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Ho rivisto Bengasi
Finalmente ho potuto rivedere Bengasi, e questa volta, non in sogno come avevo scritto in
chiusura del mio diario "LA MIA BENGASI", ma con i miei occhi, ancora increduli, di anziano
nostalgico.
Tutto era cominciato improvvisamente la mattina dell'11 Dicembre scorso, quando ho
ricevuto un fax all'agenzia Quadrifoglio Viaggi di Casale Monferrato che mi comunicava la
possibilità di potermi aggregare ad un gruppo di turisti che sarebbero partiti per la Libia il giorno
dopo di Natale.
Mi sembrava impossibile che così all'improvviso, si potesse realizzare quel sogno tanto atteso
e desiderato e quindi telefonai immediatamente all'agenzia per avere la conferma di quello che mi
sembrava uno scherzo di pessimo gusto, ordito da qualcuno dei miei amici.
E invece era tutto incredibilmente vero !!
Contai mentalmente i giorni che ancora mi restavano per potermi aggregare a quel gruppo,
appena 14, comprese le festività natalizie e mi resi conto che il sogno poteva miseramente
naufragare per l'esiguità del tempo che mi restava a disposizione per perfezionare la
documentazione necessaria per ottenere il visto.
Aderii in ogni modo immediatamente, (previo consenso muliebre), all'iniziativa e senza
pensare alle conseguenze, pagai la mia quota e mi adoperai, tramite un'agenzia di Roma, ad inviare
il mio passaporto e le due foto necessarie per ottenere il visto, all'Amba-sciata libica.
Ebbe così iniziò il conto alla rovescia dei giorni che mi separavano dalla realizzazione del mio
sogno. Una lunga attesa angosciosa fatta nel più assoluto riserbo con i figli e i parenti tutti per
evitare, dato i pochi giorni a disposizione, che un più che probabile insuccesso dell'iniziativa
potesse far ripetere quello che purtroppo avvenne il 16 Agosto del 1996, quando per motivi di
salute, fui costretto, pochi giorni prima della partenza, ad annullare la mia partecipazione ad un
analogo viaggio in Libia. Una colica renale mi costrinse allora a rimandare quel viaggio tanto
atteso, e non volevo ripetere l'esperienza vissuta e quello che soffrii allora per la delusione.
Così iniziai in sordina a preparare tutto quello che era necessario per poter partire, cercando di
mascherare la mia angosciosa attesa, amorevolmente accudito, invogliato e confortato dalla mia
cara Graziella che però si rifiutò di accompagnarmi in quella che sembrava, "un'avventura", diceva
Lei.
E i giorni passavano senza che io ricevessi un segnale positivo dall'agenzia. Fax e telefonate si
rincorrevano frenetici tra Palermo, Roma e Casale Monferrato, ma niente sembrava risolvere il
mistero.
Finalmente giorno 22 arrivò un pacchetto con il biglietto aereo e il programma di viaggio che
prevedeva il seguente itinerario:
Capodanno in Libia, Tripolitania e Cirenaica
26.12.1996
Partenza da Palermo per Tunisi, ore 10,50 arrivo a Tunisi ore 11,55. Partenza da
Tunisi per Djerba, ore 18,30 arrivo a Djerba, ore 19.30, sistemazione all'Hotel Palm
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Beach, 4 stelle cena e pernottamento.
27.12.1996
Visita a Djerba, pranzo e quindi partenza per tripoli, cena e pernottamento all'Hotel
al Kabir, 5 stelle. In mattinata, visita della capitale libica con il museo e la casa
ottomana, pranzo e visita al souk, alle ore 16.30 partenza verso Misurata, cena e
pernottamento all'Hotel Gozelteek 4 stelle.
29.12.1996
Percorrendo tutta la litoranea si arriva in serata a Bengasi, pranzo con cestino
durante il viaggio, cena e pernottamento all'hotel Tibesti 5 stelle.
30.12.1996
Partenza per Tolmetta, breve visita archelogica e proseguimento per Apollonia,
visita degli scavi e sistemazione nell'albergo al Masif.
31.12.1996
Partenza verso Cirene e visita del grandioso sito archeologico e del museo e quindi
rientro a Bengasi per cena e pernottamento all'hotel Tibesti.
01.01.1997
Partenza per Misurata con sosta e visita a Sultan, pranzo con cestino da viaggio ed
arrivo in serata a Misurata. Cena e pernottamento all'hotel Gozelteek.
02.01.1997
Partenza per Leptis Magna e visita al sito archeologico, pranzo ed in serata rientro a
Tripoli. Cena in ristorante e pernottamento nell'hotel al Kabir.
03.01.1997
Partenza da Tripoli verso Sabratha e visita del sito archeologico, pranzo e nel
pomeriggio rientro a Djerba. Cena e notte all'hotel Palm Beach.
04.01.1997
Soggiorno a Djerba.
05.01.1997
Soggiorno a Djerba.
06.01.1997
Rientro a Palermo via Tunisi.
Mi sembrava impossibile che dopo 56 anni di attesa potevo recarmi a Bengasi, la mia città
tanto sognata, ma il sospirato visto ancora non arrivava da Roma. E ho dovuto attendere, in trepida
attesa sino al pomeriggio del giorno 23, quando dopo aver sollecitato telefonicamente più volte il
corriere postale di Roma, mi fu consegnato il plico con il sospirato visto. Potevo finalmente partire!
Con mia moglie cercammo di organizzare la lieta sorpresa per i miei figli e per i parenti tutti
che come consuetudine si riunivano in casa mia la notte della vigilia per la cena di Natale e per
scambiarci i regali raccolti sotto l'albero.
E così preparai un vistoso e pesantissimo pacco che conteneva all'interno un pesantissimo
corno di ferro (contro il malocchio che mi aveva perseguitato sino ad allora) e la borsa da viaggio
inviatami dall' agenzia, con dentro il passaporto, il programma del viaggio sopra descritto e i
biglietti.
Come tradizione l'ultimo regalo aperto fu quello di mia moglie, per me, sia per il Santo Natale
che per il mio compleanno, che festeggio il 26 dicembre, data della mia nascita. E quella sera la
ricorrenza era oltremodo importante perché festeggiavo i miei 70 anni.
La sorpresa è stata enorme, generale o quasi.
Baci ed abbracci commossi si sprecarono, sapendo tutti, quanto io desiderassi questo viaggio.
Ma mi accorsi immediatamente che la sorpresa non era completa. Qualcuno dei miei figli aveva
subodorato qualcosa. Seppi dopo che Emanuele aveva ascoltato una telefonata registrata nella
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segreteria telefonica del mio studio fattami dalla prof.ssa Privitera, prima che io avessi provveduto a
cancellarla e così lui e Donatella, mi filavano il discorso, complice mia moglie.
Contento e gabbato !!!
E ci rimasi un po’ male quella sera. Ma l'importante era, che finalmente potevo partire.
È inutile dirvi che in quei pochi giorni di trepida attesa, cercai di mantenermi in forma,
evitando spifferi d'aria e persone raffreddate o influenzate, mangiando poco e in bianco, non
esponendomi a qualsiasi evento che potesse compromettere il viaggio.
E questo fatidico giorno 26, arrivò! Ma ancora non era detta l'ultima parola.
La maledizione di Gheddafi sembrava perseguitar mi come avvenne quel lontano mese di
Settembre del 1969, quando avevo tutto pronto per andare in Libia a trovare mia sorella Sina e
famiglia e dovetti annullare il viaggio a causa del colpo di stato che rovesciò il Senusso Re Idris.
26.12.1996
Il 26 dicembre era una mattina livida di pioggia e io, con due ore di anticipo, mi accingevo ad
intraprendere quel viaggio che avevo atteso per cinquantasei lunghissimi anni.
Mentre collocavo i bagagli nell'auto di mio figlio, questi abbassò inavvertitamente lo
sportellone posteriore che mi colpì al capo, che fortunatamente avevo coperto con un berretto di
pelle.
Mi feci male ma non dissi niente, minimizzando l'accaduto. L'importante per me in quel
frangente era di salire in macchina e dirigermi in fretta all'aeroporto, e così feci, accompagnato da
moglie, figlio, nipotino e cognato.
Alle ore 10,55 in punto l'aereo della compagnia tunisina Tuninter, iniziò il suo e il "MIO"
agognato viaggio, che mi portò come prima tappa in programma a Tunisi, alle ore 12,00.
Qui dopo aver cambiato un po’ di lire al cambio ufficiale di £. 1560 per 1 Dinaro tunisino,
attesi l'arrivo degli altri componenti del gruppo che pro venivano da Roma e mi appisolai per
qualche tempo, seduto su una sedia a rotelle (che mi consentiva un riposo più agevole), accusando
al personale di servizio intervenuto successivamente un fittizio malessere, ma la cosa non convinse
troppo l'addetto, che osservato il bozzo mattutino alla testa, mi fece sloggiare dal comodo giaciglio.
Alle 20.00 con un'ora e mezza di ritardo, fatta la conoscenza della guida, Sig.na Marina Sasso
e degli altri partecipanti al viaggio, si proseguì in aereo per Djerba dove, consumata una cena al
buffet a base di couscus, patate al burro, uova sode, sardine sott'olio, datteri e acqua minerale
naturale, si concluse la prima giornata del mio viaggio, nella comoda camera n. 240 dell'albergo.
Djerba è un'isola di circa 500 chilometri quadrati posta nella parte meridionale della Tunisia,
nel golfo di Gabes a circa 90 Km. dal confine libico e attualmente e' una delle mete turistiche più
ambite dai turisti europei per la possibilità di essere raggiunta facilmente in aereo e per i prezzi
vantaggiosi che offre. Essa è collegata con la terra ferma da una stretta via realizzata dagli antichi
romani con un ponte in pietra affiorante dalle acque.
