Narrazioni di massa e rappresentazioni sociali

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Narrazioni di massa e rappresentazioni sociali
Alessandro Perissinotto
Narrazioni di massa e rappresentazioni sociali
Il presente saggio è tratto da:
Fiore, Fabio, Rivoltella, Pier Cesare, Bricchetto, Enrica. Media, storia e cittadinanza Brescia La
Scuola, 2012
Introduzione
Una delle etichette più utilizzate per definire la società contemporanea è quella di “società
dell’informazione” o ancora, passando dal sottogenere al genere, quella di “società della
comunicazione”. Assai più di rado, per non dire mai, le definizioni rendono conto del peso che
assume all’interno della nostra società una forma particolare di comunicazione: la narrazione. Non
si parla praticamente mai di “società della narrazione” o di “narrazione di massa” (per analogia con
“comunicazione di massa”), ma la maggior parte delle comunicazioni in cui il cittadino occidentale
contemporaneo si trova implicato, tanto nel ruolo di mittente quanto, a maggior ragione, in quello di
destinatario, sono comunicazioni narrative, sono racconti e storie in forma di romanzi (in
proporzione davvero esigua), di film, di spettacoli teatrali, di fiction televisive, ma anche di
pubblicità, di reality show, di giochi a premi, di blog in rete, e così via. Mentre una parte consistente
degli studi sulla comunicazione di massa continua ad appuntare la sua attenzione sull’informazione,
l’informazione stessa si spettacolarizza, sceglie la via della messa in scena e soprattutto del
racconto: ciò che noi sappiamo a proposito della guerra, della politica, dello sport e persino della
scienza, migra, nella sovrabbondanza mediatica, dal campo delle “credenze empiriche” (per dirla
con Parsons) a quello delle “credenze non-empiriche”. Ma si tratta di una di una peculiarità della
nostra epoca o, al contrario, il ruolo sociale della narrazione affonda le sue radici nella storia stessa
dell’uomo? La risposta che noi tentiamo di dare in questo volume è forse ovvia: ogni società è una
società della narrazione; meno ovvio è invece il fatto che la società possa essere studiata e compresa
proprio a partire dalle narrazioni che essa produce. Ancora meno ovvio è che la società possa
essere, al tempo stesso, produttrice e prodotto di narrazione, che la finzione narrativa possa fondare
e perpetuare i valori sociali non solo nelle società primitive, ma anche, e forse soprattutto, nelle
società della comunicazione. Questo lavoro si pone dunque l’ambizione di giungere, se non alla
definizione una vera e propria teoria, almeno ad un’analisi esemplificativa della società che narra
per continuare ad esistere e a replicarsi.
1
1. La narrazione mitica: fondazione e fondamento della società
Sgomberiamo immediatamente il campo da un equivoco, quello dell’accessorietà dei fenomeni
narrativi rispetto al funzionamento della società. Affermiamo dunque, e lo sviluppo di questo
paragrafo comincerà a dimostrarlo, che la capacità di narrare è condizione necessaria, anche se non
sufficiente, per l’esistenza di una società. Narrare se stessa, come sistema, rappresentarsi tanto verso
l’esterno, in rapporto ad altre società per stabilire la propria identità differenziale, sia verso
l’interno, per creare appartenenza, ma anche, come vedremo, per proporre/imporre il proprio
sistema di regole e di valori ai singoli membri e per attivare e contestualizzare il sistema di
gratificazione e sanzione.
È evidente che il primo esempio da portare a sostegno di una tesi che voglia dimostrare la centralità
sociale della narrazione è quello del mito, e in particolare del mito delle origini. Una volta
costituita, una società deve volgersi indietro e marcare il momento iniziale della propria esistenza,
perché, come vedremo meglio in seguito esaminando l’opera di Lotman, ciò che esiste è iniziato e
ciò che non ha inizio non esiste. Ovviamente, questo momento iniziale , questo T0 dell’esistenza è
esso stesso inesistente poiché la nascita di una società è quasi sempre un processo graduale
difficilmente circoscrivibile ad un punto dello spazio-tempo; proprio per questo motivo, il momento
iniziale deve essere costruito narrativamente. Tale costruzione può assumere due forme diverse: la
prima prevede il reperimento, all’interno del continuum storico, di un evento da mitizzare (una
battaglia, una migrazione, una carestia, una raccolta abbondante, un evento politico, ecc.), la
seconda si basa invece sull’invenzione tout-court di una cosmogonia, di una pre-creazione che
spieghi le ragioni per le quali l’uomo è quello che è sia sotto il profilo individuale (sessuato,
mortale, ecc.), sia sotto il profilo sociale (comunitario, costretto a lavorare, ad intrattenere relazioni,
ecc.). Saremmo tentati di attribuire la prima modalità alle società evolute e la seconda modalità,
quella che si basa sulla creazione di cosmogonie, alle società arcaiche, ma questa sarebbe una
semplificazione fallace. Se l’antropologia culturale ha individuato nelle società primitive il terreno
ideale per lo studio dei miti cosmogonici, è perché in tali società il mito cosmogonico appare meno
contaminato da costruzioni mitologiche successive. Ciò significa che nelle società evolute, il mito
di creazione dell’universo convive con altri miti delle origini, talvolta supportandoli, talvolta
semplicemente affiancandoli. Prendiamo ad esempio l’Eneide. A partire da antiche leggende
greche, Virgilio costruisce letterariamente il mito della fondazione di Roma scegliendo come
momento iniziale simbolico un evento appartenente sia ad un'altra mitologia (quella greca), sia alla
storia: la distruzione di Troia. Dalla morte di Troia nasce Roma; la società latina istituzionalizza
così, a diverse centinaia d’anni dalla propria nascita, il proprio mito delle origini e lo fa senza
mettere sostanzialmente in discussione i miti delle origini e le cosmogonie delle società che l’anno
preceduta. Allo stesso modo, ovunque il cristianesimo sia o sia stato, più o meno ufficialmente,
religione si Stato, i miti di fondazione di ogni singola nazione si sono conciliati con quella
cosmogonia che è la Genesi nel racconto biblico.
Decisamente più diretto è il rapporto con le origini nelle cosmogonie delle società arcaiche. Ecco
qualche esempio:
In principio non c’era il mare. Fu Coyote che creò l’oceano. Coyote aveva sete di acqua; andò a cercarne e si
imbatté in un ciuffo di carici palustri. Ne estirpò una, ed ecco che l’acqua incominciò a fluire. Coyote si mise a
2
bere, ma l’acqua lo sollevò su in alto. Allora si diresse verso la spiaggia, che l’oceano era ormai formato.
Coyote si pose di fronte all’acqua, che ancora stava crescendo, e disse: «Acqua, fermati qui.»… 1
In principio non c’era terra. Non c’era nulla fuorché acqua salata, che copriva ogni cosa come un gran mare.
