CSS:
"Sviluppare semplici fogli di stile è facile. C'è solo bisogno di conoscere un pò di HTML e la
terminolgia di base della pubblicazione desktop. Per esempio, per impostare il colore del testo degli
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Post/teca
elementi 'H1' sul blu, si può scrivere:
Visualizza il codice
Stampa?
1.H1 { color: blue }
L'esempio consiste di due parti principali: il selettore ('H1') e la dichiarazione ('color: blue'). La
dichiarazione ha due parti, proprietà ('color') e valore ('blue')."
Le specifiche CSS1 divennero una Raccomandazione W3C nel dicembre 1996. Nel maggio 1998 i
CSS2 divennero una Raccomandazione W3C. Il capitolo 6 della tesi di Lie (Fogli di stile a cascata)
descrive lo sviluppo delle Raccomandazioni con maggiori dettagli.
Tredici anni dopo la pubblicazione della prima proposta CSS, tutti i maggiori browser supportano i
CSS e la maggioranza della pagine web li usa. Permangono ancora dei problemi di interoperabilità
tra i browser, ma con il rilascio della versione 8 di Internet Explorer questi problemi si avviano ad
una conclusione positiva.
Fonte: http://css.html.it/articoli/leggi/3151/breve-storia-dei-css/3/
-----------------Alice nel paese delle meraviglie - 2 (adattamento da Lewis
Carroll)
Alice si avvicino' a un grosso fungo, sul quale era seduto un bruco
blu, che fumava tranquillamente un narghile'. "Chi sei?" chiese il
bruco con voce strascicata. "In questo momento non lo so con
esattezza. Cambiare dimensioni cosi' spesso in un giorno puo' anche
far perdere la testa." "Che dimensioni vorresti assumere?" "Beh,
veramente mi piacerebbe essere un po' piu' grande: sette centimetri
e' davvero troppo poco." "No, invece sono le giuste proporzioni"
replico' il bruco, piuttosto seccato (infatti misurava proprio sette
centimetri). Poi, si scosse e si lascio' scivolare tra l'erba, dicendo:
"Un lato ti fara' crescere, l'altro ti fara' rimpicciolire." Alice tese le
braccia e stacco' un pezzo di fungo con ciascuna mano poi morse il
pezzo che teneva nella destra e senti' un violento colpo al mento:
aveva battuto contro il suo stesso piede. Diede subito un morso
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Post/teca
all'altro pezzo: adesso non riusciva piu' a vedere le proprie spalle,
ma soltanto un lunghissimo collo, che si ergeva come uno slanciato
fusto sopra un mare di fogliame. Lo incurvo' a zig-zag e sprofondo' la
testa tra le fronde degli alberi. Sgranocchiando prima un pezzo di
fungo poi l'altro riusci' a riprendere una dimensione piuttosto
normale. Un Gatto del Cheshire che era appollaiato su un ramo e
sorrideva vivacemente le chiese: "Vorresti recarti alla partita di
pallamaglio della Regina? Io ci saro'." E scomparve molto
lentamente, cominciando dalla coda per finire con il sorriso, che
rimase visibile ancora per un po'. Alice giunse in un meraviglioso
giardino: accanto all'entrata c'era un grande rosaio pieno di rose
bianche. Ma tre giardinieri, che erano carte da gioco, le stavano
colorando di rosso. "Perche' dipingete queste rose?" chiese Alice.
"Normalmente, qui dovrebbe esserci un rosaio rosso, ma per sbaglio
ne abbiamo piantato uno bianco. E se la Regina se ne accorge, ci
fara' decapitare." In quel momento arrivo' la Regina, in testa a un
corteo e grido': "Che vengano decapitati!" Alice segui' il corteo. Non
aveva mai visto un campo da pallamaglio tanto strano; le palle erano
sostituite da veri ricci e i magli di ferro erano fenicotteri. Dei soldati
si appoggiavano sulle mani e sui piedi per formare gli archetti. I
giocatori giocavano tutti nello stesso momento e la Regina urlava in
continuazione: "Che vengano decapitati!" All'improvviso Alice noto'
nell'aria una forma molta strana: un sorriso senza corpo! Dopo un
minuto, tutta la testa era visibile: a questo punto il Gatto del
Cheshire penso' di essersi manifestato a sufficienza e rimase cosi'.
"Che venga decapitato!" grido' la Regina che stava passando di li'. Il
Re ando' a cercare il boia con il quale comincio' a discutere; infatti il
boia sosteneva che non era possibile tagliare una testa che non era
attaccata a un corpo. Il Re invece affermava che tutto cio' che
possedeva una testa poteva essere decapitato. La Regina intimo' che
se non avessero fatto qualcosa immediatamente avrebbe fatto
decapitare tutti. La discussione fu interrotta da un grido: "L'udienza
e' aperta!" Il Re e la Regina si sedettero sul trono: davanti a loro si
trovava il Fante di Cuori incatenato. Il Coniglio bianco teneva in
mano un rotolo di pergamena e al centro del tribunale, un grosso
piatto di crostatine era posto su un tavolo. Il Coniglio bianco srotolo'
la sua pergamena e lesse: "La Regina di Cuori aveva preparato
alcune crostatine in questo bel giorno d'estate, il Fante di Cuori ha
rubato le crostatine e le ha portate via!" In quel momento, Alice si
accorse che stava ricominciando a crescere. "Chiamate il primo
testimone" disse il Re. Il coniglio bianco chiamo' con la sua voce
stridula: "Alice!" Alice crebbe bruscamente e l'orlo della sua gonna
rovescio' il banco della giuria, facendo cadere a gambe all'aria tutti i
giurati. "Cosa sapete di questa faccenda?" chiese il Re ad Alice.
"Assolutamente nulla." "E' molto importante che la giuria proclami il
suo verdetto!" "No - esclamo' la Regina - prima la condanna, poi il
verdetto." "Che assurdita'! - disse Alice - Condannare prima di
giudicare!" "Taci! - grido' la Regina - Che venga decapitata!" "Non vi
dara' ascolto nessuno: siete solo una carta da gioco!" A queste
parole, tutte le carte da gioco si sollevarono in aria e si avventarono
contro Alice, che cerco' di scacciarle, poi, all'improvviso, si ritrovo'
distesa sull'erba, con la testa sulle ginocchia della sorella. "Svegliati,
Alice: hai dormito parecchio! Adesso e' l'ora del te'" Alice si alzo' e si
avvio' verso casa correndo, ripensando al meraviglioso sogno che
aveva appena fatto.
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da una mail: FiabeMail [sergio.failla.12679.2350211.new_fiabemail.dbounce@it.buongiorno.com]
------------------
Vendetta nell'ombra
di Marco Belpoliti
Saggio, autoinronico, da leggere in un soffio. Questo è il nuovo romanzo di Luis Sépulveda
Malinconico, ironico, commovente: il nuovo romanzo di Luis Sepúlveda, 'L'ombra di quello che
eravamo' (Guanda, traduzione di Ilide Carmignani, pp. 148, E 14,50) ha molte qualità, tra cui quella
di farsi leggere in un soffio. Una fiaba e un noir, in cui la saggezza e l'autoironia la fanno da
padroni.
Racconta il ritorno sulla scena di tre ex militanti della sinistra rivoluzionaria cilena per compiere un
ultimo atto di resistenza a una dittatura che non c'è più, ma che è infissa nelle loro menti di uominidel-passato, il passato che non passa. Tornano a riunirsi a Santiago richiamati da un personaggio,
l'Ombra, anarchico, nipote di anarchici, suggeritore di azioni contro i militari, sfuggito sempre alla
cattura. Ma il destino ci mette lo zampino e l'azione scivola verso un'altra soluzione, altrettanto
clamorosa, e nonostante tutto vicina alle attese dell'Ombra.
A far da complice dell'impresa, se così si può dire, è l'ispettore Crespo, poliziotto onesto che
custodisce la memoria delle nefandezze del passato. Il tono della storia è improntato dalle memorie
dei tre - tre i convocati più un quarto, il più sfigato di tutti, arrivato inatteso.
Ingrassati, calvi, spiantati, sostanzialmente dei falliti, i quattro uomini sono altrettante controfigure
carnevalesche di Sepúlveda, ex rivoluzionario dalla vita avventurosa, espatriato in Europa per
salvarsi dalle torture degli scherani di Pinochet. Comiche le e-mail che si scambiano, e anche i
dettagli dei loro fallimenti. Un libro dolce-amaro, e politico, su una vicenda che ha toccato la vita
dello scrittore, ma anche l'immaginario di noi europei.
(15 settembre 2009)
Fonte: http://espresso.repubblica.it/dettaglio/vendetta-nellombra/2109667/2&ref=hpsp
-----------------Tra insulti e menzogne
di CURZIO MALTESE
C'è poco da commentare sulla puntata di "Porta a Porta" di ieri sera. Bisogna passare ai fatti.
Registrare tutto e inviarlo al resto del mondo, via Internet, con una sola parola d'accompagnamento:
"aiuto!". Tre ore di spot governativo, con il miglior presidente del Consiglio degli ultimi 150 anni,
autoproclamatosi "superiore a De Gasperi", senza alcun contraddittorio, non soltanto in studio, ma
nell'etere intero. Che ne penseranno nei paesi democratici?
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Post/teca
Il Presidente Ingegnere, come scriveva Augusto Minzolini prima d'essere premiato con la direzione
del Tg1, che consegna le prime case ai terremotati abruzzesi, è l'ultima versione dell'Uomo della
Provvidenza. Bruno Vespa lo prende sottobraccio, da vecchio amico, fin dalla prima scena. A spasso
fra le macerie dell'Aquila e della democrazia italiana. I commenti del conduttore spaziano fra "ma
questo è un record!" a "un altro record!", fino a sfociare "è un miracolo!". Ma Onna, i terremotati e
il loro dolore, la ricostruzione dell'Aquila, ancora di là da venire, sono soltanto pretesti.
Dopo mezzora si capisce qual è il vero scopo della trasmissione a reti unificate. Un attacco frontale
alla stampa, anzi per dirla tutta a Repubblica. Noi giornalisti di Repubblica siamo "delinquenti",
"farabutti" che ci ostiniamo a fargli domande alle quali il premier non risponde da mesi. Se non con
questo impasto di minacce e menzogne, come la favola della "perdita di lettori e copie":
un'affermazione smentita dalle vendite del giornale in edicola che sono in costante ascesa.
Ecco lo scopo di non avere un Ballarò e neppure un Matrix fra i piedi. Non tanto e non solo per
disturbare il "vi piace il presepe?" allestito sulla tragedia del terremoto. Quanto per non rischiare un
contraddittorio durante la fase di pestaggio.
Vespa non ci ha neppure provato, a parte il minimo sindacale ("Nessuno di Repubblica è presente").
Lasciamo perdere gli altri figuranti. Nessuno, nell'affrontare il problema dei rapporti con Fini, ha
chiesto al Cavaliere un giudizio sui dossier a luci rosse contro il presidente della Camera sventolati
come arma di ricatto da Vittorio Feltri, direttore del giornale di famiglia.
Già una volta il presidente del Consiglio era andato nel cosiddetto "salotto principe" della
televisione, a "chiarire le vicende di Noemi e il resto", senza chiarire un bel nulla e con i giornalisti
presenti, fra i quali il solito Sansonetti, il quale non poteva mancare neppure ieri sera, tutti ben
contenti di non rivolgergli mezza domanda sul caso specifico. Stavolta però si è polverizzato
davvero ogni primato d'inciviltà. Ma che razza di servizio pubblico è quello che organizza simili
agguati? E' un'altra domanda che probabilmente non avrà mai risposta. Non da Berlusconi e tanto
meno dai sottostanti vertici della Rai.
Il meno che si possa dire è che la puntata di "Porta a Porta" ha dato ragione a tutte le critiche della
vigilia. Anzi, è andata molto oltre le peggiori aspettative. Ed è tuttavia interessante notare
l'evoluzione del caso Berlusconi. Che senso ha attaccare la stampa indipendente al cospetto di una
platea televisiva che poco o nulla sa delle inchieste di Repubblica e degli scandali del premier, dello
stesso discredito internazionale che circonda ormai la figura di Berlusconi in tutto il mondo libero?
E' davvero singolare che sia proprio Berlusconi a parlarne. Da solo, visto che i prudenti giornalisti
chiamati a fargli ogni volta da corte, astutamente si guardano bene dal citare questi fatti. Per capirlo,
ci vorrebbe uno psicoanalista, di quelli bravi.
Alla fine, a parte lo scempio d'informazione, cui ormai si è quasi abituati, indigna più di tutto la
strumentalizzazione del dolore della gente abruzzese. La diretta in prima serata e l'oscuramento
della concorrenza era stato giustificato dalla Rai con l'urgenza dell'evento, la consegna dei primi
novantaquattro appartamenti agli sfollati del terremoto. Chiunque abbia seguito la serata ha potuto
constatare come questo fosse appena un miserabile espediente, liquidato in pochi minuti, con
qualche frase di circostanza e commozione da attori. Per poi passare al regolamento di conti con
chiunque osi criticare il presidente del Consiglio. Ce la potevano risparmiare, questa serata di veleni
e sciacalli.