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27.12.1996
La mattina passò tranquilla in albergo e nei pressi, per fare qualche acquisto nelle botteghe di
souvenir e per conoscerci meglio, in attesa che dall'Italia arrivasse un altro gruppo di otto persone
che si aggregò al nostro con notevole ritardo a causa del traffico aereo intenso.
Nel pomeriggio tardi si partì per Tripoli. In tutto eravamo 27 persone, compresa la guida
italiana oltre due guide libiche e due autisti e tra questi soltanto due avevamo un interesse
nostalgico preminente per partecipare a questo viaggio: io e la Sig.ra Monaco Maria, che come me,
desiderava rivedere la sua casa a Barce, da lei abbandonata quando aveva soli otto anni, a causa
della guerra, nell' autunno del 1940. Una terza persona, la Sig.ra Varesio Savi Clementina
accomunava la sua passione per il turismo e l'archeologia libica con il desiderio di rivedere i luoghi
dove il suo genitore, il capitano Erminio Varesio della Divisione Corazzata Trento, insignito della
Croce di Cavaliere, era deceduto nel 1936, sulla spiaggia di Tolemaide, in Cirenaica, dove era stato
inviato con la sua Divisione per presidiare il confine con l'Egitto.
Il viaggio si presentò subito disagiato a causa di un pullman di linea non troppo moderno
messoci a disposizione dall'organizzazione Comitur tunisina a cui l'agenzia italiana si era
appoggiata e della strada che conduceva al confine della Tunisia che era stretta soltanto circa tre
metri e cinquanta, con due piste sterrate ai lati, di un metro e mezzo destinate ai cammelli. Ogni
volta che incrociavamo un automezzo il pullman era costretto a spostarsi sulla sua destra, sul tratto
di strada non asfaltata e l'oscillazione improvvisa provocava notevole disagio ai passeggeri, sia
all'uscita che al rientro sulla pista asfaltata.
La giornata era fredda e gli spifferi che entravano dentro il traballante pullman erano
fastidiosi. Fuori il vento sollevava la finissima sabbia del limitrofo deserto che oscurava il sole al
tramonto e invadeva la carreggiata stradale rendendo ancora più disagevole il viaggio.
In alcuni tratti la tempesta di sabbia era così intensa che sembrava viaggiassimo in mezzo alla
nebbia e le vetture che incontravamo sulla strada si facevano notare in lontananza con il
lampeggiare dei fari.
Alcune greggi di pecore trovavano riparo acquattandosi dentro larghe fosse scavate nel
terreno site ai lati della strada, sorvegliati dai pastori nomadi accovacciati e avvolti completamente
nel classico "barracano", un largo rettangolo di stoffa di lana di cammello che usano a mo di
mantello, per proteggersi sia dal caldo intenso di giorno, che dal freddo pungente della notte.
Si respirava un'aria che odorava di sabbia e i denti ogni tanto digrignavano finissimi granelli.
La Sig.ra Maria Monaco ed io, unici nostalgici del gruppo, per ingannare il tempo incominciammo
a rivivere la nostra fanciullezza fatta di ricordi: delle nostre case abbandonate in fretta, senza
speranza di ritrovarle, dei nostri genitori, lavoratori tenaci che avevano abbandonato l'Italia per
trovare un "posto al sole nella Quarta Sponda" di mussoliniana memoria, del deserto incontaminato
di allora che purtroppo oggi denotava la presenza e il degrado della civiltà moderna fatta di carcasse
di automobili abbandonate, di copertoni e di sacchetti di plastica svolazzanti per il vento a mo' di
bandiere dagli innumerevoli secchi arbusti che cresceva-no ai bordi della strada, del Ghibli, (il
classico vento caldo dell'Africa con i suoi tramonti rosso fuoco, che ci faceva rintanare per tre
giorni di seguito all'interno delle nostre case) e di tutto ciò che ci veniva in mente, commuovendoci,
mentre rievocavamo la nostra infanzia.
Il viaggio continuò così sino al posto di frontie-ra tunisino, Ras Jdayr, dove alle 16.55,
dovemmo scendere e sottostare ai minuziosi controlli dei passaporti e delle schede che dovevamo
compilare con tutti i dati che ci riguardavano: cognome, nome, paternità, luogo e data di nascita,
nazionalità, professione, numero di passaporto, data e luogo di emissione, provenienza, destinazione
e domicilio. Questa è stata l'attività "turistica" più ripetuta durante l'intero viaggio a cominciare
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dall'aeroporto di Tunisi. Arrivati in ogni aeroporto, e in ogni albergo, dovevamo prelevare,
compilare e consegnare una scheda con quanto sopra richiesto.
Passata la dogana tunisina, i controlli si fecero più serrati alla barriera libica dove ci fecero
scendere tutti di nuovo dal pullman e ci aprirono i bagagli. Il regime di Gheddafi era più
intransigente e sospettoso e così anche le nostre borse sul pullman furono visionate, mentre noi
eravamo fermi alla dogana per mostrare i nostri passaporti sotto le gelide raffiche di vento sabbioso,
incolonnati per due, con i nativi libici e tunisini che attraversavano la frontiera. Per fortuna dopo un
paio d'ore potemmo ripartire verso Tripoli.
Subito dopo la frontiera il paesaggio si fece più brullo e arido, le rade case dei villaggi che si
incontravano lungo la strada erano allineate a circa 10 metri dal bordo della stessa strada molto più
larga di quella sino ad allora percorsa ed erano tutte stranamente colorate di bianco e verde.
La guida libica Jussef che ci accompagnava con tanto di cartellino plastificato di
riconoscimento, ci informò che ciò era stato imposto dal regime ad imitazione della bandiera libica
che è appunto di colore verde. E così tutte le case della Libia aveva no le pareti bianche e i balconi,
le parti aggettanti, gli infissi o le serrande, verdi, mentre le saracinesche dei negozi erano dipinte
bianche e verdi. Il rettangolo formato dalla saracinesca era stato diviso in due triangoli rettangoli
colorati, separati da una linea diagonale che univa i due vertici opposti.
Lungo la strada cominciavamo ad incontrare alcuni insediamenti militari e la guida ci avvertì
di non farci vedere con le macchine fotografiche in vista, perché‚ avremmo rischiato l'arresto. Il
divieto era segnalato con un grande scabro disegno dipinto sulla parete, composto da un cerchio
rosso con una barra diagonale che tagliava in due una sagoma a forma di macchina fotografica.
Anche le videocamere non avevamo potuto portarle con noi, per lo stesso prudente motivo, che
avrebbe potuto compromettere l'esito del nostro viaggio, ed è stato un vero peccato, specialmente
per i siti archeologici. Il cartellino plastificato di riconoscimento della guida libica ci fu di notevole
aiuto per passare indenni dagli innumerevoli posti di blocco, fatti con grosse gomene di corda stese
trasversalmente sulla carreggiata stradale e con vecchi fusti di petrolio colorati di bianco e rosso che
dovevamo stentatamente superare per poi fermarci e mostrare il pass, di cui eravamo forniti.
Durante tutto il viaggio, andata e ritorno, abbiamo dovuto sottostare innumerevoli volte a questo
fastidioso rito, che per fortuna non ha mai procurato eccessivi ritardi.
Le case erano tutte ad una sola elevazione fuori terra ed erano quasi tutte adibite a negozi per
la vendita di generi alimentari e per le necessità della campagna o meglio del deserto. Negozietti
con la merce variopinta allineata davanti l'ingresso ben ordinata e abbondante. In particolare
agrumi, bidoncini di olio, e di miele, verdura, sementi e carne in gran quantità. Faceva senso vedere
tutti quelle capre, quei montoni, (la loro carne preferita), ancora con il manto peloso addosso, ma
privi della testa, penzolare dai ganci delle numerose macellerie, lungo la strada. Gli arabi, infatti,
non mangiano la carne degli animali, se è rossa di sangue, e così tagliano loro la testa e li lasciano
dissanguare tra le convulsioni nervose postmortem, per purificarle, dicono loro.
A mano a mano che ci avvicinavamo alla meta, le case si facevano più grandi e numerose,
quasi tutte con le parabole satellitari sul tetto, e le strade si facevano più larghe e più belle, tutte a
doppia corsia, con svincoli per i vari paesi che si incontravano, del tipo a quadrifoglio.
Ogni tanto, s’intersecavano altre strade ben progettate ed illuminate che superavamo in
sopraelevata con ardite strutture in cemento armato, tanto che non sembrava di essere nella nostra
vecchia Africa. La rete stradale era perfetta!
Ci accorgemmo dopo, tra Tripoli e Bengasi, che i petrodollari avevano realizzato il miracolo
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di trasformare quelle vecchie strade, quella fettuccina di asfalto che era stata la gloriosa Via Balbia,
da noi percorsa precipitosamente a ritroso durante la ritirata del Dicembre 1941, in una moderna
autostrada che non aveva nulla da invidiare alle nostre belle strade italiane.
Finalmente dopo 170 Km. circa, arrivammo, stanchi ma felici di essere finalmente tornati
nella nostra amata terra, a TARABULUS, come oggi chiamano la nostra "TRIPOLI BEL SUOL
D'AMORE" del tempo che fu. L'autostrada finiva in quella bella via che era stata il Corso Italia e
che oggi è intitolata all' eroe della resistenza libica del 1911, Omar Al Mukhtar e quindi siamo
arrivati nell’indimenticata Piazza Italia, oggi chiamata Assaha al Khadra cioè Piazza Verde con il
suo glorioso Castello che prima Si affacciava sul Mare Mediterraneo, ora ingloriosamente interrato
per consentire il prolungamento dell'autostrada, sino al porto.