Sotto l’acqua vivevano due fratelli. Il maggiore era Ćaipakomat. Ambedue tenevano gli occhi chiuso perché il
sape li avrebbe fatti diventare ciechi. Dopo un certo tempo il fratello maggiore salì alla superficie dell’acqua
salata e guardò in giro. Non vide altro che acqua. […] Visto che non c’era nulla, Ćaipakomat cominciò col fare
delle piccole formiche rosse, i cui corpi popolarono l’acqua con tale densità che formarono la terra… 2
Ma cos’è che fa volgere indietro di centinaia, di migliaia di anni una società? Cos’è che la induce a
costruirsi un passato e un inizio? Il passato serve a normare il presente e a dare legittimità all’ordine
che è venuto costituendosi.
Questa storia sacra primordiale, costituita dall’insieme dei miti significativi, è fondamentale, in quanto spiega e
giustifica al contempo l’esistenza del mondo, dell’uomo e della società. Ecco perché il mito viene considerato
sia come una storia vera – dato che narra come il reale si sia originato – sia come modello e giustificazione
delle attività dell’uomo. 3
Il mito delle origini è dunque una narrazione che “serve” per fare qualcosa. In prima istanza esso
serve a legittimare il potere e la struttura sociale: quando gli etnologi pongono agli sciamani o ai
capi di tribù arcaiche domande circa le ragioni di certi modi di lavorare o di celebrare i riti, la
risposta è spesso del tipo: «Gli antichi fondatori facevano così e anche noi facciamo allo stesso
modo». Da un punto di vista sociologico questo rapporto tra la ritualità e il potere è stato largamente
approfondito sia da Compte, a proposito dei regimi teocratici, sia da Weber, quando, in Economia e
società 4 , parla di “hierokratischer Verband”, cioè di gruppo ieratico o sacro. Il gruppo ieratico è
quello che detiene il potere perché detiene i beni sacri e li distribuisce a propria discrezione;
importante specie per quello che diremo a partire dal paragrafo successivo è il fatto che questi beni
sacri, nella maggior parte dei casi, sono “beni” non in quanto oggetti dotati di un valore intrinseco,
ma in quanto oggetti investiti di un valore all’interno di una narrazione sacra (si pensi al valore
simbolico del pane eucaristico e al peso che, attraverso l’arma della scomunica, questo valore
simbolico ha avuto nelle società cristiane). Il gruppo sacro stabilisce dunque il proprio potere
elevandosi a interprete unico delle narrazioni magico-religiose e a realizzatore efficace del
contenuto narrativo. Tuttavia, anche dove il testo narrativo delle origini non genera una propria elite
ermeneutica, esso è funzionale in primo luogo alla legittimazione di quella tipologia di potere che
Weber definisce “tradizionale” (vedremo in seguito che potrà legittimare anche altri tipi di potere) :
l’autorità della tradizione, l’autorità “dell’eterno ieri” diviene una consuetudine ad obbedire che si
trasforma quasi una seconda natura negli uomini.
Abbiamo così introdotto un concetto importante, quello della “narrazione socialmente
funzionale”, una narrazione che non è fine a se stessa o che non limita la sua utilità
all’intrattenimento o all’educazione (funzioni che, peraltro, hanno indubbiamente una rilevanza
sociale), ma che si inscrive tra gli elementi generativi dell’agire sociale. Non dobbiamo però
pensare che la funzionalità della narrazione mitica rispetto alla società si limiti alla legittimazione
del potere. Oltre che legittimato, il potere deve essere mantenuto ed esercitato; non solo, la società
sostiene il potere che la regola se essa riesce a “funzionare”, cioè se le sue componenti economiche,
affettive e culturali sono adeguatamente sostenute. La narrazione socialmente funzionale interviene
allora anche nel sostenere, nell’indirizzare l’agire economico, familiare e politico dell’individuo; in
1
Leggenda dei Pomo della costa – California centrosettetrionale, riportata in R. Pettazzoni, In principio. I miti delle
origini (a cura di G. Filoramo), Utet libreria, Torino 1990, p. 40.
2
Leggenda dei Diegueño – San Diego, California meridionale, riportata in R. Pettazzoni, cit. , p. 52.
3
M. Eliade, MITO, in Y. Bonnefoy (a cura di), Dizionario delle mitologie e delle religioni, BUR-Rizzoli, Milano 1989,
p. 1179 (ed. or. Flammarion, Paris 1981)
4
M. Weber, Economia e società, Ed. Comunità, Milano 1961 (ed. or., Mohr, Tübingen 1922)
3
altre parole, la narrazione mitica opera anche come una serie di istruzioni per l’uso della vita
quotidiana. Scrive ancora Eliade:
Per l’uomo delle società arcaiche, la conoscenza dei miti svolge una funzione essenziale, non solo perché i miti
gli offrono una spiegazione del mondo e del suo modo di esistere in esso, ma soprattutto perché, ricordandoli e
rivivendoli, egli è in grado di ripetere ciò che gli dei, gli eroi o gli antenati avevano fatto ab origine. Conoscere
i miti non significa solo imparare come le cose sono ante, ma anche dove e come farle ricomparire quando esse
scompaiono. Si possono catturare alcuni animali perché si conosce il segreto della loro creazione. Si può tenere
in mano un ferro rovente o un serpente velenoso a condizione di conoscere l’origine del fuoco e dei serpenti. 5
E altrove specifica:
Il mito, quale che sia la sua natura, è sempre un precedente e un esempio, non soltanto rispetto alle azioni
(«sacre» o «profane») dell’uomo, ma anche rispetto alla propria condizione; meglio: il mito è un precedente
per i modi del reale in generale. 6
Dunque la narrazione mitica è socialmente funzionale nella misura in cui crea un modello di
funzionamento della società ed invita i membri della società stessa ad aderirvi. In questo possiamo
dire che il meccanismo che regola le narrazioni di massa della società mediatica è del tutto
simile a quello del mito. Si dice generalmente che i best seller, la pubblicità, i reality-show, le soap
opera, lo spettacolo sportivo (non lo sport in sé), il cinema, la fiction e tutte le altre forme di
narrazione popolare creino dei miti. Questo è vero non solo nella moderna e degradata accezione di
mito («Quell’attore è un mito», «Ha segnato un goal mitico», ecc.), ma anche nella sua valenza
etimologica di “leggenda”, di racconto archetipico al quale uniformarsi. Non a caso, Barthes
annovera tra i miti d’oggi 7 (dove per “oggi” si intende il periodo tra il 1954 e il 1956) l’epopea del
Tour de France, la pubblicità dei detersivi, la Citroën DS, la produzione dei manufatti in plastica e
così via. Che si tratti di un grande evento sportivo o di una pratica quotidiana, di un bene durevole o
di un oggetto di consumo, diviene mito ciò che può assurgere al ruolo di storia esemplare. Ed ecco i
ciclisti dilettanti cimentarsi, al pari degli eroi del Tour, lungo i tornanti dell’Alpe d’Huez o del Mont
Ventoux; ecco schiere di genitori chiamare i propri figli J.R. o Sue Ellen, ad imitazione dei
protagonisti della serie televisiva Dallas; eccoci tutti all’acquisto dei prodotti di serie che (si noti
l’inevitabile ossimoro) ci distingueranno uniformandoci, rendendoci compartecipi del mito. La
società produce miti perché questi sono necessari al suo funzionamento: l’economia funziona se i
modelli di acquisto e di produzione sono conformi ai modelli che la società si è data; l’ordine viene
mantenuto se i cittadini sono disposti a riconoscerlo come tale. Naturalmente lo sviluppo
economico, l’ordine, la gerarchia e così via, possono essere mantenuti anche attraverso sistemi che
differiscono da quello della creazione di miti (ad esempio attraverso la forza), ma la strutturazione
mitica della società rappresenta ancora uno dei metodi meno dispendiosi.
