Giuseppe Osella - Istituto per la storia della Resistenza

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Giuseppe Osella - Istituto per la storia della Resistenza
Giuseppe Osella
Giuseppe Osella non era uno squadrista del ’22. Aveva però brigato per avere quel riconoscimento anche
perché gli era comodo per la sua posizione di amministratore della Samit (Società anonima manifattura
italiana tappeti), una fabbrica che era di proprietà dei Magnoni-Tedeschi e dei Peretti. E quella patente gli
serviva per farsi amicizie altolocate nell’ambito del Fascio e per poter avere forniture. L’Osella aveva
insomma l’ambizione di essere “qualcuno”; e i segretari del Fascio della regione si può dire li conoscesse
tutti. Siccome era un uomo d’ingegno e che ci sapeva fare, dal momento che gli piaceva emergere in tutto
ciò che poteva - non solo quindi come industriale, ma anche per meriti fascisti - aveva finito con il
diventare, nel 1942, podestà di Varallo. Pur essendo il tipo di industriale che iscriveva al Pnf dal primo
all’ultimo i suoi operai per fare bella figura alla sede del Fascio di Vercelli, quello che insomma faceva
trovare la tessera d’autorità nella busta paga - magari già pagata da lui -, tuttavia non era di quelli che perseguitavano e si faceva fare i materassi dall’Antonio Canna, un socialista che era sempre il primo ad andarci
di mezzo e che tanti altri non volevano o non osavano “dargli da mangiare”. E qualche volta la sua
ambizione la usava anche in favore di chi si trovava nelle grane col Fascio, un’occasione come un’altra per
convincere sé e gli altri che “contava”1.
Nel marzo del 1937 era successo che avevano scritto nel cesso della Cartiera di Serravalle “morte al duce”:
era l’occasione che la Questura aspettava per poter rimettere dentro Cino Moscatelli, che a quell’epoca
aveva già fatto i suoi cinque e passa anni di galera e aveva trovato da occuparsi proprio lì in cartiera.
Che si trattasse di un mero pretesto lo dimostravano le circostanze: le scritte erano state fatte nel
gabinetto della “fabbrica inferiore” - perché la Cartiera di Serravalle è praticamente formata da due
fabbriche separate tra loro da una strada - e Cino, che lavorava invece in quella “superiore”, per potersi
recare là avrebbe avuto bisogno di richiedere un permesso, perché era proibito spostarsi senza
autorizzazione da una fabbrica all’altra. Tuttavia l’8 marzo era finito lo stesso alle carceri giudiziarie di
Vercelli, seguito poi dal Giuseppe Genova che - quando era uscito - si era dato da fare immediatamente in
favore di Cino per una sottoscrizione in denaro, che aveva poi portato e depositato di persona alla prigione,
neanche otto giorni che era stato scarcerato.
La Maria, che era fidanzata con Moscatelli e anzi stavano ormai per sposarsi, era allora impiegata proprio
alla Samit e lavorava in campionario. Appena l’Osella venne a sapere la faccenda andò da lei e si fece
raccontare cos’era successo. Maria gli chiese aiuto e allora Osella andò a Vercelli a informarsi di come si
mettevano le cose. E siccome litigavano tra Questura e Prefettura e quindi la faccenda, prospettandosi
difficile, solleticava anche un po’ la sua “volontà di potenza”, se la prese proprio a cuore. Amico del prefetto
Baratelli, Osella non aveva tuttavia appoggi in Questura; ma seguiva da vicino lo svolgersi degli avvenimenti
tramite un cancelliere amante di una vedova di Aranco, la quale teneva puntualmente informati di tutto sia
lui che la Maria. E spalleggiò Moscatelli al punto che, quando il giudice di sorveglianza dovette - per
imposizione della Questura - appioppargli un anno di casa di lavoro, il cancelliere - d’accordo del resto con
lo stesso giudice - fece sapere a Moscatelli di far ricorso entro i tre giorni regolamentari. Poi, siccome Cino
era scettico: «Se le dico questo è perché c’è una ragione»; e infatti il ricorso fu accolto. Ma il questore, in
presenza di Moscatelli e del giudice di sorveglianza, che era arrivato col documento di assoluzione della
Corte d’appello di Torino, minacciò: «Lo so, lo so, volete metterlo fuori. Ma io ho il Codice di pubblica sicurezza dalla mia. Lo rimetteremo dentro per quaranta giorni e quando saranno scaduti ricominceremo di
nuovo».
La lotta era ormai ai ferri corti e schierato con Cino, oltre l’Osella, c’erano il maresciallo dei carabinieri, il
giudice di sorveglianza, il cancelliere, il direttore della Cartiera (l’ingegner Rossi) e il capofficina Limido, che
erano anche andati a testimoniare in suo favore. Poiché la difesa si era basata sul fatto che lui lavorava, non
1
Archivio privato Cesare Bermani (d’ora in poi AB), Testimonianza orale di Vincenzo Moscatelli, Borgosesia, 2 ottobre
1967, nastro 172; e si vedano anche: AB, Testimonianza orale di Ezio Grassi, Novara, 29 settembre 1968, nastro 189; e
AB, Testimonianza orale di Ferdinando Zampieri “Angin”, Novara, 29 settembre 1968, nastro 189.
Secondo ENZO BARBANO, Storia della Valsesia. Età contemporanea: 1861-1943, a cura della Società valsesiana di cultura,
Novara, Tipografia Stella Alpina, 1967, p. 632, Osella sarebbe invece diventato podestà soltanto nel 1943.
aveva dato motivo a lamentele, si “comportava bene”, Moscatelli aveva finito per trovarsi in un bel
pasticcio. Se avesse riconfermato la sua appartenenza al Partito comunista avrebbe messo nei guai tutti
quelli che lo avevano aiutato, Osella compreso. Tanto più che il segretario del Pnf di Borgosesia, Alaix peraltro un chimico dipendente proprio dall’Osella -, senza dirlo al principale aveva inviato una lettera al
Fascio di Vercelli, ove si segnalava che evidentemente Moscatelli sapeva tutto quello che avveniva e che
doveva esserci una spia, perché di una sua lettera in cui si accusava Cino era a conoscenza la Maria.
Invitato da Osella e da altri a scrivere una lettera per chiedere indulgenza al prefetto, Cino dapprima aveva
detto: «Mi mettete in una condizione che preferisco stare dentro»; poi siccome Osella e gli altri - Maria
compresa - gli avevano fatto presente che “Parigi valeva una messa”, gli dicevano: «Tu te ne freghi e firmi»
e, in un certo senso, giocavano anche sui suoi scrupoli dicendo: «Noi ti abbiamo aiutato e difeso, e adesso ci
fai andare di mezzo». Cino aveva finito per scrivere sotto dettatura degli “amici” una lettera con le solite
cose che venivano chieste si scrivessero per mettere fuori i “sovversivi”: «[...] ripudio quel complesso di
concezioni marxiste che la realtà fascista ha completamente vuotate del loro contenuto pseudo storicoscientifico di cui erano gonfie, dimostrandomi che il sistema corporativo sa effettivamente dare, coi fatti,
ciò che altrove rimane e rimarrà eterna promessa».
Così l’8 luglio se la cavò con una diffida - evitando l’invio al confino - e poté tornare in libertà. Ma dagli
amici (e dalle fidanzate) ci guardi Iddio... il Pci, che non poteva accettare lettere di quel genere, perché
doveva tenere un’omogeneità di comportamento tra i detenuti politici, lo espulse e isolò. Aveva certo le
sue buone ragioni il Pci. Ma delle buone ragioni ce le aveva anche la Maria di volere Cino libero. E Cino anche se non l’avrebbe mai ammesso e si era quindi assunto tutta la responsabilità della scelta fatta - in
quell’occasione si era lasciato convincere anzitutto dalla Maria. A volte però si mordeva le mani. Perché,
oltretutto, era ritornato in cartiera a prendere dalle 150 alle 180 lire alla quindicina, un salario da vita
durissima insomma. E la sua era inoltre una libertà vigilata neanche poi tanto da rimpiangere, se avesse
deciso di non fare quella lettera2.
Quando “era scoppiato” il 25 luglio Cino e Osella si conoscevano quindi bene e, mentre altri capoccioni del
Fascio in quei giorni erano finiti con una paura matta a casa di Cino a chiedere la protezione dell’antifascista
più influente della zona, Osella aveva finito per arrivarci anche lui, ma per dire: «Stiamo attenti a non far
succedere qualcosa. Il fascismo è caduto e per la verità nessuno lo vuole resuscitare. Però cerchiamo di
evitare disordini». E questo suo atteggiamento aveva favorito l’accordo tra Moscatelli e il maresciallo dei
carabinieri perché non avvenissero cose incresciose e fossero nel contempo subito riconosciuti quei diritti
che si affacciavano da questo crollo: commissioni interne, elezioni democratiche, scarcerazione immediata
dei prigionieri politici. Si può dire, in certo senso, che già allora egli - al pari di molti altri - riconoscesse in
Moscatelli l’autorità politica e morale della zona, il “capopopolo” e, certo, approvava questi provvedimenti.