Dalla vecchia balaustra con colonnine di marmo e fanali di bronzo che delimitava il mare, dal
Castello al Casinò, l'acqua adesso è lontana oltre duecento metri, e in parte di questa grande striscia
di area verde spelacchiata, sorge il monumento al "Grande Fiume", formato con gli stessi grossi tubi
in cemento del diametro di circa 4 metri, internamente dipinti con scene inneggianti all'opera
grandiosa che è in corso di realizzazione nel deserto. Un'opera ciclopica, del costo iniziale
preventivato in oltre 30.000 milioni di dollari con la quale si realizzeranno delle enormi condutture
di tubazioni interrate a circa 10 metri sotto terra, che porteranno l'acqua fossile sotterranea trovata
in alcune polle neolitiche, sotto il deserto del sud sahariano, sino a Tobruk, Bengasi e Tripoli con il
dichiarato intento di colonizzare l'intera fascia costiera che sin'ora era stata priva di sorgenti
d'acqua.
Un'opera apparentemente assurda, sia per il costo, che ha previsioni di spesa doppie rispetto a
quello che si è speso per il tunnel sotto la Manica, sia per lo scarso numero di abitanti della Libia
attuale, circa 4 milioni, distribuiti su una superficie desertica vastissima, che vorranno dedicarsi
all'agricoltura, anche perché‚ le riserve citate, di tre miliardi di metri cubi di acqua, non sono
rinnovabili e si esauriranno entro 50, 70 o 100 anni, chissà, a secondo dell'uso che di lei si farà in
futuro.
A Tripoli dove arrivammo alle ore 21.30, alloggiammo in un ottimo albergo, sul Lungomare
vicino al Castello, e dopo le solite procedure di ricezione, la serata si concluse con una cena
abbondante fatta a base di pietanze libiche.
28.12.1996
La giornata era ancora nuvolosa ma non pioveva e così ci incamminammo sul lungomare,
verso il Castello per visitare nel suo interno il modernissimo Museo che è stato di recente ampliato
sotto l'egida dell'UNESCO. Una visita accurata e meticolosamente illustrata dalla nostra
competentissima guida Marina Sasso. I mosaici, le statue e tutti i ritrovamenti romani di Cirene,
Leptis Magna, Sabrahata etc., che era stato possibile sottrarre all'inclemenza del tempo, all'azione
vandalica degli uomini e al ghibli del deserto (che come un'enorme turbina sabbiatrice moderna)
aveva corroso i contorni marmorei dei vari monumenti, erano esposti in ampie sale sistemate in
ordine cronologico.
Un museo che meriterebbe di essere visitato con più tempo a disposizione, dato l'alto interesse
delle cose esposte, che spazia dalle incisioni rupestri della preistoria prelevate nelle montagne
dell'Akakus all'età moderna.
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Usciti dal museo la nostra attenzione si rivolse a quella che era stata la bella Piazza Italia,
oggi tutta dipinta di bianco e verde, ma non abbiamo avuto il tempo di visitare le varie strade che da
essa si dipartono a raggiera, e così ci inoltrammo in una zona vecchia della città che si estende a
nord del Castello, tra le strette stradine della Medina. Un intrigato labirinto di vicoli in parte coperti
e in uno stato di deplorevole abbandono e degrado, con case diroccate e abbandonate, strade piene
di buche e di liquami maleodoranti, immondizia sparsa in ogni angolo e povertà che si notava
ovunque tu guardassi.
Qua abbiamo visitato la vecchia Casa dei Karamanli, oggi museo etnografico, nel quale sono
esposti con ordine, nelle varie stanze, i mobili di arredamento originali e i manichini in vario
atteggiamento, vestiti con gli abiti dell'epoca. Poi ci siamo soffermati davanti al maestoso Arco di
Marco Aurelio, un'opera marmorea dell'epoca romana un po’ sottomessa rispetto alla viabilità
attuale che si ergeva maestosa, tra i rifiuti, davanti alla Moschea Al Gurgi che con le sue 16 cupole
e l'alto minareto‚ la moschea più bella della Medina. Notevoli le piastrellature delle pareti e le
decorazioni di marmo traforato e intarsiato che si possono ammirare al suo interno. Il pavimento
della sala delle preghiere è ricoperto con pregiati tappeti e chi di noi ha voluto visitarla si‚ è dovuto
togliere le scarpe dai piedi, come facevano gli innumerevoli fedeli genuflessi in preghiera.
Rito religioso, questo, che è stato da noi frequentemente osservato durante l'intero viaggio in
Libia, nei posti più disparati. Negli alberghi, nei ristoranti, che hanno tutti un angolo destinato alla
preghiera e anche sulle dune del deserto, lungo la strada, si vedevano i pastori sopra un
improvvisato tappetino, genuflessi in preghiera, tutti rivolti verso la Mecca, una città che si trova
nell'attuale Arabia Saudita.
Culto che i credenti musulmani ripetono cinque volte al giorno, lavandosi la faccia, le mani, i
piedi, il capo e il collo con acqua fresca o con la sabbia nel deserto e ove mancasse anche questa,
limitandosi a mimare con le mani le varie operazioni in sequenza. Il giro della Medina ultimò nel
Souk al Turk, in cui abbiamo avuto il piacere di incontrare anziani libici, nostalgici del passato, che
parlavano correttamente la nostra lingua e dai quali abbiamo acquistato a buon prezzo i soliti
regalini souvenir da portare in Italia.
Il cambio ufficiale imposto dal Governo è infatti di £.4600 per 1 Dinaro libico, mentre al
cambio nero, ne bastano 500 per avere un Dinaro!. Così soddisfatti, ci recammo in un ristorante
caratteristico per consumare un lauto pranzo che vale la pena descrivere.
Antipasto a base di salsine piccanti fatte con yogurt, farina di sesamo e prezzemolo finemente
tritato, contornate da fettine di pomodoro, di ravanelli e di cetrioli. Zuppa di verdure a base di ceci,
pochissima pastina tipo orzo, verdure varie, cipolle, cumino, menta e coriandolo, spezie libiche
aromatiche con filfil abbondante e pezzettini di capretto. Piattino di contorno con verdura fresca
condita con olio, olive, fettine di limone, cetriolini e ravanelli.
Timballo di riso e pinoli con contorno di patatine fritte, pezzetti di cavolfiori saltati in padella
e due spiedini di carne di montone intramezzati con fette di pomodoro, foglie di sedano e peperoni
piccanti gialli e verdi. Mezzo cetriolo, messo dritto all'impiedi e tagliato a strisce verticali come un
calice avente i petali ritorti, completava la scenografica presentazione delle pietanze. Frutta, birra
analcolica e per finire il classico bicchierino di the dolcissimo, con le foglie di menta galleggianti,
all'interno.
Un vero trionfo della natura e del palato!
Alle 14.20, riprese le nostre cose in albergo, ci dirigemmo verso Misurata lungo l'Al Fat'h
Street, quello che era stato il nostro bel Lungomare Conte Volpi di Misurata, passando davanti alla
leggiadra Fontana della Gazzella, il vecchio Uaddan, l'Ambasciata italiana. Poi inoltrandoci nella
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Città Giardino ci allontanammo dal vecchio centro, passando in mezzo a tantissimi nuovi edifici
d'architettura scadente, male costruiti e in parte lasciati incompleti a causa della notevole recessione
in atto nel paese per l'embargo e per le restrizioni imposte dal governo per fare fronte alle notevoli
spese necessarie per ultimare il Grande Fiume. Gli edifici nuovi si estendono a macchia d'olio
attorno al vecchio nucleo coloniale italiano per formare l'attuale citta' di Tarabulus, che conta circa
un milione di abitanti, molti dei quali però non sono nativi libici ma marocchini, pakistani, filippini,
sud coreani ed egiziani. Tutta mano d'opera importata per costruire il Grande Fiume e per edificare
l'attuale edilizia residenziale, succeduta ai molti lavoratori italiani ed europei che furono costretti
dopo il 1969, in fretta, ad abbandonare la
"JAMAHIRIYA LIBICA DEL POPOLO SOCIALISTA",
Fuori dalla città il paesaggio iniziò a prendere i soliti connotati delle periferie, dove l'unica
imponente opera del regime era rappresentata dalla viabilità, efficiente e poderosa mentre l'edilizia
cominciava ad assumere il classico aspetto coloniale di casette bianche e basse, con negozietti,
costruite ai lati della strada, ottima, e sempre a due corsie.
Poi, più fuori, cominciammo a vedere le case coloniche che furono degli italiani, i villaggi, gli
ex ospedali da campo, i palmeti, gli oliveti verdeggianti, con le piante ben distanziate tra loro e tutto
quello che era rimasto dell'opera dei nostri ventimila coloni che Mussolini portò in Africa nel 1939
e che ancora oggi erano "presenti", idealmente.
Superati i soliti posti di blocco, la zona archeologica di Leptis Magna e la Villa Romana di
Zlitin, che lasciammo alla nostra sinistra, e che visiteremmo al ritorno, alle 17.45, dopo circa 210
Km. di viaggio sonnolente a causa dell'abbondante pasto, arrivammo finalmente a Misurata.
Qui alloggiammo in un ottimo albergo con piscina vicino ad una modernissima costruzione a
forma di torre d’osservazione, chiamata Torre di Koztik, un alto monumento costruito dal regime
per ricordare la eroica resistenza dei libici contro l'invasione italiana del 1911. Dopo le solite
procedure di ricezione, la serata si concluse a tavola allegramente con l'ormai consueta cena fatta a
base di pietanze libiche.
Una notazione merita di essere citata.
Al nostro arrivo, nella reception, siamo stati accolti da un inserviente vestito con il
caratteristico abbigliamento arabo: scarpe a punta, pantaloni a tubo, camicia lunghissima sino alle
ginocchia, gilet aperto sul davanti e copricapo rosso con il suo classico ciuffo nero. In una parte
della reception c'era, una grande tenda beduina arredata con tappeti, cuscini, arazzi, narghilè etc,
come se si fosse nel deserto, dalla quale prese e ci offrì dei datteri deliziosi colore ambra dorato e un
bicchiere di latte di mandorla eccezionali per gusto e freschezza. Datteri "Deglat nour", che
significa "dito di luce" che in seguito abbiamo mangiato spesso, in ogni albergo.
