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Volume ViII
N˚ 4/2016
Periodico trimestrale - POSTE ITALIANE SpA - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 conv. in L. 27/02/2004 n. 46 art. 1, comma 1, DCB PISA
Aut. Trib. di Milano n. 208 del 29-04-2009 - dicembre - Finito di stampare presso IGP - Pisa, dicembre 2016 - ISSN: 2282-2453 (Print) – ISSN 2499-7870 (Online)
Organo ufficiale SIGENP
GUIDELINES: WHAT IS THE BEST
FOR CLINICAL PRACTICE
Una Consensus Statement sulla vitamina D
nella salute della popolazione europea
PEDIATRIC NUTRITION
& HEALTH AND FOOD SCIENCE
Disordini nutrizionali a esordio precoce
NEWS IN PEDIATRIC
GASTROENTEROLOGY
PHARMACOLOGY
Trattamento della epatite autoimmune giovanile
RECENT ADVANCE
IN BASIC SCIENCE
Diarree congenite: una nuova classificazione
basata sulle recenti evidenze scientifiche
IBD HIGHLIGHTS
L’anemia nelle malattie infiammatorie croniche
intestinali
Volume VIII - N˚ 4/2016 - Trimestrale
Consiglio Direttivo SIGENP
Presidente
Carlo Agostoni
Vice-Presidente
Costantino De Giacomo
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Direttore Responsabile
Patrizia Alma Pacini
Responsabile Commissione Editoria
Claudio Romano · [email protected]
Direttore Editoriale
Mariella Baldassarre · [email protected]
Capo Redattore
Francesco Cirillo · [email protected]
Assistenti di Redazione
Giulia Medicamento · [email protected]
Pietro Drimaco · [email protected]
Comitato di Redazione
Salvatore Accomando · [email protected]
Barbara Bizzarri · [email protected]
Osvaldo Borrelli · [email protected]
Teresa Capriati · [email protected]
Fortunata Civitelli · [email protected]
Antonella Diamanti · [email protected]
Antonio Di Mauro · [email protected]
Monica Paci · [email protected]
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Redazione
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Sommario
141 EDITORIALE
M. Baldassarre
142 GRAZIE A …
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143 CLINICAL SYSTEMATIC REVIEW
“Early life events” e disordini funzionali gastrointestinali:
alla radice del problema
Early life events and the onset of childhood functional
gastrointestinal disorders
V. Rizzo, M. Baldassarre
147 PEDIATRIC HEPATOLOGY
Aspetti clinici e fattori di rischio della malattia epatica
associata a IBD (risultati dal registro IBD)
Clinical features and risk factors of IBD-related
autoimmune liver disease: data from the SIGENP IBD
registry
M. Bramuzzo, S. Martelossi
152 PEDIATRIC NUTRITION
& HEALTH AND FOOD SCIENCE
Disordini nutrizionali a esordio precoce
Nutritional and feeding disorders
C. Romano, S. Spadaro
156 IBD HIGHLIGHTS
L’anemia nelle malattie infiammatorie croniche intestinali
Anemia in inflammatory bowel disease
S. Festa, G. Gallusi, R. Ballanti, C. Papi
162 NEWS IN PEDIATRIC
GASTROENTEROLOGY PHARMACOLOGY
Trattamento della epatite autoimmune giovanile
Management of juvenile autoimmune hepatitis
G. Maggiore, S. Nastasio, C. Malaventura, M. Sciveres
167 CASE REPORT
Segreteria SIGENP
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COME SI DIVENTA SOCI DELLA
Un’ematemesi come un’altra: si parte sempre dall’anamnesi!
A hematemesis as another: it always starts by history!
S. Iuliano, M. Manfredi, F. Gaiani, B. Bizzarri, P. Gismondi, F.
Fornaroli, G.L. de’Angelis
168 ENDOSCOPY LEARNING LIBRARY
Criteri di appropriatezza della colonscopia nel bambino
Appropriateness of pediatric colonoscopy
G. Lombardi, M.T. Illiceto
172 RECENT ADVANCE IN BASIC SCIENCE
Diarree congenite: una nuova classificazione basata sulle
recenti evidenze scientifiche
Congenital diarrheal disorders: toward a new
classification deriving from more recent scientific
evidence
V. Pezzella, G. Castaldo, R. Berni Canani
178 GUIDELINES: WHAT IS THE BEST
FOR CLINICAL PRACTICE
Una Consensus Statement sulla vitamina D nella salute
della popolazione europea
A Consensus Statement about vitamin D in healthy European
pediatric population
T. Capriati, S. Amarri, G. Lamberti
190 INVITED COMMENTARY
Reflusso faringo-laringeo in età pediatrica e otite media
effusiva
I. La Mantia
L’iscrizione alla SIGENP come Socio è riservata a coloro (medici/
ricercatori) che dimostrano interesse nel campo della Gastroenterologia, Epatologia e Nutrizione Pediatrica.
I candidati alla posizione di Soci SIGENP devono compilare una apposita scheda con acclusa firma di 2 Soci presentatori. I candidati
devono anche accludere un curriculum vitae che dimostri interesse
nel campo della Gastroenterologia, Epatologia e Nutrizione Pediatrica.
In seguito ad accettazione della presente domanda da parte del
Consiglio Direttivo SIGENP, si riceverà conferma di ammissione ed
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• € 90,00 quota associativa annuale SIGENP con abbonamento DLD
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Per chi è interessato la scheda di iscrizione
è disponibile sul portale SIGENP
www.sigenp.org
Editoriale
Carissimi,
la prima cosa che desidero fare dalle pagine di questo editoriale è augurare buon lavoro al
nuovo presidente della SIGENP, Prof. Carlo Agostoni, e ai nuovi consiglieri, Costantino De
Giacomo, Immacolata Spagnuolo e Marina Aloi, che si affiancano ad Antonella Diamanti,
Erasmo Miele ed Elena Lionetti, già presenti. Il Consiglio Direttivo della Società riparte con
nuove energie e nuove competenze.
Carlo Agostoni è professore ordinario di Pediatria e direttore della UOC di Pediatria della
Fondazione IRCCS Cà Granda, Ospedale Maggiore Policlinico, Università Statale di Milano;
Costantino De Giacomo è direttore della UOC di Pediatria e del Dipartimento Maternoinfantile dell’AO Niguarda Cà Granda a Milano, Immacolata Spagnuolo lavora presso il Dipartimento di Pediatria dell’Università “Federico II” di Napoli, con specifiche competenze in nutrizione clinica,
Marina Aloi è ricercatrice presso il Dipartimento di Pediatria de “La Sapienza”, Università di Roma.
Ognuno di loro saprà arricchire con la propria esperienza il cammino comune verso una maggiore conoscenza dei problemi che riguardano la gastroenterologia, l’epatologia e la nutrizione pediatrica in Italia.
In questo numero del giornale desidero segnalarvi innanzitutto l’articolo sulle linee guida della prescrizione
della vitamina D. Teresa Capriati e Sergio Amarri si sono sforzati di sintetizzare e commentare in maniera critica varie “consensus” europee e italiane, cercando di “stigmatizzare” i comportamenti prescrittivi più appropriati, alla luce anche delle innumerevoli funzioni attribuite oggi a questa sostanza, che possiamo considerare
a tutti gli effetti come un ormone. Si tratta di un articolo ad “alto impatto di conoscenza”, non solo per gli
specialisti del settore gastroenterologico, ma anche per i pediatri di famiglia.
Claudio Romano (Messina) ci descrive i “disordini nutrizionali a esordio precoce”. Un alterato rapporto col cibo
può diventare un autentico catalizzatore di “stress” per tutta la famiglia. L’equazione “mio figlio non mangia
quindi io non sono una buona madre” alimenta il senso di inadeguatezza delle madri, soprattutto quando sono
alla prima esperienza, e può alterare il rapporto con il bambino, ma anche quello con il partner. L’articolo riferisce
che alterazioni dell’interazione madre-figlio sono alla base di disturbi alimentari nel bambino: ansia, ipercontrollo, rigidità, iperprotezione sono le condizioni più comuni. Nella stessa ottica si colloca la review messa a punto
da Valentina Rizzo e da me sulla disamina della relazione esistente fra gli eventi di vita precoci (early life events) e
i disturbi funzionali gastrointestinali (DFGI). Non dobbiamo mai dimenticare che un disturbo intestinale è a volte
un “avatar” di un disagio di relazione o psicosociale. Noi, che ci occupiamo di intestino e di nutrizione, dobbiamo farci osservatori attenti del microcosmo nel quale vive il bambino, prima di medicalizzare magari inutilmente.
Le malattie infiammatorie intestinali si arricchiscono in questo numero della descrizione di due aspetti: l’anemia, descritta da Stefano Festa e coll. (Roma), e la malattia epatica, a cura di Stefano Martelossi e coll. (Trieste), a esse correlate. Giuliano Lombardi (Pescara) e coll. ci parla dei criteri di appropriatezza della colonscopia in età pediatrica. Trattandosi di un esame invasivo, che viene effettuato in sedazione e a volte in anestesia
generale, è bene avere le idee chiare. Come ci spiega l’articolo, infatti, le colonscopie sono “appropriate” se i
benefici superano i rischi attesi con un margine tanto significativo da rendere indicate le procedure.
Roberto Berni-Canani (Napoli) e coll. fa una disamina completa delle diarree congenite neonatali, malattie rare
ma che vanno prontamente identificate e trattate. Giuseppe Maggiore (Ferrara) e coll. ci parla in questo numero,
con un approccio sistematico ed estremamente chiaro, del trattamento dell’epatite autoimmune giovanile.
Il caso clinico che ci presentano Silvia Iuliano e Marco Manfredi (Parma) è intrigante e insolito.
Troverete poi un “commento su invito” del professor La Mantia, professore associato di otorinolaringoiatria a Catania, sul reflusso faringo-laringeo, problematica a “ponte” con il reflusso gastro-esofageo, per cercare di mettere
a fuoco le caratteristiche di tale patologia. È frequente infatti che l’otorino prescriva gli inibitori di pompa protonica
per disturbi a carico delle alte vie aeree. Quali sono questi disturbi e quanto è corretto tale comportamento?
Prima di terminare, visto che mentre scrivo siamo tra la fine di un anno e l’inizio di un altro, permettetemi di
accogliere in un abbraccio virtuale tutto lo staff della redazione del giornale: i coordinatori di rubrica, gli assistenti di redazione, la segreteria. Un grazie speciale a tutti coloro che nel corso di quest’anno hanno dedicato
un po’ del loro tempo a scrivere per noi e che ci hanno donato ricchezza attraverso i loro contributi.
A tutti noi e a voi, che ci leggete, auguro un anno meraviglioso.
Giorn Gastr Epatol Nutr Ped 2016;VIII:141
141
Grazie a…
Sponsor 2016
Aurora Biofarma Srl, Di Leo Pietro Spa, Dr. Schar AG, A. Menarini Industrie Farmaceutiche Riunite Srl,
Neoox – Sooft Italia, Nutricia Italia Spa
Autori articoli annata 2016
Lucia Adamoli, Daniele Alberti, Marina Aloi, Tommaso Alterio, Sergio Amarri, Renata Auricchio, Mariella
Baldassarre, Riccardo Ballanti, Lisa Barkley, Roberto Berni Canani, Barbara Bizzarri, Giovanni Boroni,
Osvaldo Borrelli, Matteo Bramuzzo, Teresa Capriati, Antonio Cascio, Giuseppe Castaldo, Carlo Catassi,
Fortunata Civitelli, Maria Grazia Clemente, Fernanda Cristofori, Salvatore Cucchiara, Giulia D’Arcangelo,
Gian Luigi de’Angelis, Antonella Diamanti, Domenica Elia, Stefano Festa, Fabiola Fornaroli, Ruggiero Francavilla, Stéphanie Franchi-Abella, Federica Furfaro, Federica Gaiani, Giulia Gallusi, Antonella Gentile, Daniela Giorgio, Pierpacifico Gismondi, Emmanuel Gonzales, Florent Guérin, Maria Teresa Illiceto, Silvia Iuliano, Ignazio La Mantia, Giulia Lamberti, Robert Lane, Francesca Laureti, Elena Lionetti, Giuliano Lombardi,
Vincenzina Lucidi, Giovanni Maconi, Giuseppe Maggiore, Cristina Malaventura, Roberta Mandile, Marco
Manfredi, Daniela Marino, Stefano Martelossi, Giovanni Mazzola, Stefano Miceli Sopo, Serena Monaco,
Monica Montuori, Silvia Nastasio, Salvatore Oliva, Giuseppe Pagliaro, Claudio Papi, Vincenza Pezzella,
Valentina Rizzo, Claudio Romano, Francesca Romano, Giusy Russo, Cardile Sabrina, Silvia Salvatore,
Camilla Salvestrini, Elena Scarpato, Marco Sciveres, Marco Silano, Sara Spadaro, Marina Tripodi, Marcello
Trizzino, Riccardo Troncone, Chiara Maria Trovato, Pietro Vajro, Francesco Valitutti, Debora Vezzoli
Comitato editoriale
Mariella Baldassarre (Direttore editoriale)
Assistenti di Redazione
Pietro Drimaco, Giulia Medicamento
Caporedattore
Francesco Cirillo
Comitato di redazione
Salvo Accomando, Barbara Bizzarri, Osvaldo Borrelli, Teresa Capriati, Fortunata Civitelli, Antonella
Diamanti, Antonio Di Mauro, Salvatore Oliva, Monica Paci, Claudio Romano
142
Giorn Gastr Epatol Nutr Ped 2016;VIII:142
a cura di
Osvaldo Borrelli
CLINICAL SYSTEMATIC REVIEW
“Early life events” e disordini funzionali
gastrointestinali: alla radice del problema
Early life events and the onset of childhood functional
gastrointestinal disorders
Introduzione
I disordini funzionali gastrointestinali (DFGI) rappresentano un insieme di sintomi ricorrenti o cronici, variabili per età, non associati a una patologia organica
di base; possono essere fisiologici, espressione di un
normale sviluppo (es. rigurgito del lattante), o derivare
da risposte comportamentali anomali a stimoli interni
o esterni (es. stipsi funzionale causata da defecazione
dolorosa o da forzato toilet training).
Un DFGI può essere considerato, pertanto, il prodotto
clinico dell’interazione tra alterata fisiologia intestinale
e fattori psicologici e socioculturali, capaci di amplificare la percezione dei sintomi, così che questi vengano vissuti come severi, invalidanti e con un’importante
ripercussione sulle attività di vita quotidiana 1.
Nonostante i recenti progressi nelle conoscenze dei
meccanismi fisiopatologici alla base di alcuni DFGI,
non esiste a tutt’oggi alcun “marker” che possa portare alla diagnosi finale.
Per valutare il ruolo della componente genetica o ambientale nella patogenesi dei DFGI è stato condotto
uno studio sulle famiglie dei bambini affetti da DFGI,
in cui si è osservata una significativa aggregazione familiare 2.
I fattori genetici possono predisporre alcuni individui a
sviluppare i DFGI, attraverso diverse modalità: bassi livelli di IL-10 (citochina antinfiammatoria), polimorfismi
del carrier responsabile del reuptake della serotonina,
polimorfismi della proteina G, polimorfismi del recettore alfa-2 adrenergico.
Tuttavia i fattori genetici da soli non rendono ragione
del manifestarsi dei DFGI, se non in associazione a
fattori psicosociali e culturali, il cui peso però è difficilmente quantificabile e valutabile per l’estrema variabilità interpersonale, culturale e socio-economica.
I fattori psicosociali (forti emozioni, stress) possono
esacerbare l’intensità dei sintomi gastrointestinali,
causando, per esempio, un’alterata motilità a livello
dell’esofago, stomaco, piccolo intestino e colon. I pazienti affetti da DFGI, rispetto a soggetti non affetti,
sono caratterizzati da un’alterata risposta motoria in
seguito ad esposizione a fattori stressanti 3.
Valentina Rizzo (foto)
Mariella Baldassarre
Dipartimento di Scienze Biomediche
e Oncologia Umana, Sezione di
Neonatologia e TIN, Università
degli Studi “Aldo Moro”, Ospedale
Policlinico, Bari
Key words
Functional gastrointestinal disorders •
Early life events • Irritable Bowel
Syndrome
Abstract
Functional gastrointestinal disorders (FGIDs)
are common digestive conditions characterized by chronic or recurrent symptoms in the
absence of a clearly recognizable etiology. The
biopsychosocial model, the most accepted concept explaining chronic pain conditions, proposes that the interplay of multiple factors such
as genetic susceptibility, early life experiences,
sociocultural issues, and coping mechanisms
might affect children at different stages of their
lives leading to the development of different
pain phenotypes and pain behaviors. Early life
events including gastrointestinal inflammation,
trauma, and stress may result in maladaptive responses that could lead to the development of
chronic pain conditions such as FGIDs.
In this review, we discuss novel findings from
studies regarding the long-term effect of early
life events and their relationship with FGIDs.
Indirizzo per la corrispondenza
Mariella Baldassarre
Dipartimento di Scienze Biomediche e Oncologia
Umana, Sezione di Neonatologia e TIN,
Università degli Studi “Aldo Moro”, Ospedale
Policlinico
piazza G. Cesare 11, 70124 Bari
E-mail: [email protected]
Giorn Gastr Epatol Nutr Ped 2016;VIII:143-146; doi: 10.19208/2282-2453-131
143
V. Rizzo, M. Baldassarre
L’ipersensibilità viscerale aiuta a
comprendere meglio l’associazione del dolore con molti DFGI;
i pazienti affetti da DFGI, infatti, hanno una più bassa soglia di
percezione del dolore (iperalgesia
viscerale) o un’aumentata sensibilità (allodinia), in presenza di una
normale funzione intestinale 4.
L’ipersensibilità può dipendere da
un’attivazione a livello della mucosa intestinale di chemocettori
o meccanocettori presenti sulle
fibre nervose che originano dal
plesso sottomucoso o dal pleasso
meinetrico. Tale attivazione può
essere indotta da un’infiammazione mucosale, dalla degranulazione delle mastcellule in prossimità
delle fibre nervose, da un’aumentata attività serotoninergica o da
un’alterazione della microflora intestinale.
La richiesta di cure mediche per
disturbi funzionali dipende dal livello di preoccupazione dei genitori, legata a sua volta alle esperienze personali, allo stile di vita,
alle aspettative e alla percezione
della malattia da parte degli stessi. Un’efficace gestione di questi
disturbi si basa dunque sulla creazione di una solida alleanza con la
famiglia. Sicuramente la presenza
di aspetti psicopatologici nei genitori può condizionare l’eventuale
insorgenza di DFGI nel bambino e
influenzarne l’outcome. Tuttavia
questo aspetto andrebbe considerato all’interno di un contesto
più ampio, che tenga conto anche
degli eventi pre, peri e postnatali.
Già nella vita intrauterina, infatti,
il feto vive esperienze somatiche,
pur non avendo una vera rappresentazione della propria immagine
corporea e della propria individualità. Alla nascita, il tipo di travaglio,
di parto, la prematurità e le complicanze a essa correlate, il modo
in cui il bambino è accudito dal
punto di vista fisico (handling),
assieme all’atteggiamento corporeo assunto dalla madre quando
144
lo tiene in braccio e lo contiene
(holding), favoriscono lo sviluppo
di un Sé allo stesso tempo psichico e somatico, cioè di un senso di
esistenza nel proprio corpo, processo che Winnicott ha descritto
in termini di integrazione psicosomatica.
Le prime interpretazioni sulla relazione fra gli eventi di vita precoci
(early life events) e i DFGI risalgono
alle cosiddette “ipotesi qualitativa
e quantitativa”. La prima afferma
che i soli eventi negativi, legati
a una perdita o a una situazione
non controllabile, hanno un ruolo
patogeno. Il modello quantitativo,
invece, prevede che “l’evento” sia
un fattore rilevante nella vita di
ogni soggetto indipendentemente dalla sua positività o negatività,
ma in grado di determinare uno
squilibrio che si manifesta sotto
forma di sintomi. Nel corso degli
anni, gli studi scientifici hanno valutato altri aspetti sia psicologici
sia biologici, rendendo il panorama ben più complesso. Sembra
comunque che gli early life events
favoriscano l’esordio dei disturbi
non solo in quanto generano uno
squilibrio, ma perché interagiscono con fattori individuali, familiari
e biologici.
Obiettivi
Obiettivo di questo articolo è stato quello di eseguire una revisione della letteratura, allo scopo di
comprendere la correlazione esistente tra disturbi funzionali gastrointestinali ed early life events e
la modalità in cui questi ultimi influenzano insorgenza, andamento
e compliance terapeutica.
Metodologia
Sono stati inclusi in questa revisione tutti gli articoli disponibili su
Medline pubblicati negli ultimi 20
anni, inerenti i disturbi funzionali
gastrointestinali, definiti secondo
i criteri di Roma III, e gli eventi di
vita precoci.
Le parole usate per la ricerca sono
state le seguenti: “Functional gastrointestinal disorder”, “Chronic
pain”, Gastrointestinal inflammation”, “Early life events”, “Abdominal pain”.
Risultati
Sono stati individuati 150 studi
pubblicati tra il 1990 e il 2016. Di
questi circa 30 hanno soddisfatto i
nostri criteri di ricerca e sono stati
considerati per questa revisione.
Shuller et al. hanno condotto uno
studio prospettico multicentrico,
arruolando 280 neonati nati tra il
2007 e il 2010, con parto cesareo,
parto spontaneo e parto operativo
con vacuum extractor, escludendo i neonati pretermine e neonati
ricoverati in terapia intensiva neonatale (TIN). Scopo dello studio
è stato quello di dimostrare come
la modalità del parto e lo stress
peripartum potessero influenzare l’insorgenza di DFGI nel bambino, attraverso un’alterazione
della percezione del dolore acquisita durante la vita perinatale:
a tal proposito è stata misurata la
quantità di cortisolo presente nella
saliva dei neonati e la risposta allo
stimolo doloroso (mediante EDIN
scale e “Bernese Pain Scale for
Neonates”) durante lo screening
neonatale a 72 ore di vita (Guthrie
test). I neonati nati con parto operativo con vacuum extractor presentavano una concentrazione di
cortisolo significativamente maggiore rispetto ai nati con taglio
cesareo e un EDIN score più elevato 5.
Nel 2006 Ramchandani et al. hanno dimostrato per la prima volta,
attraverso uno studio prospettico
di coorte longitudinale arruolando
8272 bambini di età media di 6
anni e mezzo, come l’insorgenza
di DFGI fosse strettamente dipen-
CLINICAL SYSTEMATIC REVIEW
“Early life events” e disordini funzionali gastrointestinali
dente da disturbi del comportamento e/o della personalità dei loro
genitori; nello specifico, i bambini i
cui genitori avevano presentato disturbi d’ansia, di depressione e/o
disturbi psicosomatici nel corso del
primo anno di vita del proprio figlio,
presentavano in epoca scolare coliche addominali, dolori addominali ricorrenti, e IBS (Irritable Bowel
Syndrome), con frequenza maggiore rispetto ai controlli 6.