Ma perché il mito è così potente? Perché è una narrazione e questo, come vedremo nel paragrafo
successivo, lo rende estremamente efficace.
2. La specificità delle narrazioni nella struttura dell’azione sociale
Nel paragrafo precedente si è evidenziato come i sociologi (Compte, Weber e altri) abbiano già
esplorato la fitta rete di rapporti che esiste tra mito, tradizione, società e potere. Si è poi parlato di
come, nella contemporaneità, alcuni aspetti della comunicazione di massa svolgano le funzioni
proprie del mito, ma anche in questo caso la strada è già stata aperta da altri e il suo tracciato non
sfugge neppure ad un’osservazione superficiale e non specialistica. Perché allora rilanciare in
campo sociologico l’analisi di questi temi? La mia convinzione è che l’originalità del presente
lavoro risieda soprattutto nella capacità di mettere a fuoco le specificità del ruolo che il testo
5
M. Eliade, MITO, cit., p. 1180.
M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Boringhieri, Torino 1976, p. 431 (ed. or. Payot, Paris 1948)
7
R. Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1994 (ed. or. Éditions du Seuil, Paris 1957)
6
4
narrativo assume nell’azione sociale. Quello che qui si tenterà di fare è mostrare le ragioni che sono
alla base del forte potere modellizzante del testo narrativo, in contrapposizione ad altri testi
(normativi, argomentativi, ecc.) che narrativi non sono. Laddove, all’interno della teoria
sociologica, si esamina genericamente il ruolo della cultura (fatta di narrazioni, ma anche di molto
altro) o il ruolo della rappresentazione, qui si intende usare la lente di ingrandimento e concentrarsi
sulla narrazione, nella convinzione che la sua funzione sociale sia diversa da quella delle altre
componenti della cultura.
In particolare crediamo che, dal punto di vista dell’azione sociale, il testo narrativo si distingua
dagli altri (1) per la sua capacità di generare valori, (2) per la sua capacità di creare modelli in
forma di percorsi esemplari e di creare immedesimazione, (3) per la sua capacità di sembrare vero
(cioè di generare credenze) e (4) per la sua capacità di permanere nella memoria collettiva. Per
ragioni di sintesi, di questi quattro punti, svilupperemo solo i primi due, che sono quelli che più
direttamente introducono a problematiche di forte interesse media educativo.
2.1 Generare valori
È evidente che, a questo punto della trattazione, è indispensabile chiedersi che cosa sia la
narrazione. Per dare una risposta dobbiamo effettuare il passaggio dalla singola narrazione alla
generalità del fatto narrativo, dall’hic et nunc di un particolare romanzo, o racconto o film, al
concetto stesso di narratività. In altre parole, abbiamo bisogno di formalizzare questo concetto per
coglierne le caratteristiche di base, i tratti che sono presenti in ogni storia. A questo proposito, mi
permetto di riprendere qui sotto alcuni passaggi da me già proposti altrove 8 .
Possiamo riconoscere in Propp e nel suo Morfologia della fiaba il primo tentativo di reperire degli
invarianti nei differenti racconti. Propp individua sette personaggi tipo: l’eroe, l’antagonista, il
donatore del mezzo magico, l’aiutante dell’eroe, il falso eroe, il mandante, il personaggio cercato.
Questi personaggi possono anche non comparire tutti in una stessa fiaba, ma sono comunque fissi,
così come è fissata la gamma delle azioni che essi possono svolgere, da cui Propp ricava:
Gli elementi costanti, stabili della favola sono le funzioni dei personaggi, indipendentemente dall’identità
dell’esecutore e dal modo di esecuzione. Esse formano le parti componenti fondamentali della favola. 9
Assistiamo così a un primo passaggio dalla specificità alla generalità, ma ci troviamo ancora nel
campo, abbastanza specifico, del racconto fiabesco e non del racconto tout court. Ad esempio, lo
studioso russo identifica nel confronto tra l’antagonista e l’eroe l’asse portante della fiaba, se però
usciamo dalla particolarità della fiaba per approdare al romanzo, ci accorgiamo che è difficile
individuare uno specifico antagonista, così come è difficile spesso (specie nella letteratura del
Novecento) individuare un autentico eroe. Per muoverci in una direzione di massima generalità
proviamo dunque a cambiare gli attori di questo confronto: non più due personaggi, ma due valori;
ad eroe e antagonista sostituiamo “Bene” e “Male”. Possiamo così dire che una narrazione è sempre
la storia di una lotta tra il bene e il male, facendo però attenzione a sottolineare che “Bene” e
“Male” non sono valori assoluti, né sono necessariamente i valori condivisi da una certa società o
dettati da una certa etica. Anzi, diremo meglio che la narrazione fa proprio il sistema assiologico
prodotto socialmente, ma si riserva il diritto di invertirne le polarità: di trasformare in bene ciò che
socialmente è ritenuto male e viceversa. Il racconto è il teatro di questa lotta tra valori, ma è anche
il luogo dove i valori vengono definiti: ogni racconto ha il proprio “Bene” e il proprio “Male”.
Facciamo qualche esempio.
In Lo strano caso del dottor Jekyll e mr. Hyde di Stevenson, i valori che animano la trama sono gli
stessi della società vittoriana: Jekill è onesto e misericordioso, al punto di tentare un esperimento
teso a separare nettamente il lato buono dal lato malefico di ogni uomo; Hyde incarna invece la
8
9
A. Perissinotto, Gli Attrezzi del narratore, BUR – Rizzoli, Milano 2005, pp. 27-49.
V.Ja. Propp, Morfologia della fiaba, Einaudi, Torino 1966, p. 29 (ed. or. 1928)
5
malvagità allo stato puro, il disprezzo per gli altri e per la vita. La lotta tra il bene socialmente
condiviso e il male socialmente condiviso non potrebbe essere più chiara.