Tant’è vero che in quei giorni si era consigliato con Cino sull’opportunità o meno di rimettere i suoi poteri di
podestà. E Cino, che ufficialmente non rappresentava un bel niente, ma che si avviava a divenire il capo
riconosciuto dell’antifascismo valsesiano e che aveva ormai i “contatti”, gli aveva consigliato: «Lei rimanga
pure podestà, ma si consideri già come un sindaco democratico»; questo anche perché l’Osella era, per la
verità, stimato da tutti. E c’erano parecchi che lo chiamavano «il papà della Valsesia», malgrado la sua
ancor giovane età (era nato nel 1905). Del resto pure il Bader, un altro industriale di Borgosesia, sollecitato
dalla Prefettura di Vercelli per fare il commissario prefettizio della città, aveva chiesto a Moscatelli cosa
dovesse fare. E Moscatelli gli aveva detto di accettare, ma di favorire poi le direttive politiche che si erano
pattuite. Così, tra l’altro, si erano potute fare parecchie manifestazioni e un grande sciopero per la pace
immediata3.
2
AB, Testimonianza orale di Vincenzo Moscatelli, 2 ottobre 1967, nastro 172, cit.; ibidem, 9 ottobre 1967, nastro 173,
cit.; e ibidem, 12 febbraio 1971, appunti.
Nella prima edizione di questo volume non ho raccontato della “domanda d’indulgenza” inoltrata da Moscatelli al
prefetto di Vercelli l’8 luglio 1937. Per le ragioni di questo mio silenzio di allora e per ulteriori notizie sulla vicenda
rimando alla Prefazione che precede il secondo volume, pp. XXX-XXXIII.
o
a
Per l’episodio riguardante Giuseppe Genova si veda ISRVC, 1 battaglione “Fusaro”, Alla 118 brigata “Remo Servadei”,
oggetto: Biografia del commissario politico G. Genova, 19 gennaio 1945.
3
AB, Testimonianza orale di Vincenzo Moscatelli, 2 ottobre 1967, nastro 172, cit.; che Osella venisse chiamato il «papà
della Valsesia» è detto in AB, Testimonianza orale di Ida Leone, Borgosesia, 1967, appunti.
Infatti il 26 luglio - come ha potuto ricostruire Piero Ambrosio - «“sin dalle prime ore del mattino”
Borgosesia si animò. “Allo stupore iniziale seguì subito una gioia e un entusiasmo incontenibili da parte
della popolazione”. Un gruppo di antifascisti, tra cui Cino Moscatelli, Antonio Canna, Giuseppe (Pino) e Luigi
Bussa occuparono la sede del Fascio, esaminando e sequestrando parecchi documenti, tra cui liste di
delatori. Vennero ricuperate bandiere di partiti antifascisti e di organizzazioni democratiche, di cui si erano
impossessati i fascisti vent’anni prima, tra cui la bandiera della sezione socialista di Aranco. Moscatelli, Pino
Bussa e Gino Rigobello strapparono i fogli a disposizione del Partito nazionale fascista e divelsero la
bacheca posta di fronte al caffè Bretagna. Altri antifascisti iniziarono a distruggere i simboli del regime, a
partire dalla Casa del fascio e dal palazzo comunale; busti del duce, rimossi dalle loro sedi, vennero
trascinati nelle vie del paese. Gruppi di antifascisti continuarono in quella “prima giornata di libertà” a
manifestare la loro gioia, anche se nessuno prese “iniziative che dessero forma organizzata all’entusiasmo
popolare”.
Verso le 18 Moscatelli tornò “con un trasporto di fortuna proveniente da Milano” dove si era recato “nella
stessa mattinata” e si vide “subito circondato da gran numero di gente esultante la quale voleva così
dimostrare la propria simpatia verso uno dei più noti antifascisti della vallata”. Moscatelli raccontò “subito
delle grandi manifestazioni di Milano dove, in piazza del Duomo, avevano parlato Roveda e Venturini, di
Novara, la cui popolazione era stata arringata dal giovane studente Gaspare Pajetta e che dovunque operai
e popolazione avevano fatto piazza pulita dei gerarchi del Fascio”. “Con qualche piccola bandiera tricolore
trovata in un negozio di mobili” si iniziò un corteo per le vie del centro, concluso con un comizio in cui
Moscatelli parlò “brevemente ricordando la lotta popolare, per abbattere il fascismo, con alla testa la classe
operaia e il suo partito di avanguardia” e invitò “la popolazione tutta a solidarizzare con gli operai che il
giorno appresso avrebbero scioperato dalle 10 alle 12 per ottenere: aumento immediato dei salari,
commissioni interne nelle fabbriche, liberazione immediata dei carcerati e confinati politici, pace
immediata, libertà di parola e di organizzazione, amministrazione comunale democratica”.
L’indomani “lo sciopero riuscì completo” e “tutta la popolazione borgosesiana si ritrovò unita in una grande
manifestazione nella piazza Frascotti”. “Alla manifestazione parteciparono anche i soldati della contraerea”.
Ai piedi del monumento ai Caduti, Moscatelli parlò “alla popolazione che gremiva la piazza”. Disse che “i
fiori deposti [...] erano un omaggio dei lavoratori di Borgosesia ai Caduti, vittime della guerra ’15-’18 e poi
delle avventure imperialistiche del fascismo” e che rappresentavano “l’espressione della volontà popolare”.
Il corteo, il primo organizzato liberamente dai lavoratori dopo più di vent’anni, si snodò quindi lungo le vie
di Borgosesia, raggiungendo Aranco, dove pure vennero deposti i fiori al monumento ai Caduti e dove parlò
il calzolaio Pietro Cocco. Ad Aranco il corteo si sciolse»4.
Nei giorni del luglio ’43 grandi manifestazioni erano avvenute anche in altri importanti centri della Valsesia
e, per esempio, alle 21 del 27 luglio un gruppo di cittadini era penetrato «nella casa del fascio di Quarona
distruggendo tutte le carte e i registri ivi esistenti. Arma prontamente intervenuta, impedì che venissero
danneggiati i mobili e gli immobili. Pure negli altri comuni della giurisdizione durante detta giornata vi fu
qualche scambio di schiaffi tra fascisti e antifascisti, ma senza gravi conseguenze. Tutte le maestranze
lavorano in pieno e non si prevedono disordini e turbamento ordine pubblico»5.
4
PIERO AMBROSIO, “Pace con giustizia”. Luglio 1943. Le manifestazioni di Borgosesia dopo la caduta del fascismo, in
“l’impegno”, a. III, n. 2, giugno 1983, pp. 2-5. Ambrosio ha utilizzato per questa ricostruzione le testimonianze orali di
Marcello Longhi, Gino Rigobello e Carlo Cocco, Borgosesia, aprile 1983, da lui registrate assieme a Luciano Brigliano.
Le citazioni che fa sono tratte da CINO MOSCATELLI, Il 25 luglio in Valsesia, breve capitolo di un dattiloscritto inedito, non
datato, ma risalente alla seconda metà del 1945, che ha complessive 66 pagine ed è conservato in ISRVC, busta 41, fasc.
1; tranne la seconda, la sesta e la nona che sono tratte da [C. MOSCATELLI], Quello che ricordo io... (foglietti di un
calendario: settembre 8, 1943), in “La Squilla Alpina”, Novara, a. III, n. 7, 17 febbraio 1946, a proposito del quale si
vedano le considerazioni fatte dallo stesso Moscatelli, riportate alla nota 9 di questo capitolo.
Per la ricostruzione del corteo e del comizio Ambrosio ha inoltre tenuto conto delle venti fotografie conservate da
Cino Moscatelli, ora nel fondo che porta il suo nome nell’archivio dell’Isrvc. Esse vennero scattate da Silvio Loss ed
esposte per qualche tempo nella bacheca a fianco del suo negozio, in via XX settembre.
5
Cfr. ISRVC, Tenenza di Varallo Sesia, Fonogramma a mano al Ministero dell’Interno, al Comando generale dell’Arma
dei Cc. Rr., alla Prefettura di Vercelli, firmato il tenente comandante Luigi Drappero, 29 luglio 1943; conservato in
copia. Citato in P. AMBROSIO, art. cit, p. 5.
Con riferimento al giorno precedente, il Genova scriveva a proposito di Serravalle: «Organizzai corteo locale
in giubilio per la caduta del Duce distribuendo apertamente al pubblico manifestini di propaganda del
Partito e di liberazione, non curandomi del bando emanato del nuovo capo del Governo Badoglio che
proibiva sotto pena di morte la distribuzione o l’affissione dei manifestini di qualsiasi specie»6.
Per tutto agosto la propaganda era continuata e il Genova era stato «arrestato tre volte senza prima
stesomi rapporto sotto la minaccia per non aver ceduto nel palesare la provenienza del materiale e la
conoscenza dei miei collaboratori»7.