Allo stesso modo Bonilla e Saps,
nel 2013 in una revisione sistematica, hanno dimostrato come
alcuni early life events (tipo di parto, allergia alle proteine del latte
vaccino, stenosi ipertrofica del
piloro, infezioni gastrointestinali nel primo mese di vita, tipo di
allattamento) giochino un ruolo
fondamentale nella comparsa di
DFGI. Neonati ricoverati in TIN e
sottoposti a procedure invasive e
dolorose (prelievo venoso o solo
utilizzo del sondino naso gastrico)
presentavano, rispetto a neonati “sani”, un’inibizione dell’asse
ipotalamo-ipofisi-surrene (APH),
valutata mediante misurazione dei
livelli del cortisolo, che correlava
positivamente con un’alterata risposta agli stimoli dolorosi 7.
L’importanza dell’asse cervellointestino e le conseguenze legate alla sua alterazione sono state
evidenziate negli studi condotti da
Van Oudenhove et al. nel 2004 e
confermati da McCrory et al. nel
2010. L’asse cervello-intestino è
composto all’incirca di tre parti: il
sistema nervoso enterico (SNE), il
sistema nervoso autonomo (SNA)
e il sistema nervoso centrale
(SNC) di cui fanno parte il midollo
spinale e il cervello. Il SNE è strutturalmente e funzionalmente complesso e si trova all’interno della
parete del tratto gastrointestinale;
a volte è chiamato “mini-cervello”
o “cervello nell’intestino”, perché
condivide alcune caratteristiche
importanti con il SNC (comune
origine embriologica e presenza
di neurotrasmettitori quali serotonina, oppiacei e colecistochinina).
Per la frequente associazione tra
sintomi e stress, o per la coesistenza di sintomi quali ansia o depressione, i disturbi funzionali gastrointestinali, in particolar modo
l’IBS, possono essere descritti
come un’alterazione dell’asse
“cervello-intestino”.
L’integrità di questo asse è coinvolta nella modulazione dei processi digestivi (motilità gastrointestinale e secrezione), della
funzionalità immunitaria, della
percezione e risposta emotiva a
stimoli viscerali. Tale integrità è
generalmente modulata sia dal
microbiota intestinale, attraverso
meccanismi neuro-endocrini non
ancora del tutto chiari, che da diversi neurotrasmettitori, in particolar modo la serotonina, considerata una molecola fondamentale per
lo sviluppo cerebrale, in particolar
modo nelle prime epoche di vita.
O’ Mahony et al. nel 2015 hanno
infatti dimostrato come una bassa concentrazione di serotonina,
alterazioni del microbiota intestinale, dovute a terapie antibiotiche
protratte per lunghi periodi, taglio
cesareo, mancato allattamento al
seno, potessero alterare l’integrità
dell’asse APH e quindi predisporre verso l’insorgenza di DFGI 8.
Baldassarre et al. recentemente hanno condotto un trial clinico
randomizzato, a doppio cieco, per
dimostrare come l’assunzione di
probiotici da parte della madre sia
durante la gravidanza, che durante l’allattamento, potesse avere un
ruolo “protettivo” nei confronti della comparsa di DFGI nei loro figli.
Sono state arruolate 66 gestanti
di età compresa tra 18 e 44 anni
ricoverate c/o il Dipartimento di
Ginecologia ed Ostetricia del Policlinico di Bari. A 33 donne sono
stati somministrati probiotici per
os, 4 settimane prima rispetto alla
presunta data del parto e 4 settimane dopo il parto, alle restanti
è stato somministrato placebo. Il
latte delle gestanti che avevano
assunto probiotici, sia prima che
dopo il parto, presentava livelli di
citochine antinfiammatorie, nello
specifico IL10 e TGF-β, più elevati
rispetto alle gestanti a cui era stato
somministrato placebo 9.
Conclusioni
e prospettive
di ricerca
per il futuro
I disordini funzionali gastrointestinali includono una variabile combinazione di sintomi cronici o ricorrenti, spesso età-dipendenti, non
riconducibili a nessuna anomalia
biochimica o strutturale. Sono
enigmatici, non facilmente trattabili
e soprattutto poco interpretabili.
Gestire un disordine funzionale non
è facile, soprattutto perché ci si
trova a dover far fronte, oltre al malessere del piccolo paziente, anche
alle preoccupazioni dei genitori, che
dal medico cercano risposte concrete. Inoltre interpretare i sintomi in
bambini molto piccoli non è lavoro
semplice. Una diagnosi fallimentare e un trattamento inappropriato
potrebbero causare sofferenze sia
fisiche che emozionali. È assolutamente indispensabile una stretta
alleanza tra medico e genitori.
Stabilire un rapporto di fiducia e mitigare le preoccupazioni della famiglia è sicuramente il primo passo da
compiere. È pertanto fondamentale
escludere i segni e i sintomi d’allarme, e tranquillizzare la famiglia sulla
benignità del disturbo, con un appropriato counselling.
Complessivamente, i vari studi
analizzati in questa review hanno dimostrato e confermato che
diversi fattori eziologici, la cui
importanza varia da paziente a
paziente, possono rivestire un
ruolo cruciale nella patogenesi dei
DFGI: eventi precoci di vita avversi, sofferenze pre, peri e postnatali, disturbi della motilità intestinale,
145
V. Rizzo, M. Baldassarre
alterazione della soglia del dolore
e di altre sensazioni viscerali, infiammazioni e infezioni intestinali,
alterazione del microbiota intestinale, stress psicologico e disturbi
di personalità.
Agire in maniera costante, precisa ed efficace sui fattori di rischio
modificabili e in parte noti, potrebbe essere il primum movens verso
la prevenzione dei DFGI.
È importante pertanto promuovere il bonding per consolidare la
diade madre-neonato sin dalla nascita attraverso il contatto fisico,
l’allattamento al seno, la riduzione
di manovre invasive e dolorose,
in particolare in bambini che necessitano di lunghi periodi di assistenza nelle terapie intensive.
Recentemente studi di metagenomica stanno tentando di caratterizzare il microbiota comune nei
pazienti affetti da DFGI, che sembrerebbe essere diverso rispetto a
quello presente nei soggetti normali
e, sebbene i risultati degli studi per
ora siano molto variabili e non del
tutto significativi, la maggior parte
di essi indica che nell’IBS le feci
contengono concentrazioni significativamente minori di bifidobatteri
e di lattobacilli (specie batteriche
usualmente presenti nei preparati probiotici). Pertanto l’utilizzo dei
probiotici potrebbe rappresentare
un ulteriore approccio nei pazienti
affetti da DFGI, sebbene gli effetti
positivi sono strettamente legati
alle singole specie e ceppi batte-
rici, che possono anche essere efficaci solo su determinati clusters
di sintomi.
Sono necessari trial clinici randomizzati (RCT) che coinvolgano popolazioni molto più selezionate e
numerose e che utilizzino probiotici con proprietà microbiologiche
meglio caratterizzate e definite.
L’efficacia reale dei prebiotici invece sui sintomi da IBS, al di là
dell’effetto positivo noto sulla replicazione della flora batterica e
dei probiotici somministrati, resta
tutta da dimostrare: sono indispensabili ampi RCT che valutino,
anche con una intention-to-treat
analysis, l’effetto sui singoli sintomi di IBS di regimi alimentari con
e senza prebiotico e che misurino
anche l’impatto di tali diete sul microbiota gastrointestinale.
Svariati sono ancora i quesiti da
affrontare, le variabili da analizzare e i filoni di ricerca, per ottenere
un inquadramento completo del
problema “DFGI”.
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10
• I DFGI possono essere considerati come derivanti dell’interazione tra alterata fisiologia intestinale e fattori psicologici e
socioculturali, capaci di amplificare la percezione dei sintomi con un’importante ripercussione sulle attività quotidiane.
• Terapie antibiotiche protratte per lunghi periodi, taglio cesareo, mancato allattamento al seno, possono predisporre
all’insorgenza di DFGI, attraverso le alterazioni del microbiota.
• È importante promuovere il bonding per consolidare la diade madre-neonato sin dalla nascita attraverso il contatto
cutaneo, l’allattamento al seno, la riduzione di manovre invasive e dolorose, in particolare in bambini che necessitano
di lunghi periodi di assistenza nelle terapie intensive.
146
a cura di
Francesco Cirillo
PEDIATRIC HEPATOLOGY
Aspetti clinici e fattori di rischio della
malattia epatica associata a IBD
(risultati dal registro IBD)
Clinical features and risk factors of IBD-related autoimmune
liver disease: data from the SIGENP IBD registry
La malattia di fegato
nelle IBD
Le patologie a carico del fegato e delle vie biliari sono
fra le complicanze extraintestinali che più frequentemente si riscontrano nei pazienti con malattia infiammatoria cronica dell’intestino (Inflammatory Bowel
Disease – IBD) potendo coinvolgere fino al 50% dei
pazienti adulti 1.
Le patologie epatobiliari possono essere principalmente: 1) malattie su base autoimmune che rappresentano l’espressione di una disregolazione basale del
sistema immunitario condivisa con l’IBD; 2) la conseguenza dello stato flogistico non controllato che riflette
la gravità della malattia; 3) l’effetto avverso delle terapie sia in termini di tossicità diretta che, più raramente,
a seguito della riattivazione di virus epatotropi in corso
di trattamento immunosoppressivo (Tab. I) 1.
In questa discussione ci occuperemo solamente del
primo gruppo di patologie che indicheremo di seguito
come malattie di fegato autoimmuni (autoimmune liver
diseases – AILD).
Le AILD coinvolgono circa l’8% dei bambini con IBD e
si distinguono principalmente nei quadri della colangite sclerosante e dell’epatite autoimmune 2, 3.
La colangite sclerosante è una malattia infiammatoria fibrosante a progressivo andamento concentrico e
obliterante delle vie biliari (Fig. 1). È ancora discusso
se la colangite sclerosante sia sempre una vera patologia autoimmune; tuttavia, almeno in età pediatrica, è raramente una patologia isolata e, in oltre l’80%
dei casi, è associata a una IBD 4. Ne consegue che
la colangite sclerosante del bambino impone sempre
il sospetto di una IBD associata, anche in assenza di
sintomi gastrointestinali.
L’epatite autoimmune è una patologia infiammatoria
cronica che coinvolge il parenchima epatico e che si
esprime con l’aumento degli anticorpi sierici di classe
IgG, con la positività di specifici autoanticorpi (antinucleo, ANA, e anti-muscolo liscio, SMA per l’epatite
autoimmune (EA) di tipo 1, anti-microsoma di fegato/
rene LKM-1 per l’EA di tipo 2) e, a livello istologico,
con un’epatite di interfaccia (Fig. 2) 5. Il legame dell’e-
Matteo Bramuzzo (foto)
Stefano Martelossi
Clinica Pediatrica, Istituto Materno
Infantile IRCCS “Burlo Garofolo”,
Trieste
Key words
Inflammatory bowel disease •
Autoimmune hepatitis • Sclerosing
cholangitis • Overlap syndrome
Abstract
Autoimmune liver disease is frequently reported in children with inflammatory bowel disease
and in those cases the intestinal disease seems
to have distinguishing features.
We investigated the relation between autoimmune liver disease and inflammatory bowel disease in Italian children analyzing the data from
the SIGENP IBD registry.
Indirizzo per la corrispondenza
Matteo Bramuzzo
Clinica Pediatrica, Istituto Materno Infantile IRCCS
“Burlo Garofolo”
via dell’Istria 65/1, 34137 Trieste
E-mail: [email protected]
Giorn Gastr Epatol Nutr Ped 2016;VIII:147-151; doi: 10.19208/2282-2453-132
147
M. Bramuzzo, S. Martelossi
Tabella I.
Associazione tra IBD e manifestazioni epato-biliari (da Navaneethan et al. 2010 1, mod.).
Manifestazioni che condividono meccanismi
patogenetici con le IBD
Colangite sclerosante
Colangite dei piccoli dotti
Colangiocarcinoma
Epatite autoimmune/sindrome da overlap con colangite sclerosante
Colangite IgG4-associata
Manifestazioni che seguono la fisiopatologia Colelitiasi
delle IBD
Trombosi della vena porta e ascesso epatico
Manifestazioni associate al trattamento
delle IBD
Epatite farmaco-indotta (mercaptopurine, methotrexate, ciclosporina, infliximab)
Riattivazione epatite B (infliximab)
Linfoma epatosplenico a cellule T
Manifestazioni possibilmente associate alle
IBD
Steatosi epatica
Amiloidosi epatica
Granulomatosi epatica
Cirrosi biliare primitiva
Figura 1.
Colangio-RM di un paziente con colangite sclerosante: l’albero biliare intraepatico presenta aree di stenosi e dilatazioni con un aspetto a “corona di rosario”.
patite autoimmune con le IBD è
meno stretto rispetto a quello del-
148
la colangite sclerosante, poiché
solo il 20% dei pazienti con epa-
tite autoimmune ha un IBD e solo
lo 0,5% dei pazienti con morbo di
Crohn e di quelli con rettocolite
ulcerosa presenta un’epatite autoimmune associata 5.
La distinzione tra colangite sclerosante ed epatite autoimmune non
è però sempre netta e i due quadri
possono essere sovrapposti, andando a delineare la cosiddetta
“sindrome da overlap” detta anche “colangite autoimmune”. Non
è chiaro se questa condizione sia
data dalla semplice concomitanza delle due patologie, se rappresenti una fase nell’evoluzione
di un’unica malattia o se sia una
condizione a sé stante. Molti studi
hanno però evidenziato come la
sindrome da overlap sia forse la
manifestazione di AILD associata
alla IBD più frequente in età pediatrica.
La diagnosi della patologia intestinale origina quasi sempre dalla presenza di sintomi, mentre
la malattia di fegato è il più delle
volte scoperta occasionalmente
a seguito del riscontro di segni di
colestasi anche minimi (moderato
aumento della transaminasi con
gGT elevate).
La definizione definitiva di AILD
dovrebbe prevedere sia un ima-
PEDIATRIC HEPATOLOGY
Malattia epatica e IBD
dio di coorte analizzando i dati presenti nel registro delle IBD pediatriche stabilito dalla Società Italiana
di Gastroenterologia ed Epatologia
Pediatrica (SIGENP).
Lo studio dal
registro SIGENP
Figura 2.
Biopsia epatica di paziente con sindrome da overlap: marcata fibrosi portale
e periportale associata a spiccato infiltrato infiammatorio misto linfo-granulocitario eosinofilo e plasmacellulare, con numerose immagini di epatite di
interfaccia e di necrosi lobulare su base flogistica (gentile concessione del
dott. Aurelio Sonzogni, Ospedale Papa Giovanni XXIII, Bergamo).
ging delle vie biliari (colangioRMN o più raramente, data l’invasività dell’esame e l’esposizione a
radiazioni ionizzanti, colangiografia retrograda endoscopica) che la
biopsia epatica, poiché nelle fasi
precoci di malattia le alterazioni
macroscopiche dei dotti possono
mancare.
Per le forme con una chiara componente autoimmune (epatite autoimmune e sindrome da overlap) il
trattamento è codificato, ovvero la
doppia immunosoppressione prevista per il trattamento dell’epatite
autoimmune classica; mentre la
gestione delle colangiti “puramente
sclerosanti” è invece meno definita: se da un lato, infatti, l’acido ursodeossicolico permette la normalizzazione degli enzimi epatobiliari,
né questo né la terapia immunosoppressiva sembrano in grado di
limitare la progressione del danno
e l’evoluzione cirrogena.
Nella popolazione adulta l’IBD associata ad AILD è quasi sempre
una rettocolite ulcerosa e sembra
distinguersi per l’interessamento
pancolico con risparmio del retto
e backwash ileitis 6, 7. L’associazione delle due patologie ha anche importanti risvolti prognostici:
sebbene la malattia intestinale
sembri caratterizzarsi per un’infiammazione modesta con lunghi
periodi di remissione e poche ricadute 6, 7, la malattia epatica è
l’unica tra le manifestazioni extraintestinali a influenzare la prognosi
quoad-vitam della IBD per l’evoluzione cirrogena e per l’aumentato
rischio di colangiocarcinoma e di
carcinoma colon rettale.
Scarsi sono i dati in età pediatrica e
non è chiaro se anche le IBD pediatriche associate a AIDL abbiano un
fenotipo distintivo. Per fare maggiore luce sulla relazione tra IBD e AIDL
abbiamo quindi condotto uno stu-
Abbiamo raccolto i dati dei pazienti inseriti nel registro IBD SIGENP
dal 1 gennaio 2009 al 31 dicembre 2014 e abbiamo confrontato
le caratteristiche anagrafiche e le
caratteristiche della malattia intestinale, compreso il suo decorso
clinico, dei pazienti con IBD e malattia di fegato associata e di quelli
senza malattia di fegato. Abbiamo
poi analizzato e descritto le caratteristiche della malattia epatica.
Lo studio ha incluso 677 pazienti,
46 (6,8%) dei quali presentavano
una malattia di fegato associata. I
pazienti con malattia di fegato non
sono risultati distinguibili per età,
sesso, età alla diagnosi, durata
dei sintomi intestinali prima della
diagnosi e familiarità per IBD.
La diagnosi di RCU è risultata più
frequente nei pazienti con malattia epatobiliare (38/46 [83%] vs
322/631 [51%], odds ratio 6,8)
(Fig. 3). In questi casi, l’interessamento pan-enterico e la positività degli anticorpi anti-citoplasma
dei neutrofili (ANCA) sono risultati
significativamente più frequenti rispetto ai pazienti con IBD senza
malattia di fegato.
Il numero di pazienti con malattia
di fegato affetti da morbo di Crohn
è risultato molto ridotto e non ha
permesso di individuare caratteristiche distintive.
Non sono state osservate differenze significative tra i due gruppi
di pazienti per quanto riguarda la
necessità di terapia di terza linea
(biologici, ciclosporina, talidomide), mentre la necessità di intervento chirurgico è risultata minore
per i pazienti con malattia epatica
(0% contro 12%, p < 0,05).
149
M. Bramuzzo, S. Martelossi
sodio di colangite batterica, in un
paziente si è manifestata ipertensione portale, un paziente ha progressivamente sviluppato un quadro di insufficienza epatica che ha
richiesto il trapianto di fegato.
Discussione
IBDU: IBD-non classificata; CD: malattia di Crohn; UC: rettocolite ulcerosa
Figura 3.
Distribuzione del tipo di IBD tra i pazienti con o senza AILD.
Il percorso diagnostico che ha
condotto alla definizione di malattia di fegato ha incluso sia la colangioRM, che la biopsia epatica
nel 72% dei pazienti. Nei restanti
casi la diagnosi è stata posta sulla base di uno solo dei due esami
combinati all’ecografia addominale e agli esami di laboratorio.
28 (61%) pazienti hanno ricevuto
la diagnosi di colangite sclerosante, 3/46 (6%) di epatite autoimmune, 15/46 (33%) di sindrome da
overlap.
La diagnosi di malattia epatica è
stata posta contemporaneamente
alla diagnosi di IBD in 25 (54%)
pazienti; in 10 (22%) pazienti la
diagnosi di malattia epatica ha
preceduto quella di IBD, mentre
in 11 (24%) pazienti è stata successiva. In entrambi i casi l’intervallo tra le due diagnosi è stato
in media di circa 6 mesi. Sintomi
riconducibili alla malattia epatica,
come astenia, anoressia, dolore epigastrico, erano presenti nel
26% dei casi e solo un paziente
(2%) riferiva prurito.
Escludendo i pazienti con epatite
150
autoimmune isolata, nei 43 pazienti rimanenti il danno a carico
delle vie biliari aveva localizzazione sia intra che extra-epatica in 31
(72%) casi, esclusivamente extraepatica in 9 (21%) casi ed esclusivamente intraepatica in 3 (7%).
La valutazione degli auto-anticorpi ha evidenziato la positività
degli anticorpi anti-nucleo (ANA)
in 27/41 (64%) pazienti, degli anticorpi anti-muscolo liscio in 20/37
(54%) e degli anticorpi anti microsoma di fegato e rene di tipo 1
(LKM1) in 1/29 (3%) pazienti.
Tutti i pazienti con IBD e coinvolgimento epatico sono stati trattati
con acido ursodesossicolico; 39
(85%) sono stati trattati anche con
azatioprina; 8 (17%) hanno ricevuto una terapia di seconda linea o
una terapia sperimentale: 3 (7%)
ciclosporina, 3 (7%) mofetil micofernolato, 2 (4%) vancomicina per
via orale.
Durante un tempo di follow-up medio di quasi 3 anni (range 6 mesi11,5 anni) alcuni pazienti hanno
sviluppato una complicanza della
malattia epatica: 2 pazienti un epi-
Il nostro studio ha mostrato in
una casistica non selezionata di
pazienti pediatrici italiani che la
diagnosi di AILD coinvolge il 6,8%
dei pazienti affetti da IBD, in linea
con quanto riportato in analoghe
casistiche europee e statunitensi.
La diagnosi di rettocolite ulcerosa, specie se caratterizzata dalla
localizzazione pancolica e dalla
positività degli anticorpi ANCA,
è risultata il maggiore fattore di
rischio per l’associazione con un
AILD. Né il risparmio del retto, né
la backwash ileitis sono risultate caratteristiche endoscopiche
distintive delle IBD associate a
AILD, come invece descritto in altre casistiche.
Anche se non abbiamo potuto
valutare direttamente gli score di
malattia, il numero e l’entità delle ricadute, l’analisi delle terapie messe in atto per il controllo
della malattia intestinale non ha
evidenziato una diversa aggressività della IBD tra i pazienti con
malattia epatica associata e nei
casi di controllo. La ridotta necessità di interventi chirurgici suggerisce tuttavia un andamento meno
complicato.
Il percorso diagnostico che ha
condotto alla diagnosi di malattia
di fegato ha incluso sia la colangio-RM, che la biopsia epatica nel
72% dei casi. Questo dato, che
riflette la pratica clinica dei centri italiani, mette in luce una parziale incompletezza del percorso
diagnostico. La conoscenza sia
della morfologia delle vie biliari
che lo stato istologico del parenchima epatico è fondamentale per
inquadrare e definire in maniera
PEDIATRIC HEPATOLOGY
Malattia epatica e IBD
precisa la malattia epatica, stabilirne la prognosi e programmarne
il trattamento.
La colangite sclerosante con interessamento delle vie biliari intra ed
extraepatiche è risultata la forma
di coinvolgimento epatico più frequente; in circa un terzo dei casi
la colangite è apparsa associata
alla flogosi del parenchima epatico (sindrome da overlap), mentre
il quadro di epatite autoimmune
“pura” è stato raro.
La diagnosi della malattia epatica
è stata contemporanea a quella della malattia intestinale nella
metà dei casi, ma si è confermato come possa sia precedere che
seguire di diversi mesi. Come atteso, la malattia di fegato è stata
raramente sintomatica e il sospetto diagnostico è nato il più delle
volte dall’alterazione degli esami
ematochimici di screening.
La quasi totalità dei pazienti, anche
in assenza di segni di infiammazione del parenchima, ha ricevuto
terapia immunosoppressiva con
azatioprina, anche se non abbiamo potuto stabilire se per il con-
trollo della malattia intestinale o se,
come suggerito da alcuni approcci
terapeutici, anche per la malattia
epatica “solo sclerosante”.
Nonostante il limitato follow-up, la
malattia di fegato si è dimostrata
evolutiva già in età pediatrica nel
breve periodo e le complicanze
osservate sono state gravi e irreversibili.
