Enzo Golino, Dentro la letteratura (Bompiani, 2011)
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Enzo Golino, Dentro la letteratura (Bompiani, 2011)
Enzo Golino, Dentro la letteratura (Bompiani, 2011) Dentro la letteratura di Enzo Golino, antesignano e maestro del giornalismo culturale italiano, ci consegna un saggio esemplare di un genere, quello dell’intervista all’autore, che è a metà strada fra la chiacchierata e il dialogo filosofico. I ventuno scrittori, intervistati da Golino tra il 1972 e il 1974 per il quotidiano «Il Giorno», si prestarono, con dialoghi uno-a-uno, alla ricerca del giornalista sull’«esperienza pratica e mentale» rintracciabile nelle loro opere e nel loro pensiero: così, alcuni dei maggiori protagonisti della lettaratura italiana dell’epoca, appartenenti a opposte tendenze, da Alberto Moravia a Nanni Balestrini, da Lalla Romano a Franco Fortini, da Luigi Malerba a Carlo Cassola, si confrontarono con il giornalista su Scuola, Natura, Operai, Dialetto e Storia.Leggendo le risposte degli autori a Golino, si possono ripercorrere le vicende nodali degli anni SessantaSettanta del secolo scorso, a partire dalla contestazione giovanile, criticata da Giorgio Bassani, che vi scorgeva un aiuto al «sistema tecnologico a prosperare, a spingere l’acceleratore del consumo» (p. 16); stupefacente per Luciano Mastronardi, che riconosceva come «una minoranza di giovani insegnanti ha portato nella scuola un po’ d’aria nuova, il gusto della discussione, un’idea diversa della funzione del maestro» (pp. 26-27); così come il 68 appariva «l’ultimo sprazzo di vitalità, un movimento collettivo millenaristico» agli occhi di Pier Paolo Pasolini (p. 120). Non mancano poi, in più di un’intervista, accenni alla cementificazione e all’inquinamento, che seguirono al boom economico: «Il nostro ambiente si sta degradando in maniera spaventosa. Le coste sono ormai quasi tutte distrutte» constatava Alberto Moravia (p. 40), che pure, nonostante amasse «moltissimo la natura», non credeva nella «necessità di rappresentarla» (p. 42), perché «il romanzo moderno non sa che farsene della natura, del paesaggio. Nel romanzo moderno la natura e il paesaggio sono il paesaggio interiore, cioè l’inconscio» (p. 44); mentre, all’opposto, Luigi Malerba, oltre ad aver fatto della natura la protagonista principale della sua raccolta di racconti La scoperta dell’alfabeto (1963, seconda ed. 1971), riconosceva che anche nel suo romanzo Salto mortale (1968), tutto incentrato sulla decostruzione del linguaggio e della psicologia, l’osservazione del paesaggio conserva un ruolo centrale: «il protagonista se la prende con quelli che bruciano le erbacce sugli argini, e quindi rovinano gli argini e gli alberi intorno» (p. 46). Analogamente a Malerba, Raffaele La Capria, nel romanzo Ferito a morte (1961), ambientato sulla costa partenopea, aveva già messo «in ridicolo la classe dirigente laurina colpevole del saccheggio urbanistico della città», come notava Golino, e, all’epoca dell’intervista, lo stesso La Capria constatava «con rabbia e dolore« che «la cementificazione di Napoli continua» (p. 51).Tra i cinque temi trattati nelle interviste, Golino nota, nell’introduzione alla ristampa del 2011, che uno in particolare sta facendo segnare ora «il suo ritorno recentissimo»: il lavoro, l’operaio, il precariato. La lettura delle interviste a Bernari, Bilenchi, Pratolini, Ottieri, Volponi e Balestrini, interrogati dal giornalista sull’argomento, restituisce, però, un’immagine definitivamente tramontata: quella di un operaio «protagonista di tutta la vita sociale, politica ed economica del paese, con o senza il riconoscimento della letteratura», per usare le parole di Paolo Volponi, che pure, dopo aver elogiato questa figura epica oggi dannata alla forzata insignificanza, aprivano a una prospettiva ancora oggi valida, quando l’autore affermava che «la condizione operaia è solo una faccia di una più ampia condizione subalterna che riguarda tutti gli addetti ai lavori manuali, e si allarga moralmente e politicamente a comprendere