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Post/teca
Fonte: http://www.repubblica.it/2009/07/sezioni/cronaca/sisma-aquila-13/stampa-berlusconivespa/stampa-berlusconi-vespa.html
via: http://articoliscelti.blogspot.com/
--------------------La morte di Berlusconi
Mi han chiesto di scrivere un editoriale-coccodrillo, immaginando cosa scriverei nel giorno della
morte di Silvio Berlusconi. Sembra un po’ surreale, e non potrebbe essere altrimenti, ma non avrei
potuto essere più serio.
Per anni abbiamo pensato che questo giorno sarebbe stato, nel suo piccolo, un punto di svolta della
storia del paese. Sbalorditi e travolti dalla capacità di Berlusconi di sopravvivere a ogni sconfitta,
non poteva esserci altro modo per abbassare il sipario: davanti alla sua immortalità politica, non
rimaneva che attendere la sua morte fisica. Per vent’anni, un pezzo consistente dell’Italia ha
aspettato la morte di Berlusconi con la pazienza con cui si attende la fine di un interminabile
digiuno: l’ineluttabile alba al termine di una lunga, lunghissima nottata. Poi le cose sono cambiate.
A un certo punto, dieci anni fa, abbiamo capito che la morte di Berlusconi non avrebbe cambiato
granché, in uno scenario politico che aveva finalmente imparato a fare a meno della sua figura. Ci
rimane un addio in qualche modo atteso, come tutti quelli dei personaggi celebri che raggiungono
una certa età, e la sensazione che dovrà passare ancora del tempo prima di avere una percezione
completa e oggettiva di come e quanto in profondità Silvio Berlusconi ha cambiato questo paese.
In questi giorni, alcuni commentatori hanno parlato della «seconda morte di Berlusconi»,
sostenendo che la prima e probabilmente più dolorosa morte del cavaliere di Arcore sia avvenuta
dieci anni fa, in quel 14 giugno del 2010 che ha cambiato la rotta della politica italiana. La
prospettiva della storia mostra ravvicinati e schiacciati, come in una foto, avvenimenti che tennero
in sospeso le sorti del paese per otto lunghi mesi: la sconfitta di Belrusconi alle elezioni regionali e
la definitiva rottura con Gianfranco Fini, la dissoluzione del Partito Democratico dopo la vittoria di
Pierluigi Bersani, gli scandali sessuali sui massimi dirigenti dell’Udc che distrussero il partito di
Casini, la nascita della cosiddetta «coalizione tricolore» composta dai finiani del Pdl, l’Italia dei
Valori e l’ala destra fuoriuscita dal Pd. Si definirono un “comitato di liberazione nazionale” e in
effetti da qualcosa liberarono l’Italia: dalla sinistra. Da una parte rimase la Lega Nord, reduce dal
più grande risultato della sua storia all’indomani della morte di Umberto Bossi; dall’altra la
coalizione tricolore, un centrodestra securitario e liberale – “europeo”, dicevano – con un leader
intenzionato a guidare la transizione verso il dopo Berlusconi. A sinistra solo macerie. Il segretario
del Pd Pierluigi Bersani aveva puntato tutto sull’alleanza strategica con l’Udc, un progetto che fu
disintegrato dagli scandali distrussero il già esiguo consenso del partito di Casini. Quando quel che
rimaneva del centro politico decise di andare con Fini, una bella fetta del Pd li seguì nell’arco di
pochi giorni. Quei pochi che rimasero litigarono per settimane sull’opportunità di unirsi alla
coalizione tricolore, come in un nuovo Cln, o presidiare la sinistra. Il verdetto delle politiche fu
impietoso. La Lega Nord ottenne uno straordinario ma inutile 24 per cento, il Partito Democratico si
fermò esanime al 19 per cento. La coalizione tricolore ottenne un incredibile 52 per cento,
mostrando come la figura polarizzante di Berlusconi, specie negli ultimi anni della sua avventura
politica, avesse finito per ridurre e non per aumentare le potenzialità della destra italiana.
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Post/teca
Ora che Silvio Berlusconi è morto, possiamo affermare con qualche certezza che la sua eredità più
profonda e duratura non sia stata tanto l’aver trasformato la destra italiana, quanto aver cambiato la
sinistra. Anno dopo anno, governo dopo governo, una buona metà dell’elettorato italiano è diventata
sempre meno interessata alle vicende del paese e dei suoi concittadini, e sempre più appassionata
alle vicende personali dell’allora premier. Sempre più arrabbiata e desiderosa di vendetta, sempre
meno tollerante e partecipante alla vita politica del paese. Sempre più egoista e individualista,
sempre meno altruista e lungimirante. Talmente arroccata nella difesa di alcune bandiere apolitiche
– la questione morale, la laicità dello stato, il conflitto di interessi – da dimenticarsi completamente
di quello che una volta determinava la differenza tra destra e sinistra: il rispetto delle minoranze e
degli altri, l’erogazione dei servizi pubblici e la loro qualità, le politiche del fisco, del lavoro e dei
redditi, le infrastrutture, l’istruzione. Pensavano che tolto finalmente di mezzo Berlusconi, il
governo sarebbe scivolato placidamente tra le loro mani. Solo che l’uovo cadde dall’altra parte, e a
raccoglierlo c’era una destra deberlusconizzata, capace di convincere la grande maggioranza degli
italiani a votare per lei e aprire un nuovo solido ciclo di governo.
Alcuni sostengono che tutto sia cominciato con l’esplosione del populismo di sinistra, nel 2007.
Altri fanno coincidere il primo segnale di questo smottamento con gli applausi fragorosi che la
platea del Pd destinò a Gianfranco Fini nel 2009, mentre il presidente – oggi dello Stato italiano,
allora della Camera dei deputati – arringava degli elettori che nessuno pensava avrebbero mai
potuto votare per lui. A pensarci adesso, invece, non poteva esserci segnale più evidente. Gli elettori
del Pd pensavano di aver cambiato Fini e averlo portato dalla loro parte; era successo esattamente il
contrario. Dietro la più grande trasformazione dell’elettorato italiano c’era sempre lui, Silvio
Berlusconi. La sua era si è conclusa definitivamente, ben prima della sua morte. La sua eredità
segnerà ancora a lungo la storia di questo paese.
(per Giornalettismo)
Fonte: http://www.francescocosta.net/2009/09/16/la-morte-di-berlusconi/
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17 settembre 2009
Fuori dai denti: le 5 leggi fondamentali di Google News
1.
2.
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4.
5.
Scegli un argomento popolare, meglio se populista
Componi un titolo semplice, poco espressivo e ricalcante le keyword già usate da altri
Non correre, meglio arrivare per ultimo sulla notizia: solo così si va in homepage
Non essere originale: sarai escluso
Non compiere alcun lavoro di ricerca, non paga: quel che conta è l’abstract
Fuori dai denti, ecco le reali dinamiche che guidano oggi Google News. Ci sono brevetti e regole
ufficiali, algoritmi nascosti e tecnologie avanzate, ma tutto si riassume in 5 punti sufficientemente
esaudienti. Lo dicevamo in passato, non possiamo far altro che ribadirlo ora che di Google News si
parla ormai quotidianamente nelle vesti di chimera digitale del futuro dell’editoria.
C’è da chiedersi, pertanto, se l’editoria non stia soltanto finendo dalla padella alla brace. Nel nome
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Post/teca
delle edicole prima, nel nome del traffico poi.
Fonte: http://blog.webnews.it/16/09/2009/fuori-dai-denti-le-5-leggi-fondamentali-di-google-news/
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«Riusciranno i poveri a rimediare alla miseria dei ricchi?»
di Oreste Pivetta
John Berger ha i capelli bianchi, una bella faccia rugosa, una camicia a quadri, scarpe comode di chi
è abituato a camminare. Parleremo anche di sentieri: camminare è un po’ scrivere e scrivere è un po’
camminare. Ho in mente una sua conferenza, a Milano (si può leggerne il resoconto di Maria
Nadotti su un numero novantadue dello Straniero, febbraio 2008), in cui John Berger spiegava che
nella scrittura si può raggiungere qualche risultato solo «passando e ripassando per lo stesso
sentiero». Dice della costanza, della pazienza, della testardaggine. John Berger è a Torino per due
serate (organizzate dal Circolo dei lettori) insieme con la scrittrice indiana Arundhaty Roy, giovane
e grande ammiratrice dell’ottantreenne londinese, che vive da quarant’anni in Francia. Non so
quanti ammiratori abbia John Berger in Italia. Ha molti amici, ha pubblicato ormai tanti libri. Non
credo sia popolare. È uno scrittore difficile? Il guaio è che non cerca di consolare. È duro invece
nella verità che cerca di rappresentare. Non credo sia mai stato in televisione, le interviste sono una
rarità. Da pochi mesi è uscito un altro suo libro, un romanzo epistolare, Da A a X. Lettere di una
storia pubblicato da Scheiwiller, prestigiosa ma piccola casa editrice. Il sentiero. Lo immagino in
salita. Ogni passo è fatica ma ad ogni passo l’orizzonte si riapre. E poi la lentezza, che aiuta a
guardare. «Un sentiero è traccia del passaggio di migliaia di uomini per centinaia di anni. La fatica
è dello scrivere...». Si ferma un attimo, in silenzio «Per spiegarmi meglio parlerò del disegnare... ».
John Berger non è solo scrittore, story teller come ama definirsi meglio,e saggista, è anche pittore,
fotografo... «Disegnare in inglese si dice to draw. E nella radice dell’inglese antico, si ritrova il
senso del tirare, che evoca appunto lo sforzo». Attrazione? Disegnare e scrivere, dice Maria Nadotti,
non è tutto nelle mani o negli occhi di chi disegna e scrive... «Se si guardano certi ritratti di
Raffaello si capisce come certe figure, certi volti tirassero verso di sè il pittore. In infiniti altri casi,
per infiniti altri pittori, o scrittori, non è così. E’ questo tirare da una parte e dall’altra che dà il senso
al lavoro di chi dipinge o scrive. L’altro giorno volevo disegnare le susine nere di un albero di fronte
a casa mia. Il disegno non mi piaceva. Disegnavo e stracciavo. Finche non sono arrivato a un
grappolo di susine sulle quali si era aggrapppata una lumachina bianca che succhiava. Ho capito che
era lì che volevo arrivare. Alla sera sono tornato. Volevo ancora disegnare quei frutti. E alla fine mi
sono ritrovato davanti alla susina e alla lumachina...».
John Berger, nelle sue note biobibliografiche, si legge sempre che è nato a Londra nel 1926 e
che da una quarantina d’anni vive nelle Alpi francesi. Ma in mezzo che cosa c’è stato? So di
un suo soggiorno a Livorno alla fine degli anni quaranta...
«Sì, a Livorno, ma per poche settimane, tra i poveri che si ingegnavano a vivere, finita la guerra. tra
le rovine. Il porto mi è rimasto dentro. Andiamoa ritroso, a Londra. Quand’ero ragazzo. Finii
recluso dentro una di quelle terribili scuole private, un pensionato, non lo sopportavo e a sedici anni
sono scappato.Nonhopiù seguito studi regolari. E molti mi dicevano: che sciocco, pensa ai vantaggi
di una formazione secondo le regole. Se mi guardo alle spalle, vedo qualche cosa di diverso, vedo le
persone che ho incontrato, gli artisti che ho conosciuto, quelli con i qualiho potuto collaborare, i
quadri che ho visto, i film, le tante letture diverse, le tante esperienze in cui mi sono imbattuto. Ho
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Post/teca
avuto la fortuna di mescolare dalle mie prime prove il reportage e il sogno, la fiction e i documenti,
l’economia e la poesia, espressioni di tante discipline, tra le quali l’accademia costruisce tante
barriere».
Durante la guerra, ha visto anche i bombardamenti...
«Era Londra tra il 1942 e il 1944. Poi sono stato arruolato».
Alla fine è arrivato in quel famoso paesino delle Alpi, tra i contadini. Le faccio, ahimè, la
domanda che si sarà sentito rivolgere mille volte. Perché? La grande città le faceva paura?
Lungo silenzio, John si stringe le mani.
«Mille volte la stessa domanda ed è sempre difficile rispondere, cioè ritrovare la verità cui si è
arrivati. Gli amici mi accusavano: sei un nostalgico, vai in pensione... No, andavo tra contadini che
vivevano allora di un economia di sussistenza, perchè volevo avvicinarmi ad una realtà che sarebbe
diventata presto la più contemporanea, la più presente nelmondointero. Volevo capire quei
contadinimontanari agricoltori, conoscere la loro cultura, per immaginare allora il futuro di in un
mondo come questo, dove una maggioranza di poveri, sopravvive emarginata, trascurata, offesa, sa
che cosa è la fame, sa che cosa è la paura...».