Poi, sul finire di agosto, corri di qua e di là, Moscatelli era un po’ stanco e aveva deciso di andarsene al Livrio a sciare i suoi otto giorni, come faceva tutti gli anni; così aveva visto i tedeschi che entravano dal passo
dello Stelvio. Ritornando era stato sorpreso a Milano, in piena notte, dai bombardamenti. L’avevano preso
per un paracadutista, vestito da sciatore com’era. E lì, vicino ai gasogeni, a discutere con quelli della
contraerea della Bovisa, avrebbe potuto anche finir male quella sera8. Poi era venuto 1’8 settembre: «In
Piazza Frascotti (oggi Piazza dei Martiri), ai piedi del monumento ai Caduti rivolsi alcune parole alla
popolazione invitandola a partecipare in massa al corteo del giorno 9 successivo fissato per le ore 10.
All’indomani giorno 9, all’ora prestabilita iniziammo il corteo partendo dalla Manifattura Lane di Borgosesia
ed al quale si associarono tutti i lavoratori di tutte le fabbriche di Borgosesia e Aranco. [...] Dal monumento
ai Caduti dell’altra guerra parlai alla popolazione che gremiva la piazza. Improvvisai un breve discorso [...]:
dissi che [...] la capitolazione segnava la sconfitta del fascismo e la vittoria delle nazioni democratiche e del
popolo italiano che, seguendo l’esempio degli operai torinesi iniziatori dello sciopero generale del marzo
1943, aveva contribuito alle vittorie alleate. Per questo dissi che non era giorno di lutto per la nazione,
bensì giorno di festa; perché era la vittoria del popolo oppresso da vent’anni di fascismo. Feci presente la
gravità della situazione: la devastazione prodotta in Italia da vent’anni di malgoverno fascista e da tre anni
di guerra disastrosa, nonché dalla minaccia incombente dell’invasione tedesca. Terminai il mio discorso
invitando gli operai che alle 10 del mattino avevano lasciato le fabbriche per manifestare, a riprendere
subito il lavoro per sanare le ferite prodotte dalla guerra e a mobilitarsi per opporre resistenza all’invasione
tedesca. Nulla si sapeva ancora dei tradimenti dei generali fascisti. Nel pomeriggio mi recai a colloquio da
Osella [...] per concordare le misure da prendersi. Era logico allora pensare che l’armistizio fosse stato
intelligentemente preparato, e per questo concordammo di mobilitare le masse in appoggio all’azione che
noi pensavamo sarebbe stata condotta dall’esercito, per garantire l’indipendenza del nostro Paese,
bloccando le truppe tedesche dislocate. L’esercito si sfascia. Non fu che all’indomani che noi avemmo le
prime notizie del disastro [...]. Ancora dopo due giorni dall’armistizio nessun cenno che indicasse il potere e
la forza del Governo Badoglio. La confusione generale era già allora molto significativa. Pensai che
solamente la mobilitazione generale di tutto il popolo poteva ancora salvare la situazione. Pensando [...]
che questa sarebbe stata la direttiva spontanea delle grandi città e dei villaggi, senza attendere conferma di
ciò preparai un manifesto in quel senso, invitando i volontari ad arruolarsi e i lavoratori a fare lo sciopero
generale insurrezionale. Col testo del manifesto pronto ritornai da Osella il quale a sua volta mi rese noti
alcuni particolari dello sfacelo ormai dilagante. Era mia opinione insistere sulla direttiva già concordata, e
cioè la mobilitazione generale e l’insurrezione. Osella invece, ritenendo che lo sfacelo dell’esercito e quindi
l’inesistenza di una resistenza armata organizzata comprometteva in parte l’esito dell’insurrezione, ritenne
di dover rinunciare a tale soluzione. Altri appoggi, che prima mi erano stati assicurati, pure defezionarono,
ritenendo ormai disperata la partita»9.
6
o
a
ISRVC, 1 battaglione “Fusaro”, Alla 118 brigata “Remo Servadei”, oggetto: Biografia del commissario politico G. Genova, 19 gennaio 1945.
7
Ibidem.
8
AB, Testimonianza orale di Vincenzo Moscatelli, 2 ottobre 1967, nastro 172, cit.
9
[C. MOSCATELLI], Quello che ricordo io..., art. cit.
A proposito di questo articolo si veda AB, Testimonianza orale di Vincenzo Moscatelli, 25 luglio 1971, nastro 292, ove è
detto: «Raccontando le cose di allora ho confuso il 25 luglio con l’8 settembre. “Alle ore 17.30 [...] captai la notizia
trasmessa da una radio alleata in lingua francese che Badoglio aveva firmato l’armistizio. Diffusi subito in paese tale
notizia e debbo dire che molte persone non mi credettero. Comunque essa circolò subito anche perché era pure stata
ascoltata da qualcun altro e subito dopo molta gente affollava le vie e la piazza di Borgosesia. Fu alle ore 20, credo,
che Badoglio confermò col noto comunicato che terminava con le parole ‘la guerra continua’. Allo stupore iniziale
seguì subito una gioia e un entusiasmo incontenibili da parte della popolazione. Con qualche piccola bandiera tricolore
E certo Cino aveva quel giorno una visione piuttosto sbrigativa del da farsi: «L’esercito è quello che è, e se
non c’è l’insurrezione popolare credo che i tedeschi la faranno da padroni». Moscatelli pensava che quello
fosse un classico momento idoneo alla trasformazione di una guerra imperialista in guerra rivoluzionaria:
l’insurrezione popolare avrebbe fatto dell’esercito la sua spina dorsale, come nel ’17 era accaduto in Russia
che un esercito di disertori si trasformasse in un esercito capace di sconfiggere l’invasore. Osella, più
realista e più conservatore per temperamento oltre che per idee, era invece rimasto perplesso e si era
trincerato dietro ai «pensiamoci su, vediamo come si mettono le cose altrove»10. E in realtà «i primi afflussi
di sbandati, la confusione, le voci più catastrofiche avevano ormai fatto presa sulle masse e il panico
corrodeva fortemente, ormai, lo spirito combattivo popolare. In effetti le notizie che mi giungevano di ora
in ora da Milano e da Torino e dalle altre città d’Italia confermavano sempre più che la situazione era ormai
disperata e compromessa. Compresi che la direttiva doveva cambiare. Ritornai da Osella e concordammo di
provvedere subito per gli sbandati e per l’espatrio dei prigionieri alleati. Nel contempo raccogliere quelle
poche forze rimaste e, ricuperate le armi e munizioni, viveri e materiali, organizzare la Resistenza»11.
L’11 settembre Cino si recò a Biella e a Ivrea con la speranza di recuperare il materiale nelle caserme.
L’esito fu del tutto negativo e incontrò «sulla Serra, formicolante di soldati fuggiaschi vestiti nel modo più
ridicolo e pietoso, nel vano tentativo di nascondere la loro provenienza, due camion di alpini comandati
dall’Aiut. di Battaglione Chiara Giacomo (Jocu) [...]. Provenivano da Chambery, da dove erano fuggiti per
sottrarsi alla cattura da parte dei tedeschi. Siccome circolavano voci secondo le quali i tedeschi erano giunti
nel frattempo a Biella e Borgosesia, feci loro da staffetta con la moto per prevenirli da brutti incontri. Erano
tutti disarmati, avevano buttato via le armi e le munizioni per paura che se i tedeschi li avessero incontrati
con le armi li avrebbero fucilati. A Borgosesia gli alpini, una sessantina in tutto, dopo avere indossati abiti
borghesi, se la squagliarono verso le loro case. A nulla valsero le mie parole per incoraggiarli alla resistenza
riorganizzandosi sui monti. La risposta unanime era la seguente: “Sono cinque anni che portiamo questa
divisa e ne abbiamo abbastanza. Prova tu a portarla per cinque anni e vedrai se hai ancora voglia di
combattere”»12. E di fronte a un argomento così persuasivo Cino, se fece presente che lui aveva «portato
per sei anni ben altra uniforme, molto più pesante del grigioverde, ma che cionondimeno ero ancora
pronto a lottare in difesa della libertà e dell’indipendenza della Patria»13, tuttavia prese coscienza che le sue
speranze potevano ormai considerarsi svanite, che l’esercito in quel momento di caos e in quelle condizioni
trovata in un negozio di mobili di Borgosesia iniziammo in pochi un corteo per le vie del paese a cui subito si unì la
popolazione”: io racconto qui del 25 luglio, mettendo la data dell’8 settembre. “In pochi”, perché appunto è il 25
luglio. All’8 settembre avevo già la massa con me. Tant’è che subito sono riuscito a organizzare. All’8 settembre ero già
lanciatissimo in queste cose. Parlando poi della manifestazione del 9 settembre dico: “Al corteo parteciparono pure i
carabinieri e il piccolo distaccamento di soldati della difesa contraerea”: carabinieri e contraerea, che han partecipato
è il 25 luglio. All’8 settembre invece quelli lì della contraerea era un maresciallo che li comandava; e questo qui ha
fatto nascondere le armi e ha fatto nascondere gli otturatori a parte; io poi ho ricuperato lo stesso tutto. Quanto al
comizio del 9 settembre, ricordo che espressi questi concetti: non è l’Italia che è sconfitta, è il fascismo che è
sconfitto, non è il soldato italiano che è sconfitto, sono i gerarchi fascisti; il fascismo ha voluto la guerra e questa
politica è stata sconfitta; per noi invece è un giorno [...] di vittoria popolare. E, dicevo, che è di vittoria popolare
perché adesso deve incominciare proprio la insurrezione popolare».