In conclusione è fondamentale
non solo sospettare e cercare una
AILD nei pazienti con IBD e arrivare a una diagnosi precisa attraverso l’imaging delle vie biliari e la
biopsia epatica, ma anche avviare
un attento follow-up sia per il controllo delle possibili complicanze
intestinali che, soprattutto, epatiche.
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• Le malattie autoimmuni di fegato e vie biliari (AILD) si riscontrano in circa il 10% dei pazienti con IBD.
• La AILD è quasi sempre associata alla rettocolite ulcerosa, la quale ha in genere localizzazione pancolica, positività
degli ANCA e un decorso meno complicato.
• La malattia epatica è il più delle volte asintomatica ed è necessario avere un alto indice di sospetto diagnostico.
• In tutti i casi di sospetta AILD è necessario eseguire sia una colangio-RM che una biopsia epatica
• La malattia epatica può avere una rapida evoluzione sfavorevole e necessità di un attento monitoraggio laboratoristico
e strumentale.
151
PEDIATRIC NUTRITION
& HEALTH AND FOOD SCIENCE
a cura di
Antonella Diamanti
Disordini nutrizionali a esordio precoce
Nutritional and feeding disorders
Claudio Romano (foto)
Sara Spadaro
Dipartimento di Patologia Umana
dell’Adulto e dell’Età Evolutiva
“G. Barresi”, Università di Messina
Key words
Eating disorder • Feeding disorder •
Nutrition disorder • Non-organic
feeding disorder • Early childhood
Abstract
Nutritional disorders may be present in children and correlated
with feeding disorders. Sometimes, these conditions can be secondary to an organic condition. When non-organic etiology is present, inadequate medical interventions can contribute
to the maintenance of the problem. The risk of
malnutrition or poor growth are present when
there is a delay in diagnosis or inadequate interventions.
Indirizzo per la corrispondenza
Claudio Romano
Dipartimento di Patologia Umana dell’Adulto
e dell’Età Evolutiva “G. Barresi”,
Università di Messina
via Consolare Valeria 1, 98124 Messina
E-mail: [email protected]
152
Definizione
Il DSM-5 fornisce la seguente definizione dei disturbi
della nutrizione e dell’alimentazione: “I disturbi della
nutrizione e dell’alimentazione sono caratterizzati da
un persistente disturbo dell’alimentazione o di comportamenti collegati con l’alimentazione che determinano un alterato consumo o assorbimento di cibo e
che danneggiano significativamente la salute fisica o il
funzionamento psicosociale”. Il DSM-5 include le seguenti categorie diagnostiche come la Pica, il disturbo
di ruminazione, il disturbo da evitamento/restrizione
dell’assunzione di cibo, l’anoressia nervosa, la bulimia
nervosa, il disturbo da alimentazione incontrollata, il
disturbo della nutrizione o dell’alimentazione con specificazione, il disturbo della nutrizione o dell’alimentazione senza specificazione (e le prime tre riguardano
soprattutto i disturbi della nutrizione dell’infanzia) 1. I
disturbi alimentari dell’infanzia rappresentano problemi molto comuni. Si stima, infatti, che circa il 25% dei
bambini con un normale sviluppo psicofisico e l’80%
dei bambini con ritardo dello sviluppo possano presentano un disturbo della nutrizione e dell’alimentazione. Esso si può manifestare con una incapacità di
alimentarsi adeguatamente con conseguente difficoltà a prendere peso o significativo rallentamento della
crescita. I gruppi a maggiore rischio sono costituiti dai
neonati pretermine, quelli con peso alla nascita inferiore al 10° percentile per l’età gestazionale, i bambini
con anomalie craniofacciali e/o sindromi genetiche 2.
Tale condizione può avere un esordio molto precoce
come nel caso del neonato, manifestandosi con pianto, coliche, interruzione della suzione, ipereccitabilità
e irritabilità, o comparire tra il primo e secondo anno
di vita. In tal caso possono configurarsi quadri tipici
di rifiuto alimentare, caratterizzati da atteggiamenti oppositivi da parte del bambino (allontana o getta
il cibo, piange quando gli viene offerto e quindi alla
vista del biberon) o da una sua apparente mancanza
di interesse verso il cibo (si addormenta e smette di
mangiare, tiene il cibo in bocca). In generale un disturbo alimentare può esordire tra i 6 mesi e 4 anni di età
quando viene tentato l’avvio del self-feeding e ciò ap-
Giorn Gastr Epatol Nutr Ped 2016;VIII:152-155; doi: 10.19208/2282-2453-133
PEDIATRIC NUTRITION & HEALTH AND FOOD SCIENCE
Disordini nutrizionali a esordio precoce
pare correlato al periodo di transizione dall’allattamento al “seno”
al cucchiaio, bicchiere o tazza, o
da una consistenza liquida a una
semisolida 3. La variazione nel tipo
di bolo (liquido o solido), le caratteristiche (durezza, omogeneità,
volume, viscosità, consistenza)
e le capacità sensoriali (gusto)
rappresentano le tappe principali
dello sviluppo delle capacità oromotorie. Nella maggior parte dei
bambini, lo sviluppo delle abilità
alimentari (masticazione e deglutizione di alimenti morbidi, solidi)
inizia tra i 6-8 mesi di età 4. Inoltre,
i bambini in questa fascia di età
vogliono essere autonomi, cercano l’indipendenza e sono facilmente distraibili dall’ambiente circostante durante il pasto. Diversi
studi dimostrano che alterazioni
dell’interazione madre-figlio sono
alla base di disturbi alimentari nel
bambino: atteggiamento ansioso
e preoccupato, intrusivo, ipercontrollante, rigido, depressione
materna o problemi psicologici
di diversa natura, atteggiamento
iperprottettivo che non favorisce
la ricerca di autonomia nel bambino possono essere considerate le
condizioni più comuni 5. In questo
ambito ed in questa fascia di età
è più frequente il rischio di medicalizzazione o ricerca di presunte
cause organiche (allergia al latte,
reflusso gastroesofageo ecc.) con
vari cambi di latte o uso di farmaci
(ranitidina) con accentuazione del
problema. La classificazione di tali
disordini comprende la distinzione
dicotomica tra cause organiche o
non-organiche e include la corretta interpretazione del ruolo dei fattori ambientali (atteggiamento dei
genitori, cause mediche e disturbi
del comportamento o dello sviluppo psicomotorio). Nell’ambito
dei disturbi del comportamento
alimentare (DCA) di natura non
organica si possono riconoscere
alcune categorie:
1. Bambino con appetito limi-
tato/alimentazione restrittiva:
questa categoria (picky eaters)
comprende bambini che non solo
restringono la scelta dei cibi, ma
ne diminuiscono anche la quantità. Essi hanno poco appetito e
non sono interessati al cibo. Nonostante ciò, presentano in genere una crescita regolare. È una
condizione comune negli anni
prescolastici, ma se persiste per
molti anni può compromettere il
normale sviluppo.
2. Bambino vigoroso con poco
interesse per l’alimentazione: questa categoria comprende
bambini attivi, energici, curiosi e
molto più interessati a giocare che
a mangiare. In genere si rifiutano
di rimanere seduti durante i pasti, mangiano frequentemente, in
piccole quantità e non riescono a
prendere peso. Non sono presenti
in genere cause organiche e Chatoor associa a questa categoria il
termine di “anoressia infantile”.
3. Bambino depresso con poco
interesse per l’alimentazione: questa categoria comprende
bambini poco attivi, poco interessati al cibo, ma anche all’ambiente che li circonda e con scarsa
comunicazione con i genitori. Il
rischio di malnutrizione è più frequente in questo ambito.
4. Bambino con alimentazione selettiva: questa categoria
descrive bambini che limitano la
loro alimentazione a una gamma
ristretta di cibi preferiti; mangiano
cinque o sei cibi differenti, spesso
carboidrati come pane, patate fritte o biscotti. Essi non accettano
di provare cibi nuovi (neofobici) e
non si riesce a persuaderli a farlo
in nessuna circostanza. Hanno lo
stimolo “facile” al vomito, anche
se non hanno chiaramente difficoltà ad assumere e digerire il loro
cibo preferito. Questo rifiuto potrebbe essere correlato ad aspetti
sensoriali come il gusto, l’odore o
il colore. In genere sono bambini
che comunque hanno un apporto
calorico adeguato e tendono ad
abbandonare questo comportamento quando la scuola e gli incontri sociali diventano parte importante della loro vita.
5. Bambini con paura o fobia
specifica verso il cibo: questa
categoria comprende bambini
con paura a deglutire o che evitano cibi di consistenza aumentata. Spesso è possibile individuare
l’evento che ha scatenato questa
fobia: un episodio di disfagia o
soffocamento, episodi di diarrea e
vomito in pubblico, durante i quali
si è sporcato di fronte ad altre persone, o procedure orali dolorose
o spiacevoli (alimentazione con
sondino naso-gastrico) 6.
Criteri diagnostici
Circa il 20-60% dei genitori ritiene che i loro figli non mangino in
maniera sufficiente, o mostrino un
atteggiamento di tipo fobico nei
confronti dei cibi nuovi 7. Rispetto
a quanto riferito dai genitori, solo
l’1-5% rispettano realmente i criteri per un sospetto di disturbo
della condotta alimentare. Il riconoscimento di un DCA può essere
problematico anche in relazione
al progressivo e costante stato di
revisione dei criteri diagnostici e
di classificazione. Di fronte a un
bambino con il sospetto di DCA,
è opportuno procedere con una
attenta anamnesi (personale e
familiare), esame obiettivo (compresi dati antropometrici) e diario
alimentare. L’anamnesi dovrebbe
includere storia prenatale e perinatale; storia familiare di atopia
o problemi alimentari; malattie e
ricoveri ospedalieri precedenti; e
utilizzo, in epoca neonatale, di nutrizione artificiale con sondino naso-gastrico. Un’anamnesi alimentare specifica comprende il tipo di
alimentazione alla nascita (allattamento materno versus artificiale),
cambi di formule, epoca di introduzione dei solidi, la dieta attuale,
153
C. Romano, S. Spadaro
consistenza, modalità, durata dei
pasti e postura durante il pasto.
Il rilievo di alcuni sintomi correlabili con il sospetto di disfagia o
aspirazione dovrebbe indurre a
ricercare cause di tipo organico.
Indicatori clinici che suggeriscono
una deglutizione incoordinata può
determinare sintomi quale la tosse
o il soffocamento. La valutazione
della disfagia dovrebbe comprendere quale fase della deglutizione
(orale, faringea o esofagea) è disorganizzata e potrebbe richiedere il supporto di un logopedista
con specialità nell’educazione
della funzione motoria orale. Lo
stridore ai pasti potrebbe essere
causato da anomalie glottiche o
subglottiche. La coordinazione
di succhiare-deglutire-respirare
può essere influenzata dalla presenza di un’atresia delle coane.
Scarsa crescita, vomito, diarrea e
stipsi ostinata dovrebbero indurre a escludere il sospetto di malattia da reflusso gastroesofageo
o allergia alle proteine del latte.
Un dettagliato diario alimentare
dovrebbe essere raccolto e interpretato in termini di adeguato
ed equilibrato apporto calorico in
rapporto all’età. L’esame obiettivo
deve comprendere le misurazioni
antropometriche, inclusa la circonferenza cranica, la ricostruzione della curva di crescita, la presenza di anomalie craniofacciali,
un esame neurologico completo
associato alla valutazione dello
sviluppo psicomotorio. La valutazione dello stato nutrizionale è un
aspetto importante nella gestione
dei DCA. La scarsa crescita è presente nel 40-50% dei pazienti con
DCA ed è correlata con un ritardo
nella diagnosi. Nessuna indagine
di laboratorio è indicata nel bam-
154
bino con esame obiettivo, curve di
crescita e sviluppo normali. Una
parte integrante dell’approccio al
bambino con DCA deve presupporre un’indagine per esplorare la
presenza di stress sociali, alterazione delle dinamiche familiari e
la presenza di problemi emotivi.
Ha una grande valenza diagnostica l’osservazione del pasto e
del comportamento dei genitori
durante lo stesso. Ciò fornisce indizi sulle interazioni, le tecniche di
alimentazione e la risposta agli stimoli fisiologici o sociali del bambino. L’identificazione di alterate
tecniche di alimentazione da parte
dei genitori (alimentazione notturna, persecutoria forzata, condizionata da distrazioni e pasti prolungati) rappresenta un momento
diagnostico fondamentale 8.
La gestione
multidisciplinare
La maggior parte dei bambini con
disordini nutrizionali può essere
gestita da interventi di nutrizione
e educazione del comportamento
alimentare all’interno inizialmente dell’ambulatorio del Pediatra
di Famiglia, e in taluni casi con
un approccio multidisciplinare
che prevede il coinvolgimento di
uno specialista pediatra/gastroenterologo e/o nutrizionista (ad
es. valutazione, diagnosi e trattamento delle carenze della dieta
e nutrizione), un logopedista (valutazione della capacità fisica di
deglutizione, progettazione e realizzazione dello schema di deglutizione), terapisti della riabilitazione
(valutazione di capacità fisiche
adeguate all’alimentazione e di
sensibilità sensoriale, implemen-
tazione di modifiche ambientali
per migliorare le abilità d’alimentazione). Gli obiettivi dell’intervento sono i seguenti: a) riabilitazione
nutrizionale (garantire adeguate
calorie, proteine e altri nutrienti),
b) modificazione del comportamento alimentare e nutrizionale,
c) educazione della famiglia sulle
modalità di nutrimento e comportamento, d) il monitoraggio della
crescita e dello stato nutrizionale,
e) l’assistenza economica/sociale,
quando necessario 9.
Conclusioni
Nella maggior parte dei casi i disordini nutrizionali sono transitori,
ma nel 3-10% si possono associare al rischio di malnutrizione.
Nella diagnostica differenziale
devono comunque essere prese
in considerazione alcune cause
organiche come le allergie alimentari, la malattia da reflusso gastroesofageo o i disturbi della deglutizione. L’approccio clinico deve
essere rassicurante e “correttivo”
nella gran parte dei casi, anche se
devono essere evidenziati eventuali segnali d’allarme (vomito, ritardo psicomotorio ecc.) o la tendenza verso la scarsa crescita o la
malnutrizione. Il Pediatra dovrebbe avere la capacità di intercettare
già nelle prime fasi comportamenti o atteggiamenti suggestivi per
un disturbo del comportamento
alimentare e fornire indicazioni
sulle modalità di gestione delle
tecniche di alimentazione (Tab. I).
Lo screening per la scarsa crescita/basso peso e difficoltà nell’alimentazione dovrebbero essere
parte di regolari check-up della
salute.
PEDIATRIC NUTRITION & HEALTH AND FOOD SCIENCE
Disordini nutrizionali a esordio precoce
Tabella I.
Come riconoscere un disturbo del comportamento alimentare di tipo non organico.
Segni e sintomi di un
disturbo alimentare
Pasti prolungati
Rifiuto persistente dell’alimento
Alimentazione notturna
Prolungamento dell’allattamento al seno o artificiale
Difficoltà a introdurre cibi di maggiore consistenza
I “segnali d’allarme”
Organici
Disfagia
Aspirazione
Deglutizione incoordinata
Vomito e diarrea
Ritardo di crescita e dello sviluppo psicomotorio
Sintomi cardio-respiratori cronici
Comportamentali
Fissazione per il cibo (selettiva, estreme limitazioni dietetiche)
Tecniche di alimentazione sbagliate (dure e/o persecutorie)
Cessazione brusca dell’allattamento dopo un evento scatenante
Fornire le regole generali
per l’alimentazione
Evitare le distrazioni durante i pasti (televisione, telefoni)
Mantenere un atteggiamento neutrale e piacevole durante tutto il pasto
Porre un limite alla durata del pasto (20-30 min) e al numero dei pasti (4-6 al giorno intervallati
solo da acqua)
Servire cibi appropriati all’età
Riproporre regolarmente nuovi alimenti (fino a 8-15 volte)
Incoraggiare self-feeding
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9
• Il bambino che non riesce ad avviare un corretto svezzamento, mangia poco o rifiuta diversi alimenti potrebbe presen-
tare un disturbo della nutrizione e del comportamento alimentare.
• La classificazione di tali condizioni comprende la distinzione dicotomica tra cause organiche o non-organiche.
• Quando la crescita è regolare non vi è indicazione a ricercare condizioni patologiche.
• La maggior parte dei bambini necessita solo di interventi di educazione al comportamento alimentare all’interno della
famiglia e della comunità.
• Il Pediatra di Famiglia ha un ruolo determinante nel riconoscere precocemente disturbi del comportamento alimentare
di tipo non organico.
155
IBD HIGHLIGHTS
a cura di
Fortunata Civitelli
L’anemia nelle malattie
infiammatorie croniche intestinali
Anemia in inflammatory bowel disease
Stefano Festa1 (foto)
Giulia Gallusi2
Riccardo Ballanti1
Claudio Papi1
1 UOC Gastroenterologia,
UOS Malattie Infiammatorie Croniche
Intestinali, Ospedale san Filippo Neri,
Roma; 2 UO Gastroenterologia ed
Epatologia, “La Sapienza” Università
di Roma, Policlinico Umberto I
Key words
Anemia • Inflammatory bowel
disease • Iron deficiency • Anemia
of chronic disease • Erythropoietin
Abstract
Although anemia is one of the most common
extra-intestinal manifestations of Inflammatory
Bowel Disease (IBD), it is often overlooked both at
diagnosis and during disease course. Anemia influences not only morbidity and mortality but also
IBD patient’s quality of life and health care costs.
A prompt diagnosis and classification of anemia
(mainly iron deficiency and/or anemia of chronic
disease) is mandatory for a correct therapeutic
approach.
Indirizzo per la corrispondenza
Stefano Festa
UOC Gastroenterologia, UOS Malattie Infiammatorie
Croniche Intestinali, Ospedale san Filippo Neri
via G. Martinotti 20, 00135 Roma
E-mail: [email protected]
156
Introduzione
L’anemia è una delle più comuni manifestazioni extraintestinali delle malattie infiammatorie croniche intestinali (MICI) che incide in maniera significativa sulla
disabilità, sulla spesa sanitaria e sulla qualità di vita
dei pazienti, oltre ad avere potenzialmente un impatto
sulla prognosi e la mortalità. L’eziopatogenesi dell’anemia è multifattoriale ma circa il 90% dei casi possono essere spiegati da una carenza di ferro e/o dall’infiammazione cronica 1. L’anemia nelle MICI è spesso
sotto-diagnosticata, non adeguatamente monitorata,
e non correttamente trattata 2. Per questi motivi, l’anemia nelle MICI rimane ancora oggi un argomento di
estrema attualità per il gastroenterologo pediatra.
Epidemiologia e fattori di
rischio associati all'anemia
Negli ultimi due decenni l’epidemiologia dell’anemia
nei soggetti affetti da MICI ha mostrato una diminuzione della prevalenza delle forme lievi e moderate grazie
alla diagnosi più precoce delle MICI, una loro migliore
gestione globale, e una sempre maggiore efficacia delle terapie 3.
Ciononostante, la prevalenza dell’anemia severa è rimasta invariata con tassi globali che rimangono elevati. Da una recente meta-analisi di 8 studi provenienti
da diversi paesi europei emerge come la prevalenza
globale dell’anemia nelle MICI sia del 24%, con percentuali variabili dal 10 al 70%, che riflettono in parte
sia differenti criteri usati per la definizione di anemia,
sia differenti popolazioni incluse nei singoli studi 4.
Studi osservazionali di coorte hanno dimostrato che la
percentuale di pazienti anemici è più alta al momento
della diagnosi: fino al 48% dei pazienti con Malattia di
Crohn (MdC) e circa il 20% di quelli con colite ulcerosa
(CU), con percentuali che tendono a diminuire nel tempo. Inoltre l’anemia è più frequente nella MdC rispetto alla CU. Nella popolazione pediatrica, al momento
della diagnosi, la prevalenza dell’anemia è maggiore
rispetto alla popolazione adulta 5. I pazienti a maggior
rischio di anemia sono quelli con una proteina C reat-
Giorn Gastr Epatol Nutr Ped 2016;VIII:156-161; doi: 10.19208/2282-2453-134
IBD HIGHLIGHTS
L’anemia nelle malattie infiammatorie croniche intestinali
tiva (PCR) elevata e quelli con un
fabbisogno di corticosteroidi più
elevato, indicatori, rispettivamente, di una malattia in fase di attività e di una malattia a decorso più
aggressivo.
L'anemia
come fattore
prognostico
nelle MICI
Decorso
L’anemia è un fattore che influenza negativamente la prognosi
nelle MICI e questo è stato dimostrato in diversi studi. Infatti,
la presenza di anemia è associata più spesso alla localizzazione
colica nella MdC e all’estensione
nella CU, due fattori, a loro volta,
associati a una prognosi più sfavorevole 6. Inoltre, nei pazienti con
MICI ospedalizzati, la presenza di
anemia e la necessità di emotrafusioni, si associano a una maggiore necessità di chirurgia 7. Infine,
l’anemia, persistente o ricorrente,
per tre o più anni si associa a un
decorso più aggressivo e a un
maggior grado di disabilità essendo correlata al numero maggiore
di visite ambulatoriali, ospedalizzazioni e interventi chirurgici 8.
Risposta al trattamento
È noto che un basso valore di
emoglobina al momento dell’attacco severo nella CU rappresenta un fattore predittivo di
mancata risposta allo steroide
sistemico e, quindi, è associato a
un maggior rischio di necessità di
terapia di salvataggio e di colectomia nel lungo termine 7. Più di
recente, bassi valori di emoglobina (< 14,5 g/dl) al momento della
sospensione di farmaci anti-TNF
sono stati associati a un maggior
rischio di relapse in pazienti adulti
affetti da MdC 9.
Qualità della vita
Tra varie condizioni croniche associate alle MICI (es. comorbidità cardiovascolari, artrite ecc.), la
presenza di anemia condiziona in
modo significativo la qualità di vita
dei pazienti, andando a influenzare gli aspetti che riguardano la salute fisica globale (l’attività fisica,
lavorativa e sociale) 10. Va ricordato infatti che la fatica cronica è un
sintomo comune nelle MICI in cui
è presente anemia e proprio la carenza di ferro è riconosciuta come
uno dei principali fattori eziologici.
Inoltre, la correzione dell’anemia,
(mediante supplementazione di
ferro e/o terapia con eritropoietina) è associata a un miglioramento della qualità di vita e degli indicatori di abilità fisica.
Eziopatogenesi
dell'anemia
nelle MICI
La patogenesi dell’anemia nelle
MICI è complessa 11. Da un punto
di vista fisiopatologico i due principali tipi di anemia che si riscontrano nelle MICI sono l’anemia sideropenica e l’anemia da malattie
croniche.
L’anemia sideropenica, che nella maggior parte delle casistiche
riportate è la più comune, può
esser legata sia a un ridotto assorbimento di ferro da parte degli
enterociti, legato al danno diretto
dell’epitelio intestinale, sia a una
perdita ematica cronica dalle microerosioni o ulcere che l’infiammazione della mucosa del tratto
gastroenterico porta con sé, sia a
una condizione di malnutrizione.