Le cito alcune parole del suo romanzo, in una lettera di Aida, la protagonista del suo romanzo:
«Essere al mondo è dolore...». «Quello pensa e scrive Aida, mentre l’amato è in carcere. Non
sempre essere al mondo è dolore. Potrebbe essere un dono straordinario, invece. E’ complicato. Non
c’è un filosofo che non si sia interrogato sul dolore. Io ho capito che in questo secolo, nel secolo del
consumismo, il consumatore ha sostituito il cittadino, il cliente ha sostituito l’essere umano, ho
capito che il cliente e consumatore sono vittime di una attesa del tutto illusoria: che l’acquisto di un
bene materiale possa concedere un’esenzione dai dolori della condizione umana ». Nel regno della
mistificazione... «Sì, come i cosmetici che promettono l’esenzione dalla vecchiaia, talvolta persino
dalla morte...».
Nel romanzo, Xavier, il detenuto non risponde ad Aida, ma tra una lettera e l’altra compaiono
le sue annotazioni, spesso politiche d’attualità. A un certo punto parla di speculazione
finanziaria e addirittura dei fondi di «private equity», una causa della crisi che stiamo
vivendo. Ricordo quella conferenza di Milano: lei disse che i ricchi sono diventati stupidi...
«Dicevo che dalla caduta del muro di Berlino cioè dal crollo del sistema sovietico, i ricchi non
sanno più niente: non sanno più niente dal momento in cui il capitalismo è entrato in unafase in cui
la speculazione finanziaria domina. C’è solo fretta di guadagnare, che cosa o come si produce viene
per ultimo.Michiedevo: chi decide dei capitali finanziari e delle multinazionali che prospettiva
temporale assume?».
Ancora sul libro, Aida che scrive a Xavier in carcere. Non c’è un luogo, ma il luogo a cui si
pensa è la Palestina...
«Aida e Xavier potrebbero trovarsi in qualsiasi lato delmondo.Maquesto libro lo devo alla mia
esperienza in Palestina, grazie a un viaggio e agli incontri organizzati proprio da Maria Nadotti, in
un paese cioè dove non c’è famiglia che non abbia uno o due parenti in prigione».
Aida non parla di politica...
«Non è vero e lo si comprende se si intende la politica come parte di una lotta di resistenza che
coinvolge la vita intera...».
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Post/teca
Come non è la «nostra» politica. Si capisce. Lei si sente un uomo di sinistra?
«Da giovane ho letto gli anarchici e ho letto Marx. Sinistra o destra? Che senso ha? Di certo sono
assolutamente contrario al nuovo impero del capitalismo che sta distruggendo il mondo».
Ha un peso tutto questo nella sua passione per Caravaggio...
«Fu il primo a dipingere la vita dei poveri, dei diseredati, degli ultimi, quel mondo basso,
condividendolo ».
16 settembre 2009
Fonte:
http://www.unita.it/news/culture/88511/riusciranno_i_poveri_a_rimediare_alla_miseria_dei_ricchi
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Non avete una connessione a banda larga?
Sappiate che è tutta colpa del titanic II
17 set 2009
Seconda parte, per leggere la prima parte clicca qui.
Le frequenze e le radio, dagli USA all’Italia
New York, 1924, per la prima volta le trasmissioni via etere di una radio vengono definite
“fuorilegge”. La radio WHN balza agli onori delle cronache perché messa sotto accusa dal colosso
americano AT&T. La sua colpa: utilizzare illecitamente e senza permesso i trasmettitori della AT&T
(che in talse settore deteneva sostanzialmente il monopolio del mercato). A quei tempi la radio
newyorkese ebbe un inaspettato sostenitore nell’allora Segretario al Commercio Herbert Hoover
(poi Presidente degli Stati Uniti) ma questo non bastò a salvare WHN, una delle più antiche radio
della storia, dalla condanna. I giudici dettero ragione ad AT&T, stabilendo il primo pilastro
legislativo che poi portò alla nascita di tutto il sistema radiofonico commerciale degli Stati Uniti. Da
quel momento tutte le radio degli Stati Uniti furono costrette a pagare la costosissima licenza di
trasmissione ad AT&T, chi non era in grado di sostenere tali costi fu costretto a chiudere i battenti.
Ma perché AT&T decise di denunciare le centinaia di radio che in quegli anni trasmettevano sul
suolo statunitense? Di certo perché queste radio occupavano ed utilizzavano i ripetitori della AT&T
per trasmettere il segnale ma soprattutto perché AT&T voleva guadagnare soldi attraverso la
pubblicità. L’idea era quella di farsi pagare dai commercianti per trasmettere segnali pubblicitari
attraverso le radio che utilizzavano i ripetitori di AT&T, che tra l’altro era monopolista del mercato.
Un fatto normalissimo ai giorni nostri, eppure l’idea di AT&T incontrò moltissime resistenze: quella
dei commercianti che non erano affatto convinti dall’uso dalla pubblicità via radio; quella dei
cittadini che non concepivano jingle nelle loro case; ma soprattutto quella delle radio, che si
rifiutavano di trasmettere pubblicità per far guadagnare soldi ad AT&T. Grazie alla sentenza contro
WHN AT&T ottene due vantaggi: il primo era che le radio furono costrette a pagare la suddetta
licenza di trasmissione, portando nelle casse di AT&T moltissima liquidità; il secondo era che il
costo per gestire una radio diventava altissimo, di conseguenza le radio dovettero cercare nuove
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Post/teca
fonti di approvvigionamento economico; la vendita di spazi pubblicitari divenne una scelta
obbligata, era il 1924, anno “ufficioso” della morte delle radio libere.
Abbiamo analizzato i cambiamenti e gli sviluppi delle radio commerciali negli Stati Uniti, ma cosa
avvenne in Europa? Anche in Europa la radio conosce, a partire dagli anni ‘20, un’enorme crescita;
ma a differenza degli Stati Uniti, dove le frequenze sono in mano allo Stato ma vengono comunque
concesse in licenza al libero mercato, nella vecchia Europa si sviluppa un modello monopolistico.
Nel Vecchio Continente lo Stato non controlla semplicemente le frequenze ma è anche l’unica
figura giuridica che ha il diritto di trasmettere i segnali radio. Questo è il modello legislativo scelto
dalla Gran Bretagna ma che poi si diffonderà praticamente in tutta Europa.
Ma dove sono più massicce le restrizioni sono anche più forti gli oppositori. Ed è proprio in Europa
che, qualche anno dopo la Seconda Guerra Mondiale, nascono le prime radio pirata. Difficile
stimare quale sia stata la prima radio a trasmettere senza avere il permesso dello Stato, tuttavia la
storia ha assegnato questo “merito” a Radio Mercur, una radio danese che iniziò a diffondere
musica via etere a partire dal 2 agosto 1958. I “pirati” di Radio Mercur applicarono l’antico
principio secondo cui fatta una legge basta trovare “l’inganno”. Nello specifico Peer Jansen e Ib
Fogh decisero di trasmettere i loro programmi da un vascello posto al largo delle acque danesi,
precisamente in acque internazionali, dove quindi la legge danese non aveva giurisdizione.
L’esempio fu seguito da moltissime altre radio, alcune delle quali divennero anche decisamente
famose, come ad esempio Radio Caroline, creata dal discografico irlandese Ronan O’Rahilly, il
quale non riusciva ad ottenere la trasmissione dei suoi gruppi dalla BBC, perché ritenuti troppo
trasgressivi, e quindi decise di piazzare una nave al largo delle coste inglesi per trasmettere tutta la
musica che voleva. Oppure Wonderful Radio London, che fu attiva dal 16 Dicembre 1964 al 14
Agosto 1967, sempre al largo delle coste inglesi. O Radio Luxemburg, che invece trasmetteva dal
Lussemburgo ma che in realtà realizzava programmi diretti al pubblico inglese. Formalmente,
secondo il Wireless Telegraphy Act, queste radio agivano in una zona grigia, ma gli ascoltatori
invece violavano palesemente la legge. Questo non impediva ai giornali inglesi di pubblicare gli
orari delle trasmissioni ed i programmi di queste radio pirata, che spesso divennero le piattaforme di
lancio per moltissimi gruppi rock alternativi destinati a diventare leggenda, gruppi che non
avrebbero mai trovato spazio nelle “ingessate” radio istituzionali.
In Italia, esattamente come in Inghilterra, si svilupperà un modello monopolistico. Nel nostro paese
la diffusione della radio, strumento nato anche grazie all’enorme contributo dell’italiano Guglielmo
Marconi, fu piuttosto lenta e conobbe un vero boom solamente dopo la fine delle seconda guerra
mondiale. Fu comunque durante la guerra che gli italiani impararono ad utilizzare tale strumento
per mantenersi aggiornati sugli eventi bellici. Esattamente come in Inghilterra le frequenze erano
controllate dalla Stato, unica figura giuridica autorizzata a trasmettere segnali in radiofrequenza.
Paradossalmente la legittimazione delle cosidette “radio libere” avvenne dopo quella delle
“televisioni private”, ancora nel 1960 la Corte Costituzionale stabiliva la legittimità del monopolio
radiofonico motivandolo con la limitata disponibilità di “frequenze”[5], soltanto nel 1976 (due anni
dopo la sentenza che diede il via libera alle televisioni private) le radio libere riuscirono ad uscire
dal loro stato di clandestinità. [6]
Però, per una serie di ragioni tra le quali bisogna addurre costi di gestione più contenuti e normative
sulla gestione dei diritti di copyright meno folli, il mercato delle radio private nazionale sarà
altamente concorrenziale, ricco di palinsesti diversi fra loro e qualitativamente molto più accettabile
della sua controparte via etere, ancora oggi al centro della discussione politica e sociale.
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Post/teca
[5]Sentenza della Corte Costituzionale n. 59/1960
[6]Corte Costituzionale: Sentenza n 202 del 1976
Fonte: http://www.doxaliber.it/non-avete-una-connessione-a-banda-larga-sappiate-che-e-tutta-colpadel-titanic-ii/1308
--------------------Il 'padre' di Carosello aveva 91 anni
E' morto Emmer, inventò Carosello
Roma, 16-09-2009
Luciano Emmer è morto stamattina al policlinico Gemelli di Roma. Era nato a Milano il 19 gennaio
1918 ed era conosciuto, tra l'altro per essere il padre di Carosello. Dopo alcuni documentari arriva il
primo lungometraggio 'Domenica d'agosto'.
E poi ancora 'Parigi è sempre Parigi', 'Le ragazze di Piazza di Spagna' e 'Terza liceo', tutti
nell'ambito del neorealismo. Dopo 'La ragazza in vetrina' nel 1960 (uno dei film oggetto di una
retrospettiva a lui dedicata al Festival di Venezia), lascia il grande schermo per trent'anni, prima di
tornarci nel 1990 con 'Basta! Ci faccio un film', cui seguono 'Una lunga lunga lunga notte d'amore'
(2001) e 'L'acqua... il fuoco' (2003).
Ma il lavoro più conosciuto di Emmer è quello pubblicitario: la sigla del primo Carosello, quella
con i siparietti che si aprivano uno dopo l'altro è opera sua.
Tra gli spot da lui firmati: quello di Walter Chiari ('Solo io mi chiamo Yoga'); quello di Carlo
Dapporto (Durban's) fino a quello di Dario Fo ('Supercortemaggiore, la potente benzina italiana').
Ultimo suo lavoro, 'Masolino' del 2008: un cortometraggio d'arte.
Fonte: http://www.rainews24.it/it/news.php?newsid=131862
------------------
Notizie da Kabul
Reddito medio di un cittadino afghano (statistiche molto ottimistiche del governo) Euro 19 al mese.
Reddito mensile di un occupante italiano a Kabul:
GRADO
Soldato
Sergente
Maresciallo
97
STIPENDIO
NETTO
1074,22
1342,79
1879,91
INDENNITA’ MENSILE
NETTA
2725,17
2725,17
2725,17
TOTALE
3799,39
4067,98
4605,08
Post/teca
Sottotenente
1415,72
Tenente
1577,77
Capitano
1712,04
Maggiore
1779,19
Ten. Colonnello
2215,61
Colonnello
2349,88
Brigadiere Generale 2886,99
Maggiore Generale 3356,96
Tenente Generale
4028,36
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3208,17
3208,17
3208,17
3208,17
3208,17
3352,23
3352,23
3352,23
3352,23
4623,89
4785,94
4920,21
4987,36
5423,78
5702,11
6239,22
6709,19
7380,59
Fonte: http://oknotizie.virgilio.it/go.php?us=519410f8c3428d3b
-------------------nuovi azionisti hanno voluto una partita di calcio di riconciliazione il
21 settembre
Dopo 60 anni Puma e Adidas fanno pace
I due fratelli tedeschi Dassler le fondarono dopo la rottura
tra loro avvenuta nel dopoguerra
MILANO - Sarà una stretta di mano storica: le due aziende tedesche Puma e Adidas stanno per
concludere una contesa iniziata sessant'anni fa quando i due fratelli fondatori, Adi e Rudi Dassler,
decisero di imboccare ciascuno la sua strada.