Nell’utilizzazione dell’articolo di Moscatelli abbiamo quindi tenuto conto di tali rilievi critici e di altri espressi nel citato
articolo di P. Ambrosio, non utilizzando quei brani in cui si confondono palesemente cose avvenute dopo il 25 luglio e
cose avvenute dopo l’8 settembre.
Anche così tagliata, non mi sento di escludere che la testimonianza permanga inficiata da deformazioni di ricordo
dovute alla sovrapposizione delle due diverse manifestazioni. In particolare, nessuno dei testimoni consultati da
Ambrosio ricordava che il giorno seguente l’armistizio fosse stato organizzato un corteo. Tuttavia è certo che
Moscatelli tenne un comizio e sembra quindi poco probabile che non fosse stato organizzato anche un corteo. Del
resto, la sovrapposizione nel ricordo delle due diverse manifestazioni può essere derivata proprio da loro analogie
formali.
10
AB, Testimonianza orale di Vincenzo Moscatelli, 2 ottobre 1967, nastro 172, cit.
11
[C. MOSCATELLI], Quello che ricordo io..., art. cit.
12
Ivi.
Si veda qui per esteso la cronaca delle peregrinazioni di Moscatelli in quei giorni. Accenni più sintetici sono anche in
PIETRO SECCHIA - CINO MOSCATELLI, Il Monte Rosa è sceso a Milano, Torino, Einaudi, 1958, pp. 53-55.
13
[C. MOSCATELLI], Quello che ricordo io..., art. cit.
non era disposto ad ascoltare appelli di sorta alla lotta. Nonostante ciò il giorno dopo si recò con Santus,
per ordine del Comitato torinese, ad Aosta, perché «secondo voci pervenute al Comitato Torinese
sembrava che gli alpini di Aosta volessero opporre resistenza»14. Ma le voci si rivelarono del tutto
inconsistenti.
A Moscatelli non restò che invitare «i soldati rimasti a fuggire anche loro e ritornarsene a casa. Avevano
paura a muoversi, il terrore li paralizzava. Li accompagnai alla stazione dove, grazie alla mia apparente
“divisa tedesca”, potei fare da padrone. Feci aggiungere dei vagoni al convoglio già pronto, li riempii di
soldati e feci partire il treno alla volta di Chivasso. Ritornai a casa in serata stessa molto demoralizzato.
Tutto da rifare. Il ricupero armi e uomini del fallito esercito era fallito in pieno. [...] Cominciavano ad affluire
nella valle gli elementi locali fuggiti dal fronte e dalle caserme ed è su di essi che iniziai l’organizzazione
della Resistenza in Valsesia. Bisognava anzitutto provvedere viveri e indumenti ai prigionieri alleati liberati e
ai reduci. Mi accordai con Osella e convocammo una riunione di promotori a Varallo Sesia, dove gettammo
le basi del movimento. Fra i partecipanti vi furono alcuni, pochissimi, che continuarono la lotta fino in
fondo»15. In effetti alcuni dei presenti che «credevano di conquistarsi una gloriuzza a buon mercato,
pensando che tutto si sarebbe risolto per il meglio nel giro di quindici giorni, abbandonarono ben presto la
lotta»16.
Questo incontro fu la prima riunione di quello che sarebbe poi divenuto il Comitato valsesiano di resistenza.
Alla villa dei Grober si riunirono quella sera, tra gli altri - oltre a Cino e Osella -, Secondo Angelino, che era
un negoziante di vini, l’avvocato Zaquini, di tendenze socialiste, il comunista Bellotti e il Perèt Grober17.
Il gruppo decise «di organizzare gli “sbandati” ed i prigionieri alleati liberati che cominciavano ad affluire
nella zona, di provvedere viveri ed indumenti per i reduci e predisporre la resistenza armata nella valle»18.
Si decise inoltre di diffondere un manifestino e Moscatelli venne incaricato di redigerlo. Stampato nella
tipografia Zanfa di Varallo, esso fu poi distribuito in migliaia di copie19: «12 settembre 1943. Centro
Valsesiano di Resistenza.
Fratelli, con lo stesso cuore con cui vi ha accolti, la Valsesia ed il Centro di Resistenza si apprestano a
provvedere a voi.
Vi garantiamo il rifornimento delle cose più utili alla vita; stiamo approvvigionando coperte, indumenti,
calzature; stiamo organizzando il servizio di assistenza sanitaria e morale (servizio postale, servizio notizie
dalle famiglie, servizio informazioni).
A voi affidiamo l’apprestamento dei ricoveri, per l’adattamento ed il riscaldamento invernale dei quali vi
forniremo i materiali necessari; la costituzione dei depositi avanzati di viveri, la custodia dei medesimi, la
loro distribuzione.
14
Ivi.
Ivi.
16
Ivi.
L’accenno di Moscatelli alla «apparente “divisa tedesca” indossata quel giorno», trova un riscontro anche in P. SECCHIA
- C. MOSCATELLI, op. cit., p. 54 e ss: «Giunto davanti alla caserma Testafuochi, sceso dalla motocicletta, impolverato, con
gli occhiali neri, si ebbe un ossequioso saluto dagli ufficiali che stavano sulla porta della caserma; questi, scambiatolo
per un tedesco, non trovarono di meglio che mettersi sull’“attenti”.
Accanto alla caserma stazionava una camionetta tedesca con al volante un militare indossante la divisa delle Ss.
Il colonnello Borioni, comandante il deposito, non volle neppure ricevere Moscatelli, si limitò a fargli comunicare da un
tenente che egli già si era accordato con i tedeschi e non aveva alcuna intenzione di opporre ad essi resistenza».
17
AB, Testimonianza orale di Vincenzo Moscatelli, Pasquetta 1969, nastro 210; a Moscatelli sembra però di ricordare
che fosse presente anche Ezio Grassi, cosa recisamente smentita in AB, Testimonianza orale di Ezio Grassi, cit.
In P. SECCHIA - C. MOSCATELLI, op. cit., p. 53, si afferma che la riunione avvenne il 9 sera e le si dà un carattere di
rappresentatività partitica che in realtà essa non ebbe. La cosa è ribadita in AB, Testimonianza orale di Vincenzo
Moscatelli, 2 ottobre 1967, nastro 172, cit.
La riunione venne però probabilmente tenuta il 12 settembre, come risulta dalla data del manifestino che si decise di
fare, più avanti riportato. Ciò collima del resto con quanto è narrato in [C. MOSCATELLI], Quello che ricordo io..., art. cit.
18
P. SECCHIA - C. MOSCATELLI, op. cit., p. 53.
Che però il Comitato si proponesse sin da quella sera di «predisporre la resistenza armata nella valle» è affermazione
discutibile.
19
AB, Testimonianza orale di Vincenzo Moscatelli, Pasquetta 1969, nastro 210, cit.
15
Voi dovete subito organizzarvi, con ferrea disciplina di soldati quali siete, sotto gli ordini di coloro che per
grande prestigio debbono e possono inquadrarvi, prendendo tutte le misure per ogni eventualità futura.
Compagni, ognuno di voi ha scelto liberamente e fieramente la sua via il giorno in cui fuggì la schiavitù
dell’armi straniere. Ognuno di voi deve essere sempre ed in ogni momento degno del gesto chi vi ha ridato
dignità d’uomo e di italiano: chi ritornasse sul suo divisamento tradirebbe con se stesso i compagni e la
Patria.
Fratelli,
vi facciamo solenne testimonianza che uno spirito nuovo, alto, forte di solidarietà è nato, dalla tragedia di
questi giorni, in tutto il popolo italiano. Il secondo Risorgimento è in atto. Viva l’Italia libera!
Il Comitato Valsesiano di Resistenza»20.
Il Comitato funzionò poi di fatto in modo sporadico e scarsamente organico ma ebbe comunque il merito di
occuparsi dell’espatrio degli ex prigionieri e perseguitati razziali e di porre le basi della Resistenza valsesiana
soprattutto sotto il profilo dell’equipaggiamento e del vettovagliamento21. La nascita del Comitato era in
realtà legata soprattutto al fatto che nella valle si era allora ridotti alla tessera, e quindi mantenere la gente
che arrivava a Varallo all’improvviso in numero spropositato poneva urgentissimi problemi. Così Osella si
diede da fare per procurare delle tessere annonarie e, con Perèt Grober e altri, fornì il denaro per pagare i
commercianti che si sarebbero occupati di procurare il necessario. Alle riunioni del Comitato - che si
tenevano poi in casa Zaquini - parteciparono anche Eliso Scabbia e la moglie e, attivissimo, il direttore del
giardino pubblico Ezio Grassi, di sentimenti liberali. Il gruppo mantenne tuttavia a lungo caratteristiche più
assistenziali che politiche e soltanto in un secondo tempo Moscatelli riuscì a far accettare l’idea della
necessità di armarsi per passare a forme di resistenza attiva22.