29.12.1996
La mattina non abbiamo avuto il tempo di visitare Misratah, come i libici chiamano adesso la
città, perché la strada per arrivare a Bengasi e abbastanza lunga, 809 Km, ma abbiamo avuto modo
di vedere che è molto pulita e l'atmosfera che si respira è di una cittadina prosperosa. Ci viene detto
che in città, ci sono degli insediamenti industriali e siderurgici efficienti e che i nativi sono dei
raffinati tessitori di tappeti, e abili commercianti. Alle 8,40 si partì per Bengasi attraversando delle
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strade ben pulite e con insediamenti edilizi ordinati e gradevoli architettonicamente, sempre dipinti
di bianco e verde. La campagna circostante era lussureggiante di palme, ulivi, eucalipti e c'erano
molti campi d’erba medica verdissima, specialmente nelle vicinanze dei vecchi insediamenti
coloniali italiani che si intravedevano al di la della strada. Questa, subito dopo, diventava ad una
sola corsia, molto larga.
Ogni tanto, lungo l'intero tragitto per Bengasi, si intravedono lateralmente alla strada nuova,
tratti del vecchio tracciato della Via Balbia, stretti e ombrati da altissimi, vetusti eucalipti e
abbandonati tra le dune del deserto che li stavano ricoprendo inesorabilmente. Addio vecchia Via
Balbia!
Dopo alcuni chilometri costeggiammo, a sinistra lato mare, una zona lacustre di acqua
salmastra in cui si notavano molte specie di uccelli acquatici, fenicotteri, folaghe etc, mentre sulla
nostra destra pascolavano tranquillamente mandrie di pecore, cammelli e dromedari.
Questi, lasciati allo stato brado, e incuranti del traffico veicolare, attraversavano tranquillamente la
strada e qualche volta rimanevano uccisi, come poteva desumersi dalle varie carogne giacenti ai
bordi della strada.
Anche a noi è capitato di doverci fermare più volte per lasciare passare questi nomadi del
deserto. A mano a mano che ci allontanavamo da Misurata la campagna cominciava a diventare più
brulla sino a quando il terreno lasciava il posto alla sabbia finissima delle basse dune, lato spiaggia,
che il vento trasportava come una nuvola sopra l'asfalto ad ogni incrociare degli sgangherati
automezzi del parco macchine libico, stracolme di masserizie accumulate vertiginosamente sui
portabagagli.
Solo gli autobus di linea che collegano Tripoli con Bengasi due volte al giorno, per una spesa
di 25 D.L. sono in ottime condizioni, essendo come tutti i servizi, alberghi compresi, sotto il
controllo del governo.
Dopo un paio d'ore di monotono viaggio, ci fermammo in uno dei tanti distributori di
carburante che fortunatamente ci sono lungo la strada, per rifornirci e per le altre necessità
personali. Per la verità nel nostro pullman avevamo un piccolo servizio igienico che usavamo
soltanto per l'emergenza, dato che era angusto, disagevole e non propriamente igienico. I sigg.
Dossena che viaggiavano con me mi chiesero di leggere il mio diario e io raccontai loro alcune
delle mie peripezie familiari, commuovendomi.
Alle 12.10 arrivammo a Susa, un piccolo insediamento di abitazioni lungo la costa che ospita
un museo modesto, dove sono raccolti delle collezioni di ceramiche bizantine. Fuori, all'aperto,
gettati e abbandonati tra i secchi arbusti del deserto giacevano invece i blocchi di marmo lavorati ad
alto rilievo che rivestivano quell'opera d'arte che fu l'Arco dei Fileni, che Mussolini negli anni '30,
fece erigere a cavallo della Via Balbia al confine esatto tra la Tripolitania e la Cirenaica.
Arco che Ghaddafi fece demolire nel 1973.
Le figure marmoree del Duce, del Re e dei vari soldati in divisa erano sfigurate ma
riconoscibili, ma non ci è stato consentito di fotografarle.
Più oltre giacevano a terra, orrendamente mutilate nelle dita delle mani e dei piedi, (che
qualcuno aveva asportato per farne bicchieri souvenir), le due enormi statue di bronzo dei Fratelli
Fileni che inizialmente erano collocati sdraiati sulla sommità dell'arco. L'uno guardava la
Tripolitania mentre l'altro guardava la Cirenaica.
La dotta nostra accompagnatrice ci edusse sul motivo di questa posizione. I due fratelli, per
stabilire il confine delle loro province, partirono contemporaneamente dalle due città di Tripoli e
Bengasi e fissarono il confine dei loro possedimenti, nel punto esatto del loro incontro. Storia o
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leggenda: chissà?
Pochi chilometri più avanti, ci fermammo in una modesta trattoria lungo la costa, per
consumare il pranzo che ci eravamo portati appresso da Misurata, nei vassoi di carta stagnola.
Alle 14.15, riprendemmo il lungo viaggio per Bengasi e subito dopo, verso BinJawwad,
incominciammo ad incontrare gli insediamenti delle maestranze che stavano realizzando il Grande
Fiume, e di quelle che lavoravano nei pozzi petroliferi nel deserto
Costruzioni ben fatte con gli impianti di riscaldamento solare sui tetti, antenne satellitari,
stazioni radio, escavatrici enormi, interminabili file di camion che trasportavano, un pezzo ciascuno,
i tubi necessari, lungo la pista appositamente costruita nel deserto, e tanta gente di colore,
soprattutto filippini e sud coreani, dipendenti della ditta Dongah Consortium che aveva avuto
l'incarico di realizzare la colossale opera di ingegneria idraulica. Ogni tanto, s’intravede vano tra le
dune del deserto enormi cisterne cilindriche biancheggianti sotto il sole, che si faceva finalmente
più caldo, e qualche pista di atterraggio per piccoli aerei monomotore, delimitata lateralmente da
copertoni di auto segnapista, con al centro un faretto lampeggi ante. A Mars Al Brayqah, la nostra
Brega, a circa 200 Km. da Bengasi scorgemmo in lontananza una enorme raffineria di petrolio, poi
un aeroporto civile, e modernissime costruzioni a più piani tra le quali l'Università e il Monumento
al petrolio.
Nella città, che è situata nel punto più basso del Golfo di Sirte ci sono i terminali degli
oleodotti e le stazioni di pompaggio per l'acqua del Grande Fiume che in atto arriva a Bengasi e che
andrà a Tobruk.
Alle 16.40 passammo da Ajdabya, la nostra cara lussureggiante Agedabia che mi ricordava le
numerose gite fuori porta, per la Pasquetta, fatte nella mia infanzia e anche se i luoghi erano oggi
diversi da quelli impressi nella mia memoria, mi sembrava di essere già a casa mia!
Le strade cominciarono a farsi più belle e più larghe, a due corsie, illuminate da alti pali. Le
case linde e allineate ai lati della strada avevano lo stesso colorito folklore delle altre già viste, ma a
me, nostalgico inguaribile, sembravano più belle e più moderne e così a poco a poco ci
avvicinavamo alla meta tanto agognata.
Peccato che cominciava ad imbrunire e così io chiesi alla guida araba di farmi sedere al suo
posto accanto all'autista per potere vedere meglio il paesaggio che si presentava davanti ai miei
occhi.
Il buio della sera arrivò troppo presto e i contorni delle case, delle strade, dei grossi palazzi
cominciarono a vedersi più sfumati. Ma ormai eravamo prossimi alla meta.
Sulla mia sinistra apparve tra gli altri, un grosso e moderno insediamento edilizio ben
illuminato: era la Città Universitaria, disse la guida, sita alla Giuliana, la vecchia spiaggia dei
bengasini e così immediatamente focalizzai la zona e mi rividi bambino correre sulla sabbia davanti
alle case estive di mio zio Diego e dei Giardinella, in cui io ero di casa, allora.
Finalmente eravamo quasi arrivati, ed infatti ad un tratto da un alto cavalcavia, mi apparve
davanti la città, intensamente illuminata, che si estendeva tutt'attorno ad un grande lago, tanto caro
ad Italo Balbo: era la Sebkha, in cui prima c'era l'idroscalo. Lasciammo lateralmente a sinistra un
ponte, che non attraversammo e c’immettemmo in un largo viale illuminato sfarzosamente, che
circuiva il lago passando davanti a moderne architettoniche costruzioni. Poco dopo, finalmente, il
pullman si fermò.
Erano le 18,24 del 29 Dicembre 1996, ed io emozionatissimo, avendo lo sportello alla mia
destra, fui il primo a mettere il piede a terra, rincuorato dai miei compagni di viaggio che avendo
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letto nei giorni precedenti, il mio diario "LA MIA BENGASI" si immedesimavano per il mio stato
d'animo.
Erano passati esattamente 56 anni da quando fui costretto ad abbandonare Bengasi e non mi
sembrava vero di esserci finalmente tornato!
Quanta emozione, anzi quanta commozione ebbi, appena sceso dal pullman, ed ancora oggi,
mentre scrivo queste note !!!.
Per un attimo, però, rimasi perplesso!
Mi sembrava di essere approdato sul lago di Ginevra, non nella mia vecchia e cara Bengasi!
Davanti a me, si ergeva altissimo un edificio di 17 piani. l'Hotel Tibesti sfarzosamente
illuminato e riccamente arredato, con 14 piani di camere, due piani di negozi moderni, affacciantesi
con stile americano sulla sottostante hall interna, sportello bancario di cambiavalute, sala da te, sala
per congressi, due ristoranti di cui uno, italiano, sulla terrazza panoramica che dominava la città
dall'alto dei sui 50 metri di altezza. Un possente edificio con quasi tutto il prospetto a parete vetrata
brunita, che si specchiava nell'acqua dell'antistante lago.