PERCORSI SEPARATI - Sono diventati negli anni tra i principali marchi nel settore
dell'abbigliamento sportivo. In pochi sanno però che la storia (e probabilmente il successo) delle
due aziende (oggi agguerrite concorrenti) è frutto della scissione tra i fratelli Rudolf e Adolf "Adi"
Dassler, che generò rispettivamente i giganti Puma ed Adidas. Tutto ha inizio negli anni '20: i due
tedeschi costruiscono scarpe in cuoio, cucendole a mano nella lavanderia della loro madre. In
seguito fondano una fabbrica di calzature vicino Norimberga, la Gebrüder Dassler
Sportschuhfabrik, dove producono le prime scarpe da calcio con i tacchetti e le prime scarpe da
atletica chiodate, portandole alle Olimpiadi nel 1928. Il successo mondiale arriva nel 1936 quando il
campione Jesse Owens vince quattro medaglie d'oro alle olimpiadi di Berlino calzando proprio le
loro scarpe. L'armonia tra i due imprenditori svanisce tuttavia durante la seconda Guerra mondiale:
forti tensioni, date anche dalle differenti opinioni politiche, li dividono. Si separano e fondano
ciascuno la propria attività rimanendo però sempre nella stessa città.
«GIORNATA DELLA PACE» - Lunedì prossimo gli impiegati di entrambe le società si
stringeranno la mano pubblicamente per la prima volta. Lo faranno in occasione della partita di
calcio organizzata proprio nella cittadina bavarese di Herzogenaurach dove hanno la sede principale
le due aziende produttrici di articoli sportivi - tra le più grandi al mondo. Anche il piccolo comune,
che oggi conta quasi 23 mila abitanti, si «spaccò a metà» nel 1948, anno in cui i Dassler decisero di
separarsi, con residenti decisi a rimanere fedeli all'uno o all'altro. La data, poi, non è stata scelta a
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Post/teca
caso: il 21 settembre si celebre infatti nel mondo la "Giornata internazionale della pace".
In una nota congiunta le due aziende hanno spiegato che lo scopo della loro iniziativa è quello di
«radicare la consapevolezza dell'importanza di una convivenza pacifica». Oltre a partecipare
all'incontro di calcio i dipendenti delle due società vedranno insieme la pellicola "The Day After
Peace", il documentario del regista inglese Jeremy Gilley, nato proprio dall’idea di avere una
giornata mondiale della pace il 21 settembre di ogni anno, come poi deciso dall’Onu nel 2001. E' la
prima manifestazione comune dalla rottura negli anni '40.
LA RICONCILIAZIONE - A favorire la riconciliazione il fatto che dal 2007 la maggioranza di
Puma è nelle mani di Ppr, colosso del lusso francese gestito da François-Henri Pinault, che vanta
svariati marchi di prestigio da Gucci a Yves Saint Laurent. Il famoso marchio delle tre bande,
invece, è di proprietà di un numero più ampio di azionisti. Ad oggi Adidas detiene il secondo posto
nel mercato globale per quanto riguarda il ramo di articoli sportivi, Puma è terza. La manifestazione
fa parte dell'iniziativa "Peace One Day", promossa dallo stesso Gilley - un giorno della pace, di
tregua e di non violenza, un invito a tutte le nazioni e i popoli a onorare la sospensione delle ostilità
il 21 settembre di ogni anno.
Elmar Burchia
18 settembre 2009
Fonte: http://www.corriere.it/economia/09_settembre_18/puma_adidas_riconciliazione_elmar_burc
hia_38f04232-a42e-11de-a9bb-00144f02aabc.shtml
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22 settembre 2009
Il film di Eastwood su Nelson Mandela
di Cesare Balbo
«Dal profondo della notte che mi avvolge/ buia come il pozzo piu' profondo che va da un polo
all'altro/ ringrazio quali che siano gli dei per la mia inconquistabile anima.
Nella morsa della circostanze, non mi sono tirato indietro, né' ho pianto/
Sotto i colpi d'ascia della sorte, il mio capo sanguina, ma non si china/
Più in là, questo luogo di rabbia e lacrime appare minaccioso ma l'orrore delle ombre/ e anche la
minaccia degli anni non mi trova/ e non mi troverà spaventato. Non importa quanto sia stretta la
porta... quanto piena di castighi la vita/ Io sono il padrone del mio destino. Io sono il capitano della
mia anima». Nelson Mandela ha spesso citato "Invictus", questa breve poesia di W.E.Henley, come
espressione del proprio indomito approccio alla vita. La recitava come un mantra nei giorni della
propria prigionia, per cause razziali, durata oltre ventisette anni e dopo la liberazione, consegnando
infine alla Storia il proprio messaggio maturato in 67 anni di lotta all'apartheid.
Lo stesso leader, nel giorno dell'ultimo compleanno festeggiato da vari celebri artisti col "Mandela
day", che si celebrerà ogni 18 luglio, ha detto: «Non è un giorno di vacanza ma una giornata per
dedicarsi agli altri». O almeno dedicare loro 67 minuti per vedere «quello che possiamo fare, per
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lasciare un'impronta» ha detto Mandela in un videomessaggio in occasione dei suoi 91 anni.
A fine anno verrà lasciata un' impronta cinematografica in un combat-film, sempre dal titolo
"Invictus, sulla sua biografia che avrà il centro narrativo nei mondiali di rugby del 1995, ospitati dal
Sud Africa. La Warner Bros. ha deciso di fare uscire il biopic, un nuovo film diretto da Clint
Eastwood, a partire dal prossimo 11 dicembre, in tempo utile per concorrere all'Oscar. Il
regolamento di ammissione prevede infatti che i film devono uscire in un cinema per sette giorni
consecutivi, prima della scadenza fissata per il termine della fine dell'anno.
Il titolo è stato scelto dallo stesso regista al posto del provvisorio "The Human Factor" per la sua
forza d' immagine e forse di buon auspicio dopo l'esclusione dalle ultime nomination di "Gran
Torino" (in assoluto il suo film che ha incassato di più con 148 milioni di dollari sul mercato Usa e
112,5 milioni di dollari nel resto del mondo).
A rendere credibile il Mandela cinematografico sarà Morgan Freeman, per la prima nei panni di un
presidente del Sud Africa dopo aver interpretato più volte quello degli Stati Uniti, prima ancora di
Obama. Il film dà grande importanza all'episodio di quando Mandela decise di sostenere la
nazionale di rugby, gli Springboks, in occasione della terza edizione della Coppa del mondo di
rugby giocata in Sud Africa, dopo che era stata esclusa dalle competizioni internazionali a causa
dell'apartheid.
Una scelta epocale in quanto la popolazione nera storicamente tifava più per il calcio che per il
rugby, sport inizialmente solo "bianco". Durante la segregazione razziale, in occasione delle partite
degli Springboks, un settore dello stadio era riservato ai neri che lo riempivano per sostenere gli
avversari.
Libero adattamento del libro «Playing the enemy: Nelson Mandela and the game that made a
Nation» di John Carlin, da poco pubblicato in italiano da Sperling & Kupfer, il film racconta la
capacità di quell'evento di restituire coesione al Paese: la maggioranza dei neri nonostante la
squadra fosse uno dei simboli dell'apartheid tifò per il team assieme ai bianchi quando gli
Springboks il 25 giugno ad Ellis Park giocarono la finale, vinta, contro la Nuova Zelanda. A
interpretare François Pienaar, capitano della squadra sudafricana di rugby, sarà Matt Damon che si è
ispirato al De Niro di " Toro Scatenato". Per entrare nel ruolo, secondo il metodo dell'Actor's studio,
si è allenato duramente in un campo da rugby di Città del Capo seguito da un coach d'eccezione:
Chester Williams l'unico giocatore nero degli Springboks di quei mondiali.
E chissà che la vita di Mandela dopo la Coppa del mondo e il Nobel si meriti anche l'Oscar.
22 settembre 2009 22 settembre 2009 22 settembre 2009
Fonte: http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Tempo%20libero%20e
%20Cultura/2009/09/invictus.shtml?uuid=9a5696ca-a73f-11de-bb8f0a0de7afd1a1&DocRulesView=Libero
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Due libri sulla questione femminile
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Post/teca
Donne tra differenza e uguaglianza
di Giulia Galeotti
Un'indagine Istat di qualche settimana fa, ha rivelato che il 31 per cento dei bambini e dei ragazzi
italiani tra i 6 e i 17 anni riceve settimanalmente la paghetta dai genitori. Se però il 32, 7 per cento
dei maschi la riceve regolarmente a fronte del 29, 2 per cento delle coetanee, ai primi viene
comunque dato più denaro che alle seconde. Una duplice discriminazione quindi.
Che la discriminazione tra i sessi sia ancora esistente nei Paesi occidentali non è certo una novità.
Seppur tra tanti cambiamenti, venirne a capo non sembra ancora facile: i continui studi che tentano,
ciclicamente, di indagarla offrono spunti su cui riflettere, ma (per ora almeno) nessuna reale
soluzione. Tra i saggi oggi presenti in libreria, segnaliamo il testo del sociologo francese Alain
Touraine, Il mondo è delle donne (Milano, il Saggiatore, 2009, pagine 248, euro 20) e quello di
Anne Stevens, docente di European Studies a Birmingham, Donne, potere, politica (Bologna, il
Mulino,
2009,
pagine
332,
euro
32).
Sebbene le argomentazioni dei due studiosi non convincano sempre e del tutto, un primo elemento
piuttosto interessante (e confortante) è il fatto che entrambi danno per scontato il rifiuto
dell'ideologia del gender, quella ideologia, oggi di gran moda, secondo cui le differenze tra femmine
e maschi non avrebbero alcun fondamento in natura, essendo socialmente costruite. I fautori
del gender dicono che, per eliminare la discriminazione, sia necessario superare il dato biologico:
solo così si potrà perseguire la vera uguaglianza e l'effettiva parità tra i sessi.
Eppure, come gli studi scientifici hanno dimostrato e continuano a dimostrare, parlare di identità
maschile e di identità femminile ha senso innanzitutto proprio dal punto di vista biologico. Oltre che
infondata, la teoria del gender sottintende una visione estremamente pericolosa, ritenendo che la
differenza sia sinonimo di discriminazione. Eppure, il principio di uguaglianza non richiede affatto
di fingere che tutti siano uguali: solo nella misura in cui l'esistenza della differenza venga
effettivamente riconosciuta e considerata, si potrà realmente dare a tutti, allo stesso modo e in pari
grado,
piena
dignità
e
uguali
diritti.
Nulla di nuovo, sia chiaro: è da tempo che il diritto e la filosofia vanno ribadendo come l'autentico
significato del principio di uguaglianza risieda non nel disconoscere le caratteristiche individuali,
fingendo un'omogeneità che non esiste, ma, al contrario, stia proprio nel dare a tutti le stesse
opportunità. Il laico Norberto Bobbio affermava che gli uomini non nascono uguali: è compito
dello Stato metterli in condizione di divenirlo. Come ribadiscono, tra gli altri, la Chiesa cattolica e
parte del femminismo, la vera uguaglianza si verifica non solo quando soggetti uguali vengono
trattati in modo uguale, ma anche quando soggetti diversi vengono trattati in modo uguale. La parità
tra i sessi non si ottiene certo facendo entrare le donne in una categoria astratta di individuo, ma si
raggiunge partendo dal presupposto che la società è composta da cittadini e da cittadine.
Certo, è indubbio che fino a oggi la differenza tra i sessi, quasi sempre e quasi ovunque, ha assunto
la forma di una gerarchia tra uomini e donne, in cui è sempre stato preordinato il maschio. Si tratta,
però, di piani diversi: la subordinazione non sta nella natura, ma nell'illecito uso che di essa si è
fatto e si continua a fare. È su questo illecito uso, ancora presente, che dobbiamo concentrarci, come
tentano di fare sia il saggio di Alain Touraine che quello di Anne Stevens. Entrambi dedicano molte
osservazioni alla politica che è forse oggi, soprattutto nei Paesi occidentali, il luogo più clamoroso
della disparità tra i sessi. A fronte di un corpo elettorale pariteticamente composto da uomini e
donne, i rappresentanti eletti infatti sono in massima parte maschi. Il tema, a cui si è tentato di dare
anche spiegazioni storiche, è complesso e spinoso. Eppure è indubbio che la democrazia richieda la
contestuale
presenza
in
politica
sia
degli
uni
che
delle
altre.
Ovviamente esiste una grande varietà di posizioni su come risolvere, in concreto, il problema della
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Post/teca
scarsa rappresentanza femminile. Persiste la convinzione che dovrebbero essere gli stessi partiti ad
autodisciplinarsi affinché le liste elettorali rispondano effettivamente a un principio democratico,
assicurando una rappresentanza tendenzialmente paritetica in società composte da donne e uomini.