Nei romanzi di Maurice Leblanc che hanno come protagonista Arsenio Lupin assistiamo invece a
un rovesciamento di questi valori: il “Bene” di Lupin, in quanto ladro e addirittura assassino, è ciò
che la società definisce “Male”; ciò nondimeno, fintanto che rimane all’interno della finzione, cioè
dentro la storia, il lettore si immedesima nel protagonista e aderisce al suo programma narrativo
plaudendo il conseguimento di un “Bene” individuale (l’impossessarsi dei beni altrui) che coincide
con il “Male” sociale. Ma il “Bene” e il “Male” si scontrano anche quando il conflitto non assume i
contorni di una lotta fisica o esplicita: in La metamorfosi di Kafka, il “Bene” individuale che
Gregor Samsa desidererebbe, consiste nella possibilità di affermare la sua diversità rispetto alla
società borghese, la quale, invece, rappresenta il “Male”.
Ovviamente, le storie possono avere un lieto fine, quello in cui il “Bene” definito all’interno
dell’orizzonte del racconto prevale sul “Male”, oppure un finale tragico, quello dove è il “Male”
(sempre inteso come valore definito dalla narrazione stessa) a vincere.
Il caso del romanzo di Stevenson evocato qui sopra è molto particolare: in esso il “Bene” e il
“Male” si presentano come entità pure e astratte e per tali astrazioni si lotta e si muore. Nella
maggior parte delle storie però, i valori non vengono messi in gioco allo stato puro, ma vengono,
per così dire, caricati sugli oggetti; Arsenio Lupin non agisce per un non ben definito “Bene
individuale”, ma agisce per appropriarsi di qualche gioiello: il gioiello è così un oggetto che, per
Lupin, si carica di valore, diventa il “Bene”. E poiché per la società è “Male” che quello stesso
gioiello non rimanga al suo legittimo proprietario, la lotta tra il bene e il male sarà una lotta per il
possesso di un oggetto di valore.
Ed ecco il punto: ciò che dà vita alla narrazione è sempre la lotta per la conquista di un oggetto di
valore. Certo non dobbiamo limitarci a concepire l’oggetto di valore come un oggetto fisico o come
un prezioso, l’oggetto di valore può essere:
- un oggetto fisico dotato di un valore intrinseco (denaro, oro, diamanti, ecc.) o soggettivo (un
ricordo di famiglia);
- un “oggetto di relazione” (l’amore, l’amicizia, la stima, la fiducia in se stessi, ecc.);
- un “oggetto di potere” cioè una situazione di dominio (l’eliminazione di un concorrente, di un
rivale, la conquista di una carica pubblica, ecc.)
- un “oggetto di sapere” cioè una conoscenza (un segreto, una confessione, ecc.).
Per il protagonista di una storia, possedere l’oggetto di valore equivarrà a far vincere il proprio
“Bene” su di un “Male” rappresentato da tutto ciò che si frappone tra lui e l’oggetto: il percorso
che il protagonista farà per congiungersi al suo oggetto di valore (indipendentemente dalla
riuscita o meno di questa operazione) è il programma narrativo, cioè la più generale delle
strutture del racconto: una narrazione nasce nel momento in cui qualcuno inizia a desiderare
un oggetto e ad operare per congiungersi con esso.
La vera essenza di una narrazione è allora il valore di un oggetto e ciò che conferisce valore
all’oggetto è semplicemente il desiderio che qualcuno prova per l’oggetto stesso. Ponendo dunque
al centro della narratività il concetto di valore, Algirdas Julien Greimas sostituisce ai personaggi
tipo di Propp, gli attanti. Gli attanti non sono attori e non sono nemmeno personaggi, sono ruoli
narrativi, sono posizioni mutuamente definite in base al rapporto che intrattengono con il valore
dell’oggetto, ruoli che rimangono stabili indipendentemente dalle figure concrete che le occupano.
In un racconto, secondo Greimas, vi sono sei attanti: il Soggetto, l’Oggetto, il Destinante, il
Destinatario, l’Aiutante e l’Opponente o anti-Soggetto.
Il Soggetto è quell’entità che, nella narrazione, lotta per conseguire l’Oggetto (di valore) che
desidera; come abbiamo notato prima, Soggetto e Oggetto si definiscono vicendevolmente
attraverso il desiderio: l’Oggetto di valore diventa tale nel momento in cui c’è un Soggetto che lo
desidera e il Soggetto è tale solo se vi è un Oggetto da desiderare. Ma perché vi sia desiderio è quasi
sempre necessario che vi sia qualcuno che lo rende desiderabile, qualcuno che lo carica di un valore
positivo, cioè che lo fa apparire come un Bene per il Soggetto: questo qualcuno è il Destinante. Nel
6
mito dell’Eden, Adamo ed Eva (Soggetto) mangiano la mela (Oggetto) perché il serpente/Lucifero
(Destinante) l’ha mostrata a loro (Destinatari) come qualcosa di desiderabile. Il ruolo del
Destinatario e il ruolo del Soggetto tendono quindi a coincidere. Capita spesso poi che il ruolo del
Destinante sia del tutto implicito, cioè che il Destinante non sia qualcosa di fisicamente presente nel
racconto: se, nei Promessi Sposi, Renzo desidera Lucia è perché lei non è troppo brutta, è buona,
modesta e lavoratrice, valori questi che la società contadina del Seicento riteneva positivi; è dunque
l’implicita presenza della società a fungere da Destinante. Com’è facile intuire, l’Opponente è colui
che ostacola il Soggetto nel suo disegno di impossessarsi dell’Oggetto. Detto altrimenti,
l’Opponente è un anti-Soggetto che mira a conquistare lo stesso Oggetto desiderato dal Soggetto.
Di fatto un racconto non è soltanto la storia di un soggetto desiderante e di un oggetto desiderato, ma prevede
una struttura polemico-conflittuale che pone lo stesso oggetto al centro di due azioni antagoniste. […] L’attore
che si oppone al congiungimento tra soggetto e oggetto , cercando in tal modo di realizzare il valore contrario,
si dirà che occupa il ruolo di anti-Soggetto. 10
Tornando all’esempio manzoniano, avremo un anti-Soggetto nel personaggio di don Rodrigo e
anche per l’anti-Soggetto vi sarà un Programma Narrativo: impossessarsi del medesimo oggetto di
valore desiderato da Renzo, ma per motivi diversi, vale a dire in base alle indicazioni di un diverso
Destinante che in questo caso è dato dalla società aristocratica, impersonata (qui dunque il
Destinante è esplicito) dal conte Attilio e dalla sua scommessa.
Ovviamente, l’Aiutante sarà colui che aiuterà il Soggetto a congiungersi con l’Oggetto.
Da quest’opera di “vivisezione” della narratività emerge così ragionamento semplice quanto
rilevante: la narrazione nasce dalla creazione di un valore, il valore viene creato da un
Destinante, il Destinante è sempre la società, anche quando, nella specificità del racconto, prende
il nome di Dio, di Lucifero, del conte Attilio e così via.