Ma Osella aveva comunque sin da quella primissima riunione delle idee abbastanza chiare sui rischi cui si
andava incontro, perché aveva capito che la resistenza avrebbe potuto protrarsi nel tempo e che ciò
avrebbe comportato dei pericoli. Non nutriva quella sera illusioni di sorta: ci voleva una solida
organizzazione perché - ammoniva - quanto si andava progettando «poteva anche costare la vita»23. «Non
nascondiamoci - diceva - che possiamo anche rimetterci la testa organizzando questo. Dobbiamo aver
chiaro an-che questa possibilità». Poi, col corposo realismo che lo distingueva, si era a un certo punto
inserito nella discussione dicendo: «Va bene, va bene, belle parole. Però siccome occorrono anche mezzi,
un milione ce lo metto io»24. Di lì si era buttato in questa impresa, facendo tacere le apprensioni che gli
affioravano25, e aveva opposto il suo rifiuto alle pesanti sollecitazioni che gli venivano fatte perché si
iscrivesse al Partito repubblicano fascista26.
20
ISRVC, [manifestino del Centro valsesiano di resistenza, 12 settembre 1943].
AB, Testimonianza orale di Vincenzo Moscatelli, 2 ottobre 1967, nastro 172, cit.
Si veda anche ibidem, Pasquetta 1969, nastro 210, cit.
Per il lavoro svolto dal Comitato in direzione dell’espatrio dei prigionieri e degli ebrei si veda invece AB, Testimonianza
orale di Ezio Grassi, cit.
22
Si veda AB, Testimonianza orale di Ezio Grassi, cit.
23
AB, Testimonianza orale di Vincenzo Moscatelli, 2 ottobre 1967, nastro 172, cit.; e si veda pure ibidem, Pasquetta
1969, nastro 210, cit.
La citazione è tuttavia tratta da [C. MOSCATELLI], Quello che ricordo io..., art. cit.
24
Si vedano le due testimonianze orali citate alla nota precedente.
25
Che Osella nutrisse qualche perplessità e qualche timore per le conseguenze degli atti che si venivano compiendo è
ricordato in PIETRO SECCHIA, Lotta armata e lotta di massa a Milano, in Fascismo e antifascismo, Milano, Feltrinelli,
1962, vol. II, p. 601: «Un nostro amico, l’industriale ing. Giuseppe Osella di Borgosesia [...], dopo averci ben ascoltato
diceva: “Va bene, va bene mi sembra abbiate ragione, ma bisogna pensaghe sû [trad.: pensarci su]. Avete riflettuto
bene che a far le cose che voi vi proponete può anche costar la testa?”. E noi a persuaderlo che quelle cose dovevamo
fare, dovevano essere fatte ad ogni costo, anche se certamente sarebbero costate molte teste».
L’affermazione, apparentemente simile a quella fatta la sera della riunione del 12 settembre, contrasta tuttavia
sostanzialmente con l’atteggiamento assunto dall’Osella nel corso di quella riunione. Né si può riferire d’altronde a
essa perché Secchia ne parla in sede di testimonianza personale e il suo arrivo in Valsesia data al 14 settembre (si veda
P. SECCHIA - C. MOSCATELLI, op. cit., p. 67. Trattasi di una nota stesa dal solo Secchia). La frase dell’Osella si riferisce
probabilmente a una conversazione privata avuta con l’industriale il giorno dopo.
26
AB, Testimonianza orale di Ida Leone, cit.
21
Un gesto questo che non aveva mancato di avere il suo peso sulla fallita ricostituzione del partito nella zona
in quei primi mesi, dato il prestigio che l’industriale godeva tra la popolazione. E c’era quindi chi aveva
giurato di fargliela pagare27.
Del resto Osella non aveva poi avuto paura di compromettersi apertamente quando Moscatelli era stato
arrestato. Perché la lotta partigiana vera e propria si può dire ebbe inizio in Valsesia il 29 ottobre, con
l’assalto alla caserma dei carabinieri di Borgosesia, dove Cino era stato convocato alle 2 di quel pomeriggio
dal maresciallo Ruggero Fioravante, che si era protestato fino al giorno innanzi amico dei partigiani, ma in
quel momento spiegava a Moscatelli che doveva trattenerlo in stato di arresto28.
Era successo che il giorno prima «il distaccamento di Borgosesia, a conoscenza che un reparto tedesco sta
per effettuare un rastrellamento verso Sabbia (valle del Mastallone) dove è costituito un forte deposito di
armi [...] con una brillante puntata riesce a prelevare il deposito trasportandolo a Borgosesia. Qui il carico
viene sequestrato dai carabinieri. L’intervento energico di Moscatelli convince il Maresciallo comandante la
Stazione a restituire il carico. L’episodio è risaputo dal comando tedesco e dal Prefetto di Vercelli, che
ordina l’arresto di Moscatelli. Chiamato in caserma per comunicazioni vi viene trattenuto»29 a disposizione
del capitano Mazzola, reggente la tenenza di Varallo Sesia che, avvertito telefonicamente del fermo, arrivò
subito a Borgosesia e - malgrado anch’egli si fosse sempre dichiarato solidale col movimento di resistenza «dopo aver tergiversato un po’ - racconta Moscatelli - mi dichiarò apertamente che per ordine del comando
tedesco di Vercelli doveva arrestarmi e tradurmi costà»30.
Alle rimostranze di Cino il capitano rispose «che “gli ordini sono ordini” e che non voleva rimetterci la
pensione e magari anche la “capocchia”» per lui31. Moscatelli, che si era recato fiducioso alla caserma dei
carabinieri, credendo che l’«invito si riferisse alla situazione della vallata che in comune accordo era da noi
controllata»32 ricorse, in extrema ratio al podestà di Varallo: «Chiesi e ottenni di poter telefonare al signor
Osella, ben certo che mi avrebbe aiutato. Disgraziatamente lui era assente. Si trovava a Vercelli. Mi rispose
sua moglie alla quale spiegai la situazione. La signora venne subito in caserma e, data l’autorità e il prestigio
che Osella godeva in tutta la vallata, fu introdotta nella stanza dove io mi trovavo rinchiuso [...]. Si adoperò
[...] per convincere il capitano dei carabinieri. Non gli risparmiò neppure parole sferzanti. Uscì e ritornò
poco dopo portandomi del caffè e delle sigarette. Accompagnava pure mia cognata che recava in braccio la
mia bambina che aveva allora dieci mesi. Siccome sono un uomo anch’io come tutti gli altri e disperando
ormai di potermi salvare, confesso che baciando la mia piccola che credevo di non rivedere più, piansi. [...]
Sapevo che “fuori” vi era Ciro avvisato già della mia precaria situazione dalla signora Osella medesima e da
mia cognata [...]. Bisognava guadagnare tempo onde permettere alle squadre di appostarsi per bloccare
tutte le strade di accesso al paese. A questo scopo, d’accordo con la signora, chiesi e ottenni dal capitano di
poter telefonare ad Osella a Vercelli. Assicurati della sua pronta venuta la signora Osella invitò il capitano a
sospendere la mia traduzione in attesa del suo ritorno. Questo avvenne dopo circa un’ora»33.
Angin, Manconi, Bussa, Ciro e gli altri concertarono il da farsi nel bar vicino al peso pubblico di Borgosesia,
comodissimo perché aveva diverse uscite. Dapprima pensarono di andarsi ad appostare al ponte di Rondò
per liberare Moscatelli quando sarebbe passato di lì: mettere giù dei sassi e un palo, piazzare uno con la
pistola lanciarazzi duecento metri prima; si prevedeva infatti l’arrivo di tre automobili soltanto. Anche
coll’unico fucile mitragliatore manovrato dall’Enrico Casazza, poche bombe a mano, una decina di fucili e
27
Ibidem.
ERALDO GASTONE - CINO MOSCATELLI, Origini del movimento partigiano in Valsesia. I primi colpi di moschetto a Borgosesia, in “La Stella Alpina”, a. III, n. 10, 10 marzo 1946.
29
ERALDO GASTONE], Uniti per la libertà partigiani e popolo delle zone Valsesia, Cusio, Ossola, Verbano, Basso e Alto
Novarese, Novara lottarono dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945, a cura del Comitato per la Giornata della
Resistenza, Novara, Stabilimento tipografico Stella Alpina, 1949, p. 11.
30
E. GASTONE - C. MOSCATELLI, Origini del movimento partigiano, art. cit.
Il nome del capitano reggente la tenenza di Varallo Sesia è tratto da AB, Testimonianza orale di Pino Rossi, Milano, 23
gennaio 1971, appunti dattiloscritti: il Mazzola era tutt’altro che entusiasta del fascismo, ma comunque acquiescente
alle disposizioni impartite dall’alto.