L’anemia da malattie croniche
(presente cioè in quelle condizioni associate ad attivazione cronica dell’immunità cellulo-mediata
come le infezioni, le neoplasie
maligne o i disordini infiammatori
immuno-mediati) invece, è legata
a un meccanismo infiammatorio mediato da diverse citochine
(Fig. 1) che determina ridotti livelli
ematici di ferro, sequestrato al livello del sistema reticolo-endoteliale, con il risultato quindi di una
minore disponibilità di ferro per
le cellule progenitrici eritroidi a
livello del midollo osseo. Lo stato infiammatorio cronico inoltre,
porta anche a un’inibizione diretta dell’eritropoiesi midollare e a
un ridotto assorbimento di ferro a
livello dell’epitelio duodeno-digiunale, rendendo i due meccanismi
(quello dell’anemia sideropenica
e quello dell’anemia da malattie
croniche) strettamente connessi.
Singolarmente, o associate tra
loro, l’anemia sideropenica e l’anemia delle malattie croniche
spiegano circa il 90% dei casi di
anemia nelle MICI (Fig. 2). Più raramente l’anemia nelle MICI può
essere sostenuta da altri meccanismi:
•Carenza di folati e/o vitamina
B12. La vitamina B12 è assorbita soprattutto nell’ileo terminale
complessata con il fattore intrinseco secreto a livello dello stomaco. L’infiammazione cronica
o la resezione dell’ileo, particolarmente nel MdC, possono portare a carenza di vitamina B12.
La carenza di acido folico, invece, assorbito nel duodeno e
nel digiuno, può essere dovuta
a una dieta inadeguata, a malassorbimento (per resezioni o
localizzazioni di malattia), o a
interazioni con farmaci specifici
per le MICI (sulfasalazina, methotrexate);
•Anemia da farmaci. Le tiopurine, farmaci utilizzati nella terapia delle MICI, hanno un effetto
mielosoppressivo e quindi possono nel tempo causare anemia, più spesso macrocitica.
Le tiopurine da sole, però, raramente sono causa di anemia
e per tale motivo, prima della
definitiva sospensione, altre
cause di anemia vanno escluse.
Va ricordato che il rischio di svi-
157
S. Festa et al.
luppare leucopenia o aplasia è
elevato negli individui con bassa attività dell’enzima tiopurinmetiltransferasi (TPMT). L’attività del TPMT è determinata dal
genotipo e quindi la genotipizzazione è stata proposta come
un metodo di valutazione del
rischio di sviluppare aplasia midollare, sebbene la diffusione di
tale metodo nella pratica clinica
è limitata.
CFU-E = cellule progenitrici eritroidi, Epo = eritropoietina, TNFa = tumor necrosis factor a
Figura 1.
Eziopatogenesi dell’anemia nelle MICI.
IRC = insufficienza renale cronica
Figura 2.
Prevalenza e importanza relativa delle diverse cause di anemia alla prima
diagnosi di MICI e nel follow-up.
158
Diagnosi
L’attuale definizione di anemia
con valori di riferimento stabiliti
dall’Organizzazione Mondiale della Sanità si applica anche ai pazienti con MICI (Tab. I).
Il work-up diagnostico dell’anemia
va iniziato in presenza di sintomi
(astenia, disturbi del sonno, deficit
dell’attenzione, irritabilità ecc.) e/o
quando il valore di emoglobina risulta sotto i limiti della norma. Secondo le linee guida della ECCO
(European Crohn’s and Colitis
Organization) i test di laboratorio
di primo livello includono emocromo completo con formula, ferritina, saturazione della transferrina,
PCR e conta dei reticolociti 12. Un
work up di secondo livello, volto a
indagare cause più rare di anemia,
comprende anche il dosaggio di
folati, vitamina B12, aptoglobina,
lattico deidrogenasi, azotemia,
creatinina. Il ragionamento diagnostico iniziale dovrebbe procedere secondo un algoritmo non
diverso da quelli comunemente
usati in ambito ematologico.
In particolare però, nell’ambito
dell’anemia associata alle MICI,
la distinzione tra componente sideropenica e componente legata all’infiammazione cronica (o
comunque il riconoscimento di
quella prevalente) è di fondamentale importanza, poiché da essa
dipende l’appropriatezza del trattamento (Fig. 3).
In primo luogo va quindi valutata
l’attività della malattia. In assenza
IBD HIGHLIGHTS
L’anemia nelle malattie infiammatorie croniche intestinali
Tabella I.
Valori minimi di emoglobina usati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità per
la definizione di anemia in persone che vivono al livello del mare.
Gruppo di riferimento
Valore emoglobina (g/dl)
Ematocrito
Bambini tra 6 mesi e 5 anni
Bambini tra 5 e 11 anni
Bambini tra 12 e 13 anni
Donne
Donne in gravidanza
Uomini
11
11,5
12
12
11
13
33
34
36
36
33
39
di segni clinici (diarrea, rettorragia, febbre), biochimici (Leucociti, PCR, calprotectina fecale)
o endoscopici di infiammazione
attiva, un valore di ferritina sierica < 30 µg/L è suggestivo di una
carenza di ferro pura. Se la malattia è in fase di attività, anche con
riserve di ferro esaurite o ridotte,
i livelli di ferritina possono essere
elevati (tra 30 e 100 µg/L) indicando la coesistenza di due meccanismi patogenetici. Valori di ferritina
> 100 µg/L sono invece indicativi
di una patogenesi legata principalmente allo stato infiammatorio
cronico (Fig. 3) 12.
La concentrazione sierica del recettore solubile della transferrina
(sTfR) è un indicatore delle riserve
di ferro destinate all’eritropoiesi
più affidabile della ferritina, poiché
non è influenzato dall’infiammazione. Oltre a quest’ultimo, può
esser d’aiuto nei casi dubbi, il calcolo del rapporto tra il valore del
recettore solubile della transferrina e il logaritmo dei livelli di ferritina (sTfR/log Ferritina): se l’indice
è maggiore di 2 la carenza di ferro
è esclusa 12.
significa migliorare la qualità della
vita e tale miglioramento è indipendente dall’attività della malattia. In assenza di anemia, ma con
ridotti livelli di ferritina, la supplementazione va discussa caso per
caso e dipende dalla presenza di
sintomi del paziente e dalla sua
storia clinica. L’obiettivo della terapia è quello di normalizzare i valori di emoglobina. Di solito, tanto
più basso è il valore di partenza e
tanto maggiore sarà il tempo per
arrivare a normalizzare i valori.
Un aumento dell’emoglobina di
almeno 2 g/dL nell’arco di 4 settimane dall’inizio del trattamento
è considerata una risposta alla
terapia accettabile. Il rischio di
sovraccarico parziale nei pazienti
con sanguinamento cronico/in-
Trattamento
Anemia sideropenica
La supplementazione di ferro è
sempre raccomandata in presenza di una componente ferrocarenziale 12. Correggere l’anemia
Tsat= saturazione della transferrina
Figura 3.
Work-up per la diagnosi differenziale delle anemie nelle MICI.
159
S. Festa et al.
termittente (come si verifica nelle
MICI) è molto basso, ma una saturazione della transferrina > 50%
e una ferritina > 800 µg/L vengono
considerate le soglie massime, oltre le quali la terapia marziale va
interrotta 12.
La supplementazione di ferro per
via endovenosa (ev) dovrebbe essere considerata la prima linea di
trattamento nei pazienti con MICI
in fase attiva, in quelli con storia
d’intolleranza ai preparati di ferro
per os, in quelli con emoglobina
< 10 g/dL e in quelli in cui è stata posta indicazione a terapia con
eritropoietina 12.
Il ferro per via ev è sostanzialmente sicuro, ben tollerato e più
efficace rispetto al ferro per os nel
correggere l’anemia e nel mantenere le riserve di ferro. È utile
ricordare l’importanza di eseguire l’infusione di ferro in ambiente
protetto, considerato il potenziale
rischio di reazioni d’ipersensibilità
che, seppure siano rare, possono
essere letali. Nella Tabella II è riassunto uno schema che indica
come calcolare in modo semplice
il fabbisogno di ferro da somministrare ev.
In commercio sono disponibili diverse formulazioni di ferro ev: carbossimaltosio ferrico, saccarato
ferrico, sodio ferrogluconato, ma
non esistono studi di confronto diretto, in termini di efficacia e sicurezza, fra le diverse formulazioni.
L’indubbio vantaggio del carbossimaltosio ferrico, deriva dalla
velocità d’infusione (15-30 minuti) e dalla possibilità di sommi-
nistrare elevate quantità di ferro
(500-1000 mg) in una singola infusione 13. Inoltre in un trial clinico
randomizzato controllato contro
placebo, il carbossimaltosio ferrico si è dimostrato efficace nel
prevenire la ricorrenza dell’anemia
in pazienti con MICI per i quali
la somministrazione del farmaco
(una dose da 500 mg) era prevista se la ferritina scendeva sotto i
100 µg/L 14.
In caso di anemia lieve (Hb non
inferiore a 11 g/dl), e con malattia
in fase di remissione, il ferro per
os è l’opzione di scelta. Poiché
gli effetti collaterali del ferro per
os sono dose-dipendenti e sono
legati al contatto della quota di
ferro non assorbita con le aree di
mucosa ulcerata, la dose giornaliera di ferro elementare non deve
superare i 100 mg/die 12.
Visto l’elevato tasso di recidive
di anemia (circa il 50% a 10 mesi
dalla fine della supplementazione)
è consigliato un follow-up clinicolaboratoristico (emocromo, PCR,
ferritina, TSat) ogni tre mesi per
il primo anno ed è appropriato un
trattamento marziale prima che i
livelli di emoglobina scendano al
di sotto dei valori di normalità 14.
Una rapida ricorrenza dell’anemia
può essere indicativa, di fronte a
un paziente in remissione clinica
e con test di flogosi normali, di
un’attività infiammatoria subclinica. In tal caso l’ottimizzazione del
trattamento dovrebbe mirare a un
migliore controllo della malattia di
base.
Tabella II.
Schema pratico per la stima del fabbisogno di ferro endovena.
Emoglobina
(g/dl)
Peso corporeo
< 70 kg
Peso corporeo
≥ 70 kg
10-12 (donne)
10-13 (uomini)
1000 mg
1500 mg
7-10
1500 mg
160
Anemia da malattie croniche
I pazienti con anemia da malattie
croniche con una risposta insufficiente alla supplementazione con
ferro ev, e con un trattamento già
ottimizzato per la MICI di base,
sono dei candidati al trattamento
con eritropoietina. In questo caso
il livello target di emoglobina non
dovrebbe superare i 12 g/dl. La
presenza di anemia da malattie
croniche è un chiaro indicatore di malattia in fase di attività e
per tale motivo l’ottimizzazione
del trattamento per la MICI deve
precedere il trattamento con eritropoietina 12. Nel management
dell’anemia da malattie croniche
va ricordato come altre condizioni
concomitanti vanno escluse (infezioni, neoplasie o deficit midollari),
soprattutto nei casi di improvvisa
anemizzazione o di insufficiente
risposta al trattamento.
Infine, la trasfusione di emazie concentrate va considerata in caso di
emoglobina inferiore a 7 g/dl, o in
presenza di sintomi o di particolari
comorbidità cardio-polmonari 12.
Conclusioni
L’anemia è una delle complicanze
extra-intestinali più comuni associate alle MICI e, sebbene molto
frequente, è un problema spesso
sottovalutato dai gastroenterologi.
L’eziologia dell’anemia nelle MICI
è multifattoriale, ma la carenza
di ferro e l’infiammazione cronica
sono i fattori patogenetici da tenere in considerazione per impostare il trattamento più appropriato.
La corretta gestione dell’anemia
non solo aiuta a migliorare la qualità di vita dei pazienti, ma anche
a contenere le ospedalizzazioni e
i costi sanitari.
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• L’anemia è una delle manifestazioni extra-intestinali più frequenti nelle malattie infiammatorie croniche dell’intestino
(MICI).
• L’anemia è un problema spesso sottovalutato dai gastroenterologi: una corretta gestione dell’anemia non solo aiuta a
migliorare la qualità di vita dei pazienti, ma anche a contenere le ospedalizzazioni e i costi sanitari.
• L’eziologia dell’anemia nelle MICI è spesso multifattoriale. La componente ferro-carenziale e quella da malattie cro-
niche spiegano circa il 90% dei casi.
• L’esecuzione dei test di laboratorio ha lo scopo di differenziare la componente sideropenica da quella da malattie
croniche ed è fondamentale per impostare il corretto trattamento.
• La supplementazione di ferro per via endovenosa dovrebbe essere preferita a quella per os, soprattutto nei pazienti
con MICI in fase attiva e con anemia sideropenica di grado moderato-severo.
161
NEWS IN PEDIATRIC
GASTROENTEROLOGY
PHARMACOLOGY
a cura di
Monica Paci
Trattamento della
epatite autoimmune giovanile
Management of juvenile autoimmune hepatitis
Giuseppe Maggiore (foto)
Silvia Nastasio1
Cristina Malaventura1
Marco Sciveres2
1
Dipartimento di Scienze Mediche,
Sezione di Pediatria, Azienda
Ospedaliero Universitaria Sant’Anna,
Università degli Studi di Ferrara;
2 Epatologia Pediatrica e Trapianto
di fegato, IRCCS-ISMETT, UPMC,
Palermo
1 Key words
Juvenile autoimmune hepatitis
• Autoimmune hepatitis • Immunosuppressive
treatment • Liver tranplantation • Fulminant hepatic
failure
Abstract
Juvenile autoimmune hepatitis characteristically progresses to cirrhosis and organ failure
if untreated. Treatment consists of immunosuppressive drugs, mainly prednisone and azathioprine, except in cases presenting with fulminant
hepatic failure in which liver transplant may be
immediately necessary. The majority of patients
respond to immunosuppression. However, this
needs to be prolonged, at the lowest possible
dose, due to the substantial risk of relapse.
Indirizzo per la corrispondenza
Giuseppe Maggiore
Dipartimento di Scienze Mediche, Sezione di
Pediatria, Azienda Ospedaliero Universitaria
Sant’Anna, Università degli Studi di Ferrara
via Aldo Moro 8, 44124 Cona (FE)
E-mail: [email protected]
162
Il trattamento dell’epatite autoimmune giovanile (EAIG)
si basa sull’immunosoppressione farmacologica, con
l’eccezione di quei casi che esordiscono con il quadro
dell’epatite fulminante, per cui può rendersi immediatamente necessario il trapianto di fegato 1. In generale,
il trattamento dell’EAIG si articola in due fasi: la fase
di induzione della remissione e quella del suo mantenimento. La prima fase si avvale di farmaci ad azione
rapida e potente, nella maggior parte dei casi il prednisone o, in alternativa, la ciclosporina. Protagonisti della fase di mantenimento sono i farmaci ad azione più
lenta, ma in generale ben tollerati in caso di terapie di
lunga durata come, ad esempio, l’azatioprina.
Esistono poi trattamenti che non rientrano in nessuna delle due categorie: ad esempio l’utilizzo di farmaci
biologici, sempre più frequentemente segnalato in forma aneddotica in letteratura.
In Tabella I sono riassunti i farmaci con evidenza di
efficacia nel trattamento dell’EAIG.
Trattamento d'attacco
Nella fase di induzione, l’obiettivo è ottenere: 1) la remissione completa della malattia epatica (segni, sintomi e attività biochimica); 2) la normalizzazione della
funzione epatocellulare (attività protrombinica; INR),
se alterata alla diagnosi; 3) l’arresto della progressione
della malattia in termini di fibrosi.
In particolare, transaminasi e gammaGT dovranno essere ricondotte strettamente entro l’intervallo di normalità, così come, più lentamente, anche il livello di
IgG. La scomparsa della sieroreattività autoanticorpale
non è un requisito obbligatorio per definire la remissione di malattia. La situazione più comune è una fluttuazione della rilevabilità degli autoanticorpi con occasionale presenza a basso titolo 2, 3, 4. La ricomparsa
di positività ad alto titolo, specie in corso di variazioni
di posologia o tentativi di sospensione, deve tuttavia
indurre a particolare prudenza e vigilanza.
La remissione clinica e biochimica di malattia non sempre riflette la remissione tissutale; la prova istologica di
questa non è richiesta in questa fase del trattamento.
Giorn Gastr Epatol Nutr Ped 2016;VIII:162-166; doi: 10.19208/2282-2453-135
GASTROENTEROLOGY PHARMACOLOGY
Trattamento della epatite autoimmune giovanile
NEWS IN PEDIATRIC
Tabella I.
Farmaci utilizzati per il trattamento dell’EAIG.
Farmaco
Posologia
Note
Farmaci per la fase d’induzione
Prednisone
2 mg/kg a scalare
Farmaco di prima linea nella maggior parte dei casi
Ciclosporina A
3-5 mg/kg/die
Efficace alternativa al prednisone
Tacrolimus
nd
Uso aneddotico, non chiari vantaggi sulla ciclosporina
Budesonide
6-9 mg/die
Scarsa esperienza, somministrazione problematica nei pazienti molto giovani
IVIG
1-2 g/kg
Efficacia temporanea, esperienza aneddotica
Farmaci per la fase di mantenimento
Azatioprina
1,5-2,5 mg/kg/die
Efficace in monoterapia per il mantenimento
Micofenolato Mofetil
20-40 mg/kg/die
Seconda linea, in alternativa ad azatioprina
Rituximab
nd
Uso aneddotico
Alentuzumab
nd
Uso aneddotico
Altri farmaci
Nd= non determinata
La rapidità della risposta al trattamento dipende dalla severità
dell’attività di malattia alla diagnosi; comunque, una risposta clinica
e di laboratorio misurabile è ottenibile in almeno il 90% dei casi,
entro otto settimane dall’inizio del
trattamento, mentre la completa
normalizzazione dei parametri di
laboratorio può richiedere anche
alcuni mesi.
Fallimento della
terapia d'attacco
Si definisce così l’assenza di una
risposta biochimica significativa in
seguito a una terapia immunosoppressiva con un farmaco di prima
linea (tipicamente steroide o ciclosporina) a dose piena.
In particolare i pazienti con malattia più aggressiva e/o avanzata
e che all’esordio presentano una
marcata compromissione della
funzione epatocellulare possono
presentare una risposta insoddisfacente alla terapia. È quindi
fondamentale verificare, nel più
breve tempo possibile, l’efficacia
del trattamento, per aggiungere,
eventualmente, un terzo farmaco
immunosoppressore “di salvataggio” (ad esempio associando
ciclosporina e steroide), tenendo
comunque sempre presente la
possibilità del trapianto epatico in
emergenza 1.
In ogni caso, prima di ogni altra
considerazione, sarà necessario
anche rivedere criticamente la
diagnosi: sono, ad esempio, descritti casi di leishmaniosi viscerale con caratteristiche bioumorali
e istologiche che ricordano quelle
dell’EAIG 5.
Mantenimento
della remissione
Una volta ottenuta la remissione,
l’obiettivo della fase di mantenimento è impedire il verificarsi di
recidive che, in ogni caso, devono essere tempestivamente identificate tramite una sorveglianza
serrata.
Nei singoli centri sono in uso differenti protocolli di riduzione del trattamento, che tuttavia andrebbero il
più possibile individualizzati in base
alla storia clinica del paziente. In
caso di trattamento steroideo, ad
esempio, la dose del prednisone
dovrà essere ridotta con l’obiettivo di guadagnare nel minor tempo
possibile uno schema di somministrazione a giorni alterni, che è
associato a una minore incidenza
di effetti collaterali, in particolare il
rallentamento della crescita staturale 7. L’azatioprina sarà mantenuta
a piena dose terapeutica. In questa
fase di riduzione posologica, potrà
manifestarsi in qualsiasi momento
una recidiva, specialmente in caso
di scarsa aderenza al trattamento
prescritto.
Durata della
terapia
Non esiste certezza sulla durata
totale del trattamento, anche se
esiste evidenza di come la recidiva sia molto probabile nel caso
in cui il trattamento sia sospeso
entro i primi due anni 2. L’esperienza personale suggerisce che
la remissione debba essere mantenuta per almeno cinque anni
prima di qualsiasi tentativo di sospensione. Una volta sospeso il
163
G. Maggiore et al.
prednisone, il paziente rimane in
monoterapia con azatioprina di
solito per almeno un anno, prima
di poter intraprendere un tentativo
di sospensione.
Non esistono elementi di laboratorio o istologici certamente
predittivi di assenza di rischio di
ricadute. Perfino la dimostrazione di una completa remissione
tissutale, tramite biopsia epatica,
non risulta predittiva di assenza
di rischio 2 e, viceversa, la persistenza di un lieve infiltrato portale,
in assenza di attività d’interfaccia,
non rappresenta una controindicazione assoluta a un tentativo
di sospensione. Di conseguenza
la necessità del controllo istologico prima della sospensione della
terapia è oggetto di dibattito con
ampie diversità di opinione tra differenti centri di riferimento.
In alcune particolari forme di EAIG
quali quella associata alla malattia
celiaca o la forma sieronegativa
della EAIG, in particolare se non
associata a ipergammaglobulinemia, è possibile tentare una sospensione prima dei cinque anni
di trattamento.
Il trattamento
convenzionale
Il trattamento di “prima linea” o
“convenzionale” dell’EAIG utilizza
il prednisone (2 mg/kg/al giorno
fino alla dose massima giornaliera
di 60 mg) in monoterapia 2 o in associazione con l’azatioprina 3. L’azatioprina è dosata inizialmente a
1 mg/kg/die con progressivo aumento fino a 2-2,5 mg/kg/die, previa la verifica di assenza di segni di
tossicità. Il trattamento combinato
prednisone-azatioprina si è dimostrato più efficace del solo prednisone 6; ma, ancora più importante,
l’effetto “risparmiatore di steroidi”
dell’azatioprina permette una più
rapida riduzione della dose del
prednisone, limitandone gli effetti
collaterali.
164
Questa indicazione posologica si
riferisce in particolare alla forma
sintomatica all’esordio dell’EAIG
(ittero, astenia, marcata epatocitolisi, ipergammaglobulinemia)
che caratterizza circa i tre quarti
dei pazienti. Più difficile sarà la
scelta terapeutica, specialmente
nei termini di dose di corticosteroidi, per quei casi il cui esordio è
asintomatico, legato al riscontro
occasionale di un’epatomegalia
e/o splenomegalia o di un’elevazione degli enzimi epatici. In tali
casi, la dose dello steroide dovrà
essere personalizzata, partendo
da 1 mg/kg/die, sulla base di
una valutazione globale (biochimica e istologica) dell’attività di
malattia.
Come già accennato, in caso di
schema terapeutico convenzionale, la fase di transizione verso
la terapia di mantenimento passa attraverso il passaggio alla
somministrazione a giorni alterni dello steroide da completarsi idealmente, e nella migliore
delle ipotesi, dopo 6-12 mesi di
terapia. L’ulteriore riduzione della dose di prednisone, per una
durata complessiva di 2-4 anni
andrà compiuto riducendo ulteriormente, di solito per “fette”
di 2,5 mg, la dose di prednisone residua, fino a sospensione
completa, per lasciare il paziente
in monoterapia con azatioprina.