Intervenendo così - e non imponendo invece le quote per legge - i partiti sarebbero infatti obbligati
a investire nella formazione di una classe politica competente e preparata composta da entrambi i
sessi.
La politica, però, è solo uno degli aspetti della disparità ancora in atto. Anne Stevens analizza anche
il mondo del lavoro - segregazione verticale e orizzontale, disparità retributiva - lo stile di vita, le
aspettative sociali e l'impiego del tempo - "in media le donne passano un'ora al giorno in più degli
uomini nelle occupazioni domestiche": viene da chiedersi dove sia questo paradiso! Qui è
sufficiente un solo esempio concreto: le domande rivolte alle vittime di violenza sessuale sono
ancora oggi umilianti, in modo non paragonabile a quelle rivolte alle vittime in altri processi penali.
Tra i nodi affrontati da Alain Touraine, invece, ne segnaliamo due. Il primo è quello, urgente e
grave, della spaventosa violenza di cui le donne sono vittime - come la cronaca nera attesta
pressoché quotidianamente - un vero allarme sociale rispetto al quale ci si dovrebbe interrogare
seriamente a diversi livelli. L'altro, è relativo al fatto che la maggior parte delle giovani donne di
oggi rifiuta di definirsi femminista, esprimendo fastidio, o addirittura inquietudine, rispetto al
termine. Touraine spiega questa presa di distanza con il fatto che per le donne di oggi il
femminismo "è completamente integrato al mondo politico". Tale vicinanza lo avrebbe
definitivamente sminuito, trattandosi di una generazione che nutre una completa sfiducia nella
capacità della politica di migliorare le cose. Una politica, inoltre, che viene percepita come
intrinsecamente debole essendo fondata sulla (falsa) uguaglianza, quando le giovani donne di oggi
sanno che maschi e femmine uguali non sono. Touraine, però, rifiuta di qualificare il movimento
delle donne come rivoluzionario - definendolo, all'opposto, democratico. Ad avviso di chi scrive
però, la qualifica di rivoluzionario non è tanto questione di metodo, quanto di risultato.
Nella certezza che il femminismo tout court non esista - si pensi, su tutte, alla contrapposizione tra
femminismo dell'uguaglianza e femminismo della differenza - e nella consapevolezza che anche il
femminismo ha avuto i suoi limiti ed ha compiuto i suoi errori, non si può tuttavia negare che il
cambiamento profondo della vita delle donne, nel corso della seconda metà del Novecento, abbia
rivoluzionato radicalmente, nel bene e - forse - un poco anche nel male, la società nel suo
complesso. Oltre alle stesse donne.
(©L'Osservatore Romano - 21-22 settembre 2009)
---------------------23/9/2009
Il tempo sta finendo
BARACK OBAMA La risposta della nostra generazione alla sfida climatica sarà giudicata dalla
storia perché, se falliamo, rischiamo di consegnare le generazioni future a una catastrofe
irreversibile. Nessun Paese, grande o piccolo, ricco o povero, può sfuggire all’impatto del
cambiamento climatico.
E il tempo che abbiamo per rovesciare la situazione sta finendo. Eppure possiamo ancora
rovesciarla. Come disse una volta John F. Kennedy «i nostri problemi sono causati dall’uomo,
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Post/teca
perciò possono essere risolti dall’uomo». È vero che per troppi anni l’umanità è stata lenta a
rispondere o addirittura a riconoscere le dimensioni della minaccia climatica. Questo è vero anche
per il mio Paese. Lo riconosciamo. Ma oggi è un altro giorno. Una nuova era. E io sono orgoglioso
di dire che negli ultimi otto mesi gli Stati Uniti hanno fatto più di quanto non avessero fatto in tutto
il loro passato per promuovere le energie pulite e ridurre l’inquinamento da anidride carbonica.
Poiché però nessuna nazione può affrontare queste sfide da sola, gli Stati Uniti hanno sollecitato
l’impegno di partner e alleati per trovare nuove soluzioni e messo il clima in cima all’agenda di tutti
gli incontri diplomatici: con la Cina, il Brasile, l’India, il Messico, i Paesi dell’Africa e quelli
dell’Europa.
Messi in fila uno dietro l’altro, tutti questi passi rappresentano un riconoscimento storico da parte
degli americani e del loro governo: abbiamo capito la gravità della minaccia climatica. Siamo decisi
ad agire. E ci assumiamo le nostre responsabilità di fronte alle prossime generazioni.
Quello che c’è da fare non è facile. La parte più ardua del viaggio è davanti a noi. Cerchiamo
cambiamenti difficili ma necessari proprio nel mezzo di una recessione globale, quando la priorità
immediata di ogni nazione è rivitalizzare la sua economia e riportare la gente al lavoro. Così
ognuno di noi, nella sua capitale, deve fronteggiare dubbi e difficoltà, mentre cerchiamo soluzioni
durature alla sfida climatica.
Ma oggi io sono qui per dire che le difficoltà non devono essere una scusa per l’autocompiacimento
né i dubbi una scusa per l’inazione. Ognuno di noi deve fare la sua parte per far crescere le nostre
economie senza danneggiare il pianeta - e dobbiamo farla tutti insieme. Non possiamo permettere
alle vecchie divisioni, che in tutti questi anni hanno caratterizzato il dibattito sul clima, di bloccare
il nostro progresso. Sì, i Paesi sviluppati che nell’ultimo secolo hanno causato la maggior parte dei
danni al pianeta continuano ad avere la responsabilità della leadership - Stati Uniti compresi. E noi
continueremo a farlo, investendo nelle energie rinnovabili, promuovendo una maggiore efficienza
energetica e riducendo le nostre emissioni di anidride carbonica per raggiungere gli obiettivi che ci
siamo dati per il 2020 e, più a lungo termine, per il 2050.
Anche i Paesi a crescita rapida, che nei prossimi decenni produrranno quasi tutto l’aumento di gas
serra, devono fare la loro parte, impegnandosi a restrizioni severe e rispettandole, esattamente come
fanno i Paesi sviluppati. Possiamo affrontare la sfida climatica solo se i Paesi che più inquinano
agiscono insieme. Non ci sono altre strade.
Dobbiamo anche aumentare gli sforzi per mettere i Paesi più poveri e più vulnerabili sulla strada di
uno sviluppo sostenibile. Questi Paesi, per combattere il cambiamento climatico, non hanno le
stesse risorse degli Stati Uniti e della Cina, ma sono i più interessati a una soluzione. Perché sono
loro a dover già convivere con gli effetti di un pianeta che si riscalda - carestie, siccità, scomparsa
dei villaggi costieri, conflitti per la divisione delle scarse risorse. Il loro futuro non è più la scelta tra
crescita economica e pianeta più pulito, perché la loro sopravvivenza dipende da entrambi. Non
serve a molto alleviare la povertà se poi non trovi più acqua potabile. Per questo abbiamo la
responsabilità di fornire a quei Paesi assistenza tecnica e finanziaria.
Quello che stiamo cercando, dopo tutto, non è soltanto un accordo sulle emissioni di gas serra.
Cerchiamo un accordo che consenta a tutti i Paesi di crescere e raggiungere buoni livelli di vita
senza danneggiare il pianeta. Sviluppando e disseminando tecnologie pulite e condividendo il
nostro know how, possiamo aiutare i Paesi in via di sviluppo a liberarsi delle energie sporche e
103
Post/teca
ridurre le emissioni nocive.
Sarà un viaggio lungo e difficile. E non abbiamo molto tempo per farlo. E’ un viaggio che chiede a
ciascuno di noi di perseverare nelle sconfitte e combattere per ogni centimetro di progresso.
Dunque, rimbocchiamoci le maniche. Perché, se saremo flessibili e pragmatici, se sapremo lavorare
indefessamente in uno sforzo comune, raggiungeremo il nostro scopo comune: un mondo più
sicuro, più pulito, più sano di quello che abbiamo trovato. E un futuro degno dei nostri figli.
Dal discorso del Presidente degli Stati Uniti al Forum del clima convocato da Ban Ki-moon alle
Nazioni Unite.
Fonte: http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?
ID_blog=25&ID_articolo=6416&ID_sezione=&sezione=
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24 settembre 2009
11 consigli per i manager editoriali
Il sempre eccellente Giornalaio riprende e traduce,
Dan Gillmor ha redatto una lista di 11 punti che ho tradotto per facilitarne la lettura.
Si consiglia a baristi e muratori dell’ editoria di stamparsene diverse copie – in formato A3 o
superiore – con le quali tappezzare l’ufficio così da averne sempre visione e ricordo.
Sono 11 preziosi consigli per orientarsi ed affrontare la situazione:
Non pubblicherei storie e commenti sulle commemorazioni [gli anniversari] se non in rarissime
occasioni; poiché sono il rifugio di giornalisti pigri e senza immaginazione.
Inviterei la nostra utenza [i lettori] a partecipare con tutti i modi e gli strumenti possibili;
crowdsourcing, blog dei lettori, wiki…etc. Chiarirei che non si tratta di lavoro gratuito – e lavorerei
per creare un sistema di ricompensa che vada oltre la classica pacca sulla spalla – desiderando
prima di ogni altra cosa promuovere un flusso multidirezionale di notizie nel quale l’utenza giochi
un ruolo determinante
La trasparenza sarebbe un elemento chiave del giornalismo. Ogni articolo sulla stampa avrebbe un
box che segnala a cosa il giornalista non è riuscito a rispondere. Qualunque fosse il media, il sito
web conterrebbe un invito esplicito ai lettori a contribuire nel riempire le falle che esistono in ogni
articolo.
Creerei un servizio on line, per coloro che volessero sottoscriverlo, per segnalare ai lettori gli errori
da noi commessi dei quali ci siamo successivamente resi conto.
Farei della conversazione un elemento essenziale della nostra mission. In particolare:
Se fossimo un giornale locale, l’editoriale e la pagina d’apertura sarebbero dedicate al “meglio di”,
104
Post/teca
e sarebbero di guida alla conversazione che la comunità stessa sta avendo on line, ospitata che sia
dall’organizzazione editoriale stessa o meno.
Gli editoriali sarebbe presentati sotto forma di blog, così come le lettere all’editore.
Incoraggeremmo commenti e forum, in spazi soggetti a moderazione che (a) incoraggino l’utilizzo
dei nomi reali (b) incoraggino [o costringano] l’educazione.
I commenti inseriti da persone che utilizzino il proprio nome reale sarebbero inseriti per primi.
Ci rifiuteremmo di fare stenografia e chiamarla giornalismo. Se una parte, una fazione, stesse
mentendo lo diremmo, supportandolo con prove. Se verificassimo che una parte consistente della
nostra comunità credesse in delle menzogne su fatti o persone, ci faremmo carico di far
comprendere la vera verità.
Rimpiazzeremmo alcune espressioni Orwelliane delle PR, con parole ed espressioni più precise e
neutrali. [seguono esemplificazioni nel testo originale di Gillmor].
Utilizzeremmo gli hyperlink in ogni maniera possibile. Il nostro sito web conterrebbe il maggior
numero possibile di media della nostra comunità di appartenenza, sia geografica che di interesse.
“Linkeremmo” ogni rilevante blog, foto, video, database ed ogni altro materiale che potessimo
incontrare, utilizzando il nostro giudizio editoriale per evidenziare quelli che consideriamo i
migliori per la nostra comunità. “Linkeremmo” liberamente il nostro lavoro giornalistico ad altre
fonti e materiali rilevanti rispetto all’argomento di discussione, riconoscendo che non siamo oracoli
ma guide.
I nostri archivi sarebbero liberamente consultabili, con link permanenti a quanto abbiamo
pubblicato, con le API affinché altri possano utilizzare il nostro lavoro giornalistico in modi che noi
non abbiamo considerato/immaginato.
La mission principale del nostro lavoro sarebbe quella di aiutare le persone della nostra comunità a
divenire utilizzatori informati dei media e non consumatori passivi – a comprendere perchè e come
possono farlo.
Non pubblicheremmo mai una lista di dieci punti. Esse sono il carburante di persone pigre e senza
fantasia.
I consigli di Gillmor riprendono ed amplificano i concetti espressi nelle linee guida, nei principi,
anch’essi tutti da leggere, che hanno costituito il fondamento, i pilastri, del progetto di Gillmor.
A scettici e conservatori sui consigli e principi enunciati da Gillmor, mi preme, infine, ricordare
come si sia delineata – da tempo ormai – una situazione competitiva generale che mi piace definire
da tapis roulant: se corri resti fermo, se resti fermo scivoli all’indietro. Il comparto editoriale, come
è dinnanzi gli occhi di tutti, non fa eccezione ovviamente; non tenerne conto sarebbe l’ennesimo
tragico errore.