Venne fucilato dai partigiani nei primi mesi della lotta di liberazione.
31
E. GASTONE - C. MOSCATELLI, Origini del movimento partigiano, art. cit.
32
Ivi.
33
Ivi.
28
qualche rivoltella - l’armamento che si aveva in quei primi momenti insomma - si pensava di poterli
fermare34. Intanto la voce dell’arresto di Moscatelli si era propagata in tutta Borgosesia e gli operai erano
affluiti attorno alla caserma. Presto il paese fu «letteralmente bloccato dagli operai e operaie»35 e, mentre
il maresciallo si dava vanamente da fare per trovare una macchina, al fine di trasferire - come da desiderata
del Comando tedesco - Moscatelli a Vercelli, «nessuno, sia ditte che privati fu disposto ad arrischiare la
propria macchina»36, temendo per le gomme e per i guasti al motore, anche perché «nessuna macchina
avrebbe potuto lasciare il paese senza pagare prima il pedaggio delle squadre appostate»37. Tanto più che
quell’omone del Bolla, «soprannominato il Négar, carrettiere di professione, [...] ex confinato politico,
piantona la porticina di ferro della caserma pronto a “far fuori” [...] le gomme di qualsiasi macchina che
osasse avvicinarsi»38.
Le delegazioni operaie non riuscirono comunque a convincere il comandante di stazione e il capitano
comandante la compagnia a rilasciare Moscatelli39.
Osella, che non riuscì a convincerli neppure lui, si rese conto che «occorreva agire e agire subito»40 e
telefonò a Ciro: «Guardate, cercate di mobilitar altra gente, di fare qualche altra cosa, perché non sono
riuscito a convincerli a lasciarlo libero»41.
Frattanto Angelo Araldi informò che il direttore Stipel di Varallo, Cecchini, che collaborava con gli
antifascisti, aveva intercettato una telefonata tra il Comando dei carabinieri e la “Tagliamento” di Vercelli:
«Guardate che vengono su coi carabinieri due Mercedes con una quarantina di uomini»42. Allora Angin e gli
altri capirono che era diventato impossibile liberare Moscatelli nel modo che si era inizialmente pensato43 e
d’altronde - nota Cino - «il pericolo diventava immediato per me e soprattutto per la popolazione ammassata attorno alla caserma che poteva diventare da un momento all’altro bersaglio delle canaglie
tedesche»44. Non c’era quindi tempo da perdere perché da Vercelli a Borgosesia era questione di un’ora e
mezza, e tutti pensavano: «Andiamo a tirarlo fuori»45. Al Gino Vermicelli, un giovane rivoluzionario di
professione arrivato qualche mese innanzi dalla Francia con la testa ancora piena di schemi, venne l’idea di
«unire l’azione di massa all’azione militare».
Si fecero quindi affluire di fronte alla caserma numerose donne: duecento scalmanate, che urlavano senza
sosta: «Liberate Moscatelli, liberate Moscatelli, liberate Moscatelli...». Di fronte alla caserma c’erano ormai
più di quattrocento persone e i carabinieri - nove in tutto, alcuni sui ballatoi con delle carabine - a un certo
punto dovettero aprire lo spioncino: «Cosa volete ancora?». «Vogliamo parlare col capitano». «Ne lascio
entrare tre», e così aprirono il portone. Venne buttata una bomba a mano nel cortile, alcuni entrarono dalla
porta sparando qualche colpo di fucile verso le finestre, mentre altri scavalcarono il muro di cinta lungo una
decina di metri che c’era a sinistra e dava sul cortile. Il botto fece scappare le donne, ma terrorizzò anche i
carabinieri, definitivamente annientati da Angelo Bertone che, mentre scavalcava il muro, gridò: «Avanti
dieci per di qua, dieci andate di là...». I partigiani, che erano in tutto forse una ventina, alcuni dei quali
agitavano fucili senza pallottole, irruppero verso le celle di sicurezza. Cinto Noci trovò alfine l’ufficio del
maresciallo ove era tenuto Moscatelli, irruppe sfondando la porta e lo fece uscire. La gente era in visibilio.
L’intera squadra si allontanò rapidamente, attraversò la piazza di Borgosesia, infilò la strada che portava
alla stazione e si dileguò prima che arrivassero i rinforzi, una cinquantina di tedeschi in pieno assetto di
34
AB, Testimonianza orale di Ferdinando Zampieri, cit.
E. GASTONE - C. MOSCATELLI, Origini del movimento partigiano, art. cit.
36
Ivi.
37
Ivi.
38
P. SECCHIA - C. MOSCATELLI, op. cit., p. 89. E si veda AB, Testimonianza orale di Ida Leone, cit.
39
E. GASTONE - C. MOSCATELLI, Origini del movimento partigiano, art. cit.
40
Ivi.
41
AB, Testimonianza orale di Eraldo Gastone “Ciro”, Novara, settembre 1965, nastro 74. Ciro ricorda qui di aver
anch’egli telefonato a Osella e - visto che le pressioni di piazza non servivano a ottenere il rilascio - di averlo invitato a
fare un passo ufficiale perché, qualunque ordine avesse ricevuto, il capitano si decidesse a lasciare libero Moscatelli,
«se no succede la rivoluzione».
42
AB, Testimonianza orale di Ferdinando Zampieri, cit.
43
Ibidem.
44
E. GASTONE - C. MOSCATELLI, Origini del movimento partigiano, art. cit.
45
AB, Testimonianza orale di Ferdinando Zampieri, cit.
35
guerra46. L’idea era schematica, ma aveva funzionato, il risultato era stato dei più brillanti. All’azione,
diretta da Eraldo Gastone, avevano preso parte Giacinto Noci, Gaspare Pajetta, Enrico Casazza, Gino
Vermicelli, Gaudenzio Mora, Pietro Bortolon, Bolla, Giovanni Manconi, Antonio e Migliuccia Canna, Pino e
Luigi Bussa, Ferdinando Zampieri, Angelo Araldi, il Muliné, Angelo Bertone, i fratelli Peretti e altri di
Valduggia47.
Quanto all’Osella, mentre quelli sparavano, aveva detto a Cino, che lo invitava a stendersi sul pavimento, che era il minimo che si potesse fare se si era nelle vicinanze di una finestra - di ritenerlo poco dignitoso48.
Poi, dopo di allora, rotto quella «specie di patto secondo cui i carabinieri avrebbero collaborato lealmente
con le forze patriottiche»49, Cino dovette andare “su” e Osella rimase a fare il podestà, mantenendo però
continui contatti, prestando il proprio camion per il trasporto di armi e informando puntualmente quelli del
Briasco50. Fu lui che l’11 dicembre fece avvisare Moscatelli, tramite il Bellotti, che «sarebbero arrivati a
Varallo due camion di fascisti per organizzare un presidio stabile nella città»51, e lì i fascisti furono
entusiasticamente attaccati e la notte stessa pensarono bene di tagliare la corda52.
46
La ricostruzione è fatta sulla base di elementi desunti da numerose fonti: AB, Testimonianza orale di Gino Vermicelli
“Edoardo”, Novara, 19 settembre 1968, nastro 188; AB, Testimonianza orale di Eraldo Gastone, cit.; [E. GASTONE], op.
cit., p. 11; P. SECCHIA - C. MOSCATELLI, op. cit., p. 88 e ss: di qui abbiamo attinto numerosi particolari, ma la nostra
ricostruzione dell’avvenimento è diversa, meno “costruita” di quanto non appaia in tale volume. Ad esempio in esso è
detto: «Ciro [...] dispone le squadre sulle rotabili che conducono a Novara e a Vercelli attestandole dietro sbarramenti
e distribuendo le poche forze disponibili in modo da averne un minimo per la temporanea difesa dietro gli sbarramenti
ed un massimo per l’assalto alla caserma». Non si vede che funzione avrebbero potuto avere tali squadre, dato
l’armamento del tutto insufficiente del gruppo, a tacere dell’esiguità delle forze a disposizione. E infatti Ciro ci ha
detto (febbraio 1971) che non era stata posta nessuna squadra sulle rotabili e che l’unico sbarramento di cui si era
parlato all’atto della decisione di liberare Moscatelli dalla caserma - peraltro forse anch’esso non attuato - era rappresentato da alcuni carri che avrebbero dovuto essere posti in modo da bloccare temporaneamente il traffico sul
ponte di Aranco. Il numero dei carabinieri è tratto da P. SECCHIA - C. MOSCATELLI, op. cit., p. 89; quello della gente in
piazza (400 persone) è tratto da AB, Testimonianza orale di Pino Rossi, cit.; quello dei partigiani partecipanti alla
liberazione di Moscatelli (20) da [E. GASTONE], op. cit., p. 11; quello dei tedeschi giunti in loco (50) da V. MOSCATELLI “CINO” - E. GASTONE “CIRO”, Garibaldini della Valsesia, in “Piemonte cronache”, a. III, n. 2 (numero speciale per il XX
anniversario della Liberazione), aprile 1965, p. 68. Il documento AB, Testimonianza orale di Ferdinando Zampieri, cit., è
stato da noi usato limitatamente a qualche particolare. Esso è comunque contraddittorio con AB, Testimonianza orale
di Gino Vermicelli, cit., perché afferma che il tentativo di entrare dalla porta non riuscì, in quanto i carabinieri non
aprirono e si dovette allora ricorrere all’attacco. Da esso inoltre pare di capire che i camion giunti portassero uomini
della “Tagliamento” e non tedeschi, cosa smentita anche da P. SECCHIA - C. MOSCATELLI, op. cit., p. 91; e da E. GASTONE C. MOSCATELLI, Origini del movimento partigiano, art. cit.