L’azatioprina è generalmente efficace nel mantenere la remissione
riducendo il rischio di ricadute 8 e
andrà mantenuta per almeno un
anno, per una durata complessiva di terapia, come si è detto, di
circa cinque anni.
in particolare, dall’eccessivo aumento del peso e dalla riduzione
della velocità di crescita staturale. Questi effetti, trascurabili se
i pazienti sono seguiti da medici
esperti, potranno sfociare in obesità, blocco della crescita, comparsa di strie cutanee deturpanti,
collasso vertebrale, cataratta sintomatica, iperglicemia e disturbi
psicotici se la dose di corticosteroidi dovesse essere mantenuta a livelli elevati e per periodi
prolungati. L’azatioprina è invece
raramente responsabile di effetti
collaterali gravi quali, in particolare, una citopenia tale da richiedere
la riduzione fino alla sospensione
del farmaco. La sua teratogenicità e oncogenità nell’uomo non
sono dimostrate con certezza. È
certamente auspicabile evitare
l’uso dell’azatioprina in corso di
gravidanza, anche se sono egualmente segnalate gravidanze con
buon esito in corso di trattamento con questo farmaco. In gravidanza basse dosi di prednisolone
sono l’alternativa all’azatioprina.
La gravidanza è di per sé un potente immunosoppressore nello
specifico caso dell’EAIG, tuttavia
i pazienti andranno sorvegliati con
attenzione sia durante la gravidanza che specialmente nel postpartum, per il possibile rischio di
ricaduta.
Da quanto detto si possono de-
Tabella II.
Controindicazioni relative alla terapia
“convenzionale”.
Obesità/eccesso di peso
Diabete mellito/intolleranza glucidica
Effetti collaterali
del trattamento
convenzionale
Sono quasi esclusivamente causati dai corticosteroidi, se mantenuti a dosi elevate e per periodi
prolungati e sono rappresentati,
Spurt puberale
Ipertensione arteriosa
Ipostaturalità
Problematiche psichiatriche
Candidiasi muco-cutanea e/o
viscerale
GASTROENTEROLOGY PHARMACOLOGY
Trattamento della epatite autoimmune giovanile
NEWS IN PEDIATRIC
sumere le controindicazioni, tutte
relative, al trattamento convenzionale, riassunte in Tabella II.
Trattamenti
alternativi
La mancata risposta al trattamento convenzionale in circa il 10%
dei pazienti e i possibili effetti collaterali dei corticosteroidi hanno
stimolato la ricerca di soluzioni
terapeutiche alternative. La ciclosporina A, la cui prima segnalazione di efficacia nel trattamento
dell’epatite autoimmune risale al
1985, è certamente il farmaco per
cui esiste una consolidata esperienza di efficacia e di buona tollerabilità. La ciclosporina A (CYA) è
efficace nell’indurre in remissione
bambini e adolescenti con EAIG
alla dose mediana di 5 mg/kg/
die con ciclosporinemie residuali
corrispondenti a 200-250 ng/ml 9.
Una volta in remissione, la dose
andrà progressivamente ridotta
per ottenere ciclosporinemie residuali di 100-150 ng/ml. Il paziente
potrà allora essere orientato verso
un trattamento convenzionale di
mantenimento, sia esso con due
farmaci (azatioprina e prednisone
a dose intorno a 1 mg/kg/die), sia
con azatioprina in monoterapia.
Un’altra opzione è quella di continuare a utilizzare la CYA, a dosi
ulteriormente decrescenti fino a ottenere ciclosporinemie residuali tra
50 e 100 ng/ml. Gli effetti collaterali
della CYA, nel breve e medio termine, sono pochi, ben tollerati e comunque reversibili con la riduzione
della dose 9, 10, mentre non sono
stati ancora prodotti dati sull’efficacia e sulla sicurezza a lungo termine del trattamento con CYA.
Il micofenolato-mofetile (MFM,
20 mg/kg due volte al giorno) è
un’alternativa all’azatioprina per
consolidare il mantenimento o per
potenziare un farmaco di prima
linea come lo steroide o la ciclosporina.
È stato impiegato con successo
in associazione ai corticosteroidi
in pazienti intolleranti all’azatioprina o nei pazienti scarsamente responsivi alla terapia convenzionale. Gli effetti indesiderati del MFM
includono cefalea, diarrea, vertigini, perdita di capelli e neutropenia.
La budesonide, un corticosteroide rapidamente metabolizzato
e quindi con bassa distribuzione sistemica, è stato utilizzato in
associazione all’azatioprina con
minori effetti collaterali rispetto al
prednisone 11. Tuttavia la bassa
percentuale di remissione osservata in questo studio in rapporto
ad altri, suggerisce cautela nel
suo impiego come trattamento di
prima scelta dell’EAIG.
Più recentemente è stato riportato
l’uso del rituximab, un anticorpo
monoclonale anti-CD20 che produce una marcata deplezione dei
linfociti B, come terapia di salvataggio di pazienti non responsivi
ai trattamenti succitati.
Il trapianto di fegato può essere
discusso all’esordio, per quei pazienti che non rispondano al trattamento immunosoppressivo “di
salvataggio”, sia nel medio-lungo
termine per i pazienti con cirrosi
alla diagnosi, che sviluppino una
progressiva e irreversibile insufficienza epatica terminale.
La sopravvivenza post-trapianto
in questi pazienti è dell’86% a cinque anni, tuttavia con un rischio di
recidiva dell’epatite autoimmune
sul graft variabile dal 15 al 39%,
quindi non trascurabile.
diagnosi e dove i pazienti che sopravvivevano, sempre senza trattamento, sviluppavano una cirrosi
in almeno il 40% dei casi.
Tuttavia l’evoluzione a lungo termine dei pazienti con EAIG, che
hanno risposto al trattamento immunosoppressivo, rimane ancora
poco conosciuta nei dettagli, anche se la prognosi è oggi considerata generalmente buona, anche
in termini di qualità di vita.
Nelle principali casistiche riportate, la sopravvivenza dei pazienti
trattati supera l’80% a dieci anni,
con fegato nativo in oltre il 60%
dei casi.
La presenza di cirrosi all’esordio
non sembra impattare negativamente sulla sopravvivenza a lungo
termine, mentre valori di bilirubina
e INR alterati alla diagnosi sono
stati identificati come rilevanti fattori di rischio di morte e/o di ricorso al trapianto di fegato.
Un trattamento immunosoppressivo, di solito rappresentato da
una monoterapia con azatioprina, è richiesto nella maggioranza
dei pazienti per il mantenimento
di una remissione nel lungo termine, anche se una percentuale
variabile dal 13 al 20% dei casi
riesce a mantenere una remissione stabile anche dopo la completa sospensione di ogni trattamento farmacologico. Lo sviluppo di
un’insufficienza epatica terminale
in pazienti cirrotici in remissione
bioumorale farmacologica è tuttavia possibile in un numero limitato
di pazienti giovani adulti.
Evoluzione a
lungo termine
Conclusioni
Il trattamento immunosoppressivo ha modificato radicalmente
l’evoluzione dell’EAIG rispetto alle
precedenti esperienze dell’adulto
con epatite autoimmune, dove circa il 40% dei pazienti con malattia
severa sintomatica, non trattati,
decedeva entro i sei mesi dalla
L’epatite autoimmune giovanile
sintomatica è una malattia rapidamente evolutiva verso la cirrosi
e l’insufficienza d’organo. La rapidità della sua evoluzione rende
necessaria una diagnosi precoce.
La maggioranza dei pazienti risponde efficacemente a un trattamento immunosoppressivo che
165
G. Maggiore et al.
deve essere tuttavia mantenuto nel
tempo, alla più bassa dose possibile, a causa del consistente rischio di ricaduta della malattia. Le
informazioni disponibili sul destino
a lungo termine di questi pazienti
sono limitate e quindi è auspicabile che siano prodotti nuovi studi
concernenti la possibilità di mantenere una condizione di remissione
stabile e persistente dopo sospensione del trattamento immunosoppressivo. Questa informazione
avrà una fondamentale rilevanza
per un adeguato “counselling” dei
pazienti alla diagnosi.
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• Il trattamento dell’EAIG si basa sull’immunosoppressione farmacologica. Nei casi di esordio con epatite fulminante
e nei casi di progressione di malattia con insufficienza epatica terminale può invece essere necessario un trapianto
epatico.
• Il trattamento consta di una prima fase di normalizzazione della funzione epatocellulare e di induzione della remissio-
ne clinica e biochimica della malattia e di una seconda fase di mantenimento volta a impedire il verificarsi di ricadute.
• Prednisone e azatioprina costituiscono il trattamento cosiddetto “convenzionale”, mentre tra le terapie “alternative”
la ciclosporina è il farmaco per cui esiste una più consolidata esperienza di efficacia.
• La durata ottimale del trattamento non è nota, ma dato il significativo rischio di ricadute, il trattamento, alla più bassa
dose possibile, deve certamente essere prolungato.
• La sopravvivenza dei pazienti trattati supera l’80% a dieci anni, con fegato nativo in oltre il 60% dei casi, tuttavia
l’evoluzione a lungo termine rimane ancora poco conosciuta.
166
CASE REPORT
a cura di
ANTONIO DI MAURO
Un’ematemesi come un’altra:
si parte sempre dall’anamnesi!
A hematemesis as another: it always starts by history!
Presentazione clinica
C. è una bambina di 5 anni e 4 mesi. Peso: 13.850 kg
(10-25°pct). Ex pretermine (34 settimane), ricoverata in
patologia neonatale. Ipotiroidismo in terapia sostitutiva.
Diagnosi di Sindrome di Turner all’età di 3 anni (monosomia X0, forma omogenea). Ipertransaminasemia di ndd di
recente insorgenza. La settimana precedente, ricovero di
24 ore presso ospedale limitrofo per disidratazione e calo
ponderale (-2 kg) in corso di gastroenterite febbrile. Dopo
4 giorni viene ricondotta presso l’Ambulatorio Urgenze
del nostro ospedale per episodio di ematemesi, incostante febbricola e decadimento delle condizioni generali.
Esame obiettivo
TC 37,2°C, FC 120/bpm, SATO2 97%. Aspetto distrofico, cute ipoelastica e pallida, labbra secche, lingua
impaniata. Faringe iperemico. Addome lievemente
meteorico, trattabile, non dolente, guazzamenti sparsi.
Organi ipocondriaci in sede. Si evidenziano: anemia
normocromica normocitica (Hb 11,3 g/dL), leucocitosi neutrofila (12,970/Ul), lieve rialzo degli indici di flogosi (PCR 12,8 mg/dL) e di funzionalità epatica (AST
72 U/L), riduzione della p-colinesterasi (4732 U/L) e
aumento della LDH (727 U/L). Diselettrolitemia (Na
132mEq/L, Cl 93, K 3 mEq/L). PT ratio 1,57 secondi.
Intrapresa idratazione ev con correzione degli elettroliti. Nuovo rialzo febbrile (TC 37,6°C). Addome teso,
scarsamente trattabile. All’ecografia addominale:
ascite discreta, fegato con ecostruttura accentuata, a
carico del lobo sn “area micronodulare ipoecogena”
(6 x 5 cm), ispessimento delle pareti della vena porta
con lume ristretto. Modica splenomegalia (Fig. 1).
Silvia Iuliano1 (foto)
Marco Manfredi1
Federica Gaiani2
Barbara Bizzarri2
Pierpacifico Gismondi1
Fabiola Fornaroli2
Gian Luigi de’Angelis1, 2
1 Unità Operativa di Clinica Pediatrica,
Scuola di Specializzazione in
Pediatria, Dipartimento MaternoInfantile, Azienda OspedalieroUniversitaria di Parma;
2 Unità Operativa Complessa di
Gastroenterologia ed Endoscopia
Digestiva, Dipartimento MaternoInfantile, Azienda OspedalieroUniversitaria di Parma
Indirizzo per la corrispondenza
Marco Manfredi
Unità Operativa di Clinica Pediatrica, Dipartimento
Materno-Infantile, Azienda Ospedaliero-Universitaria
di Parma, Ospedale dei Bambini “Pietro Barilla”
via Gramsci 14, 43126 Parma
E-mail: [email protected]
Possibili ipotesi diagnostiche
•Epatopatia autoimmune
•Malformazione epatica congenita
•Neoformazione epatica
•Cavernoma portale con epatopatia
Sviluppo e soluzione del caso clinico
a pagina 187
Figura 1.
Nodulo epatico del lobo sn con parenchima a impronta steato-fibrotica.
Giorn Gastr Epatol Nutr Ped 2016;VIII:167; doi: 10.19208/2282-2453-136
167
ENDOSCOPY
LEARNING LIBRARY
a cura di
Salvatore Oliva
Criteri di appropriatezza
della colonscopia nel bambino
Appropriateness of pediatric colonoscopy
Giuliano Lombardi (foto)
Maria Teresa Illiceto
UOC Pediatria Medica, Unità di
Gastroenterologia ed Endoscopia
Digestiva Pediatrica Ospedale Civile
“Spirito Santo”, Pescara
Key words
Pediatric colonoscopy • Guidelines •
Appropriateness of colonscopy
Abstract
Appropriate care is a crucial element of quality. In
2008, the ASGE and NASPGHAN published guidelines for the appropriate use of gastrointestinal
endoscopy in children. Few data are available in
Literature about their applicability in clinical practice. A retrospective observational multicenter exploratory review was performed in 13 Italian Centers of Pediatric Gastroenterology. No statistically
differences were found between clinical practice
and NASPGHAN-ASGE guidelines.
Indirizzo per la corrispondenza
Giuliano Lombardi
UOC Pediatria Medica, Unità di Gastroenterologia
ed Endoscopia Digestiva Pediatrica, Ospedale Civile
“Spirito Santo”
via Fonte Romana 8, 65125 Pescara
E-mail: [email protected]
168
Introduzione
Negli ultimi decenni la colonscopia ha rappresentato
uno strumento diagnostico sempre più utilizzato per
la sua elevata sensibilità e specificità nell’identificare le diverse patologie del colon, per l’ampia facilità
di diffusione e per la capacità di campionamento dei
tessuti come pure per eseguire manovre terapeutiche.
Considerata la crescente necessità di garantire assistenza sanitaria di alta qualità e di contenerne i costi,
risulta quindi di fondamentale importanza l’appropriatezza delle procedure mediche, inclusa la colonscopia.
I criteri di appropriatezza di una procedura dovrebbero
essere basati sull’evidenza di efficacia, effetti collaterali e risultati, e idealmente dovrebbero essere valutati
in trial controllati randomizzati. Tuttavia l’evidenza sperimentale spesso non è facilmente applicabile e in grado di rispecchiare adeguatamente la pratica clinica.
background
Nel 1998 un Panel di esperti europei (European Panel on the Appropriateness of Gastrointestinal Endoscopy – EPAGE) ha utilizzato il “metodo di appropriatezza RAND/UCLA” 1 per combinare le maggiori
evidenze scientifiche con le proprie esperienze personali, redigendo una lista di criteri di appropriatezza
della colonscopia 1, poi revisionati nel 2008 (EPAGE II).
Le colonscopie vennero definite appropriate se i benefici superavano i rischi attesi, con un margine tanto
significativo da rendere indicate le procedure. Tali indicazioni furono ulteriormente valutate per determinare
la necessità delle colonscopie non “appropriate”, che
venne definita tale “nel caso in cui i benefici ottenuti
fossero così significativi da ritenere la procedura l’unica scelta eticamente corretta”.
Nel 2000, anche la Società Americana di Endoscopia Digestiva (ASGE) ha redatto le proprie linee guida
sull’uso appropriato dell’endoscopia nell’adulto, classificando le procedure “generalmente indicate” o “generalmente non indicate” 2.
La colonscopia in età pediatrica è un esame strumentale estremamente utile in casi selezionati, ma presen-
Giorn Gastr Epatol Nutr Ped 2016;VIII:168-171; doi: 10.19208/2282-2453-137
ENDOSCOPY LEARNING LIBRARY
Criteri di appropriatezza della colonscopia nel bambino
TABELLA I.
Indicazioni alla colonscopia in età pediatrica ASGE-NASPGHAN.
Diagnostica
rappresentate da megacolon tossico, recente perforazione intestinale e/o resezione intestinale.
Diarrea (cronica, perdita di peso clinicamente significativa, febbre, anemia)
Progetto SIGENP
Ematochezia/melena
Anemia di n.d.d.
Dolore addominale clinicamente significativo
Poliposi (diagnosi e sorveglianza)
Rigetto in trapianto intestinale
Lesioni del tratto gastro-intestinali “basso” evidenziate all’imaging
Scarso accrescimento/perdita di peso
Terapeutica
Polipectomia
Rimozione corpo estraneo
Dilatazione stenosi
Controllo sanguinamento intestinale “basso”
ta delle peculiarità proprie rispetto
all’età adulta, sia per le indicazioni
sia per le procedure da mettere in
atto.
Nel 2008, la stessa ASGE insieme alla Società Nord-Americana
di Gastroenterologia, Epatologia e Nutrizione Pediatrica (NASPGHAN) ha revisionato le proprie
linee guida, aggiungendo chiare
indicazioni per l’endoscopia in età
pediatrica (Tab. I) 3.
In letteratura sono riportati diversi
studi che hanno cercato di valutare l’applicabilità nella pratica clinica delle linee guida per l’adulto,
dimostrando che la percentuale
di procedure inappropriate rimane comunque alta (13-37% nel
mondo) 4. Diversi autori, in un sistema prescrittivo “open-access”,
ritengono efficace un adeguato
programma educativo per medici
generici e specialisti, al fine di ridurre la percentuale di procedure
inappropriate 5.
Per l’età pediatrica purtroppo
sono disponibili dati molto limitati. Lee et al. 6 hanno condotto
una valutazione su un campione
di 345 procedure endoscopiche
(di cui solo 70 colonscopie), rilevando che le linee guida ASGENASPGHAN risultano più efficaci
nell’indicare un riscontro endoscopico positivo, e meno sensibili
nel modificare la diagnosi clinica
iniziale o il conseguente piano terapeutico.
Più recentemente la Società Europea di Endoscopia Gastrointestinale (ESGE) e la Società Europea
di Gastroenterologia Epatologia e
Nutrizione Pediatrica hanno pubblicato nuove linee guida, basate
sull’evidenza e sul Consenso di un
Panel di esperti, definendo chiare
indicazioni cliniche alle procedure
endoscopiche diagnostiche e terapeutiche, anche rispetto al loro
timing. Per la colonscopia in età
pediatrica le linee guida ESGENASPGHAN
differiscono
da
quelle ASGE-NASPGHAN per la
esclusione del dolore addominale tra le indicazioni diagnostiche,
e l’inserimento della riduzione di
volvolo del sigma tra quelle terapeutiche; definite non-indicate le
procedure per disturbi gastrointestinali funzionali e stipsi, mentre
controindicazioni assolute sono
In 13 Centri italiani di Endoscopia
digestiva pediatrica (Brescia, Firenze, Foggia, Genova, Messina,
Milano, Napoli Federico II, Padova, Parma, Pescara, Roma La
Sapienza, Roma OPBG, Trento) è
stato condotto uno studio multicentrico esplorativo retrospettivo
osservazionale, per valutare la
applicabilità e la corrispondenza delle linee guida ASGE/NASPGHAN della appropriatezza
della colonscopia in età pediatrica nella pratica clinica in Italia. 660 pazienti con età media
9,2 ± 4,8 anni, (365 M e 295 F)
sottoposti a colonscopia sono
stati valutati riportando: sintomi, indicazione alla colonscopia,
tipo di sedazione e di ricovero,
riscontri endoscopici e istologici, diagnosi definitiva, grado di
appropriatezza. Quest’ultima è
stata definita dal Panel in base a:
A) scala di appropriatezza “quantitativa” da 1 a 9 (1-3 inappropriata; 4-6 dubbia; 7-9 appropriata),
B) linee guida ASGE/NASPGHAN
e C) giudizio di “necessità” definito dal Coordinatore del Centro.
È stata poi valutata l’accuratezza diagnostica della colonscopia
correlando diagnosi endoscopica e diagnosi istologica (ritenuta
gold standard), al fine di capire se
le procedure ritenute appropriate
siano statisticamente “accurate”
ai fini diagnostici. Inoltre, al fine
di meglio valutare il concetto di
necessità, è stato considerato
il “valore contributivo positivo e
negativo” della procedura rispetto all’iter diagnostico-terapeutico
del paziente. Infatti, una colonscopia “negativa” (non patologica macroscopicamente né istologicamente) potrebbe comunque
modificare positivamente l’iter
169
G. Lombardi, M.T. Illiceto
TABELLA II.
Multicentrica SIGENP: frequenza e percentuali di colonscopie ritenute appropriate rispetto ai sintomi.
ASGE NASPGHAN
Inappropriata
Non
1-3
Appropriata
Dubbia
appropriata
Appropriata
7-9
Necessaria
4-6
Dolore addominale
178 (46)
181 (47)
29 (7)
314 (81)
51 (13)
23 (6)
Diarrea cronica
161 (49)
152 (46)
14 (5)
288 (88)
30 (9)
9 (3)
Rettorragia
145 (48)
134 (44)
22 (8)
246 (82)
34 (11)
9 (3)
Stipsi cronica
119 (56)
81 (38)
11 (6)
167 (79)
31 (15)
13 (6)
Perdita peso
76 (48)
77 (49)
5 (3)
140 (89)
11 (7)
7 (4)
Febbre
50 (44)
57 (50)
6 (6)
98 (87)
9 (8)
6 (5)
Scarso
accrescimento
38 (56)
26 (38)
4 (6)
60 (88)
8 (12)
-
Ragadi anali
29 (52)
21 (37)
6 (11)
41 (74)
9 (16)
6 (10)
Fistola perianale
9 (60)
5 (33)
1 (7)
13 (87)
2 (13)
-
Ascesso perianale
9 (60)
5 (33)
1 (7)
12 (80)
3 (20)
-
Melena
8 (67)
4 (33)
-
5 (42)
3 (25)
4 (33)
Totale
822 (49)
743 (45)
99 (6)
1384 (83)
191 (12)
88 (5)
Sintomi
diagnostico e/o terapeutico (valore contributivo positivo).
Risultati
I risultati dello studio, già presentati in ambito SIGENP e in fase
di valutazione per pubblicazione,
hanno identificato come indicazioni più comuni alla colonscopia dolore addominale (58,8%),
diarrea cronica (49,5%) e sanguinamento rettale (45,6%). Le
colonscopie definite appropriate dal Panel erano il 94%, verso
il 95% delle linee guida ASGE/
NASPGHAN, con un’elevata corrispondenza tra le due valutazioni
(Tab. II). L’accuratezza diagnostica
complessiva è risultata del 74% (il
grado di accordo tra diagnosi endoscopica e diagnosi istologica
stimato tramite l’indice K pari a
0,66 indicava un valore statisticamente significativo; test Z = 27,4;
p < 0,001). La percentuale di colonscopie con effetto contributivo
positivo è risultata statisticamente
rilevante (95,4%).
170
Conclusioni
e messaggi
Tanto maggiore risulta il grado di
appropriatezza di una procedura,
tanto più efficiente ed efficace risulta il sistema di assistenza sanitaria. L’applicazione delle linee
guida ASGE-NASPGHAN per la
colonscopia in età pediatrica risulta efficace nella pratica clinica,
anche se ulteriori studi sono necessari. Verosimilmente a questo
contribuisce l’indicazione diretta
alla procedura da parte degli endoscopisti pediatri che, più spesso dei loro colleghi dell’adulto,
sono i diretti prescrittori oltre che
esecutori della colonscopia.
Sarà interessante valutare se
e quanto le nuove linee-guida
ESGE-ESPGHAN possano migliorare l’appropriatezza della colonscopia nel bambino.