Update: Sono stati redatti ieri Eleven More Things I’d Do if I Ran a News Organization - se
qualcuno vollese prendersi cura di tradurli….
fonte: http://www.pasteris.it/blog/2009/09/24/11-cose-da-fare-per-i-manager-editoriali/
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Umberto Eco: The lost art of handwriting
The days when children were taught to write properly are long gone. Does it matter? Yes, says
105
Post/teca
Umberto Eco
Recently, two Italian journalists wrote a three-page newspaper article (in print, alas) about the
decline of handwriting. By now it's well-known: most kids – what with computers (when they use
them) and text messages – can no longer write by hand, except in laboured capital letters.
In an interview, a teacher said that students also make lots of spelling mistakes, which strikes me as
a separate problem: doctors know how to spell and yet they write poorly; and you can be an expert
calligrapher and still write "guage" or "gage" instead of "gauge".
I know children whose handwriting is fairly good. But the article talks of 50% of Italian kids – and
so I suppose it is thanks to an indulgent destiny that I frequent the other 50% (something that
happens to me in the political arena, too).
The tragedy began long before the computer and the cellphone.
My parents' handwriting was slightly slanted because they held the sheet at an angle, and their
letters were, at least by today's standards, minor works of art. At the time, some – probably those
with poor hand- writing – said that fine writing was the art of fools. It's obvious that fine
handwriting does not necessarily mean fine intelligence. But it was pleasing to read notes or
documents written as they should be.
My generation was schooled in good handwriting, and we spent the first months of elementary
school learning to make the strokes of letters. The exercise was later held to be obtuse and
repressive but it taught us to keep our wrists steady as we used our pens to form letters rounded and
plump on one side and finely drawn on the other. Well, not always – because the inkwells, with
which we soiled our desks, notebooks, fingers and clothing, would often produce a foul sludge that
stuck to the pen and took 10 minutes of mucky contortions to clean.
The crisis began with the advent of the ballpoint pen. Early ballpoints were also very messy and if,
immediately after writing, you ran your finger over the last few words, a smudge inevitably
appeared. And people no longer felt much interest in writing well, since handwriting, when
produced with a ballpoint, even a clean one, no longer had soul, style or personality.
Why should we regret the passing of good handwriting? The capacity to write well and quickly on a
keyboard encourages rapid thought, and often (not always) the spell-checker will underline a
misspelling.
Although the cellphone has taught the younger generation to write "Where R U?" instead of "Where
are you?", let us not forget that our forefathers would have been shocked to see that we write
"show" instead of "shew" or "enough" instead of "enow". Medieval theologians wrote "respondeo
dicendum quod", which would have made Cicero recoil in horror.
The art of handwriting teaches us to control our hands and encourages hand-eye coordination.
The three-page article pointed out that writing by hand obliges us to compose the phrase mentally
before writing it down. Thanks to the resistance of pen and paper, it does make one slow down and
think. Many writers, though accustomed to writing on the computer, would sometimes prefer even
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Post/teca
to impress letters on a clay tablet, just so they could think with greater calm.
It's true that kids will write more and more on computers and cellphones. Nonetheless, humanity
has learned to rediscover as sports and aesthetic pleasures many things that civilisation had
eliminated as unnecessary.
People no longer travel on horseback but some go to a riding school; motor yachts exist but many
people are as devoted to true sailing as the Phoenicians of 3,000 years ago; there are tunnels and
railroads but many still enjoy walking or climbing Alpine passes; people collect stamps even in the
age of email; and armies go to war with Kalashnikovs but we also hold peaceful fencing
tournaments.
It would be a good thing if parents sent kids off to handwriting schools so they could take part in
competitions and tournaments – not only to acquire grounding in what is beautiful, but also for
psychomotor wellbeing. Such schools already exist; just search for "calligraphy school" on the
internet. And perhaps for those with a steady hand but without a steady job, teaching this art could
become a good business.
• Umberto Eco's latest book is On Ugliness. He is also author of the international bestsellers
Baudolino, The Name of the Rose and Foucault's Pendulum, among others.
© The New York Times 2009 (Distributed by The New York Times Syndicate)
Fonte: http://www.guardian.co.uk/books/2009/sep/21/umberto-eco-handwriting
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Il sisma di Reggio e Bologna nelle cronache del Duecento
Quando Francesco predisse il terremoto
di Felice Accrocca
107
Post/teca
Tommaso da Eccleston, morto poco dopo il 1259, nella sua
opera sull'insediamento dei primi frati minori in Inghilterra (De adventu fratrum Minorum in
Angliam), ci ha lasciato uno straordinario documento della vita e delle abitudini della comunità,
giunta oltre la Manica nel 1224. Tra le altre cose Tommaso narra i ricordi di frate Martino da
Barton,
"che
ebbe
la
fortuna
di
vedere
spesso
san
Francesco".
Tra questi compare il seguente: "Un frate, che stava pregando a Brescia, nel giorno di Natale fu
ritrovato illeso sotto le macerie della chiesa, durante quel terremoto che san Francesco aveva
predetto e fatto annunciare dai frati in tutte le scuole di Bologna, con una lettera scritta in un latino
scadente
(in
qua
fuit
falsum
Latinum).
Questo terremoto ebbe luogo prima della guerra ingaggiata dall'imperatore Federico, e si protrasse
per quaranta giorni, così che "tutte le montagne della Lombardia - con Lombardia s'intendeva,
allora, più o meno tutto il nord Italia - furono scosse" (Collatio vi dalla traduzione italiana delle
Fonti
francescane.
Nuova
edizione,
Padova,
2004,
n.
2460).
Quale credito possiamo dare a questa testimonianza arcinota, citata spesso dagli storici, attenti però
più al giudizio sulle capacità letterarie di Francesco che non a discutere il fatto in sé. Cominciamo
con il dire che proprio l'accenno al falso latino di Francesco pone un tassello a favore di questo
racconto. Per quale motivo, infatti, il cronista avrebbe dovuto inventare una notizia del genere,
quale interesse, cioè, poteva ricavarne? In realtà i teologi francescani e i biografi del santo
cercheranno di non insistere più di tanto sul fatto che Francesco stesso si era definito, in più di
un'occasione, ignorante e illetterato. Alla metà del Duecento maestri francescani sedevano sulle più
importanti cattedre universitarie: l'ignoranza del fondatore era divenuta ormai una questione
sconveniente.
Non sussistono dubbi, poi, sul fatto che un tremendo terremoto scosse il nord dell'Italia nel giorno
di Natale del 1222: la notizia ci è stata testimoniata da troppi cronisti per poterla mettere in dubbio.
Salimbene da Parma, loquace com'è sua abitudine, non manca - neppure in quest'occasione - di
particolari pittoreschi: "Nel giorno di Natale ci fu un grande terremoto nella città di Reggio, mentre
predicava nella cattedrale di Santa Maria messer Nicolò, vescovo della città. E questo terremoto
interessò tutta la Lombardia e la Toscana. E fu chiamato soprattutto terremoto di Brescia, perché in
quella città fu sentito più forte, e i bresciani vivevano fuori della città in tende, perché gli edifici non
cadessero sopra di loro. E molte case, torri e castelli dei bresciani furono distrutti da quel terremoto.
E loro s'erano talmente abituati a quel terremoto che, quando cadeva un pinnacolo di qualche torre o
di qualche casa, guardavano e ridevano forte" (Salimbene de Adam da Parma, Cronaca, traduzione
108
Post/teca
di
Berardo
Rossi,
Bologna,
Radio
Tau,
1987,
pp.
48-49).
Il racconto del cronista non si ferma qui, poiché aggiunge anche riferimenti personali: "Mia madre
era solita raccontare che al momento di questo grande terremoto io stavo nella culla ed essa sollevò
sottobraccio le mie due sorelle - che erano piccoline - una di qua e una di là, e scappò nella casa di
suo padre e di sua madre e dei suoi fratelli, abbandonando me nella culla. Aveva infatti paura come raccontava - che le cadesse addosso il battistero, che stava vicino a casa mia. E per questo
c'era qualche ombra nel bene che io le volevo; perché aveva il dovere di curarsi più di me, maschio,
che delle figlie. Ma lei diceva che era molto più facile portare loro, essendo più grandicelle" (ivi, p.
49).
Ma non solo. Alcuni predicatori accennarono a questa previsione del terremoto da parte di
Francesco prima ancora che Tommaso da Eccleston redigesse la sua opera. Tra i sermoni di
Giovanni de La Rochelle se ne conserva ad esempio uno che prende le mosse dal noto versetto
biblico Creavit Deus hominem ad ymaginem et similitudinem suam ("Dio creò l'uomo a sua
immagine e somiglianza"), edito già nel 1979 da Jacques-Guy Bougerol (La teorizzazione
dell'esperienza di san Francesco negli autori francescani pre-bonaventuriani, in Lettura biblicoteologica delle fonti francescane, a cura di Gerardo Luigi Cardaropoli e Martino Conti, Roma,
Antonianum, 1979, pp. 257-260), secondo il manoscritto Paris, Bibl. Nat., lat. 16502, ff. 39v-40r.
Malgrado in questa edizione il testo - che pure parla della prescienza di Francesco - non contenga
alcun accenno al terremoto, in anni più vicini a noi esso è stato di nuovo pubblicato da Jean Désiré
Rasolofoarimanana, il quale ne ha rintracciato una versione con molte varianti in un codice latino
conservato a Monaco di Baviera: è infatti possibile che lo stesso sermone sia stato stenografato da
due diversi testimoni, presentando in tal modo un numero notevole di varianti.
Ora, nella versione conservatasi nel manoscritto di Monaco si afferma che Francesco "fu
conformato al Figlio nella prescienza delle cose future, poiché preannunziò anzitempo un terremoto
agli studenti e predisse il papato a papa Gregorio ix" (Jean de La Rochelle et Anonime. Trois
sermons de Sanctis sur saint François d'Assise dans le ms. Clm 7776, in "Frate Francesco", 67,
2001,
p.
63,
ll.
60-62).
Alcuni anni più tardi lo stesso sermone sarà preso a modello da un anonimo cardinale: il testo
pronunciato dal porporato fu in un primo tempo pubblicato tra i sermones di Bonaventura, nel
volume ix dell'Opera omnia (Grottaferrata, Frati Editori di Quaracchi, 1901, 583a-585b), ma come
ha mostrato Ignatius Brady (Saint Bonaventure's Sermons on Saint Francis, in Franziskanische
Studien 58, 1976, pp. 129-141) esso non può essere del Dottore serafico. Anche il sermone
pubblicato dai frati di Quaracchi contiene comunque un riferimento al terremoto: san Francesco, si
dice, "predisse il giorno e l'ora precisa di un terremoto che si sarebbe dovuto verificare, e così
accadde, secondo quanto aveva predetto" (item predixit terremotum futurum certa die et hora, et sic
accidit sicut predixit: p. 583b). L'anonimo cardinale - Odo di Châteauroux? - prese così a modello
un
testo
vicino
a
quello
trasmessoci
dal
manoscritto
di
Monaco.
È certo, dunque, che la notizia di una previsione del terremoto da parte di Francesco circolasse tra i
frati indipendentemente dai ricordi di fra Martino da Barton, e così pure il fatto che il santo ne
avesse fatto dare pubblicamente l'annuncio agli studenti. Ed è certo pure che nel 1222 Francesco fu
a Bologna, sicuramente nella metà di agosto. Ce ne ha lasciato un ricordo colorito Tommaso da
Spalato, arcidiacono e poi vescovo della sua stessa città, che in gioventù aveva completato la
propria formazione intellettuale nella città felsinea, uno degli studia più celebri d'Europa: "In
quello stesso anno - scrive - nella festa dell'Assunzione della Genitrice di Dio, trovandomi allo
Studio di Bologna, ho visto san Francesco che predicava sulla piazza antistante il palazzo comunale,
ove era confluita, si può dire, quasi tutta la città. (...) Tutta la sostanza delle sue parole mirava a
spegnere le inimicizie e a gettare le fondamenta di nuovi patti di pace. Portava un abito sudicio; la
persona era spregevole, la faccia senza bellezza. Eppure Dio conferì alle sue parole tale efficacia
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che molte famiglie signorili, tra le quali il furore irriducibile di inveterate inimicizie era divampato
fino allo spargimento di tanto sangue, erano piegate a consigli di pace. Grandissime erano poi la
riverenza e la devozione della folla, al punto che uomini e donne si gettavano alla rinfusa su di lui,
con bramosia di toccare almeno le frange del suo vestito o di impadronirsi di un brandello dei suoi
panni" (in Fonti francescane, num. 2252).