Lago racchiuso da un bellissimo viale alberato e delimitato sullo sfondo, proprio di fronte a
me, da un'ardita struttura lievemente arcuata sotto la quale il Mare Mediterraneo entrava nella
Sebkha.
Era il monumentale Ponte della Giuliana.
Il caro, vecchio ponte di legno, teatro di tante mie imprese marinare, non c'era più!
A sinistra dell'albergo si ergeva la Città dello Sport con uno stadio illuminato da otto altissime
torri con parco lampade, piscina, campi di tennis e di golf.
A destra invece si ergeva uno strano, moderno monumento a forma di piramide poligonale
con grosse lesene negli spigoli che terminavano in alto come una aerea raggiera aperta: una
costruzione destinata al servizio di informazione dei giovani libici. Più avanti, nell'area una volta
occupata dalla Stazione ferroviaria, si ergeva imponente il Monumento ad Abdul Nasser, mentre di
fronte, a fianco del Ponte della Giuliana, nell'area occupata dall'ex Palazzo del Fascio in Viale
Giacomo De Martino, si ergeva una grandissima e altissima costruzione di 18 piani: il Centro
Islamico, con sale per congressi, ristoranti, banche, uffici etc., in cui cenammo quella sera.
Ecco perché, guardandomi intorno, appena arrivato mi sembrò di essere in Svizzera.
Non era più quella cara Bengasi coloniale, dei miei ricordi infantili, che era rimasta
tenacemente impressa nella mia mente, fatta quasi tutta di case a due elevazioni. Adesso lungo la
strada che andava alla Berka, oggi Sharia Abdul Nasser, e su cui si affaccia il retroprospetto
dell'hotel Tibesti, c'erano tantissime case moderne, architettonicamente non piacevoli, ma c'erano, e
formavano quella grande città di oltre 700.000 abitanti che è Binghazi, come viene chiamata oggi.
Città che si è allargata a macchia d'olio oltre il grande lago dei Sahbri, a nord, sino al Bosco
Littorio verso Benina ad est e a sud sino al Fojat. La viabilità modernissima e illuminata, le zone a
verde sono frequenti, innumerevoli anche le moschee nuove e anche la nostra bellissima, ma
decadente Cattedrale è diventata una di queste.
Non ho avuto il coraggio di entrarci, quando passandoci il giorno dopo, ho scorto all' esterno
del portone le scarpe dei fedeli musulmani allineate al sole.
La stessa sera, pochi minuti dopo il mio arrivo, impaziente, appena ultimate le solite formalità
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nella reception e posate le mie cose nella bellissima stanza al 14mo piano, n. 1416, noleggiai un taxi
e mi recai accompagnato dalla guida libica Jussef, in Viale Regina, oggi Sharia Amir ibn al A'As,
percorrendola dal Foundouk a Piazza Cagni, dato che il traffico era a senso unico.
CHE DELUSIONE !
Che sporcizia! Che caos per le strade. Quante case demolite e non più ricostruite. Quanti
palazzi nuovi. Cercavo dei punti di riferimento e non li trovavo. Cercavo il monumentale ingresso
dello stadio e non c'era più e così tutte quelle costruzioni militari che dal Comando Truppe
arrivavano sino ad esso. Ora c'era soltanto una grande piazza che andava dal Viale Regina alla Via
Fiume, e così, frastornato, passai davanti casa mia senza riconoscerla!!
Arrivati in Piazza Cagni, licenziai il taxi e rifeci indietro a piedi il percorso, sicuro di
incontrarla sulla mia sinistra.
Il Palazzo Prosdocimo, anche se un pò decrepito esiste ancora all'angolo della Via Aghib, in
Piazza Cagni e così contando le strade in successione: Via Aghib, Vicolo Auscer, Via Bazzar, e Via
Gasr Ahmed, finalmente arrivai in Via Zarrugh Raed. Alzai lo sguardo in alto e quella che mi
apparve davanti, non poteva essere la mia casa.
La guardai perplesso a lungo ma non la riconobbi. A piano terra c'era un negozio di colori. Mi
inoltrai in Via Zarrugh Raed infangandomi le scarpe in molti acquitrini putrescenti, sino ad arrivare
all'estremità della casa dove ancora oggi c'è il muro basso dei Cardoville, e finalmente riconobbi
commosso guardando in alto l'ultimo balcone della casa, che era rimasto intatto dopo il
bombardamento del 1941.
Una bomba aveva distrutto tutto il primo piano, sul lato di Viale Regina, e i nuovi acquirenti
ave vano provveduto a ricostruirlo secondo le loro necessità e i loro gusti architettonici,
modificando anche i prospetti.
Ecco perché non riuscivo ad individuare la mia ex casa. Fotografai la finestra dietro la quale
doveva esserci la mia ex camera da letto e mi meravigliai di vederla macchiata d’umidità e con gli
intonaci screpolati.
Capii dopo il perché!
Ritornato sul Viale Regina, entrai nel negozio di colori e materiali per l'edilizia che occupava
quattro delle cinque aperture dei nostri due negozi, il bar e il generi alimentari. Cominciai a
guardarmi intorno sotto lo sbigottito sguardo del giovane proprietario del negozio che seduto mi
osservava. Poi chiesi l'aiuto di Jussef e feci spiegare a lui il motivo della mia presenza e della mia
commozione, facendogli vedere la planimetria delle nostre proprietà che io avvedutamente mi ero
portato appresso da Palermo, prelevandole dal carteggio predisposto tanti anni prima da mio padre,
per ottenere i danni di guerra (!!!!) e poter vendere la proprietà agli arabi.
Chiesi ed ottenni il permesso di fotografare quelle mura che mi ricordavano tante cose: al
posto del bancone del bar, c'era una bassa scaffalatura piena di fustini di vernici; al posto della cassa
c'era una scrivania e tutt'intorno, materiali vari, scale in legno, mattoni, sacchi di gesso etc. Tutte le
pareti erano rivestite di faesite colorata bucata, con appesi vari altri prodotti.
Dietro, dove prima c'era la sala con i bigliardi, c'era un deposito di materiali vari. La quinta
apertura era chiusa. C'era un altro negozio che non ho potuto visitare.
Ringraziai commosso e chiesi il permesso di poter ritornare il giorno dopo.
Quella notte in albergo dormii poco o niente!
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30.12.1996
Alle sei ero già alzato per ammirare dall'alto la città che si estendeva davanti a me, al di la del
laghetto. Un panorama bellissimo che confermò la mia perplessità della sera prima. Una città
modernissima si offriva alla luce del giorno, al mio sguardo incredulo e meravigliato.
Questa è la Bengasi della mia infanzia, mi chiesi mentalmente?
E girando lo sguardo verso destra ebbi subito la conferma. Le due cupole della Cattedrale con
il vicino Albergo Berenice, si stagliavano perfettamente tra le altre costruzioni, che mi erano
familiari. Tutto attorno c'erano le costruzioni nuove già descritte prima, con il bellissimo Ponte
della Giuliana, di fronte. Il panorama complessivo era meraviglioso e solo guardando le fotografie
che ho scattato può aversi un'idea reale di ciò che è Bengasi nuova oggi.
Si! Ho detto Bengasi Nuova, che è molto diversa della Bengasi Vecchia, che ho potuto in
seguito vedere.
Alle 8,30, salutato il resto della comitiva che proseguiva per Tolmetta, Apollonia e Cirene, io
preferii rimanere in città per poterla finalmente rivedere, nei due giorni di tempo concessimi dal
programma di viaggio. E così noleggiato un taxi mi avviai nella città vecchia, fotografando
velocemente tutto ciò che riconoscevo.
La ex sede della rotabile ferroviaria che dalla Stazione arrivava sino al porto, e sulla quale è
stato costruito l'hotel Tibesti, adesso è diventata un bellissimo viale che io percorsi tutto. Passai così
davanti alla Clinica del dott. Prosdocimo che è ancora in attività, la casa degli Xuereb, intatta, ma
destinata a lavanderia da un libico che parla e scrive correttamente l'italiano, poi più avanti la
Cattedrale, oggi moschea musulmana, quindi imboccai il Lungomare Mussolini con le sue due alte
colonne marmoree prive del Leone di San Marco e della Lupa capitolina, oggi goffamente sostituite
da due striminziti galeoni in bronzo.
Girando a destra m’immisi nella Piazza del Re con il suo parco pubblico alberato al centro e
con intorno molti palazzi nuovi. L'Albergo Ristorante Bar Italia di Malvicini con le due vezzose
cupolette agli angoli della terrazza, non c'era più, così come altri edifici, attorno alla 9th August
Square, come oggi è chiamata la piazza. Proseguendo per Via Roma, oggi Sciara Omar al Mukhtar
arrivai in Via Generale Briccola, oggi chiusa al traffico veicolare. L'edificio delle Poste era stato
riammodernato nei prospetti esterni, ma l'interno è rimasto quasi invariato e anche i vari negozi
sotto i portici dell'ex Palazzo dell'Istituto Nazionale delle Assicurazione, ancora intatto e di Via
Generale Briccola, hanno oggi lo stesso fascino di allora, un po’ scadente e dozzinale però, nelle
merci esposte. Molti negozi sono stati chiusi d'autorità dal governo, in questi ultimi anni.
Abbandonato il taxi, proseguii a piedi sotto i vecchi portici di Via Generale Briccola.
La piazzetta che conclude la strada con il suo vecchio bianco Palazzo del Municipio e con la
Moschea era anch'essa con le stesse caratteristiche dette prima tranne per la presenza di un orribile
edificio in corso di costruzione che ha ostruito l'accesso al Suk Addalam, (il mercato coperto), al
quale si accede ora da una stradina laterale. Immettermi in questo stretto budello pieno di negozietti
è stato per me molto emozionante, perché tutto era rimasto come io lo ricordavo, un po’ più sporco
per la verità, ma con lo stesso brulicante fascino di allora.