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tology and Nutrition (ESPGHAN)
and European Society of Gastrointestinal Endoscopy (ESGE) Gui-
delines. J Pediatr Gastroenterol
Nutr 2016;Sep 12 [Epub ahead of
print].
• Un elevato grado di appropriatezza delle colonscopie corrisponde a una buona pratica clinica, a una riduzione della
spesa sanitaria e a una riduzione/adeguamento delle liste di attesa.
• Per l’età pediatrica si fa riferimento alle linee guida ASGE-NASPGHAN e più recentemente alle nuove linee guida
ESGE-ESPGHAN.
• Lo studio condotto in 13 Centri italiani di endoscopia digestiva pediatrica ha evidenziato un elevato grado di appro-
priatezza delle colonscopie effettuate.
171
RECENT ADVANCE
IN BASIC SCIENCE
a cura di
Salvatore Accomando
Diarree congenite:
una nuova classificazione basata sulle
recenti evidenze scientifiche
Congenital diarrheal disorders: toward a new classification
deriving from more recent scientific evidence
Vincenza Pezzella1
Giuseppe Castaldo2, 3
Roberto Berni Canani3, 4, 5 (foto)
Dipartimento della Donna, del
Bambino e Chirurgia Generale e
Specialistica, Seconda Università
degli Studi di Napoli, Napoli;
2
Dipartimento di Medicina
Molecolare and Biotecnologie
Mediche, Università degli Studi di
Napoli Federico II, Napoli; 3 CEINGE
Biotecnologie Avanzate, Università
di Napoli Federico II, Napoli;
4
Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali,
Sezione Pediatria, Università degli Studi di Napoli
Federico II, Napoli; 5 Laboratorio Europeo per lo
Studio delle Malattie Indotte dagli Alimenti, ELFID,
Università degli Studi di Napoli Federico II, Napoli
1
Key words
Chronic diarrhea • Genes • Molecular analysis
Abstract
Congenital diarrheal disorders (CDDs) represent
an evolving group of rare chronic enteropathies
with a typical onset early in the life. Severe
chronic diarrhea represents the main clinical
manifestation, but in some patients diarrhea is
only a component of a more complex systemic
disease. The number of conditions has gradually increased, and many new genes have been
indentified and functionally related to CDDs,
opening new diagnostic and therapeutic perspectives.
Indirizzo per la corrispondenza
Roberto Berni Canani
Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali,
Sezione Pediatria, Università degli Studi di
Napoli, Federico II
via Sergio Pansini 5, 80131 Napoli
E-mail: [email protected]
172
Introduzione
Le diarree congenite (CDD) sono un gruppo di rare enteropatie a eziologia eterogenea ed esordio nei primi
giorni di vita. Le forme più severe sono caratterizzate da diarrea cronica con massiva perdita di fluidi a
livello intestinale, che richiede spesso una nutrizione
parenterale. La diarrea può essere il risultato di un
meccanismo secretivo e/o osmotico o infiammatorio. La diarrea secretiva si caratterizza per un aumento delle secrezioni di fluidi nel lume intestinale, come
accade spesso nella malattia da inclusioni microvillari
(MVID). La diarrea osmotica è causata dalla presenza di nutrienti non assorbiti che richiamano fluidi nel
lume intestinale. Un esempio tipico è rappresentato
dal malassorbimento di glucosio-galattosio. La forma
infiammatoria riconosce una disregolazione del sistema immunitario che conduce a infiltrato infiammatorio e danno della mucosa intestinale, come si osserva
nella sindrome legata all’X da immunodisregolazionepoliendocrinopatia-enteropatia (IPEX). Le nuove conoscenze sulla patogenesi suggeriscono l’utilità di un
sistema di classificazione basato sul principale meccanismo patogenetico (Fig. 1). Questa classificazione
comprende difetti: 1) della digestione e assorbimento
di nutrienti ed elettroliti; 2) della struttura enterocitaria;
3) della differenziazione delle cellule enteroendocrine;
4) dell’omeostasi immunitaria intestinale 1.
Difetti nella digestione
e assorbimento di nutrienti
ed elettroliti
È il gruppo più numeroso. Non si osservano in genere
alterazioni istologiche e ultrastrutturali a livello intestinale. Classici esempi sono il malassorbimento di glucosiogalattosio e la cloridorrea congenita, ma nuove condizioni sono state descritte più recentemente 2, 3 (Tab. I).
Diarrea sindromica familiare
Riscontrata in 32 membri di una famiglia norvegese e
caratterizzata da diarrea cronica a esordio precoce, meteorismo, dolore addominale, dismotilità e IBD (in una
Giorn Gastr Epatol Nutr Ped 2016;VII:172-177; doi: 10.19208/2282-2453-138
RECENT ADVANCE IN BASIC SCIENCE
Diarree congenite: nuova classificazione
si nella gestione di questi pazienti
con la nutrizione parenterale e il
trapianto intestinale hanno ridotto
il tasso di mortalità.
Figura 1.
Classificazione eziopatogenetica delle diarree congenite.
parte dei pazienti). Tutti i pazienti
mostrano una mutazione missenso in eterozigosi (p.Ser840Ile) del
gene GUCY2C, codificante per il
recettore della guanilato ciclasi
intestinale. La mutazione provoca aumento di cGMP responsabile a sua volta dell’attivazione di
protein chinasi GII che fosforilano
il canale CFTR con conseguente
severa diarrea secretiva cronica 4.
Si ipotizza che i diacilgliceroli e acidi grassi non utilizzati per la sintesi
dei trigliceridi raggiungono l’intestino e agiscono come composti
tossici tramite vie del segnale dei
lipidi oppure come detergenti 5.
Deficit di DGAT1
Una rara mutazione a carico del
gene DGAT1 (codificante per una
acyl CoA: diacylglycerol acyltransferasi1) è stata descritta in due
neonati con diarrea severa ed enteropatia
proteino-disperdente.
Questo enzima è importante nelle
ultime fasi di sintesi di trigliceridi.
Si distinguono per le tipiche caratteristiche istologiche e ultrastrutturali, includono 2 condizioni
principali: MVID e l’enteropatia a
ciuffi (CTE). La diarrea sindromica, detta anche diarrea fenotipica
o syndrome trico-entero-epatica
(THE), è comunemente inclusa in
questo gruppo (Tab. I). I progres-
Difetti della
struttura
dell'enterocita
Malattia da inclusioni
microvillari
La caratteristica patognomonica è
la perdita del brush border apicale
e la formazione di inclusioni microvillari intracellulari. La maggior
parte dei pazienti con esordio precoce presenta una mutazione inattivante del gene della miosina Vb
(MYO5B) 6, che insieme alle GTPasi
della famiglia RAB, è responsabile
della polarità cellulare, del traffico
intracellulare e della crescita dei
microvilli. Un’alterazione di questo
meccanismo conduce a una riduzione nei processi di assorbimento
cellulare. Oltre alla diarrea cronica,
i pazienti MVID possono sviluppare colestasi. Il sequenziamento
genico di pazienti con MVID con
fenotipo clinico più sfumato, ha
messo in evidenza un’alterazione
nel gene della sintaxina 3 (STX3),
responsabile del traffico proteico,
fusione vescicolare e polarità cellulare a livello intestinale, epatico,
renale e gastrico.
Enteropatia a ciuffi
I pazienti mostrano le tipiche cellule a ciuffo che possono essere
presenti dal duodeno al grosso
intestino. La patologia è da correlare a mutazioni a carico del gene
delle molecule di adesione cellulare epiteliale (EPCAM). Questi
pazienti, in genere, mostrano solo
diarrea cronica in assenza di altri
sintomi extra-intestinali, a eccezione di una parte di pazienti che
sviluppano artrite a esordio tardivo. Un secondo gruppo di pazienti
mostra una mutazione in SPINT2,
conosciuto anche come inibitore
del fattore di crescita epatocitaria.
Bambini con la variante SPINT2
presentano una forma sindromica
di CTE, caratterizzata da diarrea
cronica, cheratite puntata ed atre-
173
V. Pezzella et al.
Tabella I.
Genetica ed epidemiologia delle principali diarree congenite.
Difetti nell’assorbimento e trasporto di nutrienti ed elettroliti
Malattia
Gene
Incidenza e
(Numero OMIM) trasmissione
Attività biologica alterata e proteine
coinvolte
Cloridorrea congenita
SLC26A3
(126650)
AR; comune in Finlandia, Alterata attività dello scambiatore Cl–/HCO3–
Polonia, Golfo Persico;
poche centinaia di casi
in altri gruppi etnici
Sodiorrea congenita*
SPINT2*
(605124)
AR; pochi casi descritti
Alterata funzione dello scambiatore Na+/H+ a
livello digiunale dovuto a una ridotta attività
dell’inibitore di serina peptidasi
Kunitz tipo 2
Deficit congenito di lattasi
LCT
(603202)
AR; 1:60,000 in
Finlandia; poche
centinaia di casi in altri
gruppi etnici
Ridotta attività idrolasica dell’enzima lattasi
Deficit saccarasi-isomaltasi SI
(609845)
AR; 1:5,000; più alta in
Groenlandia, Alaska e
Canada
Ridotta attività dell’enzima saccarasi-isomaltasi
Deficit maltasiglucoamilasi
MGAM
(154360)
AR; pochi casi descritti
Ridotta attività dell’enzima maltasi-glucoamilasi
Malassorbimento glucosiogalattosio
SLC5A1
(182380)
AR, poche centinaia di
casi descritti
Alterato assorbimento di sodio-glucosio
Sindrome di Fanconi-Bickel SLC2A2
(138160)
AR, poche centinaia di
casi descritti
Alterata attività di un trasportatote di glucosio a
livello epatico, pancreatico ed enterocitario
Acrodermatite enteropatica
SLC39A4
(607059)
AR; 1:500.000
Alterata attività del trasportatore di Zn2+
Intolleranza alle proteine
con lisinuria
SLC7A7
(603593)
AR; poche centinaia di
casi descritti
Alterato trasporto di amminoacidi
Diarrea da acidi biliari
primari
SLC10A2
(601295)
AR, pochi casi descritti
Ridotto riassorbimento enteroepatico di acidi
biliari
Deficit di enterochinasi
TMPRSS15
(606635)
AR, pochi casi descritti
Alterata attivazione di tripsinogeno da parte di
una serina proteasi transmembrana
Abetalipoproteinemia
MTTP
(157147)
AR; 150 casi descritti
Alterata attività trasferasica di trigliceridi
microsomiali, sintesi più bassa di VLDL e ridotto
assorbimento di lipidi
Ipobetalipoproteinemia
Apo B
(107730)
Autosomica codominante
1:1,000–1:3,000
Alterata struttura e attività di apolipoproteinaB e
conseguente ridotto assorbimento di lipidi
Malattia da accumulo di
chilomicroni
SAR1B
(607690)
AR, 40 casi descritti
Alterato trasporto di chilomicroni a livello enterocitario
dovuto all’alterata attività di piccole GTPase
Diarrea sindromica
familiare
GUCY2C
(601330)
AR, una famiglia
descritta
Aumentata attività di guanil ciclasi 2C aumenta i
livelli di cGMP, iperattivandoCFTR intestinale
Diarrea associata a
mutazione di DGAT1
DGAT1
(604900)
AR, una famiglia
Ashkenazi descritta
Alterata attività della diacilglicerolo aciltrasferasi
1; effetti sconosciuti
*Analisi del brush border intestinale dei pazienti affetti ha rivelato che la condizione è causata da un difetto funzionale
in uno degli scambiatori Na+/H+ localizzati sulla membrana apicale delle cellule epiteliali del piccolo intestino. Nessuna mutazione è stata riscontrata a carico dei geni codificanti per uno degli scambiatori Na+/H+ identificati fino a oggi
segue tab. I
(NHE1,NHE2,NHE3, and NHE5).
174
RECENT ADVANCE IN BASIC SCIENCE
Diarree congenite: nuova classificazione
Continua tab. I
Difetti nella struttura degli enterociti
Malattia
Gene
(Numero
OMIM)
Incidenza e
trasmissione
Attività biologica alterata e proteine
coinvolte
Malattia da inclusioni
microvillari
MYO5B
(606540)
AR; rara; frequenza più
alta tra i Navajo
Ridotta attività della miosina 5B causa un
anomalo riciclo di endosomi
STX3
(600876)
AR; 2 pazienti descritti
Alterata attività di sintassina 3, coinvolta nella
fusione apicale delle vescicole alla membrana
EPCAM
(185535)
AR; 1:50-100.000; più
alta tra gli Arabici
Difetto nell’attività delle molecole di adesione
epiteliale
SPINT2
(605124)
12 pazienti descritti
Alterata attività dell’inibitore della serina peptidasi
Kunitz
Tipo 2, coinvolto nella rigenerazione cellulare
TTC37
(614589)
AR; pochi casi descritti
Alterata sintesi o localizzazione di trasportatori di
membrana dovuto a una ridotta attività di TTC37
SKIV2L
(600478)
AR; pochi casi descritti
Meccanismo non conosciuto dovuto all’alterata
attività dell’elicasi
SKIV2L
Enteropatia congenita a
ciuffi*
Sindrome Tricoepatoenterica
(Diarrea sindromica)
* L’enteropatia congenita a ciuffi associata a mutazioni di EPCAM è caratterizzata solo dall’interessamento intestinale, mentre mutazioni in
SPINT2 conducono a una forma sindromica con capelli lanugginosi, basso peso alla nascita, deficit immunitari e diarrea con alta concentrazione
di sodio nelle feci.
Difetti nella differenziazione delle cellule enteroendocrine
Malattia
Gene
(Numero
OMIM)
Incidenza e
trasmissione
Attività biologica alterata e proteine
coinvolte
Anendocrinosi enterica
NEUROG3
(604882)
AR, pochi casi descritti
Neurogenina-3 alterata, regola lo sviluppo delle
cellule epiteliali intestinali in cellule endocrine
Lissencefalia X-linked e MR
ARX
(300382)
X-linked, pochi casi
descritti
Attività alterata del fattore di trascrizione
ARX, che regola lo sviluppo delle cellule
enteroendocrine
Deficit di proproteina
convertasi 1/3
PCSK1
(162150)
AR, pochi casi descritti
Attività ridotta della proproteina convertasi 1/3
coinvolta nella attivazione di pro-ormoni prodotti
dalle cellule enteroendocrine
Sindrome di Mitchell-Riley
RFX6
(612659)
AR, pochi casi descritti
Ridotta attività del fattore regolatore X6 coinvolto
nella morfogenesi e sviluppo del pancreas
segue tab. I
sia delle coane, insieme ad altre
anomalie più rare 7.
Sindrome trico-entero-epatica
Questi pazienti si caratterizzano per diarrea cronica, dismorfismi
facciali e anomalie dei capelli, che
possono associarsi o meno ad altri segni e sintomi, come il ritardo
di crescita intrauterino, immunodeficienze, anomalie cutanee, pa-
tologia epatica, difetti cardiaci e
anomalie delle piastrine. Il quadro
istologico varia da una moderata
a severa atrofia dei villi con infiltrazione incostante di cellule mononucleate. È causata nel 60% dei casi
da una mutazione in TTC37 e nel
40% dei casi da una mutazione in
SKIV2L. Entrambi i geni fanno parte del sistema di sorveglianza della
produzione di mRNA 8.
Difetti nella
differenziazione
delle cellule
enteroendocrine
La caratteristica principale di queste
condizioni è un’anomalia dello sviluppo o della funzione delle cellule
enteroendocrine, che si può manifestare con diarrea osmotica cronica,
associata o meno ad altre anomalie
endocrine sistemiche (Tab. I).
175
V. Pezzella et al.
Continua tab. I
Difetti nell’omeostasi dell’immunità intestinale
Malattia
Gene
(Numero
OMIM)
Incidenza e
trasmissione
Attività biologica alterata e proteine
coinvolte
Sindrome IPEX
FOXP3
(300292)
X-linked, poche
centinaia di casi
descritti
Alterata attività di FOXP3 coinvolto nello sviluppo
delle cellule TREG CD4+CD25+
Sindromi IPEX-like
CD25
(147730)
AR
Alterata sintesi delle catene del recettore per IL-2
sulle cellule TREG
STAT5b
(604260)
AR
Alterata attività di STAT5b coinvolto nel segnale di
IL-2 delle cellule TREG
STAT-1
(600555)
AD, perdita/guadagno di
funzione
Alterata attività di STAT-1 causa la riprogrammazione
delle cellule TREG in cellule TH1-like
ITCH
(606409)
AR (una famiglia)
Alterata attività di ITCHY E3 ubiquitina ligasi
implicata nello sviluppo delle cellule TREG
LRBA (606453)
AR,
3 famiglie descritte
Alterata attività di LRBA, coinvolto nell’apoptosi
delle cellule TREG
IL-10
(124092
AR
Alterato IL-10 o subunità del suo recettore
coinvolti nel controllo della risposta intestinale
agli stimoli microbici
Enteropatia a esordio
precoce con coliti
IL-10R
146933
IL-10R
123889
Anendocrinosi enterica
Bambini con deficit di neurogenina 3 presentano scarse cellule enteroendocrine e sviluppano diabete mellito insulino dipendente nel
corso dell’infanzia, in assenza di
altre anomalie endocrine 9.
Sindrome di Mitchell–Riley
Mutazioni in omozigosi di RFX6
sono associate ad atresia duodenale, anomalie biliari, diabete mellito
neonatale e malassorbimento. RFX6
è una proteina legante il DNA ed è
fondamentale per lo sviluppo e la
funzione delle cellule enteroendocrine, senza intaccarne il numero 10.
Mutazioni nel gene ARX
A trasmissione X-linked, è caratterizzata da ritardo mentale, epilessia, lissencefalia, anomalie dei
genitali e in alcuni casi diarrea
congenita 1. Più del 50% dei pa-
176
zienti con perdita di funzione del
gene ARX ha espansioni di polialanina che potrebbe essere responsabile dell’elevata variabilità
dei segni neurologici e intestinali 1.
Difetti
nell'omeostasi
dell'immunità
intestinale
Una diarrea cronica severa ad esordio precoce può derivare anche da
mutazioni a carico dei geni codificanti proteine che hanno un importante ruolo della regolazione della
risposta immunitaria intestinale. La
diarrea può derivare da tre meccanismi principali: risposta immunitaria
alterata contro gli agenti patogeni,
infiammazione o assenza di regolazione immunitaria. Le enteropatie
a base autoimmune si riconoscono
nei pazienti che mancano di mecca-
nismi specifici di regolazione immunitaria, responsabili dell’aggressione tissutale incontrollata (Tab. I).
IPEX
È il prototipo di questo gruppo. È
dovuta a una mutazione nel gene
FOXP3, fondamentale fattore di
trascrizione per la funzione delle cellule timiche T-regolatorie
(TREG) 1. Queste cellule sono in
grado di controllare le funzioni
indesiderate delle cellule T effettrici. Le mutazioni sono distribuite
lungo tutto il gene e determinano
perdita di funzione. Il quadro clinico severo già nei primi giorni
di vita, fa supporre che il danno
intestinale inizi durante la vita fetale, indipendentemente da fattori esterni, come la nutrizione e il
microbioma intestinale. Utili nella
diagnosi sono gli anticorpi antiarmonina 1, una proteina espres-
RECENT ADVANCE IN BASIC SCIENCE
Diarree congenite: nuova classificazione
sa a livello delle cellule epiteliali.
Diversi pazienti con la syndrome
IPEX sono stati trattati con un trapianto di cellule staminali emopoietiche 1, ma questo approccio è
limitato dalla disponibilità di donatori HLA-compatibili.
Sindromi IPEX-like
Queste condizioni sono associate
a mutazioni in geni responsabili
della funzione di mantenimento,
segnale ed espansione delle cellule TREG 1. La diagnosi può essere agevolata dal dosaggio della
percentuale di specifiche regioni
TREG metilate del gene FOXP3
(TSDR) nel sangue periferico.
Mutazioni in STAT5B, responsabili dell’attivazione del segnale
dell’IL-2 dal CD25 a FOXP3, sono
state descritte in associazione a un numero ridotto di cellule
TREG 1. Bambini con questa mutazione presentano altri sintomi
oltre quelli intestinali, come ritardo
di crescita e patologia polmonare
interstiziale. Una condizione IPEXlike (caratterizzata da diarrea) con
un profondo deficit delle cellule
TREG, ma normale gene FOXP3,
è stata associata a una mutazione
non-senso nel gene LRBA (fattore
responsivo ai lipopolisaccaridi) 1.
Questi pazienti hanno immunodeficienza comune variabile e alterazioni dell’autoimmunità 1.
Deficit di IL-10 o IL10R
Caratterizzate da enterocoliti con
lesioni ulcerative in regione peria-
nale e a livello della mucosa intestinale 1. Fistole e ascessi possono
essere presenti, richiendo multipli
interventi chirurgici. Diversi farmaci
anti-infiammatori sono stati usati
con efficacia limitata. Il trapianto
di cellule staminali emopoietiche è
stato usato con successo 1.
Conclusioni
Negli ultimi anni, molti progressi
sono stati fatti sulla comprensione
della patogenesi di queste condizioni 1. La diagnosi molecolare ha
ulteriormente cambiato lo scenario delle CDD, aprendo la strada
a nuove strategie terapeutiche
come il trapianto di cellule staminali emopoietiche 1 e la terapia
genica con endo-nucleasi, inclusi
TALENs o CRISPR/Cas9 1. Studi a
lungo termine sono necessari per
fornire altre informazioni riguardo
la prognosi di queste condizioni.
Bibliografia
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in enteroendocrine K-cells and is
involved in GIP hypersecretion in
high fat dietinduced obesity. J Biol
Chem 2013;288:1929-38.
10
• Le diarree congenite (CDD) sono un gruppo di rare e severe enteropatie con tipico esordio nei primi giorni di vita.
• All’interno delle CDD possiamo distinguere: I. Difetti nell’assorbimento e trasporto di nutrienti ed elettroliti; II. Difetti
nella struttura dell’enterocita; III. Difetti nella differenziazione delle cellule enteroendocrine; IV. Difetti dell’omeostasi
immunitaria intestinale.
• Il numero di condizioni incluse nel gruppo delle CDD sta progressivamente aumentando, molti nuovi geni sono stati
identificati e correlati funzionalmente a queste patologie.
• La diagnostica molecolare sta acquistando un ruolo sempre più importante e oggi consente di ricorrere a efficienti
procedure di sequenziamento genico esteso a costi ragionevoli.
177
GUIDELINES: WHAT IS THE BEST
FOR CLINICAL PRACTICE
a cura di
Teresa Capriati
Una Consensus Statement
sulla vitamina D nella salute
della popolazione europea
A Consensus Statement about vitamin D in healthy
European pediatric population
Teresa Capriati (foto)
Unità Operativa Semplice di
Nutrizione Artificiale, Ospedale
Pediatrico “Bambino Gesù”, Roma
Key words
Vitamin D • Metabolism of calcium
and phosphorus • Milk derivatives
Abstract
In this position paper the ESPGHAN summarize the published
data on vitamin D intake, prevalence of vitamin deficiency in the
European paediatric population and provide
recommendations for the prevention of vitamin D deficiency in this population. The serum
concentration > 50 nmol/L (> 20 ng/mL) indicate sufficiency and a serum concentration
< 25 nmol/L (< 10 ng/mL) indicate severe deficiency. Infants should receive an oral supplementation of 400 IU/day of vitamin D and should
be encouraged to follow a healthy lifestyle
associated with a normal body mass index, including a varied diet with vitamin D – containing
foods (fish, eggs, dairy products) and adequate
outdoor activities with associated sun exposure.