Il Destinante è quindi il ruolo assunto dalla società per entrare a far parte della narrazione, di ogni
narrazione. In quanto Destinante, la società si inscrive nella narrazione, rappresenta se stessa e
trasforma così la narrazione in una rappresentazione sociale (come vedremo meglio in seguito).
Torniamo per un attimo ad occuparci di strutture della narrazione e notiamo come il rapporto tra il
Destinante e il Destinatario-Soggetto assuma le caratteristiche di una messa alla prova o, se
vogliamo, di un contratto circa un’operazione da portare a termine, di un incarico: il Destinante non
si limita a rendere desiderabile un oggetto agli occhi del Destinatario-Soggetto, ma, attraverso
questo rendere desiderabile, manifesta anche un proprio volere: il Destinante vuole che il
Destinatario-Soggetto cerchi di unirsi all’oggetto. Di conseguenza, il Destinante si incarica anche di
valutare l’efficacia dei procedimenti che il Destinatario-Soggetto mette in atto per impossessarsi
dell’oggetto di valore, valuta cioè l’efficacia degli sforzi compiuti dal Destinatario-Soggetto per
uniformarsi al proprio volere.
Posta in genere all’inizio del racconto, la comunicazione tra i due attanti stabilisce la funzione detta di
contratto, dove, se il Destinatario-Soggetto si impegna a realizzare il volere del Destinante attraverso il
sintagma narrativo detto prova, il Destinante si impegna a sua volta a retribuire il Destinatario-Soggetto con
una sanzione positiva o negativa in base al giudizio espresso sull’azione compiuta. 11
Dunque, la società-Destinante non solo attraverso la narrazione rende manifesti i propri valori, ma
svolge anche una seconda e non meno importante funzione: eroga, in forma simbolica, sanzioni
all’individuo-Destinatario, misura cioè, in termini di riuscita o fallimento del Programma Narrativo,
lo scarto esistente tra l’individuo e i valori socialmente condivisi o imposti. Siamo dunque nel
campo delle sanzioni e delle gratificazioni che tanta parte hanno, come si vedrà, nella teoria di
Parsons sul sistema sociale.
In questo paragrafo abbiamo finora parlato di società in termini un po’ grossolani, come se essa
fosse un unico organismo privo di componenti al proprio interno, anche se poi,
nell’esemplificazione manzoniana abbiamo fatto riferimento, sempre grossolanamente, a una
società contadina e a una società aristocratica, cioè a gruppi sociali. Sarà meglio precisare a questo
10
11
F. Marsciani, A. Zinna, Elementi di semiotica generativa, Esculapio, Bologna 1991.
Ibidem, pag. 67
7
punto che raramente il ruolo di Destinante sarà assunto da una società nel suo complesso, mentre è
molto più probabile che questo ruolo sia ricoperto, a seconda dei casi, dai diversi gruppi sociali 12 . Il
considerare unitariamente una società conferirebbe alla narrazione un mero compito di
conservazione e di replicazione della società stessa. Se le narrazioni socialmente funzionali (cioè, in
fondo, tutte le narrazioni) fossero informate da un unico Destinante, cioè da un unico sistema di
valori, non vi sarebbe alcuno spazio per l’innovazione e per l’evoluzione: la narrazione sarebbe
semplicemente la rappresentazione di ciò che “deve essere”, con la completa esclusione di ciò che
“potrebbe essere”, vale a dire di un sistema di valori che si propone come alternativo. Naturalmente
la narrazione è anche questo, è anche conservazione, stabilità e consenso, e, com’è ovvio, tanto più
il poteri forti di una società controllano le narrazioni di massa, quanto più esse si rendono funzionali
alla stabilizzazione del sistema di valori dominante. Altrettanto chiaro è però il fatto che i gruppi
sociali che si pongono come alternativi a quelli di potere cercheranno di inserirsi all’interno del
circuito delle narrazioni di massa, come Destinatari portatori di un differente universo assiologico.
Le narrazioni diventano così il mezzo per far vedere il mondo non tanto come è, ma come potrebbe
essere. Narrando si prefigurano società nuove e, in virtù del potere simulativo della narrazione
stessa, si propongono nuovi ruoli per l’individuo all’interno della società
2.2 Creare modelli
Sebbene si sia detto che uno dei punti di forza della narrazione risieda nella sua capacità di creare
valori, dopo quanto abbiamo visto nel paragrafo precedente siamo costretti a precisare che i valori
in gioco vengono prima creati dal gruppo sociale e successivamente introdotti nel racconto
attraverso il ruolo del Destinante: è pur vero che la narrazione crea valori, ma lo fa all’interno del
proprio mondo di riferimento attraverso l’importazione di valori esterni. Diremo quindi meglio (e
non potevamo farlo prima di aver esaminato l’apporto della semiotica generativa) che la
narrazione genera oggetti di valore e nel farlo reifica i valori prodotti dai gruppi sociali. Il
testo narrativo dà concretezza all’astrazione del valore trasformandolo in un oggetto, anche se,
come abbiamo visto, non dobbiamo solo pensare ad una concretezza solo in termini di consistenza
fisica: conoscere il nome di un assassino (il possibile oggetto di valore di una storia poliziesca),
rivelare la presenza di vite extraterrestri (in una narrazione fantascientifica), svelare la presenza di
trame politiche segrete (in una spy-story) sono altrettante forme di concretizzazione di quel valore
astratto che è la verità/conoscenza; così come controllare un’azienda o sottrarre un’amante a un
concorrente (ad esempio in una soap opera) sono concretizzazioni del valore sociale del potere.
Ovviamente gli esempi potrebbero essere infiniti, ma in tutti i casi noteremmo che la narrazione
trasforma un qualcosa di vago come un valore, in un obiettivo definito e circoscritto, in un caso
particolare e tangibile: mentre la filosofia, la religione, la pedagogia, ma anche l’economia e le
scienze politiche possono parlare di verità, di conoscenza, di libertà, di guadagno, di potere e così
via, la narrazione deve esprimere questi concetti attraverso figure, attraverso un processo che si
avvicina alla metafora. Ritorniamo ancora per un attimo all’empio del pane eucaristico: la
narrazione evangelica dell’Ultima Cena, investe un oggetto banale, quotidiano, di un valore
salvifico, del valore per eccellenza, la vita eterna. Il gruppo sociale rappresentato dalla chiesa
cattolica, nel costituirsi esegeta di quel testo, si colloca come Destinante di quell’oggetto di valore
ed attraverso esso esercita un potere: un regnante scomunicato viene delegittimato di fronte al suo
popolo. Ma cosa significa, almeno sul piano formale, poter ricevere l’eucaristia? Significa essere
ammessi all’imitazione di un modello in forma di racconto. Il cristiano che si comunica (al di là
delle implicazioni spirituali che qui non verranno prese in considerazione) ripete e rivive il racconto
dell’Ultima Cena e, al pari dei personaggi di quel racconto, raggiunge il medesimo oggetto di
valore.