(©L'Osservatore Romano - 24 settembre 2009)
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Una biografia di Adriano Olivetti
La repubblica di Utopia nel canavese
di Raffaele Alessandrini
"Prima che i popoli dimentichino i crimini, i
massacri, le rovine, la desolazione, chi è chiamato a stabilire il nuovo edificio sociale bene si accerti
che la metafisica razzista non fu che odio, menzogna, avidità. Soggiacendo a essa, intere collettività
caddero nell'errore e nel peccato". Per questo, e altri motivi, sosteneva Adriano Olivetti (Ivrea,
1901- Aigle, 1960) in uno scritto del 1946, "la libertà vive soltanto in una società compiutamente
cristiana". Lo scritto - con altri testi - figura in appendice alla biografia, oggi rinnovata e ampliata
da Valerio Ochetto, che anni fa ne curò una prima versione: Adriano Olivetti, (Venezia, Marsilio,
2009, pagine 356, euro 12) dedicata all'imprenditore eporediese. Era figlio del più noto Camillo
(1868-1943), il fondatore dello storico gruppo industriale che partendo dalla produzione di
macchine da scrivere sarebbe giunto a posizioni di assoluta preminenza internazionale nel settore
informatico
e
nell'automazione
da
ufficio.
Imprenditore, intellettuale, politico, ma soprattutto uomo pratico e di pensiero a un tempo, Adriano
Olivetti era dotato d'inventiva fervida e di passione per la giustizia, qualità cementate da un
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Post/teca
profondo spirito di servizio alla persona e al bene comune. Nel 1946 egli stava fissando i punti
preparatori alla realizzazione del nascituro Movimento Comunità, la sua personale repubblica di
Utopia, basata sull'ideale di un'armonia possibile, e comunque sempre da perseguire, tra impresa,
territorio
e
società
umana.
Di fatto, nel 1945, aveva scritto L'ordine politico delle Comunità: la base teorica per una
concezione federalista di Stato ove per l'appunto le comunità - entità territoriali culturalmente ben
definite e in grado di esprimersi autonomamente sul piano economico - garantissero un armonico
sviluppo sociale nell'industria come nell'agricoltura, salvaguardando i diritti umani e promuovendo
forme
di
democrazia
partecipativa.
La guerra era appena finita e Olivetti, che da antifascista militante aveva vissuto e sofferto in prima
persona per la tragedia e per la rovina dell'Italia, avvertiva i rischi di una ricostruzione limitata alla
sola dimensione superficiale e materiale. Dopo un primo periodo d'interesse per le istanze
mussoliniane si era opposto con forza al regime, talvolta in termini molto concreti come quando
aveva partecipato con Carlo Rosselli, Ferruccio Parri e Sandro Pertini alla liberazione di Filippo
Turati. Durante il conflitto era stato ricercato per attività sovversiva e si era dovuto rifugiare in
Svizzera.
Ora che le armi tacevano si faceva la conta dei danni; non solo quelli materiali. La devastazione
bellica infatti era penetrata nelle fibre del tessuto sociale e non aveva risparmiato le coscienze. Solo
uno spirito autenticamente cristiano, "che è amore, verità, carità", avrebbe potuto - nei vinti come
nei vincitori - essere, un domani, forza animatrice di una civiltà più umana.
Nella visione di Olivetti "la società della Comunità, essenzialmente cristiana, per affermarsi
compiutamente" avrebbe quindi dovuto apportare "una frattura definitiva al sistema basato su un
duplice assurdo economico e morale: l'economia dei profitti e il regime feudale nell'industria e
nell'agricoltura. (La rivoluzione Francese - diceva Olivetti - proclamò l'uguaglianza, la fraternità, la
libertà. Ma essendole sfuggita quella trasformazione sociale che le imponeva la proclamata
fratellanza, non seppe condurre né a vera libertà, né a vera a eguaglianza)".
E quindi l'imprenditore d'Ivrea sottolineava con lungimiranza come "nemmeno la trasformazione
sociale da sola potrebbe creare la libertà se all'egoismo dei pochi si sostituisse l'egoismo dei molti e
se la struttura creata per eliminare la dominazione dell'uomo sull'uomo portasse a una dominazione
dello
Stato
sulla
persona"
(p.
324).
Il primato della morale in economia come in politica doveva essere un punto fermo. La democrazia
basata esclusivamente sulla maggioranza e sul consenso dei molti qualora parta da presupposti
egoistici, e vada covando interessi di parte, non può che produrre oppressione e ingiustizia. La
stessa Europa, per Olivetti, non avrebbe potuto accettare una comune legge morale diversa da quella
cristiana dichiarandosi certo che "gli uomini politici che sentiranno nella loro vita interiore la luce
della grazia e della rivelazione cristiana e agiranno nel suo impulso o accetteranno, pur senza
riconoscerne la trascendenza, il contenuto umano e sociale dell'Evangelo, sono destinati ad avere in
se
stessi
dei
valori
inesauribili
e
insostituibili"
(p.
325).
In realtà l'idea di Comunità in Olivetti aveva radici antiche, ma si era evoluta e precisata proprio
negli anni della dittatura e della guerra. Nato in un contesto familiare dai caratteri culturali ben
definiti, con il padre Camillo, ebreo, e socialista, e la madre Luisa Revel, valdese, Adriano Olivetti
si era laureato nel 1924 in ingegneria chimica. Dopo un soggiorno negli Stati Uniti dove aveva
studiato pratica aziendale, entrò nella fabbrica familiare. Prima come semplice operaio, per volontà
del padre Camillo (1926); quindi nel 1933 divenne direttore della Società Olivetti e infine
presidente, nel 1938. L'esperienza del Movimento di Comunità nel canavese ebbe concreto inizio a
partire dal 1952, quando gradualmente gli amministratori comunitari assunsero la guida di cinque
comuni. Poi, nelle elezioni del 1956, il Movimento Comunità risultò presente in settanta comuni
canavesani, in quarantadue dei quali in posizione di maggioranza. Tre componenti essenzialmente
111
Post/teca
informavano questa realtà: il pensiero socialista e libertario, l'ideale cristiano e la visione
personalistica di Emmanuel Mounier e di Jacques Maritain. L'esperienza di Comunità, com'è noto,
sopravvisse
di
pochi
anni
al
suo
fondatore.
Detto questo resta il complesso profilo di un uomo la cui storia - come scrive Ochetto - coincide con
quella di discipline e di prospettive culturali che oggi in Italia sono esperienza comune, ma
all'indomani della seconda guerra mondiale apparivano stramberie - o "americanate", come le
chiamava Benedetto Croce. "Stramberie" che Olivetti "lottò per introdurre: la sociologia
contemporanea, il management, l'urbanistica, la pianificazione territoriale" (p. 9). Un dato non va
sottovalutato e riguarda la dimensione interiore dell'uomo. "Nel 1949 - ricorda Ochetto - Adriano si
fa battezzare nella Chiesa cattolica". Olivetti si sarebbe poi sposato in seconde nozze, avendo
ottenuto lo scioglimento da una prima unione matrimoniale contratta col solo rito civile. Si potrebbe
pensare quindi che dietro a questa scelta vi fosse un motivo strumentale: la possibilità di risposarsi,
questa volta in chiesa, con la moglie credente. In realtà la conversione era determinata dalla
convinzione maturata della "superiorità teologica della Chiesa cattolica". La scelta di Adriano
Olivetti veniva da lontano, come ebbe a dire un giorno a un conoscente: "Dopo la morte di mia
Madre venne a cessare la ragione sentimentale e umana che mi tratteneva dall'entrare nella Chiesa
che da un punto di vista teologico era nella mia coscienza certamente l'unica universale e quindi
eterna: la Chiesa Cattolica" (p. 240).
(©L'Osservatore Romano - 24 settembre 2009)
-------------------Foto a colori
[...] Fotografia a colori, un secolo fa? Com'è possibile? Semplice: la tecnologia del colore esisteva già, ma era
complicatissima. Il fotografo reale dello zar Nicola II, Sergei Mikhailovich Prokudin-Gorskii, girò in lungo e in largo
per la Russia dal 1907 al 1915 scattando immagini su lastre di vetro, come quella che vedete qui accanto: per ottenere il
colore, riprendeva tre foto di ciascun soggetto usando filtri rossi, verdi e blu separati. Questo produceva lastre
proiettabili a colori usando un triplo proiettore con filtri colorati corrispondenti. La Biblioteca del Congresso
statunitense acquisì la collezione di Prokudin-Gorskii poco dopo la caduta dello zar, ma solo la tecnologia digitale di
oggi riesce a ricreare e restaurare questi reperti unici. Newsweek presenta una rassegna di queste foto dai colori veri ma
incredibili, e maggiori dettagli, con la spiegazione del procedimento, sono sul sito della Biblioteca del Congresso.
fonte: http://attivissimo.blogspot.com/2009/09/le-cose-che-non-colsi-20090923.html
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25 settembre 2009
Ecco come il Web ha cambiato il giornalismo
di Daniele Cerra - Martedì 22 Settembre 2009 alle 17:30
La rivoluzione mediatica del giornalismo è sotto gli occhi di tutti. Contenuti generati dagli utenti, video
amatoriali, streaming in diretta, podcast, blog, Twitter, discussioni nei social network: anche per i giornalisti più
“tradizionalisti” non si tratta più di alzare barricate per impedire che tutto cambi. Ormai tutto è già cambiato,
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Post/teca
ed è tempo per gli operatori dei media tradizionali di sfruttare al meglio le opportunità offerte dai new-media.
L’European Digital Journalism Survey 2009 è uno studio, scaricabile gratuitamente dal sito
Europeandigitaljournalism.com, che, attraverso le testimonianze di 350 giornalisti di tutta Europa (esclusa
l’Italia…) ha cercato di definire in che modo sia cambiato il ruolo del giornalista.
Mentre in Italia la dicotomia tra media tradizionali e new media sembra ancora nutrirsi di polemiche più o meno
sensate e le posizioni dei puristi-tradizionalisti e degli innovatori ad ogni costo rimangono spesso arroccate agli
antipodi, in Europa la situazione sembra ben diversa. Lo studio, infatti, testimonia come le realtà editoriali dei
giornalisti intervistati abbiano già assimilato il cambiamento.
Allo stesso modo, è cambiata la consapevolezza del proprio ruolo da parte dei giornalisti che, per esempio, hanno
capito come, nel mondo dei social media, le esclusive diventino più importanti che mai, così come le analisi
rispetto alla semplice presentazione dei fatti.
Interessanti, per finire, i grafici e le informazioni relative a come la crisi economica ha cambiato negli ultimi mesi
il giornalismo e i modelli di business degli editori, cosa che ha avuto come conseguenza, per esempio, la richiesta
di una maggiore produttività per i giornalisti.
Fonte: http://www.oneweb20.it/22/09/2009/ecco-come-il-web-ha-cambiato-il-giornalismo/
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19.9.09
Google diventa editore con due milioni di titoli
La biblioteca virtuale di Google diventa improvvisamente reale con titoli quasi dimenticati, ma che
hanno fatto la storia della letteratura da Mark Twain a Carlo Collodi, passando anche per Alice nel
paese delle meraviglie e Jane Eyre. Così dopo aver passato 5 anni a scannerizzare libri, Google si
prepara a riportali in formato cartaceo grazie ad un accordo stretto con On Demand Books, la
società che ha inventato Espresso Book, la macchina capace di stampare volumi da 300 pagine con
copertina rigida in meno di cinque minuti.
La decisione di un colosso dell'online come Google di puntare sull'editoria tradizionale sembra però
stonare con il recente successo dei libri elettronici. Basti pensare a The Lost Symbol, l'ultimo libro
di Dan Brown (l'autore del Codice da Vinci) che ha venduto più copie nella versione e-Book
scaricabile su Kindle che in cartaceo. La mossa di Google però riporterà in vita oltre 2 milioni di
libri spariti anche dalle biblioteche.
Di fatto saranno edizioni economiche con un costo di circa 8 dollari (5,45 euro) di cui 3 serviranno
a coprire i costi di produzione sostenuti da On Demand Books. Nelle casse del colosso di Mountain
View entrerà un dollaro e il resto sarà donato in beneficienza. «La missione di Google è di rendere
più accessibili i libri del mondo», ha detto Jennie Johnson, portavoce della società, ammettendo che
il volume di carta resta un oggetto desiderabile per buona parte del pubblico nonostante il successo
dell'editoria online. «Il cerchio si sta per chiudere. Gli utenti potranno ottenere la copia fisica di un
libro del quale esistono magari due sole copie in alcune biblioteche del paese, o del quale magari
non esistono più copie», ha detto la Johnson.
La novità – almeno per il momento – non riguarderà l'Italia perché le macchine Espresso per
l'instant publishing, che nel 2007 hanno ricevuto da Time un premio per l'invenzione dell'anno, sono
disponibili solo nel mondo anglosassone nei campus universitari e nelle biblioteche. Costano circa
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100 mila dollari l'una, ma On Demand, che già offre ai suoi clienti oltre un milione di titoli punta a
concederle in affitto ai rivenditori. Google consentirà la pubblicazione di titoli quindi non più
protetti da copyright. «La riscoperta di questi titoli non è un problema» dice Marco Polillo,
presidente degli editori italiani «piuttosto – continua – mi incuriosisce che Google, dopo aver
iniziato a pubblicare notizie online ogni secondo, torni al buon vecchio libro». A preoccupare il
numero uno dell'Aie è invece il confine tra titoli protetti e non protetti: «Ho sentito parlare del 1923
come data limite, in realtà in Europa si considerano i 70 anni dalla morte dell'autore».