Alla fine del Souk, sfociai in Viale Regina, davanti al Vecchio Foundouk, in cui entrai con
emozione ricordando le tante volte che c'ero stato da ragazzo. Anche qua tutto era rimasto come 50
anni fa.
La confusione sotto i portici ed all'interno del piazzale era indescrivibile, ma suggestiva.
Poi ritornai nel mio Viale Regina e cominciai a percorrerlo lentamente, guardandomi intorno
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in cerca degli edifici a me tanto familiari.
Che pena infinita provavo guardando quella strada che nel mio immaginario infantile era stata
sempre larghissima e che invece ora mi sembrava un budello. La ricordavo elegante e pulitissima ed
invece ora era piena di immondizia e di luridume. Lo Stadio Comunale, in cui avevo assistito a
tante partite di calcio non c'era più ed al suo posto al centro di un'area verde, spietrata, sorgeva il
Monumento all'eroe della resistenza libica del 1911, Omar al Mukhtar.
Le altre strade che sboccavano su di essa, oltre a quelle già citate prima: la Via Luahi, la Via
Sneidel, la Via Nabbus, la Via Mahmud Scemsa, la Via Osman Bahen, la Piazza dell'Erba erano in
uno stato pietoso, con il manto stradale dissestato o mancante del tutto, pieno di buche e fango
maleodorante a causa delle piogge dei giorni precedenti il Natale e della spazzatura che regnava in
ogni angolo.
Ma una cosa mi colpì. Non c'erano ne mendicanti, ne ragazzi per le strade. Questi ultimi erano
tutti a scuola, sino al tardo pomeriggio. Tutte le case all'interno della città vecchia, quelle linde
casette a due elevazioni che avevamo abbandonato noi italiani, prima nel 1941 e poi nel 1967, erano
state quasi tutte occupate dagli arabi dei ceti più bassi, e da allora non avevano pi ricevuto alcuna
manutenzione ed oggi si presentano sporche e decrepite. Mentre le altre case, quelle sulle strade
principali, erano state ricostruite a più piani o riammodernate con uno stile discutibile, che Magari
sarà moderno per loro, ma che a me, architetto nostalgico, arrecava insofferenza.
La casa della mia amica, la prof.ssa Francesca Privitera che mi aveva espressamente
telefonato prima che io partissi per chiedermi di fotografare la sua casa all'angolo della Via Nabbus,
(rovinandomi la sorpresa), non esisteva più e al suo posto si ergeva un casermone di 4 piani.
L'edificio, quasi di fronte a questo, in cui era alloggiato il Comando delle truppe coloniali era
rimasto inalterato nel suo volume, soltanto il colore ocra era cambiato, in ossequio ai voleri di
Gheddafi, ora, era bianco e verde. Mi rincuorò però la presenza sull'alto pennone, della bandiera
tricolore che sventolava al sole.
Poco più avanti, di fronte sul lato destro, oltrepassata la casa dei Bellavia e quella del mio
fraterno amico Nino Rosano, che non c'erano più, ecco apparirmi la mia casa, o almeno quella che
fu la mia casa.
Rimasi alcuni minuti fermo sul marciapiedi di fronte, all'angolo della Via Piave, per
convincermi che quella che osservavo era la mia casa di allora, e mi spiegai il perché la sera prima,
passandoci davanti in taxi, non l'avevo riconosciuta.
Anche la mia ex casa aveva subito delle trasformazioni. Il primo piano era stato ricostruito
aumentando gli infissi del prospetto da 5 a 6, senza rispettare la partitura delle aperture esterne del
piano terra e i tre balconi con mensoloni di sostegno e colonnine, erano stati sostituiti da una sciatta
balconata a sbalzo con davanzale in muratura traforata, che abbracciava tutto il prospetto dalla Via
Zarrugh Raed alla via Luahi. Balconata ripetuta a copertura del primo piano a livello della terrazza,
prima inesistente.
Nei locali del piano terra, in cui c'era la nostra fabbrica di selz e bibite gassate adesso c'era
una lavanderia.
Anche il prospetto sulla via Luahi aveva subito enormi trasformazioni architettoniche e non
esisteva più il portone di ingresso dal quale si accedeva alla scala che conduceva ai nostri
appartamenti del primo piano e internamente al retro dei nostri due esercizi. Scala che per
particolari motivi familiari aveva due ingressi, uno da questa via e l'altro da via Zarrugh Raed, mai
usato però, prima di allora.
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Andai nell'altra strada e bussai all'altro portone. Venne ad aprirmi un canuto, anziano libico
alto due metri, color ebano, che con mia grande sorpresa al mio "buongiorno", mi rispose in
italiano.
Rimasi sorpreso e felice nello stesso tempo perché così avrei avuto modo di spiegare meglio i
motivi della mia presenza. Fu gentile ad ascoltarmi, come tutti i libici del resto e mi fece
accomodare dentro casa.
L'ingresso non era più come lo ricordavo io, avendo il proprietario demolito un piccolo
servizio igienico che nascondeva la rampa di scala retrostante (sotto la quale trovavamo riparo la
notte, durante i bombardamenti), ma io lo riconobbi subito ed emozionato salii le scale che aveva i
marmi sbrecciati, sino ad arrivare davanti alla porta del nostro, anzi ex nostro, appartamento.
La commozione mi fece sostare pochi secondi davanti alla porta aperta, poi entrai e fui
accolto,dopo la sala di ingresso, dai suoi familiari, in un salone riccamente ricoperto di tappeti e
contornato di bassi divani su tre pareti. Mi tolsi anch'io le scarpe, doverosamente, come loro e fui
invitato a sedermi. Prima chiesi ed ottenni di fotografarli e di fotografare quell'ambiente che era
stato il nostro salotto, poi mi fu consentito di guardare dentro le altre stanze che avevano tutte la
stessa destinazione avuta prima, tranne una, con mia grande dolorosa delusione.
La mia stanzetta da letto era diventata per esigenze familiari, il loro "servizio igienico".
Non ho voluto fotografarla, e proseguii oltre con gli occhi lucidi di pianto.
Salii in terrazza, come facevo durante i bombardamenti quando con una tinozza sulla testa
guardavo i traccianti delle mitragliere che rastrellavano il cielo in cerca degli aerei nemici, e mi
affacciai dai quattro lati del fabbricato per rivedere dall'alto le sottostanti strade, le case dei miei
amici, dei Giardinella e di Zia Tanella.
Non le riconobbi, e sconsolato me ne ritornai sul Viale, abbracciando l'affabile proprietario
della mia ex casa, il sig. Hasan Zaeid, salutando i suoi familiari e gli altri proprietari degli
appartamenti che furono di proprietà dei miei fratelli germani, che incuriositi, si erano affacciati
all'uscio.
Nel pomeriggio ritornai a piedi in Viale Regina, salutando tutti gli anziani che incontravo per
strada con la segreta speranza che mi rispondessero anche loro n italiano, cosa che avvenne quasi
regolarmente.
Molti ragazzi sanno tutto del nostro campionato di calcio e uno di loro possiede una Panda,
che all'interno aveva il tettuccio tutto colorato di rosso, bianco e verde, in onore di Baggio, e di altri
giocatori italiani.
Sapevano tutto sul calcio italiano, e ad ogni mia richiesta di notizie erano pronti ad esaudirmi.
Inoltre è da sottolineare che tutti i libici, sono stati cortesi e gentili con noi, durante il viaggio,
offrendoci il classico bicchierino con il the alla menta quando è stato possibile, parlandoci bene
dell'Italia.
Un vecchio ottantenne con la barba bianca, quando alla fine lo salutai abbracciandolo, (io
abbracciavo tutti quelli che parlavano italiano, ed erano molti), mi mormorò all'orecchio, con mia
grande gioia: "buoni italiani".
Si vede che aveva un buon ricordo di noi bengasini!
Il sig. Suleman Dnieni, che andai a trovare per portargli i saluti della prof.ssa Privitera, dopo
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avermi fatto visitare la sua fabbrica di sciroppi e offerto il the, volle pagarmi anche il taxi che mi
riaccompagnò in albergo
Un altro giovane, mi disse che anche suo zio conosceva bene l'italiano e io gli chiesi di
incontralo, ma si trovava ricoverato in Ospedale. Gli chiesi lo stesso di andarlo a trovare e così
facemmo.
Ebbi il piacere di incontrare una persona squisita, colta e molto simpatica, il sig. Saleh
Burouagh che è stato molte volte in Italia, e che aveva una casa anche a Milano, quando
commerciava. I suoi figli Abdalla e Tofana, avevano studiato a Bengasi nella scuola italiana dei
fratelli cristiani: l'Istituto La Salle, e il primo di questi, aveva studiato all'Università di Perugia.
Oggi, ingegnere meccanico, è anche un amministratore del Comune di Bengasi e anche lui parla
l'italiano. Sono stato in loro piacevole compagnia per un po’ di tempo, poi Abdalla, mi
riaccompagnò in albergo, facendomi fare un lungo giro per la bellissima città nuova,
magnificandomi le varie opere costruite dal Governo.
31.12.1996
Finalmente mi sentivo più rilassato!
Avevo realizzato il mio sogno di rivedere Bengasi, la mia casa, le strade vicino ad essa a me
tanto care e adesso non mi restava che rivedere la casa dei Giardinella e quella di mio zio Diego: il
mio ponte di comando e di osservazione in Corso Italia.
Ormai riconoscevo i luoghi e quindi mi recai a piedi in cerca di quante più cose potevo
rivedere e fotografare per mostrale in Italia a parenti ed amici, che certamente mi seguivano con il
pensiero.