12
Vista l’estrema indeterminatezza che termini come società e gruppo sociale hanno assunto perfino nella trattazione
sociologica, noi parleremo di gruppo sociale semplicemente come parte di una società.
8
Non solo quindi la narrazione crea oggetti di valore, ma suggerisce anche i percorsi, le modalità di
conseguimento di tali oggetti; la finzione narrativa suggerisce modi di comportamento finalizzati
alla realizzazione dei valori condivisi all’interno di una società o di un gruppo sociale. Più avanti
parleremo della narrazione come rappresentazione, ma possiamo fin d’ora anticipare che la
narrazione è una rappresentazione sociale orientata, cioè non una statica fotografia della società, ma
un dinamico cammino verso l’integrazione dell’individuo nel gruppo sociale. Ancora una volta la
narrazione di massa ci appare come socialmente funzionale e ancora una volta assume le
caratteristiche delle “istruzioni per l’uso”, di “modello”.
L’idea di modello richiama immediatamente l’idea di imitazione. Quello dell’imitazione è un
principio che, pur con alterne fortune, è entrato profondamente nella sociologia: il comportamento
individuale come frutto di un processo imitativo, di una replicazione della coscienza collettiva. Ma
perché i modelli sociali sono così forti? perché hanno questa potenza di trascinamento? Le risposte
che possiamo fornire a questi interrogativi sono molteplici; alcune vengono dalla sociologia stessa,
altre dalla psicologia, altre ancora dalle neuroscienze, ma una ci può giungere anche dallo studio
delle narrazioni di massa: imitiamo un percorso narrativo perché prima di imitarlo ci siamo
immedesimati nei personaggi e abbiamo sperimentato in maniera virtuale l’utilità di intraprendere
quel percorso. Attraverso l’immedesimazione, il testo narrativo ci consente una prefruizione dei
benefici che otterremo e dei costi che pagheremo per fare nostro un certo valore collettivamente
condiviso (la carriera, il denaro, l’abnegazione, l’amor di patria, ecc.). Immedesimandoci noi
proviamo il piacere della simulazione, del metterci in gioco senza pericolo. Ed è proprio con il
gioco che l’immedesimazione narrativa presenta le maggiori affinità: il gioco che, secondo
Simmel 13 , costituisce la possibilità di sperimentare un’attività potenzialmente rischiosa senza
doverne pagare le conseguenze. Il gioco come play, termine che include tanto il “mettersi in gioco”,
quanto l’”interpretare un ruolo”. L’unico prezzo di questa messa alla prova si paga sul piano
emozionale: l’immedesimazione scatta nel momento in cui ci riconosciamo nei personaggi, poiché
solo così noi proviamo le emozioni, i dolori o le paure che l’autore vuole trasmettere; egli non ci
trasferisce i suoi sentimenti, bensì ci aiuta a riprendere i nostri dentro di noi: il dolore che proviamo
di fronte alla narrazione di un evento drammatico non è il dolore dell’autore, bensì il ricordo di un
nostro dolore o l’immaginazione del dolore che noi proveremmo in quella situazione. Il
coinvolgimento emotivo è il riscontro della sperimentazione; per mezzo del dolore, della paura,
della passione, della tristezza o della gioia che l’individuo prova durante la fruizione di un prodotto
di narrazione di massa, la narrazione stessa dissuade o incita, stimola o placa, cioè invita
all’imitazione o mette in guardia da essa, fermo restando che anche l’astenersi dall’imitare è una
forma di imitazione (di un modello opposto).
Dunque la narrazione è un modello molto potente perché favorisce l’immedesimazione, perché è un
modello procedurale, perché è una sorta di “pacchetto” preconfezionato che contiene in sé un
obiettivo (l’oggetto di valore), la condotta da adottare per raggiungere o per non raggiungere
quell’obiettivo (il percorso narrativo) e la valutazione di tale condotta (in termini di sanzione o
gratificazione). La narrazione è un’unità discreta di quel continuum che è l’agire sociale.
Confrontiamo ora la definizione di “percorso narrativo” (v. 2.1 Generare valori) con la definizione
di “azione sociale”. L’azione sociale è una:
sequenza intenzionale di atti forniti di senso che un soggetto individuale o collettivo (spesso designato “attore”
o “agente”), compie scegliendo tra varie alternative possibili, sulla base di un progetto concepito in precedenza
ma che può evolversi nel corso dell’azione stessa, al fine di conseguire uno scopo, ovvero di trasformare uno
stato di cose esistente in un altro ad esso più gradito, in presenza di una determinata situazione – composta da
altri soggetti capaci di azioni e reazioni, da norme e valori, da mezzi e tecniche operative eventualmente
utilizzabili allo scopo, da oggetti fisici – della quale il soggetto teine coscientemente conto nella misura in cui
dispone a sua riguardo di informazioni e conoscenze. 14
13
14
G. Simmel, Forme e giochi di società. Problemi fondamentali della sociologia, Feltrinelli, Milano 1983 (ed. or. 1917)
L. Gallino, AZIONE SOCIALE, in Dizionario di Sociologia, Utet 1983, p. 69 (ed. or. 1978)
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Vi è dunque una sostanziale identità tra “percorso narrativo” (nella concezione di Greimas) e
l’”azione sociale”, con un'unica fondamentale differenza: il “percorso narrativo” si sviluppa nella
virtualità della finzione narrativa, mentre l’”azione sociale” si svolge nella realtà. Possiamo così
ribadire che una narrazione di massa non è una semplice rappresentazione di un aspetto della
società (un valore, un individuo, un gruppo, ecc.), ma è sempre la rappresentazione esemplare di
un’intera azione sociale, rappresentazione che, proprio perché massificata ed imitabile, funge da
codifica per le successive azioni sociali; in questo modo è come se la realtà si sublimasse nella
funzione per divenire norma di se stessa.
3. Narrazione ed educazione: un abbinamento facile, in apparenza.
Da quanto si è appena detto, la narrazione sembra possedere tutte le caratteristiche per configurarsi
come strumento educativo di massa; essa addita i valori a cui tendere, suggerisce i modelli da
imitare e, attraverso l’immedesimazione, indica la via per raggiungerli. D’altro canto non è certo un
caso se, in aggiunta ai miti di fondazione di cui abbiamo lungamente trattato, praticamente ogni
civiltà e ogni epoca ha elaborato ed esaltato alcune narrazioni con funzione prevalentemente
educativa. Non è un caso se nell’Italia post-risorgimentale una nascente educazione civica ante
litteram non è affidata ai saggi o ai manuali scolastici, bensì a Le avventure di Pinocchio di Collodi
e a Cuore di De Amicis.