Indirizzo per la corrispondenza
Teresa Capriati
Unità Operativa Semplice di Nutrizione Artificiale,
Ospedale Pediatrico “Bambino Gesù”
piazza S. Onofrio 4, 00165 Roma
E-mail: [email protected]
178
Le raccomandazioni
La Consensus statement 1 della Società di Gastroenterologia, Epatologia e Nutrizione (ESPGHAN) riassume le conoscenze relative al metabolismo e agli effetti sulla salute della vitamina D e i dati relativi alla
assunzione della vitamina D e alla prevalenza di carenza di vitamina D nella popolazione pediatrica europea. Al termine della Consensus vengono riportate
le raccomandazioni per la prevenzione della carenza
di vitamina D nella popolazione sana; vengono esclusi da queste raccomandazioni i bambini con malattie
croniche e i neonati prematuri, per i quali sono state
pubblicate dall’ESPGHAN raccomandazioni a parte 2.
La Consensus è stata realizzata andando a identificare
le pubblicazioni rilevanti uscite fino a novembre 2012
tratte dai database di PubMed, ISI Web of Science, e
dalla Cochrane Library.
La vitamina D è un nutriente, ma può anche essere sintetizzata nella pelle umana attraverso l’esposizione alla
luce solare. Alcuni studi sottolineano che l’esposizione
solare è il fattore più importante nel determinare il livello sierico di vitamina D. La principale funzione della
vitamina D è di regolare il metabolismo calcio-fosforo
ed è quindi essenziale per il mantenimento della salute
delle ossa. Sono stati studiati tuttavia nei bambini e
negli adolescenti tanti altri effetti della vitamina D ed in
particolare la prevenzione di malattie immuno-correlate (asma, diabete mellito tipo 1), di malattie infettive
(infezioni respiratorie, influenza), e delle malattie cardiovascolari. Negli adulti, inoltre, la vitamina D avrebbe
un ruolo nel corretto funzionamento neurofisiologico e
nella prevenzione del cancro.
Nella Tabella I sono riassunti i momenti fondamentali
del metabolismo della vitamina D e nella Tabella II gli
effetti principali della vitamina D sulla salute di lattanti,
bambini e adolescenti secondo quanto riportato dalla
Consensus.
Per scopi scientifici e clinici, il Committee of Nutrition dell’ESPGHAN raccomanda l’uso pragmatico di una concentrazione sierica di 25 (OH) vitamina D > 50 nmol/L (> 20 ng/mL) per indicare la sufficienza
e una concentrazione sierica < 25 nmol/L (< 10 ng/mL)
Giorn Gastr Epatol Nutr Ped 2016;VIII:178-186; doi: 10.19208/2282-2453-139
GUIDELINES: WHAT IS THE BEST FOR CLINICAL PRACTICE
Una Consensus Statement sulla vitamina D nella salute della popolazione europea
TABELLA I.
Fonti, assorbimento, metabolismo e conservazione della vitamina D (calciferolo).
FONTI
Fonti alimentari
Pesci grassi (salmone, sgombro, sardine)
Tuorlo d’uovo e alcune specifiche qualità di funghi (in minore quantità)
Alimenti fortificati con vitamina D come latte, derivati del latte, margarina, cereali e succhi di frutta (in certi paesi europei)
NB: Il contenuto di vitamina D nei latti formulati deve essere da 40 a 100 UI/100 kcal e da 40 a 120 UI/100 kcal nei latti di
proseguimento (Direttiva 2006/141/EC Commissione europea) 3
Fonti solari
La pelle umana produce vitamina D con l’esposizione al sole (UVB con lunghezza d’onda 280-315 nm), per conversione del
naturale 7-deidrocolesterolo (presente in alte concentrazioni nella pelle umana) in vitamina D3. Tuttavia, la quantità di sole può
variare notevolmente da persona a persona.
La produzione di vitamina D dipende dalla quantità di UVB e quindi da:
• pigmentazione della pelle;
• uso di creme solari: la produzione cutanea di vitamina D può essere completamente abolita quando ci si attiene alla quantità
di crema solare e fattore di protezione solare (SPF) raccomandato dalla OMS;
• tipo di abbigliamento;
• stagione dell’anno;
• latitudine geografica.
L’esposizione al sole non può portare a concentrazioni di vitamina D tossiche.
METABOLISMO
Le 2 forme principali sono la vitamina D2 (ergocalciferolo) e la vitamina D3 (colecalciferolo).
Le vitamine D2 e D3 derivanti da fonti nutrizionali vengono assorbite nel piccolo intestino. L’assorbimento è dipendente dalla
presenza dei grassi, in quanto questi stimolano la produzione di lipasi pancreatica e di acidi biliari.
Le vitamine D2 e D3 sono entrambi pro-ormoni inattivi che si legano alla vitamina D-binding protein per essere trasportati al
fegato, dove vengono convertiti in 25-idrossivitamina D (25-(OH)-D) grazie all’enzima 25-idrossilasi. La 25-(OH)-D subisce ulteriore
idrossilazione da parte dell’enzima 1a-idrossilasi nel rene e diventa il metabolita attivo 1,25-diidrossivitamina D (1,25-(OH)-D).
Questo secondo step di idrossilazione è regolato da calcio e fosfato e le concentrazioni dall’ormone paratiroideo (PTH).
L’escrezione di metaboliti della vitamina D avviene principalmente attraverso la bile, e, in misura molto minore, attraverso l’urina.
DEPOSITO
La vitamina D si deposita e viene mobilizzata dal tessuto adiposo con meccanismi ancora sconosciuti. Bambini, adolescenti e
adulti obesi hanno una concentrazione sierica di 25-(OH)-D, inferiore rispetto ai soggetti con BMI normale probabilmente a causa
della sequestro della vitamina D da parte del tessuto adiposo in eccesso. Attualmente, tuttavia, non ci sono prove che la carenza
di vitamina D associata ad aumento del grasso corporeo abbia conseguenze negative sulla densità minerale ossea e sulla salute
delle ossa in età pediatrica.
per indicare la grave carenza. Il dosaggio della 1,25 (OH) vitamina D,
invece, non è utilizzabile per i suddetti scopi, in quanto ha una breve
emivita sierica e il suo livello non
è regolato solo dalla assunzione di
vitamina D, ma anche da altri fattori quali il paratormone (PTH).
Nella Tabella III sono riportate le
definizioni di sufficienza e carenza
di vitamina D secondo l’ESPGHAN
e i gruppi a rischio per lo sviluppo
di carenza di vitamina D. A completamento dei dati riportati nella
Consensus nella Tabella IV vengono riportati gli intake di vitamina D
confrontati con la prevalenza nella
popolazione pediatrica del deficit
di vitamina D e i dati relativi alla
tossicità della vitamina D. Nella
Tabella V riportiamo infine le raccomandazioni per la prevenzione
del deficit di vitamina D nella popolazione europea pediatrica.
179
T. Capriati
TABELLA II.
Conclusioni dell’ESPGHAN sugli effetti principali della vitamina D sulla salute di lattanti, bambini e adolescenti.
Salute dell’osso
L’importanza della vitamina D per la salute ossea in neonati e bambini è ben nota (in base a studi epidemiologici infatti la
supplementazione di vitamina D durante l’infanzia impedisce il rachitismo e l’osteomalacia). L’integrazione con vitamina D nei
bambini < 1 anno di vita con deficit può determinare un aumento della densità minerale ossea, mentre non ci sono prove a
sostegno della supplementazione nei bambini con > 1 anno di vita e negli adolescenti con vitamina D. Non vi sono prove sufficienti
per sostenere o rifiutare la supplementazione di routine di vitamina D oltre l’anno di vita.
Forza muscolare
I neonati e bambini con grave carenza di vitamina D e rachitismo possono presentarsi con sviluppo motorio ritardato, ipotonia
muscolare, e debolezza (associati o no a ipocalcemia). Nonostante questa associazione ben nota (carenza di vitamina D e funzione
muscolare alterata), il Committee of Nutrition ESPGHAN non ha potuto identificare rilevanti evidenze di un effetto benefico della
supplementazione di vitamina D sulla funzione muscolare in neonati sani, bambini e adolescenti.
Prevenzione delle malattie infettive
Diversi studi suggeriscono che le malattie infettive hanno una maggiore prevalenza tra i neonati e i bambini con carenza di
vitamina D e alcuni studi suggeriscono che la supplementazione di vitamina D possa essere associata a un ridotto rischio di
infezioni respiratorie. In realtà su questo argomento ci sono dati contrastanti per cui il Committee of Nutrition dell’ESPGHAN
conclude che “i dati attuali non sono sufficienti per raccomandare la supplementazione di vitamina D allo scopo di prevenire le
malattie infettive nei neonati e nei bambini europei in buona salute”.
Prevenzione delle malattie allergiche
Un trial clinico randomizzato (RCT) ha suggerito una riduzione degli attacchi di asma (outcome secondario dello studio) in chi
assumeva vitamina D. Uno studio osservazionale, tuttavia, ha riportato un’associazione tra supplementazione di vitamina D durante
l’infanzia e aumento del rischio di malattie allergiche in seguito nella vita. Il Committee of Nutrition ESPGHAN conclude che “le
evidenze disponibili sono insufficienti per sostenere la relazione tra supplementazione di vitamina D nei neonati e nei bambini e la
prevenzione di malattie allergiche”.
Prevenzione del diabete mellito tipo 1
Prove fornite da 5 studi osservazionali, 1 revisione sistematica e una meta analisi suggeriscono che la supplementazione
di vitamina D può ridurre il rischio di diabete mellito tipo 1 durante l’infanzia e l’adolescenza. Nessun RCT ha mai affrontato la
questione. Il Committee of Nutrition ESPGHAN conclude che i dati attualmente sono insufficienti per provare o confutare una
relazione tra supplementazione con vitamina D e il rischio di diabete tipo 1.
Prevenzione delle malattie cardiovascolari
Ci sono alcune evidenze relative alla supplementazione di vitamina D come marker surrogato di rischio cardiovascolare; tuttavia,
il Committee of Nutrition ESPGHAN conclude che sono necessari ulteriori studi prima di affermare l’effetto della supplementazione
di vitamina D sulla prevenzione delle malattie cardiovascolari.
TABELLA III.
Definizioni di carenza di vitamina D secondo il Committee of Nutrition ESPGHAN e categorie a rischio per lo
sviluppo di tale carenza.
In base a concentrazioni sieriche di
25-(OH)-D
Categorie a rischio di insufficienza di
vitamina D
180
Grave carenza
Carenza
Sufficienza
< 25 nmol/L
(= < 10 ng/mL)
< 50 nmol / L
(= < 20 ng/mL)
> 50 nmol /L
(= > 20 ng/mL)
Pelle scura;
Insufficiente esposizione solare (uso eccessivo di filtri solari, stare in casa molto tempo, abiti
che coprono la maggior parte della cute, vivere a latitudini nordiche durante l’inverno);
Obesità;
Malattie croniche (epatiche, intestinali, renali);
Uso di farmaci: antiepilettici (fenitoina e carbamazepina) e glucocorticoidi sistemici.
GUIDELINES: WHAT IS THE BEST FOR CLINICAL PRACTICE
Una Consensus Statement sulla vitamina D nella salute della popolazione europea
TABELLA IV.
Intake e livelli di vitamina D nella popolazione pediatrica europea e dati sulla tossicità della vitamina D.
Intake di vitamina D in Europa
% bambini con assunzioni < a
200 UI (raccomandate da OMS)
Media di assunzioni
Germania
80% tra 1 e 12 anni
76 UI/die (bambini)
100 UI (adolescenti)
Finlandia
/
100-200 UI/die (inclusi integratori)
Spagna
86,9%
113,2-130,8 UI/die
Livelli di assunzione massima tollerabili (UL)
EFSA 4
IOM
1000 UI/die per i bambini da 0 a 12 mesi;
2000 UI/die per bambini da 1 a 10 anni;
4000 UI/die per bambini da 11 a 17 anni (e adulti).
1000 UI/die per i bambini età da 0 a 6 mesi;
1500 UI/die per lattanti dai 7 ai 12 mesi;
2500 UI/die per bambini da 1 a 3 anni;
3000 UI/die per i bambini dai 4 a 8 anni;
4000 UI/die per i bambini e gli adolescenti età 9 a 18 anni (e adulti).
Legenda
OMS: Organizzazione Mondiale della Sanità
UL: tolerable upper intake level ossia livelli di assunzione massima tollerabili
EFSA: European Food Safety Authority
IOM: Institute of Medicine
TABELLA V.
Raccomandazioni ESPGHAN relative alla carenza di vitamina D.
Una concentrazione sierica di 25 (OH) vitamina D > 50 nmol/L (> 20 ng/mL) indica una condizione di sufficienza di vitamina D
mentre una concentrazione sierica < 25 nmol/L (< 10ng/mL) indica una grave carenza.
Tutti i lattanti fino a 1 anno di età dovrebbero ricevere una supplementazione orale di 400 UI/die di vitamina D. Tale somministrazione
va fatta sotto la supervisione di pediatri o altri operatori sanitari.
In accordo con l’Autorità europea per la sicurezza alimentare, il limite superiore di sicurezza per la supplementazione di vitamina D
è fissato a 1000 UI/die per lattanti fino a 1 anno, 2000 UI/die per bambini dai 1 a 10 anni, e 4000 UI/die per bambini e adolescenti
dagli 11 ai 17 anni.
I bambini sani e gli adolescenti dovrebbero essere incoraggiati a seguire uno stile di vita sano (che si associa a un BMI normale),
una dieta sana con alimenti contenenti vitamina D (ad esempio, pesce, uova, latticini) e a effettuare attività all’aria aperta con
un’adeguata esposizione solare.
Per bambini appartenenti a gruppi a rischio, deve essere considerata la supplementazione orale di vitamina D anche al di là di 1
anno di età.
Le autorità nazionali dovrebbero adottare politiche volte a migliorare lo stato della vitamina D utilizzando misure come
raccomandazioni dietetiche, fortificazione degli alimenti, supplementazione di vitamina D, esposizione solare corretta in base alle
caratteristiche ambientali.
181
GUIDELINES: WHAT IS THE BEST
FOR CLINICAL PRACTICE
Sergio Amarri (foto)
Giulia Lamberti
UO Pediatria, Azienda Ospedaliera
IRCCS Santa Maria Nuova Reggio
Emilia
Indirizzo per la corrispondenza
Sergio Amarri
UO Pediatria, Azienda Ospedaliera IRCCS
Santa Maria Nuova
viale Risorgimento 80, 42100 Reggio Emilia
E-mail: [email protected]
Il commento
La vitamina D è un micronutriente importantissimo
in quanto contribuisce alla regolazione del metabolismo calcio-fosforo (ne aumenta l’assorbimento
intestinale) e quindi ai processi di acquisizione della
massa ossea. In presenza di livelli di vitamina D e
quindi di calcio inadeguati nella dieta è possibile il
riscontro, durante l’infanzia, anche di una condizione di osteomalacia e rachitismo come conseguenza dell’aumentato riassorbimento osseo del calcio
e del fosforo. La vitamina D, inoltre, ha non solo
importanti funzioni scheletriche, ma anche extrascheletriche immuni e non immuni.
La vitamina D e la patologia correlata a una sua
carenza, il rachitismo, sono da sempre oggetto di
interesse, studio e ricerca da parte delle principali
società scientifiche di pediatria, nutrizione ed endocrinologia. La Consensus presentata in questo
commento 1 è stata
scritta nel 2012 dall’ESPGHAN, la società scientifica di riferimento per l’epatologia, la gastroenterologia e la nutrizione pediatrica europee e concentra
la sua attenzione sulla popolazione sana pediatrica europea, analizzando le attuali conoscenze
sulla vitamina D (fonti alimentari e non, metabolismo, effetti benefici sulla salute del bambino, dati
epidemiologici sul deficit di vitamina D in Europa)
ed esprimendo delle raccomandazioni relative alla
prevenzione del deficit di vitamina D in una popolazione considerata non a rischio. Accanto a que-
182
a cura di
Teresa Capriati
sta importante pubblicazione vanno ricordate anche le
raccomandazioni dell’American Academy of Pediatrics
(AAP) prodotte nel 2008 5 e aggiornate in 2 occasioni
successive (2012 e 2013) 6, i nuovi apporti raccomandati di vitamina D pubblicati nel 2011 da parte dell’Institute of Medicine (IOM) 7 e nel 2012 in Italia, nell’ambito dei LARN (Livelli di Assunzione di Riferimento di
Nutrienti e di Energia) 8 e infine la Consensus “globale”
sulla prevenzione e il trattamento del rachitismo realizzata all’inizio del 2016 dall’Endocrine Society (ES)
con la collaborazione di autori di tutti i continenti 9, e
la Consensus italiana sull’argomento 10, redatta congiuntamente dalla Società Italiana di Pediatria (SIP) e
dalla Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale
(SIPPS).
Nelle raccomandazioni ESPGHAN 1 si precisa come
il deficit di vitamina D debba essere definito attraverso la determinazione delle concentrazioni sieriche
di 25-(OH)-D. Questo è infatti il migliore indicatore
di stato della vitamina D a seguito di apporto nutrizionale e sintesi cutanea di vitamina D, in quanto la
1,25 (OH) vitamina D ha una più breve emivita sierica e ha un livello che è regolato non solo dall’apporto
nutrizionale e dalla sintesi cutanea ma anche da altri fattori, come ad esempio il livello di paratormone.
L’ESPGHAN poi utilizza nella definizione del deficit di
vitamina D un approccio semplificato: una concentrazione di 25-(OH)-D > 50 nmol/L (ossia > 20 ng/mL) è
considerata condizione di sufficienza, mentre una concentrazione < 25 mmol/L (ossia < 10 ng/mL) descrive
una condizione di deficit (nella Tabella VI sono riportate
abbreviazioni ed equivalenze relative ala vitamina D).
Altre società (soprattutto nord-americane) definiscono
con maggiore dettaglio lo spettro dei livelli sierici di
vitamina D introducendo il concetto di insufficienza e
differenziandolo da quello di deficit. Per esempio l’ES
nella sua Consensus “globale”, distingue tre livelli: sufficienza (> 50 nmol/L ossia > 20 ng/mL), insufficienza (30-50 nmol/L ossia 13-20 ng/mL) e deficit (< 30
TABELLA VI.
Terminologia ed equivalenze relative alla vitamina D.
Equivalenze
1 µg = 2,5 nmol = 40 UI
1 ng/mL = 2,5 nmol/L
Abbreviazioni e sinonimi
25 idrossivitamina D = 25(OH)D = calcidiolo
1,25-diidrossivitamina D=1,25(OH)2D = calcitriolo
Vitamina A = calciferolo
Vitamina D2 = ergocalciferolo
Vitamina D3 = colecalciferolo
GUIDELINES: WHAT IS THE BEST FOR CLINICAL PRACTICE
Una Consensus Statement sulla vitamina D nella salute della popolazione europea
nmol/L ossia < 13 ng/mL). Questi
ultimi soggetti e quelli con un deficit grave (come definito in alcune
pubblicazioni) possono meritare
una terapia importante per ripristinare con maggiore efficacia livelli
di vitamina D normali.
I fabbisogni di vitamina D definiti nel 2011 dall’IOM 7, accolti dall’AAP 6 e successivamente
confermati anche dalla pubblicazione della “IV revisione dei LARN
per la popolazione italiana” 8 vengono espressi sempre in termini
di apporto adeguato o Adequate
Intake (AI) ossia come livello di
assunzione di un nutriente ritenuto adeguato a soddisfare i fabbisogni della popolazione e non di
RDA (recommended dietary allowance, ossia dose giornaliera
raccomandata), in quanto non ci
sono sufficienti evidenze scientifiche per calcolare l’RDA o il fabbisogno medio.
Relativamente, dunque, alla profilassi con vitamina D nel primo
anno di età la maggior parte delle società scientifiche è concorde
nell’iniziare la profilassi sin dai primi giorni di vita alla dose di 400 UI/
die, indipendentemente dal tipo di
allattamento e in assenza di fattori
di rischio di deficit di vitamina D.
Infatti, i neonati e i lattanti vengono scarsamente esposti alla luce
del sole. Il loro livello di vitamina D
dipende da quello materno e il latte materno contiene quantità di
vitamina D insufficienti (< 80 UI/l)
per la prevenzione dell’ipovitaminosi D. La vitamina D contenuta
nel latte materno, infatti, è circa
22 UI/l (range: 15-50 UI/l) in una
madre con vitamina D sufficiente.
Ipotizzando un consumo medio di
750 ml di latte al giorno, l’allattamento al seno esclusivo senza l’esposizione al sole fornirebbe solo
11-38 UI al giorno di vitamina D,
che risulta di gran lunga inferiore
anche alla vecchia assunzione minima raccomandata dall’OMS di
200 UI al giorno. Pertanto 400 UI
al giorno (= 10 μg/die) sono sufficienti a prevenire il rachitismo e
sono consigliate per tutti i bambini
dalla nascita fino a 12 mesi di età,
indipendentemente dalla loro modalità di alimentazione.
Le indicazioni dell’AAP si discostano solo lievemente raccomandando 400 UI/die sicuramente
per tutti i bambini allattati esclusivamente al seno, mentre per i
bambini allattati con latte formula
fortificato con vitamina D la fortificazione va consigliata solo nel
caso in cui il volume giornaliero
di latte sia inferiore a 1 litro. In
realtà però 1 litro di latte formulato al giorno viene assunto solo
da un bambino di 5-6 kg di peso
corporeo (quindi alcuni mesi dopo
la nascita) nell’epoca in cui un lattante avvia anche il divezzamento
e quindi riduce la quota di latte
formulato assunta, per cui sostanzialmente le indicazioni dalla AAP
non si discostano da quelle dell’ESPGHAN. Tale integrazione con
vitamina D deve essere avviata nei
primi giorni di vita, non ha effetti
avversi significativi e non ha costi
alti. I lattanti prematuri e i lattanti/
bambini di pelle nera potrebbero avere bisogno di integrazioni
maggiori, soprattutto se risiedono
ad alte latitudini (ad esempio intorno a 40° di latitudine).
L’ESPGHAN 1 non consiglia il dosaggio di routine della vitamina D,
ma piuttosto una profilassi capillare sotto l’anno con una prescrizione individualizzata nei soggetti
appartenenti a categorie a rischio.
La AAP 6, per parte sua, aggiunge
delle indicazioni su quando effettuare uno screening per valutare
un’ipotesi di deficit di vitamina D:
in particolare in caso di sintomi
non specifici (scarsa crescita, ritardo neuromotorio, irritabilità inusuale), bambini con pelle nera che
vivono ad alte latitudini (in inverno
e primavera), bambini che fanno
terapie croniche (anticonvulsivanti, glucocorticoidi, antiretrovirali,
antimicotici) o bambini con patologie croniche (insufficienza epatica e renale cronica) che sono associate a malassorbimento (fibrosi
cistica e malattie infiammatorie
croniche, celiachia alla diagnosi),
bambini con frequenti fratture e
bassa densità minerale ossea (in
cui potrebbe essere importante
mantenere un livello ottimale di
vitamina D allo scopo di ottimizzare l’assorbimento del calcio).