47
I nomi dei partecipanti sono tratti da: P. SECCHIA - C. MOSCATELLI, op. cit., p. 90; AB, Testimonianza orale di Ferdinando
Zampieri, cit.; [E. GASTONE], op. cit., p. 11.
48
AB, Testimonianza orale di Vincenzo Moscatelli, 2 ottobre 1967, nastro 172, cit.
49
P. SECCHIA - C. MOSCATELLI, op. cit., p. 87.
50
AB, Testimonianza orale di Vincenzo Moscatelli, 2 ottobre 1967, nastro 172, cit.
Tra l’altro, in ISRVC, appunti di V. Moscatelli sul primo volume di Pagine di guerriglia, cit., si puntualizza in proposito
come a Borgosesia non ci fosse allora nessun presidio.
51
P. SECCHIA - C. MOSCATELLI, op. cit., p. 127.
Ci atteniamo alla versione del libro anche per ciò che concerne l’informatore, ossia il Bellotti, sebbene in AB,
Testimonianza orale di Vincenzo Moscatelli, 2 ottobre 1967, nastro 172, cit., si affermi che Osella sarebbe giunto di
persona ad informare della venuta dei due camion fascisti: «È venuto su tutto accaldato per la corsa fatta, per
avvisarmi: “Guarda che stanno venendo su, tirate un’imboscata così e cosà”; lui stesso ha suggerito l’imboscata alla
salita del Loreto. Poi invece quei là hanno anticipato di un’ora. Noi già avvisati tardi, perché anche lui aveva saputo
tardi questo... proprio una prova di informazione che dava, di aiuto: informato come podestà che sarebbero venuti su,
lui è venuto su per avvisare me».
52
Ibidem, p. 127 e ss; si veda anche [E. GASTONE], op. cit., p. 12, che dà una versione un po’ diversa dell’avvenimento:
tra l’altro i presidi di Varallo e Borgosesia sarebbero stati ritirati solo dopo alcuni giorni dal combattimento di Varallo.
Egli dice: «La presenza di presidi fascisti e tedeschi sia a Varallo che a Borgosesia rendono difficili i rifornimenti
alimentari; il riso e le castagne si alternano nella lista dei “piatti del giorno”. È necessario sgomberare il campo dai
presidi nemici [...]. Si improvvisa un attacco contro il presidio di Varallo».
Secondo Secchia e Moscatelli l’azione fu invece la conseguenza di un’imboscata non riuscita. Siccome tra i partigiani
serpeggiavano elementi di delusione e «tra di loro vi erano altresì elementi turbolenti, indisciplinati», si ripeteva che
Il giorno che arrivò in Valsesia la “Tagliamento”, l’Osella si trovava a Milano per acquistare i regali di
Natale53. Al ritorno fece tappa a Grignasco, dove uno dei fratelli gli disse di non presentarsi a Borgosesia,
perché quelli della “Tagliamento” lo cercavano. Ma lui: «Vado a vedere cosa vogliono». E, forse convinto di
poter dominare col suo prestigio, col suo nome, con le sue amicizie e relazioni altolocate la situazione,
tornò a Borgosesia, dove quelli aspettavano proprio lui54.
Di questo a Borgosesia erano tutti convinti, tanto è vero che si raccontava che quando avevano fatto la
conta per vedere i dieci che bisognava fucilare, siccome contando da destra lui non c’era, avevano ricontato
nell’altro senso proprio perché anche lui rientrasse nel numero. E, per dare maggiore caratteristica di
“verità” a questa leggenda, si affermava che questo era stato raccontato da uno che era scampato alla
morte grazie alla “seconda conta”55.
Ma in realtà era stata la sua convinzione di “contare”, il suo «ah, ma io... » che l’aveva tradito, che gli aveva
fatto in quel momento dimenticare che quanto si stava facendo poteva «anche costare la testa»56.
Sull’arresto e la fucilazione di Osella c’è un testimone oculare, Carlo Mazzantini, allora tra quelli della
“Tagliamento”: «Anche lui adesso sta lì in fila, insieme a quelli, nel suo abito blu, faccia al muro, le mani
incrociate sul capo. Eppure non ha perso quell’aria aristocratica che subito mi aveva colpito quando
eravamo andati a prenderlo col tenente Sacco in quella villa lontana.
Hanno interrogato anche lui. Le sventole a mano aperta del magazziniere e i pugni pesanti di Alessandrini
mi sono rintronati dentro. Prima di muoverci, il tenente si era accostato al camion e aveva detto: “È un
pesce grosso, occhi aperti!”. L’autocarro era scivolato nella notte col motore al minimo. Nel buio l’attendente dal capomanipolo aveva bisbigliato: “È un’eccellenza: podestà, squadrista, sciarpa littoria... e ha
mandato soldi e armi ai ribelli”. Dal fondo del camion una voce aveva grugnito: “Figlio di puttana!”.
Ma appena varcata la soglia della villa c’eravamo d’un tratto sentiti a disagio tra quei mobili antichi, i
tappeti, le suppellettili d’argento. Il cameriere in giacca a righine ci correva dietro per impedirci di proseguire: “Ma dove andate? Cosa fate? Vi ho detto che Sua eccellenza sta riposando!”.
Davanti a lui, in vestaglia di seta rossa stretta alla vita, il tenente Sacco, chiuso nel cappotto che gli arrivava
alla punta degli stivali, con quella faccia glabra e inespressiva parlava in tono riguardoso, cercando parole
innocue; ma intanto da dietro gli occhiali cerchiati di metallo, ci lanciava fredde occhiate che dicevano:
state all’erta, non fatevi incantare.
Lui faceva il giro della sala e ci offriva sigarette da una grossa scatola d’argento, dalla quale saliva un
profumo sottile aromatico, e intanto porgeva orecchio all’ufficiale: “Ma certo capomanipolo, capisco
perfettamente. Non avete nulla da temere, state tranquillo”.
Non ne ricordo più la fisionomia, non saprei descriverlo. Ho solo presenti quei suoi modi, quel tratto. Un
uomo alto, distinto, i capelli neri pettinati all’indietro. Però è rimasto chiaro nella memoria che quando alzai
gli occhi dall’astuccio che mi porgeva e incontrai il suo sorriso così affabile, non solo non potei che
restituirglielo, ma qualcosa cambiò: quell’uomo che fino a un momento prima non era che un estraneo era
diventato d’un tratto una persona che conosci, con cui hai stabilito un legame. E subito mi augurai che si
trattasse di un errore, che non fosse lui la persona che cercavamo. E pensai: ecco ora il tenente chiarisce
l’equivoco, ci scusiamo e ce ne andiamo. [...] La voce divenuta a un tratto gelida del tenente giunse a
togliere ogni illusione: “Sono spiacente ma ho l’ordine di condurvi con me”. [...]
Il primo ad apparire nel riquadro del portone, nel suo abito blu ancora in ordine, e quell’aria distinta,
nonostante la notte trascorsa, fu lui. [...] Era comparso in modo così naturale sulla soglia, ma lì si fermò
«a Varallo diranno che siamo dei vigliacchi» e «Moscatelli, pur avendo già autorità sui suoi uomini, non godeva ancora
di quel prestigio che si sarebbe conquistato nei mesi seguenti»; allora «decise, tra l’entusiasmo di tutti, di portarsi a
Varallo, ad attaccare i fascisti» perché «sarebbe stato un errore non tener conto in quel momento dello stato d’animo
dei partigiani». L’azione sarà naturalmente quel che sarà.
53
AB, Testimonianza orale di Umberto Sassi, Grignasco, maggio 1965, nastro 70. Secondo tale fonte l’Osella, informato
da un fratello di non tornare, avrebbe telefonato a casa e gli avrebbero detto che avevano preso il suo bambino: «Se
viene il papà noi lasciamo il figlio». La cosa è però smentita sia da AB, Testimonianza orale di Vincenzo Moscatelli, 2
ottobre 1967, nastro 172, cit., che da AB, Testimonianza orale di Ida Leone, cit.
54
AB, Testimonianza orale di Vincenzo Moscatelli, 2 ottobre 1967, nastro 172, cit.
55
AB, Testimonianza orale di Ida Leone, cit. La testimone però racconta il fatto come fosse effettivamente avvenuto.