certe categorie di intellettuali», p. 99. È con questo accenno a un allargamento della condizione subalterna anche ai professionisti del lavoro cognitivo che Volponi, come altri scrittori intervistati da Golino, dimostra la sua capacità di prefigurazione e dona alle pagine di Dentro la letteratura un valore che supera quello di mero documento, di risploveratura d’archivio. Da questo punto di vista, molto hanno ancora da dirci le pagine sul dialetto, visto che anche in questi anni, come all’inizio dei Settanta, si sta vivendo una rifioritura artistica dei dialetti, tra cinema, musica e letteratura. Dalla definizione di Pasolini, che, segnalando malinconico la scomparsa del dialetto, lo inquadrava come «fossile arcaico» (p. 119), alla constatazione di Tullio De Mauro, che notava come «si torna ai dialetti per estrarne una ricchezza comune a tutti accanto al conquistato patrimonio della lingua» (p. 128), essendo il dialetto «un modo per sfuggire allo standard linguistico ritrovando la radice affettiva e familiare dell’espressione» (p. 129), fino alla lettura sociologica di Umberto Eco, che considerava il ritorno del dialetto come parte di «un positivo fenomeno di riprovincializzazione», di «rilocalizzazione» (p. 146), pur segnalando che il dialetto «non ha alcuna possibilità di svolgere una funzione conoscitiva e costruttiva» (p. 148), questi spunti, presi così, nel vivo di un’osservazione diretta, rappresentano altrettante occasioni per approfondire un fenomeno, quello del periodico riaffiorare dei dialetti, che ha ancora oggi profonde implicazioni culturali ed estetiche, come cercheremo di dimostrare, noi stessi di Argo, nell’antologia di prossima pubblicazione L’Italia a pezzi. Il libro di Golino si chiude con tre interviste a Franco Fortini, Arrigo Benedetti e, di nuovo, Alberto Moravia sulla Storia, il cui «brivido», provato sulla propria pelle da Fortini, era capace di provocargli uno «choc violento», essendo «l’avviso che in quel momento la storia sta cambiando per tutti» (p. 153), a patto di non «guardare alla storia con l’ottica degli storici», che sono «scettici o conservatori» e producono un storia «giustificatoria» (p.154): per capire «la storia del mondo», infatti, bisogna sapere che «la fanno gli oppressi» e che «l’operaio cinese, il negro minatore del Sudafrica e l’insorto contadino venezuelano non sono il nostro passato», ma «il nostro presente» e «già oggi c’è chi vive il nostro possibile futuro» (p. 155). Fortini esortava quindi «i drogati dell’avvenire, soprattutto i giovani (…) non alla storia degli storici (…) ma alla storia dei politici», tenendo conto del rifiuto della storia, proprio dell’epoca, e «di un fenomeno di portata più vasta, addirittura della perdita di memoria» (p. 156), del «senso del passato, della memoria storica», riconducendo infine questa perdita alla «crisi di valori che stiamo vivendo» (p. 157): parole preziose, queste di Fortini raccolte da Golino, per comprendere quella deriva che ha portato all’impero dell’eterno presente in cui siamo vissuti per un trentennio, almeno fino agli attentati dell’11 settembre 2001, che hanno fatto ripartire le lancette dell’orologio storico, mentre dalla caduta del muro di Berlino, la fine dell’Urss e il trionfo globale del neoliberismo non si faceva che parlare di fine della storia.Concordi nel non considerare la storia maestra di vita, Benedetti e Moravia la ritenevano, il primo, «tutta un’alternanza di strappi, di lacerazioni che poi si ricompongono in attesa di un altro strappo», non diversa «da un cataclisma, da una forza naturale scatenata da tante sollecitazioni guazzabuglio», diverse» (p. 163), e, il secondo, «un «senza capo né coda» (p. 173). A cosa servirebbe, allora, la storia? Per Moravia «soltanto a sapere che vi sono cose irreversibili, già accadute, per esempio la scoperta dell’America» (p. 169), mentre per Benedetti «a dare una moralità pubblica alla gente» (p. 163). Chissà, dunque, se queste pagine di storia della cultura, restituiteci da Golino, sapranno accrescere la nostra… Valerio Cuccaroni