Pur in assenza di una moderna e organica storia della letteratura educativa (di cui si sente il bisogno
tanto in ambito pedagogico, quanto in ambito sociologico) è facile notare come la tradizione da un
lato (dal mito alla fiaba, dal poema epico alla fiction televisiva) e la teoria dall’altro (in virtù di ciò
che abbiamo appena detto) rendano quasi naturale il connubio tra narrazione ed educazione. Ma
come sempre, la naturalità è pura apparenza e l’uso educativo del racconto porta con sé una
congerie di problemi, primo tra tutti quello del rapporto con l’ideologia.
Ogni azione educativa è ideologicamente determinata e questo indipendentemente dai mezzi
adottati per portarla a termine, ogni azione educativa è frutto di una “visione del mondo” presentata
come giusta, immutabile e vera (e quindi non conciliabile con visoni concorrenti). Al tempo stesso
però, attraverso il pensiero critico, il destinatario dell’azione educativa tenta incessantemente di
superare i confini ideologicamente determinati per accedere a valori diversi da quelli proposti,
valori non meno ideologizzati, ma pur sempre alternativi. Quello che qui vogliamo sostenere con
forza è che l’uso programmaticamente educativo di opere narrative appositamente concepite (com’è
appunto Cuore e come lo sono, a maggior ragione, molte delle fiction storiche e agiografiche degli
ultimi anni) riduce l’esercizio del pensiero critico nei confronti dell’ideologia dominante dalla quale
tali opere sono nate.
Questo indebolimento delle facoltà critiche del soggetto educando passa attraverso due fasi
alternative o complementari tra loro:
• prima fase: superamento della questione del “vero”, attraverso la categoria del verosimile;
• seconda fase: ridefinizione dei valori socialmente condivisi attraverso l’immedesimazione.
3.1 Il vero e il verosimile
Il problema della pericolosa commistione tra vero e verosimile non è nuovo e, per ricordare quanto
esso sia antico (ma pure sempre attuale), partiamo da Alessandro Manzoni e dal suo Del romanzo
storico e, in genere, de i componimenti misti di storia e d'invenzione.
Alcuni dunque si lamentano che, in questo o in quel romanzo storico, in questa o in quella parte d'un romanzo
storico, il vero positivo non sia ben distinto dalle cose inventate, e che venga, per conseguenza, a mancare uno
degli effetti principalissimi d'un tal componimento, come è quello di dare una rappresentazione vera della
storia.
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[…], quando mai il confondere è stato un mezzo di far conoscere? Conoscere è credere; e per poter credere,
quando ciò che mi viene rappresentato so che non è tutto ugualmente vero, bisogna appunto ch'io possa
distinguere. E che? volete farmi conoscere delle realtà, e non mi date il mezzo di riconoscerle per realtà?
«Conoscere è credere» è questo il punto nodale. Nell’atto di educare c’è tanto la trasmissione di una
conoscenza, quanto il convincimento a credere; del pari, nell’accettare un intervento educativo noi
assumiamo come vero un certo quantitativo di sapere sulla base del quale elaboriamo il nostro
credere. Ad esempio, nel XXI secolo, un’educazione alla tolleranza e all’antirazzismo (almeno fino
a quando questi continueranno ad essere valori) non può prescindere dalla conoscenza di ciò che
l’odio razziale ha prodotto nel secolo precedente; per questo motivo, una narrazione educativa che
affronti il tema dei campi di sterminio, non può prescindere dal fatto che l’esistenza di tali campi
conserva uno statuto di verità. Volendo fornire un esempio di segno opposto, potremo dire che,
durante il fascismo, i corsi di cultura politico razziale tenuti dal maggiore Sergio D'Alba alla Scuola
Militare di Fontanellato (anch’essa, a suo modo, un’istituzione educativa) si basavano sul dato
“scientifico”, “vero” e “incontrovertibile” della superiorità biologica della razza ariana: educazione,
ideologia, costruzione della verità, impossibile scindere i tre elementi. E se la verità è sfuggente in
qualsiasi rappresentazione del sapere umano, figuriamoci quanto può esserlo nell’ambito della
narrazione o della fiction televisiva, dove fiction storica (e dunque vera) costituisce un autentico
ossimoro.
Il problema del vero, che Manzoni si pone in termini etici, è del tutto irrilevante in termini
puramente letterari e Nabokov giungerà ad affermare che: la letteratura è invenzione. La finzione è
finzione. Definire una storia ”vera” è un insulto all’arte e alla verità. 15 Non solo narrare non
significa necessariamente dire la verità, ma spesso significa l’esatto contrario.
Ma se narrazione e verità non sono indissolubilmente legate tra loro, mentre educazione e verità lo
sono, come potremo legare narrazione ed educazione? La risposta è ovvia, ma spesso anche l’ovvio
merita di essere ricordato: ogni qual volta noi intendiamo utilizzare un’opera di fiction ai fini
educativi, dobbiamo controllare, nei limiti del possibile e nei limiti dell’accessibilità stessa al
concetto di vero, che quella singola opera abbia fatto della verità un proprio obiettivo, dobbiamo
cioè assicurarci che, attraverso il grimaldello del verosimile, l’invenzione, specie se
ideologicamente orientata, non abbia fatto irruzione nel campo della realtà rappresentata.
3.2 Immedesimazione e ridefinizione dei valori
A questo punto dobbiamo chiederci: è sufficiente il rispetto della realtà di sfondo per tutelarci dalle
distorsioni della narrazione in ambito educativo? Evidentemente no. Ricordandoci di come la
narrazione sia capace di costruire valori (par. 2.2) e di relativizzarli rispetto al proprio mondo
possibile, rispetto al proprio interno sistema di personaggi, noi ci rendiamo conto che non basta
collocare i fatti narrati in un solido e veritiero quadro di riferimento. Quello che conta non è solo la
realtà raccontata, ma anche lo sguardo che gettiamo sopra quella realtà, il punto di vista che
assumiamo per raccontarla. Abbiamo detto che ogni storia è una lotta tra il “Bene” e il “Male”,
tenendo presente che questi due concetti, all’interno del racconto, non assumono lo stesso
significato che essi hanno nella società civile, bensì vengono ridefiniti sulla base del programma
narrativo dell’eroe. Dunque, a seconda di quale eroe si sceglie, si avrà una trasformazione dei valori
e l’immedesimazione del destinatario comporterà un’adesione emotiva e irrazionale di quest’ultimo
alle scelte dell’eroe stesso. Entro certi limiti (che però sono piuttosto ampi), l’ansia per il
compimento del programma narrativo dell’eroe ci farà parteggiare per lui e ci farà dimenticare,
all’occorrenza, il contesto reale in cui si colloca: un gerarca nazista che pianga per il proprio cane
investito da un’auto e che tenti di salvarlo si presenterà ai nostri occhi spogliato da quella crosta di
orrore che ricopre il suo ruolo nella Storia; nella sua piccola storia personale ci apparirà
semplicemente come un uomo e da quel momento in poi sarà facile creare un cortocircuito tra
15
V. Nabokov, Lezioni di letteratura russa, Garzanti, Milano 1982, p. 35.
11
“Bene” individuale e “Male” sociale, sarà facile spostare l’attenzione dalla “realtà storica” alla
“finzione privata”.