Percorrendo la Via della Stazione, io la chiamo ancora così, anche se ora come avrete letto è
dedicata a Nasser, mi sono soffermato all'angolo della Via Fiume, un po’ prima di Piazza Cagni e
ho rivisto la scuola Principe Umberto. Ancora oggi scuola, è chiamata "La scuola del Principe. Più
avanti nella stessa Via Fiume, che oggi si chiama Sharia Algeria, ho rivisto l'Istituto De La Salle,
ricostruito negli anni '50, dopo che era stato bombardato e poi depredato durante la guerra.
Anche questa scuola era funzionante ad era la sede del "Centro Alfateh", per gli allievi libici
con quoziente di intelligenza superiore. Alcuni professori parlavano l'italiano e mi hanno consentito
di fotografare anche l'interno dell'istituto che prima della costruzione della Città Universitaria fu
sede della Facoltà di Scienze e poi della Facoltà di Giurisprudenza.
All'interno del vasto cortile era sparito il campo dei nostri giuochi, che era occupato da tanti
prefabbricati in legno, destinati ad aule e servizi vari attinenti il Centro.
Ritornato sul Viale Regina, mi trovai di fronte gli edifici, oggi riammodernati, dove prima
c'erano l'ex tabaccheria dei Troja e l'ex casa del dott. Fusco che si trovava di fronte alla Caserma dei
Carabinieri.
Poi entrai in Via Zarrugh Raed in cerca della casa dei Giardinella, tanto cara e presente in tutti
i miei ricordi infantili.
Non la riconobbi subito con certezza a causa del degrado degli intonaci e delle modifiche
apportate al prospetto e al volume. Per accertarmene, volli entrare dal portone semiaperto (perché
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sgangherato com'era, non si poteva più chiudere) e riconobbi il ripostiglio sottoscala in cui da
ragazzo entravo, per prendermi il pallone con il quale Sarino Giardinella, fratello maggiore del mio
indimenticabile amico Aldo, giocava a calcio.
Che pena provai guardando la sporcizia e il disordine delle cose accatastate per terra !. Salii le
tre rampe di scala per accedere al primo piano, ma trovai una porta chiusa, sbarrata con tavole.
Non c'era nessuno.
All'esterno, a pianterreno, avevano fatto diventare porta d’ingresso una delle tre finestre che
illuminavano la stanza da pranzo, e dell'unico appartamento di prima ne avevano creato tre
indipendenti.
Uno a piano terra, uno a primo piano e il terzo sopraelevando tutta la casa.
Ripensai, commosso a come era accogliente e pulita la casa della cara Sig.ra Peppina, e dei
suoi figli, nostri fraterni amici: Sarino, Lucia, Iolanda Emilio, Aldo e Gilda di "papà Nene", e me ne
andai via, triste, e sconsolato come un cane bastonato!
Viale Regina mi accolse con il suo caotico via vai di gente e così arrivai in Piazza Cagni.
Qua, pochi edifici erano stati modificati.
C'erano, ma con decenni di invecchiamento e privi di alcuna manutenzione, gli edifici di
Prosdocimo, di Aprile, con i negozi sotto i portici in parte chiusi, (come del resto in tutta la città
vecchia), e l'edificio che era stato il Supercinema dei Giardinella.
Le grosse trasformazioni cominciavano in Corso Italia.
La bellissima palazzina del Circolo Ufficiali era stata rasa al suolo e al suo posto c'era una
vastissima piazza racchiusa dal Corso Italia, dall'ex Supercinema, dalla Clinica Prosdocimo e dal
Viale De Martino.
Dal Palazzo Prosdocimo sino ad arrivare in Piazza XXVIII Ottobre, tutti gli edifici erano stati
riammodernati e sopraelevati. In Via Torino, il mio ponte di osservazione non c'era più!
Al posto della casa di mio zio Diego, c'era un edificio di 10 piani. Erano state lasciate, come
esempio di edilizia coloniale, soltanto le ultime due aperture ad angolo con la via Zuara, in atto
occupate da un libraio.
Quando entrai incuriosito e gli feci vedere le fotografie di com’era prima il fabbricato, volle
farsene delle fotocopie, unitamente al mio diario.
Anche la Sala Italia era stata demolita di recente e si poteva andare a piedi, nella parallela Via
Mohamed Mussa.
Dove prima c'erano le scuole elementari ad angolo con il Viale De Martino c'erano altri
edifici modernissimi ed altissimi, tra cui la Jamahirya Bank.
Soltanto la zona con i portici in Corso Italia, aveva mantenuto l'antico aspetto, con molti
negozi di buon livello, farmacia compresa.
Ho percorso a piedi la Via S.Francesco d'Assisi, Che anche oggi è la strada più commerciale
di Bengasi, e anche se ora ha un nome diverso, Shiara Omar ibn Al Khattas, è ancora chiamata Via
Torino. Certo i negozi non sono più così belli e forniti come li ricordavo io, ma ci sono moltissimi
negozi di abbigliamenti e di scarpe di marca italiana, tanto che sembrava di essere in un nostro
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mercato del centro storico. Cercai invano La Chiesa di S. Francesco, lo studio fotografico del Cav.
G. Nascia e Figlio e gli altri negozi a me tanto familiari, ma non li trovai, come era prevedibile o
non li riconobbi e la cosa mi dispiacque tanto.
La stessa situazione trovai in Via Aghib, che però, ha mantenuto il precedente nome.
Il mio deambulare per le vie della città vecchia continuò di pomeriggio per cercare altre case a
me note: quella degli Aquilina e di mio zio Gulino che non riuscii a trovare e quella di mio zio
Salvatore, all'inizio della Via Torino che era diventata anch' essa una casa a più piani.
La viabilità interna della città vecchia era un po’ diversa da quella che io ricordavo, a causa
dei numerosi bombardamenti subiti durante la guerra, del fondo stradale notevolmente dissestato,
(che era un dato negativo per tutte le strade dalla via Aghib in poi) e dei nuovi edifici sorti un po’
dovunque senza rispettare gli allineamenti stradali preesistenti.
Il degrado ambientale era notevole.
Poi, domandai in giro notizie sul Cimitero degli italiani, ma nessuno volle dirmi chiaramente,
quello che forse si vergognavano di dirmi. Capii dalle loro mezze parole che l'area cimiteriale non
esisteva più e che non sapevano neppure dove fossero finite le ossa dei nostri morti.
Altra cocente delusione per i miei amici!
All'imbrunire, amareggiato, ormai scarico di quella energia che mi aveva sorretto in questi
anni di attesa, tornai in albergo ad aspettare i miei compagni di viaggio che rientravano da Cirene.
E festeggiammo mestamente, dopo cena, anche il 1996 che se ne andava via, senza aspettare
la mezzanotte. Gli arabi, infatti, festeggiano il Capodanno, in un giorno sempre diverso dell'anno, a
causa del loro calendario che è più corto di 11 giorni rispetto al nostro.
Quest'anno lo festeggeranno il 9 Maggio 1997.
Quella notte per loro era una giornata qualsiasi e noi dovemmo adeguarci.
E inoltre con malinconia, alle 21.30, brindammo all'anno che ci lasciava, con i bicchieri colmi
D’acqua, perché in Libia sono banditi, oltre alla carne di maiale, tutti gli alcolici. Unico retaggio del
nostro italico cenone, furono alcune fette dei panettoni che avevano portato con se, da Torino, i miei
compagni di viaggio.
01.01.1997
Alle ore 8.30, puntuale come un capostazione tedesco, la nostra guida Marina Sasso (che per
il suo carattere io chiamavo "il sergente di ferro"), ci fece salire sul pullman, con destinazione
Misurata.
Io esitai un po’, quando misi il piede sul gradino del pullman, che ci riportava indietro.
Mi dispiaceva di aver avuto così poco tempo a disposizione per "Rivedere Bengasi", e per un
attimo, non avrei voluto più abbandonare quello che per me era stato il sogno della mia vita, che
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stavo per abbandonare definitivamente, data la mia età.
Poi dissi a me stesso: se ALLAH vuole, ritornerò a Bengasi con i miei figli, un'altra volta!
Partimmo, e seduto nel mio posto di osservazione, cercavo di fissare nei miei occhi commossi
e nella pellicola della mia macchina fotografica, quante più cose potevo, e quelle che non avevo
potuto chiaramente vedere la sera del nostro arrivo a Bengasi. Presto uscimmo fuori dall'abitato,
oltrepassando il Ponte della Giuliana.
Il lungo viaggio fu monotono e mesto, come sempre accade quando si ritorna indietro sullo
stesso percorso e quando si deve definitivamente lasciare qualcosa cara, legata ai ricordi più belli
della propria infanzia, per la seconda volta.
Ci fermammo a pranzare in un moderno ristorantino della costa, a Mursia, e dopo aver
fotografato una mandria di cammelli e una coppia di dromedari un po’ particolare, arrivammo alle
18,15 nello stesso albergo di Misurata.
La Sig.ra Maria Monaco dopo cena ci fece il resoconto delle contrastanti emozioni da lei
provate a Barce.
La Barce che ricordava lei, non esisteva più!
Distrutta dal terremoto, era stata ricostruita pochi chilometri ad Ovest, verso il mare, e si
chiama oggi Barce Nuova, o meglio Al Marj Kidim.
Ma lei fu fortunata, perché alcune suore italiane che lavoravano nel locale Ospedale, avvisate
tempestivamente dal Vescovo da Tripoli, la prelevarono dal nostro pullman, l'ospitarono per la notte
e la condussero a Barce Vecchia, verso le terre che erano state di proprietà di suo padre, Carlo.
Fu fortunata perché, in mezzo a tante case distrutte e abbandonate ebbe l'emozione e la gioia
di riconoscere, arrivando dall'alto della strada, la casa in cui aveva vissuto la sua fanciullezza.
Anche lei come me, però, ebbe la sgradita sorpresa di trovare la propria casa degradata, con
gli intonaci scrostati, senza alcune porte e con le finestre in parte murate. Ma era abitata !.