Alla libreria istantanea potrebbero aggiungersi milioni di altri testi se a Google verrà dato il diritto
di scannerizzare e vendere libri protetti da copyright ma non più in commercio: ottenendo tale
diritto, il catalogo del colosso di Mountain View potrebbe rapidamente raggiungere i sei milioni di
volumi. Se ne sta occupando un tribunale di New York dopo che Microsoft, Sony, Amazon, e le
autorità antitrust, si sono opposti sostenendo che in tal modo Google avrebbe il monopolio sui libri
fuori stampa. Evidentemente la carta stampata è ancora molto più sexy di quanto si creda. «I libri
sono bellissimi – prosegue Polillo –, ma non sono come le tv che parla. Bisogna essere attenti e
voler dedicare tempo alla lettura. Il problema non è certo nell'offerta, già vastissima, quanto nella
mentalità dei lettori».
G. Bal.
Fonte: http://articoliscelti.blogspot.com/
----------------25 settembre 2009 - 11.05
Lo spettro del comunismo in Svizzera
In Svizzera il movimento anticomunista ha assunto dimensioni sproporzionate rispetto al pericolo
che realmente rappresentavano i sostenitori della lotta di classe per la nazione. Ne è convinto lo
storico Jean-François Fayet, che assieme ad altri tre colleghi ha curato un volume su questo capitolo
buio della storia svizzera.
«Uno spettro si aggira per l'Europa: lo spettro del comunismo»: inizia così il Manifesto del partito
Comunista scritto tra il 1847 e il 1848 da Karl Marx e Friedrich Engel. Un fantasma che nel corso
degli anni ha vestito i panni degli operai, dei fautori della lotta di classe, di coloro che sognavano un
ordine sociale diverso, ma anche di semplici cittadini più critici verso il sistema.
In Svizzera la "paura dei rossi" si è diffusa ancor prima della costituzione del partito comunista nel
1921, quando la rivoluzione bolscevica non aveva ancora mutato gli equilibri europei. Lo sciopero
generale del novembre 1918, al quale parteciparono 250'000 lavoratori, è stato probabilmente
l'apogeo della lotta anticomunista e ha segnato una svolta nella percezione della "minaccia operaia".
Per oltre mezzo secolo la Svizzera ha condotto una vera e propria caccia alle streghe, culminata nel
1989 con lo scandalo delle schedature.
Swissinfo.ch ne ha discusso con lo storico Jean-François Fayet, che assieme a Michel Caillat,
Mauro Cerutti e Stéphanie Roulin ha pubblicato il volume in francese e tedesco "Histoire(s) de
l'anticommunisme en Suisse".
swissinfo.ch : Cosa significava essere anticomunisti in Svizzera?
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Post/teca
Jean-François Fayet: Si dice spesso che gli svizzeri non sono legati ad ideologie particolari, ma in
questo caso hanno saputo riconoscere nei presunti "comunisti" il nemico e canalizzare le loro
energie in una lotta asimmetrica. Il movimento anticomunista ha così assunto proporzioni
eccezionali rispetto al pericolo rappresentato per la nazione dai sostenitori della lotta di classe .
All'epoca era inconcepibile essere un bravo svizzero e nel contempo simpatizzare per i "rossi". Il
comunismo non era visto soltanto come un'ideologia politica, ma come una minaccia alla civiltà, ai
valori comuni, e per questo i suoi detrattori hanno saputo convincere una parte importante della
popolazione, al di là dell'appartenenza partitica.
swissinfo.ch : Cosa temevano questi movimenti?
J.-F. F.: Le paure legate al comunismo assumevano forme diverse: dallo spettro di una rivoluzione,
alla minaccia di una ripartizione delle ricchezze o della soppressione della proprietà privata. Ma a
differenza del comunismo – retto da ideali molto forti – l'anticomunismo era molto più complesso e
confuso. In suo nome, la gente poteva avere ambizioni completamente diverse: per un
socialdemocratico era importante combattere l'aspetto dittatoriale, mentre per un liberale il pericolo
era rappresentato dalla nazionalizzazione delle fabbriche.
Ed è proprio questa libertà d'azione che ne ha favorito lo sviluppo, perché ha permesso di
racchiudere dietro alla stessa bandiera paure e obiettivi profondamente diversi. A Friburgo, ad
esempio, il movimento anticomunista era legato alla tradizione cattolica, mentre a Zurigo era più
vicino agli ambienti economici e quindi contro la minaccia sindacalista.
swissinfo.ch : Nel libro si parla di una di manipolazione anticomunista, cosa significa?
J.-F. F.: L'anticomunismo non aveva come obiettivo soltanto la difesa nazionale, ma era un pretesto
per prendere di mira tutte le persone che manifestavano un certo dissenso verso l'ordine costituito e
un desiderio di emancipazione. L'anticomunismo si è così trasformato in uno strumento di controllo
sociale, la cui manifestazione più grande è senza dubbio lo scandalo delle schedature del 1989. La
bandiera anticomunista ha inoltre permesso di legittimare – paradossalmente – altre dittature, come
l'apartheid.
swissinfo.ch : Che peso ha avuto la paura del comunismo sulla politica svizzera?
J.-F. F.: Più che sulla politica, lo spettro comunista ha avuto un ruolo determinante nell'elaborazione
di un'identità nazionale. Non bisogna dimenticare che nel 1918 – all'uscita della prima guerra
mondiale – la Svizzera si trovava in una situazione estremamente difficile, divisa al suo interno e
accusata da Francia e Italia di fungere da base a un complotto germano-bolscevico.
In questo contesto, l'anticomunismo diventa un'arma perfetta per ricostruire un'identità nazionale
attorno a un nemico comune. Non è un caso, d'altronde, che il dibattito sul Röstigraben sia riapparso
proprio a partire dalla caduta del muro di Berlino, ossia quando la minaccia comunista è svanita.
Fintanto che questo spettro era ancora vivo, la gente non si poneva più domande sulla propria
identità, sul significato dell'essere svizzeri.
Il discorso anticomunista ha poi portato a una svalutazione di tutta la sinistra, anche di quella più
moderata. La Svizzera è l'unico paese d'Europa che nell'ultimo secolo non ha conosciuto
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un'alternanza del potere tra destra e sinistra a livello federale. I valori socialisti sono spesso
percepiti come esterni alla cultura e all'identità svizzera e questa è la conseguenza di oltre
cinquant'anni di demonizzazione del comunismo.
swissinfo.ch : Cosa è cambiato dopo il crollo del muro di Berlino?
J.-F. F.: Se lo spettro comunista sembra essersi dissolto con la caduta del muro di Berlino, la
minaccia antiterrorista ha però ripreso negli ultimi anni la totalità delle sue funzioni. I nemici
vengono identificati altrove e bollati come "terroristi". Ma è una minaccia ancor più vaga, sempre
meno facile da riconoscere e quindi da legittimare. Sulla lista stilata dagli Stati Uniti delle presunte
organizzazioni terroristiche figura di tutto, dai movimenti altermondialisti, ai seguaci di Mao, ai
ribelli mussulmani. Anche in Svizzera, durante il G8 a Evian, i no global sono stati definiti
"terroristi" dalle autorità ginevrine. Ma cosa significa terrorista? Quante organizzazioni al mondo si
definiscono come tali?
Ora che i comunisti sono usciti di scena, bisogna trovare un nuovo obiettivo. Terrorista è dunque il
termine col quale si identifica l'avversario, qualunque esso sia. È rassicurante, è utile per la nostra
identità e risponde a un bisogno politico e sociale molto forte, soprattutto in un contesto così fragile
come quello attuale.
Stefania Summermatter, swissinfo.ch
Fonte: http://www.swissinfo.ch/ita/prima_pagina/Lo_spettro_del_comunismo_in_Svizzera.html?
siteSect=107&sid=11074543&cKey=1253869524000&ty=st
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Come l'evoluzione impedisce il ritorno al punto di partenza
Nel corso dell'evoluzione, mutazioni restrittive possono cancellare le condizioni che avevano aperto
le porte a una certa possibilità evolutiva delle forme ancestrali
E' possibile riavvolgere il corso dell'evoluzione e tornare al punto di partenza? La risposta è no,
come spiega un gruppo di ricercatori dell'Università dell'Oregon diretto da Joe Thornton in
collaborazione con colleghi della Emory University di Atlanta.
La scoperta che l'evoluzione "ha bruciato i ponti" dietro di sé - hanno detto i ricercatori, che firmano
un articolo in proposito su "Nature" - implica che l'attuale versione della vita potrebbe non essere né
quella ideale né inevitabile.
"I biologi dell'evoluzione sono stati a lungo affascinati dalla domanda se l'evoluzione potesse venire
invertita - ha osservato Thornton - ma il problema è rimasto irrisolto perché solo molto raramente
possiamo sapere quali erano le caratteristiche dei nostri lontani antenati, o i meccanismi attraverso
cui si sono evoluti nelle forme moderne. Noi abbiamo risolto queste difficoltà studiando il problema
a livello molecolare, dove possiamo far risorgere una proteina ancestrale quale era esistita tanto
tempo fa e quindi utilizzare manipolazioni molecolari per dissezionare il processo evolutivo sia in
avanti che indietro."
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Thornton e colleghi si sono concentrati sull'evoluzione di un recettore dei glucocorticoidi (GR),
presente già nei primi vertebrati oltre 400 milioni di anni fa, che lega il cortisolo e modula la
risposta stressoria e immunitaria e altri fattori metabolici e comportamentali in moltissimi
vertebrati. E hanno scoperto che in un arco di tempo breve cinque mutazioni casuali hanno indotto
nella struttura della proteina sottili modificazioni assolutamente incompatibili con la forma
primordiale del recettore.
In lavori precedenti Thornton aveva mostrato che la proteina GR si era evoluta oltre 400 milioni di
anni fa da una proteina ancestrale sensibile all'aldosterone, identificando poi sette antiche mutazioni
che avevano portato il recettore a sviluppare la specificità per il cortisolo.
Sapendo come era evoluta la funzione moderna di GR, i ricercatori si sono chiesti se potesse essere
fatta tornare alla sua funzione originaria. Per questo hanno "resuscitato" GR quale era subito dopo
aver sviluppato per la prima volta la specificità per il cortisolo, per poi invertire le sette mutazioni
chiave manipolando la corrispondente sequenza di DNA.
"Ci aspettavamo un recettore promiscuo, proprio come l'antesignano di GR, invece abbiamo
ottenuto una proteina del tutto non funzionale, 'morta'. Evidentemente durante l'evoluzione di GR ci
sono state altre mutazioni che hanno funzionato come una sorta di punto d'arresto evolutivo,
rendendo la proteina incapace di tollerare le caratteristiche ancestrali che pure sussistevano poco
tempo prima."
A questo punto i ricercatori, con un complesso lavoro, sono riusciti a identificazione queste
mutazioni, che sono risultate essere state cinque.
Quando però i ricercatori hanno invertito queste cinque mutazioni, si sono accorti che la proteina
non poteva a questo punto tollerare l'inversione dei sette cambiamenti chiave che l'avrebbero
trasformata in un recettore promiscuo proprio come la sua proteina ancestrale.
A dispetto della loro potente azione di inibizione dell'inversione dell'evoluzione, quando erano
occorse queste cinque mutazioni non avevano avuto alcun diretto effetto di rilievo sulla funzionalità
della proteina. E per quanto esse debbano venire invertite prima che la proteina possa tollerare il
suo stato ancestrale, la loro inversione non garantisce affatto il recupero della funzione primigenia.
"Ciò significa che anche se la funzione ancestrale tornasse di colpo ottimale, non c'è alcun modo in
cui la selezione naturale possa riportare la proteina direttamente indietro alla sua forma ancestrale".
"Nel caso della GR, mutazioni restrittive hanno cancellato le condizioni che precedentemente
avevano aperto le porte alla forma ancestrale una possibilità evolutiva. E' verosimile che nel corso
della storia altri tipi di mutazioni restrittive abbiano avuto luogo, chiudendo innumerevoli traiettorie
che altrimenti avrebbe potuto prendere l'evoluzione."
"Se riavvolgessimo il corso della storia per poi tornare a svolgerlo, si verificherebbero differenti
gruppi di mutazioni, al momento apparentemente prive di conseguenze, ma che aprirebbero alcune
possibilità evolutive e ne bloccherebbero altre, comprese quelle che hanno portato a ciò che si è
evoluto di fatto nel nostro mondo."
"Mostrando come le strutture molecolari sono finemente modellate dall'evoluzione - ha commentato
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Irene Eckstrand dei National Institutes of Health's - la ricerca di Thornton avrà un forte impatto sia
sulla scienza pura che su quella applicata, come la progettazione di farmaci che abbiano come
bersaglio specifiche proteine". (gg)
Fonte:
http://lescienze.espresso.repubblica.it/articolo/Come_l_evoluzione_impedisce_il_ritorno_al_punto_
di_partenza/1340171
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