La grande debolezza del romanzo storico, della fiction storica e, più in generale, di ogni narrazione
utilizzata a fini educativi, non si sostanzia solo nella commistione tra vero e verosimile, ma
nell’introduzione inevitabile di un elemento “privato” sullo sfondo di una “realtà pubblica”. Le
vicende dei protagonisti di un racconto, di un romanzo o di un film, sono sempre “private” e sono
sempre le vicende “private” a creare il vero interesse: malgrado l’affascinante sfondo storico, non è
una storia delle campagne napoleoniche, né Napoleone stesso che il lettore cerca in Guerra e pace;
egli cerca i Rostov e i Bolkonskjj. Il giudizio che il destinatario esprime sul mondo narrato risente
quasi sempre della sua partecipazione alle vicende umane dei protagonisti, risente del fatto che,
attraverso il racconto, una vicenda singola e privata, diventa paradigmatica; essa cessa di essere una
storia nella Storia, ma diventa la Storia stessa.
Anche in questo caso, l’antidoto (di efficacia pur sempre limitata) contro i veleni della distorsione
ideologica, consiste in un’attenta analisi dei processi che presiedono alla produzione del testo
narrativo che si vuole utilizzare (e si veda a questo proposito il saggio di Enrica Bricchetto in questo
stesso volume) e in un’altrettanto attenta analisi testuale volta a svelare eventuali trabocchetti. Ecco
un esempio di come lo studio dei registri linguistici impiegati nella narrazione porti alla luce una
precisa impostazione revisionistica. La fiction da cui il dialogo è tratto si intitola La guerra è finita
e narra la storia di tre giovani, due ragazzi e una ragazza, le cui strade, dopo un primo momento di
comune entusiasmo per il fascismo, si dividono: Claudio sceglierà la Repubblica di Salò, al
contrario Ettore e Giulia si uniranno alla Resistenza; alla fine della guerra, tra i tre avverrà un
drammatico confronto di cui riportiamo alcune battute.
Ettore: «Tu sei ancora in cerca di rivalsa di vendette, non ti accorgi che fai del male a te e a quelli che ti stanno
intorno.»
Claudio: «Non è vero, io non ho mai tradito le persone che amo. Posso aver sbagliato, anzi sicuramente ho
sbagliato, ma tradito mai. Voi invece…»
Ettore: «Invece cosa. Noi abbiamo soltanto capito in tempo in quale baratro ci stava portando una guerra
assurda.
Claudio: «Troppo facile. Prima tutti fascisti, poi tutti a rinnegare la parola data. Io non ce l’ho fatta.»
Ettore: «L’onore non può bastare a giustificare che ti sei schierato dalla parte sbagliata.»
Claudio: «E chi t’ha detto che era quella sbagliata?»
Giulia: «Lo dice la storia».
Claudio: «La storia la scrivono i vincitori.»
Ettore: «No, ti sbagli Claudio, perché se avesse vinto la tua parte avrebbe vinto un’orrenda ideologia di odio
razziale, di barbarie.»
Giulia: «Schierarsi contro il nazismo e il fascismo era un dovere morale.»
Claudio: «Ma voi che ne sapete di quello che ho passato, dei dubbi delle incertezze, avevamo perso tutto e ci
voleva un gesto di coraggio, un gesto che facesse capire a tutti che non eravamo solo dei vigliacchi.»
Ettore: «E le stragi, le rappresaglie, le deportazioni in Germania. Claudio, i nazisti ci hanno costretto a vivere
nel terrore. Le urla dei torturati di via Tasso si sentivano fino a San Giovanni, Claudio. Mi dispiace, non è a noi
che devi chiedere conto dei tuoi errori, ma al tuo duce.»
Claudio: «Era anche il tuo.»
Ettore: «Sì, ma dov’era quando i tedeschi ci usavano solo come carne da cannone per coprirsi la ritirata.
Dov’era? Ecco, era allora che bisognava dire basta. Noi l’abbiamo fatto, tu no.»
Claudio: «E che cosa avrei dovuto fare, passare dalla parte del più forte come avete fatto voi? No, non è roba
per me, io sono uno che va fino in fondo. Noi non siamo diversi, rassegnatevi. Siamo fatti della stessa pasta.
Siamo uno il doppio dell’altro. Due facce della stessa medaglia. Tre assurdità.»
Stando alle dichiarazioni dei produttori e ad alcuni studiosi, La guerra è finita, «Raccontando la
storia di tre bravi ragazzi che fanno scelte politiche diverse, […] rinuncia a una divisione manichea
del bene e del male tra partigiani e fascisti, e si attrezza di un punto di vista innovativo, poco
convenzionale e poco autocelebrativo, dal quale interpretare il periodo della Resistenza. La minise-
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rie mette, in evidenza come le scelte individuali - dettate non solo dalle convinzioni politiche, ma
anche dalla contingenza e dalla propria predisposizione caratteriale - finiscano per fare la Storia.» 16
Dobbiamo però constatare che nel dialogo appena presentato (che per la sua posizione finale
assume un ruolo ben più significativo di quello di altri passaggi), la “divisione manichea”,
apparentemente assente a livello di contenuto (lo scambio di battute tra i personaggi vorrebbe infatti
proporsi come un confronto tra le ragioni degli uni e degli altri), è riproposta a livello di registro
linguistico. Mentre infatti Claudio, l’ex-repubblichino, il “vinto”, utilizza un linguaggio diretto, una
sorta di “voce dell’anima”, Ettore e Giulia, paladini dei “vincitori”, si esprimono attraverso frasi
fatte, attraverso sintagmi codificati dalla propaganda (“carne da cannone”, “orrenda ideologia di
odio razziale, di barbarie”, “dovere morale”). Alla schiettezza del vinto fascista, alle sue battute
colloquiali, gli antifascisti vincitori oppongono risposte preconfezionate, artificiose, retoriche. Se
dunque, a livello razionale, lo spettatore può sospendere il giudizio e ammettere che vi fu forza e
debolezza da entrambe le parti (ma non è già questo un passo nel terreno sdrucciolevole del
revisionismo?), a livello irrazionale, a livello affettivo, la sua simpatia non potrà non essere attratta
da quell’uomo diretto e franco che, malgrado la sconfitta, tiene alta la bandiera dell’onore.
16
M. Renzini, in M. Buonanno, a cura di, Storie e memorie. La fiction italiana. L’Italia nella fiction. Anno
quattordicesimo, Eri, Roma 2003, p. 73.
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