Tali situazioni corrispondono a
quelle che vengono identificate
dall’ESPGHAN come categorie di
rischio.
Lo scenario diventa molto più discorde fra le diverse società scientifiche se si considerano bambini
di età superiore ai 12 mesi di età
(vedi Tabella VII). Diverse società,
infatti, e tra queste l’ESPGHAN,
consigliano la profilassi solo in
presenza di fattori di rischio per
deficit di vitamina D. Altre società invece danno indicazioni differenti. In particolare la Society for
Adolescent Health and Medicine
nel 2013, in funzione del fatto che
gli adolescenti (insieme ai bambini di età compresa tra 0-12 mesi)
presentano un aumentato rischio
di rachitismo e osteomalacia da
carenza di vitamina D a causa del
rapido accrescimento, indica la
necessità di supplementazione di
600 UI/die anche negli adolescenti senza fattori di rischio e una
supplementazione di 1000 UI/die
in quelli a rischio di insufficienza
di vitamina D.
Altre società consigliano la supplementazione solo nei periodi
considerati a rischio, per esempio la profilassi (a dosi giornaliere
o intermittenti) durante il periodo
invernale se l’esposizione solare
durante l’estate precedente è stata scarsa. Quest’ultima indicazione viene data anche nella recente
Consensus italiana 10 in cui si suggerisce la profilassi continuativa
nei bambini con fattori di rischio
persistenti per deficit di vitami-
183
S. Amarri, G. Lamberti
TABELLA VII.
AI o PRI nelle diverse fasce di età per le diverse società scientifiche.
Età
Fonte
AI o PRI
0-6 mesi
IOM, 2011; AAP, 2012
LARN, 2012
ES, 2011
10 µg/die = 400 UI/die
Non specificato
10-25 µg/die = 400-1000 UI/die
6-12 mesi
WHO/FAO, 2004
5 µg/die = 200 UI/die
IOM, 2011; LARN, 2012; ESPGHAN, 2013; ES, 2016
10 µg/die = 400 UI/die
DACH, 2013; Nordic Council of Minister, 2014; Afssa,
2001
20-25 µg/die = 800-1000 UI/die
WHO/FAO, 2004
Health Council of the Netherlands, 2012; DACH, 2013;
Nordic Council of Minister, 2014
IOM, 2011; LARN, 2012; ESPGHAN, 2013; ES, 2016
DACH, 2013
5 µg/die = 200 UI/die
12-36 mesi
10 µg/die = 400 UI/die
15 µg/die = 600 UI/die
20 µg/die = 800 UI/die
Legenda
PRI (population reference intake): assunzione raccomandata per la popolazione per soddisfare i fabbisogni di quasi tutti (97,5%) i soggetti
sani in uno specifico gruppo di popolazione
AI (adequate intake): assunzione adeguata, osservata in una popolazione sana ed esente da carenze. Si ricava quando PRI non è desumibile
da evidenze scientifiche
AAP: American Academy of Pediatry
LARN: livelli di assunzione raccomandati di nutrienti ed energia
ES: Endocrine Society
WHO/FAO: World Health Organization/Food and Agricolture Organization
ESPGHAN: European Society for Paediatric Gastroenterology, Hepatology and Nutrition; DACH: Germania, Austria e Svizzera
Afssa: Agence francaise de sécurité sanitaire des alimentes
na D e profilassi solo nel periodo
invernale nei bambini in cui il fattore di rischio è legato a una scarsa esposizione solare nell’estate
precedente. Un aspetto interessante è che mentre l’ESPGHAN
non si esprime chiaramente in
merito alla necessità di profilassi
nei bambini e adolescenti obesi
(si limita a dire che non ci sono
evidenze che la carenza di vitamina D associata all’obesità abbia
conseguenze negative sulla densità minerale ossea e sulla salute
delle ossa in età pediatrica), la
Consensus italiana mette l’obesità tra i fattori di rischio indicando
la necessità di supplementare con
vitamina D (dosi di 1000-1500 UI/
die) tra il termine dell’autunno e
l’inizio della primavera (novembreaprile) ed eventualmente in tutto
l’anno nei bambini obesi che non
184
hanno usufruito durante l’estate di
un’adeguata esposizione solare.
Naturalmente queste indicazioni
vanno associate a quelle relative a
un corretto stile di vita analoghe a
quelle indicate dall’ESPGHAN.
È importante sottolineare che
la necessità o meno di profilassi con vitamina D oltre l’anno di
vita dipende dall’esposizione al
sole e dall’accesso a cibi fortificati. Una questione estremamente importante, ma ancora aperta,
è la determinazione all’interno
della popolazione europea della
percentuale media di vitamina D
derivante dalla produzione a livello cutaneo rispetto alla vitamina D fornita dal cibo. La maggior
parte della vitamina D circolante
sembrerebbe essere sintetizzata a partire dall’esposizione della
pelle ai raggi ultravioletti B (UVB).
Il 90% delle scorte di vitamina D
di un individuo derivano dall’esposizione alla luce solare, mentre piccole quantità di vitamina D
sono presenti in alcuni alimenti.
Le radiazioni UVB stimolano la
produzione di vitamina D da parte dell’epidermide, e un’adeguata
esposizione solare dovrebbe consentire la sintesi di tutta la vitamina D necessaria all’individuo. Da 5
a 10 minuti di esposizione al sole
di braccia, gambe o viso tre volte a settimana dovrebbero essere
sufficienti a coprire il fabbisogno.
In realtà esiste una notevole diversità geografica: per esempio tutta
la penisola italiana si trova al di
sopra del 34°N di latitudine, quindi interamente nella zona del così
detto vitamin D winter, all’interno
della quale la sintesi cutanea di
vitamina D non è completamente
GUIDELINES: WHAT IS THE BEST FOR CLINICAL PRACTICE
Una Consensus Statement sulla vitamina D nella salute della popolazione europea
efficace per l’intero anno. Pertanto la maggioranza dei pediatri di
famiglia italiana ha promosso e
prescritto l’utilizzo di supplementazione con vitamina D almeno nel
periodo del tardo autunno e inizio
primavera.
In merito alle fonti nutrizionali di
vitamina D va ricordato che la
vitamina D si trova in un numero
limitato di alimenti, e l’assunzione alimentare, a eccezione dei
cibi fortificati, ha poco impatto
sull’apporto complessivo. Le fonti naturali di vitamina D includono pesci grassi come salmone,
sgombro e sardine, olio di fegato
di merluzzo, fegato e frattaglie
(che presentano un elevato contenuto di colesterolo), e tuorlo
d’uovo (che presenta un contenuto variabile di vitamina D). Anche la modalità di cottura degli
alimenti può alterare il contenuto
di vitamina D. Ad esempio, la frittura del pesce riduce il contenuto
di vitamina D attiva di circa il 50%,
mentre la cottura al forno del pesce non ne influenza il contenuto.
La maggior parte delle fonti naturali di vitamina D non vengono
comunemente consumate dai
bambini, pertanto, diventa importante fortificare gli alimenti con
vitamina D se l’esposizione al
sole risulta inadeguata. Esempi di
alimenti fortificati con vitamina D
sono: latte, olio, succhi di frutta.
Negli Stati Uniti le formule per
lattanti devono contenere da 40 a
100 UI di vitamina D per 100 kcal,
perché questo contenuto potrebbe essere sufficiente a soddisfare
la dose giornaliera raccomandata per i bambini. In Canada, la
fortificazione con vitamina D è
obbligatoria per alcuni alimenti
come il latte e la margarina. Negli
Stati Uniti la fortificazione di vitamina D degli alimenti non è un
requisito obbligatorio, ma è necessario se l’etichetta indica che
il cibo è fortificato. Per il latte e
il succo d’arancia, il contenuto di
vitamina D dopo la fortificazione
dovrebbe includere 400 UI/l. L’utilizzo di cibi fortificati con vitamina D, in particolare il latte, è molto diffuso in Nord America (U.S.
latte fortificato con 100 IU/250 ml
e Canada 35-40 IU/100 ml). I dati
della letteratura indicano che
questa pratica è efficace nel prevenire il rachitismo e il deficit di
vitamina D.
Alla variabilità del contenuto di
vitamina D degli alimenti, occorre
aggiungere la variazione naturale di vitamina D a seconda della
stagione e delle condizioni climatiche, lo stato di fortificazione degli alimenti sul mercato, e le variazioni nelle procedure utilizzate
per fortificare il latte. Le indagini
di conformità dei vari caseifici
che effettuano processi di fortificazione in vitamina D negli Stati Uniti hanno indicato che molti
campioni non risultano conformi
(sono per lo più poco fortificati).
In Europa, la margarina e alcuni
cereali vengono arricchiti con vitamina D, mentre negli Stati Uniti viene presa in considerazione
la fortificazione obbligatoria di
formaggi, pane e cereali. Dopo
la fortificazione del latte con la
vitamina D nel Nord America e
del latte, margarina e cereali nel
Regno Unito, la prevalenza di rachitismo è drasticamente diminuita. La fortificazione obbligatoria
degli alimenti con la vitamina D
e calcio assicura un’adeguatezza nutrizionale. La fortificazione
di cibi comunemente consumati
fornisce un adeguato apporto per
prevenire la carenza.
La tossicità della vitamina D è un
ultimo ma non meno importante aspetto su cui soffermarsi. Le
raccomandazioni ESPGHAN non
indicano chiaramente dei livelli
massimi tollerabili, ma riportano
i dati dell’European Food Safety
Authority (EFSA) 4 e dello IOM 7
(vedi Tabella IV), nonostante vi
sia una sostanziale carenza di
dati relativi alle dosi tossiche di
vitamina D in neonati, bambini e
adolescenti. L’ESPGHAN ricorda
anche come non vi sia nessun
accordo sulla soglia di tossicità per la vitamina D. La prolungata assunzione giornaliera di
vitamina D fino a 10.000 UI o
fino a concentrazioni sieriche di
25-(OH)-D di 240 nmol/L sembra
essere sicura. L’intossicazione
acuta da vitamina D è rara e di solito si ha per concentrazioni molto
superiori a 10.000 UI/die, anche
se non è stata stabilita la soglia
chiara per definire il rischio di tossicità acuta. La Consensus italiana 10 ricorda come i metaboliti o
gli analoghi dei metaboliti (calcifediolo, alfacalcidiolo, calcitriolo,
didrotachisterolo) non devono essere utilizzati per la profilassi del
deficit di vitamina D, a parte casi
particolari (condizioni patologiche
specifiche), sia perché espongono
a un rischio significativo di ipercalcemia, sia perché sono prodotti che in realtà non sono in grado
di mantenere e/o ripristinare le
scorte di vitamina D.
Conclusioni
La Consensus prodotta dall’ESPGHAN nel 2012 affronta solo
alcuni degli aspetti relativi alla
problematica della vitamina D.
In particolare rivolge la sua attenzione alla profilassi del deficit
nella popolazione europea sana,
rimandando ad altre pubblicazioni sia la profilassi di alcune delle
categorie a rischio (pretermine
per esempio), che l’eventuale terapia di deficit effettivi. Le indicazioni date dall’ESPGHAN sono al
momento ben recepite dai pediatri del territorio, che sempre più
frequentemente somministrano
una profilassi prolungata nel primo anno di vita. Più discorde è lo
scenario relativo alla supplementazione nel bambino con più di un
anno di età.
185
S. Amarri, G. Lamberti
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• Il dosaggio sierico della concentrazione di 25-(OH)-D se è > 50 nmol/L (20 ng/mL), indica una condizione di sufficien-
za, se < 25 nmol/L (< 10 ng/mL) indica grave carenza.
• Tutti i lattanti fino a 1 anno di età dovrebbero ricevere una supplementazione orale di 400 UI/die di vitamina D.
• Oltre l’anno di età non ci sono chiare indicazioni sulla supplementazione di vitamina D e l’ESPGHAN rimanda alle
raccomandazioni nazionali. Sicuramente i bambini sani e gli adolescenti dovrebbero essere incoraggiati a seguire uno
stile di vita sano (comprendente adeguate attività all’aria aperta) associato con un BMI normale e una dieta sana con
alimenti contenenti vitamina D (ad esempio, pesce, uova, latticini). La supplementazione dovrebbe essere considerata
nelle categorie a rischio anche oltre l’anno di età.
• I bambini appartenenti ai gruppi a rischio sono bambini con pelle nera che vivono ad alte latitudini (in inverno e pri-
mavera), bambini che fanno terapie croniche (anticonvulsivanti, glucocorticoidi, antiretrovirali, antimicotici) o bambini
con patologie croniche (insufficienza epatica e renale cronica), che sono associate a malassorbimento (fibrosi cistica
e malattie infiammatorie croniche, celiachia alla diagnosi), bambini con frequenti fratture e bassa densità minerale
ossea.
• In conformità con l’Autorità europea per la sicurezza alimentare, il limite superiore di sicurezza è fissato a 1000 UI/die
per lattanti, a 2000 UI/die per bambini dai 1 a 10 anni, e a 4000 UI/die per bambini e adolescenti dagli 11 ai 17 anni.
186
CASE REPORT
a cura di
ANTONIO DI MAURO
Soluzione
del caso clinico
di pagina 167
Sviluppo caso clinico
e risoluzione
I valori di albumina (3,3 g/dl) e protidemia (5,2 g/dl)
sono inferiori ai limiti di norma. L’EGDS eseguita a 12
ore dall’episodio di ematemesi ha mostrato la presenza di varici esofagee di grado F1-F2, non attivamente
sanguinanti con gastropatia congestizia (Fig. 1A, B). Le
ricerche infettivologiche sono negative. Lo screening
per la celiachia, la funzionalità tiroidea e l’autoimmunità nella norma, così come il dosaggio dell’alfafetoproteina. L’eco-color-doppler dell’asse spleno-portale
evidenzia una riduzione dell’albero venoso portale intraepatico con fibrosi epatica e irregolarità del lume
portale in corrispondenza dell’ilo portale. Ipertensione
portale di grado medio-alto. La RM addominale conferma la presenza di un’immagine a carico del lobo sn
epatico, ascrivibile a nodulo di rigenerazione in epatopatia con steatosi epatica diffusa. L’aspetto della
vascolarizzazione epatica è compatibile con agenesia
o cavernoma portale. Non visibili le vene sovraepatiche. Identificabile un vaso anomalo fra lobo epatico
dx e sn, terminante in atrio destro. L’ECG e l’ecografia cardiaca non hanno comunque mostrato anomalie
vascolari. Alla portografia retrograda (eseguita presso
altro centro, dopo stabilizzazione nutrizionale): ostruzione dei rami segmentari e del recesso di Rex della
vena porta, esclusiva opacizzazione di una vena epatica accessoria e del tratto terminale della vena cava
inferiore. Non possibile la riperfusione epatica mediante by-pass meso-Rex, né altri interventi di correzione
portale. È stata intrapresa terapia di profilassi primaria
del sanguinamento di varici esofagee con beta-bloccante e avviato follow-up.
Silvia Iuliano1
Marco Manfredi1
Federica Gaiani2
Barbara Bizzarri2
Pierpacifico Gismondi1
Fabiola Fornaroli2
Gian Luigi de’Angelis1, 2
1 Unità Operativa di Clinica Pediatrica, Scuola di
Specializzazione in Pediatria, Dipartimento MaternoInfantile, Azienda Ospedaliero-Universitaria di Parma;
2 Unità Operativa Complessa di Gastroenterologia
ed Endoscopia Digestiva, Dipartimento MaternoInfantile, Azienda Ospedaliero-Universitaria di Parma
Key words
Portal cavernoma • Portal hypertension •
Turner syndrome • Liver disease
Abstract
We report the case of a child of 5 years old, affected by Turner syndrome and hypothyroidism,
admitted for hematemesis during a prolonged
gastroenteritis. Upper GI endoscopy showed
non-bleeding esophageal varices. Radiological
investigations showed hepatic fibrosis, a portal
cavernoma and portal hypertension, confirmed
later by portography. Oral treatment with propanolole was started and close follow-up set up.
Punti critici diagnostica
differenziale
Nella gestione clinica del caso, l’ematemesi e la marcata disidratazione sono state in prima istanza interpretate quali possibili complicanze in corso di gastroenterite febbrile protratta. L’esofago-gastro-duodenoscopia
ha mostrato la presenza di varici esofagee. Il riscontro
Giorn Gastr Epatol Nutr Ped 2016;VIII:187-189
187
S. Iuliano et al.
A
B
Figura 1 a-b.
Varici esofagee.
di splenomegalia, ascite e “nodulo epatico” ha portato a una
valutazione epatica approfondita, consentendo di escludere infezioni/infestazioni con tropismo
epatico (pur essendo in tal caso
il rialzo delle transaminasi molto modesto) e l’esordio di un’epatopatia autoimmune. Benché
rara, il sospetto diagnostico di
neoplasia epatica è stato indagato mediante l’esecuzione integrata dei markers neoplastici
e successivamente di RM addominale. L’attenta valutazione
anamnestica e la chiara diagnosi
descrittiva delle lesioni alla RM
hanno costituito lo snodo principale per la risoluzione del caso.
La storia positiva per incannulamento della vena ombelicale in
epoca neonatale ha reso chiara
la diagnosi di cavernoma portale da pregressa trombosi (fino
a quel momento ignota); inoltre,
la Sindrome di Turner, da cui è
affetta la bambina, rientra fra le
cause genetico-metaboliche di
epatopatia steatosica non alcolica 1. La sindrome è associata
infatti sia a vasculopatia (rientra
fra le sindromi che predispongo-
188
no al sanguinamento gastrointestinale) 2, che allo sviluppo di
disordini epatici (alterata funzionalità epatica, steatosi, steatoepatite, coinvolgimento biliare,
cirrosi, iperplasia nodulare rigenerativa) secondo un meccanismo eziopatogenetico non
ancora chiaro 3. L’alterata funzionalità epatica, più frequente
in età adolescenziale-adulta non
è direttamente correlata allo sviluppo di epatopatia e non controindica la terapia con estrogeni
(è prudente, a ogni modo, usare
con cautela farmaci epatotossici). Qualora si associ epatopatia,
può essere necessario effettuare
una valutazione dei flussi mediante eco-color-doppler e talvolta la biopsia epatica; tuttavia,
nella gran parte dei casi, in assenza di fattori di rischio, non si
assiste a una progressione della
malattia stessa 3. Il rialzo delle
transaminasi e/o di altri indici di
funzionalità epatica in pazienti affette da sindrome di Turner,
richiede un follow-up laboratoristico ed ecografico 3; la contestuale epatopatia e/o ipertensione portale devono invece essere
trattate secondo le evidenze disponibili 4-6.
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Consensus Workshop on Method-
Transplantation 2012;16:426-37.
• L’esecuzione di un’anamnesi completa e dettagliata rimane il punto di partenza nell’approccio al paziente, anche di
fronte a casi clinici apparentemente “semplici”.
• L’ematemesi costituisce un’urgenza endoscopica e va sempre indagata, in quanto potrebbe anche rappresentare il
primo segno di un’ipertensione portale scompensata.
• Nelle pazienti affette da Sindrome di Turner il rialzo delle transaminasi è un’evenienza frequente, per cui è necessario
un approfondimento strumentale al fine di escludere l’insorgenza di epatopatia.
• Il follow-up dell’epatopatia associata è laboratoristico ed ecografico; il management dell’eventuale ipertensione por-
tale va affidato a centri di riferimento con équipe dedicata.
189
INVITED COMMENTARY
a cura di
Mariella Baldassarre
Reflusso faringo-laringeo in età
pediatrica e otite media effusiva
L’otite media effusiva (OME) è una delle più comuni
malattie dell’infanzia e si caratterizza per una flogosi
Ignazio La Mantia
essudativa dell’orecchio medio, in assenza di segni
Prof. Associato di Audiologia,
clinici d’infezione acuta ma con una sintomatologia
UOC di Otorinolaringoiatria
subdola e sottostimata, con importanti ricadute in terPO S. Marta e S. Venera,
mini economici e sociosanitari: l’ipoacusia trasmissiva.
ASP CT, Università di Catania
È certamente un disordine complesso, legato a fattori
anatomo-fisiologici individuali e ambientali, che può
talvolta rappresentare l’unica manifestazione atipica
della lesione diretta del refluito acido sulle mucose delle vie aeree superiori.
Sin dal 1903 Coffin ipotizzò che la “eruttazione di gas dallo stomaco” e la “iperacidità” fossero responsabili
di sintomi laringei e naso-faringo-tubarici in pazienti con disfonia e post nasal drip.
A partire dagli anni ’80, accanto alla definizione di “Reflusso gastro-esofageo” (RGE), nasce il nuovo concetto
di reflusso laringo-faringeo (RLF) con sintomatologia atipica, espressione di differenti meccanismi fisiopatologici, differente modalità di presentazione e risposta alla terapia medica.
Tra tutte le patologie otorinolaringoiatriche che riconoscono nel RLF il possibile fattore eziologico causale
o concausale, le manifestazioni a carico del distretto rino-faringo-tubarico sono sicuramente quelle “meno
studiate”.
Alla base della manifestazione clinica vi è una disfunzione della funzionalità tubarica e conseguente versamento endotimpanico responsabile di un deficit uditivo trasmissivo, principalmente sulle frequenze mediogravi, solitamente inferiore a 40 dB, e di eventuali complicanze quali l’atelettasia della membrana timpanica,
la timpanosclerosi e l’otite media cronica.
Recenti studi evidenziano, dal punto di vista fisiopatologico, che la disfunzionalità della ventilazione tubarica possa essere legata a un danno mucosale tubarico da parte dell’acido cloridrico e della pepsina, i quali
possono creare edema e iperplasia della mucosa peritubarica, iperplasia del tessuto linfatico adenoideo da
stimolazione diretta dei linfociti e un importante blocco della clearance muco-ciliare, facilitando anche la
formazione di biofilm.
Uno studio in particolare ha evidenziato, nell’80% dei casi, la presenza della pepsina a elevate concentrazioni
nell’essudato endotimpanico di bambini sottoposti a paracentesi timpanica.
Il RFL sarebbe quindi responsabile della patologia otologica sia mediante il danno mucosale diretto, sia
mediante l’edema peritubarico e l’ipertrofia adenoidea, conseguenza della prolungata esposizione del rinofaringe al RLF.
La malattia da RLF può quindi essere considerata un’entità clinica, le cui manifestazioni atipiche nel distretto
aero-digestivo superiore sono rappresentate, oltre che dall’OME, anche da tosse cronica, laringospasmo,
rinofaringiti e iperplasia adenotonsillare.
È importante quindi tenere sempre presente che i sintomi atipici di pertinenza ORL possono essere talvolta
l’unica manifestazione clinica di reflusso e per questo motivo lo specialista deve sempre attuare provvedimenti terapeutici nei casi di sintomi cronici e/o ricorrenti a carico del distretto ORL in assenza di chiara
eziopatogenesi e/o scarsa risposta alle terapie convenzionali.
Indirizzo per la corrispondenza
Ignazio La Mantia
UOC di Otorinolaringoiatria, PO S. Marta
e S. Venera, ASP CT, Università di Catania
via Caronia, 95024 Acireale (CT)
E-mail: [email protected]
190
Giorn Gastr Epatol Nutr Ped 2016;VIII:190; doi: 10.19208/2282-2453-130