56
Citazione da P. SECCHIA - C. MOSCATELLI, op. cit., p. 53.
come se avesse incontrato un improvviso ostacolo o come se solo allora si rendesse conto veramente di
quanto stava succedendo. Vidi chiarissimo quel moto di rifiuto. Si guardò attorno incredulo e non la
riconobbe quella piazza che doveva essergli così familiare: tutti quei camion pieni di militi, gruppi armati
sparsi qua e là, quei visi in attesa, e soprattutto quello spazio vuoto che lui doveva affrontare. Si fermò e
arretrò, e quelli che gli venivano dietro si arrestarono alle sue spalle.
Da dentro il vestibolo giunsero voci imperiose, accorse qualcuno, lo sospinsero per il braccio.
Li vidi sfilare tutti, uno per volta, sul pianerottolo della scalinata. Si affacciavano nel vano del portone, si
guardavano un momento attorno, frastornati, facevano una sosta disorientati dalla luce e da quanto
scorgevano, poi, sospinti da quelli che venivano dietro, affrontavano i gradini, la testa leggermente china,
facendo attenzione, con particolare impegno, a dove mettevano i piedi. [...]
Da questo momento tutto si svolge nell’aria rarefatta di un sogno: la fila stretta delle loro schiene che si
avvia a passo lento in quello spazio vuoto dove c’è qualcosa di impalpabile che indica loro la direzione e li
guida loro malgrado... i militi che li accompagnano con quell’aria grave di circostanza... il selciato umido in
pendio, quel cielo grigio basso. Non c’era un moto una voce un rumore attorno. Quei quattrocento uomini
sulla piazza non emettevano un suono. [...]
Ma a un certo momento, lui che era capofila, si fermò di nuovo, proprio in mezzo a quello spazio sgombro,
e si guardò intorno cercando qualcuno. Si fermò risoluto a non andare più avanti... Sì, fino in fondo non
l’accettò quella sorte assurda, quella cosa che non c’entrava con la sua vita, la sua posizione, le sue
convinzioni: possibile che da un giorno all’altro, nel giro di una sola notte le cose si fossero rovesciate a quel
punto!... Un momento, ma che succede? che fate?... aspettate! [...]
I suoi occhi vagavano smarriti su quella piazza a lui così nota, ma ora lì attorno non c’era un volto, un
oggetto amico su cui potesse posare lo sguardo; non c’eravamo che noi, le nostre armi, la nostra volontà di
vendetta. Ricordo quell’attimo di sospensione e di tensione terribile di fronte a quel fatto imprevisto, alla
volontà di quell’uomo che voleva salvarsi ad ogni costo.
Ma da un lato della breve gradinata, da dietro un gruppo folto di militi, giunse quella voce aspra e
autoritaria nel silenzio assoluto, quella voce che conoscevo, ma che ora suonava così estranea e vulnerante
in quell’aria rarefatta: “Che succede!... Avanti! Muoversi! Muoversi!» [...]
Vidi accorrere quelli della squadra politica, avventarsi su quell’uomo fermo in mezzo alla piazza e spingerlo
col calcio del moschetto, irritati per quell’imprevista interruzione che veniva a sciupare la solennità del
momento. Quel gesto brutale lo riportò alla sua condizione attuale. Si rimisero in cammino intimiditi,
riconoscendo loro stessi la direzione da prendere, così isolati in quello spazio sgombro che dovevano
percorrere, tutto per loro, traversarlo fino in fondo, fin laggiù dove li aspettava il plotone. [...]
Bastò che il tenente prendesse il primo per il braccio e lo mettesse al suo posto, che gli altri lo seguirono
mansueti e gli si allinearono accanto, come se ognuno sapesse il posto che doveva occupare. Una fila di
schiene un po’ calate, davanti al muro: qualcuno col capo chino, qualcuno che con uno sforzo è riuscito ad
alzare la testa e guarda davanti a sé.
Quelli della squadra politica, che li avevano accompagnati fin là e avevano atteso che tutto fosse in ordine,
correggendo qua e là il loro allineamento, vennero via e andarono a schierarsi assieme al plotone. [...] Non
c’era un rumore, un movimento, un alito. Sotto quel cielo chiuso, fra quelle case sbarrate, quei
quattrocento uomini presenti lì, con gli occhi fissi a quel punto non davano un segno.
La sua voce [...] diede gli ordini. Quegli ordini di cui tutti hanno sentito dire, che stanno nella letteratura, nei
film. [...]
Disordinata la scarica traversò crepitando l’aria. [...] Caddero passivamente senza alcun gesto per ripararsi,
attenuare la caduta, come una cosa, non più come un essere vivente [...]. Ma lui non cadde. Rimase in piedi
dritto al suo posto, nel suo abito blu, come se non fosse successo nulla. L’eco della scarica si era diradato e
lui era ancora lì. Incredibile! Sì, era lì. C’era quella fila agonizzante a terra, quei corpi che sussultavano e
davano tratti, la gora di sangue che si andava formando, ma lui stava ancora lì.
Poi piano accadde quella cosa. Lo vedemmo alzare il piede destro da terra, lentamente, piegò la gamba, la
raccolse, e prima piano, poi sempre più svelto, cominciò a muoverla nell’aria, su e giù, ad agitarla sempre
più freneticamente, a tirare calci nel vuoto.
In quel silenzio, lì solo, accanto a quella fila di masse scure per terra che vomitano sangue, fermo al suo
posto, con quella gamba che si muove, freme, scalcia senza controllo.
Un lunghissimo momento agghiacciante.
[...]. Ricordo perfettamente il movimento della testa, e il viso. Stavo sul camion un po’ di lato, e quel volto si
girò proprio nella nostra direzione, ed era un moto di sorpresa e di incredulità, un gesto come per dire: ma
che succede? che fate? Poi ci guardò. Sì, era ancora vivo! Ancora presente di qua, nel mondo dove eravamo
noi! Ancora chiedeva qualcosa nel viso e negli occhi. [...]
Fin quando la voce infuriata e incredula del tenente [...] non riuscì a rompere il silenzio: “Ma che fate
bestie! Che fate!... Fuoco per dio! Fuoco! Fuoco!”.
I militi alle sue spalle si affannavano sui moschetti per ricaricarli. Partì prima qualche colpo, sparso qua e là,
dalla loro fila. Poi scoppiò l’inferno: dai camion, dagli uomini disseminati nella piazza, dalle pattuglie alle
imboccature delle strade, si scatenò una scarica furiosa in cui si mescolavano i colpi fondi dei moschetti e le
raffiche aspre degli automatici. Da ogni parte di quello spazio chiuso si sparava laggiù contro quel punto.
Vedevo militi che avevano già sparato ricaricare in fretta il fucile e tirare di nuovo, altri che incerti,
sbalorditi, non l’avevano fatto, contagiati da quel furore, togliersi l’arma di spalla e puntarla in quella
direzione. Per tirarlo giù, abbattere quella assurda cosa ancora dritta contro il muro, fermare quella gamba.
Lo vedemmo barcollare, sbatacchiato dalla granaiola di colpi, fare un mezzo passo saltelloni, volgersi da un
lato, sì, e poi dall’altro come se non sapesse dove cadere, piegarsi, scivolare giù lentamente, su quella
gamba, quasi accovacciarsi, e poi precipitare in avanti. [...]
Ma nemmeno allora la fucileria cessò. I colpi crepitavano e scoppiavano da ogni parte, come se tutto il
battaglione fosse stato preso da una frenesia di fuoco. Tutti volevano partecipare a quella uccisione. [...] Le
pallottole sgusciavano sul selciato e levavano faville. Durò dei secondi e non accennava a smettere, fin
quando lui, il comandante, uscito fuori dal suo riparo, facendosi largo fra i militi, si slanciò in mezzo alla
piazza per essere visto e prese a gridare come un forsennato agitando il braccio anchilosato: «Basta per
dio! Basta!... Cessate il fuoco!...» [...]
Il tenente si staccò dalla fila e andò là, con passo teso, meccanico. Cominciò col primo sulla destra. Faceva
un passo, sparava e andava avanti. [...] Si fermava, sembrava cercasse qualcosa per terra, e poi si udiva il
colpo. Si muoveva, faceva un’altra sosta e sparava di nuovo. I militi erano rimasti lì con il moschetto in
mano e aspettavano. [...] Ma davanti al penultimo la sua sosta fu più lunga e sparò due volte. Ebbe un
momento d’incertezza. Accorse uno in tuta mimetica, il calcio del fucile sotto l’ascella. Lasciò partire una
breve scarica, poi guardò, non era convinto, sparò ancora. Si vedevano i piccoli bossoli d’ottone saltellare
sul selciato, e la massa a terra sussultava.
Su di lui non sparò. Fece cenno anche all’altro di smetterla. Tornò verso il plotone e gli si affiancò. «Fianco
sinistr, sinistr!... Per fila sinistr, march...»...57
57
CARLO MAZZANTINI, A cercar la bella morte, II ed., Venezia, Marsilio, 1995, pp. 69-71, e I ed., Milano, Mondadori, 1986,
pp. 75-86.