Alcuni cani ringhiosi abbaiavano dietro il cancello e non era prudente entrare. Un arabo si
offrì allora di andare a chiamare il proprietario, che era il nipote di un ex dipendente di suo padre !.
La fecero entrare!
Le permisero di guardare quella che era stata la sua camera e le altre stanze della casa a lei
così familiari, di fotografarle, di andare in quello che era stato il loro meraviglioso giardino attorno
alla casa che trovò semi abbandonato e pieno di immondizia. Poi con emozionante sorpresa ritrovò
nel cortile, un grosso automezzo arrugginito e tutto ricoperto dalla vegetazione spontanea.
L'arabo che l'accompagnava le disse:
"Questo essere del sig. Carlo".
Era infatti un grosso Caterpillar cingolato che il padre usava per i lavori stradali di cui si
occupava, prima della guerra, e che lei emozionatissima, riconobbe subito.
Inutile scrivere che la Sig.ra Maria, raccontandoci questi particolari piangeva, trasmettendo a
noi tutti la sua commozione, che coinvolse sopratutto me.
Noi due, unici nostalgici, avevamo provato nello stesso giorno e nelle stesse ore, lei a Barce
ed io a Bengasi, identici sentimenti che ci accomunavano, in quel momento, nel commosso ricordo.
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02.01.1997
All'alba il Meuzzin della vicina moschea ci fece la sveglia con la sua nenia e alle 8.30, sempre
puntuali partimmo alla volta di Lepts Magna, passando in mezzo ad un paesaggio rigoglioso di
verdi piantagioni di palme, ulivi, cipressi, pini, eucaliptus e mandorli in fiore. Misurata è stata la
zona più ubertosa vista da me in Libia.
I miei amici mi dissero però che la zona più rigogliosa era stata quella di Barce, dove i nostri
20.000 coloni avevano lasciato un'impronta indelebile, tuttora presente, di operosità contadina.
Dopo circa 90 km, arrivammo a Leptis Magna.
Bastava vedere solo questo sito archeologico della Libia per giustificare la spesa e la fatica di
un così lungo viaggio!
Dopo aver visitato il modernissimo Museo con tutti i suoi reperti, meticolosamente illustrati
da Marina, e aver pranzato, visitammo il grandioso Parco Archeologico.
Leptis Magna è forse, "il più bel sito romano di tutto il Mediterraneo", con i resti imponenti
dei suoi monumenti marmorei che si stagliano nel cielo con una eleganza genuina. Con le sue strade
basolate, solcate da mille bighe romane che hanno lasciato tracce indelebili. Con i portici colonnati
del Foro dei Severi, un'enorme spazio colonnato che misura 100 metri per 60, con la grande
Basilica originariamente rivestita di marmi pregiati, con l'imponente Arco di Settimo Severo, con le
grandiosi Terme di Adriano erette nel 126 d.c., con le sue "originali" latrine comuni all'aperto, con
una serie di Templi che terminano con i Mercati del porto interrato, e con tantissimi monumenti che
è ponderoso enumerare. Una profusione di opere monumentali, di marmi, di colonne, di rovine
ancora da scavare che era inimmaginabile trovare in un sito desertico, lontano da Roma.
Ma il monumento più interessante è stato sicuramente il Teatro!
Un complesso monumentale unico, per l'eleganza dei componenti marmorei della scena, che
si stagliava su tre livelli colonnati, contro il blu cobalto del mare mediterraneo, pochi metri
retrostante.
L'auditorium semicircolare a gradoni degradanti verso il palcoscenico, spaziava dall'alto sulla
zona archeologica che vista da li, acquisiva un altro fascino.
All'imbrunire partimmo per Tripoli, dove alloggiammo nello stesso albergo del Lungomare
Conte Volpi di Misurata. Io ne approfittai per incontrare un mio amico libico, il prof. Alì S.
Husnein con il quale facemmo un lungo giro panoramico rievocativo, tra le care vecchie strade di
Tripoli che io avevo conosciuto nel Gennaio del 1941, quando fui costretto ad abbandonare Bengasi
sotto l'incalzare dei carri armati inglesi che avevano rotto il fronte tra Tobruk ed El Alamein.
Com'era diversa anche lei, da allora, con quelle case tutte dipinte di bianco e verde.
Via Roma, Corso Vittorio Emanuele III, con il Palazzo dell'ex Upim, Corso Sicilia, Via
Vittorio Veneto, l'Istituto Umberto di Savoia dei Fratelli Cristiani de La Salle, oggi Istituto
scolastico femminile, la Palazzina del Governatore, che oggi ospita i Comitati di Base della
Jamahiriya, e che di recente ha aperto il suo parco al popolo, eliminando la recinzione che la
delimitava, la Biblioteca Nazionale, il vecchio Municipio che ha attualmente la stessa funzione, la
bellissima Cattedrale che è diventata la loro moschea, la Chiesa di San Francesco che è l'unica
chiesa cattolica di Tripoli, il vecchio Palazzo dell'I.N.P.S. e per finire, la deliziosa Fontana della
Gazzella, in cui ci incontrammo con il resto del gruppo per consumare una ottima cena, a lume di
candela, in un attiguo ristorante caratteristico.
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03.01.1997
Alle ore 9.15, si partì per Sabratha, passando per Zawiah a circa 40 km da Tripoli, un'area
molto verde in cui i coloni italiani hanno lasciato il loro segno e le loro case coloniche, oggi in parte
abbandonate. Sabratha, un'antica città romana del I secolo d.C. era il nostro ultimo sito archeologico
da visitare, e anche se è meno spettacolare e meno grande di Leptis Magna è sicuramente molto
interessante, sia per i suoi monumenti in parte sommersi, sulla riva del mare, sia per il suo Teatro,
che anch'esso è il monumento più bello da contemplare. Anche a Sabratha la scena del teatro è a tre
ordini sovrapposti di colonne corinzie, 108 in tutto, e da un auditorium semicircolare a gradoni dai
quali si può ammirare la mirabile scena con il mare retrostante. Dietro il teatro ci sono alcuni ruderi
di stanze, gli spogliatoi degli artisti, in cui si vedono i resti dell'impianto di riscaldamento ad aria
calda, fatto con tubi di cotto annegati nei muri perimetrali rivestiti con lastre di marmo e sotto, i
pavimenti, ricoperti con mosaici di ottima fattura.
E poi le Terme sul mare, il Tempio di Serapide, il Campidoglio, il bellissimo Tempio di
Oceano con le sue ricchissime terme di marmo e mosaici, e tanti tanti monumenti, ancora da
scavare.
La Sig.ra Varesio Clementina commentando assieme agli altri quello che sin'allora avevamo
visto, lungo il nostro viaggio che si stava concludendo, volle scrivermi questo suo parere sulla
Libia, che mi piace riportare per esteso:
"La Libia è un'anziana signora, non bella, sciatta, trascurata, anche sporca, ma con tanti,
antichi splendidi gioielli di famiglia. Alcuni conservati in cassaforte: nei musei ricchi di statue e di
mosaici; altri portati come collane di bellissime gemme: i resti delle antiche città greche e romane
lungo la costa!"
Lapidario giudizio, che rispecchiava perfettamente il parere di tutto il gruppo.
Speriamo che il turismo, in Libia, possa riaprirsi al più presto per tutti i cultori
dell'archeologia, in modo che molti di noi, possano ritornare, più agevolmente e con più tempo a
disposizione, in questi siti meravigliosi, per poter godere questi tesori semisconosciuti dai più.
Alle ore 15.00, dopo aver pranzato in un caratteristico ristorante ricavato dalla navata di una
chiesetta italiana sconsacrata partimmo per il confine ove subimmo per circa due ore, le già citate
traversie dei passaporti e dei bagagli, nei due posti di frontiera.
Lasciando il confine libico mi voltai indietro e in arabo dissi mestamente:
“MA' AS SALAAMA LIBIA”, che vuol dire: "Arrivederci Libia".
Alla fine, stanchi ma felici di ritornare, ci avviammo verso Djerba, commentando il nostro
felicissimo viaggio, accompagnati dal ritmo di alcune canzoni melodiche che ci ricordavano la
nostra gioventù, e che ci tennero allegra compagnia, canticchiandole assieme, sino al nostro arrivo
in albergo.
Il viaggio era ultimato, e dopo cena me ne andai a letto un po’ sconfortato per quello che
desideravo tanto e che non avevo potuto realizzare: due giorni a Bengasi erano stati troppo pochi
per poterla vivere come io avrei voluto !.
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04.01.1997
Alle ore 11.00, dopo la solita ultima foto di gruppo, i saluti e gli abbracci di rito molto
affettuosi nei miei confronti, il resto della comitiva si avviò verso l'aeroporto per il rientro in Italia,
previsto dal programma.
Io, dovendo prendere il volo per Tunisi e Palermo mi sono fermato ancora due giorni a
Djerba, solo con i miei ricordi e con le mie emozioni che rivivo ancora oggi nei miei sogni,
rievocando il mio meraviglioso viaggio, che purtroppo era già finito, lasciandomi un po’ deluso,
forse, ma felice di averlo così intensamente voluto ed emotivamente vissuto!
E ricordandolo, ho cominciato a scrivere in albergo, riordinando i miei appunti, questa
meticolosa cronistoria che a molti, non conoscendo i luoghi e le cose descritte, potrà sembrare
prolissa, e particolareggiata, ma che è stata scritta volutamente così, per tutti i nostalgici della
LIBYA, meno fortunati di me, che leggendola, capiranno, e come me, potranno dire finalmente:
HO RIVISTO BENGASI!
MA' AS SALAAMA BINGHAZI!
Palermo 17 Gennaio 1997
Angelo Nicosia
Viale Strasburgo 246
90146
PALERMO
tel. 091-520344
[